GREG KEYES IL CAVALIERE SANGUINARIO (The Blood Knight, 2006)
Prologo
Nella Sala del Waurm Sorridendo, Robert Dare off...
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GREG KEYES IL CAVALIERE SANGUINARIO (The Blood Knight, 2006)
Prologo
Nella Sala del Waurm Sorridendo, Robert Dare offrì una rosa a Muriele. «Tenetela voi» suggerì lei. «Può darsi che riesca a migliorare il vostro odore.» Robert sospirò, accarezzandosi la barbetta nera che metteva in risalto i lineamenti delicati del viso. Poi ritrasse la mano e il fiore, poggiandoli entrambi sul petto, fissando lo sguardo scuro su Muriele. Sembrava parecchio più vecchio dei venti inverni che aveva trascorso nel mondo e per una frazione di secondo lei provò una remota compassione per l'uomo che aveva assassinato suo marito e le sue figlie, per quello che era diventato. Qualunque cosa fosse, di certo non era umano, e quella compassione fu trascinata via da un'ondata di repulsione. «Affascinante come sempre, mia cara» commentò Robert con voce pacata. Il suo sguardo si spostò leggermente verso l'altra donna in piedi insieme a loro nella stanza, come fosse un gatto che cercava di rimanere sulle tracce di due topi. «E come se la passa oggi la bella lady Berrye?» Alis Berrye, serva e protettrice di Muriele, rese omaggio a Robert con un cordiale sorriso. «Molto bene, Vostra Altezza.» «Sì, questo lo vedo» rispose Robert. Le si avvicinò e sollevò la mano destra per accarezzarle i boccoli color ruggine. La ragazza non si mosse, fatta eccezione forse per gli occhi. Per il resto rimase assolutamente immobile. Muriele pensò che sarebbe stata capace di reagire in quel modo anche davanti a una vipera pronta ad attaccare. «In effetti le vostre guance mostrano una certa floridezza» proseguì lui. «Non mi meraviglia che il mio caro, defunto fratello fosse così rapito da voi. Così giovane... così piena di salute e vigore, così liscia e soda. No, la vecchiaia non ha ancora cominciato ad aleggiare su di voi, Alis.» Quell'esca era per Muriele, ma lei non avrebbe abboccato. Sì, Alis era stata una delle amanti del marito, la più giovane per quanto ne sapeva lei, ma dal momento della morte di lui, si era dimostrata un'amica utile e fedele. Strano, ma così era. La ragazza abbassò gli occhi azzurri con fare modesto, ma non rispose. «Robert,» disse Muriele, interrompendo il silenzio «sono vostra prigioniera e quindi alla vostra mercé, ma spero che ormai sia chiaro che non ho
paura di voi. Siete un regicida, un usurpatore e qualcosa di ancora peggio per cui non ho parole. Penso che non sarete sorpreso di sentire che non amo la vostra compagnia. Perciò se poteste procedere con qualunque degradazione avete in mente per me, lo apprezzerei molto.» Il sorriso si congelò sul volto di Robert, che scrollò le spalle e lasciò cadere il fiore in terra. «A ogni modo la rosa non è da parte mia» spiegò. «Prendetela come volete. Prego sedetevi.» Il gesto schivo indicò diverse sedie intorno a uno spesso tavolo di legno di quercia. Poggiava su artigli intagliati, che si accordavano col mostruoso tema della stanza, una sala usata raramente, nascosta in profondità nella parte interna del castello priva di finestre, conosciuta come la Sala del Waurm. Due grandi arazzi pendevano dalle pareti. Uno raffigurava un cavaliere con indosso un'antica corazza e un elmo conico, che brandiva un lungo e improbabile spadone contro un waurm ricoperto di squame con macchie dorate e argentate e striature color bronzo. Il corpo a forma di serpente era arrotolato intorno ai bordi dell'arazzo e si allungava poi verso il centro, dove stava il cavaliere, e lì sollevava artigli letali e spalancava una bocca piena di denti d'argento che stillavano veleno. L'opera era così ben fatta che sembrava che l'enorme serpente potesse scivolare fuori da lì, da un momento all'altro, e finire sul pavimento. Il secondo arazzo era molto più vecchio. I colori erano sbiaditi e in alcuni punti la trama appariva logora. Era intessuto in uno stile più semplice e meno realistico e riproduceva un uomo in piedi accanto a un waurm morto. La figura era presentata in modo così austero che lei non poteva dire con certezza se raffigurasse lo stesso cavaliere dell'altro arazzo, né se indossava un'armatura o semplicemente uno strano farsetto. L'arma che teneva in mano era molto più modesta, sembrava più un pugnale che una spada. Aveva una mano sollevata verso la bocca. «Siete già stata qui?» domandò Robert mentre lei si sedeva con riluttanza. «Una volta» rispose Muriele. «Molto tempo fa. William ricevette in questa stanza un lord che veniva da Skhadiza.» «Quando ho scoperto questa sala, più o meno all'età di nove anni, la trovai piena di polvere,» disse lui «e a malapena ci si poteva sedere, eppure mi sembrò così affascinante.»
«Assolutamente» replicò secca Muriele mentre guardava un grottesco reliquario poggiato contro una parete. Era fatto per lo più di legno, intagliato in una forma vagamente umana con le braccia tese. In tutte e due le mani ad artiglio teneva un teschio placcato in oro. Al posto di un volto umano, aveva la testa di un serpente con le corna di montone, e le gambe erano molto tozze e terminavano con artigli da uccello. La pancia era un cofanetto con la porta di vetro, al di là della quale Muriele riusciva a scorgere un cono d'avorio stretto e leggermente curvo, più o meno della stessa lunghezza del suo braccio. «Quello non c'era» disse lei. «No» convenne Robert. «L'ho comprato da un mercante sefry un po' d'anni fa. Quello, mia cara, è il dente di un waurm.» Pronunciò quella frase come un ragazzino che trova qualcosa d'interessante e si aspetta di essere ricompensato con un'attenzione particolare. Non ricevendone alcuna, ruotò gli occhi e fece tintinnare una campanella. Comparve una serva con un vassoio. Era una ragazza giovane con i capelli neri e una sola cicatrice da vaiolo sul viso. Aveva occhiaie scure e stringeva così forte le labbra che sembravano bianche. Poggiò un boccale di vino davanti a ognuno di loro e poi tornò con un piatto di dolci: pere candite, biscotti al burro, pasticcini al brandy, frittelle di formaggio dolce ricoperte di miele e, le preferite di Muriele, lune della zitella, focacce di zucchero farcite con pasta di mandorla. «Prego, prego» disse Robert, bevendo un sorso di vino e indicando le leccornie con un ampio gesto del braccio. Muriele guardò un attimo il vino, poi ne bevve un sorso. Robert non aveva al momento motivi particolari per avvelenarla, e se mai ne avesse avuti, lei non avrebbe potuto farci niente. Tutto ciò che mangiava e beveva nella torre in cui era rinchiusa veniva sempre e comunque da lui. La bibita aveva un sapore sorprendente, non era affatto vino, ma qualcosa dal gusto di miele. «Allora» disse Robert, poggiando il boccale sul tavolo. «Lady Berrye, è di vostro gusto?» «È molto dolce» rispose lei. «Un regalo» replicò Robert. «È un idromele straordinariamente raffinato che viene da Haurnrohsen, un regalo di Berimund di Hansa.» «Berimund è molto generoso ultimamente» osservò Muriele. «E ha una grande stima di voi» disse Robert. «Ovviamente» rispose lei, incapace di nascondere il sarcasmo.
Robert bevve un altro sorso, poi afferrò il boccale tra le mani, facendolo ruotare lentamente tra i palmi. «Ho notato che apprezzavate gli arazzi» disse, scrutando dentro l'idromele. «Conoscete l'uomo che vi è raffigurato?» «No.» «Hairugast Waurmmors, il primo della dinastia dei Reiksbaurg. Alcuni lo chiamavano sangrauhtin, o Cavaliere Sanguinario, perché dicono che dopo aver ucciso il mostro, bevve il sangue del waurm mischiandolo con il proprio. Perciò assorbì parte delle sue forze, e così fece ogni suo discendente. E per questo motivo i Reiksbaurg sono rimasti forti.» «Non lo erano poi tanto quando vostro nonno li cacciò via da Crotheny» osservò Muriele. Robert agitò un dito davanti a lei. «Ma lo erano quando strapparono il trono ai vostri antenati lierish.» «Quello successe tanto tempo fa.» Robert scrollò di nuovo le spalle. «Hansa adesso è più potente di quanto lo fosse allora. È tutto un meraviglioso ballo, Muriele, una pavana della duchessa rossa. L'imperatore di Crotheny era lierish, poi hansan; ora discende dai virgeniani. Ma qualunque sia l'origine del suo sangue, lui è l'imperatore di Crotheny. Il trono resta.» «Che cosa intendete dire, Robert?» Lui si sporse in avanti, poggiandosi sui gomiti, e la guardò con un'espressione quasi comicamente seria. «Siamo sull'orlo del caos, Muriele. Più oscuri delle nostre Donne Nere vagano liberamente tra le campagne, terrorizzando i villaggi. Paesi si preparano alla guerra e il nostro trono appare debole e diventa un bersaglio che pochi possono ignorare. La Chiesa vede eresie ovunque e impicca interi villaggi, cosa che mi sembra poco produttiva, ma dopo tutto è uno dei nostri pochi alleati.» «Tuttavia non siete intenzionato a dare il trono a Marcomir di Hansa» affermò Muriele sicura di sé. «Avete lavorato troppo duramente per riuscire ad appropriarvene voi.» «Sì, sarebbe una sciocchezza no?» convenne lui. «Ma farò quello che i re fanno spesso per assicurarsi il potere. Mi sposerò. E lo stesso, mia cara cognata, farete voi» aggiunse. «Penso di essere già stata abbastanza chiara» replicò Muriele. «Uccidetemi se volete, ma non vi sposerò mai.» Robert scrollò le spalle più volte, come nel tentativo di togliersi qualcosa
dalla schiena. «Certo che no» disse beffardo. «Lo so che non lo farete. Il pugnale che mi avete conficcato nel cuore è stato un chiaro segnale del fatto che non avevate accolto bene la mia proposta.» «Siete fortunato che ha smesso di battere, quel vostro cuore.» Lui si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. «Dovete sempre sottilizzare su queste cose?» domandò. «Chi è vivo, chi è morto? Credete di stare meglio solo perché avete ancora un cuore che pulsa. Quanto siete presuntuosa. E se proprio devo dirlo, ingenerosa.» «Siete completamente pazzo» commentò Muriele. Robert sogghignò e riaprì gli occhi. «Questa almeno è una lamentela familiare. Ma vi prego, permettetemi di tornare al punto di partenza. A dire il vero non stavo rinnovando la mia proposta, una coltellata da parte vostra mi è bastata. No, voi sposerete Berimund Fram Reiksbaurg, l'erede al trono di Hansa. E io sposerò sua sorella Alfswan. Insieme, io e voi, assicureremo il mio trono.» Muriele esplose in una risata sarcastica. «Non credo, Robert» disse lei. «Ho già respinto una volta la proposta di Berimund.» «Non esattamente» fece notare Robert. «A dire il vero, è stato vostro figlio Charles a respingerla perché, dopo tutto, era lui il re in quel momento e la prerogativa spettava esclusivamente a lui. Ovviamente, Charles è uno sciocco e voi avevate il pieno controllo delle sue azioni. Ma non è più lui il re» proseguì Robert. «Sono io. Ed essendo mia prerogativa, ho concesso la vostra mano a Berimund. Il matrimonio si celebrerà tra un mese.» L'aria sembrò addensarsi improvvisamente, diventare quasi acqua. Muriele lottò contro l'istinto di sollevare la testa oltre la superficie. Robert era capace di fare una cosa del genere. L'avrebbe fatta e non c'era assolutamente niente che lei potesse inventarsi al riguardo. «Non succederà mai» finalmente riuscì a dire, sperando che il tono contenesse ancora una nota di sfida. «Be', vedremo» rispose allegramente Robert. Poi si voltò. «Lady Berrye, c'è qualcosa che non va?» Muriele seguì lo sguardo di Robert e notò che Alis era improvvisamente impallidita. Gli occhi, anzi no, le pupille apparivano estremamente dilatate. «Non è niente» dichiarò Alis. «Ho dimenticato di chiedere» disse Robert, ruotando il polso per inclu-
derle entrambe. «Avete avuto modo di riflettere sull'esibizione musicale a cui abbiamo assistito la scorsa wihnaht? L'allietatempo presentatoci dal nostro caro Cavaor Ackenzal?» Muriele si sforzò di sorridere. «Quanto deve avervi tormentato la cosa: essere smascherato per quello che veramente siete davanti all'intero regno ed essere incapace di fermarlo. Oserei definire Leovigild Ackenzal un genio.» «Capisco» rifletté Robert. «Allora siete del parere che il cattivo della rappresentazione mirasse a raffigurare me?» «Sapete che è così, come lo sanno tutti coloro che hanno visto lo spettacolo. Mi chiedo come abbia fatto Ackenzal a riuscirci. Di sicuro voi e il praifec lo avrete tenuto sotto stretta sorveglianza, controllando il copione, la partitura, le sue prove, e nonostante questo vi ha fatto fare la parte degli stupidi.» «Be',» disse Robert «credo che il praifec sia rimasto più turbato di me dallo spettacolo. In effetti ha ritenuto necessario interrogare Fralet Ackenzal in modo molto minuzioso. Davvero molto minuzioso, insieme a molti altri attori.» «È stata una mossa sciocca» disse piano Alis, strofinandosi la fronte. «Avete detto qualcosa, lady Berrye?» «Sì, Altezza. Ho detto che il praifec ha fatto una sciocchezza a torturare il compositore, e voi siete stato uno sciocco a permetterglielo. Dovete sapere che vi occorre l'appoggio dei custodi terrieri per salvare la città da un attacco. Leovigild Ackenzal era il loro beniamino, e lo è diventato ancora di più dopo la rappresentazione della sua meravigliosa musica.» «Mmmh» fece Robert. «Lady Berrye, questa è una riflessione molto intelligente. Tutto questo acume politico da parte di una donna che ho a lungo considerato una semplice prostituta.» «Si può essere davvero molto semplici,» disse Alis «eppure comprendere cose che voi non capite.» «Be', credo sia vero» ammise Robert. «Comunque, esistono dei modi per riconquistare la lealtà dei custodi terrieri, qualora dovesse essere necessario. Ma con Hansa e la Chiesa dalla mia parte, non credo che i custodi terrieri rappresenteranno un grande problema. Ho solo bisogno di tenerli calmi per un altro mese o poco più, no?» «La Chiesa?» domandò Muriele. «Certo. Il praifec ha scritto al fratrex Prismo a z'Irbina e questi ha gentilmente acconsentito a spedire alcune truppe per aiutarci a mantenere la
pace e a proseguire il resacaratum fino a che questo trono non sarà al sicuro.» «Prima Hansa, adesso la Chiesa. Sareste pronto a dare il nostro paese a uno qualunque dei nostri nemici se la cosa vi garantisse altro tempo su questo trono. Siete davvero spregevole.» «Non sapevo che consideraste la Chiesa un nostro nemico» disse Robert con fare gentile. «Praifec Hespero potrebbe trovare da ridire su questo. A dire il vero, potrebbe scoprire la necessità di interrogare anche voi.» Improvvisamente si sentì il rumore di vetro in frantumi. «Lady Berrye,» esclamò Robert «vi è caduto il boccale.» Alis indirizzò uno sguardo vuoto verso di lui. «Che i santi vi maledicano» disse lei con voce stridula. Cercò di rimanere in piedi, ma le gambe sembravano troppo deboli per sostenerla. Un terrore improvviso trafisse Muriele come una spada. Si allungò verso Alis. «Cosa le avete fatto, Robert?» Questi si accarezzò la barba. «Ve l'avevo assegnata come serva perché pensavo che la cosa vi avrebbe dato fastidio. Ma al contrario, sembra in realtà che voi due abbiate coltivato un'amicizia. Sembra anche che la nostra cara Alis abbia sedotto una delle vostre guardie per ottenere informazioni e forse lo ha fatto anche in altre occasioni. Non solo credo di non aver ben capito lady Berrye, ma l'ho anche sottovalutata. Perciò mi chiedo quante altre cose potrebbe essere capace di fare. Senza dubbio le avrete parlato dei passaggi segreti che infestano questo castello, se non ne era già a conoscenza. Magari ha qualche progetto per farvi sparire misteriosamente da qui.» Il suo sorriso si allargò. «Se così fosse, allora porterà il complotto con sé a Eslen-delle-Ombre.» Muriele allora s'inginocchiò accanto ad Alis e le prese la mano. La pelle della ragazza aveva già assunto un colorito bluastro e le braccia avevano cominciato a contrarsi. Le dita erano di ghiaccio. «Alis!» bisbigliò a fatica Muriele. «Erba capestrina» riuscì a dire lei, ma con una voce talmente debole che Muriele dovette chinarsi ancora di più. «Sapeva...» Tremò, e dalla bocca uscì bava nera. Mormorò alcune parole che Muriele non capì, ma sentì un debole calore sulla pelle. Le si drizzarono i peli sul braccio. «Abbiate cura di voi» bisbigliò Alis. «Soinmié. Soinmié, Fienden.» Il respiro divenne più irregolare fino a sembrare un singhiozzo. Poi, con
un urlo improvviso, strozzato, anche quello cessò. Muriele alzò lo sguardo su Robert, provando un odio così violento da non riuscire a trovare parole che non sminuissero quel sentimento. «Credo che la metterò nella cripta dei Dare» rifletté Robert. «Se mai l'anima di William dovesse trovare la strada lì dentro, sarà felice.» Poi si alzò in piedi. «Domani verrà la sarta per prendervi le misure per l'abito da sposa» disse allegramente. «È stato un piacere vedervi, Muriele. Buon pomeriggio.» La lasciò lì con Alis, il cui corpo era già freddo. Parte prima Le acque sotto al mondo Sulla riva rocciosa occidentale di Roin Ieniesse, Fren MeqLier incontrò san Jeroin, il Marinaio, e sulla nave di san Jeroin solcarono le onde occidentali sotto al nevischio e in mezzo alla nebbia finché non raggiunsero una riva brulla e una foresta buia. «Quello è il Bosco al di là del Mondo» gli disse san Jeroin. «Fa' attenzione quando scendi dalla barca, i tuoi stivali non devono sfiorare l'acqua. Se tocchi le onde dimenticherai tutto ciò che hai sempre saputo.» Da Frenn Rey-Eise: un racconto di San Frenn tramandato a Skern, Sacritor Roger Bishop La Donna Scura prese per mano Alzarez e indicò il fiume. «Bevi la sua acqua,» disse «e sarai come i morti, senza più memoria e peccato.» Poi indicò una fonte spumeggiante. «Bevi, e saprai più di tutti gli altri mortali.» Alzarez le guardò entrambe. «Ma il fiume nutre la fonte» osservò. «Certo» rispose la Donna Scura. Da Sa Alzarezasfill, leggenda popolare Herilanzer Ne piberos daz'uturo.
Non bere quell'acqua. Da un'iscrizione funebre vitelliana 1 Persa Ecco il mio desiderio: un uomo con le labbra rosse come il sangue la pelle bianca come la neve i capelli di un nero bluastro come le ali di un corvo. È questo il mio desiderio. Anne Dare mormorò le parole della canzone, una delle sue preferite quando era più piccola. Notò che le dita stavano tremando e per un attimo le sentì come se non fossero parte del suo corpo, ma strani vermi incollati alle mani. Con le labbra rosse come il sangue... Anne aveva già visto il sangue prima di allora, in abbondanza. Ma mai come questo, mai di un colore così intenso, così brillante sulla neve. Era come se, per la prima volta, ne stesse vedendo il colore vero, diverso da quello pallido e falso che aveva visto in tutta la sua vita. Alle estremità era di un rosa diluito, ma nel punto in cui sgorgava, in cui pulsava in quella gelida bianchezza, era una cosa di assoluta bellezza. La pelle bianca come la neve i capelli di un nero bluastro... La pelle dell'uomo era diventata grigia e i capelli erano color paglia, non avevano niente a che vedere con l'amato immaginario della canzone. Mentre lei guardava, le dita di lui allentarono la presa sul pugnale che tenevano stretto, abbandonando le preoccupazioni di questo mondo. Gli occhi si spalancarono meravigliati come se stessero vedendo qualcosa che lei non riusciva a scorgere, al di là delle terre del fato. Poi esalò un ultimo respiro caldo sulla neve. Da qualche parte, molto lontano da lì, sembrava, Anne sentì un grido roco e un frastuono metallico, seguiti dal silenzio. Non riuscì a scorgere alcun movimento tra i tronchi scuri degli alberi, fatta eccezione per il legge-
ro e incessante cadere della neve. Qualcosa sbuffò lì vicino. Confusa, Anne si voltò e vide un cavallo grigio pezzato che la guardava incuriosito. Le sembrò familiare, e levò un debole grido appena si ricordò che la bestia aveva caricato contro di lei. La neve era stata calpestata tutta intorno, ma una striscia d'impronte di zoccoli arrivava da sopra una collina, indicando che quella doveva essere la strada che aveva percorso. Per una parte del sentiero, le impronte erano accompagnate da macchie rosa. Il cavallo aveva anche del sangue sulla criniera. Anne si alzò vacillando, sentendo dolore alla coscia, alla tibia e alle costole. Si voltò per osservare ciò che la circondava, in cerca di un segnale che indicasse la presenza di qualcun altro nelle vicinanze. Ma c'era solo l'uomo morto, il cavallo e gli alberi ridotti alla corteccia dai venti invernali. Alla fine rivolse un'occhiata a sé stessa. Indossava una tunica rossa di morbida pelle di daino, con un bordo d'ermellino nero e, sotto, un pesante costume d'amazzone. Si ricordò di averli presi a Dunmrogh. Le tornò in mente anche il combattimento che aveva avuto luogo in quel posto e la morte del suo primo amore e primo traditore, Roderick. Spinse la mano sotto il cappuccio e sentì i ricci dei suoi capelli rosso rame. Stavano ricrescendo, ma erano ancora corti perché lì aveva fatti rasare a Tero Galle, un'era fa, sembrava. Quello che le mancava erano ore o giorni, non mesi o anni. Ma comunque aveva smarrito il senso del tempo, e questo la spaventava. Si ricordava di aver lasciato Dunmrogh con la sua dama di compagnia, Austra, una donna libera di nome Winna e trentotto uomini, la cui compagnia comprendeva il suo amico vitelliano Catio e la sua guardia del corpo sir Neil MeqVren. Avevano appena vinto una battaglia e la maggior parte di loro era rimasta ferita, compresa la stessa Anne. Ma non c'era stato tempo per una lenta guarigione. Suo padre era morto e sua madre prigioniera di un usurpatore. Lei si era messa in viaggio decisa a liberare in qualche modo sua madre e reclamare il trono di suo padre. Ricordava di essersi sentita sicura del successo. Quello che non sapeva e non riusciva a ricordare era dove fossero quei suoi amici e perché non era più con loro. Oppure, a proposito di questo, non sapeva chi fosse l'uomo morto, che giaceva ai suoi piedi. Aveva la gola tagliata; questo era abbastanza evidente, si spalancava come fosse una seconda bocca. Ma come era successo? Era un amico o no? Visto che non riusciva a riconoscerlo, concluse che la seconda possibili-
tà doveva essere la più probabile. Si appoggiò a un albero e chiuse gli occhi, studiando la pozza nera dentro la sua mente, tuffandosi dentro di essa come un martin pescatore. Stava cavalcando accanto a Catio e lui stava facendo pratica con la lingua del re... «Anieve est galida» disse Catio, prendendo un fiocco di neve con la mano e spalancando gli occhi per lo stupore. «La neve è gelida» lo corresse Anne, poi notò l'espressione della bocca di Catio e capì che aveva mal pronunciato la frase di proposito. Catio era alto e magro, con lineamenti spigolosi, volpini, gli occhi neri, e quando le labbra si arricciavano in quel modo, sembrava un diavolo in tutto e per tutto. «Cosa significa 'anieve' in vitelliano?» domandò lei. «È un metallo dello stesso colore dei vostri capelli» rispose, in un modo che la spinse improvvisamente a domandarsi quale sapore avessero le sue labbra. Miele? Olio d'oliva? Lui l'aveva baciata tempo prima, ma non riusciva a ricordare... Che pensiero stupido. «Anieve est galida in vitelliano significa 'il rame è caldo' vero?» tradusse lei, cercando di nascondere il suo fastidio. Dal modo in cui Catio stava sogghignando adesso, capì che doveva esserci sicuramente qualcosa che le sfuggiva. «Sì, è vero,» replicò lentamente Catio «quella è la traduzione letterale. Ma è una sorta di gioco di parole. Se stessi parlando col mio amico Acameno e dicessi 'il feiro est caldo' vorrebbe dire sì 'il ferro è caldo', ma ferro può anche significare spada e una spada può anche stare per un armamento maschile molto intimo, capite, e sarebbe allora un complimento rivolto alla sua virilità. Lui darebbe per scontato che mi riferisco al suo ferro. E così il rame, un metallo più morbido e bello, può anche rappresentare...» «Sì, va bene,» lo interruppe rapidamente Anne «credo che queste espressioni colloquiali in vitelliano siano abbastanza per ora. Dopo tutto, voi volevate fare pratica con la lingua del re, no?» Lui annuì. «Sì, ma mi sembra buffo, ecco, che la vostra parola per 'gelido' sia simile alla mia per 'caldo'.» «Sì, ed è anche buffo che la vostra parola per 'libero' sia la stessa che per 'amato',» replicò lei sarcastica «visto e considerato che non si può avere il secondo ed essere il primo.»
Appena notò l'espressione sul viso di lui, si pentì di aver pronunciato quella frase. Catio inarcò immediatamente un sopracciglio, interessato. «Ora sì che tocchiamo un argomento che approvo» disse. «Ma, mmmh - 'amato'? Ne commrenno. Che significa 'amato' nella lingua del re?» «È come la parola vitelliana carilo» replicò lei riluttante. «No» disse Austra. Anne trasalì in preda a un senso di colpa perché aveva quasi dimenticato che la sua dama di compagnia stava cavalcando insieme a loro. Diede un'occhiata alla ragazza più giovane di lei. «No?» Austra scosse il capo. «Carilo è la parola usata da un padre nei confronti della figlia, nel senso di tesoro, piccola cara. Il termine che stai cercando tu è erenterra.» «Ah, capisco» disse Catio. Si allungò verso Austra, le prese la mano e la baciò. «Erenterra. Sì, approvo sempre più questa conversazione, man mano che faccio nuove scoperte.» Austra arrossì e ritrasse la mano, risistemando i suoi boccoli biondi nel cappuccio nero del mantello. Catio si voltò di nuovo verso Anne. «Perciò se 'amato' è erenterra,» disse «devo discordare con voi.» «Forse un uomo può avere un'amata e rimanere libero» disse Anne. «Una donna no.» «Sciocchezze» replicò Catio. «Finché il suo, ehm, amato, non è anche suo marito, lei può essere libera come vuole.» Fece un sorriso ancora più largo. «E poi, non sempre la schiavitù è spiacevole.» «Siete di nuovo scivolato nel vitelliano» disse Anne, che non aveva assolutamente lo stesso interesse di Catio per l'argomento. Le dispiaceva di essere stata proprio lei a sollevarlo. «Torniamo alla neve. Parlatemene ancora, nella lingua del re.» «È una cosa nuova per me» disse lui, e la voce da una disinvoltura quasi musicale passò immediatamente a una prosa goffa e impacciata, non appena cambiò lingua. «Non avere ad Avella. Davvero, ehm, cosa di meraviglia.» «Meravigliosa» lo corresse Anne mentre Austra ridacchiava. In realtà, la neve non sembrava affatto meravigliosa agli occhi di Anne, anzi era più una seccatura. Ma Catio appariva sincero e, senza volerlo, lei si ritrovò a sorridere mentre osservava il modo in cui lui restava estasiato davanti ai fiocchi bianchi. Aveva diciannove anni, due più di lei, ma era
ancora un ragazzo, non un uomo. Eppure lei, di tanto in tanto, riusciva a vedere l'uomo che Catio nascondeva dentro di sé, ma sempre pronto a fuggire. Nonostante lo scomodo cambio d'argomento, per un attimo Anne si sentì soddisfatta. Era salva, tra amici, e anche se il mondo era impazzito, almeno lei adesso conosceva la sua posizione. Una quarantina di uomini non erano sufficienti per liberare sua madre e riprendere Crotheny, ma presto avrebbero raggiunto la tenuta di sua zia Elyoner, che aveva alcuni soldati e forse sapeva dove Anne avrebbe potuto procurarsene altri. Dopodiché, be', avrebbe costruito il suo esercito lungo la strada. Non sapeva nulla di quello che serviva a un esercito e, a volte, specialmente di notte, la cosa le stringeva il cuore così forte che non riusciva a dormire. Ma per il momento, in qualche modo sentiva che tutto si sarebbe risolto. Improvvisamente qualcosa si mosse all'angolo del suo campo visivo, ma quando si voltò a guardare, non vide niente... Poggiata all'albero, Anne espirò una nuvola di brina e si accorse che la luce cominciava ad affievolirsi. Dov'era Catio? Dove erano tutti gli altri? Dove si trovava lei? Quest'ultima cosa se la ricordava. Si erano appena diretti a nord dalla Strada del Vecchio Re, attraverso la foresta di Chevroché verso Loiyes, un posto in cui una volta era andata a cavallo con sua zia Lesbeth molti anni prima. La sua guardia del corpo, Neil MeqVren, stava cavalcando a pochissimi passi di distanza. Austra era indietreggiata per parlare con Stephen, il giovane di Virgenya. Il guardaboschi, Aspar White, si era allontanato in avanscoperta e i trenta cavalieri che a Dunmrogh si erano uniti al gruppo erano stati schierati intorno a lei per proteggerla. Poi l'espressione di Catio era cambiata e aveva impugnato la spada. La luce era diventata di un giallo intenso. Si trovava ancora a Chevroché? Erano passate ore? Giorni? Non riusciva a ricordare. Doveva aspettare che la ritrovassero o non era rimasto più nessuno che potesse cercarla? Poteva un nemico averla rapita ai suoi guardiani senza ucciderli tutti? Col cuore oppresso, realizzò quanto la cosa fosse improbabile. Sir Neil di sicuro sarebbe morto prima di permettere che la portassero via, e lo stes-
so valeva per Catio. Ancora tremando, capì che l'unico indizio che aveva per comprendere la sua situazione attuale era quell'uomo morto. Con riluttanza, tornò arrancando sulla neve verso il luogo in cui questo giaceva. Guardandolo attentamente sotto la luce sempre più debole, si mise in cerca di dettagli che prima potevano esserle sfuggiti. Non le sembrava giovane, ma non sapeva dire neanche quanti anni avesse avuto: quaranta, forse. Indossava dei pantaloni di lana color grigio scuro, macchiati al cavallo di quella che doveva essere la sua urina. Gli stivali erano semplici, neri, quasi logori. Anche la camicia era di lana, ma sotto sporgeva una corazza d'acciaio. Era rovinata e ammaccata, oliata di recente. Oltre al pugnale, aveva una spada corta e dalla lama larga in un fodero di pelle ingrassato. Questo era attaccato a una cintura con una fibbia d'ottone annerito. Non portava insegne visibili che proclamassero la sua alleanza. Cercando di non guardare il volto o la gola insanguinata, Anne spinse le mani a frugare tra i vestiti, cercando qualcosa che potesse essere nascosta. Sul polso destro notò uno strano segno, impresso a fuoco o tinto sulla pelle. Era nero e sembrava raffigurare un quarto di luna. Toccò guardinga il segno e fu presa da una lieve vertigine. Sentì il sapore del sale e l'odore del ferro ed ebbe la sensazione di aver immerso il braccio fino al gomito in qualcosa di umido e caldo. Trasalendo si accorse che sebbene il cuore dell'uomo avesse smesso di battere, dentro di lui continuava a esserci ancora vita, anche se stava fuoriuscendo rapidamente. Quanto avrebbe impiegato a morire definitivamente? L'anima lo aveva già abbandonato? Non le avevano insegnato molto sull'anima al coven di santa Cer, ma aveva imparato qualcosa sul corpo. Si era sorbita diverse dissezioni prendendovi anche parte e si ricordava, almeno così credeva, la maggior parte degli organi e i loro umori primari. L'anima non aveva una sede unica, ma l'organo che comunicava con questa era incassato nel cranio. Al ricordo del coven, si sentì inspiegabilmente più calma, più serena e distaccata. Per provare, allungò la mano e toccò la fronte del cadavere. Un formicolio si diffuse tra le dita, passando attraverso il braccio e su per il petto. Mentre proseguiva sul collo e la testa, fu improvvisamente assalita dalla sonnolenza. Il suo stesso corpo si fece distante e soffice come un cuscino e sentì una debole esclamazione fuoriuscire dalle labbra. Il mondo mormorava una
musica che non riusciva a risolversi esattamente in una melodia. La testa ondeggiò all'indietro e poi di nuovo in avanti, e con quello che sembrò un enorme sforzo, lei aprì le palpebre. Le cose erano diverse, ma era difficile dire quanto. La luce era strana e tutto sembrava irreale, ma gli alberi e la neve c'erano ancora. Appena le si schiarì la vista, vide acqua scura uscire ribollendo dalla bocca del morto. Precipitava a cascata sul petto per poi serpeggiare tra la neve a poche iarde di distanza fino a raggiungere un torrente più largo. La sua visione improvvisamente s'ingrandì e Anne vide centinaia di ruscelli simili a quello. Poi mille, decine di migliaia di torrenti neri, tutti che confluivano in ruscelli più grandi e fiumi per mescolarsi infine in una distesa d'acqua vasta e scura come un mare. Mentre lei guardava, lo spirito vitale dell'uomo fuoriusciva e, come foglie su un torrente, passò l'immagine di una piccola ragazza con i capelli neri... L'odore di birra... Il sapore della pancetta... Un volto di donna più demoniaco che umano, terrificante, ma l'orrore era già stato quasi dimenticato... Poi l'uomo morì. Il liquido che usciva dalle sue labbra rallentò fino a diventare un rivolo e poi si arrestò. Ma dal mondo dei vivi le acque scure continuavano a fluire. Fu allora che Anne notò che qualcosa la stava fissando; sentiva quello sguardo attraverso gli alberi. Fu assalita da una paura confusa e improvvisamente, più di ogni altra cosa, provò il desiderio di non vedere cosa fosse. L'immagine della donna demone negli occhi dell'uomo morente tornò viva, un volto così terribile che lui non era riuscito a vederlo veramente. Era forse Mefitis, la santa dei morti, che era venuta a prendere lui? O anche Anne? O era forse una estriga, una di quelle streghe che secondo i vitelliani divoravano le anime dei dannati? O qualcosa al di là di ogni immaginazione? Qualunque cosa fosse, si stava avvicinando. Raccogliendo tutto il suo coraggio, Anne costrinse la sua testa a girarsi... e soffocò un urlo. Non c'era un'immagine chiara, solo una serie di impressioni raggelanti. Corna enormi, che si allungavano a grattare il cielo, un corpo che si espandeva tra gli alberi... Le acque nere di un momento prima si avviluppavano su quella cosa come sanguisughe e sebbene la creatura le strappasse con centinaia di artigli, ogni viticcio che cadeva veniva rimpiazzato da un altro se non addirit-
tura da due. Aveva già visto questa creatura, in un campo di rose nere, in una foresta di rovi. Il Re degli Alberi. Non aveva un volto, era solo una serie di sogni in movimento. All'inizio lei non vide nulla che potesse riconoscere, solo un miasma di colori con un odore, un sapore e una sensazione palpabile. Ma ora non riusciva più a distogliere lo sguardo, sebbene il terrore non facesse che aumentare. Si sentiva la carne avvolta da un milione di aghi avvelenati. Non riusciva a gridare. E Anne divenne improvvisamente certa di due cose... Si risvegliò di scatto e si ritrovò con la faccia schiacciata nella pozza di sangue sul petto dell'uomo. Ora quel corpo era davvero freddo, e anche il suo. Si alzò, in preda alla nausea, e si allontanò barcollando dal cadavere, ma aveva gli arti intorpiditi. Scrollò il capo per scacciare ciò che ancora rimaneva di quella Donna Nera. Era vagamente consapevole che avrebbe dovuto prendere il cavallo e seguire le impronte degli zoccoli che l'avevano condotta fin là, per risalire fino al punto in cui iniziavano, ma le sembrava troppo problematico. Comunque aveva preso a nevicare più forte adesso e presto le tracce sarebbero sparite. Si rannicchiò in una fessura tra le radici di un enorme albero e quando ebbe recuperato lentamente un po' di calore, raccolse le forze necessarie per ciò che andava fatto. 2 Sulle tracce dell'orco Una freccia rimbalzò sull'elmo di Neil MeqVren mentre questi si agitava sulla superficie del banco di neve per farsi strada e il roco grido di battaglia dei suoi avi risuonava tra gli alberi. Il suo scudo deviò un'altra freccia con la punta mortale. E poi un'altra ancora. A solo qualche iarda di distanza, quattro arcieri continuavano a mantenere la loro posizione protetti dagli scudi di sei guerrieri armati di spada. Tutti insieme, quegli uomini formavano una piccola fortezza ben appostata per far piovere la morte sull'unica strada che Neil aveva il desiderio di se-
guire: la traccia lasciata dai cavalieri che avevano preso Anne. Decise di caricare dritto contro di loro, anche se si fosse rivelato un suicidio. Qualunque altra mossa avrebbe solo ritardato l'inevitabile. Neil si concentrò mentre correva, sentendosi impacciato nella sua armatura inadeguata, desiderando quella bella armatura completa da lord che Sir Fail una volta gli aveva donato e che adesso riposava sul fondo del porto di z'Espino, a centinaia di leghe di distanza. Il mondo sembrava rallentare in circostanze come questa, facendosi meravigliosamente dettagliato. Le oche starnazzavano, lontane sopra di lui. Sentiva l'odore della resina dei rami di pino spezzati. Uno degli uomini con lo scudo mostrava brillanti occhi verdi dietro al metallo brunito che proteggeva il naso e morbidi baffi di un castano dorato. Le guance erano rosse per il freddo. La faccia era tesa in una determinazione che Neil aveva visto più di una volta in guerra. In un giorno diverso da questo, quell'uomo avrebbe potuto bere vino insieme ai suoi amici, danzare con una ragazza, cantare una canzone conosciuta solo nel minuscolo villaggio in cui era nato. In un giorno diverso. Ma oggi era pronto a morire se necessario e a portarsi dietro chiunque sulla barca di San Jeroin. E sul volto dei suoi compagni c'era lo stesso sguardo. Neil inciampò, vide un arco incurvarsi e la punta di una freccia incoccata, sentì la linea tracciata nell'aria verso il suo occhio. Sapeva che lo scudo era finito troppo in basso per poterlo risollevare in tempo. Improvvisamente l'arciere abbassò la sua arma e cercò impacciato di estrarre la freccia che invece era comparsa sulla sua fronte. Neil non poté permettersi di perdere tempo a voltarsi e vedere chi gli aveva salvato la vita. Anzi si raggomitolò ancora di più dietro lo scudo, calcolando le ultime iarde e poi, urlando ancora una volta, si lanciò contro il muro di scudi, colpendo borchia contro borchia col ragazzo dagli occhi verdi. Quel tipo fece ciò che doveva fare e indietreggiò in modo che gli altri suoi compagni con gli scudi potessero avanzare intorno a Neil, circondandolo. Ma non sapevano cosa ci fosse fra le mani di Neil. La spada fatata che aveva sottratto ai resti di un uomo immortale sferzò nell'aria, lasciando nel sibilo della sua scia il debole odore di un fulmine. Spaccò lo scudo che si librava davanti a lui, trapassando il copricapo metallico, il cranio sottostante, un occhio color smeraldo per emergere infine da dietro un orecchio,
prima di deviare e aprirsi un varco tra le costole del nemico successivo. Insieme alla furia della battaglia, Neil provava una specie di rabbioso disgusto. Non c'era niente di cavalleresco nell'uso di un'arma come quella. Combattere contro circostanze estremamente sfavorevoli era una cosa. Gridare vittoria grazie a una stregoneria era un'altra. Ma dovere e onore non sempre andavano di pari passo, aveva imparato. E in questo caso, era il dovere a brandire la spada che lui aveva chiamato Draug. Il fatto era semplicemente che, spada fatata o meno, questo era un combattimento che non aveva nessuna probabilità di vincere. Qualcuno lo afferrò alle ginocchia, arrivando da dietro, e Neil colpì in alto e in basso e trovò solo un'altra armatura nel tragitto. Draug penetrò a fondo, ma il pomo di uno spadone si schiantò sull'elmo di Neil, che ruzzolò nella neve. Un altro uomo gli si avvinghiò sul braccio e non fu più in grado di brandire la spada. Il mondo s'incendiò totalmente di rosso mentre lottava, in attesa del pugnale che si sarebbe inevitabilmente fatto strada intorno alla gorgiera o attraverso la sua visiera. All'improvviso si ricordò stranamente di quando stava affondando tra le onde a z'Espino, trascinato dal peso della sua armatura, e di come la sua impotenza si era mischiata a un senso di sollievo perché le sue tribolazioni erano finalmente terminate. Ma stavolta non provava alcun sollievo. Anne era da qualche parte là fuori, in pericolo, e lui avrebbe consumato fino all'ultimo briciolo della sua forza per evitare che le succedesse qualcosa. Qualche altra cosa. Se non era già morta. Perciò colpì con l'unica arma che gli era rimasta, la testa, incornando la faccia ansimante più vicina, e fu ricompensato dallo scricchiolio della cartilagine di un naso che si rompeva. Era lo stesso uomo che stava attaccato al suo braccio sinistro, che finalmente riuscì a sollevare con tutta la forza della sua ira guerriera, dando un pugno alla gola del nemico. Questo colpo lo fece indietreggiare. Poi qualcosa si abbatté sul suo elmo con tutto il peso del mondo, e neve nera cominciò a cadere da un cielo bianco. Quando la testa tornò a schiarirsi, Neil trovò qualcuno inginocchiato sopra di lui. Si sollevò con un ringhio e l'uomo si allontanò con un balzo, farfugliando in una lingua straniera. Sorpreso, Neil scoprì di avere gli arti liberi.
Quando la nebbia rossa si diradò, si accorse che l'uomo inginocchiato sopra di lui non era altri che il vitelliano Catio. Lo spadaccino si teneva adesso a una distanza riguardosa, impugnando la sua strana arma leggera in una guardia rilassata. «Calmo, cavaliere» esclamò una voce vicina. «Sei fra amici adesso.» Neil si tirò in piedi e voltandosi vide un uomo vicino alla mezza età con un viso abbronzato e capelli neri rasati pieni di fili d'argento. Scrollò il capo un'altra volta e riconobbe Aspar White, il guardaboschi del re. Subito dietro stavano Stephen Darige e Winna Rufoote coi suoi capelli color miele, entrambi accovacciati e pronti nella neve insanguinata. «Meglio se tieni la testa bassa» disse Aspar. «C'è un'altra postazione di arcieri da quella parte.» Indicò col mento la direzione. «Pensavo che foste tutti morti» replicò Neil. «Già» disse Aspar. «Anche noi lo pensavamo di voi.» «Anne è dove?» domandò Catio col suo pesante accento vitelliano. «Non l'avete vista?» domandò Neil in tono accusatorio. «Le cavalcavate proprio accanto.» «Sì» rispose Catio, concentrandosi per scegliere bene le parole. «Austra cavalcava un po' indietro, con Stephen. Poi sono arrivate le frecce, sì, e poi, ah, eponiros spuntati da strada, ehm, con lunghi haso...» «I lancieri, sì» disse Neil. Erano comparsi arcieri su entrambi i fianchi e poi un cuneo di cavalieri a caricare lungo la strada. La cavalleria di Dunmrogh non aveva avuto il tempo di appostarsi bene, ma aveva comunque risposto all'assalto. Neil aveva personalmente ucciso tre cavalieri, ma si era visto spinto sempre più lontano da Anne. Tornato sulla scena aveva trovato solo cadaveri, senza la minima traccia dell'erede al trono di Crotheny. «Un tranello» disse Catio. «Arrivato, ehm, aurseto e mi ha colpito qui.» Indicò la testa, appiccicosa per il sangue. «Non conosco questa parola» replicò Neil. «Aurseto» ripeté Catio. «Come, ehm, acqua, aria...» «Invisibile» lo interruppe Stephen. Il prete novizio si voltò verso Catio. «Uno viro aurseto?» «Sì» rispose Catio, annuendo vigorosamente. «Come nuvola, colore della neve su epo, stesso...» «Un cavallo e un cavaliere dello stesso colore della neve?» domandò Neil incredulo. «Sì» confermò Catio. «Mentre faccio la guardia a Anne, sento un rumo-
re dietro di me...» «E vi ha colpito alla nuca?» «Sì» rispose Catio, con un muso lungo. «Non vi credo» dichiarò secco Neil. Non riusciva a farsi un'idea chiara di quel tipo, da quando aveva fatto di tutto per convincere Anne ad abbandonarlo al suo destino a Vitellio. Era vero che Catio aveva salvato la vita di Anne in diverse occasioni, ma le sue ragioni sembravano essere soprattutto di tipo libidinoso. Neil sapeva per certo che queste motivazioni erano inaffidabili e soggette a violenti cambiamenti. Inoltre era uno spaccone e sebbene fosse piuttosto capace nelle risse di strada, anzi a dire il vero fenomenale, non aveva il minimo senso di disciplina marziale. Più di ogni altra cosa, Neil aveva imparato con delusione che poche persone al mondo erano ciò che sembravano. Qualcosa di minaccioso brillò nello sguardo di Catio, che drizzò le spalle, poi poggiò il palmo sull'elsa della sua spada. Neil fece un respiro profondo e abbassò la mano verso Draug. «Ha detto la verità» grugnì Aspar. «Asp, voi...» «Werlic. Ce n'erano almeno tre. Perché credi che non sia riuscito a tornare ad avvisarti dell'imboscata? Non sono invisibili, non esattamente, ma è come ha detto il ragazzo. Sono come il fumo e si riesce a vedere attraverso il loro corpo. Se sai dove guardare, puoi dire che sono là, ma se non lo sai, possono farti una bella sorpresa. L'altra cosa è che se li uccidi, tornano solidi, sia loro che i cavalli anche se questi non hanno subito un graffio. Per quello che posso dire, a parte il loro trucco, sono semplici uomini.» Stephen si accigliò. «Questo mi fa venire in mente... una volta ho letto di una via dei templi...» Si grattò la mascella, corrugando la fronte e concentrandosi. «Altri uomini di chiesa» grugnì Aspar. «Proprio quello che ci mancava.» Catio era ancora teso, con lo sguardo fisso su Neil e la mano sull'elsa della sua arma. «Le mie scuse» disse Neil allo spadaccino. «Persnimo. Sono molto nervoso e giungo a conclusioni avventate.» Catio si rilassò un po' e annuì. «Guardaboschi White,» disse Neil «questi uomini invisibili lasciano tracce?» «Sì.»
«Allora uccidiamo quei tipi e troviamo la nostra regina.» I loro assalitori avevano lasciato più di due gruppi di difensori lungo il cammino, questo fu presto chiaro. A qualche altro centinaio di pereci rispetto a dove trovarono il cavaliere, s'imbatterono in un altro manipolo, anche se più esiguo di numero. Non durò a lungo, ma Aspar li avvisò che ne avrebbero trovati altri più avanti. A Catio tornò in mente la favola di quel ragazzo, perso nella foresta, che arriva presso una grande triva. Questa si rivela la casa di un orco con tre teste che cattura il ragazzo e decide di mangiarselo. Ma la figlia dell'orco lo prende in simpatia e lo aiuta a fuggire. Quindi scappano insieme, inseguiti dal padre, che però è più veloce e presto li raggiunge. Ma anche la ragazza possiede la sua magia. Getta un pettine dietro di loro e questo si trasforma in una siepe che l'orco è costretto a strappare. Lei getta in terra un otre di vino che diventa un fiume... «A cosa state pensando?» Catio si accorse che il prete era a pochissimi passi di distanza. Stephen sapeva parlare vitelliano, e sebbene il suo accento fosse un po' antico, era un sollievo poter parlare senza dover pensare così tanto. «Pettini e siepi, otri di vino e fiumi» rispose lui misterioso. Stephen arricciò le labbra in un sorriso. «Allora noi siamo l'orco?» Catio batté le palpebre. Credeva di essere stato abbastanza misterioso. «Pensate troppo velocemente» commentò sarcastico. «Ho percorso la via dei templi di san Decamnus» rispose Stephen. «Non posso farci niente, il santo mi ha benedetto.» Si fermò e sorrise. «Scommetto che la vostra versione della storia è diversa da quella che conosco io. Il fratello del ragazzo uccide l'orco alla fine?» «No, lo conduce a una chiesa e l'attish Sacritor lo uccide facendo suonare l'orologio tre volte.» «Ah, davvero interessante» commentò Stephen. E pareva sincero. «Se proprio insistete» ammise Catio. «A ogni modo, sì, siamo tutti presi in giro. Siamo noi che seguiamo l'orco e lui è quello che semina ostacoli. Ma mi chiedo perché. «Fino a ora hanno cercato di uccidere Anne. I cavalieri che ci hanno inseguito non hanno fatto alcuno sforzo per catturarla viva. Ma se questi melcheos volevano ucciderla, avrebbero potuto farlo facilmente, quando mi hanno colto di sorpresa.» Si toccò delicatamente la ferita sulla testa. «Almeno voi lo avete visto per un attimo» disse Stephen. «Io non ho ne-
anche avuto il tempo di dare una sbirciatina a quello che ha preso Austra. Davvero, non è stata colpa vostra.» «Certo che sì, invece» insisté Catio, scacciando via quell'assoluzione con un cenno della mano. «Io ero con lei... e io la riporterò indietro. Se le hanno fatto del male, li ucciderò tutti fino all'ultimo purcapercator. Ma questo ancora non mi fornisce la risposta alla mia domanda. Perché non si sono limitati a ucciderla?» «I motivi potrebbero essere innumerevoli» rispose Stephen. «I preti che abbiamo visto a Dunmrogh volevano il suo sangue per un rito sacrificale...» «Sì, ma solo perché avevano bisogno di una donna di nobili origini e quella che avevano era stata uccisa. E poi abbiamo interrotto tutta quella faccenda.» «Potrebbe non essere la stessa faccenda. Abbiamo fermato il nemico una volta, ma ci sono molte altre vie dei templi maledette nella foresta e sono pronto a scommettere che esistono altri rinnegati che stanno cercando di risvegliarle. Ogni via è particolare, ha i suoi doni o maledizioni. Forse hanno bisogno anche stavolta del sangue di una principessa.» «A Dunmrogh c'erano per lo più uomini di chiesa e cavalieri di Hansa. Nel gruppo che stiamo fronteggiando adesso non ne ho visto nemmeno uno.» Stephen scrollò le spalle. «Ma noi abbiamo già combattuto contro nemici come questi prima d'incontrarvi. Anche allora c'erano dei monaci coinvolti insieme a uomini senza insegne identificabili o di cui non conoscevamo l'origine. Perfino dei Sefry.» «Allora il nemico non è la Chiesa!» «Non sappiamo chi sia il nemico ultimo» ammise Stephen. «I cavalieri hanzish e gli uomini di chiesa di Dunmrogh avevano gli stessi oscuri scopi dei nemici contro cui Aspar, Winna e io abbiamo combattuto in precedenza, non lontano da qui, a dire il vero. Noi pensiamo che stiano tutti ricevendo ordini dal praifec di Crotheny, Marche Hespero. Ma per quanto ne sappiamo, lui riceve a sua volta ordini da tutt'altra persona.» «Cosa vuole tutta questa gente?» Stephen ridacchiò amaramente. «Per quello che possiamo dire noi, desiderano risvegliare un male estremamente antico e potente.» «Perché?» «Per il potere, suppongo. Non posso dirlo con certezza. Ma questi che ci attaccano adesso? Non so cosa vogliono. Avete ragione; sembrano diversi.
Forse sono al servizio dell'usurpatore.» «Lo zio di Anne?» Catio pensava che Stephen si riferisse a questo. In realtà, tutta quella situazione era piuttosto intricata. «Esatto» confermò Stephen. «Potrebbe avere ancora motivo di volerla viva.» «Be', lo spero» disse Catio. «Provate qualcosa per lei, vero?» domandò Stephen. «Sono il suo protettore» rispose Catio, leggermente irritato dalla domanda. «Niente di più?» «No. Niente.» «Perché sembra che...» «Niente» dichiarò Catio. «L'ho aiutata prima di sapere chi fosse. E poi, non sono affari che vi riguardano.» «No, credo proprio di no» ammise Stephen. «Ascoltate, sono sicuro che lei e la sua dama...» «Austra.» Stephen sollevò un sopracciglio e le labbra si arricciarono in un irritante sorriso. «Austra» ripeté. «Le troveremo, Catio. Vedete quell'uomo lassù?» «Aspar? L'uomo dei boschi?» «Sì. Sa seguire ogni traccia; ve lo posso garantire personalmente.» Catio notò che dal cielo avevano ripreso a cadere leggeri fiocchi di neve. «Anche con questa?» domandò. «In ogni circostanza» replicò Stephen. Catio annuì. «Bene.» Continuarono a cavalcare in silenzio per un attimo. «Come avete conosciuto la principessa?» domandò Stephen. Catio sentì le labbra distendersi in un sorriso. «Io vengo da Avella, sapete? È una cittadina nel Tero Mefio. Mio padre era un nobile, ma rimase ucciso in un duello e non mi lasciò granché. Solo una casa ad Avella e z'Acatto.» «Il vecchio che abbiamo lasciato a Dunmrogh?» «Sì, il mio maestro di scherma.» «Dovete sentire la sua mancanza.» «È un ubriacone, prepotente, arrogante... sì, mi manca. Vorrei che fosse qui.» Scosse il capo. «Ma Anne... io e z'Acatto eravamo andati a trovare un'amica in campagna, la contessa Orchaevia, per prendere un po' d'aria. Il caso volle che la sua triva fosse vicina al coven di santa Cer.
Un giorno stavo camminando da quella parte e ho trovato la principessa, ehm, che faceva il bagno.» Si voltò rapidamente verso Stephen. «Dovete capire, io non avevo idea di chi fosse.» Lo sguardo di Stephen si fece improvvisamente più intenso. «Avete fatto qualcosa?» «Niente, lo giuro.» Il sorriso si allargò mentre ricordava. «Be', forse ho amoreggiato un po'» ammise. «Voglio dire, trovare una ragazza straniera in una campagna deserta, già spogliata... di certo mi è sembrato un segno di Lady Erenda.» «L'avete davvero vista senza vestiti?» «Ah, be', solo in parte.» Stephen sospirò pesantemente e scrollò il capo. «Proprio adesso che stavate cominciando a piacermi, spadaccino.» «Ve l'ho detto, non avevo idea.» «Probabilmente anch'io avrei fatto la stessa cosa. Ma il fatto che non sapevate chi fosse, be', non conta. Catio, voi avete visto la carne di una principessa di sangue reale, una principessa che, se riusciamo nella nostra impresa, diventerà la regina di Crotheny. Non capite cosa significa? Lei non ve l'ha detto?» «Detto cosa?» «Qualunque uomo che vede una principessa di sangue reale, qualunque, tranne il suo consacrato marito, dovrà essere accecato o morire. La legge ha più di un migliaio d'anni.» «Cosa? State scherzando.» Ma Stephen cominciò ad accigliarsi. «Amico mio,» disse «non sono mai stato più serio di così.» «Ma Anne non mi ha mai detto niente.» «Ne sono certo. Probabilmente pensa di poter chiedere clemenza per voi, ma la legge è molto chiara e anche se è una regina la decisione non spetterebbe a lei; le sarebbe imposta dal Comven.» «Ma è assurdo» protestò Catio. «Non ho visto altro che le spalle e forse solo una sbirciatina a... Non lo sapevo!» «Nessun altro è a conoscenza di questa cosa» disse Stephen. «Se decideste di svignarvela...» «Adesso siete ancora più ridicolo» fece Catio, sentendosi drizzare i peli. «Ho sfidato la morte per Anne e Austra un sacco di volte. Ho giurato di proteggerle e nessun uomo d'onore ritratterebbe una promessa del genere solo per paura di qualche ridicola punizione. Soprattutto adesso, che è nel-
le grinfie di...» Si fermò e fissò Stephen. «Non esiste una legge del genere, vero?» domandò. «Oh, sì che esiste» rispose Stephen, controllandosi con evidente fatica. «Come vi ho già detto, ha un migliaio d'anni. Ma sono più di cinquecento anni che non viene applicata. No, credo che siate salvo, vecchio mio.» Catio fulminò Stephen. «Se non foste un prete...» «Ma non lo sono» disse Stephen. «Ero un novizio e ho percorso la via dei templi di san Decamnus. Ma ho avuto una specie di litigio con la Chiesa.» «Con la Chiesa? Pensate che l'intera Chiesa sia corrotta?» Stephen fece schioccare un attimo la lingua. «Non lo so. Comincio a temere che lo sia.» «Ma avete menzionato questo praifec...» «Hespero. Sì, Aspar, Winna e io siamo stati incaricati di compiere una missione da Praifec Hespero, ma non questa in cui siamo finiti. Ciò che abbiamo scoperto è che la corruzione scorre molto in profondità nella Chiesa, forse lungo tutta la via che riconduce a z'Irbina e a fratrex Prismo.» «Questo è impossibile» esclamò Catio. «Perché impossibile?» fece Stephen. «Gli uomini e le donne della Chiesa non sono altro che uomini e donne, facilmente corruttibili dal potere e dalla ricchezza come chiunque altro.» «Ma i lord e le lady...» «Nella lingua del re li chiamiamo santi» disse Stephen. «Comunque li chiamiate, non permetterebbero mai una macchia così profonda sulla loro Chiesa.» Stephen sorrise e Catio lo trovò un sorriso davvero inquietante. «Esistono molti santi» disse. «E non tutti sono puri.» Improvvisamente sembrò distratto. «Un attimo» mormorò. «Cosa c'è?» «Sento qualcosa» rispose Stephen. «Altri uomini davanti a noi. E qualcos'altro.» «Il vostro udito benedetto dai santi, eh? Prima, quando ci hanno teso l'imboscata, come mai non li avete sentiti?» Stephen scrollò le spalle. «Non lo so, veramente. Forse il dono dei santi o il maleficium che ha reso i rapitori invisibili ha anche indebolito il mio udito, ma vi prego di scusarmi: devo riferire ad Aspar... e a Neil.»
«Sì» disse Catio. «Terrò pronta la mia spada.» «Sì. Ve ne prego.» Catio osservò Stephen che spingeva la sua cavalla, Angela, al trotto verso il resto della compagnia e, sentendosi un po' triste, estrasse Caspator e strofinò il pollice sulla profonda ammaccatura che deturpava la parte forte della lama, un'ammaccatura provocata dalla stessa, lucente spada fatata che adesso veniva impugnata da sir Neil. Quell'ammaccatura era la ferita mortale di Caspator. Non c'era modo di riparare quel danno senza forgiare di nuovo l'intera lama, e con una lama nuova non sarebbe stata più veramente Caspator, ma una cosa diversa. E poi, farsi forgiare una nuova lama non era così facile in queste zone del nord, dove tutti preferivano enormi mannaie da macellaio allo stocco, l'anima della dessrata. La dessrata era impraticabile senza l'arma giusta e dove poteva trovare un'altra spada senza dover tornare a Vitellio? Sentiva davvero la mancanza di z'Acatto. Non fu la prima volta che desiderò di essere di nuovo a Vitellio col suo vecchio maestro di spada. Aveva cominciato la spedizione con grandi speranze d'avventura. Per quanto fosse stato faticoso a volte, aveva comunque visto più meraviglie da quando aveva lasciato Vitellio che in tutta la sua vita fino a quel momento. Ma erano stati solo loro quattro: Anne, Austra, z'Acatto e lui. Ora Anne aveva un cavaliere con una spada magica, un boscaiolo che avrebbe potuto conficcare una freccia in un piccione anche a sei miglia di distanza e un prete che sentiva fino a dodici leghe in qualunque direzione. Winna non aveva abilità misteriose per quello che poteva vedere, ma non sarebbe stato del tutto sorpreso se si fosse messa improvvisamente a richiamare gli animali, implorandoli di combattere al loro fianco. E lui cos'era? Uno che si era fatto rapire sotto il naso la regina e la sua dama di compagnia, che non sapeva neanche parlare la lingua del regno e che sarebbe stato perfettamente inutile ora che la sua spada era irrimediabilmente rovinata. La cosa più strana era che questo non lo infastidiva più di tanto. Be', sì, un po', ma non quanto gli avrebbe dato fastidio un anno prima. Si sentiva davvero inadeguato, ma non era quello il vero problema. Non era l'orgoglio a bruciargli dentro; era il fatto che non poteva servire Anne nel modo in cui avrebbe dovuto. E il fatto era che Austra si trovava nelle mani di qualche malvagio. Aveva provato a distrarsi con pensieri egoistici per evitare di fissarsi sull'eventualità davvero straziante che le sue amiche fossero già morte.
Davanti a sé notò Stephen che lo chiamava con un cenno della mano mentre teneva un dito dell'altra sulle labbra. Spronò il suo cavallo, domandandosi che tipo di battaglia lo attendesse stavolta. Alla fine le notizie erano per metà buone e per metà cattive. Gli uomini che Stephen aveva percepito erano loro alleati, quattro cavalieri di Dunmrogh, appostati dietro un tumulo di pietre in cima alla collina più vicina. Stavano accovacciati lì perché la successiva dorsale era controllata dai loro nemici. «Un piano davvero ben progettato» disse Neil ad Aspar. «Un assalto principale per distrarci, cavalieri stregati per prendere le ragazze e una serie di retroguardie per farci rallentare mentre fuggono. Ma perché non giocarsi tutto con un unico attacco?» Aspar scrollò le spalle. «Forse hanno sentito parlare di noi e ci credono più forti di quanto siamo realmente. O è più probabile che ti sbagli. Può darsi che i loro piani non sono andati bene come sembra. Credo che in realtà intendessero ucciderci tutti in un unico attacco, e se ci pensi, ci sono andati molto vicini. Avevamo circa quaranta uomini quando abbiamo lasciato Dunmrogh. Ora siamo rimasti in nove, ma loro non lo sanno. Tra la neve e il fatto che ci siamo divisi, sono confusi quanto noi. «Per quanto ne sappiamo, al momento li superiamo in numero. Là potrebbero esserci gli ultimi tre, su quella cresta, e le ragazze potrebbero essere con loro. Non c'è modo di scoprirlo ora che si sta facendo buio.» «Sono in sei,» disse Stephen «e sento una ragazza, anche se non posso giurare che sia una delle nostre.» «Deve esserlo» commentò Neil. «Werlic» convenne Aspar. «Perciò non ci resta che andare a prendercele.» Diresse pigramente lo sguardo tra gli alberi, in basso verso la piccola valle e poi in alto, sulla cresta davanti a loro. «Aspar...» mormorò Stephen. «Sì?» «C'è qualcosa... qualcos'altro. Ma non so dire cosa.» «Con gli uomini?» Stephen scosse il capo. «No. Potrebbe essere molto lontano.» «Allora dovremo prima afferrare questo ramo e poi cercare di raggiungere l'altro» commentò Aspar. «Ma se individui qualcosa più chiaramente...» «Ve lo farò sapere» promise Stephen.
Neil continuava a studiare il campo. «Avranno numerose possibilità di colpirci prima che riusciamo a raggiungerli» osservò. «Già» convenne Aspar. «Questo sarebbe un buon motivo per non attaccarli dalla valle.» «Esiste un altro modo?» «Un sacco di altri modi. Controllano il punto più alto, ma questa cresta si unisce alla loro lassù, alla nostra sinistra.» «Conoscete questo posto?» Aspar si accigliò. «No. Ma quel torrente laggiù è piuttosto piccolo; lo vedete? E riesco a fiutarne la fonte. E se guardate la luce tra gli alberi..., be', quello è un altopiano, credetemi. L'unica cosa è che se andiamo tutti da quella parte, potrebbero scappare. «Se seguono la cresta verso il basso, arriveranno alle paludi sul fiume Mago e li prenderemo lì. Ma se vanno a nord, scendendo la cresta, si ritroveranno fuori dal bosco, nella prateria, e lì avranno la possibilità di attraversare il fiume e dirigersi verso la pianura Mey Ghorn o andare a est. «In entrambi i casi, dovremo raggiungerli di nuovo, se ci riusciamo. Mentre adesso sappiamo dove sono.» «Ma perché stanno aspettando là?» domandò Neil. «Credo che si siano persi» rispose Aspar. «Non riescono a vedere lo spazio aperto da dove sono. Se cavalcano per un altro centinaio di iarde, però, ci riusciranno. E allora saremo nei guai.» «Cosa proponete di fare? Far dare a qualcuno una sbirciatina sull'altopiano?» «Già» replicò Aspar. «E suppongo che quel qualcuno sarete voi.» In risposta, il guardaboschi piegò improvvisamente il suo arco e lasciò partire una freccia. Un forte grido di sgomento echeggiò dalla valle. «No» disse il guardaboschi. «Servo qui per convincerli che siamo ancora sulla cresta. Andate tu e Catio. Quando Stephen sentirà che vi siete avvicinati a loro, correremo giù verso valle e poi risaliremo dall'altra parte. Cercate solo di fare attenzione e di tenerli occupati.» Neil ci pensò un attimo su, poi annuì. «Vale la pena di provare» disse. «Riuscirete a fare piano?» «Nella foresta? Mi toglierò l'armatura. Ma ancora...» «Non ho la sensazione che siano boscaioli» disse Aspar. «Cercheremo di fare un po' di chiasso qui.» Neil diede un'occhiata al Vitelliano. «Stephen,» disse «potreste spiegare
a Catio quello che abbiamo appena detto?» Stephen obbedì e quando ebbe finito, lo spadaccino fece un largo sorriso e annuì. Neil si spogliò fino a rimanere solo con la giubba imbottita, prese Draug e pochi secondi dopo stavano già fiancheggiando la cresta orientale, trasalendo al rumore di ogni ramoscello spezzato, sperando che Aspar avesse ragione riguardo a tutto. Non avevano bisogno di preoccuparsi. La cresta girava, proprio come il guardaboschi aveva previsto, formando una specie di strada senza uscita sotto di loro. La collina digradava di nuovo curvando per poi ricominciare a salire verso il punto in cui era appostato il nemico. Di tanto in tanto Neil sentiva degli scambi di urla tra Aspar, Winna, Stephen e gli uomini davanti a loro. Erano un sollievo, perché fornivano un'ulteriore guida. Neil si ritrovò a trattenere il respiro. Infastidito, si costrinse a respirare normalmente. Aveva già attaccato di sorpresa prima di allora; sulla spiaggia e gli alti pascoli delle isole aveva combattuto parecchie battaglie notturne, appostandosi per colpire di sorpresa. Ma le isole erano fatte di sabbia e pietra, muschi ed erica. Spostarsi col silenzio di Aspar White tra quelle colline traditrici e gli alberi era parecchio al di là delle sue capacità. Diede un'occhiata a Catio e scoprì che il Vitelliano avanzava con la sua stessa esagerata premura. Le grida davanti a loro adesso si facevano più vicine. Accovacciandosi ancora di più, Neil impugnò la spada. Aspar si voltò quando sentì Stephen sussultare. «Che succede?» gli chiese. «Tutt'intorno a noi» disse Stephen. «Arrivano da ogni direzione.» «Altri? Un'imboscata?» «No, no» rispose Stephen. «Sono più silenziosi di prima, molto più silenziosi, quasi come il vento tra gli alberi. La sua forza cresce e così anche la loro.» «Laniatori» esclamò Winna. «Laniatori» ripeté Stephen. «Merda» grugnì Aspar. Catio si fermò quando colse una macchia di colore tra gli alberi spogliati dall'autunno. Il sottobosco era folto e spinoso, ricco di mirtilli, brugmansia
e crucifere rampicanti. Alla sua destra vide che anche Neil MeqVren si era fermato. La boscaglia era allo stesso tempo un vantaggio e un problema. Tra i loro nemici, gli arcieri avrebbero avuto difficoltà a trovare un bersaglio finché non si fossero avvicinati alla radura. Ma la cosa avrebbe anche rallentato l'avanzata sua e del cavaliere. Sbagliato. Improvvisamente sir Neil caricò, roteando quella sua spaventosa lama da macellaio davanti a sé come fosse una roncola e il sottobosco non oppose la stessa debole resistenza della carne o di un'armatura. Rammaricandosi di non conoscere qualcosa in più riguardo al piano, Catio si lanciò subito dietro a Neil, mentre l'eccitazione si attorcigliava dentro di lui come la corda di una balista in fase di armamento. Nell'istante in cui Neil irruppe nella radura, Catio gli girò intorno, finendo dritto sulla traiettoria di una freccia con la piuma nera. Lo prese di lato, al ventre, provocando una ferita profonda e dolorosa. Non sapeva dire se fosse stato sventrato o semplicemente graffiato e non ebbe il tempo per controllare, perché un bruto con uno spadone si lanciò grugnendo verso di lui. Catio preparò Caspator; lo stocco era lungo il doppio dell'arma micidiale che il suo oppositore impugnava. Questo fu abbastanza intelligente da capirlo e da colpire ferocemente la stretta lama per deviarla dal suo percorso. Ma non fu abbastanza sveglio da arrestare la carica, sicuro a quanto pareva che il suo violento assalto avrebbe avuto successo. Ma con un abile movimento del polso, Catio schivò l'incursione dell'arma senza arretrare, in modo che l'uomo piombò senza esitazione sulla punta della sua spada. «Ca dola la» cominciò Catio, spiegando come suo solito al nemico quale destrezza da dessratore lo aveva appena sconfitto. Non finì però, perché, impalato o mano, quel maiale indirizzò un feroce colpo alla testa di Catio. Lo evitò solo abbassandosi di colpo, mossa che scatenò un doloroso bruciore alla pancia ferita. La lama lo mancò, ma l'impeto del movimento portò il braccio con la spada sulla spalla di Catio. Questi lo afferrò con la mano sinistra, trattenendolo mentre liberava Caspator dai polmoni del nemico. Per un attimo occhi verdi come il mare riempirono la visione di Catio, e con un brivido capì che quello che stava vedendo non era odio, rabbia e neanche il fremito dell'ira guerriera, ma solo orrore e disperazione. «Non...» esclamò l'uomo.
Catio lo allontanò, preso dalla nausea. Non esistevano 'non'. L'uomo era già morto; solo che non riusciva ancora ad accettarlo. Cosa ci faceva lì? Catio era un duellante da quando aveva dodici anni, ma raramente aveva combattuto per uccidere. Semplicemente non era mai stato necessario. Ma ora lo è, pensò arcignamente mentre assestava un colpo secco alla corda di un arciere accovacciato, impedendogli così di prenderlo in piena faccia. Seguì il movimento con un violento calcio che colpì il tipo sotto al mento, facendolo volare verso un letto di rovi e cespugli. Si stava voltando per fronteggiare un altro nemico, quando la foresta esplose. Fu assalito da un'improvvisa sensazione di oscurità, dal fetore di corpi sporchi e qualcos'altro: un odore simile al profumo alcolico dell'uva che marcisce sulla vite, il puzzo di una sporcizia nera. Poi gli sembrò che centinaia di braccia lo afferrassero, lo stringessero, e fu risucchiato nel caos. 3 Paese conosciuto ma straniero Il cavallo di Anne sbuffò di paura appena si avvicinarono a un altro muro di rovi neri, intrecciati agli alberi in modo così intricato da negare l'accesso a qualunque cosa più grande di un microbo. «Sst» fece Anne, dando un colpetto sul collo dell'animale. Questo trasalì e scartò al suo tocco. «Fa' il bravo» bisbigliò Anne. «Ti darò un nome, d'accordo? Vediamo un po', un bel nome.» Mercenjoy, sembrò sussurrare una vocina dentro di lei, e per un attimo le girò così forte la testa che temette di essere sul punto di cadere di sella. «No, allora, non Mercenjoy» disse, più rivolta a sé stessa che al cavallo. Quello era il nome del cavallo del Cavaliere Nero delle fiabe, si ricordò, e significava 'Destriero di Morte'. «Appartenevi a un uomo cattivo,» disse, con tono il più rassicurante possibile «ma non sei un cattivo cavallo. Vediamo, credo che ti chiamerò Prespine, per la santa del labirinto. Lei ritrovò la via d'uscita dal suo labirinto, e ora tu mi aiuterai a trovare la nostra fuori di qua.» Mentre parlava, Anne si ricordò di un giorno che ora sembrava lontanissimo, quando le sue preoccupazioni erano relativamente semplici e si tro-
vava alla festa di compleanno di sua sorella. C'era un labirinto lì, di fiori e rampicanti, ma tutt'a un tratto lei si era ritrovata in un altro labirinto, in un luogo strano senza ombre e da quel momento niente era più stato semplice. Anne non avrebbe voluto alzarsi, prendere il cavallo e salire in sella. Avrebbe preferito rimanere accovacciata tra le radici dell'albero fino a che qualcuno non fosse venuto ad aiutarla o fino a che nulla le sarebbe più stato d'aiuto. Ma la paura l'aveva tirata su, la paura che se fosse rimasta a lungo nello stesso posto, le sarebbe capitato qualcosa peggiore della morte. Rabbrividì quando un cambiamento nel vento le portò il fetore proveniente dai rovi neri, un odore che le fece venire in mente i ragni, anche se non riusciva a ricordare di aver mai effettivamente sentito l'odore di un ragno. Quello strano rigoglio aveva anch'esso qualcosa a che fare coi ragni. I rampicanti e le foglie luccicavano, promettendo veleno. Fece girare Prespine, seguendo i rovi da una ragguardevole distanza. Lontano, alla sua sinistra, credette di sentire per un attimo una specie di ululato, ma non fece in tempo a iniziare che subito finì. Il sole superò il mezzogiorno e proseguì verso la sua dimora notturna nel bosco, al di là del mondo. Anne pensò che il paese in cui il sole andava a dormire non poteva essere più strano o terribile del posto in cui si trovava adesso. Gli spini sembravano guidarla, sospingerla verso una destinazione che quasi sicuramente non avrebbe voluto visitare. Appena il cielo si oscurò, cominciò anche ad avvertire qualcosa dietro di lei e capì che prima, vicino all'albero, non si era sbagliata. Qualcosa stava realmente venendo a prenderla. All'inizio fu come un insetto piccolo, ma poi crebbe, mantenendo tutti i suoi occhi incollati avidamente sulla schiena di Anne. Quando lei si voltava, però, non importava quanto velocemente lo facesse, la cosa spariva. Da piccola aveva fatto questo gioco, come la maggior parte dei bambini. Lei e Austra avevano finto che uno Scaos spaventoso le inseguisse, un mostro talmente terribile che se lo avessero guardato sarebbero state tramutate in pietra. Da sola, aveva immaginato un fantasma che camminava dietro di lei, appena fuori dalla sua visuale, ma che spariva sempre quando si voltava per affrontarlo. A volte quel gioco l'aveva terrorizzata, altre divertita, di solito entrambe le cose. La paura che si riusciva a tenere sotto controllo aveva un sapore delicato. Ma adesso non riusciva a tenere a bada la paura che provava. Non aveva
affatto un buon sapore. E non faceva che diventare più concreta. Le dita invisibili si stringevano sempre più vicine alla sua spalla, e quando lei si voltava c'era qualcosa, simile alla macchia che il sole lascia impressa sotto le palpebre quando si chiudono gli occhi dopo averlo fissato. L'aria sembrava addensarsi, ispessirsi intorno a lei, e gli alberi si piegavano affaticati verso terra. Qualcosa l'aveva seguita. Ma da dove? Dove si trovava quel posto di acque scure? Aveva già viaggiato al di là del mondo prima d'allora, o almeno al di là della parte che conosceva. Quasi sempre era finita nel posto delle Fedi, che a volte era una foresta, altre una valle, altre ancora un pascolo d'alta montagna. Una volta ci aveva portato anche Austra per sfuggire ad alcuni cavalieri assassini. Il posto in cui era stata con l'uomo in fin di vita era diverso. Era la terra dei morti o solo il confine? Ricordava che la terra dei morti avrebbe dovuto avere due fiumi, anche se non ricordava perché, ma lì ce n'erano più di due; erano migliaia. E il Re degli Alberi. Era stato imprigionato da quelle acque o queste stavano cercando di incatenarlo? Che cosa significava? E chi era lui? Le aveva comunicato qualcosa, non a parole, ma il suo desiderio era stato ugualmente chiaro. Come faceva a conoscerla? Il volto della donna demone le balenò nella memoria e il terrore serpeggiò violentemente dentro di lei. Era questo che la seguiva? Si ricordò delle Fedi che le avevano detto che la legge della morte era stata infranta, ma non sapeva cosa significasse. Aveva forse commesso qualche crimine contro i santi invitando la morte a seguirla? Il sole d'oro rosso improvvisamente si riversò come una cascata tra i rami alti e con immenso sollievo, Anne realizzò che i rovi erano scomparsi. Non molto lontano, anche gli alberi si diradavano fino a sparire, facendo posto a un enorme, sterminato campo di erba ingiallita. Con un grido misto di paura e trionfo, spronò Prespine verso lo spazio aperto, sentendo che la presenza strisciante alle sue spalle si affievoliva e sgattaiolava di nuovo tra le tenebre spinose dove si sentiva più a suo agio. Lacrime le sgorgarono dagli occhi quando le cadde il cappuccio e il vento prese a graffiare tra i capelli corti. Il sole era appena al di sopra dell'orizzonte, come un occhio arancione mezzo chiuso da frammenti di nuvole sul cielo dorato a ovest. Quella gloria di colori sbiadiva in un cielo serale di un blu così scuro che quasi le sembrò acqua, un'acqua che lei poteva
raggiungere a nuoto per nascondersi nelle sue profondità, tra pesci strani e luminosi, e starsene al sicuro lontana, al di sopra del mondo. Le nuvole erano quasi scomparse, la neve aveva smesso di cadere e tutto sembrava migliore. Ma fino a che la foresta non divenne una linea sottile alle sue spalle, Anne mantenne Prespine al galoppo. Quindi la fece rallentare a un'andatura tranquilla e accarezzò il collo della giumenta, sentendo il ritmo violento delle pulsazioni dell'animale, quasi uguale al suo. Faceva ancora freddo; a dire il vero sentiva più freddo di prima. Dove si trovava? Anne spaziò con lo sguardo intorno al paesaggio poco familiare, cercando di recuperare un minimo di orientamento. Non aveva mai prestato molta attenzione alle mappe che i suoi precettori le avevano mostrato quando era più piccola. Da diversi mesi ormai si era pentita di non averlo fatto. Il tramonto indicava l'ovest, ovviamente. La pianura scendeva gradatamente verso il basso rispetto alla foresta, almeno così le sembrava fino a una certa distanza. A oriente, il crepuscolo faceva luccicare un fiume largo, al di là del quale, in lontananza, riusciva a vedere una linea scura d'alberi. Il fiume curvava verso nord e spariva all'orizzonte. Più vicino, distinse felicemente la guglia di quella che doveva essere una torre campanaria. Il paesaggio in quella direzione sembrava ricoperto da minuscole colline e dopo un po' lei capì che dovevano essere mucchi di fieno. Si fermò per un lungo istante, osservando i lontani tratti distintivi della civiltà, e i suoi sentimenti si annuvolarono leggermente. Una città voleva dire gente e gente significava cibo, riparo, calore, compagnia. Ma poteva significare anche pericolo; l'uomo che l'aveva assalita, doveva averla assalita, era venuto da qualche parte. Quello era il primo luogo che poteva spiegarne la provenienza. E dov'erano Austra e gli altri? Dietro di lei, davanti... o morti? Fece un respiro profondo cercando di allentare la tensione alle spalle. Stava parlando con Catio e tutto andava bene. Poi si era ritrovata sola con un moribondo. La deduzione più logica era che questi l'avesse rapita, ma perché non riusciva a ricordare com'era successo? Il solo provare a pensare alla cosa le scatenò un panico improvviso che minacciò di oscurare tutti gli altri pensieri della sua mente. Lei lo respinse e si concentrò sul presente. Se i suoi amici erano vivi, la stavano cercando. Se non lo erano, allora era rimasta sola. Sarebbe riuscita a sopravvivere per una notte da sola nella pianura? For-
se sì. Dipendeva da quanto freddo poteva fare. Le bisacce di Prespine contenevano un po' di pane e carne secca, ma nient'altro. Aveva visto Catio e z'Acatto accendere il fuoco, ma non aveva trovato niente che somigliasse a un acciarino tra i beni del cadavere. Prese la sua decisione con riluttanza e spronò la giumenta in direzione della città. Aveva bisogno di sapere dove si trovava, almeno. Era riuscita ad arrivare a Loiyes? Se fosse stato così, il paese davanti a lei era sotto il controllo di sua zia. Se non era a Loiyes, doveva arrivarci. Adesso più che mai ne era certa, perché lo aveva visto nel viso del Re degli Alberi. Si accorse di sapere qualcos'altro. Stephen Darige almeno era vivo. Lo sapeva perché il Re degli Alberi lo sapeva. E c'era qualcosa che Stephen avrebbe dovuto fare. Non molto più avanti s'imbatté in una strada d'argilla segnata da solchi, larga abbastanza per il passaggio di carri agricoli; era così ben incastrata nel paesaggio da essersi inizialmente nascosta alla sua vista. Dal punto in cui lei la incrociò, la strada si dipanava tra campi coltivati. Notò ciuffi di verde sbucare da sotto la neve e si domandò che tipo di messi coltivassero gli agricoltori d'inverno o se si trattava di semplice erba. I mucchi di fieno che le erano sembrati minuscoli in lontananza adesso apparivano straordinariamente alti. Spaventapasseri scarni, vestiti di stracci sbrindellati, spalancavano occhi vuoti dentro teste fatte di lagenaria o zucche nere e raggrinzite. Il fumo di camino con il suo confortante aroma ammantava la fredda terra e presto Anne giunse a una casa piccola, con muri di creta bianca e un tetto di paglia con ripidi spioventi. Una capanna da una parte sembrava servire da stalla; una mucca la guardò da sotto la grondaia con lenta curiosità. Riuscì a distinguere solo un uomo con tunica e ghette sporche che tirava giù il fieno da un pagliaio con un forcone dai denti di legno. «Scusatemi» gridò Anne. «Sapete dirmi come si chiama la città qui davanti?» L'uomo la guardò e subito sgranò leggermente gli occhi stanchi. «Ah, edeu» rispose. «Se clama Sevoyne, signora.» Anne fu sorpresa dal suo accento, un po' difficile da decifrare. «Sevoyne?» ripeté. «Fa parte di Loiyes?» «Edeu, signora. Loiyes ze qui. Dove dovria essere, scuzi tanto?» Anne credette che fosse una domanda retorica. «E mi potete dire da quale parte si trova Glenchest?» proseguì.
«Glenchest?» L'uomo corrugò la fronte. «Deve essere a quattro leghe, cred'io, lungo 'sta strada. Lavorate per la duchessa laggiù, signora?» «È lì che sono diretta» disse Anne. «Mi sono solo un po' persa.» «Mai son stato cozì lontano» disse il tipo. «Ma disen che non ze dificil trovarla.» «Allora grazie» disse Anne. «Grazie mille.» «Se figuri, e buon viaggio, signora» rispose l'uomo. Quando Anne si rimise in cammino, sentì una voce di donna alle sue spalle. L'uomo rispose, stavolta in una lingua che lei non conosceva, anche se aveva la stessa particolare cadenza dello strano dialètto di poco prima. Così quella era Loiyes, nel cuore di Crotheny. Come mai, allora, i contadini da queste parti non parlavano la lingua del re? E come mai lei non lo sapeva? Era già stata a Loiyes prima, a Glenchest. La gente di città a Glenchest parlava perfettamente la lingua del re. Secondo quello che aveva detto l'uomo, si trovava a meno di un giorno di cavallo da lì. Aveva trascorso così tanto tempo in viaggio. Erano mesi che desiderava tornare a casa, raggiungere un posto dove la gente parlava la lingua con cui lei era cresciuta e dove tutto era familiare. Adesso ci era arrivata, e scopriva che il paese in cui era nata era più straniero di quanto avesse mai immaginato. La cosa le provocò una leggera nausea. Quando Anne raggiunse Sevoyne, le prime stelle cominciavano a sparire dietro una nuova coltre di nuvole che sopraggiungevano rotolando da oriente, causandole quella sensazione di claustrofobia che aveva già sperimentato nella foresta. Il suo silenzioso inseguitore era di nuovo vicino, incoraggiato dalle fitte ombre. Passò l'horz della città, l'unico punto in cui le piante venivano fatte crescere in modo assolutamente selvaggio, pur rimanendo ingabbiate all'interno di un antico muro di pietra. Per la prima volta Anne notò quella contraddizione, e l'avverti in modo particolarmente forte, un'altra pietra familiare del suo mondo che si era rivoltata per rivelare le cose striscianti che suppuravano sotto di essa. L'horz rappresentava la natura selvaggia, indomita. I santi dell'horz erano san Selfan dei Pini, Rieyene degli uccelli, Fesa dei fiori, Flenz dei rampicanti: i santi del selvaggio. Cosa dovevano pensare trovandosi recintati, quando una volta tutto il mondo gli apparteneva? Le tornò in mente l'horz
di Tero Galle, da dove era entrata nell'altro mondo. Aveva avuto la sensazione di una rabbia malata, di una frustrazione diventata pazzia. Per un attimo i muri di pietra sembrarono trasformarsi in una siepe di rovi neri, e rivide l'immagine della figura con le corna. Lui era il selvaggio e, come tutto ciò che è veramente selvaggio, era anche terrificante. Le spine cercavano di incatenarlo, no? Nello stesso modo in cui i muri dell'horz limitavano il selvaggio. Ma chi mandava quei rovi? E poi, aveva pensato da sola a questa cosa, o gliel'aveva lasciata lui nella testa? Come le era venuto in mente quel collegamento? A est non riusciva a ricordare cosa le fosse successo. A ovest la sua testa faceva strane conclusioni. Aveva forse perso completamente il controllo della sua mente? Era impazzita? «Detoi, meyez» disse qualcuno, interrompendo i suoi pensieri. «Quey veretoi adeyre en se zevie?» Anne s'irrigidì e provò a mettere a fuoco nell'oscurità. Con sua sorpresa, ciò che era sembrato una semplice ombra improvvisamente prese i chiari contorni di un uomo di mezza età con indosso una livrea che lei riconobbe: il mazzo di spighe, la lancia e il pesce che salta dei duchi di Loiyes. «Parlate la lingua del re, sir?» domandò lei. «Sì» replicò l'uomo. «E vi chiedo perdono per la mia impertinenza. Nel buio non ho visto che eravate una signora.» Anne adesso capì la reazione del contadino. La lingua del re e l'accento con cui lei la parlava la identificavano immediatamente come una nobile di Eslen, o almeno una della servitù molto vicina alla nobiltà. I suoi abiti, per quanto sudici, di certo lo confermavano. Questo poteva essere un bene o un male. No, niente bene o male. Era da sola, senza protettori. Era con ogni probabilità un male. «Con chi ho l'onore di parlare, sir?» «Mechoil MeLemved» rispose lui. «Capitano della guardia di Sevoyne. Vi siete persa, signora?» «Sono diretta a Glenchest.» «Da sola? Di questi tempi?» «Avevo dei compagni. Siamo stati separati.» «Bene, venite dentro al riparo dal freddo, signora. La coirmthez... scusate, volevo dire la locanda avrà una stanza da darvi. Magari i vostri compagni vi stanno già aspettando.» Le speranze di Anne subirono un altro brutto scossone. Il capitano sem-
brava troppo poco sorpreso, troppo pronto ad aiutarla. «Devo avvertirvi, capitano MeLemved,» disse lei «che sono già stati fatti dei tentativi d'ingannarmi per farmi del male, e la mia pazienza è davvero al limite per questo genere di cose.» «Non capisco, principessa» rispose il capitano. «Che male potrei farvi?» Anne sentì la faccia diventarle di pietra. «Nessuno, certo» rispose. Spronò Prespine in movimento, per girarsi dall'altra parte. Non appena lo fece, scoprì che dietro di lei c'era qualcuno e, proprio mentre se ne accorgeva, notò qualcosa all'angolo del suo campo visivo un attimo prima che la colpisse violentemente su un lato della testa. Rimase senza fiato mentre tutto cominciò a ruotare in quattro o cinque direzioni e poi delle dita forti si strinsero sulle sue braccia, trascinandola giù da cavallo. Si dimenò, tirando calci e urlando, ma le grida furono soffocate velocemente da qualcosa che le veniva infilata in bocca, seguita immediatamente da un odore di grano quando le fu spinto in testa un sacco. L'ira divampò dentro di lei e Anne raggiunse il luogo dentro di sé dove dimorava il male, quel male che lei poteva infliggere agli altri. Quello che trovò invece fu un terrore così vivo che la sua unica via di fuga fu un'ulteriore passo nelle tenebre. Si risvegliò farfugliando, col naso che le bruciava e la gola chiusa. Un odore acre di alcol inondava tutto, ma sembrava stranamente lontano. Gli occhi impastati si aprirono a fatica e Anne vide in una vertigine cristallina che si trovava in una stanzetta illuminata da diverse candele. Qualcuno la teneva per i capelli e sebbene sentisse che li tiravano alla radice, il dolore non era tanto forte. «Sveglia adesso, eh?» grugnì una voce maschile. «Bene, allora bevete.» Il bordo duro di una bottiglia le venne spinto contro le labbra e qualcosa di umido si riversò dentro la bocca. Lei lo risputò, confusa, riconoscendo quello stato d'animo, ricordandosi che era successo qualcosa, ma senza essere sicura di cosa fosse. C'era stata una donna, una donna terribile, un demone, e lei era fuggita, proprio come aveva fatto prima... «Mandate giù» ringhiò l'uomo. Fu allora che Anne capì di essere ubriaca. Le era già capitato di ubriacarsi qualche volta prima di allora, insieme ad Austra, ma di rado era stata veramente male. Quanto l'avevano costretta a bere mentre dormiva? Abbastanza. Orribilmente, cominciò quasi a ridacchiare.
L'uomo le tenne il naso chiuso e le versò altra roba giù per la gola. Era come vino, ma centinaia di volte più aspro e forte. Stavolta andò giù e un fuoco prese a serpeggiarle nella gola, arrivando nello stomaco già caldo tanto da bruciare. Fu presa da una nausea improvvisa, che poi sparì. La testa le pulsava piacevolmente e le cose intorno a lei sembravano accadere in modo troppo veloce. L'uomo si spostò in un punto in cui lei potesse vederlo. Non era molto vecchio, forse qualche anno più grande di lei. Aveva i capelli castani e ricci, più chiari sulle punte, e gli occhi color nocciola. Non era bello, ma neanche brutto. «Ecco» disse lui. «Vedete? Non c'è motivo per rendere la cosa tanto difficile.» Anne sentì gli occhi infiammati e tutt'a un tratto le lacrime cominciarono a bruciare. «State per uccidermi» disse, e le sue parole uscirono in modo indistinto. Voleva dire qualcosa di molto più articolato, ma non riuscì a formularlo. «No.» Rispose lui. «Sì, invece.» Lui la guardò accigliato senza parlare per qualche secondo. «Perché... perché sono ubriaca?» domandò Anne. «Così non proverete a scappare. So che siete una strega. Dicono che il brandy indebolisca i vostri poteri.» «Io non sono una strega» rispose lei secca. Poi, ormai priva di ogni inibizione, iniziò a urlare. «Cosa volete da me?» «Io? Niente. Sto solo aspettando gli altri. A ogni modo, come avete fatto a fuggire? Che cosa facevate da sola?» «I miei amici stanno arrivando» rispose. «Credetemi. E quando saranno qui, ve ne pentirete.» «Me ne sono già pentito» disse l'uomo. «Sono dovuto rimanere qui di guardia, ma non avrei mai creduto di dover avere a che fare con voi.» «Be', io...» ma aveva appena formulato il pensiero che le sfuggì di mente. In realtà, stava diventando sempre più difficile pensare e il suo precedente timore di impazzire si riaffacciò come una specie d'intimo scherzo. Si sentiva le labbra enormi ed elastiche e la lingua grossa come la testa. «Mi avete dato un sacco da b-bere.» «Sì.» «Quando mi addormenterò, voi mi ucciderete.» Sentì una lacrima racco-
gliersi all'angolo dell'occhio e poi cominciare a scendere lungo la guancia. «No. Questa è una sciocchezza. Vi avrei già ucciso, no? No, vi vogliono viva.» «Perché?» «Come faccio a saperlo? Io lavoro solo per i miei reytoir. Gli altri...» «Non torneranno» disse Anne. «Cosa?» «Sono tutti morti. Non l'avete capito? Tutti i vostri amici sono morti.» Scoppiò a ridere, senza essere ben sicura del perché. «Li avete visti?» domandò lui, turbato. Anne annuì, mentendo. Si sentiva come se stesse dimenando un enorme paiolo in cima a un palo stretto. «Lei li ha uccisi» disse. «Lei chi?» «Colei che vedete nei vostri incubi» rispose sarcasticamente. «Colei che striscia su di voi nel buio. Lei viene per me. Sarete qui quando mi troverà e ve ne pentirete.» La luce si stava attenuando. Le candele erano ancora accese, ma sembravano in qualche modo più flebili. Le tenebre l'avvolsero come una trapunta. Tutto girava e sembrava troppo difficile parlare. «Viene...» mormorò lei, cercando di mantenere un tono d'urgenza. Non si addormentò esattamente, ma gli occhi si chiusero e la testa sembrò riempirsi di strani squilli di tromba e luci innaturali. Entrava e usciva da certe scene. Era a z'Espino, vestita da serva, a strofinare il bucato mentre due donne con la testa grossa si prendevano gioco di lei in una lingua che non riconosceva. Poi era sul suo cavallo, Fulmine, e galoppava così veloce che si sentiva sul punto di vomitare. Quindi di ritrovò nella casa dei suoi antenati morti, la casa di marmo a Eslen-delle-Ombre insieme a Roderick, e lui la stava baciando sulla carne nuda del ginocchio, risalendo verso la coscia. Si piegò per accarezzargli i capelli, e quando lui la guardò, gli occhi erano cavità piene di vermi. Gridò e aprì gli occhi, battendo le palpebre in modo irregolare per mettere a fuoco una realtà opaca, sbiadita. Si trovava ancora nella stanzetta. La testa di qualcuno spingeva contro il suo petto e si rese conto, stordita e scandalizzata, che aveva il corpetto slacciato e che qualcuno la stava leccando. Era ancora seduta sulla sua sedia, ma aveva il corpo di lui tra le gambe, che da quello che riusciva a vedere erano prive delle calze. Le aveva tirato su la sottana fino ai fianchi.
«No...» mormorò lei, spingendolo via. «No.» «State ferma» sussurrò lui. «Vi ho detto che non sarà tanto male.» «No!» riuscì a urlare Anne. «Nessuno può sentirvi» disse lui. «Calmatevi. So come si fa.» «No!» Ma l'uomo la ignorò, non capendo che Anne non stava più urlando contro di lui. Stava urlando a lei, che emerse dalle ombre, mostrando i suoi terribili denti in un malvagio ghigno. 4 Una musica nuova Leoff si avvinghiò alle sue Donne Nere. Non importava quanto fossero terribili, sapeva che il risveglio sarebbe stato peggio. E a volte, nel miasma fatto di tenebre e dolore personificato, tra i volti distorti che pronunciavano minacce rese ancora più terribili dalla loro incomprensibilità, tra le fughe lungo la pianura, con i cadaveri traboccanti di vermi che lo bloccavano come un mare di sangue rappreso alto fino alle ginocchia, intravedeva il luccichio di qualcosa di piacevole, come un raggio chiaro di sole in una nuvola scura. Stavolta, come spesso accadeva, si trattava di una musica: il freddo, dolce suono di un clavicordo che s'intrufolava nei suoi sogni tormentati come il respiro di un santo. Eppure continuò a tenersi aggrappato; la musica era tornata altre volte da lui, cominciando sempre dolcemente per poi piegarsi in accordi spaventosi che lo spedivano sempre più a fondo nell'orrore, fino a che con le mani sulle orecchie implorava i santi perché la facessero smettere. Ma adesso la musica si manteneva dolce, anche se goffa e dilettantesca.. Gemendo, Leoff spinse contro il grembo appiccicoso del sogno finché non lo lacerò tornando allo stato di veglia. Per un attimo credette di essersi semplicemente trasferito in un altro sogno. Non stava sdraiato sulla pietra gelida e maleodorante, ma su un giaciglio morbido, e la testa era poggiata su un cuscino. Il fetore della sua urina era stato rimpiazzato da un flebile odore di ginepro. E soprattutto... soprattutto il clavicordo era vero, così come l'uomo che sedeva sullo sgabello, battendo sulla tastiera in modo goffo.
«Principe Robert» riuscì a gracchiare Leoff. Alle sue orecchie la voce suonò come scorticata, come se tutti gli urli che aveva lanciato avessero ridotto a brandelli le sue corde vocali. L'uomo sullo sgabello si voltò e batté le mani, apparentemente divertito, ma le dure gemme degli occhi riflettevano la luce delle candele e nient'altro. «Cavaor Leoff» disse. «Carino da parte vostra unirvi a me. Guardate, vi ho portato un regalo.» Con ampi gesti indicò il clavicordo. «È uno di quelli buoni, mi hanno detto» proseguì. «Viene da Virgenya.» Leoff avvertì una strana e distaccata vibrazione negli arti. Non vedeva guardie. Era da solo col principe, l'uomo che l'aveva consegnato alle grinfie del praifec, condannandolo alle sue torture. Leoff si guardò meglio intorno. Si trovava in una stanza molto più grande della cella che occupava l'ultima volta che il sonno e il delirio lo avevano rapito. Accanto alla stretta branda di legno su cui stava disteso, e oltre al clavicordo c'erano un'altra sedia, un catino e una brocca d'acqua e... stavolta dovette strofinarsi gli occhi: uno scaffale pieno di tomi e scritti. «Venite, venite» lo invitò il principe. «Dovete provare lo strumento. Vi prego, insisto.» «Vostra Altezza...» «Insisto» disse fermamente Robert. Dolorante, Leoff fece scendere le gambe dal giaciglio, sentendo esplodere una o due delle vesciche che aveva sotto i piedi non appena ci fece gravare il suo peso sopra. Ma il dolore fu così lieve che a stento trasalì. Il principe... no adesso si era proclamato re, giusto? L'usurpatore era solo. La regina Muriele era morta; tutti quelli a cui teneva erano morti. Lui era peggio che morto. S'incamminò verso Robert, sentendo un ginocchio cigolare in modo strano. Non avrebbe mai più potuto correre, vero? Non avrebbe più potuto trottare su un prato in una giornata di primavera, giocare con i figli, probabilmente non avrebbe mai avuto dei figli, arrivato a questo punto. Fece un altro passo. Adesso si era avvicinato quasi quanto bastava. «Prego» disse Robert stancamente, alzandosi dallo sgabello e stringendo le spalle di Leoff con mani fredde e forti. «Cosa credete di fare? Strangolarmi? Con queste?» Afferrò le dita di Leoff e una fitta di dolore esplose violentemente dentro di lui strappando un sussurro dai suoi polmoni doloranti. Un tempo quell'agonia sarebbe stata sufficiente a farlo gridare. Ora gli si
formarono lacrime negli occhi mentre guardava in basso, verso il punto in cui la mano del re stringeva la sua. Ancora non riusciva a riconoscerle, le sue mani. Una volta le dita erano delicatamente affusolate, sottili e agili, perfette per suonare la crotta o danzare sui tasti. Ora erano gonfie e storte in un modo terribilmente innaturale; gli uomini del praifec le avevano rotte in tutte le giunture. Ma non si erano fermati lì; avevano anche schiacciato le ossa di entrambe le mani e frantumato i polsi. Se gli avessero mozzato le mani, sarebbe stato più piacevole. Ma non l'avevano fatto. Le avevano lasciate pendere, un monito per cose che non avrebbe mai più dovuto fare, assolutamente. Guardò di nuovo il clavicordo, i suoi dolci tasti rossi e neri, e le sue spalle cominciarono a tremare. Il gocciolio di lacrime si trasformò in una piena. «Ecco» disse Robert. «Bene. Lasciatele uscire. Lasciatele uscire.» «Io... non credevo che avreste potuto farmi ancora più male» riuscì a rispondere Leoff, digrignando i denti, provando vergogna, ma alla fine riuscendo anche quasi a superarla. Il re accarezzò i capelli del compositore, come fosse un bambino. «Sentite, amico mio» disse. «È mia la colpa di tutto questo, ma il mio crimine è stata la negligenza. Non ho controllato abbastanza il praifec. Non avevo idea della crudeltà che stava usando con voi.» Leoff quasi scoppiò a ridere. «Mi perdonerete se sono un po' scettico al riguardo» replicò. Le dita dell'usurpatore gli pizzicarono un orecchio, torcendolo leggermente. «E voi mi chiamerete 'Vostra Maestà'» disse Robert piano. Leoff sbuffò. «Cosa mi farete se non obbedisco? Mi ucciderete? Avete già preso tutto quello che ho.» «Credete davvero?» mormorò Robert. Lasciò andare l'orecchio di Leoff e indietreggiò. «Non ho preso tutto, ve lo assicuro. Ma lasciamo stare. Mi dispiace per quello che vi è successo. Il mio medico si occuperà di voi d'ora in poi.» «Nessun medico può curare questo» rispose Leoff, alzando le mani storpie. «Forse no,» convenne Robert «forse non sarete più in grado di suonare. Ma da quello che mi è parso di capire, la musica che create, che componete, viene prodotta nella vostra testa.» «Ma non può uscire dalla testa, senza le mie mani» rispose secco Leoff. «O quelle di qualcun altro» disse Robert.
«Cosa...» Ma in quel momento il re fece un gesto e la porta si aprì e lì, sotto la luce della lampada, emerse un soldato con un'armatura scura. La sua mano poggiava sulla spalla di una ragazzetta con gli occhi bendati. «Mery?» esclamò il compositore. «Cavaor Leoff?» disse lei con voce stridula. Provò a camminare, ma il soldato la tirò indietro e la porta si chiuse. «Mery» ripeté Leoff, zoppicando verso la porta, ma Robert lo afferrò per la spalla. «Visto?» disse piano. «Mi avevano detto che era morta!» esclamò Leoff. «Giustiziata!» «Il praifec stava provando a spezzare la vostra anima eretica» replicò Robert. «Molto di quello che i suoi uomini vi hanno raccontato è una menzogna.» «Ma...» «Sst» fece Robert. «Sono stato clemente, posso esserlo ancora. Ma dovete accettare di aiutarmi.» «Aiutarvi come?» Robert accennò un sorriso spettrale. «Vogliamo parlarne a tavola? Sembrate quasi morto di fame.» Per un periodo di tempo che sembrava un'eternità, i pasti di Leoff erano stati a base di niente o tutt'al più di una poltiglia innominabile che nelle circostanze migliori era più o meno insapore e in quelle peggiori puzzava di rifiuti marci. Ora si ritrovava a fissare un tagliere di pane nero con sopra maiale arrosto, porri stufati nel mosto, formaggio di pasta rossa, fettine di uovo sodo ricoperte di salsa verde e frittelle alla crema. Ogni odore era come una dolce melodia, e tutti insieme si spandevano in una rapsodia. Il suo bicchiere era pieno di un vino rosso così profumato e fruttato che riusciva a sentirne l'odore senza doversi chinare. Guardò le sue mani inerti e poi il pasto. Il re si aspettava che lui abbassasse la faccia sul cibo come un maiale? Probabilmente. E lui sapeva che entro pochi secondi l'avrebbe fatto. Invece, entrò una ragazza con un'uniforme nera e grigia, s'inginocchiò accanto a lui e cominciò a offrirgli bocconi di cibo. Leoff cercò di mangiarli con una certa grazia, ma dopo la prima esplosione di sapore nella bocca, prese a ingollare il tutto senza vergogna.
Robert si sedette dalla parte opposta del tavolo e lo osservò senza dar idea di divertirsi. «È stata una mossa intelligente,» disse dopo un po' «quel vostro allietatempo, quello spettacolo cantato. Il praifec aveva enormemente sottovalutato voi e il potere che riuscite a esercitare attraverso la vostra musica. Non posso dirvi quanto fossi adirato, seduto e impotente mentre la cosa si dipanava, incapace di alzarmi, parlare o interromperla. Avete messo un bavaglio sulla bocca di un re, Cavaor, e gli avete legato le mani dietro alla schiena. Non pensavate mica di riuscire a fuggire senza essere punito?» Leoff rise amaramente. «Difficilmente posso pensarlo adesso» disse, poi sollevò il capo in segno di sfida. «Ma non vi riconosco come re.» Robert sorrise. «Sì, l'avevo dedotto dal contenuto della rappresentazione. Non sono proprio uno stupido, sapete.» «Non vi ho mai considerato tale» rispose Leoff. Depravato e assassino sì, stupido no, finì in silenzio. L'usurpatore annuì come se avesse sentito il pensiero inespresso. Poi agitò una mano. «Be', oramai è andata, no? E voglio essere sincero: la vostra composizione ha avuto i suoi effetti. La scelta del tema e di una ragazza dei custodi terrieri come attrice principale... be', ha di certo conquistato il favore dei custodi terrieri e non verso di me, come avevo sperato.» Si sporse in avanti. «Vedete, ci sono alcune persone che mi vedono come mi vedete voi: un usurpatore. Avevo sperato di unificare il regno per opporci al male che si riversa su di noi da ogni parte e per farlo avevo davvero bisogno dei custodi terrieri e della loro milizia. Le vostre gesta hanno reso la loro alleanza più dubbia che mai. Siete addirittura riuscito a creare compassione per una regina che non piaceva a nessuno.» «È stato un onore per me fare una cosa del genere.» Poi Leoff capì. «La regina Muriele non è morta, vero?» Robert fece di no con la testa, poi puntò un dito contro Leoff. «Continuate a non capire» disse. «Parlate come un uomo morto, con la spavalderia del condannato. Ma potete continuare a vivere e comporre. Potete riavere i vostri amici. Non vi farebbe piacere veder crescere Mery e assistere ai progressi della vostra protetta? «E che mi dite della dolce Areana? Di sicuro ha davanti a sé un brillante futuro, magari addirittura al vostro fianco...» Leoff si alzò in piedi barcollando. «Non osate minacciarle!» «No? E cosa me lo impedisce?» «Areana è la figlia di un custode terriero. Se state cercando di vincere il
loro consenso...» «Se abbandono la speranza di riuscirci, se non riesco a unificare con le buone, dovrò farlo con la forza e la paura» rispose secco Robert. «Inoltre, a volte sono incline, diciamo così, al cattivo umore. E il mio umore era particolarmente nero dopo la rappresentazione della vostra piccola farsa.» «Cosa state cercando di dire?» «Areana è stata arrestata subito dopo di voi. Ho capito presto di aver sbagliato, ma come re devo fare attenzione ad ammettere i miei errori, capite. Devo fare attenzione alle opportunità.» La testa di Leoff cominciò a girare. A un certo momento, durante la tortura, gli era stato detto che chiunque aveva preso parte al suo spettacolo cantato era stato arrestato e impiccato pubblicamente e che Mery era stata silenziosamente avvelenata nella notte. In quel momento lui aveva ceduto e 'confessato' di aver praticato i più infami atti di 'eretica stregoneria'. Ora scopriva che Mery e Areana erano vive e la cosa gli procurava una gioia illimitata. Ma la minaccia alle loro vite veniva adesso rinnovata. «Siete davvero molto intelligente» disse al re. «Sapete che non rischierò di perderle di nuovo.» «Perché dovreste? La vostra alleanza con Muriele non ha senso. Lei non ha un mandato a governare e di sicuro non ne è capace. Nonostante i miei difetti, io sono il meglio che la famiglia Dare possa offrire. Hansa ci dichiarerà guerra da un giorno all'altro, a meno che non riesco a far pace con loro. Mostri minacciano tutti i nostri confini e appaiono nelle città. Qualunque cosa pensiate di me, Crotheny è più unita dietro un solo capo, e posso essere solo io, perché non esiste nessun altro.» «Cosa vorreste che facessi?» «Annullare quello che avete fatto, ovviamente. Scrivete un altro allietatempo per portarli dalla mia parte. Vi ho fornito un clavicordo e tutti i libri di musica che il regno ha da offrire. Metterò Mery e Areana a vostra disposizione per aiutarvi, per compensare la condizione sfortunata delle vostre mani. Ovviamente, io dovrò controllare il vostro lavoro più attentamente di quanto ha fatto il praifec e sceglieremo noi i musicisti che dovranno suonare per la vostra opera.» «Il praifec mi ha marchiato come eretico davanti al mondo. Come può essere rappresentata adesso una mia opera?» «Verrete presentato come prova di pietà e intercessione divina, amico mio. Se prima traevate ispirazione dalle tenebre, adesso la trarrete dalla
luce.» «Ma questa è una menzogna» disse Leoff. «No» rispose seccamente Robert. «Questa è politica.» Leoff esitò un attimo. «E il praifec si occuperà di questo?» «Il praifec ha le mani occupate» rispose Robert. «L'impero, a quanto pare, è un vero e proprio nido di calabroni, pieno di eretici. Siete fortunato, Cavaor Leovigild. Le forche producono una musica tutta loro in questi giorni.» Leoff annuì. «Non c'è bisogno che ripetiate la minaccia, Vostra Maestà. L'ho capita bene già la prima volta.» «Così siamo di nuovo a 'Vostra Maestà'. Credo che finalmente stiamo arrivando da qualche parte.» «Sono nelle vostre mani» rispose Leoff. «Mi chiedo se avete un tema per la vostra commissione.» Il re scosse il capo. «In effetti no. Ma ho consultato la vostra biblioteca ed è ben fornita dei famosi racconti di questa regione. Confido nel fatto che troverete ispirazione qui.» Leoff raccolse tutta la sua forza di volontà. «Una cosa» disse. «Avrò bisogno di aiuto, ve lo assicuro. Ma per favore, mostrate pietà e rimandate Mery da sua madre e Areana dalla sua famiglia.» Robert soffocò uno sbadiglio. «Vi era stato detto che erano morte e voi ci avevate creduto. Vi avrei potuto dire che le avevo rimandate a casa, ma come potevate sapere che era vero? A ogni modo, preferirei che non pensaste che siete stato voi a salvarle. Potrebbe farvi venire in mente qualche altro sciocco comportamento. No, preferirei che godeste della loro compagnia, per prendere sul serio il vostro scopo.» Detto questo si alzò, e Leoff capì che la conversazione era terminata. Attraversato da un brivido improvviso, si mosse verso il suo giaciglio, impaziente di chiudere gli occhi e perdersi ancora una volta nei sogni. Invece gli tornò in mente la prima volta che aveva visto Mery, nascosta nella sua stanza della musica per sentirlo suonare e con la paura che l'avrebbe mandata via se avesse scoperto la sua presenza. Invece di rifugiarsi nel sonno, deviò il suo percorso e si diresse stancamente verso i libri che il re gli aveva fornito, quindi cominciò a leggerne i titoli. 5
Il demone L'uomo gridò appena la donna demone gli infilò gli artigli nel petto, trapassando le ossa dure e la pelle tesa fino alla sostanza sottostante, umida e morbida. Anne avvertì un sapore di ferro sulla lingua man mano che la vertigine rallentava, si placava e poi si fermava. Sparita improvvisamente la paura, guardò in faccia il mostro. «Mi riconosci?» ruggì il demone in una voce che ronzò attraverso la carne e le ossa. «Sai chi sono?» Un lampo balenò dietro gli occhi di Anne. La terra sembrò inclinarsi e improvvisamente lei si ritrovò a cavallo. Stava di nuovo cavalcando accanto a Catio. Si ricordò che Austra aveva esclamato alle sue spalle e poi c'era stata una spaventosa confusione. Qualcosa l'aveva sbattuta a terra e poi un braccio robusto l'aveva avvinghiata, issandola con forza su una sella. Le tornò in mente l'odore acre del sudore del suo rapitore, l'affanno del suo respiro nell'orecchio. Il coltello sulla gola. Poteva vedere solo la mano dell'uomo, che aveva una lunga cicatrice bianca che andava dal polso all'ultima nocca del mignolo. «Vai» qualcuno aveva detto. «Ci occuperemo noi di questi.» Si ricordò di aver guardato confusa davanti a sé, oltre la testa del cavallo, il terreno della foresta innevato che saliva e scendeva, gli alberi che le sfrecciavano accanto come colonne di un corridoio infinito. «State buona e seduta, principessa» le aveva ordinato l'uomo. La voce era bassa e calda, affatto sgradevole. L'accento era raffinato, forse straniero, ma indecifrabile. «State ferma, non mi date problemi e le cose per voi andranno meglio.» «Sapete chi sono» aveva detto Anne. «Be', doveva essere una delle vostre donne. Credo che abbiate appena chiarito il dubbio, ma vi porteremo da qualcuno che di sicuro conosce il vostro viso. Non è un problema, perché vi abbiamo prese entrambe.» Austra, pensò Anne. Hanno preso anche te. Questo significava che la sua amica poteva essere ancora viva. «I miei amici verranno a cercarmi.» «I vostri compagni sono probabilmente morti ormai» aveva replicato l'uomo, con la voce che tremava per la corsa del cavallo. «Se non lo sono,
non riusciranno a seguirci facilmente. Ma questo non vi deve riguardare, principessa. Non sono stato mandato a uccidervi, o sareste già morta. Capite quello che voglio dire?» «No.» «Ci sono persone che vogliono uccidervi» aveva proseguito l'uomo. «Questo lo sapete, no?» «Lo so benissimo.» «Allora credetemi quando vi dico che i loro mandanti non hanno niente a che fare con me. Mi è stata affidata la vostra salvezza, non la vostra distruzione.» «Io non mi sento sicura con voi» gli aveva detto Anne. «Chi vi ha mandato? Mio zio, l'usurpatore?» «Dubito che il principe Robert si preoccupi molto della vostra salute. Noi sospettiamo che sia in combutta con coloro che hanno assassinato le vostre sorelle.» «Noi chi?» «Non posso dirvelo.» «Non capisco. Dite che non mi volete morta. Insinuate che desiderate tenermi lontana dal pericolo eppure mi avete sottratto ai miei protettori e amici più fedeli. Perciò so che non potete desiderare il mio bene.» L'uomo non aveva risposto, ma aveva rafforzato la presa. «Capisco» aveva commentato Anne. «Vi servo a qualcosa, ma non è una cosa che approverei. Magari desiderate sacrificarmi ai santi maledetti.» «No. Non è affatto quello il nostro intento.» «Allora illuminatemi. Sono alla vostra mercé.» «Certo, e ricordatevelo. Credetemi quando vi dico che non vi ucciderò, a meno che non sarò costretto.» Il pugnale si allontanò dalla gola. «Per favore, non lottate e non provate a scappare. Potreste cadere da cavallo e, se non vi rompete il collo, vi riprenderò facilmente. Ascoltate e vi accorgerete che i vostri amici non ci stanno seguendo.» «Come vi chiamate?» aveva domandato Anne. Di nuovo una pausa. «Potete chiamarmi Ernald.» «Ma non è questo il vostro nome.» L'aveva sentito scrollare le spalle dietro di lei. «Ernald, dove stiamo andando?» «A incontrare qualcuno. Quello che succederà dopo non so dirvelo con certezza.» «Capisco.» Era rimasta a pensare per un momento. «Dite che non verrò
uccisa. E che ne sarà di Austra, ora che siete sicuri che lei non è Anne?» «Lei... non le verrà fatto alcun male.» Ma Anne aveva avvertito la bugia nel tono della voce. Facendo un respiro profondo, aveva tirato indietro la testa di scatto e l'aveva sentita schiantarsi contro il viso dell'uomo. Questi aveva urlato, e Anne si era lanciata dalla giumenta. Era caduta male, e una fitta le era risalita lungo tutta la gamba, già dolorante per colpa di una ferita di freccia non ancora rimarginata. Trattenendo il respiro, era riuscita a rimettersi in piedi, provando a orientarsi. Aveva individuato le tracce che avevano lasciato e aveva preso a ripercorrerle all'indietro, zoppicando e gridando. «Catio! Sir Neil! Aiutatemi!» Aveva lanciato un'occhiata alle sue spalle, quasi sentendolo lì... ...ma non aveva visto nessuno, solo il cavallo. Perché si sarebbe dovuto nascondere? Anne aveva provato a correre, ma il dolore l'aveva quasi paralizzata. Si era piegata su un ginocchio, sforzandosi poi caparbiamente di tornare in piedi. Qualcosa davanti a lei si era mosso, ma non era riuscita a vedere che cosa fosse. L'effetto era stato quello di un'ombra fugace sull'acqua. «Aiuto!» gridò di nuovo. Aveva sentito il palmo di una mano abbattersi su un lato della sua testa e, cadendo, aveva avuto una visione sfocata, bianca come la neve. Poi le avevano torto violentemente un braccio dietro la schiena ed era stata di nuovo costretta a camminare verso il cavallo. Era rimasta senza fiato a domandarsi da dove fosse spuntato Ernald. Da dietro? Eppure lo aveva cercato. Ovunque fosse finito, adesso era lì. «Non ci riprovate, principessa» l'aveva avvertita lui. «Non ho alcuna voglia di farvi del male, ma se devo, lo farò.» «Lasciatemi andare» aveva ordinato Anne. Il coltello era tornato improvvisamente a pungerle la gola. «Rimontate a cavallo.» «Solo se mi promettete che non ucciderete Austra.» «Vi ho detto che non le verrà fatto alcun male.» «Sì, ma stavate mentendo.» «Montate a cavallo o vi taglierò un orecchio.» «Ho la gamba ferita. Dovrete prendermi in braccio.»
Lui era scoppiato in una risata stridula. Il coltello era sparito e l'uomo l'aveva afferrata immediatamente alla vita, lanciandola in sella, e poi aveva spinto su anche la gamba ferita. Anne aveva urlato, e delle macchie avevano preso a rotearle davanti agli occhi. Quando fu di nuovo in grado di pensare, si accorse che Ernald stava seduto dietro di lei, e le teneva di nuovo il coltello alla gola. «Ho capito ormai che con le buone maniere non arriverò da nessuna parte» aveva detto spronando il cavallo. Anne faticava a respirare. Si sentiva come se il dolore le avesse liberato qualcosa dentro e il mondo intero stava riemergendo precipitosamente come un vortice o un uragano dal mare. Era stata assalita dai brividi e aveva sentito accapponarsi la pelle del collo. «Lasciatemi andare» aveva detto, col cuore che le rimbombava nel petto. «Lasciatemi.» «Sst.» «Lasciatemi.» Stavolta lui l'aveva colpita con l'impugnatura del coltello. «Lasciatemi!» Le parole erano uscite violentemente dalla sua bocca e l'uomo aveva gridato. Anne aveva sentito improvvisamente il coltello finire nella sua mano, stretto tra le nocche bianche, e con una disperazione orribile l'aveva conficcato nella gola dell'uomo. Nello stesso istante aveva avvertito uno strano dolore in gola e la sensazione di qualcosa che scivolava sotto la lingua. Aveva visto gli occhi di lui spalancarsi e diventare neri e in quegli specchi scuri era apparsa l'immagine di un demone. Gridando, Anne aveva girato il coltello nella trachea dell'uomo, notando, proprio mentre lo faceva, che aveva le mani vuote, che non era lei a tenere il coltello. E allora era fuggita, correndo nelle tenebre fameliche in cui la sua rabbia si originava, chiudendo gli occhi e le orecchie al gorgoglio dell'uomo... La luce si affievolì e Anne si ritrovò di nuovo sulla sua sedia, davanti all'altro uomo, quello che aveva provato a violentarla. Il demone era lì, piegato su di luì, proprio come si era abbattuto su Ernald. «Oh no» mormorò lei, alzando lo sguardo su quell'orribile viso. «Oh santi, no.»
Si risvegliò su un piccolo materasso, slegata, con gli abiti risistemati in un ragionevole stato di decenza. La testa pulsava e riconobbe l'inizio dei postumi della sbornia. Il suo rapitore sedeva sul pavimento e piangeva piano. Del demone non c'era traccia. Anne fece per alzarsi, ma un improvviso attacco di nausea la costrinse a tornare giù. Ma non bastò e dovette sforzarsi di mettersi carponi per vomitare. «Vi porto dell'acqua» sentì dire all'uomo. «No» ringhiò lei. «Non berrò nient'altro di ciò che mi darete.» «Come volete, Vostra Altezza.» Si sentì sorpresa, nonostante le nausee e lo stordimento. «Mi dispiace» aggiunse lui, e riprese a piangere. Anne gemette. Ancora una volta aveva dei vuoti temporali. Il demone non aveva ucciso quest'uomo, come aveva fatto con Ernald, ma in qualche modo era comunque intervenuto. «Ascoltatemi» disse. «Come vi chiamate?» Lui pareva confuso. «Il vostro nome!» «Festum» mormorò. «Festum. Mi chiamano Festum.» «L'avete vista vero? Festum, è stata qui?» «Sì, Vostra Altezza.» «Che aspetto aveva?» Strabuzzò gli occhi e si strinse il petto, come se gli mancasse il respiro. «Non me lo ricordo» rispose. «È stata la cosa peggiore che abbia mai visto. Non posso... non posso sopportare di rivederla.» «Mi ha slegato lei?» «No, sono stato io.» «Perché?» «Perché dovevo farlo» disse Festum piagnucolando. «Devo aiutarvi.» «Ve lo ha detto lei?» «Non ha detto niente» rispose. «Non che io mi ricordi. Cioè, ci sono state delle parole, ma non sono riuscito a decifrarle, e facevano male, e continuo a sentire dolore se non faccio quello che devo.» «E che altro dovete fare?» domandò lei sospettosa. «Aiutarvi» rispose lui. «Aiutarmi in cosa?» Festum sollevò le mani impotente. «Tutto quello che volete.»
«Davvero?» chiese Anne. «Datemi il vostro pugnale, allora.» L'uomo si alzò in piedi e le consegnò l'arma, dalla parte del manico. Lei si allungò per prenderla, aspettandosi che Festum la ritirasse, invece riuscì ad afferrare la liscia impugnatura di legno. Fu presa dai conati, si piegò a metà e riprese a vomitare. Quando ebbe finito, la testa le faceva male come se fosse stata colpita con un martello dall'interno. Sentiva il torace spaccarsi in due e le si offuscò la vista. Il suo rapitore continuava a piagnucolare davanti a lei, porgendole il pugnale. Anne si risistemò i vestiti e si alzò, sentendo che il dolore alla gamba era leggermente diminuito. «Prenderò un po' d'acqua adesso» disse. L'uomo le portò acqua e pane, e lei prese un po' di entrambe le cose. Dopodiché si sentì meglio, più calma. «Festum, dove ci troviamo?» domandò. «Nella cantina di una birreria» rispose l'uomo. «A Sevoyne?» «Sì, a Sevoyne.» «E chi sa che sono qui?» «Io e il capitano della guardia. Nessun altro.» «Ma stanno arrivando altre persone e sapranno dove trovarci» incalzò lei. «Sì» ammise Festum. «Sì, Maestà» lo corresse gentilmente Anne. Questo semplice gesto l'aiutò a trovare il suo centro. «Sì, Maestà.» «Ecco. E chi sta per arrivare?» «Penby e la sua banda avrebbero dovuto rapirvi nella foresta. Dovrebbero essere già tornati, ma non... non so dove siano. Li avete uccisi?» «Sì» mentì lei. Per lo meno uno di loro è morto, pensò. «C'è qualcun altro che dovrebbe incontrarli qui?» L'uomo si rannicchiò ancora. «Non dovrei...» «Rispondetemi.» «Qualcuno dovrebbe incontrarli, sì. Non so come si chiama.» «Quando?» «Presto. Non lo so, ma presto. Penby ha detto entro oggi pomeriggio.» «Bene, allora faremo meglio ad andarcene adesso» disse Anne, prendendo il pugnale.
I lineamenti di lui si contrassero. «Io... Sì. Devo obbedire.» Anne lo guardò negli occhi con l'espressione più dura che riuscì a produrre. Non capiva cosa stesse succedendo. Il demone era forse un alleato, per quanto terribile? Di sicuro aveva ucciso uno dei nemici di Anne e sembrava avere... fatto qualcosa anche a questo. Ma se l'essere che l'aveva seguita al ritorno dalla terra dei morti era amichevole, perché le incuteva così tanta paura? E restava ancora la possibilità che Festum le stesse in realtà tendendo un tranello, anche se non riusciva a capire il fine di questo stratagemma. «Non mi avevano detto chi eravate» cominciò a dire lui, ma poi si fermò. «Se aveste saputo chi ero, avreste provato a violentarmi?» domandò Anne, e subito l'ira si accese. «No, santi, no» rispose lui. «Questo non vi riscatta sapete» disse lei. «Vi fa comunque apparire un verme.» A queste parole, lui si limitò ad annuire. Per un attimo Anne ebbe il desiderio di penetrare dentro di lui tramite il suo potere, come con Roderick a Dunmrogh, e come aveva fatto agli uomini a Khrwbh Khrwkh. Per ferirlo e magari ucciderlo. Ma respinse quel proposito. Aveva bisogno di lui. Se però Festum avesse provato a ingannarla, lei non avrebbe mostrato alcuna pietà. «Molto bene» disse. «Aiutatemi, Festum, e potrete guadagnarvi la mia protezione. Assalitemi un'altra volta e neanche i santi potranno salvarvi.» «In cosa posso servirvi, principessa?» «Indovinate un po'? Voglio lasciare questo posto. Se il capitano della guardia ci vede, ditegli che i piani sono cambiati e che dovete portarmi da qualche altra parte.» «E dove andremo?» «Ve lo dirò quando saremo fuori città. Ora, portatemi il mio mantello.» «Si trova al piano di sopra. Vado a prenderlo.» «No. Ci andiamo insieme.» Annuendo, Festum tirò fuori una chiave d'ottone e la infilò nella serratura della porta. Questa si aprì cigolando e rivelando una stretta scala. L'uomo prese una candela e cominciò a salire. Anne lo seguì fino a un punto in cui l'ultimo gradino sembrava entrare nel soffitto. Festum spinse e il soffitto si sollevò, aprendosi in un'altra stanza buia. «È un magazzino» bisbigliò lui. «Aspettate.»
Si diresse verso una cassa di legno e rovistò dentro. Anne s'irrigidì, ma quello che gli vide tirar fuori non era nient'altro che il suo mantello. Senza mai togliergli gli occhi di dosso, se lo mise sulle spalle. «Adesso devo spegnere la candela» disse lui. «Altrimenti qualcuno potrebbe vedere la luce quando apro la porta che dà sull'esterno.» «Fatelo, allora» rispose Anne, irrigidendosi di nuovo. Lui si portò la candela vicino al viso. Alla luce gialla i suoi lineamenti apparvero giovani e innocenti, per nulla paragonabili al volto che avrebbe dovuto avere uno stupratore. Arricciò le labbra, soffiò e calarono le tenebre. Strisciarono sulla pelle di Anne come millepiedi, mentre lei aguzzava la vista e l'udito, con la mano pronta sul manico del pugnale di Festum. Sentì un debole cigolio, poi vide una fessura che si allargava, non completamente buia. «Da questa parte» bisbigliò Festum. Anne riusciva di nuovo a intravedere il profilo del giovane. «Andate prima voi» gli disse, cercando a tentoni la porta e aggrappandosi al bordo. «Attenzione al gradino» bisbigliò Festum. Anne vide l'ombra della testa di lui abbassarsi leggermente. Lei cercò il terreno col piede e lo trovò. Quindi uscì in strada. Faceva molto freddo. Non c'erano stelle né luna a guardare in terra; le uniche luci erano lampade e candele che ancora bruciavano qua e là. Che ora era? Di certo non lo sapeva. Non sapeva neanche da quanto tempo era in quel posto. L'alcol era ancora dentro di lei. Rabbia e panico si erano fatte strada attraverso l'ebbrezza e ora cominciava ad avere dolore e si sentiva nauseata, anche se le restava un senso di torpore. La spavalderia che l'alcol le aveva portato, cominciava a svanire, lasciando una paura sorda. L'ombra di Festum si mosse all'improvviso e lei sentì la mano di lui chiudersi sul suo braccio. Con l'altra mano Anne strinse la presa sul pugnale. «Silenzio, Maestà» disse l'uomo. «Arriva qualcuno.» Lei sentì con le sue orecchie cosa aveva allarmato Festum: il rumore di zoccoli di cavallo. Festum la spinse contro il muro di un altro edificio e poi lentamente indietreggiarono lungo di esso mentre il suono si avvicinava. Anne non vedeva nulla, ma improvvisamente ebbe la sensazione di qualcosa contro i suoi occhi. Non era una luce, ma una presenza, un peso
che sembrava attrarre tutto verso di sé. La stretta di Festum sul braccio sembrò improvvisamente la cosa più confortante al mondo. Sentì qualcuno che smontava di sella e dei passi che colpivano la terra come mazze da fabbro. Sentì anche un breve bisbiglio, che non riuscì a decifrare, e poi il cigolio della porta suonò vicinissimo. Indietreggiò più rapidamente, desiderando solo girarsi e correre. Ma Festum non glielo permise. Lui stava tremando e il respiro suonava incredibilmente forte, esattamente come il suo. La porta si richiuse sbattendo e lei sentì che la presenza si affievoliva. Ora Festum le tirò il braccio con maggior urgenza. Gli occhi di Anne cominciarono ad adattarsi alle tenebre, e iniziò a distinguere vaghe ombre. Proseguirono per quello che pareva essere il centro del paese, una grande piazza circondata dalle ombre incombenti di edifici a più piani. «Dobbiamo correre» disse lui. «Non ci metteranno molto a capire che siamo scappati.» «Chi era?» domandò Anne. «Non lo so» rispose lui. «Ve lo direi se lo sapessi. Qualcuno importante, colui che ci ha ingaggiato, credo. Non l'ho mai incontrato.» «Allora come fate a sapere...» «Non lo so!» sibilò disperato Festum. «Mi hanno detto che sarebbe venuto. Non sapevano come era fatto, ma hanno detto che la sua presenza sarebbe stata avvertita come, ehm, pesante. Non avevo compreso cosa significasse fino a questo momento. Mi capite?» «Sì, so quello che volete dire» rispose lei. «Anch'io l'ho sentito.» Strinse il braccio del ragazzo. «Avreste potuto chiamarlo. Perché non l'avete fatto?» «No, non ho potuto» replicò tristemente lui. «Volevo, ma non ho potuto. Adesso dove andiamo?» «Sapete trovare Glenchest?» «Glenchest? Sì, è proprio in fondo a questa strada.» «Quanto dista a piedi?» «Potremmo essere lì per mezzogiorno.» «Allora andiamo.» «Probabilmente ci cercherà proprio lungo questa strada.» «Fa lo stesso.» Alla luce grigia dell'alba Festum appariva stanco, invecchiato oltre misu-
ra. I vestiti erano sporchi e anche lui, ma era un tipo di sudiciume che arrivava in profondità. Anne pensava che avrebbero potuto strofinarlo anche per un anno intero, ma sarebbe rimasto in qualche modo sporco. E sembrava di nuovo pericoloso, anche se in modo più sottomesso, come un cane malvagio picchiato e costretto a starsene sdraiato e buono per un po'. Da come la guardava, sembrava non capire neppure lui cosa faceva e perché. E neanche Anne lo capiva. Il paesaggio era piuttosto grigio. Fattorie e campi si affollavano lungo la strada, ma dietro c'erano piatte distese che non fornivano molto sollievo o viste interessanti. Si domandò di nuovo se i suoi amici erano ancora vivi, se Glenchest era la scelta giusta, o se invece sarebbe dovuta tornare indietro fino al punto in cui era stata rapita. Ma se erano morti, non avrebbe potuto farci niente. E se combattevano per rimanere vivi non avrebbe potuto fare molto neanche in quel caso, non con un compagno assolutamente inaffidabile. No, doveva raggiungere la zia Elyoner e i cavalieri al suo comando. Sempre dando per scontato che fossero ancora vivi o che si trovassero a Glenchest. E se erano già andati a Eslen per combattere contro l'usurpatore? O ancora peggio, se Elyoner si fosse schierata dalla parte di Robert? Anne non lo credeva possibile, ma se fosse stato così, non sapeva davvero cosa sarebbe successo. A dire il vero, a lei era sempre piaciuto suo zio Robert. Sembrava strano che avesse preso il trono mentre sua madre e suo fratello erano ancora vivi, ma queste erano le notizie che aveva appreso a Dunmrogh. Forse Robert sapeva qualcosa che lei ignorava. Sospirò e cercò di allontanare quel pensiero. «State ferma» disse Festum all'improvviso. Anne notò che adesso aveva un coltello in mano e che era vicino abbastanza per poterlo usare su di lei senza problemi. Si stava guardando intorno. Erano entrati in un boschetto pieno di bestiame mugghiante e la visibilità non era buona. Ma Anne sentì e avvertì cavalli in arrivo. In gran numero. 6 I laniatori «Laniatori» esclamò Stephen.
Aspar teneva lo sguardo fisso sulla valle, in attesa che uno dei nuovi nemici si mostrasse. «Vengono da est» chiarì Stephen. «Si muovono velocemente... e, cosa insolita per loro, in silenzio.» Aspar cercò di cogliere quello che le orecchie di Stephen avevano percepito. Un attimo dopo riuscì a sentirlo, un suono simile a un vento forte e basso, che avanzava impetuoso nella foresta, il suono di così tanti piedi che non riusciva a distinguere i singoli passi e, insieme a questo, un debole ronzio nel terreno. «Merda.» 'Laniatori' era il nome che gli Oostish avevano dato ai servi del Re degli Alberi. Una volta erano umani, ma quelli che aveva visto Aspar non sembravano aver conservato granché di quella umanità. Indossavano pochi abiti o erano nudi, e correvano ululando come bestie. Li aveva visti squartare esseri umani e mangiarne la carne cruda e sanguinolenta, e li aveva osservati scagliarsi sulle lance, spingendosi morenti lungo l'asta per arrivare ai loro nemici. Non ci si poteva parlare, tanto meno ragionare. Ed erano già vicini. Come aveva fatto a non sentirli? Come aveva potuto fallire anche Stephen, con quei suoi sensi benedetti dai santi? Sembrava che il ragazzo stesse perdendo la sua abilità. Si guardò velocemente intorno. Gli alberi più vicini erano per lo più sottili e dritti, ma a circa cinquanta iarde di distanza vide una quercia dai grossi rami, che si allungava verso il cielo. «Verso quell'albero» ordinò. «Adesso.» «Ma Neil e Catio...» «Non c'è niente che possiamo fare per loro» replicò seccamente Aspar. «Non possiamo raggiungerli in tempo.» «Ma possiamo avvertirli» disse Winna. «Sono già laggiù!» aggiunse Stephen. «Vedete?» Indicò. Dalla parte opposta della stretta valle, innumerevoli corpi si riversavano sul bordo e scendevano lungo il pendio ripido. Sembrava che una piena stesse trascinando la popolazione di un intero villaggio lungo una gola, ma l'acqua non c'era. «Per la madre di san Tarn» esclamò uno dei soldati di Dunmrogh. «Che...» «Correte!» ruggì Aspar.
Si misero a correre. I muscoli di Aspar desideravano ardentemente balzare in avanti, ma doveva prima aiutare Winna e Stephen a salire. Sentiva il pavimento della foresta ribollire alle sue spalle e gli tornarono in mente le nuvole di locuste che una volta avevano ronzato per giorni attraverso gli altopiani settentrionali, masticando ogni cosa di colore verde. Erano a metà strada dalla quercia quando Aspar colse un movimento con la coda dell'occhio. Mosse la testa per guardare. A una prima occhiata, la cosa era tutta zampe, come un enorme ragno, ma improvvisamente mise a fuoco un dettaglio familiare. Il mostro aveva solo quattro zampe lunghe, non otto, che terminavano con estremità simili a mani provviste di artigli. Il torso era grosso e corto se paragonato alle zampe, ma più o meno umano nell'aspetto, se si ignoravano le scaglie e i fitti peli neri. Il volto aveva un qualcosa di umano; gli occhi di un giallo rossastro si trovavano al di sopra di due fessure dove avrebbe dovuto esserci il naso, e la bocca cavernosa, con i denti neri, sembrava più simile a quella di una rana o di un serpente. Stava saltellando su tutte e quattro le zampe verso di loro. «Utin» disse Aspar a bassa voce. Ne aveva già incontrato uno prima di allora e l'aveva ucciso, ma era servito un miracolo. Gliene rimaneva un altro, ma guardando oltre quella creatura, capì che gliene sarebbero serviti due, perché un'altra identica stava correndo a meno di trenta iarde più indietro. Aspar sollevò l'arco, scoccò e fece uno dei tiri più fortunati della sua vita; colpì il primo mostro all'occhio destro, facendolo ruzzolare in terra. Proprio mentre Aspar riprendeva la sua fuga verso l'albero però, la cosa tornò in piedi e riprese ad avanzare. L'altra, che ormai li aveva quasi raggiunti, sembrava sogghignare rivolta ad Aspar. Poi arrivarono anche i laniatori, riversandosi dagli spazi tra gli alberi. Gli utin gemevano con le loro strane grida acute, mentre gli uomini e le donne con lo sguardo allucinato saltavano su di loro, prima due, poi tre e alla fine a dozzine. I laniatori e gli utin non erano amici, a quanto pareva. O forse non erano d'accordo su chi di loro avrebbe dovuto divorare Aspar White. Alla fine raggiunsero la quercia e Aspar fece una scaletta con le mani per lanciare Winna sui rami più bassi. «Arrampicati» gridò. «Continua a salire fino a che è possibile.» Stephen fu il secondo a salire, ma prima che avesse guadagnato un ap-
poggio stabile, Aspar fu costretto a fronteggiare l'assalitore più rapido. Il laniatore era un uomo grosso con muscoli ben delineati e capelli neri e ispidi. Aveva una faccia così feroce che fece tornare in mente ad Aspar le leggende del lupusumanio e si domandò se era da lì che questi uscivano. Tutte le fiabe più sciocche sembravano diventare vere. Se mai era esistito un uomo trasformato in lupo, era quello che aveva davanti. Come tutti quelli della sua specie, il laniatore attaccò senza alcuna preoccupazione per la sua vita, ringhiando e allungando unghie spezzate e insanguinate verso Aspar. Il guardaboschi fintò un assalto con l'ascia nella mano sinistra. Il laniatore ignorò il falso attacco e continuò ad avanzare, permettendo all'ascia di affettargli una guancia. Aspar conficcò il suo pugnale subito sotto la costola più bassa e rapidamente fece penetrare la lama con forza, tranciando il polmone e proseguendo in alto verso il cuore, proprio mentre l'uomo-bestia caricava contro di lui, mandandolo a sbattere contro l'albero. L'urto gli provocò dolore, ma evitò che venisse scaraventato a terra. Aspar si tolse il laniatore morente di dosso appena in tempo per affrontarne altri due. Lo colpirono insieme, e quando lui sollevò il braccio con l'ascia per pararsi, uno affondò i denti nel suo avambraccio. Muggendo, Aspar lo accoltellò all'inguine e sentì il sangue caldo schizzargli sulla mano. Affondò di nuovo la lama, aprendo la pancia. Il laniatore lasciò andare il suo braccio e lui poté così conficcare l'ascia nella gola del secondo. Altre centinaia erano a soli pochi passi di distanza. L'ascia era bloccata, perciò Aspar la lasciò, saltando verso il ramo più basso e acchiappandolo con le mani viscide di sangue. Si sforzò di mantenere la presa sul pugnale, ma quando uno dei laniatori gli afferrò la caviglia, lui lasciò cadere l'arma per assicurare la sua debole presa, cercando di stringere il grosso ramo con tutte e due le braccia. Una freccia ronzò dall'alto verso il basso e poi un'altra e la presa del laniatore si allentò. Aspar fece oscillare le gambe e si tirò velocemente sopra al ramo. Una rapida occhiata in basso gli rivelò i laniatori che si schiantavano contro il tronco come onde contro uno scoglio. I corpi cominciarono a formare un mucchio, permettendo ai nuovi arrivati di arrampicarsi. «Merda» sussurrò Aspar. Voleva vomitare. Si sforzò di soffocare quel bisogno e guardò sopra di lui. Winna si trovava circa cinque iarde più in alto degli altri e con il suo arco scoccava frecce contro la calca. Stephen e i due soldati erano quasi alla stessa altez-
za. «Continuate a salire!» gridò Aspar. «Da quella parte. Più stretti sono i rami, meno riusciranno a seguirci.» Diede un calcio alla testa del laniatore più vicino, una donna dalle gambe lunghe e i capelli rossi e arruffati. Lei ringhiò e scivolò dal ramo, atterrando in mezzo ai suoi agitati compagni. Gli utin, notò, erano ancora vivi. Erano tre adesso quelli che riusciva a vedere, che avanzavano controcorrente, nell'orda di laniatori. Ad Aspar fecero venire in mente una muta di cani che provava ad abbattere un leone. Il sangue schizzava tutt'intorno ai laniatori mentre cadevano, squartati e aperti dallo sterno all'inguine dagli artigli e i denti feroci dei mostri, ma stavano vincendo solo in virtù della loro superiorità numerica. Proprio mentre guardava, uno degli utin cadde, azzoppato, e in pochi secondi i laniatori erano diventati di un rosso cremisi scuro per via del suo sangue vischioso. Sarebbero rimasti parecchi laniatori dopo la morte degli utin. Aspar abbandonò la debole speranza che i loro nemici potessero annullarsi a vicenda. Winna, Stephen e i due di Hornladh avevano fatto come gli aveva detto Aspar, che li seguì finché non raggiunsero un ramo sopra una lunga pendenza quasi verticale. Aspar si tolse di nuovo l'arco di spalla e si mise ad aspettare le creature che li seguivano. «Sono diversi» brontolò a bassa voce, prendendo la mira e impalando con una freccia il primo che raggiunse la base del ramo. «In che senso?» gridò Stephen dall'alto. I peli del collo di Aspar si drizzarono: adesso i prodigiosi sensi di Stephen sembravano funzionare. «Sono più magri, più forti» rispose. «I vecchi non ci sono più.» «Io ho visto solo quelli al tempio vicino al naubagm,» disse Winna «ma non li ricordo tatuati in quel modo.» Aspar annuì. «Già. Ecco cosa mi sfuggiva. Anche questa è una novità.» «Le tribù montane del tatuaggio» disse Ehawk. «Già» convenne Aspar. «Ma i laniatori che abbiamo visto in precedenza venivano da tribù e villaggi misti.» Colpì lo scalatore successivo nell'occhio. «Questi hanno tutti gli stessi tatuaggi.» Proprio così. Un serpente con la testa d'ariete avviluppato su un avambraccio e un greffyn sul bicipite. «Forse vengono tutti dalla stessa tribù» suggerì Ehawk.
«Conosci tribù con quel tatuaggio?» «No.» «Nemmeno io.» «Il serpente con la testa d'ariete e il greffyn sono entrambi simboli associati al Re degli Alberi» disse Stephen. «Noi abbiamo pensato che il Re degli Alberi avesse fatto in qualche modo impazzire questa gente, privandola della sua intelligenza umana. Ma se...» «Cosa?» domandò Winna. «Credete che loro lo abbiano scelto? Ma se non possono neanche parlare!» «Presto avrò bisogno che mi passiate delle frecce» disse Aspar, scoccando ancora. «Me ne sono rimaste solo sei. Le altre sono su Orco.» «I cavalli!» esclamò Winna. «Sanno prendersi cura di sé» disse Aspar. «O se non è così, non possiamo farci niente.» «Ma Orco...» «Già.» Respinse quel pensiero doloroso. Orco e Angela erano con lui da molto tempo. Ma alla fine tutto muore. I laniatori continuavano ad arrivare dalla foresta, senza fine. Erano così tanti che non riusciva a vedere il terreno per centinaia di iarde. «Che facciamo quando le frecce finiscono?» domandò Winna. «Li respingerò a calci» replicò Aspar. «Pensavo che foste in buoni rapporti col Re degli Alberi e i suoi amici» disse Stephen. «L'ultima volta vi hanno lasciato vivo.» «L'ultima volta avevo il re in punta di freccia» disse Aspar. «Quella che ci ha dato la Chiesa.» «L'avete ancora?» «Sì. Ma a meno che il re in persona non mostri la sua faccia, non ho intenzione di usarla finché non avrò altra scelta.» Gli tornò in mente che quella volta con lui c'era anche Leshya, la donna sefry. Forse quello aveva fatto la differenza. L'alleanza fedele di Leshya aveva qualcosa di misterioso, l'aveva sempre avuto. «Non dovremo aspettare molto» disse Winna. Aspar annuì e si guardò intorno. Forse potevano raggiungere un altro albero, uno con un tronco ancora più dritto e alto, e poi tagliare il ramo che li aveva portati lì. Stava cercando questa via d'uscita quando sentì il canto. Era una melodia che cresceva e diminuiva in modo strano, che si attaccava a qualcosa den-
tro le sue ossa. Era sicuro di aver già sentito quella canzone e quasi riusciva a immaginare chi la stesse cantando, ma il ricordo preciso gli sfuggiva. La fonte di questo canto, però, era visibile. «Santi» esclamò Stephen, perché anche lui li aveva visti. Il canto proveniva da un uomo basso con le gambe arcuate e da una ragazza magra e dalla pelle chiara, con due occhi verdi che sfavillavano anche da quella distanza, circa cinquanta iarde. La ragazza sembrava avere solo dieci o undici anni, il laniatore più giovane che Aspar avesse mai visto. Teneva un serpente in ciascuna mano, da quella distanza sembravano serpenti a sonagli, e l'uomo teneva un bastone ricurvo con una pigna attaccata. Entrambi erano tatuati. Per il resto erano nudi come il giorno in cui erano nati. Diressero il loro canto verso l'alto, ma ci volle solo un attimo per capire che non stavano cantando al cielo. Le querce, quelle molto antiche, avevano rami così grandi e pesanti che spesso si curvavano fino a terra. Quella su cui Aspar e i suoi compagni stavano appollaiati non era così vecchia; solo due rami erano abbastanza bassi per riuscire ad afferrarli saltando. Ma mentre il guardaboschi osservava, le punte dei rami più lontani cominciarono a tremare e poi a curvarsi verso terra, come dita di un gigante che si abbassavano per raccogliere qualcosa dal terreno. «Per l'Alienato» imprecò Aspar. Ignorando il laniatore che si arrampicava sull'albero, prese la mira sull'uomo che cantava e scoccò la sua freccia. La mira era buona, ma in qualche modo un altro laniatore si lanciò danzando nella traiettoria della freccia, ricevendo la punta nella spalla. Lo stesso accadde al suo secondo tiro. «Questo è un cattivo segnale» commentò Stephen. L'intero albero aveva preso a tremare adesso che i rami più doppi cominciavano ad allungarsi verso la coppia. I laniatori intorno a loro stavano cominciando a saltare verso i rami che si piegavano e sebbene questi non fossero ancora abbastanza in basso perché potessero afferrarli, lo sarebbero stati in breve tempo. Allora l'intero albero si sarebbe riempito. Aspar sollevò lo sguardo verso i soldati. «Voi due!» chiamò. «Cominciate a tagliare i rami e tutto quello che porta quassù. Spostatevi verso l'esterno dove sono più sottili, sarà più facile tagliarli.» «Questo è il nostro destino» disse uno degli uomini. «Il nostro signore era malvagio e ora noi dobbiamo pagare il prezzo per averlo servito.»
«Non state servendo lui adesso» rispose secca Winna. «Siete al servizio di Anne, la legittima regina di Crotheny. Mostrate di avere fegato e fate quello che Aspar vi ha ordinato. Oppure datemi la vostra spada e lasciate fare a me.» «Ho sentito ciò che ha fatto» rispose l'uomo, tracciando il segno contro il male sulla fronte. «Questa donna, che voi chiamate regina, ha ucciso degli uomini senza neanche sfiorarli, usando una stregoneria. È fatta. Il mondo è alla fine.» Stephen, che era più vicino all'uomo, allungò la mano. «Datemi la vostra spada» disse. «Datemela subito.» «Dagliela, Ional» disse secco l'altro soldato. Guardò Stephen. «Io non sono pronto a morire. Salirò da questa parte. Voi vi occuperete dell'altra?» «Sì» acconsentì Stephen. Aspar lanciò una rapida occhiata a Stephen e all'uomo di Hornladh, mentre si allontanavano. Se fossero riusciti a isolare il ramo principale su cui si trovavano, forse avrebbero avuto una possibilità. Winna lo stava guardando, però, e lui sentì qualcosa sprofondare nello stomaco. Winna era la cosa più bella e inaspettata che fosse entrata nella sua vita dopo molto tempo. Era giovane, sì, talmente giovane che a volte sembrava venire da un paese" diverso al di là di chissà quale mare lontano. Ma in più occasioni gli era sembrato che lei lo conoscesse, e che lo conoscesse in un modo che aveva dell'improbabile... e a volte si rivelava più inquietante che confortante. Era stato solo per tanto tempo. Negli ultimi giorni non gli aveva rivolto molto la parola e questo andava avanti da quando lo aveva scoperto che vegliava su Leshya ferita. Almeno in quello, lei non lo conosceva troppo bene. Ciò che lui provava per Leshya non era né amore, né desiderio. Era qualcos'altro, qualcosa che neanche lui sapeva definire. Ma somigliava, così credeva lui almeno, a un legame di parentela. La donna sefry era simile a lui in un modo in cui Winna non avrebbe mai potuto essere. Ma forse Winna questo invece lo capiva. Forse il problema stava proprio lì. Tutto questo non conta se i laniatori ci raggiungono, pensò Aspar, e quasi rise fra sé. Suonava come uno di quei detti: Sposarsi è come allungare il collo per l'Alienato; il giorno migliore è quello che vivi fino in fondo. Tutto questo non conta se i laniatori ci raggiungono... Merda, stava cominciando a pensare come Stephen. Colpì un altro laniatore.
Ancora tre frecce. Tagliare rami era meno facile di quanto Stephen aveva immaginato e sperato. La spada aveva una parte tagliente, ma non era così affilata e lui non aveva mai tagliato veramente la legna, perciò non conosceva con esattezza il modo migliore per affrontare il compito. Un'occhiata gli rivelò che i rami più esterni erano quasi all'altezza dei laniatori; ciò significava che doveva fare in fretta. Si piegò per infliggere un colpo ancora più potente e quasi cadde. Stava a cavalcioni su un ramo, stringendolo con l'interno delle cosce come si fa con un cavallo. Ma proprio come un cavallo, il legno si rifiutò di stare fermo e sembrava a una distanza vertiginosa da terra. Riconquistò l'equilibrio e si produsse in un taglio molto più modesto, sentendo il legno vivo che tremava per il colpo e vedendo volare una scheggia piuttosto piccola. Forse se avesse tagliato dritto, e poi inclinando la lama... Lo fece e funzionò meglio. Non riusciva a smettere di prestare attenzione al canto dei laniatori. C'era una lingua nascosta lì dentro; sentiva la cadenza, il flusso di significato. Ma non riusciva a comprenderla, neanche una parola, e vista la sua memoria e conoscenza benedette dai santi, la cosa era sbalorditiva. Paragonò quel canto a tutto ciò che conosceva, dall'Antico Vadhiano a quel poco che sapeva della lingua di Haddam, ma niente gli somigliava. Tuttavia, sentiva che il significato era incredibilmente vicino, sulla punta del suo naso, troppo vicino ai suoi occhi perché potesse vederlo chiaramente. Aspar pensava che i laniatori fossero cambiati. Cosa significava? 'Laniatore' era una parola Oostish che significava semplicemente 'colui che mangia' o 'che divora'. Ma cosa erano quelle creature in realtà? La risposta più semplice era che si trattasse di persone che una volta vivevano vicino o dentro la Foresta del Re, prima che il Re degli Alberi si svegliasse. Dal suo risveglio, intere tribù avevano abbandonato i loro villaggi per seguire il re, qualunque cosa esso fosse. Esistevano leggende su queste cose, ovviamente. C'era un particolare nel Racconto di Galas, l'unico testo rimasto dell'antico regno scomparso di Tirz Eqqon. Il grande toro dei Ferigolz era stato rapito dai giganti Vhomar, e Galas era stato mandato a recuperarlo. Durante la ricerca, aveva incontrato un gigante di nome Koerwidz che possedeva un calderone magico, e un solo sorso di quel liquido avrebbe trasformato gli uomini in bestie di diver-
so tipo. Si diceva che San Fufluns possedesse una cornamusa la cui musica riempiva gli uomini di follia, trasformandoli in cannibali. Si diceva che anche il Veggente Malvagio, lo spirito ingorn oscuro e terribile contro cui imprecava Aspar, ispirasse una pazzia guerriera nei suoi adoratori, trasformandoli in birsirk. Il ramo cedette con uno schiocco, rimase un attimo attaccato per la corteccia e poi cadde. La parte su cui si trovava Stephen schizzò in alto come il braccio di una catapulta e lui si ritrovò improvvisamente in aria, sentendosi uno stupido. Sulle svariate follie di chi pensa troppo, iniziò, un nuovo saggio che aveva appena deciso di scrivere nella sua testa. Si rese conto che aveva tempo per scrivere un'altra riga o più, mentre si agitava selvaggiamente in cerca di un appiglio. Con la coscia colpì un ramo e cercò di aggrapparsi, perdendo ovviamente la spada nel tentativo e non riuscendo neanche ad assicurarsi una presa. Sollevando lo sguardo, vide il viso di Winna parecchio più su, minuscolo, ma bello. Sapeva che lui l'amava? Gli dispiaceva non averglielo confessato, anche se questo avrebbe potuto significare la fine della loro amicizia e di quella con Aspar. La mano afferrò un ramo e un fuoco sembrò divampare su per il suo braccio, ma riuscì comunque a mantenere la presa. Trattenendo il respiro, rivolse lo sguardo in basso. I laniatori erano lì che saltavano nel tentativo di raggiungerlo, non arrivando ai suoi piedi penduli per una iarda o poco più. La principale virtù di Chi Pensa Troppo è che non ha molte probabilità di riprodursi, perché la sua mancanza d'attenzione verso i problemi a portata di mano conduce spesso a una morte prematura. La sua unica capacità è l'affetto per gli amici e la sofferenza per non poterli aiutare di più. Vide che i rami stregati dell'albero avevano raggiunto il terreno e gli uomini-bestia stavano salendo a sciami. Alzò lo sguardo in tempo per notare un viso che sbirciava, poco prima che un altro corpo afferrasse il suo e lo tirasse nella famelica folla sottostante. «Mi dispiace Aspar!» riuscì a gridare prima che venisse risucchiato tra mani avide.
7 Vendetta Leoff fu assalito da conati di vomito per il dolore quando le dita vennero allungate in quella che prima doveva essere un'angolazione naturale. «Questo è un congegno di mia invenzione» spiegò il leic pieno d'orgoglio. «Ha avuto molto successo.» Leoff batté le palpebre tra le lacrime e osservò quella cosa. Fondamentalmente si trattava di un lungo guanto di pelle morbida con piccoli ganci metallici all'estremità di ogni dito. La mano era stata infilata nel guanto e posizionata su una placca di metallo con diversi fori in cui gli uncini potevano agganciarsi, poi il dottore aveva allungato le dita nelle posizioni che dovevano assumere e le aveva fissate con i ganci. Quindi, e questa fu la fase più dolorosa, una seconda placca venne sistemata sopra la mano e fissata con delle viti. I tendini del braccio furono attraversati da un'ondata di fuoco e lui si domandò se quella non era solo una forma più sottile di tortura ideata dall'usurpatore e i suoi medici. «Torniamo al calore e alle erbe.» Leoff sussultò. «Quella parte sembrava migliore.» «È servita solo a rendere le cose più facili» spiegò il leic «e a risvegliare gli umori curativi. Questa è la parte più importante. Le vostre mani si stavano risistemando in modo sbagliato, ma per fortuna non è stato permesso che il processo andasse troppo avanti. Ora dobbiamo guidarle ad assumere una forma appropriata; dopodiché potrò costruire delle stecche rigide che le terranno nella posizione giusta finché la guarigione non sarà completa.» «Questo succede spesso, allora!» Leoff trattenne il respiro mentre quel tipo stringeva ulteriormente le viti. Il palmo della mano era ancora ben lontano dalla posizione piatta, ma poteva già sentire una molteplicità di minuscole fratture sotto la carne pesta. «Capita spesso che delle mani vengano incartate in questo modo?» «Non così» ammise il leic. «Non ho mai lavorato su mani così danneggiate. Ma mani frantumate da colpi di mazza o spada sono abbastanza comuni. Prima di diventare leic di Sua Maestà, ero medico alla corte del grefio di Ofthen. Organizzava tornei tutti i mesi, sapete, e aveva cinque figli e tredici nipoti in età per giostrare.» «Così è da poco che siete a Eslen» disse Leoff, contento della distrazio-
ne. «Sono arrivato circa un anno fa, sebbene all'epoca ero assistente del leic al servizio di Sua Maestà Re William. Dopo la morte del sovrano, ho servito per poco Sua Maestà la regina, prima di diventare assistente del medico di Re Robert.» «Anch'io sono qui da poco» affermò Leoff. Il medico strinse ancora le viti. «Ovviamente lo so chi siete voi. Vi siete costruito una reputazione piuttosto in fretta, devo dire.» Fece un sorriso sottile. «Avreste potuto usare un po' più di prudenza.» «Sì, avrei potuto» ammise Leoff. «Ma poi non avremmo avuto il piacere di vedere esattamente quanto sia efficace il vostro congegno.» «Non voglio ingannarvi» disse il leic. «Le vostre mani possono migliorare, ma non torneranno come nuove.» «Non l'ho mai creduto» sospirò Leoff, battendo le palpebre per far cadere le lacrime di dolore quando un altro osso mezzo guarito si spezzò e assunse, scricchiolando, la nuova posizione. Il giorno seguente raspò goffamente tra le pagine di uno dei libri che l'usurpatore gli aveva fatto avere, usando le mani racchiuse in rigidi guanti di ferro e cuoio pesante, proprio come il medico gli aveva promesso. Erano allargate e completamente distese e sembravano in tutto e per tutto simili alle mani buffe e sproporzionate di un fantoccio. Non riusciva a dire se fosse comico o orribile mentre cercava di girare le pagine con i suoi guanti ingombranti. Presto però se ne dimenticò, perché si ritrovò perduto e confuso. Il libro era molto antico, stampato in vecchi caratteri almannish. Era intitolato Luthes sa Felthan ya sa Birmen: 'Canti dei Campi e dei Bastioni', e queste erano le uniche parole comprensibili del libro. Il resto era scritto con caratteri che Leoff non aveva mai visto prima. Somigliavano per alcuni versi all'alfabeto che lui conosceva, ma non riusciva a essere sicuro di nessuna lettera. Alcune pagine mostravano una strana configurazione simile a versi, che sembravano anche in qualche modo familiari, ma nel complesso pareva che la copertina del libro e il suo contenuto non combaciassero. Perfino la carta non sembrava accordarsi; appariva molto più antica della legatura. Aveva trovato una curiosa pagina di diagrammi che non aveva più senso del testo, quando sentì di nuovo qualcuno bussare alla porta. Sospirò, irri-
gidendosi perché si aspettava un'altra visita del principe o del suo dottore. Ma non era nessuno dei due e Leoff avvertì un'ondata di gioia pura quando una ragazzetta giovane entrò, varcando la porta che subito sbatté e si richiuse dietro di lei. «Mery!» gridò Leoff. Lei esitò un momento, poi si tuffò tra le sue braccia. Lui la sollevò da terra, incrociando le sue ridicole mani dietro la schiena della piccola. «Urf!» grugnì Mery quando lui la strinse. «È così bello rivedervi» disse il compositore mentre la rimetteva giù. «Mamma mi aveva detto che probabilmente eravate morto in modo orribile» disse Mery, con un'espressione terribilmente seria. «Ho sperato così tanto che si sbagliasse.» Leoff si allungò per scompigliarle i capelli, ma lei spalancò gli occhi quando vide i suoi artigli. «Ah» disse lui, sbattendo le mani. «Questo non è niente. Serve a migliorare le mie mani. Come sta vostra madre comunque, lady Gramme?» domandò. «A dire il vero non lo so» rispose Mery. «Non la vedo da giorni.» Lui s'inginocchiò, sentendo cose che scoppiavano e tiravano nelle gambe. «Dove vi stanno tenendo, Mery?» Lei scrollò le spalle, fissandogli le mani, ma senza mai guardarlo direttamente negli occhi. «Mi hanno messo una benda.» Poi s'illuminò leggermente. «Ma sono settantotto scalini. I miei, almeno.» Lui sorrise all'intelligenza della ragazza. «Spero che la vostra stanza sia più bella di questa.» Lei si guardò intorno. «Lo è. Almeno io ho una finestra.» Una finestra. Non si trovavano più nelle prigioni? «Siete salita o scesa per arrivare qua?» domandò. «Scesa, venti scalini.» Non aveva mai smesso di fissargli le mani. «Cosa è successo?» domandò, indicando. «Mi sono fatto male» rispose lui piano. «Mi dispiace» disse Mery. «Vorrei potervele guarire.» Il suo cipiglio aumentò. «Non potete suonare il clavicordo in queste condizioni, vero?» Leoff avvertì un improvviso nodo in gola. «No» disse. «Non posso. Ma potete suonarlo voi per me. Vi dispiacerebbe?» «No» replicò la piccola. «Anche se sapete che non sono molto brava.» Lui la guardò negli occhi e le poggiò delicatamente le mani sulle spalle.
«Non ve l'ho mai detto prima, non con tutte queste parole. Ma avete il dono di essere una grande musicista. Forse la migliore.» Mery batté le palpebre: «Io?» «Non permettete che questo vi dia alla testa.» «A ogni modo la mia testa è troppo grande per le mie spalle, dice mamma.» Mery si accigliò. «Credete che potrei mai comporre come fate voi? Questa sarebbe davvero la cosa più bella.» Leoff si alzò, battendo leggermente le palpebre per la sorpresa. «Un compositore donna? Non ho mai sentito una cosa del genere. Ma non vedo il motivo...» S'interruppe. Come tratterebbero una creatura tale, un compositore donna? Otterrebbe delle commissioni? Riuscirebbe a mettersi in tasca un po' d'oro? Probabilmente no. Né la cosa avrebbe accresciuto le sue possibilità di un buon matrimonio; anzi, probabilmente le avrebbe diminuite. «Be', ne parleremo quando sarà il momento, eh? Per adesso, perché non mi suonate qualcosa? Qualunque cosa volete, un pezzo per divertirci un po' e poi faremo lezione, d'accordo?» Lei annuì felice e si accomodò allo strumento, posizionando le piccole dita sui tasti gialli e rossi. Ne spinse uno per provare e lo tenne premuto, conferendo un leggero tremolio col dito. La nota risuonò così dolce nella stanza di pietra che Leoff credette che il suo cuore si sarebbe sciolto come cera calda. Mery diede un leggero colpo di tosse e cominciò a suonare. Iniziò in modo abbastanza semplice, con quello che Leoff riconobbe come un motivo infantile lierish, una melodia non impegnativa suonata piuttosto naturalmente in etrama, il modo conosciuto anche come Luce della Notte, cadenzato, malinconico, rassicurante. Mery suonò la melodia con la mano destra e con la sinistra aggiunse un accompagnamento semplicissimo di triadi sostenute. Era assolutamente incantevole e il suo stupore crebbe quando realizzò che non era stato lui a insegnarle questo, doveva essere un suo arrangiamento. Aspettò di vedere come si sarebbe sviluppato. Come sospettava, l'ultimo accordo rimase sospeso, non sostenuto, trascinandosi nella frase successiva, e ora il ronzio delle corde diventò una commovente sequenza di contrappunti. Le armonie erano impeccabili, sentimentali ma non troppo. Era una madre, col suo bambino vicino, che cantava una canzone già intonata altre centinaia di volte. Leoff quasi sentiva la coperta sopra la pelle, la mano che gli carezzava la testa, la leggera
brezza che soffiava nella melodia infantile dalla notte sul prato vicino. L'accordo finale fu ancora una volta non sostenuto e stranissimo. Le armonie subito si sciolsero, si aprirono come se la melodia fosse volata fuori dalla finestra, lasciandosi alle spalle la mamma e il bambino. Leoff si accorse che il modo era cambiato dal secondo e gentile al settimo, ossessionante, il sefta, ma anche per questo modo l'accompagnamento era strano. E lo diventò ancora di più, appena Leoff si accorse che Mery era passata dalla ninnananna al sogno e adesso, piuttosto rapidamente, all'incubo. La linea base era una Donna Nera che strisciava sotto al suo letto, la melodia si era spostata verso una linea mediana quasi dimenticata e le note alte erano come ragni e l'odore di peli bruciati. Il volto di Mery era perfettamente inespressivo per via della concentrazione, bianco e liscio come solo quello di un bambino può essere, non intaccato dall'avanzare dell'età, dall'impronta del terrore e della preoccupazione, dalla delusione e dall'odio. Ma non era il volto di Mery a riflettersi nella musica che lui sentiva, quanto piuttosto qualcosa che era uscito fuori dalla sua anima e che chiaramente non era immacolato. Prima che lui se ne rendesse conto, la melodia si spezzettò improvvisamente: tra i frammenti, cercò di ricomporsi, senza riuscirci, come se avesse dimenticato sé stessa. Il fa' la nanna era diventato un wervel in tempo ternario e richiamava immagini di un ballo in maschera folle in cui i volti erano più terribili delle maschere stesse, mostri travestiti da persone travestite da mostri. Poi, lentamente, da sotto quella follia, la melodia si ricompose rafforzandosi, ma ora si trovava sul punto più basso della scala, suonata con la mano sinistra. Richiamò su di sé il resto delle note, calmandole fino a che il contrappunto divenne quasi un inno e poi di nuovo semplici triadi. Mery le aveva riportate alla ninnananna, al punto in cui la musica era al sicuro, ma la voce era mutata. Non era più una madre che cantava, ma un padre, e stavolta, finalmente, l'ultimo accordo si risolveva. Leoff si ritrovò a sbattere le palpebre per le lacrime quando lei ebbe finito. Tecnicamente, sarebbe stato sorprendente per un allievo di lunga data, ma Mery aveva studiato con lui solo per un paio di mesi. Tuttavia, il potere intuitivo di quel pezzo, l'anima a cui accennava, era senz'altro stupefacente. «Questa è opera dei santi» mormorò lui. Durante il periodo delle torture, aveva smesso di credere ai santi, o per lo meno aveva smesso di credere che si preoccupassero di lui. Con pochi
tocchi delle sue mani, Mery aveva cancellato quella convinzione. «Non vi è piaciuta?» domandò lei timidamente. «Tantissimo, Mery» sussurrò Leoff con un filo di voce. Si sforzò di evitare che la sua voce tremasse. «È... Sapreste risuonarla daccapo, nello stesso modo?» Lei si accigliò. «Credo di sì. È la prima volta che la suono. Ma è nella mia testa.» «Sì» disse Leoff. «So cosa intendete. Funziona così anche per me. Ma non ho mai incontrato... Ricomincereste di nuovo, Mery?» Lei annuì, mise le mani sulla tastiera e la risuonò nota dopo nota. «Dovreste imparare a scrivere la vostra musica» disse lui. «Vi piacerebbe imparare a farlo?» «Sì» rispose la ragazza. «Molto bene. Dovrete farlo da sola. Le mie mani sono...» Le sollevò impotente. «Cosa vi è successo?» domandò ancora una volta Mery. «Sono state delle persone cattive» ammise lui. «Ma ora non ci sono più.» «Mi piacerebbe vedere chi è stato» disse Mery. «Mi piacerebbe vederli morire.» «Non parlate così» replicò lui dolcemente. «L'odio non ha senso, Mery. Non ha assolutamente senso e vi fa solo male.» «Non m'importerebbe di soffrire se solo potessi fare loro del male» insisté Mery. «Forse» le disse Leoff. «Ma a me importa. Ora impariamo a scrivere, d'accordo? Qual è il titolo di questa canzone?» Lei sembrò diventare improvvisamente timida. «È per voi» disse. «La Canzone di Leoff». Leoff si agitò nel sonno, credendo di aver sentito qualcosa, ma senza esser sicuro di cosa fosse. Si sedette e si strofinò gli occhi, poi trasalì al ricordo di come anche un gesto così semplice era diventato complicato e in qualche modo pericoloso. Eppure, si sentiva meglio di quanto era stato ultimamente. La visita di Mery lo aveva aiutato più di quanto avrebbe voluto ammettere, certo più di quanto avrebbe mai ammesso davanti ai suoi carcerieri. Se questa era una nuova forma di tortura, mostrargli nuovamente Mery e poi portargliela via, i suoi tormentatori avrebbero fallito. Qualunque cosa gli aveva detto l'u-
surpatore, qualunque cosa lui gli aveva risposto, sapeva di avere i giorni contati. Se anche non avesse mai più rivisto la ragazza, la sua vita era già meglio di quanto avrebbe potuto essere. «Vi sbagliate, sapete?» bisbigliò una voce. Leoff stava per stendersi di nuovo sul letto. Rimase invece paralizzato, incerto di aver davvero sentito quella voce. Era stata molto debole e roca. Potevano essere le sue orecchie a trasformare il movimento di una guardia nel corridoio dietro la porta in un rimprovero ai suoi pensieri? «Chi va là?» domandò piano. «Vale la pena di odiare» proseguì la voce, stavolta in modo molto più chiaro. «A dire il vero, l'odio è l'unico legno che certe fornaci riescono a bruciare.» Leoff non sapeva dire da dove provenisse la voce. Né da dentro la stanza, né dalla porta. Allora da dove? Si alzò in piedi, accendendo goffamente una candela e tastando le pareti mentre procedeva con passo incerto. «Chi è che mi parla?» domandò. «Odio» fu la risposta. «Lo Hosuro. Sono diventato eterno, credo.» «Dove siete?» «È sempre notte» replicò la voce. «E prima era tranquillo. Ma ora sento tanta bellezza. Ditemi com'è fatta la ragazza.» Gli occhi di Leoff si fermarono a fissare un angolo della stanza. Alla fine capì e si sentì uno stupido per non averlo intuito prima. C'era solo un'altra apertura nella stanza oltre alla porta ed era un piccolo foro della lunghezza di circa un piede per lato, talmente piccolo che neanche un neonato sarebbe potuto passarci... ma più che sufficiente per una voce. «Siete prigioniero anche voi?» «Prigioniero?» mormorò la voce. «Si, sì, è un modo di vedere la cosa. Sono impossibilitato, cioè impossibilitato a fare la cosa che ha più importanza per me.» «E quale sarebbe?» domandò Leoff. «La vendetta.» La voce era più bassa di prima, ma ora che Leoff era più vicino al buco, usciva chiarissima. «Nella mia lingua si dice Lo Videicha. Più che una parola della mia lingua è una vera e propria filosofia. Ditemi della ragazza.» «Si chiama Mery. Ha sette anni. Ha i capelli castani e gli occhi celesti e luminosi. Oggi portava un vestito verde scuro.»
«È vostra figlia? Nipote?» «No. È una mia allieva.» «Ma voi l'amate» insisté la voce. «Questi non sono affari vostri» replicò Leoff. «Sì» rispose l'uomo. «Sarebbe come aver trovato un pugnale, sì, se fossimo nemici. Ma non credo che siamo nemici.» «Chi siete?» «No, questa è un'informazione troppo privata, non capite? È una risposta lunghissima e risiede interamente nel mio cuore.» «Da quanto siete qui?» Seguì una risata stridula, un breve silenzio, poi una confessione. «Non lo so» ammise la voce. «Molte delle cose che ricordo sono dubbie. Troppa sofferenza e niente luna, sole o stelle a tenere il mondo sotto i miei piedi. Mi sono allontanato moltissimo, viaggiando alla deriva, ma la musica mi riporta indietro. Avete un liuto o magari una cetra?» «C'è un liuto nella mia cella, sì» rispose Leoff. «Suonereste qualcosa per me allora? Qualcosa che mi faccia tornare in mente gli aranceti e l'acqua che goccia da un tubo di terracotta?» «Non posso suonare niente» rispose Leoff. «Le mie mani sono state distrutte.» «Certo» disse Odio. «Quella è la vostra anima, la musica. Per questo hanno colpito lì. Ma hanno mancato il bersaglio, credo.» «L'hanno mancato» ammise Leoff. «Vi danno gli strumenti per prendersi gioco di voi. Ma perché vi lasciano vedere la ragazza, secondo voi? Perché vi forniscono un modo per suonare?» «Il principe vuole che faccia qualcosa» rispose Leoff. «Vuole che componga per lui.» «E voi lo farete?» Leoff fece un passo indietro dal buco nel pavimento, improvvisamente assalito da un sospetto. La voce avrebbe potuto essere di chiunque: il principe Robert, uno dei suoi agenti, chiunque. L'usurpatore di sicuro sapeva come lui era riuscito a ingannare Praifec Hespero. Non avrebbe lasciato che una cosa del genere succedesse di nuovo, o no? «I torti che mi sono stati fatti sono stati commessi da altri» disse infine. «Il principe mi ha commissionato della musica e io la scriverò come meglio potrò.» Ci fu una pausa, poi una risata soffocata, tetra, da parte dell'altro. «Capi-
sco. Siete un uomo intelligente. Astuto. Devo escogitare un modo per guadagnarmi la vostra fiducia, credo.» «Perché vi serve la mia fiducia?» domandò Leoff. «C'è una canzone, una molto vecchia nel mio paese» disse l'altro. «Posso provare a trasporla nella vostra lingua se volete.» «Se vi fa piacere.» Ci fu una piccola pausa, poi l'uomo cominciò. Il suono era stridulo e Leoff capì immediatamente cosa stava sentendo: la voce di un uomo che aveva dimenticato come si cantava. Le parole uscirono incerte, ma chiare. Sogna in inverno il seme l'albero che un giorno diverrà immagina il baco spinoso la farfalla in cui si trasformerà Il girino la coda contorce ma brama le zampe di domani Io sono odio ma sogno di diventar vendetta Dopo l'ultimo verso ridacchiò. «Parleremo ancora, Leffo» disse. «Perché io sono il vostro malasono.» «Non conosco questa parola» disse Leoff. «Non so se la vostra lingua ha un termine simile» replicò l'uomo. «È una coscienza, del tipo che ti spinge a fare cose malvagie contro persone malvagie. È lo spirito di Lo Videicha.» «Non ho una parola per questo concetto» confermò Leoff. «Né desidero averne.» Ma nell'oscurità, più tardi, mentre le dita desideravano suonare il clavicordo, cominciò a fantasticare. Sospirando, incapace di addormentarsi, prese lo strano libro che stava studiando precedentemente e tornò a scervellarsi su di esso. Ci si addormentò sopra e quando si risvegliò, qualcosa era tornato a posto e in un'epifania improvvisa capì che avrebbe potuto uccidere il principe Robert. Non sapeva se ridere o piangere.
Ma di sicuro l'avrebbe fatto, se ne avesse avuta la possibilità. 8 Una scelta difficile Aspar si voltò all'urlo di Winna, giusto in tempo per vedere Stephen tirato giù dal ramo. In qualche modo gli sembrò una vista familiare e si verificò abbastanza lentamente da fargli capire perché. Era come uno spettacolo di marionette sefry, una miniatura del mondo, irreale. Da quella distanza il viso di Stephen non era più espressivo di quello di una marionetta intagliata nel legno, e quando questi sollevò lo sguardo su Aspar un'ultima volta, non mostrò niente, solo i buchi scuri degli occhi e il cerchio tondo della bocca. Poi sparì. Allora un'altra figura si tuffò in quella cornice, anche questa, come Stephen, simile a una caricatura per la distanza, con un coltello che luccicava nella mano mentre si lanciava dal ramo nel bosco di braccia sollevate e i loro fiori a cinque petali. Ehawk. Da qualche parte vicino a lui, Aspar sentì un selvaggio grido di rabbia. Si domandò vagamente da cosa provenisse, e fu solo più tardi, quando sentì il dolore alla gola, che realizzò di essere stato lui. Avanzò sul suo ramo, ma non c'era niente che potesse fare. Winna gridò di nuovo, un suono che in qualche modo somigliava al nome del ragazzo. Aspar guardò, col cuore impietrito, e il viso di Stephen riemerse una volta, striato di sangue, e poi sparì di nuovo nella calca. Ehawk non lo vide più. Prese la mira con il suo arco, chiedendosi quale bersaglio scegliere, quale miracoloso colpo avrebbe potuto salvare i suoi amici. Ma il frammento gelido che aveva nel petto conosceva la verità: erano già morti. L'ira montò dentro di lui. Scoccò ugualmente, volendone uccidere almeno un altro, e sperando di avere abbastanza frecce per ucciderli tutti. Non gli interessava cosa fossero stati prima che il mondo impazzisse. Agricoltori, cacciatori, padri, fratelli, sorelle, non gli importava. Guardò Winna e vide gli occhi pieni di lacrime, quella totale impotenza che era un riflesso della sua. Con lo sguardo lo implorava di fare qualcosa.
Il suo istinto di sopravvivenza lo fece voltare per usare le ultime frecce contro quei laniatori che ancora avrebbero potuto arrampicarsi per prendere anche loro, ma con sorpresa si accorse che erano spariti. Quando si voltò, l'ultimo dei loro assalitori saltò giù dall'albero, e come un'onda che quando si ritira si porta dietro un ciottolo, la massa di corpi grotteschi defluì nel crepuscolo. In pochissimi secondi, rimase solo il loro suono indistinto mentre si ritiravano nella foresta. Aspar rimase a fissarli, rannicchiato. Si sentiva incredibilmente stanco, vecchio, perso. «Nevica di nuovo» disse Winna un po' di tempo dopo. Aspar riconobbe la verità di quell'affermazione con una semplice scrollata di spalle. «Aspar.» «Sì?» sospirò lui. «Andiamo.» Si alzò in piedi sul suo ramo e l'aiutò a scendere. Lei lo abbracciò e rimasero così stretti per qualche secondo. Lui era consapevole che i due soldati lo stavano osservando, ma per il momento non gli interessava. Il calore e l'odore di Winna lo facevano sentire bene. Gli tornò in mente la prima volta che lo aveva baciato, la confusione e la gioia, e voleva tornare indietro a quel momento, prima che le cose si ingarbugliassero così. A prima della morte di Stephen e Ehawk. «Salve!» gridò una voce da sotto. Guardando oltre i boccoli di Winna, inumiditi dalla neve, Aspar vide il cavaliere Neil MeqVren. Lo spadaccino vitelliano era accanto a lui insieme alla ragazza, Austra. Una rabbia cieca, subdola, si agitò dentro di lui. Questi tre e i soldati erano quasi degli estranei. Perché gli era concesso di vivere quando invece Stephen veniva squartato? Merda. C'erano delle cose da fare. «Lasciami» brontolò burbero, allontanando le braccia di Winna. «Devo parlare con loro.» «Aspar, quelli erano Stephen e Ehawk.» «Già. Ho bisogno di parlare con quegli uomini.» Lei lo lasciò andare, ed evitando il suo sguardo, Aspar l'aiutò a scendere per il tragitto che rimaneva da fare sull'albero, saltando per evitare i corpi ammucchiati sulle larghe radici, temendo che uno o più potessero essere
ancora vivi. Ma nessuno si mosse. «State bene?» domandò a Neil. Il cavaliere annuì. «Solo grazie ai santi. Quelle creature non erano interessate a noi.» «Che intendete dire?» chiese Winna. Neil sollevò le mani. «Stavamo assalendo i rapitori di Austra quando quegli esseri sono usciti a valanga dalla foresta. Ne ho abbattuti due o tre prima di accorgermi che stavano solo cercando di aggirarci. Ci siamo riparati dietro un albero, per evitare di essere calpestati. Loro sono andati oltre, e noi abbiamo lottato contro i rapitori di Austra. Purtroppo abbiamo dovuto ucciderli tutti.» Austra annuì come per confermare, ma pareva troppo scossa per riuscire a parlare e si teneva stretta a Catio. «Sono andati oltre?» ripeté Aspar, cercando di capire. «Allora stavano inseguendo solo noi?» «No» disse Winna pensierosa. «Non noi. Stavano seguendo Stephen. E appena l'hanno preso, se ne sono andati. Ehawk...» Gli occhi s'illuminarono di speranza. «Aspar, e se fossero ancora vivi? In effetti non abbiamo visto...» «Già» disse lui, rimuginando su quest'idea. Dopo tutto, già un'altra volta avevano creduto morto Stephen, e in quell'occasione avevano avuto addirittura il suo corpo. Winna aveva ragione. «Be', allora dobbiamo cercarlo» fece Winna. «Un momento, prego» disse Neil, continuando a osservare la moltitudine di corpi. «Ci sono molte cose qui che non riesco a capire. Queste creature che ci hanno attaccato sono i laniatori che avete descritto alla regina durante il nostro primo giorno di viaggio?» «Sono loro» ammise Aspar, mentre l'impazienza cominciava a crescere dentro di lui. «E sono al servizio del Re degli Alberi?» «Esatto» replicò Aspar. «E che cos'è quello?» Neil indicò la carcassa mezza masticata di un utin. Aspar la guardò, pensando che a Stephen sarebbe probabilmente piaciuto vederla sezionata in quel modo, per poterla studiare. Al posto della pelle, l'utin era ricoperto da scaglie cornee, non diverse dal guscio di una tartaruga. Pell neri spuntavano tra le giunture di queste scaglie. Aspar sapeva per esperienza che quell'armatura naturale era in
grado di respingere frecce, pugnali e asce, ma in qualche modo i laniatori avevano sollevato parte di quelle scaglie e scavato nella carne, esponendo gli organi contenuti nella spessa gabbia toracica. Gli occhi della creatura erano stati cavati, la mandibola inferiore frantumata e in parte staccata. Un braccio umano, strappato alla spalla, era incastrato nella gola. «Noi lo chiamiamo utin» disse Aspar. «Abbiamo combattuto contro uno di loro in passato.» «Ma questi sono stati uccisi dai laniatori.» «Sì.» «Da quello che avete detto, i laniatori hanno attaccato solo gli utin e Stephen.» «Così pare» convenne Aspar bruscamente. «Questo è quello che abbiamo detto.» «Ma voi credete che abbiano preso Stephen vivo?» In risposta, Aspar girò sui tacchi e si mise a camminare su e giù nel punto in cui aveva visto il suo amico l'ultima volta, là dove i rami della quercia, innaturalmente piegati, ancora toccavano terra. Gli altri lo seguirono. «Ho visto i laniatori quando uccidono» disse. «O mangiano i corpi sul posto o li lasciano in terra, fatti a pezzi. Non c'è traccia di nessuna delle due cose qui, perciò devono aver portato Stephen e Ehawk con loro.» «Ma perché avrebbero preso solo loro due?» insisté Neil. «Cosa possono volere da loro in particolare?» «Che importanza ha?» lo sfidò Winna adirata. «Dobbiamo andare a riprenderli.» Neil arrossì, ma drizzò ancora di più le spalle e sollevò il mento. «Be',» disse «capisco cosa significa perdere dei compagni. Conosco molto bene il conflitto tra due doveri. Ma voi vi siete impegnati a servire Sua Maestà. Se i vostri amici sono morti, noi non possiamo farci niente. Se sono vivi, allora sono stati risparmiati per qualche motivo che sfugge al vostro controllo. Vi imploro...» «Neil MeqVren» disse Winna, con un tono freddo per la rabbia. «Voi c'eravate a Cal Azroth quando il Re degli Alberi è apparso. Abbiamo combattuto tutti insieme e abbiamo combattuto di nuovo a Dunmrogh. Se non fosse stato per Stephen, saremmo tutti morti, compresa Sua Maestà. Non potete essere così insensibile.» Neil sospirò. «Meme Winna,» disse «non desidero ferirvi né recarvi offesa. Ma prima di ogni altro vincolo, tutti noi, eccetto Catio qui, siamo sudditi di Crotheny. La nostra prima lealtà è verso il trono. E se così non
fosse, ricordate che tutti noi, prima di lasciare Dunmrogh, abbiamo giurato di servire Anne, la legittima erede al trono, e di vederla incoronata o morire. «Anche Stephen e Ehawk lo hanno giurato.» E sottolineò l'affermazione alzando un po' la voce. «E noi l'abbiamo persa. Qualcuno l'ha sottratta alla nostra custodia e noi, i suoi presunti protettori, siamo diminuiti molto in numero. Ora voi proponete di dividerci ulteriormente, meme. Vi prego di ricordare la vostra promessa e di aiutarmi a ritrovare Anne. Per i santi, non sappiamo neanche se Stephen e Ehawk sono ancora vivi.» «Questo non lo sappiamo neanche di lei» replicò Aspar. «Voi siete il guardaboschi reale» protestò Neil. Aspar scosse il capo. «A dire il vero, non lo sono più. Sono stato rimosso da quell'incarico. Ora mi si chiede di obbedire al praifec e lui mi ha incaricato di uccidere il Re degli Alberi. Quelli che hanno preso Stephen sono i servitori del Re e credo che mi guideranno da lui.» «Quello stesso praifec stava dietro agli omicidi e alla stregoneria di Dunmrogh ed era probabilmente in combutta con gli assassini di Cal Azroth» fece notare Neil. «È il nemico del vostro legittimo padrone e pertanto non gli dovete alcuna lealtà.» «Non lo so per certo» grugnì Aspar. «E poi, se io sono il guardaboschi, come dite voi, be' questa foresta rientra nella mia giurisdizione e dovrei scoprire cosa vuol dire tutto questo. «In entrambi i casi, la scelta spetta a me.» «Lo so che la scelta è vostra» disse Neil. «Ma qui io sono il solo che può parlare per Anne e vi sto pregando di considerare il mio punto di vista.» Aspar incontrò lo sguardo serio del cavaliere, poi diede un'occhiata a Winna. Non era sicuro di cosa dire, ma fu esonerato dal doverlo fare dal rumore di qualcos'altro che attraversava la foresta. «Lo sentite?» domandò a Neil. «Sento qualcosa» replicò il cavaliere, mentre la mano si dirigeva verso l'elsa della spada. «Uomini a cavallo, in grandi quantità» gemette Aspar. «Direi che questa faccenda può aspettare fino a che non avremo visto quale altro pericolo ci minaccia.» 9 Rinascita
Il sussurro dei morti la risvegliò. Il suo primo respiro fu un'agonia, come se i polmoni fossero colmi di frammenti di vetro. I muscoli cercarono di strisciare fuori dalle ossa. Avrebbe urlato, ma la bocca e la gola erano ostruite da bile e muco congelati. La testa martellava contro la pietra e non c'era niente che potesse fare, tranne stare a guardare le scintille che si formavano negli occhi. Poi tutto il corpo si piegò all'indietro come un arco tirato da un santo e le frecce scoccarono umide dalla sua bocca e poi ancora, fino a che tutto si rilassò e si ritrovò distesa, tranquilla, e il respiro calmo uscì ed entrò sibilando, mentre il dolore pian piano defluì, lasciandosi dietro un senso di spossatezza. Sentì di sprofondare in qualcosa di morbido. Santi, perdonatemi, pregò in silenzio. Non volevo. Ho dovuto farlo. Era vero solo in parte, ma era troppo stanca per spiegarlo a loro. A ogni modo, i santi non sembravano essere in ascolto, anche se i morti continuavano a bisbigliare. Pensava di averli capiti non tanto tempo prima, di aver compreso gli strani tempi dei loro verbi. Ora questi sfrecciavano lungo il limite della sua capacità di comprensione, tutti tranne uno, che stava cercando di leccarle l'orecchio come la lingua di un amante. Non voleva sentirlo, non voleva ascoltarlo, per il semplice terrore che, se lo avesse fatto, la sua anima sarebbe tornata nell'oblio. Ma la voce non si sarebbe fatta rifiutare da una semplice paura. No, per i dannati, disse con tono aspro. Puoi sentirmi. Devi sentirmi. «Chi sei?» domandò lei cedendo. «Per favore...» «Il mio nome?» La voce acquistò forza improvvisamente e lei sentì una mano premerle la guancia. Era freddissima. «Era Erren, credo. Erren. E tu chi sei? Sembri familiare.» Realizzò in quel momento di aver dimenticato il suo nome. «Non ricordo» rispose. «Ma mi ricordo di voi. L'assassina al servizio della regina.» «Sì» disse la voce trionfante. «Sì, sono io. E vi conosco, Alis. Alis Berrye.» Qualcosa simile a una risata soffocata seguì quelle parole. «Per i santi. Come ho fatto a non capire prima chi siete?» Alis! Mi chiamo Alis!, pensò lei disperatamente sollevata. «Non volevo essere scoperta» rispose. «Ma ho sempre temuto che voi mi riconosceste. A dire il vero ero terrorizzata.» La mano l'accarezzò sul collo.
«Educata al coven, sì,» sospirò la morta «ma non in uno dei coven rispettabili della Chiesa, vero? Halaruni?» «Noi ci chiamiamo le Veren» rispose Alis. «Ah sì, certo» disse Erren. «Veren. Il simbolo del quarto di luna. So qualcosa di voi. E ora siete la protettrice della mia regina.» «Sì, signora.» «Come siete riuscita a realizzare questa fuga dalla morte? Il vostro cuore ha rallentato i battiti tanto da pulsare una sola volta al giorno, il vostro respiro si è interrotto. Il sangue puzzava di erba capestrina, ma ora è pulito.» «Se lui non avesse usato l'erba capestrina, se avesse usato lauvlet o merwaurt o cicuta, sarei morta» rispose Alis. «Potreste morire comunque» disse Erren. «Anche in questo momento ci siete molto vicina. Una cosa tanto insostanziale come me non può fare molto, ma siete così vicina a noi che forse potrei riuscirci...» «Allora lei non avrebbe più alcun aiuto» disse Alis. «Ditemi velocemente come mai non siete morta. Non conosco vie dei templi o magia capace di arrestare il lavoro della capestrina.» «I nostri modi sono diversi» rispose Alis. «E la legge della morte è stata infranta. Il confine tra i vivi e i morti è molto più labile che in passato; l'entrata e l'uscita molto meno certe. La capestrina è più sicura della maggior parte dei veleni, perché non agisce solo sul corpo, ma anche sull'anima. Esiste un'antichissima storia nel nostro ordine che parla di una donna che si fece prendere dalla morte e poi tornò indietro. Quella fu l'ultima volta in cui la legge della morte venne infranta, al tempo del Giullare Nero. «Ho sentito di essere in grado di ripetere la stessa cosa e conoscevo i sacaum necessari per provare. E non avevo davvero altra scelta. Il veleno era già dentro di me.» Fece una pausa. «Non dovreste uccidermi, Sor Erren.» «La mia regina sa qual è lo scopo del vostro ordine?» «Il mio ordine è morto. Tutte tranne me» rispose Alis. «Non sono più vincolata alla loro missione.» «Allora non lo sa.» «Certo che no» replicò Alis. «Come potrei dirglielo? Lei ha bisogno di fidarsi di me.» «In questo momento,» mormorò l'ombra di Erren «sono io che devo fidarmi di voi.» «Avrei potuto ucciderla tante volte» ammise Alis. «Eppure non l'ho fatto.» «State aspettando la figlia, forse.»
«No» ripeté Alis, disperatamente stavolta. «Voi non capite le Veren bene come credete, se pensate che potremmo far del male ad Anne.» «Magari desiderate controllarla, però» disse Erren. «Controllare la vera regina.» «Questo è più vicino alla verità, almeno per quanto riguardava il coven» ammise Alis. «Ma io non facevo parte del cerchio interno. Non ho mai compreso appieno gli scopi delle Veren, e ora non m'importano.» «Sostenete che le sorelle sono tutte morte. Che mi dite dei fratelli?» Alis trasalì. «Sapete della loro esistenza?» «Non fino a questo momento. Ho tirato a indovinare. L'Ordine di Cer ha la sua controparte maschile. Anche le Veren dovrebbero averla. Ma sapete quanto è pericoloso se rimangono solo gli uomini? Se riuniscono in consiglio le loro voci?» «No» rispose Alis. «Non lo so. Desidero solamente servire Muriele, condurla in salvo, aiutarla a preservare il suo paese.» «E. la verità?» Alis sentì qualcosa pungerla da qualche parte, all'interno. Non le fece male, ma improvvisamente si sentì molto debole e il polso cominciò a battere in modo strano, come nel tentativo di scappare dal suo corpo. «Vi giuro che è la verità» esclamò con un filo di voce. «Lo giuro sulla santa su cui giuriamo noi.» «Dite il suo nome.» «Virgenya.» Dopo una pausa, quella strana pressione diminuì, ma non sparì. «È così difficile resistere» disse Erren. «Noi morti dimentichiamo.» «Sembra che voi ricordiate parecchio» osservò Alis, mentre riconquistava il controllo di sé. «Mi tengo stretta a ciò che devo. Non ricordo i miei genitori, né di essere stata una ragazzina. Non ricordo se ho mai amato un uomo o una donna. Non riesco a immaginare la forma del mio volto da viva. Ma ricordo quello che è il mio dovere. «Quello me lo ricordo. E ricordo lei. Siete in grado di proteggerla? Lo farete?» «Sì» rispose Alis debolmente. «Lo giuro.» «E se gli uomini delle Veren sopravvivono e vengono da voi? Che succederà allora? Cosa farete se vengono da voi e vi chiedono di fare del male a lei o a sua figlia?» «Ora io sono della regina» insisté Alis. «Appartengo a lei, e non a loro.»
«Mi risulta difficile crederlo.» «Siete stata educata in un coven. Se la Chiesa vi avesse chiesto di uccidere Muriele, lo avreste fatto?» La risata di Erren fu dolce e priva di allegria. «Mi è stato chiesto» rivelò. Alis sentì accapponarsi la pelle. «Chi è stato?» domandò. «Chi vi ha dato quell'ordine? Hespero?» «Hespero?» la voce sembrò più lontana. «Non ricordo quel nome. Forse lui non è importante. No, non ricordo chi abbia impartito l'ordine. Ma deve essere stato qualcuno molto in alto, o non l'avrei mai preso in considerazione.» «L'avete preso in considerazione?» domandò Alis, sorpresa. «Credo di sì.» «Allora deve esserci stato un motivo» disse Alis. «Non abbastanza importante per farlo.» «Che sta succedendo, Erren? Il mondo sta crollando. La legge della morte è stata infranta. Chi è il mio nemico?» «Io sono morta Alis» rispose l'ombra. «Se avessi saputo queste cose, se avessi saputo da cosa guardarmi, credete che lo sarei?» «Ah.» «I vostri nemici sono anche i suoi. Questo è tutto ciò che dovete sapere. La cosa è semplice.» «Semplice» convenne Alis, pur sapendo che non poteva esserlo. «Voi vivrete» disse Erren. «Tutti credono che siete morta. Che cosa farete?» «Anne è viva» replicò Alis. «Anne?» «La figlia più giovane di Muriele.» «Ah, sì, gliel'ho detto io.» «Lei è viva e lo stesso vale per Fail de Liery e molti altri fedeli alla regina. Robert teme, non senza motivo, che un esercito si raduni al seguito di Anne.» «Un esercito» pensò Erren. «La figlia alla guida di un esercito. Mi domando come possa funzionare.» «Io credo di poter essere d'aiuto» spiegò Alis. «La regina è sorvegliata troppo da vicino ed è tenuta prigioniera nella Torre Pelliccia-di-Lupo, lontana da tutti i passaggi segreti. Credo che la sua unica speranza di libertà sia che Anne vinca, ma questo deve succedere presto, prima che Hansa e la Chiesa vengano coinvolti.»
«In che modo l'aiuterai allora? Uccidendo Robert?» «Ho pensato a questa soluzione, ovviamente» replicò Alis. «Ma non sono sicura che lui possa essere ucciso. Anche Robert è tornato indietro dalla morte, lady Erren, ma lui era morto completamente. Non sanguina come gli altri uomini. Non so come uccidere quello che è diventato adesso.» «Forse una volta conoscevo certi espedienti» disse Erren. «Ora non più. E allora?» «C'è un uomo che l'usurpatore ha imprigionato. Se riesco a liberarlo in nome di Anne, credo che anche il custode terriero più restio si unirà alla sua causa. La cosa sconvolgerebbe gli attuali equilibri.» «Allora usate i passaggi.» «Sarà un rischio» rispose Alis. «Il principe Robert è l'unico uomo che sia a conoscenza dei passaggi e possa ricordarli. Ma...» «Ma lui crede che voi siete morta» disse Erren. «Capisco. È un'arma che potrete usare una volta sola.» «Esatto» rispose Alis. «Fate attenzione» si raccomandò Erren. «Ci sono cose nelle prigioni di Eslen che sarebbero dovute morire molto tempo fa. Non pensate che siano impotenti.» «L'aiuterò, Erren» promise Alis. «Sì» convenne Erren. «Non posso sostituirvi, lo so. Ma farò del mio meglio.» «Il mio meglio non fu abbastanza. Siate migliore di me.» Alis fu attraversata da un brivido e la voce sparì. Sentì immediatamente la testa piena del fetore della carne in putrefazione, appena recuperò i sensi, sentì delle costole infilarsi nella sua schiena. La mano sulla guancia era ancora lì. La toccò; era umida, viscida e quasi ridotta all'osso. Robert aveva mentito a Muriele. L'aveva sì messa nella cripta dei Dare, ma non nella tomba di William; era nello stesso sarcofago di Erren. Sopra di lei. Era un piccolo scherzo o una coincidenza? Forse un errore. Rimase distesa lì a lungo, tremando, radunando le forze, e poi cominciò a spingere la pietra sopra di lei. Era pesante, troppo pesante, ma lei cercò attentamente e trovò altra forza e spinse tanto da farla spostare un po'. Si riposò e poi riprese a spingere. Stavolta nel buio apparve una fessura. Si rilassò, lasciando entrare l'aria fresca per recuperare le energie. Ricorrendo a mani e piedi, spinse con tutte le forze di cui la sua sottile figura
poteva disporre. Il coperchio strisciò aprendosi di un altro dito. Sentì una campana in lontananza e realizzò che stava suonando mezzogiorno. Il mondo dei vivi, della luce del sole e dell'aria dolce fu di nuovo improvvisamente reale per lei. Raddoppiò gli sforzi, ma era molto, molto debole. Fu sei rintocchi più tardi, ai Vespri, che riuscì a togliere il coperchio e a sgattaiolare via dal corpo in decomposizione di colei che l'aveva preceduta. Una piccola luce arrivava dall'atrio, ma Alis non si voltò a guardare la sua ospite, né al momento aveva le energie necessarie per rimettere a posto il coperchio. Poteva solo sperare che nessuno avesse motivo di andare lì prima che lei avesse recuperato le forze o avesse trovato aiuto. Sentendosi fragile e leggera come una scopa di paglia, Alis Berrye s'incamminò fuori della cripta dentro Eslen-delle-Ombre, la sorella oscura della città dei vivi, posta sulla collina sovrastante. Alzando lo sguardo alle guglie e alle mura di Eslen, per un attimo si sentì più scoraggiata e sola che mai. Il compito che aveva scelto di perseguire, che aveva promesso a un fantasma di portare a termine, sembrava totalmente fuori dalla sua portata. Poi, con una risata sarcastica, si ricordò che non solo era sopravvissuta a una delle tossine più velenose al mondo, ma era anche sparita da sotto gli occhi dell'usurpatore Robert Dare. Credendosi cauto, questi si era dimostrato imprudente. Lei avrebbe trasformato quell'errore in un pugnale con cui lo avrebbe colpito al cuore, lasciando uscire quello strano sangue che marciva al suo interno. Parte seconda Il veleno nelle radici Fram tid du tid ya yer du yer Taelned sind thae manns daghs Mith barns, razens, ja rengs gaeve Bagmlic is gemaunth sik Sa bagm wolthegh mith luths niwat
Sa aeter in sin rots Di marea in marea, di anno in anno i giorni di un uomo sono contati Pieno di case, figli e ori si sente forte come un albero Un albero dai rami forti può non sentire il veleno nelle radici Detto in antico almannish 1 In mezzo a loro Stephen non sapeva con certezza da quanto tempo stava combattendo contro i laniatori, ma sapeva di non avere più le forze. I muscoli erano fasce molli sospinte da sporadici spasmi di dolore. Perfino le ossa sembravano fargli male. Stranamente, quando smise di lottare, le mani che lo tenevano stretto diventarono misteriosamente gentili, come aveva fatto lui stesso con il gatto smarrito che una volta aveva trovato nella soffitta del padre. Finché il gatto si dimenava, aveva dovuto tenerlo stretto, in modo anche rude, ma una volta che l'animale si era calmato, Stephen aveva potuto permettersi di allentare la presa, accarezzarlo e fargli capire che non voleva fargli alcun male. Sentì una voce che diceva: «Non ci hanno divorato.» Solo in quel momento realizzò che una delle mani che lo stringeva apparteneva a Ehawk. Gli tornò in mente il viso del ragazzo watau nei primi attimi di confusione, quando era stato trascinato rudemente sul terreno della foresta. Ora veniva trasportato con la faccia all'insù, sostenuto da braccia intrecciate e tenuto per i polsi da otto laniatori. Ehawk veniva trasportato in modo analogo, ma la mano destra aveva afferrato saldamente quella di Stephen. «No, non l'hanno fatto» convenne. Alzò la voce. «C'è qualcuno di voi che sa parlare?»
Nessuno rispose. «Forse prima vogliono cuocerci» disse Ehawk. «Può darsi. Se è così, hanno cambiato abitudini dall'ultima volta che Aspar li ha visti. Ha detto che mangiavano la loro preda viva e cruda.» «Già. Questo è quello che ho visto quando hanno ucciso sir Oneu. Questo gruppo è diverso. È tutto diverso.» «Avete visto cosa è successo ad Aspar e agli altri?» domandò Stephen. «Credo che tutti i laniatori che hanno assalito l'albero siano venuti via con noi» rispose Ehawk. «Non hanno continuato a seguire gli altri.» «Ma perché dovrebbero volere solo noi due?» si chiese Stephen. «Non è esattamente così» replicò Ehawk. «Loro volevano solo voi. Solo dopo che vi ho afferrato hanno cominciato a trasportare anche me.» Allora perché dovrebbero volere me?, si domandò Stephen. Cosa può volere da me il Re degli Alberi? Cercò di voltarsi un po' di più verso Ehawk, ma la loro conversazione sembrò aver infastidito i laniatori e uno di loro colpì il polso di Ehawk così forte che il ragazzo rimase senza fiato e lasciò andare la presa. Cominciarono a trasportare il giovane lontano da Stephen. «Ehawk!» gridò quest'ultimo, cercando di radunare l'energia per riprendere a combattere. «Lasciatelo stare, mi avete sentito? O, per i santi... Ehawk!» Ma riprendendo a combattere fece in modo che i suoi trasportatori tornassero a stringere la presa, e Ehawk non rispose. Alla fine la voce di Stephen si fece roca e lui sprofondò tristemente nei suoi pensieri. Aveva fatto parecchi viaggi strani negli ultimi anni, e anche se questo non era il più strano, di sicuro si guadagnava un posto nelle sue Osservazioni Strane & Curiose. Non aveva mai viaggiato con lo sguardo rivolto in alto, per esempio. Senza poter lanciare occasionalmente un'occhiata al terreno, privo della sensazione dei piedi a contatto col suolo o del corpo di un cavallo tra le cosce, si sentiva spaesato, come il soffio di uno zefiro. Lo scorrere di rami e cielo grigio scuro erano tutto il suo paesaggio e quando cominciò a nevicare, l'intero universo si ridusse a una galleria di fiocchi turbinanti. Poi smise di essere vento e diventò fumo bianco in giro per il mondo. Alla fine, quando la notte gli negò la vista, si sentì come un'onda generata dagli abissi. Si appisolò, forse, e quando la sua percezione tornò ad acuirsi, un rimbombo rispondeva all'acciottolio del loro passaggio, come se il mare che lo aveva trascinato fino a quel momento si fosse riversato in un
crepaccio e fosse diventato un fiume sotterraneo. Comparve un cielo di un colore arancio sbiadito. Dapprima Stephen pensò che fosse già l'alba, ma poi capì che le nuvole non erano affatto nuvole, ma un soffitto di pietra irregolare, e che la luce prodotta da un enorme fuoco stava menando enormi pugni di fiamma contro il soffitto della caverna. Questa a sua volta era talmente vasta che la luce sbiadiva prima di riuscire a colpire i suoi confini, fatta eccezione per il soffitto e il pavimento. Affollati intorno al grande vuoto c'erano laniatori a non finire, addormentati in terra o seduti e svegli, alcuni che camminavano, altri ancora che stavano dritti in piedi, e sembrava che tutti fissassero il nulla. Era così folto il loro numero che a malapena sembrava esserci un pavimento. Oltre all'onnipresente fumo, l'aria era intrisa dell'odore di ammoniaca, del muschio acido del sudore e del fetore dolce e pungente di feci. Stephen aveva creduto che il puzzo di escrementi proveniente dalle fogne di Ralegh fosse insuperabile, ma questo luogo dimostrava che si era sbagliato. L'aria umida, appiccicosa sembrava ricoprirgli interamente la pelle di quel fetore tanto che pensò che ci sarebbero voluti giorni di abluzioni per tornare a sentirsi pulito. Senza preavviso, i laniatori che lo trasportavano lo misero bruscamente e improvvisamente in piedi. Le ginocchia deboli cedettero e Stephen cadde nel punto in cui l'avevano fatto scendere. Sostenendosi, si guardò intorno ma non vide traccia di Ehawk. Avevano forse mangiato il ragazzo alla fine? L'avevano ucciso? O l'avevano semplicemente escluso dalla processione, ignorandolo, così come avevano fatto con Aspar, Winna e i cavalieri? Un odore di roba da mangiare improvvisamente si mescolò al fetore dei laniatori e lo assalì come un colpo fisico. Non riusciva a identificare esattamente il profumo, ma sembrava carne. Quando comprese di cosa probabilmente si trattava, lo stomaco gli si torse, e se avesse avuto ancora del cibo nello stomaco, di sicuro l'avrebbe vomitato. Forse Ehawk aveva ragione. Forse i laniatori avevano raffinato i loro gusti. Lui sarebbe stato brasato, arrostito o lessato? Qualsiasi fossero le loro intenzioni ultime, per il momento i laniatori sembravano ignorarlo, così si mise a studiare la scena che lo circondava, cercando di trovare un senso. Dapprima aveva visto solo l'enorme fiamma al centro della sala e una massa indistinta di corpi, ma ora notò dozzine di fuochi minori, con lania-
tori raggruppati intorno a essi come in clan o schiere. La maggior parte dei falò sosteneva dei paioli, del tipo di rame o di ferro nero che avrebbe potuto trovare in ogni fattoria o paesino. Alcuni laniatori si occupavano proprio dei tegami; ciò lo colpì come la cosa più strana che avesse visto fino a quel momento. Come potevano essere così folli ed essere ancora capaci di occuparsi di faccende domestiche? Usando le mani, riuscì a tirarsi in piedi anche se con equilibrio precario e poi si voltò, cercando di ricordare da quale via erano venuti. Si ritrovò a guardare dritto dentro un paio d'occhi, di un azzurro vivo. Spaventato, arretrò di un passo e mise a fuoco il viso. Apparteneva a un uomo di circa trent'anni. Aveva delle strisce di un pigmento rosso e il corpo era nudo e coperto di tatuaggi come gli altri, ma gli occhi sembravano... sani. Stephen lo riconobbe come il mago che aveva fatto piegare i rami con la voce. Teneva una ciotola tra le mani e gliela stava porgendo. Stephen la esaminò; era piena di una specie di stufato. L'odore era buono. «No» disse piano. «Non è carne umana» replicò l'uomo nella lingua del re con una pronuncia aspra dell'entroterra oostish. «È cacciagione.» «Allora sapete parlare?» domandò Stephen. L'uomo annuì. «A volte,» disse «quando la pazzia ci abbandona. Mangiate. Sono sicuro che avete domande da farmi.» «Come vi chiamate?» L'uomo aggrottò la fronte. «Sembra passato parecchio tempo da quando avevo un nome» replicò. «Io sono un dreodh. Chiamatemi semplicemente Dreodh.» «Che cos'è un dreodh?» «Ah, una guida, una specie di sacerdote. Eravamo quelli che credevano, che conservavano le antiche usanze.» «Oh» rispose Stephen. «Ora capisco. In vadhiano dhravhydh era una specie di spirito della foresta. In lierish medio dreufied era la parola che indicava una specie di folle che viveva nei boschi, una creatura pagana.» «Non sono così informato riguardo ai modi in cui il nostro nome è stato male utilizzato,» disse Dreodh «ma so cosa sono. Cosa siamo. Noi conserviamo le usanze del Re degli Alberi. Per questo, il nostro nome è stato calunniato da altri.»
«Il Re degli Alberi è un vostro dio?» «Dio? Santo? Queste sono solo parole. Non hanno valore. Ma noi lo abbiamo aspettato e abbiamo avuto ragione» replicò amaramente il mago. «Non sembrate felice di questo» notò Stephen. Dreodh scrollò le spalle. «Il mondo è quello che è. Noi facciamo quello che va fatto. Mangiate, e parleremo ancora.» «Che cosa è successo al mio amico?» «Non so di nessun amico. Voi eravate l'obiettivo della nostra ricerca, nessun altro.» «Lui era con noi.» «Se vi fa stare tranquillo, lo farò cercare. Adesso mangiate.» Stephen toccò con un dito lo stufato. Aveva il profumo della cacciagione, ma d'altra parte che odore aveva la carne umana cotta? Gli sembrava di ricordare che si diceva fosse simile al maiale. E se quella fosse stata carne umana? Se l'avesse mangiata sarebbe diventato come i laniatori? Mise giù la ciotola, cercando di ignorare il dolore alla pancia. Non riusciva a pensare a un motivo per cui valesse la pena di rischiare. Un uomo poteva resistere a lungo senza cibo. Ne era certo. Dreodh tornò, guardò la ciotola e scosse il capo. Si allontanò di nuovo, ritornando con una borsetta di pelle e la lanciò verso Stephen. Aprendola, questi trovò formaggio essiccato e leggermente coperto di muffa e pane duro e raffermo. «Vi fidate di questo?» domandò Dreodh. «Non lo so» rispose Stephen. Ma si fidò, grattando via la muffa e divorando quella roba stagionata in pochi avidi bocconi. «Quelli che vi hanno portato qui non si ricordano del vostro amico» gli rivelò Dreodh mentre lui mangiava. «Dovete capire, quando la chiamata è dentro di noi, non percepiamo le cose come fate voi. Non ricordiamo.» «La chiamata?» «La chiamata del Re degli Alberi.» «Pensate che l'abbiano ucciso?» Dreodh scosse il capo. «Questa chiamata chiedeva semplicemente di localizzarvi e condurvi qua, non di uccidere o mangiare.» Stephen decise di tralasciare i particolari della questione per un momento. Aveva una domanda più urgente.
«Avete detto che i laniatori cercavano me. Perché?» Dreodh scrollò le spalle. «Non ne sono sicuro. Avete il fetore del sedhmari su di voi, perciò il nostro istinto ci dice che dovreste essere distrutto. Ma il signore della foresta la pensa diversamente e noi non possiamo fare altro che obbedire.» «Sedhmari... conosco questa parola. I Sefry la usano per riferirsi ai mostri tipo i greffyn e gli utin.» «Esattamente. Alla vostra lista potreste aggiungere i rovi neri che divorano la foresta. Tutte le creature del maligno insomma.» «Ma il Re degli Alberi non è un sedhmari?» Con sua sorpresa, Dreodh sembrò scosso. «Certo che no» disse. «È il loro peggior nemico.» Stephen annuì. «E parla con voi?» «Non nel modo che intendete voi» replicò Dreodh. «È il sogno che noi tutti condividiamo. Lui sente delle cose e noi sentiamo lo stesso. Bisogni. Desideri. Odio. Dolore. Come ogni essere vivente, se abbiamo sete cerchiamo di spegnerla. Lui ci ha messo dentro la sete di voi e noi vi abbiamo trovato. Non so perché, ma so dove devo portarvi.» «Dove?» «Domani» replicò l'uomo, allontanando quella domanda con il dorso della mano. «Posso camminare o devo essere trasportato anche stavolta?» «Potete camminare. Se vi ribellate, sarete trasportato.» Stephen annuì. «Dove siamo?» Dreodh fece un gesto. «Sotto terra, come potete vedere. Una vecchia rewn abbandonata dagli Halafolk.» «Davvero?» Questo suscitò interesse in lui. Aspar gli aveva parlato delle rewn halafolk, le caverne segrete dove abitava la maggior parte di quella strana razza chiamata Sefry. I Sefry che quasi tutti conoscevano erano i mercanti, i saltimbanchi, quelli che girovagavano sulla superficie della terra. Ma quelli erano la minoranza. Il resto aveva vissuto in recondite caverne dentro la Foresta del Re fino a poco tempo prima. Poi avevano abbandonato le case in cui avevano abitato per innumerevoli millenni, fuggendo alla venuta del Re degli Alberi. Aspar e Winna erano entrati in una di queste rewn abbandonate. Ora, a quanto pareva, c'era entrato anche lui. «Dov'è la loro città?»
«Non lontano da qui, quello che rimane. Abbiamo iniziato a demolirla.» «Perché?» «Tutte le opere dell'uomo e dei Sefry, nella Foresta del Re, saranno distrutte.» «Ripeto, perché?» «Perché non dovrebbero essere lì» disse Dreodh. «Perché uomini e Sefry hanno infranto la legge sacra.» «La legge del Re degli Alberi.» «Sì.» Stephen scosse il capo. «Non capisco. Queste persone... dovete aver vissuto in villaggi e tribù un tempo. Dentro la Foresta del Re o nelle vicinanze.» «Sì» disse piano Dreodh. «Quello è stato il nostro peccato. Ora dobbiamo pagare.» «Con quale magia vi costringe? Non tutti sono sensibili al suo incantesimo. Io ho visto il Re degli Alberi, ma non sono diventato un laniatore.» «Certo che no. Voi non bevete dal calderone. Non prestate giuramento.» Stephen sentì che la gola si seccava, mentre ancora una volta il mondo sembrava abbandonarlo, per mettersi a girare per un po' e tornare deforme. «Fatemi capire» disse, cercando di impedire alla voce di rivelare il suo risentimento. «Voi avete scelto questa sorte? Tutta questa gente serve il Re degli Alberi di propria spontanea volontà?» «Non so più cosa significhi scegliere» replicò Dreodh. «Be', voglio essere chiaro» disse Stephen. «Per 'scelta' intendo l'atto di prendere una decisione coscientemente. Per 'scelta' intendo dire: vi siete grattati il mento un giorno dicendo, 'Per la mia barba! Credo proprio che mi metterò a correre nudo come una bestia e comincerò a mangiare la carne dei miei simili e a vivere in caverne sotto terra'. Per 'scelta' intendo: avreste potuto, diciamo così, non fare questo?» Dreodh abbassò il capo e annuì. «Allora perché?» esplose Stephen. «Perché, per i santi, avreste scelto di diventare degli ignobili animali?» «Non c'è nulla di ignobile negli animali» replicò Dreodh. «Sono sacri. Gli alberi sono sacri. I santi sono corruzione.» Stephen fece per protestare, ma Dreodh lo interruppe con un cenno della mano. «Tra di noi c'erano quelli che hanno sempre conservato le antiche usanze... le sue usanze. Noi abbiamo fatto gli antichi sacrifici. Ma quello che ricordavamo, non lo ricordavamo bene. La nostra comprensione era
incompleta. Credevamo che, onorandolo, saremmo stati risparmiati al suo ritorno. Ma il Re degli Alberi non sa niente di onore, lealtà, inganno, né di nessuna virtù umana. La sua capacità di comprensione è quella del cacciatore e della preda, della terra e della decomposizione, del seme e della primavera. Un solo accordo è stato fatto con lui dalla nostra razza e noi lo abbiamo infranto. Perciò adesso dobbiamo servirlo.» «Dovete?» chiese Stephen. «Ma avete appena detto che avevate una scelta.» «E questa è stata la nostra scelta. Avreste fatto lo stesso, se foste stato uno di noi.» «No» rispose lui con un ghigno. «Non credo proprio.» Dreodh si alzò in piedi di scatto. «Seguitemi. Voglio mostrarvi una cosa.» Stephen lo seguì, camminando sospettoso intorno ai laniatori. Nel sonno, sembravano uomini e donne normali, fatta eccezione per lo stato generale di nudità. Rifletté che fino a quel momento, raramente aveva dato un'occhiata al corpo svestito di una donna. Una volta, quando aveva dodici anni, lui e alcuni amici avevano spiato attraverso una crepa nel muro una donna che si cambiava di vestito. Più di recente, aveva visto di sfuggita, per caso, Winna mentre faceva il bagno. In entrambe le occasioni lo spettacolo sembrava aver marchiato a fuoco gli occhi e poi subito la pancia per arrivare fino al punto in cui risiedeva il suo desiderio. Altre volte la semplice immaginazione di come una donna potesse essere fatta sotto gli abiti fungeva da potente distrazione. Ora vedeva decine e decine di donne, alcune piuttosto belle, tutte nude come i santi le avevano fatte, e non provava nient'altro che un senso generale di repulsione. Guadarono un fiumiciattolo poco profondo e presto si ritrovarono lontani dalla luce. «Tenete la vostra mano sulla mia spalla» suggerì Dreodh. Stephen obbedì, seguendolo nel buio. Anche se i santi avevano benedetto i suoi sensi, non riusciva comunque a vedere in assenza totale di luce. Poteva però quasi sentire la forma della caverna attraverso l'eco dei loro passi e si sforzò deliberatamente di tenere a mente le curve e il numero di passi che le precedevano. Ora, un'altra pallida luce cominciò a brillare davanti a loro e raggiunsero la riva rocciosa di un lago sotterraneo, dove una piccola barca li aspettava,
legata a una banchina di calcare lucido. Dreodh gli fece cenno di salire e dopo pochi attimi si ritrovarono ad attraversare acque di ossidiana. L'illuminazione proveniva da pagliuzze ondeggianti, simili a lucciole, e nelle loro minuscole lampade prese forma l'ombra di una città, vaga e delicata. Lì una spira improvvisamente scintillò come una scia d'arcobaleno; e gli occhi vuoti delle finestre si spalancarono come vigili giganti. «Voi avete intenzione di distruggere quella?» bisbigliò Stephen. «Ma è così bella!» Dreodh non rispose. Stephen notò che alcune delle luci fluttuanti avevano cominciato a radunarsi verso di loro. «Luci-stregate» spiegò Dreodh. «Non sono pericolose.» «Aspar me ne ha parlato» disse Stephen, allungando la mano per prenderne una. Erano simili a minuscoli fili di fumo incandescente, fiamme senza sostanza o calore. Ne arrivarono altre, scortandoli verso la riva opposta. Stephen già cominciava a sentire un sommesso chiacchierio. Se fossero umane o sefry non poteva dirlo, ma erano acute. Quando vide le loro forme basse sulla riva, illuminate debolmente dalle luci effimere, Stephen immediatamente capì. «Bambini» bisbigliò. «I nostri bambini» specificò Dreodh. Sbarcarono, e alcuni di quei ragazzetti si radunarono intorno a loro. Stephen riconobbe tra i bambini l'altra cantante dell'albero, la ragazza. Lei diresse il suo sguardo su Dreodh. «Perché l'hai portato qui?» domandò. «È stato chiamato. Devo portarlo dai Revesturi.» «Ripeto» disse lei, con voce sorprendentemente adulta «perché l'hai portato qui?» «Volevo che vedesse gli jungen.» «Bene, eccoci qua» disse la ragazza. «Ehawk ha detto che non ha mai visto traccia di bambini nei villaggi abbandonati» commentò Stephen. «Ora credo di capire. Lui tiene i vostri figli in ostaggio, vero? Se non servite il Re degli Alberi come laniatori, i vostri figli vengono rapiti.» «Loro servono il Re degli Alberi» disse la ragazza «perché siamo noi che gli abbiamo detto di farlo.» 2
Conversazione con la duchessa I colpi violenti e umidi degli zoccoli sulla neve si fecero più vicini, accompagnati da frammenti di conversazione. La lingua sembrava quella del re, ma i suoni nella foresta spesso ingannavano. Per questo e per molte altre ragioni Neil era nauseato da quella foresta. L'isola di Skern, dove era nato, era un luogo di montagne e mare, e si poteva camminare lì in lungo e in largo, dall'asher più alto e roccioso alla gleinn più bassa senza mai vedere più di tre miseri arbusti in qualunque posto. Questi alberi lo rendevano cieco e sordo; gli facevano calcolare male le distanze. Soprattutto, Neil ne era convinto, le foreste erano luoghi di morte dove il marcio era sempre in agguato e dove sembravano risiedere le cose più antiche e malate del mondo. Bastava il mare aperto e pulito o una brughiera battuta dal vento e lui avrebbe ringraziato san Loy. Ma è nella foresta che sono, pensò, e a quanto pare ci morirò. Si accovacciò ancora di più dietro al cespuglio. I cavalli della sua compagnia erano dispersi, se non erano stati divorati dai laniatori, e a piedi contro dei cavalieri nessuno di loro aveva una sola possibilità, fatta eccezione probabilmente per Aspar White. Ma Neil non riusciva a immaginare il guardaboschi che lasciava Winna al suo destino. Perciò se questo era un nemico nuovo, o più di uno dei vecchi, avrebbero dovuto rimanere nascosti o sarebbero morti. Poi, quando i primi della compagnia a cavallo arrivarono in vista, Neil ebbe una fugace visione di capelli corti e rossi e del viso di Anne Dare. I cavalieri che erano con lei portavano un vessillo che gli sembrava familiare: l'elmo di Loiyes. Un senso di sollievo si propagò dentro di lui. Stava rinfoderando la spada, preparandosi a salutarli, quando un pensiero gli attraversò la mente e lo trattenne. E se gli assalitori erano stati inviati da Loiyes? E se la volubile Elyoner si fosse unita al fratello, l'usurpatore? Ma Anne non sembrava prigioniera; sedeva sicura sul suo cavallo, col cappuccio del mantello tirato giù e uno sguardo indagatore, ma non spaventato. Quando lei e i suoi nuovi compagni videro la carneficina, fermarono i cavalli. «Che cosa è successo qui?» sentì Anne che domandava. «Non so cosa dire, Maestà» rispose una voce maschile. «Ma non dovre-
ste guardare uno spettacolo così disdicevole.» Quelle parole furono seguite dalla risata di una donna che non era Anne, ma che comunque Neil riconobbe immediatamente. Sospirò e si alzò dal suo nascondiglio. La sua gioia per aver ritrovato Anne viva e apparentemente illesa non annullava completamente il suo nuovo sospetto, ma non riusciva a trovare una ragione per continuare a nascondersi. «Vostra Maestà» chiamò. «Sono io, Neil MeqVren.» Tutte le teste si voltarono verso di lui e sentì archi che venivano tesi. «No» disse Anne, con una voce imperiosa. «Questo è uno dei miei uomini. Sir Neil, state bene?» «Sì, Maestà.» «E gli altri?» La ragazza sorrise incerta, poi sollevò una mano. «Tio video, Catio.» Neil seguì il suo sguardo e vide che Catio era uscito allo scoperto. Gridò qualcosa ad Anne in vitelliano che sembrava rispecchiare lo stato d'animo di Neil: sollievo e gioia. «Che mi dite di Austra?» gridò allora Anne. «L'avete vista?» Ma Austra stava già correndo verso di lei e, dimenticando ogni dignità, l'erede al trono di Crotheny saltò giù da cavallo e accolse l'amica in un violento abbraccio. Improvvisamente si ritrovarono tutte e due a piangere e a parlare velocemente, ma Neil non riusciva a sentire che cosa si stessero dicendo, né ci provò. «Sir Neil» disse la voce sensuale che accompagnava la risata familiare. «Che meravigliosa fortuna vedervi di nuovo.» Neil seguì quella melodia gutturale fino alla signora che la produceva. Occhi color indaco lo stuzzicarono e la piccola bocca si arricciò in un sorriso birichino. Per un attimo, si sentì riportato a un altro giorno, un giorno in cui la sua anima non sembrava così appesantita e il ragazzo che era dentro di lui era ancora vivo. «Duchessa» disse, inchinandosi. «Anche per me è un piacere rivedervi e per di più in buona salute.» «La mia salute è abbastanza buona» replicò lei arricciando il naso. «Ma oserei dire che questa cavalcata al freddo non fa niente per migliorarla.» Ma il suo sorriso si allargò. «Quanti eroi di Cal Azroth ci sono» aggiunse. «Aspar White e Winna Rufoote, credo.» «Vossignoria» risposero in coro i due. «Siamo in pericolo qui, sir Neil?» domandò Anne, sollevando lo sguardo
dalla spalla di Austra. Ancora una volta Neil rimase colpito dal tono di comando, qualcosa che non aveva notato nella giovane donna pochi mesi prima. «Non so di minacce immediate, mia signora, ma considero insicura questa foresta» rispose lui. «La maggior parte degli uomini che ci hanno accompagnato da Dunmrogh sono morti a ovest, oltre il bosco. Quelli che vedete qui sono tutti coloro che so con certezza che sono rimasti in vita.» «Dov'è Frete Stephen?» Neil diede un'occhiata ad Aspar. «È stato preso dai lardatoli» rispose fermamente il guardaboschi. «Lui e Ehawk.» Anne lanciò uno sguardo nella foresta come per cercare i due uomini, poi tornò a fissare il guardaboschi. «Credete che siano morti?» «No. Non lo credo.» «Neanch'io» disse Anne. «Guardaboschi White, vorrei scambiare due parole con voi in privato, se non vi disturba.» Neil osservò con un senso di leggera frustrazione la sua protetta e il guardaboschi che si allontanavano dal gruppo. Gli riusciva difficile non guardarli, perciò diresse la sua attenzione di nuovo sulla duchessa. «A Glenchest tutto bene?» domandò. «Glenchest è bella come sempre» rispose lei. «E non è stata coinvolta nell'attuale conflitto?» «Non direi. Niente è immune alle azioni avventate di mio fratello. Ma non credo che mi abbia mai considerato una minaccia.» «Dovrebbe invece?» domandò Neil. La duchessa sorrise dolcemente. «Alcuni mandano in giro la voce che io sia una minaccia alla virtù» rispose lei. «E io spero vivamente di essere nemica della noia e del grigiore, ovunque questi si annidino. Ma mio fratello sa che non ho il minimo interesse per il trono e tutto quel ridicolo tedio che lo accompagna. Mi accontento di essere lasciata ai miei divertimenti.» «Allora voi non appoggiate né un pretendente né l'altro!» La duchessa alzò una mano per soffocare uno sbadiglio. «Avevo dimenticato, sir Neil, che essere bello e giovane non vi impedisce di essere... a volte... un po' noioso.» «Vi porgo le mie scuse, Altezza» replicò Neil, riconoscendo fin troppo bene che lei non aveva risposto alla domanda. Quello poteva essere un
buon segno; la duchessa deteneva molto chiaramente il controllo della situazione. Poteva permettersi di metterlo al corrente delle sue intenzioni anche se lui non le gradiva. Allontanando lo sguardo, vide che la conversazione di Anne col guardaboschi era terminata e Aspar White adesso si stava avvicinando. «Duchessa» disse Aspar, ostentando un inchino piuttosto rozzo. «Guardaboschi. Come state voi e la vostra giovane creatura?» «Abbastanza bene, vostra grazia, e voi?» «Ho una certa voglia» mormorò lei «di cacciagione selvatica. Non penso che ci sia niente di sconveniente, no?» «Ah...» fece Aspar. «Di solito preferisco qualcosa di tenero e che sappia di latte,» aggiunse «o per lo meno che non si sia staccato dalla mammella da troppo tempo. Ma a volte uno desidera qualcosa che sia ben stagionato, non credete?» «Io no... con i laniatori e tutto il resto, ehm, vostra grazia...» «Zia Elyoner,» disse Anne «lasciate stare questo poveruomo. Non serve torturarlo in questo modo. Ora deve andare. Sta solo cercando di congedarsi.» «È la verità?» domandò Neil al guardaboschi. «Allora l'avete convinta?» Chiaramente sollevato perché finalmente poteva deviare il corso della conversazione, Aspar si grattò la mascella e diresse la sua attenzione su Neil. «Be', no, non esattamente» disse. «Sua Altezza crede che sia meglio se Winna e io andiamo a cercare Stephen.» «Avrei voluto dire una parola o due al riguardo» replicò piatto Neil. L'espressione del guardaboschi si rabbuiò, ma Anne s'intromise prima che potesse rispondere. «Lui non mi ha convinto di niente, sir Neil» disse Anne. «Ho le mie ragioni per mandarlo dietro a Frete Stephen.» Così dicendo tornò al suo cavallo. Neil drizzò le spalle, sentendosi di nuovo improvvisamente nell'acqua troppo alta. La regina Muriele lo aveva spesso messo in svantaggio per non avergli detto abbastanza. Ora, sembrava che Anne stesse diventando lo stesso tipo di donna. «Scusatemi» disse rivolto ad Aspar. «Non vi conosco da molto tempo, ma so che tipo siete. Non sto combattendo sul terreno che preferisco, Aspar White. La cosa mi rende nervoso.» «Capisco» rispose Aspar. «Ma siete più adatto voi a questo genere di co-
se che io. Non so niente di corti, di mosse brillanti o di combattimenti contro eserciti. Non sarò di alcun aiuto quando arriverà il momento di metterla sul trono. Per il Malvagio, non riesco nemmeno a capire tutto quello che sta succedendo qui nella foresta, ma so che questo è il mio posto. Anche Sua Maestà lo sa, a quanto pare.» Neil annuì e gli prese il braccio. «Siete un brav'uomo, guardaboschi. È stato un piacere combattere al vostro fianco. Spero di rivedervi.» «Già» replicò Aspar. «Nere deaf leyent teuf lente» disse al guardaboschi nella sua lingua natia. «Possano i santi non indebolire la vostra mano.» «E voi tenete gli occhi aperti» rispose Aspar. Oltre a loro, i laniatori dovevano aver risparmiato anche i cavalli, perché mentre parlavano Orco guidò silenziosamente gli altri destrieri verso il punto in cui si trovava il gruppo di persone. Aspar accarezzò il muso di Orco, mentre gli uomini della duchessa li rifornivano di cibo, e sul viso del guardaboschi comparve un'espressione curiosamente simile a un senso di sollievo. Quando ebbero finito, lui e Winna salirono in groppa. Tirando la cavalla di Stephen, Angela, si allontanarono lungo l'unico sentiero in qualche modo praticabile, lasciando Neil a una sensazione di vulnerabilità più forte che mai. Non appena il guardaboschi ebbe ripreso il suo cammino, il resto del gruppo ricominciò a viaggiare verso Glenchest. Neil ascoltò, con orrore sempre crescente, il racconto di Anne su quanto le era successo: il rapimento, la fuga e il secondo rapimento a Sevoyne. «Dopo che Festum mi ha aiutato a fuggire,» concluse «abbiamo preso la strada per Glenchest, ma ci siamo imbattuti proprio in zia Elyoner.» «Questa è stata sicuramente una circostanza fortunata» disse Neil. «Le Fedi devono avervi guardata.» «Non date alle Fedi più di quanto è loro dovuto.» Elyoner, che cavalcava a portata d'orecchio, si unì alla conversazione. «Loiyes è la mia provincia e sono cresciuta in questo paese. Sono pochi i posti in cui non ho occhi o orecchie. «Avevo ricevuto rapporti sugli uomini che vi avevano attaccato. Sono arrivati da est, fingendosi un distaccamento di una compagnia di soldati al servizio di mio cugino Artwair. Mi era anche stato riferito di una ragazza dai capelli rossi e un accento da nobile che era arrivata a Sevoyne e poi era misteriosamente scomparsa. Ho deciso che la cosa era degna della mia
personale attenzione.» Sbadigliò. «Inoltre, ultimamente ho avuto un periodo orrendo per quanto riguarda i miei divertimenti. È un secolo che non viene qualcuno d'interessante a farmi visita e non sono particolarmente attratta dall'attuale corte a Eslen.» Inclinò la testa pensierosamente. «Anche se mi è stato riferito che c'è stato uno spettacolo musicale piuttosto interessante lì, a Yule.» «Avete notizie aggiornate sulla corte?» domandò Neil impaziente, sperando che la duchessa avesse anche informazioni più utili. «Sciocchino» replicò Elyoner. «Certo che sì.» Neil aspettò, ma evidentemente la nobile non aveva intenzione di aggiungere altro. «È una lunga cavalcata fino a Glenchest, zia Elyoner» disse alla fine Anne. «Potreste metterlo al corrente degli ultimi sviluppi.» «Ma tesoro, ho già raccontato tutto a voi» si lamentò Elyoner. «Non vorrete mica che mi guadagni la reputazione di essere ripetitiva?» «Potrei sopportare anche di risentirlo» replicò Anne. «Ora sono molto più sveglia.» «Più sobria, vorrete dire.» «A proposito» disse Neil. «Questo Festum. Che ne è stato di lui?» «L'abbiamo decapitato, ovviamente» rispose allegramente la duchessa. «Oh» fece Neil. «Spero che l'abbiate interrogato prima.» «Perché avrei dovuto?» domandò lei. «Vi sta di nuovo prendendo in giro, sir Neil» lo avvertì Anne. «Si trova proprio lì, sotto sorveglianza, vedete?» Neil guardò dietro di sé e vide un tipo imbronciato su una giumenta scura, controllato da vicino dai soldati. «Ah» fece Neil. «E ora, posso annoiarvi con la situazione della corte?» domandò Elyoner. «Ve ne prego, metreine.» Lei sospirò. «Be', nero è il colore, dicono. Sfoggiato perché la corte è a lutto, ma è curioso che il lutto non fosse stato realmente osservato fino alla ricomparsa del principe Robert, anche perché lui era uno di quelli per cui erano a lutto! No, in realtà credo che dipenda dal fatto che il principe indossa solo abiti neri. Ma credo che adesso dovrei chiamarlo imperatore.» «'Usurpatore' andrà benissimo» commentò Anne.
«E la regina Muriele?» domandò Neil, cercando di mascherare la tensione nella voce, temendo di conoscere la risposta. «Come sta la mia signora? Avete notizie della regina?» «Muriele?» ripeté Elyoner. «Ecco, lei è chiusa in una torre, come quella tipa delle favole.» Neil sentì rallentare il battito del suo cuore. «Ma è viva?» Elyoner gli diede un colpetto sul braccio. «Le mie notizie sono di alcuni giorni fa, ma non è stata fatta alcuna esecuzione, né sono state programmate. Sarebbe una mossa sbagliata da parte di Robert. No, sono sicura che abbia altre intenzioni.» «Com'è successo esattamente? Come mai la regina ha perso il potere?» «Be', perché non avrebbe dovuto?» replicò Elyoner. «Con l'imperatore assassinato, Muriele aveva pochi alleati su cui contare. Charles era sul trono, certo, ma anche se è un ragazzo dolce, tutto il regno sa che è, be', toccato dai santi.» Neil annuì. Il vero erede al trono aveva l'aspetto di un uomo, ma la mente di un bambino. «E così era Muriele a detenere il potere alle spalle del re. Ma c'erano parecchie altre persone che desideravano ricoprire quel ruolo: Praifec Hespero, un grande numero di nobili del Comven, i principi di Hansa, Liery e Virgenya. Poi c'era lady Gramme, con il suo pretendente alla corona.» «Il mio fratellastro» brontolò Anne. «Illegittimo, ma pur sempre di sangue Dare» rispose Elyoner. «A ogni modo, Muriele potrebbe aver tenuto Charles sul trono, ma ha commesso più di qualche errore. Ha sostituito la sua guardia del corpo con dei guerrieri di Liery, al comando di suo zio, che lì è un barone.» «Conosco sir Fail» disse Neil. «È il mio benefattore.» «Quasi un padre, a quanto mi hanno riferito» commentò Elyoner. «Sarete felice di sapere che anche lui è vivo... e vegeto.» Neil sentì quasi tutti i muscoli che si rilassavano. «Grazie» disse. Sentiva la mancanza di sir Fail più di quanto avrebbe mai potuto dire. Non aveva mai avuto bisogno del consiglio del vecchio come in quegli ultimi mesi. «Comunque,» proseguì Elyoner «la cosa è stata vista come il segnale che lei aveva deciso di passare il trono ai suoi parenti lierish al di là del mare. Poi i suoi uomini hanno fatto irruzione durante una festa da ballo alla villa di lady Gramme. Coloro che si erano radunati lì erano quasi esclusivamente custodi terrieri, non nobili, ma...» «Custodi terrieri?»
La duchessa batté le palpebre. «Sì, perché cosa c'è che non va?» «Non ho, ehm, idea di chi siano.» «Ah, mio pulcino» rispose Elyoner. «I discendenti della nobiltà governano, come sapete: il re il paese, gli arcigrefi i grefati, i duchi e le duchesse i ducati e così via. È così che funziona nella maggior parte dei paesi e in quasi tutti i posti dentro Crotheny. «Ma nella provincia di Terranuova, dove si trova Eslen, le cose sono un po' diverse. Come sapete si trova sotto al livello del mare. I malend che tirano fuori l'acqua devono essere sempre in funzione. Da secoli la corona garantisce la terra a coloro che si mostrano capaci di assicurare un corretto funzionamento dei macchinari. Queste persone sono i custodi terrieri. Molti di loro sono più ricchi della nobiltà, comandano truppe e in genere godono della fedeltà di coloro che vivono e lavorano la loro terra. Essi sono, in poche parole, un potere che bisogna tenere in considerazione, ma per più di un secolo sono stati trattati con indifferenza dalla corte. Lady Gramme li stava corteggiando, per cercare di convincerli ad appoggiare la sua pretesa al trono, perciò Muriele ha scatenato la loro ira, attaccando la festa di Gramme. «E poi il mio povero fratello morto, Robert, ha fatto la sua comparsa... non era morto come tutti credevano. In quel momento Muriele non aveva alleati sicuri, fatta eccezione per la sua guardia lierish; tutti i nobili appoggiavano Robert anziché Charles, e lo stesso valeva per la Chiesa. L'unica altra erede in vita era Anne, e nessuno di noi sapeva che lo fosse. Muriele era stata piuttosto riservata riguardo al luogo in cui l'aveva mandata. Credo che Fastia lo sapesse.» La sua espressione si addolcì e Neil intuì di aver lasciato trasparire qualcosa sul suo viso. «Scusatemi, caro» disse Elyoner, e la sua compassione, per una volta, sembrò piuttosto sincera. «Non avrei dovuto nominarla.» «Perché mai?» domandò bruscamente Anne. Sentendosi improvvisamente a disagio, Neil guardò da un'altra parte, cercando di trovare qualcosa da dire nel caos dei suoi pensieri. «Non avrei dovuto farlo» disse Elyoner. «Basta parlare di coloro che non ci sono più, per il momento.» «No, non importa, credo di aver capito» replicò Anne. Il tono della sua voce era piatto, ma Neil non sapeva dire se fosse arrabbiata. «A ogni modo,» proseguì la duchessa «Muriele capì bene la situazione e mandò via Charles insieme a sir Fail, alla sua guardia lierish e anche ai
Maestri, che nonostante il modo in cui lei li ha trattati sembrano ancora esserle fedeli. Sir Fail ha portato Charles a Liery, dove per il momento è al sicuro.» «E che ne è dei Maestri?» domandò Neil. Il sopracciglio destro di Elyoner s'inarcò. «Be', guardatevi intorno, sir Neil.» Neil lo fece. Aveva notato visi vagamente familiari fin dall'inizio tra gli uomini di Elyoner, ma pensava che fosse perché aveva già conosciuto le sue guardie. Ora si rese conto che alcuni di loro, in realtà, erano uomini che aveva visto per la prima volta a Eslen. «Non portano la loro solita uniforme» osservò. «Sono stati banditi» spiegò Elyoner. «Sembrava prematuro che si rendessero bersagli visto che non avevano niente per cui combattere e nessuno che li guidasse.» Neil annuì. Anche lui aveva viaggiato senza insegne, a Vitellio. «Quindi la regina è rimasta priva di difese.» «Esattamente. Deve aver capito che non aveva possibilità di opporsi con successo al colpo di stato, perciò ha mandato i suoi uomini dove avrebbero potuto fare di meglio: fuori dalle mura. Comunque, quello è stato il momento in cui Robert l'ha chiusa nella torre. Di tanto in tanto la tira fuori e la fa vedere in giro per mostrare che è ancora viva.» «Se la regina è diventata così impopolare, perché lui si preoccupa del fatto che la gente sappia che è viva?» Elyoner abbozzò un sorriso. «Perché si è verificata una cosa molto particolare. La rappresentazione di una specie di spettacolo musicale, l'ho accennato prima. «In qualche modo ha portato molti custodi terrieri di nuovo dalla parte di Muriele e dei suoi figli. In parte perché la figlia di un custode era coinvolta ed è stata arrestata da Robert con l'accusa di tradimento. È stata condannata anche dal praifec per eresia e stregoneria, insieme al compositore, un uomo che era già un eroe popolare di Terranuova. Robert tende, temo, ad agire più per rabbia che seguendo la ragione a volte. Ora ha scoperto di non piacere molto ai custodi terrieri, dopo tutto.» «Allora abbiamo una possibilità» disse Neil. «Quante truppe controllano questi custodi?» «Le loro milizie, tutte insieme, arrivano a circa ottomila unità, mi è stato detto» spiegò Elyoner. «Robert può raccoglierne forse dodicimila dai nobili che gli rimangono fedeli. Quelli a est e lungo la foresta sono troppo im-
pegnati a combattere contro i laniatori, e creature ancora più strane, per mettere da parte truppe che possano aiutare Robert o coloro che gli si oppongono.» «Che mi dite di Hornladh e delle Regioni Centrali?» «Credo che Anne possa mettere su un esercito in grado di uguagliare quello che difende Eslen» disse Elyoner. «Ne sapremo di più a breve.» «Bene» commentò Neil. «Allora possiamo batterci.» «Solo se fate in fretta» rispose Elyoner. «Perché?» «Perché Muriele sta per sposare l'erede al trono di Hansa, il principe Berimund. È stato annunciato. Una volta che l'unione avrà avuto luogo, Hansa potrà inviare le sue truppe senza provocare il parere contrario della Chiesa. A dire il vero, Robert ha già accettato che z'Irbina stazioni a Eslen cinquanta cavalieri della Chiesa e le loro guardie per appoggiare ogni decisione che arrivi dal fratrex Prismo. Sono in marcia mentre noi parliamo. Non potete combattere Robert, Hansa e la Chiesa.» «E voi, duchessa? Da che parte vi schiererete in tutto questo?» domandò Neil. «Sembrate troppo ben informata su questo conflitto per una che non intende prendere posizione.» Elyoner soffocò una risatina. Produsse uno strano suono, allo stesso tempo infantile e stanco della vita. «Non ho mai detto di non aver preso posizione, mia colombella» replicò. «Solo che trovo noiosa la questione della mia alleanza, come il resto di questa faccenda. La guerra non mi si addice. Come ho già detto prima, desidero più d'ogni altra cosa esser lasciata in pace, e fare quello che voglio. Mio fratello mi assicura che sarà così finché seguirò le sue istruzioni.» Ora, finalmente, Neil cominciò a sentire il campanello d'allarme che suonava nella sua testa. «E quelle istruzioni erano?» domandò. «Erano piuttosto specifiche» disse lei. «Se Anne si affaccia al mio porticato, devo accertarmi che sparisca, immediatamente e per sempre, insieme a chiunque l'accompagni.» 3 Figli della follia
Stephen lanciò un'occhiata a Dreodh, ma l'uomo non osò controbattere la dichiarazione della ragazza. «Voi avete ordinato ai vostri genitori di diventare laniatori?» domandò Stephen, cercando di trovare un modo perché quelle parole acquistassero un senso. «Perché mai l'avreste fatto?» Stephen esaminò la ragazza alla ricerca di qualche segno che dicesse che in fondo era qualche altra cosa, magari una vecchia anima trasferitasi in un giovane corpo o una creatura che somigliasse a un essere umano come un colibrì somiglia a un'ape. Ma riuscì solo a trovare quello strano e lungo momento che restava sospeso tra la bambina e la donna. I bambini, a differenza degli adulti, non erano nudi; la ragazza indossava una tunica semplice, gialla, che spiombava come una campana stretta. Un frammento di ricamo sbiadito sui polsini stava a indicare che qualcuno, la madre, la nonna, la sorella o forse la ragazza stessa, aveva provato ad abbellirlo in alcuni punti. Era magra, ma le mani, la testa e i piedi dentro pantofole di cuoio sembravano troppo grandi. Il naso era una piccola pendenza, ancora quello di una ragazza, ma gli zigomi cominciavano a sporgere come sul viso di una donna. Alla luce fioca, gli occhi sembravano color nocciola. I capelli castani erano più chiari sulla testa e alle punte. Lui se la immaginò facilmente su un prato con una collana di trifoglio che giocava al Ponte di Roccia Traballante o alla Regina del Bosco. La vedeva girare con la parte bassa della tunica che si gonfiava come un vestito da ballo. «La foresta è malata» disse la ragazza. «Il male si sta diffondendo. Se la foresta muore, lo stesso farà il mondo intero. I nostri genitori hanno infranto l'antica legge e contribuito a portare questo male sugli alberi. Gli abbiamo chiesto di risistemare le cose.» «Quando avete suonato il corno, avete richiamato il Re degli Alberi nel mondo» spiegò Dreodh. «Ma la sua strada è stata preparata per generazioni. Dodici anni fa, noi dreothen cantammo gli antichi riti e facemmo i sette sacrifici. Dodici anni, il battito del cuore di una quercia, questo è il tempo che c'è voluto perché alla fine la terra lo partorisse. «E in quei dodici anni, ogni bambino nato sul suolo consacrato della foresta è stato generato da grembi carezzati dalla cicuta e dalla quercia, dalla cenere e dal vischio. Erano figli suoi. Quando lui si è svegliato, loro si sono svegliati.» «Noi sapevamo quello che dovevamo fare, tutti noi nello stesso momento» spiegò la ragazza. «Abbiamo lasciato le nostre case, le città e i villaggi.
Quelli che erano troppo piccoli per camminare li abbiamo portati in braccio. E quando i nostri genitori sono venuti a cercarci, gli abbiamo detto come sarebbero andate le cose. Alcuni fecero resistenza; non hanno bevuto l'idromele o non hanno mangiato la carne umana. Ma la maggior parte ha fatto ciò che gli abbiamo chiesto. Ora sono il suo esercito, la sua schiera per ripulire la foresta dalla corruzione che l'invade.» «Idromele?» domandò Stephen. «È questa la sostanza contenuta nei calderoni? Un idromele che li priva della ragione?» «Idromele è una parola che può andar bene» spiegò Dreodh. «Ma non è ottenuto dal miele. È Oascef, l'Acqua della Vita, è Oasciaodh, l'Acqua della Poesia. E non ci priva della ragione, ce la restituisce. Ci riporta alla foresta e alla salute.» «Devo aver frainteso» ammise Stephen. «I laniatori che mi hanno condotto qui sembravano piuttosto... pazzi. Questo Oascef non viene per caso ricavato da un fungo simile al membro maschile?» «Quello che voi chiamate pazzia è essenza divina» rispose la ragazza, ignorando la sua domanda. «È lui dentro di noi. Non c'è paura né dubbio, nessun dolore o desiderio. In quello stato noi riusciamo a sentire le sue parole e a conoscere la sua volontà. E solo lui può salvare questo mondo dalla febbre che emerge strisciando dalle sue stesse radici.» «Allora non capisco» disse Stephen. «Dite di aver scelto di diventare quello che siete, che gli atti indescrivibili che commettete sono giustificati perché il mondo è malato. Benissimo, allora di che malattia si tratta? Contro che cosa combattete esattamente?» Dreodh sorrise. «Ora state cominciando a porre le domande giuste. Ora cominciate a capire perché lui vi ha richiesto e ha comandato che veniste portato da noi.» «No, non capisco» disse Stephen. «Temo di non capire affatto.» Dreodh fece una pausa, poi annuì comprensivo. «Non siamo noi quelli che devono spiegarvi questa cosa. Ma vi porteremo da colui che lo farà. Domani.» «E fino a quel momento?» Dreodh scrollò le spalle. «Questo è quello che resta dell'insediamento degli Halafolk. Tra breve sarà distrutto, ma se desiderate esplorarlo, fate pure. Dormite dove volete; vi troveremo quando sarà il momento.» «Potrei avere una torcia o...» «Le luci stregate vi accompagneranno» lo rassicurò Dreodh. «E le case hanno una loro illuminazione.»
Stephen camminò tra le stradine scure e strette, cercando di classificare le sue priorità, ma si trovò rapito dalla città stessa. La strada era delimitata su entrambi i lati da edifici a due, tre, a volte quattro piani. Erano stranamente sottili, molti attaccati tra di loro, altri divisi da vicoli stretti. Sebbene costruiti in pietra, sembravano fatti di veli, e quando le luci stregate si radunavano vicino a essi, brillavano come onice lucida. Le primissime strutture erano occupate dalla maggior parte dei bambini. Poteva sentirne le risate, i canti e il tenue ronzio di quelli che dormivano. Se i suoi sensi si concentravano, riusciva a distinguere il mormorio di almeno un migliaio di loro, se non di più. Alcuni dei più piccoli stavano piangendo, ma all'infuori di questo non sentiva nulla che potesse classificare come paura, angoscia o disperazione. Non poteva essere sicuro che tutto quello che la ragazza e Dreodh gli avevano raccontato fosse vero, ma una cosa sembrava certa: questi bambini non erano prigionieri, o per lo meno non di qualcosa che li spaventava. Si spinse più dentro l'antica città, alla ricerca di un po' di solitudine. Sapeva che avrebbe dovuto cercare una via d'uscita, ma gli sembrava poco probabile che i suoi rapitori lo avrebbero lasciato vagare liberamente se ci fosse stata una possibilità di scappare. Inoltre, al momento era troppo curioso per desiderare veramente di fuggire. Se Dreodh stava dicendo la verità, Aspar e Winna erano abbastanza al sicuro, almeno dai laniatori. Se invece stava mentendo, i suoi amici erano quasi certamente già morti. Non ci credeva e non voleva farlo, né voleva pensarci troppo fino a quando non avesse trovato un indizio che lo provasse. Ma l'opportunità di scoprire qualcos'altro su ciò che stava succedendo, o su ciò che il Re degli Alberi voleva... be', era quello che tutti loro stavano cercando di sapere, no? Di quale utilità poteva essere lui nel tentativo di aiutare una principessa a riguadagnare il suo trono? Non era un guerriero, né uno stratega. Lui era, pensò, uno studioso con un interesse per il passato e per le lingue comuni e incomprensibili. Di sicuro posso fare meglio qui che marciando su Eslen. Seguendo la sua curiosità, provò una delle porte. Era di legno e non vecchissima. Gli Halafolk, pensò, dovevano aver commerciato costantemente con i loro vicini in superficie. Dopo tutto dovevano mangiare e, anche se i laghi sotterranei potevano fornire un po' di pesce, e qualche tipo di messi poteva essere coltivato senza la luce del sole, di sicuro la maggior parte del loro sostentamento era venuto dalla superficie.
Stephen si domandò come avessero potuto realizzare questo commercio riuscendo a mantenere segreta la posizione delle rewn, ma la risposta era così ovvia che si sentì uno stupido per averci pensato anche solo tre secondi. I Sefry. Quelli che viaggiavano sopra, con le loro carovane: erano loro i fornitori. La porta si aprì facilmente, rivelando una stanza di pietra. Il posto aveva un odore leggermente aspro. Il pavimento duro era reso più morbido da un tappeto ricavato da una sostanza che sembrava lana. Le pecore potevano vivere sotto terra? Ne dubitava. Il motivo era vagamente familiare, in qualcosa simile alle spirali astratte e colorate dipinte sulle tende e sui carri sefry. Quattro cuscini formavano un largo anello intorno a un piccolo tavolino rotondo. In un angolo, un telaio attendeva pazientemente un tessitore. Chissà se il tappeto era stato tessuto con quello! Cesti di vimini traboccavano di matasse di filo e arnesi di legno che lui non conosceva. La stanza appariva abbastanza vissuta, come se gli Halafolk non avessero portato molto con sé, andandosene. Forse era proprio così. Dov'erano andati? Erano fuggiti per il Re degli Alberi o per il male misterioso di cui aveva parlato Dreodh? Non molto tempo dopo che si erano incontrati, Aspar aveva detto qualcosa riguardo alla sua sensazione che la foresta 'stesse male'. Aspar aveva speso tutta la sua vita nel cuore dei boschi, perciò doveva saperlo. Poi avevano incontrato il greffyn, una bestia talmente velenosa che già solo la sua impronta era in grado di uccidere, e subito dopo i rovi neri che spuntavano sulle impronte del Re degli Alberi e crescevano fino a soffocare ogni creatura vivente su cui si arrampicavano. Quindi erano apparsi ancora altri mostri che sembravano uscire direttamente da Donne Nere: utin, nicwer, sedhmhari, come li aveva chiamati Dreodh. La traduzione migliore che Stephen poteva dare era 'demone del sedos'. Chissà se anche i mostri, come i preti, percorrevano le vie dei templi e così facendo guadagnavano poteri. C'era qualcosa in particolare degli utin che lo preoccupava. Era quasi stato ucciso da uno di loro, ma ormai erano diverse le cose dalle quali era quasi stato ucciso. No, c'era qualcos'altro... Poi realizzò cos'era a preoccuparlo. L'utin che lo aveva attaccato era l'unico che avesse mai incontrato, eppure per qualche ragione pensava a loro al plurale. C'era stato un solo greffyn, ma Aspar ne aveva visto un altro dopo aver ucciso il primo. Ma
nessuno di quelli che conosceva aveva visto più di uno di questi nuovi mostri in una sola volta. Allora perché stava pensando agli utin e non all'utin? Chiuse gli occhi, richiamando la memoria che san Decamnus gli aveva donato, ripensando al momento in cui i laniatori lo avevano attaccato. Nel caos, c'era stato qualcos'altro... Ecco. Adesso riusciva a vederlo chiaramente, come se un artista meticoloso avesse dipinto la scena per lui. Stava guardando da sopra la spalla, mentre spingeva Winna sull'albero. C'era Aspar, che si stava voltando con il pugnale in mano. Dietro c'erano i laniatori, che sbucavano dalla foresta. Ma che cosa stava guardando Aspar? Non i laniatori... Era rimasto all'angolo del suo campo visivo; aveva visto solo gli arti e parte della testa, ma non vi erano dubbi. C'era un utin là dietro, subito prima dei laniatori. Forse più di uno. Allora che cosa gli era successo? I laniatori li avevano uccisi o lavoravano insieme a loro? Questa seconda possibilità sembrava remota. Il greffyn, il primo utin, il nicwer che avevano incontrato nel fiume Whitraff, i rovi neri... I rovi neri crescevano sui passi del Re degli Alberi, ma si aggrappavano a lui malignamente, come nel tentativo di ricoprirlo e trascinarlo a terra. Stando ad Aspar, lui una volta era stato imprigionato da quei rovi, in una valle nascosta tra le Montagne della Lepre. I laniatori avevano assalito e ucciso gli uomini per compiere dei sacrifici umani su tumuli dei sedos in tutta la foresta, e quegli uomini sembravano alleati del greffyn; erano le uniche creature che riuscivano a stargli vicino senza ammalarsi mortalmente. No, si corresse Stephen in silenzio. I monaci rinnegati non erano gli unici a essere immuni al veleno del greffyn. Anche lui lo aveva guardato negli occhi senza subire effetti negativi. Anche Aspar sembrava aver sviluppato almeno una tolleranza, da quando il Re degli Alberi lo aveva curato dal tocco del mostro. Allora che cosa significava tutto questo? Dipendeva dal fatto che lui aveva percorso una via dei templi? O forse tutti i sacerdoti ordinati erano immuni al sedhmhari? I santi sono corruzione, aveva detto Dreodh. Se i laniatori erano l'esercito del Re degli Alberi, i mostri che avevano incontrato facevano anche loro parte di un esercito: l'esercito del nemico del Re degli Alberi. Ma chi era costui?
La risposta più naturale era la Chiesa. Sapeva che i monaci corrotti avevano amicizie importanti come il praifec di Crotheny, Marché Hespero. La loro autorità poteva venire da ancora più in alto. Ma se anche lo stesso fratrex Prismo fosse stato coinvolto, questo significava forse che era lui il padrone del greffyn? O era solo un altro mostro che obbediva a un potere ancora più grande? Ripensò a tutte le cose che aveva letto sul Re degli Alberi, cercando di ricordare chi era considerato suo nemico, ma poche fonti avevano fatto menzione di un nemico di qualche sorta. Il re esisteva da prima dei santi, dell'umanità, forse anche da prima degli Skaslos che nell'antichità avevano reso schiave la razza Umana e quella Sefry. Sembrava annunciare la fine dei tempi. Se il re aveva dei nemici, questi dovevano essere, come sembrava aver suggerito Dreodh, i santi stessi. E questo, a quanto pareva, lo riportava alla Chiesa. Be', gli erano state promesse delle risposte per il giorno dopo. Non era tanto ingenuo da immaginare che tutte le sue domande ne avrebbero ottenuto una, ma se avesse scoperto qualcosa in più rispetto a ciò che già sapeva, sarebbe già stato abbastanza. Si spinse più dentro la casa halafolk e, non trovando niente che catturasse la sua attenzione, uscì e vagò nella città distrutta, attraversando sottili archi di pietra sopra canali tranquilli, il cui profilo era in parte illuminato dalle luci stregate. Il lontano chiacchierio dei bambini era stato intensificato da una nenia atonale più lontana, che probabilmente veniva dalla prima sala in cui era stato portato. Forse i laniatori si stavano preparando a un'altra uscita in superficie, bevendo idromele ed eccitando la loro sete di sangue? La strada svoltava in discesa e lui la seguì, nella vaga speranza di scoprire una qualche sorta di scriftorium, un deposito segreto di scritti sefry. Quella era una razza antica ed era stata tra le prime a essere resa schiava dagli Skasloi. Era molto probabile che avessero registrato cose che le altre razze avevano dimenticato. Mentre si chiedeva che aspetto potesse avere uno scriftorium sefry, a Stephen venne in mente di non aver mai visto uno scritto sefry di nessun genere, né sentito parlare di una lingua sefry. Tendevano a parlare la lingua del luogo in cui vivevano. Avevano una specie di gergo proprio, ma lo usavano raramente. Aspar una volta l'aveva parlato un po' per Stephen e lui aveva individuato parole prese da una quindicina di lingue diverse, ma non
una singola parola che sembrasse unicamente sefry. La conclusione era che erano stati schiavizzati in tempi così remoti da aver perso la lingua che forse una volta avevano, finendo col parlare invece il gergo che gli Skasloi avevano ideato per i loro schiavi. Quella lingua era così odiata che l'abbandonarono subito dopo la morte di tutti i loro padroni, adottando invece le lingue dei loro compagni umani. La cosa sembrava assolutamente plausibile. In varie fonti aveva letto che la lingua madre degli Skasloi non poteva essere pronunciata da bocca o lingua umana, perciò avevano ideato un idioma che potesse essere usato sia da loro che dagli schiavi. Gli schiavi umani sicuramente avevano parlato tutti quella lingua, ma molti avevano mantenuto la propria usandola tra di loro. Tuttavia nessuna parola di quella lingua da schiavi rimaneva in nessun dialetto moderno. Virgenya Dare e i suoi seguaci avevano bruciato ogni creazione skaslos e proibito l'uso della lingua del periodo di schiavitù. Non la insegnarono mai ai loro figli e così si estinse. 'Skaslos' poteva essere l'unica parola che rimaneva della loro lingua, pensò Stephen, e anche quella mostrava la forma singolare '-os' e quella plurale '-oi' tipiche dell'antico Cavari, una lingua umana. Probabilmente perfino il nome di quella razza di demoni era stato dimenticato. Fece una pausa, trovandosi davanti a un canale più largo di quelli che aveva attraversato finora, e gli vennero i brividi al pensiero malvagio che fece. E se gli Skasloi non fossero morti tutti? E se come i greffyn, gli utin e i nicwer fossero semplicemente andati da qualche altra parte per un lungo sonno? E se questo male, questo nemico, non fosse altro che il nemico più antico di tutti? Ore dopo portò quel pensiero inquietante a dormire con sé, distendendosi su un materasso impregnato del profumo sefry. Si risvegliò per un duro colpo alle costole e trovò la ragazza che lo fissava. «Come vi chiamate?» mormorò Stephen. «Starqin» rispose lei. «Starqin Walsdoort.» «Starqin, sapete che i vostri genitori moriranno?» «I miei genitori sono già morti» disse piano la ragazza. «Sono stati ucci-
si a est, mentre combattevano contro un greffyn.» «Eppure non provate dolore.» Lei arricciò le labbra. «Voi non capite» disse infine. «Non avevano scelta. Io stessa non avevo scelta. Ora, venite con me, prego.» Stephen seguì Starqin verso la barca su cui era arrivato lì. La ragazza gli fece cenno di salire. «Solo noi due?» domandò lui. «Dov'è Dreodh?» «Sta preparando la nostra gente a combattere.» «Combattere cosa?» Lei scrollò le spalle. «È in arrivo qualcosa» rispose. «Qualcosa di molto malvagio.» «Non temete che potrei provare a sopraffarvi e fuggire?» «Perché mai dovreste farlo?» domandò Starqin. Alla luce fioca gli occhi della ragazza apparivano neri e lucidi come il catrame. Il viso e i capelli, per contrasto, la facevano sembrare un fantasma. «Magari perché non mi piace essere tenuto prigioniero.» Starqin si sistemò vicino al timone. «Potreste remare?» domandò. Stephen si sedette e poggiò le mani sui remi. Erano freschi e leggeri. «Voi volete parlare con lui, quello che stiamo andando a incontrare» disse Starqin. «E non credo che mi ucciderete.» Stephen spinse sui remi e la barca scivolò quasi senza fare rumore, allontanandosi dalla banchina di pietra. «È interessante sentirvi parlare di omicidio» ammise Stephen. «I laniatori non attaccano solo i greffyn, sapete? Uccidono anche la gente.» «Già» replicò Starqin, con tono piuttosto assente. «Fate lo stesso anche voi.» «Ma si tratta di gente malvagia.» A quelle parole lei scoppiò a ridere e Stephen si sentì immediatamente uno stupido, come se avesse provato a insegnare la sacra scrittura a un Sacritor. Ma un attimo dopo lei si fece più seria. «Non chiamateli laniatori» disse. «Sminuisce il loro sacrificio.» «Voi come li chiamate?» domandò. «Wothen, ci chiamiamo i wothen.» «Significa 'pazzi', no?» «Divinamente pazzi, in realtà o invasati. Siamo la tempesta che ripulisce la foresta.» «Aiuterete davvero il Re degli Alberi nel suo piano di distruggere il
mondo?» «Se è l'unico modo per salvarlo...» «La cosa ha veramente un senso per voi?» «Sì.» «Come fate a sapere che ha ragione il Re degli Alberi? Come fate a sapere che non vi sta mentendo?» «Non sta mentendo, e lo sapete anche voi.» Lei guidò la barca lungo le acque scure e presto si ritrovarono in una galleria dal soffitto così basso che Stephen dovette piegare la testa per non urtarlo. Il suono dei remi chiocciava allontanandosi e poi tornando indietro. «Da dove venite, Starqin?» chiese Stephen. «Da quale città?» «Coalbaely, nel Grefato di Holtmarh.» Un piccolo brivido gli attraversò la spina dorsale. «Ho un'amica che viene da lì» disse lui. «Winna Rufoote.» Starqin annuì. «Winna era simpatica. Giocava al palo d'agrifoglio insieme a noi e ci dava fette biscottate d'orzo dopo che suo padre aveva fatto la birra. Era troppo grande, però. Non una di noi.» «Aveva un padre...» «Era il proprietario della Tetta della Scrofa.» «Anche lui è un wothen?» Lei scosse il capo. «Se ne andò quando iniziammo a bruciare la città.» «Avete bruciato la vostra città?» Lei annuì. «Andava fatto. Non avrebbe dovuto essere lì.» «Perché l'ha detto il Re degli Alberi.» «Perché non sarebbe dovuta esistere. Noi bambini l'abbiamo sempre saputo. Abbiamo dovuto convincere gli adulti. Alcuni non si sono lasciati persuadere, ma se ne sono andati. Fralet Rufoote era uno di questi.» Proseguirono in silenzio; Stephen non era sicuro di quello che doveva dire, e in assenza di domande, Starqin non sembrava propensa a continuare la conversazione. Il soffitto tornò ad alzarsi fino a sparire nella fioca illuminazione delle luci stregate. Dopo un po' arrivò dell'altra luce, un raggio inclinato, distante, che si rivelò essere la luce del sole che entrava da un buco in alto, nella volta della caverna. Starqin fece fermare la barca presso un'altra banchina di pietra. «Ci sono dei gradini scavati nella roccia» disse. «Conducono su verso l'uscita.»
«Non verrete con me?» «Ho altre cose da fare.» Stephen osservò gli occhi della ragazza, ora color giada al raggio di sole che scendeva dall'alto. «Questo non può essere giusto» le disse. «Tutta questa morte, tutti questi massacri... non può essere giusto.» L'espressione di lei cambiò per un attimo in qualcosa che Stephen non capì, ma fu come il luccichio di un pesce argentato in un laghetto profondo. Poi l'acqua tornò a essere vuota e calma. «La vita viene e va,» disse la ragazza «se guardate bene. C'è sempre qualcosa che nasce e qualcosa che muore. In primavera nascono più cose; in autunno muoiono più cose. La morte è più naturale della vita. Lo scheletro del mondo è la morte.» Stephen con un nodo in gola disse: «I bambini non dovrebbero parlare così.» «I bambini sanno queste cose» replicò lei. «Sono solo gli adulti che ci insegnano che un fiore è più bello di un cane in decomposizione. Lui ci ha solo aiutato a ricordare ciò che conosciamo fin dalla nascita, ciò che tutte le bestie, incapaci di mentire a sé stesse, capiscono dentro di sé.» Il dolore e la compassione di Stephen improvvisamente vennero meno, e per un attimo provò così tanta rabbia nei confronti della ragazza che avrebbe voluto strangolarla. In mezzo ai suoi dubbi e incertezze, la pura e semplice soddisfazione per quel sentimento assoluto fu talmente meravigliosa e terribile allo stesso tempo da lasciarlo senza fiato, e quando si esaurì, qualche secondo più tardi, stava letteralmente tremando. Starqin se ne accorse. «Inoltre,» disse piano «voi avete stagioni e stagioni di morte dentro di voi.» «Che intendete dire?» Ma lei si allontanò dalla riva senza rispondere e subito la barca sparì dalla vista. Stephen iniziò a salire le scale. I gradini di pietra salivano zigzagando su per la parete fino a condurlo su una piccola piattaforma. L'apertura della caverna non era molto grande e al di là riusciva a vedere un muro di canne. Un sentiero stretto, però, attraversava la fitta vegetazione e Stephen prese a percorrerlo fino a che improvvisamente il fianco della collina si aprì davanti a lui.
Si ritrovò a guardare giù su un pascolo, al di là del quale s'innalzavano ordinati filari di meli. Dopo la piccola valle, al di sopra degli alberi, si ergeva un edificio di pietra. Rimase inavvertitamente senza fiato, quando le emozioni presero a correre verso di lui come fossero state vecchie conoscenze: aspettativa, eccitazione infantile, dolore, disinganno, terrore assoluto. Rabbia. Era il monastero d'Ef, dove aveva appreso per la prima volta quanto fosse diventata corrotta la Chiesa della sua fanciullezza, dove aveva incontrato ed era stato torturato da Desmond Spendlove. Dove era stato costretto a decifrare gli scritti che forse avevano condannato il mondo. «Binvento, werlica. Binvento kes» disse una voce graffiante alle sue spalle. «Bentornato, traditore. Bentornato a casa.» 4 La storia di Rose «Vi è stato ordinato di uccidermi?» domandò Anne, fissando Elyoner. La duchessa di Loiyes le sorrise pigramente. Anne quasi riuscì a sentire Neil MeqVren che s'irrigidiva accanto a lei, come la corda di un liuto. Ha aspettato che mandassi via Aspar, pensò. Non che lui e Winna avrebbero potuto fare la differenza contro così tanti... Sollevò una mano per strofinarsi la fronte, ma la lasciò ricadere. Quel gesto l'avrebbe solo fatta apparire debole. Troppe cose erano successe e troppo velocemente. Era ancora stordita dall'alcol quando aveva incontrato Elyoner e i suoi uomini lungo la strada. E poi il senso di sollievo per aver visto un viso familiare, la faccia della sua stessa famiglia, era stato così intenso che non si era lasciata andare ai pensieri più scontati. E se fosse stata Elyoner a inviare gli uomini che l'avevano assalita? Elyoner Dare era sempre stata un mistero per Anne, anche se piacevole. Era la sorella del padre di Anne, più grande di Lesbeth e Robert, ma era sempre sembrata molto più giovane di suo padre. Anne calcolò che poteva avere una trentina d'anni. Le gite di famiglia a Glenchest erano sempre state una gioia; i bambini
avevano la sensazione che gli adulti si divertissero di più, anche se solo parecchio tempo dopo lei aveva cominciato a capire che tipo di divertimento fosse. Quell'impressione era aumentata man mano che cresceva. Elyoner sembrava fare sempre esattamente come voleva. Anche se da qualche parte aveva un marito, questo non era mai realmente presente, e lei era molto famosa per il fatto di avere amanti giovani ed estremamente passeggeri. Muriele, la madre di Anne, aveva sempre mostrato disapprovazione per Elyoner, e la cosa non faceva che rendere la zia più gradita ad Anne. A parte i grandi pettegolezzi, non era mai sembrata interessata alla politica, né particolarmente informata su ciò che succedeva, a meno che non fossero notizie su chi-dormiva-con-chi. Ora Anne si accorgeva improvvisamente e intensamente di non conoscere veramente sua zia. «Uccidervi e seppellire il corpo in un luogo in cui non possa essere ritrovato» aggiunse Elyoner. «Sono state queste le istruzioni. In cambio, Robert dice che la mia vita a Glenchest andrà avanti più o meno come sempre.» Sospirò pensierosa. «Un'idea così confortevole.» «Ma voi non lo farete» disse Anne. «Non mi farete uccidere, vero?» Gli occhi cerulei di Elyoner la fissarono aspramente. «No» rispose. «No, certo che no. Mio fratello non mi conosce bene come crede, cosa che è piuttosto deprimente.» Il viso si fece più serio e la duchessa puntò un dito accusatore verso Anne. «Ma voi non avreste mai dovuto fidarvi di me, perché avrei anche potuto farlo» disse. «Sappiate che se il vostro caro zio Robert ha ordinato di uccidervi, nessuno dei vostri parenti è degno di fiducia, con la probabile eccezione di vostra madre. Il fatto di schierarmi dalla vostra parte complica parecchio la mia esistenza e potrebbe effettivamente portarla alla fine. Non è una scelta facile da prendere, neanche per voi, tesoro mio.» «Ma voi l'avete presa.» Elyoner annuì. «Dopo quello che è successo a Fastia ed Elseny, praticamente nel mio stesso salotto no, direi di no. Ho amato William più di tutti gli altri miei fratelli. Non avrei mai potuto tradire la sua ultima figlia in questo modo.» «Credete che zio Robert sia impazzito?» «Credo che sia nato pazzo» rispose Elyoner. «Succede con i gemelli, sapete? Lesbeth ha preso tutto quello che c'era di buono dall'unione dei nostri genitori e a Robert è rimasta la feccia.» Deviò il suo sguardo verso sir
Neil. «Potete rilassarvi adesso, buon cavaliere» disse. «Per ripetere ciò che ho detto in parole chiare, sono qui per aiutare Anne, non per farle del male. Se l'avessi voluta morta, avrei dovuto agire molto prima di trovare voi e poi avrei usato il vostro dolore per fare di voi il mio amante. O qualche altra cosa immorale e piacevole.» «Pronunciate sempre parole così confortanti» rispose Neil. Anne pensò che quella risposta schietta non facesse che confermare quanto Elyoner aveva insinuato precedentemente, e cioè che sir Neil e sua sorella, Fastia, avevano avuto una specie di relazione. Apparentemente la cosa sembrava impossibile. Fastia era sempre stata rispettosa, e lo stesso valeva per Neil. Si sarebbe potuto pensare che avrebbero rinforzato quella qualità l'uno nell'altra, piuttosto che annullarla. Ma Anne stava imparando velocemente che niente di ciò che riguardava il cuore era semplice, o meglio, forse era tutto molto semplice, ma le conseguenze erano arzigogolate. A ogni modo non aveva tempo per pensare a quello che sua sorella aveva o non aveva fatto con questo giovane cavaliere. Aveva altre priorità. «A proposito, avete ricevuto notizie da Lesbeth?» domandò Anne. «No» rispose Elyoner. «Si dice che sia stata tradita dal suo promesso sposo, il principe Cheiso di Safnia, e che questi l'abbia data a qualche alleato di Hansa perché potesse ricattare William. Per questo motivo vostro padre si è recato sul promontorio di Aenah: per negoziare il suo rilascio. «Credo che solo Robert sappia cosa sia successo veramente lì sopra.» «Allora pensate che zio Robert abbia qualcosa a che fare con la morte di mio padre?» «Certo» rispose Elyoner. «E Lesbeth? Cosa credete le sia successo veramente?» «Io non...» La voce di Elyoner s'interruppe per un istante. «Non credo che sia ancora viva.» Anne respirò profondamente più volte per provare ad assorbire quelle parole. La neve aveva ricominciato a cadere e lei la odiava. Sentiva come se un osso, da qualche parte dentro di lei, si fosse spezzato. Uno piccolo, ma che non si sarebbe mai più ricomposto. «Credete davvero che lo zio Robert abbia ucciso la sua gemella?» riuscì finalmente a dire. «L'amava più di ogni altra persona. Stravedeva per lei. Era pazzo di lei.»
«Niente può portare a omicidi sanguinari più prontamente che il vero amore» disse Elyoner. «Come ho detto, Robert non ha in sé qualità molto nobili.» Anne aprì la bocca per rispondere ma scoprì di non avere nulla da dire. La neve scendeva adesso più fitta, intirizzendole il naso per il freddo e l'umidità. Dove sono stata?, si domandò. Dove era tutto questo mentre crescevo? Ma conosceva la risposta. Era stata impegnata in corse a cavallo per indispettire le guardie, a rubare vino per berlo nella torre occidentale, a sgattaiolare fuori dal castello per giocare a bacio e carezza con Roderick a Eslen-delle-Ombre. Fastia aveva provato a dirglielo. E così sua madre. Per prepararla a tutto questo. Madre. Ne rivide improvvisamente il viso, triste e severo, la notte in cui l'aveva mandata al coven di santa Cer. Anne le aveva detto che l'odiava... Ora le sue guance erano umide. Quasi senza accorgersene, aveva iniziato a piangere. Quando se ne rese conto, la cosa non fece che peggiorare, e violenti singhiozzi, dallo stomaco, cominciarono a lasciarla senza fiato. Si sentì vulnerabile come quella volta che le erano stati rasati i capelli, come quella volta che da bambina era stata trovata nuda nel corridoio. Come avrebbe potuto diventare regina? Come aveva anche solo potuto pensare una cosa del genere? Non capiva niente, non riusciva a controllare niente, neanche le sue lacrime. Tutto quello che aveva imparato nell'ultimo anno era che il mondo era enorme e crudele e sfuggiva alla sua comprensione. Tutto il resto, l'illusione del suo destino e del potere, quella determinazione che era sembrata reale solo pochi giorni prima, ora le sembrava stupida, un atteggiamento che tutti avevano riconosciuto come tale tranne lei. Una mano si posò sulla sua coscia e lei trasalì al calore. Era Austra, con gli occhi colmi di lacrime. Gli altri cavalieri avevano fatto un po' di spazio, forse per far finta di non notare la sua sofferenza. Neil continuava a cavalcare subito dietro di lei, ma abbastanza lontano da non sentire i bisbigli. Catio stava davanti con Elyoner. «Sono così felice che tu sia viva» disse Anne alla sua amica. «Ho provato a non pensarci, a tenere la mente occupata in altre faccende, ma se tu fossi morta...»
«Avresti proseguito; questo avresti fatto» disse Austra. «Perché è il tuo dovere.» «Sì?» domandò Anne, avvertendo il rancore nella propria voce, anche se minimo, e non preoccupandosene. «Sì. Se solo avessi potuto vedere ciò che ho visto io dalla foresta, a Dunmrogh. Sei uscita coraggiosa come un toro e hai detto a quegli assassini chi eri... se avessi potuto vederlo, avresti capito cosa sei destinata a fare.» «I santi ti hanno forse toccato?» domandò piano Anne. «Puoi forse leggere i miei pensieri?» Austra scosse il capo. «Non conoscerò mai nessuno bene quanto te, Anne. Non so mai esattamente cosa pensi, ma di solito riesco a vedere la direzione generale in cui soffia il vento.» «Tu sapevi tutto questo? A proposito di Robert?» Austra esitò. «Ti prego» insisté Anne. «Ci sono cose di cui non abbiamo mai parlato» disse Austra con riluttanza. «Hai preteso che io fossi semplicemente una sorella, ed è stato bello, ma io non sono mai riuscita a dimenticare la verità, non ho mai permesso a me stessa di dimenticare la verità.» «Che sei una serva» disse Anne. «Sì.» Austra annuì. «Lo so che mi vuoi bene, ma anche tu hai dovuto riconoscere la realtà della situazione.» Anne annuì. «Sì» ammise. «A Eslen, nel castello la servitù ha il suo mondo. È molto vicino al vostro, sotto e intorno a esso, ma separato. La servitù sa molte cose del vostro mondo, Anne, perché deve sopravvivere dentro di esso, ma voi non conoscete molto del nostro.» «Non dimenticare che anch'io ho lavorato come serva» disse Anne. «Nella casa di Filalofia.» Il sorriso di Austra cercò di non apparire accondiscendente. «Per soli diciotto giorni» specificò la dama di compagnia. «Ma dimmi, hai imparato qualcosa durante quel periodo che la padrona della casa non sapeva?» Anne ci pensò un attimo. «Ho imparato che il marito filava con le cameriere, ma credo che lei lo sapesse o che almeno se lo aspettasse» disse. «Ma quello che lei non sapeva era che lui aveva una relazione anche con la sua stessa amica, dat Ospellina.» «E l'hai scoperto osservando?»
«Sì.» «E gli altri della servitù parlavano con te?» «Non molto.» «Esatto. Perché eri nuova e straniera. Non si fidavano di te.» «Te lo concedo» replicò Anne. «E tuttavia il padrone e la padrona di casa non facevano quella stessa distinzione, scommetto. Per loro eri una serva, e fino a che hai fatto il tuo lavoro come ti si richiedeva sei rimasta invisibile, una parte della casa esattamente come le balaustre o le finestre. Ti hanno notato solo...» «Quando ho fatto qualcosa di sbagliato» finì Anne. Stava cominciando a capire. Quanti servi c'erano a Eslen? Centinaia? Migliaia? Sempre intorno, ma quasi non esistevano per i nobili. «Continua» la invitò Anne. «Dimmi qualcosa della servitù di Eslen. Qualche sciocchezza.» Austra scrollò le spalle. «Lo sapevi che lo stalliere, quello che noi chiamavamo Succhiello, era il figlio di Demile, la sarta?» «No.» «Ti ricordi di chi sto parlando?» «Succhiello? Certo che sì.» Mi stavo solo chiedendo chi fosse la madre. «Ma non è il figlio di Armier, il marito di Demile. Il suo vero padre era Cullen, del personale della cucina. E siccome la moglie di Cullen, Helen, si arrabbiò molto per questo fatto, a Succhiello, il cui vero nome comunque è Amleth, non è mai stata concessa una posizione all'interno del castello, perché la madre di Helen è il Cinghiale, la vecchia lady Golskuft...» «...la capo-servitù della casa.» Austra annuì. «Che a sua volta è la figlia illegittima del vecchio Lord Raethvess e di una ragazza che veniva da una famiglia di custodi terrieri.» «Quindi mi stai dicendo che i servi si dedicano più al letto che al lavoro?» «Quando una tartaruga riprende fiato in uno stagno, vedi solo la punta del naso. E tutto quello che sai della servitù di Eslen è ciò che loro ti concedono di vedere. Gran parte della loro vita, i loro interessi, passioni, parentele, ti vengono nascosti.» «Eppure mi sembra che tu sappia molte cose.» «Solo quel poco che mi permette di capire quello che non so» replicò Austra. «Poiché stavo molto vicina a te ed ero trattata come una di nobili origini, non si fidavano molto di me, o forse non gli piacevo granché.»
«E cosa ha a che fare tutto questo con mio zio Robert?» «La servitù fa girare voci tremende su di lui. Dicono che quando era ragazzo era estremamente crudele e disumano.» «Disumano?» «Una delle cameriere, quando era ragazza... diceva che il principe Robert le aveva fatto indossare un vestito di Lesbeth e le aveva ordinato di rispondere a quel nome. E poi lui...» «Basta» la interruppe Anne. «Credo di poter immaginare.» «Io credo di no invece» replicò Austra. «Lo hanno fatto, sì, ma le sue richieste furono disumane per parecchi versi. E poi c'è la storia di Rose.» «Rose?» «Quella su cui sono stati molto riservati. Rose era la figlia di Emme Starte, che lavorava in lavanderia. Robert e Lesbeth ne fecero una compagna di giochi, facendole indossare abiti eleganti, portandola con loro a passeggio, a cavallo e a fare picnic. La trattavano come una nobile.» «Come te» disse Anne, sentendo una specie di fitta al petto. «Sì.» «Quanti anni avevano?» «Dieci. Ed ecco cosa, Anne... cosa dicevano, anche se è difficilissimo da credere.» «Penso che in questo momento potrei credere a qualunque cosa» confessò Anne. Si sentiva smussata, come un coltello usato troppo spesso per tagliare le ossa. Austra abbassò ulteriormente la voce. «Dicono che quando erano giovani, Lesbeth era come Robert: crudele e gelosa.» «Lesbeth? Lesbeth è la donna più dolce e gentile che abbia mai conosciuto.» «Così è diventata infatti, dopo che Rose è sparita.» «Sparita?» «Non si è più vista. Nessuno sa cosa le sia successo. Ma Lesbeth pianse per giorni e giorni e Robert sembrava più agitato del solito. E poi Robert e Lesbeth non sono più stati visti molto insieme. Lesbeth diventò un'altra persona sempre desiderosa di fare del bene, di vivere come una santa.» «Non capisco. Stai dicendo che Robert e Lesbeth hanno ucciso Rose?» «Come ho già detto, nessuno lo sa. La sua famiglia pregò, pianse e fece una petizione. Subito dopo, sua madre e i parenti più stretti vennero prestati alla casa del Grefio di Brogswell, a un centinaio di leghe di distanza, e lì sono rimasti.»
«È terribile. Non posso... stai dicendo che mio padre non ha mai investigato sul caso?» «Dubito parecchio che la cosa abbia mai raggiunto l'orecchio di tuo padre. Fu sistemata all'interno del mondo della servitù. Se la voce fosse arrivata alla tua famiglia, avrebbe raggiunto altrettanto facilmente l'attenzione dei nemici politici di tuo padre. In quel caso, tutti i servi che avessero saputo qualcosa sarebbero spariti improvvisamente e inspiegabilmente proprio come Rose. «Perciò il Cinghiale mise in giro la voce che Rose era andata a lavorare con sua sorella in Virgenya e si assicurò che ci fosse una registrazione della sua richiesta di andare. Il resto della famiglia di Rose fu trasferita in silenzio per paura che nel loro dolore cominciassero a parlare alle persone sbagliate.» Anne chiuse gli occhi e avvertì la presenza di un viso, che premeva contro le sue palpebre, un visetto carino con occhi verdi e il naso all'insù. «Me la ricordo» esclamò. «La chiamavano 'Cugina Rose'. È stata quella volta su Tom Woth, alla festa di Feilteme. Non dovevo avere più di sei inverni.» «Io ne avevo cinque, perciò tu ne avevi sei» confermò Austra. «Credi davvero che l'abbiano uccisa?» mormorò Anne. Austra annuì. «Credo che sia morta. Può darsi che sia stato un incidente o un gioco che si è spinto troppo in là. Robert conosce un sacco di giochi, dicono.» «E ora siede sul trono. Il trono di mio padre. E ha fatto rinchiudere mia madre in una torre.» «L'ho... sentito dire» fece Austra. «Sono certa che non le ha fatto del male.» «Ha ordinato la mia morte» replicò Anne. «Non c'è modo di sapere cosa farà a mia madre. Su questo devo concentrarmi, Austra. Non sulla mia capacità di essere regina o no, ma devo trovare il modo per liberare mia madre e mettere Robert in un posto in cui non possa fare altro male. Solo questo, per ora.» «Queste sì che sono parole sensate.» Anne respirò profondamente e sentì le spalle un po' più leggere. Erano di nuovo fuori dalla foresta adesso e stavano scendendo verso la strada. Anne riusciva a vedere Sevoyne in lontananza e si domandò se stavolta sarebbe finalmente riuscita a superarla. «Anne!» gridò qualcuno da dietro. «Casnara, ah, rediatura!»
Guardò dietro di sé e vide Catio, incastrato tra i Maestri. «Che c'è Catio?» replicò sempre in vitelliano. «Potreste gentilmente informare questi uomini che sono uno dei vostri compagni più valorosi? Se lo sono veramente.» «Certo» rispose Anne. Passò alla lingua del re. «Quest'uomo è una delle mie guardie del corpo» disse rivolta ai Maestri. «Può avvicinarsi a me ogni volta che lo desidera.» «Perdonateci, Altezza» disse uno dei cavalieri, un giovane di bell'aspetto coi capelli di un castano dorato e qualcosa del papero nell'aspetto. «Ma non diamo mai niente per scontato.» Lei annuì. «Come vi chiamate, cavaliere?» «Prego, Maestà, il mio nome è Jemme Bishop.» «Un bel nome virgenyano» rispose Anne. «Vi ringrazio molto per la vostra protezione. Nonostante il suo comportamento, quest'uomo ha la mia fiducia.» «Come volete, Maestà» replicò il tipo. I cavalli cedettero un po' di terreno, permettendo a Catio di allontanarsi. «Abbiamo di nuovo una scorta» disse, lanciando un'occhiata indietro verso i cavalieri. «Mi chiedo se questa sopravvivrà più dell'ultima.» «Speriamo» replicò Anne. «Scusatemi se non abbiamo parlato finora. Ma le cose si stanno facendo sempre più complicate e sono sicura che per voi lo sono ancora di più.» «La mia giornata è notevolmente migliorata quando ho scoperto che eravate ancora viva» disse Catio. Si strofinò il capo con un'espressione sofferente. «Non sono stato un'ottima guardia per voi, per nessuna delle due. Ho già chiesto perdono ad Austra, e ora lo faccio con voi.» «Avete rischiato la vita per noi, Catio» rispose Anne. «Tutti possono rischiare la vita» ribatté Catio. «Un uomo incapace e privo d'ingegno potrebbe morire per voi. Speravo di essere meglio di così. Se fossi morto riuscendo a impedire il vostro rapimento sarebbe stata un'altra cosa. Ma essere rimasto umiliato sulla scia dei vostri rapitori...» «...è una questione d'orgoglio personale» finì Anne. «Non siate sciocco, Catio. Io sono viva, come potete vedere. Siamo stati colti tutti nel sonno, Aspar, sir Neil, Frete Stephen e io. Eravate in buona compagnia.» «Non accadrà di nuovo» disse Catio fermamente. «Se la cosa vi fa piacere» replicò Anne. Catio annuì. «Questa donna è una vostra parente?» «Elyoner? Sì, è mia zia, la sorella di mio padre.»
«Ed è affidabile?» «Ho deciso di fidarmi di lei. Ma se vedete un motivo per cui non dovrei, vi prego sottoponetelo alla mia attenzione.» Catio annuì. «Dove stiamo andando?» domandò. «A Glenchest, nella sua proprietà.» «E cosa faremo lì?» «Decideremo di andare in guerra, credo» rispose Anne. «Ah, bene. Me lo farete sapere quando potrò essere d'aiuto, vero?» «Certo.» «Anne!» la voce di Elyoner la raggiunse da dietro. «Siate buona e rimandate qui quel vitelliano. Questa cavalcata comincia a essere estremamente noiosa.» «Non ha una grande dimestichezza con la lingua del re» rispose Anne. «Fatio Vitelliono» replicò lei dolcemente. «Benos, mi della.» «Parla la mia lingua» notò Catio felice. «Sì» rispose Anne. «Così sembra. E sono sicura che vuole fare pratica con voi.» Lui rivolse un'occhiata dietro di sé e domandò: «Dovrei?» «Sì» rispose Anne. «Ma state attento; mia zia può essere pericolosa per un uomo virtuoso.» Catio sorrise e si rimise il cappello a larga falda. «Se ne incontro uno, allora,» disse «farò di tutto per avvertirlo.» Si voltò e tornò indietro. Austra lo seguì con lo sguardo, con un'espressione piuttosto sconcertata. «Austra» fece Anne. «Gli uomini che ti hanno rapito... hanno detto qualcosa?» «Pensavano che fossi te,» replicò Austra «o che potessi esserlo.» Anne annuì. «Ho avuto la stessa impressione. La descrizione che avevano di me non era molto precisa. Hanno chiamato qualcuno per nome?» domandò Anne. «Nessuno?» «Non che io mi ricordi.» «Ti hanno toccato?» «Certo. Mi hanno legato, messo su un cavallo...» «Non è quello che intendevo dire» la interruppe Anne. «Non... ah! No, niente del genere. O meglio ne hanno parlato, mi hanno anche minacciato di farlo, cercando di spingermi a confessare se ero te o no. Ma non sono passati ai fatti.» Improvvisamente sgranò gli occhi. «Anne, hanno... sei stata...»
Anne fece scattare il capo verso Festum. «Lui ci ha provato. È successo qualcosa, però.» «Lascia che sir Neil lo uccida» disse con voce stridula. «Oppure dillo a Catio e lascia che lo sfidi a duello.» «No. Non c'è riuscito e potrei ancora aver bisogno di lui» rispose Anne. Fissò le redini che stringeva in mano. «È successo qualcosa, Austra. L'uomo che mi ha rapito è morto.» «Lo hai... lo hai ucciso tu come hai ucciso quegli uomini orribili nel bosco?» «Quelli li ho uccisi solo desiderandoli morti» replicò Anne. «C'era un potere lì, sotto di me, come un pozzo d'acqua in cui poter calare il mio secchio. Ho sentito le loro interiora e le ho strizzate. Lo stesso o quasi è successo quando ho accecato il cavaliere a Vitellio o quando ho fatto vomitare Erieso. «Ma stavolta è stato diverso. L'uomo che mi ha rapito è stato ucciso da un demone. Io l'ho vista.» «Una donna?» Anne scrollò le spalle. «Mi sono ritrovata in un altro posto. Penso che lei mi abbia seguito quando sono tornata. È stata lei a impedire che Festum mi violentasse.» «Allora forse non è un demone» commentò Austra. «Forse è più un angelo custode.» «Tu non l'hai vista, Austra. Era terribile. Non so nemmeno a chi posso chiedere informazioni su queste cose.» «Be', Frete Stephen sembrava avere una profonda conoscenza» disse Austra, con la voce piena di dolore. «Ma credo sia...» «Sta bene» la rassicurò Anne. «Ed è atteso da qualche altra parte.» «Davvero? Come fai a saperlo?» Anne pensò al Re degli Alberi e alle cose che aveva visto nei suoi occhi. «Non voglio continuare a parlare di questo» rispose. «Più tardi. Più tardi.» «Molto bene» disse Austra in tono pacato. «Più tardi.» Anne fece un respiro profondo. «Hai detto di conoscermi meglio di chiunque altro. Credo sia vero. E perciò ho bisogno che tu mi osservi, Austra. Tienimi d'occhio e se mai dovessi pensare che ho perso la testa, devi dirmelo.» Austra emise una risata un po' nervosa. «Ci proverò» promise. «Ti ho tenuto segrete delle cose prima» confessò Anne. «Ho bisogno...
ho bisogno di qualcuno con cui poter di nuovo parlare. Qualcuno di cui possa fidarmi, che non riveli i miei segreti ad anima viva.» «Non lo farei mai.» «Neanche con Catio?» Austra rimase in silenzio per un attimo. «Si vede?» domandò. «Che lo ami? Certo.» «Perdonami.» Anne sviò lo sguardo. «Austra, io nutro solo un sentimento d'amicizia verso Catio. Ci ha salvato la vita diverse volte e la cosa può aver alimentato tutta la mia stima. Ma io non lo amo.» «Se pure lo amassi,» disse per difendersi Austra «lui sarebbe al di sotto della tua posizione sociale.» «È fuori discussione, Austra» disse Anne. «Io non lo amo. Non m'importa se tu lo ami, purché non gli riveli niente di quello che ti chiedo di mantenere segreto.» «La mia prima fedeltà è verso di te, Anne, lo è sempre stata e sempre lo sarà» dichiarò Austra. «Ti credo» replicò Anne, stringendo la mano della sua amica. «Avevo solo bisogno di sentirtelo dire.» Alla luce del sole che calava, arrivarono a Glenchest. Sembrava esattamente come se la ricordava Anne, tutta guglie, giardini e vetro, come un castello tessuto dalle fate con seta di ragno. Da bambina aveva creduto che fosse un luogo magico. Ora si domandava come e se poteva essere difeso. Non sembrava il tipo di posto che potesse sostenere un assedio. Al cancello c'erano due uomini a cavallo che indossavano un sorcotto nero. Il capo, un uomo alto e scarno con i capelli rasati e una barbetta stretta, gli andò incontro. «Oh, cielo» bisbigliò Elyoner. «Prima di quanto speravo.» «Duchessa» disse l'uomo inchinandosi sulla sella. «Ero proprio sul punto di venire a cercarvi. Il mio signore non sarà contento del vostro comportamento. Avreste dovuto aspettarmi nella vostra casa.» «Mio fratello non è quasi mai contento del mio comportamento» rispose Elyoner. «Ma in questo caso, non sarà così contrariato. Duca Ernst, vi posso presentare mia nipote, Anne Dare? A quanto pare si era smarrita e tutti si stavano affannando per ritrovarla e, guardate, io l'ho trovata. «E a quanto ho capito, è venuta per riprendersi la corona del vostro pa-
drone.» 5 Tra gli alberi «Hai intenzione di raccontarmi cosa vi siete detti?» domandò Winna mentre i loro cavalli li portavano sopra una bassa catena di montagne e lontano dalla principessa, o regina o qualunque cosa fosse, e dal suo nuovo seguito di cavalieri. «Sì» rispose Aspar. Dopo qualche altro attimo di silenzio Winna tirò le redini di Capitombolo e fece fermare la giumenta pezzata. «Allora?» «Vuoi dirmi adesso?» «Sì, adesso. Come hai convinto Sua Maestà a lasciarti seguire Stephen?» «Be', non c'è stato alcun bisogno di convincerla, a dire la verità. Lei voleva che io andassi dietro a Stephen.» «Carino da parte sua.» Lui scosse il capo. «No, strano direi. Sembrava sapere che era stato catturato. Ha detto che lui aveva bisogno del nostro aiuto, che avevamo un compito da portare a termine e che era importante quanto la sua rivendicazione del trono. Forse anche di più.» «Ti ha detto perché?» «Non sapeva perché, esattamente. Mi ha detto di aver avuto una visione del Re degli Alberi e che lui le aveva messo nella testa che Stephen era importante per qualche motivo. E in pericolo.» «Questo non ha un briciolo di senso» commentò Winna. «I laniatori sono venuti a prenderlo e sono delle creature del Re degli Alberi. Perciò perché mai dovrebbe essere in pericolo? E se Sua Maestà dei Muschi voleva che noi lo seguissimo, perché non ha fatto rapire anche noi?» «Lo stai chiedendo alla persona sbagliata» rispose Aspar. «Io neanche credo alle visioni. Sono solo felice che ci abbia lasciato andare. Anche se...» «Cosa?» «Tu hai visto gli utin, vero?» «Utin?» Winna si fece pallida. «Come quella cosa che...» s'interruppe. «Sì. Erano almeno tre. I laniatori li hanno uccisi. Forse anche quelli se-
guivano Stephen. Forse è per questo che il re ha mandato i laniatori: per proteggerlo.» «Pensavo che non credessi alle visioni.» «Sto solo parlando» si difese Aspar. «Sono solo felice di poterlo seguire.» «Che altro ti ha detto Sua Maestà?» «Questo: seguite Stephen. Trovatelo, proteggetelo, aiutatelo. Ha detto che devo lasciarmi guidare dalla mia testa. Ha detto che sono il suo delegato in tutta la regione, anche se non so cosa significa.» «Davvero? Il suo delegato?» «Sai che vuol dire?» «È virgenyano. Significa che hai la sua stessa autorità, che lei garantisce per te. Non credo che ti abbia dato qualcosa che provi la tua autorità.» Aspar scoppiò a ridere: «Come per esempio? Una lettera sigillata, un anello o uno scettro? La ragazza è stata inseguita per mezzo mondo e, da quello che ho capito, per la maggior parte del tempo si è portata dietro solo i vestiti. Credo che tutto questo si chiarirà più in là, se deve essere chiarito. «Comunque, in questo momento, dico che il fatto di avere la sua autorità non significa granché, no? Possono anche chiamarla regina, ma ancora non lo è.» «Werlic» mormorò Winna a bassa voce. «Così dobbiamo guardare alla cosa.» Continuarono a cavalcare in silenzio per un po'. Aspar non sapeva cosa dire; ogni volta che le lanciava un'occhiata, Winna appariva sempre più turbata. «Stephen e Ehawk stanno bene» la rassicurò. «Li troveremo. Abbiamo superato momenti peggiori, tutti e quattro insieme.» «Già» rispose lei scoraggiata. Lui si grattò il viso. «Sì. Stanno bene.» Winna annuì, ma non rispose. «Intanto è bello. Cioè, è un po' che non stiamo da soli.» Lei sollevò bruscamente lo sguardo su di lui. «Che vorresti dire con questo?» domandò aspra. «Io... ehm, non lo so.» Si accorse del ruzzolone, ma non sapeva in cosa aveva inciampato. Lei aprì la bocca, la chiuse e poi la riaprì. «Adesso non è il momento. Prima ritroviamo Stephen.» «Il momento per cosa?» domandò Aspar.
«Niente.» «Winna...» «Sei stato freddo come una colonna negli ultimi diciotto giorni,» esplose «e tutt'a un tratto cerchi di addolcire il tuo discorso?» «È un po' difficile amoreare quando girano intorno tante persone» grugnì Aspar. «Non che io mi aspettassi fiori e poesie» rispose Winna. «Solo una stretta di mano e una parola all'orecchio di tanto in tanto. Saremmo anche potuti morire senza...» Scosse il capo e serrò le labbra. «Credevo sapessi a cosa stavi andando incontro quando ti sei...» S'interruppe, insicuro su come continuare. «Gettata tra le tue braccia?» finì lei. «Sì. Non avevo intenzione di farlo. Quando ti ho visto al Taff, ho creduto che fossi morto. Ho creduto che fossi morto senza aver saputo quello che provavo. E quando sei tornato in vita e ci siamo trovati lontano da tutto, da mio padre, dalla Tetta della Scrofa, da Colbaely, non ho più pensato alle conseguenze, al futuro, a niente.» «E ora?» «Ora continuano a non importarmi, maledetto bietolone. Ma comincio a farmi delle domande su di te. Prima, quando eravamo soli, era meraviglioso. Sono stata terrorizzata per metà del tempo, ma a parte questo, non sono mai stata più felice in vita mia. Era esattamente quello che avevo sempre sognato di ricevere da te: avventura, amore e noi due a contorcerci nel buio. «Ma aggiungi un po' di persone alla situazione e improvvisamente sono come una sorellina fastidiosa. Poi salta fuori lei, così simile a te, molto più di quanto potrò mai esserlo io...» Lui la interrupe. «Winna, non desideri mai una vita normale? Una casa? Dei figli?» Lei grugnì. «Penso che aspetterò la fine del mondo prima di mettere su famiglia, grazie.» «Sono serio.» «Anch'io.» I suoi occhi verdi erano pieni di sfida. «Stai dicendo che non posso avere queste cose con te?» «Credo di non averci mai pensato veramente.» «Tu sei fatto così, parli ad alta voce senza pensare minimamente a quello che dici.» «Già, credo di sì.»
«Sì, werlic. Be', vedi di farla finita.» Un silenzio strano calò su di loro. «Non penso a te come a una sorella.» «No, certo che no... meno di un'ora da soli e sei tutto preso di nuovo a tirarmi su la gonna.» «Stavo semplicemente dicendo che ero felice di essere di nuovo solo con te, tutto qua» replicò Aspar. «Lontani dagli altri. E non è come pensi tu. Io sono un guardaboschi; non sono mai stato altro. È l'unica cosa che so fare. Lavoro da solo al mio ritmo, nel modo che decido io, e faccio le mie cose. Non sono un condottiero, Winna. Non sono tagliato per questo genere di cose. Quando eravamo in quattro era già abbastanza brutto. Cinque era praticamente insopportabile.» «Non mi sembrava che ti seccasse quando Leshya si è unita a noi.» «Leshya non c'entra» disse Aspar disperato. «Sto cercando di dirti qualcosa.» «Va' avanti.» «Così, tutt'a un tratto ci ritroviamo a essere cinquanta e non so più qual è il mio compito. Non sono un cavaliere, né un soldato. Io lavoro da solo.» «E io come c'entro in tutto questo?» Lui fece un respiro profondo, come se stesse per tuffarsi in uno stagno profondissimo. «Essere con te, ed esclusivamente con te, è come essere da solo, ma meglio.» Lei lo fissò, battendo le palpebre. Aspar vide le lacrime riempirle gli occhi e il suo cuore sprofondò. Lui sapeva cosa voleva dire, ma ovviamente non trovava le parole giuste. «Winna...» ricominciò. Lei sollevò un dito. «Sst. Questa è la cosa più bella che mi dici dopo tanto tempo, forse la più bella in assoluto, perciò credo che adesso farai meglio a chiudere il becco.» Un senso di sollievo s'impossessò di Aspar. Seguì il consiglio che lei gli aveva dato e si occupò solo della cavalcata. La neve si accumulava in modo irregolare, ma lui non si preoccupò molto che le tracce potessero essere coperte; in una pesante nevicata avrebbe sì potuto perdere le tracce di uno o due lardatoli, ma non quelle delle diverse centinaia che erano passate di là. E non stavano solo trovando impronte, ma anche tracce di sangue e qualche cadavere qua e là. Forse non provavano dolore o paura, ma morivano esattamente come ogni altra creatura.
Il giorno si arrese senza combattere troppo qualche ora più tardi, e il grigio plumbeo volse al nero, con una malvagia promessa di freddo gelido. Accesero le torce. La neve cadde più fitta e le fiamme cominciarono a fischiare e ad agitarsi nella tormenta. Anche se Aspar non voleva ammetterlo, era stanco, così stanco che le ginocchia tremavano sui fianchi di Orco. E sebbene Winna non si lamentasse, sembrava sul punto di cadere anche lei. Era stata una giornata lunghissima, vissuta quasi interamente sull'orlo della morte, logorante in modo indicibile. «Ce la fai a reggerti lassù?» domandò Aspar. «La neve coprirà le tracce se ci fermiamo» sospirò lei. «Non tanto che non riuscirò più a trovarle» dichiarò Aspar. «Anche se non abbiamo incontrato altri corpi, hanno scorticato la corteccia dei tronchi, rotto rami... sono in grado di seguirli lo stesso.» «E se ci fermiamo e uccidono Stephen mentre ci riposiamo?» «Non lo faranno, non se le nostre deduzioni sono giuste.» «E se invece sono sbagliate? Potrebbero strappargli il cuore a mezzanotte, per quello che ne sappiamo noi.» «Potrebbero» convenne Aspar. «Ma se lo troviamo adesso, nello stato in cui siamo, credi davvero che riusciremmo a fare qualcosa per aiutarlo?» «No» ammise Winna. «È davvero questo il motivo?» «Sì» replicò Aspar. «Non sono un cavaliere magicus, pronto a morire perché la storia dice che devo. Riusciremo a salvare Stephen se sopravviviamo, o quanto meno avremo una buona possibilità. Ma in questo momento abbiamo bisogno di un po' di riposo.» Winna annuì. «Sì, mi hai convinto. Vuoi accamparti qui?» «No, voglio farti vedere una cosa. Poco più avanti.» «Senti gli intagli?» domandò Aspar, cercando in alto, al buio, e trovando il sedere di Winna. «Sì. E stai attento alle tue zampe, vecchio orso. Non sono così disposta a perdonarti, soprattutto se mi fai scalare un altro albero.» «Questa dovrebbe essere una salita più facile.» «Lo è. Chi ha fatto questi intagli? Sono vecchi; sento che sopra ha ricominciato a crescere la corteccia.» «Già. Li ho tagliati io, quando ero ragazzo.» «Certo che è parecchio che progetti questa cosa!»
Aspar quasi ridacchiò a quella battuta, ma era troppo esausto. «Solo un po' più su» promise. «Sentirai una sporgenza.» «Eccola» disse Winna. Qualche secondo dopo Aspar seguì Winna su una superficie dura e piatta. «Il tuo castello d'inverno?» domandò lei. «Qualcosa del genere.» «Basterebbe qualche parete.» «Be', ma poi non riuscirei a vedere niente, no?» «Non si vede niente neanche così» gli fece notare Winna. «Già. Comunque è un buon tetto per ripararsi dalla neve e dovrebbe esserci un pezzo di tela che possiamo alzare per respingere questa noar'wis. Sta' attenta al bordo. L'ho costruita per una persona sola.» «Quindi suppongo di essere la prima donna che hai portato a casa.» «Ah...» s'interruppe, timoroso di rispondere. «Oh» fece lei. «Scusa, era solo una battuta. Non volevo farti ricordare.» «È stato tanto tempo fa» disse Aspar. «Non mi secca. Solo che non ho...» Ora era sicuro che non avrebbe dovuto dire altro. Ma poi la sentì giocare con la sua faccia come una gatta. «Non sono gelosa di lei, Aspar» disse. «È stato prima che nascessi, come potrei esserlo?» «Exatto.» «Exatto. Dov'è il focolare?» «Ah, mi sa che c'hai appena messo la mano sopra.» «Ah, bene.» Winna sospirò. «Credo che sarà meglio che congelare.» Decisamente meglio che congelare, pensò Aspar quando il mattino grigio lo risvegliò. Winna stava raggomitolata sul suo braccio piegato, con la carne ancora calda contro la sua, e tutti e due erano avvolti in coperte e pelli. Avevano trovato energie che nessuno dei due credeva di avere, a tal punto che era un miracolo che non fossero caduti dalla piattaforma durante la notte. Continuò a respirare piano e profondamente, perché non voleva ancora svegliarla. Ma si guardò intorno, provando tutt'ora meraviglia davanti a ciò che lo aveva colpito da ragazzo come un miracolo, tutti quegli anni prima. «Eccoti» mormorò Winna. «Sei sveglia?» «Da prima di te» rispose lei. «Stavo solo guardando. Non sapevo che e-
sistesse un posto così.» «Li ho chiamati i tiranni» disse Aspar. «Tiranni?» Il guardaboschi annuì, sollevando lo sguardo sui rami larghi e intrecciati dell'enorme albero su cui stavano riposando e di quelli che lo circondavano. «Già. È la più grande e antica macchia di querce della foresta. Nessun altro albero riesce a vivere qui, le querce gli coprono il sole. Sono le regine, le imperatrici della foresta. È un mondo completamente diverso quassù. Ci sono cose che vivono su questi rami e che non scendono mai a terra.» Winna si sporse in avanti per guardare dal bordo. «Quanto è alto - ih!» «Vedi di non cadere» disse lui, stringendola un po' di più. «È più alto di quanto pensassi» disse lei con voce stridula. «Parecchio più alto. E la notte scorsa stavamo quasi per...» «No, mai» mentì Aspar. «Ho sempre avuto in pugno la situazione.» Lei fece un sorriso ironico e lo baciò. «Sai,» gli disse «quando ero ragazza credevo che fossi fatto di ferro. Ricordi quando tu e Dovei avete riportato i corpi del Wargh Nero e dei suoi uomini? Era come se tu fossi san Michael in carne e ossa. Ho pensato che con te vicino una persona non avrebbe mai dovuto preoccuparsi di niente.» Gli occhi di Winna erano seri, belli come non mai. Da qualche parte lì vicino un picchio-cornacchia stava battendo contro un albero e poi lasciò andare un gorgheggio gutturale. «Ora mi conosci meglio» disse lui. «Fend ti ha rapito proprio sotto al mio naso.» «Già» disse lei piano. «E tu mi hai ripreso, ma era troppo tardi. Sapevo già che anche tu potevi fallire, che non importava quanto fossi forte e determinato, le cose cattive potevano sempre prendermi.» «Mi dispiace, Winna.» Lei gli strinse la mano. «No, non capisci» disse. «Una ragazza s'innamora di un eroe. La donna s'innamora di un uomo. Non ti amo perché credo che tu possa proteggermi; ti amo perché sei un uomo, un uomo buono. Non perché vinci sempre, ma perché provi sempre a farlo.» Distolse lo sguardo, dirigendolo di nuovo in basso, sul lontano terreno della foresta. Per lui fu un sollievo, perché non riusciva a trovare una risposta a quelle parole. Gli tornò in mente l'immagine di Winna come una fiamma, un fascio di
gambe, mani e capelli biondi che correvano per il villaggio, che lo assillava perché le raccontasse storie del mondo esterno. Una delle centinaia di bambini che aveva visto volare dalla fanciullezza effimera per diventare madri, padri, nonni. Aspar non sapeva con certezza cosa fosse l'amore. Dopo che la sua prima moglie, Qerla, era stata uccisa, aveva trascorso vent'anni a evitare le donne e le complicazioni che queste portavano con sé. Winna gli era sbucata davanti, travestita da ragazzina, parecchio tempo dopo, quando ormai avrebbe dovuto sapere come andavano le cose. Ma alla fine la sorpresa era stata piacevole, e per un po' si era arreso come non aveva mai fatto. Questo fu prima che Fend la rapisse. Fend aveva ucciso la prima donna della sua vita; sembrava destinato a uccidergliele tutte. A ogni modo Aspar da quel momento era stato sempre più a disagio, sempre meno sicuro dei suoi sentimenti. Sapeva che c'erano, ma finché erano in viaggio, impegnati in combattimenti, sempre in pericolo di vita, era facile non pensare al futuro, facile immaginare che una volta finito tutto Winna sarebbe tornata alla sua vita e lui alla sua. Gli sarebbe mancata, avrebbe conservato piacevoli ricordi, ma sarebbe stato in un certo senso un sollievo. Ma ora improvvisamente realizzò quanto fosse profonda l'acqua, e non era sicuro di saper nuotare. Senza volerlo, gli tornò in mente Leshya. La donna sefry era forte e saggia e teneva i suoi sentimenti segreti, molto segreti. Con lei non ci sarebbe stata confusione; tutto sarebbe stato onesto e semplice... Improvvisamente sentì l'albero che tremava. Non per colpa del vento; il movimento era tutto sbagliato e saliva dalle radici. Winna doveva averlo visto accigliarsi. «Che...» Lui si portò un dito alle labbra e scosse il capo, poi diresse di nuovo lo sguardo a terra. La vibrazione all'interno dell'albero continuava, ma Aspar non riusciva a capirne la causa. Avrebbero potuto essere qualche centinaio di uomini a cavallo, ma dovevano essere così tanti che il rumore degli zoccoli sembrava un unico suono. Avrebbero potuto essere ancora una volta i laniatori, sebbene neanche quest'ipotesi sembrava plausibile. Quella vibrazione aveva un qualcosa di sostenuto, diverso da tutto ciò che aveva sperimentato fino a quel momento, e diventava sempre più forte. Cercò di respirare piano, in attesa del suono.
Un centinaio di secondi più tardi cominciò a sentire un rumore simile a qualcosa che raschiava e frantumava. Alcune foglie morte mollarono la loro presa disperata sui rami e cominciarono a volteggiare verso terra. Aspar continuava a non vedere niente, ma notò che il picchio si era fermato, così come erano cessati i versi di tutti gli altri uccelli. Il suono adesso si era fatto più chiaro e il tremolio dell'albero più pronunciato, e alla fine Aspar cominciò ad avvertire un ritmo pesante, un sordo bum-bum-bum-bum appena percepibile. Questo gli rivelò che qualcosa di molto grande e pesante stava correndo nella foresta, più veloce di quanto potesse fare un cavallo al galoppo. E stava trascinando qualcosa di enorme. Il respiro di Winna accelerò quando lui prese con cautela l'arco e le frecce, trovò la sua mano e gliela strinse. Aspar sollevò lo sguardo al cielo; era ancora grigio, ma le nuvole stavano alte sulla fascia luminosa. Non sembravano annunciare altra neve. Qualunque cosa fosse, stava arrivando dalla stessa direzione che avevano seguito loro: nordovest. I rami degli alberi da quella parte oscillavano visibilmente. Rallentò la respirazione, rendendola più profonda, cercando di rilassarsi e di concentrare lo sguardo sulla Strada del Vecchio Re sotto di loro e leggermente a nord. All'inizio colse solo dei frammenti di una cosa enorme, nera, e grigioverde che serpeggiava tra gli alberi, ma i suoi sensi non riuscivano a convertirla in qualcosa di reale. Si concentrò su due tiranni giganteschi che coprivano con un arco una grande radura sulla Strada del Vecchio Re, e pensò che quello doveva essere il punto in cui avrebbe potuto dare una prima buona occhiata a quell'essere. Una nebbia calò tra gli alberi e poi comparve una cosa scura e sinuosa, che si muoveva così rapidamente che Aspar credette di vedere una strana piena, un fiume che scorreva sopra il livello del terreno. Ma poi si fermò improvvisamente e così s'interruppe il rumore del suo passaggio e il tremore dell'albero. La nebbia serpeggiò e qualcosa simile a una lampada verde si accese. Immediatamente Aspar sentì un formicolio sulla pelle e un bruciore come un attacco di febbre e gettò una mano sul viso di Winna per impedirle di guardare. Perché appena la nebbia si diradò, vide che quella luce verde era un occhio, che da dove stavano loro sembrava solo una fessura. Ma poteva bastare. La testa, stimò, era lunga quanto un uomo di buona stazza. Aveva un
muso lungo e a punta con narici carnose, simile a quello di un cavallo, ma verso il collo il cranio si allargava e s'ispessiva tanto da somigliare a quello di una vipera. Due speroni cornei neri uscivano proprio da sotto agli occhi, che sporgevano da orbite tonde e prominenti. Non aveva orecchie che lui riuscisse a vedere, ma aveva una cresta di corni che iniziava alla base del cranio e scendeva lungo la schiena spinosa. Non era un serpente, perché riusciva a vedere che dopo un larghissimo collo di circa quattro iarde, era sostenuto da zampe estremamente grosse che terminavano in una cosa che somigliava a un enorme zoccolo fesso. A ogni modo, come un serpente, trascinava la pancia, e il corpo zigzagava, tanto che Aspar non riusciva a stabilire se aveva delle zampe posteriori, e da quello che poteva vedere doveva essere lungo dieci o dodici iarde. La testa si sollevò e per un attimo e Aspar temette che avrebbe diretto il suo sguardo mortale verso di loro, invece abbassò le narici a terra e cominciò ad annusare le tracce. Il collo si muoveva di qua e di là. Stava seguendo noi o i laniatori?, si domandò Aspar. E ora chi seguirà? Fu in quel momento che notò qualcosa che prima gli era sfuggita. Il corpo si allargava sopra le zampe per ospitare un massiccio fascio di muscoli dorsali e lì, nel punto più denso, c'era una cosa strana, una macchia di colore che non sembrava adattarsi al resto, una cosa che risaltava. Poi capì. Era una sella, fissata al sottopancia della creatura, e c'erano due persone sedute sopra, una senza cappello e l'altra che ne indossava uno a tesa larga. «Merda» mormorò Aspar. Come per rispondere, una macchia di colore chiaro apparve quando l'uomo col cappello guardò su. E anche se la distanza era notevole e la nebbia oscurava la vista, Aspar lo riconobbe esattamente dalla benda sull'occhio e dalla forma del naso. Fend. 6 Perseguitata Il duca Ernst fece per prendere la spada, ma quella di Neil già stava volando fuori dal fodero, con una luce fatata che avvolgeva tutta la lama. Ernst rimase impietrito a fissarla, insieme ai suoi uomini, e Neil fece indietreggiare il cavallo, per non essere pressato e poter guardare in faccia sia
Ernst che Elyoner. «Per i miei padri e i loro,» ringhiò «Anne Dare è sotto la mia protezione e ucciderò chiunque minacci di poggiare una mano su di lei.» Un'altra spada sibilò uscendo dal fodero e Catio saltò giù da cavallo, andando a mettersi tra Anne e Ernst, ma con le spalle ai Maestri. Vista la situazione, Neil pensò che quello avrebbe potuto dimostrarsi un errore. «Stregoneria!» gridò Ernst, continuando a fissare Draug. «Sortilegio. Il praifec si occuperà di voi, chiunque siate.» «Questo dovrà essere di grande conforto al vostro cadavere» replicò Neil. «A ogni modo ho preso questa spada proprio da un servitore del praifec, cosa che sono certo risulta strana a voi, quanto a me.» Ernst finì di sguainare la sua arma. «Non ho paura del vostro maleficio e non ho stomaco per sopportare le vostre menzogne» disse. «Eseguirò l'ordine del mio signore.» «Mio zio è un usurpatore» gridò Anne. «Il vostro dovere non è verso di lui, ma verso di me.» Ernst sputò. «Vostro padre può anche aver assillato il Comven affinché vi legittimasse come sua erede, ma non confondetevi, principessa. C'è un solo Dare il cui sangue è denso abbastanza per governare Crotheny e quello è re Robert. Qualunque sia l'avventura infantile in cui vi siete imbarcata, vi assicuro che è giunta al termine.» «Oh, lasciate che la ragazza rimanga una bambina ancora per un po'» s'intromise Elyoner. «Duchessa» disse Ernst. «Anne, cara,» continuò Elyoner «potreste chiudere gli occhi, per favore?» Neil sentì l'improvviso pizzicare delle corde degli archi e la sua pelle diventò gelida e poi rovente, mentre malediceva la sua stupidità. Ma il duca Ernst si dimostrò ancor più sorpreso quando una freccia gli si conficcò in gola e un'altra sparì per un quarto della sua lunghezza nell'orbita dell'occhio destro. Seguirono altre frecce e nell'arco di pochissimi secondi, tutti i cavalieri di Ernst erano caduti da cavallo. Solo allora quattro uomini in calzamaglia gialla e sorcotto arancione sbucarono da dietro il muro. Cominciarono a tagliare la gola dei feriti con lunghi e spaventosi coltelli. Anne trattenne il fiato, stupita. «Oh, mia cara» commentò Elyoner. «Pensavo di avervi detto di non
guardare.» «Non è la prima volta che vedo degli uomini che muoiono, zia Elyoner» rispose Anne. Sembrava pallida e gli occhi erano umidi, ma osservò con sguardo fermo il compiersi di quel massacro. «Purtroppo» disse Elyoner. «A parte una traccia d'ingenuità, noto che siete cresciuta, vero? Be', basta con questo spettacolo poco piacevole» proseguì, tirando le redini del suo cavallo. «Andiamo a vedere cosa riesce a rimediare la servitù in cucina.» Appena imboccarono il viale che conduceva verso la villa, Neil mandò il cavallo al trotto fino a raggiungere Elyoner. «Duchessa...» «Sì, mio cavaliere, so che siete stato un villano a credermi una traditrice e una bugiarda, ma non c'è bisogno di chiedere scusa» disse lei. «Vedete, non mi aspettavo che il duca arrivasse prima di domani e avevo preparato le cose per incontrarlo con fato avverso prima che arrivasse qui.» «Robert saprà subito che gli è successo qualcosa» disse Neil. «Non direi» sospirò Elyoner. «Questi sono tempi malvagi. Mostri e gente terribile vagano per le strade. Neanche gli uomini del re sono al sicuro.» «Credete che Robert non capirà quello che è successo?» «Credo che abbiamo poco tempo, colombella» lo rassicurò Elyoner. «Giusto quello necessario per mangiare, bere e riposare. Domani mattina ci sarà ancora il tempo per i piani, credo. No, dovremo essere freschi quando discuteremo di ciò che andrà fatto in seguito. In fondo, non avrete mica pensato di cavalcare dritto fino a Eslen e pretendere che vi aprissero i cancelli della città, vero?» Neil sentì che le labbra si arricciavano leggermente. «Be', è proprio questo il problema» rispose lui. «Se posso essere sincero, duchessa...» «Potete essere sincero quanto volete» disse lei ironicamente. «Oppure potete ingannarmi e prendervi gioco di me, saprò trovare lo stesso un modo per divertirmi.» Le labbra s'inarcarono leggermente. «Ho combattuto parecchie battaglie» disse Neil, ignorando il doppio senso. «Mio padre mi ha messo in mano una lancia per la prima volta quando avevo nove anni, per uccidere i predoni Weihand che erano al servizio di Hansa. Dopo la morte del mio babbo, il barone Fail de Liery mi prese nella sua casa e ho combattuto per lui. «Ora sono un cavaliere di Crotheny. Ma non ho una grande esperienza di come si muove guerra, capite? Ho guidato delle incursioni e difeso fortifi-
cazioni, ma espugnare una città e una fortezza, specialmente una come Eslen, è una cosa che non so fare. E temo che neanche Anne sappia come muoversi.» «Lo so» convenne Elyoner. «È tutta così valorosa, questa vostra campagna. Ma vedete, mio caro, avete un motivo in più per trascorrere un po' di tempo con me. In questo modo posso presentarvi alle persone giuste.» «Cosa intendete dire?» «Per favore, pazientate un altro po', colombella. Fidatevi di Elyoner. Vi ho mai dato un consiglio sbagliato?» «Ne avrei in mente uno» rispose Neil rigidamente. «No» replicò Elyoner dolcemente. «Non sono d'accordo. Il fatto che non si sia rivelato buono non è stata colpa mia. Il vostro appuntamento amoroso con Fastia non è stato la causa della sua morte, sir Neil. È stata uccisa da uomini malvagi. Credete che un cavaliere che non l'avesse amata sarebbe riuscito a salvarla?» «Sono stato distratto» disse Neil. «Non credo. E neanche Muriele lo credeva e sono sicura che Fastia non vi avrebbe mai accusato. Né vorrebbe che voi la piangeste troppo a lungo. So che l'avete compianta, ma lei è morta e voi siete vivo. Dovreste... oh, perbacco.» Neil sentì che le sue guance andavano a fuoco. «Sir Neil!» «Sì, duchessa?» «Avete un'espressione così meravigliosamente assente. Sembravate così colpevole solo pochi secondi fa. Chi ha catturato la vostra fantasia?» «Nessuno» rispose rapidamente Neil. «Ah! Volete dire che vorreste che non fosse stato nessuno. Intendete dire che qualcuno l'ha fatto, ma, in qualche modo, pensate che sia sbagliato. Il senso di colpa è la vostra vera amante. Ditemi il nome di una sola donna che avete amato senza sentirvi in colpa per quel sentimento.» «Per favore, duchessa, non voglio parlare di questo.» «Forse avete bisogno di una maggior quantità del mio miscuglio d'erbe.» Neil rivolse disperatamente lo sguardo davanti a sé, sperando di trarre sollievo da quella conversazione. La villa era così lontana dai cancelli. Non era sembrata tanto distante prima. Da quando aveva trovato Anne a Dunmrogh, era riuscito a tenere il suo cuore in silenzio, ma Glenchest lo stava risvegliando. Gli tornò in mente quando aveva cavalcato lì la prima volta, durante una gita di piacere, molto
più tranquilla. Si ricordò di Fastia che gli aveva intrecciato una collana di fiori da portare al collo. E poi più tardi, dopo aver bevuto molto, lei era entrata nella sua stanza... La figlia della mia regina, che avevo giurato di proteggere. Una donna sposata, si disse. Era morta tra le sue braccia e lui aveva creduto che il suo cuore fosse così infranto che non sarebbe più riuscito a provare un sentimento. Poi aveva incontrato Brinna, che gli aveva salvato la vita e sacrificato il proprio sogno perché lui potesse ottemperare al suo dovere. Lui non l'amava, non quanto aveva amato Fastia, eppure c'era qualcosa. Dov'era adesso? Era morta anche lei? O aveva fatto ritorno alla prigione da cui era fuggita? «Poverino» sospirò Elyoner. «Poverino. Il vostro cuore è fatto per la tragedia, temo.» «Ecco perché il mio unico amore deve essere il mio dovere» rispose Neil, di nuovo con tono rigido. «E quella sarebbe la tragedia più grande,» replicò Elyoner «se io vi credessi veramente capace di restare fedele solo al vostro dovere. Ma avete un cuore troppo romantico per tenere chiuse tutte le sue porte.» E alla fine, troppo tardi però, raggiunsero l'ingresso della villa. Catio poggiò la mano alla parete per tenersi, ruttò e si portò la caraffa di vino alle labbra, tracannando con avidità. Il vino era diverso da tutti quelli che aveva assaggiato: secco e fruttato, con un retrogusto di albicocche. La duchessa aveva detto che veniva da una valle lì vicino, il che faceva di questo il primo vino crothanico che lui avesse mai bevuto. Alzò lo sguardo verso il cielo senza luna e sollevò la caraffa. «Z'Acatto!» esclamò. «Saresti dovuto venire! Avremmo potuto discutere di questo vino. A te, vecchio!» Z'Acatto diceva che non c'era un vino degno di essere bevuto a nord di Tero Galle, ma questo dimostrava che aveva torto. Il problema ovviamente stava nel fatto che sarebbe stato troppo cocciuto da ammetterlo. Catio si domandò come se la stesse cavando il suo mentore. Di sicuro stava ancora a letto a Dunmrogh, a pensare alle sue ferite. Diede uno sguardo intorno al giardino che aveva trovato. La cena era stata eccellente ed esotica. Le terre del Nord potevano anche essere un po' barbare, ma il cibo era decisamente invitante e a casa della duchessa ce
n'era in abbondanza. Ma dopo alcuni bicchieri di vino, lo schiamazzo intorno a lui era diventato assolutamente incomprensibile. La duchessa era capace di condurre una conversazione accettabile in vitelliano, ma dopo aver leggermente flirtato con lui durante la cavalcata, adesso si stava concentrando, ovviamente, ad aggiornarsi con Anne. Lui era troppo stanco per provare a cavarsela goffamente nella lingua del re, perciò dopo la cena se n'era andato a cercare un po' di solitudine e l'aveva trovata lì. Glenchest - che nomi strani avevano in questa parte del mondo - sembrava più un giardino che altro, piuttosto simile alle terre del Mediccio a z'Irbina dove lui e z'Acatto una volta avevano sgraffignato una bottiglia del leggendario Echi'damimi de Sahto Rosa. Ovviamente, non c'erano piogge gelate da nessuna parte in z'Irbina e i giardini vitelliani non avevano siepi sempreverdi potate in modo da somigliare a pareti di pietra come questa, ma il risultato era ugualmente piacevole. C'era anche una statua di santa Fiussa, la cui immagine abbelliva anche la piazza di Avella, la sua città natale. Lo faceva sentire un po' a casa sua. Si tolse il cappello davanti al profilo nudo di una santa che si ergeva su un lastricato al centro di un piccolo cortile a forma di trifoglio e si riposò su una panchina di marmo per finire il suo vino. Le mani gli facevano male per il freddo, ma il resto del corpo era sorprendentemente caldo, grazie non solo al vino, ma anche al meraviglioso farsetto che la duchessa gli aveva dato. Le brache arancio erano di una lana spessa e il farsetto era di pelle morbida bordato di pelliccia. Sopra a tutto questo aveva buttato una mantella trapuntata con le maniche larghe, e i piedi erano protetti da stivaletti. Stava seduto nel tiepido alone di luce riflesso dalla sua lampada e stava sollevando di nuovo la caraffa per brindare all'eccellente gusto della duchessa per l'abbigliamento, quando una voce femminile interruppe le sue fantasticherie. «Catio?» Si voltò e trovò Austra che lo guardava. Elyoner aveva fatto dei regali anche a lei: un abito color indaco su cui indossava una tunica di pelliccia marrone scuro, di un animale che Catio non conosceva, anche se il cappuccio gli sembrava bordato di visone bianco. Il viso appariva arrossato, anche alla luce della lampada, probabilmente per colpa del freddo.
«Salve, bellezza» disse lui. «Benvenuta nel mio piccolo regno.» Austra per un attimo non rispose. Catio non sapeva se fosse uno scherzo della luce, ma sembrava che la ragazza dondolasse avanti e indietro sui talloni, come nel tentativo di tenersi in equilibrio su qualcosa di stretto. Continuò ad aspettarsi che lei allargasse le braccia per tenersi ferma. «Credete davvero che sia bella?» biascicò lei in modo confuso e Catio capì che doveva avere bevuto almeno quanto lui. Quella era una cosa in cui la duchessa era brava, a quanto pareva: far bere il suo vino alla gente. «Come la luce dell'alba, e i petali di una violetta» rispose. «No» replicò lei, leggermente infastidita. «Basta con queste parole. Le dite a ogni donna che incontrate. Io voglio sapere cosa pensate di me, solo di me.» «Io...» cominciò lui, ma Austra proseguì senza fermarsi. «Pensavo di essere sul punto di morire» disse. «Non mi sono mai sentita così sola. E ho pregato che mi trovaste, ma ho temuto che foste già morto. Vi ho visto cadere, Catio.» «E io vi ho trovato» replicò lui. «Sì» convenne Austra. «Mi avete trovato ed è stato bellissimo. Come la prima volta che mi avete salvato, ci avete salvato, lì vicino al coven. Vi siete messo tra noi e il pericolo senza nemmeno chiedere perché. È stato in quel momento che mi sono innamorata di voi. Lo sapevate?» «Io... No» disse lui. «Ma poi sono riuscita a conoscervi meglio e ho capito che l'avreste fatto per chiunque. Sì, stavate inseguendo Anne, ma anche se non aveste conosciuto nessuna di noi due, avreste fatto la stessa cosa.» «Non direi» fece Catio. «Io sì. Siete come un attore su un palcoscenico, Catio, solo che quello che state recitando è la vostra stessa vita. Inventate discorsi e comportamenti; recitate quasi sempre. Ma sotto a tutto questo, che lo sappiate o no, quello che fingete di essere... lo siete veramente. E ora che l'ho capito, capisco anche che vi amo ancora di più. Capisco anche che voi non mi amate.» Catio sentì lo stomaco che si stringeva. «Austra...» «No, fate silenzio. Non mi amate. Vi piaccio. Vi piace baciarmi. Ma non mi amate. Forse amate Anne. Non sono sicura di questo, ma adesso avete capito, vero, che non potete averla?» Stava piangendo e Catio improvvisamente non desiderò altro che poter
fermare quelle lacrime, ma si sentiva stranamente paralizzato. «So che avete flirtato con me per farla ingelosire. E, conoscendovi, il fatto che Anne sia irraggiungibile probabilmente la rende ancora più attraente. Ma io sono qui, Catio, e vi amo e anche se non provate la stessa cosa, vi desidero, desidero tutto quello che potete darmi.» Si asciugò le lacrime e si avvicinò di un altro passo con aria di sfida. «Sono quasi morta una dozzina di volte nell'ultimo anno. Sono stata fortunata, ma le cose stanno solo peggiorando. Non credo che arriverò a vedere il mio prossimo compleanno, Catio. Davvero non lo credo. E prima di morire, voglio... voglio stare con voi. Capite quello che voglio dirvi? Non mi aspetto un matrimonio, amore o fiori, ma voglio voi, adesso, finché c'è ancora tempo.» «Austra, ci avete pensato seriamente?» «Stavano parlando di violentarmi, Catio» disse Austra. «Credete che voglia perdere la mia verginità in questo modo? Sono forse così brutta che...» «Basta» disse lui, alzando la mano e lei si fermò. I suoi occhi sembravano più grandi del solito, dolci ombre sul viso. «Sapete come stanno le cose.» «No, per niente.» «Davvero? Sembrate conoscere un bel po' di cose su di me» disse Catio. «Quello che sento, quello che non sento. Be', lasciatemi dire una cosa, Austra Orunasadata...» «Laesclautar» lo corresse lei. «Comunque lo pronunciate» fece lui. «Quello che voglio dire è...» «Cosa?» «È...» s'interruppe, pensò un attimo e gli tornò in mente il momento prima che i laniatori li assalissero, quando aveva visto lei legata, gli uomini che l'avevano presa, e aveva capito che era Austra e non Anne. La prese per le spalle e la baciò. Le labbra di lei all'inizio erano fredde e non risposero, ma poi presero a tremare contro quelle di lui e le braccia di Austra lo strinsero e lei sospirò mentre i loro corpi si avvicinavano. «Voglio dire» fece lui, allontanandosi dopo un momento lungo, lunghissimo e diventando improvvisamente sicuro di quello che intendeva dire. «Quello che voglio dire è che non mi avete capito neanche la metà di quanto credete. Perché io vi amo.» «Oh» disse lei mentre Catio la riavvicinava a sé. «Oh.» Quando il domestico chiuse la porta dietro di lei, Anne crollò sul letto,
sentendo il debole fruscio degli stivaletti sulla pietra finché non sparì. La cena era stata quasi insopportabile: era trascorsa un'infinità di tempo da quando aveva mangiato l'ultima volta a un tavolo formale, e anche se quello di Elyoner era più chiassoso di tanti altri, lei aveva comunque sentito la necessità di stare seduta con la spina dorsale eretta, cercando di fare conversazioni intelligenti. Aveva evitato il vino, che avrebbe potuto aiutarla a rilassarsi, perché il solo pensiero dell'alcol le dava ancora leggermente allo stomaco. Il pasto era stato delizioso, a giudicare dalla reazione dei suoi compagni, ma lei a malapena aveva notato il sapore di qualcosa. Ora, finalmente, aveva ciò che desiderava da... be', mesi. Era sola. Allungò la mano verso i piedi del letto, dove una testa di leone in legno faceva da guardia in cima alla colonna. Strofinò la corona di vetro liscio. «Salve, Lew» sospirò. Sembrava così familiare ed estraneo allo stesso tempo. Quante volte era stata in quella stanza? Almeno una volta all'anno. La prima che riusciva a ricordare, lei aveva circa sei anni e Austra cinque. La seconda sorella di Anne ne aveva otto. Era la prima volta che Fastia, la sorella maggiore, era stata messa a capo delle tre ragazze, e doveva aver avuto tredici anni. Anne poteva vederla adesso; ai suoi occhi di ragazzina, Fastia appariva quasi un'adulta, una donna. Guardandola adesso, invece, nella sua vestaglia di cotone, era ancora una ragazza, coi seni appena accennati. Il viso aveva già la bellezza di quello della madre, ma ancora un aspetto fanciullesco. I capelli lunghi e neri erano mossi perché erano stati raccolti in trecce fino a poco prima, quella sera. «Salve, Lew» aveva detto Fastia, strofinando la testa del leone per la prima volta. Elseny aveva ridacchiato. «Sei innamorata!» l'aveva accusata. «Sei innamorata di Leuhaert!» Anne a stento riusciva a ricordare chi fosse questo Leuhaert. Il figlio di qualche grefio o duca che era apparso a corte durante una delle stagioni di Yule, un bel ragazzo, le cui maniere erano buone nelle intenzioni, ma mai veramente appropriate. «Forse lo sono» aveva risposto lei. «E sai cosa significa il suo nome? Cuor di leone. È il mio leone, e visto che non è qui, il vecchio Lew dovrà bastare.» Anne aveva messo la mano sulla testa del leone. «Oh, Lew!» aveva detto allegramente. «Anch'io voglio un principe, pensaci tu.»
«Anch'io» aveva ridacchiato Austra, accarezzando il pezzo di legno. Era diventata una consuetudine nei dieci anni successivi, quella di strofinare la testa di Lew, anche dopo che Fastia si era sposata. Aveva chiuso gli occhi mentre ricordava, ma quando una mano accarezzò la sua, li spalancò restando senza fiato. C'era una ragazza lì, con i capelli biondi come l'oro. «Elseny?» domandò Anne, ritraendo la mano. Era Elseny, e mostrava la stessa età di quando Anne l'aveva vista l'ultima volta. «Salve, Lew» disse Elseny, ignorando Anne. «Salve, vecchio amico. Credo che Fastia stia per fare una marachella, ma non lo dirò, se tu non lo dirai. E sto per sposarmi, pensa un po'!» Elseny accarezzò un'altra volta la testa di legno e poi tornò indietro verso la porta. Anne sentì il suo respiro passare velocemente davanti alle sue orecchie. «Elseny!» la chiamò, ma la sorella non rispose. Sollevò di nuovo lo sguardo e trovò Fastia in piedi. «Salve, Lew» disse Fastia, dando una carezza alla colonna del letto e indugiando con la mano. Sembrava quasi uguale all'ultima volta in cui Anne l'aveva vista, ma il volto era rilassato, aveva messo via la maschera pubblica. Appariva dolce, triste e giovane, non tanto diverso da quello della ragazza che aveva dato il nome a Lew. Anne sentì una stretta al cuore. Aveva detto delle parole così piene di rabbia a Fastia, l'ultima volta che avevano parlato. Come poteva sapere che non l'avrebbero più fatto? «Cosa dovrei fare?» mormorò Fastia. «Non dovrei. Non dovrei...» Anne subito riconobbe il velo lucido negli occhi della sorella. Era ubriaca. Stava lì in piedi barcollando e improvvisamente reagì. Guardò Anne dritta negli occhi e per un attimo lei fu certa che Fastia potesse vederla. «Mi dispiace, Anne» bisbigliò. «Mi dispiace così tanto.» Poi Fastia chiuse gli occhi e cominciò a cantare dolcemente. Ecco il mio desiderio: un uomo con le labbra rosse come il sangue la pelle bianca come la neve i capelli di un nero bluastro come le ali di un corvo. È questo il mio desiderio.
Ecco il mio desiderio: un uomo che mi tenga stretta e al caldo che abbracci solo me fino a che le stelle non si spengono e il mare non si asciuga. È questo il mio desiderio. Terminò il suo canto e Anne la guardò attraverso un velo di lacrime. «Addio, Lew» disse Fastia. Appena fece per voltarsi, il pianto sommesso di Anne si trasformò in singhiozzi. Fastia si diresse verso l'arazzo del cavaliere in sella a un ippocampo e lo sollevò. Diede un leggero colpo alla parete retrostante e un pannello si aprì, scivolando. Fastia si fermò sulla soglia, nel buio. «Esistono molti altri luoghi segreti come questo dai quali possiamo uscire» disse. «Ma rimandiamo l'argomento. Per ora devi sopravvivere a questo.» E poi arrivò il fetore della carne putrefatta e gli occhi di Fastia si riempirono di vermi e Anne gridò... ...e si mise a sedere urlando, con la mano ancora sulla colonna del letto, giusto in tempo per vedere l'arazzo che si alzava. 7 I revesturi L'uomo era così vicino che Stephen riusciva a sentirne il respiro sulla nuca. «Ho sempre creduto che quello fosse solo un modo di dire» mormorò. «Cos'è un modo di dire?» domandò l'uomo. «Bon die, fratre Ehan» disse Stephen. «Eh, già. Questo è un modo per dire 'buongiorno'» rispose Ehan. «Ma tu questo lo sai.» «Posso voltarmi?» «Oh, certo» fece Ehan. «Stavo solo cercando di spaventarti.» «Hai fatto un buon lavoro» riconobbe Stephen, girandosi lentamente. Trovò un uomo piccoletto, quasi un nano, con i capelli di un rosso vivo che gli sorrideva radiosamente, coi pugni sui fianchi e i gomiti che sporgevano da un saio verde scuro. Improvvisamente allungò una mano e Ste-
phen trasalì leggermente finché non si accorse che era vuota. «Nervoso, eh?» commentò Ehan mentre Stephen con ritardo stringeva la mano che gli veniva offerta. «Be', solo perché hai esordito chiamandomi traditore, Fratello Ehan.» «Be', è vero» rispose Ehan. «Ci sono alcune persone nella Chiesa che ti considerano un traditore, ma io non sono tra quelle. Né troverai qualcuno a d'Ef che la pensa in quel modo. Almeno, non al momento.» «Come sapevi che sarei arrivato qui?» «Quelli di sotto mi hanno avvertito che ti stavano mandando in superficie» rispose Ehan. «Allora sei alleato con i laniatori?» Ehan si grattò la testa. «I wothen? Sì, credo di sì.» «Non capisco.» «Be', non sta a me spiegartelo,» rispose Ehan «perché temo che Sbaglierei. Sono qui solo per portarti dal tipo che ti darà delle spiegazioni, e per assicurarti che sei tra amici, o almeno non tra nemici. Non ci sono alleati del praifec qui.» «Allora lo sai?» domandò Stephen. «Oh, certo» rispose Ehan. «Senti, ti dispiace se ci avviamo? Se non ci spicciamo probabilmente non faremo in tempo per il praicersnu.» Stephen fece un respiro profondo. Lui e Ehan erano amici una volta, o almeno prima pensava che lo fossero. Si erano aiutati a vicenda contro Desmond Spendlove e gli altri monaci corrotti del monastero d'Ef. Ma Stephen da allora aveva intrapreso una serie di studi la cui lezione consisteva essenzialmente in questo: nessuno è ciò che sembra, specialmente all'interno della Chiesa. Ehan non gli aveva mai dato motivo di diffidare di lui. Lo avrebbe potuto accoltellare alla schiena con la stessa facilità con cui l'aveva salutato. Ma forse quello che voleva era una cosa più sottile dell'omicidio. «Andiamo, allora» disse Stephen. «Da questa parte.» Ehan lo condusse lungo un sentiero che tornava indietro, passando all'improvviso lungo il bordo della foresta e tra i pascoli, per scendere e attraversare un piccolo torrente, con un ponte rappresentato da un tronco d'albero, e poi passare attraverso il vasto meleto e salire sulla collina successiva, verso il monastero che si allungava in maniera scomposta. Nonostante i brutti ricordi di quel posto, doveva ammettere che era sempre un bell'edificio. La navata con la guglia alta spingeva in cielo una torre dell'o-
rologio a doppio arco di granito rosa che rifletteva la luce del mattino come un pallido fuoco, una preghiera trasformata in architettura. «Cosa è successo da quando me ne sono andato?» domandò Stephen mentre si arrampicavano per l'ultimo, ripido tratto. «Ah, be', credo di poterti dire qualcosa. Dopo che hai salvato il guardaboschi da fratello Desmond e la sua banda, vi hanno seguito. Ovviamente, in seguito siamo stati informati su come è andata a finire. Nel frattempo, ci è stato riferito che il praifec aveva mandato un nuovo fratrex per dirigere questo monastero. Ora, sapevamo che Desmond era malvagio, ma non che lavorava per gli Hierovasi.» «Hierovasi?» «Io... giusto, doveva spiegartelo lui. Per ora non ti preoccupare di questo. Chiamiamoli cattivi. In effetti, come te, la maggior parte di noi non sapeva niente degli Hierovasi. Ma siamo riusciti a sapere che Hespero era uno di loro, il che voleva dire che anche il fratrex che stava mandando era con ogni probabilità dello stesso gruppo. «E lo era, perciò c'è stata una specie di battaglia. Avremmo perso, ma avevamo alcuni alleati.» «I lardatoli?» «I dreothen e, sì, di conseguenza i wothen. Non approvi?» «Quelli mangiano le persone» gli fece notare Stephen. Ehan soffocò una risata. «Già, questa è una caratteristica a loro sfavore. Ma in quel caso mangiarono le persone giuste, perciò non ci siamo lamentati più di tanto. «Da allora il nostro numero è cresciuto perché si è sparsa la voce. Siamo stati attaccati qualche altra volta dagli Hierovasi, ma hanno altre cose di cui occuparsi al momento: il resacaratum, per esempio.» «Ne ho sentito parlare a Dunmrogh, ma erano per lo più voci.» «Magari fossero solo voci. Purtroppo non è così; si tratta di tortura, cremazione, impiccagione, annegamento e tutto il resto. Tutti quelli che a loro non piacciono, chiunque considerino pericoloso...» «Con 'loro' intendi questi Hierovasi?» «Già, capisci? Sono loro che controllano quello che la maggior parte della gente crede essere la Chiesa.» «No» replicò Stephen. «Non so niente di tutto questo.» Ma sentì accendersi un'improvvisa scintilla di speranza. Ehan stava suggerendo che era solo una fazione all'interno della Chiesa a essere malvagia, anche se si trattava di quella più potente. Questo voleva dire che esisteva
una possibilità, dopo tutto, che lui potesse trovare una parte al fianco della quale valeva la pena combattere. «Be', sono troppo pochi quelli.» rispose Ehan. «Cioè, quelli che ne sanno qualcosa. A ogni modo ecco cosa abbiamo fatto finora.» «Aspetta. Questi Hierovasi... controllano anche il Caillo Valliamo a z'Irbina?» «Direi di sì. Fratrex Prismo è uno di loro.» «Niro Lucio?» «Ah, no.» Ehan scosse il capo mentre passavano le grandi porte ad arco dell'entrata frontale e si dirigevano verso il cortile dell'ala che si stendeva verso ovest. «Lucio è morto di un disordine intestinale particolare e inaspettato, non so se capisci quello che voglio dire. Ora è Niro Fabulo.» «Perciò d'Ef non obbedisce più al santo dei santi!» «No.» «Allora chi è alla guida qui?» «Be', il fratrex ovviamente» rispose Ehan. «Fratrex Pell? Ma io l'ho visto morire.» «No» esclamò una voce familiare. «No, fratello Stephen, voi mi avete visto mentre morivo. Non mi avete visto morire.» Lo sguardo di Stephen saltò direttamente verso la fonte di quelle parole. Fratrex Pell, la massima autorità a d'Ef, era stata la prima persona di quel monastero che Stephen aveva incontrato. Il fratrex si era finto un vecchio che cercava di sollevare una catasta di legno per il fuoco. Stephen aveva portato quel peso su di sé, ma aveva colto l'opportunità per provare a impressionare questa persona che aveva creduto un sempliciotto. In effetti, ripensando agli eventi di quel periodo, provava un certo fastidio a ricordare la compiacenza con cui aveva trattato quel tipo. Ma era stato il fratrex a prendersi gioco di lui mettendo subito in evidenza la sua stupidaggine. Ora era lì, seduto a un tavolo di legno, in una poltrona dall'aspetto piuttosto singolare, con i suoi occhi viola, luminosi sotto folte sopracciglia grigie. Indossava una semplice tunica color ambra, col cappuccio tirato giù. «Fratrex» disse con un filo di voce Stephen. «Io... credevo che foste morto. L'ho visto io e poi le indagini del praifec...» «Sì» biascicò con noncuranza il fratrex. «Pensate attentamente a quell'ultima volta.» «Oh» esclamò Stephen. «Allora avete finto di essere morto per evitare il
praifec.» «Siete sempre stato sveglio, fratello Stephen» replicò sarcastico il fratrex. «Anche se non è stata una vera e propria finta. Quando Desmond Spendlove ha mostrato la sua vera natura, sapevo per chi stava lavorando. Eppure non l'avrei mai immaginato. Mi fidavo di Hespero, credevo fosse uno di noi. Ma tutti possono sbagliare.» «Ma,» fece Stephen «quando mi avete salvato la vita, siete stato accoltellato e poi il muro è crollato.» «Non sono rimasto del tutto illeso» disse Pell. Fu quello il momento in cui i dettagli tornarono improvvisamente al loro posto: le gambe del confratello, che s'intravedevano dalla tunica, erano sottili e magre e la parte superiore del corpo si muoveva in modo strano. E la sedia, ovviamente, aveva delle rotelle. «Scusatemi» disse Stephen. «Be', considerate l'alternativa. E da quello che mi sembra di capire, questo è un momento particolarmente spiacevole per morire.» «Ma è successo perché stavate aiutando me.» «Questo è vero,» ammise il fratrex «anche se non l'ho fatto solo per un'ammirazione personale. Noi abbiamo bisogno di voi, fratello Stephen. Ci servite vivo. In effetti, abbiamo bisogno più di voi che di me in definitiva.» Per qualche motivo a Stephen non piacquero quelle parole. «Continuate a parlare di 'noi'» disse Stephen. «Ho la sensazione che non vi riferiate all'ordine di san Decamnus, e neanche alla Chiesa, visto quello che si è lasciato sfuggire fratello Ehan.» Fratrex Pell sorrise benevolo. «Fratello Ehan» disse. «Mi chiedevo se potevate portarci un po' di quel sidro verde. E magari anche un po' di quel pane che sento in forno.» «Sarebbe un onore, fratrex» replicò l'altro, e andò via di corsa. «Posso aiutarvi?» domandò Stephen. «No, state pure e sedetevi. Abbiamo un sacco di cose di cui parlare e non ho intenzione di rinviarle. Il tempo è diventato troppo poco per fare i misteriosi. Datemi solo un minuto per radunare i miei pensieri. Ultimamente sembrano piuttosto confusi.» Ehan portò il sidro, una ciambella di roglaef che profumava di noci e un formaggio bianco duro. Il fratrex prese un po' di tutto, piegandosi con qualche difficoltà; il braccio destro sembrava particolarmente malridotto. Il sidro era freddo, forte e ancora leggermente frizzante. Il pane era cal-
do e confortante e il formaggio piccante, con un retrogusto che a Stephen fece tornare in mente il profumo di quercia. Il fratrex tornò a poggiare le spalle allo schienale, stringendo goffamente un boccale di vino. «Come hanno fatto i nostri antenati a sconfiggere gli Skasloi, fratello Stephen?» domandò il fratrex, sorseggiando il sidro. Gli sembrò una strana digressione, ma Stephen obbedì. «I prigionieri virgenyani fecero scoppiare una rivolta» rispose. «Sì, certo» disse il fratrex con una certa impazienza. «Ma dalle nostre fonti sparse qua e là sappiamo che c'erano state altre rivolte prima di quella. Come hanno fatto gli schiavi guidati da Virgenya Dare ad avere successo là dove gli altri hanno fallito?» «I santi» disse Stephen. «I santi erano dalla parte degli schiavi.» «Di nuovo,» domandò il fratrex «perché solo allora e non prima?» «Perché coloro che si ribellarono precedentemente non erano sufficientemente devoti» replicò Stephen. «Ah. È questa la risposta che avete imparato al collegio a Ralegh?» domandò il fratrex. «Ne esiste un'altra?» Fratrex Pell fece un sorriso benevolo. «Visto quello che avete imparato da quando avete lasciato il collegio, qual è la vostra opinione?» Stephen sospirò e annuì. Chiuse gli occhi e si strofinò le tempie, cercando di pensare. «Non ho mai letto nulla al riguardo, ma pare ovvio che Virgenya Dare e i suoi seguaci devono aver percorso qualche via dei templi. Le loro forze, armi...» «Sì» disse il fratrex. «Ma cosa c'è al di là dell'ovvio? Anche gli Skasloi avevano la loro magia... una potente magia. Veniva dai santi?» «No» rispose Stephen. «Certo che no.» «Ne siete certo?» «Gli Skasloi adoravano gli antichi dèi, che furono sconfitti dai santi» disse Stephen. Poi s'illuminò. «Credo che i santi non hanno aiutato nessuna delle rivolte precedenti perché non avevano ancora sconfitto gli antichi dèi.» La bocca di fratrex Pell si allargò un altro po'. «Non vi ha mai colpito questa coincidenza un po' troppo precisa e tempestiva che vede gli antichi dèi e gli Skasloi sconfitti nello stesso momento?» «Mi pare che abbia un suo senso.»
«Potrebbe averne anche di più se gli Skasloi e gli antichi dèi fossero esattamente la stessa cosa» affermò il fratrex. Stephen ebbe bisogno di un momento, poi annuì lentamente. «Non è impossibile» convenne. «Non ci ho mai pensato prima perché è un sacrilegio e ho ancora l'abitudine di evitare pensieri come questi quando posso, ma è possibile. Gli Skasloi avevano dei poteri magici che...» Si accigliò. «Non starete dicendo che gli Skasloi avevano ottenuto il loro potere dai santi, vero?» «No, testone. Sto solo suggerendo che né gli antichi dèi, né i santi sono reali.» Stephen subito si domandò se il fratrex fosse diventato pazzo. Dolore, coma, emorragia e scarso ossigeno nei polmoni, lo shock di essere rimasto storpio... Richiamò tutte le sue facoltà mentali in fuga. «Ma... Io stesso ho percorso le vie dei templi. Ho sentito il potere dei santi.» «No,» disse il fratrex più gentilmente «avete solo sentito il potere. E questa è l'unica cosa che io e voi sappiamo essere reale. Il resto, da dove derivi questo potere, perché ci colpisce in quel modo, in che cosa differisce da quello detenuto dagli Skasloi, noi non lo sappiamo.» «Ancora una volta, quando dite 'noi'...» «I Revesturi» disse fratrex Pell. «Revesturi?» domandò Stephen. «Mi ricordo di aver letto qualcosa su di loro. Un movimento eretico all'interno della Chiesa, caduto in discredito un migliaio d'anni fa.» «Millecento anni fa» lo corresse il fratrex. «All'epoca del Sacaratum.» «Esatto. Era una delle tante eresie.» Il fratrex scosse il capo. «Era qualcosa di più. La storia è spesso meno precisa sul passato di quanto lo sia sul presente; deve essere conveniente a coloro che hanno il potere, nel momento in cui viene raccontata. «Vi dirò qualcosa del Sacaratum che dubito fortemente conosciate già. Fu più di una guerra santa, più di un'ondata di conversione e consacrazione. Alle radici è stata una guerra civile, fratello Stephen. Due fazioni, ugualmente potenti, combatterono per l'anima della Chiesa: i Revesturi e gli Hierovasi. Il pretesto della contesa fu accademico; ma la fine no. Esistono fosse piene d'ossa di Revesturi.» «Una guerra civile all'interno della Chiesa?» chiese Stephen. «Sicuramente avrei dovuto sentire parlare di qualcosa del genere.» «Ci sono stati due conflitti di questo tipo a dire la verità» proseguì il fra-
trex. «Nella prima Chiesa, la massima autorità è sempre stata una donna, seguendo l'esempio di Virgenya Dare. Il primo fratrex Prismo s'impossessò del suo posto con la violenza e le donne furono allontanate dalla gerarchia e gettate nei loro coven privi di potere e attentamente controllati.» Ancora una volta, un cambio di prospettiva che trasformava il mondo intero. Perché non ho mai trovato una sola parola su quell'argomento?, si domandò Stephen. «Allora ogni cosa... tutto quello che so è una menzogna!» esclamò. «No» rispose il fratrex. «È storia. La domanda che dovete porvi su ogni versione storica è: chi trae vantaggio da questa versione? Nel corso di mille anni, o duemila, gli interessi dei potenti cambiano spesso e altrettanto fanno le storie che sostengono i loro troni.» «Non dovrei forse chiedermi a questo punto chi trae vantaggio dalla vostra versione degli eventi?» domandò Stephen, sentendo di essere stato un po' duro, ma non preoccupandosene. «Assolutamente» rispose il fratrex. «Ma ricordate, ci sono delle verità inconfutabili, delle cose che sono successe realmente. Fatti veri, cadaveri reali nella terra. Solo perché avete accettato qualche distorsione, non significa che non c'è niente di vero nel mondo; vi si richiede solamente di usare un metodo per scoprire la verità, ricavarla a fatica dalle cose.» «Non sono mai stato così ingenuo da credere a tutte le opinioni che sento» disse Stephen. «Ci sono sempre dibattiti all'interno della Chiesa, e io sono stato tra quelli che vi hanno preso parte. Non è solo una questione di sentire e credere, ma bisogna capire come ogni proposizione si colloca all'interno del tutto. E se mi viene detto che qualcosa non concorda con ciò che so, allora la esamino.» «Ma non capite? Questo significa solo utilizzare una fonte già contestabile, o peggio un corpo di fonti, per valutarne un'altra. Vi ho chiesto della rivolta contro gli Skasloi, l'evento centrale della nostra storia, e cosa avete di sostanziale da dirmi? A quali fonti potreste rimandarmi? Come fate a sapere che ciò che vi è stato detto è la verità e non si limita invece solo a confermare quello che vi è stato detto? E qual è il vostro giudizio sugli eventi di quest'ultimo anno? Sapete che sono successi; siete stato testimone di alcuni di loro. Riuscite a collocare questi eventi in ciò che vi è stato insegnato?» «Le fonti originali del periodo della rivolta sono andate perdute» disse Stephen, cercando di allontanare il punto principale con uno secondario. «Ci fidiamo delle fonti che abbiamo, perché sono tutto ciò che abbiamo.»
«Capisco. Perciò se chiudete tre persone in una stanza con un coltello e una borsa piena d'oro e quando riaprite la porta due di loro sono morti, accettate la testimonianza del terzo solo perché è l'unica disponibile?» «Non è la stessa cosa.» «È esattamente la stessa cosa.» «Non quando il testimone è ispirato dai santi.» «E se non ci sono santi?» «Allora torniamo al punto di partenza» disse Stephen, affaticato. «E mi lasciate sempre con la scelta di appoggiare una fazione che tortura e sacrifica bambini e una che collabora con dei cannibali. Mi state dicendo che non esiste una via di mezzo tra gli Hierovasi e i Revesturi?» «Sì, certo che esiste. Ed è la più grande di tutte: quella degli ignoranti.» «Ovvero io.» «Sì, fino a questo momento. Ma alla fine sareste stato avvicinato da una o entrambe le fazioni.» «Prima mi dite che tutti i Revesturi sono stati massacrati in una guerra civile di cui non ho mai sentito parlare e ora mi dite che sono una potente fazione che opera nella Chiesa moderna. Bene, quale delle due è la verità?» «Entrambe, ovviamente. La maggior parte di noi è stata uccisa o bandita durante il Sacaratum. Ma se è facile uccidere uomini e donne, è molto più difficile uccidere un'idea, fratello Stephen.» «E di quale idea si tratta?» domandò Stephen. «Capite cosa significa il nome Revesturi?» «Presumo che derivi dal verbo revestum, 'ispezionare'.» «Esattamente. La nostra semplicissima convinzione è che la nostra storia, le nostre nozioni, tutto il mondo che ci circonda sono esattamente sotto la nostra osservazione. Tutti i resoconti devono essere pesati e considerati; in ogni dibattito bisogna esaminare tutti i fatti.» «È un mandato piuttosto vago per il quale morire.» «Non se considerate i particolari dibattiti che esso ispira» rispose il fratrex. «Discutere, per esempio, se i santi esistono veramente non è accettabile, vero?» «Fu questo il dibattito che condusse alla guerra civile?» «Non proprio. La verità nuda e cruda è che quel particolare dibattito venne così ben soffocato che al momento non sappiamo cosa riguardasse. Ma ne conosciamo la causa.» «E quale sarebbe?»
«Il diario di Virgenya Dare.» Per qualche secondo, Stephen non riuscì a pensare a qualcosa da dire. Virgenya Dare, la liberatrice, la salvatrice della razza umana, la donna che scoprì i sedoi, le vie dei templi, i sentieri che conducevano ai santi. Il suo diario. Scosse il capo e cercò di concentrarsi su quel momento. «Dovrebbe essere scritto in Antico Virgenyano» mormorò. «O magari nel primo Cavari. Il suo diario?» Il fratrex sorrise. Stephen si strofinò il mento. «Allora devono averlo avuto veramente,» considerò meravigliato «quel suo diario, della stessa epoca del Sacaratum. Incredibile. E tuttavia non ne fecero copie - oh! Deve esserci qualcosa scritto dentro, qualcosa che agli Hierovasi non piacque. È questo che state cercando di dirmi?» «Esattamente» confermò fratrex Pell. «In verità, ne esistevano diverse copie. Sono state tutte distrutte. Ma l'originale no.» «Cosa? Esiste ancora?» «Certo. Uno del nostro ordine fuggì portandolo con sé e lo ha nascosto in un luogo segreto e sicuro. Sfortunatamente, la testimonianza di dove lo ha nascosto è andata perduta. È un peccato, perché credo che l'unica cosa che può salvare noi, salvare il mondo, è ciò che è contenuto in quel diario.» «Aspettate. Cosa? Come sarebbe a dire?» «Dreodh vi ha spiegato la dottrina dei wothen?» «Intendete dire la loro convinzione che il mondo sia malato?» «Sì.» «Me l'ha spiegata.» «L'avete capita?» Stephen annuì riluttante. «Più o meno. La foresta, almeno, sembra morire. I mostri che ora vagano per la terra sembrano l'incarnazione di mali e morte.» «Esattamente. E non vi sorprenderà sapere, credo, che questo è già successo, che queste bestie sono già esistite.» «La leggenda lo lascia intendere. Ma...» Il fratrex sollevò una mano per fermarlo. «Non esistono copie del diario di Virgenya Dare, ma ci sono pochissimi scrifti, tra i più sacri, che ne parlano. Ve li mostrerò, ovviamente, ma lasciate che ve li riassuma un momento. Questo male si abbatte sul mondo periodicamente. Se non viene
arginato, distrugge ogni forma di vita. Virgenya Dare trovò il modo per farlo una volta, ma non sappiamo come ci sia riuscita. Se il segreto esiste da qualche parte, sarà nel suo diario.» «Secondo la vostra dottrina, però, mancando il diario, questa storia potrebbe essere solo una delle tante voci che girano.» «Mancando il diario, sì» ammise il fratrex. «Ma non siamo stati così totalmente compiacenti. Abbiamo dissotterrato due indizi sulla sua ubicazione; uno è un antichissimo riferimento a una montagna chiamata Vhelnoryganuz, che crediamo essere da qualche parte tra i Bairghs. L'altro è questo.» Dal grembo tirò fuori una piccola scatola di cedro e la porse a Stephen. Lui allungò la mano con cautela e sollevò il coperchio. All'interno c'era un rotolo rovinato di lamina di piombo. «Non riusciamo a capirlo.» Disse il fratrex. «Speriamo che voi possiate riuscirci.» «Perché?» «Perché abbiamo bisogno che voi troviate il diario di Virgenya Dare. Ripeto: senza di esso, temo che siamo tutti condannati.» 8 Un cambio di scena Leoff fu risvegliato da un debole graffiare alla porta. Non si mosse, ma socchiuse gli occhi, cercando di trovare la strada nella nebbia della mente che lo aveva seguito dal sonno. I suoi carcerieri non si attardavano mai così a lungo alla porta. Infilavano la chiave, la chiave girava e la porta si apriva. E ormai sapeva riconoscere il suono di una chiave nella serratura. No, questo era più acuto, un pezzo di metallo più piccolo. Prima che potesse decidere esattamente cosa fosse, il graffiare s'interruppe, la porta si spalancò e alla luce bassa e fioca della sua lampada a olio vide un'ombra che l'attraversava. Leoff non riusciva a trovare un altro motivo per continuare a fingersi addormentato. Quindi tirò giù le gambe dal letto e poggiò i piedi a terra. «Siete venuto a uccidermi?» domandò piano all'ombra. Era davvero un'ombra, o per lo meno qualcosa che il suo occhio aveva difficoltà a penetrare. Si opponeva anche all'essere classificata come u-
n'ombra specifica. Soprattutto sembrava il punto cieco dell'angolo dell'occhio, se non fosse stato che questo punto stava esattamente davanti a lui. Mentre Leoff continuava a fissarla, l'ombra in qualche modo sbiadì, acquistando dei contorni più definiti, e si trasformò in una forma umana vestita con pantaloni larghi e neri e un farsetto. Le mani coperte da guanti si sollevarono e tirarono giù il cappuccio. La realtà, aveva scoperto Leoff, era la somma di una serie più o meno consistente di illusioni. La sua era stata mandata in frantumi dalla tortura, dalla privazione, dalla perdita, e non aveva avuto tempo per ricominciare a illudersi. Di conseguenza, non sarebbe stato sorpreso se la faccia che vide fosse stata la maschera fantastica della regina delle fate, o i lineamenti compassionevoli di san Anemlen, o il volto e le zanne di un orco venuto per divorarlo. Il momento sembrava assolutamente denso di eventualità impossibili. Il fatto che il cappuccio calato rivelò il volto di una giovane donna, con due occhi come gemme celesti, fu perciò inatteso, ma non sorprendente. Comunque mutò la sua prospettiva. Era magra e più bassa di lui. I capelli castani erano tirati indietro, il profilo della mascella era dolce. Dubitava che avesse già vent'anni. Inoltre sembrava familiare; era sicuro di averla vista a corte. «Non sono venuta per uccidervi» disse lei. «In nome della Regina Muriele sono venuta a liberarvi.» «A liberarmi» disse piano lui. Improvvisamente tornò a mettere a fuoco quel volto, come se lo stesse vedendo da una distanza di venti iarde, subito accanto a quello di Muriele, la regina. Ecco dove l'aveva vista; alla rappresentazione del suo allietatempo. «Come avete fatto a rendervi invisibile?» «Sono stata benedetta dai santi» rispose la ragazza. «È un segreto del coven. È tutto quello che posso dirvi. Ora, se volete seguirmi...» «Aspettate» disse Leoff. «Come avete fatto a entrare qui dentro?» «Con grande difficoltà e mettendo a grave rischio la mia vita» rispose lei. «Ora per favore, smettetela di farmi domande.» «Ma chi siete?» «Mi chiamo Alis, Alis Berrye, e ho la fiducia della regina. È lei che mi ha mandato. Capite? Ora, vi prego...» «Lady Berrye, sono Leovigild Ackenzal. Come sta la regina?» Alis batté le palpebre come se non capisse.
«Sta bene,» disse «per il momento.» «Perché vi ha mandato a liberarmi?» «Sarebbe troppo lungo da spiegare e non abbiamo molto tempo. Perciò, per favore...» «Accontentatemi, mia signora.» Lei sospirò. «D'accordo. In breve, la regina è rinchiusa nella Torre Pelliccia di Lupo. Ha saputo che siete stato fatto prigioniero e anche del grande affetto che la gente di questa città e di Terranuova nutre per voi. Crede che liberandovi possa migliorare la sua situazione.» «Come?» «Crede che si potrebbe rovesciare l'usurpatore.» «Davvero? Tutto questo grazie a me? Che strano. Come avete fatto a entrare qui dentro?» «Esistono dei passaggi, passaggi segreti che il mio...» S'interruppe, poi ricominciò. «Di cui sono a conoscenza. Dovrete fidarvi di me. Fidatevi anche quando vi dico che se non ci muoviamo subito, non lasceremo vivi questo posto.» Leoff annuì e chiuse gli occhi. Pensò ai cieli azzurri e ai venti tiepidi del Sud, al tocco della pioggia sul suo viso. «Non posso venire» sospirò. «Cosa?» «Ci sono altre persone che vengono tenute prigioniere qui dentro. Mery Gramme e Areana Wistbirm. Se io fuggo, loro ne pagheranno le conseguenze, e non posso permetterlo. Liberatele, provatemi che sono libere e verrò con voi.» «Non so dove sia tenuta la piccola Gramme. La giovane Wistbirm è al di là della mia portata, temo, altrimenti non c'è dubbio che libererei anche lei.» «Allora non posso venire con voi» disse Leoff. «Ascoltatemi Cavaor Ackenzal» disse Alis con urgenza. «Dovete capire il vostro valore. Ci sono persone che moriranno e vedranno altri morire per liberarvi. Quello che avete fatto a Broogh non è stato dimenticato, ma la vostra musica al Bosco delle Candele ha liberato uno spirito che non si è ancora spento. Anzi, è andato solo crescendo. «Le canzoni del vostro allietatempo le canta tutto il paese. La gente è pronta a muoversi contro il malvagio, l'usurpatore, ma tutti hanno paura di quello che lui potrebbe farvi. Se voi foste libero, niente più li fermerebbe.» Abbassò la voce. «Dicono che l'erede legittima abbia fatto ritorno in que-
sto regno: la principessa Anne, figlia di William e Muriele. La metteranno sul trono, ma combatteranno per voi. Siete l'uomo più importante del regno, Cavaor.» Leoff scoppiò a ridere a quelle parole. Non poté evitarlo. Sembravano troppo ridicole. «Non verrò con voi» disse. «Non fino a che Mery e Arcana non sono al sicuro.» «No, no, no, no, no» ripeté Alis. «Vi rendete conto di quello che ho dovuto passare per raggiungervi? È stato quasi impossibile, un miracolo sufficiente a candidarmi alla santificazione. E ora dite che non venite? Non fatemi questo. Non abbandonate la regina.» «Se avete potuto fare un miracolo, allora potrete farne anche un altro. Liberate Mery. Liberate Arcana. Allora sarò felice di venire con voi, se mi date la prova che sono salve e che stanno bene.» «Pensate almeno alla vostra musica» incalzò Alis. «Vi ho detto che le vostre canzoni sono diventate famose. Vi ho anche detto che cantarle è considerato un atto di stregoneria? È stato fatto un tentativo di rappresentare tutta la vostra opera nella città di Wistbirm. Il palco è stato dato alle fiamme dalle guardie del praifec. Ma lo spettacolo si era già dimostrato un fallimento, perché le armonie più complicate del vostro lavoro sfuggono anche al menestrello più bravo. Se foste libero, potreste riscriverla, correggere le loro rappresentazioni.» «E condannare altri sfortunati al mio stesso destino?» domandò Leoff, sollevando le sue mani ormai inutili. «Un congegno molto insolito» commentò Alis, sembrando accorgersi per la prima volta della sua trazione. Scosse la testa come per liberarla. «Ascoltate, è un destino che loro scelgono.» Leoff sentì immediatamente di essere in un equilibrio molto precario. Quella donna... e poi perché proprio una donna?, si chiese. La storia di quella donna era completamente assurda. Molto più probabilmente era Robert che gli stava giocando un altro scherzo. Fino a quel momento non aveva fatto nulla che potesse peggiorare le cose; Robert sapeva che Leoff non avrebbe mai mosso un dito per lui, a meno che Mery e Arcana fossero state in pericolo. E se Alis era onesta, la sua decisione di restare rimaneva comunque irremovibile. Ma c'era un problema. Qualunque cosa avesse detto qui, avrebbe potuto fornire qualcosa a Robert che ancora non sapeva, qualcosa che sembrava
essere di grande importanza. Tuttavia valeva la pena rischiare. Sì, probabilmente sì. «Nel Bosco di Candele» disse lui, rompendo il silenzio. «Cosa c'è nel Bosco di Candele?» «Sotto al palco, sul lato destro, c'è uno spazio sopra l'impalcatura. Sapevo che avrebbero bruciato la mia musica e sapevo anche che avrebbero perquisito le mie stanze per trovare le copie. Ma io ne ho nascosta una lì; può darsi che sia sfuggita agli uomini di Robert.» Alis si accigliò. «La troverò se esco di qua. Ma preferirei avere voi.» «Conoscete le mie condizioni» disse lui. Alis esitò. «È stato un onore incontrarvi» rispose. «Spero di farlo di nuovo.» «Sarebbe bello» replicò Leoff. Alis sospirò e chiuse gli occhi. Si rimise il cappuccio. Lui credette di averle sentito mormorare qualcosa e poi lei tornò a essere un'assenza, un'ombra. La porta si aprì e si richiuse. La sentì armeggiare con la serratura in modo goffo e poi più niente per un lungo periodo. Alla fine tornò a dormire. Quando la porta venne aperta con un rumore secco il giorno dopo, produsse il solito suono. Leoff non aveva modo di sapere che ora fosse, ma era stato sveglio abbastanza da riconoscere che era mezzogiorno, almeno stando alla sua percezione del tempo. Entrarono due uomini. Indossavano entrambi un tabarro nero sulla corazza verniciata con smalto nero e tutti e due portavano uno spadone appeso al fianco. Non somigliavano a nessuna delle guardie carcerarie che Leoff aveva visto precedentemente, ma erano molto simili alle guardie personali di Robert. «State fermo» disse uno di loro. Leoff non rispose mentre uno tirava fuori una benda nera e gliela legava intorno alle tempie e agli occhi, stringendola fino a impedirgli di vedere. Poi lo tirarono su in piedi. Leoff sentì che la sua pelle diventava come cera fredda quando questi cominciarono a condurlo lungo il corridoio. Cercò di concentrarsi sulla distanza e la direzione, come aveva fatto Mery, contando dodici scalini in salita, poi venti passi lungo un corridoio, ventotto su per un passaggio così stretto che a volte le spalle strusciavano contemporaneamente contro le pareti laterali. Dopodiché era come se avessero messo
piede improvvisamente nel cielo; Leoff sentì che lo spazio intorno a lui si allargava, e percepì correnti d'aria. L'eco dei loro passi smise di risuonare e da ciò intuì che dovevano essere all'esterno. Poi lo guidarono verso una carrozza e lo tirarono su e sentì la disperazione assoluta impossessarsi di lui. Continuò a reprimere il desiderio di domandare dove stessero andando, perché era chiaro che gli avevano bendato gli occhi affinché non lo scoprisse. La carrozza iniziò a muoversi, prima sulla pietra, poi sulla ghiaia. Leoff cominciò improvvisamente a pensare che magari era stato rapito dagli alleati della donna che era venuta a 'salvarlo' il giorno prima. L'uso dell'uniforme della guardia di Robert poteva essere arrangiato facilmente. Il cuore sprofondò ulteriormente quando cominciò a pensare cosa sarebbe successo nel momento in cui Robert avrebbe scoperto che era sparito. Doveva essere buio al momento della partenza, ma ora la luce cominciava a filtrare attraverso la benda. Si fece anche più freddo e l'aria s'impregnò dell'odore del sale. Dopo un tempo interminabile, la carrozza si fermò producendo un suono stridulo. Adesso era completamente intirizzito per il freddo. Gli sembrava di sentire chiodi d'acciaio avvitarsi sulle rotule, sui gomiti e lungo la spina dorsale. Le mani gli facevano un male terribile. Provarono a sollevarlo, ma lui lottò per continuare a tenere i piedi a terra e contare i passi sulla ghiaia, poi sulla pietra, quindi sul legno e poi di nuovo sulla pietra e alla fine su dei gradini. Si rannicchiò appena il calore improvviso lo investì come un'onda e gli tolsero la benda. Batté le palpebre per una nuvola di fumo originata da un enorme fuoco che crepitava in un camino straordinariamente grande. Un quarto di cervo allo spiedo friggeva allegramente all'interno, riempiendo l'aria del profumo di carne alla griglia. La stanza era circolare, circa quindici iarde di diametro, e le pareti erano tappezzate di arazzi di cui non riuscì subito a distinguere i soggetti, ma che brillavano alla luce del fuoco: ambra, oro, ruggine e verde bosco. Un tappeto gigantesco copriva il pavimento. Due ragazze avevano appena tolto dal fuoco un grosso trave di legno. Da qui pendeva un paiolo di ferro dal quale versarono acqua fumante in una vasca da bagno che era stata incastonata nel pavimento. A poche iarde di distanza Robert, l'usurpatore, stava comodamente seduto su una poltrona, e dava l'idea di stare a suo agio nella sua vestaglia floreale nera e oro.
«Ah» esclamò. «Il mio compositore. Il vostro bagno è stato appena preparato.» Leoff si guardò intorno. Oltre a Robert e alle domestiche, c'erano gli uomini che lo avevano portato lì, altri due soldati vestiti in modo analogo, un Sefry su uno sgabello che pizzicava una grossa tiorba in stile safniano, un tipo piuttosto giovane e compassato vestito di rosso e con un cappello nero e infine il medico che si era occupato di Leoff in prigione. «No, grazie, Maestà» riuscì a dire Leoff. «No» fece Robert. «Insisto. Non è solo per voi, sapete? Tutti noi abbiamo un naso.» Un risata generale sommessa seguì quelle parole, ma quella giovialità non riuscì a rilassare Leoff; dopo tutto, quelli erano amici di Robert, che avrebbero potuto essere ancora più divertiti dallo sventramento, diciamo, di un bambino. Robert fece un cenno e i soldati cominciarono a levargli i vestiti. Le orecchie di Leoff diventarono rosse come il fuoco, perché le domestiche erano adulte e lui trovava estremamente improprio il fatto che dovessero stare a guardarlo. Comunque, non sembravano notarlo. Avrebbe benissimo potuto essere un altro elemento dell'arredo. Eppure si sentiva esposto e a disagio. Si sentì meglio dentro l'acqua, però. Era così calda che bruciava, ma una volta che lo ebbero immerso smise di sentirsi nudo e il calore cominciò a diffondersi piacevolmente nelle ossa, calmando il dolore che il freddo aveva causato. «Ecco fatto» disse l'usurpatore. «Non va meglio così?» Leoff dovette ammetterlo con riluttanza. Fu ancora meglio quando una delle ragazze gli portò una tazza di idromele caldo e aromatizzato e l'altra tagliò una grossa fetta succulenta di carne di cervo e gliela diede da mangiare a piccoli bocconi. «Ora che vi siete accomodato,» disse Robert «vorrei presentarvi il nostro ospite, Lord Respell. Ha accettato gentilmente di essere il vostro guardiano mentre lavorerete alla composizione che vi ho richiesto, per fornirvi tutto l'aiuto che voi possiate richiedere e fare in modo che non vi manchi nulla.» «Molto gentile,» replicò Leoff «ma pensavo che avrei dovuto lavorare nella mia vecchia stanza.» «Quel luogo umido e freddo? No, si è dimostrato inadatto per diversi motivi.» Detto questo, la sua espressione si fece leggermente più aquilina. «Non è che per caso ieri avete ricevuto visite?» domandò.
Ah, pensò Leoff. Ecco! Era un tranello e questa è la ricompensa per non essere caduto nella trappola. «No, Maestà» rispose solo per vedere quale reazione avrebbe ottenuto. Non fu quello che si aspettava. Robert si accigliò e poggiò le braccia sui braccioli della poltrona. «Le prigioni non sono più sicure come credevano i miei predecessori» dichiarò. «Ieri sono state invase da un ladro misterioso. È stato preso, interrogato e garrotato, ma se ne entra uno, ne possono arrivare altri. «Esistono dei passaggi segreti, sapete, che crivellano la pietra sotto al castello di Eslen e molti attraversano le prigioni. Ho cominciato a farli riempire.» «Davvero, Sire?» domandò Lord Respell, con tono sorpreso. «Passaggi segreti nel castello?» «Sì, Respell» disse Robert, scacciandolo via impazientemente con un gesto della mano. «Ve l'ho già detto prima.» «Ah, sì?» «Sì. Compositore, mi seguite?» Leoff scosse il capo. Si era forse appisolato? Sentiva di aver perso qualcosa. «Ho... ho dimenticato quello che stavate dicendo» rispose Leoff. «Certo. E lo dimenticherete di nuovo, credo, come Respell.» «Dimenticare cosa, Sire?» domandò Respell. Robert sospirò e si portò una mano alla fronte. «I passaggi segreti nelle prigioni. Ce ne sono troppi da trovare e chiudere. Be', non c'è bisogno che scenda nei dettagli. Per farla breve, Cavaor Leoff, sento che starete più a vostro agio qui, al sicuro da ogni altra... incursione. Non è così, Lord Respell?» Il giovane si scrollò di dosso quell'espressione confusa e annuì. «Molti hanno provato a invadere questa rocca» disse orgogliosamente. «Nessuno c'è mai riuscito. Qui starete molto al sicuro.» «E le mie amiche?» domandò Leoff. «Be', doveva essere una sorpresa» replicò Robert. Fece un segno alle domestiche, che sparirono per un secondo e poi tornarono con Mery Gramme e Areana Wistbirm. La prima reazione di Leoff nel vedere le due ragazze fu di pura gioia, seguita immediatamente dalla mortificazione. Areana era una bella signora di diciassette anni ed era molto poco decoroso che lo vedesse in quella situazione.
O in quella forma. Lui era particolarmente consapevole della condizione delle sue mani e di quella terribile trazione. Le spinse ulteriormente sott'acqua. «Leoff!» esclamò Areana, correndo verso di lui e inginocchiandosi accanto alla vasca. «Mery mi ha detto che vi aveva visto, ma...» «State bene, Areana?» domandò lui rigido. «Non vi hanno fatto del male?» Areana alzò lo sguardo su Robert e il suo viso si rannuvolò. «Sono stata isolata e rinchiusa in condizioni molto poco piacevoli,» rispose «ma non ho subito danni seri.» Gli occhi si riempirono improvvisamente di preoccupazione. «Mery mi ha detto che le vostre mani...» «Areana» bisbigliò disperato Leoff. «Sono a disagio in questa situazione. Non mi avevano avvertito che sareste venute.» «È perché è nudo» s'intromise Mery per aiutarlo. «Mamma dice che gli uomini non sono abituati a stare nudi e non sopportano molto bene la cosa. Dice che non sono molto intelligenti senza i vestiti.» «Oh» esclamò Areana. «Certo.» Ancora una volta sollevò lo sguardo su Robert. «Non vi preoccupate» disse a Leoff. «Lui crede che mettendoci in ridicolo ci renderà più inoffensivi e deboli.» «Avevo capito dal modo in cui cantaste che avevate una bella lingua, mia signora» disse Robert. «Cavaor Leovigild, mi congratulo con voi per la scelta delle vostre voci.» Stavolta il tono di Robert suonò più strano del solito. Leoff aveva notato quella stranezza la prima volta che l'aveva sentito. Era come se si sforzasse di produrre le note tipiche del discorso umano, senza riuscire a eliminare dal sottofondo toni innaturali, quasi agghiaccianti, che il suo orecchio non aveva mai udito prima. A volte gli sembrava di sentire frasi completamente diverse in quello che l'uomo diceva, non avulse dal discorso, ma che lo fiancheggiavano come un contrappunto. In quel momento sembrava che Robert stesse minacciando di tagliare la lingua ad Areana. «Grazie, Vostra Maestà» rispose lui, cercando di mostrarsi remissivo. «Penso che sarete molto felice della parte che ho scritto per lei nella mia nuova opera.» «Sì, la vostra nuova... come dovremo chiamarla? Non è un allietatempo, non esattamente, vero? Né si tratta di una semplice opera teatrale. Abbiamo bisogno di un titolo da darle. Ne avete uno?» «Non ancora, Maestà.»
«Be', pensateci. E io farò lo stesso. Magari potrò dare il mio contributo a questa impresa, trovandole un nome.» «Di cosa sta parlando, Leoff?» domandò Areana. «Non ve l'ho detto?» rispose Robert. «Cavaor Leoff ha accettato di scrivere per noi un'altra delle sue opere cantate. Sono rimasto così impressionato dall'ultima che ha presentato, che dovevo assolutamente averne un'altra.» Quindi spostò la sua attenzione su Leoff. «Ditemi, avete trovato un soggetto?» «Credo di sì, Maestà.» «Non potete parlare sul serio» esclamò Areana, indietreggiando un po'. «Significherebbe tradire tutto quello che avete fatto. Tutto quello che abbiamo fatto.» «Siamo tutti molto seri» disse Robert. «Ora ditemi, amico mio.» Cercando di rimanere insensibile al turbamento di Areana, Leoff si schiarì la voce. «Conoscete la storia di Maersca?» domandò. Robert ci pensò un attimo. «Credo di no.» No, disse il contrappunto, e avreste fatto meglio a non farmi apparire ignorante. «Neanch'io la conoscevo, fino a quando non l'ho letta sui libri che mi avete dato» disse velocemente Leoff. «È successo, da quello che ho capito, a Terranuova, molto tempo fa, prima che la regione venisse chiamata Terranuova, quando si stavano costruendo i primi canali e i poel venivano bonificati. «Ah» esclamò Robert. «Un soggetto vicino al cuore dei custodi terrieri, non ne dubito. Non è così, Areana?» «È una storia che noi conosciamo bene» convenne rigida la ragazza. «Non mi sorprende, allora, che voi non la conosciate.» Robert scrollò timidamente le spalle. «Neanche il vostro amico Leoff la conosceva. Lo ha appena ammesso.» «Sì, ma lui non è cresciuto nel cuore di Terranuova» rispose Areana. «Vostra Maestà sì.» «Infatti,» disse Robert leggermente irritato «e ho fatto quel che ho potuto per la vostra gente, anche contribuendo alla nascita di qualche figlio qua e là per diluire il vostro sangue così denso. Ora, per favore, mia giovane signora, raccontateci la storia.» Areana diede un'occhiata a Leoff, il quale annuì. Stava cominciando a sentire freddo ma non aveva intenzione di chiedere il permesso di uscire fino a che le ragazze erano lì.
«È successo quando stavano costruendo il grande canale settentrionale» disse la ragazza. «Non lo sapevano, ma quando deviarono il corso del fiume, distrussero un regno, un regno di Saethiod.» «Saethiod? Un regno di Tritoni? Delizioso.» «Solo una persona sopravvisse, Maersca, la figlia del re, la nipote di san Lir. Giurò vendetta e si travestì da donna per procurarsela. Quando il canale fu terminato, si recò presso la glande chiusa con l'intenzione di allagare la terra appena prosciugata. Ma vide Brandel Aethelson sulla diga. Gli parlò, fingendo interesse femminile, chiedendo come facevano a trattenere l'acqua e come si sarebbe potuto liberarla. Era astuta e lui non sospettò le sue vere intenzioni. Anzi, cominciò a innamorarsi di lei. «Pensando di poter arrecare maggior danno se avesse scoperto qualcos'altro, Maersca finse di amarlo anche lei e presto si sposarono. Nascose la sua pelle di pesce in uno scrigno tra le tavole del tetto della casa e gli dettò questa condizione: ogni anno, nel giorno di san Lir, doveva fare il bagno da sola e lui non poteva guardarla. E così per mesi covò la sua vendetta e i mesi divennero anni e durante quell'arco di tempo ebbero un figlio, poi una figlia e in un certo senso lei cominciò ad amare suo marito e Terranuova, e la sua fame di vendetta scemò.» «Oh, cielo» disse Robert. «Ma gli amici del marito lo criticavano» proseguì Areana. «'Dove va tua moglie il giorno di san Lir?' Gli riempirono la testa con la convinzione che lei avesse un amante segreto e che i loro figli in realtà non fossero suoi. E così, col passare degli anni lui divenne sospettoso e alla fine, una volta, nel giorno di san Lir, la seguì. Lei andò alla diga e si tolse i vestiti scivolò nella pelle di pesce e lui vide cosa era veramente e lei se ne accorse.» «'Hai infranto la tua promessa' gli disse. 'Ora devo tornare a vivere nel mare. E se mai uscirò di nuovo all'aria aperta morirò perché questo cambiamento può avvenire una sola volta.' «Disperato lui la implorò di non andare via, ma lei dovette farlo, lasciandolo con i figli e le sue lacrime. «Trascorsero molti anni e lui la cercò in tutti i fiumi e canali che conosceva. Una volta o due credette di sentirla cantare. Divenne vecchio e i suoi figli crebbero e si sposarono. «Poi l'esercito degli Skellander scese dalle Terre del Nord, appiccando il fuoco a tutto ciò che incontrava lungo il cammino e la tappa successiva sarebbe stata Terranuova. La gente si radunò sui bastioni e si preparò a
liberare le acque e a inondare il paese, perché quella era l'unica protezione contro l'invasore. Ma la chiave di volta non si rompeva; era stata costruita troppo bene. «E ormai l'esercito era vicino. «Fu allora che il vecchio rivide sua moglie, bella come il giorno in cui l'aveva incontrata. Emerse dalle acque, mise la mano sulla chiave di volta e questa si spezzò in due e le acque spazzarono via l'esercito invasore. Ma il danno era fatto, perché Maersca era stata costretta a togliersi la pelle per uscire dall'acqua e così facendo aveva richiamato su di sé la maledizione dei suoi avi. Morì tra le braccia del vecchio. E lui morì poco dopo.» Lo sguardo di Areana si mosse verso Robert. «I loro figli furono i primi custodi terrieri. Molti di noi dicono di discendere da Maersca.» Robert si grattò la testa e apparve perplesso. «È una storia complicata» disse. «Mi chiedo se non stiate progettando di nascondere qualche commento poco lusinghiero su di me all'interno, come avete fatto in precedenza.» «No» promise Leoff. «Intendo solo usare una storia cara ai custodi terrieri, come ho fatto l'ultima volta. Fu un re di Eslen che ricompensò i figli di Maersca, affidando loro quell'incarico. Fu il figlio minore del re precedente e si dice che avesse collaborato con la gente sulle dighe quando era giovane. Con lui potremmo alludere a voi: un re il cui cuore sta con Terranuova e i suoi guardiani.» «E chi è il cattivo della storia?» «Ah» esclamò Leoff. «Gli Skellander furono guidati a Terranuova nientedimeno che dalla figlia del vecchio re, la sorella di Thiodric, una strega malvagia che avvelenò suo padre e uccise tutti i suoi fratelli tranne il più piccolo, che, come vedremo, fu salvato dall'annegamento proprio da Maersca.» «E voi potrete fare in modo che questa sorella abbia i capelli rossi» osservò; Robert. «Molto bene. Mi piace. «Come vi ho già detto, non ho dubbi che siate abbastanza astuto da provare in qualche modo a tradirmi anche se dovessi essere io ad assegnarvi una storia. Perciò sappiate: se mi farete cadere ulteriormente in disgrazia, non avrò più nulla da perdere e taglierò io stesso la gola a queste ragazze, davanti a voi. Lasciatemi essere ancora più sincero. Anche se la vostra opera dovesse essere composta in buona fede, ma non riuscirà a portare il favore dei custodi terrieri dalla mia parte, il loro destino sarà quello che vi ho appena
descritto.» Diede una pacca sulla spalla di Leoff. «Godetevi il vostro soggiorno qui. Credo che lo troverete molto più confortevole.» 9 Il woorm Aspar sentì che le dita erano diventate di carta, come corteccia di betulla, quando sistemò la freccia sulla corda. Fend, che aveva ucciso la prima moglie. Fend, che aveva provato a fare lo stesso con Winna. Fend, che adesso cavalcava il dorso di un mostruoso woorm. Misurò la distanza lungo la freccia. Era enorme, la freccia, ed era consapevole di ogni suo particolare: l'impennaggio di piume d'aquila fissate con un filo rosso cerato, la curva quasi impercettibile nel legno che andava compensata, un flebile scintillio della luce del sole sulla punta di ferro leggermente arrugginita, l'odore del grasso della faretra. L'aria si muoveva e rifluiva verso di lui e le foglie secche, come vessilli di un esercito, gli mostravano la via alla carne, al sangue e alle ossa di Fend. Eppure non riusciva a sentirlo. Da quella distanza e angolazione era un tiro incerto. E anche se la freccia avesse seguito la giusta traiettoria, c'era da fare i conti con l'improbabile ma terribilmente reale presenza del woorm. Nessuna freccia, non aveva importanza quante fossero, poteva uccidere quella cosa. Ma no, non era esattamente così. C'era la freccia nera della Chiesa che Praifec Hespero gli aveva dato, quella che aveva usato per uccidere l'utin. Poteva uccidere perfino il Re degli Alberi; avrebbe dovuto essere in grado di uccidere un woorm. Non che lui sapesse la benché minima cosa sui woorm. Winna tremava, ma non disse nulla. Il woorm e Fend abbassarono tutti e due la testa e la creatura riprese a muoversi. Aspar si rilassò un minimo, rotolando e nascondendosi completamente e tenne stretta Winna fino a che il rumore del passaggio di quella creatura non si fu allontanato. «Oh, santi» bisbigliò alla fine Winna. «Già» convenne Aspar. «Proprio quando credevo di aver visto tutti gli incubi possibili e imma-
ginabili del mondo della fantasia.» Fu scossa da un brivido. «Come ti senti?» domandò Aspar. La pelle di lei era diventata viscida. «Come se fossi stata colpita da un alv» disse Winna. «Mi sento un po' di febbre.» Alzò lo sguardo su di lui. «Deve essere veleno, come quello rilasciato dal greffyn.» Aspar aveva trovato il greffyn, la prima volta, seguendo la sua scia di piante e animali morti o moribondi. I greffyn non erano molto più grandi dei cavalli, però. Questa cosa... «Merda» brontolò. «Che c'è?» Poggiò la mano sul tronco dell'albero, sperando che avesse il battito di un essere umano, ma sentendo in qualche modo la verità nelle ossa. «Ha ucciso quest'albero» bisbigliò. «Tutti questi alberi.» «E noi?» «Non credo. Il suo tocco, la nebbia che emette respirando... sono laggiù. Le radici sono morte.» In questo modo. Vivi per tremila anni e poi... «Cos'era?» volle sapere Winna. Aspar sollevò le mani impotente. «Non importa come lo chiamiamo, non credi? Ma penso che sia un woorm.» «O forse un drago.» «I draghi dovrebbero avere le ali, per quello che mi ricordo.» «Anche i greffyn.» «Già. È vero. Perciò, come ho detto prima, non importa come lo chiamiamo. Conta solo quello che è e cosa fa. E Fend...» «Fend?» Già, le aveva coperto gli occhi. «Sì, Fend cavalcava quella maledetta creatura.» Winna si accigliò leggermente, come se Aspar le avesse appena fatto un indovinello e lei stesse cercando di risolverlo. «Fend cavalca la creatura» disse alla fine. «Ma è così...» Con le mani si afferrò i fianchi come se la parola che stava cercando fosse intrappolata lì dentro. «Dove ha trovato un woorm?» riuscì a dire alla fine. Aspar pensò che la questione fosse essenzialmente fuori di ogni logica. Per la maggior parte dei suoi quarantadue anni aveva vissuto e respirato nella Foresta del Re, visto gli angoli più bui e intricati di questo posto, dalle Montagne della Lepre alle selvagge scogliere e paludi della costa
orientale. Conosceva le abitudini e le caratteristiche di ogni essere vivente in tutto quel vasto territorio e mai, fino a pochi mesi prima almeno, aveva visto così tanto sterco di greffyn, utin o woorm. Dove Fend aveva trovato un woorm? Dove il woorm aveva trovato sé stesso? Addormentato in qualche profonda caverna, in attesa negli abissi marini? Solo il Malvagio lo sapeva. E anche Fend a quanto pareva. Aveva trovato un greffyn; adesso aveva trovato qualcosa ancora peggiore. Ma perché? Le ragioni di Fend erano in genere molto semplici, e quelle principali erano profitto e vendetta. Lo stava pagando la Chiesa adesso? «Non lo so» disse infine. Poi sbirciò dal bordo. La nebbia lasciata dal woorm sembrava essersi dissipata. «Dobbiamo scendere?» domandò Winna. «Credo che dovremmo aspettare. E quando ce ne andremo, scenderemo là sopra, allontanandoci dalla sua strada per evitare il veleno.» «E poi?» «Sta seguendo i laniatori, credo, e i laniatori hanno Stephen. Perciò adesso credo che noi seguiremo il woorm.» Trascorse un lasso di tempo sufficiente a farlo sentire al sicuro e Aspar era pronto a suggerire di iniziare a scendere, quando sentì un vocio attutito. Si portò un dito alle labbra, ma Winna lo aveva già sentito anche lei. Annuì per avvertirlo che aveva capito. Qualche istante dopo arrivarono sei cavalieri proprio nel solco creato dal woorm. Tre di loro avevano le spalle strette, erano magri e indossavano i caratteristici cappelli a tesa larga che proteggevano i Sefry dalla luce del sole. Gli altri tre erano più grossi, a capo scoperto, probabilmente uomini. I cavalli erano tutti piuttosto piccoli e avevano l'aspetto trascurato delle razze settentrionali. Aspar si domandò dove fossero i suoi cavalli. Avrebbero potuto essere morti tutti e tre se si erano trovati vicino alle esalazioni del woorm, ma i cavalli e soprattutto Orco sembravano avere un buon intuito per cose come quelle. A ogni modo, i cavalieri sotto di loro non erano morti. E neanche Fend, e lui stava addirittura a cavallo di quella creatura. Forse il woorm non era velenoso come il greffyn. L'utin, in fondo, non lo era. D'altra parte, i mo-
naci della collina del naubam erano sembrati immuni all'influenza del greffyn, e una strega sefry, che si faceva chiamare Madre Gastya, una volta aveva dato ad Aspar un antidoto capace di neutralizzare l'effetto del veleno. Aspar diede un colpo al ramo e mimò con le labbra 'aspetta qui'. Winna sembrava preoccupata, ma annuì. Il guardaboschi attraversò a passi felpati e con cautela il ramo largo. Era così spesso in quel punto che non avrebbe fatto scricchiolare i rami più piccoli, e non si sarebbe lasciato smascherare, come fosse stato uno scoiattolo gigante. Spostandosi su un ramo più basso, proseguì fino ad arrivare esattamente dietro ai cavalieri, mantenendosi ancora al sicuro sopra di loro. Adesso avevano smesso di parlare e perciò si trovò davanti a un dilemma. Aveva sperato che dicessero qualcosa che potesse svelare il loro scopo, qualcosa del tipo 'non dimenticate, compagni, che lavoriamo per Fend', ma la cosa a quanto pareva non sarebbe successa molto presto. Riusciva a immaginare tre motivi che avrebbero potuto spingere questi uomini a dare la caccia al woorm, che a sua volta stava inseguendo i laniatori. Uno, stavano con Fend, e lo seguivano per lo stesso malvagio compito, ma più lentamente. Due, erano nemici di Fend e lo seguivano per lo stesso motivo di Aspar: ucciderlo. Tre, erano un gruppo di viaggiatori che seguivano le tracce per mera curiosità. Se la scia della bestia era davvero velenosa, l'ultima possibilità poteva essere scartata. Viandanti casuali di sicuro non si portavano dietro l'antidoto al veleno del woorm e avrebbero dovuto stare piuttosto male a questo punto. Quindi restavano solo due possibilità: con o contro Fend. Be', non aveva molto tempo per stare a pensare e la cosa peggiore che un uomo potesse fare era tentennare. Erano troppi perché lui potesse interrogarli cortesemente. Preparò la prima freccia, mirando al collo dell'individuo più distante: un umano. Se riusciva a buttarne giù uno o due prima che se ne accorgessero gli altri, sarebbe riuscito ad avere maggiori possibilità di rimanere vivo. Ma... A causa di un sospiro sbagliò la mira e ferì il tipo al bicipite destro. Com'era facile prevedere, questi gridò e cadde da cavallo, dimenandosi terribilmente. La maggior parte degli altri si voltò a guardarlo, meravigliata, cercando di capire cosa fosse successo, ma uno, e ora Aspar ebbe la
conferma che si trattava proprio di un Sefry, saltò giù da cavallo e cominciò a incordare l'arco, scrutando fra gli alberi. Aspar lo colpì alla spalla. Questi non gridò, ma anche da dove si trovava, Aspar riuscì a sentire che tratteneva il fiato per il dolore e con lo sguardo individuava subito l'origine del suo male. «Il guardaboschi!» muggì. «C'è il guardaboschi, stupidi, tra gli alberi! Quello di cui Fend ci ha avvisato!» Ecco, pensò Aspar. Speravo che uscisse fuori prima che si accorgessero che ero qui, ma... Un altro aveva incordato l'arco, notò Aspar. Lui scoccò la sua freccia, ma l'uomo era in movimento e la freccia gli mozzò solo un pezzo d'orecchio. L'uomo rispose al fuoco, scoccando un tiro maledettamente buono a pensarci bene, ma Aspar stava già calando sul ramo più basso. Atterrò con le gambe leggermente piegate, trasalendo per il dolore che sentì alle ginocchia e che cinque anni prima non avrebbe avvertito, e lasciò andare la sua terza freccia contro l'altro arciere. L'uomo teneva una mano chiusa sull'orecchio e stava cominciando a gridare quando la freccia gli trapassò la laringe, zittendolo definitivamente. Aspar sistemò un'altra freccia e la scoccò con precisione contro un altro Sefry che stava sistemando la sua sulla corda. Lo colpì nell'interno coscia, facendolo cadere a terra come un sacco di farina. Un bolide dall'impennaggio rosso colpì dritto contro la corazza di cuoio conciato di Aspar, proprio sopra la costola più bassa, lasciandolo quasi senza respiro. Il mondo si riempì di macchie scure e cominciò a girare e Aspar capì che le gambe non stavano più sul ramo, anche se continuavano grossomodo a stare sotto di lui. Il piede sinistro fu il primo a toccare terra, ma il corpo era troppo sbilanciato all'indietro perché potesse atterrare mantenendo l'equilibrio o perché le ginocchia assorbissero l'urto. Riuscì a girarsi e a cadere di spalle, ma questo gli causò altro dolore, stavolta con scintille bianche. Con un grugnito, rotolò in terra senza pensarci e si accorse di non avere più il suo arco. Cercò l'ascia con la mano e quando si alzò in piedi si ritrovò a fissare la freccia del terzo Sefry. Lanciò l'ascia e ruotò a sinistra. L'arma mancò il bersaglio di un soffio, ma solo perché il Sefry indietreggiò e il colpo finì largo. Ringhiando, Aspar si scagliò contro l'assalitore, sfoderando il pugnale. Dieci iarde avrebbero garantito al Sefry tutto il tempo per incoccare un'altra freccia e colpire da vicino, ma a quanto pare-
va non se ne rese conto e rimase invece indeciso se scoccare, sguainare la sua spada o correre. Alla fine decise per la spada, ma ormai Aspar era arrivato; si avvicinò, afferrando il Sefry per la spalla con la mano libera e girandolo in modo da esporre il fianco sinistro. La prima pugnalata trovò la maglia, perciò sferrò la seconda alla carotide recidendola, chiudendo gli occhi al fiotto di sangue e continuando a correre mentre il suo nemico diveniva cadavere. Si sentì immediatamente cieco, perché sapeva che c'era un uomo illeso di cui però aveva perso le tracce. I primi due che aveva colpito avrebbero anche loro potuto rappresentare un problema, ma era improbabile che fossero in grado di maneggiare un arco. Il quarto uomo si annunciò ansimando; Aspar si voltò e lo trovò che caricava, impugnando uno spadone. Le ginocchia di Aspar barcollarono e sentì di avere i polmoni infestati dall'ortica. Quella sensazione era familiare, simile a quella che aveva avuto quando il greffyn lo aveva guardato per la prima volta. E questo significa veleno, pensò. Un uomo sveglio con la spada doveva essere capace di uccidere un uomo con un pugnale. Quello, fortunatamente, non sembrava così sveglio. Teneva la sua arma sollevata per un colpo sopra la testa; Aspar fece finta di saltare disperatamente verso l'interno, cosa impossibile vista la distanza, e il tipo rispose colpendo forte e velocemente. Aspar si fermò, però, mantenendosi fuori portata, e quando la spada lo superò ruotando dritta verso terra con troppa violenza per poter tornare indietro, allora lui saltò davvero all'interno, afferrando il braccio che brandiva l'arma con la sua mano sinistra e conficcando il pugnale nell'inguine del nemico, subito a sinistra della brachetta di ferro. L'uomo vomitò e indietreggiò barcollando, agitando le braccia in aria per evitare di cadere, mentre il viso perdeva colorito. Aspar sentì un rumore soffocato alle sue spalle e si voltò vacillando e scoprì che il primo Sefry che aveva provato a colpirlo lo fissava sorpreso. Aveva una spada corta, ma proprio quando Aspar lo vide, questa gli scivolò di mano e lui cadde in ginocchio. A circa dieci iarde dietro di lui, Winna abbassò l'arco con espressione arcigna. Era pallida, ma Aspar non poteva dire se era per colpa del veleno o dei nervi. Grandiosa, pensò. Adesso sentiva la vampa della febbre dentro di lui. Era già quasi troppo
debole per riuscire a tenere in mano il pugnale. Si costrinse però a fare il giro e accertarsi che tutti i nemici fossero morti, tutti tranne uno, quello al quale aveva mirato per primo. L'uomo strisciava in terra, tenendosi il braccio e piagnucolando. Quando vide Aspar arrivare, provò a strisciare più velocemente. Stava piangendo e ora le lacrime cominciarono a uscire più copiosamente. «Vi prego» esclamò. «Vi prego.» «Winna» disse Aspar. «Perquisisci gli altri corpi e cerca qualcosa d'insolito. Ricordi quella roba che Madre Gastya mi ha dato? Qualcosa di simile.» Lui poggiò il piede sul collo del nemico. «Buongiorno» disse, cercando di suonare più fermo di come si sentiva. «Non voglio morire» piagnucolò l'uomo. «Esatto» convenne Aspar. «Neanch'io, capito? E soprattutto non voglio che la mia cara ragazza muoia. Ma moriremo, vero? Perché abbiamo messo piede sulla scia di quella dannata creatura che Fend ha evocato. Ora, ho mandato tutti i tuoi amici dal Malvagio per il suo pranzo, e ti stanno chiamando, dall'altra parte del fiume. Posso scaraventarti là subito senza problemi, conficcandoti questo pugnale fino alla base del cervello.» S'inginocchiò e spinse le dita nel punto in cui la spina dorsale incontrava la testa. L'uomo urlò e Aspar sentì un odore nauseabondo. «Lo senti?» domandò. «C'è un buco lì. Il coltello entra facile come in un panetto di burro. Ma non devo farlo per forza. La ferita al braccio non è così grave e potresti strisciare fino alle regioni Centrali, trovarti una bella donna e fare il burro per il resto della tua vita. Ma prima devi fare in modo che io non muoia e che la mia amica non muoia.» «Fend mi ucciderà.» Aspar scoppiò a ridere. «Questa è proprio bella. Se non mi aiuti, sarai probabilmente solo un mucchio di larve prima che Fend si accorga di quello che ti è capitato.» «Già» replicò miseramente l'uomo. «Esiste una medicina. Raff la porta con sé in una bottiglia blu. Un sorso al giorno, quanto ne conterrebbe un cucchiaino. Ma dovete lasciarmene un po'.» «Ah, devo?» «Morirò comunque» spiegò l'uomo. «La medicina non arresta l'effetto del veleno; lo rallenta solamente. Se smettete di prenderla per qualche giorno morirete sicuramente, come se non l'aveste mai presa.» «Davvero? E quale stupido... Ah, adesso ho capito. Fend ve l'ha detto so-
lo quando ormai era troppo tardi, vero?» «Sì. Ma lui ha l'antidoto. Una volta finita questa cosa, ce l'avrebbe dato.» «Capisco.» Sollevò il capo con grande difficoltà. «Winna! È in una bottiglia blu.» «L'ho trovata» rispose lei. «Portala qua.» Poggiò la punta del coltello sulla testa dell'uomo. Un attimo dopo Winna cadde in ginocchio accanto a lui. Aveva gli occhi rossi e la pelle bianca come quella di un verme. «Bevine un po'» disse a Winna. Spinse leggermente il coltello. «Se la uccide, tu la segui» disse. «Datene un po' a me prima» replicò l'uomo. «Vi proverò che non è velenosa.» Winna sollevò la bottiglia, bevve un sorso e fece una smorfia. Per un lungo istante non successe nulla. «Va meglio» disse Winna. «Il mondo ha smesso di girare.» Aspar annuì, prese la bottiglia e bevve un po' anche lui. Era disgustosa, sembrava un decotto di centopiedi e assenzio, ma si sentì quasi subito meglio. Richiuse accuratamente la bottiglia e la mise nella bisaccia. «Comunque, in cosa state aiutando Fend?» domandò Aspar. «Cosa dovreste finire prima di poter avere l'antidoto?» «Dovremmo semplicemente seguirlo e uccidere tutto quello che il woorm risparmia.» «Già. E perché?» «Lui deve uccidere i laniatori, questa è la sua missione» confessò. «Ma c'è anche un tipo che dovrebbe riuscire a trovare; non so come si chiama. Dovrebbe essere con voi, credo.» «È stato Fend a mandare gli utin per inseguirlo?» domandò Aspar. «Già. Loro sono andati avanti, ma non sono tornati.» «Dove li trova Fend tutti questi mostri?» «Ha ottenuto il woorm dalla strega del Bosco di Sarn, almeno così ha detto lui. Ma i mostri non obbediscono a Fend. Lui e quelle creature servono lo stesso padrone.» «E chi sarebbe?» «Nessuno di noi lo sa. C'è un prete di Hansa, di nome Ashern. Credo che lui lo sappia, ma è con Fend sul woorm. Il Sefry ci ha solo assoldato per saccheggiare. Ha detto che potevamo prendere tutto quello che finiva sulla
scia del woorm. Poi ci ha detto che eravamo stati avvelenati e ha fatto morire Galus per dimostrarcelo, maledizione. «Vi prego guardaboschi, v'imploro.» «È tutto quello che sai?» «Tutto.» Aspar gli diede un colpetto sulla schiena. Il tizio trasalì e chiuse gli occhi. Aspar agitò la bottiglia; era più di metà. «Apri la bocca.» L'uomo obbedì e Aspar lasciò cadere qualche goccia. «Dimmi qualcos'altro,» disse Aspar «e te ne darò un altro po'. Se duri abbastanza a lungo, il veleno del woorm potrebbe uscire dal tuo corpo da solo, no? O magari potresti trovare qualche stregone in grado di aiutarti. Per lo meno, hai la possibilità di vedere un'altra luna piena. Meglio di come stai adesso.» «Sì. Che altro vuoi sapere?» «Perché Fend ha fatto rapire le ragazze?» «Ragazze?» «Al confine con Loiyes. Dove ha mandato gli utin.» L'uomo scosse il capo. «Quegli uomini? Non avevamo niente a che fare con loro. Il woorm e gli utin hanno trovato il vostro uomo; hanno in qualche modo fiutato la sua presenza. Quegli altri tipi... noi ne abbiamo ucciso qualcuno quando li abbiamo incontrati. Fend ci ha detto che se trovavamo una coppia di ragazze dovevamo semplicemente ucciderle, ma senza abbandonare la nostra strada. 'Non è compito nostro' ha detto. 'Che siano gli altri a preoccuparsene.'» Aspar lasciò cadere qualche altra goccia sulla lingua dell'uomo. «E poi?» «Non so altro. Non sapevo in cosa mi stavo invischiando. Sono solo un ladro. Non ho mai ucciso prima d'ora. Non ho mai creduto che cose come queste esistessero davvero, ma ora le ho viste. Voglio solo andarmene. Voglio solo continuare a vivere.» «Già» fece Aspar. «Vattene allora.» «Ma il veleno...» «Ti ho dato tutto quello che potevo. Avrò bisogno di quello che resta per trovare Fend, ucciderlo e prendergli l'antidoto. Sai per caso com'è fatto?» «No.» «Potrei ancora ucciderti...» «Non lo so veramente.»
Il che significa che potrebbe anche non esistere affatto, pensò preoccupato Aspar. «Andiamo Winna» disse. «Sento che faremmo meglio a muoverci.» 10 Musica di lame Paralizzata dal terrore, Anne osservò l'arazzo che si sollevava e l'oscurità che nascondeva dietro di sé. Le candele si erano spente tutte e sebbene l'unica luce fosse quella della luna, riusciva a vedere chiaramente ogni dettaglio della stanza. Le pulsazioni alle tempie erano così veloci che temette di svenire e voleva distogliere lo sguardo da ciò che stava per succedere. Aveva sognato Fastia con le larve negli occhi, che si allontanava dietro all'arazzo, aprendo una porta segreta. Ora vide che la porta c'era veramente e qualcosa stava entrando da lì. E arrivava qui, nel mondo dei vivi. O forse era sveglia? La figura che entrò nella stanza però non era Fastia. Dapprima sembrò un'ombra, ma poi la luce della luna rivelò qualcuno completamente vestito di nero, con una maschera e un cappuccio. Una figura sottile, una donna o forse un bambino, che portava una cosa lunga, scura e appuntita in mano. Assassina, pensò, sentendosi improvvisamente intirizzita e lenta di riflessi. Poi comparvero gli occhi della persona e Anne capì di essere stata vista. «Aiuto!» gridò con una certa prontezza. «Aiuto! Mi uccidono!» Senza produrre rumori, la figura si lanciò verso di lei, la paralisi di Anne s'interruppe immediatamente; rotolò giù dal letto e si mise in piedi, lanciandosi verso la porta. Una cosa fredda e dura la colpì alla parte alta del braccio e lei non riuscì più a muoverlo. Quando provò ad alzarlo, sembrava congelato; non riusciva né a sollevarlo, né ad abbassarlo. Lo guardò e vide una cosa scura e sottile entrare nella carne, sotto all'osso. Entrava dritta e usciva dall'altra parte, conficcandosi dentro Lew. Anne sollevò lo sguardo e vide due occhi viola fissi su di lei a solo un palmo di distanza. Guardò di nuovo in basso e vide che la cosa sottile nel braccio era la lama di una spada, impugnata dall'uomo. In qualche modo capì che si trattava di un uomo, anche se di corporatura esile.
Un Sefry, realizzò. Questi tirò con forza la spada, che si era conficcata saldamente nella colonna del letto. Ma poi ci ripensò e abbassò l'altra mano verso la cinta. Il dolore della spada nel braccio investì Anne improvvisamente, ma la paura si dimostrò più forte, perché sapeva che lui stava cercando un pugnale. Anne fissò lo sguardo sulla luna, seppellì i piedi nel buio groviglio di radici della terra, afferrò i capelli dell'uomo con la mano libera e lo baciò. Le labbra erano calde, quasi bollenti, e appena lei le toccò, un fulmine sembrò abbattersi contro la sua spina dorsale e un sapore di muschio di serpente e ginepro carbonizzato le si sprigionò in gola. All'interno, lui era umido e bagnato, come tutti gli uomini, ma contrariamente al solito era freddo là dove avrebbe dovuto essere caldo, e caldo dove avrebbe dovuto essere freddo e insolito in tutto. Era come se fosse stato frantumato e ricomposto, ogni curva delle sue ossa pareva una frattura guarita, ogni frammento di tessuto aveva una cicatrice. Lui gridò e Anne sentì uno strattone improvviso e violento al braccio, quando l'uomo si allontanò da lei. La spada uscì dal braccio e lei scivolò in terra, atterrando sulle natiche con le gambe divaricate. Il Sefry fece un passo indietro e scosse il capo come un cane con l'acqua nelle orecchie. Lei provò a gridare di nuovo, ma scoprì di esser rimasta senza respiro. Si strinse il braccio e lo trovò tutto umido e appiccicoso di sangue, che capì essere il suo. Fu in quel momento che la porta, però, si spalancò e due delle guardie di Elyoner irruppero all'interno della stanza, con delle torce che sembravano bruciare così violentemente che Anne rimase quasi accecata. Il suo assalitore, ridotto dal bagliore a una figura scura, filiforme, sembrò riprendersi. Agitò repentinamente la sua lunga spada e colpì alla gola una delle guardie. Il povero giovane cadde sulle ginocchia, lasciando cadere la torcia e tenendosi la ferita, cercando di trattenere la sua vita con le mani. Anne provò compassione per lui, mentre il sangue zampillava anche tra le sue dita. L'altro tipo, chiamando aiuti, fu un po' più cauto. Indossava una mezza corazza e impugnava uno spadone pesante, che scagliò verso l'assassino, anziché tirarlo indietro per un fendente. Il Sefry provò una serie di assalti, ma la guardia li respinse. «Principessa, fuggite!» disse la guardia. Anne notò uno spazio vuoto tra lui e la porta; avrebbe potuto fuggire se
solo fosse riuscita a muovere le gambe. Provò a mettersi in ginocchio, ma scivolò sul sangue, e si domandò se non fosse sul punto di morire dissanguata. Il Sefry attaccò e inciampò. Con un ruggito la guardia colpì duro; Anne non riuscì a seguire quello che successe in seguito, ma sentì cozzare acciaio contro acciaio e la guardia di Elyoner superò barcollando il Sefry e finì contro il muro. Crollò sul posto, immobile. L'assassino stava tornando verso di lei, quando un'altra figura fece irruzione nella stanza dalla porta aperta. Era Catio. Sembrò strano e per un attimo Anne non riuscì a dire perché. Poi si rese conto che era nudo come il giorno in cui era nato. Ma una mano impugnava Caspator. Ebbe solo un attimo di esitazione per capire la situazione, quindi si lanciò contro l'assalitore di Anne. Catio affondò Caspator verso la figura scura, ma la sua lama venne arrestata con una parata di perto, rapida e familiare, seguita da un energico legamento in uhtave. Senza pensarci su, Catio sostenne l'attacco con una parata e indietreggiando rispose con un affondo alla gola. Il suo antagonista lo evitò ritirandosi e per un attimo nessuno dei due si mosse. Catio, per un vago istante, provò un debole imbarazzo per il fatto di essere nudo, perché sia lui che Austra erano in quello stato, a una camera di distanza, quando aveva sentito il grido di Anne. Se avesse perso tempo a vestirsi, Anne avrebbe potuto essere già morta. In realtà, era già ferita, e la paura che provò per lei cancellò l'imbarazzo per la sua nudità, così come l'improvvisa consapevolezza che finalmente, dopo tutti quei mesi, si trovava di fronte a un altro cultore della dessrata. «Avanti» disse Catio. «Facciamola finita prima che arrivi qualcuno a mettersi in mezzo.» Sentiva già che stavano arrivando altre guardie. L'uomo piegò la testa da un lato e poi fece una finta. Catio indietreggiò, non abboccò a quella mossa e fu preso di sorpresa quando il tipo sfrecciò improvvisamente verso la parete, sollevando un arazzo e sparendo in un'apertura buia, nascosta. Imprecando, Catio si lanciò a inseguirlo, risollevando l'arazzo con la mano sinistra. Una lama spuntò serpeggiando dall'oscurità e lui fece giusto in tempo a schivarla. Passò all'interno della punta e spinse l'arma contro il muro con la mano libera, poi andò a finire dritto contro un pugno. Lo colpì alla mascella; il colpo non fu forte, ma inaspettato. Lasciò andare l'arma.
Catio indietreggiò barcollando, zigzagando con Caspator nella speranza di riuscire a parare un eventuale affondo che non fosse riuscito a vedere. Ma i passi che si allontanavano lo informarono che il tipo si era messo a correre, rinunciando a un nuovo assalto. Imprecando, Catio lo seguì. Dopo qualche secondo, la ragione s'impadronì di nuovo di lui e rallentando cominciò a camminare. Dopotutto, non riusciva a vedere niente. Pensò di tornare indietro a prendere una torcia, ma sentiva ancora deboli passi davanti a sé e non voleva perdere le tracce. Tenendo la mano sinistra sulla parete, continuò ad avanzare velocemente, con Caspator davanti a lui come fosse il bastone di un cieco. Per poco non inciampò quando il passaggio si trasformò in una scala, che scendeva in una stretta serie di curve. Davanti a sé sentì un colpo secco e colse un fuggevole raggio di luna che proiettava un'ombra umana su una piattaforma sotto di lui. Poi la luce sparì. Raggiunse la piattaforma e dopo una breve ricerca scoprì la porta e la spinse per aprirla. Il passaggio finiva in un giardino nascosto da una siepe. Un breve sentiero conduceva su una radura aperta ed erbosa inondata dalla luce della luna. Non riuscì a scorgere l'assalitore di Anne da nessuna parte. Non poteva credere che l'uomo avesse avuto il tempo di attraversare il campo aperto, così, anziché oltrepassare la siepe, rotolò in terra e scoprì che la sua deduzione era giusta perché sentì il fruscio dell'acciaio proprio nel punto in cui avrebbe dovuto essere la sua testa. Tornò in piedi con la guardia in prismo. «Che delusione» esclamò. «Ho attraversato terra e mare e di nuovo terra senza mai incontrare un dessratore. Sono così nauseato da questo squartamento che passa per arte della scherma in queste terre di barbari. Ora che finalmente incontro qualcuno che può farmi divertire un po', scopro che è un codardo, che non vuole fermarsi a combattere.» «Scusami» replicò il tipo con una voce soffocata. «Ma capisci bene che se da una parte non ho problemi a combattere contro di te, dall'altra non posso prendermi la briga di farlo contro tutto il castello. E se ti permetto di trattenermi, mi troverò presto in quella situazione.» Aveva ragione; erano nella stanza di Anne. Catio aveva sentito le guardie che si stavano avvicinando e poi... Ora stavano fuori. Ma come era successo? Ricordava in maniera confusa di aver inseguito il nemico, ma se l'aveva
rincorso fuori della stanza di Anne e poi giù per le scale, non avrebbero dovuto imbattersi nei soldati che si avvicinavano? Erano forse saltati giù da una finestra? L'uomo interruppe i pensieri di Catio attaccando. Era piccolo e agile, un Sefry forse. Catio non aveva mai combattuto contro un dessratore sefry. La lama del suo antagonista era nerofumo e perciò difficile da vedere. Catio parò, ma l'assalto si dimostrò una finta, mentre quello vero arrivava di nascosto dal basso. Catio fece un passo indietro per avere il tempo d'intercettare la lama, cosa che fece, arrestandola con una parata in se/i, e poi spostandosi da una parte per schivare un altro rapido assalto dall'alto. La lama bisbigliò nell'aria vicino alla gola e lui allungò il braccio. Il suo nemico lo scansò col palmo della mano e improvvisamente si ritrovarono ancora una volta a distanza ravvicinata. Catio fece un passo verso l'interno velocemente e colpì l'uomo con la spalla, poi continuò con un breve affondo che scalfì il braccio del nemico. Riprese posizione, pronto a riattaccare quando si accorse che l'assassino aveva ripreso a fuggire. «Che Mamres ti maledica, fermati e combatti!» gridò Catio. Cominciava a sentire freddo adesso. La neve scricchiolava sotto i suoi piedi nudi. Ancora una volta si lanciò all'inseguimento dello sfuggente spadaccino, buttando fuori fumo come un drago. Le dita, il naso e le altre estremità erano intirizzite per il freddo, intenso come non l'aveva mai sentito e cominciò a ricordare storie che gli avevano raccontato di parti del corpo che si congelavano. Poteva succedere veramente una cosa del genere? Gli era sempre sembrato assurdo. Sbucarono fuori dal labirinto e si trovarono in un giardino dove una statua di Lady Erenda, vestita di veli, sovrastava una coppia di amanti di marmo su una fontana congelata. Davanti a sé Catio poteva vedere un canale e la meta dello spadaccino: un cavallo impastoiato in un boschetto. Cercò di raddoppiare la sua velocità, con scarso successo. La neve e le punte dei piedi atrofizzate rendevano difficoltoso mantenere l'equilibrio. Lo spadaccino stava cercando di slegare la sua bestia quando Catio sferrò il suo attacco. Rinunciando a quell'impresa, l'uomo si voltò per affrontarlo. Catio vide con sorpresa che questi aveva tirato giù la maschera, probabilmente per respirare meglio. Il volto era effettivamente sefry, delicato e quasi azzurro sotto la luce della luna, coi capelli e una peluria così chiara che sembrava sprovvisto di sopracciglia e ciglia, come scolpito nell'alabastro. Schivò l'assalto di Catio, girando il corpo da una parte e lasciando la
punta scoperta perché Catio ci s'infilzasse sopra. Catio però arrestò il suo affondo a capo chino e tirò su la lama protesa in un legamento. Non riuscì a contrattaccare, lo superò e tutti e due si voltarono per affrontarsi di nuovo. «Dovrò ucciderti davvero» osservò il Sefry. «Il tuo vitelliano è strano, sembra più safniano» disse Catio. «Dimmi come ti chiami, o se non vuoi, almeno dimmi da dove vieni.» «I Sefry non vengono da nessuna parte, e dovresti saperlo» replicò l'assassino. «Ma il mio clan ha governato le rotte da Abrinia a Virgenya.» «Sì, ma tu non hai imparato la dessrata né in Abrinia, né in Virgenya. Allora dove?» «In Toto da'Curnas,» rispose «sui monti Alixanath. Il mio mestro si chiamava Espedio Raes da Loviada.» «Mestro Espedio?» Z'Acatto aveva studiato con Espedio. «Mestro Espedio è morto da molto tempo» disse Catio. «E i Sefry vivono molto tempo» replicò il tizio. «Dammi un nome con cui chiamarti.» «Chiamami Acredo, è il nome del mio stocco.» «Acredo, dici di aver studiato con Mestro Espedio e per me è come se dicessi di aver cacciato conigli sulla luna, però vediamo. Io attacco con caspo dolo didieto pere...» Lanciò un assalto al piede. Acredo rispose mirando immediatamente al viso di Catio, ma quella mossa venne anticipata e Catio deviò il suo assalto sulla lama per prenderlo in controtempo. Acredo indietreggiò in prismo, poi colpì la lama di Catio per un caspo en perto. Catio schivò spostandosi a destra e contro-affondò all'altezza degli occhi di Acredo. Questi schivò a sua volta e affondò verso il piede di Catio, finendo l'attacco come era cominciato, tranne per il fatto che fu la lama di Acredo a conficcarsi nel piede intorpidito di Catio e nel terreno ghiacciato sottostante. «Ho risposto bene?» domandò Acredo, estraendo la spada insanguinata e riportandosi in guardia. Catio trasalì. «Ben fatto» ammise. «Ora tocca a me» disse Acredo e diede inizio a una raffica di finte e attacchi. «Il ritorno a casa del cornuto» annunciò Catio, riconoscendo la tecnica. Si difese con le giuste risposte, ma ancora una volta Acredo sembrava conoscere una mossa in più, e stavolta lo scambio per poco non finì con la
lama di Acredo nella gola di Catio. Z'Acatto, vecchio volpone, pensò. Il vecchio aveva tralasciato le contromosse finali della tecnica di Espedio. La cosa non aveva mai avuto importanza prima d'ora, perché Catio non aveva mai incontrato nessuno che padroneggiasse lo stile del vecchio maestro; era sempre riuscito a infliggere il suo colpo finale. Ma stavolta non funzionò; a dire il vero la strada portava dritta al fallimento. Catio avrebbe dovuto usare i suoi trucchi. Ma per la prima volta in molto tempo, si rese conto che quello era un duello che avrebbe potuto perdere. La morte era un pensiero a cui si era abituato, combattendo contro cavalieri soprannaturali in pesanti armature e spade magiche. Ma in un duello di dessrata, solo z'Acatto era stato alla sua altezza da quando aveva quindici anni. Aveva un po' paura, ma si sentiva ancora più euforico. Finalmente un duello degno di tale nome. Fece una finta verso il basso e finì in alto, ma Acredo fece un passo indietro, prese Caspator in un legamento e affondò. Catio sentì la tensione arrampicarsi lungo la lama e poi, con un improvviso e preoccupante rumore metallico, Caspator alla fine si spezzò. Acredo fece una pausa, poi ricominciò. Imprecando, Catio indietreggiò, impugnando lo spuntone che restava del suo vecchio compagno. Si stava facendo forza per un ultimo, disperato salto all'interno della punta della spada di Acredo, nella speranza di riuscire ad afferrarlo, quando il Sefry spalancò improvvisamente la bocca e cadde su un ginocchio. Catio all'inizio pensò che si trattasse di qualche strano stratagemma tipo il cane a tre zampe, ma poi vide una freccia che spuntava dalla coscia dell'uomo. «No!» gridò Catio. Ma adesso il canale brulicava di soldati. Acredo con aria di sfida sollevò di nuovo la sua arma, ma un arciere lo colpì alla spalla da cinque iarde di distanza, e in quello stesso istante una terza freccia gli trapassò la gola. Il Sefry spinse la mano contro la ferita e guardò Catio dritto negli occhi. Provò a dire qualcosa, ma il sangue gorgogliò dalla bocca e cadde faccia avanti sulla neve. Catio sollevò lo sguardo furibondo e vide sir Neil. Il cavaliere era senz'armatura, anche se un po' più vestito di lui, perché portava ancora una camicia bianca, brache e, cosa più invidiabile di tutte, stivali. «Sir Neil!» gridò Catio. «Stavamo duellando! Non sarebbe dovuto morire così.»
«Questa feccia ha accoltellato Sua Maestà» replicò Neil «in un tentativo d'omicidio a sangue freddo. Non merita l'onore di un duello, né una morte rispettabile.» Rivolse un'occhiata ad Acredo. «Comunque avrei preferito prenderlo vivo, per scoprire chi l'ha mandato.» Poi lanciò una dura occhiata a Catio. «Non è un gioco» disse. «Se credete che lo sia, se la vostra passione per i duelli è più importante della sicurezza di Anne, allora mi chiedo se siete degno di far parte della sua compagnia.» «Se non fossi stato qui, lei sarebbe morta» rispose Catio. «Vero» ammise Neil. «Ma il mio punto di vista ancora regge, credo.» Catio lo riconobbe con un rapido cenno del capo. Raccolse l'arma caduta dalle mani del Sefry. Aveva un buon equilibrio, ma era un po' più leggera di Caspator. «Mi prenderò cura della tua lama, dessratore» disse all'uomo caduto. «Vorrei solo averla guadagnata lealmente.» Qualcuno mise un mantello sulle spalle di Catio e lui si rese conto che stava tremando in modo quasi incontrollabile. Capì anche che si stava comportando da stupido e che sir Neil aveva ragione. Ma non riusciva a liberarsi della convinzione che qualunque dessratore, anche il più meschino, meritava di morire per la punta di uno stocco. «Mettetemi seduta» ordinò Anne. Il solo pronunciare quelle parole per poco non la fece svenire. «Dovreste stare distesa» disse il leic di Elyoner. Era un uomo giovane e bello, dai lineamenti femminili. Anne si domandò quanta medicina conoscesse che non avesse qualcosa a che fare col sesso. Aveva arrestato l'emorragia e messo qualcosa sul suo braccio che lo faceva pulsare un po' meno violentemente, ma questo non garantiva che non sarebbe morta di setticemia nel giro di pochi giorni. «Voglio stare seduta, mettetemi dei cuscini dietro la schiena» disse. «Come Sua Maestà desidera.» La aiutò a sistemarsi in quella posizione. «Ho bisogno di qualcosa da bere» disse Anne. «L'avete sentita?» replicò Elyoner. La zia indossava una vestaglia viola di un tessuto particolare che Anne non conosceva. Sembrava ubriaca e preoccupata. Ancora più interessante era Austra, che indossava nient'altro che un co-
priletto stretto intorno alle spalle. Era comparsa solo qualche secondo dopo che Catio se n'era andato; la cosa era indicativa, visto che Catio era completamente nudo. «Austra, mettiti qualcosa» disse lei gentilmente. Austra annuì e sparì nel guardaroba attiguo. Un attimo dopo, una ragazzetta dai boccoli biondi con una gonna color ambra e un grembiule rosso fece la sua comparsa, portando una tazza che si rivelò contenere vino annacquato. Anne lo tracannò avidamente, perché il suo disgusto per l'alcol sembrava ormai una cosa del passato. La ragazza si diresse da Elyoner e le bisbigliò qualcosa all'orecchio. Elyoner sospirò, chiaramente sollevata. «L'assassino è morto» dichiarò. «E Catio?» Elyoner guardò la ragazza, che arrossì e disse qualcosa a voce troppo bassa perché Anne potesse sentire. Elyoner ridacchiò. «Sta bene, più o meno, a parte il rischio di perdere qualche pezzo per colpa del freddo.» «Quando si sarà vestito, desidero vederlo. E sir Neil?» Anne si voltò a guardare gli uomini di Elyoner che portavano via i cadaveri delle guardie. Austra ricomparve qualche istante più tardi, dopo aver velocemente indossato una sottogonna e un'abbondante vestaglia di feltro nahzgaviano. Anne la riconobbe come una delle preferite di Fastia. Era stata Fastia, vero? Il suo spirito o fantasma comparso in sogno. Se lei non l'avesse svegliata, il Sefry avrebbe portato a termine il suo lavoro senza ostacoli; sarebbe morta nel sonno senza protestare. «Zia Elyoner» disse Anne. «Sapevate che esisteva questo passaggio?» «Certo, mia cara. Ma pochi altri lo sanno. Lo credevo sicuro.» «Vorrei che me ne aveste parlato.» «Anch'io, colombella» replicò la duchessa. «Zio Robert lo conosceva, vero?» Elyoner scosse il capo con evidente sicurezza. «No, mia cara. È impossibile. Non credevo... ma dopotutto non so così tanto dei Sefry come pensavo.» «Che intendete dire?» Catio scelse quel momento per arrivare. Entrò zoppicando nella stanza, tentando disperatamente di non darlo a vedere, ma la fasciatura al piede era una prova evidente che aveva ricevuto una qualche ferita. «Anne!» esclamò, andando velocemente a inginocchiarsi accanto al suo
letto. «Quanto è grave?» le afferrò la mano sana e Anne fu sorpresa di sentire quanto fosse fredda quella di lui. «La sua lama ha trapassato la carne del mio braccio» rispose Anne in vitelliano per favorirlo. «L'emorragia è stata arrestata. Fortunatamente non era avvelenata. E voi?» «Niente di grave.» Lo sguardo di Catio si alzò di scatto verso il punto in cui si trovava Austra, dietro ad Anne. «Austra!» «Io non ho corso alcun pericolo» disse Austra, sembrando a corto di respiro. Catio lasciò la mano di Anne... un po' troppo velocemente, pensò lei. «Vi ha colpito?» domandò Anne. «Una piccola ferita, al piede.» «Catio» disse Elyoner. «Vi hanno trovato lungo il canale. Come ci siete arrivati?» «L'ho seguito dal labirinto di siepi, duchessa» rispose lo spadaccino. «È lì che sbuca il passaggio?» domandò Anne. «Da quel muro della grotta?» «Passaggio?» domandò Catio. Il volto si accigliò. «Sì» disse Anne. «Quel passaggio nel muro. Dietro all'arazzo.» Catio diede una rapida occhiata all'arazzo. «C'è un passaggio segreto là dietro? È da lì che è entrato?» «Sì» rispose Anne, cominciando a perdere la pazienza. «Ed è da lì che è uscito. Voi lo avete seguito, Catio.» «Mi dispiace, ma io non ho fatto assolutamente niente del genere.» «Vi ho visto io.» Catio batté le palpebre e per la seconda o forse terza volta in tutti quei mesi sembrava davvero aver perso la lingua. «Catio,» disse dolcemente Elyoner «come siete uscito fuori secondo voi? Come siete arrivati alla grotta nel labirinto di siepi?» Catio si mise le mani sui fianchi. «Be', io...» cominciò sicuro di sé, poi si fermò, tornando ad accigliarsi. «Io...» «Siete impazzito?» domandò Anne. «Quanto avete bevuto?» «Non può ricordarselo colombella» spiegò Elyoner. «Nessun uomo può. È una specie d'incantesimo. Le donne ricordano i passaggi segreti tra queste mura. Le donne possono usarli. Un uomo può essere guidato attraverso uno di questi, ma la cosa non s'imprime nella sua memoria. Tra qualche secondo il povero Catio non ricorderà nemmeno quello di cui stiamo parlando, e come lui tutti gli altri uomini qua dentro.»
«Questo è assurdo» disse Catio. «Cosa è assurdo, caro?» domandò Elyoner. Catio batté le palpebre e poi parve leggermente spaventato. «Visto?» «Ma il Sefry era un uomo. Ne sono sicurissima.» «Lo stabiliremo con certezza» disse Elyoner. «Ci sono dei modi per capirlo, sapete? Ma credo che l'incantesimo fosse rivolto solo agli umani. Forse non funziona con i Sefry.» «È tutto così strano.» «Allora vostra madre non vi ha mai mostrato i passaggi nel castello di Eslen!» «Intendete dire passaggi segreti?» «Sì. Austra?» Anne si voltò verso Austra che fissava per lo più il pavimento. «Ne ho sentito parlare» disse piano. «Sono stata solo dentro uno di quelli.» «E non me ne hai mai parlato?» esclamò Anne. «Mi è stato ordinato di non farlo» rispose lei. «E così il castello di Eslen ha passaggi come questi?» «Certo» disse Elyoner. «È crivellato di passaggi.» «E zio Robert non ne è a conoscenza» rifletté Anne. «Potrei guidare un esercito lì dentro e prendere il castello dall'interno.» Elyoner accennò un sorriso. «Avreste qualche difficoltà se l'esercito fosse composto da uomini, credo.» «Potrei guidarli io!» replicò Anne. «Può darsi» disse Elyoner. «Ovviamente, vi dirò tutto quello che so al riguardo.» «Ce n'è qualcuno che sbuca fuori città?» «Sì» rispose Elyoner. «Ce n'è uno a quanto so. E diversi sbucano all'interno della città, in vari punti. Posso dirti dove sono, e forse anche farti una piccola mappa se la memoria mi assiste.» «Bene!» esclamò Anne. «Buona idea!» Anne capì di essere pronta. Non perché sapesse cosa stava facendo, ma semplicemente perché non aveva scelta. Dieci anni di studi sull'arte della guerra e la costruzione di un esercito l'avrebbero resa probabilmente più idonea al compito, ma entro poche settimane sua madre sarebbe andata in sposa e allora avrebbe dovuto combattere non solo le truppe che Robert era riuscito a mettere insieme, ma anche Hansa e la Chiesa.
No, era pronta, perché non c'era altra alternativa. 11 L'epistola Nonostante fosse fatto di piombo, Stephen maneggiò il manoscritto con cautela, come fosse un minuscolo neonato, di quelli prematuri. «È stato ripulito» notò. «Sì. Riconoscete le lettere?» Stephen annuì. «Le ho viste solo su qualche lapide in Virgenya. Lapidi antichissime.» «Esatto» commentò il fratrex. «È l'antica scrittura virgenyana.» «In parte,» puntualizzò Stephen «ma non totalmente. Questa lettera e quest'altra appartengono entrambe alla scrittura thiuda, riadattata dal Cavari.» Con un dito batté su un quadrato con un punto inciso al centro. «E questa è una variante molto primitiva del vitelliano, suonava come 'th' o 'dh', come in 'thaurn' o, ehm in 'dreodh'.» «Allora è un miscuglio di scritture.» «Sì» annuì Stephen. «È...» S'interruppe, sentendo che il sangue gli inondava il cervello e che il cuore batteva come un tamburo in marcia. «Fratello Stephen, ti senti bene?» domandò Ehan, fissandolo preoccupato. «Dove l'avete preso?» domandò debolmente Stephen. «A dire il vero è stato rubato» rispose il fratrex. «È stato ritrovato in una cripta a Kaithbaurg-delle-Ombre. Lo ha recuperato per noi un allievo del coven.» «Be', non tenermi sulle spine» disse Ehan nel tentativo di alleggerire l'atmosfera. «Cos'è che abbiamo qui, fratello Stephen?» «Si tratta di un'epistola» rispose, non riuscendo ancora a credere a sé stesso. Le labbra del fratrex formarono una piccola 'o'. Ehan semplicemente sollevò le spalle confuso. «È un'antichissima parola virgenyana, non più usata nella lingua del re» spiegò Stephen. «Sta a indicare una specie di lettera. Mentre preparavano la rivolta, gli schiavi degli Skasloi se le passavano. Erano scritte in codice: nel caso fossero state intercettate dal nemico, almeno l'informazione sarebbe rimasta segreta.»
«Se è in codice allora come fai a capirla?» domandò Ehan. «Un codice può essere interpretato» spiegò Stephen, eccitato adesso. «Ma se lo devo fare, avrò bisogno di alcuni libri della biblioteca.» «Tutto quello che abbiamo è a vostra disposizione» rispose il fratrex. «Quali avete in mente di usare?» «Sì, be'» rifletté Stephen. «Il Tafliucum Eingadeicum, ovviamente... il Caidex Comprarakinum Prismum, il Deifteris Vetis, e il Runaboka Siniste, per cominciare.» «L'avevo immaginato» rispose il fratrex. «Sono nella borsa e pronti a partire.» «Nella borsa?» «Sì. Il tempo è poco e non potete restare qui» disse il fratrex. «Abbiamo respinto un attacco degli Hierovasi, ma ce ne saranno altri, da parte loro o degli altri nostri nemici. Siamo rimasti qui solo per aspettarvi.» «Aspettare me?» «Certo. Sapevamo che avreste avuto bisogno delle risorse della biblioteca, ma possiamo trasportarne solo una parte. Perciò abbiamo dovuto proteggerla fino al vostro ritorno, perché non sapevo tutto quello che vi sarebbe servito.» «Sì, di sicuro non sono l'unico studioso di lingue...» «Siete il nostro principale esperto ancora vivente» spiegò il praifec fratrex, l'unico ad aver percorso la via dei templi di san Decamnus. «Ma c'è dell'altro, temo. Non voglio caricarvi di responsabilità, ma tutti gli auspici facevano riferimento alla vostra particolare importanza nella crisi ormai prossima. Credo che sia dovuto al fatto che siete stato voi a suonare il corno e a risvegliare il re, anche se non è chiaro se siete importante perché avete suonato il corno o se l'avete fatto perché siete importante. Capite? Il mondo speturale manterrà sempre dei segreti.» «Ma cosa devo fare esattamente?» «Raccogliete i libri e i rotoli che sapete potranno esservi utili, ma non più di quelli che possono essere caricati su un mulo e un cavallo. Preparatevi a partire per domattina.» «Domani? Ma non ho abbastanza tempo, devo riflettere! Non capite? Se questa è un'epistola, è probabilmente l'unica sopravvissuta.» Ehan tossì. «Chiedo perdono a entrambi, ma non è giusto. I miei studi non sono stati completati, lo so, e ho sempre nutrito interesse per le virtù dei minerali, ma nell'ahvashez a Skefhavzn ho studiato la lettera di John Wotten a Sigthors. Non conoscevo la parola 'epistola', ma probabilmente si
trattava proprio di questo, no?» «Sì,» rispose Stephen «se quello che hai studiato fosse stato realmente la lettera di Wotten a Sigthors, ma non lo era. Quella che hai visto tu era una ricostruzione di quel testo fatta da Wislan Fethmann quattro secoli fa. Si basò su un breve riassunto del suo contenuto scritto da uno dei pronipoti di Sigthors, sessanta anni dopo la vittoria sugli Skasloi. «Sigthors fu ucciso in battaglia. Il pronipote ottenne le informazioni facendo domande al figlio superstite, Wigngaft, che aveva sette anni quando suo padre lesse ad alta voce la lettere ai suoi seguaci e sessantasette quando gli venne chiesto di ricordare cosa diceva. C'era anche una sola riga aggiunta pare da Thaniel Farre, il messaggero che recapitò la lettera. Ma non abbiamo l'originale di Farre, solo una copia di terza mano di una citazione fatta da lui nel Tafles Vincum Maimum, scritto ben mille anni dopo la sua morte. 'Succeda quel che deve succedere, nessuno dei miei nipoti dovrà vedere una sola alba da schiavo. Se non vinciamo, porrò fine alla mia discendenza con le mie stesse mani.'» Ehan batté le palpebre. «Perciò quella non riproduceva esattamente ciò che era stato scritto?» «In verità, non abbiamo modo di scoprirlo» rispose Stephen. «Ma sicuramente Fethmann deve essere stato ispirato dai santi per riuscire a ricreare una ricostruzione così accurata.» «Be', questa è solo una delle scuole di pensiero» rispose secco Stephen. «A ogni modo lui scrisse in hanzish medio, non nella forma originale cifrata, perciò che sia stato divinamente ispirato o no, quell'epistola non è di nessun aiuto per tradurre questa. Esistono comunque poche altre epistole con la stessa dubbia provenienza di questa che voi avete riportato alla luce. A dire il vero non è così insolito trovarle in vendita sui carri sefry, sia in 'originale', scritte in lingue incomprensibili, sia in traduzione.» «Bene, allora» disse bruscamente Ehan. «Così la nostra epistola era una frode, una tradizione locale non approvata dalla Chiesa. E allora? Non esistono epistole autenticate?» «Esistono due frammenti, con non più di tre righe complete. Quelli sembrano essere originali, ma nessuno dei due è qui. Sono comunque, pare, fedelmente riprodotti nel Casti Noibhi.» «Abbiamo la copia dhuvien di quel volume» disse Pell. «Speravo in un'edizione migliore» confessò Stephen. «Ma se è tutto quello che avete, dovrà bastare.» Ebbe un'illuminazione e incontrò lo sguardo del fratrex.
«Aspettate un momento» disse. «Voi avete detto che questa epistola, se di questo si tratta, fornisce un indizio sull'ubicazione del diario di Virgenya Dare. Come può essere se quel diario fu nascosto secoli dopo la fine della rivolta?» «Ah» fece il fratrex. «Sì, avete ragione.» Fece un segno a Ehan, il quale sollevò un volume rilegato in pelle che era dietro la sua panca. «Questa è la vita di san Anemlen» disse il fratrex. «Mentre era a corte del Giullare Nero, Anemlen sentì delle voci riguardo a fratello Choron, nelle cui mani era stato affidato il diario. Sembrava che Choron si fosse fermato nel regno dieci anni prima che il Giullare conquistasse col sangue il suo trono, lavorando come consigliere del re di quel tempo. «Il libro rimase lì per un po'. In un passaggio, Anemlen annota che Choron scoprì, in un reliquario, il rotolo che adesso voi avete in mano. Senza dire di cosa si trattasse, affermò che parlava di un 'rifugio' in un monte a diciotto giorni circa di cavalcata verso nord e che questo monte era conosciuto come Vhelnoryganuz. «Si mise in viaggio per cercarlo, a quanto pare perché credeva che il più sacro dei documenti lì sarebbe stato al sicuro. S'incamminò verso Vhelnoryganuz, ma non fece mai più ritorno. Come sapete, il Giullare Nero aveva la sua corte nel punto in cui ora sorge la città di Wherthen, anche se resta ben poco della fortezza originale. Ma quando la Chiesa liberò e consacrò la zona, raccolse tutti gli scrifti che trovò. Quelli diabolici vennero distrutti, per la maggior parte. Quelli che non furono distrutti, vennero raccolti e copiati. «E poi ce ne furono alcuni che vennero tenuti nello scriftorium perché nessuno sapeva con certezza cosa fossero. Questo era uno di quelli. Fratello Desmond lo acquistò per me; grazie ai santi non ne comprese la vera natura. Lo abbiamo ricevuto poco prima che fuggiste da questo posto. Se le cose fossero andate come speravamo, lo avreste studiato già mesi fa, e con molta più comodità. Sfortunatamente le cose non sono andate come speravamo.» «Molto sfortunatamente» concordò Stephen. Si drizzò in piedi poggiando le mani sulle ginocchia. «Fratelli, se davvero il mio tempo è così limitato, credo che adesso dovrei andare nello scriftorium.» «Assolutamente» disse il fratrex. «Nel frattempo, noi provvederemo agli altri preparativi.» La morte seguiva da vicino il woorm.
Gli Oostish chiamavano la stagione fredda inverno, ma la cosa più importante di questo periodo era il fatto che forniva ai contadini e agli abitanti dei villaggi tempo in abbondanza per riflettere, chiudere le loro case e aspettare che il terreno ricominciasse a produrre cibo. Quando la gente aveva troppo tempo per pensare, Aspar aveva notato, il risultato di solito era l'uso di troppe parole e Stephen era un esempio perfetto. Perciò gli Oostish chiamavano inverno l'inverno, ma anche Generanotte, Tiepidosole e Tre Lune di Morte. Aspar non aveva mai capito il motivo di dovergli dare più di un nome, ma l'ultimo sembrava essere piuttosto diffuso. La foresta non moriva d'inverno; semplicemente si leccava le ferite. Raccoglieva le forze per affrontare la battaglia conosciuta come primavera. Alcune delle querce contro cui il woorm si era strofinato erano semplici alberelli quando gli Skasloi ancora regnavano sul mondo. Avevano visto nel loro atteggiamento fermo e lento innumerevoli tribù di umani e Sefry passare sotto i loro rami e sparire in anni lontani. Non avrebbero assistito a un altro germogliare di foglie. Linfa dall'odore nauseabondo aveva già cominciato a suppurare dalle crepe sulle loro antiche cortecce, come pus da una ferita in cancrena. Il veleno del woorm lavorava ancora più velocemente nel legno che nella carne, a quanto pareva. I licheni, il muschio e le felci che ricoprivano gli alberi erano già diventati neri. La sua mano si abbassò per toccare l'astuccio della freccia che portava alla cintura. L'arma che conteneva veniva da Caillo Vallaimo, il tempio che rappresentava il cuore vero e proprio, il nucleo e l'anima della Chiesa. Gli era stato detto che poteva essere usata solo due volte e lui l'aveva già utilizzata una volta per uccidere un utin. Gli era stato ordinato di uccidere il Re degli Alberi con quella. Ma il re non stava uccidendo la foresta che Aspar amava. A dire il vero, il signore dei laniatori stava lottando per salvarla. Sì, uccideva uomini e donne, ma considerando la loro vita e quella delle querce... Aspar diede un'occhiata a Winna, ma lei stava guardando davanti a sé, attenta al sentiero. Winna riusciva a capire molte cose di lui, ma questi erano sentimenti che non le avrebbe mai potuto spiegare. Pur essendo più a suo agio della maggior parte delle persone nella natura selvaggia, veniva comunque dal mondo della casa e del focolare, il mondo recintato degli uomini. Il suo cuore era tenero quando si trattava di altre persone. Ma anche se Aspar era capace di amare davvero qualche persona, la maggior parte delle altre avevano poca importanza per lui. Erano quasi tutte ombre,
ma la foresta era reale. E se la vita della foresta poteva essere comprata con l'estinzione del genere umano... E se lui, Aspar, avesse avuto tra le mani la possibilità di scegliere... Be', aveva già avuto l'opportunità di colpire non molto tempo prima, no? E Leshya lo aveva convinto a non farlo, Leshya e lo stesso Re degli Alberi. Quanti abitanti di villaggi erano morti da quando lui aveva preso quella decisione? Sarebbe stato lì il woorm in quel momento se il Re degli Alberi fosse già morto per mano sua? Non lo sapeva ovviamente, e non aveva modo di scoprirlo. Perciò se avesse incontrato di nuovo il woorm, avrebbe dovuto usare la freccia contro di lui o no? Sì, per il Malvagio. Quel mostro stava uccidendo tutto ciò che toccava. E se questo non bastava, c'era Fend che lo cavalcava. Se avesse avuto il tempo per pensarci un altro po', lo avrebbe già ucciso alla prima occasione. I cavalli rallentarono perché erano diventati troppo deboli per portarli, perciò Aspar e Winna smontarono e li guidarono, cercando di tenersi lontani dal sentiero avvelenato. Gli occhi di Orco erano molto cisposi e Aspar era preoccupato per lui, ma sapeva di non potergli dare un po' di pozione, non con Winna in pericolo. Poteva solo sperare che le bestie non fossero state a diretto contatto con il respiro del woorm e che stessero soffrendo per un avvelenamento minore e magari non letale. Le tracce portavano a un buco sul fianco di una collina. Con lieve turbamento Aspar riconobbe il posto. «Questa era Rewn Rhoidhal» disse a Winna. «Me lo immaginavo» rispose lei. Aveva acquistato familiarità con le dimore halafolk, essendo già stata in un posto simile insieme ad Aspar: Rewn Aluth. Quella era abbandonata. Tutte lo erano. «È da qui... è da qui che viene Fend?» Aspar scosse il capo. «Per quanto ne so io, Fend non ha mai vissuto in una rewn. Lui era uno dei nomadi.» «Come quelli che ti hanno allevato.» «Già» rispose Aspar. Winna indicò le fauci di quel varco. «Credevo che gli Halafolk nascondessero meglio le loro dimore.» «È così infatti. Quest'apertura era molto piccola, ma sembra che il woorm abbia scavato un buco grande abbastanza per sé.»
«Scavato nella roccia?» domandò Winna. Aspar allungò la mano e spezzò un frammento di pietra rossastra. «Argilla» disse. «Non è così dura. Eppure richiederebbe un sacco di uomini armati di picconi e pale per parecchio tempo per riuscire ad allargare così tanto questo buco.» Winna annuì. «Che facciamo adesso?» «Credo che l'unico modo per seguirlo sia entrare» disse Aspar, smontando e cominciando a togliere la sella a Orco. «C'è rimasto un po' d'olio?» Lasciarono ancora una volta i cavalli e presero a scendere cautamente lungo una scarpata. I detriti erano recenti, con molta probabilità venivano dall'entrata del woorm. La fiamma della loro torcia ondeggiava, agitata dall'aria incerta, e Aspar riuscì a vedere che stavano scendendo dentro un'ampia cisti nella terra. Neanche sotto terra era difficile seguire la pista del woorm. Presto si allontanarono dalla pietra argillosa dell'anticamera lungo un passaggio in discesa per arrivare a una roccia più solida e antica, e anche lì il ventre strisciante della bestia aveva spezzato delle stalagmiti alla base. Nel punto in cui il soffitto umido si abbassava, la schiena della creatura aveva mandato in frantumi anche le stalattiti che cercavano di raggiungere il terreno. Nella rewn c'era silenzio, fatta eccezione per lo scricchiolio della roccia mentre scendevano e il rumore del loro stesso respiro. Aspar si fermò per vedere se c'erano segni del fatto che Fend fosse smontato in quel punto, doveva averlo fatto, per forza, ma le tracce che non erano state cancellate dal woorm erano state confuse dall'evidente passaggio di centinaia di laniatori. Continuarono ad avanzare e presto sentirono una confusione di voci, attutite dalla pietra circostante. Davanti a sé, Aspar vide che il passaggio si apriva in qualcosa di più largo. «Piano» bisbigliò. «Quel rumore» disse Winna. «Devono essere i laniatori.» «Già.» «E se sono alleati del woorm?» «Non lo sono» rispose Aspar, e il piede scivolò leggermente su qualcosa di viscido. «Sei sicuro?» «Quasi» rispose lui con gentilezza. «Attenta a dove metti i piedi.»
Ma fu un consiglio inutile. Le ultime iarde del tunnel erano cosparse di sangue e frattaglie. Sembrava che cinquanta corpi fossero stati battuti e sbriciolati in una specie di malta e poi spalmati sul pavimento della caverna come burro sul pane. Qua e là riusciva a distinguere un occhio, una mano, un piede. L'odore era assolutamente nauseante. «Oh santi!» esclamò Winna quando realizzò di cosa si trattava. Si piegò e cominciò a vomitare. Aspar non la biasimava; anche il suo stomaco ansimava eppure ne aveva viste di cose in vita sua. S'inginocchiò accanto a lei e le mise una mano sulla schiena. «Attenta, dulcitia» disse. «Farai vomitare anche me se fai così.» Lei soffocò una risata dietro una smorfia di dolore e gli lanciò un'occhiata, poi ricominciò e continuò per un po'. «Mi dispiace» riuscì a dire quando ebbe finito. «Ora tutta la caverna saprà che siamo qui, scommetto.» «Non credo che importi a qualcuno» rispose Aspar. Per entrare nello scriftorium c'era una porta talmente bassa che lo costrinse a strisciare per andare in ginocchio verso la conoscenza'. Ma fu quando si alzò in piedi che Stephen si sentì sopraffatto dalla meraviglia dello scriftorium. Stephen non era nato povero. La sua famiglia, come una volta era solito proclamare, veniva da Cape Chavel Dariges. La proprietà di suo padre era antica, situata sulle irregolari scogliere masticate dal mare sopra la Baia di Ringmere e costruita con la stessa pietra scura. Le stanze più antiche una volta facevano parte di una rocca, anche se rimanevano solo alcune delle originali pareti curve. La parte principale della casa vantava quindici stanze, con diverse casette, fienili e fabbricati annessi. La famiglia allevava cavalli, ma la maggior parte delle entrate veniva da possedimenti agricoli, dall'area portuale e dalle barche. Lo scriftorium di suo padre era considerato notevole per essere una collezione privata. Aveva nove libri; Stephen li conosceva tutti a memoria. Capo Morris, a una lega di distanza, la città più grande dell'attish, aveva uno scriftorium di quindici libri ed era gestito dalla Chiesa. Il collegio a Ralegh, l'università più grande in assoluto di tutta la Virgenya, possedeva l'imponente mole di cinquantotto rotoli, tavolette e libri rilegati. Qui, Stephen si ritrovava all'interno di una torre circolare contenente
migliaia di libri. Si sviluppava su quattro livelli, con camminamenti strettissimi a ogni piano. Scale a pioli coprivano le distanze in verticale; i libri venivano spostati su e giù per mezzo di cesti, corde e argani. Le cose erano cambiate dall'ultima volta che era stato lì. Prima, il posto brulicava di monaci che copiavano, annotavano e studiavano. Ora, a parte lui, c'era un monaco solitario che stava freneticamente impacchettando rotoli dentro borse di cuoio ingrassato. Il tizio lo salutò ma tornò rapidamente al suo lavoro. Comunque Stephen non lo riconobbe. La sua soggezione naturale svanì quando l'urgenza della situazione tornò a imporsi. Da dove cominciare? Si sentiva schiacciato. Be', il Casti Noibhi era una scelta obbligata. Lo trovò al secondo livello e, poggiandosi alla ringhiera, si mise a sfogliare le pagine di lino pressato. Trovò presto i frammenti di epistola scritti in quello che avrebbe dovuto essere il codice cifrato originale. Notò subito che i simboli, come aveva sospettato, venivano per lo più dall'antica scrittura virgenyana con aggiunte di thiuda e antico vitelliano. Questo non fece che confermare quanto aveva intuito. Annuendo, s'incamminò verso un'altra sezione e scelse un rotolo d'iscrizioni funebri e formule elegiache della Virgenya. Il rotolo era piuttosto recente, ma le iscrizioni erano state copiate da incisioni su pietra che risalivano anche a duemila anni prima. Il codice dell'epistola era stato similmente ricostruito prendendo a modello una delle lingue del periodo dell'insurrezione. Le principali erano il vitelliano antico, il thiuda, il Cavari antico e il virgenyano antico. Da queste quattro discendeva la maggior parte delle lingue parlate nel mondo che Stephen conosceva. Ma esistevano altre lingue con discendenze diverse. Erano quasi tutte molto lontane; gli Skasloi avevano governato su terre al di là dei mari e i loro schiavi parlavano lingue molto diverse da quella di Crotheny. Quelle non potevano essere comparse nella rivolta in questione. C'era anche il gergo degli schiavi, di cui gli studiosi più recenti non sapevano quasi nulla. Stephen addirittura dubitava che i suoi antenati l'avessero usato come lingua segreta, sospettando che gli stessi Skasloi ci avessero messo lo zampino nell'inventarla. C'erano anche lo yeszic, il vhilatauta e lo yaohan. Lingue derivate dalle prime due erano parlate in Vestrana e sui monti Iutin e Bairghs, e poche tribù, come quella di Ehawk, parlavano lingue yaohan.
Si fermò. Ehawk. Stephen realizzò con un improvviso senso di colpa che si era dimenticato di lui. Cosa era successo al ragazzo? Un attimo prima era lì che gli afferrava il braccio e un secondo dopo... Avrebbe chiesto al fratrex di domandarlo ai lardatoli. Era tutto quello che poteva fare. Avrebbe già dovuto chiederglielo, ma c'era stato così tanto da fare e così poco tempo. Giusto. Più era sconosciuta la lingua, meglio avrebbe funzionato da sola come codice. Perciò aveva bisogno di tutti i dizionari che poteva trovare di tutte le lingue madri. In realtà, la sua destinazione doveva essere tra i monti Bairghs; il che significava che anche una conoscenza delle lingue derivate dal vhilatauta avrebbe potuto rivelarsi utile. Subito si mise a cercare quei volumi. Quando li ebbe calati a terra con un cesto, ebbe un'altra idea molto più interessante e si diresse di corsa verso i tomi di geografia e le cartine. I monti Bairghs erano davvero immensi. Anche dopo aver tradotto l'epistola, se mai ci fosse riuscito, avrebbe dovuto individuare il tragitto più veloce per il monte Vhelnoryganuz o tutta la sua fatica sarebbe risultata vana. Stephen non sapeva esattamente quante ore fossero trascorse quando Ehan lo trovò, ma la cupola di vetro sopra la sua testa da molto tempo era diventata buia e lui stava lavorando alla luce di una lampada su uno dei grandi tavoli di legno al primo piano. «Un nuovo giorno sta per cominciare» lo avvertì Ehan. «Non hai bisogno di dormire un po'?» «Non ho tempo per farlo» rispose Stephen. «Se davvero devo andarmene da qui all'alba...» «Potrebbe essere ancora prima» disse Ehan. «Sta succedendo qualcosa nella rewn. Abbiamo una guardia, ma non sappiamo con certezza cosa sia. Che cosa stai facendo?» «Cerco di trovare la nostra montagna» replicò Stephen. «Non credo che sia così facile trovarla sulla cartina» commentò Ehan. Stephen scrollò il capo stancamente e sorrise. Realizzò che, nonostante tutto, era felice come non gli capitava più da parecchio tempo. Avrebbe voluto che non finisse. «No» disse. Mise il dito su una moderna cartina in grande scala che rappresentava le Regioni Centrali e i Bairghs. «Ho fatto una stima di quanto si possa cavalcare in diciotto giorni da' Wherthen» disse. «Il fratrex ha ragio-
ne; i Bairghs sono gli unici monti che la nostra 'velocità' ci permetterebbe di raggiungere. Ma come hai detto tu, se esiste un monte Vhelnoryganuz, non è segnato qui.» «Forse il nome è cambiato col tempo» suggerì Ehan. «Certo» rispose Stephen, poi si accorse di averlo detto con un tono un po' troppo sicuro. «Quello che voglio dire» si spiegò «è che Vhelnoryganuz è un termine del vadhiano antico, la lingua del regno del Giullare Nero. Significa 'Regina Traditrice'. Non si parla più vadhiano, perciò il nome potrebbe esser stato corrotto.» «Ma è solo un nome; non devi per forza sapere cosa significa per ripeterlo o insegnarlo ai tuoi figli. Perché dovresti cambiarlo? Voglio dire, capirei se venisse sostituito con un altro nome...» «Ti farò un esempio» disse Stephen. «Gli Egemoni costruirono un ponte su un fiume nella Foresta del Re e lo chiamarono Pontro Oltiumo, che significa 'il ponte più lontano', perché a quell'epoca si trovava sulla frontiera ed era il ponte più lontano da z'Irbina. Dopo un po' il nome venne trasferito al fiume stesso ma venne abbreviato in Oltiumo. Quando un nuovo popolo che parlava l'oostish antico si stabilì in quel posto cominciò a chiamarlo Ald Thiub, 'vecchio ladro', perché oltiumo suonava più o meno in quel modo quando lo pronunciavano, e poi i coloni virgenyani lo corruppero a loro volta in Tomba dell'Ozio, che è come viene chiamato ancora oggi. «Perciò una parola impronunciabile come Vhelnoryganuz potrebbe essersi trasformata facilmente in, non lo so, Fell Norrik o qualcosa del genere. Ma non riesco a trovare niente sulla cartina che mi faccia pensare a una semplice contaminazione.» «Capisco» disse Ehan. Ma sembrava distratto. «Perciò l'altra cosa che ho pensato è che forse la montagna si chiama ancora 'Regina Traditrice', ma nel modo in cui questo viene detto nell'attuale lingua della zona; succede a volte, anche se si tratta di un nome strano per una montagna.» «Non proprio» disse Ehan. «A nord spesso chiamiamo i monti re o regine, e quello che è costato la vita a molti viaggiatori potrebbe essere definito traditore. Che lingua si parla nei Bairghs?» «Dialetti correlati all'hanzish, almannish e vhilatautan. Ma tanto per complicare le cose, questa cartina è basata su un'altra fatta durante la reggenza lierish.» «Insomma sei bloccato.»
Stephen fece un sorriso furbo. «Ah, allora l'hai trovato» si corresse Ehan, cominciando a suonare impaziente. «Be',» disse Stephen «mi sono ricordato che nei Bairghs non si è mai parlato vadhiano, perciò il nome che abbiamo noi per la montagna è già un'interpretazione vadhiana di un nome probabilmente vhilatautan. Quando ho cominciato a pensare in questi termini, ho tirato fuori il dizionario tautish e ho iniziato a comparare. «Vhelnoryganuz in questo caso potrebbe essere una traduzione inesatta di Velnoiraganas, che in vhilatautan antico significa qualcosa tipo 'Cornodi-Strega'.» «E c'è un Corno-di-Strega tra i Bairghs?» Stephen puntò un dito sulla cartina vicino al disegno di un monte con una forma strana, vagamente simile al corno di un bue. Vicino in minuscoli caratteri lierish c'era scritto eslief vendve. «Monte della Strega» tradusse per Ehan. «Bene,» commentò Ehan «è stato facile.» «Ma non è detto che non sia sbagliato» disse Stephen. «Ma è la migliore traduzione che posso fare fino a che non ho tradotto l'epistola. Credo che posso considerarlo un punto di partenza.» In lontananza si levò uno squillo. «Dovrai finire la cosa in sella» disse frettolosamente Ehan. «Quello è l'allarme. Andiamo, sbrighiamoci.» Fece un gesto e altri due monaci arrivarono di corsa, impacchettarono gli scritti e i rotoli scelti da Stephen in bisacce resistenti alle intemperie e uscirono dallo scriftorium, piegandosi. Stephen li seguì, afferrando qualche altro pezzo a caso. Non ebbe nemmeno tempo di dare un'ultima occhiata. Fuori, tre cavalli aspettavano battendo a terra gli zoccoli, ruotando gli occhi mentre i monaci li caricavano con i preziosi tomi. Stephen aguzzò l'udito per sentire cosa li stava innervosendo, ma all'inizio neanche i suoi sensi benedetti rilevarono niente. La valle sembrava calma, a dire il vero, sotto un cielo freddo e limpido. Le stelle erano così grandi e lucenti da sembrare irreali, come quelle viste in un sogno, e per un attimo Stephen si domandò se non stesse sognando... o se non era addirittura morto. Alcuni dicevano che i fantasmi erano spiriti illusi che non capivano il loro destino e cercavano disperatamente di continuare a vivere nel mondo che conoscevano. Forse tutti i suoi compagni erano morti. Anne e il suo esercito d'ombre
avrebbero bussato con le loro mani eteree alle porte di Eslen, e i difensori avrebbero avvertito la loro presenza solo con un brivido vago. Aspar se la sarebbe svignata per combattere per la foresta che amava, uno spettro ancora più terrificante del Veggente Malvagio. E Stephen... be' lui avrebbe continuato a rincorrere misteri su ordine del compianto fratrex e del compianto Ehan. Quando era morto, allora? A Cal Azroth? Oppure a Khrwbh Khrwkh? Entrambi i luoghi sembravano probabili. Poi lo sentì, un respiro impetuoso talmente prolungato da sembrare una nota di gran lunga più profonda di quella più bassa suonata da una crotta bassa. Gemette appena al di sopra del suono emesso dalle rocce e dalle pietre, camuffandosi inizialmente proprio dentro di esso. Ora percepiva, più che sentire, la sabbia che veniva spolverata da sopra la pietra, rami che si spezzavano, un enorme peso in movimento. Il corno smise di suonare. «Cos'è?» bisbigliò Stephen. Ehan stava a pochi piedi di distanza e bisbigliava frettolosamente con un altro monaco, un tipo dai capelli brizzolati che Stephen non aveva mai visto prima. I due si abbracciarono velocemente e quello brizzolato andò via di corsa. «Vieni» disse Ehan. «Se è quello che crediamo, non abbiamo tempo da perdere. Alcuni uomini ci aspettano in fondo alla valle per accertarsi che non arrivi niente da quella parte.» «E il fratrex?» «Qualcuno deve fare da esca e trattenere quella cosa per un po'.» «Di che stai parlando?» La mente si precipitò a ricordare la conversazione a bassa voce tra Ehan e l'altro uomo; non aveva prestato attenzione, ma le sue orecchie dovevano averla sentita. Adesso la ricordava. «Un waurm!» esclamò. Immagini provenienti da arazzi, illustrazioni, favole e antiche leggende gli affollarono la mente. Alzò lo sguardo sul fianco della collina. Alla debole luce delle stelle vide gli alberi muoversi in una riga lunga e sinuosa. Quanto era lunga? Un centinaio di iarde? «Il fratrex non può restare qui e combattere quella creatura» disse Stephen. «Non sarà solo» lo tranquillizzò Ehan. «Qualcuno deve perdere tempo qui e fargli credere che la sua preda si trova ancora a d'Ef.»
«La sua preda?» «Quello che lui sta cercando» disse Ehan, mentre l'esasperazione cominciava a trasparire dalla sua voce. «Te.» 12 Cuori e spade «Il fuoco è una cosa meravigliosa» disse Catio allegro. Usava la sua lingua madre per capire sé stesso. «Una donna è una cosa meravigliosa. Una spada è una cosa meravigliosa.» Si distese su un divano di velluto vicino al grande camino del sontuoso salone di Glenchest e lasciò che metà del suo corpo si cocesse e l'altra poggiasse comodamente e al calduccio sui cuscini. Se il camino non fosse stato acceso, un uomo avrebbe potuto entrarci dentro dritto; era così grande, una gigantesca fetta d'arancia, una mezza luna sull'orizzonte, il sorriso capovolto di Austra. Allungò pigramente la mano sulla bottiglia di vino che la duchessa gli aveva dato. In realtà non era vino ma un tonico amaro e verdastro molto più forte del sangue di san Pacho. All'inizio non gli era piaciuto, ma grazie a questo e al fuoco, si sentiva come ricoperto da una pelliccia e la mente aveva cominciato a vagare piacevolmente. Esverinna Taurochi dachi Calavai. Era alta, tanto quanto Catio, ma le gambe sembravano lunghe e strane. Occhi color del miele misto a nocciole e capelli lunghi, lunghissimi, quasi neri alla radice, ma che diventavano del colore degli occhi sulle punte. Ricordava che s'ingobbiva sempre un po', come se si vergognasse della sua regale altezza. Tra le sue braccia, quella lunghezza si era rivelata un lusso, qualcosa su cui lui poteva distendersi all'infinito. Era bella, ma inconsapevole della sua bellezza. Passionale, ma innocente nei suoi desideri. Avevano avuto entrambi tredici anni all'epoca; era già stata promessa in sposa a un uomo di Esquavin molto più grande di lei. Lui aveva pensato di sfidarlo a duello, si ricordò, ma Esverinna lo aveva fermato con queste parole: Non mi amerai mai veramente. Lui non mi ama, ma potrebbe. Maio Dechiochi d'Avella era un cugino lontano del Mediccio di Avella, la città natale di Catio. Come la maggior parte degli uomini facoltosi del luogo aveva studiato la scherma con il Mestro Estenio. Catio aveva discus-
so con lui per una partita a dadi. Erano state sguainate le spade. Catio si ricordò di quanto fosse stato sorpreso nel vedere la paura negli occhi di Maio. Lui aveva provato solo eccitazione. Il duello era durato solo tre affondi: una finta poco convincente da parte di Maio, trasformatasi in un attacco in seft alla coscia di Catio, la sua parata e risposta in prisma, e il folle balzo di Maio per allontanarsi. Catio aveva rinnovato l'assalto; Maio aveva parato con forza, ma senza rispondere. Catio aveva ripetuto l'attacco esattamente come prima; ancora una volta Maio aveva parato senza rispondere, apparentemente soddisfatto per aver solo arrestato l'affondo. Catio velocemente aveva rinnovato l'assalto e lo aveva colpito sulla parte alta del braccio. Lui aveva dodici anni e Maio tredici. Era la prima volta che sentiva la carne cedere sotto al suo acciaio. Marisola Serechii da Ceresa. Capelli di pregiata ossidiana, un viso da bambina e un cuore da lupa. Sapeva quello che voleva e ciò che desiderava era guardare Catio che combatteva contro altri uomini per lei, per poi esaurire le energie che gli restavano tra le lenzuola di seta del suo letto. Lo leccava, mordeva e gridava, trattando il corpo di Catio come fosse stato un piacere di cui non avrebbe mai potuto saziarsi. Gli arrivava a malapena al torace, ma con tre tocchi era capace di privarlo della sua volontà. Aveva diciotto anni e lui sedici. Spesso si era domandato se fosse una strega e pensò che doveva esserlo sicuramente quando lo lasciò. Non poteva credere che lei non lo amasse e anni dopo un suo amico gli disse che il padre di quella donna aveva minacciato di assoldare dei sicari se non avesse rotto con Catio e sposato l'uomo che aveva scelto per lei. Catio non arrivò mai a chiederle niente al riguardo; morì di parto un anno dopo essersi sposata. St. Abulo Serechii da Ceresa, il fratello maggiore di Marisola aveva passato il tempo nella città natale di Ceresa a imparare a scrivere e a tirare di scherma insieme al mestro del suo prozio. Sapendo della relazione di Catio con sua sorella aveva lasciato cadere casualmente un'osservazione ingiuriosa nei confronti di Catio nella taverna del Tauro et Purca, sapendo che gli sarebbe stata riferita. Avevano deciso d'incontrarsi nel meleto fuori città, ciascuno accompagnato da un secondo e una folla di ammiratori. St. Abulo era piccolo, come sua sorella, ma di una velocità sorprendente, e legato all'usanza piuttosto antiquata di adoperare un mano nertro, un pugnale nella mano sinistra. Il combattimento era terminato quando St. Abulo aveva sbagliato a calcolare il tempo di un contrattacco; aveva colpito Catio alla coscia, ma questi gli aveva infilzato un orecchio. Entrambi si
erano resi chiaramente conto che Catio avrebbe potuto facilmente prenderlo all'occhio. St. Abulo aveva ammesso la sconfitta, ma il suo secondo non era stato d'accordo e così lui e il secondo di Catio avevano cominciato a duellare. Dopo poco, gli spettatori avevano iniziato a combattere anche loro. Catio e St. Abulo si erano ritirati a osservare la rissa, a medicarsi le ferite e a bere diverse bottiglie di vino. Abulo ammise poi di non essere veramente preoccupato per la virtù della sorella, ma confessò che era stato suo padre a spingerlo a quella mossa. Lui e Catio si strinsero la mano e si separarono da amici, ma poi St. Abulo morì per le ferite riportate nell'uccidere il padre del bambino che aveva ucciso di parto sua sorella. Naiva dazo trivo Abrinasso. La figlia del duca Salalfo d'Abrinia e di una cortigiana del lontano Khorsu. Naiva aveva preso gli occhi neri e a mandorla dalla madre. Sapeva anche di mandorla, miele e arance. Sua madre era caduta in disgrazia presso la corte del duca alla morte di questi, ma lui le aveva donato una triva vicino ad Avella. Catio aveva incontrato Naiva nel vigneto, mentre schiacciava a piedi scalzi i grappoli d'uva caduti. Era raffinata e annoiata. Credeva di essere stata esiliata nell'angolo più remoto della terra e aveva sempre pensato che con lui si stava accontentando, che valesse meno di quanto aveva immaginato. Gli tornarono in mente le sue cosce alla luce del sole, calde al tocco, il sospiro che era quasi una risata soffocata. Un giorno svanì all'improvviso senza una parola. Girò voce che fosse tornata ad Abrinia e fosse diventata una cortigiana come sua madre. Larche Peicassa duchi Sallatotti. Il primo uomo che affermò con parole esplicite che Naiva non era altro che una puttana ben educata. Catio aveva sfidato la sua lama infilzando il polmone sinistro con tanta violenza che Caspator era spuntata fuori dalla schiena. Larche era stato il primo uomo che Catio aveva veramente voluto uccidere. Non c'era riuscito, ma l'uomo era rimasto invalido, costretto a zoppicare con una stampella. Austra. Una pelle così chiara che risultava bianca anche alla luce del fuoco. Capelli color ambra piacevolmente scompigliati, guance che arrossivano e si tingevano di rosa come un fiore d'alba. Aveva più paura di incrociare le dita che di baciare, come se il tocco di due mani fosse in qualche modo un abbraccio più rischioso per il cuore. Era stata impacciata, entusiasta, spaventata e si era sentita in colpa. Felice, ma, come sempre, con un occhio rivolto alla fine della felicità. L'amore era strano e terribile. Catio pensava che sarebbe riuscito a evitarlo dopo la storia con Naiva. Corteggiare era divertente, il sesso lo era
ancora di più e l'amore... be', un'illusione inutile. Forse ancora la pensava in questo modo, o almeno una parte di lui. Ma se era così, perché aveva voluto intrecciare le sue dita con quelle di Austra fino a che lei non gli aveva creduto, fino a che non si era liberata delle sue paure, del suo scetticismo, dell'insicurezza e aveva capito che lui veramente l'amava? Acredo. Non era il suo vero nome; significava semplicemente 'tagliente'. Il primo spadaccino dopo tanto, davvero tanto, a mettere alla prova la sua punta. La duchessa e qualcun altro stavano giocando a carte dall'altra parte della stanza, ma le voci gli arrivavano come un canto d'uccelli, una melodia, anche se incomprensibile. Perciò gli ci volle un attimo per rendersi conto che c'era qualcuno molto vicino a lui e che i suoni più alti erano parole. Sollevò il capo e vide che si trattava di sir Neil. Catio fece un largo sorriso e alzò la bottiglia. «Come sta il vostro piede?» domandò Neil. «Non posso dire che mi faccia male adesso» rispose Catio allegramente. «Credo di no.» «La duchessa mi ha chiesto di non dirlo, capite?» continuò Catio come per spiegarsi, poi rise per qualche attimo della sua stessa battuta. Stranamente Neil non sembrò divertito. «Che succede?» domandò Catio. «Nutro una stima profondissima per il vostro coraggio e abilità con lo stocco» cominciò Neil. «Fate bene» lo informò Catio. Neil fece una pausa, poi annuì, più rivolto a sé stesso che a Catio e proseguì: «Il mio dovere è proteggere Anne. Proteggerla da tutto.» «Bene, allora avreste dovuto combattere voi con Acredo e non io, eh? Si tratta di questo?» «Avrei dovuto essere io,» convenne Neil con fare pacato «ma dovevo parlare con la duchessa per ciò che riguarda le truppe in suo possesso e quello che dobbiamo aspettarci e sfortunatamente non potevo essere in due posti allo stesso momento. Né sarebbe stato opportuno per me trovarmi nella stanza insieme a lei quando è stata assalita.» «Nessuno era nella stanza con lei» disse Catio. «Ecco perché stava per essere uccisa. Forse però qualcuno dovrebbe starci, che sia 'opportuno' o no.» «Non eravate con lei?»
«Certo che no. Perché credete che fossi nudo?» «È proprio questa la mia domanda. Vi avevano alloggiato da un'altra parte della villa.» «Infatti» replicò Catio. «Ma ero con Aus...» si fermò. «Questi in effetti non sono affari vostri.» «Austra?» sibilò Neil, abbassando la voce. «Ma lei era la persona che avrebbe dovuto essere nella stanza con Anne.» Catio si tirò su poggiandosi su un braccio e sollevando lo sguardo sul cavaliere. «Che cosa volete dire? Che preferireste che fossero morte tutte e due? Acredo ha ucciso le guardie. Se non fossi stato lì vicino, come pensate che sarebbe andata a finire?» «Lo so» disse Neil, grattandosi la fronte. «Non intendevo insultarvi, volevo solo capire perché... cosa è successo.» «E ora lo sapete.» «Ora lo so.» Il cavaliere fece una pausa e la faccia si allungo fino ad assumere un'espressione quasi comica. «Catio, è molto difficile proteggere qualcuno che si ama. Lo capite?» Catio improvvisamente sentì di aver in mano una spada contro il cavaliere. «Lo so molto bene» disse piatto. Avrebbe voluto aggiungere altro, ma qualcosa nello sguardo di Neil gli rivelò che non era necessario. Perciò anziché incalzare, disse solamente: «Unitevi a me per una bevuta.» Neil scosse il capo. «No. Ho troppe cose da fare. Ti ringrazio.» Lasciò Catio a ricordi, fantasticherie sempre più colorite e dopo poco ai sogni. Quando Neil ebbe lasciato Catio, si sentì poco pulito. Fin dal loro primo incontro aveva sospettato che il vitelliano e Anne potessero aver cominciato una specie di relazione; si ricordava di quale fama godesse Anne. Sua madre l'aveva mandata al coven in Vitellia proprio perché era stata colta in una situazione delicata con Roderick di Dunmrogh. Perciò non sarebbe stato sorprendente se, viaggiando insieme tutto questo tempo, fosse successo qualcosa tra la principessa e lo spadaccino. Né Neil poteva biasimare Catio per questo; lui stesso aveva iniziato una relazione riprovevole con una principessa reale e aveva origini meno nobili del vitelliano. Ma non poteva evitare di fargli quella domanda, no? Eppure non amava questo ruolo. Non gli si addiceva andare in giro a in-
terrogare uomini adulti sulle loro intenzioni, preoccuparsi che qualcuno fosse nudo a letto con qualcun altro. Non erano queste le cose a cui voleva interessarsi. La cosa lo faceva sentire strano, come un padre. A dire il vero lui e Catio avevano più o meno la stessa età e Anne non era molto più piccola. Si ricordò di Erren, la guardia del corpo della regina, quando lo aveva avvisato di non innamorarsi di Muriele, perché amarla avrebbe voluto dire ucciderla. Erren aveva ragione, ovviamente, ma aveva sbagliato persona. Era Fastia la donna che lui aveva amato. E Fastia era morta. Improvvisamente sentì la struggente mancanza di Erren; non aveva avuto il tempo di conoscerla bene, e quando avevano parlato, si era quasi sempre trattato dei consigli che lei gli dava su come comportarsi. Ma Anne aveva bisogno di qualcuno come Erren, una persona letale, competente e d'esperienza. Qualcuno in grado di proteggerla con un coltello e parole sagge. Ma Erren era morta per difendere la regina e non c'era nessuno che potesse prendere il suo posto. Fece una breve visita ad Anne. La duchessa l'aveva trasferita in un'altra stanza e sebbene Neil non riuscisse a ricordare la motivazione di quello spostamento, era certo che fosse finalizzato a farla stare più al sicuro. La trovò che dormiva, con Austra accanto a lei. Sembrava che la ragazza avesse pianto e le guance si accesero vivamente quando lei lo vide. Neil entrò nella stanza da letto e si diresse più piano che poté verso l'angolo opposto della camera. Austra si alzò e lo seguì. «Dorme?» «Sì. Quell'intruglio che le ha dato la duchessa sembra aver funzionato.» «Bene.» Austra si morse il labbro. «Sir Neil, vorrei parlarvi un attimo, se posso. Ho una cosa da confessare. Mi ascolterete?» «Non sono un Sacritor, lady Austra» rispose lui. «Lo so, certo. Siete la nostra guardia del corpo. Temo di aver abbandonato la mia signora nel momento in cui aveva più bisogno di me.» «Davvero? Pensate che sareste riuscita a fermare il suo assassino? Avete forse delle abilità di cui non sono a conoscenza?» «Ho un coltello.» «L'assassino ha ucciso due uomini che avevano una spada. Non riesco a immaginare come voi avreste potuto cavarvela meglio di loro.» «Però avrei potuto tentare.»
«Fortunatamente, non siete stata messa alla prova. Neanch'io ero lì, Austra. Siamo stati tutti molto fortunati che Catio fosse da quelle parti.» Austra esitò. «Non è... proprio... capitato da quelle parti.» «Senza dubbio ce l'hanno guidato i santi» replicò gentilmente Neil. «È tutto quello che mi serve di sapere.» Una piccola lacrima si affacciò all'angolo dell'occhio di Austra. «È troppo» disse. «Tutto questo è troppo.» Neil pensò che sarebbe scoppiata a piangere e invece la ragazza si asciugò gli occhi con una manica. «Ma non può essere, vero?» disse poi. «Resterò con lei, signor cavaliere, da adesso in poi, ve lo assicuro. Non mi farò distrarre. Né mi addormenterò se lei dorme. Se l'unica cosa che posso fare è gridare una volta prima di morire, per lo meno non morirò credendomi un totale fallimento.» Neil sorrise. «Queste sono parole crudeli.» «Io non sono crudele» replicò Austra. «Non sono niente di niente a dire il vero... sono solo una cameriera. Non ho origini nobili, genitori, niente che mi possa raccomandare tranne il suo amore. Ho dimenticato chi sono e il mio compito. Non succederà di nuovo.» Neil le mise una mano sulla spalla. «Non parlate con vergogna della vostra origine» disse lui. «Mia madre e mio padre erano dei contadini, niente di più. Neanche in me scorre sangue nobile, ma sono nato da gente per bene, gente rispettabile. Nessuno può chiedere di meglio. E nessuno, non importa quale sia la sua origine, può chiedere di meglio che l'adorazione di un amico fedele. Voi invece siete crudele; questo lo posso dire. E siete una persona importante, Austra. Il vento forte e la pioggia possono sgretolare perfino la roccia e voi avete passato una tempesta dopo l'altra. Eppure siete qui, ancora insieme a noi, esausta, ma ancora pronta a combattere per ciò che amate. «Non svendetevi in cambio di nulla. L'unica vergogna sarebbe lasciarsi andare alla disperazione. Quella è una cosa che conosco fin troppo bene.» Austra abbozzò un lieve sorriso. Aveva ricominciato a piangere, ma la faccia rimaneva ferma. «Ci credo che la conoscete; sir Neil» replicò. «Grazie per le vostre parole gentili.» Lui le strinse la spalla e lasciò cadere la mano. Tornò di nuovo a sentirsi vecchio. «Starò fuori alla porta» disse. «Se chiamate, sarò qui.» «Grazie, sir Neil.» «A voi, mia signora. E nonostante la vostra promessa, vi esorto a dormi-
re adesso. Resterò sveglio io, ve lo prometto.» Anne si svegliò a causa di un sogno tanto incomprensibile da risultare terrificante. Rimase distesa senza respiro, a fissare il soffitto, cercando di rassicurarsi del fatto che le Donne Nere che non riusciva a ricordare erano le migliori. Man mano che quel tormento notturno si dileguava, lei recuperò la cognizione di ciò che la circondava. Era nella stanza che lei e le sue sorelle avevano chiamato 'la caverna' perché priva di finestre. Era anche piuttosto spaziosa e aveva una forma strana. Non aveva mai dormito in quella stanza prima d'allora, ma ci avevano giocato tutte insieme quando lei era molto piccola, fingendo che fosse la tana di uno Scaos in cui avrebbero potuto scoprire un tesoro, anche se a costo di grossi pericoli, ovviamente. Zia Elyoner l'aveva trasferita lì, probabilmente perché sarebbe stata più al sicuro da un altro tentativo di omicidio. Pensò che questo stesse a significare che non c'erano passaggi segreti da cui la morte poteva entrare. Austra stava distesa supina su un divano vicino, la bocca spalancata, e il respiro irregolare, quasi un russare, un suono confortante e familiare. C'era qualche candela accesa qua e là e una fiamma bassissima ardeva nel camino. Anne si domandò per la prima volta perché quella stanza contenesse così tanti divani e letti. Dopo un'ulteriore riflessione decise che non voleva davvero sapere che tipo di divertimento Elyoner potesse organizzare in una stanza senza finestre. «Come vi sentite, confettino?» domandò una voce debole. Anne reagì con un leggero sussulto, girò la testa e si mise a sedere. Vide Elyoner seduta su uno sgabello che studiava delle carte spiegate su un tavolino. «Il braccio mi fa male» rispose Anne. Ed era vero; pulsava a tempo col battito del suo cuore sotto la stretta fasciatura. «Vi farò esaminare da Elcien tra un po'. Mi ha assicurato che quando sarà guarito, a malapena vi ricorderete che è successo. Non come quell'indecenza che avete sulla gamba. Come ve la siete procurata?» «Una freccia» rispose Anne. «A Dunmrogh.» «Avete avuto un bel po' di avventure, eh?» Anne esplose in una debole risata. «Abbastanza da capire che l'avventura non esiste.» Elyoner rispose con il suo debole e misterioso sorriso e girò un'altra car-
ta. «Certo che esiste; colombella. Così come esistono la poesia, l'epica e la tragedia. Solo che non esiste nella vita reale. Nella vita reale abbiamo terrore, problemi e sesso. Ma quando vengono raccontati in una storia allora diventano avventura.» «È esattamente quello che intendevo dire io» disse Anne. «Non credo che sarò più in grado di leggere storie del genere.» «Forse no» replicò Elyoner. «Ma comunque vadano le cose, passerà parecchio tempo prima che avrete di nuovo occasione di farlo. Anche se spero per il vostro bene, mia cara, che alla fine vi ritroverete abbastanza annoiata da ripensarci.» Anne sorrise. «Sì, lo spero anch'io, zia Elyoner. Adesso ditemi, è successo qualcosa di terribile mentre dormivo?» «Terribile? No. Il vostro giovane cavaliere ha fatto qualche domanda al vostro giovane spadaccino riguardo al suo abbigliamento durante il duello.» «Credo che fosse nella stanza accanto insieme ad Austra» bisbigliò Anne. Diede un'occhiata attenta all'amica, che però continuava a respirare pesantemente. «Credo di sì» replicò Elyoner. «La cosa v'infastidisce?» Anne ci pensò un attimo, con la testa reclinata da un lato. «Per niente» rispose. «Lei può fare come vuole.» «Davvero?» domandò Elyoner, con un una strana eccitazione nella voce. «Come siete liberale.» Anne rivolse un'occhiataccia alla zia con la speranza che bastasse a troncare quella conversazione. In realtà non era poi così felice della cosa. Che Austra e Catio fossero nudi, e quasi sicuramente intenti in quella cosa, con solo una parete a dividerli da lei, suonava... be', poco rispettoso. Eppure la presenza di Catio si era rivelata una fortuna. Ancora una volta. Era bello sapere che aveva qualcuno pronto a gettarsi nudo contro un nemico per difenderla, specialmente quando il cuore di questo qualcuno sembrava occupato in altre faccende. Aveva profondamente sbagliato a valutare Catio la prima volta che si erano incontrati; lo aveva creduto uno spaccone, uno sbruffone e un incorreggibile rubacuori. Quest'ultima impressione era ancora vera e la sua principale preoccupazione per Austra era che si potesse dimostrare anche volubile. Ma era stato così fedele come loro protettore, così leale, che cominciava a credere che potesse essere meno irresponsabile in questioni di cuore di quanto all'inizio le era sembrato. Se solo avesse sospettato questa cosa
quando si erano incontrati la prima volta... Si rese conto che Elyoner ora stava studiando lei e non più le carte. Il ghigno di sua zia si era allargato. «Che c'è?» «Niente, colombella.» Tornò a guardare le sue carte. «A ogni modo, Austra è sconvolta. E rimasta sveglia tutta la notte a vegliare su di voi; ha accettato di addormentarsi solo quando sono arrivata io. Sir Neil è qua fuori.» «Mi dite cosa è successo tra lui e Fastia?» domandò Anne. Elyoner scosse leggermente il capo. «Niente d'innaturale. Niente di così sbagliato e niente di quello che ciascuno dei due meritava. Fermiamoci a questo, no? Sarebbe molto meglio.» «Io l'ho vista» disse Anne. «Visto chi?» «Fastia. In sogno. È stata lei ad avvisarmi dell'assassino.» «Potrebbe averlo fatto benissimo» disse Elyoner senza mostrare traccia di scetticismo. «Vi ha sempre amato.» «Lo so. Vorrei essere stata più carina con lei l'ultima volta che ci siamo viste.» «L'unico modo per non avere mai quel rimorso è essere carini sempre, tutto il tempo» disse Elyoner. «Non riesco a immaginare quanto sarebbe terribile la mia vita se dovessi viverla in quel modo.» «Ma voi siete carina tutto il tempo, zia Elyoner.» «Bah» replicò lei. Poi spalancò gli occhi: «Ecco, guardate qua! Le carte predicono buone notizie per oggi.» Anne sentì rumore di passi nel corridoio e immediatamente le si drizzarono i peli sulle braccia. «Che succede?» domandò. «Un caro parente viene a portarvi dei doni.» Bussarono alla porta. «Siamo pronti a ricevere visite?» domandò Elyoner. «Chi è?» chiese Anne, con esitazione nella voce. Elyoner fece schioccare la lingua e agitò il dito. «Le carte non dicono molto al riguardo, temo» disse. Anne avvicinò i due lembi della sua vestaglia. «Avanti» esclamò. La porta scricchiolò e un'alta figura maschile apparve sulla soglia. Passarono diversi secondi prima che Anne lo riconoscesse.
«Cugino Artwair!» esclamò. «Salve, piccola sbirciasella» rispose Artwair, avvicinandosi al suo capezzale e prendendole la mano. I suoi occhi grigi erano seri, come sempre, ma lei capì che era molto felice di vederla. Era parecchio tempo che non la chiamavano 'sbirciasela' e le tornò in mente che era stato proprio Artwair a coniare quel soprannome per lei. L'aveva trovata nelle stalle nascosta dietro una pila di selle, quando aveva otto anni. Non riusciva a ricordare da cosa si stesse nascondendo all'epoca, ma il cugino Artwair l'aveva tirata su con le sue mani forti... Allora mise improvvisamente a fuoco una cosa e rimase senza respiro. Ora Artwair aveva una mano sola. Al posto della sua mano destra, c'era solo un moncone fasciato. «Cosa è successo al vostro... Oh, Artwair, perdonatemi, vi prego.» Lui sollevò il moncone, lo guardò e scrollò le spalle. «Non vi preoccupate. Questo è il prezzo di una vita da guerriero. Sono fortunato ad aver perso solo questo. Come posso lamentarmi quando ne ho ancora un'altra, e ho occhi per guardare voi? Tanti dei miei uomini hanno perso tutto.» «Io... io non so neanche da dove cominciare» fece Anne. «Sono successe così tante cose...» «So già parecchio» rispose Artwair. «So di vostro padre e delle vostre sorelle. Elyoner mi ha messo al corrente del resto.» «Ma che mi dite di voi? Dove siete stato?» «Nelle regioni di confine a est della Foresta del Re, a combattere contro...» Fece una pausa. «Cose. All'inizio sembrava importante, ma poi ci siamo accorti che non uscivano veramente dalla foresta. Poi sono venuto a sapere di quello che Robert aveva fatto a Eslen e ho pensato di dare una controllata.» «Mio zio Robert è impazzito, credo» disse Anne. «Ha rinchiuso mia madre. Lo sapevate?» «Sì.» «Ho deciso di fare tutto quello che posso per liberarla e riprendermi il trono.» «Bene» rispose Artwair. «Potrei esservi d'aiuto.» «Sì» disse Anne. «Speravo che lo diceste. Non so molto di come si muove guerra, in realtà, e lo stesso vale per tutti i miei compagni. Ho bisogno di un generale, cugino.» «Sarei onorato di servirvi in questo scopo» rispose Artwair. «Anche un solo uomo può fare la differenza.»
Poi il suo sorriso si allargò e le scompigliò affettuosamente i capelli. «Ovviamente, ho portato anche il mio esercito.» 13 Sonitum Un'alba grigia si riversava sulla valle mentre Stephen e Ehan correvano verso il fiume. I cavalli si dimostrarono indomabili, recalcitranti, e s'impennavano in maniera incontrollabile, perciò dovettero tirarli. La terra tremava sotto gli stivali di Stephen e una paura irragionevole e nauseante minacciava di sopraffarlo. Gli sembrava che tutto fosse troppo forte e luminoso e desiderava dire a chiunque che aveva solo bisogno di riposare, di un giorno più o meno tutto per sé. Anche Ehan era rosso in viso e aveva gli occhi spalancati. Stephen si domandò se era questo ciò che provava un topo di campagna quando avvertiva il verso stridulo dell'aquila, capace di riconoscere il terrore nelle ossa anche senza aver visto il predatore. Continuava a voltarsi e proprio quando giunsero in fondo al frutteto lo vide. Il monastero era stato innalzato su una collina e il suo profilo esuberante si stagliava contro il cielo plumbeo, leggermente patinato d'ambra. Una strana luce viola scintillava in una delle finestre più alte della torre campanaria; Stephen sentì che il viso si scaldava come se fosse stato a guardare il sole. Una nebbia soprannaturale si alzò intorno alla base della struttura e all'inizio pensò che si trattasse di fumo, ma poi la sua acuta vista benedetta riuscì a cogliere i particolari: le luci verdi e sporgenti degli occhi, i denti quando la bocca si aprì, la lunga struttura muscolare del corpo che risaliva la torre zigzagando. Tutto il resto sbiadì: Ehan che lo spronava a proseguire, gli uomini alla base della collina che chiamavano freneticamente, il lontano rintocco dell'orologio. Esisteva solo il mostro. Ma la parola 'mostro' non era quella giusta. Il greffyn era un mostro. L'utin, il nicwer, quelli erano mostri, creature di tempi antichi in qualche modo richiamate in un mondo che si era creduto sano. Ma tutto dentro Stephen gridava che questo... questo era diverso non solo per grado, ma anche per tipologia. Non un mostro, ma un dio, un santo dannato.
Le ginocchia tremarono e si accasciò, e in quel momento gli occhi della creatura si voltarono verso di lui. A una distanza di un quarto di lega i loro sguardi s'incrociarono e Stephen avvertì una sensazione così lontana dalle emozioni umane che il suo corpo non riuscì a contenerla e tanto meno a capirla. «Santi» esclamò Ehan. «Santi, ci sta guardando. Stephen...» Qualunque cosa Ehan stesse per dire fu interrotta da un altro bagliore di luce viola. Stavolta non restò confinata alla sola finestra. Venne rigurgitata invece da ogni parte del grande monastero. Sprigionò una luminosità insopportabile e d'Ef sparì improvvisamente, sostituito da una sfera di luce intollerabile alla vista. Stephen sentì Ehan che esclamava: «Fratrex Pell!» OSSERVAZIONI SUL VERBO VITELLIANO SONITUM Ha un significato molto specifico: 'assordare con un tuono'. Sembra strano che gli Egemoni avessero una parola così particolare; esiste il verbo 'assordare' (ehesedrum) così come anche 'tuono' (tonarus). Lascia intendere che essere resi sordi dal tuono succedeva tanto spesso da richiedere un verbo apposito. Forse in passato c'erano più tuoni? Probabilmente non di tipo naturale. Ma quando scoppiò la guerra tra i santi e gli antichi dèi, probabilmente la situazione dovette rivelarsi piuttosto rumorosa... Il primo picco sonoro portò lacrime di dolore e orrore ai suoi occhi. Poi non sentì più nulla, ma percepì l'onda d'urto contro il suo viso. Quando recuperò gli altri sensi, Stephen afferrò Ehan e lo spinse a terra proprio mentre la seconda onda si abbatteva su di loro, una pioggia orizzontale di pietra e calore che recise i rami superiori degli alberi e rovesciò su di loro cascate di ramoscelli incandescenti. La bocca di Ehan si muoveva, ma non produceva suoni, fatta eccezione per un prolungato e interminabile rintocco della campana più grande del mondo. Sonitum: 'assordare con un tuono'. Sonifed som: 'Sono stato assordato da un tuono'... Stephen si alzò in piedi con cautela, mentre il suo sguardo tornava verso il punto in cui aveva visto il monastero l'ultima volta. Ora vedeva solo una
nuvola di fumo nero. Il primo rimpianto fu per i libri, quei tomi così preziosi, insostituibili. Poi pensò agli uomini che si erano sacrificati e fu attraversato da un brivido per il senso di colpa. Allungò le mani per toccarsi le orecchie, pensando che forse gli erano scoppiati i timpani e chiedendosi se la perdita dell'udito fosse solo temporanea. Lo squillo nella testa era così forte da intontirlo e il mondo che i suoi occhi fissavano sembrava irreale. Gli tornò in mente quando aveva percorso la via dei templi di san Decamnus; era stato privato dei sensi uno alla volta, fino a diventare una semplice presenza che si muoveva nello spazio. Un'altra volta era sembrato morto e, sebbene non riuscisse a vedere niente del mondo dei vivi, aveva continuato a percepirlo e a sentirlo. E ora di nuovo si trovava spinto poco più in là dei confini del mondo come se fosse quella la dimensione a cui apparteneva. Si accigliò, poi si ricordò di quella volta che i suoi amici lo avevano creduto morto. C'era stato un viso, un volto di donna, coi capelli rossi e lineamenti così spaventosi da non riuscire a guardarli. Come aveva potuto dimenticarla? Perché gli tornava in mente proprio adesso? Fu sopraffatto dalle vertigini, cadde di nuovo in ginocchio e cominciò a vomitare. Sentì la mano di Ehan sulla schiena e si vergognò di trovarsi carponi come una bestia, ma non c'era niente che potesse fare al riguardo. Appena il respiro tornò a rallentare e si sentì un po' meglio, si rese conto che la vibrazione era tornata, un tremore sotto le mani e le ginocchia. La sua mente, solitamente molto rapida, ebbe bisogno di un momento per capire quello che il corpo gli stava comunicando. Si rimise in piedi, barcollando e guardò di nuovo verso d'Ef. Continuava a non vedere altro che fumo, ma non importava. Riusciva a percepire che stava arrivando. Qualunque forza spaventosa liberata dal fratrex non era stata sufficiente a uccidere il woorm. Tremando, afferrò Ehan per un braccio e lo spinse verso i cavalli. C'erano altri due uomini lì. Uno era un giovanotto vestito in abiti clericali color arancio bruciato. Aveva un naso grosso e bulboso, gli occhi verdi e orecchie che sarebbero state meglio su una testa più grande. Nell'altro uomo Stephen riconobbe un cacciatore di nome Henne. Era un po' più grande, aveva forse una trentina d'anni, con la faccia abbronzata e i denti rotti. Stephen lo ricordava come un uomo competente, semplice e socievole anche se un po' rozzo.
Al momento erano tutti frastornati dall'aver scoperto di non riuscire a sentire. Stephen richiamò la loro attenzione agitando le mani. Poi mimò di aver sentito la terra, indicando il punto in cui sorgeva d'Ef; scosse il capo, poi indicò i cavalli. L'altro monaco capì subito; immediatamente Henne annuì e montò in sella, facendo segno a tutti di seguirlo. Probabilmente, anche i cavalli erano stati privati dell'udito e sembravano effettivamente meno ombrosi di prima, sebbene molto inclini ad allontanarsi. Una volta in sella, Stephen non riusciva più a sentire il woorm attraverso la terra, ma non aveva dubbi che stava arrivando. Deve seguire l'odore, pensò, come un segugio, o forse usa qualche facoltà che non è mai stata documentata. Avrebbe voluto dargli un'occhiata più attenta. Mentre cavalcavano attraverso una foresta resa misteriosamente silenziosa, si mise a pensare a quale leggenda parlasse di creature simili a quella, ma ricordava per lo più storie di cavalieri che combattevano contro di esse, sconfiggendole con una spada o una lancia. Ora che aveva visto il woorm da lontano, la cosa gli sembrò tanto assurda da essere costretto ad ammettere che se c'era un fondo di realtà in quelle storie, allora parlavano di un parente più piccolo della cosa che lui aveva appena visto. Che altro poteva richiamare alla memoria? Vivevano in caverne o in acque profonde; custodivano tesori; il sangue era velenoso ma poteva paradossalmente infondere poteri soprannaturali in circostanze particolari. Erano molto simili a draghi, ma si diceva che questi ultimi avessero le ali. E i woorm non erano bestie stupide. Si diceva che avessero la facoltà della parola e una mente terribile, astuta e sempre volta al male. Erano considerati stregoni e i testi più antichi che riusciva a ricordare alludevano a una loro speciale relazione con gli Skasloi. Gli tornò in mente anche un disegno del Re degli Alberi che stringeva un serpente cornuto. La scritta diceva... Diceva... Chiuse gli occhi e rivide la pagina. Vincatur Ambiom. Colui che sottomette il woorm. Perciò non doveva far altro che trovare il Re degli Alberi e lui li avrebbe salvati. Stephen scoppiò a ridere a quell'idea, ma nessuno lo sentì. Ehan comunque doveva aver pensato che si sentisse male, perché sembrava più preoccupato che mai; al momento quel pensiero sembrava una vera impresa.
Un'ora più tardi scesero su una pianura di betulle bianche e attraversarono il sentiero battuto della Strada del Re. L'alba si era presentata frizzante e pulita. Lontani dal woorm, i cavalli si erano calmati tanto da lasciarsi cavalcare. Stephen si accorse che stavano andando verso nord, più o meno, parallelamente al fiume Ef, che avrebbe dovuto essere sulla loro destra. Il terreno era diventato più pianeggiante e umido e dopo un po' i cavalli non si trovarono più ad arrancare nell'acqua stagnante. Gli alberi si diradarono, ma felci e stancia crescevano alte fino alla testa, oscurando la visuale al di là dello stretto sentiero che stavano seguendo, che all'occhio di Stephen non sembrava altro che il tragitto scavato da qualche animale. Finalmente Henne li condusse su un terreno leggermente più alto e verso un sentiero all'apparenza molto frequentato. Portò i cavalli al trotto e alternarono l'andatura tra il passo e un ritmo più veloce per circa due ore prima di arrivare quasi all'improvviso a un piccolo grappolo di case. Stephen pensò che non doveva essere un vero e proprio villaggio, quanto piuttosto una specie di fattoria di una famiglia allargata. Era anche chiaramente abbandonata. Il porcile era caduto in rovina, restavano solo i pali di una staccionata di legno grezzo; la casa più grande mostrava dei buchi nel tetto di cedro pieno di crepe. Erbacce secche spuntavano dalla terra dura e c'erano tracce di neve intorno al cortile. Henne continuò a cavalcare per scendere lungo un leggero pendio, verso un ruscello che sembrava troppo piccolo per essere l'Ef. Smontò e si diresse verso una cosa sospesa tra due alberi, coperta da una tela cerata. Per un attimo, quando tirò via il telo, Stephen temette che potesse rivelare un cadavere e che fosse una sepoltura del tipo praticato da alcune tribù di montagna, a quanto aveva sentito dire. In realtà aveva fatto male i conti; era una barca appesa a una corda sui witek al di sopra del livello più alto di marea. Sembrava in buone condizioni ed era grande abbastanza da contenere tutti. Ma non i cavalli. Henne ordinò di smontare selle e finimenti e li fece riporre nella barca. Questo aveva un senso: l'Ef fluiva verso nord, cioè la direzione che loro volevano seguire, ma alla città di Wherthen si sarebbe unito al Mago Bianco e avrebbe deviato a ovest verso Eslen. Avrebbero potuto andare contro corrente da Wherthen se avessero trovato il giusto tipo d'imbarcazione, ma a un certo punto avrebbero dovuto trovare altri cavalli e continuare verso nordest per raggiungere i Bairghs. Sarebbe stato meglio se non avessero
dovuto comprare anche nuovi finimenti. Finito quel lavoro, salirono sull'imbarcazione. Henne si portò al timone e Ehan e l'altro monaco presero i remi. Stephen guardò i cavalli che li fissavano incuriositi quando cominciarono a scendere lungo il fiume. Sperava che fossero abbastanza intelligenti da sparpagliarsi prima di essere raggiunti dal woorm. Diede un colpetto sulla spalla di Ehan e mimò il movimento dei remi, ma quell'omino scosse il capo, indicando invece le borse piene di scrifti e libri. Stephen annuì e si mise a fermarli con uno spago nel caso che la barca si fosse rovesciata. Quando ebbe finito, immerse la mano nell'acqua gelida, non lontana dalle montagne. Gli sembrò di sentire la debole vibrazione causata dal woorm, ma non poteva esserne certo. Mentre guardava la prua della barca che tagliava il fiume, cominciò a cadere qualche fiocco di neve, svanendo senza increspature appena toccava la superficie color mercurio. La cosa sembrava contenere un mondo di significati, ma era troppo stanco, davvero troppo per mettersi a cercarli. Si domandò come stesse Winna. E Aspar. E il povero Ehawk. Aveva gli arti paralizzati; non riusciva a muoversi e fu in grado di aprire gli occhi solo con terribile sforzo. Era nel suo letto, a casa a Cape Chavel, ma era coperto da lenzuola morbide e nere e anche le tende che pendevano intorno erano nere, sebbene trasparenti quel tanto da consentirgli di distinguere la luce soffusa delle candele nella stanza accanto. Si sentiva affondare e diventare più pesante. Sapeva che doveva trattarsi di un sogno, ma non riusciva a interromperlo, così come non riusciva a muovere gli arti o a gridare. Al di là della tenda, qualcosa si mosse: una densa oscurità calò sulle tende, muovendosi intorno al letto; un'ombra a volte umana, a volte indefinibile. Qualcosa di largo e piccolo allo stesso tempo, che poteva essere di tutto. I suoi occhi, l'unica parte del corpo che riusciva a muovere, la seguirono fino a che non si fermò dietro di lui. Non poteva girare la testa per seguirla fin là, ma riusciva a sentire il suo passo pesante, fiutava l'aria che diventava più densa, mentre le tende frusciavano pianissimo e l'ombra piombava sul suo viso. Tutt'a un tratto diventò intensamente consapevole della sua virilità, di un tepore e un formicolio che aumentavano insieme al suo terrore. Era come
se qualcosa lo stesse toccando, qualcosa di morbido. Alzò lo sguardo e la vide. Il suo cuore si dilatò come i polmoni e fu piacevolmente doloroso. Aveva i capelli di un ramato splendente, così luminoso che bruciò attraverso le palpebre quando chiuse gli occhi. Il sorriso era malizioso, sensuale e bello e gli occhi sembravano gemme di un colore intenso, ma sconosciuto. Nell'insieme quel volto era talmente terrificante e glorioso che riuscì a sopportarne la vista per un solo istante. Tutto il corpo prese a tremare per sensazioni nuove mentre lei si poggiava su di lui e la sua carne si scioglieva come burro e miele, eppure continuava a non potersi muovere. Tesoro mio, amato mio, mio caro, sussurrò canticchiando con una voce che non era una voce più di quanto quei lineamenti formassero un viso. Mi riconoscerai. Si svegliò senza respiro, o per lo meno con la sensazione di essere rimasto senza. Regnava un silenzio assoluto. Distinse il viso di Ehan e poi quello di Henne. Era tornato nella barca e ora poteva di nuovo muoversi. E si ricordò di una cosa, una cosa importante. «Che fiume è questo?» domandò, percependo le parole, ma non riuscendo a sentirle. Ehan vide che le labbra si muovevano e, contrariato, si toccò le orecchie. Stephen allora indicò il fiume. Il torrente su cui avevano cominciato a navigare era probabilmente un affluente, ma ora si trovavano su un fiume di una certa portata, delimitato da rive consistenti. «È l'Ef o un affluente?» Ehan si accigliò, poi mimò una parola con le labbra che sembrava dire Ef. Stephen si mise seduto. Quanto aveva dormito? «Siamo vicini a Whitraff?» domandò. «Quanto manca a Whitraff?» Esagerò con la mimica delle labbra, ma l'espressione confusa di Ehan non cambiò. Esasperato, Stephen cominciò a slegare le corde di una delle borse di cuoio ingrassato, annaspando alla ricerca di pergamena e inchiostro. Era stupido sprecare la pergamena in quel modo, ma non riusciva a pensare a un'alternativa. L'inchiostro non era dove credeva che fosse e quando alla fine lo trovò,
le case erano diventate sospettosamente frequenti lungo le rive del fiume. Lavorando disperatamente sulle ginocchia, scarabocchiò il messaggio. C'è un mostro vicino al villaggio di Whitraff, un nicwer. Vive nell'acqua. È molto pericoloso. Passò l'appunto a Ehan. L'omino batté le palpebre, annuì e fece segno a Stephen di prendere il suo remo. Quindi si allontanò verso il timone per parlare con Henne. O probabilmente, gesticolare con lui. Quando mostrò a Henne il messaggio di Stephen, Henne si limitò a scrollare le spalle. Ehan indicò la riva. Dietro la curva del fiume, Stephen vide comparire gli edifici familiari di Whitraff. Aspar, Winna, Ehawk, Leshya e lui erano stati lì meno di due mesi prima e per un pelo erano sopravvissuti alle attenzioni del nicwer. Henne fece virare la barca verso una delle banchine in rovina, dove Ehan cominciò a provare a spiegargli con dei gesti quale fosse il problema. Stephen si mise a fissare attentamente l'acqua in cerca di un indizio della presenza della bestia, ma non trovò nulla. Era difficile discutere a gesti, ma Henne indicò il fiume e poi allargò le braccia di circa un palmo. Poi indicò la direzione dalla quale erano venuti e allargò le braccia al massimo. Dopo qualche altra pantomima, Stephen riuscì a desumere che il succo del discorso di Henne era che qualunque cosa si stesse nascondendo nelle acque che circondavano Whitraff non poteva essere malvagia quanto il woorm e le loro migliori possibilità di sfuggire al woorm erano lungo il fiume. Così, nonostante l'avvertimento di Stephen, qualche istante dopo erano di nuovo al centro del corso d'acqua. Comunque, superarono le rovine di Whitraff senza incidenti. Stephen si domandò ancora una volta dove fossero Winna e Aspar. Erano venuti a cercarlo? Winna avrebbe voluto farlo. Anche Aspar, ma se stava cominciando ad accorgersi dei sentimenti di Stephen per Winna, forse non sarebbe stato così propenso. A ogni modo entrambi erano costretti a fare quello che Anne Dare ordinava e lei aveva bisogno di tutti i pugnali, le spade e gli archi che riusciva a mettere insieme, se voleva riprendersi il trono. Forse Winna lo stava cercando da sola. Dopo tutto si era messa in viaggio da sola per trovare Aspar. Ma d'altronde lei amava Aspar, o almeno credeva di amarlo. A Stephen la cosa sembrava leggermente ridicola. Aspar era più vecchio di due decadi. Lei avrebbe trascorso la sua mezza età ad asciugargli la bava dalla bocca. Le avrebbe mai dato dei figli? Stephen non riusciva a cre-
dere probabile neanche questo. Il guardaboschi era da ammirare per moltissimi aspetti, ma non per quelli che si addicono a un buon marito. Ma anche in questo, Stephen non era tanto meglio, o forse sì? Se davvero avesse amato Winna, avrebbe dovuto cercarla, per il desiderio di starle accanto. Eppure lo desiderava, lo voleva davvero. Ma desiderava ancora di più risolvere i misteri delle lingue e della storia. Ecco perché stava facendo tutto questo; non perché glielo avesse chiesto il fratrex, non perché avesse paura del woorm, e neanche perché credeva di poter impedire che un nuovo orrore si riversasse sul mondo, qualunque cosa esso fosse, ma perché lui doveva conoscere. Non incontrarono il nicwer. Forse era morto per le ferite riportate; o forse aveva semplicemente cominciato a sospettare degli uomini. O forse avvertiva in qualche modo che la sua preda non era in grado di sentire il suo canto mortale. Ma il giorno dopo, quando i pesci cominciarono a galleggiare sulla superficie dell'acqua, Stephen capì che forse il nicwer sapeva aspettare. 14 Consiglio di guerra Anne aveva visto il grande salone di Glenchest parecchie volte. Quando era vuoto, lei e le sue sorelle vi si intrufolavano per divertirsi con l'eco che rimbombava negli angoli scuri e cavernosi del suo alto soffitto a volta. In altre occasioni lo aveva visto pieno di luce, splendere di decorazioni, stipato di signori in completi eleganti e signore in abiti mozzafiato. Ma non l'aveva mai visto pieno di guerrieri. Elyoner aveva fatto portare dentro un tavolo enorme, lungo, e una grossa poltrona a capotavola. Era qui che Anne sedeva adesso, a disagio, mentre guardava le facce intorno a lei, cercando di associare un nome a quelle almeno familiari. Si pentì di non aver prestato maggiore attenzione alla corte del padre, ma adesso non poteva farci niente. Gli uomini, ed erano tutti uomini, tutti e trentadue, la stavano guardando, alcuni fissandola apertamente, altri distogliendo lo sguardo quando credevano che lei li stesse guardando. Ma sapeva che tutti la stavano studiando, mettendo alla prova, cercando di capire qualcosa di lei. Si stava chiedendo cosa dire, quando Artwair si alzò in piedi e s'inchinò.
«Posso, Vostra Maestà?» domandò indicando l'assemblea. «Prego» rispose lei. Lui annuì e poi alzò la voce. «Benvenuti a tutti voi» disse e il mormorio di voci si spense. «Voi tutti mi conoscete. Io sono una persona schietta, non fatta per i lunghi discorsi, specialmente in frangenti come questo. Questo è il momento delle lance non delle parole, ma mi rendo conto che alcune parole vanno dette per mettere insieme le lance. «Ecco a che punto siamo arrivati, almeno per come la vedo io. Meno di un anno fa, il nostro onesto re e imperatore è stato ucciso, così come due delle sue figlie. Ora, non so se sia stata opera di Robert il Malvagio, ma so che Crotheny aveva un re, uno totalmente legittimo e ora sul trono siede un usurpatore. Potrei anche accettarlo, ma questi ha invitato Hansa a farci una visita e le ha offerto la nostra ex regina, Muriele. Sapete tutti cosa significa.» «Forse sì e forse no» gridò un tipo. Era di media corporatura, con un'attaccatura di capelli che si era ritirata a metà della sommità della testa e due occhi blu, impressionanti. «Magari significa solo la pace con Hansa.» «E magari gli avvoltoi si radunano sui cadaveri solo per dare la loro benedizione e porgere i propri ossequi, lord Kenwulf? So che non siete così sciocco, mio signore.» Kenwulf scrollò le spalle con riluttanza. «Chi può sapere cosa ha in mente Robert? Il praifec lo appoggia. Può darsi che sappiamo troppo poco delle sue mire. Forse sembrano malvagie solo perché le osserviamo da lontano. E voi dovete ammettere, senza recare offesa all'arcigrefia Anne, che dovremmo chiedere un sovrano migliore di Charles.» «Credo che capiamo tutti la vostra obiezione riguardo Charles» concordò Artwair. «I santi hanno scelto di toccarlo, e sono sicuro che perfino sua madre riconoscerebbe che il trono non gli si addice. Ma c'è un'altra legittima erede al trono, ed è seduta proprio qui.» La maggior parte degli sguardi si erano spostati su Artwair, ma ora tornarono verso Anne, più penetranti e avidi che mai. Un uomo corpulento con capelli di un rosso acceso e occhi neri si tirò in piedi. «Posso dire una parola al riguardo, lord?» «Certamente, lord Bishop» rispose Artwair. «Re William era riuscito a persuadere il Comven a fare una legge che consentisse a una donna di prendere il trono. Ma questa è una cosa che non
è mai stata fatta veramente prima d'ora. Non è mai stata sperimentata. L'unica ragione per cui è stata considerata quest'evenienza, in realtà, erano le condizioni di Charles. «Per la legge più antica e ben collaudata, se il figlio si dimostrava inadatto al ruolo di re, la corona passava al figlio del figlio, che, ovviamente Charles non ha. Visto che questo non è possibile, la corona passa piuttosto legittimamente a Robert, l'unico erede maschio esistente.» «Sì, sì» lo interruppe irritato un uomo dal colorito giallastro. Anne se lo ricordava come il grefio di Dealward. «Ma lord Bishop, voi trascurate il fatto che noi nutrivamo dei dubbi non solo su Charles, ma anche su Robert. Per quello abbiamo votato in quel modo.» «Sì,» riconobbe Bishop «ma qualcuno ribatterebbe che sarebbe meglio avere un diavolo sul trono che una ragazza inesperta, specialmente di questi tempi.» «In cui i demoni vagano liberamente?» domandò seccamente Artwair. «Così avremmo il male dentro e fuori dalle mura?» L'uomo scrollò le spalle. «Le voci su Robert erano sempre più sconfortanti. Ho perfino sentito dire che non sanguina come gli altri uomini. Ma abbiamo sentito cose anche riguardo Anne. Lo stesso praifec l'ha condannata come strega, essendo il prodotto di un'istruzione all'interno di un coven dedito totalmente al male.» Poi aggiunse: «E le storie che abbiamo sentito sulle sue gesta a Dunmrogh sono... inquietanti.» In quel momento, Anne ebbe la sensazione di trovarsi in una strana posizione, come se stesse osservando da lontano quanto accadeva, da molto lontano. Possibile che parlassero di lei? Possibile che le cose fossero state così distorte? O erano davvero così distorte? Lei era stata in un solo coven, quello di santa Cer. Era vero che la sua istruzione si era basata su alcune materie quali il veleno e l'omicidio. E quelle non erano cose malvagie? E quello che sapeva fare, che aveva fatto, non poteva definirsi stregoneria? E se il praifec aveva ragione e... No. Anne sentì la sua voce dire: «Se desiderate accusarmi di qualcosa, lord Bishop, vi prego di avere la decenza di rivolgervi a me direttamente.» Improvvisamente si sentì di nuovo padrona di sé, e si sporse in avanti dal trono improvvisato. «Forse Virgenya Dare poteva definirsi una strega perché aveva il potere
dei santi?» proseguì. «L'uomo che mi accusa, praifec Hespero... ho una lettera che prova in realtà che era legato a degli uomini di chiesa che prendevano parte ad abominevoli riti pagani durante i quali praticavano crudeli omicidi. Se avete sentito qualcosa su Dunmrogh, saprete che non sono stata io a inchiodare uomini, donne e bambini ai pali di legno per sventrarli. «Non sono stata io a intonare inni sul sangue di innocenti per risvegliare qualche orribile demone. Ma io e i miei compagni abbiamo fermato quel rito perverso. Perciò forse, lord Bishop e tutti voi, be' forse sono una strega. Forse sono malvagia. Ma se è così, allora il bene in questa faccenda non esiste, perché sicuramente il praifec e quegli uomini di chiesa che gli obbediscono non servono i santi benedetti. «E neanche mio zio Robert. Lui consegnerà il nostro paese alle forze più oscure che potete immaginare e lo sapete tutti. Ecco perché siete qui.» Tornò ad appoggiare la schiena alla poltrona e, nel momentaneo silenzio che seguì, sentì vacillare la sua improvvisa sicurezza. Ma poi un altro uomo che riconobbe, Sighbrand Haergild, il margrefio di Dhaerath, ridacchiò ad alta voce. «La signora ha una bella lingua» disse rivolto all'assemblea. Si alzò in piedi, un uomo vecchio e magro che per qualche motivo le fece tornare in mente gli alberi sulle scogliere, querce plasmate dal vento e dagli spruzzi del mare, con un legno duro come il ferro. «Devo ammettere che sono il primo a chiedermi se una donna può essere sovrana» disse. «Mi sono opposto alla campagna di William e alla decisione del Comven. Eppure eccoci qua, è successo. Non capisco tutte queste chiacchiere sulla stregoneria e i santi. L'unico santo di cui mi sono sempre fidato è quello che vive nella mia spada. «Ma ho trascorso tutta la mia vita a fissare Hansa, dall'altra parte del fiume Rugiada, ho sopportato la violenza dei complotti delle terre di confine e non vorrei vedere la moglie di William sposare un Hansan, e non vorrei vedere uno di loro sedere neanche su un vaso da notte dentro Eslen. Robert deve essere sicuramente impazzito per stringere accordi con i Reiksbaurg, e questo mi basta per pensare che William aveva ragione, l'unica speranza per Crotheny risiede in questa ragazza. «Non credo che sia stata una coincidenza che le sue sorelle siano morte lo stesso giorno di William.» Fece vagare lo sguardo per la stanza e nessuno rispose alla sfida. «No, Robert il Malvagio si stava spianando la strada per il trono.»
«Questo non possiamo saperlo» mise in guardia Kenwulf. «Potrebbe essere stata anche lei a organizzare il tutto» disse, e indicò Anne. Quelle parole la colpirono come un fulmine. «Cosa... avete... detto?» riuscì a bisbigliare. «Io no... sto solo dicendo, signora, che per quello che ne sappiamo... non vi sto veramente accusando...» Anne si alzò in piedi, vivamente consapevole dell'improvviso pulsare nelle braccia e nelle gambe. «Ora, guardandovi fisso negli occhi, lord Kenwulf, vi dico che non ho avuto nulla a che fare con la morte dei miei familiari. La sola idea è un'oscenità. Sono stata inseguita dagli stessi assassini per mezzo mondo. Ma ora guardatemi voi negli occhi. Poi fate lo stesso con mio zio e vedete chi è capace di sostenere il vostro sguardo senza battere ciglio.» Percepì una specie di ronzio nelle orecchie e sentì una risata demoniaca sghignazzare da qualche parte dietro di lei. No, pensò. Tutti questi uomini sarebbero bastati a proteggerla? Probabilmente no... Improvvisamente si rese conto di essersi di nuovo seduta e Austra le stava offrendo dell'acqua. Sentiva anche di aver perso qualcosa. Tutti la stavano fissando con espressione preoccupata. «...ferite riportate a Dunmrogh e nel tentativo di omicidio avvenuto qui a Glenchest tre notti fa» stava dicendo Artwair. «È ancora debole e vili calunnie come quelle di lord Kenwulf non le fanno alcun bene, ve lo assicuro.» «Non intendevo...» Kenwulf sospirò. «Vi porgo le mie scuse, Vostra Altezza.» «Accettate» replicò Anne con tono gelido. «Ora che questo è passato,» disse Artwair «torniamo al punto della questione, d'accordo? Lord, margrefio Sighbrand dice la verità, no? «La maggior parte di voi è qui perché è già convinta di quello che dobbiamo fare. Ho molta familiarità con questo tipo di litigi, e ne conosco i motivi. So anche che non abbiamo tempo per queste cose. Che ognuno di voi dica, chiaramente e nella lingua del re, quali vantaggi desidera ricevere da Sua Maestà una volta che sarà stata messa sul trono. Credo che scoprirete correttezza e generosità nel suo modo di trattare gli alleati. Cominciamo con voi, lord Bishop, se siete d'accordo.» Il resto del giorno passò come una Donna Nera per Anne. Comprese molto poco della maggior parte delle richieste; o meglio, le capì, ma non
ne comprese l'importanza. Il grefio di Roghvael, per esempio, chiese una riduzione sulla tassa per il commercio della segale, che Artwair le consigliò di rifiutare concedendogli invece un seggio nel Comven. Il desiderio di lord Bishop era una posizione e un titolo all'interno della famiglia imperiale, di tipo ereditario. Questo lo concesse, ancora una volta su suggerimento di Artwair. E così andò avanti. Quel breve istante in cui si era sentita quasi una regina era sparito ed era di nuovo una ragazzina che non aveva fatto i compiti. Per quello che ne sapeva, era Artwair a fare le veci del re, e dato quello che sua zia le aveva detto riguardo al fidarsi dei parenti, non era una preoccupazione da poco. Ma sapeva anche che da sola non avrebbe mai potuto organizzare una cosa così complicata come una guerra. Il consigliò si sciolse solo perché Artwair dichiarò una pausa per la notte. Elyoner aveva preparato un intrattenimento per gli ospiti, ma Anne lo evitò, mandando Austra in cucina a prendere un po' di brodo e vino e ritirandosi nelle sue stanze. Neil MeqVren andò con lei. «Ci avete capito qualcosa?» gli domandò quando si furono seduti. «Non molto, temo» ammise lui. «La guerra era molto più semplice nel paese da cui provengo.» «Che intendete dire?» «La mia famiglia serviva il barone Fail. Se lui ci diceva di andare a combattere da qualche parte, noi lo facevamo, perché in questo consisteva il nostro compito. Non prevedeva molto altro, grazie al cielo.» «Forse immaginavo che mi sarebbe bastato fare uno di quei discorsi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e sull'onore di combattere per il trono, e che con questo gli uomini si sarebbero subito schierati.» Anne sospirò. Neil sorrise. «Questo potrebbe funzionare per una battaglia. Non per una guerra, credo. E poi, io conosco bene le battaglie. E credo che ve la siate cavata molto bene.» «Ma non abbastanza.» «No, per lo meno non ancora. Una cosa è, credo, chiedere a degli uomini di rischiare la vita. Un'altra è chiedergli di mettere in gioco la famiglia, la terra, le loro aspirazioni, i loro sogni...» «La maggior parte di loro è solo avida, credo.» «Sì, anche questo è vero» convenne Neil. «Ma il fatto è che molto probabilmente perderemo questa guerra e loro lo sanno. Vorrei che la lealtà a
Vostra Maestà potesse bastare a fargli accettare il rischio, ma...» «Ma non è così. Io in realtà sono solo un simbolo per loro, vero?» «Forse» ammise Neil. «Per alcuni. Forse per quasi tutti. Ma se vincete sarete regina di fatto, non solo di nome. In quel caso, potrete anche lasciare che sia Artwair o qualunque altro vostro consigliere a prendere tutte le decisioni importanti. Ma non credo che le cose andranno così. Credo che vi piegherete solo fino a quando riuscirete a sopportarlo.» Anne abbassò lo sguardo sul suo grembo. «Non ho mai desiderato tutto questo, sapete?» disse piano. «Volevo solo esser lasciata in pace.» «Non è una cosa che potete scegliere» disse Neil. «Non più. Non credo che sia mai stato possibile.» «Lo so» replicò Anne. «Mia madre ha provato a spiegarmelo. Ma allora non capivo. E forse ancora non ci riesco, ma sto cominciando a farlo.» Neil annuì. «Già» convenne. «E mi dispiace.» 15 Un'imboscata Winna perse il controllo di sé dopo un'ora nella rewn halafolk. Aspar aveva notato che il suo respiro era diventato sempre più rapido, ma tutt'a un tratto cominciò a soffocare, provando a parlare ma non riuscendo a far uscire le parole. Si sedette pesantemente su una sporgenza di pietra e si riposò, tremando, strofinandosi le spalle e cercando di recuperare il respiro. Non poteva certo biasimarla. La caverna era diventata un ossario, un luogo di morte che faceva impallidire tutto ciò che Aspar aveva visto fino a quel momento. I cadaveri giacevano come argini da una parte e dall'altra di un fiume di sangue ed era facile immaginare cosa fosse successo: il woorm che si trascinava avanti, i laniatori che gli si scagliavano contro da ogni parte, per strappargli la corazza con le mani nude e i denti. Quelli che non erano stati schiacciati al suo passaggio erano morti per il veleno. Ovviamente non erano già tutti morti; qualcuno ancora si muoveva. Aspar e Winna avevano provato ad aiutare i primi, ma erano così chiaramente senza speranza che non poterono far altro che evitarli. La maggior parte non sembrava neanche accorgersi di loro e il sangue usciva a fiotti dalle loro bocche e narici. Dal modo in cui respiravano, Aspar capiva che c'era
qualcosa dentro di loro, nei polmoni, che non andava. Di sicuro era troppo tardi perché la medicina sefry potesse fare effetto. E comunque lui e Winna avevano bisogno di quella che rimaneva. Se si fossero imbattuti in Stephen o Ehawk... «Stephen!» chiamò Aspar nel vuoto. «Ehawk!» Potevano essere ovunque. Ci sarebbero voluti mesi per trovarli se fossero stati tra i cadaveri. Aspar poggiò una mano sulla spalla di Winna. Tremava e biascicava confusamente. «Noi... non...» E poi riprovava. «Andiamo» le disse. «Andiamo Winn; usciamo da questo posto.» Lei sollevò lo sguardo su di lui, con gli occhi pieni di una disperazione più profonda che mai. «Non possiamo uscire» rispose piano. Poi qualcosa sembrò esplodere dentro di lei. «Non possiamo uscire!» gridò. «Non capisci? Non possiamo uscire! Siamo stati qua! Siamo già stati qua e diventa sempre peggio, ogni cosa, siamo... non siamo...» Le parole si spensero in un lamento incoerente. Aspar le strinse le spalle, sapendo che tutto quello che poteva fare era aspettare che passasse. Se passava. Sospirando si mise a sedere accanto a lei. «Sono già stato in questa rewn» disse, senza essere sicuro che Winna lo stesse ascoltando. «Non dobbiamo camminare ancora molto per arrivare alla città. Potremmo... lì dovrebbe essere più pulito. Potresti riposare.» Lei non rispose: Digrignava i denti e teneva gli occhi chiusi, stretti, e il respiro faceva ancora a gara con il battito del suo cuore. «Basta» disse Aspar. La tirò su. Lei non fece resistenza, ma sprofondò la testa nella curva del suo stesso gomito e pianse. Aspar esitò un attimo, combattuto tra il proseguire e il tornare indietro, ma poi improvvisamente capì quanto fosse stato stupido a seguire Fend e un woorm, portandosi dietro Winna. Vero, avrebbe potuto nasconderla nella città sefry, ma quello era probabilmente proprio il posto in cui Fend e il suo cucciolo si erano fermati. Con la fortuna che aveva, nel momento esatto in cui si fosse messo in viaggio per cercarli, Fend si sarebbe intrufolato da dietro e sarebbe di nuovo scappato con Winna. Perciò riprese la strada dalla quale erano venuti.
Il woorm era entrato nella rewn; poi era uscito. Aspar conosceva solo tre entrate per quella rewn: questa, un'altra a parecchie leghe più a nord e una terza subito sopra la cima successiva. E improvvisamente partorì un piano che aveva un senso. Quando uscì dalla caverna, i cavalli stavano ancora lì fuori, ed erano vivi. Mise Winna su Capitombolo, si assicurò che fosse abbastanza in sé per restare in sella e poi montò su Orco! Presero la strada tortuosa che saliva sul fianco della collina. Dopo mezza lega, sentì che respirava con minor fatica e iniziò a sudare, nonostante facesse molto freddo. L'andatura aumentò e all'inizio credette che fosse dovuto solo al fatto che si era allontanato dalla scia di veleno del woorm. Poi capì che era qualcosa di più. Era di nuovo circondato da vita, da linfa che correva lenta, ma che non era morta. Gli scoiattoli scorrazzavano sui rami sopra di loro e uno stormo di anatre cantava con voce flautata in alto nel cielo. Lui le guardò, sorridendo senza volerlo, ma sentì un leggero brivido quando quelle improvvisamente cambiarono direzione. «Eccoci qua» disse, spronando Orco su per il pendio nella direzione che le anatre avevano evitato. «È lì, proprio come avevo immaginato.» Due ore dopo, poco prima del tramonto, raggiunsero la cima della dorsale. Winna si era calmata e Aspar la fece scendere e poi l'adagiò tra le radici di un grande albero. Con riluttanza lasciò le selle sui cavalli, perché per quanto ne sapeva da un momento all'altro avrebbero potuto trovarsi nella necessità di fuggire. Poteva un cavallo correre più veloce di un woorm? Forse per un po'. «Winna!» S'inginocchiò e le mise un'altra coperta. «Mi dispiace» bisbigliò lei. La voce era debole e non comunicava nulla di buono, ma bastò a sgomberare il cuore di Aspar dalla sua più grande paura: quella che Winna avesse perso la ragione. Aveva visto accadere cose come questa; una volta aveva salvato un ragazzo la cui famiglia era stata massacrata dal Wargh Nero. Aveva affidato il ragazzo alle cure di una vedova a Walker's Bailey. Lei aveva provato a occuparsene, ma lui non aveva mai parlato per due anni e poi si era suicidato affogandosi nel torrente del mulino. «Queste sono cose orribili e incomprensibili» le disse Aspar. «Sarei più preoccupato se non ti avessero turbato.» «Ero più che turbata» replicò lei. «Ero così... inutile.»
«Sst. Ascolta! Ho intenzione di arrampicarmi per avere una vista migliore. Tu rimani qua, guarda Orco. Se arriva qualcosa, lui se ne accorgerà prima di te. Ce la puoi fare?» «Sì» disse Winna. «Ce la faccio.» Aspar la baciò e lei rispose con una specie di fame disperata. Lui sapeva che avrebbe dovuto dirle qualcosa, ma niente sembrava appropriato. «Non andrò molto lontano» furono le uniche parole che decise di pronunciare. Per sua decisione si erano portati su una parte della dorsale troppo rocciosa, che non supportava la presenza di molti alberi. Come torre di avvistamento scelse uno spino di Giuda appollaiato sul bordo di una piattaforma di breccia. Da lì sarebbe stato in grado di vedere questa nuova entrata della rewn. Sebbene non riuscisse a individuarla, era abbastanza vicino da vedere il mostruoso serpente se avesse fatto la sua comparsa. Guardando dall'altra parte aveva una vista ancora migliore. Il fiume Ef serpeggiava in una graziosa valle movimentata da pascoli e frutteti. Su un colle, a circa una lega di distanza, individuò la torre campanaria del monastero verso cui era diretto Stephen quando si erano incontrati per la prima volta. L'ultima volta che Aspar era stato lì, era ferito e in parte privo della ragione, e se non fosse stato per Stephen sarebbe morto. Al momento la valle sembrava tranquilla alla luce del crepuscolo, avvolta da una leggera foschia che avanzava lentamente tra le ordinate file di meli, che aspettavano il bacio della primavera per sbocciare. Dov'era Stephen adesso? Probabilmente era morto da quando era sparito con i laniatori. Ehawk... era morto anche lui probabilmente. Avrebbe dovuto sentire qualcosa, aveva sentito qualcosa quando aveva visto cadere i due ragazzi. Ma il cuore si era indurito e l'unica emozione che riconosceva era la rabbia. Questa è una buona cosa, pensò. La notte colò tra le nuvole e appena il mondo noto ai suoi occhi sbiadì, profumi e suoni divennero più intensi. I rumori dell'inverno erano pochi: il grido acuto e agghiacciante di un assiolo, il vento che restava impigliato tra i rami scarni, lo strascichio di piccoli artigli sulla corteccia. L'olfatto era il senso più vigile: foglie immerse in pozze d'acqua fredda, l'odore della decomposizione rallentato dal gelo, il profumo d'erba proveniente dal letame di mucca nei pascoli in basso e il fumo di hickory e vec-
chi meli che bruciavano giù nella valle, witek tarlato quando il vento soffiava dalle Regioni Centrali, e qualcosa di più vicino, quercia, sì, ma riusciva anche a distinguere l'odore di menta del sassofrasso, del sommacco, e dei mirtilli: piante nascoste dai rami più alti. E frasche di pino. Tese l'orecchio e sentì il debole crepitio e scoppiettio del fuoco. Veniva da sotto, non molto lontano da lì. Si allontanò dall'albero con la paura di respirare. Se ci fosse stato un monaco lì sotto, uno che avesse percorso la stessa via dei templi di Stephen... In quel caso probabilmente lo avrebbero già sentito. L'ordine di Mamres, da cui proveniva la maggior parte dei loro nemici ecclesiastici, combatteva come un disperato, ma non aveva sensi più sviluppati dei suoi. Erano quelli che avevano percorso sia la via dei templi di Decamnus che quella di Mamres che rappresentavano il pericolo maggiore. Trovò Winna che dormiva e ancora una volta ebbe un momento d'indecisione, ma la paura di lasciarla incustodita fu soppiantata dalla necessità di sapere chi c'era sotto alla collina. E poi Orco era ancora lì; avrebbe per lo meno fatto un po' di confusione, anche nelle sue deboli condizioni, se si fosse presentato qualcuno. Aspar cominciò la sua lenta discesa lungo il pendio, poggiando mani e piedi tra arbusti e alberelli che si attaccavano alla roccia e alla terra poco profonda. Non aveva fretta; aveva tutta la notte. Era una fortuna, perché doveva muoversi seguendo l'istinto e i sensi. Calcolò che dovevano essere passate due o tre ore dopo mezzanotte quando alla fine vide il riflesso della luce arancione sul tronco di un albero più in basso. Non riusciva a vedere la fiamma, ma poteva intuire dove fosse. Sapeva di essere troppo a est, perché una ripida discesa gli aveva impedito di mantenere la direzione che voleva. Perciò a fatica risalì verso ovest. Il riflesso della luce adesso era sparito, ma sapeva dove andare e poco prima del sorgere del sole ci arrivò. Ormai il fuoco era ridotto per lo più a brace, con qualche fiammella qua e là. Aspar vide che c'era qualcuno seduto e un altro sdraiato in terra, ma non riuscì a distinguere altro. Il campo era a circa dodici iarde più in basso, al riparo in una lunga cavità rocciosa. Sarebbe stato in grado di scoccare un buon tiro contro di loro? L'angolazione non era delle migliori. Le nuvole erano sparite, ma non c'era luna, solo le luci lontane e inutili
delle stelle. Forse quando il sole gli avrebbe fatto riaprire gli occhi, Aspar sarebbe riuscito a trovare una posizione migliore. Si appostò e attese, sperando che Winna non si svegliasse e non si facesse prendere dal panico. Non credeva che l'avrebbe fatto, ma dopo quanto aveva visto quello stesso giorno... La terra sotto di lui aveva cominciato a rimbombare. Sentì una pietra che si spaccava e poi, tutt'a un tratto una frana prese a scivolare giù per il pendio. Non era vicino, ma neanche molto lontano. Improvvisamente sentì il respiro affannato e rumoroso e il fetore debole, nauseante dell'alito della creatura. Come aveva immaginato, il woorm era entrato nella rewn e ora stava uscendo sul versante della collina verso l'Ef. Questo significava che si trovava a circa un quarto di lega alla sua sinistra. Ancora non riusciva a vederlo, ma lo sentiva bene mentre scendeva lungo il pendio verso valle. «Eccolo» disse una voce maschile non familiare. Aveva un bizzarro accento settentrionale. «Te l'avevo detto» ribatté un secondo uomo. Quella voce non era affatto sconosciuta. Era Fend, come Aspar in fondo si aspettava. Dopo tutto, non c'erano problemi a cavalcare un woorm all'aperto, ma quando il tuo destriero scavava un buco in una caverna non era molto piacevole stargli sopra. Né sarebbe stato sicuro cavalcarlo in mezzo a un mare di laniatori ostili. No, Fend era più furbo. Il woorm adesso si stava allontanando da lui. Fend era proprio lì sotto. Procedere con ordine. Aspar cercò una sporgenza, un ramo, qualcosa che gli offrisse la prospettiva giusta per un colpo sicuro. Con grande felicità, trovò inaspettatamente una roccia. Con cautela, molta cautela, si calò a terra pancia in sotto, poi sistemò una freccia sulla corda. «Dovremmo seguirlo?» domandò la voce sconosciuta. Fend emise una breve risata. «I Revesturi non fuggiranno tutti. Alcuni combatteranno.» «Contro il waurm?» «Ricordati chi sono. I Revesturi conoscono alcune vie dei templi antichissime e dei sacaum molto potenti. È vero che nessuno di loro è probabilmente in grado di uccidere il nostro amato cucciolo, ma pensa al tipo di sacaum che potrebbero usare nel tentativo.» «Ah. Perciò ancora una volta è meglio che ci teniamo lontani.»
«Precisamente. Se tutto va bene, la creatura ucciderà i Revesturi e se il giovane Darige è là, ce lo porterà. Ma se i preti hanno qualche sorpresa in serbo...» Aspar rimase paralizzato quando sentì parlare di Stephen. «E se Darige viene ucciso nel processo?» «Lo vogliono vivo esattamente quanto noi» rispose Fend. «Ma se succede, succede.» «Lui non apprezzerà.» «No, sarebbe sicuramente uno scacco. Ma solo uno scacco.» Aspar ascoltò attentamente, col desiderio di non perdere neanche una parola. Perché Fend doveva seguire Stephen? Come poteva un mostro quale il woorm 'portarglielo'? In bocca? Chi erano i Revesturi, per il Malvagio e per chi lavorava Fend? Una delle due figure attizzò il fuoco che subito diventò più vivo, fornendo la luce necessaria ad Aspar per localizzare il viso di Fend. Prese la mira con la freccia, rallentando e controllando il respiro. Era un tiro che poteva fare, non aveva dubbi. E Fend finalmente sarebbe morto. C'era il rischio che la morte di Fend lasciasse alcune domande senza risposta, ma doveva correrlo. Chiunque fosse il tipo che lo accompagnava, sembrava conoscere il loro capo. Con una seconda freccia lo avrebbe ferito, ma non ucciso, così gli avrebbe potuto fornire le risposte. Allora Aspar avrebbe preso l'antidoto e avrebbe curato sé stesso, Winna e i cavalli. Appena il woorm fosse tornato, avrebbe usato la freccia della Chiesa. E forse con la creatura sarebbe arrivato anche Stephen. Tirò la corda. Qualcosa s'illuminò all'angolo del suo campo visivo, una luce viola. Anche Fend la vide e si raddrizzò. Tutto diventò bianco mentre Aspar lasciava la corda. Di riflesso chiuse gli occhi e sentì Fend gridare di dolore. Provò ad aprire gli occhi per vedere... Qualcosa colpì la montagna come un pugno. Aspar provò una sensazione strana nella pancia e improvvisamente realizzò che la roccia su cui era sdraiato stava scivolando. E lui stava precipitando. Agitò le braccia in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi, ma non c'era niente, e precipitò per la durata di un intero respiro prima di colpire qualcosa che si piegò, si spezzò e lo fece continuare a cadere fino a che sbatté violentemente contro un macigno.
Riaprì gli occhi senza sapere per quanto tempo li aveva tenuti chiusi. Sentiva in bocca un sapore di polvere e aveva gli occhi pieni di terra. Le orecchie ronzavano come se un fulmine avesse buttato giù un albero a una iarda di distanza. Lui si stava fissando una mano, illuminata da una debole luce. Qualcuno nelle vicinanze stava gridando. Ecco cosa lo aveva svegliato. Sollevò la testa, ma non vide altro che un caos di piante distrutte. Sentiva dolore dappertutto, ma non sapeva se aveva qualcosa di rotto. Il grido si ridusse a un affanno concitato. Sentì la voce sconosciuta che diceva: «Ti ha preso. Stai perdendo molto sangue.» «Tieni gli occhi aperti» ordinò brevemente la voce di Fend. «Quello era Aspar. Ne sono maledettamente sicuro, e non riuscirai mai a sentirlo arrivare, non dopo quello che è successo.» Aspar si concesse un ghigno tirato. Aveva perso l'arco nel cadere, ma aveva ancora il pugnale e l'ascia. Con una smorfia, si alzò in piedi. Quella mossa gli provocò un attacco di vertigini che quasi lo costrinse a sedersi di nuovo, ma aspettò che passasse, respirando più profondamente che poté. Fend aveva ragione; lui sentiva le voci, a malapena, ma lo scampanio nelle orecchie avrebbe coperto i piccoli rumori prodotti da qualcuno che avesse provato a prenderlo alle spalle. Dove si trovavano ora esattamente? Fece un passo verso quella che gli sembrava la direzione giusta e per un attimo credette di aver intravisto qualcuno davanti a sé, ma la luce era ancora fioca. Stava cominciando ad avvicinarsi quando qualcuno lo prese da dietro e gli mise un braccio sulla faccia. Lui grugnì e provò ad allontanarlo, ma aveva già perso l'equilibrio e cadde piuttosto pesantemente faccia a terra. Si dimenò dando calci, vagamente consapevole del fatto che la terra stava tremando e poi comparve un viso. Era una faccia familiare, ma non quella di Fend. Ehawk. Il ragazzo si portò un dito alle labbra e indicò. A quattro iarde di distanza, un'enorme parete di squame strusciava tra gli alberi. Parte terza Il libro del ritorno
Niente viene mai distrutto, sebbene possa mutare. Alcune cose possono andare perdute per lungo tempo, è vero, ma le acque sotterranee alla fine le riporteranno a casa. Dal Ghrand Atehz, o Libro del ritorno, anonimo Ogni tempio che ho visitato mi ha privato di uno dei sensi: l'olfatto, l'udito, la vista, il tatto e alla fine me stesso. Ma poi tutto è tornato, e più intenso, molto di più. Da Il codex tereminnam, anonimo 1 Labirinto Alis voleva infilzare l'uomo alla spina dorsale, proprio sotto la nuca, ma i piedi intorpiditi dalla fatica scivolarono sulla pietra viscida e la punta del pugnale s'infilò invece all'altezza della clavicola. L'uomo gridò e si girò. Lei ebbe giusto la prontezza di schivare le braccia che si agitavano, ma il suo stivale la prese agli stinchi e Alis rimase senza fiato mentre il dolore le fece esplodere dei lampi negli occhi; indietreggiò barcollando verso la parete. Lui non aveva lasciato cadere la sua lanterna perciò si scrutarono negli occhi alla luce sanguigna che questa emanava. Era un uomo grosso, superava i sei piedi d'altezza, tutto vestito di nero, uno dei Vaganotte dell'usurpatore. Il viso era stranamente femmineo per un tipo così grosso, con un mento affusolato e le guance tonde. «Cagna» ringhiò, tirando fuori il proprio coltello. Dietro di lui una ragazza, che poteva avere undici anni, stava rannicchiata contro la parete. Alis provò a evocare l'ombra; a volte era facile, come far schioccare le dita dentro la testa, e altre era molto difficile, specialmente quando qualcuno l'aveva già vista. Non arrivò subito, e lei non aveva tempo da dedicare all'impresa. Perciò fece uscire tutta l'aria dai polmoni e incurvò le spalle, lasciò cadere la mano col pugnale al suo fianco.
L'uomo a sua volta si rilassò per un attimo e allora con la forza che le restava, Alis attaccò, lanciandosi dal muro e colpendolo al viso con la mano sinistra, vuota. Avvertì una sensazione fluttuante, di separazione mentre affondava il pugnale nel fianco sinistro dell'uomo, infilandolo ed estraendolo più volte. Lui gridò di nuovo e un pugno la colpì alla testa, ma Alis continuò a spingere e tirare fuori il coltello fino a che la mano non cominciò a scivolare per colpa del sangue e non fu più in grado di mantenere la presa sull'arma. Allora si allontanò, ansimando e sentì qualcosa che le strizzava stranamente l'interno del braccio. Realizzò che questo le faceva male, che anche lei era stata ferita. Si allontanò di nuovo nell'ombra. Nonostante le ferite, l'uomo non si fermò. La seguì zoppicando e lei si mise a correre, intuendo la strada nell'oscurità fino a che raggiunse l'imboccatura del tunnel. Vi si tuffò, sentendo solo il gemito del proprio respiro, poi tirò con forza la gonna, cercando di strapparne un pezzo da legarsi intorno al braccio. Non riuscì a lacerarla, perciò si limitò a spingere la mano sulla ferita e ad aspettare. Riusciva ancora a distinguere il chiarore del fuoco dietro l'angolo; lui era lì che aspettava. Aveva bisogno di quel coltello per tagliare una striscia di tessuto. Non poteva aspettare ancora a lungo perché altrimenti avrebbe perso così tanto sangue che non sarebbe stata in grado di fare niente. Imprecando a bassa voce, si alzò vacillando e prese a tornare indietro a piccoli passi verso la luce. L'uomo stava disteso faccia a terra e qualcosa di quella posizione le fece capire che non stava fingendo. La lampada era caduta, ma non si era rotta; era poggiata su un lato e gocciolava, stava per spegnersi. Alis la raddrizzò. L'uomo aveva anche lasciato cadere il pugnale mentre quello di lei ancora gli spuntava dalle costole. Cercando di non svenire, Alis prese il pugnale del nemico e glielo conficcò con precisione nella spina dorsale, come aveva voluto fare prima. Al che udì un sospiro dietro alle scale. Poi un piagnucolio. La ragazza. Se ne era dimenticata. «State ferma» ordinò Alis secca. «Rimanete dove siete o vi uccido come ho ucciso lui.» La ragazza non rispose; continuò semplicemente a frignare. Alis tagliò un pezzo di stoffa dalla gonna, lo usò come laccio emostatico e poi si sedette per riprendere fiato e ascoltare. Chissà se qualcuno aveva
sentito urlare il Vaganotte. Se anche fosse sarebbero riusciti a stabilire da dove proveniva il grido? Alla fine sì. Questo significava che doveva tornare indietro nei passaggi, in quelli che gli uomini non riuscivano a ricordare. Sarebbe stato difficile per loro seguirla lì. «Ragazza, ascoltatemi» disse. Un viso spuntò da un mucchio di stracci grigi. «Non voglio morire» disse piano. «Fate quello che vi dico e vi prometto che vivrete» rispose Alis. «Ma voi l'avete ucciso.» «Sì. Volete ascoltarmi?» Una breve pausa. «Sì.» «Bene. Avete cibo? Acqua? Vino?» «Reck ha un po' di cibo, credo. Prima aveva del pane. E anche vino, credo.» «Allora prendetelo. Insieme a tutto quello che porta con sé. Ma non provate a scappare. Sapete che i pugnali si possono anche lanciare?» «L'ho visto fare una volta a un uomo per la strada, spaccò a metà una mela.» «Io so fare meglio di così. Se provate a scappare, v'infilerò questo proprio in mezzo alla schiena. Capito?» «Sì.» «Come vi chiamate?» «Ellen.» «Ellen, fate come vi ho chiesto. Prendete quelle cose e portatemele.» Guardò la ragazza che si avvicinava al cadavere. Quando lo toccò, cominciò a piangere. «Vi piaceva?» domandò Alis. «No. Era cattivo. Ma non ho mai visto un morto.» E io non ho mai ucciso nessuno prima d'ora, pensò Alis. Nonostante la sua istruzione, la cosa ancora non le sembrava vera. «Ellen, tutte le guardie hanno con sé delle ragazze?» «No, signora. Solo i Vaganotte.» «E cosa fate insieme a loro esattamente?» La ragazza esitò. «Ellen!» «Il re dice che ci sono dei passaggi segreti qua sotto, gallerie che solo le
ragazze riescono a vedere. Noi dobbiamo trovarle per lui. Gli uomini devono proteggerci.» «Proteggervi da me?» domandò Alis, simulando un piccolo sorriso. Gli occhi di Ellen si accesero di terrore. «N-no» balbettò lei. «Il re ha detto che c'è un assassino che vaga nelle prigioni. Un uomo. Un grosso uomo.» Ellen aveva lavorato mentre parlava e aveva raccolto un mucchietto di cose. Le tirò su ma sembrava meno propensa ad avvicinarsi ad Alis che al cadavere, e aveva ragione. «Ecco» disse Alis. «Brava.» «Vi prego» bisbigliò Ellen. «Non parlerò.» Alis indurì il suo cuore. L'unico vantaggio che aveva era la convinzione di Robert che lei fosse morta. Se la ragazza la descriveva o se, ancora peggio, l'aveva riconosciuta, quel vantaggio sarebbe sparito. Rafforzò la stretta sul pugnale. «Venite qua» le disse Alis. Sbattendo le ciglia per far cadere le lacrime, la ragazza si avvicinò. «Fate presto, vi prego» disse Ellen, con un filo di voce così basso che Alis a malapena riuscì a sentirla. La guardò negli occhi, immaginò la vita che li abbandonava e sospirò. Le strinse la spalla e sentì che tremava. «Mantenete la vostra promessa, Ellen» disse. «Non dite a nessuno che mi avete visto. Dite semplicemente che si è allontanato per rispondere ai suoi bisogni naturali e che poi l'avete trovato morto. Giuro su tutti i santi che è la cosa più giusta da fare.» Il viso di Ellen s'illuminò di una speranza sospettosa. «Non mi lancerete contro quel coltello, vero?» «No. Ditemi solo come siete entrati nelle prigioni.» «Dalla scala della Torre Arn.» «Bene» bisbigliò Alis. «È ancora sorvegliata?» «Da dieci uomini» confermò Ellen. «C'è qualcos'altro che sapete e che potrebbe essermi d'aiuto?» La ragazza ci pensò su un attimo. «Stanno murando le prigioni» disse. Alis annuì stancamente. Già sapeva anche quello. «Andate» le disse Alis. «Ritrovate la via d'uscita.» Ellen si alzò e fece qualche passo, tremando, poi si mise a correre. Alis sentì i passi veloci che si allontanavano con la consapevolezza che avrebbe dovuto uccidere la ragazza, ma felice di non averlo fatto. Poi rivolse la sua attenzione alle cose del Vaganotte.
Non aveva molto con sé; dopo tutto non era sceso là sotto per restarci. Era stato più per fortuna che altro che avesse con sé un fazzoletto con dentro un pezzo di pane duro e una fortuna ancora maggiore che avesse portato un otre di vino. Lei prese quegli articoli, il pugnale, una cinghia di cuoio dalla bandoliera, la lampada e il suo acciarino. Alis mangiò un po' di pane e bevve un goccio di vino, poi si tirò su e tornò alla relativa sicurezza degli antichi passaggi. Quando capì di essersi allontanata abbastanza, si fermò e si fasciò di nuovo il braccio. La ferita non era così seria come temeva; il coltello si era infilato tra le due ossa dell'avambraccio ed era rimasto lì fino a quando lei non lo aveva estratto. Per quello lui non aveva potuto pugnalarla più volte, né aveva potuto girarle il coltello nella ferita. Sì, quello era stato, tutto sommato, un giorno fortunato. O una notte. Non aveva la più pallida idea di che ora fosse. Calcolò che erano passati più di nove giorni da quando era rimasta intrappolata lì dentro. Ma poteva essere trascorso anche più del doppio del tempo da quando era andata a liberare Leovigild Ackenzal. Forse era stato un bene che lui si fosse rifiutato di seguirla. Nell'uscire dalle prigioni aveva scoperto che il passaggio era ben sorvegliato. Non era un buon segno, perché significava che avevano scoperto la sua presenza, e quella era l'unica strada sicura che conosceva per uscire. Eppure, il labirinto di passaggi chiari e oscuri era così complicato che doveva esserci un'altra uscita. Si domandò come avessero fatto a scoprire che era entrata nelle segrete, ma il principe Robert non era uno stupido. E grazie alla sua... condizione... era capace di ricordare i passaggi segreti. Doveva aver dislocato delle guardie o predisposto una specie d'allarme. Probabilmente Hespero o qualche altro uomo di chiesa lo aveva aiutato, ma poteva anche essere stato un semplice espediente come un po' di farina per terra, per rivelare le sue tracce. Si era mossa nel buio, dopo tutto, e non avrebbe potuto accorgersene. Nel corso degli ultimi nove giorni l'usurpatore si era messo a scovare i passaggi e a murarli. Le segrete tremavano per il lavoro degli ingegneri reali che scavavano e demolivano. Erano molti i passaggi che non era riuscito a trovare, ma tutti quelli sembravano ricondurre solo alle segrete. E queste le stavano sistematicamente riempiendo e murando, almeno le sezioni che potevano consentire un accesso al castello. Un'intera area, con tutti i prigionieri, era già stata
sigillata. Quelli intrappolati lì dentro non erano ancora morti; a volte riusciva a sentirli implorare per un po' di cibo e acqua. Il loro lamento però andava indebolendosi. Si domandò cosa avessero fatto innanzi tutto per finire in prigione e poi si chiese se meritavano quel destino. Sentendosi leggermente meglio dopo che ebbe messo un pò di cibo nello stomaco, si diresse di nuovo nella zona più profonda. C'era un'area delle segrete che aveva voluto evitare, sperando inutilmente di non doverla affrontare, sebbene fosse l'unico posto che Robert non avrebbe osato chiudere completamente. Ma ormai non poteva più piegarsi a quella paura; il cibo che aveva appena rimediato era probabilmente l'ultimo che sarebbe riuscita a trovare. Che Ellen parlasse o no, un Vaganotte era morto, e senza dubbio Robert avrebbe aumentato il numero delle sentinelle. Finora era sopravvissuta procurandosi qualche avanzo dai prigionieri e aveva trovato una fonte d'acqua dolce fino a due giorni prima, quando i muri l'avevano bloccata. Ora l'unica acqua a cui aveva accesso era sporca e infetta. Sapeva che mischiandoci il vino sarebbe riuscita a berla per un po', ma il vino le sarebbe bastato solo per qualche altro giorno al massimo. Sarebbe stata sempre più debole. Perciò si diresse verso il luogo da cui proveniva il bisbiglio. Non era come la voce dei prigionieri. Dapprima aveva pensato che si trattasse dei suoi stessi pensieri che le parlavano, un segno che stava impazzendo. La voce non aveva senso, per lo meno non produceva parole, ma quello che diceva era denso di immagini e sensazioni che non si addicevano alla mente umana. Ma poi le tornò in mente una visita nelle segrete insieme a Muriele e capì che la voce che sentiva era quella del Prigioniero. Il Prigioniero era così chiamato per evitare di pronunciare il suo vero nome: l'ultimo superstite della razza dei demoni che resero schiavi gli Uomini e i Sefry, l'ultimo degli Skasloi. Man mano che Alis si avvicinava al suo dominio, il bisbiglio aumentava d'intensità e le immagini si facevano più intense e gli odori più penetranti. Sentì che le sue dita erano diventate come artigli e quando poggiò la mano alla parete, le sembrò che raschiasse ruvida come fosse diventata di pietra o metallo. Avvertì un odore di pere marce e zolfo, intravide immagini luminose di paesaggi d'alberi squamosi senza foglie e un sole enorme e strano, una fortezza nera vicina al mare così antica che le sue mura e torri erano rovinate dalle intemperie come una montagna. Il suo stesso corpo sembrava a volte piccolo a volte gigantesco.
Sono io, insisteva silenziosamente. Alis Berrye. Mio padre era Walis Berrye; mia madre era Wenefred Vicars da nubile... Ma la sua fanciullezza sembrava estremamente lontana. A fatica si ricordò della casa, un edificio irregolare, tenuto così male che alcune stanze avevano il pavimento in rovina. Quando provava a immaginarla però vedeva solo un labirinto di pietra. Il viso della madre era una macchia contornata da capelli biondissimi. Il ricordo di suo padre era ancora più indistinto, sebbene fosse passato solo un anno da quando l'aveva visto l'ultima volta. La sorella maggiore, Rowyne, aveva gli occhi celesti, come lei, e mani ruvide che le accarezzavano i capelli. Aveva cinque anni, quando la donna vestita di nero era venuta per portarla via, dopodiché erano passati dieci anni prima che potesse rivedere i suoi genitori e questo successe quando la portarono a Eslen. Anche in quel caso non sapevano la verità, e cioè che gli era stata riconsegnata perché il re la notasse e la prendesse come sua amante. Sua madre era morta l'anno seguente e suo padre era venuto a trovarla due anni dopo, nella speranza che Alis potesse persuadere il re a concedergli dei fondi per prosciugare la palude putrida che aveva invaso gran parte della terra del cantone una volta coltivabile. William gli aveva dato soldi e un ingegnere e quella era stata l'ultima volta che Alis aveva visto qualcuno della sua famiglia. Sorella Margery col suo sorriso storto e i capelli rossi e ricci; sorella Grene col suo nasone e gli occhi grandi; la maestra più anziana Cathmay, dai capelli grigi e dritti come spago, e occhi capaci di vedere dentro ogni cosa; erano state loro la sua famiglia. Tutte morte adesso, disse la voce sarcastica. Morte per sempre. Eppure la morte non è più così lontana... Improvvisamente Alis ebbe la sensazione di galleggiare e le ci volle un secondo per capire che stava precipitando, così tante e strane erano le sensazioni che quella voce emanava. Allargò le braccia e le gambe nel disperato tentativo di trovare un appiglio. Incredibilmente lo trovò, perché il palmo delle mani toccò il muro prima che le braccia arrivassero a distendersi completamente. Un dolore lancinante si propagò su per le braccia come se stessero cercando di strapparsi dalle spalle e l'agonia della ferita le tirò fuori un grido. Poi riprese a cadere, mentre le ginocchia e i gomiti grattavano contro le pareti del cunicolo fino a che una luce si sprigionò dalle piante dei piedi e l'attraversò
tutta, strappandola completamente via dal corpo e catapultandola nell'aria nera sovrastante. Un canto la riportò in sé, una cantilena roca, aspra, in una lingua che non conosceva. Aveva la faccia pigiata contro un pavimento umido e irregolare. Quando la sollevò, una fitta le attraversò il cranio e percorse tutta la spina dorsale. «Oh!» esclamò. Il canto s'interruppe. «Alis?» domandò una voce. «Chi è?» rispose lei, toccandosi la testa. Era appiccicosa e scoprì un taglio all'attaccatura dei capelli. Nessuna delle ossa sembrava rotta. «Sono io, Lo Videicho» rispose la voce. Era buio pesto e le pareti producevano strani suoni, ma Alis intuì che chi parlava stava a non più di quattro o cinque iarde di distanza. Allungò la mano verso la cinta e il pugnale che teneva lì. «Sembra vitelliano» disse lei, cercando di farlo continuare a parlare in modo che potesse scoprire dove si trovava. «Ah no, mia dulcha» disse lui. «Il vitelliano è aceto, succo di limone, sale. Io parlo miele, vino, fichi. Safniano, midulcha.» «Safniano?» Adesso aveva raggiunto il coltello e, assicurandosi la presa su di esso, si mise a sedere. «Siete un prigioniero?» «Lo ero» disse Lo Videicho. «Ora non lo so più. Hanno murato l'uscita. Gli ho chiesto di uccidermi, ma non l'hanno fatto.» «Come fate a conoscere il mio nome?» «Lo avete detto al mio amico, il musicista, prima che lo portassero via.» Leoff. «Lo hanno portato via?» «Oh sì. La vostra visita si è rivelata piuttosto sconvolgente, credo. Lo hanno portato fuori di qua.» «Dove?» «Oh, questo lo so. Credevate che non lo sapessi? Invece lo so.» «Non ne dubito» replicò Alis. «Ma vorrei saperlo anch'io.» «Ho perso la ragione, sapete?» confidò Lo Videicho. «A me sembrate savio» mentì Alis. «No, no, non è proprio la verità. Sono pazzo. Ma credo che aspetterò di uscire da queste segrete prima di dirvi dove è stato portato il nostro amico.»
Alis cominciò ad agitare le braccia intorno a sé per trovare una parete. Ne trovò una e vi appoggiò la schiena. «Non conosco la via d'uscita» disse. «No, ma conoscete l'entrata.» «L'entrata è... intendete l'entrata per questo posto, vero?» «Sì, furbetta» replicò Lo Videicho. «Ci siete caduta dentro.» «Allora se la conoscete, perché non ve ne andate da solo? Perché avete bisogno di me?» «Non lascerei mai sola una signora» replicò l'uomo. «Ma soprattutto...» lei sentì un rumore metallico. «Oh. Non potete andarvene. Siete in una cella.» Doveva esser caduta in un'antistanza, non dentro la cella. «È un palazzo, il mio palazzo» la corresse Lo Videicho. «Ma le porte sono tutte chiuse. Avete la chiave?» «Può darsi che riesca a tirarvi fuori. Potremmo arrivare a un accordo. Ma prima dovete dirmi perché siete qui.» «Perché sono qui? Perché i santi sono dei luridi bastardi, tutti quanti. Perché aiutano i malvagi e arrecano dolore ai buoni.» «Questo forse è vero,» riconobbe Alis «ma preferirei una risposta più specifica.» «Sono qui perché amavo una donna» disse. «Sono qui perché il mio cuore è stato strizzato e questa è la tomba dentro alla quale mi hanno messo.» «Quale donna?» La voce dell'uomo cambiò. «Bella, gentile, dolce. È morta. Ho visto il suo dito.» Un piccolo brivido percorse la spina dorsale di Alis. Safniano. C'era stato un Safniano, promesso sposo della principessa Lesbeth. Lei era scomparsa e si era detto che fosse stata tradita dal suo fidanzato. Si ricordò di William che biascicava il nome di quest'uomo nel sonno; sembrava quasi che gli chiedesse perdono. «Siete... siete il principe Cheiso?» «Ah!» esclamò l'uomo. Ci fu una pausa e poi lei sentì un suono debole che credette essere pianto. «Siete Cheiso, promesso sposo di Lesbeth Dare.» Lui tirò su col naso più forte, ma ora sembrava che ridesse. «Quello era il mio nome. Prima, prima. Sì, come siete intelligente. Davvero.» «Avevo sentito che eravate stato torturato a morte.» «Lui mi voleva vivo» disse Cheiso. «Non so perché. Non so perché. O
forse si è solo dimenticato, tutto qua.» Alis chiuse gli occhi, cercando di risistemare i suoi pensieri, di includere il principe safniano nei suoi piani. Era al comando di truppe? Ma comunque sarebbero dovute arrivare lì per mare, no? Una strada lunga. Ma sicuramente sarebbe stato utile. Cheiso all'improvviso gridò, un urlo lacerante di rabbia che quasi non sembrava umano. Alis sentì un tonfo e intuì che l'uomo si stava lanciando contro le pareti mentre seguitava a urlare nella sua lingua. Si accorse di stringere così forte il pugnale che le dita le si erano intorpidite. Dopo un po' le urla si calmarono in singhiozzi accorati. Istintivamente, Alis tolse la mano dal coltello e con questa cercò nell'oscurità fino a che non trovò le sbarre della cella. «Venite qua» disse. «Venite qua.» Avrebbe potuto ucciderla, ma la morte era così vicina che lei aveva cominciato a non esserne intimorita. Se la tenerezza di un momento era lo scopo per cui era stata rimandata indietro dalle terre del fato, allora andava bene così. Lei sentì che Cheiso esitava, ma poi avvertì qualcosa che scivolava e un attimo dopo una mano sfiorò la sua. Lei la strinse e lacrime si formarono nei suoi occhi. Sembravano trascorsi anni da quando qualcuno l'aveva toccata. Sentì che la mano di lui tremava; il palmo era liscio e morbido, il palmo di un principe. «Sono meno di un uomo» esclamò Cheiso. «Molto meno.» Il cuore di Alis si contrasse; cercò di liberare la mano, ma lui la tenne ancora più stretta. «Va tutto bene» disse Alis. «Voglio solo toccarvi la faccia.» «Non ne ho più una» rispose lui, ma le lasciò comunque andare la mano. Alla cieca, Alis riuscì a raggiungere il volto del principe, sentendo la barba sulle guance e poi, più in alto, trovò una massa di cicatrici. Tutta quella sofferenza. Tornò a cercare il suo pugnale. Un solo spostamento dello sguardo e lui avrebbe dimenticato quello che gli avevano fatto, dimenticato il suo amore perduto. Poteva sentire nella voce di quell'uomo e nella sua stretta che era stato spezzato. Nonostante la spavalderia e le parole di vendetta, di lui non rimaneva molto. Ma Alis non aveva alcun dovere verso quell'uomo. L'aveva verso Muriele e i suoi figli, e in un certo senso verso il povero estinto William. Lo aveva amato a modo suo; era stato un uomo rispettabile in una posizione che nessun uomo rispettabile avrebbe dovuto ricoprire.
Come questo principe safniano. «Principe Cheiso» bisbigliò. «Lo ero» rispose lui. «Lo siete» insisté Alis. «Ascoltatemi. Vi libererò dalla vostra gabbia e insieme troveremo una via d'uscita.» «E lo uccideremo» aggiunse Cheiso. «Uccideremo il re.» Con un debole brivido Alis capì che intendeva William. «Re William è già morto» gli disse allora. «Non è lui il vostro nemico. Il vostro nemico è Robert. Capite cosa vi voglio dire? Sono state le parole del principe Robert a farvi finire qui dentro. Poi ha ucciso suo fratello, il re, e vi ha lasciato a marcire. Probabilmente neanche si ricorda che esistete. Ma voi glielo rammenterete, vero?» Ci fu una lunga pausa e quando Cheiso finalmente parlò di nuovo, lo fece con un tono sorprendentemente privo di passione, piatto. «Sì» disse. «Lo farò.» Alis estrasse i suoi attrezzi per forzare la porta e si mise a lavoro. 2 Il poel Anne fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi davanti alla tenda e alla scarsa mobilia. Aveva mandato via Austra e la ragazza se n'era andata con un'espressione che lei aveva interpretato come un senso di sollievo. Chissà se la sgualdrinella voleva semplicemente allontanarsi da lei o desiderava andarsene da Catio? Ssst, si disse. Ssst. Ti stai solo arrabbiando con te stessa. C'è poco da meravigliarsi che Austra voglia trascorrere un po' di tempo con qualcun altro. Anne si calò nelle tenebre e cercò più in profondità, nel tentativo di ritrovare la strada verso il posto delle Fedi, per poter chiedere consigli a loro. In passato aveva nutrito dei sospetti sui loro suggerimenti, ma sentiva che aveva bisogno di qualcosa, una guida da parte di qualcuno che conosceva meglio di lei il mondo dei misteri. Apparve una debole luce e lei si concentrò su di essa, cercando di attirarla verso di sé, ma questa scivolò al limite del suo campo visivo, fuori portata, ma invitandola. Lei provò a rilassarsi, a persuaderla a tornare indietro, ma più ci prova-
va, più la luce si allontanava, fino a che in un attacco di collera lei allungò la mano per prenderla, tirandola verso di sé, e l'oscurità a sua volta cominciò a stringerla sempre più forte fino a toglierle il respiro. Qualcosa di rude sembrava premere sul suo corpo e le dita delle mani e dei piedi s'intorpidirono per il freddo. Il gelo le si appiccicò addosso, privandola di ogni sensazione fino a che rimase solo il battito del suo cuore, pericolosamente violento. Non riusciva a respirare né a emettere suoni, ma sentì una risata e labbra che le lambivano l'orecchio, bisbigliando parole intense che non riusciva a capire. La luce divampò e improvvisamente Anne vide il mare aprirsi davanti a lei. Sulle grosse onde cavalcavano dozzine di navi, battenti il vessillo col cigno bianco e nero dei Liery. La scena mutò e vide che si avvicinavano a Fortezza di Spine, la grande rocca che faceva da diga e guardia su chiunque si fosse avvicinato a Eslen. Incombeva in modo tanto imponente da far apparire minuscola anche una flotta così numerosa. Poi, improvvisamente, la luce scomparve e lei si ritrovò in ginocchio, con le mani contro la pietra e l'odore della putrefazione e della terra nelle narici. Poco a poco una debole luce cominciò a filtrare dall'alto e lentamente, come risvegliandosi da un sogno, Anne capì dove si trovava. Era a Eslen-delle-Ombre, nel boschetto sacro alle spalle delle tombe dei suoi antenati, e le dita spingevano su un sarcofago di pietra. E lei capì, era certa di averlo sempre saputo, e gridò con la disperazione più assoluta che avesse mai sperimentato. Sst, piccola, disse una vocina. Sst e ascolta. La voce placò il suo terrore, anche se di poco. «Chi sei?» domandò. Sono dalla tua parte. E hai ragione: lei sta venendo a prenderti. Io posso aiutarti, ma devi prima trovarmi. Devi prima aiutare me. «Chi è questa lei? Come puoi aiutarmi?» Quante domande, e la distanza è troppa. Trovami e io ti aiuterò. «Dove ti trovo?» Qui. Vide il castello di Eslen, vide che si spaccava come fosse un cadavere per mostrare gli organi e gli umori nascosti, covi del male e troni della salute e dopo un attimo capì. Si risvegliò gridando, con Neil e Catio che la fissavano dall'alto. Austra era vicina a lei e le teneva la mano. «Maestà!» la chiamò Neil. «C'è qualcosa che non va?»
Per diversi lunghi attimi Anne fu sul punto di riferire tutto, svelare quello che stava per succedere. Ma non poteva, o forse sì? «Era un sogno, sir Neil» rispose. «Una Donna Nera, nient'altro.» Il cavaliere sembrò scettico, ma un attimo dopo accettò la sua spiegazione con un cenno del capo. «Be', allora spero che il resto del vostro sonno sia senza sogni» disse. «Tra quanto togliamo l'accampamento?» «Quattro ore.» «E oggi arriveremo a Eslen?» «Se i santi lo vorranno, Vostra Maestà» rispose Neil. «Bene» commentò Anne. Immagini di navi, e cose più terribili, continuavano a bruciare dietro ai suoi occhi. Eslen sarebbe stata solo l'inizio di tutto. Gli uomini se ne andarono, ma Austra restò, accarezzandole la fronte fino a che non si addormentò. Anne aveva viaggiato da Glenchest a Eslen molte volte. Aveva cavalcato fin là col suo cavallo, Fulmine, quando aveva quattordici anni, accompagnata da una guardia dei Maestri. Le ci erano voluti due giorni, con una sosta al Poel delle Mogli, nella tenuta di suo cugino Nod. In carrozza o via canale ci sarebbe voluto un altro giorno. Ma il suo esercito aveva impiegato un mese intero, anche se la maggior parte delle vettovaglie venivano trasportate da chiatte lungo il fiume. Ed era stato un mese di sangue. Anne aveva assistito a tornei: giostre, uomini che combattevano con spade e cose del genere. Aveva assistito anche a dei veri combattimenti e a parecchi massacri. Ma fino al giorno in cui si misero in marcia da Glenchest, tutto quello che sapeva sugli eserciti e la guerra veniva dai menestrelli, dai libri e dal teatro. Queste cose l'avevano spinta a pensare che avrebbero marciato dritti a Eslen, suonato il corno della battaglia e combattuto fino alla fine sul Poel del Re. I menestrelli avevano tralasciato una cosa o due e il castello Gable era stata la sua prima lezione sull'argomento. Gli eserciti nelle canzoni non dovevano mantenere aperte le linee di rifornimento in modo da non essere costretti a fermarsi e assoggettare tutte le fortezze nemiche ogni cinque giorni di marcia. La maggior parte di queste era ostile, si scoprì, perché Robert aveva costretto o persuaso i proprie-
tari dei castelli a combattere per lui o aveva semplicemente occupato le fortezze con le sue stesse truppe selezionate con cura. Anne non aveva mai sentito usare la parola 'assoggettare' per indicare la conquista di un castello e il massacro dei suoi difensori, ma presto fu dell'opinione che ne servisse una migliore. L'assedio di Gable costò più di cento uomini e quasi una settimana e quando se ne andarono, dovettero lasciarsi alle spalle altri cento uomini per presidiarlo. Poi fu la volta di Langraeth, Tulg, Fearath... I canti antichi non dicevano molto neanche sulle donne che gettavano i loro figli dalle mura nel folle tentativo di salvarli dalle fiamme, né sull'odore di un centinaio di cadaveri quando la brina del mattino iniziava a sciogliersi. Né parlavano di come un uomo potesse avere una lancia infilata completamente dentro il corpo e dare la sensazione di non accorgersene, continuando a parlare come se andasse tutto bene fino al momento in cui gli occhi smettevano di vedere e le labbra diventavano immobili. Aveva visto spettacoli orrendi prima di allora e questi erano diversi per intensità, non per tipologia. Ma l'intensità faceva la differenza. Un centinaio di cadaveri erano uno spettacolo ben più terrificante di un solo uomo morto, per quanto potesse sembrare ingiusto a quel singolo poveraccio. Nelle ballate, le donne piangevano di dolore per la perdita dei loro amati. Nella marcia verso Eslen, nessuno di quelli vicini ad Anne morì. Lei non pianse di dolore; ma rimase sveglia di notte, cercando di arrestare le grida dei feriti nelle orecchie, cercando di non ricordare le immagini del giorno. Scoprì che il brandy che le aveva mandato la zia Elyoner era utile a quel proposito. I menestrelli tendevano anche a tralasciare gli aspetti più noiosi della politica: quattro ore ad ascoltare l'aithel del Poel delle Mogli che insisteva sulle virtù relative alle mucche di colore grigio scuro; un giorno intero trascorso in compagnia della sposa di un custode importante di Langbrim con i suoi tentativi non troppo sottili di presentare suo figlio, un tipo irrimediabilmente ottuso, come eventuale spasimante di «qualcuno, non Vostra Maestà ovviamente, ma qualcuno importante»; due ore a Penbale a guardare uno spettacolo teatrale in musica che 'aveva aperto gli occhi' ai custodi terrieri sulle malvagità di Robert. Solo il fatto che la maggior parte dei cantanti era terribilmente stonata riuscì a tenere aperti i suoi di occhi, sebbene lo spettacolo la rendesse curiosa di sapere come potesse essere stato quello originale. L'unica cosa che
trovò divertente fu il ritratto fisico di Robert, che prevedeva una maschera fatta con una specie di zucca e un naso che era chiaramente, sconciamente fatto in modo che somigliasse a un'altra parte del corpo situata più in basso. Tutto questo perché l'occupazione dei castelli non era sufficiente; andava corteggiata anche la campagna. Oltre a mettere insieme altre truppe, lei doveva accertarsi che le imbarcazioni lungo i canali andassero e tornassero da Loiyes, che era il punto da cui partivano le provvigioni. Mentre Artwair e i suoi cavalieri assoggettavano i castelli, lei trascorreva il tempo a visitare le città e i villaggi vicini, incontrando i custodi terrieri, conquistandosi il loro appoggio e chiedendo il permesso di lasciare lì sempre più soldati per controllare le dighe e i malend che li tenevano all'asciutto. Questo risultò faticoso quasi quanto la sua fuga da Vitellia, anche se in un senso completamente diverso: qui si trattava di una sequenza quotidiana di udienze e cene con gli aithel delle città e i custodì importanti, adulandoli o combattendo contro di loro, a seconda della strategia che sembrava avere più probabilità di successo. Alla fine quasi tutti accettarono di darle un appoggio passivo: non avrebbero arrestato la sua avanzata, le avrebbero permesso di lasciare truppe a occupare i bastioni delle dighe in modo che i canali non potessero essere aperti o bloccati, ma pochi accettarono di rinunciare alla manodopera. Nell'arco di quel mese solo in duecento circa si unirono alle loro forze; il che neanche si avvicinò a bilanciare il numero delle perdite. Nonostante tutto, Anne in qualche modo era convinta dentro di sé che nel momento in cui avrebbero raggiunto Eslen avrebbero comunque combattuto la battaglia finale sul poel. Quello che trovò invece, fu ciò che in quel momento stava guardando dal bastione della diga settentrionale. Artwair, Neil e Catio erano lì accanto a lei. «Santi» bisbigliò, insicura di ciò che stava provando veramente. Lì c'era la sua patria: l'isola di Ynis, con i rocciosi confini avvolti dalla nebbia, le colline alte e aguzze che incombevano su Terranuova, la città di Eslen che sorgeva sul colle più grande. All'interno dei cerchi concentrici delle sue mura c'erano la grande fortezza e il palazzo con le sue guglie che sembravano scagliarsi nelle province più basse del cielo. Sembrava inverosimilmente enorme eppure ridicolmente minuscola. «È quella la vostra casa?» domandò Catio. «Sì» replicò Anne. «Non ho mai visto un posto simile» disse Catio, con una nota di sogge-
zione nella voce, qualcosa che Anne non era sicura di avergli mai sentito prima. Grazie ai precettori di Elyoner e alla prontezza mentale di Catio lo disse nella lingua del re. «Non esiste un altro posto come Eslen» commentò Neil. Anne sorrise, realizzando che anche Neil aveva visto Eslen per la prima volta solo un anno prima. «Ma come ci arriviamo?» domandò Catio. «È proprio questo il problema» disse Artwair, grattandosi il mento distrattamente. «È lo stesso problema che comunque avremmo dovuto affrontare, solo moltiplicato. Speravo che non avrebbe fatto una cosa del genere.» «Non capisco» disse Catio. «Be',» fece Anne «Ynis è un'isola posta sulla confluenza di due fiumi: il Mago e il Rugiada. Perciò è sempre circondata dalle acque. L'unico modo per raggiungere Eslen è con un'imbarcazione.» «Ma a noi non mancano» affermò Catio. Era la verità; avevano ancora, infatti, tutte e quindici le chiatte e i sette lupi di mare che possedevano all'inizio del viaggio. Non c'erano state battaglie fluviali. «Sì» fece Anne. «Ma in genere ci bastava attraversare un fiume, capite? Questo lago che adesso state guardando, prima era terra asciutta.» Con un gesto della mano, indicò la vasta massa d'acqua che ora si stendeva davanti a loro. Catio si accigliò. «Forse non ho capito» disse. «Per terra asciutta intendete dire tero arido?» «Sì» rispose Anne. «Eslen è circondata da poel. È così che chiamiamo la terra che abbiamo sottratto all'acqua. Non avete notato che i nostri fiumi e canali scorrono tutti al di sopra della terra?» «Sì» replicò Catio. «Sembra molto innaturale.» «Lo è. E così quando si rompe una diga o viene aperta, si allaga tutto di nuovo. Ma perché non hanno aspettato che arrivassimo e non l'hanno aperta mentre marciavamo attraverso il poel? In quel modo saremmo potuti morire affogati.» «Sarebbe stato troppo rischioso» spiegò Artwair. «Se il vento soffia nella direzione sbagliata, potrebbe volerci troppo tempo per riempire il poel e noi avremmo potuto attraversarlo con successo. In questo modo Robert ha reso il nostro compito molto, molto difficile.» «Ma noi abbiamo ancora le nostre barche» fece notare Catio.
«Sì» rispose Artwair. «Ma guarda là, in mezzo alla nebbia.» Indicò la base del grande colle. Anne riconobbe le sagome, ma Catio non sapeva dove guardare esattamente. «Sono navi?» domandò alla fine. «Navi» confermò Artwair. «Scommetto che quando la nebbia si sarà alzata, vedremo la flotta al completo. Navi da guerra, Catio. Non avrebbero potuto manovrarle troppo bene nel letto del fiume, ma ora hanno un lago. Avremmo potuto scivolare lungo il Rugiada ed erigere una testa di ponte, ma ora ci tocca attraversare tutto questo, rimanendo bene in vista davanti alla flotta imperiale.» «Possiamo farcela?» domandò Catio. «No» rispose Artwair. «Ma c'è più di un approccio a Eslen» disse Neil. «Che ne pensate del fianco meridionale, quello del Mago? Avranno allagato il poel anche lì?» «Questo ancora non lo sappiamo» ammise Artwair. «Ma seppure quel lato non è stato allagato, sarà comunque un approccio molto difficile. Le lingue paludose sono un terreno scomodo per marciare e facilmente difendibili da un pugno di arcieri sulle alture. E poi ci sono le colline; difficili da espugnare, ma facili da difendere. «Ma voi avete perfettamente ragione. Dobbiamo mandare qualcuno intorno all'isola. Un piccolo gruppo, credo, che sappia muoversi velocemente, piano e senza farsi vedere.» «Questo sembra proprio il genere di cose che so fare» disse Catio, offrendosi volontario. «No» dissero contemporaneamente Anne, Neil e Austra. «In che altro potrei esservi d'aiuto?» domandò irritato lo spadaccino. «Siete un'eccellente guardia del corpo» disse Neil. «Sua Maestà ha bisogno di voi qui.» «E poi,» aggiunse Anne «non conoscete la zona. Sono certa che il duca saprà scegliere gli uomini giusti per quest'impresa.» «Sì» rispose Artwair. «Sceglierò qualche persona. Ma voi conoscete Eslen meglio di chiunque altro, Anne. Cosa pensate? Avete qualche idea?» «Avete fatto informare i nostri parenti in Virgenya?» «Sì» rispose Artwair. «Ma la verità è stata inquinata, lo sapete. I cuveitur di Robert ci hanno preceduto con storie riguardo all'intenzione di vostra madre di passare il trono a Liery.» «Ma anche mio zio vuole dare il paese a Hansa. Quale dei due preferirebbero?»
«Nessuno, speriamo» rispose Artwair. «Gli ho detto che se combatteranno al vostro fianco, potremo tenere una Dare sul trono, una che sarà ben disposta verso Virgenya. Ma è complicato. Molti in Virgenya preferirebbero vedere un re potente di nuovo sul loro trono, senza un imperatore a Eslen che domini su di loro. Anche se lui, o lei, dovesse essere uno di loro. «Questo gruppo crede che Hansa si accontenterebbe di Crotheny e lascerebbe che la Virgenya continuasse per conto suo.» «Oh» esclamò Anne. «Sì. E se anche dovessero partire oggi, le truppe virgenyane impiegherebbero mesi per arrivare via terra e quasi altrettanti giorni per mare, considerando che dovrebbero navigare lo Stretto di Rusimmi per arrivare qui. No, credo che dobbiamo pianificare senza contare sulla Virgenya.» Catio indicando domandò: «Cos'è quella?» Anne seguì la direzione del dito del vitelliano. Una piccola imbarcazione si stava avvicinando, una barca da canale con i colori di Eslen. «Sarà un messaggero di Robert» dedusse Artwair. «Probabilmente viene per negoziare un incontro. Potremmo anche sentire cosa ha da dire mio cugino prima di fare troppi piani.» Mentre la barca si avvicinava, Anne realizzò con una fitta allo stomaco che il messaggero non era altri che Robert in persona. Il suo viso familiare la scrutava da sotto un cappello nero e il cerchio d'oro che suo padre usava indossare per le occasioni di stato meno formali. Stava seduto al centro della barca, su una poltrona, assistito da figure vestite di nero. Anne non vedeva arcieri, né a dire il vero nessun'altra arma. Ebbe l'immediata, profonda sensazione che fosse stato commesso qualche errore. Robert aveva solo quattro anni più di lei; aveva giocato con lei quando era piccola. Aveva sempre pensato a lui come a un amico. Era impossibile che avesse fatto le cose che dicevano e improvvisamente fu sicura che lui avrebbe chiarito le cose. Non ci sarebbe stato alcun bisogno di una guerra. Appena la barca arrivò, una figura snella in calzamaglia e sorcotto nero uscì con un balzo per assicurare gli ormeggi; ci volle un momento perché Anne realizzasse che la figura era una donna, una ragazza di circa tredici anni. Nell'attimo successivo capì che tutti tranne uno dei seguaci di Robert erano giovani donne disarmate. L'unico uomo aveva una spilla di filigrana d'oro sul mantello che lo identificava come cavaliere, ma anche lui era senz'armi.
Robert di sicuro non sembrava molto preoccupato. Quando l'imbarcazione fu ormeggiata, lui si alzò dal suo trono improvvisato, con un ampio sorriso. «Mia cara Anne,» disse «fatevi guardare.» Con un passo scese sulla roccia e Anne sentì uno scossone sotto i piedi. La roccia sotto di lei diventò improvvisamente morbida, come burro caldo, e tutto si offuscò. Era come se il mondo circostante si stesse liquefacendo. E poi, altrettanto improvvisamente, tutto tornò a fermarsi, e a riprendere una forma. Ma diversa. Robert era ancora là, bello in un farsetto di pelle di foca nero adornato di piccoli diamanti. Ma puzzava di carne marcia e la pelle era trasparente e rivelava la scura rete fluviale dei vasi sanguigni sottostanti. Cosa ancora più particolare, le vene non terminavano nella carne, ma si estendevano fino alla terra e all'aria, unendosi alle acque ultraterrene della visione di Anne. Ma a differenza dell'uomo che aveva visto morire, che disperdeva l'ultimo goccio di vita nelle sorgenti della morte, tutto fluiva verso Robert, riempiendolo, sostenendolo come una mano infilata in una marionetta di stoffa. Anne si rese conto di essere indietreggiata e di aver accelerato il respiro. «Non serve che vi avviciniate di più» disse Artwair. «Voglio solo dare un bacio a mia nipote» rispose Robert. «Non chiedo troppo, no?» «Viste le circostanze,» replicò Artwair «credo di sì.» «Nessuno di voi lo vede, vero?» domandò Anne. «Non riuscite a vedere cos'è veramente.» Le espressioni confuse confermarono la sua intuizione, e anche nella sua stessa visione i ruscelli scuri stavano sbiadendo, sebbene non sparissero completamente. Robert la guardò dritto negli occhi e lei ci vide qualcosa di strano, una specie di riconoscimento o sorpresa. «Cosa sono mia cara? Sono il vostro amato zio. Il vostro caro amico.» «Non so cosa siete,» rispose Anne «ma di certo non siete mio amico.» Robert sospirò esageratamente. «Siete sconvolta, da quello che vedo. Ma posso assicurarvi che sono vostro amico. Se non fosse così, perché mai avrei protetto il vostro trono?» «Il mio trono?» ripeté Anne. «Certo, Anne. Liery ha rapito Charles e in sua assenza ho agito da reg-
gente. Ma siete voi l'erede al trono, mia cara.» «Allora lo riconoscete?» domandò Artwair. «Certo. Perché non dovrei? Non ho motivo di andare contro la decisione del Comven. Ho solo atteso il suo ritorno.» «E ora intendete darmi la corona?» domandò Anne, fissandolo scettica. «Certo» ammise Robert. «A certe condizioni.» «Ah, ora siamo al patto con la vipera» disse Artwair. Robert sembrò infastidito per la prima volta da quando era arrivato. «Sono sorpreso dalla vostra compagnia, Anne» disse. «Il duca Artwair aveva l'ordine di proteggere i nostri confini. Ha abbandonato quel compito per marciare su Eslen.» «Per restituire il trono al suo legittimo proprietario» disse Artwair. «Ah, davvero?» ribatté Robert. «Quando avete iniziato la vostra marcia verso ovest sapevate già che Anne era viva, che stava bene ed era pronta a riprendersi il suo posto a Eslen? Eppure questo è successo prima che la vedeste o che parlaste con lei. Come avete fatto a saperlo?» Rivolse il suo sguardo su Anne. «Come credete che abbia saputo che eravate viva, mia cara? Vi siete mai chiesta cosa possa volere il nostro caro duca da questo patto?» In effetti Anne si era domandata proprio la stessa cosa, ma si guardò bene dal confermarlo. «Quali sono le vostre condizioni?» chiese invece. Robert annuì soddisfatto. «Siete cresciuta davvero. Anche se, devo dire, non sono sicuro di apprezzare i vostri capelli tagliati così corti. Sono un po' mascolini. Quando sono lunghi, siete quasi uguale...» S'interruppe improvvisamente e quel poco colore che aveva sul viso immediatamente sbiadì. Guardò da un'altra parte, prima verso il cielo a ovest, poi alla cima distante del Breu-en-Trey. Alla fine si schiarì la voce. «A ogni modo,» disse, con tono più sottomesso «capirete che sono un po' preoccupato visto il modo in cui siete arrivata.» «Lo vedo» rispose Anne. «I vostri uomini si sono opposti alla nostra avanzata e avete allagato il poel. Siete chiaramente pronti alla guerra. Perciò, perché dovreste tutt'a un tratto capitolare?» «Non avevo idea che questo esercito fosse guidato da voi, mia cara. Ho pensato che fosse più o meno ciò che sembrava essere: una rivolta di nobili delle province avidi e scontenti. Gente pronta a sfruttare questo periodo di problemi come scusa per piazzare un usurpatore sul trono. Ora che vedo che hanno scelto voi come loro fantoccio, le cose cambiano completamen-
te.» «Fantoccio?» «Non penserete davvero che vi lasceranno fare la regina, vero?» disse Robert. «Credo che siate troppo intelligente per pensare una cosa del genere. A tutti avete dovuto promettere qualcosa, vero? Dopo che avranno perduto sangue, uomini e cavalli, credete che il loro appetito diminuirà? «Avete un esercito di cui non potete fidarvi, Anne. E per di più, se anche poteste farlo, non riuscirete a prendere Eslen facilmente, se mai ci riuscirete.» «Sto ancora aspettando di sentire la vostra proposta.» Lui alzò le mani. «Non è complicata. Voi entrate in città e noi prepariamo l'incoronazione. Io sarò il vostro primo consigliere.» «E per quanto tempo, mi chiedo, sopravvivrò a quest'onore?» domandò Anne. «Quanto tempo passerà prima che del veleno o un pugnale per vostra derisione trovi il mio cuore?» «Potrete portare con voi una scorta di dimensioni ragionevoli, ovviamente.» «Il mio esercito è di dimensioni ragionevoli» replicò Anne. «Sarebbe sciocco portarli tutti dentro» disse Robert. «A dire il vero non posso permetterlo. Non mi fido di loro né, come ho già detto, dovreste farlo voi. Portatevi una nutrita guardia del corpo. Lasciate il resto qua fuori. Quando arriverà il giudice della Chiesa, se ne occuperà lui e noi accetteremo la sua decisione.» «Questa è una promessa facile da fare per voi!» esplose Artwair. «È risaputo che voi e il praifec siete malvagi alleati in tutto questo.» «Il giudice viene direttamente da z'Irbina» disse Robert. «Se non vi fidate dei nostri padri più sacri, non riesco a immaginare di chi possiate fidarvi.» «Comincerò col non fidarmi di voi e continuerò su quella strada.» Robert sospirò. «Non avete intenzione di insistere nel combattere questa sciocca guerra, vero?» «Perché mia madre è stata rinchiusa?» domandò Anne. Robert abbassò lo sguardo. «Per proteggerla» disse. «Dopo la morte delle vostre sorelle, prima è caduta in depressione e poi è diventata inconsolabile. Era squilibrata e la cosa si vedeva chiaramente, a suo danno, mentre governava. Avrete sentito parlare, credo, della strage d'innocenti nelle terre di lady Gramme? Ma solo quando ha tentato l'impensabile ho sentito di dover intervenire.»
«L'impensabile?» Abbassò la voce. «È un segreto custodito gelosamente» disse. «Lo abbiamo tenuto nascosto per evitare imbarazzo e, sinceramente, disperazione. Vostra madre ha provato a togliersi la vita, Anne.» «Davvero?» Anne voleva suonare scettica, ma qualcosa le si fermò in gola. Era la verità? «Come vi ho detto, era inconsolabile. E lo è tutt'ora, ma sotto la mia protezione è per lo meno al sicuro da sé stessa.» Anne si fermò a riflettere sull'offerta di Robert. Non si fidava di lui, ma una volta nel castello sarebbe riuscita a trovare i passaggi segreti. Lì sarebbe stata al sicuro da Robert e dai suoi uomini e avrebbe potuto aprire la galleria che portava alle lingue paludose e far entrare uomini dentro la città, se non addirittura nel castello. Le si offriva un'opportunità e non aveva intenzione di lasciarsela sfuggire. «Vorrei vederla» disse. «Questo si può fare facilmente» le assicurò Robert. «Vorrei vederla adesso.» «Volete che la mandi a prendere?» domandò Robert. Anne fece un respiro profondo. «Penso che preferirei andare da lei.» «Vi ho già detto che potete portare con voi una scorta al castello. Come prima cosa andremo a trovare vostra madre.» «Preferirei che voi rimaneste qui» rispose Anne. Robert inarcò le sopracciglia. «Sono venuto qui sotto il vessillo della tregua, disarmato, senza protezione. Non immaginavo che sareste stata tanto infame da tenermi prigioniero. Se lo fate, vi avviso, non entrerete mai a Eslen. I miei uomini la bruceranno, se mi succede qualcosa.» «Ve lo sto chiedendo come favore» rispose Anne. «Vi sto chiedendo di accettare di rimanere qui mentre parlo con mia madre. Porterò con me solo cinquanta uomini. Successivamente, voi manderete a dire ai vostri soldati di lasciarmi entrare liberamente nel castello affinché possa verificare la veridicità di quello che affermate. Allora, e solo allora, io e voi potremmo arrivare a una sorta di accordo.» «Anche se mi fido di voi,» disse Robert «ho già spiegato chiaramente che non mi fido dei vostri seguaci. Come potete essere sicura che non mi uccideranno mentre siete via?» Lanciò un'occhiata significativa ad Artwair. «La mia personale guardia del corpo, Neil MeqVren, vi difenderà. Potete
fidarvi ciecamente di lui.» «È solo uno» fece notare Robert. «Se succede qualcosa a sir Neil, saprò che sono stata tradita» disse Anne. «Sarebbe di scarso conforto al mio cadavere.» «Robert, se siete serio riguardo le vostre buone intenzioni, questa è l'opportunità per dimostrarlo. Altrimenti, non mi fiderò di voi e questa guerra comincerà sul serio. La maggior parte dei custodi terrieri sono dalla mia parte. E presto arriverà sir Fail con una flotta, statene certo.» Robert si accarezzò la barba per un momento. «Un solo giorno» disse infine. «Voi tornerete a Eslen col mio permesso e sulla mia barca e io resterò qui sotto la protezione di sir Neil, di cui neanche io dubito. Parlerete con vostra madre e vi accerterete delle sue condizioni. Vi convincerete che sono sincero riguardo alle mie intenzioni di darvi il trono. Quindi tornerete qui e discuteremo il modo in cui prenderete il vostro posto. «Un giorno. D'accordo?» Anne chiuse un attimo gli occhi, cercando di capire se le stava sfuggendo qualcosa. «Vostra Maestà» l'avvisò Artwair. «È una cosa assolutamente poco saggia.» «Concordo» disse sir Neil. «Non m'importa» rispose Anne. «Dovrò diventare regina, o almeno così dite tutti. Spetta a me prendere la decisione. Robert, accetto le vostre condizioni.» «La mia vita è nelle vostre mani, Maestà» disse Robert. 3 Sui Bairghs Mentre il pericolo tintinnava alle sue spalle, Stephen si fermò per riprendere fiato. Dietro di lui Ehan disse qualcosa, ma sebbene le sue orecchie avessero cominciato a guarire, c'era ancora troppa confusione per riuscire a capire, era come se dentro ci fosse dell'acqua. Batté su un lato della testa per indicare il problema, cosa che tutti si erano abituati a fare nell'ultima ventina di giorni.
«Riposare?» ripeté un po' più forte l'omino. Stephen annuì con riluttanza. Nel tempo che aveva passato col guardaboschi aveva creduto che il suo corpo si fosse abituato ai viaggi faticosi, ma il sentiero era troppo ripido per cavalcare, perciò dovevano tirare i cavalli. Le gambe, a quanto pareva, non si erano irrobustite nei mesi passati in sella. Si sistemò su un macigno, mentre Ehan tirava fuori un otre d'acqua e un po' di pane che avevano comprato nell'ultimo villaggio che avevano attraversato, un gruppo di una dozzina di capanne, chiamato Crothaem. Si trovava adesso da qualche parte parecchio più in basso rispetto a loro, al di là della valle senza nome e delle pieghe delle colline pedemontane Hauland che correvano lungo di essa. «Quanto credi che siamo saliti?» domandò Ehan. Ora stavano uno davanti all'altro ed era più semplice comunicare. «Difficile dirlo» rispose Stephen, perché lo era veramente, nel senso più letterale del termine. «Ormai dobbiamo essere sulle montagne che stiamo cercando.» «Il problema è che non ci sono alberi» commentò Ehan. Stephen annuì. Era quello il problema, o per lo meno uno dei tanti. Era come se un antico santo o dio avesse sradicato una mostruosa distesa di pascolo dalle Regioni Centrali per sistemarla sui Bairghs come un lenzuolo. Stephen capì che quello che stava guardando era il risultato di duemila anni d'attività umana: alberi tagliati per costruire case e per accendere il fuoco e per aprirsi pascoli per pecore, capre e mucche pelose, che sembravano essere ovunque. L'effetto era però una disorientante perdita di prospettiva. L'erba mitigava la ripidezza dei pendii e ingannava l'occhio sulla distanza. Solo quando concentrava lo sguardo su qualcosa di specifico, un gruppo di capre o una delle occasionali fattorie col tetto ricoperto d'erba, riusciva a farsi una vaga idea della vastità del tutto. E del pericolo. Pendenze che sembravano dolci e amichevoli, lungo le quali aveva immaginato di rotolarsi come un bambino su una piccola collina, in realtà nascondevano strapiombi fatali. Fortunatamente, durante gli stessi millenni, gli uomini che avevano prodotto quel paesaggio senza alberi avevano anche creato sentieri ben battuti che rivelavano i punti in cui si poteva camminare al sicuro e quelli in cui non era possibile. «Credi che il woorm ci stia ancora seguendo?» domandò Ehan.
Stephen annuì. «Non sta esattamente seguendo noi» replicò. «Non ci ha seguito sulle regioni montane di Brogh y Stradh; ha nuotato nel fiume Then per arrivare a noi.» «È normale che una cosa di quelle dimensioni preferisca viaggiare nei fiumi.» «Non è questo il punto, però» disse Stephen. «Mentre noi scendevamo sull'Ef verso il Mago Grigio, in realtà lui ci precedeva, come abbiamo poi scoperto a Ever.» «Già» commentò Ehan, mentre la fronte si corrugava a quel ricordo. Ever era un villaggio di morti. I pochi sopravvissuti gli avevano parlato del passaggio del woorm di qualche giorno prima. «Da lì noi saremmo potuti andare ovunque. E se anche era determinato a seguirci usando i fiumi, avrebbe potuto risalire il Mago, per arrivare fino alla confluenza a Werthen. Sarebbe potuto andare a Eslen. Ma non l'ha fatto. Ha proseguito contro corrente sul Then per interrompere la nostra fuga sulla terraferma, e c'è mancato veramente poco perché ci prendesse.» Rabbrividì al ricordo della testa del mostro che spaccava la superficie gelata del fiume come una barca di ferro. L'impressione era stata ingigantita dalla coppia di passeggeri, avvolti in pellicce, che lo cavalcavano. Si era chiesto cosa avrebbero fatto quei due se il woorm si fosse tuffato sotto il pelo dell'acqua, quando lo sguardo della creatura, quel terribile sguardo, lo aveva intercettato e lui aveva capito in cuor suo che era la fine. Ma avevano cambiato rotta quasi uccidendo i cavalli nella loro cavalcata di quella notte. E da allora non l'avevano più visto. «Ma sappiamo che aveva già attraversato Ever nel suo viaggio verso il monastero» disse Ehan. «Forse stava semplicemente tornando indietro per la stessa strada e noi siamo stati sfortunati ad aver scelto lo stesso percorso.» «Vorrei poterlo credere, ma non ci riesco» disse Stephen. «La coincidenza sarebbe troppo strana.» «Allora forse non si tratta di una coincidenza» incalzò Ehan. «Forse fa tutto parte di un disegno più grande.» «Non caricherei troppo peso su quella gamba» s'intromise Henne, scrutandoli attentamente. «Ci sono due tipi che lo cavalcano, no? Se uno dei due conoscesse la zona e sapesse anche una sola cosa su come seguire le tracce, potrebbe aver capito dove siamo diretti. Santi, potrebbero essersi fermati a chiedere a quella povera gente vicino a Whitraff, quelli con cui abbiamo parlato noi. Quelli si saranno ricordati di noi, perché eravamo
quasi sordi in quel momento e non penso che si saranno rifiutati di dare informazioni a uno che cavalca un woorm. «Una volta scoperta la strada che abbiamo preso, avranno facilmente capito in che punto avremmo attraversato il Then; ci sono solo un paio di guadi e nessun ponte.» «Questo è possibile» riconobbe Stephen. «Non lo abbiamo visto mentre navigavamo sul Mago Bianco. Se ci sta seguendo, lo sta facendo di nuovo via terra.» «A meno che non hai ragione tu,» disse Henne «e sa dove stiamo andando. In quel caso, avrà risalito il Welph e ci sta aspettando due valli più in là.» «Che splendido pensiero» brontolò Ehan. A metà pomeriggio raggiunsero il limite delle nevi perenni e subito il sentiero umido e fangoso si congelò, diventando duro come la pietra. Su suggerimento di Henne avevano trovato un sarto a Crothaem e comprato quattro paida, una specie di cappotto di feltro locale, trapuntato, bordato con pelle di pecora. Gli erano costati più della metà di quanto rimaneva del denaro che il fratrex gli aveva dato, e a Stephen il prezzo era sembrato esorbitante. Adesso però aveva cambiato radicalmente idea, mentre camminavano tra le nuvole basse e scoprivano che si trattava di una foschia gelida. I cavalli scivolavano troppo spesso per poterli cavalcare e proseguire a piedi si era fatto più difficile sia perché il sentiero diventava più ripido, sia perché l'aria era in un certo senso più rarefatta. Stephen aveva letto che si respirava male in cima alle montagne. Sui Monti della Lepre, i picchi più alti, noti come Sa'Ceth ag Sa'Nem, si diceva che l'aria diventasse totalmente irrespirabile. Fino a quel momento aveva dubitato della veridicità di quei racconti, ma questa parte dei Bairghs non era alta come le montagne eppure cominciava a credere a quelle chiacchiere. Si stava facendo buio quando s'imbatterono in un capraio che guidava il suo gregge lungo il sentiero dal quale erano venuti. Stephen lo salutò nel suo migliore almannish del Nord. Il pastore, in realtà un ragazzo di circa tredici anni, coi capelli corvini e occhi celesti, sorrise e rispose in qualcosa di simile a quella lingua, anche se con una pronuncia così strana che Stephen ebbe bisogno di un po' di tempo per capire. «C'è vel più ciù, Demsted,» li informò il ragazzo «circa una lega. Tovre-
ste trovare affittacamere là. Fratello di mio patre, Ansgif tarà tutti stanza» aggiunse allegro. «Crazie» rispose Stephen, cercando di azzeccare l'espressione locale per ringraziare. «Mi chiedo se hai mai sentito parlare di una montagna chiamata eslief vendve.» Il ragazzo si grattò un attimo la testa. «Slivendly?» domandò alla fine. «Può darsi» disse Stephen con cautela. «Si trova a nordest da qui.» «Ia. Molto lontano» rispose il ragazzo. «Ha'ltro nome, eh net gemoonu, non ricorto. Tu chiete fratello mio patre, eh? Parla meglio almannish.» «E si chiama Ansgif?» «Ia, la pensione svartboch. Io mi chiamo Ven. Tu tice che m'incontra.» «Mille crazie, Ven» disse Stephen. Il giovane sorrise e salutò con la mano e proseguì per la sua strada, svanendo nella nebbia, anche se continuarono a sentire il suono delle campanelle delle sue capre per un po'. «Che vi siete detti?» disse con tono burbero Ehan, dopo che il ragazzo fu fuori della loro portata. «Ho cominciato che ti capivo, poi hai preso a parlare come il ragazzo e tutto è diventato incomprensibile.» «Davvero?» Stephen ripensò a quello che aveva fatto. Aveva semplicemente adattato il suo almannish al dialetto del ragazzo, intuendo il suono che le parole dovevano avere nella versione linguistica del giovane. «Non ho capito una parola al di fuori di salve e di quando gli hai chiesto se c'era un luogo dove passare la notte.» «Be', sì, c'è, in un paese chiamato Demsted nella prossima valle. Dobbiamo cercare una taverna chiamata svartboch, Capra Nera, e suo zio Ansgif ci affitterà una stanza. Ha anche sentito parlare della nostra montagna e ha detto che ha un altro nome, che però non ricordava. Ha detto di chiedere anche questo a suo zio.» «Sarà sempre così da adesso in poi? La gente si metterà a farfugliare parole senza senso?» «No» rispose Stephen. «È probabile che diventi ancora peggio.» Il loro giorno sicuramente peggiorò, anche se non nel modo che Stephen aveva previsto. Poco più in là, il valico scendeva al di sotto della linea delle nevi e cominciava a serpeggiare lentamente sempre più in basso. Stephen venne distratto dal riesame del suo ragionamento riguardo alla posizione della montagna che stava cercando da un grido soffocato di Ehan, che riportò immediatamente a terra i suoi pensieri e gli provocò un sussul-
to al cuore e ai polmoni. Scrutando nella direzione indicata da Ehan, dapprima non riuscì a capire cosa stesse guardando. C'era un albero, che era impossibile non notare perché era uno dei pochi in tante leghe. Non ne conosceva la specie, ma era privo di foglie e i rami nodosi erano stati intrecciati dai venti delle montagne. Ma c'era un nutrito stormo di uccelli appollaiato sui suoi rami. Uccelli e persone che si arrampicavano... No, non si arrampicavano. Pendevano. Otto corpi con il volto nero pendevano da corde doppie legate ai rami. Gli occhi erano spariti, probabilmente mangiati dai corvi che adesso gracchiavano e brontolavano a Stephen e ai suoi compagni. «Ansuz af se friz ya s'uvil» imprecò Ehan. Stephen girò lo sguardo intorno allo stretto valico. Non vide né sentì nessuno, ma il suo udito non era ancora guarito, perciò non rimase sorpreso. «Tenete gli occhi aperti» disse. «Chiunque ha fatto questo potrebbe ancora essere nelle vicinanze.» «Già» disse Ehan. Stephen si avvicinò ai cadaveri per dare un'occhiata più accurata. Cinque erano uomini e tre donne, di varia età. La più giovane era una ragazza che difficilmente poteva aver avuto più di sedici anni, il più vecchio era un uomo sulla sessantina. Erano tutti nudi e sembravano morti tutti per strangolamento. Ma ognuno di loro aveva ferite diverse: la schiena scorticata quasi fino all'osso, ustioni e abrasioni. «Altri sacrifici?» suggerì fratello Themes. «Se è così, non sono come quelli che ho visto in passato, ai templi» rispose Stephen. «Quelli erano stati sventrati e inchiodati a pali intorno al sedos. Non riesco a vedere un sedos qui intorno e questa gente sembra essere stata semplicemente torturata e poi impiccata.» Credeva che sarebbe stato assalito dalla nausea e invece sentì uno strano capogiro. Era una reazione istintiva, pensò, provocata da quell'orribile spettacolo. «Ci sono alcuni antichi dèi e perfino santi che richiedono che i loro sacrifici siano impiccati agli alberi» proseguì. «Ed era usanza anche nelle terre della Chiesa impiccare in questo modo i criminali, almeno fino a qualche anno fa.» «Forse è per questo che il ragazzo non ne ha parlato» suggerì Themes. «Forse questo è il posto in cui la città porta i suoi criminali.»
«Probabilmente» concordò Stephen. «La cosa ha un senso.» Ma nonostante la logica, lo scricchiolio delle corde che oscillavano al vento e i volti senz'occhi erano ancora molto presenti nella mente di Stephen qualche ora più tardi, quando Demsted apparve in vista. All'occhio di Stephen, quasi tutte le città che avevano visto da quando avevano lasciato le rovine di Ever non erano esattamente come quelle che lui considerava città. Comunque rimase piacevolmente sorpreso quando scesero tra la nebbia e furono accolti da una miriade di luci nella valle sottostante. Nel crepuscolo poteva distinguere il profilo di una torre dell'orologio, i tetti a punta di qualche casa che vantava più di un piano e un tozzo cilindro che doveva essere una vecchia rocca. Tutta la città era circondata da una spessa cinta muraria. Non era Ralegh o Eslen, ma considerato dove si trovavano, Stephen era davvero meravigliato. Come poteva una manciata di pecorai sostenere una città di quelle dimensioni? Il sentiero montano, poco prima che raggiungessero la città, si univa a una strada più antica chiusa dentro due argini. Un'altra sorpresa: somigliava al tipo di strade costruite dagli Egemoni, anche se per quanto ne sapeva Stephen, questi non si erano spinti fino ai Bairghs. Presto si ritrovarono ai cancelli della città, un paio di portali di legno bordati di ferro, alti circa quattro iarde. Non erano ancora chiusi, ma un grido roco dall'alto li avvisò di fermarsi. O per lo meno Stephen suppose che fosse un ammonimento. «Siamo viaggiatori» gridò verso l'alto Stephen. «Parlate la lingua del re o l'almannish?» «Parlo la lingua del re» rispose l'uomo, urlando a sua volta. «È tardissimo per stare ancora fuori. Stavamo per chiudere i cancelli.» «Ci potevamo accampare sui monti, ma abbiamo incontrato un ragazzo che ci ha detto che avremmo trovato un alloggio qui.» «Come si chiamava?» «Si è presentato come Ven.» «Già» replicò l'uomo pensando. «Giurate di non essere maghi, wirjawalvs o altre creature malvagie e senza scrupoli?» «Siamo monaci di san Decamnus,» gridò Ehan «o per lo meno tre di noi lo sono. Il quarto è un cacciatore nostro amico.» «Se accettate di fare la prova, allora potrete entrare.» «Prova?»
«Varcate il cancello.» Questo non si apriva direttamente sulla città, ma in un cortile circondato da mura. Proprio mentre entravano, Stephen vide che i cancelli opposti si chiudevano. Aspettò che anche quelli che avevano attraversato loro facessero lo stesso, ma a quanto pareva la gente della ritta preferiva lasciare un cancello aperto per poter scappare, qualora Stephen e i suoi compagni si fossero rivelati maghi o wirjawalvs. Una porta si aprì sulla loro sinistra, alla base del muro, e a Stephen si drizzarono i peli sul collo appena comparvero due grosse figure a quattro zampe, con gli occhi rossi che brillavano alla luce delle torce. Non poteva dire se fossero cani o lupi, ma erano esemplari di quella razza e pure grossi. Passò un momento prima che si accorgesse che con le bestie c'era qualcuno. Chiunque fosse, indossava un mantello contro la pioggia e un paida come il suo e il viso era in ombra. Le bestie si stavano avvicinando adesso, ringhiando, e Stephen vide che erano una specie di masriff, ma grandi come pony. «La cosa mi mette a disagio» disse Henne. «State fermi» avvertì la persona con i cani. A Stephen sembrò una voce di donna, anche se un po' roca. «Non fate movimenti bruschi.» Stephen cercò di obbedire, ma non fu facile quando quegli enormi musi umidi e pieni di denti preso ad annusarlo. «È questa la prova?» domandò per cercare di dominare il suo nervosismo. «Qualunque cane è in grado di fiutare quello che non è naturale» spiegò la donna. «Ma questi sono stati addestrati a farlo.» Il cane che stava fiutando Stephen emise improvvisamente un latrato, scoprì i denti e indietreggiò, col pelo sul dorso visibilmente dritto. «Non siete puro» disse la donna. «È vero» spiegò Stephen. «Ci siamo imbattuti in qualcosa nelle Regioni Centrali. Un woorm. Può darsi che abbiamo ancora il suo odore addosso.» Il suo udito solo adesso stava tornando normale; doveva ancora recuperare, se mai ci fosse riuscito, l'abilità donatagli dai santi di sentire un bisbiglio a un centinaio di leghe di distanza. Ma non ne aveva bisogno per immaginare lo scricchiolio degli archi che si piegavano tutt'intorno a loro. Appena la donna indietreggiò, però, i cani improvvisamente si calmarono e lei parve rilassarsi un po'. Sentì che gli bisbigliava qualcosa e le bestie tornarono per annusare una seconda volta. Stavolta sembrarono felici.
Questa gente era chiaramente abituata ad analizzare gli stranieri per accertarsi che non fossero mostri; il che significava o che avevano dei motivi pratici per farlo o che erano disperatamente impantanati in una superstizione primitiva. Stephen non sapeva quale delle due possibilità preferire. «Sono macchiati,» disse la donna ad alta voce «ma sono umani, non mostri.» «Va bene così» rispose la voce da sopra le mura. Stephen immaginò il legno degli archi che si rilassava e sentì le spalle incurvarsi leggermente. «Mi chiamo Stephen Darige» disse alla donna. «Con chi ho l'onore di parlare?» Il cappuccio si sollevò leggermente, ma Stephen continuava a non distinguere i lineamenti del viso. «Un'umile serva dei santi» disse lei. «Mi chiamo Pale.» «Sor Pale?» Lei soffocò una risata. «Ecic nomniss...» «...sverri patenar» finì lui. «Quale coven avete frequentato?» «Il coven di santa Cer di Tero Galle» rispose lei. «E voi avete studiato a d'Ef?» «Sì» rispose cauto Stephen. «Posso chiedervi se lavorate per la Chiesa? Siete stati mandati per aiutare il Sacritor?» Stephen non sapeva come rispondere a quella domanda se non dicendo la verità. «Siamo in missione per il nostro fratrex,» ammise «ma siamo solo di passaggio nella vostra città. Non conosco il vostro Sacritor.» Le sue parole vennero seguite da un lungo e strano silenzio. «Avete menzionato Ven» disse infine la donna. «Sì. Ci ha detto che suo zio ci avrebbe dato una stanza alla... ah svartboch.» «Preferireste stare in una locanda piuttosto che in chiesa dove sareste alloggiati senza dover pagare?» «Non ho intenzione di approfittare del Sacritor» rispose Stephen. «E ripartiremo all'alba. Il nostro fratrex ci ha dato fondi a sufficienza per il viaggio.» «Sciocchezze» lo interruppe una voce maschile. «Abbiamo spazio per voi in abbondanza.»
Stephen guardò in direzione della nuova voce e si ritrovò a osservare un cavaliere in un'armatura di bronzo a sbalzo. Aveva tolto l'elmo e alla fioca luce delle torce la faccia appariva per lo più coperta dalla barba. «Sorella Pale, dovreste sapere come stanno le cose. Avreste dovuto insistere.» «Era questa la mia intenzione, sir Elden» rispose sorella Pale. Sir Elden accennò un inchino. «Benvenuti, miei cari fratelli, all'attish di Ing Fear e nella città di Demsted. Io sono sir Elden di San Nod e sarebbe mio grande onore scortarvi nei vostri sicuri alloggi.» Nonostante lo desiderasse disperatamente, Stephen non riuscì a trovare un modo per rifiutare. «È molto gentile da parte vostra» disse. Le strade di Demsted erano strette, buie, disordinate e per lo più vuote. Stephen scorse un paio di anime curiose che sbirciavano verso di loro da finestre buie, ma per la maggior parte la città era misteriosamente calma. L'unica eccezione era un edificio che si allargava in modo confuso, dal quale si levava il suono di cornamuse e arpa, insieme a un battito di mani e al canto. Una lanterna appesa a un piolo fuori la porta la identificava, pensò Stephen, come la svartbok. «Non volevate mica alloggiare qui?» domandò sir Elden, contraddicendo quello che era il muto desiderio di Stephen. «Non è posto per uomini dei santi.» «Sono felice di credervi sulla parola» mentì Stephen. «Davvero saggio» commentò sir Elden. «Troverete molto più di vostro gusto il tempio. Demsted stessa può essere un vero tormento.» «Sono rimasto sorpreso di trovare una città di queste dimensioni in un posto così remoto» disse Stephen. «A me non sembra una città così grande,» replicò il cavaliere «ma credo di capire cosa intendete. Scavano argento nelle miniere delle colline a nord e Demsted è il mercato in cui i mercanti comprano il metallo. Anche il fiume Kae nasce qui e fluisce più in basso nel Welph e da lì al Mago. Se siete venuti da sud, passando per il valico, è facile capire che siete rimasto sorpreso di trovare qualunque cosa.» «Ah. E da quanto siete qui, sir Elden?» «Un mese, non di più. Sono venuto col Sacritor per compiere il resacaratum.» «In questo luogo così sperduto?»
«L'infezione peggiore suppura nei posti più difficili da raggiungere» rispose il cavaliere. «Abbiamo scoperto eretici e stregoni in quantità. Dovreste averne visto alcuni sugli alberi nel valico.» Per un attimo Stephen fu così sbigottito da non riuscire a rispondere. «Sì» disse infine. «Credevo che fossero dei criminali.» Era troppo buio per notare l'espressione di sir Elden, ma il tono che usò suggerì che aveva sentito qualcosa nel commento di Stephen a cui non diede importanza. «Erano criminali, fratello, della peggiore razza.» «Certo» replicò con cautela Stephen. «I figli bastardi della stregoneria brulicano su queste montagne» proseguì il cavaliere. «Bestie abominevoli facevano incantesimi da sotto la terra. Io stesso ho visto una donna partorire un orribile utin, provando in questo modo di aver avuto rapporti con demoni immondi.» «Voi l'avete visto?» «Oh sì. Be', il parto, non il rapporto, ma uno si deduce dall'altro. Queste terre sono sotto l'assedio dell'esercito del male. Pensavate forse che l'ispezione di sorella Pale fosse una cosa priva di senso? I primi dieci giorni che sono stato qui, un wirjawalv è entrato in città, ha ucciso quattro persone e ne ha ferite altre tre.» Fece una pausa. «Ah, eccoci arrivati.» «Mi piacerebbe ascoltare altre storie del genere» disse Stephen. «Dobbiamo viaggiare a lungo tra i monti. Se lì ci sono pericoli in cui possiamo imbatterci...» «Ce ne sono in abbondanza» gli assicurò il cavaliere. «Quali affari vi conducono in questa terra pagana? Quale fratrex vi ha mandato qui?» «La mia missione deve restare segreta, temo» rispose Stephen. «Ma mi chiedo se esiste una raccolta di scrifti e mappe qui a Demsted.» «Ce ne sono alcuni» rispose il cavaliere. «Non li ho esaminati io in persona, ma sono sicuro che il Sacritor vi permetterà di vederli una volta che lo avrete soddisfatto con il motivo per cui vi servono e con l'attendibilità della vostra richiesta. Nel frattempo venite, mettiamo i cavalli nella scuderia e lasciatevi scortare nei vostri alloggi. Andrò a chiamare il Sacritor così potrete conoscerlo.» Era troppo buio per riuscire a distinguere bene il tempio da fuori; era più grande di quanto Stephen aveva immaginato, con una navata coperta da una cupola secondo lo stile degli Egemoni. Si domandò per un attimo se fosse davvero così antica, se magari qualche missione dimenticata si era spinta sulle montagne più in là di quanto sapesse la storia.
Ma come aveva fatto notare sir Elden, sebbene fosse una città remota, Demsted non era isolata. E se la sua chiesa era davvero così antica, uno dei tanti Sacritor o monaci che erano vissuti là lo avrebbe notato e avrebbe scritto al riguardo. Il cavaliere aprì la porta ed entrarono. Il pavimento di marmo era talmente consunto da risultare lucido e i tratti che i piedi erano soliti calpestare erano in verità leggermente scanalati, aumentando la sensazione di antichità che aveva provato Stephen. Ma l'architettura non era quella degli Egemoni, o per lo meno non quella dei templi egemoni che lui aveva visto sia in raffigurazioni, sia dal vivo. Le entrate erano alte, arcuate e strette e le colonne che sorreggevano l'alto soffitto apparivano stranamente esili. Al posto della solita cupola semisferica, la navata centrale sembrava essere sormontata da un cono appuntito, e la luce tremula delle candele e delle torce che illuminavano l'altare e le nicchie per pregare non bastava a illuminare la parte più alta. Più di ogni altra cosa, si rese conto, l'edificio gli fece tornare in mente quei pochi schizzi dell'audace modo di costruire dell'era delle Guerre dei Maghi. Superarono la navata ed entrarono in un tranquillo corridoio illuminato solo da qualche candela, sebbene la pietra continuasse a essere così lucida da somigliare al vetro, e riuscisse quindi a sfruttare al massimo la luce. Poi attraverso una porta ebbero accesso in una stanza confortevole, che Stephen immediatamente riconobbe come la biblioteca. Dietro un tavolo massiccio, stava seduto un uomo curvo su un libro aperto, e una lampada bronzea illuminava le pagine, ma non il suo volto. «Sacritor» arrischiò sir Elden. L'uomo sollevò lo sguardo e la luce della lampada rischiarò il suo viso, sfiorandolo e rivelando lineamenti di mezza età, allungati da una piccola barba. Il cuore di Stephen si mise improvvisamente a palpitare in modo irregolare ed ebbe l'immediata consapevolezza di come può sentirsi un lupo quando la trappola si chiude sulla sua zampa. «Ah» esclamò l'uomo. «Che bello vedervi, fratello Stephen.» Per un attimo sperò di essersi sbagliato, sperò che quel volto fosse un gioco di luci e della memoria. Ma la voce era inconfondibile. «Praifec Hespero» disse Stephen. «Che sorpresa.» 4
Un modo nuovo Leoff sì ricordò del sangue che schizzava sul pavimento di pietra, ogni singola goccia pareva un granato fino al momento in cui toccava la roccia leggermente porosa, dove veniva assorbita e si espandeva e la gemma si trasformava in una macchia. Si ricordò di essersi domandato per quanto tempo il suo sangue avrebbe fatto parte della pietra, se lui sarebbe potuto diventare in qualche modo immortale riversando lì la sua vita. Se così fosse stato, sarebbe stata un'immortalità misera, comune, a giudicare dalla quantità di macchie già presenti. Batté le palpebre e si strofinò gli occhi con la parte superiore dei polsi, combattuto stranamente tra un attacco di collera e una totale spossatezza, mentre osservava chiazze d'inchiostro che venivano assorbite dalla pergamena, proprio come il sangue dalla pietra. Sembrava oscillare tra quei due momenti: il passato, con la frusta contro la schiena e un dolore così alieno che era difficile da riconoscere, e il presente con l'inchiostro che usciva dalla sua penna tremante. Per un lungo istante la differenza tra il passato e il presente scomparve, e il compositore si domandò se non era ancora rinchiuso lì, nella prigione. Forse il presente non era altro che una gradita illusione, creata dalla sua mente per aiutarlo a morire più facilmente. Se era così, le sue illusioni erano di scarsa qualità. In realtà non riusciva a tenere una penna, ma se n'era fatta legare una alla mano da Mery. All'inizio il braccio era stato subito assalito da crampi e dolore, ma quella era solo una parte della sofferenza che stava provando. Per scrivere musica, doveva sentirla, e riuscire a farlo mentalmente era sempre stato il suo grande pregio. Poteva chiudere gli occhi e immaginare ogni singola nota di cinquanta strumenti diversi, che intrecciavano un contrappunto e creavano un'armonia. Tutto ciò che scriveva l'aveva prima sentito, e questo gli aveva dato solo gioia, fino a quel momento. Fu preso da un attacco di nausea. Si alzò di scatto dallo sgabello e avanzò barcollando verso la stretta finestra a battenti. La pancia formicolava come se fosse piena di vermi e le ossa le sentiva marce, come rami infestati dalle termiti. Il solo fatto d'immaginare quegli accordi poteva ucciderlo? Ma se era così... Le speculazioni vennero spazzate via appena si sporse dalla finestra per
vomitare. Non aveva cenato quasi per niente, ma al suo corpo non interessava. Quando la pancia si fu svuotata, cercò più in profondità, provocandogli degli spasmi così violenti che le braccia e le gambe cedettero e si accartocciò fino a che la faccia non raggiunse il pavimento di pietra. S'immaginò di essere una goccia di sangue, un granato che diventava una macchia... Non si rese conto di quanto tempo fosse passato prima di riuscire a trovare le forze per rimettersi in piedi. Si tirò di nuovo su, poggiandosi alla finestra e aspirando enormi boccate d'aria salmastra. La luna era alta e l'aria gelida gli addormentò i muscoli della faccia. Parecchio più in basso, l'argento lambiva l'ebano con leggerissime onde, e improvvisamente Leoff desiderò con tutto sé stesso di unirsi a loro, di liberarsi gettandosi dalla finestra e infrangere il suo scheletro ormai rovinato contro gli scogli, lasciando le terre del fato a coloro che erano più forti e più coraggiosi. A quelli che stavano bene. Chiuse gli occhi, chiedendosi se era impazzito. Sicuramente, se non fosse mai stato torturato, spezzato umiliato, neanche nei suoi sogni più selvaggi, non sarebbe mai stato capace di immaginare una musica come quella che ora l'aveva fatto sentire così male. Lo sapeva con assoluta certezza. L'oscura annotazione contenuta nel libro che aveva trovato era rimasta incomprensibile così come la grafia con cui era scritta. Non era collegata a nessun tipo di musica che lui conoscesse, ma una volta che aveva visto quel primo accordo, lo aveva in qualche modo sentito nella testa e da lì era derivato tutto il resto. Ma un uomo sano, uno che non avesse sperimentato il suo stesso orrore, non avrebbe mai potuto sentire quell'accordo. Di sicuro non sarebbe riuscito a continuare, né si sarebbe fatto del male di proposito come invece lui stava facendo adesso. Chiunque amasse la propria vita, immaginasse un futuro, non avrebbe mai potuto scrivere quel tipo di musica. Le sue ambizioni musicali erano state grandiose; quelle personali invece non erano mai state particolarmente elevate. Una moglie che lo amasse, dei figli, le sere trascorse a cantare insieme, pronipoti in una casa comoda e l'arrivo dolce della vecchiaia, come una riflessione lunga, piacevole e confortevole prima della fine dell'esistenza. Questo era tutto ciò che aveva sempre cercato. E non l'avrebbe mai ottenuto. No, tutte quelle speranze per il suo futuro erano morte, ma restava ancora la sua musica. Sì, avrebbe ancora potuto realizzare qualcosa se era in-
tenzionato a distruggere sé stesso. E c'era rimasto così poco da distruggere che era quasi un piacere. Nessun volo sulle rocce. Di nuovo alla carta e all'inchiostro. Aveva appena iniziato la sequenza successiva quando sentì un leggero tocco alla porta. La fissò con lo sguardo vuoto per un attimo, cercando a fatica di ricordare il significato di quel suono. Era sicuro di conoscerlo; era come se gli mancasse pochissimo per ricordare una parola, che restava però attaccata in fondo alla gola. Successe di nuovo, stavolta leggermente più forte, e allora capì. «Entrate, se volete» disse infine. La porta si aprì lentamente, cigolando, rivelando Areana, e per un lungo istante lui non riuscì a dire niente. Il dolore che sentiva dentro svanì, come le ombre fuggono davanti alla luce, e improvvisamente gli tornò in mente il felice momento del loro primo incontro al ballo nella villa di lady Gramme. Avevano ballato insieme; ricordava la musica, una danza popolare, nota come wervel. Non conosceva i passi, ma lei glieli aveva mostrati con una certa semplicità. Era lì in piedi contornata dal telaio della porta come un dipinto di un maestro del pennello, con l'abito che brillava alla luce della luna e l'oscurità del corridoio alle sue spalle. I capelli d'oro rosso apparivano roventi, scuri, sensuali. «Leoff» disse insicura. «Sono arrivata in un momento sbagliato?» «Areana» riuscì a dire lui con voce gracchiante. «No, prego. Entrate. Trovatevi una sedia.» Provò a tirarsi indietro i capelli scompigliati e per poco non si conficcò la penna in un occhio. Sospirando, lasciò ricadere le mani sui fianchi. «È solo che... non siete più uscito» disse Areana, attraversando la stanza per fermarsi accanto a lui. «Sono preoccupata per voi. Vi tengono confinato?» «No, sono libero di girare per il castello» rispose Leoff. «O almeno così mi hanno detto. Non ci ho ancora provato.» «Be', dovreste farlo» disse lei. «Non potete trascorrere tutto il tempo quassù!» «Be', ho un sacco di lavoro da fare.» «Sì, lo so» replicò la ragazza sorridendo. «La vostra opera cantata su Maersca.» Si avvicinò ancora di più e abbassò la voce come se stesse cospirando. «E cosa farete stavolta? Veramente'?» «Esattamente quello che lui mi ha chiesto.»
I suoi occhi scuri si spalancarono. «Temete che possa tradirvi?» «No» rispose lui. «Siete stata molto coraggiosa in tutta questa faccenda. Non ho mai avuto la possibilità di dirvi che quella sera avete cantato in modo perfetto. È stato un miracolo.» «Il miracolo era nella musica» rispose Areana. «Ho sentito... ho pensato di essere lei, Leoff. Davvero. Il mio cuore si stava spezzando e quando sono saltata giù dalla finestra, ho sentito che sarei morta. C'è così tanta magia in voi...» Allungò una mano per accarezzargli la faccia. Lui era troppo stordito per reagire prima che lo toccasse, poi con un balzo si allontanò. «Cosa vi hanno fatto...» sospirò lei. «Sì, be', sapevo che poteva succedere» rispose Leoff. «Ma vi avevo promesso qualcosa di meglio. Mi dispiace così tanto.» «No, voi mi avevate avvisata» disse Areana. «Avevate avvisato tutti e noi stavamo tutti con voi. Abbiamo creduto in voi.» Si avvicinò e il suo respiro era dolce. «Io ancora credo in voi. Voglio aiutarvi in quello che state facendo veramente.» «Ve l'ho detto» mormorò lui. La mano della ragazza era così calda e se lui avesse mosso la faccia di un millimetro, l'avrebbe baciata. Un altro piccolo movimento e avrebbe potuto sfiorare le sue labbra. Ma non poteva mettere la sua mano su quelle di lei. Non in questo stato. Perciò si girò leggermente dall'altra parte. «Farò quello che mi ha chiesto» disse. «Nient'altro.» Areana ritrasse la mano e indietreggiò. «Non potete» disse. «Non scherzate con me.» «Devo. Ucciderà voi e Mery» rispose Leoff. «Non lo capite?» «Non potete arrendervi per colpa mia.» «Oh» rispose lui. «Oh, sì... sì che posso. E lo farò.» «Credete che non ci ucciderà ugualmente?» «No, non credo che lo farà. In quel modo vanificherebbe tutto. Sta cercando di riconquistare il favore della vostra famiglia e degli altri custodi terrieri.» «Sì, ma la verità è che voi siete stato torturato e poi costretto a fare questo. Il principe Robert non può permettersi che questo venga fuori. E siamo ancora in tre a sapere la cosa. Per non dire quello che hanno fatto a... be', non importa. Credete davvero che ci permetterà di sopravvivere, visto quello che sappiamo?» «Abbiamo una possibilità in più che se andassi contro di lui» ragionò
Leoff. «Lo sapete. Se lo sfido, vi torturerà a morte proprio davanti ai miei occhi; poi comincerà con Mery. O magari farà il contrario, non lo so, ma non posso sopportare...» «Io non posso sopportare di vedervi obbedire ai suoi ordini» esplose Areana e lui vide una furia improvvisa nei suoi occhi. «È un'oscenità, una corruzione del vostro talento.» La fissò un istante, senza battere ciglio, come se stesse registrando qualcosa che lei non aveva detto apertamente. «Cosa vi hanno fatto?» le domandò alla fine. Lei arrossì e fece un altro passo indietro. «Non mi hanno fatto male, non quanto ne hanno fatto a voi» rispose calma. «Lo vedo» disse Leoff, cominciando ad arrabbiarsi. «Ma cosa vi hanno fatto?» Lei trasalì per il suo tono di voce. «Niente» replicò. «Niente di cui voglia parlare.» «Ditemelo» disse il compositore più dolcemente. Gli occhi della ragazza si alzarono di scatto. «Vi prego, Leoff. Vi prego lasciate stare. Se non ve lo dico...» «Non mi dite cosa?» La bocca di Areana si aprì. «Non vi ho mai visto così» disse. «Non mi avete visto quasi per niente» sibilò Leoff. «Credete di conoscermi?» «Leoff, per favore, non arrabbiatevi con me.» Lui fece un respiro profondo. «Vi hanno violentato?» Lei distolse lo sguardo e quando lo riportò su di lui, il viso aveva un'espressione più severa. «Farebbe differenza per voi?» «Che intendete dire?» «Voglio dire, potreste amarmi ancora se fossi stata violentata?» Leoff si rese conto di essere rimasto a bocca aperta, completamente spalancata. «Amarvi? Quando mai vi ho detto di amarvi?» «Be', mai, a dire il vero. Siete troppo timido e troppo assorto nei vostri pensieri. Non lo so; forse non vi rendete nemmeno conto di amarmi. Ma è così.» «Ah sì?» «Certo. E non è che creda che tutti mi amino, sapete? Ma a volte una ragazza se ne accorge, e con voi è così. O almeno mi amavate.» Leoff sentì le lacrime colargli lungo il viso. Sollevò le mani. Lei scosse il capo.
«Non m'importa» disse piano. «Importa a me» replicò lui. «Cosa vi hanno fatto?» La ragazza chinò il capo. «Quello che avete detto voi» confessò. «Quante volte?» «Non lo so. Davvero non lo so.» «Perdonatemi, Arcana.» «Non dovete chiedermi scusa» disse, tornando a guardarlo. Il suo sguardo era spento adesso. «Fategliela pagare.» Per un prezioso istante Leoff ebbe il desiderio di rivelarle il suo piano e prenderla tra quello che rimaneva delle sue braccia. Ma quella mossa lo avrebbe solo indebolito, e ora, più che mai, aveva bisogno del peggio che aveva dentro. «Robert non la pagherà» disse Leoff. «Robert la passerà liscia, e noi pagheremo. Ora per favore andate. Ho del lavoro da fare.» «Leoff...» «Andate. Vi prego.» Lui si voltò dall'altra parte e qualche secondo più tardi sentì i passi che si allontanavano lentamente e che diventavano più veloci. Quando tornò a guardare, Areana era sparita, e il suo senso di nausea tornò, più forte di prima. Si rimise a sedere davanti allo spartito e ricominciò. 5 Ritorno a Eslen Anne si guardò dubbiosa allo specchio. «Sei una regina in ogni centimetro del tuo corpo» la rassicurò Austra. A quelle parole Anne poté solo rispondere soffocando un'aspra risata, pensando alla madre con la sua pelle d'albastro, le mani perfette e i capelli lunghi e lisci come la seta. Quello che invece riusciva a mettere insieme nello specchio coperto di chiazze che Artwair le aveva rimediato, era un'immagine molto diversa. Il tempo le aveva screpolato e arrossato il viso, e le lentiggini, sempre onnipresenti, si erano ingrandite col sole vitelliano. I capelli rasati erano nascosti sotto un soggolo del tipo che non era più usato al di fuori dei coven da prima della sua nascita. L'abito era bello però, un broccato rosso e dorato, non troppo appariscente, né troppo semplice.
Nonostante questo si sentiva come un rospo con una sottana di seta. «Hai il portamento» disse Austra, ben consapevole dei dubbi della sua amica. «Grazie» rispose Anne, non avendo altro da dire. Chissà se qualcuno l'avrebbe pensata allo stesso modo a Eslen. Si disse che presto lo avrebbe scoperto. «Ora, cosa dovrei mettermi io?» rifletté Austra. Anne inarcò un sopracciglio. «Non credo che sia un problema. Tu non vieni.» «Certo che vengo» ribatté Austra decisa. «Credevo di averti chiesto di non contraddirmi più» disse Anne. «Non l'hai mai detto» protestò Austra. «Hai detto che potevo discutere con te, provare a convincerti, ma che alla fine la tua parola sarebbe stata legge. Le cose stanno ancora così. Ma sarebbe sciocco non portarmi.» «E perché?» «Che figura fa una regina senza servitori?» «Farà capire che non ne ha bisogno» rispose Anne. «Non credo» ribatté Austra. «Sarà invece un segno della tua debolezza. Devi portarti un seguito. Devi avere una cameriera altrimenti nessuno ti prenderà sul serio.» «Mi porto Catio. O è per questo che fai tante storie?» Austra arrossì e le sopracciglia si abbassarono in un'espressione di rabbia. «Non voglio fingere di non volergli stare vicino» disse Austra «ma voglio anche stare vicino a te. E rimango delle mie idee. Tu dichiari di essere regina, sei venuta a prendere il trono... devi fare la parte. Comunque, hai così tanta paura?» «Sono terrorizzata» ammise Anne. «Robert ha accettato troppo velocemente, con troppa sicurezza. Non so cosa significa.» «Questo, finalmente è un ragionamento saggio» disse la voce di Artwair da fuori la tenda. «Posso entrare?» «Prego.» Il telo che faceva da porta si aprì e suo cugino si abbassò per entrare, accompagnato da un soldato. «Avete delle riserve allora!» disse Anne. «Per i santi, certo. Non avete idea di cosa stia complottando Robert, Anne. Potreste essere uccisa nel momento in cui sparite dalla nostra vista.» «Allora sir Neil taglierà la testa a Robert» rispose Anne sicura. «Che
vantaggio ne ricaverà?» «Può darsi invece che verrete fatta prigioniera e torturata finché non darete l'ordine che sia rilasciato. O semplicemente rinchiusa fino all'arrivo di Hansa.» «Ho spiegato chiaramente a mio zio che se verrò avvicinata, in un modo o nell'altro, la sua testa cadrà. E poi porterò con me cinquanta uomini.» «Robert ne ha migliaia a Eslen. Cinquanta sono solo una finta, nient'altro. «Pensateci, Anne! Perché mai Robert dovrebbe accettare di essere messo in questa situazione? Avrebbe potuto tenere facilmente Eslen contro di noi fino all'arrivo dei suoi rinforzi.» «Allora forse non è così sicuro che i rinforzi arrivino in tempo» suggerì Anne. «O magari non è così certo che i suoi alleati lo appoggeranno. E se la Chiesa dovesse nominare un Hansan come reggente e mandare mio zio al patibolo?» «Questo è possibile» rispose Artwair e poi sospirò. «Ma se è così, perché non aprire i cancelli e farci entrare tutti? Io credo che abbia qualche piano malvagio. O magari è ancora peggio di così; forse non è Robert il vero capo e lo stanno sacrificando per farvi cadere nelle grinfie di chi ha il vero controllo.» «E chi sarebbe questa persona? Il praifec Hespero?» «Può darsi.» «Può darsi» ripeté Anne. Fissò il cugino negli occhi, desiderando di potergli spiegare le sue visioni, parlargli di come aveva visto i passaggi segreti dentro le mura di Eslen. Qualunque cosa avessero escogitato i suoi nemici, erano sempre degli uomini, e gli uomini non sapevano dei passaggi segreti. Sfortunatamente, lo stesso incantesimo le rendeva impossibile spiegare la cosa ad Artwair. «Potrebbe essere tutto vero» ammise. «Ma quale alternativa vedete? Avete appena ammesso che non possiamo prendere facilmente Eslen con la forza bruta. E poi, al di là di quello che può essere il piano di Robert, io ho un vantaggio che lui non sa.» «Quale vantaggio?» «Potrei anche dirvelo,» disse Anne «ma non ve ne ricordereste.» «Che significa?» domandò Artwair irritato. Anne si morse il labbro. «Ho un modo per fare entrare le truppe in città.»
«Non può essere. Se fosse vero, lo saprei.» «Invece vi sbagliate» gli disse Anne. «Pochissimi conoscono questa possibilità.» Per un attimo Artwair si grattò il moncone del braccio. «Se è vero...» Scosse il capo. «Dovete essere più precisa.» «Non posso» rispose Anne. «Ho giurato.» «Non è sufficiente» disse Artwair. «Non posso permetterlo.» Anne si accese improvvisamente. «Cosa state dicendo, cugino?» «Se dovrò proteggervi da voi stessa, lo farò.» Anne fece un respiro profondo, osservando le guardie. Quante ne aveva ancora fuori? Be', così stavano le cose. «Come intendete proteggermi, Artwair? Cosa pensate di poter fare?» Il viso dell'uomo si contrasse dietro a un'emozione, ma Anne non riuscì a capire di cosa si trattasse. «Noi abbiamo bisogno di voi, Anne. Senza di voi, quest'esercito non ha motivo di esistere.» «Il che significa che senza di me, voi non avete un esercito.» Lui restò in silenzio per un lungo istante. «Se la mettete così, Anne, allora sì. Cosa ne sapete di queste cose? Mi siete sempre piaciuta, Anne, ma siete solo una ragazza. Fino a qualche mese fa non nutrivate il minimo interesse per questo regno o per chiunque ci vivesse tranne che per voi stessa. Non so quale candida idea abbiate...» «Non importa» lo interruppe Neil MeqVren, entrando nella tenda. Catio arrivò subito dietro di lui e alle loro spalle Anne vide una dozzina o più delle guardie di Artwair, che guardavano con attenzione. «Anne è la vostra regina.» «Voi dovreste stare a sorvegliare il principe Robert» disse Artwair. «È in buone mani. Sono venuto, come voi, per provare a dissuaderla da questa intenzione pericolosa.» «Allora vi chiedo di non lasciarvi coinvolgere.» «Mi avete già coinvolto voi» replicò Neil. «Non si lascerà convincere e non dovete provare a costringerla.» «Non credo che possiate forzarmi» disse Artwair secco. «Avrà il mio aiuto» aggiunse Catio; i due, passando, sfiorarono gli uomini di Artwair per fermarsi al fianco di Anne. Lei sapeva che anche con la strana arma di Neil, lui e Catio non avevano alcuna possibilità di vincere contro gli uomini di Artwair. Ma il fatto di averli lì la faceva sentire bene.
Artwair disse con una smorfia: «Anne...» «Qual è il vostro piano, duca Artwair?» lo interruppe Anne. «Come pensate di reclamare il vostro trono?» «Non voglio nessun trono per me» disse Artwair, furioso adesso. «Tutto quello che desidero è il meglio per Crotheny.» «E credete che per me non sia la stessa cosa?» «Io non ho idea di cosa vogliate voi, Anne, ma credo che il desiderio di liberare vostra madre abbia offuscato la vostra capacità di giudizio.» Anne si avviò verso la porta della tenda, la spalancò e allungò il dito come fosse una lancia verso l'isola ammantata dalla nebbia. Gli uomini all'esterno indietreggiarono. «Il trono è lì, al di là dell'acqua, su quell'isola. È per questo che siamo venuti. Ho una possibilità di...» «Non avete nessuna possibilità. Robert è troppo infido. Faremmo meglio a ritirarci, raccogliere le nostre forze, unirci a Liery.» «Liery» disse Anne «è già lì fuori. Credete veramente che sir Fail non abbia una sua flotta sull'acqua, in un momento come questo?» «Allora dove sono?» «Stanno arrivando.» «Non ci raggiungeranno mai in tempo» commentò Artwair. «Quale flotta può espugnare Fortezza-di-Spine?» «Nessuna» rispose Anne. «Ma voi potreste farcela.» Artwair spalancò la bocca, poi la richiuse. «Può darsi,» disse lui «ma non è affatto facile. Tuttavia se ci fosse una flotta lierish...» Guardò pensoso in lontananza. «C'è» rispose Anne. «L'ho vista. Entro due giorni da oggi arriveranno. Se noi non controlleremo Fortezza-di-Spine verranno annientati, schiacciati tra le mura e la flotta hanzish.» «Vista?» «In una visione, cugino.» Artwair esplose in una breve risata. «Le visioni non mi sono di nessun aiuto» disse. Anne gli afferrò il braccio e lo fissò negli occhi. «Quello che avete detto di me era vero» ammise. «Ma sono cambiata. Non sono più la ragazza che conoscevate. E so più cose di voi, cugino Artwair. Non di tattica e strategia, lo ammetto, ma riguardo altre cose, probabilmente di maggior importanza. So come far entrare le truppe a Eslen. So che Fail sta arrivando. Voi avete bisogno di me, ma non come la polena che immaginate.
«Io non sarò, come ha detto Robert, il vostro fantoccio. Noi faremo questa cosa come voglio io, o non la faremo per niente. A meno che non crediate che questo esercito seguirà il mio cadavere. O il vostro.» La sua rabbia adesso era aumentata, come un seme marcio nello stomaco. Ancora una volta sentì le acque della vita e della morte gonfiarsi intorno a lei e le seguì tra le cuciture dell'armatura di Artwair, oltrepassandogli la pelle con uno scricchiolio, fino a entrare nel groviglio di tessuti sanguinolenti e nel morbido muscolo del cuore. Lo sentì battere per un momento, poi, dolcemente, lo accarezzò. Il risultato fu immediato. Gli occhi di Artwair uscirono dalle orbite e le ginocchia cominciarono a piegarsi. Uno dei suoi uomini lo sostenne, quando si strinse il petto. «No» disse soffocando. «No.» Come se stesse ancora guardando la sua immagine riflessa dallo specchio, Anne sentì che questa aveva cominciato a parlare. «Dite che sono la vostra regina, Artwair» mormorò. «Ditelo adesso. Ditelo. Ripetetelo.» Il viso di lui era diventato paonazzo, ma le labbra si stavano tingendo di blu. «Cosa...» «Ditelo.» «Non... in questo... modo.» Lei avvertì lo spasmo del cuore di Artwair e realizzò che sarebbe presto morto se non si fosse fermata. Quanto era straordinariamente delicato il cuore. Ma non voleva Artwair morto, perciò con un sospiro lo liberò. Lui ansimò e si piegò, poi cercò di raddrizzarsi, mentre gli occhi si riempivano di paura e spavento. «Non sono quello che credete voi» gli disse Anne, lasciando la presa sul suo braccio. «No» riuscì a replicare lui debolmente, con gli occhi ancora fuori dalle orbite. «Non lo siete.» «La flotta sta arrivando. Lo so. Voi sapete come si combattono le guerre. Possiamo lavorare insieme?» Artwair sostenne il suo sguardo per un lungo istante, poi annuì. «Bene» disse lei. «Parliamo di questo, ma facciamo presto. Entro un'ora andrò a Eslen.»
Un'ora più tardi, quando si avvicinò all'imbarcazione di Robert, Anne ebbe un improvviso sussulto. Era come se si stesse risvegliando da uno dei sogni che faceva quando era bambina, un sogno in cui precipitava. Ciò che rendeva quei sogni così sconcertanti era il fatto che spesso si verificavano quando non credeva di essersi addormentata. Adesso aveva una sensazione simile. Si ricordava bene del confronto con Artwair, e della conversazione che era seguita, ma il ricordo aveva una qualità irreale, improvvisamente più intensa non appena la vista, gli odori e i suoni circostanti tornarono con una violenza tale da sconvolgerla. Il profumo di ferro e iodio dell'acqua era insopportabile, e cascate d'oro liquido sembravano colare dalle nuvole. Notò le rughe sottili all'angolo degli occhi di Artwair e il soffice fruscio dei suoi piedi sull'erba ingiallita, seguito da una silenziosa frizione di pietra e cuoio. Ed Eslen. Soprattutto Eslen, con le sue bianche torri che in alcuni punti bruciavano sotto la luce del sole e in altri mostravano un pallore spettrale, sotto l'ombra delle nuvole che si andavano spaccando, mentre i guidoni svolazzavano come code di drago nel cielo. Lontano, alla sua destra, le colline minori, le gemelle Tom Cast e Tom Woth, mostravano corone di un colore fulvo su spalle di sempreverdi. Si sentì sollevata e allo stesso tempo disorientata. Non aveva avuto affatto paura di Artwair, ma ora il suo terrore era tornato. Cosa stava facendo? Voleva correre indietro da suo cugino, affidarsi alle sue cure, lasciargli prendere la responsabilità e il potere che così chiaramente desiderava. Ma neanche così si sarebbe salvata e per il momento era questo che le permetteva di andare avanti. Aveva visto l'arrivo delle navi lierish, proprio come aveva detto ad Artwair. Aveva visto i passaggi che solo le donne potevano vedere. Ma aveva visto anche qualcos'altro: la donna mostruosa delle sue Donne Nere, rannicchiata sotto la fredda pietra nella città dei morti. Aveva otto anni quando insieme ad Austra aveva trovato la cripta, ed essendo piccole avevano immaginato che fosse la tomba di Virgenya Dare, sebbene nessuno sapesse esattamente dove la Regina Nata era stata sepolta. Avevano iscritto preghiere e maledizioni su un foglio di piombo e l'avevano spinto in una crepa del sarcofago ed erano quasi certe che le loro suppliche sarebbero state esaudite. Visto quello che era successo, avevano avuto ragione. Anne aveva chie-
sto che Roderick di Dunmrogh s'innamorasse di lei e lui era diventato letteralmente pazzo per amore. Aveva chiesto che sua sorella Fastia diventasse più buona e così era stato, soprattutto con Neil MeqVren, se bisognava credere alla zia Elyoner. Quello su cui si erano sbagliate era l'identità della persona che giaceva nella cripta, che stava esaudendo le loro preghiere. Si riprese dalle sue fantasticherie e si rese conto che Robert stava appoggiato al muro di sostegno della diga e la osservava. «Bene, mia cara nipote,» disse «siete pronta a tornare a casa?» Qualcosa nel modo in cui lo disse suonò strano, e lei tornò a domandarsi se tutta quella situazione non fosse in qualche modo un'idea dello zio. «Pregate che a mia madre non sia successo nulla» rispose. «È nella torre Pelliccia-di-Lupo» le rivelò lui per aiutarla. Indicò col capo verso il suo unico compagno maschio, un uomo basso con le spalle larghe e i lineamenti delicati, con gli stessi baffi e la stessa barba curata che aveva Robert. «Questo è il mio amico fidato, sir Clement Martyne. Lui porta con sé le mie chiavi e la mia autorità.» «Sono il vostro umile servo» disse l'uomo. «Se le succede qualcosa, sir Clement,» disse Neil «mi conoscerete meglio, ve lo prometto.» «Sono un uomo di parola,» ribatté sir Clement «ma sarei felice di conoscervi meglio, sir Neil, qualunque sia la situazione in cui vogliate farlo.» «Ragazzi,» intervenne Robert «siate buoni.» Allungò il braccio per afferrare la mano di Anne. Lei era così stordita che lo lasciò fare. Quando lui se la portò alle labbra, la ragazza dovette reprimere un conato di vomito. «Fate buon viaggio» disse Robert. «Ci rincontreremo tutti qua tra un giorno, d'accordo?» «Sì» rispose Anne. «E discuteremo del nostro futuro.» «E discuteremo del nostro futuro.» Pochi istanti dopo lei si ritrovò su una chiatta con i suoi uomini e i loro cavalli, solcando le acque verso Eslen. Dentro le ossa la sentiva come un posto in cui non era mai stata. Quando raggiunsero il molo, montarono a cavallo e quella sensazione aumentò. Il castello di Eslen si ergeva sopra una collina alta, protetto da tre cerchi di mura concentriche. Solidità, la cinta muraria più esterna, era la più im-
pressionante, alta quaranta piedi e guardata da otto torri. Al suo esterno, sul largo tratto di terra più in basso, tra il primo cancello e il molo, col passare degli anni era sorta una città: Porto, un insieme di taverne, bordelli, magazzini, birrerie, tutto quello che un marinaio giramondo avrebbe potuto desiderare, sia che fosse arrivato quando i cancelli della città erano aperti sia che li avesse trovati chiusi. Di solito era un luogo che brulicava di gente, chiassoso, considerato tanto pericoloso che le uniche volte che Anne l'aveva visitato erano state quelle in cui era sgattaiolata fuori dal castello in incognito e contro la volontà dei genitori. Oggi era tranquillo e gli unici marinai che vide erano quelli con le insegne reali. Non ce n'erano molti però; la maggior parte era a bordo della flotta che lei aveva visto arrivando là. Da porte e finestre aperte Anne intravide uomini, donne e bambini, la gente che effettivamente viveva lì, e si domandò cosa sarebbe capitato a quelle persone se e quando la guerra fosse cominciata. Si ricordò dei piccoli villaggi che circondavano i castelli che loro avevano assoggettato. Non gli era andata molto bene. Dopo qualche spiegazione di sir Clement e la presentazione di una lettera scritta da Robert, i cancelli vennero aperti ed entrarono a Eslen. La città era leggermente più vivace di Porto. Anne pensò che doveva esserlo per forza. Anche con il rischio di una guerra, il pane andava comunque infornato e comprato, i panni andavano ugualmente lavati e la birra preparata. Nonostante il viavai, però, il suo seguito attirò un sacco di sguardi curiosi. «Non mi riconoscono» notò Anne. «Sembro così diversa?» Catio soffocò una risatina a quell'osservazione. «Che c'è?» domando lei. «Perché dovrebbero riconoscervi?» domandò il vitelliano. «Anche se non mi riconoscono come loro regina, sono principessa da diciassette anni. Tutti mi conoscono.» «No» la corresse Austra. «Tutti quelli del castello ti conoscono. La nobiltà, i cavalieri, la servitù. La maggior parte di quelle persone ti riconoscerebbe. Ma come potrebbe la gente di città identificarti se non indossi neanche un simbolo della tua carica?» Anne batté le palpebre. «È incredibile» commentò. «Non proprio» rispose Catio. «Quanti di loro hanno avuto l'opportunità di incontrarvi faccia a faccia?» «Intendevo dire che è incredibile che non ci avessi mai pensato.» Anne
si voltò verso Austra. «Quando venivamo in città, ho sempre usato dei travestimenti. Perché non mi hai detto niente allora?» «Non volevo rovinarti il divertimento» ammise Austra. «E poi ci sono persone che avrebbero potuto riconoscerti e alcune di queste avrebbero potuto essere quelle sbagliate.» Osservando i larghi sorrisi dei suoi compagni, Anne ebbe l'inspiegabile sensazione di una cospirazione contro di lei, come se Austra e Catio avessero in qualche modo progettato di mettere in risalto questa sua ingenuità. Comunque, represse la sua irritazione. La strada tortuosa si fece più ripida prima che avessero raggiunto il secondo cancello. La città di Eslen si stendeva in qualche modo come la tela di un ragno ad avvolgere un formicaio, con i viali paralleli agli ampi cerchi delle antiche mura e con strade che correvano giù per le colline come torrenti. Le vie più larghe, però, quelle usate da eserciti e mercanti, si avvitavano sulla collina per evitare che fossero troppo ripide per carri e cavalli corazzati. Loro stavano seguendo appunto una di queste strade, la Rixplaf, e così la loro avanzata li portava ad attraversare gran parte dei quartieri occidentali della collina. Ognuno di questi aveva un tratto distintivo, o almeno così le era stato detto. Con alcuni la cosa era palese; le case nella vecchia area fortificata di Firoy avevano i tetti più a punta di tutta la città, tutti d'ardesia nera, in modo tale che mentre proseguivano sulla strada sopra di loro, le sembrava di guardare dall'alto onde di pietra. La gente era pallida e parlava con accenti cadenzati. Gli uomini indossavano farsetti a quadri di due colori, e le gonne delle donne raramente avevano meno di tre vivaci tonalità. La zona fortificata di san Neth, invece, dava la sensazione di essere diversa, ma non c'era qualcosa che Anne potesse veramente additare per spiegare il perché. Eppure della maggior parte delle diciotto aree fortificate della città,. Anne aveva visto solo le case che fronteggiavano la strada, dando solo curiose occhiate giù per gli stretti vicoli. Una volta lei e Austra s'erano intrufolate nella Corte Gobelin, il quartiere sefry, che lei credeva essere la parte più stravagante della città, per i suoi colori vibranti, la musica esotica e gli strani odori di spezie. Ora, dopo le esperienze fatte nella campagna di Crotheny, Anne si domandava se anche i quartieri degli umani non fossero altrettanto strani e particolari. In breve, chi erano gli abitanti di Eslen? Si rese conto di non saperlo e forse neanche suo padre lo sapeva. Forse nessun re o imperatore dell'impero crotanico lo aveva mai saputo, e in ef-
fetti cose come queste non erano mai davvero conoscibili. In quel momento si trovavano nel distretto di Onderwaed, in cui l'emblema del maiale con una cresta di peli sul dorso era visibile ovunque: sui batacchi delle porte, in piccoli dipinti sopra gli usci, sulle banderuole sopra i tetti. Le case intonacate tendevano a essere tutte della stessa tonalità, terra d'ombra, e gli uomini portavano cappelli con la falda, appuntata da una parte. Molti di loro erano macellai e, in effetti, piazza Mimhus era dominata dall'impressionante facciata della gilda dei macellai, un edificio a due piani di pietra gialla con finestre a battenti e tetto nero. Appena entrarono nella piazza, l'attenzione di Anne venne catturata più dalla scena che dagli edifici che la circondavano. C'era una grande folla radunata intorno a un palco eretto al centro della piazza, dove molte persone con strani vestiti sembravano essere tenute sotto controllo dai soldati. Questi ultimi indossavano cappelli quadrati e sorcotti neri con il sigillo della chiesa. Sopra di loro, quasi in senso letterale, appollaiato su una sedia di legno dall'aspetto precario e con dei trampoli come zampe, un uomo vestito come un patir sembrava presiedere una sorta di processo. Una forca incombeva alle sue spalle. Anne non aveva mai visto niente del genere. «Che sta succedendo qua?» domandò a sir Clement. «La Chiesa sta usando le piazze della città come pubblica corte» rispose il cavaliere. «Gli eretici sono una piaga comune all'interno della città e pare che il resacaratum ne abbia scoperti altri.» «Sembrano attori» notò Austra. «Artisti di strada.» Sir Clement annuì. «Abbiamo scoperto che gli attori sono particolarmente suscettibili ai richiami di certe eresie e stregonerie.» «Ah, sì?» domandò Anne. Spronò il cavallo verso l'attish. «Un momento!» grido in allarme sir Clement. «Ho sentito dire da mio zio che voi siete ai miei ordini» rispose lei girandosi indietro. «Mi chiedo se anche voi avete sentito la stessa cosa.» «Sì, certo, ma...» «Sì, Altezza» lo corresse Anne gelida. Notò che Catio si posizionava in modo da potersi frapporre tra lei e il cavaliere di Robert qualora ce ne fosse stato bisogno. «Sì... Altezza» disse sir Clement con voce stridula. Adesso l'attish li stava guardando. «Che sta succedendo?» gridò.
Anne si tirò su e chiese: «Mi riconoscete, patir?» Gli occhi dell'uomo si strinsero e poi si dilatarono. «Principessa Anne» rispose. «E per legge del Comven, sovrana di questa città» aggiunse Anne. «Per lo meno in assenza di mio fratello.» «Questo è discutibile, Altezza» disse il patir, mentre il suo sguardo scattava nervosamente verso Clement. «Mio zio mi ha consentito di attraversare la città» lo informò Anne. «Perciò, sembra che in qualche modo riconosca il mio diritto.» «È così?» domandò il patir attish a Clement. Questi scrollò le spalle. «Così sembrerebbe.» «A ogni modo,» disse il patir «sono impegnato in questioni che appartengono alla Chiesa non alla corona. Non ha importanza chi sieda sul trono per quel che riguarda questi procedimenti.» «Oh, vi assicuro che non è proprio così» rispose Anne. «Ora, per favore ditemi di cosa sono accusate queste persone.» «Eresia e stregoneria.» Anne diede uno sguardo a tutta la compagnia. «Chi è il vostro capo?» domandò. Un uomo quasi calvo di mezz'età s'inchinò. «Sono io, Vostra Maestà. Pendun MaypValclam.» «Cosa avete fatto per finire davanti a questa corte?» «Abbiamo rappresentato uno spettacolo, Maestà, nient'altro... una specie di opera cantata.» «L'opera del compositore di corte di mia madre, Leovigild Ackenzal?» «Sì, quella, Maestà, come meglio abbiamo potuto.» «Quell'opera è stata dichiarata maleficio, dei più abominevoli» esplose il patir. «Già solo questa confessione li consegna al cappio di san Woth.» Anne inarcò le sopracciglia rivolta al patir, poi si girò e guardò intorno alla piazza le espressioni degli spettatori che si erano radunati. «Ho sentito parlare di quest'opera» disse, alzando la voce. «Ho sentito dire che è diventata molto popolare.» Drizzò ancora di più le spalle. «Io sono Anne, figlia di William e Muriele. Sono venuta a riprendere il trono che era di mio padre. Ho intenzione di fare in modo che il mio primo atto sia perdonare questi poveri attori, perché mio padre non avrebbe mai tollerato questo tipo d'ingiustizia. Cosa replicate di fronte a questo, popolo di Eslen?» In risposta ricevette un momento di silenzio attonito.
«È proprio lei, sapete?» sentì qualcuno gridare tra la folla. «L'ho già vista prima.» «Liberateli!» gridò qualcun altro e, un secondo dopo, tutti, tranne i soldati e gli uomini della Chiesa, presero a gridare che la compagnia di attori fosse lasciata libera. «Siete liberi di andare» disse Anne agli attori. «I miei uomini vi proteggeranno mentre vi allontanate da questa corte.» «Basta» gridò sir Clement. «Basta con queste sciocchezze!» «Anne!» esclamò Catio. Ma lei li vide, cosa che in parte si aspettava: fanti con i colori di Robert, che entravano nella piazza da ogni direzione, aprendosi un varco tra la folla indignata. Anne annuì. «Bene» disse. «Meglio scoprire la cosa adesso che dentro la Torre Pelliccia-di-Lupo, non credete?» «Cosa facciamo?» domandò Catio. «Be', combattiamo ovviamente» rispose lei. 6 Crocevia «Winna non sta bene» mormorò Ehawk. Aspar sospirò, scrutando il lontano fianco della collina. «Lo so» rispose. «Tossisce sangue. Come te.» Indicò una linea di vegetazione annerita. «Vedi là?» «Sì» rispose Ehawk. «È da lì che è uscito dall'acqua.» Una cosa che lasciava tracce come quella non doveva essere difficile da seguire, ma il woorm usava i fiumi per gran parte dei suoi spostamenti e quello era un problema, soprattutto quando il fiume si diramava. Lo avrebbero perso nel momento in cui aveva deviato sul fiume Then se non fosse stato per i pesci morti che galleggiavano dalla foce verso il Mago. Stavano seguendo le tracce alla massima distanza possibile, senza mai mettere veramente piede sopra di esse o entrare in acqua a valle rispetto alla creatura, e Aspar aveva sperato che il veleno che ormai avevano dentro uscisse di nuovo. Non era andata così. La pozione che avevano trovato addosso agli uomini di Fend li sosteneva, ma erano stati costretti a prenderne sempre meno per farla durare. I
cavalli sembravano stare meglio, ma in fin dei conti, nessuno degli animali si era veramente trovato sul terreno avvelenato o aveva respirato l'alito del mostro. Non molto lontano, Winna tossì. Ehawk s'inginocchiò e si mise a cercare tra i resti del fuoco da campo. «Credete che queste siano tracce di Stephen?» Aspar diede un'occhiata intorno. «Sono in quattro. Non sono venuti dal fiume. Sono scesi dal Brog y Stradh. Se è Stephen, il woorm non sta seguendo lui, ma i loro sentieri continuano a incrociarsi.» «Forse il mostro sa dov'è diretto Stephen.» «Forse. Ma a questo punto m'interessa più trovare Fend.» «Forse è morto.» Aspar esplose in una risata acuta che si trasformò in un attacco di tosse. «Ne dubito. Avrei dovuto finirlo.» «Non vedo come potevate farlo. Quando finalmente eravamo riusciti a trovare la vostra freccia, il woorm se n'era andato. Non penserete mica che avreste potuto uccidere la creatura con il pugnale?» «No, ma avrei potuto uccidere Fend.» «Il woorm è suo alleato. Siamo stati fortunati a scappare.» «Così adesso possiamo morire lentamente.» «No» disse Ehawk. «Noi acciufferemo quel mostro. Adesso viaggia sulla terraferma, perciò non può andare troppo veloce.» «Già» replicò Aspar un po' titubante. Ehawk probabilmente aveva ragione, ma anche loro diventavano ogni giorno più lenti. «Bada ai cavalli e all'accampamento» disse Aspar. «Io troverò qualcosa da mangiare.» «Sì» rispose Ehawk. Aspar trovò tracce di selvaggina e un buon punto d'avvistamento su un platano. Si sistemò lì e lasciò che la stanchezza s'impossessasse del suo corpo, mentre cercava di tenere gli occhi aperti e la mente sveglia. Erano passati dieci anni da quando era stato nelle basse paludi intorno al Then, in una delle rare volte in cui si era avventurato al di là dei confini della città di Ofthen, e mentre era lì aveva sentito interessanti racconti sul Bosco di Sarn e la strega che si pensava vivesse in quel posto. Aveva il massimo della libertà allora, e pensò di andare a vedere come era l'antica foresta che dicevano essere stregata. Aveva fatto solo metà strada prima che le notizie riguardo al Wargh Nero lo costringessero a tornare verso
sud, e non aveva più ripreso quel viaggio. Ma si era fermato in quella stessa zona qualche giorno per cacciare. Era successo d'estate, quando tutto era rigoglioso e verde. Ora ogni cosa sembrava sottile, un paesaggio di giunchi e stancia, effimere luminosità di ghiaccio nelle pozze stagnanti che acchiappavano ogni colore che il cielo poteva dargli. Alla sua destra intercettò i resti di pietra nera di un muro e, più su, un cumulo che sembrava troppo regolare. Aveva sentito dire che lì, molto tempo prima, sorgeva un potente regno. Probabilmente Stephen sarebbe stato in grado di parlare di questa cosa per un tempo incalcolabile, ma tutto quello che sapeva Aspar era che era sparito da molto, e una volta allontanatisi di qualche lega da Ofthen, ci s'imbatteva in questa zona, che era una delle parti più desolate delle Regioni Centrali. Il terreno era improduttivo anche quando era asciutto e le poche persone che vivevano nella zona erano per lo più pescatori e caprai, ma non c'erano molte tracce neanche della loro presenza. Si ricordò anche di aver vagamente sentito dire qualcosa a proposito della maledizione di questa terra durante la Guerra dei Maghi, ma non aveva mai prestato troppa attenzione a questo genere di cose, anche se col senno di poi pensava che forse avrebbe dovuto farlo. Qualcosa catturò la sua attenzione. Non un movimento, ma qualcosa di strano, qualcosa che non avrebbe dovuto essere lì... Un brutto brivido gli si arrampicò lungo la schiena appena realizzò di cosa si trattava. Rovi neri erano spuntati da un cipresso morto e avevano attecchito anche sugli alberi vicini. Aveva già visto rovi come quelli, ovviamente, prima nella valle in cui dormiva il Re degli Alberi e successivamente come infestazioni nella Foresta del Re. Ed eccoli di nuovo anche qui. Questo significava forse che il Re degli Alberi era passato di là? O che le spine si stavano diffondendo ovunque? Rabbrividì, poi fu preso da un capogiro e per poco non cadde dal suo trespolo. Si attaccò disperatamente ai rami e prese a respirare in modo convulso. Macchie scure cominciarono a danzargli davanti agli occhi. Aveva solo fatto finta di bere la sua porzione di medicina negli ultimi giorni, e stava cominciando a pagare quella sua decisione. Doveva prendere Fend. Dove stava andando quel cacamelo? Qualcosa lo stava tormentando e improvvisamente capì cosa fosse. Prima che potesse pensarci troppo, un movimento attirò la sua attenzione. Smettendo quasi di respirare, Aspar aspettò fino a che il movimento
non si tradusse in una femmina di daino. Cercando di calmare la mano che tremava, prese la mira e le infilò una freccia nel collo. La bestia scappò e con un sospiro lui dovette scendere dall'albero. Adesso avrebbe dovuto seguirla per un po'. «Ho un altro piano» disse a Winna ed Ehawk. Winna sembrava stare ancora peggio che all'inizio di quella stessa giornata e mostrava delle difficoltà anche a mangiare. «Ma visto che riguarda tutti noi, voglio che voi due ci pensate bene sopra.» «Di che si tratta?» domandò Winna. «Di una cosa che ha detto Leshya, la prima volta che l'abbiamo vista. Aveva sentito dire che Fend era andato a trovare la strega del Bosco di Sarn.» «Già» replicò Winna. «Me lo ricordo.» «E il tipo che abbiamo catturato ha detto che quello è il posto in cui Fend ha preso il woorm. Si dice che lei sia la madre dei mostri, perciò credo che la cosa abbia un senso.» «Credi che Fend stia tornando lì?» domandò Winna. «Forse sì, forse no. Ma non è questo quello che voglio dire. Se ha preso il woorm dalla strega, probabilmente ha ottenuto da lei anche l'antidoto.» «Oh» esclamò Winna, alzando lo sguardo. «Ah» fece Ehawk. «Già. Pensateci, tutt'e due. Non riusciremo a prendere questo woorm. Non prima di morire. Ha dei giorni di vantaggio su di noi e, sì, forse va più lento sulla terraferma, ma io l'ho visto muoversi ed è ancora veloce come un cavallo. E se arriva a un altro fiume...» «Così vorresti andare a trovare la madre dei mostri e chiederle il rimedio contro il veleno dei suoi stessi figli?» domandò Winna. «Non avevo intenzione di chiederlo a Fend» rispose Aspar. «E non lo chiederò neanche a lei.» «Ma noi sappiamo che Fend ce l'ha.» «Non esattamente. O meglio, io conosco Fend, ha solo quello che basta per sé.» «O forse non esiste nessun antidoto» proseguì Winna. «Forse Fend è come Stephen e il veleno non lo intacca.» «È possibile» ammise Aspar. «Ma madre Gastya possedeva un vero rimedio. Madre Gastya era una strega, perciò forse anche questa donna del Bosco di Sarn...» S'interruppe e scrollò le spalle.
Winna ci pensò su un attimo poi accennò un sorriso. «Vale la pena vederti cacciare questo magicus» disse lei infine. «Ci sto.» Ehawk non rispose per un lungo istante. «Quella mangia i bambini» disse infine. «Be'» rispose Aspar. «Io non sono un bambino.» Guadarono il Then a monte rispetto al percorso del woorm giusto all'alba, con Orco che apriva la strada rompendo la sottile lastra di ghiaccio. Il terreno era più sicuro dall'altra parte e rapidamente si alzò in una serie di basse colline terrazzate, con una vegetazione ricca di salici e sassofrassi. Quando il sole era ormai alto, si ritrovarono su una prateria ondulata, interrotta da pascoli e campi di un verde intenso, con il frumento invernale che arrivava fino ai polpacci. Gli alberi erano pochi e molto distanziati e macchie con più di una mezza dozzina di piante erano davvero rare. Ad Aspar non piaceva un paesaggio così aperto; gli dava la sensazione che qualcosa potesse piombargli addosso dal cielo. E magari sarebbe accaduto davvero. Se poteva esistere un serpente lungo mezza lega, allora forse potevano esserci anche aquile altrettanto grandi. C'erano anche troppe persone nelle Regioni Centrali, o almeno una volta era così. Non costruivano grandi città come facevano verso le coste, ma le fattorie erano comuni: una casa, un fienile e qualche edificio più piccolo, e a intervalli di poche leghe sorgeva una piazza del mercato con una mezza dozzina di edifici. Su ogni altura che avesse le sembianze di una collina si ergeva un castello, qualcuno era in rovina, altri sbuffavano fumo lasciando capire di essere ancora abitati. Quel giorno ne videro tre dall'alba al tramonto. Sembravano tanti, visto che in quel territorio non c'erano molte alture che l'immaginazione potesse definire colline. Ma in realtà non incontrarono nessuno, non il primo giorno, perché erano ancora piuttosto intenti a seguire le tracce del woorm e sembrava che questo avesse fatto una deviazione ogni volta che arrivava in vista di qualche casa. Non videro mucche, pecore, capre, né cavalli. La creatura doveva mangiare, e considerata la sua stazza, probabilmente doveva mangiare parecchio. Il mattino seguente, presto, le tracce del mostro però deviavano più a nord rispetto alla direzione che Aspar voleva seguire, ponendo il gruppo davanti a un crocevia. Era giunto il momento di mettere alla prova quanto aveva stabilito. Un'occhiata a Winna fece sì che la sua mente si decidesse e si diressero a nordest, verso il Bosco di Sarn.
Dopo un'ora arrivarono in vista di mucche al pascolo e di un paio di persone. Quando furono più vicini, Aspar vide che si trattava di un ragazzo e una ragazza, nessuno dei due poteva avere più di tredici anni. All'inizio sembrava che fossero pronti a fuggire, ma rimasero lì fino a che Aspar e i suoi compagni non furono più o meno a cinquanta leghe da loro. «Salve» gridò la ragazza. «Chi siete?» Aspar sollevò le mani vuote. «Il mio nome è Aspar White» rispose lui gridando. «Sono il guardaboschi del re. Questi sono miei amici. Non intendiamo farvi alcun male.» «Cos'è un guardaboschi?» esclamò la ragazza. «Sono a guardia della foresta» rispose lui. La ragazza si grattò la testa, poi si guardò intorno come in cerca di una foresta. «Vi siete persi?» domandò. «No» replicò Aspar. «Ma posso avvicinarmi? A forza di gridare mi sto consumando la gola.» I due si guardarono e poi diressero di nuovo l'attenzione al trio. «Non lo so» disse la ragazza. «Dovremmo smontare da cavallo» disse Winna. «Sono spaventati.» «Hanno paura di me» replicò Aspar. «Io smonto. Winna, perché non ti avvicini prima tu? Ma rimani a cavallo, almeno fino a che non arrivi là.» «Buona idea» ammise lei. Aethlaud e suo fratello Aohsli erano due ragazzi biondi con le guance rosa. Lei aveva tredici anni e lui dieci. Avevano un po' di pane e formaggio a cui Aspar aggiunse una buona porzione della caccia del giorno prima. Non l'aveva trattata a dovere, perciò quella che era avanzata si sarebbe comunque rovinata entro pochi giorni. Si sedettero su una dolce altura, sotto un albero di cachi, e osservarono le mucche. «Le stiamo portando giù a Haemeth,» spiegò Aethlaud «da mio zio. Ma dobbiamo farle pascolare lungo il tragitto.» «Dove si trova questo posto?» domandò Aspar. L'espressione della ragazza sembrava rivelare che chiunque non sapesse dov'era Haemeth non sapeva granché. «A circa una lega da quella parte» rispose, indicando verso nordest. «Sulla strada Thaurp-Crenreff.» «Noi stiamo andando da quella parte» disse Winna. Aspar avrebbe voluto zittirla prima che proponesse di accompagnarli. Non voleva stare al passo con le mucche. Ma le parve così scarna e fragile che la sua voce rimase
congelata. «Siete malata?» domandò improvvisamente Aohsli. «Sì» rispose Winna. «Lo siamo tutti. Ma non è contagioso.» «No, è per colpa del waurm vero?» Si trovavano fuori del territorio oostish e la pronuncia della ragazza era leggermente diversa, ma non c'erano dubbi su ciò che intendeva dire. «Già» rispose Aspar. «Haudy l'ha visto» confidò il ragazzo. La sorella gli diede un colpetto dietro alla nuca. «Aethlaud» lo corresse seccamente. «Sono troppo grande per quel nomignolo. L'anno prossimo mi sposo e mamma ti manderà a vivere con me e ti farò mangiare cacchivitello se mi chiami in quel modo.» «Mamma ti chiama ancora così.» «Tu non sei mamma» disse la ragazza. «Hai visto il woorm?» li interruppe Winna. «A ovest da qui?» «No» rispose lei. «Da lì tornerebbe indietro, credo.» «Che vuoi dire?» domandò Aspar, chinandosi più verso di lei. «Prima di Yule» disse lei. «Sono andata col fratello di mia madre, Orthel, a Mael per farmi macinare un po' di segale. Si trova sul torrente Fenn, quello che finisce nel Mago. L'abbiamo visto nel fiume. La gente lì intorno, un bel po', si è ammalata come voi.» «Prima di Yule.» «Già.» «Perciò è uscito dal Bosco di Sarn.» «Ah, certo» rispose la ragazza sgranando gli occhi. «Da dove altro poteva uscire?» Questo risollevò il morale di Aspar, anche se di poco. Aveva avuto una buona intuizione; magari anche il resto dei suoi 'forse' era giusto. «Cosa sapete del Bosco di Sarn?» domandò Aspar. «È pieno di spiriti e alv e booygshin!» rispose Aohsli. «E c'è la strega» aggiunse Aethlaud. «Non scordarti la strega.» «Conoscete qualcuno che sia stato lì?» domandò Winna. «Eh... no» rispose la ragazza. «Perché nessuno che è entrato lì dentro è mai tornato indietro.» «Tranne nonno» la corresse il ragazzo. «Già» convenne Aethlaud. «Ma lui è andato a ovest rispetto al bosco.» «È là che state andando?» domandò Aohsli ad Aspar. «Nel Bosco di Sarn?»
«Già» annuì Aspar. Il ragazzo batté le palpebre, poi diede un'occhiata a Orco. «Quando sarete morto, potrò avere il vostro cavallo?» Ehawk, che non era solito alle esplosioni, scoppiò a ridere. Lo fece con tanta forza da contagiare anche Winna e alla fine Aspar si scoprì a sorridere. «Ora stai desiderando cose che forse non potrai avere» disse. «Orco potrebbe essere un po' troppo per te.» «Naa. Lo saprei portare» disse Aohsli. «Quanto ancora pensate di metterci per arrivare a Haemeth?» domandò Winna. «Altri due giorni» disse Aethlaud. «Non vogliamo farle dimagrire camminando.» «Siete al sicuro, voi due da soli qua fuori?» Aethlaud sollevò le spalle. «Prima era più sicuro, credo.» Si accigliò, poi continuò in modo un po' più strafottente. «Ma non abbiamo molta scelta. Non c'è nessun altro che possa farlo, non da quando nostro padre è morto. E lo abbiamo già fatto altre volte.» Winna diede un'occhiata ad Aspar. «Forse potremmo...» «No, non possiamo» disse lui. «Non possiamo. Due giorni...» «Puoi venire un momento, Aspar?» domandò Winna, esortandolo con un cenno della testa. «Sì.» Non c'era un posto dove andare se non via da lì e Winna cominciava ad avere dei problemi a spostarsi, perciò non andarono tanto lontano. Ma mettendosi a bisbigliare si sentirono un po' più in privato. «Tu non stai male come me» disse Winna. «È accaduto qualcosa quando il Re degli Alberi ti ha salvato la vita, qualcosa che ti ha reso più forte. Non stai bevendo veramente la pozione che hai preso dall'uomo di Fend, vero?» Aspar confessò con un leggero cenno del capo. «Lo sento lo stesso,» ammise «ma sì, è vero, non sto male come te.» «Quanto manca ancora al Bosco di Sarn?» Lui ci pensò. «Tre giorni.» «Al passo che stiamo tenendo, intendo dire.» Aspar sospirò. «Quattro, forse cinque.» Winna tossì e lui dovette tenerla per impedirle di cadere. «Sono sicurissima che non riuscirò a stare a cavallo per altri due giorni,
Aspar. Mi ci dovrai legare sopra. Ehawk ce la farà per un po' di più, credo.» «Ma se perdiamo tempo qui...» «Solo io e Ehawk, Aspar» disse Winna. Aveva gli occhi colmi di lacrime. «Se dovrò vivere solo qualche altro giorno, preferirei usare questo tempo aiutando questi due ad arrivare dove sono diretti, piuttosto che a dare la caccia a qualche cura che non esiste.» «Esiste» insisté Aspar. «Li hai sentiti: Fend ha preso il woorm nel Bosco di Sarn. Sono sicuro che lì ha preso anche l'antidoto.» «Li ho anche sentiti dire che chiunque è entrato nel Bosco di Sarn non è più tornato.» «Solo perché non si trattava di me.» Lei scosse il capo stancamente. «No» disse. «Portiamoli a Haemeth. Puoi fare domande laggiù, scoprire qualcosa in più sulla strega.» «Possiamo farlo comunque senza perdere tempo a guidare la mandria.» «Voglio aiutarli, Aspar.» «Non hanno bisogno d'aiuto» controbatté lui, mentre la disperazione si faceva strada tra le sue parole. «Lo hanno già fatto prima. Così hanno detto.» «Sono terrorizzati» lo contraddisse Winna. «Chissà in che cosa s'imbatteranno da qui a due giorni. Seppure non dovessero essere woorm o greffyn potrebbe trattarsi semplicemente di ladri di bestiame.» «Non sono loro che mi preoccupano, Winna, ma tu.» «Già. Lo so. Ma fallo per me.» Stava piangendo senza freni adesso, ma in silenzio. Il viso era rosso, le labbra si stavano tingendo di blu. «Andrò io» disse lui. «Andrò da solo. Sarà più facile così; hai ragione su questo. Ehawk non sarà in condizione di combattere quando sarà il momento; hai ragione. Non ci pensavo.» «No, amore» disse Winna. «No. Allora morirò senza di te, non capisci? Voglio esalare il mio ultimo respiro fra le tue braccia. Voglio che tu sia lì con me.» «Non morirai» disse Aspar con voce pacata. «Tornerò con la cura. Ci vediamo a Haemeth.» «Non andare. Non mi hai sentito? Non voglio morire da sola! E poi lei ti ucciderà!» «E che mi dici di Ehawk? Hai abbandonato le speranze per quanto riguarda te, ma potrebbe ancora esserci tempo per salvare lui, lo hai detto
anche tu.» «Io... Aspar, ti prego. Non ho la forza per tutto questo.» Gli si strinse la gola e il battito del cuore prese a rimbombargli nelle orecchie. «Basta» disse lui. La prese in braccio, la portò a grandi passi verso il suo cavallo e ce la mise sopra, poi tirò via le braccia che lo stringevano. «Ehawk» gridò. «Vieni qua.» Il ragazzo obbedì. «Tu e Winna andrete con questi due in città. Lì dovrai trovare un leic, mi hai sentito? La gente qui intorno forse sa più cose sui mostri e il veleno di quanto pensiamo noi. Lì aspetterete il mio ritorno.» «Aspar, no!» gemette Winna debolmente. «Avevi ragione tu!» le rispose gridando. «Andate con loro.» «Vieni anche tu!» Anziché rispondere, il guardaboschi fece un rumore secco con la bocca e montò su Orco. «Gli dirò di venire a cercarti quando sarò morto» disse ad Aohsli. «Ma dovrai prenderti cura di lui.» «Sissignore!» Si voltò a guardare Winna e vide che lei e il suo cavallo erano solo a pochi passi di distanza. «Non lasciarmi» sussurrò lei. Le sue labbra si mossero, ma a malapena lui riuscì a sentire la voce. «Non sarà per molto» promise. Lei chiuse gli occhi. «Allora baciami» disse. «Baciami un'ultima volta.» Il dolore divampò come un mostro, uscendo dagli abissi del suo intestino e cercando di aprirsi un varco con gli artigli per sbucare dai suoi occhi. «Conserva quel bacio» disse. «Me lo prenderò al mio ritorno.» Poi si voltò e si allontanò e non guardò indietro, non ci riuscì. 7 Il lupo impazzito Robert Dare si lisciò i baffi, bevve un sorso di vino e sospirò. Dalla loro posizione sopra la diga poteva vedere le terre allagate che si stendevano verso Eslen. «Ho sempre preferito i vini galleani» commentò. «Sembra quasi di sen-
tirci il sole dentro, sapete? La roccia bianca, la terra nera, le ragazze con gli occhi scuri.» Fece una pausa. «Ci siete stato, vero, sir Neil? Vitellia, Tero Galle, Hornladh: avete fatto quasi il giro di questo continente. Spero vivamente che possiate organizzarvi per vedere quello che resta. Ditemi, sembra che viaggiare apra la mente, arricchisca il palato. Avete sperimentato nuovi sapori nei vostri viaggi? O qualunque altra cosa?» Mentre osservava il principe, Neil aveva la strana sensazione di guardare una specie d'insetto. Non per una caratteristica precisa, ma per qualcosa di indefinibile nelle movenze. Il cane, il cervo o la lucertola erano tutti animali che si muovevano in modo uniforme, a tempo col resto del mondo circostante. Lo scarafaggio invece si muoveva in modo strano. Non dipendeva solo dal fatto che fosse veloce o che avesse sei zampe; sembrava piuttosto che si muovesse al ritmo di un mondo diverso, più piccolo, o forse seguiva i ritmi minori di questo stesso mondo, che però i giganti come Neil non riuscivano a percepire. Con Robert era la stessa cosa. I suoi gesti studiavano la normalità, ma non riuscivano a riprodurla. Vista con la coda dell'occhio, anche l'apertura delle labbra aveva un qualcosa di mostruoso. «Sir Neil?» lo sollecitò educatamente Robert. «Stavo solo pensando» disse lui «a come riassumere il tutto nel migliore dei modi. All'inizio sono stato sopraffatto dalla grandezza del mondo, dal numero di parti che lo componevano. Fui impressionato dalla diversità delle persone e contemporaneamente dalla loro uguaglianza.» «Interessante» disse Robert con un tono di voce che suggeriva esattamente il contrario. «Sì» replicò Neil. «Fino a che non sono arrivato a Eslen, credevo che il mio mondo fosse grande. Il mare, in fondo, sembra infinito quando lo si naviga, e le isole innumerevoli. Ma poi ho scoperto che tutto quello che conoscevo poteva essere infilato in una tazza, se il mondo fosse stato un tavolo.» «Poetico» commentò Robert. «Nelle tazzina di mondo in cui vivevo,» proseguì Neil «le cose erano piuttosto semplici. Sapevo per chi combattevo e sapevo perché. Poi sono arrivato qui e le cose si sono fatte confuse. Man mano che viaggiavo nel mondo, lo diventavano ancora di più.» Robert sorrise con benevolenza. «In che senso confuse? Avete forse perso la certezza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato?» Neil rispose con lo stesso sorriso. «Sono cresciuto combattendo e per lo
più ho lottato contro i predoni weihand. Erano persone cattive perché attaccavano la mia gente. Erano cattivi perché combattevano per Hansa, che una volta teneva in schiavitù la mia gente e lo avrebbe fatto di nuovo se avesse potuto. Eppure, riconsiderando la cosa la maggior parte delle persone che ho ucciso non era forse tanto diversa da me. Probabilmente sono morte credendo che la loro causa fosse giusta, sperando che i loro padri li guardassero dall'aldilà e fossero fieri di loro.» «Sì, capisco» disse Robert. «Forse non lo sapete, ma esiste una filosofia di notevole importanza costruita sulla stessa premessa. Non è una filosofia che si addice agli stupidi però, perché suggerisce, proprio come voi avete appena fatto, che il bene e il male non esistono veramente e che gran parte delle persone fanno ciò che ritengono giusto. È solo la mancanza di accordo su ciò che è giusto che ci porta a credere nel bene e nel male.» Si sporse in avanti, quasi impaziente. «Avete viaggiato per lunghe distanze, sir Neil. Leghe. Ma si può anche viaggiare, diciamo così, nel tempo, attraverso lo studio della storia. Considerate la disputa che abbiamo di fronte adesso; sono stato diffamato perché sto provando a rafforzare i nostri legami d'amicizia con Hansa ed evitare così una guerra che difficilmente possiamo permetterci. I miei detrattori dicono che così facendo creo le condizioni che potrebbero consentire a un Reiksbaurg di prendere il trono da qui a qualche anno. «Ora, perché questo dovrebbe essere considerato sbagliato? Perché Hansa è il male? Perché desiderano il controllo di questo regno? Eppure la mia famiglia, i Dare, hanno strappato Crotheny a Hansa in un conflitto sanguinoso. Un mio avo ha ucciso l'imperatore Reiksbaurg nella Sala delle Colombe. Chi era il buono e chi il cattivo a quell'epoca? È una domanda inutile, non credete?» «Non sono colto come voi,» riconobbe Neil «so poco di storia e ancor meno di filosofia. Sono un cavaliere, dopo tutto, e il mio lavoro è fare quello che mi si chiede. Ho ucciso molti uomini che avrei potuto trovare simpatici se li avessi incontrati in altre circostanze, perché non erano, come dite voi, malvagi. Stavamo solo servendo padroni con fini opposti. In alcuni casi non era nemmeno così. Per compiere il mio dovere, dovevo rimanere vivo e rimanere vivo a volte significa uccidere altre persone. «Come avete detto voi, la maggior parte delle persone in questo mondo sta solo provando a fare del suo meglio, nel proteggere coloro che ama e la vita che conosce, vivendo all'altezza dei propri obblighi e doveri.» «Tutto perfettamente logico.»
«Sì» proseguì Neil. «Così quando incontro il male vero, risalta ancora di più, come un albero alto e nero in un campo d'erica verde.» Robert sbatté le palpebre in modo irregolare e poi soffocò una risata. «Così dopo tutto quello che abbiamo detto, voi credete ancora che esistano uomini veramente malvagi. In qualche modo possedete la capacità di leggere il loro cuore e vedere che non sono come la maggior parte delle altre persone che credono di fare la cosa giusta.» «Lasciate che vi ponga la cosa in un altro modo» disse Neil. «Oh, vi prego, fate pure.» «Conoscete l'isola di Leen?» «Temo di no.» «Non c'è motivo per cui dovreste. In realtà non è molto più di un semplice scoglio, anche se uno scoglio con un migliaio di piccole valli e crepacci. Ci vivono dei lupi, ma rimangono nei punti più alti. Non scendono dove abita la gente. «Quando avevo quindici anni ho trascorso quasi un'intera estate su Leen, facevo parte di una guarnigione lierish. E quell'anno un lupo scese a valle, uno grosso. All'inizio si limitò a uccidere capretti e agnelli, ma presto cominciò con i bambini e poi con donne e uomini adulti. Non mangiava quello che uccideva, badate, lasciava malconce le sue vittime che poi morivano. Ora, le ragioni di questo comportamento avrebbero potuto essere molteplici; forse sua madre era morta insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle e questo era cresciuto fuori dal branco, un solitario, odiato dalla sua stessa razza. Forse era stato morso da qualcosa che gli aveva trasmesso l'idrofobia. Forse un uomo l'aveva maltrattato e lui aveva giurato vendetta contro tutta la nostra specie. «Noi non ci siamo fatti queste domande. Non era necessario. Questa creatura sembrava un lupo, ma non si comportava come tale. Non si riusciva a spaventarlo, calmarlo, né ci si poteva ragionare. L'unico modo per rendere migliore il mondo era togliere di mezzo la bestia, e l'abbiamo fatto.» «Qualcuno potrebbe obiettare che non avete reso migliore il mondo per il lupo.» «Si potrebbe controbattere dicendo che chiedere al mondo di adattarsi ai bisogni di un singolo lupo pazzo vorrebbe dire non migliorare il mondo per nessuno. E il lupo che chiede una cosa del genere al mondo... be', è questo il mio albero nero in un campo d'erica, capite?» «Perché non un albero verde in un campo d'erica nera?» rifletté Robert. «Perché no?» convenne Neil. «Non è il colore che conta a dire il vero.»
«Ecco la mia domanda allora» fece Robert, tracannando il resto del vino e allungando la mano per prendere la bottiglia. Si fermò a metà strada. «Posso?» «Se volete.» Robert si versò altro vino, bevve un sorso, poi tornò a rivolgere la sua attenzione a Neil. «La mia domanda è questa. Supponiamo che voi possiate sentire che qualcuno è l'albero nero di cui parlate, una persona veramente malvagia. Un lupo pazzo che va ucciso. Perché mai credereste alla sua promessa di non fare del male, diciamo, a una giovane donna?» «Perché lui obbedisce solo a sé stesso» rispose Neil. «Mai a qualcosa di più alto. Perciò posso essere sicuro che non sacrificherà mai sé stesso.» «Davvero? Neanche per una vendetta? Voglio dire, tutti dobbiamo morire. Non vedo una via di fuga da questa realtà, voi sì? Supponiamo che questo vostro uomo abbia delle ambizioni e il fatto di vederle ostacolate sia per lui semplicemente impossibile. Se un uomo non riesce a ereditare la casa che desidera, non potrebbe bruciarla? Non risponderebbe al tipo di persona che avete descritto?» «Sono stanco di questo argomento» disse Neil. «Se succede qualcosa ad Anne, morirete velocemente.» «Mi chiedo quale possa essere il suo segnale. Come farete a sapere che sta bene?» «Esiste un segnale» assicurò Neil. «Qualcosa che possiamo vedere da qui. Se non appare prima del tramonto, vi taglierò un dito e lo manderò ai vostri uomini. La cosa continuerà fino a che lei non verrà liberata o non ci verrà dimostrato che è morta.» «Vi sentirete così stupido quando tutto questo sarà finito e Anne e io saremo diventati amici stretti. Cosa credete che succederà a un cavaliere che ha minacciato il suo stesso signore?» «Al momento,» disse Neil «questo non m'interessa. Quando sarà, ovviamente accetterò qualunque destino la regina creda che meriti.» «Certo che sì.» Robert sogghignò. Sollevò lo sguardo verso il cielo e il suo sorriso si increspò. «Non mi avete chiesto niente della vostra ultima regina, Muriele. Non siete curioso?» «Sono più che curioso,» rispose Neil «non ho chiesto di lei perché non ho motivo di credere in quello che mi dite. Qualunque cosa mi riferite su di lei mi lascerà nel dubbio. Presto scoprirò come sta.» «E se lei si lamenta per il modo in cui l'ho trattata? Se tutto va bene qui,
mi faccio da parte e Anne prende il trono, ma Muriele continua a protestare per il modo in cui è stata trattata?» «Allora voi e io avremo un'altra discussione riguardo ai lupi impazziti.» Robert si scolò tutto il bicchiere e allungò di nuovo la mano verso la bottiglia. Quando provò a versarsi del vino, però, scoprì che era vuota. «Di sicuro ce n'è dell'altro qui intorno» disse a voce alta. A un cenno di Neil, uno dei servitori di Artwair andò di corsa a prendere un'altra bottiglia. «Tutto questo non è dovuto a Fastia, vero?» domandò Robert. «Il vostro modo di pensare. Spero che non derivi veramente da questo.» Neil era riuscito a provare soprattutto disprezzo per Robert fino a quel momento. Andava bene così, perché questo sentimento gli consentiva di mantenere sotto controllo le sue inclinazioni omicide verso quell'uomo. Ma adesso la rabbia cominciò a urlare e solo con un enorme sforzo lui riuscì a reprimerla. «Che tragedia» disse Robert. «E povera Elseny, stava per sposarsi. Se solo William avesse avuto più buon senso.» «Come potete biasimare il re?» domandò Neil. «Ha costretto il Comven a legittimare le sue figlie. Non immaginava che sarebbero diventate dei bersagli?» «Bersagli per chi, principe Robert?» domandò Neil. «Un usurpatore?» Robert sospirò pesantemente. «A cosa volete alludere, sir Neil?» «Credevo che foste stato voi ad alludere alla cosa, principe.» Robert si chinò in avanti e il tono di voce si fece molto basso. «Come vi è sembrata la lana reale? Diversa da quella più scadente? Io l'ho sempre trovata tale. Ma si contorcono e urlano come animali, vero?» «Chiudete la bocca» disse roco Neil. «Non mi fraintendete; Fastia aveva davvero bisogno di una bella botta. È sempre sembrato il tipo a cui piaceva prenderlo da dietro, a quattro zampe, come una cagna. È andata così?» Neil si rese conto di ansimare, e il mondo stava assumendo quel contorno luminoso che arrivava insieme col quetiac, l'ira guerriera. La mano era già stretta intorno all'elsa della spada fatata. «Adesso dovreste stare zitto» lo avvertì Neil. Arrivò il ragazzo con un'altra bottiglia di vino. «Questo mi chiuderà la bocca» disse Robert. Ma non appena prese la bottiglia, subito si alzò in piedi e la fracassò sulla testa del ragazzo. Sembrò succedere tutto molto lentamente: il pesante contenitore di vetro
che si frantumava contro la tempia del servitore, il fiotto di sangue. Neil vide un occhio schizzare dall'orbita, mentre il cranio si deformava per l'impatto. Allo stesso tempo, vide che Robert allungava la mano per afferrare la spada del ragazzo. E ne fu felice. Felice, perché il suo spadone uscì frusciando dal fodero e lui si produsse in un affondo. Robert tirò il ragazzo morente davanti a sé, ma la lama lo trapassò e trafisse il principe. Neil avvertì uno strano scossone, quasi una protesta da parte della sua arma, e le dita mollarono la presa di riflesso. Con la coda dell'occhio vide arrivare il pugno di Robert, che ancora stringeva il collo e la parte superiore della bottiglia. Sollevò la mano senza pensarci. Troppo tardi. Sentì una scossa bianca, calda, che esplodeva al lato della testa. Cadde lontano dal punto dell'impatto, con l'ira che ancora lo manteneva cosciente, ma quando si rimise in piedi, Robert era già a due iarde di distanza, che brandiva la spada fatata e con un sorriso diabolico dipinto sul viso. Con la testa che gli girava, Neil afferrò il suo pugnale, sapendo che non gli sarebbe stato di grande aiuto contro quell'arma incantata. Ma una freccia colpì il principe nella parte alta del petto e poi un'altra, e questi indietreggiò barcollando, gridando, e da un lato della diga si gettò nell'acqua. Neil lo seguì vacillando, stringendo il pugnale. Gli uomini di Artwair lo fermarono sul bastione della diga, impedendogli di precipitare per otto leghe prima di raggiungere l'acqua. «No, sciocco» gridò Artwair. «Lasciate che lo prendano i miei arcieri.» Neil combatté contro quelli che lo tenevano, ma il sangue gli aveva riempito un occhio e sentì i suoi muscoli afflosciarsi terribilmente. «No!» gridò. Ma dopo quello, seguì un silenzio profondo. Aspettarono che il principe riaffiorasse, vivo o morto. Ma passarono parecchi lunghi istanti e nessuno tornò a galla. Artwair mandò uomini nell'acqua allora, ma non trovarono nulla. Una nebbia fredda risalì il fiume quella sera, ma la Torre del Pellicano s'innalzava al di sopra della foschia, col suo lato settentrionale perfettamente visibile e scuro. «Se anche esponesse una luce» disse Neil, spingendo uno straccio pulito contro la ferita alla testa «potrebbe significare solo che è stata costretta a farlo sotto tortura.»
«Sì» convenne Artwair. «L'unica cosa che avrà un significato inequivocabile sarà se non espone la luce.» «Vi piacerebbe, eh?» domandò seccamente Neil. «Morta per mano degli uomini di Robert, Anne potrebbe esservi più utile che viva, almeno adesso che sapete come la pensa.» Artwair rimase in silenzio per un attimo, poi bevve un sorso dalla bottiglia di vetro verde che aveva messo accanto a loro sulle tavole. I due uomini stavano seduti sul piano superiore di un malend mezzo bruciato, in attesa di scorgere il segnale di Anne. Offrì la bottiglia a Neil. «Non fingerò che mi abbia fatto piacere stamattina» disse il duca. «È entrata dentro di me, in profondità. L'ho sentita. Cosa le è successo, sir Neil? Cosa è diventata quella ragazza?» Neil scrollò le spalle e prese la bottiglia. «Sua madre l'ha mandata al coven di santa Cer. Questo significa qualcosa per voi?» Artwair rimase con lo sguardo fisso, incredulo, mentre Neil beveva un sorso dalla bottiglia, sentendo il sapore del fuoco, della torba e delle alghe. Guardò la bottiglia, sorpreso. «Questo viene da Skern» disse. «Sì. Oiche de Fié. Il coven di santa Cer, eh? Una principessa educata in un coven. Muriele è davvero un tipo interessante.»Neil prese la bottiglia e bevve un altro po' di quella roba, lasciando che l'aroma filtrasse attraverso il naso. Non aveva mai bevuto granché; gli annebbiava i sensi. In quel momento però non gl'interessava molto, perché i suoi sensi si erano dimostrati completamente inutili e provava dolore dappertutto. «Ma voi mi avete frainteso, sir Neil» disse Artwair. «Solo perché credo che una ragazza di diciassette anni non abbia la capacità di assediare la più grande città-fortezza del mondo, non significa che la mia ambizione sia il trono. Sono già abbastanza infelice con i miei più monotoni doveri da duca. Che mi crediate o no, io penso che Anne dovrebbe salire al trono, e sto cercando di mettercela sopra.» Bevve di nuovo. «Be', ha fatto a modo suo e queste sono le conseguenze.» «È colpa mia» disse Neil, riprendendo la bottiglia e bevendo in abbondanza. Per un attimo credette di essere sul punto di vomitare, ma poi riuscì a mandare giù e stavolta sembrò meno forte. «Della mia ira.» «Robert vi ha provocato» disse Artwair. «Voleva morire.» «Voleva che io combattessi contro di lui» disse Neil, ignorando il braccio teso di Artwair che cercava un altro sorso. Poi lasciò la bottiglia.
«Quello che dite è vero e io ho abboccato da idiota quale sono. Ho lasciato che l'ira mi allontanasse dal buon senso. Ma non è morto; questo è il fatto.» «Io non l'ho visto, ma dicono che lo avete impalato per bene, ed è sicuro che non sia riemerso» fece notare Artwair. «Be', di questi tempi non esistono certezze» disse Neil. «Sia a Vitellio che a Dunmrogh ho combattuto con uomini che non potevano morire. La prima volta uno di questi mi ha quasi ucciso. La seconda gli ho tagliato la testa, eppure continuava a muoversi. Alla fine l'abbiamo fatto in cento pezzi e poi li abbiamo bruciati. Un mio amico mi ha detto che si trattava di una cosa detta nauschalk, che esisteva perché la legge della morte era stata infranta. Ora, sono ben lontano dall'essere un esperto di queste cose, ma ho combattuto contro un nauschalk e sono sicurissimo che il principe Robert è uno di loro.» Artwair imprecò in una lingua che Neil non conosceva, poi non disse niente per il tempo che ognuno di loro impiegò a bere tre sorsi. Era il tipico silenzio che seguiva quando si parlava di qualcosa di soprannaturale. «Girano voci» disse infine «su una cosa del genere, ma io non ne avevo tenuto conto. Robert ha sempre mostrato un appetito immorale e la gente esagera.» Neil bevve un altro goccio. Ormai l'oiche sembrava un vecchio amico che gli rimboccava la coperta per tenerlo caldo. «Ecco cosa c'è sfuggito» disse. «Probabilmente ha detto al suo uomo di uccidere Anne o di farla prigioniera nel momento stesso in cui varcavano i cancelli. Poi tutto quello che doveva fare era assicurarsi che non lo rinchiudessimo da qualche parte o lo facessimo a pezzi. Tutto quello che doveva fare era provocarmi perché lo attaccassi, cosa che gli è riuscita molto bene.» «Sì, ma indipendentemente dalle vostre reazioni, il risultato per Anne sarebbe stato sempre lo stesso, capite?» «A meno che non sia al sicuro fino a che lui non torna» disse Neil. «Questo sarebbe il piano più saggio. Quando Robert sarà tornato sano e salvo in città, allora scatterà la trappola.» «Già» replicò Artwair. «Sarebbe più logico, credo. Ma neanche Anne è indifesa. Scommetto che Robert non sa quello che lei è in grado di fare. E ha cinquanta uomini valorosi con sé.» Sull'acqua sentirono i primi melodiosi rintocchi della campana dei Vespri.
La finestra della Torre del Pellicano rimase buia. «Potrebbe riuscire a combattere per un po', se trovasse il posto giusto per difendersi. A meno che non sia stata sedata con del veleno o abbia una freccia conficcata nell'occhio.» «Dubito che sia stata sedata» disse Artwair. «La torre non è illuminata. Ciò significa che è morta, catturata o per qualche altro motivo fuori del castello. Qualunque sia la verità, il nostro dovere è chiaro.» «E cioè?» «Dobbiamo attaccare. Ormai si sarà sparsa la voce di quello che è successo con Robert. Seppure dovesse essere vivo, tutti crederanno che sia morto. Se gli diamo il tempo di ricomparire, otterremo confusione. Perciò dobbiamo colpire subito, finché possiamo farlo.» «Colpire cosa?» domandò Neil. «Fortezza-di-Spine. Dopo quello che mi ha fatto stamattina, sono tentato di credere alla profezia di Anne riguardo al barone Fail e alla flotta lierish. Abbiamo due giorni per prendere il controllo di Fortezza-di-Spine. Se ci riusciamo, e se Fail arriva come è stato previsto, allora avremo una possibilità di prendere Eslen e salvare lei.» «A meno che non sia già morta.» «In quel caso la vendicheremo. Per nessun motivo potrei sopportare la vista di Robert sul trono, né, ne sono sicuro, ci riuscireste voi.» «Potete dirlo forte» esclamò Neil, sollevando la bottiglia. Il liquore adesso era come una marea, capace di provocare la sua ira proprio mentre la notte si addensava e l'acqua si faceva più profonda. «Abbiamo qualche possibilità di catturare Fortezza-di-Spine?» «Può darsi» rispose Artwair. «Ma ci costerà parecchio.» «Posso guidare la carica?» Artwair fece ruotare in aria la bottiglia e poi bevve un sorso. «Era proprio quello che avevo pensato» disse. «Proprio per via di quella vostra spada fatata. La via d'entrata è stretta e quell'arma avrebbe potuto fare la differenza. Ora però...» «Preferirei guidarla lo stesso» disse Neil. «Sono un guerriero. So uccidere. Di tattica militare non so niente. Senza Anne qui, sarebbe questo il modo migliore di usarmi.» «Probabilmente morirete» disse Artwair. «Anne penserà che vi ho mandato incontro alla morte per vendicarmi contro di lei. Non posso permettermi una cosa del genere.» «Non sono troppo attaccato a questa vita» confessò Neil. «E non m'inte-
ressa più tanto cosa pensa Sua Altezza, se è ancora in grado di pensare qualcosa. È stata lei a mettermi in questa situazione. Sono stanco di essere messo davanti al fallimento, solo per continuare a vivere lamentandomene. Lasciatemi guidare la carica e scriverò una nota di mio pugno perché possiate darla a chiunque risulti interessato. Sospetto che nessuno lo sarà.» «Avete una reputazione migliore di quanto crediate» disse Artwair. «Allora lasciatemela migliorare per continuare a vivere nelle canzoni» rispose Neil. «Non ho bisogno di una spada fatata. Datemi solo qualche lancia e uno spadone che non si rompa al primo colpo rotato. Poi trovatemi qualche uomo che ama la morte e io vi darò Fortezza-di-Spine.» Artwair gli porse la bottiglia. «Come volete, sir Neil» disse. «Non negherei mai a un uomo valoroso la possibilità di andare incontro al proprio destino.» 8 Una vipera dalle buone maniere Hespero sorrise e si alzò dalla sedia. «Praifec!» esclamò Ehan. «Sembrate mortificato» disse Hespero, inarcando un sopracciglio verso l'omino. «Sorpreso, piuttosto» replicò velocemente Stephen. «Da quello che sir Elden ci aveva detto, ci aspettavamo un umile Sacritor.» «Ma io sono un Sacritor» affermò Hespero, accarezzandosi il pizzetto. «E un fratir, un patir, un peslih, un agreon.» «Certo, vostra grazia» disse Stephen. «È solo che in genere una persona viene definita col titolo più importante che possiede.» «In genere sì, dipende dagli scopi di quella persona.» Le sopracciglia si congiunsero. «Fratello Stephen, siete scontento di vedermi?» Stephen batté le palpebre. OSSERVAZIONI STRANE E CURIOSE SULLA VIPERA DALLE BUONE MANIERE Probabilmente la più letale della sua razza, la vipera dalle buone maniere è capace di grande fascino; avvicina a sé la preda adescandola con parole smielate. È un predatore molto insolito per l'abitudine di
convincere altri animali a uccidere per quello che però è il suo sostentamento e divertimento. Solo osservando il centro dell'occhio, dove il fluido gelido che passa nel suo sangue si coagula visibilmente, è possibile identificare la sua vera natura, e quando si è così vicini è spesso troppo tardi per salvarsi. È sulla sua perfetta capacità di riconoscere, o sull'assenza di essa, che spesso si basa la possibilità di sopravvivere, perché se la vipera crede di essere servita bene, può consentire al suo servo di vivere e svolgere un altro compito. Ma se si crede tradita, e si scopre la sua vera natura, povera la sventurata cincia o il rospo che si ritrova davanti a quei denti lucenti e pieni di veleno... «Fratello Stephen?» disse il praifec mostrando segni d'impazienza. «Praifec, io...» «Forse la vostra ansia deriva da ciò che dovete dirmi. Non ho più ricevuto notizie da voi. Dove sono il guardaboschi e la vostra amica Winna? Avete forse fallito nel compito che vi avevo affidato?» Stephen avvertì un senso di sollievo per la prima volta da quando aveva incontrato sir Elden. Non era molto, ma meglio di niente. «Sono stati uccisi, vostra grazia» disse, assumendo l'espressione di dolore più convincente che riuscisse a produrre. «Allora la freccia non ha funzionato?» «Non abbiamo mai avuto la possibilità di usarla, vostra grazia. Siamo stati assaliti dai laniatori. Non abbiamo mai incontrato il Re degli Alberi.» «Laniatori?» «Vi chiedo scusa, vostra grazia. È il nome oostish per gli uomini e le donne selvagge di cui vi ha parlato Ehawk.» «Ah, sì» disse Hespero. «Avete almeno imparato qualcosa di nuovo su di loro?» «Niente d'importante, vostra grazia» mentì Stephen. «Peccato. Ma continuo a non capire. Come sapevate che mi avreste trovato qui? Sono venuto in questo posto in gran segreto.» «Vostra grazia, non avevo la minima idea di trovarvi qua» replicò Stephen, mentre la sua mente ruotava vorticosamente giù per la falsa strada che stava costruendo, chiedendosi che cosa avrebbe trovato in cima alla collina successiva. Il praifec si accigliò. «Allora, perché siete qui? Avete fallito nella missione che vi avevo assegnato. Credo che la vostra prima priorità fosse
quella di riferire questo fallimento, e il luogo più logico per farlo avrebbe dovuto essere Eslen. Cosa diavolo vi ha condotto in questo posto sperduto?» La strada di Stephen era diventata una corda, di quelle su cui i giocolieri camminano per divertire i bambini. L'aveva provata una volta, nella piazza di Cima Moris, e il sollievo per essere riuscito a fare due passi gli era sembrato un trionfo. Ma non era stato un trionfo; solo due passi e poi aveva perso l'equilibrio ed era caduto. «Siamo venuti qui per mia richiesta, vostra grazia» s'intromise fratello Ehan. Stephen cercò di mantenersi impassibile. Sperava di esserci riuscito, anche se lo sguardo del praifec si era già spostato sull'herilanzer. «Perdonatemi» disse Hespero. «Non credo di conoscervi.» Ehan fece un inchino. «Fratello Alfraz, vostra grazia, al vostro servizio. Ero con fratrex Laer quando si è recato al monastero d'Ef per ripulirlo dagli eretici.» «Davvero? E come sta fratrex Laer?» «Allora non l'avete saputo, vostra grazia. La notizia avrebbe già dovuto raggiungervi; abbiamo mandato dei messaggeri a Eslen. È stato ucciso dai laniatori, quelli di cui ha parlato fratello Stephen. Siamo stati fortunati a riuscire a scappare.» «Quante fughe fortunate» commentò il praifec. «Comunque, come spiega questo la vostra presenza qui?» «Siamo arrivati al monastero e ci abbiamo trovato solo mucchi d'ossa. Erano spariti tutti, o almeno così avevamo creduto. Ma quella sera abbiamo scoperto fratrex Pell, rinchiuso nella stanza di preghiera più alta. Era completamente impazzito, e delirava sulla fine del mondo e sul fatto che l'unica speranza risiedeva nel riuscire a trovare una certa montagna tra i Bairghs. Meno di un'ora più tardi, lo stesso destino capitato ai monaci d'Ef si abbatté su di noi e i laniatori attaccarono. Ma fratrex Laer credeva che ci potesse essere un fondo di verità nei vaneggiamenti di fratello Pell e perciò ci ha incaricato della missione di salvare i libri che questi aveva con sé nella torre e di trovare la montagna di cui parlava Pell. «Per caso abbiamo trovato fratello Stephen, rinchiuso in una cella nella torre. Il fratrex lo teneva prigioniero, costringendolo a tradurre i testi più oscuri.» «Sono confuso. Come avete fatto a finire nella torre, fratello Stephen?» «Quando Aspar, Winna e Ehawk sono stati uccisi, mi sono recato nell'u-
nico posto che conoscevo» disse Stephen, cercando di tenere tutti e due i piedi ben piantati sulla corda che oscillava terribilmente. «L'unico posto che conoscevo nella Foresta del Re era d'Ef. Ma nell'istante esatto in cui sono arrivato, fratrex Pell mi ha fatto prigioniero.» «Credevo che nel vostro primo resoconto mi aveste detto che Pell era morto» disse Hespero col sospetto nella voce. «Mi ero sbagliato» rispose Stephen. «Era rimasto storpio, aveva perso le gambe, ma era vivo. E come ha detto fratello Alfraz, era completamente impazzito.» «Eppure avete creduto ai suoi folli ragionamenti!» «Io...» Stephen s'interruppe. «Avevo fallito, vostra grazia. I miei amici erano morti. Credo che stavo cercando di aggrapparmi a qualunque speranza di redenzione.» «È tutto molto interessante» disse il praifec. «Molto interessante, davvero.» Strizzò gli occhi, poi si rilassò. «Vi sentirò di nuovo sull'argomento domattina. M'interessa soprattutto sapere cosa fratrex Pell riteneva così urgente. Per stanotte, vi farò accompagnare da qualcuno ai vostri alloggi e vedrò cosa si può fare per avere un po' di cibo. Sono sicuro che avete fame.» «Sì, vostra grazia» replicò Stephen. «Grazie, vossignoria.» Un monaco chiamato fratello Dhomush apparve e li condusse a un piccolo dormitorio da qualche parte dentro l'edificio. Non c'erano finestre e aveva una sola porta, e questo fece sì che Stephen venisse colto da un acuto senso di claustrofobia. Appena furono lasciati soli, si voltò verso fratello Ehan. «Cosa ti sei inventato?» domandò, col cuore che gli batteva all'impazzata nel petto. Il panico fino a quel momento represso aveva trovato sfogo adesso che il pericolo sembrava scampato. «Bisognava dire qualcosa» rispose Ehan per difendersi. ' «Fratello Laer era alla guida della spedizione che avrebbe dovuto rimpiazzarci a d'Ef, ed era ovviamente uno Hierovasì, come Hespero. Con l'aiuto dei laniatori li abbiamo distrutti tutti quanti. Ho pensato che lo sapesse, anche se non poteva conoscere i particolari. A quanto pare avevo ragione.» «Non lo so» disse Stephen dubbioso. «E l'unica cosa che so non mi piace.» «E quale sarebbe?» «Il fatto che siamo qui. E Hespero è qui. Credi davvero che sia una coincidenza?»
Ehan si grattò la testa. «Credo di aver pensato che fosse semplicemente sfortuna.» «È impossibile» dichiarò Stephen. «O ci sta seguendo o cerca la nostra stessa cosa. Non riesco a pensare a nessun'altra spiegazione. E tu?» Ehan ci stava ancora rimuginando sopra, quando fratello Dhomush ricomparve con del pane e brodo di castrato. Dhomush e altri due monaci rimasero con loro nel dormitorio, ma quando la notte aveva percorso metà strada sopra le loro teste, il respiro indicò a Stephen che si erano addormentati. Poggiò piano i piedi per terra, alzandosi dalla dura branda di legno, e si avvicinò con passo felpato alla porta, temendo che fosse chiusa a chiave o che, pur trovando la serratura aperta, potesse cigolare forte. Entrambi i timori si rivelarono infondati. Proseguendo con cautela sul marmo riuscì quasi a non produrre alcun rumore. Un altro iniziato di san Decamnus avrebbe potuto sentirlo, ma quando erano passati di là, aveva notato che l'altare della chiesa era dedicato a san Froa, i cui doni non includevano un potenziamento dei sensi. Non fu difficile ritrovare la strada che portava alla biblioteca. Ci si avvicinò con cautela, temendo che Hespero fosse ancora lì dentro, ma la trovò buia. Rimase in ascolto un istante e non gli arrivò respiro o battito, ma ancora non se la sentiva di fidarsi delle sue orecchie. Henne aveva recuperato più o meno il suo udito normale, così come Ehan e Themes, ma nessuno di loro aveva riacquistato la capacità di riuscire a percepire anche il battito d'ali d'una farfalla. Sapendo che alla fine doveva correre il rischio, entrò nella stanza e tastò con le mani la parete in cerca della finestra su cui prima aveva visto un acciarino. La trovò e riuscì ad accendere una piccola candela. A quella luce amica cominciò la sua ricerca. Non impiegò molto per trovare l'articolo che cercava: un volume con la storia dettagliata di quello stesso tempio. Era grosso, enormemente spesso e ben in evidenza su un leggio. Lo adorò subito, a prima vista, perché notò che era stato rilegato molte volte per inserire pagine nuove. Tutte le varie aggiunte erano leggibili nei caratteri e nelle condizioni degli scrifti che lo componevano. Le pagine più recenti erano lisce e bianche, create con mestiere a Vitellia con stracci di lino, utilizzando un segreto processo della Chiesa. Lo strato successivo era più fragile e ingiallito, ruvido ai bordi; era carta di buona
qualità lierish ricavata principalmente da una pasta di fibre di gelso. I fogli più antichi erano di pergamena, sottile e flessibile. Le parole erano rovinate in alcuni punti, ma lo scrift in sé sarebbe durato più dei suoi giovani vicini. Sorridendo senza accorgersene, sfogliò le primissime pagine, sperando di scoprire la data di fondazione del tempio. La prima pagina fu inutile, c'era la dedica a praifec Tysgaf di Crotheny per la sua sagacia nel costruire la chiesa di Demsted. Tysgaf era stato praifec solo trecento anni prima; ciò significava che nonostante la parvenza d'antichità dell'edificio, questo non era stato fondato nel periodo degli Egemoni né in quello pre-Egemonico. Quindi non avrebbe trovato nulla di utile lì dentro. O almeno così pensò fino a che non arrivò all'ultimo paragrafo dell'introduzione. È anche opportuno che noi lodiamo il buon senso e l'essenziale decenza di coloro che tennero questo posto prima di noi. Sebbene privi dei luminosi insegnamenti della vera Chiesa, hanno mantenuto per molte generazioni il lume della conoscenza in mezzo a quello che altrimenti sarebbe stato un oscuro deserto. Una delle loro leggende voleva che, in tempi antichi, prima della venuta degli Egemoni, vivessero in uno stato di paganesimo estremo, compiendo sacrifici alle rocce, agli alberi e agli stagni. In quel periodo da sud giunse un uomo santo che insegnò loro la medicina, la scrittura e i principi basilari della religione vera, poi partì e non fu più rivisto. Seguirono giorni di tenebre, in cui gli eserciti del Giullare Nero arrivarono per controllare la regione, eppure loro si mantennero fedeli ai suoi insegnamenti. Senza guida, il passare dei secoli corruppe la loro dottrina, ma anziché opporsi al nostro arrivo ci hanno accolto a braccia aperte come portatori della stessa fede dello loro amato Kauron. Stephen per poco non scoppiò a ridere ad alta voce. Choron, il prete che stava portando via il diario di Virgenya Dare. Non solo si era fermato lì, ma aveva in pratica fondato una religione! Stephen continuò a sfogliare e scoprì compiaciuto che le pagine successive erano più antiche, scritte in una versione strana, ma comprensibile, della grafia del vitelliano antico. La lingua però non era vitelliana, quanto piuttosto un dialetto vhilatautan. Sarebbe anche stato possibile tradurlo,
con un po' di tempo a disposizione, ma non poteva mettersi a leggerlo adesso, perciò diede una rapida scorsa. Trovò il nome 'Kauron' ripetuto molte volte, ma solo dopo due ore riuscì a identificare quello che stava veramente cercando: la parola 'Velnoiraganas' posta accanto a un verbo che sembrava voler dire 'lui andò'. Stephen tornò indietro e si concentrò su quella parte. Un attimo dopo si mise a rovistare nella stanza fino a che non trovò un pezzo di carta, un calamaio e una penna. Copiò gran parte della pagina, parola per parola, poi tirò fuori la migliore traduzione che poté. Partì e non (volle? poté?) dire perché (dove?) stava andando. Ma la sua guida in seguito raccontò che seguirono il torrente (fiume, valle?) Enakaln (in salita?) verso hadivaisel (una città?) e da lì verso il Corno di Strega. Doveva parlare con i (vecchi? pancia?) hadivara (?) Io sono andato (l'ho seguito?) alla base (la parte inferiore) del corno chiamata bezawle (dove il sole non arriva mai?) e lì mi ha ordinato di andarmene. Non l'ho mai più rivisto. Mai, bisbigliò qualcuno al suo orecchio destro. Stephen percepì quel respiro e i suoi muscoli s'irrigidirono e contrassero per il puro terrore di aver scoperto qualcuno così vicino a lui di cui non si era accorto. A quel suono si mosse di scatto, ruotando il braccio destro e allo stesso tempo allontanandosi vacillando. Ma non c'era nessuno. La sua mente si rifiutò di accettare la cosa e fece vagare lo sguardo vigile tra le ombre. Ma nessuno poteva muoversi tanto velocemente da portare le labbra vicino al suo orecchio e sparire un attimo dopo. Eppure lui l'aveva sentito, una doppia emissione d'aria, perché «mai» era stato in effetti «nhyrmh», in dialetto vadhiano, chiaro, inconfondibile, e non si era trattato della sua voce. «Chi è?» bisbigliò Stephen, voltandosi continuamente, per non farsi prendere alle spalle. Non arrivò risposta. L'unico suono non prodotto dal suo corpo era il debole scoppiettio della candela, l'unico movimento il gioco di luci e ombre generato da quella fiamma. Provò a rilassarsi, ma una parte di lui si sentiva intrappolata in quell'attimo, come un pesce che colpisce l'esca e si ritrova infilzato sull'amo.
Confuso studiò il casuale movimento della luce da cupo o buio a illuminato e poco a poco vide quello che più temeva: il gioco di luce e oscurità non era casuale. Dal momento in cui aveva acceso la candela, era stato circondato da qualcosa che lo aveva studiato in modo più intenso di quanto lui avesse fatto con il libro. In preda all'orrore vide geroglifici e lettere che s'imprimevano sulle pareti e poi sbiadivano, accennando sempre un senso, senza mai formarlo completamente. «Cosa sei?» disse, pensando che il fatto di parlare ad alta voce potesse aiutarlo, ma non fu così. Peggiorò solo le cose, come se venendo assalito da un nemico, si fosse difeso con un coltello per poi scoprire che era fatto di foglie verdi. Il woorm impennò. L'utin si rannicchiò in un angolo. Il greffyn si allontanò a grandi passi dal suo campo visivo. Gli sembrò di essere in una casa dipinta con tinte vivaci, eppure quando si appoggiava alla parete questa si sbriciolava, rivelando legno marcio pieno di termiti e tonchi. Solo che non si trattava di una stanza, ma delle pareti del mondo, la scintillante illusione della realtà che si frantumava per rivelare l'orrore che vi si nascondeva dietro. Quasi piangendo, Stephen strappò lo sguardo alle ombre e lo riportò sulla candela. La fiamma aveva formato una piccola faccia con scuri occhi tondi e una bocca. Con un grido soffocato lui spense la candela e le tenebre si riversarono dentro la stanza per confortarlo. Si diresse verso la finestra e lì si accovacciò sulla pietra fredda, col torace che ansimava, cercando di recuperare la ragione e di convincersi che non fosse successo veramente. Tirò a sé le ginocchia e le strinse con le braccia, rannicchiandosi e sentendo che il battito del cuore cominciava a rallentare piano, piano, con il terrore che muovendosi potesse riportare tutto indietro di nuovo. Sentì un'altra voce, ma questa non dentro l'orecchio. Era una voce perfettamente normale, che veniva dal corridoio. Il libro. Si alzò e lo trovò a tentoni. Riusciva a sentire la sezione fatta di antica pergamena. Quella poteva essere la sua ultima occasione di vederlo, ma non osò riaccendere la candela. E se avesse strappato le pagine? Il solo pensiero lo faceva star male, e non poteva assolutamente farlo: la pergamena andava tagliata e non aveva niente di affilato che potesse usare a quello scopo. Sfogliò le pagine all'indietro, velocemente, verso l'inizio, e mentre era intento in questa operazione, qualcosa sfiorò la sua mano. Lui
indietreggiò di scatto, ma la cosa gli toccò il saio e poi cadde a terra. Adesso sentì dei passi. Velocemente si precipitò sotto un altro tavolo. I passi presero a correre più vicini e per un attimo la soglia della porta fu incorniciata dalla luce di una candela. «Chi è?» Una voce che non riconobbe ripeté la stessa richiesta che aveva fatto lui prima. Per poco Stephen non rispose, pensando che sarebbe riuscito a inventare una scusa, ma poi sentì del trambusto più lontano. Rimase paralizzato e con il palmo delle mani avvertì il gelo e l'umidità del pavimento. Sentiva Ehan che gridava il suo nome, dicendogli di fuggire, il radunarsi di stivali, il rumore dell'acciaio che veniva sfoderato. L'uomo sulla porta produsse un suono simile a un'imprecazione e corse via. Ehan smise di urlare. «Santi» mormorò Stephen a bassa voce. Si mise a tastare il pavimento, in cerca del foglio che era caduto. L'uomo nel corridoio stava tornando indietro, adesso, correndo come un pazzo. Il dito di Stephen toccò il foglio e così lui lo raccolse e si alzò in piedi, sfrecciando verso la finestra. Era stretta e dovette voltarsi di lato per spingersi nell'aria fredda della notte, prima di precipitare per due leghe verso il terreno indurito dal ghiaccio. La caduta fu più dolorosa di quanto si aspettasse, ma sentiva di avere il fuoco nelle vene. Corse intorno all'edificio, cercando le stalle. Aveva la tremenda sensazione da incubo di correre senza arrivare da nessuna parte e la velocità delle sue pulsazioni non gli permetteva di sentire se lo stavano seguendo. La cosa che aveva avvertito nella stanza sembrava tutt'intorno a lui e tutto ciò che riusciva a pensare era correre fino a trovare un posto in cui il sole sorgesse per non calare mai più. Trovò le stalle più per la puzza che per la memoria e, una volta dentro, cominciò a cercare il cavallo che aveva cavalcato da Ever. Avrebbe voluto un po' di luce. Quel desiderio venne improvvisamente esaudito perché sentì il cigolio dello sportello di una lampada bronzea e il suo occhio famelico si voltò per inquadrarlo. Non riusciva a vedere chi la tenesse, ma chiunque fosse aveva una spada; Stephen la vedeva spuntare dal cono di luce. «Fermo là» ordinò la voce. «Fermo in nome di sua grazia il praifec di Crotheny.» Per un attimo Stephen rimase impietrito. La lampada cominciò ad avvicinarsi, oscillò e poi cadde a terra, proiettando il suo raggio di traverso.
Stephen fece uno scatto verso la porta aperta della stalla. Aveva fatto solo qualche passo quando qualcuno lo afferrò per un braccio. Rimanendo senza fiato, lui tirò e il braccio si allontanò. «Avete bisogno del mio aiuto» disse una voce bassa e allarmata. Stephen lo riconobbe subito. «Sorella Pale?» «La vostra memoria decmaniana non vi abbandona» rispose lei. «Ho appena ucciso un uomo per voi. Credo che dovreste ascoltarmi.» «Credo che i miei amici siano in pericolo» disse Stephen. «Sì. Ma adesso non potete aiutarli. Forse più tardi, se sopravvivono. Non ora. Venite, dobbiamo andare.» «Dove?» «Ovunque siate diretto.» «Ho bisogno di alcune cose che sono sul mio cavallo.» «I libri? Ce l'ha il praifec. I suoi uomini li hanno presi ancora prima che lo incontraste. Venite, o prenderà anche voi.» «Come faccio a fidarmi di voi?» «Come fate a non farlo? Venite.» Senz'altra scelta, con la mente che girava vorticosamente, Stephen fece quello che gli veniva ordinato. 9 Pelle Leoff fu svegliato da urla e uno straccio umido sulla fronte. Le urla, ovviamente, erano le sue e per un attimo non si domandò da dove fosse venuto lo straccio. Ma quando si mosse, gli diede una manata e si alzò di scatto sul letto. «Sst» bisbigliò una voce di donna. «Non avete nulla da temere. Aspettate solo un attimo.» Sentì il rumore di una lanterna. Comparve una luce minuscola, che poi divampò in una fiamma, illuminando boccoli biondo cenere intorno a un viso a forma di cuore. Era strano, pensò Leoff, che non avesse mai notato la somiglianza di Mery con sua madre, ma sotto quella luce, gli appariva straordinariamente evidente. «Lady Gramme» bofonchiò lui. «Come...» Subito realizzò che stava mostrando la parte superiore del corpo e si tirò su le coperte.
«Mi dispiace importunarvi, Cavaor Ackenzal,» disse lady Gramme «ma ho davvero bisogno di parlarvi.» «Avete visto Mery? Come avete fatto a trovarci?» Un pensiero orribile lo attraversò appena le parole gli scivolarono dalle labbra, e cioè che lady Gramme fosse coinvolta nell'intera faccenda. Dopo tutto era una creatura con un vero talento per la politica. Lo tenne per sé, ma lei dovette leggerglielo negli occhi. Sorrise picchiettandogli di nuovo la fronte. «Non sto complottando con Robert» lo rassicurò. «Vi prego credetemi quando vi dico che non gli darei mai Mery, per nessun motivo.» «Allora come avete fatto ad arrivare qui?» La donna sorrise di nuovo, in realtà più una smorfia malinconica. «Sono stata l'amante dell'imperatore per quasi vent'anni» disse. «Lo sapevate? Avevo quindici anni quando sono entrata nel suo letto la prima volta. Non ho speso tutto il tempo standomene sdraiata sulla schiena. Sono pochi i posti a Eslen, Ynis o Terranuova dove non ci sia qualcuno che mi debba dei favori. Mi ci è voluto un po' per trovare voi e mia figlia dopo che vi hanno trasferito dalle prigioni, ma ci sono riuscita. Dopodiché c'è stato solo bisogno di pagare le giuste ricompense.» «Come stava Mery quando l'avete vista?» «Dormiva. È preoccupata per voi. Crede che non stiate bene. Ora che vi vedo capisco perché.» «Sto lavorando. È gravoso.» «Sembra proprio di sì. Giratevi.» «Prego?» «Pancia in sotto.» «Davvero non capisco...» «Ho rischiato la vita per parlare con voi» disse Lady Granirne. «Il minimo che potete fare è obbedire a ogni mio capriccio, soprattutto quando è per il vostro bene.» Con riluttanza, Leoff accettò, attento a tenersi coperto con le lenzuola. «Dormite sempre senza camicia da notte?» gli domandò lady Gramme. «È un'abitudine» disse lui, teso. «Direi piuttosto mancanza d'abitudine» rispose lei. Sentiva freddo alla schiena. Si domandò se per caso non fosse stata mandata da qualcuno a infilargli un coltello o un ago avvelenato nella spina dorsale, perché non scrivesse l'opera cantata per Robert. Avrebbe dovuto preoccuparsi, ma non lo fece; il suo risentimento era
ancora da qualche parte lì intorno, ma i suoi sogni tendevano ad allontanarlo. Gli ci volle un certo tempo di veglia per poterlo richiamare. Le dita di Lady Gramme gli sfiorarono la schiena e con suo stesso orrore, si sentì gemere. Era la prima cosa davvero piacevole che la sua pelle tornava a sentire dopo parecchio tempo ed era incredibilmente bello. Le punte delle dita cominciarono a giocare gentilmente nei suoi muscoli, scacciando via dolore e tensione. «Non sono stata educata quasi in niente» disse lei piano. «Niente istruzione al coven per me. Ma William mi ha pagato dei precettori, per insegnarmi certe arti. Quella che mi ha insegnato questo veniva da Hadam, era una ragazza dalle dita larghe con i capelli neri, e si chiamava Besela.» «Non dovreste... non è...» «Decoroso? Mio caro Leovigild siete stato imprigionato da un usurpatore folle. Lo definite decoroso? Decideremo noi, voi e io, cosa è decoroso. Vi piace?» «Moltissimo» ammise lui. «Allora rilassatevi. Abbiamo cose di cui discutere, ma posso continuare con questo mentre parliamo. Siamo d'accordo?» «Sì» gemette Leoff mentre lei lavorava su entrambi i lati della spina dorsale per poi massaggiare con le mani in varie direzioni verso le spalle e gli avambracci. «Non è niente di troppo complicato» proseguì la donna. «Credo che posso aiutarvi a scappare, tutti e tre.» «Davvero?» Il compositore provò a mettersi seduto per guardarla in faccia, ma lei lo spinse giù di nuovo. «Limitatevi ad ascoltare» gli disse. Quando Leoff ebbe smesso di protestare, lei proseguì. «Un esercito ha assediato Eslen» disse. «Un esercito guidato, così almeno sembra, dalla figlia di Muriele, Anne. Quale possibilità abbiano di sconfiggere Robert, questo non lo so. Presto lui riceverà aiuti sia dalla Chiesa che da Hansa, ma se Liery interviene, la guerra potrebbe durare piuttosto a lungo.» Tutte e due le mani si erano spostate adesso sul braccio destro, e le dita scavavano a fondo nei tendini contratti del suo avambraccio. Leoff rimase senza fiato quando sentì dei minuscoli spasmi nelle dita, dove credeva di non avere più sensibilità. Gli occhi s'inumidirono con un misto di pena e piacere. «La mia considerazione principale è che al momento Robert è piuttosto
distratto. Ho alcuni amici all'interno di questo castello e credo che posso approfittare di loro per far sparire voi, Mery e la figlia dei custodi terrieri e nascondervi in un posto sicuro.» «Certo sarebbe troppo sperare in tutto questo» disse Leoff. «Vorrei vedere Mery e Arcana al sicuro. Per quanto riguarda me...» «È esattamente la stessa cosa» disse lei con voce piatta. «Se posso far uscire loro, posso liberare anche voi. Ma è un pensiero nobile. E c'è una sola cosa che vi chiedo.» Ovviamente, pensò Leoff. «Quale sarebbe, signora?» domandò. «A Muriele piacete. Godete della sua considerazione. Ammetto che una volta pensavo di poter mettere mio figlio sul trono, dopo tutto è il figlio di William, ma ora desidero solo protezione per i miei figli. Se Anne vince e Muriele torna a essere regina madre, vi chiedo solo di farle arrivare all'orecchio che io vi ho aiutato. Nient'altro.» «Posso farlo senza problemi» disse Leoff. Ora lo stava massaggiando con una sola mano, e lui si stava chiedendo perché, quando lady Gramme gli si spinse addosso e Leoff sentì qualcosa di caldo e morbido contro la schiena che gli provocò un brivido fino alle punte dei piedi. Si lasciò sfuggire un'esclamazione ridicola. La donna aveva usato l'altra mano per slacciarsi il corpetto e stava premendo i suoi seni nudi contro di lui. Quale corpetto poteva slacciarsi con una sola mano? Ce l'avevano tutte le donne o le cortigiane avevano degli abiti inventati apposta per certi scopi? Poi lady Gramme divaricò le gambe su di lui e si spostò sulla schiena, baciandolo lungo la spina dorsale, tirandogli giù le coperte col corpo, e Leoff si sentì improvvisamente sveglio e in fiamme. Non poteva resistere; riuscì a girarsi sotto al corpo della donna, che non era né pesante, né forte abbastanza per opporsi. «Mia signora» disse lui ansimando, cercando di tenere lo sguardo da un'altra parte. La lady aveva ancora indosso il vestito, ma lo aveva tirato su, fino alla vita, e Leoff poteva vedere la pelle delle cosce, sopra le calze, bianca come l'avorio. E ovviamente c'erano anche i suoi seni, alabastro e rosa... «Ssst» disse lei. «Fa parte del trattamento.» Lui sollevò le mani. «Guardatemi, lady Gramme» implorò Leoff. «Sono uno storpio.» «Credo che viste le circostanze dovreste chiamarmi Ambria» rispose lei.
«Sembrate funzionare nelle parti e zone che m'interessano.» Si chinò su di lui e lo baciò con calore, intimità e grande esperienza. «Questo non è amore, Leovigild, e non è carità. È una via di mezzo, un dono per quello che avete fatto per Mery, se volete. E rifiutarlo sarebbe davvero crudele.» Lo baciò di nuovo e poi scese sul mento e sulla gola. Si alzò col busto, e dopo qualche altro giochetto, fu solo carne sopra di lui, che ovviamente smise di fare obiezioni. Cercò di essere attivo, di fare l'uomo, ma lei dolcemente lo allontanò da tutto ciò che gli potesse impedire di sentirla. Fu lento e per la maggior parte silenzioso e bellissimo, di sicuro. Lady Gramme non era la prima donna con cui fosse stato, ma era ben al di là di tutto ciò che aveva sperimentato fino a quel momento e improvvisamente capì qualcosa di lei che non aveva mai immaginato prima. Quello che lui riusciva a fare con la musica, lady Gramme lo sapeva fare col corpo. Per la prima volta capì che l'amore poteva essere un'arte, e un'amante un'artista. Per quella rivelazione gli sarebbe stato grato per tutti i giorni che gli erano rimasti nella terra del fato. E così si sentì un po' in colpa quando, nel momento di massimo abbandono, fu il viso di Areana quello che vide e non quello di Ambria. Quando ebbero finito, lei versò del vino per tutti e due e si adagiò ancora nuda su un cuscino. La prima volta che l'aveva vista gli era sembrata alta, ma in realtà non lo era. Era piuttosto piccolina, con la vita stretta quasi quanto appariva nel corpetto, ma il suo corpo mostrava curve sensuali e Leoff riuscì appena a distinguere le smagliature che la donna aveva sulla pancia per aver portato in grembo i figli di William. «Ora vi sentite meglio, vero?» gli domandò lei. «Lo ammetto.» Ambria si allungò e spense la fiamma in modo da apparire come una dea d'alabastro al raggio di luna che entrava dalla finestra. Finì il vino e scivolò sotto le coperte, lo fece girare in modo da chiudersi a cucchiaio contro la sua schiena. «Tra tre giorni» gli bisbigliò nell'orecchio. «Tre notti da ora, a mezzanotte. C'incontreremo all'entrata. Avrò già con me Mery e Areana. Siate pronto.» «Lo sarò» rispose Leoff. Rimase un attimo a pensare. «Se dovessero... vi scopriranno qui!» «Sarò più al sicuro qui per le prossime ore che in qualunque altro posto
che possa venirmi in mente» disse lei. «A meno che non volete che me ne vada.» «No» rispose Leoff. «Non voglio.» Il calore di lei contro il suo corpo era piacevole, era ancora erotico, ma in modo più pacato, e lo trasportò verso un sonno gradevole, ristoratore. Quando si risvegliò, non era sicuro del perché, ma alzò lo sguardo in direzione di un debole suono. Dapprima credette che fosse di nuovo Ambria, che lo guardava nel buio, ma Ambria era rannicchiata contro la sua schiena. Poi, nonostante la debole luce, riconobbe Areana, e notò il luccichio delle lacrime. Prima che riuscisse a pensare a qualcosa da dire, lei si allontanò correndo con i piedi coperti solo dalle calze. 10 Corte gobelin Catio credeva di capire piuttosto bene cosa stava succedendo fino a quando Anne non si alzò sulle staffe, brandendo uno spadino e gridando: «Io sono la vostra Regina Nata! Vendicherò mio padre e le mie sorelle; mi riprenderò il regno!» Tanto per cominciare, la spada che brandiva era assolutamente insignificante; lui avrebbe preferito combattere con un pezzo di pane raffermo. Ma comunque, lei non ci stava combattendo; la stava usando per guidare. Uomini in sorcotto con espressioni tutt'altro che amichevoli si stavano riversando nella piazza e Anne non sembrava sorpresa. Secondo Catio avrebbe dovuto esserlo, e se non lo era, per lord Mamres, lui doveva sapere perché. Era stato questo il suo piano fino a quel momento, finire in un'imboscata in una piazza pubblica? Non aveva molto senso. «Cosa facciamo?» gridò lui. «State vicino a me» rispose Anne, poi alzò la voce e indicò gli uomini che stavano entrando nella piazza. «Teneteli lontani!» Quaranta dei cinquanta uomini della compagnia di Anne risposero caricando attraverso la piazza contro la guardia cittadina, o la guardia di Robert, o qualunque cosa fosse. Fu subito una faccenda complicata, perché il posto era gremito di persone e sebbene stessero provando a lasciare libera
la strada tra le due forze armate, era tutto un susseguirsi di spinte, inciampi, cadute. Le restanti guardie di Anne le si strinsero intorno appena lei smontò da cavallo e si avviò a grandi falcate verso gli attori. Preso di sorpresa, Catio smontò con una tale rapidità che quasi cadde. Appena i piedi toccarono il pavimento della piazza, fu subito felice di sentire di nuovo i ciottoli. Niente erba, né terra dissodata, non il terreno incolto della foresta o un sentiero battuto, deserto dimenticato dai santi, in mezzo al nulla, ma una strada cittadina. Quasi scoppiò a ridere per la gioia. Si rese conto poi che aveva equivocato l'obiettivo di Anne. Non erano gli attori, ma sir Clement, che era saltato giù dal suo cavallo e si era precipitato a supportare il patir, armandosi con una spada di una delle guardie dell'ecclesiastico. Gli altri soldati della Chiesa abbassarono le lance per formare una cintura protettiva intorno al patir, tenendo da parte le spade. Ma Clement, il traditore, era un cavaliere, perciò preferiva la spada. Catio scattò per mettersi tra Anne e il cavaliere. «Permettetemi Altezza» disse, notando l'espressione piuttosto innaturale nello sguardo di Anne, non diversa da quella della sera a Dunmrogh. Si rese conto che stava facendo un favore a Clement. Lei annuì leggermente e Catio estrasse il suo ferro appena Clement si lanciò contro di lui. Non era Caspator, ma Acredo, lo stocco che aveva preso al dessratore sefry. Lo sentiva poco familiare, troppo leggero, con un equilibrio strano. «Zo dessrator, nip zo chiado» ricordò al rivale. «Lo spadaccino, non la spada.» Clement lo ignorò e venne avanti. Per la felicità di Catio, il combattimento non fu semplice come avrebbe potuto. Catio aveva scoperto che era estremamente difficile combattere contro dei cavalieri quando indossavano l'armatura, ma questo non aveva nulla a che vedere con il loro stile nel tirare di spada, che si dimostrava invece sempre molto impacciato e noioso fino alle lacrime. In parte era dovuto alle armi che usavano, che somigliavano molto più a delle mazze d'acciaio piatte e affilate. La spada che aveva Clement era un po' più leggera e sottile della maggior parte di quelle che lui aveva visto da quando aveva lasciato Vitellio, ma era sempre fondamentalmente lo stesso tipo di arnese tagliente. Ciò che invece differiva completamente era il modo in cui quel tipo la maneggiava.
I cavalieri con l'armatura tendevano a tirare indietro la loro arma, per colpire dalla spalla alle anche. Non temevano la rapida contro-offesa mirata alla mano, al polso o al petto, perché di solito indossavano l'armatura. Ma sir Clement finì con l'abbassarsi in una posizione obliqua, non molto diversa da quella di un dessratore, anche se scaricò un po' troppo peso sulla gamba dietro rispetto a quanto Catio gli avrebbe potuto raccomandare. Teneva la spada davanti a sé, con il braccio teso verso la testa di Catio, tanto che quest'ultimo poteva guardare direttamente le nocche delle mani del cavaliere, mentre la punta della spada pendeva curiosamente verso il basso, indirizzata grosso modo alle ginocchia di Catio. Incuriosito, questi affondò verso la parte alta ed esposta della mano. Muovendo la spada molto più velocemente di quanto Catio credesse possibile, Clement spostò appena un po' il polso, con un leggero movimento dell'avambraccio e senza agitare per niente la spalla. Quella mossa semplice e rapida portò su il forte della lama fino a intercettare l'affondo di Catio. Anche la punta salì e colpì velocemente lo stocco, allontanandolo ed esponendo il polso di Catio a un colpo che sarebbe arrivato se questi non fosse stato pronto a fare un passo indietro. «Davvero molto interessante» disse a Clement, che stava seguendo la sua risposta lanciandosi avanti, all'interno della punta della spada di Catio, abbassando ancora una volta la sua e sollevando la mano per parare l'arma di Catio verso l'esterno. Con quello strano movimento del polso, colpì verso il lato destro del collo del vitelliano. Catio completò la ritirata e parò velocemente, portando l'elsa quasi all'altezza della sua spalla destra e poi si lanciò rapidamente a sinistra, inclinando la punta verso il viso del cavaliere. Clement si abbassò di colpo e si produsse in un tiro col braccio teso verso il fianco dell'avversario appena questo si avvicinò. Catio sentì lo spostamento d'aria prodotto dalla mossa e poi si ritrovò dietro al suo rivale e si voltò nella speranza di poterlo colpire alla schiena. Ma scoprì che Clement era già rivolto con la faccia verso di lui, in guardia. «Zo pertumo tertio, com postro pero praisef» disse. «Qualunque cosa significhi» rispose Clement «sicuramente sono fortunato che la vostra lingua non sia un pugnale.» «Mi fraintendete» disse Catio. «Se dovessi fare un commento sulla vostra persona e definirvi, per esempio, un maiale maleducato senza alcuna nozione dell'onore, lo farei nella vostra lingua.»
«E se io dovessi definirvi un ridicolo damerino, lo farei nella mia lingua per paura che il solo fatto di parlare la vostra potesse castrarmi.» Qualcuno nelle vicinanze gridò e, mortificato, Catio improvvisamente realizzò che non era impegnato in un duello, ma in una battaglia. Anne si era allontanata, e lui non poteva cercarla senza esporsi al rischio di essere azzoppato. «Vi porgo le mie scuse» disse. Clement sembrò un attimo confuso, ma poi Catio tornò ad attaccarlo. Iniziò come aveva fatto prima, slanciandosi per prendere la parte alta della mano e ottenne lo stesso risultato. Il colpo arrivò, esattamente come prima, ma Catio evitò la parata con un agile movimento del polso. Da parte sua, sir Clement capì cosa sarebbe seguito e fece un rapido passo indietro, abbassando di nuovo la punta della sua spada per arrestare l'affondo stavolta diretto sotto la sua mano. Tirò leggermente indietro la lama e poi colpì violentemente la spada di Catio in direzione del suo ginocchio esposto. Catio lasciò che sferrasse il colpo, ritirando velocemente il ginocchio e il piede davanti fino a raggiungere quello dietro, in modo da stare dritto, leggermente inclinato in avanti. Contemporaneamente sottrasse la sua lama dalla linea dell'assalto e la puntò al viso di Clement. La spada avversaria, di un palmo più corta dello stocco di Catio, affettò l'aria, ma il movimento in avanti di Clement lo portò dritto sulla punta dell'arma tesa di Catio, che scivolò senza intoppi nell'occhio sinistro. Catio aprì la bocca per spiegare la mossa, ma Clement stava morendo con un'espressione d'orrore sul volto e allora perse il desiderio di deriderlo, qualunque cosa avesse fatto. «Bel combattimento» disse invece mentre il cavaliere crollava. Poi si voltò e vide cos'altro stava succedendo. Se ne fece un'idea da quel poco che riuscì a scorgere. Austra era ancora dove doveva essere: lontana dal combattimento, sorvegliata da uno dei Maestri. Anne stava in piedi, con lo sguardo rivolto in basso verso il patir, che si teneva una mano sul petto. Aveva il viso rosso e le labbra blu, ma non c'era traccia di sangue. Le sue guardie del corpo erano quasi tutte morte, sebbene qualcuna era ancora impegnata a perdere la battaglia contro i Maestri che proteggevano Anne. Le loro forze sembravano vincere anche nel resto della piazza. Anne alzò lo sguardo su di lui. «Liberate gli attori» disse con voce energica. «Poi montate a cavallo. A
breve ci rimetteremo in marcia.» Catio annuì, allo stesso tempo eccitato e sconcertato dalla forza di quel comando. Quella non era la Anne della prima volta che si erano incontrati, la ragazza, la persona, il tipo che gli piaceva, e per la prima volta temette che quella fosse sparita per sempre, sostituita da una donna completamente diversa. Slegò gli attori, sorridendo in risposta ai loro ringraziamenti, e poi rimontò a cavallo come aveva ordinato Anne. La battaglia nella piazza era quasi terminata e i suoi guerrieri stavano ritornando verso di lei. Da un rapido conto dei caduti, Catio stimò che avevano perso solo due uomini, un ottimo risultato. Anne stava seduta impettita. «Come tutti voi potete vedere, siamo stati traditi. Mio zio intendeva ucciderci o catturarci appena varcati i cancelli. Non ho idea di come intenda sfuggire alla sua punizione, ma sono sicura che ci riuscirà. Siamo stati fortunati a scoprire le sue intenzioni prima di mettere piede nel castello, perché lì non avremmo potuto trovare una via di fuga.» Sir Leafton, il capo del gruppo di Maestri al suo seguito, si schiarì la voce. «E se non fosse esattamente così, Maestà? Se queste truppe ci avessero attaccato solo per errore?» «Errore? Avete sentito sir Clement; è stato lui a dare l'ordine. Sapeva che erano lì.» «Sì, ma non è questo che intendo dire» replicò Leafton, scostando i lunghi capelli neri dalla fronte sudata. «Può darsi che sir Clement sia stato, ehm, provocato dalla vostra conversazione col patir e abbia dato un ordine che il principe Robert non voleva che impartisse.» Anne scrollò le spalle. «Siete troppo gentile per dirlo, sir Leafton, ma state insinuando che il mio scarso giudizio sia da condannare. Non è così, ma adesso conta poco. Non possiamo proseguire verso il castello, sospetto fortemente che non riusciremmo ad aprirci un varco fuori dal cancello. Seppure ci riuscissimo, c'è la flotta tra noi e il nostro esercito. «Di sicuro non possiamo restare qui altro tempo.» «Potremmo prendere la torre orientale di Solidità» suggerì sir Leafton. «Magari riusciamo a tenerla per il tempo sufficiente perché il duca venga ad aiutarci.» Anne annuì pensierosa. «Stavo pensando più o meno alla stessa cosa, ma io stavo prendendo in considerazione la Corte Gobelin» disse. «Ce la pos-
siamo fare a espugnarla?» Sir Leafton batté le palpebre, spalancò la bocca, poi si toccò l'orecchio, con un'espressione confusa sul viso coperto di rughe. «Il cancello è robusto e le strade interne sono tutte strette abbastanza per tirare su buone fortificazioni. Ma con tutti questi uomini non so per quanto riusciremmo a tenerla. Dipende da quanto sono determinati a fermarci.» «Potremmo farcela per qualche giorno?» «Forse» rispose lui cauto. «Bene, dovranno bastare. Ci andiamo subito e in fretta» disse lei. «Ma ho bisogno di quattro volontari per una cosa un po' più pericolosa.» Quando si fecero largo lungo la strada tortuosa, Anne dovette resistere alla tentazione di lanciare il cavallo al galoppo e lasciare piazza Mimhus e dintorni il più velocemente possibile. Il patir aveva capito cosa gli stava succedendo. Lei non aveva voluto ucciderlo, solo terrorizzarlo. Ma più strizzava quel grasso, più corrompeva il suo cuore, più lui la pregava e implorava di risparmiarlo, e più la rabbia montava dentro di lei. Eppure credeva che sarebbe riuscita a liberarlo in tempo. Il suo cuore doveva essere stato già debole di suo. «Probabilmente sarebbe morto presto lo stesso.» «Cosa?» domandò Austra. Anne si rese conto di aver parlato a voce alta. «Niente» rispose. Fortunatamente Austra non insisté e proseguirono giù per la collina, attraversando il cancello meridionale Ferituia ed entrando nella città bassa. «Perché tutte queste mura?» domandò Catio. «Ah, non ne sono sicura» rispose Anne, leggermente imbarazzata, ma felice di avere un argomento innocuo da discutere con lui. «Non ho mai prestato molta attenzione ai miei tutori.» «Sono...» cominciò a dire Austra, ma poi si fermò. Anne vide che il volto della sua amica era diventato bianco. «Ti senti bene?» «Sto bene» rispose Austra in modo poco convincente. «Austra.» «Sono solo spaventata» spiegò. «Sono sempre spaventata. Questa storia non finisce mai.» «So quello che sto facendo» disse Anne.
«È proprio questo che mi preoccupa più di tutto il resto» replicò Austra. «Di' a Catio delle mura» la esortò Anne. «Lo so che te lo ricordi. Sei sempre stata attenta.» Austra annuì, chiuse gli occhi e deglutì. Quando le palpebre tornarono a sollevarsi, gli occhi erano umidi. «Queste... le mura sono state costruite in momenti diversi. Eslen nacque come semplice castello, una torre in realtà. Col passare dei secoli la ingrandirono, ma la maggior parte è stata costruita tutta insieme dall'imperatore Findegelnos I. Suo figlio costruì le prime mura della città, chiamate mura Ferituia; sono quelle che abbiamo appena attraversato. La città, però, continuò a crescere fuori dalle mura, così qualche centinaia d'anni dopo, durante la reggenza de Loy, Erteumé III costruì le mura del Sonno. Quelle più esterne, che noi chiamiamo Solidità, sono sorte durante il regno Reiksbaurg, con Tiwshand II. Sono le uniche a essere completamente intatte; le mura interne hanno dei buchi perché le pietre sono state prese per altre costruzioni.» «Allora l'unica vera cinta muraria è questa.» «L'ultima invasione della città è stata guidata dal bis-bisnonno di Anne, William I. Anche dopo essersi aperto un varco attraverso Solidità, impiegò giorni per arrivare al castello. I difensori alzarono delle barricate nei buchi delle mura più antiche. Dicono che per le strade scorresse sangue.» «Speriamo che stavolta non accada.» «Speriamo che il sangue non sia il nostro» disse Anne, nel tentativo di essere divertente. Catio sorrise, ma quella sul volto di Austra sembrava più una smorfia. «Comunque,» proseguì Anne «forse non conosco la storia, ma sono già stata nella Corte Gobelin e mio padre una volta mi ha detto una cosa stranissima al riguardo.» «E quale sarebbe?» domandò Catio. «È l'unico punto della città in cui s'incontrano due delle cinte murarie. Le mura del Sonno si dirigono a destra congiungendosi con Solidità. Creano una specie di strada chiusa.» «Intendete dire che esiste solo una via d'uscita?» domandò Catio. «Più o meno. C'è un cancello vicino al punto in cui si uniscono, ma non è molto grande.» «Così è per questo che hai scelto la Corte Gobelin?» chiese Austra. «Non sapevo che fossi così esperta di strategie. Ne hai discusso con Artwair prima di venire? Era un piano segreto tutto tuo?»
Anne sentì un attacco di rabbia. Perché Austra doveva discutere su ogni cosa che faceva lei? «Non ne ho discusso con Artwair» rispose Anne in tono piatto. «E non si tratta di un piano, ma di un'opzione. Avrei preferito entrare nel castello come eravamo rimasti d'accordo, ma non credevo veramente che Robert sarebbe rimasto fedele alla sua promessa. Perciò sì, ci avevo pensato precedentemente.» «Ma perché sei voluta entrare se eri così sicura che ci avrebbero tradito?» chiese Austra. «Perché so qualcosa che nessun altro sa» rispose Anne. «Ma hai intenzione di dirmi di cosa si tratta, vero?» «Certo,» disse Anne «perché avrò bisogno del tuo aiuto. Ma non qui. Non ora. Te lo dirò presto.» «Oh» esclamò Austra. Anne ebbe l'impressione che fosse un po' più soddisfatta dopo quella risposta. Grazie alla descrizione di Anne, Catio non ebbe problemi a riconoscere Corte Gobelin quando ci arrivarono, varcando un modesto cancello all'interno di una cinta muraria, piuttosto impressionante, fatta di pietra rossa. Al di là di una piazza col pavimento di ciottoli, una singola fila di edifici piuttosto esotici andava a finire contro un'altra cinta muraria a solo trenta iarde circa di distanza. Queste seconde mura erano ancora più impressionanti, in pietra quasi nera, e Catio riconobbe che si trattava di Solidità. Poté notare che le due mura in effetti s'incontravano e proprio all'angolo una casetta strana e stretta sembrava quasi addossarsi alla giuntura, assumendo un aspetto sinistro. Man mano che le mura si arrampicavano intorno alla collina fino a sparire alla vista, lo spazio tra di loro si allargava leggermente, pur continuando a rimanere inquietante e stretto. Lui non sapeva granché di guerra e tattica, ma non sembrava il tipo di posto che potesse essere facilmente espugnato da cinquanta uomini. Prima di tutto perché le mura più esterne erano sicuramente controllate dal castello. Cosa avrebbe impedito che gli venissero rovesciati addosso olio bollente e frecce? O che i guerrieri sciamassero su di loro scendendo con delle corde? Le mura del Sonno erano abbastanza alte, ma le case erano state costruite a ridosso dell'altro lato, fornendo scalini d'appoggio che avrebbero potuto consentire agli assalitori di arrivare a poche iarde dalla cima anche se non ci fossero state delle scale, che però probabilmente esistevano.
Per farla breve, Catio si sentiva molto più in trappola che protetto. Nonostante i suoi timori, era affascinato. Gli edifici, le insegne e le facce pallide che sbirciavano da sotto cappelli a tese larghe e veli, tutto sembrava esotico. «Echi'Sievri» disse. «Sì» convenne Anne. «Sefry.» «Non ne ho mai visti così tanti in un posto solo.» «Aspettate» disse Anne. «La maggior parte esce solo di notte. È quello il momento in cui Corte Gobelin comincia davvero a vivere. La gente chiama questo posto anche il quartiere sefry. Ci vivono in centinaia.» Catio sapeva di avere un'espressione da allocco, ma non poteva farci niente. L'area dall'altra parte del muro era a dir poco squallida: baracche in rovina con buchi sul tetto, edifici di pietra il cui periodo di splendore risaliva a decenni se non secoli prima, strade piene di macerie, immondizia e bambini sporchi. Ma la Corte Gobelin era pulita, incontaminata e colorata. Gli edifici erano alti e stretti, con tetti così appuntiti da risultare buffi. Erano tutti ordinatamente dipinti: rosso ruggine, senape, arancio brunito, viola, blu-verde e altre tinte spente, ma allegre. Vestiti sgargianti svolazzavano come bandiere dai fili allungati tra le finestre dei piani superiori e insegne color terra d'ombra con scritte nere annunciavano botteghe di indovini, cartomanti, speziali e altre attività insolite. «Maestà,» disse sir Leafton, spezzando l'incantesimo «abbiamo poco tempo da perdere.» «Molto bene» replicò Anne. «Cosa suggerite?» «Le mura Solidità sono la cosa più importante» rispose Leafton. «Dovremo scalarle e assumere il controllo delle torri di san Ceasel e Vexel e tutto ciò che si trova tra di esse. Poi dobbiamo alzare una barriera a nord; credo che la Croce Werton sia il posto più indicato. E abbiamo bisogno anche di uomini sulle mura del Sonno. Questo è facile; abbiamo scale da questa parte. Solidità risulterà un po' più difficile.» Chi dice che non so niente di strategia?, pensò Catio tra sé. Ad alta voce, però diede un suggerimento. «Quella casetta all'angolo arriva quasi fino in cima» disse. «Potremmo riuscire a scalare la parte che rimane.» Leafton annuì. «È possibile. Farò togliere l'armatura ad alcuni uomini.» «La cosa richiederà tempo» obiettò Catio. «Perché non lasciate che sia io a cominciare?» «Dovete proteggere Anne» osservò Austra.
«Ma io sono già senz'armatura» replicò lui. «Se diamo il tempo a qualcuno di posizionarsi sul muro, cominceranno a caderci pietre in testa prima che ce ne accorgiamo.» «Ha ragione» disse Anne. «Sir Leafton può proteggermi fino a che lui non avrà finito. Andate Catio. I Maestri vi raggiungeranno appena si saranno liberati dell'armatura.» Si avviarono a cavallo verso la casa e lì Catio smontò e bussò alla porta. Un attimo dopo, una donna sefry venne ad aprire. Era talmente imbacuccata in abiti rosso e arancio che Catio non riuscì a vedere granché del suo viso, fatta eccezione per un solo occhio di un celeste chiarissimo, circondato da una striscia di pelle così bianca che si intravedevano le vene. Non gli diede neanche modo di parlare. «Questa è la mia casa» disse la donna. «Io sono Anne Dare» dichiarò Anne dal suo cavallo. «Questa è la mia città, e quindi quella è anche la mia casa.» «Certamente» replicò la donna senza battere ciglio. «Vi stavo aspettando.» «Davvero?» domandò Anne con un tono piuttosto freddo. «Allora sapete che questo mio uomo deve trovare la via più breve per salire sul vostro tetto.» «No, questo non lo sapevo,» replicò la donna «ma di sicuro lo aiuterò.» Diresse di nuovo il suo occhio su Catio. «Entrate. C'è una scala centrale che sale a spirale verso il tetto. La porticina da' sul balcone più alto. Da lì dovrete arrampicarvi sul tetto.» «Grazie, signora» disse Catio gentilmente. Si tolse il cappello e lo agitò verso le ragazze. «Non ci metterò molto.» Anne osservò Catio che spariva su per le scale e sentì Austra che s'irrigidiva accanto a lei. «Non gli succederà niente» bisbigliò Anne. «Questo è il tipo di cose per cui vive Catio.» «Sì» disse Austra. «E il tipo di cosa che lo ucciderà.» Tutti devono morire, pensò Anne, ma sapeva che non era una cosa carina da dire in quel momento. Riportò invece la sua attenzione sulla donna sefry. «Avete detto che mi stavate aspettando. Che significa?» «Volete usare il passaggio Crepling. Questo è il motivo per cui siete venuta.»
Anne diede un'occhiata a sir Leafton. «Potete ripetermi cosa ha detto?» domandò Anne al Maestro. Leafton aprì la bocca, poi sembrò confuso. «No, Vostra Altezza» rispose. «Sir Leafton,» disse Anne «organizzate il resto della difesa. Starò bene qui da sola per il momento.» «La cosa non mi lascia molto tranquillo, Maestà» disse il cavaliere. «Fatelo. Vi prego.» Lui arricciò le labbra, poi sospirò. «D'accordo Maestà» rispose e si precipitò a dare istruzioni ai suoi uomini. Anne si voltò di nuovo verso la Sefry. «Come vi chiamate?» domandò. «Mi chiamano Madre Uun.» «Madre Uun, sapete cos'è il passaggio Crepling?» «È il lungo tunnel» rispose la donna. «Inizia nelle profondità del castello di Eslen e termina a Eslen-delle-Ombre. Io ne sono il guardiano.» «Guardiano? Non capisco. Vi ha nominato mio padre? O forse mia madre?» La vecchia, o per lo meno questa era l'impressione che ebbe Anne, scosse il capo. «La prima regina di Eslen ha affidato il compito al primo di noi. Da allora, abbiamo scelto il successore tra di noi.» «Non capisco. Cosa dovete controllare?» L'occhio si spalancò: «Lui, ovviamente.» «Lui?» «Non lo sapete?» «Non so di che cosa state parlando adesso.» «Be', allora... davvero interessante.» Madre Uun arretrò leggermente. «Vi dispiace se continuiamo questa conversazione dentro casa? La luce del sole mi dà fastidio all'occhio.» Si fece ulteriormente da parte quando sei Maestri si avvicinarono, con indosso solamente la giubba imbottita. La vecchia ripeté le istruzioni date a Catio e loro la superarono entrando in casa. «E voi, Altezza?» sollecitò la Sefry. Ma prima che Anne potesse rispondere, il grido soffocato di Austra attirò la sua attenzione. I suoi occhi azzurri guardavano in alto e Anne subito seguì la direzione del suo sguardo. Vide una figura minuscola, Catio, che in qualche modo si arrampicava sul muro sopra al tetto alto e appuntito. Non sembrava che dovesse percorrere molta strada, solo un paio di iarde.
Ma sul muro c'erano due soldati con l'armatura e le lance pronte che si stavano precipitando ad affrontarlo. 11 Il Bosco di Sarn L'uomo scrutò Aspar dall'alto in basso con due occhi grigi e penetranti e un sopracciglio alzato. «Siete un uomo morto» gli disse. Anche quel tipo non sembrava molto lontano dalla morte. Era alto e magro come uno scheletro e i capelli grigi erano sottili e scompigliati. La pelle del viso era abbronzata e pendeva dal cranio come una maschera informe. Le parole che diceva erano semplici, prive d'ironia e di minaccia, un vecchio che diceva le cose come le vedeva. «L'avete mai incontrata?» domandò Aspar. Il vecchio distolse lo sguardo e lo indirizzò verso il verde orizzonte della foresta. «Alcuni dicono che è meglio non parlare di queste cose» rispose. «Io ho intenzione di entrare lì dentro a cercarla» disse Aspar. «Che voi mi aiutiate o no.» Fece una pausa. «Preferirei che mi aiutaste.» Il vecchio sollevò di nuovo il sopracciglio. «Non era una minaccia» si affrettò a spiegare Aspar. «Sì!» disse il tipo. «Ho vissuto tutta la mia vita a due passi dalla foresta. Perciò sì, credo di averla vista. O per lo meno ho visto quello che lei voleva.» «Che intendete dire?» «Intendo dire che non è sempre la stessa, ecco tutto» rispose. «Una volta un orso è uscito allo scoperto. Un grosso orso bruno. Avrei potuto colpirlo, lo avrei colpito, ma lei mi guardò e si fece riconoscere. A volte invece è uno stormo di corvi. Altre una donna sefry, dicono, ma io no l'ho mai vista così. A quelli che la vedono nelle sembianze sefry o umane, in genere non resta molto da respirare sulle terre del fato.» «Come fate a saperlo? Voglio dire se tutti quelli che l'hanno vista...» «Alcuni sopravvivono per un po'» spiegò l'uomo. «Così ce lo possono raccontare e noi veniamo informati.» Si piegò maggiormente verso di lui. «Lei parla solo con i morti.» «Allora come fanno le persone a parlare con lei?»
«Muoiono. O si portano qualche morto.» «Che cavolo significa?» «È quello che dicono loro. Lei non può parlare come noi. O per lo meno non vuole. Credo che potrebbe anche farlo, è solo che preferisce uccidere tutte le volte che può.» Il vecchio diventò triste. «Credo che da un giorno all'altro uscirà a chiamarmi.» «Già» sospirò Aspar. «C'è qualcos'altro che potete dirmi?» «Sì. C'è un sentiero che vi porterà dritto da lei. Ma rimaneteci sopra.» «Va bene, è abbastanza» disse Aspar, voltandosi verso Orco. «Viaggiatore!» gridò il vecchio. «Sì?» «Potete fermarvi qui stanotte. Pensateci bene. Mangiate un po' di zuppa; almeno non morirete a stomaco vuoto.» Aspar scosse il capo. «Vado di fretta.» Fece per girarsi, poi diede un'altra occhiata a quell'uomo. «Se avete così tanta paura di lei, perché continuate a vivere qui?» L'uomo lo guardò come se avesse visto un pazzo. «Ve l'ho detto. Io sono nato qui.» Il vecchio non era l'unico a preoccuparsi del Bosco di Sarn. Una lunga fila di pali con sopra teschi di mucca, cavallo e cervo lasciava intendere che altri dovevano aver dedicato a quel posto un pensiero angosciato o due. Aspar non sapeva con sicurezza cosa avrebbero dovuto ottenere quelle ossa, ma intorno ad alcuni pali, a metà altezza, c'erano delle piccole piattaforme fatte con rami di salice intrecciati su cui vide dei resti di pecora e capra in decomposizione, bottiglie che gli sembrarono piene di birra o vino e perfino mazzi di fiori anneriti. Era come se pensassero che la strega potesse essere placata da qualcosa, ma non sapessero esattamente cosa. La foresta iniziava subito dopo, scendendo pesantemente dalle colline verso la vasta valle del Mago Bianco. Il fiume stesso spariva tra le sue fauci piene di felci a un paio di tiri d'arco da lui. Soppesò con lo sguardo ogni centimetro del confine della foresta, per provare a misurarla. Anche solo a una rapida occhiata, era diversa dalla Foresta del Re. Il confine familiare fatto di querce, hickory, witek, larici e olmi era rimpiazzato da lance alte e verdi di abeti e cicuta, disposte in folti raggruppamenti in mezzo a cime di carpine attualmente senza foglie e macchie di betulla così bianche che sembravano ossa in contrasto con il verde intenso delle conifere. In lontananza verso il fiume, l'ontano nero, il salice flessuoso, il
salice fragile e il pino dominavano il panorama. «Bene Orco» grugnì. «Che ne pensi?» Orco non reagì fino a che non furono più vicini e anche allora lo fece in silenzio, attraverso una contrazione dei muscoli e un'esitazione volontaria atipica per lo stallone. Ovviamente era stanco, affamato e ancora sotto gli effetti del veleno del woorm, ma comunque... Aspar si ritrovò a pensare all'età di Orco, mentre il sentiero li conduceva sotto i primi rami del Bosco di Sarn. Se la ricordò e la risposta non gli piacque e allora cominciò a chiedersi perché dovesse esistere un sentiero in una foresta in cui nessuno aveva il coraggio di entrare. Cosa lo manteneva così sgombro? Gli rimanevano ancora alcune ore di luce, ma il cielo nuvoloso e i sempreverdi svettanti anticiparono il crepuscolo su Aspar e il suo cavallo. Incordò l'arco e lo poggiò sul pomo della sella, avvertendo la contrazione dei muscoli forti sotto le cosce mentre Orco proseguiva la sua avanzata riluttante, arrancando tra continui rivoli che Aspar riconobbe provenire dal disgelo sulle colline pedemontane. Nonostante il freddo, il sottobosco era già rigoglioso di felci e il muschio color smeraldo ricopriva il terreno come un tappeto, e lo stesso faceva sui tronchi e i rami degli alberi. La foresta appariva piena di vita al suo sguardo, ma l'odore non era quello giusto. Ancor più che la Foresta del Re, questa sembrava in qualche modo malata. Pensò di essersi addentrato ormai per circa una lega quando finalmente si fece così scuro da doversi accampare. Era freddo e Aspar sentiva i lupi svegliarsi in lontananza, perciò decise di non preoccuparsi troppo di quello che poteva pensare la strega riguardo al fuoco. Raccolse legna da ardere, ramoscelli e rami più grandi e li dispose a cono e con una scintilla accese il tutto. Non era un grosso fuoco, ma era sufficiente a tenere calda una parte di lui. Si sedette sul cadavere di un tiglio e osservò la fiamma che s'ingrandiva, chiedendosi tristemente se Winna era ancora viva, e se fosse dovuto restare come lei gli aveva chiesto. Per sentire le sue ultime parole? Merda. La cosa più terribile era che una parte di lui cominciava già a pensare a come sarebbe stata la vita senza Winna. La stessa parte che era già titubante all'idea di una sistemazione stabile. Di cosa erano fatti gli uomini, si domandò, se facevano pensieri del genere? Nel profondo del suo cuore, voleva forse che lei morisse? Quando Qerla... «No» disse, a voce tanto alta che Orco lo guardò. Così stavano le cose.
Aveva conosciuto Qerla quando era molto giovane, più di Winna. L'aveva amata con una follia assoluta e aveva pensato che non avrebbe potuto farlo di nuovo. Sentiva ancora il suo odore, d'acqua raccolta nel bocciolo di un'orchidea. La pelle al tatto era leggermente più calda di quella Umana. Ripensando alla cosa, Qerla era stata addirittura più pazza di lui, perché mentre Aspar aveva poco da perdere in termini di comunità e amici, Qerla proveniva invece da una famiglia di famosi veggenti. Aveva beni e prospettive e tutte le migliori proposte di matrimonio. Ma era scappata via con lui, per vivere da soli nella foresta e per un po' era stato sufficiente. Per molto poco. Forse se avessero potuto avere dei bambini... Forse se il mondo sefry o degli umani fosse stato un po' più tollerante... Forse. Forse. E invece era stata dura, e lo era diventato ogni giorno di più, talmente dura che Qerla era andata a letto con un vecchio amante. Così dura che quando Aspar aveva trovato il suo corpo, una parte di lui si era sentita sollevata per il fatto che fosse finita. Odiava Fend per aver ucciso Qerla, ma adesso capiva di odiarlo ancora di più per avergli mostrato questo sudicio aspetto di sé. Aspar aveva trascorso vent'anni senza un'altra donna, ma non per la paura di perderla. Perché sapeva di non essere degno di amare qualcuno. E continuava a non esserlo. «Merda» disse rivolto al fuoco. Quando aveva cominciato a pensare a tutte queste cose? Non è che gli stesse facendo un gran bene. I lupi lo avevano trovato. Sentiva il fruscio nella notte e di tanto in tanto un paio d'occhi o un fianco grigio venivano illuminati dal fuoco. Erano grandi, più grandi di tutti i lupi visti fino a quel momento, e ne aveva incontrati alcuni belli grossi. Non pensava che sarebbero andati a prenderlo, non fino a che il fuoco restava acceso, ma dipendeva da quanta fame avevano. Dipendeva anche dalla loro somiglianza coi lupi che lui conosceva. Aveva sentito parlare di alcune varietà settentrionali che non avevano paura degli uomini. Per ora mantenevano le distanze. Sarebbero stati un problema maggiore con la luce del giorno. Attizzò la fiamma con dei piccoli movimenti, si voltò per prendere uno dei ciocchi che aveva poggiato accanto a sé - e si fermò. Lei si trovava a sole quattro iarde di distanza e Aspar non aveva sentito nulla, neanche il minimo rumore. Ma ora stava seduta lì, accoccolata sui
talloni, e lo osservava con occhi color salvia, e i capelli lunghi e neri che le ricadevano sulle spalle, la pelle bianca come le betulle. Era nuda e sembrava giovanissima, ma i due capezzoli superiori delle sei mammelle erano gonfi, cosa che succedeva ai Sefry solo dopo aver passato i vent'anni. «Qerla?» Parla solo con i morti. Ma Qerla era molto morta. Ossa. La gente di città vedeva i morti, o almeno così diceva, su Temnosnaht. Le vecchie sefry dicevano di parlare con loro tutto il tempo. E lui stesso aveva visto qualcosa nei profondi labirinti di Rewn Aluth simile a un'illusione o qualcos'altro. Ma questa... «No» esclamò a voce alta. I suoi occhi erano viola. Ma a parte quello, era estremamente simile a Qerla: la leggera curva del labbro, il tracciato delle vene sulla gola, che in un punto sembravano le venature di una foglia di biancospino. Molto simile. Gli occhi di lei si spalancarono al suono della sua voce e Aspar a malapena osò respirare. La mano destra stava ancora cercando di prendere il ciocco; quella sinistra era andata istintivamente a cercare l'ascia e stava ancora poggiata lì, sulla fredda testa d'acciaio. «Sei lei?» domandò. A quelli che la vedevano nelle sembianze sefry o umane, in genere non restava molto da respirare sulle terre del fato, aveva detto il vecchio. Lei abbozzò un sorriso leggerissimo, e si alzò un vento che fece agitare la fiamma e sollevò ciuffi dei suoi capelli sottili. Poi sparì. Era come se lui l'avesse vista riflessa in un occhio gigante e quell'occhio avesse battuto la palpebra. Il mattino successivo, ancora respirava e si mise in viaggio al primo accenno di sole. Era preoccupato per i lupi, ma presto notò che non attraversavano il sentiero che lui stava seguendo. Questa cosa in qualche modo lo preoccupò ancora di più. I lupi appartenevano alla foresta. Cosa poteva esserci di tanto brutto su quel pezzo di terra se non osavano calpestarlo? Contò un branco di circa dodici esemplari. Lui e Orco avrebbero potuto sconfiggerne così tanti nelle condizioni in cui si trovavano? Forse sì. La foresta si allargò per un po' perché la circonferenza degli alberi au-
mentava, rivelando piccoli prati di muschio qua e là. Il cielo era blu quando riusciva a scorgerlo, accecante quando un raggio di luce o due filtravano attraverso la fitta boscaglia. I lupi lo seguirono fino a mezzogiorno, poi sparirono. Non molto tempo dopo, Aspar sentì degli animali selvatici gridare spaventati e capì che i predatori avevano trovato del cibo che ritenevano degno. Fu felice di essersi liberato dei lupi, ma qualcosa continuava a seguirlo. Piegava i rami non come il vento, ma come un peso che si poggiava dall'alto sopra di loro, come se ci stesse camminando sopra, su tutti contemporaneamente o per lo meno su quelli che lo circondavano. Se lui si fermava, la cosa si fermava, e gli tornò in mente un gioco stupidissimo che aveva visto fare a una compagnia di artisti a Colbaely. Un tipo camminava di nascosto dietro a un altro, mimando esattamente i suoi gesti, e ogni volta che la persona seguita si voltava, quello che lo seguiva si bloccava sul posto in modo che lo sciocco davanti a lui non riusciva a vederlo. Aspar lo aveva trovato fastidioso più che divertente. Ma i cervi non ti vedono quando mangiano. Quando hanno il muso rivolto a terra, puoi avvicinarti a loro se sono controvento e non possono fiutarti. Neanche le rane ti vedono se non ti muovi. Forse per la creatura che lo stava seguendo, qualunque cosa fosse, Aspar era essenzialmente simile a una rana. Forse era la fatica, ma la cosa a dire il vero stavolta sembrava divertente. Ridacchiò a bassa voce. Forse avrebbe dovuto riconoscere un merito maggiore a quegli attori. Un respiro roco e affannato catturò la sua attenzione, qualcosa leggermente al di là del sentiero. Non aveva dimenticato l'avvertimento del vecchio di rimanere su quella strada, ma non si fidava neanche troppo. Dopo tutto, se nessuno che entrava lì dentro sopravviveva, a che serviva seguire i consigli? Con una piccola esitazione deviò Orco verso il punto da cui sembrava provenire il suono. Non si era allontanato molto quando la vide: una figura grossa, pelosa e nera che tremava tra le felci. Sollevò il capo ispido quando lo vide e grugnì. Orco nitrì. Era una scrofa, grossa, ancora di più perché gravida. Era un po' troppo presto, però, i maialini di solito arrivavano con i primi fiori, ma c'era qualcosa di ancora più sbagliato, a quanto poteva vedere. Qualunque cosa fosse quella che usciva a fatica dalla sua pancia era molto più grande di un lat-
tonzolo. E c'era del sangue, un sacco di sangue intorno alla scrofa, che colava dalle sue narici ansimanti e dagli occhi. Non si era neanche accorta che lui era lì; il grugnito era stato dettato dalla sofferenza. Morì una mezz'ora dopo, proprio mentre lui la osservava, ma qualunque cosa avesse dentro la pancia continuò a muoversi. Aspar si accorse che stava tremando, ma non sapeva perché, sapeva solo che non era paura. Sentì il peso sopra di lui, la cosa che piegava i rami e improvvisamente il fianco della femmina di cinghiale si squarciò. Fuoriuscì un becco insanguinato, un occhio giallo e un corpo squamoso e viscido. Un greffyn. Con prontezza lui smontò da cavallo, mentre la cosa lottava per liberarsi dal grembo della madre. «Fermami se ci riesci» disse alla foresta. Le scaglie erano ancora morbide, non dure come quelle di un adulto, ma il bagliore dello sguardo impiegò parecchio tempo prima di offuscarsi anche dopo che Aspar gli ebbe tagliato la testa. Pulì la sua ascia sulle foglie morte, poi si piegò e vomitò. Ma almeno adesso sapeva una cosa. Sapeva perché aveva passato quarant'anni nella Foresta del Re senza vedere traccia di un greffyn, un utin, un woorm o niente di simile e perché adesso il mondo ne era pieno. La gente diceva che si stavano 'svegliando', proprio come il Re degli Alberi, il che lasciava presupporre che avevano dormito come fa l'orso nel cavo di un albero, solo che qui si trattava di un migliaio d'anni. Non avevano dormito da qualche parte. Erano stati concepiti. Gli tornò in mente una vecchia storia che raccontava di un basilnixo che usciva dalle uova di gallina. Merda, forse era proprio così. Aspettò che l'ira della strega si abbattesse su di lui, ma non successe nulla. Continuando a tremare, tornò in sella e proseguì. Fu quasi senza sorprendersi che notò i germogli sugli alberi. Non erano naturali, ma punte nere che spuntavano da tronchi e rami. Fu abbastanza facile per lui riconoscere i rovi neri che aveva visto nella Foresta del Re e di nuovo nelle Regioni Centrali. Qui spuntavano da squarci negli alberi, e più si addentrava più ne vedeva, e di varietà sempre nuove. I rovi nella Foresta del Re erano tutti uguali, ma qui ce n'erano di molte specie, alcuni stretti, con le spine quasi come piume per la delicatezza e la quantità e altri con escrescenze nodose senza punta. Un'ora dopo non rico-
nosceva neanche più gli alberi originari; come la scrofa, stavano partorendo mostri e si consumavano nel processo. Poi arrivò alla fine del sentiero e a un laghetto soprannaturale sotto i rami della foresta più strana che avesse mai visto. Gli alberi più grandi erano coperti di ruvide scaglie, e ogni ramo ne generava altri cinque e ciascuno di questi ne generava altri, all'infinito, tanto che i contorni sembravano quelli di una nuvola. Ad Aspar fecero venire in mente piante acquatiche o muschi e licheni più che veri e propri alberi. Altri sembravano salici piangenti tranne che per il fatto che le foglie erano nere e seghettate. Alcuni alberelli davano l'idea che un santo impazzito avesse preso delle pigne e le avesse allungate di dieci iarde. Altre piante erano leggermente più naturali. Felci pallide, quasi bianche, ed equiseti giganteschi assediavano i bordi dello stagno che si allungava davanti a lui. Dall'altra parte e alla sua destra e sinistra, pareti rocciose s'innalzavano, posizionando lui e il laghetto sul fondo di una gola. Tutta quella caverna era stata decorata con teschi umani, che lo schernivano dagli alberi, dalle crepe nella roccia e sul terreno che fiancheggiava lo stagno. Tutto si piegava verso di lui. «Bene» disse Aspar. «Eccomi qua.» Sentiva la presenza, ma il silenzio si dilatò fino a che, piano, l'acqua cominciò a gonfiarsi e qualcosa emerse dal laghetto. Non era la donna sefry, ma qualcosa di più grande, un cumulo di pelliccia scura coperta da piante acquatiche, foglie secche e lische di pesce. Si ergeva più come un orso che come un uomo, ma il volto era simile a quello di una rana, con un occhio sporgente, bianco, cieco e l'altro coperto da una massa di filamenti oleosi che sembravano quasi riversarsi dalla testa. La bocca era un arco capovolto, che occupava gran parte della base del viso. Le braccia oscillavano sull'acqua, e pendevano da massicce spalle curve. Non mostrava niente di femminile, né maschile. Aspar fissò la cosa per alcuni istanti, fino a che non fu sicuro che non avrebbe attaccato, per lo meno non ancora. «Sono venuto a incontrare la donna del Bosco di Sarn» disse infine. Seguì un silenzio per diverse, lunghe decine di secondi. Aspar cominciava a sentirsi leggermente stupido quando qualcos'altro si agitò nell'acqua proprio davanti a quella creatura. Emerse una testa. All'inizio Aspar credette che si trattasse semplicemente di un'altra versione, più piccola, della creatura, ma la somiglianza era
superficiale. Questa una volta era stata un uomo, sebbene gli occhi adesso fossero velati e la carne mostrasse un orribile colorito grigio-bluastro. Aspar non sapeva dire cosa l'avesse ucciso, ma a parte il fatto che si reggeva in piedi, era chiaramente morto da tempo. Il cadavere iniziò improvvisamente a muoversi a scatti e dalle sue labbra schizzò acqua. Nel frattempo dalla bocca emerse una specie di suono umido e soffocato che divenne più forte. Alla fine, Aspar cominciò a riconoscere delle parole, smussate, ma comprensibili se si concentrava. «Coloro che vengono qui per incontrarmi portano sangue» disse il cadavere. «Sangue e qualcuno che parli per me. Questo qui è morto quasi da troppo tempo.» «Non avevo nessuno da portare.» «Il vecchio sarebbe andato bene.» «Ma non l'ho portato, eppure state parlando con me.» La strega agitò la sua testa mostruosa e, pur essendo priva di espressioni umane, lui percepì la sua ira. «Desidero ucciderti» disse lei. Aspar sollevò quello che stringeva in mano: la freccia datagli da Hespero, il tesoro della Chiesa ritenuto in grado di uccidere qualunque cosa. «Questa era destinata a uccidere il Re degli Alberi» disse. «Credo che invece ucciderà voi.» Il cadavere cominciò a respirare a fatica, come in debito d'ossigeno. Gli ci volle un po' ad Aspar per riconoscere che si trattava di una risata. «Cosa ucciderai?» domandò la Strega. «Questo?» L'enorme zampa si alzò per toccare il petto. «Potresti giusto uccidere questo.» Gli alberi intorno a lui improvvisamente presero a scricchiolare e gemere e lui sentì che la presenza che lo aveva seguito da quando era entrato nella foresta adesso l'opprimeva con un peso incredibile, per poi attraversarlo e farlo cadere pesantemente in ginocchio. Cercò di portare la freccia all'arco, ma sentì che entrambi erano diventati troppo pesanti. «Tutto quello che ti circonda,» gorgogliò il cadavere «tutto quello che vedi che cresce, scivola o striscia dentro il Bosco di Sarn... sono io. Sai conficcare una freccia in tutto questo?» Aspar non rispose, concentrando la sua volontà nel tremendo sforzo di rimettersi in piedi, per evitare almeno di morire in ginocchio. Con i muscoli che tremavano, gemendo, sollevò prima una gamba e poi l'altra e da una posizione accosciata provò a rimettersi dritto. Sentiva il peso di dieci uo-
mini sulle spalle. Era troppo, e crollò di nuovo. Con sua enorme sorpresa, la pressione improvvisamente si alleviò. «Capisco» disse la strega. «Lui ti ha toccato.» «Lui?» «Lui. Il Signore con le Corna.» «Il Re degli Alberi.» «Sì, lui. Cosa sei venuto a fare qui?» «Avete fatto uscire un woorm da qui con un Sefry di nome Fend.» «Sì, l'ho fatto. Hai visto il mio bambino vero? Non è bello?» «Avete dato a Fend un antidoto per il suo veleno. Ne ho bisogno.» «Oh, serve alla tua amata.» Aspar si accigliò. «Se già lo sapevate...» «Invece no. Tu dici delle cose e io ne vedo altre. Se tu non parli, non posso vedere niente.» Aspar decise di soprassedere. «Mi aiuterete?» Le foglie frusciarono intorno a lui e sentì una minaccia di corvi che gracchiavano da qualche parte tra gli alberi. «Noi non abbiamo gli stessi scopi in questo mondo, guardaboschi» gli disse la Strega di Sarn. «Non riesco a trovare un motivo per aiutare qualcuno che è determinato a uccidere il mio bambino, e che ha già ucciso tre dei miei figli.» «Loro stavano cercando di uccidere me» si difese Aspar. «Questo per me non significa niente» rispose la strega. «Se ti do la medicina che cerchi, ti rimetterai sulle tracce del mio woorm e con quella tua freccia proverai a ucciderlo.» «Il Sefry che sta con tuo figlio, Fend...» «Ha ucciso tua moglie. Perché lei sapeva. Stava per dirtelo.» «Dirmelo? Dirmi cosa?» «Tu proverai a uccidere il mio bambino» ripeté la strega, ma stavolta in un tono completamente diverso, non come se stesse esponendo un fatto, quanto come se stesse riflettendo, pensando. «Lui ti ha toccato.» Aspar respirò profondamente. «Se salvate Winna...» «Devi avere il tuo antidoto» lo interruppe la Strega. «Ho cambiato idea, non ti uccido, e comunque tu darai la caccia a mio figlio in ogni caso. Non ho motivo di aiutarti, ma se riconosci di dovermi un favore, non ho motivo di dirti di no.»
«Io...» «Non ti chiederò la vita di nessuno di quelli che ami» lo rassicurò la strega. «Non ti chiederò di risparmiare uno dei miei figli.» Aspar ci pensò sopra un attimo. «Va bene» disse alla fine. «Dietro di te,» disse la strega «il cespuglio di rovi con i grappoli di frutta nascosti tra le foglie. Il succo di tre di quelli dovrebbe bastare per purificare un uomo dal veleno. Prendine quanti ne vuoi.» Continuando a sospettare che si trattasse di un inganno, Aspar guardò dove lei gli aveva detto e trovò dei frutti duri, di un colore viola scuro, grandi come delle prugne selvatiche. Con aria di sfida se ne cacciò uno in bocca. «Se è un veleno,» disse «voglio scoprirlo subito.» «Come desideri» rispose la strega. Il frutto aveva un sapore forte, acidulo, con un leggero retrogusto di marcio, ma non sentì immediati effetti negativi. «Cosa siete?» domandò alla strega. Ancora una volta il cadavere scoppiò a ridere. «Una vecchia» rispose. «I rovi neri. Sono anche loro figli vostri?» «I miei figli adesso vengono partoriti ovunque» disse lei. «Comunque sì.» «Stanno distruggendo la Foresta del Re.» «Oh, quanto mi dispiace» ringhiò il cadavere. «La mia foresta è stata distrutta molto tempo fa. Quello che vedi qui è tutto ciò che rimane. La Foresta del Re è un boschetto di piantine. È giunta la sua ora.» «Perché? Perché la odiate?» «Io non la odio» rispose la strega. «Ma io sono come una stagione, Aspar White. Quando è il mio momento, arrivo. Non ho nulla a che fare con il susseguirsi delle stagioni, però. Capisci?» «No» rispose Aspar. «Neanch'io, a dire la verità» confessò la strega. «Adesso vattene. Tra due giorni la tua ragazza morirà, e tutto questo sarà stato inutile.» «Ma potete vedere se riuscirò a salvarla?» «Io non vedo questo genere di cose» rispose la strega. «Ti posso solo dire di fare in fretta.» Aspar prese tutti i frutti che la sua bisaccia poteva contenere, ne diede da mangiare una manciata a Orco e lasciò il Bosco di Sarn.
12 Sorella Pale Sorella Pale guidò Stephen nella notte senza l'aiuto di una torcia. In qualche modo sapeva come muoversi e teneva una mano stretta in quella di lui. Era una sensazione particolare, quel contatto pelle contro pelle, con una donna strana. Non aveva tenuto la mano a molte donne: quella di sua madre, ovviamente, e quella della sua sorella più grande. In modo imbarazzante questa situazione gli fece tornare in mente l'altra; si sentì quasi come un bambino, protetto da cose che non capiva grazie a quella presa attenta di dita tra le sue. Ma poiché non si trattava di sua madre o sua sorella, la cosa generò altri sentimenti più adulti che differivano un po' da quelli infantili. Si ritrovò a provare a tradurre la pressione delle dita di lei, lo spostamento della presa da una con le dita intrecciate a una palmo contro palmo, in una specie di codice cifrato con un significato, cosa che ovviamente non era. La donna voleva semplicemente che lui le stesse dietro. Stephen non sapeva che aspetto avesse, ma si trastullò con un'immagine basata sulle ombre di ciò che aveva intravisto. Fu solo un'ora più tardi, o giù di lì, che si rese conto che l'immagine era quella di Winna, quasi identica. Non erano soli nella fuga; sentì il fiuto dei cani della donna che si muovevano intorno a loro, e una volta uno curiosò sulla sua mano libera. Si domandò quale via dei templi avesse percorso quella sorella, capace di muoversi tra tenebre tanto fitte; neanche i suoi sensi benedetti dai santi gli avrebbero consentito un'impresa del genere. La luna finalmente si alzò; era una falce e di un giallo strano, cupo, che Stephen non aveva mai visto. La sua luce gli rivelò qualcosa in più della sua compagna e dei dintorni: il cappuccio e il retro del suo paida, scorci frastagliati di paesaggio che sembravano assurdamente più in alto rispetto a loro, il profilo dei cani. Nessuno di loro aveva parlato da quando avevano lasciato la città attraverso una porta segreta che Stephen era certo non avrebbe mai saputo ritrovare. Si era troppo concentrato a non inciampare, a percepire rumori di un eventuale inseguimento e sulla mano che teneva la sua. Ma alla fine i suoni attutiti di Demsted erano svaniti nel vento che soffiava verso sud e non era riuscito a intercettare nessun rumore di zoccoli o di passi dietro di
loro. «Dove stiamo andando?» bisbigliò. «In un posto che conosco» rispose vaga lei. «Lì troveremo una cavalcatura.» «Perché mi state aiutando?» domandò Stephen in modo diretto. «Sacritor Hespero, l'uomo che voi conoscete come praifec, è vostro nemico. Lo sapevate?» «Lo so fin troppo bene» rispose Stephen. «Solo che non ero sicuro che lui lo sapesse.» «Lo sa» replicò Pale. «La credete una coincidenza il fatto che sia arrivato poco prima di voi? Vi ha aspettato.» «Ma come faceva a sapere che stavo arrivando? Non ha senso a meno che....» Le parole gli vennero meno. A meno che il praifec e fratrex Pell non fossero stati d'accordo. A quanto pare Pale gli aveva letto nel pensiero. «Non siete stato tradito da chi vi ha mandato» gli disse. «Per lo meno la cosa non spiega perché lui è qui. Può darsi che non sapesse neanche che eravate voi la persona che stava arrivando.» «Non capisco.» «Ci credo» disse lei. «Vedete, prima di diventare praifec di Crotheny, Hespero è stato Sacritor qui a Demsted per molti anni. All'inizio ci piaceva; era saggio, premuroso e molto intelligente. Usava i fondi della Chiesa per migliorare il villaggio. Tra le altre cose, ingrandì un po' il tempio in modo da includere un reparto per la cura dei vecchi che non avevano familiari che potessero occuparsi di loro. Gli anziani provarono a impedirglielo.» «Perché? Sembra una lodevole iniziativa.» «E gli anziani non si opposero a questa. Era il posto che non andava bene. Per costruire la nuova ala, Hespero abbatté una vecchia parte del tempio, una parte che era stata il santuario dell'antico tempio pagano che sorgeva qui da prima. E trovò qualcosa lì dentro, qualcosa che i nostri antenati avevano nascosto invece di distruggere. Il Ghrand Ateiiz.» «Libro... ehm, ritornando?» Sorella Pale gli strinse la mano in un moto che sembrò di tenerezza e lui rimase quasi senza fiato. «Il Libro del Ritorno» lo corresse. «Dopo averlo trovato, Hespero cambiò completamente. Si fece molto più distaccato. Continuò a gestire l'attish, a dire il vero meglio di prima, ma sembrò dimenticare il suo amore
per noi. Iniziò a fare lunghi viaggi tra le montagne e le sue guide tornavano sempre trasformate dalla paura. Non hanno mai voluto raccontare cosa era successo e nemmeno dove erano state. Alla fine si stancò della cosa e concentrò le sue energie per avanzare di rango nella Chiesa. «Quando fu promosso e alla fine se ne andò, ci sentimmo tutti sollevati, ma non avremmo dovuto esserlo. Ora il resacararum si abbatte su di noi e temo che lui farà impiccare tutti a Demsted.» «Siete tutti eretici?» domandò Stephen. «In un certo senso sì» rispose lei con sorprendente franchezza. «Interpretiamo gli insegnamenti della Chiesa in modo leggermente diverso da quasi tutti gli altri.» «Perché la vostra chiesa è stata fondata da un Revesturi?» Lei rise piano. «Fratello Kauron non ha fondato la nostra Chiesa. Proprio perché era un Revesturi si rese conto che noi già seguivamo i santi a modo nostro. Ci aiutò semplicemente a dare una forma alla nostra liturgia, così quando alla fine la Chiesa sarebbe arrivata non ci avrebbe bruciato come eretici. Ci ha aiutato a conservare le nostre antiche usanze. Si prese cura di queste e si prese cura di noi.» «E così il Libro del Ritorno...» «Parla del ritorno di Kauron. O più precisamente, della venuta del suo erede.» «Erede? Erede di cosa?» «Non lo so. Nessuno di noi ha mai visto il libro. Credevamo che Kauron lo avesse portato con sé. Le nostre tradizioni venivano tramandate a voce e sappiamo che il suo contenuto prevedeva questo momento. Tutto questo è stato reso chiaro dalle cose che sono successe. E sappiamo che l'unico erede di Kauron è destinato ad arrivare, guidato da un serpente tra i monti. Colui che verrà parlerà molte lingue e sarà lui a trovare l'Alq.» «L'Alq?» «È una specie di luogo sacro» spiegò la donna. «Un trono o un seggio di potere. Abbiamo discusso a lungo se si tratta di un luogo fisico o di un titolo, come quello di Sacritor. Qualunque sia la verità, è destinata a rimanere nascosta fino al giorno del ritorno del predestinato. «E quello sembrate essere voi. Noi sapevamo che stavate venendo e abbiamo solo frammenti di conoscenza che ricordiamo del Libro del Ritorno. Hespero ha il libro, perciò la sua conoscenza dei segni è più precisa. Vi stava aspettando perché sapeva che potevate condurlo all'Alq.»
«Allora tutto quello che deve fare è seguirci» disse Stephen, gettando istintivamente un'occhiata alle spalle nell'oscurità. «Esatto. Ma in questo modo abbiamo una possibilità di arrivare prima di lui e impedirgli di diventare l'erede.» «Ma come potrebbe fare una cosa del genere? Avete appena detto che non sapete neanche cosa significa esattamente» disse Stephen. «No, infatti, non esattamente» ammise sorella Pale. «Ma sappiamo che se Hespero diventa l'erede, non ne deriverà alcun bene.» «E come fate a sapere che io sarei meglio di lui?» «Questo è ovvio. Voi non siete Hespero.» C'era una logica in quella risposta che Stephen non riuscì a smentire. E poi, la cosa conveniva ai suoi fini. «Per caso la vostra tradizione dice chi ha mandato il woorm o perché mi sta seguendo?» «Del Khirme, così noi chiamiamo il waurm, viene detto poco e quello che abbiamo messo insieme può essere contraddittorio. Una leggenda dice che è vostro alleato.» Stephen lasciò andare una risata amara. «Non credo che farò affidamento su questa cosa» disse. «Si tratta di una tradizione discussa» ammise lei. «Oltre al Khirme, si fa anche menzione di un nemico chiamato Khraukare. È un servitore del Vhelny, che non vuole che voi otteniate il vostro premio.» La testa di Stephen cominciò a girare. «Khraukare. Tradotto sarebbe 'Cavaliere Sanguinario' vero?» «Esatto.» «E il Vhelny?» «Vhelny significa, ehm, re, per così dire, signore dei demoni.» «E dove sono queste persone? Chi sono?» «Non lo sappiamo. Non sapevamo nemmeno chi fosse l'erede di Kauron fino a che non siete comparso voi.» «Potrebbe essere che Hespero sia il Cavaliere Sanguinario, il servitore del Vhelny?» «È possibile. Il Vhelny ha altri nomi: Tempesta-di-Fulmini, SpaccaCielo, Distruttore. Il suo unico desiderio è vedere la fine del mondo e di tutto quello che esso contiene.» «Forse intendete il Re degli Alberi?» «No. Il Re degli Alberi è il signore delle radici e delle foglie. Perché dovrebbe distruggere la terra?»
«Esistono profezie che dicono che potrebbe farlo.» «Esistono profezie che dicono che potrebbe distruggere la razza degli uomini» lo corresse lei. «Non è la stessa cosa.» «Ah, vero. Ma perché Hespero dovrebbe volere distruggere il mondo?» domandò Stephen. «Non lo so» rispose sorella Pale. «Forse è pazzo. O molto, molto deluso da certe cose.» «E voi, sorella Pale? Che interesse avete in tutto questo? Come faccio a sapere che non siete un'agente di Hespero, che mi state ingannando per condurvi all'Alq? O magari una dei discepoli del Distruttore o di chiunque sia a desiderare una cosa come questa?» «Non potete saperlo, suppongo. E non c'è nulla che possa dirvi per convincervi. Potrei dirvi che discendo dalla dinastia delle sacerdotesse che Kauron ha trovato quando è arrivato qui. Potrei dirvi che sono stata educata in un coven, che non era però quello di Cer. E potrei dirvi che sono qui per aiutarvi perché ho atteso la vostra venuta per tutta la vita. Ma voi non avete motivo di credere a queste cose.» «Soprattutto quando voi mi avete già mentito una volta. O forse due» rispose lui. «Una volta, è vero: quando vi ho parlato di santa Cer. Ma non l'ho detto per voi; era per altre persone. Ma quando è stato che vi ho mentito la seconda volta?» «Quando mi avete detto che avete frequentato un coven diverso. Esistono molti coven, ma sono tutti dell'Ordine di santa Cer.» «Se è così, allora vorrà dire che la prima volta ho detto la verità e che sto mentendo solo ora. Perciò fa una bugia sola, non è poi tanto grave, in realtà, quando si è tra amici.» «Ora vi state prendendo gioco di me.» «Sì. Cosa vi dicevo prima riguardo al fatto che credete di sapere tutto?» «Allora esiste davvero un coven dedicato a una santa diversa da Cer? E non è una setta eretica?» «Non ho mai detto che non fosse eretica» rispose Pale. «Non autorizzata da z'Irbina, di sicuro. Ma neanche i Revesturi sono riconosciuti dalla Chiesa, eppure voi siete uno di loro.» «Non è vero!» rispose secco Stephen. «Non avevo neanche sentito mai parlare dei Revesturi fino a dieci giorni fa, quando ho cominciato questa maledetta ricerca. E ora non ci capisco più niente!» Con uno scatto sfilò la sua mano da quella di lei e si allontanò branco-
lando nel buio. «Fratello Darige...» «Statemi lontana» disse lui. «Non mi fido di voi. Ogni volta che credo di avere una vaga idea di quello che sta accadendo, succede la stessa cosa.» «Cosa?» «Questo! Cavalieri Sanguinari, Distruttori, premi, tesori ritrovati, profezie e Alq e...» «Oh» esclamò lei. Stephen poteva quasi vedere la forma del viso della donna adesso, alla luce della luna, e lo scintillio umido dei suoi occhi. «Intendete dire la conoscenza. Il sapere. Pensate che sareste stato più felice se il mondo avesse continuato a confermare quello che credevate vero all'età di quindici anni.» «Sì!» gridò Stephen. «Sì, penso proprio di sì!» «Allora c'è qualcosa che non capisco. Se il sapere è così doloroso per voi, perché lo inseguite? Perché eravate nello scriftorium stanotte?» «Perché...» Stephen sentiva di voler strangolare qualcuno, possibilmente sé stesso. «Non lo fate» disse imbronciato. «Cosa?» «Non cercate un senso. Anzi, meglio, non ditemi niente.» Chiuse gli occhi e, quando li riaprì, la trovò molto più vicina, tanto da poter sentire il suo respiro sul volto. Riusciva a distinguere la curva della guancia, arrotondata tanto da farla apparire giovane. Avorio alla luce della luna. Un occhio era ancora scuro, ma l'altro brillava come l'argento. Riusciva a vedere anche metà labbro, che sporgeva in segno d'insoddisfazione o forse era proprio fatto così. Il suo alito era dolce, con un leggero profumo d'erba. «Siete voi che avete cominciato» bisbigliò lei. «Avete iniziato voi a parlare. Io mi accontentavo semplicemente di tenervi la mano in silenzio, di aiutarvi e condurvi dove avete bisogno di andare. Ma voi avete cominciato a fare tutte quelle domande. Non potete semplicemente lasciare che le cose succedano?» «È esattamente quello che ho fatto finora» disse Stephen, con la voce che si spezzava. «È come uno di quei sogni in cui cerchi di fare qualcosa ma continui a distrarti, a deviare, e il tuo fine iniziale si allontana sempre di più. E sto perdendo delle persone. Ho perso Winna e Aspar. Ho perso Ehawk. «Ora ho perso Ehan, Henne e Themes e continuo a tentare di far finta
che non abbia importanza, ma non è così.» «Winna, Aspar. Ehawk. Sono tutti morti?» «Non lo so» rispose sconsolato. «Winna era la vostra donna?» Quella domanda lo trafisse come una freccia. «No.» «Ah, capisco. Ma lo avreste desiderato.» «Cosa c'entra questo adesso?» «Niente, forse.» Sentì la mano di lei avvolgere la sua un'altra volta. Erano entrambe fredde. «Erano con voi in questa vostra ricerca?» insisté sorella Pale. «Li ha uccisi il waurm?» «No» disse Stephen. «È proprio questo che sto cercando di dirvi. Sono andato a Crotheny per unirmi al monastero d'Ef. Lungo il cammino sono stato rapito da dei banditi. Aspar, il guardaboschi del re, mi ha salvato.» «E poi?» «Be', poi ho proseguito per d'Ef, ma solo dopo aver saputo delle cose terribili che accadevano nella foresta e del Re degli Alberi. E poi a d'Ef...» S'interruppe. Come poteva spiegare in poche parole la delusione che aveva provato nello scoprire la corruzione dentro d'Ef? Quando fratello Desmond e la sua banda lo avevano picchiato la prima volta? Perché avrebbe dovuto farlo? Lei gli strinse la mano per incoraggiarlo. «Lì le cose andarono storte» disse infine Stephen. «Mi venne chiesto di tradurre cose terribili. Cose proibite. Fu come se il mondo che credevo di conoscere cessasse di esistere. Di sicuro la Chiesa era diversa da come credevo. Poi è ricomparso Aspar, quasi morto, e stavolta sono stato io a salvarlo e improvvisamente me ne sono andato e l'ho aiutato nella sua impresa, salvare Winna, e salvare la regina, addirittura.» «E ci siete riusciti?» «Sì. E poi il praifec ci ha mandato dietro al Re degli Alberi, ma quando eravamo arrivati a metà strada in quell'impresa, abbiamo capito che il vero male era proprio Hespero, e ci siamo ritrovati a cercare di ostacolare i suoi piani volti a risvegliare una via dei templi dedicata a santi maledetti. Dopo aver fatto questo siamo finiti con una principessa che viaggiava per sottrarre il trono dalle mani di un usurpatore, cosa che non sapevo minimamente come fare, e l'ultima cosa che so è che sono stato catturato dai laniatori ed eccomi lì a sedere col mio vecchio fratrex, che credevo morto, e lui mi ha
detto che l'unica speranza per il mondo era che io arrivassi quassù... Io volevo solamente studiare!» Non riuscì più ad andare avanti. Ma in fondo, perché stava continuando in questo modo? Sembrava un bambino. «Mi dispiace» riuscì a dire alla fine. «Tutto questo deve suonare ridicolo.» «No» rispose lei. «Sembra ragionevole invece. Conoscevo una ragazza che voleva studiare letteratura al coven di santa Cer. Lo desiderava da quando aveva cinque anni, quando era sotto le cure della zia, che spolverava la biblioteca del tempio di Demsted. Tutto sembrava andare per il meglio, ma poi un ragazzo che conosceva da sempre, ma a cui non aveva mai pensato più di una volta, sembrò improvvisamente accendersi come una stella guida e lei non sopportò più il pensiero di non sperimentare il suo tocco. E poi si ritrovò con un figlio e senza più i sogni di un'istruzione nel coven. Improvvisamente il matrimonio, che lei aveva sempre desiderato evitare, divenne la sua unica strada. Aveva appena cominciato ad abituarsi alla cosa, a stemperare il suo risentimento, quando suo marito morì e successivamente anche suo figlio. Per vivere, dovette diventare la cameriera di un nobile straniero, badando a bambini che non erano suoi. Poi un giorno comparve una donna e le offrì un'altra possibilità perché il suo sogno si avverasse, quello di studiare in un coven...» La sua voce era diventata ipnotica e ora lui riusciva a vedere tutti e due gli occhi, piccole mezze lune. «Così è fatta la vita, amico mio. La vostra sembra strana perché è piena di avventure e stravaganze, ma il fatto è che poche persone restano sul sentiero che hanno imboccato. La verità è che abbiamo sogni come quelli di cui parlate voi, perché i nostri sogni sono specchi scuri dello stato di veglia. «Ma in questo siete fortunato» proseguì. «Sono arrivata io a rimettervi sul vostro sentiero. Siete entrato nella Chiesa perché amavate la conoscenza, no? Amavate il mistero, i vecchi libri, i segreti del passato. Se troviamo il posto che state cercando, se troviamo l'Alq, troverete tutto quello che andavate cercando e ancora di più.» Stephen non riusciva a respirare e non seppe trovare niente da dire. «La ragazza, quella che voleva studiare...» Lei si sporse in avanti e le sue labbra incontrarono quelle di lui, accarez-
zandole dolcemente. Un brivido gli percorse la spina dorsale, uno di grande piacere. Ma si tirò indietro. «Non lo fate» disse. «Perché? Perché vi piace?» «No. Ve l'ho appena detto. Non mi fido di voi.» «Hmm» fece sorella Pale, tornando a protendersi verso di lui. Stephen voleva bloccarla, lo voleva davvero, ma in qualche modo le labbra di lei tornarono sulle sue e a lui piacque, ovviamente e, come se fosse impazzito, lasciò improvvisamente la mano di lei e la prese, tirandola a sé, realizzando, stupito, quanto fosse piccola e piacevole. Winna, pensò e le accarezzò il viso, facendo correre le dita sotto al cappuccio e tra i capelli biondi, vedendola mentalmente con la perfetta chiarezza che solo un iniziato di Decamnus poteva riuscire a ottenere. Lei mise tutte e due le mani sul suo petto e lo allontanò gentilmente. «Non possiamo rimanere qui» disse. «Ancora un altro po' e staremo al sicuro.» «Io...» «Sst. Cercate di non pensarci troppo.» Non poteva evitarlo. Rise in silenzio. «Sarà molto difficile» disse. «Pensate a questo» gli disse la donna, riprendendogli la mano e cominciando a riportarlo sul sentiero. «Presto sorgerà il sole e vedrete che io non sono lei. Dovreste prepararvi a questo.» L'alba li trovò su un sentiero bianco e roccioso che serpeggiava attraverso una brughiera alta e senza alberi. Le nuvole erano basse, ma il terreno era ricoperto di un verde brillante e Stephen si domandò cosa fosse. Chissà se Aspar avrebbe potuto dare un nome a quella vegetazione, ma forse era troppo diversa dalle piante che conosceva il guardaboschi. La neve ricopriva i picchi circostanti, ma si stava sciogliendo perché il sentiero era spesso attraversato da piccoli torrenti, e cascate vere e proprie scendevano dai fianchi di parecchie colline. Si fermarono presso una di queste per bere, e sorella Pale si tirò giù il cappuccio della mantella. Alla luce grigia finalmente la vide. Gli occhi erano davvero d'argento, o meglio di un blu-grigio talmente chiaro che di tanto in tanto catturava la luce in modo da sembrare argento. I capelli, però non erano biondi, ma di un castano dorato intenso, tagliati corti. Le guance erano paffute, così come le aveva intraviste al buio, ma
mentre il viso di Winna era ovale, quello di Pale si assottigliava in modo netto verso il mento. Le labbra erano più piccole di quanto gli erano sembrate quando le aveva baciate, ma avevano davvero quella sporgenza naturale. Aveva due grandi cicatrici di vecchie piaghe sulla fronte e una lunga in rilievo sulla guancia sinistra. Teneva lo sguardo rivolto altrove mentre beveva, esaminava il paesaggio, consapevole del fatto che lui la stava studiando, e che lei gli stava concedendo l'opportunità di farlo. Fu una delusione. Non solo non era Winna, ma non era neanche bella quanto lei. Stephen sapeva che quello era un pensiero orribile, ma non poteva ignorare la propria reazione. Nelle storie di fate, l'eroe conquistava sempre la bella vergine e tutti gli altri dovevano accontentarsi di quello che rimaneva. Aspar era l'eroe di questa storia, non lui; Stephen l'aveva capito ormai da un po' di tempo. Winna non era una vergine, ma aveva quell'aria intorno a sé, l'aria del premio dell'eroe. Pale ruotò il capo verso di lui e Stephen restò quasi senza fiato. Gli tornò in mente il momento in cui Sacritor Burden aveva provato a spiegargli i santi; gli aveva mostrato un pezzo di cristallo, triangolare in sezione trasversale, ma lungo, come il tetto di un casotto. Sembrava interessante, perfino insolito, e quando lo mise alla luce del sole, cominciò a brillare in modo seducente. Ma fu solo quando lo girò che tirò fuori i colori dell'arcobaleno e rivelò la bellezza che teneva nascosta dentro di sé. E quanto Stephen incontrò gli occhi di Pale, vi trovò molto di più di quello che aveva notato a un primo sguardo, e i suoi lineamenti diventarono più nitidi. Per la prima volta vide come era veramente. «Bene,» disse lei «ecco cosa si ottiene quando si bacia una ragazza senza averla prima guardata.» «Siete stata voi a baciare me» rispose impulsivamente lui, realizzando proprio in quel momento che non erano quelle le parole che avrebbe dovuto dire. La donna si limitò a scrollare le spalle e si rimise il cappuccio sulla testa. «Sì» ammise. «Aspettate» disse lui. Lei si voltò e tirò indietro la testa. «Che succede ora?» domandò Stephen disperato. «Molto probabilmente il praifec e i suoi uomini stanno cominciando a seguirci» rispose lei. «Avremo bisogno di una cavalcatura e possiamo tro-
varne una poco più avanti. Dopodiché, forse riusciamo a mantenere il nostro vantaggio.» «Non è questo che intendevo dire.» «Lo so.» «E allora? Voglio dire che vi conosco a malapena. È semplicemente irragionevole.» «Nel luogo da cui provengo,» disse Pale «niente ha una logica. E non stiamo ad aspettare per una vita il bacio perfetto con la persona perfetta, perché altrimenti moriremmo soli. Vi ho baciato perché volevo farlo e voi volevate che lo facessi, e forse ne avevamo bisogno tutti e due. E fino a che non è uscito il sole, sembravate felice della cosa e forse pronto a fare di più. «Ma eccoci qui invece, e così è la vita, e non vale la pena soffermarcisi troppo. Possiamo ottenere solo questo prima di morire, no? Perciò andiamo.» 13 Il crepling Catio sentì qualcuno che gridava il suo nome; era un suono flebile, lontano. Aveva concentrato gran parte della sua attenzione sulla scalata, incuneando le punte degli stivali e le dita negli intagli precari che erano stati ricavati nella pietra e nella calce. Era stato felicissimo di trovarli e si domandava chi li avesse incisi. Qualche antico ladro? Dei bambini che desideravano esplorare le mura o forse un mago sefry? Non importava, in realtà. Probabilmente sarebbe riuscito comunque ad arrampicarsi nel punto d'intersezione delle due mura usando solo i miseri appigli naturali forniti dal materiale di costruzione, ma gli antichi scalatori gli avevano dato una gran bella mano. Ma avevano aumentato di pochissimo le sue possibilità di sopravvivenza, come capì quando individuò i soldati che si precipitavano contro di lui. Aveva ancora una iarda da fare e al ritmo della sua arrampicata non sarebbe riuscito a percorrerla prima di unirsi al ferro gelido. Con una preghiera muta rivolta a Mamres e Fiussa, piegò le ginocchia e fece un balzo con tutte le sue forze verso l'alto e a destra, in direzione del primo soldato armato di lancia. Il problema fu che il salto lo allontanò dal
muro. Non di molto, ma tanto da non essere in grado di raggiungerlo di nuovo. Sentì i ciottoli di Corte Gobelin sotto di lui, impazienti di poter sfracellare la sua spina dorsale, mentre allungava le braccia quasi al punto da staccarsele. Come aveva richiesto nella preghiera, l'uomo con la lancia era stato colto di sorpresa nel vedere un pazzo che gli si lanciava contro. Se si fosse lasciato guidare dalla logica, si sarebbe fatto da parte e si sarebbe fermato a guardare Catio che cercava di afferrare l'aria, per ridere fino a che non si schiantava in terra. Invece l'uomo reagì d'istinto e affondò la lancia verso il suo assalitore. Catio afferrò il bastone spesso, subito prima della malefica punta d'acciaio, e con suo piacere, la reazione della guardia fu quella di tirare indietro la lancia. Questa mossa spinse di nuovo Catio verso il muro e lui lasciò la presa in modo da potersi attaccare alla punta dell'edificio con le braccia e la parte superiore del torace. L'uomo con la lancia, sbilanciatosi, cadde all'indietro. Il muro era sufficientemente largo e non precipitò di sotto, ma con lui a terra e il suo compagno ancora a qualche passo di distanza, Catio ebbe il tempo di scattare in piedi ed estrarre Acredo. In modo avventato, il secondo soldato abbassò la punta della sua arma e si preparò all'assalto. Catio fu felice di vedere che portava solo una corazza di maglia e un elmo anziché un'armatura da cavaliere. Come arrivò l'affondo, parò in prismo e si diresse velocemente verso il rivale, sollevando la mano sinistra per afferrare la lancia e poi muovendo rapidamente la punta della spada in un lungo affondo che terminò nella gola dell'uomo. Se non fosse stato per la corazza, avrebbe provato a colpire un punto meno letale, ma l'unica altra parte del corpo esposta era la coscia, dove la punta della sua spada avrebbe potuto conficcarsi nell'osso. Appena la guardia lasciò cadere la lancia ed emise un sibilo di disperazione tra le nuove labbra appena formatesi, Catio si voltò verso il primo assalitore, che si stava rimettendo in piedi. «Contro z'osta,» disse «Zo dessrator cornatici anter c'acra.» «Che stai balbettando?» gridò l'uomo, chiaramente stremato. «Che vai dicendo?» «Le mie scuse» replicò Catio. «Quando parlo d'amore, di vino o di scherma, mi risulta più facile usare la mia lingua natia. Cito il famoso trattato di Mestro Papa Avradio Vallaimo, il quale dice...» Fu bruscamente interrotto dal grido dell'uomo che si lanciò in avanti, la-
sciando Catio a domandarsi quanto addestramento avessero fatto esattamente quei soldati. Catio tirò indietro la gamba posteriore e piegò il corpo e la testa sotto la linea dell'attacco, distendendo il braccio. Trasportato dall'impeto, l'assalitore si gettò più o meno da solo sulla punta della sua arma. «'Contro una lancia, lo schermidore dovrà muoversi all'interno della punta'» proseguì Catio, mentre l'uomo si accasciava su un fianco. Subito ne spuntò un altro dalla torre alla sua sinistra. Il Vitelliano si mise in posizione e aspettò, chiedendosi contro quanti ancora avrebbe dovuto combattere prima che i Maestri lo raggiungessero. Questo avversario si dimostrò più interessante, perché capì che Catio doveva arrivare a breve distanza. Perciò usò i piedi come un dessratore, dando a Catio quella che sembrò una buona possibilità di limitare la distanza, quando di fatto era una mossa studiata per impegnarlo in un assalto avventato. Ancora più interessanti furono le urla che sentì alle sue spalle quando un altro uomo si mise a correre lungo il muro nella sua stessa direzione. Con un sorriso arcigno, Catio riprese a insegnare il resto del capitolo di Mestro Papa, «Contro z'osta.» Anne stette a guardare col fiato sospeso mentre Catio, al suo solito modo, faceva la cosa più folle che potesse fare riuscendo a farla franca. Austra era lì in piedi, con i pugni sui fianchi, sempre più pallida man mano che la battaglia proseguiva, fino a quando non comparvero i Maestri, sciamando su per il muro e unendosi al vitelliano. Poi si separarono e corsero verso le torri. Poco dopo riapparvero, agitando i vessilli. Catio teneva stretto in una mano il suo cappello a tesa larga. «Santi» bisbigliò Austra. «Perché deve sempre...» Non completò la frase, ma emise un sospiro. «Ama combattere più di quanto ami me.» «Sono sicura che questo non è vero» rispose Anne, cercando di suonare convincente. «E comunque per lo meno non si tratta di un'altra donna.» «Quasi lo preferirei» ribatté Austra. «Quando succederà,» disse Anne «ti ricorderò queste parole.» «Vuoi dire se succederà» rispose Austra, con tono leggermente difensivo. «Sì, è quello che intendevo» replicò Anne. Ma lei sapeva come stavano le cose. Gli uomini si facevano delle amanti, no? Suo padre ne aveva avute tante. Le donne della corte avevano sempre convenuto che faceva parte
della loro natura animale. Diede un'altra occhiata alla casa sefry. Lei e Austra avevano indietreggiato per osservare l'azione sulle mura, ma Madre Uun stava ancora aspettando all'ombra della porta. «Chiedo scusa per la distrazione, Madre Uun,» disse «ma sarei felice di parlare del passaggio Crepling adesso.» «Certo» rispose la vecchia. «Prego, entrate pure.» La stanza in cui le condusse la Sefry era ordinaria in modo deludente. Aveva qualche tocco di esotico a dire la verità: un tappeto colorato, una lampada a olio ricavata da una specie d'osso scolpito in forma di cigno, vetri blu scuro che conferivano alla stanza una piacevole atmosfera buia, subacquea. Fatta eccezione per quest'ultima caratteristica, però, la stanza sarebbe potuta appartenere a un mercante qualsiasi che si occupava di oggetti provenienti da molto lontano. Madre Uun indicò varie poltrone disposte in cerchio e aspettò che si fossero accomodate prima di sedersi anche lei. Quasi nello stesso attimo in cui lo fece, un altro Sefry, un uomo, entrò nella stanza con un vassoio. S'inchinò senza rovesciare la teiera e le tazze che stava portando, quindi sistemò tutto su un piccolo tavolo. «Prendete un po' di tè?» domandò gentilmente Madre Uun. «Ne sarei felice» rispose Anne. Il Sefry sembrava giovane, non superava i diciassette inverni di Anne. Era bello stando ai canoni di quella razza e gli occhi erano di uno straordinario blu cobalto. Poi si allontanò per ritornare solo qualche secondo più tardi con pane di noci e marmellata d'arancia. Anne sorseggiò il tè e trovò che sapeva di limone, arancio e qualche spezia che non conosceva. Le passò per la testa che avrebbe potuto essere veleno. Madre Uun stava bevendo dalla stessa teiera, ma visto che aveva toccato l'assassino sefry e vi aveva trovato tanto male dentro, ritenne possibile che ciò che risultava veleno per gli umani potesse essere piacevole per un Sefry. Finse di mandare giù un altro sorso e sperò che Austra stesse facendo lo stesso, anche se, qualora la sua damigella avesse davvero bevuto il tè, lei avrebbe potuto scoprire se era davvero velenoso o no. Sulla scia di quel pensiero fu subito assalita da un senso di orrore. Cosa le stava succedendo?
Il viso di Austra si accigliò preoccupato e questo non fece che peggiorare le cose. «Anne?» «Non è niente» rispose lei. «Ho avuto un pensiero spiacevole.» Si ricordò che suo padre aveva avuto qualcuno che gli assaggiava il cibo. Anche lei aveva bisogno di una persona del genere, qualcuno di cui non le importasse niente. Ma non Austra, pensò. Madre Uun sorseggiò il suo tè. «Quando siamo arrivati,» iniziò Anne «avete detto di sorvegliare qualcuno. Potreste spiegarvi meglio?» Alla luce blu densa che proveniva dalle finestre, la pelle di Madre Uun sembrava meno trasparente, perché le vene sottili non si vedevano più. Anne si domandò pigramente se fosse questo il motivo che l'aveva portata a scegliere il colore indaco per i vetri anziché il giallo o l'arancione. Sembrava anche più grossa. «Lo avete sentito, credo» disse Madre Uun. «I suoi sussurri adesso sono forti abbastanza da uscire dalla sua prigione.» «Di nuovo,» disse Anne, impaziente «di chi state parlando?» «Non dirò il suo nome, non ancora» rispose Madre Uun. «Ma vi chiedo di richiamare alla mente la vostra storia. Vi ricordate cosa c'era una volta nel punto in cui ora sorge questa città?» «Non sono stata granché come studente in nessuna materia,» rispose Anne «storia compresa. Ma questo lo sanno tutti. Eslen è stata costruita sulle rovine dell'ultima fortezza degli Scaosen.» «Scaosen» ripeté Madre Uun. «Il tempo deforma le parole. Il termine più antico, ovviamente, era 'Skasloi', sebbene si trattasse di un semplice tentativo di pronunciare l'impronunciabile. Ma sì, è qui che la vostra antenata Virgenya Dare vinse la sua ultima battaglia contro i nostri antichi padroni e spinse il suo stivale sul collo dell'ultimo della loro razza. Qui lo scettro passò dalla razza dei demoni a quello della donna.» «Conosco la storia» disse Arme con tono assente, interessata alla strana piega del discorso della Sefry. «Quando gli Skasloi governavano qui, la città era conosciuta come Ulheqelesh» proseguì Madre Uun. «Era la più grande roccaforte degli Skasloi e il suo signore era il più potente di tutta la sua razza.» «Sì» disse Anne. «Perché dite 'donna' pero e non 'uomo'?» «Perché Virgenya Dare era una donna» rispose Madre Uun. «Questo lo capisco» fece Anne. «Ma il nome della sua razza non era
'donna'.» «Intendevo dire la razza a cui appartenevano le donne, credo» disse la Sefry. «Ma anche voi siete una donna, no? Anche se non della razza dell'uomo.» «Certo» disse lei, mentre gli angoli della bocca si alzavano leggermente. Anne si accigliò, ma non era sicura di volersi inoltrare ulteriormente in quel labirinto semantico, non ora che la Sefry sembrava proprio felice di essere trasportata sempre più lontano dalla domanda originale. «Non importa» disse lei. «Questa persona, voi dite che sussurra per me. Voglio sapere di lui.» «Ah» esclamò Madre Uun. «Sì. Virgenya Dare non uccise l'ultimo degli Skasloi. Lo rinchiuse vivo nelle prigioni di Eslen. «È ancora lì e il mio compito è quello di accertarmi che resti lì.» Un attacco improvviso di vertigini assalì Anne; le sembrò che la poltrona fosse inchiodata al soffitto e dovesse stringere forte i braccioli per non cadere, mentre la stanza girava lentamente. Ancora una volta sentì parole incomprensibili sussurrate nell'orecchio, ma stavolta credette... quasi... di capirle. Versi di strani uccelli suonavano fuori dalla finestra. No, non erano uccelli, ma Austra e Madre Uun. Lei concentrò il suo sguardo su di loro. «Questo è impossibile» stava dicendo Austra. «La storia dice chiaramente che lei lo ha ucciso. E poi ora avrebbe più di duemila anni.» «Era già più vecchio di così quando il suo regno cadde» rispose Madre Uun. «Gli Skasloi non invecchiavano come la vostra razza. Alcuni di loro non invecchiavano affatto. Qexqaneh è uno di questi.» «Qexqaneh?» Appena pronunciò quel nome, Anne sentì improvvisamente qualcosa di ruvido scivolarle sulla pelle e le si riempirono le narici del profumo del fuoco di pino. Accadde così velocemente che esplose in un attacco di tosse. «Avrei dovuto avvisarvi di fare attenzione a quel nome» disse Madre Uun. «Richiama la sua attenzione, ma vi dà anche il potere di comandarlo, se la vostra volontà è forte abbastanza.» «Perché?» domandò roca Anne. «Perché tenere in vita una cosa come questa?» «Chi conosce le intenzioni della Regina Nata?» replicò Madre Uun. «Forse, all'inizio fu per prendersi una soddisfazione. O forse per paura. Lui
fece una profezia, sapete?» «Non ho mai sentito parlare di una cosa del genere» rispose Anne. Madre Uun chiuse gli occhi e la sua voce cambiò. Si fece più bassa e prese a lagnarsi a metà tra il canto e la nenia. «Siete nati schiavi,» disse «e morirete tali. Avete solo invocato un nuovo padrone. Le figlie del vostro seme sconteranno quello che voi avete causato e saranno annientate.» Anne sentì come se una mano stesse premendo contro la sua bocca e il naso. Riusciva a stento a respirare. «Cosa voleva dire con questo?» riuscì a domandare. «Nessuno lo sa» rispose la Sefry. «Ma il tempo di cui parlava è arrivato; questo è certo.» La voce adesso aveva ripreso il tono normale, ma quasi bisbigliava. «Anche se legato, è estremamente pericoloso. Per entrare nel castello dovete superarlo. Siate forte. Non fate nulla di quello che vi chiede e non dimenticate che avete nel sangue la possibilità di comandarlo. Se gli fate domande, lui non può mentirvi, ma ciononostante farà di tutto per ingannarvi.» «Mio padre? Mia madre? Sapevano di lui?» «Tutti i re di Eslen hanno conosciuto il Prigioniero» rispose Madre Uun. «Così farete voi. Così dovrete fare.» Be', almeno questa non è una cosa che mi è sfuggita perché non prestavo attenzione, pensò Anne tra sé. «Ditemi,» proseguì «sapete niente di una certa tomba sotto l'horz di Eslen-delle-Ombre?» «Anne!» esclamò Austra, ma lei la zittì con un gesto della mano. Madre Uun fece una pausa, con la tazza a pochi centimetri dalle labbra, e la fronte, che prima era liscia, adesso apparve corrugata. «Non posso dire di sì» rispose alla fine. «Che mi dite delle Fedi? Potete dirmi qualcosa su di loro?» «Credo che le conosciate meglio di me» rispose la vecchia. «Ma sarei molto più che felice di sentire quello che sapete voi» ribatté Anne, in un tono che sperò risultasse insistente. «Maghe del tipo più antico» cominciò la vecchia. «Alcuni dicono che sono immortali; altri che sono a capo di un ordine segreto e che vengono sostituite a ogni generazione.» «Davvero? A quale versione credete di più?» «Non so se sono immortali, ma credo che vivano a lungo.» Anne sospirò. «Questo non è più di quanto ho già sentito. Ditemi qual-
cosa che non so. Ditemi perché desiderano che io sia regina di Eslen.» Madre Uun rimase in silenzio per un attimo, poi sospirò. «Le grandi forze del mondo non sono consapevoli di sé stesse» disse. «Ciò che guida il vento, che spinge verso terra la roccia che cade, che fa pulsare la vita nei nostri corpi e che la toglie... sono cose inconsapevoli, non hanno una volontà, un'intelligenza, né desideri e intenzioni. Esistono semplicemente.» «Eppure i santi controllano queste cose» osservò Anne. «Non proprio. I santi... no, lasciate stare quest'argomento. Questo è importante: quelle forze possono essere deviate con degli espedienti, è vero. Il vento può essere sfruttato per pompare acqua o guidare una barca. Un fiume può essere chiuso con una diga e la corrente essere sfruttata per far funzionare un mulino. Il potere del sedos può essere sfruttato. Ma sono le forze a dettare la forma ultima delle cose e lo fanno per loro natura, non per volontà. «Gli Skasloi questo lo sapevano; non veneravano dèi, né santi, né altre creature simili. Trovarono le fonti di potere e impararono a usarle a proprio vantaggio. Combatterono per il controllo di queste fonti, per millenni, fino a che il loro mondo venne quasi distrutto. «Alla fine, per salvarsi, alcuni si unirono, massacrarono la loro razza e cominciarono a ricostruire il mondo. Scoprirono i troni e li utilizzarono per tenere i poteri sotto controllo.» «I troni?» «Non è il termine esatto a dire la verità. Non sono seggi, né posti. Sono più simili al titolo di re o regina, una posizione da occupare che conferisce i poteri e gli obblighi del trono. Ci sono diversi tipi di poteri arcani nelle terre del fato e ognuno di questi possiede un trono. Questi poteri crescono e diminuiscono in forza. Il trono che controlla il potere che voi conoscete come sedos si va rafforzando da millenni.» «Ma voi dite che ne esistono altri?» «Certo. Credete che il Re degli Alberi si nutra dai sedoi? Non è così. Siede su un trono completamente diverso.» «E le Fedi?» «Consigliere. Costruttrici di regine. Combattono affinché siate voi a ricevere il potere, perché possiate sedervi sul trono del sedos, piuttosto che vederlo cadere nelle mani di un altro. Ma hanno dei nemici, proprio come voi.» «Ma i sedoi sono controllati dalla Chiesa» disse Anne.
«Finora sì, per quanto possano essere controllati.» «Allora sicuramente fratrex Prismo siede già su quel trono» disse Anne. «No» replicò Madre Uun. «Non c'è seduto nessuno.» «Ma perché?» «Gli Skasloi l'hanno nascosto.» «Nascosto? Ma perché?» «Hanno proibito l'uso del potere del sedos» replicò. «Di tutte le forze che conoscevano, questa era la più distruttiva e poteva essere impiegata con straordinari risultati contro altri troni. Chiunque siede sul trono del sedos può distruggere il mondo. Virgenya Dare ha trovato quel trono, lo ha usato per liberare la vostra gente e la mia e poi vi ha rinunciato per paura di quello che avrebbe potuto fare. Da duemila anni gli uomini lo cercano invano. Ma ora, come una stagione che impiega tanto ad arrivare o una marea che si alza lentamente, il potere del sedos ha ripreso a crescere e il trono si rivelerà da solo. Quando succederà, è importante che lo prenda la persona giusta.» «Ma perché io?» domandò Anne. «Il trono non è aperto a tutti» rispose Madre Uun. «E tra i possibili candidati, le Fedi vi considerano la migliore possibilità di salvezza per il mondo.» «E il Re degli Alberi?» «Chi sa qual è il suo desiderio? Ma io credo che la sua intenzione sia distruggere chiunque occupi il trono, prima che il potere del sedos possa distruggere lui e tutto ciò che rappresenta.» «E cioè?» Madre Uun inarcò un sopracciglio. «La nascita e la morte. La germinazione e la decadenza. La vita.» Anne posò la sua tazza. «E come fate a sapere tutto questo, Madre Uun? Come fate a sapere tutte queste cose sugli Skasloi?» «Perché io sono una dei custodi del Prigioniero. E insieme a lui, il mio clan, tramanda la conoscenza di questa creatura di generazione in generazione.» «Ma se niente di tutto questo fosse vero? Se fossero tutte menzogne?» «Be', allora vuol dire che so molto poco» rispose la Sefry. «Dovrete decidere da sola se è vero oppure no. Posso solo dirvi quello che io reputo tale. Il resto spetta a voi.» Anne annuì pensierosa. «E il passaggio Crepling? C'è un'entrata in questa casa, vero?»
«Certo. Posso mostrarvela se siete pronta.» «Non ancora» disse Anne. «Ma presto.» Posò la sua tazza. «Sembrate molto disponibile, Madre Uun.» «C'è altro, Maestà?» «I maschi sefry riescono a ricordare i passaggi, vero?» «Sì. La nostra razza è diversa.» «Ci sono dei guerrieri sefry qui nella Corte Gobelin?» «Dipende da che cosa intendete. Tutti i Sefry, maschi e femmine, hanno imparato le basi dell'arte della guerra. Parecchi di quelli che vivono qui viaggiano lontano nel mondo e molti hanno dovuto combattere.» «Allora...» Madre Uun sollevò una mano. «I Sefry di Corte Gobelin non vi aiuteranno. Mostrandovi il passaggio, rispetto l'unico obbligo che abbiamo.» «Forse non dovreste pensare in termini di obbligo,» disse Anne «ma di ricompensa.» «Noi seguiamo la nostra strada nel mondo, noi Sefry» rispose Madre Uun. «Non pretendo che voi ci capiate.» «Molto bene» fece Anne. Ma me ne ricorderò quando sarò sul trono, aggiunse tra sé. Si alzò in piedi. «Grazie per il tè, Madre Uun, e per la conversazione.» «Il piacere è stato mio» rispose la Sefry. «Torno subito.» «Quando volete.» «Avevi promesso che mi avresti spiegato cosa stava succedendo» le ricordò Austra mentre tornavano alla luce del sole. Si protessero gli occhi dal bagliore. Qualcosa stava avendo luogo dalla parte opposta della piazza, ma Anne non sapeva dire cosa. Un gruppetto di uomini si distaccò dal resto e si diresse verso di lei. «Faccio dei sogni» disse Anne. «Questo lo sai.» «Sì. E i tuoi sogni ti hanno rivelato il passaggio Crepling?» «Ho visto tutti i passaggi» spiegò Anne. «C'è una specie di mappa nella mia testa.» «La cosa risulterà piuttosto utile» rispose Austra. «Chi ti ha mostrato questa mappa?» «Che vuoi dire?» «Hai detto di aver avuto una visione. Si è trattato ancora una volta delle
Fedi? Sono state loro a dirti dei passaggi?» «Non sono sempre le Fedi» rispose Anne. «In effetti loro confondono le idee piuttosto che aiutare. No, a volte mi capita semplicemente di sapere certe cose.» «Allora nessuno ti ha parlato?» insisté Austra, in tono dubbioso. «Cosa ne sai tu di tutto questo?» esclamò Anne, cercando di tenere a bada un attacco d'ira. «Credo di essere stata presente, tutto qua» disse Austra. «Parlavi nel sonno e sembrava che lo stessi facendo con qualcuno. Qualcuno che ti spaventava. E ti sei svegliata, urlando, ti ricordi?» «Mi ricordo. E ricordo anche di averti detto di non essere così arrogante con le tue domande.» Il volto di Austra restò pietrificato. «Vi chiedo perdono, Maestà, ma non è quello che avete detto. Avete detto che ero libera di farvi domande e di discutere con voi in privato, ma una volta che voi avevate detto la vostra su un argomento, io dovevo obbedire a quella decisione.» Anne improvvisamente si accorse che Austra stava tremando e che era molto vicina alle lacrime. Prese la mano dell'amica. «Hai ragione» le disse. «Scusami, Austra. Ti prego, cerca di capire. Non sei l'unica sotto pressione, sai?» «Lo so.» «Hai ragione anche riguardo alla visione. C'era qualcuno nel sogno ed è stato lui a mostrarmi i passaggi.» «Lui? Allora era un Sefry?» «Non credo» rispose Anne. «Credo che fosse qualcos'altro. Un essere, né Sefry, né umano.» «Intendi dire il Prigioniero? Lo Scaos? Ma come puoi fidarti di quella creatura?» «Infatti non mi fido. Sono sicura che in cambio del suo aiuto vuole la libertà. Ma ricordi cosa ha detto Madre Uun? Io lo comando. No, sarà lui a darmi quello che voglio e non il contrario.» «Un vero e proprio Scaos» mormorò Austra, con tono di meraviglia. «Che ha vissuto sotto di noi per tutto questo tempo. Il solo pensiero mi fa stare male. È come svegliarsi e trovarsi un serpente arrotolato intorno ai piedi.» «Se i miei antenati hanno tenuto in vita una creatura del genere, devono aver avuto le loro ragioni» disse Anne. Mentre parlavano, arrivarono cinque Maestri e formarono una barriera
intorno a lei. Anne notò che anche sir Leafton si stava avvicinando. «Cosa sta succedendo dall'altra parte della piazza?» domandò Anne. «Sarà meglio che vi troviate un posto sicuro, Maestà» disse Leafton. «Un posto facile da difendere. Siamo già stati attaccati.» Parte quarta I troni I Sefry sono conosciuti quasi ovunque tranne che sulle isole, perché non amano attraversare i mari. Ma stranamente, per la storia, sono quasi invisibili. Non combattono; non fondano regni. Non danno nomi alle cose. Sono dappertutto e da nessuna parte. Ci si chiede cosa stiano tramando. Da L'amena Tirson di Presson Manteo Se vuoi davvero sapere cosa è un uomo, dagli una corona Proverbio dei Bairghs 1 Il ciarlatano Aspar sentì il rintocco funebre prima ancora di riuscire a scorgere la città di Haemeth. Il suono si diffuse in lunghi e meravigliosi scampanii sulle acque del Mago Bianco, spaventando uno stormo di hezling che si alzò in volo improvvisamente. Il cielo a sud era nero per il fumo, ma il vento soffiava in quella direzione, perciò Aspar non sapeva dire cosa stesse bruciando. Lei è una straniera. Possibile che le campane suonino per una straniera?, si chiese. Non poteva saperlo. Non conosceva molte cose sulle abitudini dei villaggi del versante settentrionale delle Regioni Centrali. Spinse Orco al trotto. Il grande cavallo si era andato via via rinforzando durante la cavalcata lungo il Mago, pascolando sulla segale e sull'erba pa-
ludina, e dopo appena un paio di giorni era già tornato a essere quasi come prima. Questo era motivo di speranza, ma Aspar cercò di tenere lontana quella pericolosa emozione. Winna era stata molto peggio di Orco e non esisteva medicina capace di riportare in vita i morti. La strada serpeggiava lungo il bordo inferiore della valle del fiume e dopo qualche istante Haemeth finalmente cominciò a comparire. Situata sulla grande collina successiva, era una città di dimensioni sorprendenti, con campi coltivati e fattorie all'esterno, sparpagliate tra i bassopiani e lungo la strada. Adesso Aspar riusciva a vedere la fonte di quella musica di sofferenza, una torre campanaria lunga e sottile, di pietra bianca, coperta con ardesia nera, con un tetto talmente aguzzo da far apparire l'intero edificio come una lancia. Una seconda torre, più tozza e merlata in cima, si ergeva sul punto più alto dalla parte opposta della città e sembrava che tutte e due fossero unite da una lunga cinta muraria. Era estremamente probabile che le mura circondassero completamente la città, ma poiché Aspar la stava osservando dal basso, tutto quello che riuscì a vedere fu una manciata di tetti che facevano capolino da sopra la cima del colle. Il fumo veniva da diverse pire enormi, innalzate in basso, vicino al fiume, e ora che il vento aveva leggermente cambiato direzione, il guardaboschi capì cosa stavano bruciando. Lanciò Orco al galoppo. Diverse teste si girarono a guardare Aspar appena Orco lo portò in mezzo alla folla, ma lui ignorò le grida che gli chiedevano d'identificarsi, scendendo invece da cavallo e procedendo a grandi falcate verso il fuoco. Era difficile contare i cadaveri, così ammassati gli uni sugli altri, ma valutò che dovessero essere più di cinquanta. Due dei fuochi erano già così caldi che le ossa bianche avevano cominciato a scoppiettare e a cadere trasformandosi in carbone, ma nel terzo riuscì a vedere volti su cui andavano aprendosi delle vesciche. Il cuore palpitava mentre cercava i dolci lineamenti di Winna, col fumo che gli bruciava negli occhi. Il calore lo costrinse ad allontanarsi. «Ehi!» gridò un tipo robusto. «Attento. Che vuoi fare?» Aspar si voltò verso di lui. «Come è morta questa gente?» domandò. «È morta perché i santi ci odiano» rispose adirato l'uomo. «E ora voglio sapere chi sei.»
Circa sei uomini si era radunati alle spalle di quel tipo. Un paio di loro tenevano in mano forconi o lunghi pali per lavorare sul fuoco, ma non sembravano avere altre armi. Sembravano mercanti e contadini. «Io sono Aspar White» grugnì lui. «Il guardaboschi del re.» «Guardaboschi? L'unica foresta a sei giorni da qui è il Bosco di Sarn e non ha un guardaboschi.» «Io sono il guardaboschi della Foresta del Re» lo informò Aspar. «Sto cercando due stranieri: una giovane donna bionda e un ragazzo moro. Dovrebbero essere arrivati insieme a due mandriani.» «Non abbiamo molto tempo per cercare degli stranieri» rispose l'uomo. «Sembra che l'unica cosa per cui abbiamo tempo ultimamente sia il dolore. E per quello che so, potresti essere qui per portarcene altro.» «Non voglio farvi alcun male» rispose Aspar. «Voglio solo trovare i miei amici.» «E così lavori per il re?» s'intromise un terzo uomo. Aspar lo guardò con la coda dell'occhio, non volendo distogliere completamente l'attenzione dal tipo più minaccioso. Quello che aveva appena preso la parola aveva la pelle abbronzata dal sole, i capelli rasati, mezzi grigi e mezzi bianchi, ed era privo di uno dei denti in alto a destra. «Per quello che ho sentito io, non c'è più nessun re.» «Vero, ma c'è una regina» disse Aspar. «E io sono il suo delegato, con pieni poteri di far rispettare le sue leggi.» «Una regina, eh?» disse il tipo sottile. «Be', potremmo scambiarci due parole. Guarda che ci sta succedendo.» «A Eslen non gliene importa niente di noi» esplose il primo uomo. «Siete degli stupidi. Non hanno mandato qui quest'uomo per aiutarci. È solo venuto per trovare i suoi amici, proprio come ha detto. Per quello che gliene importa, il resto di noi può anche marcire.» «Come ti chiami?» domandò Aspar, abbassando la voce. «Raud Achenson, ti dice niente?» «Mi sembra di capire che hai qualcuno su quella pira.» «Certo. Mia moglie. Mio padre. Il mio figlio più piccolo.» «Perciò sei arrabbiato. Vorresti trovare qualcuno a cui dare la colpa. Ma non sono stato io a metterli lì sopra, lo capisci? E, che il Malvagio mi ascolti, giuro che ci metto te se dici un'altra parola.» Raud divenne viola e le sue spalle s'irrigidirono. «Noi siamo con te, Raud» disse un tipo dietro di lui. Quelle parole fecero scattare quell'omone come una catapulta e si lanciò
contro Aspar. Questi lo colpì con un pugno alla gola, con violenza, e l'uomo cadde a terra. Senza fermarsi, Aspar si lanciò in avanti e prese l'uomo che lo aveva spronato, afferrandolo per i capelli. Tirò fuori il suo pugnale e glielo puntò sotto il mento. «Ora, perché hai provato a uccidere il tuo amico?» gli domandò. «Non volevo... scusatemi» ansimò il prigioniero. «Per favore...» Aspar lo lasciò andare con uno spintone che lo fece ruzzolare. Raud era a terra, ansimava in cerca di ossigeno e riuscì a trovarne solo un po', ma Aspar non gli aveva sfondato la trachea. Il guardaboschi rivolse al resto della folla un'occhiata minacciosa, ma nessuno sembrò spaventato. «Ora,» disse lui «cosa è successo qua?» L'uomo coi capelli bianchi e grigi tenne lo sguardo fisso a terra. «Non ci credereste» disse. «Io l'ho visto coi miei occhi e non ci credo.» «Comunque ci posso provare.» «Era una cosa che somigliava a un serpente, ma talmente grande. Ha attraversato il fiume contro corrente. Crediamo che abbia avvelenato l'acqua. Il grefio ha mandato i suoi cavalieri a inseguirlo, ma quasi tutti sono rimasti uccisi.» «L'ho visto anch'io,» disse Aspar «perciò vi credo. Ho intenzione di chiedervelo ancora, e stavolta qualcuno deve rispondermi. Due stranieri, un uomo e una donna, lei coi capelli del colore del grano. Dovrebbero essere arrivati con due bambini, due mandriani di nome Aethlaud e Aohsli. Dove si trovano?» Una donna di mezza età si schiarì la voce. «Potrebbero essere a la Roncola e il Secchio» disse con incertezza. «Ehi, voi!» Il grido veniva dalla collina, e Aspar voltandosi trovò un uomo che scendeva a cavallo verso la porta della città. Indossava un'armatura da lord e montava uno stallone nero con una macchia bianca. «Si?» rispose lui. «Siete voi Aspar White?» «Sì.» «Allora dovete parlare con me.» L'uomo si piegò e strinse la mano di Aspar, poi si presentò come sir Peren, al servizio del grefio di Faurstrem con sede a Haemeth. Il guardabo-
schi montò su Orco e insieme iniziarono a risalire la collina. «I vostri amici hanno parlato di voi» disse Peren una volta che si furono lasciati la folla alle spalle. «Winna e Ehawk.» «Li conoscete? Dove sono?» «Non vi dirò bugie» disse Peren. «L'ultima volta che li ho visti è stato stamattina. Erano agonizzanti. Potrebbero essere ormai morti.» «Portatemi da loro» disse Aspar, sapendo di aver usato un tono aspro, ma senza poterci fare niente. Peren gli diede un'occhiata veloce. «L'avete trovata, allora!» disse. «La cura!» Aspar guardò in basso verso le pire. Un'intera città infettata dal veleno del woorm e lui con una bisaccia piena di frutti. «Il grefio è stato contagiato?» domandò anziché rispondere direttamente. «No, ma suo figlio ci ha guidati contro il waurm» rispose sir Peren. «Anche lui giace sul letto di morte.» Aspar ebbe l'impressione che fosse nervoso. Il guardaboschi rilassò i muscoli delle spalle, facendo un respiro profondo. Lo stavano aspettando. O Ehawk o Winna avevano detto a qualcuno che lui era andato a cercare una cura, e la voce si era sparsa. Doveva considerarsi prigioniero? Cominciava a sentirsi tale. Probabilmente avrebbe potuto uccidere Peren e scappare, ma questo voleva dire che Winna e Ehawk sarebbero sicuramente morti, ammesso che non lo fossero già. «Devo trovare i miei amici» disse. «Poi vedremo cosa si può fare per il figlio del grefio.» Quando raggiunsero la torre, altri due uomini con corazze e armi si erano uniti a Peren per scortarlo. Una volta attraversato il cortile esterno, un servitore prese Orco, il suo unico alleato, e nel momento in cui entrarono nel cortile e vennero ricevuti dal grefio, Aspar si ritrovò con sette guardie che lo seguivano. Il Grefato di Faurstrem non era vasto e prosperoso e la sala delle udienze con la sua modestia ne dava una conferma. Un antico trono di quercia poggiava su un piccolo piedistallo di pietra, con un'insegna che lo abbelliva sul retro, raffigurante un falco che stringeva tra gli artigli uno scettro e una freccia. Anche l'uomo sul trono sembrava antico, con una barba argentata che quasi gli si ammucchiava sul grembo e occhi grigi e cisposi. Peren si piegò su un ginocchio.
«Grefio Ensil» disse. «Questo è Aspar White, il guardaboschi del re.» Il vecchio tremò, ogni parte del corpo vacillò, mentre sollevava il capo per guardare il suo visitatore. Fissò Aspar per un lungo e decrepito istante prima di parlare. «Credevo che non avrei mai potuto avere un figlio» disse infine. «I santi sembravano avermelo negato. Mi ero quasi rassegnato e poi, all'età di sessant'anni, i santi hanno fatto un miracolo e mi hanno dato Emfrith. Emfrith, il mio amato ragazzo.» Si sporse in avanti con gli occhi che brillavano. «Lo capite questo, guardaboschi? Avete figli?» «No» rispose Aspar. «No» ripeté Ensil. «Allora non potete capire.» Tornò a poggiare la schiena al trono e chiuse gli occhi. «Tre giorni fa è andato incontro a una cosa che credevo esistesse solo nelle leggende. È partito come un eroe ed è caduto come tale. Sta morendo. Potete salvarlo?» «Non sono un leic, mio signore» rispose Aspar. «Non prendetevi gioco di me» disse il vecchio con voce stridula. «La ragazza ce l'ha detto. Siete andato nel Bosco di Sarn per trovare la cura al veleno. L'avete trovata?» «È ancora viva?» domandò Aspar. Gli uomini intorno a Ensil diedero improvvisamente l'impressione di essere a disagio. «È ancora viva?» ripeté Aspar a voce più alta. Ensil scosse il capo. «È morta» rispose. «Così come il ragazzo. Non abbiamo potuto fare niente.» E immediatamente Aspar sentì l'odore delle foglie d'autunno e capì che la morte era vicina, ma non poteva sapere se fosse già successo o sul punto di accadere. La gola si strozzò e gli occhi presero a bruciare, ma drizzò ancora di più le spalle e pietrificò la sua faccia. «Allora voglio vedere il suo corpo» disse. «Lo voglio vedere subito.» Ensil sospirò e fece un cenno con la mano. «Perquisitelo.» Aspar abbassò la mano sul pugnale. «Badate, grefio Ensil. Attento alle mie parole. Ho la cura per vostro figlio, ma non si tratta di un semplice tonico o roba del genere. Va somministrato in modo particolare o il risultato sarà velenoso e lo ucciderà ancora più velocemente. «Ed ecco l'altra cosa. Se Winna Rufoote è già morta, qualunque sia stata la causa, non riceverete il mio aiuto. Se provate a costringermi, credo che dovrò combattere e probabilmente morire, ma vi giuro, vostro figlio segui-
rà lo stesso destino. Avete inteso? Ora, io credo che voi avete detto che i miei amici sono morti per paura che io abbia riportato l'antidoto sufficiente solo per una o due persone. Il problema è che se non sono morti veramente, voi li ucciderete subito in modo che io non mi accorga che mi avete ingannato. «Ma io so già che mi avete mentito e ho medicina a sufficienza per tutti e tre. L'unica cosa che può salvare vostro figlio è che la ragazza respiri ancora. Perciò ora vedrò il suo corpo, vivo o morto, sprootlic. Adesso.» Ensil lo fissò per un altro lungo istante mentre Aspar veniva tormentato dal dubbio. Aveva avuto la giusta intuizione? O Winna era morta veramente? Non poteva credere a quest'ultima possibilità, perciò doveva attaccarsi alla prima, anche se la cosa avrebbe potuto ucciderlo. «Portatecelo» borbottò Ensil. Aspar s'irrigidì, pronto a combattere, ma poi vide il ciambellano inchinarsi e indicare a sinistra. «Da questa parte» disse l'uomo. Aspar non piangeva spesso, ma quando il debole respiro di Winna annebbiò l'acciaio lucido del suo coltello, una sola lacrima si fece strada all'angolo dell'occhio. Si trovavano in un ospedale improvvisato in una cappella. C'era anche Ehawk, privo di sensi, ma che respirava un po' meglio, insieme a un'altra ventina di persone, molte delle quali erano ancora coscienti quel tanto da gemere e lamentarsi. Aspar tirò fuori le bacche dal suo sacchetto e stava per darle da mangiare a Winna quando si fermò. Aveva intuito bene le intenzioni del grefio. Avrebbe potuto infilare qualche frutto in bocca a Winna, si fossero accorti che aveva mentito sulla complessità del metodo di somministrazione della cura gli avrebbero probabilmente sequestrato l'intera borsa. «Dov'è il figlio del grefio?» domandò Aspar. «Sarebbe meglio procedere con tutti contemporaneamente.» «Lui è nei suoi appartamenti.» «Portatelo qui allora, e subito.» Poi tornò a inginocchiarsi e accarezzò il viso di Winna, mentre il suo cuore faceva strani movimenti nella gabbia toracica. «Tieni duro, ragazza» bisbigliò. «Ancora qualche minuto.» Le tastò il collo, ma riuscì a sentire un battito debolissimo. Se fosse mor-
ta nell'arco di tempo che impiegavano per portare giù il ragazzo... «Devo lavorare senza essere visto» disse ai restanti uomini. «Dovremo improvvisare una specie di tenda intorno ai loro letti.» «Perché?» domandò il ciambellano. Aspar fissò lo sguardo sull'uomo. «Conoscete la strega del Bosco di Sarn, sì? Sapete quanti si presentano al suo cospetto e restano vivi? Ebbene io ci sono riuscito, e lei mi ha donato uno dei suoi segreti. Ma sono stato costretto a giurare che nessuno sguardo, al di fuori del mio, avrebbe assistito alla cura. Ora fate come dico e fatelo sprootlic! Portate del vino e anche un pezzo di stoffa bianca.» Il ciambellano sembrò perplesso, ma inviò comunque degli uomini a prendere le cose che Aspar aveva chiesto. Qualche momento più tardi, diversi servitori portarono nella stanza una lettiga sulla quale giaceva un giovane di circa diciannove inverni. Aveva le labbra blu e sembrava morto. «Merda» mormorò Aspar a bassa voce. Se il figlio del grefio era morto, lui non sarebbe uscito da lì con le sue gambe, e neanche Winna e Ehawk. Ma poi il ragazzo tossì e Aspar realizzò che gran parte di quel blu veniva da una specie d'impasto che gli avevano spalmato addosso. Qualche tentativo di cura locale, molto probabilmente. Con pali e lenzuola, gli uomini del grefio costruirono rapidamente una tenda intorno ai tre corpi, piazzando un piccolo braciere all'interno insieme al vino. Nell'attimo in cui la tenda fu chiusa, Aspar cominciò a bofonchiare una cantilena sefry della sua infanzia, come faceva Jesp quando fingeva di fare una magia. Fu sorpreso dalla facilità con cui gli tornò in mente, vista la distanza che lui aveva cercato di mettere tra sé e tutta quella roba. Di solito la sua sopravvivenza dipendeva dai suoi sensi, dalla sua furbizia e dalle armi. Stavolta dipendeva dal fatto che ricordasse bene come fare il ciarlatano. Tra il canto e la nenia, spremette alcune bacche, e con tutta la delicatezza di cui fu capace, le infilò nella gola di Winna, insieme a un po' di vino, tenendole la bocca chiusa fino a che non ebbe ingoiato debolmente. Poi passò a Ehawk e fece lo stesso. Gli occhi del figlio del grefio si spalancarono proprio mentre Aspar stava cominciando con lui. «Manda giù» disse Aspar. Con un'espressione confusa, il ragazzo obbedì. Alzando la voce, Aspar terminò la cantilena con una fioritura. Tornò da Winna, e con il cuore di piombo notò che sembrava stare esat-
tamente come prima. Le diede da mangiare altre due bacche, poi alzò un lembo della tenda di fortuna. Il grefio era stato portato dentro su una specie di poltrona e stava seduto a guardarlo con aria scettica. «Allora?» brontolò. «Ora dobbiamo aspettare» disse Aspar con sincerità. «Se lui muore, morirete anche voi.» Aspar scrollò le spalle e si sistemò sullo sgabello accanto a Winna. Diede un'occhiata al grefio Ensil. «So cosa sì prova a perdere una persona cara» disse. «So che significa sentirsi minacciato da quella eventualità. E credo che lascerei morire uno straniero se questo volesse dire salvare qualcuno che amo. Non vi biasimo per i vostri sentimenti o per aver mentito. Ma avreste potuto lasciarmi il beneficio del dubbio.» Il viso del vecchio in qualche modo si addolcì. «Non capite» replicò. «Siete ancora troppo giovane per capire. Onore e coraggio sono cose da giovani. Loro hanno la forza fisica per queste qualità, ma non il giudizio, assolutamente.» Aspar rimase un attimo a pensare a quelle parole. «Non dico di sapere molto sull'onore» disse infine. «Soprattutto dopo lo spettacolo che ho appena messo su.» «Cosa intendete dire?» domandò Ensil. Aspar mostrò i frutti del Bosco di Sarn che gli restavano. «Sono stanco di tutto questo» disse. «Ho dato al vostro ragazzo e ai miei amici più bacche di quelle che la strega aveva dichiarato necessarie per la cura. Le ho provate io stesso, perciò so che non sono velenose. Hanno curato anche il mio cavallo. Tre bacche ciascuno, questa è la quantità che bisognerebbe dare.» Infilò la mano dentro la borsa e ne tirò fuori alcune. «Terrò queste perché dopo andrò a cercare il woorm e lo ucciderò e potrei averne bisogno. Ma comunque ne ho molte qui. Distribuitele come ritenete opportuno.» «Ma la formula? Il canto? Il vino?» Aspar contò con le dita. «Frode, inganno e avevo sete. Ma le bacche funzionano davvero.» Lanciò la borsa al ciambellano, che tirò fuori le bacche come fossero state uova. «Adesso,» proseguì «sono a cavallo da alcuni giorni senza dormire. Ho intenzione di provare a riposarmi un po'. Se voi onorevoli signori volete tagliarmi la gola mentre sono tra le braccia di san Soan, provateci, ma fate piano.»
Delle dita che gli carezzavano il viso lo risvegliarono molto più piacevolmente del bacio di un rasoio. All'inizio temette che fosse solo un sogno, che non stava realmente vedendo gli occhi di Winna semiaperti che lo fissavano dal letto. Ma dopo aver dato un'occhiata intorno, riuscì a convincersi. La mano di Winna pendeva rilassata da una parte. «Debole» mormorò lei. Poi il suo sguardo tornò di nuovo su di lui. «Felice che hai cambiato idea» bisbigliò. «Felice di vederti ancora una volta.» Le lacrime scorrevano dagli angoli degli occhi. «Non ho cambiato idea» disse lui. «Ho trovato la strega. Lei mi ha dato ciò che le ho chiesto.» «No.» «Sì.» Winna chiuse gli occhi e respirò affannosamente. «Non mi sento bene, Aspar» disse. «Stai meglio di prima» le assicurò lui. «Eri vicina alla porta di Santa Tetra quando sono arrivato qui. Ora sei sveglia.» Prese la mano nella sua. «Come, in nome del Malvagio, siete finiti nel castello?» «Oh. La ragazza, Hauda, l'ha detto a qualcuno; sono un po' confusa. Sono venuti a prenderci, ci hanno fatto un sacco di domande su di te.» Chiuse gli occhi. «Gli ho detto che se fossi venuto qui, significava che non l'avevi preso. Non credevo che ci saresti riuscito. Non credevo di rivederti.» «Be', eccomi qua e con la cura.» «Ehawk?» Lui diede un'occhiata al ragazzo che dormiva, ma sembrava avere un colorito migliore. Anche il grefio si era addormentato, controllato da quattro cavalieri, ma con sua sorpresa Aspar vide che il figlio li stava guardando. «Che significa?» riuscì a dire il ragazzo. «Che sta succedendo?» «La verità è che avete provato a combattere contro un waurm» rispose Aspar. «Sì» replicò il giovane. «È vero e poi...» Il viso si corrugò nel tentativo di concentrarsi. «Non ricordo granché oltre a questo.» «Emfrith! Ragazzo mio!» Le guardie avevano svegliato il loro signore e lo stavano aiutando a raggiungere il figlio. «Atta!» rispose Emfrith. Aspar guardò i due che si abbracciavano.
«Come ti senti?» domandò il grefio. «Debole, con la nausea.» «Avevi perso la ragione, non riconoscevi neanche più tuo padre.» Un secondo dopo, il grefio si tirò su e si rivolse ad Aspar, con gli occhi pieni di lacrime. «Mi pento...» Fece una pausa, come se stesse scalando una montagna con un peso sulle spalle. «Mi pento del modo in cui vi ho trattato, guardaboschi. Non dimenticherò mai quello che avete fatto. Quando ve ne andrete, vi darò tutto ciò che posso per aiutarvi nel viaggio.» «Grazie» rispose Aspar. «Cibo e forse qualche altra freccia basteranno. Ma ne avrò bisogno presto.» «Quanto presto?» «Per mezzogiorno, grefio, se potete. Ho un woorm da uccidere e ho fretta di prenderlo.» La mano di Winna tornò verso la sua e la strinse. «Lo capisci?» le domandò lui. «Vorrei stare qui con te o aspettare che possiate di nuovo cavalcare...» «No» disse lei. «No, passerebbe troppo tempo.» «Eccola la mia ragazza.» Si piegò per baciarla e la trovò che piangeva. «Non invecchieremo insieme, vero Aspar?» bisbigliò. «Non avremo mai dei bambini, o un giardino, niente di tutto questo.» «No» mormorò lui. «Credo di no.» «Ma tu mi ami?» Aspar si allontanò leggermente e avrebbe voluto mentire, ma non ci riuscì. «Sì» disse. «Più di quanto le parole riescano a dire.» «Allora cerca di non farti uccidere troppo presto» rispose lei. Un'ora più tardi si era addormentata di nuovo, ma stavolta il colorito era migliorato. Il figlio del grefio era già in grado di stare seduto ed Ensil fu fedele alla parola data, fornendo ad Aspar due muli da soma pieni di provviste e di vestiti caldi. Quando il sole segnava un'ora dopo mezzogiorno, le pire di Haemeth oscuravano il cielo alle sue spalle. 2 A cavallo di una capra
COMMENTI SULL'ULTIMO BIETOLONE VIRGENYANO Di scarsa diffusione nel mondo, questa strana creatura si può trovare in luoghi di nidificazione isolati: in parlatori poco frequentati, in piccoli anfratti di giardini e negli angoli più remoti di biblioteche e monasteri. Quando viene affrontato o anche solo notato, di solito si ritira dentro fortezze che esistono solo nella sua immaginazione. Si nutre d'isolamento. La sua particolarità nei confronti degli altri animali, che tendono ad avere rituali di accoppiamento ben definiti, sta nel fatto che l'Ultimo Bietolone Virgenyano assume invece una serie di posizioni scoordinate e spastiche che, anziché promuovere la continuazione della sua specie, la spingono più rapidamente verso l'estinzione. La sua caratteristica... «Stephen» disse Pale. «Ci siete?» «Sì,» rispose «scusate.» «I vostri occhi erano diventati di vetro e la discesa si fa ripida. Vi riprendo per mano?» «Ah, no, grazie. Credo di potercela fare.» Si concentrò sul sentiero stretto. Poco prima era comparsa una nuvola e li aveva inghiottiti, esperienza strana per un ragazzo dei bassipiani. Ora stavano scendendo lasciandosela alle spalle per entrare in una piccola valle montana. Cominciarono a comparire ovili di forma quasi rettangolare, costruiti con pietre ammucchiate le une sulle altre. Insieme alle pecore segnalavano quello che era il tipo di sostentamento locale. Un pennacchio sinuoso di fumo saliva dall'unica abitazione chiaramente umana, una casa col tetto ricoperto d'erba e un paio di piccoli fabbricati annessi. «Cos'è quest'odore?» domandò Stephen, arricciando il naso. «Oh, farete meglio ad abituarvici» rispose lei. Il pastore era un uomo giovane, coi capelli neri, gli occhi scuri e gli arti lunghi e sottili. Osservò Stephen con esplicito sospetto e sorella Pale con piacere, stringendola in un forte abbraccio e baciandola su una guancia. Stephen scoprì che la cosa non lo infastidiva affatto. Gli piacque però meno quando cominciarono a parlare una lingua com-
pletamente sconosciuta. Non era lo spezzettato dialetto almannish che aveva sentito a Demsted, né una lingua affine. Pensò che dovesse trattarsi di uno dei dialetti vhilatautan, ma lui li aveva incontrati solo come lingue scritte, ed era molto diverso dalle lingue millenarie che aveva studiato. Per la prima volta si scoprì più infastidito che incuriosito dall'incontro di una lingua a lui sconosciuta. Di che stavano parlando questi due? Perché lei rideva? E che voleva dire quello sguardo strano, forse sprezzante, che il tipo gli stava rivolgendo? Dopo quella lunga occhiata, finalmente l'uomo gli offrì la mano. «Io sono Pernho» disse. «Io aiuto voi e Zemlé. Potere contare su di me. Ah, dove andare?» Stephen diede una rapida occhiata a Pale - Zemlé? Nella fretta della fuga era una questione che non avevano mai affrontato. Cercò di mantenere la sua espressione neutra, ma chiaramente non era bravo in questo genere di cose perché lei notò subito i suoi sospetti. «So già che andiamo a nord» disse lei. «Lo sanno tutti. Ma ora dovete scegliere: nordest, nordovest o qualunque altra direzione.» Indicò Pernho con un cenno del capo. «Se vi fidate di me, dovete fidarvi di lui.» «Sì, è proprio questo il problema, no?» disse Stephen. Sorella Pale scrollò le spalle e alzò le mani in segno di resa. Stephen fece ruotare gli occhi. «È chiaro che non ho scelta» proseguì. Con Ehan e Henne, avrebbe potuto trovare la strada in mezzo a quel mucchio di montagne, ma senza di loro sembrava impossibile. «Adoro gli uomini fiduciosi» disse ironica sorella Pale. «Allora, dove siamo diretti?» «A una montagna» disse Stephen. «Non so come si chiama adesso. Il suo nome duemila anni fa era 'Velnoiragana'. Credo che adesso potrebbe essere conosciuta come 'eslief vendve' o 'Slivendy'.» «Xal Slevendy» rifletté Pernho. «Ma noi la chiamiamo anche Ranhan, 'Il Corno'. Non è più lontana di un volo d'aquila. Ma la via è...» Si accigliò e fece un gesto arzigogolato con le mani. «Nhredhe. Niente cavalli. Avrete bisogno dei kalbok.» «Kalbok?» domandò Stephen. «Mi avete chiesto cosa fosse quell'odore» disse sorella Pale. «State per scoprirne la fonte.» KALBOK: Improbabile come ogni altra creatura dei bestiari infanti-
li, il kalbok sembra imparentato con le pecore o le capre, poiché ha le stesse pupille orizzontali a forma di lente, corna ricurve all'indietro e un aspetto lanoso in generale. Però all'altezza delle spalle ha le dimensioni di un piccolo cavallo e la stessa muscolatura, che gli conferisce una stazza stranamente massiccia che però si poggia su zampe, in confronto, piuttosto fragili. Gli abitanti dei Bairghs li preferiscono ai cavalli sulle strade di montagna per la loro agilità naturale sulle rocce e sui sentieri ripidi. Accettano sella o carichi, sebbene con una riluttanza e mancanza di grazia che perfino un mulo giudicherebbe eccessiva. E possiedono anche un altro tratto distintivo che non può passare inosservato. KALBOK: Una puzza che cammina. «Non ho mai sentito parlare di gente che cavalca capre» brontolò Stephen. «Credo che siano molte le cose di cui non avete mai sentito parlare» commentò Pale. «Sto per vomitare un'altra volta» disse Stephen. «Non puzzano così tanto» rispose lei. «Non ho idea di cosa consideriate puzzolente, ma non ho alcuna intenzione d'incontrarla» disse Stephen, vincendo i conati. «Il vostro amico non lava mai questi cosi? O magari basterebbe che pulisse la pelliccia dai parassiti con una spazzola.» «Lavare un kalbok? Che idea strana» esclamò Pale. «Non vedo l'ora di sentire la prossima cosa che vi viene in mente per migliorare la vita di noi semplici montanari.» «Ora che mi ci fate pensare, avrei delle idee per migliorare le vostre strade» disse Stephen. In effetti, la nausea era dovuta solo per metà alla puzza del kalbok; il resto proveniva dalla sua avanzata attraverso una strada che neanche Aspar White avrebbe potuto considerare tale. Pure definendola un sentiero sarebbe stato come confondere una capanna di fango con un palazzo. Questo percorso scendeva e girava lungo i bordi di gole e su per promontori che sembravano frenati solo dalle radici di ginepri radi e mezzi morti. Perfino i cani prestavano un'attenzione doppia a dove mettevano le zampe. «Bene,» disse sorella Pale «assicuratevi di presentare i vostri suggerimenti a praifec Hespero la prossima volta che lo incontriamo. Come Sacritor, ha una certa autorità in queste faccende.»
«Lo farò» rispose Stephen. «Lo distrarrò mentre i suoi uomini ci inchiodano a un albero.» Fu assalito da una preoccupazione improvvisa. «Il vostro amico... Se Hespero ci sta seguendo...» «Pernho non sarà lì quando arriveranno. Non preoccupatevi di lui.» «Bene.» Chiuse gli occhi e se ne pentì subito perché la cosa non fece che peggiorare la nausea. Sospirando, li riaprì. «Vi ha chiamato in modo diverso» disse poi. «Zemlé.» «Zemlé, sì. È il mio nome di nascita.» «Cosa vuol dire?» «È il modo in cui chiamiamo santa Cer» spiegò lei. «E che lingua parlavate?» «Xalma, la chiamiamo così.» «Mi piacerebbe impararla.» «Perché? Non è molto diffusa. Se volete proseguire tra i monti è meglio che impariate il Meel.» «Posso impararli entrambi,» disse Stephen «se me li insegnerete. Ci aiuterà a passare il tempo.» «Benissimo. Quale delle due prima?» «La vostra lingua. Xalma.» «Allora. So già come cominciare la lezione.» Si toccò lo sterno con la mano. «Nhen» disse. Poi indicò lui. «Wir. Ash asme nhen, Ju esh wir. Pernho est wir. Ju be Pernho este abe wiré...» La lezione proseguì per tutto il resto del giorno mentre i kalbok continuavano a salire sempre più in alto, prima tra pascoli rocciosi poi, passato il limite delle nevi perenni, sotto una foresta buia di sempreverdi. Prima di sera la foresta aveva lasciato il posto a una landa desolata, ricoperta di ghiaccio, su cui non cresceva nulla e le parole di sorella Pale uscivano attutite dalla sciarpa. Il paida di Stephen e il mantello erano rimasti a Demsted, e il ragazzo era grato a Pernho per avergli dato una tunica imbottita che arrivava alla caviglia e un farsetto di feltro pesante. Del cappello a forma di cono era meno sicuro, si sentiva buffo, ma almeno gli teneva calde le orecchie. Le nuvole si disposero sopra di loro per la maggior parte del viaggio, ma quando il sole cominciò a tramontare, il cielo si rasserenò e Stephen poté scrutare sgomento i giganti di ghiaccio e neve che marciavano in ogni direzione. Si sentì minuscolo e titanico allo stesso tempo ed estremamente grato per essere vivo.
«Cosa c'è che non va?» domandò Pale, studiando la sua faccia. Stephen non capì la domanda fino a che non realizzò che stava piangendo. «Credo che voi siate abituata a tutto questo» disse. «Ah» replicò lei. «Abituata, sì. Ma non perde mai la sua bellezza.» «Non vedo come potrebbe.» «Guardate là» disse lei, indicando dietro di loro. Dopo un attimo a Stephen sembrò di scorgere qualcosa che si muoveva, come una coda di formiche nere che contrastava col bianco. «Cavalli?» domandò. «Hespero. Con una sessantina di cavalieri, direi.» «Può raggiungerci?» «Non subito. Dovrà fermarsi per la notte, proprio come noi. E andrà molto più piano con i cavalli.» Gli diede una pacca sulle spalle. «A proposito, sarà meglio accamparsi. Farà molto, molto freddo stanotte. Per fortuna conosco un posto.» Il posto a cui faceva riferimento risultò essere una caverna accogliente, asciutta e piccolissima quando loro due, i cani di lei e i kalbok si furono accomodati. Pale riuscì miracolosamente ad accendere un fuocherello e lo usò per scaldare un po' di carne salata che Pernho le aveva dato e la mangiarono con una bevanda che lei chiamò birra-d'orzo, che sapeva effettivamente di birra. Era roba bella forte e non passò molto tempo prima che Stephen cominciasse a sentirsi stordito. Si ritrovò a esaminare i lineamenti della donna, e con suo imbarazzo, lei se ne accorse. «Io, ehm, avrei dovuto dirvelo prima,» fece Stephen «ma credo che siate una bella donna.» L'espressione di lei non mutò. «Davvero?» «Sì.» «Sono l'unica donna disponibile per cinquanta leghe e dormiremo soli, soli in una caverna. Immaginate quanto possa essere lusingata quando mi ricoprite di complimenti.» «Io... no. Non potete...» Stephen si interruppe grattandosi la fronte. «Sentite, forse voi pensate che io so qualcosa in fatto di donne. Ma non è così.» «Non mi dite.» Stephen si accigliò, aprì la bocca, la richiuse. Non sarebbe arrivato da
nessuna parte. Non era neanche sicuro del perché avesse cominciato questo discorso. «Quanto dobbiamo viaggiare ancora?» domandò invece. «Due giorni, forse tre, dipende dalla neve che troviamo al prossimo valico. È quello che ci porta alla montagna. Sapete dove andare una volta lì?» Lui scosse il capo. «Non ne sono sicuro. Kauron andò in un posto detto Hadivaisel. Potrebbe essere una città.» «Non ci sono città a Xal Slevendy» disse lei. «Almeno...» S'interruppe. «'Adiwara' è una parola che sta per Sefry. I vecchi dicono che c'è una rewn sefry là.» «Allora deve essere quella» fece Stephen. «Avete qualche idea di come trovarla?» «Nessuna. Kauron disse qualcosa a proposito della necessità di parlare con un vecchio Hadivar, ma questo suppone che avesse già trovato la rewn, credo. Ed è successo parecchio tempo fa.» «La troverete» disse lei convinta. «Siete predestinato.» «Ma se ci trova prima Hespero...» «Sarà un problema» riconobbe la donna. «Perciò dovrete trovarla in fretta.» «Giusto» disse senza molta speranza. Stava cominciando a capire quanto potessero essere grandi le montagne. E gli tornò in mente l'uscita della rewn nella Foresta del Re. A quattro leghe di distanza risultava invisibile. Sarebbe stato come cercare una goccia di pioggia in un fiume. Tirò fuori le pagine che aveva copiato, sperando di trovare una traduzione migliore. Pale lo osservò senza fare commenti. Tra le pagine c'era il foglio che aveva trovato; se ne era quasi dimenticato. Era molto antico, i caratteri erano sbiaditi, ma riconobbe lo stesso strano miscuglio di lettere dell'epistola che aveva portato con sé e capì con eccitazione crescente che quella che stava tenendo in mano era effettivamente una chiave per tradurla. Ovviamente, adesso l'epistola ce l'aveva Hespero, ma avrebbe dovuto essere in grado di ricordarla... Qualcosa dentro di lui tremò improvvisamente. «Che c'è?» domandò Pale. «C'era qualcosa nella cappella» disse lui. «Non ho avuto proprio il tempo di pensarci. Ma giuro di aver sentito una voce. E la mia lampada: c'era un volto lì dentro.»
«Nella lampada?» «Nella fiamma» spiegò lui. Lei non sembrò sorpresa. «Gli spiriti si perdono tra i monti» disse lei. «I venti li portano nelle valli alte e loro non riescono a uscirne.» «Se quello era uno spirito, doveva essere molto vecchio. Parlava una lingua morta da mille anni.» Stavolta lei esitò. «Nessuno sa cosa sia successo a Kauron» disse. «Alcuni dicono che non ha mai fatto ritorno, che è sparito tra i monti. Ma altri dicono che comparve nella cappella, a notte fonda, farfugliando come un uomo in delirio, anche se aveva la pelle fredda. Il prete che lo trovò lo mise a letto e la mattina successiva non c'era più traccia di lui. Il letto non mostrava segni che qualcuno ci avesse dormito sopra e il prete rimase a chiedersi se davvero lo aveva visto o se semplicemente aveva avuto solo una visione o un sogno.» «Avete mai percepito qualcosa lì?» «No» ammise lei. «Non ho neanche mai sentito nessuno riportare qualcosa d'insolito. Ma voi siete diverso: un Revesturi e l'erede di Kauron. Forse è per questo che vi ha parlato.» «Non lo so. Chiunque fosse, qualunque cosa fosse, non sembrava buona e neppure disposta ad aiutare. Mi è sembrato che mi prendesse in giro.» «Be', allora non ho idea» disse lei. «Può darsi che Kauron avesse dei nemici e che voi abbiate attratto anche loro. Tra i monti, il passato e il presente non sono cugini lontani. Sono fratello e sorella.» Stephen annuì e ripiegò i suoi appunti. «Bene,» disse «credo che proverò a dormire un po'.» «A questo proposito,» sospirò lei «forse devo darvi un'altra possibilità, sapete?» «Che intendete dire?» «Come ho detto prima, stanotte farà terribilmente freddo.» Lui spalancò la bocca per dire qualcosa, ma lei gliela chiuse con un bacio che odorava piacevolmente di birra-d'orzo. Stephen tenne gli occhi aperti, meravigliandosi di come potesse sembrare diversa una faccia da così vicino. Pale lo mordicchiò intorno all'orecchio e poi scese lungo il collo. «Davvero non so molto di donne» si scusò lui. «Questo l'avete già detto. Allora è il momento di darvi una lezione, credo. Non posso darvi quella finale; in questo periodo del mese mi potreste lasciare incinta, e noi questo non lo vogliamo. Ma non c'è motivo per salta-
re alla conclusione del libro, no? Credo che alcuni dei capitoli iniziali potrebbero risultare molto piacevoli.» Stephen non rispose; qualunque cosa avesse detto avrebbe potuto essere quella sbagliata. Inoltre aveva perso completamente interesse nel parlare. 3 Una nuova visione della storia Ignorando le proteste di sir Leafton, Anne si affrettò a raggiungere l'angolo opposto della piazza, dove i Maestri stavano innalzando una fortificazione in tutta fretta, ammucchiando cassette di legno, tavole, mattoni e pietre tra due edifici che insieme occupavano quasi tutto lo spazio tra le due mura. In quelle poche ore che avevano avuto a disposizione, avevano fatto un lavoro encomiabile, ma non era abbastanza. Mentre Anne osservava, un'onda di otto uomini alla volta, in armatura, si abbatté pesantemente sulla fortificazione, la metà di loro brandendo lance per tenere indietro i Maestri, mentre quelli con la spada e lo scudo si spingevano avanti. Si stavano già riversando sulla sommità. Con la stessa velocità Anne vide i suoi piani sgretolarsi. Avrebbero impiegato ancora solo qualche secondo prima di riuscire ad aprirsi una breccia nel loro fronte. «Santi» gridò Austra, dando voce ai sentimenti di Anne quando uno dei suoi uomini cadde, con una lancia conficcata nella bocca che usciva dall'altra parte alla base della nuca come la lingua di un mostro. «Arcieri!» gridò Leafton e subito una grandinata scura cadde dai tetti e dalle finestre dei piani superiori. La carica s'interruppe perché gli scudi vennero sollevati per deviare quella morte dotata d'impennaggio e il fronte dei Maestri si riunì compatto e tornò a spingere contro il muro. Anne nutri un breve lampo di speranza, ma erano ancora terribilmente in minoranza. Avrebbe dovuto allontanarsi adesso che ne aveva ancora la possibilità? Avrebbe dovuto portare con sé Austra e Catio dentro i passaggi? Per lo meno avrebbe evitato la cattura e le mani di Artwair non sarebbero state legate dalle minacce contro la sua vita. Ma il pensiero di lasciar morire i suoi uomini era intollerabile. Gli assalitori riformarono i ranghi e tornarono ad aggredire il muro. Pa-
recchi caddero, ma continuarono a spingere. «Maestà,» disse Leafton «vi prego, allontanatevi da qui. Si apriranno un varco da un momento all'altro.» Anne gli allontanò il braccio e chiuse gli occhi, sentendo il tintinnio dell'acciaio e urla roche di dolore che vibravano dentro di lei, cercando di raggiungere grazie a questo quel potere di cui aveva bisogno per far bollire il sangue e il midollo. Se fosse riuscita a evocare lo stesso tipo di potere che aveva richiamato a Khrwbh Khrwkh, avrebbe potuto invertire la marea o almeno dare respiro ai suoi uomini. Ma a Khrwbh Khrwkh c'era qualcosa di potente nella terra, una sacca di malvagità che lei era riuscita a portare in superficie, come fosse pus in un foruncolo. Qui avvertiva qualcosa di simile, ma era più lontano e sottile e in agguato dietro di esso sentiva il demonio, in attesa che lei aprisse la strada. Per questo tentennò. Ma un nuovo tono improvviso si unì ai suoni della mischia e lei aprì gli occhi per vedere cosa fosse successo. Il cuore sprofondò quando si accorse che gli assalitori avevano ottenuto rinforzi ed erano ormai quasi il doppio dei suoi guerrieri, o almeno così pensò all'inizio. Poi si accorse che non era affatto così; i nuovi venuti erano privi di armature, almeno la maggior parte. Indossavano gli abiti di una gilda e una sciarpa di lana a quadri e flenne da artigiani. Avevano mazze e forconi, lance per la pesca, archi da caccia, coltelli e perfino qualche spada, e stavano attaccando gli assalitori alle spalle. I Maestri gridarono improvvisamente tutti in coro e si gettarono contro il muro. Il sangue cominciò a scorrere come acqua piovana giù per le strade di Corte Gobelin. «Il popolo di Eslen» bisbigliò Austra. Anne annuì. «Ho mandato quattro uomini a spargere la voce. Ho pensato di mettere alla prova la teoria che dice che ho il loro appoggio.» Si voltò verso l'amica e sorrise. «Sembra che sia proprio così, almeno per alcuni di loro.» «E perché non dovrebbe esserlo?» rispose Austra eccitata. «Sei la loro regina!» Al tramonto Anne stava alla finestra della Torre di san Ceasal su Solidità. Era un bel crepuscolo; il grande ventre del sole era conficcato sulle distanti torri di Fortezza-di-Spine, trasformando Ensae in uno specchio ros-
so, che lei riusciva appena a intravedere tra gli enormi capezzoli di Tom Woth e Tom Cast. Riusciva a vedere la Manica, già vellutata a causa dell'ombra, e lontano, più in basso, le dimore dei morti di Eslen-delle-Ombre coperte di viti, e ancora più lontano le lingue paludose avvolte dalla nebbia. Il vento veniva dal mare e aveva un profumo denso e buono. Questa era la sua casa; questa la vista e gli odori della sua infanzia. Eppure adesso appariva tutto strano. Fino a un anno prima questa cornice che stava guardando, Fortezza-di-Spine e le paludi, rappresentavano la maggior parte del mondo che conosceva. Oh, era stata a oriente fino a Loiyes, ma ora sapeva che era una breve distanza. Oggi riusciva a vedere al di là arrivando fino alle colline e alla foresta, attraverso le sponde e le pianure di Hornladh e Tero Galle, fino al Mare Lierish Meridionale e alle bianche colline e ai tetti rossi di Vitellio. Ogni cosa che aveva visto, ogni suono, ogni lega percorsa l'aveva cambiata in qualcosa, e casa non le si adattava più come una volta. Rivolse la sua attenzione verso nord, alla città. Lì c'era il palazzo ovviamente, la sola cosa che veramente la sovrastava adesso, e sotto di lei c'era il piccolo regno di Corte Gobelin. Volontari continuavano ad arrivare e Leafton e gli altri Maestri si davano da fare rapidamente per rendersi utili. La fortificazione era infinitamente più sicura di quanto fosse stata durante il primo assalto, e tutte le mura naturali adesso erano ben rinforzate. Gli uomini di Robert non erano stati con le mani in mano ovviamente. Poteva vederli tutt'intorno, a poche strade di distanza dal perimetro dei suoi guerrieri, che costruivano i loro accampamenti, cercando di tagliare fuori ogni aiuto che provenisse dall'esterno. Aveva visto anche qualche piccola macchina d'assedio scendere rumorosamente giù per la collina, ma la maggior parte delle strade vicine al quartiere non erano larghe abbastanza per ospitarle. «Credete che attaccheranno di nuovo stanotte?» domandò a Leafton. «Ne dubito. Né, credo, combatteranno domattina. Quello che prevedo è un assedio. Proveranno a trattenerci qui finché non rimaniamo a corto di viveri.» «Bene» disse Anne. «Prego, Maestà?» «Stasera ho qualcosa da fare» gli disse lei. «Nella casa sefry. Non sarò disponibile per tutta la notte, forse anche domani. Non devo essere disturbata e lascerò la difesa di questo posto completamente nelle vostre mani.» «Certo, dovete riposare» disse Leafton. «Ma nel caso di un'emergen-
za...» «Non sarò disponibile» dichiarò Anne. «Porterò con me quattro uomini scelti da voi per proteggermi, ma oltre a questo non mandate nessuno in casa a cercarmi. Avete capito?» «Non capisco, Maestà, no.» «Quello che intendevo dire era 'Mi obbedirete?'» chiarì Anne. «Certo, Maestà.» «Molto bene. Austra, Catio, è ora di muoversi.» Poggiò la mano sul braccio di Leafton. «Siete un uomo in gamba» disse. «Mi fido di voi. Tenete i miei uomini al sicuro. Ve ne prego.» «Sì, Maestà.» Anne non sapeva con certezza che aspetto avrebbe avuto l'entrata del passaggio Crepling, ma aveva immaginato che fosse nascosta, una specie di parete invisibile, una libreria girevole, una botola sotto un tappeto. Per lo meno si trovava nella fredda cantina dell'edificio, dietro a rastrelliere per il vino e carni appese. Ma l'entrata di per sé era una porticina incassata nella pietra viva in cui era stata costruita la casa sefry. Era fatta di un metallo scuro, con cardini e cerniere di ottone lucido. Madre Uun tirò fuori una chiave piuttosto grande. La girò nella serratura e la porta si aprì quasi senza fare rumore, rivelando una scalinata in discesa. Anne si concesse un mezzo sorriso. Artwair e gli altri al suo comando le avevano assicurato che la città e il castello di Eslen erano praticamente inespugnabili, che i suoi poel e le massicce mura avrebbero frustrato praticamente ogni tipo di esercito. Eppure la città era caduta più di una volta. Cercò di ricordare gli stratagemmi con cui i suoi antenati avevano espugnato la città e le tornò vagamente alla memoria che quella era stata una lezione a cui aveva prestato un minimo di attenzione. Quando lo ebbe richiamato alla mente, il racconto di quell'assedio le sembrò piuttosto vago. Le avevano parlato molto del coraggio e di una determinazione sanguinaria, ma non le avevano fornito molti dettagli sul modo in cui William I fosse effettivamente finito nella Sala delle Colombe, a conficcare la spada nel fegato di Thiuzwald Fram Reiksbaurg. Quante volte era successa questa stessa cosa? Un gruppetto di donne o Sefry che entravano nella fortezza attraverso questo passaggio per operare qualunque tipo di misfatto, per aprire i cancelli più in basso in modo da far entrare una forza più massiccia? Le sembrò che Madre Uun detenesse in fondo troppo potere. Il destino di una dinastia poteva anche dipendere dai
suoi capricci sefry. Ma ogni uomo che aveva cercato il suo aiuto non era riuscito a ricordare esattamente cosa fosse successo, non sapeva in che modo fosse riuscito a entrare nel castello, non ricordava quanto potere detenesse questa Sefry solitaria. Ma Anne se lo sarebbe ricordato. Sì, se lo sarebbe ricordato e avrebbe fatto qualcosa a riguardo. Una volta diventata regina, nessuno avrebbe più potuto entrare incontrastato nel castello. Con un brivido improvviso, Anne si rese conto dell'intensità con cui Madre Uun la stava guardando. Chissà se la Sefry poteva leggere i suoi pensieri. «Allora?» domandò. «In fondo alle scale troverete il passaggio» spiegò la Sefry. «Prendete a destra e uscirete dalla città, arrivando alle lingue paludose. Prendete a sinistra ed entrerete nelle prigioni e da lì nel castello, se è questo che desiderate. Se il passaggio inferiore è invaso dalle acque, troverete delle valvole per prosciugarlo in una stanzetta a sinistra, poco prima del punto in cui l'acqua raggiunge il soffitto. Ci vorrà del tempo ovviamente, più o meno mezza giornata.» Anne annuì. Se la sua visione era stata precisa, la flotta di sir Fail sarebbe arrivata in due giorni. Se Fortezza-di-Spine fosse caduta nelle mani di Artwair nel frattempo, suo zio avrebbe potuto combattere contro la flotta e tenere aperti i cancelli esterni abbastanza a lungo da permetterle di uscire e quindi rientrare alla guida di una forza più consistente. Aveva pensato di provare a prendere il palazzo con gli uomini che aveva al suo seguito, ma non credeva che sarebbero stati abbastanza. C'erano centinaia di guardie nel castello. I trenta uomini che lei aveva lasciato sarebbero bastati solo a far scoprire le sue carte. D'altra parte sarebbe stato difficile probabilmente convincere degli uomini a seguirla attraverso un'entrata che non avrebbero potuto ricordare neanche guardandola. Ma si poteva fare. Catio, dopo tutto, era riuscito a seguire il suo assassino. E suo fratello, lo zio Fail e i Maestri ce l'avevano fatta in qualche modo a lasciare Eslen, guidati da una donna chiamata Alis, se le voci erano vere. Sì, si poteva fare e lei doveva muovere il primo passo; accertarsi che la via fosse libera. «Austra, prendi la mano di Catio» disse Anne. «Il resto di voi faccia lo stesso, prendetevi per mano. Tenetele finché non vi dico di lasciarle. Avete
capito?» «Sì, Maestà.» «Molto bene. E adesso andiamo.» «Andiamo dove?» chiese Catio. Catio si domandò se non si fosse ubriacato senza accorgersene. Sentiva la mano di Austra, la pietra sotto i piedi, vedeva il viso di Anne alla luce della lampada, ma continuava a sentirsi perso negli altri dettagli. In realtà non riusciva a ricordare cosa stesse facendo o dove si trovassero. Era come camminare in una specie di incubo. Continuava a pensare di essere sveglio, solo per scoprire che aveva sognato di farlo. Si ricordava di essere entrato nella casa sefry e che Anne aveva parlato di qualcosa con la vecchia donna. Si ricordava che erano scesi nella fredda cantina. Cosa che gli era parsa strana. Ma gli sembrava che fosse passato un sacco di tempo. Forse era davvero un sogno, decise. O forse era ubriaco. Forse... Trasalì. Anne stava di nuovo parlando con qualcuno. Ora stava urlando. E adesso lui stava correndo. Ma perché? Rallentò per guardarsi intorno, ma Austra lo tirava forte per la mano e gli gridava di continuare a correre. Sentì una risata insolita da qualche parte. Percepì il sapore del sangue sulle labbra, e la cosa gli sembrò particolarmente strana. 4 Canti di morte Neil sentì la calma della morte posarsi su di lui. Il suo respiro si placò e avvertì il sapore dell'aria salmastra mentre osservava un'aquila di mare che virava nel cielo del suo stesso colore, blu e grigio. Il vento arrivava dolce da sudovest, scompigliando l'erba soffice e nuova del fianco della collina, come fossero migliaia di dita che pettinavano verdi capelli. Tutto sembrava calmo. Chiudendo gli occhi, mormorò il frammento di un canto. Mi, Etier meuf, eyoiz'etiern rem, crach-toi, frennz, mi viveut-toi dein...
«Cos'era quella roba, sir Neil?» Aprì gli occhi. La domanda veniva da un uomo che aveva più o meno la sua stessa età, un cavaliere di nome Edhmon Archard, del Grefato di Seaxeld. Aveva dei vivaci occhi azzurri, le guance rosa e i capelli bianchi come il pappo del cardo. L'armatura era roba buona e semplice e Neil non notò ammaccature. Certo, la sua di armatura era altrettanto nuova. L'aveva trovata nella sua tenda la mattina dopo la fuga di Robert, inviatagli in dono da Elyoner Dare, che gli aveva preso le misure per 'degli abiti', almeno così aveva dichiarato. Eppure, Neil aveva l'impressione che nel caso di sir Edhmon, l'uomo nell'armatura non fosse stato ancora messo alla prova, esattamente come l'acciaio che indossava. «È la strofa di un canto» gli spiegò. «Una canzone che mi ha insegnato mio padre.» «Cosa significa?» Neil sorrise. «'Io, mio padre, i miei antenati. Gracchiate, o corvi, vi sto per nutrire'.» «Non è molto allegra» disse Edhmon. «È un canto di morte» spiegò Neil. «Credete che state per morire?» «Oh, sì, sto per morire: questo almeno è sicuro» rispose Neil. «È il quando, il dove e il come che non mi è ancora chiaro. Ma il mio pa' diceva che era meglio andare a combattere credendo di essere già morto.» «E voi lo fate?» Neil scrollò le spalle. «Non sempre. A volte ho paura e a volte vengo assalito dall'ira. Ma di tanto in tanto i santi mi concedono la calma della morte e io la preferisco.» Edhmon arrossì leggermente. «Questa è la mia prima battaglia» ammise. «Spero di essere pronto.» «Lo siete» disse Neil. «Sono solo stanco di aspettare.» Proprio mentre diceva questo, trasalì perché una delle baliste dietro di lui sparò con un suono metallico, rimbombante, e una pietra da cinquanta libbre sorvolò le loro teste con una traiettoria ad arco ribassato, andando a colpire il bastione esterno di Fortezza-di-Spine facendo schizzare schegge di granito in ogni direzione. «Non dovrete aspettare ancora molto» gli assicurò Neil. «Quel muro ca-
drà giù entro un'ora. Staranno già radunando i cavalieri dietro al bastione.» «Perché? Perché non li radunano sulle mura? Perché esporli a questo rischio?» Neil pensò alla risposta per qualche minuto, sperando di trovarne una che non spaventasse troppo Edhmon. «Fortezza-di-Spine non è mai stata espugnata» disse infine. «Dal mare, è probabilmente impossibile. È troppo spessa, troppo alta, e le navi sono totalmente vulnerabili al bombardamento dall'alto. Allo stesso modo, le scogliere del capo non sono facili da scalare dal mare. Bastano pochi difensori a impedire a qualunque numero di uomini di scalare, soprattutto quando gli assalitori provano a portare su cavalli e pezzi d'artiglieria. E senza queste macchine, si trovano di fronte la corte della fortezza, che non può essere presa senza il loro aiuto.» Indicò a sud, lungo la lingua di terra che li separava dal muro, una catena larga appena dieci iarde che cadeva a strapiombo con scogliere sulla Baia Frangiflutti a destra e sull'Ensae a sinistra. Proseguiva così per quaranta iarde e poi si allargava abbastanza da ospitare la corte, una fortezza a forma di cuneo con lo spigolo diretto verso di loro e cancelli nascosti tutt'intorno, sul retro. Aveva tre torri a una distanza di circa dieci iarde dalle grandi mura. «Non possiamo semplicemente cavalcare intorno alla corte altrimenti ci farebbero precipitare direttamente dalle scogliere con tutto quello che hanno: pietre, olio bollente, piombo fuso, tutta quella roba. Non riusciremmo mai ad aggirarla neanche per dare un colpo al cancello. Perciò dobbiamo spezzare il muro da questa parte e preferibilmente da lontano. Qua fuori abbiamo una scorta infinita di proiettili, anche se non abbiamo un muro piatto da colpire. La maggior parte delle volte le nostre pietre finiscono larghe.» «Tutto questo lo vedo» disse sir Edhmon. «Ma continuo a non capire cosa ha a che fare questo con la cavalleria.» «Be', quando il muro verrà giù dovremo comunque attraversare questa strada rialzata e passare nella breccia prima di poter espugnare il castello. E possiamo solo andare un po' alla volta, circa sei o sette contemporaneamente. Allora la cavalleria ci verrà incontro prima del punto in cui la catena si allarga, laggiù. «Nel frattempo, avranno messo da parte i loro proiettili per quando noi saremo arrivati a una distanza più ravvicinata, a circa dieci passi dalla strada rialzata. Mentre la loro cavalleria ci terrà impegnati, continueranno a
lanciare sassi e cose simili su quelli di noi che sono in fila dietro. E se lo fanno bene, ne moriranno cinque o sei per ognuno dei loro. Forse anche di più. Se i cavalieri rimanessero nella corte, non sarebbero d'aiuto più della fanteria. Cavalcando contro di noi invece potranno farci davvero male. «Noi perderemo alcuni uomini alle macchine mentre ci precipiteremo verso la breccia, ma entreremo dentro, faremo salire la nostra artiglieria e cominceremo a tempestare di colpi i cancelli di Fortezza-di-Spine. Prima che questo accada, però, loro potrebbero riuscire a uccidere così tanti dei nostri soldati da farci dubitare dell'intera impresa. Male che vada avranno ridotto drasticamente il nostro numero.» Diede una pacca sulla spalla del giovane cavaliere. «Inoltre, loro sono cavalieri. I cavalieri combattono a cavallo. Come credete che si sentirebbero sul muro a gettare massi su di noi?» «Ma deve esserci un modo più semplice per entrare» disse Edhmon. «È questo il modo semplice» rispose Neil. «Per arrivare a questa via d'approccio, un esercito che invade Crotheny dovrebbe sbarcare a cinquanta leghe più a nord di qua e farsi strada oltre le fortezze sul mare combattendo, oppure attraversare il confine con Hansa e passare per Terranuova, che come avete visto può essere allagata. Secondo il duca Artwair, questa è la prima volta che Fortezza-di-Spine deve difendersi da terra. L'approccio da sud, mi hanno detto, fa apparire questo una cosa semplice.» «Ma la fate sembrare una situazione così disperata» disse Edhmon. «Tanto varrebbe gettarsi a cavallo dalle scogliere, quelli in prima linea moriranno sicuramente.» «Solo se le cose vanno come vogliono loro» rispose Neil, indicando verso la corte con un cenno del capo. «Come altro potrebbero andare?» «Nel modo che vogliamo noi. La nostra prima carica li colpisce così duramente che riusciamo ad aprirci un varco in mezzo alla cavalleria e a tuffarci nella breccia. Se loro non riescono a impedircelo, non possono bombardarci, almeno non troppo a lungo.» «Ma questo richiederebbe un miracolo, vero?» Neil scosse il capo. «La prima volta che ho visto Fortezza-di-Spine ho pensato che fosse opera dei giganti o dei demoni. Invece è stata costruita da uomini, uomini come noi. Non c'è voluto un miracolo per costruirla; non sarà necessario neanche per espugnarla. Ma ci vorranno uomini. Capite cosa voglio dire?» «Proprio così, sir Neil. Gli avete detto come stanno veramente le cose!»
Neil trasalì a quel grido e scoprì che a parlare era stato sir Fell Hemmington. «Avete sentito ragazzi? Una carica sola o niente!» Improvvisamente, con assoluta sorpresa di Neil, l'intera colonna prese a ripetere quel ritornello. «Una carica sola o niente!» Aveva parlato con Edhmon senza rendersi conto che tutti gli altri erano stati a sentirlo. Ma lui era il capo, no? Probabilmente ci si aspettava che facesse qualche discorso. Il grido raddoppiò in veemenza quando un'altra pietra colpì la corte e con un basso rimbombo il muro finalmente crollò, lasciando un varco largo circa cinque iarde. In quello stesso momento la cavalleria nemica fece la sua comparsa su ogni lato della fortificazione. «Lance!» gridò Neil, mettendo in resta la sua lunga asta. Lungo ruttò la prima fila, alla sua destra e alla sua sinistra, gli altri abbassarono le lance allo stesso livello. «Una carica sola!» gridò, spronando il suo cavallo, continuando a sentirsi calmo mentre il destriero si lanciava a un galoppo sfrenato. Il mare, come al solito, era bellissimo. 5 Corno di strega «Cos'è quella faccia?» domandò Zemlé dal suo kalbok a qualche iarda di distanza. «Non sarete mica tormentato dal senso di colpa?» Stephen le rivolse un'occhiata. Alla luce lattiginosa del sole mattutino il viso di lei era fresco e giovanissimo, e per un attimo la immaginò come una ragazzina che vagava tra i prati montani, a infastidire le capre e a rastrellare il trifoglio in cerca di un portafortuna. «Dovrei esserlo?» domandò Stephen. «Anche se considerate quello che abbiamo fatto, ehm...» Le sue sopracciglia aggrottate l'interruppero nel bel mezzo di quel sofisma. Si grattò il mento e ricominciò. «Non ho mai fatto voto di castità,» disse «e non sono un seguace di san Elspeth.» «Ma volevate diventare un decmaniano» gli ricordò lei. «Allora quel voto lo avreste fatto.» «Posso confidarvi un segreto?» domandò Stephen.
Lei sorrise. «Non sarebbe il primo.» Lui si sentì il viso in fiamme. «Avanti» lo esortò la ragazza. «Non è stata mia l'idea di diventare prete. Fu mio padre a volerlo. Ora, non fraintendetemi; conoscete i miei interessi. Non avrei mai potuto coltivarli senza un qualche attaccamento a z'Irbina, perciò ero d'accordo. Ma non ero molto impaziente di fare quel voto di castità. Suppongo che mi confortasse il pensiero che probabilmente sarei rimasto quasi sicuramente casto, indipendentemente dal voto.» «È una sciocchezza» disse lei. «Non siete uno che definirei brutto. Un po' imbranato forse...» «Oh» replicò Stephen. «Mi dispiace per questo.» «Ma perfettamente educabile» concluse lei. «A taflo anscriftas.» Ora le orecchie andavano a fuoco. «A ogni modo,» proseguì lui «credo di aver sperato di potermi in qualche modo trasferire in uno di quegli ordini meno... rigorosi. E per come stanno le cose, non ci sono molte possibilità per me di prendere i voti decamniani adesso. Né di vivere ancora per molto, in verità. Avremmo dovuto alzarci prima.» «Questo valico è troppo pericoloso senza la luce del giorno» rispose lei. «Ci siamo messi in viaggio appena mi è sembrato ragionevole. Quanto al resto, forse sentite di poter morire felice anche subito. Ma vi assicuro che c'è ancora molto per cui vale la pena vivere.» «Non ne dubito» rispose Stephen. «Ma Hespero è ancora là dietro e poi c'è il woorm. Certo, ultimamente non l'abbiamo più visto. Può darsi che abbia abbandonato la caccia.» «Ne dubito» rispose Zemlé. «Perché?» «Ve l'ho detto, perché la profezia dice che sarà il waurm a condurvi all'Alq» replicò lei. «Ma se non fossi io quello di cui si parla nella profezia? Non staremo esagerando con la nostra arroganza?» «Vi ha seguito a d'Ef e da lì almeno fino al Then. Perché adesso cominciate a dubitare che stia seguendo voi?» «Ma perché lo starebbe facendo?» «Perché siete colui che troverà l'Alq» disse lei, con un tono venato di esasperazione. «Questa è una spiegazione 'catel turistat suus caudam'» obbiettò lui.
«Sì» convenne lei. «È un circolo vizioso. Non significa però che non sia vero.» «Be', questa creatura è destinata a ucciderm... ehm, uccidere l'erede di Kauron?» «Vi ho già detto quello che so» rispose lei. A Stephen tornò in mente lo sguardo del mostro che lo aveva intercettato a mezza lega di distanza e rabbrividì. «È così cattivo?» domandò lei. «Spero che non sarete mai costretta a scoprirlo, non importa ciò che dice la profezia» rispose Stephen. «Sono piuttosto curiosa a dire la verità. Ma mettiamo da parte questo; avevate davvero una strana espressione prima. Se non era senso di colpa, cos'era?» «Ah. Quella.» Gli occhi di lei si avvicinarono. «Cosa intendete con 'quella'? Non azzardatevi a dirmi che non ne volete parlare.» «Io...» Stephen sospirò. «Mi stavo chiedendo cosa succederebbe se ci dimenticassimo semplicemente di tutta questa faccenda della profezia e scappassimo da qualche parte tra i monti. Magari Hespero e il woorm si ucciderebbero a vicenda e tutti dimenticherebbero l'Alq.» Lei sollevò di scatto le sopracciglia. «Scappare insieme? Voi e io? Intendete dire come marito e moglie?» «Ah, be', suppongo di sì.» «Va benissimo, ma vi conosco appena, Stephen.» «Ma noi...» «Sì, vero? E mi è piaciuto. Mi piacete, ma cosa abbiamo da offrirci l'un l'altra? Io non ho dote. Credete che la vostra famiglia mi accoglierebbe a queste condizioni?» Stephen non ci dovette pensare su troppo a lungo. «No» ammise. «E senza la vostra famiglia, cosa avete da offrirmi? Amore?» «Può darsi» rispose lui con cautela. «Può darsi. Proprio così. Può darsi. «Non siete il primo a confondere il sesso con l'amore, Stephen. Si tratta di una confusione sciocca, tra l'altro. A ogni modo solo un giorno fa eravate innamorato di qualcun'altra. Può qualche bacio ben assestato cambiare la cosa tanto facilmente? E se così fosse, come posso aspettarmi fedeltà da voi?»
«Ora vi state prendendo gioco di me» disse Stephen. «Sì, è vero. E no, non lo è. Perché se non ridessi di voi potrei arrabbiarmi e nessuno di noi ha bisogno di questo, adesso. Se volete fuggire tra i monti dovrete farlo da solo. Io proseguirò per il Corno di Strega e proverò a trovare l'Alq da sola. Perché se anche il praifec e il waurm si distruggono a vicenda, ci sono altri che lo stanno cercando e qualcuno alla fine lo troverà.» «Come fate a sapere tutto questo?» domandò Stephen. «Il Libro del Ritorno...» «Ma voi non avete mai visto quel libro» replicò seccò Stephen, interrompendola. «Tutto quello che sapete si basa su una voce di un migliaio d'anni fa riguardo a un libro che nessuno ha mai visto, eccetto Hespero, sempre che questo sia vero. Perciò come fate a essere così sicura che questo è vero?» Lei stava per rispondere, ma Stephen la interruppe di nuovo. «Avete mai letto la Ballata di Walker?» «Ne ho sentito parlare» disse lei. «Parla del guerriero virgenyano che sconfisse la flotta diabolica di Thiuzan Hraiw, no?» «Sì, ma state a sentire: storicamente, Walker visse più o meno un secolo prima dell'inizio delle Guerre dei Maghi, addirittura centocinquanta anni prima che Thiuzan Hraiw cominciasse a costruire la sua flotta. «Chetter Walker sconfisse una flotta, è vero, se volete chiamare flotta dieci navi. E queste venivano da Ihnsgan, un antico regno del Mare di Ferro. Ma il poema fu scritto cinquecento anni dopo, dopo il caos della Guerra dei Maghi, quando il nuovo nemico di Virgenya era diventato Hansa. «Thiuzan Hraiw era di Hansa e il suo nome ha un suono tipicamente hanzish. Perciò i bardi, fedeli come sono alla promessa di mantenere i canti esattamente uguali a come li hanno sentiti, pena l'essere maledetti da santa Rosemary, hanno comunque fatto vivere Walker nel secolo sbagliato, facendolo combattere contro il nemico sbagliato, con armi che non erano ancora state inventate. La tradizione orale promette sempre di riportare fedelmente la storia, ma non lo fa mai. Perciò cosa vi fa pensare che i vostri antenati abbiano tramandato fedelmente la loro piccola saga?» «Perché» rispose lei ostinata «io ho visto proprio il libro o almeno una parte, quella che riguarda voi.» Queste parole lo colsero di sorpresa. «Davvero? E come avete fatto?» Pale chiuse gli occhi e lui vide la mascella che si contraeva. «Perché» disse la ragazza «sono stata l'amante di Hespero.»
Quel pomeriggio Zemlé indicò la cima del Corno di Strega. Stephen pensò che forse fino a quel momento aveva immaginato qualcosa a forma di corno di bue, che si piegava nel cielo, circondato da nuvole minacciose, fulmini e con forme di spiriti malvagi, scure e lontane che turbinavano intorno alla sua cima. Invece, a parte l'essere leggermente più alto dei suoi vicini, era, almeno per lui, esattamente uguale agli altri monti dei Bairghs. «Raggiungeremo la sua base entro domani a mezzogiorno» disse Zemlé. Stephen annuì, ma non rispose. «Non parlate da stamattina» notò lei. «La cosa comincia a infastidirmi. Di certo dovevate aver capito che non eravate il mio primo amante.» «Ma Hespero!» esplose lui. «Oh, credo che avreste anche potuto accennarmelo prima che vi seguissi fin quassù, prima che riponessi in voi tutta la mia fiducia.» «Be', il punto era proprio convincervi a fidarvi di me» gli fece notare la ragazza. «Esatto. E l'ho fatto. Finora, almeno, quando ormai non ho più scelta.» «Non sono orgogliosa della cosa, Stephen. Ma i santi odiano i bugiardi. Voi me lo avete chiesto e io ho risposto. È più importante che crediate alla profezia piuttosto che vi facciate una buona opinione di me.» «Quanti anni avevate quando è successo? Dieci?» «No» rispose lei pazientemente. «Ne avevo venticinque.» «Avete detto che ha lasciato il vostro villaggio anni fa» replicò secco Stephen. «Non potete avere più di venticinque anni adesso.» «Adulatore. Ne ho esattamente venticinque, compiuti la settimana scorsa.» «Intendete dire...» «Da quando è tornato, sì» disse lei. «Santi! È ancora peggio!» Lei lo fulminò dal suo kalbok, a una distanza di circa tre iarde su un terreno accidentato. «Se fossi abbastanza vicina,» disse «vi darei uno schiaffo. Ho fatto quello che dovevo fare. Non sono una stupida, sapete? Avevo gli stessi vostri dubbi riguardo la profezia. Ora non li ho più.» «Vi è piaciuto?» domandò lui. «Era parecchio più esperto di voi» ribatté Pale. «Ah. Non si è trattato di taflo anscriftas vero?» replicò Stephen sarcasti-
co. Il viso di lei si contrasse e stava per rispondere, ma poi chiuse gli occhi e fece dei respiri profondi. Quando li riaprì, era più composta. «È colpa mia» disse infine, senza alzare la voce. «Sapevo che eravate giovane e inesperto. Avrei dovuto sapere che vi avrebbe fatto quest'effetto.» «Quale effetto?» «Vi avrebbe reso folle di gelosia. Siete geloso di un uomo con cui sono andata a letto prima di incontrare voi. Secondo voi questo ha senso?» «Be', è solo che...» «Sì?» domandò lei con un'impazienza tale da farlo sentire ancora una volta un ragazzino. «...lui è cattivo» finì titubante Stephen. «Ah, sì?» domandò lei. «Questo non lo so. Di sicuro è nostro nemico perché vuole la stessa cosa che vogliamo noi. Ma non vi ho tradito con lui; a dire il vero ho tradito lui con voi. Perciò smettetela di fare il bambino e siate uomo, per una volta. Non serve esperienza per questo, ma solo coraggio.» Quella notte non fu la replica della notte precedente. Stephen rimase sveglio per parecchie ore, estremamente attento a ogni respiro e movimento di Zemlé. La sua mente precipitava verso il sonno a scatti, ma un respiro più forte o un movimento del corpo di lei lo riportavano immediatamente indietro. È sveglia. Mi ha perdonato... Ma non era sicuro di aver bisogno di perdono. Lei era andata a letto con un praifec. Di sicuro era un peccato anche se Hespero fosse stato uno Skasloi reincarnato. E subito prima... Sospirò. Non era questo il vero problema, no? Il tocco di Hespero era un'ombra sotto al suo. Il tocco di un uomo che sapeva come far godere una donna. Continuò a roteare su orbite di rimorso e rabbia sempre più piccole fino a che il pavimento roccioso non si aprì come fosse stato un tessuto e qualcosa lo tirò giù. Improvvisamente si sentì appiccicoso e bagnato e la pelle e le ossa gli facevano male come per colpa di una febbre alta. Il panico lo spinse a cercare di afferrare qualcosa, qualunque cosa, ma si ritrovò nel vuoto, non stava precipitando, ma galleggiando, circondato su ogni lato da cose terri-
bili che non riusciva a vedere. Provò a urlare, ma qualcosa gli ostruì la bocca. Era sull'orlo della follia quando una voce rassicurante prese a sussurrargli parole che non capiva, ma che comunque lo calmarono. Poi, dolcemente, una fascia di colori gli attraversò gli occhi e il suo cuore si placò. La visione si fece più chiara e vide il Corno di Strega, più o meno come gli era apparso alla luce del tramonto, anche se con più neve. Stephen si librò in basso verso la cima come un uccello, sorvolando una valle, un villaggio e poi con un minimo di vertigini risalì lungo i fianchi, seguendo un sentiero tortuoso fino a una casa in un albero. Apparve un volto pallido, con gli occhi color rame, un viso hadivar, e Stephen capì che Zemlé aveva ragione, quel termine significava semplicemente Sefry. Gli giunsero altre parole che continuava a non capire, ma poi si posò a terra. S'incamminò verso il lato settentrionale della montagna, dove il muschio dettava legge, fino a una facciata di pietra e passando sotto una semplice porta, si ritrovò finalmente nella rewn. Cominciò a capire. Il suo cuore si riempì di gioia. Si risvegliò a un colpetto dolce sul viso e trovò Zemlé con le sopracciglia che esprimevano preoccupazione, e il viso e le labbra alla distanza di una sola mossa. Ma quando lei vide che era sveglio, si raddrizzò e lo sguardo di preoccupazione svanì. «Brutti sogni?» domandò. «Non proprio» rispose lui è raccontò la sua visione. Zemlé non apparve sorpresa. «Ora mangiamo» disse. «E poi andiamo e speriamo di trovare questa vostra mitica città.» Lui sorrise e si strofinò dagli occhi i residui del sonno, sentendosi molto più riposato di quanto avrebbe dovuto. Choron, chiese al cielo, siete diventato un santo? Siete voi che mi state guidando? La discesa si rivelò molto più difficile di quanto gli era sembrata nel sogno e la sua fiducia nella visione diminuì man mano che scendevano tra i pendii accidentati in una foresta di sempreverdi impregnata dell'odore di resina. «Sapete dove state andando?» domandò dubbiosa Zemlé. Per un attimo lui non capì la domanda, ma poi si rese conto che i loro ruoli si erano invertiti. Da quando erano entrati nella valle lei si era affida-
ta alla sua guida. «Credo di sì» rispose. «Perché esiste una via più veloce per arrivare alla montagna.» Stephen annuì. «Può darsi, ma voglio vedere una cosa.» Un'ora dopo i segni cominciarono ad apparire. All'inizio erano lievi: strani cumuli sul terreno della foresta, depressioni che sembravano letti di torrenti asciutti, pur essendo troppo regolari. Alla fine vide frammenti di muro, anche se poco più alti del suo ginocchio. Proseguì a piedi, tirando il suo animale, e tra il rumore dei passi ebbe delle fugaci visioni di edifici stretti e bizzarri e figure vestite con abiti sgargianti. «Hadivaisel» disse, indicando lo spazio che lo circondava. «O ciò che ne è rimasto.» «Allora è un buon segno, no?» domandò lei. «Be' almeno significa che so dove stiamo andando.» Così continuarono a insistere, a est verso la montagna, alla ricerca del sentiero. La casa nell'albero della sua visione era scomparsa, ma lui riconobbe ugualmente l'albero anche se appariva più vecchio e più grosso. Da questo punto cominciò a dirigersi a nord e sempre più in alto fino a Bezlaw, dove l'ombra della montagna non si alzava mai e il muschio cresceva più denso e folto e steli bianchi s'innalzavano sui ciocchi in decomposizione. Era già quasi sceso il crepuscolo quando arrivarono all'antica ombra e Zemlé suggerì di fermarsi. Stephen accettò e si misero a sistemare gli animali. I segugi però erano irrequieti; rizzarono i peli del collo e si misero a ringhiare all'oscurità gelida. Anche Stephen aveva la pelle d'oca. Il suo udito era andato migliorando negli ultimi giorni e sentiva almeno parte di quello che percepivano gli animali. E non gli piaceva. C'erano cose su due piedi che si avvicinavano con sicurezza nel buio. E alcune cantavano. 6 Sulle tracce della morte La morte diceva ad Aspar dove andare. Alberi morti nella foresta, erba, ginestra spinosa ed erica morte sulla brughiera, pesci morti nei fiumi e nei
torrenti preferiti da quella cosa. Seguendo la morte, seguiva il woorm, e di giorno in giorno le tracce erano sempre più evidenti, come se la sua natura velenosa crescesse man mano. Il fiume Welph era intasato da carcasse, le sue acque nere erano diventate un mattatoio. Boccioli giovani lasciavano colare pus nauseabondo e le sole cose a crescere con una parvenza di salute erano le punte nuove dei rovi neri ormai fin troppo familiari. Stranamente, Aspar si sentiva di giorno in giorno più forte. Se il veleno del woorm andava moltiplicandosi in potenza, lo stesso accadeva all'efficacia della cura della strega. Anche Orco sembrava più pieno d'energia di quanto fosse stato negli ultimi anni, come se fosse tornato a essere un puledro. E ogni tramonto li portava più vicini alla bestia... e a Fend. Al di là del Welph, Aspar non conosceva più i nomi dei luoghi, e le montagne cominciarono a innalzarsi intorno a lui. Il woorm preferiva le valli, ma di tanto in tanto attraversava valichi bassi. Una volta prese un torrente sotto una montagna e Aspar trascorse un giorno al buio, seguendo le sue tracce alla luce di una torcia. La seconda volta che lo fece, lui non lo seguì a lungo, perché il tunnel sì riempiva d'acqua. Imprecando, allora, dovette riuscire alla luce del sole e farsi strada su per il fianco della montagna fino a che non trovò una dorsale dalla quale riusciva ad avere una buona visuale sulla valle successiva. Promise un sacrificio al Malvagio se la creatura non gli fosse scappata. Aguzzando la vista nel crepuscolo, alla fine vide la testa della creatura alzare onde in un fiume a due leghe di distanza e prese a scendere. Dopodiché fu semplice e ormai cavalcava talmente vicino alla traccia da trovare animali e uccelli che continuavano a morire. Ovviamente un'altra grossa montagna incombeva alla fine della valle e avrebbe potuto rappresentare un problema se il mostro avesse trovato una strada anche sotto a questa. Progettò di prenderlo prima di raggiungere la montagna, però. Il mattino successivo non c'era ancora riuscito, ma sapeva di essere vicino. Lo sapeva grazie all'odore. Allora controllò la freccia, come faceva tutte le mattine, spense quello che rimaneva della brace del suo fuoco e si rimise a seguire le tracce. L'altitudine della valle aumentò, e questa prese a riempirsi di abeti, cicuta macchiata e querce bianche. Aspar si mise a seguire il fianco meridionale, alla base di un'altura fatta di vecchia roccia gialla che s'innalzava per
una ventina di iarde, al di sopra della quale riuscì a distinguere un sentiero che si snodava su un terreno roccioso e coperto di arbusti. Stava guardando la lunga linea della facciata di pietra, pensando che se fosse riuscito a trovare un modo per salire lassù avrebbe potuto godere di una visuale più completa. Ma non aveva molte speranze. Aveva un presentimento riguardo alle caratteristiche del terreno e non sembrava che l'altura fosse intenzionata a offrire una facile arrampicata. Al di sopra di essa s'innalzavano altre montagne, a volte visibili, altre nascoste dall'angolazione. Gli sembrò di aver sentito qualcosa e si fermò ad ascoltare. Arrivò di nuovo, stavolta più distinta: una voce umana che gridava. Un attimo dopo ne localizzò la fonte. C'era una fila di circa sessanta cavalieri sul sentiero sopraelevato; forse lo avevano appena raggiunto da una strada che non riusciva a vedere. L'altura, in quel punto, arrivava a circa trenta iarde da terra e i cavalieri si trovavano leggermente a monte rispetto al precipizio. L'uomo che gridava stava indicando in basso verso di lui. «Che vista» mormorò Aspar inacidito. Avevano il sole alle loro spalle, perciò lui non riusciva a distinguere le loro facce, ma il capo sembrava vestire una specie di abito ecclesiastico, cosa che mise subito in guardia Aspar. Notò che tre di loro avevano preso l'arco ed erano pronti a tirare. «Salve, laggiù» gridò il capo. Aspar trasalì alla familiarità di quella voce, sebbene non riuscisse subito a riconoscerla. «Salve a voi» rispose ad alta voce. «Avevo sentito dire che eravate morto, Aspar White» replicò l'uomo. «Credo davvero che non sia più possibile fidarsi di nessuno.» «Hespero?» «Dovete chiamarlo 'vostra grazia'» esclamò il cavaliere al fianco di Hespero. «Basta, sir Elden,» disse il praifec «quello è il mio guardaboschi. Non lo sapevate?» A giudicare dal volume della voce, pronunciò quelle parole solamente perché Aspar potesse sentirle. Il guardaboschi pensò di collaborare, ma scartò rapidamente quell'idea. Aveva trascorso tanti giorni da solo nella foresta da aver perso il gusto di fingere. «Non più, vostra grazia!» gridò. «Ho visto fin troppo del vostro lavoro.» «È vero» rispose Hespero. «E io ho sentito abbastanza parlare del vostro. Addio, allora, guardaboschi.»
Aspar voltò la testa e fece per allontanarsi, ma continuò a guardare in alto. Vide sir Elden tirar fuori l'arco. «È proprio il pretesto che aspettavo» brontolò a bassa voce. Si era domandato se fosse necessaria, ma Hespero gli risolse il problema con una parola pronunciata a voce troppo bassa. Aspar saltò giù da Orco e la freccia lo mancò di ben più di una iarda. Appena toccò coi piedi a terra, prese con calma la mira e ne infilò una nell'arciere, proprio attraverso la parte bassa del mento. Mise un'altra freccia sulla corda e scoccò per colpire Hespero, ma un altro uomo a cavallo si frappose sulla traiettoria, prendendosi il dardo sul fianco coperto dall'armatura. I restanti cavalieri con prontezza scesero rapidamente da cavallo e il guardaboschi notò che almeno altri sei stavano mettendo la corda all'arco. Scoccò di nuovo, poi si voltò a uno schianto nel sottobosco. Con la freccia pronta, si ritrovò a guardare il primo uomo che aveva colpito, che era caduto e ora giaceva dilaniato in due su un masso alla base dell'altura. Aspar s'incamminò da quella parte e si tuffò sotto una sporgenza proprio mentre le frecce sembravano germogliare dalla terra come frumento con la punta rossa. Prese il cadavere e lo tirò giù, perquisendolo velocemente, prendendo le sue frecce e provviste e trovando un po' più di quello che si aspettava. Infatti nella bisaccia c'era un corno, e non uno come tanti altri, si trattava di un corno che Aspar riconobbe, fatto d'avorio bianco e con strani simboli incisi sopra. Era il corno del Re degli Alberi, quello che aveva trovato sui Monti della Lepre, il corno che Stephen aveva suonato per chiamare il Re degli Alberi. Il corno che avevano dato a Hespero perché lo studiasse. Aspar lo rimise nel suo astuccio, se lo legò intorno al collo, fece un respiro profondo e scappò. Gran parte del fuoco nemico lo mancò; una freccia sbatté contro la corazza e venne deviata e poi lui si ritrovò ben coperto dagli alberi, di nuovo su Orco e lanciato al galoppo. Appena fu chiaro che aveva seminato tutti quelli che probabilmente lo stavano seguendo, rallentò l'andatura e trovò finalmente il tempo per domandarsi cosa significasse la presenza di Hespero in quel posto. Le coincidenze capitano, ma era sicuro che non si trattasse di questo. Si mise a pensarci mentre cavalcava, continuando a mantenere un passo ancora ragionevolmente spedito, guardandosi alle spalle all'inizio, più o meno ogni trenta secondi e meno frequentemente in seguito. Scendere da
un'altura era più semplice che salire, specialmente se si aveva una corda, e lui era pronto a scommettere che il gruppo di Hespero ne aveva una. Far scendere i cavalli dalla rupe avrebbe richiesto tempo, se mai fossero riusciti nell'impresa, perciò forse avrebbe potuto conservare il suo vantaggio sugli inseguitori, se si fosse tenuto lontano dai dirupi. Ovviamente esisteva sempre la possibilità che conoscessero il terreno meglio di lui. Magari la rupe diventava un leggero pendio o presentava una gola che scendeva in basso. Ma non poteva farci niente. Aspar si domandò se anche Hespero stesse seguendo il woorm, anche se vista la direzione dalla quale veniva, la cosa non sembrava avere molto senso. Forse, invece, stava seguendo la preda del woorm, ovvero, se doveva credere a Fend, Stephen. E allora cosa ci faceva Stephen tra i monti? E perché erano tutti così interessati a lui? Questo non poteva saperlo, ma sentiva che presto lo avrebbe scoperto, perché tutti i sentieri sembravano sul punto di convergere. Sarebbe stato interessante. Lì la foresta non era ancora morta, anche se la traccia che lui stava seguendo sembrava una ferita letale. Fu una sensazione troppo brutta, perché scoprì di amare particolarmente quel paesaggio ricco di conifere. Era già stato in foreste di sempreverdi prima di allora, ma solo tra i Monti della Lepre. Gli piaceva la novità di trovarne una su un terreno relativamente piatto. Come erano fatte le foreste di Vestrana e Nahzgave? Erano ancora più a nord. Aveva sentito storie di fredde paludi e grossi alberi boreali che scavavano con le radici in un terreno che restava gelato per più di metà anno. Gli sarebbe piaciuto vedere quei posti. Perché aveva aspettato così tanto? Forse non esistevano neanche più. Per quanto ne sapeva lui, su a nord, greffyn, woorm e cose del genere avvelenavano la terra da anni. Sapeva da dove provenivano, ma non sapeva perché, né in che modo. Forse Stephen avrebbe potuto scoprirlo, sempre che fosse ancora vivo. Si trattava di una malattia, di una corruzione che si verificava nel mondo di tanto in tanto? Chissà se le loro stagioni, l'intervallo tra il risveglio e la morte, duravano più di qualche secolo. O era qualcuno, o qualcosa, che stava facendo tutto questo? C'era Hespero dietro a tutto questo? O Fend? Di sicuro si trattava di qualcuno che lui avrebbe potuto uccidere per fermare tutto. O forse il Re degli Alberi aveva ragione. Forse il male era l'umanità stessa e bisognava
uccidere tutti. Be', purtroppo era solo legna senza scintilla, e non sarebbe riuscito ad accendere il fuoco solo con la forza del pensiero. Sapeva che uccidendo il woorm avrebbe messo un freno e magari anche la morte di Hespero e Fend avrebbe dato una mano. Di sicuro era pronto a tentare. Orco scelse la sua strada su un cumulo di pietre che sospettosamente simile a una parete crollata e Aspar notò altre irregolarità che non erano naturali. Uomini e donne avevano abitato lì una volta, costruito case. Ora la foresta si nutriva delle loro ossa. Era così che andavano le cose: niente durava per sempre. Gli alberi bruciando producono prati, questi diventano boschetti e alla fine tornano i grandi alberi a fare ombra sull'erba, sugli arbusti e sugli alberi più piccoli. Gli uomini creano pascoli e campi, li usano per un certo arco di tempo, poi il bosco se li riprende. Era sempre stato così. Ora le cose si erano rovinate. Lui le avrebbe rimesse a posto a costo della sua stessa vita. Non vedeva alternative. Non molto più tardi arrivò in una vasta radura e poté distinguere chiaramente il profilo della montagna davanti a sé. Si rese conto di essere già salito sui suoi fianchi, e da questa angolazione poteva distinguere le tracce del woorm come una linea stretta ma chiara che serpeggiava in alto in direzione della cima. Poteva anche vedere il punto in cui le tracce s'interrompevano, sebbene la distanza fosse troppa per riuscire a distinguere anche la bestia. Era diretta sul fronte settentrionale. Riusciva anche a sentire di nuovo gli uomini di Hespero, in lontananza alla sua destra. Probabilmente si trovavano tutti sullo stesso pendio adesso, perché la cornice e la valle erano diventate tutt'uno. Dal baccano però calcolò che dovevano trovarsi probabilmente a una lega di distanza e a meno che non avessero fatto ricorso a qualche magia, avrebbero avuto difficoltà a raggiungerlo senza tornare sulla rupe. Diede una pacca sul collo di Orco. «Sei pronto a correre, vecchio?» gli domandò. «Dobbiamo fare prima di loro.» Orco sollevò il capo impaziente e insieme sfrecciarono verso la montagna. Mentre Anne fuggiva, la risata beffarda di Robert le risuonava nelle orecchie. Come aveva fatto a sfuggire a sir Neil? Come faceva a sapere dove ten-
derle un'imboscata o a conoscere i passaggi segreti? Ma Robert non era più esattamente un uomo. Lei lo sapeva. Forse era come i cavalieri di Hansa e non poteva morire. Chissà se lui e sir Neil avevano combattuto. Chissà se aveva ucciso il suo cavaliere. O forse erano già arrivati i soldati di Hansa e avevano schiacciato Artwair e l'esercito che lui guidava. Non voleva pensarci. Non poteva. Tutto ciò che adesso importava era riuscire a sfuggirgli abbastanza a lungo per poter pensare, trovare la salvezza per sé e i suoi compagni. Uno dei suoi uomini era già morto, troppo confuso dall'incantesimo del passaggio per correre quando lei l'aveva ordinato, trafitto alla schiena da una lancia di uno dei soldati di Robert. Perciò le rimanevano cinque compagni: tre Maestri, Catio e Austra. Lui era stato ad aspettarli insieme a venti uomini e una manciata delle sue donne vestite di nero a fare da guida. Catio, grazie ai santi, era ancora con lei. Anne cercò di spazzar via le sue paure e frustrazioni e di concentrarsi. Il passaggio presto si sarebbe diviso, no? Non era mai stata lì prima d'ora, ma conosceva il posto, riusciva a sentire dove la stava portando. Se fosse riuscita a condurli nel castello, nei suoi passaggi, forse sarebbero stati in grado di nascondersi. Nel frattempo, i suoi uomini nella Corte Gobelin sarebbero morti tutti, perché anche se Artwair fosse riuscito a prendere Fortezza-di-Spine in tempo per far entrare la flotta di sir Fail, ci sarebbe voluto ancora troppo tempo per vincere un assedio adesso che il suo stupido piccolo piano aveva cominciato a crollare. Si sentiva impotente, ma la morte o la prigionia sarebbero state ancora peggio. «Le mani!» gridò. «Continuate a tenervi tutti per mano!» Guardò indietro, ma non vide traccia di lanterne. Ovviamente il passaggio curvava e serpeggiava tanto spesso che gli inseguitori non dovevano essere necessariamente lontani per non essere visibili. Austra, con lei davanti, teneva la loro unica luce funzionante, e adesso il passaggio le offriva due possibilità. «La via di destra» decise. Voltarono a destra, ma dopo soli sedici passi arrivarono a un punto morto, costruito così di recente che ancora si poteva sentire l'odore della malta. Questo lei non l'aveva previsto. Dentro la sua mente, il passaggio di destra si spiegava attraverso le mura esterne del castello e alla fine, dopo
qualche altra curva, conduceva direttamente nella vecchia stanza del sole di sua madre. «Lo ha sbarrato» mormorò sconfortata. «Di sicuro è opera sua.» Esattamente quello che lei stessa aveva pensato di fare. «E l'altro?» domandò Austra speranzosa. «Passa sotto al castello, nelle prigioni.» «Meglio che farsi catturare, no?» «Sì» convenne Anne. «E ci sono passaggi che portano al castello dalle prigioni. Prega solamente che non abbia sbarrato anche quello.» I rumori dell'inseguimento sembrarono avvicinarsi mentre loro tornavano indietro per imboccare il passaggio di sinistra. «Dove stiamo andando?» chiese Catio. «Non fate domande» disse Anne. «Non fa che peggiorare le cose.» «Peggiorare?» replicò Catio. «Sono già peggiorate. Almeno fatemi combattere.» «No. Non ancora. Vi dirò io quando è il momento.» Catio non rispose. Probabilmente aveva già dimenticato che stavano parlando. Il tunnel tornò a biforcarsi, ma come Anne sospettava, il passaggio che aveva deciso di seguire era sbarrato, stavolta in modo molto meno accurato; il soffitto era stato fatto crollare. Sembrava fosse stato tirato giù in fretta, ma era comunque un grosso impedimento. «Non può conoscerli tutti» disse ad Austra. «Non può.» «E se avesse una mappa? Forse tua madre ed Erren ne avevano una.» «Forse» rispose Anne. «Se è così siamo spacciati.» Si fermò, e un piccolo brivido le percorse la schiena. «Lo hai sentito?» domandò ad Austra. «Io non ho sentito nulla» rispose lei. Ma poi lo sentì di nuovo, qualcuno in lontananza sussurrava il suo nome. E allora si ricordò. «Esiste un passaggio» mormorò. «Ho visto l'inizio, ma non sono riuscita a vedere dove portava. C'è una specie di nebbia e qualcos'altro...» «Qualcosa peggio di Robert?» Un'immagine allora le balenò davanti agli occhi, dolorosamente luminosa, quella di una demone dalle trecce rosse. Ma non era lei. Non era lei che sussurrava il suo nome. «Sai di cosa si tratta» rispose. Arrivarono in una piccola stanza con due passaggi che conducevano fuori. Erano entrambi bloccati.
«Vuoi dire lui?» sibilò Austra. «L'ultimo...» Non completò la frase. Cominciò a respirare a fatica. «Sì.» Anne prese la sua decisione e si mise a cercare il posto che per istinto sapeva essere lì, un piccolo buco nella pietra. Trovò il gancio e spinse. Qualcosa all'interno scattò e una parte della parete si aprì piano. Anne vide che la pietra era stata tagliata in modo molto sottile e poi in qualche maniera fissata a uno spesso pannello di legno. «Presto» disse agli altri. Indicò la strada, entrò anche lei e fece richiudere la porta, rimanendo in ascolto fino a che non sentì l'ultimo scatto. Poi si voltò per studiare la situazione. Tutti e sei riuscirono a rannicchiarsi su un piccolo pianerottolo all'interno di un tunnel rozzo, scavato nella pietra viva. Dopo il pianerottolo il passaggio scendeva in modo piuttosto ripido. Se non fosse stato così stretto, probabilmente sarebbe stato impossibile scendere senza cadere; visto come stavano le cose, furono in grado di controllare la loro discesa reggendosi con le mani alle pareti. Austra passò la lanterna a Catio, e Anne guidò il gruppo, con la luce che veniva da dietro di lei, proiettandone l'ombra in quello strano labirinto. L'aria era impregnata di un odore di bruciato, ma non calda; anzi, dava i brividi. «È laggiù» mormorò. «Cosa vuole da te?» domandò Austra. «Non ne ho idea,» rispose «ma a quanto pare presto lo scopriremo.» «E se facesse tutto parte della trappola di Robert?» chiese Austra. «Se fosse stato proprio lui a mandarti quella visione? Potrebbe essere capace di farlo.» «Potrebbe» ammise Anne. «Ma non credo che riuscirebbe a ingannarmi riguardo a lui. E Robert è dietro di noi. Io sento il Prigioniero davanti.» «Ma uno Skasloi...» «Virgenya Dare lo ha fatto nostro schiavo» disse Anne fermamente. «Io sono la regina legittima, perciò lui adesso è mio schiavo. Non aver paura di lui. Fidati di me.» «Sì» rispose Austra debolmente. Poi continuò. «Ricordi come giocavamo nell'horz?» «Me lo ricordo» replicò Anne. Cercò dietro di sé la mano di Austra. «Sta succedendo tutto per quel motivo, in qualche modo. Perché abbiamo trovato la tomba.»
«La tomba di Virgenya Dare?» «Mi sono sbagliata su questo» disse Anne. «Sbagliata? Tu?» «Succede» rispose Anne ironica. «Bene, adesso, sei pronta a incontrare un vero Scaos, vivo?» «Sì.» Ma non ne sembrava tanto sicura. «Allora andiamo. Catio, state bene là dietro? E gli altri?» «Sì» rispose Catio e i compagni ripeterono lo stesso. «Ma di chi, per Ontro, state parlando? E come siamo finiti in questo maledetto tunnel?» «Cosa?» domandò Anne. «Ho detto: 'Come siamo finiti in questo tunnel?'» «Penso che abbia capito dove siamo e sta cominciando a ricordarselo» disse Austra. «Cosa intendete per ricordarselo?» domandò Catio irritato. «Io non sono mai stato qui prima d'ora. Non mi ricordo nemmeno come sono finito qui.» «Questo posto deve essere più antico dell'incantesimo» spiegò Anne. «È probabilmente è un bene.» «Incantesimo?» brontolò Catio. «Quale incantesimo? L'ultima cosa che mi ricordo è la casa sefry. Qualcuno mi ha fatto un incantesimo?» «Lo stesso vale per me!» esclamò uno degli uomini di Leafton, Cuelm MeqVorst. «Sì» rispose Anne. «Vi è stato fatto un incantesimo, ma ora è finito e non c'è tempo di scendere nei dettagli. Siamo inseguiti dall'usurpatore e dai suoi uomini.» «Allora battiamoci» fece Catio. «No, sono in troppi» rispose Anne. «Ma quelli di voi che sono nella retroguardia devono tenere gli occhi aperti. Se per caso trovano il modo per entrare qui dentro, allora dovremo combattere.» «Possono affrontarci solo uno alla volta» fece notare Catio. «Vero» rispose Anne. «Probabilmente sareste in grado di tenerli lontani abbastanza a lungo da farci morire di sete.» «E allora cosa facciamo?» volle sapere MeqVorst. La voce mostrò i segni del panico. «Seguitemi» disse lei fermamente. «Forse sentirete o vedrete strane cose, ma a meno che non si verifichi un attacco da dietro, tenete a bada le vostre mani fino a che non vi dico di fare diversamente. Avete capito tutti?» «Non completamente» rispose Catio e gli altri tre uomini mormorano in
accordo con lui. «Dove stiamo andando?» «Seguiamo l'unica direzione che ci resta. Scendiamo.» L'odore di bruciato si fece più forte, a tratti soffocante, e insieme a questo ad Anne parve di sentire l'acre fetore della paura provenire da quelli dietro di lei. «Ora lo sento» esclamò Austra. «Santi, è nella mia testa.» «Non possiamo andare avanti» protestò spaventato MeqVorst. «Posso combattere contro degli uomini, ma non ho intenzione di diventare carne per qualche enorme ragno sanguinario.» «Non è un ragno» disse Anne, chiedendosi mentre lo diceva se fosse la verità. Dopo tutto nessuno sapeva come erano fatti gli Skasloi, almeno lei non ne aveva mai sentito parlare né letto. Erano conosciuti come demoni d'ombra le cui vere forme erano nascoste dalle tenebre. «State calmi, tutti» disse. «Non può farvi del male finché siete con me.» «Io... sembra... la voce...» La voce del guerriero venne meno e ad Anne parve di sentirlo piangere. I sussurri si fecero più intensi, ma continuavano a essere incomprensibili fino a che non arrivarono di nuovo su un tratto di terreno pianeggiante. Allora sembrarono interrompersi quando loro s'imbatterono ancora una volta in un muro cieco. Di nuovo Anne capì dove si trovava l'entrata nascosta. Trovò il gancio e contemporaneamente avvertì uno strano formicolio. La parete davanti a loro si spalancò silenziosamente e la luce della lampada dal tunnel si riversò in una stanza circolare e bassa. Qualcosa si mosse davanti a questa nuova luce, qualcosa di sbagliato, e lei soffocò un grido. Austra però non ci riuscì e il suo urlo echeggiò negli abissi vuoti. Anne rimase ferma, impietrita, col cuore che palpitava e la vista che si annebbiava. Fu solo dopo alcune lente, assordanti pulsazioni del suo cuore che capì che stava guardando non un mostro ma una donna e un uomo. Quest'ultimo era orribilmente sfigurato; il viso era stato squarciato, bruciato e chissà cos'altro. Stracci sudici coprivano poche parti del suo corpo. Il volto della donna era sporco e insanguinato. Indossava abiti da uomo di un colore scuro. Con suo stupore, Anne la riconobbe. «Lady Berrye?» «Chi è là?» domandò lentamente Lady Berrye. Sembrava ubriaca. «Siete
vera?» «Sì.» Lady Berrye esplose in una risata e strinse la spalla dell'uomo. «Dice di essere vera» gli riferì. «Tutte le cose dicono di essere vere» replicò roco l'uomo con uno strano accento. «Ma questo è quello che noi diciamo a noi stessi, mentre camminiamo tra le tombe, no?» «Voi eravate l'amante di mio padre» disse Anne. «Siete poco più grande di me.» «Vedete?» disse Lady Berrye. «È Anne Dare, la figlia più piccola di William.» «Sì» replicò Anne, leggermente contrariata. «Sono io.» Lady Berrye si accigliò a quella risposta e si tirò in piedi, barcollando. La sua espressione si fece trepidante. «Vi prego» sussurrò. «Non posso, non un'altra volta.» Si avvicinò e Anne vide quanto era magra. Era sempre sembrata allegra, una donna in procinto di lasciare l'adolescenza, con le guance rosse e lisce. Ora la pelle aderiva al teschio e gli occhi azzurri e lucenti sembravano neri e febbricitanti. Allungò una mano tremante verso Anne. Le dita erano sporche e piene di ferite. Anche l'uomo si stava tirando in piedi, borbottando in una lingua che Anne non conosceva. Nell'istante in cui le dita di Berrye sfiorarono il viso di Anne, la donna se le portò subito alla bocca, come se gliele avesse ustionate. «Santi» esclamò. «È vera. O più vera degli altri...» Anne le afferrò la mano. «Sono vera» confermò. «E qui vedete la mia damigella, Austra. Anche questi altri sono al mio servizio. Lady Berrye, come siete arrivata qui?» «C'è voluto così tanto.» Alis chiuse gli occhi. «Il mio amico ha bisogno d'acqua» disse. «Ne avete?» «Tutti e due ne avete bisogno» la corresse Anne con un tono che sembrava di scuse. «Da quanto siete qua sotto?» «Non lo so» rispose lady Berrye. «Ma credo che posso riuscire a calcolarlo. Credo che fosse il terzo giorno di Prismen.» «Venti giorni allora.» Catio le passò la sua borraccia e lei la porse a Berrye. Alis subito la porse all'uomo coperto di cicatrici. «Bevete piano» disse. «Con attenzione, altrimenti non riuscirete a tratte-
nerla.» Lui bevve qualche sorso e poi un attacco di tosse sconquassò il suo corpo, facendolo cadere. Berrye ne prese un po', quindi s'inginocchiò per darne dell'altra a lui. Mentre era così impegnata, cominciò a parlare, sempre mantenendo lo sguardo fisso sull'uomo. «Io sono al servizio di vostra madre» iniziò. «Ne dubito molto» replicò Anne. «Sono stata educata in un coven, Vostra Maestà. Non il coven di santa Cer, ma sono comunque una sorella. Il mio compito era essere l'amante di vostro padre. Ma dopo la sua morte, ho cercato vostra madre.» «Perché?» «Avevamo bisogno l'una dell'altra. So che è difficile per voi crederlo, ma l'ho servita come meglio ho potuto. Sono scesa nelle prigioni per liberare un uomo di nome Leovigild Ackenzal.» «Il compositore. Ho sentito parlare di lui.» Anne diede un'occhiata all'uomo mutilato. «È questo...» «No» rispose Lady Berrye. «Ackenzal non è voluto venire con me. Robert ha preso in ostaggio delle persone a cui lui tiene molto e il compositore si è rifiutato di rischiare che facessero loro del male per colpa della sua liberazione. No, questo è, per quello che posso dire, il principe Cheiso di Safnia.» Anne rimase senza fiato, come se l'avessero schiaffeggiata. «Il fidanzato di Lesbeth?» Non appena ebbe pronunciato il nome della zia, l'uomo iniziò a gemere e poi a piangere senza freno. «Sst» fece Lady Berrye, accarezzandogli il capo. «Questa è sua nipote. È Anne.» Il viso devastato si sollevò verso di lei e per un istante Anne rivide il bell'uomo che una volta era stato. Gli occhi erano scuri e mondi di sofferenza si riversavano dal loro interno. «Il mio amore» disse. «Il mio amore eterno.» «Robert lo accusò di aver rapito Lesbeth e di averla consegnata al nemico. Pensavo che fosse stato condannato a morte e ucciso. L'ho incontrato mentre cercavo una via d'uscita dopo aver scoperto che Robert aveva sigillato gran parte dei passaggi.» Tutt'a un tratto sembrò come impazzita. «Vostro zio, sapete...» «Non è umano. Lo so.» «Gli avete tolto il trono? Il suo regno è finito?»
«No. Ci sta cercando ancora adesso. Questo era l'unico tunnel che non aveva bloccato.» «Lo so. Speravo di trovare una via d'uscita nel labirinto che gira intorno al Prigioniero. Invece ci ha intrappolato qui.» «Avete incontrato il Prigioniero?» «No. Vostra madre una volta è venuta a parlargli e io ero con lei. Ma Robert possiede l'unica chiave di cui sono a conoscenza. Non siamo riuscite a entrare.» «Allora non possiamo neanche stavolta.» Lady Berrye scosse il capo. «Non capite. La chiave apre l'entrata principale e vi porta nell'anticamera fuori della sua cella. Fuori, capite? Così lui sta rinchiuso tra pareti di antica magia. Così può essere controllato. Anne, noi siamo nella sua cella.» Proprio mentre lo diceva, le pareti parvero muoversi come enormi spire e Austra spense la lampada, facendoli piombare tutti in una profonda oscurità. «Che succede?» Anne gridò. «Austra!» «Me l'ha detto lui... non sono stata io... non ho potuto...» Ma poi tornò la voce, non era più un bisbiglio ora, ma capace di provocarle brividi attraverso la pietra e direttamente nelle ossa. «Vostra Maestà» disse con tono canzonatorio. Anne sentì l'alito acre sul suo viso e le tenebre cominciarono a ruotare piano, ma in modo terribile. 7 Triey Leoff sorrise alla piccola fioritura di note che Mery aggiunse al Triey per san Reusmier solitamente posato e malinconico. Aveva il permesso di farlo, la forma del triey incoraggiava improvvisazioni, ma laddove la maggior parte dei musicisti avrebbe aggiunto una nota o due aggraziate e tristi, Mery propose invece una ripetizione malinconica ma essenzialmente gioiosa di un tema suonato in precedenza. Visto che il pezzo era una meditazione sulla memoria e l'oblio, la scelta risultò perfetta sebbene originale. Quando ebbe finito, sollevò lo sguardo su di lui, come sempre, in attesa della sua approvazione. «Brava, Mery» disse. «Mi stupisce come una della vostra età possa
comprendere così bene questa composizione.» «Che intendete dire?» domandò lei, grattandosi un lato del naso. «Parla di un vecchio che ripensa alla sua gioventù,» spiegò Leoff «che ricorda i tempi passati, ma spesso in modo impreciso.» «È per questo che il tema si spezzetta?» domandò la piccola. «Sì e non si ricompone mai del tutto, vero? L'orecchio non è mai completamente soddisfatto.» «Ecco perché mi piace» rispose Mery. «Non è troppo semplice.» Sfogliò gli spartiti sul leggio. «Cos'è questo?» domandò. «Potrebbe essere il secondo atto di Maersca» rispose lui. «Fatemi vedere.» Improvvisamente sentì il suo cuore fondersi come piombo. «Avanti» disse, cercando di sembrare tranquillo. «Datemelo.» «Cos'è?» domandò Mery, guardando velocemente la pagina. «Non capisco. Sono quasi solamente cambi di accordi. Dov'è la melodia?» «Quella non è roba per voi» disse Leoff con molta più veemenza di quella che avrebbe voluto usare. «Mi spiace» disse Mery incurvando le spalle. Lui si rese conto di avere l'affanno. Non l'avevo messo via? «Non vi dispiacete. Non è colpa vostra, Mery» disse. «Non l'avrei dovuto lasciare in vista. È una cosa che ho cominciato, ma non ho intenzione di terminare. Non pensateci più.» La ragazza impallidì. «Mery» fece lui. «Vi sentite bene?» Lei lo guardò attentamente con gli occhi spalancati. «È malata» disse. «Quella musica...» Leoff s'inginocchiò e con la sua mano storpia prese goffamente quella di lei. «Non ci pensate, allora» disse. «Non provate a sentirla nella vostra testa o vi farà stare male. Avete capito?» Mery annuì, ma con le lacrime agli occhi. «Perché scrivete cose del genere?» domandò in tono lamentoso. «Perché credevo di doverlo fare» replicò lui. «Ma ora penso che forse non è così. Davvero non posso spiegarvi altro. Lo capite?» Lei annuì un'altra volta. «Ora, perché non suoniamo qualcosa di più allegro?» «Vorrei che poteste suonare insieme a me.» «Be',» fece lui «posso ancora cantare. La mia voce non è mai stata nien-
te di straordinario, ma so tenere una nota.» Mery batté le mani. «Allora cosa facciamo?» Lui cercò tra gli spartiti sulla sua scrivania. «Ecco qua» disse. «È presa dal secondo atto di Maersca. È una specie di interludio, è una storia comica secondaria rispetto alla trama principale. Il cantante qui è Droep, un giovane che progetta di, ehm, fare visita a una ragazza nella notte.» «Come faceva mia madre col re?» «Mmh, be', non saprei, Mery» temporeggiò Leoff. «A ogni modo è notte e Droep è sotto la finestra di lei, e finge di essere un principe venuto dal mare, da una terra molto lontana. Le dice di parlare con i pesci nel mare e le spiega come gli siano arrivate voci sulla sua bellezza da sotto le onde e attraversando tutto il mondo.» «Capisco» disse Mery. «L'abramide lo dice al granchio e il granchio al tonno.» «Esattamente. E ognuno ha un suo tema particolare.» «Fino a che non arriviamo al delfino che lo dice al principe.» «Esattamente. Quindi la donna gli chiede di descriversi e lui le dice che è il più biondo di quelli che vivono nel suo paese, e in un certo senso è la verità, perché il paese se l'è inventato.» «No» disse Mery. «Rimane sempre una bugia.» «Ma divertente, credo» rispose Leoff. «La melodia lo è.» «Ah, siamo già critici» commentò Leoff. «Ma per andare avanti, lei chiede di poterlo vedere, ma Droep giura che solo per una magia è riuscito ad andare lì, e se la donna vede il suo viso, sarà costretto a tornare a casa, per non ricomparire mai più. Ma se lei giace con lui per tre notti senza vedere il suo viso, l'incantesimo si romperà.» «Ma allora lei capirà che le ha mentito» disse Mery, perplessa. «Sì, ma l'uomo crede che a quel punto almeno sarà riuscito a, be', ehm, darle un bacio.» «Quante storie per un bacio» disse Mery, sospettosa. «Sì,» ammise Leoff «è vero. Ma è così che vanno le cose tra i ragazzi della sua età. Aspettate di diventare un po' più grande e potrete constatare quanto si daranno da fare i ragazzi per attirare la vostra attenzione. Comunque vi suggerisco, se qualcuno dovesse mai dichiarare di venire da una terra lontana, uno di cui non avete mai sentito parlare...» «Dovrei insistere per vedere il suo viso» ridacchiò Mery.
«Esattamente. Allora, siete pronta a suonare?» «Chi canterà la parte della donna?» «Potete farlo voi?» «È troppo bassa per me.» «Be', allora» disse Leoff «canterò in falsetto.» «E il duetto?» «Improvviserò» rispose lui. «Allora, salteremo la parte in cui lui si presenta e andremo dritti alla canzone.» «Molto bene» rispose Mery. Mise le dita sui tasti e cominciò. Sotto l'influenza della ragazza, l'accompagnamento risuonò ancora più arrogante di quanto lui avesse immaginato. Si schiarì la voce mentre si avvicinava la sua battuta d'entrata. Mi è giunta voce dal mare dagli abitanti del mare per leghe e leghe la notizia è riuscita a viaggiare di una bellezza tale in un paese tanto lontano che io, principe di Ferroware, ho deciso di correre ad ammirare Nuotavate nei pressi della diga ammirata da un abramide che ne parlò al suo amico granchio che per caso di là passava e il granchio al vecchio tonno che a una razza o dieci lo raccontava sicché io, principe di Ferroware, per il vostro cuore perdo il sonno... Per la prima volta dopo tanto a Leoff capitò di essere felice. E soprattutto, ottimista. Le paure dei mesi passati sparirono ed ebbe la sensazione che le cose belle potessero tornare a succedere. Si rese conto di credere nella promessa di fuga di lady Gramme, ci aveva creduto dal primo momento che lei gliel'aveva fatta. Ma in un certo senso, adesso non gl'importava. «Be', come siamo allegri!» li interruppe una voce di donna. Lui trasalì.
Areana era in piedi sulla soglia della porta e li guardava. Non gli parlava dalla mattina in cui lo aveva trovato in compagnia di Ambria. «Areana!» esclamò Mery. «Non vi unite a noi? Ci serve proprio qualcuno che canti la parte di Taleath!» «Davvero?» disse lei in tono scettico, lo sguardo fisso su Leoff. «Per favore» fece lui. Areana rimase lì. «Andiamo» la pregò Leoff. «Dovete averci sentito. So che volete cantare.» «Ah sì?» domandò lei freddamente. «Io voglio che cantiate» rispose il compositore. «Posso ricominciare» disse Mery. Areana sospirò. «Va bene, ricominciate.» Mery si sentì stanca dopo un'oretta e andò a riposare. Leoff temette che anche Areana se ne sarebbe andata, ma invece lei si diresse verso la finestra. Dopo un attimo di esitazione, Leoff la raggiunse. «Sta succedendo qualcosa alle mura principali, credo» disse. «A Fortezza-di-Spine. Sono giorni che si vede fumo.» Lei annuì ma non sembrava guardare né le mura, né nient'altro. «Credo che siate stata bravissima a cantare la parte di Taleath,» provò di nuovo «anche se non è quella che ho scritto per voi.» «Non voglio nessuna parte in questa buffonata» rispose Areana secca. «Non partecipo.» Lui abbassò la voce. «Ci sto lavorando solo per impedire a Robert di fare del male a voi o a Mery» disse lui. «Non ho intenzione di mandarla in scena.» «Davvero?» Lo sguardo di lei incontrò il suo e si addolcì un po'. Il compositore annuì. «Davvero. Sto lavorando a qualcosa di completamente diverso.» «Bene» disse Areana, tornando a guardare fuori. Lui fece di tutto per trovare un modo di continuare quella conversazione, ma nessuna parola accettabile si presentò alla sua lingua. «Mi avete fatto fare la figura della sciocca, sapete?» disse lei, con voce piatta. «Davvero.» «Non volevo.» «Questo peggiora la cosa. Perché non mi avete detto di voi e lady Gramme? Credo che avrei dovuto immaginarlo. Lei era la vostra patrona
ed è bella ed esperta, e voi andate molto d'accordo con Mery.» «No» disse Leoff. «Io... non c'era niente da dire prima dell'altra notte. Lei è venuta... io non ero preparato...» Areana scoppiò a ridere, ma con rancore. «Oh, già, neanch'io. E non bisogna nascondere che io avevo avuto la stessa idea. Pensavo di alleviare la vostra pena e...» Cominciò a piangere e singhiozzare. «Areana!» «Io ero vergine, sapete? Non una cosa tanto frequente a Eslen, ma fuori tra i poel, è ancora una cosa da...» Agitò le mani confusa. «Comunque sia, non lo sono più. Ma ho pensato che se fossi stata con qualcuno gentile e carino, qualcuno che non avrebbe provato a farmi male, sarei riuscita a lavare via quello che....» Poggiò il braccio sul davanzale della finestra e ci seppellì il viso. Lui la guardò impotente, poi allungò una mano e le carezzò i capelli. «Vorrei che non fosse successo» disse. «Non ho mai desiderato ferirvi.» «Lo so» rispose Areana tra i singhiozzi. «E mi aspettavo troppo. Chi mi toccherà più adesso?» «Io lo sto facendo» replicò lui. «Avanti, guardatemi.» Lei sollevò il viso bagnato dalle lacrime. «Penso che avevate ragione» ammise Leoff «riguardo a quello che sento per voi. Ma c'è una cosa che dovete capire. Con quello che mi hanno fatto nelle prigioni, mi hanno cambiato. Non parlo solo del corpo e delle mani; mi hanno cambiato dentro. Sono sicuro che sapete di cosa sto parlando. Per tantissimo tempo, davvero tanto, non ho fatto che vedere un'unica fine a tutto questo: la vendetta. È tutto quello a cui ho pensato veramente. Tutto quello che ho progettato. Quando ero in prigione ho incontrato un uomo; be', diciamo che ho sentito la sua voce. Abbiamo parlato. Mi ha detto che in Safnia, il posto da cui proviene, la vendetta è considerata un'arte, una cosa che va cotta bene e insaporita. Devo dire che per me ha acquistato un senso l'idea di far pagare a Robert tutte le cose che ha fatto. L'altra musica che sto scrivendo: quella è la mia vendetta.» «Che intendete dire?» Lui chiuse gli occhi, sapendo che non doveva dirglielo ma spingendosi avanti comunque. «Esistono più di otto modi» disse piano. «Ce ne sono altri talmente proibiti che se ne parla solo bisbigliando, anche nelle accademie. Avete visto, avete sentito, l'effetto della musica quando è composta come si deve. Non solo siamo stati capaci di creare e controllare un'emozione, ma abbiamo
reso anche letteralmente impossibile a chiunque interromperci fino a che non abbiamo finito. «Questo è stato possibile usando quasi tutti i modi che conosciamo, ma ciò che ha reso quell'opera tanto potente è stata la riscoperta da parte mia, o meglio da parte di Mery, di un modo antichissimo e proibito. E ora ne ho trovato un altro, uno che non viene usato dai tempi del Giullare Nero.» «Cosa è in grado di fare?» «Molte cose. Ma un pezzo ben strutturato, una volta rappresentato potrebbe uccidere chiunque lo ascoltasse.» Areana si accigliò e lo scrutò con uno sguardo tale che Leoff capì che stava cercando tracce di pazzia. «È tutto vero?» domandò infine la donna. «Non l'ho provato, ovviamente, ma sì, credo di sì.» «Se non fossi stata lì, se non avessi preso parte alla musica nel Bosco delle Candele, non credo che riuscirei a credervi adesso» disse lei. «Ma visto come stanno le cose, penso che se davvero lo voleste, sareste in grado di fare qualunque cosa. Allora è a questo che state lavorando?» «Sì. All'uccisione del principe Robert.» «Ma è...» Gli occhi di lei si strinsero. «Ma voi non potete suonare.» «Lo so. Questo è stato un problema finora. Ma Robert sa suonare. Ho pensato che se riuscissi a mantenere abbastanza semplice la meccanica della composizione, potrebbe suonarla proprio lui.» «Ma è molto più probabile che lo faccia Mery.» «In quel caso avevo pensato di tapparle le orecchie con la cera» spiegò Leoff. «Capite? Io sono d'accordo con voi, lo sono sempre stato. Credo che il suo piano sia ucciderci tutti e tre. Speravo di dare a voi due una possibilità, ma se non ci riuscissi...» «Porterete lui con noi.» «Sì.» «Ma cosa è cambiato poi?» «Ho smesso di lavorarci» disse. «Non la finirò.» «Perché?» «Perché ora ho una speranza» disse. «E anche se questa dovesse fallire...» «Speranza?» «Di qualcosa migliore della vendetta.» «Cosa? Una fuga?» «Esiste una possibilità» disse lui. «Una possibilità di sopravvivere a
questo e di continuare a vivere in circostanze migliori. Ma se non ci riusciamo...» Poggiò la mano deturpata sulla spalla di lei. «Per creare questa musica, questa musica di morte, devo abbandonarmi alla parte più oscura di me. Non posso permettermi di provare gioia, speranza o amore, altrimenti non riuscirò a scriverla. «Eppure oggi ho capito che preferirei morire essendo ancora capace di amare piuttosto che ottenere la mia vendetta. Preferirei esser capace di dire a Mery che le voglio bene piuttosto che uccidere tutti i principi malvagi del mondo. E preferirei toccarvi con tutta la dolcezza di cui sono capace, con queste cose che usavo chiamare mani, piuttosto che portare in vita una musica così orribile. Ha un senso questo per voi? Significa qualcosa?» Ora stavano entrambi piangendo, in silenzio. «Ha un senso» rispose lei. «Più di qualunque altra cosa che ho sentito o pensato ultimamente. Fa di voi l'uomo di cui mi sono innamorata.» Prese la mano di Leoff e la baciò dolcemente, una, due, tre volte. «Siamo stati entrambi feriti» disse poi. «E ho paura. Molta paura. Voi dite che forse possiamo scappare...» «Sì» cominciò lui, ma Areana gli poggiò un dito sulle labbra. «No» disse. «Se succede, succede. Non voglio sapere altro. Se mi dovessero torturare, confesserei. Ora so che lo farei. Non sono l'eroina coraggiosa di una storia fantastica.» «E io non sono un cavaliere» disse Leoff. «Ma esistono molti modi d'essere coraggiosi.» Lei annuì, avvicinandosi. «Non importa quanto tempo abbiamo» disse. «Sarei felice di aiutarvi a guarire. E vorrei che voi aiutaste me.» Leoff si sporse in avanti e poggiò le labbra su quelle di lei e per un lungo istante rimasero immobili in quel semplicissimo bacio. Areana raggiunse le stecche del suo busto. Lui la fermò. «La guarigione si raggiunge lentamente» disse con dolcezza. «Un po' alla volta.» «Potremmo non avere molto tempo» fece notare lei. «Quello che vi è stato fatto, non dovrebbe succedere a nessuno» disse Leoff. «E superarlo può essere più difficile di quanto credete. Mi piacerebbe fare l'amore con voi, Areana, ma solo se dovesse essere la prima di molte altre volte, una di tutte le altre cose che un uomo e una donna possono fare insieme, essere insieme. Se ci proviamo adesso e la cosa non va, ho paura delle conseguenze. Perciò, per ora, continuiamo a credere che vivremo e diamoci tempo.»
Lei spinse la testa sulla spalla di lui e lo abbracciò e insieme guardarono il tramonto. «Dovete tornare nella vostra stanza» le disse Leoff qualche ora dopo. Stavano distesi sul suo letto, in silenzio, la testa di lei sul torace di lui. «Vorrei restare qua» rispose Areana. «Non potremmo dormire, dormire davvero? Voglio risvegliarmi insieme a voi.» Lui scosse il capo riluttante. «Stanotte è la notte fissata» disse. «Qualcuno verrà nella vostra stanza. Non so cosa accadrà se non siete lì. Meglio che ci atteniamo al piano.» «Siete serio? Credete davvero che potremmo fuggire stanotte?» «Non volevo crederci all'inizio, ma sì, credo che la possibilità sia concreta.» «Molto bene» disse lei, sciogliendosi dall'abbraccio, alzandosi in piedi e mettendosi a posto il vestito. Poi si chinò e gli diede un lungo, interminabile bacio. «Arrivederci» disse. «Sì» riuscì a rispondere Leoff. Dopo che la ragazza se ne fu andata, lui non si addormentò, ma rimase sveglio fino a che non capì che il rintocco di mezzanotte stava per suonare. Allora si mise addosso un farsetto e calzamaglia neri e una tunica calda. Impacchettò la sua musica e proprio quando la campana cominciò a suonare, uscì con passo felpato dalla stanza e scese le scale. Nonostante la cautela, non incontrò guardie da cui nascondersi. I corridoi erano vuoti, scuri e silenziosi fatta eccezione per la candela che portava lui. Quando entrò nel lungo corridoio che portava all'entrata, vide una luce davanti a sé, minuscola come la sua. Man mano che si avvicinava riuscì a distinguere un abito rosso scuro e aumentò l'andatura, col cuore che batteva forte, come un ensemble sfuggita al tempo del suo direttore. Arrivato alla porta, si fermò, confuso. Ambria stava seduta su una sedia e lo aspettava. Non era lei che teneva la candela; questa brillava in un piccolo riparo su un tavolo vicino alla sedia. Il mento di lady Gramme poggiava sul petto e gli sembrò strano che si fosse addormentata in un momento di così grande tensione. Ma non stava dormendo, ovviamente. Ogni piega del suo corpo sembrava in qualche modo sbagliata e quando lui si avvicinò abbastanza da riuscire a vedere la faccia, questa si rivelò livida e gonfia e gli occhi parevano troppo grandi.
«Ambria!» esclamò e si piegò su un ginocchio. Le prese la mano e la trovò fredda. «Leovigild Ackenzal, presumo» disse qualcuno molto vicino. Leoff fu orgoglioso di sé; non gridò. Si tirò su, sollevando il mento, deciso a essere coraggioso. «Sì» bisbigliò. Un uomo uscì dall'ombra. Era corpulento, con una barba grigia che copriva mezzo volto e mani grandi come prosciutti. «Chi siete?» domandò Leoff. L'uomo sfoggiò un piccolo, orribile ghigno, che suscitò un brivido profondo nel compositore. «Potete chiamarmi santa Tetra» disse. «Oppure Morte. Per adesso, consideratevi semplicemente avvisato.» «Non serviva ucciderla.» «Non serve fare niente in questa vita, se non morire» rispose l'altro. «Ma io lavoro per Sua Maestà, e questo è ciò che mi ha chiesto di fare.» «Sapeva tutto.» «Sua Maestà è molto impegnato. Non ho parlato con lui ultimamente. Ma lo conosco e questo è ciò che avrebbe voluto. Lady Gramme non era a conoscenza della mia presenza, sapete? Non figuravo nei suoi piani.» Si avvicinò ulteriormente. «Ma voi sapete di me» aggiunse piano. «E credo che dobbiate sapere anche che non posso essere corrotto o comprato come altri qui dentro. Ora Sua Maestà sa chi sono i suoi veri amici, o lo saprà quando tornerà e li troverà ancora vivi. Per quanto riguarda voi, vi chiederò di scegliere.» «No» disse Leoff. «Oh, sì» rispose l'uomo. Fece un cenno verso il cadavere di Ambria. «Questo è il prezzo che lei paga per il suo piccolo tentativo. Il vostro consiste nella scelta di chi sarà la prossima: la piccola mocciosa di Gramme o la figlia dei custodi terrieri.» Sorrise e scompigliò i capelli di Leoff. «Non preoccupatevi. Non vi sto chiedendo di prendere una decisione avventata. Vi do fino a domani a mezzogiorno. Salirò io nella vostra stanza.» «Non fatelo» disse piano Leoff. «È un'indecenza.» «Il mondo è indecente» rispose l'assassino. «Di sicuro ormai dovreste averlo capito.» Indicò col mento. «Andate.» «Per favore.» «Andate.» Leoff tornò nella sua stanza. Diede un'occhiata al Ietto dove Ambria a-
veva dormito, ricordando il suo tocco. Andò alla finestra e guardò fuori nella notte senza luna, facendo dei respiri lunghi e profondi. Poi accese le candele, tirò fuori la musica incompleta, la penna e l'inchiostro e cominciò a scrivere. 8 La battaglia della corte Non era un torneo, non ci si poteva girare astutamente all'ultimo momento per deviare il colpo. Non con i cavalli che galoppavano fianco a fianco, non quando ogni minima deviazione della lancia da parte di uno scudo rischiava di farla conficcare in un compagno di battaglia a sinistra o a destra. Si poteva provare a schivare il colpo verso l'alto inclinando lo scudo all'ultimo momento, ma allora si sarebbe perso di vista il bersaglio. No, questo era più simile a uno scontro tra galere di guerra, a piena velocità, prua contro prua. Ciò che rimaneva era indietreggiare o non indietreggiare. Neil non lo fece; affrontò l'assalto della punta assassina al centro dello scudo, buttando fuori il respiro per evitare che glielo tirasse fuori qualcun altro. Il suo nemico, per contrasto, si spaventò e spostò lo scudo, e la lancia di Neil colpì il bordo curvo. Appena la violenta vibrazione del colpo lo attraversò, Neil osservò la sua arma che deviava e piegava verso destra, colpendo il nemico alla gola, fracassandogli il collo tra fiotti di sangue e scagliandolo nella fila successiva. L'asta spezzata dell'altra lancia colpì l'elmo di Neil, facendogli fare mezzo giro col capo, e poi arrivò il vero e proprio scossone, quando tutti i cavalli, le bardature, le armature, gli scudi e gli uomini sbatterono gli uni contro gli altri. Caddero cavalli, nitrendo e scalciando. Il suo destriero, un castrato di nome Winlauf, vacillò, ma non cadde, soprattutto per la pressione che li circondava. Neil cercò di afferrare la spada che Artwair gli aveva dato, un'arma forte e solida che lui aveva chiamato Quichet, o Cane-da-Guerra, come la spada di suo padre. Ma prima di riuscirci, la testa della lancia di un nemico nella seconda fila dei difensori di Fortezza-di-Spine fece penetrare la punta assetata di morte nello scudo e nella giuntura della spalla della sua armatura prima che l'asta si spezzasse.
Gli sembrò di essere caduto nudo e aver crepato la superficie ghiacciata di un laghetto nel cuore dell'inverno; Cane-da-Guerra gli saltò in mano e sembrò sollevarsi di propria iniziativa. Il cavallo dell'uomo che lo aveva colpito stava inciampando su quello del primo nemico che aveva affrontato e che era caduto nell'urto. Il cavaliere, che ancora teneva in mano l'asta spezzata della lancia, si stava liberando dalle staffe, lanciandosi come un giavellotto contro Neil. Cane-da-Guerra preparò il braccio di Neil e lo bloccò, cosicché l'uomo in volo si ritrovò la punta mortale dell'arma nella gorgiera. L'impatto sbatté indietro Neil, che perse l'appoggio delle staffe e volò giù dal suo cavallo, finendo tra gli zoccoli della linea successiva. Poi ci fu sangue e rumore e il suo corpo venne assalito dal dolore. Rialzarsi era un'oscura agonia e non si rese conto di quanto gli ci volle per farlo. Quando ci riuscì, trovò la strada in salita piena di cadaveri e cavalli, ma i suoi uomini si stavano ancora spingendo avanti. Davanti a lui, fiamme e pietre e morte piumata affliggevano il campo di battaglia, ma la loro carica stava avanzando lo stesso. Urlando, si sollevò sulla punta dei piedi. Winlauf stava morendo, e solo pochi uomini da una parte e dall'altra erano ancora a cavallo. Questo era il momento; se fossero stati respinti adesso, la maggior parte di loro sarebbe morta nel raggio d'azione dei pezzi d'artiglieria. Così invece erano quasi a portata di freccia e la presenza tra loro degli stessi uomini della difesa impediva al nemico di usare quest'arma. «Una carica sola!» gridò, incapace in verità di sentirsi. Metà del suo corpo sembrava andata, ma non era quella che stava impugnando Cane-daGuerra. Mentre il cielo stesso sembrava prendere fuoco, Neil mise tutto sé stesso nel tentativo di uccidere il nemico. «Cos'era?» domandò Stephen a Zemlé. Lei scosse il capo. «Non lo so. Fantasmi? Streghe?» «Conosci la lingua di quella canzone?» «No. Sembrava vagamente la Lingua Antica. Qualche parola mi suonava familiare.» Stephen colse un luccichio e poi occhi che riflettevano la luce del fuoco. I cani abbaiavano e ululavano come impazziti. Qualunque cosa fossero non erano laniatori, come aveva temuto lui all'i-
nizio. Si stavano avvicinando con troppa cautela. Non poteva essere sicuro, ma a giudicare dal comportamento dei cani, gli intrusi stavano effettivamente circondando il campo. «Chiunque voi siate,» gridò «non vogliamo farvi del male.» «Sono sicura che questo sarà di grande conforto per loro,» disse Zemlé «considerando che sono almeno in dieci e che noi siamo sostanzialmente disarmati.» «Posso essere bravo a intimidire» disse Stephen. «Sì, be', almeno non siete un codardo fanfarone» osservò lei. «Lo sono, a dire il vero» le confidò Stephen, anche se le sue parole gli avevano provocato un bollore improvviso. «Ma dopo un certo punto vieni stordito e rimani così. Non ho più la forza di spaventarmi.» Si accigliò. La canzone era cessata, ma sentì uno scambio di parole e poi i suoni presero improvvisamente ad avere un senso. «Qey thu menndhzi?» gridò. Il silenzio cadde tutt'a un tratto sulla foresta. «Cos'era?» domandò Zemlé. «La lingua che stanno parlando, credo. Un dialetto vadhiano. La lingua di Kauron.» «Stephen!» esclamò Zemlé. I cani si appiattirono a terra continuando a ringhiare, ma stranamente intimoriti. Qualcuno era entrato nella radura. Alla luce del fuoco, Stephen non sapeva dire di che colore fossero gli occhi, ma erano enormi. I capelli erano bianco latte come la carnagione ed era vestito con pantaloni di pelle marrone chiaro. «Sefry» bisbigliò Stephen. «Hadivar» disse Zemlé. «Parlate con parole antiche» disse il Sefry. «Pensiamo che siate la persona che stavamo aspettando.» «Chi siete?» Lo straniero li studiò entrambi per un altro istante o due, poi inclinò la testa. «Mi chiamo Adhrekh» rispose. «Parlate la lingua del re» notò Stephen. «Un po'. È molto che non la uso.» Altri Sefry comparvero vicino al fuoco. Erano tutti armati di spade sottili quasi quanto quella di Catio. La maggior parte aveva anche un arco, e quasi tutte le frecce incoccate sembravano puntate contro di lui.
«Io, ehm, mi chiamo Stephen Darige» rispose. «Questa è sorella Pale.» Non sapeva perché avesse evitato di presentarla col nome più familiare che aveva usato fino a quel momento. Adhrekh mise da parte l'informazione con un cenno della mano. «Il khriim è qui. Voi parlate la lingua degli antichi. Ditemi, come si chiama?» «Come si chiama chi? Intendete dire fratello Kauron? O forse è Choron nella vostra lingua?» Adhrekh sollevò il capo e i suoi occhi brillarono in segno di trionfo. Gli altri sefry tolsero le frecce dall'arco e le riposero nelle faretre. «Bene» rifletté Adhrekh. «Così alla fine siete arrivato.» Stephen non sapeva esattamente cosa rispondere, perciò lasciò stare. «Perché avete abbandonato il villaggio?» domandò Stephen. Adhrekh scrollò le spalle. «Abbiamo giurato di vivere tra i monti per fare la guardia, e così abbiamo fatto. È il nostro modo di vivere.» «Abitate nell'Alq?» domandò Zemlé. «Questo è il nostro privilegio, sì.» «Ed è stato fratello Choron a chiedervi di proteggerlo?» «Fino a che non fosse tornato, sì» rispose Adhrekh. «Fino a questo momento.» «Intendete dire fino al ritorno del suo erede» lo corresse Zemlé. «Come volete» fece Adhrekh. Diresse di nuovo la sua attenzione su Stephen. «Vi va di vedere l'Alq, pathikh?» Stephen fu assalito da un brivido gelido, un misto di eccitazione e paura. 'Pathikh' aveva un significato simile a signore, maestro, principe. Allora Zemlé aveva ragione? Era davvero l'erede di questa antica profezia? «Sì» rispose. «Ma aspettate. Avete detto che il khriim è qui. intendete dire il woorm?» «Sì.» «Lo avete visto?» «Sì.» «Nella valle? Dove?» «No. Una volta che voi l'avete guidato abbastanza vicino, è stato in grado di trovare la strada. Vi sta aspettando nell'Alq.» «Aspetta me?» chiese Stephen. «Forse non capite. È pericoloso. Uccide tutto ciò che tocca, tutto ciò che gli si avvicina.» «Aveva detto che non avrebbe capito» disse un altro Sefry, ma stavolta si trattava di una donna con occhi di un azzurro sorprendente. «Io capisco che se il woorm è nella montagna,» disse Stephen «io non ci
entro.» «No» disse Adhrekh, triste in viso. «Temo che dovrete farlo, pathikh.» «Qexqaneh» esclamò Anne, sperando di ricordare correttamente la pronuncia. La creatura nelle tenebre sembrò fermarsi, poi tornò a spingere contro il suo viso come un cane che strofina il muso contro il suo padrone. Spaventata, lei la colpì con la mano, ma non trovò niente, eppure quella sensazione rimase. «Dolce Anne.» Il Prigioniero la annusò. «Odore di donna, stucchevole odore di donna.» Lei cercò di riprendere il controllo di sé. «Io sono l'erede al trono di Crotheny. Io ti comando per nome, Qexqaneh.» «Ssssì» ronfò il Prigioniero. «Saperre quello che si vuole non è la stessa cosa che averrla. Conosco le vostrre intenzioni. Alis odorre-di-morrte le conosce ancorra meglio. Lo ha appena detto.» «È così?» domandò Anne. «Ah, sì? Io discendo in linea diretta da Virginia Dare. Osate davvero sfidarmi?» Seguì un'altra pausa, durante la quale Anne riacquistò sicurezza, cercando di non pensare troppo a quello che stava facendo. «Sono stato io a chiamarrvi qui» mormorò il Prigioniero. Lei sentì l'immensità della creatura che si contraeva, che si ritirava in sé stessa. «Sì. Mi hai chiamato qui, mi hai messo in testa una mappa perché potessi trovarti, mi hai promesso che mi avresti aiutato contro di lei, il demone della tomba. Allora, cosa vuoi?» Il Prigioniero sembrò ritirarsi ulteriormente, ma lei ebbe l'improvvisa sensazione di un milione di minuscoli ragni annidati dentro il cranio. Fu presa da conati di vomito, ma quando Austra fece per avvicinarsi, l'allontanò. «Cosa stai facendo, Qexqaneh?» domandò. Possiamo parrlare in questo modo e loro non potranno sentirci. Non vuoi che lorro sappiano, no? Molto bene, disse Anne senza parlare. Sentì che aveva ripreso a girare vorticosamente, ma stavolta non era una sensazione spaventosa; sembrava più una danza. Poi, come se stesse aprendo gli occhi, si ritrovò sul fianco di una collina priva di ogni abitazione umana. Il suo corpo era leggero come un pappo di cardo, così inconsistente che il minimo alito di vento poteva portarla via.
Tutt'intorno a lei vide le acque nere, le acque dietro al mondo. Ma stavolta la sua prospettiva sembrava invertita. Anziché percepire le acque che confluivano le une nelle altre, rivoli che davano vita a lingue paludose, lingue che si riversavano in ruscelli, ruscelli in torrenti, torrenti nel fiume, Anne vide il fiume come un'enorme bestia scura con centinaia di dita e ognuna di queste con altre migliaia e ciascuna con altrettante ancora che raggiungevano, curiosavano e si conficcavano in ogni uomo e donna, cavallo e bue, in ogni filo d'erba, facendo il solletico, gesticolando... aspettando. Dentro a ogni cosa tranne che nell'ombra senza contorno che si ergeva davanti a lei. «Che posto è questo?» domandò Anne. «Ynis, la mia carne» rispose lui. Prima ancora di rispondere, Anne capì che era vero. Era Ynis in effetti, la collina stessa su cui poggiava Eslen. Ma non c'era nessun castello, nessuna città, nessuna opera fatta dall'uomo o dai Sefry. Non si vedeva nulla. «E queste acque? Le ho già viste prima d'ora. Cosa sono?» «La vita e la morte. La memoria e l'oblio. Una beve, l'altra restituisce. Orina a sinistra, acqua dolce a destra.» «Vorrei che fossi più chiaro.» «Vorrei di nuovo sentire l'odore della pioggia.» «Sei lui?» domandò. «L'uomo che mi ha assalito nella terra delle Fedi? Eri tu?» «Interessante» Qexqaneh rifletté. «No. Non posso spingermi tanto in là. Non così, piccola cosetta disgustosa.» «Chi era allora?» «Non chi era» rispose Qexqaneh. «Chi potrebbe essere. Chi sarà probabilmente.» «Non capisco.» «Non siete impazzita già, vero?» replicò lui. «Col tempo.» «Non è una risposta.» «Ma va bene per il geos, mucca da latte» rispose. «Allora lei» disse Anne infastidita. «Il demone. Cos'è?» «Ciò che era, ciò che spera di tornare a essere. Alcuni la chiamavano la regina dei demoni.» «Cosa vuole da me?» «È come l'altro» rispose Qexqaneh. «Non è una lei. È un posto su cui sedersi, un cappello da indossare.»
«Un trono.» «Qualunque parola nella vostra orribile lingua andrà bene.» «Vuole che io diventi lei, vero? Vuole entrare nella mia carne. È questo che mi stai dicendo?» L'ombra scoppiò a ridere. «No. Vi offre semplicemente un posto su cui sedervi, il diritto di governare. Può fare del male ai vostri nemici ma non a voi.» «Esistono storie di donne che assumono l'aspetto di altre e rubano la loro vita...» «Storie» la interruppe lui. «Immaginate invece che quelle donne sono finalmente arrivate a capire cosa sono state fino a quel momento. La gente intorno a loro non capiva la verità. Ci sono delle cose dentro di voi, Anne Dare, vero? Cose che nessuno comprende. Che nessuno può comprendere.» «Allora dimmi solo come posso combatterla.» «Il suo vero nome e Illuumhuur. Pronunciatelo e ditele di andarsene.» «È così semplice?» «È semplice? Io non lo so. Non m'importa. Neanche a voi dovrebbe, perché non vivrete mai tanto a lungo perché possa importarvi. I guerrieri di vostro zio bloccano ogni uscita. Voi morirete qui e io posso già sentire il sapore della vostra anima mentre se ne va.» «A meno che...» «A meno che?» ripeté beffardo il Prigioniero. «Non assumete quel tono con me» disse Anne. «Io ho potere, sapete? Ho ucciso. Potrei sempre riuscire a uscire grazie a questo. Forse lei mi aiuterà.» «Potrebbe» disse lui. «Non ho modo di saperlo. Chiamatela col suo vero nome e scopritelo.» Anne emise una risata sarcastica. «La trovo comunque un'idea assolutamente pessima, nonostante la vostra rassicurazione. No, voi stavate per offrirmi un modo per superare le truppe di mio zio. Bene, allora di cosa si tratta?» «Vi stavo semplicemente offrendo il mio aiuto per sconfiggerli» ronfò lui. «Ah. E questo richiederebbe...» «La mia liberazione.» «Perché non ci ho pensato prima?» rifletté Anne. «Liberare l'ultimo supersite della razza dei demoni che ha reso l'umanità schiava per migliaia di
generazioni. Che meravigliosa idea.» «Mi avete tenuto prigioniero troppo a lungo» ringhiò lui. «Il mio tempo è finito. Lasciatemi andare perché possa riunirmi alla mia razza nella morte.» «Se la morte è ciò che vuoi, allora dimmi come ucciderti.» «Non posso essere ucciso. La maledizione mi tiene qui. Fino a che la legge della morte non viene riparata, non posso morire, esattamente come vostro zio. Liberatemi e io riparerò la legge della morte.» «E morirete?» «Giuro che se mi liberate, vi farò uscire da questo posto. Me ne andrò e farò tutto quello che è in mio potere per morire.» Anne ci pensò sopra a lungo. «Non puoi mentirmi.» «Sapete che non posso.» «Supponiamo che io prenda in considerazione quest'ipotesi» disse Anne lentamente. «Come potrei liberarti?» L'ombra sembrò vacillare per un momento. «Poggiate il vostro piede sul mio collo,» disse il Prigioniero in tono aspro «e dite 'Qexqaneh, io ti libero'.» Il cuore di Anne prese a battere più veloce e lo stomaco sembrò riempirsi di calore. «Ora voglio tornare dai miei amici» gli disse. «Come volete.» Dopodiché lei si ritrovò di nuovo nelle tenebre, con la terra che tirava con forza sotto i suoi piedi. Aspar seguì le tracce del woorm su per un pendio di ghiaione, con alberi giovani e rigidi fino a una crepa nella montagna, una strada naturale senza uscita, larga cinquanta iarde all'imboccatura e stretta sul retro dove, dall'alto, si riversava un'imponente cascata. Come era facile prevedere, la cascata aveva scavato una pozzanghera profonda e altrettanto prevedibilmente le tracce della creatura svanivano dentro di essa. Il guardaboschi smontò da cavallo e camminò fino al bordo del laghetto alla ricerca di una traccia della bestia, ma trovò solo la conferma di quello che già sapeva: la bestia adesso era dentro la montagna. Se avesse raggiunto la sua destinazione o stesse di nuovo semplicemente attraversando il monte, lui non poteva saperlo. «Merda» brontolò, sedendosi su un sasso a pensare.
Fend cavalcava ancora il woorm? L'ultima volta che aveva parlato con qualcuno che aveva visto la creatura, gli avevano detto che portava due persone sul dorso. Se era ancora così significava o che il passaggio d'acqua era breve abbastanza da permettere agli uomini di sopravvivere o che i due erano smontati come avevano fatto nella valle dell'Ef. Se così era, stavano da qualche parte ad aspettare che il woorm portasse a termine il compito che aveva lì. La terza possibilità era che Fend e il suo compagno fossero annegati, ma non la credeva molto probabile. Per verificare l'eventualità che fossero smontati, cercò attentamente delle tracce, ma non vide segni di uomini a piedi. Visto che la terra lì era coperta di alti muschi, felci ed equiseto sarebbe stato quasi impossibile non lasciare qualche orma, anche per un Sefry. Il che suggeriva che i cavalca-woorm si erano immersi con la bestia, il che a sua volta implicava che anche lui sarebbe stato in grado di seguirli. La sua convinzione fu rafforzata dalla probabilità che quella fosse un'entrata per un altra rewn halafolk. I Sefry non potevano trattenere il respiro più degli umani, perciò avrebbe dovuto essere in grado di nuotare, così come aveva già fatto a Rewn Aluth. Ovviamente una breve nuotata per la bestia avrebbe potuto rivelarsi lunga per lui. Eppure l'inseguimento sembrava essere adesso la sua unica speranza. Questo significava che ancora una volta lui e Orco dovevano separarsi. Senza perdere tempo, slacciò la sella dallo stallone e la trascinò via con la coperta. Poi rimosse la briglia e la nascose sotto una piccola roccia sporgente. Orco stette a osservarlo tutto il tempo, mostrandosi stranamente attento. Aspar lo guidò di nuovo vicino alla crepa, poi sul lato della montagna opposto al sentiero che si aspettava avrebbero preso Hespero e i suoi uomini. Qui poggiò la fronte sul muso di Orco e diede un colpetto alla guancia pelosa del suo destriero. «Sei stato un buon amico» gli disse. «Mi hai salvato la vita più volte di quante riesco a contarne. Comunque vada a finire, hai fatto tutto quello che potevi. Se non torno, be', credo che saprai prenderti cura di te. Se ce la faccio, troverò un posto tranquillo dove potrai montare e mangiare. Niente più frecce o veleno di greffyn e tutto il resto, d'accordo?» Il baio ormai spogliato dei finimenti agitò il muso, come per scrollarsi di
dosso l'abbraccio di Aspar, ma il guardaboschi lo calmò con qualche altra carezza sulla guancia. «Rimani quassù» gli disse. «Non vorrei che uno degli uomini di Hespero ti cavalcasse. Immagino che tu non lo lasceresti fare e allora probabilmente ti ucciderebbero, perciò pensa solo a riposarti. Potrei benissimo aver bisogno di una veloce galoppata su di te prima che tutto sia finito.» Orco batté gli zoccoli mentre Aspar si allontanava e questi gli diede un'altra occhiata sollevando un dito per rimproverarlo. «Lifst» ordinò. Orco nitrì piano, ma obbedì e non lo seguì. Tornato al laghetto, Aspar tolse la corda all'arco e lo avvolse in una pelle grassa di castoro, legandolo stretto. Mise il tendine in una scatola incerata e strinse bene anche quella. Avvolse le frecce, specialmente la freccia, in pelle di lontra e legò tutto al suo arco. Si assicurò di avere il pugnale e l'ascia, poi si sedette vicino al lago, preparandosi per una lunga nuotata sott'acqua. All'ottavo respiro, delle bolle apparvero sulla superficie e poi l'acqua improvvisamente cominciò a gonfiarsi. Aspar stette a osservare per qualche secondo, immobile, ma appena capì quello che stava succedendo, afferrò le sue cose e si lanciò in mezzo agli alberi verso la rupe, dove cominciò a scalare più velocemente che poté. La superficie rocciosa non era molto insidiosa e quando l'ondata improvvisa sbatté contro la pietra, lui era già a circa quattro iarde più su, ben al di sopra del lago. Ma non era l'acqua a preoccuparlo, perciò proseguì, allungando gli arti, praticamente volteggiando di presa in presa. Sentì un tonfo basso e cupo e un attimo dopo fu sorpreso da un breve rovescio di pioggia, pur essendo già all'altezza della cima degli alberi più bassi. Guardando dietro, vide il woorm che si alzava, circondato da vapori velenosi, con gli occhi che brillavano come lune verdi sotto l'ombra del cielo. 9 Un alleato inaspettato OSSERVAZIONI STRANE E CURIOSE L'ULTIMO BIETOLONE VYRGENIANO, PARTE SECONDA: IL PRIGIONIERO ETERNO
Alcuni studiosi in passato si sono chiesti che bisogno abbia il bietolone di piedi, gambe o arti di qualunque sorta. Citano come fonte dei loro dubbi il fatto che la creatura trascorra grandissima parte del suo tempo in cattività, trasportato qua e là dai suoi guardiani. Quello che a loro sfugge è il lato comico della storia naturale dell'U.B.V., vale a dire che, sebbene sia spesso un prigioniero impotente, la sua natura è quella di essere insoddisfatto di questa umiliazione. Le gambe, perciò, esistono per il solo scopo di permettergli di camminare da un luogo di detenzione all'altro... Nonostante lo stufato di rabbia, paura e frustrazione che gli ribolliva dentro, Stephen dovette ammettere che i Sefry erano ospiti migliori dei laniatori. Sì, lui e Zemlé erano prigionieri, nel senso che non gli veniva data la possibilità di scegliere dove andare. Però i Sefry li trattarono gentilmente, addirittura in modo regale, trasportandoli su piccole sedie sistemate in cima a pali di legno, tenendoli a bada con la minaccia del loro numero piuttosto che con la violenza. Il loro sentiero serpeggiava sempre più dentro l'ombra della foresta, tra alberi tipo felci e viti sempre più fitte, sottili e scure, fino a che con stupore Stephen si rese conto che erano entrati nella pietra viva della montagna stessa, senza che lui avesse notato il momento del passaggio. Lì il viaggio si fece più straziante e desiderò che gli fosse permesso di camminare perché il corteo adesso procedeva giù per una scala ripida e stretta. A sinistra c'era la roccia e a destra non c'era altro che una distanza che le loro lanterne non riuscivano a penetrare. Neanche la rewn era sembrata tanto grande. Stephen si domandò se la montagna non fosse interamente vuota, un fragile guscio pieno di tenebre. Ma no, non solo tenebre; qualcosa gli fece drizzare leggermente i peli del braccio e del collo, e una musica, un ronzio debolissimo prese a vibrare dalla pietra stessa. C'era del potere lì, il potere di un sedos in piccolissima parte simile a quello della via dei templi che lui aveva percorso e delle altre che aveva conosciuto. Neanche a Dunmrogh, a Khrwbh Khrwkh, dove Anne Dare aveva liberato il potere sopito di un antico tempio, aveva avvertito una forza sottile come questa. Grazie al cielo, la fossa apparentemente senza fine mostrò il fondo e i Sefry li fecero entrare in una caverna meno accidentata. Era comunque
imponente, ma abbastanza bassa da poter distinguere il luccichio dei denti di pietra che pendevano dal soffitto. «Bella!» bisbigliò Zemlé indicando una colonna che alla luce della lampada brillava come se fosse stata lucidata. «Non ho mai visto la pietra prendere forme simili. Ma si tratta davvero di pietra?» «Io ho letto di cose del genere» replicò Stephen «e le ho viste da altre parti. Presson Manteo chiamava quelle che pendono 'gocciolatoi' e quelle che puntano in alto 'gocce'. Crede che si formino in modo molto simile ai ghiaccioli.» «Vedo anch'io una somiglianza,» ammise Zemlé «ma come può la pietra gocciolare?» «La pietra ha una parte liquida e una solida» spiegò Stephen. «Quella solida è predominante, ma in condizioni speciali, sotto terra, può diventare liquida. Probabilmente è così che si sono formate queste caverne. La pietra si è liquefatta, defluendo e lasciando solo uno spazio vuoto.» «Voi ci credete?» «Non lo so» disse Stephen. «Al momento m'interessa molto più scoprire perché ci tengono prigionieri.» «Non siete prigionieri» disse Adhrekh. «Siete i nostri ospiti d'onore.» «Fantastico» commentò Stephen. «Allora grazie per l'ospitalità. Potreste riportarci indietro adesso?» «Avete viaggiato molto, tra tante sofferenze, pathikh» disse Adhrekh. «Come possiamo lasciarvi andare senza che abbiate ottenuto quello per cui siete venuto fin qua?» «Non sono venuto per cercare quel maledetto woorm» rispose secco Stephen, con un tono di voce talmente alto da echeggiare per tutta la caverna. «Avrei potuto incontrarlo a d'Ef, se avessi voluto.» «Sì» disse un'altra voce fredda. «Avreste potuto. Avreste risparmiato a tutti noi un sacco di fastidio, a dire la verità.» La voce era per qualche verso familiare. Proprio mentre Stephen si girava per seguire il suono, il corteo si fermò e i portatori misero delicatamente i palanchini a terra. Qui la pietra sembrava lavorata e si sentiva l'odore dell'acqua. Lo sguardo di Stephen si fissò su un viso familiare e il cuore gli si strappò nel petto. «Fend» esclamò. Il Sefry sorrise. «Sono onorato che vi ricordiate di me» disse. «Il nostro ultimo incontro è stato un po' agitato, no? Con tutte quelle frecce e spade,
il greffyn e il Re degli Alberi. Non c'è stato molto tempo per una vera a propria presentazione.» «Lo conoscete?» domandò Zemlé. «In un certo senso» rispose Stephen in tono piatto. «So che è un farabutto assassino, senza onore, compassione e nessuna qualità ammirevole.» L'occhio di Fend si spalancò. «Come fate voi a saperlo? Pretendete forse di leggere i miei pensieri? Non vi starete basando interamente sull'opinione che Aspar ha di me, vero?» «No» disse Stephen. «Ho anche quella di Winna. È stata vostra prigioniera, se ricordate bene. Ed ho visto coi miei occhi cosa è successo nel boschetto vicino a Cal Azroth. E ho visto i corpi delle principesse che avete ucciso lì.» Fend scrollò leggermente le spalle. «Ho fatto cose che potrebbero sembrare deplorevoli, d'accordo. Ma non me ne pento perché capisco il motivo per cui le ho fatte. Quando lo capirete anche voi, credo che comincerete a vedermi sotto una luce migliore. Lo spero, perché sono al vostro servizio.» Annuì verso Adhrekh. «Grazie, signore, per la vostra ospitalità e per avermi aiutato a trovare questo posto.» L'altro Sefry scrollò le spalle. «Siamo solo i suoi guardiani» rispose. Stephen si era talmente concentrato sul viso malvagio di Fend che all'inizio non aveva notato cosa portava. Era un'armatura eccessivamente barocca e antica, piastra e corazza ricavate a sbalzo con un metallo simile all'ottone. Ma fu la corazza ad attirare veramente l'attenzione di Stephen, perché raffigurava una testa d'uomo con la barba e adorna di corna. Aveva visto un disegno quasi identico quando era a d'Ef, mentre cercava informazioni sulla natura del Re degli Alberi. All'inizio aveva creduto rappresentasse il re, in genere raffigurato con le corna. Ma il titolo del disegno lo chiamava in modo completamente diverso. Realizzò con un brivido che, senza rendersene conto, aveva mosso alcuni passi verso Fend. Subito indietreggiò. «Potreste ripetere l'ultima parte?» domandò Stephen. «Quella in cui dite di servire me adesso?» «Proprio così» disse Fend. «Sono mesi che cerco di trovarvi, per offrirvi i miei servigi.» «Mi avete seguito per poter trovare questa montagna» lo corresse Stephen. «Non fatevi ingannare, Adhrekh. Non è venuto qui con buoni propositi.» «Solo voi potevate trovare la montagna» rispose Fend. «E probabilmente
è vero che se fossi riuscito a intercettarvi prima, avrei avuto molte difficoltà a convincervi a venire qua. Ma questo è il luogo in cui voi dovevate arrivare, proprio come io ero destinato ad accompagnarvi e servirvi. Non sarà più così sconcertante una volta che avrete capito certe cose.» Fece un passo avanti, estraendo dalla cinta un pugnale dall'aspetto minaccioso. Stephen trasalì, ma Fend glielo offrì dalla parte del manico e poi s'inginocchiò ai suoi piedi. «È stato meglio così» disse. «Io sono qui; ho trovato la montagna segreta e l'armatura per il mio ruolo. Ora vi offro la mia vita.» Stephen prese il pugnale, avvolto da una sensazione di assoluto scetticismo. Fend era cattivo; non c'erano dubbi su questo. Cosa stava recitando? Aspar non avrebbe esitato, vero? Avrebbe infilato il coltello senza pensarci e solo dopo avrebbe provato a chiedersi cosa stava cercando di fare il Sefry. E lui doveva così tanto ad Aspar, gli doveva almeno la vita di quest'uomo... Ma lui non era Aspar e nemmeno il guardaboschi sarebbe stato capace di uccidere un uomo in ginocchio davanti a lui. A Stephen piaceva pensare che neanche Aspar l'avrebbe fatto. Perciò lasciò cadere il pugnale a terra. «Spiegatemi questo» disse indicando prima Fend e poi il resto dei presenti. «Uno qualunque di voi. Ditemi cosa sta succedendo.» «Voi siete l'erede di Kauron» disse Zemlé. Sbigottito, si voltò verso di lei. «Lo sapevate allora? Fate anche voi parte di questa trappola?» Gli occhi di lei si spalancarono feriti. «No. Voglio dire, non conoscevo i particolari. Sapevo che eravate l'erede di Kauron. Non conosco quest'uomo, Stephen. Non ho mai incontrato nessuna di queste persone.» Studiando il gruppo più attentamente, Stephen notò un'altra figura, in piedi dietro a Fend. Con sua sorpresa, si rese conto che si trattava di un uomo in abiti ecclesiastici. «Voi!» gridò. «Chi siete?» L'uomo fece un passo avanti. «Mi chiamo Robert Ashern» disse, inchinandosi. «Anch'io sono al vostro servizio.» «Siete uno Hierovasi o Revesturi?» «Nessuno dei due» rispose. «Sono votato al santo della montagna. E a quanto pare questo siete voi, Stephen Darige.» «Siete tutti pazzi, vero?»
«No» rispose Fend. «Pazzi, no. Determinati, sì. E sfortunatamente non c'è abbastanza tempo per il tipo di discussione che potrebbe chiarire completamente le cose. Praifec Hespero e i suoi uomini sono quasi arrivati. Sarebbe un errore permettergli di entrare nella montagna. Anche solo sulle sue pendici, Hespero potrebbe essere in grado di evocare il potere dei sette templi. Se entra nella montagna, neanche il woorm sarà in grado di fermarlo.» «Eppure se fratello Stephen avesse il tempo di percorrere la via dei templi...» cominciò a dire fratello Ashern, ma Fend scosse il capo. «Ci vorrebbero giorni. Hespero si sta avvicinando. L'ho visto. Non è così, Stephen?» «Ci sta seguendo» ammise Stephen. Guardò minaccioso Fend. «Ma voi e lui eravate alleati.» «Una volta lavoravo con lui» ammise Fend. «Era necessario per arrivare a questa situazione. Ma i nostri interessi non coincidono più. Lui vuole ciò che è vostro di diritto. Voi avete suonato il corno che ha risvegliato il Re degli Alberi. Voi avete trovato questo posto.» «Ma non so neanche che posto sia questo!» «Ah, no?» domandò Fend. «Dunque non sapete chi fu il vostro primo predecessore? Il primo della vostra razza a venire qui?» «Choron?» «Choron? No, lui si è solo limitato a riportare una cosa al proprio posto. È stata Virgenya Dare a trovare questo luogo, Stephen. È qui che ha percorso la via dei templi. È qui che ha scoperto la magia per distruggere gli Skasloi. Sareste disposto a dare quel tipo di potere a Hespero?» «No» disse Stephen, mentre la testa cominciava a girare. «Ma non lo darei neanche a voi.» «Io non lo sto chiedendo, razza di stupido» ringhiò Fend. «Sto solo chiedendo a voi di prenderlo.» «Perché?» «Perché è l'unico modo» rispose Fend. «L'unico modo per salvare il nostro mondo.» «Continuo a non capire cosa vi aspettate che faccia.» «Io sono ai vostri ordini» rispose Fend. «Il woorm è ai vostri ordini. Questi guerrieri sono ai vostri ordini. Dovete semplicemente dirci cosa fare.» «Vi aspettate che creda a tutto questo?» disse brusco Stephen, mentre la frustrazione raggiungeva il punto culminante. «Sono stato portato qui con-
tro la mia volontà. Ora voi dichiarate di voler seguire i miei ordini. Non ha senso!» «Abbiamo dovuto portarvi qua» disse Adhrekh. «Mi dispiace se abbiamo dovuto ricorrere alla forza per arrivare fin qui, ma non possiamo costringervi ulteriormente. Voi siete l'erede di Choron. Se volete andare via, andate. Ma se lo fate, quest'altro prenderà il vostro posto.» «State dicendo che obbedireste a Hespero?» «È il geos di questo posto» disse Fend. «Se non prendete lo scettro lo farà qualcun altro. E quando lo farà, noi dovremo seguirlo. Dovete decidervi.» «E se accettassi e vi dicessi di distruggere Hespero e le sue forze?» «Noi ci proveremmo» rispose Fend. «Credo che vinceremmo noi. Ma come ho già detto, il suo potere cresce. A differenza di voi, lui sogna questo posto da decenni.» Stephen diede un'occhiata a Zemlé, poi rivolse lo sguardo a Adhrekh. «Voglio restare solo con sorella Pale per un momento» disse. «Non trattenetevi troppo» lo avvisò Fend. «Una decisione ritardata può equivalere a una decisione non presa.» «C'è qualcosa di assolutamente sbagliato qui» disse a Zemlé una volta soli. «Sicuramente la situazione è confusa» ammise lei. «Confusa? No, è qualcosa di più. È una pazzia. Sapete chi è Fend? Le cose che ha fatto? A parte quello che so o non so di questa situazione, so che non ci si può fidare di lui.» «Può anche darsi, ma se hanno ragione riguardo a Hespero, forse dovremmo preoccuparci del Sefry in un secondo momento.» «Volete dire che dovrei fare quello che mi chiedono? Ordinargli di attaccare Hespero? Io... No, questo non ha senso. Se Fend è così impaziente che io faccia qualcosa, è una ragione eccellente per non farla. Inoltre, Fend e Adhrekh sembravano d'accordo sulla questione del praifec. Fend ha cavalcato il woorm, perciò credo che abbia un modo per controllarlo. Adhrekh e la sua gente hanno agito piuttosto liberamente. Quindi perché hanno bisogno che io gli dica di fare ciò che loro già vogliono fare?» «Hanno detto qualcosa riguardo a un geos...» «Sì» fece Stephen. «Lo so. Eppure sembra sbagliato.» «Può darsi...» cominciò a dire Zemlé, ma poi scosse il capo. «Cosa?»
«Siete già...» «Cosa?» Lei fece un sospiro profondo. «È quello che stavate dicendo qualche giorno fa. Riguardo a come continuate a deviare dal vostro percorso. Non fate che vivere per gli altri, Stephen. Anche il modo in cui parlate di Aspar, siete stato un suo compagno, mai suo pari. Non sarà che, pensateci solo un momento, non sarà che avete paura del potere che vi stanno offrendo? Non è che non vi fidate di esso perché non potete, perché se siete voi al comando non avrete nessuno da rimproverare a parte voi stesso se le cose vanno storte?» «Questo è ingiusto» disse Stephen. «Forse lo è» continuò Zemlé. «Non vi conosco da così tanto tempo. Ma credo, ehm, credo di capire delle cose di voi. Credo forse di vedere certi aspetti di voi in modo molto più chiaro di quanto riusciate a vederli voi stesso.» Distese le mani e strinse quelle di lui. «Pensateci, Stephen. Seppure Fend sta mentendo, se anche Virgenya Dare non è mai stata qui, quali segreti potrebbe ancora contenere questo posto? Cosa potreste imparare? Riesco a sentire un potere qui, perciò so che anche voi lo avvertite. È per questo che siete venuto fin qua e tutto quello che dovete fare è accettare di guidare.» Lui chiuse gli occhi. Zemlé aveva sicuramente ragione riguardo al terrore che provava all'idea di prendere il comando. Come poteva lui mandare qualcuno a combattere e morire? E se tutte le sue altre incertezze erano, come aveva detto lei, semplicemente un modo per giustificare l'inattività? Dopo tutto, Fend e Adhrekh non stavano dicendo niente di tremendamente diverso da quello che aveva detto fratrex Pell. Forse era vero. Forse era davvero lui la persona destinata a fare questo. Solo che non ci aveva mai creduto. Non aveva fatto altro che pensare di trovare il diario di Virgenya Dare e tradurlo e, se mai avesse trovato qualcosa di utile, avrebbe fatto come al solito: lo avrebbe portato a qualcun altro, qualcuno che avrebbe saputo come usare le informazioni. Eppure, che risultato aveva ottenuto? Desmond Spendlove aveva utilizzato le sue traduzioni per perpetrare atti abominevoli. Aveva dato a Praifec Hespero i vantaggi della sua ricerca e di conseguenza altre persone erano morte in modo orribile. Ora Hespero stava venendo a prendere lui. Forse era davvero arrivato il momento che lui smettesse di essere la fon-
te del potere di qualcun altro. Forse era giunto il momento di assumere un incarico. Zemlé aveva ragione. Una volta passata la minaccia di Hespero, avrebbe avuto il tempo di arrivare a comprendere appieno la sua situazione. Allora avrebbe potuto pensare a come occuparsi di Fend. Prese Zemlé per le spalle e la baciò. Lei s'irrigidì e dapprima Stephen pensò che l'avrebbe respinto, ma poi si sciolse, rispondendo con entusiasmo alla sua iniziativa. «Grazie» le disse. Trovò gli altri che lo aspettavano, più o meno come li aveva lasciati. «Se siete decisi riguardo a questo,» disse Stephen «allora che sia. Fermate praifec Hespero a ogni costo, non fatelo entrare nella montagna. Prendetelo prigioniero se potete, ma fate ciò che è necessario.» «Ecco, così si fa» disse Fend. S'inchinò. «Ciò che voi ordinate, pathikh, verrà fatto.» Stephen sentì i denti che si stringevano e aspettò, temendo di aver liberato qualche maledizione segreta, di essere finito dritto con il piede in una trappola. Ma non successe nulla, tranne che tutti gli altri Sefry s'inchinarono, cosa che risultò comunque strana. «Dov'è il woorm?» domandò Stephen. Fend sorrise ed emise un lungo fischio basso e dietro di lui le acque si separarono. Due grandi luci verdi emersero sopra tutti loro. Un lieve mormorio di approvazione si levò tra i Sefry, chiaramente afflitti da una follia collettiva. Stephen indietreggiò vacillando, cercando di fare da scudo a Zemlé col suo corpo. «I-il veleno!» balbettò. «Qui non ha alcun effetto» lo rassicurò Adhrekh. «Il potere del sedos della montagna lo rende inefficace. E abbiamo un rimedio contro di esso per quando saremo all'aperto.» Stephen non riusciva a distogliere lo sguardo dalla creatura, ma dopo un lungo istante capì che stavano ancora aspettando che lui dicesse qualcosa. «Bene» esclamò. «Ecco il woorm. Dove sono i vostri guerrieri? Quanti ne avete?» «Dodici» rispose Adhrekh. Quella risposta finalmente riuscì a distogliere dal mostro lo sguardo di Stephen, che si voltò per vedere se il tipo stesse scherzando. «Dodici? Ma siete più di dodici qua dentro.»
«Sì. Ma alla maggior parte degli Aitivar è proibito combattere. Dodici dovranno bastare. E poi abbiamo il khriim con noi, oltre al khruvkhuryu.» «Cosa?» cominciò a dire Stephen, ma era troppo tardi. Si erano già messi in marcia. Fend fischiò di nuovo e la grande testa si abbassò in modo che lui e Ashern potessero montare. Adhrekh e altri undici guerrieri si diressero al piccolo trotto verso l'estremità opposta della caverna. Improvvisamente Stephen fu di nuovo assalito dai dubbi. Qualcuno gli stava tirando la manica e si voltò per vedere chi fosse. Era un Sefry che non aveva notato prima, così antico che anche alla luce della torcia a Stephen sembrò di vedere le ossa attraverso la pelle. «Perdonatemi, pathikh,» disse con un filo di voce «desiderate guardare? C'è un punto più alto.» «Sì» rispose Stephen. «Credo che mi piacerebbe molto.» Seguì il Sefry, sentendosi sempre più a disagio. Si sentiva come l'uomo della vecchia storia del Santo Maledetto che era rimasto intrappolato in una bottiglia. L'uomo aveva un solo desiderio da esprimere e poi il santo lo avrebbe ucciso. C'erano solo due cose che non poteva chiedere: essere risparmiato o che il santo morisse. 10 Le navi «Anne!» Trovò Austra che la scuoteva gentilmente. «Sto bene» disse Anne alla sua amica. «Che è successo? Stavi parlando con... lui... e poi ti sei irrigidita come una statua.» «Niente» mentì lei. «Te lo dico dopo. Per il momento, ho bisogno che voi tutti restiate qui immobili. Devo fare qualche altra cosa e non devo essere disturbata.» «Bene, Anne.» «Anne?» bisbigliò piano Alis. «Sì, lady Berrye?» «Non fidatevi di lui.» «Oh, certo che no» rispose Anne. Poi si accomodò in terra con le gambe incrociate. Chiuse gli occhi e immaginò di essere al coven di santa Cer, nel grembo di Mefitis. Concen-
trò lo sguardo su una distanza immaginaria e provò a visualizzare una luce in quel punto, rallentando il respiro fino a che non si fece profondo e regolare, fino a sentire il lento battito della marea sotto Ynis e i movimenti segreti, più profondi, della terra. Fino a che non fu calma e tranquilla. Appena la luce si accese tremolante, ebbe un momento in cui sentì di espandersi, come se la roccia e l'acqua di Ynis e Terranuova stessero diventando la sua carne e il suo sangue. Il Prigioniero faceva male quanto una pustola, e lo stesso valeva per la cosa di Eslen-delle-Ombre, ma tutto questo venne spazzato via improvvisamente quando l'oscurità si frantumò e lei si ritrovò nella radura di una foresta. Sebbene il sole splendesse a mezzogiorno in un cielo sereno e limpido, lei non proiettava alcuna ombra e sapeva che stavolta era finalmente arrivata nel posto giusto. «Fedi!» chiamò. Per un attimo pensò che forse non sarebbero comparse, ma poi entrarono nella radura: quattro donne, con maschere e abiti da ballo in costume, simili e diverse come sorelle. La prima, alla destra di Anne, indossava un vestito verde scuro e una maschera dorata che sogghignava. I capelli cadevano in trecce color ambra quasi fino ai piedi. Accanto a lei stava una mora con una maschera d'avorio e un vestito rosso ruggine. La terza Fede era pallida come la luna, con boccoli d'argento. L'abito e la maschera erano neri. L'ultima donna indossava una maschera e un vestito bianco e i capelli erano più neri del carbone. «Siete cambiate tutte» notò Anne. «Come le stagioni, i venti e tu, mia cara» rispose la prima Fede. «Dove siete state?» domandò Anne. «Ho provato a cercarvi prima.» «Questo tipo di visita è diventato più difficile» replicò quella con la maschera d'avorio. «I troni si stanno manifestando.» «Sì, i troni» ripeté Anne. «Una di voi una volta mi disse che non potevate prevedere il futuro. Diceste che eravate come keirurghi, capaci di sentire il male del mondo e di percepire cosa servisse per curarlo.» «È vero» rispose quella con il vestito nero. «Benissimo» disse Anne. «Cosa sentite adesso? Vi sto chiedendo un consiglio.» «Questo è un momento rischioso per dare consigli» rispose la donna con l'abito verde, allargando le mani. Le maniche si piegarono all'indietro e Anne notò una cosa che non aveva mai visto in nessuno dei precedenti
incontri con le Fedi. «Cos'è quello?» domandò. La donna abbassò le mani, ma Anne fece un passo avanti. «Va bene» disse la sorella vestita di bianco. «Prima o poi l'avrebbe dovuto scoprire.» Anne afferrò la mano della Fede e sentì uno strano prurito al contatto, come se stesse tenendo qualcosa di estremamente scivoloso. Ma il braccio si alzò obbediente e lei poté vedere il tatuaggio: un quarto di luna nera. «Sono stata assalita da un uomo con questo marchio» disse. «Un vostro seguace, suppongo.» La Fede si voltò verso la sorella. «Spiegaglielo tu,» disse «se sei così sicura che debba sapere.» Un sorriso amaro comparve sotto la maschera nera. «Anne, non credo che tu capisca quanto sia importante per te prendere il trono: il trono vero e proprio di Eslen e quello soprannaturale che sta cominciando a rivelarsi. Abbiamo provato a spiegartelo, ma ogni volta hai messo in pericolo te stessa, lasciandoti andare a desideri egoistici.» «Volevo salvare i miei amici da morte sicura. Come si può definire questo egoistico?» «Lo sai, eppure rifiuti di ammetterlo. I tuoi amici non contano, Anne. Il destino del mondo non è nelle loro mani. Dopo tutto quello che hai sperimentato, Anne, sei ancora viziata, sei ancora la ragazza che lottava per tenere la sella in un posto dove non poteva usarla, semplicemente perché era la sua. Una ragazzina che non vuole dividere i suoi giocattoli, e tanto meno metterli da parte. «Hai quasi rovinato tutto a Dunmrogh. Giusto o sbagliato, abbiamo deciso che dovevi essere separata dai tuoi amici perché potessi vedere le cose più chiaramente. Sì, noi abbiamo dei seguaci...» «Complimenti, sono davvero splendidi» la interruppe bruscamente Anne. «Uno di loro ha provato a violentarmi.» «Non uno dei nostri» replicò la Fede coi capelli color miele. Anche la voce era mielosa. «Uno assoldato dai nostri servitori senza che lo conoscessero troppo bene. A ogni modo...» «A ogni modo mi avete dimostrato che non posso fidarmi di voi. Non ho mai creduto di poterlo fare veramente, ma ora lo so per certo. Vi ringrazio per questo.» «Anne...» «Ma voglio darvi un'altra possibilità. Capite la mia situazione? Arrivate
a comprendere tanto?» «Sì» rispose la Fede più pallida. «Bene, allora se v'interessa così tanto che diventi regina, potete mostrarmi un modo per riuscirci senza dover liberare il Prigioniero?» «Non puoi liberarlo, Anne.» «Davvero? E perché mai, per tutti i santi?» «Sarebbe una cosa troppo sbagliata.» «Non è una spiegazione.» «È uno Skaslos, Anne.» «Sì e ha promesso di riparare la legge della morte e morire. C'è qualcosa di sbagliato in questo?» «Sì» «E cioè?» Ma loro non risposero. «Benissimo» fece Anne. «Se non volete aiutarmi, farò quello che devo.» La Fede coi capelli dorati fece un passo avanti. «Aspetta. La donna, Alis. Voi due potete scappare.» «Ah sì? E come?» «Lei ha percorso la via dei templi di Spetura. Se aggiungi il tuo potere al suo, potrete passare in mezzo ai nemici senza essere viste.» «Questo è il massimo che potete fare? Che mi dite dei miei amici?» Le donne si guardarono. «Giusto» disse Anne. «Loro non contano.» Si voltò. «Addio» disse. «Anne...» «Addio!» Detto questo, la radura si frantumò come un vetro colorato e tornarono le tenebre. Bene, disse il Prigioniero. Avete paragonato le offerte. Siete pronta a trattare? «Puoi eliminare l'incantesimo dai passaggi? Quello che li rende irriconoscibili agli uomini?» «Una volta liberato, sì. Ma solo una volta liberato.» «Giuralo.» «Lo giuro.» «Giura che una volta libero, farai quello che hai promesso: riparerai la legge della morte e morirai.» «Lo giuro su tutto quello che sono e che sono stato.»
«Allora metti il tuo collo sotto i miei piedi.» Ci fu una lunga pausa e poi qualcosa di pesante batté sul terreno vicino a lei. Anne sollevò il piede destro e lo poggiò su una cosa enorme, fredda e ruvida. «Anne, cosa state facendo?» domandò Alis nel buio. Sembrava terrorizzata. «Qexqaneh» disse Anne, alzando la voce. «Io ti libero!» «No!» gridò Alis. Ma, ovviamente, era ormai troppo tardi. I nemici a cavallo erano tutti morti e ora i restanti difensori della corte esterna si sparpagliavano nel tentativo di proteggere la breccia aperta dalle baliste di Artwair. Neil era vicino al varco quasi al punto da poterlo toccare, quando qualcuno lo colpì dall'alto sulla spalla con tanta violenza da farlo cadere in ginocchio. Neil sollevò lo sguardo sfinito sull'uomo che stava in piedi sopra di lui e sollevava la spada per assestare il colpo di grazia. Lo colpì goffamente alle ginocchia. Ma dopo tutta quella strage la lama era troppo smussata per riuscire a trapassare la giuntura metallica; eppure le ossa dentro si spezzarono per la violenza dell'impatto, proprio mentre il colpo dall'alto veniva deviato pesantemente dall'elmo di Neil. Rintronato, lui si alzò caparbiamente in piedi, poggiò la punta di Caneda-Guerra sulla gola del nemico e spinse. Non aveva idea di quanto tempo avessero combattuto, ma la prima scrematura era stata fatta. Lui e altri otto uomini che aveva visto ancora in piedi si opponevano a una ventina di guerrieri con spada e scudo e forse altri cinque difensori sulle mura, che avevano l'angolazione giusta per colpirli. I rinforzi che cercavano di raggiungerli dalla strada rialzata venivano ancora disintegrati dal fuoco a raffica di proiettili provenienti dalle macchine della corte. Si abbassò tra i cadaveri e si coprì la testa con lo scudo, cercando di recuperare il respiro. I difensori erano astuti e prudenti, rimanendo infatti al di qua della breccia anziché lanciarsi fuori. Neil diede un'occhiata ai suoi uomini. La maggior parte stava facendo come lui, cercava un po' di riposo nonostante la pioggia di morte che cadeva dall'alto. Allungò una mano per sentire la spalla e vi trovò una freccia conficcata, la spezzò per farla uscire. Questo provocò un'acuta e quasi dolce vertigine
di dolore che gli attraversò il corpo intorpidito dalla battaglia. Diede un'occhiata al giovane cavaliere, sir Edhmon, che se ne stava accovacciato a solo una lega di distanza. Il ragazzo era ricoperto di sangue dalla testa ai piedi, ma aveva ancora due braccia e due gambe. Non sembrava più spaventato. A dire il vero, l'unica impressione che dava era di stanchezza. Ma quando guardò Neil, provò a sorridere. Poi la sua espressione cambiò e il suo sguardo si concentrò su qualcos'altro. Per un attimo Neil temette che lo avessero ferito, perché quelli che morivano spesso vedevano il Tier de Sem quando lasciavano il mondo. Ma Edhmon non stava guardando al di là del cielo mortale; stava fissando sopra la spalla di Neil, il mare. Neil seguì il suo sguardo, mentre cadeva una nuova pioggia di frecce. Fu accolto da una vista meravigliosa. Vele, a centinaia. E sebbene la distanza fosse notevole, non era troppa per impedirgli di vedere il cigno del vessillo di Liery che ondeggiava sui primi destrieri dell'onda. Neil chiuse gli occhi e chinò il capo, pregando san Lier perché gli desse la forza di cui aveva bisogno. Poi aprì gli occhi e sentì una specie di tuono invadergli la voce. «D'accordo, ragazzi» gridò, giurando di non sentire la sua voce, ma quella di suo padre che esortava il clan a combattere a Hrungrete. «Ecco sir Fail e la flotta che metterà in ginocchio l'usurpatore se noi facciamo il nostro lavoro. Se non ci riusciamo, quelle navi maestose verranno distrutte e i loro equipaggi coleranno a picco dai draug, perché conosco Fail abbastanza bene da dirvi che proverà a vincere, nonostante le difficoltà, che Fortezza-di-Spine sia nelle mani di Robert il Sanguinario, o che non lo sia. «Non dobbiamo andare troppo lontano. Siamo otto contro venti. È poco più di due a testa. San Neuden ama questo tipo di disparità. Tutti dobbiamo morire, ragazzi, oggi o un altro giorno. L'unica domanda è: moriremo con la spada che arrugginisce nel fodero o brandendola?» Detto questo, si alzò in piedi, levando il grido feroce di battaglia dei MeqVren, e gli altri sette balzarono in piedi insieme a lui, alcuni gridando, altri invocando ad alta voce i santi della guerra. Sir Edhmon non disse nulla, ma il viso esprimeva una gioia torva che Neil riconobbe uguale alla sua. Si schierarono spalla contro spalla e caricarono su per il pendio. Stavolta non ci fu un grosso scossone al contatto; gli scudi cozzarono contro altri scudi e i difensori spinsero indietro, tirando di spada. Neil a-
spettò il colpo, e quando arrivò sul bordo del suo scudo di guerra, uncinò l'arma sollevando il braccio con la spada. Edhmon lo vide e tagliò a metà il braccio che Neil aveva intrappolato. «Tenete la formazione!» gridò Neil. Il guerriero che era dentro di lui voleva schiantarsi sull'uomo caduto, penetrare tra i difensori, ma con avversari così numerosi, sarebbe stata una stupidaggine. Mantenersi in linea era la loro unica difesa. Uno degli uomini più grossi che Neil avesse mai visto si lanciò tra i nemici da dietro. Era una testa e mezza più alto del resto di loro, con una criniera gialla selvaggia e tatuaggi che lo identificavano come un Weihand. Aveva Una spada che superava in lunghezza la statura di alcuni uomini, e la brandiva con tutte e due le mani. Mentre Neil guardava impotente, il gigante raggiunse i suoi uomini, afferrò sir Call per la piuma dell'elmo e lo scaraventò al di là del muro di scudi, dove i compagni del Weihand lo fecero a pezzi. Con un ruggito di rabbia impotente, Neil fracassò il suo scudo contro l'uomo che aveva davanti e lo sbatté contro la sua testa una, due, tre volte. La terza lo scudo cadde a terra e Cane-da-Guerra colpì contro l'elmo con tanta violenza che il sangue prese a schizzare dal naso. Puntò la spada contro il gigante e alzò la voce sopra al frastuono. «Weihander! Thein athei was goth at metri piken!» ruggì. Il risultato fu degno di nota. Il volto del gigante, già rosso, diventò esattamente livido. Caricò verso Neil, interrompendo la linea di scudi che avrebbe dovuto difendere. «Cosa avete detto?» gridò sir Edhmon, ansimando forte. «Te lo dirò quando sarai abbastanza grande» rispose Neil. «Ma i santi mi perdonino per aver insultato una donna che non ho mai conosciuto.» Prima che il Weihander lo raggiungesse, un altro uomo colmò il vuoto nella linea davanti a lui e abbassò leggermente lo scudo, probabilmente uno stratagemma. Neil fece scattare il suo scudo in alto e poi lo riabbassò di colpo di modo che il fondo appuntito colpisse in cima alla guardia del nemico facendolo cadere su un ginocchio. Neil allora lo percosse alla nuca con l'elsa di Cane-da-Guerra. Gemendo, il guerriero caricò contro di lui ed entrambi scivolarono giù per il pendio roccioso creato dal crollo del muro della corte. Neil lo colpì di nuovo, ma non riuscì a ottenere la leva necessaria per un colpo mortale; si sentiva le gambe e le braccia piene di piombo. Lasciò cadere la spada e si mise a cercare il pugnale che portava alla cin-
ta. Lo trovò, ma scoprì che il suo nemico aveva avuto la stessa idea un attimo prima, perché sentì la punta di un pugnale grattare contro la sua corazza. Imprecando, si liberò dell'arma, ma quel momento era stato sufficiente; il respiro uscì freddo, mentre l'acciaio scivolava nella maglia di giunzione del suo fianco e tra le costole. Soffocando il grido, Neil conficcò il suo coltello sotto il labbro posteriore dell'elmo del nemico e alla base del cranio. Il nemico emise un suono simile a una breve risata, scattò e poi smise di muoversi. Con un grugnito, Neil si levò di dosso quel corpo floscio e provò ad alzarsi in piedi, ma non c'era ancora riuscito quando il gigante lo raggiunse. Tirò su lo scudo in tempo per parare un colpo del suo spadone. Questo si abbatté come un tuono e qualcosa nello scudo scricchiolò. Il gigante piegò indietro la sua arma per un altro tentativo e Neil si mise in piedi e lo colpì sotto al mento con ciò che rimaneva del suo scudo. Il Weihand inciampò all'indietro e cadde. Sfortunatamente, Neil fece lo stesso. Senza fiato, gettò via lo scudo e recuperò Cane-da-Guerra. A poche iarde di distanza il Weihand si alzò per affrontarlo. Neil diede un'occhiata alla breccia e vide Edhmon e altri quattro ancora in piedi; i difensori della corte sembravano tutti morti. Sir Edhmon si avviava giù per il pendio, verso il gigante. «No!» gridò Neil. «Rimanete insieme; trovate i pezzi d'artiglieria. Avranno poche difese adesso. Rimanete insieme; assicuratevi di prenderne almeno uno! E poi andate avanti.» Il Weihand diede un'occhiata a Edhmon e agli altri, poi rivolse un ghigno feroce a Neil. «Come ti chiami?» domandò questi al gigante. Il suo nemico fece una pausa. «Slautwulf Thvairheison.» «Slautwulf, ti chiedo scusa due volte. Una per quello che ho detto su tua madre, e l'altra per averti ucciso.» «Serve solo la prima» rispose Slautwulf, sollevando la spada. «Stupido pederasta. Riesci a stento ad alzare la tua arma.» Neil spinse la mano sinistra sul buco che aveva al fianco, ma sapeva che non sarebbe servito a niente; non poteva arrestare l'emorragia. Allora Slautwulf caricò, ruotando lo spadone verso l'esterno per tagliare Neil a metà. Neil intendeva tenere il colpo alla distanza di un capello e poi avventarsi sull'avversario durante l'apertura, ma inciampò mentre indietreggiava, quasi perdendo completamente l'equilibrio. Il colpo lo mancò
non di poco comunque, ma il Weihand tornò all'attacco. Stavolta Neil lo evitò per poco e poi caricò come aveva pensato di fare prima. Slautwulf però anticipò la mossa. Anziché provare ad aprire il colpo di nuovo, perché non aveva tempo, portò l'elsa giù sull'elmo di Neil. Quest'ultimo si lasciò ricadere violentemente a terra, piegandosi più che poté per il colpo, ruzzolando in avanti e sollevando Cane-da-Guerra con tutta la sua forza. Si ritrovò disteso sulla schiena con il viso sorpreso di Slautwulf che lo scrutava dall'alto. «Mi è bastato alzarla una sola volta» gli fece notare Neil. «Già» riuscì a dire Slautwulf, sputando sangue mentre lo spadone gli scivolava dalle mani. Il guerriero non portava nessun'armatura sotto il suo gonnellino da guerra, né biancheria intima a dire il vero. Cane-da-Guerra lo aveva attraversato passando direttamente attraverso l'inguine, la pelvi, gli intestini e i polmoni. Neil riuscì a rotolare via, prima che il gigante gli si rovesciasse sopra. Rimasero a terra per un attimo, a fissarsi negli occhi. «Non preoccuparti» disse Neil con voce roca nella lingua del Weihand. «San Vothen ti ama. Vedo già la sua valchiria che viene a prenderti.» Slautwulf provò ad annuire. «Ci rivedremo a Valrohsn, allora.» «Non ancora» rispose Neil. Poggiò il pugno a terra e cominciò a tirarsi su in piedi. Ma una freccia lo colpì facendolo cadere di nuovo in terra, togliendogli il respiro. Rimarrò qui solo un altro istante, pensò, per raccogliere le forze. Chiuse gli occhi e si mise ad ascoltare il suo respiro sincopato. Le navi, si ricordò e volle vederle un'altra volta. Si sentiva gli occhi cuciti, ma dopo quello che gli parve uno sforzo inimmaginabile, riuscì ad aprirli solo per ritrovarsi di nuovo faccia a faccia con Slautwulf. Facendo un respiro profondo e doloroso, riuscì a voltare la testa verso il mare. Un'altra freccia rimbalzò sulla sua corazza. Giusto, pensò. Stupido. Ora sanno che sei ancora vivo. Ma non dovette muoversi ancora. Poteva vedere le navi. Le navi lierish. Le aveva salvate lui? Se Edhmon e gli altri riuscivano ad abbattere anche un solo pezzo d'artiglieria, Artwair avrebbe potuto rischiare un'altra carica, e abbastanza uomini sarebbero riusciti a passare ed espugnare la corte. Sfruttando l'altezza della corte come protezione, avrebbero potuto abbattere i cancelli di Fortezza-di-Spine in un giorno. Non sarebbe stato necessa-
rio nemmeno occupare tutte le mura, solo quel tanto che avrebbe consentito alle navi di entrare attraverso uno dei grandi archi. Se... La sua visione si offuscò e le vele e il mare cominciarono a fondersi. Cercò di reagire, battendo le palpebre, ma tutto divenne ancora più confuso. Poco a poco Neil tornò a mettere a fuoco, ma anziché il mare ora vedeva un volto, con gli zigomi alti, forte, pallido come il latte e con occhi talmente blu da sembrare ciechi. Dapprima pensò trattarsi della valchiria che aveva finto di aver visto per Slautwulf. Ma poi capì di chi si trattava. «Donnacigno» mormorò. Brinna, sembrò dire lei. Ricordate? Il mio vero nome è Brinna. Si ricordò di averla baciata. Sapeva che avrebbe dovuto pensare a Fastia, ma con la luce che si offuscava, riuscì a tenere in mente solo il viso di Brinna. 11 Libero Stephen rabbrividì non appena mise il piede sulla cornice. La vista precipitava in uno spazio vuoto che sembrava occupare una lega buona, prima di raggiungere alberi e roccia. Non poteva essere davvero così lontano, perché riusciva a distinguere la sagoma del praifec e dei suoi uomini che si avvicinavano a una specie di strada senza uscita nella montagna. Immobile, strinse ancora più forte la mano di Zemlé. «Penso di vomitare se resto qua fuori» disse. «C'è la pietra sotto i vostri piedi» gli rispose lei. «Tenetelo a mente. Non cadrete.» «Se arriva una ventata forte...» «Non è molto probabile» lo rassicurò la ragazza. «Guardate là» disse Ione, l'antico Sefry che li aveva condotti su questo alto nido. Indicò, trasalendo appena la mano entrò in contatto con la luce. Fend e i suoi amici non avevano la stessa preoccupazione; il sole che tramontava aveva già riempito d'ombra la valle sottostante. Stephen si sporse un po' di più e vide cosa stava indicando il vecchio: una pozza d'acqua profonda e blu. E come in risposta a un segnale, il woorm, o khriim, improvvisamente emerse.
«Santi,» pregò Stephen «fate che la mia scelta sia stata giusta.» Aspar rimase un attimo impietrito, poi afferrò il sacco che portava dietro la schiena, imprecando contro la sua sfortuna. Naturalmente stava avendo la migliore occasione per colpire la creatura quando il suo arco era ancora senza corda. Con difficoltà prese la borsa e cercò di aprirla, ma la cera rendeva difficile sciogliere il nodo, soprattutto perché lui continuava a guardare in alto verso il woorm ogni secondo. Si afferrava agli alberi con le zampe anteriori più corte, trascinando la coda fuori dal laghetto, impennando all'altezza del posto in cui Aspar stava seduto. Un bersaglio perfetto... Sentì il ronzio di una freccia e improvvisamente capì che il woorm non era il solo bersaglio facile. La sentì rimbalzare sulla roccia dietro a lui. Il che significava che l'unico posto da cui potevano averla scoccata era... Lì. Fend e il suo compagno erano sulla sella del mostro e il secondo stava di nuovo prendendo la mira su Aspar. Imprecando, il guardaboschi si alzò in piedi proprio mentre un proiettile con impennaggio rosso colpiva il suo stivale. Non sentì dolore, ma l'impatto e la reazione lo fecero ruzzolare verso il bordo. Allargò le braccia per reggersi... ...e vide il suo arco, la corda e la freccia nera cadere verso il suolo della foresta. «Ah, merda» ringhiò. Dedicò esattamente un secondo a decidere cosa fare. Poi saltò cercando di raggiungere la cima dell'albero più vicino, circa cinque iarde più in basso. La presenza del Prigioniero sembrò srotolarsi tutt'intorno a lei, allungandosi sempre di più, e le ossa di Anne scricchiolarono come se una sega le stesse tagliando. Libero. Quella parola la colpì come se il Prigioniero l'avesse in qualche modo incastonata in un lingotto di piombo e gliel'avesse poi lanciata contro. L'aria le uscì completamente dai polmoni in un singolo, doloroso respiro, e il cuore precipitò come liquefatto dal terrore. Fiducia, controllo, sicurezza, tutto venne spazzato via e lei diventò un topo in un campo aperto, che osservava l'aquila in picchiata. Libero.
Non c'era gioia nella parola. Né ebbrezza o sollievo. Era il suono più maligno che Anne avesse mai sentito. Negli occhi le esplosero lacrime e prese a tremare in modo incontrollabile. Aveva condannato tutti, rovinato ogni cosa... Liberooooo. Ci fu una detonazione simile a un tuono, così forte che il suo grido si perse. E poi... niente. Era sparito. Sembrò impiegare molto per riconquistare il controllo di sé stessa e delle sue emozioni. Sentì gli altri che piangevano e capì che non era la sola, ma la cosa non riuscì ad alleviare la sua umiliazione. Alla fine, dopo un'eternità, Austra ebbe la prontezza mentale di riaccendere la lampada. I loro occhi confermarono che la stanza era vuota. Era molto più grande di quanto lei avesse immaginato. «Cosa avete fatto?» domandò debolmente Alis. «Santi, cosa avete fatto?» «Qu-quello che credevo fosse la cosa migliore» riuscì a rispondere Anne. «Dovevo fare qualcosa.» «Io non ci capisco niente» disse Catio. Anne stava per cominciare a spiegare, ma rimase di nuovo senza fiato e improvvisamente sentì il desiderio di piangere ancora. «Aspettate» disse. «Aspettate un attimo e proverò...» Qualcosa improvvisamente sbatté dall'altra parte della porta segreta. «Ci hanno trovato!» esclamò Austra. Catio si alzò in piedi ed estrasse la sua spada. Sembrava tremare, ma comunque infuse coraggio in Anne. Aumentando la sua determinazione, lei decise di essere forte. «Il Prigioniero ha promesso di uccidere gli uomini di Robert» disse. «Credo che vi abbia mentito riguardo a questo» rispose Alis. «Lo vedremo» ribatté Anne. «Qualcuno mi dia un'arma» disse debolmente il principe Cheiso, ma con decisione. «Ho bisogno di un'arma.» Catio guardò Anne e lei annuì. Il Vitelliano offrì uno stiletto al Safniano. Poi diede uno sguardo agli altri tre uomini, ricordando vagamente che prima erano in quattro. Cosa era successo al quarto?
Ma dopo la crisi interiore che aveva appena passato, niente lo avrebbe più sorpreso. «Come vi chiamate?» domandò ai guerrieri. «Sir Ansgar» rispose uno di loro. Catio riuscì a distinguere solo una barbetta. «Questi sono i miei uomini di fiducia, Preston Viccars e Cuelm MeqVorst.» «Il passaggio è stretto» disse Catio. «Faremo a turno. Io sarò il primo; decidete chi sarà il prossimo di voi.» «Ho giurato a sir Leafton che avrei affrontato i nemici di Sua Maestà per primo» rispose Ansgar. «Spero che mi consentirete di onorare il mio giuramento.» Catio stava per obiettare, ma Ansgar, dopo tutto, indossava un'armatura. Probabilmente sarebbe stato più adatto, in un certo senso, alla situazione. «Vi do la precedenza» disse. «Ma vi prego, non uccideteli tutti. Lasciatene qualcuno per me.» L'uomo annuì e Catio fece un passo indietro, sperando che la testa gli si schiarisse un altro po'. Per fortuna il nemico non era entrato pochi attimi prima, quando erano tutti ancora deboli. Forse anche gli uomini di Robert avevano sentito lo stesso strano effetto. Avrebbe dovuto chiedere ad Anne cosa era successo esattamente, una volta finito tutto. «Forse non riusciranno a entrare...» cominciò a dire Austra, ma improvvisamente un raggio di luce tremula apparve nella pietra, scavandola. Un attimo dopo, non solo la porta segreta era scomparsa, ma anche un grosso pezzo del passaggio. «Santi» bisbigliò Anne. «Ha la spada fatata di sir Neil.» E infatti Robert Dare entrò dalla breccia. Sir Ansgar fece per muoversi, ma si fermò quando l'usurpatore sollevò la mano. «Aspettate un momento» disse. «Maestà?» domandò Ansgar, dando un'occhiata ad Anne. «Fate come dice» rispose Anne. «Cosa volete, Robert?» Robert stava scuotendo il capo. «Impressionante. Se n'è andato, vero? Lo avete lasciato andare.» «Sì.» «Perché? Cosa vi avrà promesso? Ma posso immaginarlo, no? Vi ha detto che vi avrebbe aiutato a sconfiggermi. Eppure, eccomi qua, imbattuto.» «Non abbiamo ancora cominciato a combattere» disse Catio. «Qualcuno vi ha chiesto di parlare?» ribatté secco Robert. «Non ho idea
di chi siate, ma sono certo che né Sua Maestà, né io vi abbiamo dato il permesso di parlare. Pugnalatemi se volete, ma per favore non sporcate la mia lingua con quel vostro ridicolo accento.» «Catio ha il mio permesso per parlare,» rispose dura Anne «e voi no, a meno che non sia per chiedere perdono.» «Mia traditrice. Cara Anne, avete appena liberato l'ultimo Skaslos al mondo. Sapete da quanto tempo stava progettando questo? È stato lui a insegnare a vostra madre a maledirmi, e la cosa mi ha fatto diventare quello che sono e ha spezzato la legge della morte. Siete caduta nel suo tranello e avete tradito tutta la nostra razza. Il vostro tradimento supera in splendore il mio, proprio come il sole oscura ehm, le altre piccole stelle.» «Non mi avete lasciato scelta» rispose Anne. «Oh, be' se è così... No aspettate, avevate almeno altre due scelte. Avreste potuto dire di no a lui e arrendervi a me. O avreste potuto combattere contro di me e morire.» «O avremmo potuto combattere contro di voi e vivere» intervenne Catio. «Voi state diventando fastidioso» disse Robert, puntando la lama scintillante verso di lui. «Arrendetevi, Anne, e vivrete tutti, ve lo prometto.» Catio non avrebbe mai saputo che riposta era pronta a dare Anne, perché Cheiso improvvisamente si lanciò in avanti, gemendo d'angoscia e scagliandosi contro Robert. L'usurpatore sollevò la sua arma fatata, ma non abbastanza velocemente. Cheiso conficcò il pugnale avuto in prestito nel petto di Robert. Questi prontamente lo colpì in testa con l'elsa della spada, ma la momentanea tregua era finita e l'ondata di marea arrivò. Gli uomini di Robert si riversarono nella stanza. Catio saltò verso il principe, ma Ansgar era già lì, brandendo un colpo che avrebbe potuto decapitare Robert se questi non lo avesse schivato per poi conficcare la sua spada nella pancia di Ansgar. L'arma penetrò come dentro il burro e Robert tagliò verso l'alto, facendo uscire la lama dalla spalla, aprendo in due la parte superiore del corpo del cavaliere. «Adesso tocca a voi» disse Robert, voltandosi verso Catio. Ma non era la prima volta che Catio affrontava un uomo che non poteva morire, o per lo meno una spada che non si poteva parare. Appena Robert la piegò indietro per colpire, fece un lungo affondo e fermò e colpì il polso del principe. Robert ringhiò e combatté contro la lama di Acredo, ma Catio si liberò e lo infilzò al polso una seconda volta. Poi, schivando il colpo successivo, stavolta più ampio, Catio aprì uno squarcio sul dorso della ma-
no di Robert. «Non siete granché come schermidore, vero?» disse, sogghignando e saltellando sulla punta dei piedi. «Neanche con una spada come quella.» Robert gli si lanciò contro allora, ma Catio evitò il colpo contro la sua lama e fece un passo di lato rispetto all'assalto come si fa con un toro, lasciando la sua lama alta e dritta perché Robert ci s'impalasse. L'usurpatore lo fece, perché la lama lo prese in fronte, arrestandosi nel cranio e mandando il nemico con le gambe all'aria. Catio ebbe l'enorme piacere di vedere il bastardo atterrare sulla schiena. «Zo dessrator, nip zo chiado» spiegò. Dovette dirlo in fretta però, perché gli uomini e le donne di Robert stavano sciamando tutt'intorno. Si piazzò come meglio poté davanti ad Anne, impegnandone due, poi tre e alla fine quattro, un'impresa impossibile. Vide Preston e Cuelm cadere, quindi rimaneva solo lui, in piedi tra le tre donne e la folla. Peggio ancora, vide Robert sullo sfondo, che tamponava il foro alla testa con uno straccio. «Uccideteli tutti» sentì Robert gridare. «Ho perso la pazienza per questa faccenda.» Aspar gettò le braccia intorno al tronco d'abete e strinse i denti mentre il suo corpo spezzava i rami più in alto. L'odore di resina esplose nelle narici, mentre la cima dell'albero si piegava verso terra sotto il suo peso, e per un attimo lui si sentì come quella volta da jungen quando per gioco era sceso a cavallo di piccoli alberelli fino a terra. Stavolta non sarebbe arrivato fino a terra però, perciò si lasciò andare prima che l'albero potesse spingerlo di nuovo in alto. Questa mossa lo fece precipitare per altre cinque iarde in una pozza d'acqua bassa che continuava a defluire dopo l'eruzione del woorm. Fu fortunato. L'acqua non nascondeva macigni né ciocchi di legno, ma sembrò comunque che una mano enorme lo avesse colpito con tutte le forze. Il dolore lo galvanizzò anziché rallentarlo e riuscì ad atterrare in piedi nella fanghiglia e a valutare attentamente la situazione. Adesso non riusciva a vedere il woorm, ma lo sentiva fare a pezzi la foresta. Ruotò su sé stesso e corse verso la base della rupe, sperando l'impossibile: ritrovare cioè il suo arco e la preziosa freccia. Ma anche se l'acqua stava tornando indietro, continuava a lasciare dietro di sé un'accozzaglia di
ramoscelli, foglie e aghi di pino. Gli ci sarebbe voluta un'ora, o forse dieci, per trovare le sue cose. Continuava a non vedere il woorm, ma estrasse il pugnale e, nel tentativo di prendere l'ascia, incontrò il corno che aveva riposto nella cintura. Lo tirò fuori e lo fissò per un attimo. Perché no? Non aveva molto da perdere ormai. Si portò il corno alle labbra, fece il respiro più profondo che riuscì a produrre e soffiò, emettendo una nota acuta e lunga, che gli fece tornare in mente un giorno non troppo lontano. Anche quando lui fu senza respiro, il richiamo rimase sospeso nell'aria, restio a spegnersi. Ma poi si spense e il woorm continuava ad arrivare. Aspar aveva raggiunto la rupe ora e la fortuna lo favorì un po': il suo arco era impigliato nei rami più bassi di un everic. Ma la freccia non riuscì a vederla da nessuna parte e il woorm... ...si stava improvvisamente voltando dall'altra parte rispetto a lui, uscendo dal canyon. Ma qualcosa continuava ad arrivare, qualcosa delle dimensioni di un uomo, ma che si muoveva troppo velocemente per essere un uomo. «Merda» gemette. «Non sarà un altro di quei maledetti...» Ma poi il monaco fu su di lui, con la spada come un bagliore appena visibile nel crepuscolo. Stephen s'irrigidì quando la nota alta e squillante di un corno echeggiò nell'aria della sera. Zemlé disse: «Cos'è?» «Riconosco quel corno» rispose lui. «È il corno del Re degli Alberi. Quello che ho suonato io, quello che lo ha evocato.» «Cosa significa?» «Non lo so» rispose Stephen distratto. Sotto di loro, il woorm aveva cominciato a fare cose strane. Anziché dirigersi dritto verso il praifec e i suoi uomini, si era allontanato tra gli alberi, in direzione del fianco della rupe. Subito dopo il suono del corno però, aveva ripreso la direzione giusta, muovendosi verso il gruppo di nemici in arrivo. Stephen fu attraversato da un formicolio quando si formò una linea di otto cavalieri che caricò la creatura. Si domandò se avessero una possibilità. Un cavaliere, un cavallo, armatura, bardatura a un galoppo sfrenato, il tutto concentrato sulla punta d'acciaio di una lancia rappresentavano una forza
formidabile. Ora vedeva anche i guerrieri sefry: dodici piccole figure che si avvicinavano al trotto agli uomini del praifec. Percepì uno scintillio attinico e capì che imbracciavano spade fatate, come il cavaliere contro cui lui e i suoi compagni avevano combattuto a Dunmrogh. I cavalieri s'infransero contro il khriim come onde su uno scoglio, tranne per il fatto che una volta rotta, l'onda tornava al mare. I cavalieri e i loro destrieri invece rimasero distesi nel punto in cui erano caduti. E questo fu tutto. Stephen sentì qualcosa che si muoveva sulla sua pelle e i peli delle braccia si drizzarono. Non aveva freddo, ma tremava. «Il corno...» mormorò. «Cos'è quello?» esclamò Zemlé. Lei indicò e Stephen vide una nuvola scura che si avvicinava, o almeno questo sembrava a una prima occhiata. Ma non lo era; anzi, era un insieme di migliaia di piccole cose, che volavano vicine. «Uccelli» disse. Ce n'erano di tutti i tipi: cornacchie, rondini, cigni, falchi, chiurli, e tutti piangevano o cantavano, producendo un suono stranissimo, la più strana cacofonia che Stephen avesse mai sentito. Quando raggiunsero la valle cominciarono a scendere a spirale verso la foresta, formando un tornado di ali. La foresta stessa si stava comportando in modo altrettanto particolare. Un acro si muoveva; gli alberi si piegavano gli uni verso gli altri, intrecciando i rami. A Stephen tornò in mente l'effetto del canto dreodh sull'albero su cui si erano rifugiati sfuggendo dai lardatoli, ma se si trattava della stessa magia, questa doveva essere molto più potente. «Santi» bisbigliò Zemlé. «Non credo che i santi abbiano molto a che fare con tutto questo» mormorò Stephen mentre guardava gli uccelli scendere nella foresta viva e sparire come inghiottiti. Adesso stava prendendo corpo una forma che Stephen riconobbe, anche se era più grande di come l'aveva vista in precedenza, forse alta trenta iarde. Qualche attimo dopo, con le corna che gli spuntavano sulla testa, il Re degli Alberi strappò le sue radici dal terreno e cominciò a camminare verso il khriim.
Aspar aspettò fino all'ultimo secondo poi scagliò l'ascia. Il monaco provò a girarsi, ma questa era la caratteristica del muoversi veloce: diventava più difficile cambiare direzione. Quel tentativo non fece che incidere negativamente sul colpo teso a decapitare Aspar. Questo infatti passò frusciando al di sopra della testa del guardaboschi, mentre l'assalitore lo superò con un balzo. Aspar si voltò e vide che il tipo stava già tornando indietro, ma fu felice di vedere che la sua ascia aveva trovato il suo bersaglio ferendo il braccio armato del nemico, il destro. La spada giaceva sul muschio impregnato d'acqua e il sangue zampillava dal bicipite. Era leggermente più lento, ma non di molto. Il pugno sinistro uscì fuori con un ronzio; ad Aspar sembrò di camminare sott'acqua quando le nocche entrarono in contatto col suo mento. Sentì il sapore del sangue e la testa risuonò come una campana mentre inciampava all'indietro. Il colpo successivo si abbatté su un fianco rompendogli le costole. Con un grido inarticolato, Aspar gettò il braccio sinistro intorno all'uomo, cercando di pugnalarlo ai reni, ma la lama non trovò il contatto. Il tipo invece si voltò in modo strano e Aspar si ritrovò lanciato in qualche modo contro un albero. La vista fu assalita da lampi rossi e neri, ma sapeva che non poteva smettere di muoversi, perciò rotolò su un fianco e cercò di rimettersi in piedi, sputando frammenti di denti. Afferrò un alberello e lo usò per tirarsi su. Fu solo quando provò a poggiare il peso sulla gamba che si accorse che era rotta. «Bene, merda» disse. L'uomo aveva recuperato la spada e stava tornando verso di lui, impugnandola con la sinistra. «Mi chiamo Ashern» disse. «Fratello Ashern. Voglio che sappiate che non c'è nulla di personale in tutto questo. Avete combattuto valorosamente.» Aspar sollevò il pugnale e gridò, sperando di coprire il rumore di zoccoli in arrivo, ma Ashern li sentì all'ultimo momento e si voltò. Aspar si lanciò e tutto divenne rosso. Orco impennò, interrompendo il suo galoppo sfrenato, e con gli zoccoli colpì il monaco. Con un movimento rotatorio del braccio fratello Ashern colpì dritto nella parte bassa del collo del grosso animale e poi continuò a girarsi, bloccando abilmente il disperato assalto di Aspar col coltello.
Poi lo zoccolo di Orco, che continuava a scendere, lo colpì alla base della nuca, fracassandogli il cranio. Aspar cadde e Orco crollò accanto a lui, col sangue che gli usciva a fiotti dal collo. Senza fiato, Aspar gli si arrampicò sopra pensando di poter chiudere in qualche modo la ferita del baio, ma quando la vide, capì che non c'era niente da fare. Allora si poggiò il muso dello stallone su un braccio e lo accarezzò. Orco sembrava confuso. «Vecchio mio» sospirò Aspar. «Non sei mai riuscito a tenerti fuori da un combattimento, vero?» Una bava rossa colò dal naso di Orco come se stesse cercando di nitrire in risposta. «Grazie, amico mio» disse Aspar. «Adesso riposati, d'accordo? Riposati.» Continuò ad accarezzare Orco fino a che non smise di respirare e il suo sguardo terribile si spense. E anche per un po' di tempo dopo. Quando Aspar finalmente rialzò la testa vide, a quattro iarde di distanza, l'astuccio della freccia nera. Annuendo tra sé, mise la corda all'arco e strisciò fino a che non trovò un ramo della giusta forma e altezza da usare come gruccia. Adesso la gamba pulsava dolorosamente, ma lui fece del suo meglio per ignorarlo, recuperò la freccia e si avviò zoppicante verso il luogo da cui provenivano i rumori della battaglia. 12 Solo una spada Catio fece un affondo completo, infilzando Acredo nell'occhio di uno schermidore. Una lama lo colpì da destra, ma col suo stocco impegnato a uccidere, l'unica cosa che aveva per deviarla era il braccio sinistro. Fu fortunato e prese il piatto della lama, ma il dolore fu comunque intenso. Estraendo la punta insanguinata di Acredo, parò un altro colpo, continuando a ritirarsi, chiedendosi quanto fosse profonda ancora quella stanza. Gli uomini di Robert stavano sfruttando quello spazio per sparpagliarsi, costringendo Catio a indietreggiare più velocemente per non essere circondato. Sapeva che avrebbe potuto ucciderne uno, forse due o più prima che una delle loro mannaie lo storpiasse e mettesse fine al combattimento. Do-
podiché non sapeva cosa avrebbe fatto. No. Non poteva permettere che prendessero Austra o Anne. Non poteva pensarlo. Rallentò la respirazione, che diventò più profonda, desiderando rilassare i muscoli che non stava usando. Z'Acatto gli aveva parlato una volta o due di una cosa chiamata chiodo sivo, o 'solo una spada', uno stato di fusione completa che un vero dessratore poteva raggiungere, grazie al quale sarebbe riuscito a compiere atti prodigiosi. C'erano state delle volte in cui Catio si era quasi sentito in quello stato. Aveva smesso di pensare a vincere o a perdere, a vivere o morire, alla paura, ed era diventato solo movimento. Parare, attaccare, parare, liberare, respirare, sentendo che la spada diventava parte del braccio, della spina dorsale, del cuore, della mente... Non possono ferirmi, pensò. Non c'è niente da ferire, solo una spada. E per un lungo e meraviglioso momento la raggiunse. La perfezione. Ogni mossa risultò corretta, ogni mossa risultò la migliore. Altri due uomini caddero, poi ancora due, e aveva smesso d'indietreggiare. Controllava il ritmo, il lavoro dei piedi, il pavimento stesso. Un momento. Ma quando si accorse di quel momento, perse il distacco di cui aveva bisogno per prolungarlo e il suo assalto vacillò, e due uomini arrivavano sempre a rimpiazzare chiunque lui riuscisse a uccidere. Riprese a indietreggiare, sempre più disperato, perché le forze di Robert cominciavano a circondarlo. Si rese conto di aver perso traccia delle donne e sperò fino all'ultimo che il suo attimo di chiodo sivo avesse offerto loro l'opportunità di fuggire. Perfino tu saresti stato orgoglioso di me, z'Acatto, pensò, mentre la coda dell'occhio lo avvisava di un nuovo combattente, al suo fianco. No, non al suo fianco, ma al fianco degli uomini di Robert. E non solo un uomo, ma un'orda. I nuovi arrivati non portavano armature, ma combattevano con coltelli lunghi e mostruosi e assestavano colpi corti, ma potenti. I nemici di Catio finirono tutti a terra in pochi secondi, lasciandolo senza fiato, pronto e in guardia, a chiedersi se il prossimo sarebbe stato lui. Il fatto che fossero nemici di Robert non li faceva automaticamente alleati di Anne. Ma quelli che stavano più vicini si limitarono a sorridergli, annuirono e posero fine al loro macello. Vide che erano almeno una cinquantina. Si rese anche conto in ritardo che non erano uomini, ma Sefry. La gente di Corte Gobelin, a quanto pareva, alla fine aveva deciso di schierarsi.
Aspar si fermò, chiedendosi quanto tempo fosse passato da quando qualcuno aveva visto qualcosa di lontanamente simile a quello che lui stava vedendo. Aveva creduto di essere confuso, ma ora capiva di non essere confuso, ma impazzito. Riusciva a vederli perché avevano schiacciato la foresta per mezza lega in tutte le direzioni. Il Re degli Alberi era una massa enorme e goffa che somigliava vagamente a una forma umana, anche se con le corna di un cervo, ma nel complesso aveva un aspetto meno umano del solito. Era impegnato a combattere con il woorm, che gli si attorcigliava addosso come un serpente nero intorno a un topo. Il re a sua volta aveva entrambe le mani titaniche sul collo del mostro. Mentre Aspar guardava, un torrente di veleno verde uscì fuori dalla bocca del grosso serpente, non un semplice vapore, ma un liquido vischioso che schizzò sul signore della foresta e poi cominciò a fumare, aprendo delle grosse vesciche su di lui. La sostanza di cui era fatto il re si riformò e coprì quelle vesciche. Non vide Fend. La sella era vuota e un rapido esame della foresta non rivelò nulla, sebbene poco più distante infuriava la battaglia tra gli uomini del praifec e qualche altra forza. Non riusciva a vedere granché. Una fitta di dolore lancinante alla gamba gli ricordò che avrebbe potuto perdere coscienza da un momento all'altro. Se aveva qualcosa da fare, doveva farla subito. E di sicuro aveva qualcosa da fare. Non aveva intenzione di pensarci oltre; non c'erano enigmi al riguardo. Sapeva da che parte stava. Aprì attentamente l'astuccio e tirò fuori la freccia nera. La punta scintillava come il cuore di un fulmine. Il praifec aveva detto che la freccia poteva essere usata sette volte. Era già stata usata cinque volte quando Aspar l'aveva ricevuta. Lui l'aveva scoccata una volta per uccidere un utin e salvare Winna. Quindi rimaneva un unico tiro. Posizionò il dardo sulla corda e prese la mira, sentendo il vento e osservando la spira di vapori intorno ai combattenti, desiderando che il tremore dei muscoli diminuisse perché la mente potesse ordinare loro cosa fare. Un respiro profondo, due e tre, e poi sentì il colpo e lasciò andare la corda. Osservò il lampo di luce che si rimpiccioliva e poi spariva alla base del cranio del woorm.
Aspar si accorse che stava trattenendo il respiro. Non dovette aspettare molto. Il woorm lanciò un orribile grido capace di frantumare la roccia e il corpo si contorse e inarcò, vomitando veleno. Il Re degli Alberi lo afferrò per la coda, lo srotolò e lo lanciò nella foresta. Parte del braccio del re si spezzò e seguì il mostro e il re barcollò, mentre si staccavano grossi frammenti dal suo corpo. Strinse un albero con tutte e due le mani per reggersi, ma continuò a squamarsi. «Per il Malvagio» brontolò Aspar e chiuse gli occhi. Cadde accanto al ramoscello che aveva usato come supporto, vedendo prima comparire le grandi spire del woorm e poi sparire dietro agli alberi. Col passare dei secondi il rumore dei suoi passi pesanti diminuì. Non riuscì più a vedere il Re degli Alberi. Fu assalito da un senso di spossatezza e di sollievo. Quella almeno era fatta. Sapeva che avrebbe dovuto provare a ricomporre la frattura alla gamba, ma prima doveva riposare. Tirò fuori la borraccia d'acqua e bevve. Il cibo stava sopra a Orco, e comunque non aveva molta fame. Eppure, probabilmente aveva bisogno di mangiare... Riprese improvvisamente coscienza e si rese conto di essersi appisolato. Il Re egli Alberi lo stava guardando. Adesso era solo il doppio di un uomo normale, e il volto era quasi umano, anche se coperto da una leggera pelliccia marrone. Gli occhi verde foglia erano all'erta e Aspar credette di scorgere un debolissimo sorriso sulle labbra del signore della foresta. «Credo di aver fatto la cosa giusta, vero?» disse Aspar. Non aveva mai sentito il Re degli Alberi parlare e non lo fece neanche adesso. Ma la creatura si avvicinò e improvvisamente Aspar si sentì invadere da un'ondata di vita. Sentì odore di quercia, di fiori di mela, di sale marino, di muschio d'alce in calore. Si sentì più grande, come se la terra fosse la sua pelle e gli alberi i peli sopra di essa, e la cosa lo riempì di una gioia mai sentita prima, tranne forse quando era giovane e correva nudo nella foresta, arrampicandosi sulle querce per il puro amore che provava per loro. «Non sapevo...» cominciò a dire. E con la celerità di un osso che si spezza, tutto finì. La felicità uscì da lui come sangue da una vena squarciata, quando gli occhi del Re degli Alberi si spalancarono e la bocca si aprì in un grido muto.
Lì, sul petto, qualcosa scintillava come il cuore di un fulmine... Il re incollò lo sguardo su di lui e Aspar sentì un prurito nel corpo. Poi la forma che stava davanti a lui semplicemente cadde a pezzi, crollando in un mucchio di foglie e uccelli morti. Il petto di Aspar ansimava nel tentativo di respirare, ma il profumo dell'autunno lo soffocava e si portò le mani alle orecchie per provare a zittire il lamento funebre profondo che vibrava nella terra e negli alberi come se all'unisono le creature selvatiche del mondo avessero capito che il loro sovrano era morto. Come un fulmine che cadeva davanti a lui, vide foreste diventare polvere, enormi pianure rigogliose imputridire, leghe di ossa sbiancare sotto un sole diabolico. «No» esclamò, riuscendo finalmente a respirare. «Oh, credo proprio di sì invece» rispose una voce familiare. Poche iarde più indietro rispetto a dove prima stava il Re degli Alberi, c'era Fend, con un arco in mano e un ghigno malvagio sulle labbra. Indossava una strana armatura, ma aveva tolto l'elmo. La bocca era macchiata da sangue scuro e aveva una luce negli occhi che sembrava folle anche per lui. Aspar cercò a tentoni il suo pugnale; non aveva più l'ascia né le frecce. «Bene» disse Fend. «Ecco qua. Tu hai ucciso il mio woorm, ma non è stato un grande male. Sai cosa accade quando bevi il sangue fresco di un woorm?» «Perché non me lo dici tu, pezzo di merda?» «Andiamo, Aspar» disse Fend. «Non essere così arrabbiato. Io ti sono grato. Ero destinato a bere il sangue, sai? Il problema era come arrivare a esso una volta che la bestia aveva assolto il suo compito. E tu hai risolto il problema in modo piuttosto preciso. Meglio ancora, mi hai fornito la cosa che mi serviva per uccidere Sua Maestà Rovo e Malerba.» «No» replicò Aspar. «La freccia poteva essere usata solo sette volte.» Fend agitò un dito. «Tsk. Non è da te credere alle favole, Aspar. Chi ti ha detto che poteva essere usata solo sette volte? Il nostro vecchio amico praifec? Dimmi un po', quando uno costruisce un'arma così potente, perché dovrebbe poi limitarne l'uso?» Si diresse verso il mucchio di marciume che era tutto ciò che rimaneva del Re degli Alberi e tirò fuori la freccia. «No» disse. «Questa sarà ancora utile in futuro, credo. Tu devi ancora
avere l'astuccio, vero? Ah, eccolo là.» «Già. Vieni a prenderlo.» «Hai ucciso Ashern, vero? Questi monaci di Mamres sono sempre troppo sicuri della loro velocità e forza. La cosa gli fa dimenticare che l'abilità, e nel tuo caso la testardaggine, possono arrivare lontano.» Sistemò la freccia sulla corda. «Non credo che questa faccia molto male, tutto sommato» disse Fend. «Per me va bene. Tu mi hai preso l'occhio, ma io considero assolto il debito adesso. Mi dispiace che tu non possa morire combattendo, ma dovrei aspettare troppo tempo perché tu possa guarire e continueresti a essere una seccatura. Ma posso farti alzare, se preferisci, così puoi morire in piedi almeno.» Aspar lo fissò un momento, poi puntellò la gruccia improvvisata sotto al braccio e si tirò su dolorosamente. «Dimmi solo una cosa,» fece «prima di uccidermi. Perché Qerla?» Fend fece un largo sorriso. «Davvero? Non 'Perché uccidere il Re degli Alberi?' oppure 'Che sta succedendo?' Ancora insisti sulla faccenda di Qerla? Ma è successo così tanto tempo fa.» «Proprio così. È tutto quello che voglio sapere.» «Non volevo ucciderla, sai?» disse Fend. «Una volta era mia amica. Ma ho pensato, abbiamo pensato, che stava per dirtelo.» «Dirmi cosa?» «Il grande segreto dei Sefry, zuccone.» «Di che merda stai parlando?» Fend scoppiò a ridere. «Hai vissuto insieme a noi tutti quegli anni e non l'hai mai intuito? Credo che sia normale. Perfino alcuni Sefry non lo sanno.» «Non sanno cosa?» «Cosa siamo» rispose Fend. «Noi siamo Skaslos, Aspar. Siamo ciò che resta degli Skaslos.» «Ma...» «Ah, no, mi dispiace. Ho risposto alla tua domanda. È tutto quello che saprai.» Fend sollevò l'arco e Aspar s'irrigidì per un ultimo tentativo. Il pugnale non era ben equilibrato per essere lanciato, ma... Erano zoccoli di cavallo quelli che sentiva? Vide un'immagine fulminea di Orco che tornava dalla morte e quasi si mise a ridere. Gli occhi di Fend si strinsero e poi si spalancarono per lo stupore quando
una freccia colpì la sua corazza, seguita rapidamente da un'altra nella giuntura del ginocchio. Aspar si voltò e vide che c'era davvero un cavallo che arrivava rumorosamente alle sue spalle, ma non si trattava di Orco; era un pezzato grigio che non aveva mai visto prima. La persona che cavalcava la riconobbe grazie alla carnagione pallida, la frangia nera e gli occhi viola e a mandorla. Aveva un arco e scoccò di nuovo, stavolta mirando alla testa di Fend. Ma lui si spostò di lato e la freccia lo mancò. Il cavallo inchiodò e lei saltò giù, appoggiando l'arco sulla spalla. «Avanti,» ordinò «monta su.» «Fend...» «No, guarda» disse. «C'è dell'altro. Salta su!» Lei dovette tiragli su la gamba rotta; il dolore fu talmente forte che quasi svenne. Ma vide cosa intendeva dire. Diverse figure in armatura stavano arrivando in soccorso di Fend. Lo stesso Fend si stava rialzando, sistemando la freccia mortale sulla corda. Leshya fece ruotare il suo cavallo e si lanciarono al galoppo. Aspar voleva prenderle l'arco e scoccare un colpo d'addio contro Fend, ma un duro rimbalzo gli causò una fitta come se fosse stato colpito da una mazza e perse coscienza. Anne batté le palpebre stupita quando i Sefry s'inginocchiarono davanti a lei. «Credevo che Madre Uun avesse detto che i Sefry non avrebbero combattuto» disse Austra. Anne annuì e strinse la mano dell'amica. «Chi di voi è il comandante?» domandò. Un tipo dagli occhi neri, i capelli di un biondo chiaro e una corazza argentata chinò il capo. «Io sono il capitano di queste truppe, Vostra Maestà.» «Come vi chiamate, signore?» «Cauth Versial, Altezza» rispose. «Alzatevi, Cauth Versial» disse Anne. Lui obbedì. «Vi ha mandato Madre Uun?» domandò alla fine. «Lei ci ha detto cosa vi ha promesso il Prigioniero.» «Ma sono passati solo pochi istanti» protestò Anne. «Come faceva a saperlo? Come avete fatto ad arrivare così presto?»
«Stavamo aspettando, Maestà. Madre Uun aveva previsto questa possibilità.» «Non capisco» disse Anne. «Madre Uun aveva detto di essere una dei suoi guardiani; lei contribuiva a tenerlo prigioniero. Perché lui sarebbe andato da lei?» «Queste sono questioni antichissime, Vostra Maestà,» rispose Cauth «e io non le capisco completamente. Solo questo faceva parte del nostro geos, che se lui fosse mai stato liberato, avrebbe potuto ordinarci una cosa.» «E lui vi ha ordinato di salvarmi la vita.» «Di proteggervi e servirvi, Maestà.» «Allora il vostro compito non è finito?» «No, Maestà. Non lo è. Non fino a quando non ci liberate o moriamo.» «Quanti siete?» «Centocinquanta, Maestà.» «Cento... Conoscete una via per entrare nel castello da qui?» «Sì, Maestà» disse il Sefry indicando. Lei si voltò e vide che praticamente era indietreggiata fino a un massiccio portale di metallo. «Ha ragione» disse Alis. «Il principe Robert forse avrà bloccato tutti gli altri passaggi, ma non avrebbe mai chiuso l'accesso al Prigioniero. Però serve una chiave.» Proprio mentre lo diceva, la porta si aprì senza fare rumore, rivelando un Sefry antico, talmente fragile e sottile che Anne ebbe quasi paura che fosse un altro morto vivente. I suoi occhi fissavano il nulla senza espressione. «Maestà» disse il vecchio. «Alla fine siete arrivata. Benvenuta.» Alis emise un mormorio. «Vi era stata tagliata la lingua» disse. «E vi avevano perforato i timpani.» Il vecchio Sefry sorrise. «Sono guarito.» «Non sembrate molto contrariato che il vostro sorvegliato sia fuggito» disse Anne. «Era destino» rispose il Carceriere. «Ho sentito che se ne andava e sono venuto qui.» «Comandate pure, Maestà» disse Cauth. Anne fece un respiro profondo. «Credete di avere abbastanza uomini per prendere il castello dall'interno?» «Con il fattore sorpresa, credo di sì.» «Molto bene. Catio, voi venite con me. Austra, prendi dieci di questi Sefry come guardie del corpo. Il Prigioniero ha detto che avrebbe eliminato l'incantesimo dai passaggi. Vediamo se è vero. Trova sir Leafton. Fagli
prosciugare i passaggi inferiori e mandate fuori delle staffette per prendere rinforzi dall'esercito. Il resto di voi verrà con me. No, aspettate. Mio zio Robert era insieme a questi uomini. Trovatelo e portatelo da me.» Ma Robert, neanche a dirlo, non fu trovato da nessuna parte. 13 L'attesa di Muriele Con la scomparsa di Alis, Muriele si sentì come cieca al mondo esterno. Aveva le sue due finestre ovviamente, e di tanto in tanto le guardie si lasciavano scappare qualcosa quando pensavano che non potesse sentire, ma raramente si fidava di ciò che sentiva, perché tutto ciò che 'origliava' da loro poteva far parte di uno dei tranelli di Robert. Ma qualcosa stava succedendo fuori, di questo era sicura. Dalla finestra che guardava a sud, poteva scorgere un bel pezzo della città, e da giorni succedeva qualcosa vicino a Solidità; intravide fugacemente uomini con l'armatura e pezzi d'artiglieria che si muovevano per le strade che conducevano lì. Era forse una rivolta? O Robert era diventato ancora più pazzo e aveva deciso per qualche motivo di massacrare i Sefry? Esisteva una terza possibilità, una alla quale lei a stento osava pensare. Si diceva che il passaggio Crepling avesse un'uscita su Corte Gobelin. Forse sir Fail era tornato? Ma no, non avrebbe potuto ricordarsi del passaggio. A meno che Alis... Ma Alis era morta, no? A questo interrogativo era appesa la speranza più sottile di Muriele. Ma rinchiusa in una torre com'era, aveva un sacco di tempo per lasciarsi andare alle ipotesi più assurde. Le ultime parole della ragazza erano state in lierish, la lingua nativa di Muriele. Mi addormento. Dormo. Vi troverò. Alis era stata educata in un coven e conosceva bene le virtù di migliaia di veleni. Forse era stata una morte solo apparente? No. Era una speranza folle. Immaginò altri scenari. Forse praifec Hespero era giunto alla conclusione che i Sefry fossero degli eretici da dover impiccare e i Sefry non intendevano arrendersi docilmente. Questo sicuramente aveva senso. Forse qualcosa era andato storto con l'alleanza tra Robert e Hansa e que-
st'ultima era in qualche modo riuscita a trovare un appiglio dentro Eslen. Ma no, questo non era affatto probabile. Il suo abito da sposa era stato cucito e gli altri preparativi per il matrimonio sembravano procedere senza intoppi. La finestra che dava a est, se da una parte offriva una fantastica vista dei fiumi Rugiada e Mago, non poteva dirle altro. Desiderava fortemente poter dare un'occhiata a ovest, verso Fortezza-di-Spine, o a nord verso il Poel del Re. Se di battaglia si trattava, quello era il posto dove si stava svolgendo. Cercò di passare il tempo come meglio poté in attesa che accadesse qualcosa, perché adesso tutto era fuori della sua portata. Scoprì che questo le piaceva, in un certo senso. L'unica cosa che veramente l'affliggeva era non sapere cosa fosse successo a Anne. L'ombra di Erren le aveva assicurato che la figlia più giovane era ancora viva, ma questo ormai era successo mesi prima. Chissà se Neil MeqVren era riuscito a trovarla... Se anche ci fosse riuscito, non l'avrebbe portata lì, non avrebbe potuto. Perciò era meglio immaginare che Anne fosse salva, protetta, in incognito in qualche paese lontano. In un giorno che stimò trattarsi del quindici di Etramen, Muriele fu risvegliata dal clangore delle armi. A volte il vento le portava il suono dell'acciaio dalla città e le grida degli uomini. Ma stavolta sembrava più vicino, forse addirittura nella rocca interna. Andò alla finestra e allungò il collo per guardare giù, ma poiché la Torre Pelliccia di Lupo era situata sulle mura meridionali della rocca, riuscì a vedere pochissimo del cortile interno. Però poté sentire meglio e fu più sicura che mai che sotto si stava combattendo. Un movimento più lontano, verso l'orizzonte, attrasse la sua attenzione. Al di là delle mura della città, riusciva a vedere uno spicchio di Eslendelle-Ombre, la necropoli in cui riposavano i suoi antenati, e oltre quella il melmoso e basso canale meridionale del Mago. Dapprima le sembrò che uno stormo di cigni si fosse posato sulle lingue paludose, ma poi la prospettiva della distanza si fece più definita e vide che si trattava di barche: per lo più galere e imbarcazioni da canale. Ma non riuscì a vedere vessilli che le permettessero di riconoscerne la provenienza. Quando la guardia le portò da mangiare, le sembrò terrorizzata. «Che c'è?» domandò Muriele a quel soldato. «Cosa sta succedendo?» «Niente, Regina Madre» rispose lui.
«È un bel po' di tempo che non mi chiamavate così» osservò lei. «Già» replicò l'altro. Stava per aggiungere qualcosa, ma scosse il capo e chiuse la porta. Un attimo dopo questa si riaprì. Era lo stesso uomo. «Non mangiatelo» disse, con un tono di voce bassissimo. «Sua Maestà aveva detto che se mai... be', insomma non mangiatelo, per favore, Vostra Altezza.» Richiuse a chiave la porta. Lei mise da parte il cibo. Passò del tempo e il tumulto si calmò, poi riprese un po' più lontano, nella rocca esterna. Muriele aveva una visuale ridottissima del Cortile Honot davanti al grande cancello della rocca esterna, e riuscì a distinguere il sole che splendeva sulle armature laggiù, oltre alle scure traiettorie delle frecce. Grida di coraggio e urla di dolore riempivano il cielo di tanto in tanto e pregò i santi che nessuno di quelli che conosceva stesse morendo. Era quasi buio quando sentì il cozzare dell'acciaio nella torre stessa. Si sistemò sulla sua poltrona e aspettò, senza sapere cosa, pensando che se non altro era qualcosa, e qualcosa che Robert non aveva programmato. Anche se questo avesse voluto dire che erano invasi da orde massacratrici di Weihand, sarebbe stato comunque meglio di tutto quello che in seguito suo cognato avrebbe potuto ideare. Trasalì quando il combattimento giunse alla sua porta e un gemito pietoso attraversò i pesanti travi e le pareti di pietra. Sentì il familiare raschiare della chiave nella serratura. La porta si spalancò e il corpo insanguinato della guardia che l'aveva avvisata di non mangiare il cibo si affacciò goffamente sulla soglia. Batté le palpebre verso di lei e provò a parlare, ma dalla bocca uscì solo sangue. Subito dietro arrivò un uomo che lei non riconobbe. Aveva un chiaro aspetto meridionale, sottolineato dall'arma che imbracciava, il tipo che aveva visto usare ai Vitelliani. Il suo sguardo scuro scrutò rapidamente la stanza vuota e tornò a concentrarsi su di lei. «Siete sola?» domandò. «Lo sono. Voi chi siete?» Prima che l'uomo potesse rispondere, comparve un'altra faccia dietro di lui. Nei primissimi istanti tutto ciò che Muriele riuscì a distinguere fu il portamento regale e lo sguardo severo. Santa Fendve, la Strega Guerriera in persona. Solo quando la donna si tolse l'elmo, Muriele riconobbe sua figlia. La
pelle era scura e segnata dalle intemperie e i capelli le arrivavano solo alla gola. Indossava abiti da uomo e perfino una piccola corazza, e una guancia mostrava un livido infiammato. Appariva meravigliosa e terribile e Muriele poté solo domandarsi cosa avesse divorato sua figlia e preso le sue sembianze. «Lasciateci sole un momento, Catio» disse Anne calma. Lo spadaccino annuì e sparì di nuovo oltre la soglia. Quando se ne fu andato, l'espressione di Anne si addolcì e la ragazza si lanciò in avanti, tra le braccia di Muriele mentre questa si alzava. «Madre» riuscì a dire Anne senza fiato e poi scoppiò in lacrime mentre si abbracciavano. Muriele provò una strana sensazione, era quasi troppo sorpresa per poter reagire. «Mi dispiace» esclamò Anne. «Per le cose che vi ho detto. Ho temuto che sarebbero state le ultime.» Esplose in singhiozzi ancora più violenti e mesi di isolamento si sciolsero dentro Muriele. Giorni interminabili di speranze represse crollarono. «Anne» sospirò. «Sei tu. Sei tu.» E poi anche lei cominciò a piangere insieme a sua figlia e c'erano così tante cose da dire eppure non abbastanza. Ma ci sarebbe stato tempo, no? Nonostante le avversità, avevano tempo. Leoff si asciugò le lacrime e provò a ricomporsi; era quasi mezzogiorno. Così tanto dipendeva da cose talmente piccole. Il carnefice di Robert aveva avuto pietà di lui? Probabilmente no, e in questo caso, il suo lavoro di una notte sarebbe stato inutile. Seppure l'assassino di Ambria si fosse leggermente impietosito, troppe altre cose dovevano andare per il verso giusto. Doveva infilare la cera nelle orecchie di Mery senza farsi vedere e non farla protestare o domandare ad alta voce perché lo avesse fatto. Gli dovevano consentire di stare in piedi accanto ad Areana in modo che potesse coprirle le orecchie nel momento cruciale. Se anche riusciva a fare tutto questo, non era sicuro che avrebbe funzionato. Qualche nota sarebbe entrata nelle loro teste nonostante tutte le precauzioni. E avrebbe potuto rivelarsi fatale. Improvvisamente gli venne in mente che se fosse riuscito a trovare un ago, avrebbe potuto perforare in tempo i timpani di Areana. Ma ci aveva pensato troppo tardi, perché sentì il tonfo degli stivali lungo il corridoio. Un attimo dopo la sua porta si aprì e anche il minuscolo piano che aveva
preparato andò all'aria. Perché lì sulla soglia c'era Robert Dare. Il principe sorrise ed entrò nella stanza, dandosi un'occhiata intorno con una specie di finto interesse. Per un singolo e meraviglioso istante, Leoff pensò che l'usurpatore avesse annullato l'esecuzione, ma poi Mery e Areana vennero scortate nella stanza dal boia, da quattro guardie e da lord Respell. «Bene,» disse Robert, curiosando tra i fogli sulla scrivania di Leoff «a quanto pare siete stato impegnato.» «Sì, Vostra Maestà.» Robert apparve sorpreso. «Oh, sono Maestà adesso, vero? E come mai?» Diede un'occhiata a Mery e Areana. «Ah, giusto» disse, toccandosi la testa con l'indice. «Per favore, Vostra Maestà.» «Oh, per favore voi, viscido cane» rispose Robert secco. «Non sono dello stato d'animo giusto per garantire clemenza. Cappio è il mio uomo. Come si sentirebbe se gli concedessi l'autorità di prendere decisioni e poi gliela strappassi, eh? Be', non è così che si ottiene lealtà, no?» «Prendete me al loro posto» disse Leoff. «No» rispose Robert. «Voi avete del lavoro da fare per me, ricordate? A meno che non abbiate finito.» «Ho fatto un bel po', ma non ho ancora terminato» disse Leoff. «E ho ancora bisogno d'aiuto.» «Dovrete accontentarvi di metà personale» esclamò Robert. «Ma ora, prima della vostra piccola decisione, perché non eseguite un pezzetto di questo per me? Ho sentito dire che voi tre suonate molto bene insieme. Vi piacerebbe farlo un'ultima volta?» Leoff batté le palpebre. «Certo, Sire. E magari se vi piacerà...» «Se mi piacerà, allora non sarò costretto a spendere altro tempo per insegnarvi come ci si comporta» rispose secco Robert. Leoff annuì, cercando di trasformare il suo viso in una maschera. «Va bene» disse. «Mery, Areana, venite qui per favore.» Loro si avvicinarono. Mery sembrava confusa, ma non particolarmente preoccupata. Areana era bianca e tremava. «Leoff» bisbigliò. Leoff tirò su un foglio. «Lasciatemi aggiungere qualche nota al volo» disse. «Credo che a Vostra Maestà piacerà di più se mi concederete qualche secondo per discutere...»
«Sì, sì, prego» sospirò Robert. S'incamminò verso la finestra e guardò fuori, corrugando la fronte. «Presto saranno qui» disse lord Respell agitato. «Chiudete il becco» rispose Robert. «O chiederò a Cappio di tagliarvi la lingua.» Leoff si domandò di cosa stessero parlando, ma non poteva perdere tempo con quello. La sua mente infatti sfrecciava furiosamente tra accordi tenebrosi. «Mery» bisbigliò. «Dovete suonare questo. Non vi piacerà, ma dovrete farlo. Capito?» «Sì, Leoff» rispose lei in tono compassato. «Areana, voi canterete questa riga alta. Leggete le parole da Sa Lutti af Erpoel.» Abbassò ancora di più la voce. «Adesso... questo è importantissimo.» Aggiunse a matita altre note nelle ultime tre battute. «Dovrete entrambe cantare queste a bocca chiusa e a voce bassa. Ontro Vobo, d'accordo?» Gli occhi di Areana si spalancarono, lui la vide deglutire a fatica, ma alla fine annuì. «D'accordo allora» disse Leoff. «Siamo pronti? Mery, potete iniziare.» «Sì, prego» replicò Robert. Rimase a guardare fuori dalla finestra. Mery mise le dita sulla tastiera, allungandole per suonare quello strano accordo e spinse. Le note vibrarono nell'aria, come una piccola minaccia, ma soprattutto intriganti, illecite, come il brivido di trasformare qualcosa di leggermente malvagio in suono. Le mani di Mery acquistarono sicurezza e Areana si unì, cantando parole che non avevano assolutamente niente a che fare con la musica, che squillavano con una cruda sensualità capace di eccitare un improvviso desiderio peccaminoso in Leoff, al punto che quando lui si unì al canto, non poté fare a meno d'immaginare le cose che le avrebbe voluto fare, i modi in cui avrebbe potuto arrecare piacere e dolore al suo corpo flessuoso. La canzone era un incantesimo di morte, ma andava costruito. Suonare l'ultimo accordo non sarebbe servito a nulla se l'ascoltatore non fosse stato condotto sull'orlo del precipizio. Fino a quel momento si era trattato del sesto modo modificato, ma adesso Mery li trasportò con una frenetica sequenza di note nel settimo e la lussuria si trasformò sottilmente in follia. Sentì Robert ridere forte e uno sguardo intorno alla stanza, alle bocche spalancate o i ghigni serrati rivelò a Leoff che erano tutti impazziti insieme a lui.
Perfino gli occhi di Areana scintillavano febbricitanti e a Mery sembrava mancasse il respiro mentre tutto aumentava di ritmo in un goffo wervel e poi si addolciva, passando a un modo per il quale Leoff non aveva nome, che si diffondeva in ampi accordi. Il mondo sembrava afflosciarsi sotto i loro piedi, ma la voce di Areana era una gioia cupa. La paura era sparita, e tutto ciò che rimaneva era il desiderio di un abbraccio infinito nella notte, del tocco della decomposizione, di quell'amante più paziente, inevitabile e totale. Sentì che le ossa fremevano per staccarsi dalla carne e poi imputridire come stoffa. La fine stava arrivando, ma non voleva ancora cantare le note che aveva aggiunto. Perché avrebbe dovuto? Cosa poteva essere meglio di questo? Un termine al dolore e allo sforzo... un riposo eterno... Da lontano sentì una mano che stringeva la sua e Areana si inclinò verso di lui, più vicina, aveva smesso di cantare. Ma con la bocca chiusa continuò la melodia nel suo orecchio. Leoff fece un respiro doloroso, orribile, e si rese conto che aveva smesso di respirare. Scuotendo il capo, iniziò il contrappunto scritto velocemente, anche se questo sembrò infilarsi nel cervello come una scure. Si piegò in due, continuando a cantare a bocca chiusa, cercando di coprirsi le orecchie, ma le mani erano come pietre, e caddero a terra mentre macchie nere gli annebbiavano la vista. Il cuore prese a battere in modo strano, si fermò per un lungo istante e poi prese a picchiare come se avesse voluto esplodere. Scoprì di avere la faccia contro la pietra. Areana era caduta accanto a lui e, in preda a un panico incontrollabile, Leoff si allungò per sentirla, temendo che fosse morta. Ma no, respirava ancora. «Mery.» La ragazza era crollata sul clavicordo, con gli occhi sbarrati e vuoti, e la saliva sul mento. Le dita erano ancora sui tasti, che scattavano senza controllo, ma avevano smesso di spingere per produrre un suono. Tutti gli altri nella stanza giacevano a terra immobili. A eccezione di Robert che, in piedi, fissava fuori dalla finestra, accarezzandosi la barba. Costringendo le gambe a muoversi, Leoff strisciò verso Mery e la tirò giù tra le sue braccia. Areana stava provando a mettersi seduta e Leoff le tirò tutte e due a sé, e si strinsero tremando. Mery venne presa da una specie di singhiozzo e Leoff cercò di accarezzarle i capelli con il moncone della sua mano. «Mi dispiace» mormorò. «Mi dispiace, Mery.»
«Bene» disse Robert finalmente voltandosi. «Molto carina, proprio come avevate promesso.» Si avviò a lunghi passi verso l'uomo che aveva chiamato Cappio, che giaceva faccia in giù in una pozza di vomito. Gli diede un calcio nelle costole, con violenza. Poi s'inginocchiò, poggiò la mano sul collo dell'assassino, quindi si spostò su lord Respell, che era caduto contro la parete, seduto sul pavimento. Gli occhi di Respell erano ancora aperti, pietrificati in un'espressione di adorazione. Robert estrasse un coltello e tagliò le arterie del collo di Respell. Uscì un po' di sangue, ma era chiaro che il cuore aveva smesso di pompare. «Molto bene» mormorò Robert. «Tutti morti. Benissimo.» Si avviò a grandi falcate verso il clavicordo, prese la partitura e cominciò ad arrotolarla. «Proprio quello che volevo» disse. «Mi complimento con voi per il vostro lavoro, ben fatto.» «Lo sapevate?» «Pensavo che quel vecchio libro avrebbe potuto essere utile» gli confidò Robert con una terribile, falsa giovialità. «Non per me, ma sapevo dentro di me che voi sareste stato in grado di svelare i suoi segreti, se adeguatamente motivato.» «Siete orribile» riuscì a gracchiare Areana. «Orribile?» ripeté sprezzante Robert. «Non sapete fare di meglio?» Infilò il manoscritto in un astuccio cilindrico di cuoio ingrassato. Leoff credette di sentire un debole tramestio alla porta. Gemendo, si costrinse a mettersi in piedi e tirò su Mery. «Corriamo» disse ansimando. «Oh, andiamo» cominciò a dire Robert, ma Leoff era concentrato a combattere contro le vertigini e a rimanere in equilibrio sulle gambe. Areana era subito dietro di lui. Uscirono sul corridoio e si diressero barcollando verso le scale. «Tutto questo è davvero seccante» gridò Robert dietro di loro. Leoff inciampò sul gradino, ma Areana lo sorresse. I polmoni gli bruciavano, aveva bisogno di fermarsi, ma non poteva, non voleva... Come mai Robert non era morto? Si era tappato le orecchie? Leoff non aveva notato nulla. Si fissò i piedi come se non facessero parte del suo corpo, perché non li sentiva tali. Sapeva che si stavano muovendo troppo lentamente, come in una Donna Nera. Gli tornò in mente lo stiletto di Robert, bagnato di sangue, non riusciva a voltarsi per paura di vederlo tagliare la gola morbida,
bella di Areana... Poi improvvisamente si ritrovarono faccia a faccia con uomini in armatura. «No!» gridò Areana e si lanciò in avanti, ma gli uomini la presero tra le braccia forti e lo stesso fecero con Leoff e Mery. Fu allora che Leoff notò la donna che era con loro, la stessa che era venuta a liberarlo nella sua cella. «Siete vivo» disse lei. «Robert è ancora lassù?» «Sì» esclamò lui. «Con quanti uomini?» «È solo.» Lei annuì, poi parlò con uno dei soldati. «Riportateli a Eslen. Abbiate cura di loro e sinceratevi che un leic li visiti immediatamente. Sua Maestà vuole il massimo per loro.» Stordito, non più capace di resistere pur desiderandolo, Leoff si lasciò trasportare fuori dove molti altri uomini e diversi carri stavano aspettando. Su uno di questi lasciò che i suoi muscoli si rilassassero e si sdraiò sotto il sole tiepido. Mery aveva cominciato a piangere, e lui sperava che fosse un buon segno. «Non ho mai abbandonato la speranza» gli disse Areana. «Ricordavo ciò che mi avevate detto.» «Ci avete salvato» rispose Leoff. «Mi avete salvato.» Si accostarono l'uno all'altra, con Mery in mezzo a loro. Il sole sulla pelle di Leoff sembrava pulito e reale, una cosa lontana dall'orrore. Fatta eccezione... «Ho dato a Robert una cosa terribile» mormorò. «Un'arma micidiale.» «Rimedierete» bisbigliò Mery, con la voce stanca, ma ferma. «Mery. State bene?» «Rimedierete» ripeté. Poi si addormentò. Era stupido, era solo la fiducia di una bambina di sei anni, ma Leoff si sentì meglio comunque. E molto prima di arrivare a Eslen, si era unito a Mery nel sonno. Epilogo Ottimo lavoro Neil fu svegliato dallo schiamazzo e dal trambusto. Si ritrovò in una
stanza ariosa, disteso su lenzuola pulite e con una sensazione terribile. Dandosi un'occhiata intorno si accorse di essere circondato da feriti. Provò a mettersi seduto, ma poi ci ripensò. Rimase invece disteso, cercando di rimettere insieme quello che ricordava. La battaglia per la corte; se la ricordava abbastanza bene, ma tutto quello che era successo dopo risultava frammentario. Credeva di essere stato a bordo di una barca a un certo punto e di aver sentito una voce familiare. Poi gli tornarono in mente alberi senza foglie pieni di corvi neri, ma questo poteva essere stato un sogno. E poi, di sicuro questo era un sogno/una corsa lunghissima in una galleria scura, piena di gente; qualcuno lo conosceva, qualcuno no. Tra quelli che conosceva alcuni erano morti, altri erano ancora vivi. Scoprì di aver richiuso gli occhi e aprendoli trovò una giovane donna vestita con un soggolo che gli offriva dell'acqua. La prese, meravigliato al buon sapore che sentì. La luce del sole che arrivava dalla finestra gli fece tornare alla memoria il polline, quando era piccolo e si distendeva tra i trifogli a guardare il lavoro delle api, prima ancora che avesse mai imbracciato uno scudo di guerra o avesse visto morire un uomo. «Cosa è successo?» domandò alla donna. «Che intendete dire?» rispose lei. «Siamo a Eslen?» «Sì, siete nella Casa della Corporazione Liex. Siete stato molto fortunato. Santa Tetra vi aveva preso con sé, ma vi ha lasciato tornare da noi.» Gli sorrise e poi alzò un dito. «Scusate un attimo. Mi è stato chiesto di riferire quando vi foste svegliato.» Si allontanò in fretta, prima che lui potesse rivolgerle un'altra domanda. Ma dopo pochissimi istanti, un'ombra si posò su di lui e lo costrinse ad alzare lo sguardo. «Vostra Maestà» mormorò Neil, cercando ancora una volta di alzarsi. «No» disse lei. «Non muovetevi. Ho aspettato che vi svegliaste e non vorrei uccidervi adesso con la mia presenza. Oh, e credo che dovreste abituarvi a chiamarmi Regina Madre.» «Come desiderate, Regina Madre» rispose lui. «State bene, a quanto vedo.» «Voi invece avete avuto un aspetto migliore» replicò Muriele. «Ma mi è stato detto che sareste dovuto morire. Se la Chiesa avesse ancora influenza in questa città, potreste essere processato per stregoneria.»
Neil batté le palpebre. Lei lo aveva detto per scherzare, ovviamente, ma a lui tutt'a un tratto tornò in mente la visione del volto di Brinna. Brinna, che gli aveva salvato la vita una volta, usando in qualche modo parte della sua stessa vita per farlo. Poteva averlo fatto di nuovo, da lontano? Le doveva la vita anche stavolta? «Sir Neil» lo richiamò Muriele. Lui scosse il capo. «Niente» rispose. «Uno strano pensiero.» Sentiva gli occhi stanchi, ma si costrinse a tenerli aperti. «Non avete idea di quanto sia felice che siate ancora viva» disse. «Sono molto contenta anch'io» rispose la regina madre. «Ed estremamente felice che lo siate anche voi, amico mio. Mi avete riportato mia figlia. E l'avete riportata come regina. Non so come ringraziarvi.» «Niente ringraziamenti...» «Certo» rispose Muriele. «Ma dovete lasciarmi fare qualcosa per voi.» «Potete dirmi cosa è successo?» domandò lui. «Non ricordo molte cose dopo la corte.» Lei sorrise. «Anch'io ho perso molto di quanto accaduto, ma sono rimasta sveglia per fare domande. Dopo che voi siete caduto, Artwair ha preso la corte subendo qualche altra perdita e poi è riuscito ad abbattere il cancello di Fortezza-di-Spine in poche ore. Sir Fail ha fatto entrare la sua flotta e il vento ha soffiato dalla loro parte. «Mentre succedeva tutto questo, però, la mia spericolata figliola ha invaso la rocca interna passando per le prigioni, con una buona manciata di Sefry. Le forze di Robert nel castello erano esigue però, perché o erano schierate per combattere contro Artwair e Fail sul Poel del Re, o impegnate a domare l'insurrezione a Corte Gobelin. Perciò Anne e i suoi Sefry hanno preso la rocca interna senza troppi problemi. Il combattimento nella rocca esterna è stato più sanguinoso, ma Anne aveva ormai ottenuto rinforzi da Artwair.» «Aspettate» disse Neil. «Scusate, Altezza, ma credo di aver perso un passaggio del vostro racconto. Anne è entrata nel castello col permesso di Robert, ma si trattava di una trappola. Come ha fatto a trovare delle truppe sefry? O dei rinforzi?» «Questa è una storia molto più lunga e deve essere raccontata in privato» rispose Muriele. «Vi basti sapere che quando gli uomini sulle mura Solidità hanno capito che stavano per essere attaccati da entrambi i lati e che il monarca per cui stavano combattendo era apparentemente sparito, le cose
sono finite senza l'orribile spargimento di sangue che ci si poteva aspettare.» «Questa è stata una fortuna» disse Neil, ricordando i mucchi di cadaveri intorno a lui a Fortezza-di-Spine. Sapeva perfettamente cosa volesse dire. «Anne è regina allora?» aggiunse. «Reggente. Deve essere confermata dal Comven, ma sembra ormai certo, visto che gli amici di Robert sono stati messi in fuga o in prigione, in attesa di giudizio.» «Allora va tutto bene» commentò Neil. «Abbastanza» rispose lei. «A meno che Robert non torni con gli eserciti di Hansa e della Chiesa.» «Lo credete probabile?» domandò Neil. «Molto. Ma questa è, come dicono, una preoccupazione che rimandiamo a un altro giorno. Guarite, sir Neil. Abbiamo ancora bisogno di voi.» Aspar strinse forte tra i denti il ramo di pioppo che Leshya gli aveva messo in bocca, mentre lei con un colpo secco rimetteva a posto l'osso della gamba. Il dolore in realtà gli provocò delle macchie davanti agli occhi, come se stesse provando a guardare il sole. «Il peggio è passato» gli promise mentre lei cominciava a legare la stecca. Sotto al suo cappello a larghe tese appariva contratta e pallida, anche per una Sefry. «Non avresti dovuto lasciare Dunmrogh per un altro mese» disse lui. «Le tue ferite...» «Sto bene» rispose Leshya. «E se fossi rimasta ancora, adesso saresti morto.» «Già» disse Aspar. «A questo proposito...» «I ringraziamenti non sono necessari.» «Non è questo che intendevo.» «Lo so» disse lei, controllando la fasciatura. Poi lo guardò. «Ho lasciato Dunmrogh appena sono riuscita a stare in piedi» spiegò. «Perché?» Sembrò pensarci per un momento. «Ho pensato che avresti avuto bisogno del mio aiuto.» «Davvero?» «Sì.» «Tutto qui? Solo questo? Eri piena di buchi, Leshya, profondi, e questo richiede tempo. E se fossi morta?»
«Sarei morta» ripeté lei allegramente. «Ma io ho delle sensazioni. Sento delle cose nel vento e a volte vedo cose che non sono ancora successe. E ho visto te, che combattevi con il khriim, e ho creduto che avessi bisogno d'aiuto.» «Contro chi?» «Il sedhmari. Quella grossa creatura che hai ucciso.» Lui si accigliò. «Tu mi hai visto?» «In una lacrima. Sulla rupe mentre cercavi di sistemare la corda all'arco.» Aspar scosse il capo, scettico. «Non avresti mai potuto seguire le mie tracce fin qua così presto, a meno che tu non sia partita un giorno dopo di me e so che non avresti potuto alzarti così presto. Eri quasi morta.» «Non ho seguito le tue tracce» disse lei. «Ho riconosciuto il posto e sono venuta direttamente.» «Hai riconosciuto il posto?» ripeté lui nella più completa incredulità. «La montagna, Aspar. Contiene una rewn halafolk: la prima, la rewn più antica. Io sono nata qui. Perciò, sì, l'ho riconosciuta. Una volta qui, non è stato così difficile trovarti, soprattutto visto il modo in cui hai richiamato l'attenzione su di te.» Gli ci volle un momento per metabolizzare quelle parole. «E sei venuta solo per aiutare me?» «Sì. Essere testimone... ora ce ne andremo, e subito.» «Perché? Sono la tua gente.» Lei soffocò una risata. «Oh no. Non più. Da parecchio ormai. Se ci prendono, ci uccidono, tutti e due, te lo assicuro.» «Fend...» «Non uno dei miei, giuro.» «Lo so. So da dove viene Fend. Ma mi ha detto qualcosa proprio mentre stava per uccidermi.» «E sarebbe?» «Che i Sefry sono Skaslos.» Lei stava allungando la mano per prendere il suo pugnale e rimase col braccio pietrificato a metà strada. Poi scoppiò a ridere di nuovo, raccolse il coltello e lo infilò nel fodero. «Mi sono sempre chiesta se lo sapessi» disse. «Pensavo di sì, visto che sei stato allevato da noi.» «No» rispose Aspar. «Me lo sarei ricordato.» «Credo di sì.» «Ma come è possibile?»
«Be', non sono così vecchia amico mio. Io non c'ero. Dicono che in qualche modo abbiamo cambiato forma, per essere più simili a voi. Per adattarci.» «Ma gli Skaslos sono stati uccisi tutti.» «I grandi. I principi. E quasi tutti gli altri. Ma pochi cambiarono, si finsero schiavi e così sopravvissero.» Lei intercettò il suo sguardo e lo fissò. «Noi non siamo loro, Aspar. Gli Skaslos che resero schiavi i tuoi antenati sono morti.» «Davvero? E a nessuno di voi è mai passato per la testa che vi sarebbe potuto piacere che le cose fossero come prima?» «Credo che alcuni la pensino proprio così» disse lei. «Per esempio Fend? La tua gente nella montagna?» «È complicato» temporeggiò lei. «I Sefry non sono più semplici degli umani e non molto più uniti.» «Non farmi perdere tempo» disse Aspar. «No. Ma dovremmo cominciare a muoverci di nuovo. Dovremo allontanarci parecchio prima che possa cominciare a sentirmi al sicuro.» «Me lo dirai mentre cavalchiamo?» Lei annuì. «Abbiamo un sacco di tempo. Sarà un lungo viaggio.» «Bene, allora.» Aspar allungò la mano sulla gruccia e lei si piegò per aiutarlo, ma lui le fece segno di stare indietro col palmo della mano. «Ce la posso fare» disse. E dopo un po' di smorfie, ce la fece, anche se ebbe bisogno del suo aiuto per montare. Si sentì uno stupido a stare seduto dietro di lei, con le braccia intorno alla sua vita. Come materiale infiammabile. «Ci servono altri cavalli» le disse. «Ho qualche idea in proposito.» Spronò il cavallo perché cominciasse a muoversi. «Lui è venuto da te» disse piano Leysha. «Il Re degli Alberi.» «Già.» «E poi? Cosa ha fatto?» Aspar aspettò un attimo prima di rispondere. «Non l'hai visto?» «No. L'ho visto dirigersi verso di te attraverso un varco tra gli alberi, ma stavo cavalcando velocemente. Quando ti ho ritrovato, lui era sparito e c'era Fend.» «È morto, Leshya.» La schiena di lei s'irrigidì.
«Mi sembrava di aver avvertito qualcosa» mormorò la Sefry. «Speravo...» «Fend lo ha trafitto con la stessa freccia che ho usato per uccidere il woorm.» «Oh, no.» «Cosa vuol dire?» «Non ne sono sicura» rispose lei. «Ma niente di buono. Niente di buono assolutamente.» Lui guardò gli alberi intorno, ricordando le visioni di desolazione che erano state il grido d'addio del Re degli Alberi. «Forse faresti meglio a dirmi anche quello che sai al riguardo» brontolò. Lei annuì con un rapido cenno del capo. Le spalle tremavano e Aspar si chiese se stesse piangendo. Stephen alzò lo sguardo e sorrise quando Zemlé entrò nello scriftorium. «Non potevate più aspettare, vero?» domandò lei. «Siamo qui da soli due giorni.» «Ma guardate questo luogo» disse Stephen. «È magnifico!» Quasi piangeva mentre lo diceva. La grande sala che li circondava era straordinariamente grande, stracolma di scritti. «Sapete cosa ho trovato?» le domandò, consapevole di straripare dall'emozione, incapace di sentirsi stupido per questo. «L'originale Amena Tirson. Il Trattato delle Firme di Pheon, del quale non si vedono copie da almeno quattrocento anni!» «E il diario di Virgenya Dare?» «No, quello non l'ho ancora trovato» disse Stephen. «Ma con un po' di tempo ci riuscirò, non temete. C'è così tanto qui dentro.» «Anche di più» aggiunse Zemlé. «Mentre eravate coi vostri libri, io ho esplorato. C'è una città intera là fuori, Stephen, non credo che sia stata costruita interamente dagli Aitivar. Una parte sembra più antica, talmente tanto da mostrare quei gocciolatoi e gocce di cui parlavate.» «Andrò a dare un'occhiata» promise Stephen. «Me la farete vedere voi.» «E c'è la via dei templi di cui parlano tanto.» «Ah, sì, quella» disse Stephen pensieroso. «Sembrano tutti troppo ansiosi che io la percorra. Voglio fare prima un po' di ricerche. La via dei templi percorsa da Virgenya Dare? Vedremo.» «Non vi fidate di loro?» «Non lo so» rispose Stephen. «Vorrei capire veramente cosa è successo
sulla montagna l'altro giorno.» «Pensavo che aveste detto che Hespero aveva chiamato il Re degli Alberi.» «Credo che sia così. Gli ho dato io il corno, mesi fa. E il Re si è disfatto del khriim velocemente, e questo credo sia stato il motivo per cui il praifec lo ha chiamato. Eppure continua a sembrare strano. Credevo che Hespero volesse distruggere il Re degli Alberi. Ci ha assegnato proprio questo compito.» «Forse sperava che si uccidessero a vicenda» suggerì lei. «E forse è andata proprio così. Il Re degli Alberi si è rimpicciolito piuttosto rapidamente dopo la morte del khriim.» «Può darsi» disse Stephen. «Siamo stati fortunati che Fend e gli altri dodici siano riusciti a spezzare le forze di Hespero.» «Sarei più felice se invece lo avessero catturato» disse Stephen. «Può sempre tornare.» «Se oserà farlo, sono certa che sarete pronto ad affrontarlo.» Stephen annuì, grattandosi la testa. «Così mi dicono loro.» Poi cadde in silenzio. «C'è qualche problema?» domandò lei. «Ricordate cosa dicevate sulle tradizioni raccontate dal Libro del Ritorno? Avete chiamato 'khirme' il woorm, usando quasi la stessa parola degli Aitivar, khriim.» «Certo.» «Ma avete anche parlato di un altro nemico, Khraukare: Il Cavaliere Sanguinario. Avete detto che questo dovrebbe essere mio nemico.» «È ciò che dice la leggenda» ammise Zemlé. «Be', il giorno in cui siamo arrivati qui, gli Aitivar dissero di aver trovato il khriim e il khruvkhuryu. Intendevano Fend. Anche 'khruvkhuryu' e 'khraukare' sono della stessa famiglia linguistica. Significano entrambe: 'Cavaliere Sanguinario'. Ma Fend dice di essere mio alleato.» Lei sembrò preoccupata, ma scrollò le spalle. «Siete voi che avete sottolineato l'inaffidabilità delle leggende» disse. «Forse l'abbiamo semplicemente interpretata male.» «Ma c'è di più» proseguì Stephen. «Quando ho visto l'armatura di Fend, mi è tornato in mente un disegno che una volta ho trovato su un libro e l'iscrizione sottostante. 'Beve il sangue del serpente e provoca un'ondata di dolore, il servo della Notte Antica, il Guerriero Sangue-di-Woorm'.»
«Non capisco.» «Credo che Fend volesse la morte del khriim per poterne bere il sangue e diventare il Cavaliere di Sangue.» «Ma come faceva a sapere che il praifec avrebbe chiamato il Re degli Alberi?» «Ha ammesso che una volta Hespero era suo alleato. Forse lo è ancora. O forse tutta questa faccenda è stata un'impresa a vantaggio mio. Tutto quello che so è che qualcosa ancora non quadra.» Zemlé lo prese per un braccio. «Ho rovinato il vostro stato d'animo» disse. «Eravate così felice quando sono entrata.» Lui sorrise e la strinse intorno alla vita. «Sono ancora felice» disse. «Guardate, qualunque cosa Fend abbia in mente, sta fingendo di essere mio alleato e per il momento è più o meno come se lo fosse davvero. Qui ho tutto ciò che mi serve per capire cosa realmente sta succedendo e ci riuscirò. Avevate ragione, Zemlé. Era ora che prendessi le cose in mano io.» La tirò più vicino a sé. «Per essere più precisi, è ora che prenda voi tra le mie mani...» «Di sicuro vi siete fatto più sfacciato» mormorò lei. «Sono in una biblioteca» disse Stephen ridendo. «Il luogo dove le cose mi riescono meglio.» Ringraziamenti Un ringraziamento alle miei prime lettrici: mia madre, Nancy Ridout Landrum, mia moglie Lanelle Keyes e la mia amica Nancy Vega. Infiniti ringraziamenti a Steve Saffel per aver seguito questo libro dal momento in cui è stato concepito fino alla pubblicazione, per la sua amicizia e il supporto morale. Grazie a Betsy Mitchell, Jim Minz, Fleetwood Robins e Nancy Delia per essersi occupati della produzione in circostanze difficili. Erik Lowenkron è stato il mio redattore. Grazie a Dave Stevenson per il raffinato progetto grafico e a Stephen Youll per un altro magnifico esempio di copertina artistica. Un ringraziamento speciale a Shawn Speakman per il suo continuo supporto e per aver creato e garantito l'efficienza del mio sito web. Grazie a Terry e Judine Brooks per la loro magnifica compagnia durante il tour di presentazione del Principe delle Ombre: vi ringrazio per avermi permesso di seguirvi da vicino, ragazzi.
Grazie a 'Debbie' Wan Yu Lin, Kim Tatalick e Meredith Sutton per aver intrattenuto Archer distraendolo quel tanto da permettermi di lavorare. E un altro grazie a Nell, per tutto. FINE