Simon Rich Il compagno di banco
Titolo originale: Elliot Allagash © 2010 by Simon Rich Newton Compton editori
A Jake
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Simon Rich Il compagno di banco
Titolo originale: Elliot Allagash © 2010 by Simon Rich Newton Compton editori
A Jake
Parte prima
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Da ragazzo i miei mi difendevano sempre, non importava quanto grossa l’avessi combinata. Quando sfasciai la mia Sega Genesis nuova di zecca durante uno scoppio d’ira, diedero la colpa a Sonic, il videogioco, per avermi fatto arrabbiare. Quando persi il mio passaporto all’aeroporto, incolparono loro stessi per averlo affidato a me. Così, quando raccontai cosa mi aveva fatto Elliot, fui piuttosto sorpreso dalla loro reazione. «Forse si è trattato di un incidente», disse mio padre. «Gli incidenti capitano di continuo». «Io non credo sia stato un incidente», dissi. «Sei sicuro di non essertelo immaginato?», chiese mia madre. «Hai un’immaginazione così fervida». Fu difficile resistere al complimento. «No», dissi. «Non è stata la mia immaginazione. Questa cosa è successa veramente». Era la sera del Monopoli, e nonostante mio padre avesse appena lanciato un sette non aveva ancora mosso il suo carretto, che se ne stava lì, abbandonato sulla casella sbagliata. Alla fine, si alzarono tutti e due e andarono in cucina. «Ma’? Pa’?». Non risposero, ma io riuscivo a sentirli parlottare tra loro al di là della porta. «Mi ha spinto giù per le scale», dissi, forse per la centesima volta quella sera. «Mi ha spinto, di proposito, davanti a un sacco di gente. Una cosa davvero folle». Alla fine i miei tornarono al tavolo. Notai che mio padre aveva in mano una birra. L’avevo visto bere solo in occasione di matrimoni o funerali e fui leggermente sconvolto. Esitarono entrambi per un momento, sperando che l’altro cominciasse a parlare. «Il fatto, riguardo a Elliot», disse infine mia madre, «è che lui è diverso dalla maggior parte dei ragazzi». Accusai subito una fitta di senso di colpa. «Oh Gesù», dissi. «È ritardato?» «No», fece mio padre. «Non esattamente». «Allora che c’è?», chiesi. «Cos’ha di diverso?». Mia madre si schiarì la voce. «È ricco», disse. Mio padre annuì. «È molto ricco». Quando ripercorro gli ultimi cinque anni della mia vita, dominati completamente da Elliot Allagash in qualunque ambito, non posso fare a meno di pensare a quanto sia strano esserci incontrati, prima di tutto. All’epoca in cui si presentò nella nostra scuola, con un completo bianco e scarpe da barca, Elliot aveva vissuto in sette città, tra cui Londra, Bruxelles e Zurigo. Al padre di Elliot, Terry, piaceva cambiare città in base ai suoi capricci. L’unico motivo per cui aveva fatto trasferire tutta la famiglia a New York, a detta di Elliot, era che il suo guantaio preferito aveva aperto un negozio su Madison Avenue. La scelta della Glendale Academy era stata meno casuale: era l’unica scuola privata della East Coast disposta ad accettare Elliot come studente. Nelle sette città in cui aveva vissuto, era riuscito a farsi espellere da una dozzina di scuole di prim’ordine. Solo la Glendale, con la sua palestra fatiscente e le tavole di chimica ormai obsolete, era abbastanza disperata finanziariamente da chiudere un occhio sui suoi precedenti. Al tempo in cui ci
incontrammo, le sue infrazioni comprendevano vandalismo, assenze ingiustificate, violenza gratuita, ubriachezza, aver pagato un impostore per fare un compito al suo posto, e ricatto. Aveva solo tredici anni. È strano che le nostre strade si siano incrociate. Ma è ancora più strano che sia diventato il mio migliore amico. La Glendale era una piccola scuola e lo diventava ogni anno di più. I tre lunghi tavoli della mensa potevano ospitare comodamente almeno sessanta studenti, ma quando ero all’ottavo anno1 ce n’erano solo quarantuno. Durante il pranzo, i venti ragazzi più popolari sedevano al tavolo in fondo, gli altri venti si stringevano in quello di mezzo. Io stavo al terzo. Ora, sono sicuro che se avessi voluto mi sarei potuto intrufolare nel tavolo di mezzo… l’avevo fatto una volta, mettendo di traverso il mio vassoio. La verità, però, è che a me piaceva il terzo tavolo. Era spazioso, tranquillo e, per quanto mi riguardava, collocato al posto giusto. La maggior parte degli studenti considerava l’ora del pranzo un’attività sociale. Io invece preferivo vedere quel momento come una specie di sfida, il cui obiettivo era bere quanto più latte al cioccolato fosse possibile. Non consideravo il pranzo un successo se non ne avevo consumati almeno cinque cartoni. In qualunque altro posto, tutto questo sarebbe stato un sogno impossibile. Ma piazzandomi in un raggio di tre metri dalla signora della mensa, e grazie alla sua collaborazione, riuscivo a ottenere un simile risultato praticamente tutti i giorni. Un pomeriggio ero alle prese con il terzo cartone quando mi accorsi che Elliot era seduto proprio accanto a me. Davanti a sé non aveva da mangiare, solo un grosso block-notes. Non vedevo Elliot da quando, quattro giorni prima, mi aveva inspiegabilmente spinto giù dalle scale, durante il suo primo ingresso alla Glendale. Immaginai che si fosse seduto vicino a me per scusarsi, ma arrivato al quinto cartone di latte fu evidente che non ne aveva nessuna intenzione. Non mi rivolse mai nemmeno uno sguardo, durante il pasto. Teneva invece gli occhi fissi sul suo taccuino, scarabocchiando rumorosamente con la sua penna stilografica affilata come un rasoio. Venne a sedersi vicino a me anche il giorno dopo e quello successivo, e in entrambi i casi fu sempre la stessa storia: stava seduto lì e scriveva. A volte strappava via un foglio dal block-notes, lo appallottolava e lo gettava a terra. Ogni tanto, prima di scribacchiare qualcosa, schioccava le dita con un gesto teatrale. Pensai di chiedergli a cosa stesse lavorando, ma non volevo interrompere qualcosa che sembrava importante. Solo anni dopo mi venne in mente che forse non lavorava a niente: tutto quello scribacchiare e accartocciare e schioccare le dita… quello era il suo modo di dire “ciao”. Ogni volta che c’era uno scontro fisico tra due studenti, entrambi finivano in punizione, indipendentemente da chi avesse cominciato. Questa politica mi sembrava piuttosto ingiusta, ma discuterne con i professori non serviva a nulla. Inoltre la punizione non mi dispiaceva. Durava solo un’ora e la signorina Pearl, la bibliotecaria anziana che ci sorvegliava, ci lasciava prendere due gelatine dalla ciotola all’inizio di ogni ora di punizione. La scuola sembrava affollata e claustrofobica, ma nella sala punizioni non c’era quasi mai nessuno, a parte me, la signorina Pearl e chiunque mi avesse aggredito nell’arco della settimana. Era un ambiente piacevole, e a volte, nelle settimane più faticose, davvero non vedevo l’ora. Ogni tanto la signorina Pearl ci faceva riempire dei moduli di castigo, ma io sapevo per esperienza che in realtà non li leggeva nessuno, quindi non mi ci impegnavo più di tanto.
NOME: Seymour ANNO: ottavo INFRAZIONE: rissa DESCRIVI CIÒ CHE È ACCADUTO: ero davanti al mio armadietto, a canticchiare una canzone che avevo sentito alla radio, quando Lance è arrivato e ha cominciato a colpirmi. COSA HAI IMPARATO DA QUESTO EPISODIO? A quanto pare, canticchiare è una cosa che fa arrabbiare Lance e gli fa venire voglia di picchiarmi. COSA AVRESTI POTUTO FARE DI DIVERSO? Niente. COME INTENDI MODIFICARE IL TUO COMPORTAMENTO? Cercherò di non canticchiare nei paraggi di Lance. C’erano parecchie cose piacevoli, nella punizione: la calma, le gelatine. Ma la cosa migliore era la presenza di Jessica. A scuola riuscivo solo a darle qualche occhiata fugace. Era sempre circondata da un nugolo di ragazzi che la seguivano da una classe all’altra e mi impedivano di vederla. Ma durante la punizione quella nube scompariva e io avevo la possibilità di osservarla da vicino. Jessica rimediava le punizioni violando platealmente e in continuazione il codice d’abbigliamento della scuola, facendo di tutto per provocare scandalo. I suoi vestiti erano così inappropriati per la scuola che regolarmente gli insegnanti la obbligavano a indossare una tuta da ginnastica già all’ingresso, prima ancora dell’inizio delle lezioni. Se diceva di non avere la tuta, la spedivano nella stanza degli oggetti smarriti e la coprivano con qualunque cosa riuscissero a trovare lì dentro. Si muovevano con la furia di pompieri impegnati a spegnere un incendio da codice rosso. Ai miei occhi era stupefacente quanto la vita di una persona potesse cambiare in un paio di mesi. Al settimo anno Jessica era timida e scialba, una ragazza nervosa a cui gli insegnanti raccomandavano sempre di “parlare a voce più alta”. Ma nel giro di un’estate tutto in lei si era fatto più vistoso. In qualche modo aveva subìto tutti gli effetti positivi della pubertà e scansato quelli negativi. Il suo viso si era sviluppato in modo regolare senza soccombere all’acne. Era cresciuta in fretta di diversi centimetri ma i denti erano rimasti perfettamente dritti. Inoltre, se alcune parti del corpo erano parecchio cresciute, aveva comunque mantenuto la sua corporatura minuta. Il suo corpo aveva assunto delle proporzioni così provocanti che perfino gli insegnanti erano a disagio quando parlavano con lei. Balbettavano o incespicavano sulle parole, e a volte era lei a dover chiedere loro di “parlare a voce più alta”. Jessica non portava mai uno zaino o qualunque altro oggetto potesse far supporre che fosse una studentessa della nostra scuola. All’inizio di ogni lezione, alcuni ragazzi si chinavano sul suo banco e le passavano tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno per i successivi quarantacinque minuti. A volte mi è capitato di sentire delle ragazze definirla una presuntuosa, ma nessuno la conosceva bene quanto me. Jessica non era altro che una persona, come chiunque altro. Certo, a volte combinava dei casini e indossava top striminziti o i brillantini sul viso. Ma chi può dire di non aver mai sbagliato abbigliamento? Io no di certo: in due distinte occasioni mi ero presentato a scuola con i pantaloni del pigiama. Non era forse la stessa cosa? E poi, anche se Jessica violava le regole di proposito, chi poteva biasimarla? Non avevo mai incontrato un essere umano come lei, ma avevo letto parecchi fumetti degli X-Men ed ero convinto che mi avessero fornito un solido quadro di riferimento. Nella mia mente Jessica era come un nuovo supereroe che aveva appena scoperto i suoi poteri da mutante. Doveva per forza indossare un costume assurdo. È la prima cosa che si fa quando ci si trasforma in supereroe. Anche se sono passati diversi mesi, ricordo ancora la nostra prima conversazione. Eravamo
seduti nell’aula delle punizioni, all’inizio dell’anno, quando lei si girò improvvisamente verso di me e sorrise. «Ti do le mie gelatine per una matita», disse. «Va bene», risposi. Era lo scambio verbale più lungo che avessimo mai avuto, e più volte lo ripercorsi nella mia testa. Da quel giorno in poi, mi accertai di avere delle matite in più durante l’ora di punizione, in caso lei ne avesse avuto bisogno. All’apparenza la nostra relazione era piuttosto superficiale: ogni settimana le davo una matita in cambio di una gelatina. Ma era molto di più di una semplice transazione economica. Io le avrei dato gratis le mie matite, anche se le gelatine non fossero state inserite nella trattativa. E mi piace pensare che Jessica me le avrebbe comunque regalate, anche se non avessi avuto matite da offrirle. Non ci conoscevamo molto bene, ma lei aveva cura di ringraziarmi ogni volta per nome. «Grazie, Seymour!», diceva. O anche: «Grazie mille, Seymour!». E io rispondevo: «Figurati, quando vuoi!». Era uno dei momenti salienti della mia settimana, insieme al fatto stesso di mangiare le gelatine. Stavo giusto disponendo sul mio banco un assortimento di matite per Jessica quando comparve Elliot, venuto a scontare la sua ora di punizione per avermi spinto giù dalle scale. Anche se ci eravamo seduti vicini tutti i giorni durante il pranzo, non ci eravamo ancora parlati. Aveva un quarto d’ora di ritardo ma si muoveva con una lentezza incredibile. «Sembra che qualcuno abbia bisogno di un orologio», disse la signorina Pearl. Elliot non rispose. Notai che portava un orologio da polso grosso e appariscente. «Be’, puoi comunque avere una gelatina», disse lei offrendogli il cestino. Elliot la ignorò e andò a sedersi in fondo. «Niente gelatine?», esclamò la signorina Pearl. «Andiamo, a tutti i ragazzi piacciono le gelatine!». Elliot abbassò lo sguardo sul modulo di punizione posato sul suo banco. Dopo un lungo sospiro, lo sollevò e lo tenne alla distanza di un braccio, reggendolo tra pollice e indice come spazzatura. Non appena la signorina Pearl gli diede le spalle, allentò la presa e lo lasciò fluttuare a terra. Quindi tirò fuori il suo block-notes e cominciò a scrivere. Eravamo in quattro: io, Jessica, Elliot e Lance. Lance non aveva aggredito nessuno in particolare, quella settimana, ma era stato spedito comunque in punizione per “violenza generica”. Stava scarabocchiando una saetta a margine del modulo quando la punta della sua matita si spezzò per la pressione. La sollevò alla luce e bofonchiò. Sorrisi, mentre Lance frugava nel suo zaino, cercando inutilmente un temperamatite. Certo, mi batteva in parecchie cose: era più forte, più divertente, più popolare, meno spaventato dai rumori. Ma quando si trattava di preparazione scolastica vera e propria avrei potuto insegnargli un paio di cosette. C’era un motivo se Jessica veniva da me ogni settimana per le matite. Perché, quando le cose si facevano delicate, sapeva di poter contare su di me. E non solo per le matite: le gomme, lo scotch, qualunque cosa di cui avesse bisogno. Jessica arraffò una manciata di matite dalla mia scrivania e attraversò l’aula di corsa. «Ehi, Lance», sussurrò. «Ti serve una matita?». Gliele sventagliò sotto il naso in modo che potesse vederle tutte quante. Lui le osservò per un istante, sorridendo.
«Posso prenderne due?». Jessica annuì rapidamente e Lance scelse le due che preferiva. «Grazie, Jess», disse. Lei distolse lo sguardo, imbarazzata. «Figurati!», disse. «Quando vuoi!». Lasciò cadere le matite rimanenti sul mio banco, tornò al suo posto e osservò in un silenzio rapito Lance, che finiva di scarabocchiare la sua saetta. Alcune delle mie matite rotolarono sul pavimento e quando mi piegai per prenderle mi accorsi che Elliot mi stava guardando. Continuò a guardarmi per tutta l’ora di punizione, anche mentre toglieva il cappuccio alla penna e girava la pagina del block-notes. Era raro che i miei genitori mi facessero domande sulla scuola. Non che non fossero interessati, la posta in gioco era troppo alta. La Glendale non era particolarmente sfarzosa per gli standard di Manhattan. Costava decisamente meno delle rinomate scuole che circondavano Central Park e costellavano le colline di Riverdale. Ma era pur sempre una scuola costosa, la più costosa che i miei potessero permettersi. Non avevano mai fatto riferimento ai soldi davanti a me, ma il nostro appartamento non era molto grande e se rimanevo alzato fino a tardi li sentivo discutere delle loro difficoltà finanziarie attraverso il muro che divideva le nostre camere da letto, in quel tono sommesso e serioso che riservavano solo a quell’argomento. Spendevano buona parte dei loro guadagni per mandarmi alla Glendale ed erano segretamente spaventati all’idea che il loro investimento si risolvesse in un fallimento. Se i miei mi avessero detto che la mia istruzione costava cento dollari o un milione, ci avrei creduto in ogni caso. Il denaro per me non aveva alcun significato finché non veniva convertito in caramelle. Mio padre aveva cominciato da poco a darmi cinque verdoni a settimana per insegnarmi il valore dei soldi, ma la paghetta da cinque dollari che mi dava ogni sette giorni avrebbe potuto tranquillamente essere un buono con su scritto “valido per una confezione media di caramelle”, visto che era l’unica cosa che mi veniva in mente di comprarci. Quando cercavo di visualizzare la cifra che stavo sperperando frequentando la Glendale, immaginavo di attraversare una stanza piena di caramelle, che raccoglievo e lanciavo sopra la mia testa come Zio Paperone. Suonava così trasgressivo. Nelle rare occasioni in cui i miei mi chiedevano della scuola, ero tentato di confessare tutto: il fatto che fossi l’unico studente al terzo anno di francese a cui l’insegnante si rivolgeva in inglese; che qualcuno mi aveva candidato sarcasticamente a rappresentante degli studenti all’assemblea di istituto, provocando risate così prolungate e fragorose che il preside aveva dovuto battere una specie di martelletto, mai visto prima, per farle cessare; che avevo simulato le ultime quattro febbri solo per restarmene a casa e prendermi un po’ di tregua. Non volevo però che mi considerassero un ingrato. Inoltre, avevo la sensazione che fossero già a conoscenza dei miei problemi, benché io non ne avessi mai parlato. Non approfondivano mai le domande. Se io raccontavo che la gara di nuoto era andata “bene” e che non era successo “niente di particolare”, mi prendevano alla lettera e lasciavano che cambiassi argomento. E quando dicevo di avere la febbre, non mi mettevano mai il termometro. Mi davano una pacca sulla spalla, portavano la TV in camera mia e mi dicevano di rimettermi. Le loro aspettative su di me erano incredibilmente basse. Si congratulavano con me se prendevo una sufficienza e appendevano i sette sul frigorifero. Se riuscivo a portare a casa un otto in qualunque materia, chiamavano immediatamente mia nonna, anche se era tardi e lei era malata.
«No!», esclamava. «Non posso crederci! Non ci credo!». «È vero!», diceva mia madre. «Seymour, diglielo!». «È vero», mormoravo. Allora la nonna cominciava a urlare, a urlare davvero, come quella volta che aveva vinto una crociera nel Mediterraneo alla tombola annuale della sinagoga. Io apprezzavo il suo supporto, ma a volte desideravo che il livello fosse un po’ più alto. Era passata una settimana da quando Elliot mi aveva spinto giù dalle scale e ancora non mi aveva rivolto una parola. Continuava però a sedersi vicino a me a pranzo, scribacchiando sul suo taccuino e lanciandomi di tanto in tanto delle occhiate inquietanti. Io facevo del mio meglio per ignorarlo. Dopo pranzo c’era un compito di francese e avevo intenzione di farlo bene, giusto per cambiare. Stavo memorizzando i termini francesi degli animali quando mi sentii colpire con decisione sulla spalla sinistra. Quando mi voltai, mi trovai davanti Elliot. Era la prima volta che i nostri sguardi si incrociavano, e fui sorpreso da quanto apparisse stanco. Il suo viso era pulito e disteso, ma le borse sotto gli occhi erano scure e marcate. Per la sua età, sembrava in qualche modo vecchio e giovane allo stesso tempo. «Che problema hai?», chiese. Finché non cominciò a parlare non mi venne in mente che non avevo mai sentito la sua voce. Era acuta e vivace, ma anche curiosamente flemmatica. Suonava come una vecchia signora inglese con un’antica dedizione al fumo. «Che vuoi dire?», chiesi io. «La campanella sta per suonare», disse. «E tu hai finito solo due cartoni di latte al cioccolato. Di questo passo non raggiungerai mai i cinque che ti servono per arrivare alla fine di ogni singola pausa pranzo». Mi sforzai di ridere. «Non ne bevo sempre così tanti». «Sì, invece», disse scorrendo distrattamente le pagine del suo taccuino. «In realtà, spesso arrivi a sei». I suoi occhi si spalancarono. «Una volta… ne hai bevuti sette». Abbassai lo sguardo sul mio bibitone. «Non pensavo che qualcuno l’avesse notato». «E quindi?», disse. «Che hai? Sei malato?» «Ma no, solo un po’ nervoso, credo. Sai, il compito di francese». Afferrò il libro dalle mie mani. «Perché sei alla pagina degli animali? Il test è sui nomi delle professioni». «Quando l’ha detto?» «Non l’ha detto», rispose. «Ma è ovvio». «Che significa?». Piegò le dita e si osservò le unghie con aria tranquilla. «Il signor Hendricks non inventa mai i test. È troppo ingenuo. Li fotocopia sempre dal libro così come sono».
«E allora?» «Allora, ci sono solo nove test in questo capitolo, e gli altri otto li abbiamo già fatti in classe. Ne resta solo uno». Aprì il libro alla pagina “Mestieri” e me lo restituì. Non potevo crederci. Mancavano cinque minuti alla fine del pranzo e io avevo trascurato l’unica pagina importante. «Come l’hai capito?», domandai. «Semplice ragionamento». Cominciai a studiare la pagina, ma a questo punto ero più interessato allo strano libro di Elliot. «A cosa stai lavorando?», chiesi. «Niente che ti riguardi», rispose. «Oh. Scusa». Tornai in fretta sul mio libro. Il contadino, l’uomo d’affari, il cuoco… «Ricerca», disse Elliot. «Sto facendo una ricerca». «Oh, davvero? Su cosa?» «Temo di non potertelo dire». Mi guardò in silenzio per un po’, finché non fu chiaro che non avevo alcuna intenzione di insistere per saperne di più. Poi ricominciò a parlare. «Mio padre ha donato una considerevole quantità di denaro a questo posto orribile e pare che sarò costretto a rimanere qui per un periodo piuttosto lungo. Sto studiando la scuola in modo da rendere la mia permanenza qui meno dolorosa possibile». Sfogliò il block-notes e mi mostrò alcuni diagrammi che aveva fatto. Uno descriveva la frequenza e la durata degli allarmi antincendio. Un altro elencava gli insegnanti in ordine di anzianità. C’erano mappe dettagliate della scuola, compreso il locale caldaie e i condotti di manutenzione, e alcuni codici sparsi che sembravano combinazioni degli armadietti. «Cos’è questo?», chiesi indicando una lista di nomi di studenti. «È un indice di status sociale», disse. «Ho cercato di classificare la posizione di ciascuno. Vedi? Tu sei in fondo». «È parecchio sballato». «Pensi che dovresti stare più su?» «No, quella parte è corretta. Ma il resto richiede qualche aggiustamento. Ad esempio, Lance dovrebbe stare più in alto. Non l’hai messo nemmeno tra i primi cinque». Elliot annuì lentamente. «Che altro?», chiese. Esaminai la sua lista. Notai che non si era collocato da nessuna parte. «Be’, probabilmente dovresti mettere Jessica più su», dissi. «E anche la parte bassa è sbagliata. Alcuni di questi ragazzi hanno parecchi amici». Mi tese la sua stilografica. «Correggilo», chiese. Presi la penna un po’ imbarazzato. «Ok… però, Elliot, posso chiederti una cosa?» «Cosa?»
«Perché mi hai spinto giù dalle scale?». Fece spallucce. «Per divertirmi», disse. «E a scopo di ricerca. Volevo capire fino a che punto mi avrebbero punito». «Ma perché hai deciso di spingere proprio me?» «Per ottenere un test standardizzato avevo bisogno di commettere una violazione comune. Abusare di te sembra sia piuttosto diffuso da queste parti». «Non fa una piega, direi». «Lascia che ti faccia io una domanda», disse Elliot. «Perché sei così impopolare in questa scuola?». Dal tono si capiva che non c’era nessuna malizia nella sua domanda. Era semplicemente curioso. «Hai all’incirca gli stessi soldi degli altri ragazzi. Sei sovrappeso, ma non in maniera drammatica. Voglio dire, certi tuoi compagni di classe sono decisamente obesi». Li indicò col dito. «Quindi», disse. «Di che si tratta?». Pensavo più o meno costantemente alla mia impopolarità, ma non ne avevo mai discusso con nessuno. «Ci sono un sacco di motivi, credo», dissi. «Ad esempio?» «Be’, ad esempio… non sono granché negli sport. Soprattutto a pallacanestro». Gli occhi di Elliot si spalancarono. «Lo status è determinato dalla prestanza atletica, qui?». Annuii. «In buona parte». «Quindi quel ragazzino nero che salta continuamente su e giù per arrivare a toccare la cima delle cose…». «Chris». «Non so come si chiama, ma lui. Quel ragazzo è considerato popolare? Anche se è chiaramente qui solo grazie a una borsa di studio?» «Alla gente non importa un granché di questioni come i soldi, alla Glendale», spiegai. «Si tratta più di quanto sei figo e quanto sei in gamba nello sport e se la gente pensa o no che tu sia presuntuoso. Roba così». «E tu ne sei davvero convinto?». Elliot chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, come se il parlare con me lo avesse stremato. I suoi capelli biondi, lisci e così chiari da sembrare quasi bianchi gli ricaddero sulle mani. Li ricacciò indietro, aprì gli occhi e mi fissò. «Nessuno ti ha mai detto che il denaro vince su tutto? Che a questo mondo non conta nient’altro?». Scossi la testa stupidamente. «Potrei comprarti tutta la popolarità di questa scuola», disse. «Con un po’ di ricerca e alcuni investimenti ben piazzati, posso fare di te un re. Ammirato dalle ragazze, rispettato dai ragazzi,
temuto da tutti». Risi nervosamente. «Cosa dovrei fare?». Elliot sogghignò. «Tutto quello che dico». Quando racconto di Elliot alle persone, mi fanno sempre la stessa domanda: perché ha dedicato tanto tempo e tanti sforzi per migliorare la tua vita se ti conosceva a malapena e vi eravate appena presentati? Bella domanda. L’unico modo che ho per rispondere è parlare dei videogiochi. Prima di incontrare Elliot, giocavo tantissimo ai videogiochi, ogni giorno dopo la scuola. Anche se non andavo matto per la pallacanestro nella vita reale, quando i miei mi regalarono NBA Slam ’97 ero elettrizzato. All’epoca quel gioco era unico perché ti permetteva di diventare allenatore di una squadra. Potevi condurre le trattative, decidere le sostituzioni durante la partita e giocare un’intera stagione contro le altre squadre, tutte controllate dal computer. Settai il gioco sul livello “facile” perché era la prima volta che ci giocavo, e scelsi i Sacramento Kings perché mi piaceva la loro divisa, viola e nera con una striscia argentata. Il computer mi suggerì una formazione di partenza scegliendo i cinque giocatori che, nella realtà, avevano fornito le migliori prestazioni, ma io decisi di usare la mia posizione di allenatore per cambiare un po’ di cose. Mitch Richmond, sei volte negli All Star, era stato scelto come guardia fin dal primo minuto. Ma questo era ciò che tutti si aspettavano. Io decisi di toglierlo dalla formazione e di rimpiazzarlo con Derrick Phelps, un panchinaro a caso che aveva solo tre presenze ufficiali in tutta la sua carriera. Appena effettuai la sostituzione, una scritta rossa apparve sullo schermo: Sei sicuro con Derrick Phelps?
di
voler
sostituire
Mitch
Richmond
Esitai per un momento, consapevole di aver preso una decisione poco ortodossa per un allenatore. Però poi mi arrabbiai. Chi era il computer per dirmi chi potevo inserire nella formazione titolare e chi no? Io ero l’allenatore dei Sacramento Kings! Cliccai sul pulsante START e in pochi secondi Derrick Phelps stava avanzando sul campo. Vinsi la palla a due, gliela passai e subito gli feci fare un tiro da tre. Fu un lancio terribile, che colpì a malapena il ferro, e l’altra squadra si impossessò facilmente del rimbalzo. Avevo fatto un errore? Decisi di chiamare un time-out e dare un’occhiata più attenta alle statistiche di Derrick della passata stagione. Partite giocate: 3 Minuti totali: 5 Media punti: 0.0 Non era molto incoraggiante, soprattutto se paragonato ai numeri di Richmond nella stessa annata:
Partite giocate: 82 Minuti totali: 3172 Media punti: 22.8 Rimandai in campo Mitch Richmond per un paio di azioni. Rubò immediatamente una palla e lanciò un perfetto alley-oop alla cieca verso il mio centrale. La folla andò in visibilio, ma il tifo mi lasciava indifferente. Era troppo facile dominare la partita nei panni di Mitch Richmond. Certo, potevo giocare in maniera canonica e lasciargli trascinare la squadra per tutto il campionato. Oppure potevo stravolgere il mondo del basket e creare dal nulla una nuova leggenda. Una leggenda di nome Derrick Phelps. Chiamai un altro time-out e lo rimandai in campo. Per la fine del terzo quarto, Phelps aveva fatto quasi settanta tiri da tre. Era programmato per sbagliare la maggior parte dei suoi lanci, eppure era riuscito a raccogliere sessantasei punti, e con il gioco settato sul livello “facile” era tutto ciò che serviva per vincere la partita. Nell’arco di tre settimane di gioco costante dopo la scuola, avevo portato i miei Sacramento Kings al campionato del mondo. Per allora, Derrick Phelps aveva frantumato ogni record rilevante nella storia dell’NBA. Concluse la stagione con una media di ottanta punti a partita. E non saltò un solo minuto di gioco, non importa quanto fosse affaticato. Ogni sera, sdraiato nel mio letto, mi immaginavo all’interno del gioco, mentre tenevo una conferenza stampa in qualità di allenatore dei miei Sacramento Kings elettronici. «Dove ha scovato il giovane Derrick? È il futuro Michael Jordan!». «È meglio di Jordan», rispondevo. «Sta facendo cose in questo campionato che non sono mai state fatte prima. Cose che non sono state mai nemmeno sognate». «Non le crea problemi la sua scelta di tiri? Ieri sera ha tentato trentasette tiri da tre, tra cui nove dalla propria metà campo. Non è il segno di un giocatore egoista?» «Mi stia a sentire», dicevo, rivolgendomi rabbiosamente al giornalista immaginario. «Phelps ha portato più tifosi a questo campionato di chiunque altro nella storia. Se vuole tirare anche da diciotto metri, be’, io penso che se lo sia guadagnato!». Quando avevo scoperto Derrick Phelps, era un giocatore senza esperienza che nell’ambiente nessuno rispettava, e nell’arco di una stagione lo avevo trasformato nella più imponente star che lo sport avesse mai conosciuto. Era il mio più grande successo. Non ho mai detto a Elliot niente di tutto questo, ma penso che avrebbe capito. Naturalmente lui non giocava con i videogiochi. Non ne aveva bisogno. Sapevo che l’idea di Elliot era folle. La popolarità non era qualcosa che si poteva comprare come un paio di scarpe da ginnastica. Ci volevano anni per acquisirla o, se eri Jessica, un’estate particolarmente intensa. Era divertente immaginare di essere popolare: sedermi dove mi pareva a pranzo, giocare un doppio ai videogiochi, canticchiare senza il timore di essere aggredito. Ma quelle erano solo fantasie e i miei anni alla Glendale mi avevano insegnato a non crogiolarmi in quei pensieri. Inoltre, la mia situazione non assomigliava neppure vagamente a come Elliot l’aveva descritta. Certo, non ero popolare nel senso tradizionale del termine, ma comunque la gente mi rispettava. Infatti ero stato invitato all’evento sociale più importante dell’anno: la festa di compleanno di Lance. L’invito era arrivato con qualche giorno di ritardo e io avevo passato l’intero fine settimana nel panico, convinto di essere uno dei pochi lasciati fuori. Ma alla fine mia madre mi si era
presentata con il bigliettino rosso lucente, firmato da Lance in persona. Le cose non erano così male, no? Ero “cordialmente invitato” alla “festa in piscina di Lance Cooper”. Un ripensamento, forse, ma che importava? Lance mi voleva alla festa. Per me era più che sufficiente. Ero terrorizzato, naturalmente. Non mi ero fatto vedere in costume da bagno dai miei compagni di scuola dai tempi dell’esame di nuoto del settimo anno, e il ricordo di quell’episodio era così terribile che mi faceva letteralmente sudare. La mattina del giorno della festa, ero quasi deciso a fingermi malato per evitare di dover andare. Ma la cosa importante era un’altra. Sdraiato sul mio letto, con l’invito di Lance Cooper poggiato sul davanzale della finestra, provai una soddisfazione che non sentivo da mesi. Era la prima festa a cui mi invitavano da quando mi ero iscritto alla Glendale. Chissà, magari la mia vita cominciava a cambiare. Stavo per addormentarmi quando un profumo inconfondibile s’insinuò sotto la mia porta. Mia madre stava infornando qualcosa, qualcosa di delizioso. Saltai istintivamente giù dal letto e brancolai lungo il corridoio buio. Fu solo quando vidi l’orologio della cucina che capii che qualcosa non quadrava. Mamma non cucinava mai a quell’ora. La cucina era immersa nell’oscurità, a parte il leggero bagliore giallo della luce del forno. Mi guardai intorno cercando mia madre, ma era tornata in camera da letto in attesa che la cottura si ultimasse. Io sbirciai incredulo dentro il forno. Era assurdo: mamma stava facendo i biscotti, un’intera teglia di biscotti al burro di arachidi, e non me l’aveva nemmeno detto. Stavo per bussare alla sua porta e affrontarla quando lo sguardo mi cadde su una scatola di latta poggiata sul piano della cucina. Mamma l’aveva rivestita di carta da forno e aveva attaccato al coperchio un biglietto di ringraziamento. Era indirizzato alla signora Cooper. La madre di Lance. Aprii il biglietto. La ringrazio sentitamente per aver acconsentito a invitare Seymour, non potrebbe essere più emozionato! Riguardo alla nostra discussione, mi assicurerò che Seymour presti attenzione alla sua igiene personale e che non si ripeta “l’incidente” dell’esame di nuoto. Sgattaiolai in camera mia, vergognandomi un po’. Papà era sembrato eccitato quando a cena gli avevo detto della festa di Lance. Chissà se era a conoscenza del patetico intervento di mia madre e delle condizioni che aveva accettato. Immaginavo Lance discutere per tre giorni con sua madre prima di firmare con riluttanza il mio invito. Potevo vederlo mangiare i biscotti con i suoi amici, spiegando la triste storia della loro origine. Erano le undici di sera, parecchio oltre l’orario in cui i ragazzini vanno a dormire, ma in qualche modo sapevo che avrei trovato Elliot sveglio. Chiusi a chiave la porta, per la prima volta da che potevo ricordare, e cercai il suo numero sull’elenco. «Ok», dissi. «Quando si comincia?». Elliot rise. «Subito». «Insomma, Vlad, non hai mai giocato nell’NBA?» «Be’… no. Non ufficialmente. Ma un’estate mi sono allenato con i Pacers, e nella CBA2 ho giocato con dei ragazzi dell’NBA». Elliot roteò gli occhi. «Be’, lo farai un giorno», disse.
Il giocatore guardò giù verso Elliot con gli enormi occhi sbarrati. Vlad era con ogni probabilità la persona più alta che avessi mai conosciuto e le sue cosce erano spaventosamente muscolose. Tuttavia parlava con il nervosismo di un ragazzino che si presenta durante il primo giorno di scuola. Fece rimbalzare la palla contro il parquet e l’eco si diffuse tutto intorno. Elliot aveva affittato un’intera palestra, che adesso era completamente vuota a parte me, lui e Vlad. Elliot non mi aveva detto dove stavamo andando dopo la scuola, si era limitato a spingermi dentro la sua limousine. Gli avevo fatto alcune domande durante il viaggio, ma era stato troppo impegnato in varie telefonate per rispondere. Quando arrivammo alla palestra, mi lanciò una borsa di vestiti sportivi, e per il resto mi ignorò. Indossava un doppiopetto grigio con un fazzoletto blu che spuntava dal taschino. «Quand’è che il coach seleziona le matricole?». Feci spallucce. Prese il telefono e premette un solo tasto. «Trovami la data esatta dei provini di basket dell’ottavo anno alla Glendale», disse a qualcuno. Richiuse il telefono e se lo rimise in tasca. «Be’?», disse. «Che stiamo aspettando?». Per le due ore successive, all’incirca, Vlad mi sottopose a vari test di pallacanestro per valutare il mio “livello di base”. La prima volta che feci rimbalzare la palla, scagliandola a terra con le due mani tremanti, lui trasalì. Fece del suo meglio per rimanere professionale, incoraggiandomi in modo educato dopo ogni tiro sbilenco, ma vedevo chiaramente l’orrore dipinto sul suo viso. Scoprii più tardi che Elliot pagava Vlad sulla base delle mie prestazioni. Se non fossi riuscito a far parte della squadra, Vlad avrebbe rinunciato a una quantità pazzesca di soldi. Dopo il mio secondo accesso di tosse, Vlad tagliò corto con i test e mi condusse verso le gradinate. Elliot era assorto in qualche grosso volume di storia militare, roba di navi a giudicare dall’aspetto, e ci vollero un paio di tentativi per attirare la sua attenzione. «Be’, come va?», chiese. «Non male», disse Vlad con un sorriso forzato. «Ci mette il cuore». Elliot richiuse il libro con un colpo secco e puntò il suo piccolo indice verso Vlad. «Non mi prendere per il culo!», gridò. Attese alcuni istanti perché l’eco si spegnesse. Quindi continuò, più calmo. «Qui non si tratta di “sentimento”, Vlad. Non si tratta di “autostima”. Qui si tratta di vincere. Io ti pago per vincere. Ora dimmelo chiaramente: sei in grado di allenarlo per farlo entrare nella squadra? O devo cercarmi qualcun altro?». Vlad sedette sugli spalti. «Ok», disse. «In tutta onestà? Non sarà facile. Questo ragazzino sembra non aver mai giocato prima, né aver mai visto giocare a basket. E non è solo la tecnica. Fisicamente è un disastro. Per avere quattordici anni, la sua capacità polmonare è parecchio scarsa. E la sua andatura, il modo in cui corre… è assurdo. La prima volta che abbiamo corso sul terreno di gioco pensavo scherzasse. Invece no. Lui corre davvero così». Elliot annuì. «Va bene», disse. «Quindi quanto ci vorrà?». Vlad alzò lo sguardo verso le travi e lasciò partire un lungo sospiro. «Io direi un minimo di due ore al giorno. Più potenziamento e condizionamento fisico. Ma queste sarebbero solo le basi. Senza altri giocatori con cui fare qualche scambio non capirà mai
come si gioca». «Bene, troveremo altri giocatori». «Come pensi di fare? Voglio dire, non puoi mica reclutare un’intera squadra di…». Elliot strizzò gli occhi. «Facciamo così», disse. «Tu evita di dire a me cosa posso e cosa non posso fare. Qualcuno ti ha spiegato la mia situazione? Chi sono, come mi muovo e cose del genere?». Vlad annuì. «Bene», disse Elliot. «Bene». Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «Mi dispiace di aver alzato la voce, prima», disse. «Sono davvero di pessimo umore». Diede una pacca sulla gigantesca spalla di Vlad. «Ottimo lavoro, per oggi». Aprì lo sportellino del cellulare e mormorò qualcosa nel microfono. Pochi secondi dopo le porte della palestra si aprirono e dei tizi frustrati di mezza età si riversarono sul campo. «Il posto è aperto al pubblico, adesso», annunciò Elliot abbottonandosi annoiato il lungo cappotto nero. Uno di loro fece per chiedergli chi fosse e come fosse riuscito a prenotare durante il loro solito turno, ma il suo amico lo zittì. Sembrava che in qualche modo avessero intuito che sarebbe stato un grosso errore mettersi a discutere con Elliot. «Di’ loro che hai fatto pratica», disse Elliot. «Di’ che ti sei allenato duramente per tutta l’estate e che ora vuoi giocare con loro». Era un venerdì pomeriggio e Lance aveva organizzato la solita partita tre contro tre al John Jay Park. Quasi tutti i ragazzi si affollavano ai bordi del terreno di gioco nella speranza di essere scelti quella settimana. Le ragazze stavano sedute sulle gradinate a mangiare patatine fritte facendo finta di non guardare. «Che stai aspettando?», chiese Elliot. «Fai come ti dico!». Gli spiegai quanto fosse difficile rientrare in uno dei sei posti, quanto anche gli studenti più atletici dell’ottavo anno avevano dovuto arruffianarsi Lance per tutta la settimana per essere presi in considerazione. Non era possibile che mi scegliessero, gli dissi, e se anche fosse successo, la partita sarebbe stata imbarazzante. Avevo sicuramente fatto dei progressi durante le mie prime cinque settimane di allenamento: alla fine avevo capito cosa fosse un “doppio” e, a giudicare dalla quantità di dolci che mia madre mi proponeva ogni sera, dovevo aver perso un considerevole numero di chili. Ma non ero ancora nemmeno vagamente al loro livello. «Non mi faranno giocare», dissi. «Tu non sai come funzionano le cose qui». Elliot si allontanò da me di un paio di passi, poi si voltò brusco. «Ok», disse. «Tanto per cominciare, non dirmi mai che non so come funziona qualcosa». Fece una pausa, in modo da far sedimentare l’ammonimento. «Dovrai fidarti di me», disse. «Il mio piano è troppo elaborato e ingegnoso perché tu lo capisca adesso, ma è vitale che tu segua alla lettera ogni passo. Ora va’ lì e digli, più forte che puoi, che ti sei allenato a pallacanestro per tutta l’estate e che vorresti far parte della squadra». Elliot sembrava irremovibile. Bevvi una lunga sorsata di Pepsi per prendermi qualche secondo e pensare. Di solito cercavo di limitare i miei contatti con Lance. Da qualche tempo aveva cominciato a chiamarmi “Cicciobombo” e io ero terrorizzato che se avesse insistito ancora un po’ con quel
soprannome poi sarebbe diventato di uso comune. D’altra parte Elliot aveva fatto così tanto per me nelle ultime settimane che non volevo mi considerasse un ingrato. Posai la lattina e mi diressi verso il campo. «Aspetta!», sussurrò Elliot. «Chi è quella femmina alfa al centro dell’attenzione, sulle gradinate? Quella che sorride, con quegli stupidi, stupidi ricci?» «Oh, quella è Jessica», dissi. «È quella che ti avevo detto di spostare più in alto nella tua classifica. È probabilmente la ragazza più popolare dell’ottavo anno. «Giusto, è lei», disse Elliot. «A me sembrano tutte uguali». Si voltò verso di me. «Assicurati che ti senta». Quando, trenta secondi dopo, tornai indietro, avevo le guance rosse e gli occhi gonfi di lacrime. «Com’è andata?», mi chiese Elliot. «Mi ha chiamato Cicciobombo e tutti hanno sentito. Non posso crederci… Cominceranno tutti a chiamarmi così. Ora sono Cicciobombo. Questa è la mia vita, adesso». Guardai verso il campo. Qualcuno passò la palla a Lance e lui segnò subito un tiro da tre. Elliot ghignò e tornò al suo libro. «Perché sorridi?», dissi. «Ha detto di no. Non ha funzionato». «Stai scherzando?», disse. «Ha funzionato alla grande». Vlad mi porse la palla e poi, con le mani, mi sistemò braccia e gambe nella corretta posizione di tiro. «Accompagnala, questa volta», disse. «E non dimenticare la rotazione». Controllai la presa, piegai le ginocchia e saltai sulla linea del tiro libero. La palla si staccò dalle mie dita, descrisse un arco in aria e scivolò al centro del canestro. Mi girai per vedere la reazione di Elliot, ma era troppo preso dalla lettura per accorgersene. «Ehi, Elliot. Ho fatto canestro!». Vlad poggiò la sua mano gigantesca sulla mia spalla. «È decisamente troppo presto per festeggiare, ragazzo», disse. «Abbiamo ancora un mare di lavoro da fare». Soffiò nel fischietto, e un tizio alto in calzoncini da basket e berretto da baseball entrò nella palestra. Mi sembrava di conoscerlo, ma in quel momento non riuscivo a collocarlo. «Ho portato i ragazzi che mi avete chiesto», annunciò con voce profonda e piatta. «Se ne servono altri, fatemi sapere». «Oh mio Dio», dissi. «James?». Era l’autista della limousine di Elliot, il tipo che tutti i giorni ci accompagnava in palestra. Non l’avevo mai visto senza l’abito nero e il cappello. James schioccò le dita, e un gruppo di ragazzi con indosso magliette uguali corse dentro la palestra. Notai che erano esattamente nove, il numero giusto per una partita regolamentare. Vlad guardò James per qualche secondo, stupito che avesse reclutato tutti quei ragazzini senza il minimo sforzo. Poi si schiarì la voce, soffiò nel fischietto e si rimise al lavoro. «Come hai convinto quei ragazzi a venire?», domandai mentre tornavamo a casa in limousine. «Ho fatto creare a James un campionato di pallacanestro», mi disse Elliot. «Ci sono più di cento
giocatori». «Oh Gesù», sussurrai. «Non è chiedere un po’ troppo al tuo autista?» «James è più di un autista», disse Elliot. «Capisco», risposi. «Però… comunque… non è un po’ folle creare un campionato intero solo per me?» «Ti servivano dei compagni di gioco. E questo era l’unico sistema per convincere i genitori a mandare i ragazzi. Qualunque altra cosa li avrebbe insospettiti». «Quindi… ci sono, tipo, le partite e tutto il resto? Anche quando non ci sono io?» «È un campionato regolare», disse. «Ci sono tornei, allenatori, un bollettino. La squadra con cui hai giocato oggi era convinta di essere qui per un vero allenamento. Si chiamano Timberwolves». Viaggiammo in silenzio per un po’. «Ehi Elliot», dissi. «Hai visto l’ultimo quarto?» «No», rispose. «Stavo leggendo». «Oh. Be’, è stato fico. Ho rubato palla un paio di volte e ho fatto diversi tiri da sotto. Non ero il migliore, là in mezzo, ma ero decisamente sopra la media. Non voglio cullare troppe fantasie ma… comincio a sentirmi tranquillo per i provini». Elliot annuì. «Non compiacerti troppo. I Timberwolves sono la squadra più scarsa del campionato». Nelle settimane successive la mia velocità aumentò, i miei tiri migliorarono e la mia sicurezza crebbe. Ogni settimana giocavo contro squadre sempre più forti del campionato di Elliot, e nella settimana dei provini conducevo regolarmente gli sconclusionati Timberwolves alla vittoria. Mia madre, terrorizzata dalla mia recente perdita di peso, mi fece vedere da due diversi dottori, in cerca di parassiti. Quando spiegai che avevo giocato a basket dopo la scuola, con Elliot, la cosa sembrò confonderla ancora di più. «Non ti aveva spinto giù dalle scale?», chiese. «Era solo un esperimento», dissi io. La faccenda finì lì. Volevo giocare nel parco per vedere come me la cavavo contro i miei compagni di classe, ma Elliot mi ordinò di non farlo. «Lance potrebbe accorgersi dei tuoi progressi», disse. «Ed è indispensabile che lo prendiamo alla sprovvista». Scosse la testa, improvvisamente disgustato. «Il fatto che uno con la classe di Lance sia importante nella scuola è una perfetta testimonianza del basso livello di questo posto». «Che vuoi dire?», chiesi. «Lance non è… sai…». «Lance non è cosa?» «Be’, lo sai, dài… non è ricco?» «Certo che no», rispose. «Suo padre è il proprietario di alcuni magazzini nel Queens. Non è esattamente un impero». «Ma ha le nuove Penny Hardaways», dissi io. «Esatto! Le scarpe più spaccone che ci siano sul mercato. Ha bisogno di portare quelle scarpe
per far vedere che la sua famiglia finalmente se le può permettere. È come un cavernicolo con un pezzo d’avorio al naso. Certo, Lance è orgoglioso delle sue scarpe. Ma quando i suoi figli vedranno le foto, saranno imbarazzati all’idea che il loro padre abbia dovuto darsi così tanto da fare. E i suoi nipoti saranno davvero mortificati». Guardai le scarpe di Elliot. Erano mocassini cuciti a mano, realizzati in quella che sembrava pelle di coccodrillo. Avevano la punta d’argento e la fibbia d’oro, e le suole erano color sangue. «E che mi dici di quelle?», chiesi. Elliot fece spallucce. «Gli Allagash sono tornati alle origini». Lance sarà stato anche il primo a scuola a portare le Penny Hardaways, ma talmente tanti ragazzi avevano cominciato a imitarlo che il giorno del provino lui aveva sentito il bisogno di un salto di qualità. Indossava le nuove Air Jordan, delle scarpe scandalosamente costose con lacci dorati e una specie di linguetta removibile. Nessuno le notò finché non ci ritrovammo nell’aula di studio a fare i compiti, quando Lance inclinò la sedia e poggiò entrambi i piedi sul banco. Era un gesto piuttosto clamoroso, ma il signor Hendricks tenne la bocca chiusa. Era un ometto nervoso, un fragile professore di francese a cui tremavano le mani in modo comico ogni volta che urlava. Indossava giacche di tweed e occhiali dalla montatura scura, ma non riusciva a nascondere il fatto di essere il professore più giovane della nostra scuola. Era evidente, si vedeva dalla precisione dei suoi esami, dalla cura che metteva nel realizzare i murales e dal modo in cui ritrattava quando gli studenti si lamentavano per i troppi compiti a casa. Elliot lo prendeva costantemente in giro – soprattutto per la scarsa qualità dei suoi completi di tweed – ma senza dubbio era il mio insegnante preferito. Era l’unico con cui riuscivo a comunicare. Jessica e Lance cominciarono a bisbigliare e il signor Hendricks tirò fuori un libro, facendo finta di non accorgersi di nulla. Quando il loro tono di voce crebbe a un livello impossibile da ignorare, andò in bagno così da non doverli sgridare. «Dovresti venire a vedere i provini», disse Lance a Jessica. «Ho le prove con le cheerleader». Ero seduto proprio dietro di loro; notai che a un certo punto Jessica aveva poggiato i piedi vicino ai suoi. «Potreste chiedere di iniziare la stagione con un po’ di vantaggio», disse Lance. «Fai il tifo per me, oggi». Lei avvicinò leggermente i suoi piedi a quelli di lui, finché non furono più o meno a contatto. «Ci sarò». Mi si strinse lo stomaco. Ero già abbastanza nervoso senza la minaccia di un pubblico femminile. Se fosse venuta Jessica, sarebbero venute tutte le ragazze. Mi ero allenato per mesi… e se poi fosse stato un disastro? L’unica cosa che riuscì a calmarmi fu la vista di Elliot. Stava guardando fuori dalla finestra, con le braccia conserte e un sorriso tranquillo sul volto. Per quanto fosse difficile immaginare il mio successo, era altrettanto difficile immaginare un fallimento di Elliot. Qualche ora prima dei provini, il signor Hendricks ci portò in cortile per la ricreazione. Stavo facendo degli esercizi di yoga che mi aveva insegnato Vlad, quando sentii un vociare dalle parti della fontana. Un tizio con indosso un enorme costume di gommapiuma a forma di biscotto al
cioccolato stava distribuendo campioni dei prodotti Nestlé. Istintivamente cominciai a correre verso di lui, quando sentii la mano di Elliot stringersi sulla mia spalla. «Sono per loro», disse. «Non per te». Guardai verso il cortile. Hendricks stava incitando i ragazzi a “prenderne solo uno”, ma era troppo tardi. Lance aveva già organizzato una specie di sfida mangereccia, e gli altri ragazzi stavano facendo il tifo per lui, intonando a gran voce il suo nome. L’uomo nel costume di gommapiuma svuotò a terra ciò che rimaneva del suo cesto e i ragazzi più grossi cominciarono ad accapigliarsi là sopra. Poi annuì una volta in direzione di Elliot e scomparve. «Oh mio Dio», dissi. «Ma quello era James?». Elliot si appoggiò contro le strutture da arrampicata del cortile e guardò la folla. «Guardali, gli animali», disse. «Mangiano il loro zucchero». Guardò l’orologio. «A volte è quasi troppo facile». Di solito il signor Hendricks doveva spegnere le luci per fare in modo che prestassimo attenzione all’Annuncio Finale. La classe però era stravolta dal sovraccarico di zuccheri. Quasi tutti erano riversi sui banchi, con gli occhi mezzi chiusi. Alcuni dormivano davvero. «So che siete tutti eccitati per i provini di basket e delle cheerleader», disse il signor Hendricks. «Prima di lasciarvi andare, però, abbiamo un breve annuncio da parte di uno studente. Elliot?». Elliot si diresse verso la lavagna e giunse le mani, come in preghiera. «Ogni anno», disse, «circa tre dozzine di giovani della nostra comunità sono vittime di avvelenamento da amianto. Ho deciso di dare vita a un programma extrascolastico per combattere questa terribile piaga. Io sarò il presidente, ma avrò bisogno di un segretario che mi aiuti nelle faccende amministrative ogni martedì, giovedì e venerdì. Ovviamente chiunque dovesse ricoprire questo ruolo sarà costretto ad abbandonare gli impegni di basket o la squadra delle cheerleader. Ma – sono sicuro – siamo tutti d’accordo che un simile sacrificio è un piccolo prezzo da pagare per aiutarci a rimuovere l’amianto dalle scuole del circondario. Chiedo dunque a voi, miei compagni Lions della Glendale, di eleggere lo studente che ritenete più meritevole di tale incarico». Alcuni sollevarono lo sguardo mentre Elliot si aggirava per l’aula e posava sul banco di ciascuno una scheda per votare. Avevo passato abbastanza tempo con lui da essere ormai abituato alle sue stranezze. Ero avvezzo alle sue dita nodose, alla sua voce stridula e al suo sguardo gelido. Ma i miei compagni lo trattavano come un fantasma, ignorandolo ogni volta che potevano. «Non sapevo che avessi fondato un club», sussurrai quando tornò a sedersi. «Non l’ho fatto», disse lui. Avevo altre domande, ovviamente, su James e i dolci, ma decisi di lasciar perdere. C’era qualcos’altro che volevo dirgli, qualcosa che avevo intenzione di dire da mesi. «Ehi, Elliot, senti… anche se non dovessi riuscire a entrare nella squadra, volevo dirti, ecco, grazie per…». Mi interruppe. «Non ringraziarmi», disse. «Ricorda, non sto facendo tutto questo per bontà d’animo o per generosità. Lo sto facendo semplicemente per sport. Un esercizio intellettuale, un modo per tenermi occupato durante questo infernale momento della mia vita». «Ok», dissi io. «Comunque sia… volevo ringraziarti. Significa molto per me». Elliot esitò e giocherellò con il gemello sul polsino. Mi resi conto che era la prima volta che lo
vedevo a disagio. «Prego», borbottò alla fine. Poi la campanella suonò e ci dirigemmo verso la palestra. I provini sembravano andare al rallentatore, come una specie di sogno. Ero migliorato così tanto e così in fretta che sembrava che tutti gli altri fossero peggiorati. Rubai palla a Lance alla prima occasione e sfrecciai attraverso il campo per un facile tiro da sotto. Lance, un po’ sorpreso, fece del suo meglio per pareggiare il conto nell’azione successiva, ma io anticipai il suo passaggio, rubai palla di nuovo e mi liberai per un altro tiro a canestro. Questa volta lanciai con la sinistra, tanto per variare. Nel frattempo la mossa dello zucchero di Elliot stava ottenendo l’effetto desiderato. Gli altri ragazzi erano talmente indolenti sul campo che l’allenatore dovette interrompere l’azione durante le gare di scatto per fare un discorso sulla “volontà”. Uno dei ragazzi più grossi, che aveva mangiato ininterrottamente i dolci omaggio fin dalla ricreazione, approfittò di quel momento per andare in bagno a vomitare. All’inizio dei provini, quando avevo cominciato a dominare il campo, Lance aveva reagito ridendo. Ma il suo divertimento lasciò presto il posto alla frustrazione… e poi alla paura. Nei secondi finali della partita, fece raddoppiare la marcatura su di me sulla linea di metà campo, nel disperato tentativo di fermarmi. Io lo superai con una giravolta, saltai l’altro difensore con una finta e poi lasciai partire un tiro da tre proprio sulla sirena. La palestra piombò in un silenzio reverenziale. L’unico suono udibile era un risolino acuto e stridulo proveniente dagli spalti. Immaginai fosse una delle ragazze, che erano tutte ammassate in prima fila, invece era Elliot. Stava seduto all’ultimo ordine delle gradinate e beveva quello che sembrava una specie di Martini. Sorrise alle cheerleader allibite, mi fece un cenno con la testa e scomparve. Non ero abbastanza aggressivo da farmi strada in mezzo all’assembramento di gente, ma non avevo bisogno di vedere la lista per sapere che avevo conquistato un posto in squadra. Alcuni ragazzi che conoscevo a malapena mi diedero pacche sulle spalle, e perfino Lance mormorò delle congratulazioni. Stavo per andarmene a casa quando Elliot mi fermò. Allargai le braccia per abbracciarlo, ma lui sollevò le mani in segno di protesta. «Non è ancora finita», disse. «Che intendi?» «L’obiettivo non era farti entrare in qualche pietosa squadra sportiva», disse. «Quello era solo il primo passo. Non cerchiamo l’accettazione da parte degli altri, cerchiamo il predominio». Si avvicinò e continuò sottovoce. Aveva l’alito cattivo, odorava della formaldeide che usavamo quando sezionavamo le rane. «Fidati di me», disse. «Questo è solo l’inizio». Montò su una sedia e si rivolse al capannello di studenti ammassati intorno alla lista. Aveva ricevuto i risultati delle votazioni per il segretario, disse, e la classe aveva scelto, a stragrande maggioranza, me. I miei nuovi compagni di squadra lo guardarono basiti. «Non può farlo», disse uno di loro. «Fa parte della squadra». «Mi rendo conto che la pallacanestro è molto importante», disse Elliot. «Ma questa è l’opportunità di aiutare ragazzi meno fortunati. Forse dovremmo lasciare a lui la decisione». I ragazzi ridacchiarono e fecero qualche battuta. Notai che le ragazze, però, avevano una reazione diversa. Alcune di loro guardavano i maschi alzando gli occhi al cielo, altre mi sorridevano
con uno sguardo rapito. «Cosa pensi di fare?», mi chiese Jessica, posandomi la mano sull’avambraccio. «Cosa sceglierai?». Quell’anno circolava una serie di libri molto popolare, intitolata Magic Eye. Ogni libro conteneva un certo numero di immagini elaborate al computer. Erano prive di significato, ma se uno le osservava abbastanza a lungo e con attenzione cominciava a vedere delle forme tridimensionali. Un cavallo, una corona, una spada. Lo stesso successe in quel momento, quando misi a fuoco i contorni e cominciai finalmente a vedere il disegno complessivo. Attesi che gli occhi fossero tutti puntati su di me. Quindi mi schiarii la voce, feci una pausa a effetto e annunciai la mia decisione. «Ho deciso di unirmi all’associazione di Elliot», dissi. «La pallacanestro potrà essere più divertente, ma preferisco fare qualcosa per cambiare il mondo». Sentivo ancora le ragazze parlottare eccitate mentre seguivo Elliot fuori, in strada. Riuscii a controllare il mio entusiasmo finché le portiere della limousine non furono chiuse. «Hai visto quando Jessica mi ha toccato il braccio? L’hai visto?» «Ho visto». «Hai visto la faccia di Lance?», dissi. «Quando ho scaricato la squadra? Mio Dio… sono troppo fico perfino per giocare con quel tipo! Sono troppo fico addirittura per far parte della sua stupida squadretta!». «Ci sei arrivato, Watson». «Immagino non esista alcuna associazione contro l’amianto, giusto?» «Certo che no. Ma comunque ci incontreremo tre volte a settimana». «Per fare che?» «Per progettare la nostra prossima mossa. Siamo partiti a razzo, ma ancora non siamo nemmeno vagamente vicini al traguardo». Aprì il tettino, e la macchina fu inondata di luce e di calore. Io misi fuori la testa e una folata di vento mi colpì in pieno viso. Immaginai per un attimo che non ci fosse alcuna limousine, c’ero solo io che correvo su Park Avenue, sfrecciando per la città a cinquanta all’ora. Gridai a Elliot di affacciarsi insieme a me, ma rifiutò. Alla fine, dopo qualche isolato, lo afferrai per il polso scheletrico e lo tirai su dal sedile. Lui oppose resistenza e si dimenò per un isolato o due, come un pesce preso all’amo, ma quando la sua testa emerse dal tettino e l’aria tiepida lo colpì sul volto, mi guardò e non riuscì a trattenere un sorriso. «Fai finta che la macchina non ci sia!», gli urlai, muovendo le braccia avanti e indietro. «Che siamo solo noi che corriamo!». Quel gesto mi faceva apparire così ridicolo che entrambi scoppiammo a ridere. Elliot si rintanò nuovamente nella limousine. «James, accelera!», disse. «Abbiamo da fare, non vedi?». Se c’è una cosa che ho imparato dalla televisione, è che non devi mai fidarti di un genio. Non importa in che modo usi i tuoi tre desideri, il genio troverà sempre un modo per fregarti. Se chiedi un milione di dollari, questi arriveranno da un’assicurazione sulla vita dopo che tua moglie sarà morta in un incidente aereo. Se desideri la fama, un’orda di fan ti travolgerà fino a ucciderti. «Credevo avessi detto di volere i soldi», dirà il genio con un ghigno sul volto. «Credevo volessi
la celebrità». «Non così», risponderai. «Non in questo modo!». E il genio ti riderà in faccia tenendo le muscolose braccia blu incrociate sul petto. A dieci anni avevo visto una puntata di Ai confini della realtà in cui un negoziante trovava un genio. Quando esprimeva il desiderio di diventare potente, veniva immediatamente trasformato in Hitler. A me era sembrato un po’ scorretto, anche per gli standard dei geni. Naturalmente, diedi la colpa al negoziante. Non avrebbe dovuto desiderare qualcosa di così egoistico e meschino. Avrebbe dovuto accontentarsi della sua vita da negoziante. Avrebbe dovuto tenere a mente tutte le storie educative che aveva letto da ragazzo sui geni e i loro trucchi, e quando aveva trovato la lampada d’oro e ne aveva sfregato la liscia, levigata superficie, quando aveva inalato quel fumo violaceo e sentito la voce roboante, avrebbe dovuto gettarla via. Facile a dirsi. All’epoca non avevo mai incontrato un genio. Elliot aveva un’enorme collezione di giochi. Possedeva un intero scaffale di insetti fossili. Aveva una vecchia versione di Monopoli degli anni Trenta, con un tabellone circolare e banconote ormai consunte che arrivavano fino a venti dollari. Aveva addirittura un genio a monete, un automa in turbante, a grandezza naturale, chiuso in una teca di vetro, che si chiamava Grande Shamba. Infilando un nichelino dentro la macchina, il genio ruotava per una trentina di secondi e dalla sua bocca spuntava un bigliettino, come una lingua di carta. I cartoncini dicevano sempre la stessa cosa: «Se insisti». La camera da letto di Elliot aveva un montacarichi, collegato tramite un sistema di pulegge direttamente alla cucina. Non avevo mai visto la cucina, ma doveva essere incredibilmente fornita. Erano in grado di preparare qualunque piatto lui chiedesse, non importa quanto fosse complesso. Ogni volta che Elliot voleva qualcosa, scarabocchiava l’ordine su un pezzetto di carta, lo gettava nella cabina e la mandava giù tramite una grossa manovella circolare che sembrava il timone di una nave. Diversi piani più in basso doveva suonare una campana che segnalava l’arrivo dell’ordinazione, e nell’arco di trenta minuti la manovella cominciava a girare nell’altra direzione. Il profumo di cibo sarebbe salito lentamente attraverso il pozzo finché il piatto si sarebbe materializzato. Elliot raramente mangiava qualcosa che non fosse un sandwich al crescione, ma mi incoraggiò a mettere alla prova i limiti della cucina. Dietro suo consiglio assaggiai dozzine di piatti strani: tartare di manzo, ostriche gratinate al bacon, filetto alla Wellington. Se qualcosa non mi piaceva, scribacchiava un altro ordine, girava la ruota e riprovava. Il montacarichi era progettato per il cibo, ma Elliot lo usava per qualunque cosa. Se era stanco dei suoi vestiti, mandava giù la richiesta per “un nuovo stock di giacche” e prontamente arrivava un carico di vestiti nuovi di zecca. Lui li provava davanti a uno dei suoi molti specchi a figura intera, teneva quelli che gli piacevano e rimandava giù gli altri. Una volta, mentre cercavo di finire un compito di matematica e lui mi raccontava una delle sue lunghe storie, mi strappò il quaderno di mano e lo scagliò nel montacarichi. Pochi minuti dopo arrivò la soluzione, insieme a un foglio a parte, con i “passaggi evidenziati”. A volte Elliot mandava giù la richiesta di qualche oggetto che aveva mollato in giro per casa, come la stilografica, il telefono o le chiavi. Tutto ciò che doveva fare era scarabocchiare su un foglietto cosa aveva perso e girare la ruota magica: il suono della campana era seguito da uno sferragliare, e poco dopo l’oggetto smarrito ricompariva tra le mani di Elliot. Quando era particolarmente annoiato, nascondeva le chiavi in qualche posto sperduto, tipo sotto una scrivania o dietro un arazzo, e cronometrava quanto tempo impiegava la servitù a trovarle. Gli Allagash non erano riusciti a trovare un edificio residenziale abbastanza grande per le loro
necessità, quindi si erano trasferiti in un ex palazzo di giustizia che avevano comprato dall’amministrazione municipale di New York. Avevano rivoltato gli interni lasciando però la facciata com’era, con le colonne, le bandiere e tutto il resto. Quella che Elliot definiva la sua “camera da letto” era in realtà un insieme di diverse stanze, distribuite su due piani. Aveva un ufficio, un camerino, una specie di cineteca che teneva chiusa a chiave e due cabine armadio. Aveva anche una sala da biliardo, in cui era presente un secondo montacarichi, più piccolo, usato solo per i drink. La cosa più incredibile a casa di Elliot era il gigantesco orso a cui suo padre aveva sparato e che poi aveva fatto collocare nella sua biblioteca. L’orso era più alto di Vlad di almeno trenta centimetri e tre volte più largo. Ma non erano le sue dimensioni a lasciarmi basito: era la sua posa. Gli orsi che avevo visto nei musei avevano un aspetto feroce, con le zampe anteriori minacciosamente spalancate e le bocche dai grossi denti atteggiate in un ringhio perenne. Questo qui invece non sembrava cattivo: sembrava terrorizzato. Aveva gli occhi sbarrati e lucidi e il pelo irto rizzato sulla testa. Le zampe erano sollevate davanti al muso in atteggiamento difensivo. Immaginai il padre di Elliot seguire la scia di sangue sulle tracce dell’orso ferito, fino al posto in cui aveva scelto di morire. L’orso era paralizzato quando il cacciatore aveva puntato il fucile per finirlo con un unico, fatale colpo. C’era anche una scimmia impagliata nell’atrio principale, con indosso uno smoking. Elliot l’aveva uccisa durante il suo ultimo viaggio in Africa con il padre. Era piccola, più o meno la metà di un bambino dell’asilo. «Dai a Jeeves il tuo cappotto», ordinò Elliot la prima volta che le passai davanti. Io abbassai lo sguardo verso la scimmia. La schiena irsuta era piegata in un inchino deferente e le labbra imbalsamate erano state posizionate in un ghigno orribile. Il braccio destro era proteso in avanti per prendere le giacche. «Non voglio», dissi. Elliot rise. «Non essere maleducato», disse. «Jeeves sta aspettando». «Lo appenderò da qualche altra parte», azzardai. Elliot smise di ridere, e rimanemmo là in piedi in silenzio finché non mi decisi a poggiare la mia giacca a vento viola sul braccio impagliato della scimmia. Elliot ingessò la stecca, si inchinò sul tavolo e senza difficoltà spedì una palla nella buca d’angolo. Mi aveva portato nella sala da biliardo per insegnarmi a giocare, ma in tre quarti d’ora avevo imbroccato solamente tre tiri. Elliot stava conducendo la partita. «Dimmi di più su quella Jessica», disse. «Il suo potere viene dai soldi, dal sesso o da entrambi?» «Oh Gesù», dissi. «Non lo so, piace e basta». «Dai soldi, dal sesso o da entrambi?», ripeté. «Direi… dal sesso?» «Interessante». Annuii confuso e cambiai argomento. «Questa torta alle noci è fantastica. Il tizio che fa i dolci, là sotto, è davvero forte». «Sono tre tizi, in realtà. Sono tutti pasticcieri, ma con specializzazioni diverse». «Wow», dissi. «Che figata!». «Sei fortunato a poter provare ancora certi piaceri. Io mi sono abituato a livelli così estremi di
decadenza che a stare senza lussi anche solo per un minuto mi viene una rabbia feroce. Una rabbia che non puoi nemmeno comprendere». «Oh», dissi. «Be’… insomma, ringraziali da parte mia, ok?». Elliot sospirò «Ok». Raccolse le palle e si preparò a tirare di nuovo. «Ehi, Elliot?», dissi. «Chi è il tizio nel dipinto? Quello a cavallo?» «È Terry», disse. «Immagino che a un certo punto lo conoscerai». «Chi è Terry?». Elliot esitò. «Mio padre». Colpì il pallino bianco con una forza incredibile e un paio di palle striate schizzarono nelle buche laterali. «Vuoi conoscerlo quando è sobrio o quando è sbronzo?» «Non so. Tu che dici?». Elliot fece spallucce. «Decidi tu. Terry è più divertente quando è sbronzo, ma è anche più imprevedibile. Più soggetto a scoppi d’ira». «Forse preferirei conoscerlo da sobrio», dissi. «Allora dobbiamo sbrigarci», disse Elliot. «Sono quasi le quattro». Seguii Elliot giù per le scale fin dentro la biblioteca tappezzata di verde chiaro. Terry portava una veste da camera con un monogramma e teneva in mano un sigaro spento. Era leggermente più calvo e molto più in carne di come appariva nel ritratto. Stava fissando intensamente l’orso e ci volle qualche momento perché si accorgesse della nostra presenza. Quando infine ci vide, si avvicinò per stringermi la mano. «E così tu sei Seymour!», disse. «Elliot mi ha raccontato di quanto sei bravo a basket. E anche del tuo lodevole impegno nel servire la comunità». Feci per farfugliare qualcosa sull’amianto, ma per fortuna Terry tagliò corto. «È incredibile che quel piano abbia funzionato», disse ridacchiando. «Era così inutilmente complicato!». Si voltò e frugò sulla sua scrivania in cerca di un accendino. «Be’, che dire? Aux innocents les mains pleines, no?». Vidi che il viso di Elliot, solitamente pallido, si tingeva di rosso. «Che significa?», sussurrai. «La fortuna del principiante», rispose. Terry mi offrì qualcosa da bere, ma un campanello ronzò prima che io potessi rispondere. «Scusatemi», disse. Premette un pulsante sulla scrivania e la voce di James risuonò nell’interfono. «Hodges la sta attendendo», disse. «Lo faccio entrare?» «Certo!», esclamò Terry. Qualche istante dopo un vecchio scarmigliato entrò nella stanza.
«È meglio che torniamo dopo?», chiesi. «No, rimanete nei paraggi», rispose Terry. «Sarà una cosa veloce». Tese la mano e Hodges attraversò la biblioteca più in fretta che poté per andare a stringerla. Il tipo anziano diede la mano anche a noi, quindi si accomodò di fronte a Terry. «Sei sicuro che tuo padre non vuole che ce ne andiamo?», bisbigliai. Elliot roteò gli occhi. «Vuole che guardiamo», disse. Terry sprofondò nella sua poltrona e intrecciò le dita dietro la testa. «Ho visto i suoi quadri al Guggenheim», disse a Hodges. «Mi sono piaciuti». Hodges rise nervosamente. «Certo, non sono un critico», proseguì Terry. «Solo un collezionista. Però insomma, non erano male. Bei colori, soprattutto quelli pieni di ghirigori». «Quella è roba vecchia», disse Hodges, arrossendo. «Li stanno esponendo solo adesso. Non ho dipinto molto negli ultimi tempi. Almeno, non così tanto da poter esporre». «Ha ricevuto l’ultimo pagamento?», chiese Terry. «Sì», rispose Hodges. «L’ho ricevuto». «Bene!», disse Terry. Si versò un bicchiere di porto e bevette un lungo sorso. Guardai il mio orologio e vidi che erano esattamente le quattro. «Voglio che dipinga un’anatra», disse Terry. Hodges annuì stancamente e prese di tasca un taccuino. «Un tipo particolare di anatra?». Terry aggrottò le sopracciglia e tamburellò con le dita sulla scrivania. «Un’anatra felice», disse infine. «Con qualche specie di cappello». Hodges annuì. «Un’anatra con un cappello», disse. «Mi piacerebbe anche uno dei suoi quadri ambiziosi. Ha presente… quelli astratti. Tipo quello assurdo dell’oceano». «Acque verdi?» «Esatto, quello! Acque verdi». «A proposito», disse Hodges. «Per caso ha avuto tempo per pensare alla mia… proposta?». Terry socchiuse gli occhi, sinceramente perplesso. Era chiaro che gli facevano un sacco di proposte. «Mi rinfreschi la memoria». «Le avevo chiesto se le andava di… esporre Acque verdi. Ovviamente lei riceverebbe tutti i proventi, visto che il quadro è suo. È solo che… sono fermamente convinto che sia il dipinto migliore degli ultimi anni… vorrei…». «Ah», ridacchiò Terry. «Quella proposta». Versò un altro bicchiere di porto e lo offrì al vecchio pittore. «Mi dispiace», disse. «Proprio non si può fare». «Sarei disposto a realizzare gratuitamente tutti i quadri che vuole, per sostituirlo», disse Hodges. «La prego, signore». Terry rise.
«James per caso le ha spiegato la mia situazione? Chi sono, come mi muovo e cose del genere?» «Sì, certo». «E allora perché stiamo ancora discutendo?». Terry chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «Sa, è buffo. Se lei non mi avesse detto quanto era bello quel quadro, probabilmente lo avrei dato via. Ora sarebbe in un museo… o almeno avrebbe aspirato a quello». Hodges deglutì. «Ha davvero intenzione di distruggerli tutti?» «Sì», disse Terry. «Sono i miei quadri, e io sono l’unico che può ammirarli. Alla mia morte saranno distrutti da James, il mio braccio destro, insieme al resto del mio Museo Personale». «Museo Personale?». Terry sollevò le sopracciglia in un’espressione incredula. «Non avrà pensato di essere il mio unico artista, vero? Per cortesia! Ne ho a dozzine». «E ha fatto lo stesso… accordo… con tutti?». Terry sorrise. «La maggior parte di loro ha avuto la prontezza di chiedere più soldi», disse. «Però sì». «Perché?», chiese Hodges. «Perché vuole fare una cosa simile?». Terry si sporse in avanti. «Ricorda quando scoprirono quel nuovo Van Gogh, vent’anni fa, durante un mercatino? Era su tutti i giornali». Hodges annuì lentamente. «Be’, è stato quello a farmi riflettere», disse Terry. «Lessi l’articolo da giovane e mi dissi “Oddio, non c’è niente di più decadente dell’arte non vista”. Voglio dire, ci pensi un attimo! Qualsiasi collezionista può circondarsi di pezzi famosi, o antichi o eccellenti. Ma chi possiede opere d’arte che non saranno mai viste da altre persone? Probabilmente nessuno dai tempi dei faraoni. Ha idea di quanti storici mi hanno implorato di poter vedere la mia collezione? Di quanti studiosi hanno cercato di farmi causa per “aver derubato l’umanità dei suoi tesori”? Questo è il potere, non il nome su una targhetta in qualche museo. La mia collezione non è semplicemente favolosa, capisce. È inestimabile». Si avvicinò di più e continuò a bassa voce. «E non si limita ai quadri, Hodges. Io possiedo sculture, stampe, fotografie, film. Ho avuto tra le mani il romanzo di un premio Pulitzer. Era intensamente bello, uno dei suoi capolavori. Gliel’ho fatto scrivere a mano, sotto sorveglianza, per assicurarmi che non potesse farne una copia digitale. Mi è costato più soldi di quanti lei potrebbe sognarsi di indovinare. L’autore sapeva che mi stava cedendo tutti i diritti, ma credo confidasse nel fatto che un giorno, prima o poi, l’avrei fatto pubblicare. Non sapeva che avevo in mente di distruggerlo. Quando mi consegnò il manoscritto e io gli spiegai cosa avevo intenzione di farne, pianse come un bambino. Si offrì di restituirmi il compenso, più tutti i suoi miseri risparmi di una vita. Una cosa pietosa. Io lessi il libro tutto d’un fiato e poi lo bruciai nel caminetto, proprio lì, dietro all’orso». Il viso di Hodges aveva perso ogni colorito. «Mio Dio», disse. «Di cosa parlava?». Terry buttò indietro la testa e rise. «Le piacerebbe saperlo!».
Elliot mi ricondusse nella sala da biliardo e riprese la partita da dove l’avevamo interrotta. Quando ebbe finito di battermi, gli feci una domanda che mi girava in testa da un po’. «Elliot? Ma tuo padre cosa fa?». Elliot ripeté tra sé la domanda, come se cercasse di capirla. «Oh!», disse infine. «Intendi dire che lavoro fa». Rise. «Mio padre non ha mai lavorato un solo giorno in vita sua». «E allora cosa fa tutto il giorno?» «Spende soldi e beve». «È un… filantropo?». Elliot scosse deciso la testa. «Niente affatto. La mia famiglia dona soldi in beneficienza solo quando è strettamente necessario per questioni di tasse. E anche in quel caso, facciamo donazioni solo a quelle fondazioni che si impegnano a curare malattie verso cui gli Allagash sono geneticamente predisposti, come l’emofilia o la gotta. C’è il Premio Allagash, mi pare, ma non è esattamente beneficienza». «Cos’è il Premio Allagash?» «Una specie di riconoscimento accademico che Terry ha istituito presso il suo vecchio club a Harvard. Ogni anno, il premio va allo studente anziano che ha ricevuto la media di voti più alta preparandosi alla laurea. Il vincitore viene pagato in alcol». «Oh Gesù», dissi. «Ma se non ha un lavoro, cosa fa delle sue giornate?». Elliot fece spallucce. «Gli piace la magia. A volte assume un prestigiatore per venire qui e fare uno spettacolo per lui. Mentre mangia, magari… o mentre fa il bagno». «Con che frequenza?» «Spesso», rispose. «Però non gli piace essere ingannato. Quindi di solito, a fine spettacolo, paga al prestigiatore qualunque cifra sia necessaria per convincerlo a rivelare i suoi trucchi». «E cos’altro fa?», chiesi sconvolto. «Si incontra con i suoi avvocati. Per eludere le querele ed evitare condanne per i suoi reati». «Quali reati?». Vedevo che le mie domande stavano irritando Elliot, ma non riuscivo a fermarmi. «Collusione, principalmente». «Che tipo di collusione?». D’improvviso Elliot batté il piccolo pugno sul tavolo da biliardo. «Senti, sono tutti capaci di fare quello che fa Terry! Chiaro? Non ha stile. È solo forza bruta. Non ha mai organizzato un piano raffinato in vita sua!». Si sedette vicino a me e singhiozzò forte, sfiancato da quello sfogo. «Questo mi ricorda una cosa», disse. «C’è qualcosa che ti volevo chiedere». «Cosa?» «Ti piacerebbe diventare rappresentante degli studenti?». Io risi. La mia vita alla Glendale era migliorata parecchio nelle ultime settimane. Dal giorno dei
provini di basket, Lance aveva smesso di aggredirmi, o quantomeno aveva abbassato i toni. E anche se il soprannome di Cicciobombo suscitava ancora delle risate, non scatenava più gli applausi. Detto questo, non ero certo nella posizione di competere per un incarico pubblico. «E come pensi che potrei farcela?» «Tu rispondi», disse Elliot. «Sì o no». Feci spallucce. «Certo», dissi. «Perché no?». Spazzolai gli ultimi pezzetti di petto di pollo dal mio piatto aiutandomi con la forchetta. «Hai ancora fame?», chiese mamma. «Ce n’è ancora una fettina». «No grazie», dissi. «Sono pieno». «E tu, caro?». Mio padre sollevò le braccia in aria. «Sto scoppiando, amore. Perché non lo prendi tu?». Mia madre scosse la testa. «Lo metto da parte», disse. Io e papà annuimmo. Tutti quanti volevamo il petto di pollo, ma quel rituale di offrirsi a vicenda l’ultima fetta era un momento importante della nostra settimana. Eravamo ossessionati da quel piatto, e lasciare l’ultima porzione era forse il più grande gesto d’amore che potevamo fare l’uno all’altro. In frigorifero c’era sempre una fetta sugosa avvolta nel cellophane a testimoniare la nostra solida unione familiare. Cominciai a raccontare della mia giornata, giusto per distogliere il pensiero dalla carne, e non ci volle molto perché annunciassi la mia candidatura a rappresentante degli studenti. «Ma è fantastico!», disse mio padre dopo un lungo silenzio dovuto allo shock. «Anche se non dovessi vincere, sarà una gran bella esperienza». I miei continuarono a elogiarmi per un po’, avendo cura di concludere ogni frase con “anche se non dovessi vincere”. «Sono piuttosto sicuro di vincere», dissi loro. «Ci sono… altri ragazzi in corsa?», chiese mamma con delicatezza. «Chiaro», dissi. «Ma Elliot si è offerto di farmi da organizzatore per la campagna». Ogni volta che facevo il nome di Elliot, i miei si scambiavano uno guardo nervoso. Erano eccitati all’idea che avessi finalmente trovato un amico. Ma erano anche terrorizzati perché quell’amico era Elliot Allagash. «Wow», fece mia madre. «Tra il basket e questo, stai davvero passando un sacco di tempo con Elliot». Annuii. «Ti aiuterà a fare i manifesti?», chiese papà. Cercai di immaginare Elliot che spremeva colla su un foglio di cartoncino. «No, non credo che mi aiuterà con i manifesti», risposi. «Lui è bravo a… pianificare le cose». Mio padre mi guardò. «Quali cose?». Scrollai le spalle.
«Mah… le cose». I miei si lanciarono un’altra occhiata. «Pa’? Il padre di Elliot come li ha fatti tutti quei soldi?» «Li ha avuti da suo padre». «E lui come li ha fatti?». Mio padre rise. «Da suo padre». «Ma da dove arrivano? Possiedono dei palazzi, come la famiglia di Lance?» «Sì, certo», disse mio padre. «Possiedono intere società». «Ma non è da lì che arrivano i soldi», disse mamma. «Giusto», disse papà. «Quelle le hanno semplicemente comprate con quei soldi». Mia madre scosse lievemente la testa. «Vengono tutti da quel brevetto. Giusto? Quella piccola trovata». Mio padre attorcigliò il tovagliolo e annuì. «Quella piccola trovata». Cornelius Allagash era nato nella zona dei Dock di South Street nel 1775, pochi minuti dopo l’arrivo a New York. La leggenda vuole che la madre fosse incinta di nove mesi e mezzo, e che il futuro capitalista si fosse rifiutato di venire al mondo finché non fosse sbarcato in terra americana. I genitori di Cornelius erano due indefessi calzolai olandesi. Non riuscirono a fare abbastanza soldi per mandare a scuola il ragazzo, ma Cornelius era sveglio. Imparò l’inglese ascoltando i sermoni dei predicatori a City Hall Park, e dopo aver fregato una Bibbia a uno di loro, imparò a leggere da solo. In poco tempo avviò una sua distilleria clandestina, dove vendeva il liquore di contrabbando per due scellini a fiasco. Arrivato a ventun anni, Cornelius aveva racimolato abbastanza scellini per comprarsi un cavallo. Ma le sue prospettive erano limitate, lo spazio nella sua casa era appena sufficiente per un solo distillatore, e gli occorreva quasi un mese per produrre un barile. Volendo disperatamente farsi strada, comprò dei libri di chimica elementare e provò ad accelerare il processo. Sperimentò varie combinazioni di elementi, testando i risultati sul suo cavallo, ma ogni tentativo si concluse con un insuccesso. Un giorno – secondo la sua autobiografia era il Natale del 1800 – Cornelius era talmente stravolto dai vapori che svenne. Piombando a terra, fece cadere un secchio di legno dentro il distillatore, batté la testa contro il muro di pietra e crollò al suolo. Rimase privo di sensi per qualche minuto, e quando rinvenne il secchio era introvabile. Sparito. Stava cominciando a dubitare della sua sanità mentale quando si accorse che c’era qualcosa di strano nel distillatore. La superficie della soluzione di whiskey e composto chimico era coperta da un sottile strato di fibra marrone. Ne tirò su una mestolata e la esaminò alla luce di una candela; aveva la compattezza delle granaglie e insieme la morbidezza della sabbia. A quanto pareva, il secchio si era polverizzato a contatto con quella sostanza. Cornelius non sapeva esattamente cosa fosse successo, ma sapeva che quel composto chimico poteva essere prezioso. Qualunque cosa fosse in grado di distruggere il legno sarebbe stata senz’altro utile a qualcuno. Dopotutto, la città era soffocata da numerosi edifici cadenti e lo spazio si andava esaurendo. Non si potevano distruggere con il fuoco, c’era il rischio di mandare in fumo l’intera città. Forse quel composto poteva essere utile a spianare la boscaglia dalle parti della Bowery. Di legno in città ce n’era parecchio, accatastato nei depositi a sud di Wall Street, per non parlare delle rigogliose foreste a nord della Fourteenth Street. Qualcosa che lo trasformasse in
qualcos’altro, fosse anche una poltiglia, doveva pur valere qualche soldo. Per brevettare il prodotto, Cornelius doveva classificarlo scientificamente. Assoldò quindi un maestro alcolizzato – uno dei suoi migliori clienti – perché lo analizzasse, in cambio di una fiasca di liquore e una percentuale dei profitti derivanti da un eventuale successo della scoperta. Il maestro chiese due fiasche al posto della sua percentuale, ma Cornelius non accettò. Non aveva due fiasche da barattare. Dopo una contrattazione abbastanza lunga, il maestro impiegò cinque minuti per esaminare la sostanza – era calcio bisolfito, ovvero Ca(HSO3)(2) – e appose la sua firma in calce. Oggi i suoi discendenti sono tra le persone più ricche d’America. Il suo pro-pro-pronipote vive su un’isola privata nel Pacifico meridionale, e gira voce che possieda un bordello personale con oltre settanta dipendenti stabili. Cornelius Allagash dimenticò il suo piccolo esperimento, abbandonò la chimica e aprì una taverna sulla Bowery. Poi, cinque anni dopo, un energico stagnino tedesco ebbe l’idea di pressare in fogli la poltiglia di Cornelius e lasciarla asciugare. Il risultato fu stupefacente: i fogli mantenevano la forza del legno, ma erano perfettamente levigati. La quantità di legno poteva essere modificata per variare lo spessore dei fogli; si potevano aggiungere delle tinte così da cambiarne il colore. Sembravano le lenzuola dei ricchi, o quel tessuto che costituiva le pagine della Bibbia dei preti. Ma questo materiale era così economico che non c’era nemmeno più bisogno di andare in chiesa per vedere una Bibbia. Potevi fartela da solo. Cornelius Allagash aveva inventato la carta. Da quel giorno in poi, ogni cartiera del mondo occidentale avrebbe dovuto pagare gli Allagash per avere il diritto di trasformare il legno in poltiglia. La famiglia di Elliot possedeva una piccola percentuale di ogni scatola di cartone esistente. Di ogni busta, di ogni figurina di baseball. Facevano soldi quando la gente incartava i regali, o quando usava la carta igienica. Guadagnavano durante ogni parata con nastri e coriandoli, che fosse a Times Square o nella Germania nazista. Incassavano quando i bambini giapponesi mandavano piccole gru di carta alle vittime delle alluvioni o quando la gente sola scriveva il biglietto di addio prima di suicidarsi. Facevano soldi con ogni pagina di ogni libro mai scritto, con i libri di scuola o i fumetti, con la pornografia o la Bibbia, con i grossi elenchi del telefono o i piccoli diari segreti delle ragazzine. Gli Allagash si arricchivano ogni volta che qualcuno scarabocchiava un appunto o firmava una ricevuta. Erano i padroni dei manifesti, dei fazzoletti di carta, delle riviste e dei giornali, delle figurine e degli assegni e dei francobolli. Erano padroni perfino degli stessi soldi. Elliot portava nel taschino un taccuino rilegato in pelle. Era piccolo ma piuttosto spesso, con i bordi usurati. La copertina era tutta nera, a parte un’unica parola ricamata al centro con un filo dorato: Nemici. Elliot rideva raramente, ma quando succedeva, di solito era perché stava sfogliando le pagine del suo taccuino. Gliel’aveva regalato Terry in occasione del suo settimo compleanno, e da allora lo teneva sempre con sé. A volte, dopo aver ascoltato qualche aggiornamento da parte di James al suo cellulare, Elliot tirava fuori quel quaderno e spuntava uno dei nomi elencati al suo interno, usando la piccola stilografica d’argento che teneva con sé a questo preciso scopo. Faceva quei segni di spunta lentamente e con cura, come assaporando il gesto. Era un libro terribile, e non dimenticherò mai la prima volta che lo vidi. La prima iniziativa di Elliot come organizzatore della mia campagna elettorale fu un pranzo per festeggiare. «Non dovremmo aspettare di aver vinto?», gli chiesi. Elliot mi ignorò e mi trascinò fuori, dove ci attendeva la limousine. Gridò un indirizzo e James ci condusse immediatamente in centro, a un ristorante senza vetrine con enormi porte di ottone.
«Che posto è questo?», chiesi. «Il Winchester», disse Elliot. «Il ristorante più esclusivo di Manhattan, se non del mondo». Per l’occasione mi aveva prestato il suo vestito più grande, ma era così stretto che potevo fare solo dei respiri corti e poco profondi. Ci eravamo cambiati d’abito insieme nel suo camerino privato, ed era stata un’esperienza inquietante. Sapevo che Elliot era il ragazzino più magro della scuola, ma non avevo idea di quanto fosse magro finché non lo vidi senza camicia. Quando si piegò in avanti per infilarsi i calzini riuscii a contargli tutte le vertebre sulla schiena. E quando si allungò verso l’alto per afferrare il gilet, mi parve quasi di riuscire a vedere la gabbia toracica pulsare al ritmo del cuore. Controllò i suoi gemelli, poi i miei, e mi fece strada nell’atrio color mogano del Winchester. «Potevamo andare in un posto normale», azzardai. Elliot mi fulminò con uno dei suoi sguardi più intensi e spaventosi. Feci un respiro profondo e lo seguii a uno dei tavoli in fondo alla sala. «Questo è un posto storico», mi disse. «Tutti i grandi candidati di New York hanno inaugurato qui la loro corsa elettorale! Boss Tweed, Jimmy Walker il Bello…». Continuò a snocciolare nomi finché non si avvicinò il maître. Era un francese dall’aria tetra con i baffi accuratamente impomatati. «Io prendo un sandwich al crescione d’acqua», gli disse Elliot. «Seymour?». Sentivo il sudore pungermi sotto le ascelle. Come facevo a ordinare se non ci avevano nemmeno portato il menu? «Ordina quello che vuoi», sussurrò Elliot. «Qualsiasi cosa?» Elliot annuì distrattamente. «Ok», dissi. «Prendo un cheeseburger e anelli di cipolla fritti». Il maître rise. «Non serviamo cheeseburger», disse. «Né anelli di cipolla… fritti». Pronunciò quelle parole come se parlasse di escrementi. «Oh», dissi io. «Mi scusi». Sentii il sangue affiorarmi in volto. Feci per balbettare un ordine di un sandwich al crescione – almeno quello sapevo che ce l’avevano – quando Elliot sollevò una mano. «No», disse. «Volevi un cheeseburger». Si rivolse al maître. «Mi sta dicendo che non servirete al mio amico ciò che vi ha chiesto?». Il maître sospirò. «Non siamo da McDonald’s», disse. Gli occhi di Elliot brillarono in modo strano. «Quindi gli state negando un cheeseburger?», chiese con voce bassa e inquietante. «E gli state negando gli anelli di cipolla?» «Gesù», sussurrai. «Elliot, non fa niente. Prenderò qualcos’altro». «Niente affatto!», urlò. I clienti degli altri tavoli si voltarono a guardarci. Eravamo gli avventori più giovani della sala – notai – popolata di gente dai quaranta in su. «Temo che dovrò chiedervi di andarvene», disse il maître. «Molto bene», disse Elliot. «Lasceremo il vostro locale. Prima però prendo il suo biglietto da
visita». Si diresse verso il tavolo del maître e prese un biglietto da un vassoio d’argento. «E le lascio il mio», disse. Elliot non ricopriva alcuna posizione nelle società del padre, a parte il ruolo informale di “erede”. Ma aveva dei biglietti da visita, tutti uguali, che riportavano il suo nome – Elliot Allagash – e nient’altro. Ne prese uno dalla tasca e lo posò, rivolto verso l’alto, sul libro delle prenotazioni. Quindi mi afferrò per il gomito e mi trascinò in strada, nella limousine in attesa. «Che diavolo significa tutto questo?», chiesi. Ma Elliot non mi stava ascoltando. Stava copiando allegramente il nome e il numero del maître nel suo piccolo taccuino nero. «Andiamo», disse. La macchina sfrecciò rombando lungo il viale. Elliot non venne a scuola per qualche tempo. I professori ci dissero che era stato ricoverato a causa di un qualche parassita tropicale, ma io sapevo bene dove fosse in realtà: era a casa, a progettare la sua vendetta contro il Winchester. Non lo vidi né ebbi sue notizie per altre due settimane, quando la sua limousine accostò alla fermata dello scuolabus, alla fine delle lezioni. Gli altri ragazzi osservarono in silenzio mentre James abbassava il finestrino e mi faceva cenno di salire. Elliot era seduto sul sedile posteriore. Indossava una veste da camera di seta e aveva un’espressione insolitamente serena. Gli chiesi come stava, nella remota possibilità che fosse stato veramente malato. «Vai alla sede del “Sun”», disse a James ignorando la mia domanda. «Occupiamoci dell’ultima edizione». James guidò fino all’edificio del «Sun», corse dentro e ne uscì pochi secondi dopo con una copia del giornale fresca di stampa. Lo passò a Elliot, che tirò fuori la sezione Cibo e Locali e me la posò in grembo. Era ancora calda di rotativa. «Pagina tre», disse Elliot. IL WINCHESTER FESTEGGIA I NAZISTI
Quando Dan Lubecki è uscito di prigione, mercoledì scorso, la maggior parte dei newyorkesi è rabbrividita. Vent’anni sono trascorsi da quando l’autoproclamatosi “Nazicrociato” piazzò una bomba nel Tempio di Ephraim, distruggendo uno dei luoghi di culto più amati della città. Ma per molti cittadini quelle ferite non hanno ancora nemmeno cominciato a guarire. In un comunicato stampa, il sindaco ha espresso “frustrazione” per la scarcerazione di Lubecki e ha auspicato leggi più severe per i reati di stampo razzista. Il deputato di Brooklyn Nathan Stein ha organizzato una marcia notturna per onorare la memoria del Tempio di Ephraim e mandare a Lubecki il messaggio che «non è il benvenuto nella grande città di New York». Ma a quanto pare il signor Lubecki ha ancora degli amici, qui. Ieri notte i clienti abituali del rinomatissimo ristorante Winchester hanno assistito a uno dei più disgustosi e sconcertanti spettacoli nella storia dei ristoranti. Intorno alle 7:55, un uomo sovrappeso con una cravatta a clip si è presentato al maître di sala, ma in pochi hanno riconosciuto in lui mister Lubecki. È considerevolmente ingrassato dall’epoca il cui il suo volto ha abbellito le prime pagine
dei giornali, e i suoi brevettati “baffetti alla Hitler” sono stati da tempo sostituiti da un’ampia barba. Ma quando l’ospite ha orgogliosamente annunciato il suo nome, parecchie teste si sono voltate. Molti clienti hanno distolto lo sguardo, avvampando per quella sgradevole scena. «Ero sicuro che l’avrebbero buttato fuori», ha detto uno dei clienti storici più abituali del Winchester. «Quell’uomo è un nazista dichiarato». Ma al signor Lubecki il tavolo non è stato negato. Anzi, il maître lo ha personalmente scortato fino al leggendario fireside, un tavolo esclusivo di solito riservato alle stelle del cinema o ai nobili. Per le successive due ore e mezza il maître ha personalmente servito al nazista una cena elaborata, composta di quattordici portate e vini abbinati. A un certo punto il signor Lubecki si è acceso un sigaro, una plateale violazione delle regole sul fumo del ristorante. Quando gli altri ospiti hanno cominciato a protestare perché il fumo disturbava la loro cena, il maître li ha ignorati, piazzando invece un posacenere vicino al flûte di champagne del nazista. Alla fine della cena, lo chef è uscito dalla cucina per stringere la mano a Lubecki e chiedergli se c’era qualcos’altro che potesse fare per lui. Alla richiesta di Lubecki di un taxi, lo chef ha telefonato personalmente e ha accompagnato fuori il malfermo nazista. Non è stato presentato alcun conto. Lo spettacolo è stato talmente disgustoso che all’inizio il testimone ha pensato a un qualche malinteso. Il Winchester, che fino al 1979 non ammetteva donne al suo interno e che non ha ancora mai assunto un cameriere afroamericano, è sempre stato considerato un ambiente piuttosto intollerante. Ma nessuno si era mai spinto a ipotizzare una simpatia nazista del personale. Alcune brevi domande all’uscita del Winchester hanno confermato che l’uomo era in effetti lo stesso Dan Lubecki rilasciato mercoledì dal carcere. Alla gentile richiesta di esibire la sua identità, egli ha mostrato con piacere diversi documenti, tra cui le carte di rilascio della prigione che egli conserva fieramente nel taschino della giacca. Ha detto di essere stato invitato a cena dal maître in persona alcune ore dopo aver lasciato la sua cella. «Questo Winchester non è affatto male», ha commentato. «Sanno sicuramente come farti sentire a casa». Quando finalmente sollevai gli occhi dal giornale, Elliot stava sorseggiando una coppa di champagne. «Vuoi qualcosa da bere?», chiese. «No, grazie», dissi. «Devo fare i compiti di matematica». Elliot svuotò il bicchiere e subito se lo riempì di nuovo. «Sei… sei stato tu a fare questo?», domandai, accennando distrattamente in direzione del giornale. Elliot chiuse gli occhi e accostò al viso il quotidiano ancora tiepido, come se fosse un peluche o un cucciolo adorato. «Elliot, non era davvero il caso! Voglio dire, non dovevi…». Lui sollevò un indice per intimarmi di tacere. «Elliot», dissi. «Come ci sei riuscito?». Premette un pulsante e il tettino si aprì, lasciando che una calda luce ci avvolgesse. «Hai mai sentito parlare di Alston Bertels?», mi chiese. «No, chi è?». Elliot sospirò. «Partiamo dall’inizio», disse. «Non interrompermi».
Non avevo mai sentito nominare Alston Bertels, ma a quanto pare molti newyorkesi sì. Era il più importante critico culinario del «New York Times» e lo era stato per oltre trent’anni. In ottocento parole Bertels poteva trasformare una sconosciuta spaghetteria dai tavoli vuoti e il menu scolorito nel posto più ambito della città, con clienti famosi e la fila intorno a tutto l’isolato. E normalmente faceva chiudere i ristoranti con una sola riga di stroncatura. Mangiava sempre sotto falso nome, per evitare trattamenti di favore, e negli ultimi anni aveva cominciato a travestirsi, nel caso qualche maître tenesse una sua fotografia a portata di mano. Martedì, tre giorni dopo la cacciata dal Winchester, Elliot aveva fatto telefonare al ristorante da James. Parlando sottovoce, James aveva detto al maître di sala di essere un redattore del «New York Times» e che Alston Bertels si sarebbe presentato a breve al Winchester. L’aveva recensito positivamente trent’anni prima, aveva detto James, e voleva vedere se la qualità era ancora la stessa. In cambio di un pranzo gratuito, aveva quindi concluso, avrebbe rivelato al maître il travestimento che il critico aveva in mente di indossare. Il maître aveva prontamente accettato. «Verrà il ventidue», aveva detto James. «Avrà una folta barba, e la sua prenotazione sarà a nome di Dan Lubecki». Il maître era rimasto interdetto. «Come… il nazista? Quello che sta per uscire di prigione?» «Esatto», aveva risposto James. «Alston ha uno strano senso dell’umorismo». Il maître aveva chiesto a James di ripetere l’informazione per essere sicuro di aver capito tutto. Poi gli aveva domandato come si chiamasse per organizzare il suo pranzo gratuito. «Non posso dirglielo», aveva risposto James. «Se qualcuno scopre che ho fatto una soffiata, vengo licenziato». «Be’, qualcosa dovrò pur scrivere nel libro delle prenotazioni». «Capisco», aveva detto James leggendo l’ultima riga della sceneggiatura scritta da Elliot. «Mi chiami Hal Sagal». «Hal Sagal? Chi è?». Elliot scrisse quel nome su un tovagliolino da cocktail, lasciando un grosso spazio tra le lettere. Ci volle qualche secondo, ma alla fine riuscii a decifrarle. «Oh», dissi. «Allagash». «Lo so, lo so», disse. «Gli anagrammi sono banali. Ma vuoi sapere una cosa? Conosco i miei polli. Te lo assicuro, una cosa più sottile sarebbe stata sprecata con quel tipo». James, fingendosi uno scontento cameriere del Winchester, aveva telefonato a ogni cronista mondano della città. Aveva raccontato che i suoi capi erano dei nazisti, e che avevano invitato Dan Lubecki a trascorrere al loro ristorante la sua prima sera di libertà dopo vent’anni. Molti redattori non erano riusciti a fare una prenotazione tempestiva per poter assistere all’evento, ma alcuni tra più importanti avevano ottenuto un tavolo. Dopo aver contattato la stampa, l’ultima persona da chiamare era lo stesso Lubecki. Il nazista all’inizio era stato scettico, ma grazie alla cadenza alsaziana e alle frequenti citazioni di Hitler, James era riuscito a fargli credere di essere veramente il maître di sala del Winchester e che lo voleva veramente come ospite. Lubecki non aveva altri programmi mondani per quella sera e aveva accettato con piacere. James aveva chiamato il Winchester un’ultima volta, imitando un accento britannico per
prenotare un tavolo a nome di Lubecki. Il maître aveva fatto del suo meglio per non scomporsi, ma la sua eccitazione era palpabile. Sembrava, come aveva detto James, un baro in erba che faceva una grossa puntata con l’asso nascosto nella manica. «Il prossimo sarà il “Daily News”», disse Elliot. «Poi l’“Observer”, il “Post” e il “Times”». Facemmo quel giro in silenzio. Io ero troppo sconvolto per parlare, mentre Elliot era esausto per lo sforzo. Ogni cinque minuti James fermava la macchina, prendeva un giornale e lo posava in cima alla pila che si stava rapidamente accumulando sul sedile posteriore. Ma Elliot non si prese la briga di leggerli. Si mosse una volta sola, mentre tornavamo a casa: afferrò il suo quaderno nero e la penna d’argento e con la manina pallida spuntò un nome. Per quanto ne sapevo, il rappresentante degli studenti del nono anno non aveva alcun compito ufficiale, a parte posare per la foto dell’annuario. Ma era una posizione prestigiosa, certi college ne tenevano conto, e alla fine dell’ottavo anno qualche settimana era dedicata alla campagna elettorale. Negli ultimi tre anni la corsa per il titolo di rappresentante era stata una sfida a due tra Lance e una ragazza di nome Ashley. La cosa era piuttosto sbilanciata. Ashley otteneva sempre il sostegno del club di matematica, e un anno era riuscita a convincere gli studenti stranieri dei programmi di scambio a fare la campagna in suo favore, ma tutti gli altri tendevano a votare per Lance. «Dimmi di più sui tuoi avversari», chiese Elliot. «Chi sono i loro nemici? Quali punti deboli hanno?». Il mio sguardo corse attraverso la sala. Lance si stava dondolando all’indietro sulla sedia, eppure svettava ancora sopra gli altri ragazzi seduti al suo tavolo. Da qualche tempo aveva preso l’abitudine di ingelatinarsi il ciuffo. Sembrava la pinna di uno squalo, e lo faceva apparire più alto di quanto già non fosse. Stava gridando qualche frase a effetto di un film che aveva visto di recente, e tutti intorno a lui ridevano a crepapelle. «Be’, Lance è parecchio divertente», dissi. «È anche piuttosto fico». Poi guardai Ashley. Sedeva in fondo al secondo tavolo e mangiava delle fettine di mela mentre studiava per il compito di francese con delle flashcard colorate. Ogni volta che qualcuno faceva una battuta lei alzava gli occhi dai cartoncini e immancabilmente la sua risata acuta e nervosa zittiva il tavolo. Era raro che la gente la prendesse in giro, però tutti facevano del loro meglio per ignorarla. Ogni volta che diceva qualcosa le tremavano le mani e spalancava gli occhi come in preda al panico. Era stressante anche solo da guardare. Portava i capelli nerissimi raccolti in un’unica treccia, così stretta da sembrare una corda. Ogni tanto Lance gliela tirava, cosa che provocava sempre il suo pianto. Era un gesto doppiamente crudele perché faceva finire anche lei in punizione per “essere stata coinvolta in una lite”. C’era da stare male a vedere Ashley entrare nell’aula della signorina Pearl, con gli occhi bassi per evitare il sorriso beffardo di Lance. A me la punizione non dispiaceva. Anche se non ero colpevole per le mie risse, ero sicuro di aver fatto qualcosa nell’arco della settimana per essermi meritato il castigo. Ashley invece era del tutto innocente, e punirla era davvero oltraggioso. Non le avevo mai detto come mi sentivo al riguardo, ma una volta le avevo offerto una gelatina, e credo che lei avesse colto l’importanza di quel gesto. «Ashley non è altrettanto popolare», dissi. «Però probabilmente è la ragazza più intelligente della classe. L’anno scorso credevo che avesse una possibilità di farcela, visto che Lance non aveva affisso manifesti né tenuto un discorso. Solo che all’ultimo minuto ha promesso un nuovo tabellone segnapunti con raffigurato il leone della Glendale, e tutti hanno votato per lui. Il tabellone non si è
mai visto, ma era comunque un’idea fichissima. Alla West Side ne hanno uno con una tigre, e quando ci sono le partite non fanno che vantarsene». Elliot annuì. «Qualcuno dei candidati ha dei difetti fisici?», chiese, «che non sono mai stati rivelati pubblicamente?» «Oh Gesù», dissi. «E che ne so?» «E la loro vita sessuale? Mai stati coinvolti in qualche scandalo?». Alzai le spalle. «Non preoccuparti», disse Elliot. «James tirerà fuori qualcosa». Dopo la scuola Elliot mi portò in una stanza che non avevo mai visto, al quarto piano di casa sua. Era completamente vuota, fatta eccezione per un divano. Le pareti erano spoglie, a parte un foglio incorniciato appeso alla parete di fronte al divano: Carissimo signor Allagash, voglia accettare le mie scuse per i miei grossolani commenti durante la corsa. Non era mia intenzione offendere il suo cavallo. Sinceramente, JOHN D. ROCKEFELLER «È uno dei beni più preziosi della mia famiglia», mi spiegò Elliot con un’insolita riverenza nel tono di voce. «È stato spedito a mio nonno negli anni Venti». Mi avvicinai per esaminare meglio il biglietto, ma non vidi nulla che giustificasse il suo valore. Sapevo che Rockefeller era stato un famoso miliardario, ma quanto poteva valere quell’autografo? Elliot proseguì, notando chiaramente il mio scarso entusiasmo. «Sai quante lettere ha scritto Rockefeller in tutta la sua vita?». Alzai le spalle. «Circa centomila», disse. «Almeno. E sai quante di queste erano lettere di scuse?». Ripetei il gesto. «Una», disse Elliot. «Una sola». Si sedette sul divano e per qualche secondo fissò in silenzio la lettera. «Ehi, Elliot, credi che dovremmo cominciare con i manifesti? Lance ne ha già affisso uno, ed è piuttosto divertente. C’è una foto di Austin Power, che però ha la testa di Lance, e dice “Oh, contegno!”». Elliot non rispose. «Ho scoperto alcune cose che ritengo – e ne converrai – piuttosto interessanti», disse. «Lance ha una serie di problemi di apprendimento legati alla lettura. È stato sempre promosso per il rotto della cuffia. Ciononostante riesce ad avere il massimo dei voti in storia, la materia che richiede più letture. Come si spiega questa incoerenza?» «Lance ha difficoltà di apprendimento? E tu come l’hai scoperto?» «Ho fatto copiare a James le cartelle d’archivio di tutti», disse indicando con un gesto vago uno schedario dietro il divano. «Studenti e insegnanti». «Oh mio Dio», dissi.
«Ah, a proposito, congratulazioni per il test di francese. Hai totalizzato 91 punti». «Davvero?», dissi. «È incredibile!». Elliot prese un paio di cartelle dallo schedario e lo richiuse. «Ashley è pulita come un angelo», disse gettando da parte il suo file con impazienza. «Ma sono abbastanza sicuro che invece Lance abbia imbrogliato nel compito di storia». «Come fai a dirlo?» «Perché anche io ho imbrogliato nei compiti», disse. «Ho spulciato le cartelle di tutti quanti. Nessuno è arrivato a 100, nemmeno Ashley. Mentre Lance ha preso 110! In ogni compito in classe il signor Douglas aggiunge due domande extra sugli eventi attuali. Io le salto sempre, per non destare sospetti, ma Lance ha stupidamente risposto anche a quelle, ogni settimana. L’ultima volta, ha risposto a una domanda sul genocidio in Ruanda. Sta chiaramente barando». «In che modo?» «Lo stesso che uso io», disse Elliot. «Frugando nella scrivania di Douglas ogni martedì sera e copiando le risposte». Anche se ormai conoscevo Elliot da un po’, rimasi comunque piuttosto sorpreso dalla noncuranza con cui confessava di aver imbrogliato. «Magari è davvero bravo in storia, no?», dissi io. «Chissà, forse segue le notizie sul Ruanda». Elliot sorrise. «Lo scopriremo». Il livello culturale di Elliot non cessava mai di stupirmi. Non solo per le cose che sapeva, ma anche per quelle che non sapeva. Per esempio: era in grado di raccontare la biografia di ogni singolo imperatore romano della storia, dal numero di palazzi che si era fatto costruire al numero di nani che possedeva, fino al tipo di pugnale con cui era stato ucciso. Però non sapeva nulla dei New York Metz, nemmeno in che campionato giocassero. Conosceva a memoria tutto l’Otello di Shakespeare… o almeno i monologhi di Iago. Ma ogni volta che citavo I Simpson mi guardava perplesso e schifato, quasi mi fossi messo a squittire e gracchiare come un animale. Sapeva come scambiare materie prime sul mercato giapponese o riconoscere un falso Michelangelo, ma non era capace a fare un aeroplanino di carta nemmeno a morire, e non aveva neanche mai provato a tostare un sandwich preconfezionato. Conosceva le attività di tutte le compagnie di suo padre, quali producevano armi, quali prodotti chimici, quali entrambi. Sapeva l’indirizzo di tutte le case di Terry e il numero di servitori impiegati in ciascuna; il peso di ogni suo vestito e le dimensioni esatte della sua Jacuzzi. Ma non il giorno del suo compleanno. E anche se conosceva tutte le mie allergie, il mio numero di scarpe, la combinazione del mio armadietto e Dio solo sa cos’altro, sembrava non capire mai cosa stessi pensando o come mi sentissi. O perché. Ero seduto vicino a Lance nell’aula di scienze quando il signor Douglas entrò in classe. Era uno dei nostri insegnanti più tranquilli, un ex membro dei Corpi di Pace che a ogni spettacolo di fine anno suonava sempre le solite tre canzoni di Cat Stevens alla chitarra. Non l’avevo mai visto arrabbiato, ma questa volta sembrava davvero furioso. Aveva il viso arrossato e la coda di cavallo quasi sciolta. Mi chiesi cosa ci facesse un insegnante di storia nell’aula di scienze. Aprì e chiuse la
bocca un paio di volte, ma era troppo arrabbiato per riuscire ad articolare un suono. «Lance», riuscì infine a dire. Lance si alzò in piedi e cominciò a sbottonarsi il camice da laboratorio, ma il signor Douglas agitò la mano con impazienza. «Vieni e basta», disse. «Subito». Io dissi che dovevo andare in bagno e li seguii in silenzio lungo il corridoio, fino alle segreterie della scuola. La porta del preside era di vetro e quando passai lì davanti riuscii a sbirciare per un attimo lo scompiglio che Elliot aveva architettato. Il preside Higgins stava leggendo il compito di storia di Lance e scuoteva la testa disgustato. Alla riunione erano stati convocati anche i genitori di Lance, che ora sedevano ai lati del figlio e lo guardavano con un’espressione di orrore stupefatto.Lance teneva gli occhi bassi e il suo volto era una maschera di paura. «Che è successo a Lance?», chiesi mentre tornavamo a casa in limousine. «Hai fatto la spia?» «Abbi un po’ di fiducia in me», disse Elliot. «Non sono mica un bambino chiacchierone». «Se non sei stato tu, allora come ha fatto a farsi beccare?». Elliot si schioccò le dita, una per una, cullandosi nella mia curiosità. «Chiunque sia in possesso delle informazioni giuste può distruggere un nemico», disse alla fine. «Ma ci vuole un genio sottile per fare in modo che il nemico distrugga se stesso». Fece cadere alcuni cubetti di ghiaccio in un bicchiere e lo riempì fino all’orlo di scotch. «Non interrompermi», disse. Il signor Douglas aveva varie stranezze, la più famosa delle quali era la sua fissazione nel risparmiare la carta. Invece di stampare quarantuno compiti, ogni settimana, ne stilava un’unica copia a mano e leggeva ad alta voce le domande. Noi scrivevamo le risposte su dei pezzi di carta che lui aveva recuperato dai cestini delle altre classi. Douglas redigeva il compito in classe sempre di mercoledì, mentre teneva d’occhio l’aula di studio. Gli ci volevano circa quindici minuti, e quando finiva lo sventolava in aria annunciandone l’argomento, per poi chiuderlo a chiave in un cassetto della scrivania. Se Lance imbrogliava – ed Elliot ne era sicuro – doveva prendere le risposte da quel cassetto. Non esistevano altre copie del test. La serratura era inespugnabile senza attrezzi, mi spiegò Elliot, ma il piano della scrivania era abbastanza facile da forzare. Bastava fare leva con un righello e il contenuto del cassetto diventava accessibile. Elliot di solito scassinava la scrivania all’ora di pranzo, quando insegnanti e studenti affollavano la mensa. Le sue allergie lo costringevano a recarsi in infermeria tutti i giorni a mezzogiorno per prendere gli antistaminici, e l’aula del signor Douglas era la porta a fianco. «Hai davvero delle allergie?», chiesi. «Secondo te?», rispose lui. Elliot suppose che Lance rubasse il compito il mercoledì sera. Dato che era il capitano della squadra di pallacanestro, doveva rimanere un quarto d’ora in più dopo gli allenamenti, per mettere via i birilli e i palloni. Quando arrivava anche per lui l’ora di andarsene, i corridoi erano deserti, e ciò gli dava la possibilità di introdursi nell’aula del signor Douglas. Naturalmente, scassinare la scrivania dopo che Elliot aveva già fatto altrettanto lo esponeva al rischio di un sabotaggio.
«Hai portato via il foglio con le risposte? Così non ha potuto barare?» Elliot scosse la testa. «Se l’avessi portato via, Douglas si sarebbe accorto che qualcuno aveva forzato la scrivania. Ho lasciato lì un foglio con le soluzioni, è vero, ma non uno particolarmente utile». Dopo aver copiato il test durante l’ora di pranzo, Elliot era andato in infermeria simulando un serio attacco di allergia. James era arrivato subito per portarlo a casa, dove insieme avevano ideato un falso compito che Lance avrebbe copiato di lì a qualche ora. James aveva fatto parecchia fatica per imitare il corsivo pieno di svolazzi di Douglas. Avevano mantenuto invariate le domande scritte dal professore, sostituendo però le risposte. Finito il falso, James aveva riaccompagnato Elliot a scuola perché lo piazzasse nella scrivania di Douglas. Mentre Lance si allenava ai tiri liberi, in palestra, Elliot si era mosso per i corridoi deserti in tutta tranquillità, segnando il destino del mio avversario politico. Elliot per un po’ aveva sorvegliato l’aula di Douglas da quella antistante nel corridoio. Com’era ovvio, dopo circa un’ora aveva visto Lance intrufolarsi nella stanza e copiare le risposte del suo compito falso. Dopo che se ne era andato, Elliot aveva ripreso il falso e rimesso al suo posto l’originale del docente di storia. La mattina dopo, quando Douglas lesse ad alta voce le domande durante l’ora di storia, Lance scrisse le risposte di Elliot, convinto della loro esattezza. «Come un uomo che involontariamente firma la sua condanna a morte», mi disse. «O che per sbaglio si scava la fossa da solo». «Quindi hai messo delle risposte sbagliate?», chiesi. «Non proprio», disse Elliot. «Anche se Lance avesse preso uno zero, non avrebbe ricevuto una sanzione disciplinare. Poteva semplicemente dire di non aver studiato. A tutti è concessa una giornata no, anche a un ragazzo studioso come Lance». «E quindi che hai fatto? Come sei riuscito a incastrarlo per aver imbrogliato?» «Non l’ho fatto», disse Elliot, allungandomi il compito falsificato. «L’ho incastrato per qualcosa di molto più grave». Quale terribile gruppo terroristico nacque nel Sud durante la Guerra Civile? La Underground Railroad(3) Chi comandava l’organizzazione terroristica? Harriet Tubman(4) Quale decreto del 1863 è comunemente noto come “la legge migliore del nostro Paese”? La poll tax(5) Quale serie di leggi è stata da allora sistematicamente abrogata come un’ingiusta perversione della democrazia? Il Proclama di Emancipazione(6) E così via, ogni risposta era più schiacciante della precedente. «Lance non è stato punito per aver copiato», spiegò Elliot. «È stato punito per le sue convinzioni cariche d’odio». Immaginai Lance, seduto con i suoi genitori nell’ufficio del preside, che soppesava le due atroci alternative. Un ladro e un imbroglione, o un orribile razzista. In ogni caso la sua campagna elettorale era finita.
Elliot mi strappò il compito falso dalle mani, lo tenne fuori dal finestrino e lo bruciò con l’accendisigari. «E uno», disse. «Ne resta un’altra». James aprì il tettino e il fumo scivolò via dalla limousine. Stava parlando al cellulare, ma il vetro divisorio era alzato e non riuscivo a sentire cosa stesse dicendo. «Tuo padre dove ha trovato James?», chiesi. «È una lunga storia», disse. «E ti piacerà parecchio». Stava per cominciare a raccontare quando la macchina accostò davanti a un anonimo edificio di granito. «Che posto è questo?», chiesi. Elliot sospirò. «Il circolo di mio padre». Terry barcollò giù dalla scalinata e si trascinò fino alla limousine, il viso insolitamente rubizzo. James scese dall’auto e gli aprì la portiera, tenendolo per il gomito con discrezione per impedirgli di cadere. «Seymour!», disse. «È sempre un piacere vederti. Come vanno le cose?» «Alla grande, signor Allagash», dissi. «Elliot stava per raccontarmi la storia di come ha trovato James». «Io ho trovato James? Figuriamoci! Io non avrei l’energia o la pazienza di trovare nessuno. James ha trovato me». Elliot vuotò il suo bicchiere e volse lo sguardo fuori dal finestrino. «Ti racconto io tutta la faccenda», disse Terry. «Non vorrei che qualcuno massacrasse la storia. Ti dico tutto quando arriviamo nel mio studio. Però non interrompermi». «Quindici anni fa stavo scorrendo la posta seduto a questa stessa scrivania quando mi imbattei in una cartolina molto insolita. Il lato patinato riproduceva il terrificante dipinto di un teschio. Sul retro c’era un breve messaggio scritto a mano. “I Giants vinceranno la prima partita”. Buttai la cartolina in un cassetto speciale che il mio avvocato voleva che riservassi alle minacce di morte, e me ne dimenticai fino alla settimana successiva, quando ne arrivò un’altra. Questa volta raffigurava due scheletri danzanti e prediceva una seconda vittoria dei Giants. Ignorai anche quella, e così feci con la successiva, e con quella dopo. Ma dopo sette settimane di cartoline misteriose, con le loro morbose illustrazioni e previsioni di football scarabocchiate a mano, cominciai a dedicargli attenzione. Capisci, ogni pronostico si era avverato. Quando ricevetti l’ottava cartolina – che prediceva la sconfitta dei Giants contro gli inferiori Eagles – decisi di prendere in parola quell’anonimo pazzoide. Feci una telefonata a un amico del mio club e piazzai una scommessa su Philadelphia. La cartolina aveva azzeccato, come al solito, e io vinsi una bella somma. Continuai a seguire le dritte del mio profeta personale, facendo scommesse sempre più alte a mano a mano che la mia fiducia in lui andava crescendo. Per la dodicesima settimana avevo fatto una quantità tale di soldi che mi risultava difficile riscuoterli senza ridere. Ma chi era a mandare quelle cartoline? Come mi aveva rintracciato? Perché mi dava i pronostici del football? E cosa diavolo gliene veniva in tasca? Scoprii tutto quando arrivò la tredicesima cartolina.
“Il periodo di prova è finito”, diceva. “Ora che ha visto di cosa sono capace, perché non si abbona al mio servizio?”. Tutto ciò che dovevo fare era inviare un migliaio di dollari a una casella postale di Poughkeepsie – prometteva l’anonimo – e sarebbe arrivato via posta un tredicesimo pronostico, “urgente”, in tempo per la partita di domenica contro i Redskins. Chiamai Duffy, un vecchio amico dei tempi di Harvard che non faceva altro che giocare d’azzardo a Montecarlo, e gli raccontai l’intera storia. A quel punto la mia teoria era che il profeta fosse un allenatore o un arbitro di football, o comunque qualcuno che avesse delle informazioni interne e non si arrischiasse a scommettere in prima persona. Duffy bocciò immediatamente quell’ipotesi. “Finirebbe negli stessi casini per aver spedito le cartoline”, mi disse. “Passare informazioni agli scommettitori è illegale quanto scommettere in prima persona. Inoltre nessun arbitro rischierebbe il posto per qualche migliaio di dollari”. “E se fosse qualcuno a un livello inferiore?”, chiesi, “magari troppo povero per scommettere per conto proprio? Qualcuno come un custode degli spogliatoi? Magari ha ricevuto delle soffiate ma non ha un migliaio di dollari da puntare. Quindi compra una cartolina da dieci centesimi, vende le informazioni a un miliardario e cerca di guadagnarci senza investire un soldo”. “La teoria non è così astrusa”, disse Duffy. “Tranne per un dettaglio: non avrebbe informazioni così precise”. “E se i risultati del campionato fossero combinati?” “Non si possono truccare i risultati del campionato”, disse. “Fidati, ci ho provato. Ci sono troppe incognite. Ci sono sette arbitri, una dozzina di tecnici, oltre cento giocatori. Non è come pagare un pugile per andare al tappeto. Voglio dire, certo, puoi convincere il quarterback a sbagliare qualche lancio, ma anche in quel caso non hai risolto granché”. “E se l’intera squadra fosse d’accordo?” “Nessuno ha messo su una cospirazione che coinvolgesse tutta la squadra dai tempi dei Black Sox. Inoltre il tuo profeta a volte ha indovinato le vittorie dei Giants. Anche i loro avversari, allora, sono coinvolti? Uno non può mica corrompere tutti. Avrei sentito qualcosa in giro”. “Ok”, dissi. “Magari non ha niente a che vedere con la Lega. Magari è uno scommettitore esperto che è davvero forte nei pronostici”. “Io sono uno scommettitore esperto e ho un vero talento per i pronostici. E non ho mai superato l’ottanta per cento. Se arrivo al sessantacinque è stata una buona annata”. “Allora che mi dici? È davvero un profeta?” “Magari è il Diavolo”, disse Duffy. “Chi se ne frega! Dammi la tredicesima previsione e basta”. A quel punto, il profeta mi aveva fatto guadagnare tanti di quei soldi che mi sentivo quasi in debito con lui. Quindi inviai il denaro alla casella postale, senza aspettarmi granché. La sua previsione arrivò il giorno dopo, come promesso, e indovina un po’? Era azzeccata. Spillai un bel po’ di quattrini ai miei compagni del club. Avrei potuto vincere di più, ma parecchi di loro non volevano più scommettere contro di me sui Giants. La cartolina successiva chiedeva cinquantamila dollari. “Paga!”, mi gridò Duffy per un’ora buona. Alla fine gli riattaccai in faccia e riflettei sulla situazione in questo studio. Ancora non sapevo chi fosse il mio profeta o in che modo sapesse tutte queste cose sul football. Però sapevo questo: non aveva alcun motivo per darmi delle indicazioni sbagliate. Dopotutto, se mi avesse fatto perdere, avrei smesso di pagargli i pronostici. Era nel suo interesse che io continuassi a vincere. Alla fine decisi di seguire la via più logica: vendetti la previsione a Duffy per sessantamila
dollari. Lui mi inviò immediatamente i soldi, e io ne mandai cinquantamila a Poughkeepsie. La cartolina arrivò nell’arco di quarantott’ore. Raffigurava una specie di altare fatto di ossa e prediceva una vittoria dei Giants. Domenica mattina mi recai difilato al circolo ma non riuscii a convincere nessuno a scommettere contro di me. Ero piuttosto frustrato, quando accadde l’impensabile: i Giants persero. Io mi aspettavo un’altra cartolina, che però non arrivò mai. A quel punto la mia curiosità era diventata talmente grande da disturbare la mia vita quotidiana. Non facevo altro che pensare al profeta: chi fosse, come si muovesse e altra roba simile. Quindi spedii uno dei miei investigatori personali a Poughkeepsie per sorvegliare l’ufficio postale e trovare quel tizio. Non fu facile. Nessuno toccò la casella postale per giorni. O almeno, nessun cliente. Alla fine capimmo che il profeta doveva in qualche modo essere riuscito a farsi assumere come custode. Era l’unico che avesse accesso alle caselle postali dall’una alle nove di mattina, quando raccoglieva la sua posta. Non mi rimaneva dunque altra scelta che chiedere un favore a un amico della Federal Reserve. Spedimmo allo sconosciuto una mazzetta di banconote segnate (con allegata la richiesta di altre cartoline), ne tracciammo la distribuzione e risalimmo alla casa dei suoi genitori in periferia. Quando arrivarono le foto scattate durante la sorveglianza, pensai che ci fosse stato qualche errore. Il profeta era un diciassettenne scheletrico con i capelli lunghi e l’acne. Un ragazzino di nome James. Una volta scoperta la sua identità fu facile prelevarlo, e i miei uomini riuscirono a estorcergli una confessione senza troppa violenza. Fu una cosa stupefacente da sentire. Il padre del ragazzo vendeva gemelli d’argento e diamanti, un prodotto di lusso, e il mio nome era presente nel suo schedario, dal quale il ragazzo aveva preso tutti i nomi. Capito? Non ero l’unico a ricevere quelle cartoline. All’inizio della stagione di football, il ragazzo aveva inviato un pronostico a tutti e ventimila i contatti di suo padre. A diecimila aveva detto che la loro squadra di casa avrebbe perso, agli altri che avrebbe vinto. La settimana successiva aveva controllato chi avesse ricevuto il pronostico corretto, e gliene aveva mandato un altro. E di nuovo, a metà di loro aveva pronosticato la vittoria della loro squadra, all’altra metà la sconfitta. Aveva quindi continuato a sfoltire la sua lista in questo modo, fino all’arrivo della tredicesima settimana. A quel punto, erano rimasti solo ventidue nominativi. Venti di loro erano sufficientemente impressionati da “abbonarsi” al suo servizio. La settimana successiva, dei dodici milionari creduloni che erano rimasti, sei accettarono di pagare cinquantamila bigliettoni per avere la dritta sulla quindicesima giornata. Era la settimana in cui aveva perso me, insieme ad altri tre. Ma ne rimanevano due, ed entrambi accettarono di sborsare centomila dollari per la sedicesima “previsione” di James. Una delle due si rivelò esatta. Rimaneva quindi un tizio, un magnate dell’acciaio di Pittsburgh, la cui fiducia era rimasta ben salda. E lui aveva già spedito un milione di dollari per avere la soffiata sul Super Bowl. Quando lo beccai, aveva fatto una fortuna con questo giochetto sul football. Era stato parecchio costoso, sai, tutte quelle lettere e i francobolli, ma lui era stato in grado di finanziarlo con i proventi di altre truffe. Ne aveva portate avanti già un centinaio, a quell’età, una più azzardata dell’altra. “Ha intenzione di uccidermi?”, mi chiese quando mi presentai a lui al termine delle quattro ore di interrogatorio. “Dio del cielo, no!”, risposi. “Ho intenzione di offrirti un lavoro!”». Trovai Elliot fuori dallo studio che leggeva un grosso e vecchio libro di cose militari. «Perché te ne sei andato a metà della storia?», chiesi. «L’ho già sentita», disse. «È parecchio fico che tuo padre abbia assunto quel tizio». Elliot fece un gesto sprezzante con la mano.
«La mia famiglia ha sempre avuto al suo servizio almeno un truffatore a tempo pieno. Terry non è il primo Allagash a fare questa pensata». «Non è rischioso assumere un criminale?» «Non se sei l’unico a conoscenza dei suoi crimini. Se James provasse a danneggiare la famiglia, potremmo denunciarlo alle autorità. Questa cosa lo tiene vincolato». «Pensi che lui voglia danneggiare la tua famiglia?» «Non credo. Gli paghiamo uno stipendio scandaloso, più le spese. Inoltre gli concediamo un intero mese di vacanza all’anno, così può viaggiare e andare a trovare tutte le puttane che tiene al soldo». Aprì la penna e cominciò a sottolineare un lungo brano sul suo libro. «Elliot», chiesi, «tuo padre ha qualche altra storia simile?». Elliot chiuse il suo libro. «Perché non bussi e glielo chiedi?», sbottò. «Probabilmente ti sta aspettando nell’anticamera, con l’orecchio poggiato alla porta per sentire se arrivi. Vai!». Prese un fazzoletto dalla tasca e ci tossì dentro con violenza, il corpo magro scosso dai sussulti. Per un attimo pensai di dargli una pacca sulla schiena, poi cambiai idea. Poco dopo quell’accesso passò, e lui si appoggiò esausto alla parete. «Se vuoi sentire una bella storia», ansimò, «dovresti ascoltare il mio piano per eliminare Ashley». Sentii una fitta per il senso di colpa. Non mi importava se Elliot tramava contro Lance o il Winchester. Ma Ashley era una ragazza a posto. Si offriva sempre volontaria per fare le decorazioni ai balli della scuola, anche se di solito non partecipava. Al settimo anno, il signor Hendricks ci aveva messi in coppia per l’annuale progetto artistico della casa di pan di zenzero, e noi avevamo passato il pomeriggio a casa sua a ridere davanti alle soap opera e a mangiare i materiali del progetto. Non eravamo proprio amici, però non mi aveva mai chiamato Cicciobombo, anche quando il soprannome era all’apice del successo. Una volta mi aveva beccato che cantavo Barbie Girl mentre tornavo in classe dalla fontanella. Era il verso che diceva “I’m a Barbie Girl in a Barbie World”, e lo stavo cantando a voce piuttosto alta. Avrebbe potuto raccontare quell’episodio a qualcuno, ma non lo fece. «Non avrai intenzione di farle qualcosa di brutto, vero?». Elliot sembrò non sentirmi e fece il numero di James. «Forse non è una grande idea», dissi infine. «Voglio dire, è solo il rappresentante degli studenti. Non mi importa così tanto di vincere». Elliot riattaccò bruscamente e mi guardò. «Se pensi che l’obiettivo di tutto questo sia una cosa meschina come il titolo di rappresentante degli studenti, allora sei ancora più stupido di quanto immaginassi! Questo è solo il primo passo. Anzi, è l’anticamera del primo passo verso il primissimo gradino verso…». Si fermò di colpo e ridacchiò in modo forzato. «Guarda», disse. «A me non me ne frega niente di quello che fai. Per me tutto questo è solo un gioco». Fece spallucce. «Forse hai ragione. A chi interessa fare il rappresentante degli studenti? Onestamente, chi ha la pazienza per mettersi ad affiggere quei maledetti manifesti?». «Esatto», dissi. «Capisci?». Elliot annuì.
«Infatti. E tutte quelle stupide riunioni con il consiglio, e quelle ridicole interviste per la “Glendale Gazette”!». «Già, è tutto molto stupido». «Altro che stupido! Tutti quanti a leccarti i piedi in continuazione per ottenere questo e quello! E poi Jessica e quell’idiozia del comitato del ballo. Te lo immagini, andare a casa sua per organizzare quella cosa orribile?» «Ehm…». «Oltretutto», disse, «ai tuoi probabilmente non importa se non vinci. In effetti, forse si aspettano che tu perda». Aprì il libro e continuò a sottolineare il brano dal punto in cui si era interrotto. «Certo», aggiunse piano, «potrebbe essere un’esperienza interessante». Mi sedetti vicino a lui. «Cos’hai intenzione di fare ad Ashley?». Elliot scrollò le spalle. «Qualcosa di elegante». «Sarà crudele?». Rise. «È crudele mangiare un alfiere con la torre? O mandare in buca con una carambola? È politica!». «Forse hai ragione», dissi. «Certo che ho ragione», rispose. «Ora giochiamo un po’ a biliardo». Non mi resi conto fino a dopo le elezioni che in realtà non gli avevo chiesto nessuna delucidazione sul suo piano. All’epoca, in qualche modo, ero riuscito a convincermi che era stata una svista, che ero rimasto all’oscuro delle macchinazioni di Elliot per sbaglio, che non sapevo in cosa mi stessi cacciando. «Non abbiamo ancora conosciuto Elliot», disse mio padre. «Perché non lo inviti a casa per il tuo compleanno? Può venire anche suo padre, se non è troppo occupato». «Non lo so», risposi. «Elliot è complicato, a tavola». «Ci inventeremo qualcosa», disse lui. «Posso fare degli hamburger. Gli hamburger piacciono a tutti, no? Passami il ketchup». Gli passai la bottiglia e lui la spremette sul pollo. Uno spruzzo di liquido rosso schizzò fuori dal beccuccio. «Dannazione», disse mio padre. Girò la bottiglia a testa in giù e attese che il ketchup colasse verso il basso. «Magari potremmo andare a cena fuori», disse mamma. «Magari al St Regis, o al Tavern on the Green. Insomma, un posto un po’…». Papà rise. «Un po’ come?» «Un po’… divertente», disse lei. «Voglio dire, è un’occasione speciale, no? Quattordici anni è un’età importante». Mio padre annuì. «Allora facciamo una torta», disse.
Mio padre era assistente universitario di economia alla Fordham. A volte scriveva articoli sui giornali, lunghi saggi pieni di note, diagrammi e grafici. Aveva anche scritto un libro, che di recente un agente aveva sottoposto agli editori. Ero molto orgoglioso del fatto che mio padre avesse scritto un intero libro, e fu solo quando Elliot me lo chiese che realizzai di non avere alcuna idea dell’argomento. «Qualcosa su Marx», era tutto ciò che sapevo. «Ah», disse Elliot. «Uno di quelli». Io annuii. Non sapevo quali altre persone avessero scritto libri su questo Marx, prima di allora. Speravo che papà ne fosse al corrente. Mamma lavorava di pomeriggio come logopedista, ma il giorno della cena con gli Allagash si era data malata per concentrarsi sui preparativi. Quando tornai da scuola c’erano talmente tanti elettrodomestici accesi in cucina che dovevamo gridare per sentirci a vicenda. «Guarda sulla tua scrivania», mi disse. «Io e papà ti abbiamo preso un regalo». Le diedi un grande abbraccio e corsi a perdifiato lungo il corridoio. C’era solo una cosa che volevo, quell’anno, la NBA Slam ’98… ed ero piuttosto ottimista sulla possibilità di riceverla. Ai miei non piacevano molto i videogiochi, ma l’anno prima mi avevano comprato la NBA Slam ’97, e mi sembrava un ottimo precedente. Scartai piano il pacco, ripassando nella mia mente l’aria sorpresa che avrei assunto davanti a mia madre quando il gioco fosse stato finalmente tra le mie mani. Erano vestiti. Una cintura marrone, una camicia blu scuro con il colletto rigido, uno strano paio di scarpe marroni senza lacci. Frugai nel pacco ancora un po’, nella speranza che mia madre avesse nascosto il gioco sotto ai vestiti, per fare uno scherzo. Alla fine mi arresi e la ringraziai più allegramente che potei. Indossai la mia maglietta preferita dei Knicks e mi recai in cucina per alleviare la delusione con un po’ di latte al cioccolato. «Non vuoi provare i vestiti nuovi?», chiese lei. Ci volle qualche tentativo per abbottonare correttamente la camicia, ma alla fine ci riuscii. Quando tornai in cucina per il secondo giro di cioccolato, i miei stavano discutendo su qualcosa. «No», diceva papà. «Questo è quello che stavamo tenendo da parte. Quello italiano». «Sei sicuro?», chiese mamma. «Pensavo stessimo tenendo da parte l’altra bottiglia». Mio padre rise. «Non importa», disse. «Tanto l’hai già aperta». Guardò me, poi di nuovo mia madre. «E i vestiti nuovi?», chiese. Quando ero piccolo, uscì un film intitolato I Pronipoti incontrano gli Antenati. Nel film le due famiglie andavano d’accordo da subito e collaboravano per salvare il mondo. Forse, se ero stato così ottimista sulla cena con gli Allagash dipendeva dal fatto che avevo visto quel film decine di volte. Elliot e Terry si presentarono con una bombetta in testa. La cosa chiaramente sconcertò mio padre, che però si ricompose in fretta e tese la mano. «Grazie per essere venuti», disse. «È davvero un piacere». «Il piacere è mio», rispose Terry. Si tolse il cappotto e fece correre lo sguardo tutto intorno al soggiorno, allungando lentamente il collo. Gli ci volle un bel po’ per rendersi conto che nessun servitore sarebbe venuto a prelevare soprabito e valigetta. Alla fine li posò imbarazzato sopra una sedia. Gli adulti cominciarono a
parlare del tempo e io ed Elliot andammo in camera mia. «Che roditore è?», chiese Elliot indicando il mio topolino. «È un topo», dissi io. «Si chiama Houdini. Ho provato ad addestrarlo a stare in piedi, e ci siamo quasi». «Fammi vedere». Tenni sollevato un pezzetto di cibo sopra la sua testa e gridai «Su!» un paio di volte. Alla fine, dopo averci pensato un po’, Houdini si sollevò sulle zampe posteriori e lo afferrò con gli artigli. Gli carezzai il collo e gli allungai qualche altro pezzetto come ricompensa. «Niente male», disse Elliot. «Tu hai qualche animale?», chiesi. Elliot mi guardò per un istante. «Non esattamente», disse. «Sono contenta che la torta vi sia piaciuta», disse mia madre. «Era squisita», rispose Terry. «Ho fatto bene a lasciare spazio per il dolce». «Mi dispiace che gli hamburger non fossero di vostro gradimento», disse papà. «Avete ancora fame? C’è una fetta di petto di pollo in frigorifero, se non vi disturbano gli avanzi». Elliot guardò perplesso mio padre. «A… avanzi?». Ci fu un lungo silenzio. Alla fine Terry si schiarì la voce e sorrise a mio padre. «Elliot mi diceva che lei ha scritto un libro», disse. «Congratulazioni». Mio padre rise imbarazzato. «Lo sto mandando in giro», disse. «Ma potrebbe tranquillamente finire in un cassetto». «Sta facendo il modesto», disse mamma. «Un paio di case editrici accademiche sono molto interessate. Una di St Louis, un’altra in Canada». Mio padre sospirò. «È fantastico», disse Terry. «Ho degli amici nell’ambiente editoriale. Conosce la Bishop House?» «Sì», disse papà. «Sono stati i primi a rifiutarlo, in effetti». «Hanno detto che era troppo “accademico”», spiegò mia madre. «In realtà, credo che abbiano usato la parola noioso», ribatté papà. «Ma insomma, è uguale. Terry, è sicuro di non volere un po’ di vino? È un ottimo vino italiano». «No, la ringrazio», disse. Mio padre si versò un altro bicchiere. Notai che era l’unico a bere. Mia madre lanciò uno sguardo ansioso alla fetta di torta che Elliot non aveva nemmeno sfiorato. Quando fu ovvio che non l’avrebbe assaggiata, gli versò un grosso bicchiere di latte e lo posò speranzosa vicino alla sua mano ossuta. «Allora Elliot», disse. «Ho sentito che sei un gran giocatore di basket. È incredibile quanto vi siate allenati voi due, deve davvero piacervi!». Lanciai a Elliot un’occhiata disperata e lui sospirò con aria stanca. «Sì», borbottò, «la pallacanestro è il mio sport preferito».
«Be’, ottimo», disse mia madre. «Ottimo davvero». Gli versò ancora un po’ di latte, anche se lui non l’aveva nemmeno toccato. «Tra la pallacanestro, il circolo contro l’amianto e l’organizzazione della campagna elettorale di Seymour, non so come fai a trovare il tempo per fare i compiti. In quante attività extrascolastiche sei impegnato?» «Molte», disse lui. Mio padre tenne sollevato alla luce il suo bicchiere e lo ruotò lentamente, lanciando uno sguardo obliquo alla posa che si era formata sul fondo. «Lei beve vino?», chiese a Terry. «Sì», rispose questi. «In effetti sono stato a una degustazione, nel pomeriggio. Se non fossi stato tanto indulgente, mi sarei volentieri unito a lei per un brindisi. Ma a questo punto della serata temo di non essere più in grado». Mio padre annuì e guardò mia madre dall’altra parte del tavolo. «Io in genere bevo vino solo in occasioni speciali», disse. «Ad esempio, uno dei miei colleghi mi ha portato una bottiglia di vino dal paese dei suoi parenti in Italia. Volevo conservarla per il giorno in cui avessi venduto i diritti del mio libro. Ma se poi non li vendo, ho pensato? Un libro rifiutato non è un buon motivo per sprecare del vino, giusto?». Terry si schiarì la voce. «Santo cielo, Seymour», disse. «Mi sono dimenticato di darti il tuo regalo». Si alzò e prese un pacco dalla sua grossa valigetta. Era avvolto in carta argentata lucida e chiuso con uno spesso nastro dorato. «Oh, non avrebbe dovuto!», esclamò mia madre. Il regalo era incartato in maniera così elaborata che mi ci volle un po’ per aprirlo. Alla fine, quando ci riuscii e il pacco campeggiò sul tavolo, la stanza fu avvolta nel silenzio. Era una consolle Sega Dreamcast nuova di zecca. Avevo letto degli articoli che ne annunciavano l’uscita, ma non ne avevo mai vista una. Era una macchina meravigliosa, liscia e argentata. Quando la sollevai dalla scatola, mi scappò un gridolino: c’era più di una dozzina di giochi nascosta sul fondo. «Oh mio Dio», dissi. «Oh mio Dio». Mi accorsi di essermi alzato in piedi. Mi ricomposi, tornai a sedermi e ringraziai diffusamente il signor Allagash. «Davvero, non avrebbe dovuto», ripeté mia madre. Terry agitò le mani. «Ma no, è un piacere». «No», disse mio padre. «Sul serio. Non avrebbe dovuto». Portai il regalo in camera mia e dalla scatola cadde un biglietto scritto a mano. Era nascosto sotto la montagna di giochi e inizialmente mi era sfuggito. Caro Seymour, grazie per tutto il tempo che passi con il mio strano, strano ragazzo. Cosa si prova? Ricordami di chiedertelo, una volta. TERRY
Misi il curioso biglietto nel cassetto della mia scrivania e tornai a unirmi alla festa. Quando andai di là, però, sembrava essere finita. Tutti stavano dalle parti dell’ingresso, tranne mio padre che era rimasto al tavolo a finire il suo vino e a fissare la mia montagna di carta da regalo. «Siete sicuri di non voler rimanere e fare un gioco?», chiese mia madre. «Il gioco dei Mimi? Pictionary?» «Non saprei», disse Terry. «Si sta facendo tardi». Cominciò a infilarsi il cappotto. «Abbiamo anche Uno e Paroliere». «Grazie per l’offerta», disse, «ma temo che siamo troppo stanchi». Mi padre posò rumorosamente il suo bicchiere. «Che ne dite di Monopoli?», chiese. Terry si immobilizzò. «Ha detto Monopoli?». Terry ed Elliot sedevano da un lato del tavolo, di fronte a mio padre. Io e mia madre eravamo finiti in bancarotta nel giro della prima mezz’ora, e quindi rimanevano in gioco solo papà e gli Allagash, che avevano preferito giocare in squadra. «Alle dieci si va a letto», disse mia madre. «Quindi direi che chiunque stia vincendo tra cinque minuti vincerà la partita». «Mi sembra giusto», disse Terry. «Niente tre, quattro o sei», mormorò mio padre agitando i dadi nella mano. «Niente tre, quattro o sei». Agitò ancora un po’ i dadi, nel chiaro tentativo di temporeggiare. Gli Allagash avevano costruito gli alberghi su tutte le proprietà arancioni, e papà poteva finire in bancarotta al primo lancio sfortunato. «Sa, non è troppo tardi per accettare la nostra offerta», gli disse Terry. «Mille e trecento dollari per Pennsylvania Avenue sono una bella cifra». «In realtà, la nostra offerta era di mille e duecento», lo corresse Elliot, «ma è pur sempre un affare». Mio padre mise giù i dadi e guardò i due avversari. «Ve l’ho già detto», disse. «Non intendo arrendermi. Per nessuna cifra». Terry ridacchiò. «Come preferisce». Sembrava ci fosse parecchio in ballo, in quella partita. Di solito, quando facevo un’offerta a papà, lui la accettava automaticamente. Ma quando gli avevo offerto il buono per uscire di prigione in cambio di una delle stazioni, aveva rifiutato. Papà lanciò i dadi e io trattenni il fiato mentre rotolavano sul tabellone. Andarono a sbattere contro alcuni degli hotel degli Allagash e poi si fermarono vicino ai cartoncini delle Probabilità: un tre… e un quattro. «Sette!», gridai. «È il Parcheggio gratuito!». Mio padre levò i pugni in aria e fece un suono nasale.
«Sì!», esclamò. «Sì!». Sollevai il palmo e lui mi diede il cinque, bello forte. «Che ore sono?», chiesi. «Sono le dieci, ma’?» «Uhm…». «Sono le dieci!», disse mio padre agitando le braccia. «Sono le dieci in punto. È finita!». Si allungò sul tavolo e raccolse l’enorme pila di denaro dal centro del tabellone, ridendo e scompigliandomi i capelli. «Congratulazioni», disse Terry tendendo la mano. Mio padre diede il cinque anche a lui. «Non si abbatta se ha perso, Terry. Sono un professore di economia, questo gioco è la mia materia». «Sa», disse Elliot, «in senso stretto, il Parcheggio gratuito non è ufficialmente una parte del…». Terry lo interruppe. «Grazie dell’ospitalità», disse. «È stata una serata magnifica». Mio padre si appoggiò allo schienale della sedia mentre mamma finiva di pulire il tavolo. «Hai visto la faccia di Terry quando è uscito quel sette?», disse lui. Mamma fece cadere alcune briciole nel palmo della mano e si recò in cucina senza rispondere. «È stato fantastico, papà», dissi. «Davvero fantastico». «Credevo che un uomo d’affari fosse più esperto con il Monopoli. Soprattutto uno squalo come Terry Allagash. Ragazzi, quella famiglia non è stata sconfitta in quel modo dai tempi dello Sherman Act(7)!». Io non avevo idea di cosa stesse parlando, ma risi lo stesso. Non lo vedevo così felice da quando, un mese e mezzo prima, aveva finito il suo libro. «Il trucco sta nel controllare il tabellone», disse. «Sapevo che con quelle proprietà verdi li tenevo in pugno, quindi ho…». Il telefono squillò. Papà rispose con un allegro «Eccoci!», ma il suo sorriso scomparve rapidamente. «Sì… Va bene… capisco…». Si allontanò con il telefono e si chiuse in camera. Mia madre, che lo osservava dalla cucina, si sedette accanto a me. «Che sta succedendo?», le chiesi. Lei non rispose. Si limitò a tenere gli occhi fissi sulla porta. Alla fine mio padre uscì dalla stanza e venne a sedersi vicino a noi. Era pallido e non disse nulla. «Che problema c’è?», chiese mamma. «Chi era?» «Il mio agente», disse. «Hanno venduto il mio libro». «O cielo!», gridò mamma gettandogli le braccia al collo. «Sono così fiera di te! Dobbiamo festeggiare!». Versò l’ultimo goccio di vino in un bicchiere e lo porse a papà. «Quale? Quella di St Louis?» «No». «Quella canadese?»
«No». «E allora… chi?» «La Bishop», disse lui con un sorriso forzato. «Hanno cambiato idea. Nel cuore della notte». Osservò per un momento il bicchiere di vino, poi lo restituì a mia madre. «Salute», disse. I miei genitori di solito ponevano dei limiti al mio uso della televisione, ma stavano discutendo di qualcosa in camera loro e non avevano tempo di combattere con me. Rimasi seduto sul divano del soggiorno per ore a guardare vecchie sit-com, cercando di afferrare le loro voci lontane. Alla fine uscirono dalla stanza e si sedettero accanto a me. Io mi scusai per essere davanti alla televisione a quell’ora, ma era chiaro che non erano arrabbiati. Mamma mi sbottonò il colletto e mi carezzò il collo. «Mi dispiace che la camicia fosse così fastidiosa», disse. «No, va bene», dissi io. «Non devi rimetterla per forza». Papà spense la televisione, mi prese un bicchiere d’acqua dalla cucina e tornò a sedersi vicino a me. «Papà?», dissi. «Davvero pubblicheranno il tuo libro?». I miei si scambiarono un’occhiata. «Certo», disse infine. «Eccome se lo pubblicheranno». Io lo abbracciai. «Wow, prima il Monopoli e ora questo». Papà rise. «Chiunque può capitare sul Parcheggio gratuito», disse. «E comunque grazie, figliolo». Mamma mi portò l’apparecchio per i denti ed entrambi mi accompagnarono a letto, assicurandosi di lasciare accesa la luce del bagno mentre uscivano dalla mia stanza. Stavo per piombare nel sonno quando il telefono squillò rumorosamente in ogni stanza dell’appartamento. Sapevo che era Elliot (chi altro poteva essere?) e che lo squillo avrebbe svegliato i miei. Ma ero troppo intontito per rispondere subito. Nel tempo che impiegai per rotolare sul letto e afferrare la cornetta, mia madre aveva già risposto. Sembrava confusa. Non credo che qualcuno avesse mai chiamato a casa a quell’ora. «Tranquilla, mamma», dissi. «La prendo io». «Buonanotte», mormorò. «Buonanotte tesoro». Appena riagganciò, Elliot si lanciò in un monologo. Parlava così in fretta che all’inizio faticai a capirlo. «Elliot, scusa», dissi. «Non posso parlare delle elezioni adesso». «Non c’entra niente con le elezioni», disse. «È un piano completamente nuovo. Mentre stavo sabotando Douglas, mi è venuto in mente un modo per passare l’esame finale». «Che bisogno hai di imbrogliare, Elliot? Sei bravo in storia. Stai sempre a leggere quei libri di guerra e roba simile». «Esatto, quella è la storia. Non quella manfrina di stucchevoli favole sul socialismo. Mi rifiuto di dedicare anche un secondo di sforzi mentali per comprendere quali leggende vorrebbe farmi
invocare. Il melting pot? Susan B. Anthony(8)? Sacagawea(9)? Sacagawea? Quella era una schiava!». «Eh?» «Stammi a sentire. Se Douglas pensa…». «Elliot, non puoi parlarmene domani? Sono un po’ stanco». Continuò. In sottofondo si sentiva musica classica ad alto volume, e la sua voce suonava leggermente disturbata. «È ovvio!», gridò. «Douglas elabora i compiti più importanti durante il fine settimana, quindi non si possono rubare dalla sua scrivania. Ma se una qualche autorità superiore gli chiedesse di poter visionare in anticipo un suo test, Douglas non avrebbe altra scelta che accettare. So cosa stai pensando: quale autorità, giusto?» «Elliot…». «Un’autorità finta! Faccio impersonare a James il capo di una fondazione per un premio scolastico. James scrive una lettera a Douglas su carta intestata, con un sigillo di ceralacca: “Gentile signor Douglas, da tempo sappiamo del suo talento nel redigere i testi per gli esami e la vorremmo candidare per il prestigioso Premio Gladys Violet…”». «Elliot, ascolta…». «James gli chiede di inviare il prossimo compito finale come esempio del suo lavoro. Io memorizzo le risposte, ottengo il punteggio pieno e… ecco la sorpresa: scrivo il mio esame con inchiostro viola. Capito? Gladys Violet? Viola? Lui capirà che ho architettato tutto io! Certo, non avrà modo di dimostrare nulla, e anche se ce l’avesse sarebbe troppo mortificato per attaccarmi. Potrebbe perfino convincersi che si tratta di una coincidenza, e di essere stato davvero candidato per un qualche premio per insegnanti. Ma nel profondo, la vergogna alloggerebbe nel suo cuore, crescendo di anno in anno, beffandosi del suo ego, portandolo sull’orlo della pazzia…». «Elliot, senti, è tardi. Ho bisogno di dormire». «Niente affatto. Abbiamo del lavoro da fare». «Sono stanco, davvero». «Fidati, questa la devi vedere. Scendi giù, James verrà a prenderti fra cinque minuti e passerai la notte qui». «Devo svegliarmi presto, domattina. Mio padre fa i waffle». «A te non piacciono i waffle. Se vieni qui, James per colazione ti preparerà una torta, una di quelle torte disgustose che ti piacciono tanto, con lo strato di zucchero sopra». «Non posso, davvero. Però dài, ti prometto che vengo domani, appena posso». «O Signore, non me ne frega niente se vieni o no. Solo non capisco perché preferisci un cibo che non ti piace a uno che ti piace». «È domenica, e papà fa sempre i waffle, poi portiamo la colazione in camera alla mamma. È una specie di tradizione, perché…». «Ottimo, fai come ti pare. Non mi importa». «Ok, ci vediamo domani, Elliot. Elliot? Ci sei ancora?». Stavo correndo fuori dall’aula di francese – era il giorno dei tacos alla mensa – quando il signor Hendricks mi batté su una spalla. «Seymour», disse. «Ti dispiace se parliamo un momento?».
Dovette cogliere il mio nervosismo, perché si affrettò ad aggiungere: «Non preoccuparti, non sei nei guai». Tirai un sospiro di sollievo e lo seguii nell’aula vuota. «Come va il club?», mi chiese. «Il che?» «Il… la lega contro l’amianto». «Ah!», dissi. «Alla grande». Lui annuì con entusiasmo. «Fantastico», disse. «E la campagna elettorale? Ho notato che non hai ancora affisso i manifesti». Annuii. «Elliot è l’organizzatore della campagna», dissi. «Quindi si occupa lui di queste cose». Il signor Hendricks annuì di nuovo. «Ashley ha messo su parecchi manifesti, no?» «Già», risposi. «Sono molto belli». «È molto presa da questa campagna. Non so se lo sai, ma il prossimo anno farò parte del consiglio dei docenti». «Congratulazioni». «Eh sì», disse lui. «Bello, no? Ad ogni modo, Ashley mi ha già inviato cinque proposte. Per vendite di dolci, balli e marce di beneficienza. Non è fantastico?». Feci sì con la testa, incerto su dove volesse andare a parare. «Insomma», disse, «il motivo per cui volevo parlarti è che ho pensato molto, ultimamente, e vorrei condividere con te questi pensieri. Questa mattina stavo passeggiando per il parco, e mi sono detto: “Ehi, aspetta un attimo. Abbiamo due candidati eccezionali che si dedicano con passione alla comunità. Perché non farli lavorare insieme? Potremmo evitare di preoccuparci di discorsi e manifesti. Potremmo annullare le elezioni e nominarvi co-presidenti! Che ne pensi?» «Suona bene», dissi io. «Ne parlerò con Elliot e vediamo cosa ne pensa». Il signor Hendricks allungò il collo per vedere se c’era qualcuno sulla porta. Poi si avvicinò e continuò a bassa voce. «Ascoltami, Seymour», disse. «Io lo sto dicendo solo a te perché ti ritengo abbastanza maturo da non farne parola con nessuno, ma il fatto è che Ashley ha passato un anno difficile». «Che intende dire?» «Sai, tu ed Elliot avete il club contro l’amianto, e Lance la squadra di basket, ma lei non ha niente di simile. Se non dovesse farcela, ci rimarrebbe piuttosto male. Non le ho ancora esposto questa mia idea della copresidenza, ma credo che se la proposta venisse da te, ne sarebbe felice. Tutti ne sarebbero felici». Io annuii a mia volta. I miei sarebbero stati lo stesso fieri di me se fossi diventato copresidente e sarei comunque finito sull’annuario. Inoltre, non sapevo bene come si faceva a fare il presidente. Sarebbe stato molto più facile farlo con Ashley piuttosto che tutto da solo, e probabilmente più divertente. Avremmo potuto organizzare un’altra gara di case di pan di zenzero; nominando noi stessi giudici, avremmo avuto mano libera sulle cibarie. «Allora, ci penserai?» «Certo», dissi.
«Ah, ottima notizia!». «Anche se… in realtà, devo prima parlarne con Elliot». Hendricks sospirò. «Naturalmente». Elliot finì il suo Martini e mandò giù il bicchiere con il montacarichi per farselo riempire. «Sai cosa significa diventare copresidente in una corsa a due?», mi chiese. «Cosa significa?» «Significa arrivare ultimo». Fece un tiro d’apertura e si aggirò intorno al biliardo un paio di volte, fermandosi solo per afferrare il drink. «Secondo me è una buona idea», dissi. «Voglio dire, sarei comunque rappresentante degli studenti. Però non dovrei ferire i sentimenti di Ashley o rischiare una sconfitta». Elliot batté il suo piccolo pugno sul tavolo. Il colpo si udì a malapena sul tappeto verde. «Se gestisco io la tua campagna elettorale, non esiste un simile rischio». Mi diede il suo Martini mentre si allungava per il prossimo tiro. Il bicchiere era pieno fino all’orlo e io ne presi istintivamente un sorso per evitare che colasse. Il sapore era terribile, come un getto d’insetticida sparato in bocca per sbaglio, e mi scatenò un lungo accesso di tosse. «Non capisci cosa sta succedendo?», disse Elliot. «Hendricks ha paura di te. Teme che tu possa sconfiggere Ashley! Stai vincendo, Seymour, e ancora non abbiamo fatto nulla». Fece un altro tiro. «Hendricks pensa che tu sia una specie di idiota. Non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando sarai il rappresentante dell’ottavo anno!». Ricordai la delusione di Ashley per i risultati delle elezioni precedenti, lei che tratteneva le lacrime e consolava Han Wo, lo studente straniero che era stato il suo unico alleato. Però poi immaginai la scena del preside che annunciava il mio nome, sul palco, davanti a tutti. Mi vidi posare da solo per la foto dell’annuario scolastico, con indosso il vestito che i miei mi avevano comprato dopo che ero diventato troppo magro per indossare l’altro. «Sarebbe fico», dissi. Bevvi un altro sorso del drink di Elliot. Il sapore era orribile come la prima volta, ma almeno riuscii a non tossire. «Cosa aveva addosso Hendricks quando ti ha preso da parte?», chiese Elliot. «Fammi indovinare: il cardigan scozzese con i bottoni di legno». «Esatto», dissi. «Come facevi a saperlo?» «Be’, quell’uomo ha solo due giacche», disse. «E ieri aveva quella marrone, quindi…». «Semplice logica». «Proprio così». Elliot imbucò una palla e prese il gessetto. Feci per passargli il suo bicchiere, ma lui lo rifiutò con un gesto di diniego. «Tienilo», disse. «Me ne faccio fare un altro». «Quindi cominciamo a lavorare sul discorso?», chiesi. «Fermati qui, domani», disse. «Prima devo occuparmi di un po’ di cose».
«Seymour, che bella sorpresa. Elliot è in giro con James. Ma non te ne devi andare, tornerà entro un’ora. Perché non ti siedi lì, vicino all’orso? Ho una storia lunga e divertente che devi proprio sentire. Non interrompermi. Vedi questa statuetta? È l’oggetto di cui vado più fiero: Campione di scacchi di Harvard, 1954. Non sono mai stato un grandissimo giocatore, capisci, ma sono sempre stato un ottimo baro. Questo trofeo ne è la dimostrazione. Non dimenticherò mai il giorno in cui posai gli occhi per la prima volta sul Tabellone degli Scacchi nel salone di Harvard. Era bellissimo: un mobile di mogano massiccio, costellato di placche dorate recanti i vari nomi. Sfidando e battendo quelli che ti stavano sopra, potevi progressivamente salire ai vertici della classifica. La competizione era aperta a tutti per la durata dell’anno accademico e chiunque si fosse trovato in testa al momento della laurea sarebbe stato incoronato campione della sua classe. Quando lessi i nomi sulla classifica, mi resi conto che non conoscevo nessuno di loro. Nessuno era stato alla Exeter o alla Andover o aveva frequentato i club di cui facevo parte. Alcuni nomi in effetti suonavano stranieri. Era una graduatoria puramente meritocratica, e per la prima volta in vita mia, mi sentii escluso. Non avevo mai giocato a scacchi prima di allora, era un gioco che non mi attirava per niente. Ma quando vidi la classifica, decisi che dovevo dominarla. Il mio primo passo fu assoldare un esperto di scacchi che mi insegnasse a barare. Ne trovai uno al MIT, un giovane nervoso di nome Fishman che era stato per anni in testa alla classifica della sua scuola. Doveva pagare le tasse universitarie, quindi mi fu facile garantirmi i suoi servizi. Per le prime cinque partite utilizzammo un semplice linguaggio dei segni. Quando io e il mio avversario ci sedevamo alla scacchiera, Fishman e il suo compagno di stanza facevano altrettanto a un tavolo vicino. Quando il mio avversario muoveva, io comunicavo a Fishman la sua mossa con una serie di gesti che dovevano sembrare dovuti alla concentrazione: sospiri, grattate di testa, imprecazioni eccetera. Fishman a sua volta mi avrebbe segnalato la mossa da fare usando lo stesso sistema. I segnali usati dovevano far credere che Fishman fosse preso dalla sua partita, mentre in realtà era preso dalla mia. Questo codice a volte diventava evidente. Durante una partita, il mio avversario mosse la torre per tutta la lunghezza della scacchiera, e io dovetti dire la parola succhiacazzi otto volte di seguito, ad alta voce: “Succhiacazzi, succhiacazzi, succhiacazzi, succhiacazzi, succhiacazzi, succhiacazzi, succhiacazzi, succhiacazzi”. Il mio rivale rimase sconcertato, ma tutti gli scacchisti hanno le loro stranezze e quindi non disse nulla. Ero sempre composto durante le partite, ma lo sforzo del povero Fishman era notevole. Gli davo una notevole somma per ogni vittoria – diciamo l’equivalente di una borsa di studio dell’università di Oxford – e alla fine di ogni partita era fradicio di sudore. A mano a mano che salivo nel Tabellone degli Scacchi, barare diventava sempre più difficile. Le partite di vertice venivano disputate soltanto nel Club degli Scacchi di Harvard, in modo che i soli membri potessero assistervi, e Fishman non ne faceva parte. Ero riuscito a farlo sgattaiolare nel bagno, ma tutto ciò che potevo fare erano frequenti visite alla toilette prima che qualcuno si insospettisse. Provammo con delle ricetrasmittenti nascoste, che all’epoca erano una novità tecnologica. Ma ciò mi costringeva praticamente a fare una specie di radiocronaca nel bavero del vestito. “Ah”, dicevo chinandomi verso il microfono piccolo come uno scarafaggio, “vedo che hai mangiato la mia torre con il tuo alfiere. Non l’alfiere di sinistra, che era vicino alla regina, ma quell’altro”.
Gli scacchisti di solito non sono dei provocatori, ma quando arrivai tra i primi cinque i miei avversari si fecero sfrontati. “Sappiamo che stai barando”, dicevano. Oppure: “È ovvio che stai imbrogliando”. O: “Andiamo, Terry, perché non smetti di barare?”. Ma non potevano provare nulla, e le partite continuavano. Quando arrivò l’ultima settimana di scuola, c’era solo una persona da sconfiggere per diventare campione. Era uno di quegli adorabili comunisti russi, un tipo scheletrico e barbuto con occhi piccoli e feroci. Non ricordo il suo nome. Avevo diversi ostacoli da superare. Al punto in cui eravamo arrivati, la comunità degli scacchisti mi teneva d’occhio con una tale attenzione che nessuna delle mie vecchie tattiche era praticabile. Il comunista avrebbe raccolto la mia sfida solo se io avessi accettato tutta una serie di condizioni umilianti, concepite per impedirmi di imbrogliare. Dovevamo giocare in una tenda vuota, che egli stesso avrebbe fornito, e non sarebbe stato ammesso nessun tipo di pubblico. Sarei stato perquisito prima dell’incontro per evitare che avessi foglietti o apparecchiature elettroniche. E se avessi abbandonato la tenda durante la partita, per qualunque motivo, avrei automaticamente perso. Ero ancora abbastanza sicuro di trovare un sistema. Mi incontrai con Fishman al solito posto, su una panchina a metà strada lungo il fiume Charles. Lo pagai per l’incontro precedente e gli parlai del successivo. Tutto filò liscio finché non buttai lì casualmente il nome del mio avversario finale. “Hai sfidato chi?”, disse, balbettando più del solito. Io ripetei il nome. Fishman fissò l’acqua con aria assente. La sua camicia oxford da due soldi cominciava già a macchiarsi di sudore. “Mi stai dicendo che non l’hai mai sentito nominare?”, domandò. “No, certo che no”, risposi io. “È uno scacchista”. Fishman cominciò a recitarmi la “carriera” di quel tizio con tono impostato e riverente. Vedi, anche se il comunista si considerava un rivoluzionario, a quanto pare aveva dedicato gran parte della sua vita a perfezionare quel gioco infantile. Di conseguenza era molto bravo. “Ho studiato le sue partite”, disse Fishman. “Quando vinse il torneo mondiale a Zurigo, la Lega internazionale di scacchi diede il suo nome a una variante. Aveva solo quindici anni”. Fishman rimase con lo sguardo perso nel vuoto. “Mi dispiace”, disse. “Non posso aiutarti”. “Va bene”, risposi io. “Chi mi suggerisci di assumere al tuo posto?”. Lui rise, incredulo. “Ma non capisci?”, disse. “Lui è il migliore che esista. Non importa chi assumi, sei destinato a perdere”. Il mattino dopo mi incontrai con il russo nel suo decrepito appartamento fuori dal campus. Stava ospitando non so quale riunione e quando aprii la porta si trovava nel bel mezzo di qualche farneticazione. “Ti lascio ai tuoi sproloqui tra un attimo”, dissi. “Prima però vorrei discutere le tue condizioni”. Lui sollevò gli occhi al cielo e bofonchiò qualcosa ai suoi compari, che erano le persone più sporche che io avessi mai visto. “Mi sembrano ragionevoli”, dissi io facendo attenzione a non toccare nulla in quella stanza. “E le accetto tutte, ma ne ho due anche io. Primo: vorrei posticipare l’incontro di una settimana”. “A che scopo?”, biascicò il russo. “Per studiare”, dissi. “Ho cominciato a giocare a questo gioco da circa un mese. Per me è ancora piuttosto nuovo”. Lui deglutì amaramente. “E l’altro?” “Devi accettare le tue stesse condizioni”, dissi io. “Se io
sarò perquisito, sarai perquisito anche tu. Se non posso lasciare la tenda, nemmeno tu puoi farlo”. Lui gettò indietro la testa e rise. “Credi davvero che potrei barare contro uno come te?”. Io gli sorrisi e alzai le spalle. “Che vuoi che ti dica… Ho sempre creduto nell’imparzialità”. Ci scambiammo una stretta di mano, io lavai la mia in una fontana lì vicino e tornai al club. L’anziano cameriere mi preparò il solito drink del pomeriggio, ma io rifiutai. Lui esaminò il bicchiere per vedere se l’aveva preparato correttamente e quando ne fu sicuro mi chiese subito se fossi malato. “Sto bene, Claverly”, dissi. “Mi sto solo preparando per un’importante partita a scacchi”. “Posso portarle qualcos’altro?”, chiese. “In realtà sì”, dissi. “Dei libri”. “Sugli scacchi?” “No”, dissi io. “Sull’alimentazione”. La mattina dell’incontro nel cortile di Harvard si era riunita una piccola folla. La maggior parte erano soci del club di scacchi, ma c’erano anche persone normali, tra cui un fotografo e un reporter del giornale universitario. Il comunista e io posammo per una foto davanti alla tenda, quindi seguimmo il presidente del club in un bagno vicino per essere perquisiti. “Sei dimagrito?”, mi chiese quando mi tolsi la camicia. Io alzai le spalle. “Forse troppo studio”, risposi. Dopo averci sbirciato nelle orecchie e sul corpo in cerca di fili elettrici, il presidente ci ricondusse all’aperto, nel cortile, dove era stata montata la tenda. Come prestabilito, era completamente vuota a parte il tavolino con la scacchiera. “Possiamo ordinare del caffè?”, chiesi al russo. “O è contrario alle condizioni?”. Lui esitò. “Va bene”, disse. “Caffè”. Il presidente del club ci portò due thermos di caffè e li piazzò sul tavolo, vicino alla statuetta che rappresentava il trofeo. Quindi chiuse l’entrata della tenda. Il comunista fece la prima mossa, spostò un cavallo, mi pare. Io mi appoggiai allo schienale, incrociai le braccia e gli sorrisi. Passarono dieci minuti. “Piantala di tergiversare”, disse lui. “Non è una partita a blitz(10)”, dissi io. “Ci metto tutto il tempo che mi pare”. Passarono altri dieci minuti. “Stai solo ritardando l’inevitabile”, disse. “Fai la tua mossa”. Io gli sorrisi e mi sporsi verso di lui. “Oh, la sto già facendo”, dissi. “La sto facendo ora, mentre parliamo”. I suoi occhi luccicanti corsero tutt’intorno nella tenda. “Di che stai parlando?”. Sollevai il mio thermos e lo svuotai lentamente sull’erba. “Chiunque abbandoni la tenda durante la partita, per qualunque motivo, perde automaticamente”. “E quindi?” “Quindi, io mi sono sottoposto a una dieta a base di proteine negli ultimi quattro giorni, non ho assunto niente di diuretico per una settimana e ho evitato liquidi e solidi di ogni tipo nelle ultime trentasei ore. Tu, d’altro canto, hai svuotato un intero thermos di caffè”. Le sue folte sopracciglia si inarcarono in un gesto che esprimeva rabbia e sorpresa. “Tu sei matto”, disse. “Sei un malato di mente”.
Tornai ad appoggiarmi allo schienale. “Be’, staremo a vedere”. Dodici ore dopo mossi un pedone, che lui mangiò con il suo cavallo. Poi passarono altre quattro ore. Il comunista fece del suo meglio per rimanere impassibile, ma le sue difficoltà fisiche cominciavano a farsi evidenti. Ogni cinque minuti stringeva il pugno e faceva una smorfia di qualche secondo. Tali smorfie, notai, si succedevano a intervalli sempre più brevi. “Sei un bastardo”, disse. “Un bastardo infernale”. “Non pensavo che i comunisti credessero nell’inferno”. “Ok”, mormorò. “Ti offro uno stallo”. Mi accorsi che teneva le gambe serrate. “Perché dovrei accettare? Sto vincendo”, dissi. Delle gocce di sudore gli imperlarono la fronte. Era chiaro che stava soppesando le alternative. In teoria, poteva tranquillamente liberarsi la vescica lì, nella tenda. Ma che ne sarebbe stato della sua dignità? Era pur sempre un essere umano, dopotutto, comunista o meno che fosse. Allo scoccare della ventiduesima ora, dopo avermi lanciato un’ennesima occhiata di disgusto, schizzò fuori dalla tenda con le mani che già armeggiavano intorno alla cintura marrone da quattro soldi. Io uscii qualche secondo più tardi, stringendo in mano il trofeo. Era il momento più grandioso di tutta la mia carriera accademica. In qualche modo ero riuscito a sfruttare la mia fama di baro per mettere a segno l’imbroglio più clamoroso nella storia degli scacchi! Tutti gli spettatori se n’erano andati tranne il presidente del club di scacchi, che aveva il volto rosso di rabbia. “Metteremo un asterisco vicino al tuo nome”, mi informò. “E fate bene”, dissi io. Gli sfuggì un grugnito di disprezzo. “Insomma hai vinto il trofeo”, disse. “E allora? A cosa serve un trofeo se non significa niente?”. Io risi. “Niente? Buon Dio, amico, cerca di guardare oltre. A questo mondo ci sono partite più importanti di quelle a scacchi”». «Sì, sì, l’ho sentita un milione di volte. La dieta di proteine. Molto scaltro». «Non ti piace quella storia?» «E cos’ha di speciale?», disse Elliot. «È volgare sotto ogni punto di vista». Era il giorno delle elezioni. James era venuto a prendermi per andare a scuola insieme e discutere del discorso, argomento su cui ancora non si era pronunciato. «Gira voce che Ashley abbia in serbo una qualche sorpresa alla fine del suo discorso», dissi io. «Cosa pensi che sia?» «Non preoccuparti del suo discorso», disse Elliot. «Concentrati per memorizzare il tuo». Mi passò un foglietto di carta. C’erano scritte non più di cinquanta parole. «Cos’è? La conclusione?» «È uno slogan», disse Elliot. «Tu ripetilo ininterrottamente, e tutti si uniranno a te». «Sei sicuro che funzionerà?». Elliot annuì. «Lo slogan è il mezzo più efficace per controllare le masse, insieme alla propaganda».
«Tu che ne sai?» «Non ti preoccupare di come lo so», disse. Mi diede un cappello della Glendale con sopra un leone, la mascotte della scuola. «Quando ti chiamano sul podio, metti questo», disse. «Ma non indossarlo finché non starai per recitare lo slogan». La limousine si fermò davanti alla scuola. «Tutto qui?». Elliot fece sì con la testa. «Tutto qui». Elliot aveva promesso di «eliminare Ashley», ma la mattina del voto lei sembrava ancora parecchio in corsa. I corridoi erano pieni dei suoi volantini gialli, accuratamente realizzati, che ripetevano il suo motto “Entusiasmo, Energia ed Efficienza”. Qualche giorno prima aveva distribuito delle spillette e quando entrai nell’aula magna notai che alcuni studenti le indossavano. «Potrei farla squalificare prima del voto senza problemi», mi aveva spiegato Elliot. «Ma vincere per abbandono dell’avversario equivale a una sconfitta. Una vittoria non ha alcun significato se non batti qualcuno, e non lo batti pesantemente». Io capivo questa logica, ma non riuscivo ancora a capire in che modo avrei battuto Ashley, a prescindere da quanto fosse ben scritto il discorso di Elliot. La mia sicurezza si ridusse ancora di più quando fu annunciato il suo nome e lei marciò verso il podio, con aria prudentemente sicura di sé e avvolta in un tailleur da adulta. Il suo discorso era pieno di dati e statistiche e parole altisonanti. Cercava di incrociare lo sguardo di quante più persone fosse possibile e questo faceva dondolare la treccia alle sue spalle come un pendolo. «Se aumentiamo il numero di vendite di dolci del venti per cento», disse, «e ridistribuiamo i fondi, avremo una maggiore quantità di attività extrascolastiche». Io ebbi difficoltà a seguire la maggior parte del suo discorso, visto che non sapevo nulla sulle politiche studentesche. Ma drizzai le orecchie quando si avviò alla conclusione. «Gira voce che io oggi abbia in serbo una sorpresa per tutti voi. Ebbene, è la verità! Negli anni passati, molti candidati vi hanno promesso un nuovo tabellone segnapunti. Io ho sempre pensato che fosse una bella idea, e sono ultra contenta di annunciarvi che, con l’aiuto del signor Hendricks e la generosità della Shamba Electronics, sono riuscita ad averne uno per la nostra scuola». Un elettricista calvo con una tuta da lavoro verde entrò da una porta laterale. «Scusate il ritardo», disse piano sull’orlo del palco. «Nessun problema», disse Ashley. «È arrivato giusto in tempo». Ashley aveva controllato l’orologio diverse volte, durante il suo discorso. Io avevo pensato che volesse assicurarsi di non sforare il limite imposto di cinque minuti. In realtà aspettava l’arrivo del tabellone. Mi sentii tradito, era inevitabile. Non mi importava che il signor Hendricks facesse il tifo per Ashley, ma non avrebbe dovuto aiutarla a trovare un tabellone. L’elettricista spinse sul palco un grosso pannello nero coperto da un lenzuolo bianco e tutti esplosero in un grande applauso. Gli insegnanti cercarono di contenere la propria eccitazione, per correttezza, ma nell’arco di pochi secondi anche loro stavano applaudendo, e credo addirittura di averne sentiti un paio fischiare. Cercai Elliot tra il pubblico: era seduto in fondo, con un’espressione impassibile sul volto.
Guardai il mio discorso. Per fortuna era breve. Tutto ciò che dovevo fare era salire lassù, recitarlo a memoria e poi andarmene. Perdere sarebbe stato imbarazzante, ma non era un disonore, mi dissi, essere sconfitti da una come Ashley. Aveva lavorato sodo nei mesi passati ed era chiaro che voleva quella vittoria più di me. Inoltre, rimediare quel tabellone doveva esserle costato parecchie ore, anche se probabilmente Hendricks si era occupato di tutte le scartoffie. Stavo già immaginando come avrei dato la notizia ai miei genitori quando l’elettricista si voltò verso di me… e mi fece un cenno con la testa. Prima che potessi osservare meglio il suo viso se n’era già andato, ma lo riconobbi anche con la pelata e i baffi: era James. «Signore e signori», annunciò Ashley. «Senza ulteriori esitazioni, vi presento il nuovo tabellone segnapunti dei Lions della Glendale!». Tirò via il lenzuolo e l’applauso si spense progressivamente. Dal mio posto non vedevo il tabellone, ma potevo vedere la faccia di Ashley: era impallidita, e aveva gli occhi sbarrati dall’orrore. Uno o due ragazzi cominciarono a sghignazzare, e la risata si diffuse come un domino nelle file dell’aula magna. Ashley cercò subito l’elettricista, ma naturalmente se n’era già andato. Allungai il collo e riuscii a dare un’occhiata al tabellone. Era del tutto spoglio eccetto un’enorme tigre e la scritta “Forza West Side”. Ashley farfugliò qualcosa su un malinteso e tornò al suo posto. Il preside batté il suo martello per placare il tumulto e annunciò il mio nome. Io diedi un’ultima letta al mio discorso, lo misi in tasca e avanzai verso il podio. «Io non ho fatto tutte le ricerche che ha fatto la mia avversaria», recitai, «e non ho tutta questa conoscenza della politica scolastica. Ma so una cosa: i Lions regnano!». Mi misi il cappello e cominciai, imbarazzato, a scandire: «Lions! Lions! Lions!». «Lions!», gridò Elliot camuffando la sua voce in un fazzoletto. «Lions!». Un paio di ragazzi si unì al coro, compreso Lance, e in breve tempo tutti stavano scandendo il coro. Tutti eccetto Ashley, ovviamente. Io continuai a scandire, e intanto la vidi scivolare in silenzio attraverso le porte e via verso la solitudine del bagno. «Congratulazioni», disse Lance. «Il tuo discorso era fighissimo!». Mi porse il pugno e io, un po’ a disagio, lo colpii con il mio. «Ho un’idea niente male per le divise della squadra», mi disse. «Ti tengo un posto, domani a pranzo». Elliot e io scendemmo le scale, diretti verso l’atrio. Mi sentivo in colpa per quanto era successo a Ashley, ma non era il momento di dargli tanta importanza. Troppa gente voleva congratularsi con me per la vittoria. «Come sapevi che avrebbe funzionato?», chiesi a Elliot. «Perché le persone sono come animali», disse. «Tutto ciò che devi fare è trattarle come…». «Ehi, Seymour!». Mi voltai, e davanti a me c’era Jessica in calzoncini gialli e top scollato. Un’insegnante le aveva dato una felpa e dei pantaloni della tuta durante l’assemblea, ma evidentemente non aveva avuto modo di cambiarsi. «Congratulazioni», disse. «Ho delle idee per i balli… Parliamone presto!». Raccolse i vestiti sportivi e si diresse verso il bagno, voltandosi un’ultima volta per sorridermi. «Oh mio Dio», dissi. «Ascoltami», disse Elliot. «Ora che andrai a sederti al tavolo di Lance, è necessario che io ti
insegni alcune fondamentali mosse di potere». «Hai visto?», sussurrai. «Assicurati di sedere a sinistra di Lance. Se siedi alla sua destra, non ti considererà mai una vera minaccia. Questa cosa risale ai tempi dei duelli corpo a corpo. Se tieni la spada nella mano destra, è preferibile avere gli avversari sulla sinistra, in modo che sia più semplice colpirli con la tua arma». «Non posso credere che voglia parlare con me dei balli! Secondo te significa che mi telefonerà?» «Se Lance comincia a raccontare una storia, alzati e vai in bagno senza dire nulla. So che non sembra un gesto particolarmente aggressivo, ma fidati: gli farà arrivare il messaggio. E non mettere mai il tuo vassoio di traverso. Il tavolo è una parte del territorio e devi rivendicarne il più possibile». Fu allora che mi venne in mente: avrei lasciato Elliot da solo al terzo tavolo. «Ehi», dissi. «Perché non vieni a sederti con noi, domani?». Elliot si fermò. «Cosa?» «Dài», dissi. «Scommetto che ti lasceranno un po’ di posto. Voglio dire, se gli dico che sei mio amico, sono sicuro che un posto te lo potrò tenere». «Tu… terresti un posto… a me?» «Certo!», dissi. «Perché no?». Elliot serrò le mascelle e respirò affannosamente. Io feci per scusarmi, ma prima ancora di riuscire a cacciare una parola lui si voltò e si diresse in strada. Andava così veloce che dubito avesse notato Ashley, che stava in piedi vicino alla limousine e osservava il volto dell’autista attraverso il finestrino. «Penso che sia una cosa meravigliosa», disse mia madre. «Mister Rappresentante del Nono Anno». «Ti divertirai un mondo», disse mio padre. «Ma ricorda: il potere corrompe!». Lui e la mamma cominciarono a ridere, ma furono subito interrotti dallo squillo del telefono. Mia madre entrò in cucina per rispondere. «Potrebbe essere Jessica», dissi. Mio padre mi guardò, sorpreso. «Chi è Jessica?» «Solo una ragazza che conosco». Mio padre tossì, stava bevendo un bicchiere d’acqua. «Vuoi sapere una cosa?», disse dopo essersi ripreso. «Sono davvero fiero di te. Alla tua età non avrei mai avuto la maturità di espormi in questo modo. Tu invece stai conoscendo gente nuova, ti stai facendo dei nuovi amici». «Lance ha detto che potrò sedermi al suo tavolo, domani a pranzo», dissi. «Ottimo», disse papà. «È un tipo a posto?». Io alzai le spalle. «Probabilmente è il ragazzo più popolare della scuola». Lui mi lanciò un’occhiata strana. Rimanemmo in silenzio finché mia madre non tornò e cominciò a lavare i piatti.
«Chi era?», chiesi. «Nessuno», disse lei con una risata forzata. «Solo… ma niente, una sciocchezza». Alzò gli occhi al cielo. «Era la madre di Ashley», disse. «E che voleva?», chiese mio padre. «Oh, è ridicolo. Pensa che tu ed Elliot abbiate organizzato una specie di… non riesco nemmeno a dirlo, per quanto è stupido». «Organizzato una specie di cosa?» «Non lo so», disse. «Un complotto. Certa gente proprio non sa perdere». Mi sorrise dolcemente. «Seymour, tu non hai idea di cosa stesse dicendo quella donna… o sì?». Mio padre mi guardò dall’altra parte del tavolo. «Allora?», mi chiese. «No!», dissi io. «Certo che no». Presi un’altra fettina di petto di pollo dal piatto facendo finta di niente, ma loro continuarono a fissarmi mentre tagliavo la carne, entrambi con un’espressione che non avevo mai visto prima. Fu solo quando fui sul punto di mandar giù che mi accorsi di aver preso l’ultima fetta.
Parte seconda
In prigione!
Harvard Domanda di ammissione
NOME: Seymour Herson. LUOGO DI NASCITA: New York City. ATTUALMENTE FREQUENTA: Istituto privato superiore di Glendale, ultimo anno. MEDIA DEI VOTI: ottimo. ETNIA: Caucasico, Indiano americano (vedi allegato “Documento Ufficiale della Tribù Indiana dei Genizaro”). PROFESSIONE DEL CAPOFAMIGLIA: Professore associato di Economia, autore per la Bishop House. La preghiamo di elencare le principali attività extrascolastiche e gli hobby in ordine di interesse. Includa gli eventi specifici e/o i risultati più importanti.
È mai stato punito per violazioni disciplinari? No. È mai stato coinvolto in un reato? No. La preghiamo di scrivere un breve elaborato su un tema a sua scelta. Questo ci aiuterà a familiarizzare con lei come persona, indipendentemente dai corsi, le scuole e i voti.
Titolo: Collana di speranza di Seymour Herson
Quando qualcuno mi dice che è impossibile cambiare qualcosa, e che dovrei smettere di nutrire speranze per questo mondo, io chiudo gli occhi e ripenso al più grande maestro che abbia mai avuto. Non mi ha mai insegnato a calcolare un integrale o a fare una ricerca bibliografica. In effetti, non sapeva nemmeno leggere o scrivere. Ma da lui ho imparato abbastanza da riempire migliaia di libri. La strada era la sua aula. E la sua materia? La vita. Per molte persone, Hal Sagan era un senzatetto come tanti. Un “barbone”, un “vagabondo” da ignorare, coprire di sputi e dimenticare. Ma dal mio primo incontro con lui, sotto un ponte, ho capito che dietro quel viso rubicondo e rugoso c’era una grande saggezza. I miei compagni di classe dicevano che ero pazzo. «Perché passi tanto tempo con quel tipo?», chiedevano. «È solo un barbone». Solo un barbone. Cosa ne sapevano delle guerre in cui aveva combattuto? O degli animali di cui si era preso cura, nutrendoli e curandoli sotto il suo ponte? È facile diventare cinici, in questo mondo. E c’è stato un tempo in cui avrei dato retta ai miei compagni e avrei abbandonato Hal. Ma tutto questo era prima che si ammalasse e mi insegnasse la sua lezione più grande. Ho passato tre mesi al suo fianco, durante quel terribile inverno, portandogli cibo, coperte e, cosa forse più importante, una mano da stringere. «Per favore, permettimi di portarti in ospedale», lo pregavo. «O almeno di avvertire le autorità!». Ma lui scuoteva la testa e sorrideva. All’inizio non capivo, ma ora comprendo chiaramente: quando hai vissuto una vita piena come Hal, non hai più paura. Poco prima di morire, Hal si tolse la sua collana di legno e la premette nella mia mano. Forse non sarà un oggetto alla moda, ma la porterò con orgoglio per il resto della mia vita. Questo è il mio diploma. Raccomandazione accademica In tutti i miei anni di insegnamento del francese, non ho mai visto uno studente trasformarsi in maniera così radicale come Seymour. Quando cominciò a seguire il mio corso, al settimo anno, rimaneva così indietro rispetto agli altri compagni che scrissi una lettera ai genitori invitandoli a sottoporlo a un controllo per le difficoltà di apprendimento. Sbagliava sempre i compiti in classe, compresi dei semplicissimi test di vocabolario sui nomi comuni. Tuttavia, a un certo punto durante l’ottavo anno, Seymour cambiò completamente. In un modo così repentino che ancora fatico a comprendere, si trasformò da pessimo studente in un fenomeno da lode. Seymour ha un istinto naturale per il francese che raramente si può trovare al di fuori della Francia. Non si tratta solo dei suoi risultati nei compiti, che sono perfetti. È la naturalezza con cui parla. Negli esami orali, sembra sapere per istinto cosa sto per chiedergli. In diverse occasioni, quest’anno, mi ha interrotto con la risposta giusta prima ancora che potessi finire la domanda. Se questa non è padronanza della lingua, non so cos’altro possa esserlo. Seymour è un linguista talmente portato che a volte ho paura che la classe ostacoli i suoi progressi. Mi ha confessato in privato che si sente a disagio nel parlare davanti ai suoi compagni, perché non vorrebbe metterli in imbarazzo con la superiorità del suo eloquio. Spero che a Harvard possa trovare un ambiente più favorevole al suo talento. Cordiali saluti,
SIG. HENDRICKS
Raccomandazioni esterne Mi piace questo ragazzo. TERRY ALLAGASH
Certifico che tutte le informazioni fornite nel processo di ammissione – ivi inclusi il modulo e l’elaborato personale – sono mia opera personale, rispondenti al vero e onestamente riportate. Firmato: EYMOUR HERSON
RISPOSTA: Ammesso. *** «Ehi, Elliot? Che significa rubicondo?» «Non significa niente, è una parola priva di senso». «Dài, deve voler dire qualcosa». Elliot lucidò la stecca e imbucò con un colpo di sponda. «Vuoi sapere cosa significa rubicondo?», disse. «Significa “conosco il significato della parola rubicondo”. Ecco cosa significa». «Non posso credere che il tema li abbia convinti. Era il massimo del ridicolo». «Che ti aspettavi?», disse Elliot. «Il modulo per l’università non è diventato altro che un esercizio di autosvilimento! Una umiliante apologia di una classe media liberale che si sente in colpa per il potere che crede di avere! Ad ogni modo… congratulazioni». Mi diressi verso il montacarichi. «Vuoi un drink?» «Ne ho bevuti parecchi», disse lui. Io annuii e feci scendere la richiesta per uno scotch in un bicchiere alto e con il limone. «Ehi, Elliot, puoi farmi avere una singola l’anno prossimo? Le stanze del dormitorio sembrano piccole». «Sono abbastanza sicuro che siano assegnate a caso». «A caso?», risi. «Ma dài, deve esserci un metodo. E i disabili, allora? Potremmo dire che ho il morbo di Crohn».
«Credo che se ne accorgerebbero quando ti presenterai a lezione senza la malattia». «Se mi beccano, possiamo dare la colpa a una diagnosi errata. Paghiamo qualche dottore per dire di aver confuso le provette!». Elliot sorrise orgoglioso. «A quanto siamo, con le partite?» «Pari, credo», dissi io. «Che ne pensi?». Il montacarichi tornò su sferragliando con il mio drink e un grosso cesto di paste. «Quello chef maledetto», borbottò Elliot. «È il peggior leccaculo che mio padre abbia mai assunto». Afferrai un croissant e addentai il suo guscio caldo e friabile. Uno schizzo di crema al liquore mi scivolò in bocca. Era così intensa che dovetti sedermi. Conoscevo Elliot ormai da quattro anni, ma a volte il lusso che lo circondava ancora mi sorprendeva. «Nuovo chef?», chiesi. Elliot sospirò. «È una storia lunga e ridicola». Diedi un altro morso al croissant e attesi che Elliot raccontasse. «L’anno scorso, dopo il secondo infarto di Terry, il dottore insistette perché prendesse un appuntamento con un personal trainer. Alla fine assunse un tizio tedesco – un ex campione olimpico di nome Dolf – per levarsi di torno il dottore. Lo stesso giorno, però, assunse Passard». «Chi?» «Jacques Passard. Probabilmente il miglior pasticciere della sua generazione». «Oh Gesù», dissi con la bocca piena. «E questi tizi sanno dell’esistenza l’uno dell’altro?» «Scherzi?», disse Elliot. «Il passatempo preferito di Terry è seminare zizzania tra loro. Vivono nello stesso appartamento. Non interrompermi più». Finii il croissant e ne presi un altro. «Terry li paga con un salario modesto», spiegò Elliot, «ma il grosso dei loro guadagni è commisurato ai risultati». «Che significa?» «Ogni mese, Terry va da loro e scrive un assegno bello sostanzioso. Poi monta sulla bilancia. Se dall’ultima visita ha perso peso, l’assegno va all’allenatore. Se è aumentato, va allo chef». «Quindi loro sono costantemente in guerra». Elliot annuì. «Dovresti vedere la faccia di Dolf quando Jacques fa le meringhe. Le guance gli diventano di un rosso brillante e gli si gonfiano i muscoli sul collo. Quei due si odiano più di quanto tu possa immaginare». Mentre Elliot preparava la partita successiva, mi venne in mente che non mi aveva mai detto nulla degli infarti di suo padre. Volevo chiedergli quanto fossero stati gravi, ma naturalmente sapevo che non era il caso. Offrii a Elliot una pasta che lui rifiutò con il suo solito movimento del polso. Mi chiesi se avesse un team personale di dottori. In quel caso, certo non seguiva i loro consigli. Ogni volta che andavo a trovarlo sembrava più magro e debole che mai. Per un po’ credetti fosse una mia impressione. Io
stavo crescendo parecchio, e sembrava che tutti quanti in classe si stessero accorciando. Ma nessuno si accorciava così clamorosamente come Elliot. Aveva un vestito diverso ogni giorno, ma a volte mi capitava di riconoscere un paio di pantaloni di due o tre anni prima. Una volta, avrei potuto giurare di avergli visto addosso le stesse scarpe da barca che portava il primo giorno alla Glendale, all’ottavo anno. Probabilmente, pensavo ogni tanto, non era cambiato nemmeno un po’. Elliot si voltò verso il biliardo per spaccare e io ne approfittai per scarabocchiare la parola rubicondo, così da non dimenticarla. A un certo punto, verso la fine dell’ottavo anno, avevo cominciato a portare con me, in tasca, uno spesso taccuino rosso. Elliot sapeva sempre in anticipo dei compiti a sorpresa di Hendricks, e io volevo tenere le date a portata di mano in modo da sapere quando studiare. Di lì a poco, cominciai a scrivermi anche le domande, e non ci volle molto perché cominciassi a farmi dare anche le risposte. Non mi sentivo in colpa. Il francese era una lingua inutile e, se possibile, imbrogliare in quella materia stava comunque migliorando il mio apprendimento, dandomi così il modo di concentrarmi su altri corsi, più importanti. Al decimo anno baravo in ogni materia, incluso, in un certo qual modo, il corso di ceramica. All’ultimo anno, riempivo il taccuino di informazioni che non avevano niente a che vedere con la scuola. C’erano riassunti di libri che si supponeva avessi letto, significati di quadri che dicevo di aver dipinto, la sillabazione di malattie che tutti credevano stessi cercando di curare, e una lista incredibilmente lunga di senzatetto di cui, in teoria, ero diventato amico. Il taccuino era così scottante che presi l’abitudine di tastarmi la tasca ogni due minuti per essere sicuro che ci fosse ancora. Avrei voluto distruggerlo, ma non potevo. C’erano troppe cose di cui dovevo tenere nota. Ogni tanto mi sentivo in colpa per i miei successi, ma nel complesso mi sembravano meritati. Non si poteva dire che non mi stessi impegnando. Portare avanti così tante bugie era difficile, e io lo stavo facendo tutto da solo. O quasi. Mi arrivò una chiamata sul cellulare ed Elliot se ne accorse, benché fosse chino sul tavolo e il mio telefono avesse la vibrazione. «Non rispondere», disse. Io aspettai che finisse di squillare e lo aprii per sentire il nuovo messaggio in segreteria. «Metti il vivavoce», chiese Elliot. «Ciao, bello. So che ti ho già lasciato un messaggio, ma volevo essere sicuro che lo sapessi: qui la festa continua. Probabilmente sei impegnato, ma tutti non fanno altro che chiedermi dove sei, quindi immagino vogliano vederti. Comunque, se ti serve l’indirizzo fammi uno squillo». Presi il telefono, stavo per comporre il numero quando Elliot schioccò le dita. «Cosa credi di fare?» «Richiamare Lance», dissi. «È la terza volta che chiama». «Una ragione in più per ignorare le sue telefonate! Voglio dire, onestamente, non è patetico?» «Be’, sì ma… è il suo compleanno». «Se non ti avesse invitato o telefonato, allora forse varrebbe la pena di andare alla sua festa». «Quindi dovrei andare solo alle feste a cui non mi hanno invitato?» «Non dovresti andare a nessuna festa», rispose Elliot, «se ce la fai». «Gliel’avevo promesso», dissi. «Cosa gli dico?» «Niente», disse Elliot. «Più ti mostri evasivo sui tuoi impegni, più la gente li crederà importanti. L’abbiamo già detto mille volte». «Ma se non vado mai alle feste, la gente non smetterà di invitarmi? Insomma, siamo a metà dell’ultimo anno e non sono andato ancora a nessuna festa».
«Certo che non ci sei andato!», disse. «Sei fin troppo popolare per andarci!». Io risi. «Non frequento mai nessuno, Elliot. Mai. Sono popolare sulla carta». «Che altro tipo di popolarità esiste?». Buttò giù un appunto e lo gettò nel montacarichi. «Ti faccio vedere una cosa», disse. «È l’oggetto più desiderato e invidiato dell’intera collezione degli Allagash». «Puoi farmelo vedere dopo la festa?». Lui mi ignorò e girò la ruota. Il montacarichi atterrò di sotto con un tonfo, e pochi secondi dopo sentii il rumore di piedi che correvano seguito da una serie di scatti e colpi secchi. «Lo teniamo sotto chiave», spiegò Elliot. Ci furono altri rumori simili, poi la ruota si mosse cigolando nella direzione opposta e il montacarichi tornò su. Elliot bevve un sorso volutamente lungo del suo Martini. Era evidente che stava temporeggiando. «Dài», dissi io alla fine. «Che c’è li dentro?». Ancora un sorso, quindi finalmente aprì il montacarichi. All’interno c’era una piccola chiave arrugginita. Era verde scuro con delle macchie marroni, ma si capiva che originariamente doveva essere stata d’oro o d’argento. «Hai mai sentito parlare del Seven Circles Club?», mi chiese. «Certo che no», dissi io. «Allora ascoltami attentamente», disse. «E non interrompermi». Prima di essere completamente distrutto nel grande incendio del 1835, il Seven Circles Club dominava la scena culturale di New York. A quell’epoca c’erano molti importanti circoli per gentleman. L’Excelsior Club era così ricco che due dei suoi addetti alle toilette, una volta andati in pensione, divennero noti filantropi. Il Vanitas Club era così antico che il suo indirizzo, il 24 di Rum Way, faceva riferimento a una via che non esisteva più. Ma il Seven Circles era più vecchio e più ricco di tutti gli altri, e di gran lunga più esclusivo. Solitamente il prestigio di un circolo si misura dalle personalità che attira. Ma il Seven Circles Club era famoso non tanto per i nomi che ammetteva quanto per quelli che respingeva. Nei suoi primi dieci anni di attività, il consiglio aveva negato l’iscrizione a tre milionari, cinque senatori, il tizio che aveva curato lo scorbuto, Lewis e Clark e l’unico figlio di George Washington. «Perché hanno respinto anche lui?», chiesi. «Perché suo padre era un contadino», disse Elliot. Il club occupava un edificio a cupola nel luogo dove un tempo sorgeva la casa di Peter Stuyvesant. Era composto da sette cerchi concentrici, uno dentro l’altro come gli anelli di Saturno. Il livello più esterno era decadente come qualsiasi altro club di New York, Parigi o Londra. Le mura circolari erano tappezzate di capolavori rinascimentali. Maggiordomi in livrea si aggiravano in continuazione offrendo ai soci gin inglese d’importazione e sigarette turche. Ma il primo cerchio era praticamente un monastero, se comparato al secondo. Dei quaranta membri del club, solo venti avevano la chiave dell’enorme porta di ottone che portava al secondo cerchio. Al suo interno i soci erano vezzeggiati con assenzio francese, cocaina brasiliana e dei veri capolavori del Rinascimento (i quadri del primo cerchio, venne fuori poi, erano degli abili falsi. Uno scherzo ai soci meno prestigiosi).
Solo dieci avevano la chiave per il terzo cerchio. Era ornato di vetrate lavorate e reliquie cristiane e, a differenza dei primi due, non aveva servitù. Era all’interno di quel cerchio che i membri venivano a sapere quale fosse la vera missione del club: respingere il male e accogliere Cristo. La sala era circondata da inginocchiatoi di granito così che i membri potessero supplicare e pregare per i peccati compiuti prima di essere ammessi nel terzo cerchio. Il quarto cerchio era una fumeria d’oppio. I cinque uomini in possesso della chiave fumavano da pipe di rubino, andavano a letto con prostitute orientali e si complimentavano l’un l’altro per lo scherzo beffardo che avevano fatto agli scemi rimasti nel terzo cerchio. Il quinto era fatto di legno ricavato dalle palme della Giudea, estinte dai tempi di Giulio Cesare. Il sesto, cosa un po’ disdicevole, era fatto di vere palme della Giudea. E il settimo… be’, su quello il dibattito era aperto. Un sacerdote dell’epoca sosteneva che racchiudesse un pezzo della croce di Cristo, mentre un paio di scienziati della Columbia erano convinti che all’interno ci fosse l’ultimo dodo, ancora vivo ma duramente provato da una dieta a base di gin. C’erano voci di ogni tipo, ma l’unico uomo che sapeva con certezza cosa contenesse, l’unico membro del Seven Circles ad avere la tanto bramata settima chiave, era il fondatore in persona, l’antenato di Elliot: il primo Allagash americano. «E quindi cosa c’era nella settima stanza?» «Uno sgabello», annunciò trionfante Elliot, «di legno». «Legno estinto?» «Che? No, legno normale». «Ah». Elliot sbatté gli occhi un paio di volte, esasperato dalla mia reazione. «Non capisci?», disse. «È irrilevante cosa ci fosse là dentro! L’unica cosa importante erano le mura spesse, l’impenetrabile serratura! Quattro uomini diversi cercarono di assassinare Cornelius per avere la chiave. Si dice che egli stesso appiccò il grande incendio, per assicurarsi che il club bruciasse prima che qualcuno scoprisse la verità. Passava otto ore al giorno in quella piccola camera, ottenendo sempre più potere e prestigio col passare dei secondi, semplicemente stando lì seduto! È così che funziona la faccenda!». Immaginai l’antenato di Elliot seduto da solo al buio, circondato dal suono delle risate e dei brindisi. «Non sarebbe stato più divertente passare il tempo in un’altra stanza? Tipo la fumeria d’oppio?». Elliot lanciò la chiave nel montacarichi e si sedette, sfinito. Lance richiamò e il mio telefono cominciò a muoversi lungo il tavolo di legno. «Vai, vai», ansimò. «Che me ne frega?». «Continui», dissi al tassista. «Questo è l’incrocio tra la Seventy-sixth e Lexington Avenue». «Ehm… volevo dire la Seventy-fifth». Scesi dal taxi, rimasi dietro a un albero e osservai i miei compagni di classe sciamare dentro e fuori la casa di Lance. Erano le due e quarantacinque del mattino, ma la musica ancora risuonava dalle finestre del secondo piano. Lance aveva invitato tutti quelli dell’ultimo anno, e quasi tutti erano andati. Io ero stato invitato a molte feste, ma Elliot mi aveva sempre convinto a non andare. Qualche volta ci avevo discusso, ma lui non rimaneva mai senza argomenti. Farneticava per ore del “basso
livello” degli altri invitati, riferendosi a loro ora come “animali”, ora come “stercorari”. Di solito, quando la sua filippica terminava, era troppo tardi per andare da qualche parte e rimanevo a dormire da lui. Ma nemmeno Elliot poteva impedirmi di andare alla festa di compleanno di Lance. Era l’evento più importante dell’anno. Lance aveva distribuito dei volantini. Se non fossi andato alla sua festa, a quale mai sarei andato? A scuola, i miei contatti con gli altri studenti si limitavano a quelli che mi avvicinavano nei corridoi per complimentarsi di qualcosa (come l’essere stato rieletto, l’essere stato ammesso a Harvard o l’aver salvato la vita di un senzatetto). Elliot mi aveva raccomandato di tenere quanta più distanza possibile tra me e gli altri studenti… e io avevo capito il suo ragionamento. Ma a volte, passando per i corridoi, sentivo due persone ridere per qualcosa che era successo a una festa e mi sentivo tagliato fuori, anche se era una festa a cui ero stato invitato. Mi controllai i capelli nel finestrino di una macchina parcheggiata e sbucai da dietro l’albero. Alcuni miei compagni di classe erano seduti nel porticato e si scambiavano i numeri di telefono con ragazzi di altre scuole. Riconobbi addirittura dei ragazzi degli altri anni… del terzo, del secondo e perfino qualche matricola. Quanto poteva essere fico un party se c’erano le matricole? Esaminai di nuovo i miei capelli. Da qualche tempo avevo cominciato a frequentare il parrucchiere di Elliot, un effeminato hair stylist di Milano. Era evidente che mi avesse fatto un bel taglio, perché c’erano volute quattro ore e quando aveva finito i suoi assistenti mi avevano fatto delle foto. Ma era un’acconciatura difficile da mantenere, e io dovevo mettere una specie di gel ai lati, ogni mattina, e andare da lui ogni sabato per un ritocco. Erano quasi le tre. Se mi fossi presentato a quell’ora, i ragazzi nel portico mi avrebbero senz’altro chiesto dove fossi stato. Mi serviva una risposta interessante per giustificare un ritardo simile. Forse potevo dire che ero stato a un’altra festa, ancora più bella? O che mi ero fatto assorbire da un qualche libro importante? Ma se poi mi avessero fatto ulteriori domande? Non sapevo nulla di altre feste in programma quella sera ed erano mesi che non leggevo un libro. Mi ritirai di nuovo dietro l’albero per pensare. La verità era che la festa di Lance era quasi finita. Sarebbe stato inutile presentarsi mentre tutti quanti se ne andavano. Una cosa era chiara: non potevo rimanere dov’ero ancora per molto. Se qualcuno avesse visto che mi nascondevo, sarebbe stata una catastrofe. E se mi avevano già visto? Se mi stavano guardando in quel momento? Tirai fuori il cellulare e feci finta di fare una telefonata; se qualcuno mi stava osservando, avrebbe pensato che fossi alle prese con qualcosa di importante. Lascia perdere, immaginai che dicessero. Mi sono sbagliato, non si sta nascondendo dietro quell’albero. Sta solo facendo una telefonata mentre viene alla festa. Ah, è vero. Certo che Seymour è parecchio impegnato, eh? Già. È per quello che alle feste arriva sempre così tardi, o non viene per niente. Aggrottai le sopracciglia e annuii gravemente. Guarda. Ha appena saputo qualcosa di importante. Chissà con chi sta parlando. Probabilmente è una persona notevole, a quest’ora della notte. Magari qualcuno di famoso. Ehi, guarda! Sta tornando indietro. Sta correndo. Immagino che sia sopraggiunto un impegno urgente e non possa aspettare oltre. Peccato. Non vedevo l’ora che arrivasse. Lo aspettavamo tutti quanti.
Il mio respiro tornò a un ritmo normale mentre la musica si allontanava alle mie spalle. Girai l’angolo e infilai il telefono in tasca. Che diavolo mi era preso? «Seymour?». Lance calpestò la sigaretta mentre Jessica mi buttava le braccia al collo. «Non posso crederci, ci siamo persi il tuo arrivo. Eravamo usciti giusto per una sigaretta». «Dobbiamo aver perso la cognizione del tempo», disse Lance, sorridendo. Lance era stato ammesso in diverse università prestigiose, avevo sentito dire, ma le aveva rifiutate tutte per giocare a basket in una squadra di seconda divisione. Era sempre il ragazzo più alto della classe, e anche se stavo crescendo in fretta ancora riuscivo a vedere le sue narici. «Allora», disse. «Come sta andando la mia festa?» «Alla grande», dissi. «Davvero… alla grande». Jessica passò un braccio intorno alla vita di Lance. «Hai visto Lance suonare?» «Il mio gruppo ha fatto qualche pezzo», disse lui. «Più che altro delle cover». «È stato fantastico», disse Jessica. «E hanno distribuito delle magliette». Fece un paio di giravolte per mostrare la T-shirt che indossava. Era color rosa chiaro e sembrava una taglia da bambino. Aveva un nuovo gioiello sul piercing all’ombelico. Gli insegnanti avevano smesso di punire Jessica per violazione delle regole sull’abbigliamento. Tenere d’occhio le sue infrazioni era diventato troppo faticoso e a un certo punto, semplicemente, si erano arresi. Jessica però, di tanto in tanto, riusciva ancora a farsi spedire in punizione con l’aiuto di Lance. I due avevano ricevuto il loro primo richiamo per “effusioni in pubblico” durante il nono anno e, arrivati all’ultimo, ne avevano accumulate così tante che ogni qual volta un insegnante gridava «Ehi!» nei corridoi, tutti gli studenti guardavano istintivamente nella loro direzione per vedere che tipo di infrazione stavano commettendo. «Abbiamo cambiato il nome al gruppo», disse Lance. «Ora ci chiamiamo The Fuzz». «Fico», dissi io. «Te l’avevo detto», gli sussurrò Jessica. Lance alzò gli occhi al cielo, chiaramente irritato dal fatto che Jessica mi ritenesse un’autorità sui nomi dei gruppi musicali. «Non so», disse lui. «Potremmo cambiare ancora». Cercai di non guardare mentre Lance infilava la mano nel retro dei jeans di Jessica. Aveva cominciato con la punta delle dita, ma ora mezzo palmo era finito dentro. Sentii la gola secca che mi si stringeva mentre la sua mano continuava ad andare giù. Alla fine mi accorsi che Jessica mi stava dicendo qualcosa. «Come procede la ricerca?» «Cosa?» «Sai», disse lei. «La ricerca, per quella malattia? Quella per cui stai cercando una cura?» «Ah!», dissi io. «Be’, sai… è complicato». Jessica annuì seria. Si vedeva che mi rispettava, o almeno rispettava le cose che raccontavo di aver fatto. Eppure, in sua presenza ero ancora nervoso come lo ero quattro anni prima. Avevo incastrato una lunga serie di bugie, e ogni volta che parlavo con lei temevo che tutto il castello venisse giù. «Probabilmente è una cosa che va al di là della nostra portata», disse lei.
Non sapevo cosa rispondere, quindi la guardai in silenzio. «Be’, facciamo il tifo per te», disse Lance, dando uno strattone al braccio di Jessica. «Senti, noi dovremmo tornare…». «Certo», dissi io. «No, figurati, anch’io. Ho un sacco di cose da fare». Li salutai, imbarazzato, e li guardai svoltare l’angolo mano nella mano. Nel momento in cui scomparvero alla mia vista, il mio cellulare cominciò a squillare. Non mi curai di guardare il display: chi altro poteva essere? «Come va la festa di Lance?», mi chiese. «Allegra e spensierata?». Per un attimo pensai di mentirgli. Ma aveva già cominciato a ridere – un ghigno folle e acuto – ed era chiaro che in qualche modo sapeva già cos’era successo. Il carretto di mio padre se ne stava rovesciato su un fianco, immobilizzato nella sua triste posizione finale. Un cinque e un sei sui dadi lo avevano spedito dall’altra parte del tabellone, dalla sua tranquilla centrale dell’Acqua Potabile fino alla zona degli alberghi. I suoi averi erano ammucchiati in una pila colorata, ma non c’era bisogno di contarli: era rovinato. Potevo immaginare papà agitare i dadi nel palmo della mano, pregando Dio per una coppia di sei, poi il silenzio sospeso mentre li lanciava sul tabellone, e poi mamma che balzava in piedi ridendo e battendo le mani mentre gli spillava duemila dollari. Lei gongolava per qualche momento, quindi cambiava completamente atteggiamento, baciando mio padre su una guancia e maledicendo la sua sfortuna. Io avevo abbandonato la serata Monopoli qualche anno prima, ma i miei giocavano ancora tutti i venerdì sera. Lasciavano sempre il tabellone sul tavolo fino al sabato mattina, in caso avessi voluto vedere com’era finita la loro partita. Tornando a casa, di solito tiravo dritto ignorandolo, irritato all’idea che pensassero che m’interessasse una cosa così infantile. Nelle ultime settimane, però, mi ero sorpreso a studiare il tabellone, a volte anche a lungo, cercando di immaginare cosa mi ero perso. Superai il soggiorno e mi diressi verso il corridoio. Era il nostro nuovo appartamento, con più stanze del precedente, e ancora dovevo familiarizzare con gli interruttori della luce. Tastai il muro per un po’, poi mi arresi e allungai le braccia in avanti come un cieco. Dopo pochi secondi, caddi inciampando su delle scatole di foto che mia madre doveva appendere. Imprecai, diedi un pugno al muro e scivolai in camera mia. Quando trovai l’interruttore, i miei erano in piedi nel corridoio. «Tutto a posto?» «Sì», dissi io. «Buonanotte». «Mi dispiace per questa confusione», disse papà. «Ti abbiamo sentito… in corridoio. Sembrava un bel volo». «Sì, be’, sto bene». «Hai fame?», chiese mamma. «C’è del petto di pollo». «Ho mangiato da Elliot». I miei annuirono. «Ti sei perso una bella partita», disse mio padre. «Hai visto il tabellone?» «No». «Ah. Be’, è stata divertente. La mamma ha vinto». Mi accorsi che quella era la conversazione più lunga che avevamo avuto negli ultimi mesi. Non
che i miei non si interessassero a me: stavano attenti a ogni mia parola, come dei medium in una seduta spiritica. Però era raro che facessero domande. Immagino ne avessero così tante da non sapere dove cominciare. Quando comunicai loro che sarei andato a Harvard insieme a Elliot, rimasero in silenzio per almeno un minuto. Avevo fatto domanda il prima possibile, senza dir loro una parola, ed era la prima volta che mi sentivano toccare l’argomento. Ovviamente mi coprirono di congratulazioni, ma io sentivo che nelle loro voci c’era una nota di paura. Era come se avessi appena annunciato di essere un alieno, a cui era stato ordinato di tornare sul suo pianeta. Firmarono i moduli e ordinarono un paio di felpe rosse. Ma non chiesero mai di vedere la mia domanda di ammissione. Feci per chiudere la porta, ma mio padre la fermò con il braccio. «Ti è caduto qualcosa», disse mia madre, infilando la mano nello spiraglio. Io le strappai il taccuino rosso dalle mani e chiusi velocemente la porta. Il cuore mi batteva all’impazzata, mentre un pensiero terrificante si faceva strada: se avessero voluto, avrebbero potuto leggerlo. Quindi fui assalito da un pensiero ancora peggiore: non avevano voluto. «Harvard è un bel posto, Seymour. Sono sicuro che ti ambienterai perfettamente laggiù, meglio di quanto non abbia fatto io all’inizio. So che sembra strano, ma quando entrai a Harvard ero davvero interessato alle lezioni! Dico sul serio: mi iscrissi a corsi molto tradizionali… un seminario di filosofia, un corso facoltativo di storia, perfino uno di economia. Però avevo un programma di bevute piuttosto rigido da rispettare, e presto mi accorsi che le lezioni interferivano. Per fortuna i miei compagni del circolo mi fecero conoscere un tipo diverso di corsi universitari, il tipo pensato per accogliere le necessità dei più ricchi. C’erano diverse materie e, a parte un paio di analfabeti giocatori di football, gli iscritti erano figli di armatori o petrolieri. Uno dei corsi si chiamava “Barche”. Il vero nome dell’insegnamento era un po’ più lungo, “Esplorazioni atlantiche” o qualcosa del genere, non l’ho mai capito. Il docente era un professore ottantacinquenne di nome Sherwood, il cui padre aveva donato a Harvard una dozzina di biblioteche nel corso del Novecento. Teneva le sue lezioni due volte a settimana, dalle due alle tre. Dissertava di esploratori e delle loro imbarcazioni, ma spesso finiva a parlare di altri argomenti, come la storia della sua casa o il “problema degli immigrati”. Beveva tranquillamente durante le lezioni e ogni tanto fumava anche. Le sue spiegazioni erano difficili da seguire, ma a noi piaceva la sua dedizione, e ogni volta che alzava una mano per indicare la conclusione della lezione, noi applaudivamo. La frequenza era obbligatoria, ma l’unico compito assegnato durante il corso era un elaborato di dieci pagine alla fine di ogni semestre su “qualunque tema affrontato durante il corso”. In genere i soci laureandi del mio club passavano i loro elaborati ai più giovani perché lo copiassero e lo consegnassero come farina del loro sacco, ma eravamo talmente tanti a essere iscritti al corso di Barche che non bisognava esagerare. Non potevamo consegnare tutti quanti lo stesso elaborato, anche un ottantacinquenne se ne sarebbe accorto. Perciò ci limitavamo a copiarne solo uno per ogni semestre. Si intitolava Le abitudini di pesca di Henry Hudson. Il segretario del circolo teneva l’originale in una teca di vetro, e ogni anno, la sera prima del compito, si faceva una gara di bevute per stabilire chi l’avrebbe consegnato. Era uno scritto generico, con una tesi ridicola e una conclusione nemmeno degna di essere ricordata. L’unico tratto distintivo era la copertina, che recava il disegno rozzo e infantile di un pesce. Era un abbellimento del tutto superfluo, ma noi lo copiavamo diligentemente ogni volta e lo consegnavamo insieme alle dieci pagine copiate. Quando m’iscrissi io al corso di Barche, il testo era stato riproposto da trenta membri del club, e tutti avevano ricevuto un 10-. Io vinsi senza problemi la gara di bevute, e passai il mattino successivo nella biblioteca del club
bevendo irish coffee per tenermi sveglio abbastanza a lungo da copiare il compito. Tralasciai il pesce ma riuscii a trascrivere tutto il testo, note comprese, e a dieci minuti dal termine per la consegna mi diressi verso la facoltà e lo imbucai. I nostri compiti arrivarono al club due mesi dopo, per posta. Il professor Sherwood aveva scritto lunghe e indecifrabili chiose a margine del testo di ciascuno di noi, note che sembravano non aver nulla a che fare con il contenuto, e aveva dato a tutti la sufficienza. Stavo per seguire gli altri nella sala del poker quando trovai il mio compito, o meglio quello che io avevo consegnato. Guardai il voto e gettai via il foglio, poi lo ripresi. Non potevo crederci. Il vecchio mi aveva dato un 7-. Sfogliai le pagine in cerca dei suoi commenti, ma i margini erano vuoti. Le uniche parole che aveva scritto erano nell’ultima pagina. C’era solo una frase, scarabocchiata con una penna stilografica: “Dov’è il pesce?”. Perciò capisci, Seymour, sono sicuro che ti ambienterai. È davvero l’unico posto adatto a te!». «Perché hai detto a tutti che stavo curando quella malattia assurda?» «Non l’ho detto a tutti. L’ho detto a un giornale locale». «L’hai detto al “New York Times”». «È locale. Cameriere?». Un tipo in panciotto venne verso di noi con un taccuino in mano. «Io prendo un Bloody Mary». Il cameriere esitò. «Mi dispiace, signor Allagash, ma il barman non arriva prima delle nove». Elliot levò gli occhi al cielo. «Lo svegli». Tirai fuori il dizionario di francese dallo zaino ed Elliot me lo strappò dalle mani immediatamente. «Cosa stai facendo?» «Comincia il periodo dei compiti a sorpresa», dissi io. «E devo prendere un bel voto. Il signor Hendricks comincia a insospettirsi». «Mi pare difficile da credere. Ti ha scritto una raccomandazione incredibilmente positiva». «Elliot, dico sul serio. Ieri mi sono ritrovato in ascensore con lui, ha cominciato a parlarmi in francese e io non avevo idea di cosa stesse dicendo. Sono sicuro che se n’è accorto». Elliot rise. «Dio santo, sei senza speranza», disse. «Vado a Parigi per quattro giorni e il castello comincia a crollare». «Sei stato a Parigi? Cosa sei andato a fare a Parigi?». Fece spallucce. «E cosa sto a fare a New York?». Il cameriere gli portò il Bloody Mary e lui ne ordinò un altro prima ancora di aver assaggiato il primo. «Vai a scuola, qui», gli feci notare. «Sei uno studente di questa scuola». Elliot fece un gesto noncurante con la mano. «Non ricordarmelo».
Negli ultimi quattro anni Elliot si era dato un gran daffare per risparmiarsi l’onta di venire a scuola. Durante il nono e il decimo anno aveva finto una serie di malattie sempre più rare, dall’avvelenamento da cadmio al ballo di San Vito. Ma uscirsene con malattie sempre nuove e adeguate prescrizioni mediche richiedeva una grande mole di tempo e di studio, e alla fine si era stancato. All’ultimo anno si era attestato su una diagnosi di semplice mononucleosi, coadiuvata da occasionali “funerali oltreoceano”. Elliot era venuto a scuola trentasei giorni in un anno, il minimo per potersi diplomare, e li aveva vissuti in maniera così soffocante che nei giorni successivi aveva un valido motivo per restare a casa. «Queste apparizioni mi stanno massacrando», disse. «Ma chi sono, la regina d’Inghilterra?» «Mi sa che dobbiamo sbrigarci», dissi io, riprendendomi il libro di francese. «Faremo tardi». Elliot fece un cenno al cameriere e io sospirai sollevato. Erano già le otto meno un quarto, ma se ce ne fossimo andati entro cinque minuti e non avessimo trovato troppo traffico, James avrebbe potuto farci arrivare a scuola prima della prima campanella. Avevo quasi finito di chiudere lo zaino quando mi accorsi che Elliot stava ordinando il suo terzo Bloody Mary. «Stavolta in un bicchiere alto», disse al cameriere. «E tieniti le guarnizioni». Rise. «Chi vogliamo prendere in giro?», disse. «Tieniti anche il succo di pomodoro». Sbattei il pugno sul tavolo e i nostri piatti tintinnarono sulla tovaglia. Il cameriere levò lo sguardo dal suo blocchetto, ed Elliot si voltò lentamente verso di me. «Per favore», mormorai. «Faremo tardi». Elliot tirò fuori il suo orologio da taschino e sorrise. «Be’, io sicuramente», disse. «Seymour, perché non mi hai avvertito?» «James lo sa che abbiamo fatto colazione al St Regis?», dissi. «Devi chiamarlo». Elliot annuì e cercò nel suo gilet, ma tirò fuori una fiaschetta. Io imprecai sottovoce e presi il mio cellulare. «Qual è il suo numero?», chiesi. Elliot alzò le spalle. «Di solito arriva e basta», disse. «Il mio deus ex machina personale». Guardò la fiaschetta con aria interrogativa. «Vuoi sentire una cosa interessante?», disse. «L’ho rubata, questa. Era in un negozio di Londra e io l’ho rubata. C’erano diverse persone lì intorno, ma io le ho fatte distrarre da James con un diversivo. Non è una storia incredibile?». Bevve un lungo sorso. «Anche lo scotch che contiene è rubato», disse. «Era un pomeriggio…». «Dannazione», dissi. «Prendiamo la metro». Elliot sghignazzò. «La cosa?». Lo afferrai per il polso nodoso e lo sospinsi verso l’ingresso della stazione della Fifty-ninth Street. Quando arrivammo alle scale mobili, le sue esili membra si contorcevano dalle risate. «Vuoi dire la metropolitana?». Non so perché mi sorprese il fatto che Elliot non avesse mai preso la metro in vita sua. Sarebbe stato più sorprendente il contrario.
Presi dalla tasca un paio di dollari stropicciati e li infilai rapidamente nella macchina dei biglietti. Cercai di farli entrare, ma il distributore continuava a risputarmeli fuori. «Elliot, hai un verdone?» «Un che?» «Niente, lascia stare». Trovai qualche quarto di dollaro nello zaino e comprai un paio di biglietti. Quando mi voltai verso Elliot, lui stava in piedi su una panchina lì vicino e osservava la stazione con aria meravigliata come un esploratore all’interno di una tomba appena scoperta. Lanciò un’occhiata alla mappa incorniciata. «Quindi è collegata con le fermate dell’autobus?», disse. «Però, geniale!». Indicò un gruppo di uomini in abiti da lavoro che andavano a riparare un qualche tratto della linea. «Guardali!», esclamò. «Sembrano una colonia di topi!». Uno degli operai fece per voltarsi e io tirai giù in fretta Elliot dalla panchina. «Il treno sta arrivando», dissi. «Andiamo». Porsi a Elliot il suo biglietto. Lui lo tenne sollevato alla luce e lo esaminò come se fosse una banconota straniera. Il rombo del treno riempì la stazione. «Vieni!», gridai. Corsi oltre i tornelli e mi tuffai verso il vagone più vicino. Infilai il polso in mezzo alle porte che si stavano chiudendo, e un paio di tizi cercarono di trattenerle. Dopo un momento di tensione, le porte si riaprirono e mi tirarono dentro il treno. Gli altri passeggeri esplosero in un applauso e il treno si mosse. Un’anziana signora mi diede una pacca sulla spalla. «C’è mancato poco!», disse ridendo. Un attimo prima che il treno lasciasse la stazione, vidi Elliot fermo ai piedi della scala mobile. Stava andando nella direzione opposta, e lui avrebbe dovuto prendere le scale. Scosse la testa un paio di volte con aria incredula, quindi afferrò il corrimano e se ne andò da solo. Corsi lungo il corridoio e piombai nell’aula di francese con la penna già in mano. «L’ho perso?». Il signor Hendricks mi guardò. «Cosa intendi, Seymour?», mi chiese aggrottando la fronte. «Perso cosa?». Che diavolo stavo facendo? Era un compito a sorpresa, non avrei nemmeno dovuto sapere della sua esistenza. Mi schiarii la voce. «La lezione, me la sono persa?», dissi con enfasi. I suoi occhi s’illuminarono. «Ah!», disse. «No, no, Seymour. Sei appena in tempo». Sentii il mormorio dei miei compagni di classe mentre andavo a sedermi al solito posto, al centro della prima fila. Erano momenti come quelli che mi spingevano a interrogarmi su cosa volesse dire popolare per Elliot. Ero passato dal fondo della sua classifica fino in testa, ma le due posizioni sembravano avere parecchie cose in comune. Hendricks mi tenne gli occhi incollati addosso e si lanciò in uno dei suoi farfuglianti monologhi serrati. Io sorrisi e annuii finché non mi diede il testo del compito. Lo svolsi, lo consegnai e uscii da
lì più in fretta che potei. Paragonai l’incidente alle altre situazioni pericolose del mese, e non era nemmeno tra i primi cinque. C’erano stati diversi momenti terribili durante la lezione di matematica, quando l’insegnante era uscito a fumarsi una sigaretta e mi aveva chiesto di continuare a fare lezione al suo posto. E poi c’era stata quella conversazione terrificante con la signora della mensa. «Volevo solo ringraziarti per tutto ciò che stai facendo, Seymour. Sai, mio zio ha la sindrome di Pasternak-Schwarzschild». «Oh, mi dispiace. Come si sente?» «È in coma. Be’… ovviamente. Ha la Pasternak-Schwarzschild». «Certo. È chiaro, certo». Mi defilai verso la scala sul retro e raggiunsi lentamente il terrazzo. Agli studenti non era consentito l’accesso al terrazzo, e l’amministrazione scolastica sembrava tremendamente seria su questo. Avevano piazzato delle telecamere di sicurezza lungo tutta la scala, e chi veniva beccato sul monitor riceveva automaticamente una sospensione. Ma con l’aiuto di una delle mappe di Elliot avevo trovato un percorso alternativo. Prima imboccavo la scala sul retro fino al locale caldaie, poi mi dirigevo verso il magazzino dei bidelli, oltre la fila di decrepite ramazze abbandonate. Lì, nascosto dietro a una libreria abbandonata, c’era l’ingresso alle vecchie condotte del vapore della scuola. A quel punto, tutto ciò che dovevo fare era inserire la combinazione – non so come Elliot l’avesse ottenuta – e salire per un’intera rampa di pioli. Dopo un’arrampicata di circa dieci minuti, il tunnel conduceva a un vecchio sbocco per il vapore che non veniva usato da ottant’anni, da quando la scuola aveva dismesso il riscaldamento a carbone. Il tetto era spoglio, fatta eccezione per una torre dell’acqua e qualche tubatura. Si vedevano entrambi i fiumi e la maggior parte del parco, e il traffico era lontanissimo, al punto che nemmeno il peggiore degli incidenti poteva spaventare. La nera spianata di catrame era sempre calda per il sole, ma mai rovente. Per arrivare lassù mi occorrevano circa venticinque minuti, e ci andavo almeno una volta al giorno. La prima volta che trovai quel percorso ero così fiero di me che chiamai immediatamente Elliot per vantarmi della mia scoperta. Ma quando rispose e mi chiese dove fossi, d’istinto dissi di trovarmi a casa, in camera mia. Credo sia stata la prima volta che gli ho mentito. Ero seduto all’ombra della torre dell’acqua e stavo studiando per il prossimo compito a sorpresa della giornata, quando mi accorsi che non ero solo. Sentii dei passi dietro la cisterna venire nella mia direzione. Il mio corpo entrò nella sua tipica modalità di panico: cuore a mille, nodo in gola, mani sudate. Eccoci, pensai, per la terza o quarta volta quel giorno. Ci siamo, è finita. Come al solito, era un falso allarme. Era solo Ashley. «Seymour, ehi», disse. «Ci sei anche tu». «Come sei arrivata qui?», chiesi. Lei fece spallucce. «Dalle scale». «Cosa?», dissi. «Dici sul serio?». Cominciai a raccogliere la mia roba.
«Probabilmente stanno già arrivando!». Lei rise. «Cavoli», disse. «Farai meglio a sparire». Io non sapevo granché sulla marijuana. Elliot non l’aveva mai usata – l’aveva bollata come “droga di strada” – e in effetti era possibile che non l’avessi mai vista prima. Ma Ashley era evidentemente fatta. «Vengo qui tutti i giorni», le dissi con aria risoluta. «Lo faccio da tipo sei mesi». «Io da più tempo», mi rispose lei. «Vedi? Ho anche una sedia». Frugò sotto la cisterna e tirò fuori una sedia da giardino pieghevole a strisce bianche e rosse. Sembrava piuttosto vecchia. «Dovresti procurarti una sedia anche tu», disse. Ashley aveva trascorso il nono e il decimo anno lontano dalla Glendale. Giravano un sacco di voci su dove fosse finita e perché, ma nessuno sapeva niente di fondato. La maggior parte delle persone riteneva che avesse avuto una qualche specie di esaurimento nervoso, mentre altri erano convinti che fosse rimasta incinta di Han Wo, lo studente straniero che aveva gestito la sua campagna elettorale, e che avesse partorito due gemelli. Quello che tutti sapevano era che, al suo ritorno, era una persona completamente diversa. Aveva sciolto la treccia e l’effetto era stato sconvolgente, come se fosse tornata a scuola senza un arto. I suoi voti erano diventati terribili e non si era mai più offerta volontaria, in nessuna materia. Io preferivo pensare che avesse lasciato la Glendale per un sacco di motivi e non solo per quelle stupide elezioni dell’ottavo anno, ma naturalmente non gliel’avevo mai chiesto. Dubitavo che l’avesse fatto qualcun altro, perfino i suoi vecchi amici del club di matematica. Ashley non si sedeva nemmeno più con loro a mensa. Si limitava ad afferrare un vassoio con il pranzo e se ne andava; immagino venisse quassù. «Ti ho visto fuori dalla festa di Lance, sabato», disse. «Stavi facendo finta di parlare al cellulare. Una cosa piuttosto assurda». Rise scuotendo la testa. «Voglio dire, sembravi davvero matto». «Devo andare». «Non preoccuparti», disse. «Non ti ha visto nessuno, oltre me». Feci per tirare fuori il taccuino, ma lei me lo sfilò prima che potessi afferrarlo. «Ridammelo!», gridai. Nelle mie intenzioni quelle parole dovevano suonare intimidatorie, ma ciò che venne fuori somigliava piuttosto a un piagnucolio infantile. «Ridammelo», ripetei in tono più grave. Ashley lo teneva sospeso sul bordo del terrazzo e canticchiava uno stonato ritornello da ragazzina. Era abbastanza sballata da lasciarlo cadere? L’avrebbe usato per ricattarmi e farmi assumere la sua droga? Non credevo che la situazione potesse peggiorare, finché lei non rigirò il taccuino nelle sue mani e cominciò a leggerlo. «Test a sorpresa di inglese? Cazzo!». Stavo per balbettare una qualche frottola, ma lei sembrava non ascoltare. «Perché stai imbrogliando con i compiti?» «Non essere ipocrita!», farfugliai. «Voglio dire… tu fai uso di droghe». Lei rise. «Non sto dicendo che non dovresti imbrogliare», disse. «È solo che mi sembra una fatica enorme, tutto qui. Dopotutto, è solo un test».
Allontanò dagli occhi la sua frangetta marrone e mi sorrise. «Ti serve una mano?», chiese. «Dài, ti faccio qualche domanda». Io le strappai il taccuino di mano e mi rinfilai nella condotta del vapore. «Buona fortuna», disse lei. Terry mi venne incontro sulla porta, indossava pantaloni da cavallerizzo e stivali. «Benvenuto», disse. «Grazie», risposi. «È stata una bella cavalcata?» «Sono quattro giorni che non esco di casa», ribatté. «Vuoi una focaccina?» «No, la ringrazio», dissi. «Senta, dovrei andare da Elliot, James si è presentato nell’aula di studio dicendomi di venire qui dopo la scuola». «Non è stato Elliot a mandare James», disse Terry. «Mio figlio oggi sta avendo quella che possiamo magnanimamente chiamare una “brutta giornata”». «Ah», feci io. Ci fu un lungo silenzio. In lontananza sentii un rumore, come uno schianto. «Sono stato io a mandare James», disse Terry, allegro. «Solo perché Elliot è lunatico non significa che non possiamo fare due chiacchiere». Mi afferrò bruscamente per il gomito. «Andiamo nel mio studio», disse. «Ti racconterò una storia bella lunga». Erano solo le tre e mezza, ma la scrivania di Terry era già piena di bottiglie. L’intero studio versava in un insolito disordine, c’erano libri a terra, cuscini sparpagliati sul divano, e notai che l’orso impagliato indossava uno dei cappelli a cilindro di Terry. «Forse dovrei andarmene», dissi. «Voglio dire, se Elliot sta male». «Sciocchezze!», disse Terry. «Lasciami pensare… Dev’essercene una che non hai ancora sentito. Ti ho mai raccontato di quando ho mescolato un Bordeaux del ’64 con l’ossibato di sodio e il direttore del “Wine Spectator” sembrava sbronzo durante il discorso annuale?». Io annuii. «E la festa per il mio quarantesimo compleanno? Quando ho fatto riunire tutti quei gruppi rock nonostante loro non volessero?» «Mi ha fatto vedere il video», dissi. «E cosa ho combinato a quella spocchiosa rivista letteraria?» «Quando ha comprato tutti gli spazi pubblicitari per trasformarla in un folioscopio?» «Esatto, ma ti ricordi che tipo di folioscopio?» «Qualcosa di… sessuale?». Terry sospirò. «Hai sentito tutte le mie storie migliori». Non ero mai stato nello studio di Terry così presto. Era insolito vederlo pieno di luce. Al sole la sua poltrona di pelle sembrava quasi rossa, e tutt’intorno nella stanza si vedevano volteggiare le particelle di polvere. Terry prese una focaccina, la osservò per qualche momento, quindi la posò. Si sporse verso di me. «Come sta?», chiese. «Elliot? Be’, sta… è malato, credo».
Terry prese un fazzoletto dalla tasca e si tamponò il viso chiazzato di rosso. Io sentii una voglia impellente di andarmene, ma non sapevo come farlo educatamente. «Lo so che è malato», disse. «Che altro?». Mi venne in mente il biglietto che Terry aveva infilato nel mio regalo, quando ero all’ottavo anno. C’erano voluti quattro anni, ma finalmente quella era la conversazione che lui voleva. Mi squadrò da capo a piedi, come se stesse cercando di decidere qualcosa. «Va bene, Seymour», disse infine. «Eccone una che non hai sentito». «Quando ci sposammo, mia moglie era risibilmente più giovane di me. Non sto qui a citare numeri, ti basti sapere che la differenza di età tra noi due era così assurda che il prete si rifiutò di officiare le nozze, nonostante la mia famiglia avesse pagato per la costruzione della sua chiesa. Tecnicamente, lei era una principessa, anche se arrossiva e protestava ogni volta che qualcuno la chiamava con il suo titolo ufficiale. La conobbi a Montecarlo, a un matrimonio o a un funerale, non so, ero troppo rapito da lei per interessarmi ad altro. C’è una statua d’oro massiccio, in Vaticano, al centro del cortile sacro. La targa dice che si tratta della Vergine Maria, ma il papa diede istruzioni allo scultore perché usasse mia moglie come modella. Capisci, aveva un tipo di viso che suscitava adorazione. Non aveva una grande istruzione, almeno non in senso accademico. Sai, era stata cresciuta in un castello, dalla servitù. Sapeva suonare l’arpa, ma non sapeva guidare. Parlava in modo corretto spagnolo, tedesco, francese e inglese, ma usava le dita per contare. La qual cosa naturalmente era adorabile. Suo padre era molto vecchio, lei era la sua undicesima figlia. Quando ci sposammo, io mi offrii di assumere uno staff che si prendesse cura di lui, ma lei insistette perché venisse a vivere con noi. Voleva prendersi lei stessa cura del vecchio. Quando arrivò a casa nostra, era completamente ammattito. Era un reduce decorato della seconda guerra mondiale – aveva ricevuto la Croix de guerre nel 1939 sotto Charles de Gaulle – ed era convinto che la guerra fosse ancora in corso. Era solito scorrere i quotidiani con aria disgustata, furioso che nessuno si occupasse del conflitto europeo. Visto il progredire della sua fissazione, mia moglie riunì tutto il personale della casa e pregò la servitù di non contraddire suo padre. Se chiedeva notizie della guerra, dovevano rispondere “l’esercito russo sta avanzando” o “Hitler è in fuga”. Lui dava di matto quando vedeva qualche donna indossare del nylon, perché quel materiale era utile «per lo sforzo bellico». Quindi mia moglie bandì le calze in casa. Proibì anche la televisione perché confondeva mio suocero. Per tutto l’anno a casa nostra ci fu la seconda guerra mondiale, e sul letto di morte di mio suocero mia moglie gli disse che avevamo vinto. Era fatta così. Qualche anno dopo la nascita di Elliot, lei svenne durante una crociera verso la Grecia. Era salita sul ponte per prendere un po’ d’aria, e se non avessi deciso di accompagnarla, chissà quanto tempo sarebbe passato prima che qualcuno l’avesse trovata. Il medico di bordo, una stupida scimmia incompetente, le prescrisse un’aspirina. E il comandante, confidando nell’esperienza del medico, si rifiutò di cambiare rotta. Io argomentai, lo minacciai di morte, ma non ci fu verso. Alla fine ci accordammo per qualcosa come quattrocentomila dollari. Sbarcammo nel giro di un’ora e prendemmo un taxi per l’ospedale più vicino. Mia moglie continuava a dire di sentirsi meglio, ma io non volli correre rischi. Venne fuori che aveva un problema ai reni che non era stato diagnosticato. Tutti i dottori che consultai concordarono: le serviva un donatore, e in fretta. Lo specialista migliore, un chirurgo di Park Avenue, mi disse che c’era scarsità di organi negli Stati Uniti e che mia moglie doveva essere inserita in una qualche lista d’attesa governativa. Io annuii e tirai fuori il portafogli, convinto che quello fosse un invito a corromperlo. Ma a quanto pare la lista esisteva veramente, ed era
inflessibile. Nell’arco di poche ore, James mi fissò un incontro con un premiato professore di Oxford, un certo dottor Highsmith. Era stato consulente medico della famiglia reale, oltre che di altri aristocratici, finché non gli era stata revocata la licenza per aver preso mazzette dài suoi pazienti. Io volai in Inghilterra e gli misi in mano un unico assegno in bianco. Il dottore mi telefonò quarantotto ore dopo, dalla Thailandia. Aveva trovato un convento cristiano nelle campagne. C’erano quaranta suore, tutte in ottima salute grazie a una vita di umili rinunce. Otto di loro avevano lo stesso gruppo sanguigno di mia moglie e quattro erano sufficientemente povere da vendere un rene. Lui mise a confronto i loro parametri vitali – l’età, la storia genetica eccetera – ma alla fine non fu in grado di stabilire la qualità dei loro reni senza asportarli ed esaminarli. Non sapeva scegliere quale suora operare. Fino a quel momento, il dottor Highsmith mi era sembrato un uomo decisamente freddo, una persona diretta con cui potevo confrontarmi con grande franchezza. Ma quando gli proposi di asportare tutti e quattro i reni e scegliere il migliore, lui protestò. “Cosa vuole che me ne faccia degli altri tre?”, mi chiese. “Può darli via”, risposi “a qualche ospedale”. “Verremmo scoperti all’istante”, disse. “Allora li terrò io da parte”, proposi, “in caso a mia moglie ne servisse un altro”. “Non sono filetti di manzo”, disse. “Non si possono tenere da parte”. “Allora li butti via”, dissi. “Li metta in un sacchetto e li butti nella spazzatura”. Ci fu una lunga pausa. “Signore”, disse. “Acquistare organi è già illegale, a tutti gli effetti. Ma comprare organi e buttarli via…”. Io pensai alla mia adorabile e giovane moglie, che parlava con il suo vecchio dell’avanzata dell’esercito di Stalin. “Non ho tempo per queste cose”, dissi. “Decida entro dieci secondi”. Stavo per riagganciare quando lo sentii schiarirsi la voce. “Va bene”, disse. “Ma tutto ciò modificherà la mia parcella”. Quindi volammo in Thailandia. Corrompemmo le autorità giuste, acquistammo l’attrezzatura necessaria, assumemmo i dottori che servivano e comprammo i reni, scegliemmo il migliore e gettammo via gli altri. E alla fine lei morì comunque. Terry riaccese il suo sigaro e riprese distrattamente a fumare. «È una storia terribile», disse. «Avrei dovuto raccontarti quella dell’orso». Fece un gesto in direzione dell’enorme animale impagliato. «Quella sì che è divertente». «Elliot quanti anni aveva?», chiesi. «Quando è successo tutto questo?». Terry scrollò le spalle. «Chi ci capisce nulla con quel ragazzo». «Non mi ha mai raccontato questa storia», dissi. «Non la sa», rispose Terry. «Spero che un giorno gli venga in mente di chiedere». Si versò un abbondante bicchiere. «Non lo faccio spiare, sai?», disse. «Come?»
«Mi sarebbe facile assumere una spia», disse. «Ho tre investigatori privati alle mie dipendenze a tempo pieno. Potrei farlo seguire, ma non lo faccio. Perché non mi interessa, Seymour. Non potrebbe interessarmi di meno. James mi invia dei rapporti settimanali, lo fa da anni, e io li butto via. Li butto nella spazzatura». Il sole era calato, ma Terry non aveva acceso alcuna luce. Io mi alzai e attraversai lo studio in penombra. «Resta qui», disse. «Siediti, fatti un brandy». «Si sta facendo tardi», dissi. «Ti racconto la storia dell’orso», ribatté. «È una bella storia!». «Davvero, devo…». «È successo in un circo, e c’era una donna cannone». «Non posso». «E c’è del sesso». «Mi dispiace». «Vuoi… vuoi vedere un quadro? Ti faccio vedere un quadro della mia collezione, qualcosa che nessuno ha mai visto prima!». «Signor Allagash, mi dispiace ma devo andare a casa. I miei cominceranno a preoccuparsi». Terry sbatté le palpebre e fece un ampio sorriso. «Bene», disse. «Mi pare giusto. Va bene». Uscii in corridoio, sentivo gli occhi bruciare per la luce, e mi chiusi alle spalle la pesante porta. Da che ricordassi, i miei avevano sempre comunicato con me attraverso dei post-it. Di solito me ne lasciavano due o tre al giorno, scrivendo chi mi aveva cercato o cosa c’era per cena in frigorifero. I foglietti erano un buon indicatore di quello che i miei pensavano di me. Non era tanto quello che scrivevano, su quei quadratini gialli potevano lasciare solo poche parole. Era il punto della casa in cui li piazzavano. Ad esempio, quando ero all’ottavo anno, mettevano tutti i post-it sullo sportello dove tenevano gli Oreo, avendo stabilito con certezza che quello era l’unico posto di casa che sicuramente avrei visitato. A un certo punto, cominciarono a metterli sulla mia libreria, evidentemente convinti che fossi diventato un bravo studente. In seguito, però, finirono per appenderli al mio specchio. Ha chiamato Elliot… 5 volte Ha chiamato Jessica
Ignorai la nota superiore e fissai l’altra, convinto di aver letto male. Come aveva fatto Jessica anche solo a trovare il mio numero? Sull’elenco scolastico era riportato ancora quello del vecchio appartamento. Staccai il post-it dallo specchio e lo tenni sollevato alla luce. Sembrava assumere un’assurda concretezza nella mia mano, come se il nome avesse trasmesso del peso aggiuntivo alla carta. Presi l’elenco, cercai il suo numero e lo composi. «Laura?», chiese lei.
«Ehm, no», dissi io. «Sono Seymour». «Chi?» «Seymour, hai presente?» «Ah!». «Mi hai cercato?» «Ah, certo! Hendricks mi ha dato il tuo numero. Mi ha detto “ti servono delle ripetizioni per il compito di francese”, così io ho detto “Seymour può andare? Lui sa tutto!”, e lui ha detto “ok”, e quindi sì, ti ho chiamato». Coprii il microfono e mi schiarii la voce. «Ti rendi conto di quanti compiti abbiamo?», azzardai. «Non si può fare». Jessica rise. Era un suono celestiale, come quello delle monete che cadono fuori da una slot machine. «Smettila!», disse ridacchiando. «Smettila! Basta!». Sentii un tramestio, seguito da qualche gridolino. «Jessica?» «Scusa», rispose ansimando. «Lance sta facendo il cretino». «Ah», dissi. «Sei libero mercoledì? Perché il compito è su…». Gridò di nuovo, questa volta più forte, e fece cadere il telefono su qualcosa di duro. Ora sentivo le voci di entrambi, ma il suono era troppo confuso perché potessi distinguere qualche parola. Pensai di riagganciare, ma non volevo essere scortese. Quindi rimasi lì per un paio di minuti, aspettando che finissero di fare qualunque cosa stessero facendo. Non potevo assolutamente dare lezioni a Jessica, sarebbe stato un disastro. Come facevo a insegnarle una lingua che non conoscevo? Jessica sospirò nella cornetta. «Scusa», disse. «Senti, Jessica… non credo di poterti aiutare». «Cosa?» «Sì, insomma, sono troppo impegnato». «Ok, giovedì allora?» «No, dico in generale. A dire il vero, devo andare». «Oh, va bene. Senti, scusa se ti ho disturbato! Ho pensato, sai, visto che sei così bravo in francese…». «Sì, nessun problema. Però devo andare. Ciao». «Va bene, ciao…». Riattaccai, chiusi di botto l’elenco e buttai il post-it nel cestino. Avrei dovuto capire perché Jessica mi aveva cercato, che altro motivo poteva esserci? Mi immaginavo la scena nell’ufficio del signor Hendricks, lui che con aria seria scriveva il mio numero di telefono. E Lance che faceva Dio sa cosa mentre lei mi telefonava riluttante. Ma adesso non avevo tempo di pensarci, c’erano problemi più gravi. Se Jessica avesse detto a Hendricks che mi ero rifiutato di aiutarla, lui mi avrebbe chiamato per vedermi e chiedere spiegazioni. Mi serviva un alibi molto solido per non farlo insospettire ulteriormente. Presi il mio taccuino, una matita e chiamai Elliot. «Dov’eri?», mi chiese. «Ti ho chiamato sul cellulare, a casa, ti ho lasciato dei messaggi in
segreteria, uno a tua madre… be’, non io in persona, ecco. James ha fatto tutto al posto mio. Io sono stato in una vasca costruita su misura per le ultime quattro ore. Però si tratta comunque di tempo che James avrebbe potuto impiegare inventandomi qualche nuovo cocktail». «Abbiamo un problema», dissi. «Jessica mi ha chiamato e… mi ha chiesto di darle ripetizioni di francese. Ho detto di no, ma quando lo scopre Hendricks…». «Dio santo», mi interruppe Elliot. «È per questo che sei così agitato?» «Io non lo parlo il francese, Elliot!». Lui rise. «Dal tuo tono di voce, direi che il problema riguarda più Jessica che Hendricks». «Di che stai parlando?» «Andiamo, non trattarmi da stupido. Tu hai pensato, per un millesimo di secondo, che lei ti avesse chiamato magari per…». «Elliot, questa è una cosa seria, ok? I miei insegnanti cominciano a insospettirsi». Mi accertai che la porta fosse chiusa a chiave e continuai sottovoce. «Io non sono come te, va bene? A qualcuno importa se sto mentendo o meno». Elliot cominciò a prendermi in giro. «Pensi che nessuno mi tenga d’occhio? Ma dài! Terry è convinto che il mio record di presenze alla Glendale sia “stellare”. Devo corrompere James ogni settimana perché falsifichi i suoi rapporti». «Sì, però è diverso. Voglio dire… tuo padre nemmeno li legge, quei rapporti». Ci fu una pausa. «Che cosa significa?», chiese. «Che li butta via. Me l’ha detto lui». «Quando ti ha parlato di me? Cos’altro ti ha detto?» «Ti interessa veramente?», gli domandai. «Certo che no», ribatté lui. «Ero solo curioso, ma lasciamo perdere». Qualcuno bussò alla mia porta. «Devo andare, Elliot… Stiamo per cenare». «Adesso?» «Ne parliamo un’altra volta». «Aspetta! Non riattaccare… ti aiuterò con questa faccenda di Hendricks». «Non ora». «Ho una soluzione, ma è complicata… Vieni qui e la studiamo insieme». «Non posso, devo andare». «Non puoi perderti questa, Seymour! La stavo tenendo da parte… è il modo perfetto per batterlo definitivamente!». «Ciao, Elliot». «Ma…». «Ciao». Cercare di capire le dinamiche degli Allagash era come risolvere un complicato problema di matematica: se Terry pagava James tot dollari per ricevere dei rapporti settimanali su suo figlio, ed
Elliot pagava un altro tot di dollari perché James li falsificasse, e poi Terry quei rapporti li buttava via, chi ci guadagnava? Quanti soldi avrebbero risparmiato semplicemente parlando tra loro? Queste erano le domande che mi ronzavano in testa quella sera a cena, mentre io e i miei genitori mangiavamo in silenzio. «Credo che questo sia il più incasinato», disse Ashley. «Forse», dissi io. «Ma è una ricerca utile». «È un grafico della cacca del signor Billings». «Hai detto che mi avresti aiutato», dissi io strappandole di mano il mio taccuino. «Ti aiuto, ti aiuto», disse lei. «Però devi spiegarmi perché hai questa roba». Le puntai contro un dito. «Se parli a chiunque di questa storia…». Lei rise. «Lo so, lo so, mi hai già minacciato». «Non dovrei nemmeno parlare con te», dissi. «Onestamente, non ho idea del perché te lo stia dicendo». «Seymour, a chi dovrei dirlo?», disse. «Voglio dire, chi mai mi crederebbe?» Io esitai. «Va bene. Ma non interrompermi». Spalancai il taccuino e lo poggiai contro la torre dell’acqua. «Billings tiene i registri di tutta la scuola. Questo significa che gli arriva in anticipo una copia di ogni esame finale». «Davvero?» «Certo, così può archiviarli per il futuro. Gli arrivano anche tutte le pagelle degli studenti». «Wow». «Già. Quindi è ovvio, è importante sapere quando non sarà nel suo ufficio». «Così puoi entrare e forzare la sua scrivania». Esitai. «Gesù, Seymour, tranquillo!», disse lei. «Non c’è nessuno quassù». «Va bene. Insomma… fondamentalmente, ci sono due cose da sapere su di lui. La prima è che va a pranzo sempre a mezzogiorno e mezzo. La seconda è che ha la colite. Ora, di solito dopo pranzo si dirige dritto verso il bagno del quinto piano per circa dieci minuti. Ma in questi giorni…», indicai il calendario, «va nei bagni dell’undicesimo piano. Per più di un’ora e mezza». «Perché?» «Immagino sia perché sono più lontani. All’undicesimo piano si arriva solo tramite la scala B, e quella non la usa quasi nessuno. Immagino voglia un po’ di privacy per qualunque cosa accada lì dentro». «No, voglio dire, perché in quei due giorni gli ci vuole tanto tempo? Che hanno di speciale?» «Ah», dissi io. «Be’, è quando a mensa c’è la pizza per pranzo». Lei cominciò a ridere forte, e a ogni respiro il volume cresceva. «Ashley!», sussurrai. «Shh!». Si stropicciò gli occhi e batté i pugni contro la cisterna. Io provai a zittirla, ma le mie proteste
sembravano farla ridere ancora di più. «Che c’è di tanto divertente?». Provò a rispondere, ma ogni volta che prendeva fiato, ricominciava a ridere istericamente e non riusciva a spiccicare una parola. Alla fine prese la mia matita e scarabocchiò qualcosa sul grafico. Mangia la pizza comunque!
In effetti era piuttosto sorprendente. Il signor Billings sapeva esattamente quali conseguenze gli provocava la pizza, ma due volte al mese decideva di fregarsene e la mangiava comunque. Ashley crollò esausta sulla sua sedia. Aveva la bocca semiaperta e il fiatone. Alla fine fece un bel respiro, ma quando aprì gli occhi e mi guardò, ricominciò; poco dopo stavamo ridendo tutti e due, battendo i piedi contro la superficie coperta di catrame. Lei cominciò a spingermi e io le afferrai i polsi per farla smettere. Cercammo di riprendere il controllo, ma ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano, ricominciavamo a ridere. Quando finalmente smettemmo, mi faceva male la pancia come se avessi fatto un centinaio di addominali. Gli occhi mi lacrimavano. «Il grafico è un’idea di Elliot?», chiese dopo aver ripreso fiato. «Veramente è stata mia». «Be’, niente male», commentò. Io arrossii. Ripassammo le domande per l’esame finale di storia del professor Douglas finché la campanella delle otto e dieci non risuonò in lontananza. «Vuoi sapere una cosa assurda?», dissi, prima di calarmi nel mio tunnel. «Prima d’ora non mi era mai venuto in mente che potesse esserci qualcosa di divertente nel grafico». Ashley annuì tutta seria. «Davvero assurdo», disse. Elliot fece salire il montacarichi e prese dal suo interno due oggetti: un vecchio cellulare e le pagine gialle. Sfogliò il volume fino alla sezione Accompagnatori per Signore, prese il telefono e cominciò a comporre dei numeri. Dopo circa cinque telefonate, rimise gli oggetti nella cabina e la rimandò di sotto. Poi tirò fuori il suo libro dei nemici, svitò la sua penna e spuntò un nome. «Un domestico», spiegò. «Ha provato a correggere la mia pronuncia». «Ah», dissi io. Prese un fazzoletto rosa e si asciugò la fronte con fare teatrale. Era evidente che voleva sentirsi fare ulteriori domande. Ad esempio “Come hai avuto il numero del domestico?”, o “Cosa gli succederà dopo quelle telefonate?”. Ma io non ero dell’umore. Era la prima volta nelle ultime due settimane che andavo a casa sua. Non lo stavo evitando, in realtà. Semplicemente non mi serviva più il suo aiuto come succedeva prima. Era dura portare avanti lo strano alter ego che Elliot aveva costruito per me, ma me la stavo cavando. Inoltre, non avrei retto quella farsa ancora per molto. Mancavano solo novantaquattro giorni al college, quando avrei ricominciato tutto da anonima matricola, libero del personaggio della Glendale e di tutta la pressione che ne derivava. Non appena avessi messo piede al campus, mi sarei gettato alle spalle quegli ultimi anni e sarei tornato a essere me stesso.
«Il signor Hendricks non mi ha mai detto niente a proposito delle ripetizioni», disse. «Quindi non è una cosa di cui ci dovremo preoccupare». Elliot mi ignorò. «Una tartare?», chiese. «Ostriche al bacon?». Io scossi la testa. «James mi ha detto che avevi bisogno di dirmi una cosa. Una cosa importante». Ridacchiò. Le borse sotto i suoi occhi avevano preso una tonalità scura e bluastra, e gli si vedevano chiaramente le vene sulla fronte, come i fili di un tessuto rosso. «Un nuovo piano», disse. Scossi di nuovo la testa. «Non ho tempo». «Va bene», disse Elliot. Tossii, spiazzato dalla sua accondiscendenza. «Va bene», dissi. «Quindi… direi… ci vediamo dopo». «Ci vediamo dopo», rispose. Afferrai il cappotto, lo abbottonai e mi diressi verso la porta. «Di cosa si tratta?», chiesi, con improvvisa curiosità. «Di cosa si tratta cosa?» «Il piano». «Ah, niente di che», disse Elliot. «Roba di scuola?» «Noo», fece lui. «Una cosa su Jessica». Io tornai dentro. «Qualcosa… sulle ripetizioni?» «No, non c’entra niente», rispose. Poi sorrise. «È tua», disse. «Se la vuoi». Deglutii. «Cosa significa?» «Lo sai cosa significa». Il cuore mi batteva furiosamente, lo sentivo quasi spostarsi. Era una sensazione che non provavo dai tempi dell’ottavo anno, quando era comparso Elliot e mi aveva offerto il mondo. «Cosa devo fare?». Fece un sorrisetto compiaciuto. «Ormai dovresti saperlo», disse. «Tutto quello che ti dico». Seguii Elliot lungo il corridoio e nel suo ascensore sferragliante. Ruotò la manopola e ci dirigemmo di sopra, all’ultimo dei dieci piani di casa sua. «Non credo di essere mai stato qui», dissi.
«Infatti». Aprì la grata e mi apparve davanti una galleria. Non c’erano lampade, ma la luna brillava luminosa attraverso il lucernario sul soffitto. Le pareti erano costellate di decine di ritratti. Alcuni erano talmente antichi che la superficie si era coperta di crepe. Dall’abbigliamento dei soggetti, si capiva che i quadri erano disposti in ordine cronologico. Il sorriso orgoglioso comunicava chiaramente che erano tutti Allagash. Andai fino al primo ritratto, che raffigurava un antico re accigliato con una barba nerissima. Nella mano destra reggeva una spada, nella sinistra un grappolo d’uva. La targhetta di bronzo recava la data del 1254. «Questo è il primo Allagash?», chiesi. Elliot scosse la testa. «È finto», disse. «Nel senso che non è veramente il suo ritratto?» «No», rispose. «Non è una persona reale. Nessuno di loro è mai esistito». Mi guidò attraverso la galleria, oltre gli Allagash rinascimentali e quelli vittoriani. «Terry li ha fatti commissionare qualche mese fa. Per ingannare non so bene su cosa una contessa in visita». «E perché le importava tanto della vostra famiglia?», chiesi. «Perché è una donna», disse Elliot. «E le donne sono facili da ingannare. Jessica non fa eccezione». Era strano sentire Elliot riferirsi a Jessica come a una “donna”. Nella mia testa, era decisamente una ragazza. L’unica volta che ricordavo di aver usato la parola donna era a lezione di storia, parlando delle suffragette. «Le donne spesso hanno le idee confuse», continuò Elliot. «Sono convinte di essere attratte dall’onore, dal talento, dalla stirpe, quando in realtà sono attratte sempre dalla stessa cosa: i soldi». Ci eravamo seduti su una panca, di fronte al ritratto di un Allagash medievale in armatura. Sanguinava da una ferita sul petto e sventolava una specie di bandiera. «Non lo so, Elliot», dissi io. «Devono pur esserci delle ragazze – o donne, insomma – interessate ad altro. Altro rispetto ai soldi». «Certo che ci sono», disse. «Le donne tengono in gran conto ogni qualità: fama, cultura, gloria, educazione, aspetto, potere, capacità. Ma queste sono la valuta più povera del mondo, come i rubli, i franchi e gli sheqel. Si possono comprare tutti con i dollari americani». Mi fissò con un’intensità che lasciava prevedere l’arrivo di una lunga lezioncina. «Le donne sono allo stesso livello mentale degli uccelli. Se vedono qualcosa che luccica, lo vogliono senza sapere perché. Alcune donne, ad esempio, pensano di essere attratte dai diamanti. Ma i diamanti non sono altro che pietre! Le donne sono attratte dal denaro che quei diamanti valgono». Un po’ imbarazzato, pensai a mia madre. Mio padre le aveva regalano una collana di diamanti per il suo compleanno, e le tremavano talmente tanto le mani per l’eccitazione che lui aveva dovuto aiutarla a chiudere il fermaglio. «Spesso le donne parlano di uomini “sofisticati”, o “intelligenti” o “rassicuranti”», disse Elliot. «Ma intendono “ricchi”». Mi venne in mente Lance. Era ricco, ma non come altri ragazzi della mia classe. A Jessica piaceva per altri motivi, più importanti.
«E quelli che sono capaci di suonare uno strumento? Che mi dici?», dissi. «Quella non è una cosa che puoi comprare. Ci devi nascere». Elliot sorrise con condiscendenza. «Ah», disse. «Il “talento”». Si alzò in piedi e prese a passeggiare. «Lance ha potuto comprarsi una chitarra, un amplificatore e un numero di lezioni sufficiente a imparare. Il suo talento non è costato ai suoi genitori più di cinquemila dollari. Pensa al talento che potrei comprare io». «Cosa vuoi dire?» «Lance è un fuoco di paglia», disse. «Il tuo album sarà un successo di pubblico e di critica». «Quale album?». Elliot mise una mano in tasca e tirò fuori un disco. «Ho fatto comporre a James l’ultima traccia ieri notte», disse. «Si chiama The Seymour Herson Project». «Elliot, io non so suonare nemmeno uno strumento». «Lo so», disse. «Per questo non ho avuto altra scelta che fare di te un genio sperimentale». «Che accidenti significa?» «L’album è composto principalmente di effetti sonori. E spoken word». «Oddio», disse. «Come suona male». «I testi sono in francese». «Che cosa? Perché?» «Perché così nessuno può dire se sono profondi o meno. A proposito, se qualcuno dovesse chiederti il significato, rispondi che sono “esistenziali”». Scosse la testa. «È patetico che ci siamo dovuti abbassare a tanto», borbottò. «Nell’antica Roma, le uniche persone che facevano musica erano gli schiavi. E gli imperatori che davano di matto». «Elliot, davvero, non credo che possa funzionare. Voglio dire, chi vuoi che ascolti questo genere di musica?». Elliot roteò gli occhi. «Se Joe Kennedy è riuscito a trasformare quel sifilitico del figlio in uno scrittore di best seller e presidente degli Stati Uniti, io penso di poter trasformare te in un artista d’avanguardia». Posai il disco sulla panca. «Non so se voglio fare una cosa simile», dissi. «È troppo. A scuola va tutto bene… tra poco sarò fuori da lì. Ma questo è il tipo di cosa che può rovinarmi la vita». «Due cose», disse Elliot. «Primo: ormai è tardi. Ho già spedito il tuo demo a ogni guru musicale di Williamsburg». «Oh mio Dio». «Secondo: funzionerà». Aprì il cancello dell’ascensore e mi tirò dentro. «Ti fidi di me?». Non risposi.
«Seymour, tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per aiutarti». Sì avvicinò così tanto che le nostre facce quasi si toccavano. «Ti fidi di me o no?». Annuii appena. «Ottimo», disse, tirando un sospiro. «Ok». Azionò la manovella e l’ascensore si mise in movimento. «Scendiamo». Attraversai in fretta il soggiorno, attento a evitare di guardare negli occhi i miei genitori. Mi chiusi in camera, misi le cuffie e infilai terrorizzato il disco di Elliot nello stereo. Conoscevo Elliot Allagash da più di quattro anni, e ancora mi spaventava. Mi piaceva pensare, però, di essermi abituato a lui, che avesse almeno perso la capacità di sorprendermi. Preferivo credere di avere già visto il lato peggiore della sua follia. Feci un respiro profondo e schiacciai play. Il Seymour Herson Project si apriva con un lungo brano ambient. Dopo circa quaranta secondi partiva una sirena, accompagnata da colpi di pistola. Il tutto veniva interrotto dalla risata di un bambino e, chissà perché, dall’inno americano. Alla fine, subentrava una voce computerizzata che recitava un monologo in francese. Stando all’elenco delle tracce, il brano si chiamava Rape(11). Il demo era imbarazzante. Quando levai le cuffie, però, mi sentii sollevato. Per quante copie Elliot poteva averne spedite, non era possibile che quella roba ridicola trovasse degli ascoltatori. Jessica non avrebbe nemmeno saputo della sua esistenza, Elliot avrebbe dimenticato quel piano e la vita sarebbe tornata a una parvenza di normalità. Al punto in cui eravamo arrivati, avrei dovuto immaginare come invece sarebbe finita. «Ho sentito la tua canzone alla radio», disse Lance. «Mi pare bella». «Non aveva capito che era un allegoria», disse Jessica. «Sì che l’avevo capito», ribatté Lance lanciandole un’occhiata. «Stavo anche per dirlo, prima che quel critico intervenisse». «Certo, come no», disse Jessica. Lance serrò la mascella e uscì dalla mensa. «Non l’aveva capito», ripeté Jessica, sorridendomi maliziosamente. «Ma io sì». Indossava dei pantaloni della tuta a vita pericolosamente bassa. Cercai di non guardare mentre se li tirava su, nascondendo a malapena l’incavo del bacino. «Il tizio alla radio ha detto che è una canzone esistenziale», disse. «È vero?». Ci fu una pausa abbastanza lunga. «Sì», risposi alla fine. Jessica arricciò le labbra e annuì, come se stesse riflettendo sulla mia risposta. «Bene, devo andare», disse, levando gli occhi al cielo all’indirizzo di Lance. Aveva un leone della Glendale cucito sulla parte superiore della coscia, e mentre si allontanava notai che aveva la parola roar ricamata sul fondo dei pantaloni, due lettere per gluteo. Forse quello era un buon momento per chiamare Elliot. Feci un respiro profondo, composi il numero e gli parlai con il massimo della calma.
«Cosa cazzo sta succedendo?», dissi. «Dimmi immediatamente cosa cazzo sta succedendo». «Calmati», disse. «È solo un programma in una radio universitaria. Ho corrotto un DJ locale». «Jessica e Lance l’hanno sentita!». «Certo che l’hanno sentita. È la fascia oraria preferita di Lance». «È una cosa folle! Jessica pensa che io sia una specie di artista. Cosa diavolo dovrei fare, ora?» «Non lo so, Casanova. Sei tu che l’hai ordinata. Io te l’ho solo servita». Mi sedetti sugli scalini. «Magari James può darti qualche dritta», disse, «se sei proprio disorientato in questo genere di cose». «Devo andare». «Seymour, devo dirti la verità, sembri molto meno esaltato di quanto mi aspettassi, date le circostanze. Non era quello che volevi?» «Sì, ma… sta succedendo tutto un po’ troppo in fretta». «In fretta? Stai appresso a quella lolita da quasi un decennio e ora che stanno per maturare le cedole, vorresti vendere le azioni?» «Non è questo», dissi. «È solo che tutta questa storia mi fa sentire strano». Elliot sospirò pesantemente. «Io e Terry siamo stati in Cina, cinque anni fa», disse, «perché stavano per mettere fuori legge il consumo di cervello di scimmia. Andammo dritti dall’aeroporto al Manchu Imperial e ne ordinammo una porzione gigante. Ma quando piazzarono sul tavolo la gigantesca scimmia che urlava, e cominciarono a inciderne lo scalpo, Terry perse l’appetito. Non hai perso l’appetito, vero Seymour? Perché il cervello di scimmia costa parecchio». «Devo andare», dissi. «Seymour…». «Devo andare». Chiusi il telefono e feci quattro volte il giro dell’isolato. Che diavolo di problema avevo? Elliot aveva ragione, avrei dovuto essere euforico. L’unica emozione che riuscivo a provare, però, era un orrore vago e incombente. Per la prima volta dopo diversi anni, mi ritrovai a pensare ai videogiochi. Prima di conoscere Elliot, ne avevo uno che si chiamava Ninja Streets. Seguiva le avventure di Mack, un vigilante baffuto, che si faceva strada in una città divenuta, per qualche strano motivo, sovraffollata di ninja. Non era particolarmente ostico. I ninja urlavano sempre, quando si avvicinavano, il che toglieva qualsiasi elemento sorpresa. E attaccavano solo dalla destra dello schermo, così io non dovevo mai cambiare posizione. La mia strategia era colpire l’aria aspettando che i ninja arrivassero al mio pugno. Ninja streets era più che altro una gara di resistenza. I ninja che affrontavano Mack non erano particolarmente abili, erano solo tanti. Ogni livello constava di centoventotto nemici, e se smettevo per un attimo di colpire l’aria, magari per rispondere a qualche domanda sulla cena da parte di mia madre o, che so, togliermi la maglietta, era la fine. Secondo una chat che all’epoca frequentavo, Ninja Streets aveva 256 livelli, tutti identici tranne l’ultimo. Si diceva che una volta arrivati all’ultimo livello il gioco si bloccava. Nessuno era in grado di dire se quel blocco era voluto, ma tutti erano sicuri che ci fosse. Io spesso sognavo cosa sarebbe successo alla fine di Ninja Streets (Mack si sarebbe candidato a
sindaco? Avrebbe lasciato la città per andare a vivere tra gente più normale?), tuttavia sapevo che quella vittoria era impossibile. Avevo giocato a quel gioco tutti i giorni, per mesi, e non ero arrivato nemmeno al centesimo livello senza perdere la concentrazione. Un giorno, però, lessi un post su Internet e tutto cambiò. Energia infinita su Ninja Streets: su-giù-indietro-destra-B-A-invio
Di colpo, tutto era possibile. Presi una matita e feci dei calcoli. Ogni livello aveva un tempo massimo di dieci minuti, ma non ce ne volevano mai più di due e mezzo per sconfiggere ogni battaglione di ninja. Se avessi giocato ininterrottamente, senza pause per mangiare o bere, sarei riuscito ad arrivare alla fine del gioco in undici ore. La mattina dopo finsi di avere il raffreddore, aprii una scatola nuova di Oreo e mi misi al lavoro. Fu una giornata faticosa, e in diverse occasioni persi la concentrazione, ma non importava. Ero impenetrabile ai colpi dei nemici. A un certo punto, per spezzare la monotonia, decisi di interrompere i pugni. Un ninja urlò, poi entrò in scena. Dopo una breve pausa, cominciò a colpirmi sulla faccia, e quando si accorse che non avevo intenzione di ribattere, prese coraggio e fece la sua mossa speciale: un calcio volante al viso. Quando non risposi neanche a quell’attacco, cominciò a fare avanti e indietro sullo schermo, come in contemplazione. Alla fine gli diedi un pugno e passai oltre. Raggiunsi l’ultimo livello poco prima di andare a dormire. Cominciò come tutti gli altri… e per un terrificante momento, credetti che lo fosse. Poi accadde. Dopo una trentina di ninja, la parte destra dello schermo divenne completamente nera. Il lato sinistro della strada era intatto, e la musica continuava aggressiva in sottofondo, ma non c’erano più ninja e non potevo più muovermi in alcuna direzione. Osservavo incredulo mentre il tempo si esauriva. Passarono sette minuti, poi otto, poi nove. Spinsi la levetta in avanti con tutte le mie forze, ma l’unica cosa che riuscivo a fare era correre sul posto al centro della schermata, con il volto premuto contro il nero. Nel momento in cui finì il tempo, Mack si voltò come se volesse rivolgersi a me. Aveva i pugni levati al cielo e gli occhi sbarrati dall’orrore. Rimase immobile in quella posa, ai limiti del nulla, poi scomparve. Game over. Ashley prese un cartone di latte al cioccolato dal suo zaino e lo versò in una caraffa di ceramica. «Della cioccolata calda?» «No», dissi. «Bevila tu». «Io non la voglio». «Davvero? Allora va bene, grazie». Mise una mano sotto la cisterna e posò la caraffa su una tubatura di metallo rovente. Ci eravamo incontrati sul tetto tutti i giorni per settimane, ma solo di recente avevamo capito come fare la cioccolata calda. Era stata una scoperta accidentale, come tutte le grandi scoperte. Avevo toccato per sbaglio la tubatura mentre allungavo una mano per raccogliere una matita caduta e mi ero scottato un paio di dita. Probabilmente mi sarei messo a piangere se non ci fosse stata Ashley a esaminare la bruciatura e definirla “niente di che”. Qualche istante dopo, stava strisciando sotto la cisterna e il
suo viso era pericolosamente vicino alla tubatura. «Ehi!», disse. «Possiamo farci la cioccolata calda». Restammo seduti in silenzio per qualche minuto, aspettando che il latte si scaldasse. «Quella canzone è orribile», disse lei. «Me l’hanno fatta sentire nei corridoi. Davvero l’hanno passata alla radio?». Io annuii. «E com’è successo?» «Elliot». Versò il latte caldo in una tazza e me la passò. «Quindi ora diventerai una rockstar?» «Non lo so», dissi. «Non lo so proprio». Bevvi un lungo sorso. Era una brutta giornata, e da lassù si vedeva una donna che vendeva ombrelli sul marciapiede. Quando la gente si avvicinava al suo tavolino, lei indicava il cielo con aria drammatica e urlava, ma tutti la ignoravano. «Ti ricordi la festa da Lance?», disse. «Quando facevi finta di parlare al cellulare?». Sentii il sangue affiorarmi sulle guance. «Sì, e allora?» «Nemmeno io ci sono andata», disse lei. «Cioè, sono arrivata in strada, ma sono rimasta fuori tutto il tempo. Per questo ero così sicura che nessuno ti avesse visto. Stavo osservando da un albero lì vicino». «Davvero?» «Certo», disse lei. «Che cosa stupida, da ragazzini». Un lampo attraversò il cielo in lontananza, seguito dal pigro brontolio di un tuono. «Quando ero in ospedale», disse, «ho conosciuto un tizio convinto di poter controllare il tempo». Annuii con l’aria più vaga che mi riuscì. Era la prima volta che sentivo Ashley parlare dell’ospedale. «Si chiamava King Elijah», disse. «Mi pare fosse di Scarsdale. Era basso e tarchiato, pieno di brufoli». «Perché era convinto di poter controllare il tempo?» «Per qualche ragione legata alle visioni che aveva durante i sogni. Riceveva messaggi da Dio, o dal diavolo, quindi doveva poi decodificarli usando l’algebra. Era una cosa complicatissima. Mi chiedeva sempre in prestito la calcolatrice. Dopo qualche ora tirava fuori qualche formula magica, che usava per manipolare il sole». «Ah». «Cercava sempre di far uscire il bel tempo, invece piovve tutto l’inverno. Lui si sentiva così in colpa. Io gli dissi che non mi importava, che la pioggia mi piaceva. Ma si capiva che mentivo e che cercavo solo di farlo stare meglio». «Cosa successe?» «Un casino: la struttura accolse un altro “dio”. Un ragazzo di Long Island chiamato Cronos». «Cronos?» «Be’, il realtà si chiamava Ben… ma proprio non gli piaceva essere chiamato in quel modo.
Anche lui controllava il tempo, ma non gli servivano calcoli come a King Elijah. Lui poteva far succedere le cose con la forza del pensiero. Terremoti, tsunami, più o meno tutto». «Erano amici?» «No», disse lei. «Non si trovarono molto bene». «Non fa una piega, immagino». «Infatti. Era imbarazzante soprattutto durante la terapia di gruppo. Alla fine, però, King Elijah smise di rompersi la testa su quei calcoli. Dopo qualche settimana si convinse che Cronos era molto più potente di lui, e che era inutile manipolare il sole perché Cronos prendeva il sopravvento. Smise di chiedermi la calcolatrice e di scusarsi per la pioggia. Un po’ di tempo dopo se ne andò». Sollevò lo sguardo verso le nuvole e le fissò; qualche goccia cominciava a cadere. «Scommetto che ora King Elijah sta meglio, mentre Cronos probabilmente è ancora là dentro». Mi guardò. «Nessuno dovrebbe controllare il tempo». Restò lì, in attesa di una mia risposta. Io rimasi così in silenzio da poter sentire il respiro di entrambi. «Mi dispiace», dissi restituendole la tazza quasi piena. «Devo andare». Lei non rispose. «Ci vediamo domani… alla quinta ora». Scavalcai la tubatura del riscaldamento e feci per scivolare giù nel mio condotto. «Non sei obbligato», disse. «Nessuno te l’ha chiesto». «Cosa?» «Puoi anche non venire», disse. «Non segno le presenze». «Ashley…». «Io ti racconto una cosa seria, una cosa che non ho mai raccontato a nessuno, e tu semplicemente ti alzi e torni ai tuoi stupidi compiti». «Ashley, dài». «Mi chiedo perché ti rivolgo la parola! Voglio dire, preferisci strisciare giù per una condotta piuttosto che farti vedere in giro con me!». «Ahsley, non è per quello, c’è una telecamera dietro la porta…». «A scuola non ci incontriamo mai». «Be’, e cosa vorresti che facessi? Ho una reputazione da difendere! Non posso semplicemente andarmene in giro con una persona come…». Mi interruppi, ma ovviamente era troppo tardi. Ashley voltò la testa e distolse lo sguardo. La pioggia aumentò all’improvviso, ma lei non si mosse. Alcune ciocche di capelli le ricaddero davanti agli occhi, il suo braccio luccicava di pioggia. Rimasi lì per un momento, con la testa che spuntava dal tunnel. «Ashley…». «Vai, vai», disse. «Non vorrai fare tardi». Elliot stava seduto vicino al montacarichi, un telefono per mano. «Il mese prossimo a Parigi», disse in uno. «Mettine una bottiglia da parte per me», disse nell’altro.
Li chiuse entrambi contemporaneamente e sospirò stanco. Di solito, quando entravo nella sala del biliardo, Elliot stava attaccando il telefono in faccia a qualcuno. I due telefoni non erano una cosa rara e a volte ce n’erano perfino quattro, poggiati vicino al suo drink. Quel giorno, in piedi là davanti, mi vennero in mente per la prima volta delle domande. A chi stava riattaccando, tutte le volte? Perché sembrava che lo disturbassero sempre quando stavo per arrivare io? C’era davvero qualcuno dall’altra parte della linea? «Scusami», disse Elliot. «Stavo cercando di smaltire un po’ di corrispondenza». Annuii. «Ma veniamo alle notizie del giorno!», disse. «Stai per apparire in televisione. È un programma in diretta intitolato Little Miracles. Un talk show inutile, spazzatura per signore». Avevo visto Little Miracles un paio di volte quando ero a casa malato. Andava in onda ogni pomeriggio da uno studio di Times Square. C’era un pubblico in sala e delle pareti di vetro, così la gente per strada poteva mostrare dei cartelli e comparire in televisione. «Elliot, questa cosa è folle. Insomma, cosa vogliono che faccia?» «Non dovrai fare niente, Seymour. Giusto un paio di banalità da copione e sarai fuori da lì. È domani, durante la tua ora di buco. James ti accompagnerà». «La quinta ora, dici?» «Sì». Pensai a Ashley, seduta da sola vicino alla cisterna, che scaldava la cioccolata e guardava la bocca della condotta del vapore. «Non penso di poter andare», dissi. Elliot sbuffò di rabbia. «Dimmi perché». «Devo andare in un posto», dissi. «Devi?» «Be’, insomma… voglio. Voglio andare in un posto». Elliot serrò le mascelle. «Dove? Dov’è che dovresti andare?». I suoi pugni tremavano. Fece un respiro profondo e li agitò. «Scusami», disse. «A volte dimentico quante spiegazioni richieda il tuo cervello, e che devo spiegarti tutto come a un bambino piccolo». Si versò un bicchiere di scotch da un decanter di cristallo. «Le donne li guardano questi programmi, Seymour. Le loro opinioni, o meglio le minestre riscaldate che loro considerano opinioni personali, sono all’origine di questi programmi». «Quindi?» «Quindi ogni donna della Glendale accenderà la TV per guardarti, Seymour. Compresa Jessica. La vuoi o no?». Esitai. «Non lo so». «Non lo sai». Finì il suo drink e se ne preparò un altro, versando un po’ di scotch fuori dal bicchiere. «Sai, Seymour, se volevi quel topo di Ashley, potevi aprire la bocca. A quest’ora te l’avrei fatta avere e sarebbe stato un bel risparmio».
Fu uno shock. Come faceva a sapere di Ashley? «Siamo solo amici». Elliot rise. «Siete cosa?» «Amici». Elliot batté le mani. «Un’interazione sociale con una paziente di psichiatria. Questa è la tua nuova strategia?» «Non è una strategia, Elliot. Non tutto è strategia». «Ah davvero? Perché pensi che ti rivolga la parola? Per sentire i tuoi saggi aforismi? Ashley sta cercando di metterti le grinfie addosso per risalire dal fondo dell’oceano». «Elliot…». «Prendersi una cotta va bene, ma Ashley! Cristo! Come un minatore d’oro che trova per caso un quarzo e…». «Elliot, sta’ zitto». «Va bene, va bene, Dio santo! Se devi essere così illogico, ci penserò io. Butteremo subito giù un piano». «No». Elliot rimase immobile per un momento, poi fece un risolino forzato. «Naturalmente», disse. «Non ti serve il mio aiuto per una cosa così terra terra. Ci dedicheremo a qualcos’altro». Cominciò con qualche nuova idea, ma lo interruppi. «Il punto non è che non ho bisogno del tuo aiuto», dissi. «È che non credo che tu possa aiutarmi». Elliot mi fissò, aveva le narici dilatate. «Prego?» «Se volessi stare con Ashley… non sapresti come aiutarmi. Saresti allo sbando». Elliot socchiuse gli occhi. «Fammi un favore, Seymour: non venire a dirmi che non so come funzionano le cose». «Non sai come funziona questa cosa, Elliot. Non ne hai la minima idea. Voglio dire, come potresti? Non hai mai avuto un amico in vita tua». Elliot si voltò dall’altra parte, e vidi le sue spalle ossute abbassarsi e sollevarsi. Quando si volse nuovamente verso di me, aveva il viso arrossato e contratto. «Elliot», dissi. «Ascolta…». Prese la bottiglia e la scagliò contro il tavolo da biliardo. Si ruppe in mille pezzi, scotch e frammenti di vetro si riversarono sul feltro. «Fuori!», gridò. «Fuori!». Corsi in corridoio sbattendo la porta alle mie spalle, un attimo prima che fosse colpita da una palla da biliardo. «Posso riprendermi tutto», urlò, lanciando un’altra palla contro la porta. «Tutto!». Sfrecciai giù per le scale, la mia mano sudata scivolava sul corrimano. «Mi basta schioccare le dita. Non mi serve nient’altro». Sentivo la sua voce alle mie spalle che urlava isterica in cima alle scale.
«Sei solo un passatempo, un topo con cui ho giocato! Ma adesso sono stanco di giocare! Basta! Sono stanco!». Corsi attraverso l’atrio e spalancai la porta. Il temporale era peggiorato. Esitai per un attimo sulla soglia, riprendendo fiato, guardando il muro di pioggia. Poi corsi a casa. Carissimo Seymour, congratulazioni! Sei il fiero destinatario di una Lettera di Scuse Allagash. Ti suggerisco di farla incorniciare e appenderla, è probabile che non ne vedrai mai un’altra in vita tua. Sono terribilmente spiacente per il nostro incontro dell’altra sera. Tutti e due abbiamo detto cose spiacevoli, e spero davvero che possiamo passarci sopra. Sono molto in deficit di sonno questa settimana, e mi addolora pensare che tu possa aver preso per una vera acredine un semplice sintomo fisiologico. Prometto di non intromettermi più nei tuoi affari. Crescendo sei diventato una figura a cui ispirarsi, e non hai bisogno del mio aiuto. La verità è che non ne hai mai avuto bisogno. Sinceramente, Elliot. PS: ho provato a cancellare la tua partecipazione a quello stupido programma televisivo, ma immagino avessi ragione riguardo alla mia inettitudine. Quelli non accettano un no come risposta! Sei una star, Seymour, che ti piaccia o no. Ti guarderò da casa, facendo il tifo come sempre. Mi sedetti ai piedi del letto e tirai fuori il mio taccuino. Un paio di settimane e il mio periodo alla Glendale sarebbe finalmente finito e avrei potuto dare fuoco all’intero, sordido quaderno. Con una punta di nostalgia, lo aprii alla prima pagina. Compito a sorpresa di Hendricks, 4 marzo, 14:45
“Negozi francesi”
C A B D B Crediti aggiuntivi: il quartetto vocale universitario in cui cantava Hendricks si chiamava The Funktones.
Saltai alla pagina finale e scrissi i miei ultimi appunti. Intervista televisiva a Little Miracles – 28 maggio, 13:30 1) Incontrare James nell’atrio alla quinta ora 2) I testi delle mie canzoni sono “esistenziali” Fu un sollievo trovare la lettera di Elliot, sigillata con la ceralacca, messa chissà come dentro il mio armadietto. In effetti avevo detto delle cose crudeli. E nonostante fossi contento di aver mantenuto la mia posizione, non potevo fare a meno di sentirmi in colpa per le mie parole. In ogni caso, dovevo aver avuto ragione; altrimenti per nessuno motivo al mondo Elliot mi avrebbe perdonato. C’era un tono diverso nella sua lettera, qualcosa di simile al rispetto. Mia madre bussò dolcemente alla porta. «Seymour? Se hai fame, la cena è pronta». «Ok». «Mangi con noi?», chiese. «Dammi solo un minuto», dissi io. Scorsi le pagine, stupito dal gran numero di cose appuntate in gran fretta. «Ho quasi finito». Me ne stavo in piedi vicino al mio armadietto, cecando di allentare il nodo del mio cravattino, quando mi si avvicinò Jessica. «Ho sentito che andrai in TV», disse. «È vero?» «Chi te l’ha detto?» «Non me lo ricordo», disse lei. «Si dice in giro». Annuii. Probabilmente Elliot aveva sparso la voce al mio posto. «Cosa ci vai a fare?», mi chiese. Cosa ci andavo a fare. Era una bella domanda. Se ci andavo per essere indipendente e liberarmi dell’influenza di Elliot, perché non cominciare subito? Immaginai James che aspettava di sotto, scrutando meccanicamente le facce nell’atrio in cerca della mia. Poi immaginai Ashley sul tetto, che guardava l’ora e attendeva la campanella. Non mi ero ancora scusato con lei. Qual era la scelta più ovvia? «È una figata», disse Jessica. «Cioè, la televisione». Inarcò la schiena contro il mio armadietto, e il fondo della sua maglietta si sollevò, rivelando il piercing all’ombelico. Stavo mettendo via un libro, e i suoi capelli castani chiari ricaddero dolcemente sulla mia mano. «È eccitante», disse. «Oh… be’… sai. Niente di che». Ashley non se la sarebbe presa se per un giorno fossi mancato. Potevo scusarmi con lei in un altro momento. Sorrisi a Jessica e mi diressi verso l’atrio. «In bocca al lupo», disse. Little Miracles era condotto da una coppia di coniugi che si chiamavano Mike e Suzie. Era nato come rubrica del telegiornale, ma era diventato così popolare che alla fine la rete non aveva avuto altra scelta che farne un programma. La prima parte in genere era dedicata a persone che avevano
realizzato qualcosa di insolito, come una casalinga che aveva inventato un nuovo tipo di spugna o un anziano signore che aveva scalato una montagna. Nella seconda parte, Mike e Suzie trovavano una persona povera o malata e le regalavano qualcosa di necessario per sopravvivere, come delle medicine costose o un nuovo tetto per la casa. Durante la terza e ultima parte dello show, facevano regali vari al pubblico. Di solito si trattava di trucchi e cose simili, dato che il loro sponsor era una società di cosmetici (ovviamente di proprietà delle Industrie Allagash). Non ero mai stato intervistato prima di allora. Però non ero particolarmente nervoso. Se potevo reggere quattro anni di Elliot Allagash, potevo reggere mezz’ora di qualunque cosa. Era la prima volta che salivo sulla limousine di Elliot senza di lui. Ero fiero di aver tenuto il punto ed essere riuscito a convincerlo a starne fuori. Però stare in macchina da solo con James mi metteva in imbarazzo. La verità era che in quattro anni io e James non avevamo mai avuto una conversazione. A metà del tragitto, decisi di provarci. Dopotutto, poteva essere la mia ultima occasione. «Dev’essere divertente, come lavoro», dissi, «fare su e giù con gli Allagash». James non rispose, si limitò a guardarmi dallo specchietto. I suoi occhi erano infossati e neri, spenti. Decisi di non fare ulteriori domande. Quando arrivammo allo studio, lui annunciò il mio nome a una donna con una cartelletta. Provai a ringraziarlo per avermi accompagnato, ma quando mi voltai era sparito. La signora mi condusse in una piccola stanza verde e mi mise a sedere davanti a uno specchio incorniciato di lampadine. C’era un gigantesco cesto di frutta, sul tavolo, con un cartellino appeso che recitava: “Seymour Herson”. Non avevo ancora pranzato, e stavo per rimuovere il cellophane quando arrivò un’altra donna a truccarmi il viso. «Non mangiare nulla», disse quando ebbe finito di tamponarmi la faccia con della polvere. «Rovinerai tutto». Entrambe le donne se ne andarono e io rimasi seduto a guardare il cesto pieno di frutta, noci e cioccolato. Bussarono alla porta, quindi Mike entrò nella stanza. Indossava un bavaglino e aveva il volto coperto da uno strato di cerone rosa. «Non dirmi cazzate», disse. «Non provarci nemmeno». Dopo un momento di panico, mi accorsi che stava parlando nell’auricolare. «Scusa», mi disse sottovoce. «Devo risolvere questa cosa». Sembrava più vecchio di come appariva in televisione, e la sua voce era meno gentile. «Fanculo», stava dicendo. «No, no… Non puoi darmi un altro ritardato. Ne abbiamo avuti già due questo mese». Alzò gli occhi al cielo in un gesto di scuse. «Un down? Lieve o conclamato? Ok, va bene». Si tolse la cuffia e tirò fuori un mucchietto di appunti dalla tasca. «Seymour Herstein!», disse. «Herson», risposi. «Bene», disse. «Allora, io do il segnale, tu entri, noi ti facciamo qualche domanda e tu rispondi. Non importa quello che dici, Suzie ti interromperà comunque. Però devi sorridere. Tutto chiaro? Dài, fammi vedere un sorriso».
Sorrisi. Mike si allontanò leggermente e mi scrutò per un momento. «Ok», disse. «Bene. Continua così fino alla parte dedicata al caso umano. Quando arriva, cerca di fare una faccia contrita. Così». Corrugò la fronte. «Chi c’è dopo di me?» «Un tizio francese con problemi di cuore». «Come si chiama?». Lui scrollò le spalle. «Ormai dovrei ricordarmelo. È una vita che va in onda». «Davvero?» «Sì, continuano a curarlo e lui continua a stare male. Abbiamo fatto nove servizi su di lui in tre anni. È una gallina dalle uova d’oro. Dài, fammi vedere la tua faccia contrita». Feci un’espressione accigliata. «Niente male. Ok, poi sorridi di nuovo alla fine, quando distribuiamo i trucchi. Sorriso, aria contrita, sorriso. Capito tutto?». Annuii imbarazzato. «Porca puttana», disse, scorrendo i suoi appunti. «Sei un ragazzino ambizioso». Rise. «Be’, congratulazioni», disse. «Ce l’hai fatta». Lo studio era più piccolo di quanto avessi immaginato, giusto cinque o dieci file di posti. Quando la donna con la cartelletta mi portò dietro le quinte mi sentii sollevato. L’aula magna della Glendale aveva più di quaranta file, oltre alla galleria, e io ero stato su quel palco parecchie volte. Poi però mi accorsi delle telecamere. Ce n’erano tre: una a sinistra, una a destra e una al centro. Erano tutte puntate sulla scena, come tre occhi mostruosi. «Il nostro primo ospite è un pittore, musicista e scienziato autodidatta…». La pubblicità di Little Miracles diceva: “Scoprite perché ogni giorno un milione di newyorkesi si sveglia con Mike e Suzie”. Un milione di newyorkesi. Erano tantissimi. «…un linguista, un attivista nelle cause sociali…». Quando i Knicks facevano il tutto esaurito al Madison Square Garden, voleva dire che sugli spalti c’erano ventimila persone. Andare in onda era come esporti a cinquanta Madison Square Garden, ognuno riempito fino all’ultimo posto. «…e non è ancora maggiorenne!». La donna con la cartelletta mi diede uno spintone e io piombai nello studio. Le luci erano così forti che non riuscivo a vedere il pubblico. Suzie mi diede la mano e mi porse una tazza da caffè piena d’acqua. Era talmente coperta di trucco che il suo viso sembrava una maschera d’argilla e i suoi denti avevano il colore delle ossa. Mike si avvicinò e mi diede una pacca sulla spalla, sorridendo in direzione del pubblico. «Sorridi», sussurrò tra i denti. Io sorrisi. Mike cominciò a farmi delle domande su tutti i miei presunti successi. Nella maggior parte dei
casi non sapevo bene cosa rispondere, ma fortunatamente fu soprattutto Suzie a parlare. A un certo punto Mike mi chiese perché avessi scritto i testi delle mie canzoni in francese, e io borbottai qualcosa sull’esistenzialismo. Ero terrorizzato che Mike approfondisse l’argomento facendomi una domanda del tipo “Che cos’è l’esistenzialismo?”, ma dopo una breve pausa, Suzie si alzò e rivolgendosi a me chiese: «Hai già una ragazza per il ballo?». Il pubblico scoppiò a ridere, e Mike mandò la pubblicità. Non riuscivo a crederci: era finita. Mi alzai tutto eccitato, ma Mike mi afferrò per una spalla. «Dove vai, ragazzino? Ci sono ancora due parti del programma». Tornai a sedermi. «Esistenzialismo», disse. «Mio Dio, devi rimorchiare parecchia fica, a scuola». Volse lo sguardo a Suzie con malcelato disgusto. Lei aveva gli occhi chiusi, mentre due uomini le tamponavano il viso con delle palline di ovatta. «Goditela finché dura», disse. Si girò verso la telecamera, sorridendo un attimo prima di tornare in onda. Suzie presentò il secondo ospite e un signore anziano entrò in scena. Lei descrisse il suo problema al cuore, sembrava una cosa davvero orribile. Aveva subìto nove operazioni, nessuna delle quali aveva risolto il problema in maniera definitiva. Era continuamente preda di attacchi, disse Suzie, e se in quei momenti non avesse preso subito le pillole sarebbe morto. Quelle pillole però erano costose, e lui non avrebbe potuto permettersele ancora per molto. Mike gli mise in mano un assegno gigante – sufficiente per una fornitura a vita di pillole – e il pubblico applaudì. Il tizio disse qualcosa in francese e Suzie fece una battuta sul fatto che avrebbe dovuto studiare di più alle superiori. Il pubblico rise e Mike tagliò per mandare un’altra pubblicità. Il francese si sedette accanto a me sul divano, evitando con aria imbarazzata di guardarmi negli occhi. Aveva la testa pelata e coperta di macchie e il viso era rugoso in maniera quasi comica. Per la prima volta in quel giorno, mi sentii veramente in colpa. Per me quell’apparizione televisiva era un gioco, per lui era una questione di vita o di morte. Avevano mostrato un video di lui e sua moglie che attraversavano mano nella mano la loro vigna. Il suo problema cardiaco non gli permetteva di lavorare più di un paio d’ore al giorno, e quasi sicuramente avrebbero dovuto vendere la terra. Rimanemmo seduti in silenzio mentre un gruppo di operai trascinava in studio un espositore di matite per gli occhi. Le poche volte che avevo guardato Little Miracles, ero rimasto colpito dall’entusiasmo da cui era travolto il pubblico durante la terza fascia del programma. Mike e Suzie regalavano rossetti o mascara alla fine di ogni puntata, ma quando Mike chiudeva con il caso umano e Suzie scopriva l’enorme pila di omaggi, la folla dava di matto. Suzie cercava di parlare del prodotto, della sua morbidezza, della sua eleganza, ma la si riusciva a malapena a sentire sopra il frastuono delle urla femminili. Alla fine, quando Suzie terminava la descrizione, Mike dava un segnale di qualche tipo e le spettatrici si fiondavano sul palco, afferrando con entrambe le mani dal mucchio, finché non spariva del tutto. Se quella era la reazione ai trucchi in regalo, figurarsi come si sarebbero comportate se fosse successo qualcosa di veramente sconvolgente. Suzie cominciò a leggere il suo copione dal gobbo, ma prima ancora che finisse la prima frase, sentii un lungo singhiozzo. Mi voltai e il francese stava stringendo il tavolo con entrambe le mani. «Il suo cuore!», gridò qualcuno. «Gli servono le pillole!». Una donna tra il pubblico strillò, e tutti i cameraman cominciarono a urlare qualcosa nelle trasmittenti.
«Dove sono le pillole», gli urlò Mike. «Dove sono?». Il vecchio prese il foglio con gli appunti di Mike, ci scarabocchiò su qualcosa e glielo ridiede. Mike lo guardò terrorizzato. «È in francese!». Suzie indicò me dall’altra parte della stanza. «Seymour! Seymour può tradurre». Mike mi porse il foglio mentre le tre telecamere si voltavano nella mia direzione. «Ragazzo, che c’è scritto?». Appena abbassai gli occhi sul foglio, lo studio piombò nel silenzio. Il vecchio aveva scritto in stampatello alcune parole in francese, tutte enfaticamente sottolineate. Per me erano prive di significato. «Maledizione, Seymour!», gridò Mike. «Cosa dice?». Il vecchio si afferrò il petto, lanciò un urlo e crollò sulla pila di matite. I trucchi si sparsero rumorosamente in tutto lo studio. «Qualcuno parla francese?», gridai io. «Non lo parli tu?», disse Suzie. Alzai lo sguardo verso la telecamera, il foglietto ancora in mano. «Mio Dio, ragazzino», disse Mike disgustato. «Mio Dio». Il pubblico invase lo studio mentre il vecchio si contorceva a terra in agonia. Le sue braccia si agitavano in modo convulso sui fianchi, ma non appena il cameraman urlò «Stop» si fermarono. Feci un passo nella sua direzione. In qualche modo, mi ricordava qualcuno. «Oh mio Dio», sussurrai. «James». Portò un dito sulle labbra. «Gesù Cristo!», gridai. Si tirò in piedi e si spazzolò. Nello studio regnava un tale panico che nessuno sembrava essersi accorto che si era alzato. Sentivo in lontananza una sirena. Lui prese il cellulare e premette un solo tasto. «Fatto», disse. «Aspetta», dissi. «James… devi spiegare questa storia a quelli dell’ambulanza. Penseranno che io…». James mi tappò la bocca con una mano e si chinò su di me. Aveva l’alito cattivo, e il trucco era colato per il sudore. Fu uno shock. Elliot mi aveva allenato, guidato, aveva lottato per me per anni. Aveva sempre tenuto quell’asso nella manica per ogni evenienza? «È finita», disse James. «Puoi andare». «Come hai potuto farmi questo?», chiesi. Lui sospirò con aria esausta. «Fidati, ragazzo», disse. «Mi ringrazierai». Uscii dallo studio e tornai a scuola, ma non riuscii a entrare nell’edificio. All’ingresso vedevo le persone che conoscevo chiacchierare, ridere, salutarsi. Forse ancora non sapevano del disastro, ma era questione di tempo. Il mondo era finito e io ero l’unico a saperlo. Senza nemmeno pensarci, presi il cellulare e composi il numero di Elliot. Squillò due volte, prima che mi rendessi conto che
non avrebbe risposto. Potevo immaginarlo nella sua sala da biliardo, mentre aggiungeva il mio nome alla sua lista di nemici. Mi aveva già spuntato? Stava per farlo? «Ehi!». Trasalii spaventato. Jessica stava vicino al parcheggio delle biciclette e fumava una sigaretta. «L’ho registrato», disse. «Lo guardiamo tutti insieme dopo la scuola. Io, Lindsay, Tara…». Annuii automaticamente mentre lei snocciolava altri nomi, ognuno dei quali mi arrivava in faccia come un pugno. Cosa avrebbero fatto tutte queste persone una volta scoperto che ero un truffatore? «Tutto bene?» «Sì, sto bene», dissi. «Sembri…». «Sto bene». «Sai, ho pensato tanto alla tua canzone, e mi stavo chiedendo, magari…». «Non ho voglia di parlarne». Lei gettò via la sigaretta. «Non sono stupida, sai?» «Come?» «Non sono stupida!». Distolse lo sguardo, imbarazzata. «Ok, bene, non capisco la canzone. Forse perché nessuno me l’ha mai spiegata. La gente pensa: “A che serve? Tanto non capirebbe”. Be’, forse se qualcuno me la spiegasse potrei farcela». Rivolse lo sguardo a terra, battendo rapidamente le palpebre. Incredibile: stava piangendo. «Ho ascoltato quella canzone terribile almeno cento volte», disse. «E tutte le volte che provo a parlarne, la gente ride. Lo sai come ci si sente?». Per la prima volta, pensai a cosa doveva pensare Jessica di me. Non ero mai andato a una festa, né avevo rivolto parola a chicchessia. Tutto ciò che facevo era più o meno studiato in modo da farla sentire inferiore. «Jessica…». «Che c’è?» «Nemmeno io l’ho capita». Lei alzò lo sguardo. «Cosa?» «La canzone, quella che passano alla radio… Non l’ho scritta io. L’ha scritta qualcun altro. Non ho la minima idea di cosa significhi». Lei si asciugò il viso, sbavandosi leggermente il trucco. «Davvero?» «Certo», dissi. «E sai un’altra cosa? Nemmeno la persona che l’ha scritta sa cosa significhi. Quindi se qualcuno ti dice che tu non la capisci, be’, è lui lo stupido… perché non c’è niente da capire. La canzone è priva di senso». «È quello che pensavo anche io», mormorò. «Non l’ho detto a nessuno, ma l’ho sempre pensato». Rise per un istante, poi soffocò le risate coprendosi la bocca con la mano. Si guardò alle spalle, quindi mi sorrise con aria complice. «Non lo dico a nessuno», disse. «Prometto».
«No, va bene», dissi. «Non importa. Puoi dirlo a chi vuoi». Lei esitò. «Posso dirlo a Lance? Ne sarà contento, nemmeno lui l’ha capita». «Certo», risposi io. «Dillo a Lance». «Seymour, che ti succede?». Singhiozzai. «Sono nei guai, Jessica». Lei spalancò gli occhi, sinceramente preoccupata. «Guai seri?» «Penso di sì». Mi lanciò un sorriso amichevole. «Andrà tutto bene, Seymour», disse. «Dài, quanto potrà mai essere grave?». Rettifiche «The New York Times» L’articolo pubblicato il 15 ottobre, Attivista liceale salta il ballo per curare una malattia, conteneva diversi errori. Il protagonista dell’articolo, Seymour Herson, era definito il segretario della Lega Anti Amianto di New York. Egli non ricopre questa posizione. In realtà tale organizzazione non esiste. L’articolo affermava, erroneamente, che Seymour stava cercando una cura per il morbo di Pasternak-Schwarzschild. In verità non ha mai cercato di curare questa malattia. Nell’articolo era detto altresì che Seymour parla quattro lingue. In realtà parla solamente l’inglese. L’articolo indicava L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon come il libro preferito di Seymour Herson. In realtà egli non ha mai letto questo libro. L’articolo conteneva un aneddoto, inviato al «Times» da un “amico intimo”, che raccontava della visita di Seymour a un museo. Secondo l’aneddoto, Seymour era rimasto così assorto davanti a un quadro di Cézanne che quando una guardia gli disse che il museo stava per chiudere lui non la sentì e dovettero «scuoterlo fisicamente». Questo episodio non è mai accaduto. L’articolo raccontava come Seymour Herson avesse dovuto scegliere tra una ricerca di laboratorio e la partecipazione al ballo scolastico, per il quale aveva un appuntamento. Seymour in realtà non aveva un’accompagnatrice per il ballo. Il «New York Times» si scusa per gli errori. «Arte in America» La nostra rassegna annuale di quadri ha erroneamente attribuito un’opera, Acque verdi, a Seymour Herson. In verità il dipinto è opera di Terry Allagash. Il leggendario magnate ha detto di aver usato uno pseudonimo in modo da ricevere «delle critiche obiettive». «Arte in America» si congratula con il signor Allagash per il successo ottenuto. La Bishop House cancella un libro dal catalogo
La redazione della Bishop House annuncia i seguenti cambiamenti relativi alle prossime uscite. La semiotica marxiana, terza opera del professor Daniel Herson, non verrà più pubblicata il prossimo autunno. Il libro è stato cancellato e il contratto del professor Herson è stato rescisso. Newsletter Tribale dei Genizaro Un servizio apparso nella newsletter di dicembre, intitolato Il successo dei nostri figli, conteneva alcune inesattezze. In realtà Seymour Herson non è un membro della nostra tribù. I suoi documenti erano un falso. L’articolo diceva anche che Seymour sarebbe andato a Harvard il prossimo autunno. Ciò non è più vero, la sua ammissione è stata cancellata. La Newsletter Tribale dei Genizaro si scusa per gli errori. «Seymour? Oddio, da quanto sei quassù?» «Ashley, se lo dici a qualcuno…». «Siamo tornati alle minacce? Va bene, sentiamo. Cosa pensi di farmi?». Strisciai fuori da sotto la torre dell’acqua. I miei vestiti erano macchiati di catrame e la mia felpa era ancora bagnata dalla pioggia della notte precedente. «Cristo», disse lei. «Sei nascosto qui da ieri?». Annuii. Ero sgattaiolato su per il condotto subito dopo aver parlato con Jessica. La mia intenzione era di starmene lì un paio di minuti per decidere cosa dire ai miei. Per ideare una strategia, però, ci voleva più di quanto credessi. Sapevo come cominciare, magari qualcosa di banale tanto per rompere il ghiaccio. Qualcosa sul tempo, del tipo: “Insomma, arriva l’estate”, oppure: “Hai visto che pioggia?”. Non ero andato oltre. «Ho visto Hendricks parlare con un giornalista, all’ingresso», disse Ashley. «Oddio». «Tranquillo, lui adora tutta questa attenzione». Si sedette vicino a me e sfogliò la pila di quotidiani. La mia faccia compariva su alcune prime pagine. «Accidenti», disse. «Ti hanno beccato». «Già». «Sai qual è la cosa per cui sono tutti più arrabbiati? La faccenda della tribù indiana». Feci un cenno di assenso con la testa. «Quella era davvero assurda». Raccolsi i giornali e li soppesai. Quanto denaro ricavavano gli Allagash da una pila di quelle dimensioni? Ashley li afferrò e li ficcò nel suo zaino. «Tra due giorni non importerà più a nessuno», disse. «Qualche tizia di Omaha annegherà i propri figli e la gente si dimenticherà di te». «Dio, lo spero proprio». Ashley rise. «Dài», disse, «devi scendere da qui. È ridicolo». Scossi testardamente la testa. «Di cosa hai paura? Ormai ti hanno scoperto».
Tenevo lo sguardo fisso su una striscia di catrame per evitare di piangere. Non stava funzionando. «Seymour, dài. Di che ti preoccupi?». Mi asciugai con un gesto brusco gli occhi con la manica. «Saranno cattivi con me». «Chi?» «Tutti quanti». Lei annuì. «Già». Sentii la campanella suonare in lontananza ma non mi mossi. «Ehi», disse. «Io sarò carina con te». La guardai sospettoso. «Perché?» «Perché no? Non mi costa niente. Voglio dire, neanche la cioccolata è mia! L’ho rubata dalla mensa». «Non ti sei arrabbiata con me?» «Certo, perché sei stato uno stronzo, non perché non sei davvero un nativo. E poi non lo sono più». Mi allungò una tazza. «Ecco qui, Cicciobombo. Bevi». «Ashley… devo dirti una cosa». Feci un respiro profondo. «All’ottavo anno, quando eri in lizza come rappresentante d’istituto… Elliot e io abbiamo architettato tutto per farti perdere». «Lo so». «Cosa?» «Voglio dire, ho sempre dato per scontato che aveste imbrogliato. Ma nel dubbio…». Frugò nello zaino e mi porse una piccola busta filigranata. Il sigillo di ceralacca era troppo consumato per poterlo riconoscere, ma chi altri usava un sigillo di ceralacca? «Quando te l’ha spedita Elliot?». Lei alzò le spalle. «Un paio di mesi fa. Immagino abbia pensato che esercitavo una cattiva influenza su di te». La guardai incredulo. «E allora perché non hai detto nulla? Perché hai continuato a vedermi?» «Perché quella era una storia da ragazzini, Seymour. Io non sono più una ragazzina. E tu?». Deglutii. «No». Abbassai lo sguardo. «Ashley?» «Sì?» Esitai.
«Vuoi essere mia amica?». Quando alzai gli occhi, lei sorrideva. «Io sono tua amica», disse. «Seymour, lo sono già». «Ok», dissi. «Credo di poter scendere, adesso». Mi alzai e mi diressi verso il tunnel. «Aspetta», disse lei. «Pensi che possiamo… voglio dire… va bene se facciamo l’altra strada?». Attraversai il tetto e la presi per mano. Lei sorrise. «Non torniamoci più, quassù», dissi. «Va bene». E insieme oltrepassammo la porta. I miei genitori dovevano aver sentito l’ascensore perché mi stavano aspettando all’ingresso. Mio padre mi mise un braccio intorno alle spalle appena le porte si aprirono, mentre mamma, isterica, stava gridando qualcosa al telefono. Mi tirarono dentro, mi spinsero sul divano e mi esaminarono freneticamente in cerca di tagli o ferite. Dopo un giorno di fuga ero un po’ scarmigliato, ma i miei sembravano messi peggio. I capelli di mia madre erano tutti spettinati mentre mio padre aveva la barba incolta sul collo. Cominciai a scusarmi – per essermi nascosto, per tutto quanto – ma loro mi interruppero insieme. «Di questo possiamo parlare dopo», disse mio padre sciogliendomi i lacci delle scarpe. Mamma mi riempì la vasca e feci il primo bagno dopo anni. La mia faccia era ancora sporca di trucco per la TV. Tenni la testa sott’acqua il più a lungo possibile e sentii il cerone che si staccava. Infilai una felpa dei Knicks vecchia e sformata e andai in soggiorno. C’era un petto di pollo sul tavolo e i miei erano chini su una scatola. «È la sera del Monopoli», disse mamma nel tono più normale che le riuscì. A mettere a posto le cose avremmo cominciato l’indomani, e avrebbe richiesto mesi di tempo. Ma prima i miei volevano concedersi una tranquilla serata casalinga. Mangiammo in silenzio mentre papà preparava il tabellone. Il telefono suonava ogni due minuti. Papà rispondeva, mormorava qualcosa, diceva “no comment” e riagganciava. Dopo sette o otto chiamate, staccò il filo dal muro. Abbassai lo sguardo sul mio piatto. Pensare a tutte le umiliazioni che i miei avrebbero sopportato per causa mia era una cosa orribile. Papà frugò un po’ nella scatola fino a trovare il suo carretto. «Ehi», disse. «Giovanotto, vuoi sapere una cosa?». Mi strinsi nelle spalle. «Io baro, a Monopoli». Non ero sicuro di aver capito bene. «Scusa», dissi. «Come?» «Baro a Monopoli», ripeté. «Lo faccio da anni». Alzò le mani. «È così», disse. «Sono un adulto che bara a un gioco per ragazzi». «In che modo?» «Rubo dalla banca», disse. «Per questo accetto sempre di tenere la banca, così posso rubare». «Oh Gesù», dissi io. «Mamma, tu ci credi?» «Lo so da anni», disse lei. «Sai la cosa più assurda? A volte perde comunque».
Papà annuì. «Non sono bravo a Monopoli», disse. «Wow», feci io. «Non l’ho mai saputo». «Sei arrabbiato?», mi chiese. «Be’, un pochino, immagino. Ma sai… credo che ci passerò sopra». Lui si allungò sul tabellone e mi prese la mano. «Bravo», disse. «Siamo una famiglia». Il campanello della porta suonò improvvisamente, e i miei si alzarono in piedi. «Oh Gesù…». «Non dirmi che hanno cercato il nostro indirizzo…». «Ragazzi», dissi, «calma, mi sono dimenticato di dirvelo: ho invitato una persona». Mia madre sbarrò gli occhi, terrorizzata. «Chi?». Il campanello suonò di nuovo. Mamma e papà erano completamente paralizzati, io attraversai il corridoio e aprii la porta. «Ciao», disse Ashley. «Ciao», risposi. «Ma’, pa’, lei è la mia amica Ashley». «Oh», esclamò mia madre. «Oh!». «È un piacere», disse papà. «Sei arrivata proprio in tempo». Avvicinò una quarta sedia al tavolo e rovistò nella scatola alla ricerca di un’altra pedina. Ashley stava decidendo tra la macchinina e il ditale, quando sentii il telefono che mi vibrava contro la gamba. Lo tirai fuori dalla tasca, esitai, quindi lentamente lo portai all’orecchio. «Seymour! Grazie a Dio hai risposto!». Ashley esaminò la macchinina, poi la ributtò nella scatola. «Non hai sentito i messaggi. Ascolta, dobbiamo assolutamente parlare, è urgente!». Ashley posizionò il ditale sul VIA e mio padre allineò le quattro pedine. «Lo so che questa settimana mi sono comportato in maniera sconsiderata. Dovevo darti una lezione… lo so, è stata un po’ dura, ma era necessaria. Però capisci, non c’è nulla di irrecuperabile, sempre che agiamo in fretta!». Mia madre portò un piatto ad Ashley, e papà le servì una fettina di petto di pollo. «Può capitare a tutti di immobilizzarsi davanti alle telecamere! Possiamo trovare una spiegazione per ogni reato! Anzi, meglio ancora, possiamo incastrare qualcuno! Un sacco di gente! In tre, massimo quattro settimane, posso farti tornare quello che eri, ho in mano giornalisti, poliziotti! Seymour, mi ascolti?». I miei mi guardarono. «Questa è solo una piccola deviazione in tutta la storia! Tra vent’anni ripenseremo a questo momento e ne rideremo! Vieni da me stasera. Cominceremo a pianificare, mi sono già occupato dei preliminari – Harvard, la Bishop House, la stampa – mi basta una parola e si muoveranno alla velocità della luce! Possiamo riavere tutto e anche di più, Seymour! Anche di più!». «Tesoro?», disse mia madre. «Devi rispondere per forza?» «No», dissi io. «No, non devo».
Spensi il telefono. Sul VIA c’erano quattro pedine scintillanti, come atleti pronti sulla linea di partenza. Presi i dadi e li agitai sopra i cinquecento dollari che mio padre aveva piazzato sul Parcheggio gratuito. Poi mi fermai. «Vi andrebbe di giocare a qualcos’altro?». Ci guardammo in silenzio, tutti e quattro d’accordo. «Prendo un puzzle», disse mia madre. Mio padre tolse il tabellone del Monopoli, mentre mamma rovistava nell’armadio. Avevamo un solo puzzle, uno da mille pezzi, sepolto da qualche parte. Il coperchio della scatola era andato perduto, ma mia madre tirò comunque fuori i pezzi. «Cosa rappresenta il puzzle?», chiese Ashley. «Immagino che lo scopriremo», disse mio padre. Presi un pezzo e tutti insieme cominciammo a lavorarci.
Parte terza
Probabilità
Io e Ashley stavamo facendo spese per il viaggio in programma a fine agosto, quando incontrammo Elliot Allagash. Stava camminando verso la sua limousine, mentre gridava ordini nel suo cellulare. Vicino a lui si trascinava un ragazzo trasandato con un paio di jeans troppo larghi e una canottiera. Non avevo intenzione di salutarlo, ma Ashley urlò il suo nome. Elliot sollevò lo sguardo, deglutì e chiuse il telefono. «Bene, bene», disse. Seguii Ashley lungo il marciapiede e, per la prima volta da quando ci conoscevamo, io ed Elliot ci stringemmo la mano. «Lui è Doug», disse Elliot indicando il ragazzo dall’aria intontita alle sue spalle. «Come butta?», disse Doug. Sollevò il pugno a mezz’aria, io e Ashley ricambiammo. «Doug verrà con me a Harvard il mese prossimo», disse Elliot, «nonostante una media del 5 e tre arresti per ubriachezza manifesta». «Congratulazioni», dissi io. Doug annuì. «Vado a fumare dietro a quel cassonetto», disse. «Va bene», rispose Elliot. Fece un lungo sospiro mentre Doug barcollava via in direzione del vicolo. «In realtà potrebbe essere un vero ritardato, ma sono riuscito a farlo entrare nella migliore università del mondo». Rimanemmo per un momento tutti in silenzio. Alla fine, Ashley mi diede un colpetto col gomito. «Allora», dissi. «Insomma… cioè… come hai fatto?» «La cosa non ti riguarda», sbottò Elliot. Ci fu una piccola pausa. «Anche se dovresti saperlo, ho ricattato un gruppo di professori facendo loro credere che si stavano ricattando a vicenda». Mise una mano in tasca e mi porse un foglio. «Ecco qui. Questo è il grafico che ho fatto per seguire il piano». «Wow», dissi. «Molto ingegnoso». Mi girai in cerca di Ashley, ma si era allontanata per guardare una vetrina. Mi fece un cenno con la testa, poi si voltò. Esaminai il grafico di Elliot. Era impossibile da seguire, ma era chiaro che aveva avuto bisogno di un’incredibile quantità di tempo per realizzarlo. Lo ripiegai accuratamente e glielo restituii. «Insomma… ehm… tuo padre come sta?» «Terry sta per andarsene da New York». «Davvero?», dissi. «E dove va?» «Nel Massachusetts», disse guardando a terra. «A Cambridge, in effetti». «Ah sì?» «Sì, ha comprato un palazzo storico vicino a Harvard, un ex edificio governativo. L’ha completamente sventrato, tanto per fare un dispetto ad alcuni professori del posto. Comunque, andrò a vivere lì». «È stato carino da parte sua trasferirsi completamente solo per stare vicino a…». «È una coincidenza», disse Elliot. «Il suo cappellaio preferito ha aperto un negozio su Newbury
Street. Lui l’ha seguito d’impulso». «Ah», dissi io. «Be’, non fa una piega». «Già», disse Elliot. «Non ci sono buoni cappellai in questa città, quindi…». «Certo». Elliot annuì. «Stiamo… in realtà stiamo lavorando a un piano, in questi giorni», disse. «Io e Terry». «Davvero?» «Sì. Terry se n’è uscito con un’idea per aggirare i requisiti di matematica e scienze richiesti per Harvard. È una cosa molto ingegnosa, ma parecchio complicata. Ci vorrà del tempo per farla decollare». «Sono sicuro che troverete il modo». «Sì, siamo già a buon punto». Doug venne fuori da dietro il cassonetto, ci superò ed entrò nella limousine. «Sarà meglio che vada», disse Elliot. «Ok», risposi. «Ciao». Entrò in macchina, e immediatamente partirono lungo il viale. Io raggiunsi Ashley, la presi per mano e mi incamminai nella direzione opposta. Eravamo a metà dell’isolato, quando mi voltai a guardare. La limousine di Elliot stava scomparendo lungo una collina, ma mi sembrò di vedere il suo viso fare capolino dal tettuccio e guardare nella mia direzione. Mi tornò in mente il vento tra i capelli quando sfrecciavamo lungo Park Avenue. Un bicchiere in mano, il sole sul viso, il mondo intero che mi si apriva davanti! Era un ricordo così emozionante che cominciai a ridere a crepapelle.
Ringraziamenti Questo romanzo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di un numero incredibile di persone. Il mio agente, Daniel Greenberg, ha creduto in questo progetto fin dalla mia prima, nevrotica email. In oltre due anni mi ha elargito critiche preziose e ottimi consigli, e mi ha assistito durante due diversi attacchi di panico. Jonathan Jao è stato un editor perfetto. Mi ha sostenuto ogni volta che avevo ragione e mi ha fatto ragionare quando avevo torto. La sua pazienza e il suo acume hanno sostanzialmente migliorato questo libro e al contempo hanno reso me uno scrittore migliore. Il mio avvocato, Lee Eastman, si è occupato di me quando ero un ventiduenne disperato e disoccupato. Non riesco a immaginare gli ultimi tre anni senza il suo appoggio e la sua consulenza. È stata una delle prime persone a cui ho fatto leggere questo romanzo, e se non mi avesse detto «vai!» non sono sicuro che l’avrei pubblicato lo stesso. Mia madre, l’eccellente editor Gail Winston, ha letto due bozze preliminari del romanzo e mi ha dato degli ottimi consigli. Josh Koenigsberg mi ha aiutato a riempire due buchi della storia, uno dei quali non avevo nemmeno notato. Mio padre, sua moglie e mio fratello mi hanno sostenuto durante tutta la stesura. E i miei amici mi hanno sopportato eroicamente nei periodi in cui davo di matto. Non c’è abbastanza spazio per ringraziarli tutti, ma eccone alcuni: Azhar Khan, Monica Padrick, Josh Morgenthau, Brent Katz, Caitlin Petre, Steve Bender, Nick McDonell, Amanda Miller, Francesca Mari, David Herson e Kathleen Hale. Nell’arco della mia breve carriera, ho avuto la fortuna di collaborare con molti scrittori meravigliosi. Ho imparato tanto da ognuno di loro e vorrei citarne alcuni: Josh Koenigsberg, Bill Hader, Marika Sawyer, John Mulaney, Colin Jost, Seth Meyers, Bryan Tucker, Andy Samberg, Dan Menaker, Farley Katz, Zach Kanin, Andrei Nechita. Lo scrittore Erik Kenward mi ha introdotto all’uso del termine stercoraro. E a mio padre va il pieno merito della storia di “Dov’è il pesce?”. Me l’ha raccontata quando avevo undici anni (e ancora oggi continua a sostenere che sia vera!). Grazie a Charles Dickens, P.G. Wodehouse, Evelyn Waugh, Roald Dahl, Terry Southern, David Sedaris e ai Simpson. Ringrazio anche Evan Camfield, Simon M. Sullivan, Jennifer Huwer, Meghan Cassidy, Ben Wiseman, Caleb Beyers, Dustin Lushing, Lorne Michaels, Mike Shoemaker, Steve Higgins, Gregory McNight, Shari Smiley, Forrest Church, Michael Hertzberg e i ranger dell’Allagash Wilderness Waterway, il parco naturale del fiume Allagash. Infine… Jake Luce ha dispensato critiche, consigli e incoraggiamenti in ogni fase del processo creativo, dall’ideazione del romanzo fino alla pubblicazione. Questo libro è dedicato a lui, anche se probabilmente il suo nome dovrebbe figurare in copertina. Considero questo romanzo opera sua quanto mia.
Indice Parte prima. Parcheggio gratuito Parte seconda. In prigione! Parte terza. Probabilità
Note 1Negli Stati Uniti l’ottavo grado di istruzione corrisponde alla nostra terza media. 2La Continental Basketball Association è stata una lega statunitense di basket professionistico, che ha costituito per anni il principale serbatoio di giocatori per le panchine delle squadre NBA. 3 Rete di itinerari segreti e nascondigli sicuri utilizzati dagli schiavi neri per fuggire in Canada o negli Stati americani in cui la schiavitù era proibita. 4 Attivista afroamericana vissuta tra il 1822-1913. Dopo essere fuggita dalla schiavitù, aiutò a fuggire negli Stati liberi altre settanta persone servendosi della Underground Railroad, e fu una figura di spicco del movimento per il suffragio femminile. 5 Imposta sul diritto di voto stabilita per legge in alcuni Stati americani (soprattutto del Sud) dopo che l’emanazione del Quinto Emendamento aveva stabilito che il diritto di voto fosse garantito a tutti i cittadini senza distinzione «di razza, colore o precedente condizione di schiavitù», e che ottenne l’effetto di escludere dalla partecipazione elettorale la cittadinanza povera, in gran parte formata da nativi, afroamericani e immigrati bianchi. 6 Provvedimento con cui nel 1863 il presidente Abraham Lincoln decretò l’abolizione della schiavitù e la liberazione degli schiavi nei territori degli allora Stati Confederati d’America. 7Si tratta della prima legge antitrust degli Stati Uniti, emanata nel 1890. 8Susan B. Anthony era un’attivista americana vissuta tra il 1820 e il 1906, protagonista della lotta per i diritti civili e per l’emancipazione femminile. 9 Sagacawea era una nativa americana della tribù dei Shoshoni, vissuta tra il 1788 e il 1812 e divenuta simbolo dell’indipendenza delle donne in America nei secoli successivi. 10Blitz (speed chess nell’originale) è una variante degli scacchi in cui ai giocatori è concesso poco tempo per pensare alla mossa, in genere non più di cinque minuti. 11
Stupro n.d.a