DEAN KOONTZ IL CATTIVO FRATELLO (From The Corner Of His Eye, 2000) A Gerda. Di tutte le migliaia di giorni della mia vit...
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DEAN KOONTZ IL CATTIVO FRATELLO (From The Corner Of His Eye, 2000) A Gerda. Di tutte le migliaia di giorni della mia vita, il più straordinario è stato, e sarà sempre, quello in cui ci siamo conosciuti. Mentre scrivevo questo libro, ho avuto sempre in sottofondo l'originale e meravigliosa musica del defunto Israel Kamakawiwo'ole. Spero che il lettore tragga dalla mia storia un piacere pari alla gioia e al conforto che io ho tratto dalla voce, dallo spirito e dal cuore di questo grande artista. Mentre terminavo di scrivere il libro, Carol Bowers e la sua famiglia hanno trascorso una giornata a casa mia sotto gli auspici della Dream Foundation. Carol, visto che hai avuto la possibilità di leggere il libro, capirai perché la tua visita, giunta in quel preciso momento, non ha fatto che confermare la mia convinzione che tutte le cose siano stranamente connesse tra di loro e che le nostre vite abbiano un profondo e misterioso significato. «Ogni più piccola ombra di gentilezza si diffonde nello spazio e nel tempo, influenzando vite del tutto sconosciute allo spirito generoso che aveva dato origine a quella eco positiva, perché la gentilezza si trasmette e cresce ogni volta che viene trasmessa, finché un semplice gesto di cortesia diventa, anni dopo e in luoghi lontani, un generoso atto di coraggio. Lo stesso avviene con ogni piccola meschinità, ogni manifestazione di odio, ogni atto di malvagità.» H.R. WHITE, This Momentous Day «Nessuno capisce la teoria quantistica.» RICHARD FEYNMAN 1 Bartholomew Lampion era rimasto cieco all'età di tre anni, quando i chirurghi avevano dovuto enucleargli gli occhi per salvarlo da un cancro che andava diffondendosi rapidamente. Nonostante fosse privo di globi ocula-
ri, però, Barty riacquistò la vista all'età di tredici anni. Questo improvviso passaggio da un decennio di oscurità alla gloria della luce non era avvenuto grazie alle mani di un guaritore. Nessuna tromba celeste aveva annunciato il suo recupero della vista, così come in precedenza non aveva proclamato la sua nascita. Con la sua guarigione c'entravano le montagne russe di un luna park, nonché un gabbiano. Né si può ignorare l'importanza che aveva avuto in tutto questo il profondo desiderio di Barty che sua madre si sentisse orgogliosa di lui prima della sua seconda morte. Lei era morta per la prima volta proprio nel giorno in cui Barty era nato. Il 6 gennaio 1965. A Bright Beach, in California, la maggior parte degli abitanti parlava con affetto della madre di Barty, Agnes Lampion, nota anche come la Signora delle Torte. Era una donna che viveva per gli altri, il suo cuore era partecipe del loro dolore e delle loro necessità. In questo mondo materialista, il suo altruismo destava sospetto fra coloro nel cui sangue scorreva tanto ferro quanto cinismo. Ma persino queste persone così dure di cuore dovevano ammettere che la Signora delle Torte aveva una quantità sterminata di ammiratori e nessun nemico. Neppure l'uomo che aveva distrutto il mondo della famiglia Lampion, la sera in cui era nato Barty, era un suo nemico. Era una persona che i Lampion non conoscevano, ma il cui destino aveva finito per intrecciarsi con il loro. 2 6 gennaio 1965, poco dopo le otto del mattino. Le doglie erano iniziate mentre Agnes stava preparando sei crostate di mirtilli. Non si trattava di un altro falso allarme, perché i dolori non erano più circoscritti al basso ventre e all'inguine, ma si estendevano all'addome e a tutta la schiena. In più, se stava ferma o seduta, le fitte erano meno intense di quando camminava: un altro segno che si trattava di doglie vere. Non era un fastidio insopportabile. Le contrazioni erano regolari ma giungevano a intervalli piuttosto lunghi. E lei si rifiutava di entrare in ospedale fino a quando non avesse portato a termine quanto si era prefissata per quel giorno. In una donna alla prima gravidanza, questa fase delle doglie dura mediamente dodici ore. Agnes si considerava una persona media da tutti i
punti di vista, normale come la tuta da jogging grigia con un cordoncino alla vita che indossava per stare più comoda ora che il suo fisico si era ingrossato; di conseguenza, era convinta che non sarebbe entrata nella seconda fase delle doglie prima delle dieci di sera. Joe, suo marito, avrebbe voluto accompagnarla di corsa all'ospedale molto prima di mezzogiorno. Dopo aver preparato la valigia della moglie e averla sistemata in macchina, aveva annullato tutti gli appuntamenti ed era rimasto sempre nelle vicinanze, stando però attento a non trovarsi nella stessa stanza di Agnes per non irritarla con la sua evidente preoccupazione. Ogni volta che udiva Agnes lamentarsi sommessamente o inspirare con un sibilo di dolore, cercava di cronometrare le contrazioni. Quel giorno trascorse così tanto tempo a fissare l'orologio da polso che, quando per un momento si guardò nello specchio dell'ingresso, era quasi convinto di vedere sul suo volto il debole riflesso di una lancetta che si muoveva a scatti intorno agli occhi. Anche se non sembrava, Joe era un uomo che si preoccupava facilmente. Alto e forte com'era, avrebbe potuto interpretare la parte di Sansone che abbatteva le colonne e faceva crollare il soffitto in testa ai filistei. Invece era un tipo mite, cui mancava l'arroganza e la sconsiderata sicurezza tipica di molti uomini della sua stazza. Sebbene fosse una persona serena e perfino allegra, era convinto di avere ricevuto sin troppi doni dalla vita: benessere, amici, famiglia. Di sicuro un giorno il destino avrebbe regolato i conti. Non era certo ricco, stava solo benino, però non si preoccupava mai per il denaro perché sapeva di poterne guadagnare sempre di più lavorando duramente e con impegno. Ma, nelle notti in cui non riusciva a dormire, ciò che lo teneva sveglio era il terrore di perdere coloro che amava. La vita era come uno strato di ghiaccio su un laghetto all'inizio dell'inverno. Più fragile di quanto apparisse, percorso da crepe nascoste e al di sotto del quale vi era solo una fredda oscurità. Oltretutto, per Joe Lampion, Agnes non era affatto una persona media, indipendentemente da quello che pensava lei. Era meravigliosa, unica. Joe non la poneva sul piedistallo perché un semplice piedistallo non l'avrebbe innalzata alla posizione che meritava. Se mai l'avesse persa, anche lui sarebbe stato perso. Durante l'intera mattina, Joe Lampion continuò a rimuginare su tutte le possibili complicanze associate al parto. Mesi prima, aveva appreso più di quanto fosse necessario sull'argomento leggendo un voluminoso libro di
medicina, che gli aveva fatto rizzare i capelli in testa con maggior efficacia e più spesso di qualsiasi giallo avesse mai letto. Alle dodici e cinquanta, incapace di smettere di pensare alle descrizioni di emorragie preparto, emorragie postparto e violente convulsioni, si era precipitato in cucina esclamando: «Va bene, Aggie, adesso basta. Abbiamo aspettato abbastanza». Seduta al tavolo della colazione, lei stava scrivendo dei messaggi sui bigliettini che avrebbero accompagnato le sei crostate di mirtilli preparate quella mattina. «Mi sento benissimo, Joey.» A parte Aggie, nessuno lo chiamava Joey. Era alto più di un metro e novanta e pesava quasi centoventi chili, con un viso squadrato che incuteva paura fino a quando non incominciava a parlare con la sua bassa voce musicale o fino a quando non si notava l'espressione gentile dei suoi occhi. «Andiamo all'ospedale, adesso», insisté, giganteggiando su di lei. «No, caro, non ancora.» Sebbene Aggie fosse alta soltanto un metro e sessanta e, tolto il peso del bambino, pesasse meno della metà di Joey, non sarebbe stato possibile farla alzare dalla sedia contro la sua volontà nemmeno se il marito avesse avuto un argano elettrico e tutta l'intenzione di usarlo. Di fronte ad Aggie, Joey era sempre un Sansone tosato, mai un Sansone dalla fluente capigliatura. Lanciandole uno sguardo torvo che avrebbe convinto un serpente a sonagli a srotolarsi e a giacere supino come un verme, Joe domandò: «Prego?» «Devo scrivere i bigliettini per le torte, in modo che Edom possa consegnarle domani mattina.» «In questo momento c'è una sola cosa che mi preoccupa.» «Invece, per me, ci sono sette cose che devono arrivare a destinazione. Sei torte e un bambino.» «Tu e le tue torte», esclamò lui frustrato. «Tu e le tue preoccupazioni», ribatté lei, rivolgendogli un sorriso che lo fece sciogliere come neve al sole. Joey sospirò. «Finisci i biglietti e poi andiamo.» «I biglietti. Poi Maria che viene per la lezione di inglese. Poi andiamo.» «Non sei in condizioni di dedicarti alla lezione di inglese.» «Caro, per insegnare non c'è bisogno di fare sollevamento pesi.» Mentre gli parlava, la moglie continuava a scrivere i bigliettini e lui rimase a osservare la sua scrittura elegante, che sembrava fluire dalla punta
della penna a sfera come se Aggie fosse soltanto un canale che trasportava le parole provenienti da una fonte più alta. Alla fine, Joey si sporse sul tavolo e lei sollevò i suoi brillanti occhi verdi verso di lui attraverso la grande cascata silenziosa della sua ombra. Joey abbassò il suo viso di granito verso i lineamenti di porcellana della moglie e, come se non desiderasse altro che di essere mandata in frantumi, Agnes si alzò leggermente per andare incontro al suo bacio. «Ti amo, tutto qui», mormorò lui, esasperato per la nota di impotenza che percepì nella propria voce. «Tutto qui?» Lei Io baciò di nuovo. «È tutto.» «Insomma, che cosa posso fare per non impazzire?» Il campanello dell'ingresso squillò. «Vai ad aprire», gli suggerì lei. 3 Le antichissime foreste della costa dell'Oregon formavano una imponente cattedrale verde da una parte all'altra delle colline e la campagna era silenziosa come un luogo di culto. In alto, lasciandosi appena scorgere tra le cime color smeraldo, un falco si librava formando cerchi sempre più ampi, un angelo dalle penne scure assetato di sangue. A terra, la natura appariva immobile e quel giorno così straordinario sembrava trattenere il respiro. Luminosi veli di nebbia giacevano ancora immobili negli avvallamenti più profondi, dove la notte li aveva abbandonati. Gli unici rumori erano lo scricchiolio degli aghi dei sempreverdi sotto i piedi e il respiro ritmato degli esperti escursionisti. Alle nove di quella mattina, Junior Cain e sua moglie Naomi avevano parcheggiato la loro Chevy Suburban ai margini di una stradina sterrata e si erano diretti verso nord a piedi, lungo i sentieri percorsi dai cervi e altri viottoli naturali, inoltrandosi nel vasto territorio immerso nell'ombra. Anche a mezzogiorno, il sole riusciva a far penetrare solo qualche raggio sottile come una freccia che illuminava indirettamente gran parte del bosco. Quando era Junior a fare strada, di tanto in tanto si distaccava da Naomi abbastanza per fermarsi a riposare, voltandosi a guardarla mentre lei lo raggiungeva. I capelli biondo oro di sua moglie erano sempre lucenti, sia al sole che all'ombra, e il suo volto rappresentava la perfezione che ogni adolescente sogna e per il quale uomini adulti erano pronti a sacrificare l'onore e a rinunciare a interi patrimoni. A volte era Naomi a precederlo; mentre la
seguiva, Junior era così incantato dal suo corpo flessuoso che quasi non si accorgeva di nient'altro, totalmente dimentico delle cupole verdi, dei tronchi simili a colonne, delle felci rigogliose e degli splendidi rododendri. La bellezza di Naomi sarebbe stata sufficiente a conquistargli il cuore, ma Junior era altrettanto incantato dalla sua grazia, dalla sua agilità, dalla sua forza e dalla determinazione con la quale scalava i pendii più ripidi e attraversava i terreni più impervi. Naomi affrontava la vita, non soltanto le escursioni, con entusiasmo, passione, intelligenza e coraggio. Erano sposati da quattordici mesi, tuttavia l'amore di Junior non aveva fatto che aumentare. Lui aveva soltanto ventitré anni e a volte gli sembrava che, un giorno, il suo cuore sarebbe diventato troppo piccolo per contenere i sentimenti che provava per lei. Altri uomini avevano corteggiato Naomi, alcuni più attraenti di lui, molti più intelligenti, praticamente tutti più ricchi. Tuttavia Naomi aveva voluto soltanto Junior, non per ciò che possedeva o che forse un giorno avrebbe posseduto, ma perché diceva di vedere in lui «un'anima splendida». Junior era un bravo fisioterapeuta che si occupava per lo più di vittime di incidenti o di colpi apoplettici, persone impegnate a riacquistare le funzioni fisiche perdute. Il lavoro, e oltretutto un lavoro così interessante, non gli sarebbe mai mancato, anche se non avrebbe mai avuto la possibilità di comprarsi una villa in cima a una collina. Fortunatamente Naomi era una ragazza dai gusti semplici. Preferiva la birra allo champagne, non era interessata ai diamanti e non desiderava fare un viaggio a Parigi. Amava la natura, le passeggiate sotto la pioggia, la spiaggia, i buoni libri. Durante le escursioni, quando il percorso era facile, spesso si metteva a canticchiare. Due dei suoi pezzi preferiti erano Somewhere over the Rainbow e What a Wonderful World. La sua voce era pura come acqua di sorgente e calda come il sole. Junior la incoraggiava spesso perché nelle sue canzoni percepiva un amore per la vita e un'allegria contagiosa che lo mettevano di buon umore. Dato che quel giorno di gennaio era stranamente tiepido - c'erano forse una ventina di gradi - e dato che si trovavano troppo vicini alla costa per incontrare una zona innevata a qualsiasi altitudine, indossavano entrambi maglietta e pantaloncini. Il piacevole calore provocato dallo sforzo, il sottile dolore dei muscoli ben allenati, l'aria della foresta che profumava di pino, la grazia e la tonicità delle gambe nude di Naomi e il suo canto melodioso: così doveva essere il paradiso, se fosse esistito.
Dato che si trattava di un'escursione di un solo giorno e che non intendevano fermarsi in tenda per la notte, si erano portati uno zaino molto leggero - un kit per il pronto soccorso, acqua, qualcosa per il pranzo - e quindi avanzavano di buon passo. Poco dopo mezzogiorno giunsero a una stretta radura che si apriva nel bosco e incontrarono nuovamente il tortuoso sentiero, usato dalle squadre antincendio, che giungeva fin lì seguendo un percorso diverso. Seguirono la strada sterrata fino alla sommità e si ritrovarono davanti a una torre per l'avvistamento degli incendi che, sulla mappa, era indicata con un triangolo rosso. La torre sorgeva su un'ampia dorsale ed era un'imponente struttura di legno impregnato di olio di creosoto, con una base di dodici metri per lato. La costruzione si restringeva verso l'alto, anche se, in cima, vi era una specie di piattaforma che sporgeva verso l'esterno. Al centro di questa piattaforma era stato creato un posto di osservazione recintato e dotato di ampie finestre. In quel punto il suolo era roccioso e alcalino e, di conseguenza, anche gli alberi più imponenti erano alti solo una trentina di metri, poco più della metà dei giganti da foresta pluviale che abbondavano a quote più basse. Con i suoi quarantacinque metri, la torre spiccava su di loro. Al centro della struttura, una scala portava alla sommità passando nella torre e non girando all'esterno. A parte qualche gradino sconnesso e qualche colonnina della balaustra staccata, la scala era in buone condizioni, tuttavia Junior, dopo aver salito solo due rampe, cominciò a sentirsi inquieto. Non riusciva a identificare il motivo di questa sua agitazione, ma l'istinto gli diceva di essere prudente. Dato che l'autunno e l'inverno erano stati molto piovosi, il pericolo di incendi era minimo e la torre in quel momento non era presidiata da nessuno. Però, oltre alla sua funzione più importante, la costruzione poteva essere utilizzata come piattaforma di osservazione aperta a tutti coloro che erano abbastanza determinati da volerla raggiungere. I gradini scricchiolavano. I loro passi e il loro ansimare riecheggiavano sordi attraverso quello spazio semirecintato. Non erano rumori che potevano mettere in allarme, eppure... A mano a mano che Junior saliva, preceduto da Naomi, gli spazi triangolari che si aprivano tra le travi incrociate della struttura si restringevano sempre più e lasciavano filtrare sempre meno luce dall'esterno. Lo spazio sotto la piattaforma della torre era immerso nell'oscurità, anche se l'ambiente non diventava mai così buio da rendere necessario accendere una
torcia. All'odore penetrante del creosoto, ora se ne era aggiunto uno di muffa o di fungo, nessuno dei quali avrebbe dovuto crescere in un legno trattato con un catrame così forte. Junior si fermò per scrutare in fondo alle scale, attraverso la tralicciatura di ombre, quasi aspettandosi di scoprire che qualcuno si stava arrampicando silenziosamente dietro di loro. Ma da quanto riusciva a vedere, nessuno li seguiva. L'unica compagnia era costituita dai ragni. Quella torre non era stata visitata da settimane, se non da mesi, e loro continuavano a imbattersi in grandi ed elaborate ragnatele. Come il freddo e fragile ectoplasma di uno spirito invocato da un medium, le strutture di sottilissimi fili si incollavano ai loro visi e restavano attaccati agli abiti con tanta tenacia che, anche nell'oscurità, entrambi cominciarono ad assumere l'aspetto di cadaveri usciti dalle tombe e avvolti in un sudario a brandelli. Via via che il diametro della torre diminuiva, le rampe della scala si facevano sempre più brevi e ripide e, alla fine, i gradini terminarono su un pianerottolo posto a una trentina di centi metri dal pavimento della piattaforma di osserva/ione. Da lì, ci si arrampicava su una scaletta a pioli che conduceva a una botola aperta. Quando Junior seguì la sua agile mogliettina in cima alla scaletta e, attraverso la botola, uscì sulla piattaforma di osservazione, il panorama che si estendeva davanti a lui lo avrebbe lasciato senza fiato se non fosse stato già ansimante per via della salita. Da lassù, rispetto alla piattaforma, il crinale si trovava quindici piani più in basso e le cime degli alberi più alti almeno cinque piani più giù; rimasero ad ammirare un mare verde, le cui lunghe onde di aghi sottili si gonfiavano perennemente verso oriente, avvolto dalla foschia, e scendevano gradualmente verso ovest, in direzione dell'oceano che, a pochi chilometri di distanza, le attendeva. «Oh, Eenie», esclamò lei. «È stupendo!» Eenie era il nomignolo con cui lo chiamava Naomi. Lei non voleva chiamarlo Junior come facevano tutti gli altri e lui non permetteva a nessuno di chiamarlo Enoch. Enoch Cain Jr. Be', tutti avevano una croce da portare. Almeno non era nato con la gobba o un terzo occhio. Dopo essersi tolti a vicenda le ragnatele di dosso ed essersi sciacquati le mani con l'acqua della bottiglia, cominciarono a mangiare. Panini al formaggio e un po' di frutta secca.
Prima di terminare lo spuntino, fecero più volte il giro della piattaforma di osservazione, godendosi il meraviglioso panorama. Durante il secondo giro, Naomi posò la mano sulla ringhiera e si accorse che alcuni supporti erano marci. Dato che non si era proprio appoggiata, non c'era alcun pericolo che cadesse. I paletti però si piegarono verso l'esterno e uno cominciò a spezzarsi; Naomi indietreggiò immediatamente, allontanandosi dal bordo della piattaforma. Junior rimase così scosso che avrebbe voluto lasciare immediatamente la torre, scendere a terra e terminare lì il pranzo. Stava tremando e si sentiva la bocca asciutta, ma questo non aveva nulla a che vedere con il formaggio. Con voce tremula che suonò strana anche alle sue orecchie, disse: «Stavo quasi per perderti». «Ma dai, Eenie, non ci sono andata nemmeno vicino.» «Troppo vicino, troppo vicino.» Quando era salito in cima alla torre, non aveva sudato nemmeno un po', ma ora sentiva delle goccioline che gli facevano il solletico sulle sopracciglia. Naomi sorrise. Prese un fazzolettino di carta e gli asciugò la fronte. «Sei un tesoro. Anch'io ti amo tanto.» Lui la strinse a sé. Naomi stava tanto bene fra le sue braccia. Si sentiva preziosa. «Scendiamo», insisté lui. Scivolando fuori dal suo abbraccio, dando un morso al panino e riuscendo a essere bellissima anche mentre parlava con la bocca piena, Naomi rispose: «Però non possiamo scendere finché non abbiamo verificato quanto sia grave il problema». «Quale problema?» «Quello della ringhiera. Può darsi che quello sia l'unico tratto pericoloso, ma può anche essere che sia tutta marcia. Dobbiamo renderci conto delle dimensioni del danno prima di tornare al mondo civile e telefonare alla forestale per informarli.» «Perché non possiamo semplicemente telefonare e lasciare che siano loro a controllare?» Sorridendo, Naomi gli prese tra le dita il lobo dell'orecchio sinistro e cominciò a tirarlo. «Ding, dong. C'è qualcuno in casa? Sto conducendo un'indagine per sapere chi conosce esattamente il significato delle parole
senso civico.» Junior corrugò la fronte. «Fare una telefonata dimostra già abbastanza senso civico.» «Più informazioni avremo, più saremo credibili, e più saremo credibili, meno probabilità ci saranno che ci prendano per ragazzini in vena di scherzi.» «Sei proprio svitata.» «Di che genere?» «Che cosa?» «Se sono svitata, devo essere una vite, però non so di che tipo.» Dopo aver finito di mangiare il panino, incominciò a leccarsi le dita. «Pensaci, Eenie. E se per caso una famigliola salisse fin quassù con dei bambini?» Junior non riusciva mai a rifiutarle quello che voleva, in parte perché solo raramente Naomi desiderava qualcosa per se stessa. La piattaforma che girava intorno al posto di osservazione era larga circa tre metri. Sembrava solida e sicura sotto i piedi. I problemi strutturali erano limitati alla balaustra. «Va bene», concordò Junior a malincuore. «Ma andrò io a controllare la ringhiera e tu te ne starai vicino al muro, dove non c'è pericolo.» Abbassando la voce e parlando come una donna delle caverne, Naomi disse: «Uomo combatte tigre. Donna guarda». «Questo è l'ordine naturale delle cose.» Sempre con lo stesso tono di voce: «Uomo dice è ordine naturale. Per donna questo è solo divertimento». «Sempre lieto di divertirla, signora.» Mentre Junior seguiva la ringhiera provandone con circospezione la solidità, Naomi rimase sempre dietro di lui. «Stai attento, Eenie.» Il rivestimento della ringhiera, consumato dalle intemperie, era molto ruvido al tatto. Junior era più preoccupato dalle schegge che dall'eventualità di cadere. Tenendo il braccio teso, si manteneva a distanza di sicurezza dal bordo della piattaforma e avanzava lentamente scuotendo spesso la ringhiera alla ricerca di paletti staccati o marci. In un paio di minuti completarono il giro e si ritrovarono esattamente dove Naomi aveva scoperto il legno marcio. Era l'unico punto debole di tutta la ringhiera. «Soddisfatta?» le domandò lui. «Scendiamo.» «Certo, ma prima finiamo di mangiare.» Aveva preso dal suo zaino un sacchetto di albicocche secche.
«Dovremmo proprio scendere», insisté Junior. Scuotendo il sacchetto e facendogli scivolare due albicocche nel palmo della mano, Naomi si oppose: «Non ne ho avuto ancora abbastanza di questo panorama. Non mi rovinare la festa, Eenie. Adesso sappiamo che non c'è pericolo». «Okay», si arrese lui. «Ma non ti appoggiare alla ringhiera anche se sappiamo che è a posto.» «Saresti una mamma meravigliosa.» «Sì, ma avrei qualche problema ad allattare.» Fecero ancora una volta il giro della piattaforma, soffermandosi in continuazione ad ammirare quello spettacolare panorama e ben presto Junior si sentì molto meno teso. Come sempre, la compagnia di Naomi lo tranquillizzava. Prendendo un'albicocca, lei lo imboccò. Questo gesto ricordò a Junior il ricevimento per il loro matrimonio, durante il quale si erano imboccati reciprocamente con pezzetti di torta. La vita con Naomi era un'eterna luna di miele. Alla fine tornarono davanti a quel tratto di ringhiera che a Naomi era quasi crollato sotto le mani. Junior la spinse con tanta forza che lei fu quasi sollevata da terra. Spalancò gli occhi e, dalla bocca aperta, le cadde un pezzetto di albicocca mezzo masticata. Andò a sbattere con la schiena contro il tratto di ringhiera marcio. Per un attimo Junior pensò che la ringhiera potesse resistere, ma poi i paletti andarono in mille pezzi, la balaustra si spezzò e Naomi cadde all'indietro, precipitando dalla piattaforma tra un fragore di legno marcio. Era rimasta così sorpresa che non si mise a urlare fino a quando non si trovò probabilmente a un terzo della lunga caduta. Junior non la sentì sbattere contro il suolo, ma l'urlo cessò improvvisamente, confermando l'impatto. Era meravigliato di se stesso. Non sapeva di poter commettere un omicidio a sangue freddo, soprattutto seguendo l'impulso del momento, senza avere neppure il tempo di analizzare i rischi e i potenziali benefici di un'azione così drastica. Dopo aver ripreso fiato e aver preso atto della sua incredibile audacia, Junior si spostò lungo la piattaforma, lasciandosi alle spalle il tratto di ringhiera squarciata. Da una posizione sicura, si sporse in avanti e sbirciò sotto di sé.
Era così minuscola, una pallida macchiolina sull'erba e sulla pietra scura. Stava in posizione supina. Aveva una gamba piegata sotto il corpo con un'angolatura impossibile. Il braccio destro lungo il fianco, quello sinistro sollevato come se stesse salutando con la mano. Una luminosa nuvola di capelli color oro simile a un ventaglio intorno alla testa. L'amava così tanto che non riusciva a sopportare di guardarla. Si voltò e, allontanandosi dalla ringhiera, attraversò tutta la piattaforma, poi andò a sedersi con la schiena appoggiata contro il muro del posto di osservazione. Per un po' si lasciò andare a un pianto incontrollabile. Perdendo Naomi aveva perso più di una moglie, più di un'amica e un'amante, più di un'anima gemella. Aveva perso una parte di se stesso: si sentiva svuotato, come se la sua carne e le sue ossa gli fossero state strappate via e sostituite dal vuoto, nero e freddo. Era tormentato dall'orrore e dalla disperazione, torturato da pensieri di autodistruzione. Poi si sentì meglio. Non bene, ma decisamente meglio. Prima di precipitare dalla torre, Naomi aveva lasciato cadere il saccnetto di albicocche secche. Avanzando a carponi lo raggiunse, estrasse un frutto e cominciò a masticarlo lentamente, assaporandone il gusto dolce. Alla fine, strisciando sul ventre, raggiunse il varco che si era formato nella ringhiera e da lì rimase a fissare il suo amore perduto, giù, giù in basso. Era esattamente nella posizione di prima. Naturalmente non si era aspettato di vederla danzare. Una caduta da un'altezza di quindici piani certo le aveva fatto passare la voglia di saltellare. Da lassù, non riusciva a vedere il sangue. Ma doveva essercene di sicuro. L'aria era immobile, neppure un alito di vento. Simili a sentinelle, i pini e gli abeti erano fermi al loro posto come le misteriose teste di pietra che guardavano il mare sull'isola di Pasqua. Naomi morta. Così viva qualche istante prima, adesso non c'era più. Inimmaginabile. Il cielo era azzurro come il servizio da tè di porcellana di Delft un tempo posseduto da sua madre. Cumuli di nuvole a est, come panna rappresa. Il sole burroso. Affamato, mangiò un'altra albicocca. Niente falchi in cielo. Tutt'intorno alla torre non si scorgeva alcun movimento visibile.
Sotto, Naomi ancora morta. Com'è strana la vita. Com'è fragile. Non puoi mai sapere che cosa ti aspetta dietro l'angolo. Lo choc di Junior aveva lasciato il posto a un profondo senso di meraviglia. Per quasi tutto il tempo della sua giovane vita, era sempre stato convinto che il mondo fosse profondamente misterioso, governato dal destino. Ma ora, a causa di quella tragedia, si rese conto che anche la mente e il cuore dell'uomo erano enigmatici quanto il resto della creazione. Chi avrebbe mai potuto pensare che Junior Cain fosse capace di un gesto come quello, così improvviso e violento? Non Naomi. E, in effetti, nemmeno lo stesso Junior. Con quanta passione aveva amato quella donna. Quanto gli era stata cara. Era convinto di non poter vivere senza di lei. Ma aveva avuto torto. Naomi laggiù, sempre morta, e lui quassù, vivo. Il suo breve impulso suicida era passato e adesso sapeva che, in qualche modo, aveva superato quel momento tragico, che un po' alla volta il dolore si sarebbe placato, che il tempo avrebbe fatto affievolire quell'acuto senso di perdita e che, alla fine, forse lui avrebbe potuto perfino amare un'altra donna. E in effetti, nonostante il dispiacere e l'angoscia, guardava al futuro con più ottimismo, interesse ed eccitazione di quanto ne avesse provato da molto tempo. Se era stato capace di un simile gesto, allora era un uomo molto diverso da quello che aveva sempre immaginato di essere, più complesso, più dinamico. Fantastico! Sospirò. Anche se era tentato di restarsene sdraiato lì a fissare Naomi laggiù in fondo, morta, a sognare a occhi aperti un futuro più vivace e ardito di quanto si fosse mai potuto immaginare, aveva molte cose da fare prima che scendesse la sera. Per un po', la sua vita sarebbe stata piuttosto impegnata. 4 Mentre il campanello squillava di nuovo, Joe vide Maria Gonzalez attraverso il vetro della porta d'ingresso. Le rose colorate che decoravano il pannello la tingevano di rosso qui, di verde là, in alcuni punti la facevano apparire molata, in altri screpolata, il viso come un mosaico di petali e foglie.
Quando Joey aprì la porta, Maria chinò leggermente la testa, tenne gli occhi abbassati e disse: «Io devo essere Maria Gonzalez». «Sì, Maria, so chi sei.» Era come sempre intenerito dalla sua timidezza e dalla sua coraggiosa lotta con la lingua inglese. Joey indietreggiò e tenne la porta spalancata, ma Maria rimase ferma sulla veranda. «Io voglio vedo signora Agnes.» «Sì, va bene. Entra, per favore.» Era ancora indecisa. «Per la cosa da fare.» «Di quelle ne ha un sacco. Più di quante io riesca a sopportare.» Maria corrugò la fronte, non ancora abbastanza esperta della nuova lingua per comprendere la battuta. Temendo che pensasse di essere presa in giro, Joe soggiunse con il tono più serio che gli riuscì di mettere nella voce: «Per favore, Maria, entra. Mi casa es su casa». Lei gli lanciò una breve occhiata, poi distolse rapidamente lo sguardo. La sua riservatezza era soltanto in parte dovuta al carattere timido. C'entrava anche la componente culturale. In Messico, apparteneva a quella classe di persone che non osava mai guardare direttamente negli occhi chiunque fosse considerato un patrón. Joe avrebbe voluto farle notare che adesso era negli Stati Uniti, la terra dove a tutti sembrava concesso un futuro. Ma considerando il fisico imponente di Joey, i suoi lineamenti duri, la sua tendenza a infiammarsi quando si trovava di fronte all'ingiustizia o ai suoi effetti, qualunque cosa avesse detto a Maria riguardo alla sua eccessiva modestia sarebbe apparso polemico. E lui non voleva dover tornare in cucina per informare Aggie che aveva spaventato la sua studentessa, facendola scappare via. Per un momento, pensò che sarebbero rimasti in quella posizione - Maria che si fissava le scarpe, Joe che, dall'alto della sua statura, le guardava la testa umilmente china - fino a quando un angelo avrebbe suonato le trombe del giudizio e i morti sarebbero risorti per salire in cielo. Poi un cane invisibile, sotto forma di una brezza improvvisa, si mise a scorrazzare sulla veranda, colpendo Maria con la coda. Dopo aver annusato l'uscio con curiosità, era entrato ansimando in casa, trascinandosi la piccola donna dalla pelle scura come se lei lo tenesse al guinzaglio. Chiudendo la porta, Joe la informò: «Aggie è in cucina». Maria si mise a fissare il tappeto dell'ingresso con la stessa intensità con cui aveva esaminato il pavimento della veranda. «Lei per favore dire io so-
no Maria?» «Vai pure in cucina. Ti sta aspettando.» «La cucina? Di sola?» «Prego?» «In cucina di sola?» «Da sola», la corresse lui, sorridendo. «Sì, certo, sai dov'è.» Maria annuì, attraversò l'ingresso, oltrepassò l'arco che conduceva al soggiorno, si voltò e osò guardarlo brevemente negli occhi. «Grazie.» Mentre la osservava attraversare il soggiorno e scomparire in sala da pranzo, inizialmente Joe non riuscì ad afferrare il motivo per cui lo aveva ringraziato. Poi capì che gli era grata perché aveva avuto fiducia in lei, non aveva avuto paura che rubasse qualcosa girando da sola per la casa. Evidentemente era abituata a essere sospettata, non perché fosse disonesta, ma semplicemente perché era Maria Elena Gonzalez, una donna che era partita da Hermosillo, in Messico, ed era venuta a nord in cerca di una vita migliore. Sebbene lo rattristasse ricordare quanta stupidità e cattiveria c'erano nel mondo, Joe si rifiutò di soffermarsi su pensieri negativi. Il suo primogenito stava per nascere e nel corso degli anni voleva poter ricordare quella giornata come un momento meraviglioso, caratterizzato unicamente da una dolce attesa, anche se piena di nervosismo, e dalla gioia della nascita. Entrò in soggiorno e si accomodò nella sua poltrona preferita, tentando di leggere Si vive solo due volte, l'ultimo romanzo con James Bond. Non riusciva a lasciarsi coinvolgere dalla storia. Bond era sopravvissuto a migliaia di pericoli e aveva sgominato centinaia di nemici, ma non sapeva nulla delle complicazioni che possono trasformare un normale travaglio in una prova mortale per madre e figlio. 5 Giù, giù, attraverso le ombre e le ragnatele a brandelli, attraverso il pungente odore di creosoto e la nauseante puzza di muffa, Junior scendeva le scale della torre con la massima cautela. Se fosse inciampato in un gradino sconnesso, se fosse caduto, rompendosi una gamba, probabilmente nessuno lo avrebbe trovato per giorni e giorni, e sarebbe morto di sete, o per un'infezione, o per essere rimasto esposto alle intemperie, oppure assalito da qualsiasi tipo di predatore notturno che l'avesse trovato in quella condizio-
ne d'impotenza. Non era mai consigliabile avventurarsi nei boschi da solo. Lui aveva sempre preferito affrontare un'escursione in compagnia di un'altra persona, in modo da dividere i rischi, ma quel giorno la sua compagnia era stata Naomi e adesso lei non lo poteva più aiutare. Quando finalmente arrivò in fondo alle scale e uscì da sotto la torre, si affrettò a raggiungere la stradina sterrata. L'auto si trovava a ore di distanza sul difficile percorso che avevano seguito all'andata, ma prendendo il sentiero aperto dalle squadre antincendio avrebbe impiegato mezz'ora, quaranta minuti al massimo. Dopo pochi passi, si fermò. Non osava portare la polizia fin lassù, per poi scoprire che la povera Naomi, anche se gravemente ferita, era ancora aggrappata alla vita. Era praticamente impossibile che una persona sopravvivesse a un volo di quarantacinque metri, all'incirca l'altezza di quindici piani. D'altra parte, a volte si verificano anche dei miracoli. Miracoli non nel senso di divinità, angeli e santi che s'impicciano delle faccende umane. Junior non credeva a sciocchezze del genere. «Ma a volte accadono cose davvero incredibili», borbottò, perché lui aveva una visione della realtà implacabilmente matematico-scientifica, che ammetteva l'esistenza di molte sbalorditive anomalie, di incomprensibili effetti meccanici, ma che non lasciava spazio al soprannaturale. Con maggiore trepidazione di quanto sembrasse ragionevole, girò intorno alla base della torre. L'erba alta e le piante selvatiche gli solleticavano i polpacci nudi. In quella stagione non vi erano insetti che ronzavano, zanzare che cercavano di succhiargli il sudore della fronte. Lentamente, avanzando con circospezione, si avvicinò alla sagoma contorta di sua moglie. In quattordici mesi di matrimonio, Naomi non aveva mai alzato la voce contro di lui, non gli aveva mai messo il broncio. Era una ragazza che non cercava mai un difetto nelle persone, se appena poteva trovare una virtù, e che riusciva sempre a trovare una virtù in chiunque, tranne che nei pedofili e... Be', negli assassini. Era terrorizzato all'idea di trovarla ancora viva perché, per la prima volta nel corso della loro relazione, l'animo di Naomi sarebbe stato colmo di amarezza. Senza dubbio gli avrebbe rivolto parole aspre, forse crudeli e, anche se lui era nella condizione di zittirla rapidamente, i dolci ricordi del loro matrimonio sarebbero stati rovinati per sempre. In seguito, ogni volta
che avesse pensato alla sua bionda Naomi, avrebbe udito le sue accuse, avrebbe visto il suo stupendo viso distorto e imbruttito dalla rabbia. Sarebbe stato davvero triste che ricordi tanto belli venissero rovinati per sempre. Svoltò oltre l'angolo nordoccidentale della torre e vide Naomi a terra, esattamente dove si era aspettato di trovarla, non seduta mentre si toglieva gli aghi di pino dai capelli, ma a terra, contorta e immobile. Tuttavia si bloccò, riluttante all'idea di avvicinarsi ulteriormente. Rimase a osservarla da una distanza di sicurezza, strizzando gli occhi per il sole, attento anche al più piccolo movimento. Nel silenzio privo di vento, d'insetti e di vita, rimase ad ascoltare, aspettandosi quasi che, da un momento all'altro, lei cominciasse a cantare una delle sue canzoni preferite - Somewhere over the Rainbow o What a Wonderful World - ma con una voce flebile, spezzata, soffocata dal sangue e con un rantolo di cartilagine rotta. Si stava caricando troppo di ansia, e senza motivo. Naomi era quasi sicuramente morta, ma lui doveva esserne certo e, per farlo, doveva darle un'occhiata da vicino. Non c'era altro modo. Un'occhiata rapida e poi via, via, verso un futuro interessante e movimentato. Non appena incominciò ad avvicinarsi, capì perché era stato così riluttante. Aveva temuto che il bel viso di Naomi fosse orrendamente sfigurato, squarciato e spappolato. Junior era un tipo schizzinoso. Non gli piacevano i film di guerra o i gialli in cui i personaggi venivano uccisi con armi da fuoco o pugnalati e nemmeno più discretamente avvelenati, perché il regista doveva sempre mostrarti il corpo come se uno non potesse credergli sulla parola e andare semplicemente avanti con la trama. Preferiva le storie d'amore e le commedie. Una volta aveva cominciato a leggere un giallo di Mickey Spillane ed era rimasto disgustato da tutta quella violenza. Non era quasi riuscito a terminare il libro, tuttavia considerava una mancanza di carattere il non portare a termine un progetto iniziato, anche se si trattava di leggere un romanzo così cruento. Ciò che a lui piaceva di più nei film di guerra e nei gialli era l'azione. Questa non lo turbava. Quello che lo infastidiva era il risultato dell'azione. Troppi registi e scrittori avevano la mania di mostrare le conseguenze, come se fossero importanti quanto la storia in sé. Invece la parte divertente era il movimento, l'azione, non ciò che comportavano. Nella scena di un treno impazzito che, a un passaggio a livello, investe un autobus pieno di suore, scaraventandolo lontano e proseguendo la sua folle corsa, quello che
lo spettatore vuole è seguire il treno, non tornare indietro per sapere che cosa è successo a quelle sfortunate suore; che fossero vive o morte, una volta che l'autobus era stato scagliato lontano, diventavano automaticamente storia e ciò che importava era il treno; non le conseguenze ma l'azione. Lassù, su quell'assolato crinale dell'Oregon, lontano da qualsiasi treno e ancora più lontano da qualsiasi suora, Junior applicò quella considerazione al proprio caso, superò il suo istintivo disgusto e ritrovò lo slancio. Si avvicinò alla moglie, si fermò accanto a lei e, fissandola negli occhi sbarrati, la chiamò: «Naomi?» Non sapeva perché avesse pronunciato il suo nome, gli era bastato guardarla in viso per essere certo che fosse morta. Percepì nella propria voce una nota di tristezza e immaginò che Naomi già le mancasse un po'. Se, in risposta alla voce di Junior, lei avesse mutato espressione, se avesse sbattuto le palpebre per fargli capire che si era accorta della sua presenza, forse a Junior non sarebbe completamente dispiaciuto, certo dipendeva dalle sue condizioni. Paralizzata dal collo in giù e incapace di rappresentare una minaccia, con il cervello così danneggiato da non poter né parlare né scrivere, o comunque comunicare in alcun modo alla polizia ciò che le era accaduto, e tuttavia con la sua bellezza quasi intatta, Naomi avrebbe potuto ancora arricchirgli la vita in molti modi. In quelle circostanze, se la dolce Naomi fosse stata stupenda come sempre ma arrendevole e incapace di esprimere i giudizi come una bambola, forse Junior avrebbe anche potuto darle una casa... e volerle bene. Azioni senza conseguenze. Ma era morta come un rospo schiacciato da un camion e adesso a lui interessava tanto quanto un autobus pieno di suore travolto da un treno. Il fatto straordinario era che il viso non aveva perso quasi niente della sua bellezza. Naomi era caduta supina, di conseguenza i danni maggiori li avevano ricevuti la spina dorsale e la nuca. Junior non voleva pensare a come doveva apparire la parte posteriore del cranio; fortunatamente i lunghi capelli biondi nascondevano la verità. I lineamenti del viso apparivano leggermente distorti, lasciando intuire le condizioni disastrose del resto della testa, ma il risultato non era né triste né grottesco; anzi, quella leggera deformazione le dava il sorriso un po' storto, allegro e nell'insieme attraente di una monella dispettosa, con le labbra socchiuse come se lei avesse appena detto qualcosa di estremamente divertente. Junior era rimasto stupito nel vedere che così poche tracce di sangue
macchiavano il suo letto di pietra, poi capì che Naomi era morta sul colpo. Fermatosi bruscamente, il cuore non aveva più pompato sangue dalle ferite. Si inginocchiò accanto a lei e le sfiorò delicatamente il viso. La pelle era ancora tiepida. Sentimentale come sempre, Junior le diede un bacio d'addio. Uno solo. Lungo, ma soltanto uno, e senza la lingua. Tornò al sentiero della squadra antincendio e si diresse a sud, camminando di buon passo lungo quella stradina tortuosa. Quando raggiunse la prima curva, si fermò per voltarsi a guardare il crinale della montagna. L'alta torre disegnava nel cielo la sua sagoma cupa e minacciosa. Il bosco circostante sembrava ritrarsi, quasi che la natura avesse scelto di non abbracciare più quell'edificio. Al di sopra della torre, un po' di lato, erano apparsi tre corvi, come se si fossero generati spontaneamente. Volavano in tondo sopra il punto in cui Naomi giaceva come una Bella Addormentata, che però il bacio non aveva risvegliato. I corvi mangiano le carogne. Ricordando a se stesso che ciò che importava era l'azione e non le conseguenze, Junior Cain riprese il suo viaggio lungo il sentiero. Invece di camminare in fretta, prese a correre tranquillamente, canticchiando per tenere il ritmo come fanno i marine durante l'addestramento, ma dato che non conosceva nessuna canzone militare, si mise a borbottare le parole di Somewhere over the Rainbow, senza la musica, cercando semplicemente di tenere il ritmo della corsa, diretto non verso il palazzo di Montezuma, non verso le spiagge di Tripoli, ma verso un futuro che adesso prometteva di essere colmo di esperienze eccezionali e di innumerevoli sorprese. 6 Se non si consideravano gli effetti della gravidanza, Agnes era di corporatura minuta; Maria Elena Gonzalez era anche più piccola di lei. Tuttavia, mentre se ne stavano sedute in diagonale l'una rispetto all'altra, giovani donne che appartenevano a mondi completamente diversi ma dalla personalità sorprendentemente simile, lo scontro delle loro volontà riguardo al pagamento per le lezioni di inglese era colossale quasi quanto l'urto delle due placche tettoniche che cozzano l'una contro l'altra nel sottosuolo della costa californiana. Maria era ben decisa a pagare in denaro o con il suo la-
voro. Agnes insisteva che le lezioni erano un gesto di amicizia, quindi non richiedevano alcuna remunerazione. «Io non rubo soldi di una amica», dichiarò Maria. «E infatti non ti stai approfittando di me, mia cara. È un tale piacere insegnarti e vedere i tuoi progressi, che dovrei essere io a pagare te.» Maria chiuse i grandi occhi scuri e inspirò profondamente, muovendo le labbra senza emettere alcun suono come se ripetesse qualcosa d'importante che voleva dire nel modo più corretto. Aprì gli occhi: «Ogni sera ringrazio la Vergine e Gesù che tu sei dentro la mia vita». «Questo è davvero molto bello, Maria.» «Ma io compro l'inglese», concluse in tono fermo, facendo scivolare sul tavolo le tre banconote da un dollaro. Tre dollari corrispondevano a sei dozzine di uova o a dodici panini, e Agnes non aveva alcuna intenzione di togliere il cibo di bocca a una povera donna e alle sue fìglie. Spinse a sua volta il denaro sul tavolo verso Maria. Con le mascelle serrate, le labbra premute e gli occhi come fessure, Maria li respinse, facendoli scivolare nuovamente verso Agnes. Ignorando l'offerta, Agnes aprì il libro d'inglese. Ruotando sulla sedia, Maria diede le spalle alle tre banconote e al libro. Agnes lanciò un'occhiata di fuoco verso la nuca di Maria e commentò: «Sei impossibile». «Sbagliato. Maria Elena Gonzalez è vera.» «Non è quello che intendevo dire e lo sai.» «Io so niente. Io stupida donna messicana.» «Stupida è l'ultima cosa che sei.» «Adesso essere sempre stupida, sempre con mio inglese male.» «Inglese scorretto. Il tuo inglese non è male, è solo scorretto.» «Allora tu insegni.» «Non per denaro.» «Non gratis.» Per alcuni minuti rimasero entrambe immobili: Maria con la schiena rivolta al tavolo, Agnes che fissava frustrata la sua nuca e che, con la forza del pensiero, cercava di costringere Maria a voltarsi nuovamente verso di lei, a essere ragionevole. Alla fine Agnes si alzò. Una lieve contrazione le strinse una cintura di dolore intorno alla schiena e al ventre e lei dovette appoggiarsi al tavolo fino a quando la fitta non passò.
Senza dire una parola, versò una tazza di caffè e la posò davanti a Maria. Poi mise una focaccina all'uvetta in un piattino che sistemò accanto alla tazza. Maria sorseggiò il caffè continuando a sedere di lato, sempre con le spalle rivolte alle tre banconote consunte. Invece di uscire dalla cucina passando per la sala da pranzo, Agnes oltrepassò le porte oscillanti, attraversò l'ingresso e, quando passò sotto l'arco che si affacciava sul salotto, Joey si alzò di scatto dalla poltrona, lasciando cadere il libro che stava leggendo. «Non è ancora arrivato il momento», lo tranquillizzò lei, avviandosi verso le scale. «E se avessi torto?» «Credimi, Joey, sarai il primo a saperlo.» Mentre Agnes saliva, Joey le corse dietro in corridoio, domandando: «Dove stai andando?» «Di sopra, sciocchino.» «Che cosa stai andando a fare?» «A fare a pezzi qualche vestito.» «Ah.» Agnes prese un paio di forbicine dal bagno principale, tolse una camicetta rossa dal cassetto e si sedette sul bordo del letto. Prima tagliuzzò accuratamente il filo con le forbicine bene affilate, poi rivoltò la camicetta e tagliò diversi punti proprio sotto il rinforzo della spalla, rovinando l'increspatura frontale. Dall'armadio di Joey, prese una vecchia giacca blu che lui ormai usava solo di rado. La fodera era sformata, consunta e mezzo marcia. La strappò. Servendosi delle forbicine, aprì la cucitura della spalla dall'interno. Agli indumenti da rammendare, aggiunse anche una delle giacche di lana di Joey, dopo aver allentato il filo che teneva uno dei bottoni d'osso e avere strappato quasi completamente una delle tasche applicate. Tagliò la cucitura posteriore di un paio di pantaloni da casa color cachi, aprì l'angolo di una tasca, che poi strappò con entrambe le mani, infine allentò qualche punto e strappò una parte del risvolto della gamba sinistra. Rovinò più indumenti di Joey che suoi unicamente perché lui era un vero gigante, il che rendeva più facile far credere che scoppiasse continuamente dalle cuciture degli abiti. Mentre scendeva al pianterreno, arrivata quasi in fondo alle scale, fu colta dal dubbio di avere esagerato con i pantaloni color cachi e di averli dan-
neggiati così tanto da suscitare qualche sospetto. Nel vederla, Joey balzò nuovamente dalla poltrona. Questa volta cercò di non fare cadere il libro, ma inciampò in uno sgabello e fu quasi sul punto di perdere l'equilibrio. «Quando sei stato aggredito dal cane?» domandò lei. Allibito, lui balbetto: «Quale cane?» «È stato ieri o l'altro ieri?» «Cane? Non c'era nessun cane.» Scuotendo il paio di pantaloni strappati davanti a lui, Agnes domandò: «E allora chi è stato a conciarli in questo modo?» Joey li fissò con aria triste. Sebbene fossero solo un vecchio paio di pantaloni, erano quelli che indossava più volentieri quando doveva fare qualche lavoretto in casa, nei fine settimana. «Ah», disse, «quel cane.» «È stato un miracolo che non ti abbia morso.» «Fortunatamente, avevo una pala.» «Non avrai colpito quel povero cane con una pala?» volle sapere Agnes, fingendosi sbigottita. «Be', non mi stava forse aggredendo?» «Ma era solo un collie nano.» Joey corrugò la fronte. «Pensavo che si trattasse di un cane grosso.» «No, no, caro. Era la piccola Muffin, quella della casa accanto. Un cane grosso avrebbe fatto a pezzi sia te sia i pantaloni. Dobbiamo inventare una storia credibile.» «Muffin sembra una cagnolina così mite.» «Ma è di una razza molto nervosa. In questi casi non si può mai sapere, vero?» «Infatti.» «Comunque, anche se Muffin ti ha aggredito, per il resto è una cagnolina adorabile. Che cosa penserebbe di te Maria se le dicessi che hai colpito la povera Muffin con una pala?» «Ma stavo lottando per salvarmi la pelle, o no?» «Penserà che sei un uomo crudele.» «Io non ho detto di avere colpito il cane.» Sorridendo e piegando la testa di lato, Agnes lo fissò con aria divertita, in attesa di una sua spiegazione. Aggrottando le sopracciglia, Joey si mise a fissare il pavimento con espressione perplessa, spostò il peso da un piede all'altro, sospirò, rivolse la sua attenzione al soffitto e poi spostò nuovamente il peso. Sembrava un or-
so ammaestrato che non riuscisse a ricordare come eseguire il prossimo esercizio. Alla fine disse: «Quello che ho fatto è stato di prendere la pala, scavare una buca molto in fretta e poi seppellirci Muffin fino al collo... per lasciarla lì fino a quando non si fosse calmata». «Allora, è questa la tua storia?» «E non ho intenzione di cambiarla.» «Bene, allora sei fortunato che l'inglese di Maria sia così male.» «Non potevi semplicemente prendere i soldi?» «Certo. Oppure potrei proporle un indovinello e, se non è in grado di darmi la soluzione, pretendere in cambio una delle sue figlie.» «A me piacevano quei pantaloni.» Voltandogli le spalle, mentre attraversava il corridoio in direzione della cucina, Agnes lo rassicurò: «Dopo che li avrà rammendati saranno come nuovi». Da dove si trovava in fondo alle scale, Joey volle sapere: «E quella è la mia giacca grigia? Che cosa hai fatto alla mia giacca?» «Se non stai zitto, la brucio.» In cucina, Maria stava mangiucchiando la ciambellina all'uvetta. Agnes lasciò cadere gli indumenti strappati su una delle sedie del tavolo della colazione. Dopo essersi pulita accuratamente le mani con un tovagliolo di carta, Maria esaminò gli abiti con interesse. Si guadagnava da vivere facendo la rammendatrice nella Bright Beach Dry Cleaners. Alla vista di strappi, bottoni semistaccati e sdruciture, prese a schioccare la lingua. «Joey maltratta così tanto i suoi indumenti», spiegò Agnes. «Uomini», commentò Maria in tono di commiserazione. Suo marito Rico - un ubriacone e giocatore - era scappato con un'altra donna, abbandonando lei e due figlie piccole. Senza dubbio, se ne era andato indossando un completo immacolato, perfettamente stirato e rammendato. Maria sollevò i pantaloni color cachi e inarcò le sopracciglia. Accomodandosi su una sedia vicino al tavolo, Agnes spiegò: «È stato aggredito da un cane». Maria spalancò gli occhi. «Pit bull? Pastore tedesco?» «Un collie nano.» «Come è questo cane?» «È stata Muffin. Sai, quella della casa accanto.»
«La piccola Muffin fatto questo?» «È di una razza molto nervosa.» «Qué?» «Muffin era di cattivo umore.» «Qué?» Agnes fece una smorfia. Un'altra contrazione, di già. Leggera, ma a distanza molto ravvicinata dall'ultima. Strinse le mani intorno all'enorme ventre e inspirò profondamente più volte fino a quando il dolore passò. «Comunque», proseguì come se la strana aggressività di Muffin fosse stata adeguatamente spiegata, «questi lavori di rammendo dovrebbero coprire le prossime dieci lezioni.» La fronte di Maria si corrugò come un pezzo di stoffa marrone arricciato. «Sei lezioni.» «Dieci.» «Sei.» «Nove.» «Sette.» «Nove.» «Otto.» «Affare fatto», accettò Agnes. «Ora metti via quei tre dollari e cominciamo la lezione prima che mi si rompano le acque.» «L'acqua può rompersi?» domandò Maria, guardando il rubinetto del lavandino. Poi sospirò. «Ho tanto da essere imparata.» 7 Una massa di nuvole coprì il sole del tardo pomeriggio e, dove ancora si poteva scorgere, il cielo dell'Oregon era diventato color zaffiro. Come corvi dallo sguardo vigile, i poliziotti si erano radunati sotto l'ombra sempre più lunga della torre. Dato che la costruzione si ergeva su un crinale che delimitava il confine tra contea e terreno demaniale, la maggior parte degli uomini presenti apparteneva alla polizia della contea, ma ve ne erano anche due del corpo di polizia dello stato. Oltre ai rappresentanti della legge in divisa, vi era anche un uomo sulla cinquantina, dal fisico massiccio e capelli a spazzola, che indossava pantaloni neri e una giacca grigia sportiva in tessuto a spina di pesce. Aveva il viso quasi completamente piatto, il mento sfuggente e la pappagorgia, e
Junior ignorava del tutto quale fosse la sua posizione. Era il tipo di uomo che sarebbe passato completamente inosservato in un'assemblea di diecimila nullità, se non fosse stato per la voglia di vino che gli circondava l'occhio destro, macchiandogli gran parte del dorso nasale, illuminandogli metà della fronte e scendendo fino alla parte superiore della guancia. Tra di loro, i poliziotti parlavano per lo più a voce bassa. O forse Junior era troppo inquieto per sentirli chiaramente. Aveva qualche difficoltà a mantenere l'attenzione sul problema più immediato. La sua mente era attraversata da strani pensieri sconnessi che avanzavano come onde lente, untuose, da occhio del ciclone, nel mare in tempesta. In precedenza, dopo aver corso per tutto il sentiero, aveva raggiunto la sua Chevy ansimando e, una volta raggiunta a tutta velocità Spruce Hills, una città poco distante, si era sentito precipitare in quella strana condizione. Aveva cominciato a guidare in modo così irregolare che un'auto di pattuglia aveva cercato di farlo accostare, ma ormai lui si trovava a un isolato dall'ospedale e terminò la sua corsa soltanto quando arrivò a destinazione, dopo aver imboccato il viale d'accesso con una manovra brusca, aver superato con un balzo il cordolo, andando quasi a sbattere contro un'auto parcheggiata e fermandosi in un punto in cui era vietato il parcheggio, proprio davanti all'ingresso del pronto soccorso. Poi era sceso dalla Chevy barcollando come un ubriaco, gridando alla guardia di servizio di chiamare subito un'ambulanza, SUBITO UN'AMBULANZA. Durante tutto il tragitto per tornare in cima alla montagna, che aveva ripercorso a bordo di un'auto della polizia, seduto accanto a un vicesceriffo della contea, e tallonato da un'ambulanza e da altre auto piene di poliziotti, Junior aveva continuato a tremare in modo incontrollabile. Quando aveva cercato di rispondere alle domande del funzionario, la sua voce, insolitamente stridula, gli si era spezzata in gola più volte ed era riuscito soltanto a ripetere: «Gesù, o Gesù». A un certo punto, l'autostrada si era inoltrata in una gola immersa nell'ombra e Junior, vedendo i riflessi rossastri delle luci intermittenti delle auto contro le pareti rocciose, aveva cominciato a sudare a profusione. Di tanto in tanto, il poliziotto metteva in funzione la sirena per farsi largo nel traffico, e Junior provava l'impulso di urlare, di abbandonarsi a un grido di terrore, di angoscia, di confusione e di dolore per la perdita. Ma soffocò quell'urlo perché aveva la sensazione che, se si fosse lasciato andare, non sarebbe più stato capace di tacere per molto, molto tempo.
Passando dall'ambiente chiuso dell'auto all'aria molto più fredda di quando lui aveva lasciato quel luogo, mentre i poliziotti e i paramedici gli si affollavano intorno, Junior si sentì malfermo sulle gambe. Poi li guidò attraverso l'erba alta fino a Naomi, avanzando a scatti, inciampando in piccoli sassi che gli altri evitavano senza difficoltà. Junior sapeva di apparire colpevole come nessun uomo prima di lui, dai tempi della prima e-mail e del paradiso terrestre. La sudorazione, gli attacchi di tremito, la nota di difesa che non poteva cancellare dalla sua voce, l'incapacità di guardare chiunque direttamente negli occhi per più di qualche secondo... erano tutti indizi che non sarebbero sfuggiti a professionisti come quelli. Aveva disperatamente bisogno di riprendere il controllo di sé ma non sapeva da che parte incominciare. Ecco, ancora una volta era tornato accanto al corpo di sua moglie. Il livor mortis era già iniziato, il sangue stava defluendo verso le parti più basse del corpo, lasciando la parte anteriore delle gambe nude, un lato di entrambe le braccia scoperte e il viso mortalmente pallidi. I suoi occhi spenti apparivano sorprendentemente limpidi. Era davvero incredibile che l'impatto non avesse iniettato di sangue quegli stupendi occhi color lavanda. Niente sangue, solo sorpresa. Junior si rendeva conto che tutti i poliziotti lo stavano osservando mentre lui fissava il corpo e cercava freneticamente di immaginare quello che un marito innocente avrebbe dovuto fare o dire, ma la fantasia non lo aiutò. Non riusciva a organizzare i pensieri. Il suo tumulto interiore si fece ancora più intenso e si manifestò all'esterno con maggiore evidenza. Nell'aria fredda del crepuscolo, Junior traspirava abbondantemente, come un uomo che fosse già stato legato alla sedia elettrica; il sudore gli colava lungo il corpo, zampillava dai pori. Tremava, tremava, gli sembrava quasi di sentire le proprie ossa che sbatacchiavano l'una contro l'altra come gusci di uova sode in un pentolino. Aveva davvero pensato di riuscire a farla franca? Doveva essere stato fuori di testa, per un momento era impazzito. Uno dei paramedici si inginocchiò accanto al corpo, controllando le pulsazioni di Naomi anche se, in quelle circostanze, il suo gesto era una formalità al limite della stravaganza. Qualcuno si avvicinò, andandosi a fermare accanto a Junior, domandò: «Ci può ripetere come è successo?» Junior sollevò lo sguardo e fissò negli occhi l'uomo massiccio con la voglia. Erano occhi grigi, duri come acciaio, ma limpidi e stranamente belli
in quel volto per altri versi così poco attraente. La voce dell'uomo riecheggiò sorda nelle orecchie di Junior, come se giungesse dalla fine di un tunnel o dall'estremità opposta del corridoio di un braccio della morte. Junior rovesciò all'indietro la testa e fissò il tratto di ringhiera rotta sul ponte di osservazione in cima alla torre. Sapeva che anche gli altri stavano guardando verso l'alto. Erano tutti in silenzio. Il giorno aveva l'immobilità di una camera mortuaria. I corvi erano volati lontano e soltanto un falco continuava a planare silenziosamente al di sopra della torre, come la giustizia che ha avvistato la sua preda. «Lei. Stava mangiando. Albicocche secche.» Junior parlava quasi in un sussurro, tuttavia le montagne erano così silenziose che era certo che quei giudici non ufficiali, ma in uniforme, lo stessero sentendo chiaramente. «Camminavamo. Intorno alla piattaforma. Ci siamo fermati. Il panorama. Lei. Lei. Si è appoggiata. È andata.» Improvvisamente, Junior Cain voltò le spalle alla torre, al corpo del suo perduto amore, crollò in ginocchio e cominciò a vomitare. Vomitò con una violenza esplosiva, come non aveva mai fatto in vita sua, neppure nei momenti peggiori. Un vomito dalla puzza disgustosa, amaro, denso, assolutamente sproporzionato rispetto al pasto leggero che aveva consumato. Junior non provava nausea, ma i muscoli addominali avevano cominciato a contrarsi dolorosamente e con una tale violenza che aveva l'impressione di restare tagliato in due, e i conati continuarono a susseguirsi, uno dopo l'altro, finché lui sputò una sottile poltiglia verde di bile, che sicuramente avrebbe messo fine al vomito, ma così non fu, perché rigettò altra bile, così acida che si sentiva bruciare le gengive - o buon Dio, per favore, no - ancora altra bile. Vomitava con tutto il corpo. Si strozzò con qualcosa di disgustoso che aveva aspirato. Strizzò gli occhi bagnati per non vedere il vomito, ma non poteva cancellare la puzza. Uno dei paramedici si era chinato accanto a lui, premendogli una mano fresca sulla nuca. Accortosi di ciò che stava succedendo, l'uomo esclamò: «Kenny! Abbiamo un'ematemesi!» Passi affrettati che correvano verso l'ambulanza. Evidentemente Kenny. Il secondo paramedico. Per diventare fisioterapeuta, Junior aveva dovuto apprendere molto più che fare massaggi, quindi conosceva il significato della parola ematemesi. Emalemesi: vomitare sangue. Aprendo gli occhi, ricacciando indietro le lacrime, mentre altre dolorose
contrazioni gli chiudevano l'addome, vide strisce rosse in mezzo al vomito liquido e verdastro che gli schizzava dalla bocca. Un rosso vivo. Se fosse stato gastrico, il sangue sarebbe stato scuro. Doveva provenire dalla faringe. A meno che non gli si fosse rotta un'arteria nello stomaco, spezzata dall'incredibile violenza di quegli spasmi, nel qual caso lui stava praticamente vomitando la vita. Si domandò se il falco fosse sceso formando cerchi sempre più stretti, come la giustizia che voleva ghermirlo, ma non era in grado di sollevare la testa per guardare. Senza nemmeno rendersi conto di quanto fosse accaduto, si accorse di non essere più in ginocchio, ma disteso sul fianco destro. Uno dei paramedici gli teneva la testa sollevata e rivolta all'indietro. Così poteva espellere la bile, il sangue, senza soffocarsi. Il dolore che gli faceva contorcere le viscere era straordinario, un'estasi di morte. Ondate peristaltiche, sempre della stessa intensità, gli attraversavano il duodeno, lo stomaco, l'esofago e, tra un getto di vomito e l'altro, Junior ansimava cercando disperatamente un po' d'aria, ma con scarsi risultati. Qualcosa di umido e freddo proprio al di sopra della piega del gomito sinistro. Una puntura. Intorno al braccio sinistro gli avevano legato un laccio emostatico per gonfiare la vena e renderla più visibile e la puntura che aveva sentito era stata quella di un ago ipodermico. Gli avevano iniettato qualcosa contro la nausea. Ma molto probabilmente il farmaco non avrebbe agito abbastanza in fretta per salvarlo. Gli sembrò di udire il lieve fruscio di ali affilate come lame di coltello che tagliavano l'aria di gennaio. Non osò guardare verso l'alto. Altro vomito in gola. L'agonia. L'oscurità gli si riversò nella testa come se fosse stato il sangue che saliva implacabilmente dallo stomaco e dall'esofago. 8 Una volta terminata la lezione di inglese, Maria Elena Gonzalez se ne tornò a casa con un sacchetto di plastica pieno di indumenti appositamente strappati e un sacchetto di carta più piccolo colmo di ciambelline alla ciliegia per le sue due bambine. Agnes chiuse la porta d'ingresso e, voltandosi, andò a sbattere con il
ventre gonfio contro Joey. Inarcando le sopracciglia, lui le posò le mani sulla pancia come se Agnes fosse più fragile di un uovo di pettirosso e più preziosa di un uovo di Fabergé. «Adesso?» domandò. «Prima vorrei mettere in ordine la cucina.» In tono supplichevole: «Aggie, no». Le ricordava il personaggio di Orso Preoccupato che aveva trovato in un libro di fiabe e che aveva già acquistato per il bambino. L'Orso Preoccupato ha le tasche piene di preoccupazioni. Le porta sotto il panama e in due preziosi medaglioni. Trasporta preoccupazioni sotto le braccia e sul groppone. Eppure l'Orso Preoccupato rimane sempre un simpaticone. Le contrazioni di Agnes si stavano facendo sempre più frequenti e leggermente più intense, così finalmente cedette: «Va bene, ma dammi il tempo d'informare Edom e Jacob che stiamo andando». Edom e Jacob Isaacson erano i suoi fratelli maggiori, che abitavano in due piccoli appartamenti sopra l'ampio garage in fondo alla proprietà. «Gliel'ho già detto io», la rassicurò Joey, allontanandosi da lei e spalancando la porta dell'armadio nell'ingresso con una tale forza che Agnes pensò l'avrebbe staccata dai cardini. Joey prese il cappotto della moglie con la velocità di un prestigiatore. Come per magia, Agnes si ritrovò le braccia nelle maniche e il colletto abbottonato sotto il mento nonostante che, viste le sue attuali dimensioni, infilare qualcos'altro che non fosse un cappello richiedeva una precisa strategia e una notevole ostinazione. Quando si voltò nuovamente verso il marito, vide che aveva già indossato la giacca e che aveva afferrato le chiavi della macchina posate sul tavolino nell'ingresso. Joey le fece scorrere la mano sinistra sotto il braccio destro, come se Agnes fosse debole e avesse bisogno di sostegno, e la trascinò fuori sulla veranda. Non si fermò per chiudere a chiave la porta d'ingresso. Nel 1965, a Bright Beach, c'erano tanti criminali quanti brontosauri. Il pomeriggio stava volgendo al termine e il cielo si andava abbassando come attratto costantemente verso la terra da fili di luce grigia che, sul rocchetto dell'orizzonte, si avvolgevano sempre più in fretta verso occidente. L'aria odorava di pioggia pronta a cadere.
La Pontiac verde metallizzato era ferma nel vialetto d'accesso ed emanava bagliori che sembravano invogliare la natura a mandare un po' di maltempo. Joey teneva la sua auto sempre perfettamente pulita e probabilmente non avrebbe avuto tempo di guadagnarsi da vivere se avesse abitato in uno stato dove il clima imbrattava continuamente le carrozzerie invece che nella California meridionale. «Stai bene?» domandò, mentre apriva la portiera del passeggero e aiutava la moglie a salire in macchina. «Sto da papa.» «Sei sicura?» «Sicura come l'oro.» L'interno della Pontiac profumava gradevolmente di limoni, anche se allo specchietto retrovisore non era appeso uno di quegli orridi deodoranti. I sedili, puliti regolarmente con detergente per cuoio, erano più morbidi di quando l'auto era uscita dalla fabbrica di Detroit, e il cruscotto era così terso da scintillare. Joey aprì la portiera dalla sua parte, si mise al volante e domandò: «Okay?» «Tutto liscio come l'olio.» «Sei pallida.» «Sono sana come un pesce.» «Mi stai prendendo in giro, vero?» «Mi stai chiedendo con tanta dolcezza di essere preso in giro, come potrei rifiutare?» Proprio nel momento in cui Joey chiudeva la portiera, Agnes sentì una contrazione come una mano che l'afferrava. Fece una smorfia, inspirando aria con forza tra i denti stretti. «Oh, no», esclamò l'Orso Preoccupato. «Oh, no.» «Santo cielo, tesoro, rilassati. Questo non è un dolore normale. È un dolore di gioia. Prima che finisca il giorno, la nostra bambina sarà qui con noi.» «Il nostro bambino.» «Fidati dell'intuito di una madre.» «Anche il padre ne ha un po'.» Era così nervoso che la chiave sbatacchiò per un tempo interminabile contro l'interruttore dell'accensione prima che lui riuscisse finalmente a inserirla. «Dovrebbe essere un maschietto, così avresti sempre un uomo in casa.» «Hai forse in mente di scappare con qualche bionda?»
Joey non riusciva ad accendere il motore perché continuava a girare la chiave nel senso sbagliato. «Sai che cosa voglio dire. Ho intenzione di restarti accanto per molto tempo, ma le donne vivono più a lungo degli uomini, parecchi anni. Le statistiche sono chiare.» «Non smetti mai di essere un agente delle assicurazioni.» «Sì, è vero», ammise lui, riuscendo finalmente ad accendere il motore. «Hai intenzione di vendermi una polizza?» «Be', visto che oggi non ne ho vendute a nessun altro. Devo pur guadagnarmi da vivere. Stai bene?» «Ho paura», ammise lei. Invece d'inserire la marcia, Joey posò una delle sue manone da orso su quelle di Agnes. «C'è qualcosa che non va?» «Ho paura che tu vada a sbattere contro un albero.» Lui fece un'espressione offesa. «Sono l'automobilista più prudente di Bright Beach. Basta domandare alla mia assicurazione.» «Non oggi. Se ti ci vuole tanto tempo a fare partire l'auto quanto ce n'è voluto per infilare la chiave dell'accensione, quando arriveremo all'ospedale, la nostra piccolina sarà già in grado di stare seduta e balbettare 'papà'.» «Il nostro piccolino.» «Cerca di calmarti.» «Io sono calmo», assicurò lui. Tolse il freno a mano, inserì la retromarcia invece della prima e si allontanò dalla strada, indietreggiando lungo il lato della casa. Spaventato, si bloccò con una frenata. Agnes lasciò che il marito inspirasse profondamente tre o quattro volte poi, indicando il parabrezza, gli fece notare: «L'ospedale è da quella parte». Lui la guardò con espressione confusa. «Stai bene?» «Se raggiungi l'ospedale in retromarcia, la bambina camminerà all'indietro per tutta la vita.» «Se sarà una bambina, sarà esattamente come te», commentò lui. «E non penso che riuscirei a destreggiarmi tra due Agnes.» «Ti terremo giovane.» Facendo molta attenzione, Joey inserì la marcia e avanzò lungo il vialetto fino alla strada, poi sbirciò a sinistra e a destra con gli occhi strizzati e lo sguardo sospettoso di un marine che perlustra un territorio pericoloso. Svoltò a destra. «Assicurati che Edom consegni le torte domani mattina», gli ricordò
Agnes. «Jacob ha detto che non gli dispiacerebbe essere lui a farlo, per una volta.» «Jacob spaventa la gente», spiegò Agnes. «Nessuno mangerebbe una torta consegnata da Jacob senza averla prima fatta esaminare da un laboratorio.» Aghi di pioggia attraversavano l'aria e in poco tempo ricamarono disegni d'argento sull'asfalto. Azionando il tergicristalli, Joey disse: «È la prima volta che ti ho sentita ammettere che almeno uno dei tuoi fratelli è strano». «Non strano, caro. Solo un po' eccentrico.» «Come l'acqua è solo un po' bagnata.» Guardandolo con aria preoccupata, Agnes gli domandò: «Non ti dispiace che stiano con noi, vero Joey? Sono eccentrici, ma li adoro». «Anch'io», ammise lui. Sorrise e scrollò la testa. «Quei due fanno apparire spensierato come una scolaretta anche un agente assicurativo pessimista come me.» «Dopo tutto, stai diventando un automobilista davvero eccellente», scherzò Agnes, facendogli l'occhiolino. In effetti era un ottimo guidatore; a trent'anni, poteva vantare un passato di automobilista assolutamente impeccabile: niente multe, nessun incidente. Ma la sua abilità al volante e la sua naturale prudenza non gli furono d'aiuto quando un pick-up Ford attraversò la strada con il semaforo rosso, frenò troppo tardi e, scivolando a tutta velocità, andò a incastrarsi nella portiera della Pontiac, dalla parte del guidatore. 9 Ondeggiando come se galleggiasse su acque agitate, tormentato da un suono angoscioso e sovrannaturale, Junior Cain immaginò di trovarsi su un fiume scuro, a bordo di una specie di gondola, la cui prua terminava con un alto drago intagliato nel legno, un'imbarcazione che aveva visto in un romanzo che narrava di vichinghi su un barcone. Ma in questo caso il gondoliere non era un vichingo, bensì una figura alta, con una tunica scura e il volto nascosto da un ampio cappuccio; non spingeva l'imbarcazione con il tradizionale remo, ma con quelle che sembravano ossa umane unite a formare un bastone. Il fiume scorreva sotto terra, con una volta di pietra al
posto del sole, e alcuni fuochi ardevano sulla riva lontana, dalla quale giungeva quel grido angosciante, un urlo colmo di rabbia, di dolore e di paura. Come sempre, la verità non aveva nulla di sovrannaturale: aprì gli occhi e scoprì di trovarsi nella parte posteriore dell'ambulanza. Evidentemente doveva essere quella che avevano portato per Naomi. Adesso, per lei avrebbero inviato un furgone dell'obitorio. L'uomo che gli stava accanto era un paramedico, non un barcaiolo o un demone. E l'urlo era una sirena. Lo stomaco gli doleva come se fosse stato colpito senza pietà a pugni e con tubi di piombo da due delinquenti di professione. A ogni battito, sentiva il cuore premergli dolorosamente contro le cinghie che lo tenevano fermo e aveva la gola riarsa. L'ossigeno gli arrivava attraverso due tubicini infilati nel setto nasale e il flusso di quell'aria fresca e leggera era per lui un vero sollievo. Tuttavia, sentiva ancora in bocca il gusto disgustoso di ciò che aveva rigettato e gli sembrava di avere la lingua e i denti rivestiti di muffa. Ma almeno non vomitava più. Al solo pensiero del vomito, i muscoli dell'addome si contrassero immediatamente come quelli di una rana da laboratorio dopo una scarica elettrica, e lui si sentì soffocare da qualcosa di orribile che gli risaliva in gola. Che cosa mi sta succedendo? Il paramedico gli tolse in fretta i tubicini dell'ossigeno dal naso e gli sollevò la testa, mettendogli davanti una tovaglietta per raccogliere quel poco che aveva rigurgitato. Come già era avvenuto in precedenza, Junior non riuscì a controllare il suo corpo, ma adesso anche in modi diversi che lo spaventarono e umiliarono, coinvolgendo tutti i liquidi corporei, a eccezione di quello cerebrospinale. Per un po', dentro a quell'ambulanza traballante, Junior desiderò di trovarsi davvero in una gondola, sulle acque dello Stige, alla fine del suo tormento. Quando l'attacco convulsivo cessò, mentre si lasciava cadere sul cuscino macchiato, rabbrividendo per la puzza che emanavano i suoi indumenti, gli venne improvvisamente un'idea che poteva essere o frutto di pura follia, oppure una brillante intuizione. Naomi, quella schifosa puttana, mi ha avvelenato! Il paramedico, che teneva le dita premute sull'arteria radiale del polso destro di Junior, doveva aver percepito l'improvvisa accelerazione delle
pulsazioni. Junior e Naomi avevano preso le albicocche secche dallo stesso sacchetto. Avevano infilato la mano nel sacchetto senza guardare. Avevano scrollato la carta per farne scendere alcune sul palmo. Naomi non poteva avere controllato quali frutti aveva preso Junior e quali aveva mangiato lei. Si era avvelenata anche lei? Aveva deciso di ucciderlo e, contemporaneamente, di suicidarsi? Non certo Naomi, così allegra, amante della vita, vivace, religiosa. Lei guardava ogni giorno attraverso la luce dorata che proveniva dal sole del suo cuore. Una volta Junior le aveva detto proprio questo. Luce dorata, sole nel suo cuore. Le sue parole l'avevano intenerita, gli occhi le si erano colmati di lacrime e fare sesso era stato più bello che mai. Con tutta probabilità, il veleno era stato messo nel panino al formaggio che Junior aveva mangiato, oppure nella sua bottiglia d'acqua. Il suo cuore si ribellò al pensiero che l'adorabile Naomi potesse aver commesso una simile perfidia. Una persona dolce, generosa, onesta e gentile come Naomi era stata sicuramente incapace di uccidere chicchessia... e meno di tutti l'uomo che amava. A meno che lei non lo avesse amato. Il paramedico pompò il manicotto dello sfigmomanometro, molto probabilmente la pressione sanguigna di Junior risultava talmente alta da fargli rischiare un colpo apoplettico, spinta alle stelle dal pensiero che l'amore di Naomi fosse stato una menzogna. Forse lei lo aveva sposato solo per i suoi... no, era una sciocchezza. Lui non aveva soldi. Lei lo aveva amato, eccome. Lo aveva adorato. Nemmeno idolatrato sarebbe stata una parola troppo forte. Ma ora che gli era passata per la mente l'idea di essere stato ingannato, Junior non riusciva più a liberarsi dal sospetto. La buona Naomi, che dava a tutti molto, molto di più di quanto prendeva, d'allora in poi, nel suo ricordo, sarebbe sempre rimasta avvolta da un'ombra di dubbio. Dopotutto, non era possibile conoscere veramente qualcuno, conoscere veramente ogni più piccolo angolo della mente o del cuore di una persona. Nessuno era perfetto. Anche un individuo che si comportava come un santo e che era un esempio di altruismo poteva essere in realtà un mostro, colmo di abominevoli desideri che poteva soddisfare una sola volta o mai. Per esempio, lui era assolutamente sicuro che non avrebbe mai più ucci-
so un'altra moglie. Prima di tutto, considerato che il suo matrimonio con Naomi adesso era macchiato dal più terribile dei sospetti, non immaginava neppure di potersi fidare nuovamente di una persona al punto di volerla sposare. Junior chiuse gli occhi stanchi e accettò con gratitudine di farsi pulire dal paramedico il viso unto e le labbra incrostate con un panno umido e fresco. Naomi gli apparve mentalmente in tutto il suo splendore e, per un momento, gli sembrò un essere beato, ma poi credette di scorgere una certa malizia nel suo sorriso angelico, una fastidiosa espressione calcolatrice nei suoi occhi un tempo così amorevoli. Perdere la sua adorata moglie era stato devastante, una ferita che non aveva speranza di guarire, ma questo era anche peggio. La sua luminosa immagine adesso era macchiata dal sospetto. Naomi non era più presente per confortarlo e consolarlo, e adesso Junior non aveva più neppure il ricordo incontaminato di lei per aiutarlo ad andare avanti. Come sempre, non era l'azione che lo turbava, ma le sue conseguenze. Il ricordo infangato di Naomi rappresentava una tristezza così profonda, così terribile, che si domandò se sarebbe riuscito a sopportarla. Sentì la bocca tremare, indebolirsi, ma non perché provasse nuovamente la necessità di vomitare, bensì per qualcosa di simile alla sofferenza, se non una sofferenza vera e propria. Gli occhi gli si colmarono di lacrime. Forse i paramedici gli avevano iniettato un sedativo. Mentre l'ambulanza correva a sirene spiegate in quella giornata per lui così straordinaria, Junior Cain pianse calde lacrime, ma sommessamente... e raggiunse una pace temporanea in un sonno senza sogni. *** Si risvegliò in un letto d'ospedale, con la parte superiore del corpo leggermente sollevata. La stanza era rischiarata unicamente da una finestra. La luce, livida e tetra, filtrava in strisce grigiastre attraverso le stecche inclinate di una veneziana. La stanza era per lo più immersa in una semioscurità. Junior sentiva ancora un sapore acido in bocca, anche se non era più disgustoso come prima. Tutti gli odori erano meravigliosamente puliti e tonificanti - antisettici, cera per pavimenti, lenzuola fresche di lavanderia senza neppure una zaffata di fluidi corporali.
Era immensamente stanco, debole. Si sentiva oppresso, come schiacciato da un enorme peso. Perfino tenere gli occhi aperti gli risultava faticoso. Accanto al suo letto, vi era un supporto per flebo; goccia a goccia, il liquido gli entrava nella vena, rimpiazzando gli elettroliti che aveva perso con il vomito e, molto probabilmente, iniettando nel suo corpo anche un antiemetico. Il braccio destro era legato a un pannello di supporto per impedirgli di piegare il gomito e di togliersi accidentalmente l'ago. Si trovava in una stanza a due letti. Quello accanto al suo era vuoto. Junior credeva di essere solo, ma proprio quando pensò di poter raccogliere le energie necessarie per mettersi in una posizione più comoda, sentì un uomo tossire. Il rumore giungeva dal fondo dell'altro letto, verso l'angolo destro della stanza. Per istinto, Junior sapeva che chiunque lo stesse osservando al buio non poteva essere una persona bene intenzionata. I dottori e le infermiere non tenevano sotto controllo i pazienti a luci spente. Si sentì sollevato per non aver mosso la testa o emesso alcun suono. Voleva farsi un'idea quanto più chiara possibile della situazione prima di rivelare di essere sveglio. Dato che la parte superiore del letto era leggermente sollevata, non dovette alzare la testa dal cuscino per osservare attentamente l'angolo in cui quell'ombra restava in attesa. Sbirciò al di là del supporto per la flebo, oltre i piedi del letto adiacente. Junior si trovava all'estremità più buia della stanza, quella più lontana dalla finestra, ma l'angolo in questione era altrettanto immerso nell'oscurità. Dovette fissarlo per molto tempo, fino a quando gli occhi non cominciarono a dolergli, prima di riuscire a scorgere vagamente la sagoma di una poltrona. E, nella poltrona, vide una figura confusa, come confusa gli era apparsa quella, avvolta in una tunica e nascosta da un cappuccio, del gondoliere sullo Stige. Si sentiva scomodo, dolorante e aveva sete, ma rimase completamente immobile e attento. Dopo un po', si rese conto che il senso di oppressione con il quale si era svegliato non era unicamente psicologico: c'era qualcosa di pesante appoggiato sul suo ventre. Ed era freddo... anzi, così freddo che gli aveva intorpidito la parte centrale del corpo, tanto che lui non si era accorto immediatamente di quanto fosse gelido. Era percorso dai brividi. Serrò le mandibole per evitare di battere i denti e di attirare l'attenzione dell'uomo nella poltrona.
Sebbene non distogliesse mai gli occhi dall'angolo, Junior cercò d'indovinare che cosa gli avessero posato sullo stomaco. Il misterioso osservatore lo rendeva sufficientemente nervoso da non consentirgli di organizzare i pensieri come abitualmente sapeva fare, e lo sforzo di impedire ai brividi di fargli emettere un qualsiasi rumore non faceva che interferire ulteriormente con la sua capacità di concentrazione. Più a lungo non riusciva a identificare quel gelido oggetto, più si allarmava. Si lasciò quasi sfuggire un urlo quando gli si presentò alla mente l'immagine del cadavere di Naomi, ormai al di là del pallore più estremo, grigio come la fioca luce che filtrava dalla finestra, di un verde chiaro in alcuni punti e freddo, con tutto il calore della vita che aveva ormai abbandonato la sua carne, non ancora riscaldata dal processo di decomposizione che presto l'avrebbe nuovamente ravvivata. No. Ridicolo. Il corpo di Naomi non era addosso a lui. Non stava dividendo il letto con un cadavere. Quella era roba da fumetti, roba che si poteva trovare in qualche copia ormai ingiallita di Racconti dalla cripta. E non era certo Naomi la persona seduta nella poltrona, Naomi uscita dall'obitorio per venire a vendicarsi. I morti non resuscitano, né qui né in un altro mondo. Erano sciocchezze. Anche se quelle stupide superstizioni fossero state vere, il visitatore era troppo tranquillo e paziente per essere il cadavere vivente di una moglie assassinata. Quello era il silenzio di un predatore, l'astuzia di un animale, non una quiete sovrannaturale. Era l'elegante immobilità di una pantera nella boscaglia, la tensione di un serpente troppo scaltro per svelare la propria presenza con un rumore. All'improvviso Junior intuì quale fosse l'identità dell'uomo nella poltrona. Si trattava senza ombra di dubbio del funzionario di polizia in borghese con la voglia di vino sul viso. Capelli brizzolati e tagliati a spazzola. Viso piatto. Collo taurino. In un attimo Junior ricordò l'occhio che sembrava galleggiare nella macchia rosso scuro, la fredda iride grigia come un chiodo nel palmo insanguinato di un uomo crocifisso. Appoggiato sul suo addome, quel terribile peso freddo gli aveva raggelato la carne; ma adesso il suo midollo osseo sembrava percorso da brividi gelati al pensiero del detective con la voglia di vino seduto silenziosamente nel buio, intento a osservarlo. Junior avrebbe preferito avere a che fare con Naomi, morta, resuscitata e furibonda, piuttosto che con questo uomo così pericolosamente paziente.
10 Con uno schianto assordante quanto quello del cielo che si squarcia nel giorno del giudizio, il pick-up Ford colpì la Pontiac di traverso. Agnes non riuscì a udire l'inizio del suo urlo e nemmeno molto del resto, perché l'auto cominciò a scivolare di lato, si ribaltò e ruzzolò. La strada inondata dalla pioggia era viscida e scintillante sotto gli pneumatici, e l'incrocio si trovava a metà di una lunga salita verso la collina, di conseguenza contro di loro non vi fu solo il destino, ma anche la forza di gravita. Dalla parte del guidatore, il fianco della Pontiac venne sollevato in aria. Al di là del parabrezza, la strada principale di Bright Beach si inclinò verticalmente. Il lato del passeggero sbatté con forza sull'asfalto. Il finestrino accanto ad Agnes andò in frantumi, si dissolse. L'asfalto ghiaioso, simile al fianco di un dragone dalle scaglie lucenti, sfrecciò sibilando oltre il finestrino rotto, a pochi centimetri dal suo viso. Prima di partire da casa, Joey si era allacciato la cintura di sicurezza ma, considerate le sue condizioni, Agnes non aveva fatto altrettanto. Urtando violentemente contro la portiera, Agnes sentì una fitta attraversarle la spalla destra e pensò: Buon Dio, il bambino! Spinse con forza i piedi contro il fondo dell'auto, si aggrappò al sedile con la sinistra e con la destra afferrò strettamente la maniglia, e intanto pregava, pregava che non succedesse nulla al bambino, di riuscire a vivere abbastanza a lungo da permettere al bambino di entrare in questo mondo meraviglioso, in questa grandiosa creazione d'infinita e straordinaria bellezza, sia che lei riuscisse o meno a sopravvivere al parto. Completamente capovolta, la Pontiac continuava a scivolare e a girare vorticosamente su se stessa, stridendo rumorosamente sull'asfalto e, per quanto cercasse di tenersi con tutte le sue forze, Agnes veniva inesorabilmente strappata dal sedile, spinta verso il soffitto capovolto e all'indietro. Sbatté con forza la fronte contro la sottile imbottitura e la schiena colpì il poggiatesta, inarcandosi. Ancora una volta sentì la sua voce che urlava, ma solo per qualche istante, perché l'auto venne investita nuovamente dal pick-up o da altri veicoli di passaggio, oppure andò a scontrarsi contro un'auto parcheggiata, ma qualunque fosse il motivo, l'urto la fece restare senza fiato e le sue urla si trasformarono in rantoli irregolari. Il secondo impatto fece sì che l'auto completasse la rotazione su se stes-
sa. La Pontiac sbatté sul fianco dalla parte del guidatore, fece un balzo, atterrando sulle quattro ruote, superò un cordolo e andò a schiantarsi contro il muro di un negozio di tavole da surf, accartocciando il paraurti anteriore e mandando in frantumi una vetrinetta da esposizione. Orso Preoccupato, grosso come sempre dietro il volante, cadde pesantemente su un fianco, con la testa rovesciata verso Agnes, gli occhi girati di lato e lo sguardo fisso su di lei, mentre dal naso gli sgorgava un rivolo di sangue. Domandò: «Il bambino?» «Tutto bene, penso, sta bene», rispose lei ansimando, ma era terrorizzata all'idea che le cose non stessero così, che il bambino potesse nascere morto o venire al mondo con qualche problema. Non si mosse, Orso Preoccupato, ma rimase in quella strana e sicuramente scomoda posizione, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la testa ciondolante, come se fosse troppo pesante per poterla sollevare. «Lascia... che ti veda.» Agnes tremava, era terrorizzata, non riusciva a pensare chiaramente, e per un attimo non comprese ciò che lui intendeva dire, ciò che desiderava, poi si accorse che anche il finestrino dell'auto dalla parte del marito era in frantumi e che la portiera era completamente distorta, deformata nell'intelaiatura. Ma la cosa peggiore era che il fianco della Pontiac si era piegato verso l'interno quando il pick-up li aveva investiti e si era conficcato nell'auto. Con un ringhio d'acciaio e denti di lamiera aveva morso Joey, lo aveva morso in profondità, come uno squalo meccanico emerso dalla giornata piovosa, frantumando costole, cercando il suo cuore caldo. Lascia... che ti veda. Joey non poteva sollevare la testa, non poteva voltarsi di più verso di lei... perché aveva ricevuto un colpo alla spina dorsale, forse se l'era spezzata ed era rimasto paralizzato. «Oh, buon Dio», mormorò Agnes e, sebbene fosse sempre stata una donna forte che si aggrappava alla fede come a una roccia, che a ogni respiro si riempiva i polmoni di aria e di speranza, in quel momento si sentì debole come il bambino che portava in grembo, stordita dalla paura. Si sporse in avanti nel sedile, verso di lui, in modo che potesse vederla più direttamente, e quando lei gli posò una mano tremante sulla guancia, la testa di Joey crollò in avanti sui muscoli del collo come fosse fatta di stracci, con il mento che appoggiava sul petto. Dai finestrini rotti entravano raffiche di pioggia fredda e nella strada si levavano le voci dei passanti che correvano verso la Pontiac - tuono in di-
stanza - e nell'aria si sentiva l'odore d'ozono del temporale e quello, più sottile e terribile, di sangue, ma nessuno di questi particolari così concreti riuscivano a fare sembrare reale quel momento ad Agnes che, anche nei suoi incubi peggiori, non aveva mai avuto la sensazione di sognare come l'aveva in quel momento. Prese il viso del marito tra le mani, ma fu a malapena in grado di sollevargli la testa, per paura di ciò che avrebbe visto. Gli occhi di Joey erano stranamente luminosi, come Agnes non li aveva mai visti prima, quasi che l'angelo che lo avrebbe guidato in un altro mondo fosse già entrato nel suo corpo e fosse pronto per iniziare il viaggio. Con un tono di voce privo di sofferenza e di paura, lui mormorò: «Sono stato... amato da te». Non riuscendo a capire, pensando che lui le stesse stranamente domandando se lei lo amava, Agnes rispose: «Sì, naturalmente, sciocco orsacchiotto, stupidone, certo che ti amo». «È stato... l'unico sogno che avesse importanza», soggiunse Joye. «Che tu... mi amassi. È stato bello vivere grazie a te.» Agnes cercò di dirgli che ce l'avrebbe fatta, che sarebbe rimasto con lei per molto tempo, che l'universo non era così crudele da portarselo via a trent'anni, con tutta la vita ancora davanti a loro, ma la verità era troppo evidente e lei non poteva mentirgli. Aggrappata alla sua fede come a una roccia, respirando speranza come sempre, non era tuttavia in grado di essere forte per lui come avrebbe voluto. Sentì i muscoli del viso che si afflosciavano, la bocca che incominciava a tremare e, quando cercò di reprimere un singhiozzo, questo esplose da lei con una forza disperata. Tenendogli il volto tra le mani, Agnes lo baciò. Incrociò il suo sguardo e, sbattendo le palpebre, ricacciò furiosamente indietro le lacrime, perché voleva vederlo chiaramente, guardarlo negli occhi, vedere lui, la sua parte più vera, interna, oltre gli occhi, e continuare a guardarlo fino all'ultimo momento, quando non avrebbe più potuto averlo. Alcune persone si erano avvicinate ai finestrini dell'auto e cercavano di aprire le portiere bloccate, ma Agnes si rifiutò di considerare la loro presenza. Rispondendo alla disperata attenzione di lei con un'improvvisa intensità della propria, Joey disse: «Bartholomew». Non conosceva nessuno che si chiamasse Bartholomew e lei non gli aveva mai sentito pronunciare quel nome prima dall'ora, ma seppe imme-
diatamente che cosa desiderava. Stava parlando del figlio che non avrebbe mai visto. «Se è un maschio... Bartholomew», promise. «È un maschio», le assicurò Joey, come se avesse avuto una visione. Del sangue denso gli scorreva lungo il labbro inferiore, giù per il mento. Sangue arterioso, rosso vivo. «Tesoro, no», supplicò lei. Era persa nei suoi occhi. Avrebbe voluto passarvi attraverso come aveva fatto Alice con lo specchio, seguire quella luce meravigliosa che adesso andava smorzandosi, varcare con lui quella porta che gli era stata aperta e accompagnarlo fuori da quel giorno spazzato dalla pioggia per entrare in un mondo di gloria. Ma era la porta di Joey, non la sua. Agnes non possedeva il biglietto per viaggiare sul treno giunto solo per lui. Joey salì a bordo e il treno si allontanò, e con lui la luce che viveva nei suoi occhi. Agnes si chinò per incontrare le labbra del marito, per baciarlo un'ultima volta, e il gusto del suo sangue non era amaro, ma sacro. 11 Mentre le strisce di luce grigiastra perdevano lentamente il loro misero chiarore e le ombre cupe si moltiplicavano con sinistra abbondanza, tra Junior Cain e l'uomo dalla voglia perdurava un vigile silenzio. Quello che poteva trasformarsi in un gioco di durata epica si concluse quando la porta della stanza venne aperta e dal corridoio entrò un medico con un camice bianco. Avendo alle spalle una viva luce al neon, il suo viso restava in ombra, come una figura in un sogno. Junior chiuse immediatamente gli occhi e rilassò la mandibola, respirando attraverso la bocca e fingendosi addormentato. «Mi spiace, ma lei non dovrebbe trovarsi qui», disse il dottore, parlando a voce bassa. «Non l'ho disturbato», ribatté il visitatore adeguandosi al tono di voce del medico. «Ne sono certo. Ma il paziente ha bisogno di silenzio e di riposo assoluto.» «Anch'io», gli fece notare il visitatore, e Junior fu quasi sul punto di corrugare la fronte davanti a questa risposta così strana, domandandosi che cosa, al di là delle parole, avesse inteso dire.
I due uomini si presentarono. Il medico si chiamava Jim Parkhurst. Aveva modi semplici e affabili e la sua voce pacata, per natura o per volontà, aveva l'effetto di un balsamo. L'uomo dalla voglia si presentò come il detective Thomas Vanadium. Non usò il diminutivo del suo nome, come aveva fatto il medico, e aveva una voce priva d'inflessioni tanto quanto il suo viso era brutto e piatto. Junior ebbe il sospetto che nessun altro, a parte sua madre, lo chiamasse Tom. Probabilmente, per alcuni era «Detective» e «Vanadium» per la maggior parte di quelli che conosceva. «Che cos'ha il signor Cain?» domandò Vanadium. «È stato colpito da un attacco particolarmente violento di ematemesi.» «Vomito di sangue. Uno dei paramedici ha usato quella parola. Ma qual è stata la causa?» «Be', il sangue non era scuro e acido, quindi non proveniva dallo stomaco. Era rosso vivo e alcalino. Potrebbe essere sgorgato dall'esofago, ma più probabilmente in origine era faringeo.» «Dalla gola.» Junior si sentiva l'interno della gola lacerato, come se avesse mangiato dei cactus. «Esatto», confermò Parkhurst. «Probabilmente uno o più vasi sanguigni si sono rotti a causa della estrema violenza dell'emetismo.» «Emetismo?» «L'attacco di vomito. Mi hanno riferito che si è trattato di un episodio emetico di eccezionale violenza.» «Spruzzava vomito come una manichetta antincendio», confermò Vanadium, in modo assai realistico. «Che espressione colorita.» Con un tono così monotono da dare un nuovo significato alla parola spento, il detective soggiunse: «Sono l'unico, fra quelli che erano presenti, che non è dovuto ricorrere a una lavanderia». Continuavano a parlare a voce bassa e senza avvicinarsi al letto. Junior era contento di avere la possibilità di ascoltare quello che stavano dicendo, non solo perché sperava di venire a sapere quali e quanti fossero i sospetti di Vanadium, ma anche perché era curioso - e preoccupato - di sapere che cosa avesse provocato quell'episodio così disgustoso e imbarazzante che lo aveva condotto fin lì. «L'emorragia è grave?» s'informò Vanadium. «No. Si è fermata. Ora dobbiamo impedire che si ripresenti un altro epi-
sodio di emetismo, il quale potrebbe scatenare un'altra emorragia. Gli stiamo somministrando dei farmaci antinausea e sostituendo gli elettroliti per via endovenosa, inoltre gli abbiamo applicato delle borse di ghiaccio sul ventre per evitare ulteriori spasmi dei muscoli addominali e per aiutare a tenere sotto controllo l'infiammazione.» Borse di ghiaccio. Non Naomi morta. Solo ghiaccio. Junior si mise quasi a ridere per la sua propensione alla morbosità e alla drammatizzazione. Nessun morto vivente era venuto a prenderlo, si trattava solo di borse di ghiaccio. «Quindi il vomito ha causato l'emorragia», riprese Vanadium. «Ma che cosa ha causato il vomito?» «Naturalmente effettueremo ulteriori analisi, ma solo dopo che sarà rimasto stabile per almeno dodici ore. Personalmente non credo che scopriremo alcuna causa fisica. Molto probabilmente si è trattato di una reazione psicologica... un episodio di emetismo nervoso acuto provocato da un grave attacco d'ansia, lo choc per avere perso la moglie, per averla vista morire.» «Proprio così. Lo choc.» Quella perdita così devastante. Junior la sentì di nuovo e temeva che si sarebbe tradito con il pianto, anche se sembrava che l'attacco di vomito si fosse ormai concluso. In quella giornata così straordinaria, aveva appreso molte cose su se stesso - era più spontaneo di quanto credesse, era disposto a fare dolorosi sacrifici a breve termine per ottenere un vantaggio a lungo termine, era audace e coraggioso - ma soprattutto aveva scoperto di essere una persona più sensibile di quanto si fosse considerato in passato e che quella sensibilità, pur ammirevole, avrebbe potuto tradirlo in modo inaspettato e nei momenti meno opportuni. Continuando la conversazione con il dottor Parkhurst, Vanadium spiegò: «Nel mio lavoro, vedo molte persone che hanno appena perso coloro che amavano. Ma nessuno di loro ha mai vomitato come il Vesuvio». «È una reazione insolita», ammise il medico, «ma non così insolita da potersi definire rara.» «Potrebbe aver preso qualcosa per indurre il vomito?» Il dottor Parkhurst sembrò realmente perplesso. «Perché mai avrebbe dovuto fare una cosa del genere?» «Per provocare un attacco di emetismo nervoso acuto.» Continuando a fingere di dormire, Junior si divertì a osservare come lo stesso detective avesse trascinato un'aringa affumicata su quella pista e di
come ora si fosse lasciato distrarre da quell'odore. Continuando a parlare con quel suo particolare tono di voce totalmente in contrasto con le espressioni colorite che usava, Vanadium soggiunse: «Un tizio dà un'occhiata al corpo della moglie, comincia a sudare come un maiale che scopa, vomita come uno studente alla fine di una gara a chi beve di più e si sforza tanto fino a quando non sputa sangue... questa non è la reazione di un normale assassino». «Omicidio? Hanno detto che la ringhiera era marcia.» «È vero. Ma forse non è stato solo per quello. Comunque, noi conosciamo gli atteggiamenti abituali assunti da questi individui, i modi di comportarsi che loro ritengono molto furbi e capaci di trarci in inganno. La maggior parte di questi stratagemmi è così chiara che potrebbero benissimo infilarli in una presa elettrica e usarli come lampade, evitandoci così un sacco di lavoro, ma questo è un approccio nuovo. Tende a farti desiderare di credere a quel poveraccio.» «L'ufficio dello sceriffo non è già arrivato alla conclusione che si sia trattato di morte accidentale?» domandò il medico. «Sono brava gente, ottimi poliziotti, tutti quanti», rispose Vanadium. «E sono più compassionevoli di me, questa è una virtù, non un limite. Che cosa avrebbe potuto ingoiare il signor Cain per provocare il vomito?» Ascoltare i tuoi discorsi abbastanza a lungo potrebbe ottenere quell'effetto, pensò Junior. Il dottor Parkhurst protestò: «Ma se l'ufficio dello sceriffo pensa che sia un incidente...» «Dottore, lei sa come operiamo in questo stato. Non sprechiamo energie facendoci la guerra su questioni di giurisdizione. Collaboriamo. Lo sceriffo può decidere di non concentrare gran parte delle sue limitate risorse in questa storia e nessuno lo biasimerà. Può stabilire che è stato un incidente e chiudere il caso, ma non si farà certo venire un attacco isterico se noi, a livello statale, decideremo di indagare più a fondo.» Sebbene il detective stesse seguendo la pista sbagliata, Junior cominciava a sentirsi piuttosto rattristato. Come qualsiasi buon cittadino, desiderava, anzi era ansioso, di collaborare con i poliziotti che conducevano le indagini seguendo le regole. Ma quel Thomas Vanadium, nonostante il tono di voce monotono e l'aspetto incolore, aveva tutta l'aria di essere un fanatico. Qualsiasi persona ragionevole sarebbe stata d'accordo nel dire che, nella sua ostinazione, una linea sottilissima divideva un'indagine poliziesca dalla persecuzione.
«Esiste qualcosa chiamato Ipecac?» domandò Vanadium a Jim Parkhurst. «Sì. È la radice essiccata di una pianta brasiliana, la ipecacuana. È molto efficace nel provocare il vomito. L'ingrediente attivo è un alcaloide bianco in polvere chiamato emetina.» «È un prodotto che si può comprare senza ricetta, vero?» «Sì. Lo vendono in sciroppo. È bene tenerlo nell'armadietto dei medicinali, nel caso che un bambino ingoi un veleno e sia necessario farglielo vomitare in fretta.» «Mi avrebbe fatto comodo averne un flacone il novembre scorso.» «Ha ingerito del veleno?» Con quel modo di parlare lento e monotono che Junior trovava sempre più irritante, il detective Vanadium rispose: «È successo a tutti noi, dottore. Ci sono state le elezioni, ricorda. Più di una volta, durante la campagna elettorale, avrei voluto mandar giù qualche sorsata di Ipecac. Che cos'altro potrei prendere se volessi farmi una bella vomitata?» «Be'... il cloridrato di apomorfina.» «Più difficile da trovare dell'Ipecac.» «Infatti. Anche il cloruro di sodio funziona. Il normalissimo sale. Se ne mescola una certa quantità all'acqua, di solito è piuttosto efficace.» «E più difficilmente rilevabile dell'Ipecac o del cloridrato di apomorfina.» «Rilevabile?» domandò il dottor Parkhurst. «In quello che ha tirato su.» «Intende dire nel vomito?» «Mi scusi. Dimenticavo quanto voi medici teniate alla precisione. Sì, intendo dire nel vomito.» «Le analisi di laboratorio potrebbero individuare livelli di sale troppo elevati, ma questo non avrebbe alcun valore in un processo. L'imputato potrebbe dire che gli piace il cibo molto salato.» «E comunque, ingerire acqua salata avrebbe presentato dei problemi. Avrebbe dovuto berne una grossa quantità poco prima di vomitare, ma era circondato da poliziotti che avevano ottimi motivi per tenerlo d'occhio. L'Ipecac si trova anche in capsule?» «Penso che chiunque potrebbe riempire di sciroppo alcune capsule di gelatina vuote», ammise il medico. «Ma...» «Roba fatta in casa, per così dire. Quindi avrebbe potuto nascondere alcune capsule in una mano, ingoiarle senza acqua e la reazione si sarebbe
avuta solo dopo che le capsule si fossero sciolte nello stomaco.» Sembrava che quel medico tanto cordiale cominciasse a irritarsi di fronte all'alquanto improbabile teoria del detective e alle sue insistenti domande. «Dubito seriamente che una dose di Ipecac possa causare una reazione così violenta come in questo caso... e non certo un'emorragia faringea, santo cielo. L'Ipecac è un prodotto sicuro.» «Ma se avesse preso una dose tripla o quadrupla...» «Non sarebbe cambiato nulla», ribatté il dottor Parkhurst. «Una quantità grossa o piccola hanno più o meno lo stesso effetto. Non esistono casi di sovradosaggio, perché l'effetto è quello di fare vomitare, e quando si vomita, insieme a tutto il resto, ci si libera anche dell'Ipecac.» «Quindi, tanto o poco che sia, lo si ritroverà nel rigetto. Scusi... nel vomito.» «Se si aspetta che l'ospedale le fornisca un campione delle eiezioni, temo che...» «Eiezioni?» «Il vomito.» «Sono un profano che tende a fare confusione, dottore. Se non possiamo usare sempre la stessa parola, io torno a chiamarlo rigetto.» «I paramedici avranno già svuotato la bacinella in cui ha vomitato, sempre che ne abbiano usata una. E se sono stati sporcati asciugamani o lenzuola, probabilmente a quest'ora sono già stati lavati.» «Non c'è problema», lo rassicurò Vanadium. «Io ne ho raccolto un po' e l'ho messo in un sacchetto.» «In un sacchetto?» «Come prova.» Junior si sentì violato oltre ogni limite. Era scandaloso: il contenuto privato e indiscutibilmente personale del suo stomaco era stato raccolto e infilato in un sacchetto di plastica come prova, senza il suo permesso, anzi senza che nemmeno lui lo sapesse. E poi, cos'altro? Gli avrebbero prelevato un campione di feci dopo averlo addormentato con la morfina? Aver raccolto il suo vomito sicuramente violava la Costituzione degli Stati Uniti, contravveniva chiaramente al diritto alla non autoincriminazione, era uno schiaffo alla giustizia, una violazione dei diritti umani. Naturalmente, lui non aveva ingerito l'Ipecac, né assunto alcun tipo di emetico, di conseguenza non avrebbero trovato alcuna prova da usare contro di lui. Tuttavia, era furibondo per una questione di principio. Forse anche il dottor Parkhurst era infastidito da questo sistema fascista
di prelievo del vomito, perché i suoi modi divennero bruschi. «Ho alcuni appuntamenti che mi aspettano. Tornerò per il giro serale, a quell'ora il signor Cain dovrebbe essere sveglio, ma preferirei che lei non lo disturbasse fino a domani.» Invece di rispondere alla richiesta, Vanadium disse: «Un'altra domanda, dottore. Se, come suggerisce lei, si è trattato di emetismo nervoso acuto, non potrebbe esserci un'altra causa, oltre al dolore per la perdita traumatica della moglie?» «Non riesco a immaginare una fonte di estrema ansietà più evidente di questa.» «Il senso di colpa», suggerì il detective. «Se l'ha uccisa, il tremendo senso di colpa non potrebbe essere un motivo altrettanto valido quanto il dolore per avere un attacco di emetismo nervoso acuto?» «Non potrei dirlo con certezza. Tra le mie specializzazioni, non c'è quella in psicologia.» «Mi faccia questa cortesia, dottore, avanzi un'ipotesi.» «Sono un medico, non un pubblico ministero. Non ho l'abitudine di fare accuse, soprattutto nei confronti dei miei pazienti.» «Non le chiederei mai di farlo per abitudine. Ma solo per questa volta. Se può provocarlo il dolore, perché non la colpa?» Il dottor Parkhurst considerò attentamente la domanda, che avrebbe dovuto invece respingere immediatamente. «Be'... sì, immagino di sì.» Bastardo, ciarlatano senza spina dorsale e privo di qualsiasi etica, pensò amaramente Junior. «Penso che resterò qui ad aspettare fino a quando il signor Cain si sveglierà», comunicò Vanadium. «Non ho nulla di più urgente da fare.» La voce del medico assunse un tono autorevole, da imperatore dell'universo, che probabilmente aveva imparato alla facoltà di medicina, in un corso speciale sull'intimidazione, tono che però il medico usò un po' troppo tardi per essere veramente efficace. «Il mio paziente è molto debole. Non deve essere messo in uno stato di agitazione, detective. Non desidero assolutamente che lei lo interroghi prima di domani.» «Va bene. Non lo interrogherò. Mi limiterò a osservarlo.» A giudicare dai rumori che fece Vanadium, Junior immaginò che il poliziotto si fosse nuovamente accomodato nella poltrona. Visto che non si era dimostrato molto bravo a intimidire la gente, Junior sperò che il dottor Parkhurst fosse almeno più bravo come medico. Dopo una lunga esitazione, il medico disse: «Se vuole, può accendere
quella lampada». «Starò benissimo così.» «Non darebbe alcun disturbo al paziente.» «Preferisco il buio», replicò Vanadium. «Tutto questo è estremamente irregolare.» «Ha perfettamente ragione», concordò Vanadium. Alla fine, completamente incapace di farsi valere, il medico uscì dalla stanza. La pesante porta si chiuse con un lieve sospiro, lasciando fuori il cigolio delle scarpe dalla suola di gomma, il fruscio dei camici inamidati e tutti gli altri rumori che facevano le infermiere andando su e giù per il corridoio. Il bambino della signora Cain si sentì piccolo, debole, dispiaciuto per se stesso e terribilmente solo. Il detective era ancora lì, ma la sua presenza non faceva che aumentare il senso di isolamento di Junior. Gli mancava Naomi. Quando lui era giù di morale, lei aveva sempre saputo che cosa fare o dire, come migliorare il suo umore con qualche parola o semplicemente con una carezza. 12 I tuoni risonavano simili a colpi di zoccolo e le nubi di un grigio screziato avanzavano verso est galoppando al rallentatore come i cavalli nei sogni. Bright Beach appariva confusa e distorta dalla pioggia come le immagini in una galleria degli specchi di un luna park. Mentre scivolava verso il crepuscolo, quel pomeriggio di gennaio sembrava anche essere uscito dal mondo conosciuto ed essere entrato in una strana dimensione. Con Joey morto accanto a lei e il bambino che probabilmente le stava morendo nel ventre, intrappolata dalla Pontiac per via delle portiere distorte e bloccate, dolorante per i colpi ricevuti, Agnes rifiutò di abbandonarsi alla paura o alle lacrime. Cominciò invece a pregare, chiedendo la capacità di comprendere per quale motivo tutto ciò le stesse accadendo e la forza per sopportare il dolore e la perdita. Le persone arrivate per prime sulla scena dell'incidente, non riuscendo ad aprire le portiere dell'auto, cercavano di farle coraggio attraverso i finestrini rotti. Alcuni li conosceva, altri no. Erano tutti pieni di buone intenzioni e preoccupati per lei, molti non avevano ombrelli o impermeabili ed erano bagnati fradici, ma la loro naturale curiosità illuminava i loro occhi di un luccichio particolare che faceva sentire Agnes come un animale in
mostra, senza dignità, con il suo dolore più intimo esposto a un pubblico di sconosciuti. Quando arrivò la prima auto della polizia, immediatamente seguita da un'ambulanza, venne presa in esame la possibilità di estrarre Agnes dal parabrezza in frantumi. Tuttavia, considerato che quello spazio era parzialmente invaso dal tettuccio deformato e visto lo stato di Agnes e l'imminente inizio della seconda fase del travaglio, le contorsioni che avrebbe dovuto fare per uscire dall'auto furono considerate troppo pericolose. I soccorritori arrivarono con leve idrauliche e seghe per tagliare il metallo. I civili vennero allontanati e raggruppati sui marciapiedi. Si sentì un tuono meno distante. Tutt'intorno a lei, il gracchiare delle radio della polizia, il fragore metallico degli attrezzi che venivano preparati, il sibilo del vento che andava rinforzandosi. La stordivano, questi suoni. Non poteva tapparsi le orecchie per non sentirli e, quando chiudeva gli occhi, la testa girava come una trottola. Nell'aria non si sentiva puzza di benzina. Evidentemente il serbatoio non era esploso. C'erano poche probabilità che scoppiasse un incendio... ma, soltanto un'ora prima, c'erano anche state poche probabilità che Joey morisse così prematuramente. I soccorritori la incitarono a spostarsi il più lontano possibile dalla portiera del passeggero, per evitare di restare inavvertitamente ferita mentre loro cercavano di aprirsi un varco per raggiungerla. Ma lei non poteva andare da nessun'altra parte, se non verso il cadavere di suo marito. Rannicchiandosi contro il corpo di Joey, con la testa di lui che ciondolava contro la sua spalla, Agnes si ritrovò a pensare ai loro appuntamenti da fidanzati e ai primi anni di matrimonio. Ogni tanto andavano in un drivein, si sedevano vicini vicini e si tenevano per mano, guardando John Wayne in Sentieri selvaggi, David Niven in Il giro del mondo in ottanta giorni. A quel tempo erano così giovani, di sicuro sarebbero vissuti per sempre, e giovani lo erano ancora, ma per uno di loro il per sempre era già arrivato. Uno dei soccorritori le chiese di chiudere gli occhi e di girare la testa dall'altra parte rispetto alla portiera del passeggero. Attraverso il finestrino, l'uomo infilò una coperta da traslochi imbottita e gliela sistemò lungo il fianco destro. Afferrando la trapunta, Agnes pensò alle piccole coperte che, quando un corpo veniva deposto nella bara, a volte coprivano le gambe del defunto. Perché lei si sentiva mezzo morta. Aveva entrambi i piedi in questo mondo
e tuttavia stava camminando accanto a Joey lungo lo strano viale dell'aldilà. Il ronzio, lo sferragliare, lo stridere di macchinari, di apparecchi elettrici. La lamiera e l'acciaio più duro dell'intelaiatura sembravano ringhiare sotto i denti di una sega per tagliare il metallo. Accanto a lei, la portiera urlava e strillava come se soffrisse, e questi rumori erano misteriosamente simili alle grida di dolore che soltanto Agnes poteva sentire nel segreto del suo cuore. L'auto rabbrividì, il metallo contorto urlò e un'esclamazione di trionfo si levò dai soccorritori. Un uomo dai meravigliosi occhi verdi, il volto impreziosito da gioielli di pioggia, allungò un braccio attraverso lo spazio lasciato dalla portiera e tolse la coperta che copriva Agnes. «Va tutto bene, adesso possiamo tirarla fuori.» La sua voce bassa e allo stesso tempo sonora aveva un qualcosa di così sovrannaturale che le parole sembravano contenere un significato nascosto, una promessa più profonda e confortante. Quel fantasma che l'aveva salvata si ritrasse e, al suo posto, comparve un giovane paramedico con un'incerata gialla e nera sopra l'uniforme bianca dell'ospedale. «Prima di spostarla, voglio assicurarmi che non abbia subito alcuna lesione alla spina dorsale. Riesce a stringermi le mani?» Mentre stringeva come le era stato chiesto, Agnes disse: «Il mio bambino potrebbe aver subito... qualche danno». Come se, esprimendo i suoi timori peggiori, li avesse trasformati in realtà, Agnes sentì una contrazione così dolorosa che lanciò un urlo e afferrò le mani del paramedico con tanta forza da farlo sussultare. Provò una strana sensazione di rigonfiamento all'interno, poi una terribile rilassatezza. I pantaloni grigi della sua tuta, spruzzati dalla pioggia entrata attraverso il parabrezza rotto, apparvero improvvisamente fradici. Le si erano rotte le acque. Un'altra macchia, più scura, cominciò ad allargarsi sul ventre e a scendere giù per le gambe dei pantaloni. Aveva il colore del vino rosso filtrato attraverso la stoffa grigia della tuta da ginnastica, ma anche nel suo stato di semidelirio, Agnes sapeva che quella non era una nascita miracolosa, che lei non stava mettendo al mondo un bambino in un fiume di vino, quelli erano fiotti di sangue. Da ciò che aveva letto, sapeva che il liquido amniotico doveva essere limpido. Qualche traccia di sangue non era allarmante, ma in quel caso e-
rano molto più che semplici tracce. Erano fiotti densi e rosso scuro. «Il mio bambino», mormorò con voce supplichevole. Un'altra contrazione, così intensa che questa volta il dolore non rimase circoscritto alla parte bassa della schiena e all'addome, ma si propagò per tutta la lunghezza della spina dorsale, come una corrente elettrica che passava da una vertebra all'altra. Sentì il fiato che premeva contro il torace, come se i polmoni si fossero chiusi. In teoria, la seconda fase del travaglio durava una cinquantina di minuti in una primipara e venti minuti nelle altre donne, ma Agnes ebbe la netta sensazione che Bartholomew non sarebbe venuto al mondo secondo le regole. I paramedici presero a muoversi in fretta. Le attrezzature dei soccorritori e i pezzi della portiera dell'auto vennero spostati per fare spazio a una barella, le cui ruote sbatacchiarono sul manto stradale disseminato di detriti. Agnes non ebbe la piena consapevolezza di come fosse stata estratta dall'auto, ma ricordava di essersi voltata a guardare il corpo di Joey rannicchiato nel groviglio d'ombre del rottame, ricordava di aver allungato un braccio verso di lui alla disperata ricerca di quell'ancora che suo marito aveva sempre rappresentato per lei, e subito dopo si era ritrovata sulla lettiga e si stava allontanando. Il crepuscolo era arrivato, strangolando il giorno, e il cielo basso aveva il colore blu-nero di un livido. Nelle strade, i lampioni erano stati accesi. Gli schizzi di luce rossa che partivano dai fari dell'ambulanza modificavano chimicamente la pioggia, trasformandola da lacrime in scrosci di sangue. Adesso la pioggia era più fredda, gelata come nevischio. O forse era lei a essere più calda di prima e sentiva il freddo con maggiore intensità sulla pelle febbricitante. Ogni goccia sembrava sibilare contro il suo viso, sfrigolare sulle sue mani, con le quali stringeva il ventre gonfio come se potesse rifiutare alla morte il bambino che era venuta a prendere. Mentre uno dei paramedici correva verso l'ambulanza e saliva al posto dell'autista, Agnes ebbe un'altra violenta contrazione e, per un attimo, al culmine del dolore, quasi perse conoscenza. Il secondo paramedico spinse la lettiga verso la parte posteriore dell'ambulanza, chiedendo a uno dei poliziotti di accompagnarlo in ospedale. Aveva bisogno di aiuto nel caso che, durante la corsa, dovesse far nascere il bambino e anche stabilizzare Agnes. Lei riuscì a comprendere solo in parte la loro frenetica conversazione, un po' perché la sua capacità di concentrarsi se ne stava andando insieme con
la linfa vitale, ma anche perché era distratta da Joey. Lui non si trovava più all'interno dell'auto distrutta, ma era in fondo all'ambulanza, fermo accanto alle portiere spalancate. Non era più ferito e con la spina dorsale spezzata. I suoi indumenti non erano più macchiati di sangue. Anzi, il temporale invernale non gli aveva nemmeno bagnato i capelli e i vestiti. La pioggia sembrava scivolare via a un millimetro di distanza dalla sua pelle, come se l'acqua e l'uomo fossero composti di materia e antimateria che non dovevano mai entrare in contatto perché, in caso contrario, avrebbero provocato un'esplosione così violenta da mandare in frantumi le stesse fondamenta dell'universo. Joey aveva la sua solita espressione da Orso Preoccupato, sopracciglia corrugate, occhi stretti agli angoli. Agnes voleva allungare una mano e toccarlo, ma si accorse di non avere neppure la forza di sollevare il braccio. Non si teneva nemmeno più la pancia. Stava con entrambe le mani abbandonate lungo i fianchi, i palmi rivolti verso l'alto, e anche il semplice gesto di piegare le dita richiedeva uno sforzo e una concentrazione che la sorpresero. Quando cercò di parlargli, scoprì che le era difficile alzare la voce tanto quanto le era stato impossibile tendergli una mano. Un poliziotto entrò nell'ambulanza, salendo dalla parte posteriore. Mentre il paramedico spingeva la lettiga all'interno del veicolo, le gambe del lettino si ripiegarono automaticamente. Agnes scivolò all'interno a testa in avanti. Clic-clic. La lettiga venne bloccata. Muovendosi in base alle proprie conoscenze di pronto soccorso oppure obbedendo alle istruzioni del paramedico, il poliziotto fece scivolare un cuscino di gommapiuma sotto la testa di Agnes. Senza quel cuscino, lei non sarebbe stata in grado di sollevare la testa per guardare verso il fondo dell'ambulanza. Joey era sempre fermo davanti alle portiere spalancate, e la fissava. I suoi occhi azzurri erano mari solcati dalla tristezza. O forse non era tanto tristezza, quanto struggimento. Doveva andarsene, ma non voleva cominciare quel viaggio senza di lei. Così come il temporale non bagnava Joey, allo stesso modo le luci intermittenti bianche e rosse delle auto della polizia non lo sfioravano nemmeno. Le gocce di pioggia erano diamanti e poi rubini, ma Joey non era illuminato dalla luce di questo mondo. Agnes si accorse che era semitraspa-
rente, la sua pelle era come un bicchiere pieno di latte attraverso il quale splendeva la luce dell'aldilà. Il paramedico chiuse le portiere, lasciando Joey fuori nella notte, nel temporale e nel vento che dividevano i due mondi. La marcia venne inserita e l'ambulanza partì sobbalzando. Grandi ruote chiodate di dolore attraversarono Agnes, guidandola per un momento nell'oscurità. Poi, davanti ai suoi occhi, comparve nuovamente una debole luce, sentì il paramedico e il poliziotto parlare in tono ansioso mentre si occupavano di lei, ma non riuscì a capire le loro parole. Non sembrava solo che parlassero in una lingua straniera, ma addirittura in un linguaggio antico che nessuno usava più da migliaia di anni. Si sentì attraversata da un'ondata d'imbarazzo quando si rese conto che il paramedico le aveva tagliato i pantaloni della tuta. Era nuda dalla vita in giù. Nella sua mente agitata comparve l'immagine di un neonato bianco come il latte e semitrasparente come le era parso Joey accanto alle portiere dell'ambulanza. Temendo che quella visione significasse che il bambino era nato morto, mormorò il mio bambino, ma dalla sua gola non uscì alcun suono. Ancora dolore, ma non soltanto una contrazione. Intollerabile. Le ruote chiodate l'attraversarono nuovamente, era come essere straziata da una macchina da tortura medievale. Vedeva i due uomini parlare, i loro volti bagnati dalla pioggia dall'espressione seria e preoccupata, ma non era più in grado di udire le loro voci. In realtà, non sentiva più nulla: non l'urlo della sirena, non il ronzio degli pneumatici, non il ticchettio delle apparecchiature sistemate sui ripiani o chiuse negli armadietti alla sua destra. Era sorda, come morta. Invece di cadere giù, verso un altro momento di oscurità, come si era aspettata, Agnes si sentì trasportare verso l'alto. Fu sopraffatta da un terrificante senso di mancanza di peso. Non aveva mai pensato a se stessa come a qualcosa di legato al proprio corpo, di annodato alle ossa e ai muscoli, ma ora sentì i lacci spezzarsi. All'improvviso cominciò a galleggiare senza più restrizioni, fluttuando al di sopra della barella imbottita e si ritrovò a guardare il suo corpo dal soffitto dell'ambulanza. Si sentì pervadere da un profondo terrore, dalla sensazione di essere
qualcosa di estremamente fragile, meno consistente di una nebbiolina, piccola, debole e inerme. Fu colta dal timore incontrollabile di poter essere diffusa nell'aria come le molecole di un profumo, dispersa in uno spazio così vasto da farla cessare di esistere. La sua paura era alimentata anche dalla vista del sangue che inzuppava l'imbottitura della lettiga sulla quale giaceva il suo corpo. Tanto sangue. Un oceano. In quello strano silenzio, si levò una voce. Nessun altro suono. Niente sirena. Niente ronzio o fruscio delle gomme sulla strada spazzata dalla pioggia. Solo la voce del paramedico: «Il cuore si è fermato». Molto al di sotto di Agnes, giù nella terra dei vivi, una luce si riflette debolmente lungo il cilindro di una siringa ipodermica che il paramedico teneva in mano e mandò un bagliore dalla punta dell'ago. Il poliziotto aveva abbassato la cerniera della giacca della tuta di Agnes e aveva sollevato l'ampia maglietta, scoprendole il seno. Il paramedico posò l'ago che aveva finito di usare e afferrò gli elettrodi di un defibrillatore. Agnes avrebbe voluto dirgli che tutti i loro sforzi erano inutili, che avrebbero dovuto desistere, essere gentili e lasciarla andare. Lei non aveva più motivo di restare lì. Se ne stava andando con il marito e il bambino morti, andava verso un luogo dove non c'era dolore, dove nessuno era povero come Maria Elena Gonzalez, dove nessuno viveva nella paura come i suoi fratelli Edom e Jacob, dove tutti parlavano in un'unica lingua e avevano tutte le torte di mirtilli che volevano. Poi Agnes abbracciò l'oscurità. 13 Una volta uscito il dottor Parkhurst, nella stanza dell'ospedale calò un silenzio più pesante e freddo delle borse del ghiaccio posate sull'addome di Junior. Dopo qualche tempo, lui osò sollevare leggermente le palpebre. Contro i suoi occhi, premeva un'oscurità diffusa e implacabile come quella che solo i ciechi conoscono. Oltre la finestra, nella notte non si vedeva neppure un fantasma di luce e le strisce della veneziana erano nascoste alla vista come le costole ossute della morte sotto il suo ampio mantello nero. Dalla poltrona nell'angolo, come se potesse vedere così bene anche al buio da sapere che Junior aveva aperto gli occhi, il detective Thomas Va-
nadium domandò: «Ha sentito tutta la conversazione con il dottor Parkhurst?» Il cuore di Junior incominciò a martellare così forte e tanto in fretta che non sarebbe rimasto sorpreso se Vanadium, dall'altra parte della stanza, avesse cominciato a seguirne il ritmo battendo il piede sul pavimento. Sebbene Junior non avesse risposto, Vanadium commentò: «Sì, ero certo che l'avesse sentita». Davvero un burlone, quel detective. Pieno di battute pungenti, stoccate e trabocchetti. Un vero artista della guerra psicologica. Forse questo suo comportamento faceva nascere diversi sconcertanti sospetti e, alla fine, lasciava con i nervi a fior di pelle. Ma Junior non si sarebbe fatto intrappolare facilmente. Era furbo. Usando l'intelligenza di cui era dotato, fece ricorso a semplici tecniche di meditazione per calmarsi e rallentare il battito cardiaco. Il poliziotto stava cercando di portarlo a commettere un errore, ma un uomo calmo non incrimina se stesso. «Com'è stato, Enoch? L'ha guardata negli occhi quando l'ha spinta?» Il tono inespressivo di Vanadium era come la voce di una coscienza che preferiva torturare con parole monotone invece che con rimbrotti. «Oppure un vigliacco come te, che ammazza le donne, non ha nemmeno il coraggio di fare una cosa del genere?» Stronzo con la faccia da padella, il doppiomento, mezzo calvo e raccogli-vomito, pensò Junior. No. Atteggiamento sbagliato. Stai calmo. Rimani indifferente agli insulti. «Ha aspettato che le voltasse le spalle, troppo vigliacco per guardarla negli occhi?» Tutto questo era patetico. Tattiche maldestre come quelle potevano innervosire e far confessare solo uno stupido, un sempliciotto ignorante. Junior era un ragazzo istruito. Non era soltanto un massaggiatore con un titolo di studio un po' particolare; era laureato in scienze e si era specializzato in terapia della riabilitazione. Quando guardava la televisione, cosa che non faceva mai troppo spesso, solo di rado si accontentava di qualche spettacolo di varietà o di popolari sitcom, ma preferiva serie televisive che richiedevano un certo coinvolgimento intellettuale... come per esempio Bonanza o Il fuggitivo. Fra tutti i giochi di società, quello che preferiva era Scarabeo, perché ampliava il suo vocabolario. In qualità di membro piuttosto attivo del Club del libro del mese, aveva già ricevuto quasi trenta volu-
mi dei migliori romanzi di letteratura contemporanea e fino a quel momento ne aveva già letti o sfogliati più di sei. Li avrebbe letti tutti se non fosse stato un uomo così impegnato a seguire i suoi molteplici interessi; le sue aspirazioni culturali erano maggiori del tempo che era in grado di dedicare loro. Vanadium domandò: «Sa chi sono, Enoch?» Thomas Culone Vanadium. «Sa che cosa sono?» Un foruncolo sul sedere dell'umanità. «No», proseguì Vanadium, «lei pensa di sapere chi e che cosa sono, ma non sa niente. Non importa. Lo imparerà.» Quel tipo gli dava i brividi. Junior stava incominciando a pensare che il comportamento così poco ortodosso del detective non fosse una strategia studiata a tavolino, come gli era apparso all'inizio, ma che Vanadium fosse un pazzoide. Che al detective mancasse qualche rotella o no, Junior non ci avrebbe guadagnato nulla a parlargli, soprattutto in quell'oscurità. Era spossato, dolorante, gli faceva male la gola e non era certo di riuscire a mantenere il controllo come avrebbe dovuto fare durante un interrogatorio condotto da quel rospo con i capelli a spazzola e il collo taurino. Smise di sforzarsi di vedere la poltrona attraverso l'oscurità della stanza. Chiuse gli occhi e, per cercare di addormentarsi, immaginò una scena calma ma volutamente monotona di piccole onde che si infrangevano su una spiaggia illuminata dalla luna. Era una tecnica di rilassamento che in passato aveva spesso funzionato. L'aveva appresa leggendo un manuale molto interessante, Come vivere una vita più sana attraverso l'autoipnosi. Junior Cain era un sostenitore dell'autorealizzazione. Credeva nella necessità di espandere sempre le proprie conoscenze e i propri orizzonti per riuscire a comprendere meglio se stessi e il mondo. Ognuno era responsabile della propria qualità della vita. L'autore di Come vivere una vita più sana attraverso l'autoipnosi era il dottore Caesar Zedd, famoso psicologo e apprezzato autore di una decina di manuali di quel genere, che Junior possedeva tutti, in aggiunta ai romanzi inviatigli dal Club del libro. Aveva cominciato ad acquistare i libri del dottor Zedd in edizione economica alla tenera età di quattordici anni e a diciotto anni, quando finalmente se lo poté permettere, aveva sostituito le edizioni economiche con quelle rilegate, dopodiché aveva continuato a
comprare i manuali dello psicologo nelle edizioni più costose. La raccolta completa delle opere di Zedd costituiva la più seria, meritevole e affidabile guida alla vita che si potesse trovare al mondo. Quando Junior si sentiva confuso o inquieto, si rivolgeva a Caesar Zedd e non mancava mai di trovare nelle sue parole una spiegazione, un consiglio. Quando era felice, i libri di Zedd lo rassicuravano sul fatto che fosse giusto avere successo e volersi bene. La morte del dottor Zedd, avvenuta lo scorso giorno del Ringraziamento, era stata un duro colpo per Junior, una perdita per la nazione e per il mondo intero. Lui la considerava una tragedia pari all'assassinio di Kennedy, avvenuto poco più di un anno prima. E come la morte di John Kennedy, anche la scomparsa di Zedd era avvolta nel mistero, suscitando più di un sospetto sul fatto che si fosse trattato di una cospirazione. Solo pochi avevano creduto al suicidio, e Junior non era certo fra questi sciocchi creduloni. Caesar Zedd, l'autore di Hai il diritto di essere felice, non si sarebbe mai fatto saltare le cervella con un colpo di fucile, come le autorità avevano voluto far credere al pubblico. «Se cercassi di soffocarla, farebbe finta di svegliarsi?» domandò il detective Vanadium. La voce non proveniva dalla poltrona nell'angolo, ma da un punto vicino al letto. Se Junior non fosse stato profondamente rilassato, grazie all'immagine delle onde che s'infrangevano sulla spiaggia illuminata dalla luna, avrebbe potuto lanciare un grido di sorpresa, sedersi di scatto in mezzo al letto, tradendosi e confermando il sospetto di Vanadium sul fatto che era sveglio. Non aveva sentito il poliziotto alzarsi dalla poltrona e attraversare la stanza buia. Difficile da credere che un uomo con un pancione che debordava dalla cintura dei pantaloni, con un collo taurino che sembrava scoppiare dal colletto troppo stretto e con una pappagorgia più pronunciata del mento fosse capace di movimenti così furtivi, tutto ciò aveva qualcosa di sovrannaturale. «Potrei introdurre una bolla d'aria nell'ago della flebo», soggiunse tranquillamente il detective, «potrei ucciderla con un'embolia e loro non se ne accorgerebbero mai.» Pazzo. Ora non c'erano più dubbi: Thomas Vanadium era più folle di Charlie Starkweather e di Caril Fugate, i due ragazzini che, per divertimento, alcuni anni prima avevano ucciso undici persone nel Nebraska e nel Wyoming.
Ultimamente c'era qualcosa che non funzionava in America. Il paese non era più solido e tranquillo come un tempo. Aveva perso il suo equilibrio. La società stava scivolando lentamente verso un abisso. Prima, dei ragazzi che uccidevano per divertimento. Adesso, poliziotti matti da legare. E senza dubbio il peggio doveva ancora venire. Una volta iniziato il declino, era difficile se non impossibile fermare o invertire la tendenza negativa. Tink. Era un suono strano, ma Junior fu quasi in grado d'identificarlo. Tink. Qualunque fosse l'origine di quel rumore, era sicuramente Vanadium a provocarlo. Tink. Ah, sì, sapeva che cos'era. Il detective stava battendo un dito contro il flacone di vetro che conteneva la soluzione della flebo appesa accanto al letto. Tink. Sebbene Junior non avesse ormai alcuna speranza di dormire, si concentrò sulla rasserenante immagine delle onde che s'infrangevano dolcemente sulla spiaggia illuminata dalla luna. Era una tecnica di rilassamento, non soltanto un aiuto per riuscire a prendere sonno, e lui aveva soprattutto bisogno di restare calmo. TINK! Un colpo più forte, con l'unghia. Non c'era abbastanza gente che si dedicava seriamente all'autorealizzazione. L'animale uomo nascondeva in sé un terribile impulso distruttivo a cui bisognava sempre resistere. TINK! Quando la gente non s'impegnava a raggiungere mete positive, a migliorare la propria vita, consumava tutte le sue energie per compiere azioni malvagie. Ed era così che saltava fuori uno Starkweather, che uccideva tutta quella gente senza alcuna speranza di ottenere un vantaggio personale. C'erano i poliziotti matti da legare e quella nuova guerra in Vietnam. Tink: Junior si aspettava il suono, ma non arrivò. Rimase in attesa. Il chiaro di luna si era affievolito e le piccole onde si erano allontanate dalla sua mente. Si concentrò, cercando di costringere il mare immaginario a ritornare, ma quella fu una delle rare occasioni in cui la tecnica Zedd non funzionò.
Immaginò invece che le tozze dita di Vanadium si muovessero con sorprendente delicatezza sull'impianto della flebo, leggendo le varie funzioni come un cieco legge un testo in Braille, facendo scivolare i polpastrelli con rapidità e sicurezza. Immaginò che il detective trovasse il foro d'iniezione nel tubo principale e che lo stringesse tra il pollice e l'indice. Gli vide comparire in mano un ago ipodermico così come un mago farebbe apparire dal nulla un fazzoletto. Nella siringa, nient'altro che aria mortale. L'ago che scivola nel foro... Junior voleva gridare, chiedere aiuto, ma non osava. Non osava neppure fingere di svegliarsi in quel momento, borbottando e sbadigliando, perché il detective si sarebbe accorto che stava fingendo, che era sempre stato sveglio. E se aveva finto di non essere cosciente per poter ascoltare la conversazione tra il dottor Parkhurst e Vanadium e, successivamente, non aveva reagito alle accuse di Vanadium, il suo comportamento sarebbe stato inevitabilmente letto come un'ammissione di colpa nell'omicidio di sua moglie. E allora quell'idiota di un piedipiatti non avrebbe più mollato l'osso. Fintanto che Junior avesse continuato a fingersi addormentato, il poliziotto non poteva essere assolutamente certo che si trattava di uno stratagemma. Poteva sospettarlo, ma non poteva saperlo di sicuro. Gli sarebbe rimasta almeno un'ombra di dubbio sulla colpevolezza di Junior. Dopo un silenzio interminabile, il detective disse: «Sa che cosa penso della vita, Enoch?» Una stupidaggine qualsiasi. «Credo che l'universo sia una specie di strumento musicale di dimensioni inimmaginabili e dotato di un numero infinito di corde.» Giusto, l'universo è un grande, enorme ukulele. La sua voce piatta e monotona aveva assunto un tono leggermente, ma innegabilmente, più sonoro: «E ogni essere umano, ogni cosa vivente, è una corda di quello strumento». E Dio ha qualcosa come quattrocento miliardi di miliardi di dita e suona una versione veramente elettrizzante di Hawaiian Holiday. «Le decisioni che ognuno di noi prende e le azioni che commette sono come le vibrazioni che passano attraverso una corda di chitarra.» Nel tuo caso, è la corda di un violino e la musica è la colonna sonora di Psyco. Il pacato interesse che si percepiva nella voce di Vanadium era sincero, espresso con ragionevolezza ma non con fervore, per nulla sentimentale o
affettato... il che lo rendeva più inquietante. «Le vibrazioni che partono da una corda provocano leggere vibrazioni in tutte le altre corde, attraverso l'intera cassa dello strumento.» Basta stronzate. «A volte queste vibrazioni sono molto forti, ma spesso sono così lievi che si possono udire solo se si è insolitamente ricettivi.» Per favore, che qualcuno mi spari subito e mi risparmi lo strazio di sentire queste scemenze. «Quando ha tagliato la corda di Naomi, ha interrotto gli effetti che la sua musica avrebbe avuto sulla vita di altre persone e sulla forma del futuro. Ha introdotto una dissonanza che, anche se molto debolmente, può essere udita fino all'estremità opposta dell'universo.» Se stai cercando di spingermi verso un'altra crisi di vomito, ci stai riuscendo. «Quella dissonanza ha dato il via a molte altre vibrazioni, alcune delle quali le torneranno indietro in modi che potrebbe aspettarsi, altre sotto forma di qualcosa che non vedrà arrivare. Fra le cose che non poteva aspettarsi, io sono la peggiore.» Nonostante la spavalderia con cui Junior reagiva mentalmente alle parole di Vanadium, quell'uomo stava riuscendo a renderlo sempre più nervoso. Il poliziotto era sicuramente pazzo, ma era anche qualcosa di più di un semplice caso da manicomio. «Un tempo io ero come san Tommaso», proseguì il detective, che ora si era allontanato dal letto. La sua voce sembrava giungere dalla parte opposta della stanza, forse era accanto alla porta, anche se si era mosso senza fare alcun rumore. Nonostante il suo fisico sgraziato - e specialmente al buio, dove le apparenze non contano - Vanadium aveva l'aura di un mistico. Sebbene Junior non credesse nei mistici e nei vari poteri sovrannaturali che asserivano di possedere, sapeva che i mistici che credevano in se stessi erano persone eccezionalmente pericolose. Il detective era tutto preso da quella sua teoria delle corde e magari aveva anche delle visioni o sentiva delle voci, come Giovanna d'Arco. Una Giovanna d'Arco senza bellezza né grazia, una Giovanna d'Arco con un revolver d'ordinanza e l'autorità per usarlo. Quel poliziotto non rappresentava una minaccia per l'esercito inglese, così come era avvenuto con la pulzella di Orléans ma, secondo Junior, quel pazzo meritava senz'altro di bruciare sul rogo.
«Adesso non ho più dubbi», soggiunse Vanadium, la cui voce era tornata alla solita piatta tonalità che prima Junior aveva tanto detestato, ma che ora preferiva a quella carica di pacato fervore che tanto lo turbava. «Qualunque sia la situazione, per quanto intricato sia il problema, so sempre che cosa fare. E di sicuro so che cosa fare con lei.» Sempre più strano, da far venire i brividi. «Ho messo la mano nella ferita.» Quale ferita? voleva chiedere Junior, ma riconobbe l'esca e non abboccò. Dopo un silenzio, Vanadium aprì la porta sul corridoio. Junior sperò di non essere stato tradito dallo scintillio dei suoi occhi nella frazione di secondo prima che li serrasse. Sagoma indistinta contro la luce violenta del neon, Vanadium uscì nel corridoio. Il chiarore sembrò avvolgerlo. Il detective scintillò e svanì così come, su un'infuocata strada in mezzo al deserto, il miraggio di un uomo sembra passare da una dimensione a un'altra, scivolando tra le tremule tende che dividono le realtà. La porta si chiuse. 14 La forte sete indicò ad Agnes che non era morta. Nessuno aveva sete in paradiso. Certo, poteva erroneamente aver dato per scontato di non essere stata condannata al momento del Giudizio. Probabilmente, all'inferno, milioni di anime pativano il supplizio della sete, una sete feroce e senza fine, resa peggiore da pasti a base di sale, zolfo e ceneri, neanche una torta di mirtilli, quindi era possibile che fosse davvero morta e che fosse stata gettata per sempre tra assassini, ladri, cannibali e gente che guidava a sessanta chilometri all'ora nelle vicinanze di una scuola, dove il limite massimo era di quaranta. Ma provava anche un gran freddo e non aveva mai sentito dire che all'inferno ci fossero problemi di riscaldamento, quindi, dopotutto, forse non era stata condannata a bruciare in eterno. Meno male. A volte vedeva delle persone che la guardavano dall'alto, ma erano soltanto sagome, non riusciva a definire i lineamenti dei loro visi perché le immagini erano confuse. Potevano essere angeli o demoni, ma era abbastanza sicura che si trattasse di gente normale, uno di loro aveva perfino imprecato, cosa che un angelo non avrebbe mai fatto, e tutti quanti cercavano di farla sentire più comoda, mentre un diavolo che si rispetti le a-
vrebbe infilato dei fiammiferi accesi nel naso o le avrebbe piantato degli aghi nella lingua o comunque le avrebbe inflitto uno di quegli spaventosi tormenti che i demoni imparano a scuola, prima di diplomarsi. Inoltre quelle figure usavano parole che non suonavano bene in bocca a un angelo o a un demone: «...ipodermoclisi... oxitocina per endovenosa... mantenere un'asepsi perfetta, e intendo perfetta per tutto il tempo... appena sarà in grado di ingoiare qualcosa, datele delle pappine di segale cornuta...» Ma per la maggior parte del tempo, Agnes fluttuava nell'oscurità e nei sogni. Per un po' si vide in una scena di Sentieri selvaggi. Lei e Joey stavano cavalcando con un John Wayne molto preoccupato, mentre il simpatico David Niven volava sopra di loro in un cesto appeso a un enorme e colorato pallone aerostatico. Passando da una notte stellata nel Vecchio West a una violenta luce elettrica, fissando visi sfuocati senza cappelli da cowboy, Agnes sentì qualcuno muovere lentamente in tondo un pezzo di ghiaccio sul suo ventre nudo. Rabbrividendo ogni volta che l'acqua gelata le scivolava lungo i fianchi, cercò di domandare per quale motivo le stessero mettendo del ghiaccio quando lei era già gelata fino alle ossa, ma non riuscì a trovare la voce. All'improvviso si accorse che... buon Dio!... qualcun altro aveva infilato una mano dentro di lei, fino al centro del suo corpo e le stava massaggiando l'utero con lo stesso tipo di movimento usato per il ghiaccio che si andava sciogliendo sul ventre. «Avrà bisogno di un'altra trasfusione.» Questa volta riconobbe la voce, era il dottor Joshua Nunn. Il suo medico. Lo aveva già sentito parlare in precedenza, ma non era stata in grado di riconoscerlo. Non si sentiva affatto bene e cercò di dire qualcosa, ma ancora una volta le mancò la voce. Imbarazzata, infreddolita, improvvisamente terrorizzata, tornò al Vecchio West, dove la notte nel deserto era calda. I falò mandavano invitanti bagliori. John Wayne le cinse le spalle con un braccio e disse: «Qui non ci sono mariti e bambini morti». Sebbene lui intendesse rassicurarla, Agnes si sentì travolgere da un'ondata di disperazione, fino a quando Shirley MacLaine la prese da parte per fare quattro chiacchiere da donna a donna. Agnes si svegliò di nuovo. Questa volta non sentiva più freddo, anzi era
febbricitante. Aveva le labbra spaccate e la lingua ruvida e asciutta. La stanza dell'ospedale era illuminata da una luce soffusa e le ombre se ne stavano appollaiate da tutte le parti come uno stormo di uccelli assopiti. Quando emise un gemito, una delle ombre allargò le ali, si avvicinò al lato destro del letto e si trasformò in una infermiera. La vista di Agnes si era schiarita. L'infermiera era una giovane molta graziosa, dai capelli neri e gli occhi di un azzurro tendenti al viola. «Sete», mormorò Agnes. La sua voce sembrava sabbia del Sahara che erodeva una pietra antica, il roco sussurro della mummia di un faraone che parlava con se stesso in una tomba sigillata da tremila anni. «Ancora per qualche ora non potrà prendere quasi nulla per bocca», spiegò l'infermiera. «Se le venisse un attacco di nausea, correrebbe un grave rischio. Vomitare potrebbe provocarle un'altra emorragia.» «Ghiaccio», disse qualcuno dal lato sinistro del letto. L'infermiera spostò lo sguardo da Agnes all'altra persona. «Sì, un pezzetto di ghiaccio andrebbe bene.» Quando Agnes voltò il capo e vide Maria Elena Gonzalez, pensò di aver ricominciato a sognare. Sul comodino vi era una caraffa d'acciaio, la cui superficie era ricoperta di condensa. Maria tolse il coperchio della caraffa e, con un cucchiaio a manico lungo, pescò un pezzetto di ghiaccio. Tenendo la mano sinistra sotto il cucchiaio per evitare che gocciolasse, infilò la scheggia scintillante nella bocca di Agnes. Il ghiaccio non era soltanto umido e freddo; era delizioso, sembrava stranamente dolce, come se fosse un pezzetto di cioccolata. Quando Agnes cominciò a masticare, l'infermiera la fermò immediatamente: «No, no. Non lo ingoi tutto in una volta. Lo lasci sciogliere». Quell'avvertimento, rivoltole in tutta serietà, turbò profondamente Agnes. Se una minuscola quantità di ghiaccio frantumato, ingoiato in una volta sola, poteva provocargli la nausea e una nuova emorragia, significava che lei doveva essere estremamente fragile. Una delle ombre appollaiate nella stanza poteva essere ancora la morte, in ostinata attesa. Agnes era talmente calda che il ghiaccio si sciolse rapidamente. Un rivolo sottile le scivolò in gola, ma non fu sufficiente per togliere la sabbia del Sahara dalla sua voce quando disse: «Ancora». Maria pescò un'altra scheggia di ghiaccio dalla caraffa bagnata, la scartò e cercò un pezzo più grosso. Esitò, fissandolo per un momento, poi lo infilò tra le labbra di Agnes. «Acqua può essere rotta se prima sarà fatta
ghiaccio.» Sembrò una dichiarazione di grande bellezza e del tutto misteriosa, e Agnes ci stava ancora pensando quando anche l'ultimo frammento di ghiaccio le si sciolse sulla lingua. Invece di altro ghiaccio, le venne somministrato del sonno, scuro e gustoso come cioccolato. 15 Quando il dottor Jim Parkhurst fece il suo giro serale, Junior non continuò a fingere di essere addormentato ma, con aria molto seria, pose domande delle quali per lo più conosceva già la risposta, avendo ascoltato la conversazione tra il medico e il detective Vanadium. Aveva la gola ancora così infiammata per il violento attacco di vomito, così riarsa, che parlava come uno dei pupazzi dello spettacolo per bambini che la televisione trasmetteva al sabato mattina, con voce roca e stridula allo stesso tempo. Se non fosse stato per il dolore, si sarebbe sentito ridicolo, ma quel raschiare caldo e aspro di ogni parola che gli usciva dalla gola, gli impediva di provare qualsiasi sentimento che non fosse di autocompassione. Ormai era la seconda volta che sentiva il medico spiegare che cosa fosse l'emetismo nervoso acuto, tuttavia Junior non riusciva ancora a comprendere come lo choc per la perdita di sua moglie potesse avergli provocato un attacco così violento e disgustoso. «Non ha mai avuto episodi come questo, prima di adesso?» domandò Parkhurst, in piedi accanto al letto, con una cartellina tra le mani e un paio di occhiali da lettura a mezzaluna abbassati sulla punta del naso. «No, mai.» «Periodici attacchi di emetismo violento senza una causa apparente potrebbero indicare un'atassia locomotoria, ma lei non presenta altri sintomi di questa malattia. Non mi preoccuperei molto, a meno che l'episodio non si verificasse di nuovo.» All'idea di un'altra tempesta di vomito, Junior fece una smorfia. Parkhurst proseguì: «Abbiamo eliminato la maggior parte delle altre possibilità. Lei non soffre di mielite acuta, né di meningite. Nessuna anemia del cervello. Nessuna commozione cerebrale. Non presenta altri sintomi della sindrome di Ménière. Domani eseguiremo esami per verificare che non vi siano tumori o lesioni cerebrali, ma sono abbastanza sicuro che anche in questo caso i risultati saranno negativi».
«Emetismo nervoso acuto», gracchiò Junior. «Non mi sono mai considerato una persona nervosa.» «Non significa che lei sia nervoso in quel senso. In questo caso, nervoso significa indotto psicologicamente. Il dolore, Enoch. Il dolore, lo choc e l'orrore... tutti sentimenti che possono avere profondi effetti fisici.» «Ah.» Un'espressione di pietà ravvivò il volto ascetico del dottore. «Lei amava molto sua moglie, vero?» L'adoravo, cercò di dire Junior, ma l'emozione gli si addensò in gola come una massa di muco. Il suo viso si distorse in un'espressione di dolore che non dovette fingere e rimase allibito sentendo che grosse lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Allarmato, temendo che la reazione emotiva del paziente avrebbe scatenato una serie di singhiozzi i quali, a loro volta, avrebbero potuto provocare nuovi spasmi addominali e vomito, Parkhurst chiamò un'infermiera e prescrisse l'immediata somministrazione di un tranquillante. Mentre l'infermiera faceva l'iniezione a Junior, Parkhurst commentò: «Lei è un uomo straordinariamente sensibile, Enoch. Questa è una qualità davvero ammirevole in un mondo spesso tanto arido. Ma nelle sue attuali condizioni, la sua sensibilità rappresenta anche il suo peggior nemico». Mentre il dottore proseguiva il suo giro serale, l'infermiera rimase accanto a Junior fino a quando fu chiaro che il tranquillante l'aveva calmato e che lui non rischiava più di avere un'altra crisi. L'infermiera si chiamava Victoria Bressler ed era una biondina molto graziosa. Non avrebbe mai potuto competere seriamente con Naomi, che era stata di una bellezza straordinaria ma, dopotutto, Naomi non c'era più. Quando Junior si lamentò per la sete, Victoria gli spiegò che, fino alla mattina successiva, non avrebbe potuto prendere nulla per via orale. A colazione e a pranzo si sarebbe dovuto accontentare di una dieta liquida e solo a cena forse avrebbe potuto mangiare qualcosa di molto morbido. Nel frattempo, poteva offrirgli solo pezzetti di ghiaccio, che però non doveva assolutamente masticare. «Li lasci sciogliere in bocca.» Dalla caraffa sul comodino, Victoria prese con un cucchiaio dei piccoli ovali trasparenti... non cubetti, ma dischi. Poi imboccò Junior non con l'efficienza professionale di un'infermiera, ma come avrebbe potuto farlo una cortigiana: con un sorriso seducente e uno scintillio malizioso negli occhi azzurri, infilandogli lentamente il cucchiaio tra le labbra con un gesto così intenzionalmente sensuale che a Junior ricordò la scena del pranzo nel film
Tom Jones. Junior era abituato al fatto che le donne cercassero di sedurlo. Il suo aspetto attraente era una benedizione della natura. Il suo impegno a raggiungere un più alto grado di autorealizzazione lo rendeva interessante. E, cosa più importante, dai libri di Caesar Zedd aveva appreso come essere affascinante in modo irresistibile. E sebbene non fosse uno spaccone, non si sarebbe mai vantato dei suoi successi parlando con gli amici in uno spogliatoio maschile, era certo di saper sempre offrire alle signore un servizio più soddisfacente di quello che ricevevano dagli altri uomini. Forse a Victoria erano arrivate voci sulle sue doti fisiche e sulle sue capacità; tra di loro, le donne parlano spesso di queste cose, forse anche più degli uomini. Considerati i vari dolori che lo affliggevano e la sua spossatezza, Junior rimase in qualche modo sorpreso dal fatto che questa graziosa infermiera fosse riuscita a eccitarlo con la tecnica seduttiva del cucchiaio. Anche se in quel momento non era in condizione di avere rapporti, era decisamente interessato all'idea di una futura storia. Si domandò se sarebbe stato corretto ricambiare le attenzioni dell'infermiera con qualche sguardo malizioso, considerando che sua moglie non era ancora sottoterra. Non voleva apparire come uno zoticone. Voleva che Victoria pensasse bene di lui. Doveva pur esistere un approccio che risultasse corretto, addirittura elegante, ma che non le lasciasse alcun dubbio sul fatto che lo aveva eccitato. Attento. Vanadium l'avrebbe scoperto. Per quanto raffinata e dignitosa fosse stata la reazione di Junior alle attenzioni di Victoria, Thomas Vanadium sarebbe venuto a conoscenza del suo interesse erotico. In qualche modo. Con qualche sistema. Victoria non avrebbe certo testimoniato sul fatto che tra lei e Junior era scattata un'immediata ed eccitante attrazione erotica, non avrebbe mai aiutato le autorità a rinchiuderlo in prigione, quando ancora la sua passione per lui non era stata soddisfatta, ma Vanadium avrebbe scoperto il suo segreto e l'avrebbe costretta a salire sul banco dei testimoni. Junior non doveva dire nulla che potesse essere ripetuto a una giuria. Non doveva nemmeno permettersi una maliziosa strizzatina d'occhi o una veloce carezza sulla mano di Victoria. Di nuovo, l'infermiera lo imboccò amorevolmente. Senza una parola, senza neppure osare di incontrare il suo sguardo e di scambiare un'occhiata intenzionale, Junior accettò il dischetto di ghiaccio
con lo stesso spirito con cui quell'adorabile ragazza glielo offriva. Trattenne il cucchiaio in bocca per un lungo momento, impedendole di ritirarlo, chiuse gli occhi e gemette di piacere, come se il ghiaccio fosse un boccone di ambrosia, il cibo degli dei, come se stesse assaporando una cucchiaiata dell'infermiera stessa. Quando alla fine lasciò andare il cucchiaio, lo fece leccandolo tutt'intorno e leccandosi poi le labbra. Aprendo gli occhi, ma non osando ancora incontrare lo sguardo di Victoria, Junior fu certo che lei aveva notato e adeguatamente interpretato la reazione che lui aveva avuto dopo essere stato imboccato in modo così seducente. L'infermiera si era bloccata, tenendo il cucchiaio a mezz'aria e il respiro le si era fermato in gola. Era emozionata. Nessuno dei due aveva bisogno di confermare l'attrazione reciproca con un sorriso o un cenno del capo. Come lui, anche Victoria sapeva che il loro momento sarebbe arrivato, una volta che si fossero lasciati alle spalle quella sgradevole situazione, una volta superato l'ostacolo di Vanadium, quando tutti i sospetti fossero stati dimenticati. Potevano essere pazienti. La loro temporanea rinuncia e la dolce anticipazione facevano sì che il loro rapporto fisico, quando finalmente avrebbero potuto dedicarvisi senza pericolo, sarebbe stato di un'intensità sconvolgente, come l'accoppiamento di mortali innalzati alla condizione di semidei in virtù della loro passione, e della sua forza e purezza. Di recente, in una delle antologie del Club del libro, aveva letto qualcosa sui semidei della mitologia classica. Quando alla fine Victoria riuscì a calmare il suo cuore che batteva a mille, posò il cucchiaio sul vassoio sopra il comodino, richiuse la caraffa e disse: «Per adesso basta, signor Cain. Nelle sue condizioni, anche una quantità eccessiva di ghiaccio sciolto può scatenare un attacco di vomito». Junior rimase impressionato e divertito dalla sua abilità nel riprendere un atteggiamento e un tono di voce strettamente professionali, che mascheravano in modo assai convincente il suo desiderio. La dolce Victoria era una complice davvero in gamba. «La ringrazio, infermiera Bressler», rispose in tono altrettanto serio, riuscendo a malapena a trattenersi dal lanciarle un'occhiata, sorridere e mostrarle un'altra volta la sua lingua rosea e guizzante. «Chiederò a un'altra infermiera di darle un'occhiata di tanto in tanto.» Ora che nessuno dei due aveva alcun dubbio sull'attrazione reciproca che provavano e che, alla fine, avrebbero soddisfatto, Victoria aveva deciso di optare per la discrezione. Molto saggio.
«Capisco», disse Junior. «Lei ha bisogno di riposare», consigliò lei, voltandogli le spalle e allontanandosi dal letto. Sì, probabilmente avrebbe avuto bisogno di molto riposo per prepararsi all'incontro con quell'assatanata. Anche con il suo ampio camice bianco e le grosse scarpe con la suola di gomma, era estremamente erotica. A letto, sarebbe stata una vera leonessa. Dopo che Victoria si fu allontanata, Junior rimase sdraiato nel letto sorridendo al soffitto, con la testa leggera per il Valium e per il desiderio. E per la vanità. In questo caso, era certo che la vanità non fosse un difetto, non la conseguenza di un ego esagerato, ma soltanto una sana autostima. Il fatto che le donne lo trovassero irresistibile non era soltanto una sua opinione, ma qualcosa di evidente e innegabile, come la gravita o l'ordine in cui i pianeti girano intorno al sole. Ammetteva di essere rimasto sorpreso dal fatto che l'infermiera Bressler avesse sentito l'assoluta necessità di stargli vicino, nonostante avesse letto la sua cartella clinica e sapesse che, di recente, Junior era stato un vero e proprio geyser di vomito, che durante il violento attacco, sull'ambulanza, aveva anche perso il controllo della vescica e degli intestini e che, da un momento all'altro, poteva avere un'altra esplosione di questo genere. Questa era una dimostrazione davvero notevole della lussuria che ispirava anche senza volerlo, dell'incredibile magnetismo che possedeva e che faceva parte di lui come i folti capelli biondi. 16 Agnes si svegliò da un sogno di perdita insopportabile con calde lacrime che le scorrevano lungo il viso. L'ospedale era sprofondato nel silenzio senza fine che colma i luoghi abitati dagli esseri umani solo nelle poche ore prima dell'alba, quando le necessità, i desideri e i timori del giorno vengono dimenticati e non si ha ancora coscienza di quelli della giornata successiva, quando la nostra specie si dibatte in modo insensato tra una disperazione e l'altra. La parte superiore del suo letto era sollevata. Altrimenti, Agnes non avrebbe potuto vedere la stanza, troppo debole com'era per alzare la testa dal cuscino. Gran parte della camera era ancora immersa nell'oscurità. Le ombre non
le ricordavano più uccelli addormentati, ma uno stormo di volatili spennati dalle ali simili a cuoio e dagli occhi rossi, pronti a lanciarsi sul loro abominevole pasto. La stanza era illuminata unicamente da una lampada, il cui paralume d'ottone regolabile indirizzava la luce verso una poltroncina. Agnes era così spossata e aveva gli occhi talmente irritati che perfino quel chiarore soffuso le risultava insopportabile. Fu quasi sul punto abbassare le palpebre e lasciarsi sprofondare nuovamente nel sonno, il fratello minore della morte e, in quel momento, suo unico conforto. Ma la sua attenzione venne attratta da ciò che la lampada illuminava. L'infermiera non c'era più, ma Maria era rimasta a vegliarla. Seduta nella poltroncina di finta pelle e acciaio inossidabile, sotto il fascio di luce ambrata della lampada, era impegnata a fare qualcosa. «Dovresti essere con le tue figlie», le fece notare Agnes, preoccupata. Maria alzò lo sguardo. «Le mie bambine sono guardate con mia sorella.» «Perché sei qui?» «Dovrei essere dove e perché? Io guardo te.» Quando le lacrime si asciugarono negli occhi, Agnes vide che Maria stava cucendo. Sul pavimento, accanto alla poltroncina, vi erano da un lato un sacco e dall'altro una borsa piena di rocchetti di filo, aghi, puntaspilli, un paio di forbici e altri arnesi da cucito. Maria stava rammentando gli indumenti di Joey, quelli che, il giorno prima, Agnes aveva meticolosamente strappato. «Maria?» «Qué?» «Non ce n'è bisogno.» «Fare cosa?» «Non c'è più bisogno di sistemare quei vestiti.» «Io faccio», insisté lei. «Sai di... Joey?» domandò Agnes e la voce le si ispessì tanto nel pronunciare il nome del marito che le due sillabe le rimasero quasi bloccate in gola. «Lo so.» «Allora, perché?» L'ago danzava tra le agili dita di Maria. «Io non faccio più per inglese migliore. Ora faccio solo per signor Lampion.» «Ma... lui non c'è più.» Maria non disse nulla, ma Agnes riconobbe quel silenzio speciale, du-
rante il quale la donna cercava le parole più difficili e le cuciva insieme. Alla fine, con un'emozione così intensa che le rese quasi impossibile esprimere ciò che aveva pensato, Maria disse: «È... l'unica cosa... io posso fare per lui ora, per te. Io essere nessuno, non capace di cucire niente di importante. Ma io faccio questo. Io metto a posto». Agnes non riusciva a sopportare la vista di Maria che cuciva. La luce non le dava più fastidio, ma il suo nuovo futuro, quello che intravedeva davanti a sé, le appariva più duro degli aghi e degli spilli, era una vera tortura per i suoi occhi. Si addormentò, ma poco dopo venne risvegliata dalle parole di una preghiera, sussurrate in spagnolo con grande fervore. Maria si era avvicinata al suo letto e teneva gli avambracci appoggiati sulla fiancata di metallo. Tra le piccole mani scure stringeva un rosario d'argento e onice, ma non faceva scorrere i grani, né ripeteva a fior di labbra un'Ave Maria dopo l'altra. Stava pregando per il figlio di Agnes. Poco alla volta, Agnes comprese che non si trattava di una preghiera per l'anima di un neonato morto, ma per la sopravvivenza di un bambino ancora vivo. Per quanto la forza di Agnes fosse quella di una pietra, ovvero proprio come un sasso si sentiva incapace di fare qualsiasi movimento, in qualche modo riuscì a sollevare un braccio e a posare la mano sinistra sulle dita intrecciate di Maria. «Il mio bambino è morto.» «No, senora Lampion.» Maria appariva sorpresa. «Muy enfermo, ma non morto.» Molto malato. Molto malato, ma non morto. Ad Agnes tornò in mente il sangue, quel terribile fiume rosso. Un dolore atroce e spaventosi torrenti color cremisi. Aveva pensato che il bambino fosse venuto al mondo già morto, trasportato da una marea in cui si erano mescolati il suo sangue e quello della madre. «È un maschio?» domandò. «Sì, senora. Un bel maschietto.» «Bartholomew», mormorò Agnes. Maria aggrottò la fronte. «Cosa è questo che dice?» «Il suo nome.» Strinse la mano su quella di Maria. «Voglio vederlo.» «Muy enfermo. Devono tenerlo come uovo di pulcino.» Come uovo di pulcino. Stanca com'era, Agnes non riuscì subito a comprendere il significato di quella frase. Poi: «Ah. È nell'incubatrice». «E che occhi», commentò Maria.
«Qué?» domandò Agnes. «Angeli deve avere occhi così belli.» Staccando la mano da quella di Maria e posandosela sul cuore, Agnes ripeté: «Voglio vederlo». Dopo essersi segnata con la croce, Maria spiegò: «Devono tenere in cubatrice fino a quando lui non è più pericoloso. Quando viene infermiera, io chiedo che mi dice quando bambino è sicuro. Ma non posso vado via. Io guardo. Io guardo su te». Chiudendo gli occhi, Agnes mormorò: «Bartholomew», con un tono di rispetto e meraviglia. Nonostante si sentisse fluttuare a mezz'aria per la gioia, non riuscì a restare a galla nel fiume di sonno dal quale era da poco emersa. Tuttavia, questa volta Agnes sprofondò nelle sue acque con una nuova speranza, con quel nome magico, che mandava scintille nella sua mente: Bartholomew. Mentre la stanza e Maria svanivano lentamente, Bartholomew rimase nel suo sogno. Il nome tenne lontano gli incubi. Bartholomew. Il nome la sorreggeva e la confortava. 17 Junior si risvegliò da un incubo che non riusciva a ricordare, ricoperto da un sudore untuoso come quello di un maiale al mattatoio. Qualcosa cercava di afferrarlo - era tutto ciò che ricordava, mani che sbucavano dal buio e si protendevano verso di lui - e subito dopo si era svegliato ansimando. Al di là delle veneziane, la notte premeva contro il vetro. La lampada nell'angolo era ancora accesa, ma la poltroncina che le stava accanto non era più al suo posto. Era stata spostata più vicina al letto di Junior. Seduto nella poltroncina, Vanadium lo stava osservando. Con il perfetto controllo di un prestigiatore, faceva ruotare una monetina passandola da una nocca all'altra della mano destra, poi la faceva scomparire sotto al pollice e riapparire dalla parte del mignolo, ricominciando a farla ruotare sulle nocche, senza soluzione di continuità. L'orologio accanto al letto indicava le quattro e trentasette del mattino. Sembrava che il detective non dormisse mai. «C'è una bella canzone di George e Ira Gershwin intitolata Qualcuno che badi a me. L'ha mai sentita, Enoch? Per lei, io sono quel qualcuno, anche se, naturalmente, non in senso romantico.»
«Chi... chi è lei?» gracchiò Junior, ancora profondamente scosso dall'incubo e dalla presenza di Vanadium, ma abbastanza rapido nelle sue reazioni per restare fedele al personaggio che aveva deciso di interpretare. Invece di rispondere alla domanda, lasciando quindi intendere che, secondo lui, Junior era già al corrente dei fatti, Thomas Vanadium disse: «Sono riuscito a ottenere un mandato di perquisizione per la sua casa». Junior pensò che si trattasse di un trucco. Non esisteva alcuna prova che indicasse che la morte di Naomi non fosse stata accidentale. Il sospetto di Vanadium, per essere più esatti la sua ossessione, non era un motivo sufficiente per convincere un giudice a emettere un mandato di perquisizione. Sfortunatamente, in questo campo alcuni giudici si dimostravano di manica piuttosto larga, per non dire corrotti. E Vanadium, convinto di essere un angelo vendicatore, era sicuramente capace di mentire alla corte pur di ottenere un mandato anche senza alcuna reale giustificazione. «Non... non capisco.» Sbattendo le palpebre con aria assonnata, fingendo di essere ancora stordito dai tranquillanti e dalle sostanze che gli stavano iniettando nelle vene attraverso la flebo, Junior si compiacque per la nota di perplessità che era riuscito a dare alla sua voce roca, anche se sapeva che nemmeno un'interpretazione da Oscar sarebbe riuscita a convincere un critico così prevenuto. Nocca dopo nocca, intrappolata tra il pollice e il mignolo, svanendo nel palmo, attraversando segretamente la mano, per poi riapparire, nocca dopo nocca, ruotando, la moneta mandava bagliori. «Ha un'assicurazione?» domandò Vanadium. «Certo. Un'assicurazione sanitaria, la Blue Shield», rispose immediatamente Junior. Il detective si lasciò andare a una risatina secca, totalmente priva del calore delle normali risate. «Niente male, Enoch. Ma non è in gamba come crede di essere.» «Prego?» «Intendevo dire un'assicurazione sulla vita, come sa benissimo.» «Be'... ho una piccola polizza. L'ha stipulata per me l'ospedale dove lavoro. Perché? Che cosa c'entra?» «Una delle cose che cercavo a casa sua era una polizza di assicurazione sulla vita di sua moglie. Ma non ne ho trovate. E non ho trovato neppure assegni annullati per il pagamento del premio.» Sperando di riuscire a fingersi stordito ancora per un po', Junior si passò una mano sul viso, come se volesse cancellare anche gli ultimi residui di
sonno. «Ha detto di essere stato a casa mia?» «Sapeva che sua moglie teneva un diario?» «Sì, certo. Ogni anno ne cominciava uno nuovo. Da quando aveva dieci anni.» «L'ha mai letto?» «Naturalmente no.» Questo era assolutamente vero, il che permise a Junior di fissare Vanadium dritto negli occhi e di assumere un atteggiamento indignato mentre rispondeva alla domanda. «Perché no?» «Non sarebbe stato corretto. Un diario è una cosa privata.» Probabilmente non c'era nulla di sacro per un detective, ma era comunque sconvolto all'idea che Vanadium avesse bisogno di porre una simile domanda. Anche mentre si alzava dalla poltroncina e si avvicinava al letto, il detective continuò a far girare la monetina senza la minima esitazione. «Era una ragazza adorabile. Molto romantica. Il suo diario è pieno di frasi entusiastiche sulla vita matrimoniale, su di lei, Enoch. Era convinta che lei fosse l'uomo migliore che avesse mai conosciuto e un marito perfetto.» Junior Cain ebbe l'impressione che il suo cuore fosse stato trafitto da un ago così sottile che il muscolo continuava a contrarsi ritmicamente ma in modo assai doloroso. «Davvero? Ha... ha scritto così?» «A volte scriveva piccole preghiere a Dio, frasi molto commoventi piene di gratitudine, in cui Lo ringraziava per averle fatto incontrare una persona come lei.» Sebbene Junior fosse libero da tutte quelle superstizioni che Naomi, nella sua innocenza e nel suo sentimentalismo, aveva accettato, si sentì realmente commosso e cominciò a piangere. Provava rimorso per aver sospettato Naomi di averlo avvelenato con il panino e le albicocche. In realtà, lei lo aveva sempre adorato, proprio come aveva sempre pensato. Non avrebbe mai alzato una mano contro di lui, mai. La cara Naomi sarebbe morta per suo marito. Cosa che, in effetti, aveva fatto. La moneta smise di ruotare, fermandosi tra le nocche del medio e dell'anulare di Vanadium. Il detective prese una scatola di fazzolettini di carta dal comodino e gliela porse. «Prenda.» Dato che l'ago della flebo gli impediva di muovere liberamente il braccio destro, Junior usò la sinistra per estrarre un certo numero di fazzolettini. Dopo aver posato nuovamente la scatola sul comodino, il detective ri-
prese a far ruotare la moneta. Mentre Junior si soffiava il naso e si asciugava gli occhi, Vanadium commentò: «Sono convinto che, in un modo alquanto strano, lei amasse davvero sua moglie». «Amarla? Certo che l'amavo. Naomi era meravigliosa e così gentile... e divertente. Era la cosa migliore... la cosa migliore che mi fosse mai capitata.» Vanadium lanciò la moneta in aria, l'afferrò con la sinistra e cominciò a farla ruotare sulle nocche con la stessa velocità e destrezza che aveva usato con la destra. Davanti a quella dimostrazione di ambidestrismo, Junior si sentì percorrere da un brivido per motivi che non riusciva totalmente a comprendere. Qualsiasi aspirante illusionista... anzi, chiunque avesse voglia di esercitarsi per un numero sufficiente di ore, illusionista o no... era in grado di eseguire quell'esercizio. Si trattava di semplice abilità, non di magia. «Qual è stato il suo movente, Enoch?» «Il mio che cosa?» «Apparentemente sembra che non ne avesse nessuno. Ma c'è sempre un movente, un interesse personale. Se esiste una polizza di assicurazione la troveremo e lei si ritroverà a friggere come una fetta di pancetta in padella.» Come sempre, la voce del poliziotto era piatta, monotona; non lo aveva minacciato, gli aveva solo fatto una promessa. Spalancando gli occhi in un'espressione volutamente sorpresa, Junior domandò: «Lei è un funzionario di polizia?» Il detective sorrise. Era un sorriso da anaconda, del serpente che sta pensando a strangolare senza pietà la sua preda. «Prima di svegliarsi, lei stava sognando, vero? Un incubo, a quanto pare.» Questa improvvisa svolta nell'interrogatorio innervosì Junior. Vanadium aveva la capacità di far perdere continuamente l'equilibrio alla persona di cui sospettava. Conversare con lui era come trovarsi in una scena tratta da un film su Robin Hood: una battaglia a colpi di bastone combattuta su uno scivoloso ponte di legno sopra un fiume. «Sì. Sono ancora... tutto sudato.» «Che cosa stava sognando, Enoch?» Nessuno avrebbe potuto mandarlo in galera per colpa dei suoi sogni. «Non me lo ricordo. Sono quelli peggiori, quando uno non riesce a ricordarli... non crede? Se invece si ricordano anche i particolari, si tratta sempre di sogni molto stupidi. Quando si cancella tutto... è come se fossero più minacciosi.»
«Nel sonno, ha pronunciato un nome.» Molto probabilmente si trattava di una bugia e il detective lo stava provocando. Improvvisamente, Junior si pentì d'aver ammesso che stava sognando. Vanadium disse: «Bartholomew». Junior sbatté le palpebre e non osò dire nulla, perché non conosceva alcun Bartholomew e ora era certo che il poliziotto stava intessendo un'elaborata ragnatela d'inganno, che gli stava preparando una trappola. Perché mai avrebbe dovuto dire un nome che non significava nulla per lui? «Chi è Bartholomew?» domandò Vanadium. Junior scrollò la testa. «Ha pronunciato quel nome per due volte.» «Non conosco nessuno che si chiami Bartholomew.» Aveva deciso che, in quell'occasione, la verità non lo avrebbe potuto danneggiare. «Sembrava particolarmente agitato. Era terrorizzato da questo Bartholomew.» La sinistra di Junior stringeva con tanta forza i fazzolettini di carta appallottolati che, se il loro contenuto di carbonio fosse stato più elevato, si sarebbero trasformati in un diamante. Vide che Vanadium fissava il suo pugno serrato e le nocche bianche. Cercò di allentare la presa, ma senza riuscirvi. Per quanto gli fosse incomprensibile, ogni volta che il nome Bartholomew veniva ripetuto, l'ansia di Junior aumentava. Il nome risonava non soltanto nelle sue orecchie, ma anche nel suo sangue e nelle ossa, nel corpo e nella mente, come se Junior fosse stato una grande campana di bronzo e Bartholomew il suo battaglio. «Forse si tratta di un personaggio che ho visto in un film o di cui ho letto in un romanzo. Sono iscritto al Club del libro. Leggo sempre qualcosa. Non ricordo alcun personaggio di nome B-Bartholomew, ma forse era in un libro che ho letto anni fa.» Junior si rese conto che stava cominciando a balbettare e, facendo uno sforzo, s'impose di restare zitto. Sollevandosi lentamente come la lama di un'accetta nelle mani di un assassino e con la precisione di un contabile, lo sguardo di Thomas Vanadium passò dal pugno serrato di Junior al suo viso. La voglia di vino sembrava più scura di prima e diversa da come la ricordava. Se in precedenza gli occhi grigi del poliziotto erano apparsi duri come
teste di chiodo, ora sembravano delle punte e vi si leggeva una forza di volontà tale da riuscire a conficcare delle lance in una roccia. «Buon Dio», mormorò Junior, fìngendo di essersi liberato dallo stordimento e di avere adesso la mente molto più chiara. «Lei pensa che Naomi sia stata uccisa, non è così?» Invece di accettare il confronto che aveva cercato fin dalla sua prima visita, Vanadium sorprese Junior distogliendo lo sguardo, voltandosi e attraversando la stanza in direzione della porta. «Le cose stanno anche peggio», gracchiò Junior, convinto che, se il poliziotto fosse uscito lasciando la questione in sospeso, lui avrebbe perso un vantaggio che non riusciva a definire, come accadeva nei telefilm di Perry Mason o Peter Gunn. Fermandosi davanti alla porta senza aprirla, Vanadium si voltò a fissare Junior, ma rimase in silenzio. Permeando la voce roca con un tono di choc e di dolore, come se si sentisse profondamente ferito dalla necessità di pronunciare quelle parole, Junior Cain disse: «Lei... lei pensa che sia stato io a ucciderla, vero? Ma è una pazzia». Il detective sollevò entrambe le mani, con i palmi rivolti verso Junior e le dita ben allargate. Dopo una pausa, mostrò il dorso delle mani, e subito dopo nuovamente i palmi. Per un momento, Junior rimase perplesso. I movimenti di Vanadium avevano qualcosa di rituale, ricordavano vagamente quelli di un prete che solleva in alto l'eucaristia. La perplessità lasciò lentamente il posto alla comprensione. La moneta era sparita. Junior non si era accorto del momento in cui il detective aveva smesso di far roteare la moneta lungo le nocche. «Forse potrebbe tirarla fuori dall'orecchio», suggerì Thomas Vanadium. Con la mano sinistra che tremava, Junior cercò di toccarsi l'orecchio, convinto di trovare il quarto di dollaro nel condotto uditivo, bloccato fra il trago e l'antitrago, in attesa di essere estratto con un gesto plateale. Ma l'orecchio era vuoto. «Mano sbagliata», gli suggerì Vanadium. Legato a un supporto, semiimmobilizzato per impedirgli di staccare accidentalmente la flebo, non utilizzato da diverse ore, il braccio destro di Junior era parzialmente intorpidito e rigido. La mano non sembrava neppure far parte di lui. Pallida e strana come un
anemone di mare, le lunghe dita piegate come tentacoli intorno alla bocca dell'anemone, pronti a catturare, con movimento pigro ma spietato, qualsiasi preda di passaggio. Come un pesciolino dalle squame d'argento, la moneta era posata nel palmo della mano di Junior. Proprio sulla linea della vita. Non credendo ai suoi occhi, Junior allungò la mano sinistra e raccolse il quarto di dollaro. Sebbene fosse stata sul palmo caldo, la moneta era fredda. Gelata. I miracoli non esistono, tuttavia era impossibile che la moneta si fosse materializzata nella sua mano. Vanadium era rimasto sempre sul lato sinistro del letto. Non si era mai chinato verso Junior, né sporto al di sopra di lui. Tuttavia la moneta era reale come il corpo di Naomi sul crinale roccioso, ai piedi della torre. In uno stato di meraviglia più simile al terrore che al divertimento, Junior sollevò lo sguardo dalla moneta, cercando una spiegazione da Vanadium, aspettandosi di vedere quel sorriso da anaconda. Ma la porta si stava richiudendo. Senza fare più rumore di un giorno che si chiude per lasciar entrare la notte, il detective se n'era andato. 18 Seraphim Aethionema White non somigliava in alcun modo al suo nome, se non per il fatto che aveva un cuore d'oro e una anima gentile come quella di coloro che abitano in paradiso. Non aveva ali, come gli angeli da cui aveva preso il nome e nemmeno sapeva cantare in modo melodioso come i serafini, perché la natura l'aveva dotata di una voce gutturale e di troppa umiltà per permetterle di diventare una cantante. Gli Aethionema erano fiori delicati, di un rosa intenso o pallido; invece questa ragazza, anche se decisamente bella, aveva un animo tutt'altro che fragile, non si lasciava abbattere nemmeno dal vento più forte. Coloro che l'avevano appena conosciuta e tutti quelli che erano rimasti affascinati dalla sua originalità la chiamavano Seraphim, il suo nome completo. Gli insegnanti, i vicini e i conoscenti la chiamavano Sera. Ma chi la conosceva meglio e l'amava più profondamente, come sua sorella Celestina, la chiamava Phimie. Quella sera del 5 gennaio, dal momento stesso in cui la ragazza era stata ricoverata al St. Mary's Hospital di San Francisco, anche le infermiere l'a-
vevano chiamata Phimie, non perché la conoscessero così bene da amarla, ma perché avevano sentito Celestina usare quel diminutivo. Phimie condivideva la stanza 724 con una donna di ottantaquattro anni, Nella Lombardi, che, in seguito a un colpo apoplettico, si trovava in coma profondo da otto giorni e che recentemente, ovvero da quando le sue condizioni si erano stabilizzate, era stata trasferita lì dall'unità di cura intensiva. Aveva una lucente capigliatura bianca che incorniciava un viso grigio come pomice, dalla pelle totalmente priva di luminosità. La signora Lombardi non aveva nessuno che venisse a trovarla. Era sola al mondo, il marito e i due figli erano morti molto tempo prima. Il giorno seguente, il 6 gennaio, mentre Phimie veniva portata da un reparto all'altro dell'ospedale per essere sottoposta ad alcune analisi, Celestina era rimasta nella camera 724 a lavorare a una serie di disegni per il corso di ritrattistica avanzata che stava frequentando. Era una studentessa dell'accademia di belle arti. Aveva messo da parte uno schizzo a matita di Phimie, ancora incompiuto, per ritrarre il volto di Nella Lombardi. Nonostante la malattia e l'età, il volto della donna aveva conservato una notevole bellezza. La struttura ossea era davvero superba. Da giovane doveva essere stata stupenda. Celestina intendeva ritrarre Nella come la vedeva in quel momento, con il capo posato sul cuscino di quello che, probabilmente, sarebbe stato il suo letto di morte, gli occhi chiusi, la bocca rilassata, il volto cinereo ma sereno. Poi avrebbe disegnato altri quattro ritratti, servendosi della struttura ossea dei lineamenti per immaginare come quella donna era stata a sessanta, quaranta, venti e dieci anni. Di solito, quando Celestina era preoccupata, la sua arte rappresentava un rifugio perfetto in cui i dolori non potevano entrare. Quando studiava un soggetto, abbozzava il disegno e lo completava, il tempo perdeva significato e la vita era priva di angosce. Ma in quel giorno così straordinario, disegnare non le dava alcun sollievo. Spesso le mani le tremavano e lei non riusciva a controllare la matita. In quei momenti, quand'era troppo scossa per disegnare, si metteva davanti alla finestra e restava a fissare la città. La singolare bellezza di San Francisco e la patina lasciata dalla sua vivace storia parlavano al cuore di Celestina e accendevano in lei una passione così irragionevole che a volte si domandava, scherzando, se non vi avesse già vissuto altre vite. Spesso, quando percorreva una strada per la prima
volta, questa le sembrava incredibilmente familiare. Alcune splendide ville, costruite tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, le suggerivano immagini di eleganti feste, e a volte la sua fantasia era così sbrigliata che vedeva mentalmente particolari così vivi da somigliare a ricordi. Ma questa volta neppure San Francisco, con il suo cielo di smalto azzurro punteggiato da una cloisonné di nubi d'oro e d'argento, riusciva a dar sollievo o a calmare i nervi di Celestina. Il dilemma di sua sorella non poteva essere scacciato dalla mente come avrebbe potuto fare con un suo problema... e lei stessa non si era mai trovata in una situazione tanto spaventosa come quella in cui si trovava adesso Phimie. Nove mesi prima, Phimie era stata violentata. Spaventata e piena di vergogna, non ne aveva parlato con nessuno. Sebbene fosse la vittima, lei continuava a biasimare se stessa e la prospettiva di essere esposta al ridicolo l'aveva terrorizzata a tal punto che la disperazione aveva avuto la meglio sul buonsenso. Quando aveva scoperto di essere rimasta incinta, Phimie aveva affrontato questo nuovo trauma come altre ingenue quindicenni avevano fatto prima di lei: aveva cercato di evitare il disprezzo e i rimproveri che immaginava le sarebbero piovuti addosso per non aver confessato la violenza nel momento in cui era avvenuta. Senza considerare ciò che sarebbe avvenuto in futuro, concentrandosi unicamente sulla situazione del momento, rifiutandosi di prendere atto della realtà, aveva deciso di nascondere la sua condizione il più a lungo possibile. Tentò di mantenere al minimo l'aumento di peso e, in questo, trovò nell'anoressia una valida alleata. Imparò a trarre piacere nei morsi della fame. Quando mangiava, sceglieva soltanto cibi nutrienti, seguendo così una dieta più corretta di quanto avesse mai fatto in vita sua. Anche se evitava disperatamente di pensare che il momento del parto si stava avvicinando, cercava di fare del suo meglio per mantenere il bambino in buona salute, pur restando abbastanza magra da non destare sospetti. Tuttavia, nel corso di quei nove mesi di silenzioso panico, un po' alla volta Phimie divenne sempre meno razionale, ricorrendo a stratagemmi assolutamente sconsiderati che mettevano in pericolo la sua salute e quella del bambino, anche se continuava a nutrirsi in modo corretto, assumendo ogni giorno un complesso multivitaminico. Per nascondere i cambiamenti che erano intervenuti nel suo fisico, indossava abiti larghi e si fasciava il ventre con delle bende. In seguito, per ottenere una maggiore compressio-
ne, aveva preso a indossare un busto. Dato che, sei settimane prima di essere violentata, si era fatta male a una gamba ed era stata operata a un tendine, Phimie aveva potuto fingere alcuni postumi dell'operazione, evitando così di frequentare le lezioni di ginnastica fin dal mese di settembre, quand'era iniziata la scuola. Quando raggiunge l'ultima settimana di gravidanza, una donna normale di solito è ingrassata di tredici-quattordici chili, tre o quattro dei quali sono il peso del feto. La placenta e il liquido amniotico pesano circa un chilo e mezzo. I restanti chili sono dovuti alla ritenzione idrica e alle riserve di grasso. Phimie era ingrassata meno di sei chili. Probabilmente la sua gravidanza sarebbe passata inosservata anche senza il busto. Il giorno prima di essere ricoverata al St. Mary's, si era svegliata con un tremendo mal di testa, nausea e vertigini. Era anche in preda a violenti dolori addominali, forti come non ne aveva mai provati prima di allora, anche se non avevano alcuna caratteristica delle contrazioni da travaglio. In più, aveva un problema alla vista che la terrorizzava. All'inizio, le immagini erano apparse semplicemente confuse. Poi le era sembrato che delle lucciole lampeggiassero ai margini del campo visivo. Successivamente, era rimasta terrorizzata da un'improvvisa cecità, durata soltanto una trentina di secondi e scomparsa immediatamente. Nonostante questa crisi e sebbene fosse consapevole del fatto che mancasse soltanto una settimana o dieci giorni al momento del parto, Phimie non riusciva a trovare ancora il coraggio di rivelare tutto al padre e alla madre. Il reverendo Harrison White, suo padre, era un buon battista e un brav'uomo, non troppo severo né duro di cuore. La madre, Grace, aveva un nome che si adattava perfettamente alla sua personalità. Phimie non voleva confessare la sua gravidanza non perché temesse l'ira dei genitori, ma perché aveva il terrore di leggere la delusione nei loro occhi e perché avrebbe preferito morire piuttosto che coprirli di vergogna. Quando, quello stesso giorno, fu colta da un secondo e più lungo attacco di cecità, Phimie era sola a casa. Dalla sua stanza, strisciò lungo il corridoio e, a tentoni, trovò il telefono in camera dei genitori. In quel momento, Celestina era nel suo piccolo monolocale e stava lavorando serenamente a un autoritratto cubistico. Dal tono isterico e dalle frasi inizialmente sconnesse di Phimie, Celestina pensò che papà e mamma, o entrambi, fossero morti.
Quando la sorella la mise al corrente di tutto, Celestina sentì il cuore spezzarsi come se avesse realmente perso un genitore. Il pensiero che la sua adorata sorellina fosse stata violentata la faceva star male per il dolore e per la rabbia. Sconvolta al pensiero che, per nove mesi, sua sorella si fosse autoimposta un isolamento emotivo e che adesso stesse soffrendo terribilmente, Celestina non desiderava altro che mettersi in contatto con i suoi genitori. Quando i White facevano quadrato, la loro forza era come una luce che respingeva anche l'oscurità più cupa. Phimie riacquistò la vista mentre parlava al telefono con la sorella maggiore, ma non recuperò la ragione. Supplicò Celestina di non rintracciare i genitori, di non chiamare il dottore, ma di tornare a casa e di starle accanto quando avrebbe confessato il suo terribile segreto. Pur considerandola una follia, Celestina promise tutto ciò che Phimie desiderava. Aveva fiducia nell'istinto del suo cuore tanto quanto nella logica, e il pianto e le implorazioni di una sorella tanto amata erano più forti del buonsenso. Non perse tempo a preparare i bagagli; incredibilmente un'ora dopo era già su un volo per Spruce Hills, nell'Oregon, con scalo a Eugene. Tre ore dopo aver ricevuto quella telefonata, si trovava già accanto alla sorellina. Nel soggiorno della canonica, sotto lo sguardo di Gesù e di John F. Kennedy, i cui ritratti erano appesi uno accanto all'altro, la ragazzina confessò al padre e alla madre che cosa le avevano fatto e anche che cosa, disperata e confusa, lei aveva fatto a se stessa. Phimie ricevette l'amore incondizionato e protettivo di cui aveva sentito il bisogno per nove mesi, quell'amore puro del quale, scioccamente, si era sentita indegna. Sebbene l'abbraccio della famiglia e il sollievo per aver condiviso il suo segreto avessero avuto su di lei un effetto corroborante, consentendole di riacquistare il suo abituale buonsenso, Phimie si rifiutò di rivelare il nome dell'uomo che l'aveva violentata. Se avesse testimoniato contro di lui, quell'uomo aveva minacciato di uccidere lei e la sua famiglia e Phimie lo riteneva capace di mantenere la promessa. «Bambina mia, non ti toccherà mai più», cercò di rassicurarla il reverendo. «Il Signore e io faremo in modo che questo non accada e, sebbene né Lui né io faremmo mai ricorso alle armi, per queste cose c'è la polizia.» Lo stupratore era riuscito a terrorizzare a tal punto la ragazza, a imprimerle nella mente la sua minaccia in modo così indelebile, che lei non vo-
leva sentir ragione e si ostinava a non rivelarne l'identità. Insistendo gentilmente, la madre si appellò al suo senso di responsabilità morale. Se quell'uomo non veniva arrestato, processato e condannato, prima o poi avrebbe aggredito un'altra ragazza innocente. Ma Phimie non cedeva. «È un pazzo. Un malato. Un essere crudele.» Rabbrividì. «Lo farà, ci ucciderà tutti, non gliene importa nulla di morire in uno scontro a fuoco con la polizia o di essere spedito sulla sedia elettrica. Se parlo, nessuno di voi sarà al sicuro.» Celestina e i suoi genitori furono d'accordo nel ritenere che, dopo la nascita del bambino, Phimie si sarebbe lasciata convincere su quell'argomento. Adesso era troppo fragile e troppo sconvolta dall'ansia per fare la cosa più giusta, non aveva senso fare pressione su di lei in quel momento. L'aborto era illegale e comunque, per una questione di fede, i suoi genitori non l'avrebbero preso in considerazione, nemmeno nelle peggiori circostanze. Inoltre, Phimie era ormai giunta quasi al termine della gravidanza e, considerati i possibili danni causati dal prolungato digiuno e dallo stretto busto che aveva sempre indossato, l'aborto poteva anche rivelarsi una scelta pericolosa. Doveva mettersi immediatamente nelle mani dei medici. Il bambino sarebbe stato dato in adozione a persone in grado di amarlo e che, in lui, non avrebbero visto sempre l'immagine del padre stupratore. «Non voglio avere il bambino qui», insisté Phimie. «Se lui viene a sapere di aver avuto un figlio da me, diventerà ancora più violento. Lo so.» Voleva andare a San Francisco con Celestina, per avere il bambino in quella città, dove il padre - e peraltro anche le sue amiche e i parrocchiani del reverendo White - non sarebbero mai venuti a sapere del parto. Più i genitori e la sorella si opponevano al suo progetto, più Phimie si agitava e a un certo punto i suoi famigliari temettero che, se non avessero fatto come voleva, quello stato d'ansia avrebbe messo in pericolo la sua salute e la sua stabilità mentale. I sintomi che avevano terrorizzato Phimie - il mal di testa, i dolori addominali, i capogiri, i problemi di vista - erano spariti completamente. Probabilmente erano stati più di natura psicologica che fisica. Un ritardo di alcune ore nell'affidarsi alle cure mediche poteva essere rischioso. Ma lo era anche costringerla a farsi ricoverare in un ospedale locale e dover sopportare la mortificazione che lei desiderava così disperatamente evitare. Ricorrendo alla parola emergenza, Celestina riuscì a mettersi rapidamen-
te in contatto con il suo medico di San Francisco. Il dottore accettò di occuparsi di Phimie e di farla ricoverare al St. Mary's appena fosse giunta dall'Oregon. Il reverendo non poteva sottrarsi ai suoi obblighi di pastore con un preavviso tanto breve, ma Grace desiderava restare vicino alla figlia. Tuttavia, Phimie supplicò i suoi genitori che fosse soltanto Celestina ad accompagnarla. Sebbene la ragazzina non fosse in grado di spiegare per quale motivo preferisse non avere sua madre accanto a sé, tutti loro compresero il suo stato di agitazione. Non sopportava l'idea di sottoporre sua madre, una persona così perbene, alla vergogna e all'imbarazzo che lei stessa provava in modo così intenso e che immaginava sarebbe cresciuto sempre più nelle ore o nei giorni successivi, fino al momento del parto e anche dopo. Naturalmente, Grace era una donna forte per la quale la fede rappresentava una corazza in grado di proteggerla da cose ben peggiori di un semplice imbarazzo. Celestina sapeva che per sua madre sarebbe stato un dolore molto maggiore restare in Oregon che accompagnare la figlia, ma Phimie era troppo giovane, troppo ingenua e troppo spaventata, per comprendere che in quella situazione, così come in tutte le altre, sua madre era un pilastro a cui appoggiarsi, non una canna al vento. La tenerezza con cui Grace acconsentì alla richiesta di Phimie anche se questo significava rinunciare alla propria serenità, commosse profondamente Celestina. Aveva sempre amato e ammirato sua madre con un'intensità che nessuna parola, o nessuna opera d'arte, era in grado di descrivere, ma mai come in quel momento. Con la stessa sorprendente facilità con cui era riuscita a trovare un posto sul volo da San Francisco con un'ora di preavviso, Celestina prenotò due biglietti di andata e ritorno per un volo del tardo pomeriggio, come se avesse avuto un agente di viaggio dotato di poteri sovrannaturali. In aereo, Phimie si lamentò per un ronzio alle orecchie che poteva essere causato dal volo. Soffrì anche di un episodio di diplopia e, una volta atterrata, cominciò a sanguinare dal naso, una probabile conseguenza dei sintomi precedenti. La perdita di sangue e il fatto che la piccola emorragia non si arrestasse, mise in apprensione Celestina. Temeva di aver sbagliato nel ritardare il ricovero in ospedale della sorella. Dall'aeroporto di San Francisco, attraversando strade avvolte dalla nebbia, erano giunte al St. Mary's, nella camera 724. Era stato a quel punto
che avevano scoperto che Phimie aveva la pressione molto alta - minima 126, massima 210 -, che soffriva di una crisi ipertensiva, rischiando un colpo apoplettico, l'insufficienza renale e altre pericolosissime complicanze. Dopo averle iniettato degli antiipertensivi per via endovenosa, Phimie era stata messa a letto, con il cuore collegato a un monitor. Il dottor Leland Daines, l'internista di Celestina, arrivò direttamente dalla cena al Ritz-Carlton a cui stava partecipando. Sebbene il dottor Daines avesse radi capelli bianchi e un viso solcato dalle rughe, il tempo era stato abbastanza clemente con lui a farlo apparire non tanto vecchio quanto solenne. Nonostante la sua lunga esperienza, non era per nulla arrogante, parlava in modo pacato e aveva una pazienza infinita. Dopo aver visitato Phimie, che era in preda alla nausea, Daines prescrisse un anticonvulsivo, un antiemetico e un sedativo, tutto per via endovenosa. Il sedativo era molto blando, ma Phimie si addormentò nel giro di qualche minuto. Il lungo periodo di tormento e la recente mancanza di sonno l'avevano spossata. Il dottor Daines si fermò a parlare con Celestina in corridoio, appena fuori della stanza 724. Alcune infermiere erano suore che indossavano il soggolo e una lunga tonaca, e che scivolavano silenziosamente nel corridoio come spiriti. «Ha una eclampsia progressiva. È una situazione che si presenta all'incirca nel cinque per cento delle gravidanze, quasi sempre dopo la ventiquattresima settimana, e solitamente viene curata senza problemi. Ma non voglio illuderti, Celestina. Nel suo caso, la situazione è più grave. In tutti questi mesi non è mai andata da un medico, non ha seguito alcuna cura e ormai è a metà della trentottesima settimana, a circa dieci giorni dal parto.» Dato che conoscevano esattamente il giorno in cui Phimie era stata violentata e visto che quello era stato il suo unico rapporto sessuale, si poteva stabilire la data esatta dell'inizio della gravidanza e calcolare il giorno del parto con maggiore precisione del solito. «Ora che la gravidanza si avvia al termine», spiegò Daines, «tua sorella corre il rischio che la eclampsia progressiva si trasformi in una eclampsia vera e propria.» «In questo caso che cosa potrebbe succedere?» volle sapere Celestina, pur temendo quello che avrebbe potuto sentirsi rispondere.
«Le possibili complicanze comprendono emorragia cerebrale, edema polmonare, insufficienza renale, necrosi del fegato, coma... solo per citarne alcune.» «Avrei dovuto farla ricoverare in un ospedale della sua città.» Il medico le posò una mano sulla spalla. «Non fartene una colpa. Ormai è arrivata fin qui. E sebbene non conosca gli ospedali dell'Oregon, dubito che il livello di assistenza sarebbe stato pari a quello che riceverà in questo.» Mentre cercavano di tenere sotto controllo l'eclampsia progressiva, il dottor Daines aveva prescritto una serie di esami per il giorno successivo. A suo avviso, sarebbe stato opportuno procedere con un parto cesareo appena la pressione di Phimie si fosse abbassata e stabilizzata, tuttavia non voleva sottoporla all'intervento prima di aver stabilito con certezza se vi erano state delle complicanze in seguito alla rigida dieta cui si era sottoposta e alla prolungata compressione del ventre. Sebbene sapesse già che la risposta non poteva essere ottimistica, Celestina domandò: «È probabile che il bambino non sia... normale?» «Spero proprio di no», rispose il medico, ma aveva sottolineato con troppa forza la parola spero. Tornata nella camera 724, ferma accanto al letto di sua sorella, mentre la guardava dormire, Celestina si disse che stava affrontando bene la situazione. Riusciva a gestire tutti quegli sviluppi così sconvolgenti senza telefonare ai suoi genitori. Ma poi il respiro le si bloccò più volte in petto e le strinse la gola. Un tentativo particolarmente difficile di inspirare si risolse in un singhiozzo, e lei scoppiò a piangere. Aveva quattro anni più di Phimie. Negli ultimi tre anni, da quando Celestina era venuta ad abitare a San Francisco, non si erano viste molto. Sebbene la distanza e il tempo, l'impegno dei suoi studi e della vita quotidiana non le avessero fatto dimenticare che amava Phimie, tuttavia aveva dimenticato la purezza e l'intensità di quell'amore. Mentre lo riscopriva, si sentì così scossa che dovette avvicinare una poltroncina al letto della sorella e sedersi. Chinò il capo, coprendosi il viso con le mani gelate e si chiese come sua madre potesse continuare ad aver fede in Dio, quando a persone innocenti come Phimie potevano accadere cose tanto terribili. Tornò nel suo appartamento verso mezzanotte. Rimase a letto, con le luci spente, fissando il soffitto, incapace di dormire.
Le veneziane erano alzate e le finestre erano prive di tende. Di solito a lei piaceva la fumosa luminosità, color rosso oro, della città di notte, ma adesso la rendeva solo inquieta. Era sopraffatta dalla strana sensazione che, se si fosse alzata dal letto e si fosse avvicinata alla finestra più vicina, avrebbe scoperto che tutti gli edifìci erano al buio, che tutti i lampioni erano spenti. E che quella strana luce proveniva dalle grate in strada e dai tombini aperti, non dalla città, ma da un mondo sotterraneo. L'occhio interno dell'artista, che non poteva mai chiudere, nemmeno quando dormiva, cercava incessantemente forme, strutture e significati, così come faceva in quel momento nel soffitto sopra di lei. Nel gioco di luci e ombre che attraversavano l'intonaco, Celestina vide visi solenni di neonati deformi, dall'espressione implorante... e immagini di morte. Diciannove ore dopo il ricovero di Phimie al St. Mary's, mentre la ragazza si sottoponeva agli ultimi esami prescritti dal dottor Daines, il cielo al crepuscolo si fece scuro e ancora una volta la città si adorno con il gesso rosso e le lamine d'oro che avevano indirettamente illuminato il soffitto di Celestina la sera precedente. Dopo una giornata di lavoro, il ritratto a matita di Nella Lombardi era terminato. Il secondo pezzo della serie, un'estrapolazione del suo aspetto all'età di sessant'anni, era stato iniziato. Sebbene Celestina non dormisse da quasi trentasei ore, l'ansia la teneva perfettamente sveglia. In quel momento non le tremavano le mani; linee e ombre fluivano ininterrottamente dalla matita, come parole dalla penna di un medium in trance. Seduta vicino alla finestra, accanto al letto di Nella, mentre disegnava su una tavola che teneva sulle ginocchia in posizione inclinata, Celestina portava avanti una conversazione silenziosa e unilaterale con la donna in coma. Le narrava episodi della sua infanzia con Phimie ed era sbalordita da quanti ne ricordava. A volte Nella sembrava ascoltarla, anche se i suoi occhi non si aprivano mai e lei non faceva alcun movimento. La luce verde dell'elettrocardiografo continuava a rimbalzare silenziosamente e in modo regolare. Poco prima di cena, un'inserviente e un'infermiera riaccompagnarono Phimie nella stanza. Con molta delicatezza, la trasferirono nel letto. La ragazzina aveva un aspetto migliore di quello che Celestina si fosse aspettata. Sebbene stanca, rispose immediatamente al suo sorriso e i suoi
enormi occhi marrone erano sereni. Phimie volle vedere il ritratto finito di Nella e quello non ancora terminato. «Un giorno sarai famosa, Celie.» «Nell'aldilà nessuno è famoso, né affascinante e neppure nobile o altero», commentò lei, sorridendo mentre citava uno dei sermoni più noti del padre, «né potente...» «...né crudele, odioso o invidioso, o meschino», proseguì Phimie, «perché questi sono tutti mali di un mondo depravato...» «...e adesso, quando il piatto delle offerte passerà tra di voi...» «...donate come se foste già gli illuminati cittadini dell'aldilà...» «...e non ipocriti, miserabili...» «...avari...» «...avidi...» «...bigotti di questo triste mondo.» Scoppiarono entrambe a ridere e si strinsero le mani. Per la prima volta da quando Phimie le aveva telefonato dall'Oregon in preda al panico, Celestina sentì che, alla fine, sarebbe andato tutto bene. Ma qualche minuto più tardi, ancora una volta a colloquio in corridoio con il dottor Daines, fu costretta a moderare il suo ritrovato ottimismo. La pressione sanguigna che, nonostante tutto, continuava a essere alta, la presenza di proteine nelle urine e altri sintomi indicavano che la eclampsia progressiva di Phimie non si era sviluppata solo negli ultimi tempi; il rischio di eclampsia era aumentato. Un po' alla volta stavano riuscendo a controllare l'ipertensione, ma solo grazie alla somministrazione di medicinali molto più forti di quanto il medico avrebbe voluto usare. «Inoltre», soggiunse Daines, «tua sorella ha il bacino piccolo, il che rappresenterebbe un problema durante il parto anche nel caso di una gravidanza normale. E le fibre muscolari del canale centrale della cervice, che dovrebbero ammorbidirsi prima del travaglio, sono ancora dure. Non credo che la cervice si dilaterà abbastanza da facilitare il parto.» «E il bambino?» «Non abbiamo rilevato alcuna malformazione, tuttavia alcuni test hanno rivelato preoccupanti anomalie. Sapremo esattamente come stanno le cose solo quando lo vedremo.» Celestina provò una fitta d'orrore quando non riuscì a reprimere l'immagine di un mostro da circo, mezzo drago e mezzo insetto, raggomitolato nell'utero di sua sorella. Odiava il figlio dello stupratore, ma era allibita dal suo stesso odio, perché il bambino non aveva colpa.
«Se nel corso della notte la pressione sanguigna si stabilizza», continuò il dottor Daines, «domani mattina alle sette le faremo un taglio cesareo. Dopo il parto, il pericolo di eclampsia sparisce completamente. Vorrei affidare Phimie al dottor Aaron Kaltenbach. È un ostetrico di prim'ordine.» «Benissimo.» «In questo caso, seguirò anch'io tutta l'operazione.» «Le sono grata, dottor Daines. Per tutto ciò che ha fatto.» Celestina stessa era poco più che una ragazzina che fìngeva di avere spalle larghe e abbastanza esperienza per sopportare quel peso. Ma si sentiva distrutta. «Vai a casa. Dormi», le consigliò il medico. «Non potrai essere di alcun aiuto per tua sorella se tu stessa finirai per diventare una paziente di questo ospedale.» Restò con Phimie per tutta la durata della cena. La ragazzina aveva un notevole appetito, anche se il cibo era piuttosto leggero. Ben presto si addormentò. Una volta a casa, dopo aver telefonato ai suoi genitori, Celestina si preparò un panino al prosciutto. Ne mangiò solo un quarto. Poi ingoiò due bocconi di brioche al cioccolato. Un cucchiaino di gelato. Tutto le sembrava insipido, più di quello che avevano servito a Phimie in ospedale e le si bloccava in gola. Si sdraiò sul copriletto completamente vestita. Aveva intenzione di ascoltare un po' di musica classica prima di andare a lavarsi i denti. Si accorse di non aver acceso la radio, ma si addormentò prima di riuscire ad allungare una mano per premere il tasto. 7 gennaio, quattro e quindici del mattino. Nella California meridionale, Agnes Lampion stava sognando del suo bambino appena nato. In Oregon, Junior Cain ripeteva terrorizzato un nome nel sonno e il detective Vanadium, in attesa di parlare con l'uomo sospettato di aver ucciso la moglie, si sporgeva in avanti nella poltroncina per ascoltare, mentre faceva roteare incessantemente una monetina, passandola da una nocca all'altra della mano destra. A San Francisco, un telefono squillò. Voltandosi su un fianco, cercando a tentoni nel buio, Celestina White afferrò il ricevitore al terzo squillo. Il suo pronto fu anche uno sbadiglio. «Vieni subito», disse una donna con voce flebile. Ancora mezzo addormentata, Celestina domandò «Che cosa?»
«Vieni subito. Presto.» «Chi parla?» «Nella Lombardi. Vieni adesso. Tua sorella morirà presto.» Svegliandosi di scatto e sedendosi sul bordo del letto, Celestina si rese conto che la persona all'altro capo del filo non poteva essere l'anziana donna in coma, quindi domandò furibonda: «Chi diavolo è?» Il silenzio che udì non era semplicemente quello di una persona che non vuole rispondere. Era abissale e perfetto, come nessun silenzio al telefono può essere, senza il più lieve sibilo o scricchiolio di elettricità statica, senza un lieve respiro trattenuto. La profondità di quel vuoto privo di rumori raggelò Celestina. Non osava parlare di nuovo, perché all'improvviso e in modo superstizioso era terrorizzata da quel silenzio come se fosse una cosa viva capace di raggiungerla attraverso la linea. Riagganciò, schizzò su dal letto, afferrò il giubbotto di pelle che aveva posato su una delle due sedie della cucina, prese le chiavi e la borsa e si precipitò fuori di casa. All'esterno, i rumori della città notturna - il rombo di alcuni motori d'auto nelle strade quasi deserte, il rumore metallico del coperchio di un tombino che traballava sotto gli pneumatici, una sirena lontana, la risata di alcuni ubriachi che tornavano a casa dopo una festa durata tutta la notte - erano soffocati da una cappa di nebbia argentea. Si trattava di rumori ben noti e tuttavia, per Celestina, in quel momento la città rappresentava un luogo sconosciuto come mai le era sembrato prima d'allora, pieno di pericoli, con gli edifìci che incombevano come enormi cripte o templi eretti a divinità crudeli e sconosciute. Le risate dei festaioli ubriachi scivolavano attraverso la nebbia e non avevano un suono allegro, ma folle e tormentato. Celestina non possedeva un'automobile e, dal suo appartamento, per raggiungere l'ospedale a piedi ci volevano venticinque minuti. Si mise a correre, pregando di incrociare un taxi, ma sebbene nessuna auto pubblica fosse apparsa in risposta alla sua preghiera, Celestina raggiunse il St. Mary's senza fiato ma in poco più di quindici minuti. L'ascensore salì cigolando e più lento di quanto lei ricordasse. In quello spazio claustrofobico, il suo respiro ansante sembrava rimbombare. A quell'ora della notte, i corridoi del settimo piano erano silenziosi, deserti. L'aria era impregnata di disinfettante al profumo di pino. La porta della camera 724 era aperta. Le luci accese.
Sia Phimie sia Nella erano state portate via. Un'inserviente aveva quasi finito di cambiare le lenzuola del letto dell'anziana donna. Quelle di Phimie erano tutte sottosopra. «Dov'è mia sorella?» domandò Celestina senza fiato. L'inserviente sollevò lo sguardo, sussultando. Quando una mano le sfiorò la spalla, Celestina si voltò di scatto e si trovò faccia a faccia con una suora dalle guance rubiconde e dagli occhi azzurro scuro che, da quel momento in poi, avrebbero rappresentato per lei il colore delle cattive notizie. «Non sapevo che fossero riusciti a mettersi in contatto con lei. L'hanno chiamata solo dieci minuti fa.» Dalla telefonata di Nella Lombardi erano trascorsi almeno venti minuti. «Dov'è Phimie?» «Presto», la incitò la suora, precedendola lungo il corridoio in direzione degli ascensori. «Che cosa è successo?» Mentre scendevano verso il reparto di chirurgia, la suora spiegò: «Un'altra crisi di ipertensione. Nonostante tutte le medicine, la pressione sanguigna di quella povera ragazza è salita alle stelle. Ha avuto un attacco violento, delle convulsioni eclamptiche». «Oh, buon Dio.» «Adesso è in sala operatoria. Le stanno facendo un taglio cesareo.» Celestina si aspettava di essere accompagnata in una sala d'aspetto, ma la suora la condusse invece nel locale preoperazioni. «Sono suor Josephina.» Tolse la borsa a tracolla dalla spalla di Celestina. «Può lasciare questa a me», disse aiutandola a togliersi il giubbotto. Apparve un'infermiera in casacca e pantaloni verdi. «Si rimbocchi le maniche del maglione e si lavi accuratamente le mani e gli avambracci fino ai gomiti. Strofini bene. Le dirò io quando smettere.» Mentre l'infermiera ficcava nella destra di Celestina una saponetta di liscivia, sorella Josephina aprì il rubinetto del lavandino. «La fortuna ha voluto», spiegò la suora, «che il dottor Lipscomb fosse in ospedale quando è successo. Aveva appena fatto nascere un altro bambino in condizioni critiche. È un ottimo medico.» «Come sta Phimie?» domandò Celestina strofinandosi con forza le mani e gli avambracci. «Il dottor Lipscomb ha fatto nascere il bambino un paio di minuti fa. La placenta non è stata ancora tolta», la informò l'infermiera. «È piccolo ma sano. Niente malformazioni», la rassicurò sorella Jose-
phina. Celestina aveva domandato di Phimie, ma loro le avevano parlato del bambino e lei era piuttosto allarmata dalla loro evasività. «È sufficiente», disse l'infermiera e la suora allungò una mano attraverso una nube di vapore per chiudere il rubinetto. Celestina si voltò, sollevando le mani gocciolanti come aveva visto fare ai chirurghi nei film e le sembrava quasi di essere ancora a casa, a letto, alle prese con un terribile sogno. Mentre l'infermiera infilava Celestina in un camice da chirurgo, legandoglielo poi dietro la schiena, sorella Josephina si inginocchiò davanti a lei e le fece calzare un paio di soprascarpe di stoffa strette da un elastico. Quello straordinario e urgente invito in sala operatoria diceva di più - e di peggio - sulle condizioni di Phimie di tutte le spiegazioni che quelle due donne avrebbero potuto darle. L'infermiera fece indossare a Celestina una mascherina chirurgica che le copriva il naso e la bocca e le sistemò una cuffia in testa. «Da questa parte.» Percorsero un breve corridoio. Sul soffitto, la luce violenta di pannelli al neon. Le soprascarpe che scricchiolavano sul pavimento di linoleum. L'infermiera spinse una porta oscillante e la tenne aperta per Celestina, ma poi non la seguì in sala operatoria. Il cuore di Celestina batteva con tanta forza che ne sentì le vibrazioni nelle ossa, scendere lungo le gambe e farle quasi piegare le ginocchia. Ecco i chirurghi, la testa bassa come se stessero pregando, e la cara Phimie, sul tavolo operatorio, in mezzo a lenzuola schizzate di sangue. Celestina si disse che non doveva allarmarsi per il sangue. Il parto era un fatto piuttosto cruento. In questo, probabilmente, non c'era nulla di anormale. Il neonato non si vedeva. In un angolo, un'infermiera dal fisico massiccio si stava occupando di qualcosa posato su un altro tavolo, il suo corpo impediva di vedere di che cosa si trattasse. Solo un fagotto di stoffa bianca. Forse il bambino. Celestina odiava quel bambino con una tale intensità che sentì un gusto amaro in fondo al palato. Anche se non era deforme, era comunque un mostro. La maledizione dello stupratore. Sano, ma sano a spese di Phimie. Nonostante la concentrazione e l'urgenza con cui l'equipe chirurgica si stava occupando della ragazza, un'infermiera si staccò dal gruppo e fece cenno a Celestina di avvicinarsi al tavolo operatorio.
Finalmente poté vedere Phimie: era viva, ma così diversa che Celestina ebbe la sensazione che la cassa toracica le si chiudesse come una morsa intorno al cuore impazzito. Il lato destro del viso della ragazza sembrava subire l'effetto della gravita più di quello sinistro. Flaccido e allo stesso tempo tirato. La palpebra sinistra abbassata. Quel lato della bocca era rivolto verso il basso in una smorfia di disapprovazione. Dagli angoli delle labbra colava un filo di saliva. Ruotava gli occhi con aria terrorizzata e non sembrava riuscire a focalizzare lo sguardo su nulla di preciso. «Emorragia cerebrale», spiegò un medico, forse il dottor Lipscomb. Per riuscire a restare in piedi, Celestina dovette aggrapparsi con una mano al tavolo operatorio. Le voci si erano fatte dolorosamente crude e l'odore degli antisettici e del sangue impregnava l'aria, tanto che anche respirare costava fatica. Phimie voltò la testa e i suoi occhi smisero di ruotare furiosamente. Incrociò lo sguardo di sua sorella e, per la prima volta, sembrò rendersi conto di dov'era. Tentò di sollevare la destra, ma la mano crollò incapace di rispondere ai comandi, allora allungò la sinistra verso Celestina, che gliela strinse con forza. Phimie disse qualcosa, ma le parole le uscivano di bocca confuse, sconnesse. Contorse il viso inondato di sudore in quella che poteva essere una smorfia di frustrazione, chiuse gli occhi e tentò di nuovo, riuscendo a pronunciare un'unica parola, ma abbastanza intelligibile: «Bambin». «È stata colpita da afasia solo espressiva», spiegò il dottore. «Non riesce a dire molto, ma capisce perfettamente.» Tenendo il neonato tra le braccia, la massiccia infermiera si avvicinò al tavolo operatorio, fermandosi proprio accanto a Celestina, che quasi indietreggiò per il disgusto. La donna teneva l'esserino in modo tale che la madre potesse guardarlo in faccia. Phimie lanciò una breve occhiata verso quel fagotto, poi cercò di nuovo gli occhi di sua sorella. Un'altra parola, confusa ma resa intelligibile da un grande sforzo: «Angel». Quel neonato non era un angelo. A meno che non fosse l'angelo della morte. Era tutto a posto, certo, aveva mani e piedi minuscoli, non artigli e zoccoli fessi. Non era un demone. Nel suo piccolo viso non si rifletteva la malvagità del padre. Tuttavia, Celestina non voleva avere nulla a che fare con lui, la sua sola
vista la offendeva e non riusciva a comprendere perché Phimie insisteva nel definirlo un angelo. «Angel», ripeté faticosamente Phimie, cercando gli occhi di sua sorella per vedere se era stata compresa. «Non ti affaticare, tesoro.» «Angel», ripeté Phimie in tono d'urgenza, poi, con uno sforzo che le fece gonfiare una vena sulla tempia sinistra: «Nome». «Vuoi chiamarlo Angel?» La ragazzina cercò di dire sì, ma tutto quello che le uscì fu un «Sc, sc», allora annuì come poté e strinse la presa sulla mano di Celestina. Forse era stata colpita da afasia solo espressiva, ma doveva essere anche piuttosto confusa. Suo figlio sarebbe stato dato in adozione, quindi non toccava a lei sceglierne il nome. «Angel», ripeté ancora una volta quasi in tono disperato. Angel. Un sinonimo meno stravagante del suo stesso nome, Seraphim. L'angelo degli angeli. «Va bene», la rassicurò Celestina, «sì, naturalmente.» Non vedeva che male potesse fare nel tranquillizzare Phimie. «Angel. Angel White. Adesso calmati, rilassati, non ti sforzare.» «Angel.» «Sì.» Mentre la grossa infermiera si allontanava con il neonato, la stretta di Phimie sulla mano di sua sorella si allentò, poi riprese forza, mentre anche il suo sguardo si faceva più intenso. «Voglio... bene.» «Anch'io ti voglio bene, tesoro», disse Celestina con voce tremante. «Tanto.» Gli occhi di Phimie si spalancarono, la mano si strinse dolorosamente su quella della sorella, tutto il suo corpo fu scosso dalle convulsioni e lei gridò: «Unnn, unnn, unnn!» La stretta della mano si allentò completamente, il corpo si afflosciò e gli occhi non erano più focalizzati su qualcosa, né ruotavano furiosamente; dopo un ultimo luccichio, rimasero immobili, oscurati dalla morte, mentre il monitor cardiaco cantò un'unica, lunga nota che significava linea piatta. Celestina venne allontanata, mentre l'equipe chirurgica iniziava le procedure di rianimazione. Stordita, prese a indietreggiare fino a quando non si ritrovò con le spalle contro una parete. Nella California meridionale, mentre l'alba di quel giorno così straordi-
nario si avvicina sempre più, Agnes Lampion sta ancora sognando il suo bambino: Bartholomew in un'incubatrice, assistito da una serie di piccoli angeli dalle ali bianche che svolazzano sopra di lui, serafini e cherubini. Nell'Oregon, accanto al letto di Junior Cain, mentre fa rotolare una moneta da un quarto di dollaro da una nocca all'altra della mano sinistra, Thomas Vanadium interroga il suo uomo sul nome che ha pronunciato nel sonno. A San Francisco, Seraphim Aethionema White giace sul tavolo operatorio, senza più alcuna speranza di essere rianimata. È così bella e ha soltanto sedici anni. Con una tenerezza che sorprende e commuove Celestina, l'alta infermiera chiude gli occhi della ragazza morta. Poi prende un lenzuolo pulito e lo distende sul corpo, cominciando dai piedi e coprendo per ultimo l'amato viso. Adesso il mondo, che per un attimo si era fermato, ricomincia a girare... Abbassando la mascherina, il dottor Lipscomb si avvicinò a Celestina che se ne stava ancora con la schiena premuta contro la parete. Il suo viso gentile era lungo e stretto, come se avesse preso quella forma gravato dal peso delle sue responsabilità. Tuttavia, in altre circostanze, la bocca generosa avrebbe potuto aprirsi in un sorriso affascinante, e negli occhi verdi si leggeva la compassione di qualcuno che aveva sofferto in prima persona il dolore di una grande perdita. «Mi dispiace davvero, signorina White.» Celestina sbatté le palpebre e annuì, ma non riuscì a parlare. «Avrà bisogno di tempo per... accettare tutto questo», proseguì lui. «Magari vuole chiamare i suoi genitori...» Sua madre e suo padre vivevano ancora in un mondo dove Phimie era viva. Portarli da quella vecchia realtà a questa nuova situazione sarebbe stata la seconda cosa più difficile che Celestina avrebbe mai fatto. La prima era stata trovarsi in quella stanza nell'esatto momento in cui Phimie era morta. Celestina era certa che quello sarebbe stato l'evento peggiore di tutta la sua vita, anche più della sua morte, quando fosse arrivata. «E, naturalmente, dovrà prendere accordi per il trasporto del corpo», soggiunse il dottor Lipscomb. «Sorella Josephina le metterà a disposizione una stanza con un telefono, tutto ciò di cui avrà bisogno e per tutto il tempo che le sarà necessario.» Celestina riusciva ad ascoltarlo solo in parte. Era intontita. Si sentiva
come se l'avessero parzialmente anestetizzata. Guardava oltre il medico, senza fissare nulla in particolare, e la voce dell'uomo sembrava che le arrivasse attraverso numerosi strati di mascherine chirurgiche, anche se non ne indossava nessuna. «Ma prima che lei lasci il St. Mary's», proseguì il medico, «avrei bisogno che mi dedicasse alcuni minuti del suo tempo. È molto importante per me. Personalmente.» Un po' alla volta, Celestina si rese conto che il dottor Lipscomb era più agitato di quanto avrebbe dovuto, considerando il fatto che la paziente era morta senza che lui ne avesse alcuna colpa. Quando lei lo fissò nuovamente negli occhi, il medico concluse: «L'aspetterò. Quando sarà pronta per ascoltarmi. Non importa il tempo che ci vorrà. Ma qualcosa... qualcosa di straordinario è successo qui, prima del suo arrivo». Celestina fu sul punto di rifiutare, di spiegargli che non era affatto interessata ad alcun fenomeno medico o fisiologico a cui lui aveva assistito. L'unico miracolo che importava davvero, la sopravvivenza di Phimie, non si era verificato. Tuttavia, considerando la gentilezza di quell'uomo, non poté non accogliere la sua richiesta. Annuì. Il neonato non era più nella sala operatoria. Celestina non si era accorta di quando l'avevano portato via. Avrebbe voluto vederlo ancora una volta, anche se la vista di quell'esserino la disgustava. Evidentemente, sul suo volto si leggeva lo sforzo di ricordare che aspetto aveva il bambino, perché il medico domandò: «Sì? C'è qualcosa che non va?» «Il bambino...» «La bambina è stata portata nell'unità neonatale.» La bambina. Fino a quel momento, Celestina non si era affatto preoccupata di domandare quale fosse il sesso del neonato, perché, per lei, era sempre stata più una cosa che una persona. «Signorina White, vuole che le mostri la strada?» domandò il dottor Lipscomb. Celestina scrollò la testa. «No. Grazie, no. Unità neonatale. La troverò.» Quella bambina, quella conseguenza dello stupro, per Celestina non era tanto una neonata quanto un cancro, un tumore maligno che era stato tolto, non una vita appena cominciata. Non aveva provato alcun desiderio di e-
saminare la neonata più di quanto non sarebbe stata affascinata all'idea di osservare attentamente i lucidi nodi e le umidi convulsioni di un tumore appena estratto. Di conseguenza, non riusciva a ricordare nulla del suo viso grinzoso. Un particolare, soltanto uno, la ossessionava. Non poteva fidarsi della sua memoria, sconvolta com'era stata durante i minuti trascorsi accanto a Phimie. Forse non aveva visto realmente ciò che pensava di aver visto. Un particolare. Soltanto uno. Tuttavia era qualcosa di cruciale, era un particolare di cui doveva assolutamente avere conferma prima di lasciare l'ospedale, anche se questo avrebbe significato dover guardare ancora una volta quella bambina, quel frutto della violenza, quell'assassina di sua sorella. 19 Così come nelle fattorie, anche negli ospedali la colazione viene servita subito dopo l'alba, perché sia guarire che coltivare sono attività estenuanti e ci vogliono molti giorni di fatica per salvare la specie umana che trascorre tanto tempo a procurarsi il dolore e la fame quanto a cercare di sfuggirvi. Due uova à la coque, una fetta di pane non tostato né imburrato, un bicchiere di succo di mela e un dessert di gelatina all'arancia fu quanto venne servito ad Agnes Lampion all'ora in cui, nelle fattorie all'interno della costa, i galli ancora cantavano e le grasse galline chiocciavano soddisfatte sulle uova appena deposte. Sebbene avesse dormito profondamente e i medici fossero riusciti a fermarle l'emorragia, Agnes era troppo debole per mangiare da sola. Per lei, anche un semplice cucchiaio era pesante e difficile da maneggiare come una vanga. In ogni caso, non aveva appetito. Il pensiero di Joey non l'abbandonava mai. La nascita di un bambino sano era una benedizione, ma non poteva compensare la sua perdita. Sebbene, per natura, non fosse portata alla depressione, in quel momento il suo cuore era avvolto da una cappa di oscurità che non si sarebbe dissipata per molto, molto tempo. Se fosse stata un'infermiera a insistere perché mangiasse, Agnes non si sarebbe lasciata convincere, ma nulla poteva fare contro l'ostinazione di una certa rammendatrice.
Maria Elena Gonzalez - una figura così imponente, nonostante il suo fisico minuto, che nemmeno tre nomi sembravano sufficienti a definirla era ancora accanto a lei. Sebbene il momento di crisi fosse stato superato, la donna non era ancora convinta che le infermiere e i medici da soli fossero in grado di assistere Agnes in modo adeguato. Seduta sul bordo del letto, Maria cosparse leggermente di sale le uova e prese a imboccare Agnes con un cucchiaio. «Uova è come galline fa.» «Le uova sono come le fanno le galline», la corresse Agnes. «Qué?» Corrugando la fronte, Agnes disse: «No, non ha alcun senso, vero? Che cosa stavi cercando di dirmi, mia cara?» «Questa donna è che mi chiede di galline...» «Quale donna?» «No importa. Donna stupida che ride di mio inglese, cerca di confondere me. Lei chiede se gallina è prima o prima è uovo.» «Chi viene prima, l'uovo o la gallina?» «Sì! Così lei dice.» «Non ti stava prendendo in giro per il tuo inglese. È solo un vecchio indovinello.» Dato che Maria non capiva la parola, Agnes gliela spiegò. «Nessuno può rispondere, sia che conosca bene la lingua o no. È questo il punto.» «Punto essere domandare senza può avere risposta? Che senso fa questo?» Il suo volto assunse un'espressione preoccupata. «Tu ancora non bene, signora Lampion, tua testa non pulita.» «Chiara.» «Io rispondo indovinello.» «E qual è la tua risposta?» «Prima gallina venire con primo uovo già dentro.» Agnes ingoiò una cucchiaiata di gelatina e sorrise. «Be', tutto sommato è abbastanza semplice.» «Tutto essere.» «Essere che cosa?» domandò Agnes mentre finiva di bere il succo di mela attraverso una cannuccia. «Semplice. Gente fa cose essere complicate quando no. Tutto mondo semplice come cucire.» «Cucire?» Agnes si domandò se, davvero, la sua testa non fosse ancora pulita.
«Filo, ago. Cuci, cuci, cuci», spiegò Maria, mentre spostava il vassoio di Agnes. «Lega ultimo punto. Semplice. Solo decidere è colore di filo e tipo di punto. Poi cuci, cuci, cuci.» Nel bel mezzo di questa conversazione sulla cucitura, entrò un'infermiera con la notizia che il piccolo Lampion era fuori pericolo ed era stato tolto dall'incubatrice e, con la semplicità di uno squillo che segue la pressione su un campanello, apparve una seconda infermiera che spingeva un lettino con le ruote. La prima infermiera sorrise beata mentre prendeva dal lettino un fagotto rosa avvolto in una semplice copertina bianca. Se poco prima era stata troppo debole anche solo per sollevare un cucchiaio, adesso Agnes si sentiva forte come Ercole, in grado di trattenere due tiri di cavalli lanciati in direzioni opposte, figuriamoci prendere in braccio un neonato. «Ha degli occhi così belli», commentò l'infermiera, posando il bambino tra le braccia della madre. Il piccolo era effettivamente molto bello, con il viso più liscio di quello della maggior parte dei neonati, come se fosse nato con un senso di pace nei confronti della vita che lo attendeva in quel mondo turbolento; e forse era nato anche con un'insolita saggezza, perché i suoi lineamenti erano meglio definiti rispetto a quelli degli altri bambini, come se fossero già stati modellati dalla conoscenza e dall'esperienza. Aveva una folta capigliatura castano chiara, come quella di Joey. Come Maria aveva detto ad Agnes nel cuore della notte e come l'infermiera aveva appena confermato, i suoi occhi erano di una bellezza straordinaria. Al contrario della maggior parte degli esseri umani, che hanno gli occhi di un unico colore con striature più scure, gli occhi di Bartholomew erano di due colori diversi - uno verde come quelli della madre, uno azzurro come quelli del padre - e in ogni occhio le striature erano un'alternanza di questi colori. Veri gioielli, stupendi, luminosi. Gli occhi di Bartholomew lasciavano incantati e, mentre Agnes contraccambiava quello sguardo pieno di calore, si sentì colmare dalla meraviglia. E da un senso di mistero. «Il mio piccolo Barty», mormorò usando istintivamente un affettuoso diminutivo. «Penso che avrai una vita eccezionale. Sì, ne sono certa Barty. Le madri lo sanno. Tante cose hanno cercato di impedirti di venire al mondo, ma tu ce l'hai fatta lo stesso. Sei arrivato per uno scopo ben preciso.» Durante la notte la pioggia, che aveva contribuito a far morire il padre
del bambino, era cessata. Il cielo del mattino era ancora scuro, color ferro, coperto da nuvole irregolari, sembrava un gigantesco serrapollici stretto sul mondo, ma fino a quando Agnes non aveva parlato, il cielo era rimasto silenzioso come un blocco di ferro che nessuno aveva colpito. Ma quasi che la parola scopo fosse un martello, il cielo fu immediatamente attraversato da un fragore di tuoni, preceduto da una furiosa scarica di lampi. Il bambino spostò lo sguardo dalla madre alla finestra, ma non corrugò la fronte per la paura. «Non ti preoccupare per questi brutti tuoni, Barty», lo rassicurò Agnes. «Tra le mie braccia sarai sempre al sicuro.» Come poco prima la parola scopo, anche al sicuro sembrò incendiare il cielo e da quella volta cupa partì uno scoppio terrificante, che non solo fece tremare le finestre, ma anche tutto l'edificio. Nella California meridionale i tuoni sono rari e i fulmini lo sono ancora di più. In quella regione, i temporali sono di tipo semitropicale, scrosci di pioggia senza fuochi d'artificio. La violenza della seconda scarica di tuoni aveva strappato un grido di sorpresa e di allarme alle due infermiere e a Maria. Agnes si sentì attraversare da un brivido di superstizioso terrore e strinse il bambino più forte contro il suo petto mentre ripeteva: «Al sicuro». Al suono di quella parola, quasi fosse stata la bacchetta di un direttore che dava l'attacco all'orchestra, il temporale si scatenò con lampi e tuoni ancor più intensi di prima. Il vetro della finestra tremava come la pelle di un tamburo, mentre i piatti sul vassoio sbattevano l'uno contro l'altro con un tintinnio da xilofono. La finestra divenne opaca per i riflessi dei lampi, biancastra come un occhio coperto da una cataratta, e Maria si fece il segno della croce. Incapace di liberarsi dalla folle idea che quei fenomeni meteorologici rappresentassero una minaccia diretta proprio al suo bambino, Agnes rispondeva ostinatamente alla sfida con le parole: «Al sicuro». L'esplosione più spaventosa fu anche l'ultima, di una luminosità nucleare che sembrò trasformare il vetro della finestra in una lastra arroventata e di un fragore così apocalittico che vibrò fino nelle otturazioni dei denti di Agnes e nelle sue ossa: se fossero state svuotate del loro midollo, avrebbero cominciato a suonare come flauti. Le luci dell'ospedale presero a tremolare e l'aria era così carica di ozono che, quando Agnes la inspirò, sembrò crepitare contro i bordi delle sue na-
rici. Poi i fuochi d'artificio si conclusero e le luci non si spensero. Nessuno si era fatto male. La cosa più strana fu la totale mancanza di pioggia. A un simile tumulto si accompagnano sempre scrosci torrenziali, ma nemmeno una goccia aveva colpito il vetro della finestra. Al contrario, su quella mattina scese una strana immobilità, un silenzio così profondo che tutti si scambiarono sguardi e, con i capelli che si drizzavano sulla nuca, sollevarono gli occhi al soffitto in attesa di un evento che non riuscivano a immaginare. Non accade mai che i lampi, invece di fungere da artiglieria avanzata, mettano in fuga un temporale, ma subito dopo quella furiosa dimostrazione di forza, i cupi nuvoloni cominciarono a spezzarsi come merlature colpite da cannonate, lasciando intravedere un'azzurra pace. Durante il temporale, Barty non si era messo a piangere né aveva mostrato alcun segno di paura e ora, tornando a fissare la madre, le regalò il suo primo sorriso. 20 Quando, all'alba, Junior Cain riuscì a trattenere nello stomaco un bicchiere di succo di mela freddo, gli fu consentito di berne un secondo, pur con la raccomandazione di sorseggiarlo lentamente. Gli furono anche serviti tre salatini. Lui avrebbe potuto mangiare una mucca intera, con tanto di zoccoli e coda. Sebbene fosse ancora debole, non correva più il rischio di vomitare sangue e bile come una balena arpionata. Il peggio era passato. L'aver ucciso sua moglie gli aveva provocato, come immediata conseguenza, un violento emetismo nervoso, ma la reazione successiva era stata una fame da lupo e una joie de vivre così intensa che doveva soffocare l'istinto di mettersi a cantare. Junior aveva una gran voglia di festeggiare. Naturalmente i festeggiamenti lo avrebbero condotto dritto in prigione e, forse, sulla sedia elettrica. Con Vanadium, quel poliziotto folle, che probabilmente si nascondeva sotto il letto o si travestiva da infermiere per coglierlo di sorpresa, Junior doveva ristabilirsi a una velocità che il suo medico non avrebbe dovuto considerare miracolosa. Il dottor Parkhurst pensava di dimetterlo soltanto la mattina successiva. Dato che non era più inchiodato al letto dalla flebo e avendo sostituito il camice aperto sulla schiena con un pigiama e una vestaglia di cotone leg-
gero, Junior venne incoraggiato a fare un po' di movimento. Si aspettavano che avesse qualche giramento di capo, ma lui non ebbe alcun problema di equilibrio e, nonostante si sentisse un po' fiacco, non era debole come i medici avevano pensato. Avrebbe potuto fare il giro di tutto l'ospedale senza alcun problema, ma volendo aderire alle loro aspettative, accettò di usare un deambulatore con le ruote. Di tanto in tanto, si fermava e si appoggiava contro il deambulatore come se avesse bisogno di riposo. Stava anche attento a fare qualche smorfia - niente di esagerato - e di ansimare per la fatica. Più di una volta, un'infermiera di passaggio si era fermata a controllare le sue condizioni e a suggerirgli di non affaticarsi troppo. Fino a quel momento, nessuna di quelle compassionevoli donne era stata all'altezza di Victoria Bressler, l'infermiera che lo aveva imboccato con pezzetti di ghiaccio e che era pazzamente attratta da lui. Tuttavia Junior continuò a guardarsi intorno speranzoso. Sebbene si sentisse moralmente obbligato a concedere la priorità a Victoria, non le aveva certo promesso la monogamia. Alla fine, quando fosse stato completamente libero da ogni sospetto, come si era liberato di Naomi, non avrebbe desiderato altro che di lanciarsi su una tavola imbandita, romanticamente parlando, e un unico dolcetto non gli sarebbe certo bastato. Visto che non c'era alcun motivo perché dovesse limitarsi a esaminare il personale femminile del piano in cui era ricoverato, Junior si servì degli ascensori per visitare anche i piani superiori e inferiori. Studiando e valutando ogni donna che incontrava. Alla fine, si trovò da solo davanti all'ampia vetrata dell'unità neonatale. Nei lettini vi erano sette neonati. Ai piedi di ciascun lettino, una targhetta con il nome del bambino. Junior rimase fermo davanti alla vetrata per molto tempo, non perché fingesse di riposarsi e nemmeno perché le infermiere dall'altra parte del vetro fossero particolarmente attraenti. Era rimasto pietrificato ma, per qualche minuto, non riuscì a capire perché. Non provava alcuna invidia per quei genitori. Un neonato era l'ultima cosa che potesse mai desiderare, a parte un cancro. I bambini erano odiose bestioline. Per lui un figlio sarebbe stato un ostacolo, un peso, non una benedizione. Tuttavia una curiosa attrazione per quei neonati lo teneva inchiodato davanti alla vetrata e Junior cominciò a credere che, inconsciamente, avesse
voluto arrivare lì fin dal momento in cui aveva lasciato la sua stanza appoggiandosi al deambulatore. Era stato costretto a venire in quel posto. Attratto da un misterioso magnetismo. Era arrivato davanti a quella vetrata pieno di buonumore. Tuttavia, mentre osservava la scena, cominciò a sentirsi sempre più a disagio. Neonati. Soltanto neonati, del tutto inoffensivi. Ma per quanto innocui fossero, fasciati e per lo più nascosti, la loro vista prima lo turbò e poi lo condusse rapidamente - in modo inesplicabile, irrazionale, innegabile - sull'orlo di una crisi di terrore. Aveva già notato tutti e sette i nomi scritti sui lettini, ma li lesse di nuovo. Aveva la sensazione che nei loro nomi, o in uno di essi, vi fosse la spiegazione di quella che poteva apparire come una folle percezione di una minaccia incombente. Mentre il suo sguardo percorreva le sette targhe, nome per nome, Junior sentì dentro di sé un tale vuoto che ebbe bisogno di sorreggersi al deambulatore come in precedenza aveva soltanto finto di dover fare. Aveva la sensazione di essere diventato soltanto l'involucro di un uomo e che una determinata nota avrebbe potuto mandarlo in frantumi come una tonalità particolarmente acuta può mandare in frantumi il cristallo. Non era una sensazione nuova. L'aveva già provata. La notte precedente, quando si era svegliato da un sogno che non ricordava e aveva visto quella lucente monetina danzare sulle nocche di Vanadium. No. Non proprio in quel momento. Non quando aveva visto la moneta o il detective. Si era sentito così quando Vanadium aveva menzionato il nome che lui, Junior, doveva aver pronunciato durante l'incubo. Bartholomew. Junior rabbrividì. Vanadium non si era inventato il nome. Vi era in esso una reale, anche se inesplicabile, risonanza, che non aveva nulla a che fare con il detective. Bartholomew. Come prima, il nome risonò dentro di lui simile alla nota minacciosa di un basso rintocco di campana nel cuore della notte. Bartholomew. Nessuno di quei bambini si chiamava Bartholomew e Junior si sforzò di comprendere quale nesso vi fosse tra quel luogo e il sogno che non riusciva a ricordare. La natura dell'incubo continuava a sfuggirgli, ma si convinse che la sua
paura aveva un motivo, che il sogno era stato qualcosa di più di un semplice sogno. La sua nemesi, di nome Bartholomew, non esisteva solo negli incubi, ma anche nel mondo reale e questo Bartholomew aveva qualcosa a che fare con... i neonati. Un'ispirazione più profonda dell'istinto gli diede la certezza che, se mai avesse incontrato sulla sua strada un uomo di nome Bartholomew, doveva essere pronto ad affrontarlo con ia stessa aggressività che aveva usato con Naomi. E senza perdere tempo. Tremando e sudando, voltò la schiena alla vetrata. Mentre si allontanava dalla nursery, pensava che quella cappa di terrore che lo opprimeva si sarebbe alleggerita, ma al contrario divenne più pesante. Più di una volta, si scoprì a guardarsi indietro. Quando infine rientrò nella sua stanza, si sentiva distrutto dall'ansia. Aiutandolo a rimettersi a letto, un'infermiera lo rimproverò gentilmente, preoccupata per il suo pallore e per il tremito che lo scuoteva. Era una donna premurosa, efficiente, partecipe, ma non era assolutamente attraente e Junior avrebbe preferito essere lasciato in pace. Eppure, appena si ritrovò da solo, Junior sperò con tutto il cuore che la donna tornasse: si sentiva vulnerabile, in pericolo. In qualche posto, nel mondo, lui aveva un nemico mortale: Bartholomew, un individuo che aveva qualcosa a che fare con i neonati, un perfetto sconosciuto e tuttavia un avversario implacabile. Se non fosse sempre stato un tipo razionale, equilibrato, pratico, Junior avrebbe pensato che stava uscendo di senno. 21 Il sole sorse al di sopra delle nuvole, al di sopra della nebbia e, con la giornata grigia, arrivò anche un'argentea pioggerellina. La città fu trafitta da aghi di pioggia che trascinarono con loro tutta la sporcizia delle strade, riversando nelle fognature un fiume velenoso. Dato che le assistenti sociali del St. Mary's non cominciavano a lavorare all'alba, Celestina venne condotta in uno dei loro uffici, dove il volto bagnato della mattina premeva in modo indistinto contro le finestre e da cui telefonò ai suoi genitori comunicando la terribile notizia. Sempre da quell'ufficio, la ragazza prese accordi con un impresario di pompe funebri perché ritirasse il corpo di Phimie dalla morgue dell'ospedale, lo imbalsamasse e lo mandasse con un volo di linea ai genitori, nell'Oregon.
Suo padre e sua madre piansero amaramente, ma Celestina riuscì a mantenere il controllo. Aveva molte cose da fare, molte decisioni da prendere, prima di accompagnare il corpo della sorella all'aeroporto di San Francisco. Quando avesse portato a termine tutti questi impegni, avrebbe potuto finalmente sentire la perdita e il dolore, dai quali ora si difendeva indossando una corazza. Phimie meritava dignità in questo suo ultimo viaggio verso nord. Quando Celestina ebbe concluso tutte le telefonate, venne raggiunta dal dottor Lipscomb. Si era tolto il camice e indossava pantaloni di lana grigi e un maglione di cachemire azzurro sopra una camicia bianca. Con il suo sguardo malinconico, più che un ostetrico dedito a far nascere bambini, sembrava un professore di filosofia che meditava continuamente sull'inevitabilità della morte. Celestina fece il gesto di alzarsi dalla poltroncina dietro alla scrivania, ma lui le indicò di restare pure seduta. Si fermò accanto alla finestra, fissando la strada in basso, restando di profilo rispetto a Celestina e, nel suo silenzio, cercava le parole più adatte per descrivere quel «qualcosa di straordinario» di cui aveva parlato in precedenza. Gocce di pioggia scintillavano sul vetro e scivolavano lungo di esso. I riflessi di quelle gocce sembravano lacrime sul viso del medico. Quando alla fine parlò, nella sua voce si percepiva un dolore reale, tranquillo ma profondo: «Il 1° marzo di tre anni fa, mia moglie e i nostri due figli gemelli - Danny e Harry, di sette anni - stavano tornando da un viaggio a New York, dov'erano andati a trovare i miei suoceri. Poco dopo il decollo... il loro aereo è precipitato». Sentendosi tanto distrutta dalla morte di una persona cara, Celestina non riusciva proprio a immaginare come Lipscomb fosse riuscito a sopravvivere alla perdita di tutta la sua famiglia. Il suo cuore si colmò di pietà e un nodo alla gola le impedì quasi di parlare, se non con un sussurro: «È stato quel volo dell'American Airlines...» Il medico annuì. Era stato il primo giorno di sole dopo settimane di pioggia; misteriosamente, il 707 era precipitato nella Jamaica Bay, nel Queens, e non vi erano stati sopravvissuti. Ancora adesso, nel 1965, quello restava il peggior disastro nella storia dei voli di linea americani e, dato che la televisione se n'era occupata ampiamente, l'episodio si era impresso indelebilmente nella
memoria di Celestina, anche se, a quel tempo, lei viveva dall'altra parte del continente. «Signorina White», proseguì il medico, sempre rivolto verso la finestra, «non molto tempo prima che, questa mattina, lei arrivasse in chirurgia, sua sorella era morta sul tavolo operatorio. La bambina non era ancora nata e forse, anche con un taglio cesareo, non saremmo riusciti a farla nascere prima che si verificassero dei danni cerebrali; di conseguenza, per il bene sia della madre che della neonata, ci siamo impegnati al massimo per rianimare Phimie, in modo che il suo sangue continuasse ad arrivare al feto fino a quando non lo avessimo estratto.» Quell'improvviso cambio nell'argomento della conversazione, dall'incidente aereo a Phimie, lasciò Celestina alquanto confusa. Lipscomb sollevò lo sguardo dalla strada su cui scendeva la pioggia. «Phimie aveva smesso di respirare da poco, forse un minuto, al massimo un minuto e dieci secondi, e quando siamo riusciti a rianimarla, dalle sue condizioni è stato subito chiaro che l'arresto cardiaco era stato, con tutta probabilità, causato da un importante danno cerebrale. Appariva disorientata, la parte destra del corpo era paralizzata... con la deformazione dei muscoli facciali che lei ha visto. Inizialmente parlava in modo confuso, ma poi è accaduto qualcosa di strano...» Anche in seguito, subito dopo la nascita della bambina, Phimie aveva parlato in modo confuso, facendo uno sforzo enorme per farle comprendere che desiderava chiamare la figlia Angel. Nella voce del dottor Lipscomb c'era qualcosa di commovente, ma difficile da definire, che portò Celestina ad alzarsi lentamente dalla poltroncina e a restare in piedi. Forse era meraviglia. Oppure paura. O rispetto. O tutti e tre. «Per un momento», proseguì Lipscomb, «la sua voce si è fatta chiara, non parlava più in modo confuso. Ha alzato la testa dal cuscino e si è messa a fissarmi. Era così... intensa. Ha detto... ha detto: 'Rowena ti ama'.» Un brivido percorse la spina dorsale di Celestina, perché sapeva già quello che il medico stava per rivelarle. «Rowena», spiegò lui, confermando ciò che Celestina aveva intuito, «era mia moglie.» Come se, per un attimo, si fosse aperta una porta tra quella giornata senza vento e un altro mondo, un'unica folata mandò la pioggia a sbattere contro le finestre. Lipscomb si voltò verso Celestina. «Prima di ricadere nel suo stato se-
miconfusionale, sua sorella ha soggiunto: 'Beezil e Feezil sono al sicuro con lei', e queste potrebbero sembrare parole senza senso, ma non per me.» Celestina rimase in attesa della spiegazione. «Quand'erano piccoli, Rowena chiamava i bambini in quel modo. Erano nomignoli inventati che usava solo in privato, perché diceva che loro erano due meravigliosi, piccoli elfi e che quindi dovevano avere nomi di elfi.» «Phimie non poteva saperlo.» «No. Quando i gemelli hanno compiuto un anno, Rowena ha smesso di usare quei nomignoli. Lei e io siamo stati gli unici a chiamarli così. Era un piccolo scherzo tra di noi. Nemmeno i bambini potevano ricordarselo.» Negli occhi del medico, un intenso desiderio di credere; nel suo volto, una smorfia di scetticismo. Era un uomo di medicina e di scienza, si era sempre affidato alla logica e alla sua incrollabile fiducia nella ragione. Non era pronto ad accettare tranquillamente l'idea che la logica e la ragione, strumenti essenziali per chiunque voglia vivere una vita piena e felice, siano in realtà insufficienti a descrivere e il mondo fisico e l'esperienza umana. Celestina era più preparata ad accettare questa esperienza trascendentale per quello che appariva. Non era un'artista che inneggiava al caos e al disordine, o che trovava ispirazione nel pessimismo o nella disperazione. Ovunque si posassero i suoi occhi, lei vedeva ordine, uno scopo ben preciso, un meraviglioso progetto e la pallida scintilla o l'intensa luce di una bellezza che rendeva umili. Percepiva il mistero non soltanto nelle vecchie case dove si diceva che vagassero i fantasmi o nelle straordinarie esperienze come quelle descritte da Lipscomb, ma ogni giorno, nell'architettura dei rami di un albero, nell'entusiasmo di un cane che giocava con una palla da tennis, nel bianco turbinio di una tempesta di neve... in ogni aspetto del mondo naturale in cui il mistero insolubile era una componente fondamentale come la luce e il buio, la materia e l'energia, il tempo e lo spazio. «Sua sorella ha mai avuto altre... strane esperienze?» domandò Lipscomb. «Nulla di simile a questo.» «Ed era fortunata al gioco?» «Non più di me.» «Premonizioni?» «No.» «Capacità psichiche...» «Nessuna.»
«...che un giorno potrebbero essere scientificamente verificabili.» «Al contrario della vita oltre la morte?» domandò lei. La speranza, con molte ali, volteggiava intorno al medico, ma lui aveva paura di permetterle di posarsi. «Phimie non sapeva leggere nel pensiero», soggiunse Celestina. «Questa, dottor Lipscomb, è fantascienza.» Il medico la fissò negli occhi. Non sapeva che cosa dire. «Non ha infilato la mano nei suoi pensieri e ne ha estratto il nome Rowena. O Beezil e Feezil.» Come se fosse terrorizzato dalla tranquilla certezza che leggeva negli occhi di Celestina, il dottore distolse lo sguardo e si voltò nuovamente verso la finestra. Lei gli si avvicinò. «Per un minuto, dopo che il cuore si è fermato per la prima volta, mia sorella non era più qui al St. Mary's, non è vero? Il suo corpo sì, era ancora qui, ma non Phimie.» Il dottor Lipscomb si portò le mani al viso, coprendosi il naso e la bocca, così come prima aveva fatto con la mascherina chirurgica, quasi temendo di respirare, insieme con l'aria, anche un'idea che lo avrebbe cambiato per sempre. «Se Phimie non era qui», proseguì Celestina, «e poi è tornata indietro, durante quel minuto è stata da qualche parte, giusto?» Al di là della finestra, al di là delle cortine di pioggia e nebbia, la metropoli appariva più enigmatica di Stonehenge, sconosciuta come le città che vediamo in sogno. Da dietro le mani, il medico si lasciò sfuggire un gemito sottile, come se stesse cercando di estrarre dal proprio cuore un tormento che si era incastrato come un riccio dagli innumerevoli aculei. Celestina esitò, sentendosi goffa, insicura. Come sempre le accadeva nei momenti di insicurezza, si domandò come avrebbe agito sua madre in quella situazione. Grace, una donna dalla grazia infinita, faceva sempre la cosa più giusta, sapeva sempre quali parole avrebbero consolato, illuminato, strappato un sorriso anche alla persona più infelice. Spesso, tuttavia, ciò che andava fatto non aveva bisogno di parole, perché molte volte, nel nostro viaggio, ci sentiamo abbandonati e abbiamo bisogno, solo bisogno di non sentirci soli. Celestina posò la mano destra sulla spalla del medico. Al suo tocco, sentì la tensione abbandonare il dottor Lipscomb. Le mani gli scivolarono dal viso e lui si voltò verso di lei, tremando non di paura
ma di quello che poteva essere sollievo. Cercò di parlare, ma quando non vi riuscì, Celestina lo cinse con le braccia. Lei non aveva nemmeno ventun anni e il medico doveva avere il doppio della sua età, ma si appoggiò a Celestina come un bambino piccolo e, come una madre, lei lo confortò. 22 In eleganti abiti scuri, ben rasati, lustri come le loro scarpe, ognuno con una valigetta in mano, i tre entrarono nella camera d'ospedale di Junior prima ancora del normale inizio di una giornata lavorativa, re magi senza cammelli, senza doni, ma desiderosi di pagare un prezzo per il dolore e la perdita. Due erano avvocati e il terzo un incaricato politico di alto livello, rappresentavano lo stato, la contea e la compagnia di assicurazioni per la cattiva manutenzione del parapetto che circondava la piattaforma d'osservazione della torre. Non avrebbero potuto avere un atteggiamento più solenne e più rispettoso se il cadavere di Naomi - debitamente ricucito e riempito di sostanze per l'imbalsamazione, adeguatamente truccato, vestito di bianco e con le mani fredde che tenevano stretta al petto una Bibbia - fosse stato esposto in una bara in quella stessa stanza, circondato da fiori, in attesa di parenti e amici. Erano educati, parlavano a voce bassa, avevano un'espressione triste, trasudavano sollecitudine da tutti i pori e i loro cervelli erano così febbrilmente impegnati a fare calcoli che Junior non sarebbe rimasto sorpreso se fossero riusciti a far scattare gli spruzzatori antincendio montati sul soffitto. Si presentarono come Knacker, Hisscus e Nork, ma Junior non si prese nemmeno la briga di associare i nomi ai volti, in parte anche perché quegli uomini erano così simili nell'aspetto e nei modi che le loro stesse madri avrebbero avuto qualche difficoltà a capire con chi dovevano prendersela per il fatto che non telefonavano mai. Inoltre, era ancora stanco per la recente passeggiata attraverso i vari reparti dell'ospedale e scosso al pensiero che un sinistro individuo di nome Bartholomew se ne andasse in giro per il mondo cercando di lui. Dopo aver offerto le loro untuose condoglianze, dopo averlo riempito di chiacchiere sul fatto che ora Naomi si trovava in un luogo migliore e di false rassicurazioni sul desiderio del governo di garantire a tutti la massi-
ma sicurezza e di trattare ogni cittadino con la dovuta considerazione, Knacker, o Hiss cus oppure Nork, arrivarono finalmente alla questione del risarcimento. Naturalmente, non venne usata una parola rozza come risarcimento. Soddisfazione. Ricompensa. Scuse riparatrici, parole che dovevano aver appreso alla facoltà di legge, dove l'inglese era considerato una seconda lingua. Perfino ammenda. Junior li lasciò un po' sulle spine fingendo di non comprendere le loro intenzioni, mentre loro giravano intorno all'argomento come incantatori di serpenti apprendisti che cercavano con la massima circospezione il punto migliore per afferrare un cobra. Era sorpreso che fossero arrivati così presto, a meno di ventiquattro ore dalla tragedia. Davvero strano, considerato che un detective della squadra omicidi era ossessionato dall'idea che del legno marcio, da solo, non potesse essere responsabile della morte di Naomi. Junior ebbe addirittura il sospetto che si fossero presentati su suggerimento di Vanadium. Di sicuro, il poliziotto doveva essere interessato a sapere quanta avidità avrebbe dimostrato il maritino in lutto di fronte all'opportunità di trasformare il cadavere della moglie in denaro sonante. Knacker, o Hisscus oppure Nork, stava parlando di una offerta, come se Naomi fosse una divinità a cui, per penitenza, dovevano presentare oro e gioielli. Stanco di starli ad ascoltare, Junior finse di comprendere solo in quel momento dove volevano andare a parare. Non si mostrò indignato o disgustato, perché sapeva che avrebbe potuto involontariamente esagerare con le sue reazioni e far sorgere dei sospetti. Invece, con un tono di voce grave ma gentile, spiegò pacatamente che non desiderava alcun risarcimento per la morte della moglie, né per le sue sofferenze. «Il denaro non potrà mai sostituirla. Non riuscirei mai a spenderlo. Neanche un soldo. Dovrei darlo via. Che senso avrebbe?» Dopo un attimo di silenzio carico di sorpresa, Nork, o Knackers o Hisscus, disse: «Il suo sentimento è comprensibile, signor Cain, ma in queste situazioni è uso...» Junior non aveva più la gola irritata come il pomeriggio precedente e, a quegli uomini, il suo tono basso e roco doveva sembrare quello di un uomo dalla voce rotta per l'emozione. «Non m'importa delle consuetudini. Non voglio nulla. Non incolpo nessuno. Sono cose che capitano. Se avete con voi un documento liberatorio, ve lo firmo immediatamente.»
Hisscus, Nork e Knackers si scambiarono occhiate perplesse. Alla fine, uno di loro spiegò: «Non possiamo fare una cosa del genere, signor Cain. Non fino a quando lei non si sarà consultato con un avvocato». «Non voglio un avvocato.» Chiuse gli occhi, posò la testa sul cuscino e sospirò. «Voglio soltanto... pace.» Knackers, Hisscus e Nork, parlando tutti insieme, poi restando contemporaneamente in silenzio, come se fossero una cosa sola, poi mettendosi a parlare uno dopo l'altro, interrompendosi a vicenda, cercarono di proporre una serie di azioni da intraprendere. Senza dover fare alcuno sforzo per provocarle, dagli occhi chiusi di Junior cominciarono a sgorgare grosse lacrime. Ma non nascevano dal ricordo della povera Naomi. Il fatto era che nei prossimi giorni, forse addirittura nelle prossime settimane, fino a quando non fosse riuscito ad avere l'infermiera Victoria Bressler, lui si sarebbe annoiato a morte. Considerate le circostanze, aveva tutti i motivi per sentirsi dispiaciuto per se stesso. Quelle lacrime silenziose ottennero ciò che le parole non erano riuscite a fare: Nork, Knackers e Hisscus si ritirarono, suggerendogli di parlare con un avvocato, promettendo di ritornare, esprimendo ancora una volta le loro più profonde condoglianze, sconcertati quanto potevano esserlo degli avvocati e degli incaricati governativi, ma sicuramente confusi e incerti su come comportarsi quando si trovavano di fronte a un uomo così disinteressato, così privo di rabbia, così pronto a perdonare, come il vedovo Cain. Tutto stava procedendo esattamente come Junior aveva previsto nel momento in cui Naomi aveva scoperto il tratto di parapetto marcio ed era quasi caduta senza essere spinta. In un attimo, il piano gli si era presentato alla mente già completo e, durante i due successivi giri della piattaforma, lo aveva esaminato attentamente alla ricerca di eventuali pecche, ma senza trovarne alcuna. Finora, si erano verificati soltanto due fatti imprevisti, il primo dei quali era stata quella sua esplosione di vomito. Sperava di non dover mai più affrontare una cosa del genere. Tuttavia, quella specie di purificazione interna lo aveva fatto apparire emotivamente e fisicamente devastato dalla morte della moglie. Non avrebbe potuto escogitare uno stratagemma migliore per convincere la maggior parte delle persone della sua innocenza e della sua incapacità costituzionale di commettere un omicidio premeditato. Aveva scoperto molte cose su di sé nelle ultime diciotto ore, ma di tutte queste nuove qualità, quella di cui Junior andava più orgoglioso era il fatto
di essere una persona profondamente sensibile. Si trattava di un aspetto del suo carattere davvero ammirevole, ma era anche un utile schermo dietro al quale poteva nascondersi per commettere le azioni più infami richieste dalla nuova e pericolosa vita che si era scelto. L'altro sviluppo imprevedibile era stato l'arrivo di Vanadium, il poliziotto folle. La tenacia personificata. La tenacia con un pessimo taglio di capelli. Mentre le lacrime gli si asciugavano sulle guance, Junior decise che, con tutta probabilità, se voleva liberarsi di Vanadium e sentirsi totalmente al sicuro, la cosa migliore da fare era ucciderlo. Nessun problema. E nonostante la sua estrema sensibilità, era convinto che ammazzare il detective non gli avrebbe scatenato un'altra crisi di vomito. Al massimo, se la sarebbe fatta addosso dalla gioia. 23 Celestina tornò nella stanza 724 per ritirare dall'armadietto e dal comodino gli oggetti e gli indumenti di Phimie. Le tremavano le mani mentre cercava di piegare i vestiti di sua sorella per metterli nella valigetta. Quella che doveva essere un'operazione semplice si trasformò in una vera e propria impresa; la stoffa sembrava prendere vita tra le sue mani e scivolarle tra le dita, resisteva a ogni tentativo di lasciarsi piegare. Quando alla fine Celestina si rese conto che non aveva senso cercare di essere ordinata, gettò gli indumenti nella valigetta senza temere di sciuparli. Proprio mentre chiudeva la valigetta e si voltava per avviarsi verso la porta, entrò un'aiuto infermiera che spingeva un carrello carico di asciugamani e lenzuola. Era la stessa donna che, in precedenza, Celestina aveva visto disfare il secondo letto. Ora era tornata per rifare il primo. «Mi dispiace per sua sorella», disse. «Grazie.» «Era un tesoro.» Celestina annuì, incapace di rispondere a quella frase gentile. A volte la gentilezza può alleviare un dolore, ma anche renderlo insopportabile. «In che stanza è stata spostata la signora Lombardi?» domandò. «Vorrei... vorrei vederla prima di andarmene.» «Non lo sa? Mi dispiace, ma anche lei se ne è andata.»
«Andata?» ripeté Celestina, ma capì. Inconsciamente, da quando aveva ricevuto la telefonata alle quattro e quindici del mattino, sapeva già che Nella era morta. Dopo che la donna aveva comunicato il suo messaggio, il silenzio sulla linea era stato stranamente perfetto, niente elettricità statica, niente ronzii, un silenzio totalmente diverso da quello che Celestina aveva sentito fino a quel momento durante una telefonata. «È morta la scorsa notte», spiegò l'aiuto infermiera. «Sa esattamente quando? L'ora della morte?» «Qualche minuto dopo la mezzanotte.» «Ne è sicura? Dell'ora, voglio dire.» «Avevo appena cominciato il mio lavoro. Oggi faccio un turno più lungo. È morta senza svegliarsi dal coma.» Celestina risentì mentalmente, con la stessa chiarezza con cui aveva parlato quella mattina alle quattro e quindici, la flebile voce dell'anziana donna che l'avvertiva della crisi di Phimie: Vieni subito. Che cosa? Vieni subito. Presto. Chi parla? Nella Lombardi. Vieni subito. Tua sorella morirà presto. Se quella telefonata era stata fatta realmente dalla signora Lombardi, la donna doveva aver chiamato quattro ore dopo essere morta. E se la telefonata non era stata fatta da Nella Lombardi, chi si era spacciata per lei? E perché? Quando Celestina era giunta in ospedale, venti minuti dopo, sorella Josephina si era mostrata sorpresa: Non sapevo che fossero riusciti a mettersi in contatto con lei. L'hanno chiamata solo dieci minuti fa. La telefonata di Nella Lombardi era giunta prima che Phimie fosse stata colta da convulsioni eclamptiche e portata in fretta in sala operatoria. Tua sorella morirà presto. «Tutto bene?» domandò l'aiuto infermiera. Celestina annuì. Deglutì a fatica. Si era sentita colmare di amarezza quando Phimie era morta e di odio per la bambina sopravvissuta a spese della madre: sentimenti che sapeva non essere degni di lei, ma che non riusciva a scacciare. Questi due incredibili episodi - la storia del dottor Lipscomb e la telefonata di Nella - rappresentavano un antidoto all'odio, un balsamo per la rabbia, ma la lasciavano anche un po' stordita. «Sì. Grazie», rispose all'aiuto infermiera. «Mi riprenderò.»
Portandosi dietro la valigetta, uscì dalla stanza 724. Nel corridoio si fermò, guardò prima a sinistra e poi a destra, non sapeva dove andare. Nella Lombardi, quando ormai non era più in questo meraviglioso mondo, era forse riuscita a tornare indietro per far sì che le due sorelle si riunissero appena in tempo per dirsi addio? E Phimie, strappata temporaneamente alla morte dai tentativi di rianimazione dei chirurghi, aveva forse voluto contraccambiare la gentilezza di Nella con quello sbalorditivo messaggio al dottor Lipscomb? Fin dall'infanzia, Celestina era stata incoraggiata a credere che la vita avesse un significato e non aveva avuto dubbi neppure quando ne aveva parlato con il dottor Lipscomb, che invece aveva dovuto lottare per accettarla, nonostante la sua esperienza in sala operatoria. Tuttavia, stranamente, adesso era lei a non riuscire a metabolizzare questi due piccoli miracoli. Pur rendendosi conto che quegli eventi straordinarii avrebbero plasmato il resto della sua vita, a cominciare dalle azioni che avrebbe compiuto nelle ore immediatamente successive, non riusciva a vedere chiaramente che cosa doveva fare in quel momento. Al centro della sua confusione vi era il conflitto tra mente e cuore, tra ragione e fede, ma anche una lotta tra il desiderio e il dovere. Fino a quando non fosse stata in grado di riconciliare queste due forze opposte, sarebbe rimasta totalmente paralizzata dall'indecisione. Percorse il corridoio fino a quando non arrivò a una stanza dai letti vuoti. Senza accendere le luci, entrò, posò la valigetta e si sedette in una poltroncina accanto alla finestra. Anche se la mattina era ormai giunta al culmine, la nebbia e la pioggia lasciavano filtrare dalle finestre solo una debole luce grigia. Le stanze del St. Mary's erano quasi totalmente immerse nell'oscurità. Celestina rimase seduta a osservare le sue mani, così scure nella penombra. Alla fine, scoprì dentro se stessa tutta la luce di cui aveva bisogno per trovare la via attraverso le ore cruciali che l'attendevano. Finalmente sapeva che cosa doveva fare, ma non era certa di possedere la forza d'animo per farlo. Le sue mani erano affusolate, con dita lunghe, aggraziate. Le mani di un'artista. Non erano mani forti. Lei si considerava una persona creativa, capace ed efficiente, ma non pensava a se stessa come a una persona forte. Tuttavia avrebbe avuto biso-
gno di una grande forza per portare avanti ciò che l'attendeva. Era tempo di andare. Tempo di fare ciò che andava fatto. Non riusciva ad alzarsi dalla poltroncina. Fare ciò che va fatto. Era troppo spaventata per muoversi. 24 Nell'azzurra mattina che seguì il temporale, Edom e le torte avevano un programma da portare a termine e degli affamati da soddisfare. Stava guidando la sua Ford Country Squire del 1955, una station wagon gialla e bianca. Aveva comprato l'automobile con una parte degli ultimi soldi guadagnati quando era stato ancora in grado di mantenere un lavoro, prima del suo... problema. Un tempo era un automobilista eccellente. Ma negli ultimi dieci anni, la sua performance alla guida dipendeva dall'umore. A volte, non riusciva nemmeno a sopportare l'idea di salire in macchina e avventurarsi per quel mondo così pericoloso. Allora si sedeva in poltrona e stava ad aspettare il disastro naturale che ben presto l'avrebbe cancellato dalla terra come se lui non fosse mai esistito. Quella mattina, soltanto l'amore per sua sorella Agnes gli diede il coraggio di mettersi alla guida dell'auto e di fungere da uomo delle torte. Edom, di sei anni maggiore di Agnes, viveva in uno dei due appartamenti al di sopra dell'ampio garage, dietro la casa, da quando aveva venticinque anni e aveva abbandonato il mondo del lavoro. Adesso ne aveva trentasei. Il gemello di Edom, Jacob, che non aveva mai avuto un lavoro, viveva nel secondo appartamento. Era andato ad abitarci dopo aver terminato le scuole superiori. Agnes, che aveva ereditato la proprietà, sarebbe stata ben felice di accogliere i fratelli in casa. Ma sebbene entrambi fossero disposti, di tanto in tanto, ad andare a cena da lei o, nelle sere d'estate, a starsene seduti sulle sedie a dondolo della veranda, nessuno dei due poteva sopportare l'idea di vivere in quel luogo così sinistro. Troppe cose erano accadute in quelle stanze. Erano macchiate dalla storia della loro famiglia e, di notte, quando Edom o Jacob dormivano sotto il tetto a due spioventi, il passato tornava a rivivere nei loro sogni. Edom si stupiva della capacità di Agnes di lasciarsi alle spalle il passato
e di superare tanti anni di tormento. Riusciva a vedere quella casa semplicemente come un rifugio, mentre per i suoi fratelli era - e sarebbe sempre stato - il luogo in cui la loro personalità era stata annientata Se avessero avuto un lavoro, se avessero potuto scegliere, di certo si sarebbero rifiutati di vivere così vicino a quella casa. Era una delle tante cose di Agnes che lasciavano strabiliato Edom. Se avesse osato fare un elenco di tutte le qualità che ammirava in lei, avrebbe avuto una crisi di disperazione pensando a come era stata molto più brava di lui e di Jacob ad affrontare le avversità. Quando il giorno precedente, prima di avviarsi con Joey verso l'ospedale, Agnes gli aveva chiesto di consegnare le torte, Edom avrebbe voluto tirarsi indietro, tuttavia aveva accettato senza un attimo di esitazione. Era pronto a sopportare le cattiverie che la natura gli avesse eventualmente presentato nella vita, ma non poteva accettare di leggere la delusione negli occhi di sua sorella. Per la verità, Agnes aveva sempre lasciato intendere che i suoi fratelli rappresentavano solo una fonte di orgoglio per lei. Li trattava con rispetto, tenerezza e amore... come se non si accorgesse dei loro limiti. Li trattava anche nello stesso modo, senza mostrare alcuna preferenza per nessuno dei due, a parte quando si trattava di consegnare le torte. Quelle rare volte in cui non poteva portarle personalmente e non aveva nessun altro a cui rivolgersi, Agnes chiedeva sempre l'aiuto di Edom. Jacob spaventava la gente. Era il gemello monozigotico di Edom, con lo stesso viso attraente e fanciullesco, con la stessa voce pacata, sempre ben vestito e pettinato. Tuttavia, se avesse svolto quell'opera di carità al posto di Edom, Jacob avrebbe lasciato profondamente a disagio, se non addirittura terrorizzati, tutti coloro che avevano ricevuto il dono. Una volta uscito dalle loro case, avrebbero sbarrato la porta, caricato la pistola, se ne avevano una, e avrebbero sofferto d'insonnia almeno per un paio di notti. E così Edom era uscito per il vasto mondo con torte e pacchetti, seguendo un elenco di nomi e indirizzi preparato dalla sorella, pur convinto che molto probabilmente prima di mezzogiorno, sicuramente prima di cena, ci sarebbe stato un terremoto di violenza inaudita, il famoso Big One. Quello era l'ultimo giorno della sua vita. La strana scarica di fulmini, a cui non era seguito alcuno scroscio di pioggia, era stato un indizio molto chiaro. E a conferma dell'imminente catastrofe c'era stata una rapida schiarita del cielo - che indicava vento forte ad alta quota, mentre a terra l'aria era ferma -, un improvviso calo dell'u-
midità e un tepore insolito per quella stagione. Tempo da terremoto. Gli abitanti della California meridionale avevano molte definizioni per quel termine, ma Edom sapeva di avere ragione questa volta. Ben presto i tuoni sarebbero tornati, ma si sarebbero levati dal sottosuolo. Guidando con estrema circospezione, stando attento a pali della luce che erano in procinto di cadere, ponti che stavano per crollare e, non meno importante, all'improvvisa comparsa di fenditure nel manto stradale capaci di ingoiare le auto di passaggio, Edom giunse infine al primo indirizzo indicato da Agnes. La modesta casetta rivestita da assicelle di legno non riceveva alcun tipo di manutenzione da molto tempo. Anni di sole l'avevano ricoperta di una patina argentata, la vernice scrostata mostrava il sottostante legno grezzo, simile a ossa scure. In fondo a un vialetto di ghiaia, sotto una tettoia sgangherata, vi era un vecchio camioncino Chevy dalle gomme lisce. Laggiù, alla periferia orientale di Bright Beach, dalla parte delle colline da cui non si vedeva il mare, il deserto avanzava instancabile. La salvia, l'acetosa selvatica e tutti i tipi di arbusti crescevano a ridosso delle siepi che delimitavano i giardini delle case. Il recente temporale aveva portato dalle zone più aride un'enorme quantità di amaranti. Erano rimasti intrappolati nei cespugli, si erano ammassati contro un muro della casa. Il prato, verde durante la stagione delle piogge, in mancanza di un irrigatore automatico restava arido e marrone da aprile a novembre. E anche nella stagione più verdeggiante, le piante infestanti erano tante quanto l'erba. Portando una delle sei torte di mirtilli, Edom attraversò il prato incolto e salì i gradini sconnessi che portavano alla veranda. Quella non era certo la casa che avrebbe scelto di occupare quando il terremoto del secolo avesse squassato la costa e raso al suolo immense città. Sfortunatamente, le istruzioni di Agnes dicevano che Edom non doveva limitarsi a lasciare i doni e scappare via, ma che doveva fermarsi a fare una breve visita e comportarsi da buon vicino, per quanto glielo consentisse la sua natura. Venne ad aprigli Jolene Klefton: sciatta, sulla cinquantina, con indosso un largo vestito da casa. I capelli arruffati erano opachi come la terra del Mohave. Ma aveva un viso ravvivato da una miriade di lentiggini e una voce calda e musicale. «Edom, sei bello come quel cantante del Lawrence Welk Show, davvero!
Entra, entra!» Mentre Jolene si spostava da parte per lasciarlo entrare, Edom spiegò: «Ad Agnes è venuta di nuovo una voglia matta di fare torte. Mangeremo torte di mirtilli fino a quando non diventeremo un mirtillo anche noi. Ha detto che magari lei potrebbe farci il favore di prendersene una». «Grazie, Edom. Come sta Agnes questa mattina?» Sebbene cercasse di nasconderlo, Jolene era delusa - lo sarebbe stato chiunque - dal fatto che si fosse presentato Edom al posto di Agnes. Lui non si offese. «La notte scorsa ha avuto il bambino», annunciò Edom. Lanciando uno strillo di gioia come una ragazzina, Jolene gridò al marito Bill, che non si trovava nel soggiorno: «Agnes ha avuto il bambino!» «È un maschietto», soggiunse Edom. «Lo ha chiamato Bartholomew.» «È un maschietto di nome Bartholomew!» ripeté Jolene a voce alta in direzione di Bill, poi invitò Edom a seguirla in cucina. Fuori, nella station wagon, vi erano dei cartoni pieni di generi alimentari - un prosciutto affumicato, cibo in scatola - per i Klefton. Edom li avrebbe portati in casa più tardi, facendo sembrare il resto del cibo come qualcosa a cui avevano pensato solo dopo aver preparato la torta. Secondo Agnes, portare per prima la torta fatta in casa e fermarsi un po' a chiacchierare, faceva apparire tutti gli altri doni non come un gesto di carità, ma come una semplice condivisione tra amici. La cucina era piccola, con elettrodomestici antiquati, ma era luminosa e pulita, e l'aria profumava di vaniglia e cannella. Bill non era neppure lì. Jolene spostò una sedia dal tavolo della cucina. «Siediti, siediti!» Lasciò la torta su un ripiano e prese tre tazze da caffè che posò sul tavolo. «Scommetto che è un bambino speciale, un bambino bellissimo, vero?» «Non l'ho visto. Questa mattina ho parlato al telefono con Agnes e mi ha detto che è bellissimo. Ha un sacco di capelli.» «È nato con tanti capelli!» gridò Jolene al marito, mentre versava il caffè caldo nelle tazze. Dall'estremità opposta della casa giunse un rumore sordo e ritmico: Bill stava faticosamente raggiungendo la cucina. «Mi ha detto che ha degli occhi di una bellezza straordinaria. Smeraldi e zaffiri, ha detto. Li ha chiamati 'occhi da Tiffany'.» «Il bambino ha degli occhi stupendi!» gridò Jolene a Bill. Mentre Jolene disponeva sul tavolo dei piattini e una torta al caffè, Bill
entrò nella stanza appoggiandosi a due grossi bastoni. Anche lui era sulla cinquantina, ma dimostrava dieci anni più della moglie. Il tempo gli aveva diradato i capelli bianchi e il suo volto era arrossato e gonfio per via della malattia e delle medicine. L'artrite reumatoide gli aveva deformato le anche. Avrebbe dovuto appoggiarsi a un paio di stampelle o a un deambulatore, ma per orgoglio si ostinava a usare i bastoni. Sempre per orgoglio aveva continuato a mantenere il suo impiego anche molto tempo dopo che il dolore lancinante gli avrebbe dovuto impedire di lavorare. Ormai disoccupato da cinque anni, tentava, con sempre minor successo, di sopravvivere con il sussidio di invalidità. Con un movimento semicircolare, Bill si sedette e agganciò i bastoni alla spalliera. Tese la mano a Edom. La mano era deforme e aveva le nocche gonfie. Edom gliela strinse delicatamente, temendo che anche una lieve pressione potesse fargli male. «Raccontaci del bambino», lo incoraggiò Bill. «Dove hanno trovato quel nome... Bartholomew?» «Non lo so con certezza.» Edom accettò il piattino con una fetta di torta che Jolene gli porgeva. «Per quel che ne so, non era compreso nell'elenco dei loro preferiti.» Non aveva molto da dire sul bambino, solo ciò che gli aveva raccontato Agnes. Particolare che aveva in gran parte già riferito a Jolene. Nonostante questo, ripeté tutto daccapo. Anzi, cercò di arricchire il racconto, prendendo tempo perché temeva il momento in cui gli avrebbero posto la domanda che lo avrebbe costretto a comunicare anche la brutta notizia. E infatti arrivò, da Bill: «E Joey? Non sta più nella pelle per l'orgoglio?» Edom aveva la bocca piena, quindi non dovette rispondere immediatamente. Continuò a masticare così a lungo che sembrava che la sua fetta di torta fosse fatta di cartilagine e, quando si accorse che Jolene lo stava fissando in modo stano, annuì come per rispondere alla domanda di Bill. Pagò per quell'inganno nel momento in cui cercò di ingoiare la torta: il boccone non voleva proprio andare giù. Temendo di soffocare, afferrò la tazza e, con il caffè caldo, riuscì finalmente a far scendere quel boccone ostinato. Non riusciva a parlare di Joey. Comunicare la notizia per lui sarebbe stato come commettere un omicidio. Fino a quando Edom non avesse detto a qualcuno dell'incidente, Joey non era realmente morto. Erano le parole a
rendere reale la sua scomparsa. Fino a quando Edom non avesse pronunciato quelle parole, in qualche modo Joey era ancora vivo, almeno per Jolene e Bill. Era un'idea folle. Irrazionale. Tuttavia, la notizia della morte di Joey gli si era bloccata in gola peggio del boccone di torta. Preferì spostare la conversazione su un argomento che lui conosceva bene: la fine del mondo. «Non vi sembra che questo sia un tempo da terremoto?» Sorpreso, Bill commentò: «Per essere gennaio, è una bella giornata». «Abbiamo già superato la data del terremoto dei mille anni», fece notare Edom. «Mille anni?» domandò Jolene, perplessa. «Ogni mille anni, per attenuare la pressione, lungo la faglia di San Andrea ci dovrebbe essere come minimo un terremoto di magnitudo 8,5. E ormai abbiamo superato la data di centinaia di anni.» «Be', non accadrà certo il giorno in cui è nato il bambino di Agnes, questo te lo posso garantire», cercò di rassicurarlo Jolene. «È nato ieri, non oggi», ribatté Edom con aria tetra. «Quando arriverà il terremoto dei mille anni, i grattacieli diventeranno piatti come frittelle, i ponti si sbricioleranno, crolleranno le dighe. Nel giro di tre minuti, tra San Diego e Santa Barbara morirà un milione di persone.» «Allora farò meglio a mangiarmi un altro po' di torta», commentò Bill, spingendo il suo piattino verso Jolene. «Gli oleodotti e le condutture del gas si spezzeranno, esploderanno. Le città verranno inondate da un mare di fuoco che ucciderà altre centinaia di migliaia di persone.» «E pensi che stia per accadere tutto questo solo perché madre natura ci ha regalato una giornata tiepida in gennaio?» domandò Jolene. «La natura non ha istinto materno», rispose Edom con convinzione. «Pensare che ne abbia è puro sentimentalismo. La natura è nostra nemica. È una crudele assassina.» Jolene stava per riempirgli nuovamente la tazza di caffè, poi ci ripensò. «Forse non hai bisogno di altra caffeina, Edom.» «Avete sentito parlare del terremoto che ha distrutto il settanta per cento di Tokyo e l'intera città di Yokohama il 1° settembre del 1923?» domandò. «Tutto sommato, ai giapponesi è rimasta abbastanza energia per combattere la seconda guerra mondiale», gli fece notare Bill. «Dopo il terremoto», continuò Edom, «quarantamila persone si erano ri-
fugiate in un centro di reclutamento militare, uno spazio aperto di duecento acri. Uno degli incendi provocati dal terremoto si è propagato così in fretta che quei poveracci sono morti in piedi, talmente stretti gli uni agli altri che sono bruciati come un unico blocco di corpi.» «Certo, noi qui abbiamo i terremoti», intervenne Jolene, «ma sulla costa orientale ci sono tutti quegli uragani.» «Il nostro nuovo tetto», disse Bill, puntando il dito verso l'alto, «è in grado di resistere a qualsiasi uragano. Un ottimo lavoro. Diglielo ad Agnes che lavoro eccellente hanno fatto.» Dopo essere riuscita a ottenere per loro il nuovo tetto a prezzo di costo, Agnes aveva raccolto offerte da una dozzina di persone e da un gruppo parrocchiale ed era riuscita a coprire quasi interamente la spesa, che ammontava a duecento dollari. «L'uragano che nel 1900 ha investito Galveston, nel Texas, ha ucciso seimila persone», continuò Edom. «Ha praticamente cancellato l'intero paese.» «È successo sessantacinque anni fa», gli fece notare Jolene. «Ma meno di un anno e mezzo fa, l'uragano Flora ha ucciso più di seimila persone nei Caraibi.» «Non vivrei ai Caraibi neanche se mi pagassero», commentò Bill. «Tutta quell'umidità. Tutti quegli insetti.» «Ma non c'è niente come un terremoto per ammazzare. Quello di Shaanxi, in Cina, ha fatto ottocentotrentamila vittime.» La notizia non colpì Bill più di tanto. «In Cina costruiscono le case con il fango. Non c'è da stupirsi se cadono giù.» «È successo il 24 gennaio dei 1556», lo informò Edom con tono sicuro. Aveva memorizzato decine di migliaia di fatti relativi ai peggiori disastri naturali della storia. «Millecinquecentocinquantasei?» ripeté Bill aggrottando la fronte. «Accidenti, probabilmente a quel tempo i cinesi non avevano nemmeno il fango.» Cercando di ritemprarsi con un'altra tazza di caffè, Jolene cambiò argomento: «Edom, ci stavi parlando della reazione di Joey alla notizia di essere diventato papà». Edom lanciò un'occhiata preoccupata all'orologio che aveva al polso e scattò in piedi. «Come si è fatto tardi! Agnes mi ha lasciato un sacco di cose da fare e io me ne sto qui a blaterare di terremoti e cicloni.» «Uragani», lo corresse Bill. «Sono diversi dai cicloni, vero?»
«Non mi faccia cominciare a parlare dei cicloni!» Edom attraversò di corsa la casa e raggiunse la sua station wagon per prendere le scatole piene di generi alimentari. Sopra di lui, la volta azzurra, adesso completamente sgombra, era il cielo più minaccioso che Edom avesse mai visto. Considerando che c'era appena stato un temporale, l'aria era incredibilmente secca. E immobile. Silenziosa. Tempo da terremoti. Prima che quella strana giornata si fosse conclusa, la costa sarebbe stata scossa da un immane terremoto e spazzata da ondate gigantesche. 25 Nessuno dei sette neonati stava piangendo, troppo nuovi del mondo per comprendere quanto vi fosse da temere. Un'infermiera e una suora fecero entrare Celestina nella nursery, dietro la vetrata. Lei si sforzò di apparire calma ed evidentemente ci riuscì, perché nessuna delle due donne si accorse che era quasi paralizzata dalla paura. Si muoveva come fosse un burattino di legno, con le giunture rigide, i muscoli tesi. L'infermiera tolse la neonata dal lettino e la porse alla suora. Cullando la bambina e voltandosi verso Celestina, la suora abbassò la coperta che avvolgeva la neonata perché la ragazza potesse guardarla. Trattenendo il fiato, Celestina ebbe la conferma di ciò che aveva sospettato quando, in sala operatoria, le aveva lanciato una rapida occhiata. La sua pelle era color caffelatte con una sfumatura di caramello. Da diverse generazioni e almeno fino ai cugini di secondo grado, nessuno nella famiglia materna e paterna di Celestina aveva la pelle così chiara. Erano tutti, senza eccezione, di un color mogano intenso, quindi molto più scuri di quella neonata. Evidentemente, lo stupratore di Phimie doveva essere stato un bianco. Qualcuno che lei conosceva. Qualcuno che forse anche Celestina conosceva. Doveva abitare a Spruce Hills o nei dintorni, perché Phimie aveva detto di considerarlo ancora una minaccia. Celestina non si illudeva di poter diventare una detective. Non sarebbe mai riuscita a rintracciare quel bastardo e non aveva abbastanza coraggio per affrontarlo. Tuttavia, ciò che la spaventava, non era il padre di quella bambina, ma la decisione che aveva preso pochi minuti prima, nella stanza vuota al setti-
mo piano. Se avesse davvero continuato per la strada che aveva pensato di intraprendere, avrebbe messo in gioco tutto il suo futuro. In quel momento, davanti a quella bambina, nel giro di un paio di minuti, doveva o cambiare idea o impegnarsi a vivere una vita molto più difficile di quella che aveva immaginato solo qualche ora prima. «Posso?» domandò, tendendo le braccia. Senza alcuna esitazione, la suora consegnò la neonata a Celestina. La piccola sembrava troppo leggera per essere reale. Pesava circa tre chili, ma sembrava più leggera dell'aria, come se, da un momento all'altro, potesse sollevarsi dalle braccia della zia e mettersi a fluttuare. Celestina fissò il visino abbronzato, sentendo svanire la rabbia e l'odio che aveva provato per lei quando l'aveva vista nella sala operatoria. Se la suora e l'infermiera avessero saputo di quei suoi sentimenti, non le avrebbero mai permesso di entrare nella nursery, né di prendere in braccio la neonata. Il frutto della violenza. L'assassina di sua sorella. Cercò nello sguardo della bambina qualche segno della crudeltà di suo padre. Le sue manine, adesso così deboli ma un giorno forti, sarebbero state capaci di fare del male, così come l'avevano fatto quelle di suo padre? La piccola bastarda. Il seme di quella specie di demonio che la stessa Phimie aveva definito pazzo e crudele. Anche se adesso appariva innocente, quale dolore sarebbe stata in grado di infliggere agli altri in futuro? Quali azioni terribili sarebbe stata capace di commettere? Ma per quanto Celestina scrutasse attentamente nei suoi occhi, non riuscì a scorgervi la malvagità del padre. Al contrario, vide una nuova, piccola Phimie. E vide anche una bambina in pericolo. Là fuori, da qualche parte, vi era uno stupratore capace di gesti di estrema crudeltà e violenza, un uomo che, se Phimie aveva ragione, avrebbe reagito in modo imprevedibile sapendo di avere una figlia. Angel, se alla fine così si fosse chiamata, era in pericolo come tutti i bambini di Betlemme, quelli che re Erode aveva ordinato di sgozzare. La piccola strinse una manina intorno all'indice della zia. Pur così minuscola e fragile, si aggrappò con sorprendente tenacia. Fare ciò che va fatto.
Restituendo la neonata alla suora, Celestina chiese di poter utilizzare un telefono in privato. *** Venne condotta nuovamente nell'ufficio dell'assistente sociale. La pioggia batteva lievemente sui vetri della finestra da cui il dottor Lipscomb aveva fissato intensamente la nebbia, mentre cercava di non affrontare ciò che Phimie, con la speciale conoscenza di chi è stato nell'aldilà, gli aveva mostrato e che avrebbe potuto cambiare la sua vita. Seduta alla scrivania, Celestina telefonò nuovamente ai genitori. Tremava in modo incontrollabile, ma la sua voce era ferma. Il padre e la madre, usando apparecchi telefonici diversi, riuscirono a parlare contemporaneamente con lei. «Voglio che voi adottiate la bambina.» Prima che potessero replicare, soggiunse in fretta: «Avrò ventun anni solo tra qualche mese e, anche dopo quella data, potrebbero farmi delle difficoltà per adottore la bambina perché, nonostante sia sua zia, non sono sposata. Ma se voi l'adottate, io la crescerò. Lo prometto. Mi assumerò tutta la responsabilità. Non dovete temere che io me ne penta o che un giorno io voglia scaricarla a voi, dimenticando gli impegni presi. Da oggi in poi dovrà essere il centro della mia vita. Lo capisco. Lo accetto. Lo voglio». Temeva che si sarebbero opposti e, anche se sapeva di essere ben ferma nella sua decisione, aveva paura di dover mettere subito alla prova il suo impegno. Ma suo padre si limitò a domandarle: «Sono i tuoi sentimenti che parlano, Celie, o è il cervello, oltre che il cuore?» «Entrambi. Cervello e cuore. Ma ci ho riflettuto bene, papà. Ci ho riflettuto come non ho mai fatto in vita mia.» «Che cosa ci stai tacendo?» si intromise sua madre, intuendo l'esistenza di qualcosa di più importante, se non addirittura straordinario. Celestina raccontò di ciò che era avvenuto con Nella Lombardi e del messaggio che Phimie aveva dato al dottor Lipscomb dopo essere stata rianimata. «Phimie era... così speciale. E c'è qualcosa di altrettanto speciale nella sua bambina.» «Ma ricordati del padre», l'avvertì Grace. E il reverendo concordò: «Sì, non lo dimenticare. Se il sangue non mente...»
«Ma noi non crediamo a queste cose, vero papà? Non crediamo che il sangue possa condizionare qualcuno. Crediamo che si viene al mondo per sperare, protetti da un mantello di misericordia, non è vero?» «Sì», confermò il reverendo a voce bassa. «È vero.» Il lamento di una sirena si avvicinò al St. Mary's. Un'ambulanza. Nelle strade piene di speranza, sempre questo lamento di morte. Celestina sollevò lo sguardo dal consunto ripiano della scrivania verso il cielo bianco di nebbia che si estendeva al di là della finestra, dalla realtà alla promessa. Riferì ai genitori la richiesta di Phimie che la bambina fosse chiamata Angel. «Al momento, ho ritenuto che non fosse in grado di pensare chiaramente per via del colpo apoplettico. Se la bambina doveva essere data in adozione, sarebbero stati i suoi genitori adottivi a scegliere il nome. Ma penso che lei avesse compreso - o che in qualche modo sapesse - che avrei voluto adottorla. Che avrei dovuto farlo.» «Celie», intervenne sua madre, «sono veramente orgogliosa di te. Ti adoro per questo tuo desiderio. Ma come ti sarà possibile proseguire con gli studi, con il tuo lavoro e allo stesso tempo occuparti della bambina?» I genitori di Celestina non erano ricchi. La parrocchia di suo padre era piccola e povera. Riuscivano appena a pagare l'accademia di belle arti, e Celestina lavorava come cameriera per coprire le spese del suo monolocale e di tutto ciò di cui necessitava. «Non c'è bisogno che io finisca l'accademia nella primavera dell'anno prossimo. Posso frequentare meno corsi e finire un anno più tardi. Non è un problema.» «Ma, Celie...» Lei soggiunse in fretta: «Sono una delle migliori cameriere che hanno e, se chiederò di lavorare solo all'ora di cena, non mi diranno di no. Di sera, le mance sono anche migliori. Se faccio un solo turno, da quattro a cinque ore, riuscirò ad avere un orario più regolare». «Ma in quelle ore, chi baderà alla bambina?» «Baby sitter. Amiche, parenti di amiche. Persone di cui mi posso fidare. Se riceverò soltanto mance serali, potrò permettermi delle baby sitter.» «Sarebbe meglio se l'allevassimo noi, tuo padre e io.» «No, mamma. Non andrebbe bene. Lo so.» Intervenne il reverendo: «Stai sottovalutando i miei parrocchiani, Celestina. Non resteranno scandalizzati. Apriranno i loro cuori.» «Non è questo il problema, papà. Ti ricordi l'altro ieri, quando eravamo
tutti insieme, di come Phimie fosse terrorizzata da quell'uomo? Non per se stessa, ma per la bambina.» Non voglio avere il bambino qui. Se lui viene a sapere di avere avuto un figlio da me, diventerà ancora più violento. Lo so. «Non farà del male a una bambina piccola», disse sua madre. «Non ci sarebbe ragione.» «Se è un pazzo crudele, allora non ha bisogno di alcun motivo. Secondo me, Phimie era convinta che lui avrebbe ucciso sua figlia. E dato che noi non conosciamo quest'uomo, dobbiamo fidarci di quello che le diceva l'istinto.» «Se è un simile mostro», si preoccupò sua madre, «nel caso venisse a sapere dell'esistenza della bambina, tu potresti non essere sicura nemmeno a San Francisco.» «Non lo saprà mai. Dobbiamo fare in modo che non lo venga mai a sapere.» I suoi genitori rimasero in silenzio, pensierosi. Da un angolo della scrivania, Celestina prese una foto incorniciata dell'assistente sociale e della sua famiglia. Marito, moglie, figlia, figlio. La ragazzina sorrideva timidamente attraverso un apparecchio ortodontico. Il maschietto aveva un'aria birichina. In quel ritratto, Celestina vide un enorme coraggio. Creare una famiglia in un mondo così turbolento è un atto di fede, bisogna scommettere che, contro tutte le probabilità, vi sarà un futuro, che l'amore può durare, che i sentimenti possono trionfare sulle avversità, perfino sulla ruota del tempo che tutto macina. «Grace, che cosa vuoi fare?» domandò il reverendo alla moglie. «È un impegno molto gravoso quello che ti stai assumendo, Celie», l'ammonì la madre. «Lo so.» «Vedi tesoro, una cosa è essere una sorella affettuosa, un'altra, e c'è una differenza enorme, è diventare una martire.» «Ho preso in braccio la bambina di Phimie, mamma. L'ho stretta tra le mie braccia. E ciò che ho provato non è stato soltanto un impeto d'affetto.» «Sembri così sicura di te.» «E quando mai non lo è stata, dai tre anni in poi?» intervenne suo padre con la voce colma d'affetto. «Il mio scopo nella vita è quello di proteggere questa bambina», spiegò Celestina, «tenerla al sicuro. È speciale. Ma non sono una martire. Tutto
questo mi darà anche molta gioia, mi sento felice solo a pensarci. Ho paura, certo. Oh, Signore, ho tanta paura. Ma sono anche molto felice.» «Cervello e cuore?» domandò di nuovo suo padre. «Entrambi», confermò lei. «Ma c'è una cosa su cui insisto», intervenne sua madre. «All'inizio, dovrai restare qui con noi per qualche mese, in modo che possiamo darti una mano fino a quando non ti organizzerai, fino a quando non prenderai il ritmo giusto.» Si trovarono tutti e tre d'accordo su questo. Sebbene se ne stesse seduta in una poltroncina, a Celestina sembrò di fare un balzo e di superare l'abisso che divideva la sua vecchia vita da quella nuova, il futuro che poteva essere e quello che sarebbe stato. Non sapeva come si allevava una bambina, ma avrebbe imparato tutto ciò che era necessario sapere. I suoi antenati avevano sopportato la schiavitù e, grazie a loro e alle generazioni successive, ora lei era libera. Qualunque cosa avesse dovuto fare per quella bambina, non poteva essere definito realmente un sacrificio, non alla cruda luce della storia. In confronto a ciò che gli altri avevano affrontato, quello era un compito facile; i suoi antenati non avevano lottato solo perché lei potesse evitare la fatica. In ciò che avrebbe fatto, c'era onore, c'era una famiglia. Era vita e tutti vivono all'ombra di qualche solenne impegno. Allo stesso tempo, lei non era preparata ad affrontare un mostro come il padre della piccola, se mai fosse venuto a cercare Angel. E l'avrebbe fatto. Celestina lo sapeva. In situazioni del genere, così come in tutte le cose, Celestina White scorgeva una struttura complessa e misteriosa e, agli occhi di un'artista, la simmetria del disegno prevedeva che un giorno il padre si sarebbe fatto vivo. Adesso lei non era ancora preparata ad affrontarlo, ma quando un giorno quell'essere mostruoso si fosse presentato, lei avrebbe saputo che cosa fare. 26 Dopo essere stato sottoposto a esami clinici per accertare l'eventuale presenza di tumori o lesioni al cervello e per assicurarsi che il suo attacco di emetismo acuto non avesse una causa fisica, Junior venne ricondotto nella sua camera d'ospedale poco dopo mezzogiorno. Si era appena messo nuovamente a letto, quando ebbe la sgradita sorpre-
sa di vedere Thomas Vanadium fermo sulla porta. Il detective entrò portando un vassoio con il pranzo. Lo posò sul ripiano mobile collegato al letto, che fece scivolare davanti a Junior. «Succo di mela, gelatina dolce al gusto di limone e quattro biscotti», annunciò il detective. «Se a farla confessare non basta la sua coscienza, questa dieta dovrebbe riuscire a fiaccare la sua forza di volontà. Le assicuro, Enoch, che in qualsiasi prigione dell'Oregon i pasti sono molto migliori.» «Ma che vuole da me?» domandò Junior in tono seccato. Fingendo di non capire che la domanda richiedeva una risposta e di non aver sentito il rimprovero in essa contenuto, Vanadium si avvicinò alla finestra e sollevò la veneziana, facendo entrare nella stanza una luce forte come un'esplosione. «È una giornata davvero stupenda», annunciò Vanadium. «Conosce quella vecchia canzone, Sunshine Cake, Enoch? L'ha scritta James Van Heusen, un ottimo musicista. Ma quella non è la sua canzone più famosa. Ha scritto anche All the Way e Call Me Irresponsible. Una delle sue canzoni è stata anche Come Fly with Me. Sunshine Cake non è tra le più famose, ma è molto carina.» Tutte queste chiacchiere uscirono dalla bocca del detective con l'abituale tonalità piatta e monotona. Il suo viso era privo di espressione come la voce. «Per favore, l'abbassi», esclamò Junior. «C'è troppa luce.» Voltando la schiena alla finestra e avvicinandosi al letto, Vanadium replicò: «Sono convinto che lei preferisce l'oscurità, ma ho bisogno di luce per vedere la sua espressione quando le comunicherò la notizia». Sebbene sapesse che era pericoloso stare al gioco di Vanadium, Junior non poté evitare di domandare: «Quale notizia?» «Non vuole bere il succo di mela?» «Quale notizia?» «Nel suo vomito, il laboratorio non ha trovato tracce di ipecacuana.» «Tracce di che cosa?» domandò Junior, perché quando Vanadium e il dottor Parkhurst ne avevano discusso, la sera prima, lui si era finto addormentato. «Niente ipecacuana, nessun altro emetico e nessun veleno di alcun tipo.» Naomi era libera da qualsiasi sospetto. A Junior fece piacere pensare che la loro breve e meravigliosa storia non sarebbe stata offuscata per sempre dalla possibilità che sua moglie fosse un essere ignobile e che gli avesse avvelenato il cibo.
«Io so che, in qualche modo, lei si è provocato un attacco di vomito», proseguì il detective, «ma a quanto pare non riuscirò a dimostrarlo.» «Mi ascolti, detective, queste sgradevoli insinuazioni sul fatto che io abbia avuto qualcosa a che fare con la morte di mia...» Alzando una mano per bloccarlo, Vanadium interruppe la sua tiritera: «Mi risparmi l'indignazione. Oltre tutto io non sto insinuando nulla. Io la sto accusando senza mezzi termini di omicidio. Se la stava facendo con un'altra donna, Enoch? È stato questo il suo movente?» «È disgustoso.» «Per essere onesto - e sono sempre onesto con lei - non riesco a trovare tracce di un'altra donna. Ho già parlato con diverse persone e tutti pensano che lei e Naomi foste fedeli l'uno all'altra.» «Io l'amavo.» «Sì, me l'ha detto e io ho già ammesso che potrebbe anche essere vero. Il suo succo di mela sta diventando caldo.» Secondo Caesar Zedd, non ci si può considerare forti a meno che, prima, non si impari a mantenere sempre la calma. La forza e il potere derivano da un perfetto autocontrollo e il perfetto autocontrollo ha origine solo dalla pace interiore. La pace interiore, insegna Zedd, è principalmente una questione di respirazione profonda, lenta e ritmica, unita a una concentrazione non sul passato e nemmeno sul presente, ma sul futuro. Seduto nel letto, Junior chiuse gli occhi e cominciò a respirare lentamente, profondamente. Concentrò il suo pensiero su Victoria Bressler, l'infermiera che aspettava con ansia di renderlo felice nei prossimi giorni. «In realtà», proseguì Vanadium, «sono venuto qui soprattutto per riavere indietro il mio quarto di dollaro.» Junior aprì gli occhi ma continuò a respirare in modo da riuscire a mantenere la calma. Provò a immaginare come dovevano essere i seni di Victoria una volta liberati dagli indumenti. Fermo ai piedi del letto, con il suo informe completo blu, Vanadium sembrava l'opera di un artista alquanto eccentrico che avesse scolpito una figura umana in un pezzo di carne in scatola, rivestendola poi con abiti di seconda mano. Con il grosso detective che lo guardava dall'alto, Junior non riusciva ad abbandonarsi a fantasie erotiche. Nella sua mente, l'abbondante seno di Victoria restava nascosto dal camice bianco e inamidato. «Considerato che la paga di un poliziotto è quella che è», spiegò Vanadium, «anche un quarto di dollaro ha la sua importanza.»
Come per magia, nella mano destra, tra l'indice e il pollice, apparve una monetina. Non poteva essere lo stesso quarto di dollaro che aveva lasciato a Junior quella notte, impossibile. Per motivi che non riusciva a esprimere a parole, Junior aveva tenuto durante tutta la giornata quel quarto di dollaro in una tasca della vestaglia. Di tanto in tanto, l'aveva preso in mano per esaminarlo. Al ritorno dagli esami clinici, si era messo a letto senza togliersi la leggera vestaglia di cotone. E la indossava ancora sopra il pigiama. Vanadium non poteva sapere dove lui avesse messo la moneta. Oltretutto, anche quando aveva fatto scivolare il vassoio, il detective non si era mai avvicinato abbastanza per poter infilare la mano nella tasca della vestaglia. Il poliziotto stava mettendo alla prova l'ingenuità di Junior e lui non avrebbe dato a Vanadium la soddisfazione di frugarsi nella tasca della vestaglia per cercare la moneta. «Presenterò una denuncia contro di lei», promise Junior. «La prossima volta che vengo a trovarla, le porterò il modulo adatto.» Vanadium lanciò la monetina in aria e allargò immediatamente le braccia, con i palmi rivolti verso l'alto per mostrare che le mani erano vuote. Junior aveva visto il momento in cui il poliziotto aveva lanciato la moneta e aveva visto il quarto di dollaro che roteava verso l'alto. Ora era sparito, come se fosse svanito nel nulla. Per un istante la sua attenzione era stata distratta dal gesto di Vanadium che mostrava le mani vuote. Tuttavia non era assolutamente possibile che il poliziotto avesse agguantato la moneta a mezz'aria. Ma se il quarto di dollaro fosse caduto sul pavimento, Junior l'avrebbe sentito tintinnare sulle piastrelle. E questo non era accaduto. Con la rapidità di un serpente, Vanadium ora si trovava molto più vicino al letto di quanto lo fosse stato un attimo prima, quando aveva lanciato la moneta in aria; era accanto a Junior e si sporgeva su di lui. «Naomi era incinta di sei settimane.» «Che cosa?» «Era questa la notizia che intendevo darle. La cosa più interessante che ho letto nella relazione dell'autopsia.» Junior aveva pensato che la notizia si riferisse ai risultati delle analisi di laboratorio, dai quali non era stata rilevata alcuna traccia di ipecacuana nella saliva. Ma tutto quello era servito solo a distrarlo.
Gli occhi grigi e penetranti come le punte di una lancia inchiodavano Junior al letto, lo tenevano fermo per esaminarlo attentamente. E a quel punto arrivò il sorriso da anaconda. «Avete litigato per il bambino, Enoch? Forse Naomi lo voleva e lei no. Per un tipo come lei... un figlio sarebbe stato un ostacolo. Troppe responsabilità.» «Io... io non lo sapevo.» «L'esame del sangue rivelerà se il bambino era suo o no. E anche questo potrebbe offrire una spiegazione.» «Sarei diventato padre», mormorò Junior con sincero sgomento. «Ho scoperto il movente, Enoch?» Allibito e sconvolto dall'insensibilità del poliziotto, Junior ribatté: «Ma vuole smetterla? Ho perso mia moglie e mio figlio. Mia moglie e mio figlio». «Lei è bravo a fingersi disperato come io sono bravo con la monetina.» Dagli occhi di Junior presero a sgorgare calde lacrime, torrenti che bruciavano, un mare di dolore che gli confondeva la vista e gli inondava il viso di soluzione salina. «Se ne vada da qui, schifoso figlio di puttana», ordinò con una voce tremante per il dispiacere e, allo stesso tempo, distorta dalla rabbia. «Esca subito di qui, fuori!» Mentre si dirigeva verso la porta, il detective suggerì: «Non si dimentichi del succo di mela. Dev'essere in buona forma per il processo». Junior scoprì di avere una riserva di lacrime degna di diecimila cipolle. Sua moglie e il suo futuro bambino. Aveva accettato di sacrificare la sua amata Naomi, ma forse avrebbe considerato quel prezzo troppo alto se avesse saputo che stava anche sacrificando il suo primo figlio. Era troppo. Si sentì svuotato. Vanadium era uscito da meno di un minuto, quando arrivò di corsa un'infermiera, sicuramente inviata da quell'odioso poliziotto. Attraverso tutte quelle lacrime, difficile dire se era carina. Un bel visino, forse. Ma un corpo troppo magro. Preoccupata all'idea che il pianto di Junior potesse provocare una serie di spasmi dei muscoli addominali e, di conseguenza, un altro attacco di vomito emorragico, l'infermiera aveva portato con sé una boccetta di tranquillanti. Voleva che ingerisse la pillola insieme con il succo di mela. Junior avrebbe preferito tracannare una coppa di acido fenico piuttosto che toccare quel succo, perché chi gli aveva portato il vassoio era Thomas Vanadium. Quel pazzo, deciso com'era a colpire il suo uomo in un modo o nell'altro, era capace di ricorrere anche al veleno, se avesse ritenuto che i
normali metodi della legge non erano all'altezza del compito. Su insistenza di Junior, l'infermiera versò un bicchiere d'acqua dalla caraffa posata sul comodino. Vanadium non si era mai avvicinato alla caraffa. Dopo un po', il tranquillante e le tecniche di rilassamento di Caesar Zedd permisero a Junior di riacquistare il controllo di sé. L'infermiera rimase con lui fino a quando quel torrente di lacrime non si fu prosciugato. Era chiaro che Junior non sarebbe stato di nuovo vittima di un attacco di emetismo nervoso acuto. Quando lui si lamentò che il succo di mela aveva un gusto strano, l'infermiera gli promise di portargliene dell'altro. Rimasto solo, di nuovo calmo, Junior fu in grado di mettere in pratica quello che era il punto centrale della filosofia di Zedd: cercare sempre di vedere il lato positivo delle cose. Indipendentemente dalla gravita della sconfìtta, per quanto terribile potesse essere il colpo ricevuto, cercando attentamente si poteva sempre scoprire il lato positivo di ogni situazione. La chiave per raggiungere la felicità, il successo e la serenità mentale consisteva nell'ignorare il lato negativo, negare che avesse un qualche potere su di noi, e trovare un motivo per accogliere con gioia tutte le nuove situazioni che si presentavano nella vita, comprese le catastrofi peggiori, scoprendo il Iato positivo anche nei momenti più cupi. In questo caso il lato positivo era addirittura sfolgorante. Avendo perso sia una moglie estremamente bella, sia un futuro figlio, Junior si sarebbe conquistato la simpatia - la pietà, l'amore - di qualsiasi giuria davanti alla quale si fosse eventualmente trovato con l'accusa di omicidio. In precedenza, era rimasto sorpreso dalla visita di Knacker, Hisscus e Nork. Era convinto che persone del genere sarebbero andate a trovarlo solo molti giorni dopo, e anche in quel caso, si aspettava la visita di un solo avvocato che avrebbe seguito un approccio di basso profilo e che avrebbe fatto una proposta assai modesta. Ora capiva perché si erano presentati così numerosi e così ansiosi di discutere di riparazione, ricompensa, ammenda. Il medico legale doveva averli informati che Naomi era incinta e quindi si erano resi conto che lo stato si trovava in una posizione estremamente vulnerabile. L'infermiera tornò con un altro bicchiere di succo di mela, fresco e dolce. Junior sorseggiò lentamente la bevanda. Nel tempo che impiegò per ar-
rivare in fondo al bicchiere, giunse alla conclusione che Naomi gli aveva volontariamente nascosto la gravidanza. In quelle sei settimane dal concepimento, doveva aver saltato almeno un ciclo mestruale. Non si era mai lamentata di provare nausea al mattino, ma sicuramente l'aveva avuta. Era altamente improbabile che non fosse a conoscenza della sua condizione. Lui non si era mai opposto all'idea di avere dei figli. Quindi lei non aveva alcun timore di rivelargli di essere incinta. Per quanto gli dispiacesse, Junior poteva solo concludere che Naomi non aveva ancora deciso se tenere il bambino o se abortire senza l'approvazione del marito. Aveva pensato di strapparsi via il bambino dal ventre senza nemmeno parlarne con lui. Questo insulto, questa violenza, questo tradimento lasciavano Junior sbalordito. Inevitabilmente, doveva chiedersi se Naomi gli avesse tenuto nascosta la gravidanza perché sospettava che il bambino non fosse di suo marito. Se l'analisi del sangue avesse confermato che Junior non era il padre, Vanadium avrebbe avuto un movente. Non sarebbe stato il movente giusto, perché davvero Junior non sapeva che sua moglie era incinta o che se la stava spassando con un altro uomo. Ma il detective sarebbe stato in grado di farlo accettare come movente a un pubblico ministero e il pubblico ministero avrebbe convinto almeno un certo numero di giurati. Naomi, brutta puttana. Desiderò ardentemente di non averla uccisa con tanta pietosa rapidità. Se prima l'avesse torturata, adesso avrebbe potuto trarre conforto dal ricordo delle sue sofferenze. Per un po', insisté nel cercare il lato positivo della situazione. Ma gli sfuggiva. Mangiò la gelatina al limone. I biscotti. Alla fine, Junior si ricordò della moneta. Infilò una mano nella tasca destra della vestaglia di cotone, ma la moneta non era lì dove sarebbe dovuta essere. Anche la tasca sinistra era vuota. 27 Walter Panglo, l'unico impresario di pompe funebri di Bright Beach, era un ometto gioviale che, quando non seppelliva cadaveri, si divertiva a lavoricchiare in giardino. Coltivava stupende rose che regalava in grandi
mazzi agli ammalati, ai giovani innamorati, alla bibliotecaria della scuola nel giorno del suo compleanno, agli impiegati che erano stati gentili con lui. Sua moglie Dorothea lo adorava anche perché si era preso in casa la madre di lei, una donna di ottant'anni, e l'aveva trattata come se fosse contemporaneamente una duchessa e una santa. Era altrettanto generoso con i poveri e seppelliva i loro morti senza guadagnarci nulla, ma con la massima dignità. Jacob Isaacson, il fratello gemello di Edom, non poteva dire nulla di male su Panglo, ma non si fidava di lui. Se l'ometto fosse stato sorpreso a staccare denti d'oro dai cadaveri e a incidere simboli satanici sui loro fondoschiena, Jacob avrebbe commentato: «C'era da aspettarselo». Se Panglo avesse conservato flaconi di sangue infetto prelevato da cadaveri di persone ammalate e se, un giorno, si fosse messo a correre per la città spruzzandolo in faccia ai suoi concittadini, Jacob non sarebbe rimasto per nulla sorpreso. Jacob si fidava soltanto di Agnes e di Edom. Dopo averlo tenuto sotto osservazione per diversi anni, alla fine si era fidato anche di Joey Lampion. Adesso Joey era morto e il suo cadavere si trovava nel locale imbalsamazione dell'Impresa di Pompe Funebri Panglo. In quel momento, Jacob era ben distante da quella stanza ed era ben deciso a non mettervi più piede fintantoché fosse stato vivo. Guidato da Walter Panglo, stava esaminando i vari tipi di bara nel locale adibito all'organizzazione dei funerali. Per Joey avrebbe voluto la bara più costosa, ma suo cognato, un uomo modesto e prudente, non avrebbe approvato. Scelse quindi una cassa elegante ma non lussuosa, il cui prezzo era appena al di sopra della media. Profondamente dispiaciuto all'idea di dover organizzare il funerale di un uomo tanto giovane come Joey Lampion, per il quale aveva provato simpatia e ammirazione, a ogni decisione presa da Jacob, Panglo si fermava per esprimere la sua incredulità e per mormorare parole di consolazione più che altro per se stesso. Posando una mano sulla cassa scelta commentò: «Incredibile, un incidente d'auto, e proprio nel giorno in cui è nato suo figlio. Che tristezza. Che cosa terribile». «Non è poi così incredibile», ribatté Jacob. «Ogni anno, quarantacinquemila persone muoiono a causa di incidenti stradali. Le auto non sono mezzi di trasporto, sono macchine di morte. Decine di migliaia di persone rimangono sfigurate e mutilate per sempre.»
Mentre Edom temeva la collera della natura, Jacob sapeva che la vera mano del destino era la mano dell'uomo. «Non che i treni siano molto meglio. Pensi all'incidente di Bakersfield, nel 1960. Il Santa Fe Chief, partito da San Francisco, ha investito un'autocisterna che trasportava carburante. Diciassette persone sono morte bruciate in un fiume di fuoco.» Jacob aveva paura di ciò che gli uomini potevano fare con bastoni, coltelli, pistole, bombe e anche a mani nude, ma ciò che lo preoccupava di più era la morte involontaria provocata da strumenti, macchine e strutture, costruiti con l'intento di migliorare la qualità della vita. «A Londra, nel '57, due treni si sono scontrati e sono morte cinquanta persone. E sempre in Inghilterra, nel '52, centododici passeggeri sono rimasti uccisi, fatti a pezzi, maciullati.» Corrugando la fronte, Panglo mormorò: «Ha ragione, terribile, accadono cose tremende, ma non vedo perché i treni...» «È sempre la stessa cosa. Auto, treni, navi, la stessa cosa», insisté Jacob. «Si ricorda del Toya Maru? Il traghetto giapponese che si è rovesciato nel settembre del 1954. Millecentosessantotto morti. O peggio ancora, nel '48, in Manciuria, è esplosa la caldaia di un mercantile cinese, seimila vittime. Seimila su una sola nave!» Per un'ora, mentre Walter Panglo lo aiutava a organizzare il funerale, Jacob raccontò i particolari più raccapriccianti di incidenti aerei, naufragi, collisioni tra treni, disastri nelle miniere, crolli di dighe, incendi in alberghi e night club, esplosioni di oleodotti e pozzi petroliferi, esplosioni di fabbriche di munizioni... Quando finalmente ebbero definito tutti i particolari del servizio funebre, Walter Panglo si ritrovò con un tic nervoso alla guancia sinistra. Aveva gli occhi spalancati, come se fosse rimasto così sorpreso che le palpebre gli si erano bloccate. Sentiva le mani appiccicaticce e continuava ad asciugarsele sulla giacca. Jacob percepì il nervosismo dell'impresario di pompe funebri e si convinse ancor di più che la sua sfiducia iniziale nei confronti di Panglo era giustificata. Quell'ometto pieno di tic doveva avere qualcosa da nascondere. Non c'era bisogno di essere un poliziotto per riconoscere il nervosismo che nasce dal senso di colpa. Mentre Panglo lo accompagnava all'uscita, Jacob si chinò verso di lui e disse: «Joe Lampion non aveva denti d'oro». Panglo sembrò perplesso. Probabilmente fingeva.
Invece di fare commenti sulla dentatura del morto, l'omino rinnovò le sue condoglianze posando una mano sulla spalla di Jacob, che si ritrasse di colpo. Confuso, Panglo tese la mano, ma Jacob disse: «Mi dispiace, non s'offenda, ma non stringo la mano a nessuno». «Be', certo, capisco», balbettò Panglo, abbassando lentamente la mano tesa, anche se, chiaramente, non capiva affatto. «Il fatto è che non si può mai sapere di che crimini si sia macchiata la mano di una persona», spiegò Jacob. «Quel rispettabile banchiere in fondo alla strada potrebbe aver seppellito nel suo giardino una trentina di donne fatte a pezzi. La pia signora della porta accanto potrebbe dormire nello stesso letto con il cadavere in decomposizione di un amante che aveva cercato di lasciarla e, come hobby, crea gioielli con le ossa delle dita di bambini piccoli che ha torturato e ucciso.» Panglo infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. «Conservo centinaia di rapporti su casi come questi», proseguì Jacob, «e anche peggiori. Se le interessano, posso farle avere delle copie.» «Molto gentile da parte sua», balbettò l'impresario, «ma ho poco tempo per leggere, davvero poco tempo.» Pur riluttante all'idea di lasciare il corpo di Joey con quell'ometto così stranamente nervoso, Jacob attraversò la veranda dell'edificio in stile vittoriano e se ne andò senza guardarsi indietro. Percorse a piedi i circa due chilometri che lo separavano da casa, stando ben attento alle auto e attraversando gli incroci con molta prudenza. Il suo appartamento sopra al garage si raggiungeva da una scala esterna. Lo spazio era diviso in due stanze. La prima era adibita a cucina e soggiorno, con un tavolo da pranzo ad angolo per due persone. La seconda era una piccola camera attraverso la quale si accedeva al bagno. In entrambe le stanze, quasi tutte le pareti erano occupate da librerie e classificatori. Jacob vi teneva un ricco archivio di casi di incidenti, disastri provocati dall'uomo, rapporti su serial killer e su stragi commesse in un momento di follia: tutte prove innegabili che l'umanità era una specie malvagia impegnata volontariamente o involontariamente a distruggere se stessa. Entrò nella camera, in cui regnava un ordine perfetto, e si tolse le scarpe. Sdraiatosi sul letto, si mise a fissare il soffitto, sentendosi inutile. Agnes era rimasta vedova. Bartholomew era nato orfano di padre. Troppo, troppo.
Jacob non sapeva se sarebbe mai riuscito a guardare Agnes in faccia quando fosse tornata dall'ospedale. Il dolore che avrebbe letto nei suoi occhi lo avrebbe ucciso come un coltello conficcato nel cuore. Il suo perenne ottimismo, la sua allegria, che l'avevano miracolosamente sostenuta nel corso di tutti quegli anni così difficili, non sarebbero mai riusciti a sopravvivere a questo colpo. Agnes non sarebbe stata più una fonte di speranza per lui e per Edom. Il loro sarebbe stato un futuro di continua e implacabile disperazione. Forse, con un po' di fortuna, un aereo gli sarebbe caduto addosso proprio in quel momento, annientandolo all'istante. Abitavano troppo lontani dai binari della ferrovia. Non poteva razionalmente aspettarsi che un treno deragliasse e andasse a schiantarsi contro il garage. Di positivo c'era il fatto che l'appartamento era riscaldato da una caldaia a gas. Una perdita, una scintilla, un'esplosione e lui non avrebbe dovuto vedere la povera Agnes in tutto il suo dolore. Dopo un po', visto che nessun aeroplano gli era precipitato addosso, Jacob si alzò, andò in cucina e cominciò a mescolare gli ingredienti per preparare uno dei dolci preferiti di Agnes. Biscotti al cioccolato con cocco e pecan. Si considerava un individuo del tutto inutile, che occupava spazio in un mondo al quale non contribuiva in alcun modo, ma aveva un vero e proprio talento per i dolci. Poteva prendere qualsiasi ricetta, anche quella dei migliori pasticceri, e apportarvi dei miglioramenti. Mentre mescolava gli ingredienti di un dolce, il mondo gli appariva come un luogo meno pericoloso. A volte, concentrandosi sulla preparazione di una torta, dimenticava di avere paura. Se il forno a gas fosse esploso, lui avrebbe avuto finalmente un po' di pace; in caso contrario, ci sarebbero stati dei biscotti per Agnes. 28 Poco prima delle tredici, gli Hackachak arrivarono come furie, occhi assetati di sangue, denti scoperti, voci stridule. Junior si era aspettato l'arrivo di quelle insolite creature e aveva bisogno che fossero mostruose come lo erano sempre state in passato. Tuttavia, quando irruppero nella sua stanza d'ospedale, istintivamente si rannicchiò contro il cuscino. I loro volti erano feroci come quelli di cannibali alla fine
di un digiuno. Gesticolavano con enfasi, sputando esclamazioni insieme a minuscoli pezzetti di cibo che l'impeto della loro rabbia faceva staccare dai denti. Rudy Hackachak - Big Rude per gli amici - era alto più di un metro e novanta, e aveva il fisico massiccio di una scultura di legno intagliata con un'accetta. Con il suo completo in poliestere dalle maniche un paio di centimetri troppo corte, un'orrida camicia giallo urina e una cravatta che poteva essere la bandiera nazionale di un paese del terzo mondo famoso unicamente per la sua mancanza di gusto, sembrava la creatura del dottor Frankenstein, tirata a lucido per una serata di bagordi in Transilvania. «VEDI DI NON FARE IL CRETINO, PEZZO DI MERDA», gli urlò Rudy, afferrando la sponda di metallo del letto come se volesse usarla per colpire Junior fino a tramortirlo. Se Big Rude era davvero il padre di Naomi, i suoi geni non dovevano aver contribuito in alcun modo alla procreazione, doveva aver fecondato l'ovulo della moglie unicamente con la sua voce tonante, con un urlo orgasmico, perché non vi era nulla in Naomi, nell'aspetto come nella personalità, che gli somigliasse minimamente. A quarantaquattro anni, Sheena Hackachak era più bella di qualsiasi attrice in voga in quel momento. Sembrava di vent'anni più giovane e somigliava così tanto alla figlia che, nel vederla, Junior sentì un impeto di nostalgia erotica. La somiglianza tra Naomi e sua madre si limitava all'aspetto fisico. Sheena era una donna chiassosa, volgare, egoista e usava un vocabolario da tenutaria di bordello specializzata in servizi a marinai con la sindrome di Tourette. Si avvicinò al letto, incastrando Junior tra sé e Big Rude. Il fiume di oscenità che le uscì dalla bocca diede a Junior la sensazione di trovarsi davanti a un tubo per lo spurgo di un pozzo nero. Goffa e pesante, ai piedi del letto si piazzò il terzo e ultimo componente della famiglia Hackachak: la ventiquattrenne Kaitlin, sorella maggiore di Naomi. Delle due figlie, Kaitlin era quella sfortunata, perché aveva ereditato l'aspetto del padre e la personalità di entrambi i genitori. I suoi occhi marrone avevano una strana sfumatura ramata e, quando la luce li colpiva da una determinata angolazione, la sua espressione furibonda mandava lampi rossi come il sangue. Kaitlin aveva la voce stridula e il talento per gli insulti che la identificavano come appartenente alla tribù degli Hackachak, ma per il momento si
accontentava di lasciare che fossero i suoi genitori ad aggredire verbalmente Junior. Tuttavia, lo sguardo penetrante con cui lo fissava, se utilizzato su un terreno geologicamente promettente, avrebbe trivellato il suolo, facendone zampillare petrolio in pochi minuti. Non erano andati da Junior il giorno precedente perché troppo sconvolti dal dolore, ammesso che lo avessero provato davvero. Non erano mai stati molto vicini a Naomi, che una volta aveva detto di sentirsi come Romolo e Remo, allevati da una lupa, o come Tarzan se fosse caduto nelle mani di gorilla cattivi. Per Junior, Naomi era come Cenerentola, dolce e buona, e lui era il principe azzurro che l'aveva salvata. Dopo il grande dolore, gli Hackachak si erano precipitati in ospedale perché avevano saputo che Junior si era mostrato disgustato all'idea di approfittare del tragico incidente occorso alla moglie e che aveva mandato via Knacker, Hisscus e Nork. Se lui non avesse ritenuto colpevoli lo stato o la contea, le probabilità dei suoi parenti acquisiti di ricevere un indennizzo per il dolore e le sofferenze causate dalla morte di Naomi venivano gravemente compromesse. Per questo motivo sentivano la necessità di restare uniti come famiglia, cosa che peraltro non era mai avvenuta prima. Nel momento stesso in cui aveva spinto Naomi contro il parapetto marcio, Junior aveva previsto questa visita da parte di Rudy, Sheena e Kaitlin. Sapeva anche che si sarebbe finto offeso dalla proposta dello stato di stabilire un prezzo per la perdita di sua moglie, avrebbe finto disgusto, avrebbe resistito in modo convincente... poi, un po' alla volta, dopo giorni o settimane, pur riluttante, per sfinimento ed esasperazione, avrebbe ceduto all'avidità degli instancabili Hackachak. Una volta che i suoi spietati suoceri avessero ottenuto ciò che volevano, Junior si sarebbe conquistato la simpatia di Knacker, Hisscus, Nork e di chiunque altro avesse nutrito dei sospetti sul suo ruolo nella morte di Naomi. Forse perfino Thomas Vanadium avrebbe scoperto che i suoi dubbi non avevano più senso. Dato che strillavano come avvoltoi in attesa che la preda ferita cessasse di vivere, per ben due volte gli Hackachack vennero duramente rimproverati dalle infermiere. Furono invitati a calmarsi e a rispettare i pazienti delle altre stanze. In diverse occasioni, infermiere preoccupate, e perfino un internista, affrontarono quel trambusto per venire a controllare le condizioni di Junior. Gli domandarono se se la sentiva davvero di ricevere visite, quel tipo di vi-
site. «Sono tutto ciò che rimane della mia famiglia», rispose Junior con una voce che sperò risultasse carica di dispiacere e di paziente affetto. Era falso. Suo padre, artista fallito e alcolista di grande successo, abitava a Santa Monica, in California. Sua madre aveva divorziato quando Junior aveva quattro anni e, da dodici, era ricoverata in manicomio. Li vedeva raramente. Non aveva mai parlato di loro a Naomi. Non erano certo il tipo di genitori di cui andare fieri. Dopo che anche l'ultima infermiera fu uscita dalla stanza, Sheena si chinò su Junior e gli pizzicò la guancia con il pollice e l'indice, come se volesse strappargli un pezzetto di carne e infilarsela in bocca. «Ficcatelo bene nella zucca, testa di cazzo. Ho perso una figlia, una figlia meravigliosa, la mia Naomi, la luce della mia vita.» Kaitlin fulminò con lo sguardo la madre come se si sentisse tradita. «Naomi... vent'anni fa lei è saltata fuori dalla mia pancia, non dalla tua», continuò in un sussurro furibondo. «Se qui c'è qualcuno che soffre, sono io, non tu. Dopotutto, chi sei tu? Un tizio qualsiasi che se l'è scopata per un paio d'anni, nient'altro. Io sono sua madre. Tu non potrai mai sapere quanto soffro. E se tu non starai dalla nostra parte per far in modo che quei segaioli paghino alla grande, verrò personalmente a tagliarti le palle mentre dormi e le darò da mangiare al mio gatto.» «Non hai un gatto.» «Ne comprerò uno», promise Sheena. Junior sapeva che avrebbe messo in atto la sua minaccia. Anche se lui non avesse voluto i soldi, e li voleva, non avrebbe mai osato opporsi a Sheena. Perfino Rudy, grande e grosso com'era, aveva paura di sua moglie. Quei tre sottoprodotti dell'umanità adoravano il denaro. Rudy possedeva sei agenzie di vendita di automobili usate che facevano un sacco di soldi e - cosa di cui andava orgoglioso - un contratto di rappresentanza con la Ford per vendere veicoli nuovi e usati in cinque località dell'Oregon; gli piaceva vivere alla grande e, quattro volte all'anno, faceva un salto a Las Vegas, lasciando denaro sui tavoli da gioco con la stessa noncuranza con cui si svuotava la vescica. Anche Sheena adorava Las Vegas ed era una maniaca dello shopping. A Kaitlin invece piacevano gli uomini, e carini, ma dato che in una stanza in penombra poteva essere scambiata per suo padre, i bei ragazzi si facevano pagare. A un certo punto, nel tardo pomeriggio, mentre tutti e tre gli Hackachak
vomitavano insulti contro Junior, lui notò il detective Vanadium, che osservava la scena dal vano della porta. Perfetto. Finse di non vederlo e quando, poco dopo, lanciò un'occhiata furtiva, scoprì che Vanadium era scomparso come un fantasma. Un fantasma grande e grosso. Per tutto il resto della giornata e anche dopo cena, gli Hackachak continuarono a tormentarlo. In quell'ospedale non si era mai visto uno spettacolo del genere. Il personale di turno cambiò e nuove infermiere, più numerose del necessario, vennero a occuparsi di Junior, prendendo tutte le scuse per dare un'occhiata a quella scena. Alla fine dell'orario di visita serale, la famiglia venne accompagnata fuori, tra mille proteste, ma Junior era riuscito a non cedere alle loro pressioni. Se voleva apparire convincente, prima di cedere per sfinimento, doveva resistere per almeno qualche giorno. Rimasto finalmente solo, si sentì esausto. Fisicamente, emotivamente e intellettualmente. Uccidere in sé non era difficile, ma era ciò che ne seguiva a essere più faticoso del previsto. Anche se il risarcimento da parte dello stato lo avrebbe lasciato senza alcun dubbio finanziariamente tranquillo per il resto della sua vita, lo stress era tale che, nei momenti più cupi, si domandava se la ricompensa sarebbe stata all'altezza del rischio corso. Decise che non doveva più uccidere qualcuno in un momento di impeto. Mai. Anzi, promise che non avrebbe mai più ucciso nessuno, se non per legittima difesa. Ben presto sarebbe stato ricco e, se l'avessero scoperto, lui avrebbe avuto molto da perdere. L'omicidio era un'avventura meravigliosa; ma purtroppo era un divertimento che non si poteva più permettere. Se avesse saputo che, prima della fine del mese, avrebbe infranto questa solenne promessa per ben due volte e che, sfortunatamente, nessuna delle due vittime sarebbe stata un Hackachak, forse non si sarebbe addormentato così facilmente. E non avrebbe sognato di rubare con destrezza centinaia di monetine dalle tasche di Thomas Vanadium mentre il detective, perplesso, le cercava invano. 29 Il lunedì mattina, sopra la tomba di Joey Lampion, dal cielo azzurro e trasparente della California scendeva una pioggia di luce così pura che il mondo sembrava essere stato lavato da tutti i suoi peccati. Al servizio funebre svoltosi nella chiesa di St. Thomas aveva partecipato
una folla straripante che si era ammassata in fondo alla navata, attraverso tutto il nartece e lungo il marciapiede fuori del tempio; ora sembrava che fossero venuti tutti anche al cimitero. Assistita da Edom e Jacob, Agnes, su una sedia a rotelle, venne spinta sull'erba, in mezzo alle lapidi, fino al luogo in cui suo marito avrebbe riposato per sempre. Sebbene non rischiasse più un'altra emorragia, i medici le avevano ordinato di non affaticarsi. Fra le braccia, stringeva Bartholomew. Il bambino non era troppo infagottato perché, nonostante la stagione, il clima era decisamente mite. Senza suo figlio, Agnes non sarebbe stata in grado di sopportare tutto ciò che le era accaduto. Quel piccolo peso che stringeva tra le braccia era un'ancora gettata nel mare del futuro, un'ancora che le impediva di lasciarsi risucchiare dai ricordi del passato, dei giorni meravigliosi trascorsi con Joey, ricordi che, in quel momento così diffìcile, l'avrebbero colpita al cuore come martellate. Più avanti, le sarebbero stati di conforto. Ma non ancora. Il mucchio di terra accanto alla fossa era nascosto da cumuli di fiori e felci. La bara, tenuta sospesa, era ricoperta da un telo di stoffa nero per nascondere la fossa sottostante. Nonostante fosse credente, in quel momento Agnes non era in grado di spargere i fiori e le felci della fede sopra la dura e sgradevole realtà della morte. Scheletrica e incappucciata, la morte era lì, tra di loro, e disseminava i suoi semi tra tutti gli amici riuniti, un giorno li avrebbe falciati. Ai due lati della sedia a rotelle, Edom e Jacob trascorrevano più tempo a scrutare il cielo che a seguire il servizio funebre. Entrambi i fratelli osservavano la limpida distesa azzurra con aria preoccupata, come se vi scorgessero nuvoloni carichi di pioggia. Agnes immaginò che Jacob si aspettasse da un momento all'altro di veder precipitare un aereo di linea o anche solo un velivolo più leggero. Edom stava probabilmente calcolando le probabilità che quel luogo così sereno, in quel momento, potesse essere il punto d'impatto di uno di quegli asteroidi che si ritiene spazzino via gran parte della vita dalla terra a intervalli di alcune centinaia di migliaia di anni. Si sentiva lacerare da una struggente malinconia, ma non poteva permetterle di distruggerla. Se avesse abbandonato la speranza per abbracciare la disperazione, così come avevano fatto i suoi fratelli, Bartholomew avrebbe finito di vivere prima ancora di iniziare. Gli doveva ottimismo, gli doveva insegnare la gioia di vivere. Dopo il servizio funebre, tra quelli che si avvicinarono ad Agnes cercan-
do di esprimere l'inesprimibile, vi fu anche Paul Damascus, il proprietario della Damascus Pharmacy sulla Ocean Avenue. Di origine mediorientale, aveva la pelle olivastro-scuro e, incredibilmente, i capelli rosso-ruggine. Dato che anche le sopracciglia, le ciglia e i baffi erano rosso-ruggine, il suo bel viso sembrava quello di una statua di bronzo ricoperta da una strana patina. Fermandosi accanto alla sedia a rotelle, Paul appoggiò un ginocchio a terra. «Che giorno straordinario, Agnes. Che giorno straordinario, con tutti i suoi inizi. Vero?» Lo disse come se fosse certo che Agnes avrebbe capito ciò che intendeva dire, con un sorriso e una luce negli occhi che sembravano quasi un ammiccamento, come se fossero entrambi membri di una società segreta in cui quelle tre parole ripetute rappresentavano un linguaggio cifrato e avevano un significato diverso da quello che poteva apparire ai profani. Prima che Agnes potesse rispondere, Paul scattò in piedi e si allontanò. Altri amici si inginocchiarono, si accovacciarono e si chinarono verso di lei, e Agnes perse di vista l'uomo che si allontanò in mezzo alla folla. Che giorno straordinario, Agnes. Che giorno straordinario, con tutti i suoi inizi. Che strana frase. Agnes si sentì sopraffatta da un senso di mistero, inquietante ma non del tutto sgradevole. Rabbrividì ed Edom, pensando che avesse freddo, si tolse la giacca e gliela posò sulle spalle. In Oregon, quello era un freddo lunedì mattina con le nuvole scure e gonfie di pioggia che avanzavano basse al di sopra del cimitero. Un triste congedo per Naomi, anche se la pioggia non aveva ancora cominciato a scendere. In piedi accanto alla tomba, Junior era di pessimo umore. Non sopportava più di fingere di essere sconvolto dal dolore. Erano già trascorsi tre giorni e mezzo da quando aveva spinto la moglie giù dalla torre e in tutto quel tempo non aveva avuto un attimo di vero divertimento. Lui era un tipo allegro per natura, quello che non rifiutava mai di partecipare a una festa. Gli piaceva ridere, amare, vivere, ma non poteva godersi la vita quando, per tutto il tempo, doveva ricordarsi di apparire disperato e di mantenere una nota di tristezza nella voce. La cosa peggiore era che, per rendere credibile la sua disperazione ed e-
vitare sospetti, avrebbe dovuto interpretare la parte del vedovo inconsolabile per almeno altre due settimane, forse per un mese intero. Da fedele seguace dei consigli del dottor Caesar Zedd, Junior non sopportava quelli che si lasciavano guidare dal sentimentalismo e governare dalle aspettative della società, ma adesso doveva fingere di essere uno di loro... e per un periodo di tempo interminabile. Dato che era una persona estremamente sensibile, aveva pianto Naomi con tutto il suo corpo, con un violento emetismo, un'emorragia faringea e l'incontinenza. Il suo dolore era stato così sconvolgente che avrebbe potuto ucciderlo. Ma il troppo è troppo. Solo poche persone si erano riunite per partecipare al servizio funebre. Junior e Naomi erano stati così presi l'uno dall'altro che, al contrario di molte giovani coppie, non avevano molti amici. Gli Hackachak erano presenti, naturalmente. Junior non aveva ancora accettato di unirsi a loro per chiedere il risarcimento. Ma non gli avrebbero lasciato un attimo di tregua fino a quando non avessero ottenuto ciò che volevano. Come sempre, il completo blu di Rudy tirava da tutte le parti. Ma lì, in quel cimitero, non sembrava soltanto un individuo che si faceva confezionare gli abiti da un pessimo sarto, ma addirittura un ladro che violava le tombe per rubare i vestiti. Sullo sfondo dei monumenti di granito, la sagoma goffa e pesante di Kaitlin si stagliava come una presenza giunta dall'aldilà, uscita da una bara di legno putrido per vendicarsi dei vivi. Rudy e Kaitlin lanciavano spesso occhiate furibonde alla volta di Junior e, molto probabilmente, anche Sheena lo fulminava con lo sguardo, ma lui non riusciva a vederle gli occhi nascosti dal velo nero. Il corpo spettacolare stretto in un abito nero, anche la povera madre affranta aveva dei problemi con quel velo, perché doveva quasi appoggiare l'orologio al viso per vedere l'ora, cosa che avvenne più volte durante l'interminabile servizio funebre. Junior intendeva capitolare quel giorno stesso, durante una riunione con i famigliari e gli amici. Rudy aveva organizzato un rinfresco nello showroom del suo nuovo salone Ford, che sarebbe rimasto chiuso fino alle tre del pomeriggio: condoglianze, pranzo e commoventi ricordi della defunta si sarebbero mescolati alle nuove e scintillanti Thunderbird, Galaxy e Mustang. La riunione avrebbe fornito a Junior i testimoni di cui aveva bisogno per la sua riluttante, disperata e forse anche furente concessione al-
l'insistente materialismo degli Hackachak. In un altro punto del cimitero, a circa centocinquanta metri di distanza, vi era stata un'altra sepoltura, iniziata prima di quella di Naomi, alla quale aveva partecipato una folla molto più numerosa. Adesso era terminata e la gente si stava allontanando in direzione delle rispettive automobili. In distanza e attraverso gli alberi, Junior non riusciva a scorgere granché dell'altro funerale, ma era quasi certo che molti, se non la maggior parte, dei presenti erano di colore. Diede quindi per scontato che la persona che veniva sepolta doveva anch'essa essere di colore. La cosa lo sorprese. Naturalmente l'Oregon non era il Profondo Sud. Era uno stato progressista. Tuttavia era sorpreso. Nell'Oregon non vi erano molte persone di colore, una manciata rispetto a quelle che vivevano negli altri stati, tuttavia, fino a quel momento, Junior aveva sempre immaginato che avessero dei cimiteri separati. Non aveva nulla contro i neri. Non augurava loro alcun male. Non aveva pregiudizi. Vivi e lascia vivere. Era convinto che, se se ne stavano tra di loro e rispettavano le regole di una società civile, come tutti gli altri, avevano il diritto di vivere in pace. Tuttavia, la tomba di quella persona di colore era situata più in alto di quella di Naomi. Con il passare del tempo, quando quel corpo si fosse decomposto, i suoi fluidi si sarebbero mescolati al suolo. E quando la pioggia avesse saturato il terreno, quei fluidi sarebbero scesi verso il basso, introducendosi nella tomba di Naomi e mischiandosi con i suoi resti. Questo a Junior sembrava del tutto inaccettabile. In quel momento non c'era nulla che potesse fare. Far spostare il corpo di Naomi in un'altra tomba, in un cimitero in cui non vi fossero sepolte persone di colore, avrebbe suscitato molti commenti. E lui non voleva attirare altra attenzione su di sé. Tuttavia, decise che si sarebbe rivolto a un avvocato per redigere un testamento... e l'avrebbe fatto presto. Voleva specificare che desiderava essere cremato e che le sue ceneri dovevano essere conservate in un loculo ben al di sopra del terreno, dove non poteva filtrare nulla all'interno. Fra i partecipanti all'altro funerale, soltanto uno non si allontanò in direzione delle auto parcheggiate lungo un vialetto laterale. Un uomo in abito scuro cominciò a scendere giù per la collina, passando tra lapidi e monumenti, dirigendosi proprio verso la tomba di Naomi. Junior non riusciva davvero a immaginare per quale motivo uno sconosciuto di colore volesse intromettersi nel loro funerale. Sperava che non ci sarebbero stati problemi.
Il reverendo aveva concluso. Il servizio funebre era finito. Nessuno si avvicinò a Junior per fargli le condoglianze perché lo avrebbero rivisto di lì a poco, durante il rinfresco organizzato nell'autosalone. Ma l'uomo che aveva lasciato l'altro servizio funebre e si stava avvicinando, non era né un nero, né uno sconosciuto. Il detective Thomas Vanadium era abbastanza irritante per essere un Hackachak onorario. Junior pensò di allontanarsi prima che arrivasse Vanadium, che si trovava ancora a una settantina di metri di distanza. Ma temeva di aver l'aria di uno che scappa. Oltre a Junior, accanto alla tomba erano rimasti soltanto l'organizzatore della cerimonia funebre e il suo assistente. Gli domandarono se potevano calare la bara o se preferiva che lo facessero quando se n'era andato. Junior diede il permesso di procedere con l'operazione. I due uomini tolsero e arrotolarono il telo plissettato di color verde, sotto il quale vi era il verricello che teneva sospesa la cassa. Verde, invece di nero, perché Naomi amava la natura: Junior era stato molto attento ai particolari della cerimonia funebre. Ora la fossa era rimasta scoperta. Umide pareti di terra. All'ombra della cassa, il fondo della tomba appariva scuro ed era nascosto alla vista. In quel momento, Vanadium raggiunse Junior e gli si fermò accanto. Il suo completo scuro era di qualità scadente, ma aveva un taglio migliore di quello di Rudy. Il detective teneva in mano un'unica rosa bianca a gambo lungo. Il verricello era manovrato da due manovelle. L'impresario delle pompe funebri e il suo assistente presero a girarle contemporaneamente e la cassa cominciò a scendere lentamente, con un lieve cigolio. Alla fine, Vanadium disse: «Dalle analisi di laboratorio risulta che, quasi certamente, lei era il padre del bambino che Naomi portava in grembo». Junior rimase in silenzio. Era ancora sconvolto dal fatto che Naomi gli avesse nascosto la gravidanza, ma gli faceva piacere sapere che il bambino era suo. Adesso Vanadium non poteva più considerare l'infedeltà di Naomi e il piccolo bastardo come movente dell'omicidio. La notizia gli aveva fatto piacere, ma lo aveva anche rattristato molto. In quel momento non stava unicamente seppellendo una moglie adorabile, ma anche il suo primo figlio. Stava seppellendo tutta la sua famiglia. Non volendo dare al poliziotto la soddisfazione di una risposta alla notizia sulla paternità del feto, Junior continuò a fissare la tomba e domandò: «A quale funerale stava partecipando?»
«Quello della figlia di un amico. Hanno detto che è morta in un incidente automobilistico, a San Francisco. Era anche più giovane di Naomi.» «Che tragedia. La sua corda è stata tagliata troppo presto. La sua musica è finita prematuramente», commentò Junior, sentendosi abbastanza sicuro di sé da poter ripetere una delle frasi fatte del poliziotto sulla sua teoria della vita. «Adesso c'è una discordanza nell'universo, detective. Nessuno può sapere in che modo le vibrazioni di quella discordanza influenzeranno lei, me, tutti noi.» Reprimendo un sorrisetto compiaciuto e assumendo un atteggiamento di rispettosa solennità, Junior osò lanciare un'occhiata a Vanadium, ma il detective stava fissando la tomba di Naomi come se non avesse udito le parole piene di sarcasmo o, pur avendole sentite, non ne avesse percepito l'ironia. Poi Junior vide il sangue sul polsino destro della camicia di Vanadium. Il sangue gocciolava anche dalla mano. Dal lungo gambo della rosa bianca non erano state tolte le spine, e Vanadium lo stringeva con tanta forza che le punte gli si erano conficcate nel palmo. L'uomo sembrava non essersene neppure accorto. Seriamente spaventato, Junior voleva allontanarsi da quel pazzo. Tuttavia si sentiva bloccato da un fascino morboso. «Questo giorno così straordinario», disse Vanadium a voce bassa, continuando a fissare la tomba, «sembra pieno di terribili conclusioni. Ma come ogni altro giorno, in realtà è colmo solo di inizi.» Con un tonfo, la bara di Naomi si posò sul fondo della fossa. A Junior quella sembrava proprio una conclusione. «Questo giorno così straordinario», mormorò il detective. Decidendo che non c'era alcun bisogno di una frase di commiato, Junior si diresse verso la stradina laterale in cui era parcheggiata la sua Suburban. I ventri gonfi di pioggia delle nubi non erano più scuri di quando lui era arrivato al cimitero, tuttavia ora gli apparivano più minacciosi di prima. Quando raggiunse la Suburban, si voltò a guardare verso la tomba. L'impresario delle pompe funebri e il suo assistente avevano quasi terminato di smontare la struttura del verricello. Ben presto, un dipendente del cimitero avrebbe richiuso la fossa. Mentre Junior osservava la scena, Vanadium tese il braccio destro al di sopra della tomba aperta. Nella mano, la rosa bianca con le spine scintillanti di sangue. Lasciò cadere il fiore, che scomparve nella fossa, sopra la bara di Naomi.
Quel lunedì sera, quando ormai Phimie e il sole avevano iniziato il loro viaggio verso l'oscurità, Celestina sedette a cena con il padre e la madre nella sala da pranzo della canonica. Gli altri membri della famiglia, gli amici e i parrocchiani se n'erano andati. La casa era immersa in un silenzio che aveva qualcosa di misterioso. Prima d'allora, era sempre stata una casa piena d'amore e di tenerezza, e lo era ancora, anche se, di tanto in tanto, Celestina si sentiva attraversare da un brivido che non poteva essere attribuito a uno spiffero d'aria. Quella casa non era mai apparsa vuota, ma adesso il vuoto la invadeva... il vuoto lasciato da sua sorella. L'indomani mattina sarebbe tornata a San Francisco con la madre. Le dispiaceva lasciare il padre da solo, ad adattarsi a quel vuoto. Tuttavia dovevano partire senza indugio. La bambina sarebbe stata dimessa dall'ospedale appena guarita da un'infezione di poca importanza. Ora che a Grace e al reverendo era stata concessa la custodia temporanea in attesa di adozione, bisognava aiutare Celestina a organizzarsi per adempiere all'impegno che si era assunta di allevare la bambina. Come sempre, la cena si svolgeva al lume di candela. I genitori di Celestina erano romantici. Inoltre, erano convinti che cenare in un ambiente gradevole avesse un effetto benefico sui figli, anche se spesso il pasto consisteva unicamente in un polpettone di carne. Non facevano parte di quei battisti che vietavano l'alcol, ma bevevano vino solo in occasioni speciali. Nel corso della prima cena che seguiva un funerale, dopo le preghiere e le lacrime, la tradizione di famiglia prevedeva un brindisi in onore del caro estinto. Un unico bicchiere. Merlot. Quella sera, la tremolante luce delle candele contribuì a creare non un'atmosfera romantica, non un ambiente gradevole, ma un silenzio reverenziale. Con gesti lenti e solenni, il padre aprì la bottiglia e riempì tre bicchieri. Gli tremavano le mani. Le fiammelle delle candele si riflettevano sulle coppe dei bicchieri a gambo lungo. La famigliola si riunì a un capo del tavolo. Quando Celestina sollevò il bicchiere, il vino rosso scuro mandò bagliori color rubino. Il reverendo parlò per primo, con voce così sommessa che le sue parole sembrarono sbocciare nella mente e nel cuore di Celestina più che giungerle alle orecchie. «Alla cara Phimie, che adesso è con Dio.»
Grace disse: «Alla mia dolce Phimie... che non morirà mai». Fu la volta di Celestina. «A Phimie, che resterà nei miei ricordi in ogni ora e in ogni giorno, per il resto della mia vita, fino a quando non ci riuniremo e a... a questo giorno così straordinario.» «A questo giorno così straordinario», ripeterono il padre e la madre. Il vino sembrò amaro, ma Celestina sapeva che era dolce. L'amarezza era in lei, non nell'uva con cui era stato fatto. Le sembrava di aver mancato nei confronti della sorella. Non sapeva che cos'altro avrebbe potuto fare, ma se le fosse stata più vicina, se fosse stata più perspicace e più attenta, di certo ora non avrebbero dovuto affrontare questa perdita. A che cosa serviva lei, che cosa poteva sperare di fare di buono nella vita, se non era nemmeno riuscita a salvare la sua sorellina? Le fiamme delle candele si trasformarono in tremolanti strisce luminose e i volti dei suoi genitori presero a brillare come quelli un po' sfuocati degli angeli nei sogni. «So che cosa stai pensando», disse sua madre, allungando un braccio oltre il tavolo e posando la mano su quella di Celestina. «So come ti senti inutile, inerme, piccola, ma devi ricordare questo...» Il padre posò delicatamente una delle sue grosse mani sulle loro. Grace, dimostrando ancora una volta quanto quel nome fosse adatto a lei, disse le parole che, con il tempo, sarebbero probabilmente riuscite a restituire la pace a Celestina. «Ricorda Bartolomeo.» 30 La pioggia che aveva minacciato di riversarsi sui funerali di quella mattina, alla fine prese a cadere nel pomeriggio ma, con il calare della sera, il cielo dell'Oregon appariva limpido e asciutto. Da un orizzonte all'altro, la volta era punteggiata dalla luce fredda di un'infinità di stelle e, al centro, una falce di luna color acciaio. Poco prima delle ventidue, Junior tornò al cimitero, lasciando la sua Suburban dove i partecipanti al funerale della ragazza di colore qualche ora prima avevano parcheggiato le loro auto. La sua era l'unica macchina nel vialetto di servizio. Era stata la curiosità a portarlo lì. La curiosità e il suo notevole istinto di conservazione. Quella mattina, Vanadium non si era avvicinato alla tomba di Naomi per pregare per lei. Era venuto in qualità di poliziotto, per lavoro.
Forse aveva partecipato anche all'altro funerale per motivi di lavoro. Dopo aver seguito il viale asfaltato per circa centocinquanta metri, Junior cominciò a scendere tagliando per i prati dall'erba rasata, passando tra le lapidi. Accese la sua torcia e cominciò a camminare con passo veloce ma anche con una certa cautela perché il terreno era piuttosto irregolare e, in alcuni punti, ancora scivoloso e fradicio di pioggia. In quella città dei morti, il silenzio era totale. Non spirava un alito di vento e neanche un sussurro si levava dalle piante sempreverdi che facevano la guardia a generazioni di ossa. Quando individuò la nuova tomba, all'incirca dove pensava che l'avrebbe trovata, rimase sorpreso nel vedere che avevano già sistemato una lapide di granito nero invece di un'indicazione temporanea con il nome del defunto. La pietra tombale era modesta e semplice nelle linee. Tuttavia, spesso gli incisori di lapidi erano in ritardo di giorni rispetto agli impresari di pompe funebri, perché le pietre che usavano per il loro lavoro richiedevano più impegno e meno fretta dei corpi che riposavano nella terra. Junior immaginò che la ragazza morta provenisse da una famiglia di una certa importanza nella comunità nera, il che avrebbe spiegato la rapidità con cui gli incisori avevano lavorato. A suo dire, Vanadium era un amico di famiglia; di conseguenza, il padre era con tutta probabilità un funzionario di polizia. Junior si avvicinò alla lapide da dietro, le girò intorno e puntò la torcia sulla frase che vi era incisa: ...figlia e sorella adorata... Seraphim Aethionema White Sbalordito, spense immediatamente la torcia. Si sentì nudo, esposto, colto in fallo. Nella fredda oscurità, il suo fiato si condensava nell'aria e il chiaro di luna lo faceva apparire ricoperto di ghiaccio. Agli occhi di un testimone presente alla scena, la rapidità e l'irregolarità di quelle luminose esalazioni lo avrebbero fatto apparire come un uomo colpevole. Naturalmente, lui non aveva ucciso quella ragazza. Un incidente d'auto. Non era così che aveva detto Vanadium? Dieci mesi prima, in seguito a una ferita a una gamba che aveva reso necessaria un'operazione al tendine, Seraphim aveva dovuto sottoporsi, in qualità di paziente esterna, a una serie di esercizi di riabilitazione presso
l'ospedale dove lavorava Junior. La terapia prevedeva tre sedute alla settimana. All'inizio, quando gli avevano comunicato che la paziente era di colore, Junior era stato piuttosto riluttante all'idea di essere il suo fisioterapeuta. Il programma di riabilitazione di Seraphim prevedeva perlopiù esercizi strutturati per ripristinare la flessibilità e per rinforzare l'arto operato, ma sarebbe stato necessario farle anche qualche massaggio e questo metteva a disagio Junior. Non aveva nulla contro la gente di colore. Vivi e lascia vivere. Un solo mondo e una sola umanità. Roba del genere. D'altra parte, bisognava pur credere in qualcosa. Junior non si riempiva la testa con stupide superstizioni né accettava che le idee della società borghese, il suo concetto di giusto e sbagliato, di bene e di male, lo limitassero in alcun modo. Da Zedd aveva appreso che era lui l'unico padrone del suo universo. La sua dottrina era raggiungere l'autorealizzazione attraverso l'autostima; seguendo fedelmente questi principi si conquistava la libertà totale e il piacere privo di sensi di colpa. Ciò in cui credeva, l'unica cosa in cui credeva, era Junior Cain, e in questo lui era un credente convinto, devoto a se stesso. Di conseguenza, come aveva spiegato Caesar Zedd, quando un uomo aveva la mente abbastanza lucida per liberarsi di tutte le false credenze e di tutte le regole che inibivano e confondevano l'umanità, quando era sufficientemente illuminato per credere solo in se stesso, sarebbe stato in grado di fidarsi dei suoi istinti, ormai liberi dai venefici modi di vedere della società, e, se avesse seguito sempre ciò che sentiva nelle sue viscere, si sarebbe assicurato il successo e la felicità. Istintivamente, Junior sapeva che non doveva massaggiare la gente di colore. Aveva la sensazione che, in qualche modo, sarebbe rimasto fisicamente o moralmente contaminato da quel contatto. Ma non poteva rifiutare l'incarico con tanta facilità. Da lì a qualche mese, il presidente Lyndon Johnson, con l'appoggio sia del partito democratico che di quello repubblicano, avrebbe firmato la Legge sui Diritti Civili del 1964, e al momento era pericoloso per i lucidi credenti nella supremazia della propria persona esprimere i propri sani istinti, qualcuno avrebbe potuto erroneamente percepirli come pregiudizi razziali. Poteva essere licenziato. Fortunatamente, proprio mentre stava per rivelare queste sensazioni al suo superiore e rischiare il licenziamento, Junior aveva visto la sua potenziale paziente. Con i suoi quindici anni, Seraphim era di una bellezza da
lasciare senza fiato, a modo suo era eccezionale come Naomi e l'istinto disse a Junior che la possibilità di essere fisicamente o moralmente contaminato da lei era del tutto irrilevante. Come tutte le donne che avevano superato la pubertà e che non erano ancora in una tomba, la ragazzina si sentì attratta da lui. Non glielo disse mai chiaramente, non a parole, ma lui si accorse di questa attrazione dal modo in cui lei lo guardava, dal tono di voce che usava quando pronunciava il suo nome. Durante le tre settimane di terapia, Seraphim lasciò trapelare un numero infinito di piccole ma significative prove del suo desiderio. Durante l'ultima seduta, Junior venne a sapere che quella sera la ragazzina sarebbe stata a casa da sola perché i suoi genitori dovevano presenziare a una funzione religiosa, alla quale lei non doveva necessariamente partecipare. Sembrò fargli questa rivelazione in modo del tutto casuale, con assoluta innocenza; ma quando si trattava di fiutare la seduzione, per quanto tenue fosse l'odore, Junior diventava un vero segugio. Più tardi, quando lui si presentò alla sua porta, la ragazzina si finse sorpresa e a disagio. Junior si rese conto che, così come molte altre donne, Seraphim lo voleva, glielo chiedeva... ma nell'immagine che aveva di sé non c'era posto per quella verità, ovvero che era sessualmente aggressiva. Lei desiderava immaginare se stessa come una ragazzina timida, riservata, virginale, innocente come dovrebbe essere la figlia di un reverendo, il che significava che, per ottenere ciò che desiderava, Seraphim pretendeva da Junior un atto di violenza. E lui fu ben lieto di accontentarla. Alla fine saltò fuori che era davvero vergine. Questo lo eccitò moltissimo. Ma ciò che lo mandava in visibilio era il pensiero di violentarla proprio in casa dei suoi genitori... una casa che era anche una canonica. Oltretutto, aveva avuto la possibilità di violentare la ragazza con l'accompagnamento della voce del padre, una cosa ancora più eccitante del fatto di stuprarla nella canonica. Quando Junior aveva suonato il campanello, Seraphim era in camera sua e stava ascoltando un nastro con la registrazione di un sermone del padre. Il buon reverendo di solito dettava una prima bozza, che successivamente la figlia trascriveva. Per tre ore, Junior continuò a violentarla senza pietà, al ritmo della voce del reverendo. La «presenza» dell'uomo era adorabilmente perversa e stimolava le sue invenzioni erotiche. Quando Junior ebbe finito, non c'era nulla di sessuale che Seraphim avrebbe fatto in seguito con un uomo e che non avesse appreso da lui.
Aveva lottato, pianto, finto disgusto e vergogna, aveva giurato di denunciarlo alla polizia. Un altro uomo, non esperto come Junior nel leggere la mente delle donne, avrebbe pensato che la ragazzina fosse sincera, che le sue accuse di stupro erano vere. Forse un altro uomo avrebbe rinunciato, ma Junior non si lasciava prendere in giro né confondere le idee. Una volta soddisfatta, ciò che lei desiderava di più era un motivo per ingannare se stessa e convincersi di non essere una puttanella, ma solo una vittima. Non voleva veramente raccontare a nessuno ciò che lui le aveva fatto. Anzi, gli stava domandando, in modo indiretto ma senza ombra di dubbio, di fornirle una scusa per mantenere segreto il loro travolgente incontro, una scusa che le avrebbe anche permesso di continuare a fingere di non averlo implorato di fare tutto ciò che aveva fatto. Dato che a Junior piacevano realmente le donne e che sperava sempre di far loro piacere, di essere discreto, servizievole e generoso, la accontentò immediatamente, presentandole un resoconto molto dettagliato della terribile vendetta che si sarebbe abbattuta su di lei e sulla sua famiglia se avesse raccontato a qualcuno ciò che era successo. Vlad l'Impalatore, il conte che aveva ispirato a Bram Stoker il personaggio di Dracula - grazie, Club del libro - non avrebbe potuto immaginare torture e mutilazioni più cruente e spaventose di quelle che Junior promise al reverendo, a sua moglie e alla stessa Seraphim. Fingere di terrorizzare la ragazzina lo eccitava e lui era abbastanza perspicace da accorgersi che anche lei era altrettanto eccitata nel fingersi terrorizzata. Aggiunse infine un tocco di verosimiglianza alle sue minacce con alcuni pugni sferrati con forza in punti in cui non avrebbero lasciato il segno, sul seno e sull'addome, poi tornò a casa da Naomi con la quale, al tempo, era sposato da meno di cinque mesi. Con sua grande sorpresa, quando Naomi gli fece capire che avrebbe gradito un po' di romanticismo, Junior si sentì di nuovo un toro. Era convinto di aver lasciato il meglio di sé nella canonica del reverendo Harrison White. Naturalmente lui amava sua moglie e non avrebbe potuto mai negarsi a lei. Sebbene quella sera fosse stato particolarmente dolce con Naomi, se avesse saputo che avrebbero trascorso meno di un anno insieme prima che il destino gliela portasse via, Junior sarebbe stato ancora più dolce. Mentre Junior se ne stava di fronte alla tomba di Seraphim, dalle narici gli usciva un vapore condensato che, nell'aria immobile della notte, lo fa-
ceva somigliare a un drago. Si domandò se la ragazza avesse parlato. Forse, non volendo ammettere nemmeno a se stessa di aver desiderato tutto ciò che lui le aveva fatto, la ragazzina si era lasciata prendere dai sensi di colpa e alla fine si era convinta di essere stata realmente stuprata. Quella puttanella psicotica. Era per questo che Thomas Vanadium sospettava di Junior quando nessun altro lo faceva? Se il detective credeva che Seraphim fosse stata violentata, il suo naturale desiderio di vendicare la figlia dell'amico poteva essere il motivo per cui, da quattro giorni, aveva preso a torturare in modo implacabile il povero Junior. Ma ripensandoci... no. Se Seraphim avesse raccontato a qualcuno della violenza subita, la polizia si sarebbe presentata alla porta di Junior nel giro di pochi minuti, con un mandato d'arresto. Anche senza prove. In quell'epoca di estrema comprensione per tutti coloro che un tempo erano stati oppressi, la parola di una ragazzina di colore avrebbe avuto maggiore importanza della fedina penale immacolata di Junior, della sua ottima reputazione e delle sue appassionate dichiarazioni d'innocenza. Vanadium era sicuramente all'oscuro di quanto era avvenuto tra Junior e Seraphim White. E adesso la ragazza non poteva più parlare. Junior ricordava le parole esatte del detective: Hanno detto che è morta in un incìdente automobilistico. Hanno detto... Come sempre, Vanadium aveva parlato con voce piatta, senza porre alcuna enfasi particolare su quelle due parole. Tuttavia Junior ebbe la sensazione che il detective avesse dei dubbi su quanto era stato detto per spiegare la morte della ragazza. Forse qualsiasi morte accidentale per Vanadium era sospetta. Magari quel modo ossessivo di perseguitare Junior era del tutto normale per lui. Dopo aver trascorso troppi anni a investigare su omicidi, dopo essersi imbattuto per troppo tempo nella malvagità umana, forse Vanadium era diventato allo stesso tempo misantropo e paranoico. Junior si sentì quasi dispiaciuto per quel grosso detective dall'aria triste e stralunata e dalla mente disturbata da anni di estenuante pubblico servizio. Il lato positivo della situazione era facile da vedere. Se la fama di Vanadium presso gli altri poliziotti e i pubblici ministeri era quella di un paranoico, di un patetico inseguitore di assassini fantasma, nessuno avrebbe
dato credito alla sua convinzione, priva di qualsiasi prova, che Naomi fosse stata uccisa. E se ogni morte gli sembrava sospetta, ben presto il detective avrebbe perso interesse per Junior e si sarebbe entusiasmato per qualcos'altro, tormentando un altro povero diavolo. Supponendo che la sua nuova passione fosse quella di scoprire qualcosa di losco nell'incidente occorso a Seraphim, in questo caso la ragazza avrebbe fatto un favore a Junior anche dopo la morte. Che l'incidente stradale fosse stato un incidente o no, Junior non c'entrava per nulla. Un po' alla volta si calmò. Le violente esalazioni di fiato condensato diminuirono gradualmente fino a trasformarsi in trasparenti goccioline che evaporavano a pochi centimetri dalle labbra. Leggendo le date incise sulla lapide, notò che la figlia del reverendo era morta il 7 di gennaio, il giorno dopo che Naomi era caduta dalla torre. Se mai glielo avessero domandato, Junior non avrebbe avuto nessun problema a rendere conto di dove si trovava quel giorno. Spense la torcia e rimase immobile per qualche istante, rendendo omaggio alla piccola Seraphim. Era stata una ragazzina così dolce, così innocente, così morbida, così perfettamente proporzionata. Si sentiva il cuore stretto da una morsa di tristezza, ma non pianse. Se il loro rapporto non fosse stato circoscritto a un'unica serata di passione, se non fossero appartenuti a due mondi diversi, se lei non fosse stata minorenne e quindi avere una relazione con lei non avesse significato finire dritto in prigione, avrebbero potuto vivere una reale storia d'amore, e in quel caso la sua morte lo avrebbe colpito più profondamente. Una falce di luce pallida scintillò sul granito nero. Junior sollevò lo sguardo verso la luna. Sembrava una temibile e affilata scimitarra d'argento sospesa a un filo più sottile di un capello umano. Lo innervosiva, anche se si trattava solo della luna. All'improvviso la notte gli apparve... vigile. Senza usare la torcia, affidandosi solo alla luce della luna, prese a risalire il pendio in direzione della stradina. Quando raggiunse la Suburban e chiuse la mano destra intorno alla maniglia della portiera, sentì qualcosa di strano che premeva contro il palmo. Un oggetto piccolo e freddo appoggiato sul metallo. Ritrasse la mano, sobbalzando. L'oggetto cadde tintinnando lievemente sull'asfalto. Accese la torcia. Nel fascio di luce, sull'asfalto, un dischetto d'argento. Come una luna piena in un cielo notturno.
Un quarto di dollaro. Il quarto di dollaro, sicuramente. Quello che, il venerdì precedente, non aveva trovato nella tasca della vestaglia, dove avrebbe dovuto essere. Con la torcia illuminò tutta l'area circostante e le ombre cominciarono a girare vorticosamente con altre ombre, spiriti che ballavano il valzer nel salone della notte. Nessun segno di Vanadium. Su entrambi i lati della strada che attraversava il cimitero vi erano alti monumenti funebri che offrivano ottimi nascondigli, così come i grossi tronchi degli alberi più imponenti. Il detective poteva essere nascosto da qualunque parte. Oppure essersene già andato. Dopo un attimo di esitazione, Junior raccolse la moneta. Voleva lanciarla nel cimitero, farla scomparire nel buio. Ma se Vanadium lo stava osservando, avrebbe interpretato quel gesto come il fatto che la sua insolita strategia stava funzionando, che Junior aveva ormai i nervi a fior di pelle. Con un avversario infaticabile come quel poliziotto, non bisognava mai dimostrarsi deboli. Junior lasciò cadere la moneta in una tasca dei pantaloni. Spense la luce. Rimase in ascolto. Si aspettava quasi di sentire Thomas Vanadium canticchiare in distanza: Qualcuno che badi a me. Trascorso un minuto, fece scivolare la mano in tasca. La moneta era ancora lì. Entrò nella Suburban, chiuse la portiera ma non avviò subito il motore. Ripensandoci, venire lì quella sera non era stata una mossa molto intelligente. Evidentemente, il detective lo stava seguendo. Adesso Vanadium avrebbe cercato di scoprire il motivo di quella visita notturna al cimitero. Mettendosi al posto del detective, si potevano immaginare diversi motivi per andare a visitare la tomba di Seraphim. Sfortunatamente, nessuno di loro confermava la tesi dell'innocenza di Junior. Nella peggiore delle ipotesi, Vanadium poteva domandarsi se lui avesse avuto qualcosa a che fare con Seraphim, poteva scoprire che era stato il suo fisioterapeuta e, nella sua paranoia, poteva giungere all'errata conclusione che Junior fosse in qualche modo coinvolto nell'incidente automobilistico. Naturalmente era pura follia, ma il detective non era un uomo razionale. Nella migliore delle ipotesi, Vanadium poteva decidere che il suo uomo fosse andato lì perché voleva sapere a quale altro funerale la sua nemesi
avesse partecipato... e questo, in effetti, era il vero motivo. Ma in questo modo appariva chiaro che Junior lo temeva e che stava facendo di tutto per anticipare le sue mosse. Non era un comportamento da persona innocente. Per quanto riguardava quel paranoico di poliziotto, era come se Junior avesse scritto in fronte: HO UCCISO NAOMI. Palpò nervosamente la stoffa dei pantaloni, seguendo il profilo della moneta nella tasca. Era ancora lì. La luna di un bianco calce gettò una luce polare sul cimitero. L'erba appariva argentata come la neve di notte e le lapidi inclinate somigliavano a blocchi di ghiaccio spinti l'uno contro l'altro dalla pressione. La stradina nera sembrava apparire dal nulla e poi svanire nel vuoto e all'improvviso Junior si sentì pericolosamente isolato, solo come non era mai stato, e vulnerabile. Vanadium non era un normale poliziotto, come lui stesso aveva detto. Ossessionato com'era, convinto che Junior avesse ucciso Naomi e impaziente di trovare le prove che dimostrassero la sua colpevolezza, se avesse deciso di farsi giustizia da sé, non si sarebbe fermato davanti a nulla. Chi mai avrebbe potuto impedirgli di avvicinarsi alla Suburban proprio in quel momento e di sparare al presunto omicida da distanza ravvicinata? Junior bloccò le portiere, avviò il motore e cominciò a guidare verso l'uscita del cimitero a una velocità eccessiva, considerata la tortuosità di quella stradina. Sulla via di casa, controllò più volte lo specchietto retrovisore. Nessun veicolo lo stava seguendo. Abitava in una casa in affitto: un villino con due stanze da letto. La casa era circondata da enormi deodare con più strati di rami che scendevano verso il basso; di solito avevano un'aria protettiva, ma adesso incombevano sinistre. Entrando in cucina dal garage e accendendo la luce, era convinto di trovare Vanadium seduto al tavolo in legno di pino, che beveva una tazza di caffè. Ma la cucina era vuota. Junior ispezionò tutta la casa, una stanza dopo l'altra, un armadio dopo l'altro, alla ricerca del detective. Ma lui non era lì. Sollevato, ma non ancora completamente convinto, fece di nuovo il giro della casa per essere certo che tutte le porte e le finestre fossero bloccate. Dopo essersi spogliato, rimase per un po' seduto sul bordo del letto, strofinando la moneta tra il pollice e l'indice della destra, pensando a Thomas Vanadium. Cercò di farla ruotare da una nocca all'altra; la fece cadere più
volte. Alla fine posò la moneta sul comodino, spense la luce e s'infilò nel letto. Non riusciva a dormire. Quella mattina aveva cambiato le lenzuola. Il profumo di Naomi non gli faceva più compagnia. Non si era ancora liberato degli effetti personali di sua moglie. Avanzando al buio, raggiunse il cassettone, aprì un cassetto e trovò un maglioncino di cotone che lei aveva indossato di recente. Tornando a letto, distese l'indumento sul cuscino. Poi si sdraiò e premette il viso contro la stoffa. Il profumo dolce e leggero di Naomi ebbe l'effetto di una ninnananna e ben presto lui si addormentò. Quando si svegliò, la mattina successiva, sollevò la testa dal cuscino per guardare la sveglia... e vide venticinque centesimi di dollaro sul comodino. Due monete da dieci e una da cinque. Junior gettò indietro le coperte e scattò in piedi, ma si sentì le ginocchia deboli e dovette sedersi sul bordo del letto. La camera era abbastanza illuminata per rassicurarlo sul fatto che era solo. L'interno della bara in cui adesso Naomi era rinchiusa non poteva essere più silenzioso di quella casa. Le monetine erano state sistemate su una carta da gioco, posata a faccia in giù. Fece scivolare la carta da sotto le monete e la voltò. Un jolly. Sulla carta, scritto a stampatello in caratteri rossi, vi era un nome: BARTHOLOMEW. 31 Obbedendo agli ordini del medico, per quasi una settimana Agnes evitò di salire le scale. Si lavava nel bagno al pianterreno e dormiva in salotto, in un divano letto, con Barty nella culla accanto a lei. Maria Gonzalez le portava sformati di riso, piatti messicani a base di carne trita e polpette di fagioli. Ogni giorno, Jacob preparava torte al cioccolato e biscotti, sempre diversi e in tale quantità che, quando ritirava i suoi piatti, Maria li trovava colmi di dolci. Ogni sera, Edom e Jacob cenavano con Agnes e anche se, ogni volta che si trovavano in quella casa il passato pesava come un macigno su di loro, si fermavano sempre abbastanza a lungo per lavare i piatti prima di tornare nei rispettivi appartamenti sopra il garage. Joey non aveva avuto alle spalle una famiglia che adesso potesse aiutare
Agnes in qualche modo. Sua madre era morta di leucemia quando lui aveva quattro anni. Suo padre, un uomo violento e amante della birra - tale padre non tale figlio - era rimasto ucciso cinque anni dopo durante una rissa in un bar. Privo di parenti stretti desiderosi di accoglierlo, Joey era finito in un orfanotrofio. Aveva otto anni, troppo grande, quindi, per essere adottato, ed era cresciuto in un istituto. Ma se i parenti non erano molto numerosi, in compenso un incredibile numero di amici e vicini andarono a trovare Agnes per darle una mano e alcuni si offrirono di trattenersi anche per la notte. Agnes accettò con gratitudine il loro aiuto per quanto riguardava pulire la casa, lavare e fare la spesa, ma rifiutò la compagnia notturna per via dei suoi sogni. Sognava regolarmente Joey. Ma non erano incubi. Niente sangue, non riviveva l'orrore dell'incidente. Nel sogno, stava facendo un picnic con Joey, oppure erano insieme al luna park. Passeggiavano sulla spiaggia, guardavano un film. In quelle scene vi era un'atmosfera di grande calore, un'aura di amicizia, di amore. Solo che, a un certo punto, inevitabilmente lei distoglieva lo sguardo da Joey e, quando tornava a guardarlo, lui non c'era più e Agnes sapeva che se ne era andato per sempre. Si svegliava piangendo e non voleva che ci fosse qualcuno a vederla. Non era imbarazzata per le sue lacrime, ma voleva condividerle unicamente con Barty. Piangeva silenziosamente, seduta in una sedia a dondolo, stringendo tra le braccia il suo piccolino. Spesso Barty continuava a dormire serenamente. Ma se si svegliava, le sorrideva oppure corrugava la fronte in una smorfietta perplessa. Il sorriso del neonato era così accattivante e la sua perplessità così comica che agivano sulla tristezza di Agnes come il lievito sulla pasta. Da amare, le lacrime diventavano dolci. Barty non piangeva mai. Nel reparto neonatale dell'ospedale, le infermiere lo adoravano perché, quando tutti gli altri neonati si mettevano a strillare in coro, Barty era l'unico a restare sempre tranquillo. Venerdì, 14 gennaio, otto giorni dopo la morte di Joey, Agnes chiuse il divano letto e decise che, dal quel momento in poi, sarebbe tornata a dormire al piano di sopra. E per la prima volta da quando era tornata a casa, preparò la cena senza dover ricorrere ai piatti pronti degli amici o a quelli conservati nel freezer. Maria aveva affidato le bambine alla madre, arrivata dal Messico, e aveva cenato con Agnes e con i due gemelli Jsaacson, i cronisti delle disgra-
zie. Cenarono in sala da pranzo, invece che in cucina, con una tovaglia di pizzo, il servizio buono, i bicchieri di cristallo e un centrotavola di fiori freschi. Servire una cena così formale era il modo di Agnes per dichiarare, a se stessa più che agli altri commensali, che era giunto per lei il momento di continuare a vivere per il bene di Bartholomew e anche per il suo. Maria arrivò in anticipo perché voleva dare una mano in cucina, almeno per quel che riguardava gli ultimi particolari. Sebbene si sentisse onorata di essere un'ospite, non era capace di starsene con un bicchiere di vino in mano mentre c'era ancora qualcosa da fare. Alla fine, Agnes cedette alle sue insistenze. «Un giorno dovrai imparare a rilassarti, Maria.» «Io, mi piace molto essere utile come un martello.» «Un martello?» «Martello, sega, cacciavite. Io sono essere sempre molto felice quando utile nel modo che cose sono utili.» «Be', per favore, non usare un martello per finire di apparecchiare la tavola.» «È scherzo.» Maria era orgogliosa di aver interpretato correttamente le parole di Agnes. «No, sono seria. Niente martello.» «È buono che tu sei scherzare.» «È un bene che io possa scherzare», la corresse Agnes. «E quello io dico.» Il tavolo della sala da pranzo era per sei commensali e Agnes disse a Maria di preparare due coperti per ogni lato, lasciando i capotavola vuoti. «Sarà più intimo se staremo seduti gli uni davanti agli altri.» Ma Maria preparò cinque coperti invece di quattro. Il quinto - completo di piatti, posate e bicchieri - fu sistemato a capotavola, in memoria di Joey. Provata com'era dalla difficoltà di convivere con la sua perdita, l'ultima cosa di cui Agnes aveva bisogno era di quel posto preparato davanti a una sedia vuota. Ma le intenzioni di Maria erano buone e Agnes non voleva ferire i suoi sentimenti. Dato che stavano mangiando una zuppa di patate e un'insalata di asparagi, la conversazione ebbe un inizio alquanto promettente: i piatti a base di patate che preferivano, osservazioni sul tempo, il Natale in Messico. Naturalmente, alla fine, il caro Edom non poté fare a meno di tirar fuori il suo argomento preferito, i tornado, in particolare quello, terribile, del
1925, che aveva sconvolto vaste aree del Missouri, dell'Illinois e dell'Indiana. «La maggior parte dei tornado rimane a terra per una trentina di chilometri, anche meno», spiegò Edom, «ma in questo caso il vortice ha spazzato il terreno per più di trecentocinquanta chilometri! E aveva un diametro di più di un chilometro e mezzo. Tutto ciò che ha incontrato è stato distrutto, frantumato. Case, fabbriche, chiese, scuole... tutto polverizzato. Murphysboro, nell'Illinois, è stata cancellata dalla carta geografica, in quella sola città sono morte centinaia di persone.» Maria, con gli occhi sbarrati, abbassò le posate e si fece il segno della croce. «Ha raso al suolo quattro città, come se fossero state colpite da bombe atomiche, ha scaraventato in aria interi quartieri di altre sei città e ha distrutto quindicimila case. Per parlare solo delle case. Era nero, enorme, spaventoso, attraversato da una continua tempesta di lampi e dicono che facesse un fragore terribile, come quello di centinaia di tuoni tutti insieme.» Maria si segnò nuovamente. «In totale, ci sono state seicentonovantacinque vittime. La forza del vento era tale che alcuni corpi sono stati scaraventati a due chilometri di distanza.» Sembrava che Maria si fosse pentita di non aver portato con sé il rosario. Con le dita della mano destra stringeva le nocche della sinistra una dopo l'altra, come fossero grani. «Be'», intervenne Agnes, «grazie al cielo, qui in California non ci sono tornado.» «Però abbiamo le dighe», fece notare Jacob con un gesto della forchetta. «L'alluvione di Johnstown, del 1889. Certo, è stato in Pennsylvania, ma potrebbe accadere benissimo anche qui. È stata un'alluvione terribile, lasciatemelo dire. È crollata la diga South Fork. La città è stata spazzata via da una parete d'acqua alta più di venti metri. Il tuo tornado ha ucciso quasi settecento persone, ma la mia diga ne ha fatte fuori duemiladuecentonove. Sono state cancellate dalla faccia della terra novantanove famiglie al completo. E novantotto bambini hanno perso entrambi i genitori.» Maria smise di pregare con il rosario di nocche e si fece coraggio con un lungo sorso di vino. «Trecentonovantasei vittime erano bambini al di sotto dei dieci anni», proseguì Jacob. «Un treno in corsa si è rovesciato e sono morte venti per-
sone. Un altro treno, un vagone cisterna, è stato scaraventato fuori dei binari e il carburante uscito dalla cisterna si è mescolato all'acqua, prendendo fuoco, e tutti quelli che venivano trascinati dalla corrente a quel punto si sono trovati circondati dalle fiamme, intrappolati. Avevano soltanto una scelta: o bruciare vivi o annegare.» «Qualcuno vuole del dolce?» domandò Agnes. Davanti a grosse fette di Foresta Nera e a una tazza di caffè, Jacob dissertò a lungo sull'esplosione di una nave da carico francese che trasportava nitrato di ammonio e che, nel 1947, era saltata in aria mentre era ormeggiata nel porto di Texas City, nel Texas. Cinquecentosettantasei vittime. Facendo ricorso a tutta la sua abilità di padrona di casa, un po' alla volta Agnes portò la conversazione dalle catastrofiche esplosioni ai fuochi d'artificio del 4 di luglio e ai ricordi delle serate estive quando lei, Joey, Edom e Jacob se ne stavano a giocare a carte - pinnacolo, canasta, bridge - nel giardino dietro casa. Jacob ed Edom formavano una coppia di avversari davvero formidabili perché avevano una memoria straordinaria per i numeri, dopo anni e anni trascorsi a raccogliere dati per le loro statistiche su disgrazie e catastrofi. Quando la conversazione si spostò sui giochi di destrezza con le carte e sulla lettura dei tarocchi, Maria confessò di saper leggere il futuro anche con le normali carte da gioco. Edom, ansioso di sapere quando, con esattezza, sarebbe arrivata la fine del mondo attraverso un'onda anomala o un asteroide precipitato sulla terra, andò a prendere un mazzo di carte conservato in un mobile del salotto. Quando Maria spiegò che soltanto una carta su tre veniva letta e che per poter dare un'occhiata generale al futuro ci volevano quattro mazzi, Edom tornò in salotto per cercarne altri tre. «Portane quattro», gridò Jacob, «tutti nuovi!» Dato che consumavano molte carte, ne tenevano sempre numerosi mazzi di scorta. Rivolto ad Agnes, Jacob commentò: «Se le carte sono nuove di zecca, è più facile che il futuro sia roseo, non credi?» Forse sperando di scoprire quale treno deragliato o quale fabbrica esplosa lo avrebbe fatto scomparire dalla faccia della terra, Jacob spinse di lato il piattino da dolce e mescolò ogni mazzo separatamente, poi mischiò nuovamente tutte le carte insieme. Infine le pose davanti a Maria. Nessuno sembrava rendersi conto che predire il futuro poteva non essere il passatempo più adatto in quella casa e in quel momento, visto che di re-
cente il destino si era accanito in modo così crudele contro Agnes. La fede di Agnes era sempre accompagnata dalla speranza. Per tutta la vita si era aggrappata alla convinzione che l'attendesse un futuro luminoso, ma in quel momento esitava a mettere alla prova il suo ottimismo anche semplicemente con un'innocua lettura delle carte. Tuttavia, com'era avvenuto per il quinto coperto, non se la sentì di opporsi. Mentre Jacob mescolava i mazzi, Agnes aveva preso il piccolo Barty dalla culla e lo stringeva tra le braccia. Rimase sorpresa e sconcertata nello scoprire che la prima lettura delle carte avrebbe riguardato il bambino. Maria si voltò di lato nella sedia e, partendo dalla prima carta in cima al mazzo, cominciò a voltarle di fronte a Barty. La prima fu un asso di cuori. Questa, disse Maria, era una carta davvero molto buona. Significava che Barty sarebbe stato fortunato in amore. Maria mise da parte due carte, prima di voltare la terza. Anche questa era un asso di cuori. «Ehi, diventerà proprio un dongiovanni», commentò Edom. Lanciando una specie di gorgheggio, Barty fece una bolla di saliva. «Questa carta significare anche amore di famiglia ed è amore di molti amici, non solo di bacini-bacini», spiegò Maria. Anche la terza carta che venne posata davanti a Barty era un asso di cuori. «Quante probabilità ci sono che accada una cosa del genere?» si domandò Jacob. Sebbene l'asso di cuori avesse solo significati positivi e sebbene, a detta di Maria, il fatto che comparisse più volte, soprattutto in sequenza, significava una crescente fortuna, tuttavia Agnes sentì una serie di brividi correrle lungo la spina dorsale come se le sue vertebre fossero dita che si spostavano strisciando. La carta successiva era identica alle precedenti. Mentre quel cuore solitario al centro di un rettangolo bianco ispirava stupore e gioia in Maria e nei gemelli, la reazione di Agnes fu di terrore. Cercò di mascherare i suoi sentimenti con un sorriso tirato e sottile come il bordo di una carta da gioco. Nel suo inglese traballante, Maria spiegò che quei miracolosi quattro assi di cuori significavano che non solo Barty avrebbe incontrato la donna giusta e avrebbe vissuto con lei una lunga e meravigliosa storia d'amore, che non solo avrebbe potuto contare per il resto della vita sull'amore della famiglia, che non avrebbe avuto soltanto molti, molti amici, ma che sareb-
be anche stato amato da una folla sterminata di persone che non l'avrebbero mai conosciuto personalmente. «Come potrà essere amato da persone che non l'incontreranno mai?» domandò Jacob, aggrottando le sopracciglia. Con un sorriso beato, Maria rispose: «Questo significare Barty un giorno sarà essere muy famoso». Agnes voleva che suo figlio fosse felice. Non le importava nulla della fama. Per istinto sapeva che le due cose insieme, fama e felicità, raramente possono coesistere. Fino a quel momento, aveva cullato dolcemente Barty. Ora lo teneva fermo, stretto al seno. La quinta carta era un altro asso e Agnes trattenne il fiato perché, per un istante, pensò che si trattasse di un altro asso di cuori, il che non era possibile in quattro mazzi di carte. Ma era un asso di quadri. Maria spiegò che anche questa era un'ottima carta, significava che Barty non sarebbe mai stato povero e il fatto che fosse uscito dopo quattro assi di cuori era particolarmente significativo. La sesta carta fu un altro asso di quadri. Si fissarono tutti in silenzio. Sei assi in fila e tutti dello stesso colore. Agnes non era in grado di calcolare quante probabilità avevano le carte di uscire in quel modo, ma sapeva che dovevano essere minime. «Vuole dire che è migliore che non povero, ma proprio ricco.» La settima carta fu ancora una volta un asso di quadri. Senza fare alcun commento, Maria mise da parte le due carte e voltò l'ottava. Anche questa era un asso di quadri. Maria si fece il segno della croce, ma questa volta con uno spirito diverso rispetto a quando si era segnata durante il racconto di Edom sui danni provocati dal tornado del 1925. Allora, aveva cercato di allontanare da sé la sfortuna; ora, con un sorriso e un'espressione colma di meraviglia, riconosceva la grazia di Dio che, secondo le carte, scendeva con tanta abbondanza sul piccolo Bartholomew. Barty, spiegò Maria, sarebbe stato ricco in molti modi. Ricco finanziariamente, ma anche di qualità, spirito e intelletto. Ricco di coraggio e onore. Avrebbe avuto buonsenso, capacità di giudizio e fortuna in abbondanza. Qualsiasi madre sarebbe stata felice di sentir predire un futuro così glorioso per il proprio figlio. Ma a ogni predizione, nel cuore di Agnes la
temperatura scendeva di alcuni gradi. La nona carta fu un fante di picche e, vedendolo, il suo sorriso si smorzò. I fanti simboleggiavano i nemici, spiegò, persone false o addirittura malvagie. Il fante di cuori rappresentava o un rivale in amore o un amante che tradiva: un nemico che avrebbe inferto una profonda ferita al cuore. Il fante di quadri era qualcuno che procurava problemi finanziari. Il fante di fiori era una persona che feriva con le parole. Qualcuno che ti calunniava o che ti aggrediva con critiche meschine o ingiuste. Il fante di picche, la carta che aveva appena voltato, era il jack peggiore del mazzo. Indicava un nemico che sarebbe ricorso alla violenza. Con i suoi capelli biondi e riccioluti, i baffi girati all'insù, il profilo arrogante, la figura, più che di un fante, aveva l'aspetto di un furfante. Maria strinse la decima carta nella piccola mano scura. Mai il disegno tanto familiare che compariva sul dorso delle carte da gioco aveva avuto un aspetto sinistro prima d'allora, ma adesso appariva terrificante, il simbolo di un rito vudù o di una setta satanica. Maria voltò la mano, voltò la carta e, sbattendola contro il tavolo, mostrò un altro fante di picche. Usciti uno dopo l'altro, i due fanti di picche non significavano due nemici mortali, ma che quel nemico sarebbe stato eccezionalmente potente e pericoloso. Ora Agnes sapeva per quale motivo, invece di renderla felice, quelle predizioni l'avevano lasciata sgomenta: se si credeva nella lettura delle carte, si era obbligati a credere non solo alle previsioni positive, ma anche a quelle negative. Tra le sue braccia, il piccolo Barty gorgogliò allegramente, ignaro del fatto che il suo destino prevedeva un grande amore, immense ricchezze e violenza. Era così innocente. Quel bimbo così dolce, quel neonato così puro, non poteva avere un nemico al mondo e Agnes non poteva immaginare che, se lo avesse cresciuto bene, suo figlio potesse farsi dei nemici. Era tutta una sciocchezza, una stupida lettura delle carte. Agnes avrebbe voluto impedire a Maria di voltare l'undicesima carta, ma la sua curiosità era pari all'apprensione. Quando apparve un terzo fante di picche, Edom domandò a Maria: «Con tre fanti in fila, che tipo di nemico può essere?» Maria rimase con lo sguardo fisso sulla carta che aveva appena voltato e per un po' rimase in silenzio, come se gli occhi del fante l'avessero ipnotiz-
zata. Alla fine rispose: «Mostro. Mostro umano». Jacob si schiarì nervosamente la gola. «E se fossero quattro jack di seguito?» Il tono solenne dei suoi fratelli irritò Agnes. Sembrava che stessero prendendo seriamente la lettura delle carte, come se fosse qualcosa di più di un semplice gioco, di un passatempo dopo cena. Per la verità, anche lei era rimasta turbata da quelle carte. Ma ammettere che avessero una qualsiasi credibilità portava di conseguenza ad avere una fiducia cieca in quello che dicevano. Le probabilità che uscisse una serie di undici carte come quella dovevano essere di svariati milioni contro una, il che sembrava conferire una certa validità alla predizione. Tuttavia, non sempre le coincidenze avevano un significato. Gettando in aria una monetina per un milione di volte, ci saranno all'incirca il cinquanta per cento di probabilità che esca testa e altrettante probabilità che esca croce. E potrà accadere che esca testa trenta, quaranta, cento volte di fila. Questo non significa che il destino c'entri in qualche modo o che Dio scegliendo di essere non solo misterioso come sempre, ma addirittura imperscrutabile - voglia avvertire l'umanità dell'arrivo della fine del mondo attraverso una moneta; significa soltanto che, solo alla lunga, la legge delle probabilità si rivela esatta e che, nel breve termine, le anomalie hanno un significato unicamente per i creduloni. E se fossero quattro jack di seguito? Alla fine Maria rispose alla domanda di Jacob con un mormorio, facendosi nuovamente il segno della croce. «Mai visti quattro. Mai neppure io visto tre. Ma quattro... dovere è proprio il diavolo.» Questa affermazione fu accolta con estrema serietà da Edom e Jacob, come se abitualmente il diavolo se ne andasse a spasso per le vie di Bright Beach e, di tanto in tanto, portasse via i bambini dalle braccia delle madri e se li mangiasse spalmati di senape. Anche Agnes rimase un po' scossa, tanto che intervenne: «Adesso basta. Non è più divertente». Pienamente d'accordo, Maria spinse di lato la pila di carte non ancora utilizzate e si scrutò le mani come se volesse lavarsele a lungo con l'acqua bollente. «No», cambiò idea Agnes, liberandosi da quella paura irrazionale. «Aspetta. È assurdo. È soltanto una carta e siamo tutti curiosi.» «No», la ammonì Maria.
«Io non ho bisogno di vederla», concordò Edom. «Nemmeno io», gli fece eco Jacob, Agnes fece scivolare la pila di carte davanti a sé. Scartò le prime due, come avrebbe fatto Maria e voltò la terza. L'ultimo fante di picche. Sebbene una corrente gelida le percorresse la spina dorsale, Agnes sorrise alla carta. Era ben decisa a scrollarsi di dosso l'umore cupo che era sceso su di loro. «Non mi sembra così terribile.» Voltò il fante di picche verso il bambino, in modo che potesse vederlo. «Ti fa paura, Barty?» Bartholomew era stato in grado di mettere a fuoco gli oggetti molto prima dei neonati della sua età. Era già interessato a tutto ciò che lo circondava. Il piccolo Barty fissò la carta, fece schioccare le labbra, sorrise e disse: «Ga». Poi, con uno strombettio odoroso, riempì il pannolino. Tutti, tranne Maria, scoppiarono a ridere. Lanciando il fante sul tavolo, Agnes commentò: «Non mi sembra che Barty sia rimasto molto colpito da questo diavolo». Maria radunò i quattro jack e li strappò in tre pezzi. Poi si infilò i dodici pezzetti nel taschino della camicia. «Io compro nuove carte, ma mai più tu può avere queste.» 32 Denaro in cambio di morti. Riuscire a trasformare la carne in decomposizione di una moglie adorata e di un futuro figlio in una fortuna economica era un risultato che faceva un gioco da bambini il sogno degli alchimisti di trasmutare il piombo in oro. Il martedì, a meno di ventiquattro ore dal funerale di Naomi, Knacker, Hisscus e Nork - in rappresentanza dello stato e della contea - ebbero dei contatti preliminari con l'avvocato di Junior e con quello della famiglia Hackachak. Come nella precedente occasione, i tre eleganti signori si dimostrarono concilianti, sensibili e desiderosi di raggiungere un accordo per impedire che si arrivasse a un processo per omicidio colposo. Anzi, gli avvocati dei potenziali querelanti ebbero la sensazione che Nork, Hisscus e Knacker fossero anche troppo ansiosi di raggiungere un accordo e assunsero un atteggiamento molto sospettoso nei loro confronti. Ovviamente lo stato voleva evitare di doversi difendere dall'accusa di aver
provocato, con la sua negligenza, la morte di una giovane e bellissima sposa e del bambino di cui era incinta, ma la loro disponibilità a iniziare le trattative così presto e con un atteggiamento di estrema ragionevolezza lasciava intendere che la loro posizione fosse ancora più debole di quel che appariva. L'avvocato di Junior, Simon Magusson, insisteva perché venissero resi noti tutti i dati e i rapporti sulla manutenzione della torre di avvistamento incendi e di altre strutture del servizio forestale, per le quali lo stato e la contea avevano responsabilità unica o congiunta. Se fosse stata presentata una denuncia per omicidio colposo, dato che quelle informazioni erano atti pubblici, sarebbero comunque state rese note durante la fase preliminare del processo, di conseguenza Hisscus, Knacker e Nork accettarono di fornire tutti i dati richiesti. Mentre gli avvocati si riunivano quel martedì pomeriggio, Junior, che si era preso un permesso dal lavoro, telefonò a un fabbro per farsi cambiare le serrature di tutta la casa. Ma Vanadium era un poliziotto e poteva avere in dotazione una pistola apriserrature che avrebbe fatto scattare con estrema facilità anche quelle nuove. Pertanto Junior fece aggiungere all'interno della porta principale e di quella di servizio dei catenacci che non potevano essere raggiunti dall'esterno. Pagò in contanti e, fra le banconote e le monete che diede al fabbro, vi furono anche le due monetine da dieci centesimi e quella da cinque che Vanadium aveva lasciato sul suo comodino. Il mercoledì, con una velocità che confermava l'ansia di raggiungere un accordo, lo stato fornì i dati relativi alla torre di avvistamento incendi. Per cinque anni, i burocrati avevano destinato ad altri usi una parte sostanziosa dei fondi per la manutenzione. E per tre volte, il sovrintendente responsabile della manutenzione aveva steso un rapporto annuale proprio su quella torre, chiedendo fondi immediati per lavori di riparazione di fondamentale importanza; il terzo di questi documenti, presentato undici mesi prima della caduta di Naomi, indicava che la situazione era molto seria e portava il timbro urgente. Seduto nell'ufficio, dalle pareti rivestite di mogano, di Simon Magusson, Junior rimase sbalordito nel leggere il contenuto di quel rapporto. «Avrei potuto restarci secco.» «E un miracolo che non siate caduti entrambi», concordò l'avvocato. Magusson appariva minuscolo dietro l'enorme scrivania. La sua testa era troppo grande rispetto al corpo, ma aveva orecchie piccole come dollari
d'argento. Gli occhi grossi e sporgenti, dall'espressione scaltra e ambiziosa, lo facevano sembrare il tipo di persona che aveva di nuovo fame anche subito dopo un pranzo durato ore e ore. Il naso dalla punta larga e schiacciata rivolta all'insù, il labbro superiore talmente lungo da fare concorrenza a quello di un orango e una specie di taglio al posto della bocca, ne completavano il ritratto e lo rendevano assolutamente repellente per qualsiasi donna dotata del senso della vista; ma se si voleva un avvocato arrabbiato con il mondo per essere nato così brutto e, quando si trovava nell'aula di un tribunale, capace di incanalare tutta la sua collera nell'energia e nella determinazione di un pitbull o addirittura disposto a servirsi della sua bruttezza per conquistare la pietà dei giurati, in quel caso Simon Magusson era la persona ideale. «Non si tratta solo del parapetto marcio», gli fece notare Junior, sempre più furibondo, mentre continuava a sfogliare il rapporto. «Anche le scale non erano sicure.» «Splendido, vero?» «Uno dei lati della torre è pericolosamente incrinato alla base, nel punto in cui posa sul sottostante cassettone delle fondamenta...» «Eccellente.» «...e il sostegno della piattaforma d'osservazione è instabile. Poteva crollare mentre ci camminavamo sopra!» Dall'altra parte dell'enorme scrivania si levò un rumore stridulo, ovvero quello che per Magusson era una risata. «E non si erano nemmeno presi la briga di esporre un cartello di avvertimento. Anzi, un cartello c'era, ma invitava gli escursionisti a godersi la vista dalla piattaforma d'osservazione.» «Potevo restare ucciso», ripeté Junior Cain, talmente sconvolto da questo fatto che sentì un tremendo gelo scendergli nelle viscere e, per un po' di tempo, perse la sensibilità degli arti. «Dovranno pagare un indennizzo colossale», promise l'avvocato. «Ci sono altre buone notizie. Le autorità della contea e dello stato hanno deciso di chiudere l'indagine sulla morte di Naomi. Si è trattato di incidente, ora è ufficiale.» Le mani e i piedi di Junior riacquistarono lentamente la sensibilità. «Fintanto che l'indagine era ancora aperta e lei era l'unico sospettato», spiegò l'avvocato, «non potevano giungere a un accordo extragiudiziale. Ma se, alla fine, non fossero riusciti a dimostrare che lei aveva ucciso sua moglie e se si fosse arrivati a una causa per omicidio colposo, allora la loro posizione sarebbe stata ben peggiore.»
«Perché?» «I giurati potevano arrivare alla conclusione che le autorità non avessero mai veramente sospettato di lei e che avessero solo cercato di incastrarla per nascondere le loro responsabilità nella cattiva manutenzione della torre. E, comunque, la maggior parte dei poliziotti ritiene che lei sia innocente.» «Davvero? Mi fa piacere», commentò Junior con sincerità. «Congratulazioni, signor Cain. È stato davvero fortunato.» Sebbene trovasse il viso di Magusson così sgradevole da evitare di guardarlo, a meno che non fosse proprio necessario, e sebbene gli occhi sporgenti dell'avvocato fossero così lucidi di amarezza e di avidità da fare venire gli incubi di notte, Junior sollevò lo sguardo dalle proprie mani semiintorpidite e fissò l'avvocato. «Fortuna? Ho perso mia moglie. E quello che sarebbe stato il mio bambino.» «E ora sarà adeguatamente risarcito per la sua perdita.» Dall'altra parte della pretenziosa scrivania, il piccolo rospo dagli occhi sporgenti gli sorrise con aria furba. Il rapporto sulla torre che aveva appena letto costrinse Junior a prendere in considerazione la propria mortalità; dentro di sé, provava un tumulto di paura, dolore e autocommiserazione. Con voce tremante per l'offesa, disse: «Ma lei, signor Magusson, è convinto che ciò che è accaduto alla mia Naomi sia stato un incidente? Lo crede davvero? Perché non vedo... non capisco come potrei farmi assistere da una persona che pensa che io sia stato capace...» Quel nanerottolo era talmente sproporzionato rispetto ai mobili del suo ufficio, che sembrava un insetto appollaiato su una gigantesca poltrona di pelle che, a sua volta, somigliava a una dionea dalle fauci spalancate, pronta a inghiottirlo. Rimase in silenzio così a lungo prima di rispondere alla domanda di Junior che, quando alla fine parlò, la sua risposta risultò del tutto superflua. «Vede, signor Cain, un avvocato, penalista o civilista che sia, è come un attore. Se vuole essere convincente, deve credere profondamente nel suo ruolo, nel personaggio che interpreta. Per riuscire a ottenere l'indennizzo più alto possibile, devo sempre credere nell'innocenza dei miei clienti.» Junior ebbe il sospetto che Magusson fosse l'unico cliente di se stesso. Era spinto dall'avidità, non certo dall'amore per la giustizia. Unicamente per una questione di principio, Junior avrebbe voluto licenziare all'istante quella specie di orrido nano, ma poi l'avvocato soggiunse:
«Non dovrà più preoccuparsi del detective Vanadium». Junior era sorpreso. «Conosce Vanadium?» «Tutti lo conoscono. È un idealista, si è autoproclamato campione di verità, di giustizia, difensore degli ideali americani. Un pazzo pieno di sacro furore, se vuole. Ora che il caso è chiuso, non ha più il diritto di tormentarla.» «Non credo che ne abbia bisogno», ribatté Junior, a disagio. «Be', nel caso che le dia ancora fastidio, me lo faccia sapere.» «Come possono permettere a un uomo del genere di continuare a portare il distintivo?» domandò Junior. «Il suo comportamento è intollerabile, manca totalmente di professionalità.» «È bravo. Riesce a risolvere la maggior parte dei casi che gli vengono assegnati.» Fino a quel momento, Junior era convinto che gli altri poliziotti considerassero Vanadium un cane sciolto, uno che agiva di testa sua. Ma forse era vero il contrario e, in questo caso, se Vanadium godeva di un'ottima reputazione, allora era molto più pericoloso di quanto Junior avesse creduto. «Se per caso dovesse infastidirla ancora, signor Cain, vuole che intervenga per fermarlo?» Junior non ricordava più per quale questione di principio aveva pensato di licenziare Magusson. Nonostante tutti i suoi difetti, l'avvocato si dimostrava estremamente competente. «Credo che, per domani sera», soggiunse l'avvocato, «dovrei aver ricevuto una proposta da sottoporle.» Il giovedì, nel tardo pomeriggio, dopo una riunione di nove ore con Hisscus, Nork e Knacker, Magusson - che aveva condotto la trattativa insieme con l'avvocato degli Hackachak - aveva effettivamente ottenuto delle condizioni più che accettabili. Kaitlin Hackachak avrebbe ricevuto duecentocinquantamila dollari per la perdita della sorella. Sheena e Rudy avrebbero avuto un indennizzo di novecentomila dollari per il loro dolore e le loro sofferenze; quella somma avrebbe permesso loro di sottoporsi a una lunga terapia a Las Vegas. Junior avrebbe ricevuto quattromilioniduecentocinquantamila dollari. Dato che la parcella di Magusson era del venti per cento se l'accordo veniva raggiunto prima del processo - o del quaranta per cento a causa iniziata - a Junior sarebbero rimasti tremilioniquattrocentomila dollari. Al netto delle tasse. Il venerdì mattina, Junior diede le dimissioni da fisioterapeuta presso l'o-
spedale in cui lavorava. Riteneva di poter vivere tranquillamente per il resto della sua vita con gli interessi e i dividendi, perché era una persona che non aveva molte esigenze. Godendosi la giornata limpida e più tiepida del normale, guidò per un centinaio di chilometri verso nord attraverso schiere di sempreverdi che, dalle ripide colline, scendevano verso la costa. Durante tutto il viaggio, controllò lo specchietto retrovisore. Nessuno lo stava seguendo. Si fermò a pranzare in un ristorante con una vista spettacolare sul Pacifico incorniciata da enormi pini. La cameriera era molto graziosa. Civettò un po' con lui e Junior era convinto che, se avesse voluto, avrebbe potuto averla. E lui lo voleva, naturalmente, ma il suo intuito gli diceva che, ancora per un po', avrebbe dovuto continuare ad agire con discrezione. Non vedeva Thomas Vanadium da lunedì, quando si erano incontrati al cimitero e, dopo avergli lasciato quella stessa notte le monete sul comodino, il detective non gli aveva più fatto altri scherzetti. Quasi quattro giorni senza quell'asfissiante poliziotto. Ma quando si trattava di Vanadium, Junior aveva imparato a essere prudente e a non fidarsi mai. Non dovendo tornare al lavoro, pranzò con comodo. Per la verità, sentiva dentro di sé un crescente senso di libertà eccitante come il sesso. La vita era troppo breve per sprecarla a lavorare, se uno poteva permettersi il lusso di non far nulla. Quando infine fece ritorno a Spruce Hills, era già scesa la sera. La luna di madreperla sembrava galleggiare su una città che scintillava misteriosamente tra gli alberi, mandando luccichii e bagliori come se non fosse una città vera, ma un paese dei sogni in cui una moltitudine di zingari si fosse radunata intorno alla calda luce dei fuochi e delle lanterne. Qualche giorno prima, Junior aveva cercato nell'elenco del telefono il nome di Thomas Vanadium. Convinto che fosse un numero riservato, si era aspettato di non trovarlo, invece c'era. In realtà, ciò che cercava non era tanto il numero, quanto l'indirizzo, e lo trovò. Ora voleva scoprire dove abitava il detective. La villetta di Vanadium si trovava in un quartiere ben curato di edifici piuttosto semplici ed era anonima come quelle che la circondavano: una costruzione rettangolare a un piano, senza uno stile preciso. Tavole a vista in alluminio bianco con persiane verdi. Annesso alla casa, un garage doppio. La strada era costeggiata da imponenti querce caduche. In quella stagio-
ne erano completamente prive di foglie e i rami contorti sembravano voler graffiare la luna. Anche gli alberi che crescevano nella proprietà di Vanadium erano spogli, permettendo così a Junior di avere una buona vista della casa. La parte posteriore della villetta era immersa nell'oscurità, ma le due finestre anteriori erano illuminate da una luce calda e soffusa. Junior passò davanti all'abitazione senza rallentare, fece il giro dell'isolato e tornò di nuovo al punto di partenza. Non sapeva che cosa stesse cercando. Ma essere lui a sorvegliare Vanadium, e non il contrario, gli dava un senso di potere. Meno di quindici minuti dopo, tornato a casa sua, si sedette al tavolo della cucina con l'elenco telefonico davanti a sé. Nella guida non vi erano indicati soltanto i numeri di telefono di Spruce Hills, ma anche quelli di tutta la contea, dovevano essere all'incirca settanta od ottantamila. Ogni pagina comprendeva quattro colonne di nomi e numeri, per lo più completi di indirizzo. In ogni colonna, c'erano un centinaio di nomi, quattrocento per pagina. Usando un righello per scorrere ogni colonna, cercò il nome Bartholomew, senza badare ai cognomi. Aveva già controllato se vi fosse qualcuno nella contea che si chiamasse Bartholomew di cognome; ma non aveva trovato nessuno. Alcuni cognomi erano seguiti unicamente dalle iniziali del nome proprio. Ogni volta che incontrava una B, la spuntava con un pennarello rosso. Probabilmente, nella maggior parte dei casi si trattava di un Bob o di un Bill. O forse c'era qualche Bradley o Bernard, Barbara o Brenda. Dopo aver esaminato tutto l'elenco, se non fosse riuscito a trovare quello che cercava, alla fine avrebbe telefonato a ciascun numero segnato in rosso e avrebbe chiesto di Bartholomew. Avrebbe dovuto fare qualche centinaia di telefonate. Alcune sarebbero state addirittura delle interurbane, ma lui poteva permettersele. Riuscì a controllare i nomi di cinque pagine, prima che gli venisse un gran mal di testa. Aveva deciso di dividere il lavoro in due sessioni al giorno, a iniziare da quel martedì. Quattromila nomi al giorno. Una volta completata la quinta pagina di quella sera, avrebbe letto un totale di duemila nomi. Era un lavoro noioso che forse non lo avrebbe portato da nessuna parte. Tuttavia doveva pur cominciare da qualche parte e l'elenco telefonico rappresentava il punto d'inizio più logico.
Bartholomew poteva essere un ragazzino che abitava con i suoi genitori o un adulto che viveva presso una famiglia; in questo caso, la ricerca non sarebbe approdata a nulla, perché il telefono non sarebbe stato intestato a lui. Oppure quel tizio detestava il suo nome di battesimo e non lo usava mai se non per questioni legali, e abitualmente si serviva del secondo nome. Se l'elenco telefonico non si fosse rivelato di alcuna utilità, Junior si sarebbe rivolto all'ufficio di stato civile della contea e avrebbe esaminato i registri delle nascite, risalendo, se necessario, fino all'inizio del secolo. Certo, Bartholomew poteva non essere nato nella contea, poteva essersi trasferito là da bambino o da adulto. Se aveva acquistato una proprietà, il suo nome sarebbe apparso sul registro immobiliare. Ma, proprietario o no, se ogni due anni andava a votare, doveva comparire nell'elenco degli elettori. Junior non aveva più un lavoro, ma aveva una missione. *** Sabato e domenica, tra una ricerca sull'elenco telefonico e l'altra, Junior fece qualche gita di piacere attraverso la contea, anche per confermare la sua teoria sul fatto che il poliziotto pazzo non lo stesse più seguendo. Evidentemente Simon Magusson aveva ragione: il caso era stato chiuso. Da quel vedovo sconsolato che tutti si aspettavano che fosse, Junior passava le sere a casa, da solo. Da quando era stato dimesso dall'ospedale, con quella di domenica erano ormai otto notti che Junior trascorreva in solitudine. Lui era un giovane molto virile, desiderato da tante ragazze, e la vita era breve. La povera Naomi, il suo adorato visino e la sua espressione di sorpresa erano ancora vivi nella memoria di Junior, gli ricordavano costantemente di come la fine potesse giungere all'improvviso. Nessuno poteva essere certo del domani. Cogli il giorno. Caesar Zedd raccomandava sempre di non limitarsi a cogliere il giorno, ma a divorarlo. Masticatelo, nutritevi di ciascun giorno, ingoiatelo intero. Festeggiate, diceva Zedd, come se vi trovaste davanti a un banchetto, affrontate la vita come farebbe un buongustaio, un goloso, perché chi digiuna non potrà accumulare una riserva di ricordi per quando, inevitabilmente, giungerà la carestia. Domenica sera, una combinazione di fattori - la sua profonda fiducia
nella filosofia di Zedd, il livello di testosterone salito alle stelle, la noia, l'autocommiserazione e il desiderio di comportarsi ancora una volta come un uomo d'azione amante del rischio - spinsero Junior a spruzzarsi qualche goccia di Hai Karate dietro le orecchie e a uscire in cerca di avventure amorose. Poco dopo il tramonto, con un'unica rosa rossa in una mano e una bottiglia di Merlot nell'altra, si avviò verso la casa di Victoria Bressler. Prima di uscire, le telefonò per essere certo che fosse in casa. L'infermiera non lavorava durante i fine settimana, ma quella sera poteva aver avuto un impegno. Quando rispose al telefono, Junior riconobbe la sua voce seducente e borbottò: «Ho sbagliato numero». Romantico com'era, voleva farle una sorpresa. Voilà! Fiori, vino e moi. Dopo il loro contatto così elettrizzante in ospedale, lei aveva sicuramente avuto una gran voglia di rivederlo, ma si aspettava che Junior andasse a trovarla solo dopo qualche settimana. Era ansioso di vedere il suo viso illuminarsi di gioia. Nel corso della settimana precedente, aveva scoperto diverse cosette su quell'infermiera. Aveva trent'anni, era divorziata, senza figli e viveva da sola. Era rimasto piuttosto sorpreso scoprendo la sua età. Non sembrava così vecchia. Ma, trentenne o no, Victoria era particolarmente attraente. Junior non aveva mai avuto rapporti con donne più vecchie di lui perché lo aveva sempre affascinato la vulnerabilità delle ragazze più giovani. Ma ora trovava la prospettiva alquanto stuzzicante. L'infermiera avrebbe avuto un repertorio di giochi erotici che le ragazzine erano troppo inesperte per conoscere. Junior riusciva soltanto a immaginare quanto Victoria sarebbe rimasta lusingata dal fatto di ricevere le attenzioni di un bel ragazzo di ventitré anni, lusingata e grata. Quando pensò a tutti i modi in cui lei avrebbe potuto esprimere la sua gratitudine, non rimase molto spazio tra il volante della Suburban e la sua mascolinità. Nonostante l'urgenza del suo desiderio, per raggiungere l'abitazione di Victoria seguì un percorso tortuoso, facendo per due volte un'inversione di marcia e tornando indietro, controllando in continuazione di non essere sorvegliato. Se qualcuno lo stava seguendo, doveva trattarsi di un uomo invisibile su una macchina fantasma. Volendo essere comunque prudente anche quando coglieva il giorno - o, in quel caso, la notte - parcheggiò non lontano dalla casa a cui era diretto, lungo una strada parallela. Percorse gli ultimi tre isolati a piedi.
L'aria di gennaio era frizzante, profumata di sempreverdi e con una lieve traccia di salsedine che giungeva dal mare lontano. Come un occhio ostile, una luna stranamente gialla lo osservava attraverso nubi scure e sfilacciate. Victoria abitava all'estremità nordorientale di Spruce Hills, dove le strade, un po' alla volta, si trasformavano in viottoli di campagna. In quella zona le case tendevano a essere più rustiche, costruite su terreni più vasti e suddivisi in modo meno formale di quelle che sorgevano vicino al centro della città, ed erano più rientrate rispetto alla strada. Nel breve tratto di strada che Junior percorse a piedi, al marciapiede subentrò un bordo coperto di ghiaia. Non incontrò nessun altro pedone, né venne sorpassato da alcun veicolo. In quell'estrema periferia non c'erano lampioni a illuminare la strada. Se qualcuno avesse casualmente guardato dalla finestra, difficilmente avrebbe riconosciuto Junior, rischiarato unicamente dal chiaro di luna. Se non fosse stato estremamente discreto e se fossero cominciate a circolare voci sul vedovo Cain e su quell'infermiera così sexy, Vanadium avrebbe ricominciato a indagare sul caso, pur essendo chiuso. Quel poliziotto era odioso, mentalmente disturbato, spinto da chissà quali demoni interni. Anche se, per il momento, qualcuno più in alto di lui lo stava tenendo a freno, gli sarebbe bastato un pettegolezzo un po' piccante per riaprire le indagini, e sicuramente lo avrebbe fatto senza informare i suoi superiori. Victoria abitava in una casetta a due piani dalle mura rivestite di assicelle e dal tetto molto spiovente. Un paio di grandi abbaini sporgevano sopra la veranda anteriore. Sembrava una di quelle casette a schiera costruite nei quartieri operai delle grigie cittadine della costa orientale. La luce dorata di una lampada illuminava le finestre al pian terreno. Junior si immaginò seduto con Victoria in un divano del soggiorno mentre, sorseggiando vino, imparavano a conoscersi meglio. Forse lei gli avrebbe detto di chiamarla Vicky, e forse lui le avrebbe chiesto di chiamarlo Eenie, il soprannome che gli aveva dato Naomi, visto che lui non sopportava Enoch. Ben presto, avrebbero cominciato a sbaciucchiarsi come due ragazzini. Junior l'avrebbe spogliata sul divano, accarezzandole il corpo liscio e arrendevole, la pelle chiara e burrosa, poi l'avrebbe presa in braccio e l'avrebbe trasportata, nuda, nella camera buia al piano superiore. Evitando il vialetto di ghiaia, sul quale avrebbe potuto sporcare i suoi mocassini appena lucidati, Junior si avvicinò alla casa attraversando il prato e passando sotto un enorme pino, i cui rami si allargavano maestosi come quelli di una quercia e che rendevano l'albero del tutto inutilizzabile a
Natale. Forse Victoria aveva visite. Una parente o un'amica. Non un uomo. No. Lei sapeva chi era il suo uomo e non ne avrebbe avuto un altro, avrebbe aspettato di potergli cedere e di consumare il rapporto che avevano iniziato in ospedale, con il cucchiaio e il ghiaccio, dieci giorni prima. Molto probabilmente, se con Victoria c'era qualcuno, l'auto di quella persona doveva essere parcheggiata nel vialetto d'ingresso. Junior prese in considerazione l'idea di scivolare silenziosamente intorno alla casa e di sbirciare attraverso le finestre, per essere certo che fosse sola, prima di presentarsi alla porta di casa. Tuttavia, se Victoria lo avesse visto, avrebbe rovinato la sua meravigliosa sorpresa. Nella vita non c'è nulla completamente privo di rischi, quindi Junior ebbe soltanto un attimo di esitazione quando si trovò ai piedi della scalinata che portava alla veranda, poi salì e bussò alla porta. Dall'interno giungeva della musica. Qualcosa di vivace. Forse swing. Non riconobbe il motivetto. Proprio mentre Junior stava per bussare di nuovo, la porta si aprì verso l'interno e, al di sopra della voce di Frank Sinatra che cantava When My Sugar Walks Down the Street Victoria esclamò: «Sei in anticipo, non ho sentito la tua auto...» Aveva cominciato a parlare mentre apriva la porta e si bloccò a metà frase quando, uscita sull'uscio, vide chi aveva di fronte. Era rimasta sicuramente sorpresa, ma la sua espressione non era quella che Junior si era immaginato. Non c'era alcuna gioia e il volto dell'infermiera non si illuminò in un sorriso radioso. Per un attimo sembrò perplessa e preoccupata. Ma poi Junior capì che la sua poteva essere soltanto un'espressione di languido desiderio. Avvolta in un paio di pantaloni scuri e in uno stretto maglioncino di cotone color verde-mela, Victoria Bressler manteneva in pieno la promessa di un corpo voluttuoso che Junior aveva immaginato si nascondesse sotto la divisa da infermiera. Il maglioncino dalla scollatura a V lasciava intuire uno splendido décolleté, anche se lo mostrava solo in minima parte; non c'era nulla di volgare in quella bellezza. «Che cosa desidera?» domandò lei. La sua voce era piatta e un po' dura. Un altro uomo avrebbe potuto erroneamente percepirvi un tono di disapprovazione, d'impazienza, perfino di collera. Ma Junior sapeva che lei stava cercando di stuzzicarlo. Quel suo modo di giocare era adorabile. Quella luce così crudele nei suoi scintillanti occhi
azzurri, quell'insolenzà. Lui le porse la rosa rossa. «Per te. Non che possa esserti paragonata. Nessun fiore potrebbe.» Sempre fingendo scherzosamente di respingerlo, Victoria non toccò la rosa. «Che tipo di donna pensa che io sia?» «Un tipo assolutamente straordinario», rispose lui, felice di aver letto così tanti libri sull'arte della seduzione da sapere esattamente quello che doveva dire. Con una smorfia, lei ribatté: «Ho raccontato alla polizia del suo disgustoso comportamento quando l'ho dovuta imboccare con un cucchiaino». Porgendole nuovamente la rosa rossa, premendola insistentemente contro la sua mano per distrarla, Junior fece roteare la bottiglia di Merlot e, proprio mentre Sinatra sottolineava la parola zucchero, la bottiglia colpì Victoria in mezzo alla fronte. 33 La chiesa di Nostra Signora dei Dolori, tranquilla e accogliente nella sera di Bright Beach, umile nelle dimensioni, senza immense volte né imponenti colonne o scuri transetti, semplice negli ornamenti, era per Maria Elena Gonzalez un luogo familiare e confortevole come la sua stessa casa. Dio era dappertutto, ma in particolare in quel luogo. Nel momento stesso in cui varcò la soglia e si ritrovò nel nartece, Maria si sentì più serena. Il rito della benedizione si era concluso e i fedeli erano usciti. Anche il prete e i chierichetti se ne erano andati. Dopo aver sistemato la molletta che teneva fermo il suo velo di pizzo, Maria passò dal nartece alla navata centrale. Affondò due dita nell'acqua santa che luccicava debolmente nell'acquasantiera di marmo e si fece il segno della croce. L'aria profumava di incenso e del lucido al limone usato per i banchi di legno. In fondo alla chiesa, il tenue chiarore di un faretto illuminava un crocifisso a grandezza naturale. Le uniche altre luci erano quelle delle lampadine poste al di sopra delle stazioni della via crucis, lungo le pareti laterali, e delle tremule fiammelle dei lumini. Maria avanzò lungo la navata centrale immersa nella semioscurità, si genuflesse davanti alla balaustra del coro, poi si avviò verso il ripiano su cui ardevano i lumini. Maria poteva permettersi soltanto un'offerta di venticinque centesimi per
ogni candela, ma questa volta ne diede cinquanta e infilò cinque banconote da un dollaro e due monete da un quarto nella cassetta delle offerte. Dopo aver acceso undici candele, tutte per Bartholomew Lampion, estrasse da una tasca le carte da gioco strappate. Quattro fanti di picche. Il precedente venerdì sera aveva strappato le carte in tre pezzi, che aveva poi sempre portato con sé in attesa di quella tranquilla domenica. La chiesa non ammetteva la predizione del futuro e neppure il curioso rituale che Maria stava per iniziare. Anzi, questo tipo di misticismo era considerato peccato, qualcosa che allontanava dalla vera fede, che la contaminava. Ma Maria conviveva serenamente sia con il cattolicesimo che con l'occultismo nel quale era stata cresciuta. A Hermosillo, in Messico, per la vita spirituale della sua famiglia, il secondo era importante quasi quanto il primo. La chiesa nutriva l'anima, mentre l'occulto nutriva l'immaginazione. In Messico, dove il benessere materiale era scarso e la speranza di una vita migliore in questo mondo era ancora più rara, per rendere la vita vivibile bisognava nutrire sia l'anima che la fantasia. Rivolgendo una preghiera alla Madonna, Maria avvicinò un pezzo di uno dei fanti di spade alla fiammella della prima candela. Lasciò che prendesse fuoco, poi lo fece cadere nel contenitore del lumino e, quando si fu consumato del tutto, disse a voce alta: «Per Pietro», riferendosi al più importante dei dodici apostoli. Ripeté il rito altre undici volte... «Per Andrea, per Giacomo, per Giovanni»... lanciando spesso un'occhiata alle sue spalle per assicurarsi di non essere osservata. Aveva acceso un lumino per ognuno degli undici apostoli, ma nessuno per il dodicesimo, Giuda, il traditore. Di conseguenza, dopo aver bruciato un frammento di carta da gioco in ogni lumino, gliene rimase ancora uno da distruggere. In un'altra occasione, sarebbe tornata al primo lumino e avrebbe offerto il secondo frammento a san Pietro. Ma in questo caso, lo affidò al meno conosciuto degli apostoli perché era certa che quel santo avesse un'importanza particolare nella storia del figlio di Agnes. Ora che tutti e dodici i frammenti erano stati bruciati, il piccolo Bartholomew doveva essere stato liberato dalla maledizione, ovvero dal pericolo di quel nemico violento e sconosciuto rappresentato dai quattro fanti. Da qualche parte, nel mondo, esisteva un uomo malvagio che un giorno a-
vrebbe voluto uccidere Barty, ma ora il corso della vita lo avrebbe portato altrove. Undici santi avevano ricevuto dodici parti di responsabilità per liberare il bambino dalla maledizione. La fede di Maria nell'efficacia di quel rito non era forte tanto quanto quella che aveva nella chiesa, ma quasi. Mentre si sporgeva al di sopra del lumino e controllava che anche l'ultimo frammento si fosse trasformato in cenere, si sentì liberata da un terribile peso. Quando, qualche minuto dopo, uscì dalla chiesa di Nostra Signora dei Dolori, era convinta che il fante di picche, mostro umano o diavolo in persona che fosse, non avrebbe mai incontrato Barty Lampion sulla sua strada. 34 Cadde di colpo, violentemente, con un rumore secco e un tonfo, perdendo la sua grazia naturale, grazia che però riconquistò una volta a terra. Victoria Bressler rimase sul pavimento del piccolo ingresso, con il braccio sinistro teso oltre la testa, il palmo all'insù, come se stesse salutando il soffitto, il braccio destro incrociato sul corpo con la mano posata sul seno sinistro. Una gamba era tesa, l'altra piegata come in un gesto di pudicizia. Se fosse stata nuda, sdraiata su uno sfondo di lenzuola stropicciate o di foglie autunnali, oppure sull'erba di un prato, la sua sarebbe stata la posizione perfetta per la pagina centrale di Playboy. Junior non rimase tanto sorpreso dalla sua improvvisa aggressione a Victoria, quanto dal fatto che la bottiglia non si fosse rotta. Dopo tutto, da quando aveva preso quella decisione sulla torre, lui era diventato un uomo diverso, un uomo d'azione, che faceva ciò che andava fatto. Ma la bottiglia era di vetro e lui l'aveva fatta roteare con forza, tanto che aveva sbattuto contro la fronte di Victoria con un rumore simile a quello di una mazza contro una palla da croquet, con tanta forza da farla svenire immediatamente, forse addirittura da ammazzarla, e tuttavia la bottiglia era rimasta intatta, il Merlot pronto per essere bevuto. Varcò la soglia e chiuse silenziosamente la porta dietro di sé, poi esaminò la bottiglia. Il vetro era spesso, soprattutto alla base, dove un profondo incavo faceva sì che il sedimento si depositasse lungo il bordo invece che su tutto il fondo. Questa caratteristica contribuiva alla sua robustezza. Evidentemente, Junior aveva colpito Victoria con la parte inferiore della bottiglia, quella che aveva maggiori probabilità di resistere al colpo.
Una macchiolina rosa al centro della fronte della donna indicava il punto d'impatto. Ben presto si sarebbe trasformata in un brutto livido. L'osso del cranio sembrava intatto. Evidentemente Victoria aveva la testa dura come il suo cuore e non aveva subito gravi danni al cervello, solo una commozione cerebrale. Dallo stereo in soggiorno giungeva la voce di Sinatra che cantava: It Was a Very Good Year. Appariva chiaro che l'infermiera doveva essere a casa da sola, ma comunque Junior domandò a voce abbastanza alta da superare la musica: «C'è qualcuno?» Anche se non aveva ricevuto alcuna risposta, preferì perlustrare rapidamente la casa. Una lampada, dal paralume di seta che terminava con una frangia, illuminava un angolo del soggiorno con piccole piume di luce dorata. Sul tavolino, vi erano tre lampade a olio di vetro soffiato, accese. Dal forno della cucina proveniva un aroma delizioso. Una grossa pentola su un fornello acceso a fiamma bassa e, accanto, un pacco di pasta pronto per essere versato nell'acqua non appena avesse cominciato a bollire. Sala da pranzo. Due coperti preparati a un'estremità del tavolo. Bicchieri da vino. Due candelieri in peltro, le candele non ancora accese. Adesso Junior si era fatto un'immagine ben chiara della situazione. Chiara come una fotografia. Victoria aveva una relazione e, in ospedale, gli aveva fatto delle avances non perché volesse aggiungere altro pepe alla sua vita ma semplicemente perché le piaceva provocare. Era una di quelle donne che pensava fosse molto divertente far eccitare un uomo per poi lasciarlo a bocca asciutta. Era anche una donna falsa. Dopo averlo stuzzicato, dopo averlo quasi costretto a reagire, era andata in giro a spettegolare su di lui, facendo credere a tutti che era stato Junior a cercare di sedurla. Addirittura, per sentirsi più importante, aveva raccontato alla polizia la sua versione dei fatti, aggiungendovi di certo molti fantasiosi particolari. Un bagno di servizio al pian terreno. Due camere e un bagno padronale al piano superiore. In casa non c'era nessuno. Tornato nell'ingresso, vide che Victoria non si era mossa. Si inginocchiò accanto a lei e le premette due dita sul collo all'altezza della carotide. Le pulsazioni c'erano, forse un po' irregolari, ma forti. Anche se adesso sapeva che persona spregevole fosse stata quell'infermiera, continuava a sentirsi attratto da lei. Ma non era il tipo d'uomo che si
approfitta di una donna in stato di incoscienza. Inoltre, lei stava chiaramente aspettando un ospite. Sei in anticipo, non ho sentito la tua auto, aveva detto prima di accorgersi che si trattava di Junior. Si avvicinò alla porta d'ingresso ai cui lati vi erano due vetrate alte e strette, nascoste da tendine. Spostò una delle tendine e sbirciò fuori. La luna mummificata si era liberata dalle bende delle nuvole. Il suo viso butterato risplendeva sui rami del pino, sul giardino e sul vialetto di ghiaia. Niente auto. Tornato in soggiorno, Junior prese dal divano un piccolo cuscino. Lo portò nell'ingresso. Ho raccontato alla polizia del suo disgustoso comportamento quando l'ho dovuta imboccare con un cucchiaino. Con tutta probabilità, non aveva telefonato alla polizia per riferire quanto era successo. Non c'era bisogno di fare tanta fatica, quando Thomas Vanadium aveva continuato a girare per l'ospedale a tutte le ore del giorno e della notte, pronto a dare ascolto a qualsiasi falsità venisse detta su Junior, purché lo facesse apparire un essere spregevole e un uxoricida. Quasi sicuramente, Victoria aveva parlato direttamente con quel pazzo di detective. Ma anche se avesse riferito le sue sordide bugie a un altro poliziotto, il suo racconto sarebbe stato riportato a Vanadium e lui l'avrebbe cercata immediatamente per ascoltare dalla sua viva voce quello che lei aveva da dire, dopodiché Victoria aveva sicuramente gonfiato tutta la storia, lasciando credere al detective che Junior le aveva afferrato i seni e aveva cercato di infilarle la lingua in gola. Se adesso Victoria avesse raccontato a Vanadium che Junior si era presentato alla sua porta con una rosa rossa, una bottiglia di Merlot e l'intenzione di trascorrere con lei una serata romantica, quell'idiota di detective avrebbe ricominciato a perseguitarlo. Anche se, per Vanadium, l'infermiera aveva mal interpretato la storia del ghiaccio e del cucchiaino, in questo caso le intenzioni di Junior non potevano lasciar spazio a dubbi e il poliziotto idealista non avrebbe più mollato la presa. Victoria cominciò a gemere, ma non si mosse. Si suppone che le infermiere siano angeli misericordiosi. Ma lei non gli aveva mostrato alcuna pietà. E di sicuro non era un angelo. Inginocchiandosi accanto alla donna, Junior posò il piccolo cuscino sul suo bel viso e lo premette con forza mentre Frank Sinatra terminò Hello, Young Lovers, e cantò forse metà di All or Nothing at All. Per tutto quel
tempo, Victoria non riprese mai conoscenza. Dopo aver controllato la carotide e non aver rilevato alcuna pulsazione, Junior tornò al divano in soggiorno. Sprimacciò il cuscino e lo lasciò esattamente dove l'aveva trovato. Non sentì alcun bisogno di vomitare. Tuttavia non si incolpò di mancanza di sensibilità. Aveva incontrato quella donna solo una volta prima d'allora. Non era coinvolto emotivamente nei suoi confronti come lo era stato con la dolce Naomi. Non che non provasse qualche sentimento, naturalmente. Il suo cuore era sconvolto da una profonda tristezza: ciò che lo rendeva triste era il pensiero dell'amore e della felicità che lui e l'infermiera avrebbero potuto vivere insieme. Ma, dopo tutto, era stata una scelta di Victoria quella di provocarlo e di trattarlo in modo così crudele. Quando Junior tentò di sollevarlo, il corpo voluttuoso della donna perse tutto il suo fascino. Da morta era più pesante di quanto si fosse aspettato. Raggiunta la cucina, mise a sedere Victoria, facendola crollare in avanti sul tavolo della colazione. Con le braccia incrociate, la testa sulle braccia e voltata di lato, sembrava che stesse riposando. Il cuore di Junior batteva all'impazzata, ma lui ricordò a se stesso che la forza e la saggezza nascevano da una mente calma, e si fermò al centro della piccola cucina, girando lentamente per analizzare ogni angolo della stanza. Considerato che l'ospite di Victoria stava per arrivare, ogni minuto era prezioso. Tuttavia era essenziale prestare la massima attenzione anche a ogni minimo particolare, indipendentemente dal tempo necessario per preparare la scenetta che aveva in mente e che avrebbe fatto passare un omicidio per un incidente domestico. Sfortunatamente, Caesar Zedd non aveva scritto alcun manuale su come commettere un omicidio e riuscire a farla franca, e ancora una volta Junior doveva cavarsela da solo. Si mise all'opera, muovendosi in fretta ed evitando di sprecare tempo con movimenti inutili. Prima di tutto, strappò due rettangoli di carta da un rotolo fissato alla parete e ne tenne uno in ogni mano come fossero guanti. Doveva stare attento a non lasciare impronte digitali. Qualcosa stava cuocendo in uno dei due forni, quello superiore. Junior accese quello inferiore, regolandolo su tiepido, e ne lasciò aperto lo sportello.
Prese i due piatti dalla tavola apparecchiata in sala da pranzo. Li portò in cucina e li infilò nel forno inferiore, come se Victoria lo avesse acceso per scaldarli. Di nuovo lasciò lo sportello aperto. Nel frigorifero, trovò un panetto di burro in un contenitore dal coperchio di plastica trasparente. Posò il contenitore sul tagliere accanto al lavandino, alla sinistra del piano di cottura, e lo aprì. Sul ripiano della cucina vi era già un coltello. Lo usò per tagliare dal panetto quattro pezzetti di burro, giallo e cremoso, ciascuno spesso poco più di un centimetro. Lasciando tre pezzetti nel contenitore, posò il quarto sul pavimento di linoleum. I rettangoli di carta si erano macchiati di burro. Li appallottolò e li gettò nel bidone della spazzatura. La sua intenzione era quella di premere la suola della scarpa destra di Victoria sul pezzetto di burro e di lasciare una lunga traccia unta sul pavimento, come se l'infermiera vi fosse scivolata sopra e fosse caduta verso i forni. Infine, tenendole la testa con entrambe le mani, avrebbe dovuto farle sbattere la fronte con molta forza contro l'angolo dello sportello del forno che aveva lasciato aperto, stando attento a far sì che il punto d'impatto combaciasse con quello della bottiglia. Probabilmente la squadra scientifica della polizia dell'Oregon avrebbe trovato almeno un motivo valido per sospettare che la scena fosse stata volutamente messa in piedi da qualcuno. Non sapeva quanti strumenti tecnologici usava la polizia sul luogo di un delitto e ne sapeva ancora meno di medicina legale. Stava solo facendo del suo meglio. Il dipartimento di polizia di Spruce Hills era decisamente troppo piccolo per poter contare su una vera e propria squadra investigativa. E se la scena fosse apparsa abbastanza convincente, forse si sarebbero persuasi che si era trattato di uno stupido incidente e non si sarebbero rivolti alla polizia di stato per ricevere assistenza tecnica. Ma se avessero coinvolto la polizia di stato e se avessero potuto dimostrare che non si era trattato di un incidente, con tutta probabilità i loro sospetti si sarebbero concentrati sull'uomo per il quale Victoria stava preparando la cena. Non restava altro da fare se non premere là scarpa nel burro e farle sbattere la testa contro l'angolo dello sportello del forno.
Stava per sollevare il corpo dalla sedia, quando udì una macchina che imboccava il vialetto d'ingresso. Forse non avrebbe sentito subito e in modo così chiaro il rombo del motore se in quel momento lo stereo non avesse cambiato disco. Non c'era più tempo per sistemare il cadavere come avrebbe voluto. Un problema dopo l'altro. La sua nuova vita di uomo d'azione non era certo noiosa. Come insegna Caesar Zedd, nelle avversità si nascondono le grandi opportunità e, naturalmente, vi è sempre un lato positivo nelle cose, anche se non si è in grado di scorgerlo immediatamente. Fuori della cucina e lungo il corridoio, Junior si affrettò a raggiungere la porta d'ingresso. Correva senza far rumore, sulla punta dei piedi come un ballerino. La sua naturale grazia atletica era uno dei motivi per cui le donne si sentivano tanto attratte da lui. Tristi simboli di una storia d'amore destinata a non sbocciare, la rosa rossa e la bottiglia di vino erano ancora sul pavimento dell'ingresso. Ora che il cadavere era stato portato via, non restava più alcun segno di violenza. Mentre Sinatra attaccava I'll Be Seeing You, Junior passò accanto al fiore e alla bottiglia di Merlot. Con molta circospezione, spostò di qualche centimetro la tendina di una delle vetrate laterali. Un'auto familiare si era fermata sul vialetto di ghiaia, sulla destra rispetto alla casa ed era seminascosta. Junior rimase immobile a guardare mentre i fari venivano smorzati. Il motore, spento. La portiera si aprì. Un uomo scese dall'auto, una figura tenebrosa in quel giallastro chiaro di luna. L'ospite atteso a cena. 35 Implodere. Scoppiare per pressione esterna con proiezione verso l'interno. Come lo scafo di un sottomarino che si trovi a una profondità eccessiva. Junior aveva appreso il verbo implodere da un manuale su come migliorare il proprio vocabolario e parlare con proprietà di linguaggio. All'epoca, aveva pensato che quella parola, insieme ad altre comprese nell'elenco che aveva memorizzato, sarebbe stato un verbo che non avrebbe mai utilizzato. Ma in quel momento descriveva perfettamente la sua sensazione: era come se stesse per implodere.
L'ospite di Vicky si sporse verso l'interno dell'auto per prendere qualcosa. Forse anche lui era stato abbastanza cortese da portare un piccolo dono per la padrona di casa. Quando si fosse reso conto che Victoria non andava ad aprirgli, l'uomo non se ne sarebbe certo andato. Era stato invitato. Era atteso. In casa, le luci erano accese. Il fatto che, dopo aver bussato, nessuno rispondesse, significava che era successo qualcosa. Junior si trovava a una profondità critica. L'aggressione psicologica doveva essere arrivata ad almeno una tonnellata per centimetro quadrato, e continuava ad aumentare a ogni secondo. Da un momento all'altro sarebbe imploso. Se lasciato ad aspettare inutilmente sulla veranda, dopo un po' il visitatore avrebbe cominciato a fare il giro della casa, sbirciando attraverso quelle finestre le cui tende non erano state tirate, cercando di aprire tutte le porte nella speranza di trovarne una non chiusa a chiave. Temendo che Victoria fosse ammalata o ferita, che magari fosse scivolata su un pezzetto di burro e fosse andata a spaccarsi la testa contro l'angolo dello sportello aperto di un forno, avrebbe potuto tentare di entrare con la forza, di rompere una finestra. Sicuramente avrebbe chiesto ai vicini di chiamare la polizia. Una tonnellata e mezzo per centimetro quadrato. Due. Tre. Junior si lanciò verso la sala da pranzo e afferrò uno dei bicchieri da vino posati sul tavolo. Poi afferrò anche uno dei candelieri di peltro, facendo cadere la candela. Tornato nell'ingresso, posò il bicchiere sul pavimento a circa due metri di distanza dalla porta. Sistemò la bottiglia di Merlot accanto al bicchiere e la rosa rossa accanto alla bottiglia. Come una natura morta intitolata Storia d'amore. Fuori, si sentì sbattere una portiera d'auto. La porta non era chiusa a chiave. Junior fece ruotare silenziosamente il pomello e tirò delicatamente verso di sé, lasciando la porta socchiusa. Portandosi dietro il candeliere, Junior si precipitò verso la cucina, che si apriva proprio in fondo alla piccola anticamera. La porta era aperta, ma dovette entrare nella stanza per vedere Victoria accasciata su una delle due sedie. Si nascose dietro la porta, sollevando il candeliere sopra la testa. L'oggetto, che doveva pesare più di due chili, era un'arma formidabile, efficace quasi quanto un martello. Aveva il cuore che batteva furiosamente. Ansimava. Stranamente, l'aro-
ma del cibo che stava cuocendo nel forno e che, in precedenza, gli era sembrato delizioso, ora aveva l'odore del sangue, forte e pungente. Respira lentamente e profondamente. Come dice Zedd, fa' respiri lenti e profondi. Qualsiasi stato d'ansia, per quanto intenso, poteva attenuarsi o addirittura svanire del tutto inspirando lentamente e profondamente, e ricordando che ognuno di noi ha il diritto di essere felice, soddisfatto, libero dalla paura. All'ultimo ritornello di I'll Be Seeing You si sovrappose la voce di un uomo che proveniva dall'anticamera e nella quale si percepiva una certa perplessità, forse anche una nota di sorpresa: «Victoria?» Lentamente e profondamente. Lentamente e profondamente. Era già più calmo. La canzone finì. Junior trattenne il fiato, in ascolto. Nel breve silenzio tra un brano e l'altro del disco, udì il tintinnio del bicchiere contro la bottiglia di Merlot, evidentemente il visitatore li aveva raccolti dal pavimento. Aveva dato per scontato che l'ospite fosse l'amante di Victoria, ma improvvisamente si rese conto che le cose potevano anche non essere così. Quell'uomo poteva essere soltanto un amico. Suo padre o un fratello. Nel qual caso, l'invito a un incontro romantico - suggerito dalla sistemazione civettuola del vino e della rosa - sarebbe apparso del tutto fuori luogo e il visitatore avrebbe capito immediatamente che c'era qualcosa di strano. Beota. Un'altra parola appresa per ampliare il suo vocabolario e mai usata prima. Beota. Persona stupida e ottusa. Improvvisamente, si sentì molto beota. Proprio mentre Sinatra iniziava a cantare un'altra canzone, Junior ebbe l'impressione di sentire un passo sul pavimento di legno del corridoio e lo scricchiolio di un'assicella. La musica soffocava i rumori che il visitatore faceva avvicinandosi, sempre che si stesse avvicinando. Tieni il candeliere ben sollevato. Anche se c'è la musica, respira silenziosamente attraverso la bocca. Sii pronto. Il candeliere di peltro era pesante. Avrebbe fatto un macello. Il sangue gli dava la nausea. Rifiutava di guardare i film che si soffermavano sulle conseguenze di un'azione violenta e ancor meno nella vita reale riusciva a sopportare la vista del sangue. Azione. Concentrati solo sull'azione e ignora tutte le disgustose conseguenze. Ricorda il treno sfuggito al controllo e l'autobus carico di suore
bloccato sui binari. Rimani con il treno, non tornare indietro a guardare le suore maciullate, continua ad andare avanti e non avrai problemi. Un rumore. Molto vicino. Dall'altra parte della porta aperta. L'ospite stava entrando in cucina. Nella sinistra, teneva il bicchiere da vino e la rosa. Infilata sotto il braccio, la bottiglia di Merlot. Nella destra stringeva una piccola scatola da regalo avvolta in una carta dai colori vivaci. Dando le spalle a Junior, il visitatore entrò e si diresse verso il tavolo dove, seduta su una sedia, c'era Victoria con la testa appoggiata sulle braccia incrociate. A chiunque sarebbe sembrato che stesse riposando. «Che succede?» le domandò l'uomo, mentre Sinatra si lanciava in Come Fly with Me. Avanzando silenziosamente, con passo felpato, mentre il candeliere formava un arco in aria, Junior vide l'ospite irrigidirsi, forse aveva percepito il pericolo o almeno un movimento, ma era troppo tardi. Non ebbe nemmeno il tempo di voltare la testa o di schivare il colpo. Il candeliere lo colpì sulla parte posteriore del cranio con un rumore secco. Lo scalpo si lacerò, facendo schizzare il sangue, e l'uomo crollò a terra come aveva fatto Victoria sotto l'influenza del buon Merlot, anche se lui si ritrovò sul pavimento a faccia in giù, non sulla schiena. Per non correre rischi, Junior si chinò in avanti e sollevò di nuovo il candeliere. Il secondo colpo non fu violento quanto il primo, ma fu comunque efficace. Cadendo a terra, il bicchiere da vino era andato in frantumi. Ma, ancora una volta, la bottiglia di Merlot era rimasta intera, ruzzolando sul pavimento di linoleum e andando a sbattere delicatamente contro la base di un armadietto. Lasciando perdere la respirazione lenta e profonda, ansimando come un nuotatore sul punto di annegare, con la fronte che grondava di sudore, Junior spinse l'uomo con un piede. Vedendo che non reagiva, gli infilò la punta del mocassino destro sotto il petto e, con un certo sforzo, riuscì a farlo ruotare sulla schiena. Con la rosa rossa nella sinistra e la scatola da regalo mezzo schiacciata nella destra, Thomas Vanadium era alla mercé di Junior, senza più trucchi, senza più monetine che danzavano sulle sue nocche, sparita ogni magia. 36
Il crepitio delle false fiamme, come le facevano durante i radiodrammi, negli anni Trenta e Quaranta, quand'era ragazzo: cellophane accartocciato. Solo nel suo appartamento, seduto al tavolo d'angolo della cucina, Jacob fece altri crepitii di fiamme mentre toglieva il cellophane trasparente da un secondo mazzo di carte da gioco, poi da un terzo e da un quarto. Possedeva un vasto archivio di incendi dalle tragiche conseguenze, incendi perlopiù scoppiati in tempi lontani. A Vienna, l'8 dicembre 1881, l'incendio dello splendido teatro Ring provocò quattrocentocinquanta vittime. Il 25 maggio del 1887, ci furono duecento morti all'Opera Comique di Parigi. Il 28 novembre del 1942, nel night club Coconut Grove di Boston - all'epoca Jacob aveva solo quattordici anni ma era già ossessionato dalla propensione dell'umanità ad autodistruggersi intenzionalmente o per pura stupidità - quattrocentonovantuno persone erano rimaste soffocate o arse vive nel corso di una serata che avrebbe dovuto essere di divertimento. Ora, dopo aver tolto i quattro mazzi di carte dalle loro scatole di cartone, Jacob li dispose uno accanto all'altro sul ripiano del tavolo in legno d'acero. «Quando, il 30 dicembre del 1903, è scoppiato un incendio nell'Iroquois Theater di Chicago», disse a voce alta, mettendo alla prova la sua memoria, «durante lo spettacolo pomeridiano del Signor Barbablù, sono morte seicentodue persone, per lo più donne e bambini.» I normali mazzi di carte vengono impacchettati da una macchina, sempre nello stesso ordine, seguendo il colore. Si può essere assolutamente certi del fatto che ogni mazzo aperto sarà disposto nello stesso ordine di qualsiasi altro mazzo aperto in precedenza o che si avrà l'occasione di aprire in futuro. Questo permette a coloro che lavorano con le carte - giocatori di professione, prestigiatori - di manipolare ogni nuovo mazzo con la certezza di sapere dove si troverà ogni carta. Un individuo esperto e dotato di una certa abilità può fingere di mischiare le carte così bene che anche l'osservatore più sospettoso ne resterà soddisfatto, tuttavia continuerà a sapere esattamente dove si troverà ogni carta in quel momento. La sua destrezza gli permetterà anche di collocare le carte nell'ordine da lui desiderato e di ottenere qualsiasi effetto voglia. «Ad Hartford, nel Connecticut, il 6 luglio del 1944, alle due e quaranta del pomeriggio, è scoppiato un incendio nel tendone del Circo Ringling Brothers, Barnum e Bailey, mentre seimila spettatori erano intenti ad am-
mirare i Wallendas, una famiglia di trapezisti famosa in tutto il mondo, che si preparavano a iniziare il loro numero. Alle tre, il tendone, che aveva preso fuoco, crollò, soffocando l'incendio e provocando la morte di centosessantotto persone. Altre cinquecento rimasero ferite gravemente, ma gli animali del circo, un migliaio di bestie, tra cui quaranta leoni e quaranta elefanti, non si fecero nulla.» Chiunque speri di diventare un buon manipolatore di carte deve necessariamente sviluppare una straordinaria destrezza, benché questo non sia l'unico requisito. È altrettanto importante riuscire a sopportare la noia di ore e ore trascorse a ripetere sempre gli stessi esercizi. I migliori manipolatori di carte sono anche dotati di una memoria eccezionale, decisamente superiore rispetto a quella di una persona normale. «Il 14 maggio 1845, a Canton, in Cina, nell'incendio di un teatro, morirono milleseicentosettanta persone. L'8 dicembre del 1863, l'incendio della chiesa di La Compana, a Santiago del Cile, provocò la morte di duemilacinquecentoun persone. Centocinquanta sono morte nell'incendio di un mercatino di beneficenza a Parigi, il 4 maggio 1897. Il 30 giugno del 1900, le fiamme che si sono sviluppate nel porto di Hoboken, nel New Jersey, hanno ucciso trecentoventisei...» Jacob era nato con la destrezza necessaria e con una memoria più che sufficiente. Il suo disturbo della personalità che lo rendeva inadatto al lavoro e che gli garantiva una vita sociale del tutto priva di feste e festicciole - gli permetteva di avere tutto il tempo libero necessario per esercitarsi nelle tecniche più complesse di manipolazione delle carte, fino a padroneggiarle alla perfezione. Dato che, già da bambino, Jacob si era sentito attratto da racconti e immagini di catastrofi, da disastri a livello personale e planetario, da incendi di teatri e guerre nucleari, aveva sviluppato un'immaginazione molto viva e un'intensa, anche se strana, vita intellettuale. Quindi, imparando a manipolare le carte, la maggiore difficoltà che aveva incontrato era stata quella di sopportare la noia degli esercizi, ma si era applicato diligentemente per anni, spinto dall'amore e dall'ammirazione per sua sorella Agnes. Mischiò il primo dei quattro mazzi esattamente come aveva fatto quel venerdì sera, e lo mise da parte. Per avere le maggiori probabilità di diventare un esperto manipolatore di carte, tutti gli apprendisti hanno bisogno di un mentore. L'arte del totale controllo delle carte non può essere appresa unicamente dai libri e dalla sperimentazione. Il mentore di Jacob era stato Obadiah Sepharad. Si erano conosciuti
quando Jacob aveva diciotto anni e stava trascorrendo un breve periodo di tempo in manicomio, perché la sua eccentricità era stata scambiata per qualcosa di peggio. Jacob mischiò gli altri tre mazzi come gli aveva insegnato Obadiah. Né Agnes, né Edom erano a conoscenza della sua grande abilità con le carte. Lui non aveva parlato del suo apprendistato con Obadiah e, per quasi vent'anni, aveva resistito al desiderio di stupire i suoi famigliari con i giochi di destrezza che aveva appreso. Da bambini, vivendo in una casa diretta come una prigione, sottomessi all'autorità oppressiva di un padre arcigno, che considerava qualsiasi forma di divertimento come un'offesa a Dio, giocare a carte era stata per loro una forma di ribellione. Un mazzo di carte era abbastanza piccolo per sparire rapidamente e per essere nascosto anche durante una delle accurate ispezioni delle camere da parte del padre. Quando il vecchio morì e Agnes ereditò la proprietà, la prima volta che giocarono a carte nel giardino sul retro della casa fu il giorno stesso del suo funerale, giocarono apertamente, e non in segreto, si sentivano quasi storditi dal senso di libertà. Quando poi Agnes si innamorò e si sposò, anche Joey Lampion prese l'abitudine di fare qualche partita con loro e, da quel momento in poi, Jacob e Edom provarono un senso di appartenenza alla famiglia decisamente superiore a quello che avevano provato fino a quel momento. Jacob era diventato un manipolatore di carte per un unico motivo. Non perché pensasse di diventare un giocatore professionista. Non per stupire gli amici con giochi di destrezza. Non perché si sentisse stimolato dalla difficoltà dell'apprendimento. Voleva solo essere in grado di dare ad Agnes delle carte vincenti ogni volta che lei perdeva troppo spesso o quando aveva bisogno di tirarsi su di morale. Non le serviva carte vincenti con una frequenza tale da farle sorgere dei sospetti o da rendere meno divertente la partita per Edom o Joey. Era prudente. Tutta la fatica che aveva fatto, migliaia di ore di esercizi, gli veniva ripagata con gli interessi ogni volta che Agnes rideva felice, dopo essere stata servita di una mano perfetta. Se Agnes avesse saputo che Jacob la aiutava, forse non avrebbe più giocato a carte con lui. Non avrebbe approvato il suo comportamento. Quindi la sua grande abilità di manipolatore doveva rimanere per sempre un segreto. Si sentiva un po' in colpa per questo, ma soltanto un po'. Sua sorella aveva fatto tanto per lui; ma disoccupato com'era, in preda alle sue osses-
sioni, ostacolato da un carattere cupo che somigliava molto a quello del padre, non c'era molto che potesse fare per lei. Solo questo piccolo inganno con le carte. «20 settembre 1902, Birmingham, Alabama, incendio in una chiesa... centoquindici morti. 4 marzo 1908, Collinwood, Ohio, incendio in una scuola... centosettantasei morti.» Dopo aver mischiato tutti e quattro i mazzi di carte, Jacob ne tagliò due e mescolò insieme le metà, controllandole esattamente come aveva fatto quel venerdì sera. Poi fece lo stesso con le altre due. «New York, 25 marzo 1911, incendio nella fabbrica Triangle Shirtwaist... centoquarantasei morti.» Il venerdì, dopo cena, quando aveva appreso abbastanza sul metodo di Maria di leggere le carte per sapere che ci volevano quattro mazzi, che avrebbe letto una carta su tre e che gli assi - soprattutto quelli rossi - rappresentavano le carte più favorevoli, Jacob aveva, con grande gioia, preparato per Barty le prime otto carte più favorevoli che potessero essere servite. Era stato una specie di piccolo dono per rallegrare Agnes, sul cui cuore la morte di Joey pesava come una catena di ferro. All'inizio era andato tutto bene. Agnes, Maria e Edom erano rimasti giustamente sbalorditi. Tra le persone sedute intorno al tavolo erano circolati brividi di meraviglia e tanti sorrisi. Erano rimasti incantati nel vedere una serie di carte così favorevoli, qualcosa di così matematicamente improbabile che lasciava senza fiato. «23 aprile 1940, Natchez, Mississippi, incendio nella sala da ballo... centonovantotto morti. 7 dicembre 1946 Atlanta, Geòrgia, incendio del Winecoff Hotel... centodiciannove morti.» Seduto al tavolo della cucina, due sere dopo la lettura delle carte da parte di Maria, Jacob mise insieme i quattro mazzi come aveva fatto quel venerdì nella sala da pranzo di Agnes. Completata l'operazione, rimase seduto per un po', fissando la pila di carte, incerto. «5 aprile 1949, Effingham, Illinois, nell'incendio di un ospedale sono morte settantasette persone.» Percepì nella sua voce un tremore che non aveva nulla a che fare con lo spaventoso incendio di Effingham, avvenuto più di sedici anni prima. Prima carta. Asso di cuori. Scartane due. Seconda carta. Asso di cuori. Continuò fino a quando non si trovò con i quattro assi di cuori e gli assi di quadri sul tavolo, di fronte a lui. Quelle erano le otto carte che lui aveva
preparato ed erano regolarmente uscite secondo le sue intenzioni. Per poter eseguire i loro giochi, i loro trucchi, i manipolatori devono poter contare su mani molto ferme, ma quelle di Jacob tremavano mentre eliminava le due carte e voltava lentamente quella successiva. Avrebbe dovuto essere un quattro di fiori, non un fante di picche. E infatti era un quattro di fiori. Voltò le ultime due carte che aveva eliminato. Nessuna delle due era un fante di picche ed erano entrambe quelle che lui si aspettava. Guardò le due carte che, nel mazzo, venivano dopo il quattro di fiori. Nemmeno queste erano fanti di picche ed erano invece esattamente quelle che lui aveva previsto. Il venerdì sera, aveva preparato i mazzi in modo che venissero serviti gli assi, ma non aveva manipolato le dodici carte successive in modo che uscissero quattro fanti identici ogni tre carte. Era rimasto incredulo e sbalordito quando Maria aveva mostrato i quattro jack. Era praticamente impossibile che uscissero quattro fanti di picche in fila, prendendoli da quattro mazzi uniti e mescolati a caso. Jacob non aveva le conoscenze necessarie per calcolare una simile probabilità, ma sapeva che doveva essere infinitesimale. E naturalmente non c'era nessuna possibilità di estrarre quattro jack identici da una serie di mazzi manipolati e accuratamente predisposti da un esperto prestigiatore... a meno che quello non fosse stato l'effetto voluto, cosa che in questo caso non era. Le probabilità non potevano essere calcolate perché semplicemente non poteva accadere. La casualità non c'entrava. Per Jacob, le carte di quel mazzo dovevano essere ordinate in modo prevedibile come le pagine numerate di un libro. Quel venerdì notte, perplesso e preoccupato, non era riuscito a dormire molto e ogni volta che si era addormentato aveva sognato di trovarsi in un fitto bosco, inseguito da una presenza sinistra, impossibile ma certa. Il predatore avanzava silenzioso attraverso il sottobosco, una sagoma indistinta in mezzo agli alberi tra i quali sembrava scivolare fluido e gelido come un chiaro di luna, eppure più scuro della notte, sempre più vicino. Ogni volta che gli sembrava che stesse per balzargli addosso e ucciderlo, Jacob si svegliava, una volta gridando il nome di Barty, come se volesse avvertire il bambino, e un'altra volta mentre pronunciava due parole: «... il fante...» Il sabato mattina, era entrato in un grande magazzino e aveva comprato otto mazzi di carte. Aveva trascorso la giornata usandone quattro per ricreare, più e più volte, la situazione della sera precedente. I quattro fanti non erano mai apparsi.
Quando, la sera, era andato a dormire, le carte che quella mattina erano ancora nuove, adesso mostravano segni di usura. Di nuovo il sogno del bosco, ancora quella presenza: senza volto e silenzioso, sprigionava una crudele determinazione. La domenica mattina, quando Agnes fece ritorno dalla chiesa, Edom e Jacob si unirono a lei per il pranzo. Nel pomeriggio, Jacob la aiutò a preparare sette torte da distribuire il lunedì successivo. Durante tutta la giornata cercò di non pensare ai quattro fanti. Ma essendo affetto da nevrosi ossessiva, nonostante tutti i suoi sforzi, non vi riuscì. E adesso, domenica sera, aveva aperto i quattro mazzi nuovi, come se delle carte mai usate potessero far sì che la magia si ripetesse. Asso, asso, asso, asso di cuori. «1° dicembre 1958, a Chicago, nell'Illinois, l'incendio di una scuola parrocchiale ha provocato novantacinque vittime.» Asso, asso, asso, asso di quadri. Quattro di fiori. Se era stata la magia a far uscire quattro fanti quel venerdì sera, forse si trattava di magia nera. Forse non doveva sforzarsi di evocare ancora una volta lo spirito al quale si doveva l'uscita dei quattro fanti. «14 luglio 1960, Città del Guatemala, Guatemala, incendio in un manicomio... duecentoventicinque morti.» Per quanto potesse apparire strano, di solito ripetere questi fatti lo calmava, come se parlare di disastri fosse un modo per tenerli lontani. Ma da venerdì, quella routine non gli era stata più di alcun aiuto. Pur con un certo rammarico, alla fine Jacob divise nuovamente le carte nei vari mazzi e ammise con se stesso di essere vittima della superstizione e che questa non voleva più lasciarlo andare. Da qualche parte, nel mondo, c'era un fante, un mostro... secondo Maria, qualcosa di peggiore di un mostro, un uomo simile a un demonio... e, per motivi sconosciuti, quell'essere immondo voleva far del male al piccolo Barty, a un bambino innocente. Ma per ragioni che Jacob non comprendeva, attraverso le carte loro avevano ricevuto una grazia, erano stati avvertiti dell'arrivo di quel fante. Erano stati avvertiti. 37 La voglia rosso scuro come una pozzanghera sul viso piatto. Al centro della macchia, l'occhio chiuso, nascosto da una palpebra viola-
cea, liscio e tondo come un chicco d'uva. La vista di Vanadium sul pavimento della cucina fece provare a Junior Cain il più grande spavento della sua vita. Con un salto, si ritrasse come se volesse entrare nella propria pelle, il cuore batteva, batteva furiosamente, e gli sembrava quasi di sentire le sue ossa che sbattevano le une contro le altre, come quelle di uno scheletro appeso a mezz'aria in una galleria degli orrori. Sebbene Thomas Vanadium fosse svenuto, forse perfino morto, e sebbene entrambi gli occhi grigio-ferro fossero chiusi, Junior sapeva che quegli occhi lo stavano fissando, fissando attraverso le palpebre. Forse in quel momento impazzì. Non poteva negare che probabilmente era stato colto da un breve attacco di follia. Non si rese conto di aver sollevato il candeliere fino a quando non vide il colpo arrivare sul viso di Vanadium. E a quel punto non riuscì a impedirsi di colpire ancora. Poi, l'unica cosa che ricordava era di essersi avvicinato al lavandino e di aver chiuso il rubinetto, che non ricordava di aver aperto. Evidentemente aveva lavato il candeliere ricoperto di sangue - adesso era pulito - ma non ricordava di averlo fatto. L'immagine successiva era quella di se stesso in sala da pranzo, ma non sapeva come era arrivato lì. Il candelabro era asciutto. Tenendolo con un rettangolo di carta, Junior l'aveva rimesso sul tavolo nella posizione in cui l'aveva trovato. Poi aveva raccolto la candela dal pavimento e l'aveva infilata al suo posto. Immagine successiva, il soggiorno. Aveva interrotto Sinatra mentre cantava It Gets Lonely Early. La musica gli era stata alleata, aveva impedito a Vanadium di sentire il suo respiro affannoso, aveva dato alla casa un'atmosfera di normalità. Ma ora voleva il silenzio, così, se fosse arrivata un'altra auto, l'avrebbe sentita immediatamente. Di nuovo in sala da pranzo, questa volta ricordava come ci era arrivato: attraverso il soggiorno. Aprì gli sportelli che si trovavano in basso, al centro del mobile libreria, non trovò quello che cercava, provò nello sportello laterale, ed eccola, una piccola riserva di liquori. Scotch, gin, vodka. Scelse una bottiglia di vodka ancora piena. All'inizio, non riusciva a trovare il coraggio di tornare in cucina. Anche se era una follia, era certo che, in sua assenza, il detective si era alzato dal
pavimento e lo stava aspettando. Aveva una gran voglia di scappare da quella casa. Respirazione ritmica. Lenta e profonda. Lenta e profonda. Per Zedd, la strada che portava alla calma passava dai polmoni. Non si concesse il lusso di pensare per quale motivo Vanadium fosse andato là o quale rapporto esistesse tra lui e Victoria. Ci avrebbe pensato in seguito, adesso doveva occuparsi di quel macello. Alla fine si avvicinò alla porta che divideva la sala da pranzo dalla cucina. Si fermò, in ascolto. Silenzio assoluto nella stanza trasformata in mattatoio. Certo, quando passava la moneta da una nocca all'altra, il poliziotto non faceva alcun rumore. E aveva attraversato la stanza dell'ospedale al buio, con il passo felpato di un gatto. Junior immaginò di vedere la moneta che scivolava sulle dita tozze del poliziotto, spostandosi più in fretta di prima perché il suo movimento era reso più fluido dal sangue. Rabbrividendo per la paura, posò la mano sulla porta e la spinse lentamente. Il detective era ancora sul pavimento, morto. In una mano stringeva ancora la rosa rossa, nell'altra il pacchetto. Sulla voglia erano comparse macchie di colore più vivo. Ora il suo viso sembrava meno anonimo e anche meno piatto, butterato e lacerato in una nuova e orrenda geografia. Nel nome di Zedd, respiri lenti e profondi. Non concentrarti sul passato, non sul presente, ma solo sul futuro. Ciò che è accaduto non ha alcuna importanza. Importa solo ciò che accadrà dopo. Il peggio era ormai alle spalle. Quindi, vai avanti. Non farti bloccare da queste disgustose conseguenze. Continua a fischiare come il treno impazzito. Pulisci, svuota, raccogli. Mentre attraversava la piccola cucina, calpestò alcuni frammenti del bicchiere rotto. Aprì la bottiglia di vodka e la posò sul tavolo di fronte alla donna. Il suo precedente piano, quello di creare una scena - burro sul pavimento, sportello del forno aperto - per far credere che Victoria fosse morta in seguito a un incidente, non andava più bene. Bisognava pensare a una nuova strategia. Le ferite di Vanadium erano troppo gravi per poter essere considerate accidentali. Anche nella migliore delle ipotesi, nessuno avrebbe creduto
che Victoria fosse morta cadendo accidentalmente e che anche Vanadium, per correre in suo aiuto, fosse scivolato, ruzzolando sul pavimento e provocandosi delle ferite mortali. Una messa in scena così grossolana avrebbe fatto sorgere dei sospetti anche alla polizia di Spruce Hills. Okay, gira intorno a questo problema come fosse una luna e trova la faccia illuminata... Dopo essersi preso un minuto di tempo per farsi forza, Junior si accovacciò accanto al detective morto. Non guardò il suo viso devastato. Se avesse guardato gli occhi chiusi, quelli potevano aprirsi di scatto, iniettati di sangue, e lo avrebbero fissato con quello sguardo penetrante come chiodi. Molti corpi di polizia chiedevano che i loro funzionari portassero un'arma da fuoco anche quando non erano in servizio. Forse la polizia dell'Oregon non applicava questa norma, ma con tutta probabilità Vanadium era armato perché, nella sua follia, non si considerava mai un cittadino privato, ma sempre un poliziotto, sempre un implacabile crociato. Da una rapida palpatina sui risvolti dei pantaloni capì che non c'era nessuna fondina da caviglia, il sistema preferito dalla maggior parte dei poliziotti per portare un'arma fuori servizio. Distogliendo lo sguardo dal volto di Vanadium, Junior proseguì la perquisizione di quel corpo massiccio. Aprì la giacca sportiva di tweed e vide la fondina da spalla. Junior non ne sapeva molto di pistole. Non le approvava; non ne aveva mai posseduta una. Si trattava di un revolver. Da quel che riusciva a capire, la sicura non era inserita. Armeggiò con il tamburo fino a quando si aprì. Cinque camere di scoppio, ognuna delle quali conteneva una cartuccia luccicante. Con un colpo secco fece rientrare il tamburo e si alzò in piedi. Aveva già un nuovo piano e il revolver del poliziotto era lo strumento più importante di cui aveva bisogno per realizzarlo. Junior era piacevolmente sorpreso dalla sua flessibilità e dalla sua audacia. Era davvero un uomo nuovo, un coraggioso avventuriero e, giorno dopo giorno, diventava sempre più temibile. Secondo Zedd, lo scopo della vita era l'autorealizzazione e Junior stava realizzando così in fretta il suo straordinario potenziale che il suo guru ne sarebbe sicuramente rimasto molto compiaciuto. Allontanò la sedia di Victoria dal tavolo, girandola verso di sé. Cambiò
la posizione del corpo in modo che la testa fosse rivolta all'indietro e le braccia scendessero lungo i fianchi. Era davvero bellissima, sia di viso che di corpo, anche con la bocca spalancata e gli occhi rivoltati all'indietro. Che splendido futuro avrebbe potuto avere insieme, se lei non avesse scelto di ingannarlo. Una donna che provoca un uomo è essenzialmente un'imbrogliona... promette ciò che non ha alcuna intenzione di dare. Diffìcilmente un comportamento del genere l'avrebbe condotta alla scoperta di sé, al miglioramento e alla realizzazione della sua personalità. In questa vita, siamo noi gli artefici delle nostre disgrazie. Nel bene o nel male, creiamo noi il nostro futuro. «Mi spiace dover fare questo», disse Junior. Poi chiuse gli occhi, strinse il revolver con entrambe le mani e sparò due volte al cadavere da distanza ravvicinata. Il rinculo fu peggiore di quanto si fosse aspettato. Il revolver gli sobbalzò tra le mani. Le due denotazioni riecheggiarono dalle superfici degli armadietti, del frigorifero e dei forni. Per un attimo, dai vetri delle finestre si levò una specie di ronzio. Junior non era affatto preoccupato all'idea che i due spari potessero attrarre la sgradita attenzione di qualcuno. In quella zona semirurale, le case avevano ampi giardini e una notevole quantità di alberi che smorzavano i rumori, di conseguenza era poco probabile che un vicino potesse aver sentito qualcosa. Al secondo sparo, il corpo della donna ruzzolò dalla sedia, che cadde di lato. Junior aprì gli occhi e vide che soltanto il secondo proiettile aveva colpito l'obiettivo. Il primo aveva attraversato lo sportello di un armadietto mandando sicuramente in frantumi i piatti che conteneva. Victoria giaceva supina sul pavimento. L'infermiera non era più tanto attraente; forse a causa di un inizio di rigor mortis, la sua bellezza, che prima era stata evidente anche da morta, ora l'aveva abbandonata. «Mi dispiace davvero per tutto questo», ripeté Junior, rammaricandosi di doverle negare il diritto di apparire bella al suo funerale, «ma deve sembrare un delitto passionale.» In piedi accanto al corpo, sparò gli ultimi tre colpi. Una volta finito, si ritrovò più che mai a detestare le pistole. Nell'aria aleggiava una puzza di colpi d'arma da fuoco e di brasato.
Junior pulì il revolver con un rettangolo di carta. Poi lo lasciò cadere a terra accanto al corpo dell'infermiera. Non si preoccupò di premere la mano di Vanadium intorno all'arma. In ogni caso, alla squadra investigativa non sarebbe rimasto un gran che da esaminare, una volta spento l'incendio: solo qualche indizio carbonizzato che avrebbe permesso di giungere a una facile conclusione. Due omicidi e un incendio doloso. Quella sera Junior si era davvero scatenato. Ma non era un ragazzo cattivo. Non credeva nel bene e nel male, nel giusto e nell'ingiusto. Vi erano azioni efficaci e azioni inutili, comportamenti socialmente accettabili e inaccettabili, si potevano prendere decisioni intelligenti o stupide. Ma se si desiderava raggiungere il massimo della autorealizzazione, bisognava comprendere che qualsiasi scelta fatta nella vita aveva un valore assolutamente neutrale. La moralità era un concetto primitivo, forse utile durante le prime fasi dell'evoluzione della società, ma privo di qualsiasi rilevanza nell'epoca moderna. Alcune azioni erano anche sgradevoli, come per esempio quella di frugare gli indumenti del poliziotto per cercare le chiavi della macchina e il suo distintivo. Continuando a distogliere lo sguardo dal viso martoriato e dalle palpebre di due colori, Junior trovò le chiavi in una tasca esterna della giacca. Il documento era invece infilato in una tasca interna: una custodia di pelle contenente il lucido distintivo e una foto di identificazione. Gettò la custodia sul corpo dell'infermiera colpita-soffocata-sforacchiata. Fuori della cucina, lungo il corridoio, su per le scale, due gradini alla volta, nella stanza di Victoria. Non con l'intenzione di portarsi via qualche perverso souvenir. Ma solo per cercare una coperta. Tornato in cucina, Junior distese la coperta sul pavimento, accanto al corpo del poliziotto. Fece ruzzolare Vanadium sulla coperta e raccolse le due estremità, formando una specie di slitta con la quale trascinare il detective fuori della casa. Il poliziotto pesava troppo per essere trasportato a braccia, la coperta si dimostrò utile, la decisione di trascinarlo fu senz'altro intelligente e l'intera operazione aveva moralmente un valore neutrale. Sfortunatamente per il morto, fu un viaggio pieno di scossoni: lungo il corridoio, attraverso l'ingresso, oltre la soglia, giù per i gradini della veranda, attraverso un prato chiazzato di ombre di pini e chiar di luna giallo,
fino al vialetto di ghiaia. Nessuna lamentela. Junior non riusciva a scorgere le luci delle case più vicine. O le villette erano nascoste dagli alberi, oppure i vicini non erano in casa. L'auto di Vanadium, ovviamente non quella della polizia, era una Studebaker Lark Regal blu del 1961. Una macchina tozza e priva di eleganza, sembrava che fosse stata progettata apposta per fare da complemento al fisico tarchiato del detective. Quando Junior aprì il portabagagli, scoprì che l'attrezzatura per la pesca e due portautensili di legno pieni di attrezzi da falegname non lasciavano spazio sufficiente per un detective morto. Sarebbe riuscito a farcelo stare solo se, prima, lo avesse fatto a pezzi. Ma era un'anima troppo sensibile per dissezionare un cadavere con una sega a mano o elettrica. Solo dei pazzi potevano fare una cosa del genere. Matti senza speranza come Ed Gein, un tipo del Wisconsìn, arrestato proprio sette anni prima, quando Junior aveva sedici anni. Ed, al quale si ispirava il protagonista di Psyco, aveva costruito sculture astratte con nasi e labbra umani. Usava la pelle delle sue vittime per fare paralumi e imbottire mobili. Le sue scodelle erano ricavate da crani umani. Mangiava i cuori e altri organi delle sue vittime, indossava una cintura fatta di capezzoli e, di tanto in tanto, danzava sotto la luna indossando una maschera formata dallo scalpo e dal viso di una donna che aveva ucciso. Rabbrividendo, Junior richiuse il portabagagli e si mise a osservare con circospezione quel paesaggio solitario. Pini scuri affondavano i loro ispidi rami nella notte nera come pece e la luna riversava sulla terra una luce itterica che sembrava più oscurare che illuminare. Junior non era superstizioso. Non credeva né nelle divinità, né nei demoni, e neppure in qualsiasi cosa che stesse tra gli uni e gli altri. Tuttavia, pensando ancora a Gein, era facile immaginare che un essere mostruoso fosse acquattato nelle vicinanze. Osservando. Tramando. Spinto da una smania abominevole. In un secolo lacerato da due guerre mondiali, segnato dalle impronte di uomini come Hitler e Stalin, i mostri non erano più esseri sovrannaturali, ma umani, e la loro umanità li rendeva più spaventosi dei vampiri e dei demoni dell'inferno. Junior non era spinto da qualche strana necessità, ma da un interesse personale del tutto razionale. Di conseguenza, decise di caricare il corpo del detective nell'angusto sedile posteriore della Studebaker con tutti gli arti intatti e la testa attaccata al collo.
Tornato in casa, spense le tre lampade a petrolio di vetro soffiato posate sul tavolino del soggiorno. E spense anche la lampada dal paralume di seta. Spostatosi in cucina, evitò accuratamente di calpestare il sangue e girò intorno al corpo di Victoria per spegnere entrambi i forni. Poi versò l'acqua che bolliva nella pentola sulla fiamma del gas. Dopo aver spento le luci della cucina, del corridoio e dell'ingresso, uscì chiudendo la porta alle sue spalle e lasciando la casa buia e silenziosa. Aveva ancora del lavoro da fare. Ma la cosa più urgente era liberarsi nel modo migliore di Thomas Vanadium. Dalla luna scese un'improvvisa folata di vento freddo che portò con sé la traccia di un odore sconosciuto, e i rami neri degli alberi si gonfiarono e frusciarono come gonne di streghe. Junior si mise alla guida della Studebaker, avviò il motore, fece una brusca inversione di centottanta gradi, usando più prato che vialetto, e lanciò un urlo di terrore quando Vanadium si mosse rumorosamente sul sedile posteriore. Piantò il piede sul pedale dei freni, spostò con un colpo secco il cambio in posizione di parcheggio, spalancò la porta e si lanciò fuori dell'auto. Poi prese a girare su se stesso per affrontare la minaccia, facendo scivolare pericolosamente la ghiaia sotto i suoi piedi. 38 Quella domenica sera, stringendo il berretto da baseball in mano, un giovane grande e grosso con l'aria da ragazzino timido si fermò sulla veranda antistante la casa di Agnes. «Signora Lampion?» «Sono io.» La testa leonina e i lineamenti marcati, incorniciati dai capelli biondi, avrebbero dovuto dare un'impressione di forza, ma tutto ciò era compromesso da una frangetta che gli formava dei riccioli sulla fronte, uno stile che purtroppo ricordava i rammolliti imperatori dell'antica Roma. «Son venuto per...» La voce gli venì meno. Considerata la notevole stazza, i suoi indumenti avrebbero dovuto offrire un'immagine di virile mascolinità: stivali, jeans, camicia di flanella rossa. Tuttavia, la testa abbassata, le spalle curve e i piedi che continuavano a strusciare per terra ricordavano che quello era anche l'abbigliamento di
molti ragazzini. «C'è qualcosa che non va?» lo incoraggiò Agnes. Il ragazzo incrociò il suo sguardo, poi lo abbassò nuovamente sul pavimento della veranda. «Sono venuto a dirle... quanto mi dispiace, che mi dispiace davvero.» In quei dieci giorni dalla morte di Joey, un incredibile numero di persone era venuto a porgere le sue condoglianze ad Agnes, ma fino a quel momento si era sempre trattato di gente che lei conosceva. «Darei qualsiasi cosa perché non fosse successo», soggiunse il ragazzo con aria molto seria. Poi nella sua voce si percepì una nota di profonda emozione: «Se solo fossi morto io al suo posto». Il suo dolore era talmente esagerato che Agnes non sapeva che cosa dire. «Non avevo bevuto», assicurò il ragazzo. «Lo hanno dimostrato. Ma ammetto di essere stato un incosciente, guidavo a una velocità eccessiva con quella pioggia. Sarò processato per quello, per essere passato con il rosso.» All'improvviso Agnes capì. «Sei tu.» Il ragazzo annuì e il suo volto avvampò per il senso di colpa. «Nicholas Deed.» Sulla sua lingua, il nome le parve amaro come un'aspirina che si scioglieva. «Nick», suggerì lui, come se esistesse un qualche motivo per cui Agnes dovesse dare del tu all'uomo che le aveva ucciso il marito. «Non avevo bevuto.» «Ma hai bevuto ora», lo accusò lei in tono pacato. «Sì, solo qualche bicchiere. Per farmi coraggio. Per venire qui. Per chiedere perdono.» Quella richiesta le sembrò un'aggressione. Agnes quasi barcollò all'indietro, come se fosse stata colpita. «Può, vuole perdonarmi, signora Lampion?» Per natura, Agnes era incapace di tenere rancore, di provare risentimento, di desiderare la vendetta. Aveva perdonato perfino suo padre, che le aveva fatto vivere una vita d'inferno per così tanto tempo, che aveva distrutto l'esistenza dei suoi fratelli, che aveva ucciso sua madre. Perdonare non era lo stesso che scusare. Perdonare non significava discolpare o dimenticare. «Non riesco quasi più a dormire», soggiunse Deed, tormentando il berretto da baseball che stringeva tra le mani. «Sono dimagrito, sono sempre nervoso, irritabile.»
Ma nonostante la sua natura, questa volta Agnes non riuscì a trovare nel cuore la capacità di perdonare. Le parole di assoluzione le si bloccarono in gola. La sua durezza la lasciava costernata, ma non poteva negarla. «Il suo perdono non potrà rimettere a posto le cose», proseguì il ragazzo. «Niente potrebbe farlo, ma potrebbe restituirmi un po' di pace.» «Perché dovrebbe importarmi se tu ritrovi o no la pace?» domandò lei, e le sembrò di ascoltare un'altra donna, diversa. Deed trasalì. «Nessun motivo. Ma di certo non ho mai avuto l'intenzione di fare del male a lei o a suo marito, signora Lampion. E neppure al suo bambino, il piccolo Bartholomew.» Sentendo il nome di suo figlio, Agnes si irrigidì. Deed poteva essere venuto a conoscenza del nome del bambino in molti modi, tuttavia le sembrò ingiusto che lui lo sapesse, che lui usasse il nome di quel bambino che aveva reso quasi orfano, che aveva quasi ucciso. Agnes venne investita da una zaffata d'alcol quando il ragazzo domandò: «Come sta Bartholomew? Sta bene? Il piccolino è in buona salute?» Le tornarono alla mente i quattro fanti di picche. Ricordando i capelli gialli e riccioluti della figura sulle carte da gioco, Agnes fissò lo sguardo sulla frangetta bionda di Deed, i cui riccioli gli coprivano l'ampia fronte. «Lei non ha nulla a che fare qui», ribatté, arretrando, con l'intenzione di chiudere la porta. «Per favore, signora Lampion.» Una forte emozione sembrò incidere il viso di Deed. Dolore, forse. O rabbia. Agnes non era in grado di interpretare la sua espressione, non perché quel ragazzo fosse in alcun modo diffìcile da capire, ma perché le sue percezioni erano distorte da un'improvvisa paura e da una ondata di adrenalina. Nel suo petto, il cuore sembrò girare vorticosamente come un volano. «Aspetti», disse Deed, tendendo una mano in un gesto di supplica, oppure per bloccare la porta. Agnes gliela sbatté in faccia prima che lui potesse fermarla, che ne avesse avuta l'intenzione o no, poi mise il chiavistello. Smussato, spezzettato, distorto, diviso in petali e foglie, il volto di Deed al di là del vetro, mentre si appoggiava contro il pannello per sbirciare all'interno, sembrava quello di un demone che, durante un incubo, riemerge da un lago. Agnes tornò di corsa in cucina dove, quando aveva sentito squillare il
campanello della porta, stava riempiendo le scatole di generi alimentari da consegnare insieme con le torte di pere e uvette che lei e Jacob avevano preparato quella mattina. La culla di Barty era accanto al tavolo. Temeva che glielo avessero portato via, rapito da un complice che era entrato dalla porta posteriore mentre Deed la teneva impegnata all'ingresso principale. Il bambino era dove lei lo aveva lasciato e dormiva serenamente. Fece un giro di tutte le finestre per abbassare le veneziane. Ma, anche se era del tutto irrazionale, continuava a sentirsi osservata. Tremando, si sedette accanto alla culla e fissò il figlio con tanto amore che la forza di quel sentimento avrebbe dovuto svegliarlo. Era convinta che Deed avrebbe suonato di nuovo alla porta. Ma non lo fece. «Pensa che ho creduto che ti avessero portato via», disse a Barty. «La tua vecchia mamma sta perdendo la testa. Non ho mai fatto alcun patto col diavolo, quindi lui non ha niente da prendersi.» Ma non riuscì di smettere di avere paura. Nicholas Deed non era il fante. Aveva già portato tutto il dolore possibile nelle loro vite. Ma da qualche parte c'era un fante e prima o poi il suo giorno sarebbe arrivato. Per evitare che Maria si sentisse responsabile per il fatto che alla gioia dell'uscita degli assi fosse subentrata la tristezza per la comparsa degli inquietanti jack, Agnes aveva finto di non dare grande importanza alla lettura delle carte e alle previsioni del futuro di suo figlio, soprattutto per quel che riguardava la parte più sgradevole. Ma in effetti, si era sentita il cuore stretto da una morsa di gelo. Prima d'allora, non aveva mai creduto alle predizioni di qualsiasi tipo. Ma in quelle dodici carte scelte e voltate, aveva sentito la flebile voce della verità, non una verità del tutto coerente, non un messaggio chiaro come quello che avrebbe preferito ricevere, ma un sussurro che non poteva ignorare. Il piccolo Bartholomew fece una smorfietta nel sonno. Sua madre disse una preghiera per lui. Chiese anche perdono per la durezza con cui aveva trattato Nicholas Deed. E chiese che le fosse risparmiata la visita del fante.
39 Il detective morto sorrideva nel chiaro di luna, un paio di monete d'argento scintillavano nelle orbite un tempo riempite dagli occhi. Fu questa l'immagine che attraversò le acque turbolente della fantasia di Junior Cain quando si tuffò fuori dell'auto e si voltò per fronteggiare la Studebaker, con il cuore che gli colava a picco come un'ancora. La lingua asciutta, la bocca arida e la gola riarsa gli sembravano piene di sabbia, e la sua voce era sepolta viva là sotto. Anche quando non vide nessun cadavere di poliziotto, nessun sorriso demoniaco, niente monete al posto degli occhi, Junior non tirò immediatamente un sospiro di sollievo. Muovendosi con circospezione, girò intorno all'auto, sicuro che avrebbe trovato il detective acquattato e pronto a saltargli addosso. Niente. All'interno dell'auto, la luce era accesa perché Junior non aveva chiuso la portiera. Non voleva sporgersi all'interno e sbirciare dal sedile anteriore. Non aveva armi. Sarebbe stato sbilanciato, vulnerabile. Guardingo, si avvicinò alla portiera posteriore, al finestrino. Il corpo di Vanadium giaceva sul fondo dell'auto, avvolto nella coperta. Il poliziotto non si era alzato con l'intenzione di aggredirlo, come Junior aveva creduto di sentire. Il corpo era semplicemente ruzzolato dal sedile posteriore durante la brusca virata a centottanta gradi. Per un attimo, si sentì umiliato. Avrebbe voluto trascinare il detective fuori dell'auto e calpestargli quella sua faccia morta. Ma in questo modo non avrebbe usato al meglio il suo tempo. Gli avrebbe dato soddisfazione, ma non era prudente. Zedd ci dice che il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo, perché, fin dalla nascita, ne abbiamo pochissimo. Junior risalì in auto, sbatté la portiera e disse: «Brutto stronzo con la faccia piatta, il doppiomento, mezzo calvo e collezionista di vomito». Esprimere a voce alta gli insulti lo gratificò in modo straordinario, anche se Vanadium era troppo morto per sentirli. «Mostriciattolo dal collo grasso, con un naso spiaccicato, le orecchie a cavolfiore, le sopracciglia di una scimmia e una voglia rossa.» Era molto meglio che respirare lentamente e profondamente. Di tanto in
tanto, mentre si avviava verso la casa di Vanadium, Junior sputò una serie di insulti, inframmezzati da oscenità. Ebbe il tempo di pensarne diversi, perché guidava mantenendosi al di sotto del limite di velocità di almeno una decina di chilometri. Non poteva rischiare di essere fermato per qualche infrazione proprio mentre trasportava quel ciccione di Thomas Vanadium morto stecchito e avvolto in una coperta. Nel corso della settimana precedente, Junior aveva svolto indagini molto discrete sulla vita del prestigiatore con il distintivo. Il poliziotto non era sposato. Abitava da solo, quindi la sua visita non avrebbe comportato alcun rischio. Junior parcheggiò l'auto nel garage doppio. Il secondo spazio non era occupato da altri veicoli. Lungo la parete era appesa un'impressionante serie di attrezzi da giardinaggio. In un angolo, un ripiano per l'invasatura. In un armadietto al di sopra del ripiano, Junior trovò un paio di guanti da giardinaggio di cotone, perfettamente puliti. Se li infilò, gli andavano abbastanza bene. Aveva qualche difficoltà a immaginare il detective che lavorava in giardino durante i fine settimana. A meno che non vi fossero dei cadaveri seppelliti sotto le rose. Entrò in casa usando le chiavi del detective. Mentre Junior era ricoverato in ospedale, Vanadium aveva perquisito casa sua, con o senza mandato. Adesso toccava a lui. Evidentemente il detective trascorreva molto tempo in cucina; era l'unica stanza della casa ad avere un'aria confortevole e vissuta. Numerosi utensili, elettrodomestici. Pentole e padelle appese a una sbarra che correva lungo il soffitto. Un cesto di cipolle, un altro di patate. Junior notò un gruppo di bottiglie dalle etichette molto colorate e scoprì che si trattava di una collezione di differenti oli d'oliva. Il detective si considerava un cuoco. Le altre stanze erano arredate in modo spartano, come quelle di un monastero. Anzi, nella sala da pranzo non c'era proprio nulla. In soggiorno, un divano e una poltrona. Niente tavolino davanti al divano. Soltanto uno, piccolo, accanto alla poltrona. La parete attrezzata conteneva un buon impianto stereo e alcune centinaia di dischi a trentatré giri. Junior esaminò la collezione di album. Il poliziotto aveva una predilezione per le orchestre e i cantanti swing.
Evidentemente, o Frank Sinatra era una delle passioni che Victoria e il detective condividevano, oppure l'infermiera aveva acquistato alcuni dischi del cantante espressamente per quella cena. Ma quello non era il momento per riflettere sulla natura della relazione intercorsa tra l'infida signorina Bressler e Vanadium. Junior aveva ancora molte cose da fare e il tempo fuggiva inesorabile. Oltretutto, quelle due possibilità lo disgustavano. Il solo pensiero di una donna stupenda come Victoria che cedeva a un essere grottesco come Vanadium lo faceva inorridire. Lo studio aveva le dimensioni di un bagno. In quello spazio così angusto ci stavano a malapena una malconcia scrivania in legno di pino, una sedia e un armadietto per i classificatori. I mobili della camera, diversi uno dall'altro, di pessima qualità e tutti rovinati, potevano essere stati acquistati in un negozio di roba usata. Un letto matrimoniale e un comodino. Un piccolo cassettone. Così come per il resto della casa, anche la camera era perfettamente pulita. Il pavimento di legno brillava come se fosse stato lucidato a mano. Il semplice copriletto di ciniglia bianca era teso come la coperta di una brandina in un dormitorio militare. In tutta la casa non c'era né un soprammobile né un souvenir. E fino a quel momento Junior non aveva visto nulla appeso alle pareti, tranne un calendario in cucina. Una figura in bronzo soffriva al di sopra del letto, fissata a un rettangolo di noce laccato. Quel crocifisso, che contrastava in maniera così netta con le pareti bianche, rafforzava l'impressione di una semplicità monastica. Secondo Junior, quello non era il modo in cui viveva una persona normale. Quella era la casa di un pazzo, di un uomo pericolosamente ossessivo. Essendo stato vittima delle fissazioni di Thomas Vanadium, Junior si considerò fortunato di essere riuscito a sopravvivere. Rabbrividì. Nell'armadio, il guardaroba alquanto limitato non occupava tutto lo spazio disponibile. Le scarpe erano sistemate ordinatamente sul fondo. Sul ripiano superiore, vi erano scatole e due valigie di poco valore: cartone pressato laminato con vinile verde. Prese le due valigie e le posò sul letto. Vanadium possedeva così pochi indumenti che nelle valigie c'era spazio a sufficienza per la metà di quanto contenuto nell'armadio e nel cassettone. Junior gettò alcuni capi d'abbigliamento sul pavimento e sul letto per da-
re l'impressione che il detective avesse fatto i bagagli in tutta fretta. Dopo essere stato così imprudente da sparare a Victoria Bressler per cinque volte con il suo revolver di servizio - forse durante una scenata di gelosia o forse perché era impazzito - sicuramente Vanadium non aveva desiderato altro che sfuggire alla giustizia. In bagno, prese un rasoio elettrico e alcuni prodotti da toilette. Li gettò nelle due valigie. Dopo aver portato i bagagli in garage e averli sistemati nell'auto, tornò nello studio. Si sedette alla scrivania ed esaminò il contenuto dei cassetti, dopo si sarebbe occupato dell'armadietto con i classificatori. Non era completamente certo di quello che sperava di trovare. Forse una busta o una scatola con del denaro in contanti che un assassino in fuga si sarebbe sicuramente fermato a prendere. Se lo avesse lasciato dov'era, la cosa sarebbe apparsa sospetta. Magari un libretto di risparmio. Nel primo cassetto, trovò una rubrica. Era logico immaginare che Vanadium l'avrebbe portata con sé, anche se se la stava squagliando, e così Junior se la infilò nella tasca della giacca. La ricerca nei cassetti della scrivania era solo a metà, quando squillò il telefono, non il solito squillo fastidioso, ma un gradevole ronzio elettronico. Non aveva alcuna intenzione di rispondere. Il secondo ronzio fu seguito da un clic, poi la ormai familiare voce monotona disse: «Salve. Sono Thomas Vanadium...» Come un serpente a molla che salta fuori da una lattina, Junior balzò dalla poltroncina, facendola quasi cadere. «...Al momento non sono in casa.» Voltandosi di scatto verso la porta aperta, vide che il detective stava dicendo la verità. Non era in casa. La voce, che proveniva da un apparecchio posato sulla scrivania, accanto al telefono, soggiunse: «Per favore, non riagganciate. Questa è una segreteria telefonica. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico e vi richiamerò più tardi». Sull'involucro di plastica nera dell'apparecchio vi era stampata la parola ANSAPHONE. Junior aveva sentito parlare di quell'invenzione, ma fino ad allora non ne aveva mai vista una. Probabilmente un maniaco come Vanadium era pronto a fare qualsiasi cosa, compreso ricorrere a simili stramberie, per evitare di perdere una telefonata importante. Come promesso si udì un segnale acustico e dalla scatola giunse la voce
di un uomo: «Sono Max. Sei un indovino. Ho trovato l'ospedale. La povera ragazzina ha avuto un'emorragia cerebrale conseguente a una crisi ipertensiva provocata da... eclampsia, penso che si chiami così. Il bambino è sopravvissuto. Chiamami, va bene?» Max riagganciò. L'Ansaphone emise una serie di piccoli rumori da robot, poi rimase in silenzio. Sbalorditivo. Junior era tentato di premere i vari pulsanti. Magari sull'apparecchio vi erano registrati altri messaggi. Sarebbe stato divertente ascoltarli - anche se fossero stati per lui completamente privi di significato come quello di Max - un po' come dare un'occhiata al diario di una persona sconosciuta. Non avendo trovato nient'altro di interessante nello studio, pensò di ispezionare il resto della casa. Ma la notte scorreva veloce e lui aveva ancora molte cose da fare prima che giungesse il mattino. Lascia le luci accese, la porta aperta. Un assassino, che ha fretta di svanire nel nulla fintanto che il corpo della vittima non è stato scoperto, non si preoccupa certo della bolletta dell'elettricità o di proteggere la casa dai ladri. Junior si allontanò dalla villetta guidando in modo spavaldo. Zedd consigliava l'audacia. Dato che continuava a immaginare i rumori furtivi di un poliziotto morto che si alzava alle sue spalle, deciso a vendicarsi, Junior accese la radio. Si sintonizzò su una stazione che trasmetteva la classifica dei quaranta dischi più venduti. Il deejay annunciò la canzone numero quattro della settimana: She's a Woman, dei Beatles. I Fab Four riempirono la Studebaker di musica. Tutti pensavano che il gruppo inglese fosse il migliore mai apparso sulla scena, ma per Junior la loro musica non era niente di speciale. Non gli faceva venir voglia di cantare e non trovava le loro canzoni particolarmente adatte a essere ballate. Lui era un tipo patriottico, preferiva il rock americano alle canzonette inglesi. Non aveva nulla contro quel popolo, non aveva nulla contro la gente di qualsiasi nazionalità. In ogni caso, pensava che la classifica dei Top 40 doveva comprendere esclusivamente canzoni americane. Attraversando Spruce Hills con John, Paul, George, Ringo e il morto Thomas, Junior si diresse nuovamente verso la casa di Victoria, dove Sinatra non cantava più.
Al terzo posto, in classifica c'era Mr. Lonely, di Bobby Vinton, un artista americano di Canonsburg, in Pennsylvania. Junior si mise a cantare con lui. Superò la casa della Bressler senza rallentare. A quel punto, Vinton aveva concluso la sua canzone, c'era stato l'intervallo per la pubblicità ed era iniziata la canzone numero due: Come See About Me, delle Supremes. Altra buona musica americana. Certo, le Supremes erano negre, ma Junior non era una persona intollerante. Una volta aveva avuto un rapporto travolgente con una ragazza di colore. Cantando con Diana Ross, Mary Wilson e Florence Ballard, si diresse verso la cava di granito che si trovava a circa cinque chilometri dalla città. Un paio di chilometri più a nord c'era una nuova cava, gestita sempre dalla stessa società. Ma questa era quella vecchia, abbandonata dopo decenni di sfruttamento. Anni prima, avevano deviato il corso di un fiume per riempire l'enorme buca. Poi vi avevano immesso dei pesci, soprattutto trote e spigole. Come località turistica, Quarry Lake aveva avuto un successo solo parziale. Per sfruttare al meglio la cava, avevano dovuto sradicare tutti gli alberi che crescevano intorno allo scavo, di conseguenza, nelle calde giornate estive, gran parte della spiaggia restava in pieno sole. E lungo quasi tutta la riva vi erano dei cartelli che avvertivano FONDO NON DIGRADANTE: ACQUA IMMEDIATAMENTE PROFONDA. In alcuni punti in cui il lago incontrava la riva, il fondo era a più di trenta metri. I Beatles cominciarono a cantare la canzone prima in classifica, I Feel Fine, e Junior abbandonò la strada che attraversava la contea per imboccare quella che costeggiava il lago dall'acqua scura come petrolio, dirigendosi a nordest. Tra le prime cinque canzoni in classifica, solo due erano americane. Disgustato, spense la radio. Nel precedente mese di aprile, i ragazzi di Liverpool avevano conquistato tutti e cinque i primi posti. Gruppi di veri americani come i Beach Boys e i Four Seasons erano stati costretti ad accontentarsi di posizioni inferiori. C'era da chiedersi chi avesse realmente vinto la guerra della Rivoluzione americana. Nell'ambiente di Junior, a nessuno sembrava importare della crisi che la musica americana stava attraversando. Evidentemente, lui si sentiva colpito dalle ingiustizie più di quanto accadesse alla maggior parte della gente. In quella gelida sera di gennaio, né campeggiatori, né pescatori si erano ac-
campati lungo il lago. Dato che gli alberi erano molto rientrati rispetto alla riva e restavano avvolti nell'oscurità, quella vasta pozza nera e la spiaggia che la circondava apparivano desolate come il paesaggio di un mondo senza atmosfera. Troppo lontano da Spruce Hills per essere un punto di ritrovo per i ragazzini, Quarry Lake non attirava neppure gli innamorati perché aveva fama di essere una zona maledetta. In cinquant'anni, quattro operai erano morti per incidenti sul lavoro. Tra le leggende che circolavano nella contea, si narrava anche di fantasmi che vagavano in fondo alla grande buca prima che venisse inondata dall'acqua e, in seguito, avevano continuato a vagare lungo la riva. Junior intendeva aggiungervi anche un fantasma dal fisico tarchiato. Forse un giorno, in una notte d'estate, la lampada a petrolio di un pescatore avrebbe illuminato un Vanadium semitrasparente che faceva divertire gli altri fantasmi con un etereo quarto di dollaro. In un punto in cui le acque profonde incontravano la riva, Junior abbandonò la strada e si diresse verso l'argine. Parcheggiò a qualche metro dall'acqua, con il muso dell'auto rivolto verso il lago, poi spense le luci e il motore. Sporgendosi sul sedile anteriore, abbassò il finestrino dalla parte del passeggero di una quindicina di centimetri. Poi fece lo stesso con il finestrino dalla parte del guidatore. Ripulì il volante e qualsiasi superficie che potesse aver toccato durante il tragitto dalla casa di Victoria a quella del detective, dove aveva trovato i guanti da giardinaggio che indossava ancora. Uscì dall'auto e, con la portiera aperta, ripulì la maniglia esterna. Dubitava che qualcuno avrebbe mai ritrovato la Studebaker, ma gli uomini di successo sono, invariabilmente, quelli che prestano molta attenzione ai particolari. Per un po' rimase fermo accanto all'auto, lasciando che i suoi occhi si abituassero al buio. La notte stava nuovamente trattenendo il respiro, il vento di prima adesso era rinchiuso nel petto dell'oscurità. Dopo aver trascorso le ultime due ore a salire in cielo, la luna da oro si trasformò in argento, e nel lago scuro il suo riflesso scivolava lungo le nocche delle piccole onde. Assicuratosi di essere solo, Junior si sporse dentro la macchina e spostò il cambio dalla posizione di parcheggio. Poi tolse il freno a mano.
L'argine era inclinato verso il lago. Chiuse la portiera e si spostò di lato, mentre la Studebaker cominciava ad avanzare, acquistando sempre maggiore velocità. L'auto entrò nel lago sollevando pochissimi spruzzi. Galleggiò per qualche minuto, sobbalzò vicino alla riva, si inclinò in avanti per via del peso del motore. Quando l'acqua cominciò a filtrare dalle fessure sul fondo, il veicolo si raddrizzò... ma affondò rapidamente appena l'acqua raggiunse i due finestrini parzialmente aperti. Quella gondola costruita a Detroit avrebbe attraversato lo Stige, senza bisogno di essere spinta da un gondoliere dalla tunica nera. Nel momento in cui il tettuccio dell'auto svanì al di sotto della superficie dell'acqua, Junior si allontanò in fretta, ripercorrendo a piedi la strada che aveva fatto in macchina. Non dovette tornare fino alla villetta di Vanadium, si fermò prima, alla casa immersa nell'oscurità dove aveva lasciato Victoria Bressler. Aveva un appuntamento con la donna morta. 40 Non dell'umore giusto per dedicarsi al giardinaggio, ma indossando i guanti adatti, Junior accese la luce dell'ingresso, quella del corridoio, quella della cucina, girò intorno all'infermiera colpita-soffocata-sforacchiata, si avvicinò alla cucina dove accese il primo forno nel quale il brasato non ancora completamente cotto si stava raffreddando, e il secondo forno, nel quale i piatti attendevano di essere riscaldati. Accese nuovamente il gas sotto la pentola d'acqua e guardò, affamato, la pasta cruda che Victoria aveva pesato e messo da parte. Se le fasi successive del suo incontro con Vanadium non avessero lasciato tanto disordine, Junior avrebbe potuto fare una pausa per cena prima di concludere il lavoro in quella casa. Per tornare da Quarry Lake aveva impiegato quasi due ore, anche perché si era nascosto tra gli alberi e i cespugli ogni volta che aveva sentito avvicinarsi delle auto. Stava morendo di fame. Tuttavia, per quanto buono potesse essere il cibo, l'ambiente rappresentava un fattore di notevole importanza per gustare appieno un pasto. Uno scenario macchiato di sangue non contribuiva in alcun modo a rendere gradevole una cena. In precedenza aveva posato sul tavolo, di fronte a Victoria, una bottiglia aperta di vodka. L'infermiera non era più sulla sedia, era ruzzolata a terra in seguito ai suoi spari come se, prima di quella bottiglia, ne avesse già be-
vuta un'altra. Junior versò metà della vodka sul cadavere, ne spruzzò anche in altri punti della cucina e versò quanto era rimasto sulla piastra di cottura, dove il liquido cominciò a scivolare lentamente verso il fornello acceso. Non era l'accelerante ideale, non era efficace come la benzina, ma fece appena in tempo a gettare la bottiglia, che l'alcol arrivò alla fiamma. Un fuoco azzurrino attraversò tutto il ripiano della cucina e seguì le gocce di alcol lungo la parte anteriore, fino al pavimento. L'azzurro si trasformò in giallo e il giallo si scurì quando la fiamma trovò il cadavere. Scherzare con il fuoco era divertente quando non bisognava cercare di nascondere che si trattava di incendio doloso. Sul corpo della donna, la custodia di pelle di Vanadium si incendiò. La carta d'identità sarebbe bruciata, ma probabilmente il distintivo non si sarebbe fuso. La polizia avrebbe anche identificato il revolver. Junior raccolse dal pavimento la bottiglia di vino che per ben due volte non si era rotta. Il suo fortunato Merlot. Camminando all'indietro verso la porta che conduceva in corridoio, continuò a osservare l'incendio che divampava. Dopo aver indugiato fino a quando non fu certo che la casa si sarebbe ben presto trasformata in una pira accesa, alla fine si lanciò lungo il corridoio in direzione della porta d'ingresso. Sotto una luna ormai al tramonto, continuò a correre silenziosamente per i tre isolati che lo dividevano dalla sua Suburban, parcheggiata in una strada parallela. Non incontrò nessun'auto e, sulla via del ritorno, si tolse i guanti da giardinaggio e li gettò in un cassonetto delle immondizie di fronte a una casa in ristrutturazione. Non si guardò indietro nemmeno una volta per vedere se l'incendio fosse divampato al punto tale da illuminare il cielo notturno. Ciò che era accaduto a casa di Victoria faceva ormai parte del passato. A lui non interessava più. Junior era un uomo il cui pensiero correva in avanti, si proiettava verso il futuro. A metà strada, udì le sirene e vide le luci lampeggianti dei veicoli di soccorso che si avvicinavano. Accostò la Suburban lungo il margine della strada e rimase a osservare i due camion dei vigili del fuoco che sfrecciavano nella notte, seguiti da un'ambulanza. Una volta rientrato a casa, si sentì veramente molto bene: calmo, orgoglioso per la sua rapidità di pensiero e per il coraggio con il quale aveva agito, gradevolmente stanco. Non aveva scelto di uccidere ancora; era stato
il destino a obbligarlo. Tuttavia aveva dimostrato che l'audacia mostrata sulla torre antincendio non era qualcosa di transitorio, ma una qualità ormai in lui profondamente radicata. Pur non temendo di essere sospettato per l'omicidio di Victoria Bressler, intendeva lasciare Spruce Hills quella notte stessa. Non c'era futuro per lui in una cittadina così sonnacchiosa. Lo attendeva un mondo ben più vasto e lui si era guadagnato il diritto di godersi tutto ciò che quel mondo poteva offrirgli. Fece una telefonata a Kaitlin Hackachak, sua orrida e avida cognata, chiedendole di sbarazzarsi delle cose di Naomi, dei loro mobili e di tutto ciò che lui non avrebbe portato con sé. Sebbene lo stato l'avesse indennizzato con un quarto di milione di dollari, Kaitlin si sarebbe precipitata a casa di Junior la mattina dopo, all'alba, sperando di poter racimolare qualche dollaro dalla vendita di tutto ciò che conteneva. Junior intendeva portare con sé un'unica valigia, lasciando quasi tutti gli indumenti che possedeva. Ora poteva permettersi un guardaroba nuovo di zecca. In camera, mentre apriva la valigia sul letto, vide il quarto di dollaro. Vivo. Scintillante. Sul comodino. Se Junior fosse stato così mentalmente fragile da soccombere alla follia, quello sarebbe stato il momento giusto per sprofondare in un abisso di pazzia. Sentì qualcosa che si spezzava dentro, la mente che andava in frantumi, ma riuscì a non crollare grazie alla sua forza di volontà, ricordandosi di respirare lentamente e profondamente. Si fece coraggio e si avvicinò al comodino. Gli tremava la mano. Era quasi convinto che la moneta fosse solo un'illusione ottica, che gli sarebbe scomparsa tra le dita, ma era vera. Quando riuscì ad aggrapparsi saldamente al suo equilibrio mentale, il buonsenso gli disse che la moneta doveva essere stata lasciata lì molto prima, poco dopo che lui era uscito per andare a casa di Victoria. Nonostante le nove serrature, Vanadium doveva aver fatto un salto a casa di Junior mentre lui si recava all'appuntamento con Victoria, senza sapere che sarebbe morto proprio nella sua cucina... e per mano dell'uomo che stava tormentando. La paura di Junior lasciò il posto al divertimento per l'ironia della situazione. Un po' alla volta, riacquistò la capacità di sorridere, lanciò in aria la moneta, l'afferrò e se la infilò in tasca. Ma proprio mentre il sorriso finiva di dipingersi sul suo volto, accadde
una cosa terribile. L'umiliazione iniziò con un forte gorgoglio nel ventre. Junior si era sentito molto orgoglioso per il fatto che, mentre aveva dovuto occuparsi di Victoria e di Vanadium, era comunque riuscito a mantenere la calma e, cosa più importante, il pranzo nello stomaco. Nessun attacco di emetismo nervoso acuto, come gli era accaduto dopo la morte della povera Naomi. Anzi, aveva un grande appetito. Adesso aveva un problema. Diverso da quello che aveva dovuto affrontare in precedenza, ma altrettanto violento e spaventoso. Non era in preda a conati di vomito, ma aveva assolutamente bisogno di andare in bagno. Quella sua straordinaria sensibilità era davvero una maledizione. Evidentemente, la tragica morte di Victoria e di Vanadium lo aveva colpito più profondamente di quanto lui si fosse reso conto. Si sentiva torcere le budella. Con un grido preoccupato, si lanciò verso il bagno e lo raggiunse appena in tempo. Gli sembrò di essere rimasto seduto su quel trono abbastanza a lungo da aver assistito all'ascesa e alla caduta di un impero. Più tardi, debole e tremante, mentre stava riempiendo la valigia, sentì di nuovo quell'impellente necessità. Era allibito dal fatto che nel suo intestino vi fosse rimasto ancora qualcosa. Per non sprecare tempo durante quelle sedute, teneva sempre in bagno qualche libro di Caesar Zedd. Alcune delle sue più profonde intuizioni sulla condizione umana e le migliori idee su come realizzarsi gli erano venute proprio in quella stanza, dove le illuminanti parole di Zedd sembravano acquistare una luce ancora più intensa ogni volta che le rileggeva. Ma in quella occasione non sarebbe riuscito a concentrarsi su un libro neppure se avesse avuto la forza di tenerlo in mano. I violenti parossismi che sembravano strizzargli le viscere distruggevano anche la sua capacità di concentrarsi. Nel tempo impiegato per caricare la valigia e tre cartoni pieni di libri l'opera completa di Zedd e alcuni dei migliori romanzi del Club del libro nella Suburban, Junior dovette precipitarsi in bagno altre due volte. Gli tremavano le gambe e si sentiva svuotato, fiacco come se avesse perso più di ciò che l'intestino aveva espulso, come se avesse perso la sua stessa essenza. La parola diarrea non descriveva in modo adeguato il suo problema. Nonostante i libri letti per ampliare il suo vocabolario, Junior non riusciva a pensare a una parola abbastanza efficace per rendere l'idea della sua umiliazione e dell'orrore di ciò che stava vivendo.
Con un senso di panico, si chiese se quegli spasmì intestinali gli avrebbero impedito di lasciare Spruce Hills. E se fosse stato addirittura necessario ricoverarsi in ospedale? Un poliziotto morbosamente sospettoso, che fosse stato a conoscenza dell'emetismo acuto sofferto da Junior in seguito alla morte di Naomi, avrebbe potuto immaginare che vi fosse un collegamento tra quel violento attacco di diarrea e l'omicidio di Victoria e la sparizione di Vanadium. Questo avrebbe dato il via a una serie di speculazioni che Junior non intendeva in alcun modo favorire. Doveva lasciare la città finché era ancora in grado di farlo. La sua felicità e la sua stessa libertà dipendevano da una sollecita partenza. Negli ultimi dieci giorni aveva dimostrato di essere intelligente, audace e dotato di eccezionali risorse interiori. Ora più che mai doveva sfruttare la sua forza e prendere subito una decisione. Ne aveva passate troppe, aveva ottenuto troppe cose per lasciarsi abbattere da un problema puramente biologico. Consapevole dei pericoli della disidratazione, bevve un'intera bottiglia d'acqua e mise due confezioni di Gatorade nella Suburban. Sudato, infreddolito, tremante, con le ginocchia che gli si piegavano, gli occhi umidi di autocommiserazione, Junior coprì il sedile dalla parte del guidatore con un sacco di plastica per l'immondizia. Salì nella Suburban, girò la chiavetta dell'accensione e si lasciò sfuggire un gemito quando le vibrazioni del motore minacciarono di provocargli un altro attacco di diarrea. Sentì solo una leggera fitta di nostalgia allontanandosi dalla casa che, per quattordici stupendi mesi, era stata il nido d'amore suo e di Naomi. Strinse il volante con entrambe le mani, strinse i denti con tanta forza che gli si contrassero i muscoli della mascella e strinse la mente intorno all'ostinata determinazione di mantenere il controllo. Respiri lenti e profondi. Pensieri positivi. La diarrea non c'era più, finita, era parte del passato. Già da molto tempo aveva imparato a non soffermarsi mai sul passato, a non preoccuparsi troppo delle difficoltà del presente, e a concentrarsi completamente sul futuro. Lui era un uomo del futuro. Mentre correva verso il futuro, il passato lo raggiunse sotto forma di spasmi intestinali e, dopo aver percorso meno di cinque chilometri, lamentandosi come un cane ammalato, fu costretto a fermarsi a una stazione di servizio per correre in bagno.
Quando dovette fermarsi alla successiva stazione di servizio, era riuscito a guidare per più di sei chilometri, e a quel punto pensò che il suo incubo fosse finito. Ma meno di dieci minuti più tardi, dovette accontentarsi di una toilette più rustica, tra i cespugli che crescevano lungo la superstrada, dove i suoi gemiti di dolore terrorizzarono alcuni piccoli animali che fuggirono lontano. Alla fine, a meno di cinquanta chilometri a sud di Spruce Hills, Junior riconobbe a malincuore che i respiri lenti e profondi, i pensieri positivi, un'alta considerazione di sé e una ferma determinazione, non bastavano a domare le sue viscere in subbuglio. Doveva trovare un alloggio per la notte. Non importava che vi fosse la piscina, un enorme letto matrimoniale o la colazione inclusa. L'unica comodità di cui aveva bisogno era un bagno in camera. Lo squallido motel si chiamava Sleepie Tyme Inne, ma il portiere di notte dai capelli brizzolati, strabico e dal viso aguzzo, non poteva essere il proprietario, non era proprio il tipo da riuscire a pensare un nome così carino come quello dell'insegna. A giudicare dall'aspetto e dal comportamento, doveva trattarsi dell'ex comandante di un campo di concentramento nazista, scappato in Brasile prima di essere catturato dai servizi segreti israeliani e che ora si nascondeva nell'Oregon. In preda ai crampi e troppo debole per portare la valigia, Junior lasciò il bagaglio nella Suburban, prendendo con sé solo le bottiglie di Gatorade. Forse la notte che lo aspettava sarebbe stata una notte d'inferno... ma almeno un inferno in cui Satana forniva bevande elettroliticamente bilanciate. 41 Lunedì mattina, 17 gennaio, l'avvocato di Agnes, Vinnie Lincoln, andò a trovarla portando il testamento di Joey e altri documenti da sottoporre alla sua attenzione. Tondo di viso e di corpo, Vinnie non camminava come gli altri uomini; sembrava rimbalzare leggermente come se fosse stato gonfiato con una miscela di gas, tra i quali vi era abbastanza elio da renderlo particolarmente leggero, ma non al punto tale di sollevarsi in aria e sparire come un palloncino. Le guance lisce e gli occhi allegri gli davano un'aria da ragazzo, ma era un buon avvocato e anche molto scaltro. «Come sta Jacob?» domandò Vinnie, fermandosi sull'uscio.
«Non c'è», rispose Agnes. «È esattamente quello che speravo.» Sollevato, l'avvocato seguì Agnes nel soggiorno. «Ascolta, Aggie, lo sai, non ho niente contro Jacob, ma...» «Santo cielo, Vinnie, lo so», lo rassicurò lei, prendendo il piccolo Barty - non più grande di un sacchetto di zucchero - dalla culla. Poi si sedette in una sedia a dondolo con il bambino in braccio. «È solo che... l'ultima volta che l'ho visto, mi ha incastrato in un angolo e mi ha raccontato una spaventosa storia, che avrei preferito non dover sentire, su alcuni assassini inglesi degli anni Quaranta, di un mostro che ammazzava la gente a martellate, ne beveva il sangue e poi scioglieva i loro corpi in una tinozza piena d'acido che teneva in laboratorio.» Rabbrividì. «Si tratta di John George Haigh», gli spiegò Agnes, controllando il pannolino di Barty prima di sistemarlo teneramente nell'incavo del braccio. L'avvocato sgranò gli occhi che divennero tondi come il suo viso. «Aggie, non mi dire che anche tu condividi le... passioni di Jacob?» «No, no. Ma stando spesso con lui, è inevitabile che mi rimangano impressi alcuni particolari. Quando un argomento lo interessa, riesce a essere un oratore molto affascinante.» «Sicuramente», concordò Vinnie. «Non mi sono annoiato nemmeno per un istante.» «Spesso penso che Jacob sarebbe stato un ottimo insegnante.» «Sempre che, dopo ogni lezione, gli allievi venissero sottoposti a una seduta di psicoterapia.» «Sempre che, naturalmente, lui non fosse affetto da manie ossessive.» Estraendo alcuni documenti dalla valigetta, Vinnie disse: «Be', io non ho proprio nessun diritto di parlare. La mia ossessione è il cibo. Guardami, sono così grasso che sembro stato allevato unicamente per essere un giorno sacrificato su qualche altare». «Non sei grasso», obiettò Agnes. «Sei gradevolmente tondo.» «Sì, a furia di arrotondarmi così gradevolmente mi ritroverò prima del tempo in una tomba», commentò l'avvocato in tono quasi divertito. «E devo ammettere che mi piace.» «Forse tu mangi così tanto da finire nella tomba prima del tempo, Vinnie, ma il povero Jacob ha ucciso la sua stessa anima, e questo è infinitamente peggio.» «'Ucciso la sua stessa anima'... un interessante giro di parole.» «La speranza è il cibo della fede, il bastone della vita. Non preghi?»
Cullato tra le braccia della madre, Barty la fissava con sguardo adorante. Lei soggiunse: «Quando non ci permettiamo di sperare, non ci permettiamo neppure di avere uno scopo. Senza scopo, senza significato, la vita è cupa e triste. Non abbiamo alcuna luce interiore e viviamo unicamente per morire». Barty allungò una manina verso sua madre. Lei gli porse l'indice, al quale il piccolino si attaccò tenacemente. Indipendentemente dal suo successo o dal suo fallimento come madre, Agnes voleva che a Barty non venisse mai a mancare la speranza, che significato e scopo gli scorressero dentro come il sangue nelle vene. «So che Edom e Jacob sono stati un peso», disse Vinnie. «Hai dovuto farti carico della loro vita...» «Niente affatto.» Agnes sorrise a Barty, agitando il dito che lui stringeva. «Sono stati la mia salvezza. Che cosa farei senza di loro?» «Penso che tu sia realmente convinta di questo.» «Certo, lo sono sempre.» «Comunque, con il passare degli anni, economicamente diventeranno un peso per te, a parte tutto il resto, per questo sono contento di avere una piccola sorpresa.» Quando sollevò lo sguardo da Barty, Agnes vide che l'avvocato aveva le mani piene di documenti. «Una sorpresa? Conosco già il testamento di Joey.» Vinnie sorrise. «Ma contiene qualcosa di cui non sei al corrente.» La casa era sua, completamente libera da ipoteche. Poi c'erano due libretti di risparmio sui quali, ogni settimana e per tutti i nove anni di matrimonio, Joey aveva regolarmente depositato del denaro. «Un'assicurazione sulla vita», annunciò Vinnie. «Lo so. Una polizza per cinquantamila dollari.» Agnes aveva pensato che, con quella somma, poteva restare a casa, dedicandosi completamente a Barty, per circa tre anni, dopodiché avrebbe fatto meglio a cercare un lavoro. «Oltre a quella polizza», spiegò Vinnie, «ce n'è un'altra...» Gonfiò i polmoni, fece una pausa poi lasciò uscire l'aria e la cifra con un tremore... «Settecentocinquantamila. Tre quarti di un milione di dollari.» La certezza che vi fosse un errore impedì ad Agnes di restare sorpresa. Scrollò la testa. «Non è possibile.» «Si trattava di un'assicurazione temporanea sulla vita, una cosa economica, non una polizza normale.»
«Ma Joey non l'avrebbe mai stipulata senza...» «Sapeva come la pensavi sul fatto di avere troppe assicurazioni sulla vita. Così non te ne ha parlato.» La sedia a dondolo smise di cigolare. Agnes aveva percepito un tono di sincerità nella voce di Vinnie e, quando la sua incredulità svanì, rimase immobile per lo choc. Sussurrò: «La mia piccola superstizione». In altre circostanze, Agnes si sarebbe vergognata, ma adesso la sua paura, apparentemente irrazionale, di stipulare una polizza sulla vita troppo alta appariva giustificata. «Dopo tutto, Joey era un assicuratore», le ricordò Vinnie. «È logico che abbia pensato al futuro della sua famiglia.» Agnes riteneva che un'assicurazione troppo alta fosse come tentare il destino. «Una polizza ragionevole, sì, va bene. Ma una somma troppo alta... è come scommettere sulla morte.» «Aggie, è solo dimostrare un po' di prudenza.» «Io sono per scommettere sulla vita.» «Con questi soldi, non dovrai ridurre il numero di torte che regali... e tutto il resto.» Per «tutto il resto», intendeva dire generi alimentari che Agnes e Joey spesso mandavano insieme con le torte, oppure il pagamento della rata del mutuo che effettuavano per conto di qualcuno temporaneamente in difficoltà e tutte le azioni caritatevoli che facevano in segreto. «Guardala in questo modo, Aggie. Tutte le torte, tutte le cose che fai... questo è scommettere sulla vita. E adesso hai appena ricevuto la grande fortuna di poter scommettere somme più alte.» Anche lei aveva avuto lo stesso pensiero, una consolazione che avrebbe reso possibile per lei accettare tutto quel denaro. Ma ciò che le faceva gelare il sangue nelle vene era il pensiero di ricevere una somma che le avrebbe cambiato la vita... grazie a una morte. Abbassò lo sguardo su Barty e vide nel volto del bambino il fantasma di Joey, e sebbene fosse quasi convinta che, se suo marito non avesse tentato il destino stipulando una polizza sulla sua vita così alta, forse sarebbe stato ancora vivo, Agnes non riuscì a provare alcun sentimento di rabbia nei confronti del marito. Doveva accettare questo ultimo atto di generosità con grazia... anche se senza alcun entusiasmo. «Va bene», cedette Agnes e, mentre esprimeva a voce alta il suo consenso, venne percorsa da un brivido di paura per qualcosa che non riuscì subito a comprendere.
«C'è di più», soggiunse Vinnie Lincoln, tondo come un Babbo Natale e con le guance arrossate per la gioia di poter portare quei doni. «La polizza conteneva una clausola di doppia indennità in caso di morte per incidente. L'ammontare dell'indennizzo, esentasse, è pari a un milione e mezzo di dollari.» Ora che Agnes sapeva il perché di quella improvvisa paura, strinse con più forza il bambino a sé. Venuto al mondo da così poco tempo, sembrava già allontanarsi da lei, catturato dal vortice di un destino tanto impegnativo. Gli assi di quadri. Quattro in fila. Asso, asso, asso, asso. Il futuro che avevano previsto le carte, e che Agnes si era sforzata di considerare solo un gioco senza importanza, si stava già realizzando. Le carte avevano detto che Barty sarebbe stato ricco finanziariamente, ma anche di qualità, spirito e intelletto. Ricco di coraggio e onore, aveva promesso Maria. Con molto buonsenso, capacità di giudizio e fortuna. Avrebbe avuto bisogno del coraggio e della fortuna. «C'è qualcosa che non va, Aggie?» domandò Vinnie. Non poteva spiegargli il motivo della sua ansietà, perché l'avvocato credeva nel potere assoluto della legge, nella giustizia che si poteva ottenere in questa vita, in una realtà relativamente semplice, e non avrebbe mai capito la realtà profondamente e spaventosamente complessa che Agnes, di tanto in tanto, arrivava a percepire, di solito in modo marginale, a volte con l'intelletto, ma più spesso con il cuore. Era un mondo in cui l'effetto poteva arrivare prima della causa, nel quale ciò che sembrava una coincidenza era, in effetti, soltanto la parte visibile di un disegno molto più ampio che non poteva essere visto nella sua interezza. Se i quattro assi di quadri dovevano essere presi seriamente, perché non anche il resto delle carte? Se l'indennizzo dell'assicurazione non era una semplice coincidenza, se si trattava della ricchezza che era stata prevista dalle carte, allora quanto tempo sarebbe intercorso fra la fortuna e il fante? Anni? Mesi? Giorni? «Hai l'aria di una che ha visto un fantasma», le disse Vinnie e Agnes avrebbe tanto voluto che il pericolo fosse semplice quanto uno spirito inquieto, che si lamentava e faceva tintinnare le catene come il Marley di Dickens apparso a Ebenezer Scrooge alla vigilia di Natale. 42
Per quanto Morfeo si impegnasse, non gli riuscì proprio di far addormentare Junior, almeno fmtanto che questi dovette precipitarsi continuamente in bagno a scaricare nella tazza tanta acqua da prosciugare un lago artificiale. All'alba, quando il parossismo intestinale finalmente cessò, quell'uomo audace e avventuroso si sentiva come uno straccetto bagnato. Riuscì infine a prendere sonno, ma sognò di trovarsi in una toilette pubblica e di avere l'assoluta necessità di usare uno dei bagni, scoprendo che erano tutti occupati da qualcuno che lui aveva ucciso, e ognuna di queste persone era fermamente decisa a negargli la possibilità di evacuare in modo dignitoso. Stava malissimo, ma aveva ripreso il controllo di sé e si sentiva abbastanza forte per andare a prendere la valigia che non era riuscito a portare in camera quand'era arrivato. Uscito dall'albergo scoprì che, durante la notte, un disgraziato criminale si era introdotto nella sua Suburban. La valigia e i romanzi del Club del libro erano spariti. Quel bastardo si era anche portato via i Kleenex, la gomma da masticare e le caramelle alla menta che teneva nel vano portaoggetti. Ma, incredibilmente, il ladro gli aveva lasciato la cosa più preziosa: la raccolta completa delle opere di Caesar Zedd in edizione rilegata. Il cartone era stato aperto, il contenuto esaminato frettolosamente, ma non mancava neppure un volume. Fortunatamente Junior non aveva messo in valigia né denaro contante, né il libretto d'assegni. Con l'opera di Zedd intatta, le sue perdite erano limitate. Andò nel piccolo ufficio del motel e pagò in anticipo un'altra notte. Non che impazzisse all'idea di fermarsi a dormire in un luogo dalla moquette unta, i mobili bruciacchiati da mozziconi di sigarette e pieno di fruscii di scarafaggi che correvano nel buio, ma, anche se si sentiva meglio, era troppo stanco e debole per guidare. L'anziano nazista in fuga era stato sostituito da una donna dai capelli corti e biondi tagliati alla bell'e meglio, un viso grossolano e braccia che avrebbero dissuaso Charles Atlas dal proporle una sfida. Gli cambiò una banconota da cinque dollari in monete da usare nei distributori automatici e gli rispose soltanto una volta ringhiando qualcosa in un inglese dall'accento strano. Junior stava morendo di fame, ma non si fidava abbastanza del suo inte-
stino per arrischiarsi a cenare in un ristorante. Il suo problema sembrava essersi risolto ma, se avesse ingerito del cibo, forse si sarebbe ripresentato. Comprò dei cracker, formaggio, burro d'arachidi, noccioline, barrette di cioccolato e Coca-Cola. Anche se non era cibo molto sano, formaggio, burro d'arachidi e cioccolato avevano in comune una virtù: erano astringenti. Tornato in camera, si mise comodo sul letto con, da una parte, il suo spuntino astringente e dall'altra l'elenco telefonico della contea. Dato che lo aveva impacchettato insieme con la raccolta dei libri di Zedd, il ladro non se lo era portato via. Aveva già controllato ventiquattromila nomi, senza trovare alcun Bartholomew, e aveva spuntato con un pennarello rosso tutti i cognomi che avevano soltanto una B al posto del nome proprio scritto per esteso. Per segnalibro, aveva usato una striscia di carta gialla. Aprendo l'elenco telefonico al punto in cui era arrivato, trovò un bigliettino infilato tra una pagina e l'altra. Un jolly con il nome BARTHOLOMEW scritto in rosso e a stampatello. Non era lo stesso bigliettino che aveva trovato accanto al letto, sotto le due monetine da dieci e una da cinque centesimi, la sera del funerale di Naomi. Quel bigliettino l'aveva fatto a pezzi e buttato via. Ma non c'era nessun mistero. Non c'era motivo di fare un balzo fino al soffitto e restare appiccicato a testa in giù come un gatto terrorizzato dei cartoni animati. Evidentemente, la sera precedente, prima di recarsi a cena da Victoria, quando il detective era entrato illegalmente in casa di Junior e aveva lasciato un'altra moneta da un quarto di dollaro sul comodino, doveva aver visto l'elenco telefonico aperto sul tavolo della cucina. Intuito il significato dei segni rossi, aveva inserito il bigliettino e chiuso l'elenco: un altro piccolo assalto nella guerra psicologica che aveva intrapreso. Junior aveva commesso un errore colpendo il volto di Vanadium con il candeliere di peltro quando il poliziotto era già svenuto. Avrebbe dovuto legare quel bastardo e cercare di farlo rinvenire per poterlo interrogare. Se lo avesse fatto soffrire abbastanza, forse avrebbe ottenuto collaborazione perfino da uno come Vanadium. Il detective aveva detto di aver sentito Junior che, nel sonno, ripeteva terrorizzato il nome Bartholomew, e secondo Junior era vero, perché il nome gli faceva realmente uno strano effetto; tuttavia, non era proprio sicuro che il poliziotto non sapesse nulla, come affermava, sull'identità di quella nemesi.
Adesso era troppo tardi per interrogare Vanadium, i colpi di candeliere lo avevano fatto sprofondare nel sonno eterno e ora riposava sotto molti metri di gelide coperte. Però, il peso del candeliere, l'arco perfetto che aveva disegnato in aria e il rumore secco del contatto erano state davvero meravigliosi, e avevano riempito di entusiasmo Junior come un lancio vincente durante una partita di baseball delle World Series. Sgranocchiando una nocciolina, si concentrò nuovamente sull'elenco telefonico, non aveva altra scelta che cercare Bartholomew nel modo più faticoso. 43 Qualche ora più tardi, in quel lunedì 17 gennaio, in quel giorno così straordinario, quando la fine di una cosa rappresenta l'inizio di un'altra. Sotto un imbronciato cielo pomeridiano, tra le colline che l'inverno tingeva di grigio, la station wagon gialla e bianca era come una freccia luminosa che non apparteneva alla faretra di un cacciatore, ma a quella di una samaritana. Alla guida c'era Edom, felice di poter aiutare Agnes. Ed era ancora più felice perché non doveva consegnare le torte da solo. Non c'era bisogno che si angustiasse per cercare di portare avanti una gradevole conversazione con le persone che andava a trovare. Praticamente, era stata Agnes a inventare le gradevoli conversazioni. Nel sedile del passeggero, Barty se ne stava morbidamente avvolto dalle braccia di sua madre. Di tanto in tanto il piccolo tubava e gorgogliava, oppure lanciava gridolini di gioia. Fino ad allora, Edom non lo aveva mai sentito piangere e nemmeno fare i capricci. Barty indossava una tutina azzurra lavorata a maglia, con una guarnizione bianca a zigzag lungo il collo e i polsi, e una cuffietta con gli stessi colori. La sua copertina bianca era decorata con coniglietti azzurri e gialli. Durante le loro prime quattro visite, il bambino aveva suscitato un entusiasmo travolgente. La sua presenza, piena di gioia e di sorrisi, era come un ponte che aiutava ogni persona a superare le acque cupe della morte di Joey. Per Edom sarebbe stato un giorno perfetto... se non fosse stato per il tempo da terremoto. Era convinto che il Big One avrebbe ridotto in mace-
rie le città della costa prima del tramonto. Era un tempo da terremoto diverso da quello di dieci giorni prima, quando aveva consegnato le torte da solo. Quella volta: cielo azzurro, un insolito tepore, bassa umidità. Adesso: nubi grigie e basse, aria fredda, alto tasso di umidità. Uno degli aspetti più inquietanti della vita nella California meridionale era che il tempo da terremoto si presentava sempre con caratteristiche molto diverse. Praticamente quasi tutti i giorni, dopo essere scesi dal letto, si andava a controllare il cielo e il barometro, e ci si rendeva conto con sgomento che c'erano tutte le condizioni perché si verificasse una catastrofe. Con la terra che manteneva ancora un'incerta stabilità sotto i loro piedi, arrivarono alla quinta destinazione, un nuovo indirizzo nell'elenco dei protetti di Agnes. Si trovavano sulle colline orientali, a un paio di chilometri dalla casa di Jolene e Bill Klefton, dove dieci giorni prima Edom aveva consegnato una torta di mirtilli insieme con i particolari più terrificanti del terremoto verificatosi a Tokyo e a Yokohama nel 1923. La casa era simile a quella dei Klefton. Anche se i muri erano stuccati e non rivestiti da assicelle di legno, doveva essere passato molto tempo dall'ultima imbiancatura. Una delle finestre che si affacciavano sulla parte anteriore della casa aveva un vetro incrinato, tenuto insieme con del nastro adesivo. Agnes aveva aggiunto questo indirizzo al suo elenco su richiesta del reverendo Tom Collins, il pastore battista del luogo a cui la gente aveva affibbiato l'irriverente nomignolo di «Cocktail». Agnes era in rapporti di amicizia con tutti i pastori protestanti di Bright Beach e la distribuzione delle torte non favoriva alcun credo in particolare. Attraversarono il giardinetto ben curato e si fermarono davanti alla porta d'ingresso, Edom con la torta di pere e uvette e Agnes con Barty in braccio. Premendo il campanello, si dava l'avvio a un carillon che suonava le prime dieci note di That Old Black Magic e che si udiva distintamente attraverso il vetro della porta. Quell'umile casa non era il tipo di abitazione in cui uno si aspettasse di trovare un campanello così elaborato e personalizzato... e per la verità, neppure un campanello e basta, dato che il modo più economico per annunciare una visita era quello di bussare alla porta. Edom lanciò un'occhiata ad Agnes e commentò perplesso: «Che strano». «No. È carino», ribatté lei. «C'è un significato. Tutto ha un significato,
mio caro.» Venne ad aprire un uomo anziano, di colore. I suoi capelli erano così candidi che, in contrasto con la pelle scura, sembravano irradiare un'aura luminosa intorno alla testa. Con il pizzetto altrettanto immacolato, i tratti gentili e lo sguardo intenso e affascinante, sembrava essere uscito da un film su un musicista jazz che, dopo morto, era tornato sulla terra come angelo custode di qualcuno. «Il signor Sepharad?» domandò Agnes. «Obadiah Sepharad?» Lanciando un'occhiata alla torta che Edom teneva fra le mani, il distinto signore rispose ad Agnes con una voce musicale e roca allo stesso tempo, degna di Louis Armstrong: «Lei deve essere la signora di cui mi ha parlato il reverendo Collins». Quella voce rafforzò in Edom l'idea di un musicista tornato dall'aldilà. Spostando la sua attenzione su Barty, il viso di Obadiah si aprì in un grande sorriso che mise in mostra un dente superiore d'oro. «Ma qui c'è qualcosa di più dolce di una torta. Come si chiama questo bambino?» «Bartholomew», rispose Agnes. «Certo, non poteva chiamarsi altrimenti.» Edom rimase sbalordito nell'osservare come Agnes si mettesse a chiacchierare con l'uomo e come fosse passata rapidamente da signor Sepharad a Obadiah, come la torta fosse consegnata e accettata, il caffè offerto e servito, e come entrambi mostrassero di trovarsi perfettamente a loro agio, il tutto nel tempo che Edom avrebbe impiegato per trovare il coraggio di varcare la soglia e riuscire a pensare qualcosa di interessante da dire sull'uragano Galveston che, nel 1900, aveva provocato la morte di seimila persone. Mentre Obadiah si accomodava in una consunta poltrona, domandò a Edom: «Ma io non ti ho già visto da qualche altra parte, figliolo?» Dato che si era seduto sul divano con Agnes e Barty convinto di dover interpretare il comodo ruolo di silenzioso osservatore, il fatto di essere diventato improvvisamente soggetto della conversazione mise in allarme Edom. Ma lo innervosì anche il fatto di essere stato chiamato «figliolo», perché nei suoi trentasei anni di vita, l'unica persona che si era rivolto a lui in quel modo era stato suo padre che, per quanto fosse morto ormai da una decina d'anni, in sogno continuava ancora a terrorizzarlo. Scrollando la testa, con la tazza piena di caffè che sbatacchiava contro il piattino, Edom rispose: «No, signore, no, non credo che ci siamo mai conosciuti prima di oggi».
«Può essere. Però hai un viso familiare.» «Ho una faccia così comune che si vede dappertutto», ribatté Edom, decidendo di raccontare la storia del tornado del 1925, quello che aveva investito tre stati. Forse sua sorella intuì quello che stava per dire, perché gli impedì di iniziare il racconto. Chissà come, Agnes sapeva che, in passato, Obadiah aveva calcato il palcoscenico come illusionista. Con estrema naturalezza, riuscì a portare la conversazione su quell'argomento. Quello dell'illusionismo non era un campo in cui molte persone di colore riuscivano ad avere successo. Obadiah era uno di quei pochi. Nella comunità nera, era la tradizione musicale a essere più profondamente radicata. Ma non esisteva alcuna tradizione del genere nell'illusionismo. «Forse perché non vogliamo essere chiamati stregoni», spiegò Obadiah con un sorriso, «e non vogliamo offrire alla gente altri motivi per impiccarci.» Anche se autodidatti, un pianista o un sassofonista potevano arrivare molto lontano grazie al loro talento, ma un aspirante illusionista aveva sempre bisogno di un mentore che gli rivelasse i segreti dell'illusionismo più gelosamente conservati e lo aiutasse a padroneggiare l'arte della prestidigitazione ai più alti livelli. In un settore che vedeva quasi esclusivamente la presenza di bianchi, per un giovane uomo di colore non era facile trovare un insegnante, soprattutto nel 1922, quando il ventenne Obadiah sognava di diventare il nuovo Houdini. Sotto gli occhi di Edom e Agnes, Obadiah fece apparire un mazzo di carte da gioco, come se le avesse estratte da una tasca segreta di un cappotto invisibile. «Vuole vedere qualche cosa?» «Sì, grazie», esclamò Agnes con evidente piacere. Obadiah lanciò il mazzo di carte verso Edom, facendolo sobbalzare. «Figliolo, dovrai aiutarmi. Le mie dita non sono più tanto agili.» Mostrò le mani nodose. Edom le aveva già notate prima. Ma ora si accorse che erano in condizioni peggiori di quanto avesse pensato. Nocche ingrossate, dita con una strana angolazione le une rispetto alle altre. Forse Obadiah soffriva di artrite reumatoide, come Bill Klefton, anche se il suo caso non era così grave. «Per favore, togli le carte dalla scatola e posale sul tavolino di fronte a te», gli disse Obadiah.
Edom fece come gli era stato chiesto. Poi, sempre su indicazione di Obadiah, tagliò il mazzo, formando all'incirca due metà uguali. «Mischiale», continuò l'illusionista. Edom mescolò. Chinandosi in avanti, con i capelli bianchi luminosi come le ali di un cherubino, Obadiah passò più volte una delle mani nodose sopra il mazzo, tenendola però sempre a non meno di una ventina di centimetri dalle carte. «Ora, allargale a ventaglio sul tavolo, senza scoprirle.» Edom ubbidì e, nell'arco di biciclette rosse che formavano il motivo del retro delle carte, soltanto una rivelò un angolo bianco, perché era l'unica voltata. «Forse hai voglia di guardarla», suggerì Obadiah. Estraendo lentamente la carta, Edom vide che si trattava di un asso di quadri... una cosa che somigliava molto alla lettura delle carte che Maria Gonzalez aveva fatto quel venerdì sera. Ma ciò che lo lasciò assolutamente sbalordito fu il nome scritto in nero, a stampatello, che attraversava diagonalmente tutta la carta: BARTHOLOMEW. Il violento ansimare di Agnes distolse Edom dal nome di suo nipote. Era pallida, e aveva gli occhi spiritati come antichi palazzi. 44 Dato che Bright Beach era stata aggredita da una sgradevole influenza e da un imprecisato numero di tipi di raffreddori, quel lunedì mattina la Damascus Pharmacy era piuttosto affollata. I clienti erano di pessimo umore, quasi tutti si lamentavano dei loro acciacchi. Altri avevano da ridire sul tempo, sui sempre più numerosi ragazzini che, con quei dannati skateboard, schizzavano come frecce sui marciapiedi, sull'ultimo aumento delle tasse e sul fatto che i New York Jets pagavano Joe Namath l'incredibile somma di quattrocentoventisettemila dollari all'anno per giocare a football, e per alcuni questo era segno evidente che, ormai, in quel paese contavano solo i soldi e che sarebbe finito in malora. Paul Damascus non ebbe un attimo di respiro fino alle due e mezzo, quando riuscì a fare una pausa per il pranzo. Di solito mangiava da solo in un locale adibito a ufficio. La stanza era grande quanto un ascensore, solo che, naturalmente, non saliva né scendeva. Però si spostava da una parte all'altra, nel senso che, là dentro, Paul veniva trasportato nel fantastico mondo dell'avventura.
Il mobile libreria, che andava dal pavimento al soffitto, era stipato di riviste popolari pubblicate negli anni Venti, Trenta e Quaranta, prima di essere soppiantate dai libri in edizione economica. The All-Story, Mammoth Adventure, Nickel Western, The Black Mask, Detective Fiction Weekly, Spicy Mistery, Weird Tales, Amazing Stories, Astounding Stories, The Shadow, Doc Savage, G-8 and His Battle Aces, Mysterious Wu Fang... E questa era solo una minima parte della collezione di Paul. A casa, migliaia di altre riviste riempivano intere stanze. Le copertine delle riviste erano colorate, sensazionali, piene di violenza e di mistero, e di quella timida provocazione sessuale tipica di un'epoca più innocente. Di solito leggeva una storia mentre mangiava i due frutti che costituivano il suo pranzo, ma a volte si perdeva in una illustrazione particolarmente vivace, sognando a occhi aperti luoghi lontani e straordinarie avventure. Già la particolare fragranza della carta, ingiallita dal tempo, era sufficiente a stuzzicare la sua fantasia. Con quella incredibile combinazione di pelle olivastra e capelli rossoruggine, con il suo aspetto attraente e il fisico muscoloso, Paul sembrava un esotico eroe popolare. In particolare, gli piaceva immaginare di poter essere scambiato per il fratello di Doc Savage. Doc era uno dei suoi personaggi preferiti. Uno straordinario nemico del crimine. L'Uomo di Bronzo. Quel lunedì pomeriggio, Paul avrebbe tanto desiderato godersi una mezz'ora di avventure. Ma decise che doveva assolutamente scrivere la lettera a cui stava pensando da almeno dieci giorni. Dopo aver tagliato e tolto il torsolo a una mela con l'apposito coltello, prese da un cassetto della scrivania un foglio di carta da lettere e tolse il cappuccio alla stilografica. Aveva una calligrafia elegante e precisa. Scrisse: Caro reverendo White... Si fermò, incerto su come doveva andare avanti. Non era abituato a scrivere lettere a perfetti sconosciuti. Alla fine iniziò: Le porgo i miei saluti in questo giorno straordinario. Le scrivo per parlarle di una donna eccezionale, Agnes Lampion, la cui vita lei ha sfiorato senza saperlo e la cui storia potrebbe interessarle. 45 Sebbene altri potessero vedere qualcosa di prodigioso nel mondo, ciò
che affascinava Edom era unicamente il meccanismo: la grande macchina distruttiva della natura che riduceva tutto in polvere. Tuttavia, sentì improvvisamente la meraviglia sbocciare dentro di sé quando vide l'asso con il nome del nipote scritto sopra. Durante la preparazione delle carte, Barty si era addormentato fra le braccia della madre, ma quando era apparsa la carta con il suo nome, si era nuovamente svegliato, forse perché, tenendo la testa posata sul petto di Agnes, aveva percepito l'improvvisa accelerazione del battito cardiaco di sua madre. «Come ha fatto?» domandò Agnes a Obadiah. Il vecchio assunse l'espressione solenne di chi è a conoscenza di misteri che non può rivelare, una sfinge senza criniera e ornamenti sul capo. «Se ve lo dicessi, mia cara signora, perderebbe tutta la sua magia. Si tratta soltanto di un trucco.» «Ma lei non capisce.» Agnes gli riferì della straordinaria serie di assi usciti durante la lettura delle carte del venerdì precedente. Abbandonando l'espressione da sfinge, il viso di Obadiah si allargò in un sorriso, che sollevò la punta del suo pizzetto quando l'uomo voltò la testa per guardare Edom. «Ah... tanto tempo fa», mormorò, come se parlasse fra sé e sé. «Tanto tempo fa... ma adesso ricordo.» Strizzò un occhio a Edom. Edom rimase sbalordito e perplesso. Stranamente, pensò all'occhio misterioso, disincarnato ed eternamente fisso in cima alla piramide stampata sul retro di tutte le banconote da un dollaro. Raccontando ciò che era avvenuto durante la lettura delle carte, Agnes non aveva parlato dei quattro jack di picche, soltanto degli assi di quadri e cuori. Non parlava mai delle sue preoccupazioni e, sebbene avesse scherzato sul fatto che quel venerdì fossero apparsi quattro fanti, Edom sapeva che la cosa l'aveva turbata profondamente. Obadiah intuì la paura di Agnes, oppure la gentilezza di quella donna lo spinse a rivelarle il trucco. «Per quanto sia imbarazzante, devo spiegarle che ciò che ha visto non è magia, ma un volgare sotterfugio. Ho scelto l'asso di quadri proprio perché, nella lettura delle carte, rappresenta la ricchezza, è una carta positiva che la gente accoglie con piacere. L'asso con il nome di suo figlio era stato preparato prima, inserito a faccia in su verso il fondo del mazzo, cosicché tagliandolo a metà non si sarebbe visto.» «Ma, quando sono venuta qui, lei non sapeva ancora il nome del mio Barty.» «Oh, sì. Quando mi ha telefonato, il reverendo Collins mi ha detto tutto
su di lei e su Bartholomew. All'ingresso, le ho domandato il nome del piccolo, ma lo sapevo già, facevo solo un po' di scena per preparare il trucco.» Agnese sorrise. «Davvero geniale.» Obadiah ribatté con un sospiro: «Non geniale. Rozzo. Prima che le mie mani diventassero due blocchi nodosi, avrei potuto lasciarla davvero sbalordita». Da giovane, si era esibito prima nei night club che servivano i negri e nei teatri come l'Apollo di Harlem. Durante la seconda guerra mondiale, aveva fatto parte di una compagnia incaricata di intrattenere i soldati americani di stanza nel Pacifico, poi nell'Africa del Nord e, dopo il D-Day, in Europa. «Dopo la guerra, per un certo periodo di tempo ho avuto la possibilità di esibirmi nei locali frequentati da un pubblico più vasto. Da un punto di vista razziale... le cose stavano cambiando. Ma io stavo anche invecchiando e l'ambiente dello spettacolo cerca sempre gente giovane, più fresca. Così non sono mai riuscito a sfondare. Per la verità, non sono nemmeno riuscito a ottenere un passabile successo, ma me la cavavo. Finché, all'inizio degli anni Cinquanta, il mio agente ha cominciato a trovare sempre maggiori difficoltà a ottenere ingaggi vantaggiosi in buoni locali.» Oltre alla torta di pere e uvette, Agnes era venuta anche per offrire a Obadiah Sepharad un anno di lavoro, non per esibirsi in giochi di prestigio, ma per parlare dell'illusionismo. Grazie ai suoi sforzi, la biblioteca pubblica di Bright Beach aveva deciso di sponsorizzare un ambizioso progetto sulle tradizioni orali finanziato da due fondazioni private e da una sagra annuale delle fragole. Ai pensionati del luogo veniva chiesto di registrare la storia della loro vita, in modo che le loro esperienze, i loro punti di vista e le loro conoscenze non sarebbero andate perdute e sarebbero state conservate per le generazioni future. Fatto non del tutto secondario, il progetto avrebbe permesso ai cittadini più anziani con problemi economici di ricevere del denaro senza ferire la loro dignità, dava loro speranza e avrebbe restituito loro il rispetto di se stessi. Agnes chiese a Obadiah di contribuire al progetto, accettando una sovvenzione annuale in cambio del suo impegno a registrare la storia della sua vita con l'aiuto della capo bibliotecaria. Per quanto fosse chiaramente interessato e commosso, tuttavia l'illusionista continuò a tergiversare, cercando scuse per rifiutare, poi, alla fine, scrollò mestamente il capo. «Temo di non essere all'altezza, signora Lampion. Non rappresenterei certo una nota di merito per il vostro progetto.»
«Sciocchezze. Di che cosa sta parlando?» Sollevando le mani contorte, con le nocche nodose rivolte verso Agnes, Obadiah domandò: «Come pensa che siano diventate così?» «Artrite?» provò a indovinare lei. «Poker.» Tenendo sollevate le mani, come un penitente che contessa i propri peccati durante una riunione evangelica e che domanda a Dio di lavarlo da tutte le sue colpe, Obadiah spiegò: «La mia specialità era la manipolazione delle carte. Certo, più di una volta ho estratto un coniglio dal cappello, ho fatto comparire fazzoletti di seta dall'aria e colombe dai fazzoletti di seta. Ma la mia passione era quel tipo di illusionismo che permette al pubblico di osservare i trucchi da vicino. Monete, ma soprattutto... carte». Nel pronunciare la parola carte, l'uomo lanciò un'occhiata d'intesa verso Edom, ricevendone in cambio una fronte aggrottata e un'espressione perplessa. «La mia abilità con le carte era superiore a quella di molti illusionisti. Mi allenavo con Moses Moon, il più grande prestigiatore di carte della sua generazione.» Alla parola prestigiatore, lanciò nuovamente un'occhiata d'intesa verso Edom, che capì di dover rispondere qualcosa. Quando aprì la bocca, non riuscì a pensare a null'altro da dire se non che il 15 giugno 1896, a Sanriku, in Giappone, un terremoto sotterraneo aveva provocato un'onda alta più di trenta metri che, a sua volta, aveva travolto e ucciso ventisettemilacento persone, la maggior parte delle quali mentre era in preghiera durante una riunione scintoista. Ma perfino a Edom quello sembrò un commento inopportuno, così rimase in silenzio. «Lei sa cosa fa un manipolatore di carte, signora Lampion?» «Mi chiami Agnes. Immagino che non sia quello che le fabbrica.» Facendo lentamente ruotare le mani davanti ai suoi occhi, come se le vedesse ancora giovani e dalle dita agili, l'illusionista descrisse gli incredibili trucchi che poteva eseguire un bravo manipolatore. Sebbene si esprimesse in modo semplice, senza troppi fronzoli, riuscì a far apparire quei giochi di destrezza più strabilianti di qualsiasi coniglio estratto da un cappello, di qualsiasi colomba svolazzante da un fazzoletto di seta e di tutte le bionde tagliate in due con una sega. Edom lo ascoltava con l'attenzione rapita di un uomo il cui gesto più coraggioso era stato quello di acquistare una station wagon Ford Country Squire gialla e bianca.
«Quando non riuscii più a ottenere un numero sufficiente di ingaggi nei night club e nei teatri... mi dedicai al gioco d'azzardo.» Seduto nella poltrona, con la schiena un po' piegata in avanti, Obadiah abbassò le mani sulle ginocchia e rimase a fissarle in silenzio. Poi: «Mi spostavo da una città all'altra, sempre alla ricerca di tavoli da gioco in cui si puntassero grosse somme. Questi posti sono illegali, ma non difficili da trovare. Mi guadagnavo da vivere barando». Stava sempre attento a non guadagnare troppo in un'unica partita. Era un ladro discreto, che incantava le vittime con la sua parlantina. Dato che era simpatico e divertente, e appariva solo un po' fortunato, nessuno aveva da ridire per le sue vincite. Ben presto, si ritrovò con più soldi in tasca di quanto gli fosse mai accaduto nella sua carriera di illusionista. «Vivevo alla grande. Quando non ero in viaggio, abitavo in una bella casa, qui a Bright Beach, non in una baracca in affitto come adesso, ma in una villetta molto graziosa con vista sull'oceano. Potete immaginare che cosa è andato storto.» L'avidità. Era così facile portare via i soldi a quei sempliciotti. Ben presto, invece di rubare qualcosa in ogni partita, si era lasciato tentare da somme più grosse. «E così attirai l'attenzione. Feci nascere dei sospetti. Una sera, a St. Louis, un giocatore mi riconobbe per aver assistito a una delle mie esibizioni sul palcoscenico, anche se avevo cercato di cambiare aspetto. In quella partita, le puntate erano alte, ma il livello dei giocatori era molto basso. Mi hanno circondato e hanno cominciato a malmenarmi, poi hanno preso un pezzo di ferro e mi hanno fracassato le mani, un dito alla volta.» Edom rabbrividì. «Quantomeno, a Sanriku, l'onda è stata rapida.» «È successo cinque anni fa. Dopo una serie infinita di operazioni chirurgiche, mi ritrovo con queste.» Sollevò nuovamente le mani. «Quando c'è umido, mi fanno un male tremendo; un po' meno quando il clima è secco. Posso badare a me stesso, ma non sarò mai più un manipolatore di carte... o un illusionista.» Per un momento, nessuno di loro parlò. Il silenzio era assoluto come quello che, si dice, preceda i più violenti terremoti. Anche Barty sembrava pensieroso. Poi Agnes disse: «Be', è evidente che lei non potrà raccontare la sua vita in un solo anno. La sovvenzione dovrebbe durare due anni». Obadiah corrugò la fronte. «Sono un ladro.» «Lei era un ladro. E ha sofferto terribilmente.»
«Non ho scelto io di soffrire, mi creda.» «Sente rimorso, però», gli fece notare Agnes. «Lo vedo chiaramente. E non soltanto per ciò che è accaduto alle sue mani.» «Più che rimorso», confermò l'illusionista, «vergogna. Provengo da una famiglia di persone oneste. Non mi hanno allevato perché diventassi un baro. A volte cerco di capire come mai mi sono comportato così, penso che non sia stato il bisogno di denaro a rovinarmi. Almeno non soltanto quello, e non è stato neppure un fattore di primaria importanza. La mia rovina è stato l'orgoglio per la mia abilità con le carte, orgoglio frustrato perché non riuscivo a ottenere abbastanza ingaggi nei locali notturni e non potevo esibirmi come volevo.» «Tutto questo contiene un prezioso insegnamento», commentò Agnes. «Tante altre persone potrebbero imparare da ciò che è accaduto a lei, se vorrà raccontarlo. Se invece preferisce parlare della sua vita fino a un certo punto e fermarsi a quando ha cominciato a barare, andrà bene lo stesso. Anche solo fino a quel momento, si tratta comunque di un viaggio affascinante, di una storia che non dovrebbe andare persa, dovrebbe essere ricordata anche quando lei non ci sarà più. Le biblioteche sono piene zeppe di biografìe di attori e politici, la maggior parte dei quali è capace di fare un'autoanalisi quanto un rospo. Non ci interessa sapere altro sulle vite dei personaggi celebri, Obadiah. Ciò che può aiutarci, ciò che potrebbe addirittura salvarci, è saperne di più sulla vita di persone reali, che magari non hanno avuto un grande successo, ma sanno da dove arrivano e perché.» Edom, che non aveva mai avuto successo né tanto, né così così, né poco, vide l'immagine di sua sorella farsi confusa. Cercava di frenare le lacrime cocenti che gli colmavano gli occhi. Il suo amore non era per la magia, e non andava orgoglioso di particolari capacità, che peraltro non possedeva. Il suo amore era tutto per la sua adorata sorella; lei era anche il suo orgoglio, ed Edom sentì che la propria vita aveva un significato, che lui valeva qualcosa fintanto che fosse stato in grado di accompagnarla in giorni come quello, portarle le torte e, di tanto in tanto, riuscire a farla sorridere. «Agnes», disse l'illusionista, «lei farà meglio a incontrarsi con quella bibliotecaria adesso, per cominciare a narrare la sua vita. Se dovesse pensarci fra quarant'anni, ce ne vorranno almeno dieci solo per scriverla.» Molto spesso, quando si trovava in mezzo alla gente, qualunque fosse la situazione, arrivava un momento in cui Edom doveva scattare in piedi; adesso quel momento era arrivato, non perché volesse dire qualcosa e non
riuscisse a trovare le parole giuste, non perché temesse di dire qualcosa di sbagliato o di rovesciare con una gomitata la tazza del caffè, oppure di dimostrarsi in qualche modo uno sciocco, un buffone maldestro, ma semplicemente perché non voleva aggiungere lacrime alla giornata di Agnes. Ultimamente, ce n'erano state troppe nella sua vita e, sebbene queste non fossero di dolore, ma di affetto, Edom non voleva che fossero un peso per lei. Scattò in piedi, dicendo a voce troppo alta: «Prosciutti in scatola», ma si rese immediatamente conto che non aveva alcun significato, che non voleva dir niente, quindi cercò disperatamente qualcosa di coerente da dire... «patate, bastoncini di granturco»... il che era altrettanto ridicolo. Obadiah lo stava osservando con l'espressione preoccupata di chi si trova di fronte a una persona in preda a una crisi epilettica, di conseguenza Edom si tuffò fuori del soggiorno come se si stesse lanciando da una scala, poi si precipitò verso la porta d'ingresso, cercando di spiegare mentre correva: «Le abbiamo portate, ce ne sono, le vado a prendere, se a lei non dispiace accettarle, abbiamo le scatole in macchina, ma le porto dentro, scatole di scatole, be', non scatole di scatole, naturalmente no, scatole di roba, roba che abbiamo portato nelle scatole». Spalancando la porta e uscendo sulla veranda, si ricordò finalmente delle parole che cercava, e gridò al di sopra della spalla... Generi alimentari!... con un tono di trionfo e di sollievo. Nascondendosi dietro il portellone della station wagon, in modo da non essere visto né da Obadiah, né da Agnes, Edom si appoggiò alla Ford, fissò il meraviglioso cielo grigio e si mise a piangere. Erano lacrime di gratitudine per avere una persona come Agnes nella sua insignificante vita, ma, allo stesso tempo e con grande sorpresa, scoprì che quelle erano anche lacrime per la madre uccisa, una donna che aveva avuto lo stesso amore per gli altri che aveva Agnes, ma non la sua forza, l'umiltà di Agnes, ma non il suo coraggio, la fede di Agnes, ma non la sua incrollabile speranza. Uno stormo di gabbiani gridava nel cielo. Dapprima Edom ne seguì il movimento ascoltando le loro allegre voci, ma poi gli si schiarì la vista e rimase a osservarli mentre con le ali simili a bianche lame tosavano le nuvole grigie. Fu in grado di portare i generi alimentari in casa prima di quanto si fosse aspettato. 46 Ned - «Chiamatemi Neddy» - Gnathic era magro come un flauto e, come un flauto, aveva in testa tanti fori da cui il pensiero poteva fuggire prima
che, compresso all'interno del cranio, si trasformasse in una sgradevole musica. La sua voce era sempre pacata e armoniosa, ma spesso prendeva un ritmo allegro, a volte addirittura prestissimo, e nonostante la sua calda tonalità, quando Neddy parlava così in fretta risultava irritante alle orecchie di chi lo ascoltava quanto una banda di cornamuse che tenti di suonare il Bolero, ammesso che questo sia possibile. Di professione faceva il musicista in un pianobar, anche se non aveva bisogno di lavorare per vivere. Aveva ereditato un'elegante palazzina di quattro piani in un buon quartiere di San Francisco e poteva inoltre contare su un reddito, derivante da un fondo fiduciario, sufficiente a soddisfare tutte le sue necessità, sempre che evitasse di fare pazzie. Nonostante questo, lavorava cinque sere alla settimana in un elegante pianobar di un grande albergo di Nob Hill, suonando una raffinata musica di sottofondo per turisti, uomini d'affari in trasferta, ricchi omosessuali che si ostinavano a credere nelle storie d'amore in un'epoca che dava più valore all'ostentazione che a un solido patrimonio, e a coppie clandestine eterosessuali impegnate a provocare uno scandalo per essere certi che i loro tradimenti rigorosamente pianificati fossero scambiati per travolgenti passioni. Neddy occupava l'intero quarto piano della palazzina. Il terzo e il secondo piano erano divisi ciascuno in due appartamenti, e il pianterreno in quattro monolocali, tutti affittati. Poco dopo le quattro del pomeriggio, ecco Neddy, tutto elegante, pronto per il lavoro, con il suo smoking nero, la camicia bianca plissettata, il farfallino nero e un bocciolo di rosa rossa all'occhiello, fermo sulla porta dell'appartamento di Celestina White, mentre le spiega dettagliatamente per quale motivo aveva violato il contratto d'affitto e doveva quindi lasciare l'appartamento entro la fine del mese. Il problema era rappresentato da Angel, unica bambina in un edificio abitato solo da adulti: il suo pianto (anche se piangeva raramente), i suoi giochi rumorosi (anche se non aveva ancora la forza di agitare un sonaglio), e il fatto che avrebbe potuto danneggiare l'appartamento (anche se non era ancora in grado di scendere dalla culla da sola e tanto meno di prendere a martellate l'intonaco). Celestina non riusciva a farlo ragionare; e nemmeno sua madre Grace, che era andata ad abitare temporaneamente con lei e che riusciva sempre a calmare anche le acque più tempestose, era stata in grado di calmare quel che era la furia dalla voce di velluto Neddy Gnathic nei suoi momenti peggiori. Aveva saputo della bambina cinque giorni prima e aveva cominciato subito ad assillare Celestina con le sue lamentele che, giorno dopo giorno,
aumentavano di forza e intensità come una depressione tropicale che aspiri allo status di uragano. In quel momento, a San Francisco il mercato degli affitti era quasi fermo, vi erano molti più aspiranti inquilini che proprietà disponibili. Da cinque giorni, Celestina cercava di spiegare che aveva bisogno di almeno un mese di tempo, e preferibilmente fino alla fine di febbraio, per trovare un alloggio adeguato e non troppo caro. Durante il giorno doveva frequentare le lezioni all'Accademia di Belle Arti, per sei sere alla settimana lavorava come cameriera e non poteva lasciare la cura della piccola Angel completamente sulle spalle di Grace, anche se per un periodo di tempo limitato. Neddy parlava quando Celestina si interrompeva per respirare, parlava anche quando lei non si fermava, udiva soltanto la propria voce soave ed era soddisfatto di riuscire a portare avanti da solo tutta la conversazione, fiaccando la resistenza di Celestina così come - ma certo molto più rapidamente - i venti carichi di sabbia dell'Egitto stavano logorando le piramidi dei faraoni. Continuò a parlare anche dopo il primo, educato, «mi scusi» dell'uomo alto che si era fermato sul vano della porta aperta, dietro di lui, aveva continuato a parlare anche quando per la seconda e la terza volta l'uomo aveva cercato di attirare la sua attenzione; poi, improvvisamente, con qualcosa che aveva di miracoloso come una guarigione nella grotta di Lourdes, era ammutolito quando il visitatore gli aveva posato una mano sulla spalla, lo aveva spinto gentilmente di lato ed era entrato nell'appartamento. Le dita del dottor Walter Lipscomb erano più lunghe e più agili di quelle del pianista, e aveva il portamento di un grande direttore d'orchestra che non ha bisogno di alcuna bacchetta e a cui basta presentarsi al pubblico per imporsi all'attenzione. Parlando dall'alto della sua autorità e della sua compostezza, spiegò a un Neddy improvvisamente placato: «Sono il medico di questa bambina. È nata sotto peso ed è stata trattenuta in ospedale per curare un'infezione all'orecchio. Dal modo in cui lei parla, ho la netta sensazione che le stia per venire una bronchite e che questa si manifesterà nel giro di ventiquattro ore, di certo lei non vorrà che, per colpa sua, la bambina corra il rischio di essere contagiata». Sbattendo le palpebre come se avesse ricevuto uno schiaffo, Neddy si giustificò: «Ho un regolare contratto...» Il dottor Lipscomb sporse leggermente la testa verso il pianista, come un severo preside che enfatizzi un castigo torcendo con forza l'orecchio del ragazzo incriminato. «La signorina White e la bambina lasceranno questi
locali entro la fine della settimana... a meno che lei non continui a infastidirle con le sue chiacchiere. Se lei insisterà nel suo atteggiamento, per ogni minuto di disturbo la loro partenza verrà posticipata di un giorno.» Sebbene il dottor Lipscomb parlasse con voce quasi altrettanto pacata quanto quella del pianista logorroico, e sebbene il volto lungo e stretto del medico fosse molto cordiale e privo di qualsiasi aggressività, Neddy Gnathic si ritrasse con un sussulto e, camminando all'indietro, uscì nel corridoio. «Buona giornata», lo salutò Lipscomb, chiudendogli la porta in faccia, probabilmente schiacciandogli il naso e rovinandogli il bocciolo di rosa all'occhiello. Angel era adagiata su un asciugamano posato sul divano letto, dove Grace le aveva appena cambiato il pannolino. Mentre il dottor Lipscomb prendeva in braccio la bambina, Grace commentò: «Le sue parole sono state efficaci come potrebbero esserle solo quelle della moglie di un pastore con un parrocchiano insopportabile... e a volte vorrei proprio che potessimo essere altrettanto decise». «Il suo lavoro è più difficile del mio», le assicurò Lipscomb, mentre cullava la bambina. «Non ho alcun dubbio in merito.» Celestina, sorpresa dall'arrivo di Lipscomb, era ancora mentalmente stordita dal fiume di parole di Neddy. «Dottore, non sapevo che stesse venendo qui.» «Non lo sapevo neppure io, fino a quando mi sono accorto di trovarmi proprio nel vostro quartiere. Ho immaginato che sua madre e Angel fossero in casa, e speravo che ci fosse anche lei. Se disturbo...» «No, no. È che non...» «Volevo solo dirle che lascio la medicina.» «Per la bambina?» domandò Grace, con un'espressione preoccupata. Tenendo la piccola Angel tra le grosse mani, sorridendole, il medico rispose: «Oh no, signora White, da quel che vedo, questa signorinetta scoppia di salute. Non ha bisogno di alcuna medicina». Come se a tenerla tra le mani fosse Dio in persona, Angel fissava il medico con gli occhi sgranati per la meraviglia. «Intendevo dire», proseguì il dottor Lipscomb, «che ho intenzione di cedere il mio studio e di smettere con la carriera di medico. Volevo che lo sapeste.» «Lasciar perdere?» esclamò Celestina. «Ma lei è ancora giovane.» «Le andrebbe una tazza di tè e una fetta di torta?» domandò con l'aria
più tranquilla del mondo Grace come se, nel Grande libro del galateo per le mogli dei pastori, questa fosse la reazione più adatta a un annuncio così sorprendente. «Per la verità, signora White, in questa occasione andrebbe meglio lo champagne, se lei non ha nulla contro gli alcolici.» «Per alcuni battisti è vietato bere, dottore, ma noi apparteniamo al gruppo dei viziosi. Anche se, tutto quello che abbiamo, è una bottiglia di Chardonnay, e neppure fredda.» Il dottor Lipscomb propose: «Siamo soltanto a due isolati e mezzo dal miglior ristorante armeno della città. Se siete d'accordo, faccio un salto a prendere qualcosa da mangiare e una bottiglia ben gelata». «Se non fosse arrivato lei, saremmo state condannate a finire il polpettone di carne di ieri.» Rivolgendosi a Celestina, Lipscomb soggiunse: «Naturalmente, se lei non è impegnata». «Questa è la sua sera libera», rispose per lei Grace. «Sta lasciando la medicina?» domandò Celestina, sconcertata dal suo annuncio e dalla sua allegria. «Per questo dobbiamo festeggiare... la fine della mia carriera e il suo trasloco.» Ricordandosi improvvisamente di quanto il dottore aveva assicurato a Neddy, e cioè che avrebbero lasciato quella casa per la fine della settimana, Celestina disse: «Ma non sappiamo dove andare». Porgendo Angel a Grace, Lipscomb spiegò: «Possiedo alcuni immobili che affìtto come forma di investimento. In questo momento, si è liberato un appartamento di due camere». Scuotendo la testa, Celestina rifiutò l'offerta: «Mi posso permettere soltanto un monolocale, qualcosa di molto piccolo». «Mi pagherà l'affitto che sta pagando qui», la rassicurò Lipscomb. Celestina e sua madre si scambiarono un'occhiata. Il medico se ne accorse e capì. Il pallore del suo viso si tinse di rosa. «Celestina, lei è molto bella, e sono certo che ha imparato a diffidare degli uomini, ma le giuro che le mie intenzioni sono assolutamente oneste.» «Ma io non pensavo...» «Certo che l'ha pensato, e questo è esattamente ciò che l'esperienza le ha insegnato a pensare. Ma io ho quarantasette anni e lei ne ha venti...» «Quasi ventuno.» «...e apparteniamo a mondi diversi, cosa che io rispetto. Rispetto lei e la
sua meravigliosa famiglia... i suoi principi, le sue certezze. Ma voglio fare questo solo perché glielo devo.» «Perché mi dovrebbe qualcosa?» «Be', per la verità lo devo a Phimie. È stato quello che ha detto in sala parto, tra una morte e l'altra, che ha cambiato la mia vita.» Rowena la ama, gli aveva detto Phimie annullando per un attimo gli effetti del colpo apoplettico per parlare in modo intelligibile. Beezil e Feezil sono al sicuro con lei. Messaggi che provenivano dalla moglie e dai figli defunti che lo aspettavano nell'aldilà. Con un gesto di supplica, ma senza alcuna malizia, l'uomo prese le mani di Celestina tra le sue. «Nella mia professione di ostetrico, per anni ho aiutato a portare la vita nel mondo, ma in realtà non sapevo che cosa fosse la vita, non riuscivo a comprendere il suo vero significato, non capivo neppure che avesse un significato. Prima che Rowena, Harry e Danny precipitassero con l'aereo, ero già... vuoto dentro. Dopo averli persi, ero peggio che vuoto. Celestina, ero morto dentro. Phimie mi ha dato speranza. Non posso ricompensarla, ma posso fare qualcosa per sua figlia e per lei, se me lo permetterà.» Le mani di Celestina presero a tremare, così come quelle del medico. Ma quando lei non accettò subito la sua generosità, lui soggiunse: «Per tutta la mia vita, ho vissuto giorno per giorno. Prima per riuscire a sopravvivere. Poi il successo nella mia professione, il benessere. Case, investimenti, oggetti d'antiquariato... non c'è niente di male in tutto questo. Ma non colmava il vuoto. Forse un giorno tornerò alla medicina. Ma è una vita troppo febbrile, e in questo momento ho bisogno di pace, di calma, di tempo per riflettere. Qualunque cosa farò d'ora in poi... voglio che la mia vita abbia uno scopo, cosa che prima non ha mai avuto. Riesce a capirmi?» «Sono stata educata a comprendere», rispose Celestina e, spostando lo sguardo dall'altra parte della stanza, notò che le sue parole avevano commosso sua madre. «Potreste lasciare questo appartamento già domani», suggerì Lipscomb. «Domani e mercoledì ho lezione, ma giovedì sono libera.» «Allora è per giovedì», confermò lui, chiaramente soddisfatto di ricevere per il suo appartamento soltanto un terzo del canone d'affitto che avrebbe potuto ottenere altrimenti. «Grazie, dottor Lipscomb. Prenderò nota di ciò che lei ci rimetterà ogni mese e, un giorno, le pagherò tutto quello che le devo.» «Ne discuteremo quando sarà il momento. E... per favore, mi chiami
Wally.» Il viso lungo e stretto del medico, quel volto da impresario di pompe funebri, ideale per descrivere un'indicibile tristezza, non era una faccia da Wally. Da un Wally, ci si aspettava che avesse le lentiggini, un viso roseo e tondo e che fosse sempre allegro. «Wally», ripeté Celestina senza un attimo di esitazione, perché all'improvviso vide qualcosa di un Wally nei suoi occhi verdi, che ora apparivano molto più vivaci di prima. Arrivò lo champagne, e due sacchetti pieni di cibo armeno. Sou beurek, mujadereh, pollo e riso, foglie di vite ripiene, carciofi con agnello e riso, orouk, manti, e altro. Dopo la preghiera di ringraziamento (recitata da Grace), Wally e le tre White, la quarta presente in spirito, si sedettero intorno a un tavolo dal ripiano in formica, banchettando, ridendo, parlando d'arte, di medicina e di cura dei neonati, del passato e del futuro, mentre su, a Nob Hill, Neddy Gnathic con il suo smoking se ne stava seduto davanti a un piano nero e riversava nell'elegante locale una cascata di note scintillanti come pietre preziose. 47 Indossando ancora il camice bianco da farmacista sopra un paio di pantaloni neri e una camicia bianca, camminando di buon passo lungo le strade di Bright Beach, sotto un cielo cupo e crepuscolare, degno di una copertina di Weird Tales, accompagnato dal sinistro sbatacchiare delle palme sferzate dal vento, terminata la giornata di lavoro, Paul Damascus si dirigeva verso casa. Camminare era uno degli esercizi per mantenersi in forma che il farmacista prendeva molto seriamente. Nessuno si sarebbe rivolto a lui perché salvasse il mondo, come accadeva agli eroi dei racconti che tanto amava, tuttavia aveva delle responsabilità alle quali non intendeva sottrarsi e, per farlo, doveva mantenersi in perfetta salute. In una tasca del camice c'era la sua lettera al reverendo Harrison White. Non aveva chiuso la busta perché intendeva leggere a Perri, sua moglie, ciò che aveva scritto e apporvi tutte le correzioni che lei gli avesse suggerito. In questo, come in ogni altra cosa, Paul ascoltava sempre la sua opinione. Per lui, il momento culminante della giornata era tornare a casa da Perri. Si erano conosciuti quando avevano tredici anni e sposati a ventidue. In
maggio avrebbero festeggiato il loro ventitreesimo anniversario. Non avevano figli. Così erano andate le cose. Per la verità, Paul non rimpiangeva di non essere diventato padre. Dato che erano una famiglia composta da due persone, si sentivano più vicini di quanto probabilmente lo sarebbero stati se il destino avesse permesso loro di avere dei figli e la loro unione rappresentava la cosa più cara che Paul aveva al mondo. Le sere trascorse insieme erano un momento di gioia e di serenità, anche se, di solito, si limitavano a guardare la televisione, oppure lui leggeva per lei. A Perri piaceva molto che qualcuno le leggesse qualcosa: soprattutto romanzi storici e a volte dei gialli. Spesso, alle nove e mezzo, Perri dormiva già, solo di rado riusciva a restare sveglia oltre le dieci, mentre Paul non si coricava mai prima di mezzanotte o l'una del mattino. Durante quelle ore notturne, cullato dal respiro della moglie, Paul tornava ai suoi romanzi d'avventura. Quella sera c'erano dei programmi interessanti alla televisione. To Tell the Truth alle sette e mezzo, seguito da I've Got a Secret, The Lucy Show, e The Andy Griffith Show. Il nuovo spettacolo di Lucy non era divertente come quello precedente; a Paul e Perri mancavano Desi Arnaz e William Frawley. Svoltando l'angolo di Jasmine Way, alla vista di casa sua, Paul sentì il cuore che gli si gonfiava di una gioia piena di aspettativa. Non era una villa lussuosa - era solo una tipica casetta americana - ma a lui sembrava più splendida di Parigi, Londra e Roma messe insieme, città che non avrebbe mai visto e che non avrebbe mai rimpianto di non aver visitato. La sua gioia si tramutò in terrore quando scorse un'ambulanza ferma lungo la strada. E nel vialetto d'accesso vide parcheggiata la Buick di Joshua Nunn, il loro medico di famiglia. La porta d'ingresso era socchiusa. Paul entrò di corsa. Nell'atrio, sedute sulle scale, una accanto all'altra, vi erano Hanna Rey e Nellie Oatis. Hanna, la governante, era una donna grassoccia e dai capelli grigi. Nellie, che assisteva Perri durante il giorno, poteva essere scambiata per la sorella di Hanna. Hanna era troppo sconvolta dall'emozione per stare in piedi. Nellie trovò la forza di alzarsi, ma poi non riuscì a parlare. Muoveva la bocca, ma la voce non le usciva dalla gola. Restando paralizzato di fronte all'espressione delle donne, il cui significato non lasciava dubbi, Paul accolse con gratitudine quel momentaneo mutismo di Nellie. Sapeva di non avere la forza di ascoltare ciò che la
donna aveva cercato di dirgli. Il silenzio durò soltanto fino a quando Hanna, in grado di parlare anche se non abbastanza forte per alzarsi in piedi, disse: «Abbiamo cercato di metterci in contatto con lei, signor Damascus, ma era già uscito dalla farmacia». Le porte scorrevoli del soggiorno erano parzialmente aperte. Dalla stanza giungevano voci che costrinsero Paul a entrare anche contro la sua volontà. L'ampio locale aveva due funzioni: era un salotto in cui ricevere gli amici, ma anche una camera con due letti, perché era qui che dorminavo Paul e Perri. Jeff Dooley, un paramedico, si trovava subito al di là delle porte scorrevoli. Afferrò con forza Paul per una spalla e lo trascinò nella stanza. Insieme si avvicinarono al letto di Perri, un viaggio di pochi passi, ma più lontano di una Parigi mai vista, di una Roma mai desiderata. La moquette sembrava inchiodare Paul al pavimento, rallentarlo come fango sotto le scarpe. L'aria era densa come un liquido nei polmoni, faceva resistenza, rendendogli difficile avanzare. Joshua Nunn, amico oltre che medico di famiglia, era accovacciato accanto al letto e sollevò lo sguardo su Paul che si avvicinava. Si alzò in piedi come se fosse gravato da un giogo di ferro. La parte superiore del letto da ospedale era sollevata e Perri giaceva sulla schiena. Aveva gli occhi chiusi. Durante la crisi, l'asta che reggeva la bombola d'ossigeno era stata avvicinata al letto. La mascherina per respirare era posata sul cuscino accanto a lei. Di solito Perri non aveva bisogno dell'ossigeno. Quel giorno le era stato necessario, ma non era servito. Il respiratore artificiale, che evidentemente Joshua le aveva applicato, ora giaceva inutilizzato sulla coperta. Era un apparecchio a cui raramente Perri ricorreva per aiutarla a respirare, e comunque solo di notte. Durante il primo anno di malattia, l'avevano gradualmente abituata a fare a meno del polmone d'acciaio. Fino all'età di diciassette anni, aveva avuto bisogno del respiratore artificiale, ma un po' alla volta aveva acquistato forza sufficiente per permetterle di respirare da sola. «È stato il cuore», spiegò Joshua Nunn. Aveva sempre avuto un cuore grande. Dopo che la malattia l'aveva fatta dimagrire, lasciandola esile come un uccellino, il suo grande cuore, a cui la sofferenza non aveva tolto nulla, nemmeno la generosità, sembrava essere
diventato più grande del corpo che lo conteneva. La poliomielite, una malattia che miete vittime soprattutto tra i bambini più piccoli, l'aveva colpita due settimane prima del suo quindicesimo compleanno. Trent'anni prima. Per poter assistere Perri, Joshua aveva dovuto togliere le coperte. La stoffa dei pantaloni del pigiama giallo chiaro non riusciva a nascondere quanto le si fossero rinsecchite le gambe: due bastoncini. Il suo caso di poliomielite era stato così grave che non era stato possibile usare né un tutore, né le stampelle. Anche gli esercizi di riabilitazione dei muscoli si erano rivelati inefficaci. Le maniche della giacca del pigiama erano rialzate, evidenziando ulteriormente l'opera di distruzione della malattia. I muscoli del braccio sinistro si erano atrofizzati; la mano, un tempo tanto aggraziata, era ripiegata su se stessa come se stringesse un oggetto invisibile, forse la speranza che Perri non aveva mai abbandonato. Il braccio destro era in parte utilizzabile e appariva meno danneggiato del sinistro, anche se non normale. Paul abbassò le maniche del pigiama. Tirò delicatamente la coperta sul corpo emaciato della moglie, fino alle spalle ossute, ma lasciò fuori il braccio destro. Poi lisciò accuratamente il risvolto del lenzuolo. Così come non aveva rovinato il suo cuore, la malattia aveva lasciato intatto anche il suo viso. Era bella, e lo era sempre stata. Si sedette sul bordo del letto e le prese la mano destra. Era morta da così poco tempo che la pelle era ancora tiepida. Senza una parola, Joshua Nunn e il paramedico si ritirarono nell'ingresso. Le porte del soggiorno si chiusero. Tanti anni insieme e tuttavia così poco tempo... Paul non ricordava quando aveva cominciato ad amarla. Non era stato un colpo di fulmine. Ma sicuramente prima che venisse colpita dalla poliomielite. L'amore era nato un po' alla volta e, quando era sbocciato, ormai aveva radici profonde. Ricordava chiaramente il momento in cui aveva avuto la consapevolezza che l'avrebbe sposata: durante il primo anno di college, quando era tornato a casa per le vacanze natalizie. All'università, le era mancata ogni giorno e, rivedendola, aveva sentito sciogliersi la tensione e aveva provato un senso di pace dopo mesi di inquietudine. All'epoca, Perri abitava con i genitori. Avevano trasformato la sala da pranzo in una camera per lei.
Quando Paul era arrivato con un regalo di Natale, Perri era a letto, indossava un pigiama rosso lacca e stava leggendo Jane Austen. Un ingegnoso sistema di cinghie di cuoio, di carrucole e contrappesi l'aiutava a muovere il braccio destro più agilmente di come sarebbe stato altrimenti possibile. Il libro era appoggiato a un leggio, ma Perri riusciva a voltare le pagine. Paul aveva trascorso il pomeriggio con lei e si era fermato per cena. Aveva mangiato seduto accanto al suo letto, imboccandola e adeguandosi alla sua velocità in modo da finire insieme ogni piatto. Non l'aveva mai imboccata prima d'allora, tuttavia non si era sentito imbarazzato, né lei con lui, e in seguito ciò che ricordò di quella cena fu la conversazione, non la sincronizzazione dei movimenti. Quando, nell'aprile successivo, le chiese di sposarlo, lei rifiutò. «Sei un tesoro, Paul, ma non posso permetterti di gettare via la tua vita con me. Tu sei... come una bellissima nave che salperà per luoghi affascinanti e lontani, e io sarei soltanto un'ancora per te.» «Una nave senza ancora non può mai fermarsi», le rispose. «È alla mercé del mare.» Lei gli fece notare che il suo corpo malato non aveva né qualcosa da offrire a un uomo, né la forza di essere una moglie. «La tua mente continua a essere affascinante come sempre», ribatté Paul. «La tua anima è stupenda. Ascolta, fin da quando avevamo tredici anni, ciò che mi interessava di più di te non era il tuo corpo. Sei davvero una presuntuosa se credi di essere stata tanto speciale anche prima della polio.» A lei piacevano la franchezza e un linguaggio deciso, perché troppe persone la trattavano come se il suo spirito fosse fragile quanto i suoi arti. Scoppiò a ridere divertita... ma non cambiò idea. Dopo dieci mesi, Paul riuscì finalmente a convincerla. Perri accettò la sua proposta e fissarono la data del matrimonio. Quella sera, tra le lacrime, lei gli domandò se l'impegno che stava per assumersi non lo spaventasse. Per la verità, Paul era terrorizzato. Sebbene il bisogno della sua compagnia fosse così profondo che sembrava nascere dall'essenza più intima di Paul, una parte di lui si stupiva - e tremava - per questa sua determinazione nel volere Perri. Ma quella sera, quando lei aveva accettato la proposta di matrimonio e gli aveva domandato se non aveva paura, Paul aveva risposto: «Non più».
In effetti il terrore che le aveva tenuto nascosto era svanito nel momento in cui si erano scambiati gli anelli. Dopo il primo bacio da marito e moglie, Paul aveva capito che quello era il suo destino. Che meravigliosa avventura avevano vissuto in quei ventitré anni, un'avventura che anche Doc Savage gli avrebbe invidiato. Prendersi cura di lei, in ogni senso, lo aveva reso un uomo molto più felice di come sarebbe stato in un'altra situazione, e anche molto migliore. Ora lei non aveva più bisogno di lui. Continuò a fissare il suo volto, a tenerle stretta la mano sempre più fredda; la sua ancora si allontanava, lasciandolo andare alla deriva. 48 Dopo la seconda notte trascorsa allo Sleepie Tyme Inne, Junior si svegliò all'alba riposato, ristorato... e in grado di tenere sotto controllo l'intestino. Non sapeva proprio come spiegare quel disturbo così sgradevole. I sintomi dell'avvelenamento da cibo di solito compaiono entro due ore dal pasto. Ma quegli orrendi spasmi intestinali lo avevano colpito almeno sei ore dopo che aveva mangiato. Inoltre, se si fosse trattato di avvelenamento da cibo, avrebbe vomitato, ma lui non era sto colto da conati. Immaginò che fosse colpa della sua eccezionale sensibilità di fronte alla violenza, alla morte e alla perdita. In precedenza si era manifestata con un esplosivo svuotamento dello stomaco, questa volta, con la necessità di liberare le parti più basse. Quel martedì mattina, mentre faceva la doccia insieme con uno scarafaggio che nuotava con l'esuberanza di un golden retriever, Junior giurò che non avrebbe mai più ucciso. Se non per autodifesa. Aveva già fatto quel giuramento. E si poteva dire che l'aveva infranto. Certo, se non avesse ammazzato Vanadium, senza dubbio il poliziotto avrebbe ucciso lui. In questo caso si era trattato chiaramente di legittima difesa. Però, solo una persona disonesta o che voleva mentire a se stessa avrebbe considerato l'omicidio di Victoria come un gesto di autodifesa. In realtà era stato spinto dalla rabbia e dalla passione, e Junior era abbastanza onesto da ammetterlo. Come insegnava Zedd, in questo mondo in cui la disonestà è la moneta attraverso la quale si ottiene il consenso generale e il successo economico, per riuscire a vivere bisogna ricorrere anche all'inganno, ma non si deve
mai mentire a se stessi, altrimenti non ci rimarrà nessuno di cui fidarci. Questa volta, giurò di non uccidere più, se non per legittima difesa, indipendentemente dalla provocazione. Era una condizione più severa, che lo soddisfava. Nessuno riusciva a migliorarsi in modo significativo se fissava per se stesso delle norme troppo blande. Quando spinse di lato la tendina e uscì dalla doccia, lasciò lo scarafaggio a mollo nell'acqua, vivo e in perfetta salute. Prima di lasciare il motel, Junior passò rapidamente in rassegna altri quattromila nomi dell'elenco telefonico, alla ricerca di Bartholomew. Il giorno prima, costretto a restare in camera, aveva tentato di rintracciare il suo nemico esaminando dodicimila nomi. In totale, ne aveva letti quarantamila. Di nuovo in viaggio, senza altro bagaglio che le opere di Caesar Zedd, Junior si diresse a sud, verso San Francisco. La prospettiva di tuffarsi nella vita di una metropoli lo eccitava. Gli anni trascorsi nella sonnacchiosa Spruce Hills gli avevano dato amore, un matrimonio felice e una posizione economica invidiabile. Ma in quella cittadina mancava qualsiasi stimolo intellettuale. Per sentirsi completamente vivo, aveva bisogno non solo del piacere fisico e di una soddisfacente vita emotiva, ma anche di arricchire la sua mente. Scelse un percorso che lo condusse attraverso la Marin County e oltre il Golden Gate Bridge. La metropoli, che Junior non aveva mai visitato prima d'allora, si estendeva in tutto il suo splendore sulle colline che si tuffavano nella scintillante baia. Per un'intera, piacevolissima ora, se ne andò a zonzo per la città, restando incantato davanti all'architettura dei palazzi, agli stupendi panorami, alle strade talmente ripide da dare i brividi. Ben presto, Junior si sentì ubriaco di San Francisco come se avesse bevuto del vino. In quella città, le attività intellettuali e le possibilità di autorealizzazione erano illimitate. Importanti musei, gallerie d'arte, università, sale da concerto, librerie, biblioteche, l'osservatorio di Mount Hamilton... Meno di un anno prima, in un locale alla moda di quella stessa città, erano salite sul palcoscenico le prime ballerine in topless degli Stati Uniti. Ora questa interessante forma d'arte era praticata in diverse città che avevano seguito l'audacia innovativa di San Francisco, e Junior non vedeva l'ora di ampliare i propri orizzonti assistendo a uno di quegli spettacoli proprio lì, dove era nata la novità del secolo in fatto di danza. Erano le tre quando scese in un famoso albergo di Nob Hill. Dalla sua
stanza si godeva un panorama straordinario. In un elegante negozio dell'albergo, acquistò diversi capi d'abbigliamento per sostituire quelli che gli erano stati rubati. Vennero eseguite le necessarie modifiche e il tutto gli venne consegnato in camera per le sei. Alle sette, Junior stava già sorseggiando un cocktail nel raffinato pianobar dell'albergo. Un pianista in smoking stava suonando della musica molto romantica con uno stile davvero eccellente. Alcune bellissime donne, in compagnia di altri uomini, si misero a flirtare di nascosto con Junior. Era abituato a essere oggetto del desiderio femminile. Tuttavia, quella sera, l'unica donna che gli interessasse veramente era San Francisco, e desiderava restare da solo con lei. Dato che il locale fungeva anche da ristorante, Junior si gustò con calma un superbo filet mignon, sorseggiando mezza bottiglia di Cabernet Sauvignon. L'unico momento sgradevole della serata fu quando il pianista suonò Qualcuno che badi a me. Junior rivide mentalmente la moneta che passava da una nocca all'altra, e sentì la voce monotona del poliziotto: C'è una bella canzone di George e Ira Gershwin intitolata Qualcuno che badi a me. L'ha mai sentita, Enoch? Per lei, io sono quel qualcuno, anche se, naturalmente, non in senso romantico. Quando aveva riconosciuto la musica, a Junior era quasi caduta la forchetta. Il cuore aveva cominciato a battergli furiosamente. Si sentì le mani umidicce. Nel corso della serata, di tanto in tanto, alcuni clienti avevano attraversato la sala per depositare delle banconote in una boccia di vetro posata sul piano, le mance per il pianista. Alcuni avevano anche chiesto che suonasse le loro canzoni preferite. Junior non aveva badato a tutti quelli che si erano avvicinati al pianista, ma di sicuro avrebbe notato un uomo tozzo che indossava un abito da quattro soldi. Il poliziotto non era seduto a nessuno di quei tavoli, Junior ne era certo perché, soffermandosi a esaminare attentamente tutte quelle belle donne, il suo sguardo aveva vagato più volte da un tavolo all'altro del locale. Ma non aveva fatto molta attenzione ai clienti seduti al bar, dietro di lui. Si voltò nella sedia per guardarli. Una donna dall'aspetto virile. Diversi uomini dall'aria effeminata. Ma nessuna figura tozza che somigliasse al poliziotto, anche se travestito.
Respiri lenti e profondi. Lenti. Profondi. Un sorso di vino. Vanadium era morto. Massacrato con il candeliere di peltro e gettato in fondo al lago artificiale. Sparito per sempre. Il detective non era l'unica persona al mondo a cui piacesse Qualcuno che badi a me. Chiunque, nella sala, poteva averla chiesta. Oppure faceva semplicemente parte del repertorio del pianista. Quando la canzone finì, Junior si sentì meglio. Ben presto il battito cardiaco tornò alla normalità. I palmi delle mani si asciugarono. Quando infine ordinò per dessert una crème brûlée, Junior era di nuovo in grado di ridere di se stesso. Che cosa si era aspettato, di vedere un fantasma che sorseggiava un cocktail e masticava noccioline al bar? 49 Mercoledì, due giorni dopo aver accompagnato Agnes a distribuire le torte di pere e uvette, Edom riuscì a trovare il coraggio per andare a visitare Jacob. Sebbene i loro appartamenti sopra al garage fossero confinanti, ognuno era dotato di una scala esterna indipendente. I due gemelli avrebbero potuto abitare a centinaia di chilometri di distanza, tanto rare erano le volte che uno entrava nel territorio dell'altro. Quando si trovavano entrambi in compagnia di Agnes, Edom e Jacob erano fratelli, si sentivano a loro agio. Ma quando si trovavano solo loro due, senza Agnes, erano peggio che estranei, perché gli estranei non avevano alcun passato in comune da superare. Edom bussò, Jacob rispose. Jacob fece un passo indietro, Edom entrò. Rimasero fermi, ma non proprio uno di fronte all'altro. La porta dell'appartamento fu lasciata aperta. Edom si sentiva a disagio in quel regno di una divinità sconosciuta. La divinità che suo fratello temeva era l'umanità, le sue compulsioni più oscure, la sua arroganza. D'altra parte, Edom tremava di fronte alla natura, la cui collera era tale che un giorno avrebbe distrutto ogni cosa, e in quel momento l'universo si sarebbe trasformato in una pallina di materia delle dimensioni di un pisello. Per Edom, l'umanità non era ovviamente la più grande di queste due forze distruttive. Uomini e donne erano parte della natura, non ne stavano al di sopra, quindi la loro malvagità era soltanto un ulteriore esempio della
crudeltà della natura stessa. Da anni avevano smesso di discutere su questo argomento, in quanto nessuno dei due concedeva alcuna credibilità al dogma dell'altro. In poche parole, Edom raccontò a Jacob della visita a Obadiah, l'illusionista cui avevano maciullato le mani. Poi soggiunse: «Quando ce ne siamo andati, ho seguito Agnes, ma Obadiah mi ha trattenuto dicendo: 'Con me il tuo segreto è al sicuro'». «Quale segreto?» domandò Jacob, fissando perplesso le scarpe di Edom. «Speravo che tu lo sapessi», rispose Edom, studiando il colletto della camicia di flanella verde di Jacob. «Come potrei saperlo?» «Ho pensato che forse mi aveva scambiato per te.» «Perché avrebbe dovuto farlo?» domandò Jacob, con lo sguardo fisso sul taschino della camicia del fratello. «Ci somigliamo abbastanza», rispose Edom, spostando l'attenzione sull'orecchio sinistro di Jacob. «Siamo gemelli monozigoti, ma io non sono te, vero?» «Per noi questo è ovvio, ma non lo è sempre per gli altri. A quanto pare, è successo alcuni anni fa.» «Che cosa è successo alcuni anni fa?» «Che hai conosciuto Obadiah.» «Ti ha detto che l'ho conosciuto?» domandò Jacob, guardando al di sopra di Edom, verso la luce che entrava dalla porta aperta. «Come ti ho spiegato, potrebbe avermi scambiato per te», ribatté Edom, fissando i volumi perfettamente allineati sugli scaffali della libreria. «È fuori di testa o qualcosa del genere?» «No, ha tutte le rotelle a posto.» «Supponiamo che soffra di demenza senile, non potrebbe pensare che sei un fratello che non vede da anni, o qualcosa del genere?» «Non soffre di demenza senile.» «Se ti sei messo a farneticare di terremoti, tornado, vulcani in eruzione e tutta quella roba, come potrebbe averti confuso con me?» «Io non farnetico. E comunque è stata Agnes a parlare per tutto il tempo.» Riportando l'attenzione sulle proprie scarpe, Jacob disse: «Insomma... io che cosa c'entro in questa storia?» «Lo conosci?» domandò Edom, fissando intensamente la porta aperta, dalla quale Jacob si era allontanato. «Obadiah Sepharad?»
«Dato che ho trascorso la maggior parte degli ultimi vent'anni in questo appartamento e dato che non sono io quello che ha la macchina, come avrei fatto a conoscere un illusionista di colore?» «Allora, d'accordo.» Mentre Edom varcava l'uscio e usciva sul pianerottolo in cima alla scala, Jacob lo seguì e si mise a sciorinare fatti e date che avrebbero dovuto convincere il fratello: «San Francisco, vigilia di Natale del 1940, orfanotrofio di St. Anselmo. Josef Krepp uccise nel sonno undici bambini, dai sei agli undici anni, portandosi via un trofeo per ogni vittima... un occhio qui, una lingua là». «Undici?» domandò Edom, per nulla impressionato. «Dal 1604 al 1610, Erzebet Bathory, sorella del re polacco, con l'aiuto dei suoi servi, ha torturato e ucciso seicento ragazze. Le mordeva, beveva il loro sangue, strappava loro il viso con le tenaglie, mutilava le loro parti intime e si divertiva a sentirle urlare.» Scendendo le scale, Edom controbatté: «18 settembre 1906, un tifone si è abbattuto su Hong Kong. Sono morte più di diecimila persone. Il vento soffiava a una tale velocità che centinaia di persone sono state uccise da frammenti aguzzi scaraventati in aria - schegge di legno, punte di staccionate, chiodi, vetro - che le hanno colpite con la forza di un proiettile. Un uomo è stato ucciso da un frammento di un'urna cineraria della dinastia Han che gli ha spaccato la faccia, gli ha perforato il cranio e gli si è conficcata nel cervello». Mentre giungeva in fondo alla scala, Edom sentì la porta che si chiudeva sopra di lui. Jacob nascondeva qualcosa. Fino a quando non aveva parlato di Josef Krepp, aveva continuato a rispondere con altre domande, il che era sempre stato il suo modo preferito di sottrarsi a una conversazione ogni volta che l'argomento lo metteva a disagio. Per tornare al suo appartamento, Edom dovette passare sotto l'imponente chioma della quercia che dominava il giardino tra la casa e il garage. Con la testa bassa, come se la visita a Jacob fosse per lui un peso che lo costringeva a camminare curvo in avanti, Edom concentrò tutta la sua attenzione sul terreno. Altrimenti non avrebbe notato, non si sarebbe fermato a guardare il complesso e meraviglioso motivo di luce e ombra sul quale camminava. Era una quercia della California le cui foglie restavano verdi anche in inverno, sebbene ora fossero più rade rispetto alla stagione calda. L'elabo-
rata struttura dei rami, che si rifletteva intorno a lui, era un elegante e armonioso labirinto che ricopriva un mosaico di luce verde sull'erba, e qualcosa in quel disegno all'improvviso lo colpì, lo commosse, si impadronì della sua fantasia. Ebbe la sensazione di trovarsi sull'orlo di una stupefacente intuizione. Poi sollevò lo sguardo verso i rami massicci e il suo stato d'animo cambiò: la precedente sensazione lasciò immediatamente il passo al timore che uno di quegli enormi rami si spezzasse proprio in quel momento, schiacciandolo sotto una tonnellata di legno, oppure che il Big One avrebbe fatto sussultare il terreno, sradicando e rovesciando l'intera quercia. Edom tornò di corsa nel suo appartamento. 50 Dopo aver fatto il turista per tutto il mercoledì, il giorno successivo Junior cominciò a cercare un appartamento adatto a lui. Anche se adesso era ricco, non intendeva pagare la tariffa di un albergo per molto tempo. In quel periodo, le case in affitto scarseggiavano. Durante quella prima giornata di ricerca riuscì soltanto a scoprire che avrebbe dovuto pagare più di quanto si fosse aspettato anche per un alloggio decisamente modesto. Giovedì sera, la terza trascorsa in albergo, tornò nuovamente nel pianobar per un cocktail e un'altra bistecca. A intrattenere i clienti, vi era lo stesso pianista in smoking. Junior rimase in allerta, prendendo nota di tutti quelli che si avvicinavano al piano, che lasciassero o no qualche banconota nella boccia di vetro. Quando, alla fine, il pianista attaccò Qualcuno che badi a me, non sembrò che lo avesse fatto in seguito a una richiesta, perché dopo l'ultima mancia ricevuta, aveva suonato diverse canzoni. Evidentemente si trattava di un brano che faceva parte del suo repertorio. Anche l'ultima traccia di tensione abbandonò Junior. Il fatto che quella canzone avesse potuto ancora turbarlo lo lasciava piuttosto sorpreso. Trascorse il resto della cena concentrandosi solo sul futuro, il passato era stato opportunamente cancellato dalla sua mente. Fino a quando... Mentre Junior stava sorseggiando tranquillamente un brandy dopo cena, il pianista si fermò per una pausa e la conversazione tra i clienti si fece meno animata. Quando il telefono del bar squillò, a Junior sembrò di sentirlo al suo tavolo. L'apparecchio aveva una suoneria elettronica simile a quella che, la domenica sera, aveva udito nello studio di Vanadium. Junior
si sentì trasportare all'indietro in quel luogo, in quel momento. L'Ansaphone. Rivide mentalmente e con estrema chiarezza la segreteria telefonica. Quell'oggetto così strano. Posato sul ripiano della consunta scrivania in legno di pino. Nella realtà, era soltanto una scatola, un congegno molto semplice. Ma nella sua memoria, aveva qualcosa di sinistro, era carico di presagi di sventura come una bomba nucleare. Aveva ascoltato il messaggio e l'aveva considerato incomprensibile, di nessuna importanza. All'improvviso, un'intuizione gli fece comprendere che era di estrema importanza per lui, più che se fosse stata la stessa Naomi a chiamare dalla tomba per lasciare la sua testimonianza al detective. Durante quella serata così intensa, con il cadavere di Vanadium nella Studebaker e quello di Victoria in attesa di essere bruciato a casa sua, Junior era stato troppo distratto per rendersi conto della pertinenza del messaggio. Ora, da un angolo buio del suo subconscio, quelle parole continuavano a tormentarlo. Caesar Zedd insegna che qualsiasi esperienza della nostra esistenza, perfino il momento o l'azione più insignificanti, viene conservata nella nostra memoria, compresa la conversazione più stupida che abbiamo dovuto sopportare con il peggiore dei babbei. Per questo motivo, aveva scritto un libro in cui spiegava perché non dovevamo mai sopportare le persone noiose e stupide e su come potevamo liberarci di loro, offrendo centinaia di strategie per eliminarle dalla nostra vita, ricorrendo perfino all'omicidio, espediente che dichiarava di approvare, anche se solo in modo ironico. Sebbene Zedd consigli di vivere nel futuro, riconosce la necessità di ricordare con chiarezza il passato quando ciò sia assolutamente necessario. Se la memoria si ostina a relegare i ricordi nel subconscio, una delle tecniche preferite da Zedd per costringerli riaffiorare è quella di fare una doccia gelida, premendo contemporaneamente dei cubetti di ghiaccio contro i genitali, fino a quando o ci ricordiamo di ciò che vogliamo riportare alla mente, oppure veniamo colpiti da un collasso per ipotermia. Dato che si trovava nel lussuoso pianobar di quell'elegante albergo, Junior fu costretto a usare altre tecniche - e altro brandy - per fare emergere dal suo subconscio il nome della persona che aveva lasciato il messaggio sull'Ansaphone. Max. L'uomo aveva detto: Sono Max. Ora il messaggio... Qualcosa su un ospedale. Qualcuno che moriva. Un'emorragia cerebrale.
Mentre Junior si sforzava di riportare alla mente i dettagli di quel messaggio, il pianista tornò. Il primo brano fu la canzone dei Beatles I Want to Hold Your Hand, rielaborata con un tempo così lento che sembrava musica per narcolettici in vena di pomiciare. Quell'invasione della musica pop inglese, anche se trasformata, parve a Junior un chiaro segno che era arrivato il momento di andarsene. Tornato in camera, consultò l'agenda di Vanadium, che non aveva distrutto. Trovò un Max. Max Bellini. L'indirizzo era di San Francisco. Questa non era una bella scoperta. Aveva pensato che tutto ciò che riguardasse Thomas Vanadium facesse parte del passato. E adesso c'era questo inatteso collegamento con San Francisco, la città in cui Junior intendeva costruire il suo futuro. Sotto l'indirizzo di Bellini, vi erano due numeri di telefono. Il primo era indicato come lavoro, il secondo, casa. Guardò l'orologio. Le nove. Qualunque fosse l'attività svolta da Bellini, era improbabile che a quell'ora si trovasse ancora al lavoro. Decise comunque di comporre per primo il numero dell'ufficio, nella speranza di sentire un messaggio registrato in cui veniva comunicato l'orario di lavoro. Gli sarebbe stato utile venire a sapere il nome della ditta per la quale Bellini lavorava, poteva fornire qualche indicazione sull'attività di quell'uomo. Più ne sapeva su Bellini prima di chiamarlo a casa, meglio sarebbe stato. Il ricevitore venne sollevato al terzo squillo. Una roca voce maschile disse: «Omicidi». Per un attimo, Junior pensò che si trattasse di un'accusa. «Pronto?» disse l'uomo all'altro capo del filo. «Chi... chi parla?» domandò Junior. «DPSF, squadra omicidi.» «Mi scusi. Ho sbagliato numero.» Riagganciò, allontanando di scatto la mano dal telefono come se si fosse ustionato. DPSF. Dipartimento di polizia di San Francisco. Con tutta probabilità, Bellini era un detective della omicidi, proprio come Vanadium. Chiamarlo a casa non sarebbe stata una buona idea. Adesso era fondamentale che Junior ricordasse ogni parola del messaggio che Bellini aveva lasciato per il suo lontano collega dell'Oregon. Ma tutto il resto continuava a sfuggirgli.
Ogni sera, quando la cameriera ripiegava le coperte del letto e posava un mentino avvolto in carta stagnola sul cuscino, provvedeva anche a riempire il secchiello del ghiaccio. Facendo una smorfia all'idea di ciò che lo aspettava, Junior portò il secchiello in bagno. Si spogliò, aprì il rubinetto dell'acqua fredda ed entrò nella doccia. Vi rimase per un po', sperando che lo choc sarebbe stato sufficiente a far riaffiorare i ricordi. Niente da fare. Esitando, ma con la fiducia che ogni accolito deve avere nel proprio credo, Junior pescò una manciata di cubetti di ghiaccio dal secchiello e li premette contro le due parti più calde del suo corpo. Alcuni, terribili, minuti più tardi, violentemente scosso dai brividi e gemendo in preda all'autocommiserazione, ma non ancora colpito da collasso per ipotermia, Junior ricordò il resto del messaggio registrato sull'Ansaphone. Povera ragazzina... emorragia cerebrale... il bambino è sopravvissuto... Chiuse il rubinetto dell'acqua, uscì dalla doccia, si asciugò vigorosamente, indossò due paia di boxer nuovi, si infilò nel letto e tirò le coperte fin sotto il mento. Si mise a pensare. Vanadium al cimitero, una rosa bianca in mano. Mentre avanzava tra le lapidi per andare a fermarsi accanto a Junior, davanti alla tomba di Naomi. Junior gli aveva domandato a quale funerale avesse partecipato. A quello della figlia di un amico. Hanno detto che è morta in un incidente automobilistico, a San Francisco. Era anche più giovane di Naomi. Poi Junior aveva scoperto che l'amico era il reverendo White. E sua figlia... Seraphim. Sospettando che la morte non fosse stata provocata da un incidente automobilistico, evidentemente Vanadium aveva chiesto a Max Bellini di indagare. Seraphim era morta... ma il bambino era sopravvissuto. Da un calcolo molto semplice, Junior dedusse che la gravidanza di Seraphim risaliva alla sera di travolgente passione che avevano trascorso insieme nella canonica, con il sottofondo della bozza di sermone che il reverendo aveva registrato. La cara Naomi era morta mentre portava in grembo suo figlio e Seraphim era deceduta dando alla luce il suo bambino. Un impeto d'orgoglio riscaldò i coglioni gelati di Junior. Era un uomo virile, il suo seme era estremamente fertile. Questa per lui non era una sorpresa. Tuttavia si sentiva gratificato da tante conferme.
Il suo entusiasmo scemò rapidamente nel momento in cui si rese conto che il sangue forniva un'ampia gamma di prove che potevano essere presentate in tribunale. Le autorità erano state in grado di identificarlo come il padre del bambino morto insieme con Naomi. Se qualche sospetto li avesse convinti a proseguire nelle indagini, avrebbero potuto attribuirgli anche la paternità del figlio di Seraphim. Evidentemente, prima di morire, la figlia del reverendo non aveva fatto il nome di Junior, né aveva accusato qualcuno di stupro. In caso contrario, lui si sarebbe già trovato in una cella. E ora che la ragazza era morta, anche se le analisi di laboratorio avessero stabilito che Junior era il padre del bambino, non lo si poteva più accusare di nulla. La terribile minaccia che percepiva si annidava altrove. Continuò a riflettere e alla fine capì. Si rialzò a sedere nel letto, allarmato. Quasi due settimane prima, nell'ospedale di Spruce Hills, uno strano magnetismo aveva attirato Junior nell'unità neonatale e lo aveva costretto a fermarsi a osservare i neonati attraverso la vetrata. Poi, mentre fissava i piccoli nelle culle, si era sentito risucchiato da una palude di terrore che lo aveva fatto quasi impazzire. Grazie a una specie di sesto senso, si era reso conto che il misterioso Bartholomew aveva qualcosa a che fare con i neonati. Junior gettò indietro le coperte e balzò fuori del letto. Indossando unicamente i boxer, cominciò a camminare avanti e indietro nella stanza, in preda all'agitazione. Forse, se non fosse stato un ammiratore di Caesar Zedd, non sarebbe saltato da una conclusione all'altra, perché Zedd insegna che troppo spesso la società ci suggerisce di non dare alcuna importanza a determinate intuizioni, considerandole illogiche, perfino paranoiche, quando invece queste intuizioni nascono dal nostro istinto animale e rappresentano la cosa più vicina alla pura verità che avremo mai modo di conoscere. Bartholomew non aveva semplicemente qualcosa a che fare con i neonati. Bartholomew era un neonato. Seraphim White era venuta in California per metterlo al mondo in modo da evitare una situazione imbarazzante ai suoi genitori e alla loro congregazione. Lasciando Spruce Hills, Junior aveva pensato di mettere una certa distanza tra sé e questo enigmatico nemico, per avere il tempo di esaminare l'elenco telefonico della contea e organizzare diversamente la sua ricerca
nel caso che la strada intrapresa non lo avesse condotto da nessuna parte. E invece lui era andato a finire proprio nella tana del suo avversario. I figli di madri nubili - soprattutto di madri nubili morte, e in particolar modo di madri nubili morte i cui padri erano pastori incapaci di sopportare una pubblica umiliazione - venivano abitualmente dati in adozione. Dato che Seraphim aveva partorito lì, il bambino sarebbe stato - sicuramente era già stato - adottato da una famiglia che abitava nell'area di San Francisco. Mentre Junior continuava a spostarsi da un capo all'altro della stanza, la sua paura lasciò il posto alla collera. Tutto quello che voleva era pace, la possibilità di crescere come persona, l'opportunità di migliorarsi. E adesso questo. Non era giusto, non era corretto. Quella persecuzione lo faceva fremere d'ira. La logica tradizionale suggeriva che un neonato di non più di due settimane non poteva rappresentare una seria minaccia per un uomo adulto. A Junior non mancava certo la logica tradizionale, tuttavia, in questo caso, riconobbe la superiore saggezza della filosofia di Zedd. La sua paura di Bartholomew e la sua viscerale animosità nei confronti di un bambino che non aveva mai conosciuto sfidavano la ragione e andavano al di là della semplice paranoia; di conseguenza, doveva trattarsi del più puro e infallibile istinto animalesco. Il piccolo Bartholomew si trovava a San Francisco. Doveva essere trovato. Doveva essere eliminato. Junior si mise a studiare un piano d'azione per rintracciare il bambino e, alla fine, si sentì così accaldato per la rabbia che cominciò a sudare e fu costretto a togliersi un paio di boxer. 51 L'esile corpo di Perri, martoriato dalla polio, non mise certo a dura prova la forza di chi trasportò la bara. Il reverendo pregò per la sua anima, gli amici piansero la sua perdita e la terra accolse la sua salma. Paul Damascus aveva ricevuto numerosi inviti a cena. Tutti pensavano che non dovesse restare da solo in quella sera così triste. Ma lui preferì la solitudine. Trovava insopportabile il cordoglio degli amici, era come ricordargli costantemente che Perri non c'era più. Dato che per andare dalla chiesa al cimitero si era fatto dare un passaggio da Hanna, la sua governante, decise di tornare a casa a piedi. Tra il nuovo letto di Perri e quello vecchio c'erano meno di cinque chilometri e il
pomeriggio era abbastanza tiepido. Non aveva più alcuna ragione di fare regolarmente del movimento. Per ventitré anni, aveva avuto bisogno di mantenersi in forma per poter far fronte a tutte le sue responsabilità, ma adesso le uniche responsabilità di cui gli importava non gravavano più sulle sue spalle. Camminare invece che spostarsi in macchina adesso non era altro che una questione di abitudine. E, facendo una passeggiata, poteva anche posticipare il suo arrivo in una casa che ora gli era diventata estranea, una casa in cui, da lunedì, ogni rumore che faceva sembrava riecheggiare come in un'enorme caverna. Quando si accorse che il crepuscolo era arrivato e se ne era andato, capì di aver attraversato tutta Bright Beach, di essersi diretto a sud, lungo la Pacific Coast Highway e di essere arrivato nella città vicina. Doveva aver camminato per più di quindici chilometri. Ricordava solo vagamente la strada percorsa. Ma questo non gli sembrò strano. Fra le molte cose che ormai non importavano più, vi erano i concetti di distanza e di tempo. Fece dietrofront, tornò a Bright Beach e andò a casa. La villetta era vuota, silenziosa. Hanna lavorava solo di giorno. Nellie Oatis, l'assistente di Perri, non era più alle loro dipendenze. Il soggiorno aveva smesso di essere utilizzato anche come camera. Il letto d'ospedale di Perri era stato portato via. Quello di Paul lo avevano portato in una camera al piano superiore dove lui, nelle ultime tre notti, aveva tentato di dormire. Salì al primo piano per togliersi il completo blu scuro e le scarpe nere e lucidate alla bell'e meglio. Sul comodino trovò una busta che Hanna doveva aver posato dopo averla tolta dalla tasca del camice da farmacista che Paul le aveva consegnato perché lo lavasse. La busta conteneva la lettera su Agnes Lampion che Paul aveva scritto al reverendo White. Non aveva avuto l'opportunità di leggerla a Perri, né di ascoltare la sua opinione. Ora, mentre dava una rapida scorsa a quanto aveva scritto con la sua elegante calligrafia, quelle parole gli apparvero sciocche, inopportune, confuse. Per un attimo pensò di strappare la lettera e di gettarla via, ma sapeva che le sue sensazioni erano offuscate dal dolore e che ciò che aveva scritto poteva sembrargli giusto se riesaminato in un momento di maggiore serenità. Infilò nuovamente la lettera nella busta e la conservò nel cassetto del
comodino. In quel cassetto vi era anche una pistola che teneva per autodifesa. Rimase a fissarla, cercando di decidere se doveva scendere al pian terreno e prepararsi un panino, o uccidersi. Paul estrasse la pistola dal cassetto. L'arma non lo faceva sentire forte e sicuro, come invece avveniva quando a stringerla erano le mani di un eroe da romanzo. Temeva che il suicidio fosse un biglietto per l'inferno e sapeva che, in quel regno sotterraneo, non avrebbe trovato ad aspettarlo l'anima innocente di Perri. Aggrappandosi alla disperata speranza di una riunione finale, ripose la pistola, scese in cucina e si preparò un panino al formaggio: cheddar con cetriolini. 52 IL detective privato Nolly Wulfstan aveva i denti di un dio e un viso così disgraziato da dimostrare in modo convincente che non esisteva alcuna divinità benevola. Bianchi come un inverno vichingo, quei magnifici denti, e dritti come le file di chicchi nelle pannocchie di granoturco sul grande tavolo di Odino. Stupende superfici occlusali. Meravigliosi incisivi. Premolari perfettamente allineati tra i molari e i canini. Prima di diventare fisioterapeuta, Junior aveva preso in considerazione l'idea di studiare da dentista. Ma aveva cambiato idea perché non sopportava l'alitosi provocata dalle gengive malate, tuttavia era ancora in grado di apprezzare una dentatura straordinaria come quella. Anche le gengive di Nolly erano una meraviglia: sode, rosee, nessun segno di ritrazione, aderenti al colletto di ogni dente. Quella perfezione non era unicamente opera della natura. Con la cifra che Nolly doveva aver speso per ottenere un simile sorriso, il fortunato dentista aveva ricoperto di gioielli la sua amante per diversi anni. Sfortunatamente, quel sorriso non faceva che enfatizzare, per contrasto, gli orribili difetti del volto dal quale splendeva. Bitorzoluto, butterato, cosparso di verruche, annerito da una perenne ombra di barba bluastra, la sua bruttezza superava la capacità di restauro del miglior chirurgo plastico al mondo, il che senza alcun dubbio spiegava per quale motivo Nolly avesse
investito le sue sostanze unicamente nella dentatura. Cinque giorni prima, ritenendo che un avvocato senza scrupoli avrebbe saputo come trovare un investigatore privato altrettanto privo di scrupoli anche al di là dei confini dello stato, Junior aveva telefonato a Simon Magusson, a Spruce Hills, perché gli raccomandasse qualcuno di sua fiducia. Evidentemente esisteva una specie di confraternita dei brutti senza speranza, i cui membri si scambiavano i clienti. Magusson... testa enorme, orecchie piccole e occhi sporgenti... aveva suggerito a Junior il nome di Nolly Wulfstan. Curvo sulla scrivania, sporgendosi in avanti con aria cospiratoria, gli occhi porcini che brillavano come quelli di un orco che stesse rivelando la sua ricetta preferita per cucinare i bambini, Nolly disse: «Sono in grado di confermare i suoi sospetti». Quattro giorni prima, Junior si era presentato nello studio dell'investigatore, proponendogli un'indagine che avrebbe potuto mettere a disagio un suo più rispettabile collega. Aveva bisogno di sapere se, all'inizio di quel mese, Seraphim White avesse partorito in un ospedale di San Francisco e dove poteva trovare il bambino. Dato che non aveva intenzione di rivelare in che modo fosse collegato a Seraphim e non voleva inventarsi una storia qualsiasi perché un esperto investigatore avrebbe capito subito che stava mentendo, l'interesse di Junior nel bambino non poteva che apparire sinistro. «La signorina White è stata ricoverata al St. Mary's la sera del 5 gennaio scorso», spiegò Nolly, «a causa di una grave ipertensione provocata dalla gravidanza.» Non appena Junior aveva visto l'edificio in cui Nolly aveva il suo studio nel quartiere di North Beach - una vecchia palazzina di tre piani, in mattoni, che al pianterreno ospitava uno squallido locale di spogliarelli - aveva capito immediatamente di aver trovato il tipo di segugio di cui aveva bisogno. Lo studio del'investigatore si trovava alla fine di sei rampe di scale anguste - niente ascensore - in fondo a un tetro corridoio dal linoleum consunto e le cui pareti erano macchiate da qualcosa su cui era meglio non indagare. L'aria odorava di disinfettante a buon mercato, di fumo di sigarette, di birra rancida e di speranze deluse. «Nelle prime ore del 7 gennaio», proseguì Nolly, «la signorina White è morta di parto, proprio come lei aveva immaginato.» Lo studio dell'investigatore - una minuscola sala d'attesa e un piccolo ufficio - mancava di una segretaria, ma sicuramente pullulava di animali, in-
setti e parassiti vari. Seduto in una poltroncina, dall'altra parte della scrivania bruciacchiata dalle sigarette di Nolly, Junior sentì o pensò di sentire dietro di sé un fruscio di zampette di roditore e qualcosa che masticava carta all'interno di un paio di armadietti metallici corrosi dalla ruggine. Più di una volta si passò la mano sulla nuca o allungò un braccio per strofinarsi le caviglie, convinto di avere addosso degli insetti «Il bambino», continuò Nolly, «è stato affidato al Catholic Family Services perché venisse dato in adozione.» «Ma la ragazza era battista.» «È vero, ma dato che l'ospedale è cattolico, viene offerta questa opportunità a tutte le ragazze madri, indipendentemente dalla loro religione.» «E allora, dov'è adesso il piccolo?» Quando Nolly sospirò e corrugò la fronte, il suo viso bitorzoluto sembrò sul punto di scivolargli dal cranio, come una crema d'avena che scivola dal cucchiaio. «Signor Cain, per quanto mi dispiaccia, temo che dovrò restituirle metà dell'anticipo che mi ha dato.» «Perché?» «Per legge, i dati relativi a un'adozione non possono essere rivelati e il segreto viene mantenuto così gelosamente che per lei sarebbe più facile ottenere l'elenco completo degli agenti della Cia sparsi in tutto il mondo che riuscire a trovare questo bambino.» «Però lei è riuscito a vedere i registri dell'ospedale...» «No. Le informazioni che le ho dato provengono dallo studio del medico legale, che ha redatto il certificato di morte. Ma anche se potessi dare un'occhiata ai registri del St. Mary's, non vi troverei il benché minimo indizio sulla famiglia a cui il Catholic Family Services ha affidato il bambino.» Junior aveva previsto che, in un modo o nell'altro, ci sarebbe stato qualche problema, ed estrasse da una tasca interna della giacca alcune frusciami banconote da cento dollari. Il fascio di banconote era ancora sigillato dalla fascetta della banca, sulla quale era stampata la cifra $10.000. Junior posò il denaro sulla scrivania. «Veda di accedere ai registri del Family Services.» L'investigatore fissò le banconote con l'avidità di un ghiottone che guarda una torta di crema e con l'intensità di un satiro che ha adocchiato una bionda nuda. «Impossibile. Il loro sistema è maledettamente integerrimo. Sarebbe come chiedermi di entrare a Buckingham Palace e di portar fuori
un paio di mutande della regina.» Junior si chinò in avanti e fece scivolare la mazzetta sul ripiano della scrivania, verso l'investigatore. «In banca, ne ho ancora.» Nolly scosse la testa, facendo ballonzolare una serie di nei e verruche sul collo dalla pelle cadente. «Provi a chiederlo a qualsiasi adottato che, una volta diventato adulto, abbia cercato di conoscere il nome dei suoi veri genitori. È più facile trascinare con i denti un treno su per la montagna.» Tu ce li hai i denti per farlo, pensò Junior, ma si trattenne dal dirlo. «Non può essere un vicolo cieco.» «Lo è.» Da un cassetto della scrivania, Nolly estrasse una busta che posò sopra il mazzo di banconote. «Le restituisco cinquecento dei mille dollari che mi aveva anticipato.» E spinse tutto il denaro verso Junior. «Perché non mi ha detto subito che era impossibile avere questa informazione?» L'investigatore scrollò le spalle. «La ragazza poteva aver partorito in un ospedale di terza categoria, di quelli che hanno un personale meno attento e che sono meno scrupolosi nel tenere segreti i dati dei pazienti. Oppure il bambino poteva essere stato dato in adozione attraverso una di quelle agenzie che operano unicamente per denaro. In questi casi, ci sarebbe stata la possibilità di scoprire qualcosa. Ma non appena ho scoperto che si trattava del St. Mary's, ho capito che non c'era niente da fare.» «Se esistono delle pratiche, allora è possibile ottenerle.» «Non sono uno scassinatore, signor Cain. Nessun cliente possiede abbastanza denaro da farmi rischiare la prigione. Inoltre, anche se lei riuscisse a rubare quei documenti, probabilmente scoprirebbe che l'identità dei bambini è in codice e quindi sarebbe al punto di partenza.» «Tutto ciò è estremamente inadeguato», commentò Junior, ricordando di aver sentito quella parola durante un corso di miglioramento del vocabolario, e senza bisogno di applicarsi del ghiaccio sui genitali. «Che cosa?» domandò l'investigatore che, a eccezione dei suoi denti, non si era migliorato in alcun modo. «Insufficiente», spiegò Junior. «Capisco cosa intende dire. Vede, signor Cain, non volterei mai le spalle a tutto quel mucchio di denaro se ci fosse un solo, dannato modo di guadagnarmelo.» Nonostante il suo abbagliante splendore, il sorriso del detective era melanconico, il che confermava la sua sincerità quando asseriva che non gli
era possibile arrivare al bambino di Seraphim. Dopo aver percorso il corridoio dal linoleum consunto e sceso le sei rampe di scale, uscendo in strada Junior scoprì che aveva cominciato a piovigginare. Quando sollevò il viso verso il cielo, il pomeriggio sembrò farsi ancora più scuro, e la città fredda e umida che da qualche parte, tra le sue pieghe, nascondeva il piccolo Bartholomew, non gli apparve più come un faro di cultura e di eleganza, ma un regno ostile e pericoloso, come mai gli era apparso prima d'allora. In confronto, il locale di spogliarello - con i neon accesi e le luci che scintillavano - aveva un'aria calda, intima. Invitante. L'insegna prometteva ballerine in topless. Sebbene Junior si trovasse a San Francisco da più di una settimana, non aveva ancora avuto modo di godere di questa forma d'arte così all'avanguardia. Ebbe la tentazione di entrare. C'era un problema: con tutta probabilità, Nolly Wulfstan, il Quasimodo senza gobba, una volta finito di lavorare faceva un salto in quel locale per mandar giù un paio di birre, perché sicuramente quello era per lui l'unico modo di avvicinarsi a una donna attraente. L'investigatore avrebbe pensato che lui e Junior si trovavano lì per lo stesso motivo - per guardare con aria vogliosa le ragazze quasi nude e immagazzinare abbastanza immagini di seni ballonzolanti da riuscire a superare la notte - e non avrebbe capito che per Junior l'attrazione consisteva nella danza, nell'eccitazione intellettuale di assistere a un nuovo fenomeno culturale. Frustrato a più livelli, Junior si affrettò a raggiungere il parcheggio, a un isolato di distanza dallo studio dell'investigatore, dove aveva lasciato la sua nuova Chevrolet Impala decappottabile. L'auto, color rosso lacca, era ancora più bella bagnata dalla pioggia di quanto fosse apparsa nell'autosalone, lucida e nuova di zecca. Ma nonostante la sua lucentezza, la potenza del motore e il comfort, la macchina non riuscì a risollevare lo spirito di Junior mentre girovagava su e giù per le colline della città. Da qualche parte, tra quelle strade bagnate e scintillanti, in quelle case e nei grattacieli che si aggrappavano ai ripidi pendii in attesa di un terremoto, il bambino se ne stava al sicuro: mezzo negro, mezzo bianco, ma una minaccia completa per Junior Cain. 53 Nolly si sentiva un po' sciocco a ripararsi dalla pioggia sotto un ombrello
bianco a pois rossi, mentre camminava per le squallide stradine di North Beach. Ma l'importante era non bagnarsi e, per Nolly, le considerazioni pratiche avevano sempre la meglio sulle questioni di immagine e di stile. Sei mesi prima, un cliente distratto aveva lasciato l'ombrello nel suo studio. Se non fosse stato per questo, Nolly non avrebbe avuto neppure un ombrello. Era un buon investigatore, ma per ciò che riguardava le piccole cose della vita quotidiana non era una persona organizzata come avrebbe voluto essere. Dimenticava sempre di mettere da parte le calze bucate per farle rammendare, e una volta aveva portato un cappello con il foro di un proiettile per quasi un anno prima di decidersi a comprarne uno nuovo. Ormai non erano in molti a portare il cappello. Fin da quando era un ragazzino, Nolly aveva sempre avuto un debole per quelli a cupola piatta e falda rialzata. Spesso a San Francisco faceva freddo e lui aveva cominciato a perdere i capelli quando era ancora giovane. Il proiettile era stato sparato da un poliziotto corrotto che era tanto un bastardo quanto un pessimo tiratore. La sua intenzione era stata di colpire Nolly all'inguine. Ormai erano passati dieci anni, e quella era stata la prima e l'ultima volta che qualcuno aveva sparato a Nolly. Il vero lavoro di un investigatore privato non aveva nulla a che fare con le vicende esaltanti che si vedono in televisione e che si leggono nei libri. La sua era una professione con pochi rischi e con molto lavoro noioso, di routine, sempre che uno usasse il buonsenso nello scegliere i clienti - il che significava stare alla larga da gente come Enoch Cain. Nolly arrivò al Tollman Building, che si trovava quattro isolati dal suo studio e sorgeva in una strada più elegante. Costruito negli anni Trenta, l'edificio aveva uno stile vagamente Art Déco. Le parti comuni avevano i pavimenti in travertino e una parete dell'atrio era ravvivata da un murale che celebrava l'era della macchina. Al quarto piano, la porta dello studio del dottor Klerkle era socchiusa. Ormai non era più orario di visite e la piccola sala d'aspetto era deserta. Dalla saletta si accedeva a tre stanze altrettanto modeste. Due contenevano un completo riunito dentistico e nella terza si dividevano l'angusto spazio il medico e la sua assistente. Se Kathleen Klerkle fosse stata un uomo, avrebbe avuto uno studio più spazioso in un edificio più recente e in una zona della città più elegante. Era più cortese e rispettosa del benessere del paziente di tutti i dentisti ma-
schi che Nolly avesse mai conosciuto ma, nella sua professione, i pregiudizi rappresentavano ancora un ostacolo per le donne. Mentre Nolly appendeva l'impermeabile e il cappello a un attaccapanni in corridoio, Kathleen Klerkle apparve sull'uscio della saletta più vicina. «Sei pronto a soffrire?» «Sono nato umano, o no?» Si accomodò tranquillamente nella poltrona da dentista. «Per quello che devo fare, basterà solo un po' di novocaina», spiegò lei, «così non avrai la bocca intorpidita per cena.» «Come ci si sente a far parte di un momento così storico?» «In confronto a questo, l'atterraggio di Lindbergh in Francia non è stato nulla di straordinario.» La dottoressa tolse una capsula temporanea dal secondo premolare in basso a sinistra e la sostituì con quella in porcellana arrivata dal laboratorio quella mattina. A Nolly piaceva osservarle le mani mentre lavorava. Erano sottili, aggraziate, le mani di un'adolescente. Gli piaceva anche il suo volto. Non si truccava e portava i capelli raccolti in una crocchia. Qualcuno avrebbe potuto dire che somigliava a un topino, ma le uniche cose da topino che Nolly vedeva in lei erano la punta all'insù del naso e un certo modo di muoversi, rapido e leggiadro. Una volta terminato il lavoro, gli porse uno specchio, in modo che lui potesse ammirare il suo nuovo premolare incapsulato. Dopo cinque anni di cure dentistiche, distanziate in modo da non mettere troppo duramente alla prova la capacità di sopportazione di Nolly, Kathleen era riuscita a far bene ciò che la natura aveva fatto male, donandogli una chiusura perfetta e uno strabiliante sorriso. Quella capsula rappresentava il tocco finale della ricostruzione. La dottoressa si sciolse i capelli e li spazzolò, e Nolly la portò a cena nel loro ristorante preferito, che aveva l'arredamento di un locale di classe e una vista della baia degna del tavolo di Dio. Cenavano in quel ristorante abbastanza spesso, tanto che il mattre li conosceva personalmente, così come il loro cameriere. Nolly era, come sempre, «Nolly» per tutti, ma qui Kathleen era la «signora Wulfstan.» Ordinarono dei Martini, poi quando Kathleen, dopo aver letto attentamente il menù, domandò al marito che cosa pensava fosse il caso di ordinare, lui suggerì: «Ostriche?»
«Giusto, ne avrai proprio bisogno.» Il suo sorriso non somigliava per nulla a quello di un topo. Mentre sorseggiavano i Martini ben freddi, lei gli domandò del cliente e Nolly rispose: «Si è bevuto la storia. Non lo vedrò mai più». I dati sull'adozione della figlia di Seraphim White non erano tenuti segreti per legge, perché la custodia della bambina era stata affidata alla famiglia. «E che cosa succede se scoprirà la verità?» si preoccupò Kathleen. «Penserà soltanto che, come investigatore, sono un incapace. Se mai si dovesse presentare chiedendo indietro i suoi cinquecento dollari, glieli darò.» Il tavolo era rischiarato da una candela in una coppa di vetro color ambra. In quel tremolo luccichio, a Nolly il viso di Kathleen sembrava più luminoso della stessa fiammella. Erano stati presentati l'uno all'altra quando, entrambi amanti del ballo, si erano trovati nella necessità di cercarsi un partner per una gara di foxtrot e di swing. Nolly aveva cominciato a prendere lezioni di ballo cinque anni prima di conoscere Kathleen. «Ma, alla fine, quel tizio ti ha detto perché voleva trovare la bambina?» domandò lei. «No. Ma dall'impressione che mi ha fatto quell'uomo, sarà meglio per quella piccola non farsi mai trovare da lui.» «Perché è così sicuro che si tratti di un maschietto?» volle sapere Kathleen. «Non lo so. E io non gli ho detto che si sbagliava. Meno ne sa, meglio è. Non riesco a immaginare quali siano le sue motivazioni, ma se tu stessi cercando di rintracciare quel tizio seguendo le sue impronte, dovresti cercare quelle di zoccoli fessi.» «Stai attento, Sherlock.» «Non mi fa paura», la rassicurò Nolly. «Nessuno te ne fa. Ma i cappelli che piacciono a te non costano poco.» «Mi ha offerto diecimila dollari per scassinare gli archivi del Catholic Family Services.» «E tu gli hai detto che la tua tariffa normale era di ventimila?» Più tardi, a casa, nel loro letto, dopo che Nolly aveva dimostrato l'efficacia delle ostriche, lui e Kathleen rimasero sdraiati, tenendosi per mano. Dopo essere rimasti tranquillamente in silenzio per un po', lui disse: «È un mistero».
«Che cosa?» «Il motivo per cui stai con me.» «Gentilezza, cortesia, umiltà, forza.» «E questo è sufficiente?» «Che sciocco.» «Cain sembra un divo del cinema.» «Ha dei bei denti?» domandò Kathleen. «Sono belli. Ma non perfetti.» «Allora baciami, signor Perfetto.» 54 Ogni madre crede che suo figlio sia di una bellezza straordinaria. Rimarrà ferma in questa sua convinzione anche se vivesse fino a cent'anni e suo figlio fosse devastato da otto, impietose decadi di gravità ed esperienza. Ogni madre è anche convinta che suo figlio sia più intelligente degli altri bambini. Purtroppo, il tempo e le scelte che il figlio farà nella vita spesso la costringeranno a modificare la sua opinione, cosa che invece non farà mai riguardo alla bellezza fìsica. Mese dopo mese, nel corso del primo anno, la convinzione che Barty fosse dotato di un'intelligenza eccezionale ricevette solo conferme. Alla fine del secondo mese di vita, quasi tutti i neonati a un sorriso rispondono con un sorriso, e solo al quarto mese imparano a farlo spontaneamente. Ma Barty aveva incominciato a sorridere spesso quando aveva solo due settimane. A tre mesi, molti neonati imparano a fare grandi risate, ma questo Barty lo faceva già durante la sesta settimana. All'inizio del terzo mese, invece che alla fine del quinto, era in grado di combinare vocali e consonanti: «ba-ba-ba, ga-ga-ga, la-la-la, ca-ca-ca». Disse la parola mamma alla fine del quarto mese, invece che al settimo, ed era evidente che ne comprendeva il significato. Ripeteva la parola ogni volta che desiderava richiamare l'attenzione di Agnes. A cinque mesi, invece che a otto, sapeva già giocare a «cù-cù» e a sei mesi stava in piedi, reggendosi a qualcosa. Secondo i conti di Agnes, a undici mesi, il suo vocabolario comprendeva diciannove parole, un'età in cui anche un bambino precoce di solito riesce a pronunciarne al massimo tre o quattro. La prima parola dopo mamma, fu papà; Agnes gliela aveva insegnata mostrandogli contemporaneamente le fotografie di Joey. La terza parola:
torta. Il nome di Edom diventò E-bomb. Maria si trasformò in Mi-a. Quando Bartholomew disse per la prima volta «Ja-bob», tenendo la manina verso lo zio, Jacob stupì Agnes mettendosi a piangere di gioia. Barty cominciò a trotterellare a dieci mesi, a camminare con sicurezza a undici. A dodici mesi, non usava più i pannolini e ogni volta che aveva necessità di usare il suo vasino colorato, annunciava a tutti con orgoglio: «Barty pupù». Il 1° gennaio 1966, quando mancavano cinque giorni al primo compleanno di Barty, Agnes lo sorprese mentre, nel box, era impegnato a giocare in modo insolito con le dita dei piedini. Non stava semplicemente solleticando o tirando a caso le dita. Con l'indice e il pollice, stringeva saldamente il mignolo del piede sinistro passando successivamente da un dito all'altro fino all'alluce. Poi spostò l'attenzione sul piede destro e cominciò a pizzicare per primo l'alluce procedendo sistematicamente verso il dito più piccolo. Durante tutta questa operazione, Barty mantenne un'espressione solenne e pensierosa. Dopo aver pizzicato il decimo dito, si fermò a fissarlo con la fronte aggrottata. Sollevò una manina di fronte al viso, studiandone le dita. Poi l'altra mano. Pizzicò tutte le dita a una a una, nello stesso ordine di prima. Poi le pizzicò di nuovo, sempre nello stesso ordine. Per quanto folle, Agnes ebbe l'impressione che le stesse contando, anche se, naturalmente, alla sua età non poteva neppure capire che cosa fossero i numeri. «Tesoro», disse, accovacciandosi accanto al box e osservando il bambino attraverso le sbarre, «che cosa stai facendo?» Barty sorrise e sollevò un piede. «Quello è il tuo alluce», spiegò lei. «Alluce», ripeté immediatamente il bambino con la sua vocina pigolante. Per lui, quella era una parola nuova. Infilando una mano tra le sbarre, Agnes solleticò l'alluce roseo del piedino sinistro. «Alluce.» Barty ridacchiò. «Alluce.» «Sei proprio un ragazzino intelligente, Barty.» Il bambino indicò i suoi piedi. «Alluce, alluce, alluce, alluce, alluce, al-
luce, alluce, alluce, alluce, alluce.» «Un ragazzino intelligente, ma non ancora un grande oratore.» Sollevando una mano, agitando le dita, Barty ripeté: «Alluce, alluce, alluce, alluce, alluce». «Dita», lo corresse Agnes. «Alluce, alluce, alluce, alluce, alluce.» «Be', forse sono io che ho torto.» Cinque giorni dopo, la mattina del compleanno di Barty, mentre Agnes ed Edom erano in cucina a preparare i pacchi per le famiglie bisognose, pacchi che le avevano procurato il nome di «Signora delle Torte», Barty se ne stava seduto nel seggiolone e mangiava un wafer alla vaniglia leggermente imbevuto di latte. Ogni volta che gli cadeva una briciola, il bambino la raccoglieva dal ripiano davanti a sé e la portava accuratamente alla bocca. Allineate sul tavolo della cucina vi erano numerose torte di mele e uva. La spessa crosta che le ricopriva, dai bordi profondamente scanalati, era come l'oro rosso di una moneta preziosa. Indicando il tavolo, Barty disse: «Torta, torta, torta, torta, torta, torta, torta, torta». «Non sono tue», lo ammonì Agnes. «Nel frigorifero, ce n'è una anche per noi.» «Torta, torta, torta, torta, torta, torta, torta, torta», ripeté Barty con lo stesso tono soddisfatto che usava annunciando: «Barty pupù». «Non si comincia la giornata mangiando torta», spiegò Agnes. «Avrai la torta dopo cena.» Puntando il dito verso il tavolo a ogni ripetizione della parola, Barty insisté allegramente: «Torta, torta, torta, torta, torta, torta, torta, torta». Voltando le spalle alla scatola che stava riempiendo, Edom corrugò la fronte e disse: «Non pensi che...» Agnes lanciò un'occhiata al fratello. «Pensare che cosa?» «Non può essere», decise Edom. «Torta, torta, torta, torta, torta, torta, torta, torta.» Edom prese due torte dal tavolo e le posò sul ripiano accanto ai forni. Dopo aver seguito i movimenti dello zio, Barty tornò a guardare il tavolo. «Torta, torta, torta, torta, torta, torta.» Edom spostò altre due torte dal tavolo al ripiano. Puntando il dito quattro volte in direzione del tavolo, Barty disse: «Tor-
ta, torta, torta, torta». Sebbene le tremassero le mani e sentisse che le ginocchia stavano per cederle, Agnes tolse altre due torte dal tavolo. Puntando il dito verso i due dolci rimasti, Barty annunciò: «Torta, torta». Agnes posò nuovamente quelle che aveva tolto dal tavolo. «Torta, torta, torta, torta.» Barty le rivolse un grande sorriso. Sbalordita, Agnes fissò il figlio a bocca aperta. Il groppo che sentiva in gola e che le impediva di parlare era in parte di orgoglio, in parte di meraviglia e in parte di paura, anche se non comprese immediatamente per quale motivo questa straordinaria precocità dovesse spaventarla. Uno, due, tre, quattro... Edom spostò tutte le torte rimaste. Con un dito, indicò Barty, poi il tavolo vuoto. Barty sospirò come se fosse deluso. «Niente torte.» «Oh, Signore», mormorò Agnes. «Un altro anno», commentò Edom, «e sarà Barty a guidare la macchina per accompagnarti in giro, non più io.» Improvvisamente Agnes capì il motivo della sua paura: suo padre aveva spesso affermato che il tentativo di eccellere in un campo qualsiasi era un peccato che un giorno sarebbe stato duramente punito. A suo modo di vedere, tutte le forme di divertimento erano peccaminose e coloro che cercavano anche il più semplice dei piaceri erano anime dannate; tuttavia, i peggiori peccatori erano quelli che desideravano divertire gli altri, perché traboccavano d'orgoglio, ambivano a mettersi in evidenza, anelavano a trasformarsi in false divinità, per essere lodati e adorati come soltanto Dio dovrebbe essere adorato. Gli attori, i musicisti, i cantanti, i romanzieri erano condannati all'inferno proprio per aver creato qualcosa che, nella loro egomania, consideravano alla pari con l'opera del Creatore. Quindi, cercare di eccellere in qualcosa stava a indicare un animo corrotto, sia che si desiderasse essere riconosciuti come un ottimo falegname, o un meccanico, o un coltivatore di rose da esposizione. Secondo suo padre, il talento non era un dono di Dio, ma del diavolo, e ci veniva offerto allo scopo di distrarci dalla preghiera, dalla penitenza e dal dovere. Naturalmente, se nessuno eccelleva in qualcosa, non ci sarebbero stati nemmeno la civiltà, il progresso, la gioia; Agnes rimase sorpresa nel constatare che la filosofia di suo padre fosse incisa così profondamente nel suo subconscio, tanto da farla preoccupare senza motivo. Era convinta di essersi totalmente liberata della sua influenza. Se il suo meraviglioso bambino era destinato a eccellere in qualcosa, lei
avrebbe ringraziato Dio per questo talento e avrebbe fatto tutto ciò che poteva per aiutarlo a realizzare il suo destino. Si avvicinò al tavolo della cucina e passò lievemente la mano su tutta la superficie, per sottolineare il fatto che era vuoto. Barty seguì il movimento della mano, sollevò lo sguardo, la fissò negli occhi, ebbe un attimo di esitazione, poi domandò: «Niente torta?» «Esatto», esclamò lei, sorridendogli. Lasciandosi inondare da quel sorriso, il bambino esclamò: «Niente torta!» «Niente torta!» concordò Agnes. Poi gli prese la testa tra le mani e gli riempì il viso di baci. 55 Per gli americani di origine cinese - e a San Francisco abitava una vasta comunità cinese - il 1965 era l'Anno del Serpente. Per Junior Cain, era l'Anno della Pistola, anche se non era iniziato in quel modo. Il suo primo anno a San Francisco fu ricco di eventi per la nazione e per il mondo intero. Morì Winston Churchill. Gli Stati Uniti lanciarono il loro primo attacco aereo contro il Vietnam del Nord e, durante quel conflitto, Lyndon Johnson portò il numero dei combattenti a centocinquantamila uomini. Vi fu la prima passeggiata nello spazio da parte di un cosmonauta sovietico. Violente sommosse razziali sconvolsero Watts per cinque, terribili giorni. Venne definitivamente approvata la Legge per il diritto di voto del 1965. Sandy Koufax, un giocatore dei Dodgers di Los Angeles, giocò una partita perfetta, durante la quale nessun battitore raggiunse la prima base. Morì anche T.S. Eliot, e Junior acquistò una delle opere del poeta attraverso il Club del libro. Scomparvero altre persone famose: Stan Laurel, Nat King Cole, Le Corbusier, Albert Schweitzer, Somerset Maugham... Indira Gandhi fu la prima donna a essere eletta primo ministro in India e i Beatles continuavano ad avere un inspiegabile e irritante successo. A parte il fatto di aver acquistato il libro di T.S. Eliot, che non aveva avuto il tempo di leggere, Junior era stato solo marginalmente interessato agli eventi in corso, perché, dopo tutto, erano in corso mentre lui cercava sempre di concentrarsi sul futuro. Per lui, le notizie del giorno rappresentavano soltanto una debole musica di sottofondo, come una canzone trasmessa da una radio in un altro appartamento. Abitava sulla Russian Hill, in un lussuoso edificio rivestito di calcare
con incisioni in stile vittoriano. Il suo appartamento era composto da una camera, un'ampia cucina con una zona pranzo e un vasto soggiorno le cui finestre si affacciavano sulla tortuosa Lombard Street. Il ricordo della casa spartana di Thomas Vanadium non aveva ancora abbandonato la mente di Junior e lui aveva deciso di arredare il suo appartamento secondo lo stile del detective. Aveva acquistato il minimo indispensabile di mobili, anche se tutti nuovi e di qualità superiore rispetto alla robaccia di casa Vanadium: lucidi, moderni, danesi - legno di pecan e morbide imbottiture grigie. Le pareti erano nude. Nell'appartamento, l'unica opera d'arte era una scultura. Junior stava seguendo dei corsi universitari di critica dell'arte e visitava quasi ogni giorno le innumerevoli gallerie, approfondendo e affinando costantemente le sue conoscenze. Non voleva acquistare una collezione fino a quando non fosse stato esperto tanto quanto il direttore di un qualsiasi museo della città. L'unico pezzo che aveva comprato era opera di un giovane scultore locale, Bavol Poriferan, su cui tutti gli artisti del paese concordavano nel dire che era destinato a una lunga e significativa carriera. La scultura gli era costata più di novemila dollari, una vera follia per un uomo che cercava di vivere con gli interessi del denaro così faticosamente conquistato e prudentemente investito ma, per chi se ne intendeva, la presenza di quella scultura nel suo soggiorno lo identificava immediatamente come persona di gusto e di notevole sensibilità. La statua, alta più di un metro e ottanta, rappresentava una donna nuda ed era composta da pezzi di metallo, in parte arrugginito o comunque corroso. I piedi erano fatti di ruote dentate di varie dimensioni e di lame piegate di mannaie rotte. Pistoni, tubi e filo spinato formavano le gambe. Aveva un busto prosperoso: pignatte martellate come seni, cavatappi al posto dei capezzoli. Le mani, formate dai denti di un rastrello, erano incrociate con aria di difesa sul petto deforme. Nel viso ricavato da forchette piegate e lame di ventilatore, le orbite vuote e nere trasmettevano una spaventosa sofferenza e la bocca spalancata accusava il mondo con un silenzioso ma profondo grido d'orrore. A volte, quando Junior tornava a casa dopo una giornata di visite alle gallerie o una serata al ristorante, la Donna Industriale - titolo che le aveva dato l'artista - lo terrorizzava, facendogli passare tutto il buonumore. Spesso, si era ritrovato a lanciare un urlo, prima di rendersi conto che si trattava soltanto del suo prezioso Poriferan.
Svegliandosi da un brutto sogno, a volte gli sembrava di udire il movimento a scatti delle ruote dentate dei piedi. Lo stridore e il cigolio delle giunture di ferro arrugginito. Il tintinnio dei denti di rastrello delle dita che sbattevano gli uni contro gli altri. Di solito rimaneva immobile, teso, in ascolto, finché il silenzio lo convinceva che quei rumori appartenevano al suo sogno, non alla realtà. Ma se anche il silenzio non riusciva a tranquillizzarlo, allora si alzava e andava in soggiorno, solo per scoprire che la statua era sempre dove lui l'aveva lasciata, con il viso di forchette piegate e lame di ventilatore distorto in un urlo muto. Naturalmente, questo è lo scopo dell'arte: quello di turbare, di lasciare a disagio con se stessi e sospettosi del mondo, di minare il proprio senso di realtà per costringere a riconsiderare tutto ciò che uno pensa di sapere. Le migliori opere d'arte dovrebbero distruggere emotivamente, devastare intellettualmente, lasciare fisicamente prostrati e colmi di disprezzo per quelle tradizioni culturali che ci incatenano, ci opprimono e ci fanno annegare in un mare di conformità. Junior aveva già appreso tutto questo quando aveva frequentato il corso di critica d'arte. All'inizio di marzo, proseguì nella sua opera di autorealizzazione cominciando a prendere lezioni di francese. La lingua dell'amore. In giugno, acquistò una pistola. Non intendeva usarla per uccidere nessuno. Anzi, avrebbe trascorso il resto del 1965 senza commettere un altro omicidio. Il ferimento di settembre sarebbe stato solo un episodio increscioso, piuttosto sgradevole, doloroso... ma necessario e calcolato per provocare minor danno possibile. Ma prima, all'inizio di luglio, smise di prendere lezioni di francese. Era una lingua impossibile. Diffìcile da pronunciare. La costruzione delle frasi era ridicola. E, comunque, nessuna delle belle donne che aveva conosciuto parlava francese o era interessata al fatto che lui conoscesse quella lingua. In agosto, nacque in lui l'interesse per la meditazione. Iniziò con la meditazione concentrativa - la forma chiamata meditazione «con un seme» durante la quale bisogna chiudere gli occhi, concentrarsi mentalmente sulla visualizzazione di un oggetto e liberare la mente da tutto il resto. Il suo istruttore, Bob Chicane, che andava a casa sua due volte alla settimana per un'ora, gli suggerì di immaginare un frutto perfetto come oggetto della meditazione. Una mela, un grappolo d'uva, un'arancia, quello che voleva.
Ma per Junior non funzionò. Stranamente, quando si concentrava sull'immagine di un frutto - mela, pesca, banana - i suoi pensieri scivolavano verso il sesso. Si eccitava e non riusciva in alcun modo a liberare la mente. Alla fine scelse come «seme» la visualizzazione di un birillo. Era un oggetto liscio, dalla forma elegante, che invitava a una languida contemplazione, ma che non stuzzicava la sua libido. La sera del 7 settembre, un martedì, dopo aver trascorso mezz'ora nella posizione del loto, pensando unicamente a un birillo bianco con due strisce nere dipinte sull'impugnatura e il numero 1 al centro, Junior andò a dormire alle ventitré e puntò la sveglia per le tre del mattino, ora in cui intendeva spararsi. Dormì bene, si svegliò perfettamente riposato e si liberò delle coperte. Sul comodino aveva messo un bicchiere pieno d'acqua posato su un sottobicchiere e un flacone contenente numerose capsule di un potente antidolorifico. Quell'analgesico era uno dei tanti medicinali per i quali era richiesta la ricetta medica e che, un po' alla volta, aveva rubato dall'armadietto dell'ospedale nel quale aveva lavorato. Alcuni li aveva venduti, altri li aveva conservati. Si mise in bocca una capsula, bevve un abbondante sorso d'acqua. Poi posò nuovamente il flacone sul comodino. Seduto nel letto, trascorse un po' di tempo leggendo alcuni dei suoi brani preferiti, e sottolineati, del manuale di Zedd Tu sei il mondo. Il libro offriva una brillante dimostrazione del fatto che l'egoismo rappresentava la più incompresa, morale, razionale e coraggiosa motivazione umana. L'analgesico non conteneva morfina e quindi la sua presenza nel sangue non provocò sonnolenza e neppure una leggera ottenebrazione dei sensi. Tuttavia, dopo quaranta minuti, Junior sapeva che doveva aver avuto effetto e posò il libro. La pistola era sul comodino, completamente carica. Scalzo, con indosso il suo pigiama di seta color blu notte, passò da una stanza all'altra accendendo le luci secondo uno schema ben preciso, che aveva scelto dopo avervi pensato a lungo e averlo progettato attentamente. In cucina, estrasse da un cassetto un canovaccio pulito, lo portò con sé fino al piccolo scrittoio dal ripiano di granito e si sedette di fronte al telefono. Di solito si sedeva lì con in mano una matita per preparare la lista della spesa. Ma quel giorno, invece di una matita, c'era la calibro 22 di fabbricazione italiana.
Dopo aver riesaminato mentalmente tutto ciò che doveva dire, dopo aver studiato il tono di voce più adatto per apparire nervoso, compose il numero di emergenza del DPSF. Quando la centralinista della polizia rispose alla chiamata, Junior si mise a strillare: «Mi hanno sparato! Gesù santo! Mi hanno sparato! Aiuto, chiamate un'ambulanza, oh merda! Fate presto!» La centralinista cercò di calmarlo, ma lui continuò a fare l'isterico. Tra gemiti e strilli di fìnto dolore, con voce tremante riuscì a comunicare il proprio nome, indirizzo e numero di telefono. La donna gli disse di restare in linea, qualunque cosa fosse successa, di continuare a parlare con lei, ma lui riappese. Fece scivolare la sedia di lato e si chinò in avanti stringendo la pistola con entrambe le mani. Dieci, venti, quasi trenta secondi dopo, squillò il telefono. Al terzo squillo, Junior si sparò all'alluce del piede sinistro. Accidenti. Il colpo di pistola fu più forte - e il dolore inizialmente minore - di quanto si fosse aspettato. L'eco dell'esplosione rimbalzò da una parte all'altra dell'appartamento. Lasciò cadere la pistola. Al settimo squillo, afferrò il ricevitore. Certo che dall'altra parte vi fosse la centralinista della polizia, Junior si mise a urlare come se stesse morendo, chiedendosi se i suoi strilli risultavano credibili, visto che non aveva avuto l'opportunità di fare delle prove. Poi, nonostante l'analgesico, all'improvviso le sue urla furono di vero dolore. Singhiozzando disperatamente, lasciò cadere il ricevitore sul ripiano dello scrittoio e afferrò il canovaccio da cucina. Se lo avvolse strettamente intorno al piede, premendo per bloccare la fuoriuscita di sangue. L'alluce staccato era sulle piastrelle bianche del pavimento. Risaltava in modo netto, con l'unghia che luccicava, come se il pavimento fosse neve e l'alluce rappresentasse l'unica estremità esposta di un corpo sepolto. Ebbe la sensazione di stare per svenire. Per più di ventitré anni, non aveva tenuto in grande considerazione il suo alluce, lo aveva dato per scontato, lo aveva vergognosamente trascurato. Ora quel dito del piede gli sembrava prezioso, un'appendice di carne relativamente piccola, ma importante per l'immagine di sé tanto quanto il naso o uno degli occhi. Gli si oscurò la vista.
In preda alle vertigini, crollò in avanti, cadde dalla sedia e finì sul pavimento. In qualche modo riuscì a tenere il canovaccio stretto intorno al piede, ma ora la stoffa era diventata rosso scuro e disgustosamente appiccicosa. Non doveva svenire. Non osava. Le conseguenze erano irrilevanti. Solo il movimento aveva importanza. Dimentica l'autobus pieno di suore schiacciato sui binari e rimani sul treno in corsa. Continua a muoverti, guarda avanti, sempre avanti. In passato questa filosofia aveva funzionato a meraviglia, ma dimenticarsi delle conseguenze era più diffìcile quando queste consistevano nel proprio povero alluce staccato. Il suo povero alluce staccato era infinitamente più difficile da ignorare di un autobus carico di suore morte. Lottando per restare cosciente, Junior disse a se stesso di concentrarsi sul futuro, di vivere nel futuro, libero dall'inutile passato e dal difficile presente, ma non riusciva a proiettarsi in un futuro abbastanza lontano da essere riuscito a lasciarsi il dolore alle spalle. Gli parve di udire il ticchettio-stridore-tintinnio della Donna Industriale che veniva a cercarlo. Nel soggiorno. Adesso in corridoio. Si avvicinava. Incapace di trattenere il fiato e di smettere di singhiozzare disperatamente, Junior non riusciva a sentire abbastanza chiaramente per rendersi conto se i rumori della scultura erano reali o frutto della sua immaginazione. Sapeva che dovevano essere immaginari, ma li percepiva come reali. Si contorse freneticamente sul pavimento fino a quando riuscì a rivolgere il corpo in direzione dell'entrata della cucina. Attraverso lacrime di dolore, rimase in attesa di vedere un'ombra da mostro di Frankenstein incombere nel corridoio, e subito dopo la creatura stessa, che digrignava i denti da rastrello, con i capezzoli a forma di cavatappi che roteavano vorticosamente. Il campanello della porta d'ingresso squillò. La polizia. La stupida polizia. Suonavano il campanello sapendo che Junior era ferito. Suonavano quello stupido campanello e lui era lì, a terra, inerme, con la Donna Industriale che avanzava verso di lui, l'alluce sul pavimento, dall'altra parte della cucina; suonavano il campanello mentre lui stava perdendo abbastanza sangue da poter fare trasfusioni a un'intera corsia di emofiliaci feriti. Quegli stupidi bastardi probabilmente si aspettavano che Junior gli offrisse un piatto di biscottini al burro e una tazza di tè, con minuscoli centrini di carta tra la tazza e il piattino. «Abbattete la porta!» gridò.
Junior aveva lasciato la porta chiusa a chiave perché, in caso contrario, potevano pensare che lui l'avesse fatto apposta per facilitare il loro ingresso e questo avrebbe fatto nascere dei sospetti su tutta la storia. «Abbattete quella maledetta porta!» Solo dopo essersi letto il giornale e aver fumato qualche sigaretta, quegli stupidi bastardi finalmente si decisero ad abbattere la porta. Il tutto fu abbastanza drammatico: il rumore secco del legno che si spezzava, lo schianto. Entrarono, pistole spianate, aria circospetta. Le divise erano diverse, tuttavia gli ricordarono i poliziotti dell'Oregon, riuniti all'ombra della torre antincendio. Le stesse facce: occhi dall'espressione dura, sospettosa. Se in mezzo a quegli uomini fosse apparso Vanadium, Junior non avrebbe soltanto vomitato il contenuto del suo stomaco, ma avrebbe anche svuotato tutti i suoi organi interni, fino all'ultimo, e avrebbe sputato anche le ossa, restando solo con la pelle vuota. «Pensavo ci fosse un ladro», gemette Junior, senza raccontare immediatamente tutta la storia, perché altrimenti avrebbe dato l'impressione di recitare un copione. La polizia fu ben presto seguita dai paramedici e, mentre i piedipiatti si sparpagliavano per tutto l'appartamento, Junior poté lasciare la presa del canovaccio. Uno dei poliziotti tornò nel giro di un paio di minuti e si accovacciò accanto ai paramedici che stavano curando la ferita di Junior. «Non c'è nessuno.» «Pensavo che ci fosse un ladro.» «Sulla porta non ci sono segni di scasso.» Junior spinse la parola attraverso una smorfia di dolore: «Incidente». Il poliziotto aveva raccolto la calibro 22 infilando una matita attraverso il ponticello per evitare di cancellare le impronte digitali. «Mia», borbottò Junior, indicando la pistola con un cenno del capo. Con un'espressione perplessa, il poliziotto domandò: «Si è sparato da solo?» Junior si sforzò di apparire adeguatamente mortificato. «Pensavo di aver sentito qualcosa. Ho fatto il giro della casa.» «Si è sparato al piede?» «Sì», sospirò Junior, trattenendosi dall'aggiungere cretino. «Come è successo?» «Ero nervoso», si giustificò lui, e ululò di dolore quando uno dei para-
medici si dimostrò un sadico mascherato da angelo della misericordia. Dopo avere ispezionato l'appartamento, altri due poliziotti in divisa entrarono in cucina. Apparivano divertiti. Junior avrebbe voluto ammazzarli tutti, ma disse: «Prendetela. Tenetela. Fatela sparire da qui». «La sua pistola?» domandò il poliziotto accovacciato. «Non voglio più vederla. Odio le pistole. Gesù, che male.» Poi in ambulanza fino all'ospedale, di corsa in sala operatoria e, per un po', una benedetta perdita di conoscenza. I paramedici avevano conservato l'alluce in un contenitore di plastica che avevano trovato in cucina. Junior non l'avrebbe mai più usato per conservarvi la zuppa rimasta. Per quanto bravi, i chirurghi non riuscirono a riattaccargli il dito. Il danno dei tessuti era troppo esteso per consentire la delicata operazione di ricucitura dei nervi e dei vasi sanguigni. Il moncone venne chiuso in fondo all'osso cuneiforme, privando Junior della parte di piede che andava dal metatarso alla punta dell'alluce. Lui rimase completamente soddisfatto da questo risultato, perché se fossero riusciti a riattaccargli il dito sarebbe stato una vera e propria disgrazia. Il 10 settembre, venerdì mattina, a poco più di quarantotto ore dal ferimento, Junior si sentiva già bene ed era di ottimo umore. Fu ben lieto di firmare un modulo della polizia con il quale rinunciava alla proprietà della pistola che aveva acquistato alla fine di giugno. Il comune aveva messo in piedi un programma per fondere tutte le armi confiscate o donate e ricavarne xilofoni o parti metalliche di narghilè. Giovedì, 23 settembre, in seguito all'incidente e all'operazione chirurgica a cui Junior era stato sottoposto, la commissione di leva - che aveva annullato l'esenzione dal servizio militare spettante a Junior in qualità di fisioterapeuta - gli fissò una nuova visita medica per dicembre. Junior ritenne che la perdita di un alluce, per quanto tragica, fosse una deturpazione necessaria, perché lo avrebbe protetto dai pericoli di un mondo pieno di guerrafondai. Con i medici e le infermiere, scherzò parlando di squartamenti e, in generale, si mostrò coraggioso, cosa per la quale fu certo di essere molto ammirato. Tuttavia, per quanto traumatico, il ferimento non fu la cosa peggiore che gli accadde quell'anno. Nel periodo trascorso a ristabilirsi completamente, ebbe molto tempo per
praticare la meditazione. Divenne così esperto nel concentrarsi sul birillo immaginario che riusciva a ignorare tutto il resto. Neppure lo squillo del telefono poteva penetrare nel suo stato di trance. Perfino Bob Chicane, l'istruttore di Junior, che conosceva tutti i trucchi, non riusciva a farsi sentire da Junior quando questi era tutt'uno con il suo birillo. Ed ebbe anche molto tempo a disposizione per dedicarsi alla ricerca di Bartholomew. Nel mese di gennaio, dopo aver ricevuto la deludente relazione di Nolly Wulfstan, Junior si era convinto che l'investigatore privato non avesse eseguito le indagini con il dovuto impegno. Sospettava che la bruttezza di Wulfstan andasse di pari passo con la sua pigrizia. Usando un nome falso e affermando di essere stato adottato, Junior svolse delle indagini presso organizzazioni private, oltre che presso agenzie federali e statali, che si occupavano di dare i bambini in adozione. Scoprì che quanto dichiarato da Wulfstan era vero: al fine di proteggere i genitori naturali, i dati relativi alle adozioni erano tenuti segreti, era praticamente impossibile riuscire ad accedervi. Mentre aspettava che l'ispirazione gli suggerisse una strategia migliore, Junior fece nuovamente ricorso all'elenco telefonico per cercare il Bartholomew giusto. Non all'elenco di Spruce Hills e della relativa contea, ma a quello di San Francisco. La città era lunga meno di undici chilometri, per un'area di circa centoventi chilometri quadrati, ma Junior si trovava comunque di fronte a un'impresa immane. Entro i confini della città, vivevano centinaia di migliaia di persone. La cosa peggiore era che coloro che avevano adottato il figlio di Seraphim potevano abitare in un punto qualsiasi delle nove contee della Bay Area. Milioni di indirizzi e numeri di telefono da esaminare. Ricordando a se stesso che la fortuna aiuta i tenaci e che doveva sempre cercare il lato positivo delle cose, Junior iniziò con gli abitanti della città e con coloro che si chiamavano Bartholomew di cognome. Di questi, ve ne era un numero decisamente ragionevole. Fingendo di essere un assistente sociale del Catholic Family Services, telefonò a ciascun Bartholomew in elenco, ponendo delle domande sulla loro recente adozione. Tutti coloro che si mostravano perplessi e che affermavano di non aver adottato nessun bambino, venivano generalmente cancellati dalla lista. Solo in alcuni casi, quando, nonostante le smentite, non risultavano con-
vincenti, Junior si annotava gli indirizzi. Li teneva d'occhio e svolgeva ulteriori, ma sempre discrete, indagini presso i vicini fino a quando non si convinceva che la sua preda si trovava altrove. A metà marzo aveva esaurito tutte le possibilità che Bartholomew fosse un cognome. Quando, a settembre, si sparò al piede, aveva già esaminato i primi duecentocinquantamila utenti inseriti nell'elenco telefonico, il cui nome di battesimo era Bartholomew. Naturalmente, il figlio di Seraphim non poteva avere un telefono. Era soltanto un bambino, pericoloso per Junior in modo ancora non ben chiaro, ma pur sempre un bambino. Tuttavia, Bartholomew era un nome insolito e la logica suggeriva che se adesso il bambino si chiamava così, doveva aver preso il nome dal padre adottivo. Era quindi possibile che la ricerca sull'elenco telefonico desse i suoi frutti. Sebbene Junior continuasse a sentirsi minacciato e continuasse a fidarsi del suo istinto, non dedicava tutto il suo tempo a dar la caccia al suo nemico. Dopo tutto, aveva una vita da vivere. Dedicarsi all'autorealizzazione, visitare gallerie, conquistare donne. Con tutta probabilità avrebbe incontrato Bartholomew sulla sua strada proprio quando meno se lo aspettava, non in seguito alle sue ricerche, ma per puro caso. Se ciò fosse accaduto, doveva essere pronto a eliminare immediatamente quella minaccia, con ogni mezzo disponibile. Pertanto, dopo quella dolorosa storia del ferimento, continuò a dare la caccia a Bartholomew, ma continuò anche a darsi alla bella vita. Dopo un mese di convalescenza e di cure mediche postoperatorie, Junior fu in grado di tornare al suo corso bisettimanale di critica d'arte. Riprese anche le visite quasi quotidiane alle migliori gallerie e ai musei della città. Il vuoto lasciato dall'alluce mancante era stato colmato con una punta di gomma, solida ma flessibile, inserita nella scarpa e fatta su misura. Questo piccolo aiuto faceva sì che Junior potesse calzare praticamente qualsiasi tipo di scarpa e, per novembre, aveva ripreso a camminare senza zoppicare in modo visibile. Quando mercoledì, 15 dicembre, si presentò alla visita medica per il servizio militare, lasciò l'inserto nella scarpa, ma arrivò zoppicando come Walter Brennan, l'attore, quando zampettava per il ranch, nel film Una bionda tutta d'oro. Al medico che lo visitò, non ci volle molto per dichiarare che Junior era mutilato e conseguentemente inidoneo. Senza agitarsi, ma con grande in-
tensità, Junior lo supplicò di dargli la possibilità di dimostrare alle forze armate tutto il suo valore, ma il dottore non si lasciò commuovere dal suo patriottismo, a lui interessava solo che la fila di potenziali coscritti avanzasse con regolarità. Per festeggiare, Junior entrò in una galleria e acquistò la seconda opera d'arte della sua collezione. Questa volta non una scultura, ma un quadro. Sebbene non fosse giovane quanto Bavol Poriferan, anche questo artista era adorato dai critici e considerato un genio. Si faceva chiamare con un unico e misterioso nome, Sklent, e, nella foto esposta dalla galleria, aveva un'aria pericolosa. Il capolavoro che Junior aveva acquistato era una tela grande poco più di un metro quadrato, ma che costava duemilasettecento dollari. Il quadro, intitolato Il cancro nascosto è in agguato. Versione 1, era completamente nero, con l'eccezione di una piccola massa nodosa, di un verde bile e di un giallo pus, dipinta sul quadrante superiore destro. Valeva ogni centesimo speso. Era così felice, ogni giorno migliorava in tutti i campi, la vita andava sempre meglio... ma poi accadde qualcosa peggiore del ferimento. Gli rovinò la giornata, la settimana, il resto dell'anno. Dopo aver preso accordi con il direttore della galleria per la consegna del suo nuovo acquisto, Junior si fermò a pranzare in una vicina tavola calda. Il locale era specializzato in ottimo cibo tipicamente americano: pasticcio di carne, pollo fritto, maccheroni e formaggio. Seduto su uno degli sgabelli lungo il bancone, ordinò un cheeseburger, insalata di cavolo, patatine fritte e una Coca alla ciliegia. Da quando si era trasferito in California, un altro dei progetti di Junior in fatto di autorealizzazione era quello di diventare un buongustaio, nonché un esperto di vini. San Francisco rappresentava l'università perfetta per la sua istruzione, perché offriva innumerevoli ristoranti di classe e di tutte le possibili etnie. Ma, una volta ogni tanto, Junior amava tornare alle sue radici, al cibo che lo faceva sentire bene. Quindi, un bel cheeseburger con annessi e connessi. Gli portarono tutto ciò che aveva ordinato, e in abbondanza. Quando sollevò la metà superiore del panino per spremere la senape sulla polpetta di carne, scoprì una lucente moneta da un quarto di dollaro premuta nel formaggio semifuso. Facendo ruotare lo sgabello, con mezzo panino in una mano e il tubetto
della senape nell'altra, Junior esaminò attentamente il piccolo e angusto locale. Cercava il poliziotto folle. Il poliziotto folle morto. Si aspettava quasi di vedere Thomas Vanadium con la testa incrostata di sangue, la faccia ridotta a una poltiglia, ricoperto dal limo della cava e tutto gocciolante come se fosse uscito da quella bara che era la sua Studebaker solo qualche minuto prima. Soltanto metà degli sgabelli lungo il bancone erano occupati, nessuno dei quali vicino a Junior, ma la maggior parte dei clienti aveva preso posto nei séparé. Alcuni gli volgevano le spalle e tre avevano all'incirca il fisico di Vanadium. Percorrendo di corsa tutta la lunghezza del locale, spingendo di lato le cameriere, controllò i possibili Vanadium ma, naturalmente, nessuno dei tre uomini era il detective morto, né qualcuno che Junior avesse mai visto prima. Stava cercando... che cosa?... un fantasma, ma i fantasmi che vogliono vendicarsi non si fermano a pranzare nel bel mezzo dell'inseguimento. E comunque, Junior non credeva nei fantasmi. Credeva nella carne e nelle ossa, nella pietra e nella malta, nel denaro e nel potere, in se stesso e nel futuro. Qui non si trattava di un fantasma. Non si trattava di un morto che camminava. Era qualcos'altro, ma fino a quando non avesse saputo che cos'era o chi era, l'unica persona che poteva cercare era Vanadium. Ogni séparé dava su un'ampia vetrina, e ogni vetrina si affacciava sulla strada. Vanadium non era nemmeno là fuori, a osservarlo dal marciapiede, nemmeno una vaga idea della sua faccia piatta, scintillante nel sole di dicembre. Vedendo che tutti i clienti della tavola calda lo avevano notato, che tutte le teste si erano voltate, che tutti gli occhi lo fissavano con sospetto, Junior lasciò cadere a terra il mezzo panino e il tubetto di senape. Spingendo la porticina a due battenti in fondo al bancone, Junior entrò nella angusta zona di servizio. Sfiorò le due cameriere, oltrepassò il cuoco addetto alla preparazione dei piatti rapidi, che stava friggendo uova, hamburger e pancetta su una griglia. Qualunque fosse l'espressione che distorceva il volto di Junior, doveva sicuramente suscitare timore perché, senza protestare ma con uno sguardo impaurito, i dipendenti si fecero da parte per lasciarlo passare. Quando era sceso di scatto dallo sgabello, aveva contemporaneamente perso il controllo. Secondo dopo secondo, due tempeste gemelle di rabbia
e paura andavano acquistando forza dentro di lui. Sapeva che doveva calmarsi. Ma non riusciva a respirare lentamente e profondamente, non ricordava nessun altro dei metodi di Zedd per mantenere l'autocontrollo, non gli veniva in mente neppure una tecnica di meditazione utile in quelle circostanze. Quando passò accanto al proprio piatto posato sul bancone e vide ancora la moneta che luccicava nel formaggio, imprecò con rabbia. Poi nella cucina, attraverso una porta con al centro un oblò. Tra sfrigolii e acciottolii, in mezzo a nuvole di vapore di cipolla fritta e appetitosi aromi di grasso di pollo e di patatine che friggevano in cestelli colmi di olio bollente. Il personale della cucina. Tutti uomini. Alcuni sollevarono lo sguardo sorpresi, altri lo ignorarono. Perlustrò ogni angolo, con gli occhi che lacrimavano per il vapore e il calore, alla ricerca di Vanadium, di una risposta. Junior non trovò alcuna risposta prima che il proprietario della tavola calda gli impedisse di uscire dalla cucina e proseguire la sua caccia nella dispensa e nel vicolo posteriore. Sudando e allo stesso tempo rabbrividendo per il freddo, Junior cominciò a insultarlo e la discussione si fece decisamente animata. L'atteggiamento del proprietario si ammorbidi quando Junior fece riferimento alla moneta trovata nel panino e divenne ancora più conciliante quando, insieme, tornarono al bancone e l'uomo vide il quarto di dollaro nel formaggio. Passò dall'indignazione e dalla rabbia alle più umili scuse. Junior non voleva scuse. L'offerta di un pranzo gratuito - di un'intera settimana di pranzi - non gli strappò neppure un sorriso. Non gliene importava nulla di portarsi a casa una torta di mele gratis. Voleva una spiegazione, ma nessuno poteva offrirgli quella di cui aveva bisogno, perché nessuno, tranne lui, conosceva il significato e il simbolismo di quella moneta. Lasciò la tavola calda con le idee confuse. Mentre si allontanava dal locale, sentì su di sé gli sguardi di tutti i clienti al di là delle vetrine, stupidi come quelli di mucche ruminanti. Aveva dato loro qualcosa di cui parlare una volta tornati nei rispettivi negozi e uffici. Era diventato un oggetto di divertimento per degli sconosciuti, per qualche minuto aveva fatto parte dell'esercito di pazzoidi di quella città. Il suo comportamento lo faceva inorridire. Durante il tragitto verso casa: lentamente e profondamente, respirare
lentamente e profondamente, non camminare in fretta, ma passeggiare tranquillamente, cercare di farsi scivolare di dosso la tensione, concentrarsi su eventi positivi come l'esenzione dal servizio militare e l'acquisto del dipinto di Sklent. L'allegria prenatalizia aveva abbandonato San Francisco. I colori caldi e il luccichio delle feste avevano lasciato il passo a un'atmosfera cupa e minacciosa come quella de Il cancro nascosto è in agguato. Versione 1. *** Nel tempo impiegato per tornare al suo appartamento, Junior non era riuscito a pensare ad alcuna iniziativa da intraprendere, quindi telefonò a Simon Magusson, il suo avvocato di Spruce Hills. Si servì del telefono della cucina, quello sullo scrittoio ad angolo. Naturalmente, il sangue era stato lavato via già da molto tempo e i lievi danni provocati dal rimbalzo del proiettile erano stati riparati. Stranamente, come a volte gli accadeva in quella stanza, l'alluce mancante gli prudeva. Era inutile togliersi la scarpa e il calzino per grattare il moncone, perché questo non gli dava alcun sollievo. La cosa curiosa era che sentiva il prurito proprio nell'alluce fantasma, in un punto che non poteva essere grattato. Quando finalmente l'avvocato rispose al telefono, il suo tono di voce era quello di qualcuno che si sente perseguitato, come se Junior fosse l'equivalente di un alluce molesto al quale avrebbe voluto sparare. A quella mezza cartuccia dalla testa grossa, gli occhi sporgenti e la bocca a fessura, la morte di Naomi aveva fruttato ottocentocinquantamila dollari, di conseguenza, il minimo che potesse fare era dargli qualche informazione. E probabilmente gli avrebbe anche mandato la parcella per il tempo che stava sprecando. Ma adesso Junior doveva comportarsi con estrema prudenza, considerato ciò che aveva fatto durante l'ultima notte trascorsa a Spruce Hills, undici mesi prima. Senza dire nulla che potesse incriminarlo, fìngendo di ignorare ciò che era accaduto, sperava di venire a sapere se la sua messa in scena, preparata con tanta cura, per collegare la morte di Victoria e l'improvvisa scomparsa di Vanadium, avesse convinto le autorità, o se qualcosa fosse andato storto, qualcosa che potesse spiegare la moneta nel panino. «Signor Magusson, una volta lei mi ha detto che se il detective Vanadium mi avesse ancora importunato, lei avrebbe fatto in modo che qualcu-
no lo tenesse a bada. Be', penso che adesso sia giunto il momento di parlare con quel qualcuno.» Magusson era sorpreso. «Intende dire che si è messo in contatto con lei?» «Be', c'è una persona che mi perseguita...» «Vanadium?» «Sospetto che sia stato...» «L'ha visto?» insisté Magusson. «No, ma io...» «Ha parlato con lui?» «No, no. Ma ultimamente...» «Lei sa che cosa è successo qui, riguardo a Vanadium?» «Cosa? Credo di no», mentì Junior. «Quando, qualche mese fa, lei mi ha telefonato perché le suggerissi il nome di un investigatore privato a San Francisco, la donna era appena stata trovata morta e Vanadium era sparito, ma all'inizio nessuno ha collegato le due cose.» «La donna?» «O quantomeno, se a quel tempo la polizia aveva già scoperto la verità, non l'aveva ancora resa pubblica. Allora non avevo avuto motivo di parlargliene. Non sapevo neppure che Vanadium fosse sparito.» «Di che cosa sta parlando?» «A quanto pare, Vanadium ha ucciso una donna di qui, un'infermiera dell'ospedale. Forse una lite fra amanti. Per non lasciare tracce, ha incendiato la casa dell'infermiera con il corpo dentro, ma poi deve essersi reso conto che l'avrebbero comunque scoperto e se l'è squagliata.» «Squagliata dove?» «Nessuno lo sa. Mai visto da nessuna parte. Fino a ora.» «No, neanch'io l'ho visto», ricordò Junior all'avvocato. «Quando sono cominciate le persecuzioni, ho soltanto immaginato...» «Lei dovrebbe telefonare alla polizia di San Francisco, far mettere sotto sorveglianza la sua casa, così se si fa vedere, potranno arrestarlo.» Dato che i poliziotti credevano che Junior si fosse sparato accidentalmente mentre dava la caccia a un inesistente scassinatore, dovevano già averlo inserito nell'elenco dei cretini. Se poi avesse cercato di spiegare come Vanadium lo aveva tormentato con una moneta da venticinque centesimi e come quella moneta fosse saltata fuori proprio nel suo cheeseburger, a quel punto lo avrebbero catalogato come pazzo furioso.
Inoltre non voleva che la polizia di San Francisco sapesse che uno dei loro colleghi lo aveva sospettato di aver ucciso sua moglie nell'Oregon. Che cosa sarebbe successo se un poliziotto locale fosse stato abbastanza curioso da richiedere una copia dell'incartamento sulla morte di Naomi e se in quei documenti Vanadium avesse riferito che Junior si era svegliato da un incubo, ripetendo con voce terrorizzata il nome Bartholomew? E se Junior alla fine avesse rintracciato il Bartholomew che cercava e avesse eliminato quel piccolo bastardo, e se il poliziotto locale che aveva letto l'incartamento avesse collegato un Bartholomew con l'altro e avesse cominciato a porre domande? Certo, era un po' tirata per i capelli. Tuttavia, Junior sperava di farsi dimenticare il più presto possibile dal DPSF e di continuare a vivere lontano dai loro sguardi. «Vuole che faccia una telefonata per confermare che Vanadium la stava perseguitando?» domandò Magusson. «Telefonare a chi?» «Al poliziotto di guardia, al dipartimento di polizia di San Francisco. Per confermare la sua storia.» «No, non è necessario», rispose Junior, cercando di apparire indifferente. «Considerato ciò che mi ha detto, sono certo che, chiunque mi stia importunando, non può essere Vanadium. Cioè, deve nascondersi, ha un sacco di problemi suoi, l'ultima cosa che gli verrebbe in mente è di seguirmi giusto per farmi innervosire.» «Non si sa mai con questi pazzoidi», gli fece notare Magusson. «No, più ci penso, più mi convinco che si tratta soltanto di ragazzini. Ragazzini che hanno tempo da perdere, tutto qui. Probabilmente Vanadium è riuscito a irritarmi più di quanto io stesso mi sia reso conto, così, quando è successa questa storia, non sono stato capace di pensare chiaramente.» «Comunque, se cambiasse idea, mi dia un colpo di telefono.» «Grazie. Ma adesso sono certo che si tratta solo di ragazzini.» «Lei non mi sembra molto sorpreso», commentò Magusson. «Sorpreso di che cosa?» «Del fatto che Vanadium abbia ucciso quell'infermiera e poi abbia tagliato la corda. Qui, tutti sono rimasti allibiti.» «Francamente, ho sempre pensato che fosse uno squilibrato. Gliel'ho anche detto, quando ero nel suo studio.» «E vero», ammise Magusson. «E io non gli avevo dato molta importanza; lo consideravo soltanto una specie di Don Chisciotte, un pazzo pieno di
sacro furore. A quanto pare, lei lo aveva capito meglio di me, signor Cain.» L'ammissione dell'avvocato lasciò Junior alquanto sorpreso. Probabilmente, per Magusson, corrispondeva a un: dopo tutto, forse lei non ha ucciso sua moglie, ma dato che era un bastardo per natura, il suo chiedere scusa anche in modo implicito era più di quanto Junior si fosse aspettato da lui. «Com'è la vita a Bay City?» domandò l'avvocato. Junior non fece l'errore di pensare che il nuovo atteggiamento conciliante di Magusson significasse che erano diventati amici, che potesse fargli delle confidenze o rivelargli delle verità. L'unico vero amico di quel rospo mangiasoldi sarebbe sempre stato quello che vedeva nello specchio. Se avesse scoperto che, dopo la morte di Naomi, Junior se la stava spassando alla grande, avrebbe memorizzato quell'informazione e l'avrebbe conservata fino al giorno in cui avesse scoperto il modo di servirsene a suo vantaggio. «È una vita solitaria», rispose Junior. «Mi manca tanto...» «Dicono che il primo anno sia il peggiore. Poi le sarà più facile andare avanti.» «Ormai è passato quasi un anno, ma, se è possibile, mi sento ancora peggio», mentì. Dopo aver riagganciato, Junior rimase a fissare il telefono, profondamente inquieto. Da quella telefonata, aveva appreso soltanto che ancora non avevano trovato il corpo di Vanadium, né la Studebaker, in fondo al bacino artificiale della cava. Dopo aver scoperto la moneta nel panino, Junior si era quasi convinto che il poliziotto fosse sopravvissuto ai suoi colpi. Nonostante le terribili ferite, forse Vanadium non era annegato e, nuotando per una trentina di metri, era riuscito a emergere da quelle acque fangose. Ma, dopo la conversazione con Magusson, Junior capì che i suoi timori erano irrazionali. Se il detective fosse miracolosamente sfuggito alla morte nelle fredde acque del lago, avrebbe avuto bisogno di urgenti cure mediche. Strisciando o barcollando, avrebbe raggiunto la superstrada per cercare aiuto, del tutto ignaro del fatto che Junior lo aveva incastrato per la morte di Victoria e troppo malconcio per preoccuparsi di qualsiasi altra cosa che non fosse raggiungere un ospedale. Se Vanadium non era stato ancora trovato, voleva dire che era morto nella sua bara a otto cilindri.
Ma restava la moneta. Nel cheeseburger. Qualcuno doveva avercela messa. Se non Vanadium, chi? 56 Barty trotterellò, camminò e, alla fine, portò una torta per sua madre durante uno dei giorni di consegna, attento a mantenere l'equilibrio e orgoglioso per la responsabilità. Con molti mesi d'anticipo rispetto a un bambino della sua età, venne spostato dalla culla a un lettino con le sbarre. Dopo una settimana, pretese che le sbarre gli venissero abbassate. Nelle otto notti successive, per evitare che si facesse male cadendo nel sonno, Agnes imbottì il pavimento ai due lati del lettino con coperte ripiegate. Ma alla mattina dell'ottavo giorno, scoprì che Barty aveva riportato le coperte nell'armadio dal quale lei le aveva prese. Non erano state pigiate in qualche modo sugli scaffali, così come avrebbe fatto qualsiasi bambino, ma erano state piegate e riposte ordinatamente come avrebbe fatto la stessa Agnes. Il bambino non parlò mai di questo e sua madre smise di preoccuparsi che cadesse dal letto. Dal primo al terzo compleanno, Barty rese del tutto inutili i manuali sulla cura e lo sviluppo dei bambini a cui una madre si affida per sapere che cosa aspettarsi dal primo figlio, e quando. Barty crebbe, affrontò i problemi e imparò seguendo un ritmo tutto suo. La differenza di Barty rispetto ai suoi coetanei era evidente sia in quello che faceva sia in quello che non faceva. Per esempio, non rispettò la regola dei Terribili Due, quel periodo di ribellione infantile che di solito riesce a far saltare i nervi anche ai genitori più pazienti. Niente pianti isterici per il figlio della Signora delle Torte, niente prepotenze, niente bizze. Essendo straordinariamente sano, non soffrì di laringiti, influenze, sinusiti né della maggior parte delle malattie a cui vanno soggetti i bambini. Spesso la gente diceva ad Agnes che avrebbe dovuto trovare un agente per Barty, visto che era straordinariamente fotogenico; le assicuravano che il bambino avrebbe avuto una sfolgorante carriera come modello o attore. Ma sebbene suo figlio fosse davvero un bel bambino, Agnes sapeva che non era bello come molti lo vedevano. Più che l'aspetto, ciò che rendeva
Barty così attraente, ciò che lo faceva sembrare particolarmente bello, erano altre qualità: una gentilezza insolita per un bimbo, una naturalezza nei movimenti e nella postura che dava l'impressione di possedere un strana relazione personale con il tempo che gli aveva concesso venti anni per diventare un bambino di tre; un temperamento sempre cortese e un sorriso che gli illuminava tutto il volto, compresi gli incredibili occhi verdeazzurro. La sua eccellente salute traspariva, e questa forse era la cosa che colpiva di più, dalla lucentezza dei folti capelli, dalla luminosità della pelle dorata dal sole dell'estate, da ogni aspetto fisico della sua persona, tanto che a volte sembrava radioso. Nel luglio del 1967, a due anni e mezzo, ebbe il suo primo raffreddore, un virus fuori stagione particolarmente aggressivo. Aveva la gola infiammata, ma non si mise a piagnucolare, non si lamentò neppure. Prendeva le medicine senza opporre resistenza e, sebbene ogni tanto andasse a riposare un po', continuò a giocare e a sfogliare i libri pieni di illustrazioni con lo stesso piacere di sempre. La mattina del secondo giorno di malattia, Agnes scese dal piano superiore e lo trovò seduto al tavolo della cucina, ancora in pigiama, che colorava allegramente e in modo poco convenzionale le figure di un album per bambini. Quando Agnes si complimentò con lui per il fatto di essere un piccolo soldato coraggioso che sopportava il raffreddore senza lamentarsi, Barty scrollò le spalle. Senza sollevare lo sguardo dalla figura che stava colorando, commentò: «È solo qui». «Che cosa vuoi dire?» «Il mio raffreddore.» «Il tuo raffreddore è solo qui?» «Non è dappertutto.» Agnes adorava le loro conversazioni. Per la sua età, Barty sapeva parlare molto bene, ma era ancora un bambino e le sue osservazioni erano piene di innocenza e di incanto. «Vuoi dire che il raffreddore è nel tuo nasino, ma non nei tuoi piedi?» «No, mamma. I raffreddori non vanno nel piede di nessuno.» «Piedi.» «Sì», confermò lui, colorando d'azzurro un coniglietto sorridente che ballava con uno scoiattolo. «Allora vuoi dire che è con te quando sei in cucina, ma non quando vai in soggiorno? Il tuo raffreddore fa quello che vuole?»
«Questa è proprio una cosa stupida.» «Sei tu che hai detto che il tuo raffreddore è solo qui. Magari se ne sta in cucina sperando che gli diano una fetta di torta.» «Il mio raffreddore è solo qui», spiegò, «non in tutti i posti dove sono.» «Cioè... tu non sei soltanto qui in cucina con il tuo raffreddore?» «No.» «E dove altro sei, signorino Lampion? A giocare in giardino?» «Da qualche parte, sì.» «A leggere in soggiorno?» «Da qualche parte, sì.» «E tutto nello stesso tempo, vero?» Con la lingua serrata tra i denti mentre si concentrava per mantenere la matita azzurra dentro la sagoma del coniglietto, Barty annuì. «Sì.» In quel momento squillò il telefono, ponendo fine alla loro chiacchierata, ma Agnes se la sarebbe ricordata qualche mese dopo, il giorno prima di Natale, quando Barty fece una passeggiata sotto la pioggia e cambiò per sempre la visione che sua madre aveva del mondo e della propria esistenza. Al contrario della maggior parte dei bambini piccoli, Barty accettava tranquillamente i cambiamenti. Dal biberon al bicchiere, dalla culla al lettino, dai cibi preferiti ai sapori mai provati prima, lui apprezzava tutto ciò che era nuovo. Anche se Agnes cercava sempre di restare nelle vicinanze, Barty era felice di essere affidato temporaneamente tanto a Maria Gonzalez quanto a Edom, e sorrideva gioiosamente al cupo zio Jacob come a chiunque altro. Non attraversò mai il periodo in cui i bambini rifiutano gli abbracci o i baci. Era tenero e docile, e dimostrava il suo affetto con grande spontaneità. Le correnti di paura irrazionale che periodicamente sconvolgono l'infanzia di ogni bambino non agitarono le acque calme dei primi tre anni di Barty. Non lo spaventavano né il medico, né il dentista e neppure il barbiere. Non aveva mai paura di addormentarsi e, una volta addormentato, sembrava che facesse solo bei sogni. Il buio, una delle paure dell'infanzia che la maggior parte degli adulti non riesce a superare, non terrorizzava in alcun modo Barty. Sebbene, per un certo tempo, nella sua cameretta vi fosse un lumino da notte a forma di Topolino, la piccola lampada non era stata messa accanto al letto per tran-
quillizzare il bambino, ma per calmare i nervi della madre, perché lei temeva che si potesse svegliare nel cuore della notte, da solo, al buio. Forse quella preoccupazione non era frutto di una normale sollecitudine materna. Se tutti noi possediamo un sesto senso, allora forse, inconsciamente, Agnes era consapevole dell'imminente tragedia: il tumore, l'operazione, la cecità. *** Il sospetto di Agnes che Barty sarebbe diventato un bambino prodigio si era trasformato in qualcosa di più concreto quando, la mattina del suo primo compleanno, seduto nel seggiolone, Barty si era messo a contare le torte d'uva e mele. Nel corso dei due anni successivi, le numerose prove della sua notevole intelligenza e delle sue incredibili capacità trasformarono il sospetto di Agnes in convinzione. All'inizio non fu facile comprendere precisamente che tipo di bambino prodigio Barty potesse divenire. Mostrava di possedere molte capacità, non soltanto una. Gli regalarono una piccola armonica a bocca e lui improvvisò versioni semplificate delle canzoni che sentiva alla radio. All You Need Is Love dei Beatles. Poi The Letter dei Box Tops. I Was Made To Love Her di Stevie Wonder. Dopo aver ascoltato un motivetto anche solo una volta, Barty era in grado di suonarne una versione riconoscibile. Sebbene la piccola armonica di latta e plastica fosse più un giocattolo che un vero strumento, il bambino riusciva a trarne una musica sorprendentemente complessa. Per quanto Agnes ne sapesse, non aveva mai sbagliato una nota. Nel Natale del 1967, uno dei suoi regali preferiti fu una armonica a bocca cromata a dodici fori e quarantotto ance che permetteva un'estensione di tre ottavi. Nonostante i limiti imposti dalle mani e dalla bocca così piccole, lo strumento consentì a Barty di suonare versioni più elaborate delle canzoni che amava. Aveva anche una predisposizione per la letteratura. Fin da piccolo, amava starsene seduto accanto alla madre, mentre questa gli leggeva qualcosa e non aveva mai dimostrato la scarsa capacità di concentrazione degli altri bambini. Seduto accanto ad Agnes, chiedeva alla madre di seguire con un dito la riga che stava leggendo, in modo che lui potesse vedere con precisione la parola che lei pronunciava. In questo mo-
do, a tre anni aveva imparato a leggere da solo. Ben presto accantonò i libri con molte illustrazioni e passò ai racconti per lettori più esperti e di lì a poco si dedicò ai libri per giovani adulti. Durante tutta l'estate e fino all'inizio dell'autunno, si lasciò incantare dalle avventure di Tom Swift e dai gialli di Nancy Drew. Leggendo, imparò anche a scrivere e prese ad annotare su un taccuino ciò che più lo aveva interessato nei racconti preferiti. Il suo Diario di un lettore di libri, così aveva intitolato il taccuino, lasciava affascinata Agnes, che aveva ricevuto il permesso di leggerlo; quelle annotazioni erano entusiastiche, appassionate, incantevoli, ma, mese dopo mese, Agnes notò che si facevano sempre meno ingenue, più complesse, più contemplative. Nonostante Agnes, nel corso degli anni, avesse insegnato gratuitamente l'inglese a una ventina di studenti adulti e avesse aiutato Maria Elena Gonzalez a parlare un inglese impeccabile e praticamente senza nessun accento, Barty non aveva bisogno di lei come insegnante. Ancor più degli altri bambini, domandava perché con asfissiante regolarità, perché questo e perché quello, ma non poneva mai due volte la stessa domanda e, nella maggior parte dei casi, conosceva già la risposta che cercava da sua madre e domandava solo per confermare l'esattezza delle sue deduzioni. Era un autodidatta così efficiente che riusciva a istruirsi meglio di qualsiasi professore universitario che gli fosse stato assegnato. Agnes trovava quella situazione sbalorditiva, divertente, ironica... e un po' triste. Avrebbe tanto voluto insegnargli a leggere e a scrivere, vedere come le conoscenze e le capacità di suo figlio sbocciavano lentamente grazie al suo impegno. Sebbene lo incoraggiasse a sviluppare le sue qualità, e sebbene fosse orgogliosa dei suoi incredibili risultati, aveva l'impressione che questi progressi tanto rapidi le impedissero di godersi l'infanzia di Barty, che pure, per molti versi, restava un bambino come gli altri. Ma a giudicare dal piacere che provava nell'apprendere, Barty non doveva sentirsi derubato di nulla. Per lui, il mondo era come un'arancia con un numero infinito di spicchi da sbucciare e assaporare con crescente piacere. Nel novembre del 1967, la lettura che più appassionò Barty fu quella dei racconti polizieschi di Padre Brown, scritti da G. K. Chesterton per adulti appassionati di gialli. Questa serie di libri avrebbe sempre mantenuto un posto speciale nel suo cuore, così come il romanzo Il cucciolo spaziale di Robert Heinlein che quell'anno gli era stato regalato per Natale. Tuttavia, per quanto amasse la lettura e la musica, era chiaro che aveva
una particolare predisposizione per la matematica. Prima ancora di imparare a leggere i libri, aveva imparato a contare e a leggere le ore. L'importanza del tempo aveva su di lui un impatto più profondo di quanto Agnes potesse comprendere, forse perché acquisire la consapevolezza della natura infinita dell'universo e di quella finita di ogni vita umana - e comprendere appieno le implicazioni di questa conoscenza è qualcosa che la maggior parte di noi riesce a fare solo una volta raggiunta l'età adulta, se non più tardi, mentre Barty si rese conto, rifletté e fece propri l'immenso splendore dell'universo e la natura relativamente umile dell'esistenza umana nel giro di qualche settimana. Per un po' si divertì a calcolare il numero dei secondi trascorsi a partire da un determinato evento storico. Una volta conosciuta la data, faceva i calcoli a mente e dava la risposta esatta in una ventina di secondi, solo di rado impiegava più di un minuto. Soltanto due volte Agnes volle controllare la risposta. La prima volta ebbe bisogno di carta, penna e nove minuti per calcolare il numero di secondi trascorsi a partire da un evento accaduto centoventicinque anni, sei mesi e otto giorni prima. Ottenne un risultato diverso da quello di Barty ma, nel rivedere i suoi calcoli, si accorse che aveva dimenticato di considerare gli anni bisestili. La seconda volta, avendo già stabilito che ogni anno contiene tremilionicentocinquantatremilaseicento secondi e che, in un anno bisestile, vi sono ottantaseimilaquattrocento secondi in più, Agnes riuscì a controllare l'esattezza della risposta di Barty in soli quattro minuti. Dopodiché, accettò i calcoli del figlio senza più verificarli. Senza alcuno sforzo apparente, Barty riusciva a mantenere un calcolo sempre aggiornato del numero di secondi della sua vita e del numero delle parole di ogni libro che leggeva. Agnes non controllava mai il totale di parole di un intero volume; tuttavia, quando citava una qualsiasi pagina del libro che aveva appena terminato di leggere, Barty sapeva dire quante parole conteneva. Il suo talento musicale derivava molto probabilmente dalla sua straordinaria predisposizione per la matematica. Il bambino diceva che la musica era numeri, e ciò che quasi certamente intendeva dire era che poteva tradurre immediatamente le note di una canzone in un codice numerico personale, memorizzarlo e suonare la canzone ripetendo la sequenza del codice. Nella musica scritta, vedeva composizioni di numeri. Informandosi sui bambini prodigio, Agnes era venuta a sapere che la
maggior parte dei genietti della matematica erano anche dotati di talento musicale. E, anche se in misura minore ma pur sempre notevole, molti giovani musicisti erano molto bravi in matematica. Anche la rapidità con cui aveva imparato a leggere e a scrivere sembrava collegata alla sua predisposizione per la matematica. Per lui, il linguaggio era prima di tutto acustica, una specie di musica che simbolizzava gli oggetti e le idee, e questa musica veniva successivamente convertita in sillabe scritte per mezzo dell'alfabeto... un sistema matematico che utilizzava ventisei cifre invece di dieci. Nel corso delle sue ricerche, Agnes scoprì che, tra i bambini prodigio, Barty non era la meraviglia delle meraviglie. Alcuni genietti della matematica riuscivano ad assimilare nozioni algebriche, e perfino geometriche, ancor prima dei tre anni. Jascha Heifetz a tre anni era già un ottimo violinista, e a sei, era in grado di suonare i concerti di Mendelssohn e di Tchaikovsky; Ida Haendel li suonava già a cinque anni. Alla fine Agnes giunse alla conclusione che, per quanto piacere potesse dargli la matematica e nonostante tutta la predisposizione per i numeri, il dono più grande e la più profonda passione di Barty era qualcos'altro. Il bambino stava trovando la sua strada verso un destino più straordinario e insolito di quello di tutti i bambini prodigio di cui aveva letto. Se non fosse stato tanto bambino quanto genio precoce, l'intelligenza di Bartholomew avrebbe potuto lasciare intimiditi, perfino irritati. Allo stesso modo, se si fosse mostrato troppo consapevole delle sue capacità, sarebbe risultato un bambino noioso. Ma, nonostante tutto, continuava a essere un ragazzino che amava correre, saltare e ruzzolarsi per terra. Che si dondolava sull'altalena formata da un copertone e da una corda appesa alla quercia che cresceva nel giardino dietro alla casa. Che era rimasto estasiato quando gli avevano regalato un triciclo. Che ridacchiava felice osservando lo zio Jacob che faceva rotolare una lucente moneta da una nocca all'altra della mano e che lo faceva divertire con altri giochi di prestigio. Pur non essendo timido, Barty non era neppure sfacciato. Non andava a caccia di complimenti per tutto ciò che sapeva fare, anzi le sue doti non erano molto note al di fuori della più stretta cerchia famigliare. Per lui, motivo di soddisfazione era apprendere, esplorare, crescere. E, crescendo, il bambino sembrava del tutto soddisfatto di poter stare in compagnia di se stesso, di sua madre e dei suoi zii. Tuttavia, Agnes era preoccupata perché nel quartiere non vi erano bambini della sua età. Pen-
sava che sarebbe stato più felice se avesse avuto un paio di compagni di gioco. «Da qualche parte, li ho», le assicurò una sera, mentre Agnes gli rimboccava le coperte. «Davvero? E dove li tieni... infilati in fondo al tuo armadio?» «No, c'è il mostro lì dentro», rispose Barty, il che era uno scherzo perché non aveva mai sofferto di incubi notturni di quel genere, né di qualsiasi altro. «Oh, oh», esclamò lei, scompigliandogli i capelli. «Ho il mio piccolo Red Skelton.» Barty non guardava molta televisione. Solo qualche volta era rimasto alzato abbastanza a lungo per vedere Red Skelton, e il comico lo aveva fatto ridere a crepapelle. «Da qualche parte», spiegò Barty, «ci sono dei bambini nella casa accanto.» «L'ultima volta che ho guardato, nella casa a sud della nostra ci abitava la signorina Galloway. È in pensione. Non si è mai sposata. Non ha figli.» «Sì, però, da qualche parte, è una signora sposata con dei nipotini.» «Allora ha due vite?» «Molte più di due.» «Centinaia!» «Molte di più.» «Selma Galloway, la donna del mistero.» «Potrebbe essere, a volte.» «Di giorno, professoressa in pensione; di notte, spia russa.» «Probabilmente, da nessuna parte è stata una spia.» Quella sera, accanto al letto di suo figlio, Agnes cominciò a percepire vagamente che alcune di quelle divertenti conversazioni con Barty potevano non essere così fantasiose come sembravano, che lui esprimeva in modo infantile una verità che lei aveva dato per scontato fosse frutto della sua fantasia. «E nella casa a nord», proseguì Agnes, «Janey Carter è andata all'università l'anno scorso, ed è figlia unica.» «I Carter non abitano sempre là», commentò Barty. «Davvero? Affittano la casa a una coppia di pirati con i loro piratini o a una coppia di pagliacci con i loro pagliaccini?» Barty scoppiò a ridere. «Adesso sei tu Red Skelton.» «E tu hai un'enorme immaginazione.»
«Non proprio. Ti voglio bene, mamma.» Sbadigliò e si addormentò di sasso, con una rapidità che la lasciava sempre sbalordita. Poi, in un solo momento, tutto cambiò. Cambiò profondamente e per sempre. Il giorno prima di Natale, lungo la costa della California. Sebbene il sole avesse ricoperto d'oro la mattina, nel pomeriggio le nuvole si ammassarono in cielo, ma la neve non venne in aiuto di chi avrebbe dovuto volare sui tetti a bordo di una slitta. Torte al pecan, crostate ricoperte di crema e chiuse in contenitori termici, doni avvolti in carte dai colori vivaci e legati con nastri lucenti: Agnes Lampion andò a visitare gli amici che versavano in difficoltà, ma anche quelli che vivevano nell'abbondanza. Ogni volta che vedeva un viso amato, a ogni abbraccio, a ogni bacio, a ogni sorriso, a ogni allegro augurio di «buon Natale», si sentiva più forte e pronta ad affrontare il triste compito che l'aspettava una volta distribuiti tutti i doni. Barty viaggiava con sua madre sulla Chevrolet verde. Ma dato che le torte, le crostate e i doni erano troppo numerosi per essere trasportati con un solo veicolo, Edom li seguiva a bordo della sua Ford Country Squire del '54 gialla e bianca. Agnes chiamava la loro sfilata composta da due auto la carovana di Natale, il che stuzzicava il senso della magia e dell'avventura di Barty. Più di una volta, si voltò nel sedile e si mise in ginocchio per guardare indietro, verso lo zio Edom, salutandolo vigorosamente con la mano. Tante visite, troppo poco tempo per ciascuna, uno sfavillio di alberi di Natale decorati ognuno con un gusto diverso, offerte di biscottini e cioccolata calda, oppure pasticcini al limone e latte caldo con l'uovo, chiacchiere mattutine in luminose cucine impregnate di deliziosi aromi e, nel pomeriggio più freddo, auguri scambiati davanti ai caminetti, doni accettati e offerti, biscotti presi in cambio di torte, alla radio canzoni natalizie. E così arrivarono le tre del pomeriggio, vigilia di Natale, con le consegne terminate prima che arrivasse Santa Claus. Con la sua Country Squire carica di biscotti, torte di prugne, granturco caramellato con le mandorle e regali vari, Edom lasciò il villino di Obadiah Sepharad, la loro ultima visita, e si diresse verso casa. Schizzò via a tutta velocità come se cercasse di non farsi raggiungere dai tornado e dalle onde anomale. Per Agnes e Barty restava ancora una visita da fare, un luogo in cui un
po' della gioia del Natale sarebbe sempre rimasta sepolta insieme con il marito di cui ogni giorno lei sentiva ancora la mancanza e con il padre che lui non avrebbe mai conosciuto. Il viale d'accesso al cimitero era costeggiato da cipressi. Alti e solenni, gli alberi facevano la guardia come per impedire agli spiriti inquieti di uscire e mettersi a vagare nella terra dei vivi. Joey non riposava sotto lo sguardo severo dei cipressi, ma accanto a un albero del pepe. Con i suoi rami aggraziati che formavano una cascata, sembrava stesse meditando o pregando. L'aria era fresca ma non ancora fredda. Una leggera brezza trasportava il profumo del mare al di là della collina. Si avvicinarono alla tomba, portando una rosa bianca e una rossa. Agnes teneva in mano quella rossa e Barty quella bianca. In primavera, estate e autunno, erano soliti rallegrare la tomba con le rose che Edom coltivava in giardino. Ma in quella fredda stagione, i fiori erano stati acquistati in un negozio. Fin dalla prima adolescenza, Edom si era sentito attratto dal giardinaggio e in particolare amava coltivare le rose ibride. Aveva solo sedici anni quando uno dei suoi fiori vinse il primo premio in una esposizione. Venuto a sapere della gara, il padre aveva considerato il gesto di Edom come un deplorevole peccato d'orgoglio. La conseguente punizione costrinse Edom a restare a letto per tre giorni e, quando alla fine era di nuovo sceso al piano terra, aveva scoperto che il padre gli aveva estirpato tutti i cespugli di rose. Undici anni dopo, a pochi mesi di distanza dal matrimonio con Agnes, Joey aveva invitato con aria misteriosa Edom ad accompagnarlo a fare «una piccola gita» e aveva condotto il suo perplesso cognato in un vivaio. Erano tornati a casa con sacchi da venticinque chili di uno speciale pacciame, barattoli di nutrimento per piante e una serie di attrezzi da giardinaggio. Insieme, avevano tolto le zolle d'erba che ricoprivano il giardino laterale, avevano rivoltato il terreno e lo avevano preparato per la ricca varietà di piantine ibride che sarebbero state consegnate la settimana successiva. Quel roseto rappresentava l'unico rapporto di Edom con la natura che non gli ispirasse terrore. Agnes era convinta che l'entusiasmo di Joey per la ricostruzione del giardino fosse in parte il motivo per cui Edom non si era rinchiuso in se stesso tanto quanto Jacob e, più del suo gemello, aveva mantenuto la capacità di muoversi al di fuori delle mura domestiche.
Le rose poste nei vasi agli angoli della tomba di Joey non erano state coltivate da Edom, ma le aveva comprate lui. Era andato dal fiorista e aveva scelto personalmente i due boccioli; però non aveva avuto il coraggio di accompagnare Agnes e Barty fino al cimitero. «Al mio papà piace il Natale?» domandò Barty, sedendosi sull'erba che copriva la tomba di fronte alla lapide. «Al tuo papà, il Natale non piaceva soltanto, lo adorava. Cominciava in giugno a fare progetti per la festa. Se non fosse già esistito un Santa Claus, il tuo papà avrebbe voluto far lui quel lavoro.» Usando uno strofinaccio pulito che avevano portato per lucidare la lapide incisa, Barty domandò: «È bravo con i numeri come me?» «Be', era un assicuratore, e i numeri sono importanti in quel tipo di lavoro. Era anche un ottimo investitore. Non era un maghetto dei numeri come te, ma sono sicura che hai preso un po' del tuo talento da lui.» «Legge i racconti di Padre Brown?» Accovacciandosi accanto al bambino che lucidava con cura il granito, Agnes domandò: «Barty, tesoro, perché stai...?» Il piccolo smise di lucidare la pietra e la fissò negli occhi. «Che cosa?» Se avesse dovuto porre quella domanda, in quei termini, a un altro bambino di tre anni, Agnes si sarebbe sentita ridicola, ma non esisteva un modo migliore per domandarlo a un figlio così speciale: «Figliolo... ti rendi conto che stai parlando a tuo padre al presente?» A Barty non erano mai state insegnate le regole grammaticali, ma le aveva assorbite come le radici delle rose di Edom assorbivano le sostanze nutritive. «Certo. Fa ed è.» «Perché?» Il bambino scrollò le spalle. L'erba del cimitero era stata falciata in occasione della festività. Più Agnes fissava i luminosi occhi verde-azzurro del figlio, più il profumo dell'erba tagliata di fresco si faceva intenso, fino a diventare stranamente dolciastro. «Tesoro, capisci... certo che capisci... che tuo papà se n'è andato.» «Certo. Il giorno in cui sono nato io.» «Esattamente.» Grazie alla sua intelligenza e alla sua personalità, Barty era così maturo che Agnes tendeva a considerarlo fisicamente più grande e più forte di quanto fosse in realtà. Ma, mentre il profumo dell'erba si faceva gradevolmente complesso, in quel momento vide il figlio più chiaramente di quanto
avesse fatto negli ultimi tempi: piccolo, orfano di padre e tuttavia coraggioso, gravato da un dono che era una benedizione ma che gli rendeva anche impossibile vivere un'infanzia normale, costretto a crescere a una velocità superiore rispetto a quella che un qualsiasi altro bambino sarebbe riuscito a sopportare. Barty era estremamente delicato, così vulnerabile che, guardandolo, Agnes percepì un po' di quella terribile fragilità che opprimeva Edom e Jacob. «Vorrei tanto che il tuo papà avesse potuto conoscerti», sospirò Agnes. «Da qualche parte, lo fa.» All'inizio, Agnes pensò che Barty volesse dire che il padre lo proteggeva dal cielo e le sue parole suscitarono in lei una profonda tenerezza, gettando un'ombra di dolore sulla curva del suo sorriso. Ma poi il bambino aggiunse nuove e inquietanti sfumature alla frase precedente, soggiungendo: «Papà è morto qui, ma non è morto in tutti i posti dove sono». Quelle parole fecero tornare alla mente di Agnes la frase che il bambino aveva detto in luglio: Il moo raffreddore è solo qui, non in tutti i posti dove sono. Fino a quel momento, l'albero del pepe aveva mormorato nella brezza e le rose avevano annuito con i loro vivaci boccioli. Ma ora il cimitero era immerso in un'immobilità assoluta che pareva giungere da sotto l'erba, dalla città dei morti. «Per me, qui è un posto triste», proseguì Barty, «ma non è triste dappertutto.» In settembre, prima di addormentarsi, aveva detto: Da qualche parte, ci sono dei bambini nella casa accanto, E da qualche parte, Selma Galloway, la loro vicina, non era una zitella ma una donna sposata con nipotini. Improvvisamente, Agnes sentì una strana debolezza, un terrore indefinito, attraversarle il corpo e scenderle fino alle ginocchia. «A volte, qui è triste, mamma. Ma non è triste in tutti i posti dove sei. In molti posti, il papà è insieme a noi e noi siamo più felici, e tutto va bene.» Di nuovo quelle strane costruzioni grammaticali che, a volte, Agnes aveva considerato unicamente come gli errori che anche un bambino prodigio poteva fare e che altre volte aveva interpretato come l'espressione della sua fantasia, ma che ultimamente cominciava a pensare fossero di natura più complessa e forse più oscura. Il suo terrore prese una forma più definita e Agnes si chiese se i disturbi della personalità di cui soffrivano i suoi fratelli fossero stati provocati unicamente dai maltrattamenti del padre, e
non fossero invece frutto di un'eredità genetica che poteva manifestarsi nuovamente in suo figlio. Nonostante le sue notevoli capacità, Barty poteva essere destinato a una vita limitata da un problema psicologico di singolare, o quantomeno diversa, natura, un problema che cominciava a manifestarsi attraverso queste occasionali conversazioni che apparivano non del tutto coerenti. «E in un sacco di altre parti», continuò a spiegare Barty, «le cose per noi vanno peggio che qui. In alcuni luoghi, anche tu sei morta quando sono nato io e quindi non ho mai conosciuto nemmeno te.» Alle orecchie di Agnes queste affermazioni suonavano così contorte e bizzarre che non fecero che alimentare la sua crescente paura per la stabilità mentale di Barty. «Per favore, tesoro... per favore non...» Voleva pregarlo di non dire quelle cose così strane, di non parlare in quel modo, ma non riusciva a pronunciare le parole. Quando, inevitabilmente, Barty le avrebbe domandato perché, lei avrebbe dovuto spiegargli che temeva ci fosse qualcosa di terribilmente malato in lui, ma non poteva rivelare la propria paura al figlio, mai. Lui rappresentava l'architrave del suo cuore, l'elemento centrale della sua anima, se Barty non ce l'avesse fatta per colpa della mancanza di fiducia di sua madre in lui, anche Agnes sarebbe crollata. Una pioggia improvvisa le risparmiò la necessità di completare la frase. Bagnati da alcune grosse gocce, entrambi levarono il viso al cielo e, mentre si alzavano in piedi, quel leggero tambureggiare lasciò il posto a una pioggia scrosciante. «Facciamo presto, piccolino.» Avendo avuto le mani occupate dalle rose, non si erano portati dietro gli ombrelli. Oltretutto, anche se il cielo appariva minaccioso, le previsioni del tempo non indicavano pioggia. Qui, la pioggia, ma da qualche parte stiamo camminando nel sole. Quel pensiero fece trasalire Agnes, la turbò... ma allo stesso tempo, inspiegabilmente, colmò di calda serenità il suo cuore stretto in una morsa di gelo. La loro station wagon era ferma lungo il vialetto, ad almeno un centinaio di metri dalla tomba. In mancanza di vento, la pioggia cadeva dritta come i fili di una tenda di perline e, al di là di quella cortina, l'auto appariva come un luccicante miraggio. Controllando Barty con la coda dell'occhio, Agnes adeguò il suo passo a
quello del bambino, di conseguenza, quando raggiunse l'auto, era fradicia di pioggia e rabbrividiva per il freddo. Il piccolo si precipitò verso la portiera dal lato del passeggero. Agnes non lo seguì perché sapeva che si sarebbe, educatamente ma decisamente, opposto a qualsiasi tentativo di aiutarlo a compiere un'operazione che poteva eseguire da solo. Mentre Agnes apriva la portiera dalla sua parte e si accomodava dietro il volante, Barty si arrampicò nel sedile accanto a lei. Poi, intanto che Agnes inseriva la chiavetta e accendeva il motore, il bambino chiuse la portiera tirandola con entrambe le manine. Era inzuppata d'acqua e continuava a rabbrividire. La pioggia le gocciolava dai capelli, lungo il viso, si passò una mano bagnata sulle ciglia per togliere le goccioline che vi si erano depositate sopra. Dal suo maglione e dai jeans si levava un odore di lana e di stoffa bagnate, e Agnes accese il riscaldamento, posizionando le pale della bocchetta di ventilazione centrale in direzione di Barty. «Tesoro, sposta l'altra bocchetta nella tua direzione.» «Sto bene così.» «Ti prenderai una polmonite», lo ammonì lei, allungando un braccio oltre il bambino per posizionare la ventilazione verso di lui. «Sei tu che hai bisogno del riscaldamento, mamma. Non io.» Agnes si voltò a guardarlo, sbattendo le palpebre, con le ciglia che lanciarono tutt'intorno uno spruzzo di minuscole gocce, e si accorse che Barty era asciutto. Non una sola goccia di pioggia luccicava sui suoi folti capelli scuri né sulla pelle liscia del viso. La camicia e il maglioncino erano asciutti come se fossero stati appena tolti da un appendiabiti e da un cassetto. Alcune gocce macchiavano le gambe dei pantaloni color cachi del bambino, ma Agnes si rese conto che si trattava dell'acqua gocciolata dal suo braccio mentre lei spostava la bocchetta di ventilazione. «Ho corso dove non c'era la pioggia», spiegò lui. Allevata da un padre per il quale ogni forma di divertimento era una bestemmia, Agnes non aveva mai visto un illusionista in azione fino all'età di diciannove anni, quando Joey Lampion, a quel tempo suo corteggiatore, l'aveva portata a uno spettacolo di prestidigitazione. Conigli estratti da cilindri, colombe che apparivano da improvvisi sbuffi di fumo, assistenti segate a metà e riattaccate; quella sera, trucchi che erano già vecchi al tempo di Houdini, l'avevano lasciata a bocca aperta. Le tornò alla mente un gioco di destrezza durante il quale l'illusionista aveva versato una brocca di latte
in un imbuto fatto di pagine di giornale, che era rimasto asciutto e, una volta srotolato, si era rivelato completamente vuoto. Il brivido di stupore che l'aveva percorsa quella sera era nulla in confronto alla meraviglia di vedere Barty asciutto come se avesse trascorso il pomeriggio accanto al fuoco. Sebbene la pioggia li avesse incollati alla pelle, Agnes sentì i peli rizzarsi sulla nuca. La pelle d'oca che le ricoprì le braccia non aveva nulla a che fare con il freddo o con gli indumenti bagnati. Quando cercò di dire come, la parola non le uscì dalla bocca e lei rimase in silenzio, quasi che non fosse mai stata capace di parlare. Tentando disperatamente di riprendere il controllo di sé, Agnes rimase a guardare fuori del finestrino, verso la tomba inondata dalla pioggia, dove l'immagine degli alberi in lutto e delle lapidi ammassate si confondeva dietro ai torrenti d'acqua che scorrevano incessantemente lungo il parabrezza. Ogni sagoma distorta, ogni chiazza di colore, ogni striscia di luce e ogni tremito d'ombra resistevano ai suoi tentativi di essere messi in relazione con il mondo che lei conosceva, come se davanti a sé Agnes avesse lo scintillante paesaggio di un sogno. Mise in funzione i tergicristalli. A ogni movimento, nell'arco di vetro ripulito, l'immagine del cimitero appariva chiara e ben definita nei particolari, ma per Agnes restava un posto quasi sconosciuto. Tutto il suo mondo era stato modificato da quella passeggiata di Barty sotto la pioggia. «È soltanto... uno scherzo», si sentì dire, come se la sua voce giungesse da lontano. «Non hai camminato tra una goccia e l'altra, vero?» La risata argentina del bambino risonò allegra come le campanelle di una slitta, il suo spirito natalizio era rimasto intatto. «Non tra, mamma. Nessuno può fare una cosa del genere. Ho soltanto corso dove non c'era la pioggia.» Agnes osò guardarlo di nuovo. Era ancora suo figlio. Come sempre, il suo bambino. Bartholomew. Barty. Il suo tesoro. Il suo piccolino. Ma era più di quanto avesse mai immaginato che potesse essere, più di un semplice bambino prodigio. «Come, Barty? Buon Dio, come?» «Non lo senti?» La testa piegata di lato. L'espressione curiosa. Gli occhi luminosi, belli come la sua anima. «Sentire cosa?» domandò Agnes.
«Il modo in cui sono le cose. Non senti... tutti i modi in cui sono le cose?» «Modi? Non so che cosa vuoi dire.» «Uffa, non lo senti per niente?» Sentiva il sedile dell'auto sotto di sé, gli abiti bagnati appiccicati addosso, l'aria umida e nauseante, e sentì il terrore dell'ignoto, come un grande vuoto privo di luce sul bordo del quale stava vacillando, ma non sentiva nulla di ciò che il bambino stava parlando, perché la cosa che lui sentiva lo faceva sorridere. L'unica cosa asciutta in lei era la voce, sottile, inaridita, spezzata, aveva l'impressione che dalla sua bocca sarebbero uscite nuvole di polvere: «Sentire che cosa? Spiegamelo». Barty era così giovane e non ancora sfiorato dai problemi della vita che la sua espressione perplessa non formava neppure una ruga sulla fronte liscia. Rimase a fissare la pioggia fuori del finestrino, e alla fine disse: «Uffa, non ho le parole giuste». Sebbene il vocabolario di Barty fosse decisamente più ampio di quello di un normale bambino di tre anni e sebbene sapesse leggere e scrivere come un ragazzino di terza elementare, Agnes capiva perché gli mancavano le parole. Lei, con la sua ben più ampia conoscenza della lingua, era rimasta muta di fronte a quel fenomeno. «Ascolta, tesoro, hai mai fatto una cosa del genere prima di oggi?» Il bambino scosse la testa. «Non sapevo di poterla fare.» «Non hai mai saputo di poter... camminare dove non c'era la pioggia?» «No. Non fino a quando ne ho avuto bisogno.» L'aria calda che usciva dalle bocchette di ventilazione non riusciva a riscaldare le ossa gelide di Agnes. Liberando il viso da una ciocca di capelli bagnati, si accorse che le tremavano le mani. «C'è qualcosa che non va?» domandò Barty. «Sono un po'... un po' spaventata, Barty.» La sorpresa gli fece inarcare le sopracciglia e alzare la voce: «Perché?» Perché puoi camminare sotto la pioggia senza bagnarti, perché cammini in QUALCHE ALTRO POSTO, e Dio solo sa dov'è quel posto o se POTRESTI RESTARE BLOCCATO LÀ, restare bloccato là E NON TORNARE PIÙ INDIETRO, e se puoi fare questo, certamente ci sono altre cose impossibili che riesci a fare e, per quanto tu sia straordinariamente intelligente, non sai se fare queste cose sia pericoloso - nessuno potrebbe saperlo - e ci sono persone che, se venissero a sapere di queste tue capacità,
si interesserebbero a te, scienziati che vorrebbero studiarti e, ancor peggio degli scienziati, PERSONE PERICOLOSE pronte ad affermare che la sicurezza nazionale viene prima del diritto di una madre a stare con suo figlio, PERSONE CHE POTREBBERO RAPIRTI E NON PERMETTERMI DI VEDERTI MAI PIÙ, il che sarebbe la morte per me, perché io desidero che tu abbia una vita normale, felice, una bella vita, e io voglio proteggerti, vederti crescere, diventare l'uomo meraviglioso che so che sarai, PERCHÉ IO TI AMO PIÙ DI QUALSIASI ALTRA COSA E TU SEI COSÌ INGENUO, NON TI RENDI CONTO DI COME TUTTO PUÒ CAMBIARE ALL'IMPROVVISO, IN MODO TERRIBILE. Pensò tutto questo, ma chiuse gli occhi e disse: «Mi passerà. Dammi solo qualche secondo, va bene?» «Non c'è niente di cui aver paura», la rassicurò Barty. Sentì la portiera ma, quando aprì gli occhi, il bambino era già sceso dall'auto, di nuovo sotto l'acquazzone. Gli gridò di tornare indietro, ma lui continuò a camminare. «Mamma, guarda!» Si voltò, con le braccia allargate. «Non fa paura!» Con il respiro che le si spezzava in gola, il cuore che batteva all'impazzata, Agnes rimase a osservare il figlio attraverso la portiera aperta. Girando su se stesso, Barty rovesciò la testa all'indietro e, ridendo, rivolse il viso verso il torrente d'acqua che scendeva dal cielo. Ora, guardandolo direttamente, Agnes riusciva a vedere ciò che non aveva visto mentre correva accanto a lui nel cimitero. Ma anche così, non le riusciva facile crederlo. Barty era fermo sotto la pioggia, circondato dalla pioggia, picchiettato dalla pioggia, con la pioggia. L'erba fradicia d'acqua mandava schizzi da sotto le sue scarpe. Le gocce, milioni, non si piegavano-scivolavanotorcevano magicamente intorno alla sua figura, non sibilavano trasformandosi in vapore a un millimetro dalla sua pelle. Tuttavia, Barty rimaneva asciutto, così come il piccolo Mosè aveva galleggiato sul fiume nella cesta di giunchi costruita da sua madre. Nella notte in cui era nato Barty, mentre il cadavere di Joey era ancora all'interno della Pontiac distrutta, quando uno dei paramedici aveva fatto scivolare la barella di Agnes all'interno dell'ambulanza, lei aveva visto il marito immobile, che la guardava, senza che la pioggia lo bagnasse, così come adesso accadeva a suo figlio. Tuttavia, quel Joey-asciutto-sotto-lapioggia era stato un fantasma o un'illusione ottica provocata dallo choc e dalla perdita di sangue.
Mentre adesso, nella luce del tardo pomeriggio di quella vigilia di Natale, Barty non era un fantasma, non era un'illusione ottica. Portandosi davanti alla station wagon, salutando Agnes con la mano, divertito per il suo stupore, Barty strillò: «Non fa paura!» Estasiata, impaurita e allo stesso tempo colma di meraviglia, Agnes si chinò in avanti, osservando attentamente la scena tra i tergicristalli in movimento. Il bambino si avvicinò all'auto, passò accanto al paraurti anteriore sinistro, saltando allegramente su e giù come se fosse a cavallo di un trampolo a molla, continuando a salutarla con la mano. Barty non era semitrasparente, come le era apparso il fantasma di Joey in quella sera piovigginosa di quasi tre anni prima. La luce del grigio pomeriggio che illuminava le lapidi e gli alberi gocciolanti era la stessa che illuminava Barty e il suo corpo non era attraversato da alcun chiarore ultraterreno, così come era avvenuto con quello di suo padre. Avvicinandosi al finestrino del guidatore, Barty cominciò a sfoggiare tutto il suo repertorio di espressioni comiche, facendo le boccacce alla madre, infilandosi un dito nel naso e spingendolo fino in fondo come se stesse cercando nella cavità nasale qualcosa da tirar fuori. «Non fa paura, mamma!» Per reazione a un terribile senso di mancanza di peso, Agnes si aggrappò al volante con tanta forza che le mani cominciarono a dolerle. Continuò a stringere come se esistesse realmente il rischio di uscire in volo dall'auto e di salire sempre più in alto, verso la massa nuvolosa che dava origine alla pioggia. Al di là del finestrino, Barty non fece nulla di tutto ciò che Agnes si aspettava da parte di un bambino che non apparteneva abbastanza alla realtà da restare bagnato dalla pioggia: non tremolò come le immagini di uno schermo televisivo bersagliato dall'elettricità statica, non scintillò come un miraggio del Sahara, né apparve confuso come un'immagine riflessa in uno specchio avvolto in una nube di vapore. Era solido come qualsiasi altro bambino. Era in quel giorno ma non nella pioggia. Ora stava avanzando verso la parte posteriore dell'auto. Girandosi nel sedile, allungando il collo, Agnes cercò di non perderlo di vista. Lo perse di vista. La paura bussò, bussò alla porta del suo cuore, perché era certa che fosse svanito, così come pare che le navi svaniscano nel Triangolo delle Bermude. Poi lo vide di nuovo avanzare lungo il fianco opposto dell'auto.
La terribile sensazione di mancanza di peso si trasformò in qualcosa di molto più gradevole: una leggerezza, un'esaltante lievità dello spirito. La paura non l'aveva abbandonata - paura per Barty, paura per il futuro e per la strana complessità della creazione che era riuscita appena a intravedere ma adesso era attenuata dalla meraviglia e dalla speranza. Barty raggiunse la portiera aperta, sorridendo. Non un sorriso da gatto del Cheshire, sospeso in aria, denti senza gatto. Ma un sorriso con Barty tutt'intorno. Si arrampicò nell'auto. Solo un bambino. Piccolo. Fragile. Asciutto. 57 L'anno del Cavallo (1966) e l'Anno della Pecora (1967) offrirono a Junior Cain molte opportunità di crescita personale e autorealizzazione. Anche se, alla vigilia di Natale del '67, Junior non fu in grado di fare una passeggiata sotto la pioggia e restare asciutto, quello fu comunque per lui un periodo di grandi conquiste e molti piaceri. Ma furono anche anni inquieti. Mentre il cavallo e poi la pecora pascolavano per i rispettivi dodici mesi, un B-52 scaricò accidentalmente una bomba H che rimase per due mesi nell'oceano, al largo della Spagna, prima di essere localizzata. Mao TseTung diede l'avvio alla sua Rivoluzione culturale, facendo ammazzare trenta milioni di persone per migliorare la società cinese. James Meredith, attivista per i diritti civili, venne ferito da un'arma da fuoco durante una marcia in Mississippi. A Chicago, Richard Speck uccise otto infermiere che dormivano in un villino e, un mese dopo, Charles Whitman salì in cima a una torre dell'Università del Texas e si mise a sparare, uccidendo dodici persone. L'artrite costrinse Sandy Koufax, il grande lanciatore dei Dodgers, a ritirarsi. Gli astronauti Grissom, White e Chaffee morirono in un incendio improvviso scoppiato sull'astronave Apollo durante una simulazione di lancio. Tra i personaggi famosi che abbandonarono la celebrità per la vita eterna vi furono Walt Disney, Spencer Tracy, il sassofonista John Coltrane, la scrittrice Carson McCullers, Vivien Leigh e Jayne Mansfield. Junior comprò una copia del romanzo della McCullers Il cuore è un cacciatore solitario e, sebbene non dubitasse della bravura della scrittrice, l'opera si rivelò troppo strana per i suoi gusti. In quegli anni, il mondo fu sconvolto da terremoti, spazzato da uragani e tifoni, devastato da inondazioni, da siccità e da uomini politici, afflitto da epidemie. E nel Vietnam,
le ostilità continuavano. A Junior, il Vietnam non interessava più e le altre notizie lo lasciavano del tutto indifferente. In quei due anni, l'unica cosa che lo turbò fu Thomas Vanadium. Pur morto e sepolto, il poliziotto rappresentava comunque una minaccia. Per un certo periodo di tempo, Junior fu quasi convinto del fatto che la moneta trovata nel panino, nel dicembre del '65, fosse stata soltanto una coincidenza senza significato, che non aveva nulla a che fare con Vanadium. Durante la sua breve ispezione della cucina alla ricerca del colpevole, aveva avuto modo di notare che il livello igienico della tavola calda non era dei migliori. Ricordando gli uomini sporchi di grasso che formavano quella squadra della morte culinaria, si considerò fortunato di non aver trovato un roditore morto spiaccicato sul formaggio, o un calzino vecchio. Ma, il 23 marzo 1966, dopo un appuntamento dall'esito alquanto infelice con Frieda Bliss, una ragazza che collezionava dipinti di un giovane e valido artista di nome Jack Lientery, Junior ebbe un'esperienza che lo lasciò sconvolto, che aggiunse importanza all'episodio nella tavola calda e che gli fece rimpiangere di aver donato la pistola al progetto della polizia, che l'avrebbe fusa per farne un coltello a serramanico. Tuttavia, nei tre mesi che precedettero l'episodio di marzo, la sua vita fu eccellente. Da Natale a febbraio, uscì con una stupenda analista finanziaria e operatrice di borsa, Tammy Bean, specializzata nello scovare aziende che avevano remunerativi rapporti con i più spietati dittatori. Era anche un'amante dei gatti e lavorava con il Kitten Konservatory per salvare dalla morte i felini abbandonati e rinchiusi nel recinto municipale per animali randagi. Era responsabile per gli investimenti dell'associazione. Nel giro di dieci mesi, Tammy aveva portato i ventimila dollari che costituivano i fondi del Konservatory a duecentocinquantamila, speculando sulle azioni di una ditta sudafricana che aveva guadagnato somme colossali vendendo tecnologia per la guerra batteriologica alla Corea del Nord, al Pakistan, all'India e alla Repubblica di Tanzania, il cui prodotto maggiormente esportato era la fibra d'agave. Per un certo periodo di tempo, Junior ricavò enormi profitti dai consigli finanziari di Tammy e tra di loro il sesso era fantastico. Per ringraziarlo delle ricche commissioni che lui le faceva guadagnare - e anche per tutti gli orgasmi - Tammy gli regalò un Rolex. A lui non davano fastidio i suoi quattro gatti, e non si preoccupò neppure quando da quattro divennero sei,
poi otto. Purtroppo, alle due del mattino del 28 febbraio, svegliatosi da solo nel letto di Tammy, Junior andò a cercarla e la trovò in cucina che faceva uno spuntino. Usando le dita invece della forchetta, stava mangiando cibo per gatti, a base di carne di cavallo, direttamente dalla lattina, bevendovi sopra un bicchiere di panna. Da allora in poi, Junior provò una tale ripugnanza all'idea di baciarla che la loro relazione si interruppe. Nello stesso periodo, dato che aveva sottoscritto un abbonamento alla stagione operistica, Junior assistette all'esecuzione de L'Anello del Nibelungo di Wagner. Entusiasta della musica ma incapace di comprendere una sola parola, si accordò con un insegnante privato per prendere lezioni di tedesco. Nel frattempo, divenne anche un eccellente meditatore. Guidato da Bob Chicane, Junior passò dalla meditazione concentrativa con seme - la visualizzazione di un birillo - alla meditazione senza seme. Questa forma avanzata è molto più difficile, perché non si visualizza nulla e lo scopo è quello di riuscire a concentrarsi svuotando completamente la mente. In mancanza di un'adeguata supervisione, meditare senza seme per periodi di tempo più lunghi di un'ora comporta dei rischi. Con suo grande orrore, in settembre Junior avrebbe scoperto alcuni di questi rischi. Ma anche prima, il 23 marzo: il giorno dell'appuntamento con Frieda Bliss e di ciò che scoprì nel suo appartamento quando tornò a casa quella sera. Prosperosa di seno come Jayne Mansfield, all'epoca ancora viva, Frieda non indossava mai il reggiseno. Nel 1966, questa abitudine non era molto diffusa. All'inizio Junior non comprese che rifiutare il reggiseno era per Frieda una dichiarazione di libertà; per lui significava solo che era una ragazza facile. Si erano conosciuti a un corso extrauniversitario intitolato «Aumentare l'autostima attraverso l'urlo controllato». I partecipanti imparavano a identificare le emozioni represse più dannose e a liberarsene attraverso l'imitazione vocale di una molteplicità di animali. Profondamente impressionato dall'urlo della iena che Frieda aveva improvvisato e attraverso il quale si era liberata del trauma emotivo infantile provocatole da una nonna autoritaria, Junior le chiese di uscire con lui. La ragazza era proprietaria di un'agenzia di pubbliche relazioni specializzata in artisti e, nel corso della cena, continuò a tessergli le lodi dell'ope-
ra di Jack Lientery. I quadri che dipingeva in quel periodo - bambini emaciati sullo sfondo di frutta matura e altri simboli del benessere - avevano mandato in visibilio i critici. Felice di poter uscire con una persona che viveva immersa nella cultura soprattutto dopo i due mesi trascorsi con Tammy Bean, l'esperta di finanza - Junior si sorprese di non essere riuscito ad arrivare al dunque già durante il primo appuntamento. Di solito era irresistibile anche per le donne tutt'altro che facili. Ma al secondo appuntamento, alla fine della serata, Frieda lo invitò a salire nel suo appartamento per vedere la collezione Lientery e, senza dubbio, per farsi una corsa su quella macchina dell'estasi che era Cain. Frieda possedeva sette quadri del pittore, ricevuti a parziale pagamento di quanto dovutole per le pubbliche relazioni. I dipinti di Lientery soddisfacevano tutti i criteri della grande arte che Junior aveva imparato a riconoscere frequentando i corsi di critica. Minavano il suo senso di realtà, lo rendevano diffidente, lo colmavano di angoscia e di disprezzo per la condizione umana e gli facevano desiderare di non aver appena cenato. Via via che procedeva nella critica di quei capolavori, Frieda si faceva sempre più incoerente. Aveva bevuto alcuni cocktail, quasi tutta una bottiglia di Cabernet Sauvignon e due brandy dopo cena. A Junior piacevano le donne che bevevano molto. Di solito si rivelavano molto affettuose... o quantomeno arrendevoli. Quando infine giunsero al settimo dipinto, l'alcol, la pesante cucina francese e la potenza dell'arte di Lientery, tutti insieme, ebbero la meglio su Frieda. Rabbrividì, si chinò in avanti, poggiando una mano sulla tela, chinò la testa e commise un gesto di pessime PR. Junior fece un balzo all'indietro appena in tempo, evitando così di essere investito dal vomito. Naturalmente questo pose fine a qualsiasi speranza di iniziare una storia d'amore e lui ne rimase molto deluso. Un uomo meno dotato di autocontrollo avrebbe potuto afferrare il vaso di bronzo che si trovava lì accanto che avrebbe dovuto assomigliare a uno sgabello a forma di dinosauro - e infilarvi dentro Frieda, o viceversa. Quando la ragazza, dopo aver finito di vomitare, svenne di colpo, Junior la lasciò sul pavimento e partì immediatamente per un giro esplorativo delle altre stanze dell'appartamento. Da quando, quattordici mesi prima, aveva ispezionato la casa di Vana-
dium, Junior aveva scoperto che gli piaceva molto conoscere qualcosa di più delle persone, visitando in loro assenza le relative abitazioni. Dato che non desiderava affatto rischiare di essere arrestato con l'accusa di effrazione, occasioni del genere erano rare e avvenivano solo nelle case di donne con cui era uscito abbastanza a lungo da giustificare uno scambio di chiavi. Fortunatamente, in un'epoca come quella, di grande fiducia e di facili relazioni, spesso bastava una settimana di sesso bollente per ottenere un mazzo di chiavi. Unico inconveniente: Junior doveva cambiare le proprie serrature con una certa frequenza. Ora, visto che non intendeva uscire più con quella donna, afferrò al volo l'unica possibilità che aveva di conoscere i particolari più intimi ed eccentrici della sua vita. Cominciò dalla cucina, ispezionando il contenuto del frigorifero e degli armadietti, e concluse il giro con la camera da letto. Fra le curiosità che Junior scoprì, quella che lo interessò di più fu la collezione di armi di Frieda. Ve n'erano in tutto l'appartamento: revolver, pistole e due fucili con calcio a pistola. Sedici in totale. La maggior parte delle armi erano cariche e pronte per essere usate, ma cinque erano ancora nelle loro confezioni originali ed erano riposte in fondo all'armadio della camera. Considerando che su ogni confezione vi era, attaccato con del nastro adesivo, l'atto di vendita originale, evidentemente dovevano essere state acquistate legalmente. Junior non trovò nulla che spiegasse il motivo di quella paranoia - anche se, con sua grande sorpresa, scoprì in un piccolo mobile libreria sei manuali di Caesar Zedd. Gli angoli di alcune pagine erano piegati, come per tenere il segno; i testi erano sottolineati in più punti. Chiaramente, la ragazza non aveva appreso nulla dalla lettura dei manuali. Nessun attento seguace di Zedd avrebbe mai dimostrato una così penosa mancanza di autocontrollo come Frieda Bliss. Junior prese una delle pistole ancora confezionate, una calibro 9 semiautomatica. Probabilmente sarebbero trascorsi mesi prima che lei si accorgesse della sparizione della pistola dal suo armadio e, a quel punto, non avrebbe saputo dire chi gliel'aveva portata via. In fondo ai cassetti, nascosta sotto la biancheria e altri indumenti, vi era un'abbondante scorta di munizioni. Junior si appropriò di una scatola di cartucce dello stesso calibro della pistola. Poi se ne andò, lasciando Frieda svenuta e maleodorante, una condizione non proprio eccitante anche considerando la la mancanza di reggiseno del-
la ragazza. Venti minuti dopo, a casa, si versò dello sherry su alcuni cubetti di ghiaccio. Sorseggiando il liquore, rimase nel soggiorno ad ammirare i suoi due quadri. Con una parte dei profitti ottenuti grazie alle informazioni di Tammy Bean, Junior aveva acquistato un altro dipinto di Sklent. Intitolato Nel cervello del neonato si cela il germe della distruzione. Versione 6, era così straordinariamente repellente che non lasciava dubbi sulla genialità dell'artista. Poi Junior attraversò la stanza e si fermò davanti alla Donna Industriale in tutta la sua bellezza di metallo. Le pentole che formavano i seni gli ricordarono il petto altrettanto generoso di Frieda e la bocca, spalancata in un urlo silenzioso, sfortunatamente gli ricordò la stessa Frieda mentre vomitava. Quelle associazioni smorzarono tutto il suo piacere nell'ammirare l'opera d'arte e stava per allontanarsi dalla Donna Industriale quando, all'improvviso, la sua attenzione venne catturata dalle monete. Ve ne erano tre sul pavimento, proprio accanto ai piedi di ruote dentate e mannaie. Prima, non c'erano. Le mani metalliche della scultura erano ancora incrociate sul petto in un gesto di difesa. Per suggerire l'idea delle nocche, l'artista aveva saldato dei grossi dadi esagonali alle dita di denti di rastrello e, in equilibrio su uno di questi dadi, vi era una quarta moneta. Come se la scultura si fosse esercitata mentre Junior era fuori casa. Come se, quella sera, fosse venuto qualcuno per insegnarle il giochino con le monete. La pistola calibro 9 e le munizioni erano sul tavolino nell'ingresso. Con le mani che gli tremavano, Junior aprì le confezioni e caricò l'arma. Cercando di ignorare l'alluce mancante, che gli prudeva furiosamente, si mise a ispezionare l'appartamento. Avanzava con circospezione, questa volta ben deciso a non spararsi accidentalmente un colpo al piede. Vanadium non era lì, né vivo né morto. Junior telefonò a un fabbro reperibile ventiquattro ore al giorno e pagò la tariffa notturna per farsi cambiare le due serrature di sicurezza. La mattina seguente, annullò le lezioni di tedesco. Era una lingua impossibile. Le parole erano tremendamente lunghe. Oltretutto non poteva più permettersi di sprecare tempo a imparare nuove lingue o ad assistere a opere liriche. Aveva una vita troppo intensa che
non gli lasciava abbastanza tempo da dedicare alla ricerca di Bartholomew. Il suo istinto animale gli diceva che la moneta nella tavola calda e quelle che adesso aveva trovato nel suo soggiorno erano collegate al fatto che non era riuscito a trovare Bartholomew, il bastardo di Seraphim White. Non poteva spiegare il collegamento da un punto di vista logico; ma come Zedd insegna, l'istinto animale è l'unica verità assoluta che potremo mai conoscere. Stabilì quindi di dedicare ogni giorno più tempo a studiare gli elenchi telefonici. Aveva ottenuto anche quelli di tutte le nove contee che, insieme con la città, formavano la Bay Area. Qualcuno che si chiamava Bartholomew aveva adottato il figlio di Seraphim e lo aveva chiamato come lui. In quell'impresa, Junior mise tutta la pazienza che aveva acquisito grazie alla meditazione e, istintivamente, creò un mantra che prese a ripetere mentre esaminava gli elenchi telefonici: Trova il padre, uccidi il figlio. Il bambino di Seraphim doveva essere nato all'incirca quando era morta Naomi, ovvero quasi quindici mesi prima. In tutto quel tempo, Junior avrebbe dovuto scovare il piccolo bastardo e averlo già eliminato. Di tanto in tanto, si svegliava nel cuore della notte e udiva la propria voce mormorare il mantra, che evidentemente doveva aver continuato a ripetere anche nel sonno. «Trova il padre, uccidi il figlio.» In aprile, Junior scoprì tre Bartholomew. Era pronto a commettere l'omicidio ma, indagando, venne a sapere che nessuno di questi tre individui aveva un figlio di nome Bartholomew, né aveva mai adottato un bambino. In maggio trovò un altro Bartholomew. Ma non era quello giusto. In ogni caso, Junior teneva una pratica per ogni persona, nel caso che, in seguito, l'istinto gli avesse detto che uno di quegli uomini era realmente il suo nemico mortale. Avrebbe potuto ammazzarli tutti, tanto per essere più sicuro, ma una strage di Bartholomew, anche se sparsi per diverse giurisdizioni, prima o poi avrebbe attratto l'attenzione della polizia. Il 3 giugno trovò un altro inutile Bartholomew e, il sabato 25, accaddero due episodi particolarmente inquietanti. Accendendo la radio in cucina venne a sapere che Paperback Writer, ancora un'altra canzone dei Beatles, era salita al primo posto nella classifica delle vendite, e ricevette la telefonata da parte di una donna morta. Tommy James e gli Shondells, dei bravi ragazzi americani, occupavano un posto molto più basso della classifica con una canzone - Hanky Panky -
che, secondo Junior, era decisamente migliore di quella dei Beatles. A Junior dava veramente fastidio il fatto che i suoi compatrioti non sostenessero adeguatamente gli artisti locali. L'intera nazione sembrava ansiosa di consegnare la sua cultura agli stranieri. Il telefono squillò alle tre e venti del pomeriggio, subito dopo che lui aveva spento la radio profondamente disgustato. Seduto al tavolo della colazione, con l'elenco telefonico di Oakland aperto di fronte a sé, invece di «Pronto», stava quasi per dire: «Trova il padre, uccidi il figlio». «C'è Bartholomew?» domandò una donna. Sbigottito, Junior non riuscì a rispondere. «Mi scusi, dovrei parlare con Bartholomew», insisté educatamente la donna. La sua voce era bassa, quasi un sussurro, e colma d'ansia; in altre circostanze, sarebbe stata sexy. «Chi parla?» pretese di sapere Junior ma, in contrasto con quello che doveva essere un tono fermo, le parole gli uscirono troppo flebili, troppo stridule. «Devo avvertire Bartholomew. Devo farlo assolutamente.» «Chi parla?» La linea sprofondò in un mare di silenzio. Ma la donna era ancora in ascolto. Junior sentiva la sua presenza, anche se sembrava si trovasse a una enorme profondità. Rendendosi conto che correva il rischio di dire la cosa sbagliata, di autoincriminarsi, Junior serrò le mascelle e rimase in attesa. Quando, alla fine, la sua interlocutrice riprese a parlare, la sua voce risonò lontanissima: «Vuole dire a Bartholomew...?» Junior teneva il ricevitore premuto contro la testa con tanta forza che gli doleva l'orecchio. Ancora più lontana: «Gli vuole dire.. ?» «Dirgli che cosa?» «Dirgli che Victoria ha telefonato per metterlo in guardia.» Clic. Se ne era andata. Non credette alla storia della morta che non si dà pace. Nemmeno per un minuto. Dato che era passato molto tempo da quando aveva sentito la voce di Victoria Bressler, e comunque solo una o due volte, e dato che la donna al
telefono parlava a voce molto bassa, Junior non era in grado di stabilire se si trattava della stessa persona. No, impossibile. Aveva ucciso Victoria quasi un anno e mezzo prima di quella telefonata. Quando uno è morto, è morto per sempre. Junior non credeva nelle divinità, nei diavoli, nel paradiso, nell'inferno, nella vita dopo la morte. Aveva fede in una sola cosa: se stesso. Tuttavia, durante l'estate del 1966, dopo quella telefonata, si comportò come un uomo perseguitato dagli spiriti. Un'improvvisa corrente d'aria, anche se calda, lo faceva rabbrividire e lo costringeva a voltarsi per vedere da dove arrivava. Se, nel cuore della notte, udiva anche il più innocente dei rumori, balzava dal letto e si metteva a ispezionare l'appartamento, trasalendo a ogni ombra, girandosi di scatto verso figure immaginarie che pensava di aver visto con la coda dell'occhio. A volte, mentre si radeva o si pettinava, Junior credeva di intravedere una sagoma, scura e nebulosa, che si muoveva o stava ferma alle sue spalle. Altre volte, questa entità sembrava essere all'interno dello specchio. Ma lui non riusciva mai a osservarla attentamente perché, nel momento stesso in cui si accorgeva della sua presenza, l'entità spariva. Naturalmente erano solo scherzi della sua immaginazione provocati dallo stress. Sempre più spesso, per distendere i nervi, Junior si dedicava alla meditazione. Era diventato così esperto nella meditazione concentrativa senza seme - nello svuotare la mente - che gli bastava mezz'ora di quell'esercizio per sentirsi riposato come dopo una notte di sonno. Nel tardo pomeriggio di lunedì, 19 settembre, Junior era tornato nel suo appartamento dopo un altro inutile accertamento su un Bartholomew, questa volta a Corte Madera, dall'altra parte della baia. Esausto per questa ricerca che sembrava non avere mai fine, depresso per i continui fallimenti, Junior cercò rifugio nella meditazione. In camera, con addosso solo un paio di boxer, sistemò sul pavimento un cuscino di seta imbottito con piume d'oca e vi si sedette sopra. Con un sospiro, assunse la posizione del loto: spina dorsale eretta, gambe incrociate, mani appoggiate alle ginocchia con i palmi rivolti verso l'alto. «Un'ora», annunciò, iniziando un conto alla rovescia. Nel giro di sessanta minuti, il suo orologio interno lo avrebbe risvegliato dallo stato contemplativo. Chiudendo gli occhi, vide un birillo, immagine rimastagli dai tempi della meditazione con seme. In meno di un minuto, fu in grado di costringere il
birillo a smaterializzarsi e di colmare la propria mente di un nulla bianco e riposante, privo di immagini e di suoni. Bianco. Nulla. Dopo un po' una voce ruppe quel perfetto silenzio. Bob Chicane. Il suo istruttore. Con voce pacata, Bob lo incoraggiava a riemergere gradualmente dal profondo stato contemplativo, riemergere, riemerge, riemergere... Si trattava di un ricordo, non di una voce reale. Anche dopo che un individuo diventa un esperto meditatore, la memoria opponeva resistenza a quello stato di perfetto oblio e cercava di sabotarlo con ricordi uditivi e visivi. Sfruttando la sua eccezionale forza di concentrazione, Junior cercò di mettere a tacere il fantomatico Chicane. All'inizio, la voce si affievolì gradualmente fin quasi a svanire, ma ben presto tornò più forte e insistente. Nel suo uniforme biancore, Junior sentì una pressione sugli occhi, poi arrivarono le allucinazioni visive che disturbarono la sua profonda pace interiore. Sentì che qualcuno gli sollevava le palpebre e vide, a pochi centimetri dal suo viso, il volto preoccupato di Bob Chicane, con i suoi lineamenti angolosi da volpe, i ricci capelli neri e un paio di baffi da tricheco. Diede per scontato il fatto che Chicane non fosse reale. Ma ben presto si rese conto che la sua era una presunzione errata perché, quando l'istruttore tentò di liberarlo dalla posizione del loto, l'intorpidimento degli arti svanì, lasciando il posto al dolore. Atroce. Junior sentì il corpo pulsargli dal collo alla punta delle dita dei piedi. Le gambe sembravano attraversate da una calda corrente di dolore. Chicane non era solo. In piedi e, alle sue spalle, vi era anche Sparky Vox, il custode dell'edificio. Agile e arzillo nonostante i suoi settantadue anni, Sparky non camminava, ma saltellava come una scimmietta. «Spero di aver fatto bene a farlo entrare, signor Cain.» Della scimmietta, Sparky aveva anche i denti sporgenti. «Mi ha detto che si trattava di un'emergenza.» Dopo averlo strappato alla posizione del loto, Chicane costrinse Junior a sdraiarsi sulla schiena e cominciò a massaggiargli vigorosamente - anzi, violentemente - le cosce e i polpacci. «Ha degli spasmi muscolari davvero spaventosi», spiegò. Junior si rese conto che, dal lato destro della bocca, gli colava un denso filo di saliva. Tremando, sollevò una mano per ripulirsi. Evidentemente doveva aver sbavato per molto tempo. Nei punti in cui il
mento e la gola non erano appiccicosi, la pelle era ricoperta da una crosta di saliva secca. «Amico, quando non hai risposto al campanello, ho capito che cosa doveva essere successo», spiegò Chicane, rivolgendosi a Junior. Poi disse qualcosa a Sparky, che sgambettò fuori della stanza. Junior non riusciva a parlare e neppure a lamentarsi per il dolore. La saliva gli era colata dalla bocca aperta per così tanto tempo che adesso aveva la gola riarsa e irritata. Gli sembrava di aver fatto uno spuntino a base di lamette salate, che adesso gli erano rimaste bloccate nella faringe. Il sibilo del suo respiro affannoso e irregolare era simile al rumore che fanno gli scarafaggi quando scappano. Il vigoroso massaggio aveva appena cominciato a dare un po' di sollievo alle gambe di Junior, quando Sparky ritornò con sei boule di gomma piene di ghiaccio. «Queste sono tutte quelle che avevano nel negozio qui sotto.» Chicane posò le borse fredde sulle cosce di Junior. «Spasmi così violenti provocano infiammazioni. Finché il peggio non sarà passato, dovremmo alternare venticinque minuti di ghiaccio a venticinque minuti di massaggio.» Per la verità, il peggio doveva ancora arrivare. Nel frattempo, Junior si era reso conto di essere rimasto in trance per almeno diciotto ore. Aveva assunto la posizione del loto alle cinque di lunedì pomeriggio e Bob Chicane si era presentato per la loro regolare seduta di meditazione alle undici del mattino di martedì. «Nella meditazione concentrativa senza seme sei più bravo di chiunque altro, anche di me. Ecco perché, proprio tu, non dovresti mai affrontare una lunga seduta senza che ci sia qualcuno ad assisterti», lo rimproverò Chicane. «O, quantomeno, dovresti usare un timer elettronico, ma non ne vedo nessuno qua, o sbaglio?» Junior scosse la testa con aria colpevole. «No, non ne vedo proprio», confermò Chicane. «Sottoporti a una maratona meditativa non ti sarà di alcun vantaggio. Venti minuti sono sufficienti, amico mio. Al massimo mezz'ora. Ti sei affidato al tuo orologio interno, non è vero?» Imbarazzato, Junior annuì. «E avevi stabilito di meditare per un'ora, giusto?» Prima che Junior potesse annuire, arrivò il peggio: un attacco di vescica atonica. Junior aveva notato con soddisfazione che, durante la lunga trance, non
si era bagnato nei boxer. Ma ora avrebbe accettato qualsiasi umiliazione piuttosto di dover sopportare quegli odiosi crampi. «Oh, Signore», gemette Chicane mentre, aiutato da Sparky, portava quasi di peso Junior nel bagno. Il bisogno di liberare la vescica era fortissimo, inesprimibile, e lo stimolo era insopportabile, ma Junior non riusciva a urinare. Per più di diciotto ore, la meditazione concentrativa aveva soffocato il suo bisogno naturale. Adesso era come una cassaforte chiusa a chiave. Ogni volta che si sforzava di liberarsi, veniva attaccato da un nuovo e più violento crampo. Gli sembrava che nella sua vescica gonfia si fosse riversato l'intero lago Mead, e che nella sua uretra fosse stata innalzata la diga Boulder. In tutta la sua vita, Junior non aveva mai dovuto sopportare tanto dolore, senza aver prima ammazzato qualcuno. Restio ad andarsene fino a quando non avesse avuto la certezza che il suo allievo era fisicamente, emotivamente e mentalmente fuori pericolo, Bob Chicane si fermò fino alle tre e mezzo. Poi, prima di accomiatarsi, diede a Junior una cattiva notizia: «Non posso continuare a tenerti tra i miei allievi. Mi dispiace, ma sei troppo per me. Davvero. Metti troppa intensità in tutto quello che fai. Le donne, la passione per l'arte, questa storia degli elenchi telefonici, di qualunque cosa si tratti... adesso perfino la meditazione. Troppo intenso, troppo ossessivo. Mi dispiace. Ti auguro tutto il meglio, amico». Rimasto da solo, Junior si sedette al tavolo della colazione con un bricco di caffè e un'intera torta al cioccolato. Chicane aveva raccomandato a Junior, una volta passato l'attacco di vescica atonica e finalmente svuotato l'intero lago Mead, di assumere molta caffeina e di mangiare molto zucchero per evitare un'improbabile, ma non impossibile, ricaduta spontanea nello stato di trance. «Comunque, dopo esserti pompato il cervello con le onde alfa per tutto questo tempo, non dovresti proprio aver bisogno di dormire per un bel po'.» In effetti, anche se debole e indolenzito, Junior si sentiva mentalmente fresco e meravigliosamente lucido. Per lui era arrivato il momento di pensare più seriamente alla sua situazione e al suo futuro. Il suo desiderio di migliorarsi restava encomiabile, ma doveva concentrarsi su una meta più precisa. Riusciva a essere eccezionale in qualsiasi cosa a cui si applicasse. In questo, Bob Chicane aveva ragione: Junior era molto più intenso degli altri
uomini, possedeva doti superiori e l'energia per sfruttarle. Ripensandoci, si rese conto che la meditazione non era adatta a lui. Era un'attività passiva mentre, per natura, lui era un uomo d'azione, felice quando agiva. Si era rifugiato nella meditazione perché frustrato dal fatto di non riuscire a trovare Bartholomew e turbato dalle sue esperienze apparentemente paranormali con le monete e con le telefonate dall'aldilà. Più profondamente turbato di quanto si fosse reso conto o fosse stato capace di ammettere. La paura dell'ignoto è una debolezza, perché presume dimensioni di vita che esulano dal controllo umano. Zedd insegna che nulla è al di fuori del nostro controllo, che la natura è solo una stupida macchina, ricca di misteri tanto quanto una salsa di mele. Inoltre, la paura dell'ignoto è una debolezza anche perché ci umilia. E l'umiltà, afferma Caesar Zedd, appartiene unicamente ai perdenti. Per riuscire ad avanzare socialmente e finanziariamente, dobbiamo fìngere di essere umili... strascicare i piedi, abbassare la testa, mostrare di sottovalutarci -perché l'inganno è la moneta della civiltà. Ma se ci crogiolassimo nella vera umiltà, non ci distingueremmo dalla massa, che Zedd definisce «una fanghiglia sentimentale innamorata del fallimento e della prospettiva della propria rovina». Ingozzandosi di torta e di caffè per evitare una ricaduta spontanea nella catatonia meditativa, Junior ammise coraggiosamente di essere stato debole; trovandosi di fronte all'ignoto, aveva reagito con la paura, ritraendosi invece di affrontarlo coraggiosamente. Dato che, al mondo, possiamo fidarci solo di noi stessi, illudersi diventa pericoloso. Junior si apprezzò ancor di più per quella franca ammissione di debolezza. I recenti episodi gli erano serviti da lezione, giurò che avrebbe smesso di meditare, che non avrebbe mai più reagito passivamente alle sfide della vita. Doveva scandagliare l'ignoto, non ritrarsi intimorito. Oltretutto, in questo modo avrebbe dimostrato che l'ignoto non era che salsa di mele, o roba del genere. Doveva cominciare apprendendo tutto quanto gli era possibile su fantasmi, ossessioni e vendette da parte dei morti. Nel corso dei restanti mesi del 1966, nella vita di Junior Cain si verificarono soltanto altri due episodi apparentemente paranormali, il primo dei quali avvenne il 5 ottobre, un mercoledì.
Durante uno dei suoi vagabondaggi culturali per vedere quali fossero le opere più recenti in mostra nelle sue gallerie d'arte preferite, alla fine del giro Junior arrivò davanti alle vetrine della Galerie Coquin. Esposta alla vista dei passanti che affollavano la strada vi era una composizione di Wroth Griskin: due bronzi di grosse dimensioni, ciascuno dei quali doveva pesare all'incirca duecentocinquanta chili, e sette bronzi molto più piccoli disposti su piedistalli. Griskin, un ex detenuto, aveva trascorso in carcere undici anni per omicidio di secondo grado, prima che gli sforzi congiunti di una coalizione di artisti e scrittori gli avessero fatto ottenere la libertà condizionale. Prima di Griskin, nessuno era mai riuscito a esprimere un simile livello di violenza e di rabbia attraverso il bronzo, e da tempo Junior aveva incluso le opere dell'artista nel suo selezionato elenco di sculture che desiderava acquistare. Otto dei nove pezzi esposti nella vetrina della galleria erano così sconvolgenti che molti passanti, dopo aver dato loro un'occhiata, sbiancavano in volto, distoglievano lo sguardo e si affrettavano ad allontanarsi. Non tutti possono essere degli esperti. Il nono pezzo non era una scultura, certamente non era un'opera di Griskin e non poteva in alcun modo turbare nessuno, a parte Junior. Posato su un piedistallo, vi era un candeliere di peltro identico a quello che aveva spaccato il cranio di Thomas Vanadium e che aveva dato una nuova profondità al viso precedentemente piatto del poliziotto. Il peltro grigio appariva macchiato da una sostanza nera. Forse qualcosa di bruciacchiato. Come se si fosse sporcato durante un incendio. In cima al candeliere, il portalampada era disseminato da una serie di goccioline rosso-vino. Il colore di macchie di sangue vecchie. Da questi sinistri schizzi sporgevano diverse fibre, evidentemente incollatesi al candeliere quando le goccioline erano ancora umide. Sembravano capelli umani. La paura si coagulò nelle vene di Junior, che rimase immobile come un embolo in mezzo al flusso dei pedoni, certo di essere lui stesso sul punto di morire per un colpo apoplettico. Chiuse gli occhi. Contò fino a dieci. Li riaprì. Il candelabro era ancora in cima al piedistallo. Dopo aver ricordato a se stesso che la natura non era altro che una stupida macchina, totalmente priva di mistero, e che l'ignoto si sarebbe sempre dimostrato perfettamente conosciuto se solo si osava sollevarne il velo, Junior si accorse che era in grado di muoversi. I suoi piedi sembravano pesa-
re tanto quanto una delle sculture in bronzo di Wroth Griskin, ma riuscì comunque ad attraversare il marciapiede e a entrare nella Galerie Coquin. Nella prima delle tre ampie sale non trovò né clienti né addetti alle vendite. Solamente le gallerie più modeste erano affollate di curiosi e di commessi dall'atteggiamento servile. In una galleria raffinata come la Coquin, il pubblico non era gradito e, allo stesso tempo, il valore e l'estrema desiderabilità delle opere d'arte erano sottolineati dall'avversione quasi patologica del personale alla promozione della merce. Anche la seconda e la terza sala erano vuote ma, in fondo all'ultimo locale, discretamente nascosto alla vista, vi era un ufficio. Mentre Junior attraversava la terza sala, evidentemente osservato dalle telecamere a circuito chiuso, un uomo scivolò silenziosamente fuori dell'ufficio e gli venne incontro. Alto, capigliatura argentea, fattezze finemente cesellate, aveva i modi autoritari di un ginecologo della famiglia reale. Indossava un completo grigio dal taglio perfetto e il suo Rolex d'oro era il tipo di orologio per il quale Wroth Griskin, da giovane, avrebbe potuto uccidere. «Sono interessato a una delle sculture più piccole di Griskin», spiegò Junior, cercando di apparire calmo, anche se sentiva la bocca riarsa per la paura e la mente che era un turbinio di immagini del poliziotto, morto e in decomposizione, ma che continuava ad aggirarsi per San Francisco. «Sì?» replicò il gallerista dalla chioma d'argento, arricciando il naso come se temesse di sentirsi domandare se il piedistallo esposto fosse compreso nel prezzo. «Per la verità, sono più attratto dai dipinti che dalla maggior parte delle opere tridimensionali», spiegò Junior. «In effetti, l'unica scultura che ho acquistato è un Poriferan.» La Donna Industriale che, meno di diciotto mesi prima, lui aveva acquistato in un'altra galleria per poco più di novemila dollari, attualmente ne valeva almeno trentamila, tanto erano salite le quotazioni di Bavol Poriferan. Davanti a questa dimostrazione di buongusto e di possibilità economiche, i gelidi modi del gallerista si sciolsero un po'. Sorrise, o forse fece soltanto una smorfia come se percepisse un vago ma sgradevole odore - difficile dire quale delle due - poi si presentò come il proprietario, Maxim Coquin. «Il pezzo che mi ha incuriosito», proseguì Junior, «è quello che somiglia a un c-candeliere. È molto diverso dagli altri.»
Mostrandosi apertamente perplesso, il gallerista precedette Junior attraverso le tre sale, fino alla vetrina, scivolando sul lucido pavimento in legno d'acero come se avesse le ruote. Il candelabro non c'era più. Il piedistallo sul quale era posato adesso reggeva un bronzo di Griskin così spaventosamente geniale che una sola, rapida occhiata bastava per far venire gli incubi a suore e ad assassini in egual misura. Quando Junior cercò di spiegarsi, Maxim Coquin lo fissò con un'espressione dubbiosa come quella di un poliziotto che ascolta le dichiarazioni di innocenza di un sospetto dalle mani insanguinate. Poi soggiunse: «Sono assolutamente certo che Wroth Griskin non scolpisce candelabri. Se questo è quello che lei sta cercando, le suggerirei di fare una visita al reparto casalinghi di Gump's». Furibondo e mortificato, ma allo stesso tempo ancora spaventato, un vero collage ambulante di emozioni, Junior uscì dalla galleria. Una volta fuori, si voltò a guardare la vetrina. Era convinto che avrebbe visto il candelabro - per qualche motivo sovrannaturale, era visibile solo da questa parte del vetro - ma non c'era. Durante tutto l'autunno, Junior lesse una serie di libri che parlavano di fantasmi, poltergeist, case infestate, navi fantasma, sedute spiritiche, entità che battevano colpi, che si manifestavano, scrittura automatica, registrazioni di voci dell'aldilà, medium che parlavano in stato di trance, formule magiche, esorcismi, proiezioni astrali, pendolino e ricamo. Junior era giunto alla convinzione che ogni persona, per essere veramente completa, doveva eccellere in una attività manuale e il ricamo lo attraeva di più della ceramica o del decoupage. Per creare oggetti in ceramica, avrebbe avuto bisogno di un tornio da vasaio e di un oggetto ingombrante come un forno; dal canto suo, il decoupage sporcava troppo, con tutta quella colla e la vernice. In dicembre cominciò il suo primo lavoro: un piccolo cuscino sul quale avrebbe ricamato un bordo geometrico che racchiudeva una frase di Caesar Zedd: «L'umiltà è per i perdenti». Alle tre e ventidue del mattino del 13 dicembre, dopo un'intensa giornata dedicata alle sue ricerche sui fantasmi, a quella di Bartholomew sull'elenco telefonico e al ricamo, Junior venne svegliato da un canto. Una voce. Senza accompagnamento strumentale. Una donna. Adagiato tra lussuose lenzuola Pratesi bordate di seta nera, inizialmente Junior pensò di trovarsi in uno stato di dormiveglia, e che quel canto faces-
se ancora parte di un piacevole sogno. Nonostante le variazioni di tono, la voce restava comunque talmente flebile che Junior non riconobbe immediatamente il motivo, ma quando si rese conto che sì trattava di Qualcuno che badi a me, si alzò di scatto a sedere nel letto, liberandosi delle coperte. Accendendo le luci via via che passava da una stanza all'altra, Junior si mise a cercare la fonte di quella serenata. Stringeva in mano la calibro 9, anche se l'arma sarebbe stata del tutto inutile contro uno spirito; ma nonostante le sue vaste letture, Junior non era convinto dell'esistenza dei fantasmi. La sua fiducia nell'efficacia dei proiettili - e, se per quello, anche nei candelieri di peltro - non era stata in alcun modo scalfita. Flebile e piuttosto bassa, la voce della donna era così limpida e intonata che la sua versione a cappella del brano musicale era piacevole da ascoltare tanto quanto un'esecuzione accompagnata da un'orchestra. Tuttavia, in quel canto vi era qualcosa di inquietante, uno struggimento, una nostalgia, una lacerante tristezza. In mancanza di una parola migliore, si poteva dire che la sua voce fosse ossessionante. Junior la inseguiva, ma lei continuava a sfuggirgli. La canzone sembrava provenire sempre dalla stanza accanto, ma appena Junior varcava la soglia, aveva l'impressione che la voce provenisse dalla stanza che aveva appena lasciato. Per tre volte quel canto si spense lentamente, ma per due volte, proprio quando Junior cominciava a pensare che fosse terminato, la donna riprese a cantare. La terza volta, rimase in silenzio. Quell'antico edificio, solido come un castello, possedeva un ottimo isolamento acustico; solo di rado i rumori che provenivano dagli altri appartamenti riuscivano a penetrare in quello di Junior. E mai prima d'allora aveva sentito la voce di un vicino abbastanza distintamente da comprendere le parole pronunciate o, come in questo caso, cantate. Junior aveva molti dubbi sul fatto che la cantante fosse Victoria Bressler, l'infermiera morta, ma era convinto che si trattasse della stessa voce che aveva sentito al telefono il 25 di giugno, quando qualcuno, facendosi passare per Victoria, lo aveva chiamato con la scusa di lasciare un messaggio urgente per Bartholomew. Alle tre e trentuno del mattino di quell'inizio d'inverno, l'alba era ancora lontana, ma Junior si sentiva troppo sveglio per tornare a letto. Per quanto dolce, malinconico, mai sinistro, quel canto gli aveva lasciato una sensazione di... minaccia.
Pensò di fare una doccia e di cominciare presto la giornata. Ma continuava a tornargli in mente una scena di Psyco: Anthony Perkins vestito da donna, con un coltello da macellaio in mano. Non poté trovare rifugio neppure nel ricamo. Le mani gli tremavano troppo per riuscire a fare dei punti regolari. Vista la situazione, escluse di potersi dedicare alla lettura di libri sui fantasmi e cose del genere. Si sedette quindi al tavolo della colazione con davanti a sé gli elenchi telefonici e riprese l'estenuante ricerca di Bartholomew. Trova il padre, uccidi il figlio. *** In soli nove giorni, Junior andò a letto con quattro stupende donne: una alla vigilia di Natale; la seconda la sera di Natale; la terza alla vigilia di Capodanno; e la quarta il giorno di Capodanno. Per la prima volta in vita sua, in tutte e quattro le occasioni, il rapporto gli procurò un piacere tutt'altro che assoluto. Non che le sue prestazioni fossero state meno che perfette. Come sempre, nessuna delle sue amanti si era lamentata; nessuna aveva avuto l'energia di lamentarsi dopo che lui aveva finito. Tuttavia, gli mancava qualcosa. Si sentiva vuoto. Incompleto. Per quanto stupende, nessuna di quelle donne era riuscita a soddisfarlo quanto aveva fatto Naomi. Si chiese se La Cosa che gli mancava potesse essere l'amore. Con Naomi, il sesso era stato straordinario, perché tra di loro c'era un legame a diversi livelli e tutti più profondi di quello puramente fisico. Esisteva una tale intimità, erano così emotivamente e intellettualmente intrecciati l'uno all'altro che, facendo l'amore con lei, Junior aveva fatto l'amore con se stesso; e non avrebbe mai potuto vivere una intimità maggiore di quella. Desiderava ardentemente trovare una nuova anima gemella. Era abbastanza intelligente da capire che non esisteva desiderio in grado di trasformare la donna sbagliata in quella giusta. L'amore non poteva essere preteso, pianificato o costruito. L'amore giungeva sempre di sorpresa, ti piombava addosso quando meno te lo aspettavi, come Anthony Perkins vestito da donna.
Poteva solo aspettare. E sperare. Gli divenne sicuramente più facile continuare a sperare quando la fine del 1966 e il 1967 portarono la più grande novità in fatto di moda femminile, dopo l'ago per cucire: le minigonne e, successivamente, le micromini. Mary Quant, guarda caso una stilista inglese, aveva già conquistato la Gran Bretagna e l'Europa intera con la sua splendida creazione; ora stava guidando l'America fuori dei secoli bui della sua psicopatica modestia. Ovunque, in città, le ragazze esponevano polpacci, ginocchia e coscia sode. Questo fece riemergere il lato romantico di Junior, il quale provò più intenso che mai il desiderio di trovare la donna perfetta, l'amante ideale, l'altra metà del suo cuore incompleto. Ma il rapporto più duraturo che ebbe quell'anno fu con la cantante fantasma. Il 18 febbraio, tornando a casa nel pomeriggio dopo una lezione di medianicità, udì il canto proprio mentre apriva la porta d'ingresso. La stessa voce. E la stessa odiosa canzone. Flebile come prima, con il tono che aumentava e diminuiva. Si mise subito a ispezionare l'appartamento, cercando di scoprire da dove provenisse ma, meno di un minuto dopo, prima di riuscire a rintracciarne la fonte, la voce si spense. Al contrario di quella notte di dicembre, questa volta il canto non riprese. Junior era irritato all'idea che la misteriosa cantante si fosse esibita quando lui non era in casa. Si sentiva violato. Invaso. In realtà, nell'appartamento non c'era stato nessuno. E lui ancora non credeva nei fantasmi, quindi pensava che nessuno spirito avesse vagato per la casa in sua assenza. Nonostante questo, la sensazione che la sua intimità fosse stata violata andò crescendo a mano a mano che, perplesso e frustrato, attraversava le stanze ora silenziose. Il 19 aprile, la navetta spaziale priva di equipaggio umano Surveyor 3, dopo essere atterrata sulla superficie lunare, aveva cominciato a inviare foto alla terra e, quando Junior quella mattina uscì dalla doccia e udì nuovamente il misterioso canto, gli sembrò che provenisse da un luogo più distante e più alieno della luna. Nudo e gocciolante, si mise a ispezionare l'appartamento. Così come era avvenuto nella notte del 13 dicembre, la voce sembrava provenire dall'aria: davanti a lui, poi dietro di lui, alla sua destra, adesso alla sua sinistra.
Tuttavia, questa volta il canto durò più a lungo, abbastanza a lungo perché Junior cominciasse a sospettare delle condutture per il riscaldamento. Quelle stanze avevano soffitti di tre metri e le condutture si aprivano nella parte più alta delle pareti. Salendo su una scaletta a tre gradini, Junior riuscì ad arrivare abbastanza vicino a una delle griglie di ventilazione del soggiorno da permettergli di capire se era da lì che giungeva il canto. Ma proprio in quel momento la voce tacque. Verso la fine del mese, Junior venne a sapere da Sparky Vox che l'edifìcio aveva un sistema di riscaldamento centralizzato formato da quattro condutture principali, dalle quali si diramavano quelle di ogni appartamento. Le voci non potevano passare da una residenza all'altra attraverso il sistema di riscaldamento e raffreddamento, perché nessun appartamento aveva condutture in comune. Nel corso della primavera, l'estate e l'autunno del 1967, Junior conobbe nuove donne, andò a letto con alcune di loro e non ebbe mai alcun dubbio che ciascuna delle sue conquiste avesse provato con lui qualcosa che non aveva mai provato prima d'allora. Tuttavia, continuava a sentire un vuoto nel cuore. Dopo qualche appuntamento, non provava più alcun desiderio di incontrare nuovamente quelle magnifìche ragazze, e nessuna di loro lo cercò dopo essere stata con lui, anche se dovevano essere tutte disperate e sconvolte all'idea di averlo perso. Ma la cantante fantasma non si mostrò restia, come le sue sorelle in carne e ossa, a inseguire il suo uomo. In una mattina di luglio, mentre Junior si trovava nella biblioteca pubblica e cercava, in mezzo a quella enorme massa di libri, qualche esotico volume sull'occulto, udì la voce fantasma che proveniva da un punto poco lontano. Il canto era più sommesso di quanto fosse stato nel suo appartamento, praticamente un sussurro, e anche più flebile. L'ultima volta che Junior li aveva visti, i due bibliotecari si trovavano dietro al bancone della sala principale, ora non erano più in vista ed erano comunque troppo lontani per sentire il canto. Junior era arrivato in anticipo e aveva dovuto aspettare che aprissero la biblioteca e, fino a quel momento, non aveva visto nessun altro, a parte i dipendenti. Non poteva vedere il corridoio parallelo al suo sbirciando tra i libri, perché gli scaffali avevano il fondo di legno.
I volumi formavano un labirinto di pareti, una ragnatela di parole. All'inizio, Junior si spostò cautamente da un corridoio all'altro, poi prese a muoversi più in fretta, convinto che avrebbe trovato la cantante appena svoltato l'angolo, poi dopo quello successivo. Quella che aveva intravisto, era forse la sua ombra che scivolava silenziosa dietro l'angolo davanti a lui? Aveva lasciato lei quella scia di profumo nell'aria? Passò da un corridoio all'altro, poi tornò sui propri passi, girando, svoltando, dall'occulto alla letteratura moderna, dalla storia ai testi divulgativi su argomenti scientifici, di nuovo all'occulto, sempre quell'ombra intravista appena e in modo così marginale che avrebbe potuto trattarsi della sua immaginazione, il profumo di donna percepito e subito perso in mezzo all'odore di carta invecchiata e di colla per rilegatura, svoltando angoli, tornando indietro, finché si fermò di colpo, ansimando, rendendosi improvvisamente conto che non sentiva più la voce già da qualche minuto. *** Per tutto l'autunno del 1967, Junior controllò centinaia di migliaia di nomi di abbonati al telefono e, di tanto in tanto, individuava qualche Bartholomew. A San Rafael o a Marinwood. A Greenbrae o a San Anselmo. Li aveva trovati, aveva svolto indagini e aveva stabilito che non avevano alcun collegamento con il piccolo bastardo di Seraphim Whìte. Tra un incontro con una nuova donna e un cuscino ricamato, prendeva parte a sedute spiritiche, partecipava a conferenze di cacciatori di fantasmi, visitava case infestate e leggeva altri strani libri. Si fece anche fotografare da una famosa medium le cui istantanee a volte rivelavano l'aura di entità benigne o maligne vicino ai suoi soggetti, anche se nel caso di Junior la medium non riuscì a individuare alcuna presenza misteriosa. Il 15 ottobre, Junior acquistò un terzo dipinto di Sklent: Il cuore è la dimora di vermi e scarafaggi, che si contorcono, che brulicano. Versione 3. Uscendo dalla galleria, decise di festeggiare andando nella caffetteria del Fairmont Hotel, sulla Nob Hill, con l'intenzione di bersi una birra e di mangiare un cheeseburger. Sebbene consumasse i suoi pasti quasi sempre al ristorante, non ordinava un cheeseburger da ventidue mesi, cioè dal dicembre del '65, quando aveva trovato la moneta nel formaggio semifuso. Per la verità, da allora non aveva più osato chiedere un panino da nessuna parte, limitandosi a ordinare pietanze che venivano servite direttamente sul piatto. Nella caffetteria del Fairmont, Junior ordinò patatine fritte, un cheese-
burger e insalata di cavolo. Pretese che la carne gli venisse servita cotta, ma lasciata a parte: le due metà del panino dovevano essere posate sul piatto con la parte interna rivolta verso l'alto, la polpetta di carne posata di lato, le fette di pomodoro e di cipolla sistemate accanto alla polpetta e la fetta di formaggio non fuso servita su un piatto diverso. Perplesso ma disponibile, il cameriere gli servì il pranzo esattamente come era stato richiesto. Con la forchetta, Junior sollevò la polpetta di carne, non vi trovò sotto alcuna monetina, e la posò su una metà del panino. Unì tutti gli altri ingredienti, vi aggiunse ketchup e senape, poi, con grande soddisfazione, diede un bel morso. Notò una bionda che lo fissava da un vicino séparé, sorrise e le fece l'occhiolino. Sebbene non fosse abbastanza bella per le sue esigenze, non c'era motivo di essere scortese. La ragazza doveva aver percepito, dietro al sorriso, lo sguardo di valutazione e si era resa conto che non aveva molte possibilità di conquistarlo, di conseguenza si voltò immediatamente e non guardò più in direzione di Junior. Era riuscito a mangiare il panino senza imprevisti e aveva aggiunto un terzo Sklent alla sua collezione: Junior si sentiva più allegro di quanto non lo fosse da tempo. A migliorare ulteriormente il suo umore, c'era il fatto che non sentiva la voce fantasma da più di tre mesi, da quel giorno di luglio, in biblioteca. Due notti dopo, mentre sognava vermi e scarafaggi, il canto della donna lo risvegliò. Sorprendendo se stesso, si sedette di scatto nel letto e prese a urlare: «TACI, TACI, TACI!» Flebile ma imperterrita, la voce continuò a cantare Qualcuno che badi a me. Junior doveva aver gridato taci più forte di quanto si fosse reso conto, perché i vicini cominciarono a picchiare sulle pareti per farlo smettere. Nulla di ciò che aveva appreso sul sovrannaturale lo aveva convinto dell'esistenza dei fantasmi e di tutto ciò che questo implicava. Riponeva ancora tutta la sua fiducia unicamente in Enoch Cain Jr., sul suo altare non c'era posto per nient'altro e per nessuno al di fuori di se stesso. Si rannicchiò sotto le coperte, afferrò un morbido cuscino, stringendoselo sulla testa per attutire il suono di quella voce e cominciò a scandire: «Trova il padre, uccidi il figlio», finché, esausto, si riaddormentò. La mattina successiva, mentre faceva colazione, ripensò con più calma a
ciò che era avvenuto durante la notte e si chiese se potesse essere affetto da qualche disturbo psicologico. Decise di no. Nei mesi di novembre e dicembre, Junior si dedicò allo studio di testi che trattavano di eventi sovrannaturali, ebbe rapporti con una serie di donne a un ritmo per lui straordinariamente regolare, trovò tre Bartholomew e ricamò dieci cuscini. Nelle sue letture, non trovò nulla che gli offrisse una soddisfacente spiegazione per ciò che gli era accaduto. Nessuna delle donne riempì il vuoto che sentiva nel cuore e tutti i Bartholomew si rivelarono innocui. Soltanto il ricamo gli dava qualche soddisfazione ma, sebbene Junior fosse orgoglioso della sua abilità manuale, sapeva che un uomo adulto non poteva trovare la propria realizzazione unicamente in aghi e fili. Il 18 dicembre, mentre la canzone dei Beatles Hello Goodbay balzava in cima alle classifiche di vendita, Junior si sentì così frustrato per la sua incapacità di trovare sia l'amore sia il figlio di Seraphim, che attraversò il ponte di Golden Gate, entrò nella contea di Marin e proseguì fino alla città di Terra Linda, dove uccise Bartholomew Prosser. Prosser - un contabile di cinquantasei anni, vedovo - aveva una figlia trentenne, Zelda, che faceva l'avvocato a San Francisco. Junior era già andato a Terra Linda per svolgere delle indagini sul contabile e sapeva che Prosser non aveva nulla a che fare con il figlio di Seraphim. Tra i tre Bartholomew che aveva scoperto di recente, aveva scelto Prosser perché, dato che sapeva che cosa significasse portare un nome come Enoch, Junior provava la massima comprensione per una figlia i cui genitori le avevano affibbiato il nome di Zelda. Il contabile abitava in una villetta bianca in stile georgiano lungo una strada costeggiata da enormi sempreverdi. Erano le otto di sera; Junior parcheggiò a due isolati di distanza dalla casa. A piedi, con le mani protette dai guanti e infilate nelle tasche dell'impermeabile, il colletto rialzato, raggiunse la villetta di Prosser. Una nebbia densa e bianca avanzava lentamente per le strade del quartiere, profumata dal fumo della legna che bruciava nei numerosi caminetti; era come se, da lì al confine con il Canada, ogni cosa fosse andata a fuoco. Anche il fiato usciva dalla bocca di Junior in bianche nuvolette, quasi che dentro di lui si fosse sviluppato un incendio. Sentì una patina di condensa depositarsi sul suo viso, fredda e tonificante. In molte case, file di lucine natalizie disegnavano motivi colorati lungo
le grondaie, intorno alle finestre e sulle inferriate delle verande... immagini che la nebbia rendeva così tremolanti che a Junior sembrò di muoversi in un paesaggio da sogno illuminato da lanterne giapponesi. Regnava un profondo silenzio, rotto solo dall'abbaiare di un cane in distanza. Il verso sordo del cane, per quanto giungesse più attutito del canto che di recente aveva perseguitato Junior, aveva comunque un effetto su di lui, parlava a un aspetto essenziale del suo cuore. Giunto davanti alla casa di Prosser, Junior suonò il campanello e rimase ad aspettare. Preciso come ogni buon contabile, Bartholomew Prosser non si fece attendere e Junior non fu costretto a suonare una seconda volta. Le luci della veranda vennero accese. Distante, ai confini tra la notte e la nebbia, il cane smise di abbaiare. Meno prudente del tipico contabile, forse reso più fiducioso dalle festività natalizie, Prosser aprì senza un attimo di esitazione. «Questo è per Zelda», dichiarò Junior, lanciandosi in avanti con il coltello. Sentì scoppiare dentro di sé una gioia sfrenata, come i fuochi d'artificio nel cielo notturno, simile all'ondata di eccitazione che aveva provato subito dopo la sua audace impresa sulla torre d'avvistamento. Fortunatamente, Junior non era emotivamente legato a Prosser, così come invece era stato con l'amata Naomi; di conseguenza, la purezza di quell'esperienza non venne in alcun modo diminuita dal rimpianto o dall'empatia. Così rapido, quell'atto di violenza, concluso quando stava appena cominciando. Tuttavia, essendo interessato unicamente all'azione in sé e non alle sue conseguenze, Junior non rimase deluso dalla brevità dell'eccitazione. Il passato era passato e, mentre chiudeva la porta d'ingresso e passava accanto al corpo, si concentrò sul futuro. Aveva agito d'impeto, con totale sprezzo del pericolo, senza accertarsi prima che Prosser fosse solo. Il contabile non viveva con nessuno, ma in quel momento poteva avere delle visite. Pronto ad affrontare qualsiasi evenienza, Junior si fermò e rimase in ascolto fino a quando non fu certo di non dover usare il coltello contro nessun altro. Si avviò direttamente verso la cucina e riempì un bicchiere con l'acqua del rubinetto. Ingoiò due compresse antiemetiche che si era portato dietro per prevenire un attacco di vomito. In precedenza, prima di uscire di casa, aveva assunto una dose di cal-
mante. Almeno per il momento, il suo intestino sembrava tranquillo. Curioso, come sempre, di sapere come vivevano gli altri - o per meglio dire, in questo caso, come avevano vissuto - Junior fece un giro della casa, guardando nei cassetti e negli armadi. Per essere un vedovo, Bartholomew Prosser era ordinato e ben organizzato. In confronto alle altre case che aveva visitato, questa era decisamente una delle meno interessanti. Il contabile sembrava non avere una vita privata, nessun interesse perverso che teneva nascosto al resto del mondo. Le cose più ignobili che Junior scoprì furono le «opere d'arte» appese alle pareti. Realismo di cattivo gusto. Luminosi paesaggi. Nature morte di frutta e fiori. Perfino un ritratto idealizzato di Prosser, della defunta moglie e di Zelda. Non uno di quei quadri testimoniava la desolazione e il terrore della condizione umana: erano oggetti decorativi, non opere d'arte. Nel soggiorno vi era un albero di Natale e, sotto l'albero, alcuni regali accuratamente confezionati. Junior si divertì ad aprirli tutti, ma non trovò nulla che desiderasse tenere. Uscì dalla porta posteriore, per evitare la pozza di sangue che imbrattava il pavimento dell'ingresso. La nebbia lo avvolse, fresca e rasserenante. Mentre guidava verso casa, si fermò a Larkspur per buttare il coltello in un canale di scarico delle acque piovane. Si liberò dei guanti, gettandoli in un cassonetto di Corte Madera. Tornato in città, si fermò per regalare l'impermeabile a un senzatetto, che non diede molta importanza ad alcune strane macchie. Quel povero barbone accettò con gioia l'elegante capo, lo indossò... poi insulto il suo benefattore, gli sputò contro e lo minacciò con un martello a granchio. Junior era troppo realista per aspettarsi un po' di gratitudine. Rientrato nel suo appartamento, sorseggiando un bicchiere di cognac e sgranocchiando pistacchi, mentre il lunedì lasciava il posto al martedì, decise che doveva prendere delle precauzioni nel caso che un giorno, nonostante tutta la sua prudenza, avesse lasciato dietro di sé qualche prova in grado di incriminarlo. Doveva convenire una parte delle sue proprietà in qualcosa di anonimo e facilmente trasportabile, come monete d'oro e diamanti. Sarebbe stato inoltre opportuno crearsi due o tre identità alternative, con i relativi documenti. Nel corso delle ultime ore, aveva nuovamente cambiato la sua vita, così come era avvenuto quasi tre anni prima, su quella torre di avvistamento, e in modo altrettanto sensazionale.
Quando aveva spinto Naomi, lo aveva fatto per denaro. Aveva ucciso Victoria e Vanadium per difendersi. Erano state tre morti necessarie. Ma aveva pugnalato Prosser unicamente per dare sollievo alla sua frustrazione, per ravvivare la noiosa routine di una vita resa malinconica dalla ricerca di Bartholomew e dal sesso senza amore. In cambio di un po' di eccitazione, si era assunto rischi maggiori; per limitare gli eventuali danni, doveva assicurarsi contro i rischi. A letto, con le luci spente, si soffermò a pensare con meraviglia alla sua temerarietà. Non smetteva mai di restare sorpreso di se stesso. Non si sentiva perseguitato né dal senso di colpa, né dal rimorso. Il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, non lo riguardavano. Le azioni o erano efficaci o erano inutili, intelligenti o stupide, ma, da un punto di vista morale, erano del tutto indifferenti. Non dubitò neppure della sua sanità mentale, come avrebbe potuto fare un individuo meno evoluto. Nessun uomo malato di mente si sforza di ampliare il suo vocabolario, né di approfondire la sua comprensione della cultura. Tuttavia, si chiese per quale motivo avesse scelto proprio quella sera per diventare un avventuriero ancora più spericolato, piuttosto che un mese prima o un mese dopo. L'istinto gli diceva che aveva sentito la necessità di mettersi alla prova, che si stava avvicinando rapidamente una crisi e che, per essere pronto ad affrontarla, doveva avere la certezza di riuscire a fare ciò che andava fatto al momento opportuno. Mentre scivolava nel sonno, Junior ebbe il sospetto che l'omicidio di Prosser non fosse stato tanto un divertimento, quanto una preparazione. Il resto della preparazione - l'acquisto delle monete d'oro e dei diamanti, la creazione di false identità - dovette essere posticipata per via dell'orticaria. Un'ora prima dell'alba, Junior si svegliò in preda a un violento prurito, che questa volta non si limitava all'alluce mancante. Tutto il suo corpo, ogni superficie, ogni fessura, pizzicava, formicolava, bruciava come in preda alla febbre... e prudeva. Rabbrividendo, grattandosi furiosamente, barcollò fino al bagno. Guardandosi nello specchio, vide un volto che riuscì a malapena a riconoscere. Gonfio, bitorzoluto, disseminato di macchioline rosse. Per quarantotto ore, si ingozzò di antistaminici, si immerse in vasche colme d'acqua gelida e si ricoprì dalla testa ai piedi di lozioni emollienti. Disperato, in preda all'autocommiserazione, nùn osò pensare alla pistola calibro 9 che aveva rubato a Frieda Bliss.
Per giovedì, lo sfogo era passato. Dato che era riuscito a mantenere il controllo di sé, evitando di graffiarsi il viso e le mani, era abbastanza presentabile da poter uscire; tuttavia, se i passanti avessero potuto vedere le croste e i graffi infiammati che gli tatuavano il corpo e gli arti, sarebbero fuggiti precipitosamente, certi che nella città fosse scoppiata un'epidemia di peste bubbonica o anche peggio. Nel corso dei successivi dieci giorni, ritirò del denaro da diversi conti correnti e convertì in liquidi alcuni titoli selezionati. Cercò anche una persona in grado di fornirgli documenti d'identità perfettamente contraffatti. L'impresa si rivelò più facile di quanto si fosse aspettato. Tra le donne che erano state sue amanti, un numero incredibilmente alto faceva uso saltuario di droghe e, negli ultimi due anni, Junior aveva conosciuto diversi spacciatori che le rifornivano. Si rivolse a quello che gli sembrava moralmente più abietto e, per rendersi credibile, acquistò cocaina e LSD per un totale di cinquemila dollari, dopo di che si informò su dove trovare documenti falsi. Attraverso un intermediario, Junior fu messo in contatto con un falsificatore di documenti chiamato Google. Non era il suo vero nome, ma con quegli occhi strabici, le labbra grosse e l'enorme pomo d'Adamo, era un Barney Google perfetto. Dato che le droghe rendono vano qualsiasi tentativo di autorealizzazione, Junior non sapeva che farsene della cocaina e dell'acido. Non osava venderli per recuperare i suoi soldi; nemmeno per cinquemila dollari valeva la pena di rischiare l'arresto. Così, regalò le sostanze a un gruppo di ragazzini che giocavano a pallacanestro nel cortile di una scuola, augurando loro buon Natale. Il 24 dicembre iniziò con la pioggia, ma subito dopo l'alba il temporale si spostò a sud. La luce del sole inondò la città e le strade si riempirono di gente che faceva gli ultimi acquisti. Junior si unì alla folla, anche se non aveva regali da comprare, né apprezzava in modo particolare le festività. Aveva soltanto bisogno di uscire dal suo appartamento, perché era convinto che, ben presto, la cantante fantasma avrebbe ricominciato a perseguitarlo. Non cantava dalle prime ore del mattino del 18 ottobre e, da allora, non si era verificato più alcun fenomeno paranormale. L'attesa tra una manifestazione e l'altra innervosiva Junior più dell'evento in sé.
Doveva succedere qualcosa in quella strana, lunga persecuzione che ormai durava da più di due anni, ovvero da quando Junior aveva trovato la moneta nel panino. Mentre tutt'intorno a lui la gente si affrettava allegramente, Junior camminava piano ed era di pessimo umore perché, in quel momento, si era dimenticato di cercare il lato positivo delle cose. Dato che era un amante dell'arte, inevitabilmente il suo vagabondare lo portò a fermarsi davanti a numerose gallerie. Nella vetrina della quarta, non una delle sue preferite, vide una fotografia, formato venti per venticinque, di Seraphim White. La ragazza sorrideva, incredibilmente bella come Junior la ricordava, ma non aveva più quindici anni come quando lui l'aveva vista per l'ultima volta. Dalla sua morte, avvenuta ormai quasi tre anni prima, era maturata e si era fatta ancora più attraente. Se Junior non fosse stato un uomo assolutamente razionale, che aveva imparato, attraverso i libri di Caesar Zedd, a seguire la logica e la ragione, sarebbe crollato lì, in mezzo alla strada, davanti alla foto di Seraphim, mettendosi a tremare, a singhiozzare e a balbettare fino a quando non l'avessero rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Ma sebbene si sentisse le ginocchia di gelatina, riuscì comunque a restare in piedi. Aveva difficoltà a respirare, gli si era oscurata la vista e all'improvviso il rumore del traffico risonava nelle sue orecchie come le urla di dolore di persone torturate oltre il limite della sopportazione, ma riuscì a restare cosciente abbastanza a lungo da rendersi conto che il nome scritto a caratteri cubitali sotto la foto, che occupava la parte centrale del poster, era Celestina White, non Seraphim. Il poster annunciava la mostra, intitolata: «Questo giorno straordinario», della giovane artista Celestina White. L'esposizione sarebbe iniziata venerdì, 12 gennaio, e sarebbe durata fino a sabato, 27 gennaio. Con aria circospetta, Junior entrò nella galleria per chiedere informazioni. Era convinto che il personale lo avrebbe guardato perplesso nel momento in cui lui avesse citato il nome di Celestina White; era convinto che, tornando alla vetrina, avrebbe visto che il poster era scomparso. Al contrario, gli fu consegnato un piccolo opuscolo a colori contenente la riproduzione di alcune opere dell'artista. Vi era anche la stessa fotografia del suo volto sorridente che illuminava la vetrina. Secondo le brevi note biografiche riportate nell'opuscolo, Celestina White si era diplomata all'Accademia di Belle Arti di San Francisco. Era nata e cresciuta a Spruce Hills, nell'Oregon, ed era figlia di un pastore protestante.
58 Ad Agnes era sempre piaciuta la cena della vigilia di Natale con Edom e Jacob perché, in quella sera così speciale, perfino loro riuscivano a essere meno pessimisti. Non sapeva se fosse merito delle festività o se si sforzavano di riuscirle ancor più graditi. Se il dolce Edom parlava di tornado assassini o se il caro Jacob si ricordava di spaventose esplosioni, in quell'occasione evitavano di soffermarsi sulle tragiche morti, come facevano di solito, ma preferivano sottolineare il coraggio dimostrato da alcuni individui nel bel mezzo della catastrofe, riferivano di incredibili salvataggi e di fughe miracolose. Ora che c'era anche Barty, le cene della vigilia di Natale erano ancora più piacevoli, soprattutto adesso che aveva quasi tre anni e che parlava come un adulto. Raccontò delle visite agli amici che lui, sua madre ed Edom avevano fatto durante la giornata, parlò di Padre Brown, come se il prete-investigatore fosse reale, dei rospi che, quando lui e sua madre erano tornati dal cimitero, stavano cantando e saltando nelle pozzanghere; tutti restavano incantati ad ascoltare le sue chiacchiere perché, pur avendo la freschezza e l'ingenuità di un bambino, contenevano osservazioni abbastanza mature da renderle interessanti anche per gli adulti. Ma, dalla zuppa di mais al prosciutto al forno al dolce di prugne, non fece mai cenno alla sua passeggiata «asciutta» sotto la pioggia. Agnes non gli aveva chiesto di non rivelare agli zii quanto era accaduto. Anzi, era tornata a casa in una condizione di spirito così strana che, anche mentre preparava la cena aiutata da Jacob e controllava che Edom apparecchiasse la tavola nel modo migliore, era rimasta in dubbio se rivelare ai fratelli ciò che era accaduto durante il tragitto dalla tomba di Joey alla macchina. Continuò a passare da una prudente euforia a una paura al limite del panico e riteneva fosse meglio prendersi più tempo per assimilare quell'esperienza, prima di parlarne con qualcuno. Quella sera, nella cameretta di Barty, dopo averlo ascoltato mentre recitava le preghiere e avergli rimboccato le coperte, Agnes si sedette sul bordo del letto. «Tesoro, mi chiedevo... ora che hai avuto più tempo per pensarci, riesci a spiegarmi quello che è successo?» Scosse la testa sul cuscino. «No. È qualcosa che devi semplicemente sentire.» «Tutti i modi in cui sono le cose.»
«Sì.» «Nei prossimi giorni dovremo parlarne a lungo, intanto avremo tutti e due più tempo per pensarci.» «Me l'immaginavo.» Smorzata dal paralume di shantung, la lampada sul comodino diffondeva un chiarore dorato sul volto liscio del bambino, ma rifletteva bagliori di zaffiro e smeraldo nei suoi occhi. «Non ne hai parlato con zio Edom e zio Jacob», gli fece notare Agnes. «Meglio di no.» «Perché?» «Tu ti sei spaventata, vero?» «Sì, ho avuto paura.» Non gli disse che i suoi timori non erano stati in alcun modo placati dai tentativi di Barty di rassicurarla e neppure dalla sua seconda passeggiata sotto la pioggia. «E tu», proseguì Barty, «non hai mai paura di nulla.» «Vuoi dire... che Edom e Jacob hanno già paura di tante cose?» Il bambino annuì. «Se gliel'avessi detto, magari avrebbero dovuto lavarsi le mutande.» «Dove hai sentito dire quella frase?» volle sapere lei con aria severa, anche se non riusciva a nascondere il suo divertimento. Barty sorrise con aria birichina. «In una delle case che abbiamo visitato oggi. C'erano dei ragazzi grandi. Avevano visto un film dell'orrore e hanno detto che dopo avevano dovuto lavarsi le mutande.» «I ragazzi grandi, solo perché sono grandi, non vuol dire che siano sempre da imitare.» «Sì, lo so.» Agnes esitò. «Edom e Jacob hanno avuto una vita difficile, Barty.» «Erano minatori?» «Che cosa?» «Alla televisione, dicevano che i minatori hanno una vita difficile.» «Non soltanto i minatori. Anche se, per certi versi, ragioni da adulto, sei ancora troppo giovane perché possa spiegartelo. Un giorno lo farò.» «Okay.» «Te lo ricordi, abbiamo già parlato di tutte le storie che loro raccontano sempre.» «Uragano. 1900, a Galveston, nel Texas. Seimila morti.» Corrugando la fronte, Agnes confermò. «Sì, quelle storie. Vedi tesoro, quando lo zio Edom e lo zio Jacob continuano a raccontare di tempeste che
spazzano via la gente e di esplosioni che le fanno saltare in aria... questa non è la vita.» «Però succede», ribatté il bambino. «Sì. Sì, sono cose che succedono.» Recentemente Agnes aveva cercato di trovare un modo per spiegare a Barty che gli zii avevano perso la speranza, di fargli anche comprendere che cosa significasse vivere senza speranza, ma allo stesso tempo doveva spiegare tutto questo senza opprimerlo... era così piccolo... con i particolari di ciò che il nonno, il padre di Agnes, aveva fatto a lei e ai suoi fratelli. Ma era un'impresa che superava le sue capacità. Il fatto che Barty fosse un bambino prodigio non rendeva il compito più semplice perché, per riuscire a comprendere Agnes, Barty avrebbe avuto bisogno di esperienza e di maturità emotiva, non solo di intelligenza. Sentendosi ancora una volta frustrata, Agnes disse semplicemente: «Ogni volta che Edom e Jacob parlano di queste cose, voglio che tu tenga sempre ben presente che la vita è vivere ed essere felici, non morire». «Vorrei tanto che lo sapessero anche loro», commentò Barty. Agnes lo adorava, anche solo per quelle parole. «Anch'io, tesoro. Buon Dio, lo vorrei anch'io.» Lo baciò sulla fronte. «Ascolta, piccolino, nonostante le loro storie e il loro strano modo di comportarsi, i tuoi zii sono brave persone.» «Certo, lo so.» «E ti vogliono tanto bene.» «Anch'io gli voglio bene, mamma.» In precedenza, le nuvole simili a lenzuola sporche si erano asciugate. Adesso, gli alberi intorno alla casa avevano finalmente smesso di gocciolare sul tetto ricoperto di assicelle di cedro. La notte era così silenziosa che Agnes riusciva a sentire le onde del mare infrangersi dolcemente sulla spiaggia, a quasi un chilometro di distanza. «Hai sonno?» gli domandò. «Un po'.» «Se non ti addormenti, Babbo Natale non arriverà.» «Non sono sicuro che esista davvero.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Qualcosa che ho letto.» Agnes si sentì trafiggere da una punta di rimpianto, la precocità di suo figlio le negava il piacere di abbandonarsi a una così bella fantasia, così come il padre di Agnes l'aveva negata a lei. «Certo che esiste», confermò.
«Lo credi davvero?» «Non solo lo credo. E non solo lo so per certo. Lo sento, esattamente come tu senti tutti i modi in cui sono le cose. E ci scommetterei che lo senti anche tu.» Anche se erano sempre luminosi, gli occhi simili a gioielli di Barty brillarono ancor di più, illuminati dalla magia di un Polo Nord incantato «Forse lo sento davvero.» «Se non lo facessi, vorrebbe dire che la tua speciale ghiandola del sentimento non funziona. Vuoi che ti legga qualcosa per farti addormentare?» «No, fa niente. Chiuderò gli occhi e mi racconterò una storia.» Gli baciò una guancia e gli tolse le braccia da sotto le coperte perché lui potesse stringerla a sé. Braccia tanto piccole, ma una stretta così forte. Mentre gli rimboccava nuovamente le coperte, Agnes soggiunse: «Barty, penso che non dovresti mostrare a nessun altro come riesci a camminare sotto la pioggia senza bagnarti. Né a Edom, né a Jacob. A nessuno. E se scopri di essere in grado di fare qualcos'altro di speciale... dovrebbe restare un segreto tra te e me». «Perché?» Aggrottando la fronte e stringendo gli occhi come se stesse per rimproverarlo, Agnes abbassò lentamente il viso fino a quando i loro nasi non si toccarono, poi bisbigliò: «Perché, se è un segreto, è più divertente». Adeguandosi al sussurro della madre, evidentemente divertito da quell'aria cospiratoria, Barty disse: «La nostra società segreta». «Che cosa ne sai di società segrete?» «Solo quello che ho letto nei libri e ho visto alla televisione.» «E cioè?» Barty spalancò gli occhi e, fingendosi impaurito, rispose con voce roca: «Sono sempre... malvagie». Il sussurro di Agnes si fece ancora più roco. «Dovremmo essere malvagi?» «Forse.» «Che cosa succede alle persone che fanno parte delle malvagie società segrete?» «Vanno in prigione», bisbigliò lui in tono solenne. «Allora non dobbiamo essere malvagi.» «Okay.» «La nostra sarà una buona società segreta.» «Dobbiamo darci una stretta di mano segreta.»
«Ma no. Tutte le società segrete hanno una stretta di mano segreta. Noi invece faremo questo.» Agnes era ancora china su Barty e prese a strofinare il suo naso contro quello del bambino. Il piccolo soffocò una risatina. «E una parola segreta.» «Eskimo.» «E un nome.» «La Società del Polo Nord degli Avventurieri non Malvagi.» «Che nome fantastico!» Ancora una volta, Agnes strofinò il naso contro quello del bambino, lo baciò e si alzò in piedi. Sollevando lo sguardo verso di lei, Barty annunciò: «Mamma, hai un'aureola». «Sei davvero un tesoro, piccolino.» «No, ce l'hai davvero.» Agnes spense l'abat-jour. «Sogni d'oro, angioletto.» Nonostante la porta aperta, la fioca luce del corridoio non riusciva a penetrare molto nella camera. Dal buio del suo lettino, Barty esclamò: «Oh, guarda! Le luci di Natale». Immaginando che il bambino avesse chiuso gli occhi e stesse parlando tra sé e sé, a metà strada tra la fiaba che si stava raccontando e un sogno, Agnes uscì dalla stanza, socchiudendo la porta alle sue spalle. «Buona notte, mamma.» «Buona notte», bisbigliò lei. Poi spense la luce del corridoio e rimase accanto alla porta socchiusa, in ascolto, in attesa. Nella casa regnava un tale silenzio che Agnes non riusciva neppure a sentire le sofferenze del passato. Sebbene avesse visto la neve solo nelle fotografie e nei film, quel silenzio così profondo sembrava parlare di fiocchi che cadevano e di bianche distese, e non sarebbe certo rimasta sorpresa se, uscendo di casa, si fosse trovata in mezzo a uno scintillante paesaggio invernale, freddo e cristallino, proprio lì, sulle mai-innevate colline e spiagge della costa californiana. Quel suo figlio così speciale, capace di camminare dove non c'era la pioggia, aveva reso possibile ogni cosa. Dal buio della sua stanzetta, Barty pronunciò le parole che Agnes si era aspettata di sentire, il suo sussurro basso e allo stesso tempo riecheggiante nel silenzio della casa: «Buona notte, papà».
Quando, nelle altre sere, aveva sentito quelle parole, ne era rimasta commossa. Ma, in quella vigilia di Natale, la colmarono di meraviglia e di perplessità, perché le tornò alla mente la conversazione di qualche ora prima, davanti alla tomba di Joey. Vorrei tanto che il tuo papà avesse potuto conoscerti. Da qualche parte, lo fa. Papà è morto qui, ma non è morto in tutti i posti dove sono. Per me, qui è un posto triste, ma non è triste dappertutto. Silenziosamente, a malincuore, Agnes chiuse quasi completamente la porta e scese in cucina, dove si fermò a bere una tazza di caffè e a rimuginare sui misteri. Di tutti i pacchetti che Barty aprì la mattina di Natale, il regalo che preferì fu una copia rilegata del romanzo di Robert Heinlein Il cucciolo spaziale. Affascinato dalla promessa di una creatura aliena, di viaggi spaziali, di uno strano futuro e di tante avventure, durante la giornata colse ogni possibile occasione per dare una sbirciatina al libro e abbandonare Bright Beach per tuffarsi in luoghi sconosciuti. Essendo espansivo tanto quanto i suoi zii erano introversi, Barty adorava i giorni di festa. Agnes non aveva mai bisogno di ricordargli che la famiglia e gli ospiti avevano la precedenza anche sul personaggio più affascinante di un romanzo e la disponibilità del bambino a stare in compagnia rendeva felice sua madre e la colmava d'orgoglio. Dalla tarda mattinata fino all'ora di cena, fu un continuo andirivieni di ospiti, si brindò a un felice Natale e alla pace sulla terra, alla salute e alla felicità, si ricordarono i Natali degli anni precedenti, si commentò con stupore il primo trapianto di cuore eseguito in Sudafrica proprio in quel mese, ci si augurò che i soldati che combattevano nel Vietnam tornassero presto a casa e che Bright Beach non perdesse nemmeno uno dei suoi figli in quelle giungle lontane. Nel corso degli anni, le allegre ondate di amici e vicini avevano cancellato quasi tutte le macchie che la cupa ira del padre di Agnes aveva lasciato in quelle stanze. Lei sperava che, alla fine, i suoi fratelli riuscissero a vedere che l'odio e la rabbia erano soltanto tracce su una spiaggia, mentre l'amore era l'onda che si infrangeva incessantemente sulla sabbia, lasciandola liscia e senza segni. Maria Elena Gonzalez - non più rammendatrice, ma proprietaria dell'Elena's Fashions, un piccolo negozio di abbigliamento a un isolato dal centro della città - venne a trascorrere la sera di Natale con Agnes, Barty, E-
dom e Jacob. Portò con sé le due figlie, Bonita, di sette anni, e Francesca, di sei, che arrivarono con le loro nuove Barbie, gli amici di Barbie, Casey e Tutti, sua sorella Skipper e il fascinoso Ken - e ben presto le bambine riuscirono a coinvolgere un Barty entusiasta in un mondo di fantasia completamente diverso da quello in cui il giovane protagonista del romanzo di Heinlein possedeva uno straordinario cucciolo alieno con otto zampe, il carattere di un micio e la capacità di divorare qualsiasi cosa, dai grizzly alle Buick. Più tardi, quando tutti e sette furono riuniti intorno al tavolo, gli adulti innalzarono i loro calici colmi di Chardonnay, i bambini levarono in alto i loro bicchieri pieni di Pepsi e Maria si incaricò di pronunciare un discorsetto prima del brindisi. «A Bartholomew, il ritratto di suo padre, che era l'uomo più gentile che io abbia mai conosciuto. Alle mie Bonita e Francesca, che mi rallegrano le giornate. A Edom e Jacob, dal quale... dai quali ho appreso tante cose che mi hanno fatta riflettere sulla fragilità della vita e mi hanno permesso di comprendere quanto sia prezioso ogni giorno. E ad Agnes, la mia più cara amica, che mi ha dato tanto, davvero tanto, comprese tutte queste parole. Che Dio vi benedica tutti.» «Che Dio ci benedica tutti», ripeté Agnes insieme agli altri e, dopo un sorso di vino, fingendo di dover controllare qualcosa in cucina, corse ad asciugarsi le lacrime e a premersi sulle palpebre uno strofinaccio freddo e leggermente inumidito per evitare che le si gonfiassero gli occhi. In quei giorni, le capitava spesso di ritrovarsi a spiegare a Barty alcuni aspetti della vita che aveva immaginato di dover discutere solo fra molti anni. Ora si chiese come poteva fargli capire questo: la vita può essere così bella, così piena, che a volte la felicità è intensa quasi quanto il dolore, e sentiamo che il cuore ci fa male, come se stesse per scoppiare. Quando ebbe finito di premersi lo strofinaccio da cucina sugli occhi, tornò in sala da pranzo e, sebbene la cena fosse già iniziata, Agnes volle fare un altro brindisi. Levando in alto il bicchiere, disse: «A Maria, che è più di un'amica. È una sorella. Non posso permetterti di parlare di ciò che io ti ho dato, senza raccontare alle tue bambine ciò che tu hai dato a me. Mi hai insegnato che il mondo è semplice come il cucito e che quelli che sembrano i problemi più terribili possono essere sistemati, riparati». Sollevò ancor di più il bicchiere. «Prima gallina venire con primo uovo già dentro. Che Dio ci benedica.» «Che Dio ci benedica», ripeterono tutti.
Maria, dopo un unico sorso di Chardonnay, scappò in cucina perché doveva assolutamente controllare lo sformato di albicocche che aveva portato, ma in realtà per premersi sugli occhi uno strofinaccio da cucina freddo e leggermente inumidito. I bambini insistettero per sapere che cosa significava quella storia della gallina e da questo si passò a una serie di indovinelli, che Edom e Jacob avevano memorizzato da bambini in segno di ribellione nei confronti del padre, un uomo totalmente privo di senso dell'umorismo. Più tardi, mentre Bonita e Francesca servivano orgogliosamente le porzioni di sformato, che la madre aveva tagliato a forma di albero di Natale e che loro stesse avevano messo nei piattini, Barty si chinò verso la madre e, indicando il tavolo di fronte a loro, mormorò pieno di eccitazione: «Guarda gli arcobaleni!» Con lo sguardo, Agnes seguì il dito teso ma non riuscì a vedere ciò che il bambino le indicava. «In mezzo alle candele», spiegò lui. Stavano cenando a lume di candela. Sulla credenza, dall'altra parte della stanza, erano state disposte alcune candele al profumo di vaniglia, le cui fiammelle brillavano attraverso dei contenitori di vetro, ma Barty stava indicando cinque grosse candele che facevano parte del centrotavola di rametti di pino e garofani bianchi. «In mezzo alle fiammelle, vedi? Gli arcobaleni.» Agnes non vedeva archi di colore tra una candela e l'altra e pensò che il bambino volesse dirle di guardare attraverso le sfaccettature dei bicchieri di cristallo, in cui si riflettevano le fiamme. Qua e là, l'effetto prismatico del cristallo rendeva i riflessi della luce colorati in varie tonalità di rosso-arancio-giallo-verdeblu-indaco-violetto che sembravano danzare lungo i bordi molati. Quando anche l'ultima porzione di sformato fu servita e le figlie di Maria furono tornate al loro posto, Barty sbatté le palpebre e disse: «Spariti», anche se i riflessi colorati continuavano a luccicare sulle sfaccettature del cristallo. Poi il bambino si concentrò sullo sformato con tanto entusiasmo che, ben presto, sua madre smise di pensare agli arcobaleni. Dopo che Maria, Bonita e Francesca se ne furono andate, mentre Agnes e i suoi fratelli sparecchiavano la tavola e lavavano i piatti, Barty diede loro il bacio della buonanotte e si ritirò nella sua cameretta con la copia de Il cucciolo spaziale. Era rimasto sveglio due ore più del solito. Negli ultimi mesi, il suo son-
no si era fatto irregolare, cosa che succedeva anche agli altri bambini. In alcune sere, sembrava possedere il ritmo circadiano dei gufi e dei pipistrelli; dopo essere rimasto semiaddormentato per tutto il giorno, subito dopo il tramonto si svegliava improvvisamente, era pieno di energie e voleva continuare a leggere fin dopo mezzanotte. Per sapere come comportarsi, Agnes non poteva affidarsi interamente ai manuali sull'educazione dei bambini che trovava in biblioteca. Le straordinarie capacità di Barty la mettevano di fronte a problemi molto particolari. Così, quando suo figlio le chiese di poter restare sveglio per leggere le avventure di John Thomas Stuart e di Lummox, il cucciolo alieno di John, lei glielo permise. Alle ventidue e quarantacinque, mentre andava a dormire, Agnes si fermò in camera di Barty e lo trovò seduto, con la schiena appoggiata ai cuscini. Il libro non era particolarmente grosso, ma lo era in proporzione al bambino; incapace di tenerlo aperto unicamente con le mani, Barty aveva appoggiato tutto il braccio sinistro sulla parte superiore del volume. «È una bella storia?» domandò Agnes. Barty sollevò lo sguardo. «Fantastica!» e ritornò subito al romanzo. Agnes si svegliò all'una e cinquanta in preda a una vaga apprensione, il cui motivo non le era chiaro. Frammenti di chiaro di luna alla finestra. La grande quercia in giardino, che dormiva nel letto della notte. La casa silenziosa. Né intrusi, né fantasmi in azione. Sentendosi comunque inquieta, Agnes uscì in corridoio, entrò nella camera del figlio e scoprì che si era addormentato mentre leggeva, ancora seduto. Gli tolse delicatamente il libro dalle braccia, segnò la pagina a cui era arrivato inserendovi il risvolto della copertina e posò il volume sul comodino. Mentre Agnes gli faceva scivolare da dietro la schiena i cuscini in eccesso e lo faceva sdraiare sotto le coperte, Barty riemerse quasi totalmente dal sonno, borbottando che la polizia avrebbe ucciso il povero Lummox, anche se lui non aveva avuto l'intenzione di combinare tutti quei guai, si era solo spaventato sentendo gli spari e, quando uno pesa sei tonnellate e ha otto zampe, a volte non riesce a muoversi in un piccolo spazio senza far cadere qualcosa. «Non ti preoccupare», sussurrò Agnes. «A Lummox non succederà nulla.» Il bambino chiuse nuovamente gli occhi e sembrò essersi addormentato,
ma poi, mentre sua madre spegneva l'abat-jour, mormorò: «Hai di nuovo l'aureola». *** La mattina successiva, dopo aver fatto la doccia ed essersi vestita, Agnes scese al pianterreno e vide che Barty era già in cucina, stava facendo colazione con una tazza di cereali, tutto preso dalla lettura del suo libro. Una volta finita la colazione, il bambino tornò in camera, sempre continuando a leggere il romanzo. All'ora di pranzo, aveva già terminato il libro ed era così preso da quella storia che sembrava che nel suo stomaco non vi fosse più spazio per il cibo. Mentre la madre continuava a ricordargli di mangiare, Barty le raccontò tutti i particolari delle straordinarie avventure di John Thomas Stuart e di Lummox, come se ogni parola scritta da Heinlein non fosse fantascienza, ma verità. Poi si rannicchiò in una delle grosse poltrone del soggiorno e ricominciò il libro. Era la prima volta che rileggeva un romanzo... e per mezzanotte riuscì a finirlo. Il giorno seguente, mercoledì 27 dicembre, sua madre lo accompagnò in biblioteca, dove lui scelse due romanzi di Heinlein raccomandati dalla bibliotecaria: Il pianeta rosso e L'invasione dei gattopiatti. Tornando a casa, a giudicare da come era agitato in macchina, era chiaro che i gialli che aveva letto in precedenza lo avevano piacevolmente colpito, mentre in questo caso si trattava di amore eterno e assoluto. Agnes si accorse che vedere suo figlio così preso da una nuova passione era per lei motivo di grande gioia. Attraverso Barty, percepiva come sarebbe potuta essere la sua infanzia se suo padre le avesse permesso di averne una e, a volte, ascoltando le esclamazioni di meraviglia del bambino per le passeggiate spaziali della famiglia Stone o per i misteri di Marte, scopriva che almeno una piccola parte della bambina viveva ancora in lei, una bambina che né la crudeltà, né il tempo erano riusciti a distruggere. Poco prima delle tre del pomeriggio di giovedì, tutto agitato, Barty si precipitò in cucina, dove Agnes stava preparando alcune torte all'uvetta. Tenendo Il pianeta rosso aperto alle pagine 104 e 105, si lamentò che la copia della biblioteca era difettosa. «Ci sono delle strane macchie, le lettere sono tutte contorte e non riesco a leggere esattamente le parole. Possiamo comprarne una copia, uscire e andare a comprarne una copia subito?»
Dopo essersi pulita le mani sporche di farina, Agnes prese il libro e, osservandolo attentamente, non vide nulla di strano. Tornò indietro di qualche pagina, poi andò avanti, ma le linee stampate erano nitide e perfettamente chiare. «Fammi vedere dove, tesoro.» Il bambino non rispose immediatamente e, quando Agnes sollevò lo sguardo da Il pianeta rosso, vide che il bambino la fissava in modo strano. Socchiuse gli occhi, come fosse perplesso, e disse: «Le macchioline storte sono saltate via dalla pagina e sono finite sulla tua faccia». Lo stato di vaga apprensione con il quale si era svegliata il martedì, all'una e cinquanta del mattino, di tanto in tanto si era ripresentato in quegli ultimi due giorni. Ora la assalì di nuovo, facendole bruciare la gola, stringendole il torace... cominciando infine a prendere forma. Barty le voltò le spalle e si guardò intorno nella cucina, poi disse: «Ah. Sono io la macchiolina contorta». Le tornarono alla mente aloni e arcobaleni, sinistri come mai erano stati prima. Agnes si lasciò cadere su un ginocchio di fronte al bambino e lo strinse delicatamente per le spalle. «Fammi vedere.» Barty la fissò, socchiudendo gli occhi. «Occhi ben spalancati, piccolo.» Lui li aprì. Zaffiri e smeraldi, gemme splendenti incastonate in un bianco purissimo, al centro, pupille di ebano. Stupendi misteri, quegli occhi, ma da quel che Agnes poteva vedere, uguali a come erano sempre stati. Avrebbe potuto attribuire il disturbo a un affaticamento della vista, considerato che il bambino aveva letto moltissimo negli ultimi giorni. Avrebbe potuto mettergli del collirio, dirgli di lasciar stare il libro per un po' e mandarlo in giardino a giocare. Avrebbe potuto dirsi di non fare come quelle madri che, a ogni starnuto, pensano subito alla polmonite e che, dietro a ogni mal di testa, vedono un tumore al cervello. Ma, cercando di evitare che Barty si accorgesse di quanto fosse preoccupata, gli suggerì di andare a prendere la giacca nell'armadio, mentre lei prendeva la sua e, lasciando le torte a metà, lo fece salire in macchina e lo portò nello studio del medico, perché Barty era il motivo per cui lei respirava, il motore del suo cuore, la sua speranza e la sua gioia, il suo eterno anello di congiunzione con il marito morto. Il dottor Joshua Nunn aveva solo quarantotto anni ma aveva un aspetto
da nonno già quando Agnes era andata da lui per la prima volta in qualità di paziente, dopo la morte di suo padre, più di dieci anni prima. Non aveva ancora trent'anni quando i capelli gli erano diventati di un bianco candido. Trascorreva ogni giorno libero dedicando tutte le sue premure alla Hippocratic Boat, una barca da pesca di sei metri, che grattava, verniciava, lucidava e riparava personalmente, oppure, a bordo dell'imbarcazione, gironzolava per la Bright Bay pescando come se il suo destino dipendesse dalle dimensioni dei pesci che abboccavano all'amo; in questo modo così tanto tempo sotto il sole e in mezzo al mare, che il suo volto perennemente abbronzato era rugoso intorno agli occhi e gradevolmente segnato come quello di un caro nonnino. Si dedicava alla manutenzione della sua barca con lo stesso impegno con cui manteneva una bella pancia tonda e un abbondante secondo mento; considerando poi gli occhiali con la montatura di metallo, il farfallino, le bretelle e le toppe ai gomiti della giacca, sembrava proprio che avesse scolpito il proprio aspetto fisico e scelto un determinato guardaroba con la precisa intenzione di mettere i pazienti a loro agio. Come sempre, era molto gentile con Barty e, in quell'occasione, riuscì a strappare al bambino più sorrisi e risatine del solito, mentre cercava di fargli leggere la tavola di Snellen appesa alla parete. Poi lo fece accomodare in un'altra stanza, smorzò le luci per esaminargli accuratamente gli occhi con un oftalmometro e un oftalmoscopio. Seduta in una poltroncina d'angolo, Agnes aveva l'impressione che Joshua stesse impiegando un tempo insolitamente lungo per un esame solitamente molto rapido. Era così preoccupata che l'abituale accuratezza del medico questa volta le sembrò carica di terribili significati. Una volta concluso l'esame, Joshua si scusò e tornò nel suo studio in fondo al corridoio. Vi rimase per alcuni minuti e, quando tornò indietro, disse a Barty di accomodarsi nella sala d'aspetto, dove la sua assistente teneva un barattolo di caramelle al gusto limone e arancia. «Non sono molti a chiamarsi come te, Bartholomew.» Quella lieve distorsione della vista, che gli rendeva diffìcile leggere i caratteri stampati, non sembrava peraltro disturbare molto il bambino. Si mosse con la consueta rapidità e sicurezza, e con quella sua grazia speciale. Rimasto solo con Agnes, il medico disse: «Voglio che lei porti Barty da uno specialista di Newport Beach, Franklin Chan. È un eccellente oftalmologo, specializzato in chirurgia oftalmologica, e attualmente qui in città non abbiamo nessuno al suo livello».
Agnes teneva le mani intrecciate in grembo, le teneva strette con tanta forza e da così tempo che le dolevano i muscoli dell'avambraccio. «Che cosa c'è che non va?» «Non sono un oculista, Agnes.» «Ma lei sospetta qualcosa.» «Non vorrei che si preoccupasse inutilmente...» «La prego. Mi dica qualcosa.» Il medico annuì. «Si sieda qui.» E con la mano batté sul lettino clinico. Agnes si sedette sul bordo del lettino, dove poco prima si era seduto Barty, e si ritrovò allo stesso livello degli occhi del medico. Prima che le mani di Agnes si intrecciassero ancora, Joshua gli tese le sue, abbronzate e rovinate dal lavoro. Lei le strinse forte, piena di gratitudine. «C'è un biancore nella pupilla destra di Barty», cominciò a spiegare il medico, «che penso indichi una crescita. Quando chiude l'occhio destro le distorsioni della vista permangono, anche se sono in qualche modo diverse, e questo sta a indicare che c'è un problema anche nel sinistro, sebbene io non sia in grado di vedervi nulla. Il dottor Chan domani è impegnato tutto il giorno ma, per farmi un favore, è disposto a vedervi domani mattina prima dell'orario di visita. Dovrete uscire di casa piuttosto presto.» Newport Beach si trovava lungo la costa, a quasi un'ora di distanza. «E», l'avvertì Joshua, «sarà meglio prepararsi per una lunga giornata. Sono quasi certo che il dottor Chan vorrà consultarsi con un oncologo.» «Cancro», bisbigliò Agnes, superstiziosamente rimproverandosi per aver pronunciato la parola a voce alta, come se in quel modo avesse dato forza al tumore maligno, permettendogli di continuare a esistere. «Non lo sappiamo ancora», cercò di rassicurarla Joshua. Ma lei lo sapeva. Barty, allegro come sempre, non sembrava molto preoccupato del disturbo alla vista. Sembrava che si aspettasse di vederlo scomparire come un attacco di starnuti o un raffreddore. L'unica cosa di cui gli importava era Il pianeta rosso e ciò che poteva succedere dopo pagina 103. Si era portato il libro nello studio del dottore e, mentre tornavano a casa, lo aprì più volte, strizzando gli occhi e cercando di leggere intorno o attraverso le macchie «contorte». «Jim, Frank e Willis sono proprio nei guai.» Agnes gli preparò una cenetta con i suoi cibi preferiti: hot dog con for-
maggio e patatine. Invece del latte, chinotto. Con Barty non sarebbe stata franca come aveva insistito che Joshua Nunn fosse con lei, anche perché era troppo sconvolta per abbandonarsi alla sincerità. In effetti le fu difficile parlare con il figlio con la consueta naturalezza. Nella propria voce, percepiva una nota di riservatezza di cui, prima o poi, il bambino si sarebbe accorto. Agnes temeva che la sua ansia potesse essere contagiosa, che quando la sua paura avesse infettato il bambino, Barty sarebbe stato meno in grado di combattere quella cosa odiosa, qualunque essa fosse, che si era insediata nel suo occhio destro. Robert Heinlein la salvò. Mentre mangiavano hot dog e patatine, Agnes lesse a Barty alcune pagine del libro, cominciando dall'inizio della pagina 104. In precedenza, il bambino l'aveva messa al corrente della storia abbastanza perché Agnes capisse di che cosa si trattava e, ben presto, si sentì sufficientemente presa dal racconto da riuscire a nascondere la sua angoscia. Poi andarono nella cameretta di Barty e rimasero seduti una accanto all'altro, con in mezzo un piatto di biscotti al cioccolato. Durante tutta quella serata, si lasciarono alle spalle la terra e i suoi problemi ed entrarono in un mondo d'avvenlura, dove l'amicizia, la lealtà, il coraggio e l'onore erano in grado di affrontare qualsiasi tumore maligno. Quando Agnes finì di leggere le ultime parole dell'ultima pagina, Barty aveva la mente piena di congetture, continuava a chiacchierare su quello che in seguilo sarebbe poluto accadere a quei personaggi che erano diventati suoi amici. Non smise di parlare neppure mentre si infilava il pigiama, faceva pipì, si spazzolava i denti e Agnes si domandò come avrebbe fatto a calmarlo e a farlo dormire. Ma lui si calmò, naturalmente. Prima ancora di quanto lei si aspettasse, Barty russava dolcemente. Una delle cose più difficili che avesse mai dovuto fare fu di lasciarlo in quel momento, da solo nella sua cameretta, con quella cosa odiosa che continuava silenziosamente a crescergli nell'occhio. Avrebbe voluto portare la poltrona accanto al suo letto e vegliare su di lui per tutta la notte. Ma se si fosse svegliato e l'avesse vista lì, Barty avrebbe capito che la sua malattia poteva essere molto grave. Quindi Agnes andò in camera sua e, come tante altre notti, cercò il conforto della roccia che era anche il suo faro di luce, del faro di luce che era
anche la sua fortezza, della fortezza che era anche il suo pastore. Chiese pietà, e se non poteva averla, chiese almeno la saggezza per comprendere il motivo per cui il suo bambino doveva soffrire. 59 In quella vigilia di Natale, Junior tornò al suo appartamento stringendo in una mano l'opuscolo della galleria e meditando su misteri che non avevano nulla a che fare con stelle comete e nascite miracolose. Mentre, fuori, la notte riversava la sua fuliggine sulle luci scintillanti della città, Junior si sedette nel soggiorno con un bicchiere di Dry Sack in una mano e la foto di Celestina White nell'altra. Sapeva con certezza che Seraphim era morta di parto. Aveva visto tutti quei negri riuniti nel cimitero per il suo funerale, nello stesso giorno in cui era stata seppellita Naomi. Aveva ascoltato il messaggio che Max Bellini aveva lasciato sull'Ansaphone di quel fanatico di Vanadium. E comunque, se Seraphim fosse stata ancora viva, avrebbe avuto solo diciannove anni, troppo giovane per essersi diplomata all'Accademia di Belle Arti. L'incredibile rassomiglianza tra quell'artista e Seraphim, nonché le note biografiche riportate sotto la foto, stavano a indicare che le due ragazze dovevano essere sorelle. Il che lasciava Junior alquanto perplesso. Per quanto ricordasse, durante le settimane in cui Seraphim era andata da lui per gli esercizi di fisioterapia, la ragazzina non aveva mai menzionato una sorella maggiore, né una sorella in generale. In effetti, per quanto si sforzasse di ricordare le loro conversazioni, a Junior non veniva in mente nulla di ciò che Seraphim aveva detto durante le sedute, era come se in quei giorni lui fosse stato completamente sordo. Gli unici particolari che gli erano rimasti impressi erano puramente carnali: la bellezza del suo viso, la compattezza della sua pelle, la tonicità della sua carne sotto le dita di Junior. Ancora una volta lasciò che la sua memoria affondasse nelle acque fangose di quella sera di quattro anni prima, quando aveva condiviso con Seraphim ore di intensa passione nella canonica. Ma di nuovo, non riuscì a ricordare nulla di ciò che la ragazza aveva detto, solo la sua incredibile bellezza, la perfezione del suo corpo. Nella casa del pastore, Junior non aveva notato nulla che facesse pensare
alla presenza di una sorella. Niente foto di famiglia, niente ritratto incorniciato del giorno del diploma. Naturalmente, consumato com'era dalla passione, l'ultima cosa che gli interessava era la famiglia di Seraphim. Inoltre, essendo un individuo proiettato verso il futuro e convinto che il passato fosse un peso di cui liberarsi, non cercava mai di conservare i ricordi. Al contrario della maggioranza delle persone, a Junior non piaceva affatto crogiolarsi nella nostalgia. Ma, aiutato dal Dry Sack, quello sforzo di memoria gli fece tornare in mente una sola cosa, oltre a tutte le immagini lussuriose di Seraphim nuda. La voce di suo padre. Sul registratore. Il reverendo che parlava e parlava, mentre Junior teneva la devota figlia inchiodata al materasso. Per quanto eccitante e vizioso fosse stato fare l'amore con la ragazza mentre ascoltava la bozza del sermone registrata, che Seraphim stava dattilografando per il padre, Junior non ricordava nulla di ciò che il reverendo aveva detto, solo il tono e il timbro della voce. Non sapeva se fosse il suo istinto, il nervosismo o semplicemente lo sherry, in ogni caso Junior era perseguitato dal pensiero che, in quella registrazione, vi fosse qualcosa di importante. Voltò l'opuscolo per guardare di nuovo la prima pagina. Un po' alla volta, sentì nascere in sé la sensazione che il titolo della mostra fosse ciò che gli aveva fatto tornare alla mente il sermone del reverendo. Questo giorno straordinario. Junior pronunciò a voce alta quelle tre parole e vi percepì una strana risonanza con i vaghi ricordi della voce del reverendo White udita in quella sera di tanto tempo prima. Tuttavia, il collegamento, se davvero esisteva, continuava a sfuggirgli. Le tre pagine dell'opuscolo mostravano alcuni dipinti di Celestina White, che Junior trovò estremamente ingenui, scialbi e insignificanti. I suoi lavori erano permeati da tutto ciò che i veri artisti disprezzano: particolari realistici, narrazione di un episodio, bellezza, ottimismo e perfino fascino. Quella non era arte. Era ruffianeria, semplice illustrazione, più adatta a dipinti su velluto che su tela. Esaminando attentamente l'opuscolo, Junior si convinse che la migliore reazione al lavoro di quell'artista era andare in bagno, infilarsi un dito in gola e vomitare. Tuttavia, considerata la sua anamnesi, non poteva permettersi il lusso di essere un critico così espressivo. Tornando in cucina per riempire nuovamente il bicchiere di ghiaccio e sherry, Junior si fermò a controllare sull'elenco telefonico di San Francisco
White Celestina. Il numero era indicato; l'indirizzo, no. Per un attimo pensò di telefonarle ma, se lei gli avesse risposto, lui non avrebbe saputo che cosa dire. Sebbene non credesse nel destino e in nient'altro che non fosse se stesso e la sua capacità di creare il proprio futuro, Junior non poteva negare che vi fosse qualcosa di straordinario nel fatto che quella donna avesse incrociato la sua strada proprio in quel periodo della sua vita, quando si sentiva così frustrato dalla sua incapacità di trovare Bartholomew da essere sul punto di ammalarsi, quand'era confuso e irritato per colpa della cantante fantasma e di altri episodi apparentemente sovrannaturali e, in generale, si sentiva depresso come mai gli era accaduto prima d'allora. Ma ecco che aveva trovato un collegamento con Seraphim e, attraverso Seraphim, con Bartholomew. I dati sull'adozione erano segreti per Celestina come per chiunque altro. Ma forse lei sapeva qualcosa, di cui Junior non era a conoscenza, sul destino del piccolo bastardo di sua sorella, un particolare che a lei poteva sembrare insignificante, ma che gli avrebbe permesso di riuscire finalmente a rintracciarlo. Doveva avvicinarla, seppure con grande cautela. Non doveva agire d'impulso. Bisognava pensarci attentamente. Studiare una strategia. Non poteva sprecare un'opportunità così preziosa. Con il bicchiere nuovamente colmo ed esaminando attentamente la fotografia di Celestina sull'opuscolo, Junior tornò nel soggiorno. Anche lei era di una bellezza straordinaria ma, al contrario della povera sorella, non era morta e poteva quindi rappresentare un'affascinante partner per una travolgente storia d'amore. Doveva riuscire a farsi dire da quella ragazza tutto ciò che sapeva e che poteva aiutare Junior a rintracciare Bartholomew, senza tuttavia metterla in allarme. Allo stesso tempo, non c'era motivo per cui non potessero spassarsela insieme, avere una storia, o addirittura un futuro insieme. Sarebbe stata davvero un'ironia della sorte se Celestina, la zia del piccolo bastardo di Seraphim, si fosse rivelata proprio la compagna che Junior aveva tanto desiderato trovare in quegli ultimi anni di rapporti insoddisfacenti e sesso casuale. Certo, era molto improbabile, considerata la scarsa qualità dei suoi dipinti, ma forse lui avrebbe potuto aiutarla a crescere e a evolversi come artista. Junior era un uomo di larghe vedute, privo di pregiudizi, quindi, una volta trovato e ucciso il bambino, poteva succedere qualsiasi cosa.
I sensuali ricordi di quell'ardente serata trascorsa con Seraphim avevano finito per eccitare Junior. Sfortunatamente, l'unico essere di sesso femminile nelle vicinanze era la Donna Industriale, e lui non era eccitato fino a quel punto. Per la vigilia di Natale, era stato invitato a una festa a tema: il satanismo, ma fino a quel momento non aveva avuto alcuna intenzione di parteciparvi. La festa non era stata organizzata da veri satanisti, che probabilmente sarebbe stato interessante, ma da un gruppo di giovani artisti, tutti non credenti, che avevano in comune uno strano senso dell'umorismo. Ma ora decise che, dopotutto, poteva anche accettare l'invito, forse alla festa avrebbe conosciuto una donna più adatta alle sue esigenze della scultura di Bavol Poriferan. Stava per uscire quando, ripensandoci, prese l'opuscolo della mostra «Questo giorno straordinario» e se lo infilò in una tasca della giacca. Ci sarebbe stato da divertirsi ad ascoltare un gruppo di giovani artisti d'avanguardia analizzare i banali dipinti di Celestina. Oltretutto, dato che l'Accademia di Belle Arti era, nel suo genere, la scuola più importante della costa occidentale, non era improbabile che alcuni di loro la conoscessero e fossero in grado di fornirgli alcune preziose informazioni. La festa si svolgeva in un'enorme soffitta al terzo e ultimo piano di un ex edifìcio industriale, trasformato in residenza comune e studio da un gruppo di artisti convinti che l'arte, il sesso e la politica fossero le tre armi per combattere una rivoluzione violenta, o qualcosa del genere. Un impianto stereo a propulsione nucleare sparava a tutto volume Doors, Jefferson Airplane, Mamas and Papas, Strawberry Alarm Clock, Country Joe and the Fish, Lovin' Spoonful, Donovan (purtroppo), Rolling Stones (irritante) e Beatles (insopportabile). Megatoni di musica rimbalzavano in modo assordante dalle pareti di mattoni e facevano tremare le numerose finestre dall'intelaiatura di metallo come le membrane dei tamburi di una banda militare in marcia, suscitando allo stesso tempo un senso di gioia e di disperazione, la sensazione che la fine del mondo stesse per arrivare ma che, comunque, sarebbe stata divertente. Sia i vini rossi che quelli bianchi erano di qualità troppo scadente per i gusti di Junior, che preferì una birra Dos Equis e si inebriò in due modi diversi inspirando abbastanza fumo indiretto di marijuana da poter affumicare l'intera produzione annuale di prosciutti dello stato della Virginia. Fra i due o trecento partecipanti alla festa, alcuni si stavano facendo un viaggio
con un acido, altri erano pieni di anfetamine, altri ancora mostravano l'irrequietezza e la loquacità tipica dei cocainomani, ma Junior non cedette a nessuna di queste tentazioni. Lui ci teneva a essere una persona in costante miglioramento e che sapeva mantenere il controllo di sé; non approvava quelle dimostrazioni di debolezza. Inoltre, aveva notato che i tossicodipendenti avevano la tendenza a diventare lagnosi e venivano presi dalla smania di confessarsi con qualcuno, cercando la pace attraverso l'autoanalisi e parlando continuamente di sé. Junior era un individuo troppo riservato per comportarsi in quel modo. Oltretutto, se sotto l'effetto di una droga avesse ceduto alla tentazione di confessarsi con qualcuno, le conseguenze sarebbero probabilmente state la sedia elettrica, la camera a gas o una iniezione letale, a seconda della giurisdizione e dell'anno in cui avesse deciso di fare quelle rivelazioni. A proposito di rivelazioni, la soffitta era piena di ragazze che rivelavano molto di sé: maglione, niente reggiseno e minigonna; maglietta, niente reggiseno e minigonna; gilet di cuoio, niente reggiseno e jeans; top stinti, pancia nuda e pantaloni a vita bassa. Nella stanza vi erano anche molti ragazzi, ma Junior li notò appena. L'unico ospite di sesso maschile che suscitò il suo interesse - un notevole interesse - fu Sklent, il pittore le cui tre tele costituivano le uniche opere d'arte appese alle pareti dell'appartamento di Junior. L'artista, che superava il metro e novanta d'altezza e doveva pesare più di centoventi chili, appariva decisamente più pericoloso di persona che nella spaventosa foto pubblicitaria. Pur avendo meno di trent'anni, aveva una chioma candida che gli scendeva dritta sulle spalle. La pelle di un bianco cadaverico. Gli occhi profondamente infossati, grigi come la pioggia e con una sfumatura rosa da albino, mandavano un luccichio da animale predatore che dava i brividi. Il viso era solcato da orrende cicatrici e le mani enormi erano ricoperte da un intrico di graffi, come se abitualmente si difendesse a mani nude da uomini armati di spada. Anche trovandosi dall'altra parte della sala rispetto agli altoparlanti, per riuscire a sentirsi a vicenda bisognava alzare la voce, indipendentemente da quanto privata fosse la conversazione. Comunque, l'artista che aveva creato Nel cervello del neonato si cela il germe della distruzione. Versione 6 possedeva una voce profonda e penetrante come il suo talento. Sklent si rivelò un uomo iroso, diffidente e dall'umore mutevole, ma anche un individuo di enorme forza intellettuale. Profondo e affascinante conversatore, Sklent si lanciò in una serie di elettrizzanti considerazioni
sulla condizione umana, strabilianti ma incontestabili opinioni sull'arte e concetti filosofici rivoluzionari. In seguito, a parte quando aveva parlato di fantasmi, Junior non riuscì a ricordare nemmeno una parola del pittore, ma solo che quanto aveva detto era intelligente e originale. Fantasmi. Sklent era ateo e tuttavia credeva negli spiriti. Ecco come funziona: paradiso, inferno e Dio non esistono, ma gli esseri umani sono composti sia di carne che di energia e, quando la carne muore, l'energia continua a vivere. «Siamo la specie più ostinata, egoista, avida, ingorda, depravata, psicotica, malvagia di tutto l'universo», spiegò Sklent, «e alcuni di noi semplicemente si rifiutano di morire, siamo troppo combattivi per morire. Lo spirito è un pezzetto di energia che a volte si attacca ai posti e alle persone che un tempo sono stati importanti per noi, ed è per questo che ci sono le case infestate, poveri disgraziati che vengono tormentati dalle mogli morte, e cose del genere. Altre volte, il pezzetto di energia si attacca all'embrione di qualche puttanella che è appena stata scopata, e così si ha la reincarnazione. Per tutto questo, non c'è bisogno di un Dio. È semplicemente il modo in cui sono fatte le cose. La vita e l'aldilà sono lo stesso posto, proprio qui, adesso, e noi siamo soltanto un gruppo di scimmie puzzolenti e rognose che continuano a ruzzolare attraverso una serie infinita di barili.» Per due anni, da quando aveva trovato la moneta nel panino, Junior aveva continuato a cercare un tipo di metafisica accettabile per lui, che si armonizzasse con tutte le verità che aveva appreso da Zedd e non gli chiedesse di ammettere l'esistenza di qualcuno più in alto di lui. L'aveva trovata. Imprevista. Completa. Non aveva capito bene la storia delle scimmie e dei barili, ma tutto il resto sì e sentì scendere su di sé una sorta di pace. Junior avrebbe voluto continuare a discutere di questioni spirituali con Sklent, ma erano in molti a desiderare di trascorrere qualche minuto con quel genio. Mentre si accomiatava, certo di riuscire a suscitare l'ilarità dell'artista, Junior prese dalla tasca l'opuscolo della mostra «Questo giorno straordinario» e gli chiese timidamente un'opinione sulle opere di Celestina White. Probabilmente Sklent non rideva mai, per quanto divertente potesse essere lo scherzo. Aggrottando le sopracciglia, esaminò con aria di disprezzo i dipinti, restituì l'opuscolo a Junior e ringhiò: «Sparale». Dando per scontato che quella critica fosse solo una divertente iperbole, Junior scoppiò a ridere, ma Sklent lo guardò torvo con quegli occhi praticamente privi di colore e Junior sentì la risata spegnersi in gola. «Be', ma-
gari è così che andrà a finire», commentò per cercare di ingraziarsi Sklent, ma si pentì immediatamente di aver fatto quell'affermazione davanti a dei testimoni. Utilizzando l'opuscolo per rompere il ghiaccio, Junior si spostò da un capo all'altro della sala alla ricerca di qualcuno che avesse frequentato l'Accademia di Belle Arti e avesse conosciuto Celestina White. Le critiche sui dipinti della ragazza erano regolarmente negative, spesso divertite, ma mai succinte e violente come quella di Sklent. Alla fine, una bionda senza reggiseno che indossava un paio di stivali di plastica bianca e lucida, una minigonna bianca e una maglietta rosa intenso con il ritratto di Albert Einstein, disse: «Certo, la conosco. Ho frequentato alcuni corsi con lei. Abbastanza simpatica, ma un po' troppo secchiona, soprattutto per essere una afro americana. Cioè, loro non sono mai dei secchioni... non ho ragione?» «Certo che hai ragione, a parte forse per Buckwheat.» «Chi?» gridò lei, anche se erano seduti uno accanto all'altro in un divano a due posti di pelle nera. Junior alzò ulteriormente la voce: «In quei vecchi film, i Little Rascals». «A me, non mi piace niente della roba vecchia. Questa tizia, White, aveva la mania della gente vecchia, delle case vecchie, degli edifici vecchi, delle cose vecchie in generale. Come se non si rendesse conto che lei è giovane. Ti veniva voglia di afferrarla, di scuoterla e dirle: 'Ehi, datti una mossa', capisci?» «Il passato è passato.» «È che cosa?» gridò lei. «Passato!» «Come è vero.» «Ma alla mia defunta moglie piacevano i film dei Little Rascals.» «Sei sposato?» «È morta.» «Così giovane?» «Cancro», spiegò lui, perché era qualcosa di molto più tragico e di meno sospetto di una caduta da una torre. Per dimostrare la sua compassione, lei gli pose una mano sulla coscia. «Questi ultimi anni sono stati piuttosto duri», proseguì Junior. «Perdere lei... e riuscire a tornar vivo dal Vietnam.» La bionda sgranò gli occhi. «Sei stato laggiù?» Trovava difficile far apparire sincera una rivelazione personale così do-
lorosa dovendo urlare, ma ci riuscì abbastanza bene perché gli occhi della ragazza si inumidirono di lacrime: «Durante un'incursione, un proiettile mi ha fatto saltar via un pezzo del piede sinistro». «Bestiale. Che orrore. Accidenti, la odio questa guerra.» La bionda gli stava facendo gli occhi dolci, così come avevano fatto decine di ragazze da quando era arrivato, così Junior decise di unire l'utile al dilettevole e cercare di ottenere anche qualche informazione. Posando una mano su quella di lei che gli massaggiava dolcemente la coscia, spiegò: «Ho conosciuto suo fratello in Vietnam. Poi sono rimasto ferito, mi hanno rispedito a casa e ho perso i contatti. Mi piacerebbe ritrovarlo». Confusa, la bionda domandò: «Il fratello di chi?» «Di Celestina White.» «Ha un fratello?» «Un ragazzo fantastico. Hai l'indirizzo di Celestina, oppure sai come posso mettermi in contatto con suo fratello?» «Non la conoscevo bene. Non frequentava feste e locali... soprattutto dopo il bambino.» «Allora è sposata», commentò Junior, pensando che, dopotutto, forse Celestina non era la donna della sua vita. «Può darsi. È da un po' che non la vedo.» «No, cioè, tu hai detto 'bambino'.» «Ah. No, quello di sua sorella. Ma poi la sorella è morta.» «Sì, lo so. Ma...» «E così Celestina si è presa quella cosa.» «Quella cosa?» «Quella cosina, il neonato.» Junior si dimenticò completamente della seduzione. «E lei... che cosa?... Ha adottato il figlio di sua sorella?» «Strano, no?» «Un bambino di nome Bartholomew?» domandò lui. «Non l'ho mai visto.» «Ma si chiamava Bartholomew?» «Per quel che ne so, si chiamava Piscione.» «Che cosa?» «Sto dicendo, per quel che ne so.» Gli tolse la mano dalla coscia. «E comunque, cos'è tutta questa storia di Celestina?» «Scusa un momento», la salutò Junior. Uscì dall'edificio e si fermò in strada per un po', respirando lentamente e
profondamente, lasciando che l'aria frizzante della notte gli liberasse i polmoni dal fumo della marijuana, respiri lunghi e profondi, improvvisamente lucido nonostante la birra che aveva bevuto, respiri lunghi e profondi, gelido come una fetta di manzo in una cella frigorifera, ma non per colpa dell'aria fredda della notte. Era stupito dal fatto che i dati relativi a una adozione fossero tenuti segreti anche se il bambino veniva affidato a un membro della sua famiglia, alla sorella di sua madre. Secondo lui, c'erano solo due spiegazioni. La prima era che gli impiegati seguivano pedissequamente le regole anche quando queste regole non avevano senso, la seconda era che «il detective privato più brutto del mondo», Nolly Wulfstan, era un incompetente. A Junior non interessava sapere quale fosse la spiegazione giusta. Solo una cosa gli importava: la caccia a Bartholomew stava finalmente giungendo alla fine. Il mercoledì, 27 dicembre, Junior si incontrò con Google, il falsario di documenti, in un cinema, durante una matinée di Bonnie and Clyde. Seguendo le istruzioni telefoniche ricevute in precedenza, Junior acquistò una grossa confezione di uvette e una scatola di cioccolatini al latte, poi si sedette in una delle ultime tre file nella parte centrale della sala, mangiando i cioccolatini, maledicendo le sue scarpe che facevano rumore ogni volta che le muoveva sul pavimento di gomma e aspettando che Google lo trovasse. Pieno zeppo di sangue e morti ammazzati, il film era troppo violento per i gusti di Junior. Aveva chiesto di incontrarsi alla proiezione di film come Il Dottor Dolittle o Il Laureato. Ma Google, paranoico come un topo da laboratorio dopo una vita di elettrochoc, aveva insistito per scegliere lui il cinema dove incontrarsi. Sebbene quello del relativismo morale e dell'autonomia personale fosse un tema che Junior comprendeva bene, si sentiva colto da uno stato d'ansia ogni volta che stava per iniziare una scena di violenza e chiudeva gli occhi alla vista del sangue. Era risentito per aver dovuto sopportare novanta minuti di quel film prima che Google finalmente si accomodasse nel sedile accanto al suo. Gli occhi strabici del falsario riflettevano la luce dello schermo. Si leccò le grosse labbra e il pomo d'Adamo prese a scendere e a salire ripetutamente: «Mi piacerebbe ficcarglielo dentro a quella Faye Dunaway, a te
no?» Junior gli lanciò un'occhiata di evidente ripugnanza. Google non si rese conto di essere oggetto di disgusto per Junior. Mosse in su e in giù le sopracciglia in quella che, evidentemente, riteneva fosse un'espressione di cameratismo maschile e gli diede di gomito. Soltanto pochi spettatori stavano assistendo alla proiezione della matinée. E dato che non vi era nessuno seduto accanto a loro, poterono scambiarsi tranquillamente i pacchetti: una busta gialla dodici per quindici a Google, una venti per trenta a Junior. Il falsario estrasse un grosso mazzo di banconote da cento dollari dalla sua busta e, strizzando gli occhi, li controllò alla tremula luce dello schermo. «Io adesso me ne vado, ma tu aspetta finché il film è finito.» «Perché non posso andarmene io e tu aspetti?» «Perché se ci provi, ti ficco un coltello in un occhio.» «Era solo una domanda», lo calmò Junior. «E, ascolta, se ti viene in mente di uscire troppo presto dopo di me, c'è un tizio che ti sta tenendo d'occhio e che ti infila un punteruolo su per il culo.» «Il fatto è che detesto questo film.» «Sei scemo. È un classico. Ehi, te le mangi tutte quelle uvette?» «Te l'ho già detto al telefono, non mi piacciono.» «Dammele.» Junior gli porse la confezione e Google uscì dal cinema con le uvette e con i soldi. Il balletto di morte al rallentatore, durante il quale Bonnie e Clyde vengono crivellati di proiettili, fu il momento peggiore che Junior avesse mai sentito in un film. Ne vide solo qualche fotogramma, perché tenne per tutto il tempo gli occhi chiusi. Nove giorni prima, su istruzioni di Google, Junior aveva affittato una cassetta presso due uffici che svolgevano il servizio di ricevimento posta, usando in uno il nome di John Pinchbeck e nell'altro quello di Richard Gammoner, dopodiché aveva comunicato gli indirizzi al falsario. Queste erano le identità per le quali Google preparò una documentazione elaborata e convincente. Il giovedì 28 dicembre, utilizzando come documenti d'identità le patenti e le tessere della previdenza sociale false, Junior aprì alcuni piccoli conti correnti e affittò anche delle cassette di sicurezza a nome Pinchbeck e Gammoner presso diverse banche con le quali non aveva mai operato pri-
ma, dando come indirizzi quelli degli uffici di ricezione posta. In ogni conto corrente, depositò cinquecento dollari in contanti e in ogni cassetta di sicurezza conservò ventimila dollari in banconote nuove di zecca. Per Gammoner, così come per Pinchbeck, Google aveva preparato: una patente di guida realmente registrata presso l'ufficio della motorizzazione della California, che quindi avrebbe superato qualsiasi controllo da parte della polizia; una vera tessera della previdenza sociale; un certificato di nascita realmente emesso dall'anagrafe di quella città, e un passaporto autentico e valido. Junior conservò entrambe le patenti di guida nel portafogli, insieme con quella a suo nome, e depositò tutto il resto nelle cassette di sicurezza di Pinchbeck e di Gammoner, unitamente al denaro in contanti per le emergenze. Prese anche accordi per aprire un conto corrente a nome Gammoner presso una banca dell'isola Grand Cayman e uno a nome Pinchbeck in Svizzera. Quella sera si sentì pervaso da un senso di avventura superiore a quello che aveva provato arrivando in città dall'Oregon. Pertanto si concesse tre bicchieri di un eccellente bordeaux e un filet mignon nello stesso ristorante del lussuoso hotel in cui, quasi tre anni prima, aveva cenato durante la sua prima serata a San Francisco. Lo sfarzoso salone non appariva affatto cambiato. Perfino il pianista sembrava essere quello di allora, anche se il bocciolo di rosa gialla all'occhiello e probabilmente anche lo smoking erano nuovi. Sedute ai tavoli, vi erano alcune belle donne che cenavano da sole, prova che, in quei tre anni, i costumi sociali erano davvero cambiati. Junior sentiva su di sé i loro sguardi di fuoco, il loro desiderio, e sapeva che avrebbe potuto sceglierne una qualsiasi. La tensione che provava in quei giorni non era la stessa a cui aveva dato sollievo incontrandosi con una donna. Questo era uno stress che lo stimolava, tutt'altro che spiacevole, era un delizioso senso di aspettativa che voleva gustarsi fino in fondo... fino al ricevimento organizzato dalla galleria in onore di Celestina e fissato per la sera dell'inaugurazione della mostra, il 12 gennaio. Non era una tensione che poteva sciogliersi con un rapporto sessuale, ma unicamente con l'omicidio di Bartholomew; e quando infine quel momento tanto atteso fosse arrivato, Junior sapeva che il sollievo avrebbe largamente superato quello di un semplice orgasmo.
Aveva preso in considerazione la possibilità di rintracciare Celestina - e il piccolo bastardo - prima della mostra. Per arrivare fino a lei, avrebbe potuto rivolgersi all'ufficio ex alunni del suo college, e anche svolgere ulteriori indagini tra la comunità degli artisti locali gli avrebbe sicuramente permesso di ottenere il suo indirizzo. Ma dopo l'omicidio del piccolo Bartholomew, la gente si sarebbe probabilmente ricordata dell'uomo che aveva chiesto della madre, Celestina. Oltretutto, Junior non era un uomo qualsiasi; la sua straordinaria bellezza faceva sì che tutti, in particolar modo le donne, avessero di lui un ricordo indelebile. Inevitabilmente, prima o poi, i poliziotti sarebbero venuti a bussare alla sua porta. Naturalmente, lui aveva le identità di Pinchbeck e Gammoner, due vie di fuga. Ma non voleva usarle. Gli piaceva la sua vita a Russian Hill e detestava l'idea di doversene andare. Dato che sapeva dove si sarebbe trovata Celestina il 12 gennaio, non aveva senso correre dei rischi per incontrarla prima di quella data. Aveva tutto il tempo che voleva per prepararsi al loro incontro, per gustarsi quella dolce anticipazione. Junior stava pagando il conto e calcolando la mancia da lasciare, quando il pianista si lanciò in Qualcuno che badi a me. Sebbene, per tutta la sera si fosse aspettato di sentirla, riconoscendo il motivo, Junior ebbe una specie di spasmo. Come aveva dimostrato a se stesso durante le precedenti visite in quel locale - nel corso della prima serata in città e poi per altre due volte - quel numero faceva semplicemente parte del repertorio del pianista. Non vi era nulla di sovrannaturale. Tuttavia, firmando il modulo della carta di credito, scrisse il nome con mano tremolante. Junior non aveva più vissuto un'esperienza paranormale dalle prime ore del mattino di quel 18 ottobre, quando era riemerso da un disgustoso sogno di vermi e scarafaggi e aveva udito la serenata a cappella della cantante fantasma. Gridandole di tacere, aveva svegliato i suoi vicini. Quel brano musicale lo rendeva nervoso. Era convinto che, se fosse tornato a casa da solo, la cantante fantasma - sia che fosse lo spirito vendicativo di Victoria Bressler o qualcos'altro - lo avrebbe perseguitato di nuovo con quella canzone. Decise che, dopo tutto, aveva voglia di compagnia e di distrazione. Una donna di straordinaria bellezza, seduta da sola al bar, attirò la sua
attenzione e accese il suo desiderio. Capelli neri e lucidi: trecce della notte rubate al cielo. Pelle olivastra, liscia come seta. Occhi lucenti come laghi che riflettevano la luce delle stelle. Accidenti. Quella donna risvegliava il poeta che era in lui. Era di un'eleganza squisita. Un completo Chanel rosa con la gonna che sfiorava le ginocchia, un filo di perle. Aveva un corpo spettacolare, ma non lo ostentava. Indossava perfino il reggiseno. In quell'epoca di erotismo sfacciato, il suo stile riservato la rendeva molto più seducente. Sedendosi sullo sgabello vuoto accanto a quello della stupenda creatura, Junior le offrì da bere, e lei accettò. Renee Vivi parlava con un morbido accento del Sud. Briosa senza essere eccessivamente civettuola, colta ma mai presuntuosa, dalle idee precise senza apparire intransigente o prevenuta, rappresentava una compagnia davvero piacevole. Dimostrava poco più di trent'anni, forse aveva sei anni più di Junior, ma questo lui non lo considerava un difetto. Non aveva più pregiudizi nei confronti delle persone più anziane di quanti non ne avesse nei confronti di persone di altre razze o etnie. Sia che stesse facendo l'amore o uccidendo qualcuno, Junior non era mai spinto dall'intolleranza. Questa era una battuta di spirito che faceva tra sé e sé. Ma era vero. Si chiese come sarebbe stato fare l'amore con Renee e ucciderla. Soltanto una volta aveva ammazzato qualcuno senza un buon motivo. E si era trattato di uno di quegli insopportabili Bartholomew. Prosser di Terra Linda. Un uomo. In quella occasione, non era intervenuto alcun elemento erotico. Questa sarebbe stata una prima volta. Junior Cain non era assolutamente uno di quei pazzi che amano fare del sesso e poi uccidere la propria partner, non era spinto a commettere un omicidio da qualche strana depravazione che trascendeva il suo controllo. Un'unica notte di sesso e morte - una soddisfazione da togliersi soltanto una volta - non avrebbe richiesto un serio esame di coscienza, né avrebbe reso necessario riconsiderare l'immagine che lui aveva di sé. Due volte, avrebbe indicato una pericolosa mania. Tre volte, non avrebbe avuto giustificazioni. Ma una volta sola, rappresentava una sana forma di sperimentazione. Un arricchimento delle sue conoscenze. Qualsiasi avventuriero degno di questo nome avrebbe capito. Quando Renee, dolcemente inconsapevole del destino che l'attendeva, affermò di aver ereditato una considerevole fortuna, accumulata grazie a
una fabbrica di valvole industriali, Junior pensò che stesse inventando di essere ricca, o quantomeno esagerasse l'entità del suo patrimonio, per rendersi ancor più desiderabile. Ma quando la accompagnò a casa, capì che il lusso in cui viveva non era certo quello di una commessa dotata di molta fantasia. Per arrivare al suo appartamento, non ci fu bisogno né della macchina né di fare una lunga passeggiata, perché abitava sopra all'albergo in cui avevano cenato. Gli ultimi tre piani dell'edificio erano suddivisi in vasti appartamenti occupati dai rispettivi proprietari. Entrare nei suoi alloggi era come salire su una macchina del tempo e arrivare in un altro secolo, viaggiare nello spazio e ritrovarsi nell'Europa del re Luigi XIV. In quelle enormi sale dagli alti soffitti, l'occhio veniva sopraffatto dai colori scuri e dalle sagome massicce dei mobili e delle opere d'arte in stile barocco. Conchiglie, foglie d'acanto, volute, ghirlande e riccioli - spesso dorati - decoravano antichi cassettoni indiani, sedie, tavoli, pesanti specchi, vetrinette e angoliere. Junior si rese conto che uccidere Renee quella stessa sera sarebbe stato uno spreco assurdo. Meglio sposarla, godere per un po' della sua compagnia e, alla fine, organizzare un incidente o un suicidio in modo che a lui restassero tutte le sue proprietà, o almeno una buona parte. Certo, non sarebbe stato un omicidio per divertimento... ma ora che aveva avuto il tempo di pensarci, si era reso conto che non era un atto degno di lui, anche se fosse servito alla sua crescita personale. Si sarebbe trattato di un omicidio per una causa quantificabile, commesso per un buon motivo. Negli ultimi anni aveva scoperto che qualche miserabile milione di dollari poteva comprare più libertà di quanto avesse immaginato nel momento in cui aveva spinto Naomi giù dalla torre. Un'enorme ricchezza, cinquanta o cento milioni di dollari, gli avrebbe fatto ottenere non soltanto una libertà maggiore e la possibilità di inseguire mete più ambiziose nel suo percorso di crescita personale, ma di conquistare anche il potere. L'idea del potere lo affascinava. Non aveva il benché minimo dubbio di riuscire a conquistare Renee e a sposarla, indipendentemente dalla sua ricchezza e dai suoi modi sofisticati. Junior era in grado di far fare alle donne ciò che desiderava con la stessa facilità con cui Sklent dipingeva su tela le sue brillanti visioni, e ancor più facilmente di quanto Wroth Griskin fondeva il bronzo per creare inquietanti opere d'arte.
Oltretutto, prima ancora di aver sfoggiato tutto il suo fascino, prima di averle dimostrato che una passeggiata su quella macchina dell'amore che era Junior Cain le avrebbe fatto apparire tutti gli altri uomini assolutamente inadeguati, Renee era già così presa dalla passione per lui, che forse sarebbe stato il caso di aprire una bottiglia di champagne per raffreddarla un po', quando il suo bel completino Chanel si fosse incendiato per autocombustione. Nel soggiorno, la finestra centrale e più ampia incorniciava un magnifico panorama ed era arricchita da tende festonate in broccatello di seta. Un ampio triclinio dorato, rivestito da una raffinata tappezzeria, era stato collocato davanti a quello sfondo di città e seta; sdraiandosi sul triclinio, Renee attirò a sé Junior, impaziente di farsi prendere da lui. Le labbra della donna erano tanto morbide quanto avide e il corpo arrendevole emanava un calore vulcanico; quando Junior fece scivolare le mani sotto la gonna, la sua mente era un turbinio di immagini di sesso, ricchezza e potere, finché scoprì che l'ereditiera era in effetti un ereditiere, con genitali più adatti a un paio di boxer che a mutandine di seta. Si staccò da Renee con la velocità di un razzo. Sbalordito, disgustato, umiliato, camminando all'indietro si allontanò dal triclinio, sputacchiando, passandosi una mano sulla bocca, imprecando. La cosa incredibile fu che Renee lo inseguì, ancheggiando con aria seducente, cercando di calmarlo e di convincerlo a continuare. Junior voleva ucciderla. Ucciderlo. Insomma, farlo. Ma ebbe la sensazione che Renee fosse piuttosto esperto di colpi bassi e che, in un corpo a corpo, forse Junior non avrebbe avuto la meglio. Quando Renee si rese conto che il suo rifiuto era netto e assoluto, lei lui, insomma, quello - da raffinata signora del Sud si trasformò in un rettile velenoso. Con gli occhi che mandavano lampi di rabbia, le labbra tirate che lasciavano scoperti i denti, lo insulto in tutti i modi possibili e immaginabili, unendo tra di loro gli epiteti in modo così naturale e colorito che riuscì ad ampliare il vocabolario di Junior più di quanto lui fosse riuscito a fare con tutti i suoi corsi. «E comunque, tesoruccio, sapevi benissimo che cos'ero dal momento che mi hai offerto da bere. Lo sapevi e lo volevi, mi desideravi, ma poi, quando siamo arrivati al dunque, hai perso la calma. Hai perso la calma, tesoruccio, ma non la voglia.» Indietreggiando, cercando la strada per arrivare al corridoio e all'uscita, temendo che, se fosse inciampato in una sedia, lei/lui gli sarebbe piombato addosso come un falco su un topo, Junior negò le accuse. «Sei pazza. Come facevo a saperlo?
Guardati! Com'era possibile che lo sapessi?» «Ho un pomo d'Adamo piuttosto evidente, o no?» strillò Renee. Sì, in effetti l'aveva, ma non era molto grosso e, in confronto al melone di Google, era soltanto una melina selvatica, che quasi non si notava, nemmeno in una donna. «E le mie mani, tesoruccio, le mie mani?» ringhiò. Erano le mani più femminili che Junior avesse mai visto. Morbide, affusolate, più belle di quelle di Naomi. Non aveva proprio idea di che cosa Renee stesse parlando. Rischiando il tutto per tutto, gli voltò le spalle e cominciò a correre e, nonostante Junior fosse convinto del contrario, lei/lui lo lasciò scappare. Più tardi, a casa, svuotò mezzo flacone di collutorio alla menta per fare i gargarismi, si fece la doccia più lunga della sua vita, poi usò l'altra metà del collutorio. Gettò la cravatta nel bidone della spazzatura perché, in ascensore, mentre scendeva dall'attico di Renee - o di René - e anche dopo, mentre tornava a piedi nel suo appartamento, l'aveva usata per strofinarsi la lingua. Poi, dopo averci pensato per un momento, decise di buttare via tutto ciò che aveva indossato quella sera, comprese le scarpe. Giurò che si sarebbe liberato anche di tutti i ricordi legati a quell'episodio. Nel famoso manuale di Caesar Zedd Come negare la forza del passato, l'autore suggerisce una serie di tecniche per cancellare definitivamente il ricordo di quegli eventi che ci possono danneggiare psicologicamente, che ci fanno soffrire o che ci provocano semplicemente imbarazzo. Junior andò a letto con una copia di quel prezioso manuale e con un bicchiere di cognac pieno quasi fino all'orlo. Dall'incontro con Renee Vivi si poteva trarre un'importante lezione: in questa vita, molte cose non sono come inizialmente ci appaiono. Tuttavia, a Junior non interessava imparare quella lezione se questo significava vivere con il ricordo di una simile umiliazione. Grazie a Caesar Zedd e al Rémy Martin, alla fine Junior scivolò nel sonno e, mentre si lasciava trasportare da quelle onde di velluto, si consolò pensando che, comunque fossero andate le cose, il 29 dicembre sarebbe stato migliore del 28. Ma si sbagliava. Ogni ultimo venerdì del mese, con il sole o con la pioggia, Junior faceva il giro delle sue sei gallerie d'arte preferite, soffermandosi ad ammirare le
varie opere in vendita, chiacchierando con i galleristi e prendendosi, all'una in punto, una pausa per il pranzo al St. Francis Hotel. Questa era diventata per lui una tradizione e sempre, alla fine di quelle giornate, si sentiva sereno e soddisfatto. Quel venerdì 29 dicembre, era una giornata splendida: fresca ma non fredda; qualche nuvoletta sparsa nel cielo di un azzurro intenso. Le strade erano gradevolmente animate, ma non affollate come un alveare, come a volte accadeva. Gli abitanti di San Francisco, già abitualmente cordiali, si sentivano ancora permeati dallo spirito natalizio ed erano quindi più cortesi e pronti a sorridere del solito. Dopo un ottimo pranzo, uscendo dalla quarta galleria e dirigendosi verso la quinta, Junior non si accorse immediatamente da dove arrivavano le monete. Anzi, quando i primi tre quarti di dollaro gli colpirono una guancia in rapida successione, non capì neppure di che cosa si trattasse. Colto di sorpresa, indietreggiò e abbassò lo sguardo, sentendoli tintinnare sul marciapiede. Tac, tac, tac! Altre tre monete gli colpirono il lato sinistro del viso... tempia, guancia, mascella. Mentre gli indesiderati spiccioli erano a terra, proprio accanto ai suoi piedi, Junior - tac, tac - scoprì da dove arrivavano gli altri due proiettili. Venivano scagliati da un distributore automatico di giornali; uno gli colpì il naso e l'altro gli rimbalzò sui denti. Il distributore, che faceva parte di una serie di quattro, non era pieno di normali quotidiani, che costavano solo dieci centesimi, ma da uno scadente tabloid destinato a vivaci eterosessuali. Junior sentiva il cuore che gli rimbombava come colpi di mortaio. Indietreggiò e si spostò di lato, fuori dalla linea di fuoco del distributore. Come se una delle monete gli fosse caduta nell'orecchio, facendo partire una vecchia canzone nel juke-box della sua mente, Junior sentì la voce di Vanadium nella stanza dell'ospedale di Spruce Hills, la notte successiva al giorno in cui era morta Naomi: Quando ha tagliato la corda di Naomi, hai interrotto gli effetti che la sua musica avrebbe avuto sulla vita di altre persone e sulla forma del futuro... Un altro distributore, che si trovava accanto al primo, pieno di copie di una rivista molto esplicita e destinata a un pubblico gay, lanciò una moneta da un quarto che colpì Junior sulla fronte. Quella successiva andò a sbattere sul dorso del suo naso. ...lei ha introdotto una dissonanza che, anche se molto debolmente, può
essere udita fino all'estremità opposta dell'universo... In quel momento, se Junior fosse stato seppellito fino al petto nel cemento, sarebbe riuscito a muoversi con maggiore facilità. Non sentiva più le gambe. Incapace di correre, alzò le braccia, incrociandole davanti al viso in un gesto di difesa, anche se le monete, colpendolo, non gli facevano male. Le raffiche gli colpivano le dita, i palmi, i polsi. ...Quella dissonanza ha dato il via a molte altre vibrazioni, alcune delle quali le torneranno indietro in modi che potrebbe aspettarsi... I distributori erano stati progettati per accettare monete, non per emetterle. Non davano resto. Quel fuoco di fila non era meccanicamente possibile. ...altre sotto forma di qualcosa che non vedrà arrivare... Due ragazzini e una donna anziana avanzavano carponi lungo il marciapiede, cercando di afferrare quella tintinnante pioggia di monete. Alcune riuscirono ad agguantarle, altre rimbalzarono e rotearono tra le loro dita, ruzzolando poi nella cunetta della strada. ...Fra le cose che non poteva aspettarsi, io sono la peggiore... Oltre a quei tre raccatta-monete, vi era un'altra presenza, invisibile ma chiaramente percepibile. Il gelo di questa entità penetrò fin nel midollo spinale di Junior: l'ostinato, perverso, psicotico, appiccicoso spirito di Thomas Vanadium, il folle poliziotto, non soddisfatto di infestare la casa nella quale era morto, non ancora pronto per la reincarnazione, continuava a dare la caccia al suo uomo, facendo capriole in mezzo alla strada, in pieno giorno, come - per parafrasare Sklent - un'invisibile, puzzolente, rognosa scimmia. Fra le cose che non poteva aspettarsi, io sono la peggiore. Uno dei cacciatori di monete andò a sbattere contro Junior, liberandolo dalla sua paralisi, ma quando lui, barcollando, si allontanò dalla linea di fuoco del secondo distributore, un terzo cominciò a sparargli addosso altri quarti di dollaro. Fra le cose che non poteva aspettarsi, io sono la peggiore... sono la peggiore... sono la peggiore. Sentendosi preso in giro dall'argentino tintinnio del detective che svuotava le sue tasche da fantasma, Junior cominciò a correre. 60 Kathleen a lume di candela, i suoi occhi vivi che riflettevano l'immagine
della fiammella dorata. Martini ghiacciati, olive in un piattino bianco. Oltre la vetrata accanto al loro tavolo, anche la leggendaria baia scintillava, più scura e fredda degli occhi di Kathleen, e neppure lontanamente così profonda. Nolly, che stava raccontandole alcuni episodi della sua giornata di lavoro, si interruppe quando il cameriere arrivò con gli antipasti di crostata di granchio in salsa di senape. «Nolly, signora Wulfstan... buon appetito!» Sospendendo per qualche istante la conversazione, Nolly assaporò alcuni bocconi di crostata di granturco ripiena di polpa di granchio. Una delizia. Kathleen lo osservava chiaramente divertita, consapevole del fatto che il marito stava gustando quel momento di suspense tanto quanto l'antipasto. Dal bar adiacente proveniva una musica suonata al pianoforte, così sommessa e allo stesso tempo così briosa che faceva sembrare musica anche il tintinnio delle posate. Alla fine lui soggiunse: «E se ne stava lì, con le mani che gli riparavano la faccia, le monetine che gli rimbalzavano addosso, i ragazzini e la donna che gli giravano intorno, cercando di recuperare qualche spicciolo». Sorridendo, Kathleen commentò: «Allora il trucco ha funzionato davvero». Nolly annuì. «Jimmy Gadget questa volta si è proprio guadagnato i suoi soldi.» Il subappaltatore che aveva costruito le cassette per le monete che scagliavano quarti di dollaro si chiamava James Hunnicolt, ma tutti lo chiamavano Jimmy Gadget. Era specializzato in congegni elettronici per lo spionaggio e riusciva a inserire minuscole macchine fotografiche e registratori anche negli oggetti più impensabili, ma era comunque capace di fare praticamente qualsiasi cosa che richiedesse una certa inventiva nella progettazione e nella costruzione meccanica. «Un paio di monete l'hanno colpito dritto sui denti», riferì Nolly. «Approvo qualsiasi cosa dia lavoro ai dentisti.» «Vorrei tanto riuscire a descriverti la sua faccia. Un pupazzo di neve non era più bianco di lui. Il furgone della sorveglianza era parcheggiato proprio lì, a qualche metro di distanza dai distributori...» «Come essere in prima fila.» «È stato così divertente che non mi sembrava neppure giusto non aver pagato nulla per quei posti. Quando il terzo distributore ha cominciato a lanciargli monetine, lui si è messo a correre come un ragazzino che attra-
versi un cimitero nel cuore della notte.» Al ricordo, Nolly scoppiò a ridere. «Più divertente che svolgere indagini per un divorzio, vero?» «Avresti dovuto vederlo, Kathleen. Correva a zigzag sul marciapiede per schivare i passanti e, quando non riusciva a farlo, dava loro uno spintone per toglierseli davanti. Jimmy e io siamo riusciti a seguirlo con lo sguardo, tre lunghi isolati, finché ha svoltato l'angolo, tre lunghi isolati tutti in salita, ed è un pendio che ammazzerebbe anche un olimpionico, ma lui non ha rallentato nemmeno per un attimo.» «L'amico aveva un fantasma alle calcagna.» «Secondo me, lui credeva di averlo davvero.» «Questo è un caso maledettamente divertente», commentò lei, scrollando la testa. «Appena Cain è sparito dietro l'angolo, abbiamo portato via i distributori truccati, abbiamo scaricato quelli veri dal furgone e li abbiamo sistemati al loro posto. Rapido e indolore. Quando abbiamo finito, la gente stava ancora raccogliendo le monetine. E - ascolta questa - ci domandavano dov'era la telecamera nascosta.» «Vuoi dire...» «Erano convinti che facessimo parte di Candid Camera. Allora, Jimmy ha indicato il camioncino della United Parcel parcheggiato dall'altra parte della strada e ha spiegato che le telecamere erano là dentro.» Kathleen applaudì, divertita. «Quando ce ne siamo andati, la gente salutava con la mano verso il furgone della UP e l'autista, vedendoli, è sceso con aria confusa e si è messo a salutare a sua volta.» Nolly adorava la sua risata, così musicale e sbarazzina. Sarebbe stato disposto a fare la parte del cretino, in qualsiasi momento, solo per sentire quella risata. Un ragazzo portò via i piatti dell'antipasto, mentre il cameriere arrivava con le insalate. Poi vennero serviti altri due martini. «Secondo te, perché spende i suoi soldi per fare questi scherzi?» domandò Kathleen, non per la prima volta. «Dice di avere una responsabilità morale.» «Sì, ma ci ho pensato. Se sente di avere una certa responsabilità... allora, perché ha rappresentato Cain?» «È un avvocato e un marito in lutto viene a cercarlo con un grosso caso di responsabilità civile. C'è da guadagnarci parecchio denaro.» «Anche se è convinto che la moglie sia stata spinta?»
Nolly scrollò le spalle. «Non è sicuro. E comunque, l'idea che fosse stata spinta gli è venuta solo dopo che aveva accettato il caso.» «Cain ci ha guadagnato milioni di dollari. A quanto ammontava la parcella di Simon?» «Il venti per cento. Ottocentocinquantamila bigliettoni.» «Togliendo quello che ha pagato a te, gli sono rimasti ancora quasi ottocentomila dollari.» «Simon è una brava persona. Ora è quasi certo che Cain ha ammazzato la moglie e non si sente certo meglio sapendo di averlo rappresentato solo perché c'era molto da guadagnare. Inoltre, nel caso attuale lui non è l'avvocato di Cain, quindi non esiste conflitto d'interesse, nessun problema di etica, e così ha la possibilità di rimettere a posto le cose, almeno in parte.» Nel gennaio del 1965, Magusson aveva inviato Cain da Nolly come cliente, senza sapere esattamente perché quello sgradevole individuo avesse bisogno di un investigatore privato. In seguito aveva saputo che Junior voleva rintracciare la figlia di Seraphim White. L'avvertimento di Simon, di non fidarsi di Enoch Cain, aveva aiutato Nolly a decidere di non rivelare le informazioni sull'adozione della bambina. Dieci mesi dopo, Simon gli aveva di nuovo telefonato, sempre riguardo a Cain, ma questa volta l'avvocato chiamava in qualità di cliente e Cain era la persona da tenere sotto controllo. Ciò che Simon desiderava da Nolly era perlomeno strano, e sarebbe potuta essere considerata una molestia, ma non si poteva definire esattamente illegale. E per due anni, a cominciare dal quarto di dollaro trovato nel panino e finendo con i distributori che sputavano monete, era stato tutto un grande scherzo. «Be'», commentò Kathleen, «anche se non ci fosse da guadagnare tanti bei soldini, mi dispiacerebbe arrivare alla conclusione di questo caso.» «Anche a me. Ma non sarà veramente finita fino a quando non incontreremo il nostro uomo.» «Mancano due settimane. Non me lo voglio perdere. Mi sono liberata di tutti gli appuntamenti.» Nolly sollevò il bicchiere del martini per un brindisi. «A Kathleen Klerkle Wulfstan, dentista e investigatrice.» Brindando a sua volta, Kathleen disse: «Al mio Nolly, marito e fidanzato migliore che abbia mai avuto». Buon Dio, come l'amava. «Vitello degno di un re», annunciò il cameriere, posando piatti davanti a loro, e bastò un assaggio per confermare le sue parole.
La baia scintillante e la calda luce delle candele creavano l'atmosfera perfetta per la musica suonata al pianoforte che in quel momento giunse dal bar. Sebbene lo strumento fosse piuttosto lontano e il ristorante un po' rumoroso, Kathleen riconobbe immediatamente il brano. Sollevò lo sguardo dal piatto, con gli occhi colmi di allegria. «L'ho chiesta io», ammise il marito. «Speravo che l'avresti cantata.» Anche in quella luce così tenue, Nolly vide che lei arrossiva come una ragazzina. Lei lanciò un'occhiata ai tavoli vicini. «Considerando che sono il fidanzato migliore che tu abbia mai avuto e che questa è la nostra canzone...» Alle parole la nostra canzone, Kathleen inarcò le sopracciglia. Nolly spiegò: «Nonostante il nostro amore per il ballo, non abbiamo mai avuto una canzone speciale. Penso che questa vada bene. Ma fino a oggi, tu l'hai cantata soltanto a un altro uomo». Kathleen posò la forchetta, si guardò di nuovo intorno e si sporse verso di lui. Arrossendo ancor di più, cominciò a cantare sottovoce le prime strofe di Qualcuno che badi a me. Un'anziana signora seduta nel tavolo accanto al loro commentò: «Ha davvero una bella voce, mia cara». Imbarazzata, Kathleen smise di cantare, ma Nolly, rivolgendosi all'altra donna, disse: «È proprio una bella voce, vero? Arcana, direi». 61 Mentre percorreva la strada costiera verso nord, diretta a Newport Beach, chilometro dopo chilometro, Agnes continuava a notare segni premonitori che la lasciavano inquieta. Le colline a oriente sembravano giganti assopiti sotto coperte di erba invernale che scintillava nel sole mattutino. Ma quando le nubi che provenivano dall'oceano si ammassarono verso l'interno della costa, i pendii assunsero un color verde scuro, divennero cupi come sudari e il paesaggio, che fino a quel momento era apparso addormentato, ora dava l'impressione di essere freddo e morto. Inizialmente era la lente opaca della nebbia a non permettere di vedere l'oceano. Tuttavia, anche dopo che la foschia si fu dissolta, l'oceano continuò a nascondersi sotto un velo di cecità: la vitrea distesa d'acqua, piatta e incolore nella luce del mattino, ricordava ad Agnes gli occhi privi di pro-
fondità di un cieco, il terribile spazio vuoto di chi non vede. Barty si era svegliato in grado di leggere. I caratteri stampati non gli apparivano più distorti. Anche se Agnes cercava sempre di aggrapparsi alla speranza, sapeva anche che, di solito, una facile speranza è anche una falsa speranza e nemmeno per un attimo permise a se stessa di immaginare che il problema si fosse risolto da solo. Altri sintomi - aloni e arcobaleni - erano scomparsi, per poi ritornare. La sera precedente, Agnes aveva letto a Barty la seconda metà di Il pianeta rosso, ma il bambino aveva voluto portare con sé il libro per leggerlo di nuovo. Sebbene quella mattina la natura le apparisse colma di tristi presagi, Agnes era anche consapevole della sua straordinaria bellezza. Desiderava che Barty si riempisse gli occhi di ogni meraviglioso panorama, di ogni mirabile particolare. Ma i bambini non rimangono particolarmente colpiti dai paesaggi, soprattutto quando il loro cuore si sta avventurando su Marte. Mentre Agnes guidava, Barty leggeva a voce alta, perché lei aveva potuto apprezzare la storia solo dalla pagina 104 in poi. Il bambino desiderava condividere con la madre le imprese di Jim, Frank e il loro compagno marziano, Willis. Pur temendo che la lettura potesse affaticare la vista di Barty, peggiorandone le condizioni, Agnes si rese conto della irrazionalità delle sue paure. I muscoli non si atrofizzano per il troppo uso, né gli occhi si consumano per il troppo vedere. Attraversando chilometri di timori, bellezze naturali, immaginari presagi di sventura e rosse sabbie di Marte, raggiunsero infine Newport Beach e lo studio di Franklin Chan. Piccolo e magro, il dottor Chan era modesto come un monaco buddista, e cortese e sicuro di sé come un imperatore mandarino. Aveva modi tranquilli che riuscivano a infondere serenità. Servendosi di vari strumenti e apparecchiature, esaminò gli occhi di Barty per mezz'ora. Poi, come Joshua Nunn aveva previsto, fissò un appuntamento urgente con un oncologo. Quando Agnes insisté per sapere la diagnosi, il dottor Chan le spiegò pacatamente che aveva bisogno di raccogliere altre informazioni. Dopo che Barty fosse stato visitato dall'oncologo e si fosse sottoposto a ulteriori test, lei e il bambino dovevano tornare nel pomeriggio per conoscere la diagnosi e per essere informati sulle diverse possibilità di cura.
Se da una parte Agnes era grata per la velocità con cui il bambino veniva visitato ed esaminato, dall'altra questa urgenza la preoccupava. L'attenzione e la celerilà con cui Chan stava seguendo il caso di Barty erano in parte dovute alla sua amicizia con Joshua, e in parte perché, durante la visita, gli erano evidentemente sorti dei dubbi che ancora non si sentiva di esprimere a voce alta. Il dottor Morley Schurr, l'oncologo, il cui studio si trovava in un edificio vicino al Hoag Hospital, era un uomo alto e corpulento, ma per il resto molto simile a Franklin Chan: gentile, calmo e sicuro di sé. Tuttavia Agnes aveva paura di lui per gli stessi motivi per cui un selvaggio terrorizzato si mette a tremare dalla testa ai piedi davanti a uno stregone. Sebbene il compito di quel medico fosse quello di guarire i malati, la sua conoscenza dei misteri del cancro sembrava conferirgli un potere quasi divino; il suo giudizio determinava la sorte di una persona, la sua era la voce del destino. Dopo aver visitato Barty, il dottor Schurr invitò Agnes a riportare il bambino nel vicino ospedale perché fosse sottoposto a ulteriori esami. Trascorsero il resto della giornata nel nosocomio, prendendosi soltanto un'ora di pausa per un hamburger. Durante il pranzo e, per la verità, anche durante tutte le ore trascorse in ospedale, Barty non diede l'impressione di aver compreso la gravita della sua situazione. Restò sempre allegro, incantando medici e assistenti con la sua accattivante personalità e con la sua precocità di linguaggio. Nel pomeriggio, il dottor Schurr li raggiunse in ospedale per controllare i risultati dei test e per esaminare nuovamente Barty. Il crepuscolo invernale aveva già lasciato il passo alla sera, quando li inviò nuovamente al dottor Chan, e Agnes non insistette per conoscere la sua opinione. Per tutto il giorno aveva desiderato di conoscere al più presto la diagnosi, ma all'improvviso era terrorizzata all'idea di venire a sapere come stavano i fatti. Durante il breve tragitto verso lo studio dell'oftalmologo, la mente di Agnes fu attraversata dalla folle idea di superare l'edificio in cui si trovava lo studio di Chan, di continuare a guidare nella scintillante sera di dicembre, senza fermarsi, ma non per tornare a Bright Beach, dove le cattive notizie sarebbero comunque arrivate per telefono, ma per proseguire verso luoghi così lontani che la diagnosi non li avrebbe mai potuti raggiungere, in cui la malattia sarebbe rimasta senza nome e, di conseguenza, non avrebbe avuto alcun potere su Barty.
«Mamma, lo sapevi che un giorno su Marte dura trentasette minuti e ventisette secondi più di un giorno da noi?» «È buffo, ma nessuno dei miei amici marziani me l'ha mai detto.» «Indovina quanti giorni ci sono in un anno marziano.» «Be', è più lontano dal sole...» «Duecentoventiquattro milioni di chilometri!» «Quindi... quattrocento giorni?» «Molti di più. Seicentoottantasette. Mi piacerebbe vivere su Marte, e a te?» «C'è molto più tempo tra un Natale e l'altro», commentò lei. «E tra un compleanno e l'altro. Risparmierei un sacco di soldi in regali.» «Ma tu non m'imbroglieresti mai. Ti conosco. Avremmo due Natali all'anno e festeggeremmo i mezzi compleanni.» «Pensi che io sia una stupidotta, è?» «No. Ma sei una mamma davvero molto buona.» Come se avesse percepito la sua riluttanza a tornare dal dottor Chan, Barty l'aveva tenuta impegnata con le sue chiacchiere sul pianeta rosso mentre si avvicinavano allo studio e aveva continuato a parlare mentre lei svoltava nel vialetto d'accesso e parcheggiava l'auto, e dove Agnes abbandonò tutte le sue fantasie su un viaggio senza fine. Alle diciassette e quarantacinque, ben oltre l'orario in cui venivano ricevuti i pazienti, lo studio del dottor Chan era immerso nel silenzio. La segretaria, Rebecca, si era trattenuta più a lungo proprio per tener compagnia a Barty, che sarebbe rimasto nella sala d'aspetto. Mentre la segretaria si accomodava in una poltroncina accanto al bambino, lui le chiese se sapeva quale fosse la gravita su Marte e, quando lei confessò la sua ignoranza, Barty spiegò: «Soltanto il trentasette per cento di quella sulla Terra. Su Marte, si può davvero saltare». Il dottor Chan guidò Agnes nel suo studio privato e si chiuse discretamente la porta alle spalle. Lei aveva le mani che tremavano, tutto il corpo tremava e, nella sua mente, la paura faceva un rumore assordante come le ruote di un vagoncino che corre sui binari sconnessi delle montagne russe. Quando l'oftalmologo si accorse della sofferenza di Agnes, il suo viso gentile si addolcì ulteriormente e la sua pietà si fece palpabile. In quell'istante, Agnes intuì vagamente quello che sarebbe stato il futuro, anche se non ne immaginò tutti i particolari.
Invece di andarsi a sedere dietro alla scrivania, il medico si accomodò in una delle due poltroncine destinate ai pazienti. Anche questo stava a indicare che le notizie non erano positive. «Signora Lampion, in casi come questi, l'esperienza mi ha insegnato che la cosa migliore è essere franchi. Suo figlio è affetto da retinoblastoma. Un tumore maligno della retina.» Sebbene, negli ultimi tre anni, Agnes avesse sentito intensamente la mancanza di Joey, non gli era mancato mai come in quel momento. Il matrimonio è un'espressione d'amore e di rispetto, di fiducia reciproca e nel futuro, ma essere marito e moglie significa anche affrontare insieme le sfide e le tragedie della vita, promettersi l'un l'altro con me accanto, non sarai mai solo. «Il pericolo», spiegò il dottor Chan, «è che il cancro si propaghi dall'occhio all'orbita e, lungo il nervo ottico, arrivi fino al cervello.» Lo sguardo colmo di pietà di Franklin Chan sottintendeva che le condizioni di Barty erano senza speranza e, non resistendo a quella vista, Agnes chiuse gli occhi. Ma poi li riaprì immediatamente, perché l'oscurità che lei aveva scelto le ricordava quella, non voluta, che probabilmente sarebbe stata il destino di Barty. Il tremore che la scuoteva minacciava di farle perdere il controllo. Lei era la madre e il padre di Barty, il suo unico sostegno, e doveva sempre essere forte per lui. Serrò i denti, tese tutti i muscoli del corpo e, un po' alla volta, con la forza di volontà, riuscì a calmarsi. «Di solito, il retinoblastoma è unilaterale», proseguì il dottor Chan, «colpisce un occhio solo. Nel caso di Bartholomew, il tumore è bilaterale.» Il fatto che Barty vedesse macchie contorte con entrambi gli occhi chiusi aveva preparato Agnes a questa triste notizia. Tuttavia, nonostante il fatto di averlo previsto la rendesse in qualche modo più forte, sentì il dolore azzannarla in profondità. «In casi come questo, spesso il tumore maligno è più avanzato in un occhio e meno nell'altro. Se le dimensioni del tumore lo richiedono, togliamo l'occhio colpito più gravemente e trattiamo l'altro con delle radiazioni.» Mi sono affidata alla tua pietà, pensò Agnes disperatamente, cercando conforto nel salmo 135. «Spesso i sintomi compaiono abbastanza precocemente da permetterci di avere qualche possibilità di successo con la radioterapia in uno o entrambi gli occhi. A volte lo strabismo - cioè quando uno degli occhi diverge rispetto all'altro, o verso il naso, o verso la tempia - può essere un sintomo
precoce, ma molto più spesso ci accorgiamo del tumore solo quando il paziente riferisce di avere problemi di vista.» «Macchie contorte.» Chan annuì. «Considerando lo stato avanzato dei tumori, Bartholomew avrebbe dovuto lamentarsi molto prima.» «I sintomi vanno e vengono. Oggi riesce a leggere.» «Anche questo è insolito e vorrei tanto che l'eziologia di questa malattia, che è ben nota, ci desse motivo di sperare, proprio considerando la transitorietà dei sintomi... ma non è così.» Abbi pietà di me secondo la tua parola. Poche persone sono disposte a trascorrere una buona parte della loro giovinezza a scuola, lottando per ottenere il livello di istruzione necessario a specializzarsi in medicina, se il loro più grande desiderio non è quello di guarire gli ammalati. Franklin Chan era una di queste persone e, più di ogni altra cosa, desiderava riuscire a conservare la vista dei suoi pazienti; Agnes si rendeva conto che il dispiacere del medico, anche se solo un pallido riflesso del suo, era reale e profondo. «La massa di questi tumori maligni suggerisce che presto si diffonderanno, se non è già avvenuto, dal bulbo oculare all'orbita. In questo caso, non c'è speranza di ottenere qualche risultato con la radioterapia e, anche se ci fosse, non c'è tempo per tentare. Non abbiamo proprio tempo. Neanche un po'. Il dottor Schurr e io siamo entrambi della stessa opinione, per salvare la vita di Bartholomew, dobbiamo rimuovere immediatamente entrambi gli occhi.» In quel momento, quattro giorni dopo il Natale, dopo due giorni di tormento, Agnes seppe la tremenda verità: il suo adorato bambino doveva restare senza occhi o morire, doveva scegliere tra la cecità o un cancro al cervello. Si era aspettata l'orrore, anche se forse non un orrore crudele come quello, e si era anche aspettata di restarne schiacciata, distrutta, perché, anche se era capace di sopravvivere a qualsiasi dolore, non pensava di possedere la forza morale di sopportare la sofferenza del suo bambino, di un essere così innocente. E invece ascoltò, sentì la terribile notizia schiacciarla come un enorme peso, e tuttavia le sue ossa non si polverizzarono immediatamente, anche se polvere era quello che lei avrebbe voluto essere in quel momento. «Immediatamente», ripeté. «Che cosa vuol dire?» «Domani mattina.»
Agnes abbassò lo sguardo sulle sue mani intrecciate strettamente. Erano fatte per lavorare, quelle mani, sempre pronte ad accettare qualsiasi incarico. Forti, agili, affidabili mani, ma ora totalmente inutili per lei, incapaci di compiere il miracolo di cui aveva bisogno. «Fra otto giorni è il compleanno di Barty. Speravo...» Pur continuando a mantenere un atteggiamento professionale che dava ad Agnes la forza di cui lei aveva bisogno, il dottor Chan era chiaramente addolorato quando le spiegò, con voce ancora più dolce: «I tumori sono ormai a uno stadio così avanzato che sapremo se si sono diffusi solo dopo l'intervento chirurgico. Potremmo anche arrivare troppo tardi. E se non è troppo tardi, avremo un margine di possibilità di riuscita molto limitato. Estremamente limitato. Otto giorni rappresenterebbero un rischio eccessivo». Agnes annuì. Non riusciva a sollevare lo sguardo dalle sue mani. Non riusciva a guardare il medico negli occhi, temendo che la preoccupazione di Chan avrebbe alimentato la sua, e temendo anche che la pietà che gli avrebbe letto in viso le avrebbe impedito di mantenere il controllo delle sue emozioni. Dopo un po', Franklin Chan le domandò: «Vuole che io stia con lei quando dovrà dirglielo?» «Penso sia meglio... solo lui e io.» «Qui nel mio studio?» «Va bene.» «Desidera restare da sola per un po' prima che le porti il bambino?» Agnes annuì. Il medico si alzò, aprì la porta. «Signora Lampion...» «Sì?» rispose lei, senza sollevare lo sguardo. «E un bambino meraviglioso, così intelligente, così pieno di vita. La cecità sarà dura da affrontare, ma non sarà la fine. Riuscirà a cavarsela anche senza la luce. Sarà molto diffìcile all'inizio, ma questo bambino... alla fine crescerà in modo stupendo.» Agnes si morse il labbro inferiore, trattenne il fiato, represse il singhiozzo che aveva in gola, e disse: «Lo so». Uscendo, il dottor Chan chiuse la porta. Agnes si piegò in avanti nella poltroncina: ginocchia unite, le mani serrate sulle ginocchia, la fronte appoggiata alle mani. Pensava di sapere già tutto sull'umiltà, su quanto fosse necessaria, sulla sua capacità di infondere pace alla mente e serenità al cuore ma, in quei
pochi minuti, imparò più cose sull'umiltà di quante ne avesse sapute fino ad allora. Il tremore tornò, si fece ancora più intenso di prima... poi, ancora una volta, passò. Per qualche istante, non riuscì a inspirare abbastanza aria. Si sentiva soffocare. Inspirò con forza, tremando, in modo irregolare, e pensò che non sarebbe mai riuscita a calmarsi. Ma si calmò. Temendo che le sue lacrime avrebbero spaventato Barty, che se non le avesse represse si sarebbe lasciata andare a un pianto dirotto, Agnes ricacciò indietro quelle onde salate. Il dovere di una madre era fatto dello stesso materiale con cui vengono costruite le dighe. Si alzò dalla poltroncina, si avvicinò alla finestra e sollevò la veneziana, invece di limitarsi a guardar fuori attraverso le lamelle. La sera, le stelle. L'universo era immenso e Barty piccolo, ma l'anima immortale del bambino lo rendeva importante come le galassie, importante come qualsiasi altra cosa nella creazione. Agnes era convinta di questo. Non poteva sopportare la vita senza la convinzione che avesse un significato e uno scopo, anche se a volte si sentiva come un passero, la cui caduta non era stata neppure notata. *** Barty era seduto sul bordo della scrivania del medico, con le gambe ciondoloni e con un dito teneva il segno alla pagina de Il pianeta rosso a cui era arrivato. Agnes lo aveva messo a sedere là sopra. Continuava a lisciargli i capelli, a rassettargli la camicia, a riallacciargli i lacci allentati, perché trovava più difficile di quanto si fosse aspettata dire ciò che andava detto. Forse, dopo tutto, avrebbe avuto bisogno della presenza del dottor Chan. Poi, all'improvviso, trovò le parole giuste. Per essere più esatti, sembrava che giungessero attraverso di lei, perché Agnes non si rendeva nemmeno conto di pensare le frasi. Ciò che disse e il modo in cui lo disse risultarono così perfetti che sembrò quasi che un angelo l'avesse liberata da quel peso, possedendola per tutto il tempo necessario ad aiutare suo figlio a comprendere ciò che sarebbe avvenuto e perché. La capacità di leggere e di far di conto di Barty superava quella della maggior parte dei ragazzi di diciotto anni ma, nonostante la sua intelligen-
za, non aveva ancora compiuto tre anni. I bambini prodigio non sono necessariamente maturi da un punto di vista emotivo tanto quanto sono sviluppati da un punto di vista intellettuale, ma Barty l'ascoltò con attenzione, pose alcune domande, poi rimase in silenzio, fissando il libro che stringeva tra le mani, senza piangere o apparire spaventato. E alla fine domandò: «Pensi che i medici sappiano quel che fanno?» «Sì, tesoro. Ne sono convinta.» «Okay.» Posò il libro sulla scrivania e tese le manine verso di lei. Agnes lo attirò tra le sue braccia, lo sollevò dalla scrivania e lo tenne stretto, mentre lui appoggiava la testa sulle sue spalle e nascondeva il viso contro il suo collo, come faceva quando era piccolo. «Possiamo aspettare fino a lunedì?» domandò poi. C'erano alcuni fatti che non gli aveva riferito: che il cancro poteva essersi già diffuso, che lui poteva comunque morire, anche dopo che gli avevano tolto gli occhi e che, se il tumore non si era ancora diffuso, presto avrebbe potuto farlo. «Perché lunedì?» domandò Agnes. «Adesso riesco a leggere. Le macchioline contorte non ci sono più.» «Torneranno.» «Ma, durante il fine settimana, forse potrei leggere ancora qualche libro.» «Heinlein, vero?» Barty sapeva quali romanzi voleva leggere: «La vita delle stelle, Guerra nell'infinito, Starman Jones». Tenendolo in braccio, Agnes si avvicinò alla finestra, guardò le stelle, la luna, poi disse: «Ti leggerò sempre dei libri, Barty». «Però è diverso.» «Sì. Sì, è diverso.» Heinlein sognava di raggiungere mondi lontani. Prima di morire, John Kennedy aveva promesso che, prima della fine del decennio, l'uomo avrebbe camminato sulla luna. Barty non voleva nulla di così straordinario, solo leggere qualche romanzo, perdersi in quel meraviglioso e segreto piacere che erano i libri, perché presto ogni storia sarebbe stata per lui soltanto un'esperienza uditiva, non più un viaggio privato. Il fiato di Barty era tiepido contro la gola di Agnes. «E poi voglio tornare a casa e vedere alcune facce.» «Facce?»
«Zio Edom. Zio Jacob. Zia Maria. Così potrò ricordare i loro visi. Dopo... lo sai.» Il cielo era gelido e profondo. La luna scintillò, le stelle si confusero... ma solo per un attimo, perché l'affetto di Agnes per il suo bambino era una fornace che temperava l'acciaio della sua spina dorsale e mandava vampate di calore che asciugavano le lacrime nei suoi occhi. Senza la piena approvazione, ma con l'assoluta comprensione di Franklin Chan, Agnes portò Barty a casa. Il lunedì successivo sarebbero tornati al Hoag Hospital dove, il martedì, Barty sarebbe stato operato. Di venerdì sera, la biblioteca di Bright Beach restava aperta fino alle nove. Arrivati un'ora prima della chiusura, restituirono i romanzi di Heinlein che Barty aveva già letto e presero quelli che desiderava. Con un certo ottimismo, se ne fecero dare anche un quarto, Ragazza di Marte. In macchina, a un isolato da casa, Barty disse: «Magari potresti non dir niente a zio Edom e a zio Jacob fino a domenica sera. Non la prenderanno proprio bene. Lo sai, no?» Agnes annuì. «Lo so.» «Se glielo dici adesso, non passeremo un bel fine settimana.» Un bel fine settimana. L'atteggiamento di suo figlio la lasciava strabiliata e la sua forza di fronte all'oscurità che lo attendeva, le dava coraggio. Tornati a casa, Agnes non aveva appetito ma preparò a Barty un panino al formaggio, riempì un piatto con patate in insalata, vi aggiunse un pacchetto di salatini di granoturco e una Coca-Cola, e gli portò la cena su un vassoio, in camera, dove Barty si era già messo a letto e stava leggendo La vita delle stelle. Edom e Jacob vennero a trovarli per chiedere che cosa avesse detto il dottor Chan, e Agnes rispose con una menzogna. «I risultati di alcune analisi saranno pronti solo lunedì, ma pensa che Barty non abbia niente di grave.» Se uno dei due sospettò che stesse mentendo, quello fu Edom. Aveva un'aria perplessa, ma non insisté sull'argomento. Agnes domandò a Edom di fermarsi in casa, in modo da non lasciare Barty da solo mentre lei andava a trovare Maria Gonzalez per un'ora o due. Fu ben lieto di accontentarla e si mise a guardare alla televisione un documentario sui vulcani, in cui avrebbero parlato dell'eruzione del monte Pelee, in Martinica, avvenuto nel 1902, eruzione che, nel giro di pochi minu-
ti, aveva fatto ventottomila vittime, nonché di altri disastri di proporzioni colossali. Agnes era certa che Maria fosse a casa, aspettava una telefonata per sapere qualcosa di Barty. L'appartamento sopra il negozio Elena 's Fashions era raggiungibile da una scala esterna sul retro dell'edificio. Ad Agnes, la salita non era mai apparsa faticosa, ma adesso giunse in cima alla scala senza fiato e con le gambe che le tremavano. Quando venne ad aprire la porta, Maria aveva un'aria affranta, perché intuiva che una visita, invece della telefonata prevista, significava cattive notizie. Seduta nella cucina di Maria, solo quattro giorni dopo Natale, Agnes si tolse la maschera di coraggio e pianse tutte le sue lacrime. Più tardi, tornala a casa, dopo aver rimandato Edom nel suo appartamento, Agnes aprì una bottiglia di vodka che aveva acquistato mentre tornava dalla casa di Maria. Ne versò un po' in un bicchiere e vi aggiunse del succo d'arancia. Si sedette al tavolo della cucina, fissando il bicchiere. Dopo un po', andò a svuotarlo nel lavandino senza averne bevuto neppure un sorso. Poi lo riempì con del latte freddo, che bevve rapidamente. Mentre sciacquava il bicchiere vuoto, ebbe la sensazione di dover vomitare, ma non lo fece. Rimase a lungo seduta nel soggiorno, al buio, sprofondata nella poltrona preferita di Joey, pensando a molte cose, ma tornando spesso, con la memoria, alla passeggiata «asciutta» di Barty sotto la pioggia. Quando, alle due e dieci del mattino, decise di salire al piano di sopra, passò dalla camera di Barty e lo trovò profondamente addormentato, rischiarato dalla morbida luce dell'abat-jour, con La vita delle stelle al suo fianco. Rannicchiata in una poltrona, rimase a fissare Barty. Non riusciva a smettere di guardarlo. Pensava che non si sarebbe addormentata, che avrebbe trascorso tutta la notte a vegliarlo, ma la fatica ebbe la meglio su di lei. Poco dopo le sei del mattino di sabato, si risvegliò da un sogno inquieto e vide che Barty era seduto nel letto, stava leggendo. Durante la notte si era svegliato e, vedendola nella poltrona, le aveva messo addosso una coperta. Sorridendo, stringendosi la coperta intorno al corpo, Agnes commentò:
«Ti prendi cura della tua vecchia mamma, vero?» «Fai delle ottime torte.» Colta di sorpresa dalla battuta, Agnes scoppiò a ridere. «Bene, sono felice di sapere che servo a qualcosa. C'è forse una torta speciale che vorresti, oggi?» «Quella spumosa al burro di arachidi. Quella alla crema di cocco. E quella al cioccolato.» «Tre torte? Diventerai un porcellino.» «Non le mangio tutte io», la rassicurò. Così iniziò il primo giorno dell'ultimo fine settimana della loro vecchia vita. Quel sabato, Maria venne a trovarli e rimase seduta in cucina a ricamare il colletto e i polsini di una camicetta, mentre Agnes preparava le torte. Barty era seduto al tavolo della cucina e leggeva Guerra nell'infinito. Di tanto in tanto, Agnes lo sorprendeva a osservarla mentre lavorava o a fissare il viso di Maria e le sue agili mani. Al tramonto, il bambino uscì nel giardino posteriore e si fermò a guardare, attraverso i rami della gigantesca quercia, il cielo che, da arancione, si faceva corallo, rosso, porpora, indaco. All'alba, lui e sua madre andarono al mare per guardare le onde filigranate di spuma e dorate dal sole del mattino, per ammirare il volo dei gabbiani e per lanciargli briciole di pane che li facevano tornare rapidamente a terra. La domenica sera, vigilia di Capodanno, Edom e Jacob erano stati invitati a cena. Dopo il dolce, quando Barty si ritirò nella sua cameretta per continuare a leggere Starman Jones, che aveva iniziato nel tardo pomeriggio, Agnes rivelò ai fratelli la verità sugli occhi del nipotino. Il loro faticoso tentativo di esprimere con le parole il dispiacere che provavano commosse Agnes, non per la profondità del sentimento, ma perché, alla fine, non furono in grado di esprimersi adeguatamente. E senza quel sollievo, il loro dolore diventava distruttivo. Anni e anni di introversione li avevano privati della capacità di liberarsi da un peso che li opprimeva e di essere di conforto agli altri. Ancor peggio, la loro ossessione della morte, in tutte le sue innumerevoli forme, li aveva preparati ad aspettarsi il cancro di Barty, era una disgrazia che non li vedeva né scioccati, né in grado di trovare consolazione, ma soltanto rassegnati. Alla fine, con grande frustrazione, entrambi i gemelli riuscirono a esprimere i loro sentimenti sol-
tanto con frasi spezzettate, gesti lasciati a metà, lacrime silenziose... e fu Agnes a doverli consolare. Avrebbero voluto salire in camera di Barty, ma lei non acconsentì perché non vi era nulla che potessero fare per il bambino, più di quanto avessero fatto già per lei. «Desidera terminare di leggere Starman Jones e non voglio che nulla interferisca con questo. Domani mattina partiremo per Newport Beach alle sette, allora lo potrete salutare.» Poco dopo le nove, Edom e Jacob se ne erano andati da un'ora, Barty scese al pianterreno con il libro in mano. «Le macchioline contorte sono tornate.» Agnes mise del gelato alla vaniglia in due alti bicchieri e, dopo aver entrambi indossato in fretta il pigiama, si sedettero uno accanto all'altro sul letto di Barty, assaporando il gelato, mentre lei leggeva a voce alta le ultime sessanta pagine di Starman Jones. Nessun weekend era trascorso così rapidamente e nessuna mezzanotte aveva portato con sé tanto terrore. Quella sera, Barty andò a dormire nel letto di sua madre. Poco dopo aver spento la luce, Agnes disse: «Piccolino, è trascorsa un'intera settimana da quando tu hai camminato dove non c'era la pioggia e io ho pensato parecchio a questa faccenda». «Non fa paura», la rassicurò ancora una volta Barty. «Be', a me fa paura. Ma quello che mi sono domandata... quando parli di tutti i modi in cui sono le cose... esiste un posto dove tu non hai questo problema con gli occhi?» «Certo. Funziona come con le altre cose. Tutto ciò che può accadere, accade, e ogni modo diverso di accadere forma un posto completamente nuovo.» «Non capisco.» Barty sospirò. «Lo so.» «Tu li vedi questi altri posti?» «Li sento soltanto.» «Anche quando ci cammini dentro?» «Io non ci cammino davvero dentro. Io cammino soltanto... nell'idea di questi posti.» «Immagino che non riusciresti a spiegarlo meglio alla tua mamma, vero?» «Magari un giorno. Adesso no.» «Allora... quanto sono lontani questi posti?»
«Sono tutti qui insieme adesso.» «Altri Barty e altre Agnes in altre case come questa... adesso tutti insieme?» «Sì.» «In alcuni di questi posti, tuo papà è vivo.» «Sì.» «E in altri ancora, magari io sono morta la sera in cui tu sei nato e tu vivi da solo con il tuo papà.» «In alcuni posti deve essere così.» «E in altri posti deve essere che i tuoi occhi sono sani?» «Ci sono un sacco di posti in cui io non ho proprio nessun problema agli occhi. E in altri in cui i problemi sono peggiori, oppure non sono così gravi, però ci sono.» Quelle spiegazioni lasciarono Agnes sconcertata ma, una settimana prima, nel cimitero spazzato dalla pioggia, aveva imparato che non erano prive di senso. Disse: «Tesoro, quello che mi stavo chiedendo è... potresti andare dove non hai problemi agli occhi, così come camminavi dove non c'era la pioggia... e lasciare i tumori in quell'altro posto? Potresti andare dove hai gli occhi sani e tornare qui, portandoteli dietro?» «Non è così che funziona.» «Perché no?» Barty ci rifletté per qualche istante. «Non lo so.» «Sei disposto a pensarci un po', solo per farmi piacere?» «Certo. È un'ottima domanda.» Agnes sorrise. «Grazie. Ti adoro, piccolino.» «Anch'io ti adoro.» «Hai detto le preghiere?» «Le dico adesso.» Anche Agnes pregò silenziosamente. Rimase sdraiata nel buio, accanto a suo figlio, fissando la finestra oltre la quale il vago chiarore della luna premeva contro la veneziana, lasciando immaginare l'esistenza di un altro mondo e di un'altra vita proprio al di là della sottile membrana di luce. Già sul punto di addormentarsi, Barty si rivolse a suo padre in tutti i posti in cui Joey ancora viveva: «Buona notte, papà». La fede di Agnes le diceva che il mondo era infinitamente complesso e pieno di mistero e, in un modo singolare, le parole di Barty su infinite pos-
sibilità sostenevano la sua fede, dandole quella serenità che le permise di addormentarsi. Il lunedì mattina, Capodanno, Agnes uscì dalla porta posteriore con due valigie, che posò sulla veranda, e in quel momento, sbattendo le palpebre per la sorpresa, vide la Ford Country Squire gialla e bianca di Edom parcheggiata nel vialetto d'accesso, di fronte al garage. Lui e Jacob stavano sistemando le loro valigie nel bagagliaio dell'auto. Poi si avvicinarono a lei, presero il bagaglio che aveva lasciato sulla veranda ed Edom disse: «Guido io». «Io mi siedo davanti con Edom», intervenne Jacob. «Tu puoi stare dietro con Barty.» In tutta la loro vita, nessuno dei due gemelli aveva mai messo piede oltre i confini di Bright Beach. Apparivano entrambi nervosi, ma determinati. Barty uscì dalla casa con la copia di Ragazza di Marte che avevano preso in biblioteca e che sua madre gli aveva promesso di leggergli in ospedale. «Andiamo tutti quanti?» domandò. «A quanto pare», rispose Agnes. «Fantastico.» «Esattamente.» Nonostante gli imminenti terremoti, le esplosioni di camion carichi di dinamite sull'autostrada, tornado in arrivo, la spiacevole probabilità che una grande diga crollasse proprio sul loro percorso, tempeste di ghiaccio che andavano ammassandosi in cielo, aeroplani che precipitavano, treni sfuggiti al controllo e lanciati a tutta velocità verso la strada costiera, nonché la possibilità di un improvviso spostamento dell'asse terrestre che avrebbe spazzato via la civiltà umana, si arrischiarono a oltrepassare i confini di Bright Beach e si avviarono verso nord, verso il grande mistero di territori strani e pericolosi. Mentre procedevano lungo la costa, Agnes cominciò a leggere a Barty il romanzo Ragazza di Marte: «'Per tutta la vita ho desiderato andare sulla Terra. Non abitarci, naturalmente... solo vederla. Come tutti sanno, Terra è un luogo meraviglioso da visitare, ma non da abitare. Non è assolutamente adatta agli umani'». Dal sedile anteriore, Edom e Jacob mormorarono la loro approvazione, trovandosi pienamente d'accordo con le opinioni del narratore. Il lunedì sera, Edom e Jacob presero due stanze adiacenti in un motel vicino all'ospedale. Telefonarono nella camera di Barty per dare ad Agnes il
numero di telefono e per informarla che avevano ispezionato diciotto motel prima di trovare quello che era sembrato loro relativamente sicuro. Considerando l'età di Barty, ildottor Franklin Chan aveva fatto in modo che Agnes potesse trascorrere la notte nella camera del bambino, dormendo nel secondo letto che, in quel momento, non veniva utilizzato per altri pazienti. Per la prima volta in molti mesi, Barty non desiderò dormire al buio. Lasciarono la porta della stanza aperta in modo che, dal corridoio, filtrasse un po' di luce. La notte sembrò più lunga di un mese marziano. Agnes dormì irregolarmente, svegliandosi più di una volta, sudata e tremante, da un sogno in cui il figlio le veniva portato via a pezzi: prima gli occhi, poi le mani, poi le orecchie, le gambe... L'ospedale era immerso in uno strano silenzio, a parte qualche occasionale scricchiolio di suole di gomma sul pavimento in linoleum del corridoio. Un'infermiera arrivò alle prime luci dell'alba per preparare Barty all'operazione. Spinse indietro i capelli del bambino, nascondendoli sotto una stretta cuffia. Poi, con un rasoio di sicurezza e schiuma da barba, gli rase completamente le sopracciglia. Uscita l'infermiera e rimasto da solo con la madre, mentre aspettavano che l'inserviente arrivasse con la lettiga, Barty disse: «Avvicinati». Agnes si trovava già accanto al suo letto. Si chinò verso di lui. «Più vicino», mormorò lui. Lei abbassò il viso fino a sfiorare quello del bambino. Sollevando leggermente la testa, Barty sollevò il nasino contro quello della madre. «Eskimo.» «Eskimo», ripeté lei. Barty sussurrò: «La Società del Polo Nord degli Avventurieri non Malvagi si è riunita». «I membri sono tutti presenti», confermò lei. «Ho un segreto.» «Nessun membro della società viola mai una confidenza fatta in segreto», gli assicurò Agnes. «Ho paura.» Durante tutti i suoi trentatré anni di vita, spesso Agnes aveva dovuto farsi coraggio, ma mai come in quel momento aveva avuto bisogno di tutte le sue forze per riuscire a dominare l'emozione e rappresentare un sostegno per Barty. «Non aver paura, tesoro. Ci sono qua io.» Prese una manina del bambino e la strinse tra le sue. «Starò ad aspettarti. Non sarai mai senza di
me.» «Ma tu non hai paura?» Se Barty fosse stato un qualsiasi altro bambino di tre anni, lei gli avrebbe raccontato una pietosa bugia. Ma lui era il suo piccolo miracolo, il suo bambino prodigio, e avrebbe capito subito che stava mentendo. «Sì», ammise, tenendo sempre il viso vicino a quello del figlio, «ho paura. Ma il dottor Chan è un chirurgo eccellente e questo è un ottimo ospedale.» «Quanto ci vorrà?» «Non molto.» «Sentirò qualcosa?» «Dormirai, tesoro.» «Dio mi sta guardando?» «Sì. Sempre.» «Pare che non stia guardando.» «È qui, Barty, proprio come me, puoi esserne certo. È molto impegnato, con tutto l'universo da mandare avanti, tante persone a cui badare, non solo qui ma anche su altri pianeti, come quelli di cui hai letto.» «Non ho pensato agli altri pianeti.» «Be', con tutte queste responsabilità sulle spalle, non può sempre guardarci direttamente, non può prestarci sempre la massima attenzione, ma ci osserva indirettamente, almeno con la coda dell'occhio. Vedrai che andrà tutto bene. Ne sono certa.» La lettiga, una ruota che sbatacchiava. Il giovane inserviente che la spingeva, tutto vestito di bianco. E di nuovo l'infermiera. «Eskimo», sussurrò Barty. «Eskimo», rispose Agnes. «La riunione della Società del Polo Nord degli Avventurieri non Malvagi si è ufficialmente conclusa.» Agnes prese tra le mani il viso del figlio e gli baciò quegli occhi simili a gioielli. «Sei pronto?» Un debole sorriso. «No.» «Nemmeno io», ammise lei. «Allora andiamo.» L'inserviente prese in braccio Barty e lo spostò sulla lettiga. L'infermiera lo coprì con un lenzuolo e gli fece scivolare sotto la testa un cuscino molto sottile. Sopravvissuti alla notte, Edom e Jacob stavano aspettando nell'atrio. En-
trambi baciarono il nipote, ma nessuno dei due riuscì a parlare. L'infermiera faceva strada, mentre l'inserviente spingeva la lettiga da dietro la testa di Barty. Agnes camminava accanto al figlio, stringendogli la mano destra. Edom e Jacob affiancarono la lettiga, stringendo ciascuno uno dei piedi di Barty coperti dal lenzuolo, scortando il nipote con la determinazione di agenti del servizio segreto incaricati di proteggere il presidente degli Stati Uniti. Giunti davanti agli ascensori, l'inserviente suggerì che Edom e Jacob prendessero un'altra cabina, per incontrarsi poi di nuovo al reparto chirurgia. Edom si morse il labbro inferiore, scosse la testa e rimase ostinatamente attaccato al piede sinistro di Barty. Stringendo il piede destro, Jacob fece notare che un solo ascensore poteva forse scendere senza problemi ma che, se ne avessero presi due, o uno o l'altro sarebbe sicuramente precipitato, considerata la inaffidabilità di tutti i macchinari costruiti dall'uomo. L'infermiera intervenne dicendo che, se a nessuno importava di stringersi un po', la cabina poteva sopportare il peso di tutti loro. A nessuno importava, e così cominciarono a scendere lentamente, ma troppo in fretta per Agnes. Le porte scorrevoli si aprirono e Barty venne spinto da un corridoio all'altro, oltre i lavandini per il lavaggio asettico, fino all'assistente di sala operatoria in cuffia verde, mascherina e camice, che li stava aspettando. Fu lei, da sola, a trasferirlo nella sala operatoria. Mentre la lettiga veniva spinta in avanti, Barty sollevò leggermente la testa dal cuscino. Continuò a fissare intensamente sua madre fino a quando le porte si chiusero, dividendoli. Agnes si sforzò di continuare a sorridergli fino all'ultimo, perché voleva che suo figlio non portasse per sempre con sé il ricordo della sua disperazione. Insieme con i fratelli, raggiunse la sala d'attesa, dove rimasero ad aspettare, bevendo caffè nero nei bicchieri di carta di un distributore automatico. Agnes pensò che, come avevano previsto le carte in quella lontana sera, il fante era arrivato. Si era aspettata un uomo dagli occhi crudeli e dal cuore malvagio, invece si trattava di un cancro. Dalla sua conversazione con Joshua, avvenuta il giovedì precedente, Agnes aveva avuto più di quattro giorni per prepararsi al peggio. L'aveva
fatto come qualsiasi altra madre, cercando di non impazzire. Tuttavia, nel suo cuore, si rifiutava di abbandonare la speranza che avvenisse un miracolo. Era un ragazzino straordinario, un bambino prodigio, in grado di camminare dove non c'era la pioggia, lui stesso un piccolo miracolo, quindi sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa, il dottor Chan poteva entrare di corsa nella sala d'attesa, con la mascherina che gli penzolava dal collo, il viso raggiante e la notizia di una regressione spontanea del cancro. E infatti, quando venne il momento, il chirurgo si presentò con la buona notizia che i tumori maligni non avevano intaccato né l'orbita né il nervo ottico, ma non aveva alcun miracolo maggiore di quello da riferire. Il 2 gennaio 1968, quattro giorni prima del suo compleanno, Bartholomew Lampion rinunciò ai suoi occhi per poter vivere e accettò una vita di cecità senza alcuna speranza di rivedere di nuovo la luce, fino a quando, a suo tempo, avrebbe lasciato questo mondo per uno migliore. 62 Paul Damascus stava percorrendo a piedi la costa settentrionale della California: dalla stazione di Point Reyes a Tomales, a Bodega Bay fino a Stewarts Point, Gualala e Mendocino. In alcuni giorni, non riusciva a coprire più di quindici chilometri, mentre in altri, arrivava fino a quasi cinquanta. Il 3 gennaio del 1968, si trovava a meno di quattrocento chilometri da Spruce Hills, nell'Oregon. Tuttavia non sapeva che quella città si trovasse nelle vicinanze e, al momento, non era quella la sua destinazione. Con la determinazione del protagonista di un'avventura da rivista popolare, Paul continuava ad andare avanti sia con il sole che con la pioggia. Camminava con il caldo e con il freddo. Non lo fermava il vento e neppure i lampi. Nei tre anni successivi alla morte di Perri, aveva percorso migliaia di chilometri. Non aveva preso nota della distanza totale, perché non stava cercando di entrare nel Guinness dei primati, né voleva dimostrare qualcosa. Inizialmente, le sue escursioni non superavano i dieci-quindici chilometri: lungo la costa a nord e a sud di Bright Beach, e all'interno, verso il deserto oltre le colline. E alla sera tornava sempre a casa. La sua prima escursione notturna, nel giugno del '65, fu a La Jolla, a nord di San Diego. Si portò dietro un grosso zaino e indossò un paio di
pantaloni lunghi color cachi, quando, visto il calore estivo, avrebbe fatto meglio a mettersi dei pantaloncini. Era la prima - e fino a quel momento l'ultima - passeggiata che faceva con uno scopo ben preciso. Andava a vedere un eroe. In una rivista, aveva letto un articolo in cui si menzionava il nome del ristorante in cui, di tanto in tanto, l'eroe faceva colazione. Paul era partito con il buio e si era diretto verso sud, seguendo la strada costiera. Inizialmente era stato accompagnato dalle raffiche di vento provocate dalle auto di passaggio, poi soltanto dal grido occasionale di un airone, dal mormorio della brezza salata sull'erba della spiaggia e da quello delle onde. Senza impegnarsi troppo, raggiunse La Jolla all'alba. Il ristorante non poteva dirsi alla moda. Una caffetteria. Pancetta che sfrigolava, uova che friggevano. Il profumo di cannella dei pasticcini, l'aroma del caffè forte. Un ambiente pulito, vivace. La fortuna sorrise a Paul. L'eroe era lì, stava facendo colazione. Seduto con altri due uomini a un tavolo d'angolo, era impegnato in una conversazione. Paul si sedette da solo, dalla parte opposta del locale. Ordinò succo d'arancia e cialde dolci. Attraversare la caffetteria e avvicinarsi al tavolo dell'eroe gli appariva un'impresa molto più ardua della lunga escursione che aveva appena affrontato. Lui non era nessuno, un farmacista di paese che, un mese dopo l'altro, continuava a perdere lavoro, che si affidava sempre di più ai suoi dipendenti e che, se non avesse cercato di controllarsi, avrebbe dovuto cessare l'attività. Non aveva mai compiuto un'impresa straordinaria, non aveva mai salvato la vita di nessuno. Non aveva il diritto di imporre la sua presenza a quell'uomo e ora sapeva anche che non aveva il coraggio di farlo. Tuttavia, senza nemmeno rendersi conto di essersi alzato dalla sedia, si trovò con lo zaino in spalla, dall'altra parte della stanza. I tre uomini levarono lo sguardo su di lui, aspettando che dicesse qualcosa. Durante la camminata notturna, praticamente a ogni passo, Paul aveva pensato attentamente a quello che avrebbe detto, a quello che doveva dire, se mai l'incontro fosse avvenuto. Ma ora aveva dimenticato tutto il discorso che si era preparato. Aprì la bocca, ma rimase muto. Sollevò la mano destra dal fianco. Agitò le dita in aria come se potesse far risonare dal nulla le parole di cui aveva bisogno. Si sentì stupido, sciocco. Evidentemente l'eroe era abituato a incontri del genere. Si alzò, spostò
una sedia vuota. «Prego, si accomodi.» La sua cortesia non aiutò Paul a dire ciò che desiderava. Al contrario, sembrava che le parole gli fossero rimaste intrappolate in gola. Avrebbe voluto dire: I politici, vanitosi e assetati di potere, che spremono applausi dalle folle ignoranti, i campioni dello sport e gli attori così pieni di autocompiacimento, che non si oppongono mai quando si sentono definire eroi, dovrebbero farsi piccoli piccoli e vergognarsi sentendo pronunciare il suo nome. La sua perspicacia, la sua lotta, gli anni di estenuante lavoro, la sua fiducia quando gli altri dubitavano, il coraggio che ha avuto nel mettere a repentaglio carriera e reputazione... tutto questo rappresenta una delle grandi storie della scienza e io sarei onorato di poterle stringere la mano. Neanche una di queste parole uscì dalla bocca di Paul, ma forse, anche se frustrante, quell'improvviso mutismo non giunse a sproposito. Da ciò che sapeva del suo eroe, un simile elogio lo avrebbe messo in imbarazzo. Si sedette nella sedia che gli era stata offerta ed estrasse dal portafogli una fotografia di Perri. Era una vecchia foto in bianco e nero, leggermente ingiallita dal tempo, scattata nel 1933, l'anno in cui aveva cominciato a innamorarsi di lei, quando entrambi avevano tredici anni. Come se gli capitasse spesso, in simili circostanze, che qualcuno gli mostrasse una foto, Jonas Salk la prese in mano. «È sua figlia?» Paul scosse la testa. Gli mostrò una seconda fotografia di Perri, scattata il giorno di Natale del 1964, meno di un mese prima della sua morte. Era a letto, nel soggiorno, il corpo distrutto, ma il viso ancora bellissimo e vivo. Quando finalmente Paul ritrovò la voce, suonò aspra e roca: «È mia moglie, Perri. Perri Jean.» «È bellissima.» «Sposati... ventitré anni.» «Quando si è ammalata?» domandò Salk. «Aveva quasi quindici anni... nel 1935.» «È stato un anno terribile per quel virus.» La poliomielite aveva colpito Perri diciassette anni prima che il vaccino di Jonas Salk salvasse le generazioni successive da quella maledizione. Paul balbettò: «Volevo che lei... non lo so... volevo soltanto che lei la vedesse. Volevo dire... dire...» Le parole gli sfuggirono di nuovo e lui si guardò intorno nella caffetteria come se qualcuno potesse farsi avanti e parlare per lui. Si rese conto che tutti lo stavano fissando e l'imbarazzo gli formò un nodo ancor più stretto
in gola. «Perché non facciamo una passeggiata insieme?» suggerì il medico. «Mi scusi. Vi ho interrotto. Mi sono reso ridicolo.» «Niente affatto», lo rassicurò il dottor Salk. «Ho bisogno di parlare con lei. Se volesse concedermi un po' del suo tempo...» Le parole ho bisogno invece di vorrei, spinsero Paul a seguire il medico attraverso il locale. Appena uscito, si rese conto che non aveva pagato il succo di frutta e le cialde. Quando si voltò per rientrare nella caffetteria, vide, attraverso una delle vetrine, che uno degli amici di Salk stava prendendo il conto dal suo tavolo. Cingendo le spalle di Paul con un braccio, il dottor Salk si avviò lungo una strada fiancheggiata da eucaliptus, fino a un minuscolo giardino. Si sedettero su una panchina in pieno sole e rimasero a osservare le anatre che sguazzavano sulla riva di un laghetto artificiale. Salk stringeva ancora in mano le due fotografie. «Mi parli di Perri.» «Lei... lei è morta.» «Mi dispiace davvero.» «Cinque mesi fa.» «Vorrei tanto che mi parlasse di lei.» Paul, che non era riuscito a esprimere la sua ammirazione per Salk, fu invece perfettamente in grado di parlare di Perri a lungo e senza difficoltà. La sua intelligenza, generosità, saggezza, gentilezza, bellezza, bontà e il suo coraggio furono i fili di un arazzo che Paul avrebbe potuto continuare a tessere per il resto della sua vita. Da quando era morta, non era riuscito a parlare di lei con nessuna delle persone che conosceva, perché i suoi amici tendevano a concentrarsi su di lui, sulle sue sofferenze, mentre ciò che Paul desiderava era soltanto che comprendessero meglio Perri, che si rendessero conto di che persona eccezionale era stata. Voleva che venisse ricordata dopo la sua morte, voleva che la gente parlasse con grande rispetto della sua gentilezza d'animo e della sua forza morale. Era una donna troppo speciale per andarsene senza lasciare traccia e lo addolorava pensare che il ricordo di Perri potesse scomparire insieme con lui. «Io riesco a parlare con lei», disse a Salk. «Lei mi capisce. Perri era un'eroina, l'unica che io abbia mai conosciuto fino a quando non l'ho incontrata, dottor Salk. Per tutta la vita non ho fatto altro che leggere avventure di eroi, nelle riviste e nei libri. Ma Perri... lei era reale. Perri non ha salvato decine di migliaia... centinaia di migliaia di bambini... come lei, non ha
cambiato il mondo come ha fatto lei, dottor Salk, ma ha affrontato ogni giorno della sua vita senza lamentarsi, e viveva per gli altri. Non attraverso gli altri. Per loro. Gli amici le telefonavano per parlare dei loro problemi, e lei li ascoltava con attenzione, preoccupandosi per loro; ma le telefonavano anche per comunicarle le buone notizie, perché per Perri erano una gioia. Chiedevano il suo consiglio e, anche se era del tutto inesperta, non aveva avuto molte esperienze in tutti quegli anni, sapeva sempre cosa dire, dottor Salk. Sempre la cosa giusta. Aveva un gran cuore e una saggezza naturale e dava tanto amore.» Studiando attentamente le foto, Jonas Salk commentò: «Vorrei averla conosciuta». «Perri era un'eroina, proprio come lei è un eroe. Volevo che la vedesse e che conoscesse il suo nome. Perri Damascus. Era così che si chiamava.» «Non lo dimenticherò mai», promise il dottor Salk. Continuando a fissare le foto di Paul, soggiunse: «Ma temo che lei mi attribuisca un merito eccessivo. Non sono un superuomo. Non ho fatto tutto da solo. Molte persone si sono dedicate a quella ricerca». «Lo so. Ma tutti dicono che lei è...» «E lei si dà troppo poco credito», lo interruppe gentilmente Salk. «Sono convinto che Perri fosse un'eroina. Ma era anche sposata a un eroe.» Paul scosse la testa. «Oh, no. Guardando al nostro matrimonio, molta gente pensa che io abbia rinunciato a tante cose, ma io ho ricevuto molto più di quel che ho dato.» Il dottor Salk restituì le foto, posò una mano sulla spalla di Paul e sorrise. «Ma succede sempre così, non crede? Gli eroi ricevono sempre più di quel che hanno dato. È l'atto stesso di dare che garantisce un ritorno.» Il dottore si alzò e Paul si alzò con lui. Dall'altra parte del giardino, lungo il cordolo, vi era una macchina. I due amici del dottor Salk erano in piedi, fermi accanto all'auto e sembrava che aspettassero già da un po'. «Possiamo darle un passaggio da qualche parte?» domandò l'eroe. Paul scosse la testa. «Sto facendo un'escursione a piedi.» «Le sono grato di aver voluto parlare con me.» Paul non riuscì a pensare a nient'altro da dire. «Consideri ciò che le ho detto», insisté il dottor Salk. «La sua Perri vorrebbe che lei ci pensasse.» Poi l'eroe salì in macchina con i suoi amici e si allontanò nella mattina inondata di sole.
Troppo tardi, Paul pensò all'unica cosa in più che avrebbe voluto dire. Troppo tardi, ma lo disse comunque: «Che Dio la benedica». Rimase a guardare l'auto finché non fu più in vista e, anche dopo che divenne una macchiolina lontana e sparì, continuò a fissare il punto esatto della strada in cui l'aveva vista per l'ultima volta, continuò a fissare, mentre una brezza giocosa faceva roteare foglie di eucalipto intorno ai suoi piedi, continuò a fissare finché, alla fine, si voltò e iniziò il lungo cammino verso casa. Da allora in poi, per due anni e mezzo, aveva continuato a camminare, fermandosi a Bright Beach solo per brevi soste. Rendendosi conto che, con tutta probabilità, non si sarebbe mai più dedicato seriamente al suo lavoro, Paul vendette la farmacia a Jim Kessel, da molto tempo suo braccio destro e collega. Tenne la casa, perché rappresentava il santuario della sua vita con Perri. Di tanto in tanto, vi tornava per dare sollievo al suo spirito. Nei restanti mesi di quel primo anno, fece un'escursione fino a Palm Springs e ritorno, percorrendo più di trecento chilometri e si spinse a nord, fino a Santa Barbara. Durante la primavera e l'estate del 1966, raggiunse in aereo Memphis, nel Tennessee, si fermò per alcuni giorni, poi camminò per più di trecentosessanta chilometri fino a St. Louis. Da St. Louis percorse più di quattrocento chilometri per arrivare a Kansas City, nel Missouri e, successivamente, si diresse a sudovest e arrivò a Wichita, poi da Wichita a Oklahoma City. Da Oklahoma City verso est, fino a Fort Smith, nell'Arkansas, dopodiché tornò a Bright Beach prendendo una serie di autobus della Greyhound. Raramente dormiva all'aperto, ma in ogni caso sceglieva sempre motel economici, pensioni e ostelli. Si portava dietro un bagaglio leggero, uno zaino con un cambio d'indumenti, snack, barrette dolci e una bottiglia d'acqua. Pianificava la distanza da percorrere in modo da trovarsi ogni sera in una città, dove lavava gli indumenti sporchi e indossava quelli puliti. Percorreva praterie e montagne e valli, attraversava campi ricchi di ogni coltivazione possibile e immaginabile, superava vaste foreste e ampi fiumi. Continuava a camminare anche quando si scatenavano violenti temporali con i tuoni che facevano tremare il cielo e i lampi che lo squarciavano, avanzava con il vento che lasciava la terra nuda e staccava verdi trecce dagli alberi, ma camminava anche nelle giornate inondate dal sole, azzurre e
limpide come quelle dell'Eden. I paesaggi che attraversava non erano più duri dei muscoli delle sue gambe. Cosce di granito, polpacci come marmo, attraversati da vene simili a corde. Nonostante le migliaia di ore che Paul trascorreva camminando, solo raramente pensava al perché lo facesse. Lungo la strada, incontrava persone che glielo domandavano e lui rispondeva, ma non sapeva mai se le sue risposte corrispondessero alla verità. A volte pensava di camminare per Perri, usando i passi che lei non aveva mai potuto fare nella sua vita, realizzando il suo sogno, mai esaudito, di viaggiare. Altre volte, pensava di camminare per poter godere della solitudine che gli consentiva di ricordare la loro vita anche nei particolari... o di dimenticarla. Per trovare pace... o per cercare l'avventura. Per arrivare a comprendere attraverso la contemplazione... o per cancellare i pensieri dalla sua mente. Per vedere il mondo... o per liberarsene. Forse sperava di essere attaccato dai coyote nella semioscurità del tramonto, o di essere sbranato da un puma in un'alba affamata, oppure di essere travolto da un fiume ubriaco. Ma in fondo, il motivo per cui camminava era il camminare in sé. Gli dava qualcosa da fare, uno scopo di cui aveva bisogno. Moto equivaleva a significato. Il movimento divenne una medicina per la malinconia, un profilattico per la follia. Superando colline ammantate di nebbia e fitte di querce, aceri, corbezzoli, e attraversando un imponente bosco di sequoie dagli alberi alti quasi cento metri, la sera del 3 gennaio 1968, Paul arrivò a Weott, dove si fermò per la notte. Se per quel viaggio aveva una meta ancora più a nord, quella sarebbe stata la città di Eureka, a un'ottantina di chilometri di distanza... e l'unico motivo che l'avrebbe portato fin là sarebbe stato quello di mangiare i granchi dell'Humboldt Bay nel loro luogo d'origine, perché era uno dei piatti che lui e Perri preferivano. Dalla camera del motel, chiamò Hanna Rey, a Bright Beach. La donna continuava a curare la sua casa, anche se part time, quando lui era in viaggio: gli pagava le bollette attingendo da un conto corrente speciale e lo teneva informato su quanto avveniva nella loro cittadina. Da Hanna, Paul venne a sapere che, a causa di un tumore maligno, avevano dovuto togliere gli occhi a Barty Lampion, A Paul tornò in mente la lettera che aveva scritto al reverendo Harrison White un paio di settimane dopo la morte di Joey Lampion. L'aveva portata a casa dalla farmacia il giorno in cui Perri era morta per chiedere la sua
opinione. Quella lettera non era mai stata spedita. Ricordava ancora la frase iniziale, perché l'aveva studiata con molta cura: Le porgo i miei saluti in questo giorno straordinario. Le scrivo per parlarle di una donna eccezionale, Agnes Lampion, la cui vita lei ha sfiorato senza saperlo e la cui storia potrebbe interessarle... Secondo lui, il reverendo White poteva trovare in Agnes, l'amata Signora delle Torte di Bright Beach, un valido soggetto da cui trarre ispirazione per il seguito del sermone che tanto aveva colpito Paul, che non era né un battista né un fedele praticante, quando, più di tre anni prima, l'aveva sentito alla radio. Tuttavia, adesso non pensava tanto a come il reverendo White avrebbe potuto servirsi della storia di Agnes, quanto a ciò che il pastore poteva fare per confortare anche in minima parte una donna come Agnes, che aveva trascorso la vita a confortare gli altri. Dopo aver cenato in una tavola calda lungo la strada, Paul tornò nella sua camera e si mise a studiare una consunta cartina degli Stati Uniti occidentali, l'ultima delle innumerevoli che aveva consumato nel corso degli anni. Considerate le condizioni climatiche e la ripidezza del terreno, in dieci giorni sarebbe riuscito a raggiungere Spruce Hills, nell'Oregon. Per la prima volta da quando era andato a La Jolla per incontrare Jonas Salk, Paul progettò un viaggio con uno scopo ben preciso. Molto spesso, di notte non riusciva a riposare come avrebbe voluto perché sognava di attraversare un territorio arido e brullo. A volte era il fondo di un lago salato che si estendeva in tutte le direzioni e in cui, di tanto in tanto, si ergevano monumenti rocciosi scolpiti in modo contorto dalle intemperie e bruciati da un sole spietato. Altre volte, il sale era neve e i monumenti rocciosi erano crinali di ghiaccio, illuminati dalla luce dura e intensa di un sole freddo. Ma qualunque fosse il paesaggio, Paul camminava lentamente, nonostante avesse il desiderio e l'energia per avanzare più in fretta. La sua frustrazione continuava ad aumentare fino a quando diventava così intollerabile che si svegliava, scalciando nelle lenzuola aggrovigliate, inquieto e nervoso. Ma quella notte a Weott, nella silenziosa solennità della foresta di sequoie che adesso vegliava su di lui e che l'indomani mattina lo avrebbe abbracciato, Paul fece un sonno senza sogni. 63
Dopo il suo incontro con i distributori automatici sputa-monete, Junior voleva uccidere un altro Bartholomew, uno qualsiasi, anche se, per farlo, avesse dovuto guidare fino a qualche distante sobborgo come Terra Linda, anche se avesse dovuto spingersi ancora più lontano, fermarsi a dormire in un Holiday Inn e mangiare cibo riscaldato, pieno di germi freddi lasciati dagli altri clienti e guarnito di capelli. L'avrebbe fatto senz'altro e avrebbe rischiato di lasciare qualche traccia per la polizia; ma, adesso come in passato, la voce ferma di Zedd lo guidò e gli consigliò calma e concentrazione. Invece di uccidere immediatamente una persona qualsiasi, quel pomeriggio del 29 dicembre Junior tornò nel suo appartamento e si mise a letto, completamente vestito. Per calmarsi. Per pensare e concentrarsi. Caesar Zedd insegna che la capacità di concentrarsi su qualcosa è l'unica qualità che divide i miliardari dai barboni infestati dai pidocchi e impregnati di urina che vivono nelle scatole di cartone e discutono di vini d'annata con i loro amici topi. I miliardari sanno concentrarsi, i barboni no. Allo stesso modo, è solo la capacità di concentrarsi che divide un olimpionico da uno storpio che ha perso le gambe in un incidente d'auto. L'atleta sa concentrarsi, lo storpio no. Dopotutto, fa notare Zedd, se lo storpio avesse avuto maggiori capacità di concentrazione, sarebbe stato anche un automobilista migliore, un olimpionico e un miliardario. Tra le molte doti di Junior, la sua capacità di concentrarsi era forse quella più importante. Bob Chicane, il suo ex istruttore di meditazione, lo aveva definito intenso e addirittura ossessivo, dopo il doloroso incidente occorsogli durante la meditazione senza seme, ma in realtà quelle di intensità e ossessione erano false accuse, Junior era semplicemente concentrato. Anzi, era così concentrato da trovare Bob Chicane, ammazzare quel bastardo che lo aveva insultato e farla franca. Ma le dure esperienze della vita gli avevano insegnato che uccidere qualcuno che conosceva, anche se a volte era necessario, non serviva a farlo sentire meno stressato. O se vi riuscivano per qualche tempo, subito dopo alcune conseguenze impreviste contribuivano a peggiorare ulteriormente il suo stato di tensione. D'altra parte, uccidere uno sconosciuto come Bartholomew Prosser lo calmava più che fare sesso. Un omicidio fine a se stesso lo rilassava quanto la meditazione senza seme ed era probabilmente meno pericoloso. Avrebbe potuto ammazzare un Henry o un Larry qualsiasi senza rischiare di lasciare una traccia sui Bartholomew che, come un odore pungente,
sarebbe arrivata alle narici da segugio dei detective della squadra omicidi della Bay Area. Concentrarsi. Ora doveva pensare unicamente a prepararsi per la sera del 12 gennaio, quando si sarebbe tenuto il ricevimento per l'inaugurazione della mostra di Celestina White. La ragazza aveva adottato il figlio di sua sorella. Il piccolo Bartholomew era stato affidato a lei e, ben presto, sarebbe stato a portata di mano di Junior. Se uccidere il Bartholomew sbagliato aveva rotto la diga interna di Junior, dando sfogo a un lago di tensione, ammazzare il Bartholomew giusto avrebbe liberato un oceano di tensione repressa e lui si sarebbe sentito libero come non si sentiva più dal giorno della torre d'avvistamento. Più libero di quanto fosse stato in tutta la sua vita. Una volta ucciso il suo Bartholomew, anche quell'ossessione si sarebbe conclusa. Secondo lui, Vanadium e Bartholomew erano strettamente collegati l'uno all'altro, perché era stato il poliziotto a sentire per la prima volta Junior pronunciare il nome Bartholomew nel sonno. Il suo ragionamento aveva un qualche senso? Be', a volte gli sembrava che ne avesse più di altre, ma comunque aveva sempre molto più senso di qualsiasi altra cosa. Per liberarsi del morto, ma ostinato, detective, Junior doveva eliminare Bartholomew. Poi tutto si sarebbe concluso. Quel tormento sarebbe finito. Sicuramente. Quella sensazione di andare alla deriva, di vivere un giorno dopo l'altro senza scopo, l'avrebbe finalmente abbandonato e ancora una volta Junior avrebbe trovato uno scopo concentrandosi sull'autorealizzazione. Era deciso a imparare il francese e il tedesco. Avrebbe seguito corsi di cucina e sarebbe diventato un esperto di culinaria. Anche il karaté. In qualche modo, era colpa dello spirito malvagio di Vanadium se Junior non era ancora riuscito a trovare una nuova compagna, nonostante tutte le donne con cui era stato. Sicuramente, una volta che Bartholomew fosse morto e Vanadium fosse scomparso con lui, avrebbe incontrato il vero amore. A letto, sdraiato su un fianco, vestito e calzato, ginocchia piegate, braccia incrociate sul petto, mani premute sotto il mento, come un feto precoce già vestito e pronto per nascere, Junior cercò di ricordare la sequenza degli eventi che lo avevano portato a quella lunga e difficile ricerca di Bartholomew. Ma quella sequenza lo riportava indietro di tre anni, che per Junior rappresentavano un'eternità, e non tutti gli anelli della catena erano al loro
posto. Poco importava. Lui era un uomo concentrato e concentrato sul futuro. Il passato è per i perdenti. No, aspetta, l'umiltà è per i perdenti. «Il passato è il capezzolo che nutre gli individui troppo deboli per affrontare il futuro.» Sì, questa era la frase di Zedd che Junior aveva ricamato su uno dei suoi cuscini. Concentrati. Preparati a uccidere Bartholomew, e chiunque cerchi di proteggerlo, il 12 gennaio. Sii pronto per qualsiasi imprevisto. *** Alla vigilia di Capodanno, Junior partecipò a una festa a tema sull'olocausto nucleare. Il party era stato organizzato in una villa, alle cui pareti solitamente erano appesi quadri e arte moderna, ma che ora erano stati tolti per lasciar posto a ingrandimenti di fotografie di Nagasaki e Hiroshima. Una rossa scandalosamente sexy andò a sbattere contro Junior proprio mentre lui stava scegliendo una delle tartine a forma di bomba da un vassoio retto da un cameriere vestito da sopravvissuto all'esplosione nucleare, ovvero con abiti a brandelli e sporchi di fuliggine. Myrtle, la rossa, preferiva essere chiamata Monella, cosa che Junior comprendeva benissimo. Indossava una minigonna verde fosforescente, un maglioncino bianco e un berretto verde. Monella aveva delle gambe favolose e il seno nudo sotto il maglioncino non lasciava alcun dubbio sulla sua prosperosità e autenticità, ma dopo un'ora di conversazione su argomenti vari, prima di suggerirle di lasciare la festa insieme, Junior fece in modo di portarla in un angolo ragionevolmente privato e le infilò discretamente una mano sotto la gonna, per essere certo che fosse del sesso giusto. Trascorsero una notte eccitante, ma non era amore. La cantante fantasma non cantò. Quando, a colazione, Junior tagliò un pompelmo, non vi trovò dentro alcuna moneta. Martedì, 2 gennaio, Junior si incontrò con lo spacciatore che gli aveva presentato Google, il falsario di documenti, e si accordò con lui per acquistare una calibro 9 dotata di silenziatore. Aveva una pistola, quella presa dalla collezione di Frieda Bliss, ma a quell'arma non si poteva applicare il silenziatore. Si stava preparando ad affrontare qualsiasi eventualità. Concentrazione.
Oltre all'arma da fuoco, ordinò anche una pistola apriserrature. Quel congegno - bastava premere alcune volte il grilletto e faceva scattare qualsiasi serratura - veniva venduto unicamente ai corpi di polizia e distribuito sotto un attento controllo. Al mercato nero costava un'enormità, per la stessa cifra Junior avrebbe potuto comprare gran parte di un piccolo dipinto di Sklent. Preparazione. Dettagli. Concentrazione. Quella notte si svegliò diverse volte in attesa della fantomatica serenata, ma non udì alcun canto provenire dall'aldilà. Monella trascorse tutto il mercoledì a sedurlo. Non era amore, ma conoscere le doti della sua partner gli dava un certo conforto. Giovedì, 4 gennaio, Junior si servì della sua identità di John Pinchbeck per acquistare un nuovo camioncino Ford, usando un assegno circolare. Sempre a nome Pinchbeck, affittò uno spazio in un garage privato, nei pressi della guarnigione, e vi parcheggiò il camioncino. In quello stesso giorno, si fece coraggio e visitò due gallerie. Né una né l'altra avevano candelieri di peltro in vetrina. Ma il fantasma ostile di Thomas Vanadium, quella massa appiccicosa e tenace di energia, non aveva ancora finito con Junior. Fino a quando Bartholomew non fosse morto, lo spirito da scimmia puzzolente e rognosa del poliziotto sarebbe ritornato e sarebbe diventato sempre più violento. Junior sapeva che doveva mantenersi vigile. Vigile e concentrato fino a quando il 12 gennaio non fosse arrivato e passato. Ancora otto giorni. Il venerdì portò ancora una volta Monella, tutta Monella, tutto il giorno, in ogni modo, Monella dappertutto; di conseguenza, il sabato, a Junior era rimasta appena l'energia sufficiente per farsi una doccia. La domenica, Junior non si fece trovare da Monella, lasciando che alle sue telefonate rispondesse l'Ansaphone e si dedicò con tanta concentrazione al ricamo dei cuscini che, quella sera, dimenticò di andare a letto. Il lunedì mattina, alle dieci, si addormentò con ancora l'ago in mano. Il martedì, 9 gennaio, dato che negli ultimi dieci giorni aveva venduto un certo numero di azioni, Junior trasferì un milione e mezzo di dollari sul conto Gammoner presso la banca di Grand Cayman. Come stabilito in precedenza, Junior si sedette in una panca della vecchia chiesa di St. Mary's, a Chinatown, dove gli venne consegnata la pistola apriserrature e la calibro 9 con il silenziatore. Alle dieci del mattino, la chiesa era deserta. La semioscurità e le minacciose figure religiose gli facevano venire i brividi.
Il fattorino - un teppistello dagli occhi gelidi come quelli di un killer morto - gli consegnò l'arma in un sacchetto da cibo cinese da asporto. Il sacchetto conteneva due scatole di cartoncino bianco, una grossa scatola rosa piena di biscotti alla mandorla e, sul fondo, un'altra scatola rosa che conteneva la pistola apriserrature, la calibro 9, il silenziatore e una fondina da spalla in cuoio al quale era legato un bigliettino con un messaggio scritto a mano: Con i nostri complimenti. Grazie per averci scelto. In un'armeria, Junior acquistò duecento proiettili. In seguito tutte quelle cartucce gli sembrarono eccessive. Ma successivamente ne comprò altre duecento. Acquistò coltelli e custodie per i coltelli. Comprò una serie di attrezzi per l'affilatura e trascorse tutta la sera ad affilare lame. Niente monete. Niente canti. Niente telefonate dall'aldilà. Il mercoledì mattina, 10 gennaio, trasferì il milione e mezzo di dollari dal conto a nome Gammoner a quello Pinchbeck in Svizzera. Poi chiuse il conto presso la banca di Grand Cayman. Consapevole del fatto che la tensione si stava facendo intollerabile, Junior decise che aveva bisogno di Monella più di quanto la temesse. Trascorse il resto del mercoledì, fino all'alba del giovedì, con l'infaticabile rossa, la cui camera conteneva una raccolta di oli profumati da massaggio in quantità sufficiente da poter lubrificare metà del materiale rotabile di tutte le compagnie ferroviarie operanti a ovest del Mississippi. Quando la lasciò, Junior si sentiva dolere anche punti del corpo che non gli avevano mai fatto male. Tuttavia era più stressato quel giovedì di quanto lo fosse stato il mercoledì. Monella era una donna dalle innumerevoli qualità, con la pelle più liscia di una pesca, con più adorabili rotondità di quante Junior riuscisse a catalogare, ma non era decisamente il rimedio per la sua tensione. Solo Bartholomew, una volta trovato e annientato, avrebbe potuto restituirgli la pace. Andò nella banca in cui teneva una cassetta di sicurezza a nome John Pinchbeck e ritirò i ventimila dollari in contanti e tutti i documenti falsi. Fece tre viaggi in macchina, in quel periodo aveva una Mercedes, tra il suo appartamento e il garage in cui aveva parcheggiato il furgone Ford sotto il nome Pinchbeck. Prese tutte le precauzioni necessarie nel caso fosse seguito. Caricò nel furgone due valigie piene di indumenti e articoli di toilette, più il contenuto della cassetta di sicurezza di Pinchbeck, poi vi aggiunse quegli oggetti per lui estremamente preziosi e che mai avrebbe voluto per-
dere, nel caso qualcosa fosse andato storto con l'omicidio di Bartholomew e fosse stato costretto ad abbandonare la sua vita a Russian Hill e a fuggire. Le opere di Caesar Zedd. I tre splendidi quadri di Sklent. I cuscini sui quali aveva ricamato la saggezza di Zedd costituivano la parte più ingombrante della sua raccolta di oggetti essenziali: centodue cuscini, di varie dimensioni e forme, che aveva finito in soli tredici mesi di ricamo febbrile. Se avesse ucciso Bartholomew e l'avesse fatta franca, come si aspettava, in seguito avrebbe potuto riportare ogni cosa nel suo appartamento. Stava solo pianificando il suo futuro con una certa prudenza, perché, dopotutto, il futuro era l'unico luogo in cui viveva. Avrebbe anche voluto portare con sé la Donna Industriale, ma pesava troppo. Non poteva trasportarla da solo e, per farsi aiutare, non osava ingaggiare un facchino, neppure uno straniero clandestino, rischiando di compromettere l'identità e il furgone di Pinchbeck. E, comunque, gli sembrava che la Donna Industriale somigliasse sempre più a Monella. Come alcune parti del corpo irritate e infiammate gli ricordavano costantemente, almeno per un po' ne aveva avuto abbastanza di quella assatanata. Alla fine il giorno arrivò: venerdì, 12 gennaio. Aveva i nervi tesi come corde di violino e lui si sentiva una carica di dinamite. Se qualcuno avesse acceso la miccia, sarebbe esploso con tanta violenza che si sarebbe scaraventato da solo nel reparto psichiatrico di un ospedale. Fortunatamente, si rendeva conto della sua vulnerabilità. Fino al ricevimento serale in onore di Celestina White, doveva assolutamente trascorrere ogni ora di quella giornata dedicandosi ad attività in grado di rasserenarlo, di tranquillizzarlo, e permettergli di essere lucido ed efficiente quando fosse arrivato il momento di agire. Respiri lunghi e profondi. Rimase sotto la doccia, con l'acqua più calda che riuscì a sopportare, fino a quando sentì i muscoli morbidi come burro. Per colazione, evitò lo zucchero. Mangiò roast-beef freddo e bevve latte corretto con un po' di brandy. Dato che il tempo era bello, andò a fare una passeggiata, anche se dovette attraversare più volte la strada per evitare di passare davanti ai distributori automatici di giornali. Comprare accessori alla moda lo rilassava. Trascorse quindi alcune ore
cercando cravatte, fazzoletti di seta per il taschino e cinture insolite. Mentre si lasciava trasportare dalla scala mobile di un grande magazzino, salendo dal secondo al terzo piano, vide Vanadium sulla scala mobile in discesa, a poco più di quattro metri di distanza. Per essere un fantasma, il poliziotto appariva sgradevolmente solido. Indossava una giacca sportiva di tweed e un paio di pantaloni che, da quel che Junior ricordava, erano gli stessi capi d'abbigliamento della sera in cui era morto. Evidentemente, anche i fantasmi dell'ateo mondo spirituale di Sklent rimanevano per l'eternità vestiti con gli stessi indumenti con i quali erano morti. Junior intravide Vanadium prima di profilo e poi, quando il poliziotto arrivò al piano inferiore e si allontanò, scorse soltanto la sua nuca. Erano trascorsi tre anni dall'ultima volta che aveva visto quell'uomo, ma ebbe immediatamente la certezza che non si trattasse di una somiglianza. Era proprio lui, quello spirito da scimmia puzzolente e rognosa. Arrivato al terzo piano, Junior raggiunse di corsa la scala mobile in discesa. Il tarchiato fantasma stava attraversando il reparto indumenti sportivi femminili. Junior, non accontentandosi di scendere alla velocità della scala mobile, si lanciò verso il secondo piano facendo due gradini alla volta. Ma quando finalmente giunse in fondo alla scala, scoprì che il fantasma di Vanadium aveva fatto ciò che i fantasmi sanno fare meglio: era scomparso. Abbandonando la sua ricerca della cravatta perfetta ma ben deciso a restare calmo, Junior pensò di pranzare al St. Francis Hotel. I marciapiedi brulicavano di uomini d'affari in giacca e cravatta, hippy dagli abiti sgargianti, gruppi di eleganti signore giunte in città dalla provincia per fare acquisti e la solita moltitudine vestita in modo anonimo, alcuni ridevano altri avevano un'aria imbronciata altri ancora borbottavano fra sé e sé, ma avevano tutti lo sguardo vuoto come manichini; per quel che se sapeva lui, potevano essere assassini prezzolati o poeti, eccentrici miliardari travestiti da poveracci o personaggi da luna park che si guadagnavano da vivere staccando con un morso la testa a polli ancora vivi. Anche in giornate più tranquille, quando non era perseguitato dagli spiriti di poliziotti morti e non si stava preparando a commettere un omicidio, a volte Junior si trovava a disagio in mezzo alla folla. Quel pomeriggio, si sentiva particolarmente claustrofobico mentre avanzava faticosamente in
mezzo a quella moltitudine... e anche abbastanza paranoico. Mentre camminava, osservava con aria diffidente le persone che gli stavano intorno e, di tanto in tanto, si voltava a guardare oltre la spalla. Proprio mentre lanciava un'occhiata dietro di sé, rimase irritato ma non sorpreso nel vedere nuovamente lo spettro di Vanadium. Il poliziotto fantasma si trovava a una decina di metri di distanza da lui, dietro diverse file di altri pedoni, ognuno dei quali adesso avrebbe potuto essere completamente senza volto, liscio e privo di lineamenti dalla fronte al mento, perché all'improvviso Junior non riuscì a vedere altra figura se non quella del morto ambulante. Mentre lo spirito avanzava a lunghi passi, il suo volto andava su e giù, scomparendo e riapparendo e poi scomparendo di nuovo tra tutte le teste che ballonzolavano e ondeggiavano. Junior accelerò il passo, facendosi largo tra la folla, voltandosi spesso a guardarsi indietro e, sebbene ogni volta riuscisse a intravedere solo per un attimo il volto del poliziotto morto, era certo che in esso vi fosse qualcosa di terribilmente sbagliato. Non era mai stato un divo del cinema, però ora Vanadium appariva decisamente più brutto. La voglia rosso scuro gli si allargava ancora intorno all'occhio destro. I lineamenti non erano piatti e anonimi come prima, ma erano... distorti. Schiacciata. La sua faccia sembrava fosse stata schiacciata. Colpita con un candelabro di peltro. Giunto all'angolo successivo, invece di proseguire verso sud, Junior fece improvvisamente dietro-front, scese dal marciapiede e si diresse verso est, attraversando l'incrocio nonostante il semaforo rosso. Vi fu uno strombazzare di clacson, un autobus fu sul punto di investirlo, ma alla fine riuscì a passare dall'altra parte sano e salvo. Quando salì sul marciapiede, il semaforo scattò sul verde e, voltandosi indietro, vide il suo inseguitore. Se Vanadium non fosse stato un fantasma ma una persona reale, avrebbe dovuto rabbrividire dal freddo, visto che non aveva un cappotto. Junior proseguì verso est, zigzagando tra la folla, convinto di riuscire a sentire distintamente i passi del poliziotto fantasma al di sopra del calpestio della moltitudine dei vivi, e anche del rumore e dei clacson delle auto. I passi del morto riecheggiavano non solo nelle orecchie di Junior ma anche attraverso tutto il suo corpo, nelle sue ossa. Una parte di lui sapeva che quel rumore era provocato dal battito del suo cuore, non dal suo inseguitore fantasma ma, al momento, quella parte di Junior non era predominante. Cominciò a camminare più in fretta, non
proprio correndo, ma come se fosse in ritardo per un appuntamento. Ogni volta che lanciava un'occhiata dietro di sé, vedeva Vanadium che lo seguiva in mezzo alla folla. Nonostante il fisico massiccio, sembrava scivolasse. Sinistro e spietato. Orrendo. E sempre più vicino. Junior scorse un vicolo alla sua sinistra. Uscì dalla folla, imboccò l'angusta stradina schiacciata tra alti edifici e cominciò a camminare a passo ancora più rapido, senza tuttavia mettersi a correre perché continuava a essere convinto di possedere l'incrollabile calma e l'autocontrollo di un uomo dalla mente evoluta. Arrivato a metà del vicolo, rallentò e si voltò a guardare indietro. Avanzando tra cassonetti e bidoni della spazzatura, attraversando il vapore che saliva dalle griglie sul selciato, superando i furgoni per la consegna delle merci, il poliziotto morto si avvicinava sempre più. Di corsa. All'improvviso, pur nel cuore di una metropoli, quel vicolo sembrò desolato come una brughiera inglese e non esattamente il posto più adatto per sfuggire a uno spirito desideroso di vendetta. Abbandonando tutto il suo presunto autocontrollo, Junior si lanciò di corsa verso la strada successiva, dove la vista della folla brulicante sotto il sole invernale lo colmò non di paranoia e neppure di fastidio ma di un sentimento di fratellanza che non aveva mai provato prima. Fra le cose che non poteva aspettarsi, io sono la peggiore. La grossa mano si sarebbe posata pesantemente sulla sua spalla, Junior si sarebbe voltato anche contro la sua volontà e, davanti a lui, ci sarebbero stati quegli occhi simili a chiodi, la voglia rosso scuro, le ossa del viso frantumate dal candelabro... Sbucò fuori del vicolo, inciampò in mezzo al fiume di pedoni, fece quasi cadere un anziano cinese, si voltò e scoprì... che non c'era nessun Vanadium. Svanito. Ingombranti cassonetti e furgoni per la consegna delle merci appoggiati contro i muri degli edifici. Vapore che saliva dalle grate del selciato. Quelle ombre grigie non erano più disturbate da una figura in giacca di tweed che avanzava correndo. Troppo scosso per avere ancora voglia di pranzare al St. Francis Hotel o in qualunque altro posto, Junior tornò al suo appartamento. Arrivando a casa, esitò ad aprire la porta. Si aspettava di trovarvi dentro Vanadium. Ma non c'era nessuno ad attenderlo, a parte la Donna Industriale.
Negli ultimi tempi, né il ricamo, né la meditazione e neppure il sesso erano riusciti ad allentare in modo significativo il suo stato di tensione. I dipinti di Sklent e le opere di Zedd si trovavano nel furgone, quindi in quel momento non potevano offrirgli alcuna consolazione. Un altro bicchiere di latte e brandy lo aiutò, ma non molto. Mentre il pomeriggio volgeva al termine, lasciando il passo a uno straordinario crepuscolo, e mentre si avvicinava l'ora del ricevimento in onore di Celestina White, Junior cominciò a preparare i coltelli e le pistole. Lame e proiettili gli calmarono un po' i nervi. Aveva disperatamente bisogno di concludere una volta per tutte la questione della morte di Naomi. Perché gli ultimi tre anni e tutti quegli eventi sovrannaturali vertevano intorno a quell'episodio. Come aveva così intelligentemente spiegato Sklent, alcuni di noi continuano a vivere dopo la morte, sopravvivono in spirito, perché siamo semplicemente troppo ostinati, egoisti, avidi, ingordi, depravati, psicotici e malvagi per accettare la nostra scomparsa. Nessuno di quei difetti apparteneva alla dolce Naomi, che era stata troppo gentile, affettuosa e mite per sopravvivere come fantasma, dopo che la sua adorabile carne era morta. Ormai divenuta parte della terra, Naomi non rappresentava una minaccia per Junior, lo stato aveva pagato per la sua negligenza e tutta quella faccenda avrebbe dovuto essere ormai conclusa. Ma c'erano ancora due ostacoli che impedivano di scrivere la parola fine: la prima era l'ostinato, egoista, avido, ingordo, depravato, psicotico, malvagio spirito di Thomas Vanadium; e la seconda era il figlio bastardo di Seraphim... il piccolo Bartholomew. Un'analisi del sangue avrebbe potuto dimostrare che Junior era il padre. Un giorno i membri della famiglia, colmi d'odio e di amarezza, avrebbero potuto muovere delle accuse contro di lui, magari non tanto nella speranza di mandarlo in prigione, ma unicamente allo scopo di poter mettere le mani su una buona parte della sua fortuna, sotto forma di mantenimento del bambino. A quel punto, la polizia di Spruce Hills avrebbe voluto sapere per quale motivo si era scopato una negra minorenne se il suo matrimonio con Naomi era stato così perfetto, come lui affermava. Per quanto possa sembrare ingiusto, per gli omicidi non esiste un termine di prescrizione. Casi considerati chiusi possono essere rispolverati e aperti di nuovo; si possono riprendere le indagini. Certo, le autorità non avrebbero avuto praticamente nessuna speranza di farlo condannare per omicidio in base a qualche mise-
ra prova, ma lui sarebbe stato costretto a spendere un'altra rilevante fetta del suo patrimonio per pagare gli avvocati. Non avrebbe mai permesso che lo mandassero in rovina, facendolo tornare povero. Mai. Si era conquistato quel benessere correndo enormi rischi, con grande forza d'animo e determinazione. Doveva difenderlo a ogni costo. Quando il piccolo bastardo di Seraphim fosse morto, con lui sarebbero sparite anche tutte le prove della paternità di Junior e, di conseguenza, anche tutte le richieste di mantenimento del bambino. Perfino lo spirito di Vanadium, per quanto ostinato, egoista, avido, ingordo, depravato, psicotico e malvagio, avrebbe dovuto ammettere che non c'era alcuna speranza di riuscire a sconfìggere Junior, e alla fine sarebbe svanito per la frustrazione o si sarebbe reincarnato. La conclusione era vicina. Per Junior Cain, la logica di tutto questo era inattaccabile. Preparò i coltelli e le pistole. Lame e proiettili. La fortuna aiuta gli audaci, coloro che si autorealizzano, si evolvono, le persone concentrate. 64 Nolly era seduto alla scrivania, con la giacca appesa alla spalliera della poltrona e il cappello a cupola piatta ben piantato in testa, ovvero dov'era sempre, a parte quando Nolly dormiva, si faceva la doccia, cenava al ristorante o faceva l'amore. Lo stereotipo del duro investigatore privato voleva che vi fosse una sigaretta sempre accesa che penzolava da un angolo della bocca tesa in un cinico sorriso, ma Nolly non fumava. Il fatto che non avesse preso questa cattiva abitudine non dava al suo ufficio quell'atmosfera nebbiosa che i clienti di un investigatore privato si aspettavano. Fortunatamente, almeno la scrivania era tutta bruciacchiata dai mozziconi di sigarette perché, quando lo aveva preso in affitto, l'ufficio era già arredato. Era appartenuto a Otto Zelm, un individuo che si occupava di recupero crediti e che era riuscito a guadagnare piuttosto bene svolgendo un tipo di attività che Nolly evitava accuratamente, considerandola troppo noiosa: rintracciare coloro che non pagavano i debiti ed entrare in possesso dei loro veicoli. Durante un appostamento, Zelm si era addormentato mentre fumava, permettendo così ai suoi famigliari di ricevere il risarcimento per le polizze assicurative sulla vita e sugli infortuni, e liberando l'ufficio
arredato che aveva in affitto. Anche senza la sigaretta che penzolava dalla bocca e il sorriso cinico, Nolly aveva un'aria da duro degno di Sam Spade, soprattutto perché il viso che la natura gli aveva dato era una maschera perfetta per nascondere il suo carattere tenero e sentimentale. Con il collo taurino, le mani forti, le maniche della camicia arrotolate che mostravano gli avambracci pelosi, Nolly aveva un aspetto adeguatamente minaccioso: era come se Humphrey Bogart, Sydney Greenstreet e Peter Lorre fossero stati frullati insieme e poi versati in un completo di giacca e pantaloni. Kathleen Klerkle, la signora Wulfstan, seduta sul bordo della scrivania di Nolly, osservava in diagonale il visitatore seduto sulla poltroncina dei clienti. Per la verità, Nolly aveva due poltroncine a disposizione della clientela. Kathleen avrebbe potuto sedersi nella seconda; ma quella le sembrava la posa più appropriata per la donna di un investigatore. Non che cercasse di apparire volgare; si vedeva più come Myrna Loy quando interpretava il personaggio di Nora Charles nel film L'uomo ombra, mondana ma elegante, seria ma divertita. Prima di conoscere Nolly, la vita di Kathleen era stata quasi totalmente priva d'amore, come un salatino senza sale e piuttosto insipido. La sua infanzia e la sua adolescenza erano state così scialbe che aveva deciso di fare la dentista perché, in confronto a ciò che aveva vissuto fino a quel momento, le era sembrata una professione interessante e anche un po' strana. Era uscita con alcuni uomini, ma li aveva trovati tutti noiosi e per nulla gentili. Aveva sperato di scoprire nelle lezioni di ballo di società - e in seguito nelle gare - quell'atmosfera romantica che né la sua professione di dentista, né gli appuntamenti con gli uomini erano riusciti a procurarle, ma anche il ballo l'aveva in qualche modo delusa finché il suo insegnante le aveva presentato quello stempiato, forzuto, massiccio e assolutamente splendido Romeo. Che il visitatore seduto nella poltroncina avesse vissuto storie d'amore o no, di sicuro aveva avuto una vita anche troppo avventurosa e disgrazie in abbondanza. Il viso di Thomas Vanadium sembrava un paesaggio sconvolto da un terremoto: solcato da cicatrici bianche simili a linee di faglia in una lastra di granito; le superfici di fronte, guance e mascelle presentavano inclinazioni anomale. L'emangioma che gli circondava l'occhio destro era qualcosa che si portava dietro fin dalla nascita, ma quei terribili danni alla struttura ossea del viso erano sicuramente opera di un uomo, non di Dio. In quel nobile sfacelo che era il suo viso, gli occhi grigio fumo di Tho-
mas Vanadium risaltavano in modo impressionante, erano colmi di una meravigliosa... tristezza. Non autocommiserazione. Era evidente che non si considerava una vittima. Kathleen sentiva che quella era la tristezza di un uomo che aveva visto troppe sofferenze, che conosceva la malvagità del mondo. Erano occhi a cui bastava un'occhiata per leggerti dentro, che brillavano di pietà se la meritavi e che ti fulminavano, giudicandoti spietatamente, se non avevi diritto ad alcuna compassione. Vanadium non aveva visto l'uomo che lo aveva colpito da dietro e che gli aveva fracassato il viso con un candeliere di peltro, ma quando pronunciò il nome Enoch Cain, nei suoi occhi non vi era alcuna compassione. Non erano state lasciate impronte digitali, non era rimasta alcuna traccia dopo l'incendio a casa Bressler o nella Studebaker recuperata dal lago Quarry. «Ma lei pensa che sia stato lui», affermò Nolly. «Lo so.» Dopo quella notte, per otto mesi, e cioè fino alla fine di settembre del 1965, Vanadium era rimasto in coma e i medici non pensavano che ne sarebbe mai uscito. Un automobilista di passaggio lo aveva trovato a terra, lungo la strada che correva nei pressi del lago, fradicio e coperto di fango. Quando, dopo il suo lungo sonno, si era svegliato in ospedale, era estremamente debole e non ricordava nulla di ciò che era avvenuto dopo che lui era entrato nella cucina di Victoria... a parte un'immagine vaga, quasi da sogno, di se stesso che risaliva verso la superficie, mentre l'auto affondava. Sebbene Vanadium fosse assolutamente certo dell'identità del suo aggressore, senza prove concrete la sua convinzione non era sufficiente per mettere in moto le autorità... non contro un uomo a cui lo stato e la contea avevano pagato un risarcimento di quattromilioniduecentocinquantamila dollari per la caduta, e la conseguente morte, della moglie. Sarebbero apparsi o degli incompetenti che non avevano indagato adeguatamente sul caso di Naomi Cain, oppure che stessero perseguitando Enoch solo per potersi vendicare. Senza una montagna di prove, i rischi politici di agire basandosi unicamente sull'istinto di un poliziotto erano eccessivi. Simon Magusson - capace di rappresentare il diavolo in persona in cambio di un'adeguata parcella, ma anche capace di provare un autentico rimorso - era andato a trovare Vanadium in ospedale appena era stato informato che il detective si era risvegliato dal coma. L'avvocato concordava con Vanadium che il colpevole fosse Cain, e che questi avesse ucciso anche la moglie.
Naturalmente Magusson considerava le aggressioni a Victoria e a Vanadium come degli orrendi crimini, ma li vedeva anche come un affronto alla sua dignità e alla sua reputazione. Secondo lui, un cliente colpevole, che aveva ricevuto quattromilioniduecentocinquantamila dollari invece di una condanna, doveva essere estremamente grato e, da quel momento in poi, comportarsi in modo irreprensibile per il resto della sua vita. «Simon è un tipo strano», commentò Vanadium, «ma mi è piuttosto simpatico e mi fido ciecamente di lui. Voleva sapere che cosa poteva fare per essermi di aiuto. All'inizio, parlavo in modo confuso, il braccio sinistro era parzialmente paralizzato e avevo perso più di venticinque chili. Ci sarebbe voluto molto tempo prima che potessi mettermi a cercare Cain, ma venne fuori che Simon sapeva dov'era.» «Perché Cain gli aveva telefonato per farsi indicare il nome di un investigatore privato di San Francisco», intervenne Kathleen. «Voleva scoprire che cosa era successo al bambino di Seraphim White.» In quel viso così tragicamente deformato, il sorriso di Vanadium avrebbe messo in allarme la maggior parte delle persone, ma Kathleen lo trovò attraente, perché rivelava uno spirito indistruttibile. «Ciò che mi ha dato la forza di andare avanti in questi ultimi due anni e mezzo è stato sapere che, quando finalmente fossi stato abbastanza bene da poter agire, avrei potuto mettere le mani sul signor Cain.» In qualità di detective della squadra omicidi, nel novantotto per cento dei casi a lui affidati, Vanadium era riuscito a scoprire il colpevole e a farlo condannare. Una volta convinto di aver trovato il suo uomo, non si affidava unicamente alla normale routine. Alle normali tecniche e procedure investigative aggiungeva una guerra psicologica tutta sua - a volte sottile, a volte no - che portava spesso il colpevole a compiere degli errori e a tradirsi. «La moneta nel panino», ricordò Nolly, perché quello era stato il primo scherzo per il quale Simon Magusson lo aveva pagato. Come per magia, un lucente quarto di dollaro apparve nella mano destra di Thomas Vanadium. Cominciò a ruotare, passando da una nocca all'altra, scomparve tra il pollice e l'indice e riapparve dalla parte del mignolo, ricominciando tutto da capo. «Una volta uscito dal coma e stabilizzatomi per alcune settimane, sono stato trasferito in un ospedale di Portland, dove mi hanno sottoposto a undici interventi chirurgici.» O Vanadium percepì la loro ben mascherata sorpresa, oppure immaginò
che fossero curiosi di sapere perché, nonostante tutte quelle operazioni, avesse ancora una faccia da Boris Karloff. «I dottori», spiegò, «hanno dovuto riparare i danni provocati al seno frontale sinistro, al seno sfenoidale e al seno cavernoso, che erano stati tutti parzialmente fracassati dal candeliere. Poi è stato necessario ricostruire le ossa rispettivamente frontale, inalare, etmoidale, mascellare, sfenoidale e patatino per poter reinserire l'occhio destro che... be', ciondolava. Ma questo è stato solo l'inizio, poi c'è stato un importante ed essenziale lavoro di ricostruzione dell'arcata dentaria. Ho preferito non sottopormi anche a operazioni di chirurgia plastica.» Fece una pausa, dando loro la possibilità di porre la domanda più ovvia... poi, di fronte alla loro reticenza, sorrise. «Tanto per cominciare, non sono mai stato un Cary Grant», spiegò Vanadium, senza mai smettere di far scivolare la moneta da una nocca all'altra, «quindi non avevo mai fatto un grosso investimento emotivo sul mio aspetto. La chirurgia plastica avrebbe reso necessario un altro anno di convalescenza, probabilmente anche di più, e io non vedevo l'ora di mettermi all'inseguimento di Cain. Mi è sembrato che, con questa faccia, forse sarei riuscito a spaventarlo abbastanza da fargli commettere un errore in grado di incriminarlo, o portarlo addirittura a confessare.» Kathleen pensava che questo sarebbe potuto accadere davvero. Non era rimasta terrorizzata dall'aspetto di Thomas Vanadium perché, prima di incontrarlo, era stata adeguatamente preparata. In più, lei non era un assassino che temeva di essere condannato e al quale quel viso in particolare sarebbe apparso come il Giudizio personificato. «Inoltre, per quanto mi è possibile, continuo a restare fedele ai voti presi, anche se mi è stata concessa la dispensa più lunga che si ricordi.» Su quel volto martoriato, un sorriso poteva apparire commovente, ma l'espressione ironica che illuminò gli occhi di Vanadium ebbe un effetto molto meno gradevole: Kathleen si sentì attraversare da un brivido. «La vanità è un peccato che sono riuscito a evitare più facilmente di altri.» Nel corso dei mesi successivi, tra un'operazione e l'altra, Vanadium aveva concentrato tutte le sue energie sulla terapia del linguaggio, sulla riabilitazione fisica e a escogitare nuovi modi per tormentare periodicamente Enoch Cain, modi che, a intervalli di alcuni mesi, Simon Magusson era in grado di mettere in atto con l'aiuto di Nolly e Kathleen. L'idea non era tanto quella di riuscire a portare Cain in tribunale agendo sulla sua coscienza, dato che la coscienza era qualcosa che lui aveva lasciato atrofizzare molto
tempo prima, quanto quella di tenerlo sempre in uno stato di inquietudine che avrebbe amplificato l'impatto del suo primo incontro faccia a faccia con il risorto Vanadium. «Devo ammetterlo», disse Nolly, «sono sorpreso che quegli scherzetti siano riusciti a scuoterlo così profondamente.» «È un uomo superficiale», spiegò Vanadium. «Non crede in nulla. Gli uomini come lui sono vulnerabili da chiunque offra loro qualcosa che possa colmare il loro nulla e farli sentire meno vuoti. Per questo...» La moneta smise di ruotare da una nocca all'altra e, come se fosse dotata di una sua volontà, scivolò nella stretta curva dell'indice piegato. Con uno scatto del pollice, Vanadium lanciò la moneta in aria. «...gli sto offrendo un misticismo da quattro soldi...» Nel momento in cui lanciò in aria la moneta, aprì entrambe le mani palmi rivolti verso l'alto, dita ben tese - con un gesto che serviva a sviare l'attenzione. «...uno spirito implacabile che lo perseguita, un fantasma vendicativo...» Vanadium batté le mani. «...gli offro paura...» Come se Amelia Earhart, l'aviatrice scomparsa tempo prima, avesse allungato una mano dalle nebbie dell'aldilà e avesse afferrato il quarto di dollaro, nessuna moneta cadde dall'alto. «...una dolce paura», concluse Vanadium. Aggrottando la fronte, Nolly domandò: «Che cosa... l'ha infilata nella manica?» «No, è nel taschino della sua camicia», rispose Vanadium. Sorpreso, Nolly infilò due dita nel taschino ed estrasse una moneta da un quarto di dollaro. «Non è la stessa.» Vanadium inarcò le sopracciglia. «Deve aver fatto scivolare questa moneta nel mio taschino quando è entrato qui», dedusse Nolly. «E allora dov'è la moneta che ho appena lanciato in aria?» «Paura?» domandò Kathleen, più interessata alle parole di Vanadium che ai suoi giochi di prestigio. «Ha detto che offre a Cain della paura... come se fosse qualcosa che desidera.» «In un certo qual modo, è così», confermò Vanadium. «Quando si è vuoti come Enoch Cain, quel vuoto fa male. Lui cerca disperatamente di colmarlo, ma non ha la pazienza, né capacità di impegnarsi con qualcosa di valido. Amore, affetto, fede, saggezza... queste e altre sono virtù che si
conquistano a prezzo di grande fatica, con impegno e pazienza, e riusciamo a conseguirle solo un po' alla volta. Cain desidera essere colmato in fretta. Vuole che il suo vuoto interno si riempia completamente e subito.» «A quanto pare, oggigiorno c'è molta gente che desidera la stessa cosa», commentò Nolly. «Pare proprio di sì», concordò Vanadium. «E così un uomo come Cain si fissa su una cosa dopo l'altra... sesso, denaro, cibo, potere, droga, alcol, qualsiasi cosa che, almeno apparentemente, dia un significato ai suoi giorni, ma che non richieda né abnegazione, né una reale scoperta di sé. Per un periodo di tempo molto limitato, Cain si sente completo. Tuttavia, ciò di cui si è riempito non ha alcuna sostanza, ben presto svanisce e lui si ritrova nuovamente vuoto.» «E lei dice che la paura può colmare questo vuoto tanto quanto il sesso o l'alcol?» si chiese Klathleen. «Addirittura meglio. La paura non lo costringe neppure a sedurre una donna o a comprare una bottiglia di whisky. Cain deve soltanto aprirsi e verrà immediatamente riempito come un bicchiere sotto il rubinetto. Per quanto possa essere difficile da comprendere, Cain preferirebbe trovarsi immerso fino al collo in un lago di terrore, cercando disperatamente di restare a galla, piuttosto che dover sopportare quel vuoto senza fine. La paura può dare forma e significato alla sua vita, e io non intendo soltanto colmarlo di paura, ma farcelo annegare dentro.» Nonostante si ritrovasse con un viso deforme e sfregiato, e nonostante la storia tragica e straordinaria che aveva alle spalle, Vanadium parlava senza alcuna drammaticità. La sua voce era calma, quasi piatta, e le variazioni di volume erano talmente minime che sembrava parlasse in tono sempre uniforme. Tuttavia Kathleen era rimasta affascinata da ogni sua parola, come quando ascoltava le grandi interpretazioni di Lawrence Olivier in Rebecca e Cime tempestose. Nella calma e nel riserbo di Vanadium, percepiva convinzione e verità, ma anche qualcosa di più. Solo un po' alla volta si rese conto che poteva trattarsi di questo: la sottile risonanza che nasceva da un uomo buono la cui anima, che non aveva spazi vuoti, era colma di quelle virtù, acquisite un po' alla volta, che non svaniscono. Rimasero seduti in silenzio con un senso di aspettativa così intenso, che Kathleen non sarebbe rimasta sorpresa se la moneta scomparsa fosse improvvisamente riapparsa in aria e, scintillando, fosse caduta al centro della scrivania di Nolly, continuando a roteare fino a quando Vanadium non a-
vesse deciso di raccoglierla. Alla fine Nolly ruppe il silenzio: «Be'... lei è proprio uno psicologo». Ancora una volta, il sorriso del detective restituì armonia al suo volto irregolare e pieno di cicatrici. «No, io no. Secondo me, la psicologia non rappresenta altro che uno dei tanti falsi valori, come il sesso, il denaro e la droga. Ma devo riconoscere che, sul male, ne so abbastanza.» La luce del giorno si era allontanata dalle finestre. La sera invernale, avvolta in sciarpe di nebbia, ansimava come un mendicante lebbroso che, al di là del vetro, domandasse umilmente un po' di attenzione. Con un brivido, Kathleen disse: «Ci piacerebbe sapere qualcosa di più sul perché abbiamo fatto quello che lei ci ha chiesto di fare. Perché le monete? Perché la canzone?» Vanadium annuì. «E io vorrei che voi mi riferiste in tutti i particolari quali sono state le reazioni di Cain. Ho letto i vostri rapporti, naturalmente; erano esaurienti ma, per forza di cose, anche succinti. Ci sono molte sfumature che possono essere evidenziate solo nel corso di una conversazione. Spesso, quando preparo una strategia, i particolari più importanti per me sono quelli che agli altri appaiono insignificanti.» Alzandosi dalla poltrona e abbassando le maniche della camicia, Nolly suggerì: «Se accetta di cenare con noi, credo proprio che trascorreremo una serata molto interessante». Un attimo dopo, nel corridoio, mentre Nolly chiudeva a chiave la porta dell'ufficio, Kathleen fece scivolare il braccio destro in quello sinistro di Vanadium. «Devo chiamarla detective Vanadium, Fratello o Padre?» «Mi chiami soltanto Tom, e diamoci del tu. Viste le condizioni della mia faccia, la polizia dell'Oregon è stata costretta a congedarmi per invalidità totale, quindi ufficialmente non sono più un detective. Tuttavia, fino a quando non vedrò Enoch Cain dietro le sbarre, dove dovrebbe stare, non posso essere nient'altro che un poliziotto, ufficialmente o no.» 65 Angel era vestita completamente di rosso, come un diavoletto: scarpine rosse, calze rosse, ghette rosse, gonna rossa, maglioncino rosso e un cappotto rosso con un cappuccio rosso. Ferma vicino alla porta d'ingresso dell'appartamento, si ammirava in un grande specchio e aspettava pazientemente Celestina, che stava infilando in una borsa a tracolla bambole, album da colorare, fogli da disegno e una
vasta serie di matite colorate. Sebbene avesse compiuto tre anni solo da una settimana, Angel sceglieva sempre i vestiti da indossare e si vestiva da sola. Di solito preferiva indumenti monocromatici, talvolta con un'unica nota di colore contrastante espressa da una cintura, o un cappèllo, o una sciarpa. Quando invece decideva di mescolare diversi colori, l'impressione iniziale era quella di un caos cromatico, ma in seguito ci si accorgeva che quelle combinazioni apparentemente improbabili erano in realtà più armoniose di quanto fossero sembrate all'inizio. Per un certo periodo di tempo, Celestina aveva temuto che la bambina fosse più lenta nell'apprendere a camminare rispetto agli altri bambini, più lenta nel parlare e nell'ampliare il suo vocabolario, anche se Celestina ogni giorno le leggeva a voce alta una fiaba. Ma negli ultimi sei mesi, Angel aveva recuperato in fretta, anche se seguendo una strada abbastanza diversa da quella indicata nei manuali sull'educazione dei bambini. La sua prima parola era stata mamma, il che era abbastanza normale, ma la sua seconda parola era stata blu, che per un po' venne storpiato in «buuu.» Un bambino normale sarebbe stato considerato eccezionalmente bravo se, a tre anni, fosse riuscito a distinguere quattro colori; Angel ne riconosceva undici, compreso il nero e il bianco, perché era già in grado di distinguere il rosa dal rosso e il viola dal blu. Wally - il dottor Walter Lipscomb, che aveva fatto nascere Angel e che era diventato anche il suo padrino - non si era mai mostrato preoccupato quando sembrava che la piccola avesse uno sviluppo più lento degli altri e aveva spiegato che ogni bambino era un individuo a sé, con un diverso ritmo di apprendimento. La doppia specializzazione di Wally - in ostetricia e in pediatria - lo rendeva ovviamente un esperto in materia, ma Celestina si era comunque preoccupata. Preoccuparsi è la cosa che le madri sanno fare meglio. E, per quel che ne sapeva Angel, Celestina era sua madre; la bambina non era ancora abbastanza grande per venire a sapere, e per comprendere, che aveva avuto la fortuna di avere due madri: una le aveva dato la vita, l'altra la stava allevando. Recentemente, Wally aveva sottoposto Angel a una serie di test di appercezione per bambini di tre anni ed era risultato che forse lei non sarebbe mai diventata un genietto della matematica o una campionessa di oratoria, ma che poteva essere estremamente dotata in altri modi. Il suo gusto per i colori, la sua innata comprensione di quali tonalità secondarie derivavano
dai colori principali, la sua percezione dello spazio e del movimento e la sua capacità di riconoscere le forme geometriche fondamentali, indipendentemente dall'angolazione da cui le venivano mostrate, erano nettamente superiori a quelle dei bambini della sua età. Wally spiegò che, più che verbalmente, Angel era dotata visivamente, che senza dubbio avrebbe mostrato una crescente precocità in campo artistico, che forse avrebbe seguito i passi di Celestina e che avrebbe potuto rivelarsi una bambina prodigio. «Cappuccetto rosso», annunciò Angel, osservandosi allo specchio. Celestina chiuse la cerniera della sacca. «Farai meglio a stare attenta al lupo cattivo.» «Io no. Lupo attento», ribatté Angel. «Pensi che saresti tu a dargli un calcio nel sedere?» «Bam!» esclamò Angel, osservando la sua immagine mentre dava un calcio a un ipotetico lupo. Estraendo un cappotto dall'armadio e infilandoselo in fretta, Celestina disse: «Avresti dovuto vestirti di verde, signorina Cappuccetto rosso. Così il lupo non ti avrebbe riconosciuta». «Oggi non mi sento rana.» «E nemmeno somigli a una rana.» «Sei carina, mamma.» «Ti ringrazio davvero, dolcezza.» «Sono carina?» «Non è educato cercare i complimenti.» «Ma lo sono?» «Sei stupenda.» «A volte non sono sicura», disse Angel, aggrottando la fronte davanti allo specchio. «Fidati. Sei uno schianto.» Appoggiando un ginocchio a terra, Celestina si chinò davanti ad Angel per legarle i lacci del cappuccio sotto il mento. «Mamma, perché i cani hanno la pelliccia?» «Da dove vengono i cani?» «Vorrei sapere anche questo.» «No», chiarì Celestina, «cioè, come mai all'improvviso parli di cani?» «Perché sono come i lupi.» «Giusto. Be', Dio li ha fatti pelosi.» «Perché Dio non ha fatto anche me pelosa?» «Perché non voleva che tu fossi un cane.»
Una volta completato il fiocco, Celestina disse: «Ecco fatto. Adesso sembri proprio un M&M». «Ma è un dolce.» «E tu sei una dolcezza, o no? Sei tutta rossa fuori e cioccolato al latte dentro», spiegò Celestina, pizzicando delicatamente il nasino color cannella della bambina. «Preferirei essere un Mr. Goodbar.» «Allora dovresti vestirti di giallo.» Nel pianerottolo sul quale si affacciavano i due appartamenti al pianterreno, incontrarono Rena Moller, la loro anziana vicina di casa. Stava lucidando il legno scuro della porta d'ingresso con olio essenziale di limone, il che significava che suo figlio sarebbe venuto a cena con la sua famiglia. «Sono un M&M», annunciò orgogliosamente Angel alla vicina, mentre Celestina chiudeva a chiave la porta. Rena era una donna allegra, bassa e massiccia. Il suo girovita doveva misurare almeno i due terzi della sua altezza e lei indossava quasi sempre vestiti a fiori che ne sottolineavano la corpulenza. Con un forte accento tedesco e con una voce che sembrava sempre sul punto di dissolversi in una grande risata, disse: «Madchen lieb, mi sembri una candelina di Natale». «Le candele si sciolgono. Io non voglio sciogliermi.» «Anche gli M&M si sciolgono», l'avvertì Rena. «Ai lupi piacciono i dolci?» «Forse. I lupi non me l'hanno detto, liebling.» «Lei sembra un giardino pieno di fiori, signora Moller», commentò Angel. «È proprio così», concordò Rena, mentre con una grassa mano allargava la gonna a pieghe del vestito dai vivaci colori. «Un grande giardino.» «Angel!» la rimproverò Celestina, mortificata. Rena scoppiò a ridere. «Ma è vero! E non solo un giardino. Io sono un campo di fiori!» Lasciò andare la gonna, che luccicò come una cascata di petali. «E così, stasera sarà la grande sera, Celestina.» «Mi auguri buona fortuna, Rena.» «Grande successo, venderà tutto. Lo prevedo!» «Sarebbe già un grande sollievo riuscire a vendere un quadro.» «Tutti! Brava com'è. Non ne rimarrà nemmeno uno. Lo so.» «Che Dio l'ascolti.» «Non sarebbe la prima volta», le assicurò Rena.
Uscita dall'edificio, Celestina prese Angel per mano mentre scendevano i gradini che portavano in strada. Il loro appartamento si trovava in una palazzina vittoriana di quattro piani, riccamente decorata, che sorgeva nell'esclusivo quartiere di Pacific Heights. Molti anni prima che Wally lo acquistasse, l'edificio era stato suddiviso in appartamenti nell'assoluto rispetto del suo stile architettonico. Wally abitava nello stesso quartiere, a un isolato e mezzo di distanza, in un gioiello vittoriano di tre piani occupato interamente da lui. Il crepuscolo, ormai quasi al termine e rosso scuro a occidente, creava una vivace linea viola lungo la cresta di un banco di nebbia in arrivo; era come se la foschia giungesse attraverso un luminoso tubicino di neon, trasformando l'intera città in un cabaret alla moda che apriva proprio in quel momento. La sera, affascinante come una donna che entrava nel locale per ballare, portava una dura lama di gelo nascosta tra le pieghe della sua gonna di seta nera. Celestina diede un'occhiata all'orologio e vide che era in ritardo. Con Angel imbottita di indumenti rossi e incapace di fare lunghi passi, non aveva neppure senso cercare di affrettarsi. «Dove va il blu?» domandò la bambina. «Quale blu, dolcezza?» «Il blu del cielo.» «Segue il sole.» «Dove va il sole?» «Alle Hawaii.» «Perché alle Hawaii?» «Perché ha una casa là.» «Perché là?» «Costano meno.» «Non ci credo.» «Ti direi mai una bugia?» «No. Ma mi stai prendendo in giro.» Raggiunsero il primo angolo e attraversarono l'incrocio. Il loro fiato formava sbuffi gelati. Fantasmi che respirano, li chiamava Angel. «Comportati bene stasera», la ammonì Celestina. «Rimango con zio Wally?» «Con la signora Ornwall.» «Perché lei abita con lo zio Wally?» «Lo sai. È la sua governante.»
«Perché tu non abiti con lo zio Wally?» «Non sono la sua governante, ti pare?» «Zio Wally non è a casa questa sera?» «Ci rimane solo per un po'. Poi mi raggiunge alla galleria e, quando il ricevimento si sarà concluso, andremo a cena insieme.» «Mangerete formaggio?» «Può darsi.» «Mangerete pollo?» «Perché ti importa sapere che cosa mangeremo?» «Io mangerò un po' di formaggio.» «Sono certa che, se lo vuoi, la signora Ornwall ti preparerà un panino col formaggio alla griglia.» «Guarda le nostre ombre. Sono davanti, poi vanno dietro.» «Perché passiamo accanto ai lampioni.» «Devono essere un bel sudiciume, vero?» «I lampioni?» «Le nostre ombre. Sono sempre per terra.» «Sicuramente devono essere molto sporche.» «E poi il nero dove va?» «Quale nero?» «Il cielo nero. Alla mattina. Dove va, mamma?» «Non ne ho la benché minima idea.» «Pensavo che sapessi tutto.» «Prima, sì», sospirò Celestina, «ma in questo momento il mio cervello non funziona molto bene.» «Mangia un po' di formaggio.» «Torniamo al discorso di prima?» «Fa bene al cervello.» «Il formaggio? Chi lo dice?» «L'uomo del formaggio alla televisione.» «Non puoi credere a tutto ciò che dicono alla televisione, dolcezza.» «Capitan Canguro non dice bugie.» «No, è vero. Però Capitan Canguro non è l'uomo del formaggio.» La casa di Wally era ormai a mezzo isolato di distanza. Il medico era fermo sul marciapiede e stava parlando con un tassista. La vettura di Celestina era già arrivata. «Spicciamoci, dolcezza.» «Si conoscono?»
«Lo zio Wally e il tassista? Non penso.» «No. Capitan Canguro e l'uomo del formaggio.» «Probabilmente sì.» «E allora il Capitano dovrebbe dirgli di non dire bugie.» «Sono certa che lo farà.» «Che cosa fa bene al cervello?» «Forse il pesce. Ricordati di dire le preghiere stasera.» «Lo faccio sempre.» «Ricordati di chiedere a Dio di benedire me e lo zio Wally, la nonna e il nonno...» «Pregherò anche per l'uomo del formaggio.» «È una buona idea.» «Mangerete anche del pane?» «Penso proprio di sì.» «Metteteci sopra del pesce.» Con un gran sorriso, Wally tese le braccia e Angel gli corse incontro, lasciandosi sollevare dal marciapiede. «Sembri un peperoncino», commentò il medico. «L'uomo del formaggio è un bugiardo», lo informò la bambina. Porgendo la sacca a Wally, Celestina disse: «Bambole, matite e il suo spazzolino da denti». Rivolgendosi ad Angel, il tassista commentò: «Accipicchia, sei una signorina davvero molto graziosa». «Dio non ha voluto che fossi un cane», spiegò Angel. «Davvero?» «Non mi ha fatto con la pelliccia.» «Dammi un bacio, dolcezza», esclamò Celestina e la piccola le piantò un bacio umido sulla guancia. «Che cosa sognerai?» «Te», rispose Angel, che talvolta soffriva di incubi. «Che tipo di sogni saranno?» «Solo belli.» «Che cosa succede se quello stupido uomo nero si permette di entrare nel tuo sogno?» «Tu gli darai un calcio in quel suo sedere peloso», rispose Angel. «Proprio così.» «Farai meglio ad affrettarti», consigliò Wally, deponendo sull'altra guancia di Celestina un bacio più asciutto. Il ricevimento si sarebbe tenuto dalle diciotto alle venti e trenta. Se Cele-
stina voleva arrivare in tempo, avrebbe dovuto avere un angelo custode appollaiato su ogni semaforo lungo tutta la strada. Mentre si immetteva nel traffico, il tassista disse: «Il signore mi ha detto che, questa sera, lei è l'ospite d'onore del ricevimento». Celestina si voltò nel sedile per lanciare un'occhiata a Wally e Angel, che la stavano salutando con la mano. «Direi proprio di sì.» «Nel mondo dell'arte, si usa dire 'in bocca al lupo'?» «Non vedo perché no.» «E allora in bocca al lupo.» «Grazie.» La vettura svoltò l'angolo. Wally e Angel non erano più in vista. Celestina tornò a guardare davanti a sé e, improvvisamente, scoppiò a ridere. Lanciando un'occhiata nello specchietto retrovisore, il tassista domandò: «È molto eccitante, vero? È la sua prima mostra?» «Sì, ma non era per quello. Stavo pensando a qualcosa che ha detto mia figlia.» Celestina fu colta da una crisi irrefrenabile di riso. Prima che riuscisse a riprendere il controllo, aveva consumato due fazzolettini di carta per soffiarsi il naso e asciugarsi gli occhi. «A quanto pare è una bambina davvero speciale», commentò il tassista. «Io ne sono convinta. Per me lei è tutto. Le dico che è la luna e le stelle. Probabilmente la sto viziando in modo esagerato.» «No. Voler bene ai bambini non significa viziarli.» Buon Dio, quanto amava la sua dolcezza, la sua piccola M&M. Erano passati già tre anni, eppure le sembrava che fosse trascorso solo un mese, e anche se c'erano stati momenti di fatica e tensione, troppe poche ore nella giornata, meno tempo da dedicare all'arte di quanto lei avrebbe voluto e tempo per se stessa poco o niente, non avrebbe scambiato la sua condizione per nulla al mondo... a parte poter riavere Phimie. Angel era la luna, il sole, le stelle e tutte le comete che illuminavano le galassie: era un faro che non si spegneva mai. L'aiuto di Wally, non solo con l'offerta dell'appartamento, ma anche con tutto l'affetto e il tempo che metteva a loro disposizione, era stato assolutamente determinante. Celestina pensava spesso alla moglie e ai gemelli di Wally... Rowena, Danny e Harry - morti in quell'incidente aereo sei anni prima, e a volte si sentiva trafitta da un profondo senso di perdita, quasi che fossero stati
membri della sua stessa famiglia. Per quelle persone era stato doloroso perdere Wally, quanto per lui perdere loro e, anche se il pensiero poteva apparire blasfemo, lei si chiedeva perché Dio fosse stato così crudele da distruggere quella famiglia. Rowena, Danny e Harry avevano attraversato il mare della sofferenza e adesso vivevano in eterno nel regno dei cieli. Un giorno si sarebbero riuniti al marito e padre che avevano perso; ma neppure l'eternità in paradiso li avrebbe adeguatamente ricompensati per gli anni che non avevano potuto trascorrere qui sulla terra con un uomo buono, gentile e dal cuore generoso come Walter Lipscomb. Lui avrebbe voluto offrirle più aiuto di quanto lei fosse stata disposta ad accettare. Per due anni, di sera, Celestina aveva continuato a lavorare come cameriera, fino a quando aveva completato i corsi all'Accademia di Belle Arti, e aveva lasciato il lavoro soltanto quando aveva iniziato a vendere abbastanza quadri da guadagnare una cifra pari allo stipendio e alle mance. All'inizio, Helen Greenbaum, della Galleria Greenbaum, aveva accettato di esporre tre tele, che aveva venduto nell'arco di un mese. Poi ne aveva prese quattro, e successivamente altre tre quando due delle quattro erano state vendute immediatamente. Dopo aver piazzato dieci dei suoi dipinti presso diversi collezionisti, Helen aveva deciso di includere Celestina in una mostra di opere di sei giovani artisti. Adesso aveva organizzato una esposizione tutta per lei. Al primo anno di college, Celestina aveva sperato unicamente di riuscire un giorno a guadagnarsi da vivere disegnando illustrazioni per riviste o lavorando in un'agenzia di pubblicità. Naturalmente, potersi dedicare all'arte era il fine di ogni pittore, significava libertà totale di esplorare il proprio talento; ma a lei sarebbe bastato realizzare un sogno molto più umile. Ora aveva solo ventitré anni e il mondo le appariva come una grossa prugna matura che, allungando un braccio, forse lei era in grado di cogliere dal ramo. A volte Celestina rimaneva meravigliata nel constatare come, nella vita, i viticci della tragedia e della gioia fossero così intimamente e inestricabilmente intrecciati tra loro. Dal dolore spesso nasceva una futura gioia e la gioia poteva essere il seme da cui nasceva il dolore. In quella vite, le strutture sovrapposte formate dai viticci erano così complesse, così meravigliose nei loro particolari e così terribili nella loro inevitabilità, che avrebbe potuto dipingere un numero infinito di tele e avrebbe dovuto vivere diverse vite da artista, solo per tentare di catturare l'enigmatica natura dell'esistenza, in tutte le sue tonalità cupe e luminose, e alla fine sarebbe riu-
scita a suggerire appena una pallida ombra del suo mistero. E l'ironia delle ironie era che, mentre il suo talento cresceva fino a raggiungere livelli che lei non aveva mai osato sperare, mentre i collezionisti reagivano positivamente alle sue opere come lei non aveva nemmeno immaginato fosse possibile, ora che aveva già superato abbondantemente le mete che si era prefissata e aveva un ampio panorama di possibilità davanti a sé, Celestina sarebbe stata pronta a gettar via tutto, con un po' di rimpianto ma senza amarezza, se fosse stata posta di fronte alla necessità di scegliere tra l'arte e Angel, quella bambina che era diventata per lei il dono più grande. Phimie era morta, ma lo spirito di Phimie nutriva e innaffiava la vita della sorella come fosse una pianta, producendo frutti in abbondanza. «Eccoci arrivati», disse il tassista, fermandosi davanti alla galleria. Mentre contava il denaro e vi aggiungeva la mancia, Celestina sentì che le tremavano le mani. «Sono spaventata da morire. Forse sarebbe meglio che mi riportasse subito a casa.» Voltandosi nel sedile e osservandola divertito mentre Celestina nervosamente metteva insieme le banconote, il tassista replicò: «Lei non è spaventata, no di sicuro. Seduta là dietro, in silenzio per quasi tutto il tragitto, lei non stava pensando a diventare famosa. Stava pensando alla sua bambina». «Infatti, ho pensato perlopiù a lei.» «Io l'ho capita, figliola. Lei sarà in grado di cavarsela benissimo, qualunque cosa succeda, che riesca a vendere tutti i suoi quadri o no, che diventi famosa o rimanga una persona qualsiasi.» «Guardi che probabilmente sta parlando di un'altra persona», ribatté Celestina, mettendogli in mano un rotolo di banconote. «In questo momento mi sento come un pezzo di gelatina coi tacchi alti.» Il tassista scosse la testa. «Ho saputo tutto quello che c'era da sapere quando l'ho sentita domandare alla bambina che cosa sarebbe successo se quello stupido uomo nero avesse osato entrare nel suo sogno.» «Ultimamente soffre di incubi.» «E lei è ben decisa a starle vicino anche nei sogni. Se ci fosse davvero un uomo nero, non ho dubbi che lei prenderebbe a calci quel suo sedere peloso e che lui non tornerebbe mai più. Quindi, entri in quella galleria, faccia colpo su quei presuntuosi con la puzza sotto il naso, prenda i loro soldi e diventi famosa.» Forse perché Celestina era figlia di suo padre e aveva la sua stessa fidu-
cia nel genere umano, rimaneva sempre profondamente commossa dalla gentilezza degli sconosciuti e vedeva in loro l'impronta di una grazia più grande. «Sua moglie lo sa di essere una donna fortunata?» «Se avessi una moglie, non si sentirebbe troppo fortunata. Non faccio parte di quelli che vogliono una moglie, mia cara.» «Allora nella sua vita c'è un uomo?» «Sempre lo stesso da diciotto anni.» «Diciotto anni. Allora deve sapere quanto è fortunato.» «Io glielo ripeto almeno due volte al giorno.» Celestina scese dal taxi e si fermò sul marciapiede davanti alla galleria, con le gambe che le tremavano come quelle di un puledro appena nato. Il poster che pubblicizzava la mostra le sembrò enorme, gigantesco, molto più grande di quanto lo ricordasse, esageratamente grande. Le sue stesse dimensioni avrebbero invogliato i critici a essere crudeli, avrebbero sfidato la sorte a festeggiare il trionfo di Celestina facendo crollare proprio in quel momento l'intera città con il terremoto del secolo. Avrebbe preferito che Helen Greenbaum avesse optato per poche righe scritte a macchina su un bigliettino attaccato alla vetrina con del nastro adesivo. Vedendo la sua fotografìa, si sentì avvampare. Sperò che nessuno di quelli che stavano passando tra lei e la galleria guardasse prima la foto, poi il suo viso, e la riconoscesse. Che cosa le era venuto in mente? Il cappello della fama, adorno di nappe e lustrini, era troppo sgargiante per lei; la figlia di un pastore di Spruce Hills, nell'Oregon, si sentiva più a suo agio con un berretto da baseball. Due dei suoi quadri migliori erano stati esposti in vetrina, illuminati ad arte. Erano affascinanti. Erano spaventosi. Erano bellissimi. Erano orrendi. Quella mostra era inutile, disastrosa, stupida, sciocca, penosa, simpatica, meravigliosa, magnifica, deliziosa. L'unica cosa che avrebbe potuto renderla ancora migliore sarebbe stata la presenza dei suoi genitori. Avevano pensato di prendere un volo per San Francisco quella mattina, ma la sera prima era morto un parrocchiano, nonché loro amico. A volte, un pastore e sua moglie avevano doveri verso il loro gregge che venivano prima di ogni altra cosa. Celestina lesse a voce alta il titolo dell'esposizione: «Questo giorno straordinario». Inspirò profondamente. Sollevò la testa, raddrizzò le spalle ed entrò nella galleria, dove una nuova vita l'attendeva.
66 Junior Cain vagava in mezzo a quei piccoli borghesi, in quel grigio regno della conformità, cercando una - soltanto una! - tela che gli allargasse il cuore con la sua repellenza, mentre vedeva solo immagini che rasserenavano e addirittura affascinavano, desiderando ardentemente di trovare della vera arte e di provare il turbinio emotivo di disperazione e disgusto che essa evocava, e scoprendo invece solo temi che rincuoravano e immagini che invitavano a sperare; oltretutto era circondato da gente che sembrava apprezzare ogni cosa, dai dipinti alle tartine alla fredda sera di gennaio, individui che con tutta probabilità non avevano mai trascorso neppure un giorno della loro vita a meditare sull'inevitabilità di quell'annientamento nucleare che si sarebbe verificato prima della fine del decennio, persone che sorridevano troppo per essere veri intellettuali, e si sentì più solo e in pericolo di Sansone a Gaza, accecato e incatenato. Non era stata sua intenzione entrare nella galleria. Nessuno che facesse parte dei suoi abituali circoli avrebbe visitato quella mostra, a meno che non si fosse trovato in uno stato di coscienza talmente alterato dalle droghe da non ricordare più nulla la mattina successiva: era quindi altamente improbabile che Junior potesse essere riconosciuto o ricordato. Tuttavia non gli sembrava opportuno rischiare di essere identificato come uno dei partecipanti al ricevimento se, in seguito, il piccolo Bartholomew o la stessa Celestina White fossero stati uccisi. I poliziotti, paranoici come sempre, avrebbero potuto sospettare che ci fosse un collegamento fra la mostra e gli omicidi, spingendoli a cercare e interrogare tutti i partecipanti. Oltretutto, non era nell'elenco dei clienti della Galleria Greenbaum e non aveva un invito. Ai ricevimenti delle gallerie alla moda a cui lui partecipava, nessuno poteva entrare senza un invito personale. E in ogni caso, era possibile che venisse negato l'accesso a coloro che non superavano il test di gradimento. I criteri di gradimento erano gli stessi che valevano per i locali più in voga, per questo motivo i buttafuori che controllavano l'ingresso delle gallerie alla moda erano gli stessi che lavoravano nei locali notturni. Junior era passato davanti alle due grandi vetrine, osservando attentamente i due quadri della White che erano stati esposti, restando inorridito dalla loro bellezza, quando all'improvviso la porta si era aperta e un dipendente della galleria lo aveva invitato a entrare. Nessun invito personale, nessun test di gradimento da superare, nessun buttafuori. Una simile faci-
lità di accesso dimostrava, se mai ce ne fosse stato bisogno, che quella esposta non era vera arte. Abbandonata ogni prudenza, Junior entrò per lo stesso motivo per cui un amante dell'opera può, una volta ogni dieci anni, partecipare a un concerto di musica country, ovvero per confermare la superiorità dei suoi gusti e per divertirsi ad ascoltare quella che la plebaglia considerava musica. Qualcuno avrebbe potuto definirlo un curiosare nei bassifondi. Celestina White era al centro dell'attenzione, sempre circondata dai piccoli borghesi che tracannavano champagne e trangugiavano tartine e che, se avessero avuto meno denaro, avrebbero acquistato quadri dipinti su velluto. Per essere onesti, con la sua eccezionale bellezza, sarebbe stata al centro dell'attenzione anche in una riunione di veri artisti. Junior aveva poche probabilità di arrivare al piccolo bastardo di Seraphim senza fare la conoscenza di quella donna e uccidere anche lei; ma con un po' di fortuna e se fosse riuscito a eliminare Bartholomew senza che Celestina venisse a sapere chi era l'assassino, forse Junior avrebbe avuto la possibilità di scoprire se era viziosa come sua sorella e se poteva essere la donna della sua vita. Dopo aver fatto il giro della mostra, riuscendo a non rabbrividire in modo evidente, andò a fermarsi vicino a Celestina White, senza tuttavia dare l'impressione di ascoltarla con particolare interesse. Celestina stava spiegando che il titolo della mostra gli era stato ispirato da uno dei sermoni di suo padre che, più di tre anni prima, era stato trasmesso alla radio durante un programma settimanale. Non si trattava di un programma strettamente religioso, più in generale veniva approfondita la ricerca del significato della vita; di solito il programma trasmetteva interviste e discorsi di filosofi contemporanei, ma di tanto in tanto partecipavano anche uomini di chiesa. Il sermone di suo padre aveva ricevuto da parte degli ascoltatori un'accoglienza positiva come mai era accaduto nei vent'anni di vita di quella trasmissione e, a grande richiesta, era stato riproposto tre settimane dopo. Ricordandosi di come il titolo della mostra avesse suscitato in lui una strana risonanza quando, per la prima volta, aveva visto l'opuscolo della galleria, Junior ebbe la certezza che quel sermone, la cui bozza era stata registrata sul nastro, fosse proprio la «musica» eccitante che aveva accompagnato la sua travolgente serata d'amore con Seraphim. Non ne ricordava neppure una parola, tanto meno un qualsiasi elemento di quelli che avevano così profondamente commosso il pubblico radiofonico di tutta la nazio-
ne, ma questo non significava che lui fosse una persona superficiale o incapace di restare colpito dalle speculazioni filosofìche. Solo che era stato così distratto dalla perfezione erotica del giovane corpo di Seraphim e così impegnato a sbattersi la ragazzina, che non avrebbe ricordato neppure una parola anche se Zedd in persona fosse stato seduto su quel letto e avesse discusso della condizione umana con la sua consueta genialità. Molto probabilmente le digressioni del reverendo White grondavano di sentimentalismo e di irrazionale ottimismo come i quadri della figlia, di conseguenza a Junior non interessava in modo particolare venire a sapere il nome del programma radiofonico, né scrivere per farsi mandare la trascrizione del sermone. Stava per andare a cercare un vassoio pieno di tartine, quando udì uno degli ospiti menzionare alla figlia del reverendo il nome Bartholomew. Nel suo orecchio risonò solo il nome, non le parole che l'avevano accompagnato. «Certo», rispose Celestina White, «sì, ogni giorno. Attualmente mi sto dedicando a una serie di lavori ispirati da Bartholomew.» Senza dubbio, si doveva trattare di ritratti disgustosamente sentimentali del piccolo bastardo con occhi esageratamente grandi e limpidi, che posava graziosamente in mezzo a cuccioli e gattini, quadri più adatti a calendari da quattro soldi che alle pareti di una galleria e pericolosi per la salute dei diabetici. Tuttavia, Junior provò un brivido d'eccitazione nell'udire il nome Bartholomew, sapendo che il bambino di cui Celestina parlava era il Bartolomeo dei Bartolomei, la presenza minacciosa del suo sogno, l'essere che metteva in pericolo la sua fortuna e il suo futuro, e che doveva essere eliminato. Mentre si avvicinava per ascoltare meglio la conversazione, si accorse che qualcuno lo stava fissando. Alzò lo sguardo e vide gli occhi color antracite, duri come quelli di un uccello, e il volto sottile di un uomo poco più che trentenne, magro come un corvo affamato. Erano a più di quattro metri di distanza l'uno dall'altro, e fra di loro vi erano diversi ospiti. Tuttavia, per Junior, l'attenzione di quello sconosciuto non avrebbe potuto essere più sgradevolmente intensa che se fosse stato da solo nella stanza e a pochi centimetri da lui. Ma la cosa più allarmante fu che, improvvisamente, si rese conto che non si trattava affatto di uno sconosciuto. Non ricordava chi fosse, ma il viso gli appariva familiare e aveva la sensazione di averlo già visto in un
contesto inquietante. Con uno scatto nervoso della testa da uccello e aggrottando la fronte con aria sospettosa, l'uomo distolse lo sguardo e si confuse tra la folla vociante, scomparendo con la stessa rapidità di una snella actite che svolazza a fìor d'acqua in mezzo a uno stormo di grossi gabbiani. Proprio mentre l'uomo si voltava per allontanarsi, Junior intravide ciò che indossava sotto un impermeabile London Fog. Una camicia bianca con colletto a punte ripiegate, un farfallino nero e una parte di risvolti in satin nero, come quelli di una giacca da smoking. Nella mente di Junior, dalla tastiera di un piano immaginario si levò un motivo, Qualcuno che badi a me. L'uomo dagli occhi di falco era il pianista che suonava nel pianobar dell'albergo dove Junior aveva cenato appena arrivato a San Francisco e in seguito altre due volte. Era evidente che il musicista l'aveva riconosciuto, il che sembrava improbabile, addirittura straordinario, considerato che non si erano mai parlati e che Junior doveva essere solo uno delle migliaia di clienti che avevano cenato in quel ristorante negli ultimi tre anni. Ma la cosa più strana era che il pianista lo aveva osservato con un interesse del tutto inspiegabile, visto che non si conoscevano. Quando si era accorto di essere stato notato, era apparso turbato, si era allontanato in fretta, ansioso di evitare un ulteriore contatto. Junior aveva sperato di non essere riconosciuto da nessuno dei partecipanti a quel ricevimento. Si pentì di non essersi attenuto al suo piano originale, cioè sorvegliare la galleria dalla sua auto parcheggiata nelle vicinanze. Il comportamento del musicista richiedeva una spiegazione. Dopo aver vagato tra la folla, Junior scorse l'uomo di fronte a un quadro così esageratamente bello che qualsiasi esperto di vera arte avrebbe faticato a non cedere all'impulso di squarciare la tela, riducendola a brandelli. «Ho avuto il piacere di ascoltare la sua musica», gli disse. Con un sussulto, il pianista si voltò a guardarlo, poi indietreggiò di un passo, come se Junior avesse invaso il suo spazio personale. «Ah, sì, grazie, gentile da parte sua. Sa, io amo il mio lavoro, mi diverto tanto che è perfino difficile considerarlo un lavoro. Suono il piano da quando avevo sei anni e non sono mai stato uno di quei bambini che faceva i capricci all'idea di dover prendere delle lezioni. Non ne avevo mai abbastanza.» O quell'uomo era un chiacchierone nato o lui lo aveva turbato in modo particolare.
«Che cosa ne pensa della mostra?» domandò Junior, avvicinandosi un po' al musicista, come per far pressione su di lui. Chiaramente innervosito, anche se si sforzava di apparire tranquillo, il sacco d'ossa indietreggiò di nuovo. «I quadri sono molto belli, stupendi, sono davvero colpito. Sa, io sono un amico dell'artista. Era una delle mie inquiline, io ero il suo padrone di casa quando frequentava i primi anni dell'Accademia, era giovanissima, un monolocale molto grazioso, prima del bambino. È una ragazza adorabile, ho sempre saputo che avrebbe avuto successo, era evidente fin dai suoi primi lavori. Questa sera dovevo assolutamente venire, anche s'è ho dovuto chiedere a un amico di sostituirmi per metà della serata. Ma non potevo proprio perdermi questa mostra.» Cattive notizie. Essere riconosciuto da un altro ospite significava per Junior correre il rischio di venire in seguito collegato all'omicidio; ma essere riconosciuto da un amico personale di Celestina White era ancora peggio. Adesso doveva assolutamente sapere perché il pianista lo aveva osservato da lontano con tanta insistenza. Avvicinandosi ulteriormente alla sua preda, Junior commentò: «Sono davvero sorpreso che lei mi abbia riconosciuto, perché non ho frequentato il ristorante molto spesso». Il pianista non era assolutamente capace di mentire. I suoi occhi da gallina fissarono il quadro più vicino, altri ospiti, il pavimento, tutto tranne Junior, e un nervo cominciò a contrarglisi sulla guancia sinistra. «Be', sa, sono molto bravo a riconoscere le facce, mi rimangono in mente, non so perché. Per tutto il resto, ho una pessima memoria.» Tendendo la mano e osservandolo attentamente, Junior si presentò: «Mi chiamo Richard Gammoner». Per un istante gli occhi del musicista incrociarono quelli di Junior, spalancandosi per la sorpresa. Evidentemente sapeva che Gammoner era un nome falso. Quindi doveva anche conoscere la sua vera identità. «Io dovrei sapere il suo nome dal programma esposto nel pianobar», soggiunse Junior, «ma ho una pessima memoria per i nomi, tanto quanto lei ne ha una ottima per le facce.» Dopo un attimo di esitazione, quella specie di stuzzicadenti gli strinse la mano. «Io sono... ehm... sono Ned Gnathic. Tutti mi chiamano Neddy.» Neddy si limitò a fare andare su e giù la mano per un paio di volte, ma Junior continuò a tenergliela stretta a lungo. Non che gli stritolasse le nocche, nulla di così rozzo, gliela stringeva gentilmente, ma senza lasciarla andare. La sua intenzione era quella di confondere e scuotere ulteriormente
il musicista, approfittando del suo evidente fastidio all'idea che qualcuno invadesse il suo spazio personale, nella speranza che Neddy gli rivelasse perché lo aveva osservato con tanta insistenza. «Anch'io avrei tanto voluto imparare a suonare il piano», confessò Junior, «ma immagino che sia necessario cominciare da bambini.» «Oh no, non è mai troppo tardi.» Visibilmente imbarazzato di fronte alla sbadataggine di Junior, che sembrava non voler più concludere la stretta di mano, Neddy non voleva però essere così scortese da liberarsi con uno strattone o mettersi a discutere per così poco, ma Junior, sorridendo e fingendosi tanto zoticone quanto determinato, ignorò i suoi educati tentativi di liberarsi dalla stretta. Neddy fu quindi costretto ad aspettare, lasciando che Junior continuasse a tenergli la mano, e il suo viso, in precedenza bianco come i tasti di un pianoforte, assunse una sfumatura di rosa che contrastava con il fiore rosso che portava all'occhiello. «Insegna pianoforte?» si informò Junior. «Io, be', no, no davvero.» «Il denaro non è un ostacolo. Posso permettermi qualsiasi cifra lei mi chieda. E sarei un allievo molto diligente.» «Ne sono certo, sì, però temo di non avere la pazienza per insegnare, sono un artista, non un insegnante. Ma potrei darle il nome di un buon maestro.» Sebbene il viso di Neddy adesso fosse diventato di un intenso rosa primula, Junior continuava a stringergli la mano, ad avvicinarsi, abbassando il viso verso quello del musicista. «Se mi consiglia un insegnante, sono certo di finire in buone mani, tuttavia preferirei decisamente imparare da lei, Neddy. Vorrei tanto che ci ripensasse...» Perdendo la pazienza, il pianista liberò la mano dalla stretta di Junior. Si guardò intorno nervosamente, convinto che lui e Junior avessero attirato l'attenzione di tutti, ma naturalmente i partecipanti al ricevimento erano persi nelle loro sciocche conversazioni oppure fissavano rapiti gli stucchevoli dipinti, e nessuno si era accorto di quel piccolo dramma. Rosso in volto, fulminandolo con lo sguardo, abbassando la voce in un sussurro, Neddy disse: «Mi dispiace, ma ha capito male. Io non sono come lei e Renee». Per un momento, il nome Renee non disse nulla a Junior. Poi, con riluttanza, andò a frugare nel passato e trovò quel ricordo doloroso: lo splendido travestito in abito Chanel, che aveva ereditato una fortuna grazie alle
valvole industriali. «Non sto dicendo che ci sia niente di male, è chiaro», continuò a bisbigliare Neddy con un tono ferocemente conciliatorio, «ma non sono gay e non mi interessa insegnarle il pianoforte o qualsiasi altra cosa. Inoltre, dopo tutte le cose che quel ragazzo... quella ragazza ha raccontato, non riesco proprio a immaginare come possa pensare che un amico di Renee voglia anche solo avvicinarsi a uno come lei. Guardi che lei deve farsi curare. Renee è quello che è, ma non è un cattivo soggetto, è una ragazza dolce e generosa. Non merita di essere picchiata, maltrattata e... tutte quelle cose orribili che le ha fatto. Mi scusi.» In un turbinio di London Fog e di legittima indignazione, Neddy voltò le spalle a Junior e si allontanò in mezzo alla folla che continuava a mangiare e a chiacchierare. Come se il rossore fosse un virus, Junior venne contagiato dal pianista e si ritrovò con il viso di un intenso rosa primula. Dato che Renee Vivi abitava nell'albergo, probabilmente considerava il bar come un luogo fisso dove fare conoscenze occasionali. Ovviamente, tutti coloro che lavoravano al pianobar la conoscevano, erano suoi amici. E ricordavano tutti gli uomini che accompagnavano l'ereditiera nel suo attico. Oltretutto, quella puttana - o quel bastardo - viziosa e vendicativa doveva essersi inventata un sacco di bugie su di lui e, durante una serata un po' fiacca, doveva averle raccontate a Neddy, al barista e a chiunque avesse voglia di ascoltarla. Adesso il personale del locale era convinto che Junior fosse un pericoloso sadico. Senza dubbio, il travestito si era inventato altre storie spaventose, incolpandolo di tutto il male possibile, da un depravato interesse negli escrementi umani all'automutilazione dei genitali. Splendido. Perfetto. E così Neddy, amico di Celestina, sapeva che Junior, famoso per essere un sadico, aveva partecipato a quel ricevimento sotto falso nome. Se Junior era un sordido pervertito di gusti così volgari da essere rifiutato perfino dalla feccia del mondo, addirittura da quella specie di mutante figlio di un ermafrodita, allora era sicuramente capace di commettere anche un omicidio. Appena fosse venuto a sapere della morte di Bartholomew - e/o di Celestina - nel giro di dodici secondi, forse quattordici, Neddy si sarebbe precipitato a telefonare alla polizia, indicando Junior come il probabile colpevole. Senza farsi notare, Junior seguì il musicista attraverso tutta l'ampia sala, scegliendo un per-
corso indiretto e nascondendosi in mezzo a quei piccoli borghesi vociami. In questo Neddy lo aiutò, non degnandosi neppure di voltarsi indietro a guardare. Lo vide fermare un giovane che, dalla targhetta con il nome attaccata al risvolto della giacca, doveva essere un dipendente della galleria. Avvicinarono le teste per scambiarsi qualche parola, poi il musicista oltrepassò un arco ed entrò nella seconda sala. Curioso di sapere che cosa avesse detto Neddy, Junior si avvicinò rapidamente allo stesso dipendente. «Mi scusi, ma è da un bel po' che cerco il mio amico in mezzo a questa folla, poi l'ho visto che stava parlando con lei - quel signore con l'impermeabile della London Fog e lo smoking - e ora l'ho perso di nuovo. Non le ha per caso detto se se ne stava andando? Mi deve dare un passaggio a casa.» Il giovane dovette alzare la voce per farsi sentire al di sopra di quella massa di incompetenti. «No, signore. Ha domandato soltanto dov'era la toilette maschile.» «E dov'è?» «In fondo alla seconda galleria, sulla sinistra, c'è un corridoio. Le toilette si trovano alla fine del corridoio, oltre gli uffici.» Nel tempo impiegato da Junior ad attraversare i tre uffici e a trovare la toilette maschile, Neddy l'aveva già occupata. La porta era chiusa dall'interno, il che significava che poteva entrarvi solo una persona alla volta. Junior si appoggiò contro il telaio della porta. Il corridoio era deserto. Poi, da uno degli uffici, uscì una donna che si avviò verso la galleria, senza neppure lanciare un'occhiata verso Junior. Aveva la calibro 9 infilata nella fondina da spalla, sotto la giacca di pelle. Ma il silenziatore si trovava in una delle tasche del cappotto. La canna munita di silenziatore, troppo lunga per non dargli fastidio lungo il fianco sinistro, probabilmente sarebbe rimasta impigliata nella fondina quando avesse cercato di estrarre l'arma. Junior non voleva inserire il silenziatore nella pistola proprio lì, nel corridoio, con il rischio di essere visto. Oltretutto, se si fosse sporcato con il sangue di Neddy, potevano sorgere delle complicazioni. Tutto ciò che un omicidio comporta non è solo disgustoso, ma è anche estremamente incriminante. Per questa stessa ragione, detestava l'idea di usare un coltello. All'interno della toilette, si sentì scorrere l'acqua. Negli ultimi due giorni, Junior aveva mangiato soltanto cibi astringenti e, nel tardo pomeriggio, aveva assunto anche una dose preventiva di calmante.
Attraverso la porta giunse il rumore di acqua che scorreva in un lavandino. Neddy si stava lavando le mani. I cardini non erano esterni. La porta si apriva verso l'interno. Il rubinetto venne chiuso e Junior sentì lo strappo di un distributore di asciugamani di carta. Il corridoio era ancora vuoto. La cosa essenziale era saper scegliere il momento più opportuno. Junior non era più appoggiato tranquillamente contro lo stipite. Ora aveva posato entrambe le mani contro la porta. Appena udì lo scatto della serratura che veniva aperta, si catapultò nella toilette. Con un fruscio di impermeabile, Neddy Gnathic inciampò, perdendo l'equilibrio, e trasalì. Prima che il pianista potesse mettersi a gridare, Junior lo spinse tra la tazza e il lavandino, sbattendolo contro la parete con tanta violenza da lasciarlo senza fiato e da far ondeggiare l'acqua nel serbatoio della toilette. Dietro di loro, la porta rimbalzò con forza da un fermaporta rivestito di gomma e si chiuse con un tonfo. Ma la serratura non era chiusa e chiunque poteva interromperli da un momento all'altro. Neddy possedeva il talento musicale, ma Junior aveva i muscoli. Inchiodato contro la parete, la gola stretta nella morsa delle mani di Junior, Neddy avrebbe avuto bisogno di un miracolo per riuscire a far scivolare ancora una volta le dita sulla tastiera. Con le mani, bianche come colombe, che si agitavano in aria come se cercassero di uscire dalle maniche dell'impermeabile, Neddy sembrava un illusionista, non un musicista. Continuando a stringergli con forza la gola, Junior voltò la testa di lato, per proteggersi gli occhi. Poi diede a Neddy una ginocchiata in mezzo alle gambe, togliendogli anche quel poco di combattività che gli restava. Le mani, simili a colombe moribonde, svolazzarono verso le braccia di Junior, aggrappandosi debolmente alla giacca di pelle, infine penzolarono senza vita lungo i fianchi di Neddy. Lo sguardo da uccello del musicista si fece opaco. La lingua rosa gli sporgeva dalla bocca come un verme che stava per essere ingoiato. Junior lasciò andare il corpo e, facendolo scivolare sul pavimento, si voltò verso la porta per chiuderla dall'interno. Mentre allungava la mano, all'improvviso ebbe la sensazione che la porta stesse per spalancarsi e che davanti a lui sarebbe apparso Thomas Vanadium, morto e risorto. Il fanta-
sma non apparve, ma Junior si sentiva scosso al solo pensiero che una simile eventualità si potesse verificare proprio nel bel mezzo di un momento così difficile. Voltandosi verso il lavandino, estraendo nervosamente da una tasca della giacca una boccetta di plastica da farmacia, Junior consigliò a se stesso di restare calmo. Respiri lenti e profondi. Quel che è fatto è fatto. Vivi nel futuro. Agisci, non reagire. Concentrati. Cerca il lato positivo delle cose. Fino a quel momento non aveva preso né un antiemetico e neppure un antistaminico per prevenire gli attacchi di vomito e l'orticaria, perché aveva pensato di assumere quelle medicine poco prima di commettere l'omicidio; voleva poter contare sul massimo effetto. Nelle sue intenzioni, avrebbe preso le pillole solo dopo aver seguito Celestina a casa e aver saputo con ragionevole certezza dove abitava il piccolo Bartholomew. Era talmente scosso dal tremore che non riusciva a togliere il coperchio della boccetta. Era orgoglioso di essere più sensibile della maggior parte della gente, di essere così pieno di sentimento, ma a volte la sensibilità era una maledizione. Coperchio tolto. Nella boccetta, capsule gialle e capsule blu. In qualche modo riuscì a farne scendere una di ogni colore nel palmo della mano sinistra senza rovesciare tutte le altre sul pavimento. La fine della sua ricerca era ormai vicina, molto vicina, il Bartholomew giusto era praticamente a un tiro di schioppo. Junior era furibondo nei confronti di Neddy Gnathic perché forse aveva mandato tutto all'aria. Richiuse la boccetta, se la infilò in tasca e poi diede un calcio all'uomo morto, lo colpì ancora, gli sputò addosso. Respiri lenti e profondi. Concentrazione. Forse il lato positivo di quella faccenda era che il musicista non si era né bagnato, né sporcato i pantaloni mentre era in agonia. A volte, nel corso di una morte relativamente lenta come quella per strangolamento, la vittima perde il controllo di tutte le funzioni corporee. L'aveva letto in un romanzo, qualcosa che gli era stato inviato dal Club del libro, quindi un testo affidabile e allo stesso tempo istruttivo. Probabilmente non era di Eudora Welty. Forse di Norman Mailer. In ogni caso, la toilette non profumava di fiori, ma non puzzava nemmeno. Però, se questo era il lato positivo, come lato positivo era davvero una stronzata (e non era un gioco di parole), perché lui si ritrovava ancora incastrato nella toilette con un cadavere e non. poteva restarci per il resto della sua vita, bevendo acqua di rubinetto e mangiando panini di carta i-
gienica, ma allo stesso tempo non poteva permettere che scoprissero il corpo, perché in quel caso la polizia avrebbe perquisito tutta la galleria prima che si concludesse il ricevimento e prima che lui avesse la possibilità di seguire Celestina fino a casa. Altro problema: il giovane dipendente si sarebbe ricordato che Junior aveva chiesto di Neddy e lo aveva seguito verso la toilette maschile. Lo avrebbe descritto e, dato che era un esperto d'arte, dotato quindi di una certa memoria visiva, molto probabilmente avrebbe fornito un'ottima descrizione e il ritratto del disegnatore della polizia non sarebbe stato un'opera cubista, stile Picasso, né uno schizzo impressionistico, ma un'immagine molto precisa e dettagliata, come un quadro di Norman Rockwell. Cercando ansiosamente il lato positivo della situazione, Junior ne aveva scoperto uno decisamente negativo. Quando sentì lo stomaco in subbuglio e il cuoio capelluto che gli prudeva, Junior fu colto dal panico, certo com'era che sarebbe stato colto sia da un attacco di emetismo nervoso acuto, sia da una grave forma di orticaria, rigettando tutto ciò che aveva dentro e, allo stesso tempo, riempiendosi di macchioline. Si infilò le capsule in bocca ma non riuscì a produrre abbastanza saliva da ingoiarle, quindi aprì il rubinetto, pose le mani a coppa sotto il getto e bevve l'acqua, bagnandosi la parte anteriore della giacca e del maglione. Guardandosi nello specchio sopra il lavandino, non vide riflessa l'immagine dell'uomo istruito e completamente realizzato che aveva tanto faticato per diventare, ma il ragazzino pallido e dagli occhi tondi che si nascondeva da sua madre ogni volta che lei, aiutata dalla cocaina e stimolata dalle anfetamine, si trovava in uno dei suoi cupi e profondi momenti di crisi, prima che accettasse di scambiare la dura realtà per l'ambiente caldo e sereno del manicomio. Come se un vortice di tempo lo riportasse indietro, in quell'odioso passato, Junior ebbe la sensazione che le difese che si era creato con tanta fatica gli venissero strappate di dosso. Troppe, troppe cose contro cui lottare, non era giusto: trovare quell'ago di Bartholomew nel pagliaio, l'orticaria, gli attacchi di vomito e di diarrea, perdere un alluce, perdere una moglie tanto amata, vagare in un mondo freddo e ostile da solo, senza una compagna di vita, umiliato dai travestiti, tormentato da spiriti assetati di vendetta, troppo intenso per poter godere dei benefici della meditazione, con Zedd morto, la prospettiva di finire in prigione sempre in agguato per un motivo o per l'altro, incapace di trovare serenità sia nel ricamo sia nel sesso.
Junior aveva bisogno di qualcosa nella vita, un elemento che gli mancava e senza il quale non sarebbe stato mai completo, qualcosa di più di una compagna, più del tedesco, del francese, o del karaté e, per quanto riuscisse a ricordare, aveva sempre cercato questo elemento misterioso, questo oggetto enigmatico, questa capacità, questa cosa, questa forza o persona, questa intuizione, ma il problema era che lui non sapeva che cosa esattamente stesse cercando e spesso, quando gli sembrava di averla trovata, scopriva che in realtà non era vero, quindi temeva che, se un giorno l'avesse trovata veramente, forse l'avrebbe gettata via perché non si sarebbe reso conto che era proprio ciò che aveva cercato fin da piccolo. Zedd approva l'autocommiserazione, ma soltanto se si impara a utilizzarla come trampolino verso la rabbia, perché la rabbia - come l'odio - può essere un'emozione positiva se adeguatamente incanalata. La rabbia può spingerti a raggiungere traguardi ai quali altrimenti non sapresti di poter arrivare, anche solo la determinazione di dimostrare che i bastardi che ti prendevano in giro avevano torto, anche solo per sbattere loro in faccia il tuo successo. La rabbia e l'odio sono stati la molla interna di grandi leader politici, da Hitler a Stalin a Mao, personaggi che hanno scritto indelebilmente il loro nome sul viso della storia e che - ciascuno a modo suo - in gioventù erano stati rosi dall'autocommiserazione. Guardandosi nello specchio, che avrebbe dovuto essere annebbiato tanto dal vapore quanto dall'autocommiserazione, Junior cercò la sua rabbia e la trovò. Era una rabbia scura e amara, velenosa come il morso di un serpente; il suo cuore la stava distillando, senza grosse difficoltà, nel furore più puro. Quell'odio così eccitante lo sollevò dalla disperazione e Junior voltò le spalle allo specchio, cercando ancora una volta il lato positivo delle cose. Forse era la finestra del bagno. 67 Mentre i Wulfstan e il loro amico venivano fatti accomodare a un tavolo accanto alla finestra, masse di nebbia simile a cotone rotolavano lentamente sull'acqua scura come se la baia si fosse svegliata e, alzandosi dal letto, avesse allontanato da sé cumuli di lenzuola e coperte. Per il cameriere, Nolly era Nolly, Kathleen era la signora Wulfstan e Tom Vanadium era un signore... non un signore detto solo per educazione, un signore sottolineato con deferenza. Per il cameriere, Tom era un perfet-
to sconosciuto eppure il suo viso deforme gli conferiva una certa dignità; in più, Vanadium possedeva una qualità, totalmente indipendente dal contegno e dall'atteggiamento, un ineffabile qualcosa, che ispirava rispetto e perfino fiducia. Vennero ordinati tre Martini. Nessuno di loro osservava il voto di sobrietà assoluta. Tom attirò meno l'attenzione dei clienti del ristorante di quanto Kathleen si fosse aspettata. Naturalmente i presenti l'avevano notato, ma dopo una o due occhiate di choc o di pietà, tutti si mostrarono indifferenti, anche se si trattava di una finta, e poco convincente, indifferenza. La stessa qualità che suscitava un riguardo deferente nel cameriere evidentemente rendeva gli altri clienti abbastanza educati da rispettare la sua privacy. «Mi stavo domandando», disse Nolly, «se tu non sei più un funzionario di polizia, in quale veste darai la caccia a Cain?» Vanadium si limitò a sollevare un sopracciglio, come per dire che vi era più di una ovvia risposta. «Non ti ci vedo proprio come vigilante», soggiunse Nolly. «Non lo sono. Sarò soltanto la coscienza che Enoch Cain non ha mai avuto.» «Hai una pistola?» domandò Nolly. «Non voglio dirti bugie.» «Allora ce l'hai. Legale?» Tom non rispose. Nolly sospirò. «Be', immagino che se tu avessi voluto prenderlo soltanto a pugni, l'avresti già fatto appena sei arrivato in città.» «Io non farei mai secco nessuno, neppure un verme come Cain, così come non penserei mai di suicidarmi. Ricorda, credo nelle conseguenze eterne.» Rivolta a Nolly, Kathleen esclamò: «Ecco perché ti ho sposato. Per sentire cose come queste». «Intendi dire 'conseguenze eterne'?» «No, 'fare secco'.» Il cameriere si muoveva con una tale leggerezza che, mentre attraversava la sala, i tre martini posati sul vassoio di mogano bordato di sughero sembravano fluttuare di fronte a lui e poi restare sospesi a mezz'aria accanto al loro tavolo mentre i cocktail venivano serviti, prima alla signora, poi all'ospite e infine all'anfitrione. Quando il cameriere si fu allontanato, Tom disse: «Non temo di essere complice di un crimine. Se dovessi sforacchiare Cain per impedirgli di far
del male a qualcuno, non avrei un attimo di esitazione. Ma in nessun altro caso mi comporterei da giudice e da giuria». Dando di gomito a Nolly, Kathleen commentò: «'Sforacchiare', questo è bellissimo». Nolly sollevò il bicchiere. «Alla giustizia, nel bene e nel male.» Kathleen assaggiò il Martini. «Mmm... freddo come il cuore di un sicario e secco come il rumore di uno sparo.» La frase fece inarcare a Tom entrambe le sopracciglia. «Legge troppi romanzi gialli», spiegò Nolly. «E ultimamente sta addirittura parlando di scriverne uno.» «Scommetto che riuscirei anche a venderlo», ribatté lei. «Magari non sarei brava come con i denti, ma sicuramente il mio romanzo sarebbe migliore di certi che ho letto.» «Ho l'impressione che, qualunque cosa tu decida di fare», disse Tom, «sapresti farla bene come curare i denti.» «Non c'è dubbio», concordò Nolly, mostrando il suo splendido sorriso. Cambiando argomento, Kathleen disse: «Tom, credo di sapere perché tu sei diventato un poliziotto. L'orfanotrofio di Sant'Anselmo... l'omicidio di quei bambini». Vanadium annuì. «Dopo quell'episodio, ero diventato peggio di san Tommaso.» «Ci si chiede perché Dio permetta che degli innocenti soffrano», commentò Nolly. «Dubitavo di Dio, certo, ma soprattutto di me stesso. Le mie mani erano sporche del sangue di quei bambini. Toccava a me proteggerli, ma avevo fallito.» «A quel tempo eri troppo giovane perché ti affidassero l'orfanotrofio.» «Avevo ventitré anni. Al Sant'Anselmo, ero il prefetto di una delle camerate. Quella in cui sono avvenuti tutti gli omicidi. Dopo quanto era successo... ho pensato che forse sarei riuscito a proteggere meglio gli innocenti se fossi stato un poliziotto. Per un certo periodo di tempo, la legge mi ha offerto qualcosa di più concreto a cui aggrapparmi di quanto avesse fatto la fede.» «È facile vederti nelle vesti di poliziotto», intervenne Kathleen. «Parole come 'fare secco' e 'sforacchiare' ti escono spontaneamente dalla bocca. Ma bisogna fare uno sforzo per ricordare che sei anche un prete.» «Che ero un prete», la corresse lui. «Potrei esserlo di nuovo. Ventisette anni fa, dopo quegli omicidi, sono stato io a chiedere di essere dispensato
dai voti e sospeso dal mio incarico.» «Ma che cosa ti aveva fatto scegliere quel tipo di vita? Quando sei entrato in seminario, dovevi essere davvero molto giovane.» «Avevo quattordici anni. Se un ragazzo così giovane dichiara di sentire la vocazione, di solito lo fa su pressione della famiglia, ma nel mio caso ho dovuto discutere a lungo con i miei genitori per riuscire a convincerli.» Si voltò a fissare fuori della finestra, verso quella congregazione di fantasmi di nebbia, moltitudini bianche che oscuravano completamente la baia, come se tutti i marinai dispersi in mare si fossero riuniti lì e stessero premendo contro la finestra, forme prive di occhi che, tuttavia, vedevano ogni cosa. «Anche quand'ero bambino», continuò Tom, «il mondo mi sembrava molto diverso da come appariva agli altri. Non voglio dire che io fossi più intelligente. Forse il mio quoziente intellettivo era leggermente superiore alla media, ma nulla di cui potersi vantare. Sono stato rimandato due volte in geografia e una volta in storia. Nessuno poteva confondermi con Einstein. È solo che io percepivo... una complessità e un mistero di cui gli altri non si rendevano conto, una bellezza stratificata, uno strato sull'altro, come in una torta millefoglie, in cui ogni nuovo strato era ancora più strabiliante del precedente. Non riesco a spiegarvelo senza apparire un pazzo pieno di sacro furore, ma anche da bambino quello che desideravo era servire il Dio che aveva creato tutte quelle cose meravigliose, indipendentemente da quanto lui potesse apparirci strano e forse al di là di ogni nostra possibilità di comprensione.» Kathleen non aveva mai sentito descrivere una vocazione religiosa con parole così insolite ed era davvero sorpresa di sentire un prete che definiva Dio «strano». Voltandosi nuovamente verso i suoi amici, Tom incrociò lo sguardo di Kathleen. Gli occhi grigio fumo di Vanadium sembravano ricoperti da un velo di ghiaccio, come se i fantasmi di nebbia avessero attraversato la finestra e si fossero impossessati di lui. Ma poi una corrente d'aria fece guizzare la fiammella della candela posta al centro del tavolo; la luce sciolse il gelo dei suoi occhi e Kathleen vide nuovamente il calore e la meravigliosa tristezza che prima l'aveva colpita. «Io sono un tipo meno filosofico di Kathleen», ammise Nolly, «quindi, quello che mi sono domandato è, dove hai imparato quei trucchetti con la monetina. Cioè, sei un prete, un poliziotto e anche un illusionista dilettante?»
«Be', c'era questo prestigiatore...» Tom indicò il bicchiere di martini quasi vuoto posato sul tavolo proprio davanti a lui. Sul sottile bordo del bicchiere, in un equilibrio impossibile, precario... la moneta. «...che si faceva chiamare Re Obadiah, Faraone del Fantastico. Viaggiava per tutto il paese esibendosi nei locali notturni...» Tom afferrò il quarto di dollaro, lo strinse nel pugno destro, poi, improvvisamente, spalancò la mano, che adesso era vuota. «...ovunque andasse, tra uno spettacolo e l'altro, si esibiva gratuitamente nelle case di cura, nelle scuole per sordomuti...» Kathleen e Nolly spostarono l'attenzione sulla mano sinistra di Tom, stretta a pugno, anche se non era possibile che la moneta fosse passata da una mano all'altra. «...e quando il buon Faraone arrivava a San Francisco, diverse volte all'anno, si fermava sempre al Sant'Anselmo per intrattenere i ragazzi...» Invece di aprire il pugno sinistro, Tom sollevò il suo martini con la mano destra e, sulla tovaglia, sotto il bicchiere, c'era la moneta. «...così l'ho convinto a insegnarmi alcuni trucchetti.» Alla fine, spalancò la mano sinistra, a palmo in su, mostrando due monete da dieci cent e una da cinque. «Trucchetti un corno», esclamò Nolly. Tom sorrise. «Mi sono esercitato molto in tutti questi anni.» Per un attimo chiuse la mano, stringendo le tre monetine, poi con uno scatto del polso le lanciò verso Nolly, che trasalì. Comunque, o le monete non erano mai state lanciate oppure erano svanite a mezz'aria... fatto sta che la mano era vuota. Kathleen non si era accorta che Tom aveva rimesso il bicchiere al suo posto, sopra la moneta da un quarto di dollaro. Quando lo sollevò nuovamente per finire il martini, al posto di un'unica moneta, sulla tovaglia brillavano due monetine da dieci cent e una da cinque. Dopo essere rimasta a fissare a lungo le monete, Kathleen commentò: «Penso che nessun autore di romanzi gialli abbia mai scritto una serie di libri su un prete-detective che è anche un illusionista». Sollevando il suo bicchiere di martini, e indicando con un gesto teatrale che non c'erano monete sulla tovaglia, come se questo dimostrasse che anche lui era una specie di stregone, Nolly suggerì: «Un altro giro di questa pozione magica?» Si trovarono tutti d'accordo e l'ordinazione venne fatta quando il came-
riere si avvicinò con gli antipasti: tortini di granchio per Nolly, scampi per Kathleen e calamari per Tom. «Sapete una cosa», disse Tom, quando arrivò il secondo giro di Martini, «per quanto sia difficile da credere, ci sono posti in cui non hanno mai sentito parlare di Martini.» Nolly rabbrividì. «Le terre selvagge dell'Oregon. Non ho alcuna intenzione di andarci fino a quando non le avranno civilizzate.» «Non soltanto nell'Oregon. Anche a San Francisco, in alcuni posti.» «Che Dio ci salvi da ambienti così tristi», esclamò Nolly. Fecero tintinnare i bicchieri in un brindisi. 68 La manovella, che aveva bisogno di olio, girò cigolando e gli alti vetri della finestra all'inglese si aprirono verso l'esterno, sul vicolo di servizio. I contatti dell'allarme mandavano un lieve bagliore sulla traversa superiore della finestra, ma in quel momento il sistema non era in funzione. Il davanzale si trovava a circa un metro e mezzo dal pavimento del bagno. Junior vi si sedette sopra, facendo leva con entrambe le mani. Anche quando la finestra era completamente aperta, i vetri non si appoggiavano completamente al muro esterno e quindi gli bloccavano la vista. Junior dovette sporgersi ulteriormente, fino a quando non si trovò in bilico sul davanzale, prima di vedere in tutta la sua lunghezza l'isolato, al centro del quale si trovava la galleria. Una fitta nebbia distorceva qualsiasi percezione di tempo e luogo. Alle due estremità dell'isolato, una nebbiolina luminosa indicava gli incroci con le strade principali ma il chiarore non riusciva a penetrare nell'angusto vicolo. Alcune luci di sicurezza - semplici lampadine protette da portalampade simili a piattini rovesciati o ingabbiate in filo di ferro - indicavano l'ingresso di servizio di alcuni negozi, ma avvolte com'erano da quella cappa bianca e densa, non rischiaravano il vicolo più di quanto avrebbero fatto delle lampade a gas. La fìtta nebbia non si limitava a oscurare la città, ma soffocava anche i rumori, e il vicolo era sorprendentemente silenzioso. Di sera, molti negozi erano chiusi e, da quel che Junior riusciva a vedere, per tutta la lunghezza dell'isolato non vi erano parcheggiati né furgoni per le consegne né veicoli di altro tipo. Rendendosi conto che qualcuno, con più urgenza che pazienza, ben pre-
sto avrebbe potuto bussare alla porta, Junior si lasciò scivolare all'interno della toilette. Neddy, vestito da lavoro ma anche troppo elegante per il suo funerale, era accasciato contro la parete, la testa china in avanti, il mento sul petto. Le braccia gli scendevano lungo i fianchi e le candide mani erano appoggiate sul pavimento con le dita allargate, come se il pianista stesse cercando di suonare le piastrelle. Per riuscire a spostare Neddy, incastrato tra la tazza e il lavandino, Junior dovette trascinarlo. «Brutta checca, tutto bla-bla-bla, pelle e ossa e faccia di gesso», sibilò, ancora così furioso con Neddy che avrebbe voluto ficcargli la testa nella tazza, anche se era già morto. Ficcargli dentro la testa e spingerlo. Spingerlo dentro la tazza. Far correre l'acqua e spingerlo, schiacciarlo dentro con i piedi. Perché sia utile, la rabbia deve essere incanalata, come spiega Zedd con una prosa insolitamente poetica nel suo libro La bellezza dell'ira: come incanalare la rabbia ed essere un vincente. Ma la situazione imbarazzante in cui si trovava Junior in quel momento sarebbe soltanto peggiorata se fosse stato costretto a telefonare al servizio di pronto intervento idraulico per estrarre un musicista da un cesso. Con quel pensiero, riuscì a farsi una bella risata. Purtroppo, però, la risata suonò stridula e tremante, e lo spaventò a morte. Incanalando la sua meravigliosa rabbia, Junior sollevò il cadavere sul davanzale della finestra e lo spinse nel vicolo a testa in avanti. Dal rumore che fece la nebbia nel riceverlo, sembrò che lo avesse ingoiato. Junior seguì il morto fuori della finestra e nel vicolo, riuscendo in qualche modo a non calpestarlo. Dai muri della stradina non riecheggiò alcuna voce allarmata, nessun grido accusatorio. Junior era solo con il cadavere in quel momento nebbioso della notte metropolitana... ma forse non ancora per molto. Un corpo più pesante forse avrebbe dovuto essere trascinato; ma Neddy era praticamente un grissino e Junior lo sollevò dall'asfalto e se lo caricò sulla spalla, come fanno di solito i pompieri. Lungo i muri vi erano diversi grossi cassonetti, scuri rettangoli quasi impossibili da vedere nella fitta nebbia, come sagome in un sogno, sinistri come bare in un cimitero, ognuno dei quali avrebbe potuto contenere senza problemi il cadavere del musicista. C'era solo un problema: Neddy poteva essere trovato nel cassonetto pri-
ma che questo venisse portato via, invece di finire nella discarica che gli avrebbe fatto da ultima dimora. Se il corpo veniva scoperto lì, doveva almeno trovarsi a una certa distanza dai contenitori usati dalla galleria d'arte. Meno i poliziotti fossero stati in grado di collegare Neddy a quella fabbrica di salsicce che era la Galleria Greenbaum, meno probabilità ci sarebbero state che l'omicidio venisse attribuito a Junior. Chino in avanti come una scimmia, Junior si incamminò lungo il vicolo con il musicista in spalla, dirigendosi verso nord. L'acciottolato originale della stradina era stato ricoperto di asfalto ma, in alcuni punti, il materiale si era spezzato e consumato, rendendo la superficie, già irregolare, ancora più pericolosa per via del velo di umidità lasciato dalla nebbia. Inciampò e scivolò diverse volte, ma utilizzò la sua rabbia per mantenere l'equilibrio ed essere un vincitore, fino a quando non trovò un cassonetto abbastanza lontano. Il contenitore - alto quasi quanto Junior, mezzo scassato, striato di ruggine e ricoperto di vapore condensato - era più grosso di altri allineati nel vicolo e aveva il coperchio che si biforcava. Entrambe le metà del coperchio erano già sollevate. Senza riti né preghiere, ma pieno di sacrosanta rabbia, Junior sollevò il corpo del musicista al di sopra del coperchio del cassonetto. Per un terribile istante, il braccio sinistro di Junior rimase impigliato nella cintura allentata dell'impermeabile del cadavere. Con un sibilo d'ansia attraverso i denti serrati, riuscì a liberarsi e a far cadere il cadavere nel grosso contenitore. Dal rumore soffocato che il corpo fece cadendo, Junior comprese che il fondo del cassonetto era ricoperto da immondizia e che doveva essere pieno solo per metà. Il che aumentava le probabilità che Neddy non venisse scoperto fino a quando un camion della spazzatura non ne avesse gettato il cadavere in una discarica e, anche allora, probabilmente nessuno l'avrebbe visto, tranne qualche topo affamato. Andare avanti, avanti, come un treno senza controllo, lasciandosi alle spalle le suore morte - o quantomeno un musicista morto. Di nuovo alla finestra aperta, nella toilette maschile. Ancora fremente di rabbia. Chiudendo con un gesto brusco i vetri, con le pigre lingue di nebbia che cercavano fino all'ultimo di insinuarsi nello stanzino. Nel caso che qualcuno stesse attendendo nel corridoio, Junior fece scorrere l'acqua, anche se il cibo astringente e il calmante avevano conferito alle sue viscere la resistenza e la fermezza di un eroico cavaliere in battaglia. Quando osò guardarsi nello specchio sopra il lavandino, si aspettava di
vedere un viso disfatto, degli occhi infossati, invece quella terribile esperienza non gli aveva lasciato alcun segno visibile. Si pettinò in fretta i capelli. Era talmente bello che, attraversando nuovamente le sale della galleria d'arte, come sempre le donne lo avrebbero accarezzato con gli sguardi pieni di desiderio. Si controllò gli abiti il più attentamente possibile. Erano meno stropicciati del previsto e non particolarmente macchiati. Si lavò accuratamente le mani. Ingoiò altre pillole, tanto per essere più sicuro. Una capsula gialla, una blu. Una rapida occhiata al pavimento. Il musicista non aveva lasciato nulla dietro di sé, né un bottone staccato e neppure qualche petalo rosso del fiore che portava all'occhiello. Junior aprì la porta e vide che nel corridoio non c'era nessuno. Da entrambe le sale della galleria giungeva ancora il vociare dei partecipanti al ricevimento. Quella folla di ignoranti, totalmente incapace di apprezzare qualsiasi cosa che non fossero tartine e salatini, continuava a blaterare di arte e buttava giù opinioni senza senso con del mediocre champagne. Non riuscendo più a sopportare né quella gente, né la mostra, Junior desiderò quasi di essere nuovamente colpito da un violento attacco di emetismo nervoso. Pur soffrendo terribilmente, si sarebbe tolto la soddisfazione di imbrattare quelle tele così odiosamente belle con il suo vomito puzzolente: la critica più pungente che si potesse immaginare. Mentre si avviava verso l'uscita, Junior vide nel salone principale Celestina White, circondata da adoranti teste di legno, da imbecilli esaltati, da cretini, deficienti, ignoranti, zucche vuote. Lei era sempre bellissima, come disgustosamente bellissimi erano i suoi quadri. Se ci fosse stata un'occasione propizia, Junior avrebbe saputo che cosa farne di lei, l'avrebbe utilizzata molto meglio della sua cosiddetta arte. La strada sulla quale si affacciava la galleria era inondata da un mare di nebbia proprio come il vicolo sul retro dell'edificio. I fari delle auto di passaggio esploravano l'oscurità come i fasci di luce dei sottomarini esplorano il fondo dell'oceano. Aveva dato una mancia al posteggiatore perché gli tenesse la Mercedes parcheggiata lungo il cordolo, in una zona riservata al personale, proprio di fronte a un ristorante, in modo che fosse subito disponibile in qualunque momento ne avesse avuto bisogno. Avrebbe potuto anche lasciare la macchina dov'era e seguire Celestina a piedi, nel caso la ragazza avesse prefe-
rito fare una passeggiata per tornarsene a casa. Dato che aveva deciso di sorvegliare l'ingresso della galleria da dietro il volante della sua Mercedes, mentre si avviava verso l'auto, Junior controllò l'ora. Al polso non aveva nulla. Il suo Rolex non c'era più. Si fermò a pochi passi dalla macchina, trafitto dalla netta sensazione di una disgrazia imminente. Il cinturino d'oro del suo orologio era chiuso da un fermaglio che, una volta sganciato, permetteva all'orologio di scivolare facilmente dalla mano. Junior comprese immediatamente che il fermaglio doveva essersi sganciato quando il braccio gli era rimasto impigliato nella cintura dell'impermeabile di Neddy. Poi il cadavere si era staccato ed era ruzzolato nel cassonetto, portandosi dietro il Rolex di Junior. Sebbene si trattasse di un orologio molto costoso, in quel momento a Junior non importava nulla del suo valore economico. Poteva permettersi di comprare tutti i Rolex che voleva e ricoprirsi il braccio dal polso alla spalla. La possibilità di aver lasciato un'impronta netta sul vetro dell'orologio era decisamente remota. E il cinturino aveva una struttura troppo complessa perché la polizia potesse ricavarne un'impronta utile. Tuttavia, sul retro della cassa vi era incisa una dedica che avrebbe potuto incriminarlo: A Eenie con amore Tammy Bean. Tammy - l'analista finanziaria, nonché mangiatrice di cibo per gatti - con la quale aveva avuto una relazione dal Natale del '65 fino a tutto il febbraio del '66, gli aveva regalato il Rolex in cambio delle commissioni e del sesso perfetto che lui le aveva dato. Junior era sbalordito dal fatto che quella puttana fosse tornata nella sua vita quasi due anni dopo, e solo per rovinarlo. Zedd insegna che il presente è soltanto un attimo tra il passato e il futuro, il che in realtà ci lascia solo due possibilità di scelta... vivere o nel passato o nel futuro; il passato, essendo ormai morto e sepolto, non ha alcuna importanza, a meno che noi non insistiamo a dargliene, rifiutandoci di vivere interamente nel futuro. Junior si sforzava di vivere nel futuro e riteneva di esserci sempre riuscito, ma evidentemente non aveva ancora imparato ad applicare interamente le teorie di Zedd, perché il passato continuava a inseguirlo. Desiderò con tutto il cuore di non aver semplicemente rotto con Tammy Bean, ma di averla strangolata, di averla strozzata e di averne portato il corpo nell'Oregon, averla spinta da una torre di avvistamento, averla colpita ripetutamente con un candelabro di peltro e averne gettato il corpo in fondo al lago Quarry,
con il Rolex d'oro conficcato in bocca. Forse non aveva ancora assimilato perfettamente la teoria del vivere nel futuro, ma quanto a rabbia, era davvero fantastico. Forse l'orologio non sarebbe mai stato scoperto insieme al cadavere. Forse sarebbe finito in mezzo alla spazzatura e sarebbe stato trovato solo duemila anni dopo, quando gli archeologi si fossero messi a scavare nella discarica. Ma i forse sono cose da bambini, ci spiega Zedd nel suo manuale Agisci ora, pensa dopo: come imparare a fidarsi dell'istinto. Avrebbe potuto sparare a Tammy Bean dopo aver ucciso Bartholomew, farla fuori prima dell'alba, prima che la polizia la rintracciasse e lei potesse spiegare chi era «Eenie». Oppure poteva tornare nel vicolo, entrare nel cassonetto e recuperare il Rolex. Quasi che la nebbia fosse un gas paralizzante, Junior rimase immobile al centro del marciapiede. Non aveva nessuna voglia di infilarsi in quel cassonetto. Essendo, come sempre, assolutamente onesto con se stesso, ammise che uccidere Tammy non avrebbe risolto il suo problema. Poteva aver parlato del Rolex con amici e colleghi, così come certamente aveva rivelato alle sue migliori amiche i particolari più piccanti delle straordinarie capacità amatorie di Junior. Durante i due mesi in cui lui e la donna-gatto erano usciti insieme, altre persone l'avevano sentita chiamarlo Eenie. Non poteva uccidere Tammy e tutti gli altri suoi amici e colleghi, perlomeno non abbastanza in fretta da impedire alla polizia di arrivare a lui. Nel bagagliaio della macchina aveva una scatola contenente diversi attrezzi per i casi di emergenza, fra cui una torcia. Andò a prenderla, dando nel contempo un'altra mancia al posteggiatore. Di nuovo nel vicolo. Questa volta non attraverso le sale della galleria affollate da stupidi zoticoni. Ma girando intorno all'edificio, di buon passo. Se non fosse riuscito a trovare il Rolex e a tornare in macchina prima che il ricevimento si concludesse, avrebbe gettato al vento la sua migliore opportunità di seguire Celestina e di arrivare a Bartholomew. Distante, lo scampanellio di un tram. Forte e chiaro nonostante la nebbia. A Junior tornò in mente la scena di un vecchio film, qualcosa che Naomi aveva voluto andare a vedere, una storia d'amore ambientata all'epoca della peste: un carretto trainato da un cavallo che avanzava in mezzo alle stradine medievali di Londra o di Parigi, con il guidatore che agitava una cam-
panella e gridava: «Portate fuori i vostri morti, portate fuori i vostri morti!» Se nella moderna San Francisco vi fosse stato un servizio tanto utile, lui non avrebbe avuto bisogno di gettare Neddy Gnathic nel cassonetto. Ciottoli bagnati e asfalto malandato. Presto, presto. Oltre la finestra illuminata della toilette maschile della galleria. Junior temeva di non riuscire a individuare il cassonetto giusto, in mezzo ai tanti allineati nel vicolo. Ma non accese la torcia, pensando che avrebbe ritrovato più facilmente la strada se le condizioni di oscurità e nebbia fossero state esattamente quelle di prima. E in effetti aveva ragione, perché riconobbe immediatamente il grosso contenitore. Dopo essersi infilato la torcia nella cintura, afferrò il coperchio del cassonetto con entrambe le mani. Il metallo era ruvido, freddo e bagnato. Un bravo carpentiere è in grado di maneggiare un martello con un risparmio di movimenti e con una precisione simile a quella di un direttore d'orchestra con la sua bacchetta. Un vigile può dirigere il traffico come fosse un balletto. Tuttavia, fra tutti gli umili lavori che gli uomini e le donne possono trasformare in una poesia visiva applicandovi grazia e agilità fisica, quello di entrare in un cassonetto rappresenta il compito che ha meno probabilità di apparire elegante. Junior si arrampicò, facendo forza sulle braccia e puntando i piedi, poi scavalcò il bordo del cassonetto e precipitò all'interno, cercando di atterrare in piedi. Ma essendosi lanciato con troppo impeto, sbatté la spalla contro la parete opposta del contenitore, cadde sulle ginocchia e finì con la faccia in mezzo all'immondizia. Avendo usato il suo corpo come un battaglio, dal cassonetto si levò una lunga nota che risonò come quella di una campana stonata di una cattedrale, riecheggiando solennemente da un muro all'altro degli edifici del vicolo, avanti e indietro nella notte avvolta dalla nebbia. Junior rimase immobile, in attesa che tornasse il silenzio, in modo da riuscire a sentire se il grande gong avesse fatto accorrere qualcuno nella stradina. La mancanza di odori particolarmente sgradevoli stava a indicare che non era finito in un contenitore pieno di rifiuti organici. In quell'oscurità, tastando intorno a sé, Junior giunse alla conclusione che quasi tutta l'immondizia era racchiusa in sacchi di plastica e che il contenuto di questi era relativamente morbido... probabilmente cartaccia. Tuttavia, il suo fianco destro poggiava contro qualcosa di più duro di fo-
gli di carta infilati in un sacco, qualcosa di ossuto. Mentre quella nota che gli rintronava il cervello svaniva lentamente, permettendogli di pensare con più chiarezza, Junior si accorse che una cosa sgradevole, vagamente tiepida e umida, premeva contro la sua guancia destra. Se la massa ossuta era quella di Neddy, la cosa vagamente tiepida e umida doveva essere la lingua sporgente dell'uomo. Con un sibilo di disgusto, Junior si ritrasse dalla cosa, qualunque essa fosse, prese la torcia dalla cintura e rimase in ascolto di eventuali rumori nel vicolo. Niente voci. Niente passi. Solo il rombo lontano del traffico, così soffocato che somigliava al grugnire e al ringhiare basso e minaccioso di animali intenti a mangiare, di predatori che vagavano nella nebbia. Finalmente accese la torcia e illuminò il corpo di Neddy, silenzioso da morto come non lo era mai stato da vivo: giaceva sulla schiena, la testa voltata verso destra, la lingua gonfia che penzolava oscenamente. Con una mano, Junior si strofinò vigorosamente la guancia leccata dal cadavere. Poi si pulì la mano, strofinandola sull'impermeabile del musicista. Fu ben lieto di aver preso una dose doppia di antiemetico. Nonostante questa provocazione, sentiva lo stomaco solido e sicuro come il caveau di una banca. Il viso di Neddy non era più pallido come prima. La pelle appariva scurita da una sfumatura di grigio, forse di azzurro. Il Rolex. Dato che la maggior parte della spazzatura contenuta nell'enorme cassonetto era racchiusa in sacchi di plastica, trovare l'orologio sarebbe stato più facile di quanto Junior si fosse aspettato. Okay. Bene. Doveva continuare ad agire, mettersi a cercare, trovare l'orologio e uscire di lì, ma non riusciva a smettere di fissare il musicista. C'era qualcosa in quel cadavere che lo rendeva nervoso... a parte il fatto che era morto e repellente e che, se qualcuno avesse scoperto Junior in quel momento, avrebbe rappresentato un biglietto di sola andata per la camera a gas. Quella non era la prima volta che Junior vedeva un corpo privo di vita. Negli ultimi anni si era abituato alla vista dei cadaveri quanto un impresario di pompe funebri. Per lui erano come una teglia per un pizzaiolo. Lo lasciavano indifferente. Tuttavia, sentiva il cuore battere con forza contro la gabbia toracica e la paura sembrava trafiggergli la nuca.
La sua attenzione, macabra come un avvoltoio che volteggia sulla preda, si posò sulla mano destra del pianista. La sinistra era aperta, a palmo in giù. Ma la destra era rivolta verso l'alto e stretta a pugno. Junior allungò un braccio verso la mano chiusa del cadavere, ma non riuscì a trovare il coraggio di toccarla. Temeva che, se avesse forzato le dita, ormai rigide, ad aprirsi, avrebbe scoperto sul palmo una moneta da un quarto di dollaro. Ridicolo. Impossibile. Ma se fosse successo? Allora non guardare. Concentrati. Concentrati sul Rolex. Si concentrò invece sulla mano illuminata dal fascio di luce della torcia: quattro lunghe, sottili dita bianche erano ripiegate sul palmo; il pollice era invece teso verso l'esterno, come se Neddy stesse facendo l'autostop, sperando di ottenere un passaggio per uscire dal cassonetto, dalla morte, e tornare al suo pianoforte nel pianobar dell'albergo di Nob Hill. Concentrazione. Non doveva permettere alla paura di prendere il posto della rabbia. Ricorda la bellezza dell'ira. Incanala la tua collera e sii un vincente. Agisci ora, pensa dopo. Con un gesto improvviso e disperato, Junior afferrò la mano chiusa del morto, sollevò le dita... e non trovò il quarto di dollaro. Neppure due monete da dieci e una da cinque centesimi. O cinque monete da cinque. Niente. Zero. Stava per mettersi a ridere di se stesso, ma gli tornò alla mente quella strana risata che gli era uscita dalla gola quando, nella toilette della galleria, aveva pensato di infilare Neddy Gnathic nella tazza. Strinse la lingua tra i denti con tanta forza da farla quasi sanguinare, sperando di impedire che dalla gola gli uscisse di nuovo quel suono stridulo e privo di allegria. Il Rolex. Per prima cosa, cercò nelle immediate vicinanze del cadavere, immaginando che l'orologio potesse essere ancora impigliato nella cintura dell'impermeabile o in una delle maniche. Non trovò nulla. Ruotò Neddy su un fianco, ma sotto il corpo non vi era alcun orologio, quindi lasciò che il cadavere ricadesse nuovamente sulla schiena. Adesso c'era qualcosa di ben peggiore di una possibile moneta stretta nella mano chiusa: gli occhi di Neddy sembravano seguire Junior mentre frugava tra i sacchi dell'immondizia.
Sapeva che l'unico movimento in quegli occhi fissi e spenti era dato dal riflesso della luce della torcia che lui spostava continuamente per frugare tra la spazzatura. Sapeva di comportarsi in modo irrazionale, tuttavia esitava a dare la schiena al cadavere. Più volte, nel bel mezzo della sua ricerca, aveva sollevato di scatto la testa per guardare Neddy, certo di aver visto con la coda dell'occhio lo sguardo spento dell'uomo che lo seguiva. Poi gli sembrò di udire dei passi che si avvicinavano nel vicolo. Con una mano aveva spento la luce della torcia e si era accovacciato, restando immobile nell'oscurità assoluta, appoggiandosi contro una parete del cassonetto per mantenere l'equilibrio perché sotto i piedi aveva strati di sacchi di plastica scivolosi e umidi di nebbia. Se c'era stato davvero un rumore di passi, questo era cessato nel momento stesso in cui Junior si era bloccato, in ascolto. Nonostante il martellare del suo cuore, avrebbe senz'altro udito un rumore. Nel vicolo, la soffice coltre di nebbia sembrava più che mai soffocare qualsiasi suono. Ma più a lungo restava accucciato, con la testa leggermente piegata di lato, respirando silenziosamente attraverso la bocca aperta, più Junior si convinceva di aver sentito qualcuno avvicinarsi. Anzi, alla fine ebbe la certezza che qualcuno si fosse fermato fuori del cassonetto, con la testa leggermente piegata di lato, respirando silenziosamente attraverso la bocca aperta, in ascolto, esattamente come lui. E se... No. Non si sarebbe fatto prendere dal panico degli e-se. Sì, ma e se... I forse erano roba da bambini, ma Caesar Zedd non gli aveva fornito alcun saggio consiglio su come difendersi dagli e-se con la stessa facilità con la quale aveva allontanato i forse. E se quello spirito ostinato, egoista, avido, perverso, psicotico e malvagio di Thomas Vanadium, che già aveva inseguito Junior in un altro vicolo e in pieno giorno, lo avesse seguito anche in questo, in piena notte, in un orario che più si confaceva ai fantasmi, e se fosse stato proprio il suo spirito che in quel momento si era fermato davanti al cassonetto, e se avesse abbassato il coperchio e l'avesse bloccato con una sbarra di ferro, e se Junior fosse rimasto intrappolato lì dentro con il cadavere di Neddy Gnathic, e se la torcia non si fosse più accesa, e se, in quel buio pesto, avesse sentito Neddy domandare: «Qualcuno ha una richiesta particolare?» 69
Rosso di sera, bel tempo si spera. In quel crepuscolo di gennaio, mentre Maria Elena Gonzalez, lasciata Newport Beach, si dirigeva verso sud alla guida della sua auto, tutti i marinai dovevano aver tirato fuori le bottiglie di rhum per festeggiare il cielo rosso come un punch di frutta: ciliegie mature a ovest, arance sanguigne proprio sopra di lei, violacei grappoli d'uva a est. La vista di quel cielo, che probabilmente aveva fatto nascere nei marinai il desiderio di festeggiare, era negata a Barty, seduto nel sedile posteriore dell'auto accanto ad Agnes. Né poteva vedere il cielo infuocato che ammirava il proprio viso dipinto nello specchio dell'oceano, e neppure come quel rossore scintillasse sulle onde, o come il velo della sera restituisse lentamente al cielo la sua modestia. Agnes prese in considerazione l'idea di descrivere il tramonto al bambino, ma la sua titubanza si trasformò in riluttanza e, quando ormai erano già spuntate le stelle, lei non aveva detto neppure una parola sul meraviglioso finale di quel giorno. Prima di tutto, temeva che la sua descrizione non sarebbe stata all'altezza della realtà e che, con le sue parole inadeguate, avrebbe offuscato i preziosi ricordi di tutti i tramonti che Barty aveva visto. Ma soprattutto, non aveva voluto descrivere quello spettacolo perché temeva che, nel farlo, avrebbe ricordato al bambino tutto ciò che aveva perso. Gli ultimi dieci giorni erano stati i più difficili della sua vita, addirittura peggiori di quelli che erano seguiti alla morte di Joey. Allora, nonostante avesse perso contemporaneamente un marito, un tenero amante e il suo migliore amico, aveva potuto contare sulla saldezza della sua fede, e aveva avuto il bambino e tutte le promesse che il futuro del neonato portava con sé. Certo, adesso aveva ancora suo figlio, ma le promesse sul suo futuro erano andate in qualche modo deluse, e poteva ancora contare sulla sua fede, ma ora non era più la stessa e le offriva meno conforto di prima. Barty era stato trattenuto più a lungo del previsto presso l'ospedale Hoag Presbyterian a causa di un'infezione e, successivamente, aveva dovuto trascorrere tre giorni in un centro di riabilitazione di Newport. La riabilitazione consisteva soprattutto nell'insegnargli a orientarsi nel suo nuovo mondo fatto di oscurità, dato che non esistevano né esercizi, né terapie che potessero restituirgli la vista. Normalmente, a tre anni si è troppo piccoli per imparare a usare un bastone da cieco, ma Barty era un bambino decisamente insolito. All'inizio,
dato che non esisteva alcun bastone adatto a lui, Barty aveva iniziato usando un metro rigido, accorciato di una trentina di centimetri. Ma, all'ultimo giorno di permanenza nel centro di riabilitazione, erano riusciti a fargli avere un bastone su misura, bianco con una punta nera; nel vederlo, pensando a ciò che significava, Agnes sentì gli occhi colmarsi di lacrime, proprio quando ormai era convinta che il suo cuore sì fosse indurito abbastanza per affrontare tutto ciò che l'aspettava. Non era previsto che si insegnasse l'alfabeto Braille a un bambino di tre anni, ma nel suo caso fecero un'eccezione. Agnes fissò una serie di lezioni per Barty, anche se era quasi certa che avrebbe appreso il metodo e avrebbe imparato a usarlo in non più di una o due sessioni. Gli occhi artificiali erano già stati ordinati. Presto sarebbe dovuto tornare a Newport Beach per una terza prova, prima dell'impianto. Non erano di vetro, come si è soliti credere, ma di plastica, sottili involucri che si incastravano perfettamente dietro le palpebre, nelle orbite lasciate vuote dall'operazione. Sulla superficie interna della cornea artificiale trasparente, avrebbero dipinto a mano un'iride e il movimento della protesi sarebbe stato ottenuto collegando i relativi muscoli alla congiuntiva. Per quanto Agnes fosse rimasta impressionata dal campione di occhi che le avevano mostrato, sapeva con certezza che nessuno avrebbe potuto ricreare la straordinaria bellezza degli occhi color zaffiro e smeraldo di Barty. Anche se l'artista avesse eseguito un lavoro eccellente, quelle iridi sarebbero pur sempre state dipinte da una mano umana, non da quella di Dio. Con le orbite vuote protette dalle palpebre chiuse, da due cerotti imbottiti e da un paio di occhiali da sole, e il bastone bianco appoggiato sul sedile accanto a lui, mentre tornava a casa, Barty sembrava pronto per interpretare un personaggio di una triste storia dickensiana. Il giorno prima, Jacob e Edom avevano fatto ritorno a Bright Beach per preparare la casa all'arrivo di Barty. Vedendo arrivare l'auto, si precipitarono giù per i gradini della veranda e attraversarono in fretta il prato, mentre Maria imboccava il vialetto d'accesso e parcheggiava l'auto vicino al garage. Jacob si affrettò a prendere il bagaglio e Edom annunciò che lui avrebbe trasportato in braccio Barty. Ma il bambino insisté per raggiungere la casa con le sue gambe. «Ma, Barty», si preoccupò Edom, «c'è un buio pesto.» «Esatto», esclamò Barty. Quando a quell'osservazione seguì unicamente
un silenzio mortificato, il bambino soggiunse: «Accipicchia, pensavo di essere stato divertente». Con la madre, gli zii e Maria che lo seguivano a due passi di distanza, Barty avanzò lungo il vialetto, senza aiutarsi con il bastone, tenendo il piede destro appoggiato sul cemento e quello sinistro sull'erba, fino a quando giunse a una irregolarità nel terreno che evidentemente doveva aver cercato. Si fermò, con il corpo rivolto verso nord, rimase un attimo a pensare, poi puntò verso ovest: «La quercia è laggiù». «È vero», confermò Agnes. Sapendo che il grande albero si trovava a novanta gradi, sulla sua sinistra, fu in grado di localizzare i gradini della veranda sul retro della casa, che si trovavano a quarantacinque gradi. Indicò con il bastone, che fino a quel momento non aveva usato: «La veranda?» «Perfetto», lo incoraggiò Agnes. Senza esitazione, ma senza neppure mettersi a correre, il bambino cominciò ad attraversare il prato in direzione dei gradini della veranda. Riusciva a mantenere una linea molto più dritta di quanto avrebbe fatto Agnes camminando a occhi chiusi. Accanto a lei, Jacob domandò: «Che cosa dobbiamo fare?» «Lasciarlo in pace», rispose Agnes. «Lasciargli semplicemente essere Barty.» Sempre avanti, passando sotto i rami neri dell'imponente albero, ricevendo un continuo mormorio di incoraggiamento dalle foglie agitate dal vento, Barty era Barty, determinato e coraggioso. Quando ritenne di essere ormai vicino ai gradini, tastò il terreno con il bastone. Due passi più avanti, la punta andò a colpire il primo gradino. Cercò il corrimano. Solo per un attimo afferrò l'aria. Poi lo trovò. Salì verso la veranda. La porta della cucina era aperta e la stanza era completamente illuminata, ma Barty la mancò di un mezzo metro. Avanzando a tentoni lungo il muro posteriore della casa, trovò lo stipite della porta e il vano, poi cercò la soglia con il bastone ed entrò. Voltandosi verso i suoi quattro accompagnatori, tutti chini su di lui e con il collo rigido per la tensione, Barty domandò: «Cosa c'è per cena?» Jacob aveva trascorso quasi due giorni interi a preparare le torte, le crostate e i biscotti preferiti di Barty, nonché la cena per quella sera. Le figlie di Maria erano state affidate alla zia e quindi lei poté fermarsi con loro. Edom versò del vino per tutti, tranne che per Barty, al quale, in qualità di
ospite d'onore, era riservato il chinotto e, anche se non poteva essere certo considerata una festa, Agnes si sentì sollevare lo spirito da un senso di normalità, di speranza, di famiglia. Alla fine, terminata la cena, rassettata la cucina, quando Maria e gli zii se ne furono andati, Agnes e Barty affrontarono insieme le scale. Lei lo seguiva tenendo il bastone, che il bambino aveva deciso di non usare in casa, pronta ad afferrarlo se fosse inciampato. Appoggiandosi al corrimano, salì lentamente i primi tre gradini. Fermandosi ogni volta, faceva scivolare il piede avanti e indietro sulla passatoia per stabilire quale fosse la profondità del gradino rispetto al suo piede. Con la punta della scarpa destra tastò l'alzata del gradino per decidere di quanto doveva sollevare il piede. Barty affrontava l'operazione di salire le scale come fosse stato un problema matematico, calcolando il movimento esatto delle gambe e la collocazione dei piedi necessari a superare l'ostacolo. Salì i tre gradini successivi meno lentamente di quanto avesse fatto con i primi tre e in seguito avanzò con una sicurezza sempre maggiore, muovendo le gambe con la precisione di una macchina. Agnes riusciva quasi a visualizzare il modello geometrico tridimensionale che il suo piccolo genio aveva creato nella propria mente e al quale ora si affidava per raggiungere il piano superiore senza particolari difficoltà. L'orgoglio, la meraviglia e la tristezza sembravano strapparle il cuore in direzioni opposte. Riflettendo sulla capacità di suo figlio di adattarsi al buio con grande destrezza, diligenza e senza lamentarsi, si pentì di non avergli descritto lo straordinario tramonto che li aveva accompagnati durante il viaggio di ritorno a casa. Anche se le sue parole non fossero state adeguate allo spettacolo, Barty sarebbe riuscito a elaborarle, formando un'immagine nella sua mente; con le sue capacità creative, avrebbe ricreato nella sua fantasia uno scenario altrettanto splendido quanto quello che aveva perso insieme con la vista. Agnes sperava che il bambino volesse trascorrere una o due notti in camera con lei, fino a quando non si fosse orientato più facilmente in casa. Ma Barty disse che desiderava dormire nel suo lettino. Lei temeva che, se fosse dovuto andare in bagno nel cuore della notte, mezzo addormentato com'era, avrebbe potuto prendere la strada sbagliata, arrivare alle scale e precipitare. Per tre volte, provarono il tragitto dall'uscio della sua stanzetta fino al bagno che si affacciava sul corridoio. Agnes
avrebbe voluto ripercorrere quella strada un centinaio di volte, anche se non sarebbe servito a tranquillizzarla, ma Barty la rassicurò: «Okay, adesso l'ho imparata». Durante il periodo che Barty aveva trascorso in ospedale, le loro letture erano passate dai romanzi per ragazzi di Robert Heinlein a libri di fantascienza dello stesso autore per un pubblico più adulto. Ora, dopo aver indossato il pigiama ed essersi messo a letto, con gli occhiali da sole posati sul comodino, ma con i cerotti imbottiti ancora sugli occhi, Barty rimase ad ascoltare con aria rapita l'inizio di Stella doppia. Dato che non era più in grado di giudicare dagli occhi quanto il bambino fosse assonnato, Agnes gli chiese di dirle quando doveva smettere di leggere. Su sua richiesta, chiuse il libro dopo quarantasette pagine, alla fine del secondo capitolo. Chinandosi sul bambino, gli diede il bacio della buonanotte. «Mamma, se ti chiedo una cosa, la farai?» «Certo, tesoro. Non lo faccio sempre?» Bartholomew spinse indietro le coperte e si mise seduto nel letto, con la schiena appoggiata al cuscino e alla testiera. «Forse per te sarà difficile farlo, ma è davvero molto importante.» Sedendosi sul bordo del letto e prendendogli la mano, Agnes rimase a fissare il delizioso arco della sua piccola bocca, mentre prima lo avrebbe guardato dritto negli occhi. «Dimmi.» «Non essere triste. Okay?» Durante tutto quel periodo così difficile, Agnes era sempre stata convinta di aver saputo nascondere al figlio quanto fosse profondo il suo dolore. Ma, come già era avvenuto tante volte in precedenza, il bambino si era dimostrato più sensibile e maturo di quanto lei avesse immaginato. Ora capì di non essere riuscita nel suo intento e questo le bruciava come una ferita. «Tu sei la Signora Delle Torte», le fece notare Barty. «Lo ero un tempo.» «Lo sarai ancora. E la Signora delle Torte... non è mai triste.» «A volte sì, anche lei.» «Tu riesci a fare in modo che la gente si senta sempre contenta, come Babbo Natale.» Agnes gli strinse leggermente la mano, ma non riuscì a parlare. «È lì, anche quando leggi per me, come in questo momento. Quella tristezza, voglio dire. Cambia la storia, non è più così bella, perché non posso far finta di non sentire quanto sei triste.»
Facendo uno sforzo, Agnes riuscì a dire: «Mi dispiace, tesoro», ma la sua voce era talmente stravolta dal dolore che le sembrò quella di una sconosciuta. Dopo un attimo di silenzio, Barty domandò: «Mamma, tu mi credi sempre, vero?» «Sempre», confermò lei, perché non gli aveva mai sentito dire una bugia. «Mi stai guardando?» «Sì», gli assicurò, anche se il suo sguardo era sceso dalla bocca del bambino alla mano, tanto piccola, che lei stringeva tra le sue. «Mamma, ti sembro triste?» Per abitudine, Agnes spostò l'attenzione sugli occhi di Barty, perché anche se le persone dotate di una mente scientifica insistono nell'affermare che gli occhi in sé sono incapaci di esprimere qualcosa, Agnes sapeva quello che ogni poeta sa: per vedere che cosa c'è nascosto nel cuore, prima devi guardare dove gli scienziati si rifiutano di guardare. Ma i bianchi cerotti imbottiti erano come un muro e Agnes comprese che ora non avrebbe più potuto leggere sentimenti e pensieri negli occhi del figlio. Si trattava di una perdita minore, fino a quel momento rimasta in ombra a causa di quella, ben più grave, subita da Barty con l'operazione. Non potendolo più guardare negli occhi, Agnes avrebbe dovuto osservare e interpretare le sfumature del linguaggio del corpo di Barty - anch'esso modificato dalla cecità - e quelle della sua voce, perché i bulbi oculari di plastica dipinta non gli avrebbero mai più rivelato la sua anima. «Ti sembro triste?» ripeté Barty. Nonostante il paralume di seta, la luce dell'abat-jour era troppo forte e le dava fastidio, quindi la spense, dicendo: «Fatti in là». Il bambino le fece spazio nel letto. Liberandosi in fretta delle scarpe, Agnes si sedette accanto a lui, con la schiena appoggiata alla testiera, continuando a tenergli la mano. Anche se l'oscurità che la circondava non era profonda come quella di Barty, lei scoprì che era maggiormente in grado di controllare le emozioni se non riusciva a vederlo. «Io penso che tu debba essere triste, piccolino. Riesci a nasconderlo bene, ma devi esserlo.» «Invece non lo sono.» «Cavolate, come si suol dire.» «La gente di solito dice un'altra parola», replicò il bambino con una risatina, perché il suo amore per la lettura gli aveva fatto conoscere parole che,
d'accordo con sua madre, aveva deciso di non usare. «Forse cavolate non è quello che dice la gente, ma è la parola più brutta che usiamo noi. Anzi, in questa casa, preferiamo dire sciocchezze.» «Sciocchezze non è una parola molto efficace.» «Si dà troppa importanza all'efficacia.» «Davvero, mamma, non sono triste. Certo, non mi piace questa storia di essere cieco. È... brutta.» La sua vocina, musicale come quella della maggior parte dei bambini, commovente nella sua innocenza, tesseva nel buio un sottile filo di melodia e sembrava troppo dolce per essere adatta a parlare di argomenti così angoscianti. «È davvero brutta. Ma essere triste non mi serve a niente. Non mi farà vedere di nuovo.» «Hai ragione», concordò lei. «Oltretutto sono cieco qui, ma non lo sono in tutti i posti dove sono.» Di nuovo quella storia. Enigmatico come sempre su quell'argomento, soggiunse: «Probabilmente, non sono cieco in molti posti dove sono. Certo, preferirei essere me in uno degli altri luoghi, dove i miei occhi ci vedono, ma questo è il me che sono. E sai una cosa?» «Che cosa?» «C'è un motivo per cui sono cieco qui, ma non in tutti gli altri posti dove sono.» «Quale motivo?» «Ci dev'essere qualcosa di importante che devo fare qui e che non ho bisogno di fare in tutti gli altri posti dove sono, qualcosa che farò meglio se sono cieco.» «Per esempio?» «Non lo so.» Per un momento rimase in silenzio. «È questo il bello.» Agnes ricambiò il silenzio con altro silenzio. Poi: «Piccolino, sono ancora molto confusa su questa storia». «Lo so, mamma. Un giorno la capirò meglio e te la spiegherò.» «Non vedo l'ora. Credo.» «E questa non è una sciocchezza.» «Non ho mai pensato che lo fosse. E sai una cosa?» «Cosa?» «Ti credo.» «Sul fatto di essere triste?» domandò Barty. «Sì. È vero che non sei triste e questo... per me è davvero strabiliante.» «Non che mi piaccia», ammise lui. «Cercare di imparare a fare le cose al
buio... mi fa incavolare, come si suol dire.» «Non è quello che dicono gli altri», lo prese in giro lei. «Ma è quello che diciamo noi.» «Per la verità, preferirei che usassimo il termine inquietare.» Barty emise una specie di gemito divertito. «Questo proprio no, mamma. Se devo essere cieco, penso che almeno dovresti lasciarmi dire incavolare.» «Probabilmente hai ragione», ammise lei. «Mi incavolo, e alcune cose mi mancano terribilmente. Ma non sono triste. E anche tu non devi essere triste, perché rovina tutto.» «Prometto di tentare. E sai una cosa?» «Cosa?» «Forse non dovrò sforzarmi come credo, perché tu rendi tutto molto facile, Barty.» Per più di due settimane, il cuore di Agnes aveva risonato del fragore di sconvolgenti emozioni, ma ora su di esso era sceso una specie di silenzio, una pace che, se fosse durata, forse un giorno le avrebbe permesso di provare ancora una certa allegria. «Posso toccarti il viso?» domandò Barty. «Il viso della tua vecchia mamma?» «Tu non sei vecchia.» «Hai letto qualcosa sulle piramidi. Io c'ero anche prima.» «Sciocchezze.» Al buio, con gesto sicuro, Barty trovò il viso di Agnes con entrambe le mani. Le accarezzò la fronte. Con i polpastrelli, seguì la linea dei suoi occhi. Il naso, le labbra. Le guance. «Qui c'erano delle lacrime», disse. «C'erano», ammise lei. «Ma non adesso. Si sono asciugate. Ti sento bella come sei, mamma.» Agnes prese le piccole mani tra le sue e le baciò. «Saprò sempre com'è il tuo viso», promise Barty. «Anche se dovrai andare via e starai lontana cento anni, mi ricorderò sempre del tuo aspetto, come ti sentivo.» «Non me ne andrò da nessuna parte», promise lei. Si era accorta che la voce del bambino era sempre più impastata di sonno. «Ma adesso per te è arrivato il momento di partire per il mondo dei sogni.» Agnes scese dal letto, accese l'abat-jour e rimboccò nuovamente le coperte di Barty. «Ricordati di dire le preghiere.»
«Lo sto facendo», mormorò lui, assonnato. Agnes si infilò le scarpe e rimase per un momento a osservare le labbra del bambino che si muovevano mentre ringraziava Dio per i suoi doni e chiedeva che questi regali fossero concessi anche a tutte le altre persone che ne avevano bisogno. Agnes cercò l'interruttore e spense di nuovo la lampada. «Buonanotte, piccolo principe.» «Buonanotte regina madre.» Si avviò verso la porta, si fermò e si voltò verso di lui. «Bambino mio?» «Sì?» «Ti ho mai detto che cosa significa il tuo nome?» «Il mio nome... Bartholomew?» domandò lui già mezzo addormentato. «No. Lampion. Tra gli antenati francesi di tuo padre doveva esserci qualcuno che costruiva lampade. Lampion significa lanterna, una piccola lampada a petrolio con un tubo di vetro colorato. Fra le altre cose, a quei tempi le usavano sulle carrozze.» Sorridendo al buio, Agnes rimase ad ascoltare il respiro ritmico del bambino addormentato. Poi mormorò: «Tu sei la mia piccola lanterna, Barty. Mi illumini la strada». Quella notte dormì più profondamente di quanto avesse tatto da molto tempo, come non si era mai aspettata di poter fare di nuovo, e il suo riposo non fu turbato da sogni di alcun tipo, né di bambini che soffrivano, di auto che si ribaltavano su una strada bagnata dalla pioggia, e neppure di migliaia di foglie morte spazzate dal vento che sbatacchiavano e sibilavano lungo una strada deserta, con ogni foglia che era, in realtà, un fante di picche. 70 Un giorno straordinario per Celestina, una notte di eccezionale importanza e una nuova alba nel suo futuro: iniziava la vita che aveva sognato fin da ragazzina. Un po' alla volta, uscendo alla spicciolata, l'allegra folla di visitatori se ne andò, ma per Celestina rimase una scia di eccitazione nell'ambiente di solito così ovattato della galleria. Sui tavoli, nei vassoi, erano rimasti soltanto centrini di carta macchiati, briciole e bicchieri di plastica da champagne completamente vuoti.
Lei si era sentita troppo nervosa per riuscire a mangiare qualcosa. Per tutta la sera, aveva tenuto in mano sempre lo stesso bicchiere pieno di champagne, stringendolo come se fosse una boa d'ormeggio grazie alla quale non sarebbe stata spazzata via dalla tempesta. Ora la sua boa era Wally Lipscomb - ostetrico, pediatra, padrone di casa e migliore amico - che era arrivato a metà del ricevimento. Mentre ascoltava il resoconto sulle vendite di Helen Greenbaum, Celestina stringeva la mano di Wally con tanta forza che, se fosse stato un flûte di plastica, si sarebbe frantumato. Helen le stava comunicando che, ancor prima che il ricevimento si fosse concluso, era già stata venduta più della metà dei quadri, un vero record per la galleria. Considerando che la mostra sarebbe durata due settimane, era certa che sarebbero riusciti a vendere tutto, o quantomeno ci sarebbero andati molto vicino. «Adesso, di tanto in tanto scriveranno degli articoli su di te», la avvertì Helen. «Preparati a ricevere qualche critica un po' acida, qualcuno sarà stizzito del tuo ottimismo.» «Mio padre mi ha già messa in guardia», la rassicurò Celestina. «Lui dice che l'arte dura nel tempo, ma che le critiche sono come insetti ronzanti in una giornata estiva.» La sua vita era così felice che lei avrebbe potuto affrontare un'orda di locuste, figuriamoci qualche zanzara. Così come gli era stato chiesto, il tassista lasciò Thomas Vanadium a un isolato di distanza dalla sua nuova e temporanea abitazione, poco prima delle dieci di sera. Come una mummia, la nebbia avvolgeva bianche fasce di mistero anche intorno agli oggetti più normali e ammantava i passanti di anonimato, ma Vanadium preferiva entrare nell'edificio con la massima discrezione. Qualunque fosse stata la durata della sua permanenza in quell'appartamento, aveva deciso che non sarebbe mai entrato o uscito dalla porta principale e neppure dal garage sotterraneo - tranne forse l'ultimo giorno. Si inoltrò in un vicolo che portava all'entrata di servizio del palazzo, per la quale possedeva una chiave che non era stata data a nessun altro inquilino. Aprì la porta d'acciaio ed entrò in un piccolo atrio, scarsamente illuminato, dalle pareti grigie e dal pavimento di linoleum blu screziato. Alla sua sinistra, vi era una porta che conduceva alla scala di servizio e che si apriva sempre con la stessa chiave in suo possesso. Alla sua destra,
un ascensore di servizio al quale si accedeva con un'altra chiave. Salì fino al terzo dei cinque piani con l'ascensore che gli altri inquilini potevano usare solo quando traslocavano o quando dovevano trasportare merce ingombrante. L'altro ascensore, quello principale, era troppo esposto al pubblico per le sue esigenze. L'appartamento al terzo piano, proprio sopra quello di Enoch Cain, era stato affittato da Simon Magusson, attraverso la sua associazione, appena si era reso disponibile, ovvero nel marzo del 1966, ventidue mesi prima. Una volta che l'operazione si fosse conclusa e il diabolico signor Cain avesse avuto ciò che si meritava, probabilmente Simon avrebbe speso il venti o il venticinque per cento della parcella ricevuta per la causa di indennizzo per la morte di Naomi Cain. L'avvocato dava un considerevole valore alla sua dignità e alla sua reputazione. Anche se Simon l'avrebbe negato, avrebbe perfino scherzato dicendo che, per un avvocato, la coscienza rappresentava solo un peso, in realtà lui possedeva una specie di bussola morale. Quando imboccava una strada sbagliata, l'ago magnetico della sua anima lo riportava sulla retta via. Il soggiorno dell'appartamento era stato arredato unicamente con due sedie pieghevoli imbottite e un materasso. Il materasso era posato a terra, senza il lusso di un letto o almeno una rete. In cucina vi erano una radio, un tostapane, una caffettiera, posate per due persone, una serie di piatti, ciotole e tazze comprate in un negozio di oggetti usati e tutte diverse tra loro, nonché un freezer pieno di piatti pronti e focaccine. Questa sistemazione spartana andava più che bene a Vanadium. La sera prima, era arrivato dall'Oregon con tre valigie piene di indumenti ed effetti personali. Grazie alla sua straordinaria combinazione di lavoro investigativo e guerra psicologica, prevedeva di riuscire a intrappolare Cain nel giro di un mese, prima che quella sistemazione cominciasse ad apparire troppo austera anche per un individuo a cui qualsiasi cosa più confortevole di una cella sembrava barocca. Forse, darsi un mese di tempo per concludere l'operazione poteva apparire troppo ottimistico. D'altra parte, aveva avuto molto tempo per mettere a punto la sua strategia. Servendosi dell'appartamento come di una base per le operazioni, Nolly e Kathleen avevano seguito la prima fase della guerra psicologica portando avanti qualche piccola scaramuccia, tra cui le serenate fantasma. Avevano lasciato i locali in perfetto ordine. L'unica traccia della loro presenza era
una confezione di filo interdentale dimenticata sul davanzale di una finestra del soggiorno. La linea telefonica era collegata e Vanadium compose il numero del custode dell'edificio, Sparky Vox. Sparky aveva un appartamento nel seminterrato, sopra i due piani sotterranei, adiacente all'entrata del garage. Ultrasettantenne, ma ancora vigoroso e pieno di vita, Sparky era un uomo a cui di tanto in tanto piaceva fare un salto a Reno per giocare con le slot-machine e tentare qualche mano di black-jack. Quindi gli assegni mensili - fuori busta paga e quindi esentasse - che riceveva da Simon gli facevano molto comodo e garantivano il suo appoggio al piano. Sparky era una brava persona, non si faceva corrompere facilmente, e se gli avessero chiesto di tradire qualsiasi altro inquilino che non fosse Cain, probabilmente avrebbe rifiutato, indipendentemente dalla somma offerta. Ma detestava Cain con tutto il cuore e lo considerava «un tipo strano, che fa venire i brividi come una scimmia con la sifilide». Tom aveva considerato alquanto bizzarro quel paragone con una scimmia sifilitica, ma poi scoprì che si trattava di un giudizio molto preciso, basato sull'esperienza. Una ventina d'anni prima, Sparky aveva lavorato come capo manutenzione in un laboratorio di ricerche mediche nel quale, tra l'altro, le scimmie venivano intenzionalmente contagiate dalla sifìlide e poi tenute sotto osservazione per tutto il tempo in cui riuscivano a sopravvivere. Giunti allo stadio terminale, alcuni dei primati assumevano atteggiamenti molto bizzarri, che ricordavano a Sparky quelli di Enoch Cain. La sera precedente, nell'appartamento del custode, mentre bevevano una bottiglia di vino, Sparky aveva raccontato a Vanadium diversi strani episodi riguardo a Cain: La Notte In Cui Si Era Sparato All'Alluce; Il Giorno In Cui Era Stato Salvato Da Uno Stato Di Trance Meditativa E Di Vescica Atonica; Il Giorno In Cui La Sua Ragazza Psicotica Aveva Portato Nell'Appartamento, Quando Lui Non C'era, Un Grasso Maiale Vietnamita, Gli Aveva Fatto Ingoiare Dei Lassativi E Poi Lo Aveva Chiuso Nella Camera Di Cain... Dopo tutto ciò che aveva sofferto per colpa di quell'individuo, ascoltando questi vivaci racconti delle disavventure dell'omicida, Tom Vanadium non aveva potuto fare a meno di ridere. Ma ridere era come mancare di rispetto a Victoria Bressler e a Naomi, e Vanadium si era sentito lacerato tra il desiderio di ascoltare altri racconti e la sensazione che trovare qualcosa di divertente in un uomo come Cain avrebbe lasciato sulla sua anima una macchia che nessuna penitenza sarebbe riuscita mai a lavare.
Sparky Vox - che non aveva le conoscenze di teologia e filosofia del suo ospite, ma che possedeva un intuito che qualsiasi colto gesuita sarebbe stato costretto ad ammirare, anche se controvoglia - aveva placato l'inquietudine che turbava la coscienza di Vanadium. «Il problema dei film e dei libri è che fanno apparire il male come qualcosa di attraente, di eccitante, mentre non lo è affatto. È noioso, deprimente e stupido. Dopo tutto, i criminali vogliono soltanto emozioni da quattro soldi e denaro facile e, una volta che hanno ottenuto queste due cose, ne vogliono sempre di più. Sono persone superficiali, vuote, noiose, con le quali, se uno è così sfortunato di trovarsi a una festa piena di persone simili a loro, non può fare una conversazione interessante nemmeno per cinque minuti. A volte, riescono ad avere l'astuzia di una scimmia, ma non sono quasi mai intelligenti. Sicuramente Dio vuole che ridiamo di questi stupidi, perché se non lo facciamo, in un modo o nell'altro mostriamo di rispettarli. Se uno non prende in giro un bastardo come Cain, se ne ha paura o semplicemente lo prende troppo seriamente, allora lo rispetta più di quanto io intenda fare. Un altro bicchiere di vino?» Adesso, a ventiquattro ore di distanza, quando Sparky rispose al telefono e sentì la voce di Thomas Vanadium, domandò: «Vuole un po' di compagnia? Ho un'altra bottiglia di Merlot che arriva dallo stesso posto di quella di ieri». «Grazie, Sparky, ma non stasera. Stavo pensando di fare un giretto al piano di sotto se il vecchio Due Piedi-Nove Dita Non È Rimasto Bloccato A Casa Per Un Attacco Di Vescica Atonica.» «L'ultima volta che ho guardato, la sua auto non c'era. Mi faccia controllare.» Posò il ricevitore e andò a controllare nel garage. Quando tornò, disse: «No. Ancora fuori. Quando va a una festa, di solito fa tardi». «Riesce a sentirlo quando rientra?» «Sì, se decido di starci attento.» «Se dovesse rientrare nel giro di un'ora, mi faccia uno squillo nel suo appartamento, così posso filarmela.» «Stia tranquillo. Dia un'occhiata ai quadri che colleziona. C'è gente che paga per roba del genere, perfino gente che non è mai stata in manicomio.» Wally e Celestina cenarono in un ristorante armeno, lo stesso nel quale lui aveva acquistato del cibo pronto in quel giorno del 1965 in cui aveva salvato lei e Angel da Neddy Gnathic. Le tovaglie rosse, i piatti bianchi, i pannelli di legno scuro, le candele nei bicchieri rossi su ogni tavolo, l'aria
odorosa di aglio, peperoni arrostiti, cubebe e sfrigolante soujouk - oltre al bell'aspetto del personale, quasi tutti membri della famiglia del proprietario - creavano un'atmosfera adatta sia ai festeggiamenti, sia alle conversazioni intime, e Celestina si aspettava entrambe le cose, perché quello prometteva di essere, sotto molti aspetti, un giorno davvero straordinario. Anche per Wally gli ultimi tre anni erano stati molto importanti. Dopo aver ceduto il suo studio medico, nel quale per tanto tempo aveva lavorato sessanta ore alla settimana, ed essersi preso un periodo di riposo di otto mesi, aveva accettato di prestare gratuitamente la sua opera presso una clinica pediatrica, per ventiquattro ore alla settimana, occupandosi dei pazienti più indigenti. Aveva lavorato sodo per tutta la vita e aveva risparmiato con cura il suo denaro, adesso poteva permettersi di concentrarsi unicamente su quelle attività che gli davano maggiori soddisfazioni. Per Celestina, Wally era stato come la manna dal cielo, perché aveva riversato su Angel tutto il suo amore per i bambini e il gusto per il gioco che aveva scoperto di possedere. Lui era Zio Wally. Wally il Ciondolante. Wally il Traballante. Wally il Tricheco. Wally il Lupo Cattivo. Wally che Parla Buffo. Wally Orecchie che si Muovono. Wally che Fischia. Wally il Cowboy. Wally l'Amico dei Polli. Angel lo adorava, lo adorava letteralmente, e lui non avrebbe potuto volerle più bene nemmeno se fosse stata uno dei figli che aveva perso. Impegnata com'era a seguire i corsi, a lavorare come cameriera e a dipingere, Celestina poteva sempre contare su Wally quando aveva bisogno che qualcuno si prendesse cura della bambina. Lui non era soltanto lo zio onorario di Angel, ma suo padre in tutti i sensi, a parte quello legale e biologico; non era soltanto il suo pediatra, ma un angelo custode che stava in ansia anche solo per qualche linea di febbre e si preoccupava di tutti i modi in cui il mondo poteva ferire un bambino. «Offro io», insisté Celestina appena si sedettero. «Ora sono un'artista di successo, con un infinito numero di critici pronti a farmi a pezzi.» Wally afferrò la lista dei vini prima che lei potesse darle un'occhiata. «Se offri tu, allora ordinerò il vino più costoso, qualunque sia il suo sapore.» «Mi sembra giusto.» «Chateau Le Bucks, 1886. Potremmo ordinare una bottiglia di questo oppure, con la stessa cifra, potresti comprarti un'auto nuova; personalmente ritengo che la sete sia più importante dei mezzi di trasporto.» Celestina domandò: «Hai visto Neddy Gnathic?» «Dove?» Wally si guardò in giro.
«No, al ricevimento.» «Dimmi che non è vero!» «Da come si comportava, avresti creduto che, a quel tempo, avesse accolto me e Angel in casa sua, salvandoci da una tempesta, invece di averci buttato fuori a gelare nella neve.» Divertito, Wally commentò: «A voi artisti piace drammatizzare, oppure ho dimenticato che, nel '65, c'è stata una tempesta di neve a San Francisco?» «Come fai a non ricordarti degli sciatori che facevano lo slalom giù per Lombard Street?» «Ah, sì, adesso ricordo. Orsi polari che mangiavano turisti in Union Square, branchi di lupi che vagavano fra le colline.» Il viso di Wally Lipscomb, lungo e stretto come sempre, non aveva più l'espressione tetra di un impresario di pompe funebri, ma assomigliava piuttosto alla faccia un po' gommosa di uno di quei clown da circo che riescono a far ridere sia prendendo un'espressione esageratamente triste, sia allargando la bocca in un sorriso sciocco. Celestina leggeva calore dello spirito dove un tempo aveva visto solo un'indifferenza spirituale, vulnerabilità invece di un cuore indurito, grandi aspettative al posto di speranze deluse; come prima, vi scorgeva gentilezza e generosità, ma adesso in quantità maggiore. Amava quel viso lungo, stretto, semplice e meraviglioso, e amava l'uomo a cui apparteneva. La loro felicità come coppia era ostacolata da molti fattori. In un'epoca in cui, in teoria, il problema razziale non aveva più alcuna importanza, a volte sembrava invece che, anno dopo anno, il suo peso si facesse sentire sempre più. C'era anche il problema dell'età e Wally, con i suoi cinquant'anni, aveva ventisei anni più di lei, era abbastanza vecchio da poterle essere padre, come le avrebbe fatto osservare suo padre tranquillamente ma decisamente... e ripetutamente! In più Wally era una persona molto istruita, aveva conseguito diverse specializzazioni, mentre lei era andata solo all'Accademia di Belle Arti. Tuttavia, anche se gli ostacoli fossero stati il doppio di quelli che erano, era arrivato il momento di esprimere apertamente ciò che sentivano l'uno per l'altra e decidere che cosa intendevano fare in merito. Celestina sapeva che quanto a profondità, intensità e passione, l'amore che Wally provava per lei era pari a quello che lei sentiva di ricambiare; per rispetto e forse perché quel tesoro d'uomo non si sentiva abbastanza attraente, Wally cercava di nascondere la forza dei suoi sentimenti ed era convinto di esservi
riuscito, anche se in effetti era raggiante d'amore. I suoi baci sulle guance, inizialmente fraterni, il suo modo di sfiorarla, le sue occhiate colme di ammirazione erano ancora molto casti ma sempre più teneri via via che passava il tempo; quando lui la prendeva per mano, come nella galleria quella sera, sia come forma di sostegno morale o semplicemente per tenerla al sicuro dietro di sé mentre attraversavano una strada trafficata, il dolce Wally appariva sopraffatto da un desiderio e da un'intensità di emozioni che a Celestina ricordavano i tempi della scuola media, quando i ragazzini di tredici anni, con gli sguardi colmi di adorazione, la fissavano ammutoliti, combattuti tra il desiderio e l'inesperienza. Recentemente, in tre occasioni, Wally era sembrato sul punto di rivelarle i suoi sentimenti, che lui era certo l'avrebbero sorpresa se non addirittura sconvolta, ma il momento non era mai stato quello giusto. Per lei, la suspense che continuò ad aumentare durante tutta la cena non aveva molto a che vedere con il fatto che Wally tirasse fuori o meno l'argomento, perché se lui non l'avesse affrontato questa volta, avrebbe preso lei l'iniziativa. Celestina era tesa soprattutto perché non sapeva se Wally si sarebbe aspettato che la rivelazione dei suoi sentimenti sarebbe stata sufficiente a convincerla ad andare a letto con lui. Su questo, lei era combattuta fra due sentimenti. Da una parte, lo desiderava, voleva lasciarsi stringere da lui, coccolare, soddisfarlo ed esserne soddisfatta. Ma era anche la figlia di un reverendo. Forse, nelle figlie dei banchieri o dei panettieri, non era tanto vivo il concetto di peccato e di conseguenze come nelle figlie di un pastore battista. In quell'epoca di sesso facile, Celestina rappresentava un anacronismo, era vergine per scelta, non per mancanza di opportunità. Recentemente, aveva letto in una rivista che, in quell'era di amore libero, ancora il quaranta per cento delle spose arrivava vergine al matrimonio, ma lei non ci aveva creduto e si era convinta di aver trovato per caso un articolo relativo a un altro mondo parallelo e più puritano, piombato su questa terra attraverso una distorsione della realtà. Lei non era una moralista, ma non era neppure una ragazza superficiale e riteneva che il suo onore fosse un tesoro da non gettare via in modo sconsiderato. Onore! Aveva usato un'espressione da donzella rinchiusa nella torre del castello e in attesa del suo Sir Lancillotto. Non sono solo vergine, ma anche matta! Ma anche mettendo da parte per un momento l'idea di peccato, dando per scontato che l'onore virginale fosse sorpassato come le crinoline, lei preferiva comunque aspettare, assaporare il pensiero dell'intimità, permettere all'aspettativa di crescere e iniziare la loro vita coniugale
insieme senza la benché minima possibilità di rimpianto. Tuttavia, aveva deciso che se Wally era pronto a impegnarsi, come lei credeva fosse stato sul punto di fare per ben tre volte, lei avrebbe messo da parte tutti i suoi dubbi in nome dell'amore e sarebbe giaciuta con lui, lo avrebbe stretto a sé e si sarebbe data con tutto il cuore. Per due volte, nel corso della cena, Wally sembrò deciso ad affrontare L'Argomento, ma poi vi aveva girato intorno e si era allontanato, passando a raccontare episodi di nessuna importanza o riferendole qualcosa di buffo che Angel aveva detto. Nei bicchieri era rimasto solo un sorso di vino e stavano entrambi esaminando attentamente la lista dei dolci, quando Celestina cominciò a chiedersi se, nonostante ciò che le diceva l'istinto, non si fosse sbagliata sui sentimenti di Wally. I segni apparivano chiari, e se quella espressione raggiante non era d'amore, allora significava che Wally era pericolosamente radioattivo... tuttavia, poteva essersi sbagliata. Celestina era una donna abbastanza intuitiva, per molti versi raffinata, con la percezione a fior di pelle tipica dell'artista; tuttavia, in questioni d'amore, era assolutamente sprovveduta, forse più ingenua di quanto si rendesse conto. Mentre esaminava attentamente la lista delle torte, delle crostate e dei gelati artigianali, permise al dubbio di insinuarsi in lei e, a mano a mano che l'idea che Wally non l'amasse poi così tanto andava rafforzandosi, provò il disperato bisogno di sapere, di porre termine a quello stato di tensione, perché se lei non fosse stata importante per lui quanto lui lo era per lei, allora papà avrebbe dovuto accettare la sua conversione dalla chiesa battista a quella cattolica, perché lei e Angel avrebbero dovuto trascorrere un periodo piuttosto lungo in un convento per riprendersi dal dolore. Tra la breve descrizione della baklava e quella più lunga ed elaborata dei mamouls alle noci, la tensione divenne intollerabile, il dubbio troppo insidioso, per cui Celestina sollevò lo sguardo e disse, con un tono di ansia infantile maggiore di quello che aveva programmato: «Forse questo non è il luogo, forse non è il momento, o forse è il momento ma non il luogo, o il luogo ma non il momento, o magari tempo e luogo sono giusti ma è il clima a essere sbagliato, non lo so... Oh Signore, ascoltami... ma devo proprio sapere se puoi, se sei, come senti, se senti, cioè, se pensi che potresti sentire...» Invece di fissarla a bocca aperta come se fosse stata posseduta da un demone incapace di articolare le parole, Wally estrasse in fretta una scatola dalla tasca della giacca e se ne uscì con un: «Mi vuoi sposare?»
Scaricò su Celestina quella grossa domanda, quella enorme domanda, proprio mentre lei aveva fatto una pausa per inspirare profondamente e per ricominciare a blaterare meglio altre sciocchezze, cosicché il respiro le si bloccò nel petto e vi rimase con tanta ostinazione che Celestina pensò di aver bisogno dell'intervento dei paramedici per riprendere a respirare, ma in quel momento Wally aprì di scatto la scatola, mostrando uno splendido anello di fidanzamento, e a quella vista, il respiro che era rimasto intrappolato esplose dal suo petto, dopodiché non ebbe più alcun problema di respirazione, ma cominciò a tirar su con il naso, a piangere e a sentirsi tutta agitata. «Ti amo, Wally.» Sorridendo, ma con una strana espressione preoccupata che Celestina riusciva a vedere anche attraverso le lacrime, Wally domandò: «Questo significa che... sì?» «Intendi dire se ti amerò domani, dopodomani e così via per sempre? Certo, per sempre, Wally, sempre.» «Sposarmi, dicevo.» Celestina sentì il cuore sprofondare e la confusione salire. «Non è questo che mi hai domandato?» «Ed è questo che hai risposto?» «Ah!» Si asciugò gli occhi con il dorso delle mani. «Aspetta, dammi una seconda possibilità. Posso fare di meglio. Ne sono certa.» «Anch'io.» Wally richiuse la scatola dell'anello. Inspirò profondamente. Riaprì la scatola. «Celestina, quando ti ho conosciuta, il mio cuore batteva ma era morto. Era freddo. Pensavo che non si sarebbe riscaldato mai più, ma grazie a te, lo ha fatto. Mi hai ridato la vita e adesso io voglio donarti la mia. Vuoi sposarmi?» Celestina allungò verso di lui la mano sinistra, che tremava con tanta intensità che lei fu quasi sul punto di rovesciare entrambi i bicchieri da vino. «Sì.» Nessuno dei due si era reso conto che il loro dramma personale, in tutta la sua goffaggine e bellezza, aveva attirato l'attenzione dei presenti. Quando Celestina accettò la proposta di matrimonio, dalla sala si levò un applauso che la fece sobbalzare e fece cadere l'anello dalla mano di Wally, che stava tentando di infilarglielo al dito. L'anello rimbalzò sul tavolo, entrambi si lanciarono per prenderlo, Wally ci riuscì e, finalmente, questa volta Celestina ricevette adeguatamente l'anello di fidanzamento, in mezzo a scrosci di applausi e risate. Il dessert fu offerto dalla casa. Il cameriere portò i migliori quattro dolci
del menu, per risparmiare loro la necessità di prendere due piccole decisioni dopo averne presa una così grande. Dopo il caffè, quando Celestina e Wally non furono più al centro dell'attenzione, indicando i dolci con la forchetta, Wally sorrise e disse: «Desidero che tu sappia, Celie, che mi accontenterò di questi dolci fino a quando ci sposiamo». Lei rimase sbalordita e commossa. «Sono terribilmente retrograda. Come hai fatto a capire che cosa c'era nella mia mente?» «Era anche nel tuo cuore, e tutto ciò che è nel tuo cuore è chiaro come la luce del sole. Pensi che tuo padre vorrà sposarci?» «Sì, una volta ripresosi dallo svenimento.» «Organizzeremo un matrimonio sontuoso.» «Non c'è bisogno che sia sontuoso», replicò lei, con un sorriso pieno di seduzione, «ma se dobbiamo aspettare, meglio sposarci presto.» Tom Vanadium prese in prestito da Sparky un passe-partout con il quale poteva aprire la porta dell'appartamento di Cain, ma preferiva non usarlo fintanto che avesse avuto la possibilità di entrare da un ingresso posteriore. Quanto meno usava le parti comuni frequentate dagli altri inquilini, maggiori sarebbero state le probabilità di riuscire a tenere segreta la sua presenza in carne e ossa e a continuare a far credere a Cain di essere un fantasma. Se più di un inquilino avesse avuto modo di vedere il suo viso così particolare, ben presto sarebbe diventato argomento di conversazione tra vicini di casa e l'assassino avrebbe probabilmente capito la verità. Sollevò il vetro della finestra in cucina e uscì sul pianerottolo della scala di sicurezza. Sentendosi il cugino del Fantasma Dell'Opera - anche se non provava un amore non corrisposto per un soprano, aveva il viso debitamente solcato da orrende cicatrici - cominciò a scendere la scala antincendio nella notte nebbiosa e, dopo due rampe, arrivò di fronte alla cucina dell'appartamento di Cain. Tutte le finestre che si affacciavano sulla scala antincendio erano state dotate di una protezione in filo d'acciaio e vetro per impedire l'accesso ai topi d'appartamento. Vanadium conosceva tutti i trucchi dei migliori scassinatoli, ma non aveva bisogno di ricorrere all'effrazione per entrare. Durante la pulizia, la posa di una nuova moquette e l'imbiancatura che si erano rese necessarie dopo aver portato via il maiale con la diarrea che una delle ragazze di Cain, fuori di sé dalla rabbia, aveva lasciato nell'appartamento, l'assassino aveva dovuto trascorrere alcune notti in albergo. Nolly
ne aveva approfittato per fare entrare in casa il suo amico James Hunnicolt - Jimmy Gadget - che aveva montato alla finestra uno sbloccaserratura esterno, costruito appositamente e quasi impossibile da notare. Seguendo le istruzioni ricevute, Vanadium tastò il bordo del muretto in calcare nel quale era incassata la finestra, proseguendo verso destra fino a quando trovò un cilindretto in acciaio, del diametro di una moneta, che sporgeva di un paio di centimetri. Il cilindro era scanalato per facilitarne la presa. Fu necessario tirare con decisione ma, come promesso, la chiusura a scatto interna si aprì. Sollevò la parte inferiore della alta finestra a telaio incassato e scivolò silenziosamente nella cucina buia. Dato che la finestra serviva anche come uscita d'emergenza, non si trovava al di sopra di un piano di lavoro, quindi non fu difficile entrare. La stanza non si affacciava sulla strada dalla quale Cain sarebbe arrivato e Vanadium poté accendere le luci. Trascorse quindici minuti a esaminare il contenuto degli armadietti, senza cercare nulla in particolare, semplicemente per farsi un'idea di come vivesse il suo uomo e, per la verità, sperando anche di scoprire qualcosa che lo potesse far condannare da un tribunale, come una testa mozzata nel frigorifero o quantomeno un chilo di marijuana avvolta nella plastica e conservata nel freezer. Non avendo trovato nulla di particolarmente interessante, spense le luci e passò nel soggiorno. Dato che, se Cain fosse tornato a casa e avesse lanciato un'occhiata al suo appartamento dalla strada, avrebbe visto la luce accesa, Vanadium preferì servirsi di una piccola torcia, proteggendo sempre la lente con una mano. Nolly, Kathleen e Sparky gli avevano già parlato della Donna Industriale, ma quando il fascio di luce della torcia illuminò il volto di forchette e lame di ventilatore della scultura, Vanadium sobbalzò impaurito. Senza rendersi completamente conto di quello che faceva, si fece il segno della croce. La Buick bianca scivolava in mezzo alla nebbia come una nave fantasma che solcasse un mare fantasma. Wally guidava lentamente, attentamente, con tutto il senso di responsabilità che ci si poteva aspettare da un ostetrico, un pediatra e un fidanzato nuovo di zecca. Il tragitto verso la casa di Pacific Heights durò il doppio rispetto a quanto Wally avrebbe impiegato in una sera limpida in cui non fosse stata fatta una promessa di matrimonio.
Avrebbe voluto che Celestina si sedesse nel suo sedile e allacciasse la cintura di sicurezza, ma lei insisté per rannicchiarsi accanto a lui, come fosse un'adolescente e lui il suo fidanzatino. Sebbene quella fosse probabilmente la sera più felice della sua vita, Celestina non poté evitare una nota di malinconia. Non riusciva a evitare di pensare a Phimie. La felicità poteva nascere da una tragedia immane e crescere tanto rigogliosamente da produrre fiori strabilianti e abbondanti ipsofilli verdi. Questa intuizione rappresentava la principale ispirazione per i quadri di Celestina ed era per lei la prova della grazia che permeava il mondo, una grazia che qualche volta noi siamo in grado di percepire e che ci sorregge con la promessa di una felicità futura. Dall'umiliazione, dal terrore, dalla sofferenza e dalla morte di Phimie era nata Angel, che Celestina aveva inizialmente odiato, ma che ora amava più di quanto amasse Wally, più di quanto amasse se stessa e perfino la vita. Phimie, attraverso Angel, aveva portato Celestina sia a incontrare Wally, sia a comprendere appieno ciò che suo padre intendeva quando parlava di questo giorno straordinario, una comprensione che aveva dato forza ai suoi dipinti e commosso profondamente le persone che ammiravano e acquistavano le sue opere. Suo padre insegnava che non c'è giorno nella vita di ciascun individuo che possa considerarsi inutile, ogni giorno ha un profondo significato, per quanto monotono e noioso possa apparire, indipendentemente dal fatto di essere sarta o regina, lustrascarpe o divo del cinema, filosofo di chiara fama o bambino down. Perché ogni giorno della nostra vita ci offre la possibilità di fare piccoli favori agli altri, sia volontariamente, attraverso i nostri gesti, sia con l'esempio. Ogni piccola gentilezza - anche solo qualche parola di speranza rivolta a chi ne ha bisogno, ricordare la data di un compleanno, rivolgere un complimento che provoca un sorriso - riecheggia a lungo attraverso lo spazio e il tempo, influenzando vite del tutto sconosciute all'anima generosa che ha dato l'avvio a questa buona eco, perché la gentilezza passa da una persona all'altra, aumentando di volta in volta, fino a quando, in anni e luoghi lontani, un semplice gesto di cortesia si trasforma in un generoso atto di coraggio. Allo stesso modo, ogni piccola cattiveria, ogni casuale espressione di odio, ogni gesto d'invidia e d'amarezza, per quanto minimo, può essere d'ispirazione ad altri e trasformarsi quindi nel seme che, alla fine, produrrà il frutto del male, avvelenando persone che non avete mai incontrato e che non conoscerete mai. Tutte le vite umane
sono intrecciate in modo così complesso e profondo - quelle dei morti, dei vivi, quelle delle generazioni future - che il destino di tutti è il destino di ciascuno, e la speranza dell'umanità è in ogni cuore e in ogni paio di mani. Di conseguenza, dopo ogni fallimento, siamo obbligati a impegnarci nuovamente per riuscire nel nostro tentativo, e quando ci troviamo di fronte alla fine di una cosa, su quelle ceneri dobbiamo costruire qualcosa di nuovo e migliore, così come con il pianto e il dolore dobbiamo intessere la speranza, perché ognuno di noi rappresenta un filo essenziale alla solidità, alla sopravvivenza stessa, della razza umana. In ogni vita, ogni ora contiene un enorme potenziale, spesso non riconosciuto, in grado di influenzare il mondo intero, e in realtà, i giorni straordinari ai quali, nella nostra insoddisfazione, spesso aneliamo, sono già qui con noi; questo giorno straordinario contiene sempre tutte le giornate eccezionali e le più entusiasmanti possibilità. O, come ripeteva spesso suo padre, ironizzando allegramente sulla propria eloquenza piena di retorica: «Illuminate l'angolo in cui siete e illuminerete il mondo intero». «Bartolomeo, vero?» domandò Wally, mentre avanzava in mezzo ai banchi di nebbia che giungevano dal mare. Colta di sorpresa, Celestina esclamò: «Santo cielo, mi fai paura. Come facevi a sapere quello che stavo pensando?» «Te l'ho già detto... tutto ciò che hai in cuore si legge chiaramente, come un libro aperto.» Nel sermone che gli aveva dato un momento di fama per lui piuttosto sgradevole, il reverendo si era ispirato alla vita di Bartolomeo per spiegare il suo concetto, ovvero che in ogni vita, ogni giorno è della massima importanza. Bartolomeo è forse il più sconosciuto dei dodici apostoli. Qualcuno potrebbe dire che sia Taddeo, altri potrebbero indicare Tommaso, colui che aveva dubitato. Ma sicuramente l'importanza di Bartolomeo è nettamente inferiore a quella di Pietro, Matteo, Giacomo, Giovanni e Filippo. Il reverendo aveva indicato Bartolomeo come il meno conosciuto dei dodici apostoli allo scopo di spiegare in che modo le azioni di quell'uomo, all'epoca apparentemente di scarsa importanza, fossero riecheggiate attraverso la storia, avessero influenzato centinaia di milioni di esseri umani... tanto che la vita di ogni donna di servizio che in quel momento stava ascoltando il suo sermone, la vita di ogni meccanico, di ogni insegnante, di ogni camionista, di ogni cameriera, di ogni medico, di ogni portinaio, era importante quanto quella di Bartolomeo, anche se tutti loro agivano nell'ano-
nimato e combattevano giorno dopo giorno senza ricevere l'applauso della folla. Alla fine di quel famoso sermone, il padre di Celestina aveva augurato a tutte le persone di buona volontà che la loro vita fosse inondata da una pioggia di effetti positivi, originati dal comportamento gentile e altruista degli innumerevoli Bartolomei che non avrebbero mai conosciuto. E aveva assicurato a tutti gli egoisti, gli invidiosi, a tutti coloro che non provavano compassione, o che avevano addirittura commesso atti di vera e propria malvagità, che quanto avevano fatto gli sarebbe tornato indietro, ingigantito oltre ogni possibilità d'immaginazione, perché era come se avessero dichiarato guerra allo scopo della vita. Se lo spirito di Bartolomeo non poteva entrare nei loro cuori e cambiarli, allora li avrebbe trovati e avrebbe lasciato cadere su di loro il terribile giudizio che meritavano. «Sapevo», spiegò Wally, fermandosi a un semaforo rosso, «che in questo momento avresti pensato a Phimie e che il pensare a lei ti avrebbe riportato alla mente le parole di tuo padre, perché, per quanto la sua vita sia stata breve, Phimie era una Bartolomeo. Ha lasciato un'impronta.» Celestina avrebbe voluto rendere omaggio a Phimie con una risata, non con le lacrime, perché la sua vita le aveva lasciato tanti ricordi felici e l'allegria rappresentata da Angel. Per ricacciare indietro le lacrime, Celestina disse: «Ascoltami, Clark Kent, noi donne abbiamo bisogno di mantenere i nostri piccoli segreti, i nostri pensieri privati. Se davvero riesci a leggere nel mio cuore con tanta facilità, penso che dovrò cominciare a indossare un reggiseno di piombo». «Piuttosto scomodo.» «Non preoccuparti, amore mio. Farò in modo che, per te, sia facile sganciarlo.» «Ah, evidentemente tu riesci a leggermi nella mente. È anche peggio che leggere nel cuore. Forse, soltanto una linea sottile divide la figlia di un reverendo da una strega.» «Forse. Quindi, è meglio che tu non mi faccia mai arrabbiare.» Il semaforo scattò sul verde. Ripresero la strada verso casa. Recuperato il Rolex e infilatolo nuovamente al polso, Junior Cain si mise alla guida della Mercedes con una prudenza che richiedeva più autocontrollo di quanto lui fosse dotato, nonostante gli insegnamenti di Zedd. Era così pieno di risentimento che avrebbe desiderato lanciarsi su e giù per le ripide strade della città, ignorando tutti i semafori e i segnali di stop,
inchiodando la lancetta del contachilometri sulla velocità massima, come se la velocità potesse raffreddare i suoi bollenti spiriti. Desiderava lanciarsi sugli ignari pedoni, frantumargli le ossa, vederli rotolare sull'asfalto. Ardeva di rabbia al punto tale che la sua auto, per trasmissione termica diretta dalle mani al volante, avrebbe dovuto apparire rosso fuoco in quella fredda sera di gennaio, avrebbe dovuto scavare tunnel di aria limpida e asciutta nella nebbia. Rancore, virulenza, acrimonia, veemenza: tutte quelle parole che aveva imparato allo scopo di autorealizzarsi, adesso non gli servivano a nulla, perché nessuna riusciva a esprimere la benché minima parte della sua rabbia, che andava aumentando, acquistando le dimensioni e il calore di un sole, che era molto più formidabile del suo vocabolario, migliorato con tanta assiduita. Fortunatamente la gelida nebbia non si sciolse al passare della Mercedes, considerando che questo gli permetteva di seguire Celestina senza farsi notare. La foschia avvolgeva la Buick bianca nella quale lei si trovava, aumentando certo le possibilità che Junior ne perdesse le tracce, ma nascondeva anche la Mercedes e faceva in modo che né lei, né il suo amico si rendessero conto che i fari dietro di loro appartenevano sempre allo stesso veicolo. Junior non aveva idea di chi fosse l'uomo alla guida della Buick, ma odiava quel figlio di puttana alto e dinoccolato, perché con tutta probabilità si faceva Celestina, mentre lei, se avesse conosciuto Junior per primo, non si sarebbe lasciata sbattere da nessun altro, perché come sua sorella, come tutte le donne, lo avrebbe trovato irresistibile. Junior riteneva di avere la precedenza su di lei per via dei rapporti che c'erano con la sua famiglia; dopotutto, lui era il padre del bastardo di sua sorella, il che lo rendeva praticamente un consanguineo. Nel suo capolavoro La bellezza dell'ira: come incanalare la rabbia ed essere un vincente, Zedd spiega che ogni individuo pienamente evoluto è in grado di prendere la rabbia che prova nei confronti di una persona o una cosa e trasferirla immediatamente a una nuova persona o cosa, utilizzandola per raggiungere il dominio, il controllo o qualsiasi altra meta si sia prefisso. La collera non deve essere un'emozione che nasce e cresce gradualmente per un giusto motivo, ma deve essere conservata nel nostro cuore e alimentata, tenuta sotto controllo ma sempre viva, in modo che la sua forza dirompente possa scaturire immediatamente ogni volta che ne abbiamo bisogno, che vi sia stata provocazione o no. Con grande impegno ed enorme soddisfazione, Junior trasferì la sua
rabbia su Celestina e sull'uomo che era con lei. Dopotutto, quei due erano coloro che si occupavano di Bartholomew, ed erano quindi i nemici di Junior. Un cassonetto e un musicista morto lo avevano umiliato come mai gli era accaduto prima d'allora, lo avevano umiliato quanto l'attacco di emetismo nervoso e la violenta diarrea, e lui non sopportava di essere umiliato. L'umiltà era per i perdenti. Nel buio del cassonetto, tormentato da un fiume impetuoso di e-se, convinto che il fantasma di Vanadium fosse stato sul punto di chiudere con uno scatto il coperchio, imprigionandolo insieme con il cadavere tornato in vita, per alcuni istanti Junior si era sentito come un bambino indifeso. Paralizzato dalla paura, rattrappito in un angolo del cassonetto, il più lontano possibile dal pianista in decomposizione, accovacciato in mezzo alle immondizie, aveva preso a tremare con tanta violenza che i denti, simili a nacchere, si erano messi a battere seguendo il ritmo di un indiavolato flamenco, mentre le ossa sembravano battere, battere, come i tacchi su un pavimento di legno. A un certo punto, aveva udito il proprio piagnucolio, ma non era riuscito a smettere, aveva sentito calde lacrime di vergogna scendergli lungo le guance, ma non aveva potuto trattenerle, aveva sentito la vescica che gli scoppiava per la paura, ma, con uno sforzo eroico, era riuscito a non bagnarsi nei pantaloni. Per un po', aveva pensato che la paura sarebbe scomparsa solo quando lui ne sarebbe morto, ma alla fine era diminuita gradualmente e, al suo posto, da un pozzo senza fondo era cominciata a sgorgare l'autocommiserazione. E, l'autocommiserazione è il carburante ideale per alimentare la collera; di conseguenza, mentre inseguiva la Buick nella fitta nebbia, inerpicandosi verso Pacific Heights, Junior si sentiva in preda a una collera assassina. *** Avendo ispezionato tutto l'appartamento, mentre entrava in camera di Cain, Thomas Vanadium si rese conto che l'arredamento austero delle stanze era stato probabilmente ispirato dal minimalismo che l'assassino aveva notato nella casa dello stesso detective, a Spruce Hills. Era davvero una strana scoperta, che inquietava Vanadium per motivi che non riusciva a definire completamente, tuttavia era convinto che quell'intuizione fosse giusta.
A Spruce Hills, la casa che Cain aveva condiviso con Naomi era stata arredata in modo totalmente diverso. La differenza tra questo arredamento e quello - e la somiglianza con l'appartamento di Vanadium - non poteva essere spiegato né unicamente dalla nuova ricchezza né da un cambiamento di gusto originato dall'esperienza della vita in città. Le pareti bianche e nude, i mobili austeri dalla rigorosa disposizione, l'esclusione totale di soprammobili e oggetti ricordo era quanto di più vicino si potesse immaginare a una vera cella monastica al di fuori di un monastero. In quell'appartamento, l'unica caratteristica che non lo accomunava a una cella era la sua dimensione, e se al posto della Donna Industriale vi fosse stato un crocifisso, neppure la sua spaziosità sarebbe stata sufficiente a escludere che si trattasse dell'abitazione di un ricco frate. Così stavano le cose. Loro erano due monaci: uno al servizio della luce perenne, l'altro al servizio delle tenebre eterne. Prima di ispezionare la camera, Vanadium tornò indietro, attraversando le stanze che aveva già controllato, perché si era improvvisamente ricordato degli strani dipinti dei quali Nolly, Kathleen e Sparky gli avevano parlato, domandandosi come avesse fatto a non notarli. Infatti, non c'erano. Tuttavia fu in grado di stabilire il punto in cui erano stati appesi alle pareti, perché, nell'intonaco, vi erano ancora i chiodi che reggevano gli appositi ganci. L'intuito suggeriva a Tom Vanadium che la rimozione di quei quadri era importante, ma non era uno Sherlock abbastanza bravo per comprendere immediatamente che cosa significasse. Tornato in camera, prima di cominciare a esaminare il contenuto dei comodini, del cassettone e dell'armadio, diede un'occhiata nel bagno adiacente, accendendo la luce perché non vi erano finestre... e trovò Bartholomew appeso a una parete, squarciato e trafitto, sfigurato da centinaia di ferite. Wally parcheggiò la Buick lungo il marciapiede di fronte alla casa in cui abitava e, quando Celestina scivolò verso la portiera del passeggero, disse: «No, aspettami qui. Vado a prendere Angel e vi accompagno a casa». «Santo cielo, Wally, possiamo andare a piedi.» «Fa freddo, c'è nebbia ed è tardi, e a quest'ora potreste incontrare qualche malintenzionato», ribatté in tono ironicamente serio. «Voi due siete le donne Lipscomb, o lo sarete ben presto, e le donne Lipscomb non si avventurano nella pericolosa notte della città tentacolare senza una scorta.»
«Che meraviglia. Mi sento proprio coccolata.» Fu un bacio lungo e dolcissimo, colmo di una passione trattenuta che faceva presagire bene per le notti che avrebbero trascorso nel letto nuziale. «Ti amo, Celie.» «Ti amo, Wally. Non sono mai stata più felice.» Lasciando il motore e il riscaldamento accesi, Wally scese dall'auto, poi si sporse all'interno e disse: «Farai meglio a bloccarti dentro mentre sono via», poi chiuse la sua portiera. Sebbene Celestina si sentisse un po' paranoica a fare tanta attenzione in un quartiere così tranquillo, tuttavia cercò il tasto di controllo centrale e fece scattare tutte le serrature. Le donne Lipscomb sono ben liete di obbedire ai desideri degli uomini Lipscomb... a meno che non siano d'accordo, naturalmente, oppure siano d'accordo ma si sentano semplicemente testarde. *** Il pavimento dell'ampio bagno era in marmo beige con inserti a forma di diamante di granito nero. Il ripiano del lavandino e la cabina della doccia erano dello stesso tipo di marmo, che era stato usato anche per lo zoccoletto. Mentre il resto dell'appartamento era intonacato, al di sopra dello zoccoletto, le pareti del bagno erano ricoperte da pannelli in cartongesso. Su uno di questi pannelli, Enoch Cain aveva scribacchiato per tre volte il nome BARTHOLOMEW. Dal modo in cui era stato scritto, a stampatello, in rosso, con caratteri irregolari, trapelava una grande rabbia. Ma appariva come l'opera di una mente calma e razionale, se confrontato con ciò che Cain aveva fatto dopo aver scritto Bartholomew per tre volte. Aveva pugnalato e scavato le lettere rosse con uno strumento acuminato, probabilmente un coltello, accanendosi sulla parete con una tale furia che due dei Bartholomew erano ormai quasi illeggibili. Il pannello in cartongesso era disseminato da centinaia di incisioni e squarci. Considerando che le lettere apparivano imbrattate e che la sostanza con cui erano state tracciate era colata prima di asciugarsi, lo strumento con cui erano state scritte non doveva essere un pennarello, come Vanadium aveva inizialmente pensato. Alcune gocce rosse schizzate sul coperchio chiuso del WC e sul pavimento di marmo beige, ormai secche, gli fecero sorgere
un sospetto. Si sputò sul pollice destro, lo sfregò su una delle macchie asciutte, strofinò pollice e indice uno contro l'altro e avvicinò le dita al naso. La sostanza odorava di sangue. Ma il sangue di chi? Un qualsiasi altro bambino, svegliato alle undici di sera, si sarebbe mostrato scontroso, sarebbe sicuramente stato intontito dal sonno, con gli occhi cisposi e poco disposto a chiacchierare. Ma quando Angel si svegliava, era subito completamente sveglia, di ottimo umore, incantata davanti ai particolari barocchi della creazione e in generale confermava l'idea che, crescendo, sarebbe diventata un'artista prodigio. Mentre, attraverso la portiera aperta, si arrampicava faticosamente in braccio a Celestina, la bimba disse: «Zio Wally mi ha dato un biscotto». «L'hai messo nella scarpa?» «Perché nella scarpa?» «È sotto il cappuccio?» «È nella mia pancia!» «Allora non lo puoi mangiare.» «L'ho già mangiato.» «E così se n'è andato per sempre. Che peccato.» «Non è l'unico biscotto del mondo. Questa è la nebbia più grossa che ci sarà mai?» «È all'incirca quella più fitta che io abbia mai visto.» Mentre Wally si sedeva dietro al volante e chiudeva la portiera, Angel domandò: «Mamma, da dove viene la nebbia? E non mi dire dalle Hawaii». «Dal New Jersey.» «Te lo dico prima che lei faccia la spia», confessò Wally. «Le ho dato un biscotto.» «Troppo tardi.» «Mamma pensava che l'avessi messo nella scarpa.» «Per riuscire a metterle le scarpe e il cappotto prima di lunedì, ho dovuto corromperla», spiegò Wally. «Che cos'è la nebbia?» domandò Angel. «Nuvole», rispose Celestina. «Che cosa ci fanno le nuvole quaggiù?» «Sono andate a dormire. Sono stanche», spiegò Wally mentre inseriva la
marcia e abbassava il freno a mano. «Tu no?» «Posso avere un altro biscotto?» «Non crescono sugli alberi, sai?» rispose Wally. «Adesso ho una nuvola dentro di me?» Celestina si meravigliò: «Come ti viene in mente una cosa del genere, zuccherino?» «Perché ho respirato la nebbia.» «Ti conviene tenerla stretta», ammonì Wally, rivolgendosi a Celestina e fermandosi a un incrocio. «Altrimenti comincerà a volare in cielo, e dovremo chiamare i pompieri per farla scendere.» «E su che cosa crescono?» volle sapere Angel. «Sui fiori», rispose Wally. E Celestina aggiunse: «E i biscotti sono i petali». «Dove stanno i fiori di biscotto?» domandò Angel sospettosa. «Nelle Hawaii», rispose Wally. «L'avevo immaginato», commentò Angel, facendo una smorfia dubbiosa. «La signora Ornwall mi ha fatto del formaggio.» «La signora Ornwall è molto brava a fare il formaggio», concordò Wally. «In un panino», chiarì Angel. «Perché abita con te, zio Wally?» «È la mia governante.» «Non potrebbe essere la mamma la tua governante?» «La tua mamma è un'artista. Oltretutto, non vorresti che la povera signora Ornwall restasse senza lavoro, vero?» «Tutti hanno bisogno del formaggio», replicò Angel, intendendo probabilmente dire che la signora Ornwall non sarebbe mai rimasta senza lavoro. «Mamma, hai torto.» «Su che cosa, zuccherino?» volle sapere Celestina, mentre Wally accostava lungo il marciapiede e si fermava. «Il biscotto non se n'è andato per sempre.» «Allora, è proprio nella tua scarpa?» Girandosi sulle ginocchia di Celestina, Angel disse: «Senti», e tese l'indice della manina destra, mettendolo proprio sotto il naso della madre. «Non sarà educato, ma devo ammettere che ha un buon odore.» «È il biscotto. Dopo che l'ho mangiato, un po' di biscotto mi è rimasto appiccicato al dito.» «Se ti rimangono sempre un po' appiccicati, alla fine ti ritroverai con un dito davvero grasso.»
Wally spense il motore e i fari. «Casa, dove c'è il nostro cuore.» «Quale cuore?» volle sapere Angel. Wally aprì la bocca, ma non riusciva a pensare a una risposta. Ridendo, Celestina gli disse: «Non puoi sempre vincere». «Forse non è dove c'è il nostro cuore», si corresse Wally. «Forse è dove vagano i bufali.» Sul ripiano accanto al lavandino del bagno vi era una scatola aperta di cerotti di varie dimensioni, un flacone di alcol denaturato e una boccetta di tintura di iodio. Tom Vanadium controllò nel cestino accanto al lavandino e vi trovò dei fazzolettini di carta appallottolati e sporchi di sangue. Oltre agli involucri di due cerotti. Evidentemente, il sangue apparteneva a Cain. Se l'assassino si era tagliato involontariamente, quella scritta sulla parete stava a indicare un temperamento particolarmente nervoso e una notevole riserva di rabbia covata a lungo. Ma se si era tagliato intenzionalmente, con il preciso scopo di scrivere il nome con il sangue, allora la sua riserva di rabbia era ancora maggiore e premeva contro una enorme diga di ossessione. Entrambi i casi, scrivere il nome con il sangue era un gesto rituale e un ritualismo di questa natura rappresentava un chiaro sintomo di una mente squilibrata. Far crollare quell'assassino sarebbe stato più facile di quanto Vanadium si fosse aspettato, perché la sua solidità mentale era già gravemente incrinata. Quello non era lo stesso Enoch Cain che aveva conosciuto tre anni prima, a Spruce Hills. A quel tempo era un uomo spietato, ma non una belva infuriata, freddo e determinato, ma non ossessivo. Quel Cain era stato troppo calcolatore e controllato per lasciarsi andare a uno stato di esaltazione emotiva tale da fargli scrivere il nome con il sangue e mutilare simbolicamente Bartholomew con un coltello. Mentre Tom Vanadium osservava di nuovo la parete macchiata e trafitta, una sensazione di freddo disagio gli si posò sullo scalpo come un insetto e prese a scendergli lungo la nuca, penetrò rapidamente nel suo sangue e gli si annidò nelle ossa. Sentiva di non avere più di fronte a sé qualcosa di ben preciso e conosciuto, l'uomo dalla mente contorta che pensava di conoscere, ma un nuovo e anche più mostruoso Enoch Cain.
Caricandosi sulla spalla la sacca piena di bambole e album da disegno di Angel, Wally precedette Celestina sul marciapiede e incominciò a salire i gradini dell'edifìcio. Lei lo seguì tenendo Angel in braccio. La bambina continuava a inspirare profondamente le nuvole stanche. «Tienimi stretta, mamma, se no mi metto a volare.» «No, appesantita come sei dal formaggio e dai biscotti, non volerai.» «Perché quella macchina ci sta seguendo?» «Quale macchina?» domandò Celestina, fermandosi in fondo ai gradini e voltandosi a guardare. Angel indicò una Mercedes parcheggiata dietro la Buick, a una decina di metri di distanza, proprio mentre i fari dell'auto si spegnevano. «Non ci sta seguendo zuccherino. Probabilmente è un vicino.» «Posso avere un biscotto?» Salendo i gradini, Celestina rispose: «Ne hai già avuto uno». «Posso avere una merendina?» «Niente merendine.» «Posso avere una barretta di cioccolato?» «Non è qualcosa di preciso che non puoi avere, ma è proprio l'idea del dolce che ti devi dimenticare.» Wally aprì il portone ed entrò. «Posso avere qualche biscotto alla crema?» Sempre tenendo Angel in braccio, Celestina varcò in fretta la soglia. «Niente biscotti alla crema. Resteresti sveglia tutta la notte per avere ingerito troppi zuccheri.» Mentre Wally le seguiva nell'atrio, Angel domandò: «Posso avere un'automobile?» «Automobile?» «Posso?» «Ma tu non sai guidare», le ricordò Celestina. «Glielo insegno io», intervenne Wally, sorpassandole mentre si avviava verso la porta dell'appartamento ed estraendo un portachiavi dalla giacca del cappotto. «Mi insegna lui», esclamò Angel con aria trionfante, rivolgendosi a sua madre. «Allora, immagino che ti compreremo un'automobile.» «Ne voglio una che voli.» «Non fanno macchine volanti.»
«Certo che sì», dissentì Wally, mentre apriva le due serrature. «Ma, prima di tutto, bisogna avere ventun anni per ottenere la patente.» «Io ne ho tre.» «Allora dovrai aspettare solo diciotto anni», commentò lui, spalancando la porta dell'appartamento e facendosi ancora una volta di lato per lasciar passare Celestina. Mentre Wally entrava a sua volta, Celestina gli sorrise. «Dalla macchina al soggiorno, tutto senza una sbavatura, come un balletto provato e riprovato. È già un bel vantaggio per iniziare una vita matrimoniale.» «Mi scappa la pipì», disse Angel. «Non è una cosa da annunciare al mondo intero», la rimproverò Celestina. «Sì, quando ti scappa davvero.» «Neanche in quel caso.» «Prima, dammi un bacio», pretese Wally. La bambina gli stampò un bacione sulla guancia. «A me, a me», si lamentò Celestina. «Le fidanzate dovrebbero avere la precedenza.» Sebbene Celestina tenesse ancora in braccio Angel, Wally la baciò e, ancora una volta, si trattò di un bacio dolcissimo, anche se più breve del primo, e Angel commentò: «Ma questo è un bacio pasticciato». «Torno domani mattina alle otto, per colazione», propose Wally. «Dobbiamo fissare una data.» «Due settimane è troppo presto?» «Io devo fare pipì prima», fece notare Angel. «Ti amo», disse Wally poi, avuta la conferma che anche Celestina lo amava, soggiunse: «Rimarrò nell'ingresso fino a quando non ti sentirò chiudere entrambe le serrature». Celestina posò Angel a terra e la bambina corse in bagno, mentre Wally usciva nell'atrio dell'edifìcio, chiudendosi la porta alle spalle. Una serratura. Due. Celestina si fermò ad ascoltare fino a quando sentì Wally aprire il portone, poi chiuderlo. Rimase a lungo appoggiata contro la porta dell'appartamento, stringendo il pomello della seconda serratura, come se temesse che, lasciandola andare, avrebbe cominciato a fluttuare nell'aria come una bambina piena di nubi.
*** Indossando un cappotto rosso con un cappuccio rosso, Bartholomew apparve prima tra le braccia dell'uomo alto e dinoccolato, che portava anche a tracolla una grossa sacca. Il tizio appariva vulnerabile, aveva entrambe le mani occupate con il bambino e la sacca, e Junior prese in esame l'ipotesi di uscire di corsa dalla Mercedes, lanciarsi dritto contro quel figlio di puttana che si sbatteva Celestina e sparargli da distanza ravvicinata. Con un proiettile nel cervello, l'uomo sarebbe crollato a terra più in fretta che se fosse stato attaccato da un lupo mannaro e il bambino sarebbe caduto insieme con lui, così, subito dopo, Junior avrebbe potuto ammazzare anche quel piccolo bastardo, sparandogli tre volte alla testa, quattro volte, tanto per essere sicuri. Il problema era Celestina nella Buick, perché quando avesse visto ciò che stava accadendo, avrebbe potuto scivolare dietro al volante e allontanarsi a tutta velocità. Il motore era acceso, Junior vedeva uno sbuffo bianco che saliva dal tubo di scappamento e che si disperdeva nella nebbia; se la ragazza fosse riuscita a pensare abbastanza in fretta, probabilmente gli sarebbe sfuggita. Avrebbe dovuto inseguirla a piedi. Spararle mentre lei era in macchina. Forse poteva farcela. Se avesse usato un proiettile per l'uomo e quattro per Bartholomew, gliene sarebbero rimasti cinque. Ma con il silenziatore, la pistola serviva solo se si sparava da distanza ravvicinata. Dopo aver attraversato il silenziatore, il proiettile sarebbe uscito dalla canna a una velocità inferiore a quella normale, magari con un'ulteriore vibrazione e, in distanza, la precisione sarebbe diminuita notevolmente. Il teppistello senza pollici che gli aveva consegnato l'arma in un sacchetto di cibo cinese, nella vecchia chiesa di St. Mary's, lo aveva avvertito di questo problema. Junior riteneva di dover credere a quell'avvertimento, perché il teppista dalle otto dita era stato probabilmente privato dei pollici come punizione per aver, in passato, dimenticato di riferire quel messaggio, o un altro di eguale importanza, a uno dei clienti, così che adesso faceva molta attenzione a non dimenticare un particolare del genere. Naturalmente, poteva anche essersi fatto saltare i pollici per avere una doppia garanzia di non essere spedito in Vietnam. Comunque, se Celestina gli fosse sfuggita, ci sarebbe stato un testimone e, per la giuria, non avrebbe avuto alcuna importanza il fatto che era una
puttanella priva di talento che dipingeva robaccia volgare. Avrebbe visto Junior scendere dalla Mercedes e, nonostante la nebbia, sarebbe stata in grado di fornire una descrizione abbastanza accurata. Lui sperava ancora di riuscire a portare a termine la sua impresa senza dover rinunciare alla bella vita che conduceva a Russian Hill. E comunque non era un buon tiratore. Se la cavava solo sparando da distanza ravvicinata. Attraverso la portiera aperta, lo spilungone passò Bartholomew a Celestina, seduta sul sedile del passeggero, girò intorno alla Buick, posò la sacca sul sedile posteriore e tornò nuovamente a sedersi dietro al volante. Se Junior avesse saputo che avrebbero guidato solo per un isolato e mezzo, non li avrebbe seguiti con la Mercedes. Avrebbe percorso il tratto di strada a piedi. Quando andò a fermarsi nuovamente lungo il marciapiede, a qualche auto di distanza dalla Buick, si domandò se fosse stato notato. Ora erano sul marciapiede, tutti e tre vulnerabili... l'uomo, Celestina e il piccolo bastardo. Se li avesse ammazzati uno dopo l'altro, ci sarebbe stato un sacco di sangue, soprattutto se li avesse colpiti a bruciapelo, con un colpo alla testa, ma Junior si era rimpinzato di antiemetici, antidiarroici e antistamici, di conseguenza si sentiva adeguatamente protetto contro il suo lato tanto sensibile e traditore. Anzi, questa volta voleva vedere una notevole quantità di sangue, perché sarebbe stata la prova definitiva che il bambino era morto e che tutta quella storia tormentosa si era finalmente conclusa. Tuttavia, temeva di essere stato notato quando, per due volte, aveva accostato l'auto lungo il marciapiede dietro di loro; era preoccupato che lo stessero tenendo d'occhio, pronti a mettersi a correre se lo avessero visto scendere dall'auto; in questo caso, sarebbero riusciti a entrare nell'edificio prima che lui potesse farli fuori. E in effetti, mentre Celestina e il bambino raggiungevano i gradini della seconda casa, Bartholomew aveva indicato con il dito e la donna si era voltata a guardare. Sembrava che fissasse proprio la Mercedes, anche se, con quella nebbia, Junior non poteva esserne certo. Se anche avevano qualche dubbio su di lui, non si mostravano per nulla allarmati. Entrarono nell'edificio senza alcuna fretta e, dal loro comportamento, Junior giunse alla conclusione che, dopotutto, non lo avevano notato. Le finestre del pianterreno, a destra del portone, si illuminarono.
Aspetta in macchina. Dagli tempo di mettersi tranquilli. A quell'ora della notte, avrebbero per prima cosa messo a letto il bambino. Poi lo spilungone e Celestina sarebbero andati in camera loro, si sarebbero spogliati per andare a dormire. Con un po' di pazienza, Junior si sarebbe potuto introdurre in casa, trovare Bartholomew, ammazzare il bambino nel suo letto, poi far fuori lo spilungone e avere ancora la possibilità di far l'amore con Celestina. Non sperava più di avere un futuro con lei. Dopo aver assaggiato quella macchina del sesso che era Junior Cain, Celestina ne avrebbe voluto ancora, come succedeva sempre con le donne, ma ormai non era più tempo per un'importante storia d'amore tra di loro. Ma, con tutto quello che aveva passato, Junior meritava di consolarsi con quel meraviglioso corpo almeno una volta. Un piccolo compenso. Un risarcimento. Se non fosse stato per quella sporcacciona della sorella di Celestina, il piccolo Bartholomew non sarebbe mai esistito. Non ci sarebbe stata alcuna minaccia. La vita di Junior sarebbe stata diversa, migliore. Celestina aveva scelto di accogliere il bastardo e, facendo così, si era dichiarata nemica di Junior, anche se lui non le aveva mai fatto nulla, niente di niente. Lei non lo meritava, davvero, neppure qualche colpetto rapido prima del colpo di pistola e forse, dopo aver fatto fuori lo spilungone, Junior avrebbe lasciato che lei lo implorasse di farle assaggiare la rivoltella di Cain, ma gliel'avrebbe negata. Un camion passò a tutta velocità, smuovendo la nebbia, e quella brodaglia bianca turbinò contro i finestrini dell'auto, formando un mulinello che lo disorientò. Junior si sentiva leggermente stordito. Strano. Sperava che non si trattasse di influenza in arrivo. Il medio della mano destra continuava a pulsare sotto i due cerotti. Se l'era tagliato mentre usava l'affilatore elettrico per preparare i coltelli e la ferita era peggiorata quando aveva dovuto strangolare Neddy Gnathic. Tanto per cominciare, non si sarebbe mai tagliato se non avesse avuto bisogno di essere ben armato e pronto per Bartholomew e i suoi due guardiani. Nel corso degli ultimi tre anni, aveva sofferto molto a causa di quelle sorelle, compresa la recente umiliazione subita nel cassonetto con il cadavere del musicista, quello scheletrico amico di Celestina con la propensione a leccare la gente anche dopo morto. Il ricordo dell'orrenda scena gli tornò alla mente con tanta intensità... tutti i grotteschi particolari condensati in
un unico, devastante flash... che Junior sentì la vescica improvvisamente gonfia e piena, nonostante avesse già urinato a lungo in un vicolo, di fronte al ristorante in cui la pittrice da cartolina illustrata si era goduta una bella cenetta con lo spilungone. E quella era un'altra cosa. Junior aveva dovuto rinunciare al pasto di mezzogiorno perché, poco prima dell'ora di pranzo, lo spirito di Thomas Vanadium lo aveva quasi raggiunto mentre lui stava cercando fermacravatte e fazzoletti da taschino. Poi aveva saltato anche la cena, perché aveva dovuto sorvegliare Celestina, che non era andata direttamente a casa dopo essere uscita dalla galleria. Aveva fame. Stava morendo di fame. Anche questo gli aveva fatto quella puttana. Passarono altre auto e, di nuovo, la spessa nebbia prese a vorticare, vorticare. Le tue azioni... ti torneranno indietro, ingigantite oltre ogni possibilità d'immaginazione... lo spirito di Bartolomeo... ti troverà... e lascerà cadere su di te il terribile giudizio che meriti... Quelle parole, formando una spirale vertiginosa, scorrevano nei nastri registrati della memoria di Junior, chiare e incisive... ed estremamente allarmanti... come il ricordo della terribile esperienza vissuta nel cassonetto. Non riusciva a ricordare dove le avesse sentite, chi le avesse pronunciate, ma la rivelazione restava ai margini della sua mente, tormentandolo. Prima che potesse riascoltare mentalmente quel ricordo per poterlo analizzare ulteriormente, Junior vide lo spilungone uscire dall'edificio. L'uomo ritornò alla Buick, apparentemente fluttuando nella nebbia come un fantasma in una brughiera. Accese il motore, fece una rapida inversione a U e si diresse verso la casa dalla quale, poco prima, aveva portato fuori Bartholomew. In camera di Cain, il fascio di luce della torcia, protetto dalla mano di Thomas Vanadium, mostrò una libreria alta quasi due metri e capace di contenere all'incirca un centinaio di volumi. Il ripiano superiore era vuoto, così come gran parte del secondo. Al detective tornò in mente la raccolta di quegli stupidi manuali di Caesar Zedd che avevano occupato un posto d'onore nella precedente casa dell'assassino, a Spruce Hills. Cain possedeva le edizioni sia rilegate sia economiche di tutti libri scritti da Zedd. Le edizioni più costose apparivano intatte, come se fossero state maneggiate solo con i guanti; ma il testo delle edizioni economiche era stato sottolineato in più punti, e gli angoli di nu-
merose pagine erano piegati per segnare i passaggi preferiti. Una rapida scorsa al dorso dei libri esposti mostrava che la preziosa collezione di Zedd non era in quella libreria. La cabina armadio, che Vanadium esaminò subito dopo, conteneva meno indumenti di quanto si fosse aspettato. Lo spazio per appendere gli abiti era vuoto per metà. Mentre dava una veloce scorsa al guardaroba di Cain, numerosi appendiabiti vuoti presero a tintinnare l'uno contro l'altro. Su un ripiano in alto vi era unicamente un elegante e costoso portabiti firmato Mark Cross. Il resto del ripiano era vuoto... c'era abbastanza spazio per altri tre borsoni. Dopo aver azionato lo sciacquone, Angel salì su un piccolo sgabello e si sciacquò le mani nel lavandino. «Lavati anche i denti», le ricordò Celestina, appoggiandosi contro lo stipite della porta aperta. «Già fatto.» «È stato prima del biscotto.» «Non mi sono sporcata i denti», protestò Angel. «Come è possibile?» «Non ho masticato.» «Hai inalato il biscotto attraverso il naso?» «Ingoiato intero.» «Che cosa succede a quelli che dicono le bugie?» Con gli occhi sgranati: «Non sto dicendo bugie, mamma». «E allora che cosa stai facendo?» «Sto...» «Sì?» «Sto solo dicendo...» «Sì?» «Mi laverò i denti», decise Angel. «Brava bambina. Vado a prenderti il pigiama.» Junior nella nebbia. Sforzandosi di vivere nel futuro, dove vivono i vincenti. Ma sentendosi inesorabilmente risucchiato dal ricordo in un inutile passato. Il misterioso avvertimento continuava a girare, a girare, a girare nella sua mente: Le tue azioni... ti torneranno indietro, ingigantite oltre ogni possibilità d'immaginazione... lo spirito di Bartolomeo... ti troverà... e la-
scerà cadere su di te il terribile giudizio che meriti. Riavvolse mentalmente le parole, fece scorrere il nastro e le ascoltò di nuovo, ma la fonte da cui era partita quella minaccia continuava a sfuggirgli. Udiva quelle parole pronunciate dalla sua stessa voce, come se un tempo le avesse lette in un libro, ma aveva l'impressione che in realtà fossero state dette da qualcun altro e che... Gli passò accanto un'auto della polizia, la sirena muta, i fari che lampeggiavano sul tettuccio. Con un sussulto, Junior si raddrizzò nel sedile, stringendo tra le mani la pistola con il silenziatore, ma l'auto non frenò bruscamente e non accostò lungo il marciapiede di fronte alla Mercedes, come lui si era aspettato. I fari lampeggianti andarono rimpicciolendosi sempre più, lanciando tutto intorno una pulsante luce blu e rossa che scintillava e affondava nella nebbia, come spiriti disincarnati alla ricerca di qualcuno da possedere. Quando Junior guardò l'ora sul suo Rolex, si rese conto di non sapere da quanto tempo fosse seduto lì, dopo che lo spilungone se ne era andato a bordo della Buick. Forse era trascorso un minuto, forse dieci. Le finestre dell'appartamento al pianterreno erano ancora illuminate. Preferiva entrare nella casa fintante che le luci erano accese. Non voleva trovarsi a dover attraversare al buio stanze che non conosceva: la sola idea gli faceva tremare le viscere. Si infilò un paio di sottili guanti di lattice da chirurgo. Piegò ripetutamente le mani. Perfetto. Fuori dell'auto, lungo il marciapiede, su per i gradini, dalla Mercedes alla nebbia all'omicidio. Pistola nella mano destra, apriserrature nella sinistra, tre coltelli nelle rispettive guaine fissate in diversi punti del corpo. Il portone non era chiuso a chiave. La casa non era più una villa privata, l'avevano suddivisa in diversi appartamenti. Le scale, che partivano dall'atrio, conducevano ai tre piani superiori. Junior sarebbe stato in grado di sentir scendere qualcuno molto prima che la persona arrivasse al pianterreno. Niente ascensore. Non doveva quindi preoccuparsi che, con l'unico avvertimento di un improvviso ding, si aprissero le porte di un ascensore, lasciando uscire nell'atrio eventuali testimoni. Un appartamento a destra, uno a sinistra. Junior si diresse verso destra, all'appartamento numero uno, da dove aveva visto filtrare la luce attraverso le finestre schermate dalle tende.
Wally Lipscomb parcheggiò l'auto nel garage, spense il motore e cominciò a scendere dalla Buick, quando si accorse che Celestina aveva lasciato la borsetta in macchina. Eccitati per il loro fidanzamento, ancora piacevolmente storditi per il successo ottenuto dalla mostra, con Angel più vivace che mai nonostante l'ora e piena di energie grazie al biscotto, Wally era addirittura stupito che fossero riusciti a portare quel diavoletto rosso da una casa alla Buick a un'altra casa, dimenticando solo una borsetta. Celie l'aveva definito un balletto, ma Wally pensava che si trattasse unicamente di un momento di ordine nel caos, il caos pieno di sfide, di gioie, di frustrazioni e di allegria di una vita colma di speranza, amore e bambini, che lui non avrebbe voluto scambiare né con la calma, né con tutte le ricchezze del mondo. Senza lamenti o sospiri, sarebbe tornato da lei per riportarle la borsetta. Non gli dispiaceva doverlo fare. Anzi, in questo modo avrebbe avuto la possibilità di darle un altro bacio della buonanotte. Un comodino, due cassetti. Nel primo cassetto, oltre ai soliti oggetti, Tom Vanadium trovò l'opuscolo di una galleria in cui si pubblicizzava una mostra di pittura. Alla luce della torcia, il nome di Celestina White sembrò scintillare sulla carta patinata come se fosse stato stampato con inchiostro riflettente. Nel gennaio del '65, mentre Vanadium affrontava il primo degli otto mesi di coma, Enoch Cain aveva chiesto a Nolly di svolgere indagini per ritrovare il neonato di Seraphim. Quando, molto tempo dopo, Vanadium lo aveva saputo da Magusson, era giunto alla conclusione che Cain avesse udito il messaggio lasciato da Max Bellini sulla sua segreteria telefonica, lo avesse collegato alla morte di Seraphim in un «incidente» avvenuto a San Francisco e avesse deciso di trovare quel bambino perché era suo. Il fatto che lui fosse il padre era l'unico motivo che spiegava il suo interesse per il neonato. Successivamente, all'inizio del '66, uscito dal coma e ormai in grado di ricevere visite, Vanadium aveva trascorso un'ora estremamente penosa con il suo vecchio amico Harrison White. Deciso a rispettare la memoria della figlia morta, e anche preoccupato per la sua immagine di ministro della chiesa, il reverendo aveva rifiutato di ammettere sia che Seraphim fosse stata incinta, sia che fosse stata violentata... nonostante che Max Bellini avesse già confermato la gravidanza e ritenesse, basandosi sul suo istinto
di poliziotto, che fosse la conseguenza di uno stupro. Ma Harrison pensava che Phimie ormai non c'era più, che non aveva senso riaprire quella ferita e che, se vi era un colpevole, un vero cristiano doveva perdonare, se non dimenticare, e affidarsi alla giustizia divina. Harrison era battista, Vanadium cattolico, e anche se si ponevano davanti alla stessa fede partendo da angolazioni diverse, tuttavia non giungevano da pianeti diversi, anche se così era sembrato a Vanadium dopo la loro conversazione. Non era possibile giudicare e far condannare Enoch Cain per lo stupro di Phimie, in quanto lei era morta e non poteva più testimoniare. Ed era anche vero che, indagare sulla possibilità che Cain fosse lo stupratore, avrebbe riaperto inutilmente la ferita nel cuore della famiglia White. Tuttavia, affidarsi unicamente alla giustizia divina appariva quantomeno ingenuo, se non moralmente discutibile. Vanadium comprendeva quanto fosse profondo il dolore del suo vecchio amico e sapeva che la sofferenza per la perdita di un figlio poteva far sì che anche il migliore degli uomini reagisse in base alle sue emozioni piuttosto che al buonsenso; aveva quindi accettato la decisione di Harrison di lasciar perdere quella faccenda, almeno per il momento. Dopo averci riflettuto abbastanza a lungo, Vanadium era giunto infine alla conclusione che fra loro due, era Harrison ad avere la fede più salda, e che, personalmente, forse per il resto della sua vita, lui si sarebbe trovato più a suo agio con un distintivo della polizia, piuttosto che con il collare da prete. Il giorno in cui Vanadium aveva partecipato al servizio funebre di Seraphim e, successivamente, si era fermato davanti alla tomba di Naomi per punzecchiare Cain, aveva già avuto il dubbio che Phimie non fosse morta in un incidente stradale, così come avevano affermato i famigliari, ma neppure per un momento aveva pensato che l'assassino di Naomi fosse in qualche modo collegato a Phimie. Ora, quell'opuscolo della galleria trovato nel cassetto del comodino sembrava un'ulteriore prova circostanziale della colpevolezza di Cain. La presenza dell'opuscolo turbava Vanadium anche perché gli faceva pensare che, pur non essendo riuscito a ottenere alcuna informazione da Nolly, Cain aveva comunque scoperto che Celestina aveva ottenuto l'affidamento della bambina. Per qualche ragione, quel mostro aveva originariamente creduto che la bambina fosse un maschio, ma se aveva rintracciato Celestina, ora doveva sapere la verità. Per Tom Vanadium restava un mistero il motivo per cui, anche nell'ipotesi che fosse stato il padre, Cain si interessasse alla bambina. Per quel-
l'uomo così egocentrico e superficiale non vi era nulla di sacro; l'idea di paternità non lo attirava in alcun modo e certamente non sentiva nessun obbligo nei confronti della figlia nata in seguito allo stupro di Phimie. Forse era spinto unicamente dalla curiosità, dal desiderio di scoprire che aspetto avesse la bambina; comunque, se c'era qualcos'altro dietro a quell'interesse, i motivi che lo spingevano non potevano essere che malvagi. Qualunque fossero le intenzioni di Cain, come minimo, avrebbe rappresentato un motivo di turbamento per Celestina e la bambina... e probabilmente anche un pericolo. Dato che Harrison, pur con le migliori intenzioni, non aveva voluto riaprire le ferite, Cain poteva avvicinare Celestina ovunque, in qualsiasi momento, senza che lei sapesse che probabilmente si trattava del violentatore di sua sorella. Per lei, il suo viso era quello di uno sconosciuto. E adesso Cain sapeva della sua esistenza, era interessato a lei. Informato di questi nuovi sviluppi, Harrison avrebbe sicuramente modificato atteggiamento. Con l'opuscolo in mano, Vanadium tornò in bagno e accese la luce centrale. Fissò la parete tagliuzzata, il nome scritto in rosso e trafitto in più punti. L'istinto, ma anche la ragione, gli diceva che esisteva un qualche collegamento tra quella persona, quel Bartholomew, e Celestina. Il nome aveva terrorizzato Cain durante un incubo, nella stessa notte seguita al giorno in cui aveva ucciso Naomi, e di conseguenza Vanadium l'aveva incluso nella sua strategia di guerra psicologica senza conoscere quale fosse il suo significato per l'uomo sospettato di omicidio. Per quanto percepisse intensamente questo collegamento, non riusciva a capire di che cosa esattamente si trattasse. Gli mancavano alcune informazioni cruciali. Esaminò l'opuscolo della galleria sotto la luce più viva del bagno e notò la fotografìa di Celestina. Lei e sua sorella non erano proprio come gemelle, ma la somiglianza era notevole. Se Cain si era sentito attratto dall'avvenenza di una delle due, sicuramente sarebbe stato attratto anche dall'altra e forse le due sorelle avevano in comune una qualità che andava al di là della bellezza e che attirava Cain con una forza ancora maggiore. L'innocenza, forse, o la bontà: doti che erano cibo per un demone. Il titolo della mostra era Questo giorno straordinario. Come se dentro lui vi fosse una specie di termite che preferiva il gusto degli uomini a quello del legno, Vanadium sentì un formicolio attraversar-
gli la spina dorsale. Naturalmente conosceva il sermone. L'esempio di Bartolomeo. Il tema della reazione a catena nella vita degli uomini. L'osservazione che un piccolo gesto di cortesia può ispirare buone azioni molto più grandi di cui noi non verremo mai a conoscenza, in vite lontane nel tempo e nello spazio. Vanadium non aveva mai collegato il temuto Bartolomeo di Enoch Cain con il discepolo citato nel sermone di Harrison White, che era stato trasmesso nel dicembre del '64, un mese prima dell'assassinio di Naomi, e poi un'altra volta nel gennaio del '65. Ma anche adesso, trovandosi di fronte al nome Bartolomeo scritto con il sangue sulla parete e pugnalato, e con la frase Questo giorno straordinario stampato sull'opuscolo, Tom Vanadium non riusciva proprio a comprendere quale fosse il collegamento. Si sforzava di riunire i due pezzi della catena di prove, ma c'era sempre un anello mancante. Ciò che notò subito dopo nell'opuscolo non era l'anello che stava cercando, ma qualcosa che lo mise talmente in allarme da fargli sbatacchiare il dépliant tra le mani. L'inaugurazione della mostra di Celestina si era svolta proprio quella sera ed era terminata più di tre ore prima. Una coincidenza. Nient'altro. Una coincidenza. Ma sia la chiesa che la fìsica quantistica sostengono che non esiste nulla di simile. La coincidenza è il risultato di un progetto e uno scopo misteriosi... oppure si tratta di uno strano ordine che sta alla base di un apparente caos. A scelta. Oppure, se preferite, sentitevi liberi di credere che si tratti della stessa cosa. Quindi non era una coincidenza. Tutte quelle pugnalate sulla parete. Tac. Squarci. La rabbia necessaria per farli. Apparentemente, mancavano delle valigie. E anche degli indumenti. Forse significava solo che era andato in vacanza per il fine settimana. Una persona scrive un nome sulla parete con il proprio sangue come in un film dell'orrore... e poi prende il primo volo per Reno per trascorrere un fine settimana giocando a black-jack, per assistere a qualche spettacolo e per abbuffarsi nei ristoranti a prezzo fìsso. Decisamente improbabile. Si precipitò in camera e accese l'abat-jour sul comodino, senza preoccuparsi del fatto che la luce si potesse vedere dalla strada. I quadri mancanti. La collezione dei libri di Zedd sparita. Non ci si porta dietro cose del genere per un fine settimana a Reno. Si prendono solo se c'è la possibilità di non tornare più.
Nonostante l'ora tarda, compose il numero di casa di Max Bellini. Lui e il detective della squadra omicidi erano amici da quasi trent'anni, da quando Max era solo un poliziotto del DPSF e Vanadium era un giovane prete da poco assegnato all'orfanotrofio di Sant'Anselmo. Prima di optare per la carriera nella polizia, Max aveva preso in esame l'idea di prendere i voti e forse, già allora, aveva scorto in Tom Vanadium il futuro poliziotto. Quando Max rispose, Vanadium lasciò uscire l'aria che aveva trattenuto in un sospiro di sollievo e cominciò a parlare immediatamente: «Sono io, Tom, e forse mi sto facendo semplicemente prendere dal panico, ma c'è qualcosa che penso dovresti fare, e farla subito». «Tu non ti fai prendere dal panico», commentò Max. «Lo fai venire agli altri. Dimmi che cosa succede.» Due serrature a chiavistello senza scarto, di ottima qualità. Una protezione che avrebbe tenuto lontano un intruso qualsiasi, ma insufficiente a impedire l'accesso a un uomo dalla mente evoluta e spinto da una collera adeguatamente incanalata. Junior teneva la calibro 9 munita di silenziatore sotto il braccio sinistro, premuta contro il fianco, in modo da avere entrambe le mani libere per usare l'apriserrature automatico. Si sentì nuovamente in preda alle vertigini. Ma questa volta sapeva perché. Nessuna influenza in arrivo. Stava lottando per uscire da quel bozzolo che era stata la sua vita fino a quel momento, lottava per nascere in una forma nuova e migliore. Prima era una pupa, imprigionata in una crisalide di paura e confusione, ora era una imago, una farfalla completamente sviluppata, perché aveva usato la forza della sua meravigliosa collera per migliorarsi. Una volta ucciso Bartholomew, Junior Cain avrebbe finalmente disteso le ali e sarebbe volato via. Premette l'orecchio destro contro la porta, trattenne il respiro, non sentì nulla, e decise di cominciare per prima con la serratura più in alto. Silenziosamente, fece scivolare la sottile asticella della pistola apriserrature nella toppa, sotto il meccanismo di ritenuta. Ora vi sarebbe stato un minimo rischio di essere uditi dall'interno: tirò il grilletto. La piatta molla d'acciaio dell'apriserrature fece scattare in avanti l'asticella, agganciando alcuni cilindretti alla linea di scorrimento. Il colpo secco del cane contro la molla e il clic dell'asticella contro il meccanismo di ritenuta non erano rumori molto forti, ma se vi fosse stato qualcuno dal-
l'altra parte della porta li avrebbe probabilmente sentiti; se invece Celestina si fosse trovata soltanto una stanza più in là, il rumore non sarebbe arrivato fino a lei. Con un solo scatto del grilletto non era possibile far agganciare tutti i cilindretti alla linea di scorrimento. Ce ne volevano almeno tre, a volte sei, a seconda della serratura. Junior decise di provare con tre scatti per ogni serratura prima di tentare di aprire la porta. Meno rumore faceva, meglio era. Forse avrebbe avuto la fortuna dalla sua parte. Tic, tic, tic. Tic, tic, tic. Girò il pomello. La porta si aprì verso l'interno, ma lui la spinse solo di qualche millimetro. Un uomo completamente evoluto non deve mai contare sulla dea fortuna, ci insegna Zedd, perché è lui a costruirsi la propria fortuna con tanta sicurezza da poter sputare impunemente sul viso della dea. Junior si infilò l'apriserrature in una tasca della giacca di pelle. Con la destra impugnò nuovamente la calibro 9, caricata con dieci proiettili a punta cava, sentendosi dotato di poteri sovrannaturali: sarebbe stato per Bartholomew come un crocifisso per Dracula, come l'acqua santa per un diavolo, come la criptonite per Superman. Tanto Angel era stata vestita completamente di rosso per uscire quella sera, tanto era vestita di giallo per andare a dormire. Un pigiamino di jersey giallo. Calzini gialli. Su sua richiesta, Celestina le aveva messo un fiocco giallo sulla massa di capelli riccioluti. La storia del fiocco era iniziata alcuni mesi prima. Angel aveva detto che voleva essere carina anche quando dormiva, nel caso avesse incontrato il principe azzurro in sogno. «Giallo, giallo, giallo, giallo», esclamava Angel tutta soddisfatta mentre si osservava nell'anta a specchio dell'armadio. «Sei sempre il mio cioccolatino al latte.» «Sognerò dei pulcini», spiegò la piccola, «e se sono tutta gialla, penseranno che io sia una di loro.» «Potresti anche sognare delle banane», suggerì Celestina, mentre abbassava le coperte. «Non voglio essere una banana.» Dato che a volte aveva degli incubi, di tanto in tanto Angel preferiva dormire nel letto di sua madre invece che nella sua stanzetta, e questa era
una di quelle notti. «Perché vuoi essere un pulcino?» «Perché non lo sono mai stata. Mamma, tu e zio Wally adesso siete sposati?» Sbalordita, Celestina domandò: «E questo da dove salta fuori?» «Perché hai un anello come la nostra vicina, la signora Moller.» Dotata di una insolita capacità di osservazione, la bambina notava subito qualsiasi cambiamento nel mondo che la circondava. E il luccicante anello di fidanzamento sulla mano sinistra di Celestina non era sfuggito alla sua attenzione. «E ti ha dato un bacio pasticciato», soggiunse Angel, «come quelli che danno nei film.» «Sei davvero una piccola investigatrice.» «Cambieremo il mio nome?» «Forse.» «Mi chiamerò Angel Wally?» «Angel Lipscomb, anche se non suona altrettanto bene come White, vero?» «Io volevo essere chiamata Wally.» «Non è possibile. Adesso vieni a dormire.» Angel si lanciò a tutta velocità nel letto di sua madre, agitandosi come un pulcino. Bartholomew era morto, ma ancora non lo sapeva. Pistola in mano, bozzolo ormai a brandelli, pronto a dischiudere le sue ali di farfalla, Junior spinse la porta dell'appartamento, si trovò davanti a un soggiorno leggermente illuminato e arredato con gusto; stava per varcare la soglia quando il portone si aprì e lo spilungone entrò nell'atrio. Il tizio teneva in mano una borsetta, chissà per quale motivo, ed era entrato con un'espressione sciocca sul viso, che cambiò subito quando vide Junior. Ecco che l'odioso passato tornava di nuovo, proprio quando lui pensava di essersene liberato. Quello spilungone figlio di puttana, il guardiano di Bartholomew, se ne era andato con la sua auto, era tornato a casa, ma non poteva rimanere nel passato al quale apparteneva, e adesso stava aprendo la bocca per dire chi è lei o forse per chiedere aiuto, e così Junior gli sparò tre volte.
Mentre rimboccava le coperte dalla parte di Angel, Celestina domandò: «Ti piacerebbe che zio Wally diventasse il tuo papà?» «Sarebbe una cosa bellissima.» «Lo penso anch'io.» «Sai, non ho mai avuto un papà.» «Ma è valsa la pena aspettare Wally, vero?» «Andremo ad abitare con zio Wally?» «Di solito è così che si fa.» «E la signor Ornwall se ne andrà?» «Sono tutte cose a cui dovremo pensare.» «Se lei se ne va, sarai tu a dover fare il formaggio.» *** Il silenziatore non rendeva la pistola completamente silenziosa, ma i tre spari, ognuno dei quali somigliava a un colpo di tosse soffocato da una mano, non erano abbastanza forti da essere uditi fuori dell'atrio dell'edificio. Il primo proiettile colpi lo spilungone nella coscia sinistra, perché Junior aveva sparato mentre sollevava l'arma dal fianco, ma i due proiettili successivi centrarono il tronco. Niente male per un dilettante, anche se l'uomo si era trovato così vicino che il loro poteva essere definito un combattimento corpo a corpo, e Junior si convinse che se quella mutilazione al piede sinistro non gli avesse impedito di andare a combattere in Vietnam, lui si sarebbe comportato eccezionalmente bene in guerra. Stringendo la borsetta come se fosse ben deciso a resistere allo scippo anche dopo morto, il tizio crollò a terra scompostamente, rabbrividì e rimase immobile sul pavimento. Era caduto senza nemmeno gridare aiuto, senza lanciare un urlo di dolore, facendo così poco rumore che Junior avrebbe voluto baciarlo, solo che non baciava gli uomini, vivi o morti, anche se una volta un uomo vestito da donna lo aveva ingannato e anche se una volta un pianista morto lo aveva leccato al buio. Con la vocina vivace come il suo abbigliamento da notte, sorella spirituale di tutti i pulcini del mondo, la gialla Angel sollevò la testa dal cuscino e domandò: «Ci sarà un matrimonio?» «Un matrimonio meraviglioso», le promise Celestina, estraendo un pigiama da un cassetto.
Finalmente Angel cominciò a sbadigliare. «La torta?» «C'è sempre una torta ai matrimoni.» «Mi piace la torta. Mi piacciono i cuccioli.» Sbottonandosi la camicetta, Celestina commentò: «Di solito, i cuccioli non sono previsti ai matrimoni». Squillò il telefono. «Non vendiamo pizza», borbottò Angel, perché ultimamente avevano ricevuto alcune telefonate di persone che cercavano una pizzeria, il cui numero di telefono era diverso dal loro soltanto per una cifra. Afferrando il ricevitore prima del secondo squillo, Celestina disse: «Pronto?» «La signorina White?» «Sì.» «Solo il detective Bellini della polizia di San Francisco. Va tutto bene lì?» «Tutto bene? Sì. Che cosa...» «C'è qualcuno con lei?» «La mia bambina», rispose lei, rendendosi conto in ritardo che, dopotutto, l'uomo poteva non essere un poliziotto ma qualcuno che voleva sapere se lei e Angel fossero da sole nell'appartamento. «Per favore non si allarmi, signorina White, ho mandato un'auto della polizia a casa sua.» E, tutto d'un colpo, Celestina si convinse che Bellini era davvero un poliziotto, non perché nella sua voce percepisse un tono di autorità, ma perché il suo cuore le diceva che il momento era arrivato, che il pericolo che da tanto tempo incombeva su di lei si era infine materializzato: la minaccia di cui Phimie l'aveva avvertita tre anni prima. «Abbiamo motivo di credere che il violentatore di sua sorella adesso stia dando la caccia a lei.» Sarebbe arrivato. Lo sapeva. L'aveva sempre saputo, ma se lo era quasi dimenticato. C'era qualcosa di speciale in Angel e, a causa di quella sua particolarità, viveva sotto la stessa minaccia in cui erano vissuti tutti i neonati di Betlemme durante il decreto di Re Erode. Molto tempo prima, Celestina aveva intuito in tutto questo un disegno misterioso e complesso e, ai suoi occhi di artista, la simmetria del disegno prevedeva che, prima o poi, il padre sarebbe arrivato. «Le porte sono chiuse a chiave?» volle sapere Bellini. «C'è soltanto la porta d'ingresso. Sì. È chiusa a chiave.»
«Lei dove si trova in questo momento?» «In camera mia.» «E sua figlia dov'è?» «Qui.» Angel si era messa a sedere in mezzo al letto, tanto gialla, quanto sveglia. «La porta della sua camera ha una serratura?» domandò Bellini. «Sì, ma non è un granché.» «La chiuda comunque. E non riagganci. Rimanga in linea fino a quando non arriveranno i poliziotti.» Junior non poteva lasciare il morto nell'atrio e sperare di poter trascorrere qualche gradevole momento con Celestina. Tutto ciò che un delitto si lasciava dietro riusciva sempre a farsi scoprire, spesso nel momento peggiore; era una cosa che aveva imparato dai film, dalla cronaca nera e anche dall'esperienza personale. E dopo la scoperta arrivava immediatamente la polizia, a sirene spiegate e con grande entusiasmo, perché quei bastardi di poliziotti erano i perdenti più concentrati sul passato che esistessero sulla faccia della terra, erano letteralmente consumati dal loro interesse per il dopo-crimine. Si infilò la calibro 9 sotto la cintura, afferrò lo spilungone per i piedi e lo trascinò rapidamente verso la porta dell'appartamento numero uno. Il corpo lasciò una scia di sangue che scintillò sul pavimento chiaro. Non erano certo laghi di sangue, solo tracce, Junior avrebbe potuto farle sparire in fretta, una volta tolto il cadavere dall'atrio, ma la vista di quel sangue lo faceva infuriare ancor di più. Era venuto lì per concludere tutto ciò che era rimasto in sospeso a Spruce Hills, per liberarsi dagli spiriti vendicativi, per migliorare la sua vita e per tuffarsi finalmente e completamente in un nuovo e brillante futuro. Dannazione, non era lì per occuparsi delle pulizie dell'edificio. Il filo del telefono non era abbastanza lungo per permettere a Celestina di portare il ricevitore con sé, quindi lo posò sul comodino, accanto all'abat-jour. «Che cosa succede?» domandò Angel. «Fai la brava, zuccherino», le raccomandò Celestina, attraversando la camera per raggiungere la porta, che era appena socchiusa. Tutte le finestre erano bloccate. Stava sempre attenta a non lasciarle a-
perte. Sapeva che anche la porta d'ingresso era chiusa a chiave, perché Wally aveva aspettato che lei chiudesse entrambe le serrature prima di andarsene. Tuttavia, uscì nel corridoio, immerso nel buio, superò rapidamente la camera di Angel, si avviò verso l'ingresso, attraversando il soggiorno illuminato da una lampada... e vide un uomo entrare dalla porta aperta, camminando all'indietro e trascinando qualcosa di scuro, grosso e pesante, trascinando un... Oh, Gesù santo, no. Aveva trascinato lo spilungone per metà oltre la soglia, quando udì qualcuno esclamare: «No». Junior si voltò a guardare oltre la spalla proprio mentre Celestina faceva dietrofront e si metteva a correre. Riuscì appena a intravederla mentre scompariva in un corridoio interno. Concentrati. Finisci di trascinare all'interno lo spilungone. Agisci adesso, pensa dopo. No, no, una buona concentrazione richiede di comprendere bene ciò che bisogna fare: esaminare attentamente la situazione, analizzarla, stabilire delle priorità. Prendi quella puttana, prendi quella puttana! Respiri lenti e profondi. Incanala la tua meravigliosa rabbia. Un uomo completamente evoluto è calmo e riesce a mantenere il controllo. Muoviti, muoviti, muoviti! All'improvviso, molte delle massime più importanti di Zedd sembrarono entrare in conflitto l'una con l'altra, mentre prima, tutte insieme, avevano formato una valida filosofia e una guida al successo. E, dopo un breve conflitto interno su che cosa andava fatto, riflettere o agire, Junior lasciò lo spilungone mezzo dentro e mezzo fuori dell'appartamento. Doveva arrivare a Celestina prima che lei raggiungesse un telefono, poi sarebbe tornato indietro e avrebbe finito di trascinare il corpo all'interno. Celestina sbatté la porta, premette il pulsante di chiusura del pomello, spinse, trascinò, fece traballare il cassettone davanti alla porta, meravigliandosi della sua forza, e sentì Angel che diceva al telefono: «La mamma sta spostando un mobile». Strappò il ricevitore dalle mani di Angel e disse a Bellini: «È qui», gettò il telefono sul letto e raccomandò ad Angel: «Stammi vicina», poi corse verso le finestre e tirò le tende.
Impegnati e domina. Non è poi così importante se l'azione nella quale ti impegni sia prudente o avventata, non ha alcuna importanza se la società in generale ritiene che tu stia facendo una cosa «buona» o «cattiva». Dal momento in cui tu ti impegni senza riserve, inevitabilmente riuscirai a mantenere il controllo, perché sono così poche le persone disposte a impegnarsi in qualcosa, giusta o sbagliata, saggia o insensata, che coloro che si lanciano hanno quasi sempre il successo assicurato, anche quando le loro azioni sono sconsiderate e la loro causa idiota. Lungi dall'essere idiota, la causa di Junior rappresentava la sopravvivenza e la salvezza, e lui vi si impegnava con ogni fibra del suo corpo, con tutta la mente e il cuore. Tre porte nel corridoio buio: una a destra, socchiusa, e due a sinistra, entrambe chiuse. Prima a destra. Spalancò la porta con un calcio e, allo stesso tempo, sparò due colpi, perché forse quella era la camera di Celestina, dove lei teneva una pistola. Vetri in frantumi: tintinnio di vetro sulla porcellana, vetro sulle piastrelle di ceramica, molto più rumoroso degli spari. Si rese conto di aver riempito di schegge un bagno vuoto. Troppo fragore, attirava l'attenzione. Niente più serata d'amore, nessuna possibilità di farsi entrambe le sorelle. Solo ammazzare Celestina, ammazzare Bartholomew e andare, andare. Prima stanza a sinistra. Muoversi, spalancare la porta con un altro calcio. La sensazione di uno spazio più ampio, niente bagno questa volta, e più buio. Spostare la pistola da una parte all'altra, stringendola con entrambe le mani. Due rapidi spari: un colpo di tosse soffocato, un colpo di tosse soffocato. Interruttore della luce a sinistra. Palpebre che sbattono nel chiarore improvviso. Una cameretta da bambino. La camera di Bartholomew. Mobili dai colori vivaci. Poster di orsacchiotti sulle pareti. Stranamente, bambole. Molte bambole. Evidentemente il piccolo bastardo era un effeminato, una qualità che di sicuro non aveva ereditato da suo padre. Nessuno, lì dentro. Forse sotto il letto, nell'armadio? Una perdita di tempo, controllare. Più probabilmente la donna e il bambino si nascondevano nell'ultima stanza.
*** Come un piccolo fulmine giallo, Angel si lanciò verso sua madre, afferrando una delle tende drappeggiate come se volesse nascondervisi dietro. Dato che si trattava di una finestra alla francese suddivisa in tanti piccoli pannelli, Celestina non poteva semplicemente rompere il vetro e uscire. Il telaio era profondamente incassato e si apriva verso l'esterno. Due saliscendi sul lato destro, uno in alto, uno in basso. Una manovella staccabile posata sul davanzale. Meccanismo all'interno dell'intelaiatura. Celestina infilò l'albero della manovella nell'apposito foro. Non entrava. Le tremavano le mani. Le alette d'acciaio sull'albero della manovella dovevano essere inserite nelle scanalature del tubo interno. Continuava ad annaspare, ad annaspare. Ti prego, Signore, aiutami. Il pazzo cominciò a dar calci alla porta. Un momento prima, si era scaraventato nella camera di Angel, facendo un gran rumore, ma adesso il fracasso era ancora più forte, abbastanza da svegliare tutti gli inquilini della casa. La manovella si inserì. Gira, gira. Dov'era l'auto della polizia? Perché non si sentivano sirene? Il meccanismo della finestra prese a cigolare, i due alti pannelli cominciarono ad aprirsi verso l'esterno, ma troppo lentamente, e la notte fredda e bianca espirò un fiato gelido nella stanza. Il pazzo diede un altro calcio ma, grazie al cassettone, la porta non cedette, lui insisté, con maggior forza, ma di nuovo inutilmente. «Fai presto», sussurrò Angel. Junior indietreggiò e fece partire due colpi, mirando alla serratura. Un proiettile staccò un pezzo di legno dallo stipite, ma l'altro attraversò la porta, mandando in frantumi qualcosa di più duro del legno e il pomello d'ottone sussultò, cadendo quasi a terra. Si lanciò contro la porta, che tuttavia continuò a resistere, e sorprese se stesso lasciandosi andare a un urlo di frustrazione che esprimeva l'opposto dell'autocontrollo, anche se chiunque fosse stato in ascolto non avrebbe potuto minimamente dubitare della sua determinazione a impegnarsi e a dominare. Sparò di nuovo alla serratura, premette il grilletto una seconda volta e si
accorse che nel caricatore non vi erano più proiettili. Nelle tasche aveva un certo numero di cartucce extra. Ma non intendeva proprio fermarsi a ricaricare l'arma in quel penultimo, disperato momento, quando il successo o il fallimento si sarebbero decisi nel giro di pochi secondi. Quella sarebbe stata la scelta di un uomo che prima pensava, e poi agiva, il comportamento di un perdente nato. Uno dei proiettili aveva staccato un pezzo di porta largo quanto un piatto. Grazie alla luce che proveniva dalla stanza, Junior riuscì a vedere che la serratura era completamente distrutta. Sbirciando attraverso il buco, Junior si trovò davanti alla parte posteriore di un mobile che era stato appoggiato contro la porta, e a quel punto capì qual era il problema. Tenendo il braccio sinistro stretto contro il fianco, si gettò contro la porta. Il mobile che bloccava l'entrata era pesante, ma si spostò di qualche centimetro. Se si era spostato di un paio di centimetri una volta, si sarebbe spostato ancora, non era impossibile da muovere, e lui era praticamente già dentro. Celestina non udì gli spari, ma vide i proiettili attraversare la porta. Il cassettone che bloccava l'ingresso fungeva anche da toletta ed era sormontato da uno specchio. Un proiettile attraversò il compensato del pannello posteriore, disegnò una ragnatela sullo specchio, andò a conficcarsi nella parete al di sopra del letto, facendo partire una raffica di schegge d'intonaco. I due pannelli della finestra si erano aperti di meno di quindici centimetri, quando si bloccarono. Il meccanismo emise un deprimente stridore che suonò come la pronuncia gutturale del suo problema, r-r-r-ruggine, poi grippò. Neppure Angel, piccola come un cherubino, sarebbe riuscita a passare attraverso un varco così stretto. Nel corridoio, il pazzo si mise a urlare per la frustrazione. Quell'odiosa finestra. Quell'odiosa finestra ghiacciata. Celestina cercò di girare la manovella con tutte le sue forze e sentì qualcosa cedere un po', girò di nuovo, ma poi la manovella uscì dal suo alloggiamento e andò a sbattere contro il davanzale. Anche questa volta non udì i colpi, ma il rumore secco del legno che andava in frantumi le fece comprendere che l'uomo doveva aver sparato almeno altri due proiettili. Allontanandosi dalla finestra, Celestina afferrò la piccola e la spinse ver-
so il letto, sussurrando: «Giù, sotto». Angel non voleva andarci, forse perché, nei suoi incubi, aveva visto l'uomo nero nascosto sotto il letto. «Spicciati!» insisté Celestina in tono deciso. Alla fine Angel si inginocchiò a terra e scivolò in avanti, scomparendo sotto il bordo delle coperte con un guizzare di calzini gialli. Tre anni prima, al St. Mary's Hospital, con l'avvertimento di Phimie che ancora le risonava nella mente, Celestina aveva giurato che, quando il mostro fosse arrivato, lei sarebbe stata pronta, ma adesso era lì, e lei era tutt'altro che pronta. Il tempo passa, la percezione del pericolo sbiadisce nella memoria, la vita si fa più intensa, una si ammazza di fatica facendo la cameriera, porta a termine gli studi, la bambina cresce così vivace e piena di energia che sei convinta che vivrà per sempre e, dopotutto, sei la figlia di un pastore, credi nella forza della compassione, nel Principe della pace, sei convinta che i miti erediteranno la terra, quindi, in tre lunghi anni, non compri una pistola, non ti alleni all'autodifesa, e dimentichi che i miti che un giorno erediteranno la terra sono quelli che non aggrediscono, ma non sono quelli così pateticamente miti da non difendersi nemmeno, perché il non opporsi al male è un peccato e il rifiuto volontario di difendere la propria vita è il peccato mortale di suicidio passivo; il non proteggere la vita di una cioccolatina vestita di giallo è come acquistare un biglietto per l'inferno e salire sullo stesso treno che aveva condotto gli schiavisti alla loro eterna schiavitù, e gli aguzzini di Dachau e il vecchio Stalin dal potere alla punizione; quindi, adesso, mentre quel mostro si getta contro la porta, mentre riesce a spingere di lato il cassettone, con quel poco, preziosissimo tempo che ti è rimasto, combatti. Junior riuscì faticosamente ad attraversare la porta bloccata e a entrare nella camera, quando quella puttana lo colpì con una sedia. Una seggiola senza braccioli, con il sedile ricoperto da un cuscino. La lanciò come fosse una mazza da baseball e doveva esserci un po' di sangue di Jackie Robinson nella famiglia White, perché dimostrò di avere abbastanza forza da far volare una palla da Brooklyn al Bronx. Se lo avesse colpito sul fianco sinistro, come era sua intenzione, avrebbe potuto spezzargli un braccio o incrinargli qualche costola. Ma Junior vide arrivare la sedia e, agile come un giocatore che cerca di arrivare alla base evitando di essere toccato dall'interbase, si voltò di scatto, ricevendo il colpo sulla schiena.
Per la verità, un colpo sulla schiena così forte non ricordava tanto una partita di baseball, quanto piuttosto il Vietnam dei ricordi che si inventava per farsi bello con le donne. Come se fosse stato scagliato in avanti dallo scoppio di una granata, Junior cadde violentemente a terra, sbattendo il mento e i denti che, simili a una ghigliottina, gli avrebbero tranciato la lingua, se solo si fosse trovata in mezzo. Junior sapeva che la ragazza non si sarebbe fermata a valutare le sue doti di battitrice, quindi ruotò immediatamente su se stesso, allontanandosi dalla traiettoria, immensamente sollevato perché riusciva ancora a muoversi visto che, a giudicare dal dolore che sentiva, pensava di avere la schiena spezzata e di essere rimasto paralizzato. La sedia si abbatté nuovamente, ma questa volta colpì il punto in cui Junior si era trovato solo un istante prima. Quella pazza si era lanciata con tanta forza che, per il contraccolpo, l'impatto con il pavimento doveva averle fatto intorpidire le braccia. Inciampò all'indietro, trascinando la sedia, momentaneamente incapace di sollevarla. Mentre entrava nella camera, Junior aveva pensato di gettare la pistola ed estrarre un coltello. Ma adesso non se la sentiva più di affrontare un corpo a corpo. Fortunatamente era riuscito a non farsi sfuggire la pistola di mano. Era troppo dolorante per riprendersi immediatamente e approfittare della momentanea vulnerabilità della donna. Rimettendosi in qualche modo in piedi, si allontanò da lei e cominciò a frugare in una tasca, alla ricerca di proiettili di riserva. La donna aveva nascosto Bartholomew da qualche parte. Probabilmente nell'armadio. Fai fuori la pittrice, ammazza il bambino. Lui era un uomo che aveva qualcosa di preciso in mente, concentrato, impegnato, pronto ad agire e poi a pensare, appena fosse stato in grado di agire. Una fitta di dolore gli fece tremare la mano. Le pallottole gli scivolarono tra le dita, caddero a terra. Le tue azioni... ti torneranno indietro, ingigantite oltre ogni possibilità d'immaginazione. Di nuovo quelle parole sinistre, che continuavano a tornargli alla memoria. Questa volta le sentì pronunciate da un'altra persona. La voce aveva un tono autorevole, e una voce più profonda e una dizione più precisa della sua.
Espulse il caricatore dall'impugnatura della pistola. Lo fece quasi cadere a terra. Celestina cominciò a girargli intorno, un po' trasportando e un po' trascinando la sedia, o perché sentiva ancora i nervi vibrare e aveva le braccia deboli, oppure perché si fingeva vulnerabile nella speranza di farlo reagire in modo avventato. Junior prese a ruotare su se stesso in modo da averla sempre di fronte, cercando freneticamente di ricaricare l'arma senza distogliere lo sguardo dalla ragazza. Sirene. Lo spirito di Bartolomeo... ti troverà... e lascerà cadere su di te il terribile giudizio che meriti. Nel ricordo, la voce educata, in qualche modo teatrale, e tuttavia sincera del reverendo White si levò dal passato, per rivolgere questa minaccia, così come aveva fatto quella notte dal registratore, mentre Junior ballava una sudaticcia danza orizzontale con Seraphim, nella cameretta della canonica. La minaccia del reverendo era stata dimenticata, repressa. Quella sera, l'aveva ascoltata solo a metà, era stata unicamente uno stuzzicante sottofondo al rapporto sessuale, e quelle parole avevano divertito Junior, non aveva pensato al loro significato, al messaggio di castigo che contenevano. Adesso, in quel momento di estremo pericolo, il ricordo represso esplose come una pentola a pressione e Junior rimase scioccato, sbalordito, rendendosi conto che il reverendo gli aveva gettato addosso una maledizione! Sirene sempre più vicine. Le cartucce scintillavano sulla moquette. Chinarsi a raccoglierle? No. Era come chiedere di ricevere un colpo che gli avrebbe spaccato il cranio. Celestina, la battista infuriata di nuovo in azione, si lanciò ancora una volta verso di lui. Con una gamba rotta, un'altra incrinata e la spalliera spezzata a metà, la sedia non era più un'arma tanto pericolosa. Lei la sollevò, facendola roteare, Junior si scansò, Celestina lo colpì di nuovo, lui spostò il corpo e lei indietreggiò barcollando, senza fiato. La puttana si stava stancando, ma Junior non era ancora convinto di poter sostenere un corpo a corpo. Celestina aveva i capelli scarmigliati. Gli occhi lanciavano bagliori così selvaggi che a lui sembrò avesse pupille ellittiche come quelle dei gattopardi. Aveva le labbra tirate sui denti, come se stesse ringhiando. Sembrava pazza come la madre di Junior. Troppo vicine, quelle sirene. Un'altra tasca. Altri proiettili. Cercò di infilarne solo due nel caricatore,
ma le mani tremavano, ed erano sudaticce. La sedia. Un colpo a vuoto, nessun danno, l'aveva solo fatto indietreggiare verso la finestra. Le sirene erano proprio lì. Poliziotti all'ingresso dell'edificio, la pazza con la sedia, la maledizione del reverendo... tutte queste cose insieme erano più di quanto un uomo anche determinato come lui poteva sopportare. Esci dal presente, lanciati nel futuro. Gettò a terra la pistola, il caricatore e i proiettili. Mentre la puttana si preparava a colpire di nuovo, Junior afferrò la sedia. Non cercò di strappargliela dalle mani, ma se ne servì per spingere Celestina con tutte le sue forze. Lei inciampò nella gamba spezzata della sedia, perse l'equilibrio e cadde all'indietro, di fianco al letto. Agile come un gatto ottuagenario, urlando di dolore, Junior balzò sul davanzale e si scagliò contro i vetri della finestra. Erano già parzialmente aperti... ma erano anche bloccati. Accovacciato sul profondo davanzale, spingendo con tutte le forze, usando non solo i muscoli ma l'intero peso del corpo, cercando quasi di sfondare i pannelli di vetro, il pazzo tentò di scappare dalla camera. Nonostante il cuore le martellasse rumorosamente in petto e il fiato le uscisse con il sibilo di un mantice, Celestina udì il legno spezzarsi, un piccolo riquadro di vetro esplodere e il metallo torcersi stridendo. Quel mostro stava per scappare. La finestra non si affacciava sulla strada. Dava su un vicolo, largo poco più di un metro e mezzo, che divideva la casa da quella accanto. I poliziotti potevano benissimo non vederlo fuggire. Avrebbe potuto cercare di colpirlo ancora una volta con la sedia, ma ormai stava andando in pezzi. Preferì quindi gettarsi in ginocchio e afferrare il caricatore della pistola rimasto sul pavimento. L'urlo delle sirene squarciò il silenzio. L'auto della polizia doveva essersi fermata lungo il marciapiede. Celestina raccolse un proiettile d'ottone. Un altro piccolo riquadro di vetro che andava in frantumi. Uno spezzarsi di legno. Volgendole le spalle, il pazzo si accaniva contro la finestra con la ferocia di una belva in gabbia. Celestina non aveva alcuna esperienza di armi da fuoco, ma avendo vi-
sto l'uomo cercare di infilare i proiettili nel caricatore, ora sapeva come caricare la pistola. Inserì un proiettile. Poi un altro. Erano sufficienti. L'arrugginito meccanismo della finestra cominciò a cedere, così come i cardini, e i vetri si aprirono verso l'esterno. Dalla parte opposta dell'appartamento, alcuni uomini gridarono: «Polizia!» Celestina urlò: «QUI! VENITE QUI!» e contemporaneamente spinse con un colpo secco il caricatore nell'impugnatura della pistola. Ancora in ginocchio, sollevò l'arma, rendendosi conto che stava per colpire quell'uomo alla schiena, che non aveva altra scelta, perché la sua inesperienza non le permetteva di mirare a una gamba o a un braccio. Si sentì sopraffatta dal dilemma morale, ma anche dall'immagine di Phimie morta, su un tavolo operatorio, in mezzo a lenzuola insanguinate. Tirò il grilletto e barcollò per il contraccolpo. La finestra cedette un attimo prima che Celestina facesse partire il colpo. L'uomo si lanciò all'esterno, scomparendo alla vista. Lei non sapeva se fosse riuscita a centrarlo o no. Corse alla finestra. La stanza calda risucchiava nuvole di nebbia fredda dalla notte, e lei si sporse oltre il davanzale, immergendosi nell'ondata bianca. Lo stretto vicolo, dal pavimento di mattoni, si trovava un metro e mezzo più sotto. Nella fuga, il pazzo aveva rovesciato alcuni bidoni della spazzatura ma, in mezzo ai sacchetti, lui non c'era. Dalla nebbia e dal buio giunse il rumore di scarpe che correvano sui mattoni. Stava cercando di raggiungere il retro della casa. «Butti giù la pistola!» Celestina gettò la pistola prima ancora di voltarsi e, ai poliziotti che stavano entrando nella camera, disse: «Sta scappando!» Dal vicolo al passaggio sul retro della casa, da lì alla strada principale, nella città, nella nebbia e nella notte, Junior fuggì dal passato di Cain verso il futuro di Pinchbeck. Nel corso di quel giorno così straordinario, aveva utilizzato tutte le tecniche apprese da Zedd per incanalare la sua collera in una rabbia che ardeva come il fuoco. Adesso, senza dover fare alcuno sforzo, la sua rabbia si trasformò in una furia al calor bianco. Se non fossero bastati gli spiriti vendicativi, per tre anni lui aveva dovuto inconsapevolmente lottare contro la terribile forza della maledizione del
reverendo, quello stregone battista che gli aveva avvelenato la vita. Ora sapeva perché era stato perseguitato dall'emetismo nervoso, da una tremenda diarrea, dall'orticaria che lo aveva sfigurato. Perché non era riuscito a trovare la donna della sua vita, perché aveva dovuto subire quell'umiliazione dell'incontro con Renee Vivi, i due sgradevoli episodi di gonorrea, la disastrosa catatonia meditativa, l'incapacità di imparare il francese e il tedesco, la solitudine, la sensazione di vuoto, i vani tentativi di trovare e ammazzare il piccolo bastardo nato da Phimie: tutte queste cose, e molte altre ancora, erano la conseguenza della crudele maledizione di quel cristiano ipocrita. Essendo un uomo completamente realizzato ed evoluto, un uomo determinato che sapeva apprezzare i propri istinti, Junior avrebbe dovuto attraversare la vita come se navigasse in acque tranquille, sotto cieli perennemente azzurri, a vele sempre spiegate, e invece si sentiva costantemente sbattuto qua e là, come in una tempesta senza fine, e non per i limiti della sua mente, del suo cuore o del suo carattere, ma unicamente per colpa della magia nera. 71 Al St. Mary's Hospital, dove tre anni prima aveva fatto nascere Angel, ora Wally lottava per la vita, per avere la possibilità di vedere la bambina crescere ed essere il padre di cui lei aveva bisogno. Quando Celestina e Angel arrivarono qualche minuto dopo l'ambulanza, Wally era già stato portato in sala operatoria. Era stato il detective Bellini ad accompagnarle con un'auto della polizia. Tom Vanadium - un amico del padre di Celestina che lei aveva incontrato alcune volte a Spruce Hills, ma che non conosceva bene - fece da scorta, pronto a reagire, controllando attentamente gli occupanti degli altri veicoli che percorrevano le strade nebbiose, come se uno di loro dovesse essere sicuramente il folle omicida. Per quel che Celestina ne sapeva, Tom era un detective della polizia di stato dell'Oregon e quindi non comprendeva che cosa ci facesse lì. Né poteva immaginare quale disgrazia gli fosse accaduta lasciandolo con un viso deforme, che sembrava pendere da tutte le parti. L'ultima volta che lo aveva visto, era stato al funerale di Phimie. Qualche minuto prima, davanti a casa sua, l'aveva riconosciuto unicamente per la voglia rossa. Suo padre rispettava e ammirava Tom, quindi Celestina era ben felice di vederlo in quel momento. E chiunque fosse riuscito a sopravvivere alla ca-
tastrofe che gli aveva ridotto il viso a un quadro cubista, era sicuramente un uomo che lei desiderava avere dalla sua parte in un momento di crisi. Seduta sul sedile posteriore dell'auto, stringendo a sé una piccola Angel terrorizzata, Celestina si stupì del proprio coraggio durante l'aggressione e della calma con la quale adesso si stava comportando. Non era scossa al pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere a lei e a sua figlia, perché adesso nella sua mente e nel suo cuore non c'era spazio che per Wally e perché, essendo cresciuta nella fede, ne possedeva un'ampia riserva a cui attingere in caso di necessità. Bellini rassicurò Celestina sul fatto che, secondo loro, Cain non era così sconsiderato da seguire le auto della polizia e da tentare di aggredirla in ospedale. In ogni caso, aveva messo un poliziotto di guardia nel corridoio fuori della sala d'aspetto in cui sostavano i parenti e gli amici dei pazienti ricoverati nell'unità di terapia intensiva. E, a giudicare dalla serietà con cui il poliziotto faceva la guardia, Bellini non doveva aver escluso completamente la possibilità che Cain si presentasse in ospedale per portare a termine ciò che aveva iniziato nella casa di Pacific Heights. Come tutte le sale d'aspetto delle unità di terapia intensiva, in cui la morte se ne sta pazientemente seduta, pregustando con un sorriso ciò che avverrà, la stanza era pulita ma anonima e l'arredamento era essenziale ma non confortevole, come se comodità e colori vivaci potessero irritare quella figura ascetica e spingerla a portarsi via più pazienti di quanto avrebbe fatto altrimenti. A volte, perfino a quell'ora - era già passata la mezzanotte - la sala era affollata di parenti preoccupati come in qualsiasi altro momento del giorno. Ma in quell'occasione, l'unica vita che correva il pericolo di essere falciata era quella di Wally; la veglia era solo per lui. Traumatizzata dalla scena violenta a cui aveva assistito nella camera di sua madre, senza aver compreso appieno ciò che era accaduto a Wally, Angel era arrivata in ospedale agitata e in lacrime. Un medico le aveva quindi dato un bicchiere di succo d'arancia in cui aveva versato una piccola dose di sedativo, e un'infermiera le aveva portato dei cuscini. Sdraiata su due sedie imbottite con questi cuscini, indossando una vestaglietta rosa sopra il pigiama giallo, la bambina si abbandonò al sonno come faceva sempre, con o senza sedativi, nello stesso modo in cui si abbandonava alla vita quando era sveglia. Dopo aver raccolto la deposizione preliminare di Celestina, Bellini andò a tirar giù dal letto un giudice per farsi firmare un mandato di perquisizio-
ne per l'appartamento di Enoch Cain, mentre aveva già ordinato di tenere sotto stretta sorveglianza l'edificio di Russian Hill. La descrizione che Celestina aveva fatto del suo aggressore corrispondeva perfettamente a quella di Cain. Inoltre, la Mercedes del sospetto era stata abbandonata davanti alla casa della ragazza. Bellini appariva fiducioso di riuscire presto a trovare e arrestare l'uomo. D'altra parte, Tom Vanadium era certo che Cain, essendosi preparato all'eventualità che qualcosa andasse storto durante l'aggressione a Celestina, non sarebbe stato individuato e acciuffato tanto facilmente. Secondo Vanadium, quel pazzo omicida o aveva un nascondiglio in città nel quale andarsi a rifugiare, oppure si trovava già fuori della giurisdizione della polizia di San Francisco. «Be', forse hai ragione», ammise Bellini in tono piuttosto aspro, prima di andarsene, «ma tu hai avuto il vantaggio di poter perquisire illegalmente il suo appartamento, mentre io non mi posso muovere senza un mandato.» Celestina ebbe la sensazione che fra i due uomini vi fosse una profonda amicizia, ma anche una certa tensione, forse legata a quell'episodio di perquisizione illegale. Dopo che Bellini si fu allontanato, Tom interrogò a lungo Celestina, soffermandosi in modo particolare sulla violenza subita da Phimie. Sebbene si trattasse di un argomento assai doloroso, lei gli fu grata per quelle domande. Senza quella distrazione, nonostante tutta la sua riserva di speranza, probabilmente avrebbe lasciato che la sua fantasia immaginasse una situazione tragica dopo l'altra, vedendo Wally morire almeno cento volte. «Suo padre nega che vi sia mai stato uno stupro, immagino per quella che io definirei una contorta volontà di confidare nella giustizia divina.» «In parte è vero», confermò lei. «Ma, inizialmente, papà voleva che Phimie parlasse, in modo che quell'uomo potesse essere incriminato e giudicato da un tribunale. Sebbene sia un buon battista, papà non è completamente privo di desiderio di vendetta.» «Sono felice di sentirlo», commentò Tom. Il suo sorrisetto poteva essere ironico, ma non era facile interpretare il significato di quella espressione su un viso così martoriato. «E dopo che Phimie è morta... lui sperava ancora di riuscire a sapere il nome dello stupratore, di farlo chiudere in galera. Ma poi è accaduto qualcosa che gli ha fatto cambiare idea... all'incirca due anni fa. Improvvisamente, ha preferito lasciar perdere, lasciare che fosse Dio a giudicare quell'uomo. Disse che se lo stupratore fosse stato pazzo come aveva affermato
Phimie, allora Angel e io potevamo essere in pericolo anche se soltanto ne avessimo saputo il nome e lo avessimo riferito alla polizia. Lascia stare il cane che dorme e cose del genere. Non so che cosa gli abbia fatto cambiare idea.» «Io sì», disse Vanadium. «Lo so adesso. Grazie a lei. Quello che gli ha fatto cambiare idea sono io... questa faccia. È stato Cain a ridurmi così. Ho trascorso quasi tutto il 1965 in coma. Quando ne sono uscito e mi sono ristabilito abbastanza per ricevere visite, ho chiesto di poter vedere suo padre. È successo un paio d'anni fa... proprio come dice lei. Max Bellini mi aveva informato che Phimie era morta di parto, non in un incidente, e l'istinto di Max gli suggeriva che doveva essersi trattato di stupro. Ho spiegato a suo padre per quale motivo Cain doveva essere il colpevole. Desideravo ricevere tutte le informazioni di cui lui poteva essere in possesso. Ma immagino che... seduto accanto al mio letto, guardando il mio viso, abbia deciso che Cain fosse il più grosso cane che dormiva di tutti i tempi e che non voleva far correre a sua figlia e a sua nipote più rischi di quanto fosse necessario.» «E ora è successo questo.» «È successo questo. Ma anche se suo padre avesse collaborato, non sarebbe cambiato nulla. Dato che Phimie non aveva mai rivelato il nome del violentatore, non sarei riuscito comunque a inchiodare Cain.» Sul lettino formato da due sedie, accanto a sua madre, Angel emise dei piccoli gridolini angosciati. Qualunque fossero le presenze che la angustiavano nel sogno, non dovevano essere certo pulcini. Cercando di rassicurarla sottovoce, Celestina posò una mano sulla testa della bambina e le accarezzò la fronte, i capelli, fino a quando la piccola si tranquillizzò. Cercando altre informazioni, qualcosa che lo potesse aiutare a comprendere per quale motivo quel pazzo era ossessionato da Bartholomew, Tom continuò a porre domande fino a quando, all'improvviso, Celestina capì e riferì quella che poteva essere l'informazione che lui stava cercando: nella sua perversione, Cain aveva insistito per ascoltare la bozza del sermone registrata dal reverendo, «Questo giorno straordinario», durante tutto lo stupro su sua sorella. «Phimie mi ha raccontato che quel pazzo lo trovava divertente, e che la voce di papà come musica di sottofondo era anche... be', lo eccitava, forse perché umiliava ancor di più mia sorella e perché lui sapeva che avrebbe umiliato nostro padre. Ma noi non lo abbiamo mai rivelato a papà. Nessu-
na delle due riteneva che potesse servire a qualcosa.» Per un po', piegandosi in avanti nella sedia e fissando il pavimento con un'intensità e un'espressione che non poteva essere ispirata dalle anonime piastrelle di linoleum, Tom rimuginò su quello che lei gli aveva detto. Poi: «Questo è il collegamento, ma non mi è ancora del tutto chiaro. Lui provava un piacere perverso nel violentarla, avendo come sottofondo il sermone di suo padre... e forse, senza che lui se ne sia reso conto, il messaggio del reverendo gli si è impresso nella memoria. Non penso che quel vigliacco che ha assassinato sua moglie sia in grado di provare sensi di colpa... anche se forse suo padre è riuscito a fare una specie di miracolo e a piantare quel seme dentro di lui». «Mamma dice sempre che, se mio padre volesse convincere i maiali che hanno le ali, loro si metterebbero sicuramente a volare.» «Ma in 'Questo giorno straordinario', Bartolomeo è soltanto il discepolo, la figura storica, e rappresenta anche una metafora delle conseguenze impreviste di tutte le nostre azioni, anche le più semplici.» «E allora?» «Non si tratta di un contemporaneo, di una persona di cui Cain potrebbe aver paura. Quindi, perché è ossessionato dall'idea di dover assolutamente trovare una persona di nome Bartolomeo?» Fissò Celestina negli occhi, come se lei potesse dargli una risposta. «Esiste un Bartolomeo in carne e ossa? E che collegamento ha tutto questo con l'aggressione nei suoi confronti? Ed esiste un collegamento?» «Penso che potremmo finire per diventare pazzi come lui, se continuiamo ad arrovellarci la mente per cercare di capire la sua logica contorta.» Vanadium scosse la testa. «Io penso che sia un essere malvagio, non pazzo. E stupido, come spesso sono le persone malvagie. Troppo arrogante e troppo vanitoso per rendersi conto della sua stupidità... e di conseguenza sempre vittima delle trappole che lui stesso si prepara. Ma anche se stupido, non per questo è meno pericoloso. Anzi, lo è molto di più di un uomo intelligente che si rende conto delle conseguenze di ciò che fa.» La voce piatta ma stranamente ipnotica di Tom Vanadium, i suoi modi pensosi, gli occhi grigi tanto belli in quel viso deforme, la sua aria di pacata malinconia e la sua evidente intelligenza facevano di lui una figura solida come un blocco di granito e, allo stesso tempo, distaccata dalle cose terrene. «Tutti i poliziotti sono filosofi come lei?» domandò Celestina. Vanadium sorrise. «Quelli che prima sono stati preti... sì, siamo piutto-
sto meditativi. Quanto agli altri... non molti, ma probabilmente più di quanti lei immagini.» Dei passi nel corridoio attirarono la loro attenzione verso la porta aperta; il chirurgo, con ancora il camice verde addosso, si fermò sulla soglia. Celestina balzò in piedi, con il cuore che improvvisamente riecheggiava come passi che si allontanassero rapidamente da un messaggero di cattive notizie, anche se lei non riuscì affatto a correre via, poté solo restare aggrappata alla sua speranza e udire nella sua mente sei versioni diverse di una prognosi infausta nei due secondi che precedettero le parole del medico. «L'operazione è riuscita. Dovrà restare nella sala postoperatoria per un po', poi verrà portato qui, nell'unità di terapia intensiva. Le sue condizioni sono critiche, ma vi sono diversi livelli di pericolosità, e credo che, molto prima di sera, potremo definirle semplicemente gravi. Ce la farà.» Questo giorno straordinario. In ogni fine, nuovi inizi. Ma, grazie a Dio, qui non vi era una fine. Libera, almeno per il momento, dalla necessità di essere forte per la sua Angel addormentata e per Wally, Celestina si voltò verso Tom Vanadium, scorse nei suoi occhi grigi tutto il dolore del mondo ma anche una speranza grande quanto la propria, vide in quel volto devastato la promessa della vittoria sul male, si appoggiò a lui e finalmente osò scoppiare in lacrime. 72 Nel suo furgone Ford pieno di cuscini ricamati, opere di Sklent e di Zedd, Junior Cain - Pinchbeck per il mondo - uscì dalla baia di San Francisco dalla porta posteriore. Imboccò la statale 24 per Walnut Creek, Ruscello Delle Noci, in cui forse non vi erano noci, ma che aveva una montagna e un parco ai quali era stato dato il nome del diavolo: Mount Diablo. La statale 4 per Antioch gli fece superare il delta del fiume a ovest di Bethel Island. Bethel, per coloro che avevano seguito i corsi avanzati in ampliamento del vocabolario, significava «luogo sacro». Dal diavolo al luogo sacro e poi sempre avanti, Junior si diresse a nord seguendo la statale 160, che un cartello orgogliosamente segnalava come strada panoramica anche se a quell'ora della notte era tutto nero e cupo. Seguendo il tortuoso corso del fiume Sacramento, la statale 160 attraversava una manciata di piccole città, assai distanziate l'una dall'altra. Quando si trovò tra Isleton e Locke, si accorse di avere il viso irritato in
più punti. Non sentiva gonfiori, niente tagli o graffi, e lo specchietto retrovisore gli rifletteva unicamente i bei lineamenti che avevano fatto battere il cuore di più donne di quanto fossero riusciti a fare tutte le anfetamine mai prodotte nel mondo. Gli doleva anche il corpo, soprattutto la schiena, per via dei colpi ricevuti. Si ricordò di aver colpito il mento sul pavimento e immaginò di aver picchiato anche il viso più di quanto si fosse reso conto o ricordasse. Se le cose stavano così, ben presto sarebbero comparsi anche dei lividi, che poi, un po' alla volta, sarebbero scomparsi; nel frattempo, i lividi avrebbero potuto renderlo ancora più attraente agli occhi delle donne, che avrebbero voluto consolarlo e fargli passare il dolore a furia di baci... soprattutto quando fossero venute a sapere che erano la conseguenza di una feroce lotta, sostenuta mentre cercava di salvare una vicina da uno stupratore. Tuttavia, quando i punti doloranti sulla fronte e sulle guance cominciarono a fargli ancor più male, si fermò a una stazione di servizio nei pressi di Courtland, acquistò una bottiglia di Pepsi da un distributore automatico e ingoiò un'altra capsula di antistaminico. Prese anche un altro antiemetico, quattro aspirine e - sebbene non avvertisse alcun tremore nell'intestino - vi aggiunse una dose di calmante. Protetto da tutti quei medicinali, finalmente giunse a Sacramento, un'ora prima dell'alba. La città di Sacramento, una parola che deriva dal verbo consacrare, ama definirsi la capitale mondiale delle camelie e ogni anno, all'inizio di marzo, organizza una mostra che dura dieci giorni e che, pur essendo ancora metà gennaio, veniva già pubblicizzata da diversi cartelloni. La camelia, sia la pianta sia il fiore, prende il nome da G.J. Camellus, un missionario gesuita che, nel diciottesimo secolo, l'aveva importata in Europa dall'Asia. Montagne del diavolo, isole sacre, fiume e città sacramentali, gesuiti: quei riferimenti spirituali incontrati uno dopo l'altro facevano sentire Junior a disagio. Quella era davvero una notte da incubo, su questo non c'erano dubbi. Non sarebbe rimasto molto sorpreso se, lanciando un'occhiata nello specchietto retrovisore, avesse visto la Studebaker Lark Regal di Thomas Vanadium che lo seguiva da vicino, non l'auto vera recuperata dal lago Quarry, ma la sua versione fantasma, con lo spirito da scimmia puzzolente e rognosa del poliziotto dietro al volante, un ectoplasma di Naomi accanto a lui e, sul sedile posteriore, Victoria Bressler, lo Spilungone, Bartholomew Prosser e Neddy Gnathic: la Studebaker degli spiriti, come la macchina piena di clown di un circo, anche se non ci sarebbe stato niente
di divertente in quei fantasmi vendicativi, una volta che le portiere si fossero aperte e loro fossero ruzzolati fuori. Quando infine raggiunse l'aeroporto, trovò una società di noleggio di aerei charter, riuscì a mettersi in contatto con il proprietario attraverso il guardiano notturno e prese accordi per farsi condurre immediatamente a Eugene, nell'Oregon, con un bimotore Cessna, i punti doloranti sul viso avevano cominciato a pulsare. Il proprietario, che in quel viaggio sarebbe stato anche il pilota, fu ben lieto di essere pagato anticipatamente e in bigliettoni da cento dollari, piuttosto che con un assegno o una carta di credito. Tuttavia, accettò il pagamento dopo un attimo di esitazione e con una smorfia, come se temesse di venire contagiato dalle banconote. «Che cosa le è successo alla faccia?» Lungo l'attaccatura dei capelli, sulle guance, sul mento e sul labbro superiore di Junior si era formata una doppia fila di bitorzoli, piccoli e duri, di un rosso vivo, e caldi. Avendo avuto in passato un episodio di orticaria particolarmente violenta, Junior si rese conto che questa volta si trattava di qualcosa di nuovo... e di peggiore. Al pilota rispose: «Reazione allergica». Alcuni minuti dopo l'alba, con condizioni meteorologiche eccellenti, decollarono da Sacramento diretti a Eugene. Junior si sarebbe goduto il panorama, se non si fosse sentito il viso come stretto da dozzine di pinze infuocate maneggiate dagli stessi gnomi cattivi che popolavano le fiabe che sua madre gli raccontava quando era piccolo. Atterrarono a Eugene poco dopo le nove e trenta del mattino, e il tassista che condusse Junior al maggior centro commerciale della città passò più tempo a fissare il suo malconcio passeggero nello specchietto retrovisore che a guardare la strada davanti a sé. Junior scese dal taxi e pagò attraverso il finestrino abbassato del tassista. L'uomo si fece il segno della croce prima ancora che Junior si fosse completamente voltato per allontanarsi. Se non l'avesse usato per alimentare la sua collera, il dolore che Junior provava avrebbe potuto farlo ululare come un cane pieno di piaghe o averlo addirittura costretto a crollare in ginocchio. Le eruzioni sul viso erano talmente sensibili che la leggera brezza gli sferzava la pelle come una nodosa frusta. Sentendo che la sua rabbia, tanto più bella quanto il suo aspetto era mostruoso, lo rendeva ancora più audace, Junior attraversò il parcheggio, controllando ogni auto nella speranza di vedere un mazzo di chiavi pendere dall'interruttore dell'accensione. Ma incontrò invece una donna anziana che scendeva da una Pontiac rossa con una coda di volpe legata all'antenna della radio. Dando una rapida
occhiata in giro, si assicurò che nessuno lo stesse osservando, poi colpì la donna sulla nuca con l'impugnatura della calibro 9. Avrebbe voluto spararle, ma quell'arma non era dotata di silenziatore. Aveva lasciato l'altra nella camera di Celestina. Questa era la pistola che aveva preso dalla collezione di Frieda Bliss e faceva tanto rumore quanto Frieda faceva vomitare. La vecchietta cadde a terra con un fruscio di fogli accartocciati, come se fosse un origami molto elaborato. Sarebbe rimasta svenuta per un po' e, dopo aver ripreso i sensi, si sarebbe ricordata chi era e che tipo di auto guidava solo quando Junior era ormai lontano da Eugene. Le portiere del pick-up parcheggiato accanto alla Pontiac non erano state chiuse a chiave. Junior sollevò la nonnina e la mise sul sedile anteriore del camioncino. Era così leggera, così sgradevolmente ossuta e mandava un fruscio così forte, che avrebbe potuto essere una nuova specie di gigantesco insetto mutante che aveva preso l'aspetto di un essere umano. Tutto sommato, era contento di non averla uccisa: lo spirito della nonnina poteva restargli appiccicato addosso e sarebbe stato più diffìcile liberarsi di lui che di una infestazione di scarafaggi. Con un brivido, gettò la borsetta sul corpo della donna e sbatté la portiera del camioncino. Raccolse da terra le chiavi dell'auto della vecchietta, si sistemò dietro il volante della Pontiac e partì alla ricerca di una farmacia, l'unica fermata che intendeva fare fino a quando non fosse giunto a Spruce Hills. 73 Wally non era andato a casa con la morte, ma sicuramente avevano ballato insieme. Nonostante le rassicurazioni del chirurgo, quando Celestina entrò nella saletta dell'unità di terapia intensiva, alla vista del viso di Wally si spaventò a morte. Grigio, con le guance infossate... come se vivessero nel diciottesimo secolo e gli fossero state applicate tante sanguisughe da risucchiargli gran parte dell'essenza vitale. Era privo di sensi, collegato a un monitor cardiaco, con un ago della flebo conficcato nel braccio. Agganciato al setto nasale, un ossigenatore sibilava leggermente e, dalla bocca aperta, proveniva il rumore, appena percettibile, del suo respiro affannoso. Celestina rimase a lungo accanto al letto, stringendogli la mano, certa che, a un qualche livello di consapevolezza, lui si rendesse conto della sua presenza, anche se non lo lasciava capire in alcun modo.
Celestina avrebbe potuto sedersi, ma così non avrebbe visto la sua faccia. Dopo qualche tempo, la mano di Wally si strinse debolmente nella sua. E un bel po' dopo quel primo segno di riconoscimento, le sue palpebre tremolarono, si aprirono. Inizialmente apparve confuso, aggrottò le sopracciglia vedendo il monitor cardiaco e l'asta della flebo. Ma quando i suoi occhi incontrarono quelli di Celestina, lo sguardo si rischiarò e il sorriso che trovò per lei le inondò il cuore di tanta luce quanta ne rifletteva il diamante dell'anello che lui le aveva infilato al dito solo qualche ora prima. Al sorriso, seguì subito uno sguardo preoccupato e, con voce flebile, Wally domandò: «Angel?...» «Sta bene. Non le è successo nulla.» In quel momento entrò nella stanza una infermiera dall'aspetto matronale, avvertita del risveglio del paziente dal telemetro collegato al monitor cardiaco. Controllò che fosse tutto a posto, gli misurò la temperatura e, con un cucchiaino, gli infilò nella bocca riarsa due pezzetti di ghiaccio. Prima di uscire, lanciò a Celestina un'occhiata significativa, battendo il dito sull'orologio. Nuovamente sola con Wally, Celestina spiegò: «Mi hanno detto che, una volta che avessi ripreso conoscenza, potevo restare con te solo dieci minuti alla volta, e nemmeno tanto spesso». Wally annuì. «Stanco.» «I dottori mi hanno assicurato che ti riprenderai completamente.» Sorridendo di nuovo e parlando con un tono di voce poco più alto di un sussurro, Wally commentò: «C'è un matrimonio che mi aspetta». Celestina si piegò su di lui e gli baciò la guancia, l'occhio destro, quello sinistro, la fronte, le labbra secche e screpolate. «Ti amo da impazzire. Quando ho pensato che tu fossi morto, avrei voluto morire anch'io.» «Non dire mai morire», la ammonì lui. Asciugandosi gli occhi con un fazzolettino di carta, lei concordò: «Va bene. Mai». «Era... il padre di Angel?» Rimase sorpresa dal suo intuito. Tre anni prima, quando aveva traslocato nell'appartamento di Pacific Heights, Celestina gli aveva confidato la sua paura che, un giorno, quel mostro si sarebbe fatto vivo, ma non aveva più toccato l'argomento da almeno due anni e mezzo. Scosse la testa. «No. Non era il padre di Angel. Tu sei suo padre. Lui era
soltanto quel figlio di puttana che ha violentato Phimie.» «L'hanno preso?» «Io c'ero quasi riuscita. Con la sua pistola.» Wally inarcò le sopracciglia. «E l'ho colpito con una sedia, l'ho ammaccato un po'.» «Accidenti.» «Non sapevi che stavi per sposare un'amazzone, vero?» «Certo che lo sapevo.» «È riuscito a scappare proprio mentre arrivava la polizia. Loro sono convinti che sia uno psicotico, talmente pazzo da riprovarci di nuovo, se non lo trovano al più presto.» «Anch'io», mormorò lui, preoccupato. «Non vogliono che torni nel mio appartamento.» «Dagli retta.» «E preferiscono che io non mi fermi troppo neppure in ospedale, perché sicuramente lui immagina che io sia qui con te.» «Io starò bene. Ho molti amici qui.» «Scommetto che, già domani, ti faranno uscire dall'unità di terapia intensiva. Avrai un telefono a disposizione, ti telefonerò. E tornerò appena possibile.» Wally trovò la forza di stringerle un po' più la mano. «Stai al sicuro. Tieni Angel al sicuro.» Celestina lo baciò di nuovo. «Due settimane», gli ricordò. Lui sorrise mesto. «Sarò pronto per il matrimonio, ma purtroppo non per la luna di miele.» «Per la luna di miele abbiamo tutta la vita.» 74 Quando finalmente Paul Damascus raggiunse la canonica nel tardo pomeriggio di venerdì 12 gennaio, arrivò a piedi, come sempre. Come lo spirito di un dannato, un vento freddo si accaniva contro la bronzea cavità della campana in cima al campanile della chiesa, spazzava via gli aghi secchi dei sempreverdi e si opponeva all'avanzata di Paul con quella che appariva una maligna determinazione. Diversi chilometri prima, tra le città di Brookings e Pistol River, aveva deciso di non avventurarsi mai più così a nord in quella stagione dell'anno, anche se le guide turistiche affermavano che, d'inverno, la costa dell'Oregon era relativamente
temperata. Nonostante fosse un perfetto sconosciuto, arrivato all'improvviso e sicuramente un soggetto piuttosto eccentrico, Paul venne ricevuto da Grace e Harrison White con cordialità e modi amichevoli. Ancora sulla porta d'ingresso, alzando la voce per farsi sentire al di sopra dell'urlo del vento, spiattellò rapidamente il motivo della sua missione come se, non parlando abbastanza rapidamente, la coppia avesse potuto ritrarsi di fronte a quella figura strana portata dal vento: «Sono arrivato a piedi fin qui da Bright Beach, in California, per parlarvi di una donna eccezionale, la cui vita influenzerà la vita di innumerevoli altre persone anche molto tempo dopo la sua scomparsa. Suo marito è morto nella notte in cui è nato il loro figlio, ma non prima di chiedere alla moglie di chiamare il bambino Bartholomew, perché era rimasto molto impressionato dal sermone 'Questo giorno straordinario'. E adesso il bambino è diventato cieco, e spero che voi possiate e vogliate offrire un po' di conforto alla madre». I White non si ritrassero affatto, non ebbero nemmeno un sussulto di fronte alla sua esplosiva dichiarazione d'intenti. Al contrario, lo fecero entrare in casa, poi lo invitarono a restare a cena e, più tardi, gli chiesero di fermarsi a dormire nella stanza degli ospiti. Erano cortesi come tutte le persone che aveva sempre incontrato, ma sembravano anche realmente interessati alla sua storia. Paul non rimase sorpreso dal fatto che Agnes Lampion fosse riuscita ad affascinarli, perché la sua era una vita di grande significato. Ma ciò che lo sorprese fu il fatto che la coppia si rivelasse egualmente interessata alla sua storia personale. Forse volevano essere solo gentili e tuttavia, mostrandosi affascinati, riuscirono a farsi raccontare innumerevoli particolari sui suoi lunghi viaggi a piedi, sui luoghi che aveva visitato e sul motivo per cui vi era andato, sulla sua vita con Perri. Quel venerdì notte dormì più profondamente di quanto avesse fatto dal giorno in cui, tornando a casa dalla farmacia, aveva trovato Joshua Nunn e il paramedico in silenzio, accanto al letto di Perri. Non sognò di attraversare deserti, né laghi asciutti dal fondo incrostato di sale, e neppure distese di ghiaccio spazzate da tormente di neve, e quando alla mattina successiva si svegliò, si sentì riposato nel corpo, nella mente e nell'anima. Harrison e Grace lo avevano accolto nonostante il fatto che, il giorno prima, fosse morto un amico e parrocchiano, lasciando entrambi con un gran senso di vuoto e i carichi di doveri da assolvere. «Lei è stato mandato dal cielo», dichiarò Grace, durante la colazione del
sabato mattina. «Con tutti i suoi racconti, ci ha sollevato lo spirito proprio quando ne avevamo più bisogno.» Il funerale era stato fissato per le due del pomeriggio, dopodiché amici e parenti del defunto si sarebbero ritrovati nella canonica per un piccolo rinfresco, per spezzare insieme il pane e per condividere i ricordi del caro defunto. Quel sabato mattina, Paul si rese utile aiutando Grace a preparare il rinfresco e a sistemare piatti, posate e bicchieri sul buffet della sala da pranzo. Alle undici e venti si trovava in cucina e stava spalmando la glassa su una grande torta al cioccolato, mentre il reverendo faceva altrettanto su un dolce al cocco. Grace, che aveva appena terminato di lavare i piatti, si era fermata a controllare il lavoro di glassatura e si stava asciugando le mani, quando squillò il telefono. Andò a rispondere e, proprio mentre diceva, «Pronto», la parte anteriore della casa sembrò esplodere. Un boom fragoroso. Il colpo fece tremare il pavimento, vibrare le pareti e cigolare le assi di legno del soffitto, come se una sterminata colonia di pipistrelli si fosse levata in volo nello stesso istante. Grace lasciò cadere il ricevitore. Ad Harrison scivolò di mano il coltello per la glassatura. Attraverso la cacofonia di vetri in frantumi, legno spaccato e intonaco che si sbriciolava, Paul udì il rombo di un motore, l'urlo di un clacson, e immaginò ciò che doveva essere accaduto. Un automobilista ubriaco o spericolato era andato a sbattere a tutta velocità contro la canonica. Essendo arrivato alla stessa sbalorditiva, ma ovvia, conclusione, Harrison disse: «Qualcuno deve essersi fatto male». Si precipitò fuori della cucina e attraversò la sala da pranzo, immediatamente seguito da Paul. La parete del soggiorno che si affacciava sulla strada, dove un tempo c'era stato un delizioso bovindo, ora non c'era più e la canonica lasciava entrare tutto il sole di quella limpida giornata. Alcuni arbusti divelti e arrivati fin dentro la casa segnavano un sentiero di distruzione. Proprio al centro della stanza, con il muso contro un divano rovesciato e in mezzo a un ammasso di mobili in frantumi, una Pontiac rossa pendeva verso sinistra, appoggiandosi a balestre rotte e pneumatici esplosi. Una parte del parabrezza vibrò e crollò verso l'interno, mentre pennacchi di vapore uscivano sibilando da sotto il tettuccio ammaccato. Nonostante avessero immaginato quale fosse stata la causa del boato, sia Paul, sia Harrison rimasero allibiti alla vista di quel disastro. Si erano a-
spettati di trovare l'auto conficcata nel muro della casa, non addirittura in soggiorno. La velocità necessaria per riuscire a penetrare fin dentro l'edificio superava la capacità di calcolo di Paul e lo portò a domandarsi se erano state soltanto la spericolatezza e l'alcol a produrre un simile disastro. La portiera del guidatore si aprì, spingendo di lato un tavolino mezzo rotto, e dalla Pontiac scese un uomo. Vi erano in lui due cose che attiravano l'attenzione. La prima era la faccia. Aveva la testa avvolta da bende di garza bianca, che lo facevano somigliare a Claude Rains in L'uomo ombra o a Humphrey Bogart in quel film su un evaso che si sottoponeva a una chirurgia plastica per confondere la polizia e cominciare una nuova vita con Lauren Bacall. In cima alla testa, dall'elaborato bendaggio spuntavano dei capelli biondi. Per il resto, le uniche parti non coperte erano gli occhi, le narici e le labbra. La seconda cosa che attirava l'attenzione era la pistola che stringeva in mano. La vista di quel viso bendato provocò evidentemente un moto di compassione nel reverendo che, uscendo dal suo stato di paralisi, fece un passo in avanti... prima di accorgersi dell'arma. Per essere un automobilista che aveva appena iniziato un gioco al massacro con la casa, l'uomo-mummia appariva ben saldo sui piedi e deciso nei movimenti. Si voltò verso Harrison White e gli sparò due colpi nel petto. Paul si accorse che Grace li aveva seguiti nel soggiorno solo quando la sentì urlare. Nel momento stesso in cui Harrison crollò a terra, la donna si mise a correre, spingendo Paul di lato, dirigendosi verso suo marito. Sempre stringendo la pistola e tendendo il braccio destro come in un'esecuzione, l'uomo si avvicinò al reverendo che giaceva a terra. Al contrario di Paul, Grace White era una donna minuta. In caso contrario, forse lui non sarebbe riuscito a fermare la sua corsa verso il marito, non sarebbe stato in grado di sollevarla da terra e, tenendola in braccio, portarla in salvo. La canonica era una casa pulita, decorosa e dotata di una sua grazia, ma in essa non vi era nulla che potesse essere definito sontuoso. Nessuna ampia scalinata degna di Rossella O'Hara. Al contrario, le scale erano state nascoste alla vista e vi si accedeva da una porta che si apriva in un angolo del soggiorno. Quando aveva impedito a Grace di correre incontro a una morte certa, Paul si trovava vicino a quell'angolo. Prima di rendersi veramente conto di
quello che faceva, spalancò la porta e si arrampicò fino a metà della dritta rampa di scale, con la stessa sicurezza di Doc Savage, del Santo e di tutti gli altri eroi popolari le cui imprese aveva vissuto per procura. Dietro di loro, si udirono altri due colpi, e Paul ebbe la certezza che il reverendo non era più di questo mondo. Anche Grace lo capì perché si afflosciò tra le sue braccia, disperata, e smise di opporre resistenza. Tuttavia quando, arrivati in cima alla scala, Paul la mise a terra, lei chiamò a gran voce il marito: «Harry!» e cercò di tornare nuovamente al pianterreno. Paul la trattenne. Gentilmente, ma con fermezza, la spinse oltre la porta della camera degli ospiti nella quale lui aveva trascorso la notte. «Rimanga qui, aspetti.» Ai piedi del letto, una cassapanca di cedro. Lunga poco più di un metro, larga una sessantina di centimetri, alta all'incirca un metro. Maniglie d'ottone. A giudicare dall'espressione di Grace quando lo vide sollevare la cassapanca da terra, Paul capì che doveva essere pesante. Ma non aveva modo di saperlo per certo, perché era in condizioni molto particolari, così saturo di adrenalina che il suo cuore pompava sangue nelle arterie a una velocità superiore anche al lampo più veloce scagliato da Zeus. A lui la cassapanca non sembrò più pesante di un cuscino, il che non poteva essere, anche se fosse stata vuota. Senza rendersi completamente conto di essere uscito dalla stanza degli ospiti, Paul si fermò in cima alla scala. Dal soggiorno, l'uomo bendato si lanciò verso di lui, con la garza che gli tremolava intorno alle labbra per via del respiro affannoso, confermando così che non era un faraone reincarnatosi per punire un archeologo distratto che aveva ignorato tutti gli avvertimenti e violato la sua tomba. Non era il momento delle Storie misteriose. Paul gettò la cassapanca giù per le scale. Uno sparo. Schegge di cedro. Con un urlo di dolore, colpito al petto, l'assassino fu scaraventato a terra dal peso, in un tintinnio di maniglie d'ottone. Di nuovo nella camera degli ospiti. Gettando a terra un abat-jour, sollevando il comodino. Poi di nuovo in cima alle scale. In fondo alla rampa, l'assassino aveva spinto di lato la cassapanca e si
era rimesso in piedi. Attraverso la sua complicata fasciatura alla Tutankhamon, sbirciò verso Paul e sparò un altro colpo senza prendere la mira, quasi con noncuranza, prima di scomparire nel soggiorno. Paul posò il comodino ma rimase in attesa, pronto a lanciarglielo contro se l'uomo avesse osato tornare. Al piano di sotto, si udirono due spari e, subito dopo il secondo, la canonica venne scossa da un'esplosione, come se il tanto atteso giorno del giudizio fosse finalmente arrivato. Questa volta si era trattato di una vera esplosione, non l'impatto di un'altra Pontiac impazzita. Fiamme arancioni si levarono dal soggiorno, un'ondata di calore investì Paul e, immediatamente dopo il calore, giunsero dense nubi di fumo nero, attirate verso la tromba della scala come fosse stata una canna fumaria. Nella stanza degli ospiti. Portare Grace verso la finestra. Disinserire il saliscendi. Non funzionava. Deformato o incrostato di vernice. Piccoli riquadri di vetro, solidi montanti troppo difficili da spezzare. «Trattenga il fiato e cammini in fretta», la incitò, trascinandola in corridoio. Fumo soffocante, fuliggine che accecava. Dal calore sempre più intenso, Paul capì che l'incendio si era propagato lungo le scale e le fiamme erano ormai pericolosamente vicine. Verso la parte anteriore della casa, in un corridoio improvvisamente buio come un tunnel, verso una debole luce che si intravedeva nell'oscurità, una finestra. Si aprì facilmente. Aria pulita e fredda, la luce del giorno. Fuori, fiamme che danzavano a destra e a sinistra dello squarcio nel muro. La facciata della casa era completamente incendiata. Non potevano tornare indietro. Nell'oscurità densa di fumo avrebbero immediatamente perso l'orientamento, sarebbero caduti e sarebbero rimasti soffocati prima ancora di bruciare. Oltretutto, la finestra aperta, formando una corrente, avrebbe attirato rapidamente le fiamme lungo il corridoio alle loro spalle. «Presto, faccia presto», esclamò Paul, aiutando Grace a uscire dalla finestra circondata dalle fiamme e a salire sul tetto della veranda. Tossendo, sputando saliva amara per via delle sostanze tossiche, Paul la seguì, battendosi freneticamente dappertutto quando si accorse che aveva la camicia bruciacchiata dal fuoco. Rosse come l'edera in autunno, simili a rigogliosi rampicanti, le fiamme risalivano lungo i muri. Anche la veranda era completamente invasa dal fuoco. Le assicelle del tetto fumavano sotto i loro piedi e le fiamme aveva-
no circondato il tetto sul quale si trovavano. Grace cominciò ad avanzare. Paul gridò, bloccandola. Sebbene il terreno sottostante si trovasse a una altezza di circa tre metri, lei avrebbe corso un rischio troppo alto correndo alla cieca e lanciandosi dal tetto con un balzo, per evitare le fiamme che lambivano il bordo. Se fosse caduta sul prato, forse non ci sarebbero state conseguenze. Ma se fosse finita sul vialetto, si sarebbe potuta spezzare una gamba o la schiena, a seconda dell'impatto. Di nuovo in braccio a Paul, come per magia, e lui che si lanciava proprio mentre le fiamme cominciavano a penetrare attraverso le assicelle di cedro e il tetto crollava sotto di loro. In volo, tra le colonne di fumo. In mezzo alle fiamme che, per un attimo, gli sfiorarono le suole delle scarpe. Mentre precipitava, cercò di voltarsi all'indietro, nella speranza di cadere sotto di lei e di fare da ammortizzatore, nel caso fossero atterrati sul vialetto invece che sul prato. Evidentemente la manovra non gli riuscì perché si trovò incredibilmente a cadere in piedi sull'erba sbiadita dall'inverno. Il colpo lo fece crollare in ginocchio. Posò Grace sul terreno con la stessa delicatezza con cui posava la fragile Perri sul letto... quasi che fosse stato tutto programmato. Balzò in piedi, o forse semplicemente barcollò, a seconda che l'immagine che aveva di se stesso in quel momento fosse da romanzo o reale, e si guardò in giro, in cerca dell'uomo bendato. Alcuni vicini attraversarono il prato alla volta di Grace, altri arrivarono dalla strada. Ma l'assassino era scomparso. Un urlo di sirena riecheggiò nelle otturazioni dentali di Paul e, con uno stridore di freni, un grosso camion rosso svoltò l'angolo, seguito immediatamente da un altro. Troppo tardi. La canonica era completamente circondata dalle fiamme. Con un po' di fortuna, sarebbero riusciti a salvare la chiesa. Soltanto adesso, mentre l'ondata di adrenalina cominciava a ritirarsi, Paul si chiese chi mai aveva potuto voler uccidere un uomo di pace e di Dio, un uomo buono come Harrison White. Questo giorno straordinario, pensò, e si sentì scuotere da un improvviso terrore all'idea che inevitabilmente, vi sarebbero stati nuovi inizi. 75
La somma messa a disposizione da Simon Magusson per coprire le spese era abbastanza generosa da pagare una suite di tre stanze in un albergo di buon livello. Una camera era per Tom Vanadium, una per Celestina e Angel. Tom aveva prenotato la suite per tre notti e sapeva che avrebbe trascorso molte più ore a fare la guardia nel soggiorno in comune, che nel suo letto. Alle undici di sabato mattina, erano appena saliti nella suite, dopo essere stati all'ospedale, e stavano aspettando che la polizia consegnasse le valigie piene di indumenti e di prodotti per l'igiene personale che Rena Moller, la vicina di Celestina, aveva preparato come le era stato richiesto. Mentre aspettavano, fecero un pranzo anticipato... o una colazione ritardata... seduti intorno al tavolo del soggiorno abitualmente usato per il servizio in camera. Nei prossimi giorni avrebbero consumato tutti i pasti lì dentro, senza mai uscire dalla suite. Molto probabilmente Cain aveva già lasciato San Francisco. E anche se non era scappato, quella era una grande città, difficilmente lo avrebbero incontrato per caso. Tuttavia, nel suo ruolo di guardiano, Tom Vanadium aveva una tolleranza zero per il rischio, perché l'inimitabile signor Cain si era dimostrato un maestro d'imprevedibilità. Tom non attribuiva poteri sovrannaturali a quell'assassino. Enoch Cain era un essere mortale, non era onnipresente e onnisciente. Ma spesso il male e la stupidità si accoppiano e il frutto del loro matrimonio è l'arroganza, come Tom aveva avuto modo di dire a Celestina. Un uomo arrogante, molto meno intelligente di quanto sia convinto di essere, che non sapeva distinguere il bene dal male, che non era in grado di provare rimorso, a volte può essere così spericolato che, ironicamente, la sua spericolatezza si trasforma anche nella sua forza maggiore. Dato che è capace di qualsiasi cosa, di correre rischi che un semplice pazzo non prenderebbe neppure in considerazione, i suoi avversari non possono mai prevedere come agirà e lui riesce sempre a coglierli di sorpresa. Se possiede anche una certa scaltrezza animale, una specie di perspicacia intuitiva, è in grado di reagire rapidamente davanti alle conseguenze negative della sua incoscienza... e può realmente apparire come un essere sovrumano. Per prudenza, si sarebbero dovuti comportare come se Enoch Cain fosse Satana in persona, come se ogni mosca, ogni scarafaggio e ogni topo fossero gli occhi e le orecchie dell'assassino, come se con lui non bastasse prendere normali precauzioni. Oltre ad aver studiato a lungo una strategia, ultimamente Tom aveva tra-
scorso molto tempo meditando sulla colpevolezza: la sua, non quella di Cain. Ricorrendo al nome che gli aveva sentito pronunciare durante il sonno, utilizzandolo per la sua guerra psicologica, era stato forse l'architetto dell'ossessione di Cain per Bartholomew? E se non era tutta opera sua, non vi aveva almeno in parte contribuito? Se non fosse stato spinto in quella direzione, non era possibile che Cain avesse seguito un percorso diverso, un percorso che lo avrebbe tenuto lontano da Celestina e Angel? Quell'assassino era un uomo malvagio, e la sua malvagità si sarebbe espressa comunque, in un modo o nell'altro, indipendentemente dalle forze che avevano influenzato le sue azioni. Se non avesse ucciso Naomi gettandola dalla torre, l'avrebbe ammazzata in un altro luogo, quando gli si fosse presentata un'altra occasione per arricchirsi. Se non fosse stata Victoria una delle vittime, un'altra donna sarebbe morta al suo posto. Se Cain non fosse stato ossessionato dalla strana convinzione che qualcuno, di nome Bartholomew, potesse costituire un pericolo mortale per lui, avrebbe comunque riempito il suo cuore vuoto con un'altra ossessione, altrettanto strana, che forse l'avrebbe portato in ogni caso a Celestina, ma che sicuramente, se non lei, avrebbe colpito qualcun altro. Tom aveva agito con le migliori intenzioni, ma anche con l'intelligenza e il buonsenso che Dio gli aveva dato e che lui aveva trascorso una vita intera ad affinare. È vero che la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni, ma tutto ciò che si può chiedere a una persona sono buone intenzioni elaborate attraverso molti dubbi e ripensamenti, come quelli di Tom, e guidate da una saggezza acquisita con l'esperienza. Sapeva che era una colpa non prendere in considerazione conseguenze che potevano essere previste, ma sperava che quelle che non si possono prevedere facessero parte di un disegno di cui noi non siamo responsabili. Tuttavia continuava a rimuginare sull'argomento anche durante la colazione, nonostante i deliziosi mirtilli con panna, le ciambelline all'uvetta e burro alla cannella. In mondi migliori, altri e più saggi Tom Vanadium avrebbero scelto tattiche differenti che avrebbero portato a risultati ben diversi, sarebbero riusciti a consegnare più rapidamente Enoch Cain alla giustizia. Ma lui non era uno di questi Tom Vanadium. Lui era questo Tom, dubbioso e imperfetto, e non lo consolava il fatto che, da qualche altra parte, si era dimostrato un uomo migliore. Appollaiata su una sedia, con due grossi cuscini che la tenevano sollevata, Angel estrasse una fetta croccante dal suo panino e domandò a Tom: «Da dove viene la pancetta?»
«Sai già da dove viene», le fece notare Celestina, con uno sbadiglio che tradiva la sua stanchezza dopo una notte insonne e tumultuosa. «Sì, ma io voglio sapere se lui lo sa», spiegò la bambina. Fresca dopo un lungo sonno aiutato dai sedativi, che era terminato solo in taxi, durante il tragitto dall'ospedale all'albergo, Angel aveva dimostrato tutta la capacità di ripresa che soltanto i bambini possiedono, almeno fino a quando mantengono la loro innocenza. Naturalmente non aveva compreso quanto gravi fossero le condizioni di Wally, ma se era stata terrorizzata dall'attacco di Cain, al quale aveva assistito da sotto il letto di sua madre, non sembrava corresse il pericolo di restarne perennemente traumatizzata. «Sai da dove viene la pancetta?» domandò nuovamente a Tom. «Dal supermercato», rispose Tom. «E il supermercato dove la prende?» «Dagli allevatori.» «E gli allevatori da dove la prendono?» «La coltivano sugli alberi della pancetta.» La bambina si mise a ridacchiare. «Lo credi davvero?» «Li ho visti», le assicurò Tom. «Tesoro, non c'è niente di più profumato di un campo pieno di alberi di pancetta.» «Che sciocchezza», commentò Angel. «E allora, tu da dove pensi che venga la pancetta?» «Dai maiali!» «Davvero? Ne sei convinta?» le domandò con la sua voce piatta, che a volte lui desiderava suonasse più musicale, ma che rendeva convincente tutto ciò che diceva. «Pensi che una cosa così buona possa venire da un grasso, puzzolente, sporco, vecchio maiale?» Aggrottando la fronte, Angel esaminò attentamente la gustosa fetta di carne che teneva tra le dita, riconsiderando tutto ciò che pensava di sapere sull'origine della pancetta. «Chi ti ha detto che era maiale?» domandò lui. «La mamma.» «Ah. Be', la mamma non dice mai bugie.» «Già», borbottò Angel, guardando sua madre con aria sospettosa, «però mi prende in giro.» Celestina sorrise distrattamente. Da quando, un'ora prima, era arrivata in albergo, non aveva fatto che domandarsi se doveva telefonare ai suoi genitori, a Spruce Hills, o attendere fino al pomeriggio, quando sarebbe stata in grado di comunicare loro non solo che aveva un fidanzato, e non solo che
aveva un fidanzato che era stato ferito e quasi ucciso, ma anche che le sue condizioni erano passate da critiche a gravi. Come aveva spiegato a Tom, non li avrebbe fatti preoccupare soltanto con la notizia di quanto era successo con Cain, ma li avrebbe anche lasciati di stucco annunciando che stava per sposarsi con un uomo bianco e che aveva il doppio della sua età. «I miei genitori non hanno pregiudizi di nessun tipo, ma sicuramente hanno idee molto precise su ciò che è opportuno e ciò che non lo è.» E questo, nella scala dei valori della famiglia White, sarebbe stato considerato come estremamente inopportuno. Oltretutto, stavano preparando il funerale di un parrocchiano e, per esperienza personale, Celestina sapeva che avrebbero avuto una giornata molto impegnativa. Tuttavia, alle undici e dieci, dopo aver terminato la colazione, alla fine decise di chiamarli. Mentre Celestina si accomodava nel divano con il telefono appoggiato sulle ginocchia, aspettando a comporre il numero fino a quando non avesse raccolto un po' più di coraggio, Angel domandò a Tom: «Che cosa è successo alla tua faccia?» «Angel!» la sgridò sua madre dall'altra parte della stanza. «Non è educato.» «Lo so. Ma come faccio a scoprirlo se non lo domando?» «Non devi scoprire tutto.» «E invece sì», ribatté Angel. «Sono stato investito da un rinoceronte», confessò Tom. Angel lo fissò sbattendo le palpebre. «Quell'animale brutto e grosso?» «Esatto.» «Ha gli occhi cattivi e un corno sul naso?» «Proprio quello.» Angel fece una smorfia. «Non mi piacciono i rinosciauri.» «Nemmeno a me.» «Perché ti ha investito?» «Perché ero sulla sua strada.» «Perché eri sulla sua strada?» «Perché ho attraversato senza guardare.» «La mamma non mi lascia attraversare da sola.» «Adesso capisci perché?» domandò Tom. «Sei triste?» «Perché dovrei essere triste?» «Perché hai la faccia tutta schiacciata.» «Oh, Signore», esclamò Celestina esasperata.
«Non c'è problema», la rassicurò Tom. Poi, rivolto ad Angel: «No, non sono triste. E sai perché?» «Perché?» Posò la pepaiola sul tavolo di fronte a lei e tenne la saliera nascosta in mano. «Pepe», disse Angel. «Ma fai finta che sia io, okay? Allora, questo sono io che scendo dal marciapiede senza guardare da una parte e dall'altra...» Spostò la pepaiola sulla tovaglia, facendola ondeggiare avanti e indietro, come una persona che cammini tranquillamente, senza un pensiero al mondo. «... e boom! Il rinoceronte mi investe e non si ferma neppure per scusarsi...» Fece cadere la pepaiola poi, con un gemito, la rimise in piedi. «... e quando mi sono rialzato, avevo i vestiti tutti strappati e questa faccia.» «Dovresti denunciarlo.» «È vero», concordò Tom, «ma il punto è questo...» Con la destrezza di un illusionista, fece scivolare la saliera che nascondeva nel palmo e la posò accanto alla pepaiola. «Anche questo sono io.» «No, tu sei questo qui», gli fece notare Angel, picchiando con un dito sulla pepaiola. «Vedi, questa è la cosa buffa su tutte le scelte importanti che facciamo. Se facciamo una scelta davvero sbagliata, se facciamo la cosa peggiore, ci viene offerta un'altra possibilità di continuare sulla strada giusta. Quindi, nel momento stesso in cui sono stupidamente sceso dal marciapiede senza guardare, ho creato un altro mondo in cui, prima di attraversare la strada, mi sono guardato intorno e ho visto il rinoceronte che arrivava. E così...» Tenendo la pepaiola in una mano e la saliera nell'altra, Tom le fece avanzare in modo che prima le loro strade divergessero leggermente, poi diventassero parallele. «... mentre questo Tom adesso ha una faccia schiacciata dal rinoceronte, quest'altro Tom, nel suo mondo, ha una faccia normale. Terribilmente normale, poverino.» Sporgendosi in avanti per osservare attentamente la saliera, Angel domandò: «Dov'è il suo mondo?» «Proprio qui, con il nostro. Ma non possiamo vederlo.» La bambina si guardò intorno. «È invisibile come il gatto di Alice nel
paese delle Meraviglie?» «Il suo mondo è reale quanto il nostro, ma noi non possiamo vederlo e la gente di quel mondo non può vedere noi. Ci sono milioni e milioni di mondi qui, tutti nello stesso posto, invisibili l'uno all'altro, dove ci vengono offerte innumerevoli possibilità di vivere una buona vita e di fare le cose giuste.» Naturalmente, persone come Enoch Cain non sceglievano mai tra il bene e il male, ma solo tra due mali. Creavano per se stessi mondi di disperazione. Per gli altri, costruivano mondi di dolore. «Allora capisci perché non sono triste?» Angel spostò la sua attenzione dalla saliera al viso di Tom, per un attimo si fermò a osservare attentamente le sue cicatrici, e poi disse: «No». «Non sono triste», spiegò Tom, «perché, anche se in questo mondo ho questa faccia, so che c'è un altro me stesso... anzi, tanti Tom Vanadium... che non hanno per niente questa faccia. Grazie al cielo, da qualche parte sto benissimo.» Dopo averci pensato, la bambina commentò: «Io sarei triste. Ti piacciono i cani?» «A chi non piacciono?» «Voglio un cucciolo. Hai mai avuto un cucciolo?» «Quando ero piccolo.» Seduta nel divano, Celestina riuscì finalmente a trovare il coraggio di comporre il numero di telefono dei suoi genitori a Spruce Hills. «Pensi che i cani sappiano parlare?» domandò Angel. «Sai una cosa», rispose Tom, «non ci ho mai pensato.» «Alla televisione, ho visto un cavallo che parlava.» «Be', se il cavallo riesce a parlare, perché non un cane?» «È quello che penso anch'io.» Sentendo sollevare il ricevitore, Celestina disse: «Ciao mamma, sono io». «E i gatti?» domandò Angel. «Mamma...?» disse Celestina. «Se i cani possono parlare, perché non i gatti?» «Mamma, che cosa succede?» domandò Celestina, con un'improvvisa nota di preoccupazione nella voce. «È quello che penso anch'io», ripeté Angel. Tom spinse indietro la sedia, si alzò e si avvicinò a Celestina. Si alzò di scatto dal divano. «Mamma, ci sei?» Si voltò verso Tom, con
il viso distorto in un'espressione terrorizzata. «Voglio un cane parlante», decise Angel. Mentre Tom raggiungeva Celestina, lei esclamò: «Colpi». Poi soggiunse: «Spari». Con una mano teneva il ricevitore e con l'altra si strappava i capelli come se, facendosi del male, potesse risvegliarsi da quell'incubo. Disse: «Cain è nell'Oregon». L'inimitabile signor Cain. Il mago delle sorprese. Maestro di imprevedibilità. 76 «Foruncoli.» Alla guida di un Dodge Charger 440 Magnum nero che aveva rubato, Junior lasciò precipitosamente Spruce Hills dirigendosi verso Eugene a tutta velocità, per quanto lo consentissero le strade tortuose dell'Oregon meridionale, mantenendosi lontano dalla interstatale 5, dove i controlli di polizia erano più frequenti. «Pustole, per essere precisi.» Durante il tragitto, continuava a passare da scoppi di risate divertite e strazianti singhiozzi provocati dal dolore e dall'autocommiserazione. Lo stregone battista era morto, la maledizione si era interrotta con la morte di chi l'aveva scagliata. E tuttavia Junior doveva sopportare quell'ultima, devastante piaga. «Un foruncolo è un poro o un follicolo infiammato e pieno di pus.» Dopo aver parcheggiato il Dodge a meno di un chilometro dall'aeroporto di Eugene, Junior srotolò con circospezione le bende e, con un fazzolettino, si tolse l'unguento che aveva acquistato in farmacia, un prodotto dall'odore pungente ma che si era rivelato del tutto inutile. Sebbene stesse attento a sfiorare appena la pelle con il Kleenex, premendo con una delicatezza che non avrebbe infranto neppure la tensione superficiale in uno specchio d'acqua, il dolore era tale che fu quasi sul punto di svenire. Lo specchietto retrovisore mostrava ammassi di orrendi bitorzoli rossi con una punta di un giallo luccicante e, vedendosi riflesso, Junior svenne davvero per un paio di minuti, abbastanza a lungo per sognare di essere una creatura grottesca e incompresa che, in una notte tempestosa, veniva inseguita da una folla di contadini furenti, armati di torce e forconi, dopodiché il dolore pulsante lo fece rinvenire. «Le pustole sono gruppi di foruncoli collegati tra loro.» Avrebbe voluto continuare a restare bendato ma, temendo che i mezzi di
comunicazione avessero già cominciato a diffondere la notizia dell'uomomummia che aveva ucciso un pastore protestante a Spruce Hills, Junior abbandonò il Dodge e tornò rapidamente indietro fino al terminal degli aerei privati, dove l'attendeva il pilota che lo aveva accompagnato da Sacramento. Alla vista del passeggero, il pilota indietreggiò e disse: «Reazione allergica a CHE COSA?» E Junior rispose: «Camelie», perché Sacramento era la capitale mondiale delle camelie e tutto ciò che lui desiderava era tornare laggiù, dove aveva lasciato il suo camioncino Ford, i suoi Sklent, l'opera completa di Zedd e tutto ciò di cui aveva bisogno per vivere nel futuro. Il pilota non riuscì a nascondere il suo profondo disgusto e Junior capì che, se non avesse già pagato in anticipo il viaggio di andata e ritorno sul charter, sicuramente l'uomo l'avrebbe lasciato a terra. «Normalmente, le suggerirei di applicare compresse calde ogni due ore per avere un po' di sollievo e per affrettare lo spurgo delle pustole, e la manderei a casa con una ricetta per un antibiotico.» Adesso, sdraiato sul lettino del pronto soccorso di un ospedale di Sacramento, in un sabato pomeriggio che precedeva di sole sei settimane la mostra di camelie, Junior si stava facendo curare da un tirocinante, così giovane da far nascere il sospetto che stesse soltanto giocando a fare il dottore. «Ma non ho mai visto un caso del genere. Di solito, le pustole compaiono sulla parte posteriore del collo. E in zone umide come le ascelle e l'inguine. Raramente sul viso. E mai in simili quantità. Davvero, non ho mai visto nulla del genere.» Naturalmente, non hai mai visto nulla del genere, stupido ragazzino. Sei un tale bambino che te la fai ancora addosso e, anche se tu fossi più vecchio di tuo nonno, non avresti visto niente del genere, caro dottor Kildare, perché hai davanti a te un vero caso di pustole provocate da uno stregone battista, e non se ne vedono spesso! «Non so quale sia la cosa più insolita... se il punto in cui sono comparse, la quantità o le dimensioni.» Mentre cerchi di decidere, dammi un coltello che ti taglio la giugulare, brutto deficiente. «Ma in questo caso, proporrei di ricoverarla per questa notte e di incidere le pustole in ospedale. Per alcune, useremo un ago sterile, ma ve ne sono altre così grosse che dovranno essere incise con un bisturi, in modo da poter estirpare il nucleo. Abitualmente eseguiamo questa operazione con un anestetico locale, ma in questo caso, anche se non ritengo sia necessaria
un'anestesia totale, avremo bisogno di sedarla... cioè, sarà in uno stato di dormiveglia.» Ti metto io in uno stato di dormiveglia, cretino. Dove diavolo ti sei laureato? Nel Botswana? Nel regno di Tonga? «L'hanno condotta direttamente qui o ha sistemato tutte le pratiche per l'assicurazione alla reception, signor Pinchbeck?» «Contanti», rispose Junior. «Pagherò in contanti e anticiperò l'importo richiesto come deposito, qualunque sia la cifra.» «Allora vado a occuparmi immediatamente di tutto», disse il medico, allungando una mano per tirare la tendina che cingeva il lettino del pronto soccorso. «Per l'amor di Dio», supplicò Junior, «non mi potrebbe dare qualcosa contro il dolore?» Il medico bambino prodigio si voltò nuovamente verso Junior e assunse un'espressione di compassione talmente falsa che, se avesse interpretato il ruolo di un medico anche in una soap opera di serie zeta, gli avrebbero tolto la tessera del sindacato degli attori, lo avrebbero licenziato e probabilmente lo avrebbero frustato dal vivo durante un programma televisivo. «Dato che procederemo con le incisioni già questo pomeriggio, preferisco non darle nulla per il dolore prima dell'anestetico e del calmante. Ma non si preoccupi, signor Pinchbeck. Una volta che avremo inciso le pustole, quando lei si risveglierà il novanta per cento del dolore sarà scomparso.» Sentendosi in condizioni pietose, Junior rimase ad aspettare l'operazione, più desideroso di essere tagliuzzato di quanto avrebbe ritenuto possibile solo qualche ora prima. L'aspettativa di quella operazione chirurgica bastava a eccitarlo più di tutto il sesso che aveva fatto a partire dai tredici anni fino al giovedì precedente. Il medico adolescente tornò con tre colleghi, che si affollarono intorno al lettino, proclamando di non aver mai visto un caso anche lontanamente simile a quello. Il più anziano... un babbeo miope e stempiato... insisté per porre a Junior domande sulla sua condizione coniugale, i rapporti con la famiglia, i sogni e il suo livello di autostima; venne fuori che era uno psichiatra convinto che in quello sfogo vi fosse una componente psicosomatica. Cretino. Finalmente: l'umiliante camice aperto sulla schiena, i preziosi sedativi, perfino una graziosa infermiera che sembrò attratta da lui, e poi l'oblio.
77 Il lunedì sera, 15 gennaio, Paul Damascus arrivò all'albergo di San Francisco con Grace White. A Spruce Hills, si era costantemente occupato di lei per più di due giorni, dormendo sul pavimento del corridoio fuori della sua stanza, restandole accanto quando erano in pubblico. Erano rimasti con gli amici di Grace fino al funerale di Harrison, che si era svolto quella mattina, poi avevano preso un volo per il sud per permettere a madre e figlia di riunirsi. A Tom Vanadium quell'uomo piacque immediatamente. Il suo istinto di poliziotto gli diceva che Damascus era onesto e affidabile. L'intuito di prete gli suggeriva qualità anche più profonde. «Stavamo per ordinare la cena in camera», spiegò Tom, porgendo un menù a Paul. Grace non voleva nulla, ma Tom ordinò anche per lei, scegliendo quei piatti che ormai sapeva piacevano a Celestina, immaginando che fosse stata la madre a plasmare i gusti della figlia. Le due donne se ne stavano in fondo al soggiorno, piangendo, accarezzandosi, parlando a voce bassa, domandandosi se potevano in alcun modo aiutarsi a vicenda a colmare questo improvviso, profondo e terribile vuoto che si era creato nelle loro vite. Celestina avrebbe voluto recarsi nell'Oregon per presenziare al funerale, ma Tom, Max Bellini, la polizia di Spruce Hills e Wally Lipscomb... con il quale, da domenica, aveva cominciato a parlare telefonicamente quasi ogni ora... le consigliarono vivamente di non fare quel viaggio. Un pazzo scriteriato come Enoch Cain, immaginando di poterla incontrare al cimitero o durante la funzione religiosa, probabilmente non si sarebbe fermato neppure davanti a un dispiegamento di polizia, per quanto massiccio. Angel non si unì alle due donne, ma rimase seduta sul pavimento di fronte al televisore, passando continuamente avanti e indietro da Gunsmoke a The Monkees. Troppo piccola per essere realmente coinvolta da quei telefilm, tuttavia di tanto in tanto imitava il rumore degli spari quando Marshal Dillon entrava in azione, oppure inventava i versi delle canzoni che intonava insieme con i Monkees. Una volta, smettendo di guardare i programmi, si avvicinò a Tom, che stava parlando con Paul. «È come Gunsmoke e The Monkees che sono vicini nella televisione, tutti e due allo stesso tempo. Ma i Monkees non possono vedere i cowboy... e i cowboy non possono vedere i Monkees.»
Sebbene a Paul quelle suonassero solo come chiacchiere infantili, Tom comprese immediatamente che la bambina si riferiva alla spiegazione che lui le aveva dato sul motivo per cui non era triste per il suo viso così rovinato: la saliera e la pepaiola che rappresentavano i due Tom, il rinoceronte che lo aveva investito e poi era scappato, i diversi mondi tutti nello stesso posto. «Sì, Angel. È più o meno come quello di cui ti ho parlato.» La bambina tornò a sedersi davanti al televisore. «È davvero speciale», commentò Tom pensieroso. «Sì, proprio carina», confermò Paul. Ma non era alla sua bellezza che Tom si riferiva. «Come ha preso la notizia della morte del nonno?» domandò Paul. «Piuttosto bene.» A volte Angel sembrava turbata da ciò che le era stato detto riguardo al nonno e, in quei momenti, appariva abbattuta, triste. Ma, dopotutto, aveva solo tre anni, era troppo piccola per comprendere appieno che la morte era qualcosa di definitivo. Probabilmente non sarebbe rimasta sorpresa se, di lì a poco, Harrison White fosse entrato dalla porta, magari mentre trasmettevano L'uomo dell'U.N.C.LE. oppure Lucy e io. Mentre attendevano che il cameriere portasse la cena in camera, Tom chiese a Paul un resoconto dettagliato dell'attacco di Enoch Cain alla canonica. Era già stato ampiamente informato dai suoi amici della sezione omicidi della polizia di stato, che stava collaborando con le autorità di Spruce Hills. Ma il racconto di Paul era molto più dettagliato. La ferocia di quell'aggressione convinse Tom che, qualunque fossero le contorte motivazioni dell'assassino, Celestina e sua madre - e ancor di più Angel - sarebbero state in pericolo fintanto che Cain fosse rimasto libero. Forse fino a quando fosse stato vivo. La cena arrivò e Tom persuase Celestina e Grace a sedersi a tavola per il bene di Angel, anche se non avevano appetito. Dopo tanta confusione, la bambina aveva bisogno di stabilità e di routine, ovunque fosse stato possibile offrirgliele. Non vi era nulla che dava un senso di ordine e normalità a una giornata caotica e sconvolgente più di una riunione di amici e parenti intorno a una tavola imbandita. Sebbene, per un tacito accordo, evitassero di parlare di perdita e morte, l'umore generale era piuttosto cupo. Angel se ne stava seduta in silenzio, spingendo il cibo da una parte all'altra del piatto, senza mangiarlo. Il suo comportamento incuriosì Tom e preoccupò Celestina, che dava ai modi della bambina un'interpretazione diversa da quella del detective.
Vanadium mise da parte il suo piatto. Poi, da una tasca, estrasse una moneta da un quarto di dollaro, qualcosa che funzionava sempre, sia coi bambini che con gli assassini. Vedendo la moneta che rotolava da una nocca all'altra, Angel si illuminò. «Potrei imparare a farlo anch'io», asserì. «Quando le tue mani saranno più grandi», concordò Tom. «Sono certo che ci riusciresti. Anzi, un giorno te lo insegnerò.» Stringendo la moneta nella mano destra e facendo ondeggiare la sinistra sul pugno chiuso, cantilenò: «Abracadabra». Poi spalancò la mano destra e fece vedere ad Angel che la moneta era scomparsa. La bambina piegò la testa di lato e rimase a osservare la mano sinistra, che Vanadium aveva chiuso mentre spalancava quella destra. Indicò. «È lì.» «Mi dispiace, ma hai sbagliato.» Quando Tom aprì la mano sinistra, il palmo era vuoto come il piattino di un mendicante cieco in un paese di ladri. Nel frattempo, aveva chiuso di nuovo a pugno la destra. «Dov'è andata?» domandò Grace alla nipotina, sforzandosi come poteva di rasserenare l'atmosfera per il bene della bambina. Fissando sospettosa la mano destra che Tom teneva chiusa, Angel disse: «Lì, no». «La principessa ha ragione», ammise lui, mostrando che quella mano era ancora vuota. Poi allungò il braccio verso la bambina ed estrasse la moneta dal suo orecchio. «Non è una magia», dichiarò Angel. «Invece a me è sembrata proprio una magia», commentò Celestina. «Anche a me», concordò Paul. Angel era sicura di sé: «No. Potrei impararlo. Come vestirmi e dire grazie». «Ne sono certo», ammise Tom. Con il pollice piegato contro l'indice ricurvo, lanciò in aria la monetina. Mentre il quarto di dollaro saliva verso l'alto, Tom alzò entrambe le mani, con le dita allargate per mostrarle e per distrarre i presenti. Ma la moneta non era a mezz'aria come avrebbe dovuto essere, non continuava a roteare davanti ai loro occhi. Era scomparsa come se fosse finita nella fessura di un immaginario distributore che, in cambio di denaro, offriva mistero. Intorno alla tavola, gli adulti applaudirono, ma la parte di pubblico più ostinata si mise a fissare il soffitto, verso il quale riteneva che la moneta fosse stata lanciata, poi il tavolo, dove sarebbe dovuta cadere in mezzo ai
bicchieri o nella sua coppa di cereali alla panna. Alla fine guardò Tom e disse: «Non è una magia». Grace, Celestina e Paul rimasero divertiti e strabiliati dal giudizio critico di Angel. Imperterrita, la bambina soggiunse: «Non è una magia. Ma forse questo non riuscirò mai a impararlo». Come mossi dall'elettricità statica, i peli sulle mani di Tom vibrarono e lui si sentì attraversato da una corrente di aspettativa. Fin da bambino, aveva atteso quel momento - se quello era davvero Il Momento - e ormai aveva quasi perso la speranza che il tanto desiderato incontro si sarebbe mai verificato. Era convinto che avrebbe trovato altre persone con la sua capacità di percezione fra fisici o matematici, fra monaci o mistici, ma mai in una bambina di tre anni, completamente vestita di blu, a parte una cintura e due fiocchi rossi nei capelli. Con la bocca arida, disse ad Angel: «Be', a me sembra proprio una magia... quel trucco della monetina lanciata in aria». «La magia è una cosa che nessuno sa come succede.» «E tu sai cosa è successo alla moneta?» «Certo.» Non riuscì a raccogliere abbastanza saliva per rendere la sua voce meno roca: «Allora potresti imparare a farlo». La bambina scosse la testa e i fiocchi rossi tremolarono. «No. Perché non l'hai semplicemente mossa in giro.» «Mossa in giro?» «Da questa mano a quella, o a un altro posto.» «E allora che cosa ne ho fatto?» «L'hai gettata in Gunsmoke», rispose Angel. «Dove?» domandò Grace. Con il cuore che batteva all'impazzata, Tom estrasse un'altra moneta dalla tasca dei pantaloni. A favore degli adulti, eseguì l'adeguata preparazione dell'esercizio - un colpetto, il trucco delle dita ben aperte - perché nell'illusionismo, così come nei gioielli, ogni diamante deve essere incastonato in modo adeguato per farlo risaltare in tutta la sua lucentezza. Anche nell'esecuzione dell'esercizio fu estremamente scrupoloso, perché non voleva che gli adulti vedessero ciò che Angel aveva visto; preferiva che lo considerassero un gioco di destrezza... o una magia. Dopo aver compiuto le solite mosse, per un attimo chiuse la mano destra intorno alla moneta, poi con un colpo di polso, la gettò ad Angel, contemporaneamente
distraendo i presenti con elaborati movimenti delle mani. I tre adulti lanciarono grida di meraviglia vedendo scomparire la moneta, applaudirono di nuovo e fissarono le mani di Tom con aria di intesa, mani che lui aveva chiuso smettendo improvvisamente di agitarle. Ma Angel rimase concentrata su un punto in aria, al di sopra del tavolo. Per un momento la sua fronte si aggrottò, ma poi l'espressione perplessa si aprì in un sorriso. «Anche questa è finita in Gunsmoke?» domandò Tom con voce roca. «Forse», rispose Angel. «Oppure in The Monkees... o forse dove tu non sei stato investito dal rinosciauso.» Tom aprì le mani vuote, poi prese un bicchiere colmo d'acqua. I cubetti di ghiaccio che sbattevano tra di loro smentivano l'espressione calma del suo viso. Rivolgendosi a Paul Damascus, Angel domandò: «Sai da dove viene la pancetta?» «Dai maiali», rispose Paul. «Noooooo», esclamò Angel. Poi ridacchiò di fronte alla sua ignoranza. Celestina fissò Tom Vanadium con curiosità. Era stata testimone dell'effetto della scomparsa, anche se non aveva veramente visto la moneta svanire a mezz'aria. Tuttavia sembrava percepire che si fosse trattato di qualcosa di più di un gioco di destrezza, oppure che quel trucco aveva un significato che le sfuggiva. Prima che Celestina cominciasse a indagare, forse andando a toccare un punto dolente di verità, Tom cominciò a raccontare la storia di Re Obadiah, Faraone del Fantastico, che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva sui giochi di destrezza. Più tardi, dopo aver finito di cenare ma ancora tutti seduti intorno al tavolo davanti a una tazzina di caffè, la conversazione si fece più seria, anche se per il momento evitarono di parlare del defunto Harrison White. Quanto tempo le due donne e la bambina sarebbero dovute restare nascoste, quando e dove avrebbero potuto riprendere una vita abbastanza normale: al momento, quelli erano gli argomenti più importanti. Più a lungo dovevano continuare a vivere nella paura, maggiori erano le probabilità che Celestina avrebbe abbandonato ogni cautela e sarebbe tornata a Pacific Heights. Tom la conosceva abbastanza da sapere che era una lottatrice, non una che scappa. Per lei, restare nascosta era frustrante. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, senza una data precisa in cui poter riprendere la sua vita normale, avrebbe perso rapidamente la pazienza. Una
volta giunta al limite della sopportazione, la sua dignità e il suo senso di giustizia l'avrebbero costretta ad agire... forse più spinta dall'emotività che dalla ragione. Per guadagnare più tempo possibile, mentre il ricordo dell'aggressione di Enoch Cain era ancora fresco nella mente di Celestina, Tom propose che restassero nascoste per altre due settimane, a meno che l'assassino non venisse arrestato prima. «In seguito, se vorrete trasferirvi a casa di Wally dovrete fare installare il sistema d'allarme migliore che possiate trovare e, per un po', dovrete condurre una vita molto ritirata, addirittura assumere un guardiano, se ve lo potete permettere. La cosa più intelligente sarebbe andarsene da San Francisco appena Wally si sarà ristabilito. Lui è già in pensione, vero? E una pittrice può dipingere ovunque. Vendete tutto ciò che avete qui, ricominciate da un'altra parte e fate in modo che non possiate essere facilmente rintracciati. In questo, posso aiutarvi.» «La situazione è davvero così pericolosa?» si domandò Celestina, anche se conosceva la risposta. «Io amo San Francisco. Questa città è un'ispirazione per il mio lavoro. Qui mi sono costruita una vita. La situazione è davvero così brutta?» «È anche peggiore», le rispose Grace in tono fermo. «Anche se lo prendono, dovresti vivere nella paura che, un giorno, lui possa evadere. Fintanto che saprai di poter essere rintracciata, non sarai mai completamente in pace. E se ami questa città così tanto da mettere a repentaglio la vita di Angel... allora chi è che hai ascoltato in tutti questi anni, ragazzina? Non certo me.» Era già stato deciso che Grace si sarebbe trasferita a casa di Celestina e in seguito, dopo il matrimonio, sarebbe andata a stare con Celestina e Wally. A Spruce Hills, aveva dei cari amici di cui avrebbe sentito la mancanza, ma non vi era altro che la trattenesse nell'Oregon, a parte un rettangolo di terra accanto a Harrison, dove un giorno intendeva essere seppellita. L'incendio della canonica aveva distrutto tutti i suoi effetti personali e tutti i ricordi di famiglia, dalle medaglie vinte da Celestina alla scuola elementare, fino all'ultima fotografia. Voleva soltanto restare vicina all'unica figlia che le era rimasta e alla nipotina, far parte della nuova vita che intendevano costruire insieme a Wally Lipscomb. Accettando il consiglio di sua madre, Celestina sospirò. «Va bene. Preghiamo solo che lo arrestino. In caso contrario... due settimane, poi proseguiremo con il resto del piano, come dice lei, Tom. Solo che io non riesco a sopportare di trascorrere due settimane in un albergo, sempre chiusa den-
tro, con la paura di uscire in strada, senza sole, senza aria fresca.» «Venite con me», propose immediatamente Paul Damascus. «A Bright Beach. È molto lontano da San Francisco e non penserà mai di cercarvi lì. Perché dovrebbe farlo? Non avete nessun rapporto con quella città. In casa mia c'è abbastanza spazio. Sarete le benvenute. E non vi troverete tra sconosciuti.» Celestina conosceva appena Paul e, sebbene avesse salvato la vita di sua madre, la sua offerta la lasciò alquanto dubbiosa. Ma Grace non ebbe un attimo di esitazione. «È molto generoso da parte sua, Paul. E, per quanto mi riguarda, accetto volentieri. È la casa in cui ha abitato con la sua Perri?» «Proprio quella», confermò lui. Tom non aveva idea di chi fosse Perri, ma dal modo in cui Grace aveva posto la domanda e in cui si rivolgeva a Paul, era chiaro che doveva sapere qualcosa su Perri che le aveva suscitato un profondo rispetto e una grande ammirazione. «Va bene», si diede per vinta Celestina, e apparve sollevata. «Grazie, Paul. Lei non è soltanto un uomo straordinariamente coraggioso, ma anche molto gentile.» La carnagione mediterranea di Paul rendeva difficile scorgere il rossore, ma, secondo Tom, il suo viso si illuminò fino ad avvicinarsi di un paio di sfumature al colore rosso ruggine dei capelli. Il suo sguardo, di solito molto diretto, evitò quello di Celestina. «Non sono certo un eroe», insisté Paul. «Ho solo portato fuori sua madre dall'incendio mentre cercavo di salvare me stesso.» «Una cosa da nulla», commentò Grace, rimproverandolo gentilmente per la sua modestia. Angel, che durante tutta quella conversazione era stata impegnata con un biscotto, leccò le briciole dalle labbra e domandò a Paul: «Hai un cucciolo?» «Niente cuccioli, mi dispiace.» «Hai una capra?» «La tua decisione di venire a trovarmi cambierebbe se l'avessi?» «Dipende», rispose Angel. «Da che cosa?» «La capra vive in casa o fuori?» «Per la verità, non ho una capra.» «Bene. Hai del formaggio?»
Con un gesto, Celestina fece capire a Tom che voleva vederlo da sola. Mentre Angel proseguiva nel suo implacabile interrogatorio di Paul Damascus, Tom raggiunse sua madre di fronte all'ampia finestra in fondo alla stanza, nel punto più lontano dal tavolo. La nave della notte galleggiava sulla città e gettava reti di buio, raccogliendo milioni di luci simili a pesci fosforescenti. Celestina rimase per un momento a fissare fuori della finestra, poi voltò la testa per guardare Tom con ancora le ombre della notte e lo scintillio della metropoli intrappolati nei suoi occhi. «Di che cosa si trattava?» Per un istante Tom pensò di fingere di non capire, ma sapeva che lei era troppo intelligente per una cosa del genere. «Intende dire Gunsmoke? Ascolti, so che lei farà tutto ciò che sarà necessario per tenere al sicuro Angel, perché le vuole un bene enorme. Più di qualsiasi altra motivazione, sarà l'amore a darle forza e determinazione. Ma deve anche sapere questo... È necessario tenerla al sicuro per un altro motivo. È speciale. Non desidero spiegare perché è speciale o come lo so, perché questo non è né il luogo né il momento, non quando suo padre è appena morto, Wally è in ospedale e lei è ancora scossa dall'aggressione.» «Ma io ho bisogno di sapere.» Tom annuì. «Certo. Sì. Ma non ha bisogno di saperlo proprio adesso. Aspetterò quando sarà più calma, quando avrà la mente più serena. È troppo importante perché io glielo spieghi adesso, in tutta fretta.» «Wally l'ha sottoposta a dei test. Per una bambina della sua età, ha un'eccezionale comprensione dei colori, delle relazioni spaziali e delle forme geometriche. Dal punto di vista visivo, potrebbe essere una bambina prodigio.» «Ne sono certo», confermò lui. «So come riesce a vedere chiaramente.» Trovandosi a quattr'occhi con Tom, anche Celestina dimostrò di vedere il detective molto chiaramente. «Anche lei è speciale, in molti modi e molto evidenti. Ma, come Angel, è speciale in un modo un po' segreto... non è vero?» «Possiedo un dono, ed è un dono insolito», ammise lui. «Niente di straordinario. In verità, più che altro si tratta di una particolare capacità di percezione. Il dono di Angel sembra essere diverso dal mio, ma attinente. In cinquant'anni, è la prima persona che io abbia conosciuto che in qualche modo mi somigli. Dentro di me, sto ancora tremando per lo choc di averla trovata. Ma, per favore, lasciamo questa conversazione per Bright Beach e per una sera migliore. Partirete domani con Paul, okay? Io rimarrò qui a
prendermi cura di Wally. Quando sarà in condizioni di viaggiare, lo porterò con me. Sicuramente, desidera che anche lui senta ciò che ho da dire. Siamo d'accordo?» Lacerata tra la curiosità e la stanchezza emotiva, Celestina lo fissò negli occhi, pensando, e alla fine disse: «D'accordo». Tom abbassò lo sguardo sulle profondità oceaniche della città, attraverso le scogliere di edifici, alle auto che, simili a un banco di pesci, avanzavano lungo gli ampi solchi del fondo. «Ora le dirò qualcosa su suo padre che la conforterà», riprese Vanadium, «ma non mi chieda di sapere più di quanto io sia pronto a rivelare in questo momento. Fa tutto parte di ciò di cui discuterò con lei a Bright Beach.» Celestina non disse nulla. Prendendo il suo silenzio come un assenso, Tom proseguì: «Suo padre non è più qui, se n'è andato per sempre, ma continua a vivere in altri mondi. Questa non è soltanto una dichiarazione di fede. Se Albert Einstein fosse ancora vivo e fosse in questa stanza, le direbbe che è vero. Suo padre è qui in molti luoghi, così come Phimie. In molti luoghi, lei non è morta di parto. In alcuni mondi, non è mai stata violentata, la sua vita non è mai stata rovinata. Ma c'è un'ironia in tutto questo, vero? Perché in quei mondi, Angel non esiste... e tuttavia Angel è un miracolo e una benedizione». Sollevò lo sguardo dalla città e fissò la ragazza. «Quindi, quando stanotte sarà a letto e non riuscirà a dormire per l'angoscia, non si limiti a pensare a ciò che ha perso con suo padre e Phimie. Pensi a ciò che ha in questo mondo e che non ha mai conosciuto in altri mondi... Angel. Che sia cattolico, battista, ebreo, musulmano oppure meccanica quantistica, Dio ci offre un risarcimento per il nostro dolore, qui, in questo mondo, non solo in quelli paralleli e non solo in un ipotetico aldilà. C'è sempre un compenso per il dolore... se siamo in grado di riconoscerlo quando ce lo troviamo davanti.» Gli occhi di Celestina, come pozze luminose, erano colmi di desiderio di sapere, ma lei rispettò il patto. «Di quello che mi ha detto, ho capito solo la metà, e non so nemmeno quale metà, ma stranamente, sento che è vero. Grazie. Ci penserò questa notte, quando non riuscirò a dormire.» Si avvicinò e lo baciò sulla guancia. «Chi è lei, Tom Vanadium?» Lui sorrise e scrollò le spalle. «Un tempo ero un pescatore di uomini. Adesso do loro la caccia. A uno in particolare.» 78
A Bright Beach, nel tardo pomeriggio di martedì, mentre un'ondata di azzurro più intenso e iridescente avanzava nel cielo, i gabbiani si avviavano verso i loro rifugi e, sulla terra sotto di loro, le ombre che per tutto il giorno erano rimaste in piedi ora si allungavano, si distendevano, preparandosi per la notte. Da San Francisco, verso sud, fino all'aeroporto della contea di Orange, su un volo affollato di pendolari, poi ancora più a sud, lungo la costa, alla guida di un'auto noleggiata, Paul Damascus condusse Grace, Celestina e Angel a casa Lampion. «Prima di portarvi a casa mia, c'è qualcuno che desidero farvi conoscere. Non sa del nostro arrivo, ma sono certo che non ci saranno problemi.» Con una macchia di farina sulla guancia, pulendosi le mani in un canovaccio a quadretti rossi e bianchi, Agnes venne ad aprire la porta, vide l'auto nel vialetto ed esclamò: «Paul! Come mai non sei a piedi?» «Non potevo trasportare sulle spalle queste tre signore», spiegò lui. «Per quanto siano snelle, pesano più di uno zaino.» Mentre passavano dalla veranda all'ingresso, vennero fatte delle rapide presentazioni e Agnes disse: «Venite in cucina. Sto preparando delle torte». Il profumo di dolci nell'aria avrebbe fiaccato la volontà anche del più devoto dei monaci in periodo di digiuno espiativo. Grace domandò: «Che cos'è che manda questo profumino delizioso?» «Sono le torte alla pesca, uvette e noci», spiegò Agnes, «con una crostata come base e una copertura di cioccolato.» «Una vera tentazione», esclamò Celestina. In cucina, Barty era seduto davanti al tavolo e Paul sentì una stretta al cuore vedendo il bambino con gli occhi coperti dai cerotti. «Tu devi essere Barty», disse Grace. «So tutto di te.» «Sedetevi, sedetevi», li incitò Agnes. «Per il momento posso offrirvi del caffè, più tardi una fetta di torta.» Ci volle qualche istante prima che Celestina reagisse al nome di Barty. Sul suo viso si dipinse una strana espressione. «Barty? Diminutivo di... Bartholomew?» «Sì, sono io», confermò Barty. Rivolgendosi a sua madre, Celestina domandò: «Cosa intendevi dire con so tutto su di te?» «Paul ci ha raccontato la sua storia la sera trascorsa con noi alla canonica. Ci ha parlato di Agnes... di ciò che è accaduto a Barty. E anche della
sua defunta moglie, Perri. Mi sembra di conoscere già Bright Beach.» «Questo è un bel vantaggio, mentre voi dovrete raccontarmi tutto», intervenne Agnes. «Preparo il caffè... a meno che non vogliate darmi una mano.» Grace e Celestina cominciarono immediatamente ad affaccendarsi in cucina, non solo preparando il caffè, ma anche aiutando Agnes con le torte. Intorno al tavolo rotondo, vi erano sei grosse sedie, una per ciascuno, compresa Agnes, ma soltanto Paul e Barty rimasero seduti. Incantata da quello strano, nuovo mondo, Angel restava nella sedia solo per brevi momenti, tra un'ispezione e l'altra, per sorseggiare un sorso di succo di mela e per annunciare le sue scoperte: «Hanno la carta dei ripiani gialla. Tengono le patate in un cassetto. Nel frigorifero, ci sono quattro tipi di sottaceti. Hanno il tostapane coperto da un calzino con sopra gli uccellini». «Non è un calzino», spiegò Barty. «È una foderina.» «Una cosa?» domandò Angel. «Una foderina per il tostapane.» «E perché ha sopra gli uccellini? Agli uccellini piacciono i toast?» «Certo», confermò Barty. «Ma penso che Maria vi abbia ricamato sopra gli uccellini solo perché sono belli.» «Hai una capra?» «Spero di no», rispose Barty. «Nemmeno io», disse Angel, prima di riprendere le sue ispezioni. Ben presto, Agnes, Celestina e Grace si misero a lavorare insieme con un'armonia davvero poetica. Paul aveva notato che la maggior parte delle donne prova per un'altra donna una immediata antipatia o simpatia e che, quando tra di loro scocca la scintilla della simpatia, fin dal primo incontro si trovavano perfettamente a loro agio come se fossero amiche di vecchia data. Dopo nemmeno mezz'ora, quelle tre donne sembravano coetanee, inseparabili fin dall'infanzia. Da quando era morto il reverendo, Paul non aveva mai visto Celestina e Grace in un momento di serenità, ma in quella cucina, per la prima volta, erano in grado di nascondere il loro dolore con il piacere di fare una nuova amicizia e con l'impegno nella preparazione delle torte. «Bello», commentò Barty, come se leggesse la mente di Paul. «Sì, bello», confermò lui. Chiuse gli occhi per immaginare la cucina come la percepiva Barty. Il profumo di dolci, il musicale tintinnio dei cucchiai, lo sbatacchiare delle
padelle, il liquido fruscio di uno sbattitore a frusta, il calore dei forni, le voci delle donne: non potendo contare sulla vista, un po' alla volta si rese conto che gli altri sensi si acuivano. «Anche questo è bello», commentò, ma aprì gli occhi. Angel tornò al tavolo per un altro sorso di succo di mela e per annunciare: «Hanno un Gesù a forma di barattolo per i biscotti!» «Quello l'ha portato Maria dal Messico», spiegò Barty. «Secondo lei, era divertente. Lo è anche per me. È uno spasso. La mamma dice che non è veramente blasfemo, perché non era questa l'intenzione di chi l'ha fatto, perché Gesù vorrebbe che mangiassimo i biscotti e perché, fra l'altro, ci ricorda di essere grati per tutte le cose buone che abbiamo.» «Tua madre è una donna intelligente», commentò Paul. «Più di tutte le aquile del mondo», concordò il bambino. «Perché hai le foderine sugli occhi?» volle sapere Angel. Barty scoppiò a ridere. «Non sono foderine.» «Be', non sono nemmeno calzini.» «Sono cerotti», spiegò Barty. «Sono cieco.» Angel scrutò i cerotti attentamente con aria sospettosa. «Davvero?» «È da quindici giorni che sono cieco.» «Perché?» Barty scrollò le spalle. «Tanto per fare qualcosa di nuovo.» I due bambini avevano la stessa età, tuttavia, ascoltandoli, sembrava che Angel facesse le sue deliziose moine a un adulto che aveva molta pazienza, senso dell'umorismo e comprendesse il modo di pensare dei più piccoli. «Che cosa c'è sul tavolo?» domandò Angel. Posando una mano sull'oggetto al quale lei si era riferita, Barty disse: «Quando siete arrivati, la mamma e io stavamo ascoltando un libro. È un libro parlante». «I libri parlano?» volle sapere Angel con una nota di meraviglia. «Sì, se sei cieco come una talpa e se sai dove prenderli.» «Pensi che i cani parlino?» domandò la bambina. «Se lo facessero, uno di loro sarebbe già diventato presidente. Tutti amano i cani.» «I cavalli parlano.» «Solo alla televisione.» «Io avrò un cucciolo che parla.» «Se ne esiste uno, lo avrai senz'altro», commentò Barty. Agnes invitò tutti a fermarsi per cena. Appena le torte furono pronte,
dall'arsenale culinario della famiglia Lampion vennero requisiti grosse pentole, tegami, colini e altri pezzi di artiglieria pesante. «Ci saranno anche Maria con Francesca e Bonita», spiegò Agnes. «Potremmo allungare il tavolo. Barty, chiama zio Jacob e zio Edom e invitali a cena.» Paul rimase a osservare Barty che balzava giù dalla sedia e attraversava senza esitazione la cucina, fino alla parete sulla quale si trovava il telefono. Angel lo seguì e lo vide salire su uno sgabello e sganciare il ricevitore dall'apparecchio. Compose i rispettivi numeri, facendo solo qualche breve pausa fra una cifra e l'altra, e parlò con entrambi gli zii. Allontanandosi dal telefono, Barty si diresse verso il frigorifero. Lo aprì, prese una lattina di aranciata e, sempre senza alcuna esitazione, tornò alla sua sedia vicino al tavolo. Angel lo aveva seguito mantenendosi a due passi di distanza e quando si fermò vicino alla sedia e rimase a guardarlo mentre apriva la lattina, Barty domandò: «Perché mi stai seguendo?» «Come facevi a sapere che ero io?» «Lo so.» Rivolgendosi a Paul, domandò: «Mi ha seguito, vero?» «Ovunque sei andato», confermò Paul. Angel disse: «Volevo vederti cadere». «Io non cado. Be', non molto.» Maria Gonzalez arrivò con le figlie e, mentre di solito Angel si sentiva attratta dalla compagnia di bambine più grandi di lei, ora non aveva interesse che per Barty. «Perché i cerotti?» «Perché ancora non ho gli occhi nuovi.» «Dove si comprano gli occhi nuovi?» «Al supermercato.» «Non mi prendere in giro», si lamentò Angel. «Non sei uno di loro.» «Uno di chi?» «Un adulto. Se lo fanno loro, va bene. Ma se lo fai tu, sei proprio cattivo.» «Va bene. Gli occhi nuovi me li darà un dottore. Non sono occhi veri, sono di plastica, per riempire il buco dove prima c'erano gli occhi.» «Perché?» «Per sorreggere le palpebre. E perché, senza niente nelle orbite, sono un mostro. La gente si mette a vomitare. Le vecchiette svengono. Le bambine come te si fanno la pipì addosso e scappano urlando.»
«Fammi vedere», disse Angel. «Ti sei portata le mutande pulite?» «Hai paura di farti vedere?» I cerotti imbottiti erano tenuti fermi dalle stesse due strisce elastiche, quindi Barty li sollevò contemporaneamente. Feroci pirati, spietati agenti segreti, alieni divoratori di cervelli giunti da lontane galassie, supercriminali che volevano dominare il mondo, vampiri assetati di sangue, lupi mannari, crudeli agenti della Gestapo, scienziati pazzi, adoratori di Satana, mostri da circo, membri del Ku Klux Klan pieni di odio, squartatori e soldati robot privi di emozioni e giunti da altri pianeti avevano squarciato, pugnalato, bruciato, colpito, trafitto, strappato, picchiato, frantumato, schiacciato, impiccato, morso, sventrato, decapitato, avvelenato, annegato, colpito con radiazioni, fatto esplodere, maciullato, mutilato e torturato innumerevoli vittime nelle riviste popolari che Paul aveva cominciato a leggere fin da bambino. Tuttavia, neppure una scena di quelle centinaia e centinaia di coloriti racconti lo avevano colpito nel profondo dell'anima quanto una sola occhiata alle orbite vuote di Barty. Quella vista non era in alcun modo cruenta, e neppure raccapricciante. Paul si ritrasse e distolse lo sguardo solo perché la prova di ciò che il bambino aveva perso lo costringeva a pensare alla terribile vulnerabilità degli innocenti in quel passaggio di treno merci che era la natura e minacciava di strappar via la sottile crosta sulla ferita lasciata dalla morte di Perri. Invece di fissare direttamente Barty, si voltò a osservare Angel che studiava attentamente il bambino senza occhi. Non si era mostrata in alcun modo inorridita da quella carne molle e concava che erano le palpebre chiuse e quando una di queste si era sollevata con un tremore, mostrando l'orbita vuota e scura, la bambina non aveva dato segni di disgusto. Si avvicinò ulteriormente alla sedia di Barty e, quando lo toccò sulla guancia, proprio sotto l'occhio sinistro mancante, il bambino non si ritrasse per la sorpresa. «Hai avuto paura?» domandò lei. «Tanta.» «Ti ha fatto male?» «Non molto.» «E adesso hai paura?» «Di solito no.» «Ma qualche volta sì?» «Qualche volta.»
Paul si accorse che nella cucina era caduto il silenzio, che le donne si erano voltate verso i due bambini ed erano immobili come statue di cera. «Ricordi ancora le cose?» domandò la bambina, tenendo sempre le dita leggermente appoggiate sulla guancia di Barty. «Vuoi dire, come sono?» «Sì.» «Certo, me lo ricordo. Sono passati solo quindici giorni.» «Te le dimenticherai?» «Non lo so. Forse.» Celestina, ferma accanto ad Agnes, le cinse la vita con un braccio, così come un tempo aveva avuto l'abitudine di fare con sua sorella. Angel spostò la mano sull'occhio destro di Barty e, ancora una volta, il bambino non trasalì quando le dita sfiorarono leggermente la palpebra chiusa e infossata. «Non te le farò dimenticare.» «E in che modo?» «Io ci vedo», spiegò lei. «E so parlare come i tuoi libri.» «Eccome, se sai parlare», confermò Barty. «Quindi, io sono i tuoi occhi parlanti.» Abbassando la mano dal viso di Barty, Angel soggiunse: «Sai da dove viene la pancetta?» «Dai maiali.» «Come è possibile che una cosa così buona venga da un grasso, puzzolente, sporco, vecchio maiale?» Barty scrollò le spalle. «Anche un bel limone giallo sembra dolce.» «Quindi, per te è maiale?» domandò Angel. «Che cos'altro, se no?» «Sei convinto che sia maiale?» «Sì. La pancetta viene dal maiale.» «Lo penso anch'io. Posso avere un'aranciata?» «Te ne vado a prendere una», propose lui. «Ho visto dove sono.» Prese una lattina, tornò al tavolo e si sedette come se avesse terminato con le sue perlustrazioni. «Sei simpatico, Barty.» «Anche tu.» In quel momento arrivarono Edom e Jacob, la cena venne servita e, se il cibo fu ottimo, la conversazione fu anche migliore... nonostante che, di tanto in tanto, i due gemelli riversassero sui commensali parte della loro ampia cultura su incidenti ferroviari e micidiali eruzioni vulcaniche. Paul non contribuì molto alla conversazione, perché preferiva bearsi di quella
compagnia. Se non avesse conosciuto nessuno di loro, se fosse entrato nella stanza mentre stavano cenando, avrebbe pensato che facessero tutti parte della stessa famiglia, perché il calore e l'intimità - e nel caso dei gemelli, l'eccentricità - di quella conversazione erano qualcosa che non si sarebbe mai aspettato da parte di persone che si erano appena conosciute. Non vi erano finzioni e falsità, nessun argomento, per quanto imbarazzante, veniva evitato, quindi vi furono anche delle lacrime, perché la morte del reverendo White era ancora una ferita molto recente nel cuore di coloro che lo avevano amato. Ma, con il modo di lenire le ferite che hanno le donne e che restava sempre un mistero per Paul, alle lacrime seguirono ricordi che fecero nascere sorrisi e che consolarono, e tutti concordarono che, da ogni seme di disperazione, sbocciava sempre il fiore della speranza. Quando Agnes si mostrò sorpresa nel venire a sapere che il nome di Barty era stato ispirato dal famoso sermone del reverendo, Paul rimase di stucco. Aveva ascoltato «Questo giorno straordinario» la prima volta che era stato trasmesso e, avendo saputo che, a grande richiesta, sarebbe stato riproposto tre settimane dopo, aveva insistito perché Joey non se lo perdesse. Joey lo aveva ascoltato domenica, 2 gennaio 1965... solo quattro giorni prima della nascita di suo figlio. «Deve averlo sentito alla radio, mentre era in macchina», commentò Agnes, scavando nel suo baule mentale pieno di ricordi. «Stava cercando di portarsi avanti con il lavoro, così sarebbe potuto restare in casa per tutta la settimana successiva alla nascita del bambino. Quindi aveva preso appuntamento con dei possibili clienti anche di domenica. In quel periodo lui lavorava davvero tanto e io cercavo di portare a termine la consegna delle torte e di concludere tutti i miei impegni prima del grande giorno. Non abbiamo trascorso molto tempo insieme, come facevamo di solito, e per quanto il sermone l'avesse colpito, non ha mai avuto la possibilità di parlarmene. Praticamente l'ultima cosa che mi ha detto è stata... 'Bartholomew'. Voleva che chiamassi il bambino Bartholomew.» Quel legame che univa le famiglie Lampion e White, di cui Grace aveva già sentito parlare da Paul, rappresentava qualcosa di assolutamente nuovo tanto per Celestina quanto per Agnes. Suscitò altri ricordi dei rispettivi mariti e il triste rimpianto perché Joey e Harrison non si erano potuti conoscere. «Anch'io vorrei tanto che il mio Rico avesse conosciuto il suo Harrison», Maria disse a Grace, riferendosi al marito che l'aveva abbandonata. «Forse il reverendo sarebbe riuscito a fare con le sue parole ciò che non
sono riuscita a fare io con il mio piede nel trasero di Rico.» Barty spiegò: «In spagnolo significa 'sedere'». Angel trovò la frase estremamente divertente e Agnes commentò in tono paziente: «Grazie per la lezione di spagnolo, professor Lampion». Ciò che non sorprese Paul fu la decisione con cui Agnes insisté affinché le due donne e la bambina abitassero con lei e Barty per tutto il tempo in cui dovevano restare nascoste. «Paul, tu hai una bellissima casa», disse, «ma Celestina e Grace sono persone attive. Hanno bisogno di mantenersi occupate. Se non hanno sempre qualcosa da fare, diventano matte. Non ho ragione, signore?» Erano d'accordo, ma non volevano disturbare. «Sciocchezze», esclamò Agnes, «non mi disturbate affatto. Anzi, mi sarete di grande aiuto a preparare le torte, a consegnarle e a svolgere tutte quelle attività che ho dovuto accantonare durante il ricovero di Barty. I casi sono due, o vi divertirete, o alla fine sarete stanche morte, ma in ogni caso, non vi annoierete. Ho due stanze per gli ospiti. Una sarà per Celie e Angel e una per Grace. Quando arriverà il vostro Wally, potremo spostare Angel con Grace, oppure la piccola potrà dormire con me.» L'amicizia, il lavoro e, non meno importante, la sensazione di famiglia e di appartenenza che tutti provavano appena varcata la soglia della casa di Agnes... erano tutte cose che attiravano Celestina e Grace. Ma non volevano che Paul avesse l'impressione che la sua ospitalità non era stata apprezzata. Lui sollevò una mano per interrompere la discussione. «Il motivo per cui mi sono fermato qui, prima di portarvi a casa mia, è perché non volevo dover riportare indietro le vostre valigie una volta che Agnes fosse riuscita a convincervi. Qui starete senz'altro meglio, ma ricordate che, se vi farà lavorare come dannate, sarete sempre le benvenute a casa mia.» Nel corso della serata, Barty e Angel, seduti uno accanto all'altro, di fronte a Paul, di tanto in tanto ascoltavano gli adulti e qualche volta intervenivano nella conversazione, rna soprattutto chiacchieravano tra di loro. Quando i due bambini non tenevano le teste vicine con aria di cospiratori, Paul riusciva a sentire il loro chiacchiericcio e, a seconda di ciò di cui si discuteva tra adulti, a volte riusciva anche a seguire il discorso. Udì la parola rinoceronte, si sintonizzò sulla loro onda, poi si distrasse, ma un paio di minuti dopo tornò a concentrarsi su di loro quando vide che Celestina, seduta due posti più in là rispetto a lui, si era alzata dalla sedia e fissava i bambini con aria strabiliata. «Quindi, il posto dove lui ha lanciato la moneta», spiegava Barty, men-
tre Angel lo ascoltava attentamente e annuiva con la testa, «non era realmente in Gunsmoke, perché quello non è un posto, è solo un telefilm. Potrebbe averla lanciata in un posto in cui io non sono cieco, o in un altro posto dove lui non ha una faccia così schiacciata, oppure in un luogo dove tu, per qualche motivo, oggi non sei venuta qui. Ci sono più posti di quanti una persona possa contare, perfino io, e io so contare molto bene. È così che tu senti, giusto... tutti i modi in cui le cose sono?» «Io vedo. A volte. Veloce-veloce. Per un attimo. Come quando tu ti trovi tra due specchi. Capisci?» «Sì», rispose Barty. «Tra due specchi, vai avanti per sempre, avanti, avanti.» «Tu vedi le cose così?» «Per un attimo. Qualche volta. C'è un posto in cui non hanno sparato a Wally?» «Wally è il tizio che diventerà il tuo papà?» «Sì, proprio lui.» «Certo. Ci sono molti posti in cui non gli hanno sparato, ma ci sono anche posti in cui gli hanno sparato ed è morto.» «Non mi piacciono quei posti.» Sebbene Paul avesse visto il gioco di destrezza di Tom Vanadium con la moneta, non riuscì a comprendere il resto della loro conversazione e immaginò che per tutti gli altri, a parte la madre di Angel, fosse altrettanto oscura. Ma, vedendo Celestina alzarsi in piedi, i presenti erano ammutoliti. Ignara del fatto che lei e Barty si trovavano al centro dell'attenzione generale, Agnes soggiunse: «Le monete tornano mai indietro?» «Probabilmente no.» «Deve essere davvero ricco. A buttar via tutti quei quarti di dollaro.» «Un quarto non vale molto.» «È tantissimo», insisté Angel. «L'ultima volta che l'ho visto, Wally mi ha dato un biscotto. Ti piacciono i biscotti?» «Abbastanza.» «Saresti capace di gettare un biscotto in un posto dove non sei cieco o magari dove non hanno sparato a Wally?» «Immagino che, se si può lanciare una moneta, si può lanciare anche un biscotto.» «Potresti gettare un maiale?» «Magari lui potrebbe farlo, se riuscisse a prenderlo in braccio, ma io non riuscirei a gettare un maiale o un biscotto o qualsiasi altra cosa in un altro
posto. È qualcosa che non so fare.» «Nemmeno io.» «Ma posso passeggiare sotto la pioggia senza bagnarmi», disse Barty. A capotavola, Agnes balzò in piedi dalla sedia nel momento in cui il figlio disse pioggia e, quando disse bagnato, lo ammonì: «Barty!» Angel sollevò lo sguardo, sorpresa che qualcuno la stesse fissando. Voltando gli occhi coperti dai cerotti in direzione della madre, Barty mormorò: «Ho-ho». Tutti si girarono a guardare Agnes perplessi e in attesa di una spiegazione, e lei li fissò a uno a uno. Paul. Maria. Francesca. Bonita. Grace. Edom. Jacob. E Celestina. Le due donne si guardarono negli occhi e alla fine Celestina domandò: «Buon Dio, ma che cosa sta succedendo qui?» 79 Il successivo martedì pomeriggio, a Bright Beach, attraversando un cielo nero come il calderone di una strega, i gabbiani si allontanarono dal temporale in arrivo per andare a ripararsi nei loro rifugi e, sulla terra sotto di loro, le umide ombre della tempesta si radunarono come se fossero state suscitate da un maleficio ottenuto facendo bollire un occhio di tritone, una zampa di rana, peli di pipistrello e una lingua di cane. In aereo da San Francisco fino all'aeroporto di Orange County, poi sempre verso sud, lungo la costa alla guida di un'auto noleggiata, seguendo le indicazioni fornitegli da Paul, Tom Vanadium condusse Wally Lipscomb a casa Lampion, una settimana dopo che Damascus vi era arrivato con le sue protette. Erano trascorsi undici giorni da quando Wally aveva bloccato tre proiettili. Sentiva ancora una certa debolezza nelle braccia, si stancava più facilmente di prima, quando non era ancora finito dalla parte sbagliata della pistola, provava un certo irrigidimento dei muscoli e si appoggiava a un bastone per evitare di pesare sulla gamba ferita. Per il resto, poteva farsi curare e seguire la terapia riabilitativa tanto a Bright Beach come a San Francisco. Per il mese di marzo sarebbe tornato alla piena normalità, sempre che nella definizione di normale si comprendessero grosse cicatrici e, al posto della milza, uno spazio vuoto. Celestina andò ad accoglierli sulla porta e gettò le braccia al collo di Wally. Lui abbandonò il bastone - che Tom afferrò al volo - e restituì l'ab-
braccio con tanto ardore, la baciò con tanta passione, che evidentemente la debolezza residua in quel momento non rappresentava più un problema. Anche Tom ricevette un forte abbraccio e un bacio fraterno, che gli fecero un grande piacere. Per troppo tempo era stato un lupo solitario, così come è costretto a esserlo un cacciatore di uomini quando deve affrontare un lungo percorso di riabilitazione e, successivamente, dedicarsi anima e corpo a una missione di vendetta, anche se lui la definiva missione di giustizia. Nei pochi giorni trascorsi in città a fare la guardia a Celestina, Grace e Angel e poi, durante la settimana passata con Wally, Tom si era sentito parte di una famiglia, anche se era una famiglia di amici, e con sua grande sorpresa, si era reso conto di avere un estremo bisogno di quella sensazione. «Tutti vi stanno aspettando», annunciò Celestina. Tom sapeva che, nel corso della settimana passata, era accaduto qualcosa, si era verificato un importante sviluppo, a cui Celestina aveva accennato al telefono, rifiutandosi però di parlarne. Quando la ragazza accompagnò lui e Wally nella sala da pranzo di casa Lampion, Tom non aveva la benché minima idea di che cosa avrebbe trovato ma, se anche avesse cercato di immaginare la scena che lo attendeva, certo non avrebbe pensato a una seduta spiritica. O quantomeno, questo era ciò che appariva in un primo momento. Otto persone riunite intorno a un tavolo, completamente spoglio. Niente cibo, niente bevande, niente centrotavola. Tutte quelle persone avevano l'espressione di chi aspetta nervosamente le rivelazioni di un medium: in parte trepidazione, in parte una crescente speranza. Tom conosceva soltanto tre dei presenti: Grace White, Angel e Paul Damascus. Gli altri gli vennero rapidamente presentati da Celestina. Agnes Lampion, la padrona di casa. Edom e Jacob Isaacson, fratelli di Agnes. Maria Gonzalez, la migliore amica di Agnes. E Barty. Al telefono, gli avevano già parlato di questo bambino. Per quanto fosse strano trovare un Bartholomew nella loro vita, considerata la curiosa ossessione di Enoch Cain, Tom fu comunque d'accordo con Celestina nel ritenere che l'assassino non aveva avuto alcuna possibilità di sapere dell'esistenza di quel bambino, e non aveva certamente alcun motivo logico per temerlo. L'unica cosa che li accomunava era il sermone di Harrison White, che aveva suggerito il nome del bambino e che poteva aver piantato il seme della colpa nella mente di Cain. «Tom, Wally, mi dispiace per le rapide presentazioni», si scusò Agnes
Lampion. «Avremo molto tempo per conoscerci durante la cena. Ma io e le persone riunite in questa stanza è da una settimana che aspettiamo di sentire ciò che ha da dirci. Non possiamo attendere un minuto di più.» «Sentire quello che ho da dirvi?» Celestina indicò a Tom di sedersi a capotavola, di fronte ad Agnes. Mentre Wally si accomodava nella sedia vuota alla sinistra di Tom, Celestina prese due oggetti dalla credenza e li posò di fronte a Tom, prima di sedersi alla sua destra. La saliera e la pepaiola. Dal capo opposto della tavola, Agnes disse: «Prima di tutto, Tom, vorremmo che ci parlasse dei rinoceronti e dell'altro lei». Tom ebbe un attimo di esitazione perché, fino al momento in cui ne aveva brevemente parlato con Celestina a San Francisco, non aveva mai discusso di questa sua particolare percezione con nessuno, a parte con due assistenti spirituali, in seminario. Inizialmente, si sentì a disagio all'idea di doverne parlare con degli sconosciuti... era come confessarsi davanti a un laico che non aveva alcuna autorità per assolverlo. Ma appena cominciò a parlare a quel pubblico così silenzioso e attento, tutti i dubbi svanirono e fare quella rivelazione gli sembrò naturale come discutere del tempo. Servendosi della saliera e della pepaiola, Tom riferì quanto era avvenuto dieci giorni prima e ripeté la spiegazione che aveva dato ad Angel sul motivo per cui non era triste per la sua faccia. Alla fine, con il sale Tom e il pepe Tom, uno accanto all'altro, nei loro mondi diversi ma paralleli, Maria commentò: «Sembra fantascienza». «Scienza. Meccanica quantistica. Che è una teoria... della fisica. Ma per teoria non intendo una semplice speculazione. La meccanica quantistica funziona. Sta alla base dell'invenzione della televisione. Prima della fine di questo secolo, forse già negli anni Ottanta, la tecnologia basata sui quantum ci permetterà di avere in casa un computer potente e a basso costo, computer piccoli come valigette, come portafogli, come orologi da polso, in grado di elaborare più dati e più in fretta di quegli enormi macchinari che conosciamo adesso. Computer piccoli come francobolli. Avremo telefoni senza fili che potremo portarci dietro. Alla fine, sarà possibile costruire computer formati da un'unica molecola e dotati di una enorme potenza, dopodiché la tecnologia... anzi, tutta la società umana... cambierà in meglio e in un modo che noi non riusciamo quasi a comprendere.» Cercò nel suo pubblico espressioni incredule e sguardi persi. «Non si preoccupi», gli disse Celestina, «dopo ciò che abbiamo visto in
questa settimana, siamo in grado di seguirla.» Anche Barty sembrava molto attento, mentre Angel colorava allegramente un album da disegno e canticchiava tra sé e sé. Tom era convinto che la bambina avesse una comprensione intuitiva della complessità del mondo, ma dopotutto aveva solo tre anni e non era né pronta né in grado di recepire la teoria scientifica che supportava la sua intuizione. «Va bene. Vedete... i gesuiti vengono incoraggiati a studiare qualsiasi argomento che ritengano interessante, non soltanto la teologia. Io ero molto interessato alla fisica.» «Per via di una certa consapevolezza che ha avuto fin dall'infanzia», gli fece notare Celestina, ricordando ciò che le aveva detto a San Francisco. «Sì. Di questo parleremo più avanti. Voglio solo chiarire che il mio interesse per la fisica non fa di me un fisico. E anche se lo fossi, non riuscirei a spiegare la meccanica quantistica né in un'ora né in un anno. Alcuni dicono che la teoria quantistica è così strana che nessuno riesce a comprenderne realmente le implicazioni. Alcuni fenomeni dimostrati nel corso degli esperimenti quantistici sembrano sfidare il buonsenso, e vi farò qualche esempio, solo per darvene un'idea. Per incominciare, a livello subatomico, a volte l'effetto viene prima della causa. In altre parole, un evento può accadere prima che si presenti la ragione scatenante. Una cosa altrettanto strana è che, in un esperimento eseguito davanti a un osservatore umano, le particelle subatomiche si comportano diversamente rispetto a quando l'esperimento avviene senza la presenza di un osservatore e i risultati vengono esaminati solo in seguito... il che potrebbe stare a indicare che la volontà umana, anche a livello inconscio, plasma la realtà.» Stava semplificando e mescolando i concetti, ma non conosceva altro modo per dar loro la sensazione della meraviglia, dell'enigma, l'assoluta misteriosità del mondo rivelato dalla meccanica quantistica. «E sentite questa», proseguì. «Nell'universo, ogni punto è direttamente collegato a ogni altro punto, indipendentemente dalla distanza, di conseguenza qualsiasi punto su Marte si trova misteriosamente vicino a me quanto ciascuno di voi. Il che significa che le informazioni - e gli oggetti, perfino le persone - possono spostarsi istantaneamente tra qui e Londra senza bisogno di cavi o trasmissione a microonde. Addirittura, tra qui e una stella lontana, istantaneamente. Solo che non abbiamo ancora capito come farlo. In effetti, a un livello strutturale molto profondo, ogni punto dell'universo è lo stesso. Questa interconnessione è così completa che un
grande stormo di uccelli che si leva in volo a Tokyo, smuovendo l'aria con le ali, contribuisce alle variazioni climatiche di Chicago.» Angel sollevò lo sguardo dal suo album. «E cosa mi dici dei maiali?» «In che senso?» volle sapere Tom. «Puoi lanciare un maiale dove hai fatto andare la moneta?» «Ci arriverò», promise lui. «Fantastico!» esclamò la bambina. «Non voleva dire che lancerà un maiale», le spiegò Barty. «Lo farà, ci scommetto», insisté Angel, tornando alle sue matite. «Una delle cose fondamentali suggerite dalla meccanica quantistica», proseguì Tom, «è che esiste un numero infinito di realtà, altri mondi paralleli al nostro, che noi non possiamo vedere. Per esempio... mondi in cui, a causa di determinate decisioni e azioni di alcune persone da entrambe le parti, la Germania ha vinto la seconda guerra mondiale. E in altri mondi in cui l'Unione ha perso la Guerra Civile. E mondi in cui gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica hanno già combattuto una guerra mondiale.» «Mondi», provò a indovinare Jacob, «in cui l'autocisterna non si è mai fermata sui binari a Bakersfield, nel 1960. Quindi il treno non l'ha mai investita e quelle diciassette persone non sono mai morte.» Quel commento lasciò Tom alquanto perplesso. Poteva solo immaginare che Jacob avesse conosciuto qualcuno che era morto in quell'incidente... Tuttavia, il tono di voce del gemello e la sua espressione sembravano suggerire che un mondo senza l'incidente ferroviario di Bakersfield sarebbe stato un luogo meno allegro. Senza far commenti, Tom proseguì: «E ci sono mondi proprio come il nostro... salvo che i miei genitori non si sono mai conosciuti e io non sono mai nato. Mondi in cui Wally non è mai stato ferito perché era troppo insicuro di sé o semplicemente troppo stupido per portare Celestina a cena quella sera e per chiederle di sposarlo». Oramai tutti i presenti conoscevano abbastanza bene Celestina e quindi l'ultimo esempio di Tom provocò un'affettuosa risata. «Anche in un numero infinito di mondi», obiettò Wally, «non può esisterne uno in cui io sia così stupido.» «Ora, a tutto questo», riprese Tom, «aggiungerò un tocco umano e un effetto spirituale. Ogni volta che ci troviamo a dover prendere una decisione che influenzerà lo sviluppo della nostra personalità e la vita degli altri, e facciamo la scelta peggiore... secondo me, è a quel punto che un nuovo mondo si divide in due. Quando compio una scelta immorale o sem-
plicemente sciocca, si crea un altro mondo in cui io ho fatto la cosa giusta e, in quel mondo, per un po' mi riscatto, mi viene offerta una possibilità di diventare una versione migliore del Tom Vanadium che vive nel mondo della scelta sbagliata. Ci sono tanti mondi con Tom Vanadium imperfetti, ma esiste sempre un luogo... un luogo in cui avanzo senza esitazione verso uno stato di grazia.» «Ogni vita», intervenne Barty Lampion, «è come la nostra quercia in giardino, ma molto più grande. Si parte da un tronco, poi ci sono tutti i rami, milioni di rami e ogni ramo è la stessa vita che va in una nuova direzione.» Sorpreso, Tom si appoggiò allo schienale della sedia per osservare più direttamente il bambino cieco. Al telefono, Celestina gli aveva solo accennato al fatto che Barty era un bambino prodigio, ma questo non bastava a spiegare la scelta di una metafora tanto appropriata. «E forse», intervenne Agnes, coinvolta da quelle speculazioni, «quando la tua vita giunge al termine in tutti quei rami, alla fine vieni giudicato per la forma e la bellezza dell'albero.» «Compiere troppe scelte sbagliate», intervenne Grace White, «provoca la crescita di troppi rami... una crescita nodosa, contorta, brutta.» «Troppo pochi», disse Maria, «potrebbero significare che hai compiuto un numero straordinariamente ridotto di errori morali, ma anche che non hai corso rischi accettabili e che non hai utilizzato completamente il dono della vita.» «Accidenti», borbottò Edom, e questo suo commento suscitò il sorriso affettuoso di Maria, Agnes e Barty. Tom non comprese il commento di Edom, né i sorrisi, ma per il resto, era rimasto impressionato dalla facilità con cui quelle persone avevano recepito le sue parole e dalla loro capacità di allargare i propri orizzonti mentali seguendo le sue speculazioni. Era come se nella loro mente quell'idea fosse già esistita da tempo e lui si fosse limitato a fornire alcuni particolari. «Tom, un paio di minuti fa», disse Agnes, «Celestina ha accennato a una sua... 'certa consapevolezza'. Di che cosa si tratta esattamente?» «Fin da bambino, ho avuto questa... consapevolezza, questa percezione di una realtà infinitamente più complessa di quella con cui noi entravamo in contatto attraverso i cinque sensi. I chiaroveggenti dicono di poter prevedere il futuro. Io non sono un chiaroveggente. Qualunque cosa io sia... sono in grado di sentire un enorme numero di altre possibilità inerenti a una qualsiasi situazione, io so che esistono simultaneamente alla mia real-
tà, una accanto all'altra, e ognuno di questi mondi è reale quanto il mio. Lo sento nelle ossa, nel sangue...» «Sente tutti i modi in cui le cose sono», intervenne Barty. Tom guardò Celestina. «Un bambino prodigio, vero?» Sorridendo, lei commentò: «Questo giorno sarà davvero straordinario». «Sì, Barty», rispose Tom. «Sento che la vita ha una profondità, strati su strati. A volte fa... paura. Ma nella maggior parte dei casi è come un'ispirazione. Non vedo questi altri mondi, non posso spostarmi da uno all'altro. Ma con la monetina, posso dimostrare che ciò che sento non è frutto della mia immaginazione.» Prese dalla tasca della giacca un quarto di dollaro e lo tenne fra pollice e indice, in modo che tutti, tranne Barty, potessero vederlo. «Angel!» La bambina sollevò lo sguardo dal suo album. «Ti piace il formaggio?» le domandò Tom. «Il pesce fa bene al cervello, ma il formaggio è più buono.» «Hai mai mangiato del formaggio svizzero?» «Il gruviera è il migliore.» «Qual è la prima cosa che ti viene in mente quando pensi al formaggio svizzero?» «L'orologio a cucù.» «E poi?» «I panini.» «Nient'altro?» «Gniviera.» «Barty, aiutami tu», disse Tom. «Buchi», suggerì Barty. «Ah, sì, i buchi», confermò Angel. «Dimenticate per un attimo l'albero di Barty e immaginate che tutti questi innumerevoli mondi siano come fette di formaggio svizzero posate una sull'altra. Attraverso alcuni buchi, riuscirete a vedere soltanto la fetta successiva. Attraverso altri, riuscirete a vedere attraverso due, o tre o cinque fette, fino a quando i buchi non smettono di sovrapporsi. Anche tra questi mondi vi sono dei piccoli buchi, ma si spostano continuamente, cambiano, secondo dopo secondo. E io non riesco a vederli, davvero, ma li percepisco. Guardate attentamente.» Questa volta non lanciò la monetina in aria. Ma piegò la mano all'indietro e, con il pollice, lanciò il quarto di dollaro verso Agnes. Arrivato al centro del tavolo, proprio sotto il lampadario, il dischetto
d'argento cominciò a ruotare a mezz'aria, e continuò a farlo fino a quando uscì da questo mondo ed entrò in un altro. Alcuni si lasciarono sfuggire un'esclamazione di meraviglia. Angel si mise a ridacchiare felice e applaudì. Le reazioni furono comunque sorprendentemente moderate. «Di solito, per distrarre i presenti, getto un po' di fumo negli occhi, muovo le mani, in modo che non si accorgano nemmeno che ciò che hanno visto è reale. Pensano che la sparizione della moneta in aria sia soltanto un trucco.» Tutti lo guardarono pieni d'aspettativa, come in attesa di un altro gioco di prestigio, come se lanciare una moneta in un'altra realtà fosse qualcosa che si vedeva ogni settimana durante l'Ed Sullivan Show, tra acrobati e giocolieri in grado di far ruotare contemporaneamente dieci piatti su dieci lunghi bastoncini. «Ebbene», proseguì Tom, «chi pensa che sia soltanto un gioco di prestigio di solito ha una reazione più stupita della vostra, eppure voi sapete che si tratta di una cosa reale.» «Che cos'altro sa fare?» volle sapere Maria, lasciandolo ancora più di stucco. Improvvisamente, senza essere preceduto dalle cannonate dei tuoni, senza i colpi di artiglieria dei lampi, scoppiò il temporale. Fragorosa come un esercito in marcia, la pioggia cominciò ad avanzare sul tetto. Tutti i presenti sollevarono contemporaneamente gli occhi al soffitto e sorrisero al rumore dell'acquazzone. Anche Barty, con i suoi cerotti sopra le orbite vuote, guardò verso l'alto, sorridendo. Perplesso di fronte al loro strano comportamento, anche leggermente irritato, Tom rispose alla domanda di Maria. «Temo che non ci sia nient'altro che io sappia fare... null'altro che contenga qualcosa di fantastico.» «Lei è stato bravissimo, Tom, proprio bravo», lo rassicurò Agnes, con il tono consolatorio che avrebbe usato per un ragazzo, la cui esibizione al pianoforte era stata piena di buona volontà, ma del tutto anonima. «Siamo rimasti tutti molto colpiti.» Spingendo la sedia all'indietro, si alzò in piedi e tutti seguirono il suo esempio. Alzandosi, Celestina disse a Tom: «La sera di martedì scorso, abbiamo dovuto accendere l'innaffiatoio automatico. Questa volta sarà molto meglio». Volgendo lo sguardo verso la finestra più vicina, dove la notte umida
baciava il vetro, Vanadium si domandò: «L'innaffiatoio automatico?» L'aspettativa con cui Tom era stato accolto all'arrivo era sottile come l'aria sulle montagne dell'Himalaya in confronto a quella, densa e quasi compatta, che adesso si respirava. Tenendosi per mano, Barty e Angel precedettero gli adulti in cucina, avviandosi verso la porta sul retro. Vi era in quella processione qualcosa di cerimoniale che incuriosiva Tom e, quando infine furono tutti usciti sul portico, era impaziente di sapere perché ognuno di loro - a parte lui e Wally - apparisse particolarmente emozionato, quasi al limite dell'euforia. Una volta che furono tutti sulla veranda, allineati lungo la ringhiera e in cima alle scale, nell'aria fredda e umida che odorava vagamente di ozono e profumava di gelsomino, Barty disse: «Signor Vanadium, il suo trucco con la monetina è davvero interessante. Ma adesso le mostro qualcosa che sembra uscito da un romanzo di Heinlein». Con una mano che sfiorava appena la ringhiera, il bambino scese rapidamente i gradini e avanzò sotto la pioggia, camminando sul prato fradicio. Sua madre, spingendo gentilmente Tom verso un punto, in cima alle scale, dove poteva avere la visuale migliore, non sembrava preoccupata dal fatto che il bambino si avventurasse sotto quell'acquazzone. Colpito dalla sicurezza e dalla rapidità con le quali il bambino cieco affrontava i gradini e camminava nel prato, inizialmente Tom non notò nulla di insolito in quella passeggiata sotto la pioggia. Le luci della veranda non erano accese. Il giardino sul retro della casa non era rischiarato da alcuna luce circostante. Barty appariva come un'ombra grigia che si muoveva nell'oscurità e nella pioggia. Fermo accanto a Tom, Edom commentò: «Un vero acquazzone». «Ha ragione.» «Agosto, 1931. Lungo il fiume Huang He, in Cina. In un'inondazione, sono morte tre milioni e settecentomila persone», soggiunse Edom. Non sapendo cosa farne di quell'informazione, Tom disse: «Davvero tante». Seguendo una linea perfettamente dritta, Barty si avviò verso la grande quercia. «13 settembre, 1928. Lago Okeechobee, Florida. Un'inondazione ha ucciso duemila persone.» «Non è andata male, solo duemila», fu la frase idiota che Tom si sentì dire. «Cioè, in confronto a quasi quattro milioni.»
Giunto a circa tre metri dal tronco della quercia, Barty smise di camminare in linea retta e cominciò a girare intorno all'albero. Dopo solo ventun giorni dall'operazione, il bambino si era adattato alla cecità in modo straordinario, ma era chiaro che i presenti si erano riuniti per vedere qualcosa di più incredibile dei suoi progressi e della sua infallibile capacità di orientarsi. «27 settembre, 1962. Barcellona, Spagna. Un'inondazione ha fatto quattrocentoquarantacinque vittime.» Tom si sarebbe allontanato volentieri da Edom, spostandosi un po' verso destra, se non fosse stato affiancato da Jacob. Ricordava lo strano commento che il più cupo dei due gemelli aveva fatto riferendosi all'incidente ferroviario di Bakersfield. L'enorme chioma della quercia non riparava il prato sottostante. Come cucchiai, le foglie raccoglievano la pioggia dall'aria e, un po' alla volta, la riversavano sul terreno in una fitta pioggerellina, invece che goccia a goccia. Barty completò il giro dell'albero e tornò alla veranda. Salì i gradini e si fermò davanti a Tom. Nonostante l'oscurità, Tom si accorse immediatamente di ciò che il bambino era riuscito a fare, e che aveva qualcosa di miracoloso: indumenti e capelli erano asciutti come se avesse indossato un cappotto e un cappuccio. Ammutolito dalla meraviglia, posando un ginocchio a terra di fronte a Barty, Tom gli palpò la manica della camicia. «Ho camminato dove non c'era la pioggia», spiegò Barty. In cinquant'anni, fino ad Angel, Tom non aveva trovato nessun altro come lui... e adesso ce n'era un secondo, in poco più di una settimana. «Io non sono in grado di fare quello che hai fatto tu.» «Io non so fare il gioco della moneta», ribatté Barty. «Forse potremmo imparare uno dall'altro.» «Forse.» Per la verità, Tom non credeva che quelle fossero cose che potevano essere apprese, anche se era uno di loro a insegnare all'altro. Erano nati con la stessa speciale percezione, ma con diverse e limitate capacità a interagire con la molteplicità dei mondi, la cui presenza riuscivano ad avvertire. Tom non era in grado di spiegare nemmeno a se stesso come faceva a inviare una moneta o un altro piccolo oggetto nell'Altrove; era qualcosa che semplicemente sentiva, e ogni volta che la moneta spariva, veniva dimostrata l'autenticità di quella sensazione. Aveva il sospetto che, quando
Barty camminava dove non c'era la pioggia, il bambino non utilizzasse consapevolmente alcuna tecnica; semplicemente decideva di camminare in un mondo asciutto, restando contemporaneamente in quello bagnato... dopodiché lo faceva. Maghi tristemente inesperti, stregoni capaci di compiere solo uno o due trucchi a testa, nessuno di loro possedeva un libro segreto degli incantesimi e non conosceva magie da insegnare a un apprendista. Tom Vanadium si rialzò in piedi e, tenendo una mano sulla spalla di Barty, osservò a uno a uno i volti delle persone riunite sulla veranda. Aveva conosciuto la maggior parte di loro solo da poco e per lui erano praticamente degli sconosciuti. Tuttavia, per la prima volta dai primi tempi trascorsi all'orfanotrofio di Sant'Anselmo, aveva trovato un luogo al quale sentiva di appartenere. Si sentiva a casa. Facendo un passo verso di lui, Agnes spiegò: «Quando Barty mi prende per mano e insieme camminiamo sotto la pioggia, io mi bagno, mentre lui rimane asciutto. Lo stesso accade anche a tutti gli altri... a parte Angel». La bambina aveva già preso la mano di Barty. I due piccoli scesero insieme i gradini e si avventurarono sotto la pioggia. Non fecero il giro della quercia, ma si fermarono ai piedi della scala e si voltarono verso la casa. Ora che Tom sapeva che cosa cercare, l'oscurità non riuscì a nascondere l'incredibile verità. Erano fermi sotto la pioggia, una pioggia fitta, scintillante, martellante, fragorosa, la stessa sotto la quale, nel famoso film, Gene Kelly aveva danzato, cantato e fatto capriole su un marciapiede inondato d'acqua, ma mentre alla fine del suo numero, l'attore si era ritrovato bagnato fradicio, i due bambini restavano perfettamente asciutti. Gli occhi di Tom si sforzavano di chiarire il paradosso, anche se sapeva che i miracoli sfidavano sempre qualsiasi spiegazione. «Okay, piccini», esclamò Celestina, «passiamo al secondo atto.» Barty lasciò andare la mano della bambina e, mentre lui continuò a restare asciutto, la pioggia trovò immediatamente la bambina, fino a quel momento rimasta nascosta nelle pieghe dell'argentea cortina d'acqua. Vestita completamente di color rosa che, bagnandosi, assunse una tonalità più intensa, Angel lanciò uno strillo e si allontanò immediatamente da Barty. Con gli indumenti macchiati e schizzati d'acqua, con le guance rigate da false lacrime, con una corona di scintillanti goccioline sui capelli, si lanciò a tutta velocità su per la scala come una principessa abbandonata dal suo cocchiere, gettandosi poi tra le braccia della nonna, che la sollevò da terra.
«Ti prenderai una polmonite», commentò Grace in tono di disapprovazione. «E quali sono le meraviglie che riesce a compiere Angel?» domandò Tom a Celestina. «Fino a questo momento, nessuna che io abbia visto.» «Percepisce semplicemente tutti i modi in cui sono le cose», spiegò Maria. «Come lei e Barty.» Mentre il bambino li raggiungeva sulla veranda senza nemmeno appoggiarsi alla ringhiera e tendeva in avanti una mano, Paul Damascus disse: «Tom, ci chiedevamo se Barty fosse in grado di proteggere anche lei dalla pioggia, così come riesce a fare con Angel. Forse può farlo... dato che tutti e tre possedete questa... questa consapevolezza, questa intuizione, o comunque lei la voglia chiamare. Ma il bambino non lo saprà mai finché non ci prova». Tom prese la mano di Barty - una mano tanto piccola e tuttavia dalla stretta così salda - ma non ci fu bisogno di scendere fino al prato prima di rendersi conto che quel manto invisibile non avvolgeva Tom come aveva fatto con la bambina. Una pioggia fredda e penetrante si riversò su Tom che, prendendo in braccio Barty, così come Grace aveva fatto con Angel, tornò immediatamente alla veranda. Agnes andò loro incontro, fermandosi accanto a Grace. I suoi occhi brillavano per l'eccitazione. «Tom, lei è un uomo di fede, anche se qualche volta ha avuto dei dubbi a riguardo. Mi dica che cosa pensa di tutto questo.» Quello che Tom sapeva era ciò che lei ne pensava, e capiva che anche tutti gli altri lo sapevano, volevano soltanto sentirlo arrivare alla stessa conclusione alla quale Agnes era giunta molto tempo prima che lui e Wally si presentassero lì quella sera. Quando erano ancora nella sala da pranzo, prima della dimostrazione sotto la pioggia, Tom aveva percepito che esisteva un legame speciale tra il bambino cieco e quella vivace bambina. In effetti, poteva solo giungere alla stessa conclusione di Agnes, perché, proprio come lei, credeva che gli eventi di ogni giornata rivelavano un misterioso progetto, se si aveva la volontà di vederlo, e che ogni vita aveva uno scopo ben preciso. «Di tutte le cose che potrei essere destinato a fare nella mia vita», rispose ad Agnes, «credo che nessuna sia più importante della piccola parte che ho avuto nel far incontrare questi bambini.» Sebbene l'unica luce che rischiarava la veranda filtrasse attraverso le
tende delle finestre della cucina, il volto di tutti i presenti appariva luminoso quasi in modo sovrannaturale, come quello rosseggiante dei santi in una chiesa scura, illuminata unicamente dalle fiamme delle candele votive. La pioggia... una specie di musica, il gelsomino, l'incenso e un momento pieno di sacralità. Guardando a uno a uno i suoi amici, Tom soggiunse: «Quando penso a tutto ciò che è dovuto avvenire perché ci ritrovassimo qui stasera, le tragedie e i momenti di gioia, quando penso a tutti i modi in cui si potevano svolgere le cose, tutti noi sparpagliati per il paese, senza mai conoscersi, so per certo che apparteniamo a questo luogo perché vi siamo arrivati contro ogni probabilità». Il suo sguardo tornò su Agnes e lui le diede la risposta che lei sperava di sentire. «Questo bambino e questa bambina sono nati per incontrarsi, per motivi che solo il tempo ci dirà, e tutti noi... siamo gli strumenti di uno strano destino.» Un senso di fratellanza in un momento straordinario attirò gli uni verso gli altri, si abbracciarono, si sfiorarono, condivisero la meraviglia. Per un lungo momento, nonostante la sinfonia del temporale, nonostante i rumori che si levavano da ogni oggetto sferzato dalla pioggia, fosse opera dell'uomo o della natura, tutti loro ebbero l'impressione di trovarsi immersi in un silenzio profondo come Tom non aveva mai sentito. Poi Angel domandò: «Lo getti adesso il maiale?» 80 Quando avvenne era una luminosa e azzurra mattina di marzo, due mesi dopo che Barty aveva portato Angel a fare una passeggiata asciutta sotto la pioggia, sette settimane dopo che Celestina aveva sposato Wally e cinque settimane dopo che i due novelli sposi avevano acquistato casa Galloway, proprio accanto a dove vivevano i Lampion. Selma Galloway, un'insegnante andata in pensione alcuni anni prima, approfittando dell'aumento di valore della sua casa, aveva deciso di trasferirsi e aveva acquistato un piccolo appartamento sulla spiaggia nella vicina Carlsbad. Guardando da una finestra della cucina, Celestina vide Agnes sul vialetto d'accesso di casa Lampion, dove si era radunata una piccola carovana di tre veicoli. Agnes stava caricando la sua station wagon. Dopo essersi installati nella nuova casa, a una trentina di metri di distanza da Agnes, Celestina e Wally - con Grace che continuava a preoccuparsi perché qualcuno si sarebbe certamente fatto male - avevano divelto l'alta
staccionata che divideva le due proprietà, perché ormai erano diventati un'unica grande famiglia con molti cognomi: Lampion, White, Lipscomb, Isaacson. Una volta riuniti i giardini posteriori e creato un vialetto di collegamento, gli spostamenti di Barty da una casa all'altra risultarono enormemente semplificati e vennero facilitate anche le regolari visite degli altri componenti del clan: Gonzalez, Damascus e Vanadium. «Agnes è più avanti di noi, mamma.» Sulla soglia della cucina, con le braccia cariche di scatole, la madre rispose: «Mi prendi quelle ultime quattro torte che sono sul tavolo? E non le rovesciare, tesoro». «Be', è la mia specialità. Sono sull'elenco dei criminali più ricercati dall'FBI per il reato di rovesciamento delle torte.» «Dovrebbero mettertici», ribatté Grace, poi si avviò verso la Suburban che Wally aveva acquistato unicamente per potere effettuare quelle consegne. Cercando di non comportarsi da crudele ribaltatrice di torte, Celestina la seguì. Rallegrata dal canto delle rondini che, evidentemente, preferivano quella zona alla più famosa San Juan Capistrano, la tiepida mattina di marzo era una giornata perfetta per la distribuzione dei generi alimentari. Agnes e Grace avevano sfornato un'intera pasticceria di torte alle mandorle e vaniglia e al caffè e toffee. Sotto l'attenta guida di Celestina, gli uomini... Wally, Edom, Jacob, Paul, Tom... avevano riempito i cartoni di cibo in scatola e in sacchetti, oltre a numerosi pacchi con indumenti primaverili per i bambini che avrebbero incontrato nel loro giro. Tutta questa mercanzia era stata caricata sulle auto già la sera prima. Mancavano ancora alcune settimane a Pasqua, ma Celestina aveva già cominciato a decorare più di un centinaio di cestini, così all'ultimo momento sarebbe bastato aggiungere i dolci. Il suo soggiorno era un alveare di cesti, nastri, fiocchi, perline, braccialettini, strisce di cellophane verde, rosso, giallo e rosa, nonché coniglietti e pulcini di peluche. Dedicava metà del suo tempo libero ad aiutare le persone bisognose visitate regolarmente da Agnes, e che andavano aumentando sempre più, e l'altra metà alla pittura. Non aveva fretta di preparare una nuova mostra; e comunque non osava riprendere i contatti con la Galleria Greenbaum o con coloro che aveva conosciuto in passato, fino a quando la polizia non avesse trovato Enoch Cain.
Per la verità, il tempo trascorso ad aiutare Agnes le aveva fornito innumerevoli nuovi spunti per i suoi quadri e aveva arricchito il suo lavoro di una nuova profondità che la stimolava enormemente. «Quando svuoti le tasche per riempire quelle degli altri», le aveva detto un giorno Agnes, «alla mattina dopo, ti ritrovi più ricca di quanto fossi stata la sera precedente.» Mentre Celestina e sua madre caricavano le ultime torte nelle borse termiche che avevano messo sulla Suburban, Paul e Agnes lasciarono la loro station wagon in cima alla carovana per raggiungerle. «Pronte a partire?» domandò Agnes. Paul controllò il bagagliaio della Suburban perché si considerava il capo carovana. Voleva essere certo che la merce fosse stata caricata in modo tale da non scivolare o danneggiarsi. «Mi sembra che vada tutto bene», dichiarò, chiudendo il portellone. Dal suo furgoncino Volkswagen a metà carovana, Maria si avvicinò a loro. «Nel caso restassimo distanziati, Agnes, io non so qual è l'itinerario.» Il capocarovana Damascus gliene consegnò subito una copia. «Dov'è Wally?» domandò Maria. In risposta alla sua domanda, Wally arrivò correndo con la sua pesante valigetta da medico, perché ora, durante il giro, si occupava anche di curare le persone ammalate. «Fa più caldo di quanto prevedessi, quindi sono tornato a casa per cambiarmi e mettermi qualcosa di più leggero.» Anche in una giornata tiepida, la distribuzione delle torte alla fine poteva trasformarsi in una bella sudata perché, oltre ad avere aggiunto degli uomini a questo ambizioso progetto, non si limitavano più a distribuire generi alimentari, ma sbrigavano anche alcune incombenze che rappresentavano un problema per le persone anziane o disabili. «Mettiamoci in marcia», disse Paul, tornando alla station wagon sulla quale avrebbe viaggiato accanto ad Agnes. A bordo della Suburban con Wally e Grace, mentre erano in attesa di iniziare il viaggio, Celestina riferì: «Martedì sera l'ha portata di nuovo al cinema». Wally domandò: «Chi, Paul?» «Chi altri? Penso che ci sia una storia d'amore nell'aria. Il modo in cui la guarda, credo che se lei gli facesse l'occhiolino, lui stramazzerebbe a terra.» «Niente pettegolezzi», l'ammonì Grace dal sedile posteriore. «Senti chi parla», esclamò Celestina. «Chi è che ci ha raccontato di aver-
li visti seduti sull'altalena della veranda, mano nella mano.» «Quello non era un pettegolezzo», insisté Grace. «Ti ho solo detto che Paul aveva riparato l'altalena e l'aveva rimessa al suo posto.» «E quando tu sei andata a fare acquisti con Agnes e lei gli ha comprato una camicia sportiva senza alcun motivo, solo perché pensava che gli sarebbe stata bene?» «Te l'ho raccontato», ribatté Grace, «unicamente perché era una camicia molto bella e pensavo che anche tu avresti voluto comprarne una per Wally.» «Wally, sono preoccupata. Molto preoccupata. Se non la smette con queste risposte evasive, mia madre si comprerà un bel biglietto di prima classe per le fiamme dell'inferno.» «Gli do tre mesi», commentò Grace, «poi le chiederà di sposarlo.» Voltandosi sul sedile e sorridendo alla madre, Celestina disse: «Un mese». «Se lui e Agnes avessero la tua età, ti darei ragione. Ma lei ha dieci anni più di te e lui venti, quindi non sono impulsivi come quelli della tua generazione.» «Che sposano uomini bianchi e tutto il resto», ironizzò Wally. «Esattamente», replicò Grace. «Cinque settimane al massimo», stabilì Celestina, rivedendo la sua precedente previsione. «Dieci settimane», controbatté la madre. «Che cosa vinco?» volle sapere Celestina. «Io farò le pulizie di casa che spettano a te per un mese. Ma se mi avvicino di più alla data, per un mese tu dovrai riordinare la cucina e pulire i forni... le ciotole, le teglie, il miscelatore, tutto.» «Affare fatto.» In testa al corteo, Paul sventolò un fazzoletto rosso fuori del finestrino della station wagon. Inserendo la marcia, Wally commentò: «Non sapevo che ai battisti piacesse scommettere». «Questo non è scommettere», dichiarò Grace. «Ha ragione», confermò Celestina, rivolgendosi a Wally. «Questo non è scommettere. Che cosa dici?» «Se questo non è scommettere», si domandò lui, «allora che cos'è?» «Un accordo tra madre e figlia», spiegò Grace. «Sì. Un accordo», confermò Celestina.
La station wagon partì, il furgoncino Wolkswagen la seguì e Wally chiuse il corteo. «Carovana, avanti!» esclamò. La mattina in cui accadde, Barty fece colazione nella cucina di casa Lampion insieme con Angel, lo zio Jacob e due amiche senza cervello. Jacob aveva preparato pane di granoturco, frittate con formaggio e prezzemolo e croccanti patatine spolverate di sale alla cipolla. Il tavolo rotondo aveva sei posti a sedere, ma a loro bastavano tre sedie, perché le due amiche senza cervello erano un paio di bambole di Angel. Mentre mangiava, Jacob sfogliava un nuovo libro sui disastri provocati dalle dighe. Parlava più tra sé e sé che con Barty e Angel, leggeva rapidamente il testo e guardava le fotografìe. «Oh, santo cielo», esclamava di tanto in tanto. Oppure, con aria triste: «Che orrore». Altre volte, si indignava: «Da criminali. È da criminali costruire una diga in quel modo». Talvolta faceva schioccare la lingua o sospirava o gemeva pieno di commiserazione. La cecità non offriva molte soddisfazioni, ma Barty scoprì che una di queste era il non poter leggere i rapporti e i libri degli zii. In passato, dentro di sé, non aveva mai voluto vedere quelle immagini di persone carbonizzate durante un incendio o corpi di annegati che galleggiavano lungo le strade inondate, ma alcune volte vi aveva dato una sbirciatina. Sua madre si sarebbe vergognata di lui se avesse scoperto che aveva trasgredito ai suoi ordini. Ma il mistero della morte aveva un innegabile, anche se spaventoso, fascino e talvolta un racconto poliziesco del buon Padre Brown non riusciva proprio a soddisfare la sua curiosità. Tuttavia si pentiva sempre di aver guardato quelle foto e di aver letto i truci resoconti dei disastri, e ora la cecità lo salvava da quella tentazione. Fare colazione con Angel, invece che soltanto con lo zio Jacob, gli permetteva di avere qualcuno con cui chiacchierare, anche se lei insisteva a parlare quasi sempre attraverso le sue bambole, invece che direttamente. Le bambole dovevano essere state messe sul tavolo, appoggiate alle ciotole. La prima, la signorina Pixie Lee, aveva una voce alta e stridula. La seconda, la signorina Velveeta Cheese, parlava con quella che, per una bambina di tre anni, doveva essere una voce bassa e sofisticata, anche se all'orecchio di Barty suonava più come quella di un orsacchiotto. «Lei è molto, molto bello questa mattina, signor Barty», squittì Pixie Lee, che si divertiva a fare un po' la civetta. «Somiglia a un divo del cinema.»
«Ti piace la colazione, Pixie Lee?» «Vorrei tanto che ci fossero i cereali con il latte al cioccolato.» «Lo zio Jacob non capisce i bambini. E comunque, questa roba è piuttosto buona.» Jacob lanciò una specie di grugnito, probabilmente non perché avesse sentito ciò che era stato detto su di lui, ma perché aveva appena voltato pagina e aveva trovato una foto di una mandria morta che, come un ammasso di detriti, era finita contro il palazzo della Legione Americana di una città dell'Arkansas colpita da un'inondazione. Fuori, i motori rombarono e la carovana delle torte si avviò lungo il vialetto. «A casa mia, in Georgia, a cena prendiamo sempre latte al cioccolato con i cereali.» «A casa sua, tutti quanti dovete avere la sciolta.» «Che cos'è la sciolta?» «Diarrea.» «Che cos'è... dia... quello che lei ha detto?» «Fare la cacca continuamente, senza riuscire a fermarsi.» «Lei è molto volgare, signor Barty. Nessuno in Georgia ha la sciolta.» In precedenza, la signorina Pixie Lee era del Texas, ma di recente Angel aveva sentito dire che la Geòrgia era famosa per le sue pesche, e questo aveva subito catturato la sua immaginazione. Ora Pixie Lee viveva in Geòrgia e abitava in una villa ricavata da un enorme pesco. «IO MANGIO SEMPRE CAVILALE A COLAZIONE», intervenne Velveeta Cheese con la sua voce da orsacchiotto. «Si dice caviale», la corresse Barty. «NON SI PERMETTA DI CORREGGERMI, SIGNOR BARTY.» «Okay, ma allora resterai un'ignorante testa di formaggio.» «E BEVO CHAMPAGNA TUTTO IL GIORNO», soggiunse la signorina Cheese. «Anch'io preferirei essere ubriaco tutto il giorno, se mi chiamassi Velveeta Cheese.» «Lei è molto bello coi suoi nuovi occhi, signor Barty», tornò a squittire Pixie Lee. Gli occhi artificiali avevano quasi un mese. Ci era voluto un intervento chirurgico per collegare i muscoli del movimento degli occhi alla congiuntiva e adesso tutti gli dicevano che sia l'aspetto sia il movimento erano assolutamente naturali. In effetti, durante le prime due settimane, glielo ave-
vano ripetuto così spesso che a Barty erano venuti dei sospetti e immaginava che i suoi nuovi occhi fossero completamente privi di controllo e che roteassero come girandole. «DOPO COLAZIONE POSSIAMO ASCOLTARE UN LIBRO PARLANTE?» domandò la signorina Velveeta Cheese. «Quello che sto per iniziare è Dottor Jekyll e Mr. Hyde, che potrebbe fare abbastanza paura.» «NOI NON CI SPAVENTIAMO.» «Davvero? E che mi dice del ragno della settimana scorsa?» «Io non avevo paura di un vecchio, stupido ragno», insisté Angel, con la sua voce. «E allora cos'era tutto quello strillare?» «Volevo soltanto che tutti venissero a vedere il ragno, nient'altro. Era un animaletto davvero interessante.» «Hai avuto così paura che ti è venuta la sciolta.» «Se mai mi venisse, tu lo saprai.» Poi, con la voce della signorina Cheese: «POSSIAMO ASCOLTARE IL LIBRO IN CAMERA SUA?» Ad Angel piaceva stare in camera di Barty, seduta nella panca vicino alla finestra, con un blocco da disegno sulle ginocchia, guardare la quercia dal piano superiore e disegnare, ispirandosi a ciò che sentiva nei libri che stavano ascoltando. Tutti dicevano che, per avere tre anni, era piuttosto brava, e a Barty sarebbe piaciuto poterlo verificare. Avrebbe anche desiderato vedere Angel, solo una volta. «Davvero, Angel», insisté Barty, preoccupato, «potresti spaventarti. Se vuoi, ne ho un altro che potremmo ascoltare.» «Vogliamo quello che fa paura, soprattutto se ci sono i ragni», lo sfidò Pixie Lee con la sua vocina. «Va bene, il libro che fa paura.» «A VOLTE, CON IL CAVIVALE, IO MANGIO ANCHE RAGNI.» «E adesso, chi è di noi due che dice cose disgustose?» *** La mattina in cui avvenne, Edom si svegliò presto da un incubo in cui vi erano delle rose. Nel sogno ha sedici anni, ma è angosciato come se avesse sofferto per trent'anni. Il giardino sul retro della casa. Estate. Una giornata torrida, l'aria immobile e pesante come l'acqua di uno stagno, dolciastra per il profu-
mo intenso di gelsomino. Sotto l'enorme quercia. L'erba di un verde lucente se illuminata dal sole e di uno smeraldo scuro all'ombra dei rami e delle foglie. Grasse cornacchie nere, come frammenti di notte rimasti dopo il sopraggiungere dell'alba, entrano ed escono irrequiete dalla chioma dell'albero, saltano di ramo in ramo, eccitate, rumorose. Da un ramo all'altro, lo sbattere d'ali è duro, duro come cuoio, demoniaco. Gli unici altri rumori sono il tonfo dei pugni, i colpi violenti, e l'ansimare di suo padre mentre impartisce la punizione. Edom giace a terra, con il viso sprofondato nell'erba, silenzioso perché quasi svenuto, troppo stremato per protestare o per implorare pietà, ma anche perché il solo gridare di dolore provocherà un castigo ancora più crudele di quello che ha dovuto sopportare fino a quel momento. Suo padre è a cavalcioni su di lui, con i grossi pugni lo colpisce sulla schiena, sui fianchi Le alte staccionate e le siepi di alloro indiano che fiancheggiano la proprietà impediscono ai vicini di vedere, ma alcuni sanno, hanno sempre saputo, ma sono meno interessati delle cornacchie. Rovesciato sull'erba, in pezzi: il trofeo per la rosa più bella, il simbolo del suo orgoglio peccaminoso, un unico momento di gloria, ma anche il suo orgoglio peccaminoso. Prima colpito con il trofeo, poi con i pugni. E adesso, dopo essere stato costretto da suo padre a sdraiarsi sulla schiena, adesso le rose, a manciate, conficcate sul suo viso, schiacciate e premute contro il viso, le spine che gli strappano la pelle, gli bucano le labbra. Suo padre, dimentico dei propri graffi, cerca di costringerlo ad aprire la bocca. «Mangia il tuo peccato, ragazzo, mangia il tuo peccato!» Edom non vuole mangiare il suo peccato, ma ha paura per gli occhi, è terrorizzato, le spine sono così vicine, punte verdi che gli pettinano le ciglia. È troppo debole per resistere, sconfitto dalla ferocia delle percosse e da anni di paura e umiliazione. Così apre la bocca, solo per arrivare alla fine, per farla finita una volta per tutte, apre la bocca, lascia che le rose gli vengano conficcate in gola, il gusto amaro della linfa spremuta dagli steli, le spine aguzze contro la gola. E poi Agnes. Agnes in giardino, che urla: «SMETTILA, SMETTILA!» Agnes, solo dieci anni, magra e tremante, ma furibonda, fino a quel momento schiava della sua paura, del ricordo di tutte le percosse ricevute. Urla contro il padre e lo colpisce con un libro che ha portato da casa. La Bibbia. Colpisce il padre con la Bibbia, il libro che il padre leggeva ogni sera, da quando erano nati. L'uomo lascia cadere a terra le rose, strappa il libro sacro dalle mani di Agnes e lo scaglia lontano. Poi raccoglie una manciata di rose, con l'intenzione di far riprendere al figlio la cena di pec-
cato, ma ancora una volta arriva Agnes, ha recuperato la Bibbia, gliela agita davanti agli occhi e dice ciò che tutti loro sanno essere la verità ma che nessuno ha mai osato dire, ciò che neppure Agnes stessa oserà ripetere dopo quel giorno, non fino a quando il padre resterà vivo, ma lo dice in quel momento, alzando la Bibbia verso di lui, mostrandogli la croce dorata sulla copertina di finta pelle. «ASSASSINO», urla Agnes. «ASSASSINO.» Ed Edom sa che a quel punto è come se fossero morti, che il padre, in preda alla collera, li sgozzerà, immediatamente. «Assassino», lo accusa Agnes, riparandosi dietro la Bibbia, e non intende dire che sta uccidendo Edom, ma che ha ucciso la loro madre, che lo avevano sentito quella notte, tre anni prima, avevano sentito la lotta breve ma terribile, e sanno che ciò che è accaduto non è stato un incidente. Le rose gli cadono dalle mani magre e graffiate, una cascata di petali gialli e rossi. L'uomo si alza in piedi e fa un passo verso Agnes, i pugni grondanti di sangue, suo e di Edom. Agnes non indietreggia, lo tiene a bada con il libro, e la luce del sole accarezza la croce. Invece di strapparle nuovamente la Bibbia dalle mani, il padre si allontana silenziosamente, entra in casa, di certo per tornare con un bastone o una mannaia... e, invece, per quel giorno non lo vedono più. Poi Agnes con le pinzette per le spine, con una bacinella piena di acqua tiepida e un asciugamano, con la tintura di iodio, il Neosporin e delle bende - si inginocchia accanto a Edom, in giardino. Anche Jacob esce dal buio nascondiglio sotto la veranda, avendo assistito alla scena da dietro il graticcio, terrorizzato. Trema, piange, si vergogna perché non è intervenuto, anche se aveva fatto bene a nascondersi perché le punizioni impartite a un gemello abitualmente venivano impartite, senza alcun motivo, anche all'altro. Un po' alla volta, Agnes riesce a calmare Jacob coinvolgendolo nella cura delle ferite del fratello e, rivolgendosi a Edom, gli dice, come poi gli dirà spesso anche in seguito: «Io amo le tue rose, Edom. Amo le tue rose. Dio ama le tue rose, Edom». Sopra di loro, le ali inquiete si calmano in un sommesso frullio e le cornacchie rimangono silenziose. L'aria è sempre immobile e pesante come l'acqua di uno stagno nascosto all'interno di un boschetto segreto, nel giardino perfetto degli innocenti... A quasi quarant'anni d'età, Edom sognava ancora di quel terribile pomeriggio estivo, anche se non più tanto spesso come in passato. Adesso, quando tormentava il suo sonno, un po' alla volta l'incubo si trasformava in un sogno di tenerezza e speranza. Fino a poco tempo prima, lui si era sempre svegliato quando le rose gli venivano conficcate in bocca, o le spine gli sfioravano le ciglia, oppure quando Agnes cominciava a colpire il padre
con la Bibbia, lasciando così intendere che vi sarebbe stata una punizione anche peggiore. Ma la scena successiva, questo passaggio dall'orrore alla speranza prima di svegliarsi, era stata aggiunta quando Agnes era rimasta incinta di Barty. Edom non sapeva per quale motivo questo fosse accaduto, e non cercò di analizzarlo. Era semplicemente grato per quel cambiamento, perché ora si risvegliava in pace, al massimo con un brivido, non più con un roco grido di dolore. Quella mattina di marzo, qualche minuto dopo la partenza della carovana, Edom portò fuori del garage la sua Ford Country Squire e si avviò verso il vivaio, che apriva presto. La primavera si stava avvicinando e c'era molto lavoro da fare per ottenere il massimo dal roseto che Joey Lampion l'aveva incoraggiato a piantare. Pensava già con gioia alle ore trascorse a rovistare tra piante, attrezzi e prodotti per il giardinaggio. La mattina in cui accadde, Tom Vanadium si alzò più tardi del solito, si rase, fece la doccia e poi usò il telefono dello studio di Paul al pianterreno per chiamare Max Bellini a San Francisco e per parlare anche con i funzionari della polizia dell'Oregon e del dipartimento di polizia di Spruce Hills. Era stranamente inquieto. La sua natura stoica, la sua filosofia, appresa in tanti anni di appartenenza ai gesuiti, che gli faceva accettare i fatti così come si sviluppano, nonché la pazienza acquisita con il lavoro di detective della squadra omicidi, non erano sufficienti a evitare che provasse un senso di frustrazione. Erano trascorsi più di due mesi da quando, dopo l'omicidio del reverendo White, Enoch Cain aveva fatto perdere le sue tracce e di lui non si sapeva più nulla. Settimana dopo settimana, l'esile arboscello della frustrazione era cresciuto, trasformandosi in un albero, poi in una foresta, e Tom si era ritrovato a iniziare ogni giornata guardando attraverso i fitti rami dell'impazienza. Grazie a quanto era avvenuto a Barty e Angel nel mese di gennaio, Celestina, Grace e Wally non erano più profughi in attesa di tornare a San Francisco. Avevano iniziato una nuova vita a Bright Beach e, da quel che si poteva prevedere, avrebbero trascorso un'esistenza serena e impegnata a fare del bene, per quanto ciò fosse possibile in questo inquieto mondo dei vivi. Anche Tom aveva iniziato a ricostruirsi una vita in quella cittadina, collaborando con Agnes alla sua sempre più vasta attività. Non era ancora certo se questo avrebbe significato il riconsacrarsi ai voti presi, rimetten-
dosi il collare di prete cattolico, o se invece avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni come laico. Stava posticipando quella decisione fino a quando non si fosse risolto il caso Cain. Non poteva più approfittare dell'ospitalità di Paul Damascus. Da quando aveva accompagnato Wally in città, Tom aveva dormito nella camera degli ospiti di Paul. Sapeva di essere il benvenuto e il senso di appartenenza a una famiglia che aveva scoperto tra quella gente non aveva fatto che aumentare dal mese di gennaio, tuttavia aveva la sensazione di imporre la propria presenza. Le telefonate a Bellini a San Francisco e quelle nell'Oregon furono precedute da una preghiera, che tuttavia rimase inascoltata: non c'erano notizie. Cain non era stato visto, sentito, odorato, intuito o individuato da nessuno degli insopportabili chiaroveggenti che si erano attaccati a quel caso sensazionale. Sentendo che la sua foresta di frustrazione si era ulteriormente infittita, Tom si alzò dalla scrivania dello studio, andò a prendere il giornale lasciato fuori della porta d'ingresso ed entrò in cucina per preparare il caffè. Lo fece particolarmente forte e andò a sedersi al tavolo di legno di pino, posando davanti a sé una tazza di amara e nera consolazione. Stava quasi per aprire il giornale sopra il quarto di dollaro, quando lo vide. Luccicante. La parola Liberty scritta lungo il bordo superiore della moneta, al di sopra della testa del patriota e, sotto il mento dell'uomo, le parole In God We Trust. Tom Vanadium non era persona d'allarmarsi facilmente e la prima spiegazione a cui pensò fu quella più logica, Paul aveva espresso il desiderio di imparare a far ruotare una moneta lungo le nocche della mano e, nonostante incontrasse molte difficoltà, di tanto in tanto continuava a esercitarsi. Senza dubbio doveva essersi seduto a tavola quella mattina - o magari anche la sera precedente, prima di andare a dormire - e la moneta doveva essergli caduta più volte, fino a quando lui aveva perso la pazienza. Wally aveva venduto tutte le sue proprietà a San Francisco sotto l'attenta supervisione di Tom. Qualunque tentativo di rintracciarlo a Bright Beach sarebbe stato inutile. Tutte le auto erano state acquistate attraverso una società e aveva comprato la nuova casa tramite un fondo intitolato alla moglie morta. Celestina, Grace e lo stesso Tom avevano preso precauzioni straordinarie per non lasciare dietro di sé la benché minima traccia. Quei pochi poliziotti che sapevano come mettersi in contatto con Tom e, attraverso di lui,
anche con gli altri, erano a conoscenza del fatto che il luogo dove si trovava e il suo numero di telefono dovevano restare assolutamente segreti. Il quarto di dollaro d'argento. Sotto il collo del patriota, la data: 1965. Per coincidenza, proprio l'anno in cui era stata uccisa Naomi. L'anno in cui Tom aveva incontrato per la prima volta Cain. L'anno in cui tutto era iniziato. Quando Paul si esercitava con il quarto di dollaro, di solito lo faceva sul divano o su una poltrona, e comunque sempre in una stanza in cui vi era la moquette, perché se cadeva su una superficie dura, la moneta cominciava a ruzzolare e diventava difficile ritrovarla. Da un cassetto in cui venivano conservati i coltelli, Tom prese la lama più grossa e affilata. Aveva lasciato il revolver al piano di sopra, in un comodino. Era convinto di stare esagerando, tuttavia Tom uscì dalla cucina come avrebbe fatto un poliziotto, non un prete: leggermente chinato in avanti, con il coltello teso davanti a sé, allontanandosi in fretta dalla soglia. Dalla cucina alla sala da pranzo, dalla sala da pranzo al corridoio, tenendo la schiena rivolta alla parete, avanzando rapidamente ma con la massima attenzione, poi nell'ingresso. Si fermò, in ascolto. Era solo. La casa doveva essere silenziosa. Hanna Rey, la governante, arrivava solo alle dieci. Un temporale di silenzio, anti-tuono, la casa completamente inondata da una pioggia muta. Trovare Cain era un fatto secondario. La cosa più importante era arrivare al revolver. Recuperare l'arma, poi controllare una stanza dopo l'altra per dargli la caccia. Scovarlo, se era lì. E se Cain non avesse cacciato per primo Tom salì le scale. Lo zio Jacob, cuoco, baby sitter ed esperto di morte che arriva dall'acqua, sparecchiò la tavola e lavò i piatti, mentre Barty sopportava pazientemente una incoerente conversazione con Pixie Lee e con la signorina Velveeta Cheese, il cui nome non era un titolo onorario che si era conquistata vincendo un concorso di bellezza sponsorizzato dalla Kraft, come lui aveva inizialmente pensato, ma che, secondo Angel, era la sorella «buona» di quel bugiardo che faceva la pubblicità del formaggio alla televisione. Dopo aver asciugato e riposto i piatti, Jacob si ritirò nel soggiorno, accomodandosi tutto soddisfatto in una poltrona, dove probabilmente sareb-
be rimasto talmente incantato dal suo nuovo libro sui crolli delle dighe che avrebbe dimenticato di preparare i panini per pranzo, fino a quando Barty e Angel fossero andati a salvarlo dalle strade inondate di una qualche disgraziata città. Conclusa per il momento la conversazione con le bambole, i piccoli salirono in camera di Barty, dove il libro parlante li attendeva pazientemente in silenzio. Armata di matite colorate e di un blocco di fogli da disegno, Angel si arrampicò sulla panca imbottita posta nel vano della finestra. Barty invece si sedette in mezzo al letto e accese il registratore posato sul comodino. Le parole di Robert Louis Stevenson, lette in modo espressivo, riversavano nella stanza un altro tempo e un altro luogo, così come una brocca versava limonata in un bicchiere. Un'ora più tardi, quando Barty decise che voleva una bibita, spense il libro e domandò ad Angel se avrebbe gradito qualcosa da bere. «Quella cosa all'arancia», rispose lei. «La prendo io.» A volte Barty poteva essere piuttosto aggressivo riguardo alla sua indipendenza - sua madre glielo diceva sempre - e sgridò Angel con estrema severità. «Non voglio essere servito. Non sono un invalido. Posso andare a prendere le bibite da solo.» Ma quando raggiunse la porta, si era già pentito dei suoi modi e si voltò a guardare nella direzione in cui doveva trovarsi la panca. «Angel?» «Che cosa?» «Mi dispiace. Sono un maleducato.» «Accidenti, lo so bene.» «Intendevo dire, adesso.» «Non solo adesso.» «Quando lo sono stato altre volte?» «Con la signorina Pixie e la signorina Velveeta.» «Mi dispiace anche per quello.» «Va bene.» Mentre Barty varcava la soglia e usciva in corridoio, la signorina Pixie Lee disse: «Sei un tesoro, Barty». Barty sospirò. «VORRESTI ESSERE IL MIO RAGAZZO?» domandò la signorina Velveeta, che fino a quel momento non aveva dimostrato alcuna propensione per il romanticismo «Ci penserò», rispose Barty.
Contando i passi in corridoio, il bambino si mantenne sempre vicino alla parete più lontana rispetto alle scale. Nella sua mente, vi era una piantina della casa più precisa di quella che avrebbe potuto disegnare un architetto. La conosceva centimetro per centimetro e ogni mese modificava i propri passi e i calcoli mentali per compensare la sua costante crescita. Tanti passi per andare da qui a lì. Ogni curva e ogni caratteristica della piantina della casa erano fissate indelebilmente nella sua mente. Un tragitto come quello rappresentava un complesso problema matematico, ma essendo lui un piccolo genio in materia, si muoveva per la casa quasi con la stessa disinvoltura di quando aveva potuto godere della vista. Per trovare la strada, non si affidava ai rumori, benché potessero aiutarlo a capire a che punto fosse arrivato. A dodici passi dalla sua camera, un'asse del pavimento scricchiolava in modo appena percettibile sotto la moquette del corridoio, il che stava a indicare che si trovava a diciassette passi dall'inizio delle scale. Non aveva bisogno di quello scricchiolio soffocato per sapere esattamente dove si trovava, ma era comunque rassicurante. Sei passi dopo quella assicella, Barty ebbe la stranissima sensazione che vi fosse qualcuno nel corridoio con lui. Ma non si affidava neppure a un sesto senso per individuare gli ostacoli o gli spazi aperti, quel sesto senso che alcuni non vedenti affermano di possedere. A volte era l'istinto a dirgli che, sul suo cammino, vi era un oggetto che non si sarebbe dovuto trovare lì; ma nella maggior parte dei casi, non se ne accorgeva e, a meno che non avesse con sé il bastone, finiva per inciamparvi sopra. Il sesto senso era generalmente troppo sopravvalutato. Se nel corridoio c'era qualcuno, non poteva trattarsi di Angel, perché lei avrebbe continuato a chiacchierare allegramente, con una voce o l'altra. Lo zio Jacob non gli avrebbe mai fatto uno scherzo del genere, e in casa non c'era nessun altro. In ogni caso, si allontanò dalla parete e, con le braccia tese davanti a sé, si voltò, tastando il mondo buio che lo circondava. Niente. Nessuno. Con una scrollata di spalle, Barty riprese ad avanzare verso le scale. Ma proprio quando raggiunse la colonna d'appoggio, udì il debole scricchiolio dell'assicella dietro di lui. Si voltò, sbattendo le palpebre sugli occhi di plastica, e disse: «C'è qualcuno?» Nessuna risposta. La casa emetteva continuamente rumori d'assestamento. Questo era il
motivo per cui non poteva far troppo affidamento sui suoni per guidarlo nel buio. Un rumore che lui credeva provocato dal peso dei suoi passi, poteva invece essere stato fatto dalla casa stessa che si adeguava alle condizioni climatiche o al passare del tempo. «C'è qualcuno?» domandò di nuovo e, ancora una volta, silenzio. Convinto che la casa gli stesse giocando qualche scherzo, Barty scese al pianterreno, passo dopo passo, raggiunse l'ingresso e poi il corridoio. Mentre passava davanti all'arco che dava sul soggiorno, disse: «Attento alle onde anomale, zio Jacob». Affascinato dalla catastrofe, così perso nel suo libro che avrebbe potuto entrarvi per magia e chiudere la copertina dietro di sé, lo zio Jacob non rispose. Contando i passi, Barty percorse tutto il corridoio ed entrò in cucina, pensando al Dottor Jekyll e all'abominevole Mr. Hyde. 81 Con la mano sinistra sulla balaustra, la destra lungo il fianco, stringendo il coltello e pronto a colpire, Tom Vanadium salì rapidamente, ma con circospezione, al piano superiore, voltandosi a guardare indietro un paio di volte per essere certo che Cain non lo stesse seguendo. Percorse il corridoio fino in camera sua, varcò la soglia, in fretta, tenendosi basso. Attento all'anta dell'armadio, socchiusa di un paio di centimetri. Raggiunse il comodino, convinto di scoprire che la pistola era stata prelevata dal cassetto. Ma era ancora lì. Carica. Lasciò cadere a terra il coltello e afferrò il revolver. Dopo quasi trent'anni dai tempi del seminario - e dopo un tempo anche superiore se misurato in base all'innocenza persa e alla dura esperienza di vita - Tom Vanadium stava per uccidere un uomo. Se anche avesse avuto la possibilità di disarmare Cain, se avesse avuto l'opportunità di limitarsi a ferirlo, avrebbe comunque scelto di colpirlo alla testa o al cuore, di fare da giuria e da boia, di assumersi il ruolo di Dio e di lasciare a Dio il giudizio della sua anima. Una stanza dopo l'altra, controllando armadi. Dietro i mobili. Nei bagni. Negli spazi privati di Paul. Niente Cain. Giù per le scale, ispezionando tutto il pianterreno, rapidamente, silenziosamente, a volte trattenendo il fiato, cercando di udire il respiro dell'altro,
restando in ascolto del più lieve scricchiolio di un paio di scarpe dalla suola di gomma, anche se non sarebbe rimasto sorpreso sentendo un rumore di zoccoli e un odore di zolfo. Alla fine tornò in cucina - il cerchio si chiudeva - dal lucente quarto di dollaro sul tavolo da colazione, di nuovo alla moneta. Niente Cain. Forse quei due mesi di frustrazione lo avevano portato a questo: nervi a fior di pelle, una febbrile immaginazione e un'attesa trasformata in terrore. Se, per esperienza personale, non avesse conosciuto abbastanza bene Enoch Cain, probabilmente si sarebbe sentito un vero sciocco. Quello era un falso allarme ma, considerata la natura del nemico, non era una cattiva idea esercitarsi un po' di tanto in tanto. Posando la pistola sul giornale, si lasciò cadere su una sedia. Prese la tazza di caffè. L'ispezione della casa era stata condotta con una tale rapidità che la bevanda era ancora gradevolmente calda. Tenendo la tazza con la destra, Tom raccolse la moneta dal tavolo e cominciò a farla rotolare sulle nocche della sinistra. Dopotutto, era solo il quarto di dollaro di Paul. Per quella monetina, si era quasi fatto prendere dal panico. Dotato di movimenti aggraziati, oltre che di un bell'aspetto, Junior varcò la soglia della camera, agile e con passo felino. Si appoggiò allo stipite. Dall'altra parte della stanza, la bambina vicino alla finestra non sembrò accorgersi del suo arrivo. Seduta di traverso rispetto a lui, con la schiena contro una parete, le ginocchia raccolte, un grande blocco da disegno posato sulle cosce, impegnata a disegnare con le matite colorate. Al di là della finestra, i rami scuri della grossa quercia formavano una matassa nera contro il cielo, con le foglie che tremavano leggermente come se la natura stesse fremendo e trepidando per ciò che Junior Cain avrebbe potuto fare. Davvero, quell'albero lo ispirava. Dopo aver sparato alla bambina, avrebbe spalancato la finestra e avrebbe scagliato il suo corpo contro la quercia. Sarebbe toccato a Celestina trovarla, infilzata dai rami come in una fantasiosa crocifissione. Sua figlia, il suo tormento, la sua palla al piede, la nipote dello stregone battista che gli aveva provocato l'eruzione cutanea... Dopo che un chirurgo aveva inciso cinquantaquattro foruncoli e aveva estirpato il nucleo dei trentuno più intrattabili (rapando a zero la testa del paziente per poter raggiungere quei dodici che gli si erano sviluppati sul
cuoio capelluto), dopo tre giorni di ricovero in ospedale per evitare un'infezione di stafilococchi, e dopo che era tornato nel mondo calvo come una biglia e con la sicurezza che sarebbe rimasto sfregiato per sempre, Junior aveva fatto un salto nella biblioteca di Reno per informarsi sugli ultimi avvenimenti. L'omicidio del reverendo White era stato trattato ampiamente da tutti i giornali nazionali, soprattutto da quelli della costa occidentale, per via delle probabili motivazioni razziali e perché era stato accompagnato dall'incendio di una canonica. La polizia aveva identificato Junior come il più probabile sospetto e i giornali avevano stampato la sua fotografia in quasi tutti gli articoli. L'avevano definito «attraente», «impetuoso», «bello come un divo del cinema». Si diceva che era ben noto nella comunità artistica d'avanguardia di San Francisco. Junior ebbe un brivido d'eccitazione quando lesse che Sklent lo aveva definito «una figura carismatica, un profondo pensatore, un uomo con uno squisito gusto artistico... così in gamba che, anche dopo un omicidio, sarebbe riuscito a farla franca con la stessa facilità con cui un'altra persona riusciva a non farsi dare una multa per parcheggio in doppia fila. Sono persone come lui», aveva soggiunto Sklent, «che confermano la visione del mondo che permea la mia pittura». Junior si sentì molto gratificato da tutte quelle lodi, ma il fatto che la sua fotografìa fosse stata pubblicata da così tanti giornali rappresentava un prezzo molto alto da pagare, anche per il riconoscimento del suo contributo all'arte. Fortunatamente, con il capo rasato e il viso butterato, non somigliava all'Enoch Cain a cui la polizia stava dando la caccia. Oltretutto, erano convinti che le bende sotto le quali aveva nascosto il viso, quando si era presentato alla canonica, erano state semplicemente un espediente per non farsi riconoscere. Uno psicologo arrivò perfino a dichiarare che le bende erano un'espressione del senso di colpa e della vergogna che Junior provava a livello inconscio. Sì, davvero. Il 1968 - per i cinesi l'Anno della Scimmia - sarebbe stato per Junior l'Anno del Chirurgo Plastico. Avrebbe avuto bisogno di un'estesa dermoabrasione per tornare ad avere una pelle liscia e tonica, per attirare i baci delle donne come un tempo. Tanto che c'era, si sarebbe sottoposto anche a qualche leggera modifica dei lineamenti. Niente di complicato. Non voleva diventare perfetto ma, allo stesso tempo, anche anonimo. Doveva fare in modo che il suo aspetto postchirurgia plastica, una volta che si fosse fatto ricrescere i capelli e magari li avesse ossigenati un po', risultasse altrettan-
to sconvolgente per le donne come quello che aveva avuto in precedenza. Secondo i giornali, la polizia gli attribuiva anche gli omicidi di Naomi, Victoria Bressler e Ned Gnathic (che avevano collegato a Celestina). Era ricercato anche per il tentativo di omicidio del dottor Walter Lipscomb (doveva trattarsi dello Spilungone), per il tentato omicidio di Grace White e per l'aggressione, con l'intento di ucciderle, a Celestina White e a sua figlia Angel, nonché per l'aggressione a Lenora Kickmule (la cui Pontiac con la coda di volpe lui aveva rubato a Eugene, nell'Oregon). Era andato in biblioteca principalmente per avere la conferma che Harrison White fosse indiscutibilmente morto. Gli aveva sparato quattro volte. I due proiettili conficcatisi nel serbatoio della Pontiac rubata avevano distrutto la canonica e avrebbero dovuto ridurre in cenere anche il reverendo. Tuttavia, quando si ha a che fare con la magia nera, la prudenza non è mai troppa. Dopo aver letto abbastanza articoli sensazionali per convincersi che il reverendo iettatore era decisamente defunto, Junior aveva scoperto quattro informazioni davvero sorprendenti. Tre erano di vitale importanza per lui. Prima, Victoria Bressler era inserita nell'elenco delle sue vittime, anche se, per quanto ne sapeva, la polizia aveva ancora tutti i motivi per attribuire l'omicidio a Vanadium. Seconda, Thomas Vanadium non era menzionato da nessuna parte, di conseguenza non avevano trovato il corpo nel lago. Avrebbe dovuto ancora essere sospettato per il caso Bressler. E, se avevano scoperto una nuova prova che lo aveva discolpato, allora avrebbero dovuto parlare della sua scomparsa e avrebbe dovuto essere incluso tra le possibili vittime dell'Assassino Timido, del Massacratore Bendato, come i giornali scandalistici avevano soprannominato Junior. Terza, Celestina aveva una figlia. Non un bambino di nome Bartholomew. Seraphim aveva avuto una bambina. Di nome Angel. Questa notizia lasciò Junior tanto confuso quanto strabiliato. Bressler, ma non Vanadium. Una bambina di nome Angel. C'era qualcosa che non funzionava. Qualcosa di marcio. Quarta e ultima notizia, non pensava che qualcuno potesse chiamarsi Kickmule. Questa non era un'informazione apparentemente importante per lui, ma se un giorno le identità di Gammoner e Pinchbeck fossero state compromesse e avesse avuto bisogno di documenti falsi con un nuovo cognome, si sarebbe chiamato Eric Kickmule. O magari Wolfgang Kickmule. Questo era davvero tosto. Nessuno si sarebbe mai messo a discutere
con un uomo chiamato Kickmule. Quanto alla sgradevole questione della figlia di Seraphim, inizialmente Junior pensò di tornare a San Francisco per torturare Nolly Wulfstan e strappargli la verità. Poi si rese conto che, a mandarlo da Wulfstan, era stato lo stesso uomo che gli aveva assicurato che Thomas Vanadium non si trovava più e che lo si sospettava di essere l'assassino di Victoria Bressler. Quindi, dopo aver aspettato per due mesi che il caso Harrison White si raffreddasse un po', protetto dall'oscurità, Junior tornò a Spruce Hills, calvo e butterato, facendosi passare per Pinchbeck. Poi, fintanto che poteva contare sull'effetto sorpresa, da Spruce Hills raggiunse Eugene in macchina, noleggiò un velivolo e, da Eugene, si fece portare all'aeroporto di Orange County, e da lì arrivò a Bright Beach a bordo di una Oldsmobile 4-4-2 Hurst del '68 che aveva rubato. Era giunto in città la sera precedente armato di una nuova pistola calibro 9 dotata di silenziatore, munizioni di riserva, tre coltelli affilati, un apriserrature e una fumante cassettina. Si era silenziosamente introdotto in casa Damascus e vi era rimasto per tutta la notte. Avrebbe potuto uccidere Vanadium mentre dormiva, ma questo sarebbe stato meno divertente che impegnarlo in una piccola guerra psicologica e lasciarlo vivo a rodersi dal rimorso, dopo che i bambini fossero stati uccisi sotto i suoi occhi. Oltretutto, Junior era riluttante all'idea di uccidere Vanadium, questa volta per davvero, rischiando poi di scoprire che lo spirito da scimmia puzzolente e rognosa del detective avrebbe continuato a perseguitarlo, togliendogli la pace. I fantasmi appiccicosi dei due bambini non lo preoccupavano. Al massimo, sarebbero stati come due zanzare spirituali. Quella mattina, Damascus era uscito di casa presto, prima che Vanadium scendesse a pianterreno, il che era perfetto per i piani di Junior. Mentre il poliziotto finiva di radersi e di fare la doccia, Junior salì al piano superiore per ispezionare la sua camera. Trovò il revolver nel secondo dei tre posti in cui si aspettava di trovarlo, fece ciò che doveva, e ripose l'arma nel cassetto del comodino, esattamente nella posizione in cui l'aveva trovata. Evitando per un pelo di incrociare Vanadium nel corridoio, si ritirò al pianterreno. Dopo aver pensato e ripensato a quale fosse il posto migliore, posò la moneta da un quarto di dollaro e la cassettina... proprio mentre Vanadium, quel tronco umano, scendeva le scale. Junior si trovò di fronte a un ritardo
imprevisto, perché il detective trascorse mezz'ora telefonando dallo studio, ma finalmente Vanadium entrò in cucina, permettendo a Junior di uscire silenziosamente dalla casa e di andare a completare il suo lavoro. Dopodiché era arrivato direttamente lì. Angel, seduta sulla panchetta sotto la finestra, era completamente vestita di bianco. Scarpe e calzini bianchi. Pantaloni bianchi. Maglietta bianca. Due nastri bianchi tra i capelli. Per essere del tutto in sintonia con il suo nome, aveva solo bisogno di un paio di ali bianche. Gliele avrebbe date lui: un breve volo fuori della finestra, contro la quercia. «Sei venuto a sentire il libro che parla?» domandò la bambina. Non aveva sollevato lo sguardo dal suo disegno. Junior era convinto di non essere stato visto, ma evidentemente lei si era accorta della sua presenza fin da quando era entrato. Spostandosi dal vano della porta e avanzando nella cameretta, lui domandò: «Di che libro si tratta?» «In questo momento, sta parlando del medico pazzo.» I lineamenti della bambina erano identici a quelli della madre. Non somigliava affatto a Junior. Solo la tonalità caffelatte della sua pelle stava a dimostrare che non era nata da Seraphim per partenogenesi. «A me non piace il dottore pazzo», commentò lei, continuando a disegnare. «Preferirei che il libro parlasse di coniglietti in vacanza... oppure di un rospo che impara a guidare la macchina e ha delle avventure.» «Dov'è tua madre stamattina?» domandò lui, perché aveva previsto di dover sparare a molti più adulti, prima di poter raggiungere entrambi i bambini. Ma aveva scoperto che casa Lipscomb era vuota e aveva avuto la fortuna di trovare il bambino e la bambina insieme, con un'unica persona adulta a fare da guardia. «Sta guidando le torte», rispose Angel. «Come ti chiami?» «Wolfgang Kickmule.» «È un nome stupido.» «Non è affatto stupido.» «Io mi chiamo Pixie Lee.» Junior si avvicinò alla panca e abbassò lo sguardo su di lei. «Non credo che sia vero.» «Più vero del vero», insisté la bambina. «Non ti chiami Pixie Lee, piccola bugiarda.» «Be', di sicuro non mi chiamo Velveeta Cheese. Non essere maleduca-
to.» I vari gusti delle bibite in lattina erano sempre allineati nello stesso ordine, in modo che Barty potesse scegliere quello che desiderava senza commettere errori. Prese un'aranciata per Angel, un chinotto per sé e chiuse il frigorifero. Riattraversando la cucina, percepì un lieve profumo di gelsomino che proveniva dal giardino dietro la casa. Strano, gelsomino qui dentro. Due passi dopo, sentì una corrente d'aria. Si fermò, eseguì un rapido calcolo, si voltò e avanzò verso il punto in cui si sarebbe dovuta trovare la porta di servizio. La trovò mezzo aperta. Per evitare l'ingresso di animaletti e polvere, in casa Lampion le porte non venivano mai lasciate socchiuse, e tanto meno così aperte. Appoggiandosi allo stipite con una mano, Barty si sporse oltre la soglia, ascoltando la giornata. Uccelli. Fruscio di foglie. Nessuno sulla veranda. Anche quando cercavano di restare in silenzio, le persone facevano sempre qualche piccolo rumore. «Zio Jacob?» Nessuna risposta. Dopo aver chiuso la porta spingendola con la spalla, Barty attraversò la cucina e il corridoio con le lattine in mano. Fermandosi davanti all'arco che dava sul soggiorno, chiamò: «Zio Jacob?» Nessuna risposta. Nessun rumore, neppure lieve. Lo zio non era lì. Evidentemente, Jacob aveva fatto un salto nel suo appartamento sopra il garage e, senza pensare ad animaletti e polvere, aveva dimenticato di chiudere la porta di servizio. Junior disse: «Sai, mi hai dato un sacco di problemi». Per tutta la notte aveva fomentato una splendida rabbia, pensando a tutto ciò che aveva dovuto passare per colpa della madre di quella bambina, che ora rivedeva chiaramente in quella puttanella grande quanto un soldo di cacio. «Davvero un sacco di guai.» «Che cosa ne pensi dei cani?» «Che cosa stai disegnando?» volle sapere lui. «Parlano o non parlano?» «Ti ho chiesto che cosa stai disegnando.» «Qualcosa che ho visto stamattina.» Si chinò verso la bambina e le strappò dalle mani il blocco di fogli, esaminando il disegno. «Dov'è che hai visto questa cosa?»
Angel si rifiutò di guardarlo, così come sua madre si era rifiutata di guardarlo mentre Junior faceva l'amore con lei, nella canonica. La bambina cominciò a temperare una matita rossa, stando attenta a far cadere i trucioli in una lattina che teneva proprio a quello scopo. «L'ho visto qui.» Junior scaraventò il blocco sul pavimento. «Stronzate.» «In questa casa, noi diciamo cavolate.» Gli faceva venire i brividi, quella bambina. Lo metteva a disagio. Tutta vestita di bianco, con quelle sue chiacchiere incomprensibili su libri e cani parlanti, e sua madre che guidava le torte, in più stava facendo un disegno davvero strano per una bambina così piccola. «Guardami, Angel.» Girava, girava, girava la matita rossa. «Ti ho detto guardami.» Le schiaffeggiò le mani, facendole cadere la matita e il temperamatite. Andarono a sbattere contro la finestra, poi caddero sui cuscini della panca. Dato che lei continuava a non volerlo guardare, Junior l'afferrò per il mento e le spinse indietro la testa. Nei suoi occhi, il terrore. L'aveva riconosciuto. Sorpreso, Junior domandò: «Mi conosci, vero?» Non rispose. «Mi conosci», insisté lui. «Sì, mi conosci. Dimmi chi sono, Pixie Lee.» Dopo un attimo di esitazione, la bambina rispose: «Sei l'uomo nero, solo che quando ti ho visto, c'ero io nascosta sotto il letto dove dovevi essere tu». «Come fai a riconoscermi? Sono senza capelli, e con questa faccia.» «Io vedo.» «Vedi che cosa?» volle sapere Junior, stringendole il mento con tanta forza da farle male. Dato che le dita di Junior deformavano la bocca della bambina, la voce le uscì soffocata: «Vedo tutti i modi che sei». Tom Vanadium era troppo seccato per essersi lasciato prendere dalla paura di Cain da avere ancora voglia di leggere il giornale. Il caffè nero e forte, prima ottimo, adesso aveva un gusto amaro. Portò la tazza al lavandino, ne rovesciò il contenuto... e vide la borsa termica in un angolo. Prima non l'aveva notata. Era una cassettina di medie dimensioni, in plastica rigida, rivestita di materiale isolante, del tipo che di solito si riempie di lattine di birra e si porta ai picnic.
Paul doveva aver dimenticato alcuni generi alimentari destinati alla carovana delle torte. La borsa termica non era ben chiusa come avrebbe dovuto essere. Da uno dei bordi usciva un sottile e sinuoso filo di fumo. Qualcosa che bruciava. Quando si avvicinò alla cassetta, si rese conto che non poteva trattarsi di fumo. Si disperdeva troppo rapidamente. Lo sentiva freddo contro la mano. Il vapore freddo del ghiaccio secco. Tom tolse il coperchio. Niente birra, una testa. La testa mozzata di Simon Magusson era stata deposta sul ghiaccio a faccia in su, aveva la bocca aperta come se fosse stato in tribunale e si opponesse al proseguimento dell'interrogatorio. Non c'era tempo per l'orrore, per il disgusto. In quel momento, ogni secondo era fondamentale e ogni minuto poteva costare un'altra vita. Il telefono, la polizia. Nessun segnale. Inutile prendersela con l'apparecchio. I fili erano stati tagliati. I vicini potevano essere in casa. Avrebbe dovuto bussare, chiedere di poter telefonare, comporre il numero... troppo tempo sprecato. Pensa, pensa. Con la macchina, avrebbe impiegato tre minuti per arrivare a casa Lampion. Magari due minuti, ignorando gli stop, tagliando le curve. Tom afferrò il revolver che stava sulla tavola e le chiavi appese a un gancetto. Lanciandosi fuori della porta, lasciando che sbattesse dietro di lui con tanta forza da rompere il vetro, attraversando la veranda, Tom fu colpito dalla bellezza di quella giornata come da un pugno nello stomaco. Tutto era troppo azzurro, troppo luminoso e troppo stupendo per contenere anche la morte, eppure era così, nascita e morte, alfa e omega, intrecciate in un disegno che ostentava un significato ma che sfidava la comprensione. Era un colpo, quel giorno, un colpo duro, brutale nella sua bellezza, nella sua simultanea promessa di trascendenza e di perdita. L'auto era nel vialetto d'accesso. Morta come il telefono. Signore, aiutami. Dammelo, dammi solo questo, e da adesso in poi seguirò la strada che mi indicherai. Da adesso in poi sarò sempre il tuo strumento, ma per favore, per favore, dammi questo pazzo, sciagurato figlio di puttana! In macchina, tre minuti, forse due, senza gli stop. Avrebbe impiegato lo stesso tempo anche correndo. Aveva un po' di pancetta. Non era più l'uo-
mo di una volta. Tuttavia, dopo il periodo di coma e la riabilitazione, era meno grasso di prima che Cain lo gettasse nel lago Quarry. Io vedo tutti i modi che sei. La bambina era strana, senza dubbio, e in quel momento Junior si sentiva esattamente come la sera della mostra di Celestina alla Galleria Greenbaum, quand'era uscito dal vicolo, dopo aver gettato Neddy Gnathic nel cassonetto, e aveva controllato l'ora, scoprendo di non avere nulla al polso. Anche in questo caso c'era qualcosa che mancava, ma non era un Rolex, non era affatto un oggetto, era un'intuizione, una profonda verità. Lasciò andare il mento della bambina e lei si rannicchiò immediatamente in un angolo della panca, il più lontano possibile da lui. Lo sguardo consapevole nei suoi occhi non era quello di una bambina normale, anzi, non era affatto lo sguardo di una bambina. E Junior non se lo stava immaginando. C'era terrore, questo sì, ma anche sfida e quell'espressione di chi sa, come se potesse vedergli dentro, sapere cose che non aveva la possibilità di conoscere. Estrasse il silenziatore dalla tasca della giacca e cominciò ad avvitarlo sulla pistola che aveva estratto da una fondina. Non vi riuscì immediatamente perché le mani avevano cominciato a tremargli. Gli venne in mente Sklent, forse per via dello strano disegno che aveva visto sul blocco della bambina. Sklent durante la festa di Natale, solo qualche mese prima, ma lontano una vita. La sua teoria di un'aldilà senza bisogno di Dio. Spiriti che si attaccano. Alcuni restano tra i vivi, perseguitandoli per pura ostinazione. Altri svaniscono. Altri ancora si reincarnano. La sua adorabile moglie era caduta dalla torre ed era morta solo qualche ora prima che quella bambina nascesse. Quella bambina... quella reincarnazione. Si rivide nel cimitero, un po' più in basso rispetto alla tomba di Seraphim... anche se all'epoca sapeva soltanto che si trattava di una persona negra che veniva sepolta, e non che fosse la sua ex amante... aveva pensato che, con il tempo, la pioggia avrebbe trasportato i fluidi del cadavere in decomposizione di quel negro fino alla tomba più in basso, dove erano sepolti i resti di Naomi. Aveva forse avuto una specie di premonizione, un'oscura consapevolezza che si fosse già creato un altro e più pericoloso collegamento tra Naomi e Seraphim? Quando il silenziatore fu completamente avvitato alla pistola, Junior si chinò verso la bambina, scrutò nei suoi occhi e sussurrò: «Naomi, sei lì
dentro?» Giunto quasi in cima alle scale, Barty pensò di aver sentito delle voci in camera sua. Basse e indistinte. Quando si fermò ad ascoltare, le voci rimasero in silenzio, o forse le aveva soltanto immaginate. Naturalmente, Angel poteva aver rimesso in funzione il libro parlante. Oppure, anche se aveva lasciato le bambole al pianterreno, poteva aver atteso il ritorno di Barty facendosi una bella chiacchierata con la signorina Pixie e la signorina Velveeta. Aveva anche altre voci, per altre bambole e una per una foderina a forma di pupazzo di nome Smelly. Pur considerando che non aveva ancora compiuto quattro anni, tuttavia Barty non aveva mai conosciuto nessuno dotato di una così fervida fantasia come Angel. Aveva intenzione di sposarla tra... be', forse tra una ventina d'anni. Neppure i bambini prodigio possono sposarsi a tre anni. Nel frattempo, prima di cominciare a preparare il matrimonio, c'era tempo per un'aranciata e un chinotto, e qualche altro brano del Dottor Jekyll e Mr. Hyde. Giunto in cima alle scale, si diresse verso la sua camera. Dopo due anni di riabilitazione, Tom era stato dichiarato perfettamente sano, un miracolo della medicina moderna e della forza di volontà. Ma in quel momento gli sembrava di essere stato rimesso insieme con lo sputo, un po' di corda e del nastro adesivo. Con le braccia che si muovevano avanti e indietro e le gambe che si allungavano nella corsa, Tom sentiva nei muscoli e nelle ossa ognuno di quegli otto mesi trascorsi in coma. Correva ansimando, pregando, i piedi che battevano sul marciapiede di cemento, spaventando gli uccelli che uscivano svolazzando dalle jacaranda cariche di fiori viola e dagli allori indiani, terrorizzando un topo che schizzò a tutta velocità su per il tronco di una palma. Le poche persone che incontrò, si fecero da parte. Stridio di freni mentre attraversava gli incroci, senza guardare da entrambe le parti, rischiando di farsi investire da auto, camion e rinosauri. A volte, nella sua mente, aveva l'impressione non di correre lungo le strade residenziali di Bright Beach, ma nel corridoio del dormitorio che gli era stato affidato in qualità di prefetto. Si sentì riportare indietro nel tempo, a quella terribile notte. Svegliato da un suono. Un debole pianto. Pur convinto che si tratti di una voce udita in sogno, si alza comunque dal letto,
prende una torcia e controlla i ragazzi che gli sono stati affidati. Nel corridoio, le luci d'emergenza a basso voltaggio rischiarano appena l'oscurità, le stanze sono buie, le porte socchiuse secondo il regolamento, per evitare il pericolo di una serratura bloccata durante un incendio. Tom si mette in ascolto. Nulla. Entra nella prima camera... e nell'inferno in terra. Due ragazzini per stanza, facilmente e silenziosamente sopraffatti da un adulto con la forza della follia. Nel fascio di luce della torcia: gli occhi spenti, i visi distorti, il sangue. Un'altra camera, la torcia che oscilla, e la carneficina è ancora peggiore. Poi di nuovo in corridoio, un movimento nell'ombra. Josef Krepp catturato dal fascio di luce. Josef Krepp, il custode silenzioso, da tutti considerato una persona mite, che da sei mesi lavora al Sant'Anselmo senza mai un problema, nella sua cartellina solo note di merito. Josef Krepp, nel corridoio del passato, che ride e salta alla luce della torcia, intorno al collo una sanguinante collanina di souvenir. Nel presente, molto tempo dopo l'esecuzione di Josef Krepp, mezzo isolato più avanti, la villetta dei Lipscomb. Subito dopo, casa Lampion. Un gatto pezzato apparve accanto a Tom, correndo, tenendo il suo passo. I gatti erano amici delle streghe. Portava fortuna o sfortuna, quel gatto? Ecco, finalmente, la casa della Signora delle Torte, il campo di battaglia. «Naomi, sei là dentro?» sussurrò di nuovo Junior, scrutando nelle finestre dell'anima della bambina. Lei non gli rispose, ma quel silenzio lo convinse come se fosse stata una confessione... o una negazione, non importava. Anche i suoi occhi terrorizzati lo convincevano, e la bocca tremante. Naomi era tornata per stare con lui, e si poteva dire che anche Seraphim fosse tornata, in un certo senso, perché la bambina era carne della carne di Seraphim, nata dalla sua morte. Junior era lusingato, davvero. Le donne non ne avevano mai abbastanza di lui. Era la storia della sua vita. Non sapevano rinunciare con grazia. Lui era desiderato, richiesto, adorato, idolatrato. Le donne continuavano a telefonargli anche dopo che avrebbero dovuto capire l'antifona e sparire, insistevano a mandargli bigliettini e regali, anche dopo che lui aveva spiegato che era tutto finito. Junior non era sorpreso che le donne lo cercassero anche dopo morte, né che le donne che aveva ucciso tentassero di trovare la strada per tornare da lui dall'aldilà, senza malizia, senza ansia di vendetta nel cuore, spinte unicamente dal desiderio di stare di nuovo con lui, di abbracciarlo, di esaudire tutti i suoi desideri. Ma per quanto si sentisse grati-
ficato da questo tributo alla sua avvenenza, lui non provava più amore per Naomi e per Seraphim. Appartenevano al passato, e lui disprezzava il passato, e se non lo avessero lasciato in pace, Junior non sarebbe mai stato in grado di vivere nel futuro. Premette la bocca della pistola contro la fronte della bambina e disse: «Naomi, Seraphim, siete state amanti straordinarie, ma dovete essere realistìche. Non c'è alcuna possibilità che noi si possa avere una vita insieme». «Ehi, chi c'è?» domandò il piccolo cieco, che Junior aveva quasi dimenticato. Voltò le spalle alla bambina rannicchiata e si mise a osservare il bambino che, dopo aver fatto alcuni passi nella stanza, si era fermato, stringendo una lattina per mano. Gli occhi artificiali sembravano veri, ma non possedevano lo sguardo consapevole della bambina, che tanto lo aveva innervosito. Junior gli puntò contro la pistola. «Simon dice che ti chiami Bartholomew.» «Simon chi?» «Non mi sembri proprio una grande minaccia, piccolo cieco.» Il bambino non rispose. «Ti chiami Bartholomew?» «Sì.» Junior fece due passi verso di lui, mirando al suo viso. «Perché dovrei aver paura di un bambino cieco che continua a inciampare e che è solo un nanerottolo?» «Io non inciampo. Non molto, comunque.» Rivolto alla bambina, Bartholomew domandò: «Angel, stai bene?» «Mi verrà la sciolta», rispose lei. «Perché dovrei aver paura di un bambino cieco che continua a inciampare?» domandò di nuovo Junior. Ma questa volta le parole gli uscirono con un diverso tono di voce, perché all'improvviso percepì qualcosa di consapevole nell'atteggiamento del bambino, una conoscenza simile a quella mostrata dalla bambina. «Perché sono un bambino prodigio», rispose Bartholomew, e gli scagliò contro la lattina di chinotto. Prima che potesse abbassarsi, la lattina colpì Junior in pieno viso, spezzandogli il naso. Furibondo, lasciò partire due colpi.
Passando davanti all'arco del soggiorno, Tom vide Jacob seduto in poltrona, illuminato da una lampada a stelo, rovesciato all'indietro come se si fosse addormentato mentre leggeva. La pettorina chiazzata di rosso del grembiule confermò che non stava semplicemente dormendo. Attratto dalle voci al piano superiore, Tom salì i gradini a due a due. Un uomo e un bambino. Barty e Cain. A sinistra, nel corridoio, poi la camera a destra. Incurante delle regole imposte dalla procedura standard, Tom si precipitò verso la porta, varcò la soglia e vide Barty gettare una lattina verso la testa rasata e il viso butterato di un Enoch Cain completamente diverso. Subito dopo aver scagliato la lattina, Barty si gettò a terra e cominciò a ruzzolare sul pavimento, anticipando i proiettili che Cain aveva sparato e che andarono a conficcarsi nello stipite della porta, a pochi centimetri dalle ginocchia di Tom. Sollevando il revolver, Tom sparò due colpi, ma l'arma fece cilecca. «Percussori ghiacciati», disse Cain. Il suo sorriso era velenoso. «Sono stato io. Speravo che riuscisse ad arrivare in tempo per vedere le conseguenze dei suoi stupidi giochi.» Cain puntò la pistola contro Barty, ma quando Tom partì all'attacco, spostò nuovamente l'arma nella sua direzione. Il proiettile era di quelli che sicuramente l'avrebbero lasciato storpio, o forse l'avrebbero ucciso, se Angel non si fosse lanciata dalla sua panca e non avesse dato uno spintone a Cain da dietro, rovinandogli la mira. L'assassino inciampò, poi scintillò. Sparito. Sparì attraverso un buco, una fessura, uno squarcio più grande di quelli attraverso i quali Tom lanciava le sue monetine. Barty non poteva vedere, ma in qualche modo sapeva. «Fantastico, Angel.» «L'ho mandato in qualche posto dove noi non ci siamo», spiegò la bambina. «Era maleducato.» Tom rimase di stucco. «Ma... quando hai capito di saperlo fare?» «Proprio adesso.» Sebbene Angel cercasse di apparire tranquilla, in effetti stava tremando. «Non sono sicura di riuscire a farlo di nuovo.» «Fino a quando non ne sarai certa... stai attenta.» «Okay.» «Tornerà indietro?» La bambina scosse la testa. «Assolutamente no.» Indicò il blocco da disegno sul pavimento. «L'ho spedito lì.»
Tom fissò il disegno della bambina - piuttosto buono per una piccina della sua età, lo stile era ancora un po' grezzo, ma conteneva particolari realistici - e se la pelle avesse potuto muoversi, la sua si sarebbe fatta un giro per tutto il corpo, due o tre volte, prima di tornare al suo posto. «Questi sono?...» «Grossi insetti», spiegò la bambina. «Ce ne sono tantissimi.» «Sì. È un posto brutto.» Alzandosi in piedi, Barty chiamò: «Ehi, Angel?» «Sì?» «In pratica, hai lanciato il maiale.» «Immagino di sì.» Tremando per una paura che non aveva nulla a che fare con Junior Cain e i proiettili vaganti, e neppure con i ricordi di Josef Krepp e la sua spaventosa collanina, Tom Vanadium chiuse l'album da disegno e lo posò sulla panca. Aprì la finestra e nella stanza entrò il sussurro delle foglie di quercia agitate dalla brezza. Prese in braccio Angel, prese in braccio Barty. «Tenetevi forte.» Li portò fuori della stanza, giù per le scale, fuori della casa, in giardino, sotto il grande albero, dove avrebbero atteso la polizia e dove non avrebbero visto il corpo di Jacob quando il medico legale l'avrebbe portato via, facendolo passare dall'ingresso principale. Avrebbero raccontato che la pistola di Cain aveva fatto cilecca proprio mentre Tom era entrato in camera di Barty. Troppo vigliacco per affrontare un corpo a corpo, l'Assassino Timido era scappato dalla finestra aperta. Ancora una volta vagava libero per il mondo. Quell'ultima parte era vera. Solo che non vagava libero in questo mondo. E nel mondo in cui era finito, non avrebbe trovato facili vittime. Lasciando i bambini sotto l'albero, Tom tornò in casa per chiamare la polizia. Secondo il suo orologio, erano le nove e cinque del mattino di quel giorno straordinario. 82 Per quanto significativa fosse stata la morte di Jacob all'interno di quel piccolo mondo che era la sua famiglia, Agnes Lampion non perse mai di vista il fatto che, prima che terminasse il 1968 e iniziasse l'Anno del Gallo,
nel mondo in generale erano morte persone molto più famose. Il 4 aprile, James Earl Ray uccise Martin Luther King sul terrazzo di un hotel di Memphis, ma le speranze dell'assassino si rivelarono vane perché, proprio a causa di quell'omicidio, la libertà crebbe ancora più rigogliosa, nutrendosi del sangue di un martire. Il 1° giugno, Helen Keller si spense serenamente all'età di ottantasette anni. Cieca e sorda fin dall'infanzia, muta fino all'adolescenza, nel corso della sua vita, la signorina Keller era riuscita a raggiungere risultati straordinari; aveva imparato a parlare, a cavalcare, a ballare il valzer; si era laureata con il massimo dei voti all'Università di Radcliffe, rappresentando uno stimolo per milioni di persone e testimoniando che esistevano delle potenzialità anche nella più disgraziata delle vite. Il 5 giugno, il senatore Robert F. Kennedy venne assassinato nella cucina dell'Hotel Ambassador di Los Angeles. Un numero imprecisato di persone morirono in seguito all'invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici e centinaia di migliaia furono le vittime degli ultimi giorni della Rivoluzione Culturale cinese, molte delle quali vennero divorate nel corso di atti di cannibalismo che avevano ricevuto il beneplacito del presidente Mao, in quanto considerate azioni politicamente accettabili. Conclusero il loro viaggio in questo mondo, se non ancora in tutti gli altri, lo scrittore John Steinbeck e l'attrice Tallulah Bankhead. Ma James Lovell, William Anders e Frank Borman - i primi uomini a descrivere un'orbita intorno alla luna - percorsero quattrocentomila chilometri nello spazio e tornarono a terra sani e salvi. Di tutte le gentilezze che possiamo scambiarci, il dono più prezioso, il tempo, non ci appartiene e non possiamo quindi offrirlo. Tenendo presente questa verità, Agnes fece del suo meglio per guidare la sua famiglia allargata attraverso il lutto per Harrison e Jacob e farla approdare a giorni più felici. È giusto rendere omaggio ai defunti, è giusto coltivare i nostri preziosi ricordi, ma è anche giusto continuare a vivere. Nel mese di luglio, Agnes andò a fare una passeggiata sulla spiaggia con Paul Damascus, tanto per raccogliere qualche conchiglia, per divertirsi a guardare i buffi granchi che correvano di qua e di là. Ma a un certo punto, tra una conchiglia e un crostaceo, Paul le domandò se lei avrebbe mai potuto amarlo. Era un uomo adorabile, fìsicamente diverso da Joey, ma molto simile a lui nell'animo. Agnes lo lasciò senza fiato, insistendo per andare subito a casa di Paul, in camera sua. Avvampando come nessun eroe da romanzo popolare faceva mai, Paul balbettò che non le chiedeva di entrare in intimi-
tà con lui tanto presto e Agnes gli assicurò che, infatti, avrebbe dovuto aspettare ancora. Da sola con Paul, mentre lui la guardava sconcertato, Agnes si tolse la camicetta e il reggiseno e, con le braccia incrociate sul petto, gli mostrò la schiena martoriata. Mentre suo padre aveva insegnato ai gemelli la lezione di Dio con ceffoni e pugni, per la figlia aveva preferito ricorrere a bastoni e fruste come strumenti di educazione, perché riteneva che, se l'avesse toccata, avrebbe potuto sentirsi spinto a commettere un peccato. Le cicatrici si estendevano dalle spalle al sedere, alcune chiare, altre più scure, alcune incrociate, altre a spirale. «Alcuni uomini», spiegò Agnes, «toccando la mia schiena, sentirebbero svanire qualsiasi desiderio. Se anche tu sei uno di loro, ti capirò. Non è bella da vedere e, se la tocchi, è ruvida come la corteccia di una quercia. Ecco perché ti ho portato qui, perché tu lo sappia prima di prendere in considerazione l'idea di andare avanti.» Quell'uomo adorabile si mise a piangere e baciò le sue cicatrici e le disse che per lui era bella più di ogni altra donna. Rimasero abbracciati per un po', con le mani di Paul sulla schiena di Agnes, il seno di lei contro il petto di lui, e si baciarono due volte, ma quasi castamente, prima che lei indossasse nuovamente la camicetta. «La mia cicatrice», confessò Paul, «è l'inesperienza. Vedi, Agnes, per un uomo della mia età, in certe questioni sono incredibilmente innocente. Non scambierei gli anni trascorsi con Perri per nulla e nessuno al mondo ma, per quanto fosse intenso, il nostro amore non comprendeva... be', quello che voglio dire è che forse non mi troverai all'altezza.» «Per me sei all'altezza di tutto ciò che veramente conta. Joey era un amante esperto e generoso. Quello che lui mi ha insegnato, posso condividerlo con te.» Sorrise. «Scoprirai che sono un'insegnante maledettamente brava e ho la sensazione che tu sarai un allievo straordinario.» Si sposarono a settembre di quell'anno, molto più tardi della data su cui aveva scommesso Grace White. Ma dato che la sua previsione si era avvicinata alla data esatta più di quella di Celestina, la figlia pagò la scommessa pulendo la cucina per un mese. Quando Agnes e Paul tornarono dal viaggio di nozze a Carmel, videro che Edom aveva finalmente svuotato l'appartamento di Jacob. Aveva donato i libri e l'ampia documentazione del fratello gemello a una biblioteca universitaria che stava organizzando una particolare sezione per soddisfare
il crescente interesse, da parte di professori e studenti, sugli studi apocalittici e la filosofia paranoide. Con grande sorpresa di tutti, ma soprattutto sua, anche Edom donò la sua raccolta all'università. Basta con tornado, uragani, onde anomale, terremoti e vulcani; adesso, soltanto rose. Ristrutturò il suo piccolo appartamento intonacandolo con colori più vivaci e, durante l'autunno, riempì gli scaffali di volumi sull'orticoltura, progettando con grande entusiasmo un sostanziale allargamento del roseto per la primavera successiva. Aveva quasi quarant'anni e non poteva trasformare facilmente una vita trascorsa a temere la natura in una storia d'amore con la fonte delle sue paure. A volte, di notte, si ritrovava ancora a fissare il soffitto, incapace di dormire, aspettando la Grande Onda, ed evitava di passeggiare sulla spiaggia per non essere travolto da un'onda anomala. Di tanto in tanto, andava a visitare la tomba di suo fratello e si sedeva sull'erba accanto alla lapide, ripetendo a voce alta i macabri particolari di tempeste mortali e catastrofici eventi geologici, ma scoprì anche di aver assorbito da Jacob alcune statistiche relative ai serial killer e ai disastrosi cedimenti di strutture e macchinari costruiti dall'uomo. Trovava quelle visite gradevolmente nostalgiche, ma portava sempre al fratello delle rose e gli raccontava le ultime notizie su Barty, Angel e gli altri membri della famiglia. Quando Paul vendette la sua casa per trasferirsi in quella di Agnes, Tom Vanadium si installò nell'appartamento un tempo occupato da Jacob; adesso era un poliziotto definitivamente in congedo ma non era ancora pronto per indossare nuovamente la tonaca. Assunse la gestione delle sempre più consistenti opere di beneficenza della famiglia e si occupò di costituire una fondazione filantropica che beneficiava di una riduzione delle tasse. Per questa organizzazione, Agnes presentò un elenco di nomi gradevoli e che non si riferivano a lei personalmente, ma tutte le sue proposte vennero respinte e, a grande maggioranza e nonostante il suo imbarazzo, la famiglia decise di chiamarla Servizi Signora delle Torte. In mancanza di una famiglia, Simon Magusson aveva lasciato tutte le sue proprietà a Tom. La notizia giunse del tutto inaspettata. Era un patrimonio così cospicuo che, sebbene Tom fosse dispensato dai voti, compreso quello della povertà, si sentiva a disagio all'idea di possedere una simile fortuna. Ma ritrovò rapidamente la serenità devolvendo tutto quanto aveva ereditato alla Servizi Signora delle Torte.
Tutte quelle persone avevano formato una grande famiglia grazie a due bambini straordinari, alla convinzione che Barty e Angel facessero parte di un progetto di enorme importanza. Ma molto spesso, Dio intesse trame che noi riusciamo a percepire unicamente nell'arco di un tempo molto lungo, e non sempre questo accade. Dopo tre anni così ricchi di avvenimenti, non vi furono miracoli settimanali, nessun segno in terra o in cielo, nessuna rivelazione attraverso un cespuglio che bruciava o altre e più terrene forme di comunicazione. Né Barty, né Angel mostrarono di possedere nuovi e straordinari talenti, anzi erano del tutto normali, come possono esserlo due bambini prodigio, a parte il fatto che lui era cieco e che lei rappresentava i suoi occhi sul mondo. I loro famigliari non vivevano nell'attesa che compissero qualche gesto straordinario, non li avevano messi al centro del loro mondo. Si dedicavano alle opere di beneficenza, condividevano la quotidiana soddisfazione di far parte della Servizi Signora delle Torte e andavano avanti con la loro vita. Vi furono delle novità. Celestina continuava a dipingere sempre meglio e, in ottobre, restò incinta. In novembre, Edom chiese a Maria Gonzalez se voleva uscire a cena e poi andare al cinema. Sebbene lui avesse soltanto sei anni più di Maria, entrambi convenirono che si trattava di un appuntamento tra amici, non una storia donna-uomo. Sempre in novembre, Grace scoprì di avere un nodulo al seno. Risultò che era benigno. Tom comprò un nuovo vestito della domenica. Somigliava a quello vecchio. La cena per il giorno del Ringraziamento fu splendida e il Natale fu anche migliore. Alla vigilia di Capodanno, Wally bevve un bicchiere di troppo e, più di una volta, si offrì di operare gratuitamente tutti i membri della famiglia. «Qui, subito», sempre che si trattasse di operazioni che rientravano nell'ambito delle sue conoscenze. Il giorno di Capodanno, la città apprese di aver perso il suo primo figlio in Vietnam. Agnes conosceva i genitori da sempre e temeva che, nonostante tutto il suo desiderio di aiutarli, nonostante tutte le sue buone intenzioni, non avrebbe potuto fare nulla per alleviare il loro dolore. Le tornò in mente l'angoscia che aveva provato mentre aspettava di sapere se i tumori agli occhi di Barty si erano diffusi dal nervo ottico al cervello. Il pensiero dei
vicini che avevano perso un figlio in guerra, quella notte la spinse a girarsi verso Paul. «Stringimi», mormorò. Presto Barty e Angel avrebbero compiuto quattro anni. 1969-1973: l'Anno del Gallo, cacciato via dall'Anno del Cane, fu seguito in fretta dal Maiale, ancora più in fretta dal Topo e da quello del Gufo che passò a tutta velocità. Eisenhower, morto. Armstrong, Collins e Aldrin sulla luna: un passo da gigante su un suolo ancora non sfiorato dalla guerra. Hot pants, dirottamenti di aerei, arte psichedelica. Sharon Tate e i suoi amici assassinati dalle ragazze di Manson sette giorni prima di Woodstock, l'Età dell'Acquario nata morta, ma per anni non se ne accorse nessuno. McCartney lascia il gruppo, i Beatles si sciolgono. Terremoto a Los Angeles, muore Truman, il Vietnam scivola nel caos, sommosse in Irlanda, una nuova guerra in Medio Oriente, il Watergate. Nel '69 Celestina diede alla luce Seraphim, nel '70 la sua pittura ebbe l'onore della copertina su American Artist, e nel '72 mise al mondo Harrison. Con il supporto finanziario di sua sorella, nel '71 Edom acquistò un negozio di fiori, dopo essersi accertato che il centro commerciale in cui si trovava era stato costruito con maggiori garanzie di solidità di quelle previste dalle norme antisismiche, che non sorgeva su un terreno facile agli smottamenti, che non si trovava su una pianura alluvionale e che l'intera struttura si trovava tanto sopra il livello del mare da non correre alcun pericolo, a meno che non fosse stata investita da un'onda anomala di dimensioni tali da poter essere provocata unicamente dalla caduta di un asteroide nel Pacifico. Nel '73 sposò Maria Elena (dopotutto, era una storia uomodonna), il che fece di lei la cognata di Agnes, oltre a essere stata per molto tempo una sorella. Acquistarono la casa dall'altra parte della proprietà Lampion, e così un'altra staccionata venne abbattuta. Tom si dimostrò più utile alla Servizi Signora delle Torte che se fosse stato un poliziotto o un prete, perché scoprì di avere un vero talento per la gestione amministrativa: riuscì a proteggere i loro fondi da un'inflazione del dodici per cento e ottenne addirittura dei buoni profitti in termini reali. Poi giunse l'Anno della Tigre, il 1974. Scarsità di benzina, recessione, file chilometriche davanti alle stazioni di servizio. Patty Hearst rapita. Nixon caduto in disgrazia. Hank Aaron infranse il record di Babe Ruth, che durava da tanti anni, di corsa alla casa base; il tasso d'inflazione raggiunse il quindici per cento e il leggendario Mohammed Ali sconfisse George Fo-
reman, riconquistando il titolo mondiale dei pesi massimi. Ma in una determinata strada di Bright Beach, l'evento più significativo dell'anno si verificò durante un mite pomeriggio di inizio aprile, quando Barty, che ormai aveva nove anni, riuscì ad arrampicarsi in cima alla grande quercia e vi rimase appollaiato tutto trionfante, re dell'albero e padrone della sua cecità. Agnes tornò a casa da una consegna di torte effettuata con la solita squadra - che ora si componeva di cinque veicoli, compresi quelli di alcuni collaboratori retribuiti -, scorse un gruppo di persone riunite in giardino e Barty che era già arrivato a metà della quercia. Con il cuore che batteva come quello di un coniglio inseguito da una volpe, si lanciò a tutta velocità dal vialetto al giardino. Avrebbe urlato, se la gola non le si fosse chiusa per il terrore vedendo il suo bambino a un'altezza tanto pericolosa. Quando fu nuovamente in grado di parlare, si rese conto che un grido, o anche il suono di un suo lamento, avrebbe potuto innervosirlo, fargli mettere un piede in fallo e portarlo così a carambolare verso il basso, da un ramo all'altro, in una caduta che gli avrebbe spezzato le ossa. Tra le persone che avevano assistito all'impresa già da prima che lei e gli altri tornassero a casa, ve n'erano alcune che non avrebbero dovuto permettere al bambino di compiere una simile follia. Tom Vanadium, Edom, Maria. Con il viso rivolto verso l'alto, fissavano Barty, tesi e solenni, e Agnes poté unicamente giungere alla conclusione che anche loro fossero arrivati dopo che Barty aveva cominciato ad arrampicarsi, quando ormai sarebbe stato ancora più pericoloso cercare di farlo scendere. I pompieri. Loro potevano arrivare senza le sirene, salire silenziosamente, in modo da non infrangere la concentrazione di Barty. «Stai tranquilla, zia Aggie», disse Angel. «È una cosa che ci tiene molto a fare.» «Quello che vogliamo fare e quello che dovremmo fare non sono la stessa cosa», la rimproverò Agnes. «Se non sai queste cose, zuccherino, allora da chi sei stata allevata? Vuoi farmi credere che, per nove anni, sei stata cresciuta dai lupi?» «Lo abbiamo progettato da molto tempo», la rassicurò Angel. «Io mi sono arrampicata sull'albero un centinaio di volte, forse anche duecento, l'ho disegnato, l'ho descritto a Barty, centimetro per centimetro, il tronco e le quattro diramazioni, tutti i rami principali e quelli secondari, lo spessore di ciascun ramo, il grado di resistenza, gli angoli e le intersezioni, i nodi e le
fessure, dai rami più grossi fino ai rametti. Lo conosce perfettamente, zia Aggie, ce l'ha sulla punta delle dita. Per lui, adesso, è tutto un calcolo matematico.» Erano inseparabili, suo figlio e quella adorabile ragazzina, praticamente dal momento stesso in cui si erano conosciuti, più di sei anni prima. La speciale percezione di cui erano entrambi dotati - tutti i modi in cui sono le cose - era in parte responsabile di questa loro amicizia, ma solo in parte. Il legame che li univa era così profondo da superare la capacità di comprensione, era misterioso come il concetto di Trinità, tre persone divine in una. A causa della cecità e delle straordinarie doti intellettuali, Barty studiava a casa; oltretutto, non c'era insegnante all'altezza delle sue capacità autodidattiche, né esisteva qualcuno capace di ispirargli una sete di conoscenza superiore a quella, innata, che già possedeva. Angel frequentava lo stesso tipo di classe informale e il suo unico compagno era anche il suo insegnante. Entrambi superavano brillantemente i test periodici richiesti dalla legge. La loro vita in comune sembrava tutta un gioco, e invece era un costante apprendimento. E così avevano studiato questo progetto, matematica e rischio, geometria degli arti e dei rami, scienza arborea e acrobazia infantile, una prova di strategia, di forza e di abilità e anche una dimostrazione degli spaventosi limiti di una bravata da bambini di nove anni. Nonostante conoscesse già la risposta e sapesse quanto fosse inutile chiedere spiegazioni, Agnes domandò: «Perché? O Signore, perché un bambino cieco deve arrampicarsi su un albero?» «Certo, è cieco, ma è anche un maschio», le fece notare Angel, «e gli alberi sono qualcosa su cui i maschi si devono arrampicare.» Tutti quelli che avevano partecipato alla distribuzione dei generi alimentari, adesso si erano radunati sotto la quercia. Tutti i membri della famiglia, con i suoi molti cognomi, adulti e bambini, le teste rovesciate all'indietro, le mani che riparavano gli occhi dalla luce del sole pomeridiano, osservavano i progressi di Barty in assoluto silenzio. «Abbiamo studiato tre percorsi per arrivare in cima», proseguì Angel, «e in ognuno si incontrano ostacoli diversi. Barty ha intenzione di tentarli tutti e tre, ma ha cominciato con il più difficile.» «Ovviamente», sbottò Agnes, esasperata. Angel le rivolse un grande sorriso. «Tipico di Barty, vero?» Saliva, saliva, dal tronco a un ramo più grosso, da quello a uno più piccolo, poi di nuovo a uno più grosso, e ancora al tronco. Una mano dopo
l'altra sulle parti verticali, facendo presa con le ginocchia, poi in piedi, camminando come un funambolo lungo i solidi rami che si estendevano orizzontali al terreno, ondeggiando nel vuoto e poi passando da un sentiero legnoso all'altro, continuando a salire verso le fronde più alte, rimpicciolendo come se, via via che si arrampicava, tornasse a essere un bambino piccolo, sempre più piccolo. Dodici metri, quindici metri, un'altezza ben superiore a quella della casa, lottando per raggiungere la verde cittadella in cima all'albero. Mentre si spostavano intorno alla base della quercia per avere una visuale migliore, tutti si fermavano accanto ad Agnes e cercavano di rassicurarla, ma senza parlare, come se pronunciare una sola parola avesse portato sfortuna all'impresa. Maria le posò una mano sul braccio e la strinse delicatamente. Celestina le fece un breve massaggio sulla nuca. Edom si fermò per un veloce abbraccio. Grace le cinse la vita per un momento. Wally le lanciò un sorriso e tese il pollice verso l'alto. Tom Vanadium le fece un segno di okay, unendo il pollice e l'indice. Pare che vada tutto bene. Tieni duro. Segni e gesti, forse perché non volevano che sentisse il tremore nelle loro voci. Paul rimase accanto a lei, a volte sussultando mentre fissava il terreno come se il pericolo fosse laggiù, non in alto - il che, in un certo senso, era vero, perché sarebbe stato l'impatto a uccidere Barty, non la caduta in sé altre volte, cingendola con le braccia, sollevando il viso verso il bambino che si arrampicava. Ma anche lui restava in silenzio. Solo Angel parlava, senza né tremori né tentennamenti, con un'assoluta fiducia nel suo Barty. «Qualunque cosa mi insegni, io sono in grado di impararla, e qualunque cosa io veda, lui è in grado di conoscerla. Qualsiasi cosa, zia Aggie.» A mano a mano che Barty saliva, Agnes sentiva la sua paura farsi puro terrore ma, allo stesso tempo, si sentiva colmare da una gioia stupenda e irrazionale. Il fatto che fosse possibile compiere quell'impresa, che si potesse vincere il buio della cecità, toccava le corde del suo cuore e creava una musica dentro di lei. Di tanto in tanto, il bambino si fermava, forse per riposare, oppure per esaminare mentalmente la mappa tridimensionale che aveva memorizzato nel suo incredibile cervello, e ogni volta che riprendeva la salita, metteva le mani esattamente nel posto giusto, al che Agnes gridava dentro di sé sì! Sentiva che il suo cuore era sull'albero con Barty, il suo cuore era in quello del bambino, come lui era stato dentro di lei, al sicuro nell'utero, durante quella sera piovosa in cui l'auto impazzita l'aveva
resa vedova. Finalmente, mentre il sole tramontava lentamente, Barty raggiunse la più alta delle roccaforti, oltre la quale i rami erano troppo giovani e deboli per sostenerlo. Sullo sfondo di un cielo abbastanza rosso da rallegrare anche il marinaio più imbronciato, il bambino si raddrizzò in piedi e rimase fermo sull'ultima biforcazione dei rami, tenendosi in equilibrio con la mano sinistra appoggiata a un ramo più piccolo e quella destra piantata con aria spavalda sul fianco, signore del suo regno, capace di allontanare con un calcio tutti gli ostacoli dell'oscurità e di usarli per costruire una scala. Da famigliari e amici si levarono grida di entusiasmo e Agnes poté solo immaginare come doveva sentirsi Barty, cieco e felice, con un cuore ricco di coraggio e di gentilezza. «Adesso non devi più preoccuparti», disse Angel, «per quello che gli accadrà, se un giorno tu non ci fossi più, zia Aggie. Se è capace di fare questo, sarà capace di fare qualsiasi cosa, e tu potrai riposare in pace.» Agnes aveva soltanto trentanove anni, era piena di energie e di progetti, quindi le parole di Angel le sembrarono premature. Tuttavia, nel giro di pochi anni, avrebbe avuto motivo di chiedersi se, forse, quei bambini potessero inconsciamente prevedere che le sarebbe stato di conforto aver assistito a quella scalata. «Vado su», annunciò Angel. Con un'agilità e una velocità che avrebbe suscitato l'ammirazione di un lemure, la bambina salì fino alla prima biforcazione. Agnes le gridò: «No, aspetta, zuccherino. Barty dovrebbe scendere subito, prima che faccia buio». Dall'albero, la bambina le sorrise. «Anche se restasse lassù fino all'alba, scenderebbe comunque al buio. Non ci succederà nulla, zia Aggie.» Mettendo alla prova i nervi di Celestina tanto quanto Barty aveva messo alla prova quelli di sua madre, Angel si aggrappò-sollevò-arrampicòdondolò a tutta velocità sull'albero, arrivando accanto al bambino mentre alcune striature di rosso ravvivavano un cielo che si stava ridipingendo di viola. Anche lei si fermò sull'ultima curva dei rami e la sua risata di gioia risonò attraverso la cattedrale di quercia. *** 1975-1978: il Coniglio fuggì dal Drago, il Serpente scappò dal Cavallo, e il '78 seguì il ritmo perché la disc music imperava. I Bee Gees, tornati di
nuovo in vita, spopolavano alla radio. John Travolta aveva il look giusto. I ribelli della Rhodesia, rendendosi conto che in una battaglia tra persone alla pari si correvano dei pericoli, coraggiosamente sgozzarono missionarie e studentesse disarmate. Spinks tolse il titolo ad Ali e Ali se lo riprese. La mattina di agosto in cui Agnes tornò a casa dallo studio del dottor Joshua Nunn con i risultati delle analisi e una diagnosi di leucemia mieloblastica acuta, chiese a tutti di prepararsi a partire, non per consegnare le torte, ma per andare a un parco di divertimenti. Voleva fare un giro sulle montagne russe, salire sulla ruota e, soprattutto, vedere i bambini ridere. La sua intenzione era di conservare il ricordo della risata di Barty così come lui aveva conservato il ricordo del suo viso prima che gli asportassero gli occhi. Non nascose la diagnosi ai suoi famigliari, ma posticipò il momento di rivelare la prognosi, che non era certo allegra. Le sue ossa si erano già indebolite, cariche com'erano di globuli bianchi immaturi che impedivano la produzione di globuli bianchi normali, globuli rossi e piastrine. Barty, che aveva tredici anni ma ascoltava libri a livello postuniversitario, doveva già essersi informato sulla leucemia mentre attendevano i risultati delle analisi, per prepararsi a comprendere a fondo la diagnosi quando sua madre gliel'avesse comunicata. Tentò di non apparire affranto quando udì le parole mieloblastica acuta, che era la forma più grave della malattia, ma se avesse mostrato di aver capito forse sarebbe sembrato meno terrorizzato. Senza gli occhi artificiali, il suo atteggiamento indifferente non avrebbe convinto nessuno. Prima di avviarsi al parco di divertimenti, Agnes lo prese da parte, lo tenne stretto, e disse: «Ascolta, bambino mio, non mi arrendo. Non lo farò mai. Oggi divertiamoci. Questa sera, tu, Angel e io convocheremo una riunione della Società del Polo Nord degli Avventurieri non Malvagi» - anni prima la bambina ne era diventata il terzo membro - «e sveleremo tutte le verità e tutti i segreti». «È una sciocchezza», ribatté lui, con una nota di leggero disgusto della voce. «Non dire così. La società non è sciocca, soprattutto non ora. È noi, è ciò che eravamo e come siamo adesso, e io amo tanto tutto ciò che è noi.» Nel parco, lanciato a tutta velocità sulle montagne russe, Barty ebbe un'esperienza, una reazione a qualcosa di più che le curve inclinate e le ripide discese. Era felice e agitato come quando, in passato, riusciva a comprendere una nuova e misteriosa teoria matematica. Alla fine della corsa,
volle fare immediatamente un altro giro, e venne accontentato. Alle giostre, i non vedenti non devono aspettare, possono passare subito in testa alla fila. Barty fece altre due corse con Agnes, poi due con Paul e alla fine Angel lo accompagnò per altre tre volte. Questa ossessione delle montagne russe non c'entrava con i brividi di paura e neppure con il divertimento. Al penultimo giro, la sua esuberanza lasciò il posto a un silenzio meditabondo, specialmente dopo che un gabbiano volò a pochi centimetri dal suo viso, con un frullio d'ali che lo fece trasalire. Da quel momento in poi, le giostre non lo interessarono quasi più e continuò a ripetere che aveva pensato a un nuovo modo di sentire le cose... ovvero, tutti i modi in cui sono le cose... un approccio a quel mistero da una nuova angolazione. Dopo la giornata al parco di divertimenti, la Signora delle Torte non dovette farsi ricoverare in ospedale. Con Wally vicino, aveva un medico a sua completa disposizione, in grado di somministrarle tutte le medicine contro il cancro e di farle tutte le trasfusioni di cui aveva bisogno. Mentre per la leucemia linfoblastica acuta viene prescritto un ciclo di radioterapia, questa si rivela molto meno efficace per la leucemia mieloblastica, e nel caso di Agnes non sarebbe stata di alcuna utilità, il che rese anche più facile essere curata a casa. Durante le prime due settimane, quando non partecipava alla distribuzione dei generi alimentari, Agnes ricevette tante visite da restarne spossata. Ma erano davvero numerose le persone che desiderava vedere per l'ultima volta. Lottava strenuamente, opponendosi in tutti i modi alla malattia e continuando a sperare con tutte le forze, ma volle comunque ricevere quelle visite, non si poteva mai sapere. Peggio delle ossa fragili, delle gengive sanguinanti, delle emicranie, dei brutti lividi, peggiore della stanchezza provocata dall'anemia e degli attacchi di dispnea, era la sofferenza che quella sua lotta provocava in coloro che amava. A mano a mano che i giorni passavano, sempre più spesso non riuscivano a nascondere la loro preoccupazione e il loro dolore. Quando tremavano, lei stringeva loro le mani. Chiedeva loro di pregare insieme ogni volta che esprimevano la loro rabbia per il fatto che questo era accaduto a lei - tra tanta gente, proprio a lei - e Agnes non li lasciava andare fino a quando la loro collera non era svanita. Più di una volta, prese la dolce Angel in braccio, le accarezzò i capelli e la calmò parlandole di tutti i momenti belli che avevano vissuto insieme. E Barty sempre accanto, prendendosi cura di lei nella sua cecità, consapevole del fatto che non sarebbe morta in tutti i posti dove era, ma non riuscendo a consolarsi al pensiero
che sua madre avrebbe continuato a esistere in altri mondi dove lui non sarebbe potuto stare al suo fianco. Per quanto terribile fosse la situazione per Barty, Agnes sapeva che era altrettanto difficile per Paul. Poteva soltanto tenerlo stretto durante la notte, e lasciarsi stringere. Più di una volta, gli raccomandò: «Se le cose si mettono al peggio, non ricominciare con le tue escursioni a piedi». «Va bene», la rassicurò lui, forse troppo facilmente. «Davvero. Hai molte responsabilità qui. Barty. La Servizi Signora delle Torte. Persone che contano su di te. Amici che ti vogliono bene. Quando lei si è messo con me, caro signore, si è fatto carico di molte cose, e adesso non può abbandonarle.» «Te lo prometto, Aggie. Ma tu non andrai da nessuna parte.» A partire dalla terza settimana di ottobre, Agnes non fu più in grado di alzarsi dal letto. Il 1° novembre trasferirono il suo letto nel soggiorno, in modo che potesse essere al centro di tutto, come lo era sempre stata, anche se ora non erano più ammesse visite, solo i membri della famiglia. La mattina del 3 novembre, Barty chiese a Maria di domandare ad Agnes che cosa voleva che le leggessero. «Poi, quando ti ha dato la risposta, esci dalla stanza. A quel punto intervengo io.» «In che modo intervieni?» volle sapere Maria. «Ho escogitato uno scherzetto.» I libri erano stati accatastati su un tavolo, romanzi e raccolte diversi che Agnes amava e che aveva già letto. Non avendo più molto tempo, preferiva riascoltare qualcosa che conosceva già, piuttosto che tentare con nuovi scrittori e nuove storie che forse non sarebbero stati di suo gradimento. Spesso era Paul a leggere per lei, così come faceva Angel. Ma anche Tom Vanadium, Celestina e Grace. Quella mattina, mentre Barty se ne stava in disparte ad ascoltare, sua madre chiese a Maria di leggerle le poesie di Emily Dickinson. Maria, perplessa ma disponibile, uscì dalla stanza secondo le istruzioni ricevute, e Barty prese il libro giusto dalla pila sul tavolo, senza essere assistito da nessuno. Si sedette sulla poltrona accanto al letto della madre e cominciò a leggere: Non ho mai visto una brughiera non ho mai visto il mare
tuttavia so com'è l'erica e che cos'è un'onda. Mettendosi a sedere nel letto, scrutandolo con aria sospettosa, Agnes disse: «Hai imparato a memoria la vecchia Emily». «Sto solo leggendo la pagina», le assicurò Barty. Non ho mai parlato con Dio non ho mai visitato il paradiso tuttavia sono certa del luogo come se me l'avessero indicato. «Barty!» esclamò Agnes in tono meravigliato. Felice per aver suscitato in lei tanto stupore, il bambino chiuse il libro. «Ricordi quello di cui abbiamo parlato tanto tempo fa? Mi hai domandato come mai, se ero capace di camminare dove non c'era la pioggia...» «...come mai non eri in grado di camminare dove i tuoi occhi erano sani e lasciare i tumori là», ricordò lei. «Io ti ho risposto che non funzionava in quel modo, e in effetti è così. Tuttavia... non è che io cammini realmente in quei mondi per evitare la pioggia, ma è come se camminassi nell'idea di quei mondi...» «Meccanica quantistica», commentò lei. «Me l'avevi già detto.» Barty annuì. «In questo caso, non solo l'effetto viene prima della causa, ma completamente senza una causa. L'effetto rimane asciutto sotto la pioggia, ma la causa - presumibilmente il camminare in un mondo più asciutto - non si verifica mai. Solo la sua idea.» «È ancora più strano di quanto l'abbia fatto apparire Tom Vanadium.» «Comunque, mentre ero sulle montagne russe, ho avuto una specie di folgorazione e ho capito come affrontare il problema da una nuova angolatura. Ho immaginato di camminare nell'idea della vista, come se utilizzassi la capacità visiva di un altro me, in un'altra realtà, senza andare realmente in quel mondo.» Sorrise di fronte alla sua espressione sbalordita. «Allora, che cosa ne dici?» Agnes desiderava con tutto il cuore credere, vedere suo figlio nuovamente tutto intero, e la cosa buffa era che poteva crederlo, e senza nessun rischio emotivo, perché era vero. Per dimostrare quanto aveva detto, su richiesta di Agnes, Barty lesse qualcosa di Dickens, un brano tratto da Grandi speranze. Poi un brano di
Twain. Lei gli domandò quante dita gli stava mostrando e Barty rispose quattro, e quattro erano. Poi due dita. Poi sette. Le sue mani così bianche, esangui, entrambi i palmi pieni di lividi. Dato che i condotti e le ghiandole lacrimali erano intatti, Barty poteva piangere con i suoi occhi di plastica. Di conseguenza, non sembrava poi tanto incredibile che riuscisse anche a usarli per vedere. Tuttavia questa era un'impresa molto più ardua rispetto al camminare dove non c'era la pioggia. Vedere richiedeva un notevole sforzo sia fisico sia mentale. Ma la gioia di sua madre valeva il prezzo che doveva pagare per riuscire a vederla. Per quanto fosse mentalmente impegnativo e stressante mantenere questa vista presa in prestito, la cosa più difficile fu guardare ancora una volta il suo viso, dopo tutti quegli anni di cecità, per vederla così pallida e smagrita. La donna attraente e vitale, la cui immagine Barty aveva conservato accuratamente nella memoria, da quel giorno in poi sarebbe stata rimpiazzata da questa versione sfiorita. Si trovarono d'accordo sul fatto che, per il mondo esterno, Barty doveva continuare a sembrare cieco, altrimenti o sarebbe stato trattato come un mostro, oppure sarebbe stato sottoposto, forse contro la sua volontà, a una serie di esperimenti. Nel mondo moderno, non vi era alcuna tolleranza nei confronti dei miracoli. Solo i famigliari potevano essere informati di questo nuovo sviluppo. «Se può accadere una cosa così straordinaria, Barty... che altro potrebbe succedere?» «Forse questo è abbastanza.» «Certo! Certo che è abbastanza! Ma... tu lo sai, non sono molte le cose che rimpiango. Ma quello che mi dispiace è non poter vedere il motivo per cui tu e Angel siete stati messi insieme. So che si tratta di qualcosa di bello, Barty. Qualcosa di splendido.» Ebbero alcuni giorni per festeggiare tranquillamente questo straordinario recupero della vista di Barty e, in tutto quel tempo, Agnes non si stancava mai di guardarlo mentre leggeva per lei. Lui era convinto che non l'ascoltasse nemmeno tanto attentamente. Era il fatto di vederlo «tutto intero» che le sollevava lo spirito, non le parole di uno scrittore o un qualsiasi racconto che fosse mai stato scritto. Il pomeriggio del 9 novembre, mentre Paul e Barty erano con lei e ricor-
davano i bei tempi andati, e Angel era andata in cucina a prendere qualcosa da bere per loro, Agnes cominciò ad ansimare e si irrigidì. Incapace di respirare, si fece più pallida di un fantasma poi, quando poté di nuovo respirare e parlare, disse: «Chiamate subito Angel. Non c'è più tempo per gli altri». Si riunirono tutti e tre intorno a lei, tenendola stretta, come se la morte non potesse portar via ciò che loro si rifiutavano di lasciare andare. Rivolgendosi a Paul, disse: «Ho amato tanto la tua innocenza... e il poterti offrire la mia esperienza». «Aggie, no», supplicò lui. «Non ricominciare con le escursioni», gli ricordò Agnes. Quando si rivolse ad Angel, la sua voce si fece più flebile ma Barty vi udì un tale amore che ne restò scosso. «Dio è in te, Angel, perché possiedi una luce straordinaria e nessuna malvagità.» Incapace di parlare, Angel la baciò e poi le posò delicatamente la testa sul petto, catturando per sempre nella memoria il battito puro del suo cuore. «Ragazzo prodigio», disse rivolgendosi a Barty. «Super mamma.» «Dio mi ha dato una vita meravigliosa. Ricordalo.» Sii forte per lei. «Va bene.» Agnes chiuse gli occhi e Barty pensò che se ne fosse andata, ma lei li aprì di nuovo. «C'è un posto al di là di tutti i modi in cui sono le cose.» «Lo spero», disse lui. «La tua vecchia mamma non ti direbbe mai una bugia, vero?» «Non la mia vecchia mamma.» «Mio adorato... bambino.» Barty le disse che le voleva bene e lei se ne andò mentre lui pronunciava quelle parole. Mentre si spegneva, per un momento svanì anche l'aspetto disfatto della paziente leucemica e, prima che la maschera grigia della morte si posasse sul suo viso, Barty vide la bellezza che aveva conservato nel ricordo, quando aveva tre anni, prima che gli togliessero gli occhi, la vide solo per un attimo, come se da dentro di lei si diffondesse qualcosa in grado di trasformarla, una luce perfetta, la sua essenza. Per rispetto di sua madre, Barty lottò per mantenere la sua seconda vista, vivendo nell'idea di un mondo in cui lui poteva ancora vedere, fino a quando le fu reso l'omaggio che meritava e fu sepolta accanto a Joey.
Per l'occasione, Barty indossò il suo completo blu scuro. Partecipò alla cerimonia fingendosi cieco, aggrappandosi al braccio di Angel, ma osservò tutto e si impresse ogni particolare nella memoria per quando ne avrebbe avuto bisogno, una volta tornato nell'oscurità. Agnes aveva quarantatré anni, troppo giovane per aver lasciato un segno così indelebile nel mondo. E tuttavia, più di duemila persone parteciparono al servizio funebre che fu officiato da ministri di sette confessioni diverse e il corteo che l'accompagnò al cimitero era così lungo che alcune persone furono costrette a parcheggiare a quasi due chilometri di distanza e a raggiungere gli altri a piedi. I partecipanti si riversarono sulle colline erbose e tra le lapidi, ma il pastore che officiava la cerimonia aspettò a iniziare fino a quando non si fossero tutti riuniti intorno alla tomba. Nessuno si mostrò impaziente per il ritardo. Anzi, dopo che le ultime preghiere furono dette e la bara fu calata nella fossa, la folla esitò a disperdersi, soffermandosi a lungo e in modo insolito, fino a quando Barty si rese conto che, come gli altri, anche lui si aspettava una resurrezione e un'ascensione miracolose, perché tra di loro era passata colei che è senza macchia. Agnes Lampion. La Signora delle Torte. Tornato a casa, protetto dalla sua famiglia, Barty crollò esausto per lo sforzo sostenuto per riuscire a vedere con gli occhi che non possedeva. Costretto a letto per dieci giorni, febbricitante, in preda a vertigini e a emicranie, con un senso di nausea, prima di riuscire a riprendersi completamente aveva perso quattro chili. Non aveva mentito a sua madre. Lei aveva creduto che, per qualche magia quantistica, Barty avesse recuperato la vista in modo permanente e che questo non gli costasse alcuna fatica. Lui le aveva semplicemente permesso di morire confortata dall'idea che suo figlio fosse ormai libero per sempre dall'oscurità. Ma ora Barty tornò alla cecità per cinque anni, fino al 1983. 83 In ognuno di quei giorni straordinari, il lavoro veniva compiuto in memoria di sua madre. Alla Servizi Signora delle Torte tutti cercavano nuove ricette e nuovi modi per ravvivare l'angolo in cui si trovavano. Le straordinarie capacità matematiche di Barty, applicate nella pratica, si dimostrarono preziose. Nonostante la sua cecità, intuiva possibilità che gli altri non vedevano. Lavorando con Tom Vanadium, basandosi su alcuni
particolari degli indici storici del mercato borsistico, escogitò strategie di investimento che ottennero ottimi risultati. Negli anni Ottanta, il rendimento annuale della fondazione era mediamente del ventisei per cento: un successo, considerando che l'inflazione degli anni Settanta era stata contenuta. Nei cinque anni che seguirono alla morte di Agnes, la loro famiglia dai molti cognomi continuò a prosperare. Barty e Angel erano stati il motivo per cui, quindici anni prima, avevano formato quella famiglia allargata, ma il destino di cui Tom aveva parlato in una notte di pioggia, sulla veranda dietro alla casa, non sembrava aver fretta di manifestarsi. Barty non aveva trovato il sistema per mantenere la sua vista di seconda mano senza soffrire, quindi aveva scelto di vivere nell'oscurità. Angel non aveva avuto motivo di scaraventare nessun altro individuo nel mondo dei grossi insetti nel quale aveva spinto Cain. Gli unici miracoli della loro vita erano quelli dell'amore e dell'amicizia, ma tutti i loro famigliari erano convinti che, alla fine, si sarebbero verificati dei fatti straordinari, anche se continuavano a vivere la vita che si presentava ogni giorno. Nessuno rimase sorpreso dalla proposta di Barty, dal fatto che lei accettò, e dal successivo matrimonio. Quando si sposarono, nel giugno del 1983, avevano entrambi diciott'anni. Soltanto per un'ora, e non fu troppo faticoso, Barty camminò nell'idea del mondo in cui aveva gli occhi e condivise la vista degli altri Barty negli altri luoghi, per poter vedere la sua sposa mentre avanzava lungo la navata, si fermava accanto a lui, accettava di diventare sua moglie e infine gli porgeva la mano per ricevere l'anello. Barty riteneva che, in tutti i modi possibili in cui sono le cose e nell'infinità dei mondi e in tutta la creazione, non esistesse una donna più bella e più buona di lei. Alla fine della cerimonia, abbandonò la sua vista di seconda mano. Avrebbe continuato a vivere nell'oscurità fino alla Pasqua del 1986, anche se sua moglie illuminava ogni minuto delle sue giornate. Il ricevimento di nozze - affollato, rumoroso e pieno di gioia - si svolse sul terreno delle tre proprietà senza staccionate. Il nome di sua madre venne menzionato talmente spesso, la sua presenza aveva talmente influenzato la vita delle persone che l'avevano conosciuta, che a volte sembrava che fosse davvero in mezzo a loro. La mattina successiva, dopo aver trascorso la prima notte insieme, senza che nessuno dei due lo proponesse, Barty e Angel raggiunsero in silenzio il giardino dietro alla casa e, insieme, si arrampicarono sulla quercia per
ammirare il sorgere del sole dai rami più alti. Tre anni dopo, la domenica di Pasqua del 1986, un coniglietto portò loro un dono: Angel diede alla luce Mary. «E tempo che in questa famiglia ci sia qualcuno con un nome normale», dichiarò la neomamma. Per vedere la neonata, Barty condivise la vista degli altri Barty e rimase così incantato dalla sua piccola, rugosa Mary, che volle continuare a vedere per tutto il giorno, fino a quando l'emicrania divenne insopportabile e un'improvvisa difficoltà di parola lo costrinse a tornare alla sua confortevole cecità. Il problema si risolse nel giro di qualche minuto, ma Barty ebbe la sensazione che la fatica necessaria per mantenere una vista non sua gli avrebbe potuto causare un colpo apoplettico o qualcosa di peggio. Rimase cieco fino a un pomeriggio di maggio del 1993, quando finalmente si verificò il miracolo e cominciò a palesarsi quel significato che Tom Vanadium aveva previsto tanto tempo prima. Quando Angel venne a cercare Barty, senza fiato per l'agitazione, lui stava chiacchierando con Tom Vanadium negli uffici della fondazione, sopra i garage. Anni prima, i due appartamenti erano stati riuniti e, in seguito alla costruzione di altri due garage, erano stati notevolmente ampliati, il che dava a Tom uno spazio più confortevole per vivere e lavorare. Sebbene avesse ormai settantasei anni, Tom continuava a lavorare per la Servizi Signora delle Torte. Non avevano stabilito un'età in cui il personale doveva andare in pensione e padre Tom intendeva morire sul posto di lavoro. «E se sarà un giorno di consegna dei generi alimentari, lasciate semplicemente la mia vecchia carcassa dove si trova fino a quando non avete completato il giro. Non voglio che, per colpa mia, qualcuno non riceva la sua torta.» Era tornato a essere padre Tom, dopo aver riconfermato i voti tre anni prima. Su sua richiesta, la chiesa lo aveva nominato cappellano della Servizi Signora delle Torte. Proprio in quel momento, Barty e Tom stavano parlando di un fisico quantistico che avevano visto alla televisione, in un documentario sulla misteriosa risonanza tra la fede in un universo creato e alcune recenti scoperte della meccanica quantistica e della biologia molecolare. Il fisico aveva affermato che alcuni suoi colleghi, anche se non la maggioranza, erano convinti che con una sempre più profonda comprensione del livello quantistico della realtà, con il tempo vi sarebbe stato un sorprendente riavvicinamento tra scienza e fede.
Arrivando di corsa nella stanza, cercando di riprendere fiato, Angel li interruppe. «Venite, presto! È incredibile. È meraviglioso. Dovete vederlo. E, Barty, intendo proprio dire che devi vederlo.» «Okay.» «Ti dico che devi vederlo.» «Che cosa sta dicendo?» domandò Barty, rivolgendosi a Tom. «Che c'è qualcosa che vuole che tu senta.» Mentre si alzava dalla sedia, Barty cominciò a riabituarsi alla sensazione di tutti i modi in cui sono le cose, cominciò ad adattare la mente a tutti i meandri della realtà che aveva percepito sulle montagne russe quel giorno e, una volta raggiunti Angel e Tom in fondo alle scale e nel giardino sul retro della casa, all'ombra della quercia, il buio della cecità cominciò a svanire. Mary stava giocando e, vedendola per la prima volta dopo sette anni, Barty sentì le ginocchia che gli cedevano. Era il ritratto di Angel e lui sapeva che doveva somigliare a come Angel era stata all'età di tre anni, nel 1968, quando, il primo giorno che era arrivata in quella casa, si era messa a ispezionare la cucina e aveva trovato il tostapane sotto un calzino. Se la vista della figlia lo fece quasi cadere in ginocchio, quella di sua moglie - che, come la bambina, non vedeva da sette anni - lo riempì di una tale gioia che si sentì praticamente fluttuare a mezz'aria. Koko, il loro golden retriever di quattro anni, era sul prato, a zampe all'aria, e offriva il grande dono della sua pancia pelosa perché la giovane padroncina Mary potesse accarezzarla. «Tesoro», disse Angel a sua figlia, «facci vedere il gioco che prima stavi facendo con Koko. Faccelo vedere, tesoro. Dai. Mostracelo.» Rivolgendosi a Barty, Mary disse: «Mamma è tutta eccitata per questa cosa». «Conosci la mamma», commentò Barty, quasi assorbendo disperatamente la vista del volto di sua figlia e imprimendo le immagini nella memoria per avere la forza di sostenere il prossimo, lungo periodo di oscurità. «In questo momento, riesci davvero a vedere, papà?» «Sì, ci riesco.» «Ti piacciono le mie scarpe?» «Sono molto carine.» «Ti piace il modo in cui mi sono pettinata...» «Faccelo vedere, faccelo vedere, faccelo vedere!» la incitò Angel. «Va beeeneee», sospirò Mary. «Koko, giochiamo.»
Con un balzo, il cane si rimise in piedi, scodinzolando, pronto per il divertimento. Mary aveva un pallone di vinile giallo, dietro al quale Koko sarebbe stato felice di correre tutto il giorno e che, se glielo avessero permesso, avrebbe masticato per tutta la notte, tenendo tutti svegli per il rumore. «Lo vuoi?» domandò a Koko. Naturalmente Koko lo voleva, ne aveva bisogno, doveva averlo assolutamente, e fece un balzo mentre Mary fìngeva di lanciare il pallone. Dopo aver fatto alcuni passi di corsa, rendendosi conto che Mary non aveva lanciato il pallone, il cane si voltò e tornò indietro a tutta velocità. Mary correva: «Prendimi, se ce la fai!» e schizzò via. Koko cambiò immediatamente direzione e si mise a inseguire la bambina. Anche Mary ruotò su se stessa lanciandosi bruscamente verso sinistra... ...e svanì. «Santo cielo», mormorò Tom Vanadium. Prima la bambina e il pallone di vinile giallo. Subito dopo, spariti, come se non ci fossero mai stati. Koko si bloccò, perplesso, guardò a sinistra, guardò a destra, drizzò leggermente le orecchie per cercare di udire eventuali rumori della Padroncina Mary. Alle spalle del cane, Mary uscì dal nulla, con il pallone in mano, Koko girò rapidamente su se stesso, sorpreso, e l'inseguimento ricominciò. Per tre volte Mary scomparve e per tre volte riapparve, prima di riportare un Koko perplesso alla madre e al padre. «Carino, vero?» «Quando hai capito di saper fare una cosa del genere?» domandò Tom. «Poco fa», rispose la bambina. «Ero seduta sulla veranda, stavo succhiando un ghiacciolo, e l'ho capito.» Barty guardò Angel e Angel guardò Barty, ed entrambi si inginocchiarono sull'erba di fronte alla figlia. Stavano sorridendo... ma poi i loro sorrisi si irrigidirono. Pensando sicuramente alla terra dei grossi insetti, nella quale aveva spinto Enoch Cain, e che era esattamente ciò a cui Barty aveva pensato, Angel disse: «Tesoro, è una cosa incredibile, meravigliosa, ma devi stare attenta». «Non fa paura», ribatté Mary. «Entro semplicemente in un altro posto per un po', poi torno indietro. È come andare da una stanza all'altra. Non è che rimango bloccata là, o roba del genere.» Guardò Barty. «Tu sai com'è,
papà.» «Più o meno. Ma quello che tua madre intende dire...» «È che alcuni di quei posti potrebbero non essere belli», l'ammonì Angel. «Certo, lo so», la rassicurò Mary. «Ma quando è un posto cattivo, lo senti prima di entrarci. E così te ne vai in quello successivo che non è brutto. Non è difficile.» Non è difficile. Barty voleva abbracciarla. E l'abbracciò. Abbracciò anche Angel. Abbracciò anche Tom Vanadium. «Ho bisogno di bere qualcosa», annunciò padre Tom. *** Mary Lampion, la piccola lanterna, studiò a casa come avevano fatto suo padre e sua madre. Ma non si limitò a imparare a leggere, a scrivere e a fare di conto. Un po' alla volta sviluppò una serie di straordinarie capacità che nessuna scuola poteva insegnarle e iniziò a esplorare un vasto numero dei molti modi in cui sono le cose, viaggiando in mondi che sono qui, ma che nessuno vede. Nella sua cecità, Barty ascoltava i suoi racconti e, attraverso di lei, vide molte più cose di quelle che avrebbe visto se non avesse mai perso gli occhi. La vigilia di Natale del 1996, la famiglia si riunì per la cena a casa Lampion. Per riuscire a far sedere tutti, i mobili del soggiorno erano stati allineati contro le pareti e, al centro della stanza, era stata preparata una tavolata formata da tre tavoli messi insieme. Apparecchiata la tavola e versato il vino, quando tutti, tranne Mary, si erano accomodati al loro posto, Angel disse: «Mia figlia mi ha detto che desidera offrire un dono prima che io dica la preghiera di ringraziamento. Non so di che cosa si tratti, ma mi ha assicurato che non canterà, non ballerà e non ci leggerà le sue poesie». A capotavola, Barty percepì la presenza di Mary solo quando lei fu sul punto di toccarlo. Gli mise una mano sul braccio e disse: «Papà, ti spiacerebbe girare la sedia e farmi sedere sulle tue ginocchia?» «Se c'è un dono, immagino di esserne il destinatario», commentò lui, spostando di lato la sedia e facendo sedere la figlia. «Però, ricordati che non porto la cravatta.»
«Ti voglio bene, papà», disse Mary, posando i palmi delle mani sulle tempie del padre. Nell'oscurità di Barty si accese una luce che lui non aveva cercato. Vide Mary, sorridente, seduta sulle sue ginocchia che toglieva le mani dalle sue tempie, vide i volti dei suoi famigliari, la tavola imbandita con decorazioni natalizie e molte candele accese. «Questo dono resterà con te», spiegò Mary. «È la vista che ti viene da tutti gli altri te in tutti gli altri mondi, ma non dovrai fare alcuno sforzo per mantenerla. Niente emicranie. Nessun problema. Buon Natale, papà.» E così, all'età di trentun anni, dopo più di ventotto anni di cecità, con alcune brevi sospensioni, Barty Lampion ricevette il dono della vista dalla sua bambina di dieci anni. 1996-2000: giorno dopo giorno, il lavoro venne compiuto in memoria di Agnes Lampion, Joey Lampion, Harrison White, Seraphim White, Jacob Isaacson, Simon Magusson, Tom Vanadium, Grace White e, negli ultimi tempi, anche di Wally Lipscomb, in memoria di tutti coloro che avevano dato tanto e che sebbene fossero ancora vivi in altri luoghi, se ne erano andati da qui. Per la cena del giorno del Ringraziamento, con ancora una volta i tre tavoli sistemati uno in fila all'altro, nell'Anno dei Tre Zeri, Mary Lampion, che ora aveva quattordici anni, fece un interessante annuncio davanti a una torta di zucca. Mentre visitava luoghi in cui nessuno, tranne lei, poteva andare, dopo sette anni in cui aveva esplorato una quantità minima dell'infinità di mondi esistenti, riteneva di aver capito senza ombra di dubbio che, come la madre di Barty gli aveva detto sul letto di morte, esiste un luogo speciale al di là di tutti i modi in cui sono le cose, un luogo sfolgorante. «E se mi date abbastanza tempo, scoprirò come arrivarci e lo vedrò.» Allarmata, sua madre disse: «Senza dover morire». «Be', certo», la rassicurò Mary, «senza prima dover morire. Quello sarebbe un modo facile per arrivarci. Sono o non sono una Lampion? Prendiamo la strada più facile, se appena possiamo evitarlo? Papà ha scelto il percorso più facile per arrampicarsi sulla quercia?» Barty pose un altro limite: «Senza prima dover morire... e devi essere certa di poter tornare indietro». «Semmai arriverò là, tornerò», promise alla famiglia riunita. «Immaginate di quante cose potremmo parlare. Magari riuscirò a farmi dare qualche nuova ricetta per le torte da Lassù.»
Il 2000, l'Anno del Drago, cede tranquillamente il passo all'Anno del Serpente, e dopo il Serpente viene il Cavallo. Il lavoro viene svolto giorno dopo giorno, in memoria di coloro che se ne sono andati prima di noi e, impegnata in un lavoro tutto suo, la giovane Mary è tra di voi. Per il momento, solo la sua famiglia sa quanto sia speciale. In un giorno straordinario, questo cambierà. Nota dell'autore Per ottenere determinati effetti narrativi, ho modificato leggermente la pianta e l'arredamento dell'ospedale St. Mary's di San Francisco. In questo romanzo, i personaggi che lavorano in questo ospedale sono completamente inventati e non hanno niente a che vedere con il personale, presente e passato, di questa eccellente istituzione. Non sono il primo a osservare che molto di quanto ci mostra la meccanica quantistica riguardo alla natura della realtà è straordinariamente compatibile con la fede, in particolare con il concetto di un universo creato. Numerosi fisici di grande valore lo hanno scritto prima di me. Tuttavia, per quanto ne so, il concetto che le relazioni umane riflettono la meccanica quantistica appare per la prima volta in questo libro: nel mondo fisico ogni vita umana è collegata in modo complesso a ogni altra vita a un livello profondo quanto quello subatomico; alla base di ogni apparente caos vi è uno strano ordine; e nella società umana, così come nel sistema atomico, in quello molecolare e in altri sistemi fisici, si possono osservare facilmente «misteriosi effetti a distanza», come dicono gli esperti di quantistica. In questo romanzo, Tom Vanadium deve semplificare e condensare complessi aspetti della meccanica quantistica in poche frasi e in un unico capitolo, perché anche se non è consapevole di essere un personaggio inventato, è obbligato a non essere noioso. Spero che, se qualche fisico leggerà questo libro, avrà pietà di me. FINE