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JACK KERLEY IL CENTESIMO UOMO (The Hundredth Man, 2004) Ai miei genitori, Jack e Betty Kerley NOTA DELL'AUTORE Nel descrivere ambienti, siti geografici, enti e istituzioni, ho usato una certa flessibilità, assecondando vezzi e capricci di questa storia. Ogni aspetto della vicenda è pertanto da considerarsi di fantasia, salvo che per la bellezza naturale di Mobile e dei suoi dintorni. Qualsiasi somiglianza fra i personaggi di quest'opera e persone realmente esistenti, viventi o meno, è da considerarsi del tutto casuale. PROLOGO Pochi attimi prima che finalmente si verificasse uno degli eventi più attesi nella sua vita adulta, un evento a cui aveva dedicato anni di studio e di pianificazione e che avrebbe segnato il suo ingresso nel mondo professionale, assicurandogli a un tempo la stima dei suoi pari e uno stipendio di tutto rispetto, l'occhio sinistro di Alexander Caulfield cominciò ad ammiccare, neanche fosse quello di un gigolò in un film italiano di quart'ordine. tic Caulfield imprecò a mezza voce. Da medico, riconobbe la manifestazione per quello che era: uno spasmo transitorio emifacciale, ovvero una reazione nervosa della palpebra di fronte a eventi capaci di generare ansia o di costituire una minaccia. tic Assurdo, si disse, strizzando l'occhio incriminato; nel corso dell'internato aveva compiuto, sia personalmente sia come membro di un team, centinaia di autopsie. C'era un'unica differenza: quella era la prima volta che agiva in veste professionale. E lei era seduta a sei metri di distanza.
Caulfield aprì lentamente l'occhio... Lanciò uno sguardo in direzione della dottoressa Clair Peltier. La donna stava aprendo una busta nel suo ufficio di responsabile del reparto di anatomia patologica, apparentemente assorta nella lettura della corrispondenza. Caulfield si sentì impacciato, impreparato, le dita gli sembravano appesantite e maldestre: quel giorno era previsto che si occupasse di revisioni procedurali e incontrasse i nuovi colleghi dell'ufficio di Mobile dell'Alabama Forensic Bureau, il reparto della Scientifica dello Stato. Era stato allora che la dottoressa Peltier gli aveva suggerito di sostituirla nell'eseguire un'autopsia di cui avrebbe dovuto occuparsi lei. tic Caulfield regolò la lampada chirurgica appesa al soffitto in modo da inquadrare il corpo di un uomo bianco di mezz'età. L'acqua scorreva come un piccolo ruscello sul piano di metallo sotto il cadavere. Guardò di nuovo la dottoressa Peltier: stava ancora leggendo la posta. Si passò un dito sulle sopracciglia sudate, si rimise a posto la maschera per la terza volta, studiò il corpo. L'incisione sarebbe stata perfettamente al centro dell'addome? Diritta? Allineata? Sarebbe stata all'altezza degli standard di Clair Peltier? Fece un respiro profondo, poi disse alle sue mani: Adesso. Il ventre bluastro si aprì come un sipario fra il pube e lo sterno. Un'incisione netta e diritta, da manuale. Caulfield sbirciò ancora una volta verso la dottoressa. Lo stava guardando. tic La Peltier sorrise e tornò a dedicarsi alla corrispondenza. Caulfield mise da parte le sue paure, riponendole in un angolo remoto della mente, e si concentrò sull'esame degli organi. Recitò le sue conclusioni ad alta voce al registratore per la successiva trascrizione. «A un primo esame, il tessuto miocardico si presenta normale in dimensioni e spessore delle pareti. L'area del miocardio nel ventricolo sinistro mostra segni di un precedente infarto miocardico...» Le immagini e i suoni familiari spinsero Caulfield su un sentiero fidato; non si accorse che gli spasmi si erano dileguati. «...fegato chiazzato, indicazioni di cirrosi allo stadio iniziale... reni privi
di particolari irregolarità...» L'uomo era stato ritrovato riverso nel suo cortile dopo una chiamata al pronto intervento. Il personale sanitario accorso sul posto aveva praticato le tecniche di rianimazione per un attacco cardiaco, ma al momento in cui arrivarono all'University Hospital il decesso era già stato constatato. Le prime conclusioni di Caulfield rivelavano un attacco cardiaco esteso, anche se i tessuti non danneggiati apparivano sani e privi di epicarditi o aterosclerosi. Si spostò più giù nella cavità addominale. «...Si nota un'occlusione nel colon discendente...» Caulfield strinse le dita sul rigonfiamento negli intestini. C'era qualcosa di duro e di forma regolare, un oggetto costruito dall'uomo. Non era un fatto inconsueto; al pronto soccorso ci si occupava spesso di persone a cui dovevano essere estratti vibratori, candele, carote o cetrioli e simili: non c'era limite all'inventiva della gente nella ricerca di sensazioni erotiche. «Facendo uso di una lama numero dieci, un'incisione verticale è stata apportata nella parete anteriore del colon discendente...» Tirò indietro l'intestino fino rivelare la fonte dell'occlusione. «È visibile un oggetto, argenteo e cilindrico, simile a una sezione di torcia elettrica...» Una superfice di metallo, umida, scintillò nell'apertura dell'intestino; una delle estremità era avvolta da tessuto nero. No, non era tessuto. Piuttosto, nastro isolante. Le dita di Caulfield si posarono incerte sull'oggetto, che sembrava ammiccare come un intruso, con un'oscura aria di minaccia. tic Sentì la dottoressa Peltier spingere all'indietro la sedia; il rumore di tacchi sul pavimento gli dissero che stava avvicinandosi. Caulfield infilò le dita nel passaggio e afferrò l'oggetto, cercando delicatamente di estrarlo. Scivolò con facilità attraverso l'apertura, poi si bloccò. Strinse le dita e tirò con maggior forza. tic Successe tutto nello stesso istante: un lampo bianco, un tonfo nero. La testa di Caulfield scattò all'indietro e la sua schiena colpì il pavimento. Vapore rosso e fumo tinsero l'aria. Un urlo di donna si fece spazio tra il frastuono nelle sue orecchie. Qualcuno, sopra di lui, agitò un bastone dalla
punta smussata, una mazza. No, non una mazza. La luce vacillò due volte e si spense del tutto. Quando il verbale dell'autopsia venne trascritto, Marie Manolo, l'impiegata, ebbe qualche dubbio sull'opportunità di includere nel testo le ultime otto parole pronunciate dal dottor Caulfield. Addestrata dalla dottoressa Peltier a osservare sempre un clinico e accurato distacco, Marie chiuse gli occhi, fece un profondo respiro e scrisse: «Le mie dita. Dove sono le mie dita?» 1 «C'è questo tizio, una sera, che sta portando a spasso il cane...» Guardai Harry Nautilus appoggiarsi al tavolo dell'autopsia e raccontare la «barzelletta dell'anno» a una dozzina di spettatori che tenevano in mano bicchieri di plastica e tazze avvolte in tovaglioli. La maggior parte di loro erano burocrati dell'amministrazione comunale e della contea di Mobile. Due erano avvocati. O, più precisamente, pubblici ministeri. Harry e io eravamo gli unici poliziotti. C'erano anche delle autorità, soprattutto nella reception dove avrebbero avuto luogo i momenti più significativi della cerimonia d'inaugurazione dell'obitorio. Il taglio del nastro era avvenuto un'ora prima; un nastro dorato, non nero, come certi buontemponi avevano suggerito. «Che tipo di cane?» chiese Arthur Peterson. Peterson era un vice pubblico ministero e le sua domanda era suonata come un'obiezione a un processo. «Un bastardo», borbottò Harry, stringendo gli occhi a fessura in seguito all'interruzione. «Allora, questo tizio sta portando a spasso il suo bastardino, Fido, quando vede un uomo carponi sotto un lampione.» Mandò giù un sorso di birra, si leccò via la schiuma dai baffoni e appoggiò il bicchiere sul tavolo, più o meno nel punto dove, nel corso di un'autopsia, avrebbe dovuto trovarsi una testa. «L'uomo col cane chiede all'altro se ha perso qualcosa e quello risponde: 'Sì, mi sono cadute le lenti a contatto'. Allora il tizio lega Fido a un palo del telefono e si mette anche lui a cercare. Cercano da tutte le parti sotto la luce del lampione, su e giù, avanti e indietro. Dopo un quarto d'ora, il tizio del cane dice: 'Senti, amico, io non ho trovato proprio nulla. Sei sicuro che ti siano cadute qui?' L'altro risponde: 'No, le ho perse nel parco'. 'Nel par-
co?' grida quello del cane. 'E allora perché le cerchi qui?'» Harry fece una pausa, come per creare suspense. «Il tipo indica il lampione e fa: 'Perché qui c'è più luce'.» Scoppiò a ridere, una risata musicale inaspettata in un omone nero grosso come un armadio. I suoi ascoltatori ridacchiarono educatamente. Una rossa carina, in pantaloni blu, si accigliò e disse: «Non l'ho capita. Perché dovrebbe essere la barzelletta dell'anno?» «Perché ha un contenuto mitico», rispose Harry, la metà destra dei suoi baffi arricciata in segno di interesse, quella sinistra afflosciata in disdegno. «Su cento persone a cui viene data la possibilità di cercare qualcosa a tentoni nel buio o sperare di trovarla facilmente alla luce, novantanove scelgono la luce.» Peterson inarcò un sopracciglio in una smorfia accusatoria. «E allora chi è il centesimo uomo, quello che cerca sempre al buio?» Harry sogghignò e fece segno verso di me. «Lui», disse. Scossi il capo, voltai le spalle a Harry e andai nella reception. Era rumorosa e affollata di celebrità locali che sgambettavano come topi per prendere posizione vicino a personaggi ancora più famosi o di fronte alle telecamere. Gli invitati stringevano d'assedio su tre file il banco del buffet. Guardai una donna grassa in abito da sera infilarsi due sandwich nella borsetta prima di fermarsi a meditare di fronte a delle polpette al sugo di pomodoro. Pochi metri più in là, un pingue consigliere di contea intratteneva amabilmente una troupe televisiva. «Voglio darvi il mio più sincero benvenuto all'inagurazione delle nuove strutture... fra le più avanzate del Paese... fiero di aver votato a favore del finanziamento... la tragedia del dottor Caulfield dovrà spingerci a essere sempre più vigili...» Scorsi Willet Lindy dall'altro lato della sala e mi diressi verso di lui, facendomi largo tra la folla a colpi di scusi e permesso. Una giornalista di Channel 14 mi fissò, poi mi bloccò il passo. «La conosco, vero?» chiese, sfiorandosi le labbra imbronciate con un'unghia scarlatta. «Non è stato coinvolto in un grosso caso qualche mese fa, no, non me lo dica...» Mi girai abbassando il capo e la lasciai a meditare sui miei quindici minuti di gloria. Willet Lindy era appoggiato al muro, intento a sorseggiare una bibita. Mi staccai dalla folla e mi unii a lui. «Sembra di essere al Wal-Mart tre giorni prima di Natale, Will», bronto-
lai, allentandomi il nodo della cravatta e scoprendo con orrore la presenza di una macchia scura sulla mia camicia; secondo lo stesso principio cosmico per cui una fetta di pane cade sempre sul lato imburrato, la macchia era situata in modo tale da non poterla nascondere sotto la giacca. Lindy sogghignò e si spostò di lato per lasciarmi appoggiare al muro a mia volta. Aveva solo quattro anni di più dei miei ventinove, ma la sua faccia da gnomo e i capelli in ritirata lo facevano sembrare più vecchio di dieci. Lindy dirigeva i servizi non sanitari della struttura, come la manutenzione e gli acquisti. Lo conoscevo da circa un anno, da quando il mio grado di detective mi aveva dato accesso ai segreti dell'obitorio. «Hanno fatto un buon lavoro di ristrutturazione», dissi. «Sembra nuovo.» Lindy era più basso di me, un metro e sessantasei, sessantasette, il che mi costringeva a parlargli da trenta centimetri di dislivello. Non mi era difficile. Tendo a stare naturalmente curvo come una grande marionetta a riposo. Lindy annuì. «A parte i cambi di natura estetica, abbiamo sostituito gran parte dei macchinari e introdotto un paio di cose che prima non c'erano.» Indicò un puntino grande come una mosca in una piastrella del soffitto. «Telecamere di sorveglianza. Miniaturizzate. Se si verificasse un altro incidente come quello di Caulfield, gli artificieri potrebbero ispezionare il sito a distanza.» Caulfield era stato il primo patologo a subire una mutilazione a causa di una bomba destinata a uccidere un uomo già morto; un evento terrificante, ancora insoluto dopo sei mesi. «Non ci sono molti poliziotti, qui, Will», brontolai, per cambiare argomento. Lindy aggrottò le sopracciglia in segno di dissenso. «Il capo della polizia con i suoi vice e un paio di capitani.» Intendevo poliziotti veri, ma mi mancò il tempo, o forse le parole, per spiegare la differenza. Quasi a farlo apposta, il capitano Terrence Squill passò di lì, mi vide e tornò indietro. Squill e io ci eravamo scambiati solo qualche sillaba in passato; era così in alto nella scala gerarchica che mi toccava alzarmi in punta di piedi per vedergli le suole delle scarpe. «Lei non è Ryder? Che diavolo ci fa qui?» I suoi occhi notarono la macchia sulla mia camicia e arricciò il naso per il disgusto. Squill era direttore dei Servizi Investigativi ed era un uomo tozzo ma tutto azzimato, dai lineamenti delicati e dagli occhi acquosi, quasi femminili. Aveva il nodo della cravatta così stretto e perfettamente simmetrico da sembrare scolpito nel marmo. Non ne sapevo molto di vestiti grigi, ma avevo il sospetto che
quello che stavo guardando in quel momento fosse stato confezionato dalle mani di un sarto molto costoso. «Sono stato invitato, quindi ho pensato di venire a rappresentare il reparto, signore.» Si chinò leggermente in avanti e abbassò la voce. «Questo non è un evento per personale di basso livello. Ha sedotto una delle impiegate del Comune perché infilasse il suo nome nella lista degli invitati? O si è intrufolato dalla porta di servizio?» Ero sorpreso dalla rabbia che aveva negli occhi mentre la sua bocca continuava a sorridere. Chiunque ci avesse osservato da una certa distanza avrebbe creduto che stessimo conversando di football o di pesca. «Non ho l'abitudine di intrufolarmi», replicai. «Come le ho detto, sono stato invi...» Lindy intervenne. «Se mi consente, capitano...» «Cosa c'è, signor Lindy?» «Il detective Ryder è stato invitato dalla dottoressa Peltier. Così come il suo collega, il detective Nautilus.» Squill contrasse le labbra, come se fosse sul punto di ribattere o di sputare, poi scosse il capo e sparì tra la folla. Mi strinsi nelle spalle e, con la scusa di ringraziare la dottoressa Peltier per l'invito, ritornai a mischiarmi fra gli ospiti. Clair era vicino alla porta del suo ufficio, impegnata in una conversazione con il procuratore generale dell'Alabama e i suoi sottoposti. Un semplice vestito nero le faceva risaltare il colorito della pelle, e per qualche attimo mi soffermai a guardarla mentre dominava i suoi ascoltatori. A Clair Peltier, un'affascinante donna di quarantaquattro anni dai corti capelli corvini e dagli occhi di un blu glaciale, direttrice della polizia Scientifica di Mobile, Alabama, mancava soltanto un elmo e una lancia per poter interpretare un'opera di Wagner. L'effetto era rafforzato da sette chili di troppo equamente distribuiti fra spalle e cosce. Quando il procuratore generale e la sua corte si allontanarono mi avvicinai a lei. I tacchi alti portavano i suoi occhi quasi allo stesso livello dei miei. «Will Lindy dice che tu sei il motivo per cui io mi trovo qui oggi», dissi, sollevando il mio bicchiere verso quegli incredibili occhi. «Grazie.» «Non hai bisogno di ringraziarmi, Ryder. La lista degli invitati era zeppa di alti papaveri della polizia. Visto che c'erano i media, ho pensato fosse il caso di avere anche qualche detective. Ho scelto te e il detective Nautilus perché immagino si ricordino di voi dopo il caso Adrian.»
Carson Ryder e Harry Nautilus, segno distintivo detective, tanto per completare la lista. Avevo dei dubbi che qualcuno si ricordasse ancora di noi, come era stato ampiamente dimostrato poco prima dalla giornalista: la mentalità dei media, così centrata sul presente, aveva archiviato quel caso vecchio di un anno da qualche parte fra l'invasione normanna e la rivoluzione industriale. Stavo comunque per rinnovare i miei ringraziamenti alla dottoressa Peltier, quando un giovane procuratore dall'aria dinamica e ambiziosa mi spintonò per presentare la sua fidanzata a quella che definì «una dei più famosi anatomopatologi donna del Paese». Sorrisi mentre mi allontavo. «Una dei più famosi anatomopatologi donna...» Clair avrebbe reso la vita impossibile a quell'idiota la prossima volta che avessero lavorato insieme. Un grossa mano nera mi strinse la spalla. Harry. «Ti stai facendo un bagno di folla, amigo?» chiesi. Mi strizzò l'occhio. «Un'occasione come questa, Cars, con tutti i politici e aspiranti tali, va sfruttata fino in fondo per mungere un po' di latte.» Latte era il modo in cui Harry definiva le informazioni confidenziali riguardanti il reparto e i relativi contatti politici. Nonostante non fosse il tipo del politico, adorava i pettegolezzi di lavoro e riusciva sempre a ottenere più latte lui di una intera mandria di mucche. Avvicinò le labbra al mio orecchio e sussurrò: «In giro si dice che il comandante Hyrum salti in primavera, al più tardi in estate». La sua mania di parlare per metafore poteva divertirmi tanto quanto irritarmi, a seconda dei giorni. Quella era una giornata da irritazione. «Va a prendere lezioni di ballo?» «Pensionamento anticipato, Cars. Due anni d'anticipo.» Ero passato a detective da solo un anno, ma prima della promozione mi ero fatto tre anni a pattugliare le strade come agente in uniforme e non ero quindi del tutto ignaro delle lotte politiche all'interno del reparto. Ma mi era del tutto indifferente. Harry, d'altro canto, aveva passato quindici anni a studiarle a livello molecolare. Avevo bisogno di una traduzione. Lui fece una pausa, come un oracolo prima di pronunciare il responso. «Soliti giochi di potere, Carson. Congiure, pugnalate alle spalle e una buona dose di calunnie. Non ci vorrà molto prima che dei passacarte capaci solo di scaldar sedie riescano a farsi passare per fulmini di guerra.» «Quanto di quel letame finirà sulle nostre teste?» chiesi. Harry guardò di traverso il suo bicchiere vuoto e si diresse verso il bar; la folla si aprì come il mar Rosso di fronte a quel Mosè nero in pantaloni
rosa e camicia porpora. «Non angustiarti, fratello, e tieni duro», disse guardandomi da sopra la spalla. «Siamo troppo in basso nella piramide per essere colpiti dalla merda.» Il mio bicchiere di tè freddo non conteneva ormai che cubetti di ghiaccio, che mi passai sul viso sudato e sul collo. L'effetto fu delizioso. Assaporai una delle piccole gioie della vita e mi adagiai sulla sedia a sdraio della veranda. Una luna velata di foschia splendeva nel cielo. Erano passate ore dalla cerimonia di riapertura dell'obitorio e me ne stavo coi piedi appoggiati al parapetto a contemplare l'aureola dorata di una piattaforma petrolifera che bruciava gas a tre miglia di distanza, nel golfo del Messico. Il fuoco sull'acqua scura appariva tanto esotico quanto un pappagallo in un bosco di abeti. Vivo su Dauphin Island, trenta miglia a sud di Mobile. Per gli standard dell'isola, la mia casa è così modesta da far vergognare un cottage di due stanze sulla spiaggia appoggiato su pilastri di cemento, ma qualsiasi agenzia immobiliare la metterebbe in vendita a una cifra spropositata. Quando mori mia madre, tre armi or sono, mi lasciò abbastanza denaro da comprarmela. Era un periodo della mia vita in cui avevo bisogno di un rifugio sicuro, e cosa potevo trovare di meglio di una scatola sospesa per aria su un'isola? Suonò il telefono. Mi palpai di riflesso nel punto dove si sarebbero trovate le tasche se non fossi stato nudo, poi presi il telefono dal tavolo. Era Harry. «Siamo desiderati sulla scena di un crimine. Potrebbe essere la cerimonia inaugurale del Piss-it.» «Sei in ritardo di due mesi per un pesce d'aprile, Harry. Cosa è successo?» «Il nostro debutto in società, collega. C'è un corpo in città, alla ricerca di una testa.» Harry e io facevamo entrambi parte del primo distretto di polizia di Mobile, compagni di squadra con il grado di detective. La sicurezza del posto di lavoro era garantita dalla violenza insensata che ogni città in cui vi sia abbondanza di poveri tenuti sotto pressione in spazi congestionati non manca di produrre. Il che avrebbe definito i limiti del nostro mondo, a meno che, tanto per citare l'ultima revisione del manuale di procedure interne, un omicidio non presentasse «segni evidenti di tendenze psicopatologiche o sociopatologiche». In tal caso, indipendentemente dal distretto di compe-
tenza, interveniva il PSIT, ovvero il team investigativo psico e sociopatologico. L'intero PSIT, ribattezzato Piss-it all'interno del reparto di polizia, ovvero pisciaci sopra, era composto da Harry e da me, oltre a un paio di specialisti ai quali di volta in volta, a seconda dei casi, potevamo ricorrere. Anche se in fondo l'unità non era altro che una montatura promozionale fino a quel momento mai stata attivata - la sua nascita aveva suscitato non poco scontento all'interno del reparto di polizia. Per non parlare di come mi sentivo io. «Cerca di arrivare più in fretta che puoi», aggiunse Harry dopo avermi comunicato l'indirizzo. «Ti aspetto fuori dalla porta. Usa le sirene, i lampeggiatori, vai a tavoletta e non perdere tempo.» «Non vuoi che mi fermi anche a prendere un litro di latte e un filone di pane, già che ci sono?» Il telefono ammutolì. Mi infilai un paio di jeans e una camicia quasi pulita e afferrai una giacca color crema dall'attaccapanni. Scesi gli scalini a quattro per volta, saltai a bordo della Taurus priva di contrassegni parcheggiata sotto casa e partii a razzo, schizzando sabbia e frammenti di conchiglie da sotto le ruote. Non accesi né la sirena né la luce lampeggiante fino a quando non mi trovai sulla terraferma, dopo di che feci partire lo spettacolo di suoni e luci e pestai sull'acceleratore. Il corpo si trovava in un piccolo parco nella zona sudorientale di Mobile, cinque acri di querce e noci circondati da un quartiere in procinto di transitare dal declino alla nobiltà. Tre auto di pattuglia con i lampeggianti accesi erano parcheggiate di fronte al parco, insieme a un furgone della Scientifica. Altre due auto senza contrassegni fiancheggiavano un fuoristrada che doveva appartenere a Squill. L'immancabile furgone di una stazione televisiva era fermo con l'antenna innalzata sul tetto. Harry era a una dozzina di passi da me e stava dirigendosi verso l'ingresso del parco. Mi fermai sul lato della strada e scesi dall'auto per trovarmi immediatamente accecato dalla luce di una telecamera. «Adesso mi ricordo di lei», esclamò una voce familiare da dietro il bagliore. «Lei è Carson Ryder. Si era occupato del caso di Joel Adrian, dico bene?» Strizzai gli occhi e vidi la giornalista che avevo incontrato alla cerimonia dell'obitorio. Era in tenuta da lavoro: capelli laccati, artigli rossi stretti at-
torno a un microfono come un condor che ghermisce un coniglio. L'altra mano mi si strinse attorno al braccio. Avvicinò il microfono alle labbra e fissò la telecamera. «Sandra Farrel di Action 14 News. Mi trovo di fronte al Bowderie Park, dove è stato ritrovato un corpo senza testa. Di fronte a me c'è il detective Carson Ryder del...» Diedi un'occhiataccia alla telecamera e lasciai partire una sequela di improperi in tre lingue autentiche, oltre a una quarta inventata all'istante. Non c'è nulla che faccia infuriare un reporter più di un dialogo che gli si ritorce contro. La giornalista spinse via il mio braccio. «Taglia, cazzo», ordinò all'operatore. «Taglia.» Raggiunsi Harry all'ingresso del parco, sorvegliato da un giovane agente in uniforme che mi squadrò. «Sei Carson Ryder, vero?» Lo guardai e mormorai qualcosa che avrebbe potuto essere interpretato in diversi modi. Mentre gli passavo a fianco, il poliziotto indicò la sua uniforme e chiese a Harry: «Come faccio a togliermela di dosso così in fretta come ha fatto Ryder?» «Devi essere maledettamente in gamba», gli rispose Harry da sopra la spalla. «Oppure completamente pazzo.» «E Ryder?» insistette l'agente. «È stato pazzo o in gamba?» «Mi sa un po' dell'uno e un po' dell'altro», sbottò Harry. Poi, rivolto a me: «Muoviti». 2 I tecnici avevano piazzato sulla scena abbastanza luci da farci atterrare un 757, tutte concentrate su un'area di trenta metri quadri fitta di cespugli e circondata da alberi che celavano la maggior parte delle stelle. C'erano escrementi di cane in ogni dove. Pochi metri più avanti un sentiero tortuoso di cemento sezionava il parco in due. Oltre la siepe che divideva il parco dalla strada, il gruppo di curiosi cresceva a vista d'occhio: una donna anziana che stringeva fra le dita un fazzoletto, una giovane coppia mano nella mano, una mezza dozzina di maniaci del jogging che saltellavano da un piede all'altro. Due tecnici erano al lavoro nell'area già delimitata dal nastro, uno inginocchiato vicino alla vittima, l'altro intento a esaminare la base di un albero. Harry si avvicinò alla piccola folla alla ricerca di eventuali testimoni.
Mi fermai accanto al nastro giallo e studiai la scena. Il corpo giaceva supino sull'erba; sembrava che dormisse, le gambe leggermente divaricate, le braccia distese di fianco al torso; nella luce abbagliante appariva surreale: i colori troppi vividi, i contorni troppo netti, come una sagoma ritagliata da un mondo e incollata su un altro. Indossava abbigliamento casual: jeans senza cintura, mocassini, niente calze, maglietta bianca con il logo della Old Navy. La maglietta era tirata su fino ai capezzoli, la lampo dei jeans aperta. Chino sopra il corpo c'era il capo della squadra di criminologi, Wayne Hembree. Nero, trentacinque anni, magro come la fame, Hembree, nonostante la magrezza, aveva una faccia da luna piena. Stava seduto sui talloni e si scostava dalle spalle i capelli lunghi. La fronte gli riluceva di sudore. «Ci sono problemi se passo di qui?» gli gridai indicando lo spazio fra i miei piedi e il cadavere. Non avevo nessuna voglia di calpestare tracce importanti. Né, tantomeno, merda di cane. Hembree fece cenno che andava bene; io sollevai il nastro e ci passai sotto. Un vecchio poliziotto che aveva visto tutto quanto c'era da vedere da questa parte dell'inferno metropolitano mi aveva detto una volta: «Se trovi una testa senza un corpo, Ryder, è strano, e ha comunque un senso. Ma quando trovi un corpo senza testa, ti dà i brividi, e allo stesso tempo tristezza... dà un senso così di... di solitudine, non so se mi spiego». Lo capii quando vidi il corpo da vicino. In quattro anni nella polizia avevo visto morti per colpi d'arma da fuoco, pugnalati, annegati, straziati in incidenti d'auto, uno con gli intestini fuori dalla pancia, mai però uno senza testa. Quel collega aveva colto in pieno il senso: il corpo appariva solitario come fosse il primo giorno della creazione. Rabbrividii, sperando che nessuno se ne accorgesse. «Lo hanno ucciso qui?» chiesi a Hembree. Lui si strinse nelle spalle. «Non lo so. Posso solo dire che è stato decapitato qui. Secondo il medico legale è successo due o tre ore fa. Il che pone l'ora della morte fra le otto e le dieci.» «Chi è stato a fare la segnalazione?» «Dei ragazzi. Erano venuti qui a pomiciare e...» Udii dei passi alle mie spalle. Il capitano Squill e la sua ombra goffa e onnipresente, il sergente Earl Burlew. Burlew stava masticando carta, come sempre. Aveva in tasca una pagina del Mobile Register da cui continuava a strappare pezzetti per infilarseli in bocca. Avevo sempre provato il desiderio di chiedergli se c'era una differenza fra le varie sezioni: la pagina
sportiva era meglio della cronaca nera? O sapevano tutte di pollo? Poi mi trovai a guardare gli occhietti color ostrica di Burlew e decisi che glielo avrei domandato un'altra volta. Burlew disse: «Ehi, capitano, guardi un po' chi c'è: il nostro detective liofilizzato. Basta aggiungere titoli in prima pagina e mescolare». Si passò la mano sul volto sudato. Naso, occhi, bocca erano troppo piccoli e ravvicinati, rispetto alla testa, e per un momento la faccia di Burlew fu completamente coperta dal palmo. «Vendetta tra froci», stabilì Squill, guardando il corpo. «Quelli adorano farsi a pezzi, non è così? E il parco di notte è il posto giusto per queste stronzate. Questo è un quartiere di gente piena di grana, l'assessore Philips vive a due isolati da qui, e siccome se la tira come se fosse il padreterno, la strada è sempre ultrasorvegliata...» Da quanto si diceva in giro, Squill aveva sempre un discorso pronto per soddisfare i gusti di ogni pubblico. Stava esibendo un gergo da sbirro da telefilm a beneficio degli agenti di pattuglia che stazionavano a pochi passi di distanza. Sconcertante. Sembrava un ragazzino che gioca a fare il poliziotto. «...l'assassino rifila una botta sulla zucca allo sfigato o gli tira un colpo. Poi tira fuori una lama e si incamera una testa.» Squill indicò i cespugli intorno a noi. «Il sosco lo ha mollato qui, in modo che restasse fuori dalle palle per un po'.» Resistetti alla tentazione di alzare gli occhi al cielo. Sosco stava per «soggetto sconosciuto», un'abbreviazione in voga nell'FBI. Puro gergo federale. «Ucciso e decapitato qui?» chiesi. «Che c'è, Ryder?» disse Squill. «Ha le orecchie tappate?» Anche se il cadavere si trovava sotto un cespuglio punteggiato da piccoli boccioli bianchi non era coperto da petali. Proprio al di fuori del nastro che contornava la scena c'era una macchia di piante identiche; mi infilai fra i cespugli, chinandomi. «Che cazzo sta facendo?» sbottò Squill. Restai fermo a studiare i petali che volteggiavano nell'aria a mano a mano che si staccavano dalla mia camicia. Lo sguardo di Hembree passò da me al cadavere. «Se la vittima fosse caduta fra i cespugli, avrebbe addosso dei petali.» Hembree studiò il corpo e il terreno. «Invece sono sparsi tutti attorno, tranne che sulla vittima. L'assassino ha spostato i rami in modo che niente
coprisse il cadavere. Si direbbe che il nostro amico qui presente sia stato trascinato dentro i cespugli.» Guardai nel folto della vegetazione. «O trascinato fuori.» «Stai dando i numeri», disse Squill. «Perché mai avrebbe dovuto metterlo in vista?» Il grasso assistente di Hembree tirò fuori una torcia e strisciò sotto i cespugli. «Vediamo un po' cosa c'è qui.» Squill mi incenerì con lo sguardo. «Il sosco ha attirato qui la vittima e lo ha fatto secco in un punto dove sarebbe restato celato dai cespugli, Eyder. Se non fosse stato per un paio di adolescenti arrapati, non lo avrebbe trovato nessuno finché non avesse cominciato a puzzare.» «Non sono sicuro che sia stato nascosto», dissi, riparandomi gli occhi dalle luci e scorgendo fra le chiome degli alberi un lampione che brillava cinque metri più in là. Mi accucciai accanto al cadavere. La luce del lampione occhieggiava tra i rami. «Possiamo spegnere le luci?» chiesi. Squill si diede una pacca in testa con un gesto teatrale. «No, Ryder. Dobbiamo lavorare e non possiamo farlo con dei bastoni bianchi e dei cani guida.» Guardò in direzione degli agenti in uniforme aspettandosi un coro di risate, ma tutti stavano osservando il lampione. Hembree disse: «Per quanto ne so, le luci si possono sempre riaccendere». Squill non aveva alcun controllo sui tecnici e la cosa lo seccava. Si voltò e sussurrò qualcosa a Burlew. Ero sicuro che le sue labbra avessero formato la parola negro. Hembree urlò verso un assistente sul furgone della Scientifica. «Di' a quelli dell'ambulanza e alle auto di pattuglia di abbassare i fari. Poi eliminate queste luci.» I fari delle auto si spensero lasciando solo i riflettori. Quindi fu il turno di questi ultimi e per qualche secondo i nostri occhi dovettero abituarsi al buio. Vidi quello che mi ero aspettato: la luce del lampione penetrava fra i rami e i due grossi cespugli, formando una sorta di occhio di bue che investiva in pieno il corpo. «Non è nascosto», stabilì Hembree, controllando gli angoli. «Chiunque percorra il sentiero se lo trova di fronte in piena vista. Impossibile non notarlo, con quella maglietta bianca.» «Sono solo supposizioni del cazzo», ribatté Squill. Il tecnico che si era infilato sotto i cespugli gridò: «C'è del sangue fresco
qui! Portatemi un kit e la fotocamera». «L'ha colpito al buio, poi lo ha trascinato alla luce», disse Hembree strizzandomi un occhio. Gli agenti annuirono. Quando le luci si riaccesero, Squill e Burlew se ne erano andati. Mi lanciai in una mischia immaginaria, come per afferrare un pallone, poi il palmo della mia mano colpì quella di Harry. Lui, infilandosi i guanti in tasca, ringhiò: «Vieni con me», e si incamminò. Avevo incontrato Harry Nautilus nel penitenziario di Stato dell'Alabama cinque anni prima; eravamo entrambi visitatori, non ospiti. Ero venuto da Tuscaloosa per intervistare diversi carcerati per la mia tesi in psicologia. Harry era arrivato da Mobile per cercare di ottenere informazioni da un carcerato la cui giugulare, sfortunatamente, era stata tagliata un paio d'ore prima del suo arrivo. Harry non era dell'umore migliore. Lo urtai mentre mi passava a fianco in un corridoio stretto e gli feci rovesciare il caffè. Studiò il mio abbigliamento - camicia e jeans, occhiali da sole con la montatura rossa, un berretto logoro a nascondere un orrendo taglio di capelli che mi ero inflitto da solo - e chiese a un secondino chi avesse lasciato uscire quel grosso idiota dalla cella. Avevo alle spalle due ore di colloquio con un pedofilo impenitente, e così mi trovai a sublimare la mia aggressività contro il naso di Harry. Quello che seguì fu interrotto dai secondini un attimo prima che finisse di strangolarmi. Dopo di che ci trovammo tutti e due imbarazzati a contemplarci la punta delle scarpe. Dalle scuse passammo a spiegarci il perché quel giorno ci trovavamo alla prigione, e cosa ci aveva portato a sviluppare quel carattere da mastini idrofobi. In breve stavamo ridendo. Finimmo la giornata a bere al bar del motel di Harry. Dopo un paio di bicchieri Harry si lanciò a raccontare aneddoti sulla sua vita di poliziotto, divertendomi e intrigandomi. Io ricambiai con resoconti delle mie chiacchierate con i più grandi psicopatici e sociopatici del Sud. Harry fece un gesto con il palmo della mano, come per invitarmi a non dare importanza a quel genere di cose. «Dietro ognuno di quei lunatici c'è solo un megalomane che adora parlare di sé», disse. «Quegli squinternati, che abbiano di fronte giornalisti o psicologi o studenti come te, dicono esattamente quello che loro si aspettano di sentire. Per loro non è altro che un gioco.» «Hai presente il caso Albert Mirell?» chiesi, riferendomi al pedofilo psicopatico con cui avevo passato quelle orribili due ore.
«Ehi, ragazzo, la sua ultima vittima era di Mobile, ricordi? Se hai parlato con Mirell, non hai ricevuto altro che sorrisetti di condiscendenza e stronzate. Giusto?» Abbassai la voce e raccontai a Harry quello che Mirell mi aveva rivelato sputacchiando e torcendosi le mani sotto il tavolo. Harry si chinò in avanti finché le nostre fronti quasi si toccarono. «Non ci sono più di dieci persone al mondo che conoscono queste cose», sussurrò. «Come diavolo hai fatto?» «Si vede che ho messo Mirell di buon umore», replicai, fingendo che non ci fosse altra spiegazione. Harry studiò il mio volto a lungo. «Teniamoci in contatto», disse. Tutto ciò avveniva quando mia madre era ancora viva e io ero uno studente squattrinato che frequentava l'università dell'Alabama. Comunque ogni due settimane andavo io a Mobile o Harry veniva a Tuscaloosa. Il più delle volte ci compravamo un paio di sandwich e parlavano del suo matrimonio che andava a puttane o del mio interesse per lo studio che, dopo sei anni, cominciava a svanire. Parlavamo di aspetti di casi che non riusciva a risolvere o delle mie interviste più strane. Andò avanti così per tre o quattro mesi finché, una sera, Harry notò che la mia cena consisteva, come al solito, in riso e fagioli, e che per me uscire a farsi una birra significava frugare sotto i cuscini del divano nella speranza di trovare qualche spicciolo caduto. «Fare l'assistente universitario non è un'occupazione redditizia?» chiese. «Diciamo pure che è una occupazione senza reddito», precisai. «In compenso, ti spiana la strada a un futuro di disoccupazione.» «Chissà, magari un giorno diventerai un famoso psicologo. Carson Freud che se ne va in giro in Mercedes.» «Più facile che mi ritrovi su una piattaforma petrolifera a saldare tubi», ribattei. «Perché ti interessa tanto?» «Perché penso che potresti essere un buon poliziotto», disse Harry. Dieci minuti dopo aver lasciato il parco, seguii Harry fino a un tavolo al Cake's Lounge, un locale poco illuminato incastrato tra fabbriche e magazzini vicino alla baia. Una fila di uomini male in arnese beveva al banco, qualcun altro era seduto ai tavoli. Due barcollavano attorno a un biliardo. «Perché siamo venuti qui? Perché non al Flanagan?» chiesi, arricciando il naso. Il Cake puzzava di chiuso, come se non avessero mai arieggiato
negli ultimi dieci anni; Flanagan serviva liquori a prezzi abbordabili, cibo decente ed era frequentato da parecchi poliziotti. «Perché ci sarà Squill, ed è di Squill che dobbiamo parlare. Bella trovata quella dei fiori e delle luci. Dovevi proprio fargli fare una figura di merda di fronte a tutti?» «Non stavo cercando di fargli fare una figura di merda, Harry, stavo facendo il mio lavoro. C'era un tizio senza testa e Squill stava solo confondendo le idee a tutti. Cosa avrei dovuto fare?» «Avresti potuto rinunciare a tutta quella messa in scena e suggerirgli qualche idea, facendogli credere che fosse tutta farina del suo sacco. Non hai detto di aver studiato psicologia?» «Trovare il modo di suggerire delle idee a Squill non è psicologia, Harry, è parapsicologia: una delle poche materie che non ho studiato.» Harry strinse gli occhi. «Squill è uno squalo con appoggi politici, Carson. Fallo incazzare e di te non resterà altro che una macchia rossa nell'acqua.» Formulai una domanda che mi stava perseguitando ormai da quasi un anno. «Come ha fatto un topo di fogna come Squill a diventare capo dei servizi investigativi?» Quando Harry si copre il volto con le mani è segno che ho superato i limiti dell'ottusità. «Carson, sei un fenomeno. Non ne hai davvero idea?» «Per non aver mai preso una posizione in vita sua?» «Tu, Carson. Tu. Sei stato tu a mettere il capitano Terrence Squill dove si trova.» Harry si alzò e raccolse le bottiglie dal tavolo. «Vado a prendere un altro paio di birre, poi ti darò una piccola lezione di storia, figliolo. Mi sembra che tu ne abbia proprio bisogno.» 3 Harry cominciò la sua lezione mentre tornava dal banco, con due bottiglie che gli tintinnavano fra le dita. «Per anni Squill era stato un tenente passacarte nel reparto Crimini contro la Proprietà, una nullità con un solo talento: le pubbliche relazioni. Parlava nelle scuole, alle assemblee di quartiere, alle inaugurazioni di centri commerciali, nelle chiese...» Appoggiò le birre sul tavolo e si sedette. «Ha imparato bene la parte finché non è diventato di fatto il PR dell'intero reparto. Il che, quasi per chiunque, è una posizione senza futuro...»
Annuii. «Distoglie i riflettori dai gradi alti, che quindi si incazzano.» Nei corridoi dell'università avevo visto più di una carriera stroncata da gelosie accademiche. «Non nel caso di Squill. Il bastardo sapeva esattamente quando era il momento di lasciare spazio a chi gli stava sopra. Anzi, meglio ancora, quando commettevamo qualche grossa cappella, Squill si metteva al centro dell'attenzione, facendo in modo che il fuoco puntasse su di lui.» «Chi, Squill?» mi stupii. «Non me lo vedo a buttarsi di fronte ai proiettili.» «I media lo adoravano, sapendo che Squill non gli avrebbe mai fatto mancare spunti interessanti. 'Capitano di polizia afferma che gli arresti di soggetti innocenti sono una questione interna, nel telegiornale delle undici'... 'Funzionario di alto grado bacchetta i critici del dipartimento chiamandoli piagnoni disinformati, servizio a pagina quattro', e via dicendo.» Harry prese un pacchetto di fiammiferi dal portacenere e se lo rigirò fra le dita. «Poi Joel Adrian partì con la sua catena di omicidi. Tessa Ramirez. Jimmy Narley. Dopo l'assassinio dei Porter la pressione divenne insostenibile. Ma le indagini non approdavano a nulla. Puoi immaginare in che situazione ci trovavamo...» «Chi è stato a scoprire Tessa, Harry? Chi si è trovato in una fogna infestata di topi a guardare il suo cadavere?» Scosse il capo. «Non è quello che intendevo, figliolo. Sto parlando di politica. C'era chi invocava le dimissioni del capo della polizia. I giornali ci facevano a fette come salami. Ognuno cercava di scaricare la colpa su tutti gli altri, quando all'improvviso salta fuori questo pazzo di agente di pattuglia, Kid Carson.» «Avevo semplicemente un paio di idee da offrire. Non volevo pestare i piedi a nessuno.» «Il risultato è stato che ci hanno tirato addosso palate di merda», disse Harry. I due al biliardo cominciarono a discutere concitatamente della partita. Per un po' restammo a guardarli senza parlare. «Ho solo avuto fortuna, Harry», aggiunsi. «Nient'altro.» Strizzò un occhio. «Fortuna può anche significare sapere dove cercare, giusto?» Mi aveva colto con la guardia abbassata. «Cosa stai dicendo?» «Be', è qualcosa di più che prendere semplicemente una carta; è anche sapere di chi è il mazzo.»
«No. Può darsi che ci sia, come dire, una parte di intuito, non... Harry mi fissò incuriosito per un momento, poi bloccò con un gesto il mio balbettio. «Dopo che sei venuto fuori tu con la tua maledetta teoria risolvendo il caso, tutto si è ridotto a una mischia politica, in cui ognuno cercava di approfittare del successo dell'agente di pattuglia Ryder per trasformarlo in una vittoria personale. E chi era nella migliore posizione per farlo?» «Squill?» Harry staccò un fiammifero dal pacchetto e lo osservò. «Per tutta la durata del caso, aveva mantenuto l'oleodotto dei media ben alimentato; dopo che lo hai risolto, ha cominciato a farci affluire il suo petrolio personale, da lui raffinato. Non hai mai riflettuto sulla velocità con cui i riflettori si sono allontanati da te?» Ci pensai su. Per due giorni io ero stato l'uomo che aveva fermato Adrian il pazzo. Il terzo giorno Squill era diventato un trionfo del reparto di polizia e io ero un factotum. Il quinto non ero che un nome trascritto male nella nona riga di un articolo di dieci righe. «È la legge di Squill», disse Harry. «Bacia il culo a chi sta sopra, caga su chi sta sotto. Ti ha tolto il cavallo da sotto il culo affinché potessero montarlo gli alti gradi. E lui era uno di loro. E lo ha cavalcato finché lo ha portato alla poltrona di capo dei servizi investigativi.» Mi strinsi nelle spalle. «Va bene, diciamo pure che si sono approfittati un po' di me. Ma quando le acque si sono calmate mi sono ritrovato con la promozione a detective. Non posso lamentarmi.» La discussione al tavolo da biliardo si fece più accesa. Uno dei due uomini posizionò la biglia sul tavolo e l'altro la spinse via con una manata. Harry alzò lo sguardo verso il soffitto e accese il fiammifero solo per guardarlo bruciare. Il riflesso della fiamma gli illuminò il viso. «Tu hai avuto il tuo distintivo da detective. Squill però si è ritrovato con quello a cui aspirava da anni: una poltrona importante. Sei stato tu a metterlo lì, Cars.» Aggrottai le soppracciglia. «Non capisco perché sia così importante.» «Non riesci a vedere la questione nell'insieme. A Squill piace immaginarsi come uno che si è fatto da solo. Ma quando vede te», Harry solleticò l'aria con le dita mimando una caduta, «l'intero castello di carte che si è costruito crolla.» «Può sempre ignorarmi.» «Lo fa. Per un anno tu non sei stato nulla se non un nome sul pannello
degli incarichi giornalieri. E il PSIT non è stato altro che delle parole sulla carta. Ma se il PSIT viene attivato...» Riflettei su quanto stava dicendo. Attivare il PSIT significava mettere me e Harry al centro della scena. Eravamo noi quelli che dovevano coordinare l'azione, firmare i rapporti, conferire con il comando. «Ed eccomi lì, di nuovo in piena luce, davanti ai suoi occhi.» Harry fece cadere il fiammifero spento nel portacenere. «Diciamo piuttosto che sei davanti al suo mirino.» Al biliardo stavano cominciando a scaldarsi. Uno dei due sottolineò la sua opinione colpendo con la stecca l'orecchio dell'interlocutore, che cadde in ginocchio, gemendo e tenendosi la tempia. Il barista li guardò, poi fissò Harry. «Lei è un poliziotto. Perché non interviene?» Harry si mise una mano stretta a pugno sulla testa, aprendolo e chiudendolo a intermittenza. «Che accidenti significa?» «È il mio segnale di fuori servizio.» Ci alzammo dirigendoci verso le nostre auto nella notte umida. «Grazie per la lezione di storia, professor Nautilus», dissi. «Rileggila e fanne buon uso, ragazzino», rispose Harry. Tornai verso Dauphin Island guidando piano, con i finestrini abbassati, lasciando che l'odore notturno di umido e di salmastro lavassero i miei pensieri come un'onda purificatrice. Ma l'uomo senza testa continuava a tornare alla superficie. Una volta a casa, accesi delle candele, mi sedetti a gambe incrociate sul divano e feci gli esercizi di respirazione raccomandati da Akini Tabreese, un mio buon amico esperto di arti marziali. Akini fa un sacco di respirazioni profonde prima di frantumare blocchi di ghiaccio grossi come balle di fieno con la fronte. Io faccio un po' di respirazioni profonde poi prendo una mazza. Vai sulla scena... comandai al mio cervello ossigenato. Visualizza il parco. Concentrandomi sul respiro riuscii a controllare la rabbia nei confronti di Squill e Burlew e a visualizzare ciò che l'assassino doveva aver visto nel momento in cui aveva incontrato la vittima, forse sul sentiero: il lampione è troppo vicino, così vittima e carnefice si inoltrano fra la vegetazione. Su questo Squill poteva aver avuto ragione: il sesso era stata l'esca, se non il motivo principale. La vittima muore, forse per un colpo di pistola, un colpo alla testa. Se la testa è fondamentale per la fissazione dell'assassino, a-
vrebbe dovuto essere rimossa nell'ombra, con la lama che svolge rapida il suo compito. Ma, inspiegabilmente, trascina il corpo in piena luce, facendo cadere una miriade di petali. Si inginocchia, esegue il suo grottesco intervento chirurgico e scompare. Continuai a proiettarmi la scena nella mente finché, alle 2.45, suonò il telefono. Pensai fosse Harry, che probabilmente stava anche lui pensando al delitto in una stanza illuminata con lo stereo che suonava jazz, forse Thelonious Monk, l'assolo in cui spacca la membrana e vola nel vento selvaggio della musica. Ma al posto di Harry udii la voce tremula di una vecchia. «Pronto? Pronto? Chi è? Chi parla?» Poi, fu come se la voce si fosse scrollata gli anni di dosso, diventando quella di una donna sui trent'anni, la voce di mia madre. «Carson? Sono io, la mamma. Hai fame? Ti preparo da mangiare, figliolo? Un bel sandwich? Biscotti? O cosa ne diresti di UNA BELLA, MERDOSA SCODELLA DI SPUTO?» No, pensai, è impossibile. È un incubo, svegliati. «CARSON!» urlò la voce perdendo ogni traccia di femminilità. «Parlami, fratello. Ho bisogno di sentire un po' del VECCHIO CALORE FAMIGLIARE!» Chiusi gli occhi e mi accasciai contro la parete. Come aveva fatto a telefonare? Non gli era permesso. Chi mi chiamava sbatté il ricevitore contro qualcosa di duro e gridò: «Ho scelto il MOMENTO SBAGLIATO, fratello? Sei con una DONNA? Com'è, CALDA? Ho sentito che quando si scaldano perdono i SUCCHI. Ehi, gente, venite che vi presento la mia ultima fiamma, si chiama Diluvia. METTETEVI GLI STIVALI PRIMA DI SCOPARVELA!» «Jeremy», mormorai, più a me stesso che a lui. «Venne una donna un bel dì dal Missouri, che si scopava i cazzi più duri...» «Maledizione, Jeremy...» «Ma i suoi amanti tutti affogaron tra i flutti dei veleni che da lei uscivan puri.» Ritornò a parlare con la voce premurosa di mia madre. «Stai tranquillo, Carson, va tutto bene. C'è la mamma, qui. Non hai finito il tuo sputo. È troppo freddo? Vuoi che te lo scaldi?» Un suono rauco. «Jeremy, vuoi piantarla per favo...» In sottofondo sentii una porta aprirsi, quindi il rumore di una colluttazione, infine la voce di un uomo imprecare. Il mio interlocutore urlò: «NO! ANDATE VIA! È una CHIAMATA PERSONALE! Sto parlando con il
MIO PASSATO!» Un tonfo forte si trasformò in un fruscio, come se il telefono fosse stato lasciato cadere e scalciato via: «L'OMICIDIO, CARSON! Dimmi qualcosa. Deve esserci qualcosa di più che solo una TESTA MANCANTE, c'è sempre qualcos'altro. Si è preso anche i loro cazzi? Gli sta INFILANDO SALSICCE SU PER IL CULO FINCHÉ NON GLI ESCONO DALLA BOCCA? Chiamami! Hai ANCORA BISOOOOGNO DI ME...» Altri rumori di lotta, poi più nulla. Probabilmente l'emittente a Montgomery affiliata a Channel 14 aveva ripreso la notizia della decapitazione nel parco, mandandola in onda con il telegiornale della notte. La televisione era uno dei pochi lussi che erano concessi a Jeremy e lui doveva avere studiato la storia con la devozione di un ricercatore. Spensi le candele e mi sdraiai sul divano con la faccia contro il cuscino. Il sonno, quando finalmente arrivò, era sottile come carta e infestato di topi e di puzza di seta bruciata. La sveglia suonò poco dopo l'alba. Entrai barcollando nelle acque del golfo del Messico e nuotai attraverso le onde per mezzo miglio prima di voltarmi e tornare indietro. Dopo di che mi feci una bella corsa di quattro miglia sulla spiaggia, che mi lasciò coperto di sudore e con i crampi ai polpacci. Dopo una sessione ai pesi fatta di malavoglia, quasi incollerito, cominciai a vedere gli eventi con un po' di chiarezza e archiviai la chiamata di Jeremy come un incidente. In un modo o nell'altro, doveva essere riuscito a mettere le mani su un telefono. Glielo avevano tolto di mano con la forza. Non sarebbe successo una seconda volta. L'episodio era chiuso. Mi lavai, feci colazione con formaggio e fiocchi d'avena. Il mio umore cominciò a migliorare e andai al lavoro. Mi giocai a testa o croce con Harry gli impegni della giornata: mi toccò l'autopsia. Mancava ancora tempo prima che cominciassero a tagliare, allora mi diressi verso l'ufficio dei criminologi, un posto che stava a metà fra un laboratorio scientifico e un negozio di computer. Due tecnici in camice bianco stavano esaminando della merda come se fosse il Santo Graal. Un altro picchiettava con la matita contro un vaso pieno di vermi vivi. Hembree era seduto di fronte al microscopio intento a scolarsi una tazza di caffè. «Abbiamo identificato le impronte dell'uomo senza testa», disse, prendendo un foglio. «E chi sarebbe?» «Un certo Jerrold Elton Nelson, alias L'il Jerry, alias Jerry Elton, alias
Nelson Gerald, alias Elton Jelson.» «Un sacco di alias.» «E una listarella di precedenti penali», aggiunse, leggendo dal foglio. «Età, ventidue anni. Occhi blu e capelli castani, dovunque essi siano in questo momento. Varie incriminazioni sia in città sia nella contea per taccheggio, prostituzione maschile, ricettazione, possesso di un paio di canne. In marzo, una donna lo ha accusato di essersi fatto prestare undicimila dollari e di non averli restituiti, poi però ha ritirato l'accusa.» «Un truffatore prostituto e gigolò? Immagino che la sua porta si apra sui due lati», brontolai, tornando verso la porta. Anche se mancava ancora un'ora all'autopsia, avevo intenzione di passare dall'ufficio del medico. «Me ne ero quasi dimenticato», disse Hembree un attimo prima che uscissi. «Ieri sera quella trovata dei petali e del lampione è stata di gran classe, Carson, roba da Sherlock Holmes. Squill si arrampicava sui vetri. Mi è piaciuto come lo hai trattato.» La scrivania dell'obitorio era vuota e il rumore dei miei tacchi sul pavimento spinse Will Lindy ad affacciarsi alla porta del suo ufficio. I nuovi locali erano stati aperti ufficialmente solo da pochi giorni, ma Lindy sembrava già essersi installato: moduli ammucchiati sulla scrivania, manuali in ordine alfabetico sulle mensole, calendari e lista degli impegni futuri appesi alle pareti. «Buon giorno, detective Ryder.» «Salve, Will. Sono qui per l'esame post mortem di Nelson. Clair è già arrivata?» Dovevo essere forse l'unica persona nell'universo a chiamare la dottoressa Peltier per nome; lo avevo fatto fin dal nostro primo incontro e lei non mi aveva ancora messo al rogo. All'inizio aveva reagito apostrofandomi sempre e solo per cognome, mentre a tutti gli altri si rivolgeva con il nome o con il loro titolo. Lindy diede un'occhiata all'orologio. «Dovrebbe arrivare alle nove, il che significa...» Guardai il mio orologio. Le 8.58. «Sarà qui fra un minuto.» Una risata maschile risuonò lungo il corridoio. Mi voltai e vidi un paio di dipendenti di un'agenzia di pompe funebri venuti a recuperare un morto per il funerale. Spingevano una barella con sopra un corpo coperto da un lenzuolo come bambini che giocano con il carrello di un supermercato, zigzagando qua e là. Lindy uscì come un fulmine. «Ehi, ragazzi», disse. «Come vi comportate dove lavorate è affar vostro.
Ma qui cercate di avere un minimo di rispetto.» I due uomini si bloccarono, arrossendo. Mormorarono qualche parola di scusa e ripresero a procedere adagio e in silenzio. «Ottimo intervento, Will», dissi quando ritornò. Lindy fece un mezzo sorriso; è strano come un mezzo sorriso denoti tristezza. «Un povero cristo al suo ultimo viaggio, detective Ryder. Non c'è motivo di trattarlo in quel modo.» Provai un moto di ammirazione per Will Lindy; troppi poliziotti della Omicidi e impiegati delle pompe funebri dimenticano che i corpi che gli passano di fronte sono stati una volta il centro dell'universo, se non altro per loro stessi. Nessuno sa perché siamo stati scelti per essere qui, o se siamo veramente responsabili delle decisioni che prendiamo durante la nostra presenza al mondo. Comunque, per coloro che entrano nell'obitorio, quella parte del viaggio è terminata. Buoni o cattivi, tutti hanno ormai compiuto la traversata al mistero finale lasciandosi dietro un guscio molle, non sempre da compiangere ma almeno da rispettare. Un ticchettare insistente ci fece voltare: erano i tacchi della dottoressa Peltier che stava venendo verso di noi. Dedussi che era stata a colazione con suo marito Zane, visto che lui le stava camminando a fianco stuzzicandosi i denti con uno stecchino. Zane, cinquantanove anni, anche se ne dimostrava meno, aveva occhi grigi su una faccia spigolosa, un naso dritto e un'abbronzatura color mogano indipendentemente dalla stagione. Indossava un abito con gilet tagliato in modo tale da occultare un accenno di pancia e camminava in fretta per tenere il passo della moglie. «Non siamo un po' in anticipo, Ryder?» disse mentre la raggiungevo e annusavo il suo profumo di rosa. «Vorrei dare un'occhiata prima dell'esame.» Era un'abitudine che cercavo di mantenere, tranne quando i corpi erano già in decomposizione avanzata. Serviva a trovare un legame con le vittime. Dopo la violazione dell'autopsia, i defunti sembravano diversi, come se fossero già passati da questo mondo all'anticamera del prossimo. Clair alzò gli occhi al cielo. «Non ho tempo per darti retta, oggi.» Non sembrava molto bendisposta nei confronti della mia teoria sul collegamento con le vittime. «Conosci Zane, mio marito?» «Museo d'arte, qualche mese fa», risposi porgendo la mano. «Detective Carson Ryder.» Zane Peltier aveva una di quelle strette di mano che si arrestano un attimo prima di incrociare i pollici. Strinse le nocche delle mie dita. «Certo
che mi ricordo», disse la sua bocca mentre i suoi occhi sostenevano il contrario. «È un piacere rivederla, detective.» Clair aprì la porta. Suo marito disse: «Aspetto qui fuori, amore». «Mica ti mordono, Zane.» Lui sorrise ma non si avvicinò alla porta. Potevo capire la sua riluttanza. Credo che la gente percepisca la morte esattamente come le mandrie sentono l'avvicinarsi dei fulmini, un sistema atavico di allarme che resta con noi finché non ci evolviamo in creature fatte di pura ragione, non che ci siano molte probabilità. Io e Clair entrammo nei locali. «Fai in fretta, Ryder», disse. «Ho una giornata d'inferno e non ho bisogno di distrazioni.» «Certo, vostra maestà», replicai, suscitando uno sguardo bruciante ma nessun commento. Fece scivolare fuori il cadavere dal loculo refrigerato e tirò via il lenzuolo. Studiai l'insolito spettacolo per alcuni secondi. Senza la testa non c'era nessun senso dell'essere, solo di qualcosa che era andato perduto. Tutto ciò che notai furono le dimensioni fisiche della vittima. Spalle ampie, fianchi stretti, muscolatura possente. La morte rimuove parte del tono e della definizione, ma quello era decisamente un corpo a cui il suo proprietario aveva dedicato tempo e sforzi. Clair mi guardò con disapprovazione, poi lasciò che i suoi occhi esaminassero il corpo con interesse professionale. Cominciò a ricoprirlo con il lenzuolo. Si fermò. «E quello che diavolo è?» brontolò, chinandosi sopra l'area pubica. «Un pene?» «No, maledizione. Sopra il pelo pubico. Cerca di renderti utile in qualche modo, Ryder! Passami dei guanti.» Strappai via un paio di guanti chirurgici di latex da una scatola vicina al tavolo operatorio. Clair se li infilò e spinse via ciuffi di pelo pubico con le dita. «C'è scritto qualcosa», bofonchiò. «Cosi piccolo che faccio fatica a leggerlo. 'Deformato una puttana'», disse, strizzando gli occhi per leggere parole che non potevo vedere. «'Deformato una puttana. Puttane deformate. Un litro di puttane deformate. I sorci ritornano. Sorci ritornano. Sorci ritornano. Sorci. Sorci. Sorci. Ritornano. Ritornano. Ritornano.'» Si tirò indietro e io mi feci avanti. Là, in una grafia precisa, c'erano due righe orizzontali di parole, proprio come Clair le aveva lette. La Dottoressa, senza distogliere lo sguardo dal corpo, chiamò: «Dotto-
ressa Davanelle, venga qui». Guardai verso il piccolo ufficio di servizio nell'angolo dove una donna minuta stava studiando un documento, così silenziosamente che non l'avevo nemmeno notata. Aveva i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, e occhiali severi. Si chiamava Evie, o qualcosa del genere. Era stata assunta da poco e, fino a quel momento, non mi erano stati assegnati casi in cui lei era coinvolta. Si affrettò a raggiungerci. Le feci un cenno di saluto e le sorrisi. Lei mi ignorò. Clair indicò l'osso pubico della vittima. «Visto che, pur essendo lunedì, lei oggi ci ha degnato della sua presenza, volevo farle notare quanto è scritto qui, sul pube. Chiami Chambliss, lo faccia venire con l'impianto di microfotografia e gli dica di fare delle riprese dell'iscrizione. Si accerti che non ve ne siano altre.» «Lo avrei fatto comunque, dotto...» «Cosa sta aspettando? Non c'è niente da decidere. Si muova.» Evie, o qualcosa del genere, ritornò nel suo ufficio per chiamare il fotografo. Il citofono gracchiò e sentii la voce di Vera Braden, con il suo accento da grande Sud fritto nel miele con contorno di avena. «Dottoressa Peltier? Bill Arnett dell'FBI sulla quattro. Dice di avere i risultati dell'analisi dei suoi campioni di tessuti della scorsa settimana.» «Me lo passi», rispose Clair, affrettandosi verso il suo ufficio. Colsi l'occasione per un'incursione nel bagno, lì vicino. Quando ritornai un minuto più tardi trovai Zane Peltier. Era di fianco al corpo, pallido. Le ginocchia sembravano sul punto di cedergli e continuava a sussurrare: «Gesù». «Stia tranquillo, signor Peltier», mormorai avvicinandomi e appoggiandogli una mano alla schiena per sostenerlo. «Faccia un respiro profondo.» «Chi è quello?» domandò con voce roca. «Cristo!» «Un uomo di nome Jerrold Nelson.» «Cristo.» «Respiri», gli ripetei. E lui respirò. «Ero venuto a vedere perché Clair ci metteva tanto e... Cristo, dov'è la testa?» «Non lo sappiamo ancora.» «Chi può fare una cosa del genere a un'altra persona?» Fece altri due respiri e cominciò a riprendere colore. «Sto... sto bene, adesso, detective. Non avevo mai visto un corpo senza...» Abbozzò un tentativo di sorriso. «Avrei fatto meglio a restare fuori.» Zane continuò a respirare a fondo mentre andava nell'ufficio della mo-
glie, e adesso dimostrava tutti i suoi anni. I pettegoli sostengono che le nozze di Zane Peltier con Clair Swanscott siano state più che un matrimonio una fusione, in cui lui aveva portato nome e ricchezza e lei cervello e ambizione. Il patrimonio di Zane era saldamente radicato nella Mobile d'anteguerra, una di quelle fortune che si erano moltiplicate a dismisura durante il conflitto mondiale. Aveva ereditato parecchie società, era nel consiglio d'amministrazione di molte altre, ma lavorava solo quindici ore alla settimana, avevo sentito. Probabilmente in modo molto efficiente. La testa di Clair fece capolino dalla porta. Vidi Zane dietro di lei. Sembrava sul punto di andarsene. Lei diede un'occhiata verso l'ufficio di servizio. «Ho una riesumazione a Bayou La Batre, poi sono a pranzo con Bill Arnett. Sarò di ritorno per le quattro meno un quarto.» Si rivolse a me. «È così che ci comportiamo qui, Ryder. Ognuno fa il suo lavoro, secondo la tabella di marcia. E arrivando in orario.» Nessuna di quelle parole erano rivolte a me. La porta si chiuse. Clair se ne andava a seguire la sua tabella di marcia e Zane, sospettavo, a farsi un goccetto di qualcosa di forte. Rimanevamo io ed Evie, o qualcosa del genere, un ragazzo e una ragazza soli nella casa dei morti. Mi avvicinai a lei compiendo una piccola indagine durante il percorso: nessuna fede al dito. Stava compilando un montagna di documenti. «Mi chiamo Carson Ryder, della Omicidi», dissi rivolto alla sommità del suo capo. «Non credo che ci siamo presentati.» Tracciò alcuni segni con la penna prima di alzare lo sguardo. «Ava Davanelle.» Non porse la sua mano, ma non poté ignorare la mia. La sua stretta era fredda, formale, e venne ritirata in un lampo. «È da poco che lavora qui, dottoressa Davanelle?» «Se sei mesi le sembra poco...» Tornò a guardare i moduli. «La dottoressa Peltier ce l'aveva con lei, oggi. È arrivata tardi? Una volta sono arrivato a un appuntamento con due minuti di ritardo e lei mi ha...» «Non ha consultato nessun dottore per quel problema al naso?» «Problema al naso?» «Il modo in cui lo ficca negli affari degli altri.» Guardai le sue dita tremare impercettibilmente mentre scriveva; la stanza era fredda. «Mi scusi», dissi. «Lavoro con Clair, ehm, la dottoressa Peltier, da un anno, e mi sembra sempre che ce l'abbia con me. Magari non ce l'ha con tutti, ma se ce l'ha con tutti, be', allora...» Mi resi conto che stavo infilando
una serie di sciocchezze, ma non riuscivo a smettere. Doveva essere il mio modo di attaccare bottone. La dottoressa Davanelle raccolse le carte e si alzò. «È stato un piacere conoscerla, detective Carson, ma...» «Ryder. Carson Ryder.» «...ho molto da fare, oggi. Arrivederci.» La seguii attraverso la stanza fino a che lei si voltò come se fossi un cane puzzolente che le annusava le gambe. «C'è qualcos'altro che posso fare per lei, detective Carson?» «Ryder. Carson Ryder. Sono venuto per assistere all'autopsia sul corpo di Nelson, dottoressa Davanelle.» «Si accomodi pure nell'atrio», disse lei, sottolineando la parola atrio. «La informeremo quando sarà il momento.» 4 «...sorci... sorci... sorci.» Le mani «inguantate» della Davanelle si fecero largo fra i peli pubici della vittima mentre lei si chinava sul corpo, completando un lento e preciso enunciato di quanto stava leggendo. «L'inchiostro è color lavanda chiaro, difficile da decifrare a distanza. I primi rilievi suggeriscono l'uso di uno strumento di scrittura con un pennino molto sottile. Si può osservare una leggera penetrazione nell'epidermide. Le microfotografie sono archiviate nella cartella...» Richiamato dal mio esilio dopo una mezz'ora di attesa, avevo trovato la dottoressa Davanelle e l'anziano assistente, Walter Huddleston, intenti a posizionare il corpo sul tavolo. Huddleston era un nero alto, dalle spalle larghe, dotato della forza di un uomo molto più giovane e di occhi ardenti come tizzoni, che non sorrideva mai. Immaginai torme di bambini che suonavano alla sua porta ad Halloween, la porta che si apriva scricchiolando fino a rivelare lo sguardo incandescente di Huddleston, e i bambini che scappavano urlando, lasciando cadere caramelle e dolcetti. La dottoressa aveva completato il suo inventario visivo. Non c'erano altre iscrizioni, a parte un tatuaggio su una scapola. Un drago orientale. Si sistemò la mascherina sulla bocca, prese il bisturi e diede inizio all'esame con un taglio a Y che scoprì gli oscuri ingranaggi interni. Ero colpito dall'economia dei movimenti, le mani inguantate che si muovevano da sole, librandosi con tanta grazia da far pensare a degli ometti invisibili che le pi-
lotavano. Clair e gli altri patologi dello staff, Stanley Hoellker e Marv Rubin, sembravano grezzi al confronto, bruschi e meccanici. Restai a guardare per mezz'ora, rapito, una parola che non avrei mai pensato di associare a un'autopsia. «Ha delle mani splendide», dissi. «Non ha mai pensato di giocare a baseball?» Sollevò il cuore verso la bilancia e ve lo lasciò cadere. «Sono certa che lei sa che tutto quanto diciamo sta venendo registrato, detective», osservò. «Mi farebbe un vero piacere se stesse zitto.» «Mi scusi», replicai. Per altri quindici minuti lei continuò l'esame della cavità. Rimosse e pesò il primo rene, quindi procedette al secondo. Le scivolò di mano e cadde. Senza apparentemente guardare, afferrò l'organo con l'altra mano prima che arrivasse sul pavimento. «L'avevo detto», borbottai, senza riflettere. «Baseball.» I suoi occhi verdi mandarono lampi sopra la maschera. Mi strinsi nelle spalle. «Mi scusi. Era tanto per dire qualcosa.» Accennò col capo alla porta. «L'atrio è proprio lì da dove è venuto. Se esce, potrà dire tutto quello che vuole. Un'altra battuta e la sbatto fuori.» Mi sentii le guance avvampare come se mi avessero preso a schiaffi. Annuii e restai zitto, anche se parlare durante un'autopsia non era un crimine. In ogni esame c'era sempre un sottofondo di chiacchiericcio che veniva eliminato al momento della trascrizione. Non era il caso di prendere le cose tanto sul serio. La dottoressa Davanelle proseguì, descrivendo ogni passaggio ad alta voce per la registrazione e la futura trascrizione. Osservandola, notai interessanti particolari che mi erano sfuggiti: mi era sembrata minuta ma mi accorsi che era invece il suo portamento a farla apparire più piccola di quanto fosse. Avevo anche trovato strano che non avesse usato il suo titolo quando ci eravamo presentati. La maggior parte dei medici lo brandiscono come una spada fiammeggiante e non lascerebbero nemmeno un messaggio per l'uomo del gas senza un «dottor» davanti al nome. Era severa, brusca ed emanava la femminilità di un martello, eppure il suo modo di muoversi era armonioso, quasi una sinfonia, e le sue capacità andavano ben al di là di quanto ci si sarebbe aspettato da qualcuno con soli sei mesi di esperienza. Pochi minuti dopo dovette andare a prendere uno strumento. Quando ritornò, le dissi: «Non intendevo offenderla quando l'ho paragonata a un
giocatore di baseball. Stavo solo cercando di tradurre in parole la mia ammirazione per le sue capacità. Le sue mani si muovono con una fluidità tale da sembrare acqua». Mi guardò come se avessi urinato sulle sue Reebok. «Non le avevo chiesto di non parlare? Non più di dieci minuti fa?» Presi un respiro profondo ed esalai. «Non sono mai stato prima d'ora a un'autopsia dove vigesse la regola del bavaglio, dottoressa.» Lei gettò lo strumento sul tavolo e si voltò di scatto, fronteggiandomi. «Allora, queste sono le regole qui: io eseguo l'autopsia, lei osserva. In silenzio. Se ha qualcosa di intelligente da chiedere riguardo all'autopsia - cosa che a qualcuno, a volte, succede - faccia pure e le sarà risposto. Se per lei è troppo difficile da capire, posso metterlo per iscritto e mandarlo ai suoi superiori.» In genere mi arrabbio lentamente, a volte però faccio delle eccezioni. «Senta, dottoressa, se lei ha avuto una mattina di merda, non deve necessariamente prendersela con me.» I suoi occhi brillarono come fuochi verdi e si strappò la maschera dal viso. La sua pelle era cinerea e gocce di sudore le imperlavano la fronte. «Non sono disposta a tollerare un simile atteggiamento. Chi devo chiamare per farla sostituire?» Fui sul punto di rispondere, ma ci ripensai. Sollevai le mani in segno di resa, poi feci il gesto di chiudermi una lampo sulle labbra e indietreggiai di un passo per darle spazio. Molto spazio. Per le due ore che seguirono fui una sfinge. Feci tre domande, tutte in gergo strettamente tecnico. Lei rispose allo stesso modo, come un automa. L'autopsia rivelò che la recisione della testa era stata compiuta, probabilmente senza fretta, con una lama sottile come un rasoio. A parte il tatuaggio e le iscrizioni, il corpo non presentava altri segni. Il livor mortis, la macchia scura del sangue che si era accumulato sul lato inferiore del corpo, indicava che la vittima era rimasta supina dopo il decesso. Nient'altro. O, per lo meno, non ancora. Una volta terminata la procedura, la dottoressa si tolse i guanti, li lasciò cadere nel contenitore a fianco al tavolo e cominciò ad allontanarsi. Senza voltarsi, disse: «Preparerò un rapporto dei rilievi principali. Ci metterò due ore. Lo troverà alla reception». «Dottoressa Davanelle», chiamai rivolto alla sua schiena. Si fermò e si voltò, guardandomi truce. Mi chiesi se non avevo infranto qualche regola riguardo al parlare dopo che il registratore era stato spento.
«Sì, detective Carson?» «Mi chiamo Ry... lasci perdere. Senta, siamo partiti col piede sbagliato e credo sia stata colpa mia. Non me la cavo molto bene a parlare, e quando cerco di metterci una pezza finisce sempre che peggioro le cose. Possiamo provare a ricominciare da capo?» Lei non rispose, così aggiunsi: «È ora di pranzo. Conosco un buon ristorante dalle parti di Bienville Square. Offro io». Sorrisi a tutto campo e ammiccai. Lei se ne andò via come se io fossi un noioso tafano e si chiuse nel suo ufficio sbattendo la porta. Chiamai Harry per sapere come andava. Rispose che stava interrogando dei pregiudicati bianchi. Quando mi chiese cosa stessi facendo io, gli risposi che ci saremmo visti fra un po'. L'aspetto più irritante di parlare con la zia di Jerrold Nelson, Billie Messer, erano i suoi continui tentativi di allontanare inesistenti insetti dal viso. All'inizio pensai che soffrisse di una qualche forma di nevrosi, poi capii che era un riflesso condizionato dovuto al vivere in una roulotte con le reti arrugginite alle finestre e un condizionatore rotto. La Messer, che doveva essere sulla quarantina, era l'unica parente in vita di Nelson, e Harry aveva passato la mattina a scoprire dove abitava: una vecchia roulotte nascosta fra le erbacce. Da giovane, Billie Messer era stata quella che veniva definita una ballerina esotica, ma, col tempo, tutto quello che aveva di esotico era diventato cadente, e ora era costretta a preparare i cocktail che un tempo convinceva i dienti a ordinare. La signorina Messer indossava già gli abiti da lavoro: scarpe nere dai tacchi a spillo, minigonna nera e un reggiseno di pizzo che sembrava sul punto di cedere sotto il peso della mercanzia che sorreggeva. Una corona di capelli rossi e ricci le contornavano i lineamenti marcati che potevano essere equini o attraenti a seconda dell'ora della notte o delle sostanze che uno aveva ingerito. Io e Harry eravamo appoggiati alla fiancata di un'auto arrugginita nel prato di fronte alla roulotte, mentre Billie Messer fumava sigarette, allontanava invisibili moscerini e d raccontava la vita di suo nipote con una voce stranamente seducente, alla Tina Turner. «Povero Jerry, era un buono a nulla, ma c'era un posto dove ci sapeva fare: il letto. Era schifosamente bello. E anche intelligente: o meglio, furbo. Sembrava sempre che fosse sul punto di sfondare, di diventare un famoso modello. Poteva anche succedere, solo che era così pigro! Si guadagnava
da vivere con la sua bellezza, andava sia con donne sia con uomini. Non gliene fregava nulla, finché pagavano. Una volta gli ho chiesto: 'Jerrold, come fai ad andare allo stesso modo con donne e uomini?' Sa cosa mi ha detto? Mi ha detto che per lui era uguale. E io gli ho detto: 'Come uguale, senti le stesse cose?' E lui: 'E cosa devo sentire, zia Billie, non sento niente.' E sa cos'altro mi ha detto?» «Cosa, signorina Messer?» chiese Harry, sinceramente curioso. «Gli sembrava così strano quello che pensava la gente di lui, cioè che era in gamba a letto perché poteva andare avanti tanto a lungo. Diceva che quando non senti nulla, non c'è niente che ti fa smettere. Gli ho chiesto come faceva a... insomma, a farlo alzare, e lui mi ha detto che si sforzava di pensare a volare. Dopo poteva farlo tranquillamente, avere il suo... insomma, mi capisce.» Billie Messer fece una smorfia, scosse via un ciuffo di capelli, triste, e spiaccicò un insetto invisibile. «Non è una vergogna quello che è successo?» Attraversammo la città per andare a parlare con Terri Losidor, la donna che aveva sporto denuncia contro Nelson. Harry guidava, mentre io stavo sdraiato sul sedile di dietro a parlare con la parte posteriore della sua testa. C'è chi sostiene di pensare meglio nella doccia o seduto sul cesso; a me capita sul sedile posteriore di un'auto. Quando ero bambino e a casa mia cominciavano i guai, me ne andavo quatto quatto nel buio a nascondermi sul sedile della macchina, passavo la notte in un sonno agitato per poi tornarmene nel mio letto all'alba. Le mie meditazioni sul sedile non disturbavano Harry, al quale piaceva guidare, anche se lo faceva in modo terrificante. «Devi averne visti di assassini passionali, Harry, almeno venti volte più di me. Quanti erano così puliti come questo?» «Non significa nulla. Ogni caso è diverso.» «Andiamo, Harry. Quanti sono stati così schifosamente immacolati?» Harry grugnì. A lui piace guidare in silenzio, a me piace pensare ad alta voce. Sollevò di malavoglia la mano destra, con il pollice e l'indice a formare uno zero. «Ho visto tagli, Carson. Mutilazioni. Una volta, cinquanta ferite di coltello. Un'altra, ottanta. Teste massacrate a colpi di martello. C'è stato il caso di uno che ha sparato tutti i colpi in canna, ha ricaricato e ha ripreso a sparare.» «Esatto. La rabbia esplode. Questo invece era asettico.» «Il corpo era asettico, Cars. Cosa ne stanno facendo di quella testa in
questo momento? Secondo me la stanno usando come bersaglio per il tiro a segno. O ci fanno pratica con un martello.» A un semaforo, un autocarro si affiancò a noi. Il conducente guardò giù e restò sorpreso al vedere un tipo con giacca e cravatta sdraiato sul sedile posteriore di una Taurus. Strizzai l'occhio e lui distolse lo sguardo. «La testa che riceve il castigo...» dissi. «La faccia che simbolizza il tutto. Potrebbe anche avere senso, presumo. Dove siamo?» «Fra Airport Road e l'università. Cos'è che non ti convince?» «Se era questo che l'assassino voleva, la testa, perché non filarsela subito, una volta che se l'è trovata in mano? Perché non l'ha subito portata via per farne poi quello che voleva, come dici tu, invece di restare lì a scrivere parole sul corpo? Probabilmente è quello il motivo per cui lo ha portato sotto la luce.» Harry disse: «Magari è proprio il fatto di scrivere a eccitarlo. Doveva farlo». «Se si è già portato la testa a casa, perché tracciare il suo discorso sul corpo?» «Giusto. Chissà, magari è un altro caso Farley.» Farley Traynor era un commercialista amareggiato e arrabbiato che aveva preso l'abitudine di incidere parole sul corpo di vittime sconosciute, per dire quanto ce l'aveva con loro per quello che gli avevano fatto. In un curioso esempio di percezione alterata, Traynor aveva pensato che, poiché i morti sono dentro i loro corpi e guardano fuori, doveva scrivere al contrario per rendergli più facile la lettura. «Non sta in piedi se lui pensa che la testa è il posto dove risiede la personalità. Ehi, hai investito un passante?» «No, era un dosso. Forse era un messaggio per noi sbirri. Puttane e sorci? Mica tutti ci amano quanto ci amiamo noi.» Non mi convinceva del tutto. «Ma il messaggio non sarebbe durato a lungo, o almeno, non sarebbe rimasto leggibile. Non con questo caldo. Credo che anche un leggero inizio di decomposizione sarebbe stato sufficiente a cancellarlo. E se le parole sono importanti, allora le urli: usi un pennarello grosso, tracci caratteri grandi.» «Ci stai pensando troppo, Cars. Non per dar ragione a Squill, ma credo che si tratti di una vendetta.» «Vendetta vuol dire rabbia. Se l'assassino era arrabbiato, allora le sue vendette sono mazzolini di fiori.» I miei pensieri erano equamente divisi fra un'ira fastidiosa e il mio pes-
simo esordio con la dottoressa Davanelle quando l'auto fece una sterzata brusca e sobbalzò, imboccando un vialetto. Harry annunciò: «Siamo arrivati, collega. Non me lo aspettavo nemmeno io». 5 Nel parcheggio del condominio dove si trovava l'appartamento di Terri Losidor c'erano diversi Beamers, oltre ad altri veicoli per yuppie. Nel giardino si vedevano piante di mirto, palme, azalee e qualche pino. C'era una piscina, popolata di corpi abbronzati che oziavano sdraiati al sole. Non un bambino in vista. «Da un deposito di roulotte a yuppie-ville», disse Harry. «Darwin all'opera.» Terri aprì la porta senza bisogno di trincerarsi dietro una catenella e chiederci i documenti, segno che o si fidava oppure ci aspettava. Aveva un viso aperto, occhi verdi e vivaci. Si muoveva in modo sinuoso, nonostante qualche chilo di troppo, per altro ben distribuito. Ci fece cenno di accomodarci su un divano arancione e si sedette di fronte a noi. Accese una sigaretta e tolse l'audio al televisore che trasmetteva un talk show. Nonostante la sua calma esteriore, potevo sentire un certo nervosismo sottopelle, cosa non del tutto infrequente quando ricevi la visita di un paio di sbirri. L'appartamento era pulito, con mobili a buon mercato ma ben assortiti; sotto l'odore di fumo, si avvertiva il profumo di deodorante per ambienti al limone e di una doccia appena fatta. In un angolo c'era una cuccia per gatti. «Siete venuti per Jerrold, non è vero?» disse la donna. Harry annuì. Terri Losidor raccolse un cuscino e se lo strinse contro il petto. Harry cominciò con qualche domanda facile perché si abituasse a rispondere. Aveva trentatré anni e teneva la contabilità presso un corriere del posto. Abitava al Bayou Verde Apartments da tre anni. I bambini non erano ammessi, ma gli animali da compagnia erano okay. Mettevano troppo cloro nella piscina. Tutto ciò ci venne riferito in un tono nasale che doveva essere lo spasso dei camionisti della sua azienda. Harry passò a parlare di Nelson. Mentre lui la obbligava a rivivere lentamente il passato, ne approfittai per stare zitto e usare il mio anno di esperienza come detective per identificare i peli del gatto sul divano. Lunghi e bianchi. «Conosceva bene il signor Nelson?» chiese Harry. «Sto parlando del suo passato, i suoi amici, la famiglia, gli hobby e così via.»
«Tutte cose che per me e Jerrold non avevano nessuna importanza, detective Nautilus. C'eravamo solo noi e quello che facevamo insieme. Non avevo bisogno di sapere altro.» «Non ne aveva bisogno o Jerrold non glielo ha detto?» Harry si allentò il nodo della cravatta, si massaggiò un punto del collo e sembrò rilassarsi. La Losidor distolse lo sguardo. «Gli ho fatto delle domande, un paio di volte. Mi ha risposto che non gli piaceva parlare di quelle cose. Lo facevano soffrire.» «Per cui, se non conosceva i suoi amici, probabilmente non conosceva nemmeno i suoi nemici.» «Jerrold non aveva nemici. Era così... così gentile. Rideva e scherzava sempre.» Fece un sorriso triste. «Una mia amica una volta mi ha detto: 'Terri, quel Jerrold mi fa venire male alla bocca a forza di ridere'. Non c'era nessuno che si potesse arrabbiare con lui, detective Nautilus.» Harry incrociò le dita dietro il capo e sprofondò nel divano. «In maggio lei si era arrabbiata con lui al punto di minacciarlo di mandarlo in prigione. Credo fosse per una storia di undicimila dollari passati di mano da lei a lui.» Terri chiuse gli occhi, sospirò; li aprì di nuovo. «Vede, mi aveva detto che aveva una possibilità unica di mettere su un'attività, che con quattordicimila dollari di investimento ne avrebbe guadagnati settantamila all'anno. Io ne avevo solo undicimila, ma Jerry mi ha detto che potevano bastare.» Ci fu un tonfo, come se qualcosa fosse caduto per terra. Terri sobbalzò. Harry raddrizzò la schiena, attento. «Siamo soli, qui?» «Oh, certo. Solo noi», disse la Losidor, prendendo una sigaretta. «Quello era Mister Puff, il mio gatto. È un disastro: fa cadere tutto dalle mensole e dai davanzali.» Harry e io restammo in silenzio per un attimo ad ascoltare. Nulla. Harry sprofondò di nuovo nel divano. «Jerry le ha detto a quale tipo di attività i suoi soldi erano destinati?» «Aveva a che fare con i computer e il modo di collegarli. Mi aveva spiegato che un ufficio poteva avere un tipo di computer e un altro ufficio un computer di tipo diverso e che i due computer potevano non capirsi fra loro. Un suo amico aveva inventato un sistema per farli comunicare meglio. La cosa aveva senso, visto che dove lavoro io i computer continuano a dare problemi.» «Ha mai incontrato questo suo amico? O saputo come si chiama?» «Mi sono fidata di Jerry.»
Harry aveva già sentito questo tipo di storie. «E una volta che lei gli ha dato i soldi, Jerry ha smesso di venirla a trovare così spesso, non è vero?» «Non so, aveva sempre tanto da fare...» I suoi occhi fissarono la moquette. «Sì.» «Poi l'attività è finita male.» Terri sospirò. «Ha detto che un'altra azienda era arrivata prima a produrre la stessa cosa. L'Intel. Ho chiesto a un mio amico che si occupa di computer nell'azienda dove lavoro e lui ha detto di non aver mai sentito che l'Intel avesse fatto un prodotto del genere; non era il tipo di cose di cui si occupa l'Intel. È stato allora che l'ho denunciato.» Tirò su col naso e prese un fazzoletto rosa della tasca per asciugarsi gli occhi. «Ma una settimana dopo ha ritirato la denuncia.» «Mi aveva detto la verità. Finalmente.» Continuò a tirar su col naso. «E qual era la verità?» «Aveva usato i soldi per comprare una parte di una spedizione di cocaina. È come comprare delle azioni di una società. Se ne sottoscrive una parte. Jerry non me lo aveva detto perché sapeva che non avrei approvato. Aveva smesso di frequentarmi perché se ne vergognava.» «Come una società per azioni?» «Si ricorda di quell'aeroplano precipitato vicino a Saraland? Era quello l'aereo. Tutta la cocaina è bruciata e i nostri soldi se ne sono andati in fumo.» Mi ricordavo dell'incidente. Un concessionario Mercedes con un Cessna 180 aveva sbagliato i calcoli del carburante di un paio di litri, e si era schiantato fra gli alberi. Non era stata trovata nessuna traccia di cocaina. O Nelson era un bugiardo di prima classe o quella donna era nata per essere fregata. O tutte e due le cose assieme. A meno che, naturalmente, Terri non ci stesse rifilando una bella panzana. «Un'altra cosa, signorina Losidor», continuò Harry. «Com'è che lei e il signor Nelson vi siete incontrati?» Fece una breve pausa. «Al Game Club, all'aeroporto.» Il Game Club è un bar per single decorato come un antico pub inglese sul tema della caccia alla volpe: trombe e selle inglesi alle pareti, camerieri in livrea e bombetta. Ho avuto un paio di dolorosi risvegli dopo notti trascorse al Game Club, ma è roba di qualche mese fa. Da allora, sono maturato. A Harry non era sfuggita la sua esitazione. «È sicura?»
«Non riesco mai a ricordarmi il nome del posto.» «Chi ha iniziato il contatto?» «Iniziato cosa?» «Chi di voi due è partito per rimorchiare l'altro?» «Ero seduta con un paio di amiche. Jerry era in piedi al banco. Gli ho dato un'occhiata e lui mi ha strizzato l'occhio.» Harry finì le sue domande e ci alzammo per andarcene. Lei ci accompagnò alla porta. «Stavamo davvero molto bene insieme, fino a quella storia dei soldi», disse, asciugandosi una lacrima col fazzoletto. «Eravamo innamorati. Je... Jerrold diceva che nessun'altra donna lo aveva mai fatto sentire così.» Immagini scollegate mi passono di fronte agli occhi. Nelson che cavalca selvaggiamente Terri Losidor. Lei che pensa di aver ispirato un'esplosione di virilità nell'amante, mentre lui è semplicemente annoiato da tutto salvo che dalla prospettiva di fare soldi. Se la scopa fino a sfiancarsi, poi, sognando di volare, si svuota senza alcuna gioia, cadendo addormentato su un materasso impregnato di sudore che già comincia a puzzare. Stavamo già svoltando alla fine del parcheggio quando Harry schiacciò i freni. «Guarda, Carson», esclamò, indicando un gatto che graffiava la porta dell'appartamento di Terri Losidor: aveva il pelo lungo, bianco, e un collare rosa. La porta si apri di una spanna e il gatto vi si infilò dentro scuotendo la coda. Guardai Harry. «Mister Puff, presumo.» «A questo punto, mi chiedo chi fosse il gatto maldestro che saltava sul suo davanzale.» Harry mi lasciò al comando. Ci saremmo visti più tardi da Flanagan per mangiare qualcosa e cercare di buttar giù qualche idea. Se ne andò a recuperare i verbali di raccolta di testimonianze collegate al caso mentre io andavo all'obitorio a vedere se erano pronti i risultati dell'autopsia. Il rapporto mi stava aspettando alla reception, non più di qualche pagina che indicava gli aspetti fondamentali e alcuni rilievi non ufficiali. Non mi aspettavo nessuna particolare rivelazione, ma, visto che ero già lì, pensai che potevo passare un attimo da Clair per allietarle la giornata. Mi chiesi anche se la perennemente imbronciata dottoressa Davanelle non si fosse lamentata di me con lei, magari dicendole che avevo passato il tempo durante l'autopsia chiacchierando come un banditore d'asta e intonando can-
zoni oscene d'osteria. Perfino Clair Peltier, la sultana della rigidità, consentiva un minimo di conversazione durante un'autopsia. Percorsi il corridoio e feci per entrare nell'ufficio di Clair. La porta era socchiusa e udii la sua voce. Ero sul punto di ficcar dentro la testa e salutarla ma la mia mano si congelò sulla maniglia quando sentii il suo tono. «È ridicolo, semplicemente inaccettabile», disse, con una voce penetrante come spine, le sillabe impregnate di acido. «Non riesco nemmeno a leggere il rapporto, nemmeno fosse stato scritto da uno scimpanzé.» Sentii delle scuse mormorate a bassa voce. Clair disse: «No! Non voglio nemmeno ascoltarla. Non me ne frega nulla di quanto poco tempo ha avuto. Quando ero al suo posto facevo tre autopsie al giorno eppure riuscivo a preparare rapporti leggibili». Altre parole appena sussurrate. «Non ci sono scuse. Questo lavoro è semplicemente inaccettabile. Cerchi di fare meglio.» Non ho mai provato piacere a sentire qualcuno ricevere una lavata di capo. Mi riporta a ricordi spiacevoli della mia infanzia. Mi sembra sempre che le parole siano destinate a me. La voce di Clair continuò mentre indietreggiavo, allontanandomi lentamente. «Poi c'è la questione dei giorni di malattia. Quanti pensa di prenderne quest'anno? Sei? Otto? Un mese? È un comportamento irresponsabile, per non dire di peggio. Quando lei non c'è, o quando arriva in ritardo - il che succede quasi di norma - tutti i miei impegni di lavoro saltano. No, non voglio scuse, tutto quello che voglio è che lei...» Sentii il tono di congedo nella voce di Clair. Dei passi all'interno si avvicinarono alla porta. Indietreggiai in punta di piedi nel corridoio. L'unico rifugio era l'ufficio di Willet Lindy; le luci erano spente e pensai che fosse già andato a casa. Arrivava spesso al lavoro prima delle sei del mattino e alle tre del pomeriggio chiudeva bottega. Entrai nel suo ufficio. C'era un'ampia vetrata che si apriva sul corridoio, le tapparelle aperte a tre quarti. Mi appiattii contro la parete. Rumore di passi. Guardai Ava Davanelle fermarsi di fronte alla finestra e asciugarsi le lacrime dagli occhi con dita tremanti. Il suo volto era terreo. Strinse le mani a pugno fino a farsi venire le nocche bianche e le appoggiò alle tempie. Cominciò a tremare come se le stessero strappando l'anima a brandelli. Restai immobile a guardare, trafitto dall'intensità della sua agonia. Continuò a tremare finché un singhiozzo strozzato le uscì dalla gola. Si strinse le mani sullo stomaco e corse verso il bagno.
La porta sbatté come un colpo di fucile. Il tormento di Ava Davanelle mi aveva lasciato senza fiato. Restai a fissare il corridoio deserto per una dozzina di battiti di cuore, come se l'aria si fosse colorata di angoscia. Sgusciai fuori dal mio nascondiglio, cercando di raggiungere la salvezza dell'ingresso, ma per farlo fui obbligato a passare di fronte alla porta ora semiaperta di Clair. «Ryder? Sei tu?» chiamò. Mi girai con simulata disinvoltura, e misi la testa dentro il suo ufficio come avevo sempre fatto. «Cosa ci fai qui?» si incuriosì. Non c'era alcuna acrimonia nella voce, solo il tono normale. Sorrisi con un certo imbarazzo e le feci vedere il rapporto. Lei annuì. «Ah, già. Il rapporto preliminare. Me ne ero dimenticata. Ho avuto una giornata d'inferno.» Clair fece una pausa, pensosa. «È stata la tua prima autopsia con la dottoressa Davanelle?» Annuii. «Il mio battesimo del fuoco.» Si infilò gli occhiali da lettura ed esaminò una cartella sulla scrivania, accigliandosi come di fronte a qualcosa che non la convinceva. «La Davanelle è in gamba», mormorò, come parlando a se stessa. «Ci sono un paio di aspetti su cui deve migliorare, ma sa il fatto suo. Buona giornata, Ryder. Non ti mettere nei casini.» 6 Tre pile di fotografie erano sistemate sul tavolo di formica: una grande, una media, una piccola. Gli unici altri oggetti erano delle forbici cromate e una lente di ingrandimento. L'aria era calda e senza vento ma non ci faceva caso. Così come non faceva caso al frastuono dei camion a qualche centinaio di metri sulla Interstate 10 o al fischio dei jet che atterravano o decollavano dall'aeroporto di Mobile. Stava lavorando con le fotografie, un compito che richiedeva la massima concentrazione. Avrebbero cambiato l'universo. La pila di foto più grande, sistemata all'angolo più lontano del tavolo, era quella degli Scarti, tutte messe a faccia in giù in modo che non fosse obbligato a guardarle. Magri come chiodi o grassi come botti, coperti di peli o sfigurati da cicatrici. Gli Scarti erano schifosi bugiardi e lui si lavava sempre le mani dopo aver toccato le loro foto. Perché avevano risposto? Possibile che gli Scarti non sapessero leggere? Le sue istruzioni, sessantasette parole compilate nel corso di tre setti-
mane, erano state estremamente precise. Al centro del tavolo c'era la pila media, i Potenziali. Ampi toraci rosa. Colline di bicipiti, spalle possenti. Ventri piatti come assi. Ma tutti avevano qualche particolare che non andava: un ombelico mal tagliato, capezzoli raggrinziti. Uno aveva mani troppo grandi. I Potenziali erano le riserve in panchina, pronti a entrare in campo se ce n'era bisogno, altrimenti tenuti da parte. Si passò le mani sudate sui pantaloni color kaki per asciugarle e prese la pila di foto più vicina. Erano solo cinque: gli Assoluti, i prescelti. Delle settantasette foto ricevute, solo cinque erano riuscite a sopravvivere alla severa selezione. Dispose gli Assoluti di fronte a lui come fossero supplicanti e li esaminò dal mento alle ginocchia. Fino a che il suono non cominciò a percuotergli la mente. No, per favore, no, basta... Restò seduto e si tappò le orecchie con le mani. Lei aveva cominciato a cantare nella stanza a fianco. Sapeva che non era fisicamente lì, ma quella donna poteva cantare attraverso il tempo e la distanza, se voleva. Lui canticchiò a voce alta per coprire la voce di lei, ma ottenne solo l'effetto di farla cantare più forte. L'unico modo di impedirle di proseguire era abbassarsi i pantaloni e fare quella cosa, con le natiche che facevano scricchiolare la sedia di plastica finché laggiù, in basso, non si fosse compiuta la solita porcheria fra il tavolo e il pavimento. Impiegò due minuti a farla tacere. Si riabbottonò i pantaloni in un benedetto silenzio, poi passò cinque minuti al lavandino a prendersi cura delle mani. Acqua calda, sapone fino ai gomiti, rudi colpi di spazzola, una risciacquata, e poi ancora, da capo. Si asciugò le mani con una salvietta pulita che gettò poi nella cesta della biancheria sporca. Tornò al tavolo e raccolse una foto dal mucchio degli Assoluti. L'uomo raffigurato era in piedi, nudo e ghignante, contro un muro color panna, fianchi spinti in avanti, il membro impudicamente esibito per la fotocamera. L'uomo aveva un sorriso da attore, bianco come la neve, e non gli mancava che una sfumatura di luce da un incisivo. Aveva sorriso in quel modo quando si erano incontrati nel parco. L'uomo al tavolo prese le forbici. Allineando attentamente le lame con la fotografia, tagliò e la testa cadde sul pavimento. La raccolse, la strappò in pezzetti ciascuno non più grande di un'unghia e li gettò nel gabinetto. L'ultimo pezzo a essere risucchiato dallo scarico fu il sorriso candido. L'uomo piegò il capo e ascoltò per vedere se la donna aveva ricomincia-
to a cantare. Doveva essersi addormentata. Aveva usato il massimo della cautela, ma era sicuro che lei avesse sentito che stava per essere trovata. Ritornò al tavolo, prese la lente di ingrandimento e studiò gli uomini delle foto rimanenti, dalle ginocchia al mento e dal mento alle ginocchia, ripetutamente, finché non fu certo di aver fatto la scelta giusta. «Un litro di puttane», disse Harry. «I sorci ritornano. Sorci ritornano. Sorci ritornano. Sorci ritornano. Sorci. Sorci. Sorci. Sorci. Ritornano. Ritornano. Ritornano.» Scribacchiò senza troppa precisione sul suo blocco, poi strappò il foglio, lo accartocciò e lo gettò sul mucchio crescente di palle di carta al centro del tavolo. I tavoli da Flanagan erano troppo piccoli per un brainstorming, pensai. Le luci troppo fioche. Il livello del rumore troppo alto. Il pavimento troppo di legno. Tutto mi irrita quando non mi vengono idee. «Otto volte la parola topi», dissi esasperato. «Quattro da sola, quattro con ritornano.» Harry scarabocchiò su una pagina nuova. «Sorci. Topi. Tipo. T.I.P.O?» Ci pensai su. Non mi venne in mente nessuna sigla. «Sorci. Rats. È l'anagramma di star, stella», continuò Harry disegnando stelle. «Otto stelle, quattro stelle per due, ristoranti a quattro stelle, pasti a quattro stelle?» Mi strofinai i palmi sul viso. «Chi è che ha deformato le puttane?» Arrivò il terzo giro di birre. Eloise Simpkins portò via le bottiglie vuote, sbirciò sul mio blocco e trasalì. Avevo disegnato un grosso topo. «Accidenti», borbottò, arricciando il naso, come un topo. Inclinai il collo, stirando i muscoli. Flanagan era mediamente affollato, venticinque persone o giù di lì, la metà poliziotti. La maggior parte era al banco o ai tavoli vicini. Il tavolo a cui sedevamo io e Harry era vicino alla finestra e potevamo tirare la tenda e guardare fuori per trovare ispirazione, se volevamo. Scostai la tenda. Pioveva in linee verticali così continue che era impossibile dire se cadeva o saliva. Sembrava di guardare un canale a quattro corsie con sotto una strada e di tanto in tanto un'auto che passava sollevando spruzzi. Sul marciapiede opposto, lo studio di un chiropratico, un banco di pegni e un negozio di roba usata abbandonato. Un contenitore di hamburger scorreva nel canaletto di scolo. Richiusi la tenda. «Lo zodiaco», disse Harry. «Otto stelle. Non c'è una costellazione o qualcosa del genere...» «Le Pleiadi», lo interruppi. «Sette stelle, sette sorelle.»
«Perché non possono essere otto topi?» Harry fece un'altra palla di carta e la fece rotolare fino a centro tavola. Vidi stivali di alligatore avvicinarsi al tavolo e guardai in su fino a inquadrare Bill Cantwell, un detective anziano del secondo distretto. Cantwell era un dinoccolato quarantacinquenne che veniva dal Texas e che sottolineava la sua origine indossando jeans a tubo, camicie ricamate e uno Stetson che teneva ben calcato sugli occhi. Notò il mio schizzo del topo, fece finta di studiarlo, poi lo confrontò con Harry. «Ehi, hai fatto un buon lavoro, Carson», disse. «Accentuerei un po' di più i baffi, ma è somigliantissimo.» «Un altro Steinberg», gemette Harry. «Seinfeld», lo corressi. Harry aveva una TV da dieci pollici in bianco e nero. A lui piaceva la musica. «Ho sentito dire che il caso di Nelson lo seguirete voi del Piss-it», disse Cantwell appoggiando uno stivale dalla punta d'argento sulla sedia di fianco a Harry. «Dimmi un po' cosa significa Piss-it, Harry. Non ho intenzione di consultare il manuale... Maledizione, pesa almeno cinque chili!» «Team investigativo psicosociopatologico, Bill», disse Harry. «Ma Pissit è molto più facile da ricordare.» L'indomani io e Harry avremmo dovuto incontrare gli agenti della Omicidi del secondo distretto per chiedere loro di passare al setaccio il quartiere di Nelson e di controllare i posti che lui frequentava abitualmente. Per la verità lo stavano già facendo, visto che il crimine era stato commesso nel loro territorio. Ma secondo le procedure del PSIT tutto doveva passare attraverso me e Harry, visto che eravamo i soli componenti del team. Cantwell annuì adagio. «Credo abbia un senso che sia il Piss-it a occuparsene. Qui c'è sotto la mano di un pazzo, è evidente, una testa tagliata e delle scritte sopra l'uccello. Ci saranno un po' di lamentele per il sovraccarico di moduli da compilare, ma penso che alla fine nessuno avrà da ridire, a parte Squill.» «Cosa stai cercando di dire, Bill?» domandò Harry. «Squill si è lamentato?» «Girava per gli uffici oggi, facendo un po di casino, non so se mi spiego. Della serie che non eravamo obbligati a collaborare più di tanto, se non volevamo.» Cantwell si stuzzicò un dente e lasciò cadere qualcosa di indesiderato sul pavimento. «Ho avuto l'impressione che a Squill il PSIT non sia molto simpatico.» Harry inarcò un sopracciglio.
«Non ti preoccupare, Harry. Osserveremo le procedure del PSIT. Siamo con te finché non ci danno istruzioni contrarie.» Cantwell colpì il tavolo con le nocche e ritornò verso il suo gruppo. Guardai Harry. «Perché Squill ci sta ficcando le dita negli occhi?» Harry si strinse nelle spalle. «È tipico di Squill. Noi abbiamo gli occhi e lui ha le dita.» Quando ci furono più palle di carta che spazio per lavorare, decidemmo di chiudere la giornata e uscimmo dal locale proprio mentre ci stava entrando Burlew, con l'impermeabile grigio completamente inzuppato di pioggia. Harry era già in strada; Burlew e io ci incrociammo nello stretto vestibolo fra la porta interna e quella esterna. Gli feci un cenno di saluto e gli cedetti il passo ma lui fece uno scarto di lato e mi spintonò contro il muro. Mi girai per vedere se fosse ubriaco, ma era già entrato nel bar con un sorrisetto incollato agli angoli della sua bocca da bambola. La mattina dopo venimmo convocati nell'ufficio di Squill. Era al telefono e ci ignorò. Eravamo seduti sulle sedie di legno di fronte alla sua scrivania sgombra, intenti a osservare la parete che lui aveva dedicato al culto della sua personalità. Non era passato da lì un solo personaggio famoso nel raggio di tre Stati senza che Squill fosse riuscito a farsi fotografare con lui, a mano tesa e dentatura scintillante. Dopo aver ascoltato sbuffando per cinque minuti, Squill riattaccò e si girò sulla poltrona a guardare fuori dalla finestra, dandoci le spalle. «Parlatemi del caso Nelson», ordinò con gli occhi rivolti al cielo. «Non c'è ancora molto», risposi. «Ieri abbiamo parlato con sua zia, Billie Messer...» «Sto parlando con il detective anziano, Ryder. Quando è in questo ufficio, prima di parlare aspetti che venga il suo turno.» Sentii il volto ardermi dalla rabbia e i pugni chiudersi involontariamente. Squill disse: «Ci riprovo. Cosa sta succedendo con il caso Nelson?» Harry mi guardò, alzò gli occhi al cielo e si rivolse al cranio di Squill. «Abbiamo parlato con sua zia, Billie Messer, e con altri soggetti. Confermano quanto indicato sulla sua fedina penale. Usava le persone. Abbiamo incontrato una sua precedente amante, quella che lo ha denunciato. È una donna confusa che prova ancora dei sentimenti per Nelson, ma che di fatto conferma quanto detto da altri. Oggi dobbiamo vederci con quelli della Omicidi del secondo distretto per accordarci su...» Squill si girò verso di noi. «Non se ne parla nemmeno.»
«Chiedo scusa, capitano?» «Non farete più nulla. Ho parlato con il capo e anche lui concorda che questo non è il caso di uno psicopatico. Puzza tanto di vendetta fra omosessuali. Riassegneremo il caso al secondo distretto. Il vostro coinvolgimento nel caso Nelson è ufficialmente terminato.» Strinsi le mani fra le ginocchia e mi chinai in avanti. «E se non fosse una vendetta ma l'inizio di una catena di assassinii?» «Ho parlato col muro? Fuori!» «Non presenta le caratteristiche di un'uccisione per vendetta. Quello che ho...» «Mi ha sentito?» «Mi lasci finire, capitano. Non abbiamo ancora abbastanza informazioni per decidere se questo è o non è un...» Squill si girò di nuovo verso la finestra. «Lo porti fuori di qui, Nautilus. Ho del lavoro da sbrigare.» Scossi il capo mentre uscivamo nel corridoio. «Non ha senso. Perché ci ha tolto il caso prima che avessimo finito di esaminarlo nell'insieme? Non abbiamo abbastanza informazioni per decidere se è un caso per il PSIT o meno. Che cosa gli sta passando per la testa?» «Ho avuto notizie fresche questa mattina», disse Harry. «E perché non le racconti anche a me?» «Ti ricordi la voce secondo la quale il comandante Hyrum doveva andare in pensione l'anno prossimo?» «Sì.» «Bene. Sembra invece che se ne andrà a settembre.» «Fra due mesi.» Harry annuì. «Prepara l'ombrello. Scorrerà sangue.» «Ma non riguarda noi, lo hai detto tu.» «L'unica cosa che non cambia è che tutto cambia, fratello. Ci sono due vice a caccia del posto di grande capo. Belvidere e Plackett. Squill ha legato il suo carro alla stella di Plackett, reggendogli il moccolo per anni. Se la commissione raccomanda Plackett per il posto di capo, indovina un po' chi diventerà il suo vice?» Il mio stomaco si contrasse. «Squill?» Harry mi diede una pacca sulla schiena. «Adesso riesci a vedere il quadro nel suo insieme, Carson. Plackett è come Squill: è più un politico che un poliziotto. Non è in grado di trovarsi il culo con uno specchio, ma sa come lavorarsi i media; e Squill gli ha fornito tutti i consigli necessari per
farlo. Dall'altro lato, Belvidere è un poliziotto. Sa il fatto suo, ma come PR è una frana. Ci sono un sacco di fattori che giocano nel processo di selezione della commissione, ma ti ricordi chi ha avuto l'idea del PSIT?» «Belvidere», risposi. «Plackett era contrario.» «Probabilmente su consiglio di Squill», disse Harry. «Ora vai avanti.» «Se noi facciamo un buon lavoro, questo contribuisce a mettere in buona luce Belvidere, il che sottrae voti a Plackett, il che va a sfavore di Squill.» «Più o meno. Ora cerca di essere più preciso.» Tentai di concentrarmi. «Nel mondo ideale di Squill, l'intero concetto di PSIT verrebbe buttato nel cesso.» Passammo a fianco alla scrivania di Linette Bowling, l'assistente amministrativa di Squill, una donna priva di fascino e dalla faccia equina. Harry prese un pugno di fiori da un vaso sulla scrivania e me li porse. «Sei bellissimo quando finalmente capisci le cose, Carson.» «Nautilus, stronzo», ci gridò dietro Linette. «Riportami quei cazzo di fiori.» 7 C'erano trentun gradi alle undici di sera. Una cappa afosa di foschia celava le stelle e offuscava la luna. Erano passati due giorni dall'assassinio di Nelson e la squadra che Squill aveva assegnato al caso non aveva fatto alcun progresso. Me ne stavo ai bordi dell'acqua dopo aver lanciato la lenza con l'amo da tonni. Recuperai l'esca, poi la lanciai di nuovo. Di solito uso un'esca a mosca e so cosa pesco: sgombri, branzini, dentici. Però ci sono volte, di notte, che preferisco usare un amo da tonni del 2/0 per vedere cosa salta fuori dall'acqua. A volte a incocciare con l'esca è uno squalo. O una grossa razza. Specie familiari. In alcune rare occasioni ho tirato a riva bizzarre forme di vita non citate nei libri sulla pesca nel golfo del Messico. Non ho modo di sapere quale scherzo delle correnti o delle maree porti a incrociare il mio amo - e in qualche modo a giungere fino a me - specie animali dagli abissi che si dibattono, sfidandomi a toccarle. È strano, ma senza di loro dubito che mi divertirei tanto. E la funzione rilassante del pescare che spesso mi spinge a farlo quando qualcosa mi turba, ed ero turbato dal momento in cui avevo sentito la lavata di capo che Clair aveva fatto alla dottoressa Davanelle. Avevo ascoltato involontariamente, non era stata mia intenzione spiare nelle sofferenze private della dottoressa Davanelle, ma l'accaduto era ormai scolpito nella mia
mente. Non sapevo molto di come la Davanelle aveva ottenuto quel lavoro, se non che alla selezione si era classificata seconda, dopo il dottor Caulfield. Dopo che lui aveva perso le dita, lei aveva preso il suo posto. C'era voluta una disgrazia per farle ottenere il suo primo impiego. Come Harry mi aveva fatto notare durante la nostra sessione al Cake, anch'io avevo ottenuto il mio lavoro grazie alla sfortuna degli altri. Sapevo che una situazione del genere poteva essere considerata come una forma di disonestà. A peggiorare le cose c'era il fatto che Davanelle doveva vedersela con Clair, una brillante professionista, ospite ambita dei convegni di medicina scientifica in tutti gli angoli del mondo, e una totale perfezionista, che esigeva sempre il massimo da ogni componente del suo staff. Riavvolsi la lenza e misi l'esca sull'amo. Mi sedetti sulla sabbia con le braccia attorno alle ginocchia e contemplai la superficie dell'acqua che splendeva come ossidiana liquida sotto la luce della luna. Dopo aver riflettuto per qualche minuto cercai nella borsa termica il cellulare. Telefono sotto ghiaccio. Freud ne avrebbe tratto interessanti conclusioni. Il servizio abbonati mi fornì il numero di Ava Davanelle. Lo composi e mi rispose la sua voce registrata, fredda come il telefono che avevo in mano. Recitò il numero, disse di aspettare il bip e sparì. Solo in quel momento il pensiero mi assalì: se avesse risposto, cosa avrei detto? «Pronto, dottoressa Davanelle? Parla il detective Ryder. Mi dispiace essermi comportato da idiota durante l'autopsia di Nelson, non era mia intenzione darle altri problemi oltre quelli che già ha. Che problemi? Ecco... ero nascosto nello studio di Willet Lindy, ieri, quando è passata nel corridoio e l'ho vista mentre...» Sospirai e riaprii la borsa termica, preparandomi a ricongelare il telefono, quando cominciò a suonare. Harry. «Ho ricevuto una chiamata dall'ambulanza», disse. «Abbiamo un altro cavaliere senza testa all'837 di Caleria. Monta in sella e muoviti. Ci vediamo là.» La scena del crimine era una grande casa in stile più o meno italiano vicino ai limiti meridionali del centro, un quartiere di imponenti case storiche intervallate da condomini. Sciami di insetti ronzavano sotto i pini e le querce. Diverse auto di pattaglia erano parcheggiate di fronte alla casa, insieme al furgone dei tecnici e a un'ambulanza. Il furgone di un'emittente televisiva fece una curva a U e si fermò. La gente del vicinato, con le facce
cupe, affollava il marciapiede. Un agente in uniforme alzò un braccio e gridò: «Muoversi, gente, sgomberare». Vidi Harry e parcheggiai la macchina vicino a lui. «L'associazione corvi e faine si è già fatta vedere?» chiesi. Harry scosse il capo. «Squill era a casa di suo fratello a Pensacola. Sta arrivando.» Pensacola era almeno a novanta minuti di macchina. Considerando il tempo già passato potevamo avere una mezz'ora a disposizione prima che comparisse. «Diamoci da fare finché possiamo, collega», dissi. Ci incamminammo lungo un ampio porticato. Appoggiato con la schiena contro una colonna c'era il sergente-detective Warren Bksingame, del terzo distretto, £ quale, visto che eravamo nel settore D-3, aveva la giurisdizione iniziale. Bksingame stava succhiando una sigaretta e guardando le cime degli alberi. «Che sta succedendo là dentro, Warren?» chiese Harry. Bksingame si passò un dito orizzontalmente sul pomo d'Adamo. «È tutto quello che so.» «Non sei stato dentro?» «Solo quelli dell'unità medica, i tecnici e Hargreaves. È lei che ha risposto alla chiamata», biascicò Bksingame strascicando le parole, sputando sul prato. «I miei uomini non possono entrare finché non arriva Squill. Nemmeno voi, probabilmente, nonostante non so quale regola del Piss-it dica che l'indagine è vostra.» «Non ho sentito nulla di quello che hai detto», brontolò Harry mentre i nostri passi risuonavano sul pavimento della veranda. Sulla porta c'era un logo con attorno la scritta Deschamp Design Services. Una piccola targhetta sotto il campanello raccomandava di SUONARE PRIMA DI ENTRARE. Una decalcomania sul vetro ricordava che la casa era protetta dalla JENKINS SECURITY SYSTEMS. Il posto non era proprio la Bastiglia, ma non seguiva di sicuro la politica delle porte aperte. Subito all'interno c'era una piccola anticamera che urlava «Opera di designer»: colori pastello, dipinti in stile Chagall illuminati da faretti alle pareti; un divano di pelle blu; una sedia formata da una intelaiatura e da stoffa che dava più l'idea di un aquilone che di un marchingegno per sedersi. Un'intera parete era decorata da premi per il miglior questo e il miglior quello nel campo del design. Il posto aveva un leggero odore astringente, come di disinfettante o di detergente. «Potresti raffreddarci della birra, qui dentro», disse Harry, aggiustandosi
la cravatta. Percorremmo un corridoio. Sentii un singhiozzo smorzato provenire da una porta sulla sinistra. La aprii con delicatezza. Una donna snella era seduta a un piccolo tavolo da riunione insieme all'agente Sally Hargreaves. Sal era stata la prima ad arrivare sulla scena. Stava parlando con voce dolce tenendo una mano sul polso dell'altra donna. Mi vide e mi raggiunse. «È Cheryl Knotts, fidanzata della vittima», sussurrò. «Assistente di volo di ritorno da tre giorni di viaggio. È tornata cinquanta minuti fa e ha trovato Peter Edgar Deschamps morto nel suo studio.» «Impressioni?» chiesi, sapendo che Sal aveva doti magiche. «Non c'entra nulla, ci scommetterei la casa. È devastata dal dolore.» Per doti magiche intendo dire che Sal ha quel raro senso che le permette di leggere nella mente delle persone in fretta e con assoluta precisione. Tutti i poliziotti sviluppano la capacità di riconoscere le stronzate con molta più facilità del cittadino medio, ma alcuni sono dei veri fenomeni, dei Mozart nel loro campo. Sulla base della sola opinione di Sal eliminai la fidanzata dalla lista dei sospetti. «Ha risposto a qualche domanda?» domandai. Sally annuì, sfiorandomi il braccio. «Muoviti con delicatezza, se ce la fai.» Aveva una traccia umida negli occhi; la magia ha il suo prezzo. Le diedi un bacio leggero sulla fronte. «Ti ho detto che ti ho sognata la scorsa settimana?» sussurrai. «Io ero un infermiere e tu una vichinga...» Sal sorrise per la prima volta e mi spinse via lungo il corridoio. «Vai a prenderti cura di Harry prima che ne faccia una delle sue», disse. La vittima era sdraiata sulla schiena vicino a un tavolo da disegno. Di fianco al tavolo c'era una scrivania con un Macintosh e uno schermo più grande del mio televisore. L'uomo era vestito con una certa eleganza sportiva: camicia Oxford azzurra, pantaloni kaki ben stirati, cintura di corda, mocassini marrone. Era di corporatura robusta; non il classico fanatico da palestra, tutto muscoli e vene piene di steroidi, ma uno che faceva attività fisica con regolarità. Aveva la camicia sbottonata e le scarpe slacciate, i pantaloni abbassati alle natiche. A parte il colletto scarlatto, non c'erano segni di sangue né di violenza sui vestiti. Hembree era già al lavoro. «Che ne dici, Bree?» chiesi. «Mi dà tutta l'aria che tu e Harry dovrete fare gli straordinari.» «Causa della morte?» «Come per Nelson. Nulla sul corpo. Ma una testa tagliata...»
«Che a quest'ora potrebbe galleggiare al largo del faro di Dixey Bar.» Hembree annuì. «Se l'assassino ha usato una pistola, potrebbe essere una ventidue. Il più delle volte il proiettile penetra nella scatola cranica e ci rimbalza dentro come una palla da ping pong senza più uscirne. Nessun foro di uscita, niente effetti splatter. Solo budino di cervella.» Pensai a come la mente avrebbe reagito a una pallottola che vaga fra i suoi confini come un calabrone di piombo. Può un cervello comprendere la sua stessa distruzione? Sentirsi urlare? «E dove finisce il sangue quando rimuovi la testa?» chiesi, sfregandomi le mani, sentendo improvvisamente freddo. «Se il cuore si è fermato, il sangue non circola più. La perdita di sangue è molto minore di quanto immagini. Al posto dell'assassino, avrei prima messo un asciugamano sotto il collo per assorbire il sangue, poi avrei rimosso la testa. L'avrei avvolta nell'asciugamano, messa in una sacca da bowling e buona notte a tutti.» «A patto di non prendere la sacca sbagliata la sera che vai a giocare. Non hai trovato scritte?» «Aspettavo giusto che me lo chiedessi.» Hembree fece scivolare gli slip del deceduto fino a scoprire il pelo pubico. La calligrafia era simile, ma stavolta aveva scritto su due righe. La linea sopra diceva Deformato un litro di puttane. Un litro di puttane. Puttane deformate. Un litro di puttane. Puttane deformate. Un litro di puttane. Puttane deformate. Questo era seguito da Sorci Sorci Sorci Ho Ho Ho Ho Sorci Sorci Sorci Sorci Ho Ho Ho Ho Ho Ho Ho. Un dito di ghiaccio mi solleticò la nuca. «Ancora le puttane», mormorò Hembree. «Avete fatto indagini in quel settore?» Annuii. Avevamo contattato l'Omicidi e la Buoncostume su tutta la costa del Golfo e controllato i data base a livello nazionale. Non c'erano casi irrisolti nella nostra area, per lo meno simili ai nostri parametri. Di qualsiasi cosa si trattasse, ne avevamo l'esclusiva. Indicò la seconda riga. «Che vorrà dire Ho?» «Potrebbe essere una risata, Bree. Spero che non rida di noi.» Hembree chiuse gli occhi. «Oh, Cristo, tutto ma non questo.» Le sfide alla polizia da parte di assassini psicopatici erano un incubo. L'assassino si sentiva certo di poter farla franca, qualsiasi cosa combinasse. E alcuni ci riuscivano, specialmente se avevano un ottimo autocontrollo, tipo quello necessario per tagliare una testa con tanta precisione e tracciare
su un corpo lettere piccole, perfettamente definite. Persone così potevano abitare ovunque, essere chiunque: spazzini, insegnanti, presidenti di banca. Hembree avvisò che i tecnici della squadra medica avevano determinato che il momento della morte risaliva a un paio d'ore prima, più o meno. «Do un'occhiata al posto. Tu intanto vedi se ti riesce di farti raccontare qualcosa dalla donna. È la sua ragazza?» disse Harry. «La fidanzata», lo corressi. «Sally dice che è pulita.» «Se lo dice lei mi sta bene», disse Harry, che aveva già avuto modo di sperimentare le arti magiche di Sal. Si abbottonò la giacca. «Accidenti! Fa più freddo che in una tomba, qui dentro.» Ritornai nella stanza dove c'era la fidanzata. Non volevo nemmeno pensare a cosa sarei potuto diventare per lei. In un negozio di alimentari, una volta, mi ero trovato a fare la coda dietro a una donna di cui avevo raccolto la deposizione dopo che sua figlia era stata uccisa. Quando aveva incrociato il mio sguardo, era impallidita, aveva mugolato come un gattino ed era corsa fuori, lasciando la spesa ancora sul nastro mobile della cassa. Ora che stavo entrando nella vita di un'altra donna nel suo momento peggiore, pregai che, dopo quella notte, la sua mente mi cancellasse, e che quando, di notte, un incubo le facesse aprire gli occhi, non fosse la mia faccia quella che avrebbe visto stampata sul soffitto. «Mi scusi, signorina Knotts, sono il detective Carson Ryder e vorrei parlarle per qualche minuto, se non la disturbo.» Lei fece un respiro profondo e annuì. «Mentre è ancora... caldo, lo so.» Dovetti fare uno sforzo per udirla. «Peter non le aveva parlato dei suoi eventuali appuntamenti di oggi? Di qualcuno con cui doveva incontrarsi?» «No. Ma è vestito come se stesse per uscire, pantaloni lunghi, camicia. Di solito lavora in pantaloncini corti e maglietta, a meno che... qualcuno deve avergli fissato un appuntamento all'ultimo momento.» Sentii voci e passi vicino all'ingresso. Sally chiuse la porta per concederci un po' di privacy. «I clienti venivano qui spesso?» «No. Era lui ad andare da loro. Peter ci teneva a fornire un buon servizio.» «Non c'erano clienti che passavano senza appuntamento?» «A volte qualcuno vedeva il cartello fuori e veniva a chiedere se faceva biglietti da visita o cose del genere.» «Dove si annotava gli appuntamenti?»
«Gli avevo regalato un palmare per Natale. Probabilmente è nella scrivania. Cassetto in alto.» Sal uscì per ritornare un minuto dopo con una macchina poco più grande di una carta di credito. Si era messa dei guanti di latex. Mi avvicinai a lei. Picchiettò sulla tastiera e studiò lo schermo per un lungo attimo prima di passarmelo. Data del giorno. Sotto, c'era scritto: 20:00 app.to Sig Cutter. «Be', mi sembra fin troppo chiaro», brontolò Sally. Andai fuori per dire a Harry del signor Cutter e andai a sbattere contro un braccio con attaccato dietro un muro di carne. «Non così di fretta, Ryder», disse Burlew. «Dove stai andando, cocco bello?» Il suo alito puzzava di letame e cipolle; forse avrebbe dovuto cominciare a masticare pastigliette di menta. «Devo parlare con Harry.» «Telefonagli pure, salsicciotto. Ma da fuori.» «Harry, sei là dietro?» urlai. Burlew indicò la facciata della casa. «La porta è da quella parte, coglione.» «Dov'è il capitano, Burlew?» «Sergente Burlew per te. Ora porta fuori il tuo culo da qui prima che lo facciamo noi.» Squill mise fuori la testa dalla porta dello studio di Deschamps, cinque passi più in là nel corridoio. Era come se il mondo si fosse girato sul suo asse e tutti noi fossimo stati proiettati in posizioni differenti. «Mi sto occupando io della scena del crimine, adesso, Ryder», disse. «Vada a raccogliere le deposizioni dei vicini.» «Dov'è Harry, capitano? È importante.» «Non le hanno dato abbastanza aria alla nascita, Ryder?» disse Squill. «Le ho dato un ordine preciso. Vada fuori e cominci a interrogare.» Avevo letto il manuale operativo almeno un centinaio di volte, restando spesso esterrefatto dell'autonomia che, almeno sulla carta, era stata attribuita al PSIT. Nei casi che venivano riconosciuti di competenza dell'unità, il coordinamento delle attività era assegnato a me e Harry. «Mi scusi, capitano», ribattei, «ma questa scena, combinata con l'omicidio di Nelson, indica la presenza di una mente disturbata, dal punto di vista psicopatologico o sociopatologico, il che significa che...» Squill puntò un dito ben curato alla porta. «Fuori», disse. «Mi ascolti, capitano, cazzo. Gli indizi dimostrano...»
«Uso di linguaggio sconveniente nel rivolgersi a un funzionario di grado superiore? Ora ne ho abbastanza, detective.» «E allora perché non prova a darmi retta, capitano? Abbiamo due uomini decapitati e abbiamo...» «Agente», abbaiò Squill a un giovane poliziotto in uniforme vicino alla porta posteriore. «Sì, lei. Si svegli. Venga qui e faccia uscire il signor Ryder da questa casa. Subito.» «...delle chiare indicazioni dell'opera di una mente malata...» La mano di Burlew mi si avvinghiò sul bicipite come un'edera. Me la scrollai di dosso. «Toglimi le mani di dosso, Burl. Faresti meglio a lavare i calzini del capitano. O altro.» Burlew si voltò di scatto e sputò sul pavimento. «Quando vuoi», ribatté quel pitbull dall'alito fetido; aveva i pugni chiusi, e i bicipiti a palla di cannone gli rigonfiavano la giacca. «Hai i coglioni per provarci?» Spostai il baricentro in basso, e sentii un fiotto di energia proprio sotto l'ombelico. Potevo percepire persino l'odore del calore che emanava da Burlew. I suoi occhi grossi come monete brillavano di rabbia, ma sotto sotto avvertivo la sua paura. «Sergente», tuonò Squill. «Venga qui. Abbiamo un lavoro da svolgere.» Il suo sguardo equivaleva a uno strattone col guinzaglio. Parlai a bassa voce. «Il capitano ha bisogno di un massaggio ai piedi, Burl. Datti da fare.» Burlew cercò di incenerirmi con lo sguardo, poi si passò la lingua sulle labbra e si girò verso lo studio, dandomi una spallata mentre passava. «Sta per venire il tuo momento, stronzo», mormorò. L'agente in uniforme era al mio fianco. «Mi scusi, detective Ryder», disse, «ma non potrebbe venire fuori? Per favore, signore.» Tremante di rabbia, uscii sulla veranda e sentii Harry fischiettare. Uscì dall'ombra e salì gli scalini. «Benvenuto nella squadra B, Carson. Ce ne restiamo qui fuori, finché Squill è dentro. È arrivato mentre tu stavi parlando con la fidanzata. Sembrava uno sbarco di marines.» «Spiegami cosa sta succedendo, Harry. C'è qualcosa che non riesco a vedere?» Harry indicò un grosso fuoristrada che stava parcheggiando sul prato, il motore inutilmente su di giri, le ruote che non aderivano più e sputavano erba. Guardami, sembrava dire la macchina quando finalmente si fermò. La portiera del passeggero si aprì. Dopo cinque secondi di pausa per consentire alle luci delle videocamere di inquadrare la scena, il vice-
comandante Plackett emerse come se fosse stato partorito dal veicolo scuro. Si raddrizzò la cravatta, mostrò ai giornalisti il palmo della mano ed entrò senza fare commenti nella casa. La bile mi assalì lo stomaco. Avevo ricevuto il messaggio. Squill e Plackett erano impegnati nella danza dei grandi capi, Squill in azione per Plackett e Plackett che si prendeva cura delle telecamere e del pubblico. Mentre, all'interno, un morto decapitato faceva da comparsa in un film dedicato alla vanità. «Mi scusi, detective Ryder.» Mi voltai trovandomi di fronte lo stesso agente in uniforme che mi aveva scortato fuori dalla casa, un ragazzo biondo che sembrava essere passato direttamente dai boy scout alla polizia di Mobile. «Mi dispiace per quello che è successo là dentro. Il capitano mi ha dato un ordine e io...» «Hai fatto quello che dovevi fare. Rilassati.» «È stata una stronzata, se vuole sapere come la penso, detective. Se c'è qualcuno che dovrebbe essere là dentro, quello è lei. Cose da pazzi... non è lei quello che ha risolto il caso di Adrian tutto da solo? È stato lei o no?» Le sue parole erano del tutto innocenti ma mi fecero piombare in uno stato di angoscia. Con la coda dell'occhio vidi la testa di Harry voltarsi verso di me, ad ascoltare cosa avrei risposto. «Non proprio», dissi all'agente di pattuglia, cercando di fare uscire le parole attraverso la sabbia che mi foderava la gola. «Ho avuto fortuna. E un sacco di aiuto.» Canon, hai ancora bisogno di me... Non gli dissi chi era stato ad aiutarmi. O come il solo pensiero di tornare a fare qualcosa di simile mi facesse piegare le ginocchia. Guardai Harry. Stava osservando il cielo come se ci stessero proiettando un film. Tornai a casa in macchina, con il finestrino abbassato, l'aria condizionata a pieno regime e un nodo nelle viscere che nemmeno la corrente d'aria poteva dissipare. Creato sulla scia degli assassinii di Adrian, il PSIT era una mosca bianca fra le tante trovate di pubbliche relazioni: una trovata che, forse, serviva effettivamente a qualcosa. Ma come tutto quello che viene creato solo per giustificare il taglio di un nastro inaugurale, sembrava destinato a una morte prematura, che non avrebbe destato troppi rimpianti. Sarebbe stato eliminato in silenzio dalla prossima edizione del manuale di procedure interne, dopo aver assolto la sua funzione transitoria, le sue effimere illusioni sarebbero svanite. Fino al prossimo Joel Adrian. O chiunque fosse là fuori in quel momento.
Quando tornai a casa, arrabbiato e svuotato di energia, la luce lampeggiante sul mio telefono segnalava un messaggio. Premetti il pulsante Play. «Pronto, Carson? Ci sei? Sono Vangie Prowse. Rispondi, per favore. Devo parlarti di Jeremy. Ci sono alcune cose di cui dobbiamo discutere. Carson?» Un bip segnalò la fine del messaggio. Premetti Erase e mi lasciai cadere sul letto. 8 «È il piss-it che coordina questo caso, sì o no?» chiesi al tenente Tom Mason quando arrivò alle sette e mezza la mattina dopo. «Abbiamo due corpi senza testa. Cosa stiamo aspettando, che lo strizzacervelli dell'assassino ci telefoni e ci dica: 'Sì, l'assassino è Cutter, distinti saluti, Dr Igor Hassenpfeffer'?» Mi sedetti pesantemente sulla mia scrivania, rovesciando un portamatite pieno. «Hassenpfeffer? È un nome vero?» chiese Tom, chinandosi a raccogliere le matite sul pavimento. Tom è il responsabile della sezione «reati contro la persona» ed è la nostra principale linea di difesa contro i grandi capi. È un cinquantenne magro come un chiodo, con una faccia da cane bastonato, completamente privo di malizia. Stavo ancora ribollendo per lo scontro della notte prima quando era entrato Tom. Harry, appena arrivato e ancora intento a togliersi la giacca, era proprio dietro di lui. «Senti questo», dissi, prendendo il manuale di procedure interne e recitando la sezione riguardante il PSIT con lo zelo di un avvocato difensore. Tom annuì. «L'ho letto proprio questa mattina.» «È una presa per il culo o è reale?» Harry si sedette con una tazza di caffè e mi lanciò uno sguardo indulgente. «Harry, ti ricordi quel vecchio battello che usavano i nostri agenti di pattuglia sul fiume? Quella barchetta tutta scassata?» Tom impiegò quasi un minuto per pronunciare la frase. Era cresciuto in una piantagione di angurie vicino al confine con il Mississippi, in aperta campagna, dove la gente ci mette più tempo a parlare di quanto le angurie ci mettano a crescere; se avesse parlato più adagio, avrebbe finito col parlare all'indietro. Harry annuì. «Quella bagnarola che faceva acqua, con la pompa che funzionava un giorno sì e uno no.»
Tom appoggiò il piede a una sedia e incrociò le braccia attorno al ginocchio. «Ascolta un po', Carson: nel '99 la Mabry's Marine ci ha donato una barca nuova di pacca. Ventiquattro piedi. Motore da centocinquanta cavalli. Stabile come una Cadillac di granito. Aveva perfino i giubbotti di salvataggio.» Restai immobile ad aspettare. Tom avrebbe impiegato cinque minuti a dire «salute» a uno che starnutiva. «Arriva il giorno di inaugurare la barca, mi segui? Di vararla. Grande cerimonia. Avvisano i politici, chiamano i giornalisti. Solo che nessuno si è ricordato di informare il prete. La banda suonava, i politici tenevano i discorsi, la gente applaudiva e guardava. Ma niente benedizione.» La mia attenzione cominciò a vacillare. Harry mi diede una gomitata e indicò Tom, come a dire: ascolta. «Proprio la notte dopo non ti arriva nella nebbia una barca di trafficanti carica d'erba e ti va a sbattere contro un tronco a nord del ponte? Pioveva, c'erano onde alte, la marea che saliva dalla baia, ma non c'erano santi: dovevamo recuperare le balle d'erba dall'acqua prima che la marea le trascinasse via. Sai quale delle due barche hanno usato i ragazzi?» Harry mi diede un'altra gomitata e rispose: «Hanno preso la barca vecchia perché la nuova non era stata benedetta, Carson. Non si sarebbero mai permessi di affidarle i loro culi senza la benedizione di un potere più alto. Per quanto reale, il PSIT fondamentalmente è nuovo di zecca. Nessuno si fida fino a che non è stato benedetto». «E quando si saprà se riceveremo questa benedizione?» chiesi. «Non ci vorrà molto», disse Tom picchiettando il vetro del suo orologio. «Il capo ha convocato una riunione fra venti minuti.» Tre parole mi venivano in mente quando pensavo al comandante Hyrum: catena di comando. Se il capo fosse stato alle mie spalle mentre mi andava di traverso una gomma da masticare, sarebbe andato nel suo ufficio e avrebbe chiamato il vicecapo dei servizi di supporto. Il vicecapo dei servizi di supporto avrebbe informato il maggior responsabile per la sezione indagini criminali, il quale avrebbe avvertito il capitano della divisione servizi investigativi. Il capitano avrebbe informato il tenente responsabile della sezione reati contro la persona e il tenente avrebbe mandato un sergente della Omicidi a cercare di salvare il mio cadavere. La gerarchia, per Hyrum, serviva a isolarlo dalla realtà. O, per essere più gentili, dal dover decidere. Era stato proiettato nella sua carica attuale tre
anni prima, quando l'allora comandante aveva avuto un attacco di cuore ed era andato in pensione. Pur con i migliori intenti, Hyrum aveva commesso molti passi falsi nello sforzo di ristrutturare il reparto, generando pubblicità negativa all'esterno e irritazione all'interno. Reso più diffidente dall'esperienza, il comandante seguiva strettamente le regole e nel dubbio si atteneva alle scelte più prudenti. Il suo approccio verso esperimenti recenti, come per esempio il PSIT, era simile a quello di un cieco nei confronti del suono di macchine con cui non ha familiarità. Arrivammo alla sala riunioni con qualche minuto di anticipo. Bevvi una tazza di caffè, poi ne riempii un'altra e mi sedetti, mentre gli altri cominciavano ad affluire nel locale. Era un improbabile miscuglio di gradi, a partire dal vertice nella persona del comandante Hyrum. Sotto di lui c'era il vicecomandante Belvidere e, poiché era presente Belvidere, c'era anche Plackett. Il livello successivo era rappresentato da Blasingame per il terzo distretto, Cantwell per il secondo e Tom Mason. Poi, sbirri dei distretti dove gli omicidi erano avvenuti: Rose Blankenship del secondo e Sammy Walters del terzo. Il comandante Hyrum e Squill entrarono insieme, annuendo e conversando fra loro. Squill batteva amichevolmente la mano sulla spalla del comandante. Hyrum aveva cinquantatré anni, era alto quasi un metro e ottanta e dava un'impressione di solidità, anche se una discreta pancetta gli ballonzolava sopra la cintura. Si sedette e passò in rassegna i volti di ciascuno di noi mentre nella sala scendeva il silenzio. Il suo sguardo si fermò sul mio e ci rimase. «Ho sentito che lei è stato coinvolto in un malinteso ieri sera, detective Ryder. Potrebbe spiegarci la sua versione? Ora ne ha la possibilità.» Senti il mio stomaco cadere e contrarsi. «Spiegare cosa, signore?» Squill si schiarì la gola. «Comandante, ci sono casi in cui vengono commessi degli errori e scusarsi diventa una necessità.» «Perfettamente d'accordo, capitano», convenne Hyrum. Tutte le facce si voltarono verso di me. Mi sentivo come il protagonista di un dramma che andava in scena senza che io avessi letto il copione. Squill doveva essere riuscito a parlare con il comandante prima della riunione fornendogli la sua versione di quanto era successo la sera prima. E ora si aspettava che mi scusassi. «Cosa sta succedendo?» chiesi. «Quello che è fatto è fatto, detective. La cosa migliore è dimenticare gli errori e...» rispose Hyrum.
Tirai una manata sul tavolo facendo tracimare il caffè da diversi bicchieri. Si udirono dei brontolii. «Un corno. Esigo che mi sia riferito cosa le è stato detto riguardo la notte scorsa.» Al mio fianco Harry gemette così piano da farsi sentire solo da me. Il comandante mi incenerì con un'occhiata mentre ripuliva con una salvietta il piano del tavolo dal caffè. «Il capitano Squill sostiene che lei e il detective Nautilus stavate compiendo un ottimo lavoro sulla scena del crimine in conformità alle direttive del PSIT quando il capitano, interpretando erroneamente la procedura standard, ha assunto il comando, generando una certa confusione.» Harry gemette di nuovo. Hyrum continuò. «Il capitano Squill mi ha anche detto...» «Che sono profondamente dispiaciuto del mio errore», lo interruppe Squill con la voce mielosa di un becchino. «Desidero informare tutti in questa sala, e specialmente il detective Ryder, che dopo l'accaduto ho riletto il manuale di procedure. Due volte. Anzi, tre.» Ci fu un gorgoglio di risate all'atto di contrizione di Squill. Stava recitando il mea culpa mentre io facevo la figura dello stronzo. Mi ero aspettato che mentisse riguardo ai fatti della notte precedente e mi aveva preso in contropiede dicendo la verità. «Possiamo proseguire, detective Ryder?» chiese Hyrum, un occhio minaccioso che ardeva verso di me. Annuii. Prego. Al più presto. Diedi un'occhiata di sottecchi a Squill; stava strofinandosi il mento e sorrideva verso la finestra. Il comandante si concentrò su Harry. «Anche lei era presente sulla scena, detective Nautilus. Qual è la sua opinione?» «Mi sono per lo più dedicato a raccogliere deposizioni dei vicini, comandante, per cui è meglio sentire il detective Ryder.» Era il modo di Harry di rimettermi in sella. Con l'aria di essere stato giustamente castigato e senza versare una solo goccia di caffè, elencai i fatti. «Un bel sangue freddo», disse Rose Blankenship quando ebbi finito. «Nessun ipotesi sul significato dei messaggi?» Diedi un veloce resoconto di tutte le possibili interpretazioni che io e Harry avevamo esaminato: anagrammi, simboli astrologici e mitologici, codici alfabetici, senza individuarne uno che spiegasse qualcosa, se non che l'assassino doveva sentirsi molto sicuro di sé e con la situazione sotto controllo.
«Perché non mette insieme i fatti che hanno portato all'assassinio così come li vede lei, detective Ryder?» disse il capo. Annuii e iniziai il mio resoconto, cercando di apparire professionale e sicuro di me come il conduttore di un telegiornale. «Siamo sicuri che l'assassino abbia preso per telefono un appuntamento con il signor Deschamps per le otto di sera. Si è presentato, ha immobilizzato la vittima e l'ha uccisa. Il modo in cui ha ucciso deve ancora essere stabilito. Dopo di che, usando uno strumento affilatissimo, ha decapitato il signor Deschamps, un'operazione, secondo le conclusioni della Scientifica, che non ha richiesto più di un minuto. Prima della decapitazione, l'assassino ha dedicato circa dieci minuti a scrivere il messaggio sul corpo utilizzando...» Squill mi interruppe. «Dieci minuti? Ne è sicuro?» Era un suo vizio quello di cercare sempre di confondere chi parlava con domande sporadiche. A meno che il relatore non fosse di grado superiore al suo, nel qual caso Squill ascoltava rapito ogni parola. Riuscii a tenere sotto controllo l'irritazione. «Ho stabilito che i tempi fossero più o meno quelli, capitano.» «E come c'è arrivato? Attraverso la Scientifica?» «Non proprio, capitano. Diciamo che è una sorta di esperimento indipendente, un modo di...» Squill annuì trionfalmente, come se mi avesse colto a mentire. Sentii un altro gemito provenire da Harry. «Detective Ryder, so benissimo che stiamo ancora formulando delle ipotesi, ma è nostra procedura attribuire i tempi alle azioni solo dopo aver ottenuto una valutazione attendibile dalla Scientifica.» «Ritengo che sia attendibile, capitano», replicai. «Almeno empiricamente.» Non avevo avuto tempo di discuterne con Harry, perché era stato in tribunale. Il comandante Hyrum si accigliò. «Di cosa sta parlando, detective Ryder?» «Come ho detto, ho fatto una specie di esperimento.» «Si spieghi meglio, per favore.» Mi alzai in piedi e mi calai i pantaloni. Harry gemette più forte, come se avesse avuto un attacco di appendicite. 9 Il signor Cutter la stava aspettando seduto nella sua auto nel parcheggio
dell'obitorio. All'inizio non aveva mai pensato a se stesso come al signor Cutter, ma dopo aver usato il nome con Deschamps aveva cominciato ad apprezzarne la sottile ironia. Di certo a Deschamps il nome doveva essere piaciuto, a giudicare da come aveva continuato a dire signor Cutter qui e signor Cutter là, ma doveva far parte del suo modo abituale di agire: Deschamps era uno a cui piaceva rendersi simpatico. Era perfino caduto in posizione supina; il signor Cutter non aveva dovuto sottoporsi allo sforzo di rigirarlo in modo che il sangue affluisse alla schiena senza macchiare le parti importanti. Avevano stabilito un buon rapporto fin dalla prima telefonata: «Signor Deschamps, mi chiamo Alec Cutter e vorrei discutere della creazione di un logo e di altro materiale per identificare la mia nuova società. Apprezzerei molto se lei potesse presentarmi delle soluzioni tipografiche e magari dei trattamenti grafici...» Il signor Cutter sorrise al ricordo; non ci aveva messo più di quindici minuti in biblioteca con un manuale di grafica per impadronirsi di un gergo sufficiente a non generare sospetti. «Stia tranquillo, signor Cutter, ho molta esperienza di loghi e materiale di identificazione aziendale. Quando arriverà sarò lieto di mostrarle diverse possibili soluzioni. Ha detto alle otto? La aspetto.» Il signor Cutter sapeva che il suo uomo sarebbe stato solo. Dopo che, parecchi mesi prima, Deschamps era diventato uno degli Assoluti, lui aveva dedicato più di un centinaio di ore a familiarizzarsi con le abitudini del grafico. La sua donna partiva sempre al lunedì per tornare tardi al giovedì sera. Anche se Cutter lavorava di giorno, il suo orario era flessibile, consentendogli di dedicare il tempo necessario a pedinare la preda. Non c'era nulla, nell'intero universo, che avesse maggiore importanza. Il signor Cutter era arrivato quella sera alle 7.50 e Deschamps lo aveva invitato ad accomodarsi nello studio. Gli aveva fatto strada, mostrandogli la sua ampia schiena, la curva robusta delle spalle e la forma elegante dei bicipiti sotto la camicia a maniche corte. Perfetto. E immacolato, come il signor Cutter già sapeva. Deschamps non era tipo da farsi attrarre da mode disgustose come tatuaggi o piercing; era perfetto, dal collo alle ginocchia. Per provarlo, aveva perfino mandato al signor Cutter le sue fotografie. Il signor Cutter portò a termine il suo vero compito, poi ripulì lo studio come una cameriera indemoniata. Rimuovere ogni possibile indizio non era difficilissimo, con un briciolo di conoscenza e organizzazione. Il tempo non era un problema, la donna di Deschamps non arrivava mai prima delle
dieci, al giovedì. Non voleva che arrivasse troppo tardi, ma i ritardi, a volte anche prolungati, erano inevitabili nella sua professione, e il signor Cutter abbassò il termostato al minimo. Con Nelson le cose erano state perfino più facili che con il grafico. Il signor Cutter aveva subito riconosciuto un uomo in cui l'avidità era la molla determinante. La telefonata era stata quasi deliziosa. «Lei non mi conosce, signor Nelson, ma noi abbiamo un amico in comune.» «Tony? Rance? Bobby?» «Su, andiamo, sa benissimo che non tutti i suoi amici vogliono... come posso dire... vogliono ancora essere amici al mattino. Solo amici di notte. Amici notturni senza nome. Generosi amici notturni senza nome.» Risata. Era chiaro che a Nelson piacevano le battute. «Mi piacerebbe incontrarla, signor Nelson, in qualche posto non troppo frequentato, fuori mano... Sono un uomo dai gusti semplici e dal portafoglio ampio... C'è un piccolo parco, non lontano da dove vivo...» Aveva funzionato meravigliosamente. Anche Nelson era perfetto dal mento alle ginocchia, proprio come le fotografie avevano lasciato intendere. Un pick up entrò nel parcheggio dell'obitorio. Il signor Cutter si chinò verso il comparto del cruscotto come se stesse cercando qualcosa, voltando il viso. Quando il pick up se ne fu andato, rialzò il capo e ritornò alle sue riflessioni. Due dei suoi progetti erano andati bene; uno era finito a puttane. Era stato il primo tentativo. Orribile. Si era fatto ingannare da un ragazzino. Avrebbe dovuto ridurgli la faccia in poltiglia, là dove si trovava. Invece, dopo aver visto la cosa disgustosa che quel piccolo sacco di immondizia aveva sul petto, il signor Cutter gli aveva spaccato il cranio con una pietra, per poi sgusciar via senza farsi notare, lasciando gli altri bastardi drogati ai loro disgustosi passatempi. Trentasette ore e mezza di ricerca e pianificazione finiti in fumo. Fortuna che dopo una settimana era arrivata la lettera di Nelson. Era stato cosi facile che gli aveva quasi consentito di recuperare il tempo buttato via per... come si chiamava quel piccolo bastardo? Farrier? Il signor Cutter guardò l'orologio. Quasi mezzogiorno, quasi ora che lei uscisse per il pranzo, puntuale come un orologio. Abbassò l'aletta parasole e si appoggiò allo schienale. Al pensiero di lei, il cuore cominciò a battergli forte nel petto, diffondendogli un delizioso cocktail di paura e gioia in
ogni cellula del corpo. Aveva bisogno di vederla camminare all'esterno, nella luce abbagliante del sole. Le alterava il viso dandole quell'espressione di rabbia incontrollabile, come un vetro che si infrange scaraventando schegge taglienti tutt'attorno. La prima volta che l'aveva vista, da quando era tornata, lei era all'aperto. Fuori, e stava entrando. Arrabbiata davvero, non con l'espressione di rabbia disegnata dal sole, ma della sua furia selvaggia e nascosta, furia da cagna in calore, piena di bugie e di promesse. L'aveva vista al di sotto del suo patetico manto di bugie; un bacio non è che uno scudo per coprire un morso. L'aveva riconosciuta come la Mamma. E aveva improvvisamente capito che l'universo gli aveva concesso un'altra possibilità. «Ho usato il Rapidograph», spiegai indicandomi le cosce, i pantaloni attorno alle caviglie. «E ho scritto le stesse parole che c'erano su Deschamps. Le microfotografie del laboratorio indicano che la scritta è stata tracciata trattino per trattino, allo scopo di evitare che l'inchiostro si spandesse a causa della porosità della pelle. Ho fatto tre tentativi. La volta in cui ci ho messo meno ho impiegato più di dieci minuti.» «Riesco a distinguere le parole a fatica», disse il vicecomandante Belvidere dall'altro lato del tavolo, strizzando gli occhi. «Quasi come se non avesse voluto che si vedesse.» Il comandante Hyrum non sembrava troppo a suo agio davanti alle mie mutande color porpora. «Molto, ehm, accurato, detective Ryder», borbottò. «Credo che basti.» Mi riaggiustai i pantaloni e mi sedetti. Squill disse: «Mi congratulo con il detective Ryder per la sua ricerca indipendente e spero che la confronti con quella dei nostri esperti. Questo è il bello di combinare lo PSIT con tecniche investigative tradizionali: la teoria e la pratica possono unirsi e fondersi; quando i voli di fantasia vengono moderati dalla realtà, a volte possono essere istruttivi». Voli di fantasia moderati dalla realtà. Bella punzecchiata. Hyrum se ne uscì con un «ehm», senza convinzione e si rivolse alla sala. «Abbiamo formato il PSIT come risposta a un numero crescente di crimini immotivati. I detective Nautilus e Ryder hanno dimostrato grandi capacità nel caso Adrian. Questo è il motivo per cui il detective Ryder è stato promosso e per cui sia lui sia il detective Nautilus hanno ricevuto un adde-
stramento extra. Anche se questo è il battesimo del fuoco per il PSIT, gli si deve riconoscere un certo livello di autonomia nelle indagini su questi omicidi.» «Sì», sussurrò Harry. Trattenni il fiato. Eravamo sul punto di ricevere la nostra benedizione? «Sono perfettamente d'accordo», intervenne Squill. «In entrambi i quartieri colpiti, ci sono cittadini terrorizzati che manifestano il loro disagio. Ed entrambi si trovano vicino al centro. Non possiamo permettere che la popolazione abbia paura a vivere in quelle zone proprio quando il sindaco sta per lanciare il piano di riqualificazione urbana.» Hyrum ascoltava con attenzione, il capo che si muoveva in sintonia con il politichese. La politica ha le sue strutture. Squill continuò. «Questo è il motivo per cui do il mio benvenuto al coinvolgimento del PSIT nelle indagini. Integrandoci in modalità di task force, potremo massimizzare le nostre risorse.» La parola task force era uscita dal nulla. Sapevo che task force, nel lessico della forza di polizia, definiva una struttura verticale rigida, andando un po' oltre quanto il manuale di procedure aveva previsto per il PSIT. Tutti gli sguardi ritornarono verso Hyrum: parlare di strutture investigative era prerogativa sua. Prese un blocco. Dopo aver tracciato alcune linee, ci mostrò il risultato: un solo cerchio grosso quanto una palla da baseball in alto sul foglio. Posò la punta della penna al centro del cerchio. «Ecco come voglio che sia organizzata: i detective Nautilus e Ryder condurranno le indagini sul campo di tutti i casi, e tutte le informazioni dovranno essere passate a loro...» Diedi un'occhiata a Harry. Inarcò un sopracciglio. Hyrum continuava a cincischiare il blocco, pensando, strutturando. «I detective Ryder e Nautilus lavoreranno insieme ai...» distese il blocco sul tavolo e tracciò un altro cerchio direttamente sotto al primo «... detective dei distretti assegnati al caso. Le informazioni verranno liberamente condivise fra tutti gli agenti coinvolti...» Eravamo nel cerchio superiore! Sotto di noi c'erano le squadre investigative che noi avremmo formato. Stavo pensando a Larry Twilling del quarto distretto, Ben Dupree del secondo, forse sarei riuscito anche a reclutare Sally Hargreaves. «Siamo stati benedetti», mormorai a Harry. Hyrum riprese a disegnare, un cerchio finale in fondo al foglio per indicare la posizione del comando in quanto destinatario dei dati, senza che in-
terferisse ma tenuto ovviamente al corrente. Tratteggiava lentamente, rendendo il cerchio perfetto come se fosse stato fatto con un compasso, unendo la fine con l'inizio. «Infine», disse, accennando al disegno, «nell'attribuire a questo caso la qualifica di task force, nomino...» Rovesciò il blocco dall'alto verso il basso e indicò quello che era ora diventato il cerchio superiore. «...il capitano Squill responsabile in capo della task force e della sua configurazione. Il capitano Squill continuerà ad agire come trait-d'union fra me e i vicecapi. Si occuperà inoltre dei contatti con i media, spiegando...» Squill finse di scrivere sul suo blocco. «La struttura fortemente interventista della task force, comandante. Sto già preparando il progetto di attivazione.» Hyrum segnò la fine della riunione disegnando archi fra i cerchi, con l'intenzione di chiarire il flusso di dati. Non importava più altro. Tutti avevano debitamente preso nota della nostra vera posizione in fondo alla struttura. «Buona fortuna, signori», disse Hyrum. «E tenetemi informato.» Tom mi rivolse un sorriso triste, consapevole che Harry e io eravamo appena stati messi da parte. Harry sospirò e si lasciò sfuggire un brontolio. Il comandante lo guardò perplesso. «Cosa c'è, detective Nautilus? Mi è sembrato di sentirla lamentarsi.» «Mi scusi, comandante», disse Harry tenendosi la gamba. «Ho un crampo al polpaccio.» 10 Dopo la riunione Harry andò a controllare la situazione finanziaria delle vittime. Ci parlammo appena; eravamo stati messi da parte e non c'era nulla che potessimo fare al riguardo. Avendo presenziato all'autopsia di Nelson, ero ormai di fatto l'addetto ai cadaveri, per cui andai all'obitorio per l'esame post mortem di Deschamps. Sapevo che a effettuarla sarebbe stata la dottoressa Davanelle; avevo parlato con Vera Braden per sapere a che ora era prevista e, senza dargli troppa importanza, mi ero fatto dire a quale medico era stata assegnata. Avevo deciso di invitare Ava Davanelle a uscire con me. Non ero sicuro di sapere perché. E non avevo idea di come glielo avrei chiesto.
Quando arrivai, Will Lindy era all'ingresso, alle prese con una serratura, un cacciavite in bocca e pezzi del marchingegno sparsi sul pavimento. Ho sempre avuto molto rispetto per chi è capace di aggiustare qualcosa: io mi affido al nastro isolante o alla colla. Quando nessuno dei due funziona, mi trovo nei guai. «Non potresti pagare qualcuno per farlo, «Will? Un fabbro?» «Oo noho budde?» rispose. «Aioia.» «Scusa?» Si tolse il cacciavite di bocca. «Con il nostro budget? Hai voglia. Se risparmio un centone qui, posso spenderlo in qualcosa di cui abbiamo davvero bisogno.» «Pensavo che voi aveste carrettate di soldi. Ne avete spesi parecchi quando avete rinnovato il posto. Tutte quelle nuove macchine, mobili, videocamere a circuito chiuso e via dicendo.» «Soldi del governo», chiarì sorridendo. «Se non li spendi, li perdi.» Entrai, feci un cenno a Vera e mi diressi verso la sala delle autopsie. Sii umile, sii gentile, sii professionale, mi dissi. E cerca di tenere la bocca chiusa. L'esame era già iniziato. Ava Davanelle era china sul ventre di Deschamps, leggendo le iscrizioni ad alta voce per la registrazione. Sapeva di cosa avessi bisogno fra le tante cose e accennò a un tavolo contro il muro. Trovai una serie di foto scattare da Chambliss. Ottimo lavoro, come al solito. Le parole scritte sopra al pelo pubico di Deschamps erano state riprese con un righello a fianco: i caratteri misuravano da tre a quattro millimetri, chiari e precisi. Sventolai le foto in direzione della dottoressa Davanelle. «Grazie», dissi, sorridendole. «Mi fa piacere rivederla. Come sta andando...» Mi bloccai prima che mi obbligasse lei. Sussultai, abbozzai silenziosamente un mi scusi con le labbra, e tornai a esaminare le foto a una a una. Ce n'erano di diversi tipi: dall'intera iscrizione a primi piani di singole lettere. Non mi riuscì di capire perché, se uno ci teneva a fare una dichiarazione pubblica, dovesse scegliere un colore così difficile da leggere e scrivesse in caratteri così piccoli, ma ero sicuro che, per la mente dietro ai crimini, tale scelta era assolutamente logica. Mi sedetti e mi concentrai sulle foto, finché non fui capace di vederle a occhi chiusi. Di tanto in tanto la mia attenzione si spostava verso la dottoressa Davanelle. La sua voce era monotona, i suoi occhi concentrati su
quello che stava facendo. Il camice blu la copriva dal collo alle ginocchia. Cercai di distinguere la forma delle caviglie all'interno dei suoi pantaloni beige e conclusi che erano snelle e ben fatte. L'esame durò tre ore. Avrebbe presto portato alla conclusione che Peter Deschamps era morto in seguito a un trauma cranico e che la testa era stata rimossa utilizzando una lama simile a quella usata per decapitare Jerrold Nelson, se non la stessa. Mi avvicinai ad Ava Davanelle mentre si toglieva la maschera e il copricapo. Le feci la domanda prima che potesse scappare. «Le andrebbe di far qualcosa stasera, dottoressa Davanelle? Qualcosa di semplice e tranquillo? Non so, uscire a mangiare, andare in...» La porta si spalancò e comparve Walter Huddleston. Mi lanciò un paio di sguardi incandescenti, poi mi ignorò. In meno di un minuto Deschamps era sul lettino e venne portato via. Rivolsi di nuovo la mia attenzione ad Ava Davanelle che in quel momento stava spegnendo il sistema idraulico del tavolo. Senza il gentile scorrere dell'acqua, la stanza era in completo silenzio. «Stavo chiedendole se...» Le mie parole si persero nell'aria mentre mi accorgevo che mi stava osservando. Non con lo sguardo che conoscevo ma con qualcosa di più simile a una gentile perplessità. «Lei ha telefonato a casa mia l'altra sera, detective, non è vero?» Il mio cuore fece un salto. Beccato. «Ecco, io...» «Viviamo in un'era tecnologica. Anche le segreterie telefoniche, a volte, hanno l'identificazione della chiamata. Posso chiederle cosa voleva alle undici e trentasette di sera?» Ridussi la spiegazione all'essenziale. «Volevo scusarmi per l'altro giorno. Ho parlato a sproposito. È lei il dottore, ed è lei che ha il diritto di decidere come procedere. E i miei commenti riguardo alla mattina di merda erano scortesi e immotivati.» Si morse le labbra e alzò un sopracciglio, in una smorfia carina. «E ci ha messo due giorni ad arrivare a questa conclusione?» Scossi il capo. «No. Ci ho messo mezz'ora ad arrivare alla conclusione e due giorni per trovare il coraggio di telefonarle.» Non aveva abbozzato un'ombra di sorriso? L'accenno di un'ombra? Non avevo intenzione di esagerare con la sincerità e non le avrei detto di aver ascoltato la lavata di capo che si era beccata da Clair; avrebbe pensato che la stavo spiando.
«La mia offerta è ancora valida, dottoressa», continuai. «Vuol venire a cena con me? Niente di mondano, stavo pensando a qualcosa di semplice e tranquillo. Possiamo prendere dei sandwich e guardare il sole tramontare nel mare.» «...No», rifiutò lei. Ma non lo disse proprio come un no secco, il no finale, delle porte sbattute e dei ponti bruciati. Era un no che conoscevo. Il no che la gente usa quando chiedono: sicuro di non volere un po' più di salsa sulle tartine? Era un sì camuffato. O un forse. «La prego. Significherebbe molto per me.» La sua bocca cominciò a dire no di nuovo. Il prossimo no avrebbe avuto tutto il tempo di radicarsi e divenire irrevocabile. Alzai il palmo per interromperla. «Ci pensi su», dissi. «Passerò più tardi, nel pomeriggio.» Questa volta fui io a girare i tacchi e ad andarmene. L'uomo seduto all'estremità del banco stava piangendo con il viso fra le mani e nessuno gli prestava la minima attenzione. Un lampadario a palla fatto di specchi proiettava fasci di luce cangiante sugli uomini che ballavano lentamente al ritmo di una canzone di Bette Midler. Anche se non erano ancora le cinque, il locale buio stava riempiendosi della solita folla di clienti del venerdì, oltre ad altri che erano entrati per caso. Un uomo grasso dagli occhi bovini mi diede uno sguardo di apprezzamento e si leccò le labbra. Gli risposi con una strizzata d'occhio e gli feci intravedere la fondina sotto l'ascella. Scomparve come fumo in un uragano. Il «progetto di attivazione» di Squill aveva significato assegnare a me e Harry il lavoro di gambe per controllare tutti i ritrovi omosessuali della città. Harry aveva preso la lista dei suoi locali ed era partito in caccia. Anche se i bar erano già stati controllati una volta, ora dovevamo passarli nuovamente al setaccio con la foto di Deschamps. Setacciare i locali è facile solo in televisione, dove un barista lavora dall'apertura fino alla chiusura e conosce tutti i clienti nei particolari più intimi, compreso il numero di scarpe. Nella realtà anche il bar più modesto può avere una mezza dozzina di barman regolari, più un certo numero di lavoratori saltuari part time. E anche se fosse possibile avere tutti i barman in una sola stanza e mostrare loro le foto, sarebbe comunque un terno al lotto. Il condensato della mia esperienza al riguardo si può riassumere in otto parole: i ricordi sono inaffidabili e la gente mente. Il barista era un tipo con muscoli da cartone animato e una passione per
il cuoio nero: berretto, gilet, cintura, pantaloni. Anche le sue basette sembravano pelle nera incollata alle orecchie. Non era particolarmente alto, un metro e settantacinque o giù di lì, ma sarebbe bastato inchiodargli una griglia da barbecue al petto per trasformarlo per incanto in un autocarro con rimorchio. La pelle gli scintillava unta sotto il gilet, probabilmente per far risaltare meglio i pettorali. Gli mostrai il distintivo e appoggiai le foto sul bancone. «Mai visto uno o l'altro di questi due?» chiesi al re degli steroidi. «No», rispose. «Non hai nemmeno guardato le foto.» «Vero.» Strinse i pugni in modo da gonfiare i muscoli dell'avambraccio; sembravano bistecche in lotta sotto la sua pelle. Mi guardò con occhi che parevano feritoie e disse: «Addio». Indicai un tavolo d'angolo dove un gruppo di uomini civettava. «Guarda lì, bisteccone. Sono pronto a scommetterci che ognuno di quelli ha addosso qualcosa. Fumo, Ecstasy, acido... Adesso vado da loro e li controllo. Per mascherare la paura, reagiranno con aggressività. Io mi lascerò spaventare e chiamerò i rinforzi. I poliziotti arriveranno e il posto si svuoterà d'incanto. Cosa succederà alle mance che contavi di intascare?» Il bisteccone sembrò infuriarsi. «Pensi di essere un duro?» «Peggio. Sono uno che non ha tempo da perdere.» Mi fissò, arricciò le labbra, poi si strinse nelle spalle e appoggiò i gomiti sul banco studiando le foto. «Oh», disse, e, in aperto contrasto con la sua immagine, esitò. «Cosa?» Spinse da parte la foto di Deschamps e posò un dito a salsicciotto sul volto di Nelson. «Questo qui. Girava molto. In tutti i sensi.» «Illuminami, Buddha.» «Uno che ci sapeva fare, che sapeva parlare e apparire di più di quello che era. Veniva, e si sceglieva una vecchia checca che lo avrebbe mantenuto per un po'.» «Non sai di nessuno che avrebbe desiderato vederlo in una cassa e messo via per sempre?» Ci mise un secondo per afferrare in pieno il concetto. «È morto?» Annuii. Il barista voltò la foto a faccia in giù. «È triste. Mi aveva dato l'impressione di uno un po' con la testa fra le nuvole ma che non ha mai fatto male a nessuno, a parte spezzare il cuore a qualche vecchio.» Fece una pausa, pensoso. «Era qui due, tre settimane fa. Me ne ricordo perché di
solito beveva liquori da poco, ma quella volta ordinò roba di prima classe. E offriva lui, invece di farsi offrire. Diceva di aver trovato un vaso di miele senza fondo e che da quel momento in poi la vita sarebbe stata facile.» Scosse il capo, scoppiando in una risata. «Come se non l'avessi mai sentita prima.» «Non gli hai creduto?» Stava ancora ridendo quando uscii. Dopo due ore di locali in ombra, facce segnate, fumo di sigaretta che si tagliava col coltello, ero pronto per l'attacco finale all'imprendibile dottoressa Davanelle. La trovai seduta nel suo ufficio intenta a scrivere il rapporto preliminare, pallida come un cencio. Intendevo dire qualcosa di carino, conciso e brillante. Invece restai sulla porta e scelsi di dire la verità. «Senta, dottoressa Davanelle, so che a volte riesco a essere insopportabile. Se ho detto cose che l'hanno offesa o che le hanno fatto pensare che io sia un idiota, mi scuso. Quando le ho chiesto se voleva fare qualcosa di semplice e tranquillo questa sera, non intendevo altro che questo. Le mie intenzioni sono così onorevoli che potrei ascendere al cielo da un momento all'altro. Detto ciò, è sempre venerdì sera. Prima che io ascenda, non vorrebbe prendersi un sandwich e guardare il sole tramontare?» Scosse la testa in un cenno di diniego prima ancora che finissi la frase. Ma questa volta i suoi occhi non mi stavano contemplando come se fossi salsa di maiale fredda con dentro un capello. «Devo finire il rapporto preliminare su Deschamps, poi andare fino a Gulf Shores. Ho portato lo stereo a far riparare. Se non lo recupero stasera, non potrò averlo per un'altra settimana.» «Vuole compagnia? Conosco la zona», mi offrii, promuovendomi all'istante al ruolo di guida turistica per l'intera zona urbana di Mobile. «Il negozio mi ha dato indicazioni molto chiare, ma grazie lo stesso.» Mobile copre un'area di seicento chilometri quadrati, una vasta estensione fatta soprattutto di acqua poco profonda che va dal golfo del Messico fino ai due fiumi di Mobile e Tensaw, che la alimentano di acqua dolce trenta chilometri più a nord. La città di Mobile propriamente detta si trova sul lato nordoccidentale della baia, nella contea che porta lo stesso nome, mentre a est c'è la contea di Baldwin, a cui non corrisponde nessuna città. I turisti, invece, tendono a dividere l'intera area in due zone di spiagge popolate da motel e condomini, Gulf Shores e Grange Beach. Anche se la contea di Baldwin possiede zone rurali di grande bellezza,
la sua popolazione non è composta solo da turisti di passaggio, ma da ex abitanti di Mobile che vi si sono trasferiti alla ricerca della «vita di campagna». Andare a Gulf Shores in auto lungo una delle superstrade vuol dire assistere ai disastri che un improvviso afflusso di denaro può provocare, specialmente quando si allea con le ruspe: cantieri dopo cantieri, cartelli pubblicitari dopo cartelli. Locali di strip tease. Centri commerciali. Fast food e stazioni di servizio. Una volta stavo passando per la città di Daphne quando ho sentito la voce carica di eccitazione di un turista: «Marge, vieni, presto, guarda, le stazioni della BP qui al sud sono identiche a quelle che abbiamo a Dayton!» Improvvisamente ebbi una ispirazione: suggerire ad Ava di ritornare a Mobile con il ferry tra Fort Morgan, all'estremità della baia orientale, e l'isola di Dauphin, sul lato ovest. Andai all'auto, tornai con una mappa e le sottolineai la strada con un evidenziatore. Il ferry costa qualche dollaro e non fa risparmiare molto tempo, spiegai, ma la vista è fantastica. Diede un'occhiata alla mappa. «Uhm», mormorò, increspando la fronte. «È fatta», dissi. «Stasera è mia. Io abito a Dauphin. Si fermi sulla via del ritorno e le mostrerò la mia collezione di sabbia.» «Sua? Io non sono...» «Non intendevo mia come mia, dottoressa. Vorrei solo sentire la sua opinione sull'autopsia. Si porti una copia del preliminare. Dieci minuti al massimo. Sarà a casa prima che faccia buio.» «Riuscirò a tornare con la luce?» Che importanza aveva? Cos'era, un vampiro? Mi incrociai le dita sulle labbra. «Giuro.» «Mi dia il suo numero di telefono», disse. «La chiamerò da Gulf Shores. Se vedo che ce la faccio a passare da lei, si intende.» Era un trucco degno di un gitano con una laurea in legge. Chiedere il mio numero sottintendeva un'intenzione, riuscendo così a darmi un contentino per tenermi buono, comunque lei si teneva pronta una via di fuga, visto che non aveva preso nessun impegno di telefonare. In ogni modo, scrissi il mio numero sulla mappa, che lei si infilò in borsetta senza degnarlo di un'occhiata. Mentre uscivo, mi voltai a salutarla e la vidi allontanarsi come se fosse passata in un'altra dimensione. 11 Una settimana dopo aver preso possesso della mia casa, fui preso da una
breve folgorazione per la vita casalinga e mi comprai un aspirapolvere. O, forse, più di uno, a giudicare dalla quantità di cose che avevo tirato fuori dall'imballaggio quella sera: tubi, spazzole, cavi, sacchetti e tutta una serie di congegni vagamente osceni a forma di bocca. Dopo essere finalmente riuscito a mettere insieme uno strumento funzionante, diedi una bella passata. Strofinai via con una pezza imbevuta di alcool la patina di grigio dalle finestre. La tazza del gabinetto ricevette una spruzzata di una magica polvere blu effervescente. Mucchi di vestiti finirono nei cassetti. Dopo un'ora di lavoro il posto era sfavillante. Almeno per i miei standard. Alle sette e mezza ero seduto sul terrazzo a contemplare le scarse probabilità che la dottoressa Davanelle potesse apparire. Il sole scivolò giù verso gli ultimi gradi del suo arco nel cielo. A est, nubi di pioggia si muovevano verso Pensacola, ma per il resto il cielo era di un azzurro intenso. Il telefono suonò e io scattai in piedi come una fetta di pane appena tostato. Fa' che sia Ava, pensai, mentre rispondevo. «Carson? Sono Vangie Prowse.» Il cuore mi scese nelle ginocchia. «Salve, dottoressa Prowse. Che sorpresa. Non ci si vede da...» «Jeremy ti ha chiamato qualche sera fa? O magari al mattino?» Il suo tono era come sempre a metà fra una domanda e un'affermazione, da buona psichiatra. «Non sapevo che gli fosse consentito telefonare», dissi. «Non può farlo, infatti. È riuscito a rubare un cellulare di tasca a un sorvegliante. Ti ho lasciato un messaggio l'altra sera, chiedendoti di chiamarmi. Volevo scusarmi per l'inconveniente.» L'immagine che avevo memorizzato della dottoressa Evangeline Prowse risaliva a un anno prima: occhi marroni penetranti come quelli di un gufo, occhi da cartomante; capelli più pepe che sale, nonostante fosse ben oltre i sessanta; gli arti dinoccolati le davano il brio di un maratoneta in pensione. Stava probabilmente chiamando dal suo ufficio: soffitto alto, scaffali stracarichi di libri, tappeto dal disegno elaborato proveniente da un Paese dove i tappeti hanno un significato. «Era alterato, decisamente fuori. Sta meglio?» «Nel complesso? Diciamo che stiamo cercando di tenerlo in una condizione stabile, Carson. Non credo che arriverà mai a stare bene, non nel senso comune.» Fece una pausa. «Voleva parlarti.» «Adesso? Sto aspettando una persona che dovrebbe arrivare da un momento all'altro, dottoressa.»
«Chiamami Vangie, Carson. Non avevi detto che ti saresti tenuto in contatto? Speravo di sentirti un po' più spesso.» «Posso richiamare un'altra volta? È un momento un po' così... «Jeremy voleva che ti dicessi che è passato parecchio tempo dall'ultima volta che vi siete parlati. Dice anche che voi due avete delle cose che riguardano il presente di cui discutere.» «Davvero non ho tempo, adesso, Vangie.» La sua voce sembrò svanire. È inutile cercare di averla vinta con uno psichiatra, alla lunga devi sempre cedere. «Okay, posso dedicargli qualche minuto», sospirai. «Grazie, Carson. Se non ti parla, diventerà un'ossessione e comincerà a creare problemi. Lo faccio condurre in una stanza con un telefono. Resta in linea.» Mi mise in attesa. Passarono tre minuti. Cinque. Ci fu un click. «Jeremy», dissi. «Sei tu?» «Jeremy, sei tu?» La voce mi era ritornata come un'eco; era un brillante imitatore di voci sia di uomini sia di donne. Poi parlò con la sua vera voce, musicale, un mezzo tono, un dito bagnato che fa risuonare un bicchiere ma un'ottava più bassa. «Sì, Carson, sono io. È bello che ti ricordi di qualcuno con cui una volta hai diviso un utero. A qualche anno di distanza, ma comunque diviso. Faceva freddo, là dentro, non ti pare?» «Come stai?» Le parole mi sembrarono ridicole prima ancora che finissi di pronunciarle. Jeremy posò una mano sul telefono come se stesse parlando con qualcuno in un'altra stanza. «Chiede come sto.» Una voce diversa, ma pur sempre la sua, gli disse di rimando: «Digli che i biscotti erano ottimi». Tolse la mano dal microfono. «I biscotti erano ottimi, Carson. Ma vorrei che mi chiarissi una cosa, fratello: me li hai mandati il primo o il terzo anno che ero qui?» «Non ti ho mai mandato biscotti, Jeremy.» «Niente biscotti?» strillò una voce di bambina. «Non mi ami, allora?» «Ho da fare, Jeremy. Posso richiamarti domani?» «NO. NON PUOI NON PUOI NON PUOI! Poter tenere in mano questo telefono incrostato di paura, madido di sudore, è la prima piccola di libertà che mi viene concessa da UN ANNO a questa parte. E dobbiamo parlare, Carson. Come fa uno a farsi avanti nel mondo?»
Sospirai. «Non lo so, Jeremy. Come?» «Un coltello è sempre comodo.» Scoppiò a ridere. «L'hai capita? Un coltello è utile per trovare... una... TESTA! Mi zembra che tu appia piccolo problema in Mo-pile, Carson. Uno spirito libero. Hai bisogno di aiuto? Se uno va in Islanda, deve farsi accompagnare da qualcuno che parli il ghiaccese, n'est-ce pas?» «Jeremy, non penso...» «La nostra prima vittima era, o forse è ancora, a seconda delle varie filosofie, un certo Jerrold Elton Nelson, ventidue anni, decapitato con un oggetto molto affilato nel Bowderie Park, vestito con eccetera, eccetera... l'articolo del Mobile Register ne dava un resoconto così asettico. Così PRIVO DI COLORE! Poi, ieri, ho scoperto che c'è un altro povero ragazzo che è andato a dormire senza la sua testa. Uno con un nome francese, Duchamp? Spero che, oltre alla testa, non abbia perso anche il berretto. Gli hanno dedicato in tutto dieci secondi al telegiornale. Te ne stai occupando tu?» «Non sono autorizzato a discutere...» Picchiò il ricevitore contro una superficie dura. «PRONTO? PRONTO? Questo è il suo servizio di CONTROLLO DELLA REALTÀ.» Si coprì la bocca con la mano ed emise dei sibili, come delle interferenze radio, per poi smettere all'improvviso. «Tutto a posto, signor Ryder, la sua linea è PULITA. E la sua coscienza? Non può discuterne?... Caro signore, non abbiamo passato ore e ore in passato a discutere animatamente di un altro crimine? Non le viene in mente il nome di JOEL ADRIAN, egregio signore? Non sono stato umilmente di aiuto in quell'occasione, caro signore, esimio signore, onorevole signore? NON HO RISOLTO IL CASO AL POSTO TUO, CARSON?» Ascoltai il battito del mio cuore. Dopo quelli che mi sembrarono un migliaio di battiti, risposi: «Sì». «Ci divertiremo parecchio con questo caso. Non vedo l'ora che tu venga. Stavo pensando di far venire un decoratore, di rinnovare gli interni, in modo che sia tutto bello nuovo per quando arrivi.» «Jeremy, non...» «Puoi portarti tutte le foto e gli incartamenti e li esamineremo insieme come vecchie signore che guardano le foto delle amiche già morte.» «Non ho nessuna intenzione di...» «NON INTERROMPERE, CARSON, NON È COSÌ FACILE PER ME... Dovrai chiamare la dottoressa Prowse, o come diavolo si chiama, far
sapere a quella vecchia carampana che verrai a visitarmi.» «Non verrò, Jeremy», dissi. «Non per qualche tempo.» «Oh, sì che verrai», sussurrò. «C'è un ragazzo là fuori che sta facendo una dieta al contrario, uno che conosco molto bene.» «Non ti capisco, Jeremy.» «Una dieta al contrario? È semplice, Carson. Più mangi, più ti viene fame. Ci vediamo presto, fratellino.» Riattaccò. Guardai fuori dalla porta della terrazza. La sera, luminosa e splendente pochi minuti prima, ora sembrava opprimente; la luce, come una voce chiassosa, roca e gracchiante. Passai da una finestra all'altra, chiudendo gli scuri. «Ci divertiremo parecchio con questo caso...» Accesi il condizionatore solo per udirne il rumore nel silenzio della casa. Rinchiudendomi di nuovo. Rifugiandomi nel mio guscio. La telefonata di Jeremy mi stagnava nella mente come fumo umido. «...verrai a visitarmi...» Ricominciai l'orribile salto nel passato, percorrendo il corridoio scuro, a sei anni... mia madre alla macchina da cucire... Venni tirato fuori da quell'oscuro viaggio nel tempo dallo stridere di pneumatici sulla sabbia e sulle conchiglie. Guardai fuori. Una Camry bianca stava percorrendo il vialetto di accesso verso i due parcheggi affiancati di fronte a casa mia. L'auto si fermò. La portiera si aprì e si richiuse. Ava Davanelle. «C'è qualcuno? Detective Ryder?» chiamò da sotto, calpestando le conchiglie frantumate. Andai ad aprire gli scuri della cucina, riaprii le tende che davano sulla terrazza. Sì! Andai in bagno a sciacquarmi la bocca mentre dei passi incerti risuonavano sui gradini di legno che portavano alla veranda che dava sull'entroterra. Sì! Un'ultima passata di straccio sulla mensola mentre mi avvicinavo alla porta, passando di fronte allo specchio, contemplando la mia immagine riflessa, viso squadrato sorridente, abbronzato, un accenno di barba che non spariva mai, pantaloni corti color kaki, camicia hawaiana, togliendomi il berretto sbiadito e lasciando liberi i ciuffi neri ribelli. Passi sulle assi della veranda, sagoma intravista attraverso le tendine della porta. Distolsi lo sguardo dallo specchio, sorridendo. Spaventato? Bussò alla porta. Una donna che conoscevo appena riaffiorò da quindici anni nel passato, mi afferrò per il colletto e mi trascinò via in un gorgo di graziegraziegra-
zie. «C'è nessuno in casa?» Aprii la porta per trovarmi di fronte a un sorriso ampio e brillante come un'alba di mezza estate. Le feci cenno e Ava entrò, lasciandosi dietro una scia di colonia e di menta. I suoi movimenti erano armonici, i capelli splendevano. Portava una camicietta blu a maniche corte infilata in una gonna bianca che le scendeva pudicamente fino al ginocchio. Aveva le gambe lunghe e ben tornite di una pattinatrice. Camminava con passo elastico, come se fosse l'aria a trasportarla. Non era un accenno di timidezza, ciò che vedevo nei suoi occhi? Quella trasformazione mi lasciò senza fiato: era la stessa donna dall'aria severa infagottata nel camice da laboratorio? Ava esaminò con aria di approvazione i poster, le conchiglie e i pezzi di legno raccolti sulla spiaggia con cui avevo decorato l'interno e si avvicinò alla porta che si apriva sul terrazzo. Il golfo era una lastra blu dalle onde pennellate di ambra dal sole basso a occidente. La sagoma di una petroliera scura si stagliava all'orizzonte. «Che vista fantastica! E questa è casa sua? Come fa a permett...» si interruppe bruscamente e si voltò, sfiorandosi le labbra con dita rosate, prive di smalto. «Ops», si scusò. «Non era una cosa molto carina da dire.» «Un'eredità. Non si preoccupi, è una domanda che si fanno tutti, anche se non sempre ad alta voce. Posso prepararle qualcosa da bere? E se sì, cosa preferisce?» «Prenderò una vodka and tonic. Ma leggera. Non sono una gran bevitrice.» «Arrivo subito. È riuscita a far riparare il suo stereo?» Alzò le mani sul capo e si mosse in cerchio, scimmiottando il famoso predicatore televisivo Beulah Chilers. «Ho di nuovo con me la musica e ne ho sentito la gloria e ne sono stato santificato, sia resa lode a Gesù!» Fui sul punto di inginocchiarmi e gridare alleluia. Avevo di fronte la stessa donna triste e severa che si guadagnava da vivere affettando cadaveri? «Accidenti, ma fa più freddo che in una tomba, qui dentro», disse Ava. Fu solo con grande difficoltà che riuscii a non soffermarmi a contemplare come anche i suoi capezzoli fossero d'accordo. Uscimmo sulla terrazza con i bicchieri in mano. Con il suo arrivo, Ava sembrava aver risvegliato una brezza fresca, e per la prima volta da una settimana l'aria non sembrava sciroppo caldo.
«Allora, alla fine è venuta con il ferry», dissi sistemando le sedie in modo da guardarci in volto e unendo i bicchieri in un brindisi allo spirito fraterno del venerdì sera ovunque nel mondo. «Andare a Gulf Shores è stato un incubo. Ma è stato compensato dalla traversata della baia al ritorno. Mi hanno detto che siamo passati sopra al posto dove quel tizio ha detto: 'Al diavolo i siluri, avanti tutta'.» Annuii. «L'ammiraglio Farragut durante la battaglia della baia di Mobile, 5 agosto 1864, quando sulla guerra civile stava per calare il sipario.» I nostri occhi si incontrarono a mezz'aria, bloccandosi un po' troppo a lungo per una lezione di storia. Un attimo dopo, entrambi distogliemmo lo sguardo bruscamente. Ava balzò in piedi e barcollò leggermente. «Ho le gambe deboli per la traversata», disse, avvicinandosi alla ringhiera e guardando in direzione del golfo. Una barca a vela andava verso est, con il vento verso la bocca della baia. La brezza le fece aderire gli abiti al corpo snello dandomi occasione di apprezzarne le curve delicate. I cubetti di ghiaccio le sfiorarono le labbra mentre sorseggiava la vodka. Per una mezz'ora conversammo come amici che non si vedevano da un pezzo. Del tempo. Della penuria di ristoranti indiani. Dell'Azalea Trail di Mobile, un tempo famoso. Della gloria serena e imponente dei Bellingrath Gardens. Le dissi che Mobile festeggiava il carnevale molto prima che New Orleans si affacciasse sulla scena. Appresi che Ava Davanelle aveva trent'anni, un padre che faceva il chirurgo ortopedico e una madre che insegnava francese. Era cresciuta a Fort Wayne, Indiana. Leggendo il testo di anatomia di suo padre quando aveva tredici anni, aveva capito cosa voleva fare da grande. Si era trasferita a Mobile da sei mesi e quella era la prima volta che era stata sulla spiaggia. Scoprii che sapeva apprezzare la quiete e ci trovavamo a nostro agio nei silenzi contemplativi. Poi, nel giro di un quarto d'ora, i suoi silenzi divennero forzati, quasi turbati. Gli occhi di lei cominciarono a evitare i miei e il suo splendore si attenuò. Raddrizzò la schiena e si massaggiò la fronte. «Me ne ero quasi dimenticata», disse. «Ho con me la copia del rapporto preliminare. Ce l'ho in macchina. Vado a prenderlo.» «Non mi serve, adesso. Aspetterò quello definitivo.» «Dopo che l'ho portato per mare e per terra? Adesso se lo tiene.» Il sorriso era tirato, come se cercasse di sorridere sollevando pesi. «Mi faccia una sintesi. Affinità e diversità in meno di venticinque parole.»
Si massaggiò di nuovo la fronte. «Sono stata colpita da quanto simili fossero i due corpi, come dei gemelli, se non per il fatto che, se fossero stati gemelli, allora Deschamps faceva il doppio dell'esercizio fisico di Nelson: muscolatura più pronunciata, specialmente nella parte superiore del corpo.» «Ottimo», dissi. «Non mi serve altro.» Si alzò. «Vado a prendere il rapporto.» «Vengo con lei. Le farò vedere il panorama esotico sotto la casa. Le piacerà il mio kayak.» Mi passò il bicchiere. «Me ne prepari un altro, per favore. Leggero. Torno in un minuto.» Immagini dal passato: Ben Ashley, detto Bear, il mio primo compagno di pattuglia, che trovava sempre la scusa per farmi schiodare dall'auto. «Va' a prendermi un pacchetto di gomma da masticare, Carson.» Oppure: «Sii gentile, amico, va' a comprarmi le sigarette». Ashley mi mandava nei fast food a prendere da mangiare quando avremmo potuto usare il servizio drive-in. Mi ricordai anche del cattivo umore di Bear prima di mandarmi a fare qualche commissione. Fino a che non avevo scoperto la verità, avevo creduto che si trattasse di una forma di iniziazione per reclute, o di un modo per farmi capire chi comandava fra i due. Mischiai la vodka con l'acqua tonica e riempii i bicchieri, ritornai sulla terrazza e aspettai, con un peso sul petto. Ava arrivò di lì a poco con in mano una busta. Una nuova zaffata di menta si diffuse nell'aria. Scosse il capo come per rilassare il collo. Due minuti dopo stava ridendo senza controllo. C'erano tutti i segni, ma volevo essere sicuro. Mi diedi una manata in fronte. «Cristo», esclamai. «Devo portar fuori la spazzatura. Se non lo faccio, avrò formiche dappertutto al mattino.» «Formiche! Ma certo», disse Ava con voce impastata. «Creature fastidiose.» Presi un mezzo sacchetto di spazzatura dal contenitore per fare scena e uscii. Aveva chiuso l'auto ma presi dalla mia una lingua di acciaio di mezzo metro, la infilai fra portiera e finestrino e feci scattare la chiusura. La portiera si aprì in un attimo. Il cassettino del cruscotto conteneva i documenti dell'auto, oltre a diversi pacchetti di chewingum e caramelle alla menta. Cercai sotto il sedile del passeggero. Nulla. Feci passare la mano dietro al sedile di guida e trovai un lungo sacchetto di carta marrone. Conteneva una bottiglia di vodka da un litro, vuota per un terzo. Uno scontrino
scivolò fuori. Sotto il nome del negozio erano stampati la marca e il prezzo della vodka, oltre alla data e all'ora di acquisto. 7.01. Quella stessa sera. Cristo. Ava si era succhiata più di un quarto di litro prima di arrivare. Non c'era da meravigliarsi che apparisse così luminosa e brillante quando era entrata dalla porta: stava carburando l'«alcoenergia» che si era appena ingollata. Ma era un fuoco che alimentava il bisogno di altro combustibile e i cocktail annacquati che le avevo servito mancavano del voltaggio sufficiente, per cui aveva dovuto tornare alla macchina per rifare il pieno. Bear era un alcolista che si ciucciava le sue ricariche da una bottiglia che teneva sotto il sedile approfittando dei momenti in cui io scendevo a prendere sigarette e hamburger. Dieci mesi passati con lui mi avevano insegnato che se Ava poteva ingurgitare tutto quell'alcool e riuscire lo stesso a presentare una facciata normale, doveva aver maturato una lunga pratica. Era abbastanza sgamata da lasciare il rapporto in macchina in modo da avere una scusa per sgusciare via il tempo sufficiente a farsi un cicchetto se il bisogno si fosse fatto pressante. Gli alcolisti sono dei maestri nel pianificare come bere di nascosto. Aveva iniziato a incespicare nelle parole. Con un fresco afflusso di etanolo nella sua circolazione era inevitabile che cominciasse a perdere colpi, ma forse era già troppo in là per accorgersene. Era impensabile che la lasciassi tornare a Mobile in auto da sola. Mi sentivo come un giocoliere alle prese con due fiamme ossidriche e una candela: come fare il numero senza scottarmi? «Tutto a posto con l'immondizia?» disse Ava ad alta voce mentre tornavo sulla terrazza. Il suo bicchiere era più pieno di quando me ne ero andato, segno che era andata in cucina e si era versata un'altra dose. Non mi sembrava il modo migliore di iniziare una relazione, con lei che mi fregava liquori di nascosto mentre io scassinavo la sua auto. «Tutto a posto», risposi. «Non avrò formiche nei pantaloni, stanotte.» «Coscia ha detto dei sciuoi pantaloni?» Le esse si erano fatte ancora più strascicate. «Nulla. Solo un breve commento di entomologia.» «Etti-mologia? Cioè dell'origine delle parole?» Strizzò gli occhi, una reazione normale quando si appanna la vista. Dopo parecchi secondi passati a studiare l'orologio, Ava si alzò di scatto come se l'avesse punta una vespa. «Dio, com'è tardi! Devo andare.» Fece un paio di passi ma barcollò.
«Uh», borbottò, cercando di apparire normale. «Ho le formiche a una gamba.» Si chinò e fece finta di massaggiarsi il polpaccio. «Una gran bella gamba, per essere sinceri», dissi. Sorrise maliziosamente. «Grazie. Ne ho un'altra uguale.» Vacillò di nuovo. Se fosse andata via in auto non mi sarebbe rimasto altro da fare che chiamare la polizia di Dauphin Island perché la fermassero. Non potevo farla diventare sobria in fretta, ma potevo spingerla nella direzione opposta. «Ancora un goccio?» suggerii. «Il bicchiere della staffa?» «No. Ho bevuto abbastanza.» Ma i suoi occhi considerarono la proposta e i suoi piedi non si mossero. «Dai, facciamocene ancora uno», la tentai. «Siediti, tesoro.» «Tesoro?» ripeté mentre andavo in cucina. Un minuto dopo le avevo passato tre dosi di vodka e acqua tonica, con il preciso intento di spingerla oltre il limite. Avevo aggiunto una generosa dose di succo di limone, sperando che mascherasse l'eccesso di alcool. Ava, che a quel punto aveva ormai rinunciato a pretendere di bere a piccoli sorsi, prosciugò un terzo del bicchiere in un solo sorso. «Carscion, non mi hai chiamato tescioro prima?» «Certo, Ava.» «Perché?» tartagliò lei, dividendo la parola in quattro sillabe. «Mi era sembrata la cosa giusta da fare.» Ava si alzò a fatica e venne verso di me. Si chinò in avanti e pensai che stesse per perdere l'equilibrio quando le sue labbra trovarono le mie. Sapeva di profumo al limone e aveva le labbra fredde. Ma la sua lingua era calda e ci tenemmo stretti mentre le sue mani mi accarezzavano la schiena e mi massaggiavano le natiche. Fra il limone e la vodka annusai l'odore della sua voglia. Raggiungemmo la stanza da letto in penombra un po' camminando, un po' barcollando. La feci sedere sul letto e lei mi mordicchiò fra l'orecchio e il collo. Nonostante le circostanze sentii ululare la bestia immorale nel mio corpo. «Aspetta qui, amore», dissi. «Voglio farmi una doccia veloce. Ma prima ti porto il tuo bicchiere.» «Per favore, fai in fretta», mormorò, e mi chiesi se si riferiva alla doccia o alla vodka. Le portai un'altra miscela termonucleare di vodka. Mi sedetti sul gabinetto e lasciai scorrere l'acqua della doccia per parecchi minuti prima di infilarmi sotto il getto. Quindici minuti più tardi la trovai distesa sul letto a russare. Quando le tirai il lenzuolo fino al mento per
coprirla, le mie nocche toccarono il calore delle sue labbra, e le lasciai lì. Avevo conosciuto due Ava Davanelle: la prima un fantasma introverso e privo di gioia, attenta che non le mancassero di rispetto e facile all'ira; la seconda una deliziosa e solare creatura, tutta sorrisi e dolci risate controllate. Erano entrambe nient'altro che fantasie uscite da una bottiglia? E in tal caso, a quale punto, fra i due estremi, si trovava la vera Ava Davanelle? Era la donna che avevo scorto nel corridoio dell'obitorio con i pugni contratti e un viso che era una maschera pallida di conflitto e lotta interiore? Avrei dovuto sentirmi arrabbiato, tradito, non dalla donna il cui respiro mi riscaldava le mani, ma da me stesso. Il mio bisogno egoista di capire e combattere la discordia mi aveva portato a un punto in cui non sapevo abbastanza e non avevo una soluzione. Non ero in grado di valutare la situazione, ma visto che ormai ne ero parte non potevo, in tutta coscienza, voltarmi e battere in ritirata. O potevo? In fin dei conti, nulla di tutto ciò era stato provocato da me. Vigilai sul sonno di Ava per venti minuti, poi andai sulla terrazza e guardai le stelle ammucchiarsi nel cielo finché il loro suono mi travolse e andai a letto. 12 Una volta avevo trovato Bear in ginocchio di fronte al gabinetto, una mano infilata in bocca a solleticarsi il fondo della gola per scatenare il vomito che gli avrebbe fatto uscire le tossine dallo stomaco. Alle sei e mezza fui svegliato dagli stessi suoni che provenivano dal mio bagno. Bussai senza troppa convinzione. «Ava? Tutto bene?» «Dammi qualche minuto», sussurrò. «Sto... non mi sento bene.» Un gemito soffocato. Altri conati di vomito. Misi due fette nel tostapane nel caso sentisse il bisogno di mettere qualcosa nello stomaco. Passarono cinque minuti prima che la porta si aprisse e Ava apparisse, lo splendore etilico della notte prima rimpiazzato dal pallore rigido che avevo visto all'obitorio. Aveva gli occhi rossi e umidi. Gocce di sudore le coprivano la fronte. Aprii la finestra e i rumori del golfo penetrarono nella casa. «Ehm, sono... desolata», disse. «Credo di avere l'influenza, o qualcosa del genere. Penso che la vodka mi sia andata alla testa.» Si spinse dietro le orecchie le ciocche di capelli con dita tremanti. «Eri abbastanza fuori di te.»
«Influenza», stabilì. «Ci sono parecchi casi, al lavoro.» «Certo.» «Ehm, io e te abbiamo... ecco...» «Siamo stati il massimo della moralità. Eri stanca, ti ho messa a letto. Io ho dormito sul divano.» Sperai che il colletto mi mascherasse i segni che mi aveva lasciato mentre la portavo a letto. Il sollievo le fece abbassare le spalle di un paio di centimetri buoni. «Mi dispiace. Non mi ricordo molto. Ho bevuto solo due bicchieri?» Stava ancora brancolando nel buio. «Forse tre», dissi. «Sei sicura che sia influenza?» «Io... cosa vuoi dire?» «Ho avuto l'impressione che ti fossi già fatta un paio di bicchieri quando sei arrivata.» «Cosa?» Una pretesa di sorpresa. Chi? Moi? Mi strinsi nelle spalle. «Solo un'impressione.» «Sostieni che sono arrivata ubriaca?» C'era una traccia di tensione nella voce. Notai che le stava ritornando il colorito alle guance. «Sto dicendo che eri troppo andata per esserti fatta solo un paio di bicchieri molto leggeri.» «Forse non erano così leggeri come io avevo chiesto.» Nessuno mette su una difesa meglio di un alcolista colpevole. La sua voce si stava rinfrancando e aveva smesso di tremare. «Pensavo fosse influenza», dissi. Smise di sudare. Gli occhi le si schiarirono. Lampeggiarono come fiamme verso di me. «Forse tutto è chiaro. Forse mi hai fatta ubriacare apposta. Forse tu mi hai...» «Forse sono stato io a metterti la bottiglia di vodka in macchina.» I suoi occhi si spalancarono come lune. «Hai guardato nella mia...» Senso di colpa e rabbia lottarono sul suo viso e, alla fine, vinse la rabbia. «Sei un bastardo», sibilò, afferrando la borsetta dal tavolo. Mi sfrecciò a fianco e vidi il tremolio nelle gambe, sentii l'odore di sudore e di vomito e di astringente nella sua scia. Sbatté la porta e pochi secondi dopo mi arrivò il rumore di sabbia che schizzava sotto le ruote mentre lei saettava via. Sapevo già cosa avrei trovato prima ancora di raggiungere la credenza. Scossi la bottiglia e guardai il contenuto formare delle bolle. Aprii il tappo e frizzò. Era piena d'acqua. Controllai il cestino del bagno e trovai un bicchiere di plastica accartocciato sul fondo. Lo annusai e l'odore era quello che mi ero aspettato, il che mi consentì di ricostruire con facilità la se-
quenza dei suoi movimenti quella mattina. Si era svegliata in astinenza, aveva preso un bicchiere dal bagno, era andata in punta di piedi in cucina per riempirlo. Aveva sostituito la vodka che si era servita con dell'acqua ed era ritornata nel bagno per bere e vomitare e bere ancora finché non aveva assorbito abbastanza alcool da affrontare la giornata. Quando aveva aperto la porta era già tornata più o meno alla normalità, se così si poteva chiamare, il tremore stava cessando, la vista non era più appannata, la mente stava snebbiando. Probabilmente, proprio in quel momento, mentre guidava, stava ingurgitando vodka. Conoscevo bene la sindrome. Se la sarebbe divorata e non c'era nulla di divertente al riguardo. Diedi ad Ava venticinque minuti di tempo, poi le telefonai. Non rispose nessuno. Gliene diedi altri cinque, passati con il batticuore, prima di provare di nuovo. «Pronto», cinguettò, un po' troppo forte, ma con voce piacevole e sotto controllo. Di nuovo carburata, ma almeno era a casa. Ringraziai in silenzio chiunque sia colui che regge le sorti del mondo e riagganciai. Stavamo dirigendoci verso il centro città, Harry e io, per parlare con una donna che aveva conosciuto Deschamps sia professionalmente sia fuori dall'ambiente del lavoro. Ero in stato comatoso, sdraiato sul sedile posteriore con le braccia strette sul petto come una mummia dolente. Harry scosse tristemente il capo. «Una ragazza così carina, una spugna. Non è una bella cosa.» Così come me, anche Harry non usava il termine spugna in senso dispregiativo; entrambi conoscevamo troppi alcolisti, quasi tutti appartenenti all'Alcolisti Anonimi, che cercavano di disintossicarsi e che si definivano spugne, ubriaconi, o altro. Mi sembrava un segno di coraggio, la capacità di guardarsi allo specchio per quello che si era. Ed era un passaggio importante verso la guarigione. «Il giorno in cui la scopriranno, perderà il lavoro», disse. «E, prima o poi, accadrà.» Aveva ragione; il giorno in cui la sua dipendenza fosse venuta alla luce, sarebbe stata costretta a seguire un programma di riabilitazione e trasferita a mansioni meno importanti, come archivista. Avrebbero assunto un altro patologo. Alla fine, Ava sarebbe stata messa alla porta con la stessa facilità con cui una ruspa spazza via un arbusto. Era sulla corsia veloce verso la disoccupazione: Clair non era famosa per la tolleranza. «Cosa pensi di fare al riguardo, Carson?» chiese Harry voltando appena il capo.
«Perché mai dovrei farci qualcosa?» «Perché mi sembrava che quella donna ti piacesse, non è così?» «La conosco appena, Harry.» Svoltò in una strada laterale e schiacciò il freno. Sentii la ruota anteriore sbattere contro il cordolo del marciapiede, salirci sopra, poi scenderne di nuovo. Il modo di parcheggiare di Harry. «Vieni a sederti di fianco a me, fratello.» Scesi e cambiai sedile. Eravamo in un vecchio quartiere e la via era fiancheggiata da ampie querce e alti pini carichi di pigne che dovevano risalire ai tempi della guerra civile. Le case d'anteguerra erano arretrate rispetto al marciapiede, celate alla vista da azalee, magnolie e mirti, come se cercassero di confondersi con il passato per spiare sul presente. «Fra gli omicidi e Squill che sta cercando di far deragliare il PSIT, siamo già nella merda fino al collo», disse Harry. «La situazione potrebbe degenerare in una guerra politica in cui finiremmo mangiati vivi. Se ci aggiungi il fatto che provi qualcosa per una ragazzina che ha problemi di alcool, le cose si complicano ancora di più.» «Mi stai dicendo di lasciarla perdere?» Sorrise con una punta di tristezza e scosse il capo. «Farai quello che devi fare. Lo so, lo sai e lo sanno anche tutti gli angeli del paradiso. Ti sto solo dicendo di stare attento.» Guardai fuori dal finestrino. In fondo alla strada, una fragile vecchietta stava innaffiando i suoi fiori. Era così immobile da sembrare un ornamento. «Tu sei uno che si tiene tutto dentro, Cars. Non c'è nulla di male in ciò. Ma se per caso dovessi sentirti come se quelle vecchie storie che ti tormentano ti soffocassero, be', sappi che puoi venire da me. Non andare da nessun altro.» La frase mi lasciò sconcertato. «Di quali vecchie storie stai parlando?» Distolse lo sguardo e inserì la prima. «Sto solo dicendo che non devi lasciarti travolgere dai problemi.» Harry guidò per l'ultimo tratto del percorso. Parcheggiammo di fronte a Les Idées, una galleria d'arte nella parte sud di Mobile, una graziosa casetta gialla a due piani in stile New Orleans con parapetti di ferro battuto ai balconi e persiane color prugna. C'erano vasi di fiori. Un vialetto lastricato di ciottoli. Una fontanella. Il posto era ricercato. Harry occhieggiò verso il caffè al di là della strada; l'odore di caffè aleggiava forte nell'aria.
«Va' a berti una tazza, fratello», dissi. «Posso occuparmi del colloquio da solo.» Harry attraversò la strada, il volto visibilmente sollevato. Anche se Deschamps di professione era un grafico, dipingeva ad acquarello per hobby, soprattutto paesaggi marini. Françoise Abbot era la proprietaria di Les Idées. Aveva esposto dipinti di Deschamps più volte nel corso degli anni e aveva socializzato spesso con lui in situazioni di gruppo. La Abbot era una donna snella sulla cinquantina, vestita con una specie di tunica di velluto rosso, a metà fra un caffettano e un kimono. Fumava facendo uso di un bocchino d'ebano, un oggetto che consideravo tanto passato di moda al punto da essere un'antichità. Aveva i capelli neri tagliati corti in modo da proiettare ciuffi in tutte le direzioni. Mi mostrò diversi dipinti di Deschamps, lavori fatti con tecnica ma che mancavano della scintilla che trasformava un'illustrazione in arte. Pensai che potevano essere usati con successo come copertina di riviste New Age con titoli come Le mie riflessioni giornaliere o Annotazioni di una vita. Madame Abbot parlava con un tono di voce basso che ben si addiceva al suo modo di fare circospetto, punteggiando le frasi con un vasto assortimento di espressioni facciali. Sospettavo che qualcuno le avesse detto un giorno che era bella quando arricciava il naso, e che lei avesse da allora deciso di diversificare. Non c'erano clienti nella galleria ed eravamo seduti a un tavolino decorato in un angolo. «Tutti quelli con cui ho parlato consideravano il signor Deschamps vicino alla beatificazione, non fosse stato per il fatto che non era cattolico ma battista. Condivide questa impressione, signora Abbot?» «De mortuis nihil nisi bonum», sussurrò dilatando le narici e strabuzzando gli occhi. «Sono sicura che sa cosa significa.» Mi riservò tre smorfie veloci che indicavano la sua certezza che non lo sapessi. «Dei morti non si parli che bene», risposi. «È inesatto ma direi che sia sufficiente.» La mascella le cadde. Poi mi strizzò l'occhio e mi fece segno con il pollice alzato. «Eccellente, detective Ryder.» «È una frase che spesso indica qualcosa di male che potrebbe essere rivelato ma di cui sarebbe meglio non parlare.» La Abbot ammiccò e arricciò il naso. «Davvero?» «Forse la vita del signor Deschamps non era così limpida come finora mi è stato fatto credere.» Aggrottò le sopracciglia e increspò le labbra. «Io credo che lo fosse, per
la maggior parte.» «E per la parte minore?» La signora Abbot si esibì in un'altra serie di contorsioni facciali che, per quanto potevo dedurne, avrebbero dovuto indicare una certa forma di costernazione, poi disse: «Due mesi fa una mia amica è uscita insieme a un'altra sua amica e a due uomini. E indovini un po' chi era l'uomo che l'amica della mia amica si è portata?» Mentre cercavo di ricostruire la catena di amicizie, la Abbot abbozzò una tale serie di movimenti dei muscoli facciali che dovetti distogliere lo sguardo per evitare di venirne distratto. «Non sarà mica stato Peter Deschamps?» La Abbot guardò prima da un lato, poi dall'altro, come se dovesse attraversare una strada piena di traffico, quindi si chinò verso di me. «Questo è successo due mesi dopo che aveva chiesto a Cheryl di sposarlo.» «Poteva essere una serata innocente fra amici.» «È possibile.» Ammiccò con gli occhi per tre volte e sorrise. «Pensa chi ci fosse qualcosa di più che una serata innocente?» «L'amica della mia amica è, come posso dire... una donna molto energetica, fisicamente energetica...» batté le palpebre. «Mi sono spiegata?» «Vuol dire che è una che... soddisfa la sua libido?» La Abbot strizzò un occhio, arricciò le labbra, sorrise, fece una smorfia e aggrottò le sopracciglia. Lo presi per un sì. «Andiamo a vedere questa amica dell'amica?» chiese Harry. «Non possiamo passare prima dall'obitorio?» Harry non aprì bocca. Fece un'inversione a U fra una cacofonia di clacson mentre io chiudevo gli occhi e mi tenevo alla maniglia. Pochi minuti più tardi si arrestò di fronte all'obitorio. «Non ci metto molto», dissi, chiudendo la portiera. «Carson?» Mi voltai. Harry aveva il pollice alzato. «In bocca al lupo», disse. Ava era al lavoro alla scrivania. Entrai nel suo ufficio e chiusi la porta. «Fuori di qui», scattò lei. Aveva le occhiaie e gli occhi striati di rosso. «Mi piacerebbe portarti fuori a pranzo, o a cena. Se sei occupata oggi, possiamo fare domani.» Scribacchiò su un modulo, lo spinse da un lato della scrivania e ne prese un altro.
«Nemmeno morta.» Mi avvicinai al bordo della scrivania. «Dobbiamo parlare di venerdì sera.» Fece per firmare il modulo ma la penna lacerò la carta. Gettò la penna nel cestino e mi guardò. «Non c'è assolutamente niente da dire.» «Sono spaventato», dissi io. «Cos'è che sei?» «Forse preoccupato è un termine più adatto. Senti, Ava, io ti considero un'amica.» «E io ti considero uno spione e un ficcanaso. Immagino che tu abbia già raccontato tutto a mezza città.» «Non l'ho detto a nessuno. Non sono affari loro.» Non menzionai Harry; dire qualcosa a lui equivaleva a inciderla su una pietra e gettarla nella fossa delle Marianne. «Oh, certo. Ci scommetterei.» «Ascolta, Ava, conosco gente che ha esperienza in queste cose. Gente in gamba. Forse possono darti un po' di aiuto in...» Si alzò con tanta veemenza da rovesciare la sedia contro il muro. «Non capisco cosa diavolo vuoi dire quando parli di aiuto, detective Ryder. Forse ho bevuto troppo l'altra sera. È stato un errore e non succederà mai più. Non mi sono piaciute le tue insinuazioni allora e mi piacciono ancora meno adesso. So che dobbiamo lavorare insieme, e fin lì ci posso arrivare. Ma non voglio avere nulla a che fare con te a livello personale, e questo significa conversazione, insinuazioni, prevaricazioni, consigli o pranzi. Se davvero vuoi renderti utile, chiudi quella porta dall'esterno. Se non sai come si fa, chiamerò gli agenti di sorveglianza e saranno felici di aiutarti.» «Com'è andata?» chiese Harry quando salii in auto. «Diniego totale», risposi chiudendo gli occhi per ripararmi dal sole. L'amica dell'amica della Abbot si chiamava Monica Talmadge. Era sui trentacinque e abitava in una bella casa di mattoni a Mobile ovest, con un prato ben tenuto e una Beamer giallo canarino parcheggiata sul vialetto. Monica non sembrò molto felice di vederci. «Non ho mai conosciuto Peter Deschamps. Dovete credermi.» Portava ciabattine coi tacchi alti, blue jeans ed era più truccata di quanto l'ora giustificasse. Indossava un reggiseno e una camicetta rosa scollata che mettevano in giusto risalto i piccoli seni. Una cascata di capelli dai ri-
flessi rossi scendeva fin quasi a raggiungere le forme prominenti delle natiche, tonde e succulente come un'arancia. «Per favore, signori, mio marito potrebbe tornare da un momento all'altro.» Harry guardò l'orologio. «Magari può sapere qualcosa di più su Deschamps.» «No! Non sa nulla.» «Non sa nulla, o non sospetta nulla, signora Talmadge?» chiese dolcemente Harry. Monica guardò in giù, come se dovesse memorizzare l'aspetto delle dita dei piedi per un esame. Avrei potuto fornirle io la risposta: perfettamente curate, abbronzate e con le unghie smaltate di rosa. Sapevo che stava valutando se dirci o no la verità. Quando rialzò lo sguardo, gli occhi si erano fatti duri e sul viso le erano comparse ombre severe. «Sono uscita con Peter qualche volta, in modo del tutto amichevole.» «Discretamente amichevole», puntualizzò Harry. Ci fu un lungo silenzio e i suoi occhi diventarono due fessure. «Senta, mio marito è quello che verrebbe definito un vero uomo. Il che significa, quando non è in Montana o in Canada con i suoi amici a cacciare alci o castori o che cazzo ne so, se ne va a fare pesca d'altura e sta via giorni. E quando non è il prototipo dello sportivo americano, allora è in giro per il mondo a vendere generatori. Sono cresciuta in un appartamentino a Robertsdale e tutto questo mi piace da morire», fece un gesto attorno a lei come a indicare l'auto, la casa, il vicinato, «ma ci sono anche altre cose che mi piacciono. Cerco solo di mantenere un certo equilibrio nella mia vita, mi spiego? Per cui, quando Peter ha risposto alla mia inserzione...» «La sua inserzione?» la interruppi. «Avevo messo un'inserzione su quel giornalaccio di annunci, NewsBeat, ha presente? Nella sezione personali. Donna parzialmente libera cerca uomo parzialmente libero. Una cosa per adulti intelligenti che vogliono divertirsi. Senza vincoli, senza fronzoli.» Un'auto si avvicinò e Monica si irrigidì. Quando vide che non era suo marito si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. «Cos'è successo dopo che è uscita l'inserzione?» domandò Harry. «Ho ricevuto una valanga di risposte. Più di quanto mi sarei immaginata. Peter aveva allegato una foto e mi era sembrato un tipo piacevole. Il fatto che fosse fidanzato e che anche lui dovesse essere cauto mi andava benissimo. Ci siamo visti qualche volta, niente di serio, puro divertimento, capi-
sce?» «Ha avuto l'impressione che non fosse la prima volta che faceva una cosa del genere?» «No. Penso che volesse vivere un'ultima avventura prima di sposarsi. Lo ha anche ammesso. E mi era sembrato che fosse vero.» «Non ha mai avuto la sensazione che il signor Deschamps potesse non essere solo eterosessuale?» «Mio Dio, no», esclamò. «Un tipo molto maschile. Non mi dirà che...» «No. Ma domande di questo tipo vengono sempre poste quando avviene un omicidio.» «Ho pianto quando l'ho saputo. Un'ottima persona. E un corpo meraviglioso. Mi dispiace per la sua ragazza.» «Perché ha interrotto la relazione?» «L'abbiamo deciso insieme. Credo che fossimo rimasti a corto di cose da dire.» Sentii il rombo di un motore diesel di grossa cilindrata. I suoi occhi dardeggiarono dietro di noi, verso la strada. «Oh, mio Dio, è Larry! Per favore, non ditegli niente di tutto ciò. Vi prego, vi prego.» Vidi un paio di occhi fiammeggiare dietro il parabrezza di un pick up nero che scalava le marce prima di imboccare il vialetto di accesso alla casa. «Sorrida e faccia no col capo, signora Talmadge», le suggerii. «Cosa?» «Faccia un bel sorriso e scuota il capo per dire no.» Capì e fece come le avevo ordinato, aggiungendo una spruzzata di risata argentina che si perse nel frastuono del motore alle nostre spalle. Strizzai l'occhio a Harry e facemmo un cenno di saluto alla signora Talmadge. Ci voltammo in tempo per vedere suo marito saltar giù da un Dodge Rara 3500 diesel con una marmitta grossa quanto la bocca da fuoco di un cannone. Quello che non era verniciato era cromato. La scritta sulla portiera proclamava ATLAS INDUSTRIAL GENERATOR SALES, LA VOSTRA AZIENDA ELETTRICA PERSONALE. Larry lasciò la portiera aperta e il motore acceso. Era un buon metro e novanta, centoventi chili, con un collo grosso quanto quello di Harry. Ciuffi di peli grigi spuntavano dal colletto della sua polo. Aveva il viso rubizzo e il torace gonfiato in modalità di protezione del territorio; dovevamo aver calpestato dove aveva pisciato per delimitare la sua area. «Ehi», tuonò. «Dove diavolo credete di andare?» «Grazie di nuovo, signora Talmadge», dissi girando il capo indietro. «Ci
scusi per il disturbo.» «Vi ho chiesto cosa ci fate qui!» ringhiò Larry. Sorrisi. «Lei deve essere il marito», dissi gentilmente, mostrando il mio distintivo. «C'è stato un brutto incidente ieri nel Bandhead Tunnel, e il responsabile è fuggito. Un testimone è riuscito ad annotare una parte del numero di targa; ha detto che si trattava di un'auto sportiva gialla.» Avevo parlato a voce abbastanza alta perché Monica sentisse. «Non ha idea di quante macchine gialle hanno numeri simili», disse Harry, sembrando esasperato. Benvenuti all'Harry & Carson Show. Era il mio turno. «Stiamo esaminando tutte le possibilità. Cerchiamo un'auto che abbia il paraurti anteriore danneggiato. Ovviamente», accennai alla Beamer, «non è il veicolo di sua moglie.» «Può starne certo», borbottò Larry di malagrazia. Ripartimmo mentre Larry tirava giù delle valigie dal suo mostruoso pick up. I miei occhi si incontrarono con quelli di Monica. Formò un «Grazie» silenzioso con le labbra poi si voltò a offrire un caldo benvenuto a Larry, ovvero l'incarnazione della virilità, di ritorno dai monti e dal mare. 13 A parte me, il cimitero di Church Street era deserto. Situato dietro la biblioteca principale di Mobile in Government Street, il piccolo camposanto era un posto dove passeggiare lentamente sotto alberi secolari, contemplare lapidi antiche e contare il passare degli anni. Harry doveva restituire un paio di libri e io avevo approfittato della pausa per lasciarmi risucchiare dal pacato ricordo del passato che quel luogo rappresentava. Quando nella mia mente il caso di Adrian era ancora un'insieme di sirene, topi e fuochi e braci consunte degli occhi di una ragazza, spesso venivo a sedere sotto gli alberi per ascoltare questa quiete. La morte di Tessa Ramirez era stata incredibilmente violenta, eppure le tombe apparivano così tranquille, come se, nel suo viaggio fra i mondi a noi ignoti che si trova ad attraversare, la morte facesse una pausa per consentire ai prescelti di separarsi dai ricordi del trapasso e riunirsi in un ambiente sereno e ombreggiato. Anche se Tessa era stata sepolta nel Texas, a me sembrava che un cimitero valesse l'altro e che, una volta sottoterra, tutti fossero uniti. Avevo sperato che i morti di Church Street accogliessero la ragazzina dai capelli scuri fra loro; forse era lì che le davano sostegno e comprensione. La comprensione doveva esserci, pensai; perché mai, altrimenti, l'uni-
verso avrebbe dovuto portarci in vita se non per permettere ai nostri viaggi individuali di scoperta, o se vogliamo di indagine, di intersecarsi con i fili di tutti gli altri viaggi fino a formare la Comprensione Finale, quel gran coro cosmico di «Sì. Come ho fatto a non capirlo prima? È così essenziale. Così semplice». O magari è tutto puro caso. Le nostre più brillanti bugie sono quelle che riserviamo a noi stessi. «Linee invisibili, dappertutto», mormorò Harry, tirandomi fuori da un sogno sui sogni. Era tornato dalla biblioteca ed era chino a esaminare una lapide che risaliva agli anni Trenta. Nel linguaggio di Harry, linee invisibili si riferiva ai fili invisibili che collegavano eventi apparentemente privi di relazione nei casi di omicidio. Invisibili all'inizio, gradualmente cominciavano ad apparire fino a quando non ci rendevamo conto che non avevamo fatto che inciamparci per tutto il tempo. «È nelle parole scritte sui cadaveri», dissi. «Sono messaggi che hanno un significato e uno scopo.» La notizia delle scritte non era stata diffusa ai media e al pubblico per evitare di fornire spunti a coloro che cercavano di esorcizzare chissà quali orrori commessi in passato confessando di essere colpevoli di ogni omicidio un po' bizzarro. Nessuno ammette mai di aver ucciso uno spacciatore di eroina all'angolo della strada, ma basta solo che una donna venga trovata massacrata in modo bestiale e subito si forma una folla di rei confessi. «Avranno anche un significato e uno scopo, ma solo per uno matto da legare», replicò Harry. Mi sedetti su una tomba e il mio compagno mi raggiunse. Sospirò e alzò gli occhi a osservare le nuvole o le cime degli alberi. Quando tornò a guardarmi i suoi occhi avevano una tristezza e un affetto che non vedevo da molto tempo. «Ero preoccupato per te, fratello.» Mi irrigidii. «Vuoi dire per questa storia con Ava? Certo, sono preoccupato anch'io, ma non è...» «No, non per quello. Non è che alle volte stai portando avanti qualche iniziativa per conto tuo? Sui casi dei corpi senza testa?» Scattai in piedi. «Cosa vuoi che faccia per conto mio, Harry?» I suoi occhi mi esaminarono il volto. «Non so... qualche ricerca indipendente. Lo so che a volte hai le tue ispirazioni strane.» «Credi che ci siano cose che non ti dico, Harry? È questo il problema?» La mia voce risuonò tesa. Sentivo il mio senso di colpa sotto la collera. La sua voce era calma, ragionevole. «Non ho detto questo, mi stavo solo
chiedendo se non stessi facendo qualcosa di strano. Durante il caso di Adrian era come se tu fossi in contatto con un medium, mi spiego? Tutti gli psicologi e i profiler sostenevano che bruciare gli occhi delle vittime era un modo per nascondersi da loro, perché Adrian le conosceva. Poi, all'improvviso, vieni fuori tu con l'idea che era un modo per cementare le relazioni.» «Era solo un'idea che mi era venuta per caso, solo una rifles...» Harry mi interruppe con un dito alzato. «Poi, hai deciso che le vittime erano state scelte in base alla loro presenza sul luogo di un incendio nel loro passato recente. E scopriamo che è vero. Suggerisci di tenere d'occhio i vigili del fuoco, di controllare le scene di incendi potenzialmente dolosi, alla ricerca di qualcuno che sia a caccia della sua prossima preda. Lo facciamo e - voilà - tu vedi il tipo con il vizio di strapparsi i capelli, come si chiama...» Distolsi lo sguardo. Detesto come il caso di Adrian e i suoi relitti continuano a galleggiare nel presente, urtandomi in continuazione. «Carson, come si chiamano quelli che si strappano i capelli?» «Tricotillomaniaci, maledizione.» «Esatto. Hai visto quel tizio sul luogo dell'incendio che si strappava via i capelli come un pazzo ed è lui, Joel Adrian.» Resistetti al desiderio di andarmene. «Ero lì, Harry, me lo ricordo.» «Forse ci sono altre cose che non ricordi, o che non vuoi ricordare.» Il mio tentativo di ridere sparì prima ancora di raggiungermi le labbra, tramutandosi in un gracidio. «Credi che stia diventando vecchio? È questo che ti preoccupa?» «Quello che io mi ricordo meglio riguarda il dopo. Quando eri in ospedale con l'esaurimento e...» Mi voltai verso di lui, facendo segno di smetterla. «Fermati, aspetta! No. Non era così, per Dio!» Harry guardò in su, con aria stupita. «Cosa non era cosi?» «L'esaurimento, cazzo. Non era esaurimento nervoso. Era stress e mancanza di sonno. Nient'altro, niente di mentale.» «Ho detto esaurimento nervoso? Non mi sembra. «Volevo dire esaurimento fisico, stanchezza. Come dici tu stress, pressione, preoccupazioni, mancanza di distensione. Mi ricordo che avevi usato la parola depressione.» «La mancanza di sonno, combinata con stress, può generare depressione cronica.»
«Tutto quello che mi ricordo è che non sei riuscito quasi a camminare o a parlare per un mese.» Mi alzai e guardai l'orologio senza vedere che ora fosse. «Forse riusciamo ancora a tirar fuori qualcosa di utile da questa giornata. Tipo sbrigare del lavoro.» Nella mia voce c'era più rabbia di quanto mi aspettassi. Harry si posò le mani sulle ginocchia e si alzò lentamente, come se avesse un sacco di cemento sulla schiena. «Tutto quello che sto cercando di dire, Cars, è che tu hai fatto un lavoro coi controcoglioni con il caso di Adrian, ma anche che il caso ha fatto un lavoro coi controcoglioni su di te. Per favore, promettimi che mi terrai al corrente, che mi farai sapere cosa stai pensando, okay? È sempre una buona politica scaricare un po' delle proprie preoccupazioni sul tuo compagno di squadra.» Si indicò il capo col dito. «A volte ci si sente un po' soli, quassù, Cars. La gente ogni tanto prende decisioni troppo in fretta, senza consultarsi con nessuno.» «Come preferisci, Harry», dissi senza voltarmi, già a quattro o cinque passi di distanza e continuando a camminare, chiedendomi cosa diavolo intendesse con tutto quel discorso. Una sparatoria alle tre di mattina in un locale notturno malfamato provocò due morti e cinque feriti. Se, da un lato, la sparatoria in sé non era degna di particolare interesse, lo era invece il fatto che tra i feriti ci fosse la figlia ventenne di un ministro del culto molto attivo politicamente, tanto più se si considerava che, come indicavano i primi rilievi, la ferita le era stata inferta alla coscia mentre lei esercitava la più antica professione del mondo. I media erano allo stato di massima allerta e la sala del reparto investigativo era nel caos: agenti che andavano e venivano, persone che urlavano, telefoni che suonavano, mentre gli informatori vendevano soffiate false e i giornalisti cercavano di entrare dalle porte di servizio. Ci ritirammo in una minuscola sala riunioni e coprimmo ogni centimetro del piccolo tavolo con foto e cartelle. Né io né Harry avevamo visitato l'appartamento di Nelson, e non avevamo avuto la possibilità di studiare la lista degli oggetti trovati in suo possesso, così ci immergemmo nello studio dei rapporti degli agenti che se ne erano occupati. La lista non era lunga, ma setacciammo attentamente la sabbia alla ricerca della pepita d'oro che costituisse il collegamento fra Nelson e le inserzioni sui giornali, visto che era stato quello il mezzo che aveva messo in contatto Deschamps con la Talmadge. «Qui c'è qualcosa», disse Harry, poggiando il dito sulla pagina che stava
leggendo. «Pagina tre, articolo ventisette: 'Una scatola di metallo argenteo (alluminio?) di documenti nell'armadio: Documenti personali. Contratti di assicurazione. Libretti d'assegni usati e altri documenti bancari. Corrispondenza. Ritagli di giornale'. Ritagli di giornale? Mi chiedo di quale giornale. Sarebbe interessante sapere se è il NewsBeat.» «Vado a prendere la macchina», dissi. Nelson aveva abitato in un condominio non lontano dall'aeroporto di Brookley. Il lungo corridoio su cui si affacciavano le porte d'ingresso degli appartamenti puzzava di fritto. La moquette era macchiata di muffa in più punti. Qualcuno, nell'appartamento alla fine del corridoio, suonava Whip It sullo stereo. Io e Harry seguimmo il custode, tale Briscoe Shelton, fino a una porta marrone su cui il numero 8-B era stato tracciato con un pennarello. Shelton era un uomo dalle poche idee ma chiare, magro e avvizzito, che puzzava di sigarette e olio di macchina. Indossava pantaloni macchiati di vernice e una maglietta senza maniche che un tempo era stata bianca. Aveva una pesante catena che andava dalla cintura alla tasca posteriore. Diede un colpo alla catena e un mazzo tintinnante di chiavi saltò fuori dalla tasca e gli atterrò in mano. Doveva aver passato ore a esercitarsi nella mossa. Harry verificò che l'adesivo che sigillava la porta fosse intatto, quindi lo tagliò con il suo coltellino. «Non mi è mai piaciuto quel figlio di puttana, capisce?» affermò Shelton mentre tentava di infilare nella serratura una chiave dopo l'altra. «Non pagava mai l'affitto in tempo, ma arrivava sempre coi soldi un attimo prima che potessi legalmente sfrattarlo.» «Signor Shelton, non c'era nessuno che venisse a trovarlo abitualmente?» «C'era un intero corteo di visitatori. Uomini, donne, ragazzi, ragazze, più qualche... come cazzo si chiamano, quelli che non saprei definire esattamente da che parte stanno, non so se mi spiego.» «Mai notato qualcuno in particolare?» «C'era una ragazza robusta con la faccia di budino alla vaniglia e la voce alla Minnie. Ha passato parecchio tempo qui un paio di mesi fa. Grande amore all'inizio, poi solo urla, litigate, la solita merda.» Considerando il momento e la descrizione, doveva trattarsi di Terri Losidor. Shelton tenne il mazzo di chiavi di fronte al viso, strizzò gli occhi e ne isolò una dalle altre. «E poi c'era il tipo di cui mi ricordo solo perché era così diverso dalla solita accozzaglia di balordi e pervertiti. Più vecchio,
rispetto al resto del circo. Veniva sempre di notte. Parcheggiava alla fine del fabbricato e si infilava dentro come avesse il fuoco al culo. Dopo un po' uscivano tutti e due e partivano e a volte Nelson non ritornava per giorni.» «E questo quand'era?» Una delle chiavi girò nella serratura e la porta si aprì. Faceva caldo e l'aria viziata uscì nel corridoio come una scia di memorie intrappolate. La corsa di Harry al condizionatore dovette far pensare agli inquilini di sotto che il soffitto stesse per crollare. «Sarà stato due mesi fa. Ha girato da queste parti per un mese, poi non l'ho più visto. Il che non vuol dire che non venisse lo stesso, solo che io non l'ho più visto. Non passo il tempo a spiare i miei inquilini. Nemmeno i pervertiti.» Shelton restò vicino alla porta mentre io e Harry controllavamo l'ambiente. «Quando avete finito, ricordatevi di chiudere la porta. Quanto tempo ci vorrà prima che l'appartamento sia di nuovo disponibile?» «Non ne ho idea, signor Shelton. Forse un'altra settimana», risposi. La faccia dell'uomo si contorse in una smorfia. «Questo significa che prima di un mese non potrò affittarlo di nuovo.» «Perché così tanto?» chiese Harry. Shelton mise in evidenza i denti ingialliti. «Perché bisognerà arieggiare per almeno tre settimane per togliere la puzza di froci.» «Un tipo ameno», brontolò il mio collega, mentre i passi di Shelton si allontanavano lungo il corridoio. Harry si mise alla ricerca della scatola dei documenti, io feci un giro nella vita personale di Jerrold Elton Nelson. Se avessi avuto un dizionario e avessi potuto scegliere una sola parola per descrivere quella casa, avrei scelto il termine frugale. I mobili sembravano comprati al banco dei pegni. La televisione era un modello da diciannove pollici di una marca sconosciuta. Le stoviglie sembravano rubate da ristoranti di quart'ordine. Il letto consisteva di un materasso matrimoniale a molle sul pavimento. Di fianco al letto c'era un comodino con un cassetto che conteneva un biglietto da venti dollari, due da dieci e una manciata di monetine. Al centro della stanza c'era un attrezzo da fitness con una varietà di diversi pesi e accessori sparsi tutt'attorno. Un armadio con le ante a specchio che, quando erano chiuse, riflettevano il materasso. L'unico posto dove sembrava regnare l'abbondanza era il bagno. Nelson aveva più articoli da toilette che un salone per cani: shampi, balsami, ba-
gnischiuma, gel. C'erano collutori, detergenti per la pelle, detergenti per le mani, creme, lozioni, gelatine. Contai sette diverse spazzole e tre asciugacapelli. Quattro diverse pinzette. Quali peli si toglieva? Mentre stavo contando le bottiglie di acqua di colonia - ero arrivato a undici - arrivò Harry con la scatola di alluminio e me la mostrò. Più grande di un beauty case, più piccola di una valigia. Con un manico. Apertura a cerniera sulla parte superiore. «E allora?» dissi. Harry rovesciò la scatola e il coperchio si aprì. Non ne cadde fuori nulla. «Vuota. Niente moduli, estratti conto bancari o ritagli di giornale.» «Devono esserci», dissi. «Sono sulla lista.» Lui gettò la scatola sul letto. «Certo che c'erano, Cars. Solo che qualcuno è arrivato prima di noi e tutto quel che c'era ora non c'è più.» Restai immobile, in uno squallido appartamento, a strofinarmi il mento, proprio come fanno i poliziotti in televisione quando non sanno che pesci pigliare. «E questo cosa diavolo significa?» chiesi, perplesso. Dopo la riunione con i grandi capi, Squill aveva istituito degli incontri giornalieri alle 16.30 a cui partecipavano lui, Burlew, il tenente Guidry dei reati contro la persona, Tom Mason e ogni altro detective di distretto che volesse dare il suo contributo alle indagini. Quel giorno, tale categoria era rappresentata da Jim Archibold e Perk Delkus, del secondo distretto. Lo scopo fondamentale delle riunioni era di riferire soffiate raccolte per strada che, come tutte le soffiate, erano un misto di aspettative e di stronzate. Centinaia di ore di lavoro vennero buttate per verificare piste inesistenti. Riferire sull'andamento dell'indagine al comando era compito di Squill, che aveva così il controllo dell'informazione. Dal giorno della nostra riunione ecumenica, ero riuscito a vedere il capo esattamente una volta, in televisione, dove appariva calmo e rassicurante facendo uso delle stesse parole che aveva usato Squill. Squill entrò e sedette a capotavola, l'onnipresente Burlerw al suo fianco. «Cerchiamo di fare in fretta, gente, c'è una crisi che sta per esplodere con la figlia ciucciacazzi a cinque dollari per pompino del reverendo Dayton. Niente di nuovo sul caso Nelson-Deschamps?» Squill aveva gli occhi che brillavano e immaginai che fosse perché il caso della figlia del predicatore gli aveva dato l'opportunità di lavorare con i media, consentendogli di utilizzare il suo unico, vero talento.
La riunione cominciò con le relazioni, spesso ridondanti, delle altre squadre. C'eravamo già scambiati informazioni al mattino senza bisogno di un grande tavolo, senza la presenza di Squill nel ruolo del moderatore, e senza buttare via l'equivalente di dieci ore pro capite di lavoro. Tobias e Archer avevano scoperto che Deschamps aveva avviato una causa civile nel tentativo di recuperare del denaro dovutogli per un lavoro di design. Nelson era stato arrestato per adescamento a Pensacola due anni prima. I fatti dovevano essere verificati nella forma, ma nessuno dei due sembrava avere rilevanza nei casi. Squill avrebbe comunque detto ai media che la polizia stava indagando su due nuove piste ritenute promettenti. Tutti finirono e venne il nostro turno. «È successa una cosa strana, oggi, capitano», dissi. «L'inventario degli oggetti rinvenuti durante la perquisizione dell'appartamento di Nelson cita una scatola contenente estratti conto bancari, corrispondenza, ritagli di giornale e altro. Io e Harry abbiamo controllato la scatola, ma il contenuto era sparito.» «Si tratterà evidentemente di un errore nella compilazione della lista», tagliò corto Squill facendo un ampio cenno della mano come per sminuire l'importanza dell'accaduto. «Succede di continuo, anche se preferiamo credere il contrario. Troppi casi, troppo poco personale, stanchezza di chi esegue l'inventario...» «L'inventario è stato fatto da Bill Harold e Jamal Taylor. Taylor si ricorda perfettamente di aver esaminato la scatola e di aver elencato l'intero contenuto.» «E allora sarà stato un ladro, Ryder. Non possiamo fare la guardia a tutto ventiquattr'ore su ventiquattro.» «Il nastro era intatto. Senza contare che il presunto ladro avrebbe ignorato un televisore e circa cinquanta dollari in contanti per poi rubare solo dei fogli di carta.» Squill scosse il capo, come se la cosa lo divertisse. «Ha qualche conclusione al riguardo?» «È tutto nel rapporto. Deschamps e la Talmadge si sono incontrati tramite gli annunci personali nel NewsBeat. Volevo vedere se i ritagli di giornale menzionati erano del NewsBeat o della sezione piccola pubblicità del Register. Forse Nelson è stato contattato allo stesso modo. È solo un tentativo, ma voglio poter eliminare gli annunci come processo di selezione delle vittime.» Burlew emise una specie di suono a metà fra un rutto e un grugnito.
Squill lo fissò prima di indirizzare il suo sguardo su di me. «Non è compito suo, Ryder. Lei e Nautilus fate parte dell'unità crimini psicopatologici. Se ricordo bene cosa è stato deciso ai tempi in cui è stata formata questa task force, quello è l'aspetto di cui voi dovreste occuparvi. L'aspetto psicologico. Come, tanto per fare un esempio, cosa significano le scritte sui corpi. Lo ha scoperto?» «No. Non ne ho idea.» «Non ne ha idea? Fantastico. Saprebbe almeno dirmi se le scritte sono importanti?» «Per l'assassino, sì. Ma potrebbe essere così strettamente personale che...» Il capitano esibì un sorrisetto ironico. «Ritiene che siano importanti. Eppure butta via il suo tempo a cercare certi fantomatici ritagli di giornale.» «È tutto quello che abbiamo.» Squill scosse il capo. «Certo che è tutto quello che abbiamo. Nonostante il vostro gran gironzolare e brontolare, non avete trovato nulla. Niente. Nada. Chi è questo tipo? Qual è il suo modo di pensare? Cosa significano le parole sui corpi?» «Non è che posso strofinare le mani sulle parole e arrivare alla soluzione.» Il sorrisetto si tramutò in un ghigno da squalo. «Non cerchi di fare il furbo con me, giovanotto.» «Stavo solo tentando di spiegare perché dei documenti rimossi dalla casa di un morto potrebbero avere un significato.» Squill si appoggiò alla sedia, improvvisamente disinteressato, e fece la sua dichiarazione. «Lasci il lavoro di routine ai detective di distretto, Ryder. Se il Piss-it non fa altro che ripercorrere le piste battute dalle altre unità», alzò le mani, «a cosa diavolo serve?» «È stato proprio ripercorrendo le piste battute dalle altre unità che siamo arrivati ai documenti mancanti», gli fece presente Harry. Squill lo ignorò e si alzò in piedi. «C'è qualcuno che abbia qualcosa da aggiungere?» Il tono sembrò significare che non sarebbe stato felice se qualcuno avesse risposto di sì. «Potete andare», disse. «La prossima volta cercate di presentarvi con qualcosa di concreto.» Mentre usciva dalla porta sputò fuori le parole Piss-it a voce abbastanza alta perché tutti sentissero. Io e Harry restammo seduti al tavolo a guardarci le mani mentre gli altri
uscivano. Tom diede a ciascuno di noi una pacca sulle spalle mentre passava. «Vi sta facendo mangiare un sacco di merda, ragazzi», disse con voce carica di rammarico. «Vorrei proprio che poteste venirne fuori in fretta.» «Anche noi», brontolò Harry. «Puoi starne certo.» Ritornammo in ufficio e io buttai il mio blocco di appunti sul tavolo. «Squill ci fa venire, ci manda via. Ci vuole in strada, non ci vuole in strada. Non ha la minima idea di cosa sta facendo.» Harry si lasciò cadere sulla sedia. «Stai parlando di Squill. Cars. Quello sa esattamente cosa sta facendo. Il guaio è che non lo sappiamo noi.» Riordinai i pensieri che mi affollavano la mente. «Harry, se il PSIT trova la pista giusta, ma l'arresto lo fa qualcun altro, ci riconosceranno qualche merito?» Lo sguardo triste di Harry mi fornì la risposta. Avevamo lavorato sul caso giorno e notte e in cambio ci era stato detto che eravamo degli incompetenti buoni a nulla, un giudizio che stava per venire trasmesso ai grandi capi. Ma se avessimo scoperto qualcosa, Squill avrebbe potuto sostenere che la scoperta era avvenuta nel corso delle normali indagini e che non aveva nulla a che veder con il PSIT. Potevo quasi sentire l'orologio del PSIT ticchettare una melodia: le prime, fievoli note di una marcia funebre. Gli uffici del Mobile NewsBeat erano in un centro di locali a luci rosse nella parte sud della città, stretti fra un vicolo e un negozio chiuso. Un cartello scritto a mano era attaccato con il nastro adesivo a una vetrina su cui compariva ancora la sagoma dell'insegna dell'inquilino precedente, AAAPrinting. Era scuro, al di là della vetrina, e una targhetta all'interno mi informava che ero in ritardo di mezz'ora. Appoggiai le mani sul vetro e sbirciai dentro. C'era una saletta d'aspetto arredata con mobili di plastica da quattro soldi. La sala era separata dal retro da un lungo bancone alla cui estremità era affissa la scritta PUBBLICITÀ. Dava il senso di un'impresa ridotta all'osso che forniva lavoro a una sola persona, un giornalista che potesse all'occorrenza fungere da tipografo e da venditore di spazi pubblicitari. Dopo essermi annotato l'orario di apertura, presi una copia dal cestello di fianco alla porta e partii verso casa. Stavo percorrendo la I-10 in direzione sud quando l'auto scartò all'improvviso verso l'uscita per dirigersi a nord, come se avesse risposto a una richiesta di soccorso proveniente da un altro mondo.
Ava abitava in una piccola villetta quasi in fondo a una via senza sbocco. Passai a fianco guidando adagio, con il berretto abbassato e gli occhiali da sole sul naso. I fiori che costeggiavano il vialetto d'accesso e decoravano la veranda, così come la magnolia giapponese e l'erba ormai gialla del prato, avevano bisogno d'acqua. Il giornale del mattino era ancora di fronte alla porta d'ingresso. La Camry era sul vialetto. Telefonai all'obitorio e rispose Vera Braden. Le parlai in fretta, imitando un accento del nordest, appiattendo i suoni nel naso. «Ho bisogno di parlare con la dottoressa Davanelle. È urgente.» «Mi spiace ma non è in ufficio, oggi», rispose la voce strascicata di Vera. «Vuole lasciare un messaggio?» «È il suo giorno libero? Parla Sanderson. Sono il rappresentante della Wankwell Testing. Accidenti, mi sembrava che mi avesse detto che il suo giorno libero fosse domani. Senta, ho dei nuovi prodotti da presentarvi e...» Vera cosparse il suo tono di pizzichi di veleno. «Doveva venire a lavorare oggi, signor Sanders, ma ha telefonato che era ammalata. Vuole che la faccia chiamare quando si sente abbastanza bene da prendersi il disturbo?» Click. La telefonata seguente fu ad Ava. Non lasciai messaggi al bip e me ne andai. Mi allontanai di due isolati, poi tornai indietro e parcheggiai di fianco alla sua auto. C'era una canna di gomma appesa al muro della casa. La presi e diedi una buona innaffiata alle piante, quasi sentendo l'avidità con cui il prato secco assorbiva fino all'ultima goccia d'acqua. Restai un quarto d'ora e non bussai alla porta. Se era sveglia, sapeva della mia presenza e la scelta di uscire o meno sarebbe spettata a lei. 14 La mattina dopo andai direttamente alla sede del NewsBeat, sperando di ricevere abbastanza informazioni da imprimere un corso alla giornata lavorativa. Harry aveva un impegno riguardante un caso precedente, che lo avebbe occupato tutto il giorno, o lì o in tribunale. L'odore di cenere bagnata mi colpì le narici prima ancora di svoltare l'angolo dell'isolato che alloggiava il NewsBeat. Là dove il giorno prima c'era l'ufficio di una pubblicazione alternativa, oggi c'erano i resti di un edificio consumato dalle fiamme. L'interno era ridotto a un ammasso di rovine fradice fra cui spiccavano le carcasse annerite di una stampante offset e degli armadi di un ar-
chivio. Una donna alta e dinoccolata con una camicia nera, jeans e guanti da lavoro, scalciava sconsolatamente le ceneri sul retro dell'edificio. Una sirena lacerò l'aria mentre un'auto di pattuglia mi passava a fianco. Appoggiato al volante, c'era il polso largo dell'agente Bobby Neeland. Neeland era un ficcanaso trentenne, grosso e tozzo, che non sorrideva mai se non con sufficienza e non rideva se non in derisione. Da Flanagan lo evitavano perfino i più disperati, chiamandolo Cazzobaby dietro le spalle. Le denunce che aveva ricevuto per uso eccessivo della forza erano tante che un solo raccogKtore non era più sufficiente a contenerle, ma siccome non c'erano mai testimoni, riusciva sempre a farla franca. Neeland abbassò adagio il finestrino e sbirciò al di sopra delle lenti scure. «Che ci fai qui, Ryder? Non è morto nessuno.» I punti neri che gli costellavano il naso erano grossi come mine di matite. «Sto seguendo un altro caso, Bobby. Che diavolo è successo?» Neeland si tolse gli occhiali infilandosi la stanghetta in bocca, succhiando rumorosamente mentre parlava. «Qualcuno ha sfondato la vetrina e ha gettato dentro una bombola di gas.» Fece un ghigno. «Addio, giornalehippy.» «Nessuna idea su chi sia stato?» «Da' un'occhiata al vicolo a fianco, Ryder. Hanno lasciato l'autografo.» Andai sul lato dell'edificio. Sui mattoni scoloriti compariva una scritta alta mezzo metro tracciata con una bomboletta di vernice: POTERE AI BIANCHI. Per la verità, diceva solo POTERE AI BIA, le ultime quattro lettere poco più di una passata veloce verso il retro. Quando tornai, Neeland stava mordicchiandosi gli occhiali con denti affilati. Il rumore mi infastidì. «Chiunque sia stato, era più interessato a filarsela alla svelta che a lasciare una dichiarazione politica, Bobby.» «Eh? Cosa hai detto?» «Lascia perdere. Non è importante.» Si rimise gli occhiali umidi di saliva e guardò attraverso le lenti scure. «Ho sentito dire che il giornale di recente aveva scritto articoli su quelli di Potere Bianco. Facile che si siano incazzati. Cristo, Ryder, tu che hai studiato, dimmi un po' com'è che i negri hanno tutte quelle facilitazioni e per i bianchi non c'è mai un cazzo? Cioè, un bel sistema di merda, non ti pare?» Un calabrone cominciò a ronzarmi dentro la mente. «Sai chi è la donna là dentro?» chiesi. «La padrona del giornale. Anzi, ex padrona, ormai. Non dovrebbe essere
lì, divieto dei vigili del fuoco. Gliel'ho già detto un'ora fa. Adesso la sbatto fuori a calci. Sta' a guardare, Ryder, ci sarà da divertirsi! Quella è una di quelle troie che odiano i poliziotti.» «Non azzardarti a schiodare il tuo culo dal sedile, Neeland. Levati di torno, invece.» «Che cazzo dici?» «Vai a trastullarti con il tuo miniuccello.» «Non ti permetto di parlarmi così.» Gli piantai il viso a pochi centimetri dal suo, in segno di aperta provocazione. «Mi sembra di averlo appena fatto, Bobby.» Le nocche di Neeland sul volante erano sbiancate. Sentii l'odio filtrargli attraverso le lenti scure: non dovevano essere polarizzate. La sua voce era tremante di rabbia. «Stai lontano da me, bocchinaro, o sono guai.» Gli tolsi gli occhiali dal naso e li buttai alle mie spalle, facendo un passo indietro mentre aprivo la portiera. Senza gli occhiali i suoi occhi smisero di brillare e le sue palpebre cominciarono a battere. Spinse fuori la sua grassa mascella e gridò da dentro l'auto: «So benissimo cosa stai cercando di fare, lurido bastardo. Se ti metto le mani addosso, sono io che finisco nei guai. Non ci casco, Ryder, le conosco le tue stronzate». Lasciai che Neeland recuperasse un minimo di dignità chiudendo la portiera con violenza. Ripartì sgommando e bestemmiando. I suoi occhiali sull'asfalto scintillavano di saliva. Non volevo beccarmi la rabbia, li lasciai dov'erano. Poi, non volendo che se la beccasse qualcun altro al posto mio, li calpestai. Una tettoia di alluminio correva lungo l'edificio. Sostai nella sua ombra finché la donna sulla quarantina uscì dalle rovine. Mi sembrava familiare e alla fine mi accorsi che assomigliava ad Abraham Lincoln. Prima di tutto per gli occhi, che erano infossati sotto sopracciglia spioventi, scuri come carboni e onesti. Aveva zigomi prominenti e un mento fermo e squadrato. I capelli neri si innalzavano come un'onda, prima di venire raccolti e tenuti fermi dietro la nuca da una bandana blu. Anche se nell'insieme aveva movenze quasi timide, camminava in un modo particolare, sollevando esageratamente i piedi come un puledro, mentre il resto dell'ossatura seguiva il movimento degli stivali come se stesse chiedendosi dove sarebbe finita. Si sedette sui gradini del parcheggio e si tolse i guanti rivelando mani delicate. Chinò la schiena all'indietro appoggiandosi ai gomiti e chiudendo gli occhi. «Ha recuperato qualcosa?»
Guardò in su, strizzando gli occhi contro il sole. «E a lei che gliene importa?» Doveva avermi visto parlare con Neeland. Sapeva che ero uno sbirro. «Be', qualcosa me ne importa, credo.» «Abbiamo pubblicato abbastanza articoli contro la sua gente da farmene dubitare.» Mi sedetti di fianco a lei. L'odore di fumo le impregnava i vestiti. «La mia gente? Intende dire per parte di mio padre o di mia madre?» I due pezzi di carbone mi ispezionarono. «Ho letto l'articolo sul movimento per il potere ai bianchi l'altra sera», aggiunsi. «E?» «E mi ha fatto arrabbiare che ci sia gente il cui odio degli altri è basato su qualcosa di così trasparente come il colore della pelle o le opinioni personali. Poi mi sono reso conto che la maggior parte di loro è stata tirata su con quei pregiudizi dal momento in cui è venuta al mondo.» «Non cerchi di scusarli. Possono cambiare.» «Molti lo fanno. Quelli che non ci riescono vivono male, sguazzando nei loro stessi veleni senza provare un attimo di felicità e senza diventare uomini degni di un minimo di rispetto. Passare una vita nell'odio mi sembra una punizione sufficiente per il veleno che spargono per il mondo. Comunque sia, è una vergogna per tutti.» Ci pensò su un momento, poi indicò una pasticceria lungo la strada. «Ci beviamo un caffè?» Mentre andavamo alla pasticceria, ci presentammo. Appresi che Christell Olivet-Toliver era redattrice ed editrice del NewsBeat. Le lasciai intendere cosa pensavo dell'accaduto senza rivelarle troppo. «Mi faccia capire», disse lei, mescolando lo zucchero nel caffè. «Non è del tutto convinto che siano stati quelli di Potere Bianco?» «Sto solo dicendo che non appena comincio a interessarmi degli annunci del NewsBeat, il giornale viene incendiato. Le coincidenze mi affascinano sempre.» Inarcò un sopracciglio. «Il caso di cui si occupa è forse quello dei corpi senza testa?» «Senza entrare troppo nei particolari, sì.» «Cosa vuole da me?» «Fondamentalmente, sapere come funziona la raccolta e la pubblicazione degli annunci.» Prese la tazza di ceramica fra le sue mani da violinista. «Diciamo che,
per esempio, lei voglia far pubblicare un'inserzione. Non deve fare altro che scrivere il testo e mandarlo per e-mail al NewsBeat. Le assegniamo un codice numerico e lo pubblichiamo. Se qualcuno, chiamiamolo, che so, Muffy Duffy, vuole risponderle...» «Non potrei mai avere nulla a che fare con una che si chiama Muffy.» Mi puntò contro un cucchiaino. «Allora chiamiamola Ortensia. Ortensia va sulla sezione annunci del nostro sito web e risponde via e-mail all'annuncio. Il nostro computer la indirizza al suo numero.» «E uno come fa a pagare?» «La sezione annunci è come un club: per accedere bisogna pagare una piccola quota. Si può pagare online, o mandare un assegno o un vaglia al nostro ufficio.» «Non mi sembra molto sicuro, soprattutto per chi usa assegni o carte di credito.» «Non c'è nessun modo per il pubblico di sapere chi ha messo un annuncio o chi ha risposto. I lettori si fidano di noi e noi non abusiamo della loro fiducia.» Feci oscillare il dito in segno di scetticismo. «Ma un computer è sempre un computer. Ci scommetto che da qualche parte nella sua memoria c'è una traccia degli indirizzi elettronici di chi risponde. Penso che un hacker potrebbe recuperarli.» «Forse. Con un'ingiunzione del tribunale e recuperando il computer», disse, indicando con il pollice le rovine fumanti dell'edificio. «Tutto bruciato?» Fece un sorriso triste. «Cenere siamo e cenere ritorneremo eccetera.» Addio alle speranze di trovare una pista fra gli annunci. Cambiai marcia. «Non ha visto nessun tipo strano ronzarle attorno di recente?» «Gente di Potere Bianco? Skinhead? Motociclisti tatuati? Me lo ha già chiesto l'altro poliziotto. Di tipi così ne vedo in continuazione.» «Nessuno che le abbia destato sospetti?» Unì le punte delle dita delle due mani come ali di farfalla ad asciugare al sole. «Una sola cosa. Due giorni fa ho visto una macchina parcheggiata dall'altro lato della strada, proprio di fronte al giornale. Mezz'ora prima, quando avevo portato fuori la spazzatura, avevo visto la stessa macchina percorrere il vicolo.» «Che tipo di auto?» «Una Jaguar XJ. Trecentosettanta cavalli. Otto cilindri a V, base del volante allungata.»
Le diedi un'occhiata. «Ehi, perfino noi femministe nazi-comuniste anarchiche, salva-alberi e castra-uomini abbiamo i nostri sogni.» «Da dove l'ha presa la definizione? Dallo stemma del giornale?» Sospirò. «Dalla posta che ricevo.» «Non è riuscita a vedere l'autista?» «Aveva i vetri oscurati e l'ho vista solo di fianco. Nulla.» «Numero di targa?» «L'ho guardata solo per mezzo secondo e ci ho pensato forse per due. Poi sono stata distratta da altro e...» Le sue mani si mossero come a indicare qualcosa che vola via. «L'ha notata perché è la macchina dei suoi sogni?» «In parte. Ma anche perché, dall'altro lato della strada, non c'è nulla tranne un negozio di abiti di seconda mano e una lavanderia a gettone in rovina. La Jaguar non c'entrava nulla. Era come una piccola stonatura.» Piccola stonatura, piccola stonatura... le parole della signora OlivetToliver continuarono a risuonarmi in mente per il resto del giorno e alla sera, mentre tornavo a casa. Mi seguirono mentre mi riempivo una scodella di riso e fagioli rossi freddi e uscivo in terrazza, sedendomi con i piedi appoggiati alla ringhiera. Il sole stava tramontando e la spiaggia era battuta da gente che setacciava la sabbia alla ricerca di oggetti smarriti. Mentre li guardavo, cominciai lentamente ad afferrare il messaggio di Abraham Lincoln: c'era qualcosa che stonava nel caso. Stonato. Note sbagliate? O forse note giuste suonate nel modo sbagliato, fuori tempo, o mal interpretate? Ho sempre avuto un ottimo orecchio per la musica, per cui sono in grado di cogliere le variazioni più sottili. C'era qualcosa, in quel caso, che mi era sembrata fuori posto fin dal primo momento in cui avevo posato i miei occhi sul corpo senza testa di Jerrold Nelson. Non era stata tanto l'enormità di un cadavere decapitato a colpirmi, quanto la mancanza di un senso nel crimine o sulla scena. Se il movente era la vendetta, come Squill aveva cercato di far credere ogni qualvolta ne aveva avuto l'opportunità, dov'era la rabbia? Non nella precisa, meticolosa rimozione della testa, non nel modo paziente in cui i messaggi erano stati scritti sulla carne. Entrambi gli omicidi sembravano più l'opera di un ragioniere psicotico che di un feroce assassino spinto a uccidere da un furore represso. Dov'erano le tracce di una mano travolta dalla rabbia che si abbandona a una distruzione selvaggia?
Più ci pensavo, più aumentava in me la sensazione della presenza di una nota disarmonica. Sono cresciuto con una particolare sensibilità ai segnali di disarmonia; sin da bambino analizzo l'aria alla ricerca di quelle sottili vibrazioni che annunciano l'arrivo imminente di cambi violenti, così come un sismologo utilizza laser e specchi per misurare infinitesimali movimenti fra le montagne. Chi non desidera essere avvisato in anticipo dell'imminenza di un terremoto? Be', io avevo imparato a desiderarlo più di chiunque altro. E, se devo dire tutta la verità, il mio primo ricordo è di un qualcosa paragonabile a una sorta di terremoto. Non ne avevo avuto alcun presentimento e nessuno, fuori di casa, se ne era accorto. Anche se risale a ventiquattro anni fa, ricordo i fatti con una chiarezza non scalfita dal tempo, forse addirittura acuita dal suo passaggio. È notte. Mi alzo dal letto e cammino quasi come un sonnambulo lungo un corridoio stretto e grigio che sembra non dover mai finire. In fondo al corridoio c'è un rettangolo nero, alto fino al cielo. Sono nel corridoio di casa nostra, appena fuori Birmingham; la luce della luna filtra dalle finestre, diffondendo una luce grigia, e il rettangolo è la porta della camera di mio fratello Jeremy. Dalla stanza provengono delle grida. Ho sei anni. Mio fratello Jeremy ne ha dodici. Mi fermo sulla soglia e ascolto, sapendo, per qualche ragione oscura, che non posso entrare. Devo andare in bagno e, continuando lungo il corridoio, passo davanti alla stanza di mia madre. Fa la sarta, e la sua specialità sono gli abiti da sposa. È seduta alla macchina da cucire e la stoffa bianca le scorre fra le mani come fosse acqua. Le sue mani sono immobili sopra il tessuto e i suoi occhi sono fissi sull'ago. Il suono ritmico della macchina da cucire copre i gemiti e le urla che vengono dall'altra stanza. Un'asse sul pavimento scricchiola sotto il mio piede e mia madre si volta. I suoi occhi sono spalancati e umidi; dice qualcosa, senza immaginare che mi ricorderò le sue parole per sempre. «Lo so che è sbagliato», mormora a denti stretti. «Ma lavora così tanto... ha un lavoro importante, fa l'ingegnere. Chi avrebbe mai pensato che una come me avrebbe sposato un...» Un urlo taglia il corridoio come una falce. Mia madre aggrotta la fronte e, per un momento, le sue mani sfuggono al controllo volando nell'aria, come passeri impauriti. «E cosa potrei fare, poi?»
La mamma domina il tremito delle mani e cerca di riprendere il lavoro, ma si irrigidisce e china il capo. La stoffa bianca le copre il grembo come un fantasma afflosciato. Torna a letto, tutto finirà presto, mormora. A un'età in cui gli altri bambini imparavano ad andare in bicicletta senza rotelle, divenni un osservatore delle trasformazioni che precedevano quel tipo di eventi, che all'inizio si verificavano ogni due o tre mesi, poi con frequenza sempre maggiore. Sembrava quasi che potessi sentire l'aria in casa caricarsi di particelle negative, accumulando forza e intensità fino a scaricarsi in una notte di fulmini neri. Imparai a cercare un rifugio al primo segno della tempesta che si addensava, a nascondermi nella mia casetta sugli alberi nel bosco, o, la notte, sul sedile posteriore dell'auto. Dopo che la tempesta era passata, tornavo di soppiatto nella mia stanza, le antenne protese per captare le vibrazioni che avrebbero preannunciato la prossima esplosione, pronto a scappare. Poi, nel corso di un pigro pomeriggio estivo, tutto finì. ...il bosco attorno alla casa è fitto di pini tagliati e abeti, il terreno coperto da un tappeto soffice di aghi ingialliti e pigne cadute, e io passo i miei giorni protetto dagli alberi dalle fronde carezzevoli. Mi sono costruito un fortino su un'antica quercia, e anche se la piattaforma non è che un'accozzaglia di vecchie assi mezze bruciate, i grossi rami dell'albero la tengono insieme saldamente. Nel bosco, al riparo della mia fortezza nascosta, a quattro metri dal terreno, mi sento al sicuro. Negli ultimi tempi, mio padre mi ha terrorizzato più che mai. Ha cominciato a vedermi, cosa che non aveva mai fatto prima. I suoi occhi sono così pieni di rabbia. Dice che sono stupido. Ho nove anni. Una volta, da dietro le assi, ho visto mio fratello. Jeremy ha quindici anni. Una volta, da dietro le assi del fortino, ho visto mio fratello scappare per il bosco con un porcellino urlante sotto il braccio, uno dei maiali della fattoria degli Henderson... Sono sdraiato sulla pancia e guardo mio fratello legare il porcellino a un albero. Poi prende un coltello e gli fa delle cose. A un certo punto mi sembra che guardi in su, che veda i miei occhi tra le foglie e le assi rotte. Ma evidentemente stava guardando qualcos'altro perché dopo un attimo riprende a fare le sue cose con l'animale. Va avanti a lungo, poi seppellisce
le cose rosse nel terreno coperto di aghi di pino. Ripulisce la lama del coltello tra le foglie e se lo mette in tasca. Pochi giorni dopo, vedo delle luci lampeggianti vicino a casa. Sono da solo, nel mio fortino. Scendo e corro a casa, trovando la polizia di contea proprio di fronte all'ingresso. Viste da vicino, le luci lampeggianti mi abbagliano e distolgo lo sguardo, verso le mani del poliziotto. Si tiene il cappello davanti ai genitali, le nocche bianche come rocce. I suoi occhi sono celati da lenti a specchio. Jeremy sta guardando dalla sedia a dondolo sulla veranda, un piede sul pavimento, spingendosi avanti e indietro. «Non sappiamo come sia...» «Posti di blocco sulle strade fino a...» «Il medico legale è arriva, sta...» «Le consiglio di non entrare... suo marito... non è un bello spettacolo...» «Troveremo questo pazzo maniaco, signora, mi dispiace moltissimo per suo...» Dopo qualche tempo i poliziotti se ne vanno. Sollevo lo sguardo e vedo solo la polvere stagnare sulla strada. Mia madre è una statua grigia sul prato. Penso che stia parlando con Gesù, da come muove silenziosamente le labbra. Poi vedo Jeremy strizzarmi l'occhio e mi rivolge un grugnito. 15 C'è un racconto di Sartre intitolato La chambre in cui un uomo di nome Pierre è tormentato da statue malevole che gli ronzano in testa, tino a spingerlo alla follia. L'unico suo modo di controllarle è dato dal suo zuithre, strisce di cartone incollate insieme a forma di ragno. Su una delle strisce c'è la parola nero, sull'altra potere sull'imboscata, su una terza c'è un disegno di Voltaire. Ero seduto al buio e le teste di Jeremy e dei miei genitori mi ronzavano attorno come statue nell'ombra e stavo cominciando a desiderare di avere un mio zuithre personale, quando un'auto si fermò di fronte alla mia porta. Sentii un lungo colpo di clacson e vidi un taxi immobile in una nube bianca di conchiglie frantumate che ancora aleggiava nella luce dei fari. Suonò ancora. Aprii la porta pensando: Che Dio mi mandi uno zuithre per togliermi di mezzo anche i tassisti idioti. «Non ho chiamato nessun taxi», gridai. «L'hanno mandata all'indirizzo sbagliato.»
Un individuo corpulento con un berretto nero si sporse dal finestrino. «Mi deve sessantatré dollari», gridò. «Vengo da Mobile.» «Senta, amico, io non le devo proprio...» La portiera posteriore si aprì e Ava ne discese barcollando. Fece due passi incerti verso la casa poi le ginocchia le si piegarono e cadde al suolo. «Carson, aiutami, per favore», urlò cercando di sollevarsi dalla sabbia, la voce impregnata di alcool e lacrime. La sollevai con l'aiuto del tassista e la portammo in casa, facendola sedere sul divano. Misi quattro biglietti da venti nel palmo del tassista, che mi sembrò felice di potersela filare. Ava cercò di alzarsi, strofinandosi la sabbia dal viso e balbettando parole appena comprensibili. «Mi sono ubriacata, Carson, ho combinato un gran casino e mi sono ubriacata e non lo volevo fare più ma mi sono ubriacata e...» «Shhh. Non c'è bisogno che ti giustifichi.» «Ma ho bisogno di aiuto.» Puzzava di alcool e di sudore e di paura. La spogliai lasciandole addosso solo la biancheria e la portai in bagno, facendola sedere nella doccia. Regolai il getto in modo da avere acqua tiepida. Teneva il capo appoggiato alle ginocchia, tremando e singhiozzando mentre le passavo addosso la spugna. Più tardi l'aiutai ad alzarsi, coprendola con una vestaglia mentre lei si sfilava mutande e reggiseno. Ora riusciva a esprimersi in modo più coerente e le sue parole ricostruivano, anche se in modo frammentario, un resoconto desolato delle sue ultime ore. Aveva lavorato sabato, facendo vacanza domenica e lunedì. Sabato notte, dopo il lavoro, aveva cominciato a bere, senza più riuscire a smettere. Quella mattina, al risveglio, si sentiva a pezzi e mortificata. Aveva chiamato in ufficio per darsi malata e Clair l'aveva duramente rimproverata per le continue assenze, che stavano diventando sempre più frequenti. Ava mi guardò con occhi striati di rosso. «Pensavo che oggi sarei stata meglio e che domani sarei andata a lavorare e che, in qualche modo, sarei riuscita a metterci un rimedio e farla finita con questa... con questa schifezza. Pensavo che quella di ieri fosse l'ultima volta...» Si strinse le braccia attorno al petto e rabbrividì. «Ma non appena hai riattaccato, hai ricominciato a bere.» Le sue mani tracciarono lo stesso gesto che le avevo visto fare quando mi ero nascosto nell'ufficio di Will Lindy. «Non ce la faccio. Non riesco a smettere. Cosa c'è di così sbagliato in me di sbagliato in me di sba...»
«Devi andare in un centro di recupero per alcolisti, farti disintossicare.» Mi afferrò la manica con la stretta d'acciaio di una persona sull'orlo di una crisi isterica. «No! Non posso. Lo verrebbero a sapere. Non posso fare una cosa del genere. No. NO!» «D'accordo, calmati. Possiamo provarci da soli.» «Non ne hai parlato con nessuno di quello che è successo venerdì sera... Temevo che la gente mi guardasse, come se sapesse. Mi hai detto che non lo avresti fatto e tu non...» «Certo che no. Sono affari solo tuoi.» Si strofinò via le lacrime dagli occhi con il dorso della mano. «Non conosco nessun altro qui... mi sento così sola. Poi ti ho visto quando sei venuto a casa mia... Non lo hai detto a nessuno e poi sei venuto e hai dato acqua alle piante. Volevo farlo io, ma non potevo permettere che i vicini vedessero...» «È ora di dormire», la interruppi, prendendola per mano e conducendola verso la stanza da letto. «Ne parliamo domani, ora cerca di riposare.» «Mi odia», sbottò Ava. «Mi odia. Non posso biasimarla, ne ho combinate così tante da quando ho cominciato a...» «Chi ti odia?» «La dottoressa Peltier. Anche quando faccio del mio meglio, mi odia. Io...» Afferrai una bacinella e Ava vomitò. Aspettai fuori, poi la misi a letto. «Non volevo fare altro che il mio lavoro e studiare alla sera e cercare di imparare sempre di più, ma più ci provo, più mi odia, e più mi odia, più bevo e ci sono giorni che VOGLIO SOLO MORIRE VOGLIO SOLO MORIRE VOGLIO SOLO...» Riuscii a calmarla; la coprii e misi una bacinella a fianco del letto. Lei restò a fissare il soffitto e a schiacciare un'invisibile palla da tennis nel pugno. Le lacrime le scorsero silenziose lungo le guance. Chiusi la porta e me ne andai in punta di piedi. Ava si rigirò nel letto lamentandosi per buona parte della notte, il suo orologio biologico sconvolto da tre giorni passati a bere. Verso l'alba riuscì ad addormentarsi. Quando socchiusi la porta e sbirciai dentro, il suo volto sembrava finalmente in pace. Sperai che potesse recuperare un po' di forza dal sonno, prima di svegliarsi e trovarsi ad affrontare le difficili scelte che l'attendevano sul cammino. Il signor Cutter sedeva immobile su una sedia d'acciaio pieghevole nel
suo cubicolo. L'unico movimento era il ritmico sollevarsi e abbassarsi del petto. Non aveva cercato di barare semplicemente perché nessuno stava guardando. Dentro di lui tutto pompava, fluiva, filtrava. Non c'era modo di evitarlo. Era seduto su quella sedia da ore, schiena eretta, ginocchia congiunte, mani sulle cosce. Si era comportato bene. Fino a un'ora prima, fino a quando non era più riuscito a controllare la vescica. Ci aveva provato, all'inizio, pur senza muoversi, senza alzare un dito, senza spostare una gamba, ma alla fine non ce l'aveva più fatta. Da principio solo poche gocce, ma invece che provare sollievo era solo riuscito a far aumentare l'agonia, finché non si era lasciato andare, consentendo al liquido di sgorgare fuori liberamente. C'era stato un tempo in cui avrebbe dovuto soffrire l'inferno, pensò, mentre il calore umido e acido gli si diffondeva lungo la gamba, formando una pozza sul sedile. Ora non più. Tutto stava cambiando. Le sue immagini stavano diventando realtà, lui le stava facendo diventare realtà. Pensò di andare nella stanza segreta dove riponeva i suoi sogni e ci faceva delle cose. Ma quello era un giorno feriale e aveva del lavoro da sbrigare e facce da indossare. Dopo parecchi minuti si alzò vacillando, si massaggiò le natiche indolenzite e le caviglie ormai prive di sensibilità. Raggiunse il bagno per farsi una doccia, soffermandosi a scegliere la cravatta da indossare quel giorno. Calze. Scarpe. Si ispezionò le mutande, staccando un filo sfilacciato, comportandosi da bravo ragazzo ordinato. Per poco non attraversò la cucina senza fermarsi - aveva molto da fare, quel giorno, doveva sbrigarsi - ma il cassetto favorito richiamò la sua attenzione. Tutti avevano un aiutante segreto. Prese un lungo coltello, un coltello da pane, quello della mamma. Faceva un buon pane, la mamma, ma lui doveva comportarsi bene per meritarselo. Siccome si era pisciato addosso, non avrebbe avuto pane. Stronza. Tirò fuori un ferro da affilatura e cominciò a strofinargli contro la lama. Quel suono era musica per le sue orecchie. Una volta era stato a una partita di hockey su ghiaccio e il suo cuore aveva urlato dalla gioia nel sentire il rumore dei pattini che tagliavano il ghiaccio sollevando spruzzi bianchi. Le bottiglie tintinnarono nel cofano dell'auto mentre entravo nel parcheggio dell'obitorio. Ogni goccia di liquore era chiusa là dentro. Avevo perfino preso il Listerine. Per un alcolista in crisi d'astinenza, l'alcool è sempre alcool.
Ava aveva messo piede sulla soglia della Verità: ammettere che il problema esisteva. Era compito mio prendere in braccio una Verità spiacevole e deporla in grembo a Clair, sperando che, quando avessi finito, Ava avesse ancora un lavoro. Parcheggiai nel'area riservata ai carri funebri di fianco all'ingresso. Era presto e la porta era ancora chiusa. Suonai il campanello e Willet Lindy, con in mano una scatola di attrezzi, mi fece entrare. «Non dirmi che stai facendo anche l'idraulico, Will.» «Se qualcosa si rompe, la aggiusto; se serve, la requisisco; se è impossibile, allora mento.» «Devo parlare con Clair. È già arrivata?» Lindy fece una smorfia. «Sì. Ma è il giorno in cui deve chiudere il budget e per di più ci manca uno dei medici. Stalle alla larga, se non vuoi perderci un braccio.» Mentre mi avvicinavo al suo ufficio mi esercitai a tenere un bel sorriso incollato alle labbra, ma continuava a staccarsene come un paio di baffi finti. «Buondì, Clair», la salutai, infilando il capo nella porta socchiusa. Indossava una giacca scura su una semplice camicia bianca. Sotto la scrivania indossava di certo la gonna e scarpe dai tacchi alti. Aveva gli occhiali abbassati sul naso e una penna stilografica che volteggiava sopra un modulo dall'aspetto ufficiale. «Ho da fare, Ryder. Non ho tempo da perdere in chiacchiere.» «Stavolta è importante, Clair.» Mi fece gesto di entrare con riluttanza. «Ti spiace se chiudo la porta?» chiesi. Clair strinse gli occhi con aria perplessa e annuì. Mi sedetti su una sedia di pelle consunta di fronte alla sua scrivania di quercia. Nella sua qualità di funzionario della sanità pubblica di alto grado Clair avrebbe potuto pretendere che le arredassero l'ufficio con mobili costosi, armadi, tendaggi. Invece l'unico suo intervento sull'arredamento era stato sostituire le luci al neon con illuminazione diffusa dal pavimento e una lampada sulla scrivania, oltre a una sedia ergonomica che doveva costare dieci dollari in più di quelle su cui sedevano le impiegate agli sportelli. Nel mio lavoro è utile riuscire a leggere un foglio voltato al contrario. Vidi l'intestazione del modulo sotto la penna di Clair: RICHIAMO DISCIPLINARE. «Quel richiamo è per la dottoressa Davanelle», dissi indicando il modulo.
«Non credo che siano affari...» Clair fece una pausa e chiuse stancamente gli occhi. «Spiegami perché ho la sgradevole sensazione che una pessima mattina sia improvvisamente sul punto di peggiorare.» «È a casa mia», continuai. «Non è venuta a lavorare ieri, e non lo farà oggi perché è ubriaca. È ubriaca da sabato. È in pessime condizioni, Clair.» Lei buttò la penna sulla scrivania e si strofinò gli occhi. «Questo spiega molte cose. Negli ultimi sei mesi si è data malata sette volte. Di queste, quattro erano di lunedì. Ubriachezza da «weekend, immagino.» «Probabile.» «Sai bene come riesco a far funzionare questo reparto, Ryder. Ho tre patologi che si sobbarcano il grosso delle autopsie. Io cerco di fare più che posso, ma la maggior parte del mio tempo se ne va in questioni burocratiche. Ho bisogno di gente che rispetti l'orario e mantenga gli impegni.» «Si farà curare. È una malattia come un'altra, Clair.» Riprese la penna fra le dita e ne appoggiò il pennino sul richiamo disciplinare. «Non posso tenere qui un'alcolista, Ryder, nemmeno una in riabilitazione. La posizione che riveste richiede un'estrema attenzione al dettaglio. E in ultima analisi, per quanto brava o diligente possa essere, non è lei a risponderne. Sono io. Il mio reparto, la mia reputazione. Mi dispiace, ma con noi ha chiuso.» La punta della penna premette la carta. Colsi la parola eccellente nella casella di valutazione delle sue capacità lavorative e feci un ultimo tentativo. «La dottoressa Davanelle è in gamba nel suo lavoro? Eccellente, come dici tu?» «Considerando età ed esperienza, è la migliore che abbia visto. Quando ho selezionato i candidati per la posizione, l'unico che sia quasi riuscito a raggiungere la sua valutazione è stato il dottor Caulfield.» Caulfield era un patologo alle prime armi, assunto sei o sette mesi prima. Stava eseguendo un'autopsia sul corpo di un pregiudicato dedito a pratiche sadomaso, tal Ernst Meuller, quando una bomba celata nel basso intestino di Meuller era esplosa. Si supponeva che Meuller avesse rimorchiato un partner con la passione degli esplosivi, che i poliziotti, con il loro macabro senso dell'umorismo, avevano subito ribattezzato culobombardiere, il quale aveva atteso che Meuller si addormentasse per poi infilargli la bomba nel culo. Nei suoi piani, Meuller si sarebbe svegliato, avrebbe tentato di rimuovere il dispositivo, causandone l'esplosione e morendo in modo orribile. Ma Meuller aveva pensato bene di sventare i piani del culobombar-
diere morendo di attacco cardiaco nel sonno. La vittima era quindi diventata Alexander Caulfield, che aveva perso allo stesso tempo tre dita e la sua professione. Il caso era rimasto insoluto. «Se Ava era così brava, perché hai scelto Caulfield?» chiesi. Clair fece un respiro profondo. Posò di nuovo la penna sul tavolo e andò alla finestra. «Non penso che potresti capire, Ryder, anche se te lo spiegassi.» «Provaci.» Ci fu una lunga pausa mentre lei guardava verso le nuvole. «Io sono inflessibile e spietata», disse, come se stesse leggendo il suo profilo personale. «Pretendo il massimo dai miei collaboratori quando sono al lavoro e non ho alcun desiderio di interferire con la loro vita quando non lo sono. Questo è un lavoro duro, soprattutto per una donna.» Allungò il braccio e lo appoggiò alla finestra, come per accertarsi della sua esistenza. «Non mi sto lamentando, Ryder, ma le difficoltà sono radicate nel sistema e passeranno anni prima che possano essere eliminate. Devo essere dura perché tutto funzioni.» Si voltò verso di me. «Ma non ero sicura di riuscire a esserlo a sufficienza con una patologa donna. Avrei rivissuto le difficoltà che mi sono trovata ad affrontare io, avrei chiuso un occhio, mi sarei perfino...» Tracciò un movimento nell'aria come se stesse cercando la parola giusta. «Identificata con lei?» «Chiamalo come vuoi. L'intera dinamica dei rapporti interpersonali nel reparto sarebbe cambiata.» «Mentre con un uomo saresti riuscita a mantenere le distanze.» «Solo dopo... l'incidente del dottor Caulfield sono arrivata a chiedermi perché lo avevo scelto, quali erano state le mie vere motivazioni.» «E allora hai assunto la dottoressa Davanelle.» Tornò a sedersi dietro alla scrivania, sfiorando il modulo di richiamo con la punta delle dita. «La scelta era sempre stata solo fra lei e Caulfield. Erano su un livello superiore, rispetto agli altri candidati.» «Ma sei riuscita a evitare ogni possibilità di empatia, non è così, Clair? L'hai messa sotto torchio.» La sua voce divenne tesa, si mise sulla difensiva. «Era nuova e i principianti commettono errori, Ryder.» Mi si strinsero le budella. «Scommetto che le sei stata addosso da quando ha messo piede qui dentro, senza darle mai un attimo di tregua.» «Quando faceva errori glielo dicevo. «Doveva saperlo.»
Il palmo della mia mano colpì la scrivania e le parlai a denti serrati. «Certo che doveva saperlo. Le hai fatto passare tutto quello che hai passato tu. Nessuna simpatia, nessuna tolleranza, nessuna pietà. Frustala. Falle sapere cosa ha dovuto superare Clair Peltier. Sbattiglielo in faccia.» Le parole mi bruciarono la lingua. Non avevo idea di come avessi potuto pronunciarle. Clair scattò in piedi. «Non hai nessun diritto di parlarmi come se...» «Lei pensa che tu la odi, che l'hai sempre odiata e che vorresti non averla mai assunta.» «Non osare nemmeno pensare di poter...» Sembrò poi registrare le mie parole e un velo di confusione le offuscò il fuoco che le bruciava negli occhi. «Cosa hai detto, Ryder? Ripeti.» «Ava pensa che tu la odi e che vorresti licenziarla. È vero?» «Odiarla?» Clair sembrò vacillare, come se il pavimento le stesse tremando sotto i piedi. Si sedette, appoggiandosi ai braccioli della sedia con dita incerte. «Mio Dio, no, io... io credo che lei sia eccezionale. Penso che...» «Non la detesti?» «No, certo che no. Non ho mai voluto che lei pensasse che...» Distolse lo sguardo e batté più volte le ciglia. «Forse potrei...» «Credo che sia il momento di avere un po' di comprensione, Clair. Speriamo non sia troppo tardi.» Lei respirò a fondo e chiuse gli occhi. Quando li riapri prese la penna e la picchiettò contro il modulo. Quattordici volte. Si infilò la penna in tasca. «Le concedo tutta la settimana, prossimo weekend compreso, Ryder. Per problemi famigliari urgenti. Ma il lunedì successivo la voglio al lavoro, a posto e sobria. Alla prima trasgressione, anche minima, sarà fuori di qui per sempre.» Ero quasi alla porta quando Clair parlò. «Ryder?» «Sì?» «Perché è venuta da te? C'è qualcosa fra voi?» «No. Forse mi vede come un amico.» Stavo per chiudere la porta quando parlò di nuovo. «Carson?» Rimisi dentro la testa. «Sì, Clair?» «Lo so che sei nella merda fino al collo con il caso delle teste tagliate, ma cerca di darle tutto il sostegno che puoi. Per favore.»
Annuii e chiusi la porta. Non avevo mai sentito Clair dire per favore e non l'avevo mai vista così bella. 16 «Ho deciso di apportare alcune modifiche alla ripartizione degli incarichi», annunciò Squill distribuendo fogli attorno al tavolo come fossero carte da poker. Misi la mano sulla mia copia. «Aspetti a leggere, Ryder», disse. «Voglio che ci arriviamo tutti insieme.» Alla riunione c'erano i soliti partecipanti, oltre a Wally Daller, un sergente del distretto di Blasingame. Burlew stava facendo flessioni appoggiato alla parete, sottoponendo a un grosso sforzo le cuciture sul dorso della sua giacca marrone. Sentivo l'odore del suo sudore arrivare fino a me, come quando si apre la porta dello spogliatoio di una palestra. Aspettò che il suo padrone distribuisse tutti i fogli prima di sedersi. «Una delle ragioni per cui questo caso non va da nessuna parte è la mancanza di concentrazione. Manca un centro e mancano le comunicazioni fra i reparti coinvolti.» «Mi scusi, capitano», intervenni, «ma abbiamo riunioni ogni mattina.» Squill buttò i suoi fogli sul tavolo. «Un'altra delle ragioni per cui ci troviamo nella merda è che non posso dire due parole senza che lei mi contraddica, Ryder.» «Non la sto contraddicendo, la sto illuminando.» «Ne ho abbastanza delle sue battute di spirito.» Harry mi diede un colpo di gamba. «La stiamo ascoltando, capitano», disse. Squill aspettò fino a che il silenzio divenne greve di tensione, prima di continuare. «Stiamo facendo tutti le stesse cose. Dobbiamo specializzarci. Ogni squadra deve prendere un pezzo del puzzle e analizzarlo.» Cominciai a parlare ma Harry mi fece tacere con un colpo di ginocchio. Il capitano sfiorò il suo foglio con un'unghia fresca di manicure. «Ho ridistribuito gli incarichi. D'ora in poi Nautilus e Ryder si concentreranno solo su Deschamps. Voglio sapere il nome di tutti quelli con cui ha parlato negli ultimi sei mesi, ogni pasto che ha consumato, ogni donna che si è scopato anche in sogno.» Le mie mani strinsero il bordo del tavolo. Stai calmo. Respira. Squill continuò. «Per quanto riguarda Nelson, voglio che le indagini continuino allo stesso modo, ma sotto la supervisione del sergente Daller.»
Wally Daller? «Stai calmo, Cars», sussurrò Harry. Mi piaceva Wally. A tutti piaceva Wally. Era il nostro comico, raccontava più barzellette lui di uno spettacolo di varietà. Ma mancava totalmente di capacità di sintesi. Chiedigli di investigare una strada e verrà a dirti il numero di strisce bianche nel mezzo. Avevo idea che Nelson si trovasse su un punto d'incrocio invisibile di linee: la prima vittima, i documenti mancanti, un tipo di vita destinato a portarlo in contatto con personalità aberranti. Wally non aveva la minima idea di cosa si intendesse per diversi tipi psicologici. «Chiedo scusa, capitano», dissi, «ma Harry e io abbiamo già stabilito dei contatti con persone legate a Nelson. Stiamo scoprendo aspetti che potrebbero...» «Siete troppo coinvolti con queste persone. Abbiamo bisogno di nuovi occhi in grado di scorgere nuovi fili.» «Nuovi occhi? Vuol dire ricominciare tutto da capo?» «Vi state muovendo in cerchio, non sta funzionando», mi interruppe Squill. «Nel caso di Adrian mi sono mosso fra le vittime per stabilire...» «Fuori di qui, Ryder.» «Ha detto che ci muoviamo in cerchio. Cosa significa?» «Le ripeto... Fuori. Per oggi ha chiuso.» «Sono state uccise delle persone. Non ho chiuso proprio niente.» Mi sentivo la gola foderata di sabbia calda e la mia voce stava annaspando. «Esci», mormorò Harry. «Ogni volta che cerco di parlare con lei, lei mi interrompe per dirmi cosa sto sbagliando», continuò il capitano. «Considero l'insubordinazione una mancanza molto grave, caro signore. Se ne vada, prima che le tolga il grado di detective.» «Insubordinazione? Se lei pensa di...» «Fila», sibilò Harry. Accartocciai il foglio fra le dita mentre mi richiudevo la porta alle spalle. Tornai alla mia scrivania e attesi. Harry ricomparve dieci minuti più tardi. Ero in piedi prima ancora che avesse coperto metà della distanza fra me e la porta. «Wally. Ha messo Wally al comando delle indagini su Nelson, Harry. Vuole che non ci occupiamo più di Nelson. Perché?» Harry si lasciò cadere pesantemente sulla sedia e si strinse le tempie fra
le mani. «Allora, Harry, dimmi qualcosa. Non possiamo lasciare che...» «Sta' zitto, Carson. Per una volta, sta' zitto. Concedi un attimo di tregua alle mie orecchie stanche.» «Là fuori, Harry, per le strade, c'è uno che sta tagliando teste.» Calò il pugno sul tavolo, facendo sobbalzare tutto quanto vi si trovava sopra. «Pensi che non lo sappia? Pensi che non mi interessi, eh? Pensi di essere l'unico qui dentro a cui gliene freghi qualcosa?» Puntai l'indice in direzione della sala riunioni. «Non hai detto una parola, là dentro.» La mascella di Harry tremò. «Non dire a me quando e come devo muovere le labbra, okay?» «Perché non mi hai sostenuto?» «Per la stessa ragione per cui non scommetto su cavalli a tre zampe.» «Stavo cercando di evitare che ci togliesse il caso Nelson. Se mai scopriremo qualcosa, sarà da lì.» Harry alzò la mano, con il pollice e l'indice che si sfioravano. «Sei arrivato a tanto così da farci sbattere fuori da tutto, questo è quello che hai fatto.» «Squill non lo farebbe mai.» «Lo sta già facendo, solo che sei troppo scemo per accorgertene. Ti dà una stoccata e tu urli e lui corre da Hyrum a dirgli che sei uno stronzo insubordinato che ha avuto un colpo di fortuna una volta ma che adesso sta compromettendo le indagini. E a quel punto Hyrum gli dice: 'Okay, Terrence, fa' quello che ritieni giusto fare'.» «Possiamo risolvere il caso se solo ci viene concessa abbastanza autonomia.» Harry alzò gli occhi verso il soffitto. «Cosa c'è?» dissi. «Squill vorrà pure che il caso sia risolto.» «Sì, ma solo a modo suo e a condizione che il merito vada a lui. La cosa ti sorprenderà, Cars, ma non sei l'unico detective nel reparto di polizia.» «Questo è un caso per il Piss-it, Harry. È roba nostra.» «Chi te lo ha detto? L'uccellino che ti volteggia sul capo? Cresci, Carson. Qui, di nostro, c'è solo quello che Squill dice che è nostro.» «Il manuale dice che...» «Se il manuale ti dice che pioveranno fighe a mezzogiorno, cosa fai? Vai fuori con un cesto a raccoglierle?» Aprii il cassetto al solo scopo di poterlo richiudere con tutta la mia forza.
Sul vivavoce del telefono di Harry, la telefonista annunciò una chiamata in arrivo. «Dice di chiamarsi Jersey, Harry. Te lo passo?» Harry prese il ricevitore e si voltò, coprendo il microfono con la mano. Doveva trattarsi del vecchio Poke Trenary, un addetto alle pulizie in municipio. Spesso, quando ci eravamo trovati in quel palazzo di specchi, avevo visto il collega prendere per un braccio il vecchio Poke con la sua scopa e rintanarsi con lui in un angolo per mungergli qualche informazione in fretta. Harry posò il telefono e sibilò: «Maledizione». «Cosa è successo? I nordisti? I marziani?» «Pensavo che, siccome Hyrum va in pensione in settembre, sarà allora che decideranno chi sarà il nuovo capo. Non avevo tenuto conto del periodo di transizione. La decisione sarà presa nel corso della prossima assemblea esecutiva, che si terrà a porte chiuse. Non ci sarà ancora una votazione, ma valuteranno i fatti e faranno la scelta, che verrà resa pubblica dopo qualche settimana con un annuncio ufficiale.» «E questa incoronazione non ufficiale quando avverrà?» «Fra otto giorni.» «Otto gio... Adesso capisco perché ci stanno tagliando le gambe a questo modo.» «Esattamente. Squill ci terrà imbottigliati fino ad allora. Dopo di che non importerà più molto. O lui sarà diventato il vice, oppure no.» «Quali sono le previsioni di Poke?» Chiunque abbia un interesse per gli intrighi politici soffre un po' di paranoia. Harry si guardò attorno come per accertarsi che non ci fossero microfoni puntati verso di noi. «Non deve saperlo nessuno», sussurrò. Mi diedi una pacca in fronte. «Cazzo! Il telegiornale della CBS offre cinquantamila dollari per le indiscrezioni raccolte da Poke nei cestini della carta straccia del comune.» Harry sospirò. «Dice che le probabilità sono cinque a tre a favore di Plackett... e che Squill sta saldamente attaccato alla sua tetta.» «E così per nove giorni veniamo tenuti alla larga da Nelson. Non vogliono correre il rischio che gli risolviamo il caso prima della nomina, rimettendo tutto in discussione.» «Squill non gioca se prima non è assolutamente sicuro del risultato, Cars. Non gli piace rischiare.» «Vaglielo a raccontare al prossimo che si troverà di fronte Mister Cutter e il suo coltello affilato.» Harry andò a prendersi un caffè. Lo guardai mentre si faceva strada nel
labirinto di scrivanie, concedendosi il tempo necessario a riflettere. Quando ritornò, tre minuti più tardi, aveva un'espressione risoluta negli occhi. «Sembra proprio che dovremmo sbatterci per non avere nulla in cambio, in questo caso, collega. Sbrigare noi la maggior parte del lavoro senza prendercene i meriti. Sei disposto a farlo?» «Lo stiamo già facendo», gli feci notare, alzandomi e rimboccandomi le maniche. «Dobbiamo cercare di occuparci della capra e anche dei cavoli.» Harry scosse tristemente il capo. «Che proverbio è, Cars? I proverbi dovrebbero pur significare qualcosa!» Il portiere di condominio Briscoe Shelton non era per nulla contento di venire sottratto alla sua televisione: un film porno, a giudicare dalla musica techno e dai gemiti ululanti che si sentivano. Ero ritornato all'appartamento di Nelson, dopo che la nostra precedente ispezione era stata giudicata priva di alcuna utilità da Squill. Harry stava battendo i marciapiedi, rivisitando le persone con cui Deschamps era entrato in contatto. Stava facendo quello che tutti si aspettavano da lui, mentre io facevo quello che speravo potesse servire a qualcosa, dando un'ultima occhiata all'abitazione prima che arrivasse sulla scena Wally. Se il capitano fosse venuto a saperlo, mi sarei trovato su una piattaforma petrolifera a passare a Harry la cassetta degli attrezzi. «Cosa ne direbbe di piantarla di venire a ficcare il naso nell'appartamento in modo da dare a me una possibilità di affittarlo?» si lamentò Shelton dopo aver fatto il suo numero con il mazzo di chiavi. «Cosa ne direbbe di tornarsene a masturbarsi nel suo ufficio?» ribattei. Al diavolo le pubbliche relazioni: ci sono casi in cui proprio non ne vale la pena. Dentro l'appartamento sembrava di essere in una sauna. Regolai il condizionatore al massimo e mi misi alla ricerca di nuova terra da arare. Il contenuto della scatola di alluminio non era magicamente ricomparso, così mi dedicai al cassetto dell'armadio di Nelson, il tipico posto dove si accumula tutto quello che non serve più. Nel caso di Nelson si trattava di scatole di fiammiferi, pettini rotti, spazzole, pinzette scassate, un paio di cacciaviti, candele mezze consumate e, infine, dei menù di ristorante. Mi spostai sotto il condizionatore e sfogliai i menù. Pizza. Sandwich. Gamberoni. Costate. Ancora pizza. Erano tutti menù per consegna a domicilio. Il che concordava con la scarsità di stoviglie e utensili in cucina. Sta-
vo per passare ad altro quando notai un menù per il servizio in stanza dell'Hotel Oaks, a Biloxi, parte di un nuovo complesso dedicato al gioco d'azzardo. Ero stato con una mia amica all'Oaks pochi mesi prima, anche se, per la verità, avevamo cominciato la vacanza prendendo alloggio in un motel. Dopo qualche sperimentazione sulla dinamica dei fluidi ed esserci riempiti lo stomaco di cracker e formaggio, avevamo tentato la fortuna ai tavoli di blackjack dell'High Point Casinò, uscendone con in tasca una vincita di un migliaio di dollari. Avevamo immediatamente trasferito la sede delle nostre sperimentazioni all'Oaks, abbandonando ciò che ancora restava dei cracker e del formaggio. Due notti all'Oaks avevano trasformato la nostra vincita in vapore. O, più romanticamente, in ricordi. Ricordi di un letto tanto grande da richiedere un geometra per misurarlo, una jacuzzi con i rubinetti dorati e, giuro, un bidet, cosa che ancora oggi mi lascia perplesso. Anche se non rimpiango l'esperienza, alla fine ero contento di tornarmene a casa. Avevo raggiunto il limite. Per cui la domanda era: cosa ci faceva un gigolò da marciapiede con grandi aspirazioni e le tasche vuote in un posto come l'Oaks, ammesso che ci fosse davvero stato? Sfogliai il menù con l'unghia del pollice ricordandomi come, al casinò, l'unico occhio di un fante di cuori mi avesse ammiccato quando avevo sollevato il bordo della carta. Forse era giunto il momento di avere un pizzico di fortuna. «Ho da fare, amico», ringhiò la voce priva di inflessioni al telefono. «Posso concederle solo un minuto.» Ted Friedman era vicedirettore per la sicurezza all'Oaks Hotel, un uomo dalla voce infelice e con un accento del Midwest; Detroit, forse, o i quartieri popolari di Chicago. Mi dava l'impressione di avere in bocca un sigaro. Gli spiegai cosa volevo e sentii il battito di una tastiera nel sottofondo. «Se il suo uomo è stato da noi in passato posso sicuramente dirglielo. Vediamo... Nalen, Naughton, Navis, Naylor...» Mentre Friedman parlava mi immaginai un uomo tarchiato, scorbutico, immerso in una nuvola di fumo mentre leggeva liste di ospiti dell'albergo in un ufficio pieno di schermi televisivi che rimandavano le immagini dei corridoi e degli ascensori dell'albergo. «Nebner, Neddles, Neeland, Neeler, Neffington, Nekler, Nelson. Tre Nelson nello scorso anno. Linda Nelson di Opeleika, Russell e Patricia
Nelson di Green Bay e John e Barbara Nelson di Texarkana. È tutto, amico. Le è servito a qualcosa?» «Non era quello che stavo cercando.» «Bene, è stato un piacere parlarle. Addio.» Mi venne in mente la mania di Nelson per gli pseudonimi. «Aspetti un attimo, signor Friedman, il mio uomo aveva il vizio di anagrammare il nome.» «Tempo scaduto.» «Solo due minuti, signor Friedman. Cinque al massimo.» «Sto per riattaccare, amico.» Sentii il ricevitore lasciare il suo orecchio. «Di' un po', palla di lardo», gridai. «Sei mai stato uno sbirro?» Giuro che riuscii a sentire il telefono di Friedman tornare indietro. L'aria del suo ufficio doveva essere così densa di fumo da poterla tagliare col coltello. «Vent'anni con i federali, amico. Nel reparto alcool, tabacco, armi da fuoco ed esplosivi. Una vera forza di polizia, quella.» «E hai sempre detestato lavorare con le polizie locali, vero?» Un grugnito di soddisfazione. «Soprattutto con le polizie locali.» «Guarda un po'! Non lo avrei mai indovinato. Avresti anche voglia di spiegarmi perché?» Sentii il suo sorriso scorrere lungo il cavo. «La vendetta è un piatto che si serve freddo.» «Ah, sì? E io cosa ti avrei fatto di male?» «Solite storie. Le ispezioni. Le multe. Le tipiche stronzate da poliziotti di provincia.» «A me non sembra di averti mai visto.» «Sarà stato uno dei tuoi colleghi.» «Perché non ti scrolli di dosso il risentimento una volta per tutte, Friedman?» «Perché non ci dai un taglio? Ti ho dato quello che volevi.» «Il Nelson che interessa a me è all'obitorio, in questo momento. Solo il corpo, senza la testa. E ha un gemello sdraiato nel compartimento a fianco. Da un giorno all'altro, mi aspetto di trovare il terzo. Quando verrà fuori che qualche furbacchione all'Oaks avrebbe potuto dare una mano e si è rifiutato di farlo, finirà su tutti i giornali. Soprattutto quando si scoprirà che si tratta di un ex agente federale. Forse faresti meglio a discutere della cosa con il direttore delle pubbliche relazioni. Grazie per la collaborazione, Friedman.» Ci fu una pausa prima che Friedman parlasse. «Ti sei appena guadagnato
un'estensione di due minuti, amico», disse con voce dura. Mi chiesi se non si fosse ingoiato l'estremità del sigaro. «Cosa diavolo vuoi?» Sentii la voce di Hembree risuonarmi in mente. «Jerrold Elton Nelson, alias L'il Jerry, alias Jerry Elton, alias Nelson Gerald, alias Elton Jerson.» Mi ricordo perfettamente di tutto finché un caso è aperto, poi, non appena è chiuso, la mia mente lo cancella. «Prova Gerald. Puoi fare ricerche sia per nome sia per cognome?» Friedman sospirò. Sentii il sigaro venir spento in un portacenere di metallo, quindi una raffica sulla tastiera. «Non c'è nessun Gerald di cognome ma due casi di nome: Gerald Staunton di Montreal e Gerald Boyette di Memphis.» «No.» Per cinque minuti provammo ogni combinazione di nomi che ci venne in mente. Poi Friedman si schiarì la voce. «Sai una cosa», disse. «Ho appena pensato che il nome Elton si può anagrammare in Nolte, come l'attore.» «Prova a cercarlo.» Un'altra raffica di tasti seguiti da una pausa. «Guarda guarda... Ho trovato un E.J. Nolte di Mobile.» Le iniziali di Nelson, oltre all'anagramma del suo secondo nome. Il mio cuore saltò un battito. Friedman aggiunse: «Ha passato da noi quattro notti in maggio». Mi diede le date. «Come ha pagato, contanti o carta di credito?» «Contanti alla partenza.» «È normale?» Sapevo già cosa Friedman avrebbe detto. «Uhm. Uno arriva in città, vince, decide di stare da noi invece che al Piddle Inn. Facciamo una strisciata della sua carta di credito. Se paga in contanti, la strisciata viene stracciata. Tutto quello che ci resta è la sua scheda di registrazione in cui c'è una casella per l'indirizzo di casa e il nome della società per cui lavora. Quello che ha scritto Elton è Bayside Consulting. 321, Water Street, Mobile. È tutto.» Trascrissi i dati. «Nient'altro, Friedman?» «Be', Nelson si è trattato bene. Si è fatto servire tutto in camera, pasti completi, una lista lunghissima di ordinazioni dal bar, in quattro giorni hanno speso più di tremila dollari.» «Hanno?» «La prima notte sono segnati solo un secondo e un'insalata; gli altri giorni hanno mangiato per due. A meno che il suo soggetto non soffra di
personalità multipla anche per quanto riguarda l'appetito.» «Capisco.» «In ogni modo sembra proprio che ci fossero due persone a ordinare dalla cinquecentodiciannove, che, per inciso, è una suite: quattrocentosettanta dollari a notte.» «Per cui la tua valutazione professionale è...» «Per come la vedo io, detective, si direbbe che due persone siano rimaste chiuse in stanza con il cartello 'non disturbare' appeso fuori, senza mai uscire nemmeno a prendere aria.» Un controllo dell'elenco telefonico dimostrò che non esisteva nessuna Bayside Consultants. La società dei telefoni ne diede conferma. L'indirizzo risultò palesemente falso. Sia alla camera di commercio sia alla cancelleria del tribunale non c'era traccia dell'esistenza della società. Non che mi fossi davvero aspettato di trovare qualcosa. Era estremamente probabile che il viaggio di Nelson a Biloxi non avesse nessuna relazione con gli assassini. Il nostro gigolò doveva aver passato notti in hotel e motel disseminati in tutta la regione. Ma proprio poco tempo prima di morire, si era pubblicamente vantato di avere trovato la mucca giusta da mungere, un cliente, o una cliente, con abbastanza soldi da bruciarsi qualche migliaio di dollari in un lungo weekend di piacere. Chiamai casa. Nessuno rispose. Erano passate le otto della sera. Avevo sentito Ava alle sei e mezza, voce impastata di sonno, e le avevo detto che sarei tornato presto. Doveva essere andata a dormire e non aveva sentito il telefono, mi dissi; o forse era ancora troppo a pezzi per parlare. Lasciai una nota a Harry con il resoconto della giornata e partii per Dauphin Island. Il mio prossimo compito sarebbe stato confessare ad Ava di avere fatto la spia su di lei con il suo capo. «E io che mi sono fidata di te...» Dove diavolo era il mio zuithre? 17 Entrai in casa carico di roba da magiare, oltre a bevande energetiche per tenere Ava idratata e varie vitamine, che avevo comperato seguendo i consigli del mio precedente partner, Bear. Lo avevo chiamato mentre tornavo a casa chiedendogli cosa potevo aspettarmi da Ava. Uno spaghetti western, mi aveva risposto. Il buono, il brutto e il cattivo. Il problema era che dove-
vi fare indigestione degli ultimi due prima che il buono entrasse finalmente in scena. La porta della stanza da letto era chiusa. Immaginai che Ava stesse dormendo. Gli sportelli della credenza in cucina erano socchiusi e sospettai che avesse cercato liquori. Ero contento di aver preso anche il Listerine. Bussai alla porta della stanza senza ricevere risposta ed entrai. Non c'era nessuno. Controllai le altre stanze, ripostiglio, armadi. Niente. E c'era qualcos'altro che mancava: sessanta dollari dal cassetto della scrivania. In cambio mi aveva lasciato una promessa di pagamento malamente scribacchiata su un tovagliolo. Il telefono suonò. La mia mente fu invasa da immagini di poliziotti di Dauphin Island che chiamavano dopo aver trovato Ava a vagabondare per le strade. Potevo convincerli a lasciarla alle mie cure. Presi la cornetta. «Carson Ryder.» «Salve, fratello. Puoi crederci che questi stupidi infermieri del cazzo hanno perso un altro cellulare? L'ho tenuto nascosto. Sono così piccoli che ti basta un sacchetto di plastica e un po' di...» «Ti richiamo, Jeremy. Ho un'emergenza...» «NO, CARO. Ogni volta che ti chiamo tu trovi la scusa per riattaccare.» «Non sto scherzando, Jeremy. Una mia amica è nei guai.» «Oh?» La sua voce divenne un sibilo. «Si tratta di una donna?» «Che importanza ha?» «Ce la farà. Sono abituate a SOPRAVVIVERE, Carson. Sarà ancora qui molto dopo che gli ultimi scarafaggi si saranno estinti. Basta che non le chiedi aiuto, tutto il resto andrà bene.» «Sto per riattaccare, Jeremy.» Feci per mettere giù il telefono. «NELSON E DESCHAMPS, CARSON!» urlò. «DOV'È LA PASSIONE, FRATELLO?» Riportai la cornetta all'orecchio. «Ciao, Carson, bentornato. Ho letto i giornali. Prima non parlavano d'altro che dei gemelli senza testa, poi è arrivata la figlia del predicatore a occupare il centro del palcoscenico. Tutto quello che so è che le teste sono state separate dal corpo. Non si parla di ferite di arma da fuoco, di asce, di gente ridotta in polpetta con mazze da baseball. Era tutto a posto e pulito, fratello?» «Maledizione, perché ti sei fissato su questi casi, Jer...» «FISSATO, DICE LUI! Non mi sono affatto FISSATO, fratello. Piuttosto, perché non mi DICI NULLA?» Adottò un tono sobrio, da professore
di università. «Quello che a me succede quando tu mi dici delle cose, mio caro fratellino, è che io divento capace di viaggiare al di là dei miei attuali confini, con l'immaginazione, si intende, e di vedere i sentieri del mondo attraverso i tuoi occhi castani. È bello essere di nuovo all'esterno, come ai bei tempi del vecchio Joel Adrian. E ho pensato di poterti essere di nuovo utile leggendoti qualche mappa. Non ti sono stato di aiuto in passato, fratello? Voglio interpretare il tuo silenzio come un'affermazione.» Assunse la voce tremante di una vecchia. «Racconta a una povera vecchietta cosa è successo a quei cadaveri, Carson, per favore.» Feci un respiro profondo e guardai l'orologio. Gli avrei concesso un minuto, non di più. «Le uccisioni mancavano di... di espressione...» dissi. «Ah, ragazzo mio, sei davvero fantastico. Ma qui non si tratta di espressione. Si tratta di passione. SANGUE. PAURA. SESSO. FUOCO. DEVE esserci passione, Carson. Morsi. O tagli. O pezzettini di carne tagliati via. SOUVENIR. C'erano parole intagliate sul corpo? Mancava un dito? Gli avevano strappato l'uccello? Segnali di fumo che spuntavano da un buco di culo sfondato? DOV'È LA PASSIONE, CARSON? Odio perfetto o perfetto amore, rabbia perfetta o perfetta gioia. Ce ne può essere uno o ci possono essere entrambi, ma non ci può essere solo UNA VIA DI MEZZO.» Guardai la lancetta piccola completare un secondo giro. «Abbiamo pensato che l'espressione, la passione, potesse essere stata manifestata sulle teste.» «Ahaha», disse Jeremy. «Sur la tête. Sulla cabeza. Porti via la tela e lasci il pennello.» «C'erano dei tentativi di comunicazione, ma sembravano privi di logica.» «Oh, oh, a spizzichi e bocconi il fratellino racconta la sua storia. E in cosa consistevano questi tentativi, in parole?» Udii una sirena lontana. Un'ambulanza. Immagini di Ava ubriaca che camminava in mezzo alla strada mi invasero la mente. «Sì, maledizione, parole scritte sui corpi. Devo andare, Jeremy.» «Dimmi le parole, Carson, IN FRETTA!» Lo feci e lui cominciò a ridere. «Mi sembra che il nostro uomo non abbia ancora finito con i suoi amici senza testa. Credo che voglia di più, fratello. Prometti che verrai a trovarmi. Di' giuro.» «Giuro. Presto.» «Parleremo delle parole. Mi stanno facendo già venire delle idee. Pro-
metti di nuovo.» «Giuro.» «Non deludermi, Carson. Conosco bene i telefoni: la lingua si piazza di fronte al microfono e si mette a parlare da sola.» «Ho detto che verrò a trovarti e lo farò, Jeremy. Ne ho tutte le intenzioni.» «Ah, un briciolo di emozione. Sì, penso che ti vedrò. Quasi all'anniversario della nostra ultima, piccola avventura. Dovrai parlare con mademoiselle Prussy. Dille di mettere in conto un sacco di tempo da passare da solo con tuo fratello.» Coprì il telefono con la mano. «Oh, è così eccitante, Mamma, il nostro bambino sta tornando a casa...» Riattaccai e quasi schizzai fuori dalla porta ma mi fermai in tempo. Prima regola della pesca: pesca dove sono i pesci. Seconda regola: se non sai dove sono i pesci, chiedi consiglio. Telefonai a Bear. Ava che attraversa barcollando Bienville Boulevard, un'auto piena di adolescenti in festa che percorre la strada a velocità folle... «Salve, Cars, cosa posso fare per te? Come va con quella tua...» «Se l'è filata prima che tornassi a casa, Bear. Non credo che sia passato molto tempo. Dove pensi che sia andata a cercare da bere? Tieni conto che è una professionista...» «Nel primo posto che trova. Non è alla ricerca di compagnia fra gente del suo stesso livello sociale, Carson; sta cercando solo di far passare il dolore. È pratica del quartiere?» «No.» Ava che cammina sulla spiaggia, decide di fare una nuotata, una corrente l'afferra e la trascina al largo... «Non è passata di fronte a nessun bar o negozio di liquori quando è venuta da te ieri sera?» «Un paio. Ma era in stato comatoso.» «Gli alcolisti individuano i posti per bere come i gufi vedono i topi. Ci sarebbe entrata anche strisciando. Si fa un paio di bicchieri, abbastanza per rilassarsi e poi, magari, va a cercare un posto più gradevole.» «Grazie, Bear.» «Come ti ho detto, c'è posto per lei qui da me, Cars. Qui sarebbe al sicuro.» «Mi auguro che vada tutto bene, Bear. Ci si sente.» Andai alla porta poi mi ricordai dei suoi vestiti. Erano nell'essiccatoio.
Cosa si era messa? Come ogni pub con un arredamento ispirato alla nautica da Boston a Boise, il Wharf Bar & Grille aveva reti da pesca appese al soffitto, salvagenti alle pareti e falsi ormeggi a cui erano legate delle cime. I camerieri portavano cappelli da pirati. Il barista, nonché proprietario, Solly Vincenza, sorrise e venne verso di me. «Sto cercando una donna, Sol. Capelli castani, snella, un metro e sessantacinque...» «Con una T-shirt con su scritto Laissez les bons temps rouler? E probabilmente nient'altro sotto? E un berretto con la scritta Orvis?» La mia maglietta. Il mio berretto. «Proprio lei.» Solly scosse il capo. «Era qui un'ora fa, ha ordinato una doppia vodka e succo di pompelmo. L'ha afferrata a due mani, se l'è scolata in cinque secondi e ne ha chiesta un'altra. È stato allora che le ho visto gli occhi, brutti occhi di una che sta male. Le ho detto: 'Mi dispiace, signora, ma non posso servirle più niente; penso che farebbe meglio ad andarsene a casa'. Me ne ha dette di tutti i colori, ha buttato dei soldi sul banco ed è uscita. Ci sono problemi, Cars?» «Non è esattamente una serata da ricordare, Sol», mormorai. «Da che parte è andata?» Inalberò un'espressione triste. «L'ho vista andare in direzione della baia, dopo il porticciolo.» Il bar più vicino alla baia era un locale frequentato da operai, meccanici, marinai di barche a noleggio e simili. Mi ricordava quei posti squallidi che piacevano ai miei informatori. L'aria condizionata all'interno era così forte da far condensare il fiato, senza riuscire a eliminare il fetore di birra vecchia e vomito. Il barista era un uomo tozzo con occhi bovini, tagli di rasoio sul cranio e una catena blu tatuata attorno al collo. Se fosse stato un bulldog, lo avrei chiamato Spike. Stava contando i soldi in cassa mentre parlava con gli altri clienti: tre carpentieri, a giudicare dalle macchie di catrame sui vestiti e sulle scarpe. «Sto cercando una donna...» urlai nel tentativo di farmi sentire sopra al frastuono del jukebox che vomitava musica heavy metal degli anni Ottanta per il piacere dei lobotomizzati. «Non sei il solo, amico», interruppe Spike. Sorrisi. «Un metro e sessantacinque, snella, capelli castani, maglietta...» «Come una vergine», canticchiò uno degli avventori mentre gli altri gli
facevano coro sghignazzando. Ero finito in un ritrovo di comici d'avanspettacolo. «È importante», dissi. «Credo abbia problemi seri.» «Se tu sei il suo uomo, amico, direi proprio di sì.» Ci metto un po' a capire le cose, ma alla fine ci arrivo. Avevo cominciato la giornata da Clair e mi ero abbigliato con una certa cura, abito intero e cravatta. Entrando là dentro ancora vestito così, avevo involontariamente scatenato un piccolo conflitto di classe. Non ne accadono spesso su un'isola creata apposta per il piacere dei ricchi, ma, quando succede, la situazione può diventare spiacevole. Si possono affrontare buttandocisi contro a testa bassa, oppure cercare di girarci attorno, cosa che in genere funziona meglio. Tirai fuori il portafoglio e posai cinquanta dollari sul banco, appoggiandoci sopra il dito. «Andiamo, ragazzi», continuai sorridendo. «È importante. Lo sapete come vanno queste cose, no? Abbiamo litigato, e se voi riuscite a darmi una mano, il conto stasera lo pago io.» Improvvisamente, avevano una scelta: andare avanti a provocarmi e perdere cinquanta dollari o ubriacarsi gratis. Spike diede un'occhiata avida al denaro, sapendo che sarebbe tutto finito nelle sue tasche. «Se n'è scolata un paio, poi se n'è andata», rispose. «Aveva tanto l'aria di chi è in cerca di guai.» «Che direzione ha preso?» «Se n'è andata via insieme ai fratelli Gast. Quelli che hanno una barca giù vicino a...» «So dov'è», lo interruppi, andando verso la porta mentre i tre cominciavano a ordinarsi da bere. Mi sentii alle spalle la voce gioviale di Spike mentre la porta si chiudeva. «Meglio che stai lontano dai Gast, amico. Quella è gente capace di strapparti la faccia per poi cagarci dentro.» A partire da duecento dollari, a seconda della stagione, si può noleggiare un motoscafo da pesca per mezza giornata. Con quei soldi ti assicuri anche i servizi di un capitano che sa il fatto suo, conosce maree e correnti e sa anche dove trovare i pesci. Dai quaranta ai sessanta dollari sono invece sufficienti per trovare posto con altri passeggeri su una di quelle che chiamano party boat e avere il diritto di incrociare la tua lenza con quelle di altre cento persone per quattro ore. Il venti per cento dei clienti avranno lo stomaco pieno di birra e soffriranno di violenti attacchi di mal di mare. In
genere sono quelli seduti di fianco a te. I fratelli Gast erano i proprietari del Drunken Sailor, un tugurio galleggiante che aveva la peggior reputazione di tutte le party boat dell'isola. Ma questo i turisti non lo sapevano e i Gast riuscivano a guadagnarsi da vivere navigando per poche miglia e affittando ai clienti canne da pesca talmente vecchie da incepparsi regolarmente, se non da disintegrarsi del tutto. Se uno sprovveduto voleva tenersi i pesci pescati, i fratelli gli addebitavano una vergognosa tariffa extra in cambio di un paio di cubetti di ghiaccio e di un sacchetto di plastica dove metterli. Alla fine, spesso e volentieri, la guardia costiera finiva per rimorchiare i fratelli Gast fino al porto, cosa che sospettavo essere provocata intenzionalmente al solo scopo di risparmiare carburante. I Gast erano ancora più sporchi e brutti della loro barca, feccia della peggior risma, con la moralità di uno squalo. Vivevano in una baracca di legno sulla terraferma e andavano avanti e indietro da lì a Dauphin per la gestire loro attività. Il Drunken Sailor era ormeggiato al molo. Lì di fronte, in un'area attrezzata per picnic, c'erano alcune figure che si muovevano nella luce fioca di una lampadina gialla in cima al palo del telefono. L'aria era impregnata dell'odore di pesce marcio. Spensi i fari, parcheggiai e percorsi correndo il centinaio di metri che mi separavano dall'area per picnic. Ava era seduta a un tavolino intenta a bere a canna da una bottiglia di vodka Dark Eyes. La mia maglietta non la copriva molto. Johhny Lee Gast, circa cento chili di pura fogna, aveva una zampa sulla coscia di Ava. Earl, una mezza cartuccia che parlava sempre troppo e troppo forte, le stava appoggiato addosso, ridendo e sorseggiandosi una birra così rumorosamente che sembrava intento a fare gargarismi. «Okay, la festa è finita», dissi, entrando nel fascio di luce. Ava si voltò verso di me con un sorriso. «Carson! Sai cosa? Jimmy e Lee mi portano fuori in barca. Vieni anche tu.» Scosse la bottiglia come fosse una campana e inghiottì un sorso. «Muoviti, Ava, si va a casa», le ordinai in tono tranquillo, perfettamente conscio che la cosa non sarebbe stata per nulla tranquilla. Sapevo come si comportavano i Gast quando c'era da pestare. Il piccolo Earl faceva da esca e Johnny Lee era la trappola. Sapevo anche che Johnny Lee, una volta che cominciava a picchiare, non si fermava più e i tre anni che si era fatto in carcere per omicidio colposo lo dimostravano. «Dai, Carson, fermati a bere qualcosa.»
«Questa è una festa privata, Ryder», disse Johnny Lee. «Andiamo, Ava.» «Ho detto che è una festa privata, ragazzo», ringhiò Johnny Lee dal profondo delle viscere. «Sparisci.» Earl aveva una voce stridula e acuta, quasi infantile. «Cosa pensi di fare, Ryder? Sarai anche un detective a Mobile, ma qui sei una merda qualsiasi. Mio fratello dice di levarti di torno, per cui faresti meglio a sparire, stronzo.» «Dai, ragazzi, comportatevi bene», disse Ava, e ruttò. Fece una risatina. «Scusate.» Quando fai l'agente di pattuglia per un po' impari alcune lezioni. La prima è che in un combattimento non ci sono regole; il trucco è di mettere l'altro K.O. prima che possa farti male. Se preferisci non estrarre la pistola, la miglior risorsa che hai è il manganello. Mi è stato insegnato a usarlo, in modo sia legale sia non, da due professionisti; il primo era un mio collega esperto di karate e il secondo il mio buon amico Akini, che aveva studiato le tecniche Koga di combattimento col bastone e le aveva integrate con il kendo. Tengo sempre un manganello corto nel cofano della macchina. In quel momento era infilato nei miei pantaloni. «Forza, Ava, muoviti», ripetei. «Ti preparo un goccetto a casa.» I suoi occhi si illuminarono. «Promesso?» «Giuro.» Ava cercò di alzarsi facendo traballare il tavolo. Earl l'afferrò, chiudendole una mano a coppa su un seno. Lei sembrò più interessata a controllare il livello della bottiglia. «Addio, Ryder», sibilò Johnny Lee. «Non lo dirò un'altra volta.» «Credo che andrò via con Carson», cinguettò Ava. «Grazie, ragazzi.» Cercò di allontanarsi da Earl, ma lui l'agguantò per il polso. «Hai le orecchie piene di merda, Ryder? È per questo che non riesci a sentire?» Johnny Lee stava avvicinandosi quasi impercettibilmente. Earl tirò Ava verso di lui e mi parlò da sopra la sua spalla. «Ehi, Ryder, ehi, Ryder! La signorina dice di essere un medico. Che fai, giochi al dottore con lei, Ryder? Ehi, Ryder, guardami. Ti ho chiesto se ti piace giocare al dottore con la signorina. L'hai già visitata?» «Piantala di sputarmi nelle orecchie», si lamentò Ava, cercando di respingere Earl. «E togli la mano dalla mia tetta.» «Lasciala andare, Earl», dissi, allungando la mano verso il manganello. «'Fanculo», ribatté Earl spingendomi Ava addosso.
Johnny Lee mi colpì le gambe da dietro come una carriola piena di mattoni. Ava mi evitò mentre cadevo al suolo. Urtai il mento contro la spalla e delle scintille blu mi esplosero davanti agli occhi. Earl mi tirò un calcio mentre rotolavo cercando di allontanarmi. Johnny Lee mi si avventò contro e io lo colpii con una manganellata sugli stinchi. Urlò e saltò indietro. Le luci del porticciolo danzarono sulla superficie oleosa dell'acqua mentre continuavo a rotolare fino a raggiungere l'orlo del molo. Avevo lasciato cadere il manganello. Johnny Lee mi diede un calcio sul fianco e sentii un urlo, il mio. Cercai a tentoni la mia arma ma Johnny Lee riuscì a piazzarmi un altro calcio sul braccio. Se mi avesse colpito al volto sarebbe stata la fine. Gemetti e rotolai ancora e mi sentii il manganello sotto la schiena. Riuscii a infilare un dito dentro il laccio da polso, ma in quel momento Johnny Lee mi piombò addosso e mi cinse il collo con un braccio grosso come un prosciutto. Mi spinse la faccia nella sabbia. Il mondo cominciò a diventare sfocato. Avevo in bocca il sapore del sangue e capii che stavo per svenire. Sentii Earl ridere, cento miglia lontano. Mi spinsi su con il gomito ma la mia faccia ripiombò subito nella sabbia. Mi sembrava che la mia testa turbinasse nel buio. Afferrai il manganello con entrambe le mani e, con l'ultimo filo d'aria che mi restava, lo spinsi all'indietro, sopra le mie spalle, come una lancia. Un grido, vicino, mi sfondò il timpano e sentii la stretta allentarsi. Mi alzai barcollando, vacillai, respirando a pieni polmoni, aspettando che il mondo finisse di girare. Johnny Lee stava contorcendosi come un verme tagliato in due, le mani sopra l'occhio, gridando di essere diventato cieco. Lo colpii ripetutamente sugli stinchi e sulle spalle, tanto per distrarlo dal male all'occhio, dicendogli cosa pensavo degli uomini che si approfittano delle donne ubriache. Earl si trovava già a una trentina di metri di distanza e stava allontanandosi a velocità crescente. Quando il mio braccio si stancò di martellare Johnny Lee, lo lasciai andare e lui strisciò via come una lumaca, lasciandosi dietro una scia bavosa e puzzolente. Ava era svenuta sul tavolo. Me la caricai in spalla e la trasportai di peso fino al mio pick up. «Ava, tutto ciò sarebbe maledettamente divertente se non fosse maledettamente serio», le spiegai. Per tutta risposta mi vomitò sulla schiena. 18
Fino a quando non ero stato testimone dei penosi tentativi di ritorno alla vita di Bear dopo una sbronza, non avevo mai avuto idea di quanto tossico fosse l'etanolo, tanto che, al confronto, faceva impallidire il veleno di un cobra. Alle sei del mattino, mentre stavo mettendo i piatti nel lavandino dopo aver finito di fare colazione in terrazza, sentii dei gemiti provenire dalla stanza da letto dove dormiva Ava. Si era aggrovigliata la coperta intorno e stava tremando senza riuscire a controllarsi, i pugni chiusi sotto il mento. I brividi arrivavano in ondate spasmodiche: attacco, tregua, attacco. Bear aveva descritto questa fase come qualcosa di simile all'essere divorati vivi dalle termiti. Mi sedetti accanto a lei, rimuovendole ciocche di capelli dagli occhi. Si strinse ancora più le coperte addosso. Aveva le labbra incartapecorite; le portai un bicchiere di succo di mela e le sostenni il capo perché potesse succhiare dalla cannuccia. Ricadde sul letto, un braccio sopra la fronte. «Cosa è successo ieri sera?» mormorò, gli occhi nascosti sotto il braccio. «Sei andata a fare un giro. Grazie a Dio, ti avevo attaccato addosso un'etichetta con sopra il mio indirizzo.» Vide i graffi sul mio viso e chiuse gli occhi. «Non hai niente da bere?» Sfiorai il bicchiere che aveva accanto. «Succo di mela. Acqua minerale. Gatorade. Tè. Caffè.» «Qualcosa di più forte. Solo un po'. Sto tanto male. Ho davvero bisogno di bere, Carson. Cristo, ne ho bisogno, ti giuro! Mi aiuterà ad andare a lavorare.» «Oggi non vai a lavorare.» «Mi licenzierebbero. Devo tornare a casa, lavarmi e andare in studio.» Si alzò appoggiandosi sul gomito ed ebbe un sussulto. Le avvicinai la bacinella e lei ci svuotò dentro il contenuto dello stomaco. Ricadde sulla schiena, gli occhi rossi e umidi, il sudore che le bagnava la fronte. «Dammi da bere, solo un bicchierino, ne ho bisogno. Perderò il lavoro, Carson.» Abbassai le palpebre e feci un respiro profondo. «Non si aspettano che tu ti presenti a lavorare oggi, Ava. Ho parlato con Clair del tuo problema. È tutto a...» «Oh, Dio, no... non glielo avrai detto. Dimmi che non glielo hai detto.» «Se riesci a non bere lei ti...» «Perché mi hai fatto questo? Oh, Dio, oh, cazzo, oh, Dio...» Cercai di spiegarle ma lei non mi ascoltò e si rifugiò sotto le coperte. Il tempo scarseggiava. Mancavano cinque giorni a lunedì, e se Ava non cer-
cava di trovare più aiuto di quanto potevo darle io, non ce l'avrebbe mai fatta. Andai in cucina, telefonai a Bear, presi degli accordi e tornai nella stanza da letto. Non potevo pensare che a due modi di convincerla a incontrarsi con Bear: quello calmo e ragionevole, che era anche il più sicuro. Oppure prenderla di petto, insultandola e mettendola in ridicolo. Se pensavo che il suo spirito fosse debole, che mancasse di sicurezza, potevo solo usare il primo. Decisi mentre entravo in camera. I capelli sembravano esserle stati messi in piega da un tornado. «Forza, esci di lì, ovunque tu sia.» «Vaffanculo, me ne vado. Sono senza lavoro.» Mi appoggiai al muro e incrociai le braccia. «Dipende da te.» «Sei tu quello che ha detto alla Peltier del mio...» «Le ho detto la verità. Non sei in grado di lavorare. Non puoi nemmeno stare in piedi.» «Ce l'avrei fatta a tirare avanti tutta la giornata, in qualche modo, a stare meglio. Ma no, il nostro Carson Ryder del cazzo deve andare a spettegolare con la grande dottoressa Peltier.» «Pensi davvero di essere in grado di eseguire un'autopsia da ubriaca, Ava?» «Non sono mai andata a lavorare ubriaca!» Contrasse la mascella e distolse lo sguardo. «Certo, troppo orgogliosa per farti vedere sbronza, vero? Ammirevole. Fatevi avanti, signore e signori! Venite a vedere il vanto dell'obitorio della contea, Ava Davanelle, regina delle sbronze e martire straordinaria. Ma non avvicinatevi troppo, se avete addosso delle scarpe nuove.» «Sei un bastardo pezzo di merda.» Mi sedetti ai piedi del letto. La mia mano toccò la sua gamba coperta e lei la tirò via di scatto. «Fin dove credi di poter arrivare, regina delle sbronze? Non rispondere a me, rispondi a te stessa. Fin dove credi di riuscire ad arrivare?» I suoi occhi mi fecero capire che se avesse avuto un coltello sarei finito a cantare in un coro di castrati. Mi alzai e mi infilai le mani nella cintura. «Ecco cosa faremo, Vodka Girl. Ti ho preso un appuntamento. Non mi guardare a quel modo: non è in un ospedale e nemmeno in un centro di disintossicazione, ma con un mio amico, Bear. Passiamo da casa tua, ti dai una lavata e ti prendi dei vestiti puliti.» «Puoi ficcartelo nel culo il tuo appuntamento, stronzo. Mi hai rovinato la vita. Portami a casa subito.»
«Resterai qui finché non mi avrai promesso che ti incontrerai con Bear.» Non avevo nessuna garanzia che, anche se l'avesse data, avrebbe mantenuto la parola. Era solo una mia sensazione. «Col cazzo. Adesso chiamo un taxi.» Le diedi il mio cellulare. Ci smanettò per un po'. «Non funziona.» «Gli ho tolto la batteria. E il telefono di casa è chiuso a chiave nell'armadio.» Mi abbassai mentre il telefono mi volava sopra la testa rompendosi contro il muro, plastica e circuiti elettronici che esplodevano in giro come schegge di granata. «Faccio venire la polizia e dico che mi stai trattenendo contro la mia volontà.» «Ordina il polpettone.» «Cosa?» «Il carcere appalta il servizio mensa al Windbreaker Cafè. Il polpettone è ottimo.» «Sono io che chiamo la polizia, non tu.» Scoppiai a ridere. «Ti hanno vista in troppi ieri sera passare da un bar all'altro come una puttana ubriaca, bambola! Gli sbirri non ti daranno retta. E se non basta: ho anche la testimonianza di un tassista che dirà che non avevi i soldi per pagarlo, e di baristi che ti hanno vista spendere troppo. Ti ricordi di avermi fregato sessanta dollari? O te lo sei dimenticato nei fumi dell'alcool?» Non mi presi la briga di ricordarle la cambiale che aveva sottoscritto. La sua bocca si aprì e si richiuse come un pesce in secca. «Lurido bastardo.» «Hai due modi per tornare a casa, Ava. Prometti di fare quello che ti chiedo oppure...» Le afferrai la mano e la studiai. «Il tuo pollice è abbastanza sobrio per fare l'autostop?» Strappò via la mano e cercò a fatica di mettersi seduta. «Puoi stare certo che è proprio quello che farò.» Le spiegai la situazione in tre passaggi: «Vuoi andare a casa? E io voglio che tu ti veda con Bear. E voglio che tu prometta di farlo.» «Voglio andare a casa adesso!» Quello che lei voleva, secondo Bear, era far cessare il dolore e il senso di colpa, il che significava ingurgitare altro alcool. Avevo il morale più in basso del tacco dello stivale di uno stalliere, ma Bear mi aveva raccomandato di non cedere. Aveva anche detto che se Ava si fosse ubriacata di
nuovo non sarebbe mai riuscita a riprendersi in tempo per tornare al lavoro lunedì. «Voglio andarmene di qui, subito!» Era con le spalle al muro. Indicai la porta. «Quella è la porta, Ava, come ti ricorderai da ieri. Un momento. Non ti ricordi di ieri sera, giusto? Ecco la storia. La nostra graziosa patologa passa da un bar all'altro. Si ritrova, con indosso solo una maglietta e un berretto, e sotto niente biancheria, con i fratelli Gast, un paio di sporchi topi di fogna privi di qualsiasi senso morale. L'ho trovata seduta a un tavolo da picnic con le gambe spalancate e le tette sballonzolanti. Earl Gast stava giocherellando con le tette di nostra signora, ma lei era troppo ubriaca per accorgersene. I tre amiconi erano in procinto di farsi una bella crociera notturna.» La guardai fisso negli occhi. «Al largo nel golfo, sola su una barca con i fratelli Gast. Indovina un po' quale sarebbe stato il prezzo che ti avrebbero chiesto per la crociera, Ava? E avresti continuato a pagarlo e ripagarlo per tutta la notte.» Lei chiuse gli occhi e ne sgorgarono lacrime. Ascoltai le onde infrangersi per una dozzina di volte prima che si decidesse a rispondere. «Prometto», disse rabbiosamente, anche se sapevo che la rabbia non era indirizzata a me. «Hai vinto.» «Non è una gara», feci io. «Siamo dalla stessa parte.» Ava disse di aver bisogno di quindici minuti nella sua stanza e chiuse la porta. Mi venne in mente troppo tardi che poteva avere del liquore nascosto. Aprii le tende nel soggiorno, in sala da pranzo e lasciai entrare la luce del sole Il suo arredamento era eclettico, dal coloniale al contemporaneo, ma armonioso. Le pareti erano tappezzate di quadri, riproduzioni ben incorniciate: Van Gogh del periodo di Arles, campi e fiori della Francia di Monet. Notai diverse opere multimediali di un artista che non conoscevo, composizioni di vernice, seta, fogli di metallo che rappresentavano uccelli astratti congelati nel tempo appesi alle pareti rosee. Aprii e richiusi gli armadietti della cucina finché non mi imbattei in una bottiglia di vodka a 70 gradi Dark Eyes piena per un terzo. Nient'altro. Né liquori, né Porto, né brandy per celebrare occasioni speciali, solo la mistura per ottenebrare il cervello ad alta velocità. Versai la vodka nel lavandino e rimisi la bottiglia nell'armadio. Stavo ammirando i quadri nel soggiorno quando Ava ricomparve. Bastò la sua espressione spossata a farmi capire che non aveva nessuna riserva
segreta nascosta in bagno o nella stanza da letto. Si era messa addosso un paio di jeans sbiaditi e una maglietta con una scritta del St. John's Hospital. Si era fatta una doccia e aveva ancora i capelli bagnati. Una delle stringhe delle Reebok bianche frustava il pavimento a ogni passo. Eravamo già sulla veranda quando lei mi toccò il braccio. «Oh, il portafoglio. L'ho dimenticato. Vado a prenderlo, Carson, tu intanto accendi il condizionatore in macchina.» Bear mi aveva detto che quelli degli Alcolisti Anonimi dicono che fare sempre la stessa cosa aspettandosi ogni volta risultati diversi è sintomo di pazzia. Salii sul pick up e aspettai che Ava scoprisse che la bottiglia era vuota, temendo che avrebbe finito semplicemente col chiudersi in casa a chiave e aspettare che me ne andassi. La via d'uscita più facile. Irruppe fuori dalla porta un minuto dopo, facendola sbattere così forte da farmi sentire l'onda d'urto a sette metri di distanza. Marciò con passo deciso fino all'auto e salì a bordo, una furia fredda dipinta sul volto. «Andiamo e facciamola finita», sibilò. Il signor Cutter portò le fotografie nel suo ufficio. Doveva prendere delle decisioni e non aveva più molto tempo. Gli restavano tre possibilità, anche se in realtà gliene serviva solo una per completare il progetto. Esaminò le immagini barricato dietro la protezione della porta sbarrata. Gli uomini nelle foto appartenevano allo stesso stampo: spalle larghe, vita e fianchi stretti, differenziandosi solo per il colore degli occhi e dei capelli e per la muscolatura più o meno sviluppata. C'era qualcosa che non andava. Doveva essere preciso. La selezione era il momento più importante, l'incarnazione finale: Ragazzo, Uomo, Guerriero. Il Ragazzo e l'Uomo erano stati perfetti, ma per il Guerriero ci voleva una furia cruda e una forza indomita. E la misura giusta. La Mamma poteva fondere l'acciaio con lo sguardo e aveva bisogno di un uomo che fosse all'altezza. Riprese la foto e tornò a studiarle. Le possibilità di scelta per il Guerriero sembravano essersi ristrette negli ultimi giorni. O forse stava andando oltre i suoi stessi sogni. Una nuova visione di guerriero gli si formò nella mente. Appoggiò le fotografie a faccia in giù sul tavolo. Conosceva già il suo uomo, lo aveva visto, lo aveva sentito parlare. Si vedeva subito che era un combattente, un vendicatore. Sarebbe stato un avversario degno per Mamma? Quello che l'avrebbe presa, uccisa, salvata?
Si. Era un guerriero e aveva la forza necessaria. Il signor Cutter si sistemò meglio sulla sedia. Ancora una volta, l'universo gli aveva risposto. Prima la Mamma, poi la barca, ora il Guerriero. Stupendo. Non doveva fare altro che impadronirsi del Guerriero. Passi fuori dalla porta e voci di colleghi. I parassiti stavano tornando. Presto avrebbero bussato alla sua porta. Mi serve, mi serve... Il signor Cutter raccolse le foto e gli appunti ormai inutili. Mise le foto una sopra l'altra, allineandole ai bordi, e tirò fuori dalla tasca della giacca una busta. Le ripose attentamente nella busta prima di ripiegarla, facendo combaciare il lato destro con quello opposto, quello su cui era stampato l'indirizzo del mittente, Bayside Consultants. «Non voglio stare qui.» «La prima volta non lo vuole nessuno. Prego, dopo di te.» Aprii la porta laterale di una piccola chiesa sconsacrata nella parte sud del centro, uno dei posti dove si riunivano quelli degli Alcolisti Anonimi. Ava entrò di malavoglia in una stanza spaziosa, con sedie e tavoli, un biliardo, un vecchio flipper e due distributori di gomme da masticare. Gli avvisi affissi a un tabellone annunciavano gli orari degli incontri e feste da ballo senza alcool. Sul fondo c'erano degli scaffali con libri e riviste. E una scala portava al piano superiore. C'era anche un banco con roba da mangiare. Dietro il banco, un anziano con i capelli alla Einstein stava riempiendo una caffettiera. Quattro uomini giocavano a carte a un tavolo. Due donne giocavano a biliardo e scambiavano battute con gli uomini al tavolo. Tutti scoppiarono a ridere. Un tizio in abito elegante stava seduto da solo in un angolo, bevendo tè e leggendo il Wall Street Journal. Stava fischiettando e cincischiando la cravatta. Ava studiò i volti delle persone con la coda dell'occhio. «Dove sono quelli che... che hanno problemi?» «Tutt'attorno a te.» «Gente che beveva? Ma se stanno ridendo!» «Ridono perché non hanno bevuto.» Lei cominciò a tremare e scattò verso il bagno coprendosi la bocca con la mano. Il tipo alle prese con la caffettiera sorrise. «Nuova?» chiese. «Prima volta», risposi. «L'ha portata nel posto giusto. Lei appartiene all'associazione?» «No. Credo comunque nella sua efficacia.» Mi fece segno con il pollice alzato e ritornò a occuparsi del caffè. Ava
ritornò due minuti dopo, il viso rosso e gli occhi umidi. Stava ancora tremando, i sintomi dell'astinenza aggravati dalla paura per il posto, che a quello stadio le ricordava solo quello che lei era in quel momento, invece di quello che poteva diventare. «Non posso stare qui, andiamo via, Carson. Torniamo domani.» Dei passi pesanti risuonarono lungo le scale, passi che annunciavano Bear, un Bear in jeans e felpa blu e un berretto da baseball che copriva ciuffi ribelli di capelli castani. Un abbraccio da centoventi chili mi sollevò dal pavimento come un sacco di piume. La gioia di Bear era elettrica, palpabile. «Ma guardati», esclamò. «Sei sempre il solito, magro e cattivo e con lo stesso sorriso da idiota di sempre.» «Non lo stesso sorriso da idiota, Bear, c'è un miglioramento.» Bear si rivolse al tipo del caffè. «Ehi, Johnny, questo è il mio vecchio compagno di pattuglia, Carson.» Einstein ritornò al banco. «Sei tu quello che ha rubato la carriola per portarcelo qui?» Bear si rivolse ad Ava. La mano di lei sparì nella sua stretta massiccia. «Ciao, Ava. Carson mi ha raccontato tutto di te.» Ava si voltò verso di me come se l'avessi tradita una volta di più. Bear le posò con delicatezza il braccio sulle spalle. «Sei un po' agitata?» le chiese conducendola verso la scala. «Avresti dovuto vedere me la prima volta che sono venuto qui... Carson mi ha mollato sul pavimento come fossi un sacco di mattoni; io urlavo come un pazzo, tremando come una foglia...» Bear si voltò verso di me e mi strizzò l'occhio. Poi portò Ava di sopra, un gradino per volta. Lei restò con Bear per un'ora, dopo di che la portai a casa. Ognuno di noi due aveva mantenuto quello che aveva promesso. «Pensi di farcela?» Guardò la sua casa poi di nuovo me. «Senti, Carson, volevo dire...» Le passai un dito sulle labbra. «Cerca solo di non metterti nei guai.» Ci fu un momento di imbarazzo, cenni del capo, parole appena accennate, finché lei non si girò e non se ne andò. Quando la porta si chiuse sentii un sibilo acuto perforarmi la mente mentre cercavo di ricordare come si guida, quali comandi fanno cosa. Le mie mani avevano perso la capacità di afferrare e mi ero dimenticato cosa stavo facendo e dove stavo andando. Dopo aver fatto un respiro profondo finalmente riuscii a coordinare i movimenti e l'auto cominciò a muoversi.
«Carson, aspetta.» Pestai sul freno, mi girai e vidi Ava correre impacciata verso di me. «Ho paura di quello che potrebbe succedere. Non potrei... sarebbe troppo se ti chiedessi...» La sua mano si era stretta attorno al mio braccio. Sembrava uno straccio sfilacciato e strizzato. Ma c'era qualcosa di nuovo in lei: un senso di determinazione, ancora labile ma in formazione, come pezzi da troppo tempo staccati che vengono presi da un'inesorabile forza di gravità e si congiungono, spinti dal bisogno di essere una sola cosa. «Andiamo a fare i bagagli», dissi. In quel momento l'aria si fece di velluto. 19 «E da quello che dice questo Friedman tu pensi che Nelson stesse spassandosela a Biloxi», disse Harry, sfilandosi la cravatta verde e infilandola nella tasca esterna della giacca. L'estremità penzolava all'infuori, come la testa schiacciata di una rana. «Tutte le spese pagate, sembrerebbe.» Un gruppo di agenti di pattuglia del turno diurno entrarono da Flanagan schiamazzando, felici di essersi finalmente tolti l'uniforme, liberi per un altro giorno. Io e Harry rivolgemmo cenni di saluto alle facce conosciute e ritornammo a guardarci. Avevo lasciato Ava a casa mia ed ero ritornato per incontrare Harry, scambiarci informazioni e mangiarci un piatto di zuppa di pesce insieme. Harry era contrariato da una giornata passata a scarpinare su e giù per le strade, seguendo tracce che non conducevano da nessuna parte. Appoggiò il cucchiaio nel piatto vuoto. «Probabile che non c'entri nulla.» «C'è sempre il tizio che Shelton ha visto in compagnia di Nelson. Quello che non era come gli altri. E poi c'è Nelson che va a raccontare in giro di aver trovato la gallina dalle uova d'oro.» «E allora? Messer ha detto che era il suo ritornello: diceva sempre di essere sul punto di fare il colpo grosso.» «Nelson è stato il primo. Qualcuno ha sottratto del materiale dal suo appartamento. Deve esserci una pista che collega Nelson con qualcun altro.» Harry pizzicò una corda invisibile nell'aria, come se stesse suonando un'arpa. Silenzio. «Sì, lo so», borbottai, lasciandomi cadere pesantemente sulla sedia.
«Cos'è che ti preoccupa?» chiese lui. Guardai attraverso il locale uno degli agenti raccontare di quando aveva fermato un tipo sospettato di guida in stato di ebbrezza e di come quello non era nemmeno riuscito a superare la prova di camminare lungo una linea retta. L'agente teneva le braccia aperte come un funambolo, vacillando, mettendo la punta di un piede davanti all'altra. Gli spettatori ridevano e applaudivano. «Si ritorna sempre alla mancanza di passione», borbottai, usando le stesse parole di mio fratello, una volta di più sfruttando le sue idee e detestandomi per non avere altra scelta. «Non è un assassinio di vendetta, né un assassinio seriale, ma qualcosa di diverso. Manca un senso di finalità. Non vuole semplicemente la morte delle sue vittime. Vuole molto di più.» Harry mi scoccò un'occhiata dubbiosa. «Come farne degli zombie, cioè? Dei morti viventi?» «Dei morti che lavorano. Hanno un compito da svolgere. Solo che non so quale sia.» Dall'altro lato del bar l'agente completò la messa in scena inciampando e cadendo a faccia in giù sul pavimento. Il pubblico era entusiasta. Harry guardò, si accigliò e rivolse di nuovo lo sguardo verso di me. «Non so, Cars. Ho già la testa abbastanza in confusione a cercare di ricordarmi le scene e le vittime e dove era uno e dove era l'altro.» «I corpi si assomigliavano», dissi facendo tintinnare la forchettina di plastica contro il bicchiere da cocktail. Bing. «E non c'è troppa differenza di età.» Bing. «Sì, ma è tutto. Le scene del delitto non hanno molto in comune.» Diedi un colpetto al bicchiere e presi in esame i posti dove erano stati ritrovati i corpi. «Uno all'aperto, l'altro all'interno.» Bing. Un colpetto per l'ora. «Uno di giorno, uno di notte.» Bing. Un colpetto per i colori. «Una vittima bionda, l'altra scura.» Bing. Un colpetto per la posizione sociale. «Uno un professionista, l'altro un balordo.» Bing. Harry prese la forchettina, la spezzò in due e me la restituì. «Perfino la temperatura era all'opposto. Al parco si bolliva, a casa di Deschamps si moriva di freddo.» Ci pensai su per un attimo. «Faceva davvero freddo, no? Non era solo una mia impressione.» «Ho dovuto mettermi la giacca. Era una ghiacciaia.» Sentii una nota risuonare da qualche parte, piano ma distintamente. «Anche con la porta che continuava ad aprirsi, gente che andava e veniva»,
dissi. «Forse l'assassino ha messo il condizionatore al massimo per tenere il corpo al fresco il più a lungo possibile.» «Avevo uno zio che riusciva a stare nudo nella cella frigorifera di una macelleria. A casa sua potevi vedere il fiato condensarsi. Forse Deschamps era un tipo così.» «La sua fidanzata tornava dalla costa ovest ogni giovedì. Bastava un niente perché fosse in ritardo di ore. E se l'assassino l'avesse saputo?» «E il corpo di Nelson? Cosa è stato a preservarlo? Lasciato nel parco in una notte afosa. Se non fosse stato per due ragazzi arrapati, Nelson sarebbe rimasto ad arrostire per ore.» Mentre Harry arricciava il naso al pensiero, la mia mente si concentrò su Bowderie Park. Il corpo in piena luce. Il parco deserto. Lo spavento dipinto sul volto di chi lo aveva visto. La gente che correva con le camicie madide di sudore, che si era fermata a osservare, tenendosi al largo, continuando a saltellare sulle gambe per non perdere il ritmo della corsa. Corridori. Il sentiero tortuoso che percorre il parco per tutta la sua lunghezza. Andai quasi di corsa alla cabina telefonica a prendere l'elenco. «Philips, Philips, Philips», dissi, facendo scorrere le dita sui nomi. Harry fece una smorfia perplessa. «Quella del consiglio comunale?» «Vive nella zona di Bowderie Park.» Chiamai Norma Philips e le spiegai chi ero e cosa volevo. Lei fu premurosa e gentile. Controllò l'elenco e mi disse che la persona con cui avrei dovuto parlare era Carter Sellers, aggiungendo di richiamare se c'era altro che poteva fare. Mi presi una nota mentale di votare per lei alle prossime elezioni. «Casa Sellers», rispose la voce al telefono. Sentii un televisore a basso volume sullo sfondo. Dissi chi ero e andai subito al punto. «Ho sentito che lei, signor Sellers, appartiene a un gruppo di persone che si allena correndo con regolarità.» Fece una risatina. «Ci chiamiamo i Night Rangers. Nessuno ha tempo di giorno, così ci ritroviamo due volte la settimana a smaltire un po' di calorie nel quartiere.» «Seguite dei percorsi regolari?» «Sì, abbiamo un percorso di quasi cinque chilometri.» «Passate per Bowderie Park?» «Sarebbe un peccato stabilire un percorso e non passare per il parco. Certo.»
«Ci sareste passati anche giovedì sera, se non ci fosse stato l'omicidio?» «Naturalmente. Alle dieci e quarantacinque, secondo più, secondo meno.» «Siete sempre così puntuali, signor Sellers?» «Un vecchio che passa le serate seduto sulla sua veranda ci chiama treno svizzero: siamo sempre in orario.» «Ogni giovedì?» «Martedì, giovedì e sabato, che piova o faccia bello.» Feci un'altra telefonata a una persona che non avrei voluto disturbare, poi tornai da Harry. «Cheryl Knotts, la fidanzata di Deschamps, dice che il termostato era stato regolato su otto gradi. Non sa spiegarsi il motivo. Dice che la temperatura era una delle cose su cui lui e lei litigavano: a lei piace il freddo, lui preferiva il caldo.» Harry annuì, cominciando a capire. «L'assassino non poteva controllare la temperatura nel parco, ma sapeva che i Night Rangers sarebbero passati di lì alle dieci e quarantacinque.» «In punto», disse. «Ha messo in luce la sua mercanzia non per il semplice gusto di metterla in evidenza...» «Ma perché venisse portata al fresco al più presto possibile. Non voleva che si deteriorasse.» «Quanti sono quelli che vedono un cadavere, dopo il suo ritrovamento?» Avevo bisogno di sentirmelo ripetere a voce alta. Harry contò i partecipanti sulle dita. «I poliziotti. Poi il medico legale e il suo staff. I criminologi. Quelli delle impronte digitali. I tecnici della Scientifica. I detective. Gli autisti delle ambulanze. I passanti.» «Dopo di che lo portano all'obitorio.» «Assistenti. Patologi. Qualcun altro della Scientifica, forse. Altri poliziotti. Infine quelli delle pompe funebri.» «Forse l'assassino stava cercando di mandare un messaggio a qualcuno nell'elenco, Harry. Credo che possiamo scartare i passanti e quelli soggetti a turni, vigili del fuoco e personale delle ambulanze. Non sono sempre gli stessi. Idem per quelli delle pompe funebri.» «Restano gli addetti dell'obitorio e i criminologi. E noi.» Mi misi la mano a coppa dietro l'orecchio. «Lo senti, Harry?» Colpì il bicchiere con l'unghia. Bing. 20
«Ho cominciato a bere dopo che è morto mio fratello. Due anni fa. A bere forte, cioè. L'alcool mi è sempre piaciuto, da quando ho trangugiato la mia prima birra, a sedici anni. Mi faceva sentire... come dire... sveglia, intelligente. Andavo bene a scuola e facevo tutto quello che si supponeva dovessi fare, ma mi sono sempre sentita stupida. Come se stessi solo fingendo.» Ava e io passeggiavamo sulla spiaggia, calpestando la sabbia. Era mezzanotte e non c'era nessuno, a parte noi e le onde e un timido accenno di brezza. «Tuo fratello», dissi. «Me ne hai parlato, una volta. Lonnie?» «Lane. Aveva quattro anni più di me. Lo chiamavo Smoke perché si muoveva silenziosamente. Spesso, quando ero seduta sulla veranda a leggere, veniva, mi indicava una nuvola e mi diceva tutte le forme che ci vedeva...» Aveva cominciato a parlare dal momento che ero entrato in casa, un flusso di pensieri disparati, collegati fra loro solo dal fatto che lei voleva esternarli. Avevo anche capito che voleva parlare del suo problema col bere, per poterlo vivisezionare e osservarlo. Voleva capire come trovare riparo quando i fulmini della tempesta le esplodevano nella mente, come convogliarli in modo che si scaricassero innocui a terra. «Passavamo pomeriggi interi a osservare le nuvole. Altre volte stavo a guardarlo mentre disegnava...» Ci incamminammo verso casa, attraversando la cresta di piccole dune. «L'ho sempre visto come un artista vero, non come un ragazzo che studiava arte e basta. Sorprendeva tutti con le sue capacità e con la sua intuizione. Ho sei dei suoi quadri a casa.» Mi ricordai dei lavori multimediali appesi alle pareti di casa sua, quelle gioiose ma controllate esplosioni di colore. «Li ho visti. No, non è esatto: ci sono stato risucchiato dentro.» «Hai notato quello vicino al divano? Rosso, oro e verde. Si chiama Corvi. La maggior parte di noi li vede come uccellacci neri e sporchi. Lane ha guardato oltre, vedendone la loro bellezza. E con me faceva lo stesso: mi faceva vedere posti che a me erano nascosti, dove io ero bella. Mi chiamava spesso, o veniva a trovarmi, quando andavo ancora a scuola. Mi aiutava ad andare avanti, a mettere a fuoco i miei obiettivi. Mi sentivo così viva quando c'era lui!» «Come è morto?»
Si fermò. Dietro di lei, lontano, sopra la costa, vidi un turbinio di stelle. Ragazzi con fuochi d'artificio, in un anticipo della festa del quattro di luglio. «Si è suicidato», mormorò. «Abbiamo scoperto che andava da uno psichiatra da anni. Depressione. Ha buttato la nostra famiglia nella disperazione.» Guardai i fuochi d'artificio senza dire nulla. «Ho ripensato a tutte le volte che mi era sembrato così felice, così vivo. Ma aveva questo... questo cancro mentale dentro, una bestia coi tentacoli che continuava a crescere finché lo ha strappato a me, alla sua famiglia, a tutto. «Ho cominciato ad andare in pezzi allora. La mia rabbia si è buttata sul bere. Non sono andata a scuola e mi sono ubriacata per un intero semestre. A scuola sapevano di Smoke... di Lane. Hanno pensato che avessi bisogno di un periodo di riposo per riprendermi.» Le mise un braccio sulla spalla. «E lo stavi facendo, Ava. Solo, non nel modo corretto.» «Quando ho cominciato a lavorare qui... non c'era Smoke da chiamare la sera, nessuno che mi dicesse che tutto sarebbe andato bene. Potevo avere avuto una giornata infame con la dottoressa Peltier, tornavo a casa, mi facevo un bicchiere e improvvisamente era mattina e io ero sul divano con una bottiglia vuota in cucina. Resistevo fino al weekend e poi crollavo di nuovo. Poi me ne vergognavo così tanto che...» Chinò il capo. «Cristo, Carson, ho una laurea in medicina e non so nemmeno da dove cominciare a spiegare una dipendenza da alcool. Bere, per un alcolista, è il massimo dell'irrazionalità. Eppure, nonostante l'addestramento professionale e scientifico, bevo. È una follia.» Restammo in silenzio a guardare le luci dei fuochi stagliarsi nel cielo finché non sparirono. Tornammo a casa. Sentii della musica, Louis Armstrong che cantava Stars fell on Alabama. Harry era seduto nella sua vecchia Volvo verde con una bottiglia di birra in mano. Ci sentì mentre ci avvicinavamo e spense lo stereo. «Scusa se ti disturbo, Cars, ma c'erano un paio di cose di cui volevo parlare.» Feci le presentazioni mentre salivamo i gradini della veranda. «Harry, questa è Ava Davanelle; Ava, Harry Nautilus.» «Ci siamo incontrati in occasione di alcune autopsie», disse Harry ad Ava.
«Forse non sono stata una compagnia piacevole. Mi dispiace.» «Non ci ho nemmeno fatto caso, dottoressa. Tendo a tenermi a distanza quando si cominciano a vedere gli intestini.» Entrammo. Ava prese il libro che le avevano dato agli Alcolisti Anonimi e disse che andava a leggere. Harry si sedette sul divano e si chinò in avanti prendendosi un ginocchio fra la mani. «C'è qualche miglioramento, Cars?» chiese quando la porta si richiuse dietro ad Ava. «Stanca e con i nervi a pezzi, ma sta almeno cominciando a parlarne. Bear dice che è un buon segno. Cosa ti conduce qui sull'isola, fratello?» Harry guardò con disdegno il tè freddo che gli avevo messo di fronte. «Non hai nulla di forte, Cars?» «Nel baule della macchina.» «Non mi dispiacerebbe un goccio di whisky.» Andai a prendere la bottiglia di Glenlivet dall'auto parcheggiata sotto casa e mi venne in mente quando avevo trovato la vodka nella macchina di Ava. Mi trovavo proprio sotto la stanza da letto e potevo sentire le assi scricchiolare sotto i suoi passi. La mia scatola in aria sopra un'isola. La marea stava scendendo; le onde erano un mormorio pacato a cento metri di distanza. Ascoltai Ava andare avanti e indietro e sperai che potesse trovare conforto nella mia piccola dimora. Che potesse fare per lei quello che aveva fatto per me. Quando ero ancora al primo anno di college, stanco delle continue domande - «Non è che sei parente per caso di...» - e delle bugie con cui rispondevo, avevo cambiato il mio nome da Ridgecliff a Ryder. Avevo preso il nome da Albert Pinkham Ryder, il pittore del diciannovesimo secolo celebre per i dipinti di uomini in barca su mari scuri e tempestosi. Cambiare nome non era stato che uno dei tanti cambi che avevo fatto a quei tempi, tutti con lo scopo di distruggere l'indistruttibile realtà di essere il figlio di un sadico e il fratello di un uomo che aveva ucciso cinque donne. Avevo lasciato l'università per arruolarmi in marina, ripreso gli studi, cambiato piani di studio come si cambiano scarpe. Le ragazze duravano a malapena il tempo di un pasto. Cambiai pettinatura, automobili, modo di parlare, abbonamenti ai giornali. C'era stato un anno in cui avevo cambiato cinque indirizzi. Ma ogni mattina, al risveglio, ero sempre io. Mia madre morì. Volevo usare i soldi del'eredità per comprarmi una roulotte e conservare il resto per avere una magra rendita. Quando passi dodici
ore al giorno dormendo, vivere solo dell'essenziale non è un grosso problema. Un giorno, mentre pescavo sulla battigia, avevo visto la casa. Era sollevata da terra, nell'aria, ma i pali che la sostenevano erano solidi. Le finestre erano ampie. La terrazza si apriva su una distesa infinita d'acqua. E aveva di fronte un cartello che diceva VENDESI. Non riuscii a togliermela dalla testa, arrivando perfino a sognarmela, a volte come una casa, altre come un elmo. La comprai due settimane più tardi, sapendo perfettamente che avrei dovuto trovarmi un lavoro per mantenerla. Ispirato dal commento di Harry sul fatto che sarei potuto essere un buon poliziotto, mi arruolai scoprendo che era un lavoro dignitoso e utile. Mi aiutò anche a vedere per la prima volta con chiarezza tutto quello che per anni era stato davanti ai miei occhi. Durante i primi mesi di servizio sulle strade imparai che gran parte delle sofferenze e delle miserie che vedevo nascevano dall'incapacità delle persone di staccarsi dal proprio passato. Vecchi rancori degeneravano in odio, l'odio in colpi di pistola. I drogati procedevano inesorabilmente dall'ultimo arresto alla prossima fiala. Le puttane si rimettevano sempre con vecchi magnaccia che un giorno le avrebbero uccise, direttamente o indirettamente. Non farlo, dicevo a facce confuse da percorsi che si sentivano obbligate a seguire. Fermati. Pensaci. Non deve essere così per forza. Il passato non è altro che una serie di ricordi. Non ne sei schiavo. Cambia, prima che sia troppo tardi. Parlavo a me stesso. Uno degli aspetti più sconvolgenti dei cambi epocali nella consapevolezza di sé - una rivelazione, se vogliamo - è che sono ineffabili, al di là di quello che si può descrivere. Per cui posso solo dire che un normalissimo pomeriggio di mille e cinquantadue giorni fa, aprii un cassetto chiuso a chiave nei recessi più profondi del mio armadio e ne presi un coltello dal manico nero che avevo visto conficcare nelle carni di un porcellino che urlava disperato. Un coltello che Jeremy aveva nascosto in cantina. Lo infilai sotto la camicia e presi il ferry che attraversava la baia di Mobile. A metà percorso, senza una cerimonia, senza nemmeno guardarlo un'ultima volta, gettai il coltello in mare, a tenere compagnia ai relitti di guerre antiche. Il ferry mi riportò a casa: la mia casa qui e ora. Credo che, se è vero che noi siamo prigionieri del nostro passato, è altrettanto vero che siamo noi i nostri stessi carcerieri. Mi voltai per tornare di sopra e udii ancora i passi di Ava sulle assi. Si fermò direttamente sopra di me e, per un momento, fummo allineati su una
retta verticale, dalla sabbia alle stelle. Dalla punta delle dita sentii sorgere un desiderio che, per quanto bruciante, mi parve sciocco e bizzarro, e a cui opposi una breve resistenza. Poi allungai il braccio per toccare con la mano i travetti sopra il mio capo. Erano di legno, rozzamente levigati e incrostati di salsedine, ma alle mie dita parvero una sacra reliquia che univa la fragilità umana a una fede infinita... forse l'ossatura della luce. Sentii la porta aprirsi e Harry chiamarmi nella notte, chiedendo dove fossi. 21 Versai a Harry uno scotch e soda e ci sedemmo in sala. Lui si fece rigirare il bicchiere fra le dita e disse: «Dopo che sei andato a casa stasera, sono rimasto ancora un po' al Flanagan. Indovina chi è arrivata? Rhea Plaitt». «Quella dell'ufficio legale.» «Gran donna, sexy e in gamba. Chiacchieriamo del più e del meno, poi parliamo di Bayside e lei mi dice che non c'è nessun problema, lo Stato ha un data base di tutte le società registrate. Tira fuori un portatile, lo collega alla presa nel muro e comincia a battere tasti. In un attimo ti tira fuori i dati di una società chiamata Bayside Consultants. Fondata due anni fa. Unico proprietario, si occupa di valutazioni e perizie di macchinari sanitari. Piuttosto vago.» Sentii un brivido scorrermi lungo la schiena. Mi chinai in avanti. «Unico proprietario. Segno di solito di piccola attività. Che altro?» Harry guardò i suoi mocassini neri e scosse il capo. «Allora? Dai, vai avanti», lo incitai. «La cosa comincia a farsi confusa.» «Cosa stai dicendo?» Lui guardò e rispose: «La Bayside Consultants appartiene a Clair Peltier». Mi si bloccò il respiro. Chiusi gli occhi e sentii il ronzio del frigorifero, lo sgocciolare della doccia nel bagno, il respiro di Harry. Sentii Ava girare una pagina del libro che stava leggendo a sette metri di distanza dietro una porta chiusa. «C'è una spiegazione molto semplice», dissi. «La Peltier passa molto tempo fuori città, non è vero?» «Fa molte consulenze, Harry, quasi tutte fuori città. E ci sono i seminari, i convegni.»
«Sarebbe interessante sapere se ha partecipato a un convegno nel periodo in cui Nelson era a Biloxi.» Dopo che Harry se ne fu andato, cercai di rilassarmi sulla terrazza ma era una notte senza vento e le zanzare erano tanto fitte da formare una coperta ambulante. Quando andai a letto, la mia mente stava proiettando film poco piacevoli: Nelson, Clair, spettri di mondi lontani che convergevano in ombre torbide. Sentii le molle del materasso scricchiolare sotto Ava. Bear aveva preannunciato che avrebbe fatto fatica a dormire: l'alcool altera l'orologio biologico e produce sogni intensi e inquietanti. Dopo essermi infilato una maglietta e un paio di boxer, bussai alla sua stanza e dissi, visto che nemmeno io riuscivo a dormire, che magari potevamo provare a non dormire insieme. Era sotto una trapunta. Batté con la mano sul letto al suo fianco. Mi sdraiai e ci unimmo insieme in una oscurità temporanea e bene accetta. L'alba era alle porte quando i miei sogni vagabondi evaporarono. I miei occhi misero a fuoco Ava, voltata verso di me con la testa appoggiata al cuscino e le mani strette sotto il mento. Mi mossi adagio, uscendo dal letto, senza svegliarla. Mi destai del tutto fra le onde, rinfrescate dalla corrente che veniva dall'oceano. Il sole era offuscato dalla foschia, l'aria già ribollente di calore. Mi tolsi il sale con una doccia fredda sotto casa e rientrai sentendo odore di caffè. Mi vestii e andai in cucina trovando Ava seduta al tavolo a leggere il giornale. Un bicchiere di succo d'arancia e un piatto con briciole di pane tostato le stava davanti. «Ho visto che nuotavi», disse. «Perché vai così al largo? Non puoi limitarti ad andare su e giù costeggiando la spiaggia?» «Vado più lontano che posso finché proprio non ce la faccio più, poi mi volto e torno indietro.» Mi guardò con un sopracciglio alzato. «Odio fare esercizio», spiegai. «Così facendo, o nuoto, o affogo. Non è male come incentivo.» Lei scosse il capo. «Posso capirlo.» La guardai. «Oggi hai un aspetto migliore.» Accennò agli abiti che indossava: maglietta rosa, jeans bianchi, capelli legati dietro da un nastro color oro. «Abbigliamento sportivo standard per alcolisti in riabilitazione.» «Mi riferivo a te», dissi. «Stai riprendendo colore. Le tue...»
«...mani non tremano più così tanto», mi interruppe, tenendo il bicchiere di succo d'arancia con il braccio teso. Bevve un sorso e lo posò. «Ho dormito bene», continuò. «Altre volte, dopo... no, accidenti, ho sempre dormito male quando ho cercato di smettere dopo una grossa sbronza, ma stamattina, quando mi sono svegliata, ti ho sentito respirare, e ho pensato: Sono al sicuro. E mi sono riaddormentata.» Mi avvicinai a lei e le mie dita trovarono le sue spalle e cominciarono a massaggiargliele delicatamente. Ava girò il collo e appoggiò la guancia contro la mia mano. Il sole accarezzò il tetto della casa a est e la cucina si illuminò lentamente attraverso le tende. Particelle di polvere brillarono come fiocchi di neve nell'aria illuminata dai raggi del sole. Li guardai risplendere e mi sentii stranamente in pace. «Ho pensato a quello di cui abbiamo parlato la nostra prima notte», disse. «Ho un quadro un po' confuso, ma ricordo che abbiamo discusso della somiglianza fra Deschamps e Nelson, come fossero praticamente identici, salvo che Deschamps aveva una muscolatura più accentuata.» Mi sedetti al suo fianco. «Gemelli, o fratelli, avevi detto, con uno che faceva più esercizio dell'altro.» «C'è un'altra cosa che mi è venuta in mente.» Mandò giù un altro sorso di succo d'arancia e scandagliò i ricordi. «Il giorno dopo l'inaugurazione del nuovo obitorio, abbiamo avuto a che fare con un morto per trauma cranico. Un ragazzo di diciannove anni del nord della contea. Ce lo ha portato la polizia di contea e io ho eseguito l'autopsia.» Me ne ricordavo, ma non era sotto la nostra giurisdizione per cui non ci avevo fatto molta attenzione. «Era fondamentalmente dello stesso tipo fisico, alto e snello, arti lunghi, pelle liscia e senza difetti, niente peli.» «Muscolatura?» «Molto simile a quella di Nelson. Probabile che sollevasse pesi, con una tendenza a esercizio prolungato con pesi leggeri, con il risultato di avere maggiore incisività e minore mole muscolare, specialmente nelle braccia e nelle spalle.» «Causa della morte?» «Colpito alla testa con un oggetto tondeggiante e non affilato. Una pietra poco più grossa di una palla da baseball, a giudicare dalle ferite. O qualcosa di simile.» La linea era disturbata, il segnale debole, e feci fatica a parlare con il
sergente Clint Tate della polizia di contea di Mobile a bordo della sua auto di pattuglia a Citronelle. «C'era stato un rave party, una folla di ragazzi in un campo di angurie», disse Tate, in un sottofondo di scariche come se qualcuno stesse schiacciando un intero sacco di noci. «Non riusciamo mai a sapere nulla in anticipo dei rave e, anche se lo sapessimo, non credo che potremmo comunque fare molto. Pagano un paio di centinaia di dollari a un contadino per affittare un campo, portano un generatore per le luci e la musica e il gioco è fatto. Il morto in questione era un ragazzo di nome Jimmy Farrier, uno studente della South Alabama University. Mai nessun problema con la legge, nulla. Un ragazzo a posto che viene a sapere di un party e decide di andare a vedere com'è. Il caso è ancora aperto ma siamo piuttosto a corto di agenti.» «Com'è successo?» «La ricostruzione più attendibile è che la vittima abbia fatto incazzare qualcuno. Un colpo alla testa inflitto con forza con un oggetto non affilato nel letto asciutto di un torrente nei boschi, a trecento metri da dove si svolgeva il rave. Ci ha messo un po' a morire.» «Niente di particolare sul corpo? Che so, segni sul collo, come se qualcuno avesse tentato di tagliare?» «Tutto quello che ricordo era che i vestiti erano...» ci furono una serie di scoppiettii sulla linea e sembrò che Tate stesse affogando «...vestiti... lampo... collo.» «Può ripetere, sergente? Non ho capito.» «Ho detto che gli avevano aperto i vestiti. Lampo dei pantaloni aperta. Camicia tirata su fino al collo.» «Nessuna pista?» domandai, gridando per farmi sentire sopra le interferenze. Per un attimo la linea si chiarì abbastanza da farmi sentire il sergente Tate sospirare. «Soltanto duecento ragazzi mezzi nudi e fatti di droga che ballano in un cerchio di luce e attorno nient'altro che bosco. Una situazione da sogno per un assassino, detective.» «Quando hai finito, Carson, mettimeli sulla scrivania.» Vera Braden mi lasciò con tre raccoglitori in una delle salette dell'obitorio. Non c'erano né Clair né Will Lindy, quel giorno, impegnati in qualche discussione sul budget. Vera non sapeva quando sarebbero tornati. Scelsi un primo piano di Farrier dalle fotografie scattate quando era arri-
vato all'obitorio. Una faccia infantile quadrata e senza barba, con esplosioni di acne. Orecchie a sventola e basette corte. Sulle labbra e sui denti c'erano tracce di terriccio del campo dove era caduto. Poi presi una foto di tutto il corpo e la confrontai con una foto simile di Jerrold Nelson. Quello che vidi erano i corpi di due fratelli gemelli. Taglia, muscoli, definizione, tono della pelle, tutti simili. Perfino l'ombelico e i capezzoli sembravano intercambiabili. C'era un tatuaggio di un pesce spada grande come una moneta sopra il capezzolo sinistro di Farrier. Anche Nelson aveva un tatuaggio, il drago orientale sopra la scapola destra. Estrassi una foto di Deschamps dal raccoglitore e la misi a fianco a quelle degli altri due. Fu come se un terzo fratello fosse entrato nella stanza, forse più vecchio, più forte, con una massa muscolare maggiore sulle braccia, le spalle e le cosce. Spinsi via la foto di Deschamps e mi concentrai sui gemelli. Perché decapitare Nelson e non Farrier? Studiai le foto frontali di Nelson. Come Deschamps, era stato ripreso supino, il viso rivolto verso l'alto. La perdita di colore in seguito alla morte era confinata alla schiena. Notai che Farrier presentava due aree più scure e controllai nella cartella. Nelle riprese ravvicinate sembravano lividi. Sentii dei passi alle mie spalle. Resistetti alla tentazione di nascondere le foto. La porta si aprì e comparve Walter Huddleston, il vecchio assistente. I suoi occhi mi penetrarono come raggi laser, poi si spostarono sulle foto. Grugnì e richiuse la porta, tornando, forse, alle sue bare. Lessi il rapporto sull'autopsia di Farrier, immaginandomi la voce di Ava che declamava nell'aria a beneficio di chi trascriveva. «Contusioni sulla cassa toracica indicanti forti colpi inferti prima della morte, compatibili con scarpe sportive dalla punta arrotondata o simili. Congettura: due calci assestati con violenza al corpo che giace al suolo...» Rimisi tutto a posto e riportai i tre raccoglitori a Vera. Feci schioccare le dita mentre mi allontanavo. «Mi è appena venuto in mente, Vera... sto preparando una ricostruzione temporale e ho bisogno di vedere la lista delle autopsie di maggio.» Alzò gli occhi sopra le lenti da lettura. «Tutti i rapporti mensili vengono trasmessi alla dottoressa Peltier. Li tiene in un armadio chiuso a chiave nel suo ufficio.» Mi strinsi nelle spalle. «Non fa niente. Gli darò un'occhiata la prossima volta.» Passai di fronte all'ufficio di Clair. La porta era aperta e io guardai den-
tro, senza cercare niente in particolare se non il senso della presenza di una donna che ammiravo e che pensavo di conoscere. 22 «Non sono andato al rave», disse Dale McFetters, passandosi le dita sui baffi. «Ho lavorato, quella notte. Al Pizza Junction.» McFetters aveva il cranio rasato a zero, una deforestazione recente, almeno a giudicare da come continuava ad allungare la mano per scompigliare un'invisibile chioma. Camminava avanti e indietro per la sala aggiustandosi i capelli assenti e toccandosi in continuazione un orecchino d'argento. I jeans sembravano aver superato una decade senza subire lavaggi. Era a torso nudo e tanto magro che gli si potevano contare le costole senza sforzo. Un tatuaggio somigliante a filo spinato gli circondava un bicipite filiforme. «Avrebbe potuto capitare a me. Ci sarei andato, se non avessi avuto da lavorare.» McFetters e Jimmy Farrier dividevano un appartamento vicino all'università. Con un arredamento che non poteva essere costato più di venti dollari e illuminato da una lampadina dipinta di giallo, il posto dava l'impressione di trovarsi all'interno di un limone. «Ma non è capitato a te», dissi, appoggiandomi alla parete, «è toccato a Jimmy. E io devo sapere perché.» McFetters sollevò le braccia. Aveva le mani sporche e mi augurai di non dover mai mangiare una pizza cucinata da lui. «Ho già detto tutto alla polizia di Stato», protestò. «E ora dovrai dirlo anche a me. Buon Natale.» Si lasciò cadere su una sedia scassata, probabilmente recuperata da una discarica. «Non so nient'altro.» Attraversai la stanza fino a un pannello di sughero appeso al muro vicino al telefono su cui erano affissi menù di cibi consegnati a domicilio e delle fotografie. Una delle foto mostrava Farrier e McFetters che prendevano il sole seduti sul prato di fronte a casa. Mi avvicinai per osservarla meglio. I ragazzi erano senza camicia e strizzavano gli occhi sotto la luce abbagliante del sole. Jimmy aveva un'aria confusa mentre McFetters aveva assunto una posa da rapper bianco. McFetters era pallido con un corpo anoressico. Jimmy Farrier era abbronzato e muscoloso. Aveva un viso morbido, più da bambino che da adulto, glabro, sguardo vulnerabile, acne sulle guance e sulla fronte. Era evidente che faceva body building. Bicipiti e tricipiti erano tonici e sviluppati, le spalle ampie, i pettorali prominenti. Jeans scoloriti
tagliati sopra il ginocchio. Sopra il capezzolo aveva tatuato un piccolo pesce-spada lucido. La data scribacchiata sulla foto era di un anno prima. Mi rivolsi a McFetters. «Jimmy era andato al rave per incontrare qualcuno, Dave?» Si strinse nelle spalle. «Non ha detto niente. Forse.» «Nessuna ragazza con cui uscisse regolarmente?» McFetters studiò il soffitto e si strofinò le labbra. «Ragazze? Diciamo che aveva più aspettative che fortuna.» «Non era uno che rimorchiava facilmente?» La sua risata mi fece pensare all'urlo di una foca. Se avesse battuto le mani gli avrei tirato un pesce. «Ha mai provato a incontrare ragazze attraverso inserzioni?» chiesi. McFetters mi lanciò un'occhiata strana, poi si alzò dalla sedia e andò nella camera da letto di Farrier. Ritornò con una vecchia copia del NewsBeat aperto alla pagina degli annunci. «Era a fianco del letto», disse. «Li leggeva sempre. Scriveva parecchie lettere ma...» Si strinse nelle spalle. «Non sai se gli rispondevano?» «Ah-ha.» «La sua roba è ancora nella sua stanza?» domandai. «Sua madre ha detto che sarebbe passata a prenderla ma non è ancora venuta.» Mi alzai. «Ti spiace se do un'occhiata?» Accennò alla porta di Jimmy. «Fai come se fossi a casa tua.» Una tipica stanza da studente. Poster di band di cui non avevo mai sentito parlare, androgini smilzi con vestiti neri e mascara sponsorizzati da una marca di birra. Il letto era fatto. Una scrivania nell'angolo con sopra un computer. Una libreria contenente libri con dei fogli di carta fra le pagine. Pesi sparsi sul pavimento attorno a una panca per ginnastica. Uno skimboard, pinne e maschera da sub. Aprii il cassetto superiore della scrivania. Penne e matite e graffette. Post-it. Orario delle lezioni. Una foto incorniciata di Farrier con padre, madre e sorellina. Montagne sullo sfondo, tutti che sorridono e si tengono abbracciati. C'era una diffusa espressione di affetto e di calore sui volti. Sotto c'era un'altra foto, di Farrier con sua madre il giorno della consegna dei diplomi di maturità, il ragazzo in toga nera, a fianco la madre che gli poggia il capo sulla spalla e sorride orgogliosa. Apparivano a loro agio insieme, felici. Notai che le foto non erano sopra la scrivania dove il suo
compagno di appartamento o i visitatori potessero vederle, ma nemmeno a faccia in giù in fondo all'armadio. Controllai i cassetti laterali. Il primo conteneva blocchi pieni di appunti delle lezioni, il secondo sei lattine di Coors Light e un pacchetto da dodici di preservativi, mai aperto. Cerca di divertirti Jimmy, ovunque tu sia. Accesi il computer e feci una ricerca per nome dei file: annunci, inserzioni, NewsBeat... Nulla. Passai a esaminare i file a uno a uno finché arrivai a una cartella Varie in cui trovai una sottocartella intitolata Letper che risultò essere l'abbreviazione di lettere personali e che conteneva le risposte agli annunci del NewsBeat, sette in tutto. Le risposte erano tutte delle variazioni sul medesimo tema: Al numero (codice dell'annuncio) Ho visto il tuo annuncio su NewsBeat e vorrei conoscerti. Mi chiamo JIMMY e sono uno studente di informatica alla University of South Alabama. ADORO la spiaggia e vorrei passarci ogni giorno se non dovessi studiare o andare a lezione. Sono un tipo tranquillo ma posso anche essere un selvaggio se incontro la persona giusta. Ho capelli scuri e occhi grigioverdi e faccio pesi. Mi piacerebbe DA PAZZI incontrarti e chissà che non succeda presto C'è un posto vicino all'università chiamato THE CUPPA dove c'è musica dal vivo al mercoledì, venerdì e sabato. Potremmo incontrarci lì, o da un'altra parte, se preferisci. Spero di ricevere una tua risposta. Jimmy Stampai le lettere e le date in cui Jimmy le aveva spedite e lasciai Dale McFetters seduto nel suo mondo al limone. «Dici che Cutter li ha contattati con degli annunci, Carson?» Incrociai le braccia e studiai il tetto grigio dell'auto. C'era un'impronta vicino alla lampadina interna. Sembrava essere della mia misura. Un clacson suonò dietro a noi e Harry accelerò. «Potrebbe darsi. Deschamps ha incontrato la Talmadge con gli annunci del NewsBeat, e adesso salta fuori che anche Farrier li usava.» Passai a Harry una delle lettere. La lesse mentre guidava, cosa che mi rende sempre nervoso. Mi ributtò la lettera un minuto dopo. «Okay, Cars, diciamo pure che l'assassino ha incontrato Farrier così.
Perché lo avrebbe scartato?» «Non ne ho idea. Perché c'era qualcosa in Farrier che non andava.» Scrutai le cime degli alberi che scorrevano via. C'era qualcosa che mi disturbava, qualcosa di stonato, ma era ancora sul bordo della mia consapevolezza, ancora indistinto. La mia mente continuava a ritornare al tatuaggio sul petto di Farrier, nitido ed evidente, brillante come una striscia a fumetti su un giornale della domenica. Rividi i volti sorridenti delle fotografie nella sua scrivania. Sentii la voce preoccupata di sua madre. «Jimmy! Un tatuaggio! Ma come hai potuto?» «Dai, mamma», risponde Jimmy, sorridendo. «Non è che...» Cercai il mio blocco d'appunti, lessi un numero che avevo appena annotato e lo chiamai. «Eh?» disse la voce. «Dale, parla il detective Ryder. Sono appena stato lì.» «Ah, sì. Mi ricordo.» «Dimmi qualcosa del tatuaggio di Jimmy, Dale... il pesce-spada era vero?» Confusione. «Il pesce? Era, come dire... un disegno.» «Lo so, Dale. Ma non era un vero tatuaggio, no?» La foca urlò di nuovo. «No, amico, Jimmy non era il tipo. Era un tatuaggio temporaneo, una specie di decalcomania. Lo attacchi con l'acqua, e lo strofini con l'alcool per toglierlo. Si vede facilmente che sono falsi, il colore è così... come dire... intenso.» «Jimmy li usava spesso?» Una lunga pausa. «Mah, diciamo... quando andavamo a una festa. Poi si tornava a casa e se lo lavava via, preoccupato che i suoi venissero a trovarlo senza prima telefonare... A volte lo facevano e lui aveva paura che andassero fuori di testa, che fosse diventato, che so, un punk, o qualcosa del genere.» «Ancora un paio di domande, Dale. Ti risulta che Jimmy abbia allegato delle sue foto alla lettere che mandava in risposta agli annunci?» Un'altra lunga pausa, mentre i meccanismi nella sua mente ingranavano. «Fotografie. Sì. Gliene ho anche fatte io alla spiaggia, in primavera.» «Era senza camicia?» «Solo col costume da bagno.» «Pensaci bene, Dale. Aveva un tatuaggio in quelle foto? Gli piaceva il pesce spada. Ce lo aveva quella volta?» Passammo tre isolati. Dissi: «Pronto, Dale, ci sei?»
«Sto pensando.» Gli chiesi scusa per averlo disturbato. Altri tre isolati. «Ora mi ricordo», esclamò McFetters all'improvviso. «Mi disse che ci sono donne a cui piacciono i tatuaggi e altre a cui non piacciono. Non voleva che nessuna evitasse di rispondere solo sulla base della foto, capisce?» Niente tatuaggio. Non nelle foto mandate al NewsBeat. Il petto di Jimmy Farrier era intonso come quello di un neonato. Ma si era applicato un tatuaggio per il rave, immaginando che in quell'ambiente sarebbe stato apprezzato. Spensi il cellulare e me lo misi in tasca. Gli occhi di Harry mi studiarono nello specchietto; aveva domande da farmi ma sapeva che stavo ancora elaborando le risposte. Mi rannicchiai nel sedile e chiusi gli occhi. Cammina sulla scena, mi dissi. Cerca di vedere il party... Sono in un campo di angurie a guardare i ragazzi che ballano, apparizioni sudate con collane luccicanti e bottiglie in mano. Vedo un ragazzo con una faccia da bambino che scuote il capo a ritmo di musica e sorseggia da una bottiglia di birra, non del tutto a suo agio nella folla. Aspetta qualcuno, o almeno spera che arrivi. Dall'oscurità del bosco un'ombra gli si avvicina. Gli mormora qualche parola, o, forse, gli mostra qualcosa: una birra, una canna, un acido. «Dai, su, stai di buon umore, sei a una festa, devi essere fico...» Devi essere fico, il bruciante richiamo del pifferaio a tutti i giovani. I due si inoltrano incespicando fra gli arbusti, calpestano quasi una coppia che sta facendo sesso, passano vicino a un uomo che parla di Dio con un'anguria. Nella massa di gente che volteggia e si agita accecata dalla musica, i due sono invisibili. Poi i rami degli alberi accarezzano loro il volto e il rave diventa un rogo lontano. Un tocco sulla spalla di Farrier e il mondo si trasforma in un'esplosione di dolore mentre un sapore ferrigno gli invade la bocca. Giace al suolo ai bordi del campo, raggomitolato in un torrente in secca. L'ombra ha una torcia, una penna e, da qualche parte, una lunga lama affilata. Gli slaccia i pantaloni preparandosi a scrivere, gli solleva la maglietta... Il tatuaggio. Comparso dal nulla. Inaspettato. Blu e rosso e verde contro la pelle rosea. Tutto sbagliato, tutto da rifare, dopo l'attesa, dopo i rischi. Tutto disperatamente sbagliato. Infuriato, l'assassino prende a calci Farrier due volte e lo abbandona a morire, mentre il suo cervello malato si lascia sfuggire i ricordi, finché, alla fine, non rimane più nulla se non gli impulsi primari. Farrier muore con la bocca nella polvere.
Sollevai la schiena di scatto e diedi una pacca sulla spalla a Harry. «Il Farrier che l'assassino si è trovato di fronte non era il Farrier che lui si aspettava», dissi. «Fermati.» Harry sterzò bruscamente e ci fermammo di fronte a un autolavaggio. Una mezza dozzina di afroamericani stavano asciugando una Mercedes bianca. Facce curiose mi scrutarono mentre scendevo da dietro per andarmi a sedere sul sedile anteriore. Guardarono Harry, videro gli occhi da poliziotto e ritornarono a lustrare la Mercedes con zelo. «Cutter ha scelto Farrier sulla base di una foto che il ragazzo gli ha mandato insieme alla sua lettera», dissi, chiudendo la portiera. «Farrier non aveva tatuaggi nella fotografia, faceva uso di tatuaggi falsi, decalcomanie. Ma solo occasionalmente, come per il rave. Cutter ha attirato Farrier in disparte e lo ha ucciso, ma quando gli ha sollevato la camicia per scrivere...» Harry annuì. «Sorpresa! Salta fuori che il ragazzo ha già dell'inchiostro sulla pelle.» «Per qualche ragione la presenza del tatuaggio gli ha impedito di decapitare Farrier.» Harry alzò il palmo della mano per fermarmi, per consentirgli di svolgere il ruolo dell'avvocato del diavolo. «Forse Cutter è stato disturbato.» «Secondo il sergente Tate, Cutter ha avuto la possibilità di fare tutto quello che voleva.» Harry rifletté un istante. «Anche Jerry aveva un tatuaggio, Carson. Il drago. Eppure lui la testa l'ha persa. Come lo spieghi?» Un brivido mi percorse la schiena mentre avvertivo la scena di un altro delitto calarmi di fronte agli occhi. Mi succede quando penso di essere vicino a una linea invisibile e devo sbatterci contro a occhi chiusi per trovarla. Rividi una dopo l'altra nella mia mente le fotografie scattate prima dell'autopsia. Macchie posteriori su Deschamps e Nelson, due schiene tanto scure da sembrare un solo, enorme livido. Ma davanti i corpi erano chiari, quasi come da vivi, privi di sangue accumulato. «Livor mortis», sussurrai. «Deschamps e Nelson erano sdraiati sulla schiena, Harry. Il sangue non gli si è raccolto sul petto, cambiandone il colore. Non li distende sulla schiena semplicemente per potergli scrivere sul ventre, ma perché, per lui, quello che è importante è l'aspetto della parte anteriore dei corpi.» Harry tambureggiò con i pollici sul volante. «Farrier era voltato sul fianco perché non era importante?»
«Esattamente. Una volta che Cutter ha visto il tatuaggio, immaginando che fosse vero, ha deciso che non gli serviva più.» «Apparenza», borbottò Harry fra sé e sé. «Body art, il corpo usato come arte. Dici che sia questa la sua fissa? Il suo sogno? Ottenere una fotografia di un corpo perfetto? Il corpo perfetto per diffondere il suo messagio perfetto a qualcuno?» «Il messaggero perfetto. Accidenti, Harry, e se credesse di inviare delle incarnazioni?» «Copie di se stesso?» «Piuttosto, delle controfigure.» «Che si fa, adesso, Carson? Cosa suggerisci?» Mi sentii qualcosa correre sul palmo, come il filo di una invisibile ragnatela. Chiusi gli occhi ma era già sparito. Dissi a Harry della lista delle autopsie all'obitorio, che pensavo di riuscire a ottenere da Will Lindy, quindi parlammo di Farrier e della sua connessione con il NewsBeat. Guardai le copie delle sue lettere che avevo stampato. «Ho le date delle sue lettere di risposta, ma non posso risalire agli annunci.» Harry si accigliò. «Tu vuoi solo gli annunci, no? Nient'altro? Gli annunci che sono comparsi sul giornale?» «Anche se i dati registrati al giornale sono andati in fumo, sappiamo a quali annunci Farrier ha risposto per via del numero; ogni annuncio aveva un codice. Non è una gran traccia, ma...» Harry rifletté per un attimo, poi disse: «Ti ricordi di quel tipo a Flomaton? Viveva in una casa in cui conservava ogni mappa su cui poteva mettere sopra le mani. Era sul giornale l'anno scorso». Me ne ricordavo. Troppo bizzarro per dimenticarsene. Avevo ritagliato l'articolo e lo avevo archiviato nella mia cartella dedicata ai fatti strani nel mondo. «Mappe di qualsiasi posto, da Tokyo, a Murmansk, a Ulan Bator. Carte satellitari, mappe topografiche, geologiche, statistiche di popolazione, densità, cani per chilometro quadrato.» «Collezionava mappe. A cosa ti fa pensare?» Risposi utilizzando il gergo professionale. «Comportamento ossessivocompulsivo. Forse anche un maniaco, a seconda dello scopo che attribuisce alle mappe.» Harry ingranò la marcia e partimmo sgommando dal parcheggio del lavaggio auto, imboccando il viale un istante prima che arrivasse il branco di veicoli che era scattato quando il semaforo era diventato verde.
«A proposito di scopo», disse Harry, del tutto indifferente al coro di colpi infuriati di clacson che si era levato alle nostre spalle. «Devo farti vedere un posto. Voglio che mi dici se esiste davvero.» 23 La casa di legno a due piani era in un avallamento dominato da filari di vite giapponese, dal fogliame dei grandi alberi, dai pali della luce e del telefono. Parcheggiammo sull'asfalto costellato di buche e crepe e ci avvicinammo, passando di fianco a due vecchie biciclette appoggiate a un noce, una delle quali aveva nel portapacchi una tuta da lavoro. Una vecchia Checker berlina era nel vialetto, la vernice così sbiadita da sembrare quasi evaporata. Un appassionato di automobili mi aveva detto una volta che quando le Checkers della Yellow Cab raggiungevano gli ottocentomila chilometri venivano vendute all'esercito messicano che le modificava e le usava come carri armati. Non ho mai capito se scherzava o no. Sentimmo lo stridere di una gru in uno sfasciacarrozze non lontano da lì. L'aria odorava di ruggine e acqua salmastra. Raggiungemmo la porta e Harry bussò, ma prima che sentissimo il rumore dello scorrere di un catenaccio passò un intero minuto. La porta si aprì mostrando un nero calvo e avvizzito che indossava una tuta blu scolorita su una logora camicia bianca e un papillon nero. Poteva avere sessant'anni o trecento. Si inchinò profondamente e disse: «Il Nautilus è emerso». Lo ripeté tre volte, come fosse un incantesimo. Entrammo in una grande sala dall'intonaco scrostato. C'erano una scrivania e un'asse per stirare in una stanza sulla destra. Sopra l'asse erano ammucchiati diversi giornali, oltre a un vecchio ferro da stiro che sputava nuvole di vapore verso l'alto soffitto. Diedi un'occhiata verso le tre stanze adiacenti. Piene di giornali fino al soffitto. Il vecchio mi studiò con cautela, come se potessi morderlo. «Mi avete portato incertezze?» chiese calmo. «Sfide da parte dello Stato?» Mi scandagliai la memoria alla ricerca di una citazione dalle mie lezioni di scienze politiche e risposi: «Dovendo scegliere fra un governo senza giornali e giornali senza un governo, non esiterei un momento a sostenere la seconda scelta». Il vecchio guardò il mio viso come se volesse imprimerselo nella memoria. Allungò il braccio e mi strinse la mano, poi si chinò di nuovo e con-
dusse la mia mano fino a toccarsi la fronte. «Conosco le stesse canzoni di Thomas Jefferson», sussurrò. Non potei fare altro che annuire. Harry spiegò cosa stavamo cercando. Il vecchio ci condusse lungo un labirinto di stanze, spesso infilandosi in stretti passaggi, sfiorando con il naso pile di giornali ingialliti. Aveva un modo curioso di procedere, un po' come se stesse pattinando, un po' come se stesse guadando un torrente saltando di sasso in sasso. Dovemmo affrettare il passo per non perderlo di vista. Le pile erano impeccabilmente allineate, i giornali sistemati l'uno sull'altro alternando di volta in volta il dorso con l'esterno. Se avessi avuto una livella non mi sarei meravigliato di scoprire che il giornale al vertice di ogni colonna era su un piano perfettamente orizzontale. I titoli erano tutti di testate dell'Alabama, dalle città più grandi alle più piccole: Mobile Register, Dothan Bugle, Jackson Daily News, Huntsville Times, Cullman Times. «New York Times?» chiesi. «Washington Post?» Lui scosse il capo. «Sono al di fuori della mia responsabilità.» Ci arrampicammo lungo una scala scricchiolante che sosteneva copie del Montgomery Advertiser vecchie di anni. Un Richard Nixon fragile e ingiallito ci guardava da una prima pagina. Entrammo in una stanza scura e arrivammo di fronte a una pila di giornali in un angolo. «Mobile NewsBeat», lesse da un cartellino scritto a macchina. «In edicola ogni giovedì. Data di prima pubblicazione 11 maggio 1996. Sospesa la pubblicazione il 17 agosto 2002 per difficoltà economiche. Acquistato da un nuovo proprietario e ripresa la pubblicazione lo scorso ottobre.» Harry annuì. «Vorremmo prendere in prestito gli ultimi numeri.» Il vecchio si inchinò di nuovo. «Per te, Harry Nautilus, qualsiasi cosa.» Harry si chinò a raccogliere i giornali e il vecchio mi sussurrò: «Cinque anni fa la nostra sede era a Mobile. Poi il Comune ci ha definiti un disturbo per la quiete pubblica e ha riscontrato un pericolo di incendio e ha minacciato di far rimuovere e distruggere i giornali. Harry Nautilus ha trovato questo posto e ci ha aiutati a traslocare.» Scoccò un'occhiata a Harry, poi continuò: «Può essere peggio di un diavolo, ma a Harry Nautilus a volte crescono le ali». Ritornammo da dove eravamo venuti seguendo lo stesso percorso, con il mio collega che teneva le copie del NewsBeat appoggiate sulle braccia distese come una corona su un cuscino di velluto. Il vecchio ci seguì, muovendo il capo su e giù in segno di approvazione. Passammo di fianco a una
piccola pila di giornali che attirò la mia attenzione. Raccolsi la copia che stava sopra. Rivolgendomi al vecchio gli mostrai un numero recente di Le Monde e alzai il sopracciglio come a dire: E questo cosa ci fa qui? «Un piacere segreto», rispose lui, sorridendo come Monna Lisa. Tornammo in ufficio e sfrattammo da una delle salette riunioni due addetti alle pulizie intenti a giocare a pinnacolo. Chiamai Christell OlivetToliver per avere il codice delle inserzioni. Fu felicissima di sapere che ero disposto a prestarle le copie del Mobile NewsBeat fino all'ultimo mese di ottobre e non fece obiezioni quando la avvisai che avrebbe dovuto stirarle prima di restituirmele. Spiegai a Harry il sistema di codici alfanumerici di Christell e cominciammo a esaminare gli annunci, cominciando con le lettere di Farrier più recenti. Harry distese le braccia allontanando da sé il giornale finché non fu in grado di leggere i caratteri piccoli. «Cinque centimetri di meno e avrei bisogno degli occhiali», brontolò, e lesse l'inserzione. «Cerco amico. FBS, ventiquattro anni, cerca amicizia prima poi forse RLT con uomo onesto, attraente, amante del divertimento fra ventuno e ventotto. Amante passeggiate nei parchi, ballo, coccole e spiaggia. Cosa significa FBS? «Femmina, bianca, single.» «E RLT?» «Relazione a lungo termine.» Harry grugnì. «Credevo stesse per rammollito. Be', è un modo come un altro per dire che vuoi sposarti, metter su casa e mettere al mondo cuccioli.» «Farrier adorava la spiaggia. Probabilmente è quello che lo ha spinto a rispondere all'inserzione.» Harry sfogliò un altro numero del giornale e lesse. «Cerco anima gemella. FBS attiva, amante vita all'aperto, ventisette, capelli biondi e occhi castani, cerca dolce compagno per cena, film, passeggiate sulla spiaggia al chiaro di luna. Deve essere sano e amante sport. Amicizia prima, poi...?» «Ancora la spiaggia. Lo sport. Niente di speciale.» Controllammo altri quattro annunci in fretta. In quanto a tono e interesse sembravano tutti essere cloni dei primi due. Stavo di nuovo cominciando a sentirmi come se mi stessero tirando in faccia dei mattoni. Harry raccolse l'ultimo NewsBeat. Aprì la pagina e seguì il testo con il dito, leggendo in silenzio. Il dito si fermò e tornò indietro. «Caaazzo», mormorò, e girò il giornale a centottanta gradi, indicando
l'inserzione con il dito. La lessi e capii che gli incubi, così come le preghiere, possono ricevere risposta. Da poco in città, cerco persona speciale. FBS cerca MBS. Ho una voglia pazza di un uomo di 180-185 cm, 80-90kg, 20-30 anni. Mi piacciono uomini con il petto morbido, pulito, senza peli, bicipiti notevoli e spalle larghe e muscolose. Niente segni di appendiciti o altre cicatrici. Pancia piatta. Sono una dirigente FBS, 165 cm, 55 kg, bionda, gambe lunghe, seno grande con un sacco di segreti ed esigenze speciali. Se corrispondi alla descrizione, mandami una lettera e una foto (nudo o in costume da bagno; se sei timido non c'è bisogno che compaia il viso nella foto) e numero di telefono, per favore. Risponderò a tutte le lettere ricevute entro una settimana. «Non c'è bisogno che compaia il viso nella foto», ripeté Harry, «perché non lo conserverai tanto a lungo.» «Quante risposte pensi che abbia ricevuto?» chiesi, sorpreso dalla sfacciataggine dell'annuncio. «L'unico requisito che soddisfo è l'altezza», disse Harry, «ma avrei passato tutto il giorno a scriverle.» «Terri non ce la racconta giusta», continuai. «Ha incontrato Nelson attraverso l'inserzione. Così come lo ha fatto Cutter.» «Ci sono solo due ragioni che possono spingerti a mentire, fratello...» disse Harry. «O hai qualcosa da perdere se non lo fai, oppure hai qualcosa da guadagnare se lo fai.» Questa volta Terri fu molto più cauta al momento di lasciarci entrare. Ci esaminò a lungo dallo spioncino prima che sentissimo la catena staccarsi e la serratura girare. «SBSC?» bisbigliò Harry intendendo Sbirro Buono Sbirro Cattivo. «Fa sempre piacere rivisitare i classici. Faccio io il cattivo.» «Sì?» disse Terri, circospetta attraverso la porta semiaperta. «Abbiamo altre domande», dissi. «Apra.» «Non le porteremo via che un paio di minuti, signorina Lisidor», spiegò Harry. «Dopo di che ce ne andremo.» Lei ci accompagnò in cucina. Uscendo dal lavoro doveva essere passata dal supermercato. Stava sistemando la spesa nel frigorifero. «Vi ho già detto tutto l'altro giorno», disse, mettendo via una confezione da dodici di
Diet Coke. Mi appoggiai al lavandino mentre Harry aiutava Terri passandole la spesa dai sacchetti. «Abbiamo mostrato le foto di Jerrold al Game Club, dove lei ha detto di averlo incontrato, ma nessuno si ricorda di averlo visto. Potrebbe darci una descrizione del cameriere o della cameriera che vi ha serviti? Vorremmo fargli qualche domanda.» Terri si alzò sulle punte dei piedi per riporre una confezione di burro di arachidi su uno dei ripiani superiori. «Non mi ricordo bene...» «Signorina Losider», interruppi. «Perché non ci ha detto di aver incontrato Jerrold tramite la sezione Personali degli annunci sul Mobile NewsBeat?» La sua testa si girò verso di noi di scatto e il burro di arachidi rimbalzò sul pavimento. «Quei vasetti di plastica sono una gran cosa», constatò Harry in tono d'approvazione. Terri si voltò. «L'ho incontrato al Game Club. Gliel'ho già detto.» «Lo ha incontrato grazie a un'inserzione. Lo so io, lo sa il detective Nautilus e adesso stiamo solo aspettando che lo sappia anche lei.» Terri rifletté un momento. La sua testa si chinò in avanti mentre si massaggiava le tempie. Il gesto sembrava rubato da una recita da liceo. «Ha ragione», sussurrò sollevando il capo, con lo sguardo che diceva «povera me». «Mi dispiace.» «Le dispiace che io abbia ragione?» «Mi dispiace averla fuorviata. Volevo solo...» «Voleva solo finire in galera per aver ostacolato le indagini.» Si osservò le mani. «Mia madre mi ha sempre detto che le inserzioni personali erano per... ecco, per persone più interessate a... al sesso che a una relazione. Ero imbarazzata.» «Se li scrive da soli i dialoghi o ha assunto uno sceneggiatore?» Alzai gli occhi al cielo e sbottai in una risatina perversa. Forse anche i miei gesti facevano parte della recita da liceo. «Dai, Carson, non essere così duro. Tanto ormai è tutto alla luce del sole», intervenne Harry. «Sono stufo di farmi riempire le orecchie da queste stronzate.» «Ehi, cerchi di parlare in modo più civile», scattò Terri. «Questa è ancora la mia cazzo di casa!» «Sì, certo», dissi. «Sua e di Mister Puff. Si ricorda quando siamo venuti l'altra volta? Quando Mister Puff ha fatto cadere qualcosa nella stanza da
letto?» I suoi occhi si fecero attenti. «Ha rovesciato un libro sulla libreria. Perché?» «Stiamo parlando dello stesso Mister Puff, dal pelo bianco lungo e con il collare rosa?» «Non capisco cosa questo abbia a che vedere con...» «Lo stesso Mister Puff che abbiamo visto entrare dalla porta di casa subito dopo che siamo usciti?» La bocca di Terri Losidor assunse forme diverse senza emettere alcun suono. Impiegò diversi secondi a sincronizzare audio e video. «State ficcando il naso nella mia vita privata. Mi sembra ora che ve ne andiate.» «Ha dato il benservito a Jerrold dopo la storia dei soldi?» dissi. «O ha continuato a sco... a vederlo?» Lei ci indicò la porta. «Voglio che ve ne andiate subito.» «Resteremo qui finché non sentirò la verità», ringhiai, avvicinandomi. Nonostante la mascella protesa in un'espressione caparbia, i suoi piedi arretrarono. Harry mi diede alcune leggere pacche sulle spalle. «Carson, cerca di calmarti e lascia che con la signorina ci parli io.» Mi appoggiai al muro con un'espressione feroce sul viso. Harry si voltò verso Terri. «Stiamo solo cercando di accertare i fatti, signorina.» Terri ripeté la sua versione, parola per parola. Più tempo passavo con lei, più la vedevo come una persona dolce e innocua all'esterno, ma dura e determinata all'interno. Volevo andare direttamente a quello che aveva dentro, vedere cosa nascondeva. Ma non avevamo a disposizione nessun modo di fare pressione su di lei. Avevamo solo un paio di sassolini, senza nessuna idea di dove tirarli. Mi staccai dal muro e scagliai il sassolino più grosso. «Sono sicuro che lei sappia cosa Jerrold faceva a Biloxi. E anche con chi lo faceva.» La pietra risultò essere molto più pesante di quanto mi aspettassi. La paura si impadronì degli occhi di Terri. Cercò di celarla alzando la voce. «Ma cosa diavolo dice? Di cosa sta parlando?» «Cara signorina, ho per le mani tre cadaveri e un assassino che legge attentamente le inserzioni sul NewsBeat. Perché non ci ha detto che è lì che ha trovato Jerrold, la grande macchina da sesso?» Mi puntò contro il dito, facendolo oscillare a ogni parola. «Lei... è... pazzo... da legare!» Harry si intromise fra me e Terri. «Carson, così non otteniamo nulla. Va'
fuori e rilassati.» Terri gemette. Harry la consolò, mentre io ritornavo verso il tavolo. C'era un portacenere con due mozziconi con i filtri macchiati di rossetto e qualcosa che assomigliava a una crisalide grigia. Avevo visto oggetti simili nei portaceneri della stazione di polizia. Terri stava guardando Carson e io giocherellai con l'oggetto grigio. Sorpresa. L'idea sembrava stare in piedi. Poteva essere così? Feci per sollevare l'oggetto ma Terri si voltò verso di me, mentre insisteva sulla storia del Game Club. Attraversai la cucina in un lampo spingendo Harry da parte. «Ne ho abbastanza di lei. Un'altra bugia e si ritrova in galera con più muri attorno di quanti ne abbia mai visti in vita sua! Terri cacciò un urlo e scattò verso la stanza da bagno. Ritornai al tavolo, mi misi l'oggetto in tasca e feci un cenno a Harry che mi guardava a occhi spalancati. Leviamoci di torno. La Losidor si appoggiò alla porta, scuotendo il pugno e minacciando di chiamare un avvocato se non ce ne fossimo andati. Harry le mostrò i palmi delle mani mentre indietreggiava, facendo finta di trascinarmi via. «Ce ne andiamo, signorina. Mi dispiace per quanto è successo. Il mio collega sta attraversando un brutto momento... sa, gli è morto il cane proprio stamattina. Grazie per averci fatto entrare. Arrivederci.» Salimmo in auto. «Non so cosa stessi cercando di fare là dentro», brontolò Harry, «ma ti sei meritato un Oscar. Terri ci nasconde qualcosa. Ne sento l'odore,» «Odora come questo?» chiesi, tirandomi fuori l'oggetto di tasca. Harry lo fissò. «Chewingum usato?» «Un pezzo di giornale masticato, Harry», lo corressi, facendomi rimbalzare la pallina sul palmo. «Conosci qualcuno che abbia questo strano vizio?» «Andate avanti così e fra un po' potrete cominciare a farvi mandare la posta qui», disse Briscoe Shelton. La sua porta era chiusa con la catena e ci guardò attraverso la fessura. Portava la stessa maglietta e gli stessi pantaloni di sempre. E stava guardando lo stesso video porno dell'ultima volta, a giudicare dall'audio. Quell'uomo aveva bisogno di prendersi una vacanza dalla propria vita. «Lei aveva detto di aver visto Nelson in compagnia di qualcuno, uno che
veniva di tanto in tanto.» Una voce d'uomo gemette dall'interno dell'appartamento: «Oh, piccola, mi fai venire voglia di...» Shelton abbassò lo sguardo e il suo collo si fece rosso; sorpresa: era capace di provare imbarazzo. Avevo fotocopiato una foto di Burlew dalla sua cartella personale e gliela misi di fronte agli occhi. «Guardi e mi dica se è la stessa persona.» Una donna nel video gorgheggiò una sequenza di suoni simile a uno yodel tirolese. Shelton fece una smorfia, poi parlò a voce più alta. «Uhm. Ha la testa troppo grossa. Come fa a vederci con quegli occhi così piccoli?» Gli passai la foto. «La guardi bene.» «Non è lui.» Shelton me la restituì. «Un bel bastardo, non vi pare?» «Grosso e cattivo. Ma più cattivo che grosso. E sì che grosso lo è parecchio.» Mi rimisi in tasca la foto. Gli attori del video erano impegnati in un duetto: il maschio grugniva, la femmina emetteva imprecazioni monosillabiche. Shelton sollevò un sopracciglio. «Grosso quanto? Come un giocatore di football?» «Un metro e novanta. Fra i centoventi e i centotrenta chili.» «Stavo tagliando la siepe vicino alla scala B - la scala di Nelson - quando ho visto uno salire su una macchina. Sarà stato una settimana fa. Non ci avrei fatto caso se il tipo non fosse stato un vero gorilla. Non l'ho visto in faccia, era sempre di fianco o voltato.» «Ha mai visto questa donna?» Sollevai una foto di Clair. Sheldon la guardò a lungo. «Uhm, no. Me ne ricorderei bene.» La tipa del video si abbandonò a un orgasmo del nono grado della scala Richter, e il maschio la seguì a gola spiegata. Può darsi che in quel momento mi fossi lasciato sfuggire un'occhiata compassionevole nei confronti di Shelton. I suoi occhi incontrarono i miei e fiammeggiarono. Lo ringraziai e lui sbatté la porta. La riaprì un attimo prima che uscissi dal palazzo. «Non me ne fotte un cazzo di quello che pensa di me, signor detective», mi gridò lungo il corridoio, la voce sul punto di incrinarsi. «Mia moglie è in ospedale, attaccata a una macchina, e io non le farò le corna finché è viva.» Mi sembrò di impiegare un tempo lunghissimo a tornare all'automobile. Attraversai il parcheggio dell'obitorio. Quando fui sicuro che non ci fos-
se la Lexus color oro di Clair, parcheggiai e corsi dentro. Appresi che era stata chiamata sulla scena di un delitto in Mount Verson, ma che non doveva tardare. Vidi Will Lindy nel suo ufficio e mi affacciai dalla porta per dirgli buon giorno. L'ufficio di Lindy era grande, arredato con armadi, una vetrinetta, un monitor e uno scaffale. Stava sistemando delle videocassette su una mensola. «Sei venuto a dirmi che l'oggetto mcriminato è stato ritrovato?» «Quale oggetto incriminato?» «Il tavolo.» I suoi occhi mi esaminarono il volto. «Non lo sai? C'è stato un ladro la notte scorsa.» «Qui?» «Fuori!» Lindy scosse il capo, fra il divertito e l'indignato. «Qualcuno ha portato via un tavolo per autopsia dal pianale di scarico del magazzino.» «Ma chi vuoi che rubi un tavolo d'autopsia?» Lui si strinse nelle spalle. «Era in una cassa priva di contrassegni, grande come un frigorifero. Forse era quello che il ladro pensava di portarsi via. Mi piacerebbe vedere la sua faccia quando apre la cassa e lo trova... ammesso che sia in grado di capire che cosa è.» Mi immaginai un branco di tossici seduti di fronte a un tavolo di metallo a chiedersi a cosa servissero i canaletti di scolo. «Da quando in qua avete cominciato a fare autopsie nel magazzino?» Soffocò una risatina. «Non ce l'abbiamo fatta a installarlo prima dell'inaugurazione: ci vuole tempo e c'è bisogno dell'intervento di un idraulico. Dovevamo farlo questa settimana. Comunque sia, questo è un problema mio. Cosa posso fare per te?» «Vorrei vedere le liste delle autopsie effettuate da maggio a oggi.» Annui. «Vuoi sapere chi era in servizio e chi no?» «Esattamente.» «Di tutti i file, questo è proprio uno dei pochi che non ho: è uno di quelli che definiamo Rapporti Attività Patologi; li tiene la dottoressa Peltier.» Prese dalla scrivania una chiave e ci avviammo lungo il corridoio. Guardai fuori dalla finestra e non vidi l'auto di Clair nel parcheggio. «Perché ti servono i rapporti? Riguarda un caso?» domandò Lindy. Sospirai, come fossi un altro compagno della confraternita di lavoratori alle prese con le minuzie burocratiche quotidiane. «Devo verificare una sequenza di eventi. Nulla di importante.» «Meglio così. Perché non sono accuratissimi. Servono più che altro a pianificare il lavoro. La dottoressa Peltier ci tiene molto che tutto sia pre-
visto nei minimi particolari, che ci sia sempre personale disponibile, che i giorni di assenza per ferie o partecipazione a convegni non si sovrappongano e che si sappia sempre quando uno è presente e di cosa si stia occupando.» L'aria nell'ufficio di Clair era impregnata del profumo di un mazzo di fiori appena colti, disposti in un vaso sulla sua scrivania. Lindy prese la cartella da un armadietto chiuso a chiave e ci spostammo nella stanza dove c'era la fotocopiatrice. All'interno trovammo Walter Huddleston intento a fotocopiare una serie di moduli. Gli feci un cenno di saluto e lui rispose cercando di incenerirmi con lo sguardo per poi andarsene. Lindy fotocopiò il rapporto e mi diede la copia, andò a riporre la cartella nell'armadio di Clair, quindi tornò nel suo ufficio ad archiviare videocassette. Girai l'angolo del corridoio, prima della porta di ingresso, e vidi Clair entrare. La toilette delle donne era proprio dietro di me. Mi ci buttai dentro ma nemmeno cinque secondi dopo la porta si aprì. Mi rifugiai in uno dei loculi e mi appollaiai con i piedi sul bordo della tazza, chiedendomi cosa avrei detto se Clair mi avesse visto. Giuro che se riesco ad arrivare all'uscita indenne, me la filo come se stessi rispondendo a una chiamata d'emergenza... Clair entrò nel primo gabinetto e ne uscì in meno di un minuto. Sgattaiolai fuori, provando meno vergogna di quanto mi sarei aspettato. Salii in auto, mi appoggiai la lista in grembo e feci scorrere il dito sulle date. 24 Nella stanza sul retro della sua casa, il signor Cutter si sentiva sempre tranquillo e al sicuro. Era il suo posto preferito, quello. Dopo la barca, s'intende. Anche se la barca della sua infanzia appariva diversa da quella di oggi, erano la stessa cosa. L'universo attira le cose lontano, le fa girare in orbite, magari ne cambia l'aspetto esteriore, poi le riporta sul cammino originale. Come la sua barca. Come la Mamma. Gli venne da ridere. Inclinò la sedia in avanti e schiacciò i tasti, vide la Mamma che gli raccontava bugie, udì il tono lento e preciso che lei tanto amava. Poi, con pochi gesti della mano, le fece rimangiare le parole. Poteva rimettere in ordine le parole come voleva. La testa della Mamma si volse verso di lui. La fece fermare, quindi andare all'indietro. Quanto gli sa-
rebbe piaciuto farle girare del tutto la testa su quel collo, tanto grazioso e tanto impregnato d'odio. «Boston», disse. Poi ancora, allungando la parola: «Boooston». Gli parve che suonasse nel modo giusto. Provò con Kokome, prima corta, poi allungata. Trascrisse le parole sullo schedario, in modo che fossero pronte all'uso. Era un lavoro duro, sempre al buio, a mettere insieme le immagini. Ascoltando, analizzando. Il tempo che aveva dedicato a trovare il Ragazzo-Uomo-Guerriero era niente al confronto. Luci e ombre, parole e immagini. La Mamma e la Ragazza Cattiva. Questa parte del progetto, il momento in cui la Ragazza Cattiva lo implorava, era il più difficile. Lavorava in sezioni separate: momenti, sillabe. Stava sempre attento che non apparisse di colpo l'immagine intera, era troppo forte. Avrebbe potuto prendere controllo di quanto lui aveva dentro e spingerlo a pensare in modo diverso, come farlo sparire da un posto per riapparire in un altro. Oh, maledizione! Come stava facendo adesso. Si era messa a cantare. Il signor Cutter chiuse gli occhi e trattenne il fiato. Cercò di calmare il battito selvaggio del cuore. Le sue mani stavano già cercando di slacciare la cintura ma riuscì a fermarle in tempo. Controllo. Controllo. Aprì gli occhi e le sue mani si riposizionarono sul banco di lavoro. Obbligò la Mamma a risucchiarsi in testa le sue parole. Come un sole di antracite che tramonta in un mare bianco come la neve, la Mamma lasciò che il signor Cutter lavorasse in pace per il resto della notte. «Burlew deve aver pensato che noi fossimo in grado di minacciare Terri e che lei potesse lasciarsi sfuggire quello che sta nascondendo, di qualsiasi cosa si tratti.» Mi guardai attorno per accertarmi che nessuno stesse ascoltando. L'ufficio dei detective era tranquillo: Naylor e Scott erano alla scrivania impegnati a riempire scartoffie, Penderly era al telefono e parlava a voce bassa con un informatore delle sue bionde intercambiabili. Tutti gli altri erano fuori, nelle strade della città, a investigare o, almeno, a dare quella impressione. Harry fece la parte dell'avvocato del diavolo. «E se ci sbagliassimo, se non stesse nascondendo proprio nulla?» «Puzza come la cuccia di un cane, Harry. Lo hai detto tu stesso decine di volte.»
A meno che Terri Losidor non avesse un altro amico con il vizio di masticare fogli di giornale, fra lei e Burlew c'era una connessione. I fili sparivano ancora dietro gli angoli, ma i frammenti cominciavano ad apparire qua e là. Era giunto il momento di afferrare quello più vicino, dare un bello strattone e sentire il rumore di qualcosa che cade. «Quando dovremo ammettere che ci stiamo occupando di Nelson, Squill andrà fuori della grazia di Dio», disse Harry. «Quello è capacissimo di sbatterci addosso un DOD.» Un'ammonizione per Disobbedienza a un Ordine Diretto comportava una sospensione dal lavoro senza paga per un mese ed era generalmente seguita da una degradazione. Avrebbe significato la fine del PSIT. «Posso prendermi la responsabilità da solo, Harry. Sono stato io a tornare a perquisire l'appartamento di Nelson e a chiamare Friedman.» Harry scosse il capo. «Ah, lascia stare, fratello. Questo è un aereo a due posti. Ed è venuto il momento di mettere Burlew sotto pressione. Il problema è che non sappiamo da dove gli schizzerà fuori la merda.» «Tieni l'ombrello a portata di mano.» Harry restò in silenzio per un po', poi il suo sguardo incontrò il mio. «Lo sai, vero, che anche la dottoressa Peltier potrebbe finire sotto tiro? Sei pronto a farlo?» La lista delle autopsie aveva confermato i miei timori peggiori. Clair aveva preso quattro giorni di ferie in marzo, tre dei quali coincidevano con quelli che Nelson aveva passato a Biloxi. Annuii. «Sono pronto.» «No che non lo sei», disse Harry. «Ma ci sei abbastanza vicino. Più di così non puoi fare.» Squill aveva spostato l'ora di inizio della riunione giornaliera alle 7.30. I brontoloni cronici sostenevano che lo avesse fatto con l'unico scopo di obbligarci ad andare a cena più tardi e forse non avevano tutti i torti. Erano presenti i soliti partecipanti, fra cui Burlew. Era appoggiato con la schiena alla parete, intento a stringersi le mani, forse per congratularsi da solo. Harry sfogliò le pagine che aveva davanti, guardò Squill e cominciò. «Stiamo seguendo una pista legata a Nelson. Pensiamo che questa donna, Terri Losidor, sappia più di quanto vuole ammettere.» «Vogliamo portarla dentro per interrogarla», dissi. «Finché resta nel suo appartamento, si sente ancora abbastanza sicura. Portiamola qui e sono convinto che crollerà.»
Burlew smise di stringersi le mani. Squill si alzò a metà sulla sedia, il volto improvvisamente scarlatto. «Nelson? Vi avevo detto di concentrarvi su Deschamps. Anzi, ve lo avevo ordinato...» «Le due vittime non sono separate ermeticamente l'una dall'altra, capitano. Le piste si incrociano e ci siamo ritrovati di nuovo ad avere a che fare con Nelson», ribattei. La sua voce era dura, udibile a stento. «Tutto ciò ha avuto origine da quella stronzata della scatola, non è vero? Dalle carte perdute, o quello che era?» «No», risposi, modificando leggermente la verità. «Stiamo seguendo nuovi dati emersi nel corso delle indagini.» Gli occhi di Squill si piantarono nei miei. Una vena blu gli pulsò sulla fronte. Ci siamo, pensai. Adesso ci solleva dalle indagini... Un sedia scricchiolò come un violino stonato e tutti gli occhi si girarono su Wally Daller. Smise di dondolarsi sulla sedia e incrociò le dita dietro il capo. La giacca sgualcita gli si aprì, mostrando la cravatta di traverso sulla sua enorme pancia. «Be', capitano, che problema c'è? Insomma, se facciamo un passo avanti, ben venga, no? Quello che importa è risolvere il caso, giusto?» Squill fece per parlare ma nessun suono gli uscì dalla bocca. Ci fu una lunga pausa, poi tutti cominciarono ad annuire. Borbottìi di consenso. Rose Blankenship intervenne, forse stanca di vederci presi di mira. «Se c'è anche una sola possibilità che interrogando questa Terri si possa dare una svolta alle indagini, be', io dico di fermarla e interrogarla.» Blasingame batté le nocche delle dita sul tavolo. «Cazzo, sì. Sono stufo di battere la testa a vuoto contro il muro.» Fu il turno di Hembree della Scientifica. «Le scene degli omicidi ormai sono più pulite del rosario di una suora. Se c'è qualcuno da torchiare, torchiamolo.» «Vorrei avere un mandato di perquisizione per il suo appartamento», dissi. Anche se non avevo in mano nulla per giustificarlo, volevo vedere le reazioni di Burlew. Restò immobile come una statua di marmo, senza nemmeno respirare. «Non ci sono ancora abbastanza elementi per ottenere un mandato», osservò Tom Mason. «A meno che tu non abbia in mano qualcosa di cui non ci hai ancora parlato, Carson.» «Ci sto lavorando», risposi, lasciando intuire che forse qualcosa in mano ce l'avevo, senza ammetterlo esplicitamente, visto che in realtà non avevo
proprio nulla. «Se la portiamo dentro», disse Rose, «e se lei chiede l'assistenza di un avvocato, questo sarebbe già di per sé significativo.» Molte teste annuirono. La dinamica nella stanza era sfuggita dal controllo di Squill e aveva fatto un passo nella direzione di un vero lavoro di polizia. Avrei voluto baciare Wally sulla sua grossa fronte rosea. Lui mi guardò e strizzò l'occhio. Wally, maledetta gatta morta... Approfittai del momento favorevole. «Non credo che Terri Losidor sia coinvolta direttamente nel caso. Penso che c'entri indirettamente per qualcosa che ha a che fare con gli ultimi giorni di Nelson. La Losidor riesce a difendersi bene finché resta sul suo territorio, ma...» feci un gesto con le mani come per includere l'intera stazione di polizia in cui ci trovavamo, con i suoi suoni e i suoi odori, popolata da uomini e donne con gli occhi duri e le pistole nella fondina «...conosciamo tutti molto bene l'effetto che l'ambiente può avere su un cittadino fermato.» Harry prese le redini della situazione. «Terri non ha mai avuto a che fare con la legge e, probabilmente, non è mai entrata in un posto come questo in vita sua. Per quanto sicura possa sentirsi, dal momento in cui mette piede qui dentro non le do più di due minuti prima che cominci a cantare come un usignolo.» Lanciai un'occhiata di sottecchi a Burlew. Il suo volto era impassibile, ma gli lessi la paura negli occhi. Macchie di sudore gli erano comparse sotto le ascelle. Squill appariva confuso, come se gli stesse sfuggendo qualcosa di importante e non sapesse se farsi avanti o indietreggiare. Il sergente Bertram Funk infilò la testa nella stanza. «È qui che si discute del caso degli omicidi senza testa?» Squill ne approfittò subito per riprendere la sua prosopopea. «Siamo molto occupati, sergente. Cosa c'è?» Funk passò a Squill un messaggio. Le labbra del capitano si mossero mentre lo leggeva. «Sembra che sia stata trovata una testa tagliata. Sulla McDuffie Island. La stanno portando all'obitorio, dove la dottoressa Peltier è in attesa. Potrebbe essere collegata al caso, ma aspettiamo di vedere cosa risulta dall'esame medico. Voglio che tutti gli agenti impegnati nel caso si trovino all'obitorio entro un'ora e mezzo.» Terri Losidor venne rimossa dall'agenda per il momento. Burlew borbottò qualcosa riguardo a un appuntamento e uscì prima che potessimo alzar-
ci. Burlew ci mise meno di un quarto d'ora ad andare a bussare alla porta di Terri Losidor, entrare e uscirne con una cartelletta sottobraccio. Terri gli chiuse la porta alle spalle facendola sbattere. Burlew salì sulla sua auto, mise la cartella sotto il sedile e ripartì lasciando nuvole blu di gomma bruciata aleggiare nella sua scia. «Ho l'impressione che stiamo per scoprire qualcosa», disse Harry mentre uscivamo dal riparo di una Ford nel parcheggio di Terri, dopo aver concesso a Burlew un isolato di vantaggio. «Andiamo a chiudere il cerchio.» Burlew andò direttamente all'obitorio. Non aveva fatto nulla della cartella, che era ancora sotto il sedile. Squill arrivò pochi minuti più tardi ed entrò. Burlew camminò a passo leggero entrando a sua volta, come se si fosse tolto un peso di dosso. Harry mi fece scendere di fronte all'ingresso e anch'io entrai. Una volta all'interno, mi voltai e lo vidi parcheggiare a fianco all'auto di Burlew. Harry scese dalla macchina con in mano un grimaldello. La testa sul tavolo dell'autopsia non era in buone condizioni, carne scura che penzolava come cemento non ancora rappreso. Clair la toccò delicatamente con un bisturi scintillante. Squill era contro il muro con tre mascherine sul naso, una sopra l'altra. Doveva essere la seconda o la terza volta in tutta la sua vita che assisteva a un'autopsia. «Dove diavolo è Nautilus?» disse Squill, l'irritazione per nulla attutita dalle maschere. «Si è fermato al gabinetto, capitano.» Squill apparve disgustato, ma non ero in grado di stabilire se dipendesse dal ritardo di Harry o dalla puzza che emanava dalla testa putrefatta. Burlew era impassibile, la mascella che ruminava un pezzettino di giornale appena messo in bocca. «È la testa di Peter Deschamps, non c'è alcun dubbio», stabilì Clair, tenendo in mano una radiografia. «L'impronta dentale coincide.» «La testa presenta qualche lesione, dottoressa?» chiesi. Lei si accigliò. «L'abbiamo ricevuta meno di un'ora fa, Ryder. Posso dire di aver trovato una perforazione nel lobo parietale, della misura di un proiettile calibro 22 o 25. Nessuna ferita di uscita, a meno che il proiettile non sia schizzato fuori da un orecchio o da una narice, cosa che può succedere ma è piuttosto rara. Sono pronta a scommettere che il proiettile è ancora all'interno.»
«Non possiamo scuoterla come fosse una maraca?» chiese Harry entrando dalla porta. L'odore lo colpì e cercò il fazzoletto. Adi strizzò l'occhio. Aveva preso la cartella. «No, detective Nautilus, non possiamo.» «Altri danni o tracce di maltrattamenti?» chiesi. «Voglio dire, considerato il poco tempo a disposizione per l'esame, dottoressa Peltier. Nessun segno che sia stato malmenato?» «Voglio sottolineare ancora una volta che abbiamo appena cominciato. Ma per il momento sembrerebbe che la testa sia stata semplicemente rimossa e buttata via.» «Non sarà molto felice quando scoprirà che la cartella non c'è più», dissi, dal sedile anteriore. Avevo troppa adrenalina nelle vene per andarmi a sdraiare sul sedile posteriore. Dopo che l'autopsia non ebbe rivelato niente di particolarmente importante, Squill aveva congedato la truppa. Harry e io riprendemmo a pedinare Burlew. Ci tenemmo a tre quarti di isolato di distanza, avendo cura che ci fossero sempre abbastanza auto fra la nostra e la sua. «Aveva infilato la cartella molto in fondo, sotto il sedile», disse Harry. «Non la cercherà finché non sarà arrivato a destinazione. Che penso sia casa sua, a giudicare dal percorso.» La nostra preda rallentò e imboccò la strada dove viveva. Piccole villette a due piani, costruite negli anni Cinquanta all'ombra di alti alberi. Le aiuole erano ben irrigate e rigogliose. Una donna dai capelli bianchi conduceva al guinzaglio un cane da caccia dal pelo lucido. Il tutto era abbastanza grazioso, tanto da sembrare parte di un teatro di posa, una strada per la scenografia di un film della Walt Disney. Fino al momento in cui Harry si era fatto dare l'indirizzo di Burlew, avevo sempre creduto che vivesse in qualche squallida baracca in un sobborgo popolare. O in una caverna. Harry imboccò un vialetto e noi svoltammo prima di passargli davanti. «Fermati da qualche parte», ordinai. «E andiamo a vedere che razza di pesce abbiamo preso.» Parcheggiammo dietro a una scuola elementare due isolati più in là. Mi infilai un paio di guanti e tirai fuori dalla cartella una risma di fogli e una busta venti per venticinque. Guardai tra i fogli e ne tolsi una pagina stracciata dalla sezione annunci personali del NewsBeat. La lessi a voce alta. «Uomo affascinante cerca amico affezionato - MBS, ventidue, bisex, sano. Occhi blu, capelli scuri, molto attraente e mascolino, muscoloso,
splendido sorriso, sia dolce sia scatenato, tradizionale o innovativo, ama viaggiare e sa essere un ottimo compagno. Ricerca uomo più maturo, distinto e generoso...» «L'inserzione di Nelson», disse Harry. «Generoso? Dici che significa quello che penso, Cars? Tira fuori un po' di soldi prima di allungare le mani sul miele?» Annuii e continuai a leggere poche altre righe di descrizione seguite dalla richiesta di inviare una foto. «Nient'altro, tipo l'annuncio di Cutter?» domandò Harry. «O qualcosa dalla Losidor?» Trovai un altro annuncio, molto simile al precedente, ma rivolto a donne; erano entrambi molto accattivanti; con un po' di esercizio, Nelson sarebbe potuto diventare un ottimo copywriter per una agenzia di pubblicità. Ma quello era tutto quanto sembrava riguardare il caso. Nient'altro, se non una serie di moduli graffati insieme per essere archiviati. Misi i fogli da parte e aprii la busta. «Foto di Nelson, ci scommetto», disse Harry. «Che sorride per il pubblico.» Dalla busta cadde fuori una serie di fotografie e dei negativi. Guardai una delle foto. Poi un'altra. Poi le passai tutte come una mano di carte a ramino. «Merda», sibilai, passando le foto a Harry. Ne guardò diverse, poi se le lasciò cadere in grembo. «A carrettate e a palate», concordò. 25 «Tutto ciò è un po' difficile», disse Zane Peltier. Era seduto su un divano di velluto rosso e teneva lo sguardo fisso sul tappeto orientale. Al suo fianco c'era la cartella. Di fronte a lui, su un tavolo di cristallo, erano disposte le foto, a faccia in giù. Harry era seduto su uno sgabello da pianoforte, davanti a uno scintillante Steinway. Mi appoggiai contro lo schienale ricco di ornamenti di una poltrona, una Luigi qualcosa o qualcos'altro. Ho sempre fatto confusione fra i vari Luigi. Clair era seduta su una poltrona, di fianco al marito. Zane voltò verso di lei i suoi occhi umidi. Lei distolse lo sguardo. La loro casa si trovava sulla sponda orientale della baia di Mobile, a Daphne, su un rialzo che dominava il paesaggio. La casa dei Peltier era una
sfilata impressionante di colonne, archi, soffitti alti e decorati. Candelabri erano sparsi dappertutto e la luce che entrava dalle finestre si rifrangeva su una cascata infinita di cristalli appesi al soffitto. L'arredamento era degno della spaziosità dell'ambiente: pianoforte a coda, enormi armadi, buffet e controbuffet di legno pregiato col ripiano di marmo. Quadri impressionisti ricoprivano le pareti. Il tappeto candido come la neve aderiva così perfettamente al pavimento che sembrava vi fosse stato versato sopra invece che semplicemente appoggiato. Eppure, nonostante la varietà di mobilio e di decorazioni, non notai alcun elemento che indicasse la presenza di due diverse persone in quella casa. L'unico segno di vita veniva da due vecchie scarpe sportive sotto una sedia, scarpe da donna. Era pomeriggio tardi, l'ora in cui sopra il golfo si formava la foschia che veniva poi attirata verso la terraferma. Pioveva a chiazze, il lato est di un campo illuminato dal sole mentre su quello ovest cadevano gocce di pioggia grosse come biglie. Attraverso le finestre da cattedrale vidi nubi scure allinearsi all'orizzonte, cumulinembi minacciosi e gravidi di tempesta. Fra le nuvole facevano capolino sottili striature di cielo azzurro, invisibili tranne quando si trovavano allo zenith. Harry si spostò sullo sgabello. Mi schiarii la gola e mi rivolsi a Zane. «Era lei a occuparsi di tutto il lavoro amministrativo», dissi. Zane ispezionò le sue scarpe nere lucide con occhi umidi. «Io sono un uomo d'affari. Clair è un medico.» «Ha organizzato tutto lei.» «A Clair succedeva spesso che le chiedessero di valutare macchinari e impianti per conto dei fabbricanti. Io le ho solo suggerito di trasformare la cosa in una regolare attività d'affari, pagando le tasse e tutto il resto. Bayside Consultants.» Guardai Clair. Il suo viso era una maschera di pietra e non potevo immaginare cosa celasse. Eravamo venuti a parlare con Zane, ma poi era comparsa Clair e si era impossessata della cartella. Aveva esaminato tre fotografie, tanto esplicite da rendere inutile ogni commento, e le aveva passate a suo marito senza una parola. Questo succedeva dieci minuti prima. Erano stati dieci minuti molto lunghi. «Il motivo per cui è rimasto così sconvolto quando ha visto il corpo di Nelson all'obitorio è che lo aveva riconosciuto», dissi. «Le sue mani. La pelle. La...» Zane si prese il viso fra le mani. Le sue unghie scintillavano come quarzo. Aveva una piccola fede d'oro e un anel-
lo d'argento più grande. Clair rabbrividì e distolse lo sguardo. «Quando aveva bisogno di una scusa per andare a Biloxi, metteva di mezzo la Bayside», dissi. «Tanto Clair non controllava mai.» Si pizzicò il setto nasale. «Già. Si limita a firmare le dichiarazioni dei redditi.» «Ha incontrato Nelson tramite il NewsBeat.» «Un giorno gli stavo dando un'occhiata e ho visto un annuncio...» Guardò Clair. «Solo per avere qualcuno con cui parlare. Solo parlare.» Le mani di Clair cominciarono a tremare; il movimento fu subito represso. Zane continuò: «Ci siamo incontrati ed è così che è cominciata. Era... non so come dire...» «Non ha avuto nulla a che fare con la sua morte, o sì?» I suoi occhi si spalancarono, pieni di orrore. «Mio Dio, no. Anche se...» «Anche se lui e Terri Losidor hanno cominciato a ricattarla. Era lei la sua gallina dalle uova d'oro, quella di cui si vantava.» Immaginai che, quando Terri aveva sporto denuncia contro Nelson, lui le avesse offerto di dividere i proventi del ricatto nei confronti di Zane Peltier. A quel punto, Terri doveva aver scoperto molto presto che il talento di Nelson nel gestire un'attività, anche criminale, era di gran lunga inferiore alla sua avidità, e si era quindi decisa a lasciarsi coinvolgere a fondo nella pianificazione della truffa. «La moglie di Peltier va via per qualche giorno? Jerrold, devi farti portare in qualche posto di gran classe dove possiamo nascondere una telecamera...» Zane mormorò: «Aveva chiesto centomila dollari». «Immagino che per lei non sia molto.» «Conoscevo Jerrold abbastanza da sapere che lui... loro, non si sarebbero accontentati. A questo punto mi sono confidato con un poliziotto, uno che coordinava la sicurezza in occasione di eventi organizzati dalle mie società, assemblee di azionisti, cene di beneficenza... un certo sergente Burlew.» «Ecco uno dei vantaggi nascosti di essere il portaborse di Squill», dissi a Harry. «La possibilità di ottenere lavori in nero ben pagati.» «Ho chiesto al sergente di trovare e distruggere il materiale incriminato», continuò Zane. «In cambio gli avrei dato ventimila dollari.» Cominciavo a vedere dove la strada portava. «Solo che poi lo stesso Burlew ha cominciato a ricattarla, non è così?» «Quando Jerr - il signor Nelson - venne ucciso, il sergente Burlew disse
che a quel punto io ero coinvolto nell'omicidio di un omosessuale con precedenti di droga e prostituzione, uno scandalo incredibile. Sarei diventato lo zimbello della comunità.» «Burlew ha continuato dove Nelson aveva smesso, cominciando a sua volta a ricattarla, non è vero?» I fili non erano più invisibili; erano un recinto nero su un campo di neve. Immaginai che quando Nelson era ancora in vita, era Terri quella che teneva le foto. Che lei avesse continuato a custodirle significava che si era messa in società con Burlew. Stava dimostrando di essere una donna dalle infinite risorse. Zane annuì. «Il sergente Burlew mi chiese duecentomila dollari. Oltre a un lavoro in una delle mie aziende.» «Direttore della sicurezza?» buttai lì. Zane mi fissò negli occhi per la prima volta. «Voleva fare l'orticoltore.» Lo guardai come se avesse parlato in swahili. «Orticoltore? Intende dire...» «Intendo dire piante, detective Ryder. Alberi. Fiori. Ho una partecipazione in una grande azienda che si occupa di forniture per parchi e giardini. Il sergente Burlew voleva lavorare come orticoltore, con una posizione garantita fino al momento in cui avesse deciso di andare in pensione. Su questo punto è stato irremovibile.» Zane mi guardò e si strinse nelle spalle. «Non le ha mai fatto il nome del capitano Squill?» Ero ancora perplesso dalla storia dell'orticoltore. Zane abbassò gli occhi. «Non ricordo.» «Cosa può dirmi dell'incendio al NewsBeat?» «Il sergente temeva che nell'archivio potesse esserci traccia della mia lettera di risposta a Nelson. Che le indagini potessero portare alla luce qualcosa. Non sono in grado di dirle se sia stato lui a provocare l'incendio.» «Se la cosa fosse diventata di dominio pubblico, il controllo di Burlew su di lei sarebbe svanito», dissi. «Ma lei ria anche controllato il giornale di persona.» «Sono passato in auto un paio di volte... solo per dare un'occhiata.» Mentre parcheggiavamo sotto la casa avevo visto la parte posteriore della Jaguar nel garage. Zane cominciò a piangere. Clair si sedette sul divano a fianco a lui e gli mise la mano sulla spalla. Ma i suoi occhi rimasero fissi sulle nuvole nere fuori dalla finestra. «Avevo una mezza idea che questo fosse il posto giusto», disse una voce dalla porta. Burlew entrò nella stanza. Clair si alzò, infuriata. Harry guardò
dallo sgabello. Mi girai verso Burlew, con i pugni stretti. «Oh, andiamo Ryder», disse Burlew. «Cresci.» «Sergente», intervenne Clair, «voglio che lei lasci immediatamente questa casa.» Burlew strizzò i suoi occhi da bambino e si voltò verso Zane. «Non c'è nessun problema, signor Peltier. Nessuno.» «Nessun problema?» ripeté Zane. «Sto per diventare una barzelletta ambulante e lei sta per andare in galera.» «Io non ricordo nulla», mormorò Burlew. «Le mi ha ricattato con...» «Non ricordo proprio nulla», ripeté Burlew. «Lei sta usando parole molto grosse, signor Peltier.» Capii cosa stava per succedere. Le narici di Zane cominciarono a contrarsi come se avesse annusato aria fresca da una fonte inaspettata. «Di cosa diavolo sta parlando, sergente?» «A meno che lei non faccia denuncia contro... ignoti, non ci sarà nessun processo. Niente processo, niente cattiva pubblicità. Nessuna fotografia da presentare come prova, là dove tutti possono vederla.» Burlew sorrise, formando un piccolo arco rosso con le labbra. «Sa qual è la mia preferita? Quella che ho battezzato il passo dell'oca, dove lei sta...» «Fuori di casa mia, sergente», ordinò Clair. «Subito.» Harry si chinò verso il pianoforte appoggiando i gomiti alla tastiera. Una nota bassa risuonò. Harry sorrise mentre guardava Burlew, poi si voltò verso di me. «Ti ho mai detto di un partner che mi è stato assegnato, tanto tempo fa, Cars? Saranno passati, diciamo, dodici anni?» Burlew arrossì. «Vaffanculo, Nautilus.» Harry lo guardò con calma. «Faresti meglio a montare in sella, Burlew», disse. «Forza, cowboy, dacci dentro. Al galoppo.» Gli occhi di Burlew si ingrandirono fin quasi a raggiungere una dimensione normale. Arrossì fino a diventare del colore di una mela. Cominciò a dire qualcosa ma si interruppe. Girò sui tacchi e se ne andò, spostandosi su gambe rigide come i pali di un recinto. Quando sentimmo il motore dell'auto mettersi in moto, Zane si alzò e si tirò i polsini, mentre uno sguardo di costernazione gli si dipingeva sul volto. «Chi era quello?» domandò a nessuno in particolare. «Di cosa diavolo stava parlando?» Clair guardò suo marito come se fosse sul punto di vomitare, poi uscì dalla stanza. Harry mi sfiorò il braccio e mi fece cenno di seguirlo. Ci al-
lontanammo di una dozzina di passi e ci fermammo. Harry mi si avvicinò e mi sussurrò: «Allora, tutto ciò non c'entra proprio nulla con il nostro caso?» «Esatto», risposi. «Assolutamente nulla. Non è altro che una pista parallela.» Harry scosse il capo, maledì Burlew a bassa voce, e se ne andò. Mi feci dare le foto e me ne andai in silenzio. Clair mi intercettò nell'atrio. «Esigo che questo caso venga seguito come qualsiasi altro», ordinò. «Chiunque sia coinvolto.» «Non c'è nessun caso, Clair. Dipendeva dalla testimonianza di Zane contro Burlew. Non c'è nessun'altra prova contro Burlew, a meno che Terri Losidor non accetti di testimoniare. Ma lei è sul carro di Burlew.» La risata di Clair fu metallica, priva di umorismo. «Zane non parlerà. In questo momento sta elaborando qualche storia patetica per impietosirmi.» Mi sfiorò il braccio, gentilmente. «Seguire questa pista vi ha portato fuori strada, non è così?» «Eravamo alla ricerca di un personaggio nascosto con degli stretti legami con Nelson. Pensavamo che potesse condurci fino all'assassino, non...» «Non a mio marito.» Mi strinsi nelle spalle. Lei scosse il capo. «Sei di nuovo al punto di partenza?» «Stiamo anche lavorando sulla possibilità che i corpi fossero dei messaggeri, delle specie di zombi. Eravamo a quel punto quando siamo andati... fuori strada.» Clair uscì e io la seguii. Dall'altro lato della baia, a otto miglia di distanza, sotto la pioggia, c'era Mobile. Il cielo era una cosa sola con la città, fusi in un'unica cortina di grigio. Scendemmo lungo il vialetto fra le azalee e le rose. «Buona parte di tutto quello che è successo è colpa mia, Carson», disse, fermandosi sotto a un roseto. «Tutta colpa mia. Sono stata stupida.» L'olezzo dei fiori stagnava nell'aria, contrastando con l'amarezza delle parole. «Non capisco, Clair.» Lei guardò verso il mare, scuro come le nuvole. «Sapevo che Zane era un debole ancora prima di sposarlo. Avevo perfino sospettato della sua bisessualità, anche se forse sarebbe meglio definirlo asessuato. Ma era il non plus ultra di quello che una donna con il mio curriculum poteva sperare di prendere all'amo, Ryder. Aveva soldi, posizione, potere...» «Clair, non sei obbligata a...»
I suoi occhi blu si fissarono su di me e io taqui. «Zane si è presentato come se fosse un passaporto per accedere a quel mondo, un mondo di patrimoni ereditati, di gente influente, di fama, e io mi sono venduta come se fossi un bene materiale. Vedi, come quasi tutti quelli della sua classe sociale, Zane non ha mai dovuto fare nulla per avere quello che si è trovato in mano, salvo aprire gli occhi alla nascita. Io ho dovuto lottare per anni per acquisire esperienza, per ottenere risultati professionali. Tutto quello che mi mancava era un palcoscenico su cui mostrare agli altri dove ero arrivata.» «Sei famosa in tutto il Paese, Clair. E anche all'estero.» Fece un sorriso triste. «La vanità è un recipiente che si allarga mentre viene riempito, Ryder. Professionalmente, vengo rispettata per quello che sono, ma non sono da sola, sono parte di un gruppo formato da tanti professionisti capaci e apprezzati. Non è così nel mondo di Zane. Lì, io sono un'anomalia, una donna che si è fatta da sé in un mondo di teste vuote, i cui successi sono la fotocopia di quelli di Zane: ereditati, comperati, o acquisiti per matrimonio. Ma come potevo fare a raggiungere una posizione tale da stare a fianco a quella gente, e far vedere di essere meglio di loro?» I suoi occhi mi dissero che ero io a dover fornire la risposta. «Sposando Zane Peltier», risposi. Rise senza gioia. «La vanità è un pifferaio perverso. Ho seguito il sentiero pensando che salisse mentre invece scendeva.» Al di là della baia, i confini del velo di pioggia sopra Mobile si fecero dorati, mentre i raggi di sole gli passavano attraverso. Clair rifletté un attimo. «Questi sono pensieri recenti, Ryder. Ho cominciato a farli solo dopo che sei venuto a parlarmi della dottoressa Davanelle, di Ava. Dopo che sei andato via, mi sono accorta che la mia prima reazione non era stata 'Come posso aiutarla?' ma 'Come posso evitare che la mia reputazione venga danneggiata'. Era un pensiero deplorevole. Sono una sciocca egoista.» Scossi il capo. «Credo che tu abbia inciso una tacca sul muro cinque centimetri sopra la tua testa in modo da non raggiungerla mai, Clair. Questo ribalta le priorità.» Clair allungò la mano verso un ramo e ne staccò una rosa. «L'atto di debolezza di Zane, la sua sottomissione nei confronti di Burlew mi ha disgustata oltre il tollerabile. Non verso Zane, ma verso di me.» Accennò alla casa. «Questo non è mai stato il mio posto, questa mostruosa sopraffazione di cose. Tutto quello che ho amato in vita mia è il mio lavoro, la mia capacità di...» Fece una pausa e strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche.
«Maledizione. Ecco che lo faccio di nuovo, Ryder, che centro tutto su di me. La mia vita. Le mie cose. Il mio lavoro.» Si voltò e si strofinò gli occhi con i polsi. «Come sta Ava? Dimmi che sta bene anche se non è vero.» «Clair, penso che stia...» Clair mi appoggiò un dito sulle labbra prima che potessi finire. Il suo profumo mi diede alla testa. O forse erano le rose. «Solo per oggi, dimmi che sta bene. Dimmi che ce la farà.» Rimosse il dito. «Ce la farà, Clair.» Lei fece un sorriso luminoso, uno straordinario atto di volontà. «Senza dubbio. È giovane, ed è forte. E diventerà una donna meravigliosa. Tutto andrà bene. Il mondo è fatto di diamanti e di rose, Ryder. No, all'inferno i diamanti, non sono altro che terra che si dà delle arie. Il mondo è fatto di rose.» Il suo sorriso si infranse come vetro e lei mi cadde fra le braccia. La sostenni e lei pianse, adagio, più sospiri che lacrime. Sentii il calore delle sue labbra sfiorarmi la guancia. Poi si raddrizzò, si asciugò gli occhi sulla manica e mi spinse verso l'auto. «Ci sono cose da fare», fu tutto quello che disse. La guardai raddrizzare la schiena, serrare la bocca e marciare in quella casa cavernosa. Sapevo che era il segnale per iniziare il viaggio che fino a quel momento avevo evitato. La nostra indagine era appena andata a cozzare contro un muro e ora era il mio turno di mettere le cose a posto. Nonostante avessi fatto quel numero non più di sei volte in tutta la mia vita, tirai fuori il cellulare di tasca e chiamai Vangie come se avessi il numero impresso a fuoco nell'anima. 26 La notte, rinfrescata da una brezza lieve e appena illuminata da uno spicchio di luna color perla, sarebbe stata splendida, dovunque fossi stato. Ma non dove mi trovavo. Là, su quel terreno, la luna splendente, così come le stelle, erano fuori posto. Quello era un luogo al di là della bellezza, una terra dove anche le ombre erano cancellate dall'ombra e la luce era pura ironia. Mentre percorrevo la distanza dalla strada al cancello, le mie mani stringevano il volante con tanta forza da farmi venire i crampi. Cercai di rilassare le dita e mi ricordai che in tutto ero stato lì quattro volte e che ogni volta avevo mentito a me stesso dicendo che sarebbe stata l'ultima.
La guardia al cancello prese nota del mio nome e mi controllò i documenti confrontandoli con quello che c'era scritto sul suo registro, tenendomi per tutto il tempo una torcia puntata contro il viso. Non ne fui offeso: era il modo normale di comportarsi in quel posto, dove non erano consentiti errori. Mi fermai nel parcheggio, dove un'altra guardia mi trattò come se il suo collega al cancello fosse servito solo a scaldarmi i muscoli. Entrai, fra uno scorrere di catenacci e uno sbattere di porte. Anche se era tardi, Vangie era lì. Sapeva di che umore ero e la sua conversazione non si spinse oltre i saluti. Una terza guardia si avvicinò per scortarmi fino alla cella di Jeremy. Gli dissi che, a meno che non lo chiamassi specificamente, per nessun motivo doveva aprire la porta o lo spioncino. Chiesi che la telecamera di sorveglianza venisse spenta e Vangie accettò con riluttanza. La guardia la fissò con occhio scettico. «Sa quello che fa», disse lei. «Meglio per lui», replicò la guardia. Percorremmo un lungo corridoio bianco su cui si apriva una serie di porte corazzate, con gli spioncini chiusi. Una sirena cominciò a suonare, sempre più acuta. Pensai che fosse un allarme anti-incendio, finché non mi accorsi che era l'urlo di un uomo, anche se non riuscivo a immaginare quale visione infernale potesse scatenare un grido del genere. Per un po' l'urlo aleggiò nell'aria come intrappolato, poi sparì in un'altra dimensione. Vidi la guardia che mi studiava con uno strano sorriso di esultanza e capii che era eccitato dalla possibilità di lavorare dove l'angoscia e l'orrore erano la norma. Mi venne voglia di mollargli un cazzotto sulla sua bocca ghignante, e vedergli la testa schizzare all'indietro e la saliva e il sangue tracciare una scia lungo il muro, come una cometa. È il posto, mi dissi. Stai calmo. Ci fermammo di fronte a una porta. «Aspetterò fuori», disse la guardia. Aprì lo spioncino e sbirciò dentro prima di inserire una tessera di plastica nella serratura elettronica. La porta si aprì con un sibilo. Entrai. Se non altro, assomigliava alla stanza di un dormitorio. Cassetti, un armadietto aperto, un lungo tavolo che serviva da scrivania con una sedia, un'altra sedia in un angolo, un letto tipo futon. I mobili erano fatti di plastica morbida. C'era una mensola carica di libri. Un lavandino, un gabinetto e una doccia incassata nel muro. Uno specchio grande che rifletteva immagini deformate. Jeremy era seduto sul letto con un libro verde fra le mani. Magro e palli-
do, con occhi blu e capelli color granoturco, non aveva la corporatura robusta di mio padre, ma aveva ereditato il suo colorito. Indossava una tuta grigia, calze grigie e ciabatte. Guardò in su come se facessi parte della sua routine di tutte le sere. Mi appoggiai alla parete con le braccia incrociate. Toccò il libro con il dito. «Hai mai letto Lucrezio, Carson?» «Non lo leggo dal secondo anno di università, mi sembra.» «Davvero? Quale secondo anno? Scherzo. Ti leggo una delle mie preferite: 'Come i bambini tremano e temono tutto nel buio più profondo, noi, nella luce, a volte temiamo ciò che non dovrebbe essere temuto, più delle cose che i bambini nel buio credono essere terrificanti e immaginano diventino vere'.» Si strofinò le sopracciglia, perplesso. «Ma la mia domanda è: chi è che deve aver paura quando i bambini spaventati hanno ragione, Carson?» Guardai l'orologio. «Vorrei cominciare da...» La sua voce scese di un'ottava. «Chi è che deve aver paura, Carson, quando i bambini spaventati hanno ragione?» «Ho avuto una giornata pesante, Jeremy.» «CHI È CHE DEVE AVER PAURA, CARSON? NON SI TRATTA DI CHIRURGIA CEREBRALE.» Nonostante sapessi che era in preda a emozioni contrastanti, non mi riuscì di evitare che la rabbia mi affiorasse nella voce. «I genitori, Jeremy. Cosa ne pensi? Domanda e risposta. Azione e reazione. Suono ed eco. Hai finito?» Inclinò la testa come per ascoltare musica nella distanza. «La mamma sta bene?» Sospirai. Sempre lo stesso gioco. «Ti ho chiesto se la mamma sta bene. Sta bene, non è vero?» «La mamma è morta, Jeremy. È morta da tre anni.» Inarcò un sopracciglio. «Oh, che peccato! Ha sofferto molto?» «Sì, Jeremy, ha sofferto.» Sofferenza. Dolore. Dolore bianco, dolore nero. Dolore che le aveva ridotto le mani in moncherini di ferro e che l'aveva fatta divenire quasi trasparente di fronte al suo fuoco candido come neve. Non aveva voluto saperne di pillole e nemmeno mi aveva mai permesso di fare qualcosa per lei, tranne alla fine, quando non poteva più opporre resistenza. Aveva avuto bisogno di passare attraverso l'inferno, nel caso ci fosse un paradiso. «Ha sofferto abbastanza per tre?» chiese. «Non sto mettendo anche te nella lista, ovviamente. Tu sei riuscito a sfuggire alle fiamme. Oh, forse ne
hai avuto qualche conseguenza, qualche problema nervoso, ma la tua anima non è stata bruciata. Sei stato salvato dalle fiamme. La tua anima si è bruciata, Carson?» «Sai una cosa, Jeremy? Avremmo potuto fare tutto questo per posta. Domanda: la tua anima si è bruciata? Sbarrate la casella Sì o No.» «NON PERMETTERTI DI PRENDERMI IN GIRO! SEI TU CHE HAI BISOGNO DI ME. IO NON HO BISOGNO DI TE. Proverò di nuovo. La tua anima si è bruciata?» Presi la sedia da sotto il tavolo e mi sedetti in modo che i nostri occhi si trovassero allo stesso livello. «No, Jeremy.» «Che strano, considerando che le fiamme erano praticamente dappertutto. Come mai?» «Dimmelo tu, Jeremy. Mi sembra che non hai avuto da pensare ad altro.» Jeremy saltò sul letto, strillando e gemendo. «PERCHÉ IO HO UCCISO IL BASTARDO, ECCO PERCHÉ. Ho collegato quell'URLO all'URLO e HO URLATO finché il suo URLO e il suo URLO gli scorrevano giù per le gambe come vermi e miele nero. Ho ficcato la mia faccia nel suo URLO mentre era ancora vivo per guardare. Ecco perché la tua anima non è finita in cenere, fratello. IO TI HO SALVATO!» Jeremy saltò dal letto e andò avanti e indietro per la stanza, una volta, due, poi si mise di fronte allo specchio assumendo la posizione di un battitore di baseball. Mi strizzò l'occhio nell'immagine deformata. «Forse tutto questo non sarebbe successo se il nostro caro paparino avesse giocato un po' con me.» Abbassò la voce e fece una perfetta imitazione della voce di nostro padre. «Ehi, figliolo, cosa ne dici se andiamo un po' fuori a giocare a baseball?» «Piantala, Jeremy.» «No, figliolo, quella non è la maniera giusta di tenere la mazza, tienila così.» «Smettila.» «Maledizione, ti ho detto di tenerla così.» «Non farlo.» Mi alzai. «Tienila così piccola testa di cazzo!» Saltai di fronte a lui. «Jeremy!» «Ti faccio vedere io, lurido bastardo, ti faccio vedere io...» Lo presi per la camicia. Jeremy gettò il capo all'indietro e un urlo che
proveniva da un corridoio di tanto tempo prima squarciò il cuore del presente. Mia madre si volta verso di me e dice: Vai a letto, finirà presto. Lo spioncino si apri di scatto. «Tutto a posto?» si informò la guardia. I suoi occhi scandagliarono la stanza fino a inquadrare Jeremy calmo e sorridente, e me, con la schiena contro la parete, madido di sudore. Gridai: «Chiudi quello spioncino». Lo richiuse e io andai al lavandino e mi spruzzai acqua fredda sul viso. Jeremy sedette sul letto e sorrise. «Ora che abbiamo finito la cerimonia di apertura, di cosa vuoi parlare, Carson? Fammi indovinare... i fatti avvenuti a Mobile di recente? Lo sapevo che avresti avuto bisogno di qualche consiglio quando non avresti trovato le risposte da solo. Hai portato le foto e i file da farmi analizzare? Per un giorno o due? E un accendino?» Quando tornai a Dauphin Island era mezzanotte. Da sud stava avvicinandosi un temporale con un brontolio di tuoni e riflessi di fulmini fra le nuvole. Speravo di non trovare Ava sveglia e di potermi buttare sul letto e di sprofondare nel buio che desideravo più di ogni cosa. Quando girai l'angolo e vidi la Volvo di Harry di fronte a casa pestai sul freno e restai a lungo fermo a guardarla. Cosa voleva a quell'ora? Sentii la mia testa piegarsi. Andai avanti adagio e parcheggiai. Feci fatica a salire i gradini, come se lo spazio fra loro fosse raddoppiato. Harry e Ava erano immobili come marmo. Harry sembrava una statua sulla poltrona. Ava una statua sul divano, una tazza di tè a metà strada fra il seno e le labbra. Qualcuno doveva avermi versato addosso cera liquida mentre entravo in casa; ora che stava indurendosi, i miei movimenti erano sempre più lenti e difficili. «Perché sei qui domani?» chiesi alla statua di Ava, sentendo le mie parole uscirmi dalla bocca del tutto sbagliate, cercando di ricordare cosa avevo cercato di dire veramente. Feci un altro tentativo e tutto quello che riuscii a dire fu: «Cioè, Harry, tardi...» Mentre aspettavo che mi si sciogliesse la lingua, il pavimento tremò come se un fulmine avesse colpito le fondamenta senza fare rumore. Doveva aver bruciato i piloni di sostegno perché la casa si inclinò e cominciò ad abbassarsi. I piloni stanno cedendo, disse una voce calma nella mia mente. Ma perché i mobili stanno fermi? Guardai meravigliato: la mia casa non si era mai comportata così fino a quel momento.
«Tienilo così. Un po' più in là. Così.» La voce di Ava proveniva da una vecchia registrazione piena di sibili e cigolìi. «È grave?» disse la voce di Harry, registrata sullo stesso nastro. «Ustioni di secondo grado. È meno peggio di quanto sembra. Il rischio più grosso è l'infezione.» Altri suoni. Un altro colpo di tuono, distante e in sordina. Il sibilo era dato dalla pioggia sul tetto. Aprii gli occhi nuotando per risalire dalla profondità verso la superfice scintillante. Cercai di alzarmi a sedere, ma la mano di Harry mi bloccò. «Non muoverti, fratello», disse. Sentii un dolore bruciante sui muscoli del braccio. Ero sdraiato sul divano, senza camicia. Ava mi stava spalmando addosso una pomata che puzzava di vernice fatta di cavolo andato a male. Harry mi teneva fermo il braccio mentre mi contorcevo. «Dove sei stato stasera, Cars?» «A una riunione di boy scout», risposi, mentre riuscivo a mettere a fuoco la stanza. Ava mi fasciò con della garza dalla spalla al gomito. Harry mi sollevò a sedere delicatamente mentre Ava ammucchiava dei cuscini per sostenermi il braccio. Andò in cucina. Harry si chinò in avanti. «C'era anche Jeremy a quella riunione, Carson?» Il respiro mi si congelò. Harry sapeva. Chiusi gli occhi. «Ho parlato di lui mentre ero svenuto, vero?» «Non hai detto una parola.» «E allora come...» «So di Jeremy, fratello. Lo so da un anno.» La mia bocca non pronunciò la domanda ma lo fecero i miei occhi. Harry disse: «Faccio il detective, no? L'investigatore. E investigo». Ava ritornò con in mano un bicchiere di whisky. Si chinò al mio fianco e me lo avvicinò alle labbra. «Quella roba è veleno per te», la ammonii. «Veleno per me, medicina per te. Bevi.» Il calore mi colpì lo stomaco e si diffuse nel corpo. Un fulmine brillò fuori e per un attimo le luci si spensero. Poi echeggiò il tuono. Harry avvicinò una sedia e mi si sedette a fianco. Il dolore nel braccio cominciò ad attenuarsi e, con esso, il mio disorientamento. «Mi hai seguito all'ospedale l'anno scorso?» chiesi. «A quel tempo non ti saresti accorto di aver qualcuno alle calcagna nemmeno se lo avessi avuto appiccicato alla fronte. Ti ho quasi tamponato
all'ingresso. E se quello è un ospedale, Fort Knox è uno sportello automatico.» «Non potevi mollare, vero? Non è nel tuo stile.» «Ho scavato a fondo nella questione», continuò lui. «Certo che sì, ma non sono ancora sicuro di cosa ho scoperto. So che Jeremy Ridgecliff è tuo fratello. Sei stato da lui a chiedere consiglio riguardo Adrian?» Non riuscii a guardarlo negli occhi. «Non ero sicuro che stessi facendo la cosa giusta, Harry.» «Non c'è nessuno, fra voi, che possa essere tanto gentile da spiegarmi cosa sta succedendo? Per favore...» si intromise Ava. Distolsi lo sguardo. Harry girò la sedia per guardarla. «Un anno fa, un agente di pattuglia ha inseguito dei balordi drogati fin dentro le fogne, in mezzo ai topi. Ed è inciampato sul corpo di una ragazzina delle case popolari, una dodicenne di nome Tessa Ramirez. Aveva la faccia e gli occhi completamente bruciati. La Scientifica ha stabilito che le avevano appoggiato della seta sugli occhi e poi l'avevano incendiata. E quando l'hanno incendiata, lei era ancora viva.» Le sue parole evocarono immagini indesiderate nella mia memoria. Tessa Ramirez, sdraiata a faccia in su, fra i topi e i vetri rotti, i suoi occhi tizzoni scuri che mi bruciavano l'anima. Aiutami, gridava, anche se era morta da una settimana. «Mio Dio», sussurrò Ava. Harry disse: «Un mese più tardi un vecchio barbone avvinazzato fu ritrovato nelle stesse condizioni», continuò Harry. «E non c'era nessuna pista da seguire?» «Niente di niente. Poi, un giorno, un agente di pattuglia mi viene a dire che i tamponi di seta incendiati potrebbero essere visti come uno strumento associativo fra l'assassino e le vittime. L'agente suggerisce anche che le vittime potevano essere state scelte da un 'fuoco associativo' prima delle esecuzioni. Ho pensato che fosse matto da legare, comunque ho fatto dei controlli, e ho scoperto che entrambe le vittime avevano assistito a incendi nei sei mesi precedenti, come spettatori. Abbiamo informato i grandi capi, ma loro avevano già chiamato i federali, e i profiler dell'FBl avevano concluso che i fuochi erano un modo di nascondersi, che la teoria del fuoco associativo era follia pura.» «E come spiegavano gli incendi?» «Coincidenze, secondo i capi. Si trattava di incendi grossi, un vecchio condominio in centro, una fattoria vicino a Saraland. C'erano state centi-
naia di curiosi. A me e all'agente di pattuglia hanno fatto un culo così per aver osato interferire.» Ava mi guardò. «E quell'agente eri tu.» Annuii di malavoglia e fui felice che un'improvvisa scarica di tuoni mi assolvesse dall'onere di rispondere. Harry versò un altro bicchiere di Glenlivet e continuò. «Cynthia Porter e la sua figlia ventenne vennero trovate uccise, gli occhi ridotti a braci. Il marito della Porter era un noto concessionario d'automobili. Finanziava entrambi i partiti politici. A differenza delle due vittime precedenti, qui era coinvolta una famiglia bianca ad alto reddito. E venne fuori un pandemonio. Il reparto di polizia avviò un'indagine parallela, concedendo un piccolo spazio e me e a Carson per seguire la teoria dell'associazione. Non ci credevano per nulla, ma volevano far vedere che non trascuravano nessuna possibilità. Questione di immagine...» Ava chiese: «I Porter erano stati... scelti... in seguito a un precedente incendio?» «Scelti? Bella parola. Un mese prima si erano trovati sulla scena di un misterioso incendio di fronte a un locale di strip-tease. Stavano facendo shopping quando hanno visto il fumo e si sono fermati a guardare. Carson aveva avuto un'idea: aveva suggerito che io e lui andassimo sui luoghi dove c'erano degli incendi, specialmente quelli che potevano essere di origine dolosa. Mi disse che c'era una buona possibilità che l'assassino provocasse gli incendi all'unico scopo di scegliere le proprie vittime.» Ava mi guardò. «Avevi ragione, non è vero?» Una raffica di vento fece tremare la casa e dovetti aspettare che cessasse prima di rispondere. «Ci fu un grande incendio in un deposito abbandonato, al porto. Avevo la radio sintonizzata sulla frequenza dei vigili del fuoco e mi sono diretto subito sul posto. Ho osservato la folla di spettatori e ho visto un tipo più interessato agli spettatori che al fuoco. Mi sono messo dietro di lui e ho notato che si strappava ciuffi di capelli con le dita, senza reagire. Si chiama tricotillomania e un tricotillomane è uno che...» Il medico in Ava prese vita e lei intervenne, annuendo. «Uno che prova piacere e sollievo dalla tensione strappandosi i capelli. È una patologia piuttosto rara negli adulti, e appartiene alla categoria di mancanza di controllo degli impulsi, come il gioco d'azzardo compulsivo, la rabbia esplosiva, la cleptomania e...» Fece una pausa e inarcò le sopracciglia. «E la piromania», aggiunsi. «Appunto. Vidi Joel Adrian togliersi un taccuino di tasca, avvicinarsi a uno dei portuali e parlare con lui, prendendo
appunti. Il portuale mi disse poi che Adrian era un giornalista e che gli aveva chiesto se aveva delle dichiarazioni da fare per un articolo. Disse anche che il giornalista gli aveva chiesto di dargli nome e indirizzo per eventuali successive verifiche.» «E di Adrian che ne è stato?» La storia stava avvicinandosi all'epilogo. Harry, avvertendo il mio disagio, intervenne. Mi accasciai sul cuscino, cercando di ascoltare la tempesta ma sentendo solo Harry. «Cars rintracciò Adrian e annotò il suo numero di targa. Lo pedinammo giorno e notte, senza mai perderlo di vista. Quattro giorni più tardi Cars lo seguì fino alla casa del portuale. Adrian riuscì a farsi accogliere sostenendo sempre la parte del giornalista. Carson chiamò rinforzi poi si avvicinò alla finestra e vide l'uomo legato sul pavimento...» Ava mi guardò. Chiusi gli occhi e le parole di Harry divennero un film. Adrian che inzuppa di benzina un panno di seta rossa mentre il portuale cerca invano di liberarsi. Adrian appoggia il panno sugli occhi terrorizzati dell'uomo e lo bacia sulla fronte. Prende di tasca un accendino a forma di pistola. Mi tuffo attraverso la porta, Adrian fa scattare l'accendino, sorridendomi come se stessimo per condividere una cena squisita... «Carson?» disse la voce di Ava, lontana sotto la pioggia. L'esplosione della mia pistola è assordante. Rotolo dietro il divano, il cuore che mi batte da impazzire, senza sapere se ho colpito il bersaglio, se Adrian è armato. Sento dei colpi forti, come colpi di martello tirati a casaccio, e guardo. Adrian si sta contorcendo sul pavimento, testa e talloni che pestano le assi. Geme, ansima, perde sangue dalla bocca. Lo guardo trasformarsi da un rivolo rosa in un fiume rosso. Cerca di strisciare via, come per sfuggire alla morte, lasciandosi dietro una scia di rosso larga come una scopa a macchiare il pavimento... «Carson... Lo hai ucciso?» La voce di Ava mi riportò al presente. «Ha fatto quello che doveva fare», disse Harry, guardandomi. «Non cominciare con le tue pensate, Cars.» Scossi il capo. «Forse avrei potuto distrarlo. Avrei potuto aspettare i rinforzi. Avremmo potuto prenderlo vivo, studiarlo per capire come affrontare casi simili in futuro...» Harry si alzò e puntò il dito contro il mio viso. «Non ho nessuna intenzione di ascoltare queste stronzate pseudopsicoanalitiche un'altra volta. Sei un poliziotto, non uno studente di psicologia del cazzo. Un altro secondo e la testa di quell'uomo sarebbe diventata una torcia.»
Ava allungò il braccio e mi sfiorò la mano. «Non hai mai detto a Harry di tuo fratello? Da dove venivano le tue idee?» Guardai il mio collega. «Ci è arrivato da solo.» Mi ritornò in mente quello strano momento al cimitero di Church Street e mi accorsi che Harry aveva cercato di dirmi di non andare da Jeremy da solo, questa volta, che potevamo farlo insieme. Mi vergognavo. «Ti ho mentito, Harry. Ho preteso che le idee di Jeremy, tutte quelle intuizioni su Adrian, fossero farina del mio sacco.» Lui grugnì. «Non dire una cosa è diverso da mentire, Carson. Se tu fossi obbligato a mentire per mangiare, peseresti sì e no un chilo.» «Non sono stato franco con te.» «Avresti preferito dirmi che le tue idee erano le pensate di un pazzo? Facevo già abbastanza fatica a considerarle giuste quando credevo che fossero tue.» «Ma poi hai scoperto da dove venivano. E non ti sei tirato indietro.» Harry sollevò di nuovo l'indice puntato. «Non all'inizio. Prima ho solo scoperto chi andavi a trovare. Non immaginavo neanche lontanamente che gli chiedessi consiglio. Ho cominciato ad arrivarci quando mi sono accorto che dopo ogni visita venivi fuori con nuovi elementi. Se mi avessi detto fin dall'inizio che tutte le tue idee venivano dalla mente di un serial killer pazzo, me ne sarei andato al galoppo. Non farti troppe illusioni sul mio conto, Cars.» Ava sedette sul divano, osservando e ascoltando, nervosa, presa dal bisogno di dire qualcosa. Cominciò a parlare ma un tuono la costrinse ad aspettare. Quando parlò, la sua voce era triste quanto i suoi occhi. «Ti sei già ustionato una volta. Gravemente. Sull'altro braccio. Ci sono le cicatrici.» Harry sembrò congelarsi. Guardò Ava. Poi me. Prima che potessi muovermi mi aveva afferrato il braccio e stava osservando quelle cicatrici vecchie di un anno. «Cristo», sussurrò. «Parlami del passato», disse Ava. «Dimmi tutto.» 27 Il centro della tempesta ci investì. Una sedia sulla veranda venne sollevata dal vento. La pioggia cadeva di traverso. Il vento gemeva tra le fessure delle assi sul pavimento.
«Mio padre era un ingegnere edile», cominciai. «Passava dalla normalità alla follia con la stessa facilità con cui puoi gettare un ponte sopra un fosso. Era una forza oscura che si nutriva di paura, dolore e panico.» «Del tuo dolore. Del tuo panico, vuoi dire», intervenne Ava. «Di Jeremy. Lo maltrattava in modi che andavano al di là del tollerabile. Il dolore di mia madre era atroce, ma solo mentale.» «Non ti ha mai toccato?» «No. Quasi non mi vedeva. Non ero ancora cresciuto al punto di potere richiamare la sua attenzione.» Harry chiese: «Quanti anni avevi quando...» «Ho compiuto dieci anni il giorno prima che Jeremy attirasse mio padre nel bosco e lo tagliasse a pezzi.» Una sirena in lontananza, i vigili del fuoco che correvano verso un incendio causato da un fulmine. «Mio padre si accorse dell'esistenza di Jeremy quando aveva dieci anni. Come se si fosse materializzato all'improvviso. Credo che i dieci anni di età avessero un significato simbolico. Dovevano ricordargli qualcosa che apparteneva al suo passato.» «Credi che Jeremy abbia ucciso tuo padre per salvare te?» chiese Harry. «Me e lui allo stesso tempo. Ma per lui era ormai troppo tardi. Quello che gli era successo era già diventato parte del suo passato.» «Tua madre dov'era?» chiese Harry. «Mia madre faceva la sarta. Quando la vita diventava un incubo, si rifugiava nella sua stanza a cucire abiti da sposa; erano la sua specialità, tutto un fluire di seta e pizzi. Era una donna semplice, il cui solo punto di forza, da giovane, era stata la bellezza, e che si era trovata in una situazione che non riusciva nemmeno a spiegarsi, figurati se poteva cambiarla.» «E Jeremy ha continuato a uccidere», disse Harry. «Donne.» La stanza smise di girare. Mi sollevai appoggiandomi sul braccio sano. «Anche se aveva esorcizzato il demone del padre, doveva continuare all'infinito a uccidere la madre. Per punirla di non averlo mai protetto dal padre.» «Perché non ha ucciso lei, Cars? Intendo dire, lei?» «Per cinque anni, dopo la morte di mio padre, Jeremy non ha ucciso nessuno. Come se tutto gli stesse fermentando dentro. E credo sapesse che, se avesse ucciso nostra madre, lo avrei fatto rinchiudere in un manicomio. E lui non lo voleva.» «Perché le ustioni? Perché ti brucia? Ha qualcosa a che vedere con A-
drian?» «Non direttamente, ma è possibile che sia da lì che ha preso l'idea. Credo che sia il suo modo di obbligarmi a dividere il dolore con lui, di farmi pagare il fatto che mi ha dato la possibilità di vivere un'infanzia libera dalla presenza di mio padre. È così che la vede.» «Ma è folle... è diabolico.» Mi lasciai ricadere sul cuscino, appoggiandomi il braccio alla fronte. «È una malattia mentale, Harry, un'infermità incontrollabile. Jeremy ha un'intelligenza eccezionale, a volte può sembrare del tutto razionale, ma il suo modo di vedere il mondo non è assolutamente radicato in ciò che noi definiamo realtà.» «Come hai potuto lasciare che ti facesse quello che ti ha fatto?» «Se non avessi permesso a Jeremy di ristabilire quella che lui ritiene essere la parità, Adrian potrebbe essere ancora in circolazione.» Ava andò sulla porta della terrazza. La pioggia batteva contro la finestra come grandine. Lei toccò il vetro, appoggiandoci sopra le dita per un momento, poi si volse verso di me. «Non è ancora finita, vero?» sussurrò. «Succederà ancora.» «No, è finita», rispose Harry. «Guarda come gli ha ridotto il braccio stasera. È stato ripagato.» Ava mi venne vicino. «No, non è finita. Lo farà ancora. Stasera cos'era, una prova? Un acconto? Quando ritornerai, ti brucerà sul serio. Come ha fatto l'altra volta.» Il vento scosse la casa, poi si calmò. «Gli ho prestato del materiale che potrebbe essergli utile per risolvere l'enigma delle decapitazioni...» Ava mi fissò, in attesa. Guardai il pavimento. «Dovrò tornare a riprenderlo.» Ava cominciò a tremare, poi a piangere in silenzio, le lacrime che le rigavano il volto. Il suo petto si sollevò; proruppe in singhiozzi. Strinse le mani a pugno e percosse l'aria. Io e Harry le corremmo incontro ma lei ci scacciò via con gesti frenetici del braccio come fossimo uno sciame di vespe. Come se la mia casa si fosse riempita di un dolore intollerabile, Ava aprì la porta che dava sulla terrazza e scappò fuori, sotto la pioggia. Feci per andarle dietro, ma Harry, con più buon senso di me, me lo impedì. Sentimmo una serie di lunghi lamenti, come se stesse cercando la nota giusta. Poi Ava strinse la ringhiera, rovesciò il capo all'indietro e cominciò a urlare come se il mondo stesso stesse partorendo. Ululati, urla, lamenti. Strillava come volesse rivoltare la notte e la tempesta da un'estremità all'al-
tra. Raccolse una sedia di plastica e la buttò fuori dalla terrazza, gridando fra i tuoni, al loro fianco, sovrastandoli. Prese il tavolino e lo scagliò oltre il bordo della ringhiera. I fulmini striarono il mondo di bianco e di nero e lei gridò come se stesse impazzendo. Si tolse una scarpa e la gettò nella pioggia. Urlò ancora, ansimò, schiattò di dolore. Sembrò triste e arrabbiata a un tempo, e composta e pazza, in una scena confusa dalla pioggia ed elettrificata dai fulmini che squarciavano la notte. Si tolse anche l'altra scarpa e la tirò contro il buio. La tempesta le ruggì contro e lei rispose con un ruggito più forte, sfidandola. Si strappò di dosso i vestiti e li gettò al vento. Harry si voltò e cominciò a indossare l'impermeabile. Io uscii per ricongiungermi ad Ava. Ci svegliammo all'alba; la mattina era limpida come un'acqua cristallina. La tempesta si era spostata verso nord, lasciando come unica traccia del suo passaggio file di alghe a coprire la spiaggia. Aprii la finestra per ascoltare il suono delle onde. Ava si girò verso di me. I suoi occhi erano calmi e fermi. «Non ci ho pensato, la notte scorsa, ma avremmo potuto essere colpiti da un fulmine sulla terrazza.» La sua fronte era calda sotto il mio bacio. «Sì, il che avrebbe destato molta perplessità in chi ci avesse trovati, non ti pare?» Ero rimasto sorpreso, la notte prima, nello scoprire le possibilità di provare piacere anche se debilitato e privo dell'uso di un braccio. Dapprima, sulla terrazza investita dalla pioggia che ci correva sulla pelle nuda, poi, più tardi, a letto, dove il ticchettio era diventato solo un sussurro in sottofondo. Nuove possibilità ci si presentarono e passammo le prime ore della giornata a sperimentarle tutte. Che dovessimo provare imbarazzo a essere nudi e a rivestirci (nessuno dei due soffriva di falsa modestia), o che dovessimo sfiorarci mentre ci passavamo vicino (sì, leggermente); chi sarebbe stato il primo a voler fare di nuovo l'amore? Ava esaminò la medicazione e applicò un'altra dose di pomata. Nessuno dei due menzionò la causa delle ustioni, un tacito accordo che ci consentì di trovare sollievo nella piccola oasi che era cresciuta attorno alle nostre vite. Solo quando uscii per andare al lavoro, Ava vi accennò. «Quando andrai di nuovo a vedere tuo fratello...» disse. «Sì?» «Verrò con te. Non mi guardare in quel modo. Ci vengo e basta.»
Alle quattro Harry fece un salto in banca. Dopo un po', mi alzai per uscire, anche se senza troppa voglia, per andare da Billie Messer, la zia di Nelson. Avevo deciso di interrogare tutti, se necessario, nella speranza che saltasse fuori qualcosa. In quel momento suonò il telefono. Harry. «Cars, ne abbiamo un altro. Senza testa. Sono già sul posto.» Mi diede l'indirizzo. La sua voce era tesa, secca. «Che tipo è, fisicamente?» chiesi. Harry fece un sospiro profondo. «Hai presente quanto è grosso Burlew?» «Vuoi dire che la vittima è grande come Burlew?» «È esattamente della stessa taglia», disse Harry. «Anzi, è Burlew.» Non avevo mai visto una casa come quella di Burlew, a parte, forse, una serra. C'erano orchidee dappertutto: mensole, tavolini, cestini appesi al soffitto, pezzi di tronco alle pareti. Alcune rigogliose come tromboni rosa, altre più simili a timide campanelline. Tazze rosse e piattini blu, lanterne gialle e candelabri viola. Un piccolo solarium che si affacciava sulla sala da pranzo serviva da incubatrice, dove le piantine più piccole irrobustivano le loro radici in piccoli vasi marrone. L'aria densa odorava di fecondità, come se bastasse lasciare cadere dei semi dalle mani per vederli crescere. Il corpo senza testa di Burlew era supino nella cucina. Squill era già stato lì e se ne era andato. Dovevano esserci in corso riunioni intense fra le alte sfere del reparto. Hembree e i suoi uomini stavano finendo i rilievi, due tecnici stavano mettendo via il loro equipaggiamento. Io e Harry ci fermammo nella sala, costretti dalla vegetazione a starci vicino. Dissi: «Ero curioso di sapere a cosa tu e Burlew vi riferivate ieri». Harry osservò la giungla tranquilla che ci circondava. Allungò una mano verso una mensola e toccò una cascata bianca di fiori a forma di tubo. «Non ti sembra che assomiglino a delle candele?» mormorò. «Tu e Burlew eravate di pattuglia sulla stessa auto?» chiesi. «Eravate partner?» «Aveva finito da poco l'addestramento. Io avevo ventotto anni, lui ventiquattro.» «Pattugliavate le strade insieme? Strana accoppiata...» «Il Burlew di allora non era lo stesso di oggi. Si poteva ancora parlare con lui. Era diverso anche fisicamente, un ragazzo di campagna alto, smilzo, dalle spalle larghe.»
Un ramo sul muro, dietro alla testa di Harry, ospitava una pianta d'orchidee: una ghirlanda di boccioli a campana che pendevano da una corona di foglie. Harry picchiettò con il dito contro uno dei fiori e sembrò sorpreso che non risuonasse. «Avevamo risposto a una chiamata ai Tallarico Apartments, uno squallido complesso residenziale nella periferia nord ovest. Il custode ci disse di aver visto correre un uomo con una pistola. Saranno state le due di notte. Cominciammo a cercarlo, Burlew andò a sinistra, io a destra. Io mi ritrovai di fronte a una donna che blaterava di un tipo con in mano una pistola, che rideva e correva come un pazzo in giro per l'edificio. La lasciai e andai a cercare Burlew per vedere cosa avesse scoperto. Non riuscii a trovarlo.» Hembree mi fece cenno di raggiungerlo in cucina. «Sentii dei rumori alla mia sinistra e ritornai da quella parte. Poi ci furono altri rumori strani dal retro dell'edificio, voci. Mi avvicinai con cautela fra i bidoni della spazzatura.» Harry si assicurò che nessuno potesse sentire e si avvicinò abbastanza da riscaldarmi l'orecchio con il fiato. «Burlew era per terra, nudo come un verme. Sopra di lui, a cavalcioni come se Burlew fosse un cavallo, c'era un uomo, piccolo e magro. Era fatto di acidi e amfetamine fino al buco del culo. Si era impadronito della pistola di Burlew e gli stava saltando sopra, facendogli tutto quello che doveva avere sempre sognato di fare agli sbirri. Burlew piangeva, strisciava in mezzo all'immondizia, si pisciava addosso, si era tagliuzzato le mani e le ginocchia sui pezzi di vetro sparsi sul cemento. Il tipo gli stava martellando la pistola sulla testa, urlando, incitandolo, e Burley cercava di nitrire.» Chiusi gli occhi e visualizzai il fatto. «Gli hai sparato.» «Quel pazzo agitava la pistola come fosse uno schiacciamosche. Ho aspettato fin quando è smontato da Burlew e sono uscito da dietro l'angolo urlando: 'Polizia. Fermo!' Avevo il dito tanto stretto sul grilletto che se avessi premuto ancora un decimo di millimetro sarebbe partito il colpo. E quello sorride come se io fossi sua madre che gli porta una fetta di torta e mette giù la pistola. Poi si siede per terra e comincia a toccarsi la faccia.» Il tecnico delle impronte digitali mi passò a fianco, con una borsa in mano. Hembree stava ancora sbracciandosi come un mulino a vento per richiamare la mia attenzione. «Aspetta un attimo, Bree, cazzo», gridai. «Ancora un minuto.» Mi voltai di nuovo verso Harry. «Quella notte Burlew si lasciò andare e mi disse quanto odiava essere di
pattuglia. Suo padre, un poliziotto anche lui, lo aveva obbligato a fare domanda per entrare nella polizia senza lasciargli scelta. Suo zio invece faceva il giardiniere, che era quello che Burlew, segretamente, voleva diventare.» «E quella è stata l'ultima volta che Burlew è andato a pattugliare le strade?» Harry annuì. «La mattina dopo ha fatto domanda di essere trasferito in amministrazione.» «E quand'è che è diventato stronzo?» «Ha cominciato a fare pesi, ginnastica, culturismo. Più diventava grosso, più era stronzo.» Harry studiò un piccolo fiore in un cestino appeso, una campanula gialla grande come una moneta. «Burlew aveva messo su muscoli come fossero un costume. Dopo di che ha scoperto che doveva portarseli dietro. È entrato a far parte del reparto di Squill qualche anno fa, diventando di fatto il suo assistente. Immagino che al capitano piaccia l'idea di avere con sé uno come lui, un po' come a un mingherlino può piacere andarsene in giro con un mastino.» «Burlew non ti ha più parlato dopo quella notte?» «Non mi ha più nemmeno guardato.» Harry scosse il capo e sfiorò l'orchidea con la punta delle dita. «Ogni anno, quando ero piccolo, mia zia mi leggeva Canto di Natale. Mi piaceva, ma mi spaventava anche. Quello che mi faceva più paura non erano i fantasmi di Natale, ma l'immagine che mi ero fatto del personaggio di Jacob Marley, questo vecchio prigioniero del suo passato. Giuro che potevo sentirlo far risuonare le catene mentre si trascinava il suo tormento attraverso l'eternità.» Si guardò intorno e vidi le sue narici espandersi mentre annusava il profumo sottile dei fiori che ravvivavano la vita segreta di Burlew, la sua vera vita. L'idea che avevo sempre avuto di lui non contemplava la possibilità che fosse un uomo capace di devozione, ma mentre esaminavo i libri, le cesoie, i sacchi di fertilizzanti, la mia sorpresa per l'abilità di quell'uomo di prendersi cura della vita lasciò spazio al rimpianto per quello che era mancato o stato messo fuori posto, e per tutti i passati che, una volta lasciati a seccare e a prendere forma, creano il sentiero del nostro futuro. «Burlew era convinto che tu mi avessi raccontato di quella notte», dissi. «Ecco perché non perdeva occasione di provocarmi.» Harry si strinse nelle spalle. Guardò il cadavere oltre la porta. Tornò a
rivolgersi a me. «Pensi che la gente riesca qualche volta a liberarsi delle catene del passato, Cars?» «Non succede mai, Harry. Il trucco consiste nell'aggiungere anelli alla catena, così da non dovertela trascinare dietro man mano che vai avanti.» «Vengo con te, domani. Lo sai, vero?» Gli appoggiai la mano sulla spalla. «Grazie, amigo, ma Ava si è offerta volontaria. Vuole essere lei il mio zuithre.» «Il tuo che?» «Quello che ti dà la forza di resistere agli attacchi, Harry», spiegai. «Sempre che uno sappia usarla bene.» «Forza, Carson», implorò Hembree. «Vieni a vedere cosa abbiamo qui, in modo che poi possiamo procedere.» Mi feci strada fra tavoli e supporti per piante, ognuno dei quali coperto di boccioli e petali e ciuffi di verde, e raggiunsi la cucina. Hembree e il suo aiutante avevano voltato il corpo di lato. Hembree indicò la schiena di Burlew. Mi chinai e vidi una larga sezione della pelle divenuta color porpora per l'afflusso di sangue. La schiena era coperta di scritte. Non i soliti caratteri sottili, ma di due centimetri l'uno, che andavano dalla base del collo mozzato fino alle natiche, una sequenza ininterrotta di parole scritte con l'inchiostro nero. «Sembra che il nostro uomo sia passato dai messaggi alle lettere», constatò Hembree. «Buona lettura.» 28 Come spesso accade, il momento che Ava aveva tanto temuto, il momento di ritornare al lavoro e incontrare Clair, trascorse senza particolari emozioni. Clair sedeva alla sua scrivania a leggere la corrispondenza. Sembrò notare appena Ava e me mentre le passavamo davanti. «Buon giorno, dottoressa Davanelle», la salutò Clair. «Ben tornata.» «Sono felice di essere qui di nuovo.» Clair si rituffò nel lavoro e la questione fu chiusa. Ava controllò la corrispondenza arrivata in quei giorni, spostò alcuni fogli, indossò il camice e si preparò per l'autopsia di Burlew: era stata assegnata al primo esame di quel giorno da prima ancora che io parlassi con Clair del suo problema di alcolismo. Clair non aveva cambiato il programma, pur sapendo che quello sarebbe stato il primo giorno di lavoro di Ava dopo la pausa.
La fiducia di Clair venne premiata quando Ava prese in mano la situazione con lo stesso polso fermo che avevo avuto modo di apprezzare in precedenza, i movimenti misurati ma efficienti, il senso di rispetto per il morto. Guardai le fotografie della schiena di Burlew mentre l'anatomopatologo descriveva il suo operato a voce alta per la trascrizione. Tu eri con non eri tu lei non ragazza ma brutte cose dentro te, Mamma Dobbiamo essere sicuri Lei fa come Ora di arrivare alle brutte cose Mamma ancora quella ragazza fuori tu bugie tu Lei è per portarla fuori tanta ho paura ci rende puri Cosa ne sai Cosa ne dici Non farmi in te ho dolore No Non Non io là Hurdy-gurdy Namby pamby Willy-Nilly Mi spaventi Roly-poly Fa paura Non mi far paura Alla fine, sotto il coccige di Burlow, c'era scritto: Boston e Indianapolis per favore toccare Sarà un Grande Boston o una Piccola Indianapolis? Little Indy? Kokomo Booooo Peeeee Mamma Squill arrivò dopo la conferenza stampa, il caso stava ormai facendo scalpore. Io e Harry avevamo fatto rapporto sulla storia di Burlew e Zane a porte chiuse, di fronte a Hyrum, Squill e ai tre vicecomandanti, che avevano borbottato e fatto smorfie di disappunto. L'accordo fu raggiunto in fretta. Portare alla luce gli scheletri nell'armadio di Burlew avrebbe causato solo imbarazzo per il reparto di polizia e per i Peltier. Clair era una innocente coinvolta per caso e Zane era troppo ricco e potente per pestargli i piedi, soprattutto considerando che al di là di aver ceduto alle tentazioni della carne e di una generica stupidità, non si poteva contestargli nulla. Restava solo Terri Losidor, ma incriminarla avrebbe significato togliere il coperchio al cassonetto dell'immondizia. A Zane avevo suggerito di dimostrare la sua simpatia nei confronti del
cosiddetto quarto potere sponsorizzando la rinascita di un certo giornale alternativo. Mi era sembrato ben disposto, forse perché io ero l'ultima persona ad aver visto le fotografie. Ava completò l'autopsia e andò a lavarsi, lasciandomi solo con Squill nella sala operatoria. Durante l'esame lui era rimasto il più lontano possibile dal tavolo operatorio, osservando rutto tranne l'autopsia. «Ha controllato l'alibi di Peltier?» chiese il capitano avvicinandosi alle mie spalle. «È a posto?» «Zane non riuscirebbe ad affettare un prosciutto senza al fianco qualcuno che gli dia istruzioni. E comunque, ha un alibi. Al momento della morte di Burlew, Zane Peltier si trovava nello studio del suo avvocato a discutere i particolari della sua imminente separazione.» «A partire da oggi il Piss-it verrà messo da parte, Ryder», continuò Squill. «Sarà la task force a occuparsi del caso, d'ora in poi. Burlew ha sbagliato, ma così è la vita.» Me l'aspettavo. La reputazione di Squill era stata macchiata dalle azioni del suo aiutante e l'unico modo di porvi rimedio era quello di spostare le luci dei riflettori dei media sulla sua task force. Il che significava mettere il PSIT fuori gioco. Ma con le tresche di Burlew, Losidor e Zane ormai allo scoperto, io e Harry avevamo un'immagine molto più chiara della situazione. Senza contare che quella notte avrei discusso del caso con un professionista. «Non è così che andranno le cose, capitano», ribattei. «Io e Harry siamo in ballo e ci resteremo fino alla fine.» «Vuol sapere una cosa, giovanotto? Siete già fuori.» Fissai Squill nei suoi occhi acquosi. «Perché ha cercato di tenerci alla larga da Burlew, capitano?» «Chi è che lo afferma?» Presi di tasca un foglio di carta ripiegato e glielo diedi. I passaggi che lo riguardavano erano evidenziati in giallo. «Sono le minute della riunione in cui Harry e io la informavamo dei documenti mancanti. Chiunque le legga potrebbe sentirsi portato a credere che lei non avesse alcun desiderio che noi ritrovassimo quelle carte. Specialmente alla luce di quello che è emerso dopo che, nonostante tutto, le abbiamo ritrovate. Si ricorda le tracce che conducevano a Zane?» Squill mi guardò come se fossi un escremento appena lasciato da un cane sulle sue scarpe. «Come avrei potuto sapere che Peltier era un frocio?»
«Non lo sapeva. Ma penso che Burlew le abbia fatto capire di aver messo una sorta di cappio al collo a Zane. Forse le avrebbe anche lasciato una parte dei soldi prima di dimettersi. Burlew era in debito con lei: per anni non aveva mai dovuto lavorare davvero, a parte sbrigare di tanto in tanto qualche commissione del cazzo al posto suo.» Mi aspettavo di suscitare rabbia; ottenni invece derisione. «Sta dicendo che io avrei pilotato le indagini, Ryder? È quello che sta dicendo?» «Che c'è di male a lasciare un assassino seriale in circolazione qualche giorno in più, se può aumentare le sue possibilità di diventare vicecomandante?» Scosse il capo, lo spettro di un sorriso sulle labbra sottili. «Lei si crede di essere chissà chi, non è vero Ryder? Be', le dirò una cosa: sto per andare al piano alto. Le consiglierei di cominciare fin d'ora a cercarsi un secchio per coprirsi la testa.» «Lo so che ha buoni appoggi, capitano. Mi è stato riferito che Plackett le deve un favore. Sembra che sia stato lei a trasformarlo nel cocco dei media e in un produttore di dichiarazioni ufficiali di prima classe. E, con ogni probabilità, nel prossimo comandante.» Squill si guardò in giro, come per accertarsi che fossimo ancora da soli nella sala operatoria. «Che resti fra noi, Ryder», sibilò con una soddisfazione maligna. «Sono stato io a creare Plackett. Ho preso un pezzo di merda qualsiasi e l'ho trasformato nel nuovo capo della polizia.» «Mentre, nello stesso tempo, ha continuato a metterci i bastoni fra le ruote.» Sorrise e strizzò l'occhio. «Solo a un paranoico come lei, Ryder, può sembrare che sia andata così. Torni alla sua unità e si occupi di qualche negro dal grilletto facile.» «Lei è davvero un gran poliziotto, Squill, lo sa? Se ci avesse concesso di indagare senza interferire con i suoi giochetti, forse Burlew adesso sarebbe ancora vivo.» «Cose che capitano. Mi si spezza il cuore. Come mi si spezza al pensiero che lei non si occuperà più delle indagini.» «Lo sa, vero, che Zane Peltier ha molta influenza nella commissione di polizia?» Si portò la mano sul cuore e finse di essere sorpreso. «Non mi dica.» «Zane è direttore esecutivo della Mobile Marine Resources. Il presidente della società è anche presidente della commissione. E lei non può non saperlo, visto che conosce perfettamente ogni elemento sulla bilancia. Non è
che Burlew, al momento giusto, avrebbe aggiunto qualcosina alle sue richieste? Come chiedere a Zane di fare una piccola raccomandazione? Tanto per non lasciare nulla al caso?» «Le darò un piccolo consiglio, Ryder: non si metta di mezzo quando giocano gli adulti.» «Lei vuole vincere a qualsiasi costo, vero, capitano?» Lui rise e mi colpì il braccio con un pugno mentre usciva. «Lei non è un vincitore, Ryder. Lei è solo una formica che io posso schiacciare sotto il piede quando voglio. Non si dia troppe arie.» Prima di prepararmi alla notte di lavoro che mi attendeva, chiamai le squadre Omicidi di Indianapolis, Boston e Kokomo e chiesi se erano avvenuti casi simili al nostro nei loro territori. No, risposero le persone con cui parlai, niente che gli somigliasse neanche lontanamente. Grazie a Dio è un caso vostro e non nostro. Passai dall'ufficio di Ava prima di andarmene, l'abbracciai e le dissi che aveva fatto un ottimo lavoro. Un vaso di cristallo pieno di fiori troneggiava sulla scrivania rinfrescando l'aria: un regalo di Clair. Ava mi diede una cartella piena di fotografie e rapporti di altri casi. La misi nella mia valigetta. «E cosa mi dici dell'altra cosa?» chiesi. «Stavi ascoltando.» «Ho sentito tutto perfettamente», rispose, passandomi una piccola busta bianca. Me la misi in tasca. «Domani ti porto a festeggiare il tuo ritorno nel mondo dei vivi», le promisi. «Preferirei che fosse stasera», disse lei. «Stasera dobbiamo andare in un posto e fare delle cose. Sarai pronta?» «Se aver paura vuol dire essere pronta, è tutto il giorno che lo sono.» 29 «Cos'è quella roba?» Avevo messo su una faccia di circostanza, come se stessi presentando due vecchi amici. «Ava Davanelle, ti presento mio fratello Jeremy.» Ava porse la mano. «Salve, Jeremy, molto pia...» «Cosa ci FA QUI?» esplose Jeremy saltando in piedi dal letto e indicando Ava con un impercettibile cenno del capo. «Non posso parlare con quella COSA qui.»
«Se vuoi, può sedersi nell'angolo. Non ci darà fastidio.» «Non parlerò. Assolutamente. NON con lei qui.» Mi strinsi nelle spalle. «Hai promesso che avremmo PARLATO e poi... LE MIE ESIGENZE.» «Nulla è cambiato.» «C'è qui LEI!» «L'ho invitata io. E rimane.» Chiuse gli occhi e incrociò le braccia. «Mi rifiuto di dire una sola parola in più.» «In tal caso Il nostro accordo è...» Feci un cenno con la mano. Nulla. Jeremy fece finta di saltare addosso ad Ava, mostrando i denti e mordendo l'aria prima di arretrare, un comportamento che avevo visto nelle scimmie quando cercavano di marcare il territorio. Feci per muovermi verso di lui ma gli occhi di Ava mi dissero: Stai fermo. Le girò intorno, schioccando la lingua e facendo versi; piegò le mani come fossero artigli e tracciò l'aria verticalmente verso di lei, sibilando. Ringhiò e ululò, si raschiò la gola, sputò sul pavimento vicino ai suoi piedi, fece il gesto di masturbarsi, gemette e fece finta di eiacularle addosso. Lei sbadigliò. Si rivolse a me, implorandomi: «NON PUÒ RESTARE! TI PREGO, mandala via, Carson. Ho le mie esigenze, abbiamo i nostri... rituali. Abbiamo bisogno di tempo insieme». Guardai l'orologio. «Il nostro tempo è già cominciato.» Incrociò le braccia e batté il piede sul pavimento. «Non sentirai quello che ho da dirti. Lo so, Carson, so chi è.» «Sai perfettamente come manipolare il prossimo. È il tuo unico, vero, talento.» Cominciò a parlare con la voce di un bambino che recita una filastrocca. «Lo so chi è, e lo sai anche tu...» Non sapevo se stava mentendo o se la sua mente malata aveva scoperto una connessione che io non avevo visto. Stavo scommettendo sul fatto che lui avesse tanto bisogno di me quanto io di lui. «Lei resta», dissi. Jeremy digrignò i denti, morse l'aria due volte e si ritirò in un angolo. Finse di studiarsi le unghie, guardando di tanto in tanto Ava con la coda dell'occhio. «Allora, dimmi, cara signora», disse, lucidandosi le unghie contro la
camicia. «Fai la puttana spesso?» «Io non faccio la puttana», disse lei con voce allegra. «Tutte le donne sono puttane. È nella loro ANIMA! Cosa fai, da poter pensare che non sei una puttana?» «Sta chiedendomi qual è il mio lavoro, signor Ridgecliff? Sono vicepatologa all'obitorio di contea.» Jeremy si allontanò dal muro. Cominciò a girare in cerchio attorno ad Ava. Un po' teso, mi avvicinai. «OH, PER L'AMORE DI QUEL CAZZONE DI DIO!» gridò, appoggiandosi le mani alle tempie. «Quando la finirai con QUESTE STRONZATE POLITICAMENTE CORRETTE! Una cosina così carina come te che fruga tra i cadaveri? Gli togli un pezzo di tessuto qui, un nervo là? O ti limiti a osservare e a dare istruzioni mentre UN UOMO DI GRADO PIÙ BASSO DEL TUO COMPIE IL LAVORO SPORCO? Scusi, signore, potrebbe staccare quella cosa rossa là sotto? Non assomiglia a un pomodoro unto? Mettiamolo in un barattolo. Potrebbe essere un regalo di Natale per un amante. Cosa fai con i cadaveri, dolcezza?» Ava fece un passo di fronte a Jeremy, bloccandolo. Lui cercò evitarla, passandole a fianco, ma lei si spostò ancora. Jeremy fece un altro passo, e ancora Ava gli si mise di fronte. Sembravano ballerini di salsa. Jeremy si immobilizzò, senza sapere più dove andare. Ava gli sorrise dolcemente guardandolo negli occhi. «Faccio un sacco di cose con i cadaveri, signor Ridgecliff», rispose. «Ma la cosa che preferisco è tagliargli la pancia, sedermici dentro e andare in giro remando per la stanza come fosse una canoa.» Jeremy si contorse come se fosse stato investito dalla corrente elettrica. Contrasse il collo e sibilò fra i denti. Si ritirò sul suo letto e ci si sedette sopra, con gli occhi così chiusi che sembrava stesse impedendo l'ingresso nella sua mente perfino ai pensieri. Restò così per un minuto buono prima di riaprire gli occhi e fissare Ava. La sua voce era come brina su una finestra di avorio, fredda come il sorriso che gli increspava le labbra. «Ti sei appena conquistata il diritto a restare, ragazzina. Spero tanto che tu ti diverta.» Distolse lo sguardo da Ava e aprì il palmo verso di me. «Hanno già sviluppato le ultime foto, fratello?» Passai a Jeremy le immagini di Burlew. Tutto quanto riguardava le altre due morti glielo avevo già dato. Aveva anche chiesto particolari su ogni altro omicidio irrisolto dell'ultimo anno.
Jeremy dispose tutto sul letto, attorno a sé, e cominciò a studiare le foto di Burlew. Un sorriso infernale illuminò il volto di mio fratello. Il signor Cutter si asciugò il sudore dalla fronte, appoggiò la livella su una mensola insieme ad altri strumenti, e osservò con orgoglio il risultato del lavoro di quella sera. Il nuovo tavolo per autopsie era al centro della stanza, scintillante sotto il fascio di luce di una lampada appesa al basso soffitto della cabina. Il tavolo era stato un regalo della provvidenza: l'universo che interveniva di nuovo. Aveva deviato il filtro in modo che passasse attraverso lo scafo, per una questione di pulizia. La strada più vicina era a due miglia di distanza e non c'era modo di collegarsi alla rete elettrica, per cui era stato costretto a servirsi di una serie di batterie d'automobili legate insieme nella sentina. Un piccolo generatore Honda serviva a ricaricare le batterie, ma raramente faceva uso di quel macchinario così rumoroso. Andò nella cabina di pilotaggio. Il timone, gli strumenti e la maggior parte di tutto il resto erano stati rimossi. Anni prima un ottimista aveva tirato in secco la barca, sistemandola su dei grossi supporti di legno, in attesa di poterla rimettere in ordine. Ma non ne aveva mai avuto la possibilità. Il signor Cutter era passato lì vicino durante un giro in barca e si era accorto che l'universo gli stava restituendo i pezzi da sistemare sulla scacchiera per un'altra partita. Il signor Cutter guardò la luce della luna diffondersi sul campo, sessanta metri alla sua sinistra, al di là del breve canale che si collegava al ramo principale del fiume. Il fiume non poteva vederlo, celato com'era alla vista da una spessa barriera di piante che circondava quasi completamente l'imbarcazione. Ritornò nella cabina. Era venuto il momento di comporre le immagini finali. Quelle che avrebbero raccontato la storia alla Mamma. Con le sue parole. Ed era appena in tempo: quel dannato detective era sempre in giro a fare domande. Doveva avere fiutato qualcosa. Non importava. Quella parte del viaggio, l'unica in cui il poliziotto poteva interferire, sarebbe presto passata alla storia. Il signor Cutter si sarebbe tolto maschera e trucco e sarebbe finalmente apparso per quello che era. Jeremy passò mezz'ora a studiare le immagini, per poi dedicare un'altra ora ai rapporti scritti. Ava e io eravamo seduti a fianco mentre Jeremy gru-
gniva alle foto, annusandole, passandogli sopra le mani come se, fra i colori, fossero celati messaggi segreti, poi le sparse sul pavimento come coriandoli. «Perché non mi hai mai parlato del medico che ha perso le dita per una bomba? Questo cambia TUTTO.» Jeremy prese il rapporto investigativo sull'incidente di Caulfield e finse di leggerlo con degli occhialini. Era stato incluso come allegato all'assassinio di Mueller. «Caulfield?» dissi. «C'era stato un tentato omicidio ma era rivolto verso Mueller.» «Così ho letto, fratello. Qualcuno ha infilato una bomba nelle fondamenta di Mueller, sapendo che, quando si fosse svegliato, avrebbe cercato di rimuovere l'ostruzione finendo col ridurre in gelatina il suo sistema di scarico. Lo stile di vita di quell'uomo doveva averlo preparato a simili sorprese. Sbadiglio. Cosa mi hanno messo dentro stavolta... una zucca? Un cocker spaniel? Chi avrebbe potuto immaginarsi che il suo cuore avrebbe ceduto prima e lui sarebbe finito sul tavolo dell'obitorio?» «La bomba non era indirizzata a Caulfield», dissi. «È stata una orribile disgrazia.» «Mettiti nei panni di Caulfield. Ha lavorato per anni per arrivare a quel punto, gli viene affidata un'autopsia che non era destinata a lui, e si ritrova con le sue belle dita ridotte a semolino. Addio carriera.» «Che significa che l'autopsia non era destinata a lui?» Presi il rapporto dalla mano di Jeremy. «È tutto scritto lì. Era previsto che l'autopsia di Mueller fosse eseguita dalla dottoressa Peltier. Lei si è gentilmente tolta di mezzo, lasciando il ruolo di tagliatore di teste a Caulfield.» Inarcò un sopracciglio. «Oh, ma guarda! Pensi che sia un lapsus freudiano?» Lessi il rapporto. All'ultimo momento Clair si era fatta in disparte a favore di Caulfield. Tutto ciò era una novità per me, non eravamo stati noi a seguire quel caso. Jeremy sogghignò. «Io dico che al dottor Caulfield devono essere girati parecchio i coglioni.» «E le parole scritte sui corpi? Come le spieghi?» «NON TIRARE IN BALLO le PAROLE. Non devono necessariamente avere un significato per TE!» «Ma io voglio che significhino qualcosa», replicai, deluso che quelle frasi non rientrassero in un disegno logico, negandomi la soddisfazione di scoprirne il significato in uno schioccare di dita.
«Che significhino qualcosa? CHE SIGNIFICHINO QUALCOSA? Che ne sai tu dei significati? Lo sapevi il significato dei tamponi di seta sugli occhi della ragazzina di Adrian? I tuoi esperti sostenevano che era un modo di nascondersi. Io ti ho detto che era un legame di amore... Non ti ho forse detto che Adrian amava gli incendi molto più di quanto qualunque donna possa amare qualunque uomo? Non sono stato io a consigliarti di cercare incendi dolosi? Che quelli erano il primo passo nel processo di selezione di - posso chiamarlo Joel? Grazie - Joel? Che Joel avrebbe cercato le sue vittime sulla scena degli incendi da lui provocati per poi seguirli finché L'AMORE NON AVESSE TRIONFATO?» Non aveva molto senso che Joel Adrian considerasse gli incendi come una entità spirituale. Non aveva senso che lui credesse che gli incendi potessero indicargli le vittime prescelte. Non ci avevo pensato, ma ci aveva pensato Jeremy, così come aveva previsto che ci sarebbero stati altri incendi e altre vittime. Non potevo vedere il mondo come lo vedeva Joel Adrian, fatto di cui ringrazio Dio ogni giorno, ma poteva farlo Jeremy. Come potevo dubitare di quanto affermava? Annuii. «Avevi ragione, Jeremy. Non posso negarlo.» «La sua partecipazione ha salvato delle vite, signor Ridgecliff», disse Ava. Jeremy le si rivolse, increspando le labbra in un ghigno. «Tu lo vedi come salvare vite, strega. Io lo vedo come UN TRADIMENTO DI JOEL ADRIAN!» Ava sussultò e la borsetta le cadde dal grembo, spargendo il contenuto sul pavimento. L'accendino rosso girò su se stesso, fermandosi su una piastrella bianca. «Oh, non agitarti, tesoro», disse Jeremy, sorridendo alla vista dell'accendino. «Ci arriveremo presto.» Si alzò e ricominciò a girare per la cella. «Caulfield ha visto la sua carriera troncata al primo giorno di lavoro, Carson. Anni di studio buttati via nel giro di uno» - sorrise - «schioccar di dita. Credo proprio che il tuo giovanottone fosse parecchio incazzato con la sua ex capa per avergli fatto mettere le dita nel frullatore. Prova a pensare ai corpi come fossero cartoline. Cartoline spedite dall'inferno. Mi manchi, vorrei che fossi qui anche tu. Ci sarà presto, se le cose andranno come vuole il nostro ragazzo.» «Perché taglia via le teste?» domandò Ava. Jeremy sollevò il capo di scatto, le vene che gli si tendevano sul collo. «Perché ci deve essere QUALCOSA che MANCA, ragazzina, e se fossero
le dita a mancare, sarebbe come puntare il dito su di lui. Cos'è questo, un ossimoro? E c'è un'altra considerazione da fare: può forse un corpo, anche il più perfetto, operare senza testa? No. Può il più perfetto dei patologi operare senza una mano? Ditemi una cosa: come sono state rimosse le teste?» «Con precisione quasi chirurgica», risposi. Jeremy incrociò le braccia e pestò il piede in modo impaziente. «Non è questa la firma di un uomo che ha dedicato la sua vita a tagliare e affettare corpi?» Ava aggrottò le sopracciglia e disse: «Non erano tagli così precisi. C'erano tracce di esitazione, spesso il percorso era irregolare». «Ha solo mezza mano del cazzo, TROIA!» Improvvisamente Jeremy si trovò sul pavimento con le mie mani strette al collo. Ava mi fu addosso, tirandomi via. «Carson, fermati.» Lasciai andare la presa. Jeremy guardò Ava, confuso. «Grazie, cara», disse, riprendendosi e alzandosi. Mi lanciò uno sguardo furibondo. «Se la odia così tanto, perché non...» continuò Ava. «Perché non taglia la testa a lei? È come se stesse preparando le fondamenta. Ha sofferto e sta preparandosi a farle ripagare il dolore che lui ha patito con gli interessi.» Jerry sorrise e fece un inchino. «Il nostro lavoro è finito», disse. Si voltò verso Ava. «Posso avere il tuo accendino, sorella?» 30 «Forse mio fratello ti ha spiegato il nostro piccolo accordo», disse Jeremy strofinandosi le mani come se stesse cercando di far sprigionare il fuoco dai palmi. «Le mie parole in cambio della sua... musica. All'inizio temevo che la tua presenza potesse disturbare il nostro rituale. Ma tu, mia cara, hai saputo sfiorare la bellezza della magia, hai nuotato tra i fiori putridi che fioriscono all'interno. Hai immerso i tuoi polsi delicati nella» - allungò il braccio fermandosi un centimetro prima di toccarle la punta delle dita - «gloria. Forse hai perfino imparato qualcosa.» Si rivolse a me. «Perché non ti togli la camicia, adesso, fratellino? So che sei ansioso di raccontare al mondo le avventure del dottor Ditatronche, e io di essere pagato.» Annuii ad Ava. Lei aprì la borsetta e ne tolse l'accendino, un normalissimo Bic rosso, settantacinque centesimi di plastica, metallo stampato e
butano. Lo tenne sul palmo della mano e lo offrì a Jeremy. Le sue mani tremarono mentre si protendevano verso l'oggetto, le dita esitanti come stessero cercando di decidere come prenderlo dalla sua mano senza entrare in contatto con la carne. «Prendi quello che ti serve, Jeremy», disse Ava. «Ma fai in modo che ne valga la pena per tutta una vita.» Lui si bloccò. «Cosa intendi dire con tutta una vita?» Il braccio di Ava colpì la pila di foto sul tavolo, facendole fluttuare nell'aria fino a cadere sul pavimento bianco come foglie esotiche. «Cosa stai FACENDO?» «È stato divertente finché è durato, non è vero, Jeremy?» disse lei. «Avere qualcuno che ti porta fiori rari dall'altro lato del muro?» Si rivolse a me. «Cosa sta DICENDO?» Distolsi lo sguardo. «Sai una cosa, Jeremy?» continuò. «Hai delle mani molto belle. Guardale. Così morbide, così rosee. E ora prova a pensare alle mani di un vecchio. Bianche e venate di blu e avvizzite. Anche quando avrai mani così, fra cinquant'anni, non avrai mai più toccato nulla al di fuori di questo edificio. Perché l'unico tuo modo di toccare qualcosa che viene da fuori è attraverso Carson. E se solo ci provi a toccarlo con il fuoco stasera, giuro che è finita.» Avvicinò l'accendino a Jeremy e lui si ritirò, rimpicciolendosi, passando lo sguardo fra la mia faccia e l'accendino. Non aprii bocca, era Ava a condurre il gioco ora, pattinando ai limiti più lontani del ghiaccio. «Guardati le mani, Jeremy», continuò lei. «La prossima cosa che toccherai fuori di qui sarà la tua tomba.» Jeremy fissò l'accendino come fosse un oracolo intento a divinare su delle interiora. Le sue narici si dilatarono. Le diede uno schiaffo alla mano e l'accendino volò attraverso la stanza. Si sedette e incrociò le braccia e accavallò le gambe, senza guardarci, fingendo disinteresse. «Okay, come vuoi. Hai vinto tu, signora patologa. Ma solo perché sei riuscita a impedirgli di farmi del male. Hai fatto una buona azione. Bella cosa, mio fratello che cerca di STRANGOLARMI.» Sorrise, un sorriso di ghiaccio su una superficie d'acciaio, poi si chinò in avanti, toccandomi con un dito gelido. «Ma, tanto per capirci, Carson, questa piccola novità è valida solo per
questa fornitura. La prossima volta le condizioni saranno le stesse di sempre, senza cavilli o scappatoie.» «Grazie», disse Ava. Jeremy fece un gesto con la mano, come per non attribuire importanza alle sue parole. Restò seduto mentre noi due ci alzavamo. C'era qualcosa dietro i suoi occhi che mi spaventava, come figure in movimento tra il fumo. La conclusione era stata troppo affrettata, troppo semplice. Mi sarei aspettato che Jeremy urlasse, schiumasse di rabbia, controbattesse a ogni parola detta da Ava con la sua logica contorta. Non era mai successo prima di allora che io me ne andassi senza che lui gridasse imprecazioni, o cantasse canzonacce oscene o mi chiedesse una recitazione finale che rievocasse il dolore di nostra madre. Qualcosa di falso mi risuonò a lungo in testa, il suono sordo di una campana di piombo il cui rintocco mi seguì attraverso la porta. «È una mia abitudine», mi spiegò Clair il mattino dopo. «Lascio sempre che un nuovo patologo pensi che, il suo primo giorno di lavoro, debba solo familiarizzarsi con l'ambiente, imparare le procedure amministrative e cosi via. Ma se c'è un'autopsia in programma, gli offro la possibilità di farla. Mi interessa vedere come reagiscono alla richiesta.» Erano le otto del mattino ed eravamo nell'ufficio di Clair. Avevo comprato un vassoio di pasticcini mentre andavo all'obitorio. Tutto si era ormai concentrato su Caulfield. Non ero in grado di decifrare Il significato delle parole tracciate sulla schiena di Burlew, né tantomeno di quelle sul ventre di Nelson o Deschamps; dovevo fidarmi dell'interpretazione di Jeremy, secondo la quale le scritte facevano parte del panorama interiore di Caulfield e che non c'era modo alcuno di renderle intelligibili a una mente sana. «Io ero terrorizzata quando lei mi ha chiesto di fare la mia prima autopsia», disse Ava. «Ma, quando l'ho portata a termine, mi sono sentita parte del gruppo, della squadra.» «È come quando, alla fine del primo giorno di un corso di nuoto, ti chiedono di attraversare la piscina dal lato profondo», spiegò Clair. «Il povero dottor Caulfield era così nervoso che gli era venuto un tic all'occhio.» Chiuse gli occhi. «Ma lui non ha potuto finire.» «Nessuno qui parla mai di lui», disse Ava. «È come una maledizione.» «È come se l'incidente fosse rimasto sospeso nell'aria», mormorò Clair. «Comunque è servito come motivazione per il rinnovamento della struttura. La sala operatoria era completamente imbrattata di sangue e io ho usato
la disgrazia come pretesto per ottenere una totale ristrutturazione. Ci sono voluti mesi, ma è stato fatto.» «Hai l'indirizzo di Caulfield?» chiesi a Clair. Annuì e andò nel suo ufficio. «Una casella postale sulle Talladega. Gli viene inviata un'indennità tutti i mesi.» Ritornò un minuto più tardi con una foto di Caulfield presa dalla sua carta di identità. Sembrava un giovanotto dall'aspetto piacevole e simpatico, il classico tipo a cui ti viene voglia di offrire una birra solo perché te lo trovi di fianco al bar. La strada ripida e sconnessa che si arrampicava sul crinale delle Talladega non mi fece rimpiangere quello che avevo speso in più per le quattro ruote motrici; il mio pick up avanzava come una barca che risaliva una corrente, alzando e abbassando la prua, virando, sobbalzando, sputando fuori dai due lati della chiglia una scia di polvere grigia. Dopo aver sottoposto a torture indicibili per quindici minuti collo e reni, trovai la casa di Caulfield esattamente dove la gentile impiegata dell'ufficio postale mi aveva spiegato. A destra la costa della montagna precipitava in basso come una cascata. A giudicare dalle condizioni della strada, che continuava ancora, quella doveva essere l'ultima fermata. Parcheggiai a fianco a una polverosa Cherokee blu e mi strofinai gli occhi, stanchi per cinque ore di guida. La casa era modesta ma ben tenuta, con una mano fresca di vernice bianca sulle assi, il cortile privo dei copertoni usati e delle carcasse di automobili lasciate ad arrugginire che erano sembrate la regola nelle altre case a cui ero passato di fronte lungo la strada. Il mucchio di ceppi di legna ammonticchiato di fianco alla veranda avrebbe vinto il primo premio in una gara per ordine e meticolosità. Sulla veranda c'era una sedia a dondolo con a fianco un tavolo. Sul tavolo, diverse riviste appoggiate l'una sull'altra. L'aria di montagna era così limpida che sembrava di guardare in un binocolo. In fondo alla valle c'era una cittadina, poco più che una manciata di case ammiccanti dal verde. Dalle cime degli alberi spuntavano il campanile di una chiesa e i tetti di edifici commerciali. Alla periferia della cittadina c'era una struttura a due piani con un viale d'accesso circolare e un grande parcheggio pieno di auto: un ospedale, a giudicare dall'aspetto. Un recinto anticiclone, a cui erano appesi cartelli con le scritte PROPRIETÀ PRIVATA, ATTENTI AL CANE, DIVIETO DI ACCESSO, circondava la casa di Caulfield. Non c'erano tracce di cani sul prato.
Scesi dal pick up lentamente e rimasi dietro la protezione della portiera, celando la 9 millimetri che avevo in pugno. Avevo anche una .32 legata alla caviglia e un fucile a pompa dietro il sedile di guida. Qualcosa si mosse alle mie spalle e mi voltai, abbassandomi. Uno scoiattolo corse via sul prato, nascondendosi sotto i ceppi di legno. Tenendo ben in vista il mio distintivo nella mano sinistra, chiamai dal recinto. «Dottor Caulfield, sono Carson Ryder, della polizia di Mobile. Vorrei parlare con lei per qualche minuto.» Tenni d'occhio la porta, le finestre, aspettandomi da un momento all'altro di vedere qualcuno correre fuori sparando con un fucile a pallettoni. Nulla. «Dottor Caulfield, potrebbe cortesemente venire alla porta? Per favore?» Ci fu un impercettibile scostarsi di tende e vidi un occhio solitario. Gli feci un cenno. «Non voglio farle del male. Voglio solo parlare di... del giorno in cui è successa la disgrazia.» Passò un minuto, lentamente. Notai tutti i suoni del bosco, dagli uccelli agli insetti. La porta si aprì di qualche centimetro. «Vada via», disse la voce profonda da dietro la porta. «C'è una cosa di cui devo parlarle.» «Si trovi qualcun altro con cui parlarne.» «È importante, dottore. Potrebbe avere a che fare con ciò che è successo alla sua mano.» Ancora cinguettare di uccelli e ronzare di insetti. Poi, dalla porta, uscì una mano. O quello che ne rimaneva. La voce gridò: «Vuole parlare della mia mano? Eccola. Le fornisce sufficiente ispirazione per una conversazione?» «Mi sto occupando di quattro uomini uccisi, dottore. Di cadaveri senza testa, a cui non so trovare una spiegazione. Non è quello che le hanno insegnato a fare, dottore? Trovare il modo di fare parlare i morti?» Silenzio. Guardai una ghiandaia muoversi fra gli alberi. «Abbiamo grossi problemi a Mobile, dottore. La prego di aiutarmi.» La porta si aprì piano e un uomo esile comparve sul pavimento di legno della veranda. Portava una felpa nera di misura esagerata e un paio di pantaloni kaki. Aveva capelli neri pettinati con cura, un viso aperto la cui espressione passava dalla perplessità alla sfida. La manica destra della felpa era rimboccata oltre il gomito, quella sinistra spioveva fino a coprire la mano mutilata. Attento a ogni possibile mossa, guardai la manica con attenzione, ma la mano che vidi non avrebbe mai potuto impugnare un'arma. «Le sarò molto grato del tempo che vorrà concedermi, dottore.»
Fissò per qualche secondo la cima di un sicomoro, poi sospirò e si voltò di nuovo verso di me. «Di tempo ne ho fin troppo. Metta via quella pistola che crede di essere riuscito a nascondere e venga dentro.» Superai il cancello e salii sulla veranda, dove la sua manica penzoloni mi sventolò un invito a entrare in casa. Mentre passavo a fianco al tavolo notai che le riviste erano coperte da una copia del Rapporto su morbosità e mortalità del CDC, una lettura obbligata per ogni patologo. «Ha ragione», disse calmo dal lato del tavolo della sala da pranzo dove stava seduto. «Secondo il programma, quel giorno non avrei dovuto eseguire autopsie. Ne avrei avuta una il giorno dopo. Ma quando la dottoressa Peltier mi ha chiesto se volevo provarci, cosa avrei dovuto dire? Sì, ovviamente.» Il dottor Alexander Michael Caulfield non era nulla di quello che avrei voluto che fosse. Niente sguardo stralunato e selvaggio, e nemmeno gelido come ghiaccio e geometricamente preciso. Non si nascondeva, né si metteva troppo in evidenza. Sui tavoli della casa c'erano testi di medicina, non bisturi o coltelli. Le sue pareti non erano ricoperte di ritratti di Clair o macchiate di sangue, ma di fotografie in bianco e nero di scene di montagna. Un libro di ricette povere di grassi su un tavolino mi rassicurò. Trovavo difficile credere che un assassino accecato dalla voglia di vendetta si preoccupasse del colesterolo. Per farla breve, Caulfield mi diede l'impressione di appartenere a quella moltitudine di persone del tutto normali. «Non ha mai avuto sentore che Clair potesse affidarle il timone?» «No. Ero cosi nervoso che mi è venuto un tic all'occhio. A osservarmi c'era la dottoressa Peltier, non so se mi spiego. Avevo letto ogni singolo articolo che aveva scritto, partecipato a tre dei suoi simposi. Ho scoperto solo più tardi che affidare a un nuovo assunto il compito di eseguire un'autopsia era il suo modo di mostrargli fiducia nelle sue capacità.» «Come ha fatto a sapere che a Mobile cercavano un patologo?» «All'ospedale in cui facevo internato c'era un pannello dove erano riportate tutte le offerte di lavoro divise per specializzazione. Ho sostenuto due colloqui con la dottoressa Peltier prima di venire assunto. Penso che ciò significasse che ero in ballottaggio con un altro candidato.» «È venuto a Mobile?» «La prima volta, mi ci sono fermato due giorni, e la seconda, due settimane dopo, altri tre. L'ultimo giorno è stato quando mi è stato offerto il
posto.» «Dove ha passato il suo tempo quando è venuto per i colloqui?» «Praticamente sempre all'obitorio. Mi hanno fatto fare il giro completo, presentato a tutto il personale, ho assistito a diversi interventi. Gli unici momenti che non ho passato all'obitorio, ero al ristorante con la dottoressa Peltier o nel mio motel, la notte.» Si passò le dita fra i capelli. «Ho sete. Le va una limonata?» «Si, ma non posso fermarmi per molto. Devo ritornare a Mobile e continuare le indagini.» Mi lasciai sfuggire un lungo sospiro di delusione quando Caulfield lasciò la stanza. Questa volta Jeremy aveva preso una cantonata. D'accordo, era stato solo un tentativo, ma ci avevo costruito sopra delle aspettative. Succede, quando cominci a essere a corto di soluzioni. Caulfield ritornò con due bicchieri pieni su un vassoio. Lo sosteneva con la mano mutilata con evidente insicurezza, come se non se ne fidasse del tutto. Mi scolai la mia limonata in un paio di lunghi sorsi e gli chiesi il permesso di telefonargli, nel caso avessi avuto altre domande. Mentre uscivamo sulla veranda, notai che molti dei cespugli di fronte alla casa erano stati potati, aprendo la vista sull'edificio lontano che pareva un ospedale. «Cos'è quel grande edificio di mattoni là sotto, dottore?» «L'ospedale della contea», rispose senza nemmeno guardare. «Non ci va mai? Che so, a dare un'occhiata, a conoscere qualcuno?» Abbozzò un sorriso tirato e fece ondeggiare la manica che gli copriva la mano mutilata. «Credo che sia il tipo di posto dove un uomo come lei potrebbe rendersi molto utile», aggiunsi. I suoi occhi brillarono, poi li distolse. «Senta, detective Ryder, ci ho già pensato...» Si interruppe, come se avesse riflettuto sulla frase senza trovare il modo di finirla. Sostai sulla veranda. «Cristo, dottore, io il più delle volte non sono sicuro nemmeno del mio nome, ma una cosa la so: che un cervello fino e una buona mano sono più di quanto molte persone posseggono.» Raggiunsi il pick up e frugai nella mia borsa da viaggio fino a trovare una camicia di cotone. Era bianca, era pulita e aveva le maniche corte. La tirai a Caulfield e lui se la strinse al petto. «Forse è ora di buttar via gli abiti da lutto», dissi. Salii in auto e accesi il motore. Inserii la retromarcia e feci un cenno di saluto. Non aveva gettato
la camicia per terra. Era già qualcosa. «Detective Ryder», mi gridò mentre stavo per partire. Mi fermai e mi sporsi dal finestrino. «Mi stavo chiedendo di quel tipo, sa quello arrabbiato? Lavora ancora all'obitorio?» Annuii. «Walter Huddleston. Sì. Mi sa che ci resterà fino al giorno della sua morte. Quando avrà centovent'anni.» Un'espressione di confusione increspò la fronte di Caulfield. «Walt Huddleston? Arrabbiato lui? Non me ne sono mai accorto, anzi. Era un uomo gradevolissimo. Andavamo molto d'accordo. Mi ha invitato a pranzo un giorno, e abbiamo parlato di opera. A me piace la lirica, ma lui aveva una conoscenza incredibile. No, sto parlando di quel tipo visceralmente infuriato, piccolo, corpo tozzo, principio di calvizie...» Ora era il mio turno di essere confuso. «Will Lindy?» Lo sguardo di Caulfield si oscurò al nome. «Ecco, Lindy. Era stato cordiale e professionale quando la dottoressa Peltier ci ha presentati, ma quando eravamo soli non mi rivolgeva mai la parola, non mi guardava nemmeno. Era sempre in disparte a borbottare fra sé e sé. Mi guardava da lontano con astio. E sono sicuro di averlo sorpreso a spiarmi un paio di volte.» «È sicuro che sta parlando di Willet Lindy, l'amministratore?» Non aveva senso. Per la prima volta nel corso del nostro incontro, Caulfield apparve profondamente scosso. «L'unico aspetto negativo di lavorare là era lui. È un tipo che fa paura.» Annuii distrattamente, ma dentro la mia mente c'era una tempesta di pensieri contrastanti. Will Lindy, uno che fa paura. Le parole non concordavano fra loro, non avevano senso. Will Lindy faceva paura? Eppure, per Caulfield era così. Lindy. Paura. Will. Paura. Un'associazione che non avevo mai fatto. Willet Lindy? 31 Improvvisamente non avevo più nessuna idea di chi fosse Will Lindy. Era il timido riservato Will Lindy che conoscevo da anni? Quel Will era sempre gentile. Quello di Caulfield era uno che spiava nell'ombra. Il mio era assolutamente gradevole. Quello di Caulfield pugnalava con lo sguardo
a distanza. Quale dei due era il vero Will Lindy? Willet Lindy. Will Lindy. Il nome mi riecheggiava nella mente. Willet. Will. Willy. Sulla schiena di Burlew. Willy-Nilly. Sentii qualcosa farmi click nella testa. Willy... Willet. Oh, Cristo. Forse non era importante il significato delle parole, ma il suono. Grande Boston o una Piccola Indianapolis? Little Indy? Willy-Nilly. Willy Nilly Little Indy. Willy Little Indy. Willy L. Indy. Willy Lindy. Nascosto nelle frasi sconnesse tracciate sulla schiena di Burlew. Il cuore mi balzò in gola mentre valutavo le probabilità che si trattasse di una coincidenza, il risultato del mio desiderio di trovare a tutti i costi un significato. E se... E se Will Lindy non avesse gradito al presenza di Caulfield all'obitorio? Se, per qualche ragione, lo avesse odiato a tal punto da non poterlo nascondere? Al punto di volergli fare del male? Ma non può farlo: Caulfield è insieme a Clair, a ogni ora del giorno, e di notte è al sicuro in un motel costoso e ben sorvegliato. Per cui aspetta. Subito dopo l'assunzione, avviene l'incidente in cui Caulfield perde le dita. Lindy conosce già Meuller o forse lo sceglie a caso. Con la sua esperienza professionale, non deve essere difficile per lui trovare la composizione chimica giusta per simulare un attacco cardiaco. In più ha dimostrato di saperci fare un po' con tutto, dal riparare un lavandino all'elettronica. Un congegno esplosivo semplice, basato sul proiettile di un fucile da caccia e un detonatore a molla non è impossibile da realizzare, puoi procurarti il materiale in un negozio di ferramenta e scaricare le istruzioni da Internet. Clair dovrebbe eseguire l'autopsia del mattino, ma Lindy sa che è sua abitudine offrirne la possibilità al nuovo arrivato. Lindy aggredisce Mueller, gli somministra il prodotto chimico, gli inserisce la bomba, poi chiama il pronto soccorso. Mueller finisce all'obitorio e Caulfield ne esamina il cadavere facendo esplodere il dispositivo. Cristo, sta in piedi! Perché Lindy voleva liberarsi di Caulfield? Perché voleva che perdesse il lavoro? Perché lo odia per qualche motivo sconosciuto. O perché vuole che al suo posto ci sia qualcun altro. E c'era solo un altro candidato alla posizione. Ava. Tirai fuori il cellulare di furia, sbagliai il numero e finii quasi giù per la scarpata. Mi fermai sul lato della strada, feci un respiro profondo e provai
ancora a telefonare. Nulla. Non c'era segnale. Ripartii di scatto e mi avventai a velocità folle lungo la discesa, terrorizzando due persone su un altro pick up che veniva in direzione opposta. Suonarono e imprecarono e mi mostrarono il medio alzato. Mi ritrovai in pianura e provai ancora a telefonare. «Nautilus», abbaiò Harry. Sembrava essere al lato opposto dell'universo. «Harry, controlla immediatamente l'alibi di Will Lindy le notti degli omicidi. Credo che il bersaglio dei messaggi sia Ava, ma tieni sotto protezione anche Clair. Non ci metterò meno di quattro ore ad arrivare lì. Informami di ogni sviluppo e insisti se non mi trovi. Non sempre c'è segnale. Continuerò a passare fra un'antenna e l'altra.» Harry non perse tempo. «Okay.» Scalai una marcia, sbandai sulla ghiaia e rimisi l'auto in linea. «Harry, aspetta.» «Sono qui.» «Stai molto attento a Lindy, collega. Temo che sia suonato.» «Lo tratterò come fosse nitroglicerina. Riporta qui le tue chiappe in fretta, fratello.» Gettai il cellulare sul sedile di fianco e lo guardai rimbalzare sul pianale. In quella frazione di secondo di disattenzione la ruota di destra colpì il bordo della strada e il volante mi sobbalzò dalle mani. Gli alberi mi vennero incontro e schiacciai il freno a fondo, sbandando di lato. Il pick-up cadde nel fosso di fianco alla strada, mentre le ruote di sinistra, staccate dal terreno, giravano a vuoto. Provai a mettere la prima, poi la retromarcia. Non avevo abbastanza aderenza. Urlando e imprecando e prendendo a pugni lo sterzo mi arrampicai fuori dall'auto proprio mentre passavano i due tipi con cui ero quasi andato a cozzare. «Mi dispiace per prima», dissi. «Per favore, aiutatemi a tirare fuori l'auto, ho un'emergenza.» Scesero bestemmiando, con i volti rossi di rabbia. «Figlio di puttana, prima cerchi di sbatterci fuori strada e adesso ci chiedi aiuto? Te la diamo noi l'emergenza...» Il pugno del primo dei due mi colpì dietro l'orecchio mandandomi a finire addosso al secondo. Mi tirò un gancio destro che riuscii a bloccare con il braccio. Gli mollai una gomitata in bocca facendolo cadere in ginocchio. Il primo corse alla sua auto e ne tirò fuori una mazza da baseball. Venne verso di me con la mazza che disegnava lenti cerchi nell'aria. «Adesso ti spacco quella tua brutta testa di cazzo...»
Tirai fuori la .32 dalla fondina sulla caviglia. Il loro parabrezza era già incrinato e il proiettile a punta cava lo fece cadere sul cofano come fosse stoffa raggrinzita. «Tirate fuori il mio pick up ADESSO!» urlai, mandando in polvere uno dei loro fari per chiarire meglio il concetto. Ripetendo sissignore a ogni piè sospinto come maggiordomi inglesi, mi rimisero in pista in trenta secondi. Per precauzione, gli bucai due pneumatici a colpi di pistola, mentre loro saltavano al di là del guard rail in cerca di riparo, e salii in auto. Il cellulare suonò. Lo presi, mi cadde in grembo, lo raccolsi di nuovo. Fa' che sia al sicuro. Harry mi riferì i fatti senza emozioni. «La dottoressa Peltier è qui all'obitorio. Non c'è traccia di Lindy. Non è venuto a lavorare. Prima volta in tre anni.» «E Ava?» «C'è qui la sua macchina, ma...» «Sarà a casa. Continua a cercarla.» Più di quattro ore per arrivare a Mobile. Riattaccai e cercai di ricordare ogni cosa che mi era stata insegnata nel corso della polizia sulla guida in condizioni di emergenza. Il telefono suonò di nuovo. «Parla», ruggii. Voci nel sottofondo. Harry che parlava con qualcuno. Il telefono cambiò di mano e sentii una voce sconosciuta. «Carson, voglio che tu ti diriga a nord. C'è una vecchia pesa pubblica sulla strada, al chilometro 217. Ci sarà un elicottero ad aspettarti.» «Chi diavolo sei?» «Il tuo capo preferito, Carson.» Tom Mason. Non avevo riconosciuto la voce. Aveva parlato così in fretta da sembrare normale. Partii a tutta velocità, calcolando i tempi. Mezz'ora fino all'elicottero, poi un'ora o più fino a Mobile. E poi... cosa? Stavo superando le altre auto come fossero inchiodate all'asfalto quando delle luci lampeggianti apparvero nello specchietto. Polizia di Stato. Dovevano essere stati avvisati dai due tipi nel pick up. Rallentai, cercando di trovare il modo migliore per raccontare la mia storia. Le luci illuminarono l'interno dell'auto e io feci per accostare, bestemmiando. Il poliziotto mi sorpassò suonando il clacson e facendomi segno con la mano di proseguire. Mi misi nella sua scia e percorremmo il resto della strada a sirene spiegate, dove un grosso Sikorsky con lo stemma dello Stato dell'Alabama era già in attesa. Il pilota mi studiò attraverso la visiera del
casco. «Non so chi tu sia, amico», gridò sopra il fragore del motore che strillava come una strega impazzita, «ma di certo devi avere qualche santo in paradiso.» Mi buttò un casco e l'elicottero decollò. Improvvisamente mi venne in mente l'inaugurazione del nuovo obitorio. Chi stava chiacchierando amichevolmente con il procuratore generale dello Stato come se fossero vecchi amici? Clair. La terra ci scorse sotto veloce come un manto verde e io approfittai del tempo per tranquillizzarmi e concentrarmi su Willet Lindy. Chi aveva accesso al programma delle autopsie? Lindy. Poteva pianificare i corpi, uccidendo le notti prima di quando Ava avrebbe fatto il turno del mattino, in modo che fosse lei a esaminare i cadaveri. Ma qual era il suo movente? Cosa ci guadagnava a fare in modo che le autopsie finissero ad Ava? Una forma di voyeurismo perverso? Nessuna delle volte in cui io avevo presenziato a un'autopsia lui era entrato in sala operatoria. La mia mente analizzò il processo di un'autopsia, cosa produceva. Moduli. Risultati. Conclusioni. Ipotesi. Rapporti. Il patologo eseguiva l'esame post mortem, riportandone ogni passaggio ad alta voce a beneficio del microfono. Il registratore. Il cancelliere che trascriveva. L'archivio. Il pilota girò una manopola su un pannello e parlò nel microfono del suo casco. Allungai la mano e accesi il mio microfono. «C'è una chiamata per te.» Sentii la voce di Harry fra le scariche e gridai: «Cosa succede, Harry?» «Sembra che Lindy e Ava siano spariti dalla faccia della terra.» Una mano gelida mi prese il cuore e cominciò a stringere. «Clair è lì?» «Dall'altro lato della stanza.» «Chiedile chi si occupa dei nastri delle autopsie.» Qualche secondo di voci attutite poi Harry ritornò. «Lindy. È lui che ha la responsabilità di accertarsi che vengano inviati al cancelliere, dopo di che li archivia con le registrazioni originali. La dottoressa Peltier dice che tutte le informazioni, sia vocali sia tutto il resto, sono collegate con il suo ufficio.» «Cosa intendi dire con tutto il resto?» Altre voci indistinte. Sentii Clair sullo sfondo. «Che sta succedendo, Harry?» «Tienti forte, Cars. Ci sono nuove informazioni, piuttosto strane.» «Riguardo Ava? C'entra Ava, Harry?»
«Aspetta un attimo.» Montgomery era di fronte a noi, a cinque miglia. Quando la voce di Harry ritornò a gracchiarmi nelle orecchie, era cinque miglia alle nostre spalle. «Lindy non ha solo una linea audio che entra nel suo ufficio, ma anche un input video. Fa parte del sistema di sicurezza installato dopo la bomba. Ci sono videocamere nei corridoi, all'entrata, e così via. Sono tutte collegate con schermi e registratori nell'ufficio di Lindy.» Il pilota aveva il motore al massimo. «Più forte, Harry, non sento.» «Senti questa, Carson: Lindy ha riposizionato alcune delle videocamere: non si possono vedere, sono grosse come gomme da cancellare. Ha messo quattro videocamere sul soffitto e attorno al tavolo operatorio, quattro inquadrature differenti. Spiava le autopsie, Carson.» Un'altra scarica di rumori nelle mie cuffie. Urla, rabbia. Harry ritornò. «Ho trovato della gente che potrebbe saperne di più sul conto di Lindy. Stanno venendo in città. Ma adesso abbiamo un problema.» Sentii una voce familiare abbaiare ordini sullo sfondo, «Squill», sputai. «È più rompicazzo del solito. Mi sa che stavolta gli spaccherò la testa.» «Stai calmo, Harry. A Squill ci penso io.» «Sta prendendo il comando. Ho l'impressione di essere appena stato sospeso.» «Nessun segno di Ava... Harry?» Sentii un suono come di una bottiglia stappata e voci irate. Poi la voce di Squill mi riempì le orecchie. «Come te la cavi a riempire sacchetti al supermercato, Ryder?» disse. Ci fu una scarica, poi la comunicazione venne troncata. In lontananza vidi il grigioazzurro della baia di Mobile. Nuvole scure stavano accumulandosi da ovest come un manto. «Sta per arrivare una bella tempesta», annunciò il pilota. 32 «Lei è sospeso, Ryder. E questo è solo il primo passo. Il secondo sarà il licenziamento.» Squill mi era saltato addosso nel momento stesso in cui ero sceso dall'elicottero nel parcheggio del motel, nella zona nordoccidentale del centro città. Assieme a lui c'era il suo scimmione di fresca nomina, Bobby Nee-
land. Il gorilla aveva un nuovo paio di occhiali scuri. L'auto di Harry sgommò entrando nel parcheggio alle loro spalle. Ignorai Squill e corsi verso Harry. «Ava?» gridai. Scosse il capo. «Ancora niente. Abbiamo trovato roba un po' strana nella cantina di Lindy. La stavamo studiando quando...» Il capitano aveva la faccia paonazza e si controllava a stento. Neeland sembrava divertirsi da pazzi sotto l'ombrello del capitano. Squill puntò il dito verso Harry. «Una sola parola ancora a Ryder ed è fuori anche lei, Nautilus.» Harry lo ignorò. «C'è una donna nel motel con cui devi parlare, Cars. La sua storia è...» Neeland era pieno di testosterone all'idea di essere il prescelto di Squill. Piantò la sua faccia davanti a quella di Harry. «Non hai sentito il capitano, Nautilus? Vuole che il tuo muso nero la smetta di....» Senza quasi distogliere lo sguardo da me, Harry sferrò un pugno nello stomaco di Neeland, il quale si lasciò sfuggire una serie di piccoli versi finché le ginocchia non gli si piegarono e cadde sull'asfalto come un sacco di patate. «Siete entrambi in arresto per aver attaccato un poliziotto nell'esercizio delle sue funzioni», sbraitò Squill. «Potete dire addio alla vita normale.» Due auto di pattuglia stavano risalendo la strada. Il capitano fece loro segno di avvicinarsi. Neeland si alzò a fatica su un ginocchio, un filo di muco verde che gli colava da una narice. Squill cominciò a contare sulle sue dita rosee. «Percosse, insubordinazione, calunnia...» «La sua inesperienza si vede, capitano», dissi, con quanta calma potevo ancora mantenere. «Credo che avrebbe dovuto assistere a qualche autopsia in più.» Mi fissò: «Di cosa sta cianciando, Ryder?» Sorrisi. Non era quello che si era aspettato. «La nostra piccola chiacchierata di fronte al tavolo delle autopsie, capitano. Del vicecapo Plackett e di altre cose. Quando ha parlato con ammirabile franchezza. Ricorda?» Squill fece una risata chioccia. «Credo che farebbe meglio a consultare un terapeuta, Ryder, per farsi aiutare a risolvere le sue proiezioni. Presto ne avrà tutto il tempo.» La auto entrarono nel parcheggio, frenando bruscamente. I riflessi delle luci lampeggianti si stagliarono sui nostri volti. «Ricorda che il patologo continua a parlare?»
«Cosa?» «All'obitorio. La persona che esegue l'autopsia parla sempre.» Tirai fuori di tasca la busta bianca che Ava mi aveva dato, ne strappai un'estremità e la aprii soffiando. La scossi facendomi cadere un'audiocassetta nera nel palmo. «Credeva che stessi parlando con lei?» Gli tirai la cassetta e lui la afferrò goffamente. «Il nastro ha continuato a girare dopo l'autopsia di Burlew», dissi. «Per tutta la durata della nostra conversazione. Ottima qualità del suono. Anche sulle copie.» Le portiere delle auto si aprirono. «Allora, capitano, può dire a tutti come ha fatto a trasformare un pezzo di merda come il vicecomandante Plackett nel nuovo capo della polizia, oppure...» «Oppure cosa?» mormorò Squill, il viso completamente privo di colore. «Oppure può complimentarsi con me e Harry per l'ottimo lavoro che lo PSIT sta svolgendo, esortandoci a continuare così.» Neeland si lasciò sfuggire un gemito e vomitò. Pollo fritto e salsa si sparsero sulle lucenti scarpe nere di Squill. «Voglio che tu veda una cosa», disse Harry. «Poi parleremo con una donna che conosceva Lindy da ragazzo.» Mi passò una grossa busta marrone mentre correvamo verso il motel. «Controlla questa», mormorò. «L'ho avuta dall'ufficio dello sceriffo della contea di Choctaw. Lindy è cresciuto in una fattoria vicino a Buder.» Aprii la busta e ne tirai fuori una foto faxata. Ava. In una foto segnaletica presa dall'ufficio dello sceriffo della contea di Choctaw. Fronte e profilo. Numero del verbale di arresto. Quasi Ava. Il naso era un filo troppo lungo, la fronte un pelo troppo alta, e gli occhi sembravano far parte del magazzino di un imbalsamatore di animali. Erano quasi occhi di pesce. O, forse, di rettile. Harry mi lasciò il tempo di superare la sorpresa. «È la madre di Lindy. Arrestata per aver messo in pericolo la vita del figlio e reati correlati. Lo teneva incatenato in una dispensa, tanto per dirne una.» Sospirò. «Oltre a tutto il resto. Lui aveva sedici anni, all'epoca. Due anni dopo la madre morì in carcere di cirrosi.» «E quando Ava è arrivata all'obitorio per sostenere il colloquio...» «Lindy è uscito di testa.» Harry bussò alla porta della 116. Di fronte alla stanza era parcheggiata un'auto di pattuglia dell'ufficio dello sceriffo della contea di Choctaw co-
perta di polvere. Feci un cenno di saluto all'agente al volante. «La donna si chiama Velene Clay», disse Harry. «Ha cinquantatré anni. Direttrice dei servizi di assistenza ai minori nell'area di Butler. Sta con sua zia che viveva nella fattoria confinante con quella dei Lindy. È un paese piccolo.» «La zia sa qualcosa?» chiesi, soffocando l'impulso di sfondare la porta, urlare, mettere in moto le cose, ma se c'era un momento in cui bisognava curarsi di impressioni e dettagli, era proprio quello. Harry scosse il capo. «Ha quasi ottant'anni e ha l'Alzheimer. Ecco perché è anche lei nel motel. La Clay non poteva lasciarla a casa da sola.» «Non abbiamo trovato nessun altro che conosceva Lindy a quel tempo?» «Non era uno che usciva molto di casa.» La stanza era calda, l'aria condizionata al minimo, probabilmente per riguardo alla donna scheletrica sulla sedia a rotelle fra i due letti. Uno scialle fatto all'uncinetto le scendeva dalle spalle ossute, e i capelli bianchi, pur pettinati, erano scomposti, con ciuffi ribelli che si allungavano come antenne. Gli occhi blu, privi di emozioni, erano fissi sullo schermo del televisore spento. Le mani le si muovevano a scatti dal grembo alle labbra, come se stesse fumando invisibili sigarette. Mi guardò. Un lampo di riconoscimento le brillò negli occhi. «Saaaalve», disse. «Poiiiioootto.» Poliziotto, pensai avesse detto. L'angolo sinistro della bocca era piegato all'ingiù, risultato forse di un ictus. Annuii e risposi salve. Lei ritornò a fingere di fumare e di guardare la televisione. Ebbi una visione di vecchi programmi rimasti intrappolati nei ciuffi dei suoi capelli. «Questa è mia zia, la signora Benoit. Io sono Velene Clay.» Mi voltai verso una donna imponente seduta al tavolo d'angolo. Indossava un semplice vestito giallo e aveva un raccoglitore consunto di fronte a sé. Vi teneva appoggiate le punte delle dita come fosse il tavolino di una medium. La signora Clay era stata promossa direttrice dei servizi d'assistenza ai giovani della contea di Choctaw cinque anni prima, dopo un lungo periodo di servizio come assistente sociale. Le chiesi di dirmi tutto quello che sapeva su Will Lindy, e guardai l'orologio, per sottolineare l'urgenza della situazione. Parlò con voce esitante. «Aveva tredici anni la prima volta che lo vidi. Era scappato di casa. Non era un fatto insolito. Mi venne portato per una serie di colloqui. Un ragazzo intelligente, ben educato. Ma fin dal primo giorno mi accorsi che c'era qualcosa che... che non andava. Qualcosa che
mancava.» Harry aveva già sentito parte della storia al telefono. «Senti questa, Cars.» La signora Clay continuò. «C'era una sala d'attesa, fuori dal mio ufficio, con sedie, riviste, giocattoli per i più piccoli. Uscii dalla porta proprio mentre Willy si era chinato per raccogliere una rivista che gli era caduta a terra. In quel momento suonò il telefono. Gli dissi: 'Non ti muovere, torno subito'.» Le sue dita si contraevano sopra al raccoglitore. Si indirizzarono verso di me, poi in altre direzioni. «Restai al telefono venti minuti. Quando ritornai da lui, lo trovai ancora nella stessa posizione, chino sulla rivista.» «Gli aveva detto di non muoversi», commentai. «Era immobile come una statua. Gli dissi: 'Va tutto bene, Willy'. Lui prese la rivista e la rimise a posto, come se nulla fosse successo.» La signora Benoit pestò il piede per terra e gemette. Cominciò a tracciare linee nell'aria con una sigaretta immaginaria. «Mi scusi», disse la signora Clay. «C'è qualcosa che la disturba. Viaggiamo così di rado, è troppo difficile...» «Cos'altro può dirmi?» «Lo rividi quando era già alle superiori. Non era cambiato molto, solo un po' più alto. Ma era sempre un ragazzino mingherlino con gli stessi occhi e la stessa espressione. Inerte; poi, un secondo dopo, intensa. Come se avesse un interruttore che si accendeva e si spegneva a intermittenza.» «Tracce di maltrattamenti?» «Aveva dei segni sui polsi e sulle caviglie come fosse stato legato. Ha sostenuto di essere rimasto impigliato nelle corde di un'altalena, giocando a Tarzan, o qualcosa del genere. Era una scusa elaborata, come se qualcuno gliel'avesse fatta imparare a memoria. Ho provato ad affrontare l'argomento delle molestie sessuali, ma ad accennare ai genitali, o anche solo al suo corpo, si stringeva la pancia e cominciava a lamentarsi e a dire che doveva andare in bagno. Dopo di che si chiudeva in un totale mutismo.» Quasi impercettibilmente, le mani della signora Clay cominciarono a spingere il raccoglitore verso di me. «Avevo la facoltà di ispezionare e valutare le condizioni in cui i miei assistiti vivevano, così andai a casa sua e dissi a sua madre che dovevo dare un'occhiata in giro. Avevo già incontrato la donna in città, ovviamente, parlato con lei un po' durante le prime sessioni. Sempre tranquilla e gentile. Era solo una maschera. Divenne una furia quando le chiesi di entrare. Avrebbe dovuto sentire che linguaggio,
mai sentito niente del genere. Mi ha minacciata nei modi più violenti. Era come un cane idrofobo che parlava inglese.» «E cosa ha fatto Lindy per tutto il tempo?» «Yahhhh», sbuffò la signora Benoit. Si guardò in giro per la stanza come notandola per la prima volta. «Yahhh», ripeté, chiudendo la mano a pugno e colpendo l'aria. La signora Clay disse: «Lo vedevo dalla porta seduto davanti al televisore, il naso appiccicato allo schermo. Non c'era suono ma sembrava che riuscisse a sentire comunque. Avevo già notato il suo attaccamento alla televisione quando veniva in occasione dei colloqui nel mio ufficio, quando preferiva guardare lo schermo nella sala d'attesa invece che interagire con gli altri bambini». «E lei è riuscita a entrare in casa?» «C'è voluto l'intervento dello sceriffo e di tre grossi agenti per portarla via.» «Era strana? La casa?» Il raccoglitore coprì la distanza che ancora lo separava da me. «La polizia l'ha fotografata. Io mi sono fatta dare delle copie in modo da non dimenticare mai, capisce, cosa poteva spingere un ragazzo a comportarsi come Willy Lindy.» «Arche», sussurrò la signora Benoit. «Arche.» Tolsi il raccoglitore da sotto le dita della signora Clay e lo aprii. Venti fotografie, numerate in sequenza. La prima mostrava una semplice casa bianca di due piani. Dietro di essa non c'era che una vasta distesa sfocata di campi di cotone. Una fila di grossi alberi in lontananza, lungo la sponda del Tombigbee, a giudicare da due barche in rovina tirate in secco fra gli alberi. Il fotografo ci portò all'interno, documentando il suo percorso. Pochi mobili. Due sedie reclinabili nella sala. Una era rivolta verso il televisore nell'angolo. Il televisore era acceso su un cartone animato, a giudicare dai colori brillanti. Passammo nella sala da pranzo. Un tavolo quadrato di legno, con una sedia. In cucina, un tavolo identico. Una ciotola per cani era sul pavimento, sopra un giornale. «Che razza di cane?» «Non avevano nessun cane», rispose la signora Clay, evitando i miei occhi. Un'altra fotografia, una dispensa che si apriva sulla cucina. Le mensole erano state rimosse. Inchiodate alla parete vi erano corde di varia lunghezza, le estremità avvolte con del nastro adesivo per evitare che si sfilac-
ciassero. Le pareti erano grigie. Vidi l'ombra di un bambino stagliarsi sul muro. Quando battei le palpebre, l'ombra sparì. «Al piano di sopra non c'era nulla», disse la signora Clay. «Vuoto.» Appoggiai la foto della dispensa sulle altre. L'immagine successiva mostrava un piccola costruzione di legno. «Era sul retro», continuò la Clay. «A sei, sette metri dalla casa.» Una porta bianca con due pesanti chiavistelli. La foto seguente mi mostrò una stanzetta in ombra e un pavimento di cemento sporco. Le finestre erano sigillate con nastro isolante nero. Al centro c'era un tavolo da pranzo con dei buchi lungo i bordi, a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro. Una fune serpeggiava fra i buchi. Sopra il tavolo, come un fiore meccanico, era appesa una lampadina. Due serpenti rosa pendevano dall'alto, le teste che finivano in punte tozze e schiacciate. «A che diavolo servono quei tubi?» mormorò Harry. La foto successiva seguiva il percorso dei serpenti fino alle travi del soffitto, dove si collegavano con grosse camere d'aria, una delle quali ancora gonfia d'acqua. Le parole della signora Clay erano soffocate da un fazzoletto. «Povero Willy. Povero bambino.» «Arche», bofonchiò la signora Benoit. «Scusatemi», mormorò la signora Clay, asciugandosi gli occhi, mentre si avvicinava alla zia. «Arche, arche, arche», ripeté la signora Benoit, tirando ancora pugni all'aria, quasi a inchiodare un'immagine che le stava passando nella mente. Salutammo e ci dirigemmo verso la prossima fermata del nostro pellegrinaggio nell'orrore. La casa di Lindy era un cottage piccolo e grazioso in una zona semicentrale, incastonato in una miniforesta di palme, felci, erba alta. Aveva cominciato a piovere. Facemmo un cenno agli agenti di guardia, oltrepassammo il nastro che cingeva la scena ed entrammo. Nel soggiorno dall'alto soffitto, di fronte al televisore, c'era una sedia di legno. Era tutto. Un tavolo piccolo e una altra sedia di legno erano nella sala da pranzo. Il raccoglitore della signora Clay ci aveva preparato a quel tipo di arredamento. Nella stanza da letto c'era un materasso sul pavimento. I vestiti erano disposti l'uno sull'altro nell'armadio, i bordi precisamente allineati. Gli abiti appesi erano distanziati fra loro in modo da non toccarsi.
C'era una seconda camera da letto, chiusa con un grosso lucchetto. «Non era chiuso nemmeno quando siamo arrivati», spiegò Harry. «Come se avesse deciso di filarsela di corsa.» Entrai. A un tavolo lungo quanto la parete erano appoggiati svariati apparecchi elettronici, fra cui un computer e un monitor. Due marchingegni avevano fessure della misura di una videocassetta, e pensai che potessero essere videoregistratori. In un angolo c'era una videocamera su un treppiede. Poi c'erano due luci montate su supporti, riflettori e cavi che serpeggiavano ovunque. «È un impianto per registrare e montare videocassette», disse Harry. «Amatoriale, ma di buon livello. Montaggio al computer, effetti speciali. Almeno, questa è l'opinione di Carl Tyler, il nostro esperto di tecnologia.» Quattro cassette erano appoggiate sul tavolo. «Le avete guardate, tu o Carl?» «No. Volevo prima che Carl si accertasse che non erano collegate a dispositivi esplosivi o altre diavolerie.» «Siete dei campioni, fratello. Forza, diamoci un'occhiata.» Harry mise una cassetta in uno dei videoregistratori. Lo schermo del monitor divenne grigio neve. Una voce si diffuse dagli altoparlanti sopra al tavolo. Harry regolò i pulsanti sul monitor e il volume aumentò. «...lo stomaco appare di forma tubulare e vuoto, indicando il passaggio di parecchie ore dall'ultimo pasto...» «La voce di Ava», dissi, fissando la neve che ancora riempiva il monitor. «Vedi se riesci a sistemare il tracking.» Harry girò una manopola e sullo schermo apparve il primo piano di due mani inguantate e insanguinate che sollevavano uno stomaco da un addome aperto. Lo zoom della videocamera accorciò la focale inquadrando Ava mentre lavorava, le mani dentro un corpo che riconobbi quasi subito come quello di Deschamps. «..contenuto scarso, simile a semolino, indicherebbe...» «Che diavolo succede, Carson? Chi può desiderare dei filmati di corpi che vengono tagliati a pezzi?» Feci avanzare il nastro. Il corpo di Deschamps visto da un'altra angolazione: la stessa autopsia ripresa da una videocamera differente. Sostituii la cassetta con un'altra. Scena simile: il corpo di Nelson, prima che cominciassero a tagliarlo. «Dici che è uno che si eccita a vedere film di autopsie?» si stupì Harry. «È questo il motivo? Ha ucciso della gente per guardarla mentre viene fat-
ta a pezzi?» «Non è così semplice. Le parole hanno un significato in tutto questo.» Schiacciai ancora il tasto di avanzamento rapido. Altre riprese da diverse angolature. Nel montaggio, Lindy doveva essersi divertito a giocare con i vari comandi. Alcune scene erano primissimi piani, altre campi lunghi, sia di Ava sia dei corpi, dalle ginocchia al collo. Andai ancora avanti, ma era sempre lo stesso. Lindy aveva usato tre diverse telecamere, montando poi tutto il materiale in quel nastro. La terza cassetta era come le altre due, solo che il corpo era quello di Burlew. «Tre cadaveri, tre film montati dalle riprese di tre telecamere posizionate sopra il tavolo», dissi prendendo l'ultima cassetta. «Proviamo con la quarta.» C'era una piccola stella incisa sull'involucro della cassetta. La misi nel registratore. La macchina, girando, cigolò e fischiò. Lo schermo era nero. Poi, sullo sfondo scuro, una bocca bianca e nera gradualmente cominciò a prendere forma. Il contrasto era stato regolato al massimo, con le labbra che sembravano quasi una creazione astratta. Si aprivano e si chiudevano. Umide. Parlavano. In un sussurro. La voce di Will Lindy. «Non farlo. È sporco e non ti è permesso. Lo dirò alla Mamma», disse la voce con un misto di implorazione e di ammonizione. Sotto le sue parole si udiva musica distorta. «Ti prego... smettila di toccarmi. Aiutami, Mamma. Lei è qui.» L'obiettivo inquadrò le dita di una donna che scendevano lungo il torace di un uomo, massaggiando e accarezzando, sfiorandogli il bicipite, scorrendogli lungo una spalla. Poi passò a un primissimo piano, mostrando le dita di Ava giocherellare con un capezzolo. Lindy gemette e la sua voce aumentò di volume. «È qui, Mamma. La ragazza cattiva. Mi sta toccando dappertutto.» La scena passò a un'altra angolatura, da una camera montata sul soffitto e leggermente a sinistra di Ava, dietro al suo capo. L'inquadratura si avvicinò alle mani di Ava che scorrevano già lungo l'addome e il ventre, fermandosi al pelo pubico. Lo accarezzò. Lo premette. Mise le mani alla base del pene. L'angolatura della videocamera si spostò ancora, diventando obliqua. Inorriditi e senza fiato, guardammo Ava chinarsi in avanti e cominciare il succhiare il pene di Jerrold Nelson.
33 Le tozze ruote del grosso fuoristrada sprofondarono in una pozza di fango, girarono a vuoto, poi fecero presa. Il veicolo sbandò di lato prima di ruggire verso il fiume. Mancava meno di un miglio. Il suo pick up era finito sul fondo di un crepaccio a nord del Chicksaw. Era un giorno incantevole, nuvole grigio porpora con una pioggia deliziosa a confondere la vista. Girò attorno a un albero caduto e lo superò, sobbalzando su un dosso soffice, alzandosi sul sedile per consentire alle ginocchia di assorbire l'impatto. Alle sue spalle, legata sopra il paraurti posteriore, sentì la Mamma lasciarsi sfuggire un gemito. L'effetto del sonnifero cominciava a svanire. Glielo aveva messo nel caffè, e quando lei aveva cominciato a sentirsi disorientata l'aveva sospinta sul piano di carico e da lì sulla sua auto. Il narcotico avrebbe cominciato presto a vaporizzarsi nel suo corpo - come avevano dimostrato gli esperimenti che aveva condotto - per poi disperdersi velocemente nel suo respiro mentre si svegliava. Doveva muoversi: una Mamma arrabbiata era una Mamma molto pericolosa. In lontananza scorse il chiostro di alberi che nascondevano la barca alla vista. Nessuno li avrebbe trovati. Avrebbe parlato con la Mamma delle brutte cose che erano successe in passato, e poi le avrebbe fatto vedere cosa era diventato. L'avrebbe salvata. Avrebbe dovuto tagliar fuori la ragazza cattiva. Era abbastanza forte per farlo ora. Le nuvole rotearono come fantasmi scuri e la pioggia cadde più forte. Will Lindy si diresse verso gli alberi accelerando sotto la pioggia. Era un giorno incantevole. «Mio Dio», esclamò Harry mentre guardavamo la mascella di Ava muoversi avanti e indietro, su e giù. «Sta facendo quello che penso io?» «Sì. Sta leggendo. 'Puttane deformate. Un litro di puttane deformate.' Continua a ripeterlo.» Ava sembrò cambiare espressione e ritmo. «Adesso è diverso. Sta leggendo...» «Sorci. Sorci. Sorci.» «Senza sentire la voce, sembra che...» «Lo so. E me ne ricordo. Sono di fianco a lei, appena fuori dall'obiettivo.»
Harry mormorò qualcosa fra sé e sé tenendosi il mento. «Ha scelto parole che le facciano oscillare la mascella.» Le parole ora avevano un senso. Lindy voleva che Ava mimasse i movimenti facciali di una fellatio mentre si chinava in avanti per leggere i caratteri piccoli e indistinti, con la testa posizionata fra la videocamera e il posto dove avrebbe dovuto trovarsi un pene eretto. Dall'angolatura della videocamera i movimenti erano lievi ma suggestivi. Aveva fatto un montaggio di diverse riprese da più angolature dei ventri quasi identici di Nelson e Deschamps per allungare la scena, quindi l'aveva ripresa più volte. La testa di Ava oscillò avanti e indietro, le mascella si mosse più in fretta, poi più adagio, mentre i gemiti di Lindy riempivano la stanza. La sua eccitazione non sembrava finta. Le scene erano state filtrate per ridurre il realismo clinico, i bianchi abbaglianti, le ombre scure e confuse. In sottofondo c'erano la musica e strani effetti sonori distorti, un pulsare e un grattare che avrebbero perseguitato i sogni di un santo. I gemiti di Lindy aumentarono in velocità e volume mentre la testa di Ava cominciava ad andare su e giù furiosamente. Mi accorsi che si era allontanata dalle iscrizioni e che lui aveva registrato i suoi movimenti all'indietro e accelerandoli. Lindy emise un assordante gemito che indicò l'orgasmo e lo schermo si oscurò. Un urlo acuto uscì dall'altoparlante e Harry sobbalzò. Il film riprese con dei primi piani dell'autopsia, il bisturi che tagliava, le mani inguantate che estraevano organi dai tagli. «Uh, oh», disse Harry. La voce di Ava. «Willy? Willet Lindy...» Avevo ragione. Lindy aveva messo insieme il suo nome da parole e sillabe staccate. Forse le altre parole erano state messe all'unico scopo di mimetizzare il suo nome. Trattenni il capo e ascoltai inorridito. «Will Lindy?» disse Ava. Lindy parlò con voce da bambino. «Sì, Mamma?» «Sei stato ancora con quella ragazza, vero?» La voce di Ava era lenta e monotona, una voce da computer nelle sue inflessioni; un patchwork verbale tratto dalla schiena di Burlew. «Non volevo, Mamma.» «Ti fa delle brutte cose dentro, vero?» La piattezza della voce di Ava caricava le parole di disperazione. «Non la vedrò mai più. Promesso.»
«Willet. Willet. Willet... lo sai che la ragazza cattiva ti fa dire le bugie.» «No, stavolta lo farò davvero. Prometto.» «Dobbiamo esserne sicuri, Will.» «No.» Tremando. «È ora di fare uscire le brutte cose, Will.» Una mano si infilò nella cavità bagnata. Strizzò e massaggiò. «Non farmi male di nuovo, Mamma.» Mi chiesi se era andata davvero così. La voce di Lindy era frenetica e terrorizzata. La voce della Mamma priva di inflessioni e meccanica, un bambino spaventato contro un robot impazzito. Un momento è la ragazza cattiva, il prossimo è la Mamma. «È dentro di te, molto a fondo, Will. La Mamma deve tirarla fuori.» «No, ti prego! Per favore, non farlo, Mamma.» La mano inguantata tagliò e tirò. Le scene si dissolsero in altre scene. Il fegato. Un rene. La bile. Scintillavano sotto la luce come frutti mutanti. La maggior parte delle scene erano così ravvicinate che il moncherino del collo non era inquadrato. Quando lo era, pensai che la decapitazione che rimuoveva l'identificazione consentiva alla mente delirante di Lindy di inserire la sua testa. Harry parlò a voce bassa, come fosse in chiesa. «Pensi che la madre lo abbia tagliato davvero?» «Forse è quello che ha immaginato quando lei gli pompava dentro chissà cosa.» «Quella donna è stata sputata fuori dall'inferno», sussurrò Harry, guardando un polmone venire alla luce. «È un orrore tramandato da una generazione all'altra.» La voce di Lindy aumentò di una tonalità. «Mi fa cosi male, Mamma.» «Il dolore ci purifica, Will.» Lo schermo si oscurò di nuovo; la quiete e il silenzio sembrarono completi. Poi la voce di Lindy ritornò, più vecchia, cinica. «Io so una cosa, Mamma.» «Cosa sai?» «So un segreto, Mamma.» Le voci erano diffuse in stereo su due canali diversi: quella di Ava veniva da destra, quella di Lindy da sinistra. «Cosa sai, Will?» «Segreti, segreti.» Stuzzicando. «Cosa sai, Will?» Un sussurro. «Sei tu la ragazza cattiva.»
«Cos'hai detto, Willy?» «Lo so che sei tu la ragazza cattiva, Mamma.» Rise, con una voce impregnata di passione. «Segreti, segreti. Così tanti segreti.» «Qualsiasi cosa ne venga fuori, non può essere buona», brontolò Harry. «Adesso... stai... zitto... Will Lindy.» «Sei tu la ragazza cattiva, Mamma, sei tu la ragazza cattiva, Mamma. So un segreto...» La cantilena di Lindy si trasformò di colpo in un urlo acuto che tagliò l'aria come una falce per poi rabbrividire e tacere. Restò solo il ronzio del videoregistratore mentre per un intero minuto un corpo comparve sullo schermo, emergendo da un mare nero come carbone. Il corpo di Nelson. Il colore era stato completamente eliminato, lasciando solo bianco e nero e un grigio di intensità cangiante. La videocamera si fermò su un bicipite, avvicinandosi. «Guarda cosa posso fare, Mamma, guarda questo.» La voce di Lindy era un sussurro punzecchiante. Il bicipite di Nelson fu sostituito da quello di Deschamps nella stessa posizione, più grosso, più spesso. «Sto crescendo, Mamma. Guarda.» Lo stomaco piatto di Nelson si trasformò in quello più muscoloso di Deschamps. La coscia di Nelson divenne quella più robusta di Deschamps. «Uh, oh, Mamma», continuò la voce di Lindy in tono di sfida, «adesso farai meglio a stare attenta.» Le spalle di Nelson si ingrandirono, acquistando peso e definizione come per magia. «Mio Dio», sussurrò Harry, «è una fantasia di vendetta.» «Non farlo, Will. Mi fai paura. Non farmi paura», disse la voce di Ava nella versione «Mamma». «Credi di essere spaventata, adesso, Mamma? Allora guarda questo.» C'era una nota di trionfo nella voce di Lindy. Lo schermo si oscurò di nuovo e i suoni strani divennero più profondi e più ritmici. Lo schermo si illuminò mostrando un'immagine del corpo da culturista di Burlew, robusto, con i muscoli scolpiti, il torace grosso come un macigno, i bicipiti come prosciutti. Seguì un montaggio del corpo visto da angoli diversi. Dozzine di fotogrammi condensati in pochi secondi, con lo zoom che si avvicinava come fosse attirato magneticamente dal corpo. «No, Will, no! Ho paura!» «Adesso tocca a te, Mamma.»
Un primo piano di labbra richiamò l'inizio del video. La bocca umida di Lindy che sputava fuori parole. «Hai mai pensato che un giorno sarei venuto a cercarti, Mamma?» La voce di Ava si contorse in un'accozzaglia di vocali impastate, un brutto suono soffocato, le ee di «Peeeee», le o corte di «Boston», quelle lunghe di «Kokomo». I nomi della città non erano serviti solo a confondere le acque, ma soprattutto a fornire le vocali necessarie. «aaaa-ooooo-uu... No, no... per favore...» Inquadratura del volto di Lindy, per metà in ombra, un ghigno selvaggio sotto gli occhi scintillanti, le mani che sembravano invitare lo spettatore a entrare nello schermo. «...oo...ahh...oooaauuhh...» «Io ti salverò, Mamma.» «... ooooaaaaaeeee...» L'immagine si arrestò all'improvviso e il suono venne interrotto. Il rumore del nastro che avanzava riempì la stanza. «Che è successo?» chiese Harry. «Si è rotto il nastro?» «No», risposi, mentre la mia mente guardava un altro insieme di linee invisibili affiorare dal buio. «Manca la scena finale.» «La morte della Mamma.» «Vai all'inferno, Jeremy. Vai all'inferno e restaci», mormorai allo schermo vuoto, mentre all'improvviso mi divenne chiaro il motivo per cui mi aveva lasciato uscire indenne dalla sua cella. «Cosa c'è, Carson?» chiese Harry. «Jeremy non poteva sapere chi fosse l'assassino, ma sapeva bene chi non poteva essere», sospirai, ricordandomi come mio fratello aveva studiato a fondo i rapporti e i verbali della polizia, la sua mente acuta che decifrava il particolare più infinitesimale. Mi risuonò nella mente la ferocia con cui aveva risposto quando Ava aveva provato a dirgli che la sua collaborazione era servita a salvare delle vite. «Tu lo vedi come salvare vite, strega. Io lo vedo come UN TRADIMENTO DI JOEL ADRIAN!» Ricordai la facilità con cui mi aveva manipolato, spingendomi a sospettare dell'innocente Caulfield, e come io mi ero lasciato convincere. Dissi: «Jeremy aveva letto il materiale e scoperto, o sospettato, che l'assassino si era imbarcato in una missione di vendetta contro una madre che lo aveva dominato. Per mio fratello, l'assassino era uno con cui aveva un'affinità. Sapeva anche perfettamente che il profilo di Caulfield non corri-
spondeva a quello del colpevole». La comprensione illuminò lo sguardo di Harry. «Quindi Jeremy ti ha spedito sulle tracce di Caulfield per dare al vero assassino il tempo di portare a termine la sua missione e di mettere la Mamma nel film. Jeremy ha rinunciato a bruciarti solo perché...» Annuii. «Perché lui non aveva rispettato la sua parte dell'accordo. Anzi, mi ha messo sulla strada sbagliata.» «E adesso Lindy è da qualche parte con... la Mamma», bisbigliò Harry. «A portare a compimento la sua fantasia.» Calai il pugno sul tavolo, un gesto tanto inutile quanto allontanare una tempesta con un ventaglio. «Cosa farà Willy?» domandò Harry. Eravamo in auto senza alcuna idea di dove andare. Incrociai i piedi sul pavimento e andai indietro con la mente a vent'anni prima. Minaccia. Tempesta. Cosa fare? Di giorno: correre alla quercia nel bosco, arrampicarmi nel mio fortino. Aspettare. Di notte: uscire dalla finestra, nascondermi nell'auto. Sapevo cosa avrebbe fatto. Lo stesso impulso era in me. «Andrà dove si sente al sicuro, Harry. Nella sua versione di una casa sugli alberi. Devo solo scoprire cos'è e dov'è.» «Ci andrà per finire il film in fretta?» «Non ha mai fatto nulla di fretta. Dobbiamo riconoscerglielo.» Stavo mentendo a me stesso? Forse. Ma Lindy aveva passato centinaia di ore a pedinare le sue vittime, ad analizzare videocassette, a selezionare scene e a cucirle insieme, trasformandole in cinque minuti di follia vendicativa. No. Avrebbe voluto che il suo momento di confronto finale durasse il più a lungo possibile. Per lo meno, finché si sentiva al sicuro. Questo voleva dire che non potevano esserci né assedi prolungati, né attacchi disperati, né corpi speciali che avanzavano correndo in un delirio di luci e sirene e altoparlanti. Sarebbero solo serviti a fargli accelerare il ritmo del suo programma folle, anticipandone la conclusione. E quando ci fosse arrivato, poteva benissimo correre ridendo verso una grandinata di fuoco e metallo, e il dolore e la morte non sarebbero stati nient'altro che pixel su uno schermo TV. Prima però dovevamo trovarlo. Cosa aveva detto la signora Clay? No. Cosa aveva detto la signora Benoit? Arche. Arche. Ricordavo la crescente agitazione della signora Benoit mentre
parlavamo con sua nipote. Arche. Si era agitata ogni volta che qualcuno aveva pronunciato il nome di Lindy. E aveva reagito dicendo arche. O qualcosa del genere. «Torniamo al motel, Harry», dissi. «E in fretta», aggiunsi, come se ce ne fosse bisogno. 34 Mi sedetti sul letto vicino alla signora Benoit e le posai la mano sul ginocchio. Sotto la coperta, era duro come un pezzo di legno. Stava ancora guardando la televisione e fumava, dimentica di chiunque altro nell'universo. Mi spostai leggermente, avvicinandomi, fino a fissarla nelle sue pupille dilatate. «Will Lindy», dissi. «Willy.» La sua bocca si increspò e pronunciò la parola «arche». «Dov'è Willy, signora Benoit?» Si piegò di lato allungando il collo per continuare a guardare la TV. Mi misi di mezzo. «Willy», ripetei. «Will Lindy. Dov'è Willy?» «Arche», ripeté con maggior forza. «Will Lindy!» le urlai in faccia, sperando che almeno il volume servisse a farle allineare le faglie in movimento della sua memoria. La signora Clay strinse le mani ma non intervenne. «Arche», disse la signora Benoit. Le sue dita scattarono verso il mio viso, afferrandomi come fragili artigli e tenendo strettamente la presa. Cercai di immaginare cosa stesse vedendo. Aveva abitato vicino ai Lindy. Sul fiume, il Tombigbee. Fattoria. Granai. Campi. Alberi. Cos'altro avevo visto nelle fotografie? Acqua. Gli scafi delle barche fra gli alberi. «Barche?» chiesi alla signora Clay, mentre le unghie della vecchia penetravano nella guancia. La signora Clay sussurrò dall'altro lato della stanza. «Sul retro della proprietà dei Lindy, verso il fiume. Due vecchie barche che marcivano, barche da pesca, credo, quelle con delle grosse braccia che ne vengono fuori... per le reti, forse. Una era girata sul fianco, una carcassa arrugginita. L'altra era in piedi, bloccata nel fango. Ora non ci sono più, ma forse era lì che il ragazzo si nascondeva quando poteva.» Annuii. «Barche?» chiesi alla signora Benoit. La vedevo attraverso le sue dita. Si chinò in avanti finché ciuffi di capelli bianchi non mi sfiorarono la fronte. I suoi denti tintinnarono mentre mi sputava contro parole far-
fugliate. «La scimmietta... con gli occhi da matto... si nascondeva sempre... in quelle arche di merda.» Ci sono due fiumi di una certa importanza che sfociano nella baia di Mobile, il Mobile e il Tensaw che, insieme, formano il secondo più grande delta di tutti gli Stati Uniti, migliaia di ettari di paludi e acquitrini e sabbie mobili, alligatori, serpenti e nuvole di insetti famelici. Stavamo risalendo il fiume a forse venti nodi, il massimo che potevo ottenere dal grosso Mercury andando controcorrente. Chinai il capo in avanti per ripararmi gli occhi dalla pioggia con la visiera del berretto. Ero davvero contento che stavolta la barca fosse già stata benedetta. Puntando il dito in avanti, gridai: «Tieni d'occhio l'acqua, Harry». «Perché?» «Tronchi, ceppi, qualsiasi cosa. Avvisami.» La stessa tempesta sotto la quale Ava e io avevamo fatto l'amore si era spostata verso nordovest andando a urtare contro un fronte che scendeva dal Canada. La tempesta si era bloccata, passando tre giorni a inondare la porzione superiore dei venticinquemila chilometri quadrati che componevano il sistema fluviale del Mobile. Una seconda tempesta si era mossa sulle tracce della prima, quella che ci stava investendo in quel momento. Harry gridò, indicando con la mano. La chioma di un albero sradicato ci stava correndo incontro. Girai il timone di scatto. I rami graffiarono lo scafo. Harry chiuse gli occhi e mormorò qualcosa fra sé e sé. Lavorando in collaborazione con la polizia di contea, la polizia di Mobile aveva scoperto in fretta che Lindy aveva investito una significativa porzione del suo stipendio annuale di 73.000 dollari in terreni. Sette appezzamenti nella contea di Baldwin, cinque in quella di Mobile. C'erano volute due frenetiche ore per identificare gli appezzamenti e disegnarne il profilo sulla cartina. La maggior parte dei terreni sembravano roba da interessare solo agli speculatori, distese di terra incolta lontane da tutto, i cui proprietari non aspettavano altro che l'arrivo di grandi imprese edili disposte a pagare dollari sonanti. Era un'altra prova che Lindy aveva iniziato a pianificare tutto molto tempo prima. Squadre di poliziotti in quel momento stavano perlustrando tutti i terreni, muovendosi con estrema cautela, le armi pronte. Più su, lungo il corso del Mobile, c'era l'unico terreno di Lindy che si trovasse sull'acqua, due acri lontani da tutto, cinquanta metri dei quali si
affacciavano direttamente sul fiume. Forse c'era anche una baracca da pescatori. O una barca. Ero pronto a scommettere che Lindy si trovasse da qualche parte vicino all'acqua; non poteva essere che lì il suo rifugio, il suo eremo. Avremmo potuto arrivarci via terra, ma la cartina mostrava che sarebbe stato difficile anche per un fuoristrada, pieno com'era di paludi e acquitrini. E le condizioni del tempo proibivano l'uso dell'elicottero. Avevamo chiesto solo che ci dessero una barca, e al comando ce l'avevano concessa di buon grado, felici di potersi concentrare sulle loro strategie d'attacco pesante, sicuri che Lindy non si sarebbe mai diretto verso la più inaccessibile di tutte le sue proprietà. Tutti concordavano sull'ipotesi che fosse già nel Mississippi o in Florida, e che le sue scelte di sopravvivenza fossero basate sulla logica e sulla pianificazione. Per quanto mi riguardava, la mente di Lindy era come un groviglio di cavi elettrici scoperti, o protetti solo da strisce di nastro isolante consunto. La vista di Ava gli aveva strappato via l'isolamento come fosse pelle morta, lasciando i cavi scoperti e liberi di entrare in contatto a casaccio, dove capitava, gracchiando e sputando scintille. «Non ci arriveremo mai, se vai a sbattere contro qualcosa», gridò Harry. «Non puoi andare un po' più adagio?» Lo guardai, sorpreso. La cautela non era mai stata una sua caratteristica. Il fondo della barca rimbalzò sulla cresta di un'onda e per un momento restammo sospesi per aria. Harry si aggrappò al parabrezza mentre ricadevamo, riprendendo a procedere a fatica controcorrente. Senza staccare lo sguardo dal fiume, cercai con la mano nel compartimento sotto il sedile. Trovai un giubbotto di salvataggio e glielo tirai. «Hai un piano?» urlò, cercando di infilarsi in un ridicolo salvagente giallo di almeno due taglie più piccolo. «Sarà del tutto buio nel giro di mezz'ora. Spero che Lindy abbia un generatore per procurarsi la corrente. Almeno ci sarà del rumore a coprirci. Forse riusciremo ad avvicinarci e a prenderlo di sorpresa.» «Sempre ammesso che sia lì.» «È il suo fortino sugli alberi, Harry. Certo che è lì.» «Sta piovendo, Mamma. Ti ricordi quanto ti piaceva la pioggia?» L'interno della barca da pesca era asciutto, le assi marce del soffitto erano state sostituite, i giunti sigillati. Era una piccola imbarcazione, una scatola di legno di dieci metri, appollaiata su un piedistallo di un metro per un metro, a trecento metri dal fiume, a cento dal canale laterale ostruito. La
barca era circondata da alberi, abbastanza celata alla vista. La cabina centrale dal tetto basso era grande a sufficienza per contenere il tavolo di metallo lucido. Nella stiva c'era un gruppo di batterie d'automobile legate insieme per fornire la necessaria energia. Aveva anche un generatore a benzina per ricaricare le batterie; lo aveva provato il giorno prima e tutto era a posto. La TV a schermo piatto da trentadue pollici, appoggiata a una mensola sul retro della cabina, non era così grande come avrebbe voluto, però non si può avere tutto. L'ideale sarebbe stato lo schermo di un drive-in, con la Mamma legata al cofano della sua vecchia Buick parcheggiata in prima fila. Luci, telecamera e... guarda come sono cambiato da quando sei andata via, Mamma! Io posso salvarti! Sul tavolo c'era la Mamma legata al collo, ai polsi e alle caviglie. Avrebbe dovuto lasciarle la pancia scoperta, naturalmente, anche se era un rischio: Mamma era forte come un orso, quando si arrabbiava. Aveva dovuto raddoppiare gli altri legacci per essere al sicuro. Le mani di Lindy cominciarono a strapparle di dosso i vestiti. La Mamma stava cominciando a muoversi e gemere. Quello era il momento in cui avrebbe dovuto usare la massima attenzione. I poliziotti dovevano essere in giro a dargli la caccia, ma in paragone alla Mamma e ai suoi poteri, gli agenti non erano che formiche sul lato opposto del pianeta. I seni della Mamma tremarono nelle coppe del reggiseno, mentre le strappava via anche quello. Le percorse la pelle con gli occhi e sentì che la ragazza cattiva dentro di lei cominciava a cantare. Canticchiò a sua volta a voce alta per cancellare il suono dalla sua testa. Ummmmmm. Quello era il momento in cui la Mamma era più pericolosa. Ummmmm. Willet Lindy canticchiò più forte mentre orientava una telecamera verso il tavolo dell'autopsia e cominciava a preparare il suo magico spettacolo. La pioggia cadde più forte mentre la luce svaniva. La visibilità era sempre più scarsa e mancava del tutto quando le raffiche di vento mi gettavano la pioggia negli occhi. Diedi un'occhiata alla mappa del fiume; eravamo vicini. Non volevo superare il posto di Willy e fargli capire che c'era qualcuno sul fiume. Da quando avevamo lasciato la baia non avevo visto nessun'altra barca. «Carson!» Harry indicò davanti a noi con il dito. Alzai lo sguardo appena in tempo per vedere una superficie di metallo venirci addosso. Girai il timone d'i-
stinto, ma non c'era modo di evitare la collisione. Ci fu uno schianto, come un'esplosione, mentre strisciavamo di fianco all'oggetto semiaffondato. Vidi solo acqua e poi il cielo sembrò rovesciarsi. Il motore urlò mentre la barca si inclinava su un fianco e l'elica semidistrutta girava a vuoto, fuori dall'acqua. Frammenti di metallo volarono nell'aria come proiettili. Acqua fangosa si rovesciò sopra le fiancate. La barca si avventò contro la riva con un lamento di metallo agonizzante e restò immobile, appoggiata sulla fiancata, incastrata nel fango. Mi aggrappai al timone e mi rialzai. L'unico suono che sentivo era la pioggia. Harry era scomparso. «Harry? Harry!» Udii qualcosa sguazzare nell'acqua. «Maledizione. Non posso camminare.» Raggiunsi la prua barcollando e vidi Harry che cercava di avanzare lottando contro la corrente che gli scorreva impetuosa fra le gambe. Mi lasciai scivolare giù dalla barca e caddi nel fango, sprofondando fino alle caviglie. Raggiunsi Harry a fatica e lo aiutai ad arrivare sulla riva. «Che diavolo è successo?» disse, strofinandosi gli occhi con una manica fradicia. «Mi sono sentito proiettare in avanti e mi sono ritrovato nel fiume.» «Siamo andati a sbattere contro una chiatta affondata. Stai bene?» Annuì e finì di asciugarsi gli occhi. «Dove siamo? Rispetto a Lindy?» La mappa era finita nel fiume assieme a Harry. La pioggia cadeva tesa, rompendosi in schizzi sulla superficie del fiume e sull'erba dell'acquitrino e tambureggiava sulla chiglia della nostra barca ormai inutilizzabile. Chiusi gli occhi e cercai di capire dove ci trovavamo. «Sarà un quarto di miglio», risposi. Guardai attraverso trenta metri di acqua rigonfia. «L'unico problema è che siamo sulla sponda sbagliata.» Studiai la situazione nella poca luce che restava. L'ampiezza del fiume non cambiava, da un'ansa all'altra. Avrei dovuto cercare di risalirlo in diagonale, nuotando controcorrente, come contro una marea che si ritira, senza mai fermarmi. Se avessi cercato di tagliare il fiume in linea retta verso la riva opposta mi sarei ritrovato centinaia di metri più a valle. Sempre che non venissi tirato sotto da un mulinello. «Fammi vedere come si fa a nuotare», disse Harry. «Non è una cosa che si impara così, fratello», gli feci notare, guardando un bidone da duecento litri venire trascinato via dalla corrente come fosse un barattolo. «C'era una piscina di quartiere, dove sono cresciuto», disse. «Mi hanno
insegnato un po' a stare a galla. E ho questo.» Indicò il giubbotto di salvataggio giallo: era l'oggetto più brillante nel raggio di chilometri, quasi fosforescente. Ed era stato fatto per qualcuno che pesasse cinquanta chili di meno. La cintura bianca, troppo corta per girargli attorno alla pancia, gli penzolava ai fianchi nella grottesca parodia di una camicia di forza. «Quella non è una piscina. Ci annegheresti.» «Perché, tu invece?» «Io ci sono abituato, Harry. Non preoccuparti.» Mi strappai di dosso la camicia. I bottoni schizzarono nell'acqua, restarono a galla qualche secondo e sprofondarono. La pioggia era più forte. Mi percuoteva le spalle nude come cristalli di sale lasciati cadere da un tetto. Restai in mutande, la Beretta nella fondina sotto l'ascella, un caricatore di riserva infilato nella cintura e un coltello da caccia da dodici millimetri in un fodero di pelle. Nella barca avevamo anche un Marlin calibro 30 e un fucile a pallettoni da 12, ma ogni grammo in più avrebbe aumentato le mie possibilità di ritrovarmi sul fondo del fiume. Avevo due buone gambe, un braccio sano e uno in pessime condizioni. Dovevano bastare. Il filosofo Eraclito ha detto che non si può mai entrare nello stesso fiume due volte, intendendo che quando ci entri la seconda volta l'acqua non è più la stessa. Era stato corretto da Parmenide, il quale sosteneva che nello stesso fiume non ci si può entrare nemmeno una volta, perché cambia mentre ci entri. Prima di arrivare a sprofondare fino alla vita nell'acqua tiepida e opaca, fra mulinelli che mi avviluppavano le gambe tirandole verso il basso, ero già entrato in mille fiumi diversi. Foglie, rami e rifiuti mi scorrevano di fianco, facendomi capire la forza del fiume prima ancora che cominciassi la traversata. Guardai verso l'altra sponda lontana; gli alberi scuri si stagliavano contro un cielo porpora, il tutto coperto da una cortina grigia di pioggia. Pensai ad Ava, rinchiusa in una scatola in un posto lontano da tutto, in compagnia di un maniaco, mentre la pioggia gonfiava le sue allucinazioni facendogliele penetrare più profondamente nel cranio. Inspirai a fondo e mi tuffai nella corrente. Era peggio di quanto mi ero immaginato. 35 Era in piedi sul ponte a guardare attraverso la palude la luce grigia che stava stemperandosi in un nero lucido come velluto. Non c'erano stelle, né
luna, né luci. A volte poteva vedere le lanterne dell'accampamento dei pescatori un quarto di miglia più a valle, ma il vecchio che veniva ogni tanto al campo poteva camminare solo con un bastone e doveva mettersi una mano a coppa dietro l'orecchio per sentire. Era un uomo fortunato, il vecchio: se avesse costituito un pericolo, il signor Cutter gli avrebbe causato un attacco di cuore con una iniezione endovena, così come aveva fatto con il pervertito che aveva spedito per l'autopsia a Caulfield. Il signor Cutter stava sorvegliando Nelson in un bar quando quel mostro depravato aveva attaccato discorso con lui. Era stato un divertimento adescarlo e attirarlo via da lì, fargli l'iniezione e infilargli poi il dispositivo esplosivo nell'intestino spingendo con un manico di scopa. Era incredibile quello che si poteva costruire con la polvere di tre cartucce da caccia, la custodia segata di una torcia elettrica, un generatore di scintille, trenta centimetri di monofilamento e un amo da pesca. «Le mie dita? Dove sono le mie dita?» Willy Lindy sorrise al ricordo della prima e ultima autopsia di Caulfield. Quell'infido, giovane patologo aveva cercato di rubare alla Mamma il lavoro che il destino le aveva assegnato, il lavoro che l'aveva ricondotta a Willy. Ora lui era al sicuro nel suo mondo privato. E la pioggia lo aiutava a sentirsi ancora più al sicuro. L'universo gli aveva restituito la sua barca, gli aveva restituito la Mamma, e ora lo proteggeva dal mondo esterno, concedendogli il tempo necessario. Tempo per Willy, tempo per la Mamma. Due viandanti stanchi, uniti in un momento di pentimento, dove i peccati del passato sarebbero stati mondati dalla rivelazione dell'immagine, e la redenzione avrebbe lavato le loro anime in onde scarlatte, lasciandoli al sicuro, soli e uniti per sempre. Sentì la Mamma muoversi di sotto, nella sala macchine. Forse voleva sapere cosa stesse succedendo. Avrebbe fatto meglio ad andare a spiegarglielo. A farle vedere. «Cars! Attento!» Ero a metà strada, con i muscoli che mi bruciavano e urlavano, gli occhi accecati dallo sporco e dall'immondizia, quando un ceppo sradicato mi scivolò addosso, rotolando su se stesso. Era grande come un'automobile, e il groviglio delle sue radici mi abbracciò, trascinandomi sott'acqua, imprigionandomi come sbarre. Mi trovai come saldato al fronte di una locomo-
tiva che correva sotto un oceano. Scalciai e strappai e graffiai, cercando di liberarmi dai tentacoli che mi cingevano. Urlai nella mia mente. Un ruggito di bolle, di suoni distorti. Sentii il dolore di unghie strappate. Il ceppo tremò, si rigirò e mi schiacciò facendomi sprofondare come la pala di un badile nel limo spesso del letto del fiume, soffice come una spugna sopra, denso e sabbioso in profondità. La melma mi riempì bocca, naso e orecchie mentre aspettavo di essere schiacciato, e un rombo da orchestra mi risuonava nella mente. Venni trascinato via lungo il fondo, mentre l'ultimo sapore della vita mi sfuggiva dai polmoni, e pensai a quale sarebbe stata la mia ultima sensazione: bolle d'aria che mi scorrevano sul viso. Il ceppo tremò ancora e si voltò verso l'alto, impiegandoci un'eternità ad affiorare. Pioggia e aria, aria meravigliosa, io che la succhiavo dentro di me tossendo e vomitando, filtrata dal fango e dalla sabbia, ma pur sempre aria. Gridai contro le radici che mi opprimevano, mi imprigionavano. Il ceppo continuò a rigirare su se stesso, spingendomi verso l'alto, lentamente, mentre le mie mani cercavano febbrilmente di scoprire cosa mi impedisse di liberarmi. La fondina, urlò la mia mente... si è impigliata. Lottai con le dita ferite contro contro l'aggancio. Poi, attraverso la pioggia, sentii il tonfo di qualcosa cadere in acqua. Vidi Harry dall'altro lato del fiume, già a quattro metri dalla sponda, a venti da me, mentre veniva trascinato via, annaspando, sollevando schizzi bianchi di schiuma. Vedendomi imprigionato dal ceppo, si era buttato nel fiume, solo per scoprire che cercare di nuotare è peggio che non nuotare del tutto. «Torna indietro!» urlai. «Harry! Fermati!» Guardai con orrore la corrente che lo risucchiava via mentre lui girava in cerchio, annaspava, sputava acqua. Il ceppo cominciò a roteare di nuovo verso il basso. «Trattieni il respiro e lasciati galleggiare», urlai. «Sta' a galla da solo.» La sua testa sparì per riemergere pochi secondi più tardi, dieci metri più a valle. Stava roteando lentamente, come se si trovasse in un gorgo, allontanandosi sempre di più. Andò sotto di nuovo. Dopo di che non ci fu altro che acqua, scura e implacabile. Bestemmiai e mi agitai, cercando di strappare le cinghie della fondina, mentre l'acqua mi saliva lungo le gambe. Non c'erano che la cinghia e la fondina vuota, ormai, la Beretta era stata portata via dalla corrente. Le mie mani ferite e lacerate non riuscirono a sganciare l'attacco, le mie dita avevano la consistenza di fumo all'estremità della braccia. L'acqua mi schiaf-
feggiò il torace. Il coltello era ancora nel fodero allacciato alla vita. Lo presi, stringendolo fra i palmi, e cercai furiosamente di tagliare la cinghia. L'acqua al collo... La cinghia di nylon cede di scatto e la bocca torna a riempirsi d'acqua... Libero. Mi lasciai galleggiare sul fiume, annaspando, il ceppo che rotolava sprofondando negli abissi, le radici che tagliavano la superficie. Lo sentii trascinarsi contro il fondo. Mi rigirai per nuotare verso la sponda ma il coltello mi sfuggì tra le dita insanguinate. Allungai disperatamente il braccio, riuscendo a prendere l'impugnatura col palmo. Non ero in grado di stringerlo, di tenerlo mentre nuotavo. Stavo ancora tossendo e sputando acqua e tremavo troppo per stringerlo fra i denti. Scalciando, spostandomi nel fiume, trascinato via dalla corrente, trovai il punto fra il grasso e il muscolo, sul fianco. Ci appoggiai contro la punta del coltello e spinsi a fondo con il palmo contro l'impugnatura. Il coltello mi penetrò nella carne rimanendoci incastrato dentro. Ululando come un uomo posseduto da una tromba d'aria e lottando contro un dolore che andava oltre ogni limite, raggiunsi la sponda opposta del fiume, sanguinando, le gambe rigide per i crampi, accecato dal fango e dalla rabbia. Piansi finché gli occhi non mi si ripulirono, strisciai nel fango e guardai il fiume scorrere via, ormai solo una superficie rombante di acqua scura. Le immagini che avevo nella mente erano così gelide da congelare il fiume, da ricoprire gli acquitrini di una crosta di ghiaccio. Il mondo era bianco e nero, e l'unica luce veniva dai filamenti che vagavano all'estremità più remota del cielo, capillari impercettibili di fulmini che si allontanavano. Scivolai sul fango che mi si infilava tra le dita dei piedi, caddi in ginocchio. Buttai indietro la testa e urlai. Poi, alzandomi contro la pioggia, vestito di nient'altro che di un pezzo di stoffa lurido di melma, il coltello saldamente infilato nella fondina della mia stessa carne, mi alzai e cominciai a risalire la sponda del fiume. Non mi chiamavo più Ryder, o Ridgecliff, o nessun altro nome che potesse identificare una creatura umana, ero solo un agglomerato fiammeggiante di odio e di vendetta e di furia calda e bianca e nella mia mente non c'era che un'immagine bruciante: legare Will Lindy a un albero e far urlare il malvagio bastardo e urlare ancora, finché gli intestini non gli sgorgassero dal ventre come un fiume in piena.
«Credevi di potermi cogliere di sorpresa, Mamma?» «Will? Will, cosa succede? Lasciami andare, Will.» «Potevi vedermi dal posto dove ti trovavi, Mamma? C'erano finestre?» «Will, non sono la tua mamma. Guardami, Will. Sono la dottoressa Davanelle.» Le teneva la bocca vicino all'orecchio, tanto che avrebbe potuto staccarlo con un morso. «Mettevano il nastro isolante sulle finestre, Mamma? Avevano il nastro nero dove stavi?» Non poté trattenersi, le leccò l'orecchio e per poco non svenne dal piacere. «Non riesco a sentirmi le mani né i piedi, Will. Per favore, lasciami alzare.» «Sono stato buono, Mamma. Sono stato pulito. A volte mi sono fatto la pipì addosso, ma ci ho provato. Ho fatto un'altra cosa, Mamma, ho fatto un segreto magico. Ti ricordi i nostri segreti magici, Mamma? Quelli di cui non potevo parlare?» «Will...» «Ho fatto dei film magici per mostrarti come sono adesso dentro, Mamma. Guarda, Mamma. Tu, io e i film. Guarderemo i film e poi tirerò fuori da te la ragazza cattiva, Mamma. Ti prometto che lo farò.» Un'altra leccatina all'orecchio. «Ti voglio bene, Mamma. Sì, ti voglio bene.» Non c'era modo di capire dove fossi. Non avevo una mappa, né un GPS, non c'erano né luna né stelle. Tutto quello che avevo era il rumore del fiume sulla destra e, ai piedi, il fango che mi intralciava i movimenti. Nugoli di insetti mi tormentavano. Mi fermai e mi coprii il corpo di fango per proteggermi, ma la pioggia lo lavò via subito. Il dolore che mi risaliva dalla coscia mi faceva impazzire. Mi tolsi il coltello dalla carne a strattoni, stringendo i denti ogni volta, fino a che la lama non uscì, seguita da un fiotto di sangue caldo. Cercai di piegare le dita e mi accorsi che, gradualmente, la presa stava ritornando. Guardai i miei piedi infangati e fui contento dei calli che anni di abitudine a correre a piedi nudi sulla spiaggia avevano formato. Se non altro ero in grado di camminare. Una costruzione spuntava da una macchia di vegetazione. Mi ci diressi, il rumore dei passi coperto dalla pioggia e dall'acqua che scorreva fra gli alberi. Era una cabina di pescatori, deserta, poco più grande della casa sugli alberi della mia infanzia, il cui tetto di lamiera amplificava il battere delle gocce di pioggia
come un tamburo. Mi resi conto che, prima ancora di vedere i contorni della cabina, a trenta metri di distanza, avevo sentito il rumore della pioggia sul tetto. Passai la piccola costruzione, poi mi fermai e ascoltai. Pioggia sull'acqua e sulle foglie e sull'erba, un scrosciare monotono. Non sentivo più la pioggia sul tetto di lamiera. Ma avevo sentito la differenza. Andai avanti di un centinaio di passi. Mi fermai. Nulla. Lo stesso suono monotono. Altri cento passi. Ancora ascoltai. E andai avanti. Mi fermai. Lo sentii. Un grillo verde che canta in un campo di grilli neri, o una cornetta nascosta sotto uno squillare di trombe. Qualcosa nel suono era mutato. Davanti a me, o dietro, non potevo distinguerlo. Restai fermo come un cieco che sente odore di fumo in un bosco, mi mossi di qualche passo, tornai indietro, sentendo le variazioni, la direzione, cercando di capire dove fosse la differenza. Sembrava venire dalla mia destra, leggermente più avanti. Mi voltai in quella direzione e camminai. La Mamma aveva capito il significato dei film magici. Era scritto nel profondo dei suoi occhi camuffati, quelli che aveva dipinto di verde invece che del grigio che era solita portare ogni giorno. Cosa sta dicendo, adesso? Sta mentendo. «Non sono la tua mamma, Will. Sono la dottoressa Davanelle. Ava Davanelle. Lavoriamo insieme al reparto autopsie. Ti ricordi? Fermati un attimo e cerca di ricordare, Will. Se fai uno sforzo e cerchi di ricordare, vedrai tutto.» Non ha mai sentito prima la Mamma parlargli con voce impaurita. Stava cercando di dissimularlo, di celarlo, ma il suo spavento faceva come delle grinze. «Mi ricordo, Mamma. È nei film. Sono film storici, i segreti. Mi hai visto crescere e diventare un ragazzo grande? Sai che muscoli che ho messo su?» Indicò lo schermo grigio del televisore in pausa. «Sì, Willy, ma quello non sei tu...» «Ti ho vista tornare e ho capito che eri ancora arrabbiata con me, ma adesso ti libererò per sempre dalla ragazza cattiva che c'è dentro di te, Mamma, e...» «Will, finirai nei guai, in guai terribili. Puoi fermare tutto questo adesso.» «...poi possiamo ricominciare tutto da capo, Mamma, farlo bene, come
fanno tutte le persone perbene, io voglio essere una persona perbene, Mamma, e anche tu vuoi esserlo.» «Oh, Will, ti prego...» «Sono forte, adesso, e posso tirare fuori da te la ragazza cattiva.» Si avvicinò alla sacca di tela che aveva portato. Ne tolse degli strumenti scintillanti che aveva preso dall'obitorio, cose della cui mancanza non si sarebbero nemmeno accorti; non era rubare, quello. Li dispose su un panno bianco su un vassoio d'argento lucido e glieli mostrò con orgoglio. Si chinò su di lei e le tolse un ciuffo di capelli dagli occhi. «Non piangere, Mamma, il dolore ci purifica.» Un altro suono si insinuò in quello su cui mi stavo concentrando. Feci alcuni passi di corsa e vidi la sponda, lambita dalle onde. Quello era il nuovo rumore: stavo seguendo un canale che si diramava dal fiume; un approdo, forse. Tornai indietro e mi concentrai ancora sul picchiettare della pioggia, avvertendo un tamburellare ritmico, e lo seguii fino ad arrivare ai piloni di ormeggio sulla sponda del canale, spettri a forma di cilindro schiaffeggiati dalle onde, invisibili fino a che non fui a quattro metri di distanza. La pioggia colpiva le poche assi che ancora rimanevano su un vecchio molo. I miei piedi calpestarono sassolini e conchiglie e capii che stavo percorrendo una rampa di alaggio abbandonata. Spostai l'attenzione dalla pioggia sul molo, trattenni il respiro, chiusi gli occhi e mi tramutai di nuovo in una macchina d'ascolto. Un altro suono, da qualche parte sulla destra, sottile e cavo. Desiderai che ci fosse un fulmine, un attimo di chiaro di luna, qualsiasi cosa che squarciasse l'oscurità. Il suono sparì una volta, ma arretrai finché lo sentii di nuovo. Andai a sinistra e continuai ad avanzare... ...Finché vidi la luce. Mi strofinai via la pioggia dagli occhi e la luce rimase: la striscia orizzontale di un raggio di luna che stagnava nell'aria. Sugli alberi? No, urlò la mia mente: nel vago profilo di un vecchio peschereccio che si stagliava contro il cielo grigio scuro, le sue braccia alzate come lance e il sibilo della pioggia sul suo corpo di legno simile a un tenue lamento dal profondo di una miniera. 36
«Willy? Willy?» «Non mi dire nulla. Ho delle cose da fare. Non mi devi parlare.» «Non vuoi parlare con la ragazza cattiva, Willy?» «MMMmmmm. MMMmmmm.» Lindy si coprì le orecchie con le mani e canticchiò più forte. Aveva già provato a farlo tanti anni prima ma la Mamma gli aveva messo le mani sulla fiamma del gas dicendogli che era la giusta punizione per chi si mette le dita nelle orecchie. «Eri cosi buono con lei, Willy. E se la mamma ti avesse mentito e la ragazza cattiva in realtà fosse la ragazza buona?» «Questa è una bugia! MMMmmmm.» «La ragazza cattiva ti ha mai fatto fare cose che tu non volevi, Willy? O invece ti ha fatto stare bene?» Non avrebbe dovuto ricordarle della ragazza cattiva che c'era in lei. Stava cercando di usarlo contro di lui. «Non stavo bene, Mamma. Era una malattia che veniva da me. MMMmmmm.» «Stavi cercando di tagliar via la ragazza cattiva dalla Mamma, Willy? Sei sicuro?» «MMMmmmm. MMMmmmm.» «Non è che volevi tagliare via la Mamma dalla ragazza cattiva?» «Sei pazza! Ecco perché sei cattiva, perché dici bugie.» «Liberami da queste stupide corde, Willy. E vieni qui, vicino alla ragazza cattiva. La tua ragazza cattiva, Willy.» «Smettila di dire queste cose.» «Non c'è bisogno che tagli via da me la Mamma, Willy. Posso mandarla via io. Posso mandarla dall'altro capo del mondo.» «Non ci andrà mai. È BLOCCATA qui.» «Non più. L'hai spaventata con i tuoi film magici segreti, i tuoi film da stregone. Non è nemmeno in questa stanza, Will. Perché non vieni e non mi fai alzare? Scappiamo da qui prima che la Mamma ritorni.» Willard Lindy, il signor Cutter, prese un bisturi e fece scorrere il pollice lungo la lama. «È inutile, Mamma. Anche questa è una delle cose che dicevi sempre.» «No, Will, non farlo, Will...» Il suo ventre era così morbido e caldo. La scaletta che portava al ponte della barca era piantata nel fango di
fianco a un grosso fuoristrada a quattro ruote motrici. La chiglia era sospesa un metro sopra il terreno, appoggiata a robusti sostegni, pronta per una manutenzione che non era mai stata fatta. Pareva instabile e temevo che lo scafo si muovesse quando avessi messo il piede sulla scaletta. Sentii un suono flebile provenire dallo scafo: la voce di Ava. La barca restò immobile mentre mi arrampicavo fino a raggiungere il ponte. La luce proveniva da una porzione di finestrino dove una striscia di nastro adesivo non aveva completamente aderito a quella vicina. Sentii una seconda voce. Accucciandomi, appoggiai l'occhio alla fessura. Willet Lindy incombeva su Ava, legata a un tavolo da autopsia e con indosso solo gli slip. Lindy indossava un paio di pantaloni inzaccherati di fango e stivali. Lo guardai tracciarle col dito una linea sul ventre, il bisturi pronto a seguirne il percorso. Mi buttai contro la porta e i cardini corrosi si dissolsero sotto l'urto. Era come tuffarsi nella carta, e mi trovai nella stretta cabina. Scivolai sul sangue e sul fango che mi sgocciolava dalle gambe e caddi di peso, il dolore che mi urlava nel fianco, il coltello che rimbalzava via. Si sentì il suono di qualcosa che cedeva da sotto e la barca si inclinò su se stessa. Barattoli di cibo, bottiglie d'acqua, piatti, posate, caddero dalle mensole sul pavimento. Il televisore scivolò via e si fermò, trattenuto da un cavo. Il telecomando rimbalzò sul pavimento dove io mi ero trovato sdraiato, quasi nudo. La cassetta cominciò a riavvolgersi. «Otseucadraug arolla...» Sulla schermo, la bocca di Willet Lindy apparve dal nero e cominciò ad aspirare le sue parole. Il vero Lindy era sopra di me, i due occhi scuri delle canne di una doppietta che mi fissavano. «Sta' giù!» urlò. «Resta dove sei, Ryder.» Mi sferrò un calcio nel fianco con la punta di acciaio del suo stivale e io mi piegai in due. «Ho passato tanto tempo a pulire e adesso tu hai sporcato dappertutto.» Mi appoggiò la doppietta alla testa. «Adraug ammam odne shercots...» disse Lindy sullo schermo inghiottendo altre parole. «Attraversa la cabina. Senza alzarti. Striscia!» Strisciai. «Ti tenevo d'occhio, Ryder», disse Lindy. «Continuavi a gironzolare attorno alla Mamma.» Sullo schermo l'enorme braccio di Burlew si rilassò nel bicipite di Deschamps, sgonfiandosi ulteriormente nel braccio di Nelson. «Atnettaerats...»
«Siediti. Là. No. Muoviti.» Obbedii. Se avesse premuto il grilletto, mi avrebbe ridotto la testa in semolino. «Perché sei venuto qui?» chiese. «Per portare a casa la dottoressa Davanelle.» «La Mamma resta qui.» Il televisore mostrò Ava rimettere gli organi nel corpo di Deschamps come stesse preparando un pacco per una spedizione. Una mossa svelta del bisturi e il taglio nel suo corpo si rimarginò. «...anuatneserp ocamotsol...» «Non posso legarti. Alza le mani.» Mi avrebbe sparato alle mani, facendole saltar via. «Le tue mani o la tua testa, detective Ryder.» Non ho mai sentito di nessuno che sia sfuggito alla morte sostenendo che il mondo era diventato così, iperrealistico, quasi luminoso, come se gli si fosse aperto un sesto senso, facendogli sentire tutto. Captavo perfino il più minuscolo movimento nella barca, come se qualcun altro si fosse infiltrato nel mio momento finale. Poteva essere? Un altro piccolo spostamento, uno scricchiolio impercettibile. Un sussurrare di legno. Qualcuno là fuori? Gli occhi di Lindy si strinsero all'estremità opposta della canna. Non aveva sentito. «Alza le mani, subito!» ululò. Alzai le mani lentamente, tenendole di lato, in modo che i pallini non mi colpissero in faccia. Il dito di Lindy si contrasse sul grilletto. Chiusi gli occhi. Un uccello giallo volò attraverso la porta. Urlò. Lindy si girò e sparò, mandandolo in pezzi. L'uccello si disintegrò in una nevicata di schiuma bianca e pezzi di plastica. Fino a un attimo prima era stato un giubbotto di salvataggio. Rotolai sul pavimento e scalciai contro le gambe di Lindy da dietro. Un tuono alla porta. Harry che caricava. Mi alzai, aggrappandomi al tavolo dietro ad Ava. La barca tremò sotto il trambusto, uno dei sostegni si spezzò, si inclinò di nuovo e gli strumenti chirurgici sul vassoio si sparsero sul pavimento. Lindy si buttò alle spalle di Harry e lo colpì sulla mascella con il calcio della doppietta. Harry cadde. Afferrai un bisturi dal pavimento. Lindy si girò verso Harry, alzando la
doppietta. Ruggii e mi buttai su Lindy, afferrandogli il collo con una mano, mentre l'altra si impossessava della doppietta e la puntava verso l'alto. Si scaricò contro il soffitto e il rinculo la fece sfuggire alla presa di Lindy. Lo spinsi all'indietro, sul tavolo inclinato. Cercò di graffiarmi il volto e le mani, tagliandosi le dita contro la lama del bisturi. Il sangue ci schizzò addosso. Il suo stomaco era rivolto verso di me e io spinsi la lama del bisturi proprio sotto l'ombelico mentre lui urlava e cercava di mordermi. Sentii la resistenza della pelle contro la punta del bisturi. Due centimetri di lama gli penetrarono nella carne. Avevo il potere di continuare a tagliarlo fino a fargli esalare l'ultimo respiro. «Mamma, Mamma, Mamma, Mamma...» recitò come una litania. Guardai Ava. Lei scosse il capo: No, no, no. Lindy gemette: «Mammammamma...» Sentii il mio braccio perdere forza. «Ak ci arotà tivacallen...» Sullo schermo Ava aveva rimesso gli organi di Nelson nel suo corpo. Il pavimento si inclinò di più e dovetti aggrapparmi al tavolo per non cadere. Lindy girò su se stesso e si tuffò nel pozzetto della stiva. Ci guardai dentro e non vidi altro che batterie d'auto collegate assieme. Uno schianto secco venne dalla chiglia e la barca si spostò ancora. Il bidone di benzina vicino al generatore si rovesciò e il combustibile cominciò a spandersi sul pavimento, cadendo poi dal portello, giù nella stiva e nel compartimento del motore. Le batterie si mossero, sbattendo l'una contro l'altra. Eravamo alla deriva in una barca inzuppata di benzina e con una stiva piena di batterie collegate insieme. E, come se non bastasse, per timoniere avevamo un pazzo. Un corto circuito, una scintilla e... La barca si piegò sempre di più. I giunti cigolarono, le travi scricchiolarono. Io e Harry cercammo di sciogliere i nodi delle funi di Ava, lottando per restare in piedi sul pavimento sempre più inclinato. Il metallo cominciava a cederci sotto i piedi; il ponte tremò e si abbassò di altri quindici centimetri. Caddi. Harry si afferrò con una mano al bordo del tavolo imbullonato al pavimento e continuò a sciogliere i legacci. I vapori della benzina ci stavano facendo lacrimare gli occhi. Harry continuò a lavorare sulle funi mentre io mi alzavo. «Omait onopro kliod nanimase...»
Harry ruggì compiendo un ultimo disperato tentativo, le braccia tremanti per lo sforzo. Sentii l'odore acre del nastro isolante che si liquefaceva. Restava solo la corda attorno al collo. Uno scricchiolio di legno e la barca cedette ancora. Gli ultimi oggetti rimasti sulle mensole caddero. Sullo schermo Ava passò la mano sul corpo nudo, annuì e camminò all'indietro uscendo dall'immagine. «Ammam, ammam», disse Lindy, poi lo schermo si oscurò e il nastro finì di riavvolgersi. «Ci siamo», gridò Harry, sollevando Ava con un braccio. Sentii il frastuono di grosse travi di legno collassare. La barca vibrò per un attimo, quindi si piegò in avanti e piantò la prua nella terra soffice. Rotolammo sul pavimento insieme a barattoli e attrezzi e spazzatura. L'aria carica di vapori di benzina si riempì di fumo. Ma ormai eravamo alla porta. Corremmo fuori, nel dolce e meraviglioso fango, e continuammo fra l'erba. Lo sfrigolio di una scintilla alle nostre spalle divenne un'immensa vampata e la notte si infiammò di arancio e oro. Barcollammo fino a raggiungere un dosso dietro al quale trovammo riparo dal calore che aveva investito i nostri volti bagnati. L'interno della cabina del vecchio peschereccio bruciò come una torcia, ma il legno all'esterno, fradicio di pioggia, ci mise più tempo a incendiarsi. La luce delle fiamme brillò dalle porte, gli oblò, la cabina del timoniere. Per qualche minuto la vecchia barca sembrò una lanterna magica caduta dalle stelle sulla terra, e la sua luce ci illuminò di oro mentre restavamo accucciati. Poi, semplicemente, cadde in pezzi e si consumò. EPILOGO «...l'ultima cosa che ho sentito era Carson che mi gridava di lasciarmi galleggiare. Così ho preso fiato e mi sono rilassato. Hai mai provato a rilassarti quando pensi di stare per annegare?» «Rinuncio all'esperienza», disse Ava. Un gabbiano planò nel vento e lei ne osservò il volo. Harry prese un'altra nocciolina dalla ciotola sul tavolo della terrazza. Le stava mangiando nel suo stile: aprire il guscio coi denti, farci sgocciolare dentro un po' di salsa piccante e poi mettersi in bocca il tutto. Masticò e rifletté. «Ma ho scoperto che potevo farcela. Quando andavo sotto sbattevo le braccia come ali, riemergevo, respiravo, poi andavo sotto di nuovo.» Harry sbatté la braccia per farsi capire meglio. Per un momento udii il
rumore della pioggia e lo vidi venire trascinato via dalla corrente nelle acque marroni. Scacciai il ricordo del passato e ritornai al presente. Prima o poi sarebbe stato necessario riflettere sul passato, ma non adesso. Adesso si doveva pensare al momento presente e a nient'altro, senza farsi condizionare da catene o fantasmi o da linee che convergono in un'oscurità fangosa. «Di quanto ti sei allontanato?» Harry strizzò un occhio, calcolando. «Immagino un quarto di miglio. Poi i miei piedi hanno toccato il fondo e mi sono trovato sopra un banco di sabbia sulla sponda opposta.» Eravamo seduti sulla mia terrazza. Era la prima opportunità di parlare con calma tra noi, da soli. Avevamo passato la giornata all'ospedale, circondati da medici e poliziotti con un sacco di domande. Il giorno prima c'erano stati altri poliziotti e i media. Alle domande confuse dei giornalisti avevamo dato risposte vaghe, cercando di sminuire il nostro ruolo nella vicenda. Ava si chinò verso Harry. «Pensavi che Carson fosse...» fece una pausa, la parola era difficile da pronunciare per lei, e per me da sentire «...andato?» Harry mi guardò e strizzò l'occhio. «Ci sono poche cose che Carson sa fare, ma nuotare è una di quelle. Sapevo che se c'era uno che poteva farcela, quello era lui. Ho continuato a risalire la sponda del fiume, sapendo che era quello che aveva fatto lui. Poi ho sentito un rumore di legno che si spezzava.» «Ero io che sfondavo quella porta marcia», dissi. Per una frazione di secondo mi ritrovai a rotolare sul pavimento della barca, scivolando tra il fango e il sangue per finire con due canne calibro 12 puntate contro la mia testa. Allontanai l'immagine dalla mente. «Ho pensato di andare a vedere chi è che si permetteva di disturbare la mia passeggiatila in mezzo alla natura. Finalmente ho visto quella dannata barca per aria...» continuò Harry. Erano passati solo due giorni e già l'accaduto stava sfocando nella memoria. Le mie mani non erano messe troppo male, e sarebbe andata ancora meglio il giorno che mi fossero ricresciute le unghie. La carne del fianco dove avevo infilato il coltello mi bruciava come se qualcuno mi ci avesse cucito dentro delle api. Mi avevano dato una stampella all'ospedale ma l'avevo lasciata in macchina; era più di impaccio che altro. Mi allontanai dal tavolo.
La mano di Ava prese la mia. «Stai bene?» «Vado ad appoggiarmi al parapetto. Ho il culo rattrappito.» La sua mano strinse la mia e io la guardai negli occhi. Erano belli, chiari, vivi e verdi come il mare sotto il sole. Mi strizzò un occhio e il mio cuore saltò un battito. Le carezzai la mano e mi avvicinai zoppicando alla ringhiera. Il mio stupido telefono suonò. Non avrei mai dovuto tirarlo fuori. «Rispondi tu, Harry, ti spiace?» «Sarà un altro dannato giornalista», brontolò. «O magari è di nuovo Squill che vuole fare la pace.» Anche se non avevo fatto circolare la cassetta, Squill aveva avuto i suoi problemi. Era stato tolto dai reparti investigativi e gli avevano dato l'incarico di fare da trait-d'union con i media; un'ottima punizione per i giornalisti. Aveva già ripreso a ridisegnare la storia passata e ci aveva chiamato prima per dirci che gli dispiaceva e che era stato completamente ingannato da Burlew. Era patetico, ma così era Squill. «Casa Ryder», disse Harry. «Pronto?» Fissò il telefono poi mi guardò e si strinse nelle spalle. «Nessuno. Avranno sbagliato numero.» Harry gettò il telefono sul tavolo e andò in casa per riempire la ciotola delle noccioline. Appoggiai la schiena alla ringhiera. Ava mi venne vicino, mettendo i gomiti sul legno e guardando il golfo. Il cielo era blu e privo di nuvole e uno stormo di pellicani stava volando a pelo d'acqua. Dissi: «La prima volta che ti ho vista in quella posizione, con il vento che ti faceva aderire contro i vestiti, ho avuto pensieri lascivi». Lei si rimosse un ciuffo di capelli che il vento le aveva soffiato negli occhi. «Sembra sia passato così tanto tempo.» «Da quando ho avuto pensieri lascivi? Strano, mi sembrava di ricordarmene parecchi, da questa mattina in poi.» «Avevo tutte le intenzioni di venire da te sobria. Ma ho ceduto alla paura. Paura di me stessa.» «Eri piena di fantasmi, alcuni inventati, altri reali.» Annuì e bevve un sorso di ginger ale. «Ho parlato con la dottoressa Peltier. Le cose andranno in modo diverso, d'ora in poi. Molto diverso...» Clair stava facendo la pace con i suoi demoni, invece che scagliarli sugli altri. Avevo parlato con lei la sera prima, e sapevo che oggi si sarebbe incontrata con un avvocato divorzista. Ero ansioso di vedere come sarebbe diventata una volta che si fosse liberata di Zane. Chissà che i suoi occhi non diventassero ancora più blu.
«Vai alla riunione degli alcolisti, stasera?» chiesi. «E anche domani, e anche dopodomani. Qualsiasi cosa Bear mi dica di fare, la faccio. Mi piace andarci. Quando vengo via mi sento più leggera, come se danzassi nell'aria.» Posò il bicchiere e si alzò in punta di piedi per posare le labbra sulle mie. Sentii Harry far scorrere la porta e ritornare sulla veranda. «Cos'è 'sta roba che sto vedendo?» disse. Feci una pausa, cercando le parole. «Penso che si chiami baciarsi», risposi. «Accidenti», esclamò, spalancando gli occhi in finta sorpresa. «Finalmente il ragazzo ne ha fatta una giusta!» Cominciai a lanciargli contro qualche epiteto ma il cellulare suonò di nuovo. Harry posò le noccioline sul tavolo e lo prese. «Casa Ryder. Ah. È proprio qui. Sì, signora, attenda un attimo.» Mi guardò. «Una certa dottoressa Prowse. Evangeline Prowse.» Annuii. Harry mi portò il cellulare. Mi girai verso le onde e mi portai il telefono all'orecchio. «Carson? Carson, sono Evangeline Prowse.» La sua voce si abbassò. «Mi dispiace, Carson. Temo di avere brutte notizie. Notizie terribili.» «Mio Dio, cos'è successo?» La voce tremò. «È per Jeremy, Carson. È morto... suicidio. Si è impiccato.» Avevo sentito le parole ma non avevano senso per me. «Jeremy? No, è impossibile, non lo avrebbe mai...» «Ieri notte. O questa mattina presto. Ha lasciato una lettera. È indirizzata a te.» «Non posso crederci. Non può essere. Mio fratello non avrebbe mai...» «Vuoi che ti legga la lettera, Carson? Non sono obbligata a farlo, è personale. Posso spedirtela.» Feci un respiro profondo, e lasciai uscire l'aria dai polmoni. «Sì, la prego. Me la legga.» Sentii il rumore di un foglio spiegarsi. Poi la voce roca di Evangeline. «'Caro Carson, ti faccio le mie scuse. Non sapevo che ce l'avesse con la tua donna. La mia interpretazione del materiale era sbagliata al riguardo. Pensavo che ce l'avesse con l'altra, quella che dirige il reparto, la Peltier. Non so se avrebbe cambiato la mia decisione di metterti su una pista falsa, ma credo di sì. Lo spero. Con amore, per adesso e per sempre. Jeremy.' Ecco, questo è il testo», disse Evangeline con voce calma. «Mi dispiace
moltissimo.» Restai nella mia scatola in aria sopra un'isola, guardai giù verso la spiaggia e considerai la telefonata di Evangeline. Con l'improvvisa chiarezza della rivelazione, il sole sembrò improvvisamente illuminare il mondo da ogni direzione, cancellando ogni ombra. L'acqua si estendeva come un enorme tappeto di verde e il bianco della sabbia era abbagliante. Guardai Ava e Harry, lessi la preoccupazione nei loro occhi e gli feci segno con il pollice alzato. Tutto a posto. Per quanto cercassi di evitarlo, un sorriso mi si diffuse sul viso. Riportai il telefono all'orecchio. «Ce l'avevi quasi fatta, Jeremy, tutto perfetto: intonazione, ritmo. Ma la dottoressa Prowse non si presenta mai come Evangeline.» Silenzio dall'altro lato. «Si è sempre chiamata Vangie», dissi. «Sempre.» Restai in ascolto, aspettando un segno di appartenenza alla stessa famiglia dall'altra parte della connessione. Sentivo il rumore delle onde e il vento fra i capelli, appoggiai un palmo contro un orecchio, il telefono contro l'altro, e ascoltai attentamente nel silenzio. Poi, per un brevissimo istante, la brezza cessò e le onde restarono sospese. Chiusi gli occhi e riuscii a distinguere un impercettibile accenno di respiro, vicino come il sangue nelle mie vene, lontano come gli anni bruciati via. Sentii il respiro affrettato e poco profondo di un bambino spaventato, da solo nel buio. La mia voce mormorò: «Ti voglio bene, fratello». Poi riattaccai sul passato. Almeno fino a domani. RINGRAZIAMENTI «Perché non tiri un po' via le chiappe dalla pubblicità e non scrivi il tuo romanzo?» La citazione che precede, a cui aveva prestato la sua voce mia moglie Elaine dopo che avevo passato una settimana di inferno a sbrigare il mio lavoro di copywriter, alla fine ha portato a questo libro. Preziosa è stata l'assistenza dei miei due figli, Amanda e John, che hanno sopportato pagine sparse per tutta la casa, lamentele su penne smarrite, e il sequestro del computer ogni volta che mi veniva un'idea. Il Fiction Critique Group del Cincinnati Writers' Project mi ha aiutato a capire cosa andava bene e cosa invece no, e a cambiare le priorità. Un gracias speciale a Katey Brichto, che ha posto in secondo piano il suo lavoro per leggere e migliorare il mio.
Il mio team alla Dutton comprende l'editor, Brian Tart, i cui suggerimenti sono stati precisi e centrati, e la sempre attenta Anna Cowles. I tipi dell'agenzia letteraria Aaron M. Priest sono stati - e continuano a esserlo - incredibili: Joy Eitchey (che successivamente ha lasciato l'agenzia), che mi ha aiutato a far partire il manoscritto, l'esuberante e infaticabile Lucy Childs, la maga dei diritti esteri Lisa Erbach Vance, e l'agente stesso, Aaron Priest. Un autore esordiente non poteva trovare guide migliori. FINE