Parag Khanna – I tre imperi I edizione: febbraio 2009 © 2008 Parag Khanna Questa edizione è stata realizzata in accordo con Random House, un imprint del Random House Publishing Group, una divisione di Random House, Inc. © 2009 Fazi Editore srl Via Isonzo 42, Roma Tutti i diritti riservati Traduzione dall'inglese di Franco Motta Titolo originale: The Second World. Empires and influences in the new global order ISBN: 978-88-8112-429-9 www.fazieditore.it
Prefazione di Vittorio Emanuele Parsi Sulle orme di quel grande studioso ed eclettico personaggio che fu Arnold Toynbee, Parag Khanna ci conduce letteralmente a spasso per il mondo, disegnando un'ipotesi molto suggestiva circa l'architettura del sistema internazionale che si va profilando. Secondo Khanna, in base alla loro stabilità, ricchezza, dimensioni e, non ultimo, «alla visione del mondo che possiedono», le nazioni del pianeta possono essere suddivise in tre gruppi. A un estremo stanno quelle del Primo Mondo, cioè i principali azionisti e beneficiari dell'attuale ordine internazionale. All'estremo opposto si collocano le nazioni del Terzo Mondo, povere e instabili. In mezzo è piazzato il folto gruppo delle nazioni del Secondo Mondo, al cui interno passa la divisione tra vincitori e perdenti, che tentano con tutte le loro forze di entrare a far parte del raggruppamento privilegiato che le precede, ma che rischiano di essere continuamente risucchiate nel girone dei "dannati della Terra". La tesi di fondo del libro di Khanna è molto semplice e, forse proprio per questo, avvincente. Il sistema internazionale si va riarticolando in un multipolarismo dai caratteri inediti, dove tre "imperi" sembrano essere gli unici in grado di costituire i poli decisivi: gli Stati Uniti, la Cina e l'Unione Europea. Nel suo sforzo di attrarre a sé gli Stati del Secondo Mondo, ognuno di questi imperi si muove massimizzando tre qualità strategiche diverse. Gli USA sono da sempre considerati la grande potenza che ha dimostrato un'ineguagliabile capacità di coalizione. Se negli anni di George W. Bush questa è risultata piuttosto appannata, è opinione largamente condivisa che il nuovo presidente Barack Obama possa tornare a farla risplendere nuovamente. La Cina è l'unico impero che proviene proprio dal Secondo Mondo e sembra aver fin qui privilegiato lo strumento della consultazione dei vicini e, più in generale, dei paesi oggetto della propria politica. L'Europa, infine, è il polo che fino a ora si è mosso applicando all'esterno lo stesso faticoso principio che regola i propri rapporti interni, quello del consenso. A determinare quale "impero" sarà in posizione di vantaggio rispetto ai rivali, quale cioè riuscirà a imporre il proprio modello di globalizzazione, e la propria visione del mondo, saranno gli Stati del Secondo Mondo, che non sono mai stati tanto numerosi come oggi e che mai in precedenza hanno goduto di tanta libertà di manovra, ma la cui capacità di pesare sui nuovi equilibri mondiali dipenderà anche dalla loro capacità di aggregazione, innanzitutto regionale. Se non cominceranno a pensarsi in termini di "nazione", sottolinea Khanna, le cinque grandi regioni del Secondo Mondo (Europa orientale e caucasica, Russia e Asia centrale, America Latina, Grande Medio Oriente e Asia meridionale e orientale) non riusciranno a esercitare tutta l'influenza che potrebbero dispiegare. Le pagine che seguono, spesso anche attraverso un felice tocco impressionistico, riescono a renderci la descrizione dei principali paesi del Secondo Mondo visitati dall'autore e ci ricordano l'importanza del contatto diretto soprattutto per chi si muove nel rarefatto ambiente della produzione teorica. Il lavoro di Khanna, nelle sue stesse parole, si pone l'ambizioso obiettivo di esplorare l'interazione tra
le due forze che hanno fatto la storia del mondo: la geopolitica, ovvero la relazione tra potere e spazio, e la globalizzazione, cioè l'ampliarsi e l'approfondirsi delle interconnessioni tra i popoli del mondo attraverso tutte le diverse forme di scambio. È proprio il nesso tra geopolitica e globalizzazione che sta trasformando in snodi cruciali aree per lungo tempo rimaste ai margini del processo storico, offrendo loro opportunità nuove non solo per afferrare il treno dello sviluppo, ma anche per determinare quale modello di globalizzazione prevarrà tra quello cinese, quello americano o quello europeo. In questo senso, Khanna cerca di ricomporre anche la frattura tra due filoni interpretativi del mondo post guerra fredda (e della postmodernità) fin qui considerati normalmente alternativi. Il primo è quello che vedeva nell'avvento della globalizzazione il sostanziale tramonto dello Stato e della rilevanza politica del territorio. Il trionfo di un'economia capitalistica globale, oltre alla vittoria dell'economia sulla politica, avrebbe infatti segnato la messa in crisi non solo della statualità, ma anche della stessa territorialità della politica e delle sue forme di istituzionalizzazione e rappresentanza, a favore di civiltà, transnazionalità e movimenti. Il secondo è quello che riteneva che la fine del secolo delle ideologie, del «secolo degli estremi» (per riprendere una bella espressione di Eric Hobsbawm), avrebbe portato a una pura e semplice riedizione della politica di potenza e alla "dittatura della geografia" nel determinare gli interessi nazionali degli Stati. Non è andata così e, come osserva Parag Khanna, è proprio lo sforzo dei tre imperi volto ad assicurare la diffusione del proprio modello di globalizzazione a conferire nuova o inedita importanza al dato territoriale. In tal senso, il tramonto delle relazioni interstatali non porterà allo scontro delle civilizzazioni temuto da Huntingon, ma piuttosto a una rete di relazioni interimperiali, in cui altri importanti attori (come la Russia, l'India e il Giappone) potranno giocare al massimo un ruolo di bilanciamento. Ciò non significa che il mondo che verrà sarà necessariamente "più democratico", o che al multipolarismo (in termini di distribuzione di potenza) corrisponda anche il multilateralismo (in termini di procedure decisionali) e neppure che le tensioni tra imperi non possano sfociare in consistenti attriti. Da un lato, l'intreccio delle tre economie imperiali, con le loro specifiche vulnerabilità e sensibilità, rappresenterà un elemento dissuasivo molto forte nei confronti di un ipotetico conflitto o di una reciproca chiusura. Dall'altro, il rischio legato alla «tentazione per ogni ragno di aumentare la sua percentuale di tela o di entrare nella tela altrui» continuerà a sottoporre il sistema a tensioni anche forti e così, in ultima analisi, a giustificare la necessità della politica e del suo complesso di istituzioni. I tre imperi non è un puro lavoro teorico e neppure una sorta di intelligente sistematizzazione delle esperienze di viaggio di un brillante e attento intellettuale. Esso rappresenta anche un esplicito tentativo da parte dell'autore di offrire una materia prima grazie alla quale elaborare la nuova grand strategy americana per il nuovo secolo, una volta tramontata l'idea (e la possibilità) che il momento unipolare degli Stati Uniti possa essere prolungato all'infinito. Il nuovo presidente sarà infatti il primo inquilino della Casa Bianca che si troverà a dover affrontare un problema inedito per la storia americana da quando, ai tempi di Theodore Roosevelt, gli USA conclusero la stagione del loro splendido isolamento e si tuffarono nel mondo. Si tratta del tramonto della convinzione che la diffusione dell'economia di mercato e del capitalismo avrebbe finito per avvantaggiare innanzitutto gli Stati Uniti, cioè quella che ormai era già diventata l'economia più grande e più avanzata del pianeta. Questa idea, assai più della diffusione della democrazia – che pure ne rappresenta un corollario importante –, ha rappresentato la vera idea-guida della politica di Washington nel mondo nel corso del "secolo americano". Sarebbero stati Woodrow Wilson e Franklyn D. Roosevelt a sviluppare questo corollario della politica estera americana e a forgiare la coppia concettuale "democrazia e mercato", che si è rivelata fondamentale per sconfiggere l'Unione Sovietica nella lunga guerra fredda. Nel corso della secolare vicenda che li ha visti protagonisti della politica internazionale, infatti, gli Stati Uniti hanno sovente tollerato di avere come alleati – ma sarebbe più preciso definirli "clienti", nell'accezione latina del termine – regimi che in nessun modo sarebbe possibile definire democratici; ma non hanno mai esteso la loro protezione a sistemi che non fossero, dal punto di vista economico, capitalisti. Dopo il 1989, si spiega così la politica clintoniana, tutta tesa a favorire il processo di globalizzazione, ritenuto il volano capace di innescare un circolo virtuoso di ordine e sicurezza per il mondo attraverso la diffusione dell'economia di mercato, l'accelerazione dell'interdipendenza e la moltiplicazione dei sistemi democratici. Al di là dei suoi meriti, e delle sue indubbie qualità, Bill Clinton si trovò nella
fortunata condizione di gestire con abilità e coraggio un successo costruito da altri prima di lui. Fu un momento unico, in cui gli Stati Uniti erano il sole di un sistema copernicano (in termini di potenza), ma anche il mozzo della ruota (rispetto al processo di globalizzazione). Per un lungo periodo, quello che Theodore Roosevelt aveva iniziato sembrò poter giungere a compimento. La grande novità, che però si stava già producendo sotto traccia e che sarebbe esplosa con le conseguenze dell'11 settembre, non sta tanto e solo nel rafforzarsi o nel ritornare di altre grandi potenze (la Cina, la Russia), ma nel fatto che ampie porzioni di quel sistema integrato di economie di mercato, creato grazie al successo americano nella guerra fredda, non dipendono per la loro sicurezza dalla protezione americana. Detto con semplicità, il trionfo del capitalismo e dell'economia di mercato non significa più, ipso facto, né un incremento della quota di ricchezza, né un aumento del potere economico e politico americano. Tra i paesi che hanno segnato la maggior crescita economica all'inizio del nuovo millennio (i cosiddetti BRICS), Cina e Russia sono infatti indipendenti (quando non rivali degli Stati Uniti) per quel che concerne le proprie concezioni e le rispettive politiche di sicurezza, mentre India e Brasile non vedono necessariamente nel mantenimento di una posizione di leadership globale degli Stati Uniti la principale garanzia per la propria sicurezza politico-militare. Per nulla paradossalmente, è l'Europa a dipendere ancora per la propria sicurezza dalla continuità della leadership americana. Il ritorno assertivo e muscolare sulla scena internazionale di una Russia che sembra irreversibilmente incline a una "demokratizatsiya" dai tratti marcatamente illiberali, da un lato, e la crescita continua di una Cina semplicemente "fuori scala" per un'Europa persino più unita dell'attuale, dall'altro, dovrebbero consigliare agli europei di giocare la carta della "debolezza americana" nella direzione della ricerca di una partnership più paritaria, ma non per questo aleatoria. La sopravvalutazione della capacità e della volontà europea di svolgere un ruolo decisivo nel nuovo ordine mondiale, in cui il multipolarismo in termini politici sembra innanzitutto dettato dalla multipolarità già assunta dal sistema economico globale, è forse il punto più debole del ragionamento di Parag Khanna. Certo, si tratta di un errore comune a molti autori liberal degli Stati Uniti (basti pensare a Charles Kupchan), e però, tanto più nel corso di un 2009 che si preannuncia molto difficile e forse drammatico per le sorti dell'Unione, è arduo immaginare, con Khanna, che le ottime ragioni che dovrebbero portarla a dare maggior concretezza e irreversibilità al processo di adesione della Turchia potranno trovare ascolto. La sensazione è che l'Europa stia "perdendo" la Turchia, ovvero che per scarso coraggio politico semplicemente non stia raccogliendo quella sfida che la candidatura turca pone all'Unione e alla sua identità. Essa sembra così voler dimenticare che la sua stessa lontana origine e il suo più straordinario successo sono stati illuminati dalla consapevolezza della necessità di chiudere con l'eredità del passato per aprire al futuro. L'idea di un'Europa unita nasce per sanare la ferita francotedesca e trasformare quel confine nella sua spina dorsale. E tale idea si conferma dopo l'89, offrendosi di ricucire lo strappo rappresentato da quella "cortina di ferro" che per oltre quarant'anni l'aveva lacerata. Oggi all'Unione Europea si presenta la chance di chiudere un passato ancor più lontano eppure estremamente rilevante per il futuro in cui vivremo: quello tra islam e "radici" giudaico-cristiane dell'Occidente, da risolvere nel nome d'Europa. Sarebbe questo un passaggio in grado di completare sostanzialmente il processo di allargamento, in virtù di un'identità culturale in cui anche l'islam europeo trovi il proprio posto accanto alle altre tradizioni che, in misura maggioritaria ma non esclusiva, hanno costruito l'Europa plurale che conosciamo. Renderemmo un servigio all'Europa e alla Turchia, che con fatica tenta di allargare la partecipazione democratica e la rappresentatività delle proprie istituzioni, cercando al contempo di preservarne la laicità nonostante le pressioni in senso contrario di alcuni settori della sua società. L'Europa ha l'opportunità di offrire un sostegno alla modernizzazione della Turchia sostituendo l'autorevolezza delle proprie istituzioni, delle proprie corti e delle proprie direttive all'autorità dell'esercito turco. Ma a quanto pare non sembra intenzionata ad agire in tal senso, paradossalmente, in una delle poche situazioni in cui le sarebbe ancora consentito di muoversi efficacemente e contemporaneamente come "potenza civile" e come provider di sicurezza. Così, se il consenso è la parola chiave del soft power europeo e della sua stessa capacità di proiezione in termini di potenza economica, come sostiene Khanna, proprio un consenso ormai sempre più chimerico sembra rendere sostanzialmente impossibili gli audaci passi di politica estera necessari a trasformare l'Europa in una potenza «anche civile, ma non solo civile» e in quell'"impero" preconizzato dall'autore.
A tal proposito, un punto merita di essere ulteriormente approfondito. Di fronte al perdurare delle difficoltà nelle quali sembra trovarsi l'Europa nel gestire in maniera più attiva la propria sicurezza e nel contribuire a rafforzare la sicurezza complessiva del sistema internazionale, si rischia talvolta di guardare all'intera questione con un'impostazione eccessivamente monotona, poco incline cioè a riconoscere che, in oltre mezzo secolo di esistenza, il rapporto dell'Unione e dei paesi membri con la sicurezza sarà pure rimasto costantemente problematico, ma ha anche conosciuto fasi diverse, contrassegnate da sfide vinte e da sfide perdute. In maniera piuttosto sintetica, è possibile individuare tre fasi successive nel rapporto tra Europa e sicurezza. In una prima fase, che corrisponde al periodo della guerra fredda e del bipolarismo sovieticoamericano durato fino al 1989, l'Europa è essenzialmente una consumatrice netta di sicurezza, occupata principalmente a far crescere la coesione interna, fornire una stabile piattaforma per la NATO e contemporaneamente ad abbattere i picchi di tensione che ciclicamente si vengono a creare nel sistema internazionale. In una seconda fase, che corrisponde agli anni tra il 1989 e il 2003, quelli dell'unipolarismo imperfetto degli Stati Uniti, l'Europa è un magnete di sicurezza, capace di attrarre a sé il suo estero vicino, di inglobarlo e di renderlo sicuro. Il crollo del Muro di Berlino colse tutti di sorpresa e costrinse l'Europa a mutare il proprio ruolo elaborando una strategia di risposta di fronte alla sfida di stabilizzare un'area enorme, che al suo confine orientale andava da Capo Nord all'Adriatico meridionale. Oggi, di fronte alle delusioni del processo di integrazione europeo, di fronte alle difficoltà che il necessario approfondimento del legame tra i paesi membri dell'Unione continua a incontrare, è fin troppo invalso l'uso di parlare dell'allargamento post 1989 come di un "errore". Fu invece, quello, uno straordinario atto di lungimiranza e di audacia politica, in grado di condizionare positivamente l'evoluzione di quei paesi verso forme stabili di democrazia, attirandoli a sé e nella propria area di sicurezza proprio come avrebbe fatto un magnete. Certo, per evitare di cadere nella facile retorica, non va dimenticato che tale processo si realizzò concretamente al riparo e all'ombra dell'allargamento della NATO. Sarebbe però inutile negare che anche l'allargamento dell'Unione contribuì in maniera decisiva alla stabilizzazione dell'Europa ex comunista, soprattutto accelerandone e garantendone l'irreversibilità della transizione alla democrazia, ma anche rassicurando la Russia, nel senso di fornirle garanzie ulteriori sul fatto che il loro ingresso nella struttura militare incentrata sugli Stati Uniti sarebbe stata in un certo qual senso "bilanciata" dalla contemporanea adesione alle policentriche istituzioni politiche europee. Attraverso un processo simile e in questa fase storica, l'Unione si approssimò quanto mai era avvenuto prima e sarebbe avvenuto dopo al modello della "potenza civile", proprio per la sua capacità di svolgere un'attiva funzione di securizzazione di un'area politica territoriale assai vasta senza far ricorso agli strumenti classici (in primis quelli militari) attraverso i quali una tale azione è normalmente svolta. Ovviamente questo non deve farci dimenticare che lo strumento impiegato fu uno strumento "eccezionale e straordinario" – cioè la promessa di adesione all'Unione stessa –, per sua natura destinato a esaurirsi e a non poter essere impiegato sempre, dovunque e comunque. La strategia europea di portare dentro il limes i turbolenti territori vicini, di "internalizzare" le sfide esterne trasformandole in sfide interne, ha probabilmente alzato l'asticella dell'integrazione a un livello che ora risulta difficile da superare e, in ogni caso, appaiono ormai molto marginali i nuovi possibili allargamenti, con l'eccezione evidente della Turchia. E forse è proprio il successo degli anni Novanta che induce Parag Khanna a sopravvalutare il ruolo dell'Unione Europea e dei suoi Stati membri, e lo spinge a mettere l'"impero europeo" sullo stesso piano di quello americano e di quello cinese. Nella terza fase, che corrisponde alla trasformazione del sistema internazionale in un multipolarismo asimmetrico, caratterizzato dalla centralità degli Stati Uniti come unica superpotenza globale e dal progressivo emergere (o riemergere) di altre grandi potenze su scala regionale o multiregionale – dalla Cina alla Russia, dall'India al Brasile, dal Sudafrica all'Unione Europea – l'Europa inizia a proporsi come un irradiatore di sicurezza nei confronti non solo del suo estero vicino, ma su una scala più ampia. Oggi, il logoramento della potenza americana nei teatri mediorientali, come anche il progressivo emergere o riemergere di attori potenzialmente in grado di contrastare un'egemonia globale degli Stati Uniti e, soprattutto, il venir meno del sostegno interno a una politica di potenza "senza limiti", stanno trasformando il sistema politico internazionale. Più che al ritorno a un multipolarismo di stampo
classico, ci troviamo di fronte a un inedito "multipolarismo asimmetrico", caratterizzato dal mantenimento da parte degli Stati Uniti di un ruolo pivotale accanto al delinearsi di grandi potenze regionali o multiregionali. La stabilità e l'equilibrio di un sistema "1+" (ovvero "1 superpotenza globale + alcune grandi potenze regionali", secondo il modello delineato da Barry Buzan) dipendono da una serie di fattori, tra i quali, non ultimo, ci sono l'omogeneità, o la disomogeneità, culturale e politica tra i poli e, di conseguenza, il tono assunto dalle loro relazioni, in un campo di oscillazione che, come ha teorizzato Alexander Wendt, può andare «dall'inimicizia alla rivalità, all'amicizia». Ora, per quanto i rapporti transatlantici possano aver conosciuto in tempi recenti più di qualche tensione, occorre constatare che la possibilità che gli interessi europei e americani divergano non deve far dimenticare che Stati Uniti e Unione Europea sono gli attori più vicini del globo: per valori, cultura, istituzioni, procedure politiche e legami commerciali. Una tale vicinanza rappresenta già oggi un valore, ma in uno scenario multipolare la collaborazione fra potenze affini e amiche come sono gli Stati Uniti e l'Unione Europea sarebbe ancora più importante per produrre l'ordine internazionale. È appena il caso di segnalare come la probabilità che un sistema politico internazionale dall'assetto multipolare riesca a dotarsi di una governance multilaterale dipenda molto dal tipo di istituzioni politiche (democratiche/non democratiche) che i diversi poli avranno. Come argomenta il filone teorico della "pace democratica", è infatti possibile constatare che i regimi democratici tendono a cooperare più facilmente tra loro di quanto non accada con qualunque altra combinazione possibile. Oltre a quella che concerne il mantenimento di efficaci relazioni transatlantiche, le sfide a cui l'Unione e i suoi Stati membri sono già stati chiamati in questi anni riguardano i rapporti con la Russia. E qui il libro di Khanna mette in luce con chiarezza come l'area che va dall'Ucraina al Caucaso sia l'area di naturale espansione dell'"impero europeo", proprio in virtù della straordinaria capacità attrattiva del suo modello per i popoli e le istituzioni di quelle regioni. Ciò che Khanna però sembra sopravvalutare è la disponibilità russa a lasciare che l'eventuale penetrazione europea in quell'area continui, persino a scapito della capacità di Mosca di esercitare una propria influenza. Come gli avvenimenti anche recenti hanno ricordato, il Cremlino appare intenzionato a sfruttare ogni possibile occasione per riaffermare la propria dimensione imperiale (così da rappresentare un "quarto impero", proseguendo nella logica dello schema elaborato da Parag Khanna) e tutt'altro che disponibile a essere il junior partner dell'Europa. La promozione di un nazionalismo aggressivo è d'altronde l'unico vero collante ideologico che può tenere unita la Russia, la quale può continuare a mantenere la propria sia pur ridotta unità solo a condizione di "essere un impero" e non uno Stato nazionale russo. Nella visione postideologica della politica internazionale di Khanna sembra talvolta che l'efficacia sia l'unico elemento essenziale per la legittimazione del potere politico. E non c'è dubbio che questa qualità giochi un ruolo cruciale nel caso russo come in quello cinese (e potremmo estendere il ragionamento anche alle democrazie occidentali). Ma quando, come nel caso russo, coloro che governano il paese sono anche gli stessi che lo possiedono, in una sorta di neopatrimonialsmo adattato al XXI secolo, sottovalutare il perdurante ruolo dell'ideologia accanto e in simbiosi con il controllo del potere economico può davvero fare incorrere in errori di valutazione anche clamorosi. Ciò cui siamo di fronte in questo concitato periodo è davvero «il ritorno della storia e la fine dei sogni», per parafrasare il titolo dell'ultimo lavoro di Robert Kagan? Forse, come Parag Khanna invita implicitamente a fare, si può essere meno pessimisti, ma sicuramente stiamo quantomeno assistendo al ritorno della geopolitica e della rilevanza della forza militare come uno degli strumenti che non può mancare a un attore che voglia essere preso seriamente in considerazione dagli altri quale aspirante membro del direttorio responsabile della governance internazionale. Al di là della sua impostazione di fondo, comunque interessante anche per chi non ne condividerà per intero le tesi, il libro di Parag Khanna si segnala proprio per la capacità di offrire una visione originale dei rapporti tra grandi potenze nel XXI secolo e parametri meno angusti per definire che cosa sia una grande potenza. Il suo lavoro consente di riconciliare due forze – la geopolitica e la potenza da un lato e la globalizzazione e la sfida che essa pone alla statualità e alla territorialità dall'altro – che troppo spesso gli studiosi sembrano considerare come se fossero autistiche l'una nei confronti dell'altra. Infine, attraverso la lettura delle pagine che seguono, al lettore italiano si disvelerà uno spaccato delle cinque macroregioni del Secondo Mondo che risulterà di sicuro estremamente suggestivo.
A Bhagwan Das Seth Diplomatico, pensatore, nonno
Prefazione di Parag Khanna Arnold Toynbee conosceva il mondo come nessun altro. I dodici volumi della sua Storia comparata delle civiltà rappresentano la più coerente trattazione delle civiltà umane che sia mai stata scritta (nonché la più lunga opera in lingua inglese). Tuttavia Toynbee aspettò il pensionamento dal Royal Institute of International Affairs di Londra prima di imbarcarsi con la moglie sulla nave che l'avrebbe portato a «incontrare gente e vedere luoghi che già ci erano familiari per i nostri lavori, ma soltanto di seconda mano». Nel giro di diciassette mesi la coppia circumnavigò il pianeta, da Londra verso l'America meridionale, poi verso il bacino del Pacifico e l'Asia meridionale fino al Vicino Oriente. I dispacci stilati da Toynbee – vi trovavano posto le sue osservazioni sulle vestigia di imperi estinti da lungo tempo e predizioni su un futuro ancora incerto – furono pubblicati nel 1958 con il titolo East to West: A Journey Round the World. Mezzo secolo dopo, una copia rilegata in pelle della prima edizione del resoconto di Toynbee è stata la mia guida più preziosa allorché mi sono messo a percorrere il pianeta per esplorare l'interazione tra quelle due forze che hanno fatto la storia del mondo e che Toynbee aveva colto intuitivamente senza dare loro un nome: la geopolitica e la globalizzazione. La geopolitica concerne la relazione fra il potere e lo spazio. La globalizzazione riguarda l'ampliarsi e l'approfondirsi delle interconnessioni fra i popoli del mondo attraverso tutte le diverse forme di scambio. Toynbee era stato il primo a raccontare l'ascesa e la caduta, l'espansione e la contrazione degli imperi e delle civiltà della storia, e la sua vita aveva coinciso con le grandi ondate di integrazione globale che si erano alzate a ridosso della prima guerra mondiale per infrangersi negli anni Settanta, con il sorgere delle corporation multinazionali. Dall'epoca di Toynbee la geopolitica e la globalizzazione hanno conosciuto un tale intreccio da diventare le due facce della stessa medaglia. Quello che volevo era separare l'inseparabile. Le regioni e le nazioni esplorate in questo libro – che definisco collettivamente come "Secondo Mondo" – costituiscono, oggi, la scena centrale sulla quale si sta decidendo il corso futuro dell'ordine mondiale. Con la nozione di Secondo Mondo ci si riferiva un tempo alla "sesta parte socialista" della superficie della Terra; poi l'espressione passò per breve tempo a designare gli Stati postcomunisti nella loro fase di transizione; infine, gradualmente, l'espressione svanì. Eppure le nazioni che si contano oggi sul pianeta sono almeno il doppio di quelle che esistevano quando Toynbee prese il mare, e un numero di esse mai così grande appartiene a questo nuovo spazio secondomondiale, nel quale geopolitica e globalizzazione si scontrano e si fondono. Come gli elementi della tavola periodica, le nazioni possono essere raggruppate in base alle dimensioni, alla stabilità, alla ricchezza e alla visione del mondo che possiedono. Le nazioni stabili e benestanti del Primo Mondo beneficiano largamente dell'ordine internazionale attualmente in vigore. All'altro estremo ci sono le nazioni del Terzo Mondo, povere e instabili, che non sono riuscite a superare una posizione di svantaggio nel quadro di tale ordine. In mezzo stanno i paesi del Secondo Mondo. La maggior parte di essi incarna l'insieme di caratteristiche che definisce le une e le altre: la divisione interna tra vincitori e perdenti, tra chi ha e chi non ha. È pensabile che le nazioni del Secondo Mondo possano reagire a questa situazione, rifiutandola, dividendosi, o unendosi invece in composti più ampi? È una delle domande cui le pagine che seguono cercano di rispondere. In questa loro schizofrenia le nazioni del Secondo Mondo sono anche l'ago della bilancia che determinerà l'equilibrio dei poteri fra i tre grandi imperi mondiali – gli Stati Uniti, l'Unione Europea, la Cina –, ciascuno impegnato a utilizzare la leva della globalizzazione per esercitare la propria forza
d'attrazione gravitazionale. Con quali criteri le nazioni scelgono la superpotenza con la quale allearsi? Quale modello di globalizzazione avrà la meglio? L'Oriente raggiungerà un piano di parità con l'Occidente? Le risposte a queste domande possono essere trovate nel Secondo Mondo, solo nel Secondo Mondo. Per comprendere le mutevoli sfere e i vettori d'influenza che attraversano le cinque regioni del Secondo Mondo dobbiamo iniziare a pensare come una nazione, a entrare nella sua pelle. Quando scherzano, i funzionari della Banca Mondiale dicono di non volere passare per esperti di un paese che non abbiano almeno sorvolato in aereo. Esperti di questo genere si affidano agli indicatori statistici per dichiarare che «la situazione è in netta via di miglioramento» in questo o in quel paese. Di solito ciò significa una capitale ripulita, hotel spuntati dalla sera alla mattina, banche e relativi bancomat, shopping malls e criminalità relegata ai quartieri periferici. E il resto del paese? E le altre città senza aeroporti, le province con le strade a pezzi e le infrastrutture che marciscono? Sembra davvero la stessa nazione? Nessuna sorpresa se la gente si stupisce di assistere ora a un colpo di Stato, ora a un collasso economico in paesi di cui si celebra sempre la prosperità. Sant'Agostino sosteneva che «il mondo è un libro, e chi non ha mai viaggiato ha letto soltanto la prima pagina». Solo l'esperienza di prima mano può confermare o smentire le nostre intuizioni, può darci fiducia nel rischio di decisioni politiche prese in un mondo complesso, fatto di immediati circuiti di feedback e di conseguenze impreviste. Nel corso dei miei viaggi nel Secondo Mondo non ho mai lasciato un paese senza prima aver analizzato le sue caratteristiche più profonde, senza prima aver assimilato dalle città, dai villaggi e dal territorio quella varietà di punti di vista emersa dalle conversazioni avute con un gran numero di persone, dirigenti, accademici, giornalisti, imprenditori, tassisti, studenti. Non sono mai ripartito prima di riuscire a vedere il mondo attraverso i loro occhi. Questo libro vuole semplicemente esplorare come questi paesi vedono se stessi nell'età della globalizzazione e del mutamento geopolitico. Durante un viaggio la percezione e il pensiero si fondono. Una contraddizione, allora, può rivelarsi come una verità che deve essere svelata anziché come una qualche eccezione da confutare. Dopotutto quest'ambiguità è il corollario della complessità. È noto che la realtà è renitente alle teorie che pretendono di misurare il mondo sulla base di quello che dovrebbe essere anziché di quello che è realmente. Allora occorre scoprire le strutture del Secondo Mondo lasciandosi guidare dalle percezioni, riconoscendo il giusto valore ai giudizi puramente sensoriali: solo così vengono alla luce caratteristiche comuni a tutti quei paesi e differenze che si rivelano assai più relative che assolute. Ad esempio, la cortesia nel comportamento delle persone tende a riflettere la decenza dei rispettivi governi, la quale, a sua volta, si rispecchia spesso nella qualità delle strade. Nel Primo Mondo le strade sono ben asfaltate, e la visibilità è libera per chilometri, mentre le strade intasate del Terzo Mondo sono oscurate dalla polvere e dagli scarichi; ecco, le strade del Secondo Mondo sono un mix delle une e delle altre. Mentre i paesi del Primo Mondo possono ospitare milioni di turisti, e un viaggio in uno Stato del Terzo Mondo comporta spesso la scelta fra hotel esclusivi e sistemazioni low-cost da backpacker, parecchi paesi del Secondo Mondo sono invece semplicemente privi delle infrastrutture per il turismo di massa. Nel Primo Mondo la spazzatura è riciclata, nel Terzo è bruciata, nel Secondo può essere raccolta, ma anche semplicemente scaricata nelle campagne. La corruzione è in buona parte invisibile nel Primo Mondo, dilagante nel Terzo, sottile nel Secondo. Da un punto di vista diplomatico, gli Stati del Primo Mondo sono sovrani nel loro potere decisionale, mentre le nazioni del Terzo meri oggetti passivi del neomercantilismo delle superpotenze. Le nazioni del Secondo Mondo sono quegli Stati che oscillano nervosamente nel mezzo. Un viaggio intorno al mondo è in grado di rivelare la logica sempre più evidente che sottende tutto questo. Le norme imperiali della superpotenza americana, di quella europea e di quella cinese avanzano ovunque. I confini politici sono sempre meno importanti, mentre le economie si integrano. La mappa del globo viene ridisegnata, in un processo che però gli americani non sono i soli a guidare. Eppure, anche se il mondo diventa sempre più non americano, l'atteggiamento americano nei confronti dei luoghi che improvvisamente occupano la prima pagina dei giornali riflette una profonda ignoranza cartografica e storica. Ma questo non è un libro scritto solo per gli americani: il compito di adattare gli Stati Uniti a un mondo di superpotenze multiple e a una globalizzazione informe ma sempre più radicata è troppo
importante per essere lasciato soltanto a Washington. Forse la guerra è il mezzo con cui Dio insegna agli americani la geografia, ma una nuova geografia del potere esiste, e ognuno, nel mondo, deve essere in grado di capirla meglio. Se non riusciremo a trovare un terreno comune nei nostri ragionamenti, allora nulla ci potrà salvare. New York, agosto 2007
Prefazione all'edizione paperback americana di Parag Khanna Il mondo sta diventando più grande e più piccolo al tempo stesso. Più abitanti, più paesi, più denaro, ma anche più velocità, e dunque distanze più corte e tempi di reazione sempre più brevi. È facile vedere come nessuno ne detenga realmente il controllo, e, per quanto mi riguarda, non credo ci sarà più alcuna potenza in grado di farlo. Con I tre imperi ho cercato di rendere visibili le dinamiche fluide del mondo contemporaneo con un racconto di prima mano ambientato su scala planetaria. ll nuovo nesso fra globalizzazione e geopolitica sta trasformando in snodi cruciali aree per lungo tempo lasciate ai margini, come l'America meridionale. In gioco sono le risorse, il potere, la stabilità, il conflitto. La rete sempre più vasta e fitta tesa dalla globalizzazione rende ancora più importante la comprensione del mondo come un organismo unico. Non c'è questione che non sia collegata a tutte le altre: nessun ecosistema a sé, nessuna ambizione petrolifera distinta, nessuna economia isolata, nessun problema di salute collettiva che non ci riguardi tutti. Il crollo demografico in Russia, il depauperamento della foresta amazzonica, i flussi di petrolio del Mar Caspio, i fondi sovrani arabi: sono tutti particolari del quadro geopolitico del XXI secolo e della sua costante evoluzione. E tutti hanno un impatto globale, sia geografico che ideologico. I trend diplomatici convalidano con sempre maggiore chiarezza l'emergere di un gioco alla pari fra Stati Uniti, Unione Europea e Cina. La neonata Unione Mediterranea segnala la volontà dell'Europa di espandere la propria influenza nell'area che si estende dal Marocco alla Siria, riversando denaro e forza lavoro in investimenti che creeranno occupazione, nuove condutture per il gas e il petrolio e programmi di salvaguardia ambientale. Allo stesso modo, la Cina sta accelerando il processo di riconciliazione con Taiwan, mentre continua a stringere il Tibet nel suo pugno di ferro e a consumare risorse con una progressione che sembra non conoscere limiti. E per quel che riguarda gli Stati Uniti, la loro presenza militare a livello globale continua a essere l'ago della bilancia del potere nel Medio e nell'Estremo Oriente, nonché un'incubatrice di innovazione per l'industria e le nuove tecnologie. Le tre superpotenze stanno convergendo nel dividersi un 20 per cento a testa dell'economia globale e una percentuale leggermente superiore del totale degli investimenti e del commercio con alcuni Stati chiave del Secondo Mondo e l'intero continente africano. Gli eventi di questi ultimi due anni non hanno fatto che evidenziare che il Secondo Mondo è where the action is, al centro dei giochi: Wall Street vola ad Abu Dhabi per cercare di tirarsi fuori dai guai provocati dai suoi mutui criminali, l'OPEC è tornata a essere il cartello che disegna con mano sicura il mercato dell'energia, la Turchia fa da mediatrice nei negoziati arabo-israeliani e il Kazakistan, nel 2010, presiederà l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Per dirla con maggiore chiarezza: il Secondo Mondo incide sull'ordine globale non meno di quanto non facciano le superpotenze. Tuttavia, la psicoanalisi delle ambizioni e delle insicurezze delle nazioni del Secondo Mondo rivela tutta l'instabilità e l'imprevedibilità dei mercati emergenti di oggi. L'aumento mondiale dei prezzi dei beni alimentari, le nazionalizzazioni e i referendum in Venezuela, l'imponderabilità della successione al potere in Egitto, lo stop-and-go delle ambizioni nucleari iraniane, le aspre lotte costituzionali in Ucraina, la politica malese della maldicenza: non soltanto milioni di vite, ma anche migliaia di miliardi di dollari di investimenti e contratti dipendono da tutto questo, e da tanto altro ancora. La cosa interessante che si è palesata in quest'ultimo anno è che l'ascesa del Secondo Mondo
potrebbe essere quanto di meglio possa accadere per il Terzo Mondo, che si vede offrire quelle opportunità che il Primo Mondo non gli ha dato nell'era postcoloniale. Il boom economico del Secondo Mondo ha bisogno delle risorse del Terzo, i suoi investimenti giganteggiano in Africa e in altre regioni cronicamente sottosviluppate, e un commercio fondato interamente su uno scambio tra paesi del Sud è in rapida crescita. Tutto questo ha contribuito a un'espansione economica mondiale senza precedenti. I tassi di crescita del Terzo Mondo sono ampiamente maggiori di quelli del Primo. Certo, per ogni esempio della Dubai Ports World che crea occupazione a Gibuti nella realizzazione di impianti commerciali moderni, o della Cina che costruisce infrastrutture nello Zambia, si trovano regimi, come in Ciad, in Angola e nella Guinea equatoriale, che sperperano la ricchezza nazionale in corruzione e futilità. Nel complesso, comunque, pare molto più probabile che l'Africa, anziché arrivare a sperimentare qualche tipo di rinascimento collettivo, diventi il teatro privilegiato del neomercantilismo di cinesi, europei e americani. Come ho già avuto modo di scrivere, un tempo si conquistavano le colonie, ora si comprano le nazioni. Molti hanno fatto notare che il Secondo Mondo potrebbe collettivamente sfidare con successo il Primo; il problema è che il Secondo Mondo, al di là della condivisione di un certo animus antimperialista, non ha mai rappresentato un sistema coeso. Ad abbondare sono piuttosto collaborazioni dettate dall'opportunità: la Libia ha affittato terreni in Ucraina per farvi crescere grano, l'Iran sta costruendo una raffineria di petrolio in Indonesia, mentre la Russia offre reattori nucleari a qualsiasi potenziale acquirente sul mercato. Quei tanti Stati del Secondo Mondo che coltivano la speranza di diventare poli d'influenza regionale sono seriamente impegnati a farsi spazio attraverso una sofisticata politica di multiallineamento che ha lo scopo di mettere le grandi potenze l'una contro l'altra. Russia, Arabia Saudita e Turchia sono esempi illuminanti di questa abile diplomazia, che ha consentito loro di consolidare il controllo sulle rispettive regioni senza cedere egemonia agli USA, alla UE o alla Cina. In contrasto con l'enorme complessità e con la rapidità di mutamento di questo scenario, la politica estera americana della fase calante dell'amministrazione Bush ha dimostrato di avere imparato ben poco. Il nuovo presidente degli Stati Uniti si troverà davanti tanti Stati del Secondo Mondo presi come sempre dalla furia della crescita e assai poco disposti a sprecare tempo nell'attesa di una rinascita della leadership americana, preferendo mettere assieme alleanze e investimenti fra loro e con europei e cinesi. L'influenza in un mondo multipolare è possibile solo se si è capaci di far seguire i fatti alle parole, arte che i modelli di capitalismo appoggiati dall'Europa e dalla Cina hanno da tempo dimostrato di avere. Sono questi mutamenti strutturali, e non l'appartenenza di partito del nuovo presidente americano, che decideranno lo scenario dove opererà la diplomazia del XXI secolo. Il flusso geopolitico potrà anche scorrere nella direzione giusta per gli Stati Uniti se questi riusciranno a mantenere una visione strategica ma anche agile, ferma ma flessibile. Personalmente ritengo che siano cinque i passi che l'America dovrebbe compiere per riguadagnare una grand strategy più solida, più coerente ed efficace. Il primo è retorico: parlare in termini di interessi e di valori globali anziché soltanto americani. Quello che vale la pena ottenere è prima di tutto universale, e solo in secondo luogo americano. E comunque, ciò che gli altri desiderano per se stessi è più importante di quello che Washington desidera per loro, in ogni caso. Non può essere sottolineato abbastanza quanto scarso sia il peso attuale delle esortazioni americane laddove non siano allineate alle priorità locali (anziché cercare di allinearle). I luoghi dove l'America è più direttamente impegnata – l'Iraq, il Pakistan, l'Afghanistan – sono il miglior esempio di questa verità fondamentale del nuovo ordine globale. Gli Stati Uniti dovrebbero poi drasticamente potenziare – "pentagonizzare", direi – l'attività diplomatica, aumentando i poteri dei vicesegretari di Stato e collocando ambasciatori presso i più importanti attori istituzionali regionali. I pacchetti di assistenza accordati una tantum con trattativa bilaterale dovrebbero rientrare in strategie regionali che aiutino gli Stati vicini a coordinarsi fra loro in materie che spaziano dalla riduzione della povertà all'antiterrorismo. L'Africa e la nascente AFRICOM costituiscono un primo passo in questa direzione, anche se la partenza non è stata delle più propizie. Una strada parallela verso il potenziamento della diplomazia è quella che passa per il "complesso diplomatico-industriale". Gli interessi degli Stati Uniti sono troppo importanti per lasciarli in mano al
governo, senza contare che per conseguirli occorreranno le risorse combinate di tutta la società americana. Wall Street ha bisogno di mercati emergenti stabili e aperti, e ha sempre più intenzione di provvedere da sé ai finanziamenti e ai know-how necessari a stimolare lo sviluppo secondo direttrici che il Congresso non può percorrere. Quello che il Congresso può fare, invece, è rimettere ordine nella situazione fiscale americana ed evitare qualsiasi riflesso protezionista allorché si tratta di avere a disposizione iniezioni di ricchezza di fondi sovrani stranieri per ricostruire le fatiscenti infrastrutture del paese e alimentare l'innovazione. Occorre tenere a mente che l'economia globale non si muove con lo stesso passo: il Golfo, la Russia e la Cina sono in pieno boom, e non hanno alcun bisogno di investimenti americani. Senza contare che l'investimento estero in buoni del Tesoro americani non è destinato a durare per sempre, nemmeno con un dollaro debole, perché il Secondo Mondo è in grado di offrire rendimenti molto maggiori. L'America deve riequilibrare il suo rapporto con la globalizzazione o rischia di divenire anche lei Secondo Mondo. Infine, gli USA dovrebbero perseguire la creazione di un G3 con l'Europa e la Cina, le altre due potenze il cui peso diplomatico è tale da stabilire regole e condizioni che valgono per tutti gli altri. Stati che procedono a ritmo sostenuto come la Russia, l'Arabia Saudita e l'India possono influenzare l'agenda, ma solo i big three possono efficacemente sanzionare chi non rispetta le regole del gioco. Un G3 sarebbe anche uno strumento con cui affrontare le sfide globali: stabilizzare il prezzo del petrolio, ridurre le emissioni di gas serra senza rallentare la crescita, combattere la povertà, intervenire in modo costruttivo negli Stati in difficoltà. Nessuno di questi obiettivi può essere raggiunto senza la collaborazione strategica fra le tre superpotenze mondiali. Solo una cooperazione bottom-up di questo tipo può mettere fiducia tra esse e, alla fine, sostituire la tensione con l'equilibrio. A rendere assai più complicato – ma anche molto più promettente – un tale nuovo ordine diplomatico è la centralità acquisita dalle istituzioni private e dalle grandi corporation multinazionali, dotate di risorse sempre più cospicue sulle quali si potrebbe fare leva per affrontare alcune delle aspirazioni collettive del mondo. Naturalmente la cosa richiede di organizzare, gestire e mettere in campo una forza di volontà senza limiti: e questo non è solo il compito dei grandi uomini di Stato, che di certo non abbondano, ma di tutti i più risoluti agenti del globalismo, le cui possibilità vanno ben oltre le attuali capacità di comprensione delle burocrazie. Che il mondo non abbia un leader non significa che non possa avere una visione. New York, agosto 2008
Introduzione Relazioni interimperiali Chi ha gestito la ricostruzione delle nazioni balcaniche lacerate dalla guerra, negli anni Novanta, mentre gli edifici continuavano a crollare per i bombardamenti subiti? Chi ha tirato fuori dai guai la moneta messicana che era franata al livello dell'insolvenza del debito? Chi ha fissato i confini e risollevato il commercio delle ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale che si erano lanciate nell'indipendenza? La risposta, in tutti e tre i casi, è una: un impero. Rispettivamente, l'Unione Europea, gli Stati Uniti, la Cina. Oggi non è di moda parlare di imperi. Gli imperi – così si ritiene comunemente – sono il ricordo di un'aggressività e di un mercantilismo definitivamente consegnati alla spazzatura della storia con il ritiro della Gran Bretagna, della Francia e del Portogallo dalle proprie colonie in Africa e in Asia, dopo la seconda guerra mondiale, e con il collasso dell'Unione Sovietica negli anni Novanta. Proprio allora furono in molti a predire che l'autodeterminazione etnica avrebbe trascinato il mondo in una nuova era di frammentazione politica, allorché il numero degli Stati, da meno di cinquanta alla fine della seconda guerra mondiale, si stava moltiplicando minacciando di raggiungere potenzialmente le centinaia nel XXI secolo, con ogni minoranza che si batteva per ottenere il proprio Stato, la propria moneta e il relativo
seggio alle Nazioni Unite. Eppure, per migliaia di anni gli imperi sono stati le più potenti entità politiche; il loro giogo imperiale impediva alle nazioni sottomesse di combattersi l'una con l'altra, soddisfacendo con ciò l'eterno desiderio di ordine dei popoli – ossia il prerequisito della stabilità e di una democrazia degna di questo nomeI-1. Roma, Istanbul, Venezia, Londra governavano migliaia di comunità politiche distinte fino all'avvento degli Stati-nazione, nel XVII secolo. Fino alla seconda guerra mondiale il potere globale era concentrato in non più di una mezza dozzina di imperi, per lo più europei. E se la decolonizzazione ha posto fine a questi imperi artificiali – piccole nazioni che dominavano colonie d'oltremare attraverso la forza –, non ha eliminato l'idea di impero in sé. Gli imperi, data la cadenza regolare di conflitti altamente distruttivi fra essi, non sono probabilmente la forma di dominio più desiderabile: eppure i limiti psicologici del genere umano sono ancora tali da avere impedito, finora, la nascita di qualcosa di meglio. Big is back: le grandi dimensioni sono tornate in scenaI-2. Sono le relazioni interimperiali – non quelle internazionali, e neppure quelle fra civiltà – a modellare il pianeta. Sono gli imperi a dare un significato alla geografia, non le civiltà. Anzi, gli imperi si estendono al di sopra delle civiltà, e quando diffondono le proprie regole e i propri costumi sono in grado di cambiare il modo di essere delle persone, senza tener conto della civiltà di appartenenzaI-3. In altre parole: poiché gli imperi tengono assai più al potere e all'espansione che non alla conservazione di una determinata cultura, essi risultano più forti delle civiltà. Il fatto di essere civiltà antichissime rende l'Europa e la Cina qualcosa di unico, ma è il loro status di potenze espansioniste a renderle eccezionali. Attualmente i centri di potere dominanti al mondo sono meno di quanti siano mai stati nel corso della maggior parte della storiaI-4. Dalla seconda guerra mondiale a oggi piccole entità feudali si sono fuse in quella che è la Cina moderna, e più di due dozzine di Stati-nazione si sono integrate in un'Unione Europea sovranazionale. Europa e Cina, insieme con gli Stati Uniti, costituiscono gli imperi "naturali" del mondo; ciascuno di essi è unificato geograficamente, e sufficientemente forte – sotto diversi aspetti: militare, economico, demografico – per espandersi. Come concisamente ci ricorda George Kennan, le diseguaglianze di potere fra gli Stati se ne sono tradizionalmente infischiate della sovranità: e più nazioni esistono al mondo, più è semplice per gli imperi applicare il vecchio principio del divide et imperaI-5. Vero è che tutti gli imperi sono sensibili a quello che Arnold Toynbee chiamava «il miraggio dell'immortalità». Gli americani sono generalmente convinti di essere a capo del primo impero globale del mondo, ma in realtà è stata la Gran Bretagna l'ultimo impero globale sul quale non tramontava mai il sole. Buona parte del mondo rientrava nei suoi domini e a essa rendeva conto I-6. In un mondo decolonizzato nel quale la conquista territoriale è un tabù, l'America è invece ben lungi dal possedere una tale capacità di dettare unilateralmente gli ordini in ogni angolo del pianeta; l'America ha ambasciatori, non viceré. Neppure la presenza militare globale degli Stati Uniti dovrebbe essere confusa con il dominio. Se si misura il potere in termini strettamente militari, allora il mondo è "unimultipolare", con l'America al vertice e un forte sistema di poteri regionali al di sotto di essa. Tuttavia la forza militare ha un significato minore oggi di quanto non avesse in passato, soprattutto per il fatto che sono largamente diffuse tecnologie che permettono di resistere e di difendersi con successo. Sono assai più efficaci, invece, i criteri di misurazione del potere che tengono in conto la produttività economica, la quota globale di mercato, l'innovazione tecnologica, la dotazione di risorse naturali, le dimensioni della popolazione nonché fattori assai meno tangibili quali la forza di volontà di una nazione e le abilità diplomatiche su cui può fare affidamento. Il mix di forza demografica, produzione industriale e ricchezza finanziaria fa della Cina una superpotenza con un potenziale senza precedenti. L'Unione Europea è economicamente più ricca sia della Cina che degli Stati Uniti, ha una popolazione che si colloca a metà fra loro, ha una significativa potenza militare ed è tecnologicamente all'avanguardia. Nelle Conseguenze economiche della pace John Maynard Keynes scrisse che «i grandi eventi della storia sono spesso dovuti a mutamenti secolari nella crescita della popolazione e ad altre cause economiche fondamentali che per il loro carattere graduale sfuggono all'attenzione degli osservatori coevi, e per questo sono attribuiti alle follie degli uomini di Stato o al fanatismo degli atei»I-7. Oggi, tuttavia, è possibile misurare con esattezza i processi e le interazioni di microlivello che si aggiungono ai grandi
cambiamenti geopolitici, nello stesso modo in cui gli scienziati misurano i sintomi e le cause del mutamento climatico. La mappa del superpotere mondiale è in fase di riequilibrio – senza che ne emerga, peraltro, un unico centroI-8. Sfidando il primato americano nella gerarchia globale, e garantendosi alleanze e lealtà intorno al mondo, la UE e la Cina hanno congegnato un concreto slittamento verso tre centri di influenza relativamente eguali: Washington, Bruxelles e Pechino. Al mercato della geopolitica Il potere ha orrore del vuotoI-9. Il collasso dell'Unione Sovietica ha fatto degli Stati Uniti quella che i francesi chiamano hyperpuissance – un'entità in grado di dispiegare ovunque la propria forza militare –, ma non ha assicurato loro un'egemonia globale. Piuttosto, il "momento unipolare" americano non è stato altro che un breve periodo di eccitata sospensione durante il quale Europa e Cina, protette dagli ombrelli di sicurezza regionale degli Stati Uniti, sono cresciute e si sono mosse gradualmente dal consolidamento interno alla proiezione esterna di potere. La loro crescita, allo stato attuale, non è meno inevitabile dell'evoluzione delle specie; ovunque abbiamo la sensazione di un pianeta che si sta simultaneamente americanizzando, europeizzando, sinizzando. Il potere è migrato dal monopolio al mercato. Tutte e tre le superpotenze fanno ora ricorso al proprio potere militare, economico e politico per costruire sfere d'influenza attorno al mondo, gareggiando per mediare conflitti, modellare mercati, diffondere abitudini I-10. Al mercato della geopolitica le nazioni consumatrici scelgono quale di queste tre superpotenze sarà la propria protettrice, e alcune ne scelgono più d'una. Quando una superpotenza cerca di isolare un nemico, un'altra può sempre mettersi di mezzo aprendo una linea di rifornimenti vitali e guadagnando un alleato. Mai, in passato, il mondo è stato testimone di un simile genere di competizione autenticamente globale; una situazione che potrebbe rivelarsi la più intricata della storia, dal momento che queste superpotenze non sono tutte occidentali (è il caso della Cina), e non sono nemmeno Stati nel senso convenzionale del termine (è il caso della UE). La strategia di sicurezza nazionale americana punta a formare «nazioni al bivio» promuovendo la stabilità in regioni a rischioI-11. In molte di queste regioni, tuttavia, l'America non è più vista come un fornitore di sicurezza, quanto di insicurezza: una dinamica che evidentemente spalanca le porte a Cina ed Europa per attirare quelle nazioni nella propria sfera d'influenza. «Le grandi potenze non si preoccupano dei propri affari», ha dichiarato il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, ma in realtà il declino della credibilità di Washington non significa che tale credibilità, in sé, non possa essere acquisita da altri. Nel mercato della geopolitica la legittimità è basata sull'efficacia, e deve essere dimostrata nel confronto con le altre superpotenze. Da questo punto di vista l'America ha parecchio da imparare dall'Europa e dalla Cina in fatto di legittimità. Alla conclusione della guerra fredda alcuni osservatori americani sostenevano che la diminuita presenza militare degli USA in Europa avrebbe portato a una recrudescenza delle rivalità interne nel Vecchio continente, come quelle tra Francia e GermaniaI-12. Al contrario, l'Unione Europea è diventata l'unico impero contemporaneo che continua a espandersi, anno dopo anno, annettendo nuove nazioni, con molte altre ordinatamente in fila a implorare di essere accolte. Più o meno in quello stesso periodo il Pentagono mise nero su bianco la propria strategia tesa a contenere l'ascesa di ogni altra potenza rivale, come la Cina. La quale, al contrario, sta metodicamente rispettando il proprio ruolino di marcia per diventare la potenza mondiale dominante, nel segno della restaurazione del proprio status di «Regno di mezzo». Come l'Unione Europea, la Cina sta trasformando gli Stati confinanti in province semisovrane, soggiogandole non militarmente, bensì attraverso l'espansione demografica e l'integrazione economica. Una volta questo si chiamava imperialismo: il termine in voga oggi è globalizzazione. Stati Uniti, UE e Cina rappresentano tre differenti stili diplomatici – la coalizione per gli americani, il consenso per gli europei e la consultazione per i cinesi – in concorrenza fra loro per il ruolo guida nel XXI secolo. Durante la guerra fredda la linea anticomunista americana, la dottrina Truman, aveva dato vita a robuste alleanze hub-and-spoke, gravitanti su un solo centro, come aveva fatto la Prussia nel XIX
secoloI-13. Al contrario, l'attuale stile «coalizione dei volenterosi» che Washington ha adottato per condurre la politica estera negozia gli schieramenti diplomatici su una base transazionale, questione per questione. L'America continua a dimostrare il proprio desiderio di leadership, dettando l'agenda del Consiglio di sicurezza dell'ONU e della NATO – che conduce operazioni ben al di là del suo originario mandato europeo, ad esempio nel Golfo Persico e in Asia Centrale –, e appianando numerose dispute in tutto il mondo. Ma con l'individualismo come credo nazionale, la dilagante enfasi americana sul selfinterest si traduce in una scarsa capacità diplomatica di creare fiducia. Il focus sul breve termine determina confusione tra agende in continuo mutamento – la lotta al terrorismo, la democratizzazione, la liberalizzazione economica –, mentre il perenne ricorso alla minaccia militare finisce per allontanare da Washington persino gli alleati. L'America di oggi incarna alla perfezione quella che nella battuta di De Gaulle era la Francia, che non aveva «amici, soltanto interessi». L'Unione Europea è un'istituzione rivoluzionaria che detiene il potenziale per rovesciare la storica rotazione verso ovest della centralità geopoliticaI-14. Come forma più altamente evoluta di governance fra Stati, la UE aggrega i paesi in un modo che assomiglia più a una fusione societaria che non a una conquista politica, con guadagni netti, commerciali e territoriali, che spaziano dall'Africa settentrionale al CaucasoI-15. Le leggi dell'Unione rimpiazzano la maggior parte delle leggi nazionali, e il grosso del commercio europeo è interno a essa. I suoi membri restano Stati-nazione sovrani mentre collaborano in misura crescente al progetto di una comune visione in politica estera. A parte l'ambito militare, il potenziale di forza dell'Europa è maggiore di quello americano: è il più ampio mercato del pianeta e, di fatto, è il soggetto che detta gli standard per la tecnologia e i regolamenti. La politica estera europea rispecchia tutte le virtù, e i vizi, di una diplomazia orientata al consenso: è animata dallo stesso spirito d'inclusione delle politiche di welfare del continente, anche se il processo di negoziato e implementazione di strategie tra oltre due dozzine di Stati membri comporta un immenso sperpero di tempo. Vero è che le politiche della UE, una volta che sono definitivamente decise, sono in grado di esercitare una risoluta forza d'attrazione nei confronti di un numero crescente di paesi. La Cina è già diventata un centro di gravità globale, e rappresenta un terzo modello di diplomazia imperiale. Plasmato sull'antico uso confuciano, il modello d'azione cinese, di tipo consultivo, pone l'accento sulle aree di maggiore consenso lasciando a occasioni più propizie le questioni sulle quali non esiste accordo; e ciò, percepito dagli interlocutori come un autosacrificio, suscita ammirazione e fiducia. La maggior parte della popolazione mondiale abita in paesi asiatici che hanno subito sulla propria pelle le vicende del difficile passato della Cina, ma che sono anche più pronti a sfruttare il suo potenziale futuro. Sono paesi che non si sono soltanto rassegnati all'inevitabile ascesa cinese, ma sono anche arrivati a dare il benvenuto ai vantaggi che essa recherà nella forma di beni a basso prezzo, mercati più integrati e orgoglio regionale. Mezzo secolo fa Pechino spendeva fino al 5 per cento del proprio bilancio nel sostegno a movimenti di guerriglia marxisti e maoisti; si diceva che l'unico amico della nazione fosse l'Albania. Ora la Cina si sforza di tessere alleanze ad ampio spettro con tutti i partner disponibili: è un grande competitor nella caccia alle risorse energetiche nel Golfo Persico, nell'Asia centrale e in America meridionale; è impegnata in un braccio di ferro con l'Occidente per ingraziarsi potenze di medio livello quali Russia e India; appoggia praticamente tutti i regimi che gli Stati Uniti cercano di abbattere: Cuba, il Venezuela, il Sudan, lo Zimbabwe, l'Iran, l'Uzbekistan, la Birmania e la Corea del Nord. Sono in molti a credere che l'ordine mondiale che sta emergendo sarà multicentrico, con la Cina destinata a rimanere essenzialmente una potenza regionale, il Giappone ad affermarsi in senso nazionalista, la UE a restare priva di influenza oltre i propri immediati confini, l'India ad arrivare alla pari con la Cina, la Russia a risorgere e un califfato islamico a solidificarsi come forza geopolitica I-16. Tutte queste prospettive non fanno i conti con una realtà assai più concreta: Stati Uniti, Unione Europea e Cina sono già in possesso della fetta maggiore di potere nel mondo e faranno del loro meglio per impedire a tutti gli altri di guadagnare terreno. La Russia, il Giappone e l'India non sono in grado di affermarsi su scala globale, né militarmente né in alcun altro modo; non sono superpotenze, piuttosto sono elementi di bilanciamento, il cui sostegno (o la cui mancanza di sostegno) può accelerare o ritardare la supremazia delle tre superpotenze senza tuttavia poterla in alcun modo impedireI-17. In realtà, sono gradualmente sopravanzati dagli Stati Uniti, dalla UE e dalla Cina nelle loro stesse aree di
competenza. L'islam è sulla stessa barca: privo di una coerenza diplomatica propria, si estende per vastissime regioni le quali, tuttavia, mostrano di inclinare verso il centro di gravità delle grandi potenze anziché confluire in un insieme dotato di senso. In sintesi, le superpotenze sulla scena globale sono esattamente tre, e sono imperi che si contenderanno il diritto all'ultima parola – sempre che l'altro grande mezzo per disegnare l'ordine mondiale, la guerra, non decida altrimenti. Che cos'è la geopolitica? «Povero genere di memoria quello che funziona solo all'indietro», scrisse Lewis Carroll. A differenza della storia, la geopolitica è una disciplina che si volge all'indietro con l'obiettivo esplicito di guardare in avanti. Se le relazioni internazionali sono la meteorologia degli eventi in corso, la geopolitica è la climatologia, la scienza dell'evoluzione di lungo periodo del mondo. La geopolitica non può essere mutata cliccando sul pulsante «Aggiorna» di un browser internet. All'alba del XX secolo un grande esperto di geografia politica, il tedesco Friedrich Ratzel, sostenne che gli imperi hanno la necessità di espandersi al fine di sopravvivere. Come elastici, gli imperi si allungano con il movimento delle persone, alterando la situazione sul terreno e fondando istituzioni che estendono la lealtà attraverso il territorio quanto più è possibile senza che l'elastico si spezzi. Fu un allievo di Ratzel, Rudolf Kjellen, a coniare il termine "geopolitica"(Geopolitik), di cui poi si appropriò il geografo nazista Karl Haushofer per esporre la propria teoria di estese panregioni che richiedevano un Lebensraum razzialmente omogeneo. Questa deviazione di Haushofer dalla pura geografia avrebbe costituito per decenni una macchia sulla disciplina geopolitica I-18. Come i suoi colleghi continentali, il celebre geografo inglese Sir Halford Mackinder mise in rilievo il ciclo vitale dell'«organismo-mondo»; ma, impegnato com'era sul problema di come difendere la Gran Bretagna dalle potenze continentali, concentrò l'attenzione sull'«isola-mondo», l'Eurasia, il cui nucleo territoriale (Heartland) costituiva «la più grande fortezza naturale della Terra», in quanto era inaccessibile dal mare – e dunque inattaccabile dalla forza marittima inglese – e permetteva a una potenza continentale di dominare il mondoI-19. Il suo rivale, lo stratega navale americano Alfred Thayer Mahan, sosteneva invece che era in realtà il potere oceanico la chiave del dominio globale, poiché «l'impero dei mari, senza dubbio, è l'impero del mondo». Da allora, la geopolitica si è evoluta in una famiglia di formule del potere olistico applicate ai più diversi contesti mondiali e a orizzonti di lungo periodo, quelli che Fernand Braudel battezzò longue duréeI-20. Ma rimane, in fondo, la questione di sfide e di risposte che Toynbee aveva raccontato. Geopolitica vs. globalizzazione? Negli anni Novanta ebbe luogo un celebre dibattito tra le visioni contrastanti di Francis Fukuyama (La fine della storia) e Samuel Huntington (Lo scontro delle civiltà), spesso caricaturalmente presentati come un utopista il primo e come un catastrofista il secondo. Il grande precedente di questa dicotomia era stata la tensione fra le concezioni storiche di Oswald Spengler e Arnold Toynbee. Spengler apriva il suo Tramonto dell'Occidente (1918) con un'affermazione audace: «Questo libro cercherà, per la prima volta, di predire la storia». La sua tesi era che la scomparsa dell'Occidente classicamente inteso fosse inevitabile come la storia stessa; i simboli della cultura alta sarebbero degenerati naturalmente in decadenza materiale, in base a un processo analogo a quello dell'invecchiamento umano o del ciclo delle stagioni. Le conclusioni di Spengler apparivano così convincenti che, prima di mettere mano alla sua Storia comparata delle civiltà, Toynbee si chiese se «l'intera faccenda non fosse già stata liquidata da Spengler prima che le domande stesse, per non dire le risposte, avessero preso pienamente forma nella mia mente»I-21. La tragica novella spengleriana si rivelò invece la scintilla che provocò le esplorazioni di Toynbee, che cercò di sostituire l'allarmismo con la lungimiranza e il determinismo con la possibilità di agire. Il modello "difficoltà-reazione" di Toynbee (applicato alle crisi naturali e a quelle geopolitiche) preparò il terreno alla possibilità per l'Occidente di scegliere fra un adattamento compromissorio e un fondamentalismo inflessibile. A oltre cinquant'anni di distanza l'alternativa rimane la stessa. Il paesaggio geopolitico si dischiude perpetuamente attraverso la Terra e il mare – oggi, anche
attraverso lo spazio e il cyberspazio. A conti fatti, quello che emerge nella storia è un pattern di guerre globali sempre più distruttive che ricorrono approssimativamente ogni cento anni a riconfigurare la gerarchia del potere, delle quali le guerre napoleoniche (1803-1814) e la prima e la seconda guerra mondiale (1914-1845) sono state le apoteosi più recenti. Quasi un secolo fa la prima guerra mondiale fu provocata da false deduzioni e da equivoci fra potenze europee che avevano parecchio in comune – storia, cultura, spazio geografico, legami economici e (per la maggior parte) una tradizione politica liberale. Oggi, Stati Uniti, UE e Cina condividono assai poco di questo. Non hanno una cultura comune, non dividono il medesimo spazio geografico, non contano tutte e tre su un ordinamento democratico. E allora cosa potrebbe impedire – se mai qualcosa può farlo – una terza guerra mondiale in un pianeta di superpotenze che fanno conto su visioni globali, motivazioni e forme di potere così drasticamente differenti? Se il XX secolo, per dirla con Isaiah Berlin, è stato «il secolo più terribile della storia occidentale» che cosa mai potrà rendere diverso il XXI? Oggi esiste una sola forza in grado di far inceppare il meccanismo ciclico del conflitto mondiale: la globalizzazioneI-22. Come la geopolitica, la globalizzazione è diventata il sistema mondiale stesso. Nessuna potenza può controllarla; per fermarla, occorre che tutto si fermiI-23. Eppure, geopolitica e globalizzazione sono ritenuti concetti e modalità di potere diametralmente oppostiI-24. Giorno e notte, cargo e petroliere solcano gli oceani, aerei portano verso nuove destinazioni migliaia di passeggeri, e i mercati finanziari distribuiscono capitale – tutto questo mentre impazzano le guerre civili, sono pianificati ed eseguiti attacchi terroristici e si schierano sistemi di armamento nucleare. Molti studiosi sovrastimano le virtù della globalizzazione o i vizi della geopolitica, ma l'esistenza stessa della globalizzazione come paradigma opposto a quest'ultima è il segno che un'evoluzione è intervenuta nel corso dei secoli. Il problema non è se la globalizzazione continuerà: il problema è fin dove si estenderà. La globalizzazione ha conosciuto flussi e riflussi nel corso della storia, ma oggi è più ampia e profonda di quanto sia mai stataI-25. Il cosiddetto movimento antiglobalizzazione degli anni Novanta – in cui si combinavano protezionismo sindacale, attivismo ecologista e indigenismo – è tutt'altro che fallito; il suo posto, piuttosto, è stato preso da un serio dialogo globale sul modo in cui raggiungere una globalizzazione "dal volto umano". La globalizzazione, oggi, è parte delle strategie di sopravvivenza e di progresso di ogni società. Mentre i contestatori sciamavano verso i summit dell'Organizzazione Mondiale del Commercio per mettere fine alle regole del gioco in vigore, i piccoli produttori di zucchero e cotone che essi affermavano di rappresentare erano costretti a vendere ai prezzi di sempre perché era l'unica cosa che potessero fare per sopravvivereI-26. Nemmeno gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 riuscirono a porre un freno alla caduta del prezzo dei trasporti, alla liberalizzazione del commercio e all'esplosione delle tecnologie di comunicazione, i fattori che guidano la globalizzazione. La globalizzazione ha anche dato vita a un mondo demograficamente miscelato, il che significa che il "nemico" è tanto dentro quanto fuori dai confini. Tutti e tre gli imperi di oggi si stanno incrociando sempre più saldamente con la popolazione delle rispettive periferie: l'America Latina per gli Stati Uniti, il mondo arabo per l'Europa, il Sudest asiatico per la Cina. L'espressione «We are the world» non ha mai avuto tanto senso come oggi. Gli interessi economici che spingono verso l'interdipendenza possono anche prevenire il surriscaldamento delle tensioni geopolitiche, tramutandole una volta per tutte in concorrenza non violenta. L'economia globale, in realtà, non potrà andare lontano, e neppure veloce, basandosi su un solo motore, e le economie delle tre superpotenze sono così strettamente intrecciate che i costi di un eventuale conflitto sono considerevolmente cresciutiI-27. Questi imperi commerciali ospitano le corporation globali che governano le grandi catene di rifornimento tutt'attorno al mondo, spesso dislocate nel territorio di un altro impero, il che significa che la sicurezza di ciascuno nella propria prosperità dipende dalla forza – e non dalla debolezza – degli altri I-28. Il quaranta per cento degli scambi americani si svolge con l'Estremo Oriente, la maggior parte del resto con l'Europa. L'America fa affidamento sui prodotti cinesi a basso prezzo e sulla fame cinese di buoni del tesoro USA; la Cina ha fiducia sull'investimento europeo e americano, e attualmente esporta in Europa più di quanto facciano gli Stati Uniti; l'Europa e l'America tagliano i costi e aumentano i profitti delocalizzando la produzione in Cina. Queste potenze assomigliano sempre più a un terzetto indissolubile, e recidere qualche arteria
importante farebbe male a tuttiI-29. Solo questo tipo di integrazione globalizzata ha la possibilità di prevenire il riacutizzarsi di rivalità geopolitiche fra superpotenze così ambiziose, in un pianeta così piccolo. Naturalmente la globalizzazione da sola non basta a impedire che la storia geopolitica si possa ripetere. Essa ha conosciuto successi e sconfitte sopra le spalle dei grandi imperi che hanno esteso il più possibile i propri sistemi e le proprie regole prima di arrestarsi entro confini certi I-30. La Grecia antica si espanse grazie al commercio, che portava ad Atene risorse che la città non possedeva, permettendole di finanziare un esercito di grandi dimensioni e di corrompere principi stranieri per proteggere i propri interessi all'interno dello spazio commerciale esclusivo della Lega di DeloI-31. Le successive ondate di globalizzazione ebbero un carattere puramente mercantilistico, con le potenze europee a stringere il controllo sulle risorse mondiali – naturali e umane – al servizio dei rispettivi imperi. Nel 1950 Toynbee scrisse che «una nuova, onnipresente civiltà occidentale ha preso fra le mani il destino di tutta l'umanità»I-32. E se anche il mondo divenne poi piatto – totalmente integrato, nell'espressione di Thomas Friedman –, non si sarebbero mai dissolti questa gerarchia economica e sociale e il senso di ingiustizia che provoca il conflitto, poiché tanto la geopolitica quanto la globalizzazione sono governate, in fondo, dalle due medesime forze: paura e avidità. E se l'interdipendenza di oggi disegna una ragnatela, i ragni sono più d'uno. Il ruolo-guida degli imperi nello sviluppo della globalizzazione risulta così una lama a doppio taglio. Se gli imperi possono essere forze di pace e prosperità, tuttavia è assai raro che siano in grado di rinunciare all'opportunità di un'intrusione strategica nei domini dei concorrenti, e la globalizzazione rende questo più semplice oggi di quanto non sia mai stato. E proprio perché il mondo si sta restringendo che la coesistenza di più superpotenze preannuncia un'età di competizione più intensa di qualsiasi altra vista in passatoI-33. Un tempo si conquistavano le colonie; oggi si comprano le nazioni. Un tempo la globalizzazione era sinonimo di americanizzazione; oggi, è proprio la globalizzazione ad accelerare drasticamente la fine della pax americana. Pensare come il Secondo Mondo «Le nazioni possiedono caratteri non meno distintivi di quelli degli esseri umani», scriveva ToynbeeI-34. Le tre superpotenze si tengono reciprocamente sott'occhio senza posa (così come il resto del mondo fa con loro). Ciascuno sa ciò che ciascun altro può fare – ma non quello che farà. Il sistema degli Stati oggi è qualcosa di simile a un autoscontro, dove la psicologia di ciascun autista costituisce un fattore critico per capire in quale direzione e con quale velocità ogni macchina è condotta. Non fu la fredda razionalità a spingere il presidente del Pakistan, Zulfikar Ali Bhutto, a dichiarare che «se l'India sviluppa armi nucleari, il Pakistan potrà mangiare l'erba o le foglie, o anche soffrire la fame» sinché non avrebbe fatto lo stesso. La fiducia, il rispetto, l'avidità, la vendetta e le altre emozioni umane hanno un corrispondente nella politica mondiale, dove le nazioni debbono equilibrare passioni e necessità, mezzi e finiI-35. Tali fattori irriducibili sono raramente in equilibrio, il che significa che la maggior parte degli Stati denuncia un carattere schizofrenico. Come notò concisamente Alexander Wendt, «anche gli Stati sono persone»I-36. Psicologia umana e psicologia statale presentano paralleli innumerevoli. Una corsa agli armamenti è come una competizione fra gang rivali per accaparrarsi le armi più grosse; la memoria storica di una nazione, che forma l'identità nazionale, si trasmette di generazione in generazione come le storie di famiglia e gli album di fotografie. Soprattutto, le persone e le nazioni obbediscono ugualmente a quella che Abraham Maslow definiva la «gerarchia dei bisogni», mettendo al primo posto i bisogni materiali (le necessità fisiologiche della fame e della sete), poi quelli di sicurezza (protezione e stabilità) e infine quelli immateriali (senso di appartenenza, amore, rispetto, gratificazione) I-37. I sistemi democratici appartengono a quest'ultima categoria, poiché il soddisfacimento dei bisogni fondamentali di sopravvivenza e ricchezza è quello che fornisce alle persone i mezzi per partecipare attivamente alla politica democraticaI-38. La democrazia pura è come l'alta moda: possiamo ammirarla, ma di certo non è pratica per un uso quotidiano.
L'ideologia più potente al mondo non è infatti la democrazia, non è il capitalismo e nessun altro "ismo", bensì il successo. Tutte le società perseguono l'obiettivo che Adam Smith identificò nella sua Teoria dei sentimenti morali del 1759: «Migliorare la nostra condizione». Prive di una conoscenza assoluta del futuro, le persone ragionano in modo relativo, chiedendosi quale sia la cosa, o la condizione migliore più facilmente raggiungibile. Fra gli iracheni che andarono a votare, nel 2005, molti dissero che volevano semplicemente un paese normale, mentre cosa possa essere considerato un successo, ora, attende ancora di essere deciso. Le tre superpotenze si chiedono sempre più insistentemente cosa cerchino le altre nazioni e quale sia la loro visione del successo, perché sul mercato della geopolitica queste nazioni più piccole hanno a disposizione mezzi diversi per ottenere ciò che vogliono. Come gli individui, le nazioni hanno una testa, un cuore e uno stomaco, e la via che arriva ai primi due passa frequentemente per il terzo. Esse si affiancano alla potenza che dà loro quello di cui hanno bisogno attraverso la "diplomazia dei fatti". E la superpotenza che sa farlo meglio è destinata a vincere sulle altre. Se le relazioni umane consistono in «guadagnare amici e influenzare le persone», la geopolitica consiste nel guadagnare alleati e influenzare le nazioni. Disposti attorno ai tre maggiori imperi mondiali, e sovente schiacciati fra loro, gli Stati del Secondo Mondo sono l'arena principale sulla quale confrontare le strategie delle superpotenze volte ad allargare la propria base globale di potere e a insidiare i concorrenti. Sono l'ago della bilancia di questo mondo multipolare, poiché le loro decisioni sono in grado di alterare l'equilibrio globale del potereI-39. Alcuni fra essi puntano a un sofisticato multiallineamento che permetterebbe loro di ottenere benefici da più superpotenze; altri sono troppo deboli per riuscire a costituire un oggetto di contesa fra le superpotenze, e dunque si limitano a cadere nella sfera d'influenza di una di esse. In particolare, gli Stati petroliferi del Secondo Mondo quali il Venezuela, la Libia, l'Arabia Saudita e il Kazakistan sono diventati veri e propri punti d'osservazione di simili strategie di copertura. In larga misura il futuro del Secondo Mondo dipende da come esso si relazionerà alle superpotenze, e il futuro di queste ultime dipende da come esse gestiranno il Secondo Mondo. Il Secondo Mondo è un'area di enorme potenziale, al tempo stesso reale e non compreso. Ogni nazione del Secondo Mondo è, nel vero senso della parola, in transizione: alcune magari passano dal Terzo Mondo al Secondo, altre vi cadono dal Primo a causa di un declino, e così via. Fondamentalmente, il Primo Mondo non va oltre i trenta membri dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) – benché ne facciano parte anche Turchia e Messico che chiaramente non sono paesi del Primo Mondo. Il Terzo Mondo, all'opposto, include senza dubbio almeno i quarantotto paesi indicati dalla Banca Mondiale come nazioni meno sviluppate (Least Developed Countries, LDC) – a volte designati anche come «Quarto mondo», o «Sud globale» –, che presentano i tassi più bassi di sviluppo socioeconomico e di potere statale e si trovano per lo più in America Latina, in Africa, nell'Asia meridionale e insulareI-40. Almeno un centinaio di nazioni – e la maggior parte della popolazione mondiale – si trova a metà strada fra queste due categorie, senza una prospettiva certa per il futuro. Le nazioni del Secondo Mondo, di frequente, appartengono al Primo e al Terzo Mondo allo stesso tempo. Sono società in cui esiste una minima percentuale della popolazione che vive secondo standard pienamente contemporanei – globalmente correlati a professioni affidabili ad alta retribuzione –, a fianco di una ristretta classe media e della sconfinata massa dei poveri. Le nazioni del Secondo Mondo rientrerebbero nella classe media mondiale se solo questa esistesse. Come quelle del Primo Mondo, hanno economie pubbliche in crescita e investimento interno, ma come quelle del Terzo hanno larghe aree di mercato nero e villaggi PotëmkinI-41. Il Brasile è un gigante del Secondo Mondo che attrae finanziamenti dal mercato globale, mentre milioni dei suoi cittadini non hanno la minima idea di cosa sia il mercato globale. I paesi del Secondo Mondo sono spesso medioevali quanto a distribuzione geografica della ricchezza, con la capitale capace di produrre la maggior parte del reddito nazionale – e naturalmente trattenerlo. Dal momento che essi conoscono una crescente povertà man mano che ci si allontana a cerchi concentrici dalla capitale, non bisogna stupirsi del fatto che dal Messico alla Turchia e all'Iran (e persino nel Primo Mondo, in Francia), l'unica carica superiore a quella di sindaco sia quella di capo del governo – il che spiega perché questi paesi recentemente abbiano avuto, o siano stati vicini ad
avere degli ex sindaci quali premier. Il Secondo Mondo non si sta restringendo, anzi si sta allargando, e attualmente abbraccia tutti i cosiddetti "mercati emergenti". Ma cosa accadrebbe se questi, chiusi fra il proprio potenziale e le proprie debolezze, non riuscissero mai a emergere davvero? Cile e Malesia stanno approfittando del loro recente sviluppo per divenire paesi del Primo Mondo; al contrario, Egitto e Indonesia sono probabilmente troppo grandi ed economicamente stagnanti per uscire dal Terzo. Le nazioni del Secondo Mondo sono navi che solcano i mari turbolenti della modernità, e le loro bussole politiche, economiche e sociali puntano spesso in direzioni diverse allo stesso tempoI-42. L'alternativa tra un futuro da Primo o da Terzo Mondo dipende spesso dalla presenza di un leader carismatico in grado di aggregare il consenso, oppure di una risorsa costosa ed esportabile, o ancora di un nemico imprevedibile e aggressivo, o di una superpotenza che si erge a magnanimo patrono del paese. Quasi tutti i paesi del Primo Mondo sono democrazie liberali: non perché la democrazia li abbia portati dove sono, ma perché, all'opposto, il fatto di essere entrati nel Primo Mondo ha dato loro i mezzi per potersi permettere la democrazia. Dal momento che diverse nazioni del Secondo Mondo rientrano nell'area della prevista transizione verso la democrazia, con un reddito pro capite che spazia fra i tremila e i seimila dollari annui, esse risultano un fondamentale campione d'osservazione per stabilire se la democratizzazione è realmente un istinto sociale naturale o è radicata soltanto nello specifico della cultura occidentaleI-43. Al contrario di quanto si potrebbe supporre, è nelle società il cui adattamento politico, culturale ed economico è più lento – Libia, Siria, Uzbekistan – che il mutamento rivoluzionario è la norma, costringendo molti Stati del Secondo Mondo a restare perennemente sul filo del rasoio. Alcuni studiosi indicano una tripartizione del mondo fra zone globalizzate (il Primo Mondo), semiglobalizzate (il Secondo Mondo) e non globalizzate (il Terzo Mondo), sulla base della presunzione per cui la globalizzazione è esclusivamente positiva e la quantità di ricchezza è direttamente correlata alla qualità della vita. Ma i paesi del Secondo Mondo sono la prova che la storia assomiglia meno a un continuum privo di interruzioni che non a un'imprevedibile lotta che mette l'un contro l'altro progresso materiale e penuria di risorse, globalizzazione cosmopolita e tradizionalismo tribale, unione politica e istinti alla scissione, autarchia e benefici dello scambioI-44. L'essere pro o contro la globalizzazione dipende spesso da chi in un dato momento è al potere. Il regime iraniano ha cercato di impedire che la globalizzazione potesse rafforzare l'opposizione interna, mentre i paesi baltici, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania l'hanno usata per riaffermare vecchie identità presovietiche o crearsene di nuove; la globalizzazione ha tenuto a galla società del Secondo Mondo come quella messicana e quella libanese grazie alle rimesse in contanti della loro diaspora mondiale. Tra tutti i fattori che le nazioni del Secondo Mondo devono gestire, tuttavia, il più importante è la geografia. Uno Stato può scegliere i propri amici, ma non i propri vicini. Finché la tecnologia non raggiunge i livelli di Matrix resta valida la massima di Nicholas Spykman: «La geografia è l'elemento più importante in politica estera perché è il più permanente»I-45. In tutto il Secondo Mondo stanno venendo meno i confini interni delle grandi configurazioni regionali, dando vita a quella che Toynbee chiamava «psiche subcosciente collettiva»I-46. Ma, nel momento in cui queste nazioni si integrano dalla base in aree geopolitiche di vicinato, le placche tettoniche dell'influenza delle superpotenze arrivano a separarle. Dall'Europa orientale all'Asia centrale, dall'America meridionale fino all'Asia sudorientale attraverso il mondo arabo, la gara per conquistare il Secondo Mondo è iniziata.
I tre imperi Parte I L'oriente dell'occidente
1. Bruxelles: la nuova Roma Kiev, Tbilisi e Baku non assomigliano certo alle grandi capitali europee come Londra, Parigi e Roma, né si sentono al loro livello. Ricoperte dagli ingombranti detriti architettonici e mentali dell'Unione Sovietica, sono città – come gli Stati di cui sono le capitali – afflitte dall'impellente bisogno di un restauro. Il problema è che questo richiede stabilità politica e investimenti economici, e più di ogni altra cosa la presenza di un effettivo contrappeso alla Russia, che continua a manipolare confini, gasdotti e mercati per ricollocare questi paesi entro la propria orbita. Un diplomatico estone a Tallinn è stato capace di cogliere bruscamente un problema che è al tempo stesso emozionale e strategico: «È semplicissimo: odiamo la Russia». Naturalmente non ci sono nuovi rischi per l'Europa orientale, dove la cristianità occidentale, l'ortodossia slava e l'islam ottomano si sono scontrati per più di mille anni. Un secolo fa, strateghi come Halford Mackinder e Rudolf Kjellen rifletterono su come arginare la potenza russa. Per Mackinder la soluzione stava in un'alleanza atlantica, per Kjellen nella costituzione di una solida lega centroeuropea. Ma quello che sta succedendo oggi supera, e di parecchio, quanto l'immaginazione di entrambi potesse produrre. Anziché a un'Europa orientale che torna sulla scena come zona di attrito post-guerra fredda tra Germania e Russia, assistiamo a un'Unione Europea che assorbe tedeschi e slavi e li integra pienamente all'interno del nuovo impero europeo1-1. Il viaggio immaginario dell'espansione imperiale europea ha inizio su una carta geografica, allorché tracciamo con il dito un percorso a L che prende il via dalle fredde acque del Baltico, scende attraverso le nazioni del gruppo di Visegrád al centro del continente (Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e Ungheria), passa per l'Ucraina, la Romania, la ex Iugoslavia e i Balcani meridionali, poi procede verso est attraverso la Bulgaria, la Turchia e il Caucaso, fino ad approdare alle spiagge petrolifere del Mar Caspio. Questa zona contesa – in origine era questo il Secondo Mondo –, era un
tempo colorata di rosso, Turchia esclusa, a rappresentare l'appartenenza al Patto di Varsavia. Oggi l'Unione Europea la sta invece colorando di blu, il che indica che la regione è pronta a far parte del Primo Mondo. Eppure, come ha scritto profeticamente il filosofo anglo-tedesco Ralf Dahrendorf, «il Primo e il Secondo Mondo si stanno riunendo in qualche cosa che non ha ancora un nome, né un numero»1-2. Oggi, il viaggio in questo nuovo Est europeo è estremamente accidentato, zeppo di ritardi imprevedibili, di fiducia cieca e di tutte le ansie che può provare chi si è liberato dal totalitarismo meno di una generazione fa. In questa regione che, negli anni Novanta, era afflitta dalla crisi d'identità del postcomunismo, la UE ha già vinto le battaglie più semplici. Dal periodo del collasso dell'Unione Sovietica la media di assorbimento di questi paesi da parte dell'Unione è stata di uno all'anno, e adesso i loro cittadini viaggiano più facilmente verso ovest, all'interno dell'Europa, che verso il loro precedente signore, la Russia, a est. In un giorno solo, il primo maggio del 2004, più di cento milioni di abitanti di dieci nazioni diverse sono ufficialmente diventati europei1-3. Argutamente, Milan Kundera ha definito queste nazioni «le terre rapite all'Occidente»; ma l'Occidente al quale sono state restituite non è quell'Europa fragile e depressa che era uscita dal Trattato di Versailles. «I nostri passaporti possono dire un sacco di cose sulla nuova mentalità europea», mi ha detto, in treno, un viaggiatore ceco mentre sventolava orgoglioso il suo nuovo libriccino bordeaux in un vagone pieno di giovani dell'Europa occidentale. «Prima del 1914 nessuno aveva realmente bisogno di un passaporto, ora siamo andati molto più avanti, abbiamo un passaporto comune della UE che al tempo stesso rispetta anche le nostre lingue nazionali». Nel XVIII e nel XIX secolo le élite europee cambiarono diverse volte la propria lingua franca, ma adesso, promuovendo allo status di lingua ufficiale quella di ciascun nuovo Stato membro, la UE ha messo nel cassetto una delle cause di sciovinismo più frequenti della storia, aprendo la via a un impero poliglotta ed eterogeneo. È un mutamento radicale rispetto all'inglorioso passato europeo di buona parte del Novecento. Per più di mezzo secolo le nazioni europee hanno esercitato in comune il potere, riuscendo infine a dare una nuova prospettiva di vita alle piccole e frammentate entità del secondo dopoguerra. Benché gli Stati membri della UE restino nazioni distinte, il più grande significato geopolitico viene loro dall'essere parte dell'unico superstato presente al mondo1-4. Una guerra fra due nazioni all'interno del denso intreccio istituzionale della UE è diventata impossibile, e la promessa di sicurezza e benessere crescenti è ampiamente riuscita ad allineare la politica estera degli Stati membri1-5. «Il nostro maggiore esercizio logistico dalla seconda guerra mondiale non è consistito in un'operazione militare», si vanta un funzionario di Bruxelles in uno degli scintillanti edifici postmoderni che ospitano le sedi UE, «ma nella messa in circolazione dell'euro, nel 2002». L'espansione europea è una scommessa più dispendiosa della guerra americana in Iraq, ma sta pagando davvero. Come mi ha spiegato un allegro eurocrate lituano in un pub di Bruxelles pieno di eurofili poliglotti, «ogni volta che ci allarghiamo rendiamo consapevolmente più povera l'Unione, ma la stabilità che assicuriamo a questo modo è a malapena misurabile». La UE spende oltre dieci miliardi di dollari l'anno solo per rimettere in piedi dopo decenni di negligenza comunista le infrastrutture materiali del suo nuovo Est, accelerandone la ripresa1-6. Questa strategia, che ha risollevato l'Irlanda – una generazione fa il «malato d'Europa» – come la Spagna e il Portogallo dopo la caduta delle dittature, sta ora dando il meglio di sé nei paesi dell'Est1-7. Erano in tanti a prevedere che all'Ungheria sarebbero occorsi decenni per mettersi alla pari con l'Occidente: oggi l'Ungheria è già diventata il polo regionale dell'outsourcing d'impresa, con l'80 per cento della produzione in mano a multinazionali europee e l'80 per cento dell'export che torna nella UE. La Slovacchia si è riconvertita in fretta dalla costruzione di carri armati alla costruzione di Volkswagen. L'integrazione europea ha significato che persino gli scandali di governo in Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca hanno appena scalfito la crescita economica. «È nei nuovi stati membri che gli imprenditori europei si accalcano per darsi da fare», proclama entusiasta un consulente gestionale tedesco che fa la spola regolarmente con Varsavia e Budapest su uno dei sempre più numerosi voli a breve distanza con cui Lufthansa copre la regione. L'espansione della UE è diventata anche un circolo virtuoso di apertura di nuovi mercati per diminuire la dipendenza dalle esportazioni verso gli Stati Uniti, un passo cruciale nella costruzione di una superpotenza indipendente. L'infusione di sangue fresco dai nuovi paesi membri ha generato un
federalismo competitivo che spinge in alto l'economia europea nel suo complesso1-8. Il modello di sviluppo dei paesi baltici – libertà d'impresa, concorrenza aperta, flessibilità del lavoro – ha cominciato a migrare attraverso l'Europa centrale fino ai più lenti paesi dell'Ovest. Come nota un analista della UE residente a Bruxelles, «attualmente l'integrazione è guidata da nazioni che un tempo costituivano la periferia dell'Europa, [ma] che adesso hanno imparato ad affrontare le difficoltà e a cogliere le opportunità della globalizzazione»1-9. Il mercato comune dell'Unione Europea è il più grande al mondo, e lo resterà, a prescindere dal destino dell'economia americana. La UE è di gran lunga l'impero più benvoluto e meglio riuscito della storia, poiché, anziché dominare, educa. Gli incentivi all'europeizzazione – i sussidi di Bruxelles, la mobilità senza ostacoli, l'adozione della moneta unica – sono troppo vantaggiosi per non essere ben accetti. Bruxelles è oggi al livello di Washington quanto a sciami di lobbisti che affollano i suoi palazzi, fra cui decine di squadre di pubbliche relazioni assoldate dai paesi balcanici e dell'ex Unione Sovietica, in aperta competizione per l'ammissione nella UE. Ma per ottenere l'idoneità le nazioni postcomuniste ancora fatiscenti, dalla Moldavia all'Albania all'Azerbaigian, non si possono limitare a una semplice rifinitura d'immagine: devono seguire il percorso concreto di assimilazione delle leggi e delle regole dell'Unione qual è richiesto dalla nuova strategia di vicinato, che lega l'una all'altra le questioni militari, economiche e di governo. Gli eurocrati provvedono a somministrare in dosi piccole e digeribili ai loro futuri sudditi la lingua tutta acronimi della UE, trasformando vicini indisciplinati in membri produttivi. Tuttavia non si tratta di una strada a senso unico. L'Europa deve espandersi, perché l'alternativa è la sua morte. «Non l'ammettiamo apertamente», confida un funzionario della Commissione europea nel suo ufficio tappezzato di studi tecnocratici, «ma l'espansione stabilizza il nostro declino demografico e aumenta il bacino di manodopera disponibile». Resta il fatto che la graduale unificazione tra l'Est e l'Ovest dell'Europa non è solo una questione di politica ed economia, ma anche di cultura e di psicologia. La crescita delle diversità all'interno dell'Unione rende l'"europeità" un ideale da raggiungere gradualmente piuttosto che una mitica forma platonica, e questo converte la natura delle identità europee dal tribalismo al cosmopolitismo. Se anche nelle nazioni dell'Ovest sono in molti a temere il venir meno del proprio marchio di élite, l'evoluzione del continente conferisce all'aggettivo "europeo" un significato positivo, dopo decenni in cui questo era basato sull'esclusione (europeo, ossia "cristiano") o sulla negazione ("non russo"). Nei fatti l'Europa è già parzialmente islamica, in virtù dell'aumento della popolazione musulmana in Inghilterra, Francia e Germania e dei quasi cento milioni di musulmani dell'Albania, della Bosnia, della Turchia e dell'Azerbaigian che popolano lo spazio diplomatico e strategico europeo attraverso il Consiglio d'Europa o la NATO. Quello che il guru strategico della UE, Robert Cooper, ha battezzato il «nuovo commonwealth europeo» altro non è che l'incarnazione dell'antico dogma imperiale che romani, mongoli e ottomani, a differenza dell'Unione Sovietica, avevano capito alla perfezione: un impero vincente non può essere razzista1-10. L'aggettivo "europeo" indica oggi un'identità altrettanto forte (o debole) che "americano" o "cinese". In omaggio al principio per cui l'arte imita la vita, tutte le nazioni che partecipano ai campionati europei di calcio o all'Eurofestival si considerano europee1-11 e sempre più sono considerate tali. Ed è ancora più importante che un'intera generazione di studenti nati dopo la guerra fredda – la cosiddetta "generazione Erasmus", dal nome del programma di scambio universitario della UE – trascende ormai la forza delle identità nazionali, per consolidare le quali i suoi antenati hanno combattuto, e tutto questo a beneficio della stabilità europea. Questa gioventù europea "postnazionale" che proviene da quasi trenta paesi diversi ora può viaggiare senza bisogno di visto da Belfast a Baku, parlare diverse lingue, studiare in programmi di scambio che coprono l'intero continente, votare alle elezioni per il Parlamento europeo e imparentarsi in una società europea sempre più varia. Come succede a tutti gli imperi, l'elastico della UE si allungherà il più possibile, almeno fino a quando non avrà completamente occupato il posto che un tempo apparteneva all'Unione Sovietica in tutto l'Est europeo, creando una pax europea senza confini e senza interruzioni, un mantello imperiale che coprirà circa trentacinque nazioni diverse e quasi seicento milioni di persone1-12. Ciò non toglie, beninteso, che l'europeizzazione della zona a L di cui ho scritto sopra sia ben lontana dall'essere cosa fatta. I paesi dei Balcani e del Caucaso sono ancora fragili regioni uscite da conflitti, comodi crocevia per il traffico di armi e di donne; la Turchia ha una mentalità tutta sua e non si farà addomesticare
facilmente; e poi, naturalmente, c'è la Russia, l'ostacolo più grande di qualsiasi altro sulla strada delle ambizioni europee.
Il divorzio transatlantico Chiunque veda nella Cina il naturale rivale asiatico dell'Occidente dà per scontato che Stati Uniti e UE si debbano alleare come mai accaduto in passato. Richard Rosecrance ha invocato un'unione di tipo societario fra le due sponde dell'Atlantico che dia vita a una superstruttura economicamente complementare e politicamente robusta in grado di bilanciare il potenziale della Cina1-13. Anche in assenza della minaccia cinese America ed Europa condividono legami culturali resi più solidi dall'alleanza atlantica della guerra fredda, ed è altamente improbabile che ciascuno cerchi ancora una volta di indebolire fisicamente l'altro1-14. Il veterano del Dipartimento di Stato americano Nicholas Burns ha descritto le relazioni transatlantiche come «un matrimonio senza possibilità di separazione o di divorzio»1-15. Eppure, quando lo studioso di relazioni transatlantiche Robert Kagan ha descritto la visione strategica degli USA . Nello spazio di due secoli l'America è passata dal rifiuto dell'Europa alla concezione di se stessa come leader di un Occidente unito, con l'Europa come partner di minoranza. Ma, suggerisce Dominique Moisi, «la configurazione della guerra fredda con un Occidente e due Europe» è rimpiazzata da quella «con un'Europa e due Occidenti». Benché figlie gemelle della civiltà occidentale, Europa e America rappresentano due imperi diversi: in rapporti generalmente amichevoli, ma recentemente in competizione per il primo posto della classe geopolitica.1-16come figlia del principio maschile di Marte e quella dell'Europa come discendente di quello femminile di Venere, l'accoglienza è stata quella riservata non tanto a un'intelligente analogia, quanto a un paragone psicoanalitico fra modi di essere divergenti L'Europa ha la propria visione di quello cui l'ordine mondiale dovrebbe assomigliare, e sempre più persegue questa visione che piaccia o meno all'America. Attualmente la UE 1-17è la più risoluta potenza economica al mondo, impegnata a sanzionare regolarmente gli Stati Uniti nelle dispute commerciali, mentre i suoi superiori standard commerciali e ambientali hanno guadagnato la leadership globale. Molti europei vedono nell' American way of life qualcosa di profondamente corrotto, edificato sul prestito, spietato e pieno di rischi nella sua assenza di protezioni sociali, ecologicamente catastrofico1-18. Nel frattempo, l'Europa è riuscita a realizzare l'aspirazione di Toynbee a una «via di mezzo tra libera impresa e socialismo»1-19. La UE è anche una donatrice di aiuti umanitari assai più generosa degli Stati Uniti, mentre l'America meridionale, l'Estremo Oriente e altre regioni preferiscono imitare l' European Dream che non la sua variante americana. È il «Financial Times» di Londra, e non il «New York Times», il giornale con la più vasta diffusione al mondo. Stati Uniti e UE registrano anche un crescente distacco in merito ai mezzi e ai fini del potere. Per molti europei la guerra in Iraq a guida americana è stata la prova della validità della loro convinzione per cui la guerra non è uno strumento di governo quanto un segno del suo fallimento. La reazione antiamericana che ha ispirato gli attacchi di Al Qaeda in territorio europeo ha poi acuito il loro disprezzo verso l'approccio avuto da Washington verso gli Stati in difficoltà, spingendoli alla consacrazione di una propria strategia di trasformazione sostenibile. Si sente affermare spesso che Europa e America sono un team forte perché «l'America rompe e la UE ricompone», o perché l'America «stabilisce la legge» mentre l'Europa «stabilisce la legalità»: ma è un cliché che sta parecchio irritando gli europei, che volentieri vorrebbero vedere affermata la propria versione di stabilità prima che l'America destabilizzi le nazioni alla sua periferia, specialmente nel mondo arabo. Gli europei, ora, ritengono quantomeno che la UE dovrebbe essere autonoma dagli USA, continuando però a collaborare con loro, attraverso la NATO, nelle operazioni umanitarie. Ma mentre l'America riduce le proprie forze armate in Europa, la UE 1-20unisce i propri eserciti per creare forze comuni di azione rapida e di peacekeeping che potenzialmente potrebbero arrivare a contare duecentomila uomini e investe massicciamente nella produzione di caccia Eurofighter e in una forza aerea a lungo raggio. Sempre più spesso i paesi membri destinano le proprie spese militari all'Agenzia europea per la difesa e non più alla Lockheed Martin. Le relazioni transatlantiche possono anche essere un matrimonio combinato, ma Stati Uniti e UE continueranno a comportarsi come fossero divorziati.
2. La devoluzione russa Notoriamente descritta da Churchill come «un indovinello avvolto nel mistero dentro un enigma», la Russia resta il più grande rebus del mondo. Dal momento che la sua strana combinazione di popolazione in decrescita e vastità della massa continentale non sembra risolversi, può essere utile pensare all'enorme spazio occupato dalla Russia come non una, ma quattro unità diverse: la Russia europea, slava, che si estende attorno al bacino del Volga; la Russia caucasica fra il Mar Nero e il Mar Caspio; la Russia uralica e siberiana che si apre sull'Asia centrale; la Russia pacifica che confina con Mongolia e Cina2-1. Il paese è costretto a tenere cucite assieme queste entità se Russia vuole rimanere: e un fallimento in tal senso significherebbe una profonda alterazione della mappa dell'intera "isolamondo" eurasiatica. Da quando Pietro il Grande spostò la capitale del paese a San Pietroburgo, all'inizio del XVIII secolo, qualsiasi contatto della Russia con l'Occidente ha rivelato la sua inferiorità materiale, risvegliandone a un tempo la coscienza nazionale e l'anima masochista2-2. Il decennio della diplomazia "vodka e Jacuzzi" che ha seguito la dissoluzione dell'Unione Sovietica ha reso i leader russi ciechi davanti alla loro situazione strategica – e cioè al fatto che, per Stati Uniti, Europa e Cina, una Russia così grande non deve tornare a essere una Russia forte. Al contrario, la cricca oggi al governo nelle stanze dorate del Cremlino avverte la persistenza di un'eredità imperiale e guarda con rabbia al perduto status di impero di prima grandezza2-3. L'influenza diplomatica della Russia è puramente residuale: se avesse evitato di mostrarsi (o avesse abbandonato il suo posto) ai principali negoziati sul conflitto arabo-israeliano o sui programmi nucleari nordcoreano e iraniano, il risultato non sarebbe stato diverso; America, Europa e Cina sono infatti arbitri di gran lunga più influenti. Come spiega uno specialista del paese residente a Berlino, «la Russia sta vivendo in questo inizio di XXI secolo una nuova versione del dibattito ottocentesco tra slavofili e occidentalisti – questa volta tra eurasiaticisti e atlantisti –, con un'analoga assenza di chiarezza se il paese sia una parte dell'Occidente o faccia invece parte a sé». Sotto l'inflessibile ex ufficiale del KGB Vladimir Putin gli eurasiaticisti – favorevoli alla restaurazione della gloria russa – sembrano essere riusciti nell'intento di risollevare la nazione dalla palude degli anni Novanta. E in effetti, grazie al controllo di una quantità di risorse naturali (petrolio, gas, carbone, legname) superiore a quella di Stati Uniti, UE e Cina messi assieme, il Cremlino può di nuovo permettersi di pensare e di agire con uno stile imperiale, persino al Polo Nord2-4. Esattamente come il disordinato arcipelago nucleare era la fonte della potenza sovietica, oggi sono i gasdotti i vasi in cui è pompata la linfa vitale della Russia. Con il valore del gigante dell'energia Gazprom lievitato dai dieci miliardi di dollari del 2000 ai quasi trecento del 2006 (un terzo dell'intera economia russa), la diplomazia moscovita è diventata in fretta un sinonimo della diplomazia Gazprom. Dal momento che questa società controlla la rete di distribuzione di gas naturale in tutto l'Est europeo, gli Stati di questa regione si dividono a tutt'oggi in due categorie: quelli ricchi abbastanza da sfuggire alle estorsioni energetiche di Mosca e quelli vulnerabili agli intrighi dei sinistri biznismen russi (sempre collegati agli agenti dell'intelligence che operano all'interno delle ambasciate), che esigono la svendita di asset chiave, dalla Romania alla Georgia, minacciando vergognosi rialzi di prezzo. Putin si è mostrato particolarmente incline a vanificare la recente crescita delle ex repubbliche baltiche sovietiche offrendosi di mettere in piedi una nuova pipeline che, attraverso il Baltico, arrivasse direttamente in Germania. «Il nostro orgoglio ha subito dei duri colpi», mi ha spiegato un intellettuale moscovita da dietro il suo bicchierino di vodka ghiacciata, «ma questo non fa che aumentare il nostro nazionalismo». La logica imprenditoriale di Gazprom, tuttavia, ha già finito per indebolire gli interessi diplomatici della Russia, alienandole il suo principale alleato nell'ex Unione Sovietica, la Bielorussia, costretta a dirottare petrolio da una pipeline diretta in Europa per sfuggire al raddoppio delle tariffe di Gazprom. Nella sua ostilità per i vicini più piccoli la Russia è diventata una sorta di Arabia Saudita siberiana, con quel deterrente ulteriore rappresentato da un arsenale nucleare per nulla sicuro. Gazprom non si limita a disegnare la politica estera russa: è diventata lo Stato stesso. In un'economia cleptocratica nella quale pubblico e privato sono abbondantemente confusi, Gazprom ha fatto proprie diverse funzioni che il Cremlino non aveva mai avuto: è il più grande proprietario di beni immobili, in città e in campagna, costruisce strade e ospedali, sponsorizza centri sportivi 2-5. L'ultimo presidente della
società, Dmitrij Medvedev, è ora il presidente della Repubblica. L'alleanza Gazprom-Cremlino ha realizzato misure populiste contro i cosiddetti oligarchi (il solo polo di potere alternativo in Russia), facendo incetta di patrimoni rinazionalizzati nel nome della restaurazione del potere centrale 2-6. Il governo ha chiuso tutti i casinò privati del paese e ne ha aperti di propri, ai margini delle grandi città. Non c'è da stupirsi, pertanto, se Putin ha ammesso che chi riesce ad aprire una nuova impresa merita una medaglia. Ogni inverno il governo si ritira per intere settimane in allegre bisbocce alcoliche, spingendo l'anziano parlamentare Ivan Grachev ad ammettere che «meno lavorano, meglio è per il paese»2-7. Quello che era il quartier generale del KGB, a Mosca, è diventato una discoteca di classe: i russi di oggi sono consumatori, non cittadini. Nel miglior stile ipercapitalista, il SUV con i vetri oscurati è diventato la vettura prediletta di una casta di affaristi in costante pericolo di vita, che trascorrono ogni giorno come fosse l'ultimo in feste popolate di leoni alla catena e ballerine con stivali e frustino, naturalmente coperte da quintali di caviale. Si è al sicuro solo nella sauna, dove si è interamente nudi e le armi da fuoco non sono ammesse. I tre quarti dell'economia russa sono concentrati a Mosca, una fra le città più care del mondo, dove vivono più miliardari che a New York. Il sindaco, nominato da Putin, ha abbellito la città a forza di enormi sculture tondeggianti che segnalano la spaventosa regressione subita dal paese dai tempi dell'eleganza barocca di San Pietroburgo. E gli autisti imbottigliati negli ingorghi sono costretti a contemplare simili brutture mentre i ricchi sfrecciano a sirene spiegate nelle zone a traffico limitato. Gli shopping mall alla moda fanno pagare un biglietto d'ingresso: alle persone normali l'accesso è vietato. Nel capitalismo russo l'affermazione «la Russia è una nazione libera» ha come corollario «e appartiene a chi paga di più». La più grande statua di Lenin ancora in piedi si trova davanti alla stazione Finlandskij, a San Pietroburgo, dove commemora l'arrivo del leader bolscevico nel 1917 per dare il via alla Rivoluzione d'Ottobre. Con il braccio perentoriamente alzato, Lenin appare incrollabilmente, e tragicamente, audace. A un secolo di distanza, Putin continua a governare l'apparato statale russo, ora decisamente assottigliato, più con l'istinto che con le regole2-8. Andrei Illarionov è stato un fidato consigliere di Putin fino a quando, nel 2005, ha tradito la causa dichiarando che la Russia aveva «finito di essere una nazione politicamente libera». I media indipendenti, i gruppi di opposizione e l'apparato giudiziario sono stati tutti neutralizzati. Se un tempo i think tanks preparavano dossier politici per gli apparati del Cremlino, «al giorno d'oggi», come ha lamentato un analista politico nel suo malandato ufficio moscovita, «del nostro umile lavoro non importa più nulla a nessuno». La Russia è diventata l'archetipo della "petrocrazia", con una spesa senza regole, uno sviluppo diseguale e una continua lotta fra élite per il controllo di enormi risorse naturali, mentre le domande di una cittadinanza fatta di non contribuenti restano senza risposta2-9. Le entrate petrolifere, tuttavia, non hanno spinto la Russia a concedersi né il lusso del burro né quello dei cannoni. Le forze armate hanno un arsenale obsoleto e un sistema disorganizzato di comando e controllo, mentre la forza lavoro disponibile resta un problema a causa del collasso della popolazione del paese, con uno sbalorditivo tasso di decrescita di mezzo milione di persone l'anno. Due terzi dei russi che popolano l'immenso territorio della repubblica vivono ancora a ridosso della soglia di povertà, morendo a ondate a ogni nuovo inverno di freddo oltre la norma. Nei loro caseggiati fatiscenti e privi di riscaldamento si chiedono dove finisca tutto quel gas: ma se l'energia della Russia non serve a tenere in vita i russi, allora prima o poi la Russia sparirà. Come durante la guerra fredda, America e Russia hanno ancora armi nucleari puntate l'una contro l'altra, pronte a scattare in qualsiasi momento. Se la Russia può bloccare l'espansione della NATO e ritardare lo scudo antimissile americano, non può tuttavia arrestare l'allargamento della UE. Per oltre un decennio i paesi europei hanno considerato la Russia "troppo vicina e troppo grande" perché fosse il caso di irritarla; inoltre la cooperazione russa era indispensabile per porre termine alla guerra nei Balcani. Dall'Ucraina al Kosovo alla Cecenia, tuttavia, la Russia si è impegnata più a ostacolare che non a contribuire a obiettivi europei quali la sicurezza energetica, la lotta al terrorismo o i diritti umani. In risposta, i piccoli staterelli baltici hanno messo fuori gioco la Russia facendo leva sulle lobby della diaspora, su astute campagne di branding (pensiamo a «E-stonia») e su politiche economiche aperte all'investimento, riuscendo a sedurre la UE con uno sfoggio di rapidità mentale non comune. Il risultato
è stato che, mentre la Russia cercava di prendere tempo nella definizione dei propri confini con le nazioni baltiche (che, secondo i regolamenti dell'Unione, avrebbe dovuto precedere i negoziati per l'ingresso), l'Europa ha comunque aperto loro le porte. Con i loro profondi legami storici con la cultura liberale dell'Europa occidentale, oggi Tallinn e Riga hanno largamente fatto piazza pulita della diroccata architettura del modernismo sovietico e hanno portato a nuova vita lo spessore economico dei legami europei ereditati dalla Lega anseatica. I trentenni dominano la politica e il business, con i tecnici occidentali a far la fila per lavorare per società estoni come Skype. Anche la UE, comunque, ha i suoi eurasiaticisti, coloro che vogliono assorbire ed europeizzare la Russia. Spesso si dipinge un quadro in cui la Russia tiene l'Europa in pugno grazie alle proprie riserve di gas e di petrolio; ma ci sono anche limiti alla capacità della Russia di mordere la mano che la nutre2-10. La maggior parte del commercio e dell'export energetico russo è diretto verso l'Europa, e mano a mano che quest'ultima diversifica le proprie fonti di energia (il crescente ricorso a fonti rinnovabili, il gas naturale dell'Africa settentrionale) cresce anche il suo potere di contrattazione con Mosca. Malgrado l'imponente patrimonio energetico la Russia continua ad avere bisogno degli investimenti europei per finanziare la propria crescita, e se qualcosa lì funziona, dalle automobili ai cantieri edili, è probabilmente europeo. Inoltre, anziché alimentare il neoautoritarismo del Cremlino, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) investe nell'ammodernamento di infrastrutture in rovina e nella costituzione di un settore privato libero dalla corruzione, con mosse che possono prefigurare una futura Russia democratica costruita dal basso. Le sfuriate di Putin che rivendica rispetto per la «via russa» e la sua sponsorizzazione dei gruppi nazionalistici giovanili non sono riuscite a ridurre al silenzio tutti quei russi che non desiderano altro che una maggiore ingerenza europea nelle vicende del paese. La classe più abbiente preferisce rivolgersi ai circoli economici di "Londongrad" e di Berlino – dove il tycoon in esilio Boris Berezovskij invoca apertamente un colpo di Stato che deponga Putin –, privando la Russia di talenti e di risorse di prima grandezza, mentre la UE spinge per una maggiore partecipazione russa alla propria industria aerospaziale sotto la condizione di migliori regole di trasparenza. «Possiamo spingere la Russia», sottolinea con sicurezza un dirigente del Consiglio d'Europa, «verso una partnership industriale e politica come quella che legava Francia e Germania negli anni Cinquanta. I russi non fanno che chiedere di poter viaggiare in Europa senza bisogno del visto, ma proprio l'ammissione selettiva di businessmen, politici e studenti dalla Russia diventa una forte leva diplomatica che possiamo usare per convincere il governo a giocare pulito». I giorni della superpotenza russa sono alle spalle. È il più grande petrostato del mondo, ma ha un'economia ancora inferiore a quella della Francia. E anche se, sulla carta, può diventare ricco, la sua politica non fa che confermare che una tale ricchezza non sarà prolungata 2-11. Oggi è la UE a impedire che la Russia possa porre un veto perpetuo nei confronti dell'Occidente, ed è sempre la UE che può far sì che la Russia si unisca all'Occidente, salvandola, in tal modo, da se stessa.
3. L'Ucraina: da confine a ponte «Questo potrebbe anche essere un remoto angolo d'Europa, ma è l'epicentro della lotta contro la Russia». Così proclama a gran voce, in un irish pub della capitale dell'Ucraina, Kiev, il direttore – trentenne – di un giornale indipendente. Se le grandi strategie sono ordite a Washington, a Bruxelles, a Mosca e a Pechino, le vittorie si ottengono sul terreno, ricorrendo a tutte le armi della globalizzazione: il denaro, gli oleodotti, le diaspore, i media. L'Ucraina è un paese in cui il gioco diplomatico è condotto giorno e notte da politici, generali, attivisti, businesspeople. La posta in gioco è alta: si tratta nientemeno che di mettere le briglie alla Russia e di espandere verso est l'impero europeo. I contadini ucraini, divisi per secoli fra padroni russi e tedeschi, ricevettero ironicamente un'identità nazionale in seguito al patto nazisovietico del 1939; sotto il giogo sovietico, però3-1. Per gli ucraini il nome della loro nazione significa "patria"; per i russi, "terra di confine"3-2. Oggi l'Ucraina è davvero entrambe le cose. «Certo non siamo più una repubblica sovietica», borbotta nella sua grande proprietà fuori Kiev un tycoon dei media favorevole alla Russia, «ma questo non vuol dire che ci fidiamo automaticamente di quelli che stavano dall'altra parte». La politica occidentale degli anni Novanta, basata sulla dottrina del "prima di di tutto la Russia", ha lasciato l'Ucraina esattamente al punto in cui era stata per secoli: ossia
schizofrenicamente divisa, Dirigo il fiume Dnepr (Dnipro, in ucraino), in due metà, una filoeuropea e una filorussa, incapace di mettere a frutto l'enorme potenziale costituito dalla sua collocazione strategica e dai suoi cinquanta milioni di abitanti. L'Ucraina si percepisce ancora come una nazione scissa in due, con rari scambi di popolazione fra l'Ovest cattolico e agricolo e l'Est ortodosso e industriale. L'viv, a ovest, assomiglia da vicino alla polacca Cracovia, con la gente che si raduna in piazza per cantare e giocare a scacchi, mentre nel polo industriale di Donetsk, a est, il russo è di gran lunga più parlato dell'ucraino. Qui Lenin se ne sta ancora in piedi, orgoglioso; a L'viv la sua statua se n'è andata da un bel pezzo, sostituita da un gigantesco vaso di fiori. Quello che è comune alle due metà dell'Ucraina è l'essere a metà strada fra passato e futuro. Nell'intero paese puoi ancora avvertire il disordine e i danni collaterali portati dal decadimento dell'impero. L'ortodossia postsovietica della shock therapy sosteneva che l'immediata sospensione del controllo dei prezzi e la sua sostituzione con una politica di rapide privatizzazioni avrebbero determinato il miglioramento dell'efficienza e del sistema del welfare, benché fosse semplicemente assente qualsiasi meccanismo di redistribuzione sociale al di fuori dello Stato, che deteneva il ferreo controllo dei servizi e dei salari – nonché dei cervelli. In Ucraina, come in tutta l'ex Unione Sovietica, intere generazioni hanno visto dissolversi la propria sicurezza sociale in concomitanza con l'impennata dei prezzi, il crollo delle retribuzioni reali e l'aumento fuori controllo del costo dei beni di prima necessità. Migliaia di anziani sono morti, di freddo nei mesi invernali o sopraffatti dalla calura estiva senza aria condizionata. Oggi, fra le rovine degli edifici dell'era sovietica, la vita quotidiana dell'ucraino medio deve ancora fare i conti con i colpi di un'inflazione durissima. Ogni tassista di Kiev pensa con terrore al giorno in cui la sua Lada o la sua Volga esalerà l'ultimo respiro nel bel mezzo della strada, sapendo già che non potrà permettersi di farla riparare e che non avrà da parte abbastanza soldi per comprarsene una nuova. L'unica fortuna è che gli ucraini sono disposti a dare un passaggio a chiunque, anche a un perfetto sconosciuto, per due spiccioli. «Ne abbiamo passate così tante assieme che ci fidiamo ancora l'uno dell'altro», mi spiega un pendolare-imprenditore di questo tipo mentre mi conduce nel centro di Kiev a tarda notte. Come in Russia, anche qui il capitalismo ha perso la sua prima chance di fare una buona impressione, e Kiev, come Mosca, è un villaggio Potëmkin la cui grandeur urbana maschera la povertà che alligna man mano che ci si allontana dal centro. La trasformazione dell'Ucraina in qualcosa di simile all'odierna Polonia significherebbe il suo affrancamento da quelle che sono caratteristiche ancora pienamente da Terzo Mondo, quali la quota preponderante di investimento estero diretta unicamente verso la capitale e il prosperare di un mercato nero del baratto in tutto il resto del paese. I mercati sotterranei di Kiev offrono riparo dalle torrenziali piogge dell'estate, ma sono anche un paradiso per la vendita di DVD piratati. Le agenzie di viaggi non possono sfidare il monopolio delle ferrovie: «Siamo ancora all'età della pietra», si scusa l'impiegato di una di esse. L'Ucraina deve ancora parecchio alle rimesse della sua diaspora nell'Europa occidentale, quasi tre milioni di persone. Come a Mosca, anche a Kiev prosperano i nightclub alla moda, tipo il Decadence, dove puoi trovare la jeunesse dorée della città, abituata a bere champagne e a guidare enormi Hummer, a fare battute del tipo «il problema di Kiev è che è circondata dall'Ucraina». Ancora nel 2003 gli osservatori prevedevano che l'Ucraina sarebbe rimasta «una nazione miserabile circondata da nazioni ancora più miserabili»3-3. Il governo del presidente Leonid Kučma, che organizzava elezioni che di trasparente avevano soltanto la loro fraudolenza, assomigliava più al modello degli autoritarismi soft dell'Asia centrale che non alle democrazie liberali dell'Occidente 3-4. Con pazienza e astuzia, tuttavia, i servizi di intelligence europei e americani sono riusciti a introdursi nella fessura dello spazio limitato concesso da Kučma al parlamento e all'opposizione civile, congiungendo la diaspora scarsamente coordinata e le organizzazioni studentesche ai primi media indipendenti fino a riuscire ad aprire la porta a un malcontento popolare di massa. Il successore designato di Kučma, Viktor Janukovyč, spalleggiato dalla Russia, era il naturale vincitore delle elezioni del 2004, finché il leader dell'opposizione Viktor Juščenko, sopravvissuto a un pesante avvelenamento da diossina (probabile opera degli alleati russi di Kučma), non ha sfruttato il proprio nuovo status di martire per imporre un terzo turno elettorale e vincerlo. Il fallimento del tentativo di soffocare tutto in un bagno di sangue è stato sufficiente a scalzare il dittatore: nel momento più delicato del confronto i servizi di
sicurezza di Kučma, da tempo ammorbiditi da agenti occidentali, si sono rifiutati di aprire il fuoco sulla folla dei manifestanti che sventolavano bandiere arancioni. Va detto che non esiste alcun rapporto fra l'Ucraina e il colore arancione. Quest'ultimo è stata una trovata dei consulenti occidentali in cerca di un simbolo sufficientemente attrattivo per far uscire di casa la gente nel desolato e rigido inverno ucraino. Come si è visto subito dopo, la "rivoluzione arancione" partiva però già zoppa. Il paesaggio che regolarmente segue tutte le transizioni radicali di questo tipo nell'ultimo decennio (Serbia e Georgia comprese) si è popolato in fretta di pratiche politiche scandalosamente vergognose. Non appena Juščenko ha preso il posto del suo ex superiore Kučma, politici opportunisti hanno cambiato casacca, lealisti privi di alcun requisito sono stati promossi ai posti di comando e le riforme costituzionali si sono bloccate, fino a far assomigliare la "rivoluzione" nel suo complesso a un colpo di Stato che ha rimpiazzato una cricca corrotta della nomenklatura con un'altra. A Kiev prese a girare la barzelletta che persino un dottore in filologia poteva vedersi affidato un posto da cardiochirurgo se fosse stato abbastanza vicino a Juščenko nella Maidan Nezalezhnosti (Piazza dell'Indipendenza'). Una semplice carta geografica non potrà mai rivelare se l'Ucraina sia da considerare o meno una nazione europea; solo la sua politica può fornire una risposta. Dopo la rivoluzione arancione Juščenko dichiarò subito che gli ucraini, come nazione, avevano «scelto l'Europa non soltanto da un punto di vista geografico, ma anche riguardo ai suoi valori spirituali e morali». Per gli standard europei di governo, invece, l'Ucraina resta più vicina al Pakistan che alla Polonia. Parlamento e oligarchia sono praticamente sovrapponibili, con i seggi in vendita a chi è disposto a offrire di più. Molti parlamentari non hanno letteralmente mai messo piede in aula e preferiscono gli uffici delle loro aziende, arredati con raffinati mobili europei, agli scialbi palazzi del governo. Il primo ministro del dopo rivoluzione Yulia Tymoshenko – la "dea arancione", dotata di un'acconciatura stile principessa Leyla di Guerre stellari – poteva contare sul carisma populista di Benazir Bhutto e riusciva stranamente a dominare il proprio blocco parlamentare. E, come capita a molti duetti governativi del Secondo Mondo, lei e Juščenko hanno finito per scontrarsi nel 2005, incapaci di raggiungere un accordo sulla forma costituzionale, presidenziale o parlamentare, da dare al paese. Juščenko, che aveva promesso una transizione verso un sistema parlamentare, ha mostrato un particolare attaccamento ai propri poteri presidenziali, e prima della fine dell'anno ha licenziato il primo ministro e il suo gabinetto. La sua megalomania soft comprendeva la ripetuta proclamazione del suo undicesimo comandamento: «Niente paura». «La fiducia nel nuovo governo», mi spiega soddisfatto sorseggiando un tè un sondaggista di Kiev con simpatie per la Russia, «era quasi totale dopo la rivoluzione, ma le élite erano del tutto indifferenti ai nostri bisogni». L'esplosione dell'inflazione fece diventare irraggiungibili per molti cittadini i prezzi della carne e del latte. Come già in Russia, i guadagni delle privatizzazioni sono stati così diseguali che Juščenko e Tymošenko impiegavano lo stesso tempo a seguire politiche di rinazionalizzazione (eufemisticamente ribattezzata «deprivatizzazione») e a fare affari con Janukovyč, forte nell'Est dell'Ucraina, nella speranza di tenere assieme le due metà del paese. Dopo due anni di impasse, con la guardia della rivoluzione arancione occupata a gestire il suo incestuoso gioco della sedia, il partito di Janukovyč ha fatto man bassa alle elezioni del 2006. Paradossalmente è stato proprio il parlamento del filorusso Janukovyč a riuscire finalmente ad approvare le leggi che hanno permesso di porre un freno ai poteri presidenziali di Juščenko. E poiché un governo corrotto filoccidentale indebolisce se stesso e tutto l'Occidente, quest'ultimo ha perso il secondo round di questo incontro giocato con la Russia, e oggi le forze di sicurezza e la polizia fedeli alle fazioni rivali continuano le loro scaramucce ai margini delle occasioni di tensione politica. Una nazione non può accontentarsi di sembrare europea per esserlo. Un secolo fa lo stratega svedese Rudolf Kjellen vedeva nell'Ucraina e nei paesi baltici i due perni della difesa dell'«Europa culturale» contro «lo zarismo moscovita» della Russia, «contaminato dal mondo mongolico e dal desiderio illimitato di potere che è tipicamente asiatico» 3-5. Senza l'Ucraina la Russia cessa di essere un impero europeo, il che rende l'Ucraina parte integrante della nozione russa di «estero vicino», con il risultato che essa non è mai stata realmente percepita come una nazione straniera3-6. La sconfitta della Russia nella rivoluzione arancione ha in questo modo precipitato il paese in una diplomazia dei nervi venata di polemiche contro le intrusioni occidentali nello spazio
postsovietico; e non a caso si dice che «il liberalismo russo finisce dove comincia l'indipendenza ucraina». Ovviamente, come gli ucraini hanno dovuto imparare in fretta, petrolio e gas a basso costo hanno la loro importanza: la prima reazione di Mosca alla vittoria di Juščenko è stata di triplicare il prezzo di vendita del gas e di bloccare i rifornimenti di petrolio dal Kazakistan, mentre un'assai sinistra società guidata da Gazprom e da alcuni oligarchi ucraini – battezzati «i nuovi russi» – è stata messa in piedi per controllare le forniture future. Tali tattiche tuttavia sono riuscite ad alienare a Mosca persino le simpatie di quei milioni di russi dell'Ucraina che cominciano a intravedere un futuro migliore nell'entrare a far parte dell'Occidente. Come sottolinea con forza un dirigente del Ministero degli esteri ucraino dal suo arioso ufficio, «i russi sono così ciechi che non imparano neppure dai loro errori». Il cambio generazionale in Ucraina potrebbe significare la fine naturale delle manie di grandezza della Russia. Gli spettrali ottantacinque metri di titanio del grande monumento alla Rodina Mat (la 'Madrepatria') al centro del museo della Grande guerra patriottica, sono visibili all'orizzonte da qualsiasi punto di Kiev. Le madri vi portano i bambini ad arrampicarsi sulle torrette dei carri armati sovietici, ma quei bambini imparano a scuola che quei carri armati sono il simbolo non dell'eroismo dell'Armata Rossa, ma dell'occupazione straniera. Nella maggior parte dei giovani ucraini nati durante o dopo l'era della perestroika, negli anni Ottanta, non rimane alcuna traccia di sovietismo: quello che conoscono sono piuttosto la fame e le tragedie politiche inflitte al loro paese da una rivoluzione straniera e da due dei più terribili dittatori del XX secolo, Lenin e Stalin. Fra questi giovani e i posti di comando restano solo gli ultimi appartenenti alla generazione degli ex apparati sovietici, e per questo essi sono cinicamente ottimisti riguardo al futuro europeo del loro paese. Me lo dice a chiare lettere una studentessa universitaria, già ferrata in materia di cultura dell'Europa occidentale: «Vogliamo una vera rivoluzione, non soltanto nuove elezioni, ma una nuova coscienza politica che spazzi via l'apatia e la paura. Nella nostra storia non ce l'abbiamo, ed è per questo che abbiamo bisogno di importarla dall'Europa». Al Ministero degli Esteri, dentro un mastodontico palazzo di età sovietica, i funzionari governativi si sono sforzati di dare una nuova immagine europea alla nazione – addirittura affermando la presunta appartenenza degli ucraini all'Occidente da un punto di vista genetico. I pezzi forti di questa propaganda sono l'alto livello di educazione tecnica della popolazione e gli eroi della letteratura Gogol' e Bulgakov; a Bruxelles sono state inviate carte ufficiali con l'Ucraina colorata del blu dell'Unione Europea: Mitteleuropa, non Osteuropa. «È come avere a fianco un fratello molto più grande che ti fa ombra», spiega un anziano diplomatico ucraino, «e cercare di scappare presso un'altra famiglia. Non una sola volta negli ultimi mille anni la geografia dell'Ucraina è stata qualcosa di diverso da una maledizione». L'approccio "meglio tardi che mai" della UE, tuttavia, potrebbe in fin dei conti cambiare le cose. Persino Kučma ha espresso la speranza che l'Ucraina possa un giorno unirsi alla UE, ma la UE ha esitato, timorosa della massiccia dipendenza del paese dall'agricoltura che potrebbe innescare una competizione con i produttori francesi e spagnoli per i sussidi comunitari, e dell'altissima percentuale di giovani nella popolazione, capace di minacciare la stabilità dell'occupazione all'Ovest3-7. Nonostante queste difficoltà la rivoluzione arancione ha fatto scadere ogni possibile scusa dell'Europa; l'Ucraina è ancora troppo grande e troppo povera per diventare un membro dell'Unione, ma di certo non è più un paese sovietico. L'Ucraina ha riconquistato la sua orgogliosa eredità cattolica. Lo dimostrano le grandi gite organizzate per visitare le chiese della Crimea, appollaiate su speroni di roccia in mezzo a boschi rigogliosi. La Russia non ha mai smesso di rivendicare il possesso della Crimea, ma nel 2015 finirà per sempre di godere del prestito delle attrezzature navali del porto di Sebastopoli, sul Mar Nero. Il palazzo di Livadia, a Yalta, un tempo dei Romanov, dove Stalin ridisegnò la carta d'Europa secondo i propri termini, ora ospita scintillanti meeting a favore dell'adozione del marchio UE. «Per le aziende delle nuove tecnologie siamo il passaggio obbligato per la fabbricazione di microchip e per l'export in Turchia e nel Caucaso attraverso il Mar Nero», si vanta un giovane imprenditore di Simferopol, l'imponente capitale della Crimea. Ma gente da ogni angolo d'Europa scende in queste spiagge anche per i rave illegali che durano notti intere. La retorica russa ricorda sempre più un dialogo del romanzo
L'isola di Crimea dello scrittore dissidente Vasilij Aksénov, in cui il protagonista, davanti all'insistenza di un apparato sul dominio russo della penisola, nota freddamente che «forse lo sanno tutti, ma nessuno sembra notarlo»3-8. Forse perché amano crogiolarsi al sole della Francia del Sud, gli oligarchi ucraini parlano con cognizione di causa del Trattato di Nizza, che ha esposto i piani della UE per l'allargamento a Est e l'incremento dei trasferimenti finanziari. Ma la vera specialità dell'Unione resta quella di giocare duro per riuscire a ottenere quello che vuole. E la lusinga di godere del prestigio dell'appartenenza alla UE – e non l'averlo ottenuto – che può spingere gradualmente i leader ucraini a sciogliere i loro gabinetti ombra, rompere i monopoli, liberalizzare i media, ripulire il sistema bancario e creare posti di lavoro in grado di richiamare in patria i migliori talenti dispersi per il mondo. Assieme a massicci investimenti dell'Europa, sono queste le misure necessarie a far sì che l'eredità della Russia resti solo tale, accelerando l'uscita dell'Ucraina dal Secondo Mondo e il suo avvicinamento a una reale identità europea. L'Europa non dispensa soltanto grandi illusioni, ma anche soluzioni pratiche. Se l'approccio americano alla promozione della democrazia in Ucraina – l'appoggio incondizionato a un solo partito – ha portato a un regime arroccato e autocompiaciuto, i gruppi parlamentari e le ONG europee sostengono molteplici formazioni politiche, creando stabili fondamenta per la democrazia. Poiché i sistemi europei di governance sono essi stessi parlamentari (anziché presidenziali, come negli Stati Uniti), la loro strategia è alla fine dei conti più utile a servire gli interessi occidentali. Inoltre, se la NATO a guida americana, pur avendo assorbito nazioni non del tutto qualificate, è stata per tradizione la punta di diamante dell'Occidente e l'apripista dell'ingresso nella UE, ora la forza d'attrazione dell'Europa si è fatta più potente e meno carica di controversie. «Non è stata soltanto la Russia ad arrestare l'espansione della NATO», ricorda un consigliere della presidenza, appassionato sostenitore della sovranità della nazione, «anche noi ucraini siamo parecchio divisi circa l'opportunità di aderire a una partnership militare che determinerebbe la dipendenza dagli Stati Uniti, come siamo contrari a una dipendenza dalla Russia». Addirittura il premier filo-russo Janukovyč simpatizza per l'adesione alla UE, la quale, come ammette il più autorevole dei parlamentari russi, Vladimir Ryzhkov, è «il modello di maggior successo della storia». Secondo l'ex consigliere nazionale USA per la sicurezza, Zbigniew Brzezinski, «la stessa esistenza dell'Ucraina come nazione indipendente sta trasformando la Russia». In realtà, una definitiva accettazione della sua europeizzazione da parte della Russia potrebbe rendere l'Ucraina un modello anche per quest'ultima, sia geograficamente che psicologicamente. L'essere il corridoio di transito del petrolio e del gas russi verso i ricchi consumatori europei, nonché la volontà dell'Ucraina di ripristinare la propria industria nucleare (malgrado l'eredità di Černobyl) e gli sforzi europei di diversificare le fonti energetiche sono in grado di agire congiuntamente per rimettere in riga la Russia allorché minaccia di alzare le tariffe o di tagliare i rifornimenti. Ora l'Ucraina ha una risposta più efficace alle spacconate di Mosca. Come sostiene timidamente un diplomatico, «diciamo ai russi che saremmo felici di cooperare di più con loro, a patto che le regole siano analoghe a quelle della UE».
Il partito del blocco orientale Nel 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della sconfitta del nazismo, il presidente lettone Vaira VikeFreiberga ha dichiarato con rabbia che il dominio sovietico nei paesi baltici dopo la seconda guerra mondiale «ha significato schiavitù, ha significato occupazione, ha significato sudditanza, e ha significato il terrore stalinista». I guardiani dell'Unione nell'Europa occidentale ritengono che a volte una tale pugnace inclinazione antirussa possa risultare nociva ai fini del mantenimento di rapporti stabili con Mosca. In realtà, l'attivismo dei nuovi membri dell'Unione è la nuova arma segreta per una più risoluta Ostpolitik europea, in grado di abbassare la competizione con la Russia a un livello più tattico. A distanza di pochi anni si torna a parlare di una "nuova cortina di ferro", ma, se c'è, l'Europa riesce comunque ad abbatterla con il suo guanto di velluto. L'aspetto più sottovalutato dell'allargamento europeo risiede nella sua natura autosostenibile. Nel corso dell'ultimo decennio tutta una serie di paesi, dalla Polonia alla Slovenia, ha sollevato un gran baccano per entrare nella UE, ciascuno
pretendendo di costituire l'ultima frontiera dell'Occidente e ciascuno minimizzando le proprie relazioni storiche con i suoi turbolenti vicini più a est. Consapevoli di quanto il caos possa infiltrarsi attraverso le frontiere, tuttavia, essi hanno mostrato in fretta uno zelo evangelico in favore di un aumentato impegno dell'Unione verso la democratizzazione – soprattutto quella dei loro vicini. Sono stati i presidenti della Polonia e della Lituania a correre a Kiev in qualità di mediatori in occasione dello stallo delle elezioni del 2004, trascinando con sé un riluttante Javier Solana, il responsabile della politica estera europea. La lezione ricorrente è che le nazioni del Secondo Mondo, una volta che agiscono come peer group, hanno assai più da insegnare l'una all'altra di quanto non possano fare i precetti che arrivano da Washington o da Bruxelles. E sono anche più pronte ad accettare dalle proprie pari consigli e ammonimenti. L'Europa funziona al suo meglio quando mette in pratica questa forma di sussidiarietà, delegando responsabilità agli attori più vicini alla missione3-9. I paesi baltici sanno per esperienza che il collasso politico può diventare una certezza se le riforme prescritte dall'Unione sono portate avanti fino in fondo, come è successo in Bulgaria e in Romania. Utilizzando l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (PACE) e i programmi di scambio parlamentare plurisettimanali, diversi governi delle aree balcanica e caucasica hanno ingaggiato esperti estoni e lituani per avere lezioni di riforme più a portata di mano ed essere istruiti su come negoziare le rigide clausole d'ingresso nella UE. Nel 2004, giovani veterani del movimento Otpor! ('Resistenza'), fra i protagonisti della cacciata dell'uomo forte di Belgrado Slobodan Milošević nel 2000, hanno fatto la spola verso l'Ucraina per lavorare con il movimento Pora! ('Basta'), che ha orchestrato la rivoluzione arancione. La Bielorussa dimostra che questo principio del peer group è più importante che mai. È in questo paese che lo sforzo sovietico di cancellazione delle identità nazionali ha avuto più successo, ed è qui che la statua del fondatore del KGB Feliks Dzeržinskij, il feroce direttore bolscevico della Čeka controrivoluzionaria di Lenin, è stata rimessa in piedi nel 2005. Per timore del virus delle rivoluzioni spalleggiate dall'Occidente il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko ha chiuso le frontiere ai parlamentari europei, con il risultato che ora UE e Stati Uniti devono più che mai fare affidamento sull'astuzia di lituani, polacchi e ucraini che si possono introdurre nel paese per alimentare e plasmare l'opposizione interna. Come dice con entusiasmo un giovane attivista lituano, «è nostro compito liberare la Bielorussia dal controllo russo!». La Moldavia, un'ex repubblica sovietica che ricorda più un quasi-Stato in stile africano, è un altro esempio di come il Secondo Mondo interno all'Europa stia guidando paesi di questo tipo verso una politica estera più decisa. Quando la UE ha inviato una rappresentanza permanente nella capitale del paese, Chişinău, la Russia aveva già fatto in modo che il gangsterismo della provincia secessionista della Transnistria «si adornasse delle parvenze di uno Stato, che in realtà sopravvive solo come relitto di un passato sovietico deformato dal tempo»3-10. In ogni caso, per mostrare all'Unione le proprie credenziali in materia di risoluzione dei conflitti, l'Ucraina ha preso in mano la questione mettendo a punto un programma di controllo alla frontiera per sottrarre la repubblica all'orbita di Mosca, attuando misure contro il contrabbando di qualsiasi oggetto, dagli AK-47 al pollame congelato. Sul confine occidentale della Moldavia, l'ingresso della Romania nella UE costituisce un'ulteriore opportunità per questa vassalla della Russia di gravitare in direzione dell'Europa. Legge e ordine sono garantite meglio all'interno dell'impero europeo che non al suo esterno. Un tempo per definire l'Europa bastava un concetto semplice: «L'Europa… non è la Russia»3-11. Ma se un tempo le nazioni baltiche potevano temere un'eccessiva deferenza della NATO nei confronti dell'ipersensibile Russia, oggi applicano il principio per cui non si vuole più essere l'estremo margine orientale dell'Europa, e quello che un tempo era il temibile orso russo lo vedono ormai come un vecchio zio ubriacone, con un misto di pietà e preoccupazione. Le nazioni baltiche sanno che la Russia è capace di infantili scoppi di rabbia, e soprattutto che essa controlla la maggior parte dei loro rifornimenti energetici; e poiché la Russia controlla ancora la porzione di territorio intorno a Kaliningrad, sulla costa del Baltico, esse preferiscono investire in quella exclave insieme alla Russia, magari con l'obiettivo di trasformarla in una quarta repubblica baltica anziché lasciarla qual è oggi, un luogo in cui la seconda guerra mondiale pare sia finita l'altro ieri. E Mosca, di malavoglia, comincia ad accettare che i suoi ex satelliti, uno dopo l'altro, prendano a gravitare attorno a un'altra capitale: Bruxelles.
4. I Balcani, punto interrogativo dell'Est «L'Europa odierna è destinata a rimanere un problema senza soluzione sinché i Balcani non ne faranno parte», ha dichiarato Lord Paddy Ashdown, l'alto rappresentante UE in Bosnia. «È semplicissimo: o si impianta stabilità nei Balcani o si importano instabilità e crimine in Europa» 4-1. Difficilmente la UE potrà pretendere di essere una superpotenza a est dei Balcani finché questi non saranno stabilizzati, finché li si guarderà non come un isolato angolo d'Europa, ma come il punto d'accesso obbligato a tutto quel vasto mondo che non è l'Occidente. Fatto sta che nella ex Iugoslavia – che dei Balcani è il cuore – la democrazia del dopo guerra fredda ha generato semidittature colpevoli di avere fatto a pezzi la regione in un'orgia di violenza etno-nazionalista, nei confronti della quale l'Unione Europea ha dimostrato di essere impreparata4-2. Fuori dalle città bosniache la campagna è ancora una distesa grigia e abbandonata, l'aria è come fosse ancora impregnata di fumo. Lungo le strade accidentate che portano da un villaggio all'altro non puoi mai sapere quale ostacolo ti si può parare davanti dopo la prossima curva, forse un posto di blocco, oppure il relitto di un autocarro bombardato. Lo stesso, in tutta la regione, vale per la politica. Negli anni Ottanta ciascuna delle repubbliche che formavano la Iugoslavia era più ricca della Spagna: ma nel decennio successivo, mentre l'Europa occidentale procedeva spedita nel suo processo di integrazione, la federazione dissipò la propria unità. Le feroci guerre che hanno accompagnato la disintegrazione iugoslava hanno gettato il paese in una barbarie degna del Terzo Mondo, e circa mezzo milione di persone ha perso la vita in una carneficina surreale. Nell'età della globalizzazione lasciarsi sfuggire dieci anni di processo di integrazione (senza contare i cinquant'anni precedenti) è disastroso e crudele al tempo stesso. I Balcani sono diventati un microcosmo di quello che era l'Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale: spezzettati, sfiduciati e occupati da potenze straniere. «Non saremo liberi finché non ci libereremo l'uno dell'altro», si spazientisce un vecchio in un villaggio bosniaco sperduto fra i boschi vicino a Mostar. «Se non otteniamo adesso la piena indipendenza, gli europei non potranno impedirci di combatterci di nuovo». In realtà, la sindrome da eterna sconfitta incarnata dai Balcani non è più inevitabile di quanto lo sia stata la sua recente guerra civile4-3. È possibile dare vita a istituzioni democratiche e a una cultura della democrazia nei Balcani, e a un decennio di distanza dal suo fallimento iniziale, solo e soltanto la UE può provarci, risollevando la regione al livello che le spetta all'interno del Secondo Mondo4-4. Grecia, Slovenia, Romania e Bulgaria costituiscono già una prova di quello che l'Unione può fare per le nazioni balcaniche. La Grecia moderna era allo stesso modo un imprevedibile barile di polvere prima che la sua diaspora in Gran Bretagna riuscisse con la propria attività lobbistica ad agganciarla a quell'albero della cuccagna che fu il Piano Marshall. Fino al 1975, del resto, la Grecia fu governata da una dittatura che ospitava terroristi, aveva congegnato un colpo di Stato a Cipro ed era perennemente presa da scaramucce contro Turchia e Macedonia. Ancora nel 2006 il suo PIL si gonfiava di un buon 25 per cento ove si tenessero in conto i redditi provenienti dallo sfruttamento della prostituzione e dal contrabbando di sigarette. Ovviamente ci sono voluti decenni per rimettere in sesto la Grecia, la culla della civiltà europea, e fare in modo che si comportasse come una moderna nazione europea: oggi, però, dopo l'ingresso della Romania e della Bulgaria nella UE nel 2007, essa non appare più quella lontana costola dell'Unione che era un tempo. Grazie alla sua eredità asburgica la Slovenia è attualmente già più ricca della metà dei paesi membri della UE. Per quanto riguarda Romania e Bulgaria, l'espressione "Secondo Mondo" è sempre stata un eufemismo per evitare di ammettere che ci fossero paesi del Terzo Mondo all'interno dell'Europa, e a tutt'oggi i rispettivi redditi arrancano a un terzo della media UE. Tuttavia la tecnologia agricola dell'Unione può fare in modo che la Romania, un paese che potremmo definire come gli Appalachi d'Europa, abbandoni il collettivismo contadino per diventare il granaio dell'intera regione e il perno dell'industria low cost, al di là della sua originaria specializzazione nell'assemblaggio dei fucili d'assalto AK-474-5. Analogamente, le minacce di differimento dell'ammissione nella UE hanno persuaso la sempre schizofrenica Bulgaria a combattere realmente la criminalità organizzata e il racket del traffico di esseri umani per raggiungere gli standard necessari a ottenere i miliardi di sussidi di cui ha disperato bisogno 4-6. Con il timbro di ammissione UE i bulgari stanno tornando a lavorare in aziende rimesse a nuovo, mentre gli euro hippy migrano, in auto o su voli
low cost, verso le sue spiagge sul Mar Nero. «La Bulgaria», recita il ritornello di un turista inglese a Burgas, «è la nuova Costa del Sol». Data la storica instabilità dei Balcani, l'impero europeo resterà incompleto e vulnerabile fino a quando quella "questione orientale" che tormentava gli statisti europei di un secolo fa non sarà definitivamente sistemata. Fortunatamente la popolazione totale delle rimanenti nazioni dei Balcani occidentali e meridionali – Serbia, Bosnia, Croazia, Macedonia, Albania – non raggiunge nemmeno quella della Romania, e nessuno di questi paesi ha più abitanti di Manhattan. La loro contiguità geografica permetterebbe all'Europa di ingoiare in un solo boccone di media grandezza tutti i neonati Stati della regione: il problema è che i leader balcanici non sempre sanno cosa sia meglio per loro e sono perennemente in grado di mettere in piedi conflitti per le ragioni più meschine. Le relazioni di amore-odio fra UE e Balcani restano tese e volubili anche se la bandiera blu dell'Unione è diventata la nuova idea fissa della regione. La Serbia, ossia la casa nel bel mezzo della strada Gli sforzi europei per impedire la frammentazione nei Balcani, nei primi anni Novanta, erano assai poco promettenti. Le cartine dei possibili cantoni della Iugoslavia restituivano più una frittata etnica che non una possibile federazione politica. I funzionari di Parigi e Berlino decisero di starsene alla finestra ad attendere la definitiva scomparsa dei musulmani che abitavano quella che un tempo era stata la Bosnia ottomana, imponendo un embargo sugli armamenti mentre la Serbia e la Croazia ereditavano l'arsenale della Iugoslavia; francesi e tedeschi, peraltro, erano pronti a chiudere gli occhi davanti alle atrocità che i loro clienti stavano commettendo4-7. È l'opinione di un giovane serbo impegnato nella difesa dei diritti umani, residente in un quartiere alternativo della capitale del paese, Belgrado: «Si sarebbero potuti catturare tutti i criminali di guerra con un breve giro di telefonate. Sono stati i funzionari francesi, con i loro scheletri negli armadi, a voler evitare di mettere in piazza la loro complicità». Naturalmente, a essere messa in piazza, al tempo, fu soprattutto l'immaturità strategica dell'Europa. Finalmente i funzionari dell'Unione si stanno impegnando a dimostrare che gli interessi europei nei Balcani devono avere la meglio. Anziché lasciare che sanguinosi secoli di nation-building completino il loro corso – magari trascinando con sé il resto del continente – la UE ha dato il via a un processo di member-statebuilding, di formazione di possibili Stati membri, che significa il passaggio dalla semioccupazione a una sovranità condivisa, qualcosa di analogo al «passaggio di un giovane adulto dalla casa di famiglia a un confortevole matrimonio attraverso stadi attentamente vigilati» 4-8. Il paradosso dei Balcani sta nel fatto che, se essi sono la regione d'Europa più dipendente dall'Unione per la sua stabilità, sono anche quella con la mentalità più testardamente indipendente – con la Serbia in testa a ogni altro paese a questo riguardo. Del resto, quasi un secolo addietro fu la resistenza serba all'inglobamento nell'impero austroungarico a condurre alla prima guerra mondiale4-9. Un intero lato del palazzo del primo ministro, a Belgrado, ospita il quartier generale dell'esercito, una rovina ancora fumante dall'epoca del suo bombardamento con i missili intelligenti americani, nel 1999; sull'altro lato si apre il viale in cui Zoran Djindjič – il primo leader della regione eletto democraticamente dalla seconda guerra mondiale, una specie di Kennedy serbo – è stato assassinato a colpi di pistola nel 2003 da agenti leali al presidente omicida Slobodan Milošević. Il quale non soltanto è stato tollerato più del necessario per anni, ma è anche stato definito «uomo di pace» in occasione degli accordi di Dayton del 1995. I suoi connazionali non avrebbero potuto pensarla in modo più differente. Per novanta giorni, senza una pausa, nel duro inverno del 1996-1997 migliaia di dimostranti occuparono il centro di Belgrado chiedendone le dimissioni, sventolando anche bandiere francesi e tedesche. «La sua specialità», ricorda un attivista di Otpor!, «consisteva nel peggiorare il più possibile i nostri veri problemi, la disoccupazione e la corruzione. Scherzando, dicevamo che non poteva che essere una talpa degli occidentali: peggio di com'era, per noi, non poteva andare». Al posto di massicci aiuti all'opposizione interna furono riservati alla Serbia dure sanzioni e ottantotto giorni di bombardamento NATO che provocarono danni immensi – benché uno dei palazzi di Milošević sia stato risparmiato per il fatto che ospitava un quadro di Rembrandt. «Non potevamo crederci!»,
prosegue il mio interlocutore. «Da che parte stavano [quelli della NATO]?». Il brodo di coltura politico serbo fu lasciato nell'isolamento, permettendo ai più nefasti elementi criminali di continuare a infettare e moltiplicarsi. Nessuna sorpresa, dunque, che dalla Serbia arrivino oggi le più intransigenti resistenze all'ingresso nella UE. I piccoli paesi come la Serbia hanno un peso economico minore di molte grandi company, eppure si comportano proprio come queste: prima si fa fuori un cattivo amministratore delegato e soltanto dopo ci si preoccupa di chi lo possa sostituire4-10. In realtà sono gli strateghi politici, e non le smart bombs, a poter veramente fare la differenza. L'opposizione serba di base ha sloggiato Milošević nel 2000, nel corso della "Rivoluzione d'ottobre" del paese, conosciuta anche come la "rivoluzione del bulldozer" dal momento che a un bulldozer, appunto, si dovette ricorrere per entrare nella sede della stazione televisiva di regime RTS. Il Partito radicale serbo e i nazionalisti, che ritraggono ancora Milošević come un martire (in ragione della sua morte durante il processo dell'Aia), con i loro richiami a una presunta età dell'oro del paese, che in realtà non è mai esistita, riescono a conservare una forte presenza in Parlamento. Restano solo gli studenti più impegnati a portare avanti la causa della riabilitazione dell'immagine della nazione, con contestatissime mostre che rivelano le atrocità commesse dai serbi nel villaggio bosniaco di Srebrenica, nel 1995: «Vedete? Ricordate? Sapete?». Nelle loro pittoresche città universitarie, come Niš questi giovani si sentono europei; il punto è che i leader del paese non danno loro la possibilità di provarlo. «Ammettiamolo: non c'è nessuna ragione per cui noi non dovremmo essere europei», dice un leader studentesco. «E allora quanto ancora durerà questo limbo? Se i politici oggi al potere creassero posti di lavoro usando la metà di quella creatività che usano per controllare le loro compagnie criminali entreremmo subito nella UE». Belgrado è stata distrutta e ricostruita non meno di quaranta volte negli ultimi duemila anni. Quanto a geografia, la Serbia, si sente dire: «è fortunata come una casa che si trova nel bel mezzo di una strada». L'Unione Europea è solo il più recente di una lunga lista di imperi che hanno smembrato la Serbia, un processo storico che i serbi, nel loro orgoglio, avvertono particolarmente doloroso. Era d'uso riferirsi con disprezzo all'«unione statale» di Serbia e Montenegro chiamandola «Solanium», dal nome di Javier Solana, il capo della diplomazia europea che la impose. «Certo, pare che la UE alla fine si stia veramente impegnando qui», ribatte cinicamente un politico serbo nel suo ufficio sfarzoso, «ma ormai chi ci crede più? Con il Montenegro indipendente, e forse senza più il Kosovo, restiamo solo un avanzo chiuso fra i monti, economicamente privo di senso se non come via di transito verso il Danubio» 4-11. Per accettare l'inevitabile e superare il carattere nazionale dell'enat, la volontà di soddisfare il proprio ego a ogni costo, i serbi hanno bisogno sia di buoni leader che di buoni terapeuti. Gli appariscenti ricchi di Belgrado, fieri delle loro relazioni artistiche d'anteguerra con Parigi, potrebbero sentirsi così stanchi di vedersi circondati da paesi membri della UE che un tempo erano loro a dominare – come ancora vagheggiano di fare – da decidere finalmente di arrendersi. La Serbia non può restare ancora a lungo un buco nella ciambella europea, come riesce a essere la Svizzera. «Siamo ancora dieci anni indietro rispetto a un'economia di livello europeo», mi fa notare un economista a Belgrado. «Entrare nell'eurozona oggi sarebbe come installare una cucina di lusso in una casa fatiscente». «Nessun papa filantropico come George Soros è mai intervenuto qui», lamenta un attivista per i diritti umani. Necessariamente, comunque, per molti serbi il pragmatismo europeo sta sostituendo il vecchio nazionalismo masochista. Un peer group di paesi del Secondo Mondo centroeuropeo, polacchi, cechi e ungheresi, è attivamente impegnato a convincere i leader balcanici che una governance in stile europeo non è buona solo per la UE, ma anche per loro stessi. Lentamente, la Serbia sta così imitando la Slovenia e la Slovacchia: le pensioni cominciano a essere pagate con decente puntualità, i poliziotti corrotti hanno il fiato sul collo e sempre più studenti secondari (persino quelli privi di relazioni politiche) hanno accesso all'istruzione universitaria4-12. Anche se, ammette un promotore finanziario, «il settanta per cento dei giovani se ne andrebbe all'Ovest se solo il passaporto glielo consentisse». Gli esigenti termini degli accordi con la UE stanno comunque trasformando in risorse le infrastrutture e la geografia della Serbia, con FIAT e Microsoft che sbarcano nel paese per trasformarlo nel proprio hub regionale. Mentre all'Aia proseguivano le tirate verbali di Milošević quello che era il quartier generale del partito, sventrato dai missili della NATO, è stato convertito in un altissimo centro direzionale per la finanza. Un imprenditore serbo sta cercando di attrarre in patria la diaspora nazionale emigrata nella
Silicon Valley dipingendo un paese pieno di donne bellissime e disponibili: «Visto che abbiamo perduto così tanti fratelli in guerra, le possibilità sono enormi!». Bosnia. L'Homo Balcanicus e Bruce Lee Percorrere in macchina le zone interne dell'ex Iugoslavia significa imbattersi in parecchie scene di quella crudele allegria degli antiquati rituali nazionalisti ritratti dal film italiano Elvjs e Merilijn, in cui due aspiranti attori romeni si aprono coraggiosamente la strada attraverso i Balcani in guerra per raggiungere un nightclub sull'Adriatico. Ai posti di blocco le forze di polizia obbligano i passeggeri degli autobus a starsene seduti senza ragione a notte fonda su ponti in mezzo alla terra di nessuno per poi permettere a tutti di riprendere la strada. La disonorevole domanda «Questa è Europa?» un tempo era usata per rimproverare agli europei il loro mancato intervento per salvare la Bosnia dal genocidio e dallo smembramento. «Questa è Europa», oggi, è invece una concisa constatazione dell'unico comune denominatore che resta fra nazioni che, malgrado un decennio di guerra omicida, non sono ancora Stati-nazione etnicamente puri. Mentre cerca di rimettere insieme le tessere del puzzle balcanico per ottenere un'immagine con un qualche senso, la UE accelera il passaggio della Bosnia da abisso del conflitto negli anni Novanta a nodo centrale della sua espansione a est. La UE non ha distrutto i Balcani, ma di certo deve ancora guadagnarsi la fiducia. Negli ultimi dieci anni l'Unione ha spalmato copiose quantità di colla diplomatica per tentare di ricomporre quel vaso rotto che sono i Balcani, dando definitivamente l'addio, con questo, alla sua storica dipendenza dall'America per la propria stabilità militare interna, con un processo paragonato da uno studioso «a una persona che deve usare a lungo le stampelle dopo un grave incidente» 4-13. Ma con metà delle forze armate disponibili dislocate nelle regioni balcaniche meridionali, il massiccio apparato neocoloniale della UE – ironicamente ribattezzato il «Raj Europeo»4-14 – si è anche arrogato poteri d'emergenza, un gesto che si è pericolosamente avvicinato alla vera e propria ingegneria politica allorché sono state licenziate in fretta decine di regolari funzionari serbo-bosniaci. Per evitare il risentimento dei propri futuri cittadini gli europei hanno compreso che, da ora in poi, una tale amministrazione fiduciaria burocratizzata deve essere «scansata come la peste»4-15. Quel futuro, tuttavia, non è ancora arrivato, e nella Bosnia di oggi è ancora vivo e vegeto un forte, seppur latente, tribalismo. La Republika Srpska ha inizio ad appena dieci chilometri a est di Sarajevo, e quando si esce dalla città si sente ancora aleggiare la fredda nebbia della paura. Sarajevo resta la Bogotà dei Balcani, la capitale di un paese diviso in tre fazioni rivali, ciascuna delle quali prospera in un opaco status quo. Con i cartelli criminali e le formazioni paramilitari a garantire sanità e pensioni per conservare la lealtà della popolazione, quest'ultima non sa esattamente di chi si deve fidare – anche perché quelli che oggi guidano i trattori nei campi guidavano i carri armati fino all'altro ieri. Il criminale di guerra serbo Radovan Karadžić, il "macellaio di Bosnia", è ancora latitante4-16. «Vogliamo che l'Europa ci restituisca il controllo del paese, ma a noi, non certo a quella gente», sottolinea un giornalista bosniaco all'interno dello Holiday Inn di Sarajevo, appena rimesso a nuovo e ridipinto di un giallo brillante dopo anni di bombardamenti. Quando si entra in città scendendo dalle strade attorcigliate attorno ai monti ci si imbatte subito nelle facciate coperte di cicatrici delle case, giusto di fronte alle colline da cui i cecchini serbi rovesciano fuoco sulle grandi arterie del centro, secondo il piano della campagna di Ratko Mladić per condurre gli abitanti della Bosnia alla follia e alla sottomissione. Il rancore domina ogni angolo della vita della generazione più anziana di ex iugoslavi, al punto da imporre la sostituzione delle iscrizioni in cirillico sull'edificio del teatro nazionale bosniaco. A causa della proprietà incerta, Io scheletro carbonizzato di uno shopping mall se ne sta ancora lì, in pieno centro. Tutte le economie balcaniche denunciano gravi deficit e alta inflazione, mentre i dati sull'occupazione non sono affidabili per la grande quantità di persone che lavora nella nebulosa del mercato nero, con gruppi di serbi, croati e bosniaci che prendono la strada per l'Iraq in cerca di lavoro come contractors. Gli unici autobus moderni che percorrono le stradine del centro della città sono un dono della UE o del Giappone. Nella vecchia Sarajevo, tuttavia, si assiste a una certa rinascita generazionale. A pochi passi dal ponte
sulla Miljacka, dove l'arciduca Francesco Ferdinando fu assassinato nel 1914, i ragazzi si godono la vita notturna che si potrebbe trovare a Barcellona o a Beirut. L'Homo Balcanicus, con il suo tipico aspetto poco raccomandabile, sfreccia su auto e motociclette smisurate che recano targhe europee – rubate, probabilmente. Fra i pochi veicoli non vistosi si incontra soprattutto la Yugo, la microcar di culto che era venduta a prezzo stracciato negli anni Ottanta. Dalle discoteche la musica techno viene sparata direttamente in strada, mentre la pubblicità della Red Bull sugli ombrelloni dei caffè all'aperto rivela quale sia il carburante della gioventù locale. I vecchi proprietari degli alberghi se ne stanno svegli a sbadigliare tutta la notte per accogliere i turisti europei che rientrano nelle prime, nebbiose ore del mattino. «Tutto questo», mi spiega un ingegnere in una discoteca underground, «è cominciato poco dopo la fine della guerra. Tanti di noi sono andati in Germania e altrove per finire la scuola, ma siamo ritornati tutti appena possibile. Non possiamo abbandonare la Bosnia proprio ora che il nostro compito è di ricostruirla». Una statua di Bruce Lee – un simbolo della lotta contro le divisioni etniche – campeggia a Mostar, vicino a quel ponte, ora rimesso in piedi, la cui distruzione fu il simbolo più potente della discesa della nazione nell'abisso. Chiese e moschee sono in fase di ricostruzione in ogni angolo dei dintorni di Sarajevo, che sotto il loro manto cerca di recuperare il proprio ruolo di "Nuova Gerusalemme". Come mi dice una cameriera a Mostar, «noi giovani non siamo più ossessionati dall'antica eredità ottomana. Semplicemente non ci interessa di che religione sia l'uno o l'altro, proprio come succedeva un tempo». La percentuale di serbi e croati che vede il proprio futuro in Bosnia e in Erzegovina è raddoppiata, come anche il numero di coloro che sono convinti che la guerra non scoppierà di nuovo dopo l'inizio del "governo coloniale" europeo. A dieci anni da Dayton il governo bosniaco ha sostituito la sua Costituzione tripartita con un sistema unificato e non basato sull'appartenenza etnica, un sistema assai più appropriato a una nazione europea multietnica. Su molti edifici restaurati già sventola la bandiera della UE, assai più visibile di quella della Bosnia. La valuta artificiale del paese, il "marco convertibile", sarà sicuramente rimpiazzata dall'euro, dato che i paesi membri non hanno bisogno di una propria moneta. Certo, l'appartenenza all'Unione non è di per sé una cura, quanto piuttosto un certificato di buona salute che viene rilasciato dopo che la mano invisibile dei "criteri di Copenhagen" per le riforme politiche, economiche e infrastrutturali ha dimostrato di avere avuto effetto; connettendo in questo caso le diverse membra balcaniche al loro nuovo cuore europeo. In Macedonia il meccanismo ha funzionato: un preventivo schieramento di peacekeeping ha impedito il disastro al momento dell'uscita dalla Iugoslavia, mentre forze di stabilizzazione ne hanno assicurato i confini per garantire l'indipendenza. Usando quella strategia che impiegherebbe un severo allenatore di calcio per governare una squadra indisciplinata, l'Unione sta facendo rispettare un patto di stabilità all'intera area dei Balcani meridionali per creare un altro peer group subregionale, facendo capire che nessuno di quegli Stati potrà essere accolto fino a che tutti non possiederanno i requisiti richiesti4-17. «Stiamo già lavorando all'europea», spiega un esule bosniaco che ora dirige la sede di una ONG occidentale, «prepariamo i futuri leader politici di ciascuna nazione insieme, anziché paese per paese». Gli elementi finali di questo programma in stile Piano Marshall per l'Europa sudorientale sono costituiti dal rimpatrio dei profughi bosniaci e kosovari e dalla costruzione di nuove reti di trasporto dall'Austria all'Albania4-18. L'Albania, il paese più povero del continente, è ancora sconosciuta alla maggior parte degli europei fatta eccezione per le notizie degli emigranti clandestini che attraversano in gommone l'Adriatico per raggiungere l'Italia, come fanno gli haitiani e i cubani che cercano di arrivare in America. Ma prima che i simboli architettonici del dominio greco e veneziano crollassero definitivamente, l'Europa è tornata in Albania per presiedere alla sua metamorfosi da isolato sistema burocratico del Terzo Mondo stalinista a incarnazione della modernità europea4-19. Seguendo le indicazioni della UE, gli investimenti stanno lentamente penetrando i mercati e le distese vinicole del paese, mentre i turisti la stanno già scegliendo come luogo di vacanza alla moda per le sue spiagge tranquille e la birra a poco prezzo. Nei Balcani l'ambigua politica dei confini di Elvjs e Merilijn viene lentamente sostituita dagli eurocity tedeschi ad alta velocità. «Se possiamo arrivare qui in treno», scherza un turista italiano, «vuol dire che siamo in Europa». Ma sono le strade, ancora una volta, ad allargare le frontiere d'Europa. Si parte da Budapest in
direzione est e, una volta passata Belgrado su autostrade di nuova costruzione, si può puntare a sud, verso Skopje (Macedonia) e Salonicco (Grecia), oppure a est, verso Sofia e Istanbul – itinerari che per una volta non ricalcano l'antica rete bizantina di strade lastricate che collegavano Belgrado a Costantinopoli. Questo ricongiungimento stradale fra l'Est e l'Ovest della Drina – che nel IV secolo d.C. divideva la pars orientis dalla pars occidentis dell'impero romano – è un passo storico e simbolico significativo verso la riconciliazione della regione e la nascita di un commonwealth europeo 4-20. La strada per la soluzione della questione orientale sta così compiendo – in senso letterale – una svolta che nessuno aveva previsto: l'ingrediente cruciale per la definitiva europeizzazione dei Balcani coinvolge non soltanto la Grecia, ma anche la Turchia, in cooperazione fra loro. Se per secoli l'Europa ha combattuto i turchi per il controllo dei Balcani, ora si è unita a essi per salvarli.
5. Verso est e verso ovest. La Turchia in marcia Venus Williams ci ha giocato a tennis sopra; David Coulthard lo ha attraversato in Formula 1. Il ponte sul Bosforo – un ponte sospeso di un chilometro e mezzo sottile come una cialda di wafer, inaugurato nel 1973 per il cinquantesimo anniversario della fondazione della Repubblica turca – è il simbolo di Istanbul, nonché della posizione unica della Turchia quale porta d'ingresso che collega Europa e Asia. La Turchia occupa uno spazio così vitale che di per sé basta a cancellare l'idea che i continenti siano qualcosa di distinto l'uno dall'altro. Costantinopoli fu la capitale dell'impero bizantino per undici secoli, e poi, con il nome di Istanbul, la sede del potere ottomano, esteso dai Balcani e dall'Anatolia fino all'Asia centrale, che arrivò a lambire le mura di Vienna nel 1687 5-1. A cavalcioni sul sottile Stretto dei Dardanelli, la città controlla due passaggi: quello ovest-est fra Europa e Asia e quello nord-sud fra Mar Nero e Mediterraneo. Durante la guerra fredda la Turchia, ossia l'antico nucleo territoriale anatolico dell'impero ottomano, costituiva l'estremità orientale della NATO, con le funzioni di base avanzata e di punto d'ascolto. Ora, insieme con l'Ucraina, sulla sponda settentrionale del Mar Nero, è una delle due punte del forcone europeo volto verso est, nonché la soglia d'ingresso alla principale danger zone del mondo, l'area compresa fra Siria, Iraq e Iran. La Turchia può amplificare significativamente il peso strategico dell'Europa, e se quest'ultima non trova il modo di avere voce in capitolo nelle opzioni strategiche turche allora il suo eventuale ruolo a Oriente finisce effettivamente ai Balcani. L'importanza della Turchia comincia in Bulgaria. Con una popolazione diminuita tanto da non superare i cinque milioni di abitanti, la Bulgaria è un membro dell'Unione Europea che avrebbe più bisogno di un sindaco forte che di un presidente. Come paese sta letteralmente diventando un quartiere periferico della sconfinata Istanbul – un amalgama cui ci si potrebbe riferire con il termine di "Istanbulgaria" –, che già rappresenta il maggiore nodo commerciale della regione compresa fra Budapest e Baku. Gli uomini d'affari turchi hanno dato un tocco speziato allo skyline di Sofia trasformando i suoi hotel in casinò a proprio uso e consumo. Appena passato il confine, a Edirne, comincia la confortevole autostrada Turca TEM, in origine una pista per gli atterraggi d'emergenza degli aerei militari della NATO che oggi ospita invece una parata incessante di carovane di Mercedes e BMW allegramente guidate dai turchi che fanno la spola fra il paese e l'Europa occidentale, rilassandosi qua e là con il cibo fresco venduto nei "Turk stops" lungo il tragitto. La Turchia, comunque, non è importante solo per dove è, ma per cosa è: lo Stato più potente, democratico e secolarizzato di tutto il mondo musulmano5-2. Come ha ammonito il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nel 2005, «o [la UE] mostra maturità politica e diventa una potenza mondiale, oppure finisce per diventare un club cristiano». Quell'anno alla Turchia è stata assicurata l'approvazione per avviare il negoziato per l'ingresso nell'Unione Europea, che si è così mostrata pronta a diventare un vero métissage di popoli e di culture5-3. E non potrebbe essere altrimenti, se la magnifica Hagia Sophia di Istanbul – che fu una chiesa cristiana bizantina prima di essere trasformata in moschea dagli ottomani – è ancora ugualmente onorata da cristiani e musulmani. I negozi esotici, le gallerie d'arte di tendenza e gli hamam profumati hanno reso la capitale turca una nuova Berlino, e proprio a Berlino il quartiere di Kreuzberg è chiamato «la piccola Istanbul». Come vanta, in mezzo alla musica a tutto volume, uno spigliato PR di un club della città, «un DJ europeo che non abbia fatto serate qui a Istanbul non è di
alto livello». Mentre la Turchia diventa più europea, l'Europa diventa più turca. La domanda chiave, oggi, è se fra la civiltà europea e quella neo-ottomana ci sarà alleanza o perpetua tensione. Certo, le relazioni turche con la UE sono diventate parecchio più civili dai tempi dell'assedio ottomano di Vienna, ma la stessa taglia del paese – quasi settantacinque milioni di abitanti sensibilmente più poveri della media dei paesi occidentali – potrebbe essere un ostacolo sulla via della sua membership a pieno titolo. Quando la Comunità Europea, più di quarant'anni fa, iniziò i colloqui per l'ingresso della Turchia, il cuore del problema risiedeva quasi esclusivamente nel progresso dell'economia turca, mentre non si discusse molto di governance, anche perché all'epoca una politica estera europea comune non esisteva – e del resto questo era compito della NATO, di cui la Turchia è uno dei membri di più vecchia data. Ma ora che ha il compito di rendere omogenea la sovranità dei propri membri, la UE dovrà affrontare il problema senza girarci tanto attorno. Per una nazione che ha condotto guerre praticamente con tutti i propri vicini, la politica estera della Turchia odierna è un caso di ironia da studiare. Prima della prima guerra mondiale la "Sublime Porta" – così era conosciuta la corte ottomana – flirtava abilmente con gli ambasciatori tedeschi, inglesi, austroungarici, russi e francesi senza mai prendere impegni con l'uno o con l'altro. Nel 1913, con il sostegno della Russia, le popolazioni ortodosse della Grecia, della Serbia e della Bulgaria si liberarono definitivamente dal dominio ottomano. Dopo la prima guerra mondiale Mustafa Kemal (cui l'Assemblea nazionale turca conferì il titolo onorifico di Atatürk nel 1934), padre fondatore e profeta secolare della Repubblica turca, imboccò quella strategia di «pace in casa, pace fuori» che ancora anima la visione dell'attuale diplomazia "multidirezionale" di Ankara, una specie di esercizio da trapezisti che mira a mantenere contemporaneamente buoni rapporti con Europa, America, Russia, paesi caucasici, Iran, Siria e Israele. A quasi un secolo di distanza dalla battaglia di retroguardia condotta da Atatürk per liberare Gallipoli occupata dagli inglesi, la Gran Bretagna è il campione della causa della membership UE della Turchia, e persino la Grecia è a favore dell'ingresso nella speranza che ciò persuada i turchi a rinunciare alle rivendicazioni su Cipro Nord5-4. «Sono tempi di alta tensione sulle nostre frontiere orientali, e per questo usiamo la globalizzazione per entrare in amicizia con i nostri vicini arabi e persiani», mi spiega un raffinato diplomatico turco ad Ankara. Malgrado la tradizionale ostilità degli arabi verso la Turchia, retaggio della colonizzazione ottomana, negli ultimi anni gli scambi commerciali turchi con Marocco, Libia ed Egitto sono triplicati. I più recenti ministri degli esteri turchi parlano tutti fluentemente l'arabo, e gli arabi invidiano lo status europeo dell'economia di mercato turca. «Quando siriani e libanesi vogliono seriamente fare affari», proclama una giovane imprenditrice in uno dei nuovissimi boutique hotel di Istanbul, «non soltanto vendono sul nostro mercato, ma diventano nostri partner nell'export verso l'Europa. Siamo molto più professionali e abbiamo il vantaggio di essere dentro». Per gli standard dell'Asia centrale e dei paesi arabi Istanbul è senza dubbio una metropoli pienamente europea. Senza contare che i turchi hanno il pregio di non essere cristiani, ossia di non essere i «crociati spregevoli» detestati da tanti arabi. Del resto né la Turchia né il mondo arabo si vedono l'un l'altro con ostilità, perché entrambi identificano la nuova tirannia con l'interventismo americano. «Gli arabi», mi spiega un corrispondente da Istanbul di AlJazeera, «apprezzano il cocktail turco di moralismo e secolarizzazione. I media turchi e arabi non sono mai stati tanto rispettivamente tradotti come adesso, e inoltre esiste un comune scetticismo verso diverse politiche dell'Occidente. E gli arabi sanno anche che è il proprio deficit democratico a impedire loro di essere all'altezza del modello turco». A questo va aggiunto che la Turchia mantiene legami diplomatici e militari di lungo corso con Israele, che ha riconosciuto nel 1949. E se in lingua farsi la parola "turco" può significare sia 'barbaro' che 'vagabondo', i miliardi usciti dagli accordi sul commercio e l'energia – a cui si deve aggiungere il tacito accordo per la soppressione del separatismo curdo – hanno rafforzato pure i legami fra Ankara e Teheran. La Turchia guarderà sempre in tutte le direzioni alla ricerca di amici, perché può permetterselo. I suoi maneggi con la Russia sono la migliore dimostrazione di come essa possa impegnarsi con il partner che preferisce, senza stare a sentire quello che dicono gli Stati Uniti o la UE5-5. Per secoli la Russia ha cercato di estendere il controllo sulla costa turca del Mar Nero e di arrivare fino allo Stretto dei Dardanelli per garantirsi l'accesso al Mediterraneo. Ora i due paesi hanno trovato una causa comune nella costruzione dell'oleodotto Blue Stream, che attraversa il Mar Nero e sbocca nel porto turco di
Samsun. La Russia è diventata il secondo partner commerciale della Turchia, giusto dietro la UE: società edili turche sono impegnate nella ricostruzione delle fatiscenti strutture russe, e il gas russo è diventato il carburante dell'economia turca. Nel caratteristico emporio di Trabzon, sul Mar Nero – occupata dalla Russia durante la prima guerra mondiale – nessuno registra quello che entra ed esce dagli yacht e dalle altre navi russe che attraccano nello scenografico porto della città, come le tante "Natascha" trasportate fin qui dai paesi slavi e poi smerciate fino a Dubai. «America ed Europa dovrebbero conoscerci meglio prima di trattarci con condiscendenza», afferma con sicurezza un intellettuale di Istanbul mentre sorseggia il caffè, uno dei simboli del paese. «Possiamo negare a tutte e due quello che vogliono, senza rimpianti». America ed Europa giocarono a una specie di tiro alla fune, negli anni Novanta, per assicurarsi la lealtà della Turchia, sinché la guerra in Iraq del 2003 non fece improvvisamente pendere la bilancia a favore della seconda. Se gli Stati Uniti ne davano per scontato l'appoggio all'invasione, il Parlamento turco rifiutò le richieste di Washington di utilizzo delle basi nel paese (il timore era che nell'Iraq del dopo Saddam sarebbe esploso il nazionalismo curdo), di ospitare truppe straniere sul proprio territorio e di vedere diminuire i profitti del settore turistico 5-6. Mentre l'America continuò a restare ferma alla sua vecchia abitudine di pieno affidamento sulla lealtà dell'esercito turco, la leadership civile di Ankara era concentrata nel soddisfacimento dei parametri UE di responsabilità democratica. La paranoia instillata nei turchi dal conflitto in Iraq è arrivata presto a rasentare il surreale: in Tempesta d'acciaio, un thriller turco uscito nel 2005 e subito salito in cima alle classifiche, il protagonista è un agente segreto che fa scoppiare un ordigno nucleare su Washington per vendicare l'occupazione americana della Turchia. Da allora le relazioni USA-Turchia si sono raffreddate al livello minimo su una presunta «partnership strategica», mentre gli scambi commerciali totali della Turchia con l'Europa su base annua sono dieci volte maggiori di quelli con gli Stati Uniti5-7. «Gli americani», si lamenta un analista di Ankara, «sono convinti che sia stato il loro lobbying a nostro favore a far crescere le nostre prospettive di ingresso nella UE, ma tutto quello che hanno ottenuto è stato di rendere gli europei ancora più severi. Il sostegno americano non lo vogliamo più». Alla fine dei conti la UE ha avuto più influenza sulla Turchia di quanta ne abbia avuta su alcuni dei suoi membri più schierati a favore dell'invasione americana dell'Iraq5-8. Se l'Europa ha conquistato il primo posto rispetto agli USA nel pensiero dei turchi, conquistare definitivamente la Turchia resta una sfida di gran lunga più epica. Atatürk proclamò che la Repubblica turca era costantemente in marcia «con passo sicuro […] dall'Est all'Ovest»: la verità è che durante la guerra fredda l'ovest era la sola direzione verso la quale i turchi potessero marciare. Resta il fatto che, ancora una volta, la Turchia può contare sul più formidabile apparato militare della regione – e ne è consapevole. «Sin dai tempi degli ottomani siamo stati gli unici a determinare la geografia politica dell'intera regione. Abbiamo dominato l'Iraq per quattrocento anni, e di certo la Turchia non sarà mai uno Stato remissivo come lo è stata la Polonia»: così, con tono stridulo, un generale turco ad Ankara. I nuovi «giovani turchi» del ceto dirigente politico, in un impeto di autoconsapevolezza, si sono addirittura permessi di riscoprire il loro passato prerepubblicano. Un'indifferenza neo-ottomana nei confronti dell'Occidente che segna il confine fino al quale la Turchia è disponibile a cedere dal punto di vista sociale, politico e diplomatico. Ma alcuni turchi stanno già seriamente – e platealmente – prendendo in considerazione un "piano B" il cui obiettivo non è la membership UE, ma piuttosto una semplice «partnership privilegiata» come quelle della Gran Bretagna e della Russia, che seguono l'Unione solo quando conviene ai loro interessi. In fluttuazione nel limbo dell'ingresso in Europa fin dal 1963, la Turchia può senza dubbio insegnare agli altri aspiranti la virtù della pazienza. Ma al di là dell'accesso, la sua economia ha già tratto enormi vantaggi da quattro decenni di commercio ed emigrazione attraverso l'unione doganale europea. Nei primi giorni dell'avvio delle procedure per l'ingresso in Europa, i contadini e gli allevatori andavano a lavorare nei campi in giacca e cravatta per dimostrare il proprio ethos europeo, e il paese si è nettamente pronunciato in favore della prosecuzione del processo. La prima generazione di Gastarbeiter analfabeti si limitava a foraggiare le rimesse verso i villaggi d'origine dell'Anatolia, ma la seconda generazione di turchi europei è già fatta di nuovi datori di lavoro che trasferiscono in patria ricchezze e competenze professionali investendo in fabbriche e scuole. Nella provincia di Kayseri, nell'Anatolia centrale, i laboratori sfornano a getto continuo grandi stock di tappeti del genere kilim e con questo
incrementano l'agricoltura della zona5-9. L'attuale terza generazione della diaspora turca è attiva da Berlino a Bishkek, in Kirghizistan, e rispedisce in patria grandi somme che contribuiscono a ridurre la diseguaglianza nella distribuzione del reddito in Turchia (una fra le maggiori al mondo insieme con quelle del Brasile, della Cina e degli Stati Uniti). «Ora abbiamo una tale stabilità», riflette un turco residente in Germania mentre si riposa durante il viaggio in auto da Ankara a Kayseri, «che, seppure siamo ancora un popolo di emigranti, non vediamo l'ora di ritornare a casa». E in effetti quello cui ora l'economia turca sta puntando è l'autosostenibilità. Ci volle tutta l'Europa per respingere i turchi nel XVII secolo, e per un paese i cui orizzonti sono di nuovo aperti in tutte le direzioni, la UE dovrà diventare un punto di riferimento non soltanto economico, ma anche psicologico e politico. È una sfida resa estremamente delicata dall'orgoglio turco. Si dice che puoi schiaffeggiare un turco per dieci volte senza che questi faccia niente: all'undicesima, ti ucciderà. E per la verità devono stare attenti a non ricevere un ceffone i turisti che dicono di venire «dall'Europa» invece che da un paese specifico, perché la Turchia è già Europa – ed è molto altro ancora. A Bodrum sono i vip turchi a lasciare che torme di europei ubriachi sciamino sulle spiagge mentre loro si rinchiudono in oasi di lusso annidate fra le spettacolari insenature dell'Egeo. «L'intellighenzia turca è troppo impegnata a godersi il Mar Egeo per preoccuparsi di influenzare l'opinione pubblica europea», ha scritto con sarcasmo in un bel giorno d'estate non molto tempo fa un editorialista turco. La Istanbul-bene si sta già godendo i vantaggi del lifestyle e dell'istruzione europea, anche perché non di rado possiede seconde case in giro per l'Europa. Malgrado tutta la self-confidence turca, l'invisibile colonizzazione dell'Unione Europea procede comunque rapidamente. Come succede con il Pentagono in America, una volta che un programma della Commissione europea è creato è quasi impossibile da fermare. E se anche il presidente francese Jacques Chirac ha dichiarato nel 2005 che la Turchia avrebbe avuto bisogno di una «rivoluzione culturale» per diventare europea, la Commissione ha irremovibilmente tenuto fede al proprio mandato di "lobotomizzare" lo Stato turco. La Turchia forse ha svergognato l'Europa, alla fine degli anni Novanta, costringendola a prenderla sul serio, ma in tutta risposta la UE ha preteso che la Turchia mandasse giù per intero la lettera dell'acquis communautaire – trentacinque capitoli, quattro in più di quelli riservati a tutti gli altri paesi – senza nemmeno garantire la membership alla fine del percorso. E se nel primo Ottocento il visir ottomano Mustafà Reşid Pascià cercò di scimmiottare l'amministrazione europea, oggi la UE ha imposto una massiccia ristrutturazione dei sistemi quasi letteralmente bizantini che regolano le banche e la funzione pubblica, contribuendo a ripulire la massiccia economia in nero del paese e la marginalità della sua business culture e promuovendo parecchie delle sue maggiori iniziative a rischio d'impresa. Lo scintillante skyline di Istanbul è stato costruito con denaro europeo, mentre i regolamenti UE hanno elevato gli standard turchi di lavoro e di qualità del prodotto. Questo approccio da "amante forte" per catalizzare la riforma della Turchia è di gran lunga più efficace della strategia americana per la trasformazione del Messico – che è a sua volta una specie di Turchia. «Geograficamente apparteniamo all'Europa… Ma politicamente?». Questa la scomoda domanda posta dal Premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk durante il processo intentato contro di lui per avere apertamente parlato dello sterminio degli armeni durante la prima guerra mondiale, un gesto che ricade nel quadro dei crimini inclusi nella categoria dell'«insulto all'identità turca» 5-10. A tutti gli effetti, quello che l'Europa ha accelerato senza clamori è un colossale dibattito fra turchi sulla storia politica della loro nazione, soprattutto riguardo alla persecuzione degli armeni e all'ipotetica riunificazione di Cipro. «È senz'altro impossibile valutare», ha osservato un'attivista di Istanbul, «quanto ci sarebbe voluto per offrire simili oggetti di ricerca alle università o per consentire alle donne di raggiungere posizioni di rilievo se non fosse stato per la pressione della UE». Indubbiamente, fra le richieste avanzate dall'Unione Europea la più problematica è quella relativa alla garanzia di maggiori diritti per i curdi e le minoranze non islamiche. Dopo vent'anni di guerra spietata tra le forze armate turche e i separatisti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), per lo più attivi nel Sudest della Turchia, lungo il confine con l'Iraq, dai dieci ai dodici milioni di curdi sparsi in tutto il paese hanno potuto sperimentare un miglioramento della propria integrazione sociale, economica e politica grazie al progresso dei programmi governativi in materia. L'alta disoccupazione è ancora una questione di vita quotidiana nel distretto di Diyarbakir, popolato da una maggioranza di contadini curdi, dove sono
infiammati disordini in occasione della celebrazione della festa curda del Newroz del 2006. E tuttavia le arterie militari di comunicazione che prima erano usate per fronteggiare la guerriglia del PKK oggi sono state estese per i traffici con la Siria e l'Iran, finendo per essere utili anche agli agricoltori curdi della regione. L'abolizione della pena di morte nel paese, anche per la mente del terrorismo curdo, Abdullah Ocalan, avrebbe probabilmente richiesto decenni in assenza delle sollecitazioni europee, che hanno colorato il dibattito di tinte politiche, laddove in precedenza erano puramente emotive. Davanti al mausoleo di Atatürk, ad Ankara, il cambio della guardia eseguito con lentezza e maestosità dai soldati che marciano al passo dell'oca è il simbolo di una lealtà senza compromessi verso uno dei pochi leader mondiali che sanno riscuotere rispetto in patria e all'estero. In qualità di depositario dell'ortodossia kemalista, l'esercito ha fatto uso parecchie volte, in Turchia, della propria capacità di intervenire come deus ex machina, l'ultima delle quali è stato il "colpo di Stato postmoderno" inscenato per far uscire di scena l'antioccidentale e filoislamico Necmettin Erbakan, nel 1997 5-11. Ormai, però, quanto a livello di professionalità i politici turchi sono in grado di sfidare l'esercito, e con il sostegno della UE sono riusciti persino a sottometterlo, come nel caso del Consiglio per la sicurezza nazionale che oggi è presieduto da un civile e conta una maggioranza di esponenti civili fra i suoi membri. Al giorno d'oggi le due élite della Turchia, quella civile e quella militare, considerano se stesse l'elemento chiave della modernizzazione, vigilandosi a vicenda e tenendo sott'occhio le tendenze islamiste presenti nella società. Ancora più importante, i ceti dirigenti laici, gli alti comandi dell'esercito e gli stessi islamisti vedono tutti nell'europeizzazione un fattore più importante del diritto consacrato dei militari di intervenire nella vita politica5-12. La UE, insomma, aiuta la Turchia ad addomesticare se stessa. Al tempo stesso la Turchia resta l'esempio più compiuto di come islam e modernità possano non soltanto coesistere, ma prosperare insieme. A Konya, i dervisci eseguono roteando la loro danza rnevlevi sema in onore di Rumi, il mistico poeta del sufismo. Danzando in cerchio nella trance che dona la rivelazione, essi sono la prova che le forze spirituali spingono la Turchia dall'interno allo stesso modo in cui la geografia la spinge in due direzioni. I turchi hanno cercato di delineare l'intepretazione di un islam nazionale svincolato dalla divisione fra sunna e shi'a, dichiarandosi prima di tutto turchi e in secondo luogo musulmani5-13. La popolazione della Turchia è in gran parte dominata dalle varianti islamiche di ispirazione alevi e sufi, ciascuna delle quali ha accolto la secolarizzazione che è stata imposta da Atatürk e che oggi è accettata anche dal Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), musulmano sunnita ma fermamente filoeuropeo: i suoi tanti intellettuali, del resto, non si definiscono «islamici riformati», quanto piuttosto «democratici conservatori», e hanno fornito più di una prova delle proprie credenziali democratiche, l'ultima nel corso di quello psicodramma nazionale che sono state le elezioni politiche del 20075-14. Oggi la Turchia, unica nazione accanto alla Francia, proibisce il velo alle donne che ricoprono incarichi governativi e universitari. È anche uno fra i maggiori produttori al mondo di intimo femminile, e allo stesso tempo di castigati completi da bagno disegnati secondo le norme islamiche. Quando il richiamo alla preghiera del muezzin copre le telecronache delle partite di calcio, i proprietari dei ristoranti non ci pensano un attimo ad alzare il volume della TV. Queste tre tendenze della società turca – sviluppo, democratizzazione, modernizzazione dell'islam – sono esattamente le stesse che Stati Uniti ed Europa vorrebbero essere in grado di promuovere con una tale coerenza nel mondo arabo. Resta il fatto che l'aumento del peso culturale dei movimenti islamisti nella società turca è un dato reale, che trova i propri capisaldi nelle affollate ed energiche gecekondu, le baraccopoli ai margini di Istanbul – dove ha la propria base elettorale l'ex sindaco della città e attuale primo ministro Recep Tayyip Erdoğan –, come nello sconfinato Est rurale della nazione. A est di Konya la cultura e il paesaggio si trasformano lentamente, segnando il passaggio dall'Europa all'Asia. Campi di grano, chioschi che vendono meloni, baracche di riparazione di auto ai lati della strada, mandrie vaganti di bestiame e rifiuti sparsi sul terreno sono tutti segnali di quest'altra, più vasta Turchia. Mentre si guida accanto a sterminate fila di alberi macilenti si vedono i trattori sostituire l'automobile quale forma di trasporto interno ai villaggi; i clacson melodici degli autocarri sono gli stessi che si sentono risuonare nell'Asia centrale, e i nomi delle vie diventano sconosciuti e irrilevanti. Le donne, per lo più, indossano il foulard; ogni anno si ha notizia di parecchie centinaia di omicidi per motivi d'onore; i profili quadrati dei forti e delle moschee dei selgiuchidi richiamano un'epoca più selvaggia della migrazione turca verso ovest.
Questo esteso fianco di levante fatto di foreste di pini e di placidi laghi costituisce la sporgenza strategica della Turchia, un patrimonio geopolitico di cui l'Europa non può fare a meno. L'Europa ha sempre più bisogno della Turchia, sia come ponte energetico dell'Eurasia sul quale il petrolio e il gas della Russia, del Caspio e dell'Iran arrivano fino ai Balcani, sia come fattore di stabilizzazione nel Caucaso. Ma se anche il governo di Ankara costruisce ponti e tunnel stupefacenti che attraversano muri di roccia per unificare tutti gli angoli dello Stato, la sua geografia e la sua cultura ci dicono che la Turchia non apparterrà mai esclusivamente all'Europa. La superpotenza europea deve diventare una superpotenza euro-turca.
Il Mar Nero, il lago d'Europa Per secoli, le aspirazioni imperiali russe, ottomane e persiane sono sfociate nel Mar Nero e hanno trovato la propria confluenza nelle sue acque scure e tranquille. Il sito archeologico più importante della Crimea, l'antico avamposto romano di Chersoneso, ora alla periferia di Sebastopoli, trae il proprio nome dalla parola greca che sta per 'penisola'; è il luogo in cui avvenne il battesimo cristiano del principe Vladimiro il Grande, nel 988, dopo il quale l'impero bizantino cominciò a svanire, osservando l'ortodossia raggiungere Kiev e Mosca. Persino i genovesi furono tra i padroni della cosmopolita Crimea, seppure per breve tempo, nel XIV secolo. Nel Medioevo il Mar Nero era il cuore del commercio mondiale, che legava Venezia alle tribù turche e mongole dell'Asia centrale. Nel corso dei tre secoli di controllo ottomano, i mercanti europei ne parlavano come del "lago turco". Nel XIX secolo il Mar Nero fu spinto nel vortice della geopolitica: inizialmente le potenze europee cercarono di smembrare l'impero ottomano per assicurarsi il controllo dello Stretto del Bosforo, ma dopo che la Russia, sotto lo zar Nicola I, sbaragliò le flotte della Sublime Porta, Gran Bretagna, Francia e Austria accorsero per impedire che quel mare diventasse il "lago russo". La guerra di Crimea divenne così il fronte occidentale del "Grande Gioco" fra inglesi e russi in Asia centrale5-15. Il Mar Nero di oggi è stato definito il "triangolo delle Bermude" dell'analisi strategica, una zona collocata al confine tra gli spazi di sicurezza europeo, eurasiatico e del Medio Oriente senza essere vitale in nessuna di esse5-16. Eppure quello cui si assiste è la ricostruzione di un'unità organica e poliedrica che lega assieme le nazioni che si affacciano sulle sue sponde, questa volta nell'ambito del commonwealth europeo. Piazza Maidan a Kiev, ad esempio, dove è stata inscenata la rivoluzione arancione, deve il suo nome al termine farsi che indica uno spazio multifunzionale dedicato alle fiere e al commercio. La Crimea resta la patria di quasi un milione di tartari, i discendenti dell'orda mongola, dei bulgari del Volga e delle tribù turche sparse lungo i bacini fluviali del Volga e del Don, e allo stesso tempo è legata ai tanti tartari del khanato di Crimea che attraversarono il Mar Nero per rifugiarsi in Turchia dopo l'annessione della penisola da parte dei russi. L'altro porto ucraino sul Mar Nero, Odessa, costruita nel XIX secolo da architetti internazionali ingaggiati da un'aristocrazia proveniente dalla Francia, dall'Austria e dall'Inghilterra, è tornato a essere un luogo di intenso contrabbando in arrivo dall'Europa occidentale e in partenza per destinazioni lontane come l'Estremo Oriente, a sottolineare il recupero della primitiva importanza della sua collocazione geografica. Certo, una percentuale crescente delle importazioni europee di energia proviene dalle regioni a est del Mar Nero. Nello sforzo appena velato di controbilanciare l'influenza russa nella regione e di riportare in auge un senso di cameratismo, Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldavia hanno dato vita, alla metà degli anni Novanta, a un gruppo diplomatico regionale che, dopo l'uscita dell'Uzbekistan, è ora distinto dall'infelice acronimo di GUAM 5-17. Uno sforzo strategicamente più rilevante si è espresso nella forma del gruppo di Cooperazione economica del Mar Nero (BSEC), che comprende Romania, Bulgaria, Ucraina, Turchia, Georgia e Azerbaigian. Il commercio fra le rive del Mar Nero è in rapida espansione, con la Turchia che investe annualmente oltre due miliardi di dollari nell'economia ucraina, contribuendo a rivitalizzarne la vacillante industria cantieristica. Nella prospettiva di una crescente europeizzazione dei suoi paesi litoranei, il Mar Nero sta diventando un "lago europeo" le cui rive orientali sono la testa di ponte dell'Occidente nel Caucaso.
6. Il corridoio caucasico Il Caucaso potrebbe sembrare una quasi trascurabile appendice dell'Anatolia, un'accidentata striscia di terra fra il Mar Nero e il Mar Caspio perennemente adombrata dalla presenza incombente di tre
imperi: quello turco, quello russo e quello persiano. Ma per mettere al sicuro le nuove arterie del petrolio che si irradiano dal Caspio e dall'Asia centrale, l'Occidente deve praticamente colonizzare le microrepubbliche postsovietiche della Georgia, dell'Armenia e dell'Azerbaigian, sul cui territorio quelle arterie passano e senza le quali esse avrebbero ben poche speranze di sopravvivenza. Gli europei sono stati lenti nello sfruttare l'assenza di una direzione interna nell'area del Caucaso, consapevoli della misura del cambiamento necessario in paesi con livelli di sviluppo e di corruzione più vicini al Terzo Mondo che al Primo. Sebbene la strategia europea di democratizzazione corrispondesse storicamente, un tempo, alla strategia di allargamento, sono poi intervenuti i parametri di Copenhagen a garantire ai paesi membri che nessun paese unqualzfied, privo degli standard richiesti – come sono appunto i paesi caucasici potesse essere ammesso. «Lasciamo che sia anche l'estetica della geografia a guidare la nostra riflessione», ha ammesso un diplomatico europeo. «Tutto quello che esiste oltre la Turchia è sempre stato fuori dalla vista e dai pensieri». Il Caucaso è semplicemente dove il non-Occidente ha inizio. Eppure, dal momento in cui la necessità di assicurarsi i rifornimenti energetici dal Caspio ha avuto la precedenza sulle remote prospettive dell'allargamento della UE, l'Occidente sta drasticamente rivedendo il proprio approccio alla questione caucasica con l'obiettivo di recuperare la regione dal suo status di frammentario campo da gioco del neoimperialismo russo. Nei primi anni Novanta la diplomazia americana ed europea era realmente fiduciosa nella capacità della Russia di gestire con onestà lo spazio postsovietico, come una grande potenza residuale dovrebbe fare. Quell'epoca è definitivamente tramontata. Con il proprio stesso impero finito in frantumi, la Russia si è dimostrata molto più brava a disgregare le sue ex repubbliche che non a rimettere in piedi un'autentica Comunità di Stati Indipendenti (CSI), e si riferisce alle nazioni caucasiche come alla propria "casa popolare" – espressione che indica una regione nella quale può proseguire a lavare i panni sporchi della strategia mondiale che pratica meglio, quella del divide et impera. Mosca provoca conflitti e poi interviene, pretendendo di essere l'unica potenza in grado di separare questi bambini litigiosi e di mantenere la pace. Per rompere questo circolo vizioso la nuova grande scommessa dell'Occidente consiste nel fare del Caucaso una parte del "vicino estero" dell'Europa anziché della Russia. Se la scommessa si dimostrerà vincente significherà che le nazioni del Caucaso saranno uscite dal Terzo Mondo e che la sicurezza energetica occidentale sarà assai prossima a essere garantita. La Georgia nei pensieri dell'Occidente Immaginate un paese fatto di villaggi abbandonati, di resti di edifici crollati, di autocarri malconci che eruttano nuvole fetide di gas di scarico, di donne che vendono cereali ai margini della strada, bambini che fanno il bagno nel letto di fiumi in secca e mendicanti smagriti che intasano la capitale. Ora immaginate che questo paese sia abitato da bianchi. Nonostante tutta la retorica sui rovesci di fortuna, le rivoluzioni svelano assai più quanto una società sia spezzata che non quanto radicate siano le sue virtù. In nessun altro paese questo principio è più chiaro che in Georgia, una nazione la cui leadership è così convinta di appartenere all'Occidente da non fare praticamente nulla per mostrarlo. I georgiani sono cristiani, ma non sono europei in alcun senso, malgrado l'indefesso sventolare delle bandiere della UE in tutta la capitale Tbilisi. Al massimo, il paese è una specie di Cuba del Caucaso con palme e strade che sembrano fatte apposta per forare le gomme e obbligare allo slalom tra i bovini. Inoltre, a differenza dei paesi baltici paragonabili per dimensioni, la fama degli straordinari ultracentenari autosufficienti della Georgia si adatta malissimo alla sua classe di governo, fatta di neofiti immaturi e impreparati. Come l'Ucraina e la Serbia – e sicuramente come ogni altro paese che negli anni a venire sperimenterà improvvisi cambi di regime –, nel migliore dei casi la democrazia elettorale georgiana si trasformerà solo lentamente in uno Stato liberale; le violazioni dei diritti umani, la manipolazione del mercato e uno stile di governo da clan continueranno a esistere finché gli incentivi al cambiamento non saranno travolgenti. Il ben fondato timore dell'Europa è che la Georgia debba sperimentare ancora a lungo la sindrome da "affaticamento rivoluzionario" che affligge i suoi omologhi del Terzo Mondo in America latina, che anziché evolvere girano a vuoto in un ciclo di sottosviluppo e instabilità. I sovietici, in realtà, sono stati i più benevoli fra gli occupanti della Georgia, soprattutto se paragonati
a quelle furie scatenate che furono gli arabi, i mongoli e i persiani che li precedettero. Josif Stalin, nato e cresciuto nella città di Gori, nel centro del paese, volle che questa repubblica, pesantemente colpita durante la seconda guerra mondiale, godesse di un basso livello di imposte e fosse considerata il gioiello della corona sovietica. Il regime di Eduard Sevardnadze, negli anni Novanta, riuscì a essere al tempo stesso un caso da manuale di assistenza garantita dagli aiuti europei e un pozzo senza fondo di corruzione. «Poiché Sevardnadze come ultimo ministro degli Esteri sovietico ci aveva regalato la riunificazione della Germania», confessò un diplomatico tedesco, «gli demmo briglia sciolta e lo trattammo con i guanti». La Georgia diventò allora un paese in cui esistevano solo tre modi per tirare avanti: vendere merce rubata al mercato nero, guidare un taxi o darsi al contrabbando – o combinare in vario modo le tre attività. A Gori la gente si sposta con gli stessi risciò a motore a tre ruote che si incontrano nelle città dell'Asia. Nei primi anni che sono seguiti alla "rivoluzione delle rose" del 2003 le cose non sono affatto migliorate. Senza alcuna attività funzionante i villaggi sono diventati città fantasma di vetri infranti e solitari casermoni di cemento. Buone strade migliorano i cittadini, e fino a oggi non si vede una strada decente in tutta la Georgia, metafora di una governance tutta buchi e ammaccature. Il giovane presidente in carica, l'elegante Mikheil Saakašvili, educato negli Stati Uniti, ha chiuso giornali e televisioni indipendenti e ONG che si opponevano alla sua politica. Se sotto Sevardnadze i giudici potevano almeno essere comprati perché fossero imparziali, con Saakašvili le sentenze sono quasi tutte già scritte, naturalmente a favore del governo. La carica di primo ministro, fino ad allora inesistente, è stata creata appositamente per ricompensare il secondo dei tre protagonisti della rivoluzione delle rose, Zurab Zhvania. Ma la successiva rivalità tra Saakašvili e Zhvania è finita in una divisione del governo in due fazioni, l'una a controllare l'apparato di sicurezza georgiano e l'altra l'economia, per concludersi con la morte di Zhvania in circostanze misteriose. Nei casi in cui la legislazione emanata dal Parlamento fosse in contraddizione con le vedute del presidente, quest'ultimo non ha mai mancato di avere la meglio. Nel paese non esistono veri e propri partiti, soltanto gruppi di interesse i cui indirizzi mail finiscono immancabilmente in "gov.ge". Nessuna sorpresa se in tanti diventano nostalgici del comunismo. Quando un governo premia gli interessi del leader piuttosto che quelli delle istituzioni sono i cittadini a perdere. Preoccupati di racimolare ovunque contributi simbolici di truppe per la guerra in Iraq, gli Stati Uniti hanno conservato una risoluta preferenza per la finta democrazia «caricate, puntate, fuoco!» di Saakašvili, restando politicamente ciechi davanti al deteriorarsi della realtà nel paese. «L'America ha una tale fiducia nella rivoluzione delle rose», si sfoga un attivista politico a Tbilisi, «che i nostri gruppi che si battono per i diritti umani non ricevono più finanziamenti dalle sue agenzie». Saakašvili è stato avviato alla carriera politica proprio dal predecessore che egli aveva destituito, ed è persino arrivato ad addestrare quadri di «Giovani pionieri», ragazzini che imparano la lealtà al regime esercitandosi con il kalashnikov. I ministri cambiano di posto come nel gioco della sedia, e assomigliano, come ha fatto notare con rabbia un analista georgiano, «a uno zoo in cui alcuni animali non sono stati addomesticati». Per la verità non è certo facile governare un paese in cui solo l'industria del vino è sopravvissuta alla vecchia amministrazione sovietica. Per quindici secoli Tbilisi è sempre stata la metropoli dominante nella regione, ma al tempo stesso le relazioni centro-periferia sono sempre state governate dalla tensione6-1. Prima di rifugiarsi a Mosca, nel 2004, Aslan Abashidze, il signore della guerra della regioneporto di Ajara, al confine con la Turchia, intascò tutti i proventi delle dogane e cercò (con l'appoggio dei russi) di fomentare una guerra civile. Contemporaneamente Saakašvili provvedeva a convogliare su Tbilisi tutta la scarsa energia elettrica del paese con lo scopo di mantenere tranquilla la popolazione e proibiva un regolare confronto per l'elezione del sindaco della capitale, nominando un uomo di sua fiducia. I fondi occorrenti per lo start-up del governo Saakašvili sono stati ottenuti con operazioni ricattatorie ai danni di alcuni imprenditori della regione, intimiditi affinché finanziassero i servizi pubblici come contropartita alle tasse che non avevano mai pagato. Una società con ottime coperture ha corrotto alcuni rifugiati perché lasciassero le abitazioni che erano state loro assegnate nel centro di Tbilisi, convertendole poi in uffici. Gli hotel e le boutique di lusso della Georgia non sono che paraventi per il riciclaggio di denaro sporco, e ogni mattina gli sgherri della mafia locale passano puntuali a ritirare valigette colme di banconote. Nella capitale la prima cosa che colpisce è vedere come
lo status symbol più desiderato sia indiscutibilmente la Mercedes nera con i vetri oscurati, che spesso circola con la sua targa tedesca originale. Con il tempo si potrà assistere alla diminuzione della corruzione e al miglioramento del prelievo fiscale e del ruolo della polizia, ma non c'è dubbio che questo richiederà un vigoroso aiuto dall'esterno in grado di rimpiazzare l'attuale credo nel laissez-faire e nelle virtù delle presunte rivoluzioni. «Al diavolo i russi!», ha esclamato Saakašvili per la frustrazione di vedere il costante appoggio russo ai movimenti secessionisti attivi in Georgia. Ma si è trattato di qualcosa di più di una semplice supplica rivolta a Stati Uniti ed Europa perché condannassero le intromissioni di Mosca e chiudessero gli occhi sul ruolo della Georgia come crocevia del traffico d'armi e del contrabbando di uranio destinato a fini militari. Al confine con l'Azerbaigian è attiva una mastodontica struttura doganale, finanziata dagli USA, dotata di tecnologie ipermoderne per l'individuazione di materiale radioattivo: ma è troppo poco per respingere le persistenti intromissioni russe, comprese le attività di smaltimento di missili nucleari inesplosi in un sito presso Tbilisi. Dopo la perdita dell'Ucraina e della Georgia, alla Russia è rimasta soltanto una sottile striscia di litorale del Mar Nero, resa ancora meno strategica dalla scelta dell'Azerbaigian di interrompere il pompaggio di petrolio verso il porto russo di Novorossiysk. Lo smantellamento delle missioni di monitoraggio dell'OCSE, la concessione del passaporto russo agli abitanti dell'Ossezia del Sud e il sostegno al movimento separatista della provincia costiera nordorientale dell'Abkhazia sono funzionali allo sforzo della Russia di frammentare la Georgia al fine di tenere a portata di intervento militare l'Armenia, spalleggiata da Mosca nel suo conflitto contro l'Azerbaigian sul territorio conteso del Nagorno-Karabakh. Con le sue società di copertura, la Russia continua a sfruttare le risorse di oro, rame e legname della Georgia, rallentando clamorosamente la crescita del reddito nazionale necessaria a evitare l'ulteriore divisione di questa già minuscola nazione. Quando Tbilisi ha chiesto a Mosca di evacuare le proprie basi militari nel paese, la risposta è stata un raddoppio del prezzo del gas – in pieno inverno –, secondo quella schema di ricatto praticato da Gazprom di cui pure gli ucraini hanno fatto le spese. «Per un piccolo paese», spiega lo studioso georgiano Alexander Rondeli, «è estremamente rischioso avere come vicina una nazione grande e potente. Per un piccolo paese un errore strategico non è solo un lusso, ma può significare il suicidio. La diplomazia, in linea teorica, è l'unico strumento di politica estera disponibile»6-2. Vero è che il dominio della Russia sulla regione potrebbe crollare sotto il proprio stesso peso. Malgrado sia alla fine riuscita a domare la ribellione in Cecenia, la Russia è ben lontana dall'avere legittimato il proprio controllo sulla vasta regione musulmana del Caucaso del Nord e sulla Repubblica del Tatarstan, che con la sua moschea di Kazan, la più grande d'Europa, costituisce un ambiente ospitale per i sentimenti antirussi6-3. Il fiero carattere dei ceceni dipinto da Tolstoj in Chadzi-Murat ha guastato i piani della Russia per secoli – e potrebbe tornare di nuovo alla ribalta. «Hanno cercato di cooptare la Cecenia», ha osservato un diplomatico georgiano a proposito dell'imponente moschea recentemente costruita dai russi a Grozny, appena più piccola di quella di Kazan, «ma la Russia non ripiega mai sulla strada più facile, sembra sempre che cerchi di rendersi le cose più difficili». Una sfera d'influenza è una sfera di responsabilità: questo significa che le strategie occidentali di approvvigionamento energetico e di democratizzazione devono confluire nella costruzione di un'altra subregione europea nel Caucaso, il che fra l'altro contempla il progressivo ritirarsi dell'influenza russa. Durante gli anni Novanta le aziende di energia rappresentavano i principali rappresentanti dell'Ovest nel Caucaso, comportandosi come agenzie diplomatiche informali che curavano i propri interessi ma erano sostenute da un preciso disegno strategico. Era in ballo «l'affare del secolo», come veniva chiamato allora: la pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), la seconda più lunga al mondo, costruita per lo più sottoterra per evitare le aree a rischio – il percorso aggira completamente l'Armenia – e terminante sulla costa mediterranea della Turchia, un condotto in grado di convogliare quasi il 10 per cento del petrolio mondiale6-4. Alla sua inaugurazione, nel 2005, Saakašvili lo ha definito una vittoria geopolitica dell'Azerbaigian, della Georgia e di tutto l'Occidente, «che modificherà seriamente l'equilibrio dei poteri nella regione, portando prosperità e rafforzando l'indipendenza» 6-5. Con il suo conto finale di quattro miliardi di dollari il BTC è comunque un ragionevole prezzo da pagare per l'inclusione del Caucaso nella sfera di sicurezza dell'Occidente. Imponenti autotreni turchi fanno la fila al confine georgiano presso Batumi – una città i cui abitanti
hanno rubato i tombini stradali per venderli come residui ferrosi ai cinesi. La UE, attraverso la Turchia, sta arrivando in soccorso con il progetto di un corridoio stradale multimiliardario che porti sino al cuore dell'Asia. Grazie al collegamento tra ferrovie turche e georgiane i container provenienti dall'Europa possono viaggiare via Istanbul fino a Baku, e da qui attraversare in nave il Caspio sino al Kazakistan e proseguire eventualmente fino alla Cina. Naturalmente il percorso può procedere anche all'inverso. La Georgia tratta con una certa sufficienza la Turchia, nella prospettiva di sopravanzarla nella fila per l'ingresso nella UE grazie a un accordo con l'Ucraina per l'abolizione dell'obbligo di visto alla frontiera, ma la verità è che, se vuole assicurarsi l'alleanza con l'Unione, la Georgia ha un disperato bisogno della Turchia per garantire la sicurezza del BTC e rimpiazzare le equivoche società russe che operano nel suo territorio. «Adesso che la sicurezza energetica degli occidentali dipende dalla nostra posizione strategica, questo dovrebbe darci una mano a prendere il controllo del nostro paese», ha dichiarato un consulente del governo di Tbilisi nel suo ufficio restaurato con fondi UE. Rimuovere le macerie dell'Unione Sovietica e costruire da zero una nuova Georgia costerà ancora miliardi, ma l'Europa non ha altra scelta. Il BTC fa della Georgia un'appendice dell'Azerbaigian, consentendole di godere degli effetti benefici sui settori dei trasporti, delle comunicazioni, degli hotel e del catering (come accade nelle zone economiche speciali dei paesi del Terzo Mondo). Le banche del paese operano oggi per gentile concessione della Società finanziaria internazionale (IFC), mentre Stati Uniti e Banca Mondiale spendono ogni anno quasi 100 milioni di dollari per acquistare stagionalmente energia elettrica dalla Russia e costruire strade e raffinerie di gas. Per riferirsi ai prolungati conflitti generati dalla schizofrenia demografica imposta a suo tempo dai sovietici è comune usare l'aggettivo "congelati", una finzione altamente inopportuna che incoraggia l'apatia diplomatica. Il Caucaso di oggi è come i Balcani di dieci anni fa: la cessazione delle ostilità non porterà nulla di più dell'illusione della stabilità finché l'Occidente non interverrà attivamente. Le dispute territoriali in Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh non si placheranno da sé grazie a un miracoloso raffreddamento voluto da Dio; al contrario continueranno ad alimentare alienazione fra gli abitanti, dilagare delle armi, traffici illeciti e crescita del peso dell'islamismo radicale. Nuovi nazionalismi vivono nel Caucaso, appena al di sotto della superficie: la Chiesa in Georgia, lo sterminio ottomano in Armenia e, potenzialmente, l'islam in Azerbaigian sono i pretesti su cui si fondano – e sui quali è distortamente giustificato il gonfiarsi delle spese militari6-6. Anche il Mar Caspio, che pure non è ancora delimitato in modo chiaro fra i paesi litoranei, è in via di militarizzazione, con i russi a incrementare il volume della produzione navale nel porto di Astrakhan, sul delta dell'immenso Volga, e a proporre all'Iran una forza congiunta di pattugliamento. Solo con missioni di peacekeeping in tutte queste aree di presunti conflitti "congelati" la NATO e la UE potranno riuscire a fermare una volta per tutte le intrusioni russe e iraniane nella regione. La NATO ha affiancato Georgia e Azerbaigian all'interno di unità militari operative in entrambi i territori per la protezione degli oleodotti, e ha finanziato l'addestramento della guardia costiera azera in vista di possibili operazioni di interdizione contro traffici sospetti dalla Russia o dall'Iran. L'Unione Europea, di suo, sta spingendo la regione verso quel modello federativo transcaucasico che ebbe breve vita poco meno di un secolo fa, tra la Rivoluzione Russa e il consolidamento bolscevico. Samuel Huntington ha avanzato l'idea di un'interminabilità del conflitto che oppone Georgia e Armenia, cristiane, ai paesi musulmani che le circondano, ma attualmente il petrolio sta dimostrando di essere più pesante del sangue nel momento in cui America e UE riescono a costruire legami in grado di tenere assieme tutti quegli Stati nella forma di assistenza militare, oleodotti e strade. Se i confini della Georgia saranno assicurati, allora la sua leadership non avrà più scuse per procrastinare ulteriormente la ripulitura del proprio modo di governare. Come il Primo ministro Zurab Noghaideli ha dovuto confessare davanti all'evidenza dei fatti, «la soluzione sta al 90 per cento nel costruire uno Stato migliore». La Georgia potrebbe così trasformarsi da peso morto minato dalla corruzione a chiave della sicurezza energetica europea. In presenza di una Russia costretta a fare il gioco della settimana fra le sue basi in diminuzione, l'Occidente ha un'occasione d'oro per scalzarla dal suo protettorato sulla regione6-7. L'Armenia, perennemente instabile e ultimamente persino esposta ad attacchi armati contro il Parlamento,
sopravvive dal giorno dell'indipendenza grazie agli investimenti che arrivano dalla Russia, dall'Iran e dalla sua diaspora all'estero (soprattutto in California)6-8. Al posto del perdurare della situazione di incertezza provocata dallo stallo fra Russia e Georgia, dalla normalizzazione delle relazioni con la Turchia l'Armenia potrebbe guadagnare un'apertura delle frontiere a maggiori impegni da parte della UE e l'accesso al suo sacro monte Ararat, attualmente in territorio turco. Con Georgia e Armenia nell'orbita di sicurezza occidentale, Russia e Iran potrebbero persino vedersi costretti a entrare in un più ampio contesto di produzione energetica fra il Mar Nero e il Mar Caspio6-9. Persino nei luoghi in cui ha meno intenzione di arrivare, l'espansione dell'Unione fa gli interessi dell'Europa. Azerbaigian: stappare il Caspio Il Caucaso è l'anello di congiunzione fra l'Est dell'Europa e l'Ovest dell'Asia 6-10. Iscrizioni in latino incise da centurioni romani mostrano che l'Azerbaigian era la frontiera dell'Europa già nel I secolo d.C.; è anche vero, va detto, che i romani abbandonarono la zona dicendo che nessuno poteva vivere nell'inferno del deserto del Gobustan. Alla fine della piacevole discesa dalle foreste montane del Caucaso del Sud, nei pressi del confine con la Georgia, per raggiungere la capitale Baku – il cui nome, abbastanza appropriatamente, significa 'i venti del sole' – occorre attraversare centocinquanta chilometri di terreno rovente. Stretto in mezzo fra il Caucaso russo e la catena del Talish, in Iran, l'Azerbaigian è l'ingrediente che manca nella ricetta strategica che può fare dell'Europa un'alleanza non solo di culture, ma di interessi condivisi6-11. L'Europa adempirà al proprio imperativo geografico solo se riuscirà a ospitare popoli con l'anima asiatica. L'Azerbaigian è la nuova frontiera dell'Occidente, benché quasi nulla sembri segnalarlo. Le moschee medievali, i giganteschi condomini dell'era sovietica e le torri di vetro sono tutti simboli della fusione di Est e Ovest, di passato e presente che si realizza a Baku. Da qui, un tempo, passavano le rotte delle ricchissime carovane di seta e spezie che, attraverso Baku, Tabriz, Samarcanda e Kabul collegavano il mondo turco con quello arabo, con l'India e la Cina. I templi nascosti sui monti Talysh ricordano da vicino quelli del Kashmir. «Nella sagoma, e anche nella cultura», rifletteva uno storico azero, «la nostra nazione sembra un uccello che, per volare bene, ha bisogno dell'ala che sta a est come di quella che sta a ovest». La bandiera nazionale dell'Azerbaigian ha il verde che rappresenta l'islam, il rosso per la libertà e l'azzurro delle tribù turche. Nel 1918 divenne il primo Stato musulmano democratico, in cui le donne, colte e moderne, avevano il diritto di voto. Benché i suoi otto milioni di cittadini siano in larga maggioranza sciiti, il paese ha un carattere fortemente secolarizzato, forgiato dal nazionalismo turco e, successivamente, dall'ateismo sovietico. Il numero di ragazze che frequentano la scuola è superiore a quello dei loro coetanei maschi; nel centro di Baku un monumento del periodo sovietico raffigura una donna che si libera dal velo – proprio di fronte alla sede dell'Iranian National Bank. Tuttavia, se a Baku le donne indossano la minigonna, nella vicina Nardaran fanno la loro comparsa il velo e i graffiti in alfabeto arabo sui muri. Come in Turchia, il risveglio islamico è palpabile in tutto il paese, alimentato dalla liberazione dal giogo sovietico, dalla presenza di rifugiati ceceni e dall'attività delle moschee e dei media religiosi finanziati dall'Iran – spesso i soli segni di sviluppo – nelle regioni lungo il confine meridionale. «Per noi, la soluzione del problema del radicalismo islamico», suggerisce l'allievo di un master a Baku, «sta nell'insegnare l'islam autentico in scuole sotto la supervisione dello Stato, come in Turchia. L'alternativa è che molti disoccupati e giovani vulnerabili abbiano il loro primo impatto con l'islam nelle moschee radicali, come succede nei paesi arabi». Zbigniew Brzezinski definì l'Azerbaigian «il tappo della bottiglia del Caspio» 6-12. Baku ha sfruttato per millenni i suoi depositi di gas e di petrolio: fin dal V secolo a.C. furono costruiti templi sulle spiagge del Mar Caspio dedicati al culto del fuoco. All'inizio del XX secolo la città era il maggior produttore ed esportatore mondiale di petrolio, con i russi che negoziavano i contratti con i Nobel e i Rothschild. Più tardi la Russia tenne sotto stretto controllo il greggio azero, che copriva fino al 70 per cento dell'intera produzione sovietica, e subito dopo l'indipendenza del paese ha cooperato con l'Armenia in un piano per rovesciare il leader nazionalista Abulfez Elchibey6-13. Le terme petrolifere dei tempi dell'Unione Sovietica, in cui ancora si curano i malanni con rilassanti bagni nel greggio, rimangono un regalo duraturo dei decenni di giogo sovietico.
Al tempo stesso, l'Azerbaigian è uno fra i rari luoghi al mondo in cui l'inquinamento rappresenta un'attrazione turistica. La piccola penisola caspica su cui sorge Baku ospita immensi scheletri di condotti arrugginiti, che occupano uno spazio così vasto che il governo non ha ancora idea di cosa farne se non cercare di ridurre al minimo le perdite e organizzare viaggi a pagamento in elicottero sopra piattaforme petrolifere ormai abbandonate in mare aperto. Ciò nonostante, l'Azerbaigian è di nuovo in preghiera – letteralmente – davanti agli dèi dell'energia. La moschea di Bibi Heybat, l'unica finanziata direttamente dal governo azero, se ne sta appollaiata su fatiscenti torri di trivellazione lungo la costa; il suo significato speciale sta nel fatto che, dopo che fu demolita da Stalin, la produzione petrolifera della repubblica subì un crollo. Da notare che, a Baku, il monumento a Marx è stato trasformato in una stazione di rifornimento della Azpetrol. Fra gli azeri corre voce che il paese potrà diventare "il Kuwait del Caucaso". In effetti l'Azerbaigian, da cui proviene una quota crescente delle forniture di petrolio dell'Europa, è già la nazione più ricca della regione. Il ministro delle dogane, che ha inaugurato il nuovo Excelsior a sei stelle della capitale, poteva tranquillamente battezzarlo «Burj Baku», come l'hotel fatto a vela di Dubai. La stessa categoria di architetti europei e baroni del petrolio che costruì il centro di Baku alla fine dell'Ottocento si è rifatta viva per costruire lussuose residenze sui pendii scoscesi che incombono sulla città, mentre ordinatissimi quartieri suburbani sono spuntati da un giorno all'altro. Il punto è che l'Azerbaigian ha avuto il dono del petrolio ma non quello della saggezza. E allora l'interrogativo aperto è se riuscirà ad accumulare una sufficiente quantità di quest'ultima prima che le riserve petrolifere si esauriscano in un determinato momento nei prossimi due decenni. L'Azerbaigian funziona tuttora in base a un ordinamento politico creato da e per un uomo solo, Heydar Alijev. Già direttore del KGB e primo e unico musulmano membro del Politburo, Alijev è stato un leader troppo ingombrante per un paese così piccolo, con il risultato di avere rappresentato, e persino eclissato, con la sua sola presenza l'intero carattere della nazione. La sua successione è stata l'unica opportunità di un vero cambio di paradigma della governance azera. Dopo la sua morte, il passaggio dinastico delle consegne al figlio Ilham è stato accompagnato da finte elezioni che hanno avuto il solo scopo di ratificare l'ovvio. «Chi abbia vinto le elezioni del 2003 dipende dalla persona a cui lo chiedi», ha protestato un rappresentante dell'opposizione in perenne attività per raccogliere sostenitori in patria e all'estero. Gli onnipresenti manifesti degli Alijev padre e figlio – il primo a simboleggiare l'indipendenza, la sovranità e l'eroismo, il secondo la ricchezza e lo sviluppo – emanano un senso di transizione nel segno della stabilità nazionale. Ma è solo facciata. I rappresentanti conservatori della vecchia guardia non possono essere scalzati tanto facilmente dalle loro posizioni, senza contare che possiedono quel know-how di governo che ai giovani funzionari manca del tutto. Il codice dell'aeroporto di Baku resta «GYD», dal nome di Heydar, una metafora del fatto che l'Azerbaigian continua a restare la sua terra, anche dopo la morte. «La corruzione è l'equivalente morale della guerra, perché succhia la linfa vitale dell'Azerbaigian»: così un uomo d'affari azero in esilio, con un parere condiviso da parecchi altri rappresentanti di primo piano della diaspora nazionale. È proprio l'ordine che regna nelle agenzie di viaggi e negli uffici di cambio di Baku a trasmettere un senso di corruzione: se tutto è così organizzato dev'essere perché qualche mano si muove da qualche parte nell'ombra. La maggior parte dei trenta uomini più ricchi del paese è costituita da ministri o deputati (chiamati majlis, come in Iran). L'unica forma di competizione politica fra loro risiede nella gara a chi è un passo più avanti degli altri nell'ostentare ricchezza: quanto si è pagato per ottenere una carica, quante ville ci si è costruiti, quanto è grande la casa a Londra, quanti soldi sporchi sono stati fatti sparire in società apparentemente legali. Ciascuno di loro può raccontare la storiella della polizia che arriva solo per provare la nuova BMW (intendendo, con questo, che non si trattava di un generoso regalo dalla Germania). La stessa dinastia degli Alijev è disposta a scendere a compromessi per meglio sfruttare le occasioni: il divieto imposto al commercio di caviale per proteggere le riserve di storione in forte calo non ha fatto che gonfiare i profitti del contrabbando, naturalmente gestito da amici di Ilham. Un forte riguardo verso la prassi del nepotismo è naturale nel mondo arabo-turco-orientale; il principio dei due pesi e due misure è il modus operandi che domina incontrastato. In realtà il fatto che sia così radicato nella cultura comune non è che una scusa per giustificarlo. «I ragazzi non pensano certo alla pensione», mormora un diplomatico azero durante una
cena in un giardino all'aperto affollato di personaggi che contano. «Tuo zio potrebbe essere un poco di buono, ma resta comunque il fratello di tua madre». Nella cosmopolita Baku le famiglie pagano i funzionari perché trovino un posto ai loro figli nelle scuole d'élite, e questi a loro volta pagano per laurearsi senza studiare. Il modo in cui il governo azero gestirà le entrate energetiche determinerà il destino del paese: se esso sarà in grado di seguire il modello norvegese di sviluppo sponsorizzato dal petrolio o se, come la Nigeria, sarà colpito dalla "maledizione delle materie prime" e resterà uno Stato petrocratico di stile russo in cui i settori dell'energia e della finanza dettano legge e l'asse tra governo e oligarchi manipola il mercato per fare cassa grazie al rialzo del greggio e alla rivalutazione della moneta 6-14. Gli sforzi per dare vita a settori produttivi diversi da quello petrolifero – come anche per sviluppare le regioni non estrattive – sono stati finora assai scarsi fuori dai confini di Baku, e molte province non hanno ancora regolari rifornimenti elettrici. Un diplomatico europeo, durante una visita alle province meridionali vicine al confine iraniano, lo ha detto senza mezzi termini: «Carenze energetiche in un paese ricco di petrolio sono un sintomo discretamente ovvio di cattiva amministrazione economica». Già un milione di azeri si è dovuto trasferire in altre zone del paese a causa delle tensioni nel Nagorno-Karabakh; molti di loro vivono a Baku in condomini sovraffollati, alcuni addirittura occupano uno studentato dell'università senza che il governo abbia dato l'impressione quantomeno di notarli. Il petrolio e la democrazia non si sono accoppiati nel migliore dei modi in Azerbaigian, proprio perché le limitate possibilità estrattive globali incoraggiano a fare cassa approfittando di una produzione ai suoi massimi. Ilham ha licenziato alcuni ministri accusati di finanziare le forze di opposizione e di avere partecipato ad abortiti colpi di Stato contro di lui; altri sono stati arrestati con l'imputazione di evasione fiscale. Sono entrambi segnali di come egli ritenga che il controllo delle fiorenti casse dello Stato sia più importante della democratizzazione. Soltanto nei regimi affetti da paranoia le forze della polizia antisommossa superano il numero dei dimostranti, e il fatto che Ilham alterni la tolleranza delle manifestazioni di protesta alla loro violenta repressione dimostra come molte di esse siano soprattutto messinscene utili alle pubbliche relazioni. La corruzione economica e politica rende il regime degli Alijev un fardello sia per l'Azerbaigian che per l'Occidente. Dopotutto il regime è appoggiato dalla Russia e dall'Iran perché riesce ad accontentare entrambi. L'estromissione fraudolenta di un'impresa turca dalla commesse per l'ammodernamento della rete elettrica del paese ha aperto alla Russia le porte del completo monopolio sulle forniture energetiche nel Sud del Caucaso, e in assenza di un'economia diversificata l'unica fonte alternativa di reddito per l'Azerbaigian restano le rimesse dei due milioni di emigrati azeri in Russia. Il traffico di droga è quasi incoraggiato dai legami fra la politica e le gang attive presso i confini con la Russia e l'Iran. Il risultato è che Mosca non smette di tenere in pugno la politica estera azera, mentre Teheran conserva il suo alto patronato sugli sciiti del paese. La NATO si è mossa per ottenere una base da cui monitorare il Caspio e l'Iran, la Russia ha offerto agli Stati Uniti l'affitto della propria stazione radar di Gabala, ma, come sostiene un analista azero, «abbiamo già i nostri problemi e non abbiamo bisogno che vengano gli americani a peggiorarli». Le inclinazioni dell'Azerbaigian restano incerte come il suo alfabeto, che nel solo XX secolo è passato dall'arabo al cirillico e poi al latino. La domanda fu posta nel 1959 dall'ambasciatore americano alle Nazioni Unite Henry Cabot Lodge jr: «Gli Stati Uniti possono vincere le guerre, ma possono vincere anche le rivoluzioni?». Ilham ha respinto i risultati delle elezioni politiche del 2005, sostenendo che esse «non influenzano la vita del governo». Benché non soddisfacessero gli standard dell'OCSE, Washington ne ha comunque ratificato l'esito. Stati Uniti e Unione Europea avrebbero invece servito meglio i propri interessi se avessero promosso un'opposizione più credibile appoggiando al tempo stesso le frange parlamentari della maggioranza più favorevoli alle riforme. Il peer group dei paesi UE del Secondo Mondo è già freneticamente attivo in Azerbaigian, con la speranza che il governo, come un bambino indisciplinato, sia più disposto a dare ascolto agli amici che ai genitori. Che una rivoluzione abbia luogo per via di un colpo di Stato, di una rivolta popolare o di un'invasione militare, il consolidamento democratico avviene soltanto quando gli abitanti di un paese possiedono i mezzi per convincere una leadership chiusa nelle proprie posizioni ad aprire il sistema6-15. Un risultato di questo genere eliminerebbe il bisogno di un'altra rivoluzione, magari "del cocomero" o "del caviale", laddove riuscisse a dare vita a un sistema politico fermamente
filoccidentale. Lo ha proclamato un giovane dirigente del Ministero degli esteri di Baku: «Qualsiasi etichetta ci va bene, meno quella di "ex Unione Sovietica"». Pochi in Azerbaigian sanno con precisione che cosa sia l'Unione Europea, ma proprio perché sono sicuri che sia meglio di quella che era la CSI a guida russa non ne vogliono restare fuori. Il punto è che l'Azerbaigian è già parte dell'Europa. È vero che esso dipende dagli investimenti europei per sviluppare settori non petroliferi quali quello del vino, degli agrumi e del cotone, ma è vero anche che migliaia di lavoratori europei del settore dell'energia – dai tecnici delle piattaforme petrolifere agli executive delle grandi aziende – dipendono a loro volta dagli ottimi stipendi che guadagnano a Baku attorno agli oleodotti che si allungano sul margine meridionale del Caspio sovrapponendosi ai tracciati delle antiche vie commerciali. Forse il Caucaso è l'angolo più remoto e inquieto dell'Est dell'Occidente, ma di certo è anche l'angolo da cui più dipende il futuro dell'Europa come superpotenza autosufficiente.
Conclusione Allargare l'Europa La «casa comune europea» sta crescendo assai più di quanto lo stesso storico A.J.P. Taylor si sarebbe potuto aspettare, trasformandosi in un commonwealth a più livelli fatto di membri, partner e associati con diversi gradi di privilegi, impegni e sussidi. La sua storia fatta di litigi non serve tanto per il futuro, perché oggi l'Europa è prospera e potente come ogni altro superstato. La UE sta anche dando prova, poco a poco, della sua crescente volontà di trasformare ogni nazione compresa nella sua sfera d'influenza, e lo fa meglio di qualsiasi altra superpotenza. All'interno dell'Europa, oggi, i curdi sono protetti dai turchi, i bosniaci e i kosovari dai serbi, gli ucraini e i georgiani dai russi – con la UE che, usando il suo minestrone di lingue ufficiali, li fa lavorare insieme nel miglior modo possibile. L'Unione è nel giusto allorché mantiene severi criteri di ingresso, ma ormai non si attende più che gli altri imparino passivamente come essere europei allorché le qualità di base possono essere insegnate rapidamente – soprattutto con il tutorato dei nuovi membri dell'Est. Ma mentre allargano il loro impero collettivo dall'Oceano Atlantico al Mar Caspio, i leader europei sentono nelle orecchie l'avvertimento mefistofelico pronunciato dal vagabondo spagnolo Mendoza nella scena finale di Uomo e superuomo di George Bernard Shaw: «Ci sono due tragedie nell'esistenza, signore. Una è perdere il desiderio della tua vita. L'altra è raggiungerlo». Se la disaffezione degli intellettuali è un sintomo affidabile del difficile consenso sulla definizione e lo scopo del progetto europeo nelle sue venticinque capitali, con l'ambizione che viene sostituita dall'angoscia per la prospettiva di confinare direttamente con alcune fra le zone più instabili del pianeta, allora gli europei potrebbero essere vicini a perdere il proprio appetito strategico proprio nel momento in cui stanno sperimentando il loro più grande successo. Con tanti cuochi nella cucina di Bruxelles, del resto, non è chiaro quale ricetta avrà la meglio. Tuttavia i costi del non allargamento sarebbero maggiori degli oneri dell'allargamento. L'espansione imperiale europea segue la legge newtoniana dell'inerzia: un oggetto in moto rimane in moto. Il corollario è che l'Europa deve evitare la quiete, poiché essa potrebbe ridurla a un'irrilevante insularità e attirare minacce dall'esterno. Con questo la logica dell'overstretch, dell'eccessivo allargamento imperiale, finirebbe per rovesciarsi, perché frenare l'allargamento corrisponderebbe a entrare in un'immediata situazione di stasi. Se la UE interrompesse la sua espansione la zona eurasiatica occidentale vedrebbe salire alla ribalta essenzialmente quattro potenze autonome, governate da Londra, Bruxelles, Ankara e Mosca, quattro ruote che non girano sempre alla stessa velocità. E comunque, al di là della loro casa comune in Occidente, tutte e quattro queste potenze – cui sono da aggiungere gli Stati Uniti – si trovano di fronte a una sfida ancora più grande, che prende corpo nella regione estesa a est dell'Europa orientale: l'Asia centrale.
Parte II Heartland: nel cuore dell'Eurasia
7. La Via della seta e il "Grande Gioco" Nel 1891, in cima alla catena del Pamir, Francis Younghusband, allora giovane e intrepido esploratore inglese al servizio di Sua Maestà, si imbatté nel suo astuto avversario russo, il colonnello Yanov. I due stavano compiendo in contemporanea una ricognizione di quel territorio aspro, strategicamente fondamentale per entrambe le potenze – ciascuna delle quali era consapevole delle mire dell'altra. Intuendo subito i grandi piani che stavano dietro Yanov, Younghusband osservò che i russi stavano «spalancando la bocca» sulla regione. «Non è che l'inizio», fu la risposta del colonnello 7-1. Chiunque fosse riuscito a sopravvivere all'Asia centrale, sarebbe riuscito a conquistarla. Dal Mar Caspio agli altipiani della steppa mongola, dalla Siberia al Mare Arabico, l'Asia centrale è un'enorme distesa di terre brulle, quasi perennemente grigie e marroni, tagliate dalle montagne più alte del mondo che si allungano per convergere nei quasi settemilacinquecento metri del monte Garmo (fino a non molto tempo fa "Pik Kommunizma"), nel Pamir tagiko. Le vette ghiacciate del Tian Shan (le "Montagne celesti") curvano verso nord-est per dispiegarsi in Kirghizistan e in Kazakistan; le catene dell'Himalaya e del Karakorum si distendono in direzione sud-est attraverso l'India, la Cina e il Nepal; l'arido Hindu Kush si apre a ventaglio verso sud-ovest, in Afghanistan. In questa terra ostile, in cui l'alba e il tramonto sono sempre ugualmente nebbiosi, da tutte e quattro le direzioni della bussola sono sempre arrivati i nemici. «Per tutta la nostra storia è sempre stato più importante dove fossimo che non chi fossimo», spiega uno storico uzbeko a Taškent da dietro una scrivania con raffinati intarsi in oro. L'Asia centrale è storicamente un bacino in cui si riversano tutte le popolazioni e le culture delle regioni circostanti. Collocate in mezzo a slavi, arabi, persiani, indiani e cinesi con le loro rispettive civiltà, queste terre, con le loro oasi, hanno fatto da sfondo al succedersi di conquistatori arrivati dalla Grecia e dalla Mongolia, di mercanti provenienti dall'Italia e dalla Corea, ognuno dei quali ha lasciato la sua impronta visibile sui
volti etnicamente indefinibili che popolano la zona, dal Kazakistan all'Afghanistan: turchi europei, mongoli asiatici e tutte le gradazioni che vi si trovano in mezzo. Si dice che il dieci per cento dei maschi asiatici sia discendente di Gengis Khan, il conquistatore e lo stupratore più prolifico della storia. Oggi il nome di tutti gli Stati dell'Asia centrale termina per "stan", il suffisso farsi che significa 'terra'. E tutti questi "stan" postsovietici, circondati da terre emerse, Kazakistan e Turkmenistan soprattutto, riposano su immense riserve di gas e petrolio, un dato cruciale per capire questa regione come lo è il flusso continuo che la percorre attraverso Afghanistan e Pakistan: armi, droga, militanti islamici e, da ultimo, appunto, petrolio. Molti osservatori ritengono quest'area il vertice di quel pericoloso «arco d'instabilità» che si estende dall'Africa occidentale al Sudest asiatico – altrimenti detto i «Balcani eurasiatici», o, più bruscamente, il «Trashcanistan», le «terre-pattumiera». In effetti nessuno di questi embrioni di Stato (eccetto l'Afghanistan) è più vecchio di un secolo, e dalla loro capacità di padroneggiare l'arte di essere dominati dipende la loro scelta tra un futuro da Secondo o da Terzo Mondo. Le questioni fondamentali per la creazione dell'ordine globale si stanno tutte giocando in Asia centrale. La Cina ha credibilità quale leader eurasiatico? La Russia resterà qualcosa di simile a una potenza eurasiatica? Stati Uniti ed Europa sono in grado di cooperare al di là dei loro immediati confini geografici? Riusciranno le grandi potenze a dividersi l'energia nel momento in cui la domanda supererà l'offerta? È possibile che le nazioni economicamente depresse ma ricche di risorse diventino democrazie stabili? E infine, in che modo si possono rovesciare leader pericolosi senza danneggiare i loro concittadini o alienarsene le simpatie? L'Asia centrale è stata sia un canale della globalizzazione est-ovest attraverso il suo modello "Via della seta", sia un laboratorio del "Grande Gioco" dell'aperta competizione imperiale, due metafore che valgono per il suo passato come anche per il suo futuro. In realtà, nel XXl secolo essa sarà entrambe le cose, perché ciascuna delle due trae l'altra con sé, che piaccia o meno. Mentre lottano per garantirsi i giacimenti di gas e di petrolio recentemente scoperti, le tre grandi potenze stanno aprendo questa regione, a lungo isolata dal resto del mondo, alla corsa fra Est e Ovest per accaparrarsi pipeline, strade e reti commerciali – le uniche linee sulla cartina geografica che in quest'epoca di globalizzazione contino davvero qualcosa. Gli imperi della storia si sono sempre gettati in fretta sulle inospitali distese dell'Asia centrale, per poi scomparire con la stessa rapidità con cui erano arrivati. Nel 329 a.C. Alessandro Magno aveva già attraversato lo Hindu Kush e conquistato Marakanda (l'attuale Samarcanda), una prospera satrapìa dell'impero achemenide che dominava l'Oriente. La città-guarnigione di Alexandria Eschate («Alessandria Estrema», oggi Chujand in Tagikistan), da lui fondata per proteggere il radicamento della cultura ellenistica dalle inquiete tribù della zona, non impedì ai kushan, i nomadi buddhisti che occupavano quella che è oggi la zona di congiunzione fra Pakistan, Afghanistan e Cina, di prendere il controllo dei punti di transito dei collegamenti fra Oriente e Occidente. Poi arrivarono i sasanidi, gli unni, gli arabi (che si erano spinti fino a Kashgar già nel 714) e i samanidi, che lasciarono tutti gli splendidi caravanserragli che ancora oggi sorgono qui e là. Bukhara divenne il pilastro orientale dell'islam: migliaia di studenti sciamavano verso le sue variopinte madrase per assorbire l'arte poetica samanide di Amir Khusro. Questo incessante succedersi di imperi nell'Asia centrale dimostra che non è solo il potere ad aborrire il vuoto, ma lo stesso spazio geografico. «Sono la punizione inviata da Dio per i vostri peccati», suonava la tremenda ammonizione rivolta da Gengis Khan ai turchi selgiuchidi mentre le sue orde mongole saccheggiavano Bukhara nel 1221. La pax mongolica «fece apparire insignificanti gli imperi di Roma e di Alessandro Magno», scrisse B.H. Liddell Hart; e fu proprio il governo della Via della seta instaurato dai mongoli a permettere i favolosi viaggi di Marco Polo7-2. Dopo che la peste ebbe spazzato via la maggior parte della popolazione di queste terre nel XIV secolo, fu Amir Timur (Tamerlano) a rivendicare il possesso delle distese che correvano fra Kashgar e il Caucaso, e fu suo nipote Babur a fondare la dinastia Moghul che regnò sull'India. Fu a questa regione che si volse l'impero zarista quando guardò a sud per compensare lo scacco della guerra di Crimea (nonché il crollo delle importazioni di cotone provocato dalla guerra civile americana); i russi occuparono Taškent nel 1865 e si spinsero fino
a Yining, nella Cina occidentale. Proprio come Gengis Khan, lo spietato generale Skobelev agiva secondo la parola d'ordine per cui «più duro li colpisci, più tranquilli se ne staranno dopo». Fu la ferrovia a consentire alle potenze europee di espandersi fin dentro il cuore dei continenti: i francesi in Africa settentrionale, gli inglesi in Sudan, e i russi in Asia centrale. Halford Mackinder, il primo a introdurre le espressioni "heartland", ossia 'cuore del continente', e "perno geografico della storia" per descrivere «le distese erbose […] ad alta mobilità» che erano necessarie per ottenere il dominio dell'Eurasia, temeva che le reti delle ferrovie e delle comunicazioni permettessero alla Russia «di mettere tutte e due le mani sul potere» e di sfidare la supremazia globale britannica, basata sul potere marittimo7-3. Accadde così che, mentre la Russia premeva a sud, l'impero britannico iniziò a premere verso nord muovendo dall'India. Durante il "Grande Gioco" che ne seguì (il «torneo delle ombre», come lo chiamarono i russi), Gran Bretagna e Russia si imitarono a vicenda dal Kashmir al Tibet fino ai monti del Pamir, ingoiando khanati e combattendosi per procura in quelle che sono note come guerre anglo-afghane7-4. Younghusband, Yanov e l'eclettico pittore comunista-buddhista, mistico e (forse) triplo agente segreto Nicholas Roerich furono solo i più notevoli fra gli attori del cast segreto che recitò in una pièce fatta di piani di guerra in alta montagna, di cartine geografiche disegnate apposta per ingannare l'avversario e delle molte «maniere da sicofante tipiche della diplomazia orientale»7-5. La conquista e l'assimilazione da parte dei russi significarono la requisizione totale delle popolazioni e delle mandrie di bestiame della regione per lo sforzo profuso nella prima guerra mondiale; la ferrovia transcaspica servì a far affluire in Russia la produzione forzata di abiti e cibo che era realizzata in massa nella regione. Dopo la guerra civile russa i vari "stan" furono ricompensati con la collettivizzazione e la relativa scorta di fame e malattie, diventando, nei settant'anni successivi, basi arretrate per la fabbricazione di armamenti nella seconda guerra mondiale e, di seguito, terre d'elezione di quella tragedia ecologica che furono i piani sovietici di coltura del cotone. Smantellata l'Unione Sovietica, la geometria delle alleanze eurasiatiche nell'Asia centrale, sempre in vorticoso mutare, è in pieno svolgimento. Un ex superpotenza, la Russia, sta cercando di conservare la propria influenza sul suo «vicino estero»; l'attuale superpotenza, gli USA, vi combatte la sua global war on terror; due superpotenze emergenti, l'Europa e la Cina, vi sono impegnate per cercare di soddisfare la propria fame energetica ed esportarvi leggi e principi7-6. Diversamente da quello che l'Asia centrale ha sperimentato nella storia, ossia invasioni e ritirate su larga scala, le piccole manovre attuali sono tuttavia più vicine a un incontro di scherma fatto di affondi e parate, con diversi contendenti che continuamente accumulano punti e subiscono colpi. Le potenze chiave agiscono nel modo più coperto possibile: la Russia non smette di vendervi armi e di acquistarvi infrastrutture energetiche; gli Stati Uniti vi mantengono un network di avamposti di approvvigionamento militare avanzato simili a «ninfee in uno stagno» e proteggono i pesi massimi del settore petrolifero, le loro oil companies; l'Europa, a sua volta un massiccio investitore energetico, si dà da fare per la modernizzazione delle economie e delle istituzioni della regione, mentre la Cina sommerge i mercati locali di beni a basso costo e ha ormai assunto la direzione delle operazioni di ammodernamento delle infrastrutture. Attraversato lo spartiacque caspico fra Europa e Asia, attualmente la NATO è arrivata a contatto con l'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), incrociando i suoi affari e, parzialmente, sovrapponendovisi. Proprio come per il trattato di fondazione della NATO e la Carta di Washington, il nome stesso dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai non lascia dubbi su quale sia la potenza che oggi guida la strategia alternativa per l'Asia centrale. Lo sviluppo delle dinamiche fra le coalizioni della NATO a guida americana e della SCO a guida cinese mette in scena il culmine dei calcoli di Realpolitik; è qui che il contrasto fra diplomazia americana e cinese, che tiene il campo in quasi tutto il Secondo Mondo, si rende più evidente. La politica del "Russia first" seguita da Washington durante gli anni Novanta ha determinato un generale abbandono dell'Asia centrale, a parte la rimozione dal Kazakistan delle testate nucleari sovietiche, e oggi le limitate offerte americane di appoggio militare e di selettive riforme in senso democratico e market-oriented sembrano portare ben pochi benefici concreti. Al contrario, la Cina pratica una diplomazia dello sviluppo condiviso che appare a tutt'oggi imbattibile. Mentre il Dipartimento di Stato USA doveva ancora decidere a quale ufficio affidare il dossier dell'Asia centrale – se a quello dell'Europa o del Sudest asiatico –, la Cina era già abilmente impegnata a stabilire le sue contestate linee di confine con le repubbliche appena nate, nonché gli oltre quattromila chilometri di frontiera che la separano dalla Russia. Da allora, il «nuovo concetto di
sicurezza» elaborato da Pechino ha cercato di trarre a sé quelle nazioni attraverso misure di confidencebuilding tra cui "Shanghai Five" (Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan) con l'obiettivo di una strategia contro i «tre mali» che le accomunano: separatismo, terrorismo, estremismo 7-7. Esattamente come fa la NATO nel Caucaso, la SCO definisce regole e procedure comuni per le dogane e i checkpoint di confine, si impegna nel miglioramento delle strade a grande scorrimento che seguono gli antichi tracciati commerciali e coordina le joint activities di lotta al narcotraffico. Quello che all'inizio sembrava una specie di forum di retorica antiamericana, è considerato da alcuni osservatori ora una "NATO dell'Est", ora un club energetico di despoti del petrolio. «La SCO non aspetta la NATO per far funzionare le cose», avverte un ufficiale uzbeko impegnato ai massimi livelli dell'organizzazione. «I nostri agenti sono in contatto costante fra loro, i nostri funzionari della difesa cooperano». Malgrado la SCO sia ancora abbastanza lontana dall'essere una vera alleanza di sicurezza collettiva sullo stile della NATO («Uno per tutti, tutti per uno»), la massiccia offensiva di attrazione dispiegata dai cinesi ha già portato a mettere in agenda nuovi obiettivi comuni nei settori dell'investimento energetico, degli scambi interbancari e del dialogo fra culture – senza far parola, beninteso, della democratizzazione7-8. La Cina non soltanto si dipinge come un leader che ascolta sempre gli altri: ora detta gli standard delle pratiche di business grazie a sempre maggiori trasferimenti di credito (ormai prossimi al miliardo di dollari) verso i paesi SCO. Una specie di adattamento moderno della strategia della "Via della seta" adottata dalla dinastia Ming, dopo l'epoca mongola, che consisteva nel concedere governi indigeni ai khanati dell'Asia centrale includendoli in un sistema tributario simile a quello allora in uso nel Sudest asiatico7-9. E del resto, se le tradizioni dinastiche sono ancora la norma, per quale ragione la diplomazia dovrebbe ragionare in modo differente? Il peso economico, demografico e diplomatico della Cina rende virtualmente certo che essa sta per rimpiazzare la Russia quale perno organizzativo della regione. E tuttavia, oggi, Russia e Cina fanno causa comune nella SCO per frenare l'espansione asiatica della NATO, per la stessa ragione per cui Hitler e Stalin vedevano negli Stati Uniti lo stesso ostacolo ai loro piani di supremazia sull'Eurasia. Come osserva un diplomatico europeo da lungo tempo residente in Kazakistan, «quando i piani russi funzionano sono utili anche agli interessi cinesi; quando falliscono, la Russia si prende la colpa mentre l'immagine della Cina come potenza benevola ci guadagna». L'improvvisa apertura commerciale della regione non è stata la conseguenza di un naturale risveglio delle opportunità economiche, ma il frutto degli incentivi offerti dalla Cina nella sua qualità di grande investitore e leader della SCO. Il grosso delle transazioni fra i paesi aderenti è ancora condotto in russo, ma la generazione formatasi all'epoca dell'Unione Sovietica sta lentamente uscendo di scena; come per la Francia all'interno dell'Europa, l'affidarsi al linguaggio quale simbolo di potere difficilmente offre garanzie sull'influenza effettivamente esercitata. L'ultimo tentativo russo di ottenere una leadership regionale, l'Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTE), non ha funzionato molto meglio della defunta CSI. Del resto, come si chiede sorridendo con ironia un giovane diplomatico kazako, «come facciamo a parlare del futuro di qualcosa che ancora non esiste?».
8. La Russia che fu Sono i suoi due immensi territori asiatici – la Siberia e l'Estremo Oriente, che messi assieme sono cinque volte più grandi della sua parte europea – a fare della Russia il vero ago della bilancia da cui dipenderà chi, fra NATO e SCO, avrà la meglio nell'Asia centrale. Senza la Russia l'Occidente non può contare su alcun affidabile accesso da terra al mitico cuore del continente, la dimora del potere sull'Eurasia, sia a causa di alleati instabili e poco sicuri (l'Afghanistan e il Pakistan) che di Stati ostili (l'Iran) e di barriere geografiche (il Mar Caspio) 8-1. Se il corteggiamento dell'Occidente alla Russia non avrà successo, allora il nuovo "Grande Gioco" avrà un solo vincitore: la Cina. Oggi le aree rurali della Russia sono per lo più «un mondo senza capo né coda, abitato da gente abbandonata dal proprio governo, in lotta per la sopravvivenza» 8-2. Gli elastici confini del paese si sono allargati e ristretti per migliaia di chilometri nel corso dei secoli, e seppure quelle vastità così vulnerabili avessero bisogno di tutt'altro che di una struttura autoritaria, lo Stato russo non è mai stato realmente in grado di controllare direttamente le vite di vasti strati della popolazione 8-3. Connettere le popolazioni
della Siberia all'Occidente attraverso strade e ferrovie può avere garantito loro l'occasione di un più facile accesso ai mercati, ma ha anche accelerato un ritorno volontario a quelle terre da dove erano state trasferite a forza in seguito alle calamitose pianificazioni sovietiche 8-4. Città che erano proibite al mondo esterno all'epoca dell'URSS ora stanno semplicemente chiudendo i battenti, come aziende fallite. In nessun altro luogo al mondo uno Stato sottopopolato confina provocatoriamente con uno Stato sovrappopolato come succede oggi nel caso di Russia e Cina. I russi «votano con i piedi», migrando verso ovest a ondate impressionanti. Al tempo stesso, a nord di Pechino la Grande muraglia non è più un ostacolo, e circa seicentomila emigranti illegali si spostano ogni anno dalla Cina verso nord per riversarsi nelle pianure spopolate dell'Estremo Oriente russo: un numero quasi identico al tasso annuale di declino della popolazione della Russia. Solo sette milioni di russi continuano ad abitare quella regione, a fronte di una popolazione totale delle province nordorientali della Cina pari a oltre cento milioni di persone. L'enormità di un simile squilibrio demografico, combinata alla crescente domanda di risorse di una Cina in piena prosperità, pone domande fondamentali: può la Russia continuare a esistere nella forma attuale? Quanto a lungo possono resistere per inerzia questi confini politici? È possibile pensare a una sovranità nazionale trasferibile, che si estenda con il movimento dei cittadini che vi sono soggetti? Si tratta di questioni risolte nella pratica più rapidamente che nella teoria, con la Russia che anticipa l'illegale occupazione cinese della Siberia e dell'Estremo Oriente concedendo essenzialmente una sovranità parziale al proprio vicino assai più popoloso. Il punto è che, gradualmente, questa concessione sta diventando una proprietà – o almeno un abuso di privilegio. L'enorme peso finanziario della Cina fa sì che siano firmati sempre più accordi congiunti di esplorazione fra compagnie petrolifere russe e cinesi, come quello fra Rosneft e Sinopec, e che la Cina possa permettersi oggi di governare grandi flussi di greggio. Le distese vergini dell'Estremo Oriente russo ospitano anche massicci depositi di zinco, nichel, stagno, diamanti e oro, nonché sterminate riserve di pesca e di legname: tutti argomenti assai convincenti agli occhi del maggior importatore di materie prime al mondo. Quando fu protetto dalla cinta fortificata delle guarnigioni russe, lo "heartland" tenne fede alla definizione di «fortezza naturale» che gli era stata affibbiata da Mackinder. E tuttavia, oggi, la parte di Russia che si estende al di là del possente corso della Lena è aperta al saccheggio di Pechino, con le imprese cinesi che disboscano a man bassa la taiga, incendiando quello che resta per coprire le tracce del proprio passaggio e trasportando per mare il legname fino a millecinquecento chilometri più in là, in Cina, attraverso la costa del Pacifico8-5. Del resto, una popolazione così immensa non potrebbe mai lasciare intatto un simile ben di Dio. L'Estremo Oriente è diventato un incubo per la Russia: la Cina sta infatti sviluppando la regione come la Russia non è mai riuscita a fare, e il risultato è che la sta lentamente occupando8-6. Quella che su una cartina figura come Russia, se giudicata dalle facce della gente assomiglia assai più alla Cina. Cittadini cinesi (e coreani deportati da Stalin) si rivolgono a cliniche gestite da cinesi, e uomini cinesi sposano donne siberiane i cui mariti sono perpetuamente ubriachi o morti per le conseguenze dell'alcolismo. Persino durante la guerra fredda i russi scherzavano dicendo che chi intendeva lasciare l'URSS doveva studiare l'inglese e chi voleva restare il cinese, poiché «non ci sono disordini lungo il confine sino-finlandese». E ora, con il riscaldamento globale che sta portando allo scioglimento del permafrost siberiano, il controllo demografico, economico e forse addirittura politico della Cina sull'Estremo Oriente russo sembra non conoscere ostacoli nemmeno da un punto di vista climatico. Un secolo fa furono le maestranze cinesi a costruire Vladivostok («La signora dell'Oriente») mentre la Russia si impadroniva della Manciuria cinese. Oggi la vera signora dell'Oriente è la Cina. Un mercantilismo aggressivo ma poco appariscente è anche quello che i cinesi stanno impiegando per riconquistare la Mongolia, ex provincia dell'impero Qing e oggi pencolante fra Russia e Cina. Un tempo i mongoli dominavano la Cina, ma oggi questa terra arida di soli tre milioni di abitanti sta facendo la fine della Mongolia interna, una provincia integrata nella Repubblica cinese al di là del deserto del Gobi, e praticamente della sovranità le restano solo i simboli. Alcuni mongoli, con entusiasmo forse eccessivo, sostengono che il loro paese sta conoscendo oggi una moderna corsa all'oro – «Mine-golia», come è stato ribattezzato –, ma sono soprattutto aziende cinesi ad avere acquisito la proprietà dei depositi di minerali del deserto del Gobi come pure delle distese agricole e
delle foreste della zona settentrionale8-7. Operai cinesi lavorano nelle miniere (che forniscono il 70 per cento dell'export del paese) e hanno costruito la nuova skyline della capitale, Ulan Bator. Ma proprio perché il grosso dei profitti prende la strada della Cina, il miglioramento delle condizioni di vita in Mongolia è stato assai ridotto. Il governo ha cercato di imporre una tassa sui redditi dall'estrazione dell'oro, con l'unico risultato di incoraggiare l'esportazione clandestina. A causa della presenza di militari americani la Mongolia definisce gli Stati Uniti il proprio «terzo vicino», ma un cordone di forze armate può dissuadere la Cina dall'invadere il paese, non certo dal comprarlo. Attraverso la SCO e la loro "relazione speciale" Cina e Russia conducono esercitazioni militari congiunte su larga scala, e la prima è diventata il principale acquirente di armi russe, dotando di una tecnologia sempre più sofisticata quello che è il più vasto esercito del mondo8-8. Tuttavia questo matrimonio di convenienza potrebbe realmente risolversi in un brutto divorzio. Non sarebbe la prima volta. Sul confine sino-kirghiso, nel 1969, un soldato cinese mostrò il deretano alle truppe russe che gli stavano di fronte, le quali a loro volta profanarono un ritratto di Mao: piccoli eventi che però accesero una serie di scaramucce e di agguati fra russi e cinesi lungo tutto il confine, fino a Vladivostok 8-9. Alla fine il dissidio sino-sovietico divenne ufficiale, e tanto l'URSS quanto la Cina giunsero a prendere in considerazione l'idea di dichiararsi «grande avversario», addirittura sopra gli Stati Uniti. Alla fine il KGB decise di riferirsi alla Cina semplicemente come a «un avversario di primo piano», e quest'ultima si convinse che la Russia – comunista o meno – era un proprio rivale strategico. Se l'Occidente non ha fatto segreti del proprio sforzo di sloggiare la Russia dall'Europa dell'Est, non è sicuro che rientri nei suoi interessi anche la fine della presenza russa in Oriente. Le più recenti strategie cinesi per la regione si limitano ad aggirare la Russia, mentre Mosca teme gli sconfinamenti da parte dei cinesi assai più di quanto non diffidi dell'Europa o degli Stati Uniti. Il risultato è che, malgrado il lobbying cinese per un oleodotto russo che arrivi direttamente a Daqing, nella provincia dello Heilonjiang, la linea della Transneft dalla Siberia orientale al Pacifico, attualmente in costruzione, passa a nord del lago Bajkal per arrivare fino al Mar del Giappone senza mai entrare in territorio cinese. Mettendo il petrolio di quest'oleodotto a disposizione degli acquirenti coreani e giapponesi, la Russia ha così evitato che fosse la Cina a dettare in esclusiva i quantitativi di flusso e il prezzo. Un secolo dopo l'umiliazione subita per opera dei giapponesi nella guerra del 1905, la Russia si mantiene vigile in Estremo Oriente conducendo esercitazioni militari bilaterali con il Giappone, e invitandolo a contribuire allo sfruttamento delle riserve petrolifere dell'isola di Sachalin. Intimoriti dalla prospettiva di una seconda conquista dell'Asia da parte dei mongoli, alcuni russi si riferiscono alle popolazioni di etnia cinese che abitano l'Estremo Oriente del paese come al «pericolo giallo», e lo Stato maggiore russo ha preso in considerazione scenari nei quali, in risposta all'occupazione da parte dei cinesi della Siberia orientale e dell'isola di Sachalin8-10 – ricca di petrolio e gas naturale –, la Russia impiega armi nucleari tattiche. Come ai tempi dell'instabile amicizia sino-sovietica durante la guerra fredda, il riavvicinamento attualmente in corso potrebbe non riuscire a trasformarsi in una partnership strategica, in quanto favorisce la Cina ben più della Russia – anzi, a spese della Russia. In modo simile a come Richard Nixon e il suo segretario di Stato Henry Kissinger strapparono la Cina al suo fidanzato sovietico all'inizio degli anni Settanta, oggi Stati Uniti e UE potrebbero essere costretti a salvare la Russia dall'abbraccio potenzialmente suicida con Pechino, con lo scopo di mantenere la propria presenza nello "heartland". È proprio l'ex segretario agli interni dell'epoca di Nixon, Walter Hickel, il principale sponsor della costruzione del tunnel di 108 chilometri – un'idea vecchia quanto lo zar Nicola II – che dovrebbe collegare l'Estremo Oriente russo all'Alaska passando sotto lo Stretto di Bering. In un modo o nell'altro la popolazione russa, già in calo, è dispersa in un territorio così vasto che la Russia non ha più alcun senso dal punto di vista demografico, ed è lo Stato la cui carta geografica appare destinata a mutare in senso sfavorevole nei decenni a venire, con l'Europa che assorbe le sue ex aree di influenza a ovest e la Cina che può ingoiarla da est. Quelli che erano gli esperti sovietici ora insegnato nei dipartimenti di storia che la Russia non ha alcun diritto divino a continuare a esistere nella sua forma attuale.
Il castello di carte degli “Stan” Nel 2006 la Banca centrale del Kazakistan sbagliò a scrivere la parola "banca" sulle nuove banconote del paese. La causa di un'impresa così notevole sta nel fatto che, mentre i nuovi Stati indipendenti dell'Asia centrale recuperano le proprie identità dopo il dominio russo, le loro lingue turche – alcune delle quali non esistevano in forma scritta prima dell'età sovietica – sono convertite dall'alfabeto cirillico a quello latino, con simili risultati bizzarri. Non sarà facile per le repubbliche dell'ex Oriente sovietico, così brutalmente soggiogate ai tempi dell'URSS che molte di loro ebbero realmente paura al momento di dichiarare l'indipendenza, evitare di vedere le proprie identità represse e sostituite ancora. Senza la certezza che fosse davvero possibile essere repubbliche indipendenti senza il patrono sovietico, molte di esse hanno appoggiato il fallito colpo di Stato contro Gorbačëv del 1991, votando a favore della permanenza in un'Unione che non esisteva già più8-11. Per questi paesi che erano semplici khanati o confederazioni tribali prima della sovietizzazione, il rifiuto dell'eredità sovietica potrebbe comportare la negazione dei loro attuali progetti etnonazionalisti8-12. Tutte sono state vittime di una fuga dei cervelli che ha azzerato le loro élite intellettuali tedesche, ebraiche o turche russificate, e oggi sono afflitte dalla decadenza dei sistemi sanitari ed educativi di origine sovietica – ammesso che vi sia un sistema – in un momento in cui devono fare fronte al boom dell'emergenza AIDS. Da molti punti di vista, gli "stan" si sentono ancora come Lenin e Stalin volevano che fossero: «Nazionali nella forma e socialisti nel contenuto». Benché i loro antichi sistemi giuridici comprendano la sharia islamica e le leggi mongole, timuridi e dell'impero zarista, il loro carattere politico è forgiato soprattutto dall'incrocio fra gerarchia tribale turcomongola e diktat autoritari in stile sovietico8-13. Nessuno di essi si è evoluto rispetto a sistemi legali kafkiani che servono solo a se stessi. Il nepotismo asiatico si combina con l'istinto burocratico sovietico a documentare tutto – anche solo per negarlo –, creando un sistema nel quale permessi, approvazioni, bustarelle e firme sono necessari persino per mettere piede in un museo. I residuati dell'architettura sovietica di Taškent o di Biškek sono fatiscenti al di là di ogni possibile speranza di restauro, mentre le baraccopoli tipicamente asiatiche sono organizzate in griglie urbane come ai tempi dell'URSS. «Gli abitanti dell'Asia centrale sono come i russi, con l'unica differenza che sono gentili», esclama un accademico americano che visita frequentemente gli "stan". Di sicuro non ha in mente i leader ex sovietici della regione. Tutti gli "stan" sono governati da sistemi superpresidenziali congegnati deliberatamente per lasciare debole il Parlamento, mentre le oligarchie controllano l'economia attraverso reti di patronage basate sui clan. Il potere economico e quello politico non si limitano a sovrapporsi: sono sinonimi. I leader centroasiatici hanno mostrato di gran lunga più rispetto verso i modelli di autoritarismo soft del Sudest asiatico che verso la democrazia di tipo europeo, ma in realtà rispondono alle caratteristiche di quelli che Mancur Olson ha chiamato «banditi stanziali», per i quali la temporanea crescita economica è solo un modo per razionalizzare il furto8-14. Dichiarano di preferire l'evoluzione alla rivoluzione, ma ai primi segni di invecchiamento o di debolezza scoppieranno crisi di successione che condanneranno i loro regni – proprio come è successo con tutte le precedenti dinastie8-15. Dall'interno dei rispettivi arbitrari confini risalenti all'epoca sovietica questi leader traballanti hanno giocato a mettersi in difficoltà l'un l'altro ospitando i gruppi di opposizione degli Stati vicini e minacciando continue interruzioni delle forniture di gas e petrolio. Una specialità dell'Asia centrale è quella di condannare all'esilio i partiti politici, con il risultato che questi si danno da fare all'estero. È già incredibile che non ci siano ancora stati grandi conflitti in questa regione, ma non è certo che questa pace sarà in grado di durare. «Malgrado ora siamo nazioni indipendenti», sostiene un diplomatico kazako, incline a scongiurare qualsiasi ritorno a un'occupazione straniera, «abbiamo l'impressione che un nuovo "Grande Gioco" sia all'opera, e per questo i tempi sono maturi per un regionalismo che ci consenta di curare i nostri interessi comuni». La geografia degli "stan", tutti privi di sbocco al mare, comporta che essi saranno costretti a dipendere in perpetuo da beni e investimenti stranieri, soprattutto in considerazione dei lunghi anni di sperpero di un bene raro come l'acqua in questa regione arida fatta di deserti e praterie. Benché potenzialmente ricche, nazioni dotate di ingenti risorse come il Kazakistan, l'Uzbekistan e il Turkmenistan devono dipendere dalla Russia, dalla Cina, dagli Stati Uniti e dall'Europa per lo sfruttamento, l'estrazione e l'immissione sul mercato dei loro idrocarburi8-16. Attualmente, almeno, gli "stan" sono passati dallo spararsi addosso a vicenda alla negoziazione di accordi di baratto che coinvolgono l'Uzbekistan e il Turkmenistan, ricchi di gas, e il Kirghizistan e il Tagikistan, che dalla loro collocazione più a monte controllano l'afflusso idrico.
Un atteggiamento preveggente, in realtà, consiglierebbe agli "stan" di tutelare la propria indipendenza diventando a loro volta giocatori nella versione contemporanea del "Grande Gioco"; potenzialmente, la formazione di un vasto blocco che nessuna superpotenza sarebbe in grado di dominare risparmierebbe loro il destino dei khanati che nel corso dei secoli li hanno preceduti. ll Kazakistan e l'Uzbekistan hanno manovrato sia all'interno della NATO che della SCO: come membri della partnership per la pace della NATO hanno beneficiato di addestramento e modernizzazione militare, mentre come membri della SCO hanno ricevuto appoggio contro le richieste di democratizzazione avanzate dagli occidentali e i diritti americani di installare nuove basi. «Sappiamo per esperienza che le potenze esterne non hanno certo a cuore i nostri interessi», conclude lo stesso diplomatico kazako. Prima i leader degli "stan" capiranno questo, più rapidamente finiranno per convergere anziché crollare come un castello di carte.
9. Tibet e Xinjiang: la nuova cortina di bambù È difficile incontrare un occidentale che, almeno intuitivamente, non appoggi la causa di un Tibet libero. Ma gli americani lascerebbero mai andare via il Texas o la California? Per la Cina, il "Grande Gioco" ha dato i suoi frutti, una cosa che certo non si potrebbe dire della Gran Bretagna o della Russia. In realtà la Cina è stata la vera grande vincitrice. Gli accordi di confine del 1895 e del 1907 assegnarono alla Russia i monti del Pamir e istituirono il corridoio di Wakhan – la sottile lingua di terra all'estremità orientale dell'Afghanistan che confina con la Cina – quale zona cuscinetto con i domini britannici. Anziché cedere anche il Turkestan orientale (lo Uigurstan) ai russi, gli inglesi preferirono tuttavia finanziare la rioccupazione della regione da parte dei cinesi, che la organizzarono come provincia dello Xinjiang (che significa "nuovi territori"). Mentre il Turkestan occidentale finiva per frantumarsi nei tanti, ermetici "stan" dell'Unione Sovietica, la Cina riaffermò con decisione il proprio tradizionale dominio sullo Xinjiang e sul Tibet (Xizang), che oggi costituiscono le sue due province più estese. Senza di esse la Cina sarebbe come gli Stati Uniti senza l'intero territorio a ovest delle Montagne Rocciose: uno Stato privo di grandezza continentale e dello status di potenza dell'Oceano Pacifico. Il nuovo "Grande Gioco" e la nuova Via della seta hanno così avuto inizio con il soggiogamento – e l'evoluzione –, ancora in corso, della propria periferia occidentale da parte di Pechino, un processo gravido di quegli indizi che possono indicare il futuro dell'Asia centrale. Il "Grande Gioco" fu una lotta per il controllo delle comunicazioni via terra, quegli «strumenti della storia» che sin dall'antichità hanno favorito l'espansione imperiale9-1. Con l'assoggettamento dello Xinjiang e del Tibet la Cina sta estendendo la propria proiezione verso Occidente attraverso una strategia a cinque punte: un «ponte transcontinentale eurasiatico», progettato per poter un giorno concorrere con la ferrovia Transiberiana che attraversa la Russia; un corridoio petrolifero su rotaia attraverso il Kazakistan fino al Caspio; il riassestamento delle strade che percorrono gli alti passi del Kirghizistan fino a Taškent, in Uzbekistan; una robusta autostrada per il trasporto di merci attraverso il Tagikistan e l'Afghanistan fino all'Iran e alla Turchia; un'estensione della già esistente autostrada del Karakorum, che dal Pakistan la porti a sboccare al porto di Gwadar, sul Mare Arabico. Il tutto con soldi cinesi. Qualsiasi globe trotter che abbia viaggiato nel Tibet e nello Xinjiang nel corso dell'ultimo decennio sa che l'impero cinese è qualcosa di terribilmente reale: senza dubbio il «destino manifesto» della Cina si gioca largamente in questi suoi territori occidentali. Immediatamente dopo la fine della guerra civile, nel 1949, la Repubblica Popolare si è impegnata a fondo nella sua lotta contro la «tirannia della terra», penetrando e addomesticando distese interminabili di montuosità accidentate e di paesaggi desertici con lo scopo di sfruttare il loro vasto patrimonio naturale, di stabilirvi colonie penali e basi per l'addestramento militare e i test sugli armamenti, nonché di espandere il Lebensraum necessario alla sua popolazione in continua crescita. Tanto il Tibet quanto lo Xinjiang hanno avuto la sfortuna di possedere risorse che la Cina vuole e di essere posti sulla strada verso altre risorse di cui la Cina ha bisogno. Il Tibet possiede grandi quantità di legname, di uranio e di oro; lo Xinjiang ospita le riserve di petrolio, gas, carbone, uranio e oro più ingenti dell'intero paese. Insieme, le due province rappresentano il passaggio geografico obbligato per il commercio cinese verso l'esterno – e per i flussi energetici verso l'interno –, ossia verso il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagiskistan, l'Afghanistan e il Pakistan. Decenni
di duro lavoro da parte dell'esercito e di sciami di operai hanno spianato la strada a un dominio cinese che non teme sfide9-2. Il treno d'alta quota che collega Shanghai a Lhasa, entrato in servizio nel 2006, non ha costituito l'inizio, bensì il culmine naturale dell'egemonia cinese sulla regione. Oggi, nel Tibet e nello Xinjiang è in scena la rinascita di un impero multietnico secondo un modello che assomiglia all'espansione della frontiera americana di quasi due secoli or sono 9-3. I cinesi si attribuiscono una missione civilizzatrice non dissimile da quella dei coloni americani, ossia portare sviluppo e modernità. I buddhisti asiatici tibetani e gli uiguri musulmani di ceppo turco vengono tratti fuori dal Terzo Mondo, che a loro piaccia o meno. Ottengono strade, linee telefoniche, ospedali, posti di lavoro. Le rette scolastiche vengono ridotte o del tutto abolite per promuovere l'istruzione primaria e la sinizzazione. A differenza di quegli europei che cercano di fare dell'Unione un club di cristiani, i cinesi non mostrano alcuna difficoltà a integrare nella Repubblica territori musulmani. La nuova mitologia del nazionalismo cinese non prevede la cancellazione delle minoranze, bensì la garanzia di un loro status paritario all'interno del grande Stato paternalista. Agli uiguri e ai tibetani viene detto che sono cinesi a tutti gli effetti, benché non di etnia han9-4. Il mandarino è l'unico comune denominatore all'interno del mosaico linguistico cinese fatto di lingue e dialetti senza alcuna parentela gli uni con gli altri, compresi il mongolo, lo uiguro (scritto in alfabeto arabo), il tibetano e lo zhuang. Benché Xinjiang e Tibet confinino, le loro culture sono mutualmente incomprensibili, e né i tibetani né gli uiguri sembrano aver mai sentito parlare degli zhuang, che pure sono la più numerosa minoranza del paese. «L'Unione Sovietica è crollata perché la "glasnost" è stata sperimentata prematuramente, prima che fosse raggiunta una vera unità fra i popoli dell'Unione», spiega un intellettuale di Shanghai che studia l'Asia centrale. «Per quanto ci riguarda, non commetteremo lo stesso errore». I grandi imperi sono tenuti in piedi da una combinazione di forza e diritto, e la Cina non ha mai dato segni di tentennamento nella realizzazione della sua strategia per il Tibet e lo Xinjiang. Si tratta soltanto di una differenza di grado. Nei più remoti angoli del Tibet piccole basi militari ospitano reparti dell'Armata popolare di liberazione (PLA), con i soldati che praticano minacciosamente le arti marziali due volte al giorno sulla pubblica piazza, spesso di fianco agli antichi e fragili stupa buddhisti. Persino le più inaccessibili aree della foresta, designate come zone protette, in realtà nascondono di frequente accampamenti militari. Le scritte «Tibet Power» si riferiscono unicamente alle attività della compagnia elettrica cinese. Pechino ha pompato miliardi di dollari in progetti di sviluppo per il Tibet, nella speranza di pacificare i meno di tre milioni di tibetani e di generare simpatia per il regime. A Lhasa diversi fatiscenti quartieri in pietra sono stati rimpiazzati da distese di robuste villette monofamiliari ai bordi delle vie di transito che collegano la città alla nuova stazione ferroviaria. La conseguenza della modernità cinese è di avere trasformato una città che era simbolo di autenticità culturale in una porta d'ingresso a remoti altipiani nei quali il numero di yak è superiore a quello degli uomini. «Nessuno della mia famiglia è mai stato in Cina», mi spiega una giovane guida tibetana mentre camminiamo nel villaggio di Gyantse, «mentre i cinesi e la loro polizia sono ovunque. Indossano persino i nostri cappelli da bovaro per cercare di ambientarsi». Ancora più prezioso del Tibet è il più vasto e popoloso Xinjiang, con i suoi giacimenti petroliferi, i suoi deserti e le sue montagne. La sua diluizione demografica è stata definita «un apartheid con caratteristiche cinesi». Questa provincia musulmana è sempre stata insofferente, particolarmente nei confronti del dominio esercitato dalla dinastia Qing, e per breve tempo dopo la fine della guerra civile era riuscita a costituirsi come Turkestan orientale indipendente. A partire dalla campagna per lo «sviluppo dell'Ovest» messa in atto dai cinesi negli anni Cinquanta, massicci insediamenti si sono infaticabilmente moltiplicati sotto gli auspici del Corpo per la produzione e la costruzione (PCC), l'equivalentedell'Homestead Act americano, che sussidia le aziende agricole han marginalizzando i piccoli appezzamenti coltivati dagli indigeni uiguri. Durante la Rivoluzione culturale lo Xinjiang fu isolato per favorire un piano su larga scala di distruzione delle moschee e di roghi di copie del Corano. I violenti disordini scoppiati a Ürümqi nel 1996 sono stati la dimostrazione che non c'era posto per una cultura islamica pacifica all'interno di un contesto a dominanza cinese. In risposta, Pechino ha sospeso la ricostruzione delle moschee e lanciato una campagna repressiva che ha portato all'esecuzione e all'imprigionamento di centinaia di sospetti separatisti uiguri. Oggi si possono vedere i risultati cumulativi di tutti gli sforzi iniziati da Mao e Deng e mai condotti a termine: una grande linea
ferroviaria e un'autostrada destinate al trasporto di carbone, lavoratori migranti e merci che attraversano da un capo all'altro il deserto del Taklamakan, facilitando l'ulteriore "panificazione" di una provincia nella quale gli uiguri ormai sono la metà della popolazione. Chi cavalca un asino tutto il giorno è in genere l'ultimo a sapere chi è il padrone politico in carica. I nomadi rurali dello Xinjiang hanno vissuto per secoli di commercio con i loro fratelli turco-musulmani più a ovest, e benché questa sia la provincia che si sta sviluppando più rapidamente, nelle campagne la Cina è ancora parecchio distante. Gli uomini si salutano con la stretta di braccio musulmana seguita da un leggero inchino e dal tocco del petto con la mano destra, e molte donne si coprono la testa con il foulard. Le moschee di Yecheng ricordano quelle dell'Uzbekistan, i suoi bazar offrono copie del Corano rilegate in foglia d'oro e i cappelli multicolori detti pakul. Quando si vedono donne ricoperte dal burqa afghano accoccolarsi agli angoli delle strade per mendicare sembra di essere a Kabul. Negli anni Novanta il contagio da HIV ha conosciuto un brusco aumento a causa del crescente uso di stupefacenti e della prostituzione. La dominazione della Cina sul proprio Far West ha preso corpo lontano dai grandi centri abitati del paese, e così oggi i turisti han che visitano la regione a bordo di lussuosi pullman a due piani strabuzzano gli occhi davanti alla gente esotica e ai diroccati villaggi uiguri che fanno parte del loro impero. Persino qui, quasi tremila chilometri a ovest di Pechino, tutti gli orologi, loro malgrado, sono sincronizzati sull'ora della capitale: un impero, un fuso orario. A Khotan (oggi Hotan) gli abitanti si irrigidiscono davanti alla polizia che compie i suoi pattugliamenti. Centro, un tempo, di irradiamento del buddhismo, di coltivazione della seta e poi di cultura islamica nella sua moschea centrale rosa e blu, Hotan è diventata come Kazan in Russia, un luogo in cui ogni abitante è intrusivamente monitorato dalla polizia. La war on terror americara è stata una benedizione mascherata per le autorità cinesi, che hanno subito etichettato come fondamentalisti islamici i vari agitatori uiguri – per lo più giovani e studenti frustrati – rivolgendo contro di loro una peculiare «lotta al terrorismo» fatta di sporadici scontri a fuoco e di retate di appartenenti al Movimento islamico del Turkestan orientale. «Se evitiamo di innervosirla, la polizia non muove un dito», mi dice un venditore di legno fossile in un bazar un tempo famoso per la rara giada bianca. «Ma è fuori da ogni immaginazione che si ottenga per il Turkestan una condizione simile a quella che sembrava possibile quando le repubbliche turche sovietiche furono liberate, negli anni Novanta». L'ex capitale del Turkestan, Yining, e quel favoloso melting pot che era Kashgar, sulla Via della seta vicino al confine kirghiso, sono state entrambe trasformate in metropoli cinesi, passando da prospere città-bazar di beni a basso costo a grandi snodi commerciali. I pionieri han che misero piede a Kashgar alla fine degli anni Ottanta suggellarono simbolicamente il definitivo trionfo cinese nel "Grande Gioco" convertendo gli ex consolati inglese e russo nei due hotel turistici più popolari della città (il consolato britannico è stato ribattezzato Chini Bagh, 'Il giardino cinese'). Una statua di Mao alta trenta metri – il braccio destro teso in direzione di Pechino – giganteggia sulla Piazza del Popolo, nel cuore della città. La popolazione di Kashgar è un mix di uiguri, tagiki, kirghisi e han: ma a tutti i bambini in uniforme blu che si affrettano per raggiungere le scuole gli insegnamenti sono impartiti solo in mandarino. La netta cancellazione della cultura popolare, della storia e dell'architettura locali e la loro sostituzione con i grattacieli scintillanti che rendono omaggio al moderno capitalismo cinese fanno di Ürümqi, la capitale dello Xinjiang, la Shanghai della Via della seta. Come per il Tibet, la distanza e il clima non costituiscono alcun ostacolo. La città è divisa in due da una superstrada a sei corsie percorsa dalle sfarzose automobili giapponesi della nuova maggioranza han; tutt'attorno, grandi stazioni di rifornimento di Sinopec e Petrochina. Ürümqi risuona delle lingue di tutti i commercianti che arrivano, dalla Russia, dal Pakistan e da tutti gli "stan" che si trovano in mezzo, per acquistare prodotti cinesi a basso prezzo e rivenderli in patria con lauti margini di guadagno. Oggi gli uiguri sono una scomoda minoranza marginalizzata, incapace di trovare lavoro e spazi che non siano quelli dei mercatini notturni che offrono zuppe piccanti e spettacoli circensi. Un flusso perpetuo di turisti cinesi affolla le scarse attrazioni naturalistiche ancora accessibili, come le acque smeraldine del Lago Celeste che attualmente, per la verità, tanto celeste non sembra più. Tutto ciò che resta del mito di Shambhala sono CD di musica tibetana e da meditazione; e tutto ciò
che resta del Turkestan sono le persistenti nuvole di profumo della carne grigliata dei kebab che aleggiano sulla Valle di Ferghana, nello Xinjiang. Paradossalmente, l'unica speranza di una glasnost cinese risiede nel senso di sicurezza pressoché assoluto del controllo di Pechino su queste due province: senza più alcuna resistenza significativa al suo dominio, lo Stato potrebbe decidersi prima o poi a perseguire politiche più illuminate. Gli spirituali tibetani hanno a lungo cercato a sud, in Nepal e India, le basi della propria cultura, e nel XVIII secolo al Tibet era stata garantita un'autonomia funzionale dalla Cina, secondo un modello che l'attuale Dalai Lama ha rilanciato. Una volta che quest'ultimo uscirà di scena Pechino mostrerà forse meno angoscia riguardo all'apertura della provincia a un maggiore scambio culturale fra i buddhisti del Tibet, del Nepal e dell'India, che farebbe riemergere quel ruolo di passaggio della Via della seta che la regione aveva allorché, più di mille anni fa, furono scolpite le grotte dei Mille Buddha di Dunhuang. Gradualmente tibetani e uiguri diverranno più ricchi dei loro vicini del Terzo Mondo, mongoli, kirghisi, tagiki, afghani, pakistani, indiani, nepalesi; e questo loro sviluppo potrebbe diventare la base per le pretese di egemonia benigna sull'Asia centrale avanzate dalla Cina. Il punto è che la Cina conseguirà tale supremazia prima di parlarne apertamente. «Chi governa l'isola-mondo comanda il mondo»9-5: così scriveva Mackinder, terrorizzato dall'idea di una singola potenza in grado di unire l'Eurasia. Mai come oggi questa isola-mondo è stata un corpo unito. Presto sarà possibile viaggiare da Aberdeen fino a Singapore o Seul sulla rete delle ferrovie transasiatiche, i cui vari rami sono in costruzione dagli anni Sessanta. Un tempo i barbari nomadi che si ritiravano nella steppa davanti ai loro nemici più potenti non dovevano fare altro che aspettare che questi si indebolissero man mano che aumentava la distanza dalle loro basi di partenza, ma oggi la crescente estensione dell'influenza della Cina lungo i suoi assi infrastrutturali sta comprimendo, con decisione e senza tentennamenti, lo spazio centroasiatico.
10. Kazakistan, dove «la felicità è avere oleodotti multipli» Di certo nessuno arriva in Kazakistan per il clima. Ma, come nei secoli passati il controllo delle rotte commerciali assicurava la superiorità geopolitica, oggi il controllo dei flussi di gas naturale e petrolio lungo le pipeline del continente porta con sé guadagni e legami politici. Tutte insieme, le riserve di petrolio del Mar Caspio sono stimate in oltre duecento miliardi di barili (per rendere l'idea, le riserve petrolifere certe del Golfo Persico ammontano a oltre seicento miliardi di barili). Per questo la regione caspica è indispensabile quale fonte alternativa di petrolio sia all'Occidente che all'Oriente, e il Kazakistan è diventato, come l'Arabia Saudita, una centrale energetica che tutte e tre le superpotenze devono cercare di conquistare. Esteso sulle sconfinate steppe aride che in passato Gengis Khan assoggettò con poco sforzo, il Kazakistan è la più grande nazione al mondo priva di sbocco agli oceani. Fra tormente e mulinelli di polvere, tutti i concorrenti del nuovo "Grande Gioco" sono qui a costruire la nuova Via della seta, scivolosa di petrolio. Come gli ucraini, anche i kazaki hanno considerato a lungo la loro geografia come una maledizione. Le risorse naturali, che hanno moltiplicato l'enorme utilità del paese per gli altri, non hanno fatto che confermare questa sensazione. I sovietici consideravano il Kazakistan un'appendice meridionale della Siberia e si riferivano all'intera regione con la denominazione di «Asia di mezzo e Kazakistan»; le miniere e le industrie erano pianificate a Mosca insieme con quelle della Siberia10-1. Tuttavia, dal conseguimento dell'indipendenza il paese ha trasformato sia la geografia che la geologia in una benedizione, diventando una tale storia di successo che riesce difficile provare a tracciare paragoni con i suoi disperati vicini del Sud. Come la Turchia, anche il Kazakistan è uno Stato chiave di transito estovest che riesce a trarre vantaggio da relazioni forti su tutti i lati – quella che è chiamata strategia «multivettoriale» –, evitando il più a lungo possibile di fare una scelta definitiva in favore di qualcuno. Il più influente fra i recenti ministri degli esteri kazaki, Kasymzhomart Tokayev, è un sinologo che si oppone allo stile arrogante della diplomazia americana, che considera negativa a confronto di quella concreta degli europei e di quella deferente dei cinesi10-2. La parola kazakh, nelle lingue turche, significa 'libero', e il Kazakistan di oggi non desidera né un ritorno alla sottomissione alla Russia, né l'asservimento all'egemonia cinese, né tantomeno una presenza estensiva delle basi degli Stati Uniti e
della loro politica intrusiva10-3. Il problema è che, se il flusso di greggio dovesse cominciare a scarseggiare, questi imperi in competizione potrebbero scegliere di spartirsi il paese. Il nuovo "Grande Gioco" non è più una questione di allargamento territoriale, ma di accesso e di controllo dei giacimenti petroliferi e degli oleodotti che si dipartono radialmente da essi. I funzionari pubblici non fanno che destreggiarsi fra le domande di nuove pipeline in direzione est o ovest, nord o sud, che rientrano tutte in tre categorie: quelle reali e già attive; quelle in costruzione o in espansione; quelle che esistono solo nei sogni e nei progetti segreti stilati nelle capitali del mondo con poche speranze di realizzazione. Come i cavi a fibra ottica, anche oleodotti e gasdotti fanno parte dell'infrastruttura quasi invisibile della globalizzazione, nuovi tracciati sulle cartine geografiche che indicano l'esistenza di rapporti bilaterali di amicizia. In Kazakistan come in Azerbaigian sono state le imprese a fare da apripista agli interessi occidentali, acquistando quote di controllo nei giacimenti di Tengiz e di Kashagan, i maggiori del paese10-4. E proprio come nel caso della pipeline Baku-TbilisiCeyhan, nel Caucaso, progettata in modo da evitare di passare per la Russia e l'Iran, le rotte del nuovo petrolio kazako predilette da America, Europa e Cina aggirano completamente il territorio russo. «La felicità è avere oleodotti multipli», recitano gli adesivi da appiccicare alle auto distribuiti ad Almaty dai funzionari dell'amministrazione Clinton. Nuove petroliere sono ora allineate lungo il porto di Aqtau, sulla riva orientale del Caspio, pronte a trasportare a Baku greggio kazako, che confluisce nel traffico petrolifero Baku-Ceyhan fino all'Europa; il Kazakistan ha anche proposto di costruire un canale fra il Mar Caspio e il Mar Nero per incrementare i flussi verso Occidente. La Russia ha a lungo reputato se stessa una sorta di protettrice del Kazakistan, e attualmente conserva diritti sull'enorme base spaziale sovietica di Baikonur. Per i kazaki, in realtà, la Russia ormai non è che uno fra i tanti giocatori seduti attorno alla scacchiera dell'Asia centrale. «Abbiamo resistito alla "protezione" russa per più di un secolo», nota con irritazione un diplomatico kazako. Al fine di vigilare sulle sue petroliere che incrociano per Baku e di impedire una supermazia dei russi sul Caspio, il Kazakistan coopera con la NATO nell'ambito della partnership per la pace; e tuttavia è sufficientemente ricco da non farsi convincere ad accettare in cambio di denaro sonante basi militari occidentali la cui presenza comprometterebbe le sue relazioni con Russia e Cina. Benché il Kazakistan e la Russia (attraverso Gazprom) abbiano di recente firmato accordi di congiunzione delle rispettive reti di gas naturale, la relazione fra i due paesi sancita dalla rete distributiva ereditata dall'URSS è afflitta dalle medesime tensioni che percorrono l'Ucraina attraversata dalle pipeline russe, determinate dalla decisione di Transneft di bloccarne un'ulteriore espansione in attesa di una loro rinazionalizzazione che ne restituisca, a monte, il controllo a Mosca. Gli stretti legami energetici con la Russia non precludono più al Kazakistan, comunque, gli affari con il suo cliente più significativo, la Cina. Per la locomotiva cinese, toccare il patrimonio energetico del Caspio non è più una sfida logistica, bensì diplomatica, in una regione in cui la sovranità è assai simile a un detonatore. «I cinesi», mi spiega un funzionario nell'elegante e sonnacchiosa capitale del paese, Astana, «ci hanno detto tranquillamente ma chiaramente che la loro domanda di energia è massiccia e urgente, e che sono disposti a pagare qualsiasi prezzo per soddisfarla». A differenza delle compagnie energetiche americane, quelle cinesi possono contare sull'aperto appoggio strategico del proprio governo, senza doversi preoccupare degli azionisti: controllare gli affari che si svolgono ai propri confini e importare petrolio senza dover dipendere dallo Stretto di Malacca sono incentivi sufficienti. La più grande città del paese, Almaty, un tempo un forte russo alle pendici della catena del Tian Shan, è oggi il centro più cosmopolita dell'intera regione. La Chinese National Petroleum Corporation (CNPC) occupa un edificio sorvegliato su un movimentato viale del centro che svolge essenzialmente le funzioni di seconda ambasciata cinese. Dietro la sua massiccia porta d'ingresso gli accordi energetici con le autorità kazake sono perfezionati per anni prima di essere resi pubblici. La Cina ha costruito in tempi record i mille chilometri dell'oleodotto Atasu-Alashankou, che veicola il petrolio fino alla rete energetica della Cina occidentale. All'inaugurazione, alla fine del 2005, il presidente Nursultan Nazarbayev lo ha descritto come il sigillo della «partnership strategica» con Pechino. Sinopec si è assicurata parecchie stazioni esplorative di grandi dimensioni vicino al giacimento petrolifero di Tengiz, e sta negoziando la costruzione di un gasdotto interstatale che dovrebbe collegarsi con la pipeline che attraversa la Cina da est a ovest per quattromila chilometri, dal bacino del Tarim nello Xinjiang fino a
Shanghai10-5. Alla ritrosia del Kazakistan a cedere il controllo operativo delle pipeline i cinesi stanno rispondendo con l'intensificarsi dell'azione della loro diplomazia finanziaria mirata ad aumentare la quota azionaria negli accordi di cooperazione produttiva. Un secolo fa, durante l'epoca della "porta aperta", era la Cina il terminale passivo di un analogo mercantilismo, allorché le potenze straniere facevano incetta di contratti di concessione delle infrastrutture – in realtà, accordi umilianti che Pechino vedeva come equivalenti a una vera e propria occupazione. Con il crescere della mutua dipendenza tra i fornitori d'energia della regione (Russia, Iran, Stati dell'Asia centrale) e i suoi consumatori (Europa e Cina) aumenta naturalmente anche il rischio di un conflitto tra loro 10-6. L'abile equilibrio del Kazakistan fra interessi cinesi e occidentali può durare soltanto finché durano le sue riserve di energia – e l'attrito fra i contendenti avanza mese dopo mese con l'inesorabilità di un ingranaggio. Ad esempio, quando la CNPC ha acquistato PetroKazakhstan a un valore notevolmente più alto di quello di mercato, nel 2005, Stati Uniti e Russia si sono schierati con la decisione del governo di Astana di dichiarare l'azienda asset strategico, scorporandone i segmenti della raffinazione e della produzione e rinviandone la vendita. Quelle nazionalizzazioni che per decenni hanno ostacolato gli occidentali nel mondo arabo potrebbero diventare in futuro un'arma contro la Cina. La sfida per la diplomazia cinese sta allora nel restare un partner attraente per il Kazakistan, che nello scansare ogni tipo di supremazia sa muoversi con la stessa finezza che usano i cinesi nell'esercitarla. Gli imperi in ascesa guardano alle aree instabili sulla cartina con gli stessi occhi con cui gli orsi usciti dal letargo guardano al cibo. Come si vantava il colonnello Yanov all'epoca del primo "Grande Gioco" in riferimento alla Russia, ora è la Cina a spalancare la bocca. I kazaki sono stati testimoni per secoli delle fasi di espansione e di contrazione della Cina e pochi di loro si sentono a proprio agio davanti alla diplomazia energetica e infrastrutturale dei cinesi, malgrado i vantaggi derivati dall'aumento dei profitti del petrolio. A fronte dei territori perduti dalla Cina a favore della Russia e della Mongolia nel XIX e nel XX secolo (con trattati considerati «iniqui»), secondo alcuni l'espansionismo della prima avrebbe una giustificazione. Murat Aezov, un autorevole ex ambasciatore del Kazakistan a Pechino, ritiene che il filo rosso che percorre la storia cinese degli ultimi tre secoli sia «il desiderio di estendere il territorio». Senza impegnarsi in attività che suonano come aggressione aperta, la Cina sta già comunque violando le risorse kazake. Per sviluppare i bacini estrattivi dello Xinjiang la Cina ha risucchiato qualcosa come due miliardi di metri cubi d'acqua all'anno dal corso dell'Ili e dell'Irtyš, e poiché questi sfociano nel lago Balhag, le cui acque sono già in forte diminuzione, l'operazione potrebbe concludersi con il suo completo essiccamento, come nel caso del Lago d'Aral. Malgrado la maggioranza dei kazaki abiti nel sudest del paese, vicino alla frontiera con la Cina, il presidente Nazarbayev ha trasferito la capitale ad Astana. nella steppa settentrionale, per tenere sott'occhio le ambizioni dei russi, evitare quelle dei cinesi ed esprimere le proprie, costruendo una città fatta di sfarzosi palazzi a piramide, torri e stadi10-7. Il che non è però bastato a prevenire la diplomazia demografica cinese, a giudicare dagli ambulanti cinesi e uiguri che formano agglomerati semipermanenti nel paese e che secondo stime ufficiose ammontano a trecentomila persone su una popolazione complessiva del Kazakistan pari a quindici milioni. Ad Almaty sempre più insegne sono in cinese, effetto del secco moltiplicarsi di ristoranti cinesi destinati a sfamare una popolazione han in rapida crescita. Vicino al Caspio, migliaia di lavoratori del settore petrolifero vivono in compound semiextraterritoriali, simili a quelli che si trovano nei paesi arabi. Una tale invasione cinese del Kazakistan ha luogo proprio nel momento in cui questo sta instaurando una propria autentica identità nazionale e superando le differenze etniche e linguistiche. Come l'Ucraina, il Kazakistan è infatti diviso da un asse demografico fra le popolazioni di origine russa e quelle indigene. In virtù del programma di kazakizzazione inaugurato da Nazarbaev gli elevati tassi di natalità della componente kazaka hanno permesso a quest'ultima di diventare una solida maggioranza nel paese. «Parlare kazako», osserva un deputato dell'opposizione, «è ora una condizione non scritta per salire ai più alti gradi del potere». Ad Almaty le insegne di diverse vie terminano ormai con la parola turca koshesi invece che con quella russa prospekt. La quota di popolazione etnicamente russa è
considerevolmente declinata fino a scendere sotto il venti per cento nell'ultimo decennio, poiché molti si sono trasferiti in Russia – salvo poi, in parecchi casi, fare ritorno in Kazakistan. «Mi discriminano perché ho un passaporto kazako», si lamenta un giovane giornalista russo ad Almaty tornato da quello che pensava un trasferimento definitivo a Mosca, «e allora preferisco tenermi il lavoro qui». Nelle fresche sere d'estate i giovani kazaki e russi si confondono nei caffè e nei ristoranti all'aperto parlando un semplice mix delle due lingue. Nel paese è tornato in auge anche l'unico, amato cimelio dell'Unione Sovietica: il circo. Il Kazakistan ha un'opportunità di autorealizzazione che la maggior parte dei paesi del Secondo Mondo può soltanto sognare e la sua stabilità politica e sociale rappresenta la migliore carta da giocare. La sua economia è già superiore a quelle degli altri Stati dell'Asia centrale messi assieme, e il valore del suo patrimonio energetico è stimato a novemila miliardi di dollari. Nonostante gli orribili livelli di corruzione una certa diversificazione produttiva è già in corso anche in presenza del boom della produzione e dei profitti petroliferi, proteggendo l'economia dalla futura instabilità del mercato mondiale dell'energia10-8. Rifacendosi alle ambizioni delle semiautoritarie tigri asiatiche, il Kazakistan ha istituito zone economiche speciali e parchi hi-tech, e ha convertito fabbriche di armi biologiche in aziende di trasformazione degli alimenti. Attualmente sta progettando di impiegare le proprie enormi riserve di uranio in programmi di produzione di energia nucleare. Nuovi aeroporti regionali e strade a grande scorrimento ripristinano gli antichi collegamenti all'interno della steppa continentale. Sulla catena del Tian Shan stanno aprendo impianti sciistici che, vista la diminuzione dell'innevamento sulle Alpi a causa del riscaldamento globale, potrebbero essere presto presi d'assalto da frotte di europei. Il Kazakistan sta diventando una nazione di consumatori individuali anziché di semplici ruote di un ingranaggio in stile sovietico. La maggior parte della forza lavoro e dell'economia gravita attorno al settore privato, e le banche private raccolgono fondi alla Borsa di Londra. L'assistenza pubblica alle piccole imprese, la privatizzazione della proprietà terriera, i sussidi agrari e il rialzo dei salari del comparto statale hanno contribuito alla crescita degli standard di vita, tanto nelle città quanto nelle aree rurali. Il tasso di povertà è in declino, la disoccupazione è la più bassa della regione e il paese è la destinazione preferita dai lavoratori migranti. Casette e condomini germogliano dal nulla nelle periferie di Almaty e Astana, abitate da professionisti convertiti ai nuovi posti offerti dalle società energetiche e di consulenza. «Non esportiamo capitali all'estero, preferiamo accendere un mutuo qui», si vanta un giovane consulente di Almaty che lavora per una joint-venture multinazionale a partecipazione kazaka. «Anche dopo avere studiato e avere fatto il loro tirocinio in Europa molti di noi scelgono di vivere qui la propria vita all'occidentale». Il governo è diventato sufficientemente fiducioso da praticare uno stile di negoziato sempre più muscolare, facendo leva sulla minaccia di esproprio e di aumento del prelievo alle imprese per consolidare la presa sulle fonti energetiche. Tuttavia partnership robuste con società e istituzioni internazionali restano un ingrediente importante del segreto del successo del Kazakistan. Le imprese di costruzioni turche fanno largo uso di lavoratori kazaki, ed esperti stranieri sono stati fondamentali nell'operazione di conversione di quella che era un'accademia sovietica nell'attuale KIMEP, una scuola di direzione aziendale che richiama i migliori studenti da tutti i paesi vicini. «Di frequente», mi spiega un docente del KIMEP che si sta specializzando in mercati energetici, «simili istituzioni sono soltanto utili alle ambizioni del politico di turno, e quando la sua fortuna viene a mancare la scuola chiude i battenti. Il fatto di essere politicamente puliti e di insegnare soprattutto in inglese ci ha permesso di diventare il centro di formazione della futura classe dirigente dell'intera regione». Il Kazakistan può benissimo riuscire a scampare al Russian disease, la tendenza all'accaparramento dei profitti petroliferi da parte dello Stato per alimentare il ritorno a un autoritarismo neozarista 10-9. Il paese è molto più avanzato della Russia in merito alla riforma della sua Banca centrale, e ha collocato più di quattro miliardi di dollari di redditi da petrolio in un fondo alla norvegese gestito da un management relativamente trasparente. Al pragmatismo di Nazarbaev non sfugge nemmeno la delicatissima materia della sicurezza nazionale. Al tempo del collasso dell'Unione Sovietica il Kazakistan ospitava più testate nucleari di Francia, Gran Bretagna e Cina messe assieme, ma il fatto di essere stato per decenni la vittima degli esperimenti nucleari di Mosca – le radiazioni hanno provocato grottesche deformità in molti bambini nati morti – lo ha convinto a cooperare con gli Stati Uniti in un programma di rientro in
Russia di tutto il materiale atomico del suo territorio, e attualmente il governo spinge per l'istituzione di una nuclear-free zone nell'Asia centrale10-10. La Russia osserva da vicino il Kazakistan, e per certi versi lo rispetta. Forse questo paese potrebbe diventare un modello per la Russia stessa. Ora, il Kazakistan è passato dall'economia pianificata all'economia di mercato e dal dominio degli apparati sovietici a quello dei nazionalisti. È sufficiente per passare anche dall'autoritarismo a una vera democrazia elettiva? Il paese è ricco abbastanza per permettersi la democrazia, ma, da vecchio funzionario sovietico e figura paterna del retaggio turco, Nazarbayev preferirebbe di certo governare un'orda incondizionatamente leale. Negli ultimi anni ha chiuso il Partito per la scelta democratica, ha esiliato i rivali più significativi, ha posto agli arresti i capi dell'opposizione e ha dichiarato che intende restare presidente a vita. In occasione delle elezioni del 2005 il problema non è stato se Nazarbayev avesse vinto, ma semplicemente con quale margine, con i suoi advisor a scervellarsi in anticipo su quale scala di vittoria potesse risultare più accettabile per gli osservatori internazionali10-11. Al tempo stesso egli non è immune al richiamo delle virtù dell'istituzione graduale di qualche forma di democrazia fra i suoi popoli nomadi. Stando a quello che prevede con sicurezza un analista politico di Almaty, «è l'unico leader che non può cadere per un colpo di Stato, una rivoluzione o un assassinio, ed è probabile che nominerà alla successione un tecnocrate patriottico piuttosto che indicare come erede legittima una delle sue figlie». Nazarbayev è abbastanza potente da poter virtualmente dirigere il Kazakistan verso tutte le direzioni che desidera, ma essendo sia ambizioso che razionale può ancora essere condizionato dall'esterno. Mentre parlano di democrazia in Asia centrale, gli Stati Uniti appaiono molti più interessati a guadagnare le promesse strategiche di Nazarbayev che ad appoggiare l'opposizione. Al contrario, l'Unione Europea controlla quelle leve della legittimazione che Nazarbayev desidera, e anche il potere di negarle. Fra le speranze di Nazarbayev non c'è soltanto un piano d'azione per il Kazakistan nel quadro della politica europea di vicinato, ma anche, e di questo non ha fatto segreto, la possibile presidenza dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). In entrambi i casi la UE non si è mostrata morbida. Più Nazarbayev costruisce curiose meraviglie architettoniche ad Astana – torri fluorescenti sormontate da una gigantesca palla dorata, ad esempio – e più gli europei lo informano che la sua versione di democrazia non è destinata a grande successo presso di loro. Piazzare i flussi di petrolio fuori del Kazakistan e accogliere i valori dell'Occidente sono due questioni molto diverse, ma entrambe sembrano procedere, naturalmente "alla kazaka".
11. Kirghizistan e Tagikistan. Signori di tutto, padroni di nulla A quasi vent'anni dalla loro indipendenza, il grosso degli osservatori stranieri non sa ancora distinguere fra uno "stan" e l'altro. Ma in definitiva questo potrebbe anche non essere importante nel caso del Kirghizistan e del Tagikistan, i due microstati del Terzo Mondo che saranno probabilmente i primi a finire sotto il grande tappeto imperiale che si sta inesorabilmente dispiegando sull'Asia centrale. Collocati in un angolo della regione nel quale i confini sono stati cinicamente tracciati con la matita, non sono vere e proprie nazioni quanto spazi di frontiera pensati per separare un impero da un altro. Come un secolo fa, il "Grande Gioco" è in pieno fervore fra le vette e le ombre del Tian Shan e del Pamir. La catena del Tian Shan taglia letteralmente in due il Nord russificato del Kirghizistan dalle popolose città del Sud, Osh e Jalalabad, appartenenti alla cultura islamica della valle di Fergana in cui sono collocate. Occorrono dodici snervanti ore di automobile attraverso rischiosi e spettacolari passi d'alta quota per raggiungere Osh dalla capitale, Bishkek. Un Kirghizistan dotato di razionalità e di unità di vedute potrebbe semplicemente usare il turismo per segnalarsi sulla mappa politica, in virtù dell'aria più fresca del mondo e delle acque curative del lago Issykul che dovrebbero rendere famosa la sua industria termale. È assai più probabile che, in realtà, questo paese un tempo chiuso dai sovietici agli stranieri diverrà uno scenografico snodo di transito di una rinnovata Via della seta fra est e ovest gestita dal Kazakistan, dall'Uzbekistan e dalla Cina.
L'impoverito Kirghizistan è infatti oggetto di un perenne tiro alla fune fra questi suoi ben più grandi vicini, con i quali cerca di imbastire «amicizie non esclusive». Quando la Cina nei primi anni Novanta si diede da fare per definire i propri confini centroasiatici ed ebbe il colpo di fortuna di imbattersi in un governo kirghiso disposto a svendere un'area montuosa di parecchie centinaia di chilometri quadrati, nel paese scoppiò la rivolta. Quando l'Uzbekistan interruppe le forniture di gas fu il Kazakistan a provvedere al caso. Ma il Kazakistan, l'alleato più fidato del Kirghizistan, ha pensato bene di aprirsi una strada diretta verso il lago Issykul per fare in modo che i propri turisti potessero evitare di incappare nella rapace polizia kirghisa. Società russe e cinesi stanno comprando l'intero settore metallurgico e quello della trasformazione degli alimenti, lasciando i kirghisi al medesimo livello in cui vivono da secoli, quello di un'economia rurale a trazione animale che ancora costituisce la parte prevalente del prodotto interno. I ristoranti più graziosi di Bishkek sono praticamente dei fast-food per diplomatici occidentali, e le donne senza niente di meglio da fare chiamano incessantemente i clienti maschi degli hotel offrendo Asian massages. «Il presidente Askar Akayev ha dichiarato che avrebbe fatto del Kirghizistan la "Svizzera dell'Asia centrale", ma l'unica Svizzera è stata quella costruita per la sua famiglia», ha sbottato il ministro degli Esteri Rosa Otunbayeva. In effetti, pochi tra i tanti eventi politici etichettati come rivoluzioni hanno meritato il proprio nome meno della "rivoluzione dei tulipani" kirghisa del 2005, che è stata in realtà il colpo di Stato di un'élite dopo il quale nulla – quasi letteralmente – è cambiato. Gli Stati Uniti hanno contribuito a finanziare il piccolo business e i media che hanno incoraggiato il movimento di protesta contro Akaev, che fuggì a Mosca lasciando la porta aperta al regime mafioso di Kurmanbek Bakiyev. Come osserva un analista politico a Bishkek, «ogni cosa era meglio di Akaev, questa fu la ragione per cui tanta gente si unì volentieri all'opposizione. Ma pensare che Bakijev avrebbe combattuto la corruzione e creato posti di lavoro era assurdo». Ovviamente, l'illegittimità di tutti i governi che si sono succeduti in Kirghizistan dalla sua indipendenza non ha certo contribuito alla stabilità del paese. Sperare che una palla di neve rotoli giù per i ripidi pendii del paese provocando un effetto rivoluzionario a valanga senza porsi il problema di guidarla può essere controproducente: sostituire un simulacro di democrazia con qualcosa di sconosciuto non farebbe altro che spalancare la porta a Cina e Russia, intensamente impegnate a manipolare qualsiasi leader che dia segni di insicurezza. Per queste ultime, infatti, la sola cosa migliore di un Kirghizistan con un governo instabile e docile è un Kirghizistan senza nemmeno un governo. Ai tempi della Via della seta i viaggiatori passavano il confine kirghiso senza accorgersene granché, e per quanto riguarda la Cina non è importante chi controlla il Kirghizistan finché si possono fare buoni affari. Pechino sta lavorando alla resurrezione dei propri antichi accessi alla Via della seta, garanzia di prosperità fino all'arrivo dell'islam e al ritiro della dinastia Tang dietro la catena del Tian Shan dopo la sconfitta subita dagli arabi nella battaglia di Talas, del 751. Il leggendario passo di Torugart, sul confine sino-kirghiso, oggi è attraversato da una robusta autostrada adatta al traffico dei mezzi pesanti diretti verso l'Uzbekistan. E se per i cinesi il commercio nell'Asia centrale è fondamentalmente insignificante, per kirghisi e tagiki la presenza di questo loro vicino è fondamentale, e la sua importanza cresce ogni giorno che passa. La quota principale dell'export kirghiso è diretta in Cina, e il bazar Dordoi di Bishkek è invaso di abiti e utensili made in China. Più ancora che in Kazakistan, è qui che il commercio ambulante transfrontaliero ha determinato la nascita di grandi insediamenti cinesi, e praticamente ciascuna delle poche città del paese ospita oggi la sua organizzata Chinatown. A Bishkek, viale Lenin è stata ribattezzata con il nome di Deng Xiaoping. Con l'allargamento delle logiche strategiche americane oltre l'Afghanistan, per il controllo degli oleodotti e un monitoraggio più ravvicinato della Cina, il Kirghizistan è tornato al ruolo che occupava durante il primo "Grande Gioco", quello di posto d'ascolto. Anche le mosse dei giocatori ricordano quelle di un secolo fa: ogni potenza cerca di insediarvi guarnigioni militari, che gradualmente finiscono per trovarsi gomito a gomito le une con le altre. L'esercito russo non ha mai rinunciato ai propri santuari in Kirghizistan ma ha lasciato libera l'ex base sovietica di Manas, vicino a Bishkek, che ora è occupata da truppe americane11-1. Lungo il medesimo confine in cui scoppiarono le tensioni sinosovietiche del 1969, Cina e Russia si spiano reciprocamente attraverso finte stazioni commerciali.
Quando Washington ha fatto pressioni per stabilire una base per i suoi aerei da ricognizione AWACS, la Cina ha convinto il governo kirghiso a dare risposta negativa: una chiara prova di come le basi americane in Kirghizistan, più che alle lievi «ninfee nello stagno» cui aspira il Pentagono, assomigliano a isole sempre più inondate dall'alta marea dell'operosità commerciale e infrastrutturale dei cinesi, la vera leva d'influenza nei paesi sottosviluppati. Gli aerei del Pentagono portano l'America fin qui: ma cosa cambia, in realtà? Di sicuro gli Stati Uniti non possono soppiantare la Cina sotto il profilo economico, mentre quest'ultima può facilmente ungere tutti i regimi che si avvicendano in Kirghizistan, relegando gli americani nella loro base. Se il sostegno alla democrazia non continua a significare nient'altro che aiuti a leader autocratici e stipendi per i consulenti, allora quei regimi che l'Occidente dichiara di volere spazzare via – quelli disposti a vendersi al miglior offerente senza alcun riguardo per la stabilità strategica – possono dormire sonni tranquilli. La stessa micropolitica delle strade e delle infrastrutture si ritrova in pieno rigoglio anche in Tagikistan, che si sta trasformando nell'ennesima stazione di tappa lungo la Via della seta. In precario equilibrio sul tetto del mondo, fra i monti del Pamir, incastrato fra l'Uzbekistan, l'Afghanistan, il Kirghizistan e la Cina, il Tagikistan è un altro Stato che pende verso la direzione in cui spirano i venti imperiali, con, in più, il tocco dell'islamismo radicale. Il Partito del rinascimento islamico, attivo qui, era l'unico partito religioso ufficialmente riconosciuto in Unione Sovietica, e negli anni Ottanta divenne il punto di aggregazione del nazionalismo tagiko, proprio mentre l'élite comunista della capitale, Dushanbe, trascurava l'importanza della resistenza antisovietica in Afghanistan, che accese la miccia del crollo dell'URSS. Quasi centocinquantamila persone persero la vita durante la guerra civile che infiammò nel paese nei primi anni Novanta, dimostrando, come il simultaneo conflitto in Iugoslavia, quanto fragile fosse stata la costruzione delle identità nazionali nel mondo comunista. Persino dopo avere vinto le elezioni, nel 1992, la cricca di Irnamali Rakhmanov, spalleggiata da Mosca, dovette aprirsi con le armi la via per Dushanbe. Le circa tremila grandi e piccole scosse di terremoto che affliggono il paese ogni anno sono un'ottima metafora della sua politica. Sfacciatamente corrotto, il regime di Rakhmanov è praticamente ipotecato da Mosca. Qualcosa come ventimila soldati russi sono di stanza in Tagikistan, e le imprese russe gestiscono il patrimonio più strategico del paese, i bacini idroelettrici, accumulando tesori grazie alla vendita di energia all'Uzbekistan. In perfetto stile terzomondiale, le rimesse degli emigrati tagiki in Russia superano il budget dello Stato. Il paese è diventato un motivo di misericordia per l'Aga Khan, la Banca Mondiale e la UE, e con l'80 e più per cento della popolazione che vive sotto la soglia di povertà non c'è da stupirsi se i tagiki residenti su entrambi i lati del confine con l'Afghanistan si sono rivolti al traffico di droga per sopravvivere. Il Tagikistan, tuttavia, è anche un ponte fondamentale per la ricostruzione delle rotte commerciali sino-iraniane che partono dallo Xinjiang e passano per Osh, Dushanbe, Herat (in Afghanistan) per arrivare in Iran, con cui il Tagikistan condivide una parentela etnica e linguistica. Il tunnel sotto i monti Fan, che collega Dushanbe a Chujand, è stato finanziato dagli iraniani, e non solo permette che le due maggiori città del paese siano allacciate per la prima volta durante l'intero anno, ma è la testa di ponte di un nuovo corridoio commerciale ed energetico fra Pechino e Teheran. «Confiniamo con la Cina e l'Afghanistan, non più con la Russia», sottolinea una sveglia recluta tagika presso un posto di blocco fatiscente. «Senza queste strade che i cinesi stanno costruendo non potremmo nemmeno viaggiare nella nostra nazione». Questo nuovo tratto della Via della seta è meno romantico e certamente più industrializzato, e soprattutto molto più scorrevole, dei suoi predecessori. Il punto è che, una volta inaugurate, sulle autostrade non circolano solo merci e petrolio, ma anche droga, malattie infettive e ideologie estremiste. Per questo Cina e Russia vedono di buon occhio gli sforzi di americani ed europei per stabilizzare la zona cuscinetto nel Sud del paese, quella che costeggia l'Afghanistan e sulla quale i russi hanno perso il controllo. I traffici lungo il confine tagiko-afghano attraverso il fiume Panj sono monitorati con efficienza da una gestione europea e americana, in netto contrasto con i tempi in cui l'Armata rossa, a corto di liquidi, cooperava con il traffico di stupefacenti. La stessa Cina ha cominciato a far propria questa lezione e ad applicarla alle missioni di polizia confinaria in ambito SCO – in realtà spingendole un passo più in là con l'obiettivo di stabilire strategie congiunte di controllo e gestione dell'acqua. I
legami politici, economici e strategici che si stringono giorno dopo giorno lungo queste rotte della nuova Via della seta stanno mutandosi in filtri d'influenza che, prima o poi, potrebbero inchiodare gli Stati Uniti nell'area a sud degli "stan" postsovietici, ossia nel cimitero sovietico dell'Afghanistan.
12. Uzbekistan e Turkmenistan, o le paranoie del potere Poco dopo l'11 Settembre gli americani che, trovandosi a viaggiare per l'Uzbekistan, passavano per un checkpoint militare erano accolti con entusiasmo come «amici di Bush». Il paese era stato reclutato come alleato di primo piano degli Stati Uniti per l'appoggio alle operazioni che si svolgevano oltre i confini del Sud, in Afghanistan: ospitava le basi di lancio dei droni Predator, quelli impiegati nel tentativo di assassinare Osama bin Laden, e più tardi ebbe una parte attiva nei rendition schemes della CIA per l'interrogatorio e la tortura dei sospetti terroristi. La presenza dell'esercito USA nella base meridionale di Karshi-Khanabad ("K2") ebbe anche l'effetto di alzare considerevolmente il prestigio internazionale dell'Uzbekistan, consentendo al regime di aspirare allo status di prima centrale di potere nella regione. Cinque anni dopo l'Uzbekistan aveva già mancato tutte le aspettative. Gli americani avevano quasi del tutto abbandonato il paese e il collasso politico era ormai una certezza. Cosa è andato storto? L'Uzbekistan è il cuore del continente. La sua popolazione è superiore a quella di tutti gli altri Stati postsovietici dell'Asia centrale messi assieme, e confina con ciascuno di essi. All'inizio degli anni Novanta era l'Uzbekistan, e non il Kazakistan, a essere considerato il potenziale leader regionale, grazie ai suoi numerosi centri urbani e alle migliori infrastrutture. La nazione era l'ottavo produttore d'oro al mondo, con significative riserve di petrolio, gas naturale e uranio. La sua produzione di cotone e la presenza di industrie lo rendevano un luogo d'elezione per grandi aziende straniere dei settori tessile e automobilistico. Lo stesso presidente Islom Karimov sembrava un amico del progresso. «Meglio rackets che rockets, meglio le racchette da tennis dei missili», disse in qualità di ospite della prestigiosa President's Cup nella capitale, Taškent. Ma mentre il presidente kazako Nazarbayev diede respiro al risveglio della tradizione turca orientandola al futuro, Karimov preferì enfatizzare un'identità nazionale tutta rivolta al passato, sotto la bandiera di Tamerlano – il grande khan del XIV secolo –, le cui statue a cavallo rimpiazzarono quelle di Marx in ogni angolo di Tashkent12-1. A differenza di Timur "lo zoppo", però, che inviò carovane in ogni direzione per intensificare i legami con la Cina, l'Arabia e l'Indostan, Karimov chiuse al mondo esterno la nazione, causando il maggior punto di blocco lungo la nuova Via della seta, e usò la violenza contro i propri concittadini. Le scintillanti, moderne banche di Taškent hanno un solo cliente, il governo, e gira la barzelletta che potrebbero limitarsi a svolgere la funzione di depositi per le mazzette di banconote della valuta nazionale, il som, del quale servono interi sacchi per comprare ogni cosa con un minimo di valore. Il paese ha perso il grosso dei suoi talenti e della sua competitività nel business a favore del meglio amministrato Kazakistan. Per rappresentare questa faglia postsovietica fra Kazakistan e Uzbekistan non c'è simbolo migliore del Lago d'Aral, fino a poco tempo fa monumento disseccato e inquinato all'insostenibilità ambientale dei piani sovietici per l'irrigazione dei campi di cotone. Oggi il governo kazako ha eretto una diga per suddividere il lago e creare una specie di "piccolo Aral" alimentato dalle acque del Syr Darja. Dall'altra parte, quella uzbeka, più estesa, il lago resta un pantano velenoso in progressivo restringimento sormontato da nubi di pesticida. Mentre il Kazakistan sta salendo i gradini del Secondo Mondo, l'Uzbekistan scivola lentamente verso il Terzo. Se paragoniamo l'Asia centrale a una mano aperta, il suo palmo si colloca nella valle di Fergana, che attualmente ospita il venti per cento della popolazione in un territorio pari al cinque per cento di quello della regione nel suo complesso. Il punto è che ogni gruppo etnico originario dei paesi che vi confinano vi è rappresentato in percentuale non proporzionata, il che rende la valle l'epicentro della versione centroasiatica della sindrome – ancora in evoluzione – del Caucaso, dove Stalin tracciò i confini come linee fatali destinate a creare una sorta di schizofrenia demografica, aizzando ogni minoranza contro le altre per impedire che tutte assieme potessero insorgere contro il potere centrale. Nel 1990 le forze
armate sovietiche non mossero un dito per prevenire lo scoppio di gravi disordini etnici fra uzbeki e kirghisi, e Mosca preferì incolpare l'islam. In effetti, da un punto di vista demografico il Kirghizistan occidentale e il Tagikistan settentrionale restano a tutti gli effetti territori uzbeki. Data la densità di popolazione e l'estrema povertà della valle di Fergana, qualsiasi seria escalation di violenza potrebbe provocare una quantità di profughi da incubo. L'incremento del traffico di droga e il declino dei servizi sociali sotto questi regimi regressivi hanno avuto un effetto devastante sulla gioventù della regione, che, come in tanti paesi arabi, passa svogliatamente il tempo ai tavolini dei caffè in attesa di qualche occupazione. Oggi è ancora impossibile cogliere la vitalità e la grandezza architettonica delle città dell'antica Via della seta senza visitare le madrase e i bazar di Samarcanda e Buhara (entrambe in Uzbekistan), dove la seta è tessuta in camere strette e appartate su telai di legno, secondo la tecnica contrabbandata secoli fa dalla Cina verso il mondo persiano. Nella quiete immota della mitica madrasa Mir-i-Arab, a Buhara, uomini completamente rasati, con pakul e barbe lunghe e sottili restaurano ceramiche dipinte con intricati motivi di calligrafia islamica. In un negozio sotterraneo, lì nei pressi, alcuni musicisti raccolgono e assemblano gli strumenti vecchi di secoli impiegati nella musica della Via della seta: flauti dal timbro acuto, chitarre dall'incordatura stretta, percussioni arabe. Nessuno però è lì ad ascoltare quelle melodie ipnotiche. L'immensa madrasa Registan di Samarcanda, che sotto Tamerlano era il centro di tutte le cerimonie religiose, delle fiere e dei mercati, oggi è uno spazio che incombe, sinistramente vuoto, sulla città. Eppure Samarcanda potrebbe diventare il simbolo di un moderno rinascimento islamico e riguadagnarsi l'appellativo di un tempo, la "seconda Mecca". La stessa valle di Fergana, il cuore del mélange di valute e sapori della Via della seta, sarebbe potuta diventare il granaio della regione facendo la fortuna di tutti gli agricoltori degli Stati che vi si affacciano. Al posto di questo abbiamo l'Uzbekistan, un case study di opportunità sprecate e ambizioni fallite. Per rafforzare il prestigio del paese nella war on terror Karimov mise al bando i partiti e le organizzazioni sociali di ispirazione islamica. L'impiego strumentale delle etichette di «estremista» e «fondamentalista» per descrivere istituzioni sociali ed educative consolidate come le madrase è una tattica fuorviante che si ritrova di frequente tra i despoti perennemente assediati dell'Asia centrale e del mondo arabo. Ironicamente, benché nominalmente sia egli stesso musulmano, Karimov ha ripetuto gli errori dei bolscevichi atei che perseguitarono per oltre un decennio i «banditi» basmachi del Turkestan spingendoli ad asserragliarsi sulle montagne, dopodiché Stalin rase al suolo forse mille delle trentamila moschee del paese, convertendo le rimanenti in fabbriche e musei. I sovietici, tuttavia, almeno designarono un islam «ufficiale» per mantenere una certa credibilità presso le nazioni musulmane, istituendo quattro muftiyya (rettorati) con Taškent come centro12-2. Al contrario Karimov ha esagerato il rischio dei gruppi islamisti e ha sovrastimato la capacità della popolazione di tollerare la sua autocrazia, senza riuscire a convincere gli uzbeki di essere la persona adatta a riportare in auge la loro gloriosa tradizione. Non c'è niente di inevitabile nell'espansione verso nord, nella valle di Fergana e oltre, del violento fanatismo islamico proveniente dal Pakistan e dall'Afghanistan. «I gruppi islamisti sono stati in buona parte una forma di opposizione politica nella regione, non un fattore di radicalizzazione», mi spiega un ex funzionario uzbeko che ha lasciato il servizio per motivazioni morali. In Kazakistan i giovani frequentano regolarmente le moschee senza timore di persecuzioni, e lo scontento islamico è assente. Anche in Uzbekistan inizialmente il radicalismo fu una reazione di secondo piano contro i signori della guerra uzbeki che regnavano nel nord dell'Afghanistan, senza alcuna intenzione di rovesciare il regime. E la maggioranza degli abitanti preferirebbe restare lontana dalle turbolenze dell'islam politico che furoreggiano altrove. «I problemi religiosi non hanno mai trovato posto nella nostra vita quotidiana», continua, «è solo oggi che abbiamo preso la strada sbagliata nei nostri rapporti con l'islam». Un palloncino che viene schiacciato non si sgonfia: si dilata da una parte finché non esplode. Karimov è riuscito a trasformare in realtà il peggior incubo dell'Occidente e di se stesso: uno Stato senza alcun'altra opposizione che non i gruppi islamisti organizzati che hanno scelto l'Uzbekistan e il Tagikistan quale loro primo obiettivo12-3. Attualmente due massicci movimenti religiosi si stanno dedicando a promuovere un nazionalismo panislamico che prevede il rovesciamento di Karimov quale primo passo essenziale. Hizb ut-Tahrir, che ha iniziato le attività come comunità islamica non violenta
impegnata nella lotta alla corruzione e alla povertà, grazie alla distribuzione di pamphlet tradizionali e all'apertura di siti in rete si è trasformata in una specie di avanguardia della sunna12-4. Il Movimento islamico dell'Uzbekistan (IMU) conta cellule di militanti attivi in Afghanistan e Tagikistan, riceve finanziamenti dai wahabiti sauditi e dalle madrase del Pakistan e ha utilizzato campi sparsi per la valle di Fergana per addestrare le reclute al combattimento e all'omicidio e impartire letture del Corano che giustificano l'uccisione di americani ed ebrei12-5. Un regime come quello di Karimov costituisce la migliore campagna di reclutamento che questi gruppi potessero sperare di avere. Migliaia dei loro membri sono giovani delle città che fino a pochi anni fa non erano nemmeno musulmani praticanti, ma il fallimento delle élite uzbeke nella creazione di una moderna e comprensiva identità nazionale ha aperto la porta alle alternative 12-6. Anche per gli uzbeki più convintamente laici poche cose non sono preferibili all'oppressione di Karimov, che tra l'altro è riuscito nell'impresa di convincere le vedove delle sue vittime a unirsi a Hizb ut-Tahrir per portare a termine il loro lavoro. Nel 2004 alcuni attentati suicidi nelle piazze di Taškent (una pratica fino ad allora sconosciuta nella regione) hanno riscosso la simpatia di buona parte della popolazione uzbeka. «Potremmo fare la fine dell'Afghanistan», dice preoccupato uno studente che vive in un quartiere degradato della capitale. «Qui non esiste altra scelta che il conflitto». Se è sempre stato un autocrate, Karimov non è comunque mai stato onnipotente, il che lo ha reso ulteriormente paranoico. I suoi piani di collettivizzazione hanno depresso i redditi degli agricoltori ai quali non è stata concessa la proprietà della terra; sono state imposte alte tariffe sulle importazioni e soffocanti controlli sul commercio con l'estero. Quando i flussi di investimento estero si sono asciugati, Karimov ha persino tentato di impadronirsi in prima persona dell'intera economia e del sempre più deprezzato som bloccando il commercio ambulante lungo i confini del paese nella valle di Fergana e a nord, con il Kazakistan. Nessuna mossa avrebbe potuto inimicargli così rapidamente i poveri commercianti uzbeki che vivono dei grandi bazar all'aperto estesi dalle due parti del confine con il Kazakistan, a Karasu. Qui, enormi container cinesi sono accatastati due a due a formare un labirintico caravanserraglio, un vertiginoso dedalo di negozi nel quale gli uzbeki fanno incetta di merci cinesi la cui importazione è stata vietata. Nel giro di pochi giorni l'intero impianto potrebbe essere smontato e trasferito, proprio come ai tempi della Via della seta, e come è già accaduto allorché Karimov ha ordinato lo smantellamento del bazar e la demolizione delle abitazioni lungo il confine. A peggiorare le cose, dopo la chiusura le aree di mercato nero nel vecchio stile sovietico sono spuntate in tutta la regione di Fergana, ma i guadagni sono andati a picco, non da ultimo perché i venditori di cocomeri con il carretto devono pagare somme più alte di quelli che si possono permettere un'automobile alle guardie che controllano strettamente il confine, tanto che i profitti giornalieri vanno quasi interamente a finire in baksheesh ('bustarella'). La chiusura dei confini ha significato anche un tragitto assai più lungo per raggiungere la vicina, grande città uzbeka di Andijan, luogo di nascita, nel XV secolo, dell'imperatore moghul Babur. Per intimidire i piccoli imprenditori di Fergana, Karimov ha fatto processare, con l'accusa di complicità con l'islamismo radicale, una ventina di uomini d'affari che riscuotevano un certo successo. Nel maggio del 2005 la polizia ha aperto il fuoco contro i dimostranti pacifici che chiedevano la loro liberazione, provocando la più sanguinosa strage di piazza vista in Asia dai tempi di Tienanmen, nel 1989. Un uomo arrestato senza alcuna prova per presunto estremismo è stato torturato per due anni prima di essere liberato: «Il presidente Karimov ti perdona, ma se dici a qualcuno cosa è successo qui ti arrestiamo di nuovo». Attualmente Taškent è una grande città di polizia all'interno di uno Stato di polizia. In un raggio di 220 chilometri dalla capitale si ripetono checkpoint dell'esercito e della polizia – spesso mascherati da inutili stazioni doganali interne – che provvedono a perquisire ogni veicolo nel tentativo di impedire l'accesso alla città a qualsiasi elemento considerato avverso al regime. Ma qualsiasi dimostrante che mettesse piede a Taškent si troverebbe davanti alla sorpresa di un quartiere governativo completamente fortificato in un modo che ricorda la Città proibita di Pechino, con un presunto «abbellimento» come giustificazione ufficiale per questo isolamento di tutti gli spazi larghi abbastanza da poter ospitare manifestazioni. Lo stesso vale per il maggiore bazar della città, il Chorsu, tagliato in due da un'arbitraria linea di staccionata. Karimov ha paura del suo stesso popolo, malgrado comandi un imponente
apparato di sicurezza: ed effettivamente, a parte gli inconsapevoli bambini che vendono cartoline nei luoghi storici di Buhara, è riuscito ad alienarsi la maggior parte dei cittadini. Il Ministero degli interni e i servizi di sicurezza hanno proprie forze armate e interessi finanziari che si vanno a sommare ai sessantamila uomini dell'esercito, rendendoli capaci di poter occupare senza grossi sforzi la regione a maggioranza uzbeka del Chujand, nel Tagikistan. Karimov ha presentato la repressione di Andijan come un'operazione concordata con la war on terror americana, mettendo gli Stati Uniti nella scomoda posizione di veder cozzare l'uno contro l'altro i propri programmi di democratizzazione e di lotta al terrorismo 12-7. Prima di Andijan gli uzbeki furono colpiti da una dichiarazione del capo della CENTCOM americana, Anthony Zinni: «non sono Tamerlano; non sono venuto qui per conquistarvi»12-8. Ma le dure critiche rivoltegli dagli occidentali hanno spinto Karimov fra le braccia dei russi e dei cinesi, i protettori che hanno garantito la copertura della SCO alla sua richiesta che gli Stati Uniti si ritirassero dalla base di Karshi-Khanabad. È così che l'Uzbekistan è diventato l'ennesimo teatro di questa partita a scacchi della Realpolitik, e il risultato è ancora largamente incerto. Karimov ha pure chiuso o sfrattato una buona parte delle ONG americane impegnate nei settori dei diritti umani, della riforma della giustizia e della formazione di media indipendenti. «Ogni giorno siamo convocati da un tribunale per un'audizione, o riceviamo notizia che dobbiamo lasciare il paese», si lamenta un corrispondente occidentale. «I nostri partner locali ci vorrebbero qui per apprendere da noi il mestiere, ma attualmente il governo è troppo nervoso». Le ONG di democracy-promotion sono parte di un approccio statunitense alla politica estera, apparentemente contraddittorio ma di fondamentale importanza, che consente a Washington di recitare contemporaneamente i ruoli del poliziotto buono e di quello cattivo. Esse si rivolgono a entrambi i poli della società politica, i governanti e i governati, anche se generalmente sono solo i secondi a prendere sul serio la loro offerta. Anche quando ufficialmente gli Stati Uniti appoggiano un regime, le loro ONG possono opporvisi e insegnare ai suoi cittadini a fare lo stesso. Le lampanti incoerenze di questa politica così benintenzionata hanno tuttavia portato al suo abbandono. Il paradigma della guerra al terrorismo ha condotto il Dipartimento di Stato e il Pentagono a lavorare con obiettivi incrociati: quando il primo taglia gli aiuti finanziari a uno Stato che si macchia di violazione dei diritti umani, il secondo aumenta quelli destinati all'assistenza militare. Solo una quota trascurabile dei cinquecento milioni di dollari spesi in Uzbekistan è stata impiegata nei programmi di democratizzazione. Ma l'assistenza straniera – che è sempre politica e improntata allo sviluppo – alla fine non ha generato né mutamento economico né lealtà diplomatica. E quando il flusso dei finanziamenti prevede scarse clausole di riforma politica, o addirittura nessuna, i leader sono incoraggiati a perseguire strategie ulteriormente aggressive nei confronti dell'opposizione interna12-9. Karimov, ad esempio, ha usato i fondi di Washington non per investire in quella diversificazione agricola che darebbe ossigeno a un'economia in crisi, ma per aumentare gli stipendi dei membri più leali dei suoi servizi di sicurezza, irrobustendo la propria corazza contro chi chiede un cambio di regime. Se l'America continua a concentrasi solo nelle relazioni con i governi al potere – a differenza degli europei, il cui focus sta nel miglioramento dei sistemi – allora gli stessi successori di Karimov potrebbero semplicemente proseguire nella pratica di ingraziarsi i favori di Cina e Russia. Come ha dichiarato seccamente un ex ufficiale uzbeko in un tranquillo ristorante di Taškent, «la strategia degli occidentali dovrebbe cominciare con lo smettere di pensare a un leader come "il nostro figlio di puttana" e considerarlo soltanto come "un figlio di puttana"». Il problema dell'offrire assistenza militare a regimi da quattro soldi presenti sul mercato geopolitico è che questo produce assai poche leve d'influenza politica, soprattutto quando esistono altre potenze in grado di fare offerte analoghe12-10. Laddove la NATO sospende la cooperazione con i paesi che abbandonano le riforme in senso democratico, la SCO resta disponibile quale comodo gruppo di mutuo soccorso per autocrati che scelgono di preferire la protezione russa o cinese a costo zero alla mano pesante della tutela occidentale. Da quando Karimov si è nascosto dietro schiere di consiglieri la sua politica repressiva e il suo stile economico centralista hanno assunto un significato più ampio della semplice conversione di facciata al modello della Cina e della Russia. Poco dopo il massacro di Andijan Karimov è volato a Pechino a firmare contratti per lo sfruttamento energetico dei giacimenti di petrolio
e gas della valle di Fergana valutati attorno al miliardo di dollari, compreso un gasdotto diretto verso la Cina occidentale. A loro agio con la corruzione e l'opacità degli affari, le aziende russe e cinesi controllano attualmente la maggior parte dei depositi minerari dell'area. Russia e Uzbekistan hanno successivamente siglato un protocollo di difesa reciproca, alla fine del 2005, che ha reso ulteriormente difficile la posizione americana nella regione. Se il Kazakistan ha consolidato la propria posizione mantenendo buone relazioni con tutte le grandi potenze, Karimov ha indebolito la stabilità dell'Uzbekistan tagliando la gamba occidentale dell'impalcatura che sostiene il paese, lasciandolo a disposizione dello sfruttamento colluso di Cina e Russia. Contemporaneamente, USA e UE non hanno perso la propria popolarità fra i cittadini uzbeki. Dopo Andijan gli Stati Uniti hanno favorito la fuga di centinaia di rifugiati uzbeki dal Kirghizistan fino all'Europa, nonostante le fragorose proteste di Karimov. «Non disponiamo di tante informazioni», spiega un giovane ricercatore uzbeko, «ma sappiamo che America ed Europa hanno preso la decisione giusta, e per questo le rispettiamo». In più, l'Unione Europea ha introdotto un veto all'ingresso dei maggiori funzionari del regime, mentre le agenzie occidentali addestrano gli esuli in Europa in previsione del rientro. Da notare che, con il suo ripudio di Karimov, l'Occidente ha evitato per una volta di essere scelto come oggetto della rabbia dei gruppi islamisti uzbeki, mentre Cina e Russia sono viste come gli Stati che danno protezione a simili autocrati folli, con tutte le conseguenze del caso. L'Uzbekistan dimostra che è molto più facile chiudere una nazione che non aprirla. Per uomini come Karimov non c'è vera contropartita alla democratizzazione, alla crescita economica e alla sicurezza nazionale: la stabilità del governo di un singolo è la sopravvivenza del regime e dello Stato. «Non c'è stata nessuna transizione, nessun progresso qui dai tempi della glasnost», sibila un tassista di Buhara, «e non ci sarà finché Karimov non sarà appeso a un lampione». La mentalità da stato d'assedio di Karimov preclude del tutto ogni possibilità di successione legittima. Ancora al potere a quasi due decenni dall'indipendenza, porterà con sé nella tomba la sua tirannia. La maggiore provincia dell'Uzbekistan, il Karakalpakstan, che copre l'intero terzo occidentale del paese, è stato ridotto a un deserto arido dall'abuso dell'acqua dell'Amu Darja per l'irrigazione; al tempo stesso il Lago d'Aral, che un tempo copriva oltre un decimo del fabbisogno ittico dell'Unione Sovietica, non ospita più alcuna forma di vita a parte i batteri che infettano gli abitanti della zona. Proseguendo lungo questa landa desolata si arriva in Turkmenistan, in gran parte sempre una distesa inaridita. Le sue tribù nomadi di allevatori di cavalli hanno fatto pochi passi in avanti dall'epoca in cui Mary era la seconda capitale della dinastia selgiuchide dopo Baghdad, e per questo sono state le più refrattarie all'espansione sovietica, contro la quale si sono violentemente ribellate durante tutti gli anni Trenta. Con i suoi immensi giacimenti di gas naturale, tuttavia, il Turkmenistan è essenzialmente una delle grandi stazioni di rifornimento del mondo, benché gestita da manager che aprono e chiudono i rubinetti arbitrariamente. A differenza di Islam Karimov, il precedente leader del Turkmenistan Saparmurat Niyazov, scomparso nel 2006, non era sufficientemente modesto da evitare di proclamare se stesso eroe nazionale del paese, anziché Tamerlano o qualche altra figura storica. Nijazov – autonominatosi Turkmenbashi, 'il padre di tutti i turkmeni' – sostituì i libri di storia usati nelle scuole con il suo Ruhnama (cui fu accordato, non senza blasfemia, il medesimo status del Corano) e con proprie raccolte di poesie del tipo «Sono lo spirito turkmeno e sono rinato / per portare a voi l'età dell'oro e la felicità». La sua maniacale miscela di identificazione personale con lo Stato, lobotomizzazione dell'opposizione, purghe dell'intellighenzia e saccheggio dell'economia è stata una forma di autoglorificazione dello stesso ordine di quelle di Pol Pot e Kim Jong-Il. Ha chiuso ospedali e biblioteche al di fuori di Ashgabat per riversare milioni di dollari in appartamenti scintillanti, autostrade a otto corsie, fontane stravaganti e monumenti a se stesso – uno dei quali, alto quasi quaranta metri, ruota assieme al sole. La nazione è diventata poco più di un sultanato nel quale il potere è allocato sulla base di alleanze di clan. Ogni nozione di costituzionalismo è sconosciuta. Per mostrare la propria benevolenza Nijazov era solito rilasciare migliaia di prigionieri in una cerimonia annuale di amnistia. Le politiche governative seguivano il suo capriccio ed erano regolarmente opposte ai pareri espressi dai suoi pochi consiglieri, guadagnando al paese la reputazione di incubo di qualsiasi statistico dell'economia, dal momento che i dati forniti dal governo rappresentavano «il mondo che il Turkmenbashi vorrebbe esistesse, non certo quello in cui i
turkmeni vivono realmente»12-11. Nel mondo reale del Turkmenistan le masse sono disoccupate e istupidite dalla droga. Appena dopo la morte di Nijazov la nuova nomenklatura ha chiuso ermeticamente il paese per impedire ai cittadini di fuggire con l'oro, quindi ha manipolato la Costituzione al fine di conservare la propria presa cleptocratica sul potere. Come osserva seccamente un funzionario di un'agenzia occidentale attiva nel campo dell'assistenza, ormai assuefatto a questo paese piegato dal tempo, «avevamo sperato in una transizione verso politiche più realistiche, ma ciò non è evidentemente la priorità del nuovo regime». In netto contrasto con il suo vicino caspico, il Kazakistan, il Turkmenistan è la prova che la ricchezza di risorse non è in necessaria correlazione con una solida gestione economica e politica 12-12. Nijazov viveva nel terrore perpetuo degli investimenti stranieri nel settore dell'energia in ragione della leva di intromissione politica che essi potevano determinare. Il risultato fu che negli anni Novanta la produzione di gas e petrolio crollò. Per paradosso, la mancanza di investimenti stranieri – Nijazov non consentì mai alcuna certificazione del volume delle riserve naturali del paese – ha lasciato il controllo delle pipeline delle province settentrionali ai russi di Gazprom, che hanno potuto dettare il prezzo del gas a loro piacimento. Il progetto di un gasdotto che, partendo da qui, attraversi Afghanistan e Pakistan per arrivare in India – evitando la dipendenza di quest'ultima dai competitor del Turkmenistan, cioè Iran e Russia – è ancora in stallo sia per l'instabilità della situazione afghana che per la mancanza di trasparenza del regime di Ashgabat12-13. L'incremento della domanda di nuovi giacimenti di gas e petrolio pone tuttavia al Turkmenistan una domanda chiara, non tanto un "se", ma un "quando" e un "come". Benché la Russia detenga ancora il controllo del flusso di gas turkmeno verso l'Europa, il paese è in grado di sfuggire alla sua presa e di beneficiare di contratti diretti con l'Occidente se, come il Kazakistan, collega le proprie forniture attraverso il Mar Caspio al corridoio energetico del Caucaso, che arriva diretto in Ungheria. Il desiderio di svincolarsi dal controllo russo evidentemente già esiste, se il governo ha preso in considerazione un gasdotto che dovrebbe attraversare il Kazakistan e arrivare in Cina12-14. Gli Stati Uniti desiderano ardentemente l'ex base sovietica di Mary, con la speranza che il Turkmenistan possa assecondare i loro obiettivi strategici in Afghanistan – ma anche in Iran – come all'inizio aveva fatto l'Uzbekistan. È un segno della natura distorta del nuovo "Grande Gioco" il fatto che questo paese possa diventare il più collaborativo con l'Occidente in ordine all'impegno di quest'ultimo di intimidire l'Iran, tenere sotto controllo la Russia e intensificare i flussi energetici verso l'Europa. Ma è anche un ulteriore promemoria di quanto tenue possa essere l'influenza esterna su tutti i khanati dell'Asia centrale.
13. Afghanistan e Pakistan. Domare l'Asia centromeridionale è possibile? Nei circoli diplomatici i presidenti dell'Afghanistan e del Pakistan, Hamid Karzai e il generale Pervez Musharraf, sono due star13-1. La loro presenza attira folle di curiosi, affascinati dal loro status di leader di due fra le nazioni più assediate e pericolose del mondo. Entrambi i paesi sono fra gli esempi più interessanti che la storia possa offrire di come il commercio e le invasioni procedano sulle medesime strade; entrambi sono Stati del Terzo Mondo in piena crisi esistenziale di legittimità; entrambi devono la propria stessa esistenza a clamorosi errori strategici e anomalie coloniali. L'Afghanistan, che verso nord penetra nella steppa centroasiatica storicamente in mano ai khan del Turkestan, costituisce un microcosmo dell'intera regione, con significative presenze di patani, uzbeki, turkmeni e persiani (hazara), nessuno dei quali è però numericamente maggioritario rispetto ai trenta milioni di abitanti del paese. Anche il Pakistan è una federazione di tribù con istituzioni deboli (benché ospiti una raffinata élite postcoloniale), percorsa da flussi illeciti di armi, droga e militanti islamisti. In entrambi i paesi gli attentati suicidi hanno superato il livello oltre il quale appaiono scontati fatti quotidiani: nessuno sembra più nemmeno chiedersi quale sia il messaggio che vi sta dietro. I funzionari dello Stato sono in perenne pericolo di vita: né Karzai né Musharraf hanno la certezza di poter sopravvivere ancora a lungo. Eppure, questi due paesi restano snodi cruciali delle direttrici est-ovest e nord-sud della nuova Via della seta e del nuovo "Grande Gioco".
L'evento storico della sua invasione da parte degli Stati Uniti, nel 2001 ha trasformato improvvisamente l'Afghanistan in una priorità strategica dell'Occidente13-2. Ma ancora cinque anni dopo la caduta dei talebani Karzai era poco più che il "sindaco di Kabul", e la sua credibilità di leader nazionale sta svanendo fino a che non sarà inevitabilmente costretto a uscire di scena (democraticamente o meno). I signori della guerra uzbeki da nord e i militanti talebani da sud proseguono indefessamente la loro guerra contro il governo, forti dell'appoggio di tutte le nazioni confinanti alle loro milizie e alle loro operazioni di traffico di stupefacenti. «La difesa della Germania comincia nello Hindu Kush», ha dichiarato l'ex ministro della Difesa tedesco Peter Struck nel 2002. Europa, Russia, Cina e Stati Uniti sono tutti ugualmente preoccupati per la fragilità dell'Afghanistan – nonché per l'export di droga che attraversa la valle di Fergana e poi la Russia fino ad arrivare in Europa; ma le ripetute dichiarazioni della NATO sui propri interessi globali non fanno che rendere più lampante il suo fallimento nel garantire la stabilità nel paese. Gli afghani ormai non hanno più alcuna fiducia nella capacità dell'Occidente di restaurare quel minimo di ordine che persino i talebani erano riusciti a imporre. Il bilancio dell'Afghanistan si compone quasi per intero di aiuti occidentali, ma per la maggior parte i fondi sono spesi in costi di gestione, sicurezza e salari, e quello che resta va ad alimentare la corruzione. Sotto l'influenza britannica e poi sovietica furono costruiti ospedali, scuole e strade, ma trent'anni di logorante guerra intestina hanno ridotto la nazione a un mucchio di ceneri dalle quali occorreranno decenni per riemergere. Non c'è da stupirsi se gli afghani, che un tempo coltivavano vite e uva passa, si siano convertiti in massa alla coltivazione del papavero per sopravvivere, con una produzione che nel 2005 ha superato quella del periodo dei talebani. È già un miracolo che le decine di migliaia di persone che vivono in capanne nelle colline sopra Kabul non muoiano di freddo ogni anno durante i rigidi inverni del paese. Se la maggior parte degli osservatori considera l'Afghanistan il più remoto protettorato della NATO, in realtà il paese, una volta di più, è una pedina del nuovo "Grande Gioco" con la SCO. Attualmente la NATO occupa a Kabul lo stesso lotto di terra usato come quartier generale dagli inglesi nel XIX secolo e dai sovietici nel XX secolo. Dopo essersi uniti alla già esistente coalizione antitalebana, nel 2001 gli americani si sono progressivamente raccolti nelle loro basi fortificate di Bagram e Kandahar, con l'obiettivo di arginare l'influenza iraniana e cinese nell'Asia centrale. La lentezza esasperante della ricostruzione guidata dagli USA ha però dato a questi due competitor un'opportunità per rovesciare le posizioni. Lo stretto corridoio di Wakhan, la lingua di terra che collega l'Afghanistan alla Cina, disegnata appositamente per porre fine al primo "Grande Gioco", oggi permette a Pechino di riaprire con facilità antiche diramazioni della Via della seta attraverso pipeline e strade – che nel futuro sostituiranno il tunnel di Salang – la cui funzionalità dipende dalla stabilità afghana. Era il 1956 quando gli americani avvertirono il leader afghano Mohammed Daoud Khan che l'assistenza sovietica «stava mettendo a punto l'infrastruttura logistica per l'invasione»13-3. La Cina ha fatto tranquillamente affari con l'Afghanistan governato dai talebani negli anni Novanta, e ora approfitta a mani basse della presenza militare NATO per lanciare offerte al ribasso per delicati progetti stradali e grandi appalti di costruzione lungo le vie di comunicazione che sono state ripristinate fra Kabul e Herat – una città riedificata in uno stile sgargiante battezzato «narcotettura». L'obiettivo ultimo dei cinesi è di disporre di tragitti affidabili via terra attraverso la «cintura tagika» fino all'Iran, che nel frattempo sta facendosi strada da sud con abili manovre sui flussi di rifugiati afghani, con il sostegno tattico ai reparti talebani e con investimenti in progetti infrastrutturali13-4. Benché siano considerati alleati di Washington nella guerra al terrorismo, l'Afghanistan e il Pakistan hanno già ottenuto lo status di osservatori nella SCO e certamente ne diverranno membri in breve termine. «La Cina potrebbe attendere finché la NATO è spossata», suggerisce con indubbio realismo un analista della situazione afghana, «e poi sorpassarla con i suoi programmi più coordinati di commercio, sviluppo e gestione. È un processo che potrebbe iniziare già il giorno dopo che l'esercito afghano sia diventato effettivamente operativo e i paesi NATO, Stati Uniti compresi, abbiano iniziato a ridurre la loro presenza». A sud dello Hindu Rush la linea Durand, che nominalmente divide l'Afghanistan dal Pakistan, resta un confine immaginario, come ha dimostrato il movimento di armi in direzione nord e di profughi in direzione sud durante la guerra contro i sovietici. Le due nazioni sono state congiunte dal passo di
Khyber durante secoli di conquista, fin dai tempi di Alessandro Magno. Sullo stretto, commercio e contrabbando sono sinonimi: oggi un traffico infinito di autocarri carichi di cemento e frutta si inerpica lungo la strada in entrambe le direzioni, e questo canale di rifornimento resterà vitale per i decenni a venire. Il Pakistan ospita ancora quasi due milioni di afghani, soprattutto a Peshawar, un tempo verdissima e ora ridotta a una discarica inquinata e sovraffollata fatta di torrenti ostruiti dalla spazzatura; nonostante questo la città è ancora ospitale con i turisti, in gran parte inglesi a giudicare dagli entusiastici ringraziamenti lasciati nei guest books degli haveli (le residenze con camere in affitto). Del resto, nonostante gli anni di guerra contro le tribù afridi, i britannici hanno costruito la ferrovia e se ne sono andati da amici, al contrario degli americani che a sud dello Hindu Kush non sono più sicuri che a nord. Collocato all'incrocio fra l'Asia sudoccidentale, quella centrale e quella meridionale, il Pakistan è diviso internamente dal fiume Indo, che determina verso quale di queste tre regioni le sue diverse province si orientano. A ovest dell'Indo la Provincia della frontiera nord-occidentale (NWFP), vasta e con popolazione sparsa, e il Belucistan, che confinano con Iran e Afghanistan, rappresentavano un tempo il confine estremo dell'India britannica. Per conservare il proprio peso strategico il Pakistan aiutò le diverse fazioni afghane negli anni Settanta, formò la base arretrata dei mujaheddin negli anni Ottanta e fu fondamentale per la creazione dei talebani negli anni Novanta: operazioni, tutte queste, che hanno sconsideratamente trasformato la NWFP in quello che è oggi, «una casa di cura per la riabilitazione e l'ispirazione dei talebani»13-5. Allo stesso modo, le tribù pashtun hanno lavorato a lungo perché i 2400 chilometri della porosa frontiera afghano-pakistana diventassero il loro montuoso quasi-Stato del Pashtunistan, e attualmente hanno congiunto le proprie forze a quelle dei talebani, introducendo in Afghanistan i combattenti scarsamente addestrati provenienti dalla madrase pakistane e insegnando loro le tattiche già sperimentate al tempo della guerra contro i sovietici per attaccare le truppe NATO e recuperare le aree chiave sul confine, necessarie al traffico di armi e droga. Gli approssimativi progetti di Peace Jirgas per unire le tribù dei due lati della frontiera sotto la bandiera dell'antiterrorismo non fanno altro che dimostrare la futilità dei tentativi di Washington, Kabul e Islamabad per addomesticare i confini tribali attraverso schemi d'intervento che nessuno ha la capacità di rendere concreti. Sottoposto all'intensa pressione dell'Occidente, in realtà il Pakistan è in guerra contro se stesso. Fino al V secolo d.C. il Pakistan settentrionale era terra di santuari buddhisti con straordinari stupa di pietra come quello di Taxila. Oggi, a metà strada fra Peshawar, sotto il passo di Khyber, e le strade ordinate e geometriche della capitale Islamabad le aree tribali sono sottoposte alle legge dei jirga (i consigli degli anziani) e a faide sanguinose. «Finanziando le madrase», mi spiega un autista che fa la spola fra le due città da vent'anni, «il governo saudita qui ha guadagnato più influenza del nostro governo, che ha lasciato crollare case e scuole». Persino a Islamabad, la Lal Masjid ('Moschea rossa'), prima di essere quasi totalmente rasa al suolo in un raid nel 2007 era stata a lungo il cuore della strisciante "talibanizzazione" della città. Tuttavia Al Qaeda, così come usava l'Afghanistan anche quando non comprendeva membri afghani, è in grado di adattarsi e mischiarsi a qualsiasi ambiente ospitale, e attualmente non c'è per essa ambiente migliore delle FATA, le aree tribali in amministrazione federale del Pakistan. Nonostante il conflitto che lo oppone all'India sulla questione del Kashmir non smetta di riacutizzarsi di quando in quando, il Pakistan, a giudicare dall'interminabile dilemma afghano e dall'appartenenza alle orbite strategiche della CENTCOM e della Cina, ha un futuro centroasiatico13-6. Durante la guerra fredda gli USA si giostravano alternatamente fra India e Pakistan, sinché quest'ultimo, dopo la sospensione dei rifornimenti di armi americane ai due paesi in seguito alla loro guerra del 1965, non ha trovato un volenteroso fornitore nella Cina, che a sua volta aveva acceso le ostilità con l'India nel 1962. Da allora il Pakistan è al centro del gioco diplomatico, della pianificazione di infrastrutture e delle ambizioni militari di Pechino. Riconoscendo l'appartenenza al Pakistan dei territori settentrionali del Kashmir, negli anni Sessanta, la Cina ha improvvisamente obbligato l'India a porsi psicologicamente sulla difensiva, arrestando il suo accesso all'Afghanistan13-7. In quest'ottica va letta l'orgogliosa propaganda pakistana sull'estensione della rete autostradale del Karakorum, che dallo Xinjiang supera i 4500 metri del passo di Khiber (il nome significa 'valle del sangue'), un corridoio «largo quanto quattro carri armati» che facilita il passaggio di armi cinesi attraverso la catena himalayana.
Nel mercato geopolitico il Pakistan stringerà alleanze con qualsiasi partner disponibile pur di non perdere la propria importanza strategica, e in effetti il Pakistan ha già dato il buon esempio riguardo al modo di trattare con gli Stati Uniti ottenendo il massimo con il minimo di concessioni. Washington fornisce a prezzi di comodo armi – il Pakistan è il terzo maggior beneficiario dell'assistenza militare USA – che hanno assai poca efficacia contro la guerriglia sparsa dei talebani mentre hanno un alto potenziale d'impiego contro l'India; al contrario, il Pakistan ha posto il veto all'interrogatorio di A.Q. Khan, il genio della proliferazione nucleare, e ha resistito con forza alle richieste di arresto di sospetti militanti di Al Qaeda da parte degli USA per timore di alienarsi le simpatie delle popolazioni tribali. Ci sono buone ragioni per credere che al posto di terroristi il governo di Islamabad consegni a Washington appartenenti ai clan della zona rapiti a caso. Per il generale Musharraf la lotta al terrorismo ha significato soprattutto caccia di prebende e accumulo di bottino13-8. Al contempo, il Pakistan è diventato un ottimo cliente della Cina, mostrando verso l'«amicizia granitica» che lega i due paesi una lealtà molto maggiore di quella riservata agli Stati Uniti. Dietro ordine cinese Musharraf ha brutalmente represso le attività dei militanti uiguri in Pakistan, con esecuzioni ed espulsioni di studenti dalle madrase del paese13-9. Lo stesso mese in cui il Congresso americano decideva una riduzione dei contributi al Pakistan per la questione dei diritti umani, nel 2006, Musharraf presenziava al summit della SCO a Shanghai ricevendo promesse di sostegno finanziario. Un ulteriore esempio di come gli interessi cinesi abbiano la meglio su quelli americani lo si trova nella provincia del Belucistan, nel Sudest pakistano, una specie di Kurdistan centroasiatico le cui riserve di gas naturale coprono circa un terzo del fabbisogno del paese. La Cina ha pagato il conto di 350 milioni di dollari per l'allungamento dell'autostrada del Karakorum attraverso l'Indo fino a Gwadar, sul Mare Arabico, dove sta costruendo un porto e una raffineria che accordano al Pakistan quell'asse energetico trasversale che ha sempre desiderato e alla Cina un'ulteriore scappatoia dalle forche caudine dello Stretto di Malacca nell'accesso al petrolio del Golfo. «Gwadar fino a dieci anni fa era un villaggio sperduto in cui imperava una povertà tremenda», ricorda un businessman pakistano che fa affari nel settore immobiliare. «Tutto quello che aveva erano grandi prospettive. I cinesi lo stanno trasformando in uno scalo energetico di livello mondiale. Anche il Titanic potrebbe attraccare qui! Inoltre dà al governo la fiducia strategica indispensabile per giocare alla pari con l'Iran e gli arabi». A giudizio di Islamabad, l'unità nazionale e gli interessi di lungo periodo del Pakistan sono serviti assai meglio spostando truppe dalla NWFP per schiacciare il separatismo beluci – e difendere il porto dei cinesi – che catturando militanti pashtun per conto degli Stati Uniti. Mentre i leader del Pakistan usano parole di fuoco contro l'aggressività della politica americana, un generale cinese ha recentemente definito il paese come «l'Israele della Cina», battezzandolo quasi come la testa di ponte di Pechino nel Mare Arabico. Non a caso sono state le pressioni della Cina seguite al rapimento di alcune sue operatrici di saloni di massaggio a convincere Musharraf a un fulmineo assedio della Lal Masjid di Islamabad. «Molti Stati hanno un esercito, ma solo in Pakistan l'esercito ha uno Stato», recita una battuta assai diffusa nel paese. Il colpo di Stato del generale Musharraf, nel 1999, fu il primo evento del genere ad avere luogo in una potenza nucleare. Malgrado la sua retorica sul «moderatismo illuminato», che gli ha guadagnato il soprannome di «Scià del Pakistan», l'empia alleanza di Musharraf con i partiti islamisti e i gruppi radicali è stata nociva tanto per lui quanto per l'agenda americana di stabilizzazione dell'Afghanistan, in modo non dissimile da quanto accadde ai suoi predecessori militari. Per quel che riguarda la modernizzazione, l'economia pakistana controllata dall'esercito è in realtà un grande castello di frodi fatto di importazione di beni di lusso e di svendite di proprietà immobiliari, fra cui un elegantissimo hotel a sette stelle a Islamabad, finanziato dagli arabi, che dovrebbe emulare gli splendori di Dubai13-10. Karachi è al tempo stesso la città più ricca e più povera del paese, l'epicentro dell'industria e delle madrase integraliste che esportano militanti in Afghanistan e in Kashmir, nonché il teatro di scontri sanguinosi tra sostenitori e oppositori di Musharraf. L'unico vero boom pakistano è quello degli attentati suicidi che si ripetono costantemente in tutti gli angoli del paese. Per lo più gli uomini continuano a lavorare come autisti, guardie del corpo o bottegai che lottano per sopravvivere in una situazione sempre più caotica. L'ineguaglianza dei redditi è in crescita; i furti di automobili, le rapine in appartamento e la violenza settaria aumentano ovunque. Nei prossimi vent'anni la popolazione rasenterà i duecento milioni, una cifra ingestibile persino per i militari. Il Pakistan si sta avvicinando a passi rapidi al modello di incertezza e implosione dell'Indonesia anziché a quella fucina dell'islam
democratico che è la Turchia. Musharraf si è impadronito del potere nel nome dell'efficienza e della lotta alla corruzione, non della democrazia. La gente parla di elezioni senza praticamente avere idea di quando si possano svolgere o persino quale carattere avranno. Sotto di lui tutti i leader locali non originari del Punjab sono stati l'uno dopo l'altro etichettati come minacce per la sicurezza nazionale; il Parlamento è stato sciolto con un semplice atto di volontà. E se anche Musharraf si è tolto di dosso l'uniforme per qualificarsi come presidente in abiti civili, il suo malgoverno ha prodotto una società divisa fra tre gruppi di potere reciprocamente ostili: l'esercito, l'opposizione civile e tutto il variegato assortimento dell'estremismo islamico. Nei sei decenni della sua esistenza il Pakistan ha conosciuto solo un'alternanza fra governi militari e fioche parvenze di democrazia: in entrambi i casi i cittadini hanno fatto l'abitudine alla corruzione e al sottosviluppo. È probabile che questo ciclo non si fermi una volta che finirà il turno di Musharraf. In fin dei conti, nonostante il loro status di celebrità in Occidente, lui e Karzai si sono dimostrati incapaci di stabilizzare le rispettive nazioni, sottoposte a un intenso processo di disintegrazione in corso dalla fine dell'impero britannico. Gli sforzi dell'Occidente non sono stati sufficienti. Resta da vedere se la Cina riuscirà a fare di meglio.
Conclusione Cambiare le intenzioni Nel corso della storia, ogni volta che la Via della seta ha svolto correttamente il suo ruolo i confini si sono aperti e la prosperità è stata condivisa. La Via della seta è fatta di una molteplicità di passaggi, e ogni volta che li si blocca sono sempre l'insicurezza, la tensione e il conflitto ad avere la meglio. Eppure, come testimoniano i detriti di un decennio di fallimenti, le ragioni della sovranità continuano a farsi gioco delle nobili aspirazioni a una confederazione centroasiatica che renda collettivamente disponibili le risorse, aprendo la porta alle interferenze imperialiC2-1. La Cina sta vincendo il nuovo "Grande Gioco" perché sta dando vita a una nuova Via della seta, prendendo il meglio di quelle che un secolo fa erano le strategie degli inglesi e dei russi: conservare alleati e Stati cuscinetto come facevano i primi senza l'irritante stile da conquistatori dei secondi. Gli interessi degli Stati Uniti e della UE in Asia centrale – la lotta al terrorismo, la sicurezza energetica e la democratizzazione – superano grandemente la capacità che questi due imperi hanno di conseguirli. Per vent'anni l'Occidente non ha avuto la volontà né la capacità di indurre alcuna autentica riforma in senso democratico in nessuno dei diversi Stati postsovietici della regione. Ma va tenuto presente quello che scrisse Mackinder nella sua pietra miliare, Ideali democratici e realtà: «Nel cuore del continente, dove i contrasti fisici sono più scarsi, è soltanto con l'aiuto di un ideale consapevole […] che saremo in grado di radicare la vera libertà»C2-2. Se non riuscirà a creare istituzioni di sostegno e di interdipendenza, in queste società l'influenza dell'Occidente continuerà a scemare, soprattutto se la prossima generazione di leader non potrà contare sulla lealtà interna e sulla legittimità. La cooperazione regionale è l'approccio che più rapidamente può concretizzare la visione di una Via della seta del XXI secolo in grado di riuscire utile agli interessi degli "stan" e a portare avanti la strategia indicata da Zbigniew Brzezinski: «Consolidare e perpetuare il pluralismo geopolitico prevalente sulla mappa dell'Eurasia». UE e OSCE sono percepite come mediatrici oneste, benché intrusive, le sole protettrici che non danno l'impressione di attaccare l'islam. L'Unione Europea è in grado di aumentare gli aiuti ai governi centroasiatici sotto la condizione del loro rispetto delle norme del Consiglio d'Europa, del quale gli "stan" postsovietici sono membri, e allo stesso modo può insegnare loro a massimizzare i vantaggi della partecipazione alla SCO per obbligare Cina e Russia a impegni seri anziché diventare delle semicolonie di queste ultime senza godere di effettivi aiuti. La promozione del liberalismo e della cooperazione regionale resta l'arma migliore a disposizione dell'Occidente C2-3. L'Europa potrebbe poi beneficiare tanto quanto la Cina di un rivificato corridoio di trasporto est-ovest contornato di cavi a fibre ottiche che si allunghi da Francoforte a Shanghai. Non bisogna dimenticare che fu la richiesta di beni di lusso orientali da parte dei romani a ispirare la prima Via della seta e che il termine fu coniato nel XIX secolo da un geografo tedesco, il barone Ferdinand von Richtofen. La Via
della seta ha una connotazione orientale, ma in realtà è a tutti gli effetti una creazione dell'Occidente. E l'Europa ha di nuovo una gran fame di ogni sorta di merce cinese, il che rende l'Asia centrale – grazie al radicarsi dei suoi legami economici con l'Est e l'Ovest – parte di una più vasta economia eurasiatica fatta di traffici crescenti fra i blocchi europeo e asiatico C2-4. Dopo le Lada, le automobili più comuni negli "stan" sono i vecchi modelli di Mercedes, Volkswagen e Audi. Anziché lasciare che le proprie macchine siano rubate e contrabbandate a est, l'Europa farebbe meglio a costruirle direttamente in Kirghizistan, risparmiando sui costi e creando nuovi posti di lavoro mentre incrementa le vendite in Cina e Kazakistan. Aiutare il Turkmenistan e l'Uzbekistan a diventare poli manifatturieri può consentire loro di competere con la Cina invece di essere invasi da abbigliamento cinese tessuto con il loro cotone. Vero è che l'abilità della Cina a creare mercati e infrastrutture facendo leva su un'accorta azione diplomatica non si ferma all'Asia centrale. La si può vedere all'opera anche al di là dell'oceano Pacifico, nell'America meridionale.
Parte III La fine della dottrina Monroe
14. Le nuove regole del gioco L'egemonia reale è come l'ossigeno: è ovunque nell'aria che respiriamo, permea il nostro ambiente fisico, e detta i limiti della vita umana. Tutto questo pur restando completamente invisibile. Ma l'egemonia può anche essere soffocata, come succede quando in una stanza sigillata l'ossigeno viene pompato fuori. La supremazia americana nel XX secolo fu preceduta da un secolo di costruzione dell'egemonia nell'emisfero occidentale. Ma oggi questo dominio si sta sfaldando proprio nel tradizionale cortile di casa di Washington, l'America Latina, dove sono entrati in scena altri centri di gravità che un compiaciuto determinismo geografico non ha potuto prevedere. Le abbondanti risorse naturali del continente dell'America meridionale possono raggiungere il mercato globale – l'Asia, in primo luogo – con una rapidità maggiore di quanto sia mai avvenuto in passato. Se la globalizzazione significa la fine del fattore distanza, allora un pilastro del potere USA, il dominio per prossimità, è giunto al capolinea. Ma se l'America non parla più a nome di tutte le Americhe allora qualcuno dovrà pur farlo. Per lungo tempo, l'America Latina è stata qualcosa di simile alle Colonne d'Ercole della geopolitica, lontana interi oceani dai grandi teatri strategici del globo. Ora però ha cominciato a guardarsi attorno, verso est e verso ovest, di certo non più verso nord. La posta in gioco è immensa: solide relazioni degli Stati Uniti con l'America Latina significherebbero in sostanza l'autosufficienza energetica della panregione dell'emisfero ovest e l'autonomia dalle turbolenze dell'Eurasia. Il petrolio che si estrae da aree che si estendono dall'Artico all'Alberta, in Canada, fino al Golfo del Messico e al Venezuela, combinato con le nuove risorse energetiche come l'etanolo brasiliano potrebbero legare America settentrionale e meridionale in un blocco commerciale senza pari al mondo. Ma gli Stati Uniti si sono abituati a dare per scontata la fedeltà dei loro vicini del Sud, compiendo un errore potenzialmente disastroso in ogni relazione. «Questo continente non è di proprietà dell'America; appartiene a una dozzina di nazioni e
questo è quanto intendiamo rendere chiaro», ha affermato senza mezzi termini un diplomatico brasiliano. Messico, Brasile e Argentina insieme contano i due terzi della popolazione latinoamericana, e il resto si trova in buona parte in Venezuela e in Colombia. Se questi Stati chiave riusciranno a vincere i propri demoni interni formeranno la spina dorsale di un'America Latina compatta capace di emergere dalla marginalità e dire la propria nella configurazione dell'ordine globale. La globalizzazione e i rivali geopolitici di Washington stanno offrendo loro – individualmente e nell'insieme – questa chance. I sistemi imperiali possono essere paragonati a bolle che si formano, si espandono, salgono in superficie, poi scoppiano e si dissolvono. L'America Latina è sempre stata prigioniera di bolle imperiali altrui e mai le è riuscito di formarne una propria. In realtà, dal momento che le risorse di questo continente sono sempre andate a beneficio del mondo sviluppato, il suo sottosviluppo è stato funzionale all'ascesa del capitalismo mondiale. «La divisione mondiale del lavoro fra le nazioni», ha scritto il dissidente uruguayano Eduardo Galeano, «consiste nel fatto che alcune si specializzano nel perdere e altre nel vincere. L'America Latina ha avuto una vocazione precoce: si è specializzata a perdere sin dai tempi remoti in cui gli europei del Rinascimento si avventurarono al di là degli oceani»14-1. Dall'arrivo di Cristoforo Colombo in poi la competizione per soggiogare le enormi distese del continente è sempre stata spietata. Unite soltanto dall'impegno a diffondere il cattolicesimo, le monarchie spagnola e portoghese si divisero tutte le colonie del Nuovo Mondo. Il conquistador spagnolo Hernán Cortés distrusse l'impero messicano degli aztechi negli anni Venti del XVI secolo, e durante la dominazione diretta del Portogallo da parte della Spagna, dal 1580 al 1640, quest'ultima controllò in solitudine praticamente l'intero emisfero ovest. Le popolazioni native furono messe in ginocchio con la forza della spada e di malattie sconosciute, mentre la carità cristiana giustificò il dissanguamento del Nuovo Mondo per la brama del suo oro e del suo argento. Nel 1551 il prete spagnolo Bartolomé de las Casas scrisse la sua Brevisima relación de la destrucción de las Indias, una critica radicale della schiavitù perpetrata per opera degli agenti della corona spagnola che è stata descritta a volte come il primo dossier sui diritti umani della storia (seppure la mentalità imperiale sia sempre assai impermeabile a tali appelli alla coscienza). Dopo la Riforma protestante il Nuovo Mondo entrò nei calcoli degli equilibri globali di potere, con la Francia e i Paesi Bassi a minare la supremazia della cattolicissima Spagna sottraendole territori dal Canada alla costa settentrionale dell'America meridionale. Al di là di quale potenza prevalesse, comunque, l'egemonia significava mercantilismo, regimi asserviti e dominazione culturale14-2. La psicologia, e con essa la diplomazia americana verso l'America Latina rivela una stupefacente continuità nel corso dei secoli. Nel momento stesso in cui sosteneva i movimenti d'indipendenza che si sviluppavano dal Messico alla Colombia, lo statista americano Rufus King poteva scrivere impetuosamente ad Alexander Hamilton, nel 1799, di essere «interamente convinto che se [l'America del Sud] e le sue risorse non saranno per noi, esse saranno rapidamente contro di noi». Non diversamente, Thomas Jefferson vedeva l'America meridionale come «un continente a sé stante», e ciò significava un continente che doveva rientrare sotto il pieno controllo degli Stati Uniti. La graduale affermazione dell'egemonia emisferica di Washington dagli anni Novanta del Settecento in poi, passata attraverso la guerra del 1812, non si qualificò come la classica espansione imperialista dettata da fame di terra e di forza lavoro; il suo successo nel soppiantare le potenze europee fu invece il risultato della combinazione fra una diplomazia del portafogli e la conquista militare 14-3. La dottrina Monroe, che deve il suo nome al presidente americano che la articolò nel 1823, prevedeva la completa espulsione delle potenze europee e l'erezione in tutto il continente di un perpetuo dominio statunitense senza ostacoli di sorta. Al contrario di quanto si pensa in genere, il «destino manifesto» dell'America non consisteva soltanto nell'espansione verso l'Oceano Pacifico, ma constava pure della visione di un controllo sull'emisfero, in direzione nord e sud. Il presidente James K. Polk approfittò della debolezza che affliggeva il Messico in ragione della sua lunga guerra d'indipendenza per annettere il Texas agli Stati Uniti nel 1845. Nel 1867, allorché acquistò l'Alaska dalla Russia, il Segretario di Stato William Seward immaginava un territorio degli Stati Uniti esteso dalla Groenlandia alla Guyana, con Città del Messico come seconda capitale. Facendo proprie le teorie dello stratega navale Alfred Thayer Mahan, i consiglieri del presidente William McKinley sostenevano che l'apertura di nuovi mercati alle esportazioni avrebbe evitato la depressione
economica e promosso l'armonia sociale in patria. Ma la loro tecnica – la politica della "porta aperta" di inizio Novecento – puntava ad allargare la sfera della supremazia americana «senza gli ostacoli e l'inefficienza del colonialismo tradizionale»14-4. Beninteso, l'America ha sempre saputo fare uso del pugno di ferro, e anzi non sempre, contrariamente a quanto affermava Theodore Roosevelt, ha avuto cura di rivestirlo di un guanto di velluto. L'esempio più significativo è quello di Cuba. Gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Spagna il 21 aprile 1898, con la motivazione ufficiale di liberare l'isola e di dare avvio a un processo di evoluzione democratica. Roosevelt, allora vicesegretario alla Marina militare, cercò non soltanto di sconfiggere la Spagna, ma pure di ottenere il controllo delle Filippine, che gli Stati Uniti occuparono in contemporanea. Quasi un secolo dopo la dichiarazione della dottrina Monroe, il "corollario di Roosevelt" consisteva in un anticolonialismo imperiale teso a giustificare l'interferenza americana. La premessa orientativa del futuro presidente parlava chiaro: «Non si potrà raggiungere la pace fino a che le nazioni civilizzate non si espanderanno in qualche forma sulle nazioni barbare». Il caso di Panama poté sembrare un esempio quasi naturale di egemonia a stelle e strisce in ragione della dipendenza del paese dall'export agricolo verso gli Stati Uniti e della presenza di un sistema politico oligarchico che rendeva semplice il controllo americano sulla zona del canale. Quello che appare un mutamento nella visione del mondo da Roosevelt a Woodrow Wilson ebbe più a che fare con lo stile che con la sostanza. Sotto la maschera della retorica di una morale altruista, Wilson sapeva bene che era sua responsabilità «insegnare ai sudamericani a eleggere le persone giuste» mentre veniva perseguito il vantaggio economico americano14-5. Con tutto ciò, nessuno dei quaranta governi latinoamericani rovesciati dagli Stati Uniti a partire dal 1898 ha intrapreso un effettivo passaggio alla democrazia – anche perché il piano è sempre stato quello di istituire democrazie puramente formali 14-6. Nella tensione fra l'apertura dei mercati e l'esportazione della democrazia l'ultima parola è sempre appartenuta all'imperialismo. A differenza del suo lontano cugino Teddy, Franklin D. Roosevelt capì che gli interventi diretti erano non soltanto inefficaci ma controproducenti, e al loro posto inaugurò la politica del «Buon vicino» mirata a obbligare diplomaticamente le nazioni latinoamericane a tagliare i legami con le potenze dell'Asse dopo l'attacco a Pearl Harbour. Dopo la seconda guerra mondiale l'America, definitivamente affermatasi come superpotenza, sprecò l'opportunità di creare un sistema di sicurezza collettivo a livello di emisfero: con la guerra fredda, la vecchia psicologia imperialista del sospetto rientrava dalla porta principale. «Il nostro desiderio è quello di aiutare quanti credono in ciò in cui crediamo noi a continuare a vivere nel modo che preferiscono», dichiarò il Segretario di Stato Dan Acheson 14-7. La politica di Washington mutò radicalmente, passando dall'opposizione al pieno appoggio dei regimi autoritari. Curiosamente, quando nel 1950, in un articolo pubblicato su «Foreign Affairs» con lo pseudonimo di "Y", il veterano del Dipartimento di Stato Louis Halle sostenne paternalisticamente che la persistenza di tali regimi in America meridionale era dovuta a immaturità politica, John Foster Dulles espresse un parere più onesto: «Non fare niente che possa offendere i dittatori. Sono i soli su cui possiamo contare». La guerra fredda in America Latina fu una sporca «guerra dei Trent'anni» fra la sinistra e la destra del continente, quest'ultima generalmente più forte e dotata dell'appoggio di Washington. La vigorosa strategia di counter-force sviluppata per contenere il comunismo filosovietico impose agli Stati Uniti di spingere i governi sudamericani a mettere fuori legge i partiti comunisti e reprimere la sinistra non comunista, schiacciare anche le più docili organizzazioni dei lavoratori e tagliare ogni legame con l'Unione Sovietica14-8. L'impegno a favore dell'autodeterminazione dei popoli fu così scarso che, con la pianificazione e il successivo abbandono della sfortunata spedizione della Baia dei Porci concepita per abbattere Fidel Castro, il 21 aprile del 1961, gli Stati Uniti violarono le leggi di neutralità nonché il sistema di trattati che loro stessi avevano creato. Kennedy badò anche, tuttavia, a fare dei legami economici un pilastro della strategia americana, promuovendo un'alleanza per il progresso" che fece convergere tre diverse agende politiche – quella della democrazia, quella della crescita economica e quella dell'anticomunismo14-9. Ne seguì una potente espansione industriale dal Messico all'Argentina. Eppure, dopo più di mezzo secolo dalle politiche della "porta aperta" e del "buon vicino", il nesso stabilità-democrazia-capitalismo teorizzato dall'America restava una realtà lontana. Nelle parole dell'ex
presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso, la democrazia era una «pianta esotica» in confronto al militarismo di destra e al caudillismo di sinistra tipici della regione14-10. La maggior parte dei leader di quest'epoca vinse le elezioni con un programma di sinistra e governò con politiche di destra, e "modernizzazione" restò il paradossale nome in codice di "dipendenza dall'America". Solo negli anni Settanta i leader latinoamericani cominciarono a coalizzarsi sotto la bandiera del Nuovo ordine economico internazionale (NIEO), un movimento che reclamava più alti margini di profitto sull'esportazione di materie prime e l'aumento dell'assistenza internazionale. In realtà, Messico, Venezuela, Argentina e Brasile continuarono a essere costrette a chiedere in prestito somme sempre maggiori solo per pagare il servizio del debito, come un cliente ubriaco che si fa dare da bere da un barista ubriaco. Il risultato fu il «decennio perduto», gli anni Ottanta, quando l'America Latina divenne, come sostiene l'ex ministro del Commercio del Venezuela Moisés Naírn, «Atlantide, il continente scomparso»14-11. Le crisi si susseguirono, e, per peggiorare le cose, l'HAI rispondeva agli Stati Uniti «come il tuono segue il lampo», costringendo i regimi sudamericani a stringere la cinghia secondo i dettami della liberalizzazione rapida previsti dall'ortodossia del Washington Consensus, una variante internazionale dell'economia del trickle-down, o del «gocciolamento»14-12. A più di un secolo di distanza dagli sforzi per la nascita di un'Unione panamericana, il dibattito rovente sul modo in cui soddisfare le crescenti aspettative dell'America meridionale a fronte degli aperti vantaggi commerciali degli Stati Uniti prosegue nella forma della prevista Area di libero commercio delle Americhe (FTAA), che si dovrebbe estendere dall'Alaska alla Terra del Fuoco. A intensificarsi nell'emisfero ovest, tuttavia, è anche la presenza economica della Cina, e dunque il suo peso strategico. La Cina è entrata in America Latina grazie al sistema della "porta aperta" di McKinley, ma il fascino che esercita sulla regione è dato dal fatto di essere una superpotenza senza disegni coloniali. Gli scambi cinesi con il continente sono passati dai 200 milioni di dollari del 1975 ai quasi 50 miliardi del 200414-13. Nessuna nazione in via di sviluppo può permettersi di rifiutare i prezzi che i cinesi sono disposti a pagare per prodotti fondamentali come soia e minerali ferrosi, che hanno fatto la recente fortuna di Brasile e Argentina. Quando gli Stati Uniti lasciarono il controllo del Canale di Panama, nel 1997, il governo locale vendette i diritti per la gestione dei porti su entrambi i lati a un'azienda cinese, che oggi controlla essenzialmente le operazioni che si svolgono attraverso il canale. Nel 2006 i panamensi votarono a favore di un allargamento del canale al fine di consentire il transito delle enormi petroliere cinesi. La Cina ha anche finanziato il rinnovamento di altri porti e industrie dell'America centrale per rendere più spedita la vendita delle proprie merci negli Stati Uniti. E, come ha esteso la propria influenza verso nord attraverso la Siberia russa, Pechino la sta estendendo a est, verso un'altra nazione artica, il Canada, diventando senza clamori il suo secondo maggior partner commerciale e impegnandosi nella costruzione congiunta di un oleodotto da due miliardi di dollari per veicolare il petrolio estratto dalle sabbie bituminose dell'Alberta fino alla costa pacifica della British Columbia. L'America è sempre alla ricerca di un nemico esterno. Nella sua attività mitopoietica sull'Unione Sovietica Ronald Reagan sosteneva che questa stesse pianificando l'organizzazione non soltanto delle orde asiatiche, ma pure dei popoli latinoamericani, dopo di che la caduta degli Stati Uniti sarebbe stata praticamente automatica14-14. Alcuni oggi identificano questa forza nefasta nella Cina, intenta a sfruttare le risorse del sottosuolo del continente dell'America meridionale e a tessere legami di alto livello tra ufficiali della difesa14-15. L'accusa è che, una volta che Washington ha abbandonato l'appoggio alle dittature militari, la presenza cinese potrebbe causare il fallimento dell'agenda americana di difesa dei diritti umani e di democratizzazione, contribuendo a un'ulteriore escalation di instabilità dovuta alla dipendenza dalle risorse naturali14-16. Per i sudamericani la Cina rappresenta una nuova modalità di fare affari, lontana dall'intreccio di codici e regolamenti che governa i rapporti con gli Stati Uniti, priva di condizionamenti politici di alcun tipo se non la pressione per il disconoscimento di Taiwan, che per anni ha comprato la lealtà diplomatica dei paesi della regione, soprattutto in America centrale, guadagnandosi lo status di partner commerciale tra i più forti. Nel complesso, la Cina mette i soldi ma ancora non mette bocca, e senza dubbio non è sua la responsabilità dell'attuale ostilità dei leader dell'America meridionale verso gli Stati Uniti. L'alto prezzo del petrolio e i livelli di corruzione al governo sono le cause primarie della
dipendenza di questi paesi dalle risorse naturali, e non la crescente domanda cinese (che ancora conta per meno del 10 per cento del commercio dell'America meridionale)14-17. E in ultima analisi gli interessi economici cinesi in America Latina sono tanto una benedizione quanto una maledizione, poiché oltre a portare, per la prima volta da decenni, attivi di conto corrente in questi paesi, la Cina è pure una formidabile concorrente sia nei loro mercati interni che nelle esportazioni verso il Primo Mondo. Per impiegare una metafora romantica, la Cina si trova a uscire spesso con l'America Latina, ma non sembra avere intenzione di sposarla. La sua attenzione per le esigenze di base degli Stati – le infrastrutture, ad esempio – significa comunque che essa è in grado di acquistare la loro neutralità in tema di democrazia e diritti umani14-18. Se Washington fosse sincera nel merito del processo di democratizzazione in America Latina, allora dovrebbe vedere la presenza cinese come un'opportunità: l'incremento dei redditi da esportazione dovrebbe infatti portare con sé un miglioramento delle reti statali di sicurezza sociale, la possibilità di partecipazione popolare nelle istituzioni politiche, l'aumento delle importazioni dagli Stati Uniti. Per far questo, però, Washington dovrebbe convincere i leader del Cono Sud che la Cina non è un'alternativa, quanto il complemento della leadership americana. Per ora, l'altalenante stile diplomatico americano, sospeso fra gli estremi dell'assenza e dell'autoritarismo, ha contribuito dall'inizio degli anni Novanta all'ascesa di leader di sinistra che rispondono alle pretese di ingerenza con la retorica della resistenza culturale, voltando ostentatamente le spalle al Washington Consensus e agli appelli alla democratizzazione. Nemmeno in un'istituzione di pura facciata come l'Organizzazione degli Stati Americani (OAS), il cui statuto enfatizza vanamente «il rispetto per le personalità individuali», gli Stati Uniti sono stati capaci di introdurre un meccanismo di peer-review lontanamente simile alla sofisticatezza del sistema di leve del gruppo degli Stati del Secondo Mondo dell'Europa dell'Est. Nonostante i passati segretari generali dell'OSA abbiano svolto la funzione di portavoce degli interessi statunitensi, nel 2005 il gruppo ha significativamente respinto tutti i principali candidati a quel ruolo designati da Washington. È un sintomo certo del fallimento dell'imperialismo americano in America meridionale il fatto che persino la promozione della democrazia – la maschera preferita dell'egemonia imperiale, perché al riparo da ogni obiezione – stia fallendo. La profonda divisione riguardo al modo in cui rapportarsi con el Norte è più che mai una condizione definitoria fra i sudamericani, che pure ormai non hanno dubbi a pensare all'arrivo di Colombo più in termini di conquista che di scoperta, di avvio di una catena ininterrotta di sfruttamento culminata nel monopolio delle multinazionali in settori chiave come l'industria dello zucchero. Malgrado il miliardo e più di dollari investito ogni anno nell'aiuto allo sviluppo e il loro ruolo preponderante nel commercio dell'America Latina, gli Stati Uniti non governano più il loro emisfero «per decreto», per rifarsi al termine usato da Richard Olney già nel 1895. Se la psicologia imperiale di Washington non muta, la visione di Seward di una pan-regione interamericana è destinata a restare nel novero delle buone intenzioni, soprattutto in una fase in cui altri partner stanno volteggiando impazienti in cielo. Eppure, a differenza di altre regioni disseminate di odio antiamericano e di paura di un'invasione della U.S. Army, i sudamericani in realtà chiedono soltanto che il loro potente vicino tenga fede alla propria retorica universalista del libero commercio e della democrazia, senza eccezioni di sorta. Quando democratizzazione e globalizzazione si congiungono efficacemente, gli americani ne sono i primi beneficiari: Messico, Brasile e Cile sono le economie più globalmente integrate della regione e sono anche quelle con l'approccio più pragmatico alla contrattazione con gli Stati Uniti. Sono anche i paesi sui quali il soft-power americano ha conseguito il maggiore impatto, non da ultimo in virtù dei tanti tecnocrati formatisi nei college della Ivy League che negli anni Novanta ne occupavano i ministeri chiave e si comportavano come i più influenti avvocati del libero commercio 14-19. Connettere le vaste riserve artiche di energia del Canada ai pascoli delle pampas argentine significherebbe dare vita a un'area di libero commercio comprendente trentaquattro paesi, con scambi valutabili nell'ordine di oltre tredicimila miliardi di dollari, di gran lunga la maggiore al mondo. Senza contare che l'esempio dell'aumento delle retribuzioni in Estremo Oriente e nell'Europa orientale sta facendo capire agli Stati Uniti che l'America Latina può essere un'opportunità economica strategica, il che si traduce in un incremento dell'investimento americano mirato a generare un solido tessuto di produzione low-cost capace di competere con l'Asia e, potenzialmente, di indurre un circolo virtuoso che potrebbe trasformare il Sud del continente da cortile di Washington a suo vicino con pari dignità. Tuttavia gli
Stati Uniti sono ancora troppo concentrati a regolare i mercati e troppo poco a costruirli. L'integrazione economica delle Americhe sarebbe doveva essere più facile di quella dell'Europa, sennonché le sottoregioni latinoamericane non si sono ancora dimostrate in grado di creare forti legami economici nemmeno fra loro14-20. Sono precisamente i mutamenti istituzionali dell'Est Europa, diligentemente perseguiti, nazione per nazione, ad avere permesso un giusto bilanciamento tra forma politica e funzione economica, mettendo a tacere quelle inquietudini sociali e politiche che invece non smettono di affliggere l'America Latina. Gli USA stessi non ne sono immuni: un'immigrazione di massa di lavoratori non specializzati, la droga e la violenza delle gang stanno filtrando dal Messico verso nord.
Tra l'Africa e l'Estremo Oriente Non c'è stato alcun conflitto serio fra due nazioni sudamericane per decenni. Stiamo parlando di un continente in cui il concetto di guerra fra Stati è divenuto obsoleto. Al tempo stesso praticamente ogni nazione dell'America Latina è perennemente in guerra contro se stessa in merito alla propria ragion d'essere, alla leadership, alle risorse e alla stabilità sociale. L'orribile violenza che infesta le strade latinoamericane, dalle cittadine sperdute lungo il confine tra Messico e Stati Uniti fino alle favelas di San Paolo, costituisce il contrappunto stridente al lussureggiante habitat del continente e alla sua stupenda architettura coloniale. Per capire al meglio la precarietà di questo stato di cose può essere utile collocare l'America Latina a metà fra il Terzo Mondo dell'Africa e il virtuale Primo Mondo dell'Estremo Oriente. Con due sole lingue maggioritarie, contiguità territoriale e nessuna aperta tensione militare, la regione centrale e meridionale dell'America avrebbe dovuto conseguire un'integrazione superiore a quella raggiunta fino a oggi dall'Asia orientale. Invece, dopo secoli di governo da parte di potenze mercantiliste, l'America Latina e l'Africa continuano a essere largamente trascurate dai loro forti vicini settentrionali, senza fare niente di più che mimare una supposta fratellanza tra le nazioni che le compongono. Entrambe queste regioni sono colpite da un vasto traffico illegale di materie prime che minaccia lo sviluppo di qualsiasi progresso economico di lungo termine; entrambe soffrono di un acuto fenomeno di fuga di cervelli e di capitali verso l'Europa e gli Stati Uniti. Non fosse per Messico, Venezuela, Brasile, l'America Latina farebbe fatica ad apparire sul planisfero diplomatico, e lo stesso varrebbe per l'Africa se non fosse per Nigeria e Sudafrica. Entrambe queste regioni sono economicamente non competitive; entrambe soffrono di alto debito pubblico, spesa eccessiva, bassa raccolta tributaria, calo della produttività, bassa innovazione, bassi standard d'istruzione, alti costi d'investimento e stallo della riduzione della povertà, tanto nelle città quanto nelle aree rurali14-21. America Latina e Africa detengono il record mondiale di sperequazione del reddito; peggiore il caso latinoamericano, poiché lì è maggiore la ricchezza concentrata in poche mani. I contadini indigeni sudamericani sono una versione d'alta quota dei diseredati agricoltori africani che dissodano i loro minuscoli appezzamenti di terreno, mentre le élite ultraricche dei due continenti vivono in tenute dotate di ogni comodità del Primo Mondo. I balli latinoamericani – salsa, samba, rumba, tango – prevedono passi rapidi e sincopati e scarti imprevisti. Lo stesso vale per la politica. È l'incapacità di portare a termine riforme economiche – assai più che non le riforme stesse – la principale causa della crescita lenta e dell'insufficiente affermazione sociale dell'America meridionale 14-22. Gli ispanoamericani possiedono un alto livello di autostima e di orgoglio ma, come attestano lo squallore e la criminalità rampante, non mostrano molto rispetto l'uno per l'altro. La cultura latina predilige nettamente il mascheramento del potere nel linguaggio dell'onore e della decisione, ma la verità, nella politica di questi paesi, è da cercare fra le righe, anche al costo di capovolgere quello che si ascolta. Il risultato è quello di una cultura sottesa da una domanda implicita: perché dire la verità quando puoi mentire? L'eredità dell'inganno dei governi coloniali è la ragione primaria dell'esistenza di abitudini che ora ingannano solo se stesse. Il contratto sociale fatto di leggi e istituzioni sul quale si reggono le nazioni asiatiche – che siano guidate da valori islamici o confuciani – è praticamente assente in America Latina. La fiducia nei leader e la dedizione verso di loro sono cose che qui non esistono: sono pochi i governi che riescono addirittura a completare il loro primo mandato. La cultura latina è anche troppo tollerante nei confronti della supposta "buona corruzione", quella che facilita il negoziato contrattuale per far girare le cose, per comprendere che essa non fa che perpetuare la "cattiva corruzione" da cui deriva, ossia il sistema dominante fatto dal governo delle grandi famiglie e dal capitalismo clientelare che opera anche nelle migliori democrazie dell'America meridionale. I detentori e mediatori delle chiavi del potere governano ogni aspetto della vita; la democrazia, in questo caso, porta al parossismo la tendenza dei
leader a rubare quello che possono per poi darsela a gambe. Eppure l'America Latina, in ragione di economie di primo piano come quelle del Brasile e del Messico, dei vasti giacimenti di gas naturale e petrolio, e della vicinanza a quel mostro delle importazioni che sono gli Stati Uniti, potrebbe ancora diventare una regione stabile del Secondo Mondo 14-23. In occasione dell'inaugurazione della zona visa-free dell'America meridionale, il ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim ha dichiarato che «l'integrazione è un imperativo, poiché in un mondo di grandi blocchi saremo più forti se riusciremo a essere uniti». Se la proposta di costituire una Comunità delle nazioni dell'America meridionale (SACN) si trasformerà in qualcosa di concreto allora questo continente sarà presto in grado di negoziare con il Primo Mondo in condizioni assai migliori delle attuali.
15. Messico: il cordone ombelicale L'Accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA) avrebbe dovuto lanciare il Messico nel Primo Mondo. Il primo giorno in cui divenne effettivo, il primo gennaio del 1994, l'Esercito zapatista di liberazione nazionale (EZLN) accese le polveri di un'insurrezione totale per richiamare l'attenzione sulle condizioni dei contadini marginalizzati. Quattro municipalità del Sud del paese furono occupate e due rappresentanti di primo piano del partito di governo, il PM, furono assassinati. Il presidente Carlos Salinas rispose scatenando una repressione brutale contro gli zapatisti e le migliaia di loro sostenitori nelle campagne. «Il Messico», notò stringatamente un giornalista, «si è rivelato molto più vicino al Terzo Mondo che non al Primo». Sino a che non si troverà il modo per spingere il Messico fuori del Secondo Mondo non sarà soltanto questo paese a soffrirne, ma anche l'America. L'ingresso nel NAFTA ha comportato l'inevitabile abdicazione del Messico a qualsiasi pretesa alla guida di un'America Latina indipendente. Il paese è ora per sempre al riparo dell'ombrello strategico degli Stati Uniti, anche se le barriere che lo dividono da questi non smettono di alzarsi. «Il nostro problema», spiega un diplomatico messicano passato alle cattedre universitarie, «non è la sicurezza, dal momento che nessuno sta per invaderci. È la globalizzazione la nostra vera crisi esistenziale: ossia lo scomodo adeguamento alla concorrenza internazionale, l'approfondirsi del gap del reddito, l'incremento del traffico di droga e di esseri umani verso gli USA». Dallo sfortunato lancio del NAFTA nel 1994 l'investimento estero in Messico è quasi quadruplicato. Come in Kazakistan, anche qui si sta sviluppando una diversificazione produttiva che consente di sfuggire alla perpetua dipendenza da un'unica risorsa. Se fino a poco tempo fa il Messico era fondamentalmente un esportatore di petrolio, ora l'export è coperto all'80 per cento da beni di consumo15-1. La modernizzazione, tuttavia, è limitata agli impianti di assemblaggio maquiladores15-2, concentrati in isole di business pulito come Monterrey, mentre la Cina, grazie al rapido e diffuso upgrading della sua forza lavoro, dall'atto della sua adesione all'Organizzazione Mondiale per il commercio (WTO) nel 2001 ha agevolmente superato il Messico nell'esportazione di prodotti industriali e tessuti verso gli USA. Malgrado il vantaggio geografico più di trecento maquiladores hanno chiuso e si sono trasferiti in Cina, con una perdita di oltre trecentomila posti di lavoro, quasi direttamente corrispondenti alla massiccia impennata dell'emigrazione illegale verso gli Stati Uniti15-3. Con o senza mura di confine, i problemi del Messico potrebbero diventare quelli degli Stati Uniti ancora più velocemente di quanto già non accada. Ineguaglianza e instabilità procedono generalmente mano nella mano. Al di fuori di Città del Messico – ma di certo anche dentro – si estende un paese di vestigia coloniali che a ogni angolo si alternano a slums fatiscenti, con l'investimento pubblico in ospedali e scuole a restare nell'ambito delle ipotesi. L'ex sindaco di Città del Messico, Andrés Manuel López Obrador, ha dato una scossa alla situazione e si è costruito una reputazione battezzando programmi di aiuto sociale e alimentare destinati agli anziani in questa caotica metropoli di venti milioni di abitanti, lanciandosi per le elezioni presidenziali del 2006 – da lui perse con margine strettissimo e solo dopo che lo spoglio dei risultati è stato ripetuto dalla magistratura. Come spesso accade nel Secondo Mondo, detenere il potere nella capitale equivale a detenerlo a livello nazionale. E così Obrador ha ricominciato a fare campagna nelle strade, appoggiando ondate di dimostrazioni nella sua città per paralizzare il proprio rivale eletto alla presidenza, Felipe Calderón. In ogni caso, con o senza Obrador, le proteste con una partecipazione nell'ordine delle decine di migliaia di persone contro l'aumento del prezzo delle tortillas e di altri beni di prima necessità ormai non si contano più.
La divisione città-campagna che caratterizza la politica messicana mette in luce come esistano almeno quattro paesi in uno: una regione settentrionale. sul confine americano, dove dollaro e peso sono intercambiabili; il Messico centrale, centro governativo e granaio della nazione; la regione dell'istmo, indigena, meravigliosa ed economicamente irrilevante; la regione "neo-maya" dello Yucatan, con isole di modernizzazione che emergono in un mare di povertà15-4. Lo Stato di Oaxaca, un tempo gioiello coloniale, nel 2006 è stato teatro per mesi di scontri violenti fra bande armate, squadre della polizia e attivisti indigenisti che hanno azzerato la sua industria del turismo. È da regioni come questa che arrivano i messicani che cercano di oltrepassare gli oltre tremila chilometri di confine militarizzato fatto di steccati e pattuglie armate per cercare una vita dignitosa a Los Angeles. I polleros (i 'coyote' affamati di profitto che controllano il traffico dei clandestini) continuano a far entrare negli Stati Uniti molti più emigrati irregolari di quanti ne siano ufficialmente censiti, e la maggior parte degli stupefacenti consumati dagli americani, anche se prodotta in Colombia, passa il confine attraverso il Messico grazie ai gruppi locali della criminalità organizzata. Tutto ciò ha tramutato città confinarie come Nuevo Laredo in spaventosi feudi in cui regnano furti, rapimenti e guerre tra gang 15-5. Per gli USA gli immigrati messicani sono un'arma a doppio taglio: svolgono attività, soprattutto nel campo dell'edilizia e della ristorazione, che gli americani non vogliono più fare, lavorano più duramente e con orari di lavoro più lunghi, ma al tempo stesso aumentano la pressione che grava su un sistema sociale (istruzione e sanità) cronicamente a corto di finanziamenti15-6. I sedici miliardi di dollari all'anno di rimesse provenienti da tutti e cinquanta gli Stati americani costituiscono una fonte cospicua per il reddito nazionale del Messico, al punto che il PIL pro capite del paese è salito fino ai novemila dollari, quasi il doppio del livello oltre il quale l'emigrazione da un paese dovrebbe iniziare a diminuire. Il punto è che queste cifre non rendono conto delle diseguaglianze del paese – praticamente la metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà –, e per questo l'emigrazione irregolare non può che proseguire, che agli americani piaccia o meno. Ci sarebbe bisogno di molto di più del laissez-faire della «NAFTanomics» per fare del Messico una nazione unita. Il gesto più magnanimo compiuto da Washington nei confronti di questo paese è stato il salvataggio del peso in occasione della crisi finanziaria del 1994, ma da allora il NAFTA non è nemmeno lontanamente riuscito a fare qualcosa di simile a quello che la UE ha fatto per la Turchia. Quello che gli Stati Uniti chiedono che la UE garantisca alla Turchia – membership, cittadinanza europea, ingresso nel Parlamento, apertura delle frontiere ai migranti, sussidi massicci e tutela della lingua all'interno di un'Unione senza più confini nazionali – non può essere nemmeno pronunciato riguardo al Messico. Senza contare che, mentre l'Europa sta da tempo lavorando a un'assimilazione della Turchia sulla base di concreti livelli economici e politici, gli Stati Uniti investono pochissimo in quei programmi di istruzione di massa e di aiuto alla microimprenditorialità che sono indispensabili per convincere i talenti messicani a restare in patria. Per prevenire efficacemente l'infiltrarsi negli USA dei clandestini e del crimine – e ripulire il Rio Grande dai rifiuti tossici scaricati dai maquiladores – sarebbero necessari una vera "Comunità nordamericana" e un esborso finanziario non inferiore a quello che l'Unione Europea investe nello sviluppo15-7. Non bisogna lasciarsi ingannare: gli USA devono comprare il Messico, non accontentarsi di prendere in affitto parti delle sue zone di confine. NAFTA o meno, un amalgama culturale e demografico di dimensioni enormemente maggiori è già in via di formazione in tutto l'emisfero occidentale. I ponti della cultura e delle migrazioni promettono non soltanto di tenere l'America Latina sullo schermo radar degli Stati Uniti, ma anche di cambiare completamente i colori dello schermo. I messicani, in fondo, sono l'unico gruppo di immigrati che può, a rigore, rivendicare diritti storici sul territorio USA: alcuni scrittori messicani hanno ribattezzato le ondate migratorie ispaniche come una nuova «Reconquista». Del resto, lo spirito familista latino, un tempo completamente estraneo ai nordamericani, si sta espandendo a nord assai più velocemente di quanto i valori a stelle e strisce si propaghino a sud. Le regioni del Sudovest americano sono già economicamente integrate con il Messico, e negli Stati con la maggiore popolazione ispanica quali California, Texas, Arizona e New Mexico la doppia fedeltà nazionale è la norma 15-8. Lo spagnolo è largamente in crescita come seconda lingua negli USA, e la ventina di membri del Congresso di origine latina non è che il segno più eclatante della recente ascesa dell'influenza degli immigrati nella politica nazionale. Gli anziani americani hanno cominciato a rivolgersi al Messico per cure mediche a prezzi sostenibili, e al tempo stesso milioni di irregolari messicani negli Stati Uniti utilizzano i servizi sociali a
spese del contribuente. La paura dei conservatori è che gli USA diventino quello che fu l'impero romano, un conglomerato di razze tenuto assieme da un regime militare15-9. La battuta che corre fra i latinos di Miami, epicentro dell'élite ispanica e lavanderia dei soldi provenienti dallo spaccio di droga, è che «amiamo questa città perché è così vicina agli Stati Uniti». In realtà, è solo in virtù di grandi schemi come il piano «Puebla-Panama» messicano che l'America centrale può mettere a frutto la propria posizione geografica a metà fra due grandi continenti, e diventare un corridoio di primo piano della globalizzazione intercontinentale. L'intera regione ha più o meno le dimensioni della California, con una popolazione simile di trentacinque milioni di abitanti, ma è divisa in sette Stati diversi, quelle banana Republics divenute familiari dall'inizio del XX secolo. Un tempo ciascuna di esse soffriva del predominio assoluto dell'esercito; oggi la loro più grande debolezza è la fragilità dei sistemi di sicurezza sociale. Si tratta di paesi del Terzo Mondo con altissimi livelli di povertà e disoccupazione, sostanzialmente specializzati nella produzione e nello smercio di fiori, droga e armi. All'epoca dell'amministrazione Reagan gli Stati Uniti vi combattevano la loro guerra contro le potenziali incarnazioni dell'«impero del male», mentre oggi stanno imparando a proprie spese che, anche in assenza di forti formazioni guerrigliere, l'America centrale potrebbe rappresentare la principale minaccia alla sicurezza dell'emisfero occidentale. Dopo la decisione di Washington di rispedire in patria i criminali originari della zona, le gang si sono drasticamente moltiplicate, fino a raggiungere approssimativamente gli oltre centomila membri attuali, sparsi in tutta la regione, Messico incluso. Il caso più eclatante è quello del Guatemala, che, con il sommerso a rappresentare circa il 70 per cento della sua economia, è il grande competitor del Messico nel traffico di droga e migranti irregolari verso gli Stati Uniti, gestito da bande criminali. Le cellule del gruppo MS-13 sono in grado di coordinare dalla base di San Salvador le proprie attività illegali in tutti gli USA. Se l'America centrale un tempo era il campo di battaglia di Washington, oggi la guerra si è trasferita nelle strade delle città degli Stati Uniti. Al tempo stesso, tuttavia, l'America centrale dà segni di poter diventare il laboratorio di un potenziale trionfo dell'integrazione nell'emisfero. L'Accordo di libero scambio centroamericano (CAFTA) ha determinato la diminuzione dei dazi doganali USA, con la prospettiva della creazione di nuova occupazione e dell'incremento dell'export, come è accaduto per il Messico in seguito al suo ingresso nel NAFTA. Come ha sintetizzato un editoriale del «New York Times», il CAFTA «difficilmente riuscirà a portare le economie [della regione] nel XXI secolo, ma potrebbe essere abbastanza per portarle almeno nel XX secolo»15-10. Inoltre il disinteresse americano nei confronti dei piccoli mercati dell'America centrale e dei Caraibi ha lasciato ad altri un sufficiente spazio di manovra. Dal momento che gli investitori americani preferiscono generalmente rivolgersi ai lauti guadagni garantiti dalla Cina, è stata la Cina ad avvicinarsi all'America centrale, dove ha potuto costruire stabilimenti vicinissimi al suo grande cliente. L'embargo americano contro l'eterna nemesi in miniatura rappresentata da Cuba ha permesso alla Cina di diventare uno dei maggiori investitori nel paese (dietro il Venezuela e davanti al Canada), issando la bandiera sui vecchi luoghi di osservazione sovietici e sui depositi di petrolio sviluppati e gestiti dai suoi tecnici. Ma il caso più imbarazzante è quello di Haiti. Gli Stati Uniti hanno occupato l'isola diverse volte nel corso dell'ultimo secolo con l'obiettivo di stabilizzarla, senza mai riuscire a farle abbandonare il triste record di paese più miserabile dell'intero emisfero, a soltanto qualche centinaio di chilometri di distanza dalle coste della Florida. Sono state le forze di peacekeeping cinesi, cilene e brasiliane sotto l'egida dell'ONU a evitare che Haiti ricadesse nell'anarchia più totale15-11. Uno dei benefici più sottovalutati della globalizzazione, infatti, è che qualsiasi piccolo paese che si sente trascurato dai suoi vicini più grandi e più ricchi può cercare attenzione sul mercato geopolitico. Se l'America non riesce a dimostrare la propria benevolenza nei confronti del cortile di casa, allora una tale leadership potrebbe arrivare da Sud, dall'America Latina stessa.
16. Venezuela: la vendetta di Bolívar Nella sua lotta per la liberazione del Sud America dal dominio spagnolo, all'inizio del XIX secolo, l'intrepido rivoluzionario anticolonialista Simon Bolívar ebbe sempre un unico desiderio: l'unità del continente. In realtà, la sua Gran Colombia si frantumò rapidamente in una moltitudine di repubbliche rivoluzionarie, lasciando l'America Latina priva di un unico polo di potere attorno al quale coagularsi –
e facilitando ampiamente la longevità dell'egemonia a stelle e strisce sull'emisfero occidentale. Oggi, tuttavia, se è proprio da quel suo figlio naturale che prende il nome l'arteria principale di Caracas, la Avenida del Libertador, è il Venezuela – non la Cina o l'Europa – a incarnare nel modo più evocativo la morte della dottrina Monroe. Il Venezuela senza il petrolio non sarebbe che l'ennesima zona rurale depressa del Terzo Mondo, con i soliti leader populisti e i colpi di Stato a intermittenza; ma, visto che il petrolio c'è, il Venezuela avrebbe la possibilità di diventare un fornitore d'energia di primo piano, un fortunato esempio di governance equilibrata e di sviluppo a livello regionale e un catalizzatore diplomatico per la definitiva realizzazione del sogno di Bolívar. Le probabilità, però, puntano in tutt'altra direzione. Se l'esploratore e naturalista Alexander von Humboldt celebrava l'«eterna primavera» del Venezuela, in realtà il paese soffre di una sindrome acuta da «cattiva latitudine»16-1. Dopo la seconda guerra mondiale, per i commercianti e i tecnici di classe media della Spagna, dell'Italia e del Portogallo questa era una land of opportunity in cui la carriera di medico e di avvocato era aperta. Negli anni Cinquanta lo sviluppo dell'industria petrolifera gestita da oligarchi locali e dalle grandi società straniere lanciò il Venezuela nel Primo Mondo, e Caracas divenne una fra le città più sicure e sofisticate del pianeta. In America meridionale, tuttavia, non è la mancanza di risorse, bensì l'incertezza politica il vero ostacolo al progresso. Gli autocrati regolarmente eletti degli anni Sessanta hanno lasciato un'eredità fatta «di autostrade in rovina, ecosistemi devastati, un debito disastroso e lavoratori non più puntuali di quanto fossero sempre stati»16-2. All'inizio degli anni Settanta il Venezuela e gli altri membri fondatori dell'OPEC si misero in tasca quello che fu il più grande trasferimento di ricchezza in un colpo solo in tempo di pace, con relativo riaccendersi di aspirazioni di grandezza16-3: ma per il Venezuela, che aveva abbandonato la propria economia agricola, il petrolio si sarebbe rivelato una catastrofe. Inondata dai petrodollari, l'oligarchia pubblico-privata raddoppiò i consumi, mentre le corporations si sostituirono alla società come base elettorale di riferimento. Un decennio dopo, il crollo del prezzo del petrolio aggravò il deficit, con tutto quello che ne seguì: spirale del debito, rallentamento della produzione, fuga dei capitali, accelerazione dell'inflazione, incremento dei prestiti dall'estero16-4. Nelle parole di uno dei fondatori dell'OPEC, Juan Pablo Perez Alfonzo, il Venezuela stava «annegando nello sterco del demonio». La stessa sequenza potrebbe ripetersi nel Venezuela di oggi. Nella politica personalistica latinoamericana i leader forti si affermano sempre a spese della forza delle istituzioni. E così la regione soffre non soltanto di cattiva latitudine, ma anche di cattiva attitudine – e nessun'attitudine potrebbe essere peggiore di quella di Hugo Chávez, le cui molteplici autoreinvenzioni sono culminate in un atteggiamento che non potrebbe essere meglio descritto che come "narcisista-leninista". Lasciatosi alle spalle un fallito tentativo di colpo di Stato che gli è costato il carcere, nel 1992, il nazionalista di sinistra Chávez ha conquistato la nomina presidenziale nel 1998 con una piattaforma elettorale tutta rivolta ai diseredati e puntando sempre più apertamente su una retorica del risentimento e del sospetto che ha potuto far conto sulla storica indifferenza dell'élite per le classi inferiori. A Caracas i barrios si elevano con i loro tuguri a più piani al di sopra dei fatiscenti fabbricati di uffici che occupano la valle di sotto; a ondate, la favela ricopre le colline come uno sciame sempre sul punto di gettarsi verso il basso. Per i suoi abitanti il problema non è la corruzione, la concussione o la sottrazione della ricchezza dello Stato: il problema è ricevere una fetta della torta sufficiente a farli contenti. «Il governo potrebbe restare in città o andarsene sulla luna», esclama un nullatenente del distretto del barrio Petare, a Caracas, «quello che ci importa è che paghi». Affascinante quanto irresponsabile, Chávez ha manipolato questa massa di diseredati che non pretendono si dia loro conto delle scelte di governo né della spesa dei ricavi del petrolio perché non capiscono che, in fondo, lo Stato e le sue risorse appartengono a loro16-5. Come spiega un analista politico di Caracas, «i chavisti sono disposti a dare la vita per lui, perché lui ha dato loro la speranza». In Venezuela la benzina costa meno dell'acqua. Sull'esempio del successo dei fondi stanziati con gli incassi derivati dal petrolio, dall'Alaska alla Norvegia fino al Kazakistan, Chávez non avrebbe avuto difficoltà a mettere in piedi un fondo permanente per la redistribuzione delle entrate petrolifere: certo, il grosso sarebbe stato spartito fra pochi, ma almeno tutti avrebbero ottenuto qualcosa. Nello spazio di
un decennio, o forse anche prima, quel cinquanta per cento di popolazione venezuelana che vive con meno di 2 dollari al giorno si sarebbe virtualmente potuto ridurre a zero 16-6. Ma se in Kazakistan i diritti di proprietà si sono diffusi ovunque e la ricchezza da petrolio è servita a spronare l'impresa privata, la concezione di Chávez del «socialismo bolivariano» mantiene un inflessibile accento sul controllo statale dell'economia. Le cooperative contadine sottratte con la violenza ai proprietari terrieri più ricchi non possono riorganizzarsi su base privata; i sindacati sono stati aboliti16-7. Pare che nelle misiones di Chávez tutto fili alla perfezione: prestiti agevolati, crediti agricoli, network di distribuzione alimentare, programmi di medicina preventiva gestiti attraverso medici cubani16-8. In realtà, in queste comuni rurali i lavoratori producono per un unico consumatore, lo Stato, il cui libro paga si è gonfiato fino a superare i tre milioni di dollari. Chávez utilizza i fondos petroliferi allo stesso modo di ogni altro paese latinoamericano, ossia per servire fini politici anziché per mitigare realmente le diseguaglianze16-9. Chávez potrebbe avere anche le migliori intenzioni, ma la sua gestione cella ricchezza proveniente dal petrolio ricorda da vicino le condizioni della dipendenza dal crack, in cui solo quantità sempre maggiori di droga possono tenere «al massimo» il consumatore. Il governo è riuscito a quadruplicare simultaneamente il debito interno e quello estero, mentre gli ospedali crollano e i loro direttori si sono visti licenziare per avere votato contro Chávez al referendum del 2004. A causa del controllo dei prezzi la carne scarseggia. Chávez ha guadagnato punti quando il sindaco di Caracas ha requisito un esclusivo campo di golf per costruirvi case popolari, ma lo squallore urbano continua come sempre a regnare sulla città. Malgrado gli oltre 20 miliardi di dollari annui di entrate da petrolio, il PIL pro capite, nella migliore delle ipotesi, resta la metà di quello del 1954. Il Venezuela è quello che l'economista Hernando De Soto definisce una «società di complici». La tecnocrazia della compagnia petrolifera di Stato PDVSA, che una generazione fa aveva efficientemente costruito l'intero sistema nazionale dei servizi pubblici, è stata decapitata, e il suo surrogato, un apparato gestito dai militari, ora produce un milione di barili in meno della peak capacity del paese. PDVSA operava in autonomia dal governo, mentre Chávez ha dato vita a un proprio Ministero del tesoro – il Banco de Tesoros – grazie al quale incrementa le proprie riserve personali, conti bancari sempre più pingui in Europa. I suoi commissari hanno acquisito il controllo dei consigli di amministrazione impadronendosi dei profitti aziendali, con il risultato del collasso del settore industriale. «Adesso che Chávez ha distrutto l'intera classe dei professionisti, non ha più importanza che siamo il maggior produttore di petrolio al mondo dopo gli arabi», ha dichiarato con un certo coraggio un ex impiegato di PDVSA: «Non è rimasto più nessuno in grado di gestire il denaro». Le lunghe code di professionisti davanti all'ambasciata spagnola per cercare di ottenere la cittadinanza sono il sintomo di una classica fuga dei cervelli da paese del Terzo Mondo. Messa a tacere ogni altra voce, Chávez si è potuto ergere a paladino del Venezuela. Nonostante sia stato più volte democraticamente eletto, la sua democrazia assomiglia più che altro a una "plebeocrazia"16-10. La ribattezzata Repubblica Bolivarista funziona in maniera simile al Pakistan di Musharraf, con Chávez a nominare tutti i governatori e i sindaci e a conferire ampi patrimoni a ex ufficiali, conservatori insediati come mediatori di potere e intenzionati a tenersi stretto il loro nuovo status16-11. Con l'Assemblea nazionale e il Consiglio elettorale nelle sue mani, di fatto non è rimasta alcuna opposizione in campo16-12. Eduardo Galeano ha definito questo stile di leadership «demodittatura», una definizione che ben si adatta a Chávez: «La democrazia viene interpretata come un travestito: si spoglia, ed ecco che appare un colonnello»16-13. Almeno sei differenti formazioni paramilitari leali a Chávez battono minacciosamente, in mimetica e giubbotto antiproiettile, le strade di Caracas, a piedi, in motocicletta o in jeep. Con le mitragliette che penzolano distrattamente dalla spalla, scherzano con i chavisti – li si riconosce dalla camicia rossa – mentre costituiscono una presenza intimidatoria per tutti gli altri. La criminalità dilagante tiene l'opposizione lontana dalle strade, e così, reclusi in casa, i cittadini non possono fare altro che seguire le maratone oratorie di Chávez trasmesse dalle stazioni televisive su cui ha messo le mani. Un perpetuo stato di crisi è un'atmosfera pessima per la democrazia, ma in compenso è ottima per seminare il disordine a tutto vantaggio di uno solo. Al di fuori di alcune isolate sacche di benessere come gli hotel a cinque stelle o i locali di flamenco, Caracas è palpabilmente scivolata al livello di una capitale del Terzo Mondo, autosegregata, con un ex ufficiale del Ministero della Difesa a recitare la parte del feudatario
urbano. Il tasso di morti per arma da fuoco è il più alto al mondo, e i sequestri di persona sono in perenne crescita – compresi i «rapimenti express» con tanto di blitz alle casse bancomat per assicurarsi un rapido pagamento del riscatto. Caracas conta anche uno dei peggiori punti di congestione del traffico al mondo, l'incrocio centrale di Chacao dove gli automobilisti ignorano i semafori e creano un ingorgo multidirezionale esteso per chilometri. Nel 2006 un ponte sulla principale arteria di accesso alla città è crollato improvvisamente dopo quindici anni di cedimenti, obbligando a raggiungere l'aeroporto, distante solo una quindicina di chilometri, con un tortuoso tragitto di quattro ore. Una rivoluzione che non sia minacciata perde la propria giustificazione, e così Chávez è arrivato giusto in tempo per ereditare la maschera antimperialista di Fidel Castro e diffondere il dogma in tutto l'emisfero. Come Bolivar, Chávez è del parere che gli Stati Uniti non smetteranno di affliggere il continente in nome della libertà. È ironico che si sia sviluppata una simile acrimonia fra gli USA e la nazione con la quale essi hanno intrecciato per generazioni forti legami sulla base dell'industria del petrolio, di quella automobilistica e della comune passione per il baseball. Come gli iraniani o gli uzbeki, i venezuelani non sono antiamericani; e però l'antiamericanismo è una risorsa cruciale per i loro leader. Capitalizzando l'endorsement americano al fallito colpo di Stato del 2002, Chávez ha cominciato e demonizzare gli Stati Uniti e i partiti di opposizione da essi sostenuti in quanto minaccia per la rivoluzione bolivarista16-14. Si è schierato contro Washington con tutti i mezzi possibili: annunciando l'intenzione di sviluppare un programma nucleare per usi civili e militari, minacciando la sospensione delle esportazioni di petrolio verso gli USA, acquistando dalla Russia centomila AK-47 per costituire una forza di combattimento congiunta latinoamericana, ostacolando i tentativi di frenare il traffico di droga, di promuovere il libero scambio e di isolare la Cuba di Castro, offrendo protezione e campi di addestramento, stando alle accuse, a gruppi fondamentalisti islamici e arrivando addirittura a fornire carburante da riscaldamento a prezzi di favore alle comunità più povere degli Stati Uniti. «Tutto quello che fa Chávez», ha dichiarato solennemente un intellettuale chavista, «è giustificato». «È stato democraticamente eletto. L'America non ha il diritto di metterlo sotto processo e rovesciarlo. Non abbiamo la pretesa di diventare prima o poi potenti come gli americani, e questa è la precisa ragione per cui ci aspettiamo che loro ci trattino lealmente». Se l'egemonia degli Stati Uniti sull'America Latina è un mito, allora tocca a Hugo Chávez costringerli a scoprire il bluff. Se Bolivar liberò le province andine ma non riuscì a impedire la loro frammentazione, ora con la sua visione neobolivarista Chávez cerca di rendere privi di significato ideologico ed economico quei confini che non ci sarebbero mai dovuti essere16-15. Come ha spiegato un analista brasiliano, «i leader che lanciano idee senza le risorse per realizzarle sono accolti dalle risate, ma quando possono contare su un libretto degli assegni da cinque miliardi di dollari allora sono presi decisamente molto più sul serio». Con scarsa considerazione per l'intellighenzia diplomatica ufficiale del Venezuela, Chávez viaggia per l'intero continente e fuori di esso per corrompere uomini di governo e comprare le elezioni per loro, scuotendo le platee con discorsi in cui chiede che la Gran Bretagna restituisca all'Argentina le isole Falkland. La sua strategia per l'unificazione delle risorse dell'America meridionale contempla un sistema di scambi di petrolio, cemento, bestiame, ingegneri e medici esteso da Cuba all'Argentina. Per favorire la sua idea di un continente in grado di reggersi da solo sulle proprie gambe, Chávez spende il quintuplo degli USA in termini di buoni del Tesoro, acquisti a debito, aiuti e sussidi in petrolio. Nei Caraibi ha sostenuto le spese della modernizzazione delle raffinerie di greggio a Cuba e in Giamaica e ha distribuito il corrispettivo di tre miliardi di dollari in petrolio a condizioni di svendita. Soprattutto, ha dato il via a operazioni di dragaggio del suolo per costruire quella che sarà la più lunga pipeline del mondo, dal Venezuela all'Argentina attraverso l'Amazzonia brasiliana, e che renderà possibile una rete energetica continentale e l'autarchia energetica dell'America meridionale. Presi nel loro complesso, proclama Chávez, questi progetti annunciano «un grande blocco di potere politico, economico e sociale che persegue l'equilibrio mondiale»16-16. Come quando si tratta di contendersi un parcheggio con un prepotente, ogni genere di trattativa fra gli Stati Uniti e qualsiasi nazione dell'America meridionale non potrà mai essere impostato su termini di parità finché queste ultime non potranno contare su un protettore esterno. È per questo che Chávez sventola la Cina come la sua carta vincente, minacciando di interrompere i flussi di petrolio diretti negli Stati Uniti. In effetti, questi vengono lentamente orientati verso la Cina, mentre le partecipazioni
venezuelane nelle raffinerie USA sono vendute per investire in quelle asiatiche. Pechino incoraggia tacitamente la petro-politics a somma zero di Chávez: attualmente copre la metà dell'investimento estero totale in Venezuela, ha venduto navi cisterna per trasportare il petrolio venezuelano a ventiquattro-mila chilometri di distanza attraverso il Pacifico, ha costruito impianti di trivellazione per migliorare la capacità esplorativa del paese. La Cina non è realmente in grado di sostituire gli Stati Uniti come importatore principale del petrolio venezuelano, a causa dei sessanta-settanta giorni necessari al trasporto rispetto ai sei-sette giorni degli USA, ma la sua quota di acquisto si è impennata. Inoltre, poiché il Canale di Panama non può contenere le superpetroliere cinesi, il flusso dell'oleodotto transpanamense potrebbe essere invertito per caricare il greggio sulla costa del Pacifico. La Cina si è anche offerta di inviare operai specializzati per costruire migliaia di case in Venezuela, una rete di comunicazioni in fibra ottica e sistemi di irrigazione. Seminando la discordia fra le due sponde dell'Atlantico, Chávez ha pure una carta europea nel suo mazzo. L'Europa resta il maggior investitore in energia e servizi in Venezuela, e benché gli osservatori della UE abbiano espresso critiche severe alla gestione delle elezioni del 2005 i paesi europei, Spagna in testa, hanno generalmente accolto con favore il piano di Chávez per una maggiore autonomia dagli Stati Uniti e si mostrano sensibili alla sua retorica della riduzione della povertà. Da questo punto di vista, gli USA hanno cercato di impedire alla Spagna di vendere a Chávez una partita di oltre trenta navi vedetta ad alta velocità. I potenziali 300 milioni di barili di greggio superpesante contenuti nella cintura di catrame dell'Orinoco centrale farebbero del Venezuela un produttore di petrolio superiore all'Arabia Saudita, ma, malgrado la superiorità tecnologica delle compagnie petrolifere americane, Chávez ne ha congelata la partecipazione alle esplorazioni invitando solo aziende provenienti da Cina, Russia, Iran, Indonesia e Brasile, configurando così un nuovo asse energetico del Secondo Mondo. Queste aziende sono felici di firmare accordi congiunti di produzione che prevedono la creazione di «società miste» con standard di governance parecchio oscuri e di pagare diritti più pesanti su questo ben di dio, che a sua volta Chávez utilizza per intensificare la pressione sulle compagnie europee che già operano in Venezuela. Riuscirà l'Europa a giocare le sue carte per tenere a freno Chávez, dal momento che l'America sembra avergli già dato partita vinta? Alla fine, la storia potrebbe ripetersi anche in Venezuela, con l'aumento del prezzo del petrolio e della domanda cinese a permettere a Chávez di contare soltanto sulle esportazioni di petrolio trascurando gli altri settori produttivi e lasciando l'economia in balia delle fluttuazioni dei prezzi. Attualmente il paese assomiglia all'Iran prima della caduta dello Scià: ricchezza petrolifera, diseguaglianza e limitazione dei diritti, ossia una classica situazione prerivoluzionaria. Ma anche se la sua rivoluzione bolivarista dovesse fallire, Chávez ha comunque risvegliato in tutti i leader sudamericani – persino in quelli che lo ritengono un pagliaccio – la sensazione di dover lavorare insieme gomito a gomito per diventare un continente prospero e sovrano del Secondo Mondo anziché un paradiso perduto del Terzo Mondo. Il sogno di Bolívar sopravvivrà ben oltre Chávez – e comunque quest'ultimo cercherà di restare in sella il più a lungo possibile per assicurarsi che finisca davvero così.
17. La Colombia. I Balcani delle Ande Del suo sbarco a Cartagena de Indias Arnold Toynbee ha lasciato un'evocativa testimonianza scritta: le massicce mura della fortezza della Tenaza, irte di cannoni che puntano in direzione del mare aperto, «fortificazioni di perimetro immenso, costruite con pietre tagliate alla perfezione e fissate con un cemento che è l'invidia e la disperazione degli ingegneri moderni […]. Cartagena fu progettata per essere lo scudo di un intero continente»17-1. La visione di Chávez di unità continentale non può essere realizzata senza la Colombia, l'unica nazione dell'America meridionale a essere lambita sia dal Pacifico che dal Mar dei Caraibi. Con la sua popolazione di quarantaquattro milioni di abitanti e un'estensione superiore a quella di Francia e penisola iberica messe assieme, la Colombia confina con tutte le nazioni dell'area andina, ed è destinata a essere il fulcro di qualsiasi tentativo di mettere insieme i cocci del sogno della Gran Colombia di Bolívar. La Colombia incarna per l'intera America meridionale la possibilità di fare buoni affari sia con il Nord del continente che con l'Estremo Oriente: qui, infatti, si incrociano i due assi dell'autostrada panamericana, che una volta completata costituirà l'arteria centrale
delle comunicazioni via terra e dei canali energetici verso l'America settentrionale e centrale, e dell'oledotto che dal Venezuela sboccherà nel Pacifico. Se l'America meridionale riuscirà mai a connettersi al mondo, questo accadrà in Colombia. Con tutto ciò, con il suo ruolo potenziale di nodo della prosperità della regione andina, la Colombia è una società profondamente divisa. Il territorio, in sé, è spezzato da tre distinte catene andine che formano a loro volta altrettanti diversi tessuti culturali, riconoscibili dai colori dei ponchos indossati come bandiere dalle popolazioni indigene. Il litorale oceanico e la regione degli Llanos amazzonici sono le zone economicamente più impoverite, in cui vive il sessanta per cento dei poveri del paese. La maggior parte della terra è sotto il controllo di oligarchi feudali, proprietari agricoli che si comportano con i loro elettori come signori che svolgono funzioni vicarie rispetto al governo. A queste divisioni storiche e naturali si sovrappongono i centri urbani del potere, otto città sopra il milione di abitanti, ciascuna delle quali dotata di una propria rete di interessi e di lealtà sotto cui ricade l'ottanta per cento della popolazione, attualmente inurbata, del paese (una proporzione rovesciata rispetto a quella degli anni Trenta del Novecento, quando l'ottanta per cento della popolazione risiedeva nelle campagne). A complicare ulteriormente le cose, i tre poli d'interesse politico in competizione per il controllo delle città e delle zone rurali: il governo con l'esercito regolare, i ribelli impegnati nel traffico di droga e i gruppi paramilitari. Decenni di guerra civile fra questi tre gruppi di potere hanno causato tre milioni e mezzo di profughi interni (la terza presenza di questo tipo al mondo), la maggior parte dei quali vive nei barrios di Bogotá. «Se non altro», scherza un intellettuale nel suo lussuoso attico nella capitale, «la nostra reputazione di snodo mondiale del traffico degli stupefacenti rende giustizia all'importanza della nostra posizione geografica». Storicamente gli Stati Uniti si sono accontentati di fare affidamento su almeno un solo alleato forte in America meridionale, e dopo le dimissioni del presidente argentino Carlos Menem l'unico loro amico fidato è il presidente colombiano Alvaro Uribe, solo leader della regione andina a dare credito alle politiche economiche neoliberiste e alla war on drugs targata Washington. Un solo alleato, però, non è sufficiente, tanto più che la guerra al narcotraffico è una battaglia che si combatte nei larghi spazi ingovernati che caratterizzano l'economia delle Ande. All'inizio degli anni Novanta le politiche antidroga della Bolivia e del Perù provocarono un Aumento della coltivazione e della raffinazione della cocaina in Colombia a livelli mai visti prima. Analogamente, il Plan Colombia sponsorizzato dagli Stati Uniti oggi sospinge le formazioni comuniste delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARO) a ridosso dei confini con la Bolivia, l'Ecuador, il Perù e il Venezuela, con il classico effetto a palloncino in base al quale la produzione di droga diminuisce nelle zone dove è sottoposta a pressione per dilatarsi in tutte le zone circostanti. I cartelli dei narcos sono infatti in grado di concludere partnership che oltrepassano i confini di questi Stati con una rapidità molto maggiore di quella necessaria ai rispettivi governi per concludere accordi, come dimostrano l'incremento del traffico di stupefacenti attraverso l'estesa provincia di Arauca, lungo i quasi duemila chilometri di confine con il Venezuela, e l'esplosione delle cifre del consumo di cocaina e del suo imbarco verso l'Europa che si registrano in Brasile17-2. Una linea low-cost dal Brasile verso destinazioni europee ha dovuto chiudere i battenti dopo il sequestro delle tonnellate di cocaina che servivano a rendere concorrenziali le tariffe. L'approccio militare degli Stati Uniti verso la questione degli stupefacenti non si è finora dimostrato molto utile a far vincere loro la guerra, benché a Washington non lo si sia ancora compreso. Il Southern Command istituito dal Pentagono (SOUTHCOM) si limita a svolgere attività di vigilanza marittima, controllo dei confini e assistenza umanitaria nello spazio dell'emisfero; la sola eccezione è la Colombia, dove invece diverse centinaia di consiglieri militari americani gestiscono basi d'attacco dalle quali operano fianco a fianco con l'esercito governativo in azioni di interdizione, counterinsurgency e distruzione delle reti del traffico. Uribe, di suo, ha massicciamente gonfiato il budget della difesa nazionale e ha dato vita a milizie contadine incaricate del pattugliamento di fiumi e montagne17-3. Il grosso dei cinque miliardi di dollari investiti nel solo 2005 nel Plan Colombia è stato speso in addestramento militare e in programmi di diserbaggio costosissimi quanto inquinanti, con un piccolo margine a disposizione per i piani di sviluppo di colture alternative alla coca. Non sorprende che la produzione di cocaina delle regioni andine resti allora ai suoi massimi livelli, e che la Colombia da sola continui a rifornire quasi tutto il mercato della cocaina e metà del mercato dell'eroina degli States17-4. Proprio come in
Afghanistan, infatti, non stiamo parlando di colture estremamente più lucrative di qualsiasi altra, ma di sostanziose fonti di potere. Solo pochi anni fa, allorché l'offensiva antiguerriglia di Uribe cominciava a dare frutti, le FARC si dedicarono a un'intensa campagna acquisti delle principali formazioni paramilitari, al punto che il confine tra FARC e AUC (il cartello dei gruppi paramilitari) divenne pressoché indistinguibile. I gruppi paramilitari, infatti, possiedono non soltanto proprie infrastrutture autonome per la produzione di coca e di papavero da oppio, ma anche una rete di contatti internazionali di traffico superiore a quella delle stesse FARC. E se alcuni di essi si sono ritirati con scenografiche cerimonie pubbliche, non per questo hanno smesso di mettere a profitto i narcodollari gettandosi nel mercato del grande real estate e dirigendo le gang della zona rurale di Medellín. Limitarsi a mettere le mani su questo o quest'altro degli zar del narcotraffico è un po' come catturare i singoli terroristi: finché non si intaccano le radici, il problema non può che moltiplicarsi. Per questo il mestiere del guerrigliero è una scelta come un'altra in Colombia, l'unico paese al mondo in cui i ribelli muoiono di vecchiaia. I vezzi cosmopoliti dell'élite colombiana nascondono la realtà di un paese così permeato dal conflitto da attagliarsi perfettamente alla definizione medica di cronicità: una patologia non mortale, ma persistente e corrosiva. La società, in ossequio al più generale trend dell'America meridionale, non è frammentata: è semplicemente privatizzata. I pedaggi stradali sono gestiti, conservati e riscossi da potenti società di tipo feudale. A Bogotá i servizi di vigilanza privata pattugliano letteralmente i confini dei quartieri residenziali, con i loro edifici-fortezza difesi da alti muri di cinta con schegge di vetro cementate sul bordo; di notte nessun automobilista si ferma con il rosso per paura di essere rapinato; il rapimento degli uomini d'affari, quello che frutta i riscatti migliori, è la regola. L'assenza di alcun controllo del territorio da parte dello Stato, i tanti gruppi armati, la divisione dell'élite in fazioni, la privatizzazione della sicurezza: tutti simboli di un paese costretto ad affrontare minacce che non vengono dall'esterno, ma dall'interno. Per quale sorta di magia, allora, la Colombia resta aggrappata al Secondo Mondo anziché finire in pezzi e cadere nel Terzo Mondo come l'Alghanistan? Il confronto con il Venezuela ci fornisce una parte della risposta. La Colombia era la residenza del viceré spagnolo, il Venezuela era la caserma. Non fu Bolívar, ma il suo braccio destro Francisco Santander a collocare in Colombia le istituzioni forti dello Stato che sarebbe dovuto nascere: presidenza, Parlamento e Banca centrale. «Le armi», proclamò, «vi hanno dato l'indipendenza, le leggi vi daranno la libertà». Se il Venezuela ha sperimentato decenni di stabilità in bilico, la Colombia ha compiuto una decisa marcia verso la modernità giuridica ed economica dalla situazione di povertà totale in cui versava negli anni Trenta del secolo scorso. Con l'eccezione della metà degli anni Cinquanta, il paese può vantare un secolo di passaggio dei poteri nel pieno rispetto della legalità: Uribe, rieletto nel 2006, è l'unico leader della regione andina ad avere ricevuto un secondo mandato dai tempi, appunto, di Bolívar. «Siamo molto più umili dei nostri grandi vicini», riconosce un funzionario addetto alla promozione dell'investimento estero in un hotel nello splendido quartiere coloniale di La Candelaria, «paghiamo veri esperti perché elaborino un profilo accettabile del paese». La Colombia ha fatto capitale della propria diaspora, che come quella irlandese ha viaggiato in lungo e in largo ma non ha mai smesso di restituire forze finanziarie e intellettuali al paese, con il risultato che la sua fuga di cervelli e di capitali è inferiore a quella del Venezuela o dell'Argentina. Non ha mai sofferto di iperinflazione o di massicce inadempienze del debito; la sua Borsa registra le migliori performance della regione. Bogotá oggi è una metropoli operosa che sta vivendo un rinascimento urbano grazie al buono stato di conservazione della sua architettura coloniale e ai nuovi complessi di uffici disegnati dai migliori architetti del mondo. Persino i barrios hanno un certo ordine e una certa dignità – come le baraccopoli di Istanbul –, e di certo sono più sicuri di qualsivoglia quartiere di Caracas. Del resto, se il Venezuela sta fallendo l'obiettivo di recuperare la gloria perduta con il ricorso al recente boom petrolifero, la Colombia pare invece riuscire nell'intento di rovesciare gli effetti del boom della droga. Negli anni Novanta l'approccio verso la questione del traffico di stupefacenti era improntata a una certa melanconica rassegnazione. Il presidente Ernesto Samper riconobbe all'epoca che regnava in Colombia una certa tolleranza nei confronti di chi viveva ai margini del traffico di droga, maggiore di quella che esisteva negli Stati Uniti nei confronti dei consumatori stessi17-5. Nessuna
sorpresa, allora, se le sue campagne elettorali erano finanziate dal cartello di Calí. Dopo gli «accordi con il diavolo» fatti dal suo predecessore Andrés Pastrana – che hanno aperto alle FARC enormi porzioni di territorio –, attualmente Uribe gode di un concreto sostegno interno nel suo sforzo di riasserire l'autorità dello Stato e porre finalmente termine alla lunghissima guerra civile che affligge la democrazia più antica del continente latinoamericano. In Colombia la costruzione dello Stato e la vittoria nella lotta al traffico di stupefacenti procedono fianco a fianco, in un'impresa simile a quella che Toynbee definì acutamente «l'audacia di sottomettere la natura in un continente in cui è questa ad avere ancora l'ultima parola sull'uomo»17-6. Il miglioramento della rete di strade e di gallerie nelle aree montuose ha migliorato la capacità del governo e dell'esercito di far valere la loro autorità; polizia e tribunali stanno rafforzando l'imposizione della legalità. All'inizio del mandato di Uribe le forze di polizia erano presenti in non più della metà dei centri abitati; ora sono presenti in tutti. «I grandi gruppi del narcotraffico e le formazioni paramilitari», nota un osservatore militare americano, «o sono in via di smobilitazione o stanno patteggiando una pena con l'esercito». Uribe, peraltro, può considerarsi fortunato che le FARC, con tutta la loro creatività e capacità di recupero, siano più interessate ai profitti della droga e dei rapimenti che non a una vera secessione dallo Stato – anche perché il traffico di stupefacenti ha seriamente minato la credibilità ideologica di questo movimento, che non corrisponde ormai più alla definizione, un tempo così appropriata, di «catena di rifornimento con Karl Marx al vertice e Adam Smith alla base». Oggi le FARC sono qualcosa di simile a un parastato che si occupa di business e si accontenta di operare nelle aree marginali. La loro mobilitazione più massiccia non è riuscita a tenere in pugno la città di Miraflores per più di una settimana; i rapimenti sono limitati essenzialmente alle zone agricole dell'interno e alla fascia costiera da cui passa il narcotraffico; la crescente popolazione urbana preferisce ora collaborare con le autorità nella consegna degli esponenti delle FARC piuttosto che mettersi in affari con loro. «Siamo gente istruita e per bene. A meno che uno non sia nel business della droga, non c'è nessuna ragione per appoggiare le FARC» ragiona un professore di Bogotà, aggiungendo che la polizia antidroga colombiana ha già iniziato ad addestrare alcuni colleghi afghani nella cattura degli sherpa del traffico. Con una Colombia coesa, la provincia più povera, il collo di bottiglia del Chocó, un territorio a popolazione indigena ammantato dalla foresta pluviale, potrebbe diventare lo snodo dell'autostrada panamericana lungo la costa del Pacifico. L'aumento dell'export di caffè verso Asia e Stati Uniti potrebbe contribuire al miglioramento delle condizioni di vita dei tanti profughi interni e dei miseri campesinos che fino a poco tempo fa non avevano altra scelta che coltivare la coca o unirsi ai paramilitari. La UE ha potenziato il sostegno ai programmi di smobilitazione e reintegrazione e l'aiuto finanziario alle regioni più povere del paese17-7. Se questa strategia fosse messa in opera nell'area del Darién Gap, una sperduta zona di foreste sul confine con il Panama, l'arteria economica dell'emisfero occidentale ne risulterebbe sbloccata. Gli Stati Uniti potrebbero prendersi molto più a cuore le sorti del loro unico alleato in America meridionale, anche per impedire che esso cada nella sfera d'influenza del Venezuela. Washington, con i suoi tentennamenti su un possibile accordo di libero scambio e la sua politica di forti sussidi agricoli interni, continua a commerciare con la Colombia su un piano di forte disparità e a impedire che essa possa sviluppare una certa diversificazione e svincolarsi dalla produzione di beni fondamentali quali petrolio, banane, fiori e caffè. «Perché gli americani aprono stabilimenti tessili solo in Asia?», si chiede un funzionario del Ministero dell'economia. «Dovrebbero mettere in piedi qui maquiladores come ci sono in Messico per produrre ed esportare verso la East Coast, che non è più distante dalla nostra costa caraibica che dal confine messicano». Le complesse procedure americane di certificazione antidroga hanno anche rallentato quell'integrazione regionale indispensabile per togliere ossigeno al riciclaggio di denaro sporco e alle attività di contraffazione, in Colombia come nel suo omologo dollarizzato, l'Ecuador. Con le loro campagne antidroga prive di strategie economiche e sociali complementari, gli Stati Uniti stanno incautamente alimentando quella diffidenza che prima o poi finirà per privarli anche della lealtà di questo paese. Del resto non bisogna stupirsi del disinteresse americano per tutti gli aspetti della Colombia che esulano dal traffico di droga, se i diplomatici sono invitati a non uscire nemmeno per fare una passeggiata fra le bellezze senza tempo del quartiere di La Candelaria, a Bogotá. Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
La guerra alla droga sulle Ande e la corsa all'integrazione bolivariana si possono attualmente sperimentare, l'una a fianco dell'altra, al microlivello di un'incessante gara per le strade, i tunnel e gli oleodotti simile a quella che si gioca in Asia centrale. In Bolivia la coltivazione della coca è la sola possibilità di sopravvivenza per tutti quei contadini diseredati che nel 2005 hanno eletto uno di loro, Evo Morales, alla guida di un paese che da decenni costituisce uno dei grandi campi di battaglia del Terzo Mondo nei quali si combatte il conflitto di relazioni tra liberalizzazione, globalizzazione e democrazia. Tuttavia Morales non è un populista autoreferenziale: in realtà, il suo agnosticismo in tema di globalizzazione rappresenta un buon antidoto realista all'abbraccio mortale fra abusi delle società straniere e leader corrotti, con lo strascico di privatizzazioni selvagge che hanno inciso negativamente sulla disponibilità dei beni collettivi fondamentali, quali l'acqua17-8. La favolosa città mineraria di Potosí, in Bolivia, è stata per lungo tempo la più ricca città dell'emisfero in virtù delle sue immense riserve d'argento; oggi il paese possiede giacimenti di gas naturale secondi solo a quelli del Venezuela. Tuttavia alla Bolivia manca una moderna azienda energetica di proprietà dello Stato, dotata di un management solido e di tecnologia come sono, ad esempio, la brasiliana Petrobras e la malese Petronas, e per questo il solo modo per i boliviani di diventare padroni del loro patrimonio naturale risiede nelle "estorsioni" di Morales alle compagnie straniere che operano nel paese – con la minaccia della nazionalizzazione delle risorse o dell'aumento del prelievo fiscale sull'industria – e nella creazione di un fondo interno per le imprese. Non c'è bisogno di spargere alcuna lacrima per le grandi compagnie energetiche, i cui profitti restano altissimi17-9. Come in Asia centrale, il solo modo per superare lo schema andino fatto di geografia frastagliata, sottosviluppo e democrazia fragile passa per l'avvio di una cooperazione transfrontaliera nella lotta al narcotraffico, nel commercio e nella produzione di energia17-10. In una regione in cui milioni di persone vivono in ambienti desertici e montuosi l'accesso al mare costituisce una condizione vitale per l'economia. Mentre i paesi continentali africani continuano a invadere i propri vicini, la Bolivia utilizza a pagamento i porti del Perù, e il commercio tra Colombia e Venezuela ha conosciuto un'accelerazione da quando Chávez è alla ricerca di un oleodotto fino al Pacifico che non venga fatto saltare in aria da quegli stessi narcos cui egli stesso dà tranquillamente protezione. Le nazioni andine stanno pianificando l'espansione di porti e autostrade, come pure la costruzione di una rete energetica in grado di veicolare gas ed elettricità in tutto il continente. I massicci aiuti della UE ai piccoli imprenditori e coltivatori delle Ande stanno incoraggiando un graduale abbandono del predominio assoluto dell'esportazione di materie prime, e l'armada delle società spagnole – che potenzialmente gestiscono il settore delle banche e quello delle telecomunicazioni in tutta l'America Latina – costituisce un importante polo per i competitor della regione17-11. La stessa Cina, con la sua ricerca aggressiva di contratti petroliferi in Ecuador e l'invasione di merci a basso prezzo che spaziano dai tessuti ai telefoni cellulari, è ormai una presenza fissa sui mercati delle Ande. Pechino fa enormi pressioni per la costruzione di una grande via di comunicazione fra i depositi minerari dell'Amazzonia e la costa pacifica del Perù, un'arteria transcontinentale che aumenterebbe di gran lunga l'importanza strategica delle Ande. È probabile che la Colombia resti la portaerei degli Stati Uniti in America meridionale, come è probabile che la Cina faccia delle Ande un proprio punto d'appoggio continentale e che un regionalismo di tipo europeo riesca ad avere successo. I risultati sono comunque difficili da prevedere. Di certo, si può ritenere che nessun leader del continente si piegherà più a svendere l'economia della propria nazione secondo i canoni estremisti propagandati dal Washington Consensus, con indubbio vantaggio per tutti questi paesi.
18. Brasile: il Polo Sud Nel 2005, in occasione di una visita ufficiale a Brasilia, George W. Bush è sbottato per la sorpresa davanti a una cartina geografica: «Wow! Brazil is big!». Scambiare il Brasile, la realtà geograficamente dominante in America Latina, per una nazione come tutte le altre del continente è un errore che gli Stati Uniti hanno commesso di frequente. Il Brasile è gli Stati Uniti dell'America meridionale. Le sue dimensioni da sole sarebbero sufficienti a renderlo il leader naturale del Cono Sud – il posto che oggi rivendica il Venezuela. Esteso sulla metà
circa delle terre emerse della regione, esso confina con tutti gli altri Stati dell'America meridionale, eccetto Cile ed Ecuador. «La nostra autopercezione», spiega un ex diplomatico brasiliano che abita a San Paolo, «si costruisce nientemeno che sulla consapevolezza di essere il principio ordinatore di questo continente. Non al posto degli Stati Uniti, come vorrebbe fare il Venezuela, ma accanto a essi». Per l'America meridionale il Brasile è un magnete che attrae lavoro e investimenti da ogni punto cardinale. Senza alcuna pretesa di diventare una potenza militare di primo piano, esso esercita un ruolo di rilievo globale in virtù delle sue sole risorse naturali e delle dimensioni della sua economia; le ambizioni geopolitiche dell'America Latina, a loro volta, dipendono quasi per intero dal Brasile. Queste aspirazioni potranno tradursi in realtà se il Brasile sarà in grado di superare divisioni tanto profonde quanto variegati sono il suo paesaggio e la sua popolazione. Il clima favorevole delle lussureggianti regioni centrali e meridionali fa del Brasile il primo esportatore al mondo di carne bovina, arance, zucchero, caffè, pollame, suini e soia. E nonostante un export del settore che rasenta i 100 miliardi di dollari l'anno, l'agricoltura copre soltanto il 10 per cento dell'economia brasiliana, fra le prime dieci al mondo. Oltre l'80 per cento delle cinquecento top companies dell'America meridionale è brasiliano. Dopo Tolosa e Seattle (sede, rispettivamente, di Airbus e Boeing), San Paolo è il centro più importante al mondo per la progettazione e la produzione di aerei, nonché una delle due città globali dell'America Latina, insieme con Miami. Infine, la scoperta di massicci giacimenti di petrolio e gas naturale lungo la costa dell'Atlantico ha elevato il Brasile al rango di grande produttore mondiale di energia. Ci sono volute tre rivoluzioni perché il Brasile diventasse la grande potenza latinoamericana18-1. La fine della monarchia costituzionale nella seconda metà dell'Ottocento si risolse nella consegna del controllo di beni fondamentali quali zucchero e caffè ai clan che governavano le province; solo il crollo del prezzo di questi prodotti consentì la riforma che mise capo alla centralizzazione amministrativa del 1930. Poi arrivò il boom degli investimenti esteri negli anni Cinquanta, con il conseguente sviluppo delle industrie dell'acciaio e dell'automobile. Le tensioni emerse fra l'aristocrazia industriale e i vecchi proprietari terrieri culminarono nel colpo di Stato del 1964, che inaugurò un ventennio di autoritarismo burocratico. Come nel Sudest asiatico, una politica di controllo delle importazioni volta a superare la dipendenza dalla produzione estera aprì a un decennio fatto di miracolosi tassi di sviluppo dell'ordine del 10 per cento annuo e del contemporaneo aggravarsi delle diseguaglianze economiche a livelli da record mondiale. Negli anni Ottanta il boom economico si esaurì, facendo cadere anche la dittatura militare. Fernando Henrique Cardoso, un sociologo di sinistra esule in Cile e in Francia negli anni della giunta, conquistò la presidenza in base a un programma che, di fronte all'erosione del potere dello Stato da parte della globalizzazione, prevedeva un'espansione dell'autorità pubblica che, oltre alla semplice garanzia della legalità e alla politica estera, includesse i settori dei diritti umani, dell'equità sociale e della tutela dell'ambiente18-2. E poiché la globalizzazione colpisce il tradizionale dominio della borghesia, una democrazia più forte sarebbe stata necessaria per mediare tra i grandi soggetti d'interesse in gioco, ossia il capitale, il sindacato e la grande massa dei poveri. Quello che Cardoso ereditava era però un paese privo di alcuna disciplina fiscale e persino di un Ministero delle finanze18-3. Mentre il nuovo presidente sovrintendeva alla deregulation economica e promuoveva il commercio regionale, il Brasile si trovava però afflitto da un debito pubblico smisurato a causa del deficit rampante e della svalutazione della moneta. Ogni nazione del Secondo Mondo che non riesce a far fronte a un debito insostenibile soffre di conseguenze sociali traumatiche, e lo stesso è accaduto per il Brasile. Nella seconda metà degli anni Novanta le favelas intorno a San Paolo conoscevano un'espansione inarrestabile mentre il centro della città si fermava, paralizzato da una criminalità esplosiva fatta soprattutto di omicidi e rapimenti. Dall'elezione di Luiz Inácio Lula da Silva, nel 2002, ci si attendeva una svolta decisiva nella direzione dell'equità sociale. A tradire le aspettative è stato soprattutto il sistema di governo del paese, ancora fermo all'era della sproporzionata decentralizzazione dell'inizio del XX secolo, fatta di un potere tutto sbilanciato in favore delle autorità locali18-4. Dal momento che le città sono dominate dai gruppi ristretti dei capitani d'industria e dei rappresentanti delle multinazionali, l'autorità dello Stato resta troppo debole per esercitare un vero potere di redistribuzione. La mancanza di un sistema fiscale governabile ha perpetuato l'evasione e altri reati tributari, con il risultato che le dimensioni dell'economia informale
si sono gonfiate, secondo le stime, a un livello pari a quello dell'economia ufficiale, oltre 800 miliardi di dollari. Gli scandali dovuti alla corruzione in cui si è trovato coinvolto il Partito dei lavoratori di Lula sono stati tanto numerosi che a un certo punto ha preso a circolare la battuta che il presidente era così corrotto che «Chávez aveva imparato tutto da lui». Nel 2006 è toccato al sindaco di San Paolo sfidare senza successo Lula alle presidenziali. Sostenuto dal mito nazionale di uno status paritario con gli Stati Uniti, il Brasile la sempre mantenuto quello sguardo multidirezionale richiesto dall'impegno di diventare il polo di riferimento della diplomazia latinoamericana, malgrado l'ostacolo della lingua portoghese18-5. Il suo Ministero degli Esteri di alto livello professionale, l'Itamaraty, è la migliore struttura burocratica del continente. Negli anni della guerra fredda il Brasile ha sempre militato fermamente a fianco del «gigante del Nord», e dall'epoca della decolonizzazione, negli anni Sessanta, è stato un protagonista di primo piano dei dibattiti sull'ambiente e lo sviluppo, come testimonia l'Earth Summit di Rio de Janeiro, del 1992. E tuttavia, come ai tempi del suo fallito tentativo di ottenere un seggio al Consiglio della Società delle Nazioni, negli anni Venti, la corsa del Brasile per un posto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU non ha mai ricevuto un vero appoggio dalle altre nazioni dell'America latina, convinte che, al netto della retorica della «diplomazia della generosità», l'obiettivo di Brasilia fosse di lasciarsele alle spalle anziché portarle con sé. Accompagnata da un'economia in pieno boom che costruisce ponti all'interno del mondo in via di sviluppo, tuttavia, la maturità diplomatica del Brasile ha dato prova di sé nell'importantissima arena del commercio mondiale. Paese che ha fatto del fútbol un'arte, il Brasile compie eccellenti performance in occasione di quei negoziati che a volte ricordano tante diverse partite di calcio disputate in simultanea sullo stesso campo, dove nessuno conosce il risultato degli altri e i giocatori cambiano incessantemente squadra continuando a tirar calci nonostante la stanchezza. Mezzo secolo dopo che l'industria siderurgica brasiliana aveva contribuito ad alimentare lo sforzo bellico americano nella seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno opportunisticamente bloccato le importazioni d'acciaio dal Brasile. Per tutta risposta, al meeting del WTO di Cancún, nel 2003, il Brasile si è messo alla testa di una coalizione di G20 che comprendeva la Cina, l'India e il Sudafrica. E malgrado gli sforzi di Washington per allontanare da questo blocco le nazioni in via di sviluppo, la maggior parte di esse ha deciso di aderire al piano elaborato dal G20 in materia di riforma del commercio globale (in primo luogo per la lotta contro i sussidi agricoli nei paesi del Primo Mondo), riuscendo alla fine a dare vita a una posizione compatta opposta a quella degli USA e della UE18-6. Nei negoziati di free trade le richieste brasiliane di compensazione delle asimmetrie causate dalla politica dei sussidi sono un esempio eloquente della capacità degli Stati del Secondo Mondo di tenere testa al Primo Mondo con argomenti che il Terzo Mondo non può permettersi. Il Brasile ha persino introdotto un visto d'ingresso per i cittadini statunitensi, in reciprocità al visto richiesto dagli Stati Uniti (è l'unico paese latinoamericano ad averlo fatto), mentre i cittadini della UE possono entrare liberamente. L'evoluzione interna e diplomatica del Brasile ricorda da vicino quella cinese: paesi che si sono progressivamente allontanati dal Terzo Mondo e ora sono visti come i suoi leader naturali. Quasi la metà dell'export del Brasile è diretta verso paesi in via di sviluppo, e ormai non si contano i grandi summit che organizza per incrementare il commercio con la Cina e i paesi arabi. L'evoluzione dell'"alleanza strategica" fra Pechino e Brasilia illustra bene come gli Stati Uniti non possano più fare affidamento su alleati scontati nel mercato geopolitico, e come le nazioni del Secondo Mondo siano in grado di cooperare per la conservazione di un certo equilibrio reciproco anche quando sono concorrenti dirette. Da quando, negli anni Novanta, si è scatenata la frenesia cinese per l'importazione di materie prime, le economie del «gigante dell'Asia» e del «gigante dell'America meridionale» si sono dimostrate notevolmente complementari: il Brasile esporta minerali ferrosi, legname, zinco, carne bovina, latte, cereali e soia, la Cina investe in dighe idroelettriche, acciaierie e raffinerie. Gli scambi bilaterali hanno conosciuto un'impennata, con un surplus significativo in favore del Brasile 18-7.Vero è che i legami del Brasile con la locomotiva cinese hanno spazzato via la sua industria calzaturiera e quella dei giocattoli, e, come in Messico, quella dell'abbigliamento sta soffrendo a causa dello «tsunami tessile» dalla Cina. Come mi spiega un accorto uomo d'affari cinese residente a San Paolo mentre cerca di destreggiarsi con il portoghese, «i termini dello scambio potranno prima o poi essere rovesciati, ma di
certo il Brasile sta facendo marcia indietro rispetto all'idea di imporre barriere alle importazioni dal momento che se la Cina decidesse misure di rappresaglia le conseguenze sarebbero dolorose». Ciascuno dei due paesi ha cercato attivamente il modo per aggiungere valore ai prodotti dell'altro: ad esempio, gli acquisti fatti in Cina nel settore dell'industria tessile dalle aziende brasiliane sono stati resi più facili al fine di una condivisione dei profitti. Fra simili protagonisti chiave del Secondo Mondo sta prosperando anche uno scambio tecnico svincolato dalla domanda delle corporations occidentali e dalle preoccupazioni politiche sulle tecnologie a uso duale, con il Brasile che ad esempio acquista attrezzature dalla Russia per l'estrazione di gas naturale. Se il Venezuela sta creando un asse energetico del Secondo Mondo, il Brasile è alla testa di un analogo asse commerciale. La cultura brasiliana è il risultato di quello che accade quando mente e corpo sono in good mood, di buon umore. A differenza che nei paesi del Terzo Mondo, dove le aree litoranee sono generalmente di proprietà privata, in Brasile esiste un diritto sacro all'eguaglianza nell'accesso alle spiagge lungo l'intera costa, con una grande pratica di sport a corpo libero quali il calcio e il volley – elemento di differenza rispetto agli Stati Uniti, dove vanno per la maggiore gli sport equipaggiati come il football americano o le corse della Nascar18-8. La libertà deve essere goduta, non protetta. La popolazione di quasi duecento milioni di abitanti del Brasile è il nucleo del melting pot dell'emisfero sud. Per intenderci, qui si trovano la più grande nazione africana dopo la Nigeria (con i discendenti degli schiavi africani concentrati a Bahia, sulla costa), e le più grandi comunità libanese, italiana e giapponese dopo quelle dei rispettivi paesi. Qualunque sia la ricorrenza – Nossa Senhora da boa morte, il carnevale o l'Oktoberfest –, in Brasile non manca mai il giusto blend etnico e religioso per celebrarla. Se i gruppi etnici presenti negli Stati Uniti si presentano sempre con un nome composito (Irish-Americans, African-Americans, Indian-Americans, Arab-Americans), i brasiliani si qualificano semplicemente come tali e sono accomunati dalla convinzione nel potenziale ancora non realizzato del loro paese. In superficie il Brasile sembra ancora privo di una vera integrazione razziale, come gli Stati Uniti quarant'anni fa. Tuttavia le enormi disparità economiche che dividono i discendenti degli europei da quelli degli africani e dalle popolazioni indigene hanno più a che fare con la distribuzione geografica del capitale e la sua concentrazione nei centri urbani che non con un razzismo di tipo strutturale. Il settanta per cento della popolazione brasiliana proviene dall'incrocio fra europei, africani e nativi, il che contribuisce a far comprendere come la segregazione abbia più carattere di classe che di razza. La globalizzazione, amplificando tali distinzioni di classe, ha fatto del Brasile la nazione in cui il Primo e il Terzo Mondo coesistono più spudoratamente. La società brasiliana ha una forma a clessidra: in basso una vasta popolazione indigena e africana (sia nelle città che nelle regioni interne), poi un collo di bottiglia molto stretto che blocca quasi del tutto la mobilità verso l'alto, verso la casta d'élite. L'esigua classe media deve lottare anche solo per restare aggrappata alla sua posizione, con gli stipendi che si collocano attorno ai livelli del 1993. Nel Nord del paese la durata media di vita è inferiore di diciassette anni a quella del Sud. In mezzo a tali diseguaglianze prospera il traffico di esseri umani, quello delle donne provenienti dalle campagne che servono come schiave del sesso nelle città come quello dei maschi poveri urbani impiegati come manodopera servile nelle miniere d'oro dell'Amazzonia. La maggior parte delle scuole non è dotata di telefono, senza nemmeno parlare di connessione internet. In una nazione che per tre quarti è fatta di popolazione urbana, San Paolo è cresciuta fino a diventare qualcosa di più di una semplice megalopoli: è una distesa urbana praticamente infinita, con una popolazione al di fuori di ogni controllo e di ogni stima numerica. I suoi innumerevoli condomìni chiusi da cancelli d'acciaio sono a tutti gli effetti delle favelas di alta classe riservate a coloro che si possono permettere una casa. Rua Oscar Freire è considerata una fra le prime strade al mondo per lo shopping di lusso, e fra i ricchi paulistas si conta un numero di elicotteri privati più alto che in qualsiasi altro paese. Al tempo stesso, anche nei ristoranti più chic è normale che le signore assicurino al tavolo la borsetta con un cordone. Ugualmente, la meravigliosa e disperata Rio – allungata su una striscia di mare così lunga che vi si potrebbe correre un'intera maratona senza ripetere due volte lo stesso tragitto – è una metropoli costiera famosa tanto per le sue favelas come per i ristoranti più alla moda al mondo. La città è così grande che a volte è difficile capire se Rio stia incorporando la natura circostante, allargandosi, o viceversa la natura stia incorporando Rio; e tuttavia il caos che inevitabilmente vi regna sembra sottendere, come a Istanbul, un certo ritmo, persino una certa intimità.
Ciò che più preoccupa del Brasile è la paura che il paese sembra avere di se stesso. In società così internamente divise nell'accesso ai beni fondamentali, i valori sono qualche cosa di estremamente evanescente18-9. Molti brasiliani ritengono che le favelas siano troppo pericolose per mettervi piede, e così fanno del loro meglio per ignorarne l'esistenza e avvertire i turisti di starsene alla larga. Nel 2003, con quarantamila omicidi, il Brasile ha conseguito il record mondiale di morti da arma da fuoco; le pistole di fabbricazione brasiliana vendute alle FARC della Colombia hanno spesso fatto ritorno nelle strade del paese d'origine. Come ha ammesso l'ex presidente Itamar Franco, «la sola cosa equamente distribuita è la paura». Nonostante il massiccio impiego di tecnologie di crime-mapping importate dalla Colombia, il Brasile resta un paese in cui le gang armate possono vittoriosamente dare battaglia alla polizia e organizzare grandi rivolte nelle carceri. Nella clessidra brasiliana la sabbia sta inesorabilmente scendendo verso il basso. È possibile rovesciare la clessidra? In altri termini, è in grado il Brasile di portare il grosso della sua popolazione a un livello di vita accettabile? Di certo il paese sta mettendo in atto la trasformazione delle sue vaste aree di Terzo Mondo in maniere sconosciute agli altri Stati latinoamericani. Grazie a programmi come Bolsa Família, Fome Zero e Luz para Todos il Brasile investe nella riduzione della povertà più di tutto il resto del continente, assicurando cibo, trasferimenti di denaro, crediti per l'istruzione e generatori di corrente a oltre quaranta milioni di persone. A Rio si è persino formato un turismo delle favelas che produce reddito grazie al contatto diretto con una cultura e una struttura sociale alternative. Il governo Lula ha organizzato una flotta di battelli fluviali che risalgono il Rio delle Amazzoni e i suoi affluenti per svolgere la funzione di uffici mobili di assistenza medica e sociale alle popolazioni indigene e raggiungono gli angoli più remoti dell'Amazzonia. In quanto nazione praticamente sinonimo della parola 'ambiente', l'innovativa strategia energetica del Brasile integra la sua strategia per lo sviluppo – ed entrambe stanno funzionando. Gli investimenti nella più avanzata tecnologia estrattiva permettono a Petrobras di avvicinarsi ai livelli di produzione di greggio del peso massimo del continente, il Venezuela. Malgrado l'autosufficienza energetica, il Brasile sta inoltre sviluppando la tecnologia necessaria all'arricchimento dell'uranio per la costruzione di centrali nucleari. Ma quello che più colpisce è l'uso di carburanti alternativi quali l'etanolo, del quale il Brasile è il maggior produttore ed esportatore al mondo grazie alla riconversione dello zucchero di canna delle grandi piantagioni. Le automobili a doppio combustibile che utilizzano etanolo si stanno diffondendo ovunque – anche se la produzione di etanolo resta monopolio di poche famiglie e di alcuni grandi conglomerati, mentre i contadini poveri tagliano ancora la canna da zucchero con il machete. Città come Curitiba e Porto Alegre sono diventate modelli per il mondo intero – il Primo, il Secondo e il Terzo – nella gestione ambientale, grazie a efficienti progetti di movimentazione urbana e di riciclo che fanno scattare paragoni con esempi di pianificazione quali la Norvegia. Tale spinta all'innovazione è indispensabile per preservare il più vasto ecosistema terrestre, collocato quasi interamente in una sola nazione, ossia la foresta amazzonica. Se il mondo è un organismo, l'Amazzonia è i suoi polmoni, e con la deforestazione che ha privato l'Amazzonia di quasi il 20 per cento della sua estensione la Terra sta riducendo la propria capacità respiratoria. La sensibilità collettiva, i progetti di certificazione e l'istituzione di larghe aree protette sono attualmente i fattori che rallentano un disboscamento aggressivo che ha fatto sparire più di quindicimila chilometri quadri di foresta nel solo 2004, un grado di distruzione che fa del Brasile il maggior produttore di biossido di carbonio del mondo in via di sviluppo, dopo Cina e India. Le operazioni di soccorso messe in campo durante la siccità amazzonica del 2005 sono state le più grandi mai intraprese dall'esercito brasiliano e dalle forze della protezione civile, sottolineando come sia la sicurezza ecologica e sociale – di certo non quella militare – il punto debole del continente18-10. Gli esperimenti condotti dal Brasile in tutti questi ambiti sono quelli che più di tutti rivelano l'importanza di questo punto, e al tempo stesso sono anche i più ricchi di conseguenze perché se vince il Brasile è tutta l'America meridionale a vincere.
19. I gemelli diversi: Argentina e Cile La storia dell'Argentina è un severo ammonimento che lo status di appartenenza al Primo o al Secondo Mondo non è una condizione permanente. All'Argentina i rischi della geopolitica sono stati
risparmiati: in compenso le forze della globalizzazione l'hanno resa più che mai fragile. Oggi soltanto la buona volontà dell'intero continente è in grado di salvare questa nazione che, un tempo, era la nazione leader dell'America Latina. Nel 1776 Buenos Aires fu elevata dai Borbone di Spagna al rango di capitale del vicereame che comprendeva tutta la regione centrale del Cono Sud, dal Cile al Brasile. Dopo la decimazione delle popolazioni native e la fondazione di estancias coloniali popolate da immigrati spagnoli e italiani l'Argentina conobbe parecchi decenni di prosperità grazie al governo liberale e progressista di Juan Bautista Alberdi, alla metà dell'Ottocento. In virtù del clima e dell'abbondanza di risorse naturali, i geografi e gli intellettuali argentini immaginavano allora il proprio paese come il rivale degli Stati Uniti nell'emisfero ovest: in una famosa mappa disegnata dall'artista uruguaiano Joachim Torres-Garcia si potevano vedere l'America settentrionale e meridionale in posizione inversa, con quest'ultima a occupare la metà superiore del globo. Negli anni Venti del Novecento l'Argentina era la settima nazione più ricca al mondo, grazie alla florida produzione di carne bovina e grano che determinava salari reali più alti di quelli percepiti dai lavoratori svizzeri e tedeschi. Non toccata dalla seconda guerra mondiale, la nazione divenne poi una meta privilegiata del capitale e dei talenti degli emigranti europei, che la spinsero nell'empireo del Primo Mondo. All'epoca Buenos Aires ricordava da vicino Parigi, con il suo peculiare spagnolo parlato nelle diverse cadenze della lingua italiana. La bellezza e l'allure eccezionali dell'Argentina hanno purtroppo sempre avuto il contraltare di un'alterigia sconfinante nel masochismo. V.S. Naipaul vedeva in questa nazione «una società artificiale collocata al di sopra di una terra piatta e desolata», succeduta alle scimmiottature coloniali ma di per sé sterile. Il mito dell'aristocrazia coloniale, andato in frantumi, era stato rimpiazzato soltanto dalla mediocrità19-1. L'imperiosa leadership di Juan Domingo Perón, che governò l'Argentina in tre occasioni diverse, migliorò le condizioni della classe lavoratrice ma aprì quella frattura nella società che, negli anni Settanta, provocò la «sporca guerra» scatenata dalla giunta militare contro la sinistra. Si stima che almeno quindicimila desaparecidos (cittadini sequestrati ed eliminati senza processo dai militari) siano periti in quello che fu «un atroce regresso verso la barbarie»19-2. L'intrepida ma sconsiderata invasione delle isole Falkland da parte della junta, nel 1982, si concluse non con un'impresa di "decolonizzazione preventiva", bensì con una celere sconfitta nello scontro con le forze armate inglesi. Da allora la spavalderia machista dei programmi politici ed economici predominanti ha avuto come unici rivali gli scandali di corruzione che li hanno inghiottiti. L'ossessione del non apparire mediocri resta palpabile in questo paese che vanta la più alta percentuale di psicologi al mondo. L'immagine, in Argentina, è tutto. Il punto è che la globalizzazione ha forgiato nuovi metri di giudizio per valutare il livello occupato da un paese nella gerarchia internazionale, e da questo punto di vista l'Argentina si è rivelata non un esportatore di capitali con standard da Primo Mondo, bensì un mercato emergente esposto a quello stesso ciclo vizioso che ha afflitto tanti paesi del Secondo Mondo negli anni Novanta: liberalizzazione dei vincoli all'impresa, boom degli investimenti, crescita rampante, moltiplicazione dei punti di vulnerabilità, assenza di pacchetti di salvataggio e, infine, sfascio politico ed economico. L'Argentina degli anni Novanta era uno scolaretto modello per i dogmi del Washington Consensus, mentre in realtà non era in grado di continuare ad attirare all'infinito massicce ondate di investimento estero né tantomeno di sostenere le spese a ruota libera che lo accompagnavano. Fu un caso di recessione, di esplosione di una bolla speculativa e di esplosione del debito in simultanea. Per ballare il tango bisogna essere in due: e dopo numerosi tentativi di salvataggio da parte dell'FMI, mirati a risollevare l'economia e a prevenire la bancarotta e il contagio, nel 2001 la comunità finanziaria internazionale smise di ballare con l'Argentina. Per pagare i debiti il governo bloccò miliardi di dollari di fondi pensione e impose la legge marziale per impedire disordini di massa. Nel corso di diverse settimane la presidenza cambiò più volte di mano, spegnendo sempre più la fiducia dell'opinione pubblica. Il reddito pro capite precipitò dagli 8500 dollari della fine degli anni Novanta (il doppio del Messico, all'epoca) ai 2800 del 2002. Più della metà della popolazione scivolò sotto la soglia di povertà 19-3. Un'intera classe di residenti di quella capitale che era stata paragonata a Parigi si trasformò nella massa dei cosiddetti cartoneros, cittadini poveri, spesso senza fissa dimora, che rovistano nella spazzatura in cerca di cibo e di oggetti da rivendere. Da allora i premier argentini accusano il Tesoro USA, l'FMI e Wall Street di non avere dato credito ai loro sinceri sforzi per invertire il corso della crisi. Il tracollo dell'Argentina, malgrado i tassi di
corruzione inferiori a quelli di altri paesi che hanno sperimentato crisi simili negli anni Novanta come la Russia e l'Indonesia, è stato devastante – anche per il suo amor proprio. Attualmente l'intera economia del paese non è superiore a quella della sola città di San Paolo, mentre la dipendenza dall'investimento estero la tiene costantemente in bilico. La tensione tra la necessità di garantire l'accessibilità dei prezzi dei beni di base e quella di soddisfare gli obblighi monetari internazionali pervade a tal punto la politica argentina che il leader peronista Néstor Kirchner, nel timore che la prospettiva di un rialzo del costo dei servizi pubblici scatenasse nuovi disordini di piazza, in vista delle elezioni del 2005 ha riscadenzato il programma di pagamento dei debiti all'FMI – consegnando poi la leadership alla moglie nel 2007. L'ex ministro dell'Economia Ricardo López Murphy sostiene che l'Argentina ha una capacità di garantire servizi pari a quella dei paesi africani, e che soffre senza mezzi termini di parecchi dei mali normalmente associati alle nazioni assai più povere del Terzo Mondo, soprattutto una raccolta tributaria spaventosamente bassa e una struttura federale eccessivamente decentralizzata, con il governo impotente davanti alle province che spendono senza remore. L'azienda incaricata della distribuzione dell'acqua e della gestione del sistema fognario non è mai stata in grado di fornire servizi adeguati mentre le tariffe non hanno mai smesso di alzarsi a causa della svalutazione della moneta (la cosa, peraltro, riguarda solo quella metà di abitazioni di Buenos Aires collegate alla rete fognaria). «Nemmeno i ricchi trovano più decente questo paese», confessa un intellettuale di Buenos Aires in un caffè all'aperto in un quartiere alternativo della città, «e adesso si qualificano più come italiani o francesi, sottolineando le proprie origini europee, che come argentini». Anche dal punto di vista geopolitico l'Argentina è diventata una specie di caso pietoso, appena in grado di reggersi in piedi da sola – non parliamo nemmeno della possibilità di recuperare lo status di leadership di un tempo. Dopo il meltdown finanziario sono ben pochi gli investitori che hanno voglia di prendersi dei rischi qui, il che rende il paese sempre più dipendente dal proprio export agricolo verso la Cina, che attualmente contribuisce in maggior peso alla sua crescita. In assenza di un servizio di credito regionale analogo a quello del Sudest asiatico l'Argentina detiene una quota considerevole del debito totale dell'FMI e si trova incastrata da clausole capestro con pochissimo spazio di manovra o di rinegoziazione dei termini. Con la prospettiva di una forte riduzione delle proprie riserve di gas naturale nel prossimo decennio, l'Argentina è disperatamente affamata di gas boliviano, e in spasmodica attesa dell'arrivo dell'ambizioso oleodotto transamazzonico progettato da Hugo Chávez. – nonché della sua proposta di rilevarne il debito nazionale. Il Brasile e l'Argentina sono geograficamente alla medesima distanza dagli Stati Uniti e dall'Europa, e per questo non c'è nulla di scontato nella loro lealtà a Washington. Divisi da una profonda rivalità durante gran parte dei due secoli passati, hanno separatamente sviluppato programmi di armamento nucleare nel corso degli anni Novanta, ma insieme hanno edificato il blocco commerciale del Mercosur, risposta del Cono Sud al dominio economico a stelle e strisce. Paradossalmente, i principali paesi che si affacciano sull'Oceano Pacifico – Colombia, Perù e Cile – hanno accordi di libero scambio con gli Stati Uniti, mentre i due grandi paesi affacciati sull'Atlantico – Brasile e Argentina, appunto – sono i più renitenti alle attuali politiche di alte tariffe e massicci sussidi interni praticate da Washington, e al tempo stesso sono quelli che più avrebbero da guadagnare da un incremento degli scambi con una Cina affamata di risorse, all'altro capo del Pacifico19-4. Brasile e Argentina coproducono il grosso della loro esportazione di automobili, e cooperano nel monitoraggio dell'Amazzonia e della Regione dei tre confini, dove gruppi armati che vanno dalle FARC a Hezbollah sono stati coinvolti nel traffico di droga e di armi e nel riciclaggio di denaro sporco19-5. Non lo ammetteranno mai, ma la nazione che gli argentini vorrebbero emulare più di tutte le altre è il Cile. Con i suoi quasi cinquemila chilometri di costa lungo il Pacifico la lunghezza del Cile è pari alla larghezza degli Stati Uniti. Il Cile è una scheggia di catena andina inconcepibilmente stretta, «uno stiletto affondato nel cuore dell'Antartide», come lo definì Henry Kissinger. Sempre al riparo dagli eccessi schiavistici del colonialismo grazie al suo scudo montuoso, il Cile possiede prima di tutto una chiara identità topografica. Le prove del fatto che questo paese possiede l'economia più vivace della regione si trovano ovunque, dall'autostrada a quattro corsie che collega l'area andina settentrionale ai bassipiani del Sud ai floridi vigneti che circondano il grande porto di Valparaiso, dai centri di ricerca per l'innovazione ingegneristica ai grattacieli di vetro della capitale, Santiago, il secondo hub di business
dell'America meridionale dopo San Paolo. Il Cile conta gli stessi accessi a internet del Messico con solo un sesto della sua popolazione. La sua politica internazionale lo fa assomigliare sempre più a una specie di Gran Bretagna dell'America Latina: mantiene le distanze dalle caotiche vicende del continente preferendo dedicarsi a cercare alleanze pragmatiche a trecentosessanta gradi, su scala globale. Il Cile è l'unico paese dell'America meridionale ad avere la ragionevole possibilità di entrare a far parte del Primo Mondo entro il prossimo decennio19-6. È fonte di notevole dibattito il modo in cui questa nazione sia riuscita a diventare un modello per tutta la regione. Nel gioco della guerra fredda l'amministrazione Nixon mise in atto schemi d'ingerenza che andavano dall'organizzazione di scioperi all'adozione di sanzioni contro il premier socialista Salvador Allende, la cui elezione fu attribuita da Kissinger alla «irresponsabilità» del popolo. Benché Allende non costituisse per gli USA alcuna minaccia al di là di quelli che la CIA aveva valutato come «costi psicologici», il violento golpe de Estado spalleggiato da Washington che portò al potere il generale Augusto Pinochet nel 1973 si risolse in un'era di repressione che produsse migliaia di desaparecidos. A trent'anni di distanza, Pinochet è spesso portato ad esempio quale icona della possibilità che un governo autoritario determini il radicarsi della crescita e della stabilità, aprendo la strada alla transizione verso un'economia di mercato e una democrazia precedentemente assenti nel paese – al contrario del Venezuela, dove decenni di democrazia hanno avuto il risultato della consegna della nazione all'autocrate semisocialista Hugo Chávez. In realtà si tratta di una leggenda nutrita di molti assunti falsi e di salti logici, e prima si farà chiarezza su questo, più semplice sarà per la politica degli Stati Uniti verso l'America Latina riuscire a connettere le questioni economiche, sociali e quelle relative alla sicurezza. Il paese era relativamente sviluppato, quantomeno in base agli standard sudamericani, anche prima di Allende – in primo luogo, anche grazie all'etica del lavoro delle migliaia di agricoltori e di operai tedeschi che sbarcarono in Cile nel XIX secolo –, cosicché non ha senso accreditare a Pinochet la sua modernizzazione. In secondo luogo il periodo del governo Allende fu caratterizzato da una notevole crescita economica, a dispetto del suo programma di nazionalizzazioni; fu piuttosto il precipitare del prezzo del rame a giocare il ruolo decisivo nella tragedia. Quello che Pinochet fece fu invece depredare il sistema pensionistico e schiacciare gli ammortizzatori sociali per riportare il paese all'attivo di bilancio, come un amministratore delegato che lascia a piedi migliaia di impiegati mentre si garantisce un paracadute d'oro. Soprattutto, nell'epoca post-Pinochet (che ha avuto inizio con la sua sconfitta nel plebiscito del 1990) il Cile ha raggiunto una consistente crescita del 5 per cento sotto una serie di coalizioni di centrosinistra, con l'ex presidente Ricardo Lagos (attualmente l'uomo di Stato più anziano dell'America meridionale) a condurre il paese a una condizione di crescita sostenuta e di calo della disoccupazione sulla base di una moderata piattaforma socialista. L'ultima cosa di cui il Secondo Mondo ha bisogno, insomma, è di dittatori come Pinochet. I «Chicago boys» della scuola di Milton Friedman che aiutarono il generale Pinochet nella deregulation dell'economia, nei primi anni Ottanta, sono soltanto una faccia della medaglia del modello cileno. Affrancandosi dal Washington Consensus – basato sul principio errato per cui la crescita economica riduce di per sé la povertà anziché esacerbare le diseguaglianze –, i recenti governi del Cile hanno mirato agli obiettivi dell'istruzione e della tecnologia 19-7. Dal 1990 i salari sono raddoppiati e la povertà è scesa sotto la soglia del 15 per cento. È il Cile – e non Chávez – il miglior esempio di come sia possibile diminuire la povertà, anche in presenza di una geografia sconcertante come poche altre. Il Cile da solo è troppo piccolo per risollevare l'intero continente dalla sua situazione di miseria, ma può essergli utile come porta d'accesso ai mercati mondiali. È l'unico paese latinoamericano che abbia firmato accordi di libero scambio con Stati Uniti, UE e Cina; quest'ultima, in particolare, con i suoi oltre 6 miliardi di dollari di scambi nel 2004 è una miniera di occupazione per il Cile, che può beneficiare di un notevole surplus commerciale grazie al boom delle sue esportazioni di rame. Anche il Giappone e la Corea hanno sottoscritto accordi di liberalizzazione degli scambi con il Cile, con il risultato di un'impennata dell'export agricolo di quest'ultimo verso l'altra sponda del Pacifico. Se poi guardiamo ai suoi record in materia di apertura del mercato e di basso livello di corruzione, allora è chiaro come l'integrazione economica del Cile con il resto dell'America meridionale possa costituire un fattore di primo piano nella diffusione di pratiche affidabili di business. Senza contare che il suo sistema pensionistico flessibile, che
combina intervento pubblico e gestione privata, è un modello raccomandabile per le nazioni andine con difficoltà di bilancio. Il Cile ha dovuto subire numerosi contraccolpi nel mercato globale, ma fino a ora li ha gestiti con sicurezza. Il Cile e la Bolivia non si trovano più a lottare per rivendicazioni territoriali come ai tempi della «guerra del Pacifico», che tagliò fuori la Bolivia da ogni sbocco al mare. Oggi il Cile garantisce alla Bolivia l'accesso all'oceano in cambio di forniture di gas e petrolio che coprono quasi per intero il suo fabbisogno (resta però un notevole motivo di risentimento fra Cile e Perù relativo a chi dei due abbia inventato il cocktail noto come Pisco Sour); costruisce dighe per la produzione di energia elettrica lungo i fiumi delle sue province del Sud, ma in cambio tutela attentamente le aree ecologiche protette e i pascoli per l'allevamento19-8. I minatori cileni sono scesi in sciopero, nel 2006, contro l'impresa internazionale che gestisce la miniera di Escondida nel deserto di Atacama (da cui si ricava l'8 per cento circa del rame mondiale), bloccandola completamente, per protestare contro l'aumento dei turni di lavoro che avrebbe dovuto incrementare l'estrazione in un momento di rialzo del prezzo di questo minerale, senza alcuna contropartita in termini di salario. La strategia adottata dal governo ha mostrato alle compagnie minerarie che, se si rifiutano di contribuire alla crescita locale, l'unica cosa a restare escondida sono i loro profitti. Lo stile della governance cilena rappresenta il meglio che l'America Latina possa offrire. Come in Est Europa, i paesi che hanno saputo fare con più fermezza i conti con il loro passato di autoritarismo e di sangue sono anche quelli più avanzati nella marcia verso la stabilità e la prosperità 19-9. Il generale Pinochet è stato privato dell'immunità parlamentare; l'attuale presidente del paese, Michelle Bachelet – ex rivoluzionaria, vittima delle torture, madre single divorziata, pediatra, ex ministro della Difesa –, è una figura che sembra fatta apposta per infrangere in un colpo i tabù nazionali. La stabilità della politica del Cile dopo Pinochet ha significato che non importa più chi governa, perché il pragmatismo è all'ordine del giorno per la destra come per la sinistra. La lezione per il resto della regione, come per l'America, è che risorse naturali e governi di sinistra non sono in sé causa di decadenza istituzionale, soprattutto se confrontati con la corruzione e la scaltrezza che regnano dappertutto. Il Cile dovrebbe diventare il maestro più stimato del continente, se non altro per la ragione che, in America Latina, l'invidia è la più grande fonte di motivazione.
Conclusione Oltre Monroe Continuando a ragionare come se ancora fosse in atto la guerra fredda, in America Latina gli Stati Uniti hanno essenzialmente giocato sulla difensiva per oltre un decennio, limitandosi a cercare di evitare di perdere terreno. In realtà gli elementi della dottrina Monroe – il diritto di Washington di impedire a potenze straniere di esercitare influenza nel continente, di intervenire in piena libertà per proteggere i propri interessi e di manipolare gli affari economici di ciascun paese dell'America meridionale – sono come candele prossime a spegnersi. In questo inizio di XXI secolo sono tre i modelli di relazione con gli Stati Uniti emersi nelle Americhe: quello del Venezuela, ossia il bellicoso rigetto della regional dominance americana e la visione alternativa di un Cono Sud che si regge sulle proprie gambe grazie al socialismo; quello della Colombia, amichevole, concepito su una condivisione di interessi in materia di economia e sicurezza; quello del Brasile, una cooperazione pragmatica e selettiva con gli Stati Uniti bilanciata da un netto decisionismo diplomatico. Quel che è certo, mentre la regione latinoamerica sta cercando di costruirsi una nuova identità, è che l'influenza degli USA non potrà perpetuarsi per sola forza d'inerzia. Sullo sfondo restano le magnifiche potenzialità di una pan-regione che potrebbe unire tutto l'emisfero ovest nel nome di una condivisa autosufficienza commerciale ed energetica: ma senza dubbio tali potenzialità non si potranno concretizzare finché l'orgoglio che permea le politiche dei paesi dell'America meridionale non sarà saziato dal reciproco riconoscimento con gli Stati Uniti sulla base di un nuovo equilibrio. Per trasformare la regione in un partner produttivo dell'integrazione emisferica c'è bisogno di una nuova Alliance for Progress, una nuova dottrina americana che questa volta però non
dovrebbe prendere il nome dal presidente degli Stati Uniti – poiché in tal caso i leader sudamericani potrebbero davvero tenere fede alla promessa di guardare in altre direzioni per i loro interessi. Se anche il ruolo degli USA come forza organizzatrice dell'emisfero occidentale potrà sopravvivere di fatto per un altro secolo e più, è assai meno certo come le superpotenze sapranno interagire nella regione in cui più di ogni altra si incrociano i loro interessi: il cosiddetto Medio Oriente.
Parte IV Alla ricerca del Medio Oriente
20. La zona rompicapo Il vecchio slang britannico è tutto meno che adatto a denominare la vastità e la poliedricità della civiltà araba, che dal punto di vista geografico – con l'intermezzo di Stati non arabi come Israele e l'Iran – si estende dall'Oceano Atlantico alla Mesopotamia, passando per l'Africa settentrionale e la Penisola Arabica. I confini di questa civiltà sono a nord le catene dei monti Zagros, del Tauro e del Caucaso in Anatolia, e poi il Mar Caspio; a sud l'Oceano Indiano; a est il fiume Indo, al di là del quale comincia l'Asia meridionale. Malgrado ciò, il vocabolario navale inglese, mutuato dagli orientamenti geografici dei greci, determina ancora oggi il discorso dell'Occidente relativo a quella parte del globo. Il "Vicino Oriente" era dove le navi facevano un primo rifornimento, ossia a Cipro; il "Medio Oriente" significava il porto di Aden, nello Yemen; l'Estremo Oriente" comprendeva l'Oceano Indiano e tutto quanto si trovava oltre esso. L'unico elemento che non è mutato nel concetto di "Medio Oriente" è che esso denota una regione centrale nel quadro del mondo. E il fatto che non esista a tutt'oggi un termine migliore per indicarla sottolinea quanto controversa e complicata essa resti per tutti coloro che vi sono compresi e per quanti vi confinano20-1. Mentre sopravvive la confusione lessicale dell'Occidente, gli arabi stanno fondamentalmente ridefinendo la propria regione in modi del tutto nuovi da un millennio a questa parte. Dal VII al XIII secolo Damasco, governata dalla dinastia omayyade, e Baghdad, governata dal califfato abbaside, dominavano i territori compresi fra gli oceani Atlantico e Indiano. Finita quell'epoca, e per lunghi secoli, gli arabi sono stati divisi e dominati da turchi, persiani ed europei. Durante la guerra fredda Saul Cohen, grande esperto di geografia politica, definì quest'area come «una zona rompicapo […] incapace di conseguire qualche unità d'azione, che sia politica o economica»: le ragioni stavano nelle «marcate differenze interne» e nel fatto che la regione era «schiacciata fra gli interessi stranieri»20-2. Oggi, per la prima volta da mille anni, il mondo arabo ha una chance per ristabilire il suo "naturale" ordine nel
mondo. È la globalizzazione a offrire a questa zona rompicapo la possibilità di recuperare la sua coesione organica. Il mondo che si estende dal Sahara all'Arabia è in buona parte un deserto sterile suddiviso in tanti spazi dai confini seghettati; se cerchiamo una metafora appropriata possiamo paragonarlo a un immenso mare le cui onde si infrangono l'una sull'altra, con arabi e beduini a far la parte di imbarcazioni che salpano in ogni direzione. «Lingua e religione stanno risvegliando i legami profondi che ci legano gli uni agli altri», dice sull'onda dell'entusiasmo un giornalista di Dubai, la capitale non ufficiale del mondo arabo. Esse simboleggiano le due sole forze che siano davvero riuscite a impadronirsi dei cuori e delle menti degli arabi. L'arabismo e l'islamismo: ossia le due facce dell'attuale globalizzazione della regione. Da sempre alle prese con il problema di un'autodefinizione che deve fare i conti con le linee irrealmente diritte delle frontiere coloniali, pochi Stati arabi pretendono una lealtà su base nazionale; i loro abitanti sono più simili a residenti che a cittadini. Fra queste «tribù con la bandiera» la forma politica resta abbastanza flessibile, il che rende assai facile per gli arabi concepirsi come un blocco unitario di trecento milioni di persone20-3. «Ogni nostra trasmissione», spiega enfaticamente un corrispondente di Al-Jazeera, «fa vedere agli arabi il mondo attraverso i loro occhi anziché attraverso gli occhi della CNN. Ora che abbiamo la tecnologia, abbiamo anche il potere di farlo». È un sentimento rinfocolato dalla guerra americana in Iraq, incaricata del compito che un tempo era spettato agli inglesi: riprodurre un senso di déjà vu imperialista che ha l'effetto di saldare l'unità fra gli arabi. La regione araba è senza dubbio una regione del Secondo Mondo: mentre ospita regimi odiosi e diffuso malessere sociale ed economico, al tempo stesso – a differenza dell'Africa e dell'Asia meridionale – è dotata di tutte le risorse naturali, del denaro, della forza lavoro e del talento per conseguire un imponente sviluppo. Dopo secoli di stasi, pare finalmente avere preso la via giusta. La nuova manna petrolifera che ha fatto seguito all'11 Settembre è stata in buona parte investita dentro il mondo arabo, con gli Stati più ricchi di greggio a trasferire capitali nelle economie dei loro cugini più poveri e questi ultimi a ricambiare con grandi flussi di forza lavoro. Molti fra i 150 milioni di giovani arabi si muovono fra uno Stato e l'altro come investitori, lavoratori edili, autisti e intrattenitori. Gli arabi non sono destinati a restare ai margini della globalizzazione. Al contrario, sono fra coloro che le conferiscono una forma. Per l'Occidente il mondo arabo, misurato sui criteri dell'accesso a internet, del lavoro all'estero e della traduzione di libri, è considerato arretrato 20-4. Come nota con sarcasmo lo studioso Edward Luttwak, nella regione «le industrie più attive sono i consumi esorbitanti e le manifestazioni di risentimento»20-5. In realtà dietro queste apparenze si cela una realtà assai più importante: e cioè il ruolo detenuto dal mondo arabo, dai tempi della Via della seta a quelli delle crociate fino alla seconda guerra mondiale, di passaggio geografico che collega l'Europa, l'Africa e l'Asia. Il grosso dei giacimenti di petrolio e di gas naturale si trova nei paesi arabi, il che basta a renderli ineludibilmente centrali nel disegno dell'economia globale20-6. L'arcipelago degli snodi commerciali arabi – Il Cairo, Riyad, Beirut, Amman, Dubai – è una cartina di tornasole fra le più evidenti dell'impatto della globalizzazione sulla vita quotidiana, nel bene come nel male. Mentre la cultura occidentale è individualistica, per gli arabi internet rappresenta un'attività a forte coloritura sociale. Dal Marocco a Masqat gli internet cafè sono zeppi di gente ventiquattr'ore al giorno, anzi soprattutto di notte quando rinfresca. Ragazzi e ragazze inviano instant messages da città a città o da una parte all'altra del mondo, chattano di politica e di moda, o usano link video per sedurre gli internauti occidentali e convincerli a sposarli e ad aiutarli a emigrare. «Nessuno di noi possiede un computer a casa, e così ci troviamo qui, assieme ai nostri amici e ad altri giovani in qualsiasi altra parte del mondo allo stesso tempo», dice sorridendo un teenager di Fes mentre arrossisce confessando la quantità di tempo che spende in un internet point. Crediamo davvero che l'islamismo sia in grado di assorbire questo nuovo arabismo globale? «Tutti i membri della Lega araba», sottolinea un attivista islamico del Cairo che cita il Vaticano come modello di influenza della religione sulla diplomazia, «sono anche membri della grande Organizzazione della conferenza islamica, giusto?». Il fatto che l'arabismo sia stato ingabbiato in confini coloniali del tutto arbitrari non è una ragione di secondo piano allorché ci si chiede perché l'islam riesca a fornire a queste
popolazioni un'identità alternativa percepita come naturale20-7. L'ideologia tende a espandersi al meglio quando è affrancata da un contesto culturale specifico, il che spiega bene perché l'islam e il cristianesimo siano diventati le religioni più diffuse al mondo20-8. L'annuncio dell'islam ha convertito le furiose orde dei mongoli; nel XVIII quattro imperi musulmani – gli sceriffi in Marocco, gli ottomani in Anatolia, i safavidi in Persia, i moghul in India – dominavano gran parte dell'Africa settentrionale e dell'Eurasia. Oggi l'islamismo cerca di nuovo di comprendere in sé il panorama etnico arabo entro una cintura musulmana unitaria20-9. La prospettiva è quella di una umma islamiyya che si estende senza interruzioni ben al di là di quelli che erano i confini del califfato, un millennio fa: alle popolazioni musulmane dell'Europa, della Turchia e dell'Asia centrale, fino alle remote comunità dell'arcipelago indonesiano, nel Sudest asiatico. L'«impero del radicalismo islamico, dalla Spagna all'Indonesia», descritto con accenti di terrore da George W. Bush conserva connotazioni positive presso parecchi musulmani, perché l'età d'oro dell'islam fu un periodo di espansione commerciale, territoriale e intellettuale. Un mondo diviso fra un Dar al-Islam (la 'casa dell'islam') e un Dar al-Harb (la 'casa della guerra') è una grande occasione per restaurare l'onore musulmano nello scontro con la war on terror americana. Se è vero che l'Occidente osserva con una certa commiserazione le condizioni materiali in cui vive gran parte della popolazione musulmana, allo stesso modo dà segno di temere l'ardore dei vendicatori dell'orgoglio ferito dell'islam. Questi ultimi ormai sono considerati alla stregua di una nuova avanguardia bolscevica capace di rovesciare i regimi apostati mentre i network jihadisti, dai loro porti franchi come quelli di Al Qaeda nel Maghreb e in Mesopotamia, cacciano le forze armate straniere e arrivano ormai a sfidare le grandi potenze a nord della cintura islamica 20-10. Come accadde per i mujaheddin che combattevano i sovietici in Afghanistan, la insurgency antiamericana in Iraq riesce ad attirare musulmani da ogni parte del mondo. «La violenza islamista», sostiene il mio interlocutore al Cairo, «è al tempo stesso autodifesa e rivincita». Mentre le accuse degli americani all'indirizzo di tutti i presunti jihadisti non fanno che aumentare il numero di oppositori per i quali il jihad è una nobile lotta condotta sotto la volontà di Dio, il Dar al-Islam si sente più a suo agio nel dialogo con i popoli dell'Estremo Oriente, considerati più «giusti, equilibrati e clementi di quelli occidentali»20-11. «L'islam non è una forza geopolitica», taglia corto un esponente sciita di Teheran, «è solo una minaccia. I suoi nemici interni sono più potenti di quelli esterni». Al di là delle dichiarazioni infuocate, un coerente islamismo globale è lontano dal materializzarsi. Senza dubbio c'è stato un risveglio musulmano, come testimoniano l'affluenza alle moschee e la proliferazione dei media, dei partiti politici e delle istituzioni finanziarie che si richiamano all'islam; però è una coscienza che sembra carente di coesione. Quarant'anni fa Henry Kissinger rifletteva sulla difficoltà di maneggiare l'idea del panarabismo e lo stesso problema si applica letteralmente, oggi, all'idea di "mondo islamico". In realtà, parlare di "musulmani" ha lo stesso senso che parlare di "cristiani". La retorica dell'unità islamica è tanto prematura quanto controproducente, poiché non fa che dare risalto a quelle politiche identitarie che i leader occidentali cercano di fuggire20-12. L'islam di oggi conosce una coesione amministrativa persino inferiore a quella del vecchio impero ottomano, senza alcun accordo fra gli Stati chiave che guidano la umma e quindi senza alcuna impegno in stile sovietico a costruire un'alleanza che aggiunga carne viva allo scheletro ideologico islamico. I gruppi islamisti sono largamente divisi lungo linee di frattura ideologiche e settarie, con sunniti e sciiti che si scannano gli uni con gli altri più di quanto non facciano con i non musulmani. Allo stesso modo, i partiti islamisti hanno un raggio d'influenza limitato ai singoli Stati, poiché se incanalano il sentimento antioccidentale, sono ugualmente ben consapevoli che in nessun'altra parte del mondo i musulmani sono costretti alla soggezione politica come nei loro paesi. L'islam garantisce a tutti i fedeli eguaglianza nella fede, ma all'islam è garantita assai poca libertà nei territori d'origine. Gli arabi musulmani, come del resto la schiacciante maggioranza delle persone, alla fine dei conti attribuiscono maggiore importanza ai fini economici che a quelli spirituali. Questo rende assai più probabile che l'arabismo torni a essere un movimento politico-culturale di portata regionale piuttosto che l'islam riesca a solidificarsi come superpotenza. Inoltre il peso delle vere superpotenze, Stati Uniti, UE e Cina, sta plasmando le subregioni del Maghreb (l'Africa settentrionale), del Mashreq (l'Asia sudoccidentale) e del Khalij (il Golfo Persico), lanciando all'arabismo e all'islamismo la sfida della supremazia, da Tangeri a Teheran.
21. Maghreb, la sponda sud dell'Europa «Chiamateci nordafricani», mi suggerisce la guida che mi accompagna a passeggio per il saliscendi dei vicoli della città vecchia di Tangeri. «Rispetto agli arabi dell'Est siamo tutta un'altra cosa». Se c'è una parte del mondo arabo che ragiona in senso verticale anziché orizzontale, ebbene questa è il Maghreb. Come scrisse il grande storico Fernand Braudel, le civiltà del Mediterraneo, nonostante i perpetui, drammatici mutamenti che hanno subito, sono sempre state congiunte «dai movimenti di uomini, dalle relazioni che ne conseguono e dalle strade che percorrono», dividendo con ciò un destino comune 21-1. Fino alle Guerre puniche la potenza fenicia di Cartagine (nell'attuale Tunisia) controllava la costa dell'Africa settentrionale, la fascia meridionale della penisola iberica, la Corsica, la Sardegna e parte della Sicilia – isole, queste ultime, che per secoli avrebbero giocato il doppio ruolo di fortezze e di ponti naturali per le reciproche invasioni dalle due sponde del mare21-2. I successivi domini romano e poi bizantino dell'Africa settentrionale furono alla fine sostituiti da quello degli invasori arabi provenienti da est, alla fine del VII secolo. Un millennio dopo, fra XIX e XX secolo, toccò a Spagna, Francia e Italia tornare in Africa settentrionale per istituirvi popolose colonie e legare saldamente questa regione alle sorti dell'Europa. Quando i polite makers occidentali di oggi parlano di «Medio Oriente esteso» fanno inconsapevolmente uso del concetto di Braudel di «Mediterraneo esteso», che comprende terre di miseria e di scarse risorse, di nomadi e carovane, e naturalmente di islam. Così, quando ha espresso la sua intenzione di dare vita a una «grande unione mediterranea», il presidente francese Nicolas Sarkozy ha richiamato Albert Camus, che da francese cresciuto in Algeria aveva presagito l'inevitabilità dell'affermarsi di una federazione euro-araba – anche perché il vero confine della civiltà mediterranea è sempre stato più a sud, in corrispondenza del deserto del Sahara21-3. Mai nella sua storia il Maghreb è stato così intimamente integrato nell'«Eurosfera»21-4. Ogni anno l'Africa settentrionale e l'Europa meridionale sono sempre più fisicamente congiunti da nuovi gasdotti che consentono agli europei di creare alternative alla dipendenza energetica dalla Russia, e ai paesi del Maghreb di rinforzare i propri bilanci. L'Europa è anche di gran lunga il maggior donatore di aiuti e il maggior importatore di cibo in Africa, nonché il principale acquirente delle merci che attraversano il Maghreb e il Mediterraneo in direzione nord. L'emigrazione maghrebina sta mutando il profilo demografico dell'Unione con un impeto che trova un possibile paragone soltanto nella fusione di etnie che si sta verificando nell'emisfero occidentale, al punto che molti osservatori già parlano di «Eurabia». Se l'America Latina è il giardino di casa degli Stati Uniti, allora non c'è dubbio che l'Africa sia quello dell'Europa. Il problema è se considerare il Maghreb un esempio di violenta nemesi antimperiale oppure un'opportunità per l'impero europeo. Per i maghrebini è l'Europa la land of opportunity. Assediati da un senso di relativa privazione, migliaia di marocchini si lasciano andare alla deriva verso Gibilterra a bordo di imbarcazioni di fortuna che spesso affondano alcuni giorni prima di toccare terra. E a Bruxelles il Marocco è già arrivato, soprattutto con gli immigrati che vivono di microcriminalità rubando borsette nel lussuoso scenario della Grand Place. A Parigi gli anziani vivono nella paura della delinquenza degli arabi provenienti dalle ex colonie. Gli attacchi terroristici di Londra e Madrid sono stati organizzati da cellule jihadiste che fanno base in Marocco. Fino a oggi l'Europa è stata colpevole di aver offerto troppe carote ai leader del Maghreb e di avere mostrato troppo poco il bastone. Il processo europeo di Barcellona negli anni Novanta è stato più un piano di orientamento che una vera e propria policy, e Francia e Spagna sembrano essersi impegnate più a coltivare i propri network postcoloniali per fare affari vendendo armi e aerei che non a promuovere riforme politiche21-5. Europa e America, per controllare le ondate di violenza provenienti dalla sponda dell'Africa settentrionale del Mediterraneo, dai pirati del mare ai predoni islamici del deserto, hanno sempre alternato la corruzione alla risposta militare. All'inizio del XIX secolo una serie di guerre di piccola intensità («To the shores of Tripoli», come recita l'inno del corpo dei marine) pose fine ai raid dei pirati barbareschi contro i mercantili inglesi e americani. Oggi i governi di Marocco, Tunisia, Libia, Ciad e Niger – come anche Gibuti e l'Eritrea, nel Corno d'Africa, e lo Yemen, e al di là dello stretto di Bab-elMandab – condividono però le stesse paure dell'Occidente riguardo alle cellule estremiste salafite (ora ribattezzatesi «Al Qaeda nel Maghreb») che operano nel Sahara. Davanti al rischio di un aggravarsi
dell'instabilità negli Stati produttori di greggio dell'Africa occidentale e in quelli ricchi di gas naturale dell'Africa settentrionale, gli Stati Uniti hanno dato vita al nuovo teatro militare dell'AFRICOM con il compito di coordinare le iniziative contro il terrorismo e i traffici illegali di armi ed esseri umani. Contemporaneamente, la UE finanzia operazioni di vigilanza alle frontiere, sviluppo della microimpresa, promozione del commercio regionale e monitoraggio sui diritti umani, e ha aperto uffici di collocamento nella regione per creare posti di lavoro e arginare il brain drain verso l'Europa. Fra gli autotreni arrugginiti e gli immensi container che si accalcano nel porto di Tangeri è attivo uno strettissimo screening di sicurezza su tutte le navi che imbarcano navi e passeggeri da e per Spagna e Francia. Benché siano più vicini a Madrid che alla Mecca, con gli Stati del Maghreb la carota dell'ingresso nella UE, così efficace nei Balcani e nel Caucaso, non è ancora un'opzione plausibile, il che significa che la politica europea di vicinato deve creare un nuovo sistema di incentivi e di premi che leghino fra loro l'energia, il commercio, lo sviluppo, l'emigrazione e le riforme politiche. Il Maghreb ha l'ironica sorte di soffrire di scarsità di manodopera e al tempo stesso di alta disoccupazione, un segnale del chiaro scollegamento fra quello che i giovani arabi imparano a fare (o non fare) e i posti di lavoro effettivamente disponibili (o non disponibili)21-6. Ma, potendo fare affidamento su turchi e ucraini per le proprie necessità di manodopera, l'Europa potrebbe essere parecchio più esigente con i governi del Maghreb che spendono pochissimo per la riduzione della povertà mentre i loro cittadini dipendono dalle rimesse dei lavoratori emigrati in Europa, obbligandoli a sostenere le imprese e ad abolire le loro opache leggi sugli investimenti. Se anche la UE sta cambiando la mentalità degli emigranti dal Maghreb già residenti nel suo territorio, è necessario che questi nove milioni di arabi, per lo più poveri, diventino una diaspora progressista in grado di modernizzare le regioni d'origine (come è stato per la diaspora turca), anziché individui svantaggiati che alimentano le fila del malcontento islamista. Attraversare lo stretto di Gibilterra da Algeciras a Tangeri, e quindi passare oltre i pendii scoscesi delle coste marocchine per entrare nella regione montuosa e inquieta del Rif significa osservare una regressione dai moderni sistemi agroindustriali di irrigazione usati in Spagna a un'agricoltura ferma all'età dei campi inondati dalla pioggia. L'Europa resta testardamente contraria a tagliare i sussidi ai propri agricoltori, che di fatto frenano quell'export alimentare così importante per il Maghreb (diretto in buona parte in Europa), mentre obbliga i propri interlocutori a tagliare le tariffe doganali per soddisfare le regole dell'Unione. Vero è che per il Maghreb migliorare le proprie esportazioni significa in primo luogo riuscire a fabbricare qualcosa che possa essere venduto. Già mezzo secolo fa Toynbee osservava che i contadini del Maghreb «non sognano patti e trattati, ma pompe e trattori»21-7. È un'osservazione valida ancora oggi. Passato per secoli fra il controllo spagnolo e quello portoghese, il regno del Marocco costituisce attualmente per la UE un massiccio esperimento di europeizzazione senza colonizzazione21-8. Peraltro il Marocco è fatto non di una, bensì di due nazioni: oltre la metà della popolazione non è araba ma berbera, e nel corso della sua storia dinastie arabe e berbere si sono alternate nel dominio del paese 21-9. I mercati berberi fioriscono nei villaggi di sabbia dei monti dell'Atlante e nei centri medievali di città come Fes, con la sua medina, la più antica ancora attiva al mondo, con i suoi vicoli angusti intasati di carretti che trasportano balle di menta e di bancarelle che offrono vasi di ottone incisi con intricati motivi ornamentali. I precedenti abitanti arabi della medina di Fes sono in gran parte emigrati a Casablanca, che accosta un quartiere di architettura moderna a una tradizionale città vecchia gremita dalla massa sradicata degli immigrati. Dopo avere lavorato duro per l'intero giorno, i bambini di strada passano la notte vagando per le strade, cercando di non farsi notare mentre sniffano colla. In tutte le città marocchine bastano un muro o una strada per separare l'esotico dal miserabile. Sono tali attributi culturali preislamici a ostacolare lo sviluppo arabo, a impedire qualsiasi evoluzione che affranchi il sistema politico dal controllo delle poche famiglie aristocratiche che comandano davvero in ciascuno di questi paesi21-10. I premier arabi si celebrano in onnipresenti ritratti appesi a ogni angolo di bazar da Rabat a Damasco. In simili patriarcati è la sopravvivenza del regime, non la democrazia, la preoccupazione fondamentale di uomini politici che non hanno la sicurezza di potersi svegliare il mattino dopo. Per lo più, gli autocrati arabi non hanno mai intrapreso quella politica di modernizzazione che è stata realizzata invece dai regimi militari del Sudest asiatico e che ha
gradualmente consolidato quelle forze che, sul lungo periodo, ne hanno minato le basi del potere. Al posto di questo "paradosso dello sviluppo" i regimi arabi hanno sempre preferito una modernizzazione difensiva che non prevede alcuna libertà economica e sociale se non quella strettamente necessaria 21-11. Malgrado la Tunisia – la patria di ibn Khaldun che ospita le rovine dell'antica Cartagine – sia considerata un esperimento esemplare di modernizzazione, con una legislazione che garantisce i diritti delle donne, con alfabetizzazione e proprietà immobiliare diffuse e notevole eguaglianza sociale, il suo sviluppo ha avuto luogo sotto un governo indubbiamente autoritario21-12. Il presidente Ben Ali chiama il suo paese «la terra del pensiero illuminato», ma, come si lamenta un giovane autostoppista tunisino nei pressi di Dubai, «nel mio paese non mi sarà mai concesso di fare ciò che desidero». Roma e Cartagine possedevano strutture politiche affini, ma, da allora, solo in Europa ci si è evoluti. I legami sempre più stretti del Marocco con l'Europa ricordano quelli della Turchia: molti marocchini li vogliono realmente, e le giovani generazioni di europei vedono intuitivamente nel Marocco un futuro membro della UE, il primo, nell'eventualità, sull'altra sponda del Mediterraneo21-13. Promettere riforme democratiche è diventato un importante strumento di autolegittimazione, e questo fa certamente ben sperare; ciò significa però accettare l'idea che siano i monarchi, e non i presidenti elettivi, coloro che in virtù delle proprie credenziali islamiche e della simpatia popolare potranno più facilmente dare il via a politiche liberali. Mohammed VI del Marocco (ma lo stesso si può dire di Abdallah di Giordania) è più sofisticato e più equilibrato di qualsiasi altro autocrate tribale. «Non si tratta semplicemente di riscrivere una Costituzione», mi spiega un accademico di Casablanca, «quello che interessa realmente alle società beduine tradizionali non è imitare l'Europa, ma conservare l'onore personale, tribale e religioso». Di certo il Marocco non si trasformerà presto nell'Inghilterra del Maghreb, ma il giovane Mohammed VI si percepisce più come un manager che come un arbitro. Ha licenziato l'autoritario ministro degli Interni insediato da suo padre Hassan II e ha istituito una «Commissione per la verità» che nel 2005 ha prodotto un dossier su quarant'anni di violazioni dei diritti umani. A dare respiro alle politiche autoritarie è infatti il timore di vendette per le passate ingiustizie commesse contro gli islamisti, secondo un circolo vizioso che può finire soltanto quando un governo istituisce una commissione analoga a quella voluta da Mohammed VI e poi ne accetta le conclusioni. Modellato sull'AKP, al governo in Turchia, in Marocco il partito islamico per la giustizia e lo sviluppo ha guadagnato una buona rappresentanza parlamentare da quando ha moderato le posizioni, e nel Parlamento trova posto persino un partito islamista che non riconosce la monarchia. Mentre la società civile in Algeria e Tunisia è costretta a una difficile convivenza con il potere sovrano, le ONG marocchine si moltiplicano con facilità, rappresentano istanze spesso scomode e hanno ottenuto un miglioramento delle condizioni dei prigionieri politici e una relativa libertà di stampa. «Non c'è dubbio che continuino a essere perpetrati abusi», mi confida un giornalista di Marrakech, «e dobbiamo stare molto attenti a quello che scriviamo, ma il governo ci ascolta». Quello che il Marocco sembra avere compiuto è un progressivo scambio fra diritti umani e lotta al terrorismo, cosicché la crescita del ruolo dell'islam in politica non dovrebbe necessariamente comportare un bagno di sangue in stile algerino. Gli Stati arabi ricchi di petrolio come l'Algeria sono spesso paragonati a superpetroliere, non soltanto per le loro riserve di energia, ma anche per la lentezza con cui modificano la rotta. Come succede quando si guida su una strada del mondo arabo, una svolta sbagliata comporta giri lunghi e complicati che assorbono tempo, energia e pazienza. La politica algerina ha imboccato una di queste strade sbagliate nel 1991, quando l'esercito annullò la vittoria alle elezioni del Fronte islamico di salvezza, accendendo il fuoco di una tremenda guerra civile in cui furono massacrate più di centomila persone. Ci sono voluti quindici anni per raggiungere una forma di riconciliazione nazionale, e comunque non è stato un processo simile a quello che si è svolto in Cile o in Marocco, dove la legalità è stata restaurata con una combinazione di amnistie e riparazioni. Per questa ragione l'intero mondo arabo è afflitto da "algerofobia", ossia dalla paura di ammettere i partiti islamisti alle elezioni sull'esempio di quanto accaduto in Algeria. Il punto è che l'esito di qualunque forma di partecipazione di partiti islamisti alle competizioni elettorali non può essere peggiore di una guerra civile scatenata dalla loro esclusione. Gli effetti negativi si sono fatti sentire persino sul traffico urbano, quando i ribelli hanno sparato a tutti i semafori causando intollerabili ingorghi stradali. I giovani arabi sono investiti molto presto di responsabilità da adulti; spesso devono lavorare
affidandosi alle proprie capacità fisiche e farsi carico della famiglia quando ancora non hanno raggiunto la maturità intellettuale. Molti di loro non parlano correttamente né l'arabo né tantomeno il francese. In tutta la regione araba la qualità delle scuole pubbliche è crollata, mentre le reti sociali islamiche provvedono cibo, protezione e conforto spirituale a questa gioventù inquieta in cerca di un senso di appartenenza e di importanza; naturalmente le istituzioni informali islamiche si guardano bene dal fornire qualche tipo di professionalizzazione spendibile sul mercato. Le mani a riposo fanno il lavoro del diavolo, e la polveriera sociale creata dalla sottoeducazione e dalla disoccupazione può essere impiegata sia per costruire una società moderna che per distruggerla. Come mostra bene il film La battaglia di Algeri, nemmeno centocinquant'anni di colonialismo europeo sono riusciti a trasformare la società araba. E allora chi può essere in grado di farlo? Tunisini, libanesi, egiziani e altri arabi hanno vagato per anni in cerca di lavoro nelle industrie petrolifere della Libia, dell'Iraq e dell'Arabia Saudita, con una fluidità di spostamento che ha favorito l'emergere di catene di rifornimento interstatali21-14. L'Europa ha finanziato la nascita di aree speciali destinate all'investimento e all'esportazione – sul modello dello status di estrema libertà di cui ha sempre goduto il porto di Tangeri – che attualmente fioriscono sulle sponde del Mediterraneo creando occupazione, facilitando le esportazioni e incrementando i profitti. Il Marocco ha sottoscritto anche un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti che comprende aiuti all'istruzione e alla tutela dei diritti delle donne. Del resto furono i consiglieri francesi e americani, già durante l'amministrazione coloniale francese, negli anni Venti, a convincere il governo marocchino a preservare intatto il fascino mistico delle medine del paese anziché permettere che degenerassero fino a diventare come tante altre baraccopoli sparse per il mondo, con una politica preveggente che più tardi si è tradotta anche in interesse turistico e importanti fonti di reddito21-15. La UE sta facendo pressioni sull'Algeria affinché investa in infrastrutture e sviluppo dell'agricoltura le proprie rendite energetiche, che costituiscono il 97 per cento dell'export totale del paese (sempre più attraverso pipeline che veicolano gas e petrolio in Europa). In Tunisia i call center francesi danno lavoro a migliaia di laureati che non avrebbero altri sbocchi professionali. Il graduale aumento del reddito pro capite, con la conseguente diminuzione dei flussi migratori, è naturalmente la soluzione ai due problemi dello sviluppo del Maghreb e dell'immigrazione in Europa. Maggiori investimenti europei nella regione significano transizione economica prima che trasformazione politica: ma nel contesto arabo la prima deve comunque precedere la seconda. Lo spettacolo inconsueto dei pensionati francesi che abitano pittoresche ville sulla ventosa costa atlantica del Marocco rivela il riemergere di un organico spazio economico e sociale attraverso il Mediterraneo. Quello che per loro è un ritiro low-cost, per gli Stati arabi è un'importante fonte di investimento nel settore della ricezione turistica. Nemmeno i partiti islamisti sono in grado di arrestare questo afflusso alla rovescia di europei verso il Marocco, e per questo essi dovrebbero inserire nella loro agenda politica un piano di sgravi fiscali che li possa ulteriormente attirare. Come l'Azerbaigian, il Marocco, anche se non entrerà a far parte della UE, sta comunque diventando europeo. Un'incognita color verde: la Libia «La Libia è da sempre in crisi d'identità», confessa un libraio di Tripoli nel suo negozio curato e un po' polveroso. «Assorbiamo tutto quello che ci sta attorno, anche se per noi non ha un significato particolare». Dal VI secolo a.C. i fenici di Tiro (nell'attuale Libano) e i greci colonizzarono l'Africa settentrionale, fondando avamposti commerciali concepiti inizialmente come luoghi di sosta lungo il tragitto per la Spagna, dove acquistavano grandi quantità di metalli preziosi. Le due province costiere della Libia, la Tripolitania e la Cirenaica, furono poi gradualmente assorbite nell'impero romano. Le imponenti colonne di granito e il marmo delle terme di Leptis Magna furono portati fin lì da Assuan, in Egitto, nel cui maestoso porto fluviale confluivano tutte le strade della regione. Come gli altri insediamenti abbarbicati sul litorale sud del Mediterraneo, anche queste aree conobbero una successione di imperi che, attraverso bizantini e arabi, terminò con gli ottomani. Il millennio di dominio arabo che precedette la sottomissione ai turchi è una notevole prova di quanto poco la Libia possa essere realmente capita soltanto attraverso la cultura araba. Nel VII secolo
le colonne al comando di Amr ibn el Asi impiegarono oltre un mese per strappare la città di Tripoli ai bizantini, che, come in seguito avrebbero fatto i turchi e gli italiani, avevano fortificato le fondamenta romane del cuore della città, la cittadella di Assaray, per difendersi dalle invasioni da terra e dal mare. Dal momento che l'espansione araba mirava essenzialmente a diffondere l'islam e la lingua del Corano anziché a lasciare un'eredità architettonica, di quell'epoca restano soltanto moschee assai spoglie che riflettono il vernacolo elementare dei beduini, il cui testamento vivente oggi è rappresentato dai nomadi tuareg che, con i loro scudi e i loro abiti dai colori intensi, guidano le carovane attraverso l'oceano di sabbia del Sahara. Con l'invasione degli arabi iniziò il declino di Leptis Magna, rimasta sepolta nella sabbia fino a quando gli italiani non la riportarono alla luce nel 1923. Ancora oggi dal sito di Leptis sono estratti continuamente nuovi manufatti, mentre i musicisti riempiono gli spalti del suo antico anfiteatro con concerti di musica beduina per la delizia dei turisti che arrivano da Tripoli. Benché la colonizzazione italiana abbia unito le oasi di transito delle province occidentali del Fezzan alle due province costiere nel 1934, creando così la Libia moderna, la nazione resta più un magnifico vuoto desertico che divide i regni berberi dell'Ovest, le tribù africane del Sud e l'Egitto che non un vero e proprio Stato arabo. L'unica domanda che si possono scambiare i passeggeri che volano in Libia è: «vai per le rovine o per il petrolio?». Il fenomeno del movimento delle sabbie è preso quasi alla lettera, in Libia. Di tanto in tanto Tripoli è soggetta alle accecanti tempeste di sabbia chiamate ghibli, che trasformano il giorno in notte e sembrano seppellire la città. Pure la politica, in Libia, è stata un ghibli dopo l'altro. Ispirato dalla Filosofia della rivoluzione di Gamal Abdel Nasser, il colonnello Muammar Gheddafi conquistò il potere nel 1969, all'età di ventotto anni, esiliando in Egitto il re Idris dopo un decennio nel quale la straordinaria ricchezza che aveva fatto seguito alla scoperta del petrolio nel paese (negli anni Cinquanta la Libia era il quarto produttore di greggio al mondo) era rimasta quasi totalmente concentrata nelle mani del sovrano e del suo clan. Avendola percorsa tutta a bordo di un maggiolino Volkswagen per raccogliere clandestinamente appoggi alla rivoluzione, Gheddafi è riuscito a conoscere la Libia meglio di chiunque altro abbia mai potuto e potrà mai fare. Quell'automobile, esposta al Museo nazionale di Tripoli, è oggi una reliquia coperta di tavolette con slogan anticoloniali. Pare che esistano ottantasette modi ufficiali di pronunciare il nome di Gheddafi, e probabilmente esistono altrettante interpretazioni della sua eccentrica filosofia di socialismo comunitario conosciuto come sistema della Jamahiriyya («Stato delle masse»)21-16. Essendo passata nel giro di mezzo secolo da remoto angolo dell'impero ottomano a colonia italiana, poi da monarchia conservatrice a regime rivoluzionario e dalla miseria alla ricchezza, la Libia è stata un foglio bianco per l'intelligente ma radicale sperimentazione prevista da Gheddafi nella sua «terza teoria universale», una sorta di incrocio di umanesimo, socialismo e islam21-17. Alcuni dei principi contenuti nei diversi volumi del suo Libro verde hanno compiuto un salto concreto dalla teoria alla pratica, come l'assistenza sanitaria e l'istruzione per tutti (donne comprese) e l'aumento del tenore di vita – la Libia ha il reddito pro capite più alto della regione, attorno ai settemila dollari. La diffidenza del colonnello nei confronti della libera impresa ha però convinto almeno centomila libici dotati di istruzione superiore a lasciare il paese nei primi dieci anni del regime. Inoltre le sue imprevedibili pagliacciate diplomatiche gli hanno guadagnato una reputazione che non potrà mai scrollarsi di dosso. Nel nome del panarabismo ha cercato una fusione con la Tunisia nel 1974, e una volta ha abbattuto con un bulldozer una delle reti di protezione che segnano il confine con l'Egitto. Nel nome del panafricanismo ha invitato in Libia milioni di lavoratori dall'Africa subsahariana per poi riservare loro un trattamento da animali. Ha combattuto per un decennio una guerra infruttuosa con il Ciad per la Striscia di Aouzou, lungo il confine fra i due paesi, solo per finire umiliato da una sconfitta. Più di recente ha stretto amicizia con il presidente sudafricano Nelson Mandela per atteggiarsi a mediatore nei conflitti africani (compreso quello nel Darfur) e ha chiesto agli Stati europei il pagamento di risarcimenti per il colonialismo a nome di tutte le nazioni africane. Più importanti di tutto il resto, però, sono la sua sponsorizzazione dell'OLP e dell'IRA, la complicità nell'attentato al volo 103 della Pan Am a Lockerbie, in Scozia, e gli spudorati tentativi di acquistare tecnologia per il nucleare militare, elementi che hanno contribuito a fare della Libia uno dei primi membri della lista americana degli «Stati sponsor del terrorismo». Ronald Reagan, che lo definiva «un cane idrofobo», lanciò un attacco missilistico su Tripoli nel 1986 (quale rappresaglia per l'esplosione di una bomba che aveva ucciso tre soldati americani in una discoteca di Berlino) che portò alla morte
della figlia adottiva di Gheddafi. Parecchio tempo la Libia sarebbe potuta diventare una versione araba della Norvegia, ma le manie di grandezza di Gheddafi non hanno fatto altro che attirare sanzioni rese ulteriormente distruttive dall'isolamento geografico del paese, che rende virtualmente impossibile qualsiasi movimento di beni che non passi per vie di terra o di mare difficilmente praticabili. Nel 2003 Gheddafi ha finalmente abbandonato frenesie nucleari e piani terroristici, arrivando addirittura a denunciare la proliferazione delle armi atomiche e mettendo una taglia sulla testa di Osama bin Laden. Ha anche riaperto canali diplomatici ufficiali con gli Stati Uniti, e del resto il greggio libico è assai conveniente per il mercato americano, e ha l'ulteriore vantaggio di poter essere raggiunto senza passare per il Canale di Suez. Proibito negli anni Ottanta, oggi l'inglese ha fatto ritorno nelle scuole del paese e gli studenti fanno la fila per ottenere borse di studio negli USA. Nel 2006, appena una settimana prima che avesse luogo una conferenza organizzata da Gheddafi per commemorare il ventennale del bombardamento americano della Libia, una calca di adolescenti libici applaudiva una rock band americana che si esibiva nel quartiere fieristico di Tripoli, sventolando allegramente bandiere a stelle e strisce. Tripoli è diventata una perla della collana di nazioni arabe della sponda sud del Mediterraneo che di nuovo fanno affari d'oro con l'Europa, mentre gli europei arrivano a frotte per offrire la classica combinazione di aiuti umanitari, contratti commerciali e armi. Il nuovo, robusto ruolo giocato dalla Libia nel mercato mondiale dell'energia potrebbe accelerare la spinta centrifuga del Maghreb in direzione dell'Europa21-18. L'unico hotel a cinque stelle di Tripoli ospita un perpetuo pullulare di contratti e di progetti per il futuro, sotto lo sguardo benevolo di parecchi, enormi ritratti del leader. Gli anticipi pagati da appena due dei consorzi internazionali dell'energia impegnati nel paese sono stati sufficienti a coprire i tre miliardi di risarcimento emessi dalla Libia per le vittime dell'attentato di Lockerbie. L'Italia ha inaugurato un gasdotto sottomarino dalla Libia nel 2005, mentre le compagnie petrolifere cinesi e malesi si fanno aggressivamente avanti per tutelare la portata globale dell'export petrolifero del paese, mostrandosi disponibili ad accettare termini meno favorevoli come i costi più elevati per la partecipazione agli utili. L'afflusso di migranti da Algeria, Tunisia, Ciad, Niger ed Egitto è un vero certificato di stabilità del paese. Il milione di egiziani presenti, riconoscibili dall'accento quando si radunano lungo le grandi strade di campagna attorno a Tripoli, costituisce circa un quinto dell'intera popolazione libica. Poi ci sono i molti immigrati africani, spesso vittime di torture nei centri di detenzione della polizia, che preferiscono starsene defilati, riunendosi nei caffè o nei cortili delle case. Con tutto ciò, l'atmosfera di Tripoli ricorda più quella sonnacchiosa dei porti dell'Italia meridionale che non il trambusto di Tangeri o di Beirut. Come all'epoca della presa del potere da parte di Gheddafi, la Libia ha di nuovo grandi progetti e parecchi soldi, ma ha pure molti ostacoli da abbattere, fisici e psicologici, prima di potere raggiungere una compiuta maturità. Proprio come la sua storia, Tripoli è un cantiere perenne, con enormi complessi abitativi che sorgono in alcuni quartieri mentre altri crollano, con le splendide facciate degli edifici del periodo coloniale che, come all'Avana, decadono irreparabilmente e certo più rapidamente delle rovine romane vecchie di duemila anni, che hanno passato assai meglio la prova del tempo. Nel 2006 sono stati messi in bilancio sette miliardi di dollari per le sole infrastrutture, ma si alzano ben poche gru nei cieli di Tripoli perché gli interventi più urgenti consistono nel sostituire le arterie della città: tubature, sistema fognario, strade. Gli operatori turistici descrivono impazientemente una Libia in pieno boom, potenzialmente in grado di raggiungere il livello di mete turistiche come il Marocco e l'Egitto, ma la realtà è molto più prosaica. Malgrado i millenovecento chilometri di spiaggia mediterranea, la costa libica ospita soprattutto greggi di pecore, allevamenti di cavalli e cammelli e occasionali cumuli di automobili rottamate. Un turismo intenso e non gestito nei luoghi più conosciuti del Terzo Mondo, come il Nepal o la Cambogia, può trasformare paesi vergini in zone disastrate nel giro di una generazione, senza neppure favorire un minimo di sviluppo. I libici, conservatori e tranquilli come sono, stanno ben attenti a non far diventare il loro paese una nuova Costa del Sol sovraffollata di europei nudi e ubriachi, e fino a oggi hanno cautamente designato solo pochi lotti periferici disponibili per le aziende italiane specializzate nella costruzione di resort. «Noi libici siamo beduini, e la stessa idea di hotel per noi è imbarazzante. Preferiamo offrire ospitalità nelle nostre case»: questa l'opinione di un operatore turistico che lavora in un umile ufficio nei pressi del porto di Tripoli, dove attraccano solo rare navi da crociera con italiani o russi a bordo.
Il Libro verde del colonnello Gheddafi critica «l'influenza della proprietà e del possesso», ma il gonfiarsi delle casse dello Stato per oltre 40 miliardi di dollari mette a dura prova le sue aspirazioni a una società senza classi. La sua ribellione fu dichiaratamente rivolta contro la cattiva gestione e il furto della nuova ricchezza petrolifera che era piovuta sul paese, ma tutta la retorica di regime che sostituisce la parola "partner" a quella di "dipendenti" è una magra consolazione per i lavoratori libici, che percepiscono salari ormai arcaici. Occorrono nuove opportunità per i lavoratori, tanto quelli specializzati che quelli non specializzati: per i primi si tratta di arginare una prevedibile emigrazione di massa, per i secondi di trovare qualcosa da fare a una popolazione giovane in crescita impetuosa che non sia ascoltare le suonerie dei cellulari agli angoli delle strade. Se lo Stato riuscirà a spendere saggiamente la ricchezza a disposizione, non è impossibile che i soli cinque milioni di abitanti del paese – il 90 per cento dei quali è concentrato nella pianura nord-occidentale di Jafara, che inizia a pochi chilometri di distanza dalla costa – possano conoscere una crescita fulminea dei propri standard di vita. E se saranno completati il progetto del «Grande fiume artificiale» destinato a convogliare acqua dolce dalle falde acquifere del Sud alle regioni costiere e il programma di rimboschimento che dovrebbe aumentare la terra arabile, allora la Libia potrebbe arrivare a produrre più cibo di quanto è attualmente costretta a importare. Come il Kazakistan, la Libia ha creato un fondo generazionale sul modello della Norvegia per investire in scuole e ospedali, fortemente colpiti dalle sanzioni internazionali degli anni Ottanta e Novanta. E, come la Colombia, non bada a spese per assoldare consulenti di livello internazionale per governare la privatizzazione dell'agricoltura e dell'industria, ristrutturare il settore bancario, sviluppare strategie per le aziende petrolifere e il turismo e riconvertire gli scienziati dai programmi nucleari alla desalinizzazione dell'acqua e alla geologia del petrolio – esattamente gli argomenti dei libri che per decenni non hanno fatto che accumulare polvere sugli scaffali delle antiquate librerie di Tripoli. «Ho avuto la possibilità di studiare negli Stati Uniti con una borsa negli anni Settanta», ricorda l'executive di un'azienda petrolifera libica, «e ora voglio fare qualcosa di più che rendere ricca questa nazione. Quello che voglio è costruire ponti solidi con l'America, anche se non è facile quando le cose si muovono con una tale lentezza». Il Libro verde contiene una sezione specifica dedicata alla burocrazia; a riempire copiosamente il vuoto provvede comunque la pubblica amministrazione libica, dominata da una cultura fuori dal tempo per la quale non puoi essere licenziato perché non fai niente, ma solo se fai qualcosa che potrebbe non piacere al tuo superiore. «È già difficile fare arrivare qui i turisti, provate a immaginare cosa sia portarli dove vogliono andare», si lamenta un tour operator specializzato in escursioni nel deserto riferendosi alle procedure libiche di visto, forse le più arbitrarie del mondo, in virtù delle quali anche eminenti visitatori sono stati invitati nel paese solo per essere lasciati a piedi sulle piste dell'aeroporto e subito rispediti indietro. Si fa un gran parlare della necessità di aggiornare le leggi sugli investimenti, ma nessuno sembra sapere nemmeno quali siano le leggi attualmente in vigore. Se non ci fu bisogno di demolire alcun bunker per svelare il programma clandestino di armamento atomico della Libia, ci vorrebbe una scossa sismica di simile potenza per provocare il profondo sblocco psicologico necessario ad adattare i libici a una diplomazia o a standard di business moderni. Un paese governato da una dottrina che potrebbe diventare carta straccia all'indomani della morte di un solo uomo deve fare qualcosa in più che offrire promesse di investimenti sicuri per abbassare il proprio rating di rischio politico. «La politica», dicono sogghignando molti libici, «non vuol dire altro che pasticci». È difficile ritenere un libico un cittadino della propria nazione21-19. Il che significa che quando la rivoluzione di Gheddafi arriverà al capolinea la domanda sarà non solo chi, ma anche cosa sarà destinato a sostituirlo. Questo regime one-man è a tutti gli effetti un non-sistema trapiantato su un coagulo disfunzionale di tribù e di assemblee amorfe. I Comitati del popolo furono concepiti come forum di democrazia, ma il loro unico risultato è stata quello di alimentare nelle persone l'apatia verso la politica, in aggiunta al generale timore di essere perseguitati per avere espresso una qualche forma di dissenso. Il titolo ufficiale di Gheddafi è l'umile «Fratello capo e guida della rivoluzione», il che non fornisce alcuna indicazione su quale dei suoi figli gli succederà formalmente, se pure toccherà a uno di loro. Saif al-Islam al-Gheddafi, educato in Occidente, è divenuto una specie di ministro degli Esteri informale e perennemente itinerante; la sua convinzione pare essere che «il sistema politico di una nazione non dovrebbe fondarsi sulla lealtà o sulla parentela». Chiunque sia a sostituire Gheddafi quando il prossimo ghibli lo consegnerà definitivamente
alla storia, egli avrà in mano una seconda, grande chance di reinventare un'identità libica.
La Cina entra in scena Come testimoniano le crescenti dimensioni delle sue ambasciate in Africa, la Cina sta entrando in grande stile negli spazi che si aprono nello scenario geopolitico. È la globalizzazione, però, la sua arma più efficace. Attualmente la Cina si piazza al terzo posto, dopo UE e Stati Uniti, fra i maggiori investitori nel continente, grazie a un giro d'affari che nel 2005 si è attestato sui 50 miliardi di dollari. La Cina costruisce alleanze strategiche intensificando le relazioni commerciali, soprattutto con quei regimi che stanno lentamente prendendo le distanze da Washington21-20. Il suo vorace appetito di risorse naturali le ha permesso di arrivare al primo posto quanto a estrazione di gas e petrolio in una vasta area che si estende dall'Angola all'Algeria fino al Sudan; Pechino, del resto, importa più greggio dall'Africa che dall'Arabia Saudita 21-21. Come anche per le altre superpotenze, l'impegno della Cina può fare la differenza tra la pace e il genocidio: in Sudan Pechino ha inviato reparti di peacekeeping sotto l'egida dell'ONU, ma anche personale militare segreto per proteggere i propri stabilimenti petroliferi e i quasi millecinquecento chilometri di oleodotto fino al Mar Rosso; tutto questo bloccando regolarmente le risoluzioni ONU mirate a fermare la guerra civile nel Sud del paese e la pulizia etnica nel Darfur, condotta egregiamente con fucili mitragliatori di fabbricazione cinese. Sono paesi come la Libia e la Cina ad alimentare le fortune del settore immobiliare di Khartoum nonostante le sanzioni americane. La Cina dipinge gli Stati africani come partner e non come casi pietosi; parecchi governi arabi e africani parlano con entusiasmo di un «modello cinese» fatto di regime politico chiuso ed economia aperta. Per far rivivere la consanguineità sinoafricana della metà del XX secolo, pacchetti cinesi comprensivi di assistenza, investimento, training professionale ed équipe mediche sono inviati in tutta l'Africa all'insegna del «fare quello che si può», una concezione in antitesi al principio economico occidentale della shock therapy. La Cina ha cancellato la maggior parte del debito dei paesi africani, ha fornito mutui agevolati e ha aumentato le importazioni dall'Africa di un fattore dieci: mosse, tutte queste, che fanno perdere credibilità alle politiche assistenziali dell'Occidente, percepite sempre più come inefficaci. I miliardi di dollari di aiuti occidentali non sono riusciti a costruire un network ferroviario in Nigeria o una rete energetica nel Corno d'Africa con la rapidità con cui li ha realizzati la Cina. Quando le agenzie occidentali abbandonarono il Corno d'Africa durante la guerra fra Etiopia ed Eritrea nei primi anni Novanta, la Cina costruì in Etiopia la diga di Takazee, alle sorgenti del Nilo Azzurro, che attualmente fornisce energia idroelettrica all'intera regione21-22. Addis Abeba, sede del quartier generale dell'Unione Africana, è anche l'epicentro dei contatti commerciali attraverso i quali i cinesi vendono hardware bellico nella zona. Quello che accomuna Stati Uniti, Europa e Cina è di essere ben più interessati ad assicurarsi rifornimenti energetici che non a spingere per riforme politiche in Africa21-23. Se Pechino appoggia il regime dispotico di Robert Mugabe, che ha trasformato lo Zimbabwe, il paniere del continente, in un recipiente di fame e di conflitti, Washington ha scelto di finanziare il regime cleptocratico e disumano della Guinea Equatoriale, che ogni giorno imbarca oltre mezzo milione di barili di petrolio verso gli Stati Uniti. Recentemente la corsa della Cina all'accaparramento di risorse sta erodendo la base economica di parecchie nazioni africane. Più di quaranta accordi commerciali in Africa hanno permesso che arrivasse anche nel continente lo "tsunami tessile" che ha spazzato via una quantità infinita di posti di lavoro, mentre le scappatoie fornite dal WTO consentono ai prodotti tessili cinesi un facile accesso all'Europa dai loro stabilimenti di Tangeri, mettendo facilmente fuori gioco gli esportatori africani. Gli operai cinesi dei settori del gas e del petrolio, che spesso provengono dall'enorme popolazione carceraria del paese, vivono e dormono nei luoghi di lavoro, e il loro contributo alle economie locali è virtualmente pari a zero. In fin dei conti la Cina è un partner che può aiutare le nazioni africane tanto a uscire dal Terzo Mondo quanto a mantenervele.
22. L'Egitto tra burocrazia e teocrazia La grande biblioteca di Alessandria fu fatta erigere nel III secolo a.C. dal sovrano dell'Egitto Tolomeo II; con i suoi oltre settecentomila volumi era la più grande del mondo conosciuto. La sua distruzione, settecento anni dopo, in un rogo provocato dalla barbarie dei romani, segnò la fine del ruolo dell'Egitto come centro della cultura globale. Oggi è la risorta Bibliotheca Alexandrina, che si erge con eleganza sul profilo del litorale mediterraneo, a dominare la città. La nuova biblioteca, progettata in
Norvegia, malgrado contenga meno volumi della sua omologa di duemila anni fa, è il simbolo più prestigioso delle potenzialità della civiltà araba di capovolgere quella curiosa inversione storica per la quale l'età d'oro dell'Europa ha coinciso con i secoli bui del mondo arabo e viceversa. Le pareti dell'edificio sono decorate da iscrizioni in caratteri geroglifici, greci e arabi che narrano storie di incontri fra le due sponde del Mediterraneo; i cortili sono punteggiati da sculture postmoderne. La Bibliotheca Alexandrina ospita la Fondazione Anna Lindh, intitolata al ministro degli Esteri svedese che si impegnò per il dialogo fra le civiltà e fu assassinata nel 2003; inoltre vi si trovano attrezzature d'avanguardia per il molecular imaging tridimensionale, uno fra gli unici quattro mirror sites degli archivi del World Wide Web e centri di ricerca che lavorano in partnership con università europee. L'invasione dell'Egitto da parte di Napoleone, nel 1798, segnò l'inizio di quella condizione di subalternità all'Occidente che distingue il mondo arabo contemporaneo. Tuttavia, questo paese, chiunque sia stato al potere, si è sempre considerato il punto di congiunzione fra il mondo mediterraneo, quello africano e quello arabo. quattromila anni fa il regno dei faraoni costituiva il vertice della civiltà umana: il loro stile di vita dipendeva però dal Nilo, il secondo fiume più lungo al mondo, che ha le sue sorgenti nel profondo dei territori del Burundi e dell'Etiopia. Risalire il fiume (il Nilo scorre da sud a nord) fino a Luxor (l'antica Tebe) e Assuan significa rendersi conto di come il Sudan – un tempo il regno egizio della Nubia – sia oggi l'area di incrocio tra Africa e mondo arabo. Attualmente anche i più poveri tra i paesi che si affacciano sul bacino del Nilo stanno costruendo dighe idroelettriche che minacciano il livello delle acque della grande diga di Assuan e del lago Nasser, la riserva strategica d'acqua dell'Egitto contro la siccità22-1. La popolazione e la terra coltivabile dell'Egitto si concentrano ancora oggi quasi interamente attorno alle rive del grande fiume, il che comporta che per questa nazione ogni riduzione delle forniture d'acqua corrisponda a un atto di guerra – anche se l'ultima cosa che una guerra potrebbe determinare sarebbe un aumento della quantità di acqua disponibile. In realtà, dal Cairo fino ad Assuan il Nilo è una specie di stagno maleodorante, afflitto da scarsità di flusso e inquinamento petrolchimico e dalla minaccia rappresentata da una serie di progetti di reattori nucleari il cui primo effetto sarebbe quello di trasformare il delta del fiume, già intasato, in un acquitrino. Per questo Assuan, in una prospettiva strategica, è una spina nel fianco dell'Egitto: l'eventuale distruzione della diga in caso di attacco (una carta tattica già minacciosamente sventolata da Israele) si risolverebbe infatti in un'inondazione corrispondente a un genocidio ecologico22-2. Le regioni del Maghreb e del Mashreq devono il loro nome alla collocazione rispettivamente a ovest e a est del Nilo, il che evidenzia quanto a lungo l'Egitto abbia avuto il ruolo di pietra angolare del mondo arabo. Egitto, Turchia e Iran sono i tre vertici di un triangolo strategico, e ciascuno di questi tre Stati è perennemente impegnato a far prevalere la propria influenza in quella zona. La penisola egiziana del Sinai, inoltre, è anche il punto di giuntura con l'Arabia Saudita, la Giordania e Israele, che la occupò dal 1956 al 1973. All'estremità settentrionale dei 190 chilometri del Canale di Suez si trova Porto Said, attraverso cui si può facilmente passare dall'Africa all'Asia transitando a Porto Fuad, sull'altra sponda, in traghetto o percorrendo il Mubarak Peace Bridge. Ancora il dieci per cento circa del traffico marittimo mondiale passa per il Canale di Suez: il guadagno per l'Egitto è calcolato in cinque miliardi annui di diritti di transito, che stanno trasformando Porto Said da angolo di accumulo dei rifiuti dell'intero Mediterraneo in eccentrica città fatta di chalet in stile europeo – com'era un tempo, allorché costituiva la base di terra della British East India Company. Lungo tutto il tragitto sono in corso grandi lavori di dragaggio per adattare il bacino del canale alle navi gigantesche che vanno e vengono in direzione dell'utente numero uno: la Cina. Buona parte del prestigio diplomatico dell'Egitto gli viene dal suo ruolo di principale interlocutore arabo di Israele, contro cui ha versato il proprio sangue più di qualsiasi altro paese della regione. Il trattato di pace con Tel Aviv firmato da Anwar Sadat nel 1979 causò all'Egitto l'espulsione dalla Lega Araba per oltre dieci anni. In compenso, la «pace fredda» che ne seguì fruttò l'esplosione del paradiso turistico di Sharm el-Sheik, sul Mar Rosso, lungo il litorale meridionale del Sinai, verso il quale frotte di giovani egiziani disoccupati corrono in cerca di lavoro. Anche a stipendi da schiavitù, per loro gli immacolati resort della località sono praticamente un sogno22-3. I beduini del Sinai, del resto, non smettono di lamentarsi del fatto di essere stati trattati meglio dagli occupanti israeliani che dal rozzo regime di Mubarak, che ha restituito alla penisola la sua vocazione degli ultimi decenni, quella di
crocevia di armi e di droga, come nei secoli passati lo era di pellegrini. L'ulteriore ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, nel 2005, ha praticamente reso questa sottilissima fascia costiera una provincia egiziana, la più insicura di tutte. In quella terra di nessuno che è il posto di confine di Rafah, i palestinesi si riversano in Egitto senza alcun controllo per visitare i parenti e avere assistenza medica. «L'Egitto è quello che salva molti palestinesi dalla Palestina», nota un analista strategico al Cairo, scuotendo la testa al pensiero del fallimento di ogni sforzo di riportare la pace e la stabilità in quell'area disgraziata. «Siamo ancora il più grande fra gli Stati arabi, ossia i naturali anticipatori delle inclinazioni geopolitiche degli arabi», proclama uno storico nella sua sovrabbondante biblioteca del Cairo. Il padre fondatore dell'Egitto moderno, Mohammed Ali, si fece largo tra i ranghi del governatorato ottomano, all'inizio del XIX secolo, e ottenne la quasi-indipendenza del paese sulla base dell'autonomia agricola e manifatturiera. Le potenze europee cercarono di sabotare l'influenza egiziana nel mondo arabo finché l'ascesa del trentaseienne Gamal Abdel Nasser, nel 1954, e la nazionalizzazione del Canale di Suez, due anni dopo, ispirarono l'azione di un'intera generazione anticolonialista, che accese le speranze dell'Unione Sovietica di radicare la propria presenza nello spazio arabo dopo che i rigurgiti mercantilisti della Francia e della Gran Bretagna erano naufragati insieme con il loro sanguinoso tentativo di riconquista del Canale. Tuttavia i consiglieri sovietici non riuscirono mai a integrarsi con la classe politica egiziana, il che aprì uno spiraglio strategico nel quale gli Stati Uniti riuscirono a inserirsi22-4. Il punto è che Nasser aveva ben poco interesse, cinquant'anni fa, a presentarsi come il baluardo comunista contro gli Stati Uniti, e allo stesso modo, oggi, l'orgoglioso establishment egiziano non si lascia sfuggire l'opportunità di giocare su tutte le sponde. «Con il suo appoggio alla war on terror e la tolleranza nei confronti della nostra pregiudiziale filoisraeliana», ammette un diplomatico americano, «l'Egitto sta facendo molto di più per noi di quanto noi facciamo per l'Egitto». La massiccia assistenza militare ed economica (poco sotto i due miliardi di dollari) gonfia artificialmente l'influenza di Washington nel paese, con vantaggi che però sono di molto inferiori a quelli di trent'anni fa. «Questo rapporto privilegiato con gli USA», mi fa notare un funzionario, «non vale il prezzo della loro intromissione nelle nostre questioni politiche. Non abbiamo bisogno dei loro armamenti di seconda mano, e ormai siamo in grado di costruirci un sistema fognario per conto nostro». L'Egitto orienta una parte crescente del proprio budget militare verso l'acquisto di armi dalla Cina, e si è anche offerto per essere la testa di ponte della penetrazione cinese in Africa. In virtù degli investimenti nel Canale di Suez, nell'industria del cemento, nell'elettronica e nei centri fieristici la Cina è in procinto di sostituire gli Stati Uniti come top trading partner dell'Egitto22-5. Determinati tratti culturali cinesi, come l'importanza del concetto di onore, riscuotono grandi simpatie nel mondo arabo, dove i diplomatici di Pechino ostentano deferenza verso le culture locali, imparando l'arabo e acquisendo persino nomi arabi. Anche l'influenza europea, comunque, potrebbe un giorno superare quella americana. L'Europa si dà un gran da fare per i mercati egiziani, e può prendere per mano un processo di democratizzazione che favorisca l'emergere di un sistema parlamentare decentralizzato a fronte dell'attuale sistema presidenziale. Se gli americani alzano le mani davanti a una burocrazia elefantiaca, le imprese europee hanno speso oltre 500 milioni di dollari per lo sviluppo del turismo, dell'edilizia e dell'agricoltura del paese. Le fabbriche da cui escono le Mercedes e le Peugeot sono in grado di decuplicare i sessantamila lavoratori attualmente occupati nel comparto automobilistico. Grazie alle incursioni strategiche dell'Europa e della Cina, l'Egitto si è collocato sul mercato della geopolitica con una forza sino a ora sconosciuta. La centralità della sua posizione geografica non è certo stata d'aiuto all'Egitto nel trovare un proprio orientamento interno, rendendolo sempre esposto al pericolo di un capovolgimento. Lo studioso Gamal Hamdan ha evidenziato come il ruolo dell'Egitto nel mondo arabo sia analogo a quello occupato dal Cairo nella compagine del paese: quello di fulcro culturale, economico e politico22-6. Mille anni fa Il Cairo controllava i mercati transcontinentali come nessun'altra città era riuscita a fare dai tempi dell'antica Roma, accogliendo le popolazioni del Maghreb, dell'Africa subsahariana e del Golfo all'interno di un tessuto urbano faraonico e cosmopolita al tempo stesso: tant'è vero che la città è ancora oggi un susseguirsi di moschee, chiese, palazzi e mercati dove una grandiosa architettura di stile vittoriano si giustappone ai grigi edifici dell'epoca della rivoluzione. E tuttavia non avrebbe senso cercare di categorizzare la popolazione di una megalopoli di circa venti milioni di abitanti. Il Cairo, in
realtà, come tante altre città di queste dimensioni, in Africa e in Asia, è virtualmente uno Stato a sé, soprattutto per quei milioni di poveri – fra cui oltre un milione di bambini di strada – che vedono la luce nelle sue strade e che mai potranno allontanarsene. «Stranieri, arabi, e anche noi egiziani finiamo tutti per perderci qui al Cairo», sintetizza un venditore di tè nei quartieri della città vecchia. Non c'è da stupirsi se i cairoti sono convinti che la città e l'intero paese siano semplicemente sinonimi. Il Cairo di oggi è un modello in vitro di come gli arabi stiano faticosamente aprendosi una propria strada fuori dal Terzo Mondo anche senza possedere la sofisticata disciplina dei loro predecessori del mondo antico e medievale. Allorché si smette di incolpare il colonialismo di tutti i mali del mondo contemporaneo e si giudica cosa lo ha sostituito, allora il fallimento del metodo arabo di governo salta agli occhi in tutto rilievo. Molti fra gli abitanti più poveri del Cairo vivono nel quartiere di baracche sotto la cittadella di Mohammed Ali, nel cuore della città, mentre l'élite abita nel lusso con scuole e ospedali privati. Tuttavia anche gli edifici più chic stanno cadendo a pezzi, come testimoniano i cocci di ceramica e i cumuli di detriti di cemento sparsi dappertutto. Il carattere duplice dell'economia egiziana è visibile a tutti gli angoli; nei mercati di strada la maggior parte delle persone è costretta a soppesare attentamente gli alimenti che acquista, mentre a fianco i pochi privilegiati che frequentano i caffè europei si possono permettere un cappuccino a prezzi occidentali. Carrette di verdura trainate da asini e lustrascarpe seduti sul marciapiede a gambe incrociate condividono la stessa strada con hotel di alto livello e grandi musei. Sul bordo della circonvallazione esterna della città caseggiati improvvisati di mattoni occupano migliaia di ettari di terra arabile, con i residenti abusivi che ogni mattina cercano di raggiungere il centro in autostop. Di fronte a ciò, il governo è posto davanti alla scelta fra radere al suolo questi alloggi improvvisati mentre i cittadini abbienti difendono le loro proprietà con cancelli e muri di cinta sempre più alti, oppure impegnarsi almeno nella costruzione di quei pratici edifici di mattoni cotti al sole che furono inventati proprio qui millenni or sono. «Abbiamo piani, veri piani per recuperare la gloria che storicamente ci spetta», dichiara un funzionario del partito di maggioranza con un'aria di frenesia vagamente febbrile. Un'autostrada nazionale da Alessandria ad Assuan dovrebbe facilitare l'accesso alle province meno popolose, un centro finanziario hi-tech sarà la nuova sede degli uffici del governo e della Borsa egiziana, in crescita costante, un nuovo servizio di taxi è stato organizzato per porre un freno al settore dei trasporti urbani illegali. Si stanno tagliando miliardi di dollari in sussidi inefficaci per invertire decenni di fallimenti fatti di politiche di ripiego. Zone tax-free spuntano all'improvviso dalla costa vicina al confine libico fino al Canale di Suez. «Ogni investimento è un buon investimento», recita il nuovo mantra dei businessmen egiziani, che spingono per la conclusione di accordi di libero scambio con Stati Uniti ed Europa che obblighino il governo a rivedere una legislazione ancora restrittiva. Dove cinque anni fa non c'era altro che il deserto ora è sorta "New Cairo", una confusa distesa di quartieri suburbani di casette che aumenta di un milione di abitanti all'anno. Con un vero colpo di fortuna l'Egitto ha anche scoperto la presenza di significative riserve di gas naturale che procurano redditizie esportazioni verso Israele, la Giordania e l'Europa, in una fase in cui i suoi limitati giacimenti di petrolio sono in esaurimento. Con parecchie centinaia di migliaia di giovani che si riversano ogni anno nel mercato del lavoro, il paese soffre di una perenne crisi occupazionale. «Non c'è dubbio che questo sia di gran lunga il nostro maggior problema», mi confida un uomo d'affari mentre attraversiamo in auto New Cairo. «Abbiamo più giovani di quelli di cui sappiamo che farcene». Come nel Maghreb, è aperta la corsa per dare a questa gioventù inquieta qualcosa da fare prima che la violenza di strada e il radicalismo religioso diventino un problema ingestibile per il governo. Sigmund Freud scrisse di «frustrazione culturale» in relazione alla vita che si può condurre in una metropoli infinita e impersonale come Il Cairo, dove intere folle di persone inoperose possono reagire a qualsiasi stimolo, che sia buono o cattivo. Nell'ansia di disinnescare questa bomba a orologeria socioeconomica, l'impresa privata finanzia scuole professionali e preme per trasformare migliaia di lotti demaniali inutilizzati in campi di calcio. Di certo questi sforzi non sono facilitati dal processo emergente che obbliga l'Egitto a competere con uno dei suoi nuovi benefattori, la Cina. Nel distretto commerciale cairota di Ataba gli egiziani acquistano merci di fabbricazione cinese che dovrebbero invece essere loro a produrre, come la
bandiera nazionale, esemplari di Fulla, la popolare Barbie dei paesi arabi, e persino lanterne per il ramadan che emettono melodie cantate in arabo. La domanda cinese di acciaio per l'edilizia è anche un fattore di difficoltà per l'Egitto e le altre nazioni che cercano disperatamente di abbandonare il Terzo Mondo, poiché le obbliga a spendere in infrastrutture molto più di quanto si possano permettere. Come è accaduto anche in Messico, l'abbandono dell'accordo multifibra ha messo a nudo l'impreparazione egiziana nell'affrontare l'ardua concorrenza in un mercato globale del tessile da 500 miliardi di dollari all'anno. Attualmente la Cina coltiva cotone di alta qualità in grado di rivaleggiare con il più delicato fra i settori dell'export egiziano, che da solo copre un terzo dell'industria del paese. Ma se disegnasse capi migliori di quelli dei cinesi – un compito per nulla impossibile –, l'Egitto potrebbe largamente incrementare il valore dei propri prodotti. I funzionari dello Stato fanno accuratamente notare che il loro paese è stato «una meta turistica sin da quando il turismo è cominciato», puntando le proprie speranze sull'ulteriore crescita di quel settore dei servizi agli stranieri su cui ruota già il 60 per cento dell'economia. Tuttavia sono proprio le zone più turistiche dell'Egitto a mettere in evidenza tutti quegli errori, tipici del Terzo Mondo, che continuano a frenare lo sviluppo invece che ha promuoverlo. Ad Assuan e a Luxor, che ospitano templi e tombe famosi in tutto il mondo, una manciata di agenzie controlla tutti gli hotel, limitando la crescita di servizi privati che assorbirebbero anche più giovani disoccupati del necessario. I bambini che vivono nei dintorni di questi monumenti offrono cartoline ed escursioni in feluca sul Nilo; le scuole, del resto, non sono più efficienti che nelle regioni più povere del mondo. A meno che non si consideri istruzione il saper pronunciare quattro parole in cinque lingue diverse, il turismo di massa e la ricchezza che ne consegue non contano molto per migliorare l'alfabetizzazione. A Sharm el-Sheik, il santuario marittimo del jet-set egiziano, la spazzatura e le acque di scolo degli hotel sono riversate in mare anziché nel deserto, con la conseguenza dell'inquinamento delle acque e dell'erosione di quelle formazioni coralline che attraggono appassionati di immersioni e di snorkeling da tutto il pianeta. E gli hotel a cinque stelle che si accalcano attorno alla piana un tempo remota di Giza rendono enormemente meno esotico il profilo delle piramidi. Fra i milioni di turisti che visitano per la prima volta l'Egitto sono assai pochi quelli che pensano sinceramente di tornare. «Vogliamo sembrare come i faraoni, ma la verità è che siamo una nazione del tutto incivile», recrimina un imprenditore del Cairo nella sua enorme villa affacciata su un campo di golf. È difficile dare credito ai leader egiziani quando si vantano di far rivivere l'antica gloria dei faraoni. Potrebbe essere forse l'islam a restaurare la dignità perduta dell'Egitto? L'Egitto è il setaccio che ha raccolto e contemperato arabismo e islamismo per secoli, oggi più ancora che in passato. Hassan al Banna, che fondò la Fratellanza musulmana nel 1928, cercava di ridare ossigeno alla civiltà araba dopo il collasso dell'impero ottomano attraverso un movimento pansunnita non violento. Dopo il suo assassinio da parte delle autorità egiziane, nel 1949, fu il suo discepolo Sayyid Qutb a proseguirne gli insegnamenti, motivato dall'ulteriore urgenza dell'oppressione, sostenuta dall'Occidente, della devota base islamica del mondo arabo22-7. Se la Fratellanza musulmana si è diffusa sino alla Giordania e alla Siria, è comunque in patria che il suo ritorno sulle scene è più vigoroso. È l'Egitto, non l'Iraq, il luogo in cui si decideranno le sorti dell'islamismo e della democrazia nel mondo arabo. Per più di mille anni la moschea e l'università di Al-Azhar, al Cairo, così antiche da riunire inestricabilmente in sé l'intera storia dell'architettura islamica, sono state le pietre miliari del pensiero musulmano conservatore. I governanti arabi hanno sempre cercato di enfatizzare le proprie credenziali islamiche per ottenere il favore di questo establishment intellettuale, ma di certo gli islamisti non appoggerebbero mai volontariamente l'attuale stasi politica araba. Per i milioni di egiziani frustrati lasciati ai margini del nuovo sviluppo economico del paese – e per quelli che si trovano in mezzo alla china senza riuscire ad avanzare – l'invito alla preghiera è uno stabilizzatore emozionale che ispira non radicalizzazione, ma il suo contrario: una testimonianza della presenza di valori fondamentali anche all'interno di un contesto materialista che sembra orientato a smarrirli definitivamente. Dopo una giornata di vagabondaggio i ragazzi, al tramonto, sciamano verso la moschea dell'isoletta di Zamalek, al Cairo, perché la preghiera e la discussione concentrano la mente e danno significato. Appena al di là dalla strada c'è la splendida Opera House: ma chi può permettersi il biglietto? Nell'Egitto di oggi sono presenti tutte le condizioni per una rivoluzione islamista: disuguaglianza del
reddito, conflitto tra le élite, repressione religiosa, alienazione politica. Hosni Mubarak guida il paese dall'assassinio di Sadat, nel 1981; all'epoca rivestiva la carica di vicepresidente, che sino a oggi non ha ancora trovato il tempo di assegnare. Il suo servizio segreto, il Mukhabarat, tiene sotto costante sorveglianza le città brulicanti e irrequiete del paese, ma il suo governo fa assai poco per soddisfarne le necessità. La sistematica eliminazione dell'opposizione nella politica egiziana di questo ultimo quarto di secolo ha qualcosa da Fattoria degli animali di Orwell: la ritrosia di Mubarak a dividere il potere con qualcuno lo porta ad arrestare persino gli intellettuali liberali più secolarizzati, così da lasciare soltanto gli ostici partiti islamisti quale alternativa a se stesso – un trucco cui gli Stati Uniti continuano ingenuamente ad abboccare. Lo spettro di un partito islamista al potere è soltanto la più recente di una lunga lista di scuse accampate per giustificare l'assenza di evoluzione politica nel mondo arabo. Negli sceiccati del Golfo la rendita petrolifera garantisce la quiete della cittadinanza in cambio della completa sottomissione politica; negli altri paesi arabi la colpa è di volta in volta del colonialismo, dell'America, di Israele o della povertà22-8. Quello che rende ironicamente diverso dagli altri il pretesto della minaccia fondamentalista è che questa ha un'origine tutta interna. «Le nostre scelte non sono facili», riflette il direttore di un quotidiano mentre aspira il fumo di un narghilè. «La gran parte degli egiziani è dominata da un riflesso conservatore: preferiamo nutrire i nostri figli invece di lottare per la democrazia. Preferiamo piccoli aggiustamenti a cambiamenti radicali». Passare il tempo nei caffè all'aperto a fumare il narghilè e a giocare a domino è sempre stata fra gli egiziani un'attività più popolare della militanza politica. E tuttavia è in atto un risveglio nella società civile e nei media arabi che ispira una cultura democratica fondata sull'idea di una terza via fra l'apatia dei pomeriggi passati davanti a un tè alla menta e la militanza fatta con le armi in pugno. Manifestazioni pacifiche sono ora un evento regolare, e nel 2006 una ventina di riviste del paese ha sospeso le pubblicazioni per protestare contro una draconiana legge sui media. Un governo che non soddisfa la necessità di leadership morale né quella di servizi pubblici è un obiettivo perfetto per i gruppi islamisti, che invece sono perfettamente in grado di provvedere a entrambe le cose. L'islam non è una dottrina della resistenza contro un potere oppressivo, eppure, grazie alla sua attitudine spirituale e anche, sempre più, sociale, si sta dimostrando in grado di funzionare come se lo fosse22-9. I gruppi islamisti, in Egitto come in altri Stati arabi, sono diventati importantissimi dispensatori di quell'assistenza sanitaria e di quell'istruzione che l'incompetenza di tanti autocrati della regione ha sempre trascurato, anche in presenza di una potente crescita demografica. E poiché gli islamisti non hanno realmente bisogno dei canali politici tradizionali per esprimere il proprio messaggio, dichiararli fuori legge non fa altro che offrire loro un pretesto per manipolare le masse nelle moschee o incitare alla vendetta di sangue. Il Mukhabarat ha aperto il fuoco sugli elettori vicini alla Fratellenza musulmana, nel 2005, il che difficilmente corrisponde a quello spettacolo di democrazia tante volte propagandato da Mubarak. La più affollata e pulita tra le catene di fast-food dell'Egitto, Mu'meneen ('il fedele'), dà un'idea molto adeguata di chi stia realmente rivitalizzando la politica del paese. Per decenni l'autoritarismo è stato considerato il bastione contro l'islam e il comunismo; ora invece la democrazia è diventata l'arma dell'islamismo contro il regime. La logica sottesa alla democrazia islamica è che l'islam predica la liberazione e non la sottomissione, e che dunque la democrazia sia un mezzo per esercitarla22-10. Grazie all'attivismo sociale e a un abile uso della telepredicazione, la Fratellanza si rivolge direttamente alle classi medie e basse in difficoltà, guadagnando voti con slogan del tipo «L'islam è la soluzione» oppure «Se l'islam fosse messo in pratica nessuno soffrirebbe la fame». Tuttavia, se anche al suo interno si dibatte ancora se l'islam sia una oppure la fonte della legge, la Fratellanza musulmana propone una piattaforma elettorale che ha poco a che fare con la religione, e che semplicemente si concentra sulla lotta alla corruzione, sulla creazione di posti di lavoro e sul miglioramento dei servizi sociali. Con il suo persistente richiamo a Mubarak perché ritiri l'arbitraria legislazione d'emergenza introdotta nel paese, la Fratellanza sembra avere risvegliato il Parlamento egiziano dopo decenni di sonno. Islam e democrazia sono senza dubbio più compatibili fra loro di quanto non siano autoritarismo e democrazia22-11. Gli sporadici e anonimi attentati che si ripetono con sempre maggiore frequenza durante le elezioni sono una maledizione della democrazia, dal Marocco all'Iraq. Ma il solo modo per colpire la credibilità degli islamisti radicali che si comportano come gli anarchici russi del XIX secolo sta nell'offrire
maggiori opportunità a quanti si comportano come democratici del XXI secolo 22-12. La democrazia ha moderato le posizioni dei partiti islamisti in tutto il mondo musulmano, e ora in Egitto essi condannano gli atti terroristici perpetrati in loro nome, che hanno provocato diffuso sgomento nel paese per l'ascesa dell'estremismo. I lavoratori del comparto turistico vedono come una rovina attentati come quelli della Valle dei re o del resort di Dahab sul Mar Rosso, perché danneggiano l'industria da cui dipende la loro sopravvivenza. «Ci attendiamo che i nostri leader, laici o islamisti, fermino questa violenza, non che l'accelerino», ripete un attivista democratico del Cairo, «e gli islamisti, nel regime di Mubarak, hanno più credibilità di chiunque altro per dissuadere i fanatici». «Una democrazia imposta è un ossimoro», si lamenta un militante islamista fuori della moschea di AlAzhar; «l'islam non definisce se stesso in rapporto agli ideali dell'Occidente». Poiché l'alleanza personale degli americani è con lo screditato Mubarak, e non con il popolo egiziano, i loro sforzi per indurre una riforma sono lenti, superficiali, limitati, apertamente bollati dall'ipocrisia di dover difendere un esecutivo onnipotente22-13. Gli Stati Uniti sono sempre stati riluttanti a scendere a patti con leader dotati di grande popolarità per giocare ruoli di secondo piano nello sviluppo dei loro paesi, preferendo invece vederli crollare nei momenti di crisi22-14. Il risultato, sostiene l'attivista tunisino per i diritti civili Moncef Marzouki, è che la politica estera di Washington «facilita parecchio la crescita delle forze dell'estremismo islamico»22-15. Non a caso l'America è più detestata nei paesi governati da regimi alleati; e non a caso praticamente tutti gli attentatori dell'11 Settembre provenivano dall'Egitto e dall'Arabia Saudita. Se l'Occidente desidera davvero la democrazia in Egitto, allora deve accettare gli islamisti come parte di quella democrazia. Come ha scritto un analista «gli USA possono imporre di rimescolare le carte sul tavolo, ma non possono determinare quali carte usciranno»22-16. «Ci piacciono gli europei perché sono meno legati a Mubarak e hanno il tipo di modello parlamentare al quale aspiriamo», spiega un politico riformista. Mubarak tratta la Costituzione egiziana come una scacchiera i cui pezzi – gli articoli e le clausole – possono essere spostati a piacere per ridisegnare gli equilibri di potere fra le diverse branche e fazioni dell'apparato statale; il suo partito, il Partito nazionale democratico (NDP), ora guidato da suo figlio Gamal, continua a tramare per assicurarsi la vittoria alle elezioni del Parlamento del 201022-17. Ma se Mubarak ha perfino resistito alle pressioni americane perché firmasse la Dichiarazione di Alessandria – definita la «Magna Charta araba» –, gli europei continuano ad addestrare giudici e attivisti in grado di fare attività di lobbying in favore dell'indipendenza del sistema giudiziario. La maggioranza degli egiziani è addirittura troppo giovane per avere conosciuto un altro premier oltre a Mubarak: e allora il maggior regalo che l'Occidente potrebbe fare loro sarebbe quello di aiutarli a scegliere quantomento se il suo successore porterà lo stesso cognome o meno. «Quello che vogliamo è un leader che almeno una volta abbia messo piede in un autobus», proclama uno studente di ingegneria mentre divora un piatto di kebab nel distretto di Mohandessein, al Cairo. La tradizionale politica occidentale di preferire la stabilità alla democrazia è diventata un cliché patetico, perché stabilità di questo tipo non durano mai più di una generazione e si risolvono immancabilmente in instabilità. «Abbiamo bisogno di una bella piazza pulita, come hanno fatto in Iran, purgare il regime», si sfoga una studentessa universitaria nella sala fumosa di un caffè della capitale. Probabilmente l'Egitto non dovrà affrontare una guerra civile come quella algerina, ma una rivoluzione analoga a quella iraniana non è del tutto irrealistica – come Ayman al Zawahiri aveva sperato di accendere con l'assassinio di Sadat nel 1980. La democrazia è di certo l'alternativa migliore, anche se può implicare un relativo distacco dell'Egitto dagli Stati Uniti sul breve termine e spingere il governo a coltivare rapporti con la Fratellanza. Non si tratterebbe di preferenze religiose o di lealtà personale, ma di semplice necessità strategica: rapportarsi con tutte le controparti in politica interna proprio come l'Egitto sta facendo in politica estera con tutte e tre le superpotenze. In fondo, un Egitto democratico preferirà concentrarsi sui propri problemi interni piuttosto che scendere in campo contro gli USA22-18. E, se nonostante questo dovesse smarrire di nuovo la rotta, non avrebbe che da incolpare se stesso.
Il ritorno dell'arabismo Gli arabi sono fortunati. A differenza di quanto si verifica in America Latina, la combinazione fra le dense reti sociali e familiari e i divieti religiosi rende il mondo arabo discretamente sicuro: non esiste una sola città araba, a parte quelle
occupate dagli americani o dagli israeliani, che risulti pericolosa a confronto di una città delle stesse dimensioni dell'emisfero occidentale. Il metodo di trasferimento di denaro basato sull'onore, detto hawala ('fiducia') permette il rapido scambio di somme enormi sia all'interno della regione che attraverso altre parti del mondo. Le rimesse di questo tipo sono state importanti nella riduzione della povertà in Egitto e in altri Stati arabi nonostante la stagnazione degli anni Novanta. Gli arabi sono ospitali e ingegnosi, e in mancanza di fonti di reddito a disposizione mostrano una notevole abilità a improvvisarsi riparatori di automobili. Vecchie FIAT e Peugeot che si crederebbero impossibili da utilizzare continuano tranquillamente a scoppiettare per le vie del Cairo, con un'efficienza che farebbe l'invidia dei tassisti ucraini. Nel tipico informalismo del modo arabo di condurre affari, la cultura del wasta – il legame personale – è largamente preferita alle istituzioni moderne22-19. Al di là di un'élite ristrettissima che sembra perduta senza l'uso dell'inglese, il ridondante settore pubblico di paesi come la Libia, l'Arabia Saudita e persino l'Iran resta il bastione di un'inefficienza sbalorditiva. La giornata lavorativa inizia tardi e finisce presto; i burocrati non hanno alcun incentivo allo svolgimento anche delle più banali tra le funzioni, senza nemmeno prendere in considerazione attività con una parte di rischio. Tutte le catene di comando finiscono in un'unica autorità, in modo che ogni grado di responsabilità finisce per essere garantito da un leader supremo – uno per ciascuna nazione araba – che di responsabilità non ne ha alcuna. La lingua, il wasta, lo hawala e l'islam hanno integrato le popolazioni arabe per secoli; la politica, invece, le ha divise. Mentre, nell'Ottocento, in Europa fioriva il nazionalismo, gli arabi erano ancora assoggettati all'impero ottomano. I primi intellettuali panarabi erano uniti dalla convinzione dell'esistenza di una superiore nazione araba, democratica, secolare ed egualitaria, un principio che però minacciava di privare i singoli Stati della regione di quella sovranità che avevano da poco acquisito e che intendevano preservare gelosamente22-20. E se l'idea di questo spazio arabo unificato avrebbe dovuto acquistare un peso crescente in virtù del contrasto con il sionismo e il mondo occidentale, in realtà accadde il contrario, e il panarabismo perse definitivamente il proprio ascendente con la clamorosa vittoria di Israele nella guerra dei sei giorni del 196722-21. L'ultimo paradosso, in ordine di tempo, fu quello del 1990, quando l'allora presidente dell'Iraq Saddam Hussein fece un gran parlare della propria leadership panaraba mentre l'Arabia Saudita invitava l'esercito americano a intervenire per liberare il Kuwait. Oggi il pendolo psicologico del mondo arabo sta oscillando di nuovo verso l'impegno arabista. Gli arabi hanno capito che l'Occidente non resterà mai a corto di scuse – il petrolio, la democrazia, il terrorismo – per intervenire nei loro affari interni, e per questo l'arabismo è connotato al tempo stesso dall'opposizione all'ingerenza americana e dall'appello all'unità araba. La facilità con cui Egitto e Siria si sono unite per dar vita alla Repubblica Araba Unita, nel 1958, la controunione di Iraq e Giordania e il rapido fallimento di entrambi gli esperimenti, e infine la nascente Unione del Maghreb Arabo sono tutte testimonianze della fluidità della civiltà araba e dell'estraneità della forma-Stato che le è stata imposta. Il mondo arabo, oggi più che mai, possiede tutti gli elementi – terra, forza lavoro, capitale, lingua, accesso alla tecnologia, interessi e nemici comuni – per dare vita a un naturale blocco geopolitico, globalizzandosi per far diventare le guerre e le invasioni reciproche un ricordo del passato. La Lega Araba, fino a non molto tempo fa considerata defunta, sta vivendo un processo di reinvenzione nella forma non di una minaccia alla sovranità statale, bensì di una sorta di ONU araba che alimenta la cooperazione tecnica attraverso agenzie specializzate nel commercio, nell'educazione e nell'agricoltura. Nei corridoi brulicanti del loro quartier generale del Cairo, i funzionari della Lega Araba parlano della Comunità Europea del carbone e dell'acciaio come di un parallelo adeguato al loro sforzo di superare il mutuo sussiego fra Egitto e Arabia Saudita (gli egiziani vedono i sauditi come beduini ignoranti, i sauditi vedono gli egiziani come infidi accattoni) per compattare i due più ricchi e popolosi fra gli Stati arabi e trasformarli nella locomotiva naturale della regione. Attualmente, fra i progetti della Lega Araba, si contano una rete di gas ed elettricità che colleghi il Maghreb alla Siria e alla Giordania passando per l'Egitto, e l'investimento nella coltivazione delle fertili terre del Sudan. Un Parlamento panarabo ha cominciato a prendere forma nel 2005 con commissioni permanenti incaricate di monitorare gli esecutivi dei singoli Stati e rafforzare il potere delle assemblee legislative. Alla fine, il sistema politico arabo potrebbe mettersi alla pari con il sistema economico. «Forse un giorno», commenta piuttosto cinicamente un mio interlocutore, «avremo una forza araba di peacekeeping disposta a rischiare la vita per dei musulmani, proprio come gli americani e gli europei».
23. Lungo le rotte del Mashreq I termini Medio Oriente, Middle East, o Mesopotamia, così come l'altrettanto vaga espressione francese Levant stanno generalmente a indicare la regione nota come Mashreq. Durante la guerra fredda l'area era considerata un po' come il cortile di casa dell'Unione Sovietica, ma in realtà i suoi problemi risalgono più indietro nel tempo, come dimostra il fatto che ancora oggi questa zona sia alle prese con gli aggiustamenti di una situazione geopolitica costituitasi alla fine della prima guerra mondiale. La storia del Mashreq ha tutte le caratteristiche di una faida tra parenti protrattasi per decenni sotto lo sguardo vigile e interessato di arbitri imperiali sempre impegnati a mercanteggiare il favore dell'uno o dell'altro dei contendenti. Gli inglesi, durante la Grande Guerra, sperarono di provocare una rivolta antiottomana che coinvolgesse tutti gli arabi, ma questi ultimi si mostrarono più sensibili al particolarismo che al richiamo nazionalista, e invece di unirsi in una sola nazione indipendente contrattarono con gli alleati il ritorno agli antichi feudi autonomi23-1. Alla conferenza di pace di Parigi, Woodrow Wilson cercò di porre termine al modo in cui le potenze europee trattavano popoli e intere regioni «barattandoli […] come fossero merci, o pedine sulla scacchiera». Tuttavia, Francia e Gran Bretagna si erano già spartite la Siria con l'accordo Sykes-Picot del 1916, usando con disinvoltura cartine della metà del Settecento che rappresentavano la ripartizione delle diocesi della Chiesa cattolica all'interno dell'impero ottomano. I francesi marciarono su Damasco all'inizio degli anni Venti e rovesciarono il regime fantoccio dell'emiro Faisal, insediato dagli inglesi, al quale per riparazione fu assegnato l'Iraq. Gli europei davano pure per scontato che arabi e sionisti si sarebbero tranquillamente divisi la Palestina; fu soltanto nel 1924 che iniziarono a sorgere grossi problemi, allorché la conquista dello Hejaz da parte del giovane re ibn Saud portò all'unificazione dell'Arabia Saudita e spinse il fratello maggiore di Faisal, Abdallah, a rientrare in armi in Siria. La soluzione degli inglesi consisté nello strappare alla Palestina tre quarti del suo territorio e assegnarlo a quest'ultimo insieme con il titolo di re di Transgiordania. Proprio quando sembrava che il Mashreq non potesse più ragionevolmente incolpare ancora gli inglesi per il caos che lo dominava, arrivarono gli americani. A quasi un secolo di distanza dalle nobili intenzioni del presidente Wilson non è detto che gli Stati Uniti non siano destinati a percorrere la stessa strada dei loro predecessori europei. Proprio come gli inglesi all'epoca, gli americani hanno proclamato una guerra (quella contro l'Iraq) che, sebbene parzialmente giustificata da una volontà di liberazione del mondo arabo, li ha portati a essere la potenza indiscutibilmente più odiata della regione. Allo stesso modo gli inglesi avevano ingerito nelle questioni musulmane, trattando l'islam come un'entità uniforme che poteva essere cooptata e separata in una componente spirituale e in una temporale, o persino sostituita da altre forme di lealtà, ad esempio verso la nazione o una determinata dinastia regnante; in tutto questo, mancarono clamorosamente di accorgersi dell'ascesa irresistibile della più potente forza religiosa della regione, gli Ikhwan, i 'confratelli' wahabiti in Arabia. Alla fine, l'alto obiettivo di reggere le sorti di un mondo lontano si risolse in un problema molto più concreto di risparmio di soldati e tagli di spesa23-2. È questa l'eredità coloniale – cui si aggiungono il risorgere dell'islamismo, la repressione politica, l'intervento militare straniero e il terrorismo – con la quale il Mashreq sta ancora facendo i conti. Benché sia assodato che i paesi del Mashreq siano perennemente stretti nella trama di un solo tappeto, l'esatto motivo dei fili deve ancora essere disegnato. Gli arabi non sono portati per natura allo sciovinismo nazionalista: se il sistema degli Stati-nazione fomenta attualmente sentimenti di rivalità, l'esperienza storicamente dominante è quella della coesistenza. Le carte geografiche ottomane erano divise in aree fluide e curvilinee che denotavano le tribù e le oasi che queste custodivano; oggi, confini tracciati frettolosamente dividono le nazioni senza alcuna logica comprensibile: l'Egitto ha la più vasta popolazione araba ma la minore percentuale di terra arabile; il Kuwait e il Qatar hanno una popolazione trascurabile e la fortuna di riserve di gas e petrolio pressoché inesauribili; i palestinesi, in crescita impetuosa, sono divisi in parti praticamente uguali tra profughi dispersi e residenti di un angusto quasiStato. Per capire adeguatamente i mosaici multietnici di Giordania, Libano, Siria, Iraq, Palestina e Israele occorre pensarli come network di centri urbani allineati lungo le antiche vie di traffico anziché come gli Stati strutturalmente deboli e con popolazione sparsa che sono oggi. In tutti questi la democrazia è in grado di mobilitare la gente ma non necessariamente di unirla o di conferirle un
atteggiamento più liberale. In assenza di forti garanzie sui diritti delle minoranze la democrazia significa essenzialmente governo della maggioranza e potenziale annichilimento di tradizioni ancestrali e persino della stessa forma-Stato. Se i leader del Mashreq adottassero quell'indifferenza territoriale che aveva contraddistinto gli ottomani, traffici e tolleranza potrebbero alla fine vincere la partita contro tirannie locali ed estremismi opportunistici, e la Palestina sarebbe il cuore pulsante di un reticolo teso fra Tel Aviv, Gerusalemme, Beirut, Damasco, Amman e Baghdad23-3. Come nella valle di Fergana, in Asia centrale, la scelta è fra l'oppressione di popoli all'interno di Stati cui si sentono intrinsecamente estranei e la condivisione di spazi e risorse. In nessun altro luogo al mondo la frantumazione della geografia degli Stati – ma anche la loro apertura – è più necessaria e più pericolosa che nel crocevia strategico del Mashreq. Israele e Palestina: divisi insieme A partire dal proclama della Dichiarazione Balfour a favore di una patria ebraica, nel 1917, Israele costituisce l'esempio principe dell'uso dell'immigrazione come veicolo della formazione dello Stato. Tuttavia l'esistenza dello Stato d'Israele non è una garanzia per la sua sicurezza, giacché la forza migratoria degli arabi palestinesi è ancora lontana dall'avere trovato un adeguato punto di sfogo. Dopo la vittoria nella Guerra dei sei giorni l'occupazione israeliana di Gaza, della West Bank e di Gerusalemme Est ha creato le condizioni per la creazione di teste di ponte demografiche che raggiungono complessivamente i quasi duecentocinquantamila coloni. Benché gli insediamenti siano spesso definiti facts on the ground, un fatto compiuto, chi li occuperà in futuro è ancora una questione aperta. L'aumento della presenza di palestinesi in Israele, Giordania e Libano – come profughi, lavoratori emigrati o cittadini residenti – ha impresso una spinta formidabile alla questione di uno Stato palestinese, poiché la loro mancanza di identità nazionale mette in questione quelle di ciascuno dei loro vicini. Dal momento che tra il Mediterraneo e il Giordano vivono oggi molti più arabi che ebrei, una delle maggiori ironie del conflitto arabo-israeliano è che solo la creazione di uno Stato palestinese potrà garantire la sopravvivenza di uno Stato ebraico. Come il Libano e gli Emirati Arabi Uniti, Israele è di fatto una successione di oasi ricavate dal deserto costiero grazie al lavoro degli immigrati. Se gli abitanti di Tel Aviv sono quelli di una moderna città europea in cui si preferisce parlare «del Nasdaq, non di Nablus», resta il fatto che devono fare i conti con due problemi strettamente legati fra loro, quali il terrorismo e la diminuzione degli afflussi turistici, soprattutto quando centri con una popolazione altamente istruita come Haifa devono essere praticamente evacuati come è accaduto durante la guerra in Libano del 2006. Ciò detto, una qualche forma di integrazione economica tra Israele e gli Stati arabi esiste già: Israele non soltanto produce tecnologia hi-tech per le imprese americane, ma pure elettronica di consumo come i chip per i telefoni cellulari Motorola destinati ai mercati arabi, naturalmente dopo averne cambiata l'etichetta di produzione a Cipro. Le Zone Industriali Qualificate (QIZ) che ospitano produzioni congiunte e attività in cooperazione nei tre porti limitrofi del Mar Rosso – Taba in Egitto, Eilat in Israele e Aqaba in Giordania – potrebbero trasformare questi ultimi da ostaggi reciproci in un mega-hub collettivo di traffico. Negli anni Cinquanta Toynbee scrisse di Gerusalemme che era «divisa come un atomo in due città reciprocamente ostili che vivono e crescono fianco a fianco senza mai incontrarsi»23-4. Tuttavia i checkpoint dell'esercito israeliano, i collegamenti autostradali riservati e il denaro che arriva dalla diaspora non possono cancellare le origini comuni del Muro del pianto, della Cupola della roccia e della chiesa del Santo sepolcro. Gerusalemme, per il cui controllo esclusivo ebrei, cristiani e arabi hanno sempre combattuto senza mai poterlo conseguire, è l'ultima città autenticamente politeista. Nella città vecchia il sovrapporsi delle campane e della voce dei muezzin contribuisce a una cacofonia costante, mentre i medesimi negozi vendono contemporaneamente oggetti della tradizione del cristianesimo ortodosso, del giudaismo e dell'islam, a ricordare costantemente le similarità della tradizione semitica. L'instabilità psicologica dei fedeli delle tre religioni nella Palestina storica è comunque così forte che i cristiani, separati dalla città sacra di Betlemme dalla possente «barriera di separazione» di Gerusalemme, lasciano Israele in numero sempre più significativo.
Questa barriera di sicurezza è la dimostrazione che Israele si percepisce come la frontiera orientale della civiltà occidentale, in un permanente stato di guerra psicologica (nonché ovviamente reale) con i propri vicini. In realtà, Israele si sta ibridando sempre più chiaramente con questi ultimi. Gli attentatori palestinesi e i soldati israeliani, entrambi della generazione che dovrebbe rappresentare il futuro della regione, si sono combattuti fino a raggiungere una totale situazione di stallo. I buoni e i cattivi sono ormai una cosa sola. Israele, in quanto membro reciso del Mashreq, se non riuscirà a integrarsi pacificamente avrà più probabilità di scomparire di quante ne abbia il corpo che lo ospita. Come, e più che in ogni altro paese del Secondo Mondo, in Israele la politica interna e la politica estera sono le due facce della stessa medaglia. E, come in altri paesi del Secondo Mondo, il Primo ministro Ehud Olmert era in precedenza il sindaco della capitale. «C'è un sacco di povertà qui», mi dice un tassista di Tel Aviv indicandomi i moderni edifici della città. «Per la maggior parte di noi i posti di lavoro e gli ospedali sono più importanti della priorità concessa all'esercito». Nonostante gli enormi aiuti provenienti dal governo americano e dalla diaspora ebraica, Israele dovrebbe realisticamente ridurre il bilancio delle forze armate e aumentare quello del welfare23-5. Dal turismo al commercio al terrorismo, Israele e Palestina possono separarsi in teoria, ma non potranno mai farlo nella pratica. Molti americani cominciano a vedere Israele allo stesso modo in cui vedono il Pakistan, e cioè come un "alleato" che contribuisce più a creare problemi che non a risolverli 23-6. Nel 2005 il paese ha raggiunto tranquillamente il secondo posto dopo la Russia nella vendita di tecnologia militare ai cinesi, compresi strumenti antiradar e missili aria-aria – anche se la Cina vende a sua volta all'Iran missili con una gittata calibrata per raggiungere Israele. In cambio la Cina investe nell'ampliamento dei porti israeliani, con l'obiettivo di farli diventare il proprio hub per l'export in Europa attraverso il Mediterraneo. Un giorno, forse, la Cina arriverà a essere uno sponsor di Israele alla pari degli Stati Uniti: ma nemmeno questo sarà sufficiente a risolvere il vero problema esistenziale israeliano: i palestinesi. Nei numerosi stop-and-go del processo di pace israelo-palestinese le risoluzioni più limitate e periferiche sono sempre state viste come enormi successi, lasciando ignorate le vere, grandi questioni: quelle del reinsediamento dei rifugiati e dello status di Gerusalemme, pietre d'inciampo che i guastatori di entrambi i fronti hanno sempre usato per far deragliare il negoziato allorché ci si avvicinava al momento della verità. Le forze sioniste ricorsero al terrorismo come tattica di base per destabilizzare gli inglesi durante i dieci anni che precedettero la nascita dello Stato d'Israele, esattamente come fanno i palestinesi oggi23-7. Lo dice chiaramente un funzionario palestinese di Gerusalemme Est, frustrato per l'assenza di libertà di movimento e di un autentico autogoverno nazionale: «Viviamo in un purgatorio, siamo sempre soggetti alle decisioni dei padroni della burocrazia internazionale». Dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 le barriere di sicurezza israeliane hanno obbligato il Parlamento palestinese a riunirsi in videoconferenza, chiara dimostrazione di come l'attuale modello israeliano di suddivisione in bantustan palestinesi sia economicamente e politicamente insostenibile 23-8. Come nel Terzo Mondo, quando la politica degli aiuti ha la precedenza sulla formazione di un governo autoctono, lo sviluppo non ha futuro. Le agenzie internazionali di assistenza si occupano delle necessità più urgenti, ma in questo modo creano bolle economiche che scoppiano naturalmente quando tali necessità sono risolte (è il caso del Kosovo). La maggior parte del budget dell'Autorità palestinese è costituita dai finanziamenti dei governi europei e arabi, e le Nazioni Unite restano il maggior datore di lavoro – il secondo pare essere il servizio di sicurezza israeliano, lo Shin Bet, con la sua rete segreta di informatori sotto ricatto. I palestinesi sono umiliati da un'assistenza internazionale che svolge la funzione di sussidio economico dell'occupazione israeliana, e alla quale, fra l'altro, Tel Aviv secondo il diritto internazionale è tenuta formalmente a contribuire. «Ci siamo ridotti a costruire le nazioni degli altri al posto della nostra», prosegue il funzionario, riferendosi all'emigrazione palestinese in Giordania, Iraq e Kuwait. L'attuale situazione vede la presenza di un «Pali-stan» più che di una vera Palestina. Prima o poi, tuttavia, per i palestinesi l'occasione buona potrebbe arrivare. La crisi alimentata dall'alta disoccupazione, dalla debolezza delle infrastrutture e da una crescita esponenziale della popolazione (si prevede che raggiungerà i 6,5 milioni nel 2020) può essere affrontata con la realizzazione di un corridoio di ferrovie, telecomunicazioni, elettricità e gas che colleghi Jenin, Nablus, Ramallah, Gerusalemme Est e Hebron a Gaza City e Rafah, sul confine con l'Egitto. Una rete simile
consentirebbe le comunicazioni fra il porto e l'aeroporto internazionale di Gaza e la West Bank, stimolerebbe la crescita di comunità urbane e suburbane attorno ai suoi nodi di transito, e potenzialmente darebbe lavoro ad almeno centocinquantamila palestinesi23-9. Se l'Unione Europea e altri donatori internazionali si facessero carico dei 6 miliardi di dollari che si prevede siano richiesti dalla costruzione di questa spina dorsale della Palestina, il problema dei fondi tattici di assistenza devoluti alle agenzie palestinesi passerebbe immediatamente in secondo piano, e l'Europa avrebbe il merito di avere finanziato la risoluzione di uno tra i conflitti più incancreniti del mondo. Una cooperazione transatlantica per la risoluzione del conflitto arabo-israeliano deve significare qualcosa in più di una serie infinita di telefonate per chiedere moderazione alle parti. Per decenni gli Stati arabi, e quelli musulmani più in generale, hanno trattato i palestinesi con sufficienza, a meno che non servissero al loro tornaconto. Ora paiono decisi a prendere di petto la faccenda. Malgrado la Palestina abbia avuto a lungo una propria bandiera, un governo e una squadra olimpica, gli Stati Uniti e Israele hanno regolarmente intralciato gli aiuti di parte araba congelando conti e bloccando trasferimenti di denaro, lasciando di fatto poche opzioni oltre all'ingresso di valigette in contanti attraverso la frontiera con la Giordania e l'Egitto. Tuttavia il dogma di Washington per cui Hamas «ha un piede nella politica e l'altro nel terrorismo» ha poco credito fra gli arabi, in particolare da quando le forniture americane di armi ad al Fatah hanno alimentato quella guerra tra fazioni palestinesi che è culminata nell'espulsione dei dirigenti di al Fatah da Gaza, nel 2007. Allorché gli Stati Uniti hanno ritirato il proprio appoggio all'Autorità palestinese nel 2006, l'Arabia Saudita, l'Egitto e l'Iran ne hanno preso il posto per coprire il budget operativo, dimostrando come quel governo democraticamente eletto non potesse più essere sottoposto al continuo ricatto degli USA. «Se Hebron è stata ricostruita lo dobbiamo alla nostra diaspora, ai fratelli arabi e alle agenzie islamiche di assistenza», spiega un adviser palestinese a Ramallah, dove interi quartieri di villette color crema sono confusamente cresciuti nel giro di pochi anni. Finché l'esistenza di uno Stato non sarà garantita ai palestinesi, ogni pressione su Hamas per il riconoscimento di Israele sarà prematura, ridicola, proprio perché la Palestina è attualmente un'entità e non uno Stato, e per questo non ha alcuna legittimità a offrire tale riconoscimento giuridico. Già Henry Kissinger, nel 1975, riconobbe che non c'erano «soluzioni possibili» senza la creazione di uno Stato sovrano palestinese. Trent'anni dopo è ancora questa la precondizione essenziale per una pacifica integrazione della regione. La Giordania fra l'incudine e il martello Per una nazione geograficamente intrappolata come la Giordania, la fine è sempre dietro l'angolo. È la sua stessa esistenza a essere in gioco. Se la Giordania va in pezzi nessun vicino sarà in grado di rimetterli insieme: Israele, i palestinesi, l'Arabia Saudita, la Siria e i sunniti iracheni si limiterebbero a mettere le mani su quanto serve loro. La Giordania incarna a ogni livello possibile le complessità della geopolitica araba. La sua stessa nascita è stata il frutto del compromesso tra le assicurazioni del colonialismo e le rivalità dinastiche del mondo arabo, da cui è sorta la divisione fra le case reali degli arabi del deserto con la nascita dell'Arabia Saudita e appunto del regno hascemita di Giordania (in entrambi i casi, si noti, il nome è quello delle dinastie regnanti). I legami matrimoniali con le famiglie reali del Golfo sono a tutt'oggi in uso nella classe dirigente giordana, come garanzia di indipendenza e di investimenti da quei paesi. La Giordania è stata anche, durante la guerra fredda, il classico Stato cuscinetto incaricato di bloccare l'egemonia sovietica nella regione. Se gli ufficiali britannici sono stati rimandati a casa cinquant'anni fa, da allora a dettare legge sono gli Stati Uniti. Sono state le pressioni americane, ad esempio, a indurre la Giordania a essere fra i primi Stati arabi a stabilire relazioni con Israele, senza ricevere in cambio né diritti di reinsediamento per i palestinesi né garanzie sugli approvvigionamenti d'acqua per se stessa. Ogni volta che la Palestina è caduta nel conflitto, colonne di profughi di ogni estrazione sociale si sono riversate dall'altra parte del Giordano, portando con sé denaro ma anche parecchio malessere sociale. «Non siamo una vera nazione», si lamenta un intellettuale mentre attraversiamo in automobile quartieri di Amman con case stuccate in bianco e strade intasate di immondizia. «Semplicemente ci facciamo noleggiare da chiunque lo desideri». La specialità della Giordania è dunque diventata quella di volgere a proprio favore la sua geografia
disgraziata. Meglio, come mi spiega un uomo d'affari, «abbiamo sempre guadagnato con la guerra, almeno finché la combattono i nostri vicini e non noi». Amman ovest è stata costruita per metà con i soldi arrivati dopo la Guerra del Golfo e per metà con gli investimenti immobiliari dei palestinesi più ricchi che si sono assicurati un'abitazione nel caso fossero dovuti fuggire dalla West Bank, che dista meno di cento chilometri. Centinaia di società giordane e siriane sono state implicate nello scandalo del programma ONU Oil for Food, con numerose bustarelle pagate per aggirare le sanzioni all'Iraq di Saddam Hussein. I contractors stranieri scelgono Amman come base organizzativa delle operazioni di ricostruzione in Iraq, ricorrendo a sub-contractors giordani per servizi che vanno dal trasporto all'assistenza medica. Al tempo stesso, una parte importante della classe media irachena si è trasferita in Giordania per sfuggire alla guerra civile. Anche gli appartenenti agli scalini più bassi della società giordana partecipano a questa economia informale legata alla guerra: davanti all'ambasciata irachena di Amman si snoda ogni giorno una fila di centinaia di uomini di mezz'età in cerca del visto d'impiego che consente di passare in Iraq e trovarvi lavori ad alto rischio e ad alta remunerazione. In tutto il paese è possibile imbattersi in poveri contadini che caricano sui camion i loro prodotti per venderli in Iraq, da cui non arriva più petrolio gratis come ai tempi di Saddam. «Smerciare prodotti fatti in casa dall'Arabia Saudita e dalla Giordania in Iraq è ancora pratica corrente», ammette lo stesso imprenditore. Nonostante l'incertezza che regna in Iraq, ricchi investitori libanesi stanno sviluppando il porto sabbioso di Aqaba sia dal punto di vista delle comunicazioni che del turismo e dello snorkeling nel Mar Rosso; anche il Mar Morto, ricchissimo di minerali, è un'attrattiva turistica di prim'ordine. Al termine della guerra civile irachena i progetti per un oleodotto fino ad Aqaba, sul tavolo già da parecchio tempo, potrebbero diventare realtà, mentre il traffico in direzione opposta da Aqaba a Baghdad potrebbe dare vita a uno stabile corridoio commerciale nel Mashreq. La Giordania è una specie di isola di stabilità in mezzo a un mare la cui acqua si sta surriscaldando e minaccia di sommergerla. Insieme con il milione di profughi, sono penetrati in Giordania parecchi combattenti irregolari della guerra irachena, che allargano la lotta alle aree che circondano il paese. La Giordania conta il maggior numero di attacchi terroristici e di vittime dopo l'Iraq, e fra gli attentatori si contano iracheni, sauditi, libici e pure numerosi giordani. Ogni grande hotel di Amman possiede pesanti apparati di vigilanza, con controlli del telaio e del bagagliaio di ogni automobile, metal detector e perquisizioni personali. Se l'Iraq finirà per rompersi in tre parti, a diventare il cortile di casa della Giordania sarà l'area sunnita, un residuo instabile e privo di risorse. «L'Iraq potrebbe rivelarsi per noi un vero disastro, ma non possiamo farci niente» ammette un funzionario del Ministero degli Esteri mentre saluta nervosamente i colleghi nell'elegante lobby di un hotel. La Giordania è povera di petrolio, di gas e soprattutto dell'altra risorsa che definisce sempre più chiaramente le relazioni di potere nel Mashreq, ossia l'acqua dolce. La valle del Giordano, spartita tra israeliani, giordani e palestinesi, e la mezzaluna fertile del Tigri e dell'Eufrate – dove ha visto la luce la civiltà mesopotamica, dai tempi dei sumeri fino agli attuali Stati dell'Iraq, della Siria e della Turchia orientale – sono i corridoi naturali del Mashreq. Gli antichi nabatei avevano costruito un sofisticato sistema di irrigazione che è ancora visibile nelle scanalature sottili che corrono di fianco al passaggio di Siq, a Petra. Ma è tutt'altro che sicuro che oggi gli Stati della regione riescano a gestire altrettanto bene una risorsa così preziosa. Le dighe erette nell'Anatolia sud-orientale hanno notevolmente migliorato la qualità della vita dei turchi e dei curdi che abitano nell'area, ma più a valle il livello delle acque sta scendendo al ritmo impressionante di centottanta centimetri l'anno. Una soluzione a questa disparità potrebbe stare in accordi di condivisione delle acque e nell'uso di tecnologie più avanzate; l'energia generata dalle dighe idroelettriche turche potrebbe essere venduta a prezzi contenuti alla Siria e all'Iraq, e acqua desalinizzata potrebbe essere incanalata dal Golfo verso nord in soccorso dell'irrigazione e della produzione agricola giordana. Un canale fra Mar Rosso e Mar Morto è peraltro già in via di scavo, a dimostrare che le water wars non sono per nulla inevitabili. La ricerca di alleati arabi da parte degli Stati Uniti ha trasformato la Giordania da Stato cuscinetto a testa di ponte geopolitica. Una convenzione di libero scambio ha fatto degli USA il maggior partner commerciale della Giordania; l'istituzione delle QIZ, le Zone Industriali Qualificate, ha fatto di quest'ultima un esempio di positiva collaborazione economica con Israele. È però vero che poche aziende giordane possiedono i mezzi produttivi necessari a rendere effettivamente convenienti le QIZ,
e i loro dipendenti svolgono generalmente lavori a bassa qualificazione che possono garantire il sostentamento, non certo la ricchezza. I veri beneficiari, così, sono le società israeliane e cinesi che aprono stabilimenti tessili in Giordania e acquistano le fette maggiori delle QIZ (con lo stesso espediente globalizzato usato dai cinesi in Africa settentrionale per aggirare le restrizioni all'export nella UE). Con notevole efficienza, le imprese ingegneristiche cinesi hanno costruito quattro delle cinque nuove dighe della Giordania. Ad Amman si concentra gran parte dell'economia giordana; le altre aree sono state abbondantemente trascurate, come la seconda città del paese, Zarqa, pesantemente inquinata dai rifiuti industriali e dall'assenza di condotti per le acque di scolo. Dalla sua classe più povera e conservatrice è uscito Abu Musab al Zarqawi, che fino alla morte, nel 2006, è stato il più spietato fra gli uomini di Al Qaeda in Iraq. Nel complesso, tuttavia, le ideologie radicali non hanno fatto presa sulla fetta più povera della società giordana, i beduini, la cui natura quieta si riflette nelle umili moschee del paese. Fondamentalmente impegnati a sopravvivere, i giordani hanno riservato poca energia agli assalti alle ambasciate danesi che hanno fatto seguito allo scandalo delle vignette su Maometto, all'inizio del 2006. «Ci siamo limitati a non servire più birra danese», commenta seccamente un cameriere di un ristorante di Amman. Certo, le cose potrebbero cambiare. Vista dalle colline, Amman si presenta come un orizzonte apparentemente moderno di tetti bianchi. Ma come per altre grandi città arabe, da Marrakech a Riyad, la separazione fra vecchi e nuovi quartieri comporta anche un distacco culturale fra popolazione conservatrice e liberale. Al di fuori di Amman molte giovani indossano il velo, sostenendo di sceglierlo come simbolo di responsabilità verso l'islam e per reazione a quella che viene percepita come un'iperoccidentalizzazione delle élite. Modernizzazione e conservatorismo sono due trend che evolvono simultaneamente nel mondo arabo, e ciascuno dei due cerca di togliere energie all'altro. Re Abdallah è l'uomo cui spetta il compito di perseguire il primo senza ignorare il secondo. I leader occidentali si riferiscono spesso a lui con l'appellativo positivo di "moderato", un termine che nell'agone politico arabo è praticamente sinonimo di eunuco. In realtà Abdallah non è così liberale come si tende a credere in Occidente: il suo servizio segreto, il Mukhbarat, è infiltrato in quasi tutti i clan e gli altri gruppi sociali con il compito di prevenire eventuali colpi di Stato. È vero, tuttavia, che la polizia segreta giordana non è uno squadrone della morte. Il padre di Abdallah, Hussein, durante il mezzo secolo in cui regnò diede prova di somma abilità politica; riuscì a cooptare la Fratellanza musulmana e a tenere unita una società retta sul legame innaturale fra palestinesi e beduini arabi. Per decenni re Hussein si assicurò la docilità delle élite assegnando il controllo del settore privato ai gruppi filogovernativi, attribuendo i ministeri sulla base delle lealtà tribali e disegnando le leggi elettorali in modo da assicurare alla corona un Parlamento rigorosamente fedele. In una regione i cui leader continuano a preferire di essere temuti più che amati, Abdallah riesce a tenere in equilibrio ereditarietà del potere e richieste di sviluppo e democrazia. Come il Marocco, anche la Giordania sta vivendo una transizione graduale dall'oligarchia espressa dalle tribù alla governance tecnocratica. La celebre politica educativa del paese, ad esempio, si deve al cosiddetto gruppo dei "ministri digitali" che hanno progettato nuovi curriculum scolastici e dato vita a parchi scientifici per stimolare la nascente industria dell'information technology23-10. Il vantaggio del fatto che la maggior parte della popolazione del paese sia concentrata nella capitale è che qualsiasi aumento degli investimenti può indurre un rapido aumento delle esportazioni e spingere altrettanto in fretta la crescita del reddito pro capite. Gli emigrati di talento paiono sulla via del ritorno; con loro portano know-how professionale e grosse somme pronte per essere investite nell'high-tech. «Esporteremo tecnologia, non persone», si vanta un programmatore informatico di Amman mentre passeggiamo nel campus di uno dei parchi tecnologici della capitale. Altri imprenditori hanno incassato negli ultimi anni 200 milioni di dollari dalla sola Hollywood, che ama usare il deserto della Giordania come set cinematografico. Gli sforzi di Abdallah per modernizzare la società del suo regno devono tuttavia affrontare complicazioni ben maggiori. A lui si deve l'architettura della Dichiarazione di Tunisi, che ha stabilito i criteri per le cariche elettorali, i diritti delle donne e una riforma giudiziaria all'interno dei parametri del conservatorismo arabo; inoltre ha adottato l'Arab Human Development Report come set imparziale di indicatori dello sviluppo della Giordania anziché bollarlo come strumento della cospirazione straniera. Abdallah ha anche cercato di unire le scuole islamiche di giurisprudenza per condannare l'estremismo in
ambiti quali le sentenze di fatwa e le leggi che regolano i crimini d'onore, aprendo al tempo stesso la competizione elettorale ai partiti islamisti, secondo una strategia che, dal Marocco all'Arabia Saudita, si è dimostrata efficace nel contenimento della violenza di impronta radicale. L'alto profilo di Abdallah e sua moglie, la regina Rania, supermodel e operatrice sociale, contribuiscono alla popolarità del sovrano e ne rendono familiare l'immagine. «Se dobbiamo avere un re, be', questo è il ragazzo giusto», proclama un giordano non particolarmente affezionato alla monarchia. Questa sua storia di successo, e la stessa Giordania, dipendono tuttavia da come egli riuscirà a navigare fra le pressioni interne e i turbolenti vortici del Mashreq. Libano e Siria: l'insostenibile leggerezza del Levante I libanesi incarnano tutte le contraddizioni della società araba moderna. Sono impetuosi e futili, egotistici e fatalisti, colti e materialisti, decadenti e in perpetuo movimento. Sono un popolo trilingue e chiassoso che abita l'unico paese arabo in cui sia possibile sciare sulla neve fresca e fare surf nello stesso giorno. In teoria il Libano rappresenta la prima e unica democrazia del mondo arabo; in pratica, la cronologia degli attentati suicidi resta molto più eloquente sulla sua evoluzione politica di quanto non lo sia la sua storia elettorale. Il presidente René Moawad ne restò vittima nel 1989, dopo di che si scatenarono una serie di offensive militari che posero fine, nel 1991, a quindici anni di guerra civile nel paese. Quindici anni dopo, il primo ministro Rafiq al-Hariri e diversi collaboratori saltarono in aria nel centro di Beirut, e la reazione fu il movimento del 14 Marzo, che chiese la fine dell'occupazione militare siriana. In Libano, la libertà e la democrazia vengono dalla mancanza di stabilità: esattamente l'opposto di quanto accade in Siria, dove la stabilità è garantita da una classe politica che si guarda bene dal concedere libertà e democrazia. Libano e Siria condividono tre grandi forze storiche: il dominio nel passato dei fenici e dei greci sul Levante (Tiro, Byblos e Sidone ne furono i grandi e ricchi centri di traffico), il colonialismo europeo e l'attuale rivalità fraterna, nella quale gli assassinii sono all'ordine del giorno e i figli dei due precedenti leader Rafiq al Hariri e Hafez Assad – ossia Saad Hariri e Bashar Hassad – sono impegnati tutti i giorni a lottare per difendere l'onore dei genitori. Nessuno controlla realmente il Libano, meno che mai i libanesi. La politica del paese è strettamente imparentata con la sua archeologia, e precisamente con millenni di conquista, in due sensi: la presenza di una massiccia stratificazione e la capacità di ricostruirsi volta per volta. A dispetto delle piccole dimensioni, la politica del Libano è complessa come in ogni altra parte del mondo, ed è governata da un delicatissimo accordo di spartizione del potere – noto come "democrazia consociativa" – che tiene assieme cristiano-maroniti (cui spetta la presidenza della repubblica), sunniti (cui spetta il premier) e sciiti (il presidente della Camera). La democrazia libanese, di conseguenza, non è il frutto di una scelta illuminata, bensì il risultato di tale poliarchia settaria nella quale ciascun gruppo conta obiettivi politici separati senza alcun reale interessamento a quelli degli altri. Durante la guerra civile i cristiani accolsero con gioia gli occupanti israeliani perché colpivano i sunniti; altre comunità maronite, a loro volta, si sono dimostrate bastioni antisiriani mentre i loro leader erano impegnati a concludere accordi con la Siria per conservare le posizioni di governo. I sunniti alzano la voce contro il peso sproporzionato nella vita politica dei cristiani, che a loro volta si oppongono a un nuovo censimento nazionale (l'ultimo risale al 1932). Di suo, la immiserita maggioranza sciita si identifica assai poco con quel glorioso passato d'anteguerra verso il quale i sunniti si mostrano così nostalgici. A dire il vero ci sarebbero anche i palestinesi, ma nessuno pare intenzionato a concedere loro alcun diritto di parola. Costituiscono il dieci per cento della popolazione, concentrata in campi profughi incredibilmente sovraffollati fuori Beirut e in altre aree del paese come il campo di Nahr al-Bared, vicino a Tripoli, nel Nord, che nel 2007 è stato il teatro di un mese di scaramucce tra l'esercito libanese e il gruppo radicale sunnita di Fatah al-Islam. Benché renda di fatto impossibile l'istituzione di una dittatura, la struttura consociativa si divide regioni amministrative che rendono un concreto governo federale una possibilità senza speranze. In Libano coesistono diciannove comunità religiose indipendenti (i drusi, ad esempio), e il potere giudiziario è disperso attraverso linee settarie che svuotano di significato ogni apparenza di laicità 23-11. La divisione confessionale affligge anche le forze armate, e i dintorni di Beirut sono ancor oggi separati lungo i
confini religiosi che si formarono negli anni della guerra civile, quando la città era dominata dalle formazioni paramilitari che costringevano le famiglie appartenenti ai gruppi rivali a trasferirsi o a unirsi alla massa dei profughi. I libanesi non sono democratici per natura. Hanno invece una spiccata tendenza capitalista: negli anni Settanta, all'epoca del boom petrolifero, la tratta di donne europee verso gli harem sauditi era in mano loro. Poco dopo la conclusione della guerra civile, durante la quale perse la vita un buon decimo della popolazione del paese, Rafiq al-Hariri, una specie di Donald Trump politico libanese, iniziò a trafficare in patrimoni con la sua Solidere Corporation risollevando il paese dalle sue ceneri 23-12. A Beirut ricoprì con una verniciatura di glamour un paesaggio del tutto devastato, secondo un modello che si confà alla perfezione alla società libanese e al Secondo Mondo in generale; una filantropia mirata all'acquisizione di egemonia politica fu sovrapposta alle divisioni confessionali, attraverso una vera e propria vendita di status e influenza. Oggi Beirut non ha rivali nel mondo arabo quanto a sofisticatezza, unendo l'eleganza di Istanbul al disordine tutto mediterraneo di Tangeri, e le prospettive sono quelle di far rivivere il significato originario di "Levante" (il 'sorgere del sole') quale spazio in cui convergono popoli di ogni religione per vivere in prospera coesistenza23-13. La politica che si fa nelle strade è altrettanto importante, in Libano, di quella ufficiale. Le dimensioni delle manifestazioni sono la fedele rappresentazione del potere. Le gang giovanili confessionali segnano il territorio dei rispettivi quartieri con graffiti e si impegnano in continui scontri con i rivali. Un'arguta campagna pubblicitaria, nel 2006, reclamizzava «Parcheggi solo per sciiti»; altri manifesti propagandano analoghi servizi esclusivi riservati alle diverse fazioni religiose, indicando come il settarismo sia oggi più che mai una minaccia. Poiché nessuna delle parti rappresentate in Parlamento si accorda sull'aggiornamento del sistema costituzionale per riflettere gli effettivi rapporti demografici e di potere, le paure di una rinnovata guerra civile in piena regola hanno ripreso a serpeggiare. In nessun altro paese si può sentire così frequentemente il refrain quotidiano: «Chissà cosa succederà domani». «Nessuna fazione è realmente dalla nostra parte. Diciamo che si limitano a usarci», ammette un giornalista di Beirut davanti alla sua biblioteca traballante, un'ottima metafora della stabilità del paese. Il Libano è il campo di battaglia in cui si incrociano gli sponsor dei terroristi e i terroristi stessi, e qui la già bassa soglia di tolleranza psicologica dei paesi del Mashreq può essere superata per la ragione più insignificante. L'invasione israeliana del 2006, in reazione alla cattura di due militari da parte di Hezbollah, avvenne proprio mentre il Libano si stava preparando a un'altra stagione turistica mozzafiato, a segnare il progresso della lenta convalescenza del paese dopo l'assassinio di Hariri. Con il bombardamento dell'aeroporto di Beirut, il blocco dello scalo navale e la polverizzazione di interi quartieri e villaggi della zona meridionale, Israele dimostrò, come gli Stati Uniti, l'intenzione di trattare allo stesso modo i gruppi nemici e le nazioni che li ospitano. Questa seconda distruzione del Libano ha ricordato da vicino l'invasione degli anni Ottanta, intrapresa da Israele per cancellare l'OLP, ma è stata amplificata da una potenza militare di ultima generazione che ha ucciso dieci volte più civili che soldati (benché l'obiettivo dichiarato fossero le forze di Hezbollah), rimettendo anche in scena il massacro del 1996 nel campo profughi di Qana, nel Sud del Libano. Le fuoriuscite di petrolio causate dalla distruzione di centrali elettriche hanno provocato la peggiore crisi ambientale nella storia del Mediterraneo. «Alla fine abbiamo dovuto spegnere la musica», mi dice il giornalista con un amaro sospiro di nostalgia. Hezbollah è stato paragonato a uno Stato nello Stato, un esercito dai contorni indistinti capace di dichiarare guerra per conto del governo – e naturalmente di rovesciarlo. Malgrado sia profondamente radicato nella società libanese, Hezbollah è anche innegabilmente parte dei grandi piani di Iran (di cui costituisce il "tesoro nascosto") e Siria per dissanguare Israele fino alla morte – piani per i quali, va notato, la fondazione di uno Stato palestinese indipendente costituirebbe un ostacolo. Anziché dissolversi, dopo il ritiro degli israeliani dal Sud del Libano nel 2000, Hezbollah ha conosciuto un costante incremento delle proprie capacità militari e finanziarie. Nel 2006 le sue milizie hanno piazzato migliaia di missili a corto raggio in postazioni segrete nel Sud del Libano, sottoponendo a una pioggia di testate le aree settentrionali di Israele, obbligando a evacuare Haifa; inoltre hanno utilizzato le tecnologie iraniane di decrittazione e puntamento per localizzare e distruggere i tank israeliani. Senza contare più di diecimila uomini, un ottavo dell'esercito nazionale libanese, Hezbollah ha dimostrato di
essere superiore a qualsiasi forza armata araba, guadagnandosi una fama di invincibilità in tutta la regione23-14. Hassan Nasrallah, capo religioso di Hezbollah, è diventato il leader più popolare nel mondo arabo (malgrado sia uno sciita) grazie a quella che è percepita come un'incorruttibile devozione alla resistenza alle tirannie occidentali. All'estremo opposto si pone George W. Bush, che quanto a impopolarità è riuscito nell'impresa di battere perfino Ariel Sharon. Per gli arabi è acquisita una completa equivalenza morale fra Israele e Hezbollah: il primo è armato dagli Stati Uniti e il secondo da Iran e Siria. E la credibilità di Hezbollah, grazie alla sua capacità di adempiere alle due funzioni fondamentali dello Stato – la difesa e l'assistenza sociale –, è stata moltiplicata con la fondazione di una sua impresa edile, opportunamente battezzata Jihad Construction, che non si limita a costruire scuole e ospedali negli slums sciiti e nei villaggi del Sud, ma finanzia anche le rette scolastiche e le cure. Il Libano resta un vaso di Pandora; le due direzioni opposte verso le quali si muove minacciano costantemente di lacerarlo. Alcuni donatori internazionali hanno impegnato 8 miliardi di dollari, a Parigi, nel 2007, per la ricostruzione, mentre la ricca diaspora libanese sparsa in tutto il mondo, dal Brasile all'Indonesia (stimata nel triplo circa dei quattro milioni di persone della popolazione del paese), ha versato denaro in abbondanza; contemporaneamente, elementi sauditi e iraniani hanno sostenuto la ricomposizione di partiti concorrenti mentre le milizie confessionali hanno iniziato a riprendere le armi e ad addestrarsi nei territori confinanti. Il Libano, insomma, nel momento stesso in cui si ricostruisce sta procedendo a grandi bracciate verso un nuovo, possibile abisso. Il peso schiacciante della Siria in Libano durante la guerra civile fu ufficializzato da un «Trattato di fratellanza e cooperazione» che rese il Libano una «consociata in piena proprietà» di Damasco, che non si preoccupava nemmeno di avere una propria ambasciata a Beirut23-15. Durante il conflitto con Israele del 2006 migliaia di libanesi sono fuggiti in Siria, ennesimo segno della finlandizzazione di questo Stato formalmente indipendente. Se gli scambi ufficiali ammontano a 500 milioni di dollari all'anno, in realtà i siriani hanno depredato il Libano per somme annue pari a cinque miliardi di dollari in contrabbando e rimesse, una cifra superiore all'export della Siria stessa. T.E. Lawrence voleva dare agli arabi un «dream palace» fatto di Camere nazionali dopo la fine del governo ottomano e il «corteo della libertà araba dalla Mecca a Damasco»23-16. Più che una Camera della libertà, tuttavia, la Siria di oggi ricorda l'Uzbekistan. Posta esattamente nel cuore del Mashreq, la Siria è il crocevia storico tra civiltà egiziana e mesopotamica. Le spettacolari rovine di Aleppo sono una testimonianza dei primi passi compiuti dall'umanità nelle forme sociali stanziali, nell'agricoltura e nel linguaggio. Dopo il fallimento di decenni di socialismo baathista, la Siria, un potenziale baluardo industriale di venti milioni di persone, è invece un ostacolo di prim'ordine per una Via della seta regionale. Come Heydar Alijev in Azerbaigian, Hafez al-Assad (ossia 'protettore dei leoni') si è costruito un ordine politico su misura, lasciando in eredità a suo figlio Bashar un paese che è tutto meno che unito, e soprattutto poche indicazioni su come governarlo. Privo di quelle reti di lealtà che facevano il potere di suo padre, Bashar e la sua coterie scelta fra la minoranza halawita hanno purgato il partito Baath e i servizi di sicurezza e hanno allargato il clan attraverso matrimoni mirati con le più potenti famiglie sunnite del paese. Nei bazar che circondano la grande moschea degli omayyadi, a Damasco, i cittadini possono aspirare al massimo al rango di avviliti cospiratori, circondati dagli onnipresenti ritratti degli Assad padre e figlio, con un aspetto sinceramente più svampito che intimidatorio. «Tutta l'importanza della Siria le viene dall'essere un interlocutore obbligato», spiega un consultant politico libanese, «ad Assad e ai suoi basta apparire influenti. Soprattutto, vogliono essere gli interlocutori degli americani… Soltanto per fotterli: qualunque cosa dicano gli americani, loro fanno esattamente il contrario». I grandi discorsi di Washington sulla necessità di rovesciare il regime di Assad non hanno avuto altro effetto che consolidarlo; la risposta di Damasco è stata una strategia di sopravvivenza rivolta all'esterno fatta di legami più stretti con la Turchia e l'Iran e di un ritorno di fiamma di quello che era il vecchio rapporto clientelare con i sovietici: alla flotta russa del Mar Nero è stato infatti concesso di gettare l'ancora nelle basi navali nei pressi dei tranquilli porti mediterranei di Tartus e Latakia. Il maggior investitore nei progetti di esplorazione dei giacimenti di gas e petrolio della Siria è la Cina. E poi c'è la Turchia, che di fronte alle esitazioni dell'Europa a impegnarsi con l'élite siriana degli affari, con i partiti di opposizione, la Fratellanza musulmana, i sindacati, le ONG, i media e gli esuli siriani a Beirut, ha cominciato a riempire il vuoto insegnando a Damasco come riformare la
propria Banca centrale. Il simbolo più efficace della permanenza degli effetti dei vecchi confini coloniali nel Mashreq (nonché ironia vivente del panarabismo) è la ferrovia dello Hejaz. Costruita per trasportare i pellegrini che svolgevano lo hajj23-17 da Istanbul alla Mecca, la ferrovia è caduta in uno stato di quasi totale abbandono; attualmente è in funzione il solo tratto giordano, con i treni che procedono a una velocità risibile. La strategia country-to-country dell'Occidente (se così può essere definita), basata sull'interlocuzione con ogni singolo Stato, non riuscirà mai a sciogliere i veri nodi del Mashreq, ossia l'intrusione dell'Iran, l'intransigenza siriana, la debolezza del Libano, l'aggressività di Israele e la disperazione che domina i palestinesi. Solo l'Unione Europea, che è attualmente alla guida della missione di peacekeeping sul confine Libano-Israele, può aprire a questa regione grandi opportunità di miglioramento del suo potenziale di scambi, turismo e trasporti, secondo il modello già in corso nel Maghreb. Questo perché l'integrazione della Turchia in Europa pone quest'ultima a stretto contatto geografico con quei paesi che ha abbandonato mezzo secolo fa: la Siria, l'Iraq e l'Iran. Il network europeo dei trasporti che sta allargandosi al Caucaso potrebbe essere replicato come sistema stradale che dalla Turchia si estende alla Siria, al Libano, a Israele e alla Giordania, con l'Unione a garantire le pipeline e gli altri progetti transfrontalieri e a minacciare riduzioni del credito ai paesi che si rifiutano di collaborare. La ferrovia dello Hejaz potrebbe addirittura arrivare fino al Cairo, a Baghdad e ancora oltre. E un giorno le nazioni del Mashreq potrebbero tessere relazioni più strette fra loro nel nome di un più illuminato interesse nazionale, o se non altro a causa delle ripercussioni del terremoto geopolitico che sta avvenendo lì vicino, in Iraq.
24. Il buco nero e i confini dissolti dell'ex Iraq Per la geopolitica le guerre sono una specie di tasto di reset: ricalibrano la gerarchia del potere mentre le nazioni vincono, combattono in una situazione di stallo o scompaiono. Tutte e tre le cose stanno accadendo in Iraq dall'invasione americana del 2003, da quando è chiaro il fallimento degli Stati Uniti nella creazione di uno Stato unificato e democratico. Ciascuna delle fazioni che si fronteggiano in Iraq e nelle nazioni circostanti sta combattendo per un proprio obiettivo, il che comporta che l'Iraq stesso ha già cessato di esistere dal momento che nessuno combatte nel suo nome. L'Iraq, in altri termini, è divenuto una finzione cartografica. Quando Baghdad era la sua capitale, dall'VIII al X secolo d.C, il califfato abbaside era il più potente fra gli imperi musulmani, uno Stato che si estendeva dall'Africa settentrionale all'Asia centrale, il cui cuore stava in una frenetica società mesopotamica che ruotava attorno a istituzioni religiose che trascendevano l'appartenenza etnica24-1. Dopo la prima guerra mondiale la Gran Bretagna riunì insieme tre governatorati ottomani che erano stati indipendenti per secoli: il Nord curdo, con capitale Mosul, il centro sunnita governato da Baghdad e il Sud sciita gravitante attorno a Bassora. L'Iraq tuttavia non è mai riuscito a essere uno Stato nel senso moderno del termine, e il suo ruolo è sempre stato quello di una sintesi feudale in cui i clan che possedevano la terra esprimevano il proprio potere attraverso il regime centrale. Anche quando l'Iraq era considerato una società laica e cosmopolita (come lo furono anche l'Afghanistan e l'Iran), la dittatura di Saddam Hussein, la guerra con l'Iran negli anni Ottanta e le misure internazionali prese a seguito dell'invasione del Kuwait nel 1990 determinarono diverse forme di isolazionismo conservatore da parte del suo popolo. Da allora questo paese centralizzato, disegnato dagli occidentali, è andato scomparendo nella forma e nel contenuto. Persino l'Unione Sovietica condannò Saddam, e Gorbacèv ricordò che le armi vendute all'Iraq erano state intese per la sua difesa e non per l'aggressione dei vicini 24-2. Saddam si tenne comunque a galla per oltre dieci anni e passa manipolando il programma Oil for Food delle Nazioni Unite mentre le sanzioni danneggiavano la sanità pubblica e impedivano a un'opposizione interna di prendere corpo. Le misure occidentali furono una specie di «infanticidio mascherato da politica» 24-3. Le no-fly zones imposte dagli USA sul Nord e il Sud del paese, le regioni più ricche di risorse, ebbero il concreto effetto di tagliare fuori Saddam dal controllo di esse; attualmente quello che si sta svolgendo è il loro tentativo di tornare a un passato preiracheno nella forma di una futura sovranità, un'ennesima ripetizione di quella situazione di «anarchia e fanatismo […] con scarse, o nessuna traccia di
nazionalismo» che Sir Arnold Wilson riteneva essere la condizione della Mesopotamia 24-4. Dal momento che i singoli antepongono la lealtà verso il clan, l'etnia o la setta alla lealtà verso lo Stato, le prospettive di dare vita a una struttura federale non sono riuscite a frenare la guerra civile. Il risultato è l'attuale balcanizzazione del paese – con tanto di pulizie etniche, migrazioni di massa e scambi di popolazione -, dalla quale stanno emergendo tre nazioni autonome, il Kurdistan, uno "Sciistan" e un "Sunnistan". La guerra in Iraq ha rivelato negli Stati Uniti una superpotenza la cui conoscenza effettiva della realtà non ha saputo essere alla pari con le sue aspirazioni. Incapaci di distinguere fra tribù arabe e sette islamiche, gli USA hanno sconsideratamente rinunciato alla responsabilità etica di comprendere il paese che stavano occupando, una responsabilità sia verso loro stessi che verso le popolazioni che si sono trovati a gestire24-5. L'enorme macchina militare americana (come pure la nuova, colossale ambasciata USA di Baghdad) è diventata il simbolo del modo in cui intendere un paese: non una nazione liberata, ma una nazione in vendita (da cui l'impiego dei contractors privati che possono muoversi in spregio a qualsiasi legge e che gli iracheni, non senza giustificazione, vedono come orde di predoni). Le stesse strategie che si erano dimostrate utili nei Balcani – fornire sicurezza e beni di prima necessità, ad esempio, o ricostruire il sistema bancario – sono state completamente trascurate in Iraq, tramutato in una specie di Afghanistan del XXI secolo in cui convergono migliaia di combattenti stranieri: un enorme campo di addestramento in cui si elaborano le missioni in tutto il mondo contro la potenza imperiale occupante (è qui che si sono formati gli attentatori che agiscono ovunque sia possibile contro gli occidentali, da Londra a Bali) nonché, cosa ancora più importante, il campo prescelto per lo scontro fra musulmani sunniti e sciiti24-6. Annichiliti dalla spaventosa violenza della guerra civile, gli iracheni medi sono troppo orgogliosi per ammettere che il punto di rottura è stato abbondantemente passato: si limitano a seppellire i proprio morti e a cercare di tirare avanti. Finché la combinazione di vittime e di profughi continuerà a ingrossarsi, tuttavia, occorre chiedersi quanti iracheni resteranno a poter ricostruire il loro paese quando la guerra sarà finita24-7. La maggior parte di loro ha la netta consapevolezza che la situazione è peggiore oggi che sotto Saddam, e alcuni osservatori notano, non senza sarcasmo, che solo un altro dittatore potrebbe salvare il paese. «Gli americani», sibila un interprete, «sono stati così occupati a leccarsi il culo a vicenda che adesso non riescono a capirci più niente». Si dice che se dopo la prima guerra mondiale fosse toccato agli arabi ridisegnare la cartina geografica l'Iraq non sarebbe mai nato. Attualmente siamo di nuovo a questo punto, con gli americani, l'Iran e le potenze sunnite dell'Egitto, dell'Arabia Saudita e della Siria impegnati a dare una nuova forma alla regione che un tempo corrispondeva all'Iraq. Tre volte più grande dell'Iraq e con una popolazione quattro volte più numerosa, l'Iran usa il territorio iracheno come una piattaforma da cui ampliare il proprio vantaggio sull'Arabia Saudita, il suo rivale sunnita e gigante petrolifero del Golfo. Dopo decenni di ostilità e una lunga guerra costata oltre un milione di vite, oggi l'influenza iraniana attraversa tranquillamente lo Shatt al Arab, il fiume formato dalla confluenza del Tigri e dell'Eufrate che costituisce il confine tra i due paesi sin dal tempo del trattato concluso da ottomani e safavidi nel 1639. Centotrentamila soldati americani non sono riusciti a fare alcunché contro l'abilità degli iraniani a infiltrarsi a tutti i livelli della politica e dei servizi di sicurezza iracheni. Attualmente sono loro a fornire agli insurgents gli ordigni esplosivi più devastanti. Il governo di Baghdad si è persino rivolto all'Iran per ottenere assistenza in materia di sicurezza, e ha riconosciuto il suo diritto a un programma nucleare. Le prove della colonizzazione economica iraniana sono dappertutto, dal commercio verso il Kurdistan alla ricostruzione della moschea di Najaf fino all'aeroporto, alla ferrovia e alla rete elettrica di Bassora, dove il farsi è la lingua corrente24-8. E se il pensiero di un'egemonia regionale persiana fa drizzare loro i capelli, persino i paesi sunniti confinanti, in primis l'Arabia Saudita, non hanno alcun interesse a vedere restaurata la precedente forza dell'Iraq, soprattutto da quando non c'è più Saddam, il nuovo martire nazionale, a fornire petrolio a basso prezzo. Di certo non esiteranno a fornire armi e finanziamenti al Sunnistan, alimentando ulteriormente il conflitto finché dell'Iraq non resterà più alcuna traccia. Malgrado tutto ciò, l'Iraq non può ancora essere considerato Terzo Mondo. Anche i distretti più poveri del paese hanno case abitabili, e alcuni quartieri sono scampati alla violenza proprio per la loro miseria. Sufficienti investimenti sono stati impegnati per la ricostruzione delle infrastrutture una volta che la violenza diminuirà, e grosse somme provenienti dall'estrazione del petrolio dello Sciistan e del
Kurdistan saranno dirottati verso l'assai povero centro sunnita in modo che non diventi un deserto inabitabile. I rifugiati iracheni – molti di loro lavorano in Giordania e in Siria come operai o prostitute – torneranno per ristabilirsi nel paese d'origine; libanesi, siriani, giordani e sauditi sono già pronti a invadere il mercato con telecomunicazioni, materiali da costruzione ed export agricolo e a integrarlo con il resto del Mashreq attraverso strade e ferrovie. L'America può anche sentirsi certa di avere migliorato la regione abbattendo Saddam, il punto è che non sarà più lì a giudicare la realtà di quest'idea. Se l'esperienza coloniale degli europei nell'area finì a tutti gli effetti con la crisi di Suez del 1956, l'esperienza neocoloniale americana tramonterà nello stesso paese in cui è cominciata, lasciando il Mashreq come una zona di alleanze in perpetuo mutamento e di prospettive regionali concorrenti24-9. Mentre i falchi di Washington hanno malignamente insistito sulla disunità fra «vecchia» e «nuova» Europa che sarebbe stata messa a nudo dalla guerra, è stato provato in modo lampante che il rifiuto della UE di cooperare ha profondamente infastidito gli americani, benché la presenza economica, politica e di peacekeeping degli europei nella regione sia in aumento. Con le strade che costruisce infaticabilmente, la Cina è già collegata all'Iran e può così avere accesso anche all'Iraq per i suoi obiettivi strategici e commerciali; del resto, a scapito degli americani ha già concluso un accordo da 100 milioni di dollari con il governo di Baghdad per la fornitura di armi leggere che gli americani non hanno a disposizione. Secoli prima che i cinesi vendessero illegalmente sistemi di difesa aerea a Saddam Hussein, il nipote di Gengis Khan, Hulagu Khan, era arrivato fino a Baghdad, saccheggiandola nel 1258 e mettendo fine al califfato abbaside. L'Iraq non è durato tanto a lungo e la storia non mancherà di ripetersi: la regione, sul lungo termine, potrebbe fornirne la prova. La soluzione finale dell'antica questione ottomana in Oriente non sarà raggiunta finché l'Iraq non morirà, risolvendo così anche la questione curda. Intrappolati in mezzo a tre civiltà come quella turca, quella araba e quella persiana, i curdi sono stati umiliati per secoli dai loro vicini. Nella capitale del Kurdistan iracheno, Erbil, resta assai poco della cittadella vecchia di tremila anni dove Alessandro Magno si scontrò con i persiani. I curdi sono un popolo indoeuropeo che parla una lingua indoiranica. Malgrado la loro breve esperienza autonoma come Repubblica di Mahabad, alla fine degli anni Quaranta, non sono mai stati riconosciuti dai propri vicini come un popolo a sé – in Turchia sono semplicemente definiti «turchi delle montagne» – anche se costituiscono la minoranza più numerosa della regione, divisa tra Turchia, Siria, Iran e Iraq. Senza alcuno Stato a garantire loro una patria, il loro detto per cui «i curdi non hanno amici se non le montagne» suona del tutto vero. Nel 1920 Arnold Wilson ammonì che «i bellicosi curdi non accetteranno mai di essere governati dagli arabi», e attualmente la nazione curda, che era appena accennata sulle cartine del periodo ottomano, si sta lentamente e metodicamente solidificando come un Kurdistan pienamente maturo 24-10. Dopo che i loro villaggi sono stati rasi al suolo e gli abitanti gassati con armi chimiche da Saddam, l'attuale gioia maligna dei curdi davanti alla condizione dell'Iraq sembra naturale. «Abbiamo raggiunto l'autonomia dall'Iraq nel 1991, la nostra giovane generazione non è mai stata in Iraq, non parla arabo e non ha mai visto una bandiera irachena piantata sulla nostra terra», mi spiega un ministro curdo all'interno dell'unico hotel funzionante a Erbil. Tutti i curdi, dovunque essi siano, vogliono l'indipendenza: per necessità demografica questa diventerà la politica del Kurdistan. E anche in un Iraq federale essi non potrebbero accettare nulla di meno di un'amplissima autonomia alimentata da grandi flussi di assistenza internazionale incanalata attraverso Baghdad. Il Kurdistan esiste già, assai più di quanto non esista realmente l'Iraq. Sotto la protezione dei radar americani i simboli della sovranità sono codificati giorno dopo giorno. Il governo regionale del Kurdistan ha creato propri ministeri per l'agricoltura, lo sviluppo, l'istruzione e gli investimenti; alle cerimonie per la posa della prima pietra, a Erbil, sono distribuite spille assai poco politically correct con la bandiera del Kurdistan unita a quelle inglese e americana. I guerriglieri peshmerga si sono evoluti in una forza unita che conta cinquantamila uomini, dotata di accademie per l'esercito e la polizia. L'ultimo mattone dell'indipendenza sarebbe il controllo dei giacimenti di petrolio di Kirkuk. Arabizzati con la violenza ai tempi di Saddam – che negava ai curdi centrali elettriche, ferrovie, aeroporti e raffinerie –, i curdi hanno da allora rovesciato a proprio favore l'equilibrio demografico di Kirkuk, nella speranza di assicurarsene il possesso attraverso referendum progressivi. Il Kurdistan ha già firmato contratti per imponenti esplorazioni petrolifere con compagnie energetiche straniere, e una grande raffineria è
progettata alla periferia di Kirkuk. «Quando il governo di Baghdad», dichiara un funzionario, «si rifiuta di far fronte agli impegni che ha con noi non fa altro che ricordarci quanto ancora sia importante l'indipendenza». Con o senza Kirkuk, ormai mancano soltanto una nuova moneta, passaporti curdi e un seggio alle Nazioni Unite24-11. «Persino mio fratello non è mio fratello finché non ha varcato la frontiera», mi dice un interprete che accompagna i visitatori attraverso le maggiori città del Kurdistan a bordo di un imponente fuoristrada giapponese. Lungo il confine con l'Iraq i peshmerga vigilano senza sosta contro ogni possibile infiltrazione indesiderata, con arabi e arabofoni di ogni provenienza sottoposti a perizie etniche di routine, comprese le migliaia di arabi iracheni fuggiti in Kurdistan per salvarsi dalla guerra. Gli arabi vedono questa politica come una vera e propria pulizia etnica, citando il sostegno israeliano al Kurdistan come prova di una più grande strategia per dividere e governare la regione voluta dagli occidentali. La fedeltà al progetto di indipendenza del Kurdistan ha persino la meglio sui legami familiari, con molti cittadini che partecipano in segreto a un programma nazionale di vigilanza sui vicini per riferire di attività sospette. Dal tempo della guerra civile che li oppose gli uni agli altri negli anni Novanta, i curdi hanno cominciato a prendere la strada di una governance non violenta con metodi del tutto assenti presso i loro vicini arabi. «Siamo sunniti come gli arabi, ma l'idea di un fondamentalismo curdo è semplicemente un ossimoro», proclama orgogliosamente un giornalista nella pittoresca e quieta città di Sulaymaniyah. I due partiti di governo (ma sarebbe più appropriato definirli famiglie), il KDP di Barzani e il PUK di Talabani, si spartiscono l'amministrazione del paese, mantenendo un controllo in stile mafioso su ogni forma di business e rendendo praticamente insuperabili le difficoltà di dare vita a un terzo partito. Tuttavia la civiltà che sta fiorendo in Kurdistan può essere notata negli aeroporti e nelle altre strutture pubbliche, dove le armi sono regolarmente depositate, come fossero cappotti o ombrelli. Mentre nel resto dell'Iraq le chiese sono state sistematicamente distrutte, i curdi si impegnano a ricostruirle. Ora Erbil ha uno shopping mall tutto nuovo, e il parco Azadi ('Libertà') di Sulaymaniyah, un tempo base dell'esercito iracheno, ospita uno Speakers' Corner analogo a quello di Londra a fianco di un monumento che reca incisi i nomi delle vittime del regime baathista nella repressione del 1963. Attorno al parco sorgono case ariose e moderne, costruite con il marmo estratto dalle grandi cave della zona. La crescente presenza di rimpatriati della diaspora curda è un indicatore eloquente dello stabilizzarsi delle condizioni di vita. A differenza di Siria e Iraq, ancora vittime di una vasta migrazione di cervelli, i curdi stanno incoraggiando il ritorno del denaro e dei talenti dall'estero. Molti parlano fluentemente tedesco e potrebbero potenzialmente fare per il Kurdistan quello che i turchi della Germania hanno fatto per la Turchia. Altri espatriati curdi stanno lavorando per la fondazione di una nuova università a Sulaymaniyah, che già ospita visiting professors da Europa e Stati Uniti. Di certo la nascita di un Kurdistan indipendente non è destinata a essere vista con piacere da vicini insicuri come Iran e Siria, che reprimono le minoranze curde all'interno dei propri confini. In realtà questo nuovo Stato minaccerebbe solo il loro ego, non la loro sicurezza, perché potrebbero limitarsi a espellere verso di esso la loro piccola popolazione curda24-12. La Turchia è la più sospettosa di tutti riguardo l'eventualità dell'indipendenza del Kurdistan – anche se le sue ossessioni emotive non devono certo rappresentare un valido metro di giudizio strategico. Ankara non vedrà mai soddisfatte le proprie inconsistenti pretese su Kirkuk, basate unicamente sulla presenza in città di una piccola comunità di turchi, e ha poco da temere da un Kurdistan indipendente giacché potrebbe tranquillamente controllare qualsiasi evoluzione del suo status geopolitico rispetto a quello che il Kurdistan è oggi, vale a dire una Bolivia del Mashreq ricca di risorse ma povera di sbocchi geografici. La Turchia ha approfittato a lungo dei traffici illeciti che attraversano il ponte di Habur, vicino alla città curda di Zakho, l'unico passaggio sicuro nell'area per varcare il confine iracheno. Le file chilometriche di autocisterne che riforniscono di gas l'Iraq saranno l'unica possibilità per il Kurdistan di esportare, nella direzione opposta, il petrolio di Kirkuk. In fin dei conti la strategia turca nei riguardi del Kurdistan potrebbe gradualmente assumere lo stesso profilo di relazioni dell'Unione Europea verso la Turchia: legarlo più strettamente a sé e renderlo dipendente. Le aziende edili turche, che la fanno da padrone nel settore delle costruzioni nella regione, stanno già costruendo speditamente i due aeroporti internazionali del Kurdistan, nonché gallerie,
cavalcavia e svincoli stradali, mentre il governo curdo assicura i flussi di greggio fino al porto strategico turco di Ceyhan. Benché unità del potente esercito turco, ammassato lungo il confine nord del Kurdistan, passino abitualmente il confine per snidare le attività del PKK, un Kurdistan sovrano avrebbe responsabilità ben maggiori nel controllo di tali gruppi rispetto all'attuale provincia quasi indipendente di uno Stato smembrato. Il traffico clandestino di carburante, tè, zucchero e droga ha collegato per secoli i mercati della Turchia, della Siria, della Giordania, dell'Iraq, dell'Iran e dell'Afghanistan, con il Kurdistan esattamente nel mezzo. Con il crescere degli scambi della Turchia con Iran e Siria, il Kurdistan continuerebbe vantaggiosamente a svolgere la propria parte di canale commerciale dell'intera regione. La famosa Hamilton Road, che attraversa i magnifici monti Zagros, costruita dall'ingegnere neozelandese A.M. Hamilton fra il 1928 e il 1932, potrebbe tornare a essere l'arteria primaria di questo ramo della Via della seta. La geopolitica dà vita agli Stati quando le frontiere, la popolazione, le risorse e gli interessi trovano un reciproco equilibrio. Quando finirà la guerra civile in Iraq la regione potrà avere perduto una nazione, ma un Kurdistan indipendente non solo porrà fine a una delle grandi ingiustizie dell'ordine postottomano, ma contribuirà anche a far passare in secondo piano le divisioni ostili fra gli Stati del Mashreq. I curdi avranno senza dubbio tutta la libertà che meritano. L'unica domanda è quando.
25. Iran: virtù e vizi Iran non è sinonimo di Persia, poiché la denominazione di Persia rinvia a quella raffinata e possente civiltà che prosperò dal Sinai all'India. I grandi re conquistatori persiani, Ciro, Dario e Serse, edificarono l'impero achemenide, che all'epoca, dal punto di vista tecnico e culturale, non aveva eguali in Occidente25-1. A parte il sacco di Persepoli da parte di Alessandro Magno e l'invasione araba nell'VIII secolo, le catene montuose degli El-burz, degli Zagros e dei Mekran hanno protetto efficacemente la Persia dalla dominazione che ottomani ed europei esercitarono sulle popolazioni arabe. Al suo culmine, nel XVII secolo, la dinastia dei Safavidi governava un territorio che dall'Anatolia e dal Caucaso, attraverso la Mesopotamia, si estendeva a oriente fino al fiume Oxus (l'attuale Amu Darja). Le carte geografiche in uso in Europa nel XVIII secolo indicavano la Persia con il nome di Farsistan, e le tribù beluci di quelli che sono oggi l'Iran sud-orientale e il Pakistan sud-occidentale parlano una lingua derivata dal farsi. Malgrado l'Iran attuale, a cavalcioni fra il Caspio e il Golfo Persico, occupi una posizione geostrategica di primo piano, l'interrogativo fondamentale è se riuscirà a diventare di nuovo la Persia di un tempo. Fu Reza Khan, nel 1934, a ribattezzare Iran, per enfatizzare la sua «nobile origine» ariana, il proprio Stato che non meno dell'antica Persia si prometteva di irradiare la propria influenza in ogni direzione. Occorre tuttavia aggiungere che l'obiettivo dell'Iran non è mai stata l'egemonia militare, ma l'indipendenza strategica dalle grandi potenze. L'occupazione del paese da parte dell'Armata Rossa, durante la seconda guerra mondiale, fu il primo atto di un duello durato decenni fra la Russia e l'Occidente, che si combatté fra l'altro con la destituzione di Reza e l'incoronazione di suo figlio Mohammad Reza Pahlavi come scià, nel 1941, quindi con un tentativo di colpo di Stato e di assassinio di quest'ultimo da parte del Partito comunista iraniano (Tudeh), con un nuovo golpe, questa volta appoggiato dalla CIA, contro il Primo ministro nazionalista Mohammed Mossadegh, nel 1953, in reazione alla nazionalizzazione della Anglo-Iranian Oil Company, e infine con l'istituzione, con l'aiuto della CIA e del Mossad, della temibile polizia segreta del regime, il Savak25-2. Il risultato fu che lo scià, il più fedele alleato degli americani nella regione, sfruttò il boom petrolifero degli anni Settanta per acquistare grandi quantitativi di armi dagli USA con l'esplicito obiettivo di consolidare la propria autonomia da essi25-3. Glorificandosi come re dei re, lo scià riuscì ad alienarsi il proprio stesso popolo fino al superamento del punto di rottura. Dopo un secolo di rivoluzioni nazionaliste o comuniste, in Iran nel 1979 fu messa in scena l'unica grande rivoluzione su base religiosa della storia del mondo moderno25-4. La rivoluzione, in realtà, era diretta ad abbattere l'ordine costituito assai più che non a instaurare un nuovo ordine islamico, e così l'ascesa dell'ayatollah Khomeini al di sopra della lotta fra nazionalisti e comunisti per conseguire il potere sbalordì gli stessi iraniani, oltre che il resto del mondo. Si trattò di una rivoluzione
del tutto imprevista, in primo luogo perché l'Iran era all'epoca uno Stato forte e ricco e lo scià si atteggiava ad Atatürk persiano25-5. Negli anni Settanta il paese aveva un PIL pari a quello della Spagna, e, certo peccando di ottimismo, si paragonava a uno Stato del Primo Mondo come la Germania. Da allora, invece, grazie all'assorbimento economico nell'Unione Europea, è stata la Turchia ad avvicinarsi agli standard di sviluppo economico, forza militare e stabilità politica cui l'Iran aspirava. Negli anni Ottanta l'Iran fu costretto a ben altre attività, e in particolare a rendere onore ai suoi trecentomila martiri caduti durante la guerra contro l'Iraq. Solo grazie al petrolio il paese continuò a essere presente sulla mappa economica del mondo. Dai contrabbandieri che attraversano i passi tortuosi vicino a Kermanshah ai corrieri della droga sulla frontiera con il Pakistan e l'Afghanistan, milioni di iraniani oggi vivono alla giornata, tirando avanti con molteplici lavori al mercato nero. L'Iran riceve ancora prestiti dalla Banca Mondiale, per quanto insignificanti, per la costruzione delle reti fognarie, l'assistenza sanitaria, le emergenze sismiche, le forniture di acqua e la gestione della terra, testimoniando quanto difficile sia completare la scalata fino al Primo Mondo senza stabilità politica. L'Iran è il supremo esempio della schizofrenia che affligge il Secondo Mondo. Le posizioni radicali sulle quali Khomeini lo ha trascinato hanno posto al centro dell'attenzione questioni quali la storia preislamica e prerivoluzionaria, con relative ricadute sullo statuto dello zoroastrismo, dell'ebraismo e persino del sufismo musulmano (proprio in Iran, a Tabriz, Rumi conseguì l'illuminazione, nel 1244); o il destino di un tempio dedicato al culto dello scià, il cui degradante secolarismo era, per Khomeini, abominevole25-6. Il suo sistema parallelo di governo duale, un tentativo di conciliare teocrazia islamica e statualità repubblicana, ha introdotto tensioni con cui il paese è ancora oggi alle prese: gli iraniani stessi ricorrono a tutta una serie di espressioni – poliarchia, oligarchia elettiva, semidemocrazia, neopatrimonialismo – per cercare di descrivere quello che è al tempo stesso un regime autoritario e la nazione forse più democratica dell'intera regione, con regolari elezioni per il Presidente e per il Parlamento della repubblica, il Majlis25-7. Benché l'umiliante pace conclusa da Khamenei con Saddam Hussein abbia costretto gli iraniani a riconsiderare l'idea del favore divino concesso loro in quanto «pionieri dell'islam», le Guardie rivoluzionarie, garanti della supremazia della religione nello spazio pubblico e grandi sponsor del fondamentalismo islamico dalla Palestina al Pakistan, non hanno mai cessato di costituire una minaccia per il liberalismo occidentale. Durante la guerra fredda gli Stati Uniti mantenevano un rapporto privilegiato con Arabia Saudita, Israele e Iran come diga contro il comunismo. Nel 1977 Jimmy Carter volò a Teheran per brindare allo scià come leader di un'«isola di stabilità». Due anni dopo lo scià fuggiva davanti al dilagare della rivoluzione. Da allora i rapporti di Washington con l'Iran sono sempre stati segnati da una sindrome da "ostaggio politico", proprio come gli ostaggi catturati all'ambasciata americana nel 1979, la cui vicenda, da allora, ha pesato su tutte le relazioni – meglio, le non relazioni – fra i due paesi. Quella che era l'ambasciata USA è stata trasformata in un complesso per l'addestramento delle Guardie rivoluzionarie; la ricompensa riservata all'Iran per l'assistenza fornita alla guerra contro i talebani è consistita nella sua inclusione nell'Asse del male di George W. Bush. Fra le conseguenze di questa perpetua acrimonia può essere messa in conto l'elezione di Mahmoud Ahmadinejad a Presidente dell'Iran nel 2005 – di nuovo, un ex sindaco di una capitale di uno Stato del Secondo Mondo, in questo caso Teheran. Identificando se stesso con il bisogno di benessere dell'uomo della strada e ponendo la lotta alla corruzione al primo posto della sua agenda politica, Ahmadinejad è riuscito ad accumulare un potere assai maggiore del suo predecessore, il chierico Khatami. Sebbene il paese soffra ancora di una produzione petrolifera al di sotto del livello ottimale e di sporadici incidenti aerei – in entrambi i casi a causa della tecnologia obsolescente –, Ahmadinejad non ha perso tempo a mostrare i muscoli ben oliati dal petrolio in una serie di scenari, dal Libano alla Palestina all'Iraq, in cui l'inclinazione imperiale persiana pare compenetrarsi con il fervore islamico contemporaneo25-8. Le vastissime riserve di gas e di petrolio, le formidabili forze armate (compresa una marina militare di eccellente livello) e i progressi del programma nucleare fanno dell'Iran una potenza strategica del Golfo Persico, il cui nome – spesso oggetto di contestazioni – pare oggi più che mai giustificato. L'infantile negligenza che gli Stati Uniti riservano all'Iran sembra fatta apposta per trascurare la realtà che nel mercato della geopolitica ogni tentativo di isolare un paese ha la stessa efficacia dell'ignorarne l'esistenza: zero. Come altri paesi chiave del Secondo Mondo (il Brasile, il Kazakistan e l'Arabia Saudita,
in particolare) l'Iran ha una sufficiente sofisticatezza diplomatica da poter essere in grado di conseguire vantaggi da diverse potenze al tempo stesso, soprattutto se tali potenze sono mosse da motivazioni in concorrenza reciproca. Gli Stati Uniti hanno puntato l'indice soltanto sulle potenzialità militari del programma atomico iraniano, ignorandone i possibili usi civili e le altre necessità commerciali cui deve fare fronte il paese; la UE, di suo, ha chiuso gli occhi per parecchi anni sulle attività illecite dell'Iran in materia di nucleare e di appoggio al terrorismo, aggirando le sanzioni americane fino a diventare il suo primo partner commerciale; la Russia, infine, ha venduto all'Iran tecnologia per la costruzione di reattori nucleari con scarso riguardo per le possibili reazioni a catena che questo avrebbe innescato25-9. Come ci si può lecitamente attendere da due civiltà orgogliose legate fra loro dall'intera storia della Via della seta e dalla comune diffidenza verso gli Stati Uniti, anche la Cina è impegnata ad aiutare l'Iran a superare le incertezze della tensione fra il desiderio di influenza strategica e il bisogno di maggiori investimenti. Per la Cina, l'Iran è l'ultima mattonella che manca per lastricare la strada fino al Golfo Persico: una volta finita l'opera, il petrolio attualmente imbarcato sulle cisterne costrette a transitare per gli Stretti di Hormuz e di Malacca potrà tranquillamente essere trasportato via terra attraverso strade, ferrovie e oleodotti passando per l'Afghanistan. Cina e Iran hanno firmato numerosi contratti per energia, infrastrutture e armamenti: un accordo da 70 miliardi di dollari per l'estrazione di gas naturale dal giacimento di Pars Sud (il maggiore al mondo), e poi lo sviluppo di una massiccia riserva petrolifera nella regione dell'Iran popolata da curdi, la costruzione di terminal petroliferi sul Mar Caspio, la realizzazione di una metropolitana a Teheran e la vendita di tecnologia cinese per missili balistici e sistemi radar per la difesa aerea. I falchi di Teheran sono sicuri che il paese possa già fare affidamento su un mix di Cina e Russia come potenze amiche che forniscono la tecnologia, le armi e gli scambi commerciali di cui l'Iran ha bisogno senza dover fare alcuna concessione all'Occidente, anche se l'Europa dovesse definitivamente gettare sul tavolo il suo immenso peso economico senza tener conto delle sanzioni25-10. «Chiederci di rinunciare al nostro programma atomico è un insulto», insiste un analista iraniano, «è come se al ristorante ci vietassero di ordinare un piatto che tutti gli altri possono avere». È un'opinione che probabilmente esprime quello che pensa la maggioranza degli iraniani, che almeno a livello intuitivo appoggiano le aspirazioni nucleari del governo. Sulle nuove banconote del rial è effigiata la fissione nucleare, e proprio lo scudo che il programma atomico può fornire consentirebbe al paese di estendere la propria influenza rivoluzionaria. Quantomeno, l'Iran potrebbe razionalizzare l'arma nucleare come strumento di difesa, un'esigenza parecchio sentita oggi da un paese stretto nella morsa delle truppe americane in Iraq e Afghanistan (e verosimilmente anche in Turkmenistan e Pakistan). Del resto il superamento della soglia atomica da parte dell'Iran, che di per sé non è vietato dal Trattato di non proliferazione nucleare (NPT), potrebbe trovare una propria giustificazione anche solo come difesa dalla minaccia di Israele e del Pakistan, due paesi che non hanno firmato l'NPT e sono dotati di arsenali nucleari. Come i caratteristici dolci farinosi del paese, i gaz, la diplomazia iraniana può essere ingannevolmente aspra. Stati Uniti e UE sono stati pronti a criticare la falsa umiltà della retorica nucleare iraniana, il riflesso di un'ipocrisia culturale fatta di un'astrattezza voluta e affinata nel corso dei secoli. L'Occidente non è in grado di rovesciare l'attuale regime di Teheran: in compenso le sue sanzioni hanno offerto al governo in carica una scusa per non adempiere ai propri obblighi in politica interna e sviare l'attenzione dalle continue violazioni dei diritti umani. I miseri 40 milioni di dollari promessi dagli USA per promuovere il cambiamento politico sono stati il bacio della morte per i riformatori, sui quali la scure della repressione si è abbattuta immediatamente. A differenza di Saddam, tuttavia, i leader iraniani preferiscono una controlled confrontation all'umiliazione che seguirebbe un'eventuale guerra. Una struttura regionale che abbracciasse ogni Stato incluso nel triangolo fra Israele, Arabia Saudita e Iran (con Stati Uniti, Cina, Russia e Unione Europea come sponsor) potrebbe tenere l'Iran al suo posto e addirittura essere la premessa dell'affare più grande di tutti: il ritiro delle sanzioni e la normalizzazione dei rapporti in cambio della riduzione del sostegno iraniano al terrorismo e della realizzazione di un programma nucleare civile sottoposto al monitoraggio delle agenzie internazionali, con relativi contratti per forniture energetiche quale precondizione. L'apertura dei flussi dell'investimento, del turismo e dei media internazionali sarebbe fatale per la strategia di autoisolamento del regime iraniano e spezzerebbe
la collusione economica fra casta religiosa e bazaari25-11. Malgrado le rivoluzioni siano qualcosa che arriva solo quando nessuno se l'aspetta, sono comunque più probabili quando l'intellighenzia e le masse hanno la possibilità di pensare a qualcos'altro che non siano i bisogni primari25-12. I sofismi diplomatici di Teheran, infatti, mascherano profonde insicurezze sulla difficile situazione socioeconomica del paese, che, pieno di petrolio e di gas ma ancora impantanato nel sottosviluppo, ha problemi ben più urgenti dell'uranio. «Siamo una nazione confusa, e i basiji stanno più che mai confondendo pubblico e privato», si lamenta un infaticabile imprenditore di Teheran riferendosi agli intrepidi miliziani della guerra contro l'Iraq, attualmente impegnati a concretizzare senza riguardi per nessuno l'agenda della rivoluzione. Gli studenti che hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime sono scomparsi, e senza dubbio sottoposti a torture. Un Iran più democratico, invece, sarebbe di certo meno ossessionato dalla questione nucleare e comprenderebbe il guadagno che viene dallo scegliere una solida politica economica al posto dell'armamento nucleare25-13. Proprio come i suoi vicini arabi che tratta con tanto sussiego, l'Iran in realtà manca di una visione nazionale condivisa in grado di tenere assieme le fazioni in lotta dei religiosi, degli uomini d'affari e dei tecnocrati, cui è da aggiungere tutta la galassia frammentata e autoreferenziale degli esuli, che va dai monarchici alle élite disaffezionate che abitano la lontana "Teherangeles". La funzione pubblica è un buco nero di corruzione, inetto e inefficiente, e la religione è a tal punto scaduta nel ritualismo da essersi alienata le generazioni nate dopo la rivoluzione, ossia la maggior parte dei settanta milioni di abitanti dell'Iran, per non parlare dei disoccupati25-14. La grave fuga di cervelli di cui soffre la sua classe tecnica accomuna l'Iran a tante altre nazioni del Secondo e del Terzo Mondo, dove l'ingresso nella diaspora è l'unica strada possibile verso l'autorealizzazione; la ricerca di un visto di lavoro presso l'ambasciata canadese di Damasco è stata descritta come un pellegrinaggio generazionale25-15. Senza contare che, malgrado il potenziale agricolo, la capacità industriale e la presenza di siti archeologici in grado di competere con quelli della Grecia e della Turchia, le voci principali dell'export iraniano restano quelle che erano prima della rivoluzione: tappeti, pistacchi e, naturalmente, petrolio. Teheran è il simbolo più eloquente della degenerazione socioeconomica del paese. Non più antica di duecento anni, non ha nulla della grandiosità storica di Shiraz e Isfahan, con i loro templi e i loro giardini dell'epoca imperiale. Attualmente la città è una sorta di pantano in perenne espansione, sovrappopolato, sottopianificato e inquinato; ma già Toynbee ricordava che quando si entra a Teheran «si ha l'impressione di abbandonare il paese di cui è la capitale ufficiale»25-16. Milioni di migranti scendono a Teheran dalle campagne, afflitte dalla stessa siccità che pose fine all'età d'oro della Persia, nel XII secolo. Incapace di controllare efficacemente il proprio lungo confine con l'Afghanistan, l'Iran è la via di transito di gran parte dei 65 miliardi di dollari l'anno del traffico di eroina e di oppio raffinato, dai quali si stima che un milione di iraniani adulti sia dipendente. Al netto degli innumerevoli tabù sociali, infatti, l'abuso di droghe, la prostituzione, i matrimoni temporanei (sigheh) con il solo scopo di avere rapporti sessuali e la chirurgia plastica fioriscono in Iran come potrebbe accadere in qualsiasi altro paese al mondo25-17. Una nazione in cui l'élite è costretta a fuggire per godersi un minimo di divertimento, mentre tutti coloro che non possono permetterselo sono soppressi, difficilmente può essere considerata una nazione capace di governare se stessa, figurarsi i propri vicini. È bastata la globalizzazione per mettere il regime di Teheran all'angolo. Infine, ci sono gli eserciti arabi e americani a impedire che l'Iran possa recuperare l'estensione territoriale della Persia imperiale. L'Iran può alimentare la resistenza sciita e rivendicare il possesso delle isole del Golfo, ma finché le circostanze saranno quelle che sono ora, quest'ultimo di Persico non avrà che il nome. Più nell'immediato: malgrado la famosa frase di Khamenei secondo cui la rivoluzione del 1979 aveva a che fare con qualcosa di più del prezzo dei cocomeri, a trent'anni di distanza la controrivoluzione che sta dispiegandosi ha proprio a che fare con quello.
26. Le correnti del Golfo Se anche tutti i rubinetti mondiali del petrolio e del gas – quelli attivi e quelli ancora in fase di progetto – fossero aperti, ebbene, il Golfo Persico da solo coprirebbe ancora, e per un futuro prolungato, il 40 per cento delle forniture totali di energia. Basta questo a garantire che la centralità
geopolitica di questa regione corrisponda alla sua centralità geografica come punto di congiuntura fra Europa e Asia26-1. Per oltre un secolo il controllo imperiale di questo «lago britannico» da parte degli inglesi e la loro influenza sugli sceiccati indipendenti del Golfo sono stati le due facce della stessa medaglia. La legittimità della presenza americana nella regione – basata sull'appoggio accordato ai regimi locali e sulla protezione della stabilità dei flussi di petrolio – è attualmente alle prese con il medesimo problema di quadratura dei conti. Il denaro da solo non compra la sicurezza. «Non vogliamo le forze americane, ma sentiamo di averne bisogno», riflette un adviser del governo del Qatar. Timorosi dell'imprevedibilità e dell'austerità culturale dell'Arabia Saudita, gli staterelli costieri del Golfo – Kuwait, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti, Bahrain – stanno insorgendo contro questo loro signore come vassalli ribelli attraverso diversi stadi di rivolta 26-2. La loro percezione del regno saudita è la stessa che le ex repubbliche sovietiche del Baltico e del Caucaso avevano della Russia: un gigantesco buco nero che cerca di risucchiarli con ogni mezzo a sua disposizione. L'integrazione economica all'interno del Consiglio di cooperazione del Golfo non è altro che la copertura di un continuo sforzo di distinguere identità individuali di cui solo pochi estranei possono realmente dirsi a conoscenza. Ciascuno di essi si sta trasformando in una città-regione globalizzata per tutelarsi dalla supremazia saudita. L'Arabia Saudita richiede ancora il visto d'ingresso ai cittadini degli Stati confinanti del Golfo, i quali invece non lo richiedono reciprocamente, e ha cercato di impedire loro di aggirare collettivamente quest'obbligo attivandosi per bloccare la costruzione di un ponte destinato a collegare il Bahrain al Qatar e di un altro ancora più lungo fra il Qatar e gli Emirati. Quando il Bahrain, privo di risorse petrolifere, ha concluso un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, l'Arabia Saudita ha interrotto le forniture di petrolio dal giacimento di Abu Safah, che tecnicamente divide a metà con il Bahrain. «È abbastanza vicino da poterlo vedere», mi dice un analista strategico residente a Dubai allungando il braccio in direzione dell'Iran, sull'altra sponda del Golfo. «E se anche non lo vedi, senti distintamente la sua presenza». Le animosità interne al Consiglio di cooperazione del Golfo hanno aperto una finestra agli Stati Uniti per rinnovare massicci contratti di vendita di armi convenzionali e disseminare le proprie forze armate nell'area con l'impegno di proteggere i piccoli sceiccati del Golfo dall'Arabia Saudita e dall'Iran. Durante la guerra del Golfo soltanto il Kuwait si schierò apertamente con gli americani (anche perché era il paese che aveva subito l'invasione irachena), e allo stesso modo resta oggi il magazzino di ricambi degli americani in Iraq. Ma attualmente anche il minuscolo Qatar, che controlla flussi quasi infiniti di gas naturale, serve come quartier generale avanzato del Comando USA per il Medio Oriente e l'Asia centrale (CENTCOM), e per rimarcare la propria totale dedizione all'alleanza con gli Stati Uniti ha persino sciolto le proprie forze armate. La più lunga pista di decollo militare al di fuori degli Stati Uniti è puntata direttamente verso l'Iran: la piccolissima monarchia isolana del Bahrain, base avanzata della British Navy durante la seconda guerra mondiale, oggi ospita la Quinta flotta americana. Se tutti gli staterelli del Golfo criticano l'arroganza militare e diplomatica americana, quel che è certo è che preferiscono di gran lunga importare l'hardware americano piuttosto che il software radicale che viene smerciato dal wahabismo saudita o dallo sciismo iraniano. Non stiamo parlando soltanto dell'artiglieria pesante e della forza navale americana: migliaia di corpulenti ex militari pattugliano le installazioni del Golfo in qualità di contractors addetti alla sicurezza, come coorti di guardie pretoriane. I loro stipendi esorbitanti sono, almeno per gli sceicchi, un particolare irrilevante. Se gli americani volessero rinunciare a uno di questi microalleati dovrebbero prima quantomeno offrire ricompense più alte a questi loro connazionali. Jimmy Carter dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero garantito la continuità del flusso petrolifero «con ogni mezzo necessario», ma oggi naturalmente, a guerra fredda finita da un pezzo, non esiste più alcun rischio di invasione sovietica dell'Arabia (in previsione della quale Washington pianificò reazioni spaventose, fra cui far saltare in aria tutti gli impianti d'estrazione sauditi). Eppure l'invasione americana dell'Iraq è riuscita a influire negativamente sia sulla stabilità della regione che sul prezzo del greggio, persuadendo europei e asiatici a essere assai meno disposti a cedere agli americani la responsabilità di assicurare i loro rifornimenti di petrolio. Al tempo stesso le priorità dei regimi del Golfo sono diventate la stabilità e la generazione di ricchezza, con la lealtà verso gli USA piazzata a grande distanza al terzo posto. È così che Europa e Cina hanno fatto il loro lento ingresso nel Golfo attraverso il mercato
dell'energia e i contratti d'investimento. L'Europa ha siglato con il Consiglio di cooperazione del Golfo la nascita di una free trade area, e gli arabi depositano una fetta sempre maggiore dei loro ricavi petroliferi nelle banche UE (valutandoli in euro), piazzano le proprie società sui listini di Londra invece che su quelli di New York e acquistano gli aerei prodotti dalla Airbus per le loro compagnie di prestigio come Emirates e Gulf Air. Non soltanto la parola "petroldollaro", ma anche il cliché dell'arabo che sbraita contro gli americani mentre chiede la green card appaiono sempre più antiquati26-3. Al tempo stesso, l'hadith del Profeta, «cerca la sapienza, anche se fosse lontana come la Cina», si è avverato da quando è la Cina che si avvicina al Golfo. Gli asiatici consumano una percentuale di petrolio del Golfo (il 70 per cento della loro domanda) assai maggiore di quella degli americani, con conseguenze così vaste da incidere su ogni aspetto dell'industria estrattiva, dal prezzo e dalle dimensioni delle petroliere alla larghezza e profondità dei canali. Di fatto, agli attuali tassi di crescita dell'economia asiatica l'OPEC non si preoccupa certo del rallentamento dell'economia americana quando si tratta di garantire la tenuta dei profitti. Inoltre la vulnerabilità cinese ai picchi e ai ristagni del prezzo giustifica i suoi investimenti nello sviluppo del porto pakistano di Gwadar, la sua testa di ponte navale sul Mare Arabico. È un segno della maturità geopolitica di Pechino la sua capacità di conservare solidi legami con due paesi antagonisti come l'Iran e l'Arabia Saudita26-4. L'alleanza fra il Medio Oriente e il Regno di mezzo, in realtà, risale agli anni Sessanta, quando la Cina cominciò a vendere missili all'Arabia Saudita26-5. Più di recente, quest'ultima ha fatto una corte serrata agli investimenti cinesi finanziando, in contropartita, un enorme complesso petrolchimico nella provincia cinese del Fujian26-6. Anziché i rapporti politicamente caldi con l'America, la famiglia reale saudita ammira perdutamente la Cina per avere conseguito il potere senza soggiogare gli altri, come un tempo faceva l'Occidente, per la similarità di un decision making centralizzato e per l'assenza di preoccupazioni sui diritti umani nell'attività diplomatica. «Al posto della supremazia americana nel Golfo», mi dice uno studioso di Dubai che si occupa dei trend regionali, «quella che sta prendendo forma è una nuova Via della seta marittima tra il Golfo e i paesi dell'Asia orientale. È una relazione fortemente complementare, nella quale gli asiatici costruiscono il sogno arabo di città del XXI secolo e acquistano una porzione sempre maggiore della sua energia». Come nota un funzionario saudita, l'Arabia magari non intende divorziare dall'America, ma certo può avere più mogli26-7. Fino all'epoca dello sfruttamento del petrolio l'Arabia era considerata nulla più di un deserto desolato, e per questo non ricevette alcuno dei benefici della colonizzazione, come una burocrazia moderna o istituzioni educative superiori. Wilfred Thesiger, l'esploratore militare inglese reso famoso dall'attraversamento dell'infinito Empty Quarter, la zona spopolata della penisola arabica, affermò che «i mutamenti occorsi nello spazio di uno o due decenni (più o meno dal 1950 al 1970) sono stati non meno grandiosi di quelli che si verificarono in Gran Bretagna fra l'inizio del Medioevo e oggi» 26-8. Negli anni Settanta il petrolio divenne la leva geopolitica del Secondo Mondo arabo, trasformando le monarchie del Golfo nei nuovi ricchi del pianeta. In Arabia Saudita tuttavia il petrolio non fece che finanziare governi sovradimensionati, con i membri della famiglia reale arbitrariamente designati a capo di una pletora di ministeri privi di reali attività. La corsa sfrenata dalle capanne di fango ai castelli durò meno di diec'anni: l'OPEC perse il controllo sulla produzione dei suoi membri negli anni Ottanta, quando il prezzo del greggio subì un tracollo e le popolazioni del Golfo conobbero un boom. Il reddito pro capite saudita colò a picco, trascinando il paese dal record di nazione più ricca del mondo a un modesto piazzamento alla pari con il Messico. La benedizione incalcolabile data dall'impennata del prezzo del petrolio dopo l'11 settembre 2001 ha riportato in luce un motivo già familiare al tempo del boom degli anni Settanta, cioè le spese militari sfrenate – 40 miliardi di dollari nel 200526-9. Tuttavia, soggetto al più attento scrutinio delle banche occidentali, il capitale arabo ha imparato a guardarsi attorno. Mentre le nazioni africane ricevono gli investimenti stranieri e li restituiscono al Primo Mondo sotto forma di materie prime, il 70 per cento dei proventi petroliferi arabi è attualmente reinvestito all'interno del mondo arabo26-10. Gli Stati del Golfo hanno impegnato qualcosa come mille miliardi di dollari in progetti infrastrutturali che vanno dalla desalinizzazione dell'acqua marina alle università e agli ospedali fino ai nuovi porti e alle città che spuntano dal deserto grazie alle esportazioni. La business community araba sta promuovendo una riforma dei profili professionali che ricorda altri modelli di evoluzione collettiva tutti interni al Secondo Mondo,
dall'Est Europa all'Asia orientale, come l'incentivazione del turismo in Tunisia ed Egitto, la crescita agricola dal Marocco al Sudan e altre ventures imprenditoriali che creano occupazione e riescono persino a immettere molte donne nel mondo del lavoro, mutando lentamente quella struttura sociale per la quale le nazioni del Golfo sono sempre state «più ricche che sviluppate»26-11. Questa (rinnovata) ricchezza, tuttavia, non garantisce certo che non sarà di nuovo dissipata. Gli aspetti tribali del controllo monarchico che un tempo fecero svanire la prosperità sono ancora presenti26-12. «Le strutture sociali medievali sono regressive persino secondo gli standard arabi», osserva uno specialista delle monarchie del Golfo. L'imperante modello di scambio fra la rendita basata sul puro controllo familiare e il welfare preclude la benché minima nozione di equilibrio dei poteri fra Stato e società26-13. Sia nel Qatar che negli Emirati numerosi colpi di Stato senza spargimento di sangue all'interno delle famiglie regnanti si sono risolti in destituzioni di sceicchi e saccheggi reciproci dettati da orgoglio o da semplice noia. La prosperità viene dal clientelismo, non dal lavoro, sfociando nell'effetto debilitante dei privilegi non guadagnati: una società decadente che gode di un welfare gratuito, ma la cui indolenza può diventare benzina alle prime difficoltà dell'industria petrolifera26-14. Resta da vedere se in Arabia la storia ripeterà se stessa. Il linguaggio del denaro: l'Arabia Saudita Gran parte delle fortune del mondo arabo dipende dalla più ricca delle monarchie del Golfo, quella saudita. Strategicamente collocata fra il Mar Rosso e il Golfo Persico, l'Arabia Saudita ha le più grandi riserve di petrolio al mondo e, spronata dai suoi forzieri pieni, ora si pone come mediatore attivo nella questione libanese, in quella irachena e in quella arabo-israeliana, con Egitto e Giordania come partner secondari. Benché la loro sia la più grande Borsa della regione, i sauditi sono noti per attraversare il deserto di notte per arrivare a Dubai e Doha in tempo per cogliere le opportunità di Offerte pubbliche iniziali (EPO). Sono stati i primi a lanciare grandi hedge funds e a consorziare i propri investimenti depositandoli in tutta la regione. I reali sauditi sono anche proprietari dei maggiori media progressisti dell'area, quotidiani e TV satellitari come Al Arabiya, e stanno incoraggiando la diversificazione produttiva e la creazione di occupazione per trasformare la massa dei giovani arabi da minaccia in opportunità26-15. L'Arabia Saudita dovrebbe essere apprezzata per la sua capacità di mantenere un costante equilibrio fra la diplomazia OPEC, le pressanti richieste degli Stati Uniti, un'opinione pubblica perennemente inquieta e le questioni di sicurezza interna. Arabia Saudita, Bahrain e Qatar insieme coprono quasi il 70 per cento della produzione di petrolio dell'OPEC; la raffineria di Abqaiq e il terminal di Ras Tanura, entrambi sauditi, alimentano il 10 per cento del consumo mondiale quotidiano di petrolio. Per proteggere il cuore della propria economia, l'Arabia Saudita ha costruito una struttura energetica impenetrabile gestita da élite di professionisti (in cui non trovano spazio i membri della famiglia reale), e che Al Qaeda ha comunque cercato di distruggere con l'attacco suicida al perimetro di Abqaiq, nel 2006. Tuttavia, la volatilità del prezzo del petrolio, che sia causata da instabilità politica o da interruzioni dei rifornimenti, è l'equivalente economico di un'ulcera, un disturbo doloroso che indebolisce l'intero corpo e può essere potenzialmente fatale26-16. Il mercato energetico è affamato di petrolio saudita, ma al tempo stesso osserva con sospetto le disfunzioni della famiglia che lo controlla. Da capi locali della zona centrale dell'Arabia, gli Al-Saud ascesero i ranghi tribali grazie all'alleanza, nel 1744, con Muhammad ibn Abd al-Wahhab, la cui autorevolezza religiosa conferì credibilità a Muhammad ibn Saud, antenato di quel principe Abdul Aziz ibn Saud che marciò nella cittadella di Riyad nel 1902 e si assicurò il controllo della nazione. La bandiera nazionale raffigura la potenza della spada saudita e dei versetti del Corano, simboleggiando il fervore religioso wahabita; sono questi i due elementi che definiscono lo Stato. Dall'epoca del jihad antisovietico in Afghanistan l'Arabia Saudita non è stata seconda a nessuno nel finanziamento del radicalismo islamico, dal Pakistan all'Indonesia, con investimenti un tempo considerati essenziali ai fini della sua credibilità presso il mondo musulmano. Se Egitto e Giordania hanno espulso definitivamente gli elementi fondamentalisti negli anni Settanta, i sauditi li hanno accolti come maestri e hanno promosso l'islamismo come alternativa all'arabismo. Più
di recente i jihadisti sauditi si sono riversati a migliaia in Iraq per combattere l'occupazione americana. Tuttavia l'establishment wahabita è pure impegnato in una lotta di potere con gli Al-Saud al governo. L'intima alleanza fra l'America e la famiglia regnante scandalizza i religiosi wahabiti, che hanno fatto appello agli emuli di Osama bin Laden per la resistenza non solo all'occupazione sovietica dell'Afghanistan, ma anche a quella dell'Arabia da parte degli infedeli occidentali, creando una nuova generazione di estremisti che si sono moltiplicati come cellule cancerogene nel corpo politico arabo. In questo rigurgito ammantato di religiosità i nemici "vicini" e quelli "lontani" – gli autocrati locali e le superpotenze estere – hanno potuto essere accostati26-17. In Arabia Saudita, come nello Yemen – la stretta fascia meridionale della Penisola Arabica, un paese del Terzo mondo con una popolazione pari a quella saudita –, il regime ha costantemente corrotto i capi tribali e i chierici, ottenendo l'effetto di rafforzarli. Tuttavia in Arabia Saudita non c'è meccanismo concepibile di successione al potere che non sia la dinastia che ha sempre governato la nazione. Se il suo efficiente apparato di sicurezza è in grado di pacificare la ristretta popolazione sciita confinata nelle province orientali del paese, lo stesso non si può dire del fondamentalismo sunnita cresciuto nel cuore del paese26-18. «Come fai a distinguerli?» si lamenta un membro della famiglia reale nel suo lussuoso ufficio da cui si gode la vista di tutta Riyad. «Vivono in mezzo a noi, e si muovono liberamente fra le città e i villaggi». La globalizzazione accelera la storia, ma in Arabia Saudita la storia si muove con due velocità completamente differenti: una della testa, l'altra del cuore. Esistono limiti a quanto può progredire una civiltà quando la gente prega cinque volte al giorno e vive nel caldo paralizzante di un deserto senza fine. Nel mese del Ramadan il giorno e la notte si scambiano il posto, e la gente digiuna e riposa dall'alba al tramonto e mangia con il buio. In quanto custodi dei luoghi santi dell'islam, i wahabiti si considerano gli unici autentici praticanti. La cultura saudita è stata vittima di un regresso intenzionale, dovuto alla volontà di riportare il paese a una presunta pura età islamica dell'oro, che ha comportato la distruzione di ogni artefatto premusulmano, fino, in certi casi, al seppellimento di interi villaggi. Per il Profeta e per i suoi discepoli non c'era alcuna distinzione fra autorità secolare e autorità divina, e così persino l'intesa dei wahabiti con la famiglia reale saudita è un'empia alleanza che gli Ikhwan ('i confratelli') devono tollerare dal momento che non sono in grado di sostenere una rivolta armata 26-19. Gli attentati agli impianti petroliferi compiuti dalle frange radicali wahabite o le fatwa emanate contro le IPO non sono che i sintomi di una ben più profonda lotta che i fondamentalisti, ma anche la società saudita nel suo complesso, stanno conducendo per resistere alla modernità globale, invece che adeguarsi a essa. «Chi agisce peggio, maestro, colui che rivendica la propria divinità attraverso l'ignoranza o colui che sfrutta il Corano per i propri fini?», chiede il viaggiatore di Il viaggio di ibn Fattuma, la novella del premio Nobel Nagib Mahfouz. Il condizionamento morale è una strategia sensata quando una società cerca di conservare le proprie tradizioni religiose, e di certo la sharia è ricca di proibizioni e di deterrenti adatti allo scopo. Ma la severa polizia morale dei sauditi (e degli iraniani) si è dimostrata assai poco efficace contro quelli che vengono considerati i flagelli della società islamica: l'adulterio, il traffico di stupefacenti e la criminalità. In realtà, la falsa devozione messa a nudo dall'analisi delle trasgressioni compiute dai sauditi contro il loro codice morale offusca persino quella degli iraniani, rivelando l'intollerabilità delle contraddizioni implicite nella coesistenza simultanea di due secoli diversi26-20. La vita pubblica saudita riguarda per lo più quei dieci milioni di lavoratori stranieri residenti nel regno che svolgono pressoché ogni professione; la vita privata degli arabi è invece tradizionale, e riservata – anche se non abbastanza da nascondere le storture che sorgono in seguito all'incontro dei sauditi con la modernità, come l'enorme mercato nero di liquori e i frequenti, spaventosi incidenti automobilistici nella sabbia provocati dall'abuso di alcol alla guida e dalle corse automobilistiche. I limiti di velocità sono mere raccomandazioni. Impossibilitate a guidare o anche a passeggiare da sole, gira il detto che le casalinghe saudite siano formidabili stupratrici di idraulici, mentre fra i maschi l'omosessualità fiorisce a dispetto dei divieti religiosi e della pena della fustigazione. Tempi della preghiera a parte, la tendenza al peccato è all'ordine del giorno fra le élite, che venerano i propri telefonini tempestati di diamanti come fossero icone religiose. Il movimento ritmico dei pellegrini in abito bianco che affluiscono alla Grande moschea della Mecca è letteralmente eclissato dall'anello di sgradevoli hotel di lusso che si estende attorno alla città. Si importano donne dal resto del mondo per servitù sessuale, mentre la manodopera
straniera è sfruttata in condizioni di virtuale schiavitù – anche se le decapitazioni pubbliche settimanali ospitano regolarmente lavoratori stranieri poveri (generalmente pure musulmani) condannati a morte per crimini come il furto di medicinali di base dalle farmacie. In ogni caso, né giustiziare i lavoratori stranieri né sottoporli a quarantena può scuotere dall'apatia e far entrare nella forza lavoro del paese i sauditi, che passano la maggior parte del tempo a correre fra gli altri Stati del Golfo, dal Bahrain a Dubai (dove un tempo i sauditi imposero un divieto generalizzato sull'alcol), in cerca di edonismo senza limiti, o si gettano ogni estate a conquistare le boutique di Londra e Ginevra. Tali evidenti ipocrisie che emergono dalla guerra culturale interna combattuta dai sauditi hanno incoraggiato fra gli occidentali un senso di superiorità e la presunzione che tutti gli arabi musulmani siano privi di valori, come se fede e modernità fossero due cose in antitesi, con la seconda a guidare la marcia lasciando la prima ad avvizzire. La realtà è abbastanza diversa: la modernità è una fase, la fede, invece, è eterna. È la modernità, e non l'islam, a essere sottoposta a giudizio allorché i musulmani decidono di adattare la propria religione alle scelte imposte dal mondo contemporaneo, o di respingerle in toto. L'islam è diventata una religione globale grazie alla capacità di adattamento delle popolazioni nomadi, e attualmente si sta diffondendo sia in aree altamente modernizzate che in aree premoderne, in virtù di alti tassi di nascite e appelli a conversioni di massa. Le banche, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, offrono già ai propri clienti musulmani strumenti finanziari in regola con la sharia. Innovazioni più di facciata come i jeans di marca Al Quds, gli hijab sportivi disegnati dalla Nike e il burqini per le ragazze che vanno in spiaggia mostrano come lo stile occidentale possa adattarsi alla sostanza islamica piuttosto che il contrario. I musulmani europei, che hanno superato questi problemi di adattamento grazie al comunitarismo spirituale, potrebbero diventare un modello per i loro correligionari di tutto il mondo in merito al mutamento del ruolo della donna, al settarismo e all'educazione secolarizzata. Respingere l'islam è fuori discussione, e questo significa che comprendere i fenomeni esteriori del mondo islamico – costumi, filosofia, arte, linguaggio, musica – è importante quanto saperne leggere l'alfabeto26-21. Samuel Huntington sostiene che l'essenza della civiltà occidentale è «la Magna Charta, non il Big Mac»: ma giova comunque ricordare che addentare il secondo non implica necessariamente dover ingoiare la prima. È una cosa che il giornalista saudita Khalid al Maeena ha capito benissimo, almeno da quando sua figlia, educata negli Stati Uniti, gli ha detto: «se vai da Starbucks ti ammazzo»26-22. La cultura si fa storia nel momento in cui un genitore decide di cambiare il modo in cui educare i figli. Per generazioni i wahabiti hanno insegnato soltanto una recitazione selettiva e memorizzata del Corano, non l'islam in sé. Toynbee deplorava «l'estinzione della coscienza di razza» nell'islam, descrivendo «un bisogno disperato di propagazione delle virtù islamiche»26-23. Mai prima d'ora l'importanza della carità (zakat) e della fraternità sono state così necessarie come negli Stati sovrappopolati del mondo musulmano. «Soprattutto a Londra e qui, nel regno», mi spiega un attivista della World Assembly of Muslim Youth a Riyad, «spingiamo i giovani musulmani a cercare l'integrazione sociale e a promuovere i fondamenti umanitari dell'islam». Toynbee prevedeva che gli Stati Uniti avrebbero potuto eliminare i wahabiti a loro piacimento «se il loro zelo dovesse diventare una seccatura tale da giustificare la fatica di sopprimerli». In realtà è proprio il conservatorismo intrinseco alla società saudita la migliore speranza contro il radicalismo. Allo stesso modo in cui l'esportazione del fondamentalismo ha screditato l'Arabia Saudita come leader sunnita globale, anche all'interno di essa le violenze dei wahabiti hanno eroso la loro risonanza presso la popolazione. Re Abdallah ha usato le proprie credenziali di devozione per promuovere programmi televisivi di grande ascolto mirati alla deradicalizzazione, e al momento ha iniziato a tenere sotto strettissimo controllo le migliaia di principi decadenti che sperperano la ricchezza della nazione 26-24. Gli estremisti sono bollati come "deviami", un termine che alle orecchie arabe suona assai più negativo dell'occidentale "fondamentalisti". Il sovrano lavora con i «musulmani democratici» per rafforzare gli shura, i consigli islamici, una mossa che si è rivelata vincente alle elezioni municipali del 2005, quando i sauditi non hanno votato i candidati radicali ma gli islamisti che avevano basato la propria campagna elettorale su agende pragmatiche. Più islam, non meno islam, potrebbe essere l'antidoto all'estremismo wahabita e al materialismo occidentale26-25. Questa apoteosi sociale saudita sta accadendo proprio nel momento in cui al paese è data una
seconda possibilità di entrare nel Primo Mondo. Durante il boom petrolifero degli anni Settanta nessuno Stato del Golfo costruì settori significativi manifatturieri o dei servizi per dare lavoro alle schiere crescenti di quella popolazione urbana costituita, per usare l'espressione di Fouad Ajami, dai «figli arrabbiati di una generazione fallita»26-26. Se i tassi sauditi di crescita demografica dovessero proseguire ai ritmi attuali, Riyad potrebbe diventare una metropoli di dieci milioni di abitanti con molta disoccupazione. Gli edifici dei ministeri sono in pieno degrado, e la città sembra una versione ripulita del Cairo. Questa volta tuttavia l'Arabia Saudita ha imparato la lezione della globalizzazione, e sta richiamando consulenti e banche internazionali per procedere a una modernizzazione mirata26-27. Il paese ha lo spazio, la forza lavoro e i soldi necessari per costruire quattro città industriali interamente nuove come zone di riesportazione tax-free che creerebbero occupazione e diminuirebbero la pressione demografica su Riyad e Gidda, rovesciando il flusso migratorio tipico del Terzo Mondo. La Economic City voluta da re Abdallah potrebbe persino essere quotata in Borsa. «Molti di noi uomini d'affari del Golfo», mi assicura un businessman di Riyad, «imparano in fretta, lavorano duro e sono disposti al rischio come gli asiatici. Il nostro focus è sui grandi guadagni, ma anche su dividendi veri per azionisti e cittadini». I ricchi industriali sauditi investono quote sempre maggiori delle loro fortune nell'aggiornamento delle arcaiche università del paese attraverso la creazione di una moderna struttura di alta formazione professionale, e fanno lobbying a favore di questioni come la libertà di stampa, l'educazione femminile, l'indipendenza del sistema giudiziario, la trasparenza di bilancio, l'ampliamento dei poteri legislativi del Parlamento, le commissioni elettorali indipendenti e multipartitismo. Davanti al successo commerciale delle gare di Formula Uno del Bahrain, un remoto villaggio del Nord dell'Arabia Saudita ha deciso di organizzare un grand prix nel deserto per gare sulle dune di sabbia, guadagnando in una settimana più di quello che avrebbe normalmente guadagnato in un anno. «Per mantenere stabile il nostro carro politico avremo bisogno di un traino economico molto potente», mi confida un principe saudita. E lo stesso vale per l'intero mondo arabo. Gli Emirati Arabi Uniti, ossia dove Las Vegas incontra Singapore All'inizio degli anni Novanta, quando stava per iniziare la transizione postcomunista nell'Europa orientale, Dubai non aveva un sistema di drenaggio delle acque. Gli stranieri non abituati al clima arabo erano sconcertati dalla necessità di usare automobili che potessero muoversi nell'acqua alta fino alle ginocchia dovuta alle piogge stagionali. Sheikh Zayed Road, la principale arteria di transito di Dubai, era una breve striscia asfaltata attorno alla quale si concentrava una manciata di edifici, con il deserto che si allargava tutt'attorno fino alle spiagge del Golfo Persico. Oggi quella che un tempo era una specie di destinazione punitiva per i dipendenti delle multinazionali è diventata l'unica città globale del mondo arabo, l'ultima oasi del deserto nonché una sfavillante metropoli capitalista. In poche città al mondo tante persone vivono al livello di ricchezza e di lusso di Abu Dhabi, la quieta capitale degli Emirati Arabi Uniti, mentre Dubai è rapidamente diventata la capitale dell'intera civiltà araba. Il motto della Dubai Burj, la torre di Dubai – un grattacielo così alto che per un bel po' tutte le rivalità in materia saranno messe a tacere – è «History Rising», «la storia che cresce», con riferimento alla nascita di un glorioso capitolo per gli affari arabi ma anche dell'emersione di qualcosa dove per secoli non ci fu nulla. Gli Emirati Arabi Uniti erano una confederazione di sceiccati poveri e privi di rapporti gli uni con gli altri che vivevano di contrabbando e pirateria; poi arrivò la British Petroleum a finanziare lo sviluppo del loro intero settore petrolifero, oggi controllato in buona parte da Abu Dhabi che provvede a distribuire agli altri sei emirati una discreta parte di quello che resta. Fu la lungimiranza dello sceicco Rashid, il più potente dei contrabbandieri del Golfo, a dare il via alla stupefacente ascesa di Dubai. A partire dall'istituzione della Jebel Ali Free Zone, nel 1985, a Dubai si sono consapevolmente trascurate le imposte, i visti, gli obblighi di proprietà locale e altri ostacoli di questo tipo sulla base della considerazione che, da sola, la riesportazione avrebbe portato abbondanti flussi di liquidità. Quasi i tre quarti del commercio globale sono ancora trasportati via nave, e una percentuale significativa del fabbisogno quotidiano mondiale di petrolio passa attraverso lo stretto di Hormuz. I due porti gemelli di Dubai, il Jebel Ali e il Rashid, sono attualmente i più avanzati al mondo insieme con quelli di Singapore e Hong Kong.
Il denaro, e non l'arabo, è la lingua ufficiale di Dubai. In TV, le notizie sulle oscillazioni della Borsa sono seguite con un'attenzione pari a quella riservata all'implosione dell'Iraq, a nord del paese. L'elegante distretto finanziario di Dubai dà sulla baia che per secoli è stata il punto di arrivo e di partenza delle merci scambiate fra il Golfo Persico, l'Africa e l'Asia meridionale, e dove ancora oggi gli ondeggianti dhow26-28 sono caricati di milioni di tonnellate di sigarette, olio vegetale, sacchetti di tè, frigoriferi, pneumatici e intere automobili, diretti verso i porti di Bushehr e Bandar Abbas, in Pakistan e in Iran. Dubai è il miglior esempio di come la globalizzazione stia lentamente sciogliendo il tradizionale ghiaccio geopolitico fra gli Stati del Golfo e l'Iran. La zona di libero scambio iraniana dell'isola di Kish è il più grande magazzino di beni del paese, in gran parte prodotti e venduti dagli arabi del Golfo. Migliaia di iraniani hanno approfittato dell'assioma di Dubai per cui "proprietà significa residenza", e si sono buttati nell'esuberante mercato immobiliare della città come via d'uscita dalla stagnazione iraniana. Dietro le quinte, sauditi, iraniani e cittadini degli Emirati non pretendono di riscuotere alcun riconoscimento di leadership panislamica: tutti preferiscono scommettere sulla stabilità dell'altro e diventarne clienti. Come nel caso di Singapore, che ha dovuto trarre lezione dalla propria mancanza di risorse, il ruolo geopolitico degli Emirati proviene dalla loro costante capacità di trovare una nuova nicchia globale di mercato da cui attrarre investimenti e talenti stranieri e capitalizzarli a scapito delle inefficienze dei vicini. L'autorità per gli investimenti di Abu Dhabi (come la singaporiana Temasek) controlla responsabilmente oltre 500 miliardi di dollari – in parte utilizzati per costruire un'isola da destinare a sede di spettacolari comparti del Louvre e del Guggenheim – e fa solidi investimenti in progetti di energia solare nonostante le riserve di petrolio. I settori più in ascesa di Dubai – l'immobiliare, le costruzioni, la ricezione turistica, la finanza, i media, i beni di consumo e l'intrattenimento – attraggono più turisti e investimenti esteri di tutta l'India. I miliardi di dollari di denaro arabo rientrato in patria hanno consentito a Dubai di fare tesoro del vantaggio comparato che le è dato dal suo sistema bancario sharia-compatibile attraendo ulteriore capitale musulmano. Pure la ricerca del trionfo su di un ecosistema particolarmente ostile si è rivelata un grosso affare, con l'arrivo di industrie giapponesi che producono impianti di desalinizzazione dell'acqua per consentire l'irrigazione delle aree desertiche. «Perché dovremmo preoccuparci della maledizione del petrolio quando il petrolio può pagarci l'acqua?», mi dice allegro un funzionario nel suo ufficio luminoso. Isole artificiali a forma di palma o di continenti emergono dal mare, lussuosi edifici all'avanguardia spuntano più velocemente che a Las Vegas, che pure è la città che cresce più rapidamente di tutti gli Stati Uniti. Nuove attività di business, dalle ceramiche per l'esportazione alle cellule fotovoltaiche, sono in fase di avviamento, mentre i suoi paesaggi scenografici prediletti dal cinema indiano hanno già guadagnato alla città il nome di «Dollywood». Il fascino dei beduini va alla grande fra i turisti che acquistano escursioni nel deserto, ma pure la pista da sci indoor è un'attrattiva in crescita. A causa dei meeting che vi si svolgono ogni giorno dell'anno, degli eventi sportivi e dei festival dello shopping è quasi impossibile trovare una camera libera a Dubai come in qualsiasi altra capitale del Golfo. Se gli europei temono l'emigrazione araba, gli arabi sanno fare capitale delle sfortune degli altri arabi. A fianco degli intermediari arabi residenti a Londra che per decenni hanno svolto la funzione di banche mandatarie della finanza del Golfo, Dubai ha cominciato a crescere quando il Libano è crollato sotto i colpi della guerra civile per poi prendere il volo con l'invasione del Kuwait da parte di Saddam, nel 1990. L'arrivo del fiuto libanese per gli affari e del capitale in fuga dal Kuwait che è iniziato allora continua ancora oggi, con qualcosa come trentamila libanesi che si trasferiscono ogni anno a Dubai trovando posto come executive delle banche o conduttori televisivi, raggiungendo gli ingegneri egiziani, i contabili giordani e gli autisti tunisini sciamati alla ricerca di salari più alti e una vita più comoda. Dubai è il nuovo melting pot arabo, la città in cui gli arabi provenienti dalla regione e dal mondo intero si mischiano e si integrano più facilmente, alimentando un nuovo arabismo dal basso basato sull'interdipendenza economica e sul dinamico settore dei media. La più grande mecca dello shopping di Dubai rende onore a Abu Abdullah Muhammed ibn Battuta, il Marco Polo arabo che all'inizio del XIV secolo viaggiò in carovana per centoventimila chilometri passando da Tangeri all'Africa orientale, alla Mecca, la Siria, l'Asia centrale, l'India e la Cina – senza mai lasciare il Dar al Islam. L'obiettivo del più popolare canale televisivo in lingua araba, Al Arabiya, è contenuto nel suo nome: si rivolge infatti a tutti
gli arabi attraverso programmi educativi mirati a promuovere corretti ménage familiari e solidi investimenti. Come quello di Al-Jazeera, la TV del Qatar più attenta all'informazione politica, il quartier generale di Al Arabiya a Dubai è una specie di mini-Bruxelles di arabi cosmopoliti che provengono da oltre dieci paesi diversi e lavorano assieme anche se le rispettive nazioni non lo fanno. La TV satellitare ha anche l'effetto di armonizzare la storica dissonanza dei dialetti dell'arabo parlato: come osservò quasi un secolo fa T.E. Lawrence, «il patriottismo, normalmente fatto di terra e razza, è stato piegato al linguaggio»26-29. «Con tutte le compagnie arabe low cost», mi dice una giovane giornalista che frequenta il jet set per raccogliere storie di business arabo, «gli ostelli sono diventati una perenne festa notturna in cui si chiacchiera con nuovi amici. La prima generazione di giovani donne arabe che lavorano da sole nei paesi del Golfo sta sviluppando una nuova coscienza di classe femminile fatta di aspirazioni chiare al successo economico e allo status sociale». Dubai è anche la prova definitiva che lo spazio arabo non è tagliato fuori dalla globalizzazione, anzi è il suo vero banco di prova. Il suo distopico cosmopolitismo espone brutalmente la frattura che divide il mondo arabo fra quanti stanno a bocca aperta davanti alle TV satellitari a guardare immagini di donne libanesi seminude e quanti le percepiscono come un simbolo di depravazione. Di giorno Dubai è un modello emergente di nodi tecnologici come Media City e Internet City gestiti da giovani arabi dinamici; di notte è forse la capitale mondiale dell'industria del peccato, un prodotto del capitalismo allo stato puro al punto di poter essere considerata la dimostrazione che ogni cosa – o ogni persona – può essere comprata. La mafia russa e quella cinese gestiscono il mercato del sesso, con la complicità del governo che riscuote imposte sui bordelli e gli hotel a luci rosse. Gli uomini d'affari stranieri si gettano a pesce nel grande "mercato della carne" di Dubai, mentre altrove preferiscono restare nell'ombra. Del resto la città è così slegata dal suo ambiente culturale che molti arabi vengono qui per dimenticare che abitano in un paese musulmano. I luoghi dove è più naturale l'incontro fra cittadini ed espatriati sono i bordelli. Ma anche in altri casi Dubai è il volto del trionfo del capitalismo sull'islam: negli operai del porto che pagano alle imprese il tempo per la preghiera, o nei progetti per la costruzione di isole in acque internazionali per consentire il gioco d'azzardo. Per un curioso caso, Dubai si pronuncia allo stesso modo dell'inglese do buy, 'compra!'. Dalle automobili tedesche di alta classe agli scanner biometrici all'aeroporto, gli sceicchi si sono letteralmente comprati la modernità, come accadde in Arabia Saudita negli anni Settanta. C'era un tempo in cui l'oro era usato per comprare qualsiasi cosa; ora è la plastica a comprare l'oro. È come se la civiltà araba, sempre più sicura di se stessa, potesse costringere la globalizzazione all'interno dei suoi parametri culturali, tenendosi all'avanguardia acquistando il meglio che il resto del mondo ha da offrire senza dover rispondere alle domande di ricerca e innovazione che altrove sono dominanti. Il basamento della Dubai Burj è stato disegnato da architetti americani che si sono ispirati alla rosa del deserto; i bungalow dell'hotel Al Qasr uniscono il design contemporaneo alla tecnica beduina dei pozzi di ventilazione, che fa circolare la brezza verso ampie camere poste in basso. Dubai, del resto, può permettersi di fare shopping di cervelli: il suo Knowledge Village ospita microcampus delle prime università al mondo, e l'attuale sovrano, il benigno sceicco Mohammed, ha impegnato 10 miliardi di dollari in un fondo per l'istruzione destinato a promuovere l'economia della conoscenza dell'intera regione 26-30. Il maschio alla moda del Golfo oggi accoppia il suo immacolato dishdasha26-31 al cappellino da baseball, guida la Porsche o il Range Rover e mangia il sushi preparato in raffinati ristoranti Asian fusion. Inondati del denaro dell'intero mondo, gli Stati arabi danno l'impressione di voler consapevolmente evitare quegli investimenti che potrebbero diffondere le capacità autoctone che hanno alimentato la scalata dell'Asia orientale al culmine dell'economia globale. A regnare sono le cattive abitudini, inserite nel nuovo, illimitato spazio della globalizzazione. Una quotazione a sette stelle per un hotel come il Burj al Arab può essere comprata, ma i soldi da soli non bastano a guadagnare la forza culturale rappresentata da un'università di livello mondiale. Gli sceicchi del Golfo hanno bisogno del know-how occidentale per sviluppare il settore della nuova economia, proprio come ne ebbero bisogno per l'industria del petrolio mezzo secolo fa. I leader regionali recitano i loro mantra ottenendo visibilità planetaria in eventi come Ideas Arabia, ma nel background operano sempre i consulenti stranieri che producono studi e report. Per evitare il minaccioso ingorgo burocratico lo sceicco Mohammed ha dovuto mettere in piedi agenzie parallele incaricate della gestione dei trasporti e dei servizi finanziari,
con la Dubai Holding che opera al di fuori dei centri del business per l'intera settimana, senza riguardo per il venerdì, il giorno sacro dei musulmani. Generalmente gli arabi del Golfo forniscono il capitale, e quasi mai il lavoro – ed effettivamente ricevono spesso uno stipendio per non lavorare, cosa che riesce loro assai bene. Un think tank del Golfo può disporre di un bilancio venti volte superiore a quello di un suo equivalente del Cairo, producendo analisi che ammontano a un quarto di quelle di quest'ultimo. Con la sua edilizia elefantiaca non guidata da alcun piano regolatore generale, Dubai resta comunque una città in cui i corrieri, per fare le loro consegne, devono orientarsi basandosi sulle moschee, le farmacie e il verde pubblico. «Mi chiedevo se esistesse un'altra razza avara e al tempo stesso animata da uno smodato amore per il denaro come gli arabi», rifletteva Thesiger mentre attraversava il vuoto del deserto arabo con i beduini che lo guidavano, occupati in un perenne baratto26-32. Gli spaventosi ingorghi stradali di Dubai sono un'efficace metafora della finanza in questa condizione di economia senza freni che a volte ricorda da vicino il gioco del Monopoli, con gli investimenti che rispondono solo alla speculazione e sono sempre soggetti all'alea del caso. Gli sceicchi che controllano le maggiori aziende appaltatrici compiono un regolare dumping dei loro stessi prodotti quando si accumulano in quantità eccessive, riacquistandoli sottocosto a scapito dei tanti piccoli investitori che non possono far valere i propri diritti di azionisti. Le ditte di Dubai sono come una spugna che assorbe selettivamente gli standard internazionali, cercando l'assistenza delle multinazionali solo dove i regolamenti possono risultare utili. Le norme del WTO contro il riciclaggio di denaro sporco sono appositamente trascurate quando si tratta di tenere ben gonfia la bolla del real estate incamerando i liquidi che provengono dal traffico di stupefacenti della Russia, dell'Iran e dell'Afghanistan. Più di recente Dubai è anche diventata una zona di transito per le antichità rubate dal Libano e dall'Iraq. Dubai incarna l'unione del Primo e del Terzo Mondo nel punto geografico dove questi si incontrano: la conoscenza e la tecnologia europee combinate con l'illimitato bacino di lavoro asiatico. Grazie alla manodopera a costo virtuale zero, ai miliardi di dollari freschi e riciclati e agli spazi desertici privi di effettivi proprietari, si prevede che la città triplicherà le proprie dimensioni entro il 2015. Se la Torre Eiffel fu costruita da soli trecento manovali dell'acciaio, Dubai oggi conta non meno di trecentomila operai asiatici a propria disposizione. Come a Shanghai, negli ultimi vent'anni una gru ogni cinque al mondo è stata operativa ventiquattr'ore al giorno per sette giorni alla settimana per costruire torri aziendali, eleganti quartieri residenziali e lussuosi hotel nella città satellite di New Dubai, quindici chilometri più a ovest, dove uno skyline simile a quello di Shanghai domina la costa che dà sul Golfo. La salute è sempre qualcosa di relativo. Durante il British Raj parecchi arabi del Golfo emigravano in India alla ricerca di lavoro e spedivano rimesse in patria, dove pure la valuta corrente era la rupia. Ora il flusso migratorio è stato completamente rovesciato. Per milioni di indiani, pakistani e filippini l'aeroporto di Dubai è la sfavillante via d'accesso alla terra promessa. Se questi lavoratori asiatici comparissero nelle statistiche della loro popolazione autoctona, gli Stati del Golfo affonderebbero nel Terzo mondo, e la loro opulenza sarebbe rivelata per quello che è, una sottile riverniciatura delle condizioni deplorevoli nelle quali è costretta a vivere la grande massa dei lavoratori. La superiorità dello status di cittadino su quello di migrante all'interno della codificazione legale e sociale araba – a dispetto del fatto che i migranti costituiscono più della metà della popolazione residente nei paesi del Golfo – crea una peculiare forma di apartheid basata su uno standard triplo: il mezzo milione di cittadini di Dubai che vive a debita distanza dagli altri, e che considera un tabù il matrimonio con nativi di altri paesi; le centinaia di migliaia di professionisti con origini che vanno dall'Irlanda all'India, regolarmente tutelati dalla legge; il milione e più di lavoratori immigrati che costituiscono un notevole case study in materia di schiavitù postmoderna dell'era della globalizzazione, considerati «meno che umani» 26-33. Allo stato attuale lo sfruttamento organizzato della manodopera straniera conosce livelli di crudeltà in cui poco è lasciato all'immaginazione. Non esiste, di fatto, una legislazione in materia di lavoro, ragione per cui i Ministeri incaricati di vigilare sulle condizioni dei lavoratori immigrati hanno buon gioco a giustificare la propria negligenza con l'ignoranza della materia. Passare in automobile attraverso le distese di tende e roulotte in cui vivono i migranti ai margini di questa Manhattan araba richiede la stessa rinuncia allo sdegno che si può provare quando si arriva nel più remoto dei villaggi africani26-34. Per molti lavoratori stranieri la confisca del passaporto al momento dell'arrivo e il livello insufficiente
dei salari contribuiscono di frequente a far apparire sprecato lo sforzo dell'emigrazione, soprattutto a confronto dei costi in termini di benessere personale e di sofferenza per la distanza dalle famiglie – cui arrivano rimesse assai inferiori a quanto promesso. L'ironia più crudele, quanto a tradimento delle aspettative, la si trova nei cinquanta operai che dormono alla rinfusa nell'edificio di lusso che stanno costruendo, e che nemmeno lontanamente potranno permettersi di possedere. Per alcuni, Dubai è soltanto un miraggio. La condizione dei lavoratori migranti provenienti dal Terzo mondo è la prova migliore che Dubai è amministrata come una moderna corporation: non risponde alle richieste politiche, soltanto alle eventuali minacce ai propri profitti. Dal momento in cui i media internazionali hanno puntato l'attenzione sulle condizioni disperate dei lavoratori e sui loro fermenti spasmodici, gli sceicchi di Dubai hanno promesso di agire, naturalmente con lo scopo di risollevare la propria immagine; è apparso chiaro che il loro sogno poteva essere distrutto dalle stesse persone che lo avevano materialmente costruito (qualcosa di simile a quanto raccontato nel film Syriana). Fatto sta che ci si è limitati a generiche minacce nei confronti delle ditte appaltatrici perché garantissero migliori condizioni di lavoro: ossia, visti gli interessi in gioco con tali ditte, all'inazione. Tutto ciò che resta è la promessa di un'attenzione più responsabile alle richieste dei lavoratori, un limitato progresso rispetto al metodo precedente che consisteva nel raccogliere le lamentele scritte in un contenitore. Tutte le nazioni del Golfo violano anche i divieti internazionali in materia di traffico di esseri umani, una questione che il WTO regola per i propri membri soltanto sulla carta. A loro credito va ammesso che almeno oggi i bambini usati come fantini per le corse di cammelli sono stati sostituiti da robot. Man mano che l'ipocrisia di questi paesi nel settore del mercato del lavoro viene alla luce, le loro denunce delle storture della politica estera occidentale trovano orecchie sempre meno attente. Per ogni musulmano umiliato e privato della libertà personale in un carcere di qualsiasi nazione dell'Occidente c'è almeno un non musulmano (ma parecchi sono anche i musulmani) sfruttato nei campi di lavoro e nei bordelli di Dubai. Con tutto ciò, la fiducia degli sceicchi non smette di crescere. «Allo stato attuale nemmeno il terrorismo potrebbe riuscire a fermare il turismo», dichiara con singolare chiarezza un executive di una società immobiliare nel suo lussuoso ranch nei sobborghi della città. Per gli sceicchi degli Emirati il "voto con i piedi"26-35 è comunque la più formidabile tra le legittimazioni elettorali. Il perenne bel tempo, un sistema tributario assai compiacente e un ambiente praticamente privo di crimine hanno convinto migliaia di professionisti europei a stabilirsi a Dubai, dove le loro competenze bancarie e ingegneristiche li rendono i partner di primo piano della crescita commerciale della città. Lo stesso si può dire dei tanti asiatici che, eleganti fino alla punta dei capelli, sbarcano ogni giorno da Hong Kong. Smarcatasi dal modello inglese e poi americano di "protezione in cambio di petrolio", la Cina ha da offrire qualcosa che le altre potenze non possiedono: orde di agenti commerciali e beni a basso costo. A differenza dei lavoratori provenienti dall'Asia meridionale, che devono fare affidamento su oscuri intermediari, i cinesi entrano in questo mercato con uno status di livello parecchio più alto in quanto spalleggiati da compagnie cinesi o sino-arabe che possono contare su propri canali di movimentazione del lavoro. Le organizzate maestranze cinesi hanno costruito un'estesa Chinatown in città, o sono impiegate nei fiorenti negozi allineati lungo i due chilometri dei magazzini del Dragón Mart che risparmiano ai commercianti del Golfo un viaggio fino a Shenzhen vendendo in loco ogni cosa, dalle parrucche ai trattori, con l'unica caratteristica comune di una qualità così scarsa da giustificare un'etichetta designed to disintegrate. Come gli appaltatori cinesi, che chiedono la metà di quanto richiesto dalle ditte occidentali, le prostitute cinesi (che per numero hanno ormai eguagliato le colleghe provenienti dall'ex Unione Sovietica) praticano tariffe dimezzate per le loro prestazioni. Dubai è in vendita. La lealtà geopolitica del mondo arabo pure.
Conclusione Scalare la duna Alcuni commentatori occidentali si dilungano molto a dipingere le società arabe come arretrate o deboli. I conservatori americani hanno sostenuto che l'invasione dell'Iraq fosse necessaria perché i regimi autoritari arabi e i fondamentalisti islamici «capiscono soltanto il linguaggio della forza». In realtà,
l'incapacità dell'Occidente di interagire in modo produttivo con la presunta semplicità della cultura araba non fa che rendere ancora più evidente l'inadeguatezza della logica di superiorità dell'Occidente stesso. Non c'è nessuna naïveté nella consapevolezza che il mondo arabo ha della propria centralità nel processo che porterà al successo o al fallimento della globalizzazione, dal punto di vista geografico come da quello geologico. È un processo da cui il mondo arabo, a differenza di quanto ritengono quei commentatori, sarà tutt'altro che lasciato in disparte. Mentre gli occidentali stanno cercando di raccapezzarsi nel disordine arabo, un nuovo ordine arabo sta venendo alla luce per ridefinire il futuro della regione. La combinazione fra ricchezza petrolifera, mass media e condivisione dei medesimi risentimenti, insieme con l'amara consapevolezza dell'arbitrarietà delle frontiere imposte dagli europei, sta trasformando il panorama politico arabo all'insegna di un'opinione pubblica notevolmente coerente che si oppone alla politica estera americana e contesta la legittimità dei propri leader non elettivi. La giovane generazione araba fa circolare queste inclinazioni con programmi di scambio per gli studenti, riunioni e associazioni, e con la blogosfera. Si tratta di un vastissimo e concertato movimento dal basso a favore del cambiamento politico, una tendenza che non è possibile rilevare in nessun'altra parte del mondo con una simile densità. Una nuova generazione di leader dotati di un'educazione liberale anziché militare potrebbe persino determinare un policy change anche senza un violento regime change. Come sintetizza il direttore del «Daily Star» di Beirut, Rami Khouri, «non possiamo restare per sempre l'ultima regione al mondo priva di democrazia!» Dove prevale l'arabismo prevale la tolleranza religiosa. Tuttavia i democratici arabi devono contendersi le anime della prossima generazione con messaggi come quello della «Voce del califfato», il programma di notizie di Al Qaeda che fiancheggia i reclutatori del jihad esaltando la violenza antioccidentaleC4-1. Nulla garantisce, infatti, che l'Occidente continuerà a lungo a occuparsi del mondo arabo, malgrado l'enorme impatto ottenuto dalle agitazioni islamiste. La civiltà occidentale è in affanno, sempre in allerta per contrastare ogni micro-complotto che possa mettere in pericolo la sicurezza dei voli e delle città. Se lo stress culturale imposto da questa guerra serrata contro il radicalismo dovesse proseguire per un altro decennio gli Stati Uniti e la UE potrebbero decidere di farla finita con questa emorragia di vite e di risorse e limitarsi a isolare la regione e a lasciare che una guerra intestina fra arabisti e islamisti ne fiacchi finalmente la virulenza. Che a vincere siano i primi o i secondi, a perdere sarà comunque l'America, poiché entrambi cercano di risolvere i problemi con i propri mezzi e nei propri termini C4-2. L'America considera la regione strategicamente importante, ma questo non le garantisce il diritto a intervenirvi militarmente, in particolare da quando è ormai palese che sono i suoi enormi errori, e non una qualche caratteristica genetica degli arabi, ad avere generato il conflitto, il terrorismo e la sua proliferazione. Il ricorso sconsiderato alle armi è stato di gran lunga la politica dominante degli Stati Uniti, ben più della promozione della democrazia. Nulla è stato imparato dall'esperienza di T.E. Lawrence, che confessava di non essere mai riuscito ad assumere un carattere arabo: «Tuttavia potevo almeno nascondere il mio, e passare fra gli arabi senza alcun evidente attrito, nessuna ostilità e nessuna critica, solo un'influenza inosservata»C4-3. Un'umile ammissione di differenza culturale e al tempo stesso un'abile strategia di ingerenza negli affari del mondo arabo. Al confronto, l'attuale neoimperialismo americano appare come un'improvvisazione rozza e disordinata, e soprattutto ignara del più basilare tra gli assiomi di chi viaggia nei paesi arabi, ossia che il modo migliore per scalare una duna è passarvi al fianco. Con l'Europa e la Cina attive nella realizzazione delle rispettive agende, difficilmente gli Stati Uniti potranno concretizzare la propria senza l'aiuto di una di queste superpotenze concorrenti. L'unica regione nella quale risulta ancora più ovvio il fatto che una superpotenza da sola non può riuscire a governare il mondo – e nella quale si fanno avanti le visioni alternative delle altre – è l'Asia orientale.
Parte V L'Asia agli asiatici
27. Dalla periferia al centro e viceversa Theodore Roosevelt affermava circa un secolo fa: «L'Era dell'Atlantico è al massimo del suo sviluppo, e presto esaurirà le risorse a sua disposizione. L'Era del Pacifico, destinata a essere la più grande, sta vedendo proprio ora la sua alba». L'era dell'Atlantico è stata guidata prima dall'Europa, quindi dall'America. L'era del Pacifico sarà guidata dalla Cina – e da nessun altro. La Cina è entrata nel Secondo Mondo solo di recente, ma da tempo agisce come una potenza mondiale, anche da prima di possedere i requisiti militari ed economici necessari. È stata a suo tempo l'unico paese del Terzo Mondo ad avere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e negli anni Sessanta, durante l'aggressiva Rivoluzione culturale, è stata in grado di allontanarsi dall'Unione Sovietica e di competere con quest'ultima per alleanze regionali e per la leadership del movimento comunista internazionale. Richard Nixon, quando diede il via alla strategia del disgelo con Pechino mirata a isolare l'URSS, parlò di necessità di introdurre la Cina nella comunità delle nazioni anziché lasciarla al ruolo di «epicentro della rivoluzione mondiale». Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, tuttavia, il potenziale rivoluzionario della Cina si è tradotto in realtà, senza che gli Stati Uniti potessero farci alcunché. «Non è solo una questione di carta geografica, è la nostra stessa mentalità: la Cina è il centro di tutto quello che accade qui», mi spiega un giornalista di Singapore mentre indica il sempre più corposo staff di origine cinese che lavora nel suo ufficio. La Cina si trova al centro della più popolate ed economicamente dinamica pan-regione del mondo, estesa dall'Estremo Oriente russo, dal Giappone e dalla penisola coreana fino alle isole del Pacifico, Australia e Nuova Zelanda comprese27-1. Nessuna nazione racchiusa nel triangolo India-Giappone-Australia – sia essa del Primo, del Secondo o del Terzo Mondo – può opporsi all'invasività politica, economica, demografica e culturale della Cina. In America c'è chi ritiene che sia la supremazia di Washington a garantire la stabilità in Asia, ma in misura crescente
la metà della popolazione mondiale che risiede in quel continente si percepisce stabile, in realtà, sotto l'egemonia cinese27-2. «L'America è arrivata e potrà anche andarsene, un giorno», sottolinea un diplomatico thailandese durante una conferenza in un five-star di Bangkok, «ma il nostro destino dipende in ultima analisi dalle decisioni e dal comportamento della Cina». Come gli Stati Uniti e l'Unione Europea, la Cina è diventata un impero che non osa definirsi tale. Il riemergere della pax sinica è l'equivalente asiatico dell'espansione della UE, e il modello diplomatico di Pechino è un ibrido di antichi principi e istituzioni moderne27-3. Secoli prima che in Europa si affermasse il sistema degli Stati nazionali sancito dalla Pace di Westfalia, l'Asia era governata secondo un modello di gerarchia imperiale, con la Cina al vertice e i regni periferici a pagare i rispettivi tributi. Commercio e diplomazia erano sinonimi: la Cina mostrava la propria generosità concedendo più doni e omaggi ai suoi vassalli più grandi di quanti ne ricevesse, un'elegante apparenza che aveva lo scopo di mascherare la realtà del dominio27-4. La lealtà era prima comprata, e solo in un secondo momento guadagnata. L'attuale sovranità di molti di quegli Stati, il maggior mutamento giuridico dall'età dei tributi, è semplicemente uno strumento aggiornato per conservare un simulacro di autonomia dalla supremazia cinese. Il modello dei tributi non ha mai richiesto dominio territoriale; era un modo per estendere influenza a territori al di là del diretto controllo cinese. Perciò grandi capitali quali Tokyo, Seul o Singapore, mentre giocano un ruolo simile a quello che Londra, Mosca e Ankara giocano rispetto all'Unione Europea – quello di dighe contro la marea imperiale cinese –, sono anche tacitamente consapevoli del loro progressivo stato di sudditanza rispetto a Pechino. In Asia orientale le Nazioni Unite non contano, non assicurano stabilità né benessere, ossia ciò che in Asia importa davvero. Il naturale carattere cinese, con la sua ossessione per il protocollo, ha resuscitato il teatro diplomatico dell'età dei tributi: quando sorgono critiche politiche dai paesi confinanti la Cina, facendo il broncio, parla di «ferita ai sentimenti nazionali». L'oratoria minimalista cinese è sempre attenta a prendere la forma di considerazioni ragionevoli, inducendo gli altri a sentir risuonare in tali parole sofisticati simbolismi storici e un senso di gravitas. Ma chi si limita a osservare la Cina sulla base della sua cauta retorica lascia in secondo piano la cosa più importante: i numeri. Già nel lontano 1968 lo studioso A.F.K. Organski prediceva che la Cina avrebbe soppiantato gli Stati Uniti come prima potenza mondiale in virtù dell'incalcolabile potenziale della sua popolazione. A maggior ragione, nell'età della globalizzazione la forza di amplificazione della diaspora cinese deve essere tenuta in conto. I cinquantacinque milioni di cinesi all'estero, per la maggior parte residenti nelle regioni periferiche dell'Asia, sono l'equivalente demografico del climate change: avanzano impercettibilmente, non conoscono confini, riguardano tutti27-5. I legami organici fra cinesi si stanno riconfigurando lungo i confini geopolitici, alimentando una miscela demografica non meno significativa di quella in corso nelle Americhe o fra le due sponde del Mediterraneo. I legami storici fra il Nordest della Cina, la Corea del Sud e il Giappone, o quelli fra la regione del delta dello Xun Jiang e Hong Kong, o ancora tra il delta del Chang Jiang e Taiwan e tra il Sudest e la subregione del Mekong danno tutti vita ad aree economiche naturali che trascendono i conflitti27-6. Il massiccio squilibrio di genere di cui soffre la Cina (provocato dalla politica del figlio unico e da una pronunciata predilezione per il figlio maschio) ha determinato l'importazione di donne dal Vietnam e dalla Corea del Nord, diluendo ulteriormente differenti stirpi asiatiche in un'etnia ibrida a base cinese. La Cina trova metodi di gestione delle contraddizioni che in Occidente appaiono improponibili. È un impero che in determinate congiunture storiche ha scelto l'isolamento, espandendosi soltanto fino al punto che gli consentiva l'autodifesa; preferisce regolare le dispute di confine piuttosto che agitarle come uno spettro per risvegliare il nazionalismo; ha un'economia capitalista strettamente regolamentata; è uno Stato autoritario che permette l'esistenza di diffuse ed estese democrazie locali; la sua dottrina strategica fondamentale è definita da quello che è probabilmente il concetto più ossimorico della storia, quello di "ascesa pacifica"27-7. Nel corso della storia le potenze emergenti hanno praticato politiche sempre più belligeranti; al contrario, la Cina si dimostra sempre più aperta alla cooperazione man mano che acquisisce sicurezza di sé27-8. «Hanno imparato quali sono i limiti che non possono essere superati», afferma con una certa sicurezza un analista strategico malese mentre ceniamo in un esclusivo ristorante cinese di Kuala Lumpur. «Le nazioni asiatiche percepiscono sempre meno la Cina come una minaccia,
soprattutto da quando la sua crescita crea maggiori opportunità economiche per ciascuna di loro ed è diventata un elemento di ripresa dell'orgoglio culturale asiatico». L'America ha governato i mari dalla conquista delle Filippine, sottratte alla Spagna un secolo fa, e il Pacific Command (PACOM) è in assoluto il suo maggior schieramento militare al mondo, più grande di tutti gli altri messi assieme, al punto di essere in grado di affondare simultaneamente tutte le navi del mondo27-9. Washington tiene militarmente in pugno la corona del Pacifico perché la sua strategia è diretta dalla teoria del Rimland, dell'«area di margine» di Nicholas Spykman. Per Spykman, in perfetta antitesi alla tesi di Mackinder secondo cui il cuore terrestre dell'Asia centrale sia il centro del potere mondiale, la regione costiera asiatica che si estende dal Golfo Persico alla corona del Pacifico, attraverso il subcontinente indiano, è l'area più importante per la crescita industriale e demografica. Di qui la sua riformulazione del celebre assioma di Mackinder sullo Heartland: «Chi controlla l'area di margine controlla l'Eurasia, e chi controlla l'Eurasia controlla i destini del mondo» 27-10. Durante la guerra fredda il sistema americano outside-in, «esterno-interno», delle alleanze a fulcro unico con Australia e Nuova Zelanda (noto come anzus), e poi con Giappone, Corea del Sud, Singapore e Filippine scoraggiò la cooperazione regionale, e ancora oggi l'America gode di forti legami economici bilaterali con gli Stati dell'Asia orientale (che ammontano al 40 per cento degli scambi complessivi), stipulando appositamente accordi di libero scambio con la maggior parte dei paesi confinanti con la Cina al fine di conservare la loro lealtà. Tuttavia gli Stati Uniti, un po' alla volta, stanno perdendo la presa sul Rimland. Anziché essere presi da timore reverenziale, molti asiatici vedono la presenza navale americana al largo delle loro coste come l'effetto di una specifica congiuntura storica, ormai antiquato, superfluo e persino pericoloso 27-11. «Stiamo ancora aspettando di capire cosa intenda l'America», sottolinea sarcasticamente un analista militare di Pechino, «quando dice che i suoi "interessi strategici" richiedono di parcheggiare minacciosamente una flotta di portaerei e cacciatorpedinieri nei nostri mari. Nella regione siamo perfettamente capaci di gestire i nostri affari, quello che ci preoccupa è che gli americani mostrano sempre reazioni eccessive». Più ancora che nel Golfo Persico, è in Asia orientale che le debolezze di Washington diventano evidenti, proprio perché è qui che la sua forza è più visibile. La perdita di credibilità degli Stati Uniti ha ridotto il loro status da quello di garante supremo della stabilità asiatica a quello, mollo più ridotto, di protettore del Giappone e di Taiwan e mediatore delle crisi, dalle schermaglie navali fra Malesia e Indonesia allo stallo nucleare in Corea del Nord27-12. Dal 2001 la Cina ha smesso di riferirsi agli Stati Uniti come potenza egemone in Asia orientale, non per maleducazione, ma semplicemente perché essi hanno cessato di essere tali. Non soltanto la Cina sta penetrando nello Heartland di Mackinder, ma la sua estesa linea costiera sul Pacifico la rende anche la nazione più grande nel Rimland di Spykman. Come la Via della seta è il tragitto di terra che collega la Cina e l'Occidente, il Mar Cinese meridionale e lo stretto di Malacca sono le linee di comunicazione marittima della regione (dette anche SLOC), il passaggio d'acqua verso le risorse energetiche e i mercati del Golfo Persico e dell'Europa. Il quadro strategico dell'Asia orientale si sta perciò sviluppando sulle aree marine, con la Cina che lavora infaticabilmente per cooptare gli Stati costieri del Sudest asiatico attraverso accordi commerciali e di cooperazione navale. Se il pendolo diplomatico ha oscillato a lungo tra Stati Uniti e Cina, molti paesi si stanno preparando al definitivo sopravanzamento di quest'ultima. Una cultura strategica asiatica inside-out, «interno-esterno», è emersa, governata da una diplomazia consultiva (nota come musyawarah) che identifica facilmente interessi comuni per produrre decisioni che salvano la faccia marginalizzando le controversie o le questioni provocate dall'esterno (leggi: dagli USA)27-13. «Ciò che abbiamo ora è una "dottrina Monroe" cinese», afferma il mio interlocutore di Kuala Lumpur. «Dovremmo metterci il cuore in pace e accettare questo nuovo ordine. Solo così potremo sperare di risolvere pacificamente i problemi di Taiwan, della Corea del Nord e del Mar Cinese meridionale». Una benevola gerarchia cinese potrebbe quindi prevenire un'escalation delle rivalità oltre il livello psicologico ed economico? Anche se rimangono serie dispute sulle frontiere di terra e di mare, come fa notare il diplomatico di Singapore Kishore Mahbubani, «le pistole si sono quietate» nella regione, grazie a una «ondata di buon senso» in virtù della quale gli asiatici rifiutano lo storico modello militarista occidentale a favore di un modello di prosperità condivisa.
Ciò non toglie che da quelle parti si guardi con favore a un ritorno soft dell'Europa in Asia orientale, ora che anche il ricordo della sua presenza coloniale in Indocina si è dissolto e dopo il passaggio pacifico di Hong Kong alla Cina nel 1997. «L'Europa è un "partner strategico" per la Cina, e il suo ruolo nel disegnare il nostro nuovo ordine regionale sta nel suo forte potere di endorsement», mi spiega un accademico cinese. «Siamo stati testimoni e vittime della storia occidentale, e soltanto l'ordine stabile dell'Unione Europea rappresenta una buona guida per noi». Gli asiatici che un tempo si rivolgevano all'America per la loro sicurezza ora si rivolgono alla UE per la sua capacità, poiché ogni decisione europea rende l'Asia orientale più moderna, prospera, istruita e professionale; la sicurezza asiatica ne esce rafforzata e la supremazia americana indebolita27-14. Organizzazioni regionali, Camere di commercio, brain trusts di vaglia e scambi di studenti sono altrettanti effetti dello stimolo intellettuale esercitato dalla UE27-15. Quello europeo è un mercato più ampio di quello americano per l'export della regione, e gli asiatici stanno aumentando la quota in euro delle loro massicce riserve di valuta per mettersi al riparo dalla sbilanciata economia a stelle e strisce. Accademici, studenti, giornalisti, musicisti e turisti cinesi si trovano dappertutto in Europa. Ondate di businessmen cinesi soggiornano in hotel low-cost della Germania e dell'Europa dell'Est, passando settimane a costruire partnership per espandere le vendite nel continente. Cina e Asia, tuttavia, stanno assimilando la conoscenza dell'Occidente per accelerare la costruzione di un ordine orientale. I più scettici fra gli studiosi americani sostengono che un «concerto asiatico» sia impossibile a causa delle feroci rivalità tra un paese e l'altro; in realtà, nel continente la fiducia si è sviluppata a tal punto che gli Stati Uniti possono ormai parlare solo quando sono invitati a farlo – e quando si è riunito per la prima volta il summit dell'Asia orientale, a Kuala Lumpur, nel 2005, gli Stati Uniti non sono stati invitati27-16. Poiché questa comunità si sta trasformando da club su base geografica a principale forum di discussione delle priorità asiatiche, molti giocatori regionali lo vedono come una possibilità per liberarsi dell'influenza occidentale una volta per tutte. Come afferma con impertinenza un anziano diplomatico malese, ma senza alcun accenno di scherzo, «è facile creare una comunità tra il giallo e il nero, non tra il giallo e il bianco». Come è riuscita l'Asia orientale a diventare la cabina di regia del cambiamento globale, alla pari con l'America settentrionale e l'Europa? Gli europei hanno ammirato a lungo le culture orientali, essenzialmente da quando la rivoluzione industriale ha dato loro un vantaggio materiale che pareva irraggiungibile. Marx e Weber sostenevano che l'Asia orientale era destinata alla stagnazione: la Cina troppo vasta e feudale, gli altri paesi asiatici troppo proni al «dispotismo delle consuetudini» 27-17. Spengler la vedeva in modo diverso. Se l'umanità, si chiedeva Spengler, vive e pensa in un unico sistema culturale, che relazione hanno concetti filosofici occidentali come gli ideali dionisiaci e lo Übermensch con il confucianesimo? Per Spengler, come sappiamo, l'Occidente stava già vivendo il suo autunno, e si infiacchiva con il crescere della distanza fra gli ideali e la realtà. All'opposto, una vasta popolazione, con gli strumenti adeguati, poteva assumere una fiducia marziale in se stessa. Come sosteneva il sociologo francese Auguste Comte, la demografia è destino. L'Asia conta le più antiche culture del mondo, la popolazione più estesa e, in certa misura, più denaro di qualsiasi altra regione 27-18. L'Asia sta plasmando il destino del mondo, e nel corso di questo processo sta pure mettendo a nudo le lacune del grande racconto della civiltà occidentale. A causa dell'Est, l'Ovest non è più padrone della propria sorte. Spesso ci si riferisce alla guerra fredda come a un conflitto fra Est e Ovest. La verità è che il suo «vecchio costume d'alterigia» ha impedito all'Occidente di rendersi conto della crescita di quello che era il vero Est, e che ora rappresenta l'autentica sfida lanciata contro di esso 27-19. Gli asiatici hanno visto nell'egemonia americana del dopo guerra fredda la volontà dell'Occidente di tenere dalla parte del manico il coltello della tecnologia e della finanza, e hanno risposto cercando di padroneggiare questi linguaggi del potere più rapidamente di ogni altro popolo della Terra 27-20. L'inarrestabile processo di globalizzazione che domina la realtà attuale è dalla loro parte, diffondendo conoscenze con una velocità di gran lunga maggiore al possibile controllo da parte di un impero; torna alla mente la tesi profetica dell'Uomo e la tecnica di Spengler, secondo il quale la tecnologia era destinata a divorziare rapidamente dalla cultura che l'aveva creata. Modernizzazione e occidentalizzazione hanno lo stesso punto di partenza, ma due distinte destinazioni. Se «l'Occidente era Occidente molto prima di essere moderno», l'Oriente rimarrà Oriente, anche dopo avere assimilato la modernità27-21.
«La crescita a rotta di collo dell'Asia rende antiquata la nozione stessa di avversione al rischio», sorride un investitore di Hong Kong, congratulandosi con se stesso per la decisione di trasferirvisi da New York. «Adesso è l'Asia orientale a incarnare quel senso di ambizione sfrenata che un tempo caratterizzava l'Occidente. Gli investimenti occidentali convergono tutti qui, perché quei mercati si sono saturati». L'Asia orientale si è impadronita delle migliori tecnologie e dei migliori standard dell'Occidente e li ha fatti propri. Bangkok, Shanghai e Kuala Lumpur vantano reti di trasporto monorotaia in cui i treni scivolano silenziosi al di sopra del suolo, mentre le metropolitane di New York e di Londra continuano a sputacchiare sottoterra. Gli occidentali hanno inventato l'automobile, ma resta il fatto che il quaranta per cento delle automobili comprate oggi in America viene dall'Asia orientale, che vanta pure una maggiore diffusione di cellulari di terza generazione e detta propri standard di telefonia con cui gli altri devono competere. In Asia orientale, inoltre, è comune il vantaggio di una relativa padronanza delle due lingue della globalizzazione, l'inglese e il cinese. Gli incassi del cinema americano sono sempre più debitori dell'importazione delle tecnologie di animazione giapponesi, nonché di trame e stili cinematografici nati a Hong Kong, a dimostrazione che la direzione della corrente dell'egemonia culturale può essere invertita. La stessa storia viene riscritta secondo il punto di vista orientale: la "fine della storia", in questo caso, presenta in Asia orientale un volto molto diverso da quello che presenta in Occidente 27-22. Il blend di mezzi occidentali e fini orientali che ha caratterizzato il Giappone nel XIX secolo ha costituito nel XX secolo un modello indigeno per la crescita delle tigri asiatiche: Taiwan, Corea del Sud e Singapore. Efficace combinazione di ispirazione e duro lavoro, le attitudini culturali dell'Estremo Oriente richiedevano, per dispiegarsi, alti livelli di risparmio e una buona formazione27-23. L'abilità nel proteggere il settore interno con una crescita tutta giocata sulle esportazioni ha creato allora una ricchezza enorme e, soprattutto, uno stile differente di capitalismo che ha fatto scuola per la successiva ondata di locomotive asiatiche, Cina, Malesia e Vietnam in prima linea. «Keynes è il nostro uomo!», esclama un colto tassista di Singapore. A suo tempo denigrata come sorella gemella del marxismo, l'intromissione dello Stato nell'economia è vista ora come un importante contrappunto al laissez-faire economico che domina l'Asia orientale. A partire dalla crisi finanziaria del 1997-98 lo scopo esplicito dei paesi asiatici è consistito nel tenersi alla larga dagli interventi dell'FMl e dalle sue condizioni onerose, che di fatto lo rendono uno strumento del Tesoro statunitense27-24. Passata la crisi, gli asiatici hanno reagito puntando sulla disciplina fiscale e sugli standard globali di mercato, senza rinunciare, comunque, alla centralità dello Stato. Se in Occidente si ritiene che l'intervento del settore pubblico sia inevitabilmente destinato a soffocare l'innovazione, in Asia orientale i governi reinvestono massicciamente in innovazione il loro ingente capitale liquido. E dal momento che gli scambi interni al continente superano quelli che avvengono da una sponda all'altra del Pacifico, oggi gli asiatici sono in grado di dettare le proprie regole27-25. Per gli asiatici non c'è motivo di lasciare l'Asia. Oggi un asiatico può tranquillamente viaggiare passando da una linea low cost all'altra per esplorare almeno dieci diverse e parimenti interessanti culture del resto del mondo. «Le nazioni dell'Asia orientale possono contare su una loro grande storia precedente il colonialismo: questa è la ragione per cui siamo molto più stabili dell'Africa postcoloniale o degli Stati arabi. Dal nostro punto di vista non c'è alcuna ragione per cui la prosperità di uno debba provocare rivalità con altri»: tale il parere espresso da uno storico sino-malese nel corso di un piccolo seminario di studiosi orientali tenuto all'università di Malaya. La Cina e il Giappone, spesso visti come eterni antagonisti, sono in realtà i copiloti dell'economia dell'Asia orientale27-26. Insieme con Singapore e la Corea del Sud possiedono gli oltre due terzi delle riserve mondiali di valuta estera, stimati a oltre duemila miliardi di dollari (prevalentemente in moneta americana), il che consente loro di praticare la stessa politica mercantilistica che nutrì a suo tempo la crescita dell'Occidente. Un secolo fa il presidente USA Warren Harding esortava gli americani «alla pacifica conquista commerciale del mondo» per scansare il conflitto sociale interno. Gli asiatici stanno diligentemente seguendo il suo consiglio, facendo incetta di società, beni e risorse naturali in ogni continente. «Il mondo si starà restringendo, ma la nostra fetta resta più grossa di quella dell'Occidente», nota un giornalista di Shanghai in mezzo al trambusto della sede del suo giornale. A partire dal dominio inglese su Hong Kong e Singapore, il colonialismo occidentale ha regalato
all'Estremo Oriente l'inestimabile vantaggio rappresentato dal poter contare su città globali. Dagli anni Cinquanta è poi toccato a Tokyo, Taipei, Seul e Shanghai diventare a loro volta città globali, capaci di convogliare ogni anno miliardi di dollari di investimenti nei rispettivi paesi e nella regione in generale. Si tratta di città a tal punto dominanti che il concetto che meglio le illustra è quello di "Stati-regione": città che operano come unità di business, legate all'economia globale almeno quanto lo sono le nazioni cui appartengono, e progressivamente sempre più legate anche a quel network asiatico di nodi economici in cui le differenze politiche e culturali non contano nulla27-27. Da questo punto di vista l'Asia conta più della metà delle megalopoli del mondo, e in esse vive la maggior parte dei 500 milioni di abitanti del Sudest asiatico. Le grandi metropoli del Terzo Mondo, come quelle dell'Africa e dell'India, sono costituite da animatissimi centri attorno ai quali si distendono ad anello quartieri abitativi abusivi a perdita d'occhio. In questi casi, l'urbanizzazione alimentata dal rapido spopolarsi dei villaggi rurali non si coniuga con modernizzazione e sviluppo, ma con squallore e devianza. Il Sudest asiatico sta uscendo soltanto oggi da questo scenario terzomondiale, grazie a un reddito pro capite che ha superato i tremila dollari e una percentuale inferiore al 25 per cento della popolazione che vive in povertà. In Malesia e in Thailandia sono ancora numerose le bidonville appollaiate sopra le discariche, e milioni i lavoratori praticamente sconosciuti allo Stato, ma gli slums infestati dalle malattie e le masse prive di casa costituiscono un'eccezione. Sempre più persone sembrano svegliarsi ogni mattina con il desiderio di realizzare il proprio sogno asiatico. «L'Asian dream è oggi quello che un tempo era l'American dream», ha sentenziato il ministro degli Esteri di Singapore, George Yeo. Nessuna nube di insicurezza pare all'orizzonte sul cielo dell'Asia orientale. Qui la cultura stessa si è rivelata un patrimonio, tanto che crescita economica e orgoglio culturale sono parti dello stesso circolo virtuoso. L'Asia orientale copre una buona parte delle previsioni di crescita della domanda mondiale di consumi, ma questo non vuol dire che i suoi abitanti si comportino come azioni in borsa: i loro valori, infatti, non cambiano da un giorno all'altro. Come succede alle persone, anche agli Stati ricchi si accordano status e rispetto, e questo significa che un Oriente sempre più prospero può permettersi di sfidare a viso aperto la pretesa universalità dei valori occidentali, attraverso un inedito «occidentalismo» che costituisce la reazione alla «offensiva ostentazione di superiorità da parte dell'Occidente»27-28. I «valori asiatici» di leadership unificata, consenso e armonia sociale non soffrono dell'attuale, enorme crisi di credito dei valori americani di democrazia, capitalismo e individualismo, per cui stiamo assistendo alla moltiplicazione di modelli alternativi a disposizione dell'intero Secondo Mondo. La Cina è così sicura della fine dell'appeal americano da trasmettere in diretta TV le elezioni presidenziali USA, probabilmente come spettacolo di intrattenimento. Un programma del tipo American Idol, destinato agli adolescenti cinesi, premia la conoscenza dei modi di dire inglesi con lampade che riproducono in miniatura la Statua della libertà, senza neppure un accenno di ironia. Non ci si preoccupa più di rilasciare prigionieri politici per venire incontro alle pretese di Washington. «Quello che vediamo», mi dice uno studente a capo di un'organizzazione giovanile del Partito, «è che il materialismo ha prodotto consumi eccessivi e l'erosione della democrazia americana. Preferiamo un governo fatto di consenso e legalità». In Asia orientale gli sforzi occidentali di democratizzazione si sono dovuti scontrare con un muro persino più alto che nel mondo arabo. Secondo molti osservatori l'apertura economica porterà alla democratizzazione, ma in realtà i governi asiatici condividono con le élite economiche l'obiettivo di impedire ogni minaccia al loro controllo sui beni pubblici e sulla legislazione; senza contare che la democrazia stessa è poco richiesta perché molte nazioni asiatiche hanno oggi buoni leader (junzi) che non hanno alcuna intenzione di diventare come quel principe di una massima confuciana che, senza che nessuno abbia il coraggio di dirgli che sta sbagliando, porta alla rovina il suo paese27-29. Il «patto asiatico» è fatto di società aperte e forme politiche chiuse, e di democrazia concepita come mezzo per raggiungere un fine – non il valore supremo, ma semplicemente una fra le tante voci in agenda. È ironico che la più temibile sfida all'Occidente venga da un sistema di élite meritocratiche radicato nella tradizione confuciana, laddove la stessa idea è rintracciabile nella Repubblica di Platone, che assegna il governo a saggi re filosofi27-30. Le quasi-democrazie liberiste di Singapore e della Malesia sono oggi il modello preferito in Asia orientale. Esistono partiti di opposizione e si tengono regolarmente elezioni, anche se non per le cariche più alte. La successione procede per selezione, non per elezione27-31. Questo egocentrismo collettivo previene la possibilità che lo Stato finisca in balia degli
interessi dei gruppi etnici maggioritari, il che condurrebbe Stati multietnici come la Malesia a finire in pezzi. La leadership monopartitica ha reso i governi di Malesia e Singapore molto più responsabili e solleciti nei confronti dei loro popoli di quello delle Filippine, dove ogni settimana si diffondono nuove voci di colpi di Stato contro un esecutivo democraticamente eletto ma illiberale. Dalla Thailandia a Taiwan, la democrazia è sfociata in sistemi da "chi vince piglia tutto", afflitti da perenni manovre extralegali, impeachments e colpi di Stato. In Thailandia, ad esempio, la democrazia assomiglia molto alla boxe, nella quale tutti i colpi – pugno, piede, ginocchio, gomito – sono leciti; l'instabilità politica e la corruzione nella democratica Indonesia rendono il suo sistema difficile da ammirare per altri. «La democrazia occidentale è uno spreco di tempo», sibila un diplomatico della Malesia. Le tradizioni comunitarie dell'Asia orientale mettono in discussione il concetto americano di diritti umani, assegnando la priorità ai diritti sociali ed economici rispetto a quelli civili e politici, giustificando l'assenza di garanzie costituzionali della libertà individuale e della libertà di parola27-32. Secondo l'antico pensatore confuciano Mencio violare il diritto al cibo e al benessere materiale è più grave che negare diritti politici. Umiltà e compassione (ren), e non esteriorità ed egoismo, sono le virtù più elevate. Nelle culture confuciane viene prima il nome di famiglia e solo dopo il nome personale, e del resto la pietà filiale è un principio venerato e legalmente garantito in numerose culture della regione, e molti credono che la società ideale debba essere strutturata come una famiglia più che come un insieme di individui27-33. Gli stessi bambini sono saldamente al centro delle attenzioni familiari. «A causa della politica del figlio unico, in Cina il bambino è sinonimo di speranza per il futuro», mi spiega un intellettuale di Pechino esaltando gli sforzi che dedica alle attività sociali, musicali e sportive del suo unico figlio. Come in Europa, in Asia orientale il focus è sui mezzi di sussistenza e sull'uguaglianza economica, diritti assai più cari alla tradizione legale europea che a quella americana. La Costituzione tedesca, con le sue disposizioni sulla salute e sulla formazione, è stata ad esempio un modello per quella della Corea. Il lavoro che dura un'intera vita è ancora ambito e preso molto seriamente; per i migranti della regione il lavoro è molto più importante della cittadinanza. I fondi per l'eliminazione della povertà messi a disposizione dallo Stato sono un chiaro segno dell'intento di redistribuire la ricchezza27-34. Gli asiatici vogliono usare la globalizzazione per costruire una classe media, non per distruggerla come è accaduto negli Stati Uniti. E se si imbarcano sull'aereo della globalizzazione lo fanno con le cinture di sicurezza ben allacciate, e a bordo praticano il tai chi assieme, centinaia di mani che si muovono in sincrono condividendo la gioia di volare. Naturalmente anche i valori asiatici hanno i loro difetti. «In alcuni paesi il progresso di pochi è stato immaturamente usato per mascherare lo scarso miglioramento della qualità della vita della maggioranza», ammette lo stesso studioso sino-malese. Di certo il confucianesimo non si è dimostrato un baluardo contro il maoismo o il marxismo, che dalla Cina alla Cambogia al Vietnam hanno provocato quasi cento milioni di vittime nel solo mezzo secolo passato. La criminalità organizzata che opera in Cina, a Taiwan e in Giappone è tutto meno che di basso profilo: le loro attività spietatamente efficienti nel traffico di droga e di armi e nel riciclaggio di denaro sporco fanno sembrare le gang americane poco più che gruppi amatoriali. E nel plesso asiatico Stato-business il privilegio di famiglia è all'ordine del giorno, con interpretazioni piuttosto approssimative del dovere confuciano di aiutare la famiglia e gli amici per scopi personali, e non professionali. Tuttavia persino queste pecche hanno avuto l'effetto di ispirare più fiducia in un continuo processo di sperimentazioni ed errori. «Ora che godiamo di crescita economica e stabilità sociale non ci sono più scuse per non avere leader politici, forze di polizia e chief executive responsabili». Guidate dall'idea confuciana di reciprocità fra governanti e governati, persino le élite occidentalizzate della Cina, della Malesia e di Singapore restano comunque fedeli a tale sistema gerarchico, che preserva al tempo stesso stabilità sociale e interessi personali. Come taglia corto un deputato di Singapore, «preferiamo rischiare il denaro che le convinzioni».
28. La seduzione cinese Assai più di quanto non sia riuscito a fare il suo predecessore del Secondo Mondo, l'Unione Sovietica, la Cina può sfruttare la globalizzazione per cooptare nella sua area d'influenza non soltanto il Terzo, ma pure l'intero Primo Mondo, in particolare all'interno della sua regione28-1. Il Giappone, la
Corea del Sud, l'Australia e Singapore stanno lentamente, ma sensibilmente mutando le loro strategie globali man mano che aumenta la loro interdipendenza con la Cina. Il Primo Mondo non è più un club diretto dagli americani: gli alleati su cui Washington fa affidamento per arginare la crescita cinese sono gli stessi che contribuiscono in misura maggiore ad alimentarla. Dal giorno della sua resa incondizionata nella seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno considerato il Giappone come il baluardo del «mondo libero» in Asia 28-2. Tuttavia, essendo il paese più sofisticato al mondo dal punto di vista tecnologico e organizzativo, il Giappone è stato anche un architetto di primo piano nella costruzione dell'ordine asiatico grazie ai forti investimenti effettuati nella regione per risparmiare sui costi di produzione dell'industria automobilistica e di altre industrie – e in nessun altro luogo più che in Cina. I quattrocentomila cinesi residenti in Giappone hanno favorito il formarsi di un precoce interesse in patria verso questo paese, e le migliaia di studenti cinesi che ogni anno si trasferiscono in Giappone contribuiscono ad alimentarlo. L'aeroporto di Pechino è stato costruito con aiuti giapponesi, e gli investimenti giapponesi in Cina non sono mai stati così alti come durante i periodi di tensione fra le due nazioni. Le importazioni giapponesi dalla Cina, fra cui la metà del consumo annuale di frutta, hanno conosciuto una vera e propria impennata. Attualmente oltre centomila giapponesi vivono a Shanghai, come mediatori degli investimenti provenienti dal proprio paese – superiori ai 30 miliardi di dollari –, o anche lavorando nei call center giapponesi che hanno aperto in città28-3. Il Giappone si conferma una potenza economica globale nonché il maggior fornitore di aiuti umanitari al mondo; è di certo la più umile fra le grandi potenze, e la sola a essersi garantito un sufficiente livello di sicurezza con un ridottissimo bilancio per la difesa grazie all'alleanza con gli Stati Uniti, alla marina militare all'avanguardia e al programma di difesa antimissile (e va notato che i membri più nazionalisti dell'establishment giapponese non mancano di deplorare lo squilibrio dello status internazionale del paese nei confronti degli Stati Uniti almeno tanto quanto nei confronti della Cina). Tuttavia, a causa della sua unicità culturale il Giappone non potrebbe riscuotere una vasta obbedienza in Asia nemmeno se si dotasse di armi atomiche: per questo deve accontentarsi di un ruolo di secondo piano rispetto alla Cina, che ha bloccato il suo tentativo di avere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Con tutto ciò, una dinamica bilaterale all'insegna di un new thinking pare essere definitivamente emersa dal momento in cui i leader dei due paesi si rendono conto che la normalizzazione delle relazioni giapponesi con il resto dell'Asia è un compito analogo alla riabilitazione della Germania in Europa, ossia un requisito indispensabile per proseguire in quel regionalismo economico e politico "a due ruote" in cui entrambi i paesi sono impegnati28-4. Abbandonato l'antico timore verso il lavoro comune, Cina, Giappone e Corea del Sud realizzano esplorazioni congiunte alla ricerca di petrolio e gas naturale nel Mar Cinese orientale, accordi di spartizione del greggio, riserve strategiche e un comune programma di sfruttamento delle aree di pesca e dei giacimenti di gas attorno alle isole Dokdo, o Takeshima, ancora oggetto di contesa territoriale28-5. Sull'altra sponda del Mar del Giappone, la Corea del Sud, trasformatasi da obiettivo di aiuti internazionali a Stato del Primo Mondo, è il più lampante esempio di successo in Asia 28-6. Più ancora che in Giappone, in Corea del Sud la lealtà agli Stati Uniti è in grande crisi. La crescente fiducia dei coreani ha portato a un confronto con Washington sull'opportunità di una presenza militare nella penisola risalente ormai a cinquant'anni fa, con Seul a chiedere esplicitamente una riduzione degli effettivi. Le basi americane, un tempo fortezze extraterritoriali, ora devono comunque fare i conti con la tolleranza delle società che le ospitano, sempre più perplesse circa le motivazioni di quella presenza28-7. Al tempo stesso molti giovani coreani restano vittime dell'incantesimo della "febbre rossa" e chiedono rapporti più stretti con la Cina28-8. La crescita economica della Corea del Sud dipende oggi quasi per intero dalla Cina, che ha sorpassato gli Stati Uniti come partner commerciale più importante28-9. Quando Pechino annunciò nel 2004 un possibile rallentamento programmato della crescita, il mercato azionario coreano ricevette un duro colpo. La Cina ha quasi raggiunto gli standard elettronici coreani, ma con costi di lavoro molto più bassi, il che significa che il valore aggiunto coreano ai beni assemblati in Cina potrebbe svanire nel momento in cui quest'ultima conseguisse il suo stesso livello nella catena produttiva. Ciononostante Cina e Corea del Sud cooperano nella colonizzazione capitalistica del paese che si
trova in mezzo alle due, e cioè la Corea del Nord con le sue armi atomiche e la sua miseria spaventosa. La Cina ha già acquistato le miniere e le ferrovie nordcoreane, mentre la Corea del Sud, attraverso diverse repliche della sua sunshine policy, la "politica del cielo sereno", vi ha aperto produzioni congiunte e zone di esportazione; i due paesi sono arrivati a mettere in campo una squadra olimpica comune. Infine, i contatti che si moltiplicano fra Cina, Corea del Sud e dissidenti e funzionari nordcoreani fanno presagire che, se e quando il «regno eremita» cadrà, non da ultimo per il peso insostenibile di una popolazione ridotta alla fame, Pechino e Seul prenderanno ciascuna la propria parte nella sua finlandizzazione28-10. La Cina è anche praticamente riuscita a neutralizzare l'alleanza americana con l'Australia all'interno dell'anglosfera. Durante la seconda guerra mondiale i due paesi unirono le forze per difendersi da una potenziale invasione giapponese. Oggi l'espansione cinese è però un'altra cosa: silenziosa, economica anziché militare, non induce controstrategie belliche e genera invece buona volontà 28-11. Gli australiani sanno che il loro alleato storico è un rivale del partner commerciale che cresce più rapidamente di tutti, e questo si ripercuote in una sorta di schizofrenia in politica estera in cui giocano geografia e tradizione28-12. La Cina è il maggior consumatore dell'uranio, del minerale ferroso, del manganese e del gas naturale liquido (imbarcato via mare dalla Northwest Shelf fino a una raffineria nel Guangdong) che si estraggono in Australia28-13. L'accordo per la fornitura di gas alla Cina è stato il più grande affare della storia australiana – nonché la ragione dello spegnersi delle critiche sulla questione dei diritti umani in Cina. Per mantenere la propria credibilità come leader affidabile nelle missioni asiatiche di peacekeeping l'Australia ha siglato il Trattato di amicizia e cooperazione dell'ASEAN, un patto di non aggressione che confligge direttamente con la sua militanza al fianco degli Stati Uniti. Come la Corea del Sud, l'Australia ora dichiara di poter giocare un ruolo di mediazione tra Stati Uniti e Cina, senza schierarsi con l'uno o con l'altro. Per la comunità degli affari e i diplomatici australiani Pechino è stata per qualche tempo la destinazione del successo, e viceversa il 75 per cento dei tour organizzati che visitano l'Australia proviene dalla Cina. Gli Stati Uniti devono rivolgersi seriamente al loro solo, vero alleato: la geografia. Da Palau a Guam alle Hawaii la U.S. Navy sta progettando una rete di basi di approvvigionamento e di canali di accesso esclusivamente marittima, per continuare a dispiegare la propria forza militare in una regione dove pochi ormai sembrano volerla28-14. Ispirare benessere in Asia: Singapore Costruita in un angolo sperduto e spopolato del Sudest asiatico dalla British East India Company, abitata in prevalenza da cinesi, Singapore è stata la prima nazione a smentire quella nozione di malessere equatoriale che nel Terzo Mondo è sempre stata la regola. Quando la Federazione Malese espulse Singapore nel 1965, Lee Kuan Yew e la sua banda di immigrati restarono senza forze armate, un'«isola cinese in un mare malese»28-15. Lee riuscì a inculcarvi l'autostima organizzando gare per piantare alberi, facendo di Singapore l'autentico archetipo della città globale, utilizzando capitale straniero per finanziare infrastrutture di livello internazionale come strade, aeroporti, ospedali e scuole – e un funzionariato pubblico per gestirle. Quando si guida sui viali della città, alberati e perfettamente pavimentati, ogni ritardo è impossibile. «L'America è Terzo Mondo al nostro confronto», scherzano spesso i singaporiani. «Singapore è virtualmente sinonimo di globalizzazione», chiosa un businessman di imprese multinazionali mentre mi fa notare quanto di frequente abbia cambiato lavoro nel corso del tempo. Per decenni Singapore ha costantemente scalato le posizioni nella catena produttiva globale, diventando un centro per la raffinazione del greggio e la costruzione di impianti di trivellazione senza possedere una goccia di petrolio. Biopolis, il nuovo centro di ricerca nelle scienze della vita (attivo fra l'altro nelle ricerche sulle cellule staminali) attira scienziati occidentali in cerca di opportunità d'impiego libere da intralci. Management portuale all'avanguardia, prostituzione controllata, casinò, procedure semplificate di cittadinanza per professionisti che fanno l'invidia di Dubai: tutto questo è la realtà della "Singapore Inc.". Nel ristrettissimo spazio che Singapore ha a disposizione, la destinazione di ogni ettaro di terreno è fissata con anni d'anticipo per soddisfare la prevista domanda di abitazioni e aree industriali; ci si riferisce ai quartieri dell'industria high-tech come a "poderi". In assenza di risorse diverse sono state le
riserve di valuta la forza di moltiplicazione di Singapore. Con la sua compagnia statale Temasele, Singapore controlla quote significative dei maggiori conglomerati industriali dell'Asia; i suoi investimenti in Cina, che hanno preceduto di parecchio quelli del resto del mondo, le hanno garantito credibilità e influenza a lungo termine. «L'Asia è ormai in grado di sfornare professionisti ad alta specializzazione», continua il mio interlocutore, «con il risultato che a Singapore le quote per i lavoratori stranieri sono ormai riservate agli occidentali». Singapore incarna il successo della via asiatica: ossia un modello fatto apposta per l'esportazione. Lee ha spiegato in una sola parola il successo di Singapore: «fiducia». Una fiducia data da un governo «corretto, non soltanto politicamente»28-16. Per il sistema di valori di Lee, basato sulla massima «niente è gratis», ricchi e poveri si devono ugualmente adattare alle norme – tariffe, multe, tasse, penali – che regolano i consumi eccessivi e persino la proprietà di più automobili (anche se le famose punizioni corporali che si aggiungono alla detenzione per un'ampia varietà di crimini sono un lascito della dominazione inglese). Per Lee la democrazia non ha alcun valore intrinseco, e i risultati hanno sempre la meglio sui relativi processi28-17. La meritocrazia al governo è esplicitamente ricalcata sul modello della Royal Dutch Shell. I deputati di Singapore sono i più pagati al mondo, il che li rende virtualmente incorruttibili; li si trova in tutte le capitali della regione a propagandare responsabilità, efficienza e pragmatismo – e non certo democrazia. I consigli dei collegi elettorali di Singapore lavorano sottotraccia, ma si rapportano indirettamente con la struttura partitica dominante, secondo un modello preferito in gran parte dell'Asia. Inoltre Lee ha imposto una decisa restrizione all'uso della coercizione fisica, una risoluzione che molte altre nazioni della regione farebbero bene ad adottare quale passo significativo per ripulire le loro politiche. Sufficientemente umile per non governare fino alla morte, Lee si è dimesso per diventare «ministro mentore» – non ultimo di suo figlio, l'attuale primo ministro. Una volta che Lee sarà definitivamente uscito di scena, tuttavia, la legittimazione del governo non dovrà basarsi sulla linea dinastica quanto su buone politiche per la popolazione, legalità, crescita economica e istruzione, manutenzione delle infrastrutture, difesa della cultura nazionale e alti standard di integrità28-18. La prosperità di Singapore ha determinato soddisfazione pubblica a un livello tale da consentire al governo di allentare il proprio paternalismo e consentire maggiore libertà come valvola di sfogo sociale, ponendosi incidentalmente ad esempio per il resto della regione. «Possiamo anche essere l'invidia del mondo», mi spiega un giovane accademico in un bel campus universitario, «ma abbiamo un senso decadente del nostro titolo, come una persona che vive in un hotel a cinque stelle». Effettivamente Singapore è considerata così noiosa che la natalità è ferma e la percentuale di divorzi è la più alta al mondo. Sin dalla nascita del paese Lee rifiutò l'idea di Singapore come «terza Cina», facendone invece un luogo dove ai cinesi non era consentito essere tali. Ne ha smantellato gli affari e ha imposto l'inglese come lingua nazionale. «Come la maggior parte della diaspora dalla Cina, all'epoca della guerra fredda eravamo sinofobi», mi spiega uno storico mentre pranziamo alla National University. «La madrepatria comunista aveva grandi pregiudizi verso le nostre ideologie straniere». Molti cinesi di Singapore non parlano nemmeno l'attuale, complessa variante del mandarino, ma piuttosto il popolare singlish. Per battere gli asiatici in globalizzazione Singapore si è data da fare in lungo e in largo per conservare gli equilibri interni alla regione. L'addestramento del suo esercito è affidato a Israele e all'India, e il suo nuovo, imponente porto è stato costruito per ospitare la flotta americana che ha abbandonato le Filippine – alcuni analisti hanno definito Singapore una «corazzata americana all'ancora». Al suo annuale meeting di Shangri-La sulla difesa sono invitati ufficiali di tutti gli eserciti della regione – tranne che di quello cinese. «Il profondo legame culturale dell'identità cinese sta diventando molto concreto negli ultimi tempi», sostiene il direttore di un giornale locale. «L'affinità con la madrepatria è tornata a farsi sentire forte a Singapore». I singaporiani di etnia cinese mostrano un crescente interesse verso il bilinguismo: i loro figli parlano inglese ma vengono educati in scuole cinesi, e gli investimenti verso la Cina sono in netta crescita. Inoltre Pechino ha ammorbidito il proprio atteggiamento verso i cinesi all'estero – senza indebolire le proprie relazioni ufficiali con i governi che li ospitano (che potrebbero ironicamente provocare sentimenti anticinesi) – rendendo più agevoli le leggi sugli investimenti e dichiarandosi disponibile a offrire loro la doppia cittadinanza. «Puoi notare come l'ambasciata americana e quella
cinese siano alla stessa distanza dal Ministero degli esteri», afferma un giovane diplomatico cinese mentre percorriamo in automobile gli ampi viali che serpeggiano per la città. Singapore è l'eccezione alla regola per cui la Cina sta dettando le regole al resto dell'Asia, perché i cinesi di Singapore non soltanto governano al meglio il proprio paese, ma dettano regole alla Cina stessa. Perciò la questione non è se la Cina dominerà l'Asia, ma piuttosto quale modello di Cina prevarrà. Singapore può già vantare un certo credito riguardo ai più importanti cambiamenti nel processo decisionale cinese dei due decenni passati. Deng Xiaoping decise di sottrarre la Cina all'isolamento dopo aver visitato Singapore, dove vide cinesi più svegli e prosperi che in patria. L'impressione di Toynbee sembra ancora più valida oggi di quanto non fosse mezzo secolo fa: «Singapore è stata fondata da un'impresa britannica, ma ora è una città cinese: la futura capitale di una "sfera di coprosperità" cinese che durerà nel tempo perché è stata creata dall'abilità economica anziché dalla forza militare»28-19.
Se l'India guarda a est Il devastante tsunami del 2004, che ha avuto il suo epicentro a Sumatra, in Indonesia, e si è riversato su isole e aree costiere dall'India alla Somalia, ha reso tragicamente tangibile la realtà di uno spazio oceanico privo di cuciture situato nell'emisfero orientale28-20. Poiché la gravità lunare regola le maree, l'Oceano Indiano svolge la funzione di baia occidentale del più grande spazio del Pacifico, su cui si affaccia l'Asia orientale. Le coste occidentali dell'Oceano Indiano – Africa, Arabia e Iran – vendono a ritmo crescente materie prime verso Oriente e al tempo stesso sono il maggior mercato di investimenti ed esportazioni per l'Asia in pieno boom. La maggior parte delle navi da carico di tutto il mondo attraversa quest'area integrata India-Pacifico; l'intera Asia meridionale, ancora appartenente al Terzo Mondo, è così diventata il sottosistema occidentale dell'ordine asiatico che ha il suo fulcro in Cina. Oltre il 50 per cento degli scambi dell'India avvengono con l'Asia orientale, mentre Giappone, Corea del Sud e Singapore sono i suoi maggiori investitori esteri. All'epoca del governatorato britannico l'India era il più potente territorio tra il Canale di Suez e lo Stretto di Malacca, ma la sua influenza sul mondo arabo e l'Asia centrale ebbe termine con l'indipendenza. Circondato dalla più alta catena montuosa del mondo e da un oceano immenso, il raggio d'azione della potenza militare piuttosto modesta di questo paese è parecchio circoscritto (anche in presenza di armi nucleari). Gli Stati Uniti cercano esplicitamente di sostenere la crescita dell'India, considerata «la più vasta democrazia oltre i confini dell'Occidente geografico, economicamente potente, culturalmente dinamica, multietnica e multireligiosa», nonché, ovviamente, solida barriera contro la Cina 28-21. Tuttavia l'India è passata dal non allineamento della guerra fredda a un attuale multiallineamento. Descrive se stessa e gli Stati Uniti come le «due colonne della democrazia» mentre annuncia progetti in accordo con la Cina per «ridisegnare l'ordine mondiale»28-22. Per lusingare l'India gli americani offrono investimenti nel settore hi-tech, tecnologia nucleare civile, accordi di difesa che prevedono fra l'altro la coproduzione dei caccia f-18 e l'aumento dei visti disponibili per immigranti. La Cina ha invece enfatizzato le affinità con negoziati di commercio, esplorazioni petrolifere congiunte, corridoi commerciali che attraversano la catena himalayana, 20 miliardi di dollari di scambi annuali e un accordo sul nucleare civile. Le aziende indiane di nuove tecnologie devono importare hardware dalla Cina per produrre il proprio software, e il fatto che le maggiori operazioni di outsourcing in Cina siano state realizzate da indiani rende chiaro il crescente livello di integrazione fra i due paesi28-23. Tuttavia, grazie a questa soft cooperation la Cina si è decisamente avvicinata al suo grande obiettivo strategico: accerchiare l'India e controllarne l'espansione attraverso una «collana di perle» navale per raggiungere il Mare Arabico senza dover dipendere dallo Stretto di Malacca. Già parte del territorio coloniale dell'India, la Birmania, oggi Myanmar, è definitivamente entrata nell'orbita cinese, come mostra l'abbandono dei progetti indiani di gasdotti est-ovest in favore di gasdotti nord-sud con la Cina. Se l'India ha eretto una barriera per prevenire l'immigrazione dal Bangladesh, la Cina ha costruito a Dacca un modernissimo Bangladesh-China Conference Center. E quando l'India minaccia di deviare il corso del Brahmaputra (da cui dipende la sopravvivenza del Bangladesh) per farlo confluire nel Gange, la Cina interviene immediatamente mostrando i muscoli, essendo il paese in cui il Brahmaputra nasce. Contro la volontà indiana la Cina è diventata un membro osservatore dell'Associazione per la cooperazione regionale dell'Asia dal Sud (SAARC), mentre l'influenza indiana nella Comunità dell'Asia orientale, in pieno processo di sviluppo, è del tutto marginale. «Nessuno nella
regione è davvero interessato a ciò che l'India pensa», mi confida un diplomatico malese esperto della diplomazia della regione. L'India è grande ma non è ancora importante. L'esternalizzazione l'ha trasformata nel principale back office delle aziende occidentali, ma a parte poche, isolate oasi di sviluppo al passo con il XXI secolo il paese appartiene quasi completamente al Terzo Mondo, con la maggior parte del suo miliardo e più di abitanti sprofondato nella povertà 28-24. A Mumbai (un tempo nota come Bombay), che copre da sola oltre un terzo dell'economia nazionale, i residenti più ricchi pagano affitti tra i più alti in assoluto al mondo, mentre gli slums della città, dove vivono oltre dieci milioni di persone, sono fra i più estesi del pianeta. Le città indiane, intasate dal traffico, hanno ancora strade a tre corsie: due sono per le automobili, la terza per i pedoni e il bestiame che vaga nel mezzo. La facilità di realizzazione degli IPO, gli enormi dividendi societari e la grande quantità di miliardari sono un segno del potenziale di dinamismo del settore privato indiano, ma la crescita è destinata a restare spaventosamente disuguale fino a quando il governo – forse nei due decenni a venire – non darà corso alle promesse di sviluppo infrastrutturale. La sostenuta crescita demografica minaccia di far restare l'India il più popoloso paese povero del globo ancora per decenni, anche in presenza di un'alta crescita economica. Sebbene l'agricoltura rappresenti soltanto il 30 per cento dell'economia, settecento milioni di persone dipendono dai monsoni e dai raccolti stagionali – senza contare che le falde acquifere del paese sono in rapida riduzione. Impossibilitati a sostenere i debiti, molti contadini si sono suicidati; nelle aree più arretrate sopravvivono forme di schiavitù regolate contrattualmente. Il grosso dell'incremento della popolazione dell'India ha luogo negli Stati del Nord, quelli con le infrastrutture più deboli, le peggiori politiche di governo, il più basso livello di scolarità e la più alta percentuale di contagio da AIDS, nonché, di recente, l'epicentro di una recrudescenza di epidemie di poliomelite. La Cina è ordinata, e un giorno potrà avere la democrazia. L'India ha la democrazia, ma i suoi risultati sono inferiori perché è dominata dal caos. Il legame tra commercio e sviluppo esemplificato dalla Cina è praticamente assente in India. In rapporto alle dimensioni geografiche e demografiche della nazione il governo indiano è debole fin quasi all'invisibilità, con un bilancio federale delle dimensioni di quello della Norvegia. A differenza della Cina, l'India unificata è una creazione britannica, e la sua unità appare più geografica che psicologica; è una penisola stretta in una morsa, dove tamil e assamesi sono costretti a convivere in assenza di altri posti in cui andare – benché ancora ci provino. Non sarebbe un paradosso sostenere che la Cina è un paese più libero della democratica India: l'alfabetizzazione è incomparabilmente più alta, la percentuale di povertà molto inferiore. Inoltre occorre più tempo per aprire un'impresa in India, dove solo un terzo degli abitanti ha accesso a internet e solo un quinto possiede un telefono cellulare. La democrazia indiana non ha mai sperimentato una vera crisi, ma oltre la metà dei bambini è malnutrita. E senza alcuna libertà economica è molto difficile per gli indiani godere di qualche altra forma di libertà. La differenza tra India e Cina perciò non sta soltanto nel gap cronologico che separa l'inizio delle riforme economiche nei due paesi, ma anche in una fondamentale questione di abilità organizzativa nazionale. Se l'India crescerà, lo farà seguendo le regole cinesi.
29. La Malesia, l'Indonesia e la grande sfera cinese di coprosperità I leader dell'Indocina postcoloniale si inventarono l'Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (ASEAN) su un campo da golf, nel 1967. Il primo meeting fu tenuto a Bangkok perché la Thailandia era all'epoca l'unico paese a non avere guerre in corso con qualcuno dei membri fondatori. Una volta che quei leader, fino a poco prima soltanto militari ribelli, ebbero acquisito una legittimazione nazionale, l'ASEAN mosse i primi passi affrontando il problema dell'aggressiva politica della "Konfrontasi" con la Malesia inaugurata in Indonesia da Sukarno, cui seguirono le guerre in Vietnam e Cambogia29-1. Per decenni l'ASEAN restò un blocco anticoloniale in cui gli Stati Uniti favorivano i governi militari (le dimensioni dell'esercito thailandese furono triplicate, ad esempio) per arginare il marxismo che dilagava nelle campagne. Come la UE, anche l'ASEAN ha conosciuto dopo la guerra fredda focolai di crisi paragonabili alla Bosnia: il crac finanziario asiatico, gli incendi delle foreste in Indonesia, l'intervento a Timor Est e l'epidemia di SARS. Ciascuno di questi episodi ha messo alla prova la compattezza e l'utilità dell'ASEAN e ha stimolato un rapido sviluppo di meccanismi collettivi per l'integrazione commerciale, la lotta al terrorismo, la salvaguardia ambientale, il crimine transnazionale e la salute collettiva. L'interferenza reciproca è diventata la norma, tanto quanto i viaggi compiuti da un paese all'altro del blocco dai suoi cinquecento milioni di abitanti senza necessità di visto29-2. Alcuni paesi ASEAN hanno ancora accordi di difesa con gli Stati Uniti, ed è su di essi che
punta Washington per ridisegnare questo blocco multilaterale come bastione anti-Cina29-3. Il punto è che il club ASEAN si trova giusto nel cortile di casa di Pechino. E per liberarsi dell'accerchiamento strategico americano la Cina pesca uno a uno i suoi membri e li include nel proprio sistema neotributario, in modo che le connessioni fra ciascuno di essi e la Cina siano più solide di quelle fra i paesi interni al blocco. «I paesi dell'ASEAN fanno deferenti inchini al cospetto della Cina», mi spiega un diplomatico thailandese, ex funzionario ASEAN, «non soltanto per evitare di passare per suoi nemici, ma perché la Cina ha promesso loro che non li abbandonerà in caso di bisogno, come fecero gli Stati Uniti durante la crisi finanziaria asiatica». Il modello ASEAN è ora quello di una periferia terrazzata della Cina: Singapore, Malesia e Brunei sono i partner più ricchi; Thailandia, Indonesia e Vietnam le chiavi economiche e strategiche; Myanmar, Cambogia, Laos e Filippine i clienti terzomondiali. A tutti la Cina garantisce l'accesso al suo mercato sconfinato e il sostegno al deficit commerciale (con profitti record per il business dei paesi ASEAN) in cambio di materie prime, accordi di difesa e impegni di appoggio diplomatico29-4. Come gli europei nel Maghreb, da Penang a Bali i cinquantenni cinesi stanno acquistando case in cui passare gli anni della pensione, prefigurando l'allargamento della sfera cinese di coprosperità nel XXI secolo. Malesia: amici e vicini Non c'è bisogno di attendere l'inaugurazione del treno ad alta velocità che collegherà Singapore alla capitale della Malesia, Kuala Lumpur, per vedere i segni dell'effetto Singapore in tutta questa penisola tropicale a forma di tenaglia. Viaggiando in direzione nord lungo l'autostrada nazionale malese si possono osservare le palme da olio e le piantagioni di caucciù cedere il passo ad aree industrializzate, finché si incrociano le indicazioni per Putrajaya – la città impeccabilmente progettata come gemella della capitale – e Cyberjaya, snodo di quel Multimedia Super Corridor che fa di Kuala Lumpur una risposta asiatica a Dubai progettata con i livelli di qualità tipici di Singapore. Queste due neocities sono il simbolo della capacità degli asiatici di guadagnare con imprese ad alto rischio, e l'autostrada che le percorre è la prova suprema della centralità delle infrastrutture nell'edificazione e nella connessione di una nazione del Primo Mondo. La Malesia ha fatto propri i simboli materiali dello sviluppo meglio di ogni altra nazione postcoloniale: sulle banconote sono effigiati più i treni e le costruzioni che non i padri fondatori della nazione. Anziché abbandonare al degrado le infrastrutture coloniali come è accaduto in Egitto, i leader del periodo dell'indipendenza della Malesia hanno capitalizzato l'eredità dello stile urbano dell'amministrazione civile britannica (compresi i club per lo sport e il divertimento). Di suo, l'esempio di Singapore ha insegnato alla Malesia come essere un competitor nell'industria globale, dall'aviazione alle strutture portuali. Putrajaya è stata costruita dove un tempo non c'erano altro che piantagioni, mentre ora è un polo della produzione di tessuti e di altri beni destinati ai mercati dell'Occidente. Ha una moderna architettura europea con un suo peculiare tocco musulmano, ponti e moschee decorate ispirati a quelli iraniani. L'autostrada nazionale ora si allunga a nord fino a Penang, che pure si è affermata come polo high-tech. Non c'è emblema più pregnante della ricchezza malese delle Petronas Towers di Kuala Lumpur, ormai note come le "torri gemelle" e fino a non molto tempo fa l'edificio più alto del mondo. La loro planimetria è ricalcata sul simbolismo della geometria islamica: una stella a otto punte che esprime unità, armonia, stabilità e razionalità. Una delle torri, occupata dalla compagnia petrolifera statale Petronas, è una specie di monumento al trionfo sui ben noti effetti negativi del petrolio sullo stile di governo; l'altra ospita grandi corporations multinazionali. Il ponte sospeso a due livelli che le unisce a quarantacinque piani dal suolo rappresenta il patto fra aziende di Stato e capitale estero – la formula vincente dell'Asia. «Siamo l'unico paese non occidentale a non essere caduto vittima della maledizione del petrolio», rimarca orgogliosamente un executive di una società di pubbliche relazioni nel suo ufficio con vista sulle torri29-5. Sin da quando si avviò il suo boom petrolifero, negli anni Settanta, la Malesia scelse di diversificare la produzione specializzandosi nella raffinazione del greggio e nell'assemblaggio dell'elettronica, e sfruttando, senza sventrarle del tutto, le sue massicce risorse di legname e caucciù. Grazie all'aggiornamento tecnologico e alla saggia gestione delle riserve la Malesia resta a tutt'oggi
l'unico esportatore di petrolio in tutta l'Asia orientale. E quando le riserve di petrolio si prosciugheranno – nei prossimi due decenni, si calcola – il paese potrà ancora contare su grandi giacimenti di gas naturale. Le diseguaglianze fra città e campagne e un'istruzione primaria piuttosto debole hanno impedito di raggiungere il livello di sviluppo della Corea del Sud, ma il fatto che la quota più alta del suo imponente bilancio a lungo termine sia dedicata alla formazione fa presagire che la Malesia possa in futuro competere molto più attivamente nelle due economie, quella della produzione e quella della conoscenza. L'ex sultanato di Malacca, posto sulla Via delle spezie, ora è un mix di architettura coloniale portoghese e moderni impianti di assemblaggio di personal computer, e gli abitanti di Kuala Lumpur possono permettersi di comprare delicatessen ai grandi magazzini Carrefour, il brand di riferimento per lo shopping alimentare nel Primo Mondo. La leadership può fare molta differenza, in qualsiasi parte del mondo, e mentre ai venezuelani è toccato Hugo Chávez i malesi hanno avuto Mahathir bin Mohamad. Mahathir e i suoi consiglieri erano convinti che la globalizzazione era pericolosa se non veniva governata, e per questo durante la crisi finanziaria asiatica furono in grado di opporsi alle restrizioni internazionali che misero in ginocchio l'economia della Thailandia e dell'Indonesia, introducendo invece controlli sui capitali per tenere a galla la valuta nazionale, il ringgit. Poiché è sempre più evidente che la globalizzazione richiede di essere regolata con mano sicura per evitare di peggiorare le disparità già esistenti, è assai probabile che negli anni a venire i leader del Secondo Mondo sceglieranno di comportarsi come la Malesia anziché come l'Argentina. «Dr M.», come i suoi sostenitori chiamano Mahathir, è una specie di Lee Kuan Yew islamico, secondo soltanto a quest'ultimo nella difesa dei valori asiatici e fermamente convinto che ci siano virtù comuni all'islam e al confucianesimo, quali la reciprocità e la lealtà. «Gli occidentali», afferma uno studente musulmano nella Masjid Negara, la moschea nazionale, «credono che crescita economica significhi automaticamente liberalizzazione culturale, ma la Malesia proverà che invece esiste un'altra strada, la strada asiatica». Vista la diffusione dell'islam nel corso dei secoli – i missionari musulmani e i mercanti arabi si spingevano fino alle Filippine già nel XIII secolo – risulta appropriata la metafora di Mahathir, che lo paragona al gioco in cui i bambini in circolo si sussurrano una parola l'uno con l'altro: quello che dice il primo e quello che sente l'ultimo possono essere due cose completamente differenti. Invece di entrare nei sinistri conflitti dottrinali che imperversano sulla volontà degli ulama, Mahathir e il suo successore Abdullah Badawi hanno capito che le nazioni periferiche del mondo islamico hanno sempre dovuto adattarsi a scenari etnicamente più eterogenei di quelli dei paesi arabi, e che perciò il dogmatismo sarebbe stato devastante. L'euforia dei malesi per la rivoluzione islamica è sfiorita quando l'Iran ha cominciato ad affondare; d'altro canto, vedendo nel modernismo islamico dei paesi del Golfo un elemento materialistico e corrosivo, proprio qui hanno inventato l'Islam Hadhari ('islam progressista'), che enfatizza sviluppo sociale, leadership equanime, integrità morale, libertà personale, protezione dell'ambiente e formazione scientifica. A gruppi come le Sorelle dell'islam è consentito alzare la voce contro le restrizioni del conservatorismo islamico e la sua idea di sottomissione e obbedienza della donna, sulla base dell'idea che l'islam predice l'eguaglianza di genere e che la Malesia deve garantirla per essere una società che riscuote rispetto. Per questo la Malesia si presenta attualmente come un'alternativa matura all'Arabia Saudita per l'istruzione musulmana e come un luogo di divertimento per i ricchi arabi in cui la sharia ha il posto che le conviene. Il suo approccio pragmatico alla leadership araba è visibile meglio che altrove all'interno dell'Organizzazione della conferenza islamica (OIC), che la Malesia sta distraendo dalle diatribe ideologiche per orientarla verso progetti di scambi e investimenti comuni, nonché nell'uso dello zakat come mezzo per alleviare la povertà all'interno del mondo musulmano29-6. «Possono esistere strategie geopolitiche musulmane», continua lo studente, «a patto che a guidarle siamo noi e non quelli del Golfo». «La Malesia», è il punto di vista di un accademico locale, «è più musulmana oggi di ieri, a dispetto della nostra crescita economica». Poiché la maggioranza della popolazione islamica mondiale risiede in Asia (e non nei paesi arabi) il modello malese di una modernizzazione che non sacrifica l'islam fa di questo paese il vero baluardo asiatico contro le forze fondamentaliste che dilagano da ovest. Come la Giordania, la Malesia è aperta e tollerante e al tempo stesso conservatrice. La sua fortuna è dovuta alla separazione fra moschea e Stato, con il secondo potere disposto a consultarsi con il primo senza farsi
dettare ordini. Per la maggioranza musulmana la sharia fa aggio sulle norme costituzionali, mentre per gli altri gruppi etnici, come cinesi e indiani, vige da secoli un sistema legale parallelo che funziona perfettamente. Da notare che, poiché la crescita della popolazione malese autoctona è molto più sostenuta di quella della locale minoranza han, i prolungati successi del paese non possono essere attribuiti unicamente all'etica confuciana cinese. La seconda ondata di islam arabo – sette secoli dopo la prima – raccoglie il consenso di parecchi musulmani malesi, come si evince dall'aumento dell'uso del velo. Il divorzio, che un tempo era possibile addirittura per sms, è stato abolito. I consigli della sharia esercitano un potere crescente, e la polizia islamica ha persino fatto irruzione allo Zouk, il più popolare nightclub di Kuala Lumpur. Anwar Ibrahim, pioniere delle politiche islamiste ed ex vicepremier, ancora crede che l'islam possa purificare la corruzione dell'apparato pubblico: il programma che sbandiera è analogo a quello della Fratellanza musulmana in Egitto. «L'islam», ha dichiarato, «non sarà sacrificato in nome della democrazia. Le infrazioni ai valori asiatici devono finire affinché la prosperità possa continuare». Le politiche malesi sono diventate più trasparenti, ma non per questo più aperte. Le periodiche elezioni multi-partitiche possono risolversi in qualche seggio in più per l'opposizione, ma il vantaggio garantito al partito dominante, il Barisan National Party, non ammette discussioni. Da parte sua, Mahathir sembra concedere qualche credito in più alla democrazia da quando ha lasciato la carica per diventare chairman della Petronas, epicentro di tutte le connessioni tra affari e politica. Ironicamente adesso accusa il suo successore, Badawi, di non concedere voce all'opposizione e di non volersi assumere la responsabilità dell'assegnazione di contratti e posti prestigiosi ai parenti. Quel che è certo è che Mahathir non ha mai creduto che la democrazia valesse il prezzo di una destabilizzazione del fragile equilibrio etnico del paese, e la maggioranza dei malesi sembra d'accordo visto che le simpatie per uno Stato forte aumentano con l'aumentare della ricchezza29-7. La Malesia è un caso di tolleranza interetnica – anche se non necessariamente di armonia – sorretta dalla crescita economica: il colonialismo fece affluire nella penisola grandi masse di indiani e di cinesi, ma lo Stato non ha mai perso la capacità di mantenere stabile questa miscela fatta di un 50 per cento di malesi, un 40 per cento di cinesi e un 10 per cento di indiani (del resto gli antenati di Mahathir provenivano dallo Stato indiano del Kerala, mentre quelli di Badawi erano una combinazione di arabi e di cinesi della provincia dello Yunnan). All'atto dell'indipendenza, a cinesi e indiani fu subito garantita la cittadinanza, e in parallelo si fu ben attenti a unire i malesi di origine non cinese per evitare il predominio dei più inurbati han – da cui l'espulsione di Singapore nel 1965. Nel Malaysian pot valori asiatici, islam e democrazia continuano a mescolarsi senza che ancora giungano segnali di ebollizione. «Molti si chiedono se una crisi economica potrebbe scatenare la violenza etnica come avvenne nel 1969, ma preferiamo conseguire l'uguaglianza dei redditi anziché verificare l'esattezza di questa ipotesi», mi confida in privato un politico dello schieramento conservatore. Come il Sudafrica, la Malesia ha un peculiare schema di affirmative action per la maggioranza autoctona malay – i Bumiputra, cioè 'Figli del Sole' – che ha dato vita a una classe media stabile grazie a prestiti a basso tasso d'interesse riservati alle loro aziende. Di certo, comunque, la tensione fra i malay e la potente minoranza cinese è quasi invisibile, ma palpabile. V.S. Naipaul ha paragonato l'arrivo dei cinesi in Malesia all'immissione di corrente a 220 volt in un paese attrezzato solo a 110. Per il cinese un giardino è un lotto di mercato, per un malese è parte della casa e della terra29-8. Oggi corre di frequente la battuta che «se i cinesi diventassero musulmani i malesi si convertirebbero al buddhismo». Eppure, come mi dice a bassa voce un ex funzionario nel suo umile ufficio dentro casa, «anche se non lo ammetteremo mai, senza i cinesi saremmo ancora un luogo economicamente arretrato». A dispetto del suo forte orientamento pro-malay, i più stretti soci d'affari di Mahathir sono cinesi, e una zona economica al largo delle coste del Borneo è stata creata appositamente per attrarre investimenti cinesi senza cadere sotto il loro controllo. I crescenti legami fra Cina e Malesia provano la verità del proverbio che dice che «un vicino prossimo è più importante di un parente lontano». Nei secoli gli immigrati cinesi si sono concentrati attorno a Kuala Lumpur e Penang, e la prima è ancora una città con forti caratteristiche cinesi, dall'architettura alla vivace sfilata annuale. A dispetto della dominazione mondiale dell'economia da parte dei cinesi – che ha fatto guadagnar loro l'etichetta di «ebrei dell'Asia» –
i malesi tuttavia non percepiscono la Cina come una minaccia strategica. La Malesia è stato il primo paese dell'area a stabilire relazioni con la Cina nel 1974; le esportazioni malesi di gas, olio di palma ed elettronica verso la Cina sono schizzate in alto, accelerando il piano cinese di piazzarsi alla pari dei due top trade partners della Malesia, cioè Giappone e Stati Uniti. Come per la Corea del Sud, buona parte dell'economia malese si muove attualmente in tandem con la Cina, in cambio di un accesso preferenziale a quel mercato e della possibilità di avere il possesso pieno di immobili e persino di patrimoni più sensibili come gli impianti per la produzione di energia. Petronas e diverse imprese malesi del legname si nascondono dietro il nome di imprese cinesi a conduzione statale nella caccia planetaria di risorse, dalla Libia al Sudan all'Indonesia. «A lungo abbiamo visto negli Stati Uniti un alleato di comodo», mi spiega un esperto strategico malese a proposito dell'intensa cooperazione dell'esercito e della marina nazionali con l'America. Proprio grazie alla solidità delle relazioni USA-Malesia le sparate antiamericane di Mahathir – ad esempio la sua affermazione che l'America non può guidare una war on terror contro il fondamentalismo islamico non essendo un paese musulmano – sono state tollerate. La Malesia ha persino convocato un supposto tribunale per i crimini di guerra per svergognare la leadership americana per le sofferenze degli iracheni e dei palestinesi. Del resto, come altri paesi musulmani produttori di petrolio (Arabia Saudita, Libia, Kazakistan), la Malesia si è dimostrata maestra nell'arte del multiallineamento, diventando buona amica di tutti; e come la Corea del Sud, l'Australia, la Thailandia e l'India sta bene attenta a non sollevare sospetti circa la sua lealtà verso Washington e al tempo stesso non fa nulla che possa offendere la Cina, chiamandosi fuori dalla loro rivalità con l'impegno a rimanere neutrale se «gli elefanti dovessero lottare». La scogliera cinese: l'Indonesia L'Indonesia è continuamente sotto attacco, sia da parte della natura che dell'uomo. È vittima di eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti, epidemie, crisi finanziarie e conflitti etnici, senza avere alcun potere per impedire tutto questo. Non è uno Stato fallito, ma è sempre a rischio di diventarlo con il prossimo movimento sismico, che riguardi la terra o i mercati. All'inizio del 2007 Jakarta è quasi scomparsa sotto un'inondazione torrenziale che ha obbligato la maggior parte degli abitanti a fuggire, ha distrutto migliaia di case e ha provocato impetuose epidemie. In fondo è già un miracolo che l'Indonesia esista ancora, e sarà un miracolo ancora più grande se sopravviverà nella sua forma attuale. Il subsistema insulare indonesiano è lo scudo del Sudest asiatico contro il resto del mondo. Quando l'impero giapponese occupò l'Indonesia durante la seconda guerra mondiale liberò dalla prigionia il leader della guerriglia, Sukarno, il quale scatenò una lotta per l'indipendenza contro i colonizzatori olandesi costringendoli alla resa e all'abbandono del paese. Ma al di là del suo riconoscimento nel diritto internazionale, l'Indonesia sembra avere poco diritto di esistere come Stato sovrano: un arcipelago di circa quattordicimila isole che si estende dalla Malesia alle Filippine è impossibile da governare, che sia una dittatura o una democrazia a farlo. I ministri armati di tutto punto che sfilano a Jakarta sono il simbolo più eloquente di quell'intreccio fra esercito e apparato statale al potere che si comporta come un colonizzatore postcoloniale nel suo stesso paese. Per decenni l'uomo forte Suharto, con il suo regime non allineato del «Nuovo ordine», si è dedicato più a fare affari che a governare, piazzando i figli al comando di numerosi monopoli militaricommerciali. Con non più del 12 per cento del bilancio statale proveniente dalla riscossione delle imposte, le imprese for-profit dell'esercito (articolate in circa millecinquecento società) operano con la massima impunità nelle regioni semiautonome dell'Indonesia29-9. A differenza della Thailandia, dove il governo militare ha portato una limitata modernizzazione e uno Stato forte, dall'indipendenza dell'Indonesia i militari sono stati così occupati a preservare i propri interessi economici che ora un governo civile stabile pare soltanto una pura astrazione. È stato già anche troppo difficile privare le forze armate della leadership del paese: privarle anche delle proprietà immobiliari, dell'industria del legname e di quella mineraria, solo per nominarne alcune, si è rivelato impossibile – sebbene non sia mai stato fatto un vero tentativo.
Con la sua enorme estensione geografica e la quarta popolazione più numerosa al mondo (oltre duecento milioni di abitanti), l'Indonesia è stata spesso definita un «gigante dormiente». Che tuttavia mentre dorme si lascia fare a pezzi. Il paese in realtà è una specie di campo da golf galleggiante, con un vasto insieme di società e nazioni straniere a reclamare la proprietà delle sue diverse buche. L'Indonesia, per la verità, dove gli interessi delle compagnie energetiche si incrociano con quelli dello Stato, pare funzionare discretamente bene. Samarinda, la capitale della provincia del Kalimantan orientale, nel Borneo, ha strade scorrevoli e quartieri suburbani in stile occidentale destinati ai dipendenti delle compagnie petrolifere internazionali. Lontano dal centro, tuttavia, lo sfruttamento delle risorse (e delle minoranze etniche) è la norma. Nella provincia di Papua (già Irian Java) la collusione fra compagnie minerarie ed esercito indonesiano ha avuto il risultato di uno spaventoso inquinamento dei fiumi e della sistematica violazione dei diritti umani. Nel 1997 gli incendi appiccati a Sumatra per ripulire vaste aree dalla vegetazione del sottobosco hanno prodotto una nube tossica così ampia (copriva la Malesia, Papua, la Nuova Guinea e persino alcune zone dell'Australia) da spingere il governo malese a dichiarare lo stato di emergenza e persino a chiedere ai religiosi di pregare per la pioggia. Migliaia di neonati morirono di asfissia e dieci miliardi di dollari di entrate finirono nel nulla. La ripetuta manipolazione delle elezioni da parte delle forze al governo e i continui aggiustamenti allo status delle province sono funzionali all'obiettivo di fiaccare la forza dei movimenti autonomisti, per lasciare invariata la politica del divide et impera praticata nei territori governati come feudi dall'alleanza tra esercito e settore privato. Peraltro, la spartizione del controllo delle risorse tra gli ex ufficiali dell'esercito non fa che accelerare il saccheggio delle foreste e delle risorse ittiche da parte di cinesi, malesi e americani, come delle aziende locali a conduzione militare. Ma più il centro ingoia profitti a spese della periferia, più quest'ultima chiede la secessione. L'indipendenza di Timor Est nel 1999, la maggiore autonomia concessa alle province di Aceh e Papua e la cessione di due isole alla Malesia a seguito di una controversia legale sono altrettante prove che l'Indonesia non può durare a lungo nella sua forma attuale. Dal punto di vista economico, etnico e religioso i principali arcipelaghi indonesiani gravitano già attorno a parenti più stabili: Sumatra, il Kalimantan occidentale e persino la fascia ovest di Giava sono sempre più soggetti alla sfera d'influenza dell'assai più prospera Malesia; Sulawesi, con la sua popolazione cristiana, guarda verso le Filippine; le disastrate province dell'Est del paese, come Papua, potrebbero presto prendere la strada del loro cugino melanesiano, la Papua Nuova Guinea, governato più dall'Australia che dall'Indonesia29-10. Singapore già quasi possiede l'isola di Bintan, gestendo resort turistici ed espandendosi nelle aree montuose per soddisfare il suo bisogno di terra. «Stiamo diventando come le Filippine», osserva con ironia amara un uomo d'affari nella quiete del suo prestigioso ufficio a Jakarta. «Siamo più poveri e più insicuri ogni anno che passa». È un fallimento che brucia tanto più quando si è arrivati quasi ad assaggiare il gusto del successo. Toynbee descrisse Sumatra come «un'isola di speranza», che grazie all'abbondanza di oil, soil and toil, «petrolio, terra e lavoro» avrebbe condotto allo sviluppo dell'intero paese29-11. Ma l'Indonesia resta una perenne «nazione in attesa», che soffre oggi delle stesse mancate opportunità degli anni Sessanta29-12. Suharto ha guidato tre decenni di liberalizzazione e di processo di pacificazione all'interno della regione, ma non avendo imparato che bigger non fa necessariamente rima con better ha sempre guardato con una certa sufficienza la piccola Singapore, finché la crisi finanziaria del 1997 non ha paralizzato l'Indonesia costringendola ad accettare enormi flussi di prestito dal suo minuscolo vicino. Inoltre Suharto non ha avuto altra alternativa che quella di rivolgersi ai gruppi islamisti per il soddisfacimento delle funzioni di base dello Stato. Per trecentocinquant'anni i colonizzatori olandesi non sono riusciti a comprendere a fondo il connubio di culture dell'Indonesia, nel quale cristianesimo, buddhismo, induismo e islam coesistevano in una geografia sparsa. Gli antichi regni di Giava, della Thailandia, di Malayu e della Cambogia erano tutti debitori verso la tradizione religiosa dell'India, un patrimonio che ha prodotto raffinati monumenti della spiritualità indo-buddhista come il tempio gigante e gli stupa di Borobudur. «Gratta un indonesiano e sotto ci troverai un indù», si diceva un tempo. Il simbolo nazionale dell'Indonesia, nonché della sua compagnia aerea, Garuda, è il destriero alato della divinità indù Vishnu. Ma i missionari non hanno interrotto il loro lavoro una volta approdati alle sponde della politica e della religione. Come sosteneva V.S. Naipaul in Fedeli a oltranza, l'islam è una fede araba, è perciò plasma
secondo parametri arabi le domande sociali dei credenti, annientando i pluralismi storici e ricorrendo alla tecnologia moderna per sostituire culture locali e identità nazionali con l'appartenenza religiosa. Molti indonesiani sostengono che la ragione guarda a est ma il cuore a ovest, verso la Mecca. La debolezza strutturale dell'Indonesia fa della sua sterminata popolazione musulmana un terreno fertile per l'islam radicale globalizzato. Mentre la Malesia riceve dal mondo islamico investimenti, turisti e studenti, l'Indonesia sta diventando un "arcipelago jihad" in virtù delle connessioni tra gruppi estremisti arabi e autoctoni, un luogo anonimo dove gli ex combattenti dell'Afghanistan possono tranquillamente progettare e condurre i loro attacchi contro le multinazionali e le ambasciate occidentali 29-13. Giovani islamisti arabi hanno viaggiato in lungo e in largo attraverso Indonesia e Thailandia facendo preda di giovani impressionabili, ignoranti e disoccupati e reclutandoli come fanteria degli eserciti islamici, come quello di Abu Sayyaf o il Fronte moro di liberazione nazionale nelle Filippine, e fomentando la violenza tra cristiani e musulmani nella provincia di Sulawesi. «I malesi hanno le competenze per fabbricare le bombe, i thailandesi e i filippini le trafficano e gli indonesiani fanno gli attentati suicidi», mi dice un esperto di movimenti fondamentalisti. Nelle quasi quattordicimila scuole e moschee pesantren sponsorizzate dal movimento fondamentalista Jamaat Islamiyya, analoghe alle madrase del Pakistan, agli studenti viene insegnato che sono buoni musulmani se imparano l'arabo e mandano a memoria i versetti del Corano. Nel mondo islamico, ovunque ci sia corruzione che procede dall'alto verso il basso ci si può ragionevolmente attendere un'islamizzazione che procede in senso inverso. Uno stato corrotto e un'economia che marginalizza le masse danno al jihad il prestigio di una forza progressista che recupera l'importanza dell'individuo. «I network islamisti provvedono a molte cose che sarebbero di competenza del governo», sottolinea uno studioso islamico passato alla politica. Come la Fratellanza musulmana in Egitto, o l'AKP in Turchia, gli islamisti indonesiani vivono modestamente, percepiscono stipendi bassi e fanno campagna elettorale sulla base di piattaforme contro la corruzione. Sebbene non abbiano mai sfondato alle elezioni nazionali, stanno raggiungendo nella sostanza quello che la loro rappresentanza in Parlamento sancirebbe soltanto legalmente. In più di una decina di distretti del paese gruppi di attivisti musulmani fanno pressioni per la proibizione di alcol e prostituzione, l'introduzione dell'obbligo di una prova di lettura del Corano per accedere al matrimonio o all'università, l'imposizione dello hijab alle donne che lavorano nel pubblico impiego, il divieto di tenersi per mano per la strada nonché – nello stesso mese dell'uscita dell'edizione indonesiana di «Playboy» – l'equiparazione alla pornografia dell'esposizione in pubblico dell'ombelico femminile, il che fra l'altro renderebbe difficili da eseguire persino le danze tradizionali indonesiane. Se la "sharizzazione" dovesse continuare a imperversare per l'Indonesia, come unico bastione di libertà, resterebbe soltanto l'isola di Bali, induista, con la sua colonia di hippie australiani – e comunque non necessariamente un bastione sicuro, visti i tremendi attentati suicidi che hanno colpito alcuni locali nel 2002 e di nuovo nel 2005. La classe dirigente laica dell'Indonesia – composta di persone che si sono formate all'estero, spesso lavorano a Singapore e vivono come separatisti globalizzati nelle loro ville con l'aria condizionata nei sobborghi di Jakarta – è troppo lontana dall'attivismo di base per resuscitare l'antico, sincretico islam nazionale o anche solo per sponsorizzare alternative come l'insegnamento dell'inglese. Le restanti forze moderate – quelle che più probabilmente potranno riscuotere un certo successo – sono esse stesse islamiste. Se il fondamentalismo è un virus, il vaccino ne deve contenere un piccolo quantitativo per consentire al corpo di elaborare le proprie difese. L'Indonesia è sede delle due maggiori organizzazioni musulmane al mondo: Nadhlatul Ulama e Muhammadiyah, attualmente le voci più credibili del paese contro la sharizzazione. La loro argomentazione a favore di uno Stato laico è che se tribunali pubblici non qualificati fossero incaricati di imporre la sharia l'islam perderebbe il suo carattere divino. «La nostra classe contadina», recrimina un islamista impiegato nel governo, «è stata sedotta da ideologie che vanno dal comunismo all'islamismo radicale, così diverse dalle nostre tradizioni che sono a tutti gli effetti religioni interamente nuove». Mentre l'identità nazionale dell'Indonesia sfiorisce, la sua democrazia diventa sempre più come una vettura che perde i pezzi lungo una strada dissestata. I leader indonesiani vorrebbero vendere il paese come centro di una sintesi fra la democrazia e il pensiero islamico, ma è tutt'altro che certo che tale virtù, per come la si intende in Indonesia, abbia qualche valore. Dal rovesciamento di Suharto, nel 1998,
la corruzione, le disparità economiche, le divisioni etnico-religiose e la violenza separatista non hanno fatto che crescere29-14. Il suo singolare successore, BJ. Habibie, era un chierico privo di capacità messo sotto impeachment dopo il referendum su Timor Est che ha condotto all'indipendenza di questa provincia. La deriva politica è proseguita sotto la figlia di Sukarno, Megawati Sukarnoputri: più i partiti islamisti diventano potenti, più le altre forze politiche sono prese dal panico. Il prezzo della democrazia indonesiana è l'unità, e la quasi totale autonomia fino al limite dell'autogoverno è diventata il modello preferito da molte province. Persino gli indonesiani più lontani dalla politica ora chiedono una leadership reale, una figura come Lee Kuan Yew o Mahathir che sappia restaurare l'unità e la dignità del paese. Per farla breve, l'Indonesia può continuare tranquillamente a frantumarsi in ogni cosa tranne che nel nome, vittima della sua condizione di Stato più esteso ed etnicamente innaturale del mondo. Come vero elemento nazionale resterebbe la sola isola di Giava, dove risiede il 70 per cento della popolazione (inclusa l'etnia dominante giavanese), con Jakarta come capitale. I brutti obelischi che celebrano l'indipendenza non possono mascherare la realtà di Jakarta, il fatto che se continua a funzionare lo deve ai suoi nuovi colonizzatori: i cinesi. Le relazioni fra Indonesia e Cina sono qualcosa di primordiale, una danza perpetua di amore e odio, vita e morte. All'epoca delle Indie Orientali olandesi i lavoratori cinesi arrivavano in massa per sudare nelle piantagioni di zucchero. Sin dall'inizio dovettero darsi abilmente da fare per mitigare il montante sentimento anticinese, corrompendo i politici per dare vita a compagnie "Ali Babà" nelle quali gli indonesiani stavano in prima linea e i cinesi facevano girare le cose dietro le quinte29-15. Il colpo di Stato del 1965 fu in realtà un colpo di mano anticinese, dal momento che la Cina riforniva di armi il Partito comunista indonesiano. Cinquecentomila cinesi furono espulsi e rimandati nella madrepatria, dove molti di essi non erano mai stati prima. La piccola quota di popolazione di origine cinese che controlla il 70 per cento dell'economia indonesiana sarebbe stata spazzata via da tempo se il paese fosse una democrazia reale 29-16. Suharto scelse invece di mantenere stretti legami con i cinesi, che con il loro superiore istinto economico e i grandi gruppi finanziari hanno fondato la maggior parte delle banche che oggi svettano sul magnifico skyline di Jakarta – uno scenario che pare disegnato apposta per ricordare Singapore. Persino dopo i violenti pogrom del 1998, durante i quali la Chinatown di Giacarta è stata ridotta in cenere e migliaia di cinesi brutalmente uccisi, i network bancari interni alle comunità cinesi hanno salvato le aziende in difficoltà, per poi trasferire migliaia di miliardi di rupie a Singapore. Nonostante questo, senza la ricchezza cinese l'Indonesia sarebbe ancora un paese del Terzo Mondo. Data questa loro esistenza precaria, non stupisce che i cinesi emigrati in Indonesia siano stati più fedeli alla Cina che alla loro patria d'adozione. Dopo i disordini del 1998 Pechino ha chiesto con forza al governo indonesiano di garantire la protezione della minoranza cinese. Fatto sta che, poiché a Jakarta non esiste più una Chinatown, i cinesi si stanno mescolando più che mai con il resto della nazione. «La nostra giovane generazione ostenta assai meno la ricchezza», mi fa notare un businessman di successo della comunità cinese, «preferiamo le automobili giapponesi a quelle tedesche». L'obbligo di segnalare l'origine cinese sul passaporto è stato abolito, e poiché i cinesi sono cresciuti fino a raggiungere l'8 per cento della popolazione (la quarta minoranza del paese) sono ormai attive organizzazioni per i diritti civili che aiutano chi desidera ottenere la cittadinanza. Si registra pure un risveglio dell'interesse verso l'importanza economica e culturale della Cina, e sono assai più gli studenti indonesiani che studiano in Cina di quelli che studiano negli Stati Uniti. L'Indonesia sta gradualmente diventando una cinghia di trasmissione del sistema cinese – esattamente il ruolo che il Giappone aveva assegnato all'arcipelago durante la seconda guerra mondiale. La limitata finestra temporale di sospensione della cooperazione difensiva con l'Indonesia da parte degli Stati Uniti a causa delle violazioni dei diritti umani è stata il momento esatto in cui la Cina ha stretto accordi militari con il paese, che è diventato una scogliera all'interno del perimetro navale in espansione di Pechino. Cina e Giappone sono i principali utenti dello Stretto di Malacca, il più affollato collo di bottiglia (poco più di un chilometro e mezzo nel suo punto più sottile) e passaggio obbligato per alcuni fra i maggiori porti al mondo, con metà della produzione globale di petrolio e un terzo degli altri traffici mondiali ad attraversarlo ogni anno29-17. Le operazioni dei paesi dell'area per proteggere le navi in transito dalla pirateria e dal terrorismo si sono lentamente fatte strada a scapito delle proposte americane di aumentare i propri pattugliamenti – che sono visti non solo come ulteriori elementi di
ingombro dello stretto, ma anche come bersagli provocatori in sé. Grazie all'impiego di sofisticate tecnologie giapponesi per la navigazione, Singapore, Malesia e Indonesia attualmente svolgono servizi di pattugliamento lungo lo stretto, e la nuova Organizzazione marittima internazionale, con sede a Kuala Lumpur, compie azioni di monitoraggio e analisi delle attività sospette nell'area. Il tutto senza intervento americano. «La benevola risposta americana allo tsunami [del 2004] è stata importantissima per noi», mi spiega un diplomatico indonesiano durante un breakfast nel maestoso Borobudur Hotel di Jakarta. «Tuttavia è stata una buona volontà di breve durata, perché gli aiuti sono a breve termine e la nostra gente percepisce le politiche americane come antislamiche». La Cina sta pure rimpiazzando i decrescenti investimenti americani nel paese, e secondo i progetti dovrebbe pompare nel prossimo decennio 30 miliardi di dollari nella sua industria estrattiva – come, del resto, pompa petrolio e gas naturale (nonché carbone e legname) dall'Indonesia. Come nell'Estremo Oriente russo, le grandi compagnie cinesi hanno spogliato le foreste del Borneo e del Kalimantan, ormai per metà scomparse 29-18. Lo stesso ecosistema dell'Indonesia, che dopo il Brasile ospita il più alto numero di specie a rischio, è apertamente minacciato. Ma, a differenza che in Brasile, la consapevolezza ecologica e la regolamentazione del sistema ambientale arrancano senza riuscire a incidere sulle devastazioni. Persino se Stati Uniti, UE, Giappone e Australia investissero nell'agricoltura indonesiana, sostenessero le istituzioni islamiste più tolleranti, addestrassero le forze di polizia e inducessero le loro aziende a una maggiore responsabilità sociale (con salari più alti e contributi a tutela della salute dei lavoratori), probabilmente tutto ciò non sarebbe ancora sufficiente a fare dell'Indonesia una stabile costellazione di isole anziché una frammentata scia di comete che orbita intorno alla Cina.
30. Myanmar-Thailandia-Vietnam: il triangolo interno Sedurre i paesi del Primo Mondo dell'area, ossia Giappone, Corea del Sud, Australia e Singapore; neutralizzare il rivale demograficamente più temibile, l'India; cooptare nella propria sfera i due paesi strategicamente più rilevanti, la Malesia e l'Indonesia. Al progetto di espansione cinese nella panregione asiatica manca un ultimo tassello geopolitico: le ex colonie inglesi e francesi dell'Indocina, un tempo decisive fonti di ricchezza per l'Europa. Le risorse dell'Indocina hanno viaggiato per secoli da est a ovest, attraverso gli oceani, per sbarcare sul suolo europeo. Oggi si muovono da sud a nord, verso la Cina. Nel Terzo Mondo della Cambogia e del Laos l'esile filo dell'assistenza occidentale, con le richieste di democratizzazione che sempre l'accompagnano, è stato sostituito dal flusso degli aiuti cinesi, abbondanti e incondizionati, e soprattutto politicamente graditi ai volubili regimi dei due paesi30-1. La Cina pratica a man bassa la sua checkbook diplomacy, la "diplomazia del libretto degli assegni"; l'America, all'opposto, è vista ormai apertamente come un elemento di disturbo per la sua insistenza su tematiche considerate secondarie quali le riforme militari e l'antiterrorismo. Il disboscamento selvaggio praticato dai cinesi con il metodo taglia e brucia in collusione con l'esercito locale ha provocato in Cambogia perdite estese di terreno coltivabile, erosione dei suoli, peggioramento della qualità dell'acqua e potenziali crisi alimentari. Tuttavia i prodotti cinesi sottoprezzo come i telefoni cellulari hanno letteralmente invaso i mercati del paese, permettendo a un crescente numero di persone di concedersi lussi da middle class. «La strategia della Cina», mi spiega un analista della regione residente a Bangkok, «consiste nel costruire legami economici così forti da poter resistere anche a tumultuosi mutamenti di regime politico. Non importa chi è al potere: per i cinesi è sempre un partner commerciale». I giorni contati della Birmania La Birmania, o Myanmar come è stata ribattezzata dalla giunta militare attualmente al potere, è stata una società isolata, antiquata e sottosviluppata per decenni. Tuttavia si affaccia sul Golfo del Bengala, e questo la rende un litorale strategico per la Cina come alternativa terrestre allo Stretto di Malacca. Dal 1988 la cricca militar-corporativa che porta il nome di Consiglio per la legge dello Stato e la restaurazione dell'ordine (SLORC) ha trasformato l'ordine coloniale inglese, e poi giapponese, del Myanmar nell'unico Stato militare buddhista al mondo. Nel 1997 la giunta ha mutato nome in Consiglio
per la pace e lo sviluppo dello Stato; a oltre un decennio di distanza, tuttavia, è impossibile dire se sia intervenuto qualche mutamento. Nel 2007 il Consiglio ha inaugurato una nuova capitale a metà strada fra Yangon e Mandalay, con l'intenzione, a quanto pare, di accreditarsi ufficialmente quale depositario di un potere dinastico, come facevano in passato i re birmani. La sua assurda politica economica ha tuttavia sollevato un'ondata di proteste da parte di migliaia di monaci e cittadini e la paralisi del paese. Lo SLORC cerca di aggregare consenso alimentando la percezione di una minaccia esterna in pieno sviluppo: ma l'unica vera minaccia all'autonomia del Myanmar arriva da quella potenza che il regime accoglie a braccia aperte, la Cina. Come per il Sudan e l'Uzbekistan, anche per il Myanmar l'isolamento diplomatico è la prima ragione che spinge il governo a rivolgersi alla Cina per diventarne cliente. Il controllo sulla produzione e il traffico di droga ha fornito allo SLORC la valuta forte necessaria ad acquistare l'hardware militare cinese; quello che arriva in cambio, tuttavia, non è solo l'appoggio diplomatico della Cina, ma anche la sua popolazione. Alla fine degli anni Cinquanta Toynbee descriveva la Birmania come «un vuoto demografico aperto giusto accanto alla Cina che non aspetta altro che di essere riempito»30-2. Le migrazioni stagionali dei cinesi, che passano silenziosamente nel Myanmar settentrionale attraverso i canali stradali, ferroviari e fluviali che formano il «Corridoio dell'Irrawaddy», hanno dato vita a una minoranza (in molti casi con storici legami di famiglia con il paese) che prima o poi sarà in grado di rivendicare legalmente altri diritti oltre a quello alla residenza. Matrimoni misti e acquisizioni di terreni hanno determinato la nascita nel Nord del paese di villaggi interamente abitati da cinesi, con tutti i segnali stradali in mandarino. A Mandalay le società edili cinesi costruiscono grandi hotel anonimi, non per preparare il Myanmar all'apertura al mondo, ma per i visitatori cinesi il cui afflusso non dà segni di diminuzione30-3. Alcuni parlano già del Myanmar come dello «Yunnan meridionale», dal nome della sempre inquieta provincia cinese sul confine birmano. Il Myanmar è parte integrante della strategia di Pechino volta a promuovere lo sviluppo delle aree interne più arretrate della Cina, come lo Yunnan appunto, agganciandole alla crescita economica che si verifica lungo le coste. In seno a questa strategia la Cina si è virtualmente già annessa, dal punto di vista economico almeno, il proprio vicino del Sud: ha comprato la maggior parte del legname prodotto nel Myanmar fino al vero e proprio saccheggio delle foreste; ha acquistato e quindi svuotato i suoi giacimenti di pietre preziose; progetta di garantirsi almeno 180 miliardi di metri cubi di gas naturale birmano nei prossimi trent'anni, in buona parte pompati attraverso la pipeline che da Sittwe arriva nello Yunnan. La frontiera sino-birmana non ha subito mutamenti né alcun colpo è mai stato sparato, ma la Birmania è quasi diventata una provincia della Cina30-4. Pechino non ha avuto difficoltà ad aggirare le pressioni dell'ASEAN sulla giunta del Myanmar (ancora un membro dell'associazione), e ha ostacolato le sanzioni degli Stati Uniti e della UE. Tuttavia potrebbe anche subire dei contraccolpi dall'interno del paese. Se la Cina non si preoccupa in alcun modo di far ricadere qualche beneficio sulla popolazione birmana, il diffuso malessere potrebbe spingere persino la spietata giunta militare a vedere nel potente vicino una minaccia anziché un'ancora di salvezza. Droga e malattie, che viaggiano sempre in tandem, transitano in quantità sempre maggiori dall'Afghanistan al Triangolo d'oro attraverso la Cina e in direzione opposta, come testimonia l'aumento delle dipendenze e delle infezioni da HIV. Fra i giovani del Sudest asiatico va attualmente alla grande lo yaba, una droga che tiene in stato di perenne allerta. I tassi più elevati di contagio da AIDS si registrano proprio in Thailandia, Cambogia e Myanmar, ossia proprio nei paesi che esportano più lavoratrici del sesso in Cina e altrove. Per i trafficanti organizzati, naturalmente, droga e persone possono essere merci ugualmente redditizie, e la Cina non ha la possibilità di controllare i suoi vastissimi confini meglio di quanto non facciano Europa e USA. Infine, come se le guerre civili che hanno devastato l'intera regione non avessero lasciato in circolazione armi leggere a sufficienza, con le sue forniture belliche la Cina fa sì che ci siano abbastanza armi e munizioni a disposizione di qualsiasi causa criminale o politica che dovesse alzare la testa: pistole e granate, tuttavia, che alla fine potrebbero riprendere la strada della Cina. La Cina, che ospita sul proprio territorio le sorgenti dei due grandi sistemi fluviali dell'Asia meridionale e di quella sud-orientale, può permettersi il lusso di costruire dighe sull'immenso fiume Mekong per la generazione di energia elettrica e al tempo stesso di sfruttarne la corrente fluviale per
imbarcare merci verso sud, verso i cinquecento milioni di persone la cui vita dipende dal fiume. Ma benché le sue dighe sortiscano effetti drammatici sul livello delle acque del Mekong e dei suoi tributari in Myanmar, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam, la Cina non accetta alcuna critica alla propria gestione del fiume30-5. Quello che resta del Mekong quando raggiunge il Laos basta ad alimentare una piccola centrale idroelettrica, la cui energia è poi venduta alla Thailandia. Per gli abitanti dei paesi del Terzo Mondo indocinese, come il Myanmar, essere a valle della Cina non rende di certo la vita più facile. La Thailandia sorride verso nord Per le nazioni del Secondo Mondo la vera abilità diplomatica risiede nella capacità di eludere il peso delle superpotenze e contemporaneamente di trarne il massimo beneficio. Il regno di Thailandia si è dimostrato padrone di quest'arte durante i secoli nei quali è riuscito a evitare la colonizzazione. Secondo Toynbee la Thailandia fu risparmiata dalle distruzioni della seconda guerra mondiale grazie alla fortuna di una geografia che ne aveva fatto «lo Stato cuscinetto fra i dominions britannici in India e in Birmania e l'Indocina francese»30-6. A salvare la "terra del sorriso" è stata la strategia scelta dalla monarchia, dall'aristocrazia e dall'esercito: sorridere in tutte le direzioni «piegandosi nella direzione del vento» 30-7. Dopo la vittoria dei comunisti nella guerra civile cinese, nel 1949, la Thailandia fu destinataria di grandi aiuti militari da parte degli Stati Uniti, di cui costituì poi la base arretrata per la guerra in Vietnam degli anni Sessanta. Tramontata l'egemonia americana nella regione, con un rapido aggiustamento di posizione la Thailandia normalizzò le proprie relazioni con la Cina nel 1975, concludendo una partnership strategica mirata al contenimento del Vietnam del Nord30-8. Come ricompensa, dopo l'impennata del prezzo del greggio imposta dall'OPEC Pechino rifornì di petrolio la Thailandia a un ridotto "prezzo d'amicizia". Le relazioni amichevoli USA-Thailandia risalgono a un secolo e mezzo fa, allorché re Rama IV offrì alcuni elefanti ad Abraham Lincoln perché li usasse nella guerra civile. Quella di Bangkok è del resto la più grande ambasciata americana al mondo dopo quella di Baghdad. Già nel 1994, tuttavia, la Thailandia ha respinto la richiesta americana di ancorare sei navi militari nei suoi porti, con una decisione dietro la quale hanno avuto una parte importante le pressioni malesi e indonesiane. Anche sul fronte economico i motivi di risentimento si sono regolarmente moltiplicati: la Thailandia ha vissuto come un doloroso insulto personale il proprio mancato salvataggio da parte degli USA durante la crisi valutaria del 1997, tre anni dopo che Washington era prontamente corsa in aiuto del Messico. La ragione data fu che la Thailandia non si trovava sul confine americano. Al tempo stesso la Thailandia sta piegandosi più che mai al forte soffio del vento cinese. «La creazione di posti di lavoro e la stabilità sono le priorità massime dei nostri cittadini», mi spiega un diplomatico a Bangkok, «e per questo ci sentiamo di rispondere solo alle migliori proposte economiche e politiche che ci vengono presentate». Durante il disastro finanziario del 1997 le istituzioni occidentali obbligarono la Thailandia a svendere i propri asset, con i compratori a fare affari d'oro mentre l'economia del paese collassava e la povertà cresceva a ritmi serrati. La Cina, al contrario, emanò il programma «Raccolto precoce», che dispose una celere riduzione delle tariffe doganali e consolidò la sua posizione di potenza benevola. Nei dieci anni che sono seguiti gli scambi thailandesi con la Cina hanno quasi raggiunto il livello di quelli con gli Stati Uniti, e attualmente i turisti cinesi che visitano il regno superano quelli americani. In virtù dell'apertura di una grande arteria di traffico che attraversa il Laos, Cina e Thailandia sono oggi praticamente confinanti, e quest'ultima gioca un ruolo di primo piano nella riesportazione di beni di consumo prodotti in Cina. È proprio in Thailandia che la Cina si è imbarcata in un progetto grandioso quanto l'alterazione della geografia stessa: lo scavo di un profondo canale che taglia in due l'istmo di Kra30-9. Il canale porterebbe alla Thailandia strutture portuali di sua proprietà in grado di competere con quelle di Singapore (che si oppone violentemente al progetto), ma anche i porti malesi di Langkawi e Penang ne trarrebbero enormi guadagni come depositi logistici per gli utenti in transito. Non fosse stato per la rivolta dei musulmani malay nel Sud della Thailandia – tre ristrette province che finirebbero isolate dal resto del paese – il progetto sarebbe già in opera.
La ridefinizione delle relazioni sino-thailandesi non riguarda comunque soltanto la geografia e l'economia, ma anche, più di quanto si possa pensare, la cultura e la psicologia collettiva. Come in altri paesi dell'Asia orientale, in Thailandia la diaspora cinese gestisce i poli commerciali delle province, da Phuket, sulla costa, a Mara Sarakham, nell'entroterra, tanto che Pechino considera l'assimilazione della sua vasta popolazione di origine cinese un modello per tutte le nazioni circostanti. Sin dal XIX secolo i cinesi della Thailandia hanno in pugno le istituzioni finanziarie, e per questo hanno sempre goduto della protezione dell'esercito in cambio di servizi bancari30-10. Nel 1850 la metà degli abitanti di Bangkok era costituita da cinesi, leali sudditi della famiglia reale, con la quale avevano pure stretto legami matrimoniali. E anche nel periodo in cui le società locali erano sotto controllo occidentale erano i cinesi, con la loro profonda conoscenza della cultura e delle tradizioni thai, a garantire la regolarità degli affari30-11. Oggi i cinesi sono sia proprietari che amministratori delle aziende del paese, di cui controllano le esportazioni chiave come il riso, il legname e lo stagno. I businessmen cinesi e thailandesi non si limitano a cooperare, ma si associano dichiarando di essere «nient'altro che fratelli» 30-12. «In Thailandia i cinesi stanno riscrivendo la storia, e ormai vedono la loro diaspora come parte della "Grande Cina"», mi spiega uno storico della cultura thai. Memore dell'epoca in cui i sovrani del paese pagavano il loro tributo alla Cina imperiale, la famiglia reale thailandese compie frequenti visite a Pechino, come pure l'ex primo ministro Thaksin Shinawatra, che è cinese a tutti gli effetti e non nasconde l'orgoglio per la propria origine. «La democrazia è solo uno strumento», ha avuto modo di dichiarare. «L'obiettivo è di assicurare al popolo uno stile di vita, la felicità e il progresso della nazione» 30-13. Thaksin, con il suo stile di governo apertamente illiberale, è stato rovesciato da un colpo di Stato militare nel 2006, senza che ciò abbia dato qualche preoccupazione a Pechino le cui vendite di armi, insieme con le relazioni con l'esercito thailandese, hanno conosciuto da allora un vero e proprio boom. Il sorriso della Thailandia è più che mai rivolto a nord. Il nuovo tiro alla fune vietnamita A voler essere benevoli, le due guerre combattute dagli USA in Estremo Oriente, la Corea e il Vietnam, si sono risolte in altrettanti scacchi. Gli Stati Uniti non sono riusciti a diventare una potenza sulla terraferma asiatica proprio perché sono stati fermati sul trentottesimo parallelo dai nordcoreani e addirittura cacciati dai nordvietnamiti – in entrambi i casi con l'attivo appoggio della Cina. La Cina ritiene che il Vietnam (ma lo stesso vale per la Corea del Nord) ricada entro i confini della propria civiltà; molti ricchi cinesi non hanno mai smesso di abitare in dimore signorili nel più sviluppato Sud del paese. Vero è che, dal XV secolo fino ai violenti scontri di confine del 1979, il Vietnam è l'unica nazione che la Cina ha invaso senza mai riuscire a conquistare. Dopo avere perso il proprio protettore sovietico i vietnamiti sono però stati costretti ad aprire le frontiere con la Cina – pesantemente minate – nel 1988, facendo rinascere una moderna versione del tradizionale assetto delle relazioni sinovietnamite, fatto di tributi ed emissari, nell'età della globalizzazione. «Il Vietnam resta risolutamente anticolonialista», sintetizza un analista politico vietnamita durante un'afosa giornata a Hanoi, «ma di certo non è più anticapitalista». I vietnamiti hanno per lo più un'idea deliziosamente ingenua della globalizzazione: sembrano non avere ancora capito che quello che sta accadendo loro accade anche al resto del mondo, e che le conseguenze sono tutt'altro che certe. Tuttavia sono molti, in Vietnam, a essere convinti di avere chance assai migliori degli altri paesi del Secondo Mondo per capitalizzare i nuovi processi globali. «Lo smart money, il capitale che sa cogliere al volo le situazioni, prende la strada del Vietnam», è la convinzione di un analista sino-americano di Hong Kong, esperto dei mercati finanziari della regione. «È come una Cina in miniatura: comunismo, agricoltura e industria. E con la disciplina che si ritrovano i vietnamiti passeranno presto davanti alla Thailandia e all'Indonesia». Data la lenta crescita dei costi di produzione nelle zone della Cina costiera, il capitale cinese e giapponese sta facendo massicci investimenti in Vietnam; si costruiscono stabilimenti e si importano trattori agricoli all'avanguardia per incrementare l'export di riso e di caffè. Il Nord rurale si sta lentamente avvicinando al Sud industriale del paese, e il reddito pro capite è complessivamente in rapida ascesa. L'economia vietnamita, fra quelle con il tasso di crescita più veloce al mondo, sta già consumando annualmente più cemento del suo ex signore coloniale, la Francia. La costa del Vietnam, lunga quanto quella della California, grazie ai suoi porti collocati in capienti insenature è probabilmente
la futura porta d'accesso al mare per le esportazioni dell'intera regione; la diaspora vietnamita in California gioca un ruolo sempre più attivo nella formazione e nella gestione d'impresa30-14. La Hanoi di oggi è tutta uno sfrecciare di scooter su cui si sposta una generazione di giovani entusiasti, tutti nati dopo la "guerra americana". Attorno ai pittoreschi laghi della città pensionati dall'aspetto salubre sorseggiano tè e giocano a badminton. Il regime vietnamita è chiaramente orientato verso il modello cinese fatto di controllo politico centralizzato e liberalizzazione economica, pur non nascondendo tutte le sue preoccupazioni sulle possibili conseguenze a livello di diseguaglianze, corruzione e istanze di trasparenza e libertà. Al netto delle analogie, però, il Vietnam mostra scarso desiderio di essere assorbito nell'ordine sinocentrico della regione, con l'ironica conseguenza che, alla ricerca di una sponda favorevole, il suo sguardo è ora rivolto verso gli Stati Uniti. Gli appaltatori militari americani stanno rifornendo il paese di hardware bellico e satelliti; i laboratori per la produzione di microchip della Intel lo hanno fatto passare dalla manifattura calzaturiera all'arena dell'high-tech. Mentre la salma cerea e imbalsamata di "Zio Ho" Chi Minh continua a ispirare riverenza nel suo grandioso mausoleo di Hanoi, lo Zio Sam è tornato a mettere piede in Vietnam, dietro invito dell'establishment economico e militare. Malgrado sia ben più difficile tracciare linee sull'acqua che sulla sabbia, il Mar Cinese meridionale è oggi un'area ipersensibile, nella quale ogni trasgressione dei cinesi ai danni degli altri Stati che vi si affacciano diventa immediatamente fonte di nervosismo. Al tempo stesso è il palcoscenico migliore per vedere all'opera la «diplomazia del sorriso» cinese in versione marittima. Le isole Spratly e Paracel, con i loro giacimenti petroliferi ancora non sfruttati, sono rivendicate in parte o in tutto da Taiwan, Vietnam, Malesia, Indonesia e Filippine. Gli ultimi trent'anni del XX secolo hanno visto parecchi incidenti dovuti a ricognizioni militari, schermaglie navali, installazioni di pozzi e bandiere piantate: tutto questo per ribadire la sovranità cinese su quella che è non a caso nota come "scogliera della discordia". Successivamente la Cina ha capito che era più nel suo interesse calmare le acque anziché alzare onde30-15. «La Cina ha compreso che non può impadronirsi sic et simpliciter di quelle isole», continua l'analista politico vietnamita, «perciò ora preferisce accreditarsi come mediatore affidabile guadagnando il libero uso del mare». Pechino ha firmato un accordo stilato dall'ASEAN che stabilisce il codice di condotta per la risoluzione pacifica delle dispute sulle isole, e oggi società petrolifere cinesi, filippine e vietnamite conducono esplorazioni congiunte delle riserve di idrocarburi dell'area – con la Cina a indorare la pillola con promesse di grandi investimenti nei rispettivi paesi. Probabilmente la Cina non riuscirà mai a conquistare il Vietnam o a sgominare i suoi vicini sul Mar Cinese meridionale, ma di certo sta imparando a ottenere quello che desidera senza nemmeno doverci provare.
La periferia oceanica Il vorace appetito di materie prime della Cina sta raggiungendo il culmine e si rivolge ai paesi sottosviluppati del continente asiatico proprio nella fase in cui questi stanno cercando di rispondere alle necessità delle loro popolazioni in crescita. In Cina la conversione di terre arabili in spazi edificabili destinati all'industria ha impresso una spinta premoderna verso l'outsourcing agricolo, come nel caso della produzione agricola offshore sviluppata nelle Filippine, dove la minoranza cinese ha in mano l'economia quasi per intero. Se l'Indonesia sta diventando una scogliera della Cina, le Filippine stanno diventando la sua risaia. Al di là dell'Indonesia e delle Filippine si apre l'Oceania, il secondo anello della strategia cinese di reperimento di risorse e di costruzione di rapporti amichevoli che permettano la libera navigazione della sua flotta d'alto mare. In questo senso la Cina non ha bisogno di conquistare le piccole nazioni insulari del Pacifico, perché le può benissimo comprare. Per le State companies cinesi non è un problema aggirare le restrizioni sugli investimenti esteri: anziché cercare di possedere i mezzi di produzione, distribuzione e scambio (secondo quanto Marx prescriverebbe), esse operano per controllarli, attraverso il finanziamento alle esplorazioni minerarie e l'aiuto allo sviluppo delle infrastrutture stradali, ferroviarie e veicolari. Nella Papua Nuova Guinea la Cina ha causato una drastica accelerazione della deforestazione della giungla vergine, che agli attuali ritmi di saccheggio sarà quasi completamente scomparsa nel 2030. A prescindere dalla nazionalità delle ditte impegnate nel taglio dei tronchi, questi finiscono per lo più in Cina, dove sono impiegati praticamente per tutto, dalla costruzione di cottage di campagna ai bastoncini da tavola.
Puntato il mirino sui medesimi arcipelaghi su cui si era concentrato il Giappone nella seconda guerra mondiale – Melanesia (ossia Papua Nuova Guinea e isole Salomone, entrambe tradizionalmente legate all'Australia), Polinesia (fatta di micro-Stati storicamente vicini alla Nuova Zelanda) e Micronesia (gli Stati insulari del Pacifico alleati degli Stati Uniti) – la Cina ha pure superato quest'ultimo in testa alla lista delle donazioni d'assistenza30-16. Sull'isola di Kiribati ha costruito un impianto di puntamento satellitare destinato allo sviluppo del suo programma spaziale. Fino a quando l'America riuscirà a "dominare le acque"?
31. La forza delle dimensioni: quattro Cine in una Cina e Stati Uniti condividono la medesima geografia imperiale quanto a dimensioni, latitudine e spettacolare varietà climatica. Le province centrali e meridionali della Cina sono regolarmente colpite da inondazioni e cicloni stagionali, il Nordest è terra di colossali nevicate mentre l'Ovest è un paesaggio lunare di deserti e catene montuose. Con una progressione che pure ricorda da vicino quella della storia americana, la Cina si è allargata a partire dai pochi aggregati di città-Stato disposte lungo il Fiume Giallo fino a diventare un impero di scala continentale (che secondo il credo della dinastia Tang doveva essere alto come il cielo e largo come la Terra stessa). Entro questi suoi confini, tuttavia, la Cina ospita una popolazione pari a tre volte quella dell'Europa e cinque quella degli Stati Uniti, un amalgama tra un feudalesimo da Terzo Mondo, una massiccia struttura industriale e un'élite degna del Primo Mondo. Dividiamo la Cina in quattro quadranti. La regione sud-orientale concentra il 60 per cento della ricchezza della nazione, grazie al ruolo economico giocato da Taiwan, Hong Kong e Shanghai, e ha raggiunto un livello di sviluppo quasi pari a quello di USA e UE. Il quadrante nord-orientale, in cui è compresa Pechino, è definitivamente uscito dal Terzo Mondo grazie a una rapida industrializzazione e all'impressionante ondata di infrastrutture. I due quadranti occidentali, infine (nei quali sono comprese le province interne del Tibet e dello Xinjiang), costituiscono un'enorme distesa ancora immersa nell'arretratezza, che però ospita le risorse naturali e i settecento milioni di contadini che alimentano l'impero. Questi quadranti, cui sarebbero da aggiungere i cinquantacinque milioni di emigrati sparsi nel resto del mondo, sono le quattro Cine fuse nell'unica, gigantesca superpotenza del Secondo mondo. La millenaria storia cinese è praticamente un'unica, perenne lotta per la conquista dell'unità entro un singolo ordinamento. La peculiare combinazione di dispotismo e patriottismo che vive costantemente in Cina ha preservato il crudo sentimento antioccidentale sviluppato in reazione all'umiliante extraterritorialità conquistata dagli inglesi con le guerre dell'oppio della metà dell'Ottocento, cui è da aggiungere l'ulteriore risentimento provocato dall'assegnazione al Giappone delle concessioni tedesche sul suolo cinese sancita dai trattati di Versailles, dopo la prima guerra mondiale 31-1. Benché gli Stati Uniti non abbiano mai fondato colonie nel paese – al tempo il Dipartimento di Stato non aveva una specifica divisione per l'Estremo Oriente – la loro «politica della porta aperta» fu dettata da un impulso tutt'al più ambiguo, inteso a ottenere uguali diritti per tutte le potenze commerciali straniere che operavano in Cina in modo da non essere tagliati fuori dal gioco europeo delle sfere d'influenza31-2. Di certo i cinesi non sono famosi per essere un popolo che nutre dubbi, come ha dimostrato la loro storia del XX secolo che in larga parte è storia della progressiva ricerca di un sistema economico realizzabile, e in primo luogo adattabile a una popolazione di dimensioni mai viste. La dottrina marxista-leninista si radicò con la fondazione del Partito comunista cinese, nel 1921, a Shanghai, dove gli orrori del capitalismo industriale erano più riconoscibili. Il piano di collettivizzazione agricola di stampo socialista che arrivò a realizzazione con la vittoria dei comunisti nella guerra civile fu qualcosa di davvero rivoluzionario. Come scrisse Mao in un brano celebre: «una rivoluzione non è un ricevimento, non è una composizione letteraria, né un dipinto né un raffinato pezzo di ricamo; la rivoluzione non può essere realizzata dolcemente, gradualmente, cautamente, rispettosamente, né con educazione, semplicità e modestia»31-3. Nel nome della modernizzazione e della «vittoria della rivoluzione mondiale», Mao era disposto a sacrificare tutti i trecento milioni di persone che allora costituivano la popolazione cinese. Alla fine furono in settanta milioni a perire a causa del Grande balzo in avanti, della Rivoluzione culturale e delle costanti epurazioni interne, nelle quali morirono di fame e di fatica più persone di quante fossero state uccise da Hitler e Stalin messi insieme. Deng Xiaoping mantenne l'obiettivo dello sviluppo come strumento per vincere ogni incertezza, lanciando le «quattro
modernizzazioni» dell'agricoltura, dell'industria, della difesa e della tecnologia e avviando le riforme interne e le aperture esterne necessarie a conseguirle31-4. Ma soprattutto è stata la fedeltà della leadership in carica ai due modelli di sviluppo sperimentale e cumulativo ad avere fatto uscire una volta per tutte la Cina dal Terzo Mondo. Il trentennio che finirà nel 2010 si avvia a essere ricordato come quello in cui la Cina ha reclamato territori ingiustamente sottrattile dagli occidentali, ha raggiunto massicci livelli di crescita economica e di sviluppo e si è vista riconoscere la propria grandezza con i giochi olimpici del 2008. Per la classe dirigente cinese, consapevole di un passato di epoche di gloria mai pienamente recuperato, il progresso è una necessità meccanica. La Cina, ha scritto il grande studioso Lucian Pye, è sempre stata «una civiltà che finge di essere una nazione»31-5. Se il comunismo non è stato che un'ambizione svanita, esso ha comunque eliminato i nazionalismi di radice etnica e ha aperto la strada a un obiettivo ben più grande e di certo implicito: recuperare la superba tradizione infranta dalle vergognose umiliazioni subite nel XIX secolo. La Cina è già stata l'impero dominante nella regione, e per questo non c'è alcun tentennamento nella sua idea di riprendere tale cammino perduto: si tratta di un semplice ritorno al futuro. L'ultima data utile per festeggiare il coming-out della Cina come superpotenza è il 2049, centenario dell'unificazione nazionale. Gli imperi hanno sempre inizio con la coscienza del proprio diritto al dominio, e la restaurazione dello status della Cina come Regno di mezzo ha significato il transito dalla semplice compiacenza dell'isolamento al ripensamento di se stessa come civiltà senza confini. Interpretare una superpotenza Forse l'America è la più grande nazione al mondo, ma di certo qualcuno si è dimenticato di dirlo ai cinesi. La Cina è un universo a sé, lo spazio culturale autosufficiente più vasto e articolato al mondo, con una propria letteratura, proprie filosofie e forme drammatiche, e una civiltà ben più appassionante di qualsiasi format televisivo. La Cina non ha bisogno di importare cultura, né di cercare di tradursi a beneficio di qualcun altro. Come per lo più è stato da tremila anni a questa parte, oggi essa attrae fiumane di commercianti, diplomatici e studiosi, richiamati di nuovo da questo magnete culturale dell'Asia31-6. Al tempo stesso essa esporta insegnanti e babysitter, e fonda decine di filiali del Confucius Institute in tutto il mondo per promuovere la propria cultura. Il cinema, l'arte e la medicina tradizionale cinesi sono ormai patrimonio globale, come pure il weiqi, detto anche go, un gioco più antico degli scacchi. Mille anni fa la globalizzazione parlava cinese: la stampa, la polvere da sparo e la bussola si diffusero dalla Cina verso ovest. Oggi la Cina ama dipingersi come una grande nave mercantile che ha ripreso il mare sulle acque della globalizzazione (in spiccato contrasto con l'aereo da carico americano). L'icona della nuova immagine cinese è l'ammiraglio Zheng He, le cui sette traversate oceaniche all'inizio del XV secolo mettono in ombra i viaggi di Colombo e di Vasco de Gama: Zheng trasportò ambasciatori della dinastia Ming fino alla costa orientale dell'Africa, piantò i semi della diaspora cinese da Malacca al Kenya e ritornò carico di zolfo dell'Indonesia e delle spezie della costa indiana del Malabar 31-7. Non fosse stato per la decisione dell'imperatore Zhu Gaozhi di abolire quelle esplorazioni enormemente costose, la Cina sarebbe potuta diventare la maggior potenza marittima e continentale dell'epoca. I viaggi di Zheng avevano obiettivi commerciali e culturali, per cui la sua storia riflette sulla Cina odierna l'immagine di una potenza pacifica e benintenzionata; il fatto che fosse musulmano, e che sia morto dopo un pellegrinaggio alla Mecca va a vantaggio del volto cosmopolita del paese. A lui si deve la guida della prima grande ondata di emigranti cinesi nel Sudest asiatico, come testimoniano i templi che lo onorano e commemorano i suoi sbarchi in Malesia, Indonesia e Thailandia. A un esame più attento la storia di Zheng He apre tuttavia uno spiraglio sugli aspetti motivati come su quelli deformati del nazionalismo cinese. Negli anni più recenti la retorica storica cinese ha fatto grandi passi avanti, con lo scopo di alimentare una visione sinocentrica dell'Asia orientale. In un discorso pronunciato davanti al Parlamento australiano in seduta congiunta, nel 2003, il premier Hu
Jintao ha affermato che i viaggi di Zheng He avrebbero dato vita a secoli di contatti fra Cina e Australia, una tesi priva di alcun fondamento che potrebbe però essere prima o poi usata per rivendicare qualche forma di dominio cinese sull'Australia. Inoltre, va detto che Zheng non fu solo un «ambasciatore di pace», ma si lasciò coinvolgere in una serie di guerre da Giava allo Sri Lanka, il cui re fu da lui ridotto in schiavitù; non si limitò a fondare basi sullo Stretto di Malacca, ma raccolse anche ingenti tributi nel nome dei Ming dalla Birmania e dallo Yunnan e ordinò la brutale repressione della resistenza vietnamita. Come si evince dal suo esempio, insomma, l'antica cultura strategica della Cina contempla integralmente l'uso della forza31-8. Il mondo sta già osservando la politica e l'economia cinesi con la stessa attenzione riservata all'America e all'Europa, e la Cina mostra un'abilità non inferiore a queste nel confondere gli esperti: produce dottrine strategiche accuratamente vagliate e pubblica persino un report sui diritti umani fortemente critico verso le percentuali di detenzione, le diseguaglianze di reddito e il tasso di criminalità degli Stati Uniti. Le università e i ministeri, e gli istituti di ricerca più o meno ufficiali che vi sono annessi, contribuiscono in ugual misura alla formulazione della global policy cinese. «Con la scomparsa dell'Accademia delle scienze sociali dell'Unione Sovietica», si vanta un intellettuale di Pechino, «l'Accademia cinese di scienze sociali è sotto ogni riguardo il maggiore think tank attualmente esistente». Soprattutto, i dibattiti riservati in seno all'establishment cinese sull'integrazione e il confronto globale non suscitano discussioni meno accese di quelli di Washington o di Bruxelles, e il loro impatto sull'ordine globale è altrettanto forte. Non sono in pochi a credere che l'«ascesa pacifica» della Cina annunci la nascita di un inedito "Consenso di Pechino", una nuova logica di governance basata sulle nuove tecnologie come leva di potere, sulla prevenzione delle crisi e su un giustificato diritto a farsi strada in mezzo alle potenze già affermate31-9. Ma a cosa somiglierebbe nella pratica questo "Consenso di Pechino" se in esso si potesse realmente leggere la visione di un mondo a guida cinese, alternativa all'"egemonismo" americano? L'unica dottrina su cui basarsi è quella dell'Harmonious World Statement del premier Hu Jintao, la prefigurazione di un «mondo armonioso» che è al tempo stesso chiara e lacunosa, ambiziosa e vuota. In questo Harmonious World regna il rispetto più totale delle sovranità nazionali – un principio che persino il Terzo Mondo ha in gran parte prudentemente abbandonato in quest'epoca di minacce globali che diventano transnazionali e di conflitti intestini che oltrepassano regolarmente i confini statali. Per Hu, «multilateralismo» non significa risoluzione collettiva dei problemi in campo, ma è piuttosto cifra di quella «democratizzazione delle relazioni internazionali» in base alla quale nuove potenze si fanno avanti per arginare gli Stati Uniti. Infine, il «mondo armonioso» di Hu prevede il consolidarsi di uno sviluppo economico condiviso, in primo luogo attraverso gli scambi interregionali 31-10. La moltiplicazione dei progetti e dei prestiti cinesi a basso tasso d'interesse in Africa è indubbiamente diventata un importante elemento di crescita per molte nazioni povere, ma è anche il veicolo di un mercantilismo che potrebbe avere conseguenze distruttive per l'ambiente e perpetuare la dipendenza del Terzo Mondo dall'esportazione di materie prime. È poco probabile, insomma, che un «mondo armonioso» sotto l'egemonia cinese sia necessariamente un mondo migliore31-11. Questo Harmonious World è comunque un'idea destinata al consumo interno non meno che a quello internazionale, un mezzo per pacificare una popolazione inquieta attraverso la promozione di un nazionalismo latente. Anziché impiegare l'attuale, crescente processo di apertura per volgere le energie del paese al commercio, alla prosperità e al tempo libero, il governo cinese preferisce amplificare l'orgoglio nazionale – forgiando immagini come quella di Zheng He, ad esempio – come mezzo per rimpiazzare un comunismo ormai screditato e orientare il nazionalismo in una decisa direzione antiamericana. Anno dopo anno, l'America guadagna posti nelle classifiche cinesi delle nazioni più detestate31-12. Da oltre un secolo gli americani conoscono la Cina, prima come missionari, imprenditori e petrolieri, ora soprattutto come studenti, ricercatori, diplomatici, architetti, artisti. I cinesi, dal canto loro, sono diventati per gli Stati Uniti un enorme brain gain, una riserva di cervelli31-13. Contemporaneamente, lo spionaggio industriale ruba in America miliardi di dollari di segreti, mentre le fondazioni USA sponsorizzano ricerca scientifica d'eccellenza in Cina. «Senza l'America la Cina sarebbe indietro di parecchi anni rispetto al punto in cui si trova oggi», nota uno studioso americano che compie frequenti
visite in Cina. Gli Stati Uniti sono anche l'unica potenza in grado di mandare a monte i piani cinesi di resurrezione della passata, indiscussa grandezza, e per questa ragione sono visti da molti a Pechino come il nemico pubblico numero uno. Al di là di tutte le deferenze del rituale diplomatico, le umiliazioni inflitte da Washington alla Cina – il sostegno segreto alla causa tibetana (finito comunque nel 1971), le forniture militari a Taiwan, lo spiegamento di difesa missilistica, il bombardamento dell'ambasciata cinese a Belgrado nel 1991, l'incidente dell'aereo spia EP-3 nel 2001 e l'attribuzione di un rango inferiore a quello preteso dalla leadership di Pechino durante le visite di Stato – contribuiscono a un parossistico senso di rivalità31-14. Molti asiatici sono convinti che l'America faccia di tutto per risvegliare il dragone cinese. Per questo, quando si è chiesto perché la Cina spendesse tanto per il suo esercito in assenza di minacce aperte, all'ex segretario americano alla Difesa Donald Rumsfeld pare sia sfuggito il particolare che le forze armate degli Stati Uniti sono la minaccia principale per la Cina. È stato l'Occidente a invadere la Cina nel XIX secolo, non il contrario, e per questo la Cina non ha intenzione di risparmiare su alcun armamento considerato necessario ai piani di autodifesa31-15. Si tratta naturalmente di un processo interminabile, giacché non esiste alcun esercito abbastanza forte da sconfiggere in uno scontro diretto quello degli Stati Uniti. Dopo l'invio di uomini nello spazio e i progetti di sbarco sulla Luna, i programmi spaziali cinesi, caratterizzati da una stretta compenetrazione fra l'elemento civile e quello militare, potrebbero essere orientati a mettere in campo sistemi orbitanti di armamento in grado di eludere la difesa missilistica americana – armamenti la cui precisione è già stata testata nell'abbattimento di satelliti31-16. Del resto, la diminuzione della credibilità degli Stati Uniti nella regione significa che qualsiasi accusa da essi rivolta alla Cina è destinata a riscuotere scarso ascolto31-17. La lingua cinese non possiede tempi grammaticali, il che intensifica il senso del passato e il carattere senza tempo dei punti di vista e delle espressioni 31-18. Per leader che si percepiscono come guardiani della verità, i compromessi con le altre potenze (ad esempio l'alleanza con l'Unione Sovietica) sono considerati più espedienti tattici che atti di riconoscimento morale31-19. Proprio per questo il riconoscimento agli Stati Uniti del rango di superpotenza non implica in alcun modo un'accettazione dello status quo. Si tratta di capire se la strategia cinese sia quella di «nascondere le ambizioni e celare gli artigli», secondo il consiglio di Mao, per conseguire quella «potenza nazionale complessiva» che sembra essere cercata31-20. O se invece essa resterà fedele al precetto dell'«ascesa pacifica», misurata sull'aforisma di Sun Tzu che consiglia di ottenere la vittoria prima ancora di impegnarsi in battaglia. In effetti la Cina ha già dispiegato e moltiplicato armamenti nucleari, missili da crociera, droni, satelliti e altre tecnologie che hanno obbligato gli Stati Uniti ad alzare i costi della propria presenza militare nella regione senza nemmeno l'ombra di un possibile attacco31-21. Con la dipendenza commerciale dagli Stati Uniti, per la Cina anche gli incentivi alla moderazione stanno calando. Un embargo energetico contro il Giappone contribuì allo scoppio della seconda guerra mondiale nel Pacifico; una strategia analoga contro la Cina spingerebbe l'intera regione verso una terza guerra mondiale. La conoscenza e l'interpenetrazione reciproche fra Cina e Stati Uniti hanno raggiunto un livello tale che ciascuno dei due sa praticamente qualsiasi cosa dell'altro – a parte, naturalmente, la mossa successiva. Una "linea rossa" telefonica sullo stile di quella esistente durante la guerra fredda potrebbe essere utile a fare chiarezza. Al tempo stesso gli Stati Uniti sono arrivati a non vedere più la Cina nei semplici termini del "bene contro il male", in favore di quella visione più umana che Oscar Wilde descriveva nei termini dell'opposizione tra quello che affascina e quello che annoia. Washington si è ormai posizionata su una politica a più livelli definita constrainment, o congagernent – di "impegno obbligato", fatta cioè di impegni e di obblighi – con la speranza di poter riuscire a trasformare la Cina in uno «stakeholder responsabile»31-22. Comunque, per quanto è dato prevedere, Pechino è attualmente impegnata più a organizzare la regione e le periferie in cui opera che non il mondo intero 31-23. Se nel 2020 gli Stati Uniti saranno ancora capaci di accerchiare militarmente la Cina mentre questa continua a costruire la sua sfera di coprosperità economica, allora il risultato potrebbe essere quello di una struttura partecipata stabile. In tal caso, e questo è certo, gli Stati Uniti non avranno comunque cambiato la Cina dall'interno. L'Europa è convinta di essere in grado di cambiare la Cina con il proprio soft power attraverso vie non percorribili dall'hard power americano – o quantomeno di conseguire con la sua strategia risultati migliori
di quelli degli americani. Gli scambi europei con la Cina sono superiori a quelli fra quest'ultima e gli Stati Uniti, e l'export cinese verso l'Europa supera quello diretto verso gli USA. L'Europa ha fatto chiaramente capire che la Cina dovrà accettare le sue ingerenze per sperare di essere elevata al desiderato status di «economia di mercato»31-24. Effettivamente la Cina sembra impermeabile alle pressioni americane in materia di democratizzazione, diritti umani e riforme economiche, mentre dà mostra di essere assai più sensibile ai relativi suggerimenti europei. Lo Stato che Pechino intende costruire è modellato sulle nozioni europee di capitalismo di Stato e democrazia sociale, che rimandano alla stessa fonte della sua ideologia socialista ufficiale31-25. Come specifica un docente universitario di Shanghai, «inviamo molti più diplomatici ed esperti nella UE che negli USA, e la presenza dei nostri studenti è doppia, perché vogliamo capire il welfare State dell'Europa». È certo un bene che la Cina possa godere dei frutti di tali scambi, e che l'Europa glieli stia offrendo. Alcuni paesi europei si sono anche detti favorevoli alla sospensione dell'embargo sulle armi alla Cina, nel 2005, quale gesto di rispetto che farebbe progredire simili programmi di riforma. Di fatto la UE già vende alla Cina armamenti ad alta tecnologia e l'ha inclusa nel proprio sistema di navigazione commerciale satellitare Galileo (seppure la Cina stia progettando il proprio sistema satellitare Beidou-2), che Washington teme possa essere usato in appoggio al sistema di puntamento militare cinese. Tuttavia, evitando di imporre condizioni o penali di qualche tipo alla Cina per le sue inaccettabili vendite di armi a regimi screditati – e tali condizioni potrebbero essere l'apertura alla trasparenza dell'esercito e alla libertà di stampa, la riduzione delle condanne a morte o la firma del Patto ONU sui diritti civili e politici – l'Europa ha dimostrato la propria debolezza quale leader morale quando sono in gioco interessi commerciali. E poiché gli Stati Uniti non sono firmatari di diversi trattati di questo tipo, solo l'Europa potrebbe avere qualche credibilità a esserlo. Per la Cina esiste però un alleato migliore dell'Europa nell'emergente equilibrio dei poteri: la globalizzazione. Grandezza globalizzata La Cina sta sperimentando un secondo "grande balzo" in avanti, ed è incomparabilmente più avanzata rispetto all'epoca del primo. La retorica cinese del «mondo armonioso» appare antiquata, ma la sua strategia riguardo alla globalizzazione non lo è affatto: se l'establishment politico americano denuncia una «minaccia cinese», la maggior parte del mondo – nonché parecchi americani – ha accettato l'idea di un'«opportunità cinese». A differenza del Giappone e della Corea, la cui crescita impetuosa è stata trainata all'epoca da un modello a nazione chiusa, l'impressionante sviluppo della Cina ha fatto seguito all'abbandono di qualsiasi pretesa di separare quello che è interno da quanto è internazionale. La Cina ha sopravanzato gli Stati Uniti come massimo recettore di investimento estero e il Giappone come nazione più trade-oriented. Con i suoi oltre mille miliardi di riserve valutarie (superiori a quelle del Giappone) la Cina investe più che mai nei mercati esteri attraverso un'agenzia simile alla Temasek per coprirsi dalla volatilità economica e saziare al tempo stesso la propria fame inesauribile di materie prime. Per acquisire tecnologie d'avanguardia Pechino ha accordato alle proprie aziende pubbliche patrimoni sufficienti a fare acquisti spensierati anche all'interno della lista di Fortune 500. Un altro pilastro della strategia cinese consiste nel catturare vascelli del Primo Mondo, portarli a riva e far scendere a mani alzate gli ufficiali. Mentre la Temasek di Singapore sovrintendeva alla costruzione del parco industriale di Suzhou, in Cina, quest'ultima aveva già iniziato a dirottare i propri investimenti verso una struttura analoga interamente copiata da quella. All'opposto di quanto accadeva all'epoca delle concessioni extraterritoriali europee, oggi la Cina fa pressioni perché le multinazionali mettano in piedi sul suo territorio operazioni che le permettano di acquisire tecnologie d'avanguardia. Per ottenere i diritti di costruzione del treno ad alta velocità Maglev (il più veloce al mondo), che collega l'aeroporto Pudong al centro di Shanghai, la Siemens ha dovuto realizzare un istituto di ricerca Maglev, aiutando la Cina a padroneggiare la tecnologia che le permetterà un giorno di collegare Shanghai a Pechino. Per correggere le disfunzioni dei propri mercati azionari la Cina ha delocalizzato a Hong Kong e Singapore la raccolta di capitali per le proprie banche; e per gestire i propri vasti asset a rischio di inadempienza a causa di interi anni di prestiti a rotta di collo essa permette alle principali banche estere di acquistarne quote sempre maggiori – condividendo in tal modo il rischio e approfittando della loro expertise per mettere ordine nella situazione31-26.
La Cina insomma trae vantaggio dal know-how straniero mentre il Primo Mondo si affanna per stare al passo. In passato le aziende straniere si limitavano ad appaltare a ditte cinesi l'assemblaggio a basso costo di componenti, ma la "corsa al meno caro" è finita, e attualmente la Cina compete con nazioni del Primo Mondo come Singapore e Taiwan negli assemblaggi di elettronica e nella produzione di circuiti modulari. I lavoratori tedeschi fanno lo straordinario per tenere il ritmo di quegli operai cinesi che un tempo addestravano – sempre che le relative unità di progettazione e di produzione non siano già state interamente trasferite in Cina. L'ingegneria degli armamenti provenienti dall'Europa è stata riprodotta e addirittura venduta a prezzi inferiori ai fornitori31-27, e Shanghai Automotive potrebbe arrivare a sostituire interamente General Motors e Volkswagen sul mercato cinese, migliorando i propri modelli con la loro tecnologia e vendendoli a prezzi inferiori – ciò che presto potrebbe accadere anche negli Stati Uniti. Mantenere multinazionali in Cina per creare milioni di posti di lavoro non è stato un problema: per lo più non è stata nemmeno prevista una exit strategy da cui partire31-28. Le imprese di Stato un tempo erano il sinonimo delle regioni desolate dell'entroterra nelle quali erano collocate, e la loro chiusura è stata un fattore importante di migrazione verso le città e di malessere sociale. In alcune aree il governo ha imposto il ritorno dalle città alla campagna, trasformando gli operai in contadini e ripopolando villaggi abbandonati per la fuga verso le città. Allo stesso modo è importante Wal-Mart, sui cui scaffali si trovano quasi soltanto merci prodotte in Cina, dove dà lavoro a quasi duecentomila persone. A prescindere dalla fabbrica o dalla miniera in cui lavorano, i diritti minimi degli operai cinesi sono sempre pronti a tradursi in guolaosi, «morte da superlavoro»31-29. Nondimeno, oltre un miliardo di cinesi si è visto assicurato l'accesso a tutti gli aspetti di base del benessere materiale, visto che, a differenza dei paesi del Terzo Mondo, sono essi stessi a produrli. Se a questo si aggiunge l'alta propensione al risparmio si comprende come la Cina stia costruendo una megaeconomia basata sulla produzione di massa e il consumo di massa. Dai succhi di frutta all'elettronica alle assicurazioni auto, tutto quello che i cinesi producono deve essere proiettato sulla scala di una classe media che si allarga senza sosta, il che significa che le imprese straniere accetteranno praticamente ogni condizione pur di ottenere l'accesso a un simile mercato in piena maturazione, troppo grande per potere essere ignorato. Gente che era abituata a guadagnare venti dollari al mese in fabbrica si è improvvisamente vista piovere addosso la ricchezza. I suoi trecentomila miliardari (in termini di dollari) faranno della Cina il terzo maggior consumatore di beni di lusso, dietro Europa e Stati Uniti, nel giro di un decennio. «Diventare ricchi è glorioso», recitava la famosa frase di Deng. La globalizzazione si sta evolvendo secondo le condizioni che la Cina impone. Invece di cedere alle pressioni di UE e Stati Uniti perché aprisse i propri mercati prima che loro facessero lo stesso, essa ha selezionato con grande attenzione i criteri da adottare per soddisfare gli standard del WTO31-30. In nessun settore questo processo è più lampante che in quello dei diritti di proprietà intellettuale (IPR), in cui le garanzie del regime giuridico internazionale sono letteralmente spazzate via da un'ondata cinese di musica piratata, film, sigarette (rese ulteriormente dannose), prodotti farmaceutici, batterie, orologi, abbigliamento, perfino automobili (la berlina sportiva X5 di BMW appare sulle strade di Shanghai con il nome di Cm). La quantità travolge la qualità sulla Nanjing Road di Nanchino e sulla Silk Road di Pechino, dove l'intenso commercio di DVD piratati si arresta solo in occasione delle dimostrazioni simboliche in cui i bulldozer del governo ne distruggono pile intere per mettere a tacere per un po' le lamentele europee e americane. Sono astuzie che in realtà non ingannano nessuno, perché il governo non alzerà mai un dito contro uno dei più prolifici pirati for-profit di proprietà intellettuale, l'Armata popolare di liberazione, i cui stabilimenti dispersi nel territorio sfornano a getto continuo prodotti multimediali contraffatti per arrotondare il bilancio31-31. Fosse per i suoi opachi processi decisionali la Cina rispetterebbe gli IPR solo dopo averne fatto incetta nel Primo Mondo31-32. Quando i brevetti di sua proprietà vengono trasgrediti la Cina sa invece essere notevolmente rapida a prendere provvedimenti per proteggere il proprio mercato di TV a schermo piatto, drive per computer, webcam e tutto il merchandising delle Olimpiadi 2008, che solo le autorità cinesi erano autorizzate a produrre e vendere31-33. Stati Uniti e UE stanno progressivamente intensificando la controffensiva con minacce di guerre commerciali in ragione dell'enorme deficit degli scambi con la Cina, ma come riflette un economista di Shanghai «se volessimo farla finita una volta per tutte con il regime degli IPR non resterebbe più nulla da produrre agli occidentali».
Le zattere e la marea In realtà, il vero miracolo dello sviluppo cinese è ancora nella sua fase aurorale. Nel 1980 la Cina uscita dalla Rivoluzione culturale era un deserto, con due terzi della popolazione a vivere in aree povere e desolate fatte di quella disperante solitudine raccontata nelle pagine sconfortanti dell'autobiografia di Ma Jian, Red Dust. Di quei cinquecento milioni di persone immerse nella miseria più assoluta oggi ne restano solo cinquanta milioni che vivono con un dollaro al giorno, e la Cina non accetta più aiuti internazionali per la riduzione della povertà. Il suo problema non è tuttavia quello di sollevare un miliardo di persone dalle attuali condizioni: è più una questione di «zattere», ognuna delle quali simboleggia una famiglia31-34. Su ciascuna di queste zattere i membri della famiglia si prendono cura gli uni degli altri, e il risultato è quello di una presenza di homeless e mendicanti assai più ridotta che nell'India del Terzo Mondo, con un ordine e una dignità incomparabilmente maggiori. Le province costiere della Cina hanno ricevuto a tutt'oggi una quota schiacciante (i quattro quinti) dell'investimento estero totale. Un dato stupefacente che però rimanda a un progetto preciso: il capitalismo è infatti entrato in Cina in fasi diverse, in ossequio all'obiettivo di una sua gestione graduale. Non c'è dubbio che il prezzo di un approccio di questo tipo sia l'ineguaglianza31-35. I migranti che fanno la loro comparsa nelle grandi città costiere sembrano arrivare in un nuovo mondo le cui caratteristiche non avrebbero nemmeno immaginato. Molti, limitandosi a rovistare nei bidoni dell'immondizia, guadagnano più di quanto guadagnerebbero come contadini, mentre le élite cittadine li ignorano disinvoltamente come fossero branchi di animali. Come in Brasile, anche in Cina le diseguaglianze sono correlate all'aumento della criminalità. La città di Guangzhou ha dovuto mettere in campo centinaia di poliziotti aggiuntivi per il pattugliamento delle strade. Tuttavia Pechino è impegnata a contrastare frontalmente il problema delle diseguaglianze anziché concentrarsi unicamente sulla lotta al crimine, e per questo è diventata un modello di riferimento per il Brasile. Arrestare l'ondata migratoria degli oltre trecento milioni di cinesi che abbandonano le campagne non è certo possibile, ma gli sforzi del governo per garantire ai nuovi arrivati casa, energia elettrica, acqua, servizi sanitari e persino istruzione e pensioni daranno gradualmente i propri frutti nella riduzione delle differenze31-36. La leadership cinese non sembra molto interessata a discutere di statistiche: sa invece che, se anche il vertice del paese sta conoscendo un'impennata delle proprie condizioni di vita, la chiave dello sviluppo sta nel sollevare la base. Pechino ha cercato di colmare il gap che divide la zona costiera dall'interno e l'Est dall'Ovest attraverso ricchezza, infrastrutture, tecnologia e norme legali e sociali, con un programma di investimento sociale nelle aree rurali di 40 miliardi di dollari che comprende la costruzione di uffici pubblici, scuole e ospedali per «erigere un nuovo socialismo nelle campagne», uno slogan pensato appositamente per l'entroterra della nazione, dove gli ideali del socialismo agrario restano forti31-37. Accanto agli investimenti dello Stato anche le rimesse locali dirette dalla costa all'interno stanno giocando un ruolo di prima grandezza nell'alleviare la povertà di oltre ottocento milioni di persone. Il rinnovamento dei villaggi ha comportato l'abbattimento di capanne e la loro sostituzione con edifici in muratura, e accanto a questi la costruzione di ville a due piani con il tetto a pannelli solari per le seconde case dei cinesi urbanizzati. Per collegare i villaggi più remoti alle autostrade sono in costruzione almeno ottantamila chilometri di strade a grande scorrimento sotto cui passano anche cavi a fibra ottica per la connessione alle superhighways della comunicazione (con un anticipo di decenni sull'India, classificata fra i giganti delle tecnologie dell'informazione). Garantite le comunicazioni con le regioni più interne per via di aria, terra e acqua, lo sviluppo rapidissimo delle "città di secondo livello", tante Shanghai in miniatura, viene di conseguenza. Non è un coincidenza che Chongqing, prossima al centro geografico del paese nella provincia del Sichuan, sia diventata l'area urbana più estesa al mondo, con oltre trenta milioni di abitanti. In questo polo della regione della diga delle Tre gole i residenti e i lavoratori immigrati stanno tirando su dal nulla intere nuove città per quanti hanno dovuto abbandonare l'area nei pressi della diga. Si tratta anche della zona cui sono destinati gli oltre 40 miliardi di dollari del progetto di rinnovo industriale, intesi a trasformarla in una zona economica che comprende trentacinque città diverse e cento milioni di abitanti, più grande di qualsiasi nazione europea. Attualmente esistono già oltre cento città di medie dimensioni (con almeno un milione di abitanti ciascuna) con skyline che tendono sempre più ad assomigliare a quello di
Francoforte. Va aggiunto che gli Stati Uniti hanno solo dieci città con oltre un milione di persone, e una trentina circa l'Europa. Pochi americani hanno probabilmente sentito parlare di città come Wuxi, che secondo le stime è ormai ricca come le grandi città occidentali con una popolazione di sette milioni di persone. Si comprende perché la Cina, che pure produce più acciaio di ogni altro paese al mondo (un terzo della produzione mondiale) e ne consuma il doppio di USA e UE, continui a richiederne ancora. Le tossine accumulate nei polmoni di ogni abitante di una città cinese sono simili agli strati di sedimento studiati dai paleontologi: la testimonianza biologica del più rapido processo di industrializzazione che il mondo abbia conosciuto. Le miniere di carbone e le acciaierie altamente inquinanti hanno creato in Cina nubi di smog così dense da impedire l'atterraggio degli aerei e colorare di nero la neve. Sei delle dieci città più inquinate al mondo sono cinesi, e un buon terzo di tutte le aree urbane del paese soffre di insopportabili livelli di inquinamento atmosferico31-38. Come per il suo quadro economico, anche per quello ambientale la Cina non conosce ostacoli se non la globalizzazione: la sua corsa è a diventare verde – con la tecnologia, l'efficienza e la salvaguardia ambientale – prima di diventare definitivamente nera, trascinando con sé il resto del mondo giacché potrebbe essere realmente l'ultima pagliuzza che spezza l'ecosistema globale. Se la Cina si muove, anche la Terra si muove. E la Cina sarà presto responsabile di un terzo dell'inquinamento atmosferico in California31-39. Come agli americani, anche ai cinesi piacciono le gioie della vita, i grandi scenari all'aperto e i viaggi nei loro spettacolari territori rurali. Un funzionario della Chinese national oil offshore corporation (CNOOC) ha dichiarato che «i diritti umani non sono altro che un accesso garantito all'energia»31-40. È diffusa la convinzione che la Cina stia semplicemente ricalcando la storia dell'Occidente e che per questa ragione si occuperà man mano delle tematiche ambientali con il crescere della sua ricchezza: il problema, come ogni altra cosa che riguarda questo paese, è dato dal fatto che la scala delle questioni è più grande e la loro evoluzione più rapida – e che la Cina arriva dopo due secoli di effetti devastanti dell'industrializzazione occidentale. La Cina è già il maggior inquinatore mondiale dopo gli Stati Uniti, un record cui peraltro il resto del mondo contribuisce allegramente avendone fatto la propria fabbrica principale 31-41. Le ONG attive in campo ambientale stanno cercando di promuovere consapevolezza economica prima che si verifichi un disastro delle dimensioni di quello di Černobyl. Il che, peraltro, si adatta bene al culto cinese per la pulizia e l'ordine. Persino nei vecchi quartieri di hutong di Pechino la spazzatura è raccolta con cura; gli addetti alla raccolta delle bottiglie da riciclo li percorrono in bicicletta, ondeggiando fra gli stretti vicoli per tenere in equilibrio i grossi sacchi di plastica in cui le sistemano. Nelle province occidentali della Cina, in prossimità del confine con il Kazakistan, hanno fatto la loro comparsa nuovissime centrali eoliche. Quando la Cina è motivata ad agire da una difficoltà si dimostra in grado di mutare con una rapidità sconosciuta a qualsiasi altro paese. Lo sviluppo è la pietra angolare della legittimità del governo, ma il degrado ambientale costa alla Cina forse 200 miliardi l'anno31-42. Per questo la maggior parte dei progetti mondiali di costruzione di centrali idroelettriche e nucleari riguarda la Cina, insieme con l'aumento della costruzione di terminal destinati a incanalare il gas naturale delle sue vaste riserve (nonché di quelle della Malesia e dell'Indonesia) e a ridurre la sua eccessiva dipendenza dal carbone e dal petrolio31-43. Come una specie di Singapore in grande scala, la Cina attualmente delocalizza le industrie inquinanti nelle regioni più remote, aumenta il prezzo dell'acqua, commina multe e denuncia pubblicamente, stilando una lista nera dei maggiori inquinatori. Il suo impiego di energia solare per il riscaldamento idrico è superiore a quello di ogni altro paese al mondo, con tecnologie che sono già vendute all'estero31-44. Il Celeste Impero opera persino nel controllo climatico, grazie a tecniche di concentrazione delle nubi che permettono di aumentare la piovosità e di ripulire il cielo perennemente nebbioso di Pechino. Shanghai e Pechino, le capitali dell'impero Posta alla foce dello Chang Jiang, Shanghai riassume quanto di meglio e di più brillante della tradizione cinese entro quella cultura del fare per la quale i newyorchesi sono famosi; la sua cultura urbana da Primo Mondo e il suo design cosmopolita hanno già garantito alla città il rango di centro nevralgico globale. Ironicamente, la città in cui il Partito comunista fu fondato per porre fine al dominio
della proprietà corporativa ha rimpiazzato Hong Kong come nuovo epicentro del capitalismo cinese. Si tratta del resto di un destino ovvio, visto che furono i milionari di Shanghai a fuggire a Hong Kong nel 1949 per padroneggiare le pratiche occidentali del business sotto la tutela inglese. Vero è che a Shanghai non c'è traccia delle gang, delle oscenità e della criminalità che regnano nell'ex protettorato britannico: i tassisti sono separati dai clienti da paratie di plastica, ma la criminalità di strada è virtualmente assente e la polizia è disarmata. I vigili urbani, con tanto di guanti bianchi, fischietti e gesti che non ammettono repliche, servono soprattutto a indirizzare i pedoni. Gruppi composti di giardinieri potano i fiori e tagliano l'erba; le latrine all'aperto tipiche delle città del Terzo Mondo sono sconosciute: l'intera città pullula di bagni pubblici. È in vigore un'unica carta elettronica che permette di pagare ogni tipo di trasporto pubblico – metropolitana, autobus, persino i taxi. Se esiste un uccello che simboleggia la Cina, questo è la gru. Lo stesso vale per l'edilizia: con Dubai, Shanghai ospita il maggior numero di gru meccaniche al mondo, costantemente al lavoro per abbattere centinaia di migliaia di abitazioni tradizionali e dell'epoca coloniale e costruire la città del futuro. In vista dell'Expo 2010 è in fase di sviluppo, con padiglioni ed edifici fantasiosi, un'area delle dimensioni di Manhattan. Shanghai, del resto, conta già più grattacieli di New York, alcuni di essi risultato dell'unione fra il meglio del vecchio e del nuovo, come la Jing Mao Tower che ricorda la fioritura del bambù in primavera. Anziché lasciar crollare l'eredità architettonica coloniale, come quella del suo famoso lungofiume, il Bund, eretto all'inizio del XX secolo con gli stilemi del liberty europeo, Shanghai ha scelto di integrarla entro facciate in vetro che reinterpretano in senso moderno la sua passata grandezza. Non c'è concessionario di automobili di lusso in Cina che non possieda uno show-room a Shanghai, come non c'è galleria d'arte che non sappia tramutarsi improvvisamente in discoteca per i party dei giovani yuppie del paese. I concept restaurants sono tali e tanti da poter concorrere con quelli di Londra e Los Angeles. anche perché la cucina asiatica è la nuova ispirazione degli chef globali, e dunque lo chic internazionale risponde ai criteri dell'Occidente come a quelli dell'Oriente. Shanghai è la metropoli più grande del mondo, al cui confronto New York, Londra e San Paolo fanno un'assai magra figura. L'amministrazione comunale pianifica lo sviluppo della città con un anticipo di cinquant'anni, il che significa che Shanghai, nonostante i ventisei milioni di abitanti (tredici milioni di residenti e altrettanti immigrati dal resto del paese) e la sua crescita impetuosa, non conoscerà mai il caos dell'espansione incontrollata delle metropoli dell'America Latina, ma riuscirà ad attenersi a modelli di ordine urbano di città come Tokyo. I quartieri sono zonizzati e distinti da specifici codici cromatici, e milioni di persone vivono in appartamenti a capsula riuniti in rami. Diversi nuovi quartieri sono sbocciati con le caratteristiche urbane dei villaggi svizzeri o delle città inglesi per attrarre la classe media, la spina dorsale di un impero che importa modelli da tutto il mondo. Shanghai è anche il cuore pulsante di una vastissima città-regione sempre più prospera che si estende fino a Nanchino e comprende diverse città da cinque milioni di abitanti ciascuna. Pechino un tempo era la città delle biciclette: oggi le automobili sembrano avere la meglio, mentre le biciclette sono riciclate. Decine di hotel a cinque stelle e di centri direzionali chiusi e completamente autosufficienti si alternano ora in quella che è sempre stata una città di palazzi storici dotati di enormi parchi, con una grandiosità in grado di ispirare soggezione sin dai tempi di Marco Polo. Coppie di anziani imparano il tango durante le sere illuminate dalle luci delle mura dell'epoca Ming. Molti vecchi quartieri sono rasi al suolo, come a Shanghai, per fare spazio alla nuova urbanizzazione; altre zone di antichi hutong sono invece restaurate per l'attrazione del costante flusso di turisti. Verso una nuova patria: Taiwan e Hong Kong Se a qualcuno restassero ancora dei dubbi sul fatto che non ci sia nulla di più estraneo all'anima cinese del marxismo-leninismo, egli non dovrebbe fare altro che visitare Taiwan e Hong Kong per dissolverli una volta per tutte. Sun Yat-sen volle esplicitamente orientare la Cina verso gli ideali dell'Illuminismo; Chiang Kai-shek, il suo successore alla testa del Kuomintang, diresse una fioritura di libertà economica e culturale fino al 1949. Mao Zedong, a sua volta, fece leva sull'inquietudine delle masse rurali con la Lunga Marcia,
all'epoca della guerra civile, obbligando i nazionalisti a ritirarsi a Taiwan e bollando l'epoca di Chiang Kai-shek come un periodo dominato dal «capitalismo burocratico». Se Mao fosse vivo, tuttavia, sarebbe certamente in grado di offrire una descrizione migliore di quello che la Cina continentale è divenuta oggi. La vittoria comunista nella guerra civile provocò un'immensa fuga di capitali dalla Cina, denaro che si diffuse e si moltiplicò in tutta la regione fra le mani di scrupolosi investitori cinesi residenti all'estero. Gli yueh, in particolare (gli abitanti della regione costiera meridionale della Cina), oggetto degli attacchi della leadership comunista del Nord, costituirono il grosso degli esuli fuggiti a Taiwan e altrove. Da alcuni decenni sono sempre gli yueh a dare il maggior contributo allo sviluppo della Cina, con investimenti miliardari mediati dagli agenti finanziari di Shanghai31-45. Da isola dei reietti, Taiwan si è trasformata, per usare le parole dell'ex Ministro degli esteri cinese Li Zhouxing, in «una questione di vita o di morte per la Cina»31-46. Qualsiasi leader cinese che considerasse persa Taiwan sarebbe colpevolizzato in eterno. In realtà Taiwan è un nodo economico svincolato da qualsiasi presenza statale, così importante per l'economia globale che praticamente nessun dispositivo elettronico al mondo è privo di un componente fabbricato sull'isola; ogni interruzione della sua filiera produttiva – dovuta alla guerra o a calamità naturali – sarebbe ugualmente disastrosa per tutti gli alti partner, poiché priverebbe l'economia globale di una parte fondamentale del suo circuito industriale 31-47. Washington protegge Taiwan sia per i microchip che per la propria dignità militare, ma ufficiosamente si oppone alla sua indipendenza nella prospettiva della conclusione di quell'enorme affare che sarebbe la rinuncia di Taiwan alla secessione e il raffreddamento della questione da parte della Cina. Dopo anni di lobbying da parte della diplomazia di Pechino in tutto il mondo, Taiwan soffre di un tale isolamento diplomatico che la sua indipendenza non sarebbe riconosciuta da nessuno Stato, forse nemmeno dagli Stati Uniti. Nonostante il massiccio dispiegamento militare sui due fronti e l'ombra lunga dell'America, a essere realmente in gioco sono la presentabilità politica e il controllo economico. La Cina sa bene che l'eventuale incorporazione di Taiwan comporterebbe il possesso di un centro di industrie high-tech fra i più avanzati al mondo nonché di un gigante della produzione; Taiwan è del resto il maggior investitore nelle industrie della Cina popolare, assai maggiore degli Stati Uniti, della UE e del Giappone. I pragmatisti di Taipei desiderano un mercato comune sempre più integrato con la Cina per rendere più semplici tali investimenti, e l'abile risposta di Pechino è stata un'offerta di 4 miliardi di dollari di prestito alle piccole e medie imprese taiwanesi che operano sul suo territorio. La Cina, del resto, è il più grande mercato per l'export di Taiwan, il che rende poco credibile ogni sua proclamazione di un attacco militare contro quell'isola che torna così utile al suo sviluppo economico31-48. Malgrado l'occasionale tintinnare di sciabole fra l'una e l'altra sponda dello stretto, la reciproca colonizzazione della Cina e di Taiwan procede spedita. È ovvio che Taiwan non potrà assorbire politicamente la Cina più di quanto la terra possa ingoiare il cielo. I cinesi del continente mostrano poca ammirazione per la democrazia di Taiwan, che si è mostrata facile preda dei nazionalisti e della marginalizzazione degli immigrati31-49. «Di Taiwan copiamo solo il modello economico e sociale», mi dice un businessman di Pechino. «Dopo una fase iniziale, selvaggia, di capitalismo, anche loro si sono concentrati sullo sviluppo e sono diventati un paese del Primo Mondo». Ancora più di Taiwan, Hong Kong gode da sempre del rating di economia più libera del mondo; è stata vista anche come un modello in scala ridotta di come i cinesi potrebbero essere malleabili da parte della civiltà occidentale e della democrazia. Nel 1997, allorché, come disse l'ultimo governatore inglese dell'isola, Chris Patten, «l'ultima colonia britannica si arrese all'ultima tirannia comunista», la Cina si è vista consegnare in dono una capitale finanziaria globale nella quale meno di una persona su dieci lavora nel comparto manifatturiero nonostante un valore dell'export annuale superiore a quello della Russia o dell'India. La bonifica dei terreni sull'isola di Hong Kong e sulla sua espansione in terraferma, Kowloon, hanno ristretto il grande Victoria Harbour, il canale che le separa, simbolo dell'ulteriore assottigliamento della distanza fra Hong Kong e le grandi città sul delta dello Xun Jiang, più a nord, Shenzhen e Guangzhou (Canton), che tutte insieme formano la più ricca regione cinese31-50. Il delta del fiume costituiva il punto franco inglese lungo il ramo marittimo della Via della seta, e oggi è il canale che permette alle antiche
città yueh di recuperare la loro gloria in chiave moderna come aree di smistamento dell'export. Nella vicina Macao (la Las Vegas cinese) e sull'isola di Hainan i progetti di megainfrastrutture in corso stanno aprendo la strada alla costruzione di hotel e resort ad alta redditività da parte di investitori di Taiwan, della Corea del Sud e di Hong Kong, a un nuovo mercato immobiliare e al lancio di compagnie low cost che copriranno l'intero territorio nazionale. Beihai, di suo, è un punto d'appoggio ideale per gli scambi con il Vietnam che si dipanano lungo la costa. L'abbassamento del livello del Victoria Harbour è però anche una metafora di questioni critiche quali il netto peggioramento della qualità dell'aria e dell'acqua di Hong Kong a causa dell'inquinamento del delta dello Xun Jiang e dell'aumento della corruzione e delle violazioni ai diritti di proprietà seguito al passaggio della città alla Cina. Ogni anno che passa, Hong Kong, come Taiwan, diventa sempre più cinese e sempre meno indipendente dal punto di vista sistemico. Una nazione, due sistemi L'espressione «una nazione, due sistemi» non si riferisce più tanto alla frattura Cina-Taiwan quanto al clamoroso dualismo del "leninismo di mercato". In Occidente si tende a credere come a un assioma storico che nessun paese possa reggere a lungo il paradosso di un matrimonio fra economia capitalista e governo autoritario – che è invece esattamente quanto sta accadendo in Cina31-52. Gli osservatori esterni non sono mai riusciti a penetrare del tutto l'imperscrutabilità della politica imperiale di Pechino, e per questo devono scendere a patti con «la Cina come è, non come vorremmo che fosse»31-52. Si dice che l'ultimo imperatore Pu Yi, quando fu rimosso dal trono del Celeste Impero e inserito nei ranghi delle organizzazioni comuniste, abbia confessato che «il Partito comunista è così grande che non elimina le persone fisicamente, nella carne, ma elimina le loro idee sbagliate». Il Partito stesso ha poi dimostrato, nell'ultimo mezzo secolo, di non avere mai sofferto di penuria di idee sbagliate, ma non ha mai dovuto conoscere una controrivoluzione, o, come dicono eufemisticamente i cinesi, un «ritiro del mandato». Per questo il singolare obiettivo del PCC è di conservare il proprio mandato, con ogni mezzo a disposizione: un compito in cui è praticamente privo di concorrenti giacché in cinquemila anni di storia cinese «il popolo» non è mai stato candidato ad assumere «il mandato del cielo». Il maoismo è screditato, ma la massima di Mao resta indiscussa: «Il potere politico è contenuto nella canna del fucile, e per questo il Partito deve tenere stretto il fucile». A partire dagli eventi quasi simultanei dei moti di piazza Tienanmen e dell'implosione dell'Unione Sovietica, Cina e Russia hanno seguito due traiettorie molto diverse. Il comunismo cinese è stato abbandonato per deliberata scelta strategica e sostituito non da un neoautoritarismo in stile russo e dal suo apocalittico modello capitalista, bensì dalla transizione verso il «consenso asiatico». L'apparato del Partito, messo in piedi in fretta e furia dopo la presa del potere seguita alla vittoria nella guerra civile, cerca di far passare il suo ossimorico «centralismo democratico» come naturale espressione di una saggezza maturata nel corso dei millenni. In un certo senso, non a torto: il confucianesimo sta facendo il suo grande ritorno nella patria d'origine, giusto in tempo per giustificare il regime comunista come già accade per altri regimi dell'Estremo Oriente. Il confucianesimo fornisce infatti un'ampia giustificazione ai due pilastri del Partito, il capitalismo di Stato e la democrazia sociale, portando a esempio la stabilità, il rispetto dell'autorità, la meritocrazia e la leadership31-53. Una statua di Confucio oggi si eleva sul laghetto di fiori di loto del campus della Tsinghua University, l'accademia d'élite di Pechino. Al di là degli aggiustamenti ideologici, il Partito conserva comunque parecchi "no" sui quali non ci può essere discussione: no alla libertà religiosa per i circa quaranta milioni di cristiani e i trenta milioni di musulmani (gli hui) del paese, che nessun imperatore ha mai concesso. La Cina ha già sperimentato in passato un'epidemia di dipendenza da oppio, e non ha alcuna intenzione di permettere all'oppio dei popoli di Marx di diffondersi a macchia d'olio. No ai compromessi sull'integrità territoriale, come nel caso di Taiwan, del Tibet e dello Xinjiang – che Pechino ha oggi più potere di sottomettere di quanto non abbia mai avuto in passato. Il sublime action movie di propaganda Hero, tra i film che hanno fatto più incassi in Asia negli anni recenti, rispecchia artisticamente l'importanza viscerale dell'unità fra i regni della Cina.
Il Partito è più potente, sofisticato e complesso di qualsiasi dinastia della storia cinese. Al posto degli imperatori bambini per i quali la nazione era un patrimonio personale, oggi i nuovi imperatori con master in business administration pensano in termini di piani d'affari, cooptando le élite economiche in ruoli consultivi. Nell'era post-Deng non esistono più figure totemiche la cui aura si riflette su accoliti ossequiosi, ma una nuova generazione di tecnocrati che competono più o meno meritocraticamente per l'influenza, con una responsabilità maggiore di quanto sia mai stato in passato. Non è da escludere che presto o tardi possa essere imposto un termine di mandato anche ai dirigenti del Partito31-54. È ovvio che gli unici sistemi politici a poter essere più corrotti di quelli in cui più partiti si contendono il potere sono quelli in cui un partito solo ha tutto il potere. La corruzione sistemica della Cina è stata paragonata a un albero marcio che si regge ancora ma non porta più frutti31-55. La vendita di incarichi nell'amministrazione, l'intrusione nella gestione delle grandi e delle piccole aziende, la sottrazione di finanziamenti destinati alle opere pubbliche, l'inesistenza di standard di sicurezza dei prodotti, la confisca di terreni agricoli e la loro vendita alle imprese, la cattiva amministrazione delle banche, la gestione di hotel e ospedali di bassa qualità da parte dei funzionari delle province e dell'esercito come mezzo per intascare denaro sono soltanto alcuni esempi di quanto il nesso tra politica e capitalismo si sia deteriorato. Nemmeno il palazzo imperiale di Pechino ne è immune: sulle targhe di ottone dei padiglioni della Città proibita fa bella mostra di sé il logo dell'American Express. Con tutto ciò, i cinesi sono convinti che uno Stato forte sia comunque meglio di uno Stato debole che possa restare vittima delle potenze straniere. Se in Occidente le leggi hanno lo scopo di proteggere le classi più deboli dal dispotismo delle élite, in Cina sono dettate dall'alto e semplicemente trasmesse al popolo. Le settantaquattromila dimostrazioni documentate in tutta la Cina nel 2004 sono state in gran parte dettate dal rialzo dei prezzi, dalla requisizione di terreni e dalla richiesta di diritti per i lavoratori, non da un qualche movimento d'opinione contro il Partito 31-56. Le rivolte contadine sono una caratteristica persistente della storia cinese, con frequenti proteste non contro l'ideale della redistribuzione, ma contro la sua cattiva realizzazione da parte dei quadri dello Stato31-57. L'autosacrificio resta un forte tratto culturale cinese, e la lealtà allo Stato, coltivata con convinzione, è ancora la norma. A dispetto di tutto, la popolarità del Partito sembra persino in crescita31-58. La Cina non è una democrazia: e tuttavia il passaggio dallo status di compagno a quello di cittadino e dall'autorità alla legalità ha preso il via già prima di Tienanmen31-59. Milioni di famiglie oggi godono di diritti di proprietà per la prima volta nella loro vita, intere regioni hanno fatto ingresso nel sistema del credito e del consumo. La fustigazione dei funzionari che hanno sbagliato non si svolge più dietro le mura vermiglie della Città proibita, bensì in pubblico, con larga eco sui media che ad esempio hanno dato ampio risalto all'esecuzione del responsabile capo dell'agenzia per la sicurezza alimentare, nel 2007, come avvertimento per tutti coloro che prendono la scorciatoia delle tangenti. Si licenziano i governatori corrotti, si mette un freno alla brutalità della polizia, si distribuiscono prontuari di etica professionale e si pubblicano online i bilanci dei ministeri. In oltre un milione di villaggi si sono già svolte elezioni per la nomina dei comitati che amministrano gli affari locali, un processo ancora fermo allo stadio di sperimentazione solo perché troppo spesso la vittoria è andata a quanti erano già dentro i meccanismi del potere – un vizio che il governo intende correggere prima che il tutto si risolva in una parodia della democrazia. I dirigenti delle amministrazioni comunali ricorrono sempre più spesso ad agenzie di sondaggi per avere il quadro delle priorità secondo l'opinione pubblica. La Cina non darà comunque ascolto ad alcun appello alla democratizzazione o a qualsiasi altro cambio sistemico prima di avere raggiunto l'obiettivo di un medio standard di reddito dell'intera popolazione, fissato al 205031-60. In effetti potrebbe occorrere un secolo e più perché una democrazia in senso pieno si radichi in Cina – se mai ciò accadrà –, ma la gara è comunque tutta interna al paese, senza spazio per richieste provenienti dall'estero31-61. I cinesi si mostrano sempre più orgogliosi del loro ordine civico e sociale, un orgoglio che la liberalizzazione del settore dell'informazione farebbe probabilmente crescere ulteriormente – contrariamente, di nuovo, a quanto vuole la logica occidentale. Lo Stato è abbastanza forte da potersi permettere di concedere ai media di essere critici senza trasformarsi in un'autonoma centrale di potere; se ancora non lo fa, come a Singapore, è per mancanza di fiducia. All'esercito sempre più numeroso dei milioni di internet users cinesi restano vietati molti website, ed esistono ricompense di vago sapore orwelliano per quanti praticano l'autocensura; persino
le informazioni sulle catastrofi naturali sono sottoposte ad approvazione preventiva 31-62. Eppure un sistema dell'informazione autenticamente libero è uno strumento di dibattito sano, di trasparenza e di educazione pubblica. Difficilmente la Cina può riscuotere un indiscusso rispetto internazionale quando diversi fra i suoi scrittori e i suoi registi pluripremiati vivono in esilio da un paese nel quale dire la verità e mentire sono ugualmente pericolosi. Almeno in questo, la Cina sarebbe assai più legittimata a guidare l'Oriente se imparasse qualche lezione dall'Occidente.
Conclusione Alla ricerca dell'equilibrio in un mondo non-americano Corsa al vertice Sarebbe difficile sovrastimare la fluidità del panorama geopolitico di questo inizio di XXI secolo. Davanti alle oscillazioni degli Stati Uniti fra l'isolamento da una parte e la collaborazione con la comunità internazionale dall'altra, all'impenetrabilità del Politburo di Pechino e ai cauti tentativi della UE di allargare la propria influenza strategica, può essere utile provare a disegnare scenari alternativi a un mondo interamente dominato da queste tre superpotenze. Ciascuna di esse infatti potrebbe arrivare a non essere più in grado di reggere il peso della propria politica: gli Stati Uniti a causa dei consumi eccessivi, l'Europa in termini di limiti oggettivi all'espansione e la Cina per i costi ambientali e sociali della sua crescita. E di conseguenza esse potrebbero conoscere una fase discendente, nel caso non fossero più in grado di sostenere gli impegni attuali o l'interpenetrazione entro le rispettive aree d'influenzaC5-1. Quel che è certo è che i cicli di ascesa, caduta e conflitto che hanno caratterizzato tutta la storia delle nazioni non si fermerannoC5-2. Buona parte della considerazione che le è tributata, come pure della sua stessa autolegittimazione, viene all'America dallo status di difensore armato della libertà, nonché dall'essere la società più ricca e la democrazia più vivace in questo mondo hobbesiano e darwiniano C5-3. Il punto è che l'America non ha capito fino in fondo né Hobbes né DarwinC5-4. Benché Hobbes fosse convinto che l'uomo si muovesse da quello che più tardi Hans Morgenthau avrebbe chiamato animus dominandi, «la volontà di dominio», quello che prefigurò non era un unico Leviatano che si ergeva tirannicamente al di sopra del popolo, bensì «la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile»C5-5. Né Darwin, di suo, sosteneva che la forza bruta garantisse la longevità: «Non è la specie più forte a sopravvivere», scrisse, «né la più intelligente, ma quella più pronta al cambiamento». La vera lezione di Hobbes e Darwin è che nessuna singola potenza potrà mai dominare tutte le altre, ma a prevalere sarà il sistema più adattabile. Una superpotenza non dura un solo minuto di più quando la ragione che la rende tale si esaurisce. Gli Stati Uniti possiedono da parecchio tempo la capacità militare di trasformare in cenere i propri rivali, ma nonostante le ripetute dichiarazioni di Bush sull'«andare all'offensiva e restare all'offensiva», sulla war on terror e l'Axis of Evil, essi hanno fallito sotto ogni punto di vista la risoluzione delle grandi minacce da loro identificate, rivelando la fondamentale impotenza della bruta forza militare C5-6. Inoltre l'influenza americana si è assottigliata più in fretta proprio in quelle aree dove la presenza militare di Washington è più marcata, cioè nel mondo arabo e nell'Asia orientale. Alcuni esperti suggeriscono una grand strategy più limitata, mirata a conseguire un equilibrio a distanza nelle regioni più strategiche, ma anche questa non sarebbe che una forma passiva-aggressiva della medesima dottrina, ormai del tutto screditata. Persino indossando la più benigna delle maschere dell'egemonia resta assai difficile rendere attraente il concetto di guerra preventiva o il dislocamento di testate nucleari capaci di penetrare un bunker mentre ci si rifiuta di firmare i trattati intesi a regolarle. Come scrisse Henry Kissinger, «la forza può conquistare il mondo, ma non può legittimare se stessa». Tutto questo avviene in un momento in cui gli Stati Uniti, pur ritenendosi un clemente «impero accidentale», si rendono conto sempre più di dover agire come impero per difendere la propria visione contro quelle concorrenti di UE e CinaC5-7. E se accusano gli altri di praticare politiche di potenza, questi altri continuano comunque a contrastare il tentativo americano di conseguire un monopolio della potenzaC5-8. La vacuità delle pretese americane alla supremazia mondiale è messa a nudo in tutte le
regioni del Secondo Mondo: la UE può stabilizzare le regioni del suo Est, la SCO a guida cinese può dare un'organizzazione all'Asia centrale, l'America meridionale può liberarsi della tutela degli USA come gli stati arabi possono rifiutare la loro egemonia; tuttavia la Cina non può essere arginata all'interno dell'Estremo Oriente con il solo ausilio della forza militare. L'ammutinamento geopolitico mondiale è già in corso. Il mondo ha ancora bisogno degli Stati UnitiC5-9? La supremazia americana sta sfumando, ma l'antiamericanismo non dà segni di attenuazioneC5-10. Gli americani sostengono spesso che l'incertezza della direzione che prenderà la Cina sarà il vero "fattore X" del futuro, ma in realtà sono proprio gli USA a essere diventati l'equivalente del principio di incertezza: da tutta una serie di prospettive non esiste accordo sul punto cui sono arrivati. Attualmente hanno indossato il mantello della Perfida Albione. Né l'idealismo democratico né il messianismo egemonico promettono molto quanto a possibilità di restaurare la fiducia nell'America, che è passata dall'essere l'incarnazione della mano invisibile all'essere solo uno fra i tanti venditori e brand che si fanno concorrenza sulla passerella della credibilità. Per gli americani la domanda non è più «cosa c'è di buono per noi nell'affare?», ma «perché non ci siamo?». Congressi e summit internazionali si tengono in tutto il mondo senza che i partecipanti debbano preoccuparsi delle arbitrarie restrizioni americane sui visti d'ingresso. Dagli hedge funds alle scommesse online, Londra e Hong Kong sono sempre più preferite a New York dalle società che intendono quotarsi in Borsa. Nel 2006 Al-Jazeera International ha lanciato in tutto il pianeta la sua rete in lingua inglese, meno che negli Stati Uniti; gli sport più giocati al mondo – il cricket e il calcio – vi sono largamente sconosciuti. Il soft power ha funzionato per gli Stati Uniti solo finché erano loro a dettare legge. Con il progressivo incepparsi dei loro dispositivi di potere, hard o soft che sia, gli USA stanno imparando che ognuno è costretto prima o poi a confrontarsi con la storia, persino gli americani. Come gli elastici si spezzano più rapidamente di quanto si possano tendere, anche gli imperi crollano poco dopo avere raggiunto la propria massima estensione. L'America vorrebbe conservare la propria distanza di sicurezza dalle potenze europee e asiatiche, ai due estremi dell'«isola-mondo» eurasiatica, continuando a essere in grado di avere l'ultima parola, come le capitò quasi un secolo fa alla Conferenza di pace di Parigi, allorché Sir Harold Nicolson commentò che «l'America, eternamente protetta dall'Atlantico, desiderava soddisfare il proprio moralismo disimpegnandosi da tutte le proprie responsabilità»C5-11. L'isolamento geografico può tuttavia essere un vantaggio solo in presenza di alleati disponibili a dividere i costi. Raymond Aron ha definito il sistema di governo globale indiretto degli Stati Uniti come «repubblica imperiale»: tuttavia i profitti sugli investimenti compiuti in questo senso sono notevolmente diminuiti da quando gli alleati hanno cominciato a defilarsi e la coalition of the willing ad assomigliare più che altro a un'accozzaglia di interessi opportunistici. Oggi gli Stati Uniti sono costretti a fare da soli molto più di quanto si convenga a un vero leader – non a caso, del resto, visto che i loro punti di forza militari, finanziari e morali si stanno sgretolandoC5-12. Trasformare la NATO in un «Asse della democrazia» a corto di risorse non sistemerà meglio le cose; il fallimento dell'avventura irachena è costato all'America la lealtà incondizionata della Gran Bretagna, mentre il Giappone si mostra sempre più prudente in Asia orientale. Entrambi ormai sono poco più che alleati di facciata di Washington. Molti altri Stati un tempo saldamente riuniti sotto l'ombrello di sicurezza americano stanno "liberandosi dal guinzaglio", costruendo propri nuclei di forza per conquistare effettiva autonomiaC5-13. E mentre gli organi del corpo globale stanno vivendo una crisi di rigetto verso le inserzioni chirurgiche degli Stati Uniti, questi ultimi sembrano avere perso la capacità di decidere se i costi e le conseguenze del loro impegno globale valgano realmente la pena di essere affrontati C5-14. Questa insoddisfazione interna e l'incapacità di tenere fede agli impegni globali sono di per sé i principali indicatori di un imperial overstretch, dell'avvenuto superamento della soglia di massima estensione imperiale possibile. Come ammoniva Toynbee, «contro il destino non esiste armatura che tenga»C5-15. La politica estera americana è spesso descritta come fuorviata e travolta dalle troppe agende in campo: antiterrorismo, espansione commerciale, sicurezza energetica, conflict resolution. La palpabile preoccupazione che si registra intorno alla gestione delle crisi è un segnale sicuro di insuccesso in queste grandi priorità strategiche. Una diplomazia imperiale ha bisogno di una forma mentis poliedrica,
non di bacchette magiche burocratiche clinicamente separate né di politiche che pretendono di adattarsi a tutto come potrebbe essere per un'agenzia di consulenza manageriale C5-16. George Kennan ha analizzato la tensione presente in una politica che sappia riferirsi a un sistema a sé e contemporaneamente apprezzare a ragion veduta i sistemi altrui, nella consapevolezza che questi non possono essere interpretati automaticamente in base alle proprie categorie. La diplomazia americana sembra condannata a non assolvere né all'uno né all'altro di questi compiti. Le risorse smisurate impegnate nella gestione del Dipartimento di Stato come fosse la più grande agenzia di viaggi del mondo sono sprecate, dal punto di vista di un impero; quello di cui c'è bisogno è invece un personale disposto a dedicare la propria vita a padroneggiare la conoscenza degli affari delle più remote parti del pianeta. Come ha denunciato l'esperto di contro-guerriglia David Kilcullen, «ci sono sostanzialmente più persone impiegate nelle bande musicali della Difesa che nell'intero foreign service»C5-17. Quando presunti "inviati speciali" incaricati di risolvere problemi sostituiscono gli ambasciatori con una lunga carriera alle spalle, la diplomazia fatta attraverso il dilettantismo si materializza. In un mondo di allineamenti invece che di alleanze il campo da gioco della diplomazia vede attualmente confrontarsi tre modi imperiali diversi: quello americano della coalizione, quello europeo del consenso e quello cinese della consultazione, ciascuno dei quali si sta coagulando con un proprio, differente collante ideologico. Gli Stati Uniti offrono protezione e aiuto ai regimi allineati e alle loro forze armate, la Cina offre relazioni all inclusive prive di alcuna precondizione, l'Europa riforme in profondità e alleanze economiche. I loro network imperiali e le loro sfere d'influenza si intersecano sempre più spesso gli uni con gli altri, all'insegna del multiallineamento praticato dai paesi del Secondo Mondo che cercano di raggiungere un equilibrio tra i loro impegni multilaterali per ottenere assistenza economica da una potenza, aiuto militare dall'altra e legami commerciali con un'altra ancoraC5-18. I tre imperi si comportano sempre più spesso come frenemies, amici e nemici al tempo stesso. Per avere successo in un mercato così competitivo, dove il non impegno equivale all'abdicazione all'influenza, una superpotenza deve essere formidabileC5-19. Perché l'America possa riuscire a convincere i sempre più volubili Stati del Secondo Mondo e recuperare la sua statura occorre che avanzi, nel modo più chiaro e pubblicamente visibile, offerte di massicci incentivi economici, tecnici e alla sicurezza alla condizione di immediate riforme politiche. La corsa è al dispiego di schiere sempre più larghe di quelli che Toynbee chiamava marchmen, i fanti dell'impero che diffondono la sua way of life nelle sue diverse dimensioni. La nuova transformational diplomacy degli Stati Uniti ha determinato l'invio di un maggior numero di agenti del Foreign Service in luoghi a rischio – a volte in completa solitudine – per radicare la presenza americana. La Commissione Europea a sua volta ha dato vita a un proprio, autonomo corpo di esperti di commercio, politica e sviluppo, e la Cina ha moltiplicato i propri avamposti globali fatti di quadri di esperti all'assistenza. Anche in questo caso, l'aggregazione antimperiale formata da Venezuela, Iran, Kazakistan, Libia, Malesia e altri continuerà a impegnarsi per costruire relazioni al proprio interno non meno salde di quelle con Washington, Bruxelles o Pechino. Queste nazioni sono disposte non soltanto a combinare il meglio di quanto offre ciascuna delle superpotenze per raggiungere la propria visione di successo, ma anche a collaborare direttamente fra loro per sfruttare giacimenti petroliferi, condividere informazioni, combattere il terrorismo, ridurre la povertà, introdurre controlli sui capitali e costruire infrastrutture moderne. Useranno i propri fondi sovrani per acquistare banche, porti e altri asset strategici occidentali. I loro gruppi a livello regionale continueranno a costituire proprie zone economiche, banche di sviluppo, forze di peacekeeping e tribunali penali. Le rotte aeree si sono moltiplicate permettendo collegamenti diretti fra paesi arabi, America meridionale e Asia orientale. Per le superpotenze, la presenza di propri ambasciatori con competenze regionali sarà più efficace del lavoro svolto attraverso le agenzie internazionaliC5-20. E l'America, per confrontarsi con questo movimento tettonico verso un mondo non-americano, deve guardare sempre più al proprio interno, ossia verso il basso, l'unica direzione di sguardo possibile quando si è all'apogeo del potere. L'America: dal Primo al Secondo Mondo? La Cina appartiene già al Secondo mondo, ma c'è arrivata partendo dal Terzo. L'Europa sta
assorbendo la propria periferia secondomondiale per portarla ai livelli del Primo Mondo. È pensabile che gli Stati Uniti, da sempre l'icona del Primo mondo, possano scivolare nel Secondo? In tutti gli imperi la percezione della fine produce una certa dissonanza cognitiva. Vero è, ci spiegava Toynbee, che la civiltà «è un movimento e non una condizione, un viaggio e non un porto». Per capire come una civiltà possa cadere dobbiamo «estendere la portata della nostra visione mentale oltre i suoi confini». Lo studio dei caratteri degli imperi convinse Toynbee che le cause più comuni di declino stavano nel militarismo e nel deterioramento della minoranza creativa. Gli imperi del passato si estinsero regolarmente a causa delle condizioni interne, e ciascuno di essi «ebbe i barbari che meritava». Armi potentissime e comandanti in capo non possono mascherare il lento declino dell'America, poiché ne sono i simboli più eloquentiC5-21. L'imperial overstretch dell'America sta emergendo in stretta coincidenza con il declinare della sua supremazia economica, pregiudicando le fondamenta ultime della sua leadership mondiale. Probabilmente gli Stati Uniti non saranno invasi dai barbari come Roma: resta il fatto che la dipendenza dai finanziamenti esteri e la mancanza di alleati sono debolezze quasi insormontabili, come prova il caso della Spagna imperiale. La quota americana di economia mondiale è scesa dal 50 al 25 per cento dalla seconda guerra mondiale a oggi – con il resto in buona parte diviso fra Europa e Asia. Durante la guerra fredda gli alleati degli Stati Uniti tollerarono un dollaro sopravvalutato sapendo che era il prezzo da pagare per la protezione militare; ora tale eccezionalismo americano riposa essenzialmente sulla buona volontà altrui, che però sta rapidamente evaporando. Non soltanto Cina e Giappone sono i maggiori possessori globali di riserve in dollari: per la prima volta nella storia la principale riserva di valuta al mondo è quella di una nazione debitrice – debitrice nei confronti dei propri concorrentiC5-22. Il deficit finanziario e commerciale americano fa sì che il dollaro non sia più visto come il fortilizio più sicuro dell'investimento, con la conseguenza di una graduale diversificazione tanto dei patrimoni in valuta quanto del calcolo del prezzo delle materie prime quali il petrolio. Benché al mondo esistano diverse monete forti, sono tre quelle costantemente sottoposte all'attenzione collettiva: il dollaro, l'euro e il renminbi cinese. Più le nazioni e gli investitori privati diversificano gli investimenti verso l'euro, meno gli Stati Uniti possono finanziare i propri deficit e le proprie costose avventure militari. Poiché i deficit sono il risultato di quella che Jospeh Stiglitz chiama la «sbornia consumistica», gli Stati Uniti avranno ben poco da raccontarsi quando la musica si fermeràC5-23. E poiché i pagamenti a debito americani superano già gli investimenti ricevuti, il paese vive al di là della ricchezza risparmiata per la prossima generazione, il che significa che è più povero. L'avventurismo finanziario degli Stati Uniti è un parallelo lampante di quello militare: entrambi sono il sintomo del fatto che la macchina imperiale americana sta procedendo in folle invece che per forza motrice, perché il serbatoio è già vuoto. L'America giustifica il suo rigetto delle convenzioni internazionali come il Protocollo di Kyoto o il tribunale penale internazionale nel nome del loro miglioramento o delle necessità imposte dalla sua statura globale. Restano da spiegare tutte le distorsioni interne. Non è semplice psicanalizzare gli Stati Uniti, una nazione così costitutivamente piena di contraddizioni che, come ha notato lo psicologo Erik Erikson, «tutto ciò che può essere considerato un tratto tipicamente americano ha un suo equivalente contrario ugualmente caratteristico»C5-24. La generosità e l'egoismo, ad esempio, sono due qualità intrinseche e al tempo stesso antitetiche dello spirito USA. Se tuttavia è vero che il modo in cui un paese conduce una guerra riflette la sua natura più profonda, allora appare evidente come la moderazione non sia da annoverare fra le virtù americane. L'America pretende di incarnare determinati ideali validi per l'intero mondo: la libertà, la felicità, l'opportunità. Ora si trova nella condizione di doverlo provare, soprattutto a fronte dell'emergere di visioni alternative. L'espressione "qualità della vita" suona astratta; in termini concretamente misurabili è però in netto deterioramento negli Stati Uniti, e le loro dimensioni continentali non fanno che aggravare il problema. Gli Stati Uniti si piazzano verso il fondo della classifica dei paesi OCSE quanto a reddito medio dei lavoratori e diseguaglianza del reddito, come quanto a felicità degli individui (un dato cui la diseguaglianza è correlata in senso negativo). Il reddito medio americano fa un'assai magra figura laddove sia privato del peso della ricchezza individuale. I super-ricchi vivono in vere e proprie bolle economiche e contribuiscono alle economie degli altri paesi come alla propria, con le centotrentamila persone piazzate al vertice che guadagnano quanto il 40 per cento dei trecento milioni di abitanti degli
Stati Uniti. Gli analisti di Citibank parlano apertamente di una plutonomy nella quale pochi fortunati fanno girare il sistema economico più dell'intera massa della popolazione C5-25. Al top, il mercato dei diamanti e di quei buchi neri di benzina che sono i SUV è in crescita, mentre alla base la frenesia consumista si può esprimere soltanto nei discount o da Wal-Mart, dove l'assalto rituale ai regali natalizi – che a volte arriva a provocare incidenti mortali – inizia ogni anno nel giorno del Ringraziamento, se non prima. L'America è sempre meno la nazione della middle-class e sempre più quella combinazione di estremi tipica del Secondo Mondo. Negli ultimi trent'anni la working class americana non ha conosciuto alcun aumento del reddito in termini reali, e la sua quota nell'economia nazionale sta perdendo colpi a fronte di una sua netta crescita in termini numericiC5-26. La stessa nozione delle «due Americhe» sollevata nella campagna per le presidenziali del 2004 è una dimostrazione della mancanza di un'America di mezzo. Un quinto dei bambini americani cresce in condizioni di povertà; la popolazione povera del paese tocca i quaranta milioni. A New York parecchie famiglie a reddito basso si sono ridotte a frequentare i dormitori nell'impossibilità di permettersi la casa. Forse potranno permettersela con lo scoppio della bolla immobiliare. A confronto delle altre nazioni del Primo Mondo gli Stati Uniti non sembrano godere di buona salute. Bisogna darsi da fare per trovare gente che non vorrebbe avere la garanzia di cure mediche gratis o a prezzi sostenibili: eppure, se anche l'America vive della sua ideologia del libero mercato, questo non significa che essa piaccia ai quarantacinque milioni di americani privi di un'assicurazione medica. Mentre gli Stati Uniti rimproverano alle altre nazioni il peso eccessivo delle loro strutture burocratiche, gli astronomici costi amministrativi del loro sistema sanitario sono la fotocopia dei programmi internazionali di aiuto, in cui il grosso dei fondi finisce a pagare il vertice mentre i beneficiari restano all'asciutto. Le percentuali di obesità in aumento fra bambini e adulti non sono un sintomo di ricchezza eccessiva, ma della dipendenza diffusa da alimenti poco cari ad alto contenuto di grassi: le compagnie aeree concedono ormai a tutti i passeggeri americani un bonus automatico di dieci chili di overweight sul calcolo del peso totale di volo. Senza contare che soltanto l'enorme generosità del mondo del volontariato compensa il completo disinteresse per gli anziani, molti dei quali sarebbero altrimenti letteralmente condannati a morire di fame. Le potenze dominanti alimentano il proprio vantaggio sui rivali nel campo dell'innovazione con l'istruzione scientifica e tecnologica, ma il ranking americano nelle lauree in questi settori sta sprofondando. Gli Stati Uniti hanno le università d'élite del mondo, ma la maggior parte degli americani possiede solo una parziale educazione universitaria, e per molti la laurea nei college di livello inferiore richiede dai cinque agli otto anni per la necessità di lavorare per pagarsi gli studi. La percentuale di abbandono scolastico superiore è al 32 per cento, con una quantità enorme di high schools prossime a chiudere o ad andare in bancarotta e con l'esercito che addirittura ne prende la guida per gestirle come accademie militari. In questa nazione del privilegio privatizzato gli unici servizi che funzionano bene – dai condomini di lusso agli hotel, ai ristoranti, alle palestre, ai taxi privati – sono quelli che servono le élite e la loro economia riservata. Per tutti gli altri la realtà è allo sfascio: le strutture di trasporto pubblico – strade, gallerie, treni, autobus – sono vittima in un modo o nell'altro della cattiva manutenzione; l'estensione delle connessioni a banda larga è al di sotto di quella europea; le reti di telefoni mobili sono sotto gli standard internazionali; gli arcaici taxi pubblici non accettano pagamenti elettronici. Quel che è peggio, gli Stati Uniti potrebbero risentire della stessa maledizione del petrolio che affligge tanti Stati del Secondo Mondo. Il grosso delle sue infrastrutture è stato costruito durante il boom successivo alla seconda guerra mondiale, quando l'America era il maggior produttore ed esportatore di petrolio al mondo: oggi la sua rete idrica e le centrali elettriche sono in uno stato tale da provocare avvelenamenti da piombo e mercurio e sporadici, ma estesissimi blackoutC5-27. In occasione dello sciopero dei trasporti a New York, nell'inverno del 2005, i pendolari costretti a trascinarsi per lunghe distanze nella neve dichiararono che sembrava loro di vivere in una nazione del Terzo Mondo. La nozione di laissez-faire non basta più a descrivere i principi sociali ed economici americani in presenza di strutture sociali distorte che di fatto favoriscono il perpetuarsi delle diseguaglianze. La mobilità sociale che dovrebbe essere implicita nell'idea di egual opportunity è sempre più un mito, soprattutto per quanti vivono sul fondo della piramide, afroamericani e latinos, 50 per cento dei quali
non raggiunge il diploma. Da Los Angeles a Brooklyn le minoranze ispaniche si affollano in quartieri degradati e vivono alla mercé dei padroni dei ghetti. "Riqualificazione" è l'eufemismo più usato per indicare rinnovi urbani che consistono essenzialmente in quelle campagne di demolizione di baraccopoli che si vedono spesso nelle città del Secondo e del Terzo Mondo. L'afflusso di lavoratori migranti a bassa retribuzione ha dilatato la dimensione della popolazione povera, sia a causa del loro stesso numero che della conseguente compressione dei salari dei lavoratori americani non qualificatiC5-28. Già quasi vent'anni fa Los Angeles fu bollata come la «capitale del Terzo Mondo» in ragione delle sue comunità di migranti che vivono in regime di segregazione, impegnate in una lotta quotidiana per la sopravvivenza e senza alcun contatto con la società circostanteC5-29. Recentemente, Samuel Huntington ha parlato di un indebolimento della cultura anglo-protestante americana e del credo nel melting pot che sarebbe causato dalla presenza di forti minoranze ispaniche non integrate: nessun "Americano dream" potrebbe sostituirsi all'American dream, secondo Huntington, senza che gli Stati Uniti possano diventare un paese schizofrenico C5-30. Ma è difficile pensare a una radicata «comunità di valori» negli Stati Uniti quando la ragione prima per cui gli americani non approvano un welfare State che protegga i ceti poveri è che questi poveri sono tenuti in uno sproporzionato stato di minoranzaC5-31. In una nazione in cui il ritorno della violenza di massa è sempre pronto a riesplodere, il nativismo bianco potrebbe comparire con frequenza maggiore di quella attuale. E l'idea di sicurezza nazionale sembra ormai non riguardare più solo il terrorismo, ma, in ugual misura, gli ingressi di clandestini attraverso la frontiera meridionale. Gli americani mostrano paura verso un futuro che sembra avvicinarsi a passi sempre più rapidi. Nel 2005 l'Europa, l'India, gli Stati Uniti e la Cina sono stati colpiti da uragani o inondazioni. In Germania e in Polonia migliaia di persone hanno perso tutto quello che avevano, ma grazie agli immediati interventi d'assistenza governativi case e città sono state ricostruite in tempi rapidi con un grande sforzo collettivo. I venti monsonici hanno sommerso buona parte di Mumbai spazzando via le abitazioni di milioni di persone già in condizioni di estrema povertà, ma la vita è continuata e i danni sono stati riparati. A New Orleans, dopo che l'uragano Katrina ha travolto gli antiquati argini della città, insieme con la varietà di agenzie governative e di gruppi di volontariato frettolosamente schierati, sono entrate in azione anche gang di saccheggiatori armati, costringendo il governatore della Louisiana a dichiarare la legge marziale. I residenti della regione hanno imparato nel peggior modo possibile quanto poco conti la loro cittadinanza americanaC5-32. Frodi e speculazioni da parte degli amministratori pubblici hanno raggiunto un ammontare di miliardi di dollari. Solo due settimane dopo Katrina le autorità cinesi hanno usato sms per avvertire in anticipo la popolazione di un'area costiera su cui si stava abbattendo un uragano e prepararla all'evacuazione. Un anno dopo Katrina molte abitazioni erano ancora in rovina, alcune scuole non avevano ancora riaperto e le forniture di energia elettrica erano limitate. È stata una ditta cinese a farsi avanti per la ricostruzione di alcune città del Mississippi i cui abitanti dormivano ancora in tende e roulotte. Se non fossero così allarmanti, i comportamenti socioeconomici degli americani potrebbero indurre al riso. Come in tanti altri paesi è generale la correlazione che lega bassa istruzione, alte diseguaglianze di reddito, bassi standard di vita e propensione al crimine. Si valuta che negli Stati Uniti ci siano tanti affiliati a gang quanti poliziotti (settecentocinquantamila circa). La relazione fra diseguaglianze e omicidi è ferrea: «Una società che tollera l'ingiustizia della presenza di enormi diseguaglianze ne soffrirà quasi inevitabilmente le conseguenze: sarà una società fredda e violenta, connotata più dal senso di ostilità che da quello di ospitalità»C5-33. Se ogni società ha i barbari che merita, come sosteneva Toynbee, viene da pensare che gli americani siano i peggiori nemici di se stessi. Resta un mistero perché gli americani, minacciati nell'incolumità fisica solo all'interno del proprio paese, abbiano bisogno di così tante armi, visto che le usano per uccidersi a vicenda. Non solo molte comunità vivono nella perpetua paura del crimine violento: l'obiettivo primo dello Stato è indirizzato ormai verso la repressione della violenza anziché verso il recupero delle aree sottosviluppate. Al tempo stesso gli Stati Uniti hanno il tasso di carcerazione più alto al mondo, e il numero delle condanne a morte è in crescita. Sono loro, più ancora della Cina, la più grande colonia penale del pianeta. Sommate a quelle eseguite in Iran, Arabia Saudita e Cina, le sentenze di morte americane – odiose agli occhi di buona parte del mondo sviluppato – contribuiscono per l'80 per cento al totale delle esecuzioni al mondo. Del resto gli americani sembrano divertirsi con la morte se inseguimenti di auto della polizia, inquinantissimi sport a motore e sanguinosi
incontri di lotta sono diventati gli spettacoli più seguiti. Per la grande maggioranza dei tedeschi e dei giapponesi vivere come gli americani significherebbe senza dubbio fare un passo indietro, dal momento che sono le loro nazioni le due più ricche e avanzate – e le meno diseguali – al mondo. Già all'inizio del XX secolo il giudice Louis Brandeis della Suprema corte aveva dichiarato che l'America «può avere la democrazia […] oppure un'enorme ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non può avere le due cose insieme». Se all'epoca Tocqueville e Nietzsche avevano messo in guardia sulla naturale degenerazione delle democrazie, dagli anni Novanta del secolo scorso il deterioramento della qualità della vita e della politica negli Stati Uniti ha sollevato interrogativi di fondo sul fatto che la democrazia americana sia o meno in grado di mantenere alcun tipo di ordine sociale degno di rispettoC5-34. Una volta Václav Havel ha osservato che il successo in politica è una questione di tatto e buon gusto. Cosa direbbe della volgarità della politica americana di oggi? La democrazia, negli Stati Uniti, sembra funzionare assai meglio in teoria che in pratica. Allorché guadagnarono influenza a Washington, i politici populisti del Sud vi impiantarono il proprio modo di fare aristocratico, dinastico e orientato al malaffare, nel quale il riconoscimento che viene dal nome importa più di ogni altra cosa C5-35. Dalle cariche federali alle ambasciate all'estero, un presidente incarica e rimuove i suoi uomini come si trattasse di un clan, come un imperatore con la sua corte. Chi abbia realmente vinto le presidenziali del 2000 resterà oggetto di dibattito per anni. Un sistema bipartitico fondato su una divisione geografica del voto tra Stati della costa e Stati dell'interno è la miglior prova che si ignorano meccanismi di coalizione e di condivisione dei poteri; la competizione politica si trasforma allora in uno stallo permanente dominato dai maneggiC5-36. I partiti sono agenzie di fund raising appena coperte da un velo di contenuti, promuovono i candidati non in quanto individui ma come agenti dei loro interessi di carattere societario che hanno un ruolo invisibile nella stesura di leggi chiave come quelle relative al sistema tributario, all'energia, alla sicurezza alimentare e ad altre politiche di pubblico interesse. Se persino in paesi del Secondo Mondo come la Turchia gli alti prezzi del petrolio sono impiegati per finanziare le riserve strategiche, in America sono soprattutto il risultato di colossali raggiri con cui le imprese si assicurano premi di rischio. La gente comune ne paga le conseguenze mentre amministratori e azionisti delle compagnie energetiche si dividono la torta. Gli scandali finanziari che hanno colpito l'impresa americana – con modalità che ricordano quelle degli oligarchi russi – hanno rivelato un sistema di monopolismo capitalistico in cui le distinzioni fra pubblico e privato si assottigliano – e il secondo in genere possiede il primo – fino a diventare un'«elegante fuga dalla realtà»C5-37. I politici che si contendono un bottino economico sempre più magro sono il sintomo diffuso del più generale declino dell'egemonia americana; quando il tasso di corruzione schizza in alto nelle classifiche globali occorre chiedersi se la lealtà dei cittadini sia ancora rivolta alle istituzioni e non piuttosto ai singoli, al progresso oppure al guadagnoC5-38. In Senso Comune, Thomas Paine accusò il sistema di equilibrio costituzionale inglese che teneva insieme monarchia, aristocrazia e Comuni di essere tutto una farsa. Oggi quella separazione dei poteri articolata nella sua forma classica nello Spirito delle leggi di Montesquieu sta diventando merce sempre più rara negli Stati Uniti. Poiché «gli uomini di Stato illuminati non dovrebbero essere sempre al timone», come appuntò James Madison sul «Federalist», il sistema checks and balances è indispensabile. E invece, proprio quando gli Stati Uniti avrebbero dovuto spegnere le ansie del mondo sollevate dal loro eccesso di potere, l'esecutivo ha trascurato l'obbligo alla verità e le limitazioni sancite per legge, indebolendo con ciò il proprio ufficio e il rispetto verso di esso. Che l'America riesca o meno a risollevarsi rispetto al modello di concentrazione del potere nell'esecutivo dell'era Bush, lo stato dei politici americani – come quello della popolazione più in generale – resta motivo di giustificata preoccupazione. Il Patriot Act ha violato cinque dei dieci emendamenti del Bill of Rights: libertà di parola e di riunione, protezione da arresti immotivati, processo nelle forme dovute, pubblico e rapido, protezione da punizioni crudeli e inusitate. La legge è stata approvata dal Congresso, ma l'imponente mole di documenti secretati mostra come l'inclinazione dell'esecutivo alla condivisione di informazioni con il legislativo sia ormai un ricordo del passato. Se anche le prossime amministrazioni invertiranno il corso di queste politiche, il danno è comunque già stato fatto. Dalla glorificazione della potenza militare alla cultura gladiatoria diffusa nello sport, ciò che Polibio
scrisse di Roma si applica benissimo all'America: la ricchezza smodata e la stravaganza conducono al peggiore di tutti i governi, quello di un'élite dominata dalla piazza che non ha altra motivazione che quella di impedire ad altri di prendere le redini. E se il cristianesimo ha portato alla caduta di Roma, non potrebbe accadere lo stesso per l'America? Quella che Reinhold Niebuhr chiamava «la coscienza messianica dell'America» si è indubitabilmente insinuata nella sua politica estera, a scapito di quella competenza strategica sempre prescritta dal realismoC5-39. La santificazione religiosa della politica estera ha determinato una maggiore attenzione retorica verso i diritti umani, la libertà religiosa e i danni delle malattie di massa, ma le politiche seguite a tali ambizioni hanno sortito parecchi effetti meno che quelli desideratiC5-40. Il revival religioso ha scatenato una polarizzazione nazionale e un fenomeno nuovo, il "disilluminismo"C5-41. Mentre i cristiani evangelici guadagnavano terreno nella politica americana grazie all'attivismo sociale di base e ai buchi del bilancio federale, l'islam si è diffuso rapidamente nelle prigioni del paese, con entrambi i gruppi a promettere una comunità eterna formata solo dai loro stessi appartenenti. Quando affrontò il suo ultimo interrogativo, «La storia si ripete?», Toynbee si limitò ad avanzare un'ipotesi: «Non esiste nulla che possa impedire alla nostra civiltà occidentale di seguire le tracce di alcuni precedenti storici, se lo sceglie, commettendo un suicidio sociale», come la civiltà grecoromana che si avviò alla decadenza molto prima di scomparire, elevandosi al rango di «idolo al quale gli uomini tributavano un culto esorbitante»C5-42. Il tratto più distintivo dell'America è stato, sopra gli altri, la capacità di autorinnovamento, di rigenerazione politica, economica e culturale, persino di autocorrezione. Per questo occorre un nuovo consenso interno, ma la combinazione di leader messianici e burattinai delle multinazionali, guerre culturali, paura del mondo esterno e dubbi sulla propria leadership rendono tale consenso assai improbabile. La stessa élite che guida la politica estera americana è completamente scollegata dalle preoccupazioni dei cittadini: la classe politica ha un credo fatto di nuove guerre, libero scambio e immigrazione di massa, mentre la maggioranza degli americani desidera la diminuzione degli interventi militari e dell'assistenza all'estero, restrizioni sull'immigrazione e qualche forma di protezionismo per i posti di lavoro e le industrie americaneC5-43. L'era della Great Society tramontò definitivamente con Reagan per non tornare mai più. L'America ha perduto il suo slancio, e non può invertire la rotta con la sola forza del desiderio – anche perché sembra non sapere più esattamente quello che desidera. Poiché il rinnovamento è fatto in parti uguali di concretezza e di idee, gli Stati Uniti sono una nazione del Primo Mondo che avrebbe bisogno di un Piano Marshall solo per conservare la propria posizioneC5-44. Ma poiché gli americani conoscono pochissimo del mondo che si estende al di là delle loro coste, continuano a pensare che la loro way of life sia lo standard di fatto dell'intero pianeta. Presto potrebbero svegliarsi improvvisamente e accorgersi che il loro standard è più appropriato al Secondo Mondo che non al Primo. Gli Stati Uniti non hanno messo in opera alcuna politica che possa garantire loro di restare una nazione del Primo Mondo: affidano la questione alla sorte e alla globalizzazione. Sono stati un paese profondamente diviso sin dall'inizio dalla geografia, nel quale il Nordest del Primo Mondo ha assorbito le colonie ricche di risorse del Sud. Oggi l'heartland degli Stati Uniti, la zona continentale compresa fra il Mississippi e le Montagne Rocciose, manca degli aeroporti e della base produttiva necessari a farne motore anziché il freno dell'economia nazionale C5-45. Se Silicon Valley è il simbolo del rinascimento high-tech dell'America, Detroit lo è della sua cintura postindustriale arrugginita e condannata all'obsolescenza produttiva, incarnata dalle automobili di bassa categoria che produce – meglio, che producevaC5-46. Se ha perso centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore secondario in favore dei competitor del Secondo e del Terzo Mondo, l'America non ha però generato una più ampia base tecnologica analoga a quella di UE e Giappone che riqualifichi la sua forza lavoro C5-47. Gli Stati più produttivi dell'Europa e dell'Asia orientale hanno rinunciato ai valori anglosassoni dei diritti individuali e del minimo intervento del governo, e gli europei, concentrandosi più sull'occupazione ad alto valore aggiunto e sulla tecnologia anziché sull'immigrazione poco qualificata, sono stati in grado di mantenere alti livelli retributivi pur in presenza di una progressiva automazione dell'economia. Al contrario, molte aziende americane sono prossime a essere messe all'asta, nell'attesa di essere acquistate dagli asiatici o da qualche altra conglomerata estera ricca di liquidità. Gli operai del comparto automobilistico dell'heartland americano ora pregano perché qualche azienda giapponese come Honda apra uno stabilimento nei loro distretti per restituire loro reddito e dignità. Siamo certi che gli Stati Uniti possano
permettersi la globalizzazioneC5-48? La fede cieca dell'America nella sua capacità d'innovazione e nelle virtù del libero mercato può essere pericolosa allorché altri paesi puntano esplicitamente a sfruttare le sue debolezze. Nonostante l'economia americana cresca con l'economia mondiale, il suo relativo declino ha origine in quei paesi del Secondo Mondo che sanno muoversi con abilità maggiore della suaC5-49. Molti concorrenti stranieri pedalano sulla scia degli Stati Uniti, ossia usano l'economia americana come uno spazio in cui investire e le università americane per la formazione tecnologica, fino a che i loro mercati, le loro istituzioni e le loro infrastrutture non saranno in grado di garantire risultati analoghi e riassorbire capitale e talenti esportati negli USA. Di recente le iscrizioni di studenti cinesi negli atenei americani hanno conosciuto un netto calo a causa delle opportunità che si aprono in Europa e nella stessa Cina. Le nazioni del Primo Mondo che si mostrano lente ad adeguarsi al passo della redistribuzione globale del lavoro e dell'investimento sono vulnerabili alla competizione – e potenzialmente al superamento – da parte di quelle del Secondo Mondo. Questa economia mondiale unificata fatta di concorrenza in tutti i settori e in tutte le regioni ha messo in moto un palpabile middling globale, una corsa al centro in cui più paesi che mai convergono verso il Secondo Mondo. L'economia della conoscenza non è più riserva di caccia del Primo Mondo, il che non significa soltanto l'ingresso in questo settore di una forza lavoro a bassa retribuzione, ma anche la delocalizzazione di servizi precedentemente non commerciabili – sviluppo tecnologico, diagnostica medica, business consulting, assistenza legale – in nazioni del Secondo e del Terzo Mondo, dove l'espansione del reddito e dei consumi si sta già facendo sentire sulla disponibilità dei beni primari. Ma poiché nessuno Stato del Secondo Mondo sarà mai disposto a rallentare la crescita sulla base di considerazioni ambientali, l'aumento del prezzo delle risorse naturali giungerà probabilmente a intaccare la crescita di ciascuno. Il Primo, il Secondo e il Terzo Mondo continueranno a esistere: è la loro disposizione mentale a essere già in via di trasformazioneC5-50. Equilibrismi imperiali L'imperialismo, come la leadership, è una questione di equilibrio tra amore e timore. Machiavelli era convinto che i legami della gratitudine si sciogliessero rapidamente quando l'interesse particolare faceva sentire la propria voce: per questo esisteva il "terrore della punizione", che rendeva la paura uno strumento di controllo più potente dell'amore. Se proiettiamo queste considerazioni sul mondo di oggi notiamo facilmente come l'America sia sempre meno amata e sempre più temuta, l'Europa sempre meno temuta e sempre più amata, e la Cina, infine, sempre più amata e sempre più temuta. Nel gioco della geopolitica nessuno è vincitore in partenza: non importa quale sia la potenza al vertice o la sua struttura di governo. La sua essenza supera di gran lunga l'eccezionalismo americano, ossia la convinzione di essere al di sopra dei cicli geopolitici. Solo in America si può sentire l'affermazione per cui gli USA sarebbero come il sole, che dal centro del proprio sistema irradia tutti i pianeti C5-51. Altrove, il preteso eccezionalismo autopromozionale americano è in genere sarcasticamente citato nei termini di una sciocchezza puerile. Non c'è ragione, del resto, per cui altre potenze non dovrebbero pretendere un posto al sole (o il posto del sole) per essere la Ordnungsmacht mondialeC5-52. Per la prima volta nella storia si assiste a un mondo multipolare e multiciviltà fatto di tre diverse superpotenze in concorrenza per risorse sempre più scarseC5-53. Quando ciascuna agisce, crea una propria realtà. Per ciascuna, la mera ragion di Stato è diventata ragione di sistema: la loro più alta moralità è rappresentata dall'estensione del loro nucleo di razionalità e della loro visione di un ordine globaleC5-54. Più l'America si considera eccezionale, più i suoi rivali cercheranno di avanzare le loro pretese di eccezionalismo, naturalmente a sue speseC5-55. La Cina sente benissimo il peso del suo rigoroso rispetto per i principi del diritto internazionale, quali la sovranità e la non interferenza, e l'Europa, di suo, ha un approccio all'ordine mondiale che trascende completamente il sistema interstatale. A suo modo, ciascuna delle tre potenze indebolisce l'architettura della governance globale: a essere messa in crisi è prima di tutto la finzione per cui il diritto e le istituzioni sarebbero sufficienti ad arginare la competizione imperiale. Tre diversi presidenti americani hanno proclamato nel corso del XX secolo la nascita di un nuovo ordine mondiale sotto l'ala di istituzioni condivise C5-56. Lo stesso Toynbee,
all'alba della guerra fredda, sostenne che l'avvento degli arsenali nucleari imponeva una convivenza geopolitica fra Stati Uniti e Unione Sovietica e il rafforzamento del ruolo delle Nazioni Unite. Toynbee credeva che soltanto un governo mondiale in grado di sposare le diverse strutture economiche con le virtù religiose potesse salvare l'umanità, arrivando a dichiarare che occorreva «rinunciare all'idea che il mondo sarà comunque unificato politicamente nel prossimo futuro»C5-57. Come chiarisce Timothy Garton Ash, «il "noi" morale di tutta l'umanità è più importante che mai, ma di certo non è la stessa cosa del "noi" operativo»C5-58. È lecito ritenere che diversi Stati avrebbero continuato a sostenere le Nazioni Unite, pur nella loro imperfezione, come forum comune per una diplomazia autoritativa globale se gli USA avessero fatto lo stesso, ma la voluta elusione del ruolo dell'ONU da parte di questi ultimi ha fornito un'ottima scusa a tutti gli altriC5-59. Gli Stati Uniti, che hanno la responsabilità maggiore nella creazione dell'architettura internazionale del secondo dopoguerra, sono ora lo Stato che più di ogni altro sembra impegnarsi a frammentarla. I doppi standard e l'isolazionismo legalistico hanno contribuito a dissipare l'esemplarità del loro ruolo nella difesa dei diritti umani, così come la mancanza di sanzioni alla guerra preventiva ha appannato l'autorità del Consiglio di sicurezza. Quando gli interessi delle superpotenze entrano in rotta di collisione l'ONU ha dimostrato di essere non meno catastroficamente irrilevante di quanto sia stata la Società delle Nazioni. È diffusa la convinzione che la profonda globalizzazione che lega insieme Stati Uniti, UE e Cina preannunci un mondo di emisferi indipendenti. Data la loro fortunata posizione geografica – a metà fra le regioni settentrionali, ricche di risorse, e le più temperate regioni del Sud –, la priorità reale di ciascuno dei tre imperi consiste nell'istituire e governare nel proprio emisfero pan-regioni autosufficienti dall'Artico all'Antartico, con un nucleo centrale imperiale dal quale dipendono tutti gli altri Stati compresi in quello spazioC5-60. Gli Stati Uniti si affannano a riallacciare le proprie relazioni storiche con l'America Latina in cerca di fonti alternative di energia e di centri di produzione competitivi a basso costo, la UE consolida i legami economici con il mondo arabo per le forniture energetiche, e la Cina si muove sempre più come il principio organizzatore del commercio e della diplomazia in Estremo Oriente; sono queste le pan-regioni che potrebbero cristallizzarsi fino a determinare un confronto globale fra tre isole-mondo che ricorda il paesaggio sinistro prefigurato da Orwell in 1984C5-61. Tutto ciò appare uno scenario ancora ottimistico, giacché per definizione le superpotenze non possono evitare di sconfinare nei giardini altrui, cambiando il planisfero lungo la strada. Come in geologia, si tratta di veri e propri movimenti tettonici che finiscono prima o poi per provocare terremoti, in particolare quando una potenza in ascesa arriva a toccare da vicino la supremazia consolidata della potenza egemoneC5-62. L'unica eccezione a questo processo è data dalla transizione del potere dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti nella prima metà del XX secolo, e anche in questo caso, malgrado l'alleanza e la cultura condivisa, ci vollero due guerre mondiali perché il fenomeno giungesse a compimentoC5-63. Allorché i relativi livelli di potere delle tre superpotenze giungono progressivamente ad avvicinarsi, nel numero due cresce la tentazione di anticipare le cose spingendo il re in carica giù dalla torre, e nel numero uno la motivazione ad attaccare preventivamente il rivale per indebolirlo prima di finire eclissatoC5-64. Come osservò David Hume, «non è la grande disparità tra noi e gli altri a produrre l'invidia, ma al contrario la prossimità»C5-65. Se la frequenza dei contatti fra le tre superpotenze rende più possibile che mai la creazione di una vera società di Stati – ciascun ministro degli Esteri ha il numero del telefono cellulare dei suoi omologhi –, la profonda distanza fra gli interessi fa sì che la creazione di una «cultura di pace» risulti oggi poco meno che un'utopiaC5-66. Con l'inavvertito crescere delle escalation globali crescono anche le potenziali, e sempre più disparate occasioni di conflitto: la corsa alle risorse nel Mar Caspio o nel Mar Cinese meridionale, un'azione di iperterrorismo con l'impiego di armamenti nucleari, un attacco nel Golfo di Aden o nello Stretto di Malacca. Un'altra causa di escalation potrebbe venire dagli incerti allineamenti di potenze di rango inferiore ma di notevole peso come la Russia, il Giappone e l'India. Senza contare che i grandi prestatori esteri degli Stati Uniti potrebbero decidere di staccare la spina per togliere ossigeno alla grand strategy americana, provocando caos economico, ostilità politica e tensione militare. Non dobbiamo dimenticare che la guerra è sempre una grande occasione di affari per il complesso militare-industriale, e trova sempre ampio consenso nei vasti bacini patriottici di ciascuna potenza. Tuttavia la nozione di una concorrenza diretta sino-americana per la leadership del mondo è ancora prematura, poiché in caso di
guerra il vero vincitore sarebbe l'Europa, dove i capitali fuggirebbero come verso un santuario. Sono queste le grandi tensioni in campo nel mondo attuale, con ogni superpotenza che si adopera per conseguire la posizione più vantaggiosa per sé senza essere abbastanza forte da dettare il sistema da sé. La stabilità globale è così sospesa tra l'alfa e l'omega che Raymond Aron ha identificato come «pace legale» e «pace imperiale», la prima inerme, la seconda sempre soggetta agli eccessiC5-67. Storicamente, le successive versioni delle dottrine dell'equilibrio dei poteri e della sicurezza collettiva si sono evolute dalla giustificazione della guerra per il conseguimento del vantaggio strategico all'elaborazione di sistemi volti a evitarla, il primo dei quali nell'età moderna fu il "Concerto europeo" che seguì il periodo napoleonicoC5-68. In quanto dotato di regole precise, esso si configurava già come sistema societario C5-69. Persino quando i tentativi di dare vita a un mondo stabile sono falliti – tale il caso della Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale – si è generata una consapevolezza sistemica per la quale gli Stati (le democrazie in primo luogo) hanno assimilato le lezioni del passato adattandole alle proprie istituzioni per evitare che la storia si potesse ripetereC5-70. Toynbee, del resto, vedeva la storia come un movimento progressivo anziché puramente ciclico, come una ruota, che girando su se stessa si muove in avanti affinché la Civiltà (C maiuscolo) possa civilizzarsi C5-71. Aveva forse dato «troppo credito alla freccia del tempo e non abbastanza ai suoi cicli»C5-72? Gli imperi e le superpotenze, di solito, promettono la pace, ma portano la guerraC5-73. Il momento in cui riconoscere il carattere rivoluzionario della situazione attuale è adesso, prima della prossima guerra mondialeC5-74. E questa prossima guerra mondiale come potrebbe essere evitataC5-75? Esiste una coalizione tripartita in grado di far trionfare la globalizzazione sulla geopolitica: la working class americana sostiene i lavoratori cinesi facendo la spesa da Wal-Mart, mentre la upper class acquista automobili e beni di lusso europei; Europa e Cina comprano tecnologia in America; General Motors e Boeing, e in Europa Airbus devono buona parte dei profitti ai costi ridotti della produzione in Cina – nonché delle vendite in Cina. I mercati dei capitali permettono infiniti profitti per tutti anziché giochi a somma zero. Inoltre, le attuali strategie militari non sono dominate da un "culto dell'offensiva", perché nell'età degli arsenali nucleari sono in pochi a credere davvero che esistano conflitti che si risolvono in rapide vittorie con minime perdite. Il vecchio adagio di A.J.P. Taylor non è mai stato così vero: se l'obiettivo di una grande potenza è di essere capace di combattere una grande guerra, il solo modo per restare una grande potenza è evitare di farlo. Il danno che si può recare a se stessi con un conflitto non è mai stato tanto alto come nel mondo integrato di oggi. Questo mondo tripolare dovrebbe essere pensato come uno sgabello: su due sole gambe non si può reggere, su tre sìC5-76. Attualmente questo sgabello a tre gambe USA-UE-Cina sta traballando, e non c'è dubbio che la nuova strategia globale per permettere alla ruota geopolitica di avanzare abbia un solo nome: equilibrioC5-77. L'equilibrio è dinamico, è per questo assai più difficile da ottenere rispetto all'egemonia senza rivali di un solo attore, ma non di meno rappresenta il prossimo gradino nell'evoluzione dalla legge dell'anarchia a quella della compensazione del potere. La nozione di equilibrio ispira anche una psicologia e un vocabolario più progressisti: l'ordine 'multipolare' che le potenze in ascesa cercano di raggiungere non è la stessa cosa dell'ordine 'multilaterale' richiesto per gestirlo nella pratica. Analogamente, l'idea di checks and balances rimanda a un sistema di prudenti reazioni, mentre quella di 'divisione del lavoro' implica un'azione positiva verso obiettivi comuni. Il concetto di 'prudenza' non si attaglia a impegni conclusi volentieri, quello di 'condivisione degli oneri' sì. La pace, la giustizia e l'ordine possono conseguire solo all'equilibrioC5-78. Fino a ora non è emersa fra le tre superpotenze una visione chiara di un simile concerto delle potenze o di una legittima divisione globale del lavoro – ma tale multilateralismo sarà più una questione di coordinamento imperiale che di risorse erogate da istituzioni comuniC5-79. Una strategia di equilibrio globale trasformerebbe l'attuale transizione del potere da incontro di wrestling fra potenze sospettose a gara ciclistica a squadre in cui ci si alterna alla guida del gruppo in vista del traguardo. Come sperava Toynbee, l'Occidente non è «condannato a fare sì che la storia si ripeta: tocca a noi, con i nostri sforzi, imprimere alla storia movimenti nuovi e mai sperimentati prima»C5-80. Al presente l'espressione "comunità internazionale" è poco più di un eufemismo per riferirsi al predominio occidentale, ma l'Occidente non può aspettarsi alcuna lealtà verso un ordine che si pretende rappresentativo di valori globali stabiliti senza alcun contributo dal resto del mondo. L'America ha invitato la Cina a essere uno
«stakeholder responsabile» all'interno del sistema globale, ma se si considera che quest'ultimo è implicitamente frutto dell'ordine americano le resistenze della Cina diventano più comprensibili. Di certo la Cina non userà il suo enorme peso economico nell'interesse di club antiquati e non rappresentativi come il G8, che ha pure difficoltà ad ammetterla. Ugualmente, se l'efficacia del Consiglio di sicurezza dell'ONU dipende in buona parte dagli Stati Uniti, un ruolo sempre più importante è giocato da Pechino, che può corrompere i membri provvisori perché votino secondo le sue direttive. Senza un'inedita divisione del lavoro le istituzioni occidentali non potranno che decadere davanti alla potenza americana, lasciando campo libero alla classica competizione geopolitica senza nemmeno il velo del coordinamento diplomatico. Se le superpotenze non preferiranno l'adattamento al fondamentalismo perderanno l'occasione di relegare definitivamente la storia al passato. L'equilibrio richiede che Stati Uniti, Unione Europea e Cina scrivano insieme le regole del gioco geopolitico. Proprio come avviene in una famiglia, l'equilibrio comporta un complesso set di codici per addomesticare le relazioni internazionali, e il compromesso è un valore altrettanto cruciale C5-81. Gli incentivi alla creazione di istituzioni pensate appositamente per attenuare il potere di ciascuno ed elevare quello degli altri sono ovviamente difficili da cogliere: gli Stati sono creature egoiste che devono essere convinte di poter risparmiare attraverso collaborazioni che servano i loro interessi. Il punto è che gli Stati Uniti non avrebbero che da guadagnare, in termini d'influenza, a temperare il proprio potere. Il percorso che conduce dal dominio all'autolimitazione passa per la creazione attiva di una «costituzione internazionale» che possa contare su un consenso ampio e ispiri una maturazione collettivaC5-82. Il potere è arginato quando si toccano gli interessi fondamentali di chi lo esercita, non rifugiandosi nell'utopia. Se il «triangolo strategico» USA-URSS-Cina era adatto agli anni Sessanta e Settanta, l'istituzione di un G3 formato da Stati Uniti, UE e Cina sarebbe il forum più appropriato per allacciare relazioni fra le superpotenze in grado di agire in profonditàC5-83. La discussione aperta attorno alle nazioni dove le sfere d'influenza delle potenze si incrociano e si oppongono l'una all'altra, quali il Sudan, l'Iran, l'Uzbekistan o il Myanmar, consentirebbe di ridurre il rango delle differenze che le dividono da strategico a tattico. Un'ampia agenda d'intervento stilata con il contributo di Pechino sarebbe molto efficace a mitigare i sospetti di quest'ultima nei confronti degli USA e a impegnarla in una ricerca delle risorse condivisa con i propri pari. Più si cerca di adottare uno sguardo di lungo periodo, più ci si accorge che i problemi globali ruoteranno attorno alle fonti di energia e all'acqua per uso umano anziché ai calcoli sugli squilibri nella potenza militare e sulle rivalità territoriali. Da questo punto di vista, è evidente come la sua attuale esclusione dalle decisioni dell'Agenzia internazionale per l'energia alimenti nella Cina il sospetto della presenza di una "mano invisibile nell'Occidente" che tiene alto il prezzo mondiale del greggio. I consumatori chiave di energia potrebbero allora stabilire di permettere l'affluenza del petrolio in un libero mercato di compravendita, con conseguente riduzione dei prezzi, anziché assicurarsi contratti blindati con le compagnie statali per difendersi dall'intrusione dei concorrentiC5-84. Il mondo del XX secolo appare così complesso e imprevedibile che persino il genio scientifico Stephen Hawking è apertamente incline al pessimismo: «In un mondo piombato nel caos politico, sociale e ambientale è in grado la razza umana di durare altri cento anni?». È una domanda che ricalca l'ammonizione di Hans Morgenthau, il pioniere realista secondo cui «lo scientismo ha lasciato un uomo arricchito della padronanza tecnica della natura inanimata, ma impoverito della sua ricerca di una risposta all'enigma dell'universo e della propria esistenza in esso»C5-85. Avanzare prognosi su di un mondo di disseminazione del potere e di imperi in competizione è una sfida enorme, ma Morgenthau non aveva dubbi su questo: la globalizzazione (lo «scientismo» di oggi) non riuscirà, da sola, ad avere la meglio sui cicli geopolitici delle guerre mondiali, perché questo compito richiesto dalla storia attuale impone qualcosa in più della fede cieca nella razionalità. Al contrario, proprio la storia prova che l'umanità molto spesso è tutto meno che razionale, soprattutto nei momenti in cui la razionalità sarebbe la virtù più indispensabileC5-86. Il mutamento del corso futuro delle cose richiede invece una profonda conoscenza delle dinamiche politiche del Secondo Mondo, una comprensione precisa e reciproca fra le superpotenze e un'arte di governo proattiva e sensibile in grado di generare e mantenere la stabilità fra esse. Gli accademici e gli ex funzionari governativi non sono mai stati a corto di acronimi che ne
rappresentassero le grandi visioni di gestione dell'ordine globale; il punto è che la realtà sembra avere un'opinione differenteC5-87. Un'evoluzione delle leggi e dei codici internazionali che non preveda la guerra sarebbe certamente più utile alle grandi potenze, ma, come recita l'aforisma del drammaturgo Bertolt Brecht, «la guerra è come l'amore, trova sempre un modo per farsi strada»C5-88. L'umanità potrà progredire sistemicamente fin dove è progredita psicologicamente. La diplomazia, scrisse Sir Harold Nicholson, «è il governo delle relazioni internazionali per via di negoziato» C5-89. La guerra, in questo senso, non è la continuazione della politica con altri mezzi, quanto la cessazione del negoziato C5-90. Un secolo fa la globalizzazione fu sconfitta dalla geopolitica. Ne seguì la prima guerra mondiale. La domanda è se la storia si ripeterà a un secolo di distanza, e la risposta ancora non ci è nota, perché dove il Secondo Mondo determina sia la geopolitica che la globalizzazione, la diplomazia diventa sempre più un'arte.
Ringraziamenti Arnold Toynbee restò soggiogato dall'esperienza del suo viaggio intorno al mondo: «Semplici parole di ringraziamento», scrisse, «sono inadeguate». Il miglior modo di mostrare la nostra gratitudine sarà di mettere concretamente a frutto tutto ciò che abbiamo imparato grazie all'aiuto disinteressato che ci è stato offerto da un gran numero di persone in tutto il mondo. Il ricordo di questa gentilezza è la parte più preziosa del bagaglio mentale che abbiamo riportato indietro con noi». Mettersi a caccia delle tendenze globali viaggiando intorno al mondo non è qualcosa che uno possa fare da solo. Un amico saggio una volta mi disse che «le vere intuizioni vengono dalla lettura, dalla solitudine, dalla riflessione e dai viaggi». Bisogna aggiungere che la verifica delle idee che sorgono durante un viaggio è impossibile senza la generosità e la competenza delle innumerevoli persone che si incontrano lungo la strada. Io sono onorato che questo libro possa servire come veicolo per diffondere la loro saggezza. Grazie a Ian Bremmer, il carismatico fondatore di Eurasia Group, mi sono potuto giovare dell'altissimo livello di expertise del suo gruppo di analisti provenienti da ogni parte del mondo. In particolare sono grato a Tanya Costello, Kaan Nazli, Preston Keat, Patrick Esteruelas, Allyson Benton, Christopher Garman, Geoff Porter, Rochdi Younsi, Peter Khalil, Simon Kitchen, Ben Faulks, Wolfango Piccoli, John Green, Ross Schaap, Sijin Cheng, Erik Tollefson, Robert Herrera-Lim, Bruce Klingner e Amitabh Dubey. Ugualmente mi sono avvalso dell'International Crisis Group e della sua ben meritata fama in fatto di analisi e proposte di grande acume. Il suo presidente Gareth Evans e il suo folto staff sono stati preziosi per questo progetto, e in particolare James Lyon, Sabine Freizer, David Lewis, Michael Hall, Shirin Amirkyzy, Markus Schultze-Kraft, Karim Sadjadpour, Hugh Roberts, Joost Hiltermann, Samina Ahmed, Sidney Jones e Francesca Lawe-Davies. Per l'assistenza nell'analisi dell'Europa orientale sono particolarmente grato a Robert Cooper dell'Unione Europea, che ha generosamente condiviso con me il suo tempo e le sue idee, come pure ai suoi colleghi Riina Kionka, Jukka Leskala e James Moran. Manfred Stinnes, Frank Umbach, Alexander Rahr, Nadia Verjee, Joelle Fiss, Ann Mettler, Sebastian Kaempf, Agnes Gilka-Boetzow, Ulrike Guerot e Dan Dombey che sono stati altrettanto ricchi di spunti di riflessione. Ringrazio anche i membri del Global Atlanticists group della Friedrich Ebert Stiftung, e specialmente Thorsten Benner, Arnd Henze, Derek Chollet, Julianne Smith e Michael Haltzel. Intuizioni, commenti e correzioni molto utili sono venuti da Paddy Ashdown, Lane Greene, David Young, Neil Pyper, Aidan Manktelow, Giri Jadeja, Alex Wooley, Masha Rosner, Colin Temme, Tom Weston, Tom Melia, Andy Cohen, Rob Sobhani, Larry Wohlers, Matt Bryza, Cliff Gaddy, Bogdan Tereschenko, Anatole Faykin, Eric Johnson, John Brown, Taras Kuzio, Richard Byrne, David Philips, Charles King, Hugh Pope, Mark Nichols, Jennifer Long, Stephen Kinzer, Omer Taspiner, Warren Valdmanis, Eric Green, Cory Welt, Jan Neutze, Soner Cagaptay, Trevor Gunn, Diego Osorio, Bob Simmons, Hamid Ladjevardi, Matt Spence, Ron Asmus, Ronald Steel e Richard Giragosian. Mentre percorrevo l'Europa orientale sono stato splendidamente assistito da Arnoldas Pranckevicus, Ramunas Vilpisauskas, Giedrimas Jeglinskas, Kostiantijn
Kononenko, Viktor Nikitiuk, Rostislav Pawlenko, Alexander Gladskij, Igor Dir, Volodijmir Makukha, Dimitri Kiselev, Yulia Mostova, Varvara Zhluktenko, Yulia Borisova, Kostiantijn Kvurt, Vlada Tkach, Mikolai Churijlov, Olga Sych, Vitalij Sych, Vera Nanivska, Valerij Chaly, Hrihorij Nemyria, Christoph Saurenbach, Tim Fairbank, David Dettman, John Herbst, Juhani Grossman, Olya Smirnova, Inna Bogoslovska, Yulia Volosevych, Sara Pfaffenhofer, Katja Ardanyan, Gesine Stern, Rostislav Gavrilov, Yuri Arabski, Karl Wolfram, Sasa Rikanovic, Jadranka Jelincic, Nenad Djurdjevic, Srdjan Cvijic, Ivana Aleksic, Ivan Vejvoda, Bozidar Djelic, Timothy Collins, Jasna Matic, Andrew Vonnegut, Tanja Miscevic, Zeljko Komsic, Ognian Zlatev, Fekri Shaban, Tugba Kalafatoglu, Murat Ucer, Soli Ozel, Cengiz Candar, Yilmaz Argueden, Suzan Benmayor, Hasan Cemal, Erkan Keremoglu, Edip Baser, Ali Babacan, Youssuf Alsharif, Suat Kiniklioglu, Roger Rigaud, Georgi Baramidze, Zurab Nogaideli, Giorgi Sumbadse, Avto Svadnize, Zeno Reichenbecher, David Absesadze, Alexander Rondeli, Theresa Freese, Tinatin Khidasheli, Elizabeth Owen, Elin Suleymanov, Ingrid Gossinger, Berit Linderman, Dennis Sammut, Jehangir Hajiyev, Lynn Sferrazza, Vafa Gulizade, Elman Salayev, Florian Schroeder, Elmar Jabarov, Fariz Ismailzade, Mehrnaz Davoudi, Ulvi Ismayil, Jyoti Swaroop Pande, Betty Blair, Dallas Frohrib, Leila Aliyeva e Lynn Sferrazza. Un grazie speciale per la loro calda ospitalità va a Eugenia Klochko, Nenad Rava, Robert e Helena Finn, Mark Simakovskij, Sasha Bruce, Taleh Ziijadov e Thomas Goltz. Per le loro significative indicazioni sull'Asia centrale sono grato a James Millward, Daniel Burghart, johannes Linn, Olya Oliker, David Hoffman, Barney Rubin, Roman Vassilenko, Murad Sharapov, Nurzhan Zhumbakov, Kevin Jones, Anders Aslund, Zeyno Baran, Chris Seiple, Bill Maynes, Ethan Wilensky Lanford, Xenia Dormandy, Dan Markey, Steve Cohen, Evan Feigenbaum, Judi Kilachand, Bama Athriya, Nicholas Swanstrom, Sartaj Aziz, e specialmente a Matthew Oresman. Mentre viaggiavo in quella regione ho imparato parecchio da Andrew Wilson, Berik Otemurat, Fabrizio Vielmini, Josh Machleder, Alexander Sosnin, Assel Rustemova, Oraz Jandosov, Azamat Ablazimov, Kasymzhomart Tokayev, Murat Auezov, Yerbol Suleimenov, Meiirzhan Mashan, Adil Abishev, Azamat Abdymomunov, Nikolay Kuzmin, Kadyr Toktogulov, Nicolas Ebnother, Rosa Oltambaeva, Edil Baissalov, Shakirat Toktosunova, Elbek Khojayev, Catherine Eldridge, Susan Carnduff, Farkhad Tolipov, Jeff Erlich, Steve Labensky, Jon Purnell, Ulugbek Ishankhodjaev, Abdujabar Abduvakhitov e Ulugbeck Khasanoff. Da neofita dell'America Latina sono molto grato per l'assistenza a Moises Naim, Carlos Lozada, Javier Corrales, Kai Poetschke, Bill Hinchberger, David De Ferranti, Hernando de Soto, Shahnaz Radjy, Meredith Davenport, Maria Hutcheson, Timothy O'Neil-Dunne, Jan Boyer, Andres Oppenheimer, Jenny Caplan, Jose Yunis, Juan Enriquez, Hillary Batjer-Johnson, Erica Breth, Moises Benamor, Michael Shifter, Lorena Barbaria, Gilberto Dupas, Paulo Roberto de Almeida, Rubens Barbosa, Eiiti Sato, Amado Cervo, Shepard Forman, David Henschel, Nathalie Cely, Cecelia Zarate, Maria Teresa Petersen, Peter Schechter, Blas Pérez Henríquez, Sylvie Naville, Joerg Schimmel, Pedro Burelli, Michael Penfold, Dante Pesce, Steve Reifenberg e Katty Kauffman. Durante il mio viaggio in Sudamerica ho avuto la fortuna di incontrare Alesia Rodriguez, Toby Bottome, Asdrubal Baptista, Carlos Romero, Phil Gunson, Lorenzo Mendoza, Alejandro Plaz, Juan Forero, Michael Rowan, Brian Ellsworth, Ramon Espinasa, Steve Ambrus. Mike Ceaser, Andrea Armeni, Cristina Lleras, Miguel Silva, Luis Guillermo Plata, Camilo Reyes Restrepo, Alberto Gan Sarmiento, Mike McCullough, Ricardo Avila, Jhoney Baracolo, Paula Boyce Castro, Charles Tang, Marina Stabile, Eliana Cardoso, Philip Yang, Nicolas Ducote e Juan Tokatlian. Allan Oliver ha svolto ricerche eccellenti e approfondite per le quali gli sono molto grato, e julia Sweig è stata un tutor paziente e attivo. Il background essenziale sul mondo arabo mi è stato fornito da Ken Pollack, Tamara Cofman Wittes, Jeremy Shapiro, Shibley Telhami, Ammar Abdulhamid, Afshin Molavi, Nir Rosen, Jeremy Greenstock, Erik Petersen, Tarik Yousef, Yvonne Haddad, Dan Byman, John Esposito, Jon Alterman. Haim Malka, Charles King Mallory, Herro Mustafa, Alyse Nelson Bloom, Shamil Idriss, Lisa Anderson, Colin McCullough, Mohammed Alami, Sherif El Diwaney, Daniel Davies, Ayham Ammora, Cathy Bellafronto, Bill Dowell, Marin Strmecki, Ellen Jermaine, Brian Katulis, Nick Snyder, Michael Totten, Abdelwahab El-Affendi, Dan Runde, Tim Pounds, Randa Fahmy-Hudome, Ali Aujali, Mahmoud Shammam, Joe Saba, David Goldwyn, Scott Anderson, Steven Cook, Ed Girardet, Karim Chrobog,
Alex Fox, Aaron Miller, Helima Croft, Maria Alzahrani-Sturgis, Ghassan Salame, Sogand Zamani, Fadi Elsalameen, Emile El-Hokayam, Karim Kawar, Ziad Abdelnour, Hady Amr, Michael Rubin, Katherine Brown, Carol O'Leary, Faiz al-Gailani, Qubad Talabani, Heyrsh Abdul, Babak Yektafar, Jared Cohen, Najmeh Bozorgmehr, Negar Azimi, Ellen Laipson, Shereen El Felci, Robin Wright, Mahmood Sariolghalam, Anoush Ehteshami, Nail al-Jubeir, Karthik Nagarajan e Mark Gerson. Durante il mio viaggio in quell'area ho grandemente beneficiato delle riflessioni di Saleh Abdulsalam Saleh, Hasouna Shawsh, Mohamed Taher Siala, Rajab M. Shiglabu, Greg Berry, Ethan Goldrich, Elizabeth Fristschlee, Ethan Chorin, Taher Ahmed Aboulkassim, Mustafa Onallah, Abdalla Othman Aburrahim, Salem Hamza, Ismail Serageldin, Karim Abdel Monem, Seif Fahmy, Hasan Abdalla, Dalia Abdel Kader, Michael Slackman, Karim Haggag, Abdel Monem Said Aly, Samer Shehata, Saad Eddin Ibrahim, Scott Macleod, Barry Iverson, Ezzat Ibrahim, Michael Corbin, Roger Kenna, Amany Asfour, David Selman, Max Rodenbeck, Asmaa Shalabi, Christine Spolar, Hemy Abouleish, Blake Hounshell, Josh Stacher, Bassem Awadallah, Fouad Ghanma, Marwan Jamil Muasher, Stephen Rivers, Emile Cubeisy, Khaldoon Tabaza, Sharif Al Zu'bi, Laith Arafeh, Sami Al-Jundi, Ziad Abu Amr, Akram Baker, Michael Tarazi, Marwan Aburdeneh, Mounir Kleibo, Jonathan Lincoln, Guy Raz, Rami Khoury, Michael Young, Gregory Marchese, Maha al Azar, Matt Pilcher, Juliet Wurr, Ryan Gliha, Muhamad Mugraby, Habib Malik, Hassan Fadlallah, Hisham Kassab, Oussama Safa, Paul Salem, Kate Brooks, Kaelen WilsonGoldie, Irina Prentice, Joe Koayess, Katherine Zoepf, Diane King, Nabil Abou Charaf, Falah Mustafa Bakir, Rawand Darwesh, Sarko Mahmoud, Mohammad Sadik, Mohammed Ihsan, Aumeed Nouri Amin, Jawhar Sourchi, Bayan Sami Abdul Rahman, Khaled Salih, Abdul Kader Mustafa, Hassan Fattah, Nasser Saidi, Tamur Goudarzi-Pour, Anthony Shadid, Jamil El Hage, Michel Costandi, Sumant Sareen, Abdul Aziz al Sager, Christian Koch, Sunil John, Daria Prentine, Dergham Owainati, Roger Clayton, Maggie Steber, Alex Fowler, Lucy Martens, Ali Solaimani, Oula Ghawi, Khalil Matar, Siobhan Leyden, James Reardon-Anderson, AbdulAziz al-Mahmoud, Elan Fabbri, Cherif e Lynn Hassouna, Richard Neu, John Lochner, Muna AbuSulayman e Mohammed Khaled al-Faisal. Devo ringraziamenti molto speciali a Bryan Gunderson e Karim Makdisi. Le seguenti persone mi hanno offerto eccellenti chiavi di lettura degli affari dell'Asia orientale: Frank Richter, Ramesh Thakur, Elizabeth Economy, Pamela Mar, Bill O'Chee, Frank Blithe, Cobb Mixter, Michael Kulma, Anwar Ibrahim, Paul Frandano, Pranay Gupte, Yuan-Kang Wang, Jeff Bader, Richard Bush, James Clad, Ziad Haider, Roger Mitton, Ernie Wilson, Pietra Rivoli, Siddharth Mohandas, Karan Khemka e particolarmente Banning Garrett. Mentre percorrevo la regione sono stato aiutato nella sua comprensione da Varun Vig, Cheryl Mainland Hall, Cheong Yip-Seng, Penny Low, WaiChiew Chik, Eric Teo, Wayne Arnold, Siew Hoon Yeoh, Bontosoglou Vassilis, Bertrand Fort, Chua Chim Kang, Michael Vatikiotis, Simon Tay, Geoff Wade, Tommy Koh, Koh Buck Song, Tan Tai Yong, Amitav Acharya, Rohan Gunaratna, John Harrison, Christoph Marcinkowski, Haseenah Koyakutty, Christopher Roberts, Rajeev Sawhney, Manjeet S. Pardesi, Kwa Chong Guan, RK Mishra, Raja Mohan, Shelley Thakral, Alex Perry, Gautam Adhikari, Rahul Singh, Sundeep Waslekar, Rich Howard, John Boomgard, Hadi Soesastro, Rizal Sukma, Bantarto Bandoro, Umar Hadi, M.C. Abad, Nono Makarim, Hasmy Aham, Emile Yeoh, Chandran Jeshurun, Khairy Jamaluddin, Justin Leong Ming Loong, Jawhar Hassan, Abdul Razak Baginda, Surin Pitsuwan, Emile Yu, Crystal Mo, Zhao Huasheng, Wu Xinbo, Pan Guang, Fang Xing-Hai, Stefan Donle, Fan Gang, Evan Osnos, Joshua Cooper Ramo, Eric Hagt, Wu Baiyi, He Fan, Wang Shuo, Huang Shan, Wu Jianmin, Qin Min, Hans Au, Rafael Wober e Jennifer Welker. Ringraziamenti molto speciali perla loro personale cortesia e sostegno a Kishore Mahbubani, Umej Bhatia, Daniel A. Bell, Kim Beng Phar e Jeremy Jurgens. Da quando questo progetto è cominciato, le distinzioni tra giorno e notte e tra lavoro e piacere hanno smesso di esistere, rafforzando il potere senza età del viaggio. Tuttavia l'appartenenza alla diaspora indiana mi ha dato il vantaggio davvero speciale del costante nutrimento culturale e culinario quando ne avevo più bisogno. Per questo motivo sono estremamente grato ai miei amati parenti Sharat e Rashmey Seth, Manoj e Mala Chawla e Arun e Sunita Seth. I viaggiatori legano fra loro più in fretta di altre categorie. Ho avuto il piacere di compagnie veramente stimolanti in diverse frazioni dei miei viaggi. Jan-Philipp Goertz, un inveterato globetrotter, è stato un caro amico in quasi ogni continente, e la sua spontaneità è stata una risorsa importantissima
in Ucraina, Tanzania ed Egitto. Sebastian Strassburg, un incorreggibile gentiluomo e avventuriero, è stato il compagno ideale per il «Rally Bosnia-Baku». È stato un onore per me essere il suo navigatore. Joel DeCastro in Giordania e Louise Brown in Libia hanno arricchito le mie esperienze con le loro missioni uniche. I miei nuovi amici tibetani Gamba e Losang mi hanno condotto sulla nostra comune montagna sacra, e per migliaia di chilometri lungo la frontiera più accidentata del mondo. Non fosse stato per la School of Foreign Service della Georgetown University non avrei mai imparato la geopolitica con il professor Charles Pirtle. Durante i miei studi universitari e di specializzazione a Georgetown, i docenti, che non mi hanno mai fatto mancare il loro aiuto in tutte le fasi della mia sperimentazione intellettuale, sono stati per me guide e fonti di ispirazione. Il preside Robert Gallucci e il professor Michael Brown, in particolare, mi hanno incoraggiato dall'inizio. A Thomas Banchoff, Dan Nexon, Sally Ann Baynard e Michael Mazaar devo sia un insegnamento metodologicamente rigoroso che l'apertura di vasti orizzonti interdisciplinari. Il rettore della Georgetown University, Jack DeGioia, mi ha introdotto alla filosofia nel modo più piacevole e senza esitare ha offerto il suo sostegno personale a questa mia impresa. Doug Shaw mi ha dato un entusiasmo memorabile e utilissimi contatti in ogni angolo del pianeta, e per entrambe le cose gli sono profondamente grato. Jennifer Ward, Scott Fleming e Lauren Rivkin mi hanno messo a disposizione l'enorme archivio degli alumni della Georgetown. Il World Economic Forum di Ginevra, in Svizzera, è un'istituzione unica in cui l'espressione global thinking ha un significato autentico, sia in teoria che in pratica. Sotto la guida di Rick Samans e dei colleghi Sven Behrendt, Sean Cleary, Lee Howell e Thierry Malleret, sin dal 2000 ho potuto godere pienamente di quello speciale posto di osservazione che è il Forum, con il suo incrocio di competenze pubbliche e private e la sua volontà di prevedere un futuro incerto. A tutti loro vanno i miei sinceri ringraziamenti. La potenza di fuoco intellettuale delle comunità dei think-tank di Washington non è seconda a nessun'altra al mondo, ed è stato un privilegio per me essere membro della Brookings Institution e della New America Foundation dopo il mio ritorno a Washington, nel 2002. Alla Brookings, Strobe Talbott, Jim Steinberg, Fiona Hill e soprattutto Ann Florini sono stati guide di valore incalcolabile per definire i contorni di questo progetto e sposarlo con tutte le sue pertinenze in materia di governo. La New America Foundation persegue senza timore la sua missione di sfidare il sapere acquisito e di esplorare il mondo da angolature non convenzionali. Sono grato a Ted Halstead, Steve Clemons, Sherle Schwenninger, Rachel White e Simone Frank per avermi accolto tra loro e avermi dato un sostegno costante durante i lunghi mesi del mio viaggio. Nella fase finale della stesura di questo volume Ned Hodgman, Michael Lind e Barry Lynn sono stati un controcanto ideale, permettendomi di rifinire e correggere i miei pensieri grazie al loro enorme sapere. Alex Konetzki mi ha fornito un eccellente feedback su diversi capitoli e si è ammirevolmente sobbarcato il peso di una «sfacchinata imperiale». Danielle Maxwell, Leila Saradj e Jeff Meyer si sono spesi con gentilezza tra le biblioteche di Washington, dotandomi di libri fino al limite fisico e legale. Il manoscritto di questo volume è stato completato prima dell'inizio della mia attività di consulente delle United States Special Operations Forces, e non riflette in alcun modo il punto di vista del governo degli Stati Uniti né di nessuno dei suoi funzionari. Pico Iyer e Robert Kaplan, due psicanalisti rinomati nel mondo, il primo da un punto di vista spirituale, il secondo strategico, spiccano come due mentori perenni. Sono stati il modello perfetto di ruolo non intrusivo, miei corrispondenti per quasi un decennio e fonte costante di sapere per il loro impegno a ritrarre il mondo come incarnazione fisica delle idee. Sono qui a ringraziarli per un'affinità che va molto al di là delle prospettive di questo libro. Non potrò mai ringraziare abbastanza tanti cari amici che hanno accettato la parte di e-friends per la maggior parte degli ultimi due anni. Jeremy Goldberg ha dato a questo progetto la spinta più essenziale: la prima. La mia équipe cosmocratica di esperti composta da Rana Sarkar e Vijay Vaitheeswaran mi ha fornito un incentivo costante fatto di alte aspettative e di fermento di idee senza fine. In tutti i sensi Richard Ponzio, Maria Figueroa, Greg Lucas, Tom Sanderson, Eliza Griswold, David Rice, Paul Roberts, Lyndsay Howard, Verena Ringler, Lawrence Groo, Raj Kumar e Ben Skinner sono stati una
stimolante fonte di energia e di intuizioni di prima mano. Gli «Shakti All-Stars» sono gli amici più fidati e leali che uno possa sperare di avere: Anna Beauregard, Alex e Samar Bloomingdale, Colin Browne, Justine Graham, Yasmin Ibrahim, Shilpa Mo-han e Brooks Rosenquist. Un gruppo di amici che mi è molto caro è andato ben oltre il senso del dovere nell'accogliere il mio lifestyle di perenne ospite, dandomi calore e conforto emotivo durante le mie brevi visite a casa. Per tutto questo e per tanto altro sono grato a Willy Pell, Krishna Kumar, Farah Pandith, Peter e Susan Singer, Joy de Menil e Laird Reed, Kate Taylor, Jim Clippard, Natasha Kohne, Karima Sagrani e Gaurav Burman, Swathi Kappagantula, Asad Naqvi e Ayesha Kaljuvee. Mi sento di ringraziare senza risparmio il mio agente, Jennifer Joel di International Creative Management, stratega a tutto tondo e amica molto fidata, come pure Katie Sigelman, per aver investito il loro tempo e la loro energia in me e per avere convinto Random House ad accettare la mia proposta senza neppure un capitolo di prova. Gli incoraggiamenti che mi hanno fornito hanno dato un nuovo significato ai viaggi che avevo già compiuto e a tutto il lavoro che era ancora da fare. Gli editor sono per un autore quello che allenatori e istruttori sono per un atleta e un artista. Sebbene abituato a lavorare con intelletti di ben altro livello, Will Murphy ha dato prova di grande pazienza e della giusta dose di mano ferma per contenere quello che cominciava a essere un manoscritto intollerabilmente voluminoso. Helen Conford di Penguin UK ha completato il mio dream team con il suo acuto senso di ciò che fa un buon libro. Claire Tisne, Nicole Bond, Lea Beresford e Joelle Dieu di Random House si sono spesi in generosi contributi promozionali. Questo libro è stato scritto ovunque io potessi trovare un attimo di quiete: remoti angoli della Cina, camere con aria condizionata a Dubai, gli altipiani della Patagonia e lunghi voli intercontinentali. Ogni volta che era possibile ho tuttavia cercato di scrivere nell'abbraccio della famiglia più premurosa che potessi sperare di avere. I miei genitori, Sushil e Manjula Khanna, sono sopravvissuti a incendi e inondazioni senza mai venir meno all'essere genitori perfetti, mentre mio fratello Gaurav, mia cognata Anuradha e mia nipote Anisha sono stati una costante fonte di gioia. Mio papà, in particolare, ha letto diverse volte ogni capitolo, senza mai stancarsi di tutte le riscritture e trovando sempre nuovi errori e modi per migliorare il testo. Sono grato a loro per sempre.
Bibliografia • • • • •
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I-1 Michael Doyle definisce un impero come «un sistema d'interazione fra due entità politiche, una delle quali, la metropoli dominante, esercita il controllo politico sulla politica interna ed estera – ossia la sovranità effettiva – dell'altra, che costituisce la periferia subordinata» (Michael Doyle, Empires, Ithaca, NY, Comell University Press, 1986, p. 12). Una concisa rassegna accademica delle teorie dell'ascesa e del declino degli imperi in Alexander Motyl, Imperial Ends: The Decay, Collapse, and Revival of Empires, New York, Columbia University Press, 2001. Gli imperi sono simbiotici e predatori al tempo stesso, nel senso che drenano risorse e diffondono prosperità. Inoltre impongono le proprie leggi e la propria cultura e si incaricano di formare i talenti che vengono dalle periferie, stabiliscono gli standard commerciali per i propri mercati, producono tecnologia all'interno dei propri confini per proteggersi dal controllo esterno delle risorse. Quando gli imperi crollano, nuovi imperi nascono sulle loro ceneri. Come scrive Robert Kaplan «fin dall'antichità il collasso degli imperi ha sempre comportato disordine, e il miglior antidoto al caos scatenato in tali occasione è stato la nascita di nuovi domini imperiali (Robert Kaplan, Imperial Grunts: The American Military on the Ground, New York, Random House, 2005, p. 7). I-2 Vedi "Who Will be Independent?", in No More States? Globalization, National Self-Determination, and Terrorism, a cura di Richard N. Rosecrance e Arthur A. Stein, Lanham, MD, Rowman & Littlefield, 2006. I-3 Charles Maier definisce l'impero come «una struttura di dominio estesa territorialmente» che assoggetta «diversi gruppi etnolinguistici» ed è generalmente governata da un'autorità esecutiva e da élite associate (Charles Maier, Among Empires: American Ascendancy and its Predecessors, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2006). Vedi anche Martin W. Lewis – Karen E.Wigen, The Myth of Continents: A Critique of Metageography, Berkeley, CA, University of California Press, 1997. Toynbee scrisse che le civiltà, nella loro ascesa e caduta, «si irradiano e si diffondono», incontrandosi nello spazio e nel tempo con quelle che vengono dopo di loro. L'assimilazione della Grecia da parte di Roma, i contatti fra le civiltà araba, persiana e indiana, la renaissance dell'ellenismo nel tardo Medioevo italiano sono altrettanti esempi di quello che Toynbee chiamò il processo di «apparentamento-affiliazione» tra una civiltà al tramonto e un'altra che sta nascendo. Per un approccio alla politica mondiale in termini di civiltà vedi Samuel Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon & Schuster, Inc., 1996 [Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997]. I-4 Alexander Wendt ha sostenuto che la formazione di uno Stato planetario sarà inevitabile in ragione del principio teleologico autoorganizzativo di un sistema in cui il numero di unità politiche significative è in costante diminuzione (Alexander Wendt, "Why a World State is Inevitable", in «European Journal of International Relations», vol. 9, n. 4, 2003, pp. 491-542). I-5 Allo stesso modo per cui la storia è sempre scritta dal vincitore, lo studioso Kenneth Waltz ha notato che «la teoria della politica internazionale è scritta dalle grandi potenze in campo» (Kenneth Waltz, Theory of International Politics Reading, MA, Addison-Wesley, 1979, p. 73) [Teoria della politica internazionale, Bologna, il Mulino, 1987]. I-6 Robert Gilpin nota che «nessuno Stato ha mai completamente controllato un sistema internazionale» (Robert Gilpin, War and Change in World Politics, Cambridge, UK, Cambridge University Press, 1981) [Guerra e mutamento nella politica internazionale, Bologna, il Mulino, 1989]. I-7 John Maynard Keynes, The Economic Consequences of the Peace, New York, Harcourt, Brace and Howe, 1920, pp. 14-15 [Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007]. I-8 La geopolitica è sempre stata governata dalle potenze dell'emisfero settentrionale, i cui imperi hanno dominato i territori di quello meridionale, dall'America Latina all'Africa, all'Australia e all'Oceania. Nel corso degli ultimi cinquecento anni gli imperi del Nord si sono divisi il pianeta, e alla fine del XIX secolo erano state piantate bandiere in ogni angolo della Terra, senza un solo spazio bianco sulla mappa. Toynbee ha concisamente descritto una tale conquista della geografia notando che «il nostro know-how occidentale ha unificato il mondo intero, nel senso letterale dell'intera faccia della Terra abitabile e percorribile» [Arnold Toynbee, Civiltà al paragone, Milano, Bompiani, 1998]. All'epoca, l'espansione esterna corrispondeva al consolidamento interno, e la geopolitica coincideva con la politica interna, sotto la guida dell'Occidente. I-9 Kenneth Waltz nota che «come la natura aborrisce il vuoto, così la politica internazionale aborrisce gli squilibri di potere» (Kenneth Waltz, "Structural Realism after the Cold War", in «International Security», vol. 25, n. 1, 2000, p. 28). I-10Una superpotenza svolge un ruolo dominante nella propria regione ed è in grado di perseguire sul piano globale i propri interessi. Come afferma Paul Bracken il potere è «l'abilità di produrre eventi sulla scena mondiale» (Paul Bracken, Fire in the East: The Rise of Asian Military Power and the Second Nuclear Age, New York, HarperCollins, 1999) [Fuochi a Oriente. L'ascesa del potere militare asiatico e la seconda era nucleare, Milano, Corbaccio, 2001]. L'hard power riguarda l'esercizio della forza militare, di forme di intimidazione e coercizione a essa correlate e la conclusione di relazioni militari e di contratti di forniture belliche; il soft power riguarda l'influenza economica e quella acquisita tramite il commercio e l'assistenza internazionale, l'accrescimento della cooperazione diplomatica attraverso la conclusione di trattati, patti e organizzazioni, o ancora l'integrazione sociale favorita dalle migrazioni e da altre forme di scambio culturale. Vedi David A. Lake, "Hierarchy in International Relations: Authority, Sovereignty, and the New Structure of World Politics", University of California at San Diego, 2005 (working paper non pubblicato); Joseph Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004 [Soft power. Un nuovo futuro per l'America, Torino, Einaudi, 2005]. I-11Analogamente, Thomas Barnett invita gli Stati Uniti a svolgere il ruolo di «Gap Leviathan», di 'Leviatano delle lacune', sulla base del presupposto per cui le soluzioni ai problemi regionali elaborate da Washington sarebbero preferibili a quelle conseguenti ad approcci collettivi o locali (Thomas Barnett, The Pentagon's New Map: War and Peace in the TwentyFirst Century, New York, Putnam Publishing Group, 2004). I-12John J. Mearsheimer, "Back to the Future: Instability in Europe After the Cold War", in «International Security», vol. 15, n. 4, 1990, pp. 5-56.
I-13Josef Joffe, "'Bismarck' or 'Britain'? Toward an American Grand Strategy after Bipolarity", in «International Security», vol. 19, n. 4, 1995, pp. 94-117. I-14Secondo Samuel Huntington è la creazione della UE, e non l'ascesa della Cina, a rappresentare il passo più significativo verso una coalizione globale antiegemonica – leggi: antiamericana – (Samuel Huntington, "The Lonely Superpower", in «Foreign Affairs», marzo-aprile, 1999). Vedi anche Barry Buzan, The United States and the Great Powers: World Politics in the Twenty-ftrst Century, Cambridge, UK, Polity Press, 2004, pp. 125-126 [Il gioco delle potenze. La politica mondiale nel XXI secolo, Milano, Università Bocconi, 2006]. I-15Richard Rosecrance, The Rise of the Trading State: Commerce and Conquest in the Modern World, New York, Basic Books, 1986, pp. 17-18. I-16Per una discussione dei termini "superpotenza", "grande potenza" e "potenza regionale" vedi Barry Buzan, The United States and the Great Powers, cit. Una breve critica della gerarchia delle relazioni internazionali in "A geopolitical detective story", in «The Economist», 3 gennaio 1998. I-17Una lettura delle diverse forme di equilibrio hard, soft e asimmetrico nel mondo post guerra fredda in Balance of Power: Theory and Practice in the 21' Century, a cura di T.V. Pauljames J. Wirtz e Michel Fortmann, Palo Alto, CA, Stanford University Press, 2004. I-18Johanes Mattern, Geopolitik: Doctrine of National Sufficiency and Empire, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1942. I-19Fra i più celebri scritti di Mackinder, "The Geographical Pivot of History", in «Geographical Journal», vol. 23, 1904, pp. 421-437; Democratic Ideals and Reality: A Study in the Politics of Reconstruction, Londra, Constable Publishers, 1942; "The Round World and Winning the Peace", in «Foreign Affairs», luglio 1943. I-20Attualmente le teorie geopolitiche tendono a combinare l'originale visione olimpica della dinamica spazio-potere con un più moderno e altamente quantitativo calcolo del potere, misurando tanto la polarità (il numero dei centri di potere) quanto la concentrazione (la distribuzione del potere). La teoria della stabilità egemonica sostiene che la sola potenza dominante all'interno del sistema, quali furono Roma o la Gran Bretagna, governa la disponibilità globale di denaro, materie prime e produzione, in particolare quella dei beni più redditizi, e che inoltre controlla una solida gestione dell'economia globale e fornisce servizi come la protezione delle rotte commerciali. In presenza di eccessiva estensione all'estero e di declino economico interno, tuttavia, questa potenza egemonica non può governare all'infinito il sistema che sostiene, finché non è sostituita da un'altra potenza – in genere dopo una guerra di grandi dimensioni. Vedi Robert Gilpin, War and Change in World Politics, cit.; The Political Economy of International Relations, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1987 [Politica ed economia delle relazioni internazionali, Bologna, il Mulino, 1990]. Anche per Gilpin lo Stato e il mercato sono i due principi organizzatori della società internazionale. La world-system theory si concentra a sua volta sul ruolo della potenza egemone e dei suoi alleati nel dominio dell'economia capitalista mondiale, integrando però le divisioni verticali tra Stati in conflitto con la nozione di frattura orizzontale tra classi economiche. Questa rivisitazione marxista del problema sostiene che il nucleo del Primo Mondo, la semiperiferia del Secondo Mondo e la periferia del Terzo Mondo sono separate non dal peso dell'arretratezza, ma dalle ricadute dello sfruttamento operato all'interno di una squilibrata divisione globale del lavoro. Non soltanto la modernizzazione, dunque, ma anche l'autonomia dalle strutture egemoniche di controllo sono i soli mezzi per sfuggire al destino di periferia e avvicinarsi al nucleo centrale. Al tempo stesso, essendo i cicli egemonici una conseguenza di quelli economici, l'erosione del dominio economico della potenza egemone, e persino il suo potenziale arretramento dal nucleo centrale alla periferia, possono essere previsti con decenni d'anticipo; vedi Thomas R. Shannon, An Introduction to the World-System Perspective, Boulder, CO, Westview Press, 1989. In buona parte la world-system theory si fonda sulle tesi esposte da Immanuel Wallerstein nei tre volumi del suo The Modern World-System, San Diego, CA, Academic Press, 1974-1989 [Il sistema mondiale dell'economia moderna, Bologna, il Mulino, 19781995]. Una terza scuola di geopolitica, contraddistinta da due varianti note come long-cycle theory e long-wave theory, sottolinea l'importanza del potere marittimo e dell'innovazione commerciale nei settori economici chiave e la loro unione nelle mani di un'unica «potenza mondiale». Negli ultimi mille anni la corona di potenza egemone si è in questo senso spostata verso ovest, dalla Cina dei Sung ai mongoli, poi ai moghul, agli ottomani, alle città-Stato italiane, alla Spagna, al Portogallo, ai Paesi Bassi, alla Gran Bretagna e infine agli Stati Uniti, ciascuno dei quali ha sempre conosciuto fasi di egemonia ascendente, affermazione, maturità e declino; vedi George Modelski – William R. Thompson, Leading Sectors and World Powers: The Coevolution of Global Economics and Politics, Columbia, SC, University of South Carolina Press, 1995; Karen A. Rasler – William R. Thompson, The Great Powers and Global Struggle 1490-1990, Lexington, KY, University Press of Kentucky, 1994; John Agnew – Stuart Corbridge, Mastering Space: Hegemony, Territory and International Political Economy, Londra, Routledge, 1995. La più recente filiera della cosiddetta "geopolitica critica" mette in discussione la tradizionale ontologia spaziale delle altre teorie, sottolineando come lo Stato non sia che una forma di organizzazione politica, e che le risorse possono essere accumulate al di là della naturale dotazione di uno Stato. Per la geopolitica critica le forze simboliche, ivi comprese le recenti forme di soft power, sono valide tanto quanto quelle materiali: non è mai esistita una sola e unica forma di potere, e gli imperi hanno sempre unito le proprie declinazioni di potere in differenti combinazioni. Vedi Gearoid O'Tuathail, Critical Geopolitics: The Politics of Writing Global Space, Londra, Routledge, 1996. I-21Arnold Toynbee, Civilization on Trial, cit., pp. 8-9. I-22Con una definizione tecnica si può dire che la globalizzazione comprende tutte le interazioni transfrontaliere: economiche, politiche e culturali. Vedi Peter Marber, "Globalization and its Contents", in «World Policy Journal», inverno 2004-2005, p. 29. I-23Per una discussione della teoria delle dinamiche di sistema e della complessità vedi Robert Jervis, System Effects: Complexity in Political and Social Life, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1997, capitolo 1. I-24Per semplificare, l'antitesi fra geopolitica e globalizzazione può manifestarsi nei termini di dominio contro integrazione, conflitto contro cooperazione, gerarchia contro rete, politica contro economia, pessimismo contro ottimismo, fatalismo
contro convinzione nel progresso. Nel linguaggio della teoria dei giochi la geopolitica richiama le diserzioni e i tradimenti del passato (o che almeno al passato si spera siano relegati), mentre la globalizzazione pone l'accento sulla speranza di interazione e interdipendenza crescenti. In termini freudiani potremmo attribuire alla geopolitica e alla globalizzazione il ruolo dei due desideri che coesistono nell'uomo, quello per il dominio (thanatos, l'istinto di morte) e quello per la pace (eros, l'istinto ad amare). Solo la globalizzazione è ritenuta una grande teoria onnicomprensiva allo stesso livello della geopolitica, nonché l'unico antidoto contro l'infezione millenaria trasmessa all'organismo del mondo dal virus della geopolitica. I-25Globalization: What's New?, a cura di Michael M. Weinstein, New York, Columbia University Press, 2005. Il curatore, peraltro, non mostra alcuna specifica preferenza per una delle diverse definizioni di globalizzazione. I-26Pietra Rivoli, The Travels of a T-Shirt in the Global Economy: An Economist Explores the Markets, Power and Politics of World Trade, Hoboken, NJ, John Wiley Sons, Inc., 2005 [I viaggi di una T-shirt nell'economia globale. Mercato e politica nel mondo del commercio, Milano, Apogeo, 2006]. I-27Michael Doyle, "Kant, Liberal Legacies, and Foreign Affairs (parte I e II)", in «Philosophy and Public Affairs», vol. 12, n. 3-4, 1983, pp. 205235; Bruce Russett, Grasping the Democratic Peace: Principles for a Post-Cold War World, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1992; Debating the Democratic Peace, a cura di Michael Brown, Sean Lynn-Jones e Steven Miller, Cambridge, MA, MIT Press, 1996. I-28Richard Rosecrance, The Rise of the Virtual State: Wealth and Poverty in the Coming Century, New York, Basic Books, 2000. I-29David Rothkopf, "Values Conundrum: Will the U.S. and China Play by the Same Rules?", in «The Washington Post», 11 luglio 2005. I-30Deepak Lal, In Praise of Empires: Globalization and Order, New York, Palgrave Macmillan, 2004. I-31Vedi Michael Doyle, Empires, cit., p. 71. I-32Arnold Toynbee, Civilization on Trial, cit. I-33Il più recente resoconto dello U.S. National Intelligence Council (Mapping the Global Future, Washington, DC, U.S. National Intelligence Council, 2005) pone la questione in termini secchi: «La nostra cartografia mentale del mondo nel 2020 sarà radicalmente mutata: le vecchie categorie di Est e Ovest, Nord e Sud, allineati e non allineati, sviluppati e in via di sviluppo diventeranno obsolete. I tradizionali raggruppamenti geografici perderanno d'importanza nelle relazioni internazionali. Il mondo degli Stati e quello delle mega-cities, legate dai flussi delle telecomunicazioni, del commercio e della finanza, si troveranno a coesistere. La concorrenza per la lealtà sarà più aperta, meno stabile che nel passato». I-34Arnold Toynbee, East to West: A Journey Round the World, New York, Oxford University Press, 1958, p. 199. Si tratta ovviamente di una teoria fortemente intrisa di psicologismo, e l'antropomorfizzazione degli Stati prende corpo all'interno di una teoria delle relazioni internazionali. Il modello stesso di Stato-attore, ricorrente nella dominante teoria della rational-choice, prevede che le nazioni agiscano in base alla massimizzazione del valore propria dell'homo oeconomicus. Come scrive Robert Keohane la razionalità è però «una semplificazione della realtà teoreticamente utile più che il vero riflesso di essa» (Robert Keohane, After Hegemony: Cooperation and Discord in the World Political Economy, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1984, p. 108). Negli anni Quaranta Hans Morgenthau affermò che «la filosofia del razionalismo ha frainteso la natura dell'uomo, la natura del mondo sociale e la natura della ragione stessa. Essa non vede che la natura dell'uomo ha tre dimensioni: biologica, razionale e spirituale. Trascurando gli impulsi biologici e le aspirazioni spirituali dell'uomo sbaglia nell'interpretare la funzione svolta dalla ragione nel complesso dell'esistenza umana, distorce i problemi dell'etica, nel campo politico soprattutto, e piega le scienze naturali a strumento di salivazione sociale che non si adatta né alla loro natura né alla natura del mondo sociale» (Scientific Man vs Power Politics, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1946, p. 5) [L'uomo scientifico versus la politica di potenza, Roma, Ideazione, 2005]. La razionalità risulta attraente per gli scienziati sociali perché consente loro di presumere che le identità siano fisse, che ogni persona pratichi un analogo calcolo costi/benefici e che sulla base di questo si prendano le decisioni fondamentali, confermandone il potere predittivo. Vedi Jonathan Mercer, "Rationality and Psychology in International Politics", in «International Organization», vol. 59, 2005, pp. 77-106. I-35Quello che vale per l'anima umana così come è descritta da Socrate nella Repubblica di Platone, ossia divisa in tre parti – l'eros del desiderio, il thymos della superbia e il nous della ragione – vale in buona parte anche per le nazioni. Tucidide scriveva che quello che motiva una società sono la paura, l'onore e l'interesse; Pericle disse agli ateniesi che stavano combattendo per l'immortalità. Riflettendo sull'evoluzione del proprio pensiero strategico, il grande storico militare inglese Basil Liddell Hart giunse a una conclusione simile: «Ero abituato a pensare che le ragioni delle guerre fossero prevalentemente economiche. Quindi arrivai a stabilire che fossero più che altro psicologiche. Ora comincio a credere che tali cause siano decisamente "personali", che sorgano dai vizi e dalle ambizioni di coloro che hanno il potere di influenzare il corso delle nazioni». I-36Alexander Wendt, Social Theory of International Politics, Cambridge, UK, Cambridge University Press, 1999, p. 194 [Teoria sociale della politica internazionale, Milano, Vita e pensiero, 2007]. Wendt sostiene anche che gli Stati siano agenti-organismi della cognizione collettiva che sopravanzano la singolarità degli individui compresi in essi. Altrove inoltre spiega che «gli Stati si comportano in modo diverso con gli amici e con i nemici perché i nemici costituiscono una minaccia, gli amici no. Ma l'anarchia e la distribuzione del potere non bastano a spiegare chi siano gli uni e chi gli altri» ("Anarchy is what States make of it: The social construction of power politics", in «International Organization», vol. 46, n. 2, 1992, pp. 396-397). I-37Vedi Abraham H. Maslow, "A Theory of Human Motivation", in «Psychological Review», vol. 50, 1943, pp. 370-396. I-38Parecchi studiosi, fra essi Amartya Sen – e gli estensori dello Human Development Report 2002: Deepening Democracy in a Fragmented World, New York, United Nations Development Program, 2002 – ritengono la democrazia di per sé un elemento di salute e di sostenibilità politica e socioeconomica.
I-39Robert Chase, Emily Hill e Paul Kennedy hanno identificato nove Stati del mondo che potrebbero collettivamente sostenere una robusta e globale presenza americana, considerando soprattutto quegli Stati nei quali è in corso una gara diplomatica fra le tre superpotenze – cioè non tanto gli Stati filo- o antiamericani, ma quelli potenzialmente suscettibili di schierarsi con UE e Cina. Naturalmente le dinamiche intraregionali rivestono una grande importanza sul modo in cui un'intera regione si relaziona con queste tre superpotenze; vedi Pivotal States and U.S. Policy: A New Strategy for U.S. Policy in the Developing World, a cura di Chase, Hill e Kennedy, New York, W.W. Norton & Company, 1999. I-40Fu il demografo francese Alfred Sauvy a coniare l'espressione "Terzo Mondo" nel 1952, affermando che «questo ignorato, sfruttato, umiliato Terzo Mondo, come il Terzo Stato, vuole diventare qualcosa». Come i contadini francesi prima della Rivoluzione, il sottoproletariato globale delle società povere ha resistito a tutte le modernizzazioni, dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica. Il termine, dunque, implica un elemento non di progresso, ma di espropriazione. Il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru lo raccolse poi per identificare e dare voce alle nazioni già marginalizzate che avevano scelto di non allinearsi né con l'Occidente né con l'Unione Sovietica durante la guerra fredda. Negli anni Settanta il Terzo Mondo fu l'alfiere del Nuovo ordine economico internazionale, che avrebbe dovuto portare a una più equa redistribuzione economica comprensiva di ridislocazione di industrie dal Nord al Sud, prezzi di favore per le esportazioni dei paesi in via di sviluppo, tariffe più basse e un sostanzioso programma alimentare internazionale. Il Movimento dei non allineati non ebbe però altro risultato che quello di cristallizzare l'irrilevanza geopolitica del Terzo Mondo (il suo attuale successore è costituito dal gruppo del G77 all'interno delle Nazioni Unite). Il geografo Saul Cohen definì l'America meridionale e l'Africa come il «quadrante della marginalità», a causa della loro esclusione dall'economia globale. Attualmente il Terzo Mondo comprende l'America centrale e i Caraibi, le regioni andine e interne dell'America meridionale, il grosso dell'Africa e dell'Asia meridionale, parti del mondo arabo, gli Stati della fascia meridionale dell'Asia centrale e diversi paesi del Sudest asiatico – in buona parte al di fuori dei grandi incroci geostrategici nei quali si annoverano i paesi del Secondo Mondo. Vedi Mohammed Ayoob, The Third World Security Predicament: State Making, Regional Conflict, and the International System, Boulder, Lynne Rienner Publishers, 1995; Stephen D. Krasner, Structural Conflict: The Third World Against Global Liberalism, Berkeley, CA, University of California Press, 1985. I-41Sulle divergenze e la mobilità fra l'alto e il basso nell'ordine economico internazionale come esito della globalizzazione vedi Branko Milanovic, Worlds Apart: Measuring International and Global Ineguality, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2005 [Mondi divisi Analisi della disuguaglianza globale, Milano, Bruno Mondadori, 2007]. I-42Una misura di progressione lungo la scala della modernità è fornita dal criterio di stateness, o statualità. La statualità implica la capacità di uno Stato di esercitare il proprio potere, dalle funzioni elementari (beni pubblici, diritti di proprietà, difesa) a quelle intermedie (risoluzione dei problemi esterni, educazione, regolazione, sicurezza sociale) fino ai ruoli più attivi (politica industriale, redistribuzione della ricchezza); vedi Francis Fukuyama, State-Building: Governance and World Order in the 21st Century, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2004 [Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Torino, Lindau, 2005]. Quarant'anni fa, Samuel Huntington osservò che «la più importante differenza politica fra le nazioni non riguarda la loro forma di governo, bensì il loro grado di governo. Le differenze tra una democrazia e una dittatura sono inferiori a quelle tra una nazione la cui politica incarna consenso, comunità, legittimazione, organizzazione, efficacia e stabilità e una nazione la cui politica manca di queste caratteristiche» (Samuel Huntington, Political Order in Changing Societies, New Haven, CT, Yale University Press, 1968) [Ordinamento politico e mutamento sociale. Analisi dei fattori di crisi del sistema e delle soluzioni possibili, Milano, Franco Angeli, 1975]. I-43Adam Przeworski – Fernando Limongi, "Modernization: Facts and Theories", in «World Politics», vol. 49, n. 2, 1997. Secondo le parole di Seymour Martin Lipset, «più agiata è una nazione, maggiori saranno le sue possibilità di permettersi una democrazia». I-44Come avverte il National Intelligente Council, Global Trends 2015, «se anche la maggior parte del mondo diventasse più ricca, la globalizzazione scuoterà comunque profondamente lo status quo, generando enormi convulsioni economiche e culturali, e conseguentemente politiche». I-45Nicholas Spykman, The Geography of the Peace, New York, Harcourt Brace and Company, 1944, p. 41. I-46Le regioni possono essere definite come zone geografiche all'interno delle quali le nazioni possiedono un'interdipendenza tale da distinguerle, nel complesso, da altre regioni; ogni regione è parte delle dinamiche collettive del sistema mondiale, e al tempo stesso si relaziona con esse. Vedi Barry Buzan, The United States and the Great Powers, cit., capitolo 15. 1-1 Barry Buzan – Ole Waever, Regions and Powers: The Strutture of International Security, Cambridge, UK, Cambridge University Press, 2003, capitolo 11; John J. Mearsheimer, "Back to the Future: Instability in Europe After the Cold War", in «International Security», vol. 15, n. 4, 1990, pp. 5-56; John O'Loughlin, "Ordering the 'Crush Zone': Geopolitical Games in Post-Cold War Eastern Europe", in Geopolitics and Globalization: The Changing World Political Map, a cura di Nurit Kliot e David Newman, Londra, Frank Cass Publishers, 1999. 1-2 Ralf Dahrendorf, Reflections on the Revolution in Europe, New York, Crown, 1990 [1989: riflessioni sulla rivoluzione in Europa. Lettera immaginaria a un amico di Varsavia, 1990, Roma-Bari, Laterza, 1990]. 1-3 Gli Stati erano Cipro, la Repubblica Ceca, l'Estonia, l'Ungheria, Lettonia, la Lituania, Malta, la Polonia, la Slovacchia e la Slovenia. 1-4 Secondo gli scettici, l'ascesa della UE sarebbe in balia di una Costituzione che determina il diritto di voto, i contributi di bilancio e il ruolo del presidente e del ministro degli Esteri comuni. Questi nodi interni in realtà possono ritardare l'unità europea, ma non impedirla, e per la ragione ironica che il sistema federativo europeo è di per sé già un successo nella risoluzione delle controversie per come è attuata dalla Corte europea di giustizia e da altri corpi. L'idra dell'Unione ha più capitali e più centri di potere; quasi ottocento parlamentari corrono fra Bruxelles, Strasburgo e il Lussemburgo, e la Commissione Europea riunisce già le politiche dell'Unione in più di una ventina di settori diversi. Sta affermandosi una
semplice dichiarazione di principi che disegna i ruoli di un presidente e di un primo ministro, facendo in modo che una Costituzione sia poco più che la ciliegina sulla torta. 1-5 Per Malcolm Anderson, le frontiere esterne dell'Europa si sono allargate con la stessa rapidità con cui sono crollate le sue barriere interne (Malcolm Anderson, Frontiers: Territory and State Formation in the Modern World, Cambridge, UK, Polity Press, 1996, pp. 178-191). 1-6 Graham Bowley, "EU turns its attention and resources to East", in «International Herald Tribune», 18 luglio 2005. 1-7 La logica economica che stava dietro l'esclusione dalla UE delle più povere nazioni dell'Est – gli standard retributivi troppo bassi – è stata capovolta, e ora è usata come argomento per accelerarne l'integrazione, giacché una volta entrate esse devono adeguarsi ai più alti livelli del costo del lavoro in Occidente, frenando così la fuga degli investimenti esteri dai paesi occidentali. 1-8 Una conseguenza imprevista della rapida industrializzazione dell'Europa orientale è stata il rallentamento della riduzione complessiva di emissioni di gas serra da parte dei paesi dell'Unione. 1-9 Ann Mettler, "A Two-Speed Europe, At Last", in «Wall Street Journal Europe», 9 giugno 2005. 1-10Come nota Robert Cooper, «La UE postmoderna offre un modello di impero cooperativo, libertà comune e sicurezza comune senza la dominazione etnica e l'assolutismo centralizzato cui gli imperi del passato sono stati soggetti» (Robert Cooper, "The new liberal imperialism", in «The Guardian», 7 aprile 2002). Sedgwick un secolo fa aveva già scritto che l'esempio di Roma provava che «non l'impero, ma la federazione è il vero passo politico verso un sistema cosmopolita […] con le sue leggi etiche al posto del nostro sistema nazionale con le sue leggi individualistiche». 1-11Secondo la lettura che ne dà Franklin Foer, questo fenomeno appare evidente nel caso di grandi club come l'FC Barcelona, che si considera senza dubbio superiore alla maggior parte delle squadre straniere ma senza alcun retrogusto politico di dominio (Franklin Foer, How Soccer Explains the World: An Unlikely Theory of Globalization, New York, Harper Collins, Inc., 2004) [Come il calcio spiega il mondo. Teoria improbabile sulla globalizzazione, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007]. 1-12La UE può ricordare l'istituto romano della foederatio (federazione), con l'aggiunta del sapore neomedievale della compresenza di autorità sovranazionali, nazionali e regionali. Funziona di fatto come una repubblica composita con separazioni verticali e orizzontali fra i poteri. Vedi Andrew Moravcsik, "Despotism in Brussels? Misreading the European Union", in «Foreign Affairs», maggio-giugno 2001; T.R. Reid, The United States of Europe: The New Superpower and the End of American Supremacy, New York, Penguin Press, 2004; Ole Waever, "Imperial Metaphors: Emerging European Analogies to Pre-Nation State Imperial Systems", in The Geopolitics of Post-Wall Europe: Security, Territory and Identity, a cura di Ola Tunander, Pavel Baev e Victoria Ingrid Einagel, Londra, Sage Publications, 1997. 1-13Richard Rosecrance, "Mergers and Acquisitions", in «The National Interest», estate 2005. Vedi anche Robert J. Lieber, The American Era: Power and Strategy for the 21st Century, Cambridge, Cambridge University Press, 2005; Chris Patten, Cousins and Strangers: America, Britain and Europe in a New Century, New York, Times Books, 2006. 1-14Timothy Garton Ash sostiene che i valori e le convinzioni di americani ed europei siano sovrapponibili per circa l'85 per cento, e che anche i più accesi fra gli antiamericani europei «misurano l'America in rapporto alla loro alta idea dell'Europa» (Timothy Garton Ash, Free World, New York, Random House, 2005, p. 216) [Free world. America, Europa e il futuro dell'Occidente, Milano, Mondadori, 2005]. 1-15R. Nicholas Burns, "A Renewed Partnership for Global Engagement", nota allo European Institute Annual Gala Dinner, Washington, DC, 15 dicembre 2005. Spiega Garton Ash (Free World, cit., p. 7) che in diplomazia "amicizia" è il nome dato alle «relazioni fra uomini e donne di Stato e, per estensione simbolica biunivoca, a quelle fra gli Stati che rappresentano». Come sottolinea Christopher Coker, la stessa pretesa alterità filosofica tra la visione del mondo hobbesiana degli americani e quella kantiana degli europei non fa altro che dimostrare che gli uni come gli altri rappresentano ugualmente l'Occidente, e le discrepanze riguardano i mezzi, e non i fini, dell'uso della forza coercitiva; vedi Empires in Conflict: The Growing Rift Between Europe and the United States, Whitehall Paper 58, Londra, Royal United Services Institute, 2003. 1-16Robert Kagan, "Power and Weakness", in «Policy Review», giugno 2002. 1-17T.R. Reid, The United States of Europe, cit. 1-18Vedi Josef Joffe, Oberpower: The Imperial Temptation of America, New York, W.W. Norton & Company, 2006, capitolo 3; Jeremy Rifkin, The European Dream: How Europe's Vision of the Future is Quietly Eclipsing the American Dream, New York, Penguin Press, 2004 [Il sogno europeo. Come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Milano, Mondadori, 2004]. 1-19Arnold Toynbee, Civilization on Trial, cit., p. 41. 1-20European Defense Integration: Bridging the Gap Between Strategy and Capabilities, Washington, DC, Center for Strategic and International Studies, 2005; Seth G. Jones, The Rise of European Securìty Cooperation, Cambridge, UK, Cambridge University Press, 2006. 2-1 Circa queste ultime due aree vedi la parte seconda. 2-2 Rosemary S. Mapes, Russian Nationalism and Russian Historiography, 1725-1854, Washington, DC, Georgetown University Press, 1961; The Slave Soul of Russia: Moral Masochism and the Cult of Suffering, New York, New York University Press, 1995. 2-3 Dmitri Trenin, "Russia Leaves the West", in «Foreign Affairs», luglio-agosto 2006; The End of Eurasia: Russia on the Border Between Geopolitics and Globalization, Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace, 2002. Come nota Alexander Muzykantsky, «la confusione ideologica delle élite è stata il marchio distintivo del continuum mentale della Russia dopo il crollo dell'Unione Sovietica» ("A Yardstick for Russia", in «Russia in Global Affairs», III/3, 2005). 2-4 La Russia è il primo produttore mondiale di gas naturale e il secondo produttore di petrolio. 2-5 Andrew E. Kramer – Steven Lee Myers, "Workers' Paradise is Rebranded as Kremlin, Inc.", in «The New York Times»,
24 aprile 2006. 2-6 Anders Aslund, "The Hunt for Russia's Riches", in «Foreign Policy», gennaio-febbraio 2006; David Hoffman, The Oligarchs: Wealth and Power in the New Russia, New York, Public Affairs, 2003. 2-7 Steven Lee Myers, "In Russia, the New Year's Holiday Becomes a Long Winter's Nap", in «International Herald Tribune», 8 gennaio 2007. 2-8 Molti russi ritengono che Putin sia stato costretto contro la sua volontà a stringere nel Cremlino la centralizzazione dello Stato a causa della debolezza della democrazia dell'era Eltsin, che non riuscì a impedire né la crisi finanziaria del 1998 né il bombardamento della Serbia, alleata della Russia, da parte della NATO, determinando una domanda di leadership forte e di stabilità. Malgrado ciò, resta ugualmente valida oggi l'osservazione espressa da George Kennan nel 1947: «Il processo di consolidamento politico non è mai stato completato, e gli uomini del Cremlino non hanno mai smesso di essere prioritariamente impegnati dalla lotta per rendere sicuro e assoluto il potere che hanno preso nel novembre del 1917» (George Kennan, "The Sources of Soviet Conduct", in «Foreign Affairs», luglio 1947). 2-9 Andrei Illarionov, "A Long-Term Project for Russia", in «Russia in Global Affairs», 111/3, 2005; Vladimir Mau, "Lessons from the Spanish Empire", in ibidem. 2-10Keith C. Smith, "Gaz Promises", in «Georgetown Journal of International Affairs», inverno-primavera 2007, pp. 51-58. 2-11Rajan Menon – Alexander J. Motyl, "The Myth of Russian Resurgence", in «The American Interest», primavera 2007. 3-1 Roosevelt e Churchill cedettero definitivamente a Stalin regioni già sotto controllo sovietico durante le trattative svolte nella residenza zarista di Yalta, in Crimea, nel 1945. 3-2 Nel 1991, scrive Anne Reid, «gli ucraini hanno ottenuto l'indipendenza per default. In tanti la sognavano, ma nessuno se l'aspettava, e di certo nessuno vi era preparato» (Anne Reid, Borderland: A Journey Through the History of Ukraine, Boulder, CO, Westview Press, 1997, p. 217). 3-3 Alla serie di sfavorevoli condizioni di partenza – un'industria pesante improduttiva, un ceto contadino demoralizzato, la divisione fra l'Est e l'Ovest del paese e la generale incompetenza della classe dirigente – si aggiungevano un governo inefficace e frantumato, piani insufficienti di riforma, una corruzione dilagante e l'apatia generale. Tutte insieme, queste condizioni formavano «un sistema logicamente coerente nella sua rassegnazione alla stagnazione e nella resistenza al cambiamento» (Alexander Motyl, "Ukraine, Europe and Russia: Exclusion or Dependence?", in Ambivalent Neighbors: The EU, NATO and the Price of Membership, a cura di Anatol Lieven e Dmitri Trenin, Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace, 2003, p. 19). 3-4 Lucan Way definisce il sistema di Kučma come «autoritarismo competitivo», nel quale istituzioni informali di clientela consentono ai rivali in campo di accumulare capitale e lealtà fino a poter sfidare l'autorità pubblica (Lucan Way, "Kuchma's Failed Authoritarianism", in «Journal of Democracy», 16 febbraio 2005). 3-5 Rudolf Kjellen, Die politische Probleme des Weltkriege, Lipsia, 1916. 3-6 Come spiega Andrew Wilson, questa percezione è dovuta al fatto che i russi sono ancora portati a credere che l'antica Rus' persista come un'unica nazione (Andrew Wilson, The Ukrainians: Unexpected Nation, New Haven, CT, Yale University Press, 2000). 3-7 Michael Meyer, "Ukraine: Stranded Between Two Worlds?", in «World Policy Journal», primavera 2005. 3-8 Vasilij Aksènov, The Island of Crimea, New York, Vintage, 1984, p. 40 [L'isola di Crimea, Milano, Mondadori, 1988]. 3-9 Gli Stati Uniti hanno imparato la stessa lezione. I migliori democracy trainers dello staff del National Democratic Institute (NDI) americano si sono rivelati essere attivisti provenienti da paesi che avevano appena conosciuto processi di transizione, compresi paesi fallimentari o bloccati. Già nel 1992 l'NDI ha inviato operatori bulgari nello Yemen e in Indonesia e operatori filippini nello Zambia. Attualmente lo staff NDI è ampiamente multinazionale. 3-10Pamela Hyde Smith, Moldova Matters: Why Progress is Still Possible on Ukraine's Southwestern Flank, Washington, DC, Atlantic Council of the United States, 2005. 3-11Timothy Garton Ash, citato in Slavenka Drakulic, Café Europa: Life After Communism, Londra, Penguin Books, Ltd., 1996 [Caffè Europa, Milano, il Saggiatore, 1997]. 4-1 Citato in Nicholas Wood, "Can an Iron Fist Put Power in Bosnia's Hands", in «The New York Times», 5 novembre 2005. 4-2 Jack Snyder, From Voting to Violence: Democratization and Nationalist Conflict, New York, W.W. Norton & Company, 2000; Post-Soviet Political Order: Conflict and State-Building, a cura di Barnett Rubin e Jack Snyder, Londra, Routledge, 1998. 4-3 Non sempre il nazionalismo balcanico è stato causa di quegli autentici mal di testa geopolitici sperimentati recentemente. Durante gli oltre tre decenni della leadership di Josip Broz Tito la Iugoslavia fu una specie di mini-Unione Europea non allineata e con un buon livello di reddito, composta da sei repubbliche multietniche che si servivano della medesima moneta. Dal punto di vista diplomatico godeva di una sovranità sufficiente a renderla parte contraente di più trattati internazionali di quasi ogni altra nazione al mondo. E persino dopo la morte di Tito, nel 1980, una presidenza assegnata a rotazione all'interno della federazione ha continuato, nonostante tutto, a governare per un decennio. 4-4 "The Inflexibility Trap: Frustrated Societies, Weak States, and Democracy", in «Undp Issues Paper», United Nations Development Program, Bratislava, 2002. 4-5 Malgrado la struttura economica e demografica simile a quella della Polonia, la Romania non confina con la Germania e per questo è stata oggetto di scarse attenzioni da parte della UE all'inizio degli anni Novanta. I giovani romeni, come i loro coetanei del Nordafrica, non mostrano alcun interesse a restare in patria. Mentre gli scambi della Polonia hanno letteralmente registrato un'inversione a U, assestandosi su un 70 per cento con l'Europa e sul 3 con la Russia, gli uomini forti alla guida della Romania hanno governato a colpi di decreti d'emergenza e con uno stile populista latinoamericano, facendo tornare il paese a uno stadio di agricoltura di sussistenza e inchiodandolo al rango di maggiore società contadina europea. Al tempo stesso gli emarginati nomadi di etnia rom, relegati per generazioni in accampamenti fatiscenti,
possono ora aspirare a un ruolo nella società grazie alla leggi antidiscriminazione della UE e a programmi di assistenza sociale. Vedi Tom Gallagher, "Ceausescu's Legacy. Threats to Romania's Internal Security", in «The National Interest», estate 1999; Georges de Menil, "History, Policy and Performance in Two Transition Economies: Poland and Romania", marzo 2002; Nations in Transit: Romania Country Report 2005, Freedom House, 2005; Alina M. Pippidi, "The Unbearable Lightness of Democracy", (non pubblicato); Charles King, "The Europe Question in Romania and Moldova", in Ambivalent Neighbors, cit., p. 247. 4-6 Un millennio fa Bulgaria e Serbia si confrontavano per il dominio della regione, prima di soccombere entrambe alla supremazia ottomana. Dopo essere passata di schieramento nella seconda guerra mondiale, la Bulgaria diventò così fedele all'Unione Sovietica da proporre un'unione fra le due nazioni nel 1973. I primi dieci anni di democrazia bulgara sono stati segnati da una stasi generalizzata, con successive vittorie del voto di protesta che si sono risolte nel ritorno del sovrano in esilio con le funzioni di primo ministro. Incapace di mantenere i livelli di industrializzazione dell'epoca della guerra fredda in assenza di sussidi sovietici, il paese ha sperimentato quello che un analista ha definito come il «disviluppo» per il quale «l'Est è diventato Sud». Solo grazie al processo di preingresso nella UE la situazione ha cominciato a cambiare, con un aumento delle retribuzioni e una stabilità dei prezzi conseguiti all'agganciamento della moneta all'euro. Vedi Rossen Vassilev, "De-Development Problems in Bulgaria", in «East European Quarterly», 22 settembre 2003. 4-7 Secondo due esperti delle guerre balcaniche, come il gruppo di contatto costituito llan Little e Laura Silber, per arginare il conflitto in pieno aggravamento «assomigliava alla politica delle grandi potenze del XIX secolo. Le cinque nazioni si riunivano per decidere del futuro dell'ex Iugoslavia […]. I colloqui sulla Bosnia furono un mero esercizio inteso a regolamentare le relazioni fra i membri del gruppo di contatto e a inserire questi ultimi nel nuovo ordine politico, anziché qualcosa che avesse a che fare con la regione e i suoi abitanti» (Allan Little – Laura Silber, Yugoslavia: Death of a Nation, New York, Penguin Press, 1995, p. 336). 4-8 Timothy Garton Ash, "The Sultanate of Europe", in «Los Angeles Times», 14 aprile 2005. 4-9 Ivo Andric, The Days of the Consuls, Belgrado, Dereta, 2000 [La cronaca di Travnik. Il tempo dei consoli, Milano, Mondadori, 2001]. 4-10L'Europa avrebbe potuto fare assai di più nel sostegno all'opposizione anti-Milošević, anche perché la netta impopolarità di un uomo politico in carica è di gran lunga un elemento più importante ai fini del suo rovesciamento rispetto all'esistenza o alla crescita di una classe media; vedi Michael McFaul, "Transitions from Postcommunism", in «Journal of Democracy», vol. 16, n. 3, 2005, pp. 5-19. 4-11Gradualmente, la UE sta ricevendo le briglie del Kosovo dalle mani di una pletora di agenzie ONU per cercare di farne qualcosa di diverso da quello che è ora, ossia un luogo in cui consulenti occidentali nutrono a forza l'agenda di privatizzazioni della diaspora albanese, missionari cristiani e sauditi sono in concorrenza gli uni con gli altri per guadagnare anime e praticamente tutta l'occupazione è legata ai servizi per il complesso Nazioni Unite-forze armateONG. I bar e i ristoranti di Pee servono migliaia di membri dello staff ONU generando grandi profitti in un paese desolato, ma non c'è ancora traccia di un'economia in grado di reggersi in piedi una volta che l'ONU se ne sarà andata. Quello che solo la UE sta facendo è impegnare risorse molto più ingenti per costruire ministeri efficienti e preparare il Kosovo alla sovranità e all'ingresso nell'Unione, malgrado l'opposizione serba. 4-12"A tale of two Slavic states", in «The Economist», 3 giugno 2006, p. 53. 4-13E. Wayne Merry, "Therapy's End: Thinking Beyond NATO", in «The National Interest», inverno 2003-2004. 4-14Da "British Raj", il governo coloniale inglese in India prima del conseguimento dell'indipendenza del paese. [N.d.T.] 4-15Questo clima di malessere e di frustrazione ha spinto la terza Commissione internazionale sui Balcani a dichiarare nel 2005 che la regione era «tanto vicina al fallimento quanto al successo», aggiungendo che «se proseguirà secondo le sue linee attuali, il governo neo-coloniale dell'Europa provocherà scontento economico, diventerà motivo di imbarazzo politico per il progetto europeo, e soprattutto sarà visto dagli elettorati delle nazioni europee come un gravame morale immenso e del tutto superfluo» (The Balkans in Europe's Future, Sofia, Bulgaria, Centre for Liberal Strategies, 2005, pp.7, 11). 4-16Karaaie è poi stato arrestato in Serbia nel luglio del 2008 e consegnato alla Corte penale internazionale dell'Aia. [N.d.T.] 4-17Elizabeth Pond, Endgame in the Balkans: Regime Change, European Style, Washington, The Brookings Institution, 2006. 4-18I programmi infrastrutturali rientrano nel quadro dell'Assistenza comunitaria per la ricostruzione, lo sviluppo e la stabilizzazione. 4-19Breaking out of the Balkan Ghetto: Why Ipa Should be Changed, European Stability Initiative, giugno 2005. 4-20Dimitri Obolensky, The Byzantine Commonwealth: Eastern Europe, 500-1453, New York, Praeger Publishers, 1971 (mappa 4). 5-1 Nel 1071 l'esercito turco dei selgiuchidi annientò i bizantini nella battaglia di Manzikert e iniziò la sua secolare marcia verso Costantinopoli. Ironicamente, fino alla metà del XV secolo Bisanzio poté scampare la minaccia solo grazie a un altro conquistatore turco, Tamerlano, che mise in scacco i selgiuchidi a est. La sola ragione per cui il mondo di lingua turca non è unificato è che fu esso stesso a dividersi. 5-2 Christopher Caldwell, "The East in the West", in «New York Times Magazine», 25 settembre 2005. Secondo le proiezioni, la popolazione della Turchia e quella della Russia dovrebbero giungere a equivalersi entro i prossimi trent'anni. 5-3 Il termine è di Jacques Le Goff, citato in Jacques Pilet, "Geboren im Mittelalter", in «Cicero», novembre 2005, pp. 24-26. 5-4 La UE, e non la NATO, è attualmente attiva nella risoluzione del problema di Cipro facendo pressioni sulla Turchia perché consenta la libera circolazione di navi e aerei dall'isola. 5-5 Fiona Hill – Omer Taspinar, "Turkey and Russia: The Axis of Excluded?", in «Survival», primavera 2006.
5-6 Soner Cagaptay, "Why are the Turks Hesitating on Iraq?", Washington Institute for Near East Policy, 27 gennaio 2003. 5-7 Mark Parris, "Allergie Partners: Can U.S.-Turkish Relations be Saved?", in «Turkish Policy Quarterly», primavera 2005. 5-8 Come ha osservato un intellettuale bulgaro, «le posizioni dell'Europa dell'Est durante la guerra in Iraq sono state una vittoria dell'opportunismo sulla consapevolezza dell'appartenenza geografica, ma sul lungo periodo sarà la geografia l'elemento più forte». 5-9 Vedi il dossier Islamìc Calvinists: Change and Conservatism in Central Anatolia, Berlino e Istanbul, European Stability Initative, 2005. 5-10Citato in Salman Rushdie, "Ausgezeichneter Staatsfeind", in «Die Zeit», 23 ottobre 2005, p. 50. 5-11Nel 1970 e di nuovo nel 1980 l'esercito turco prese il potere per poi reinsediare in fretta un governo civile, rafforzando con questo la propria popolarità (Ersel Aydinli – Nihat Ali Ozcan – Dogan Akyaz, "The Turkish Military's March Toward Europe", in «Foreign Affairs», gennaio-febbraio 2006). 5-12Stephen Kirnzer, Crescent and Star: Turkey Between Two Worlds, New York, Farrar, Straus & Giroux Publishers, 2001. Come spiega Soli Oezel i più popolari premier turchi, dall'ex Primo ministro e poi presidente Turgut Oaal all'islamista Recep Tayyip Erdoğan hanno definito l'ingresso nella UE «l'agente di una trasformazione della Turchia da democrazia con molte ombre, e da troppi punti di vista illiberale, a esemplare pienamente maturo della famiglia liberale e democratica» (Soli Oezel, "After the Tsunami", in «Turkish Policy Quarterly», vol. 3, n. 1, 2003). 5-13Andrew Mango, The Turks Today, Londra, Overlook Press, 2005. 5-14Come scrive Hugh Pope «per lo più, gli islamisti turchi non si allontanano tanto dall'opinione generale del paese, che non desidera più la legge della sharia. E in realtà più si avvicinano a questo punto di vista, più il loro consenso aumenta» (Huge Pope, Sons of the Conquerors: The Rise of the Turkic World, Londra, Overlook Press, 2005, p. 277). 5-15Charles King, The Black Sea: A History, Londra, Oxford University Press, 2004 [Storia del Mar Nero dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2005]. 5-16Ronald D. Asmus – Bruce P. Jackson, "The Black Sea and the Frontiers of Freedom in «Policy Review», giugno 2004. 5-17L'isola di Guam, nel Pacifico centroccidentale, fu teatro nel 1944 di una fra le più sanguinose battaglie della guerra nippo-americana. [N.d.T.] 6-1 Ciascuno Stato del Caucaso sta sperimentando una fase di concentrazione territoriale – proprio come accadde un secolo fa dopo la caduta dell'impero ottomano – mirata a definirne le frontiere, a sostenerne la stabilità e a faarne diventare qualcosa di prossimo a uno Stato compatto; vedi Revaz Gachechiladze, The New Georgia: Space, Society, Politics, in «Eastern European Studies», n. 3, Londra, University College of London Press, 1995. 6-2 Alexander Rondelli, "Russia and Georgia: Asymmetrical Neighbors", in Central Asia and South Caucasus Affairs, a cura di Boris Rumer e Lan Sim Yee Tokyo, The Sasakawa Peace Foundation, 2003. 6-3 Eduard Ponarin – Irina Kouznetsova-Morenko, "Russia's Islamic Challenge", in «Georgetown Journal of International Affairs», estate-autunno 2006, pp. 21-28. 6-4 La Società finanziaria internazionale (IFC) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) hanno finanziato la maggior parte dei 4 miliardi di dollari necessari alla costruzione del BTC. L'operatore principale dell'oleodotto, British Petroleum, ne ha controllata una quota pari al 30 per cento; gli altri maggiori contributori sono le americane Unocal e Chevron (che successivamente hanno raggiunto una fusione), la norvegese Statoil, l'italiana Eni, l'azienda di Stato turca TPAO e quella azera SOCAR. 6-5 Citato in Kim Murphy, "Caspian Sea Pipeline Has Its Origin in Murky Waters", in «Los Angeles Times», 27 giugno 2005. 6-6 Fiona Hill, "Beyond the Colored Revolutions", discorso di apertura per la sesta conferenza annuale della Central Eurasia Studies Society, Boston University, 30 settembre 2005. 6-7 Svante E. Cornell et al., Regional Security in the South Caucasus: The Role of NATO, Washington, DC, Central Asia-Caucasus Institute, Paul H. Nitze School of Advanced International Studies, 2004. 6-8 Negli anni Novanta la diaspora armena, grazie a un'abile azione di lobbying, è riuscita a ottenere che l'Azerbaigian fosse sottoposto a sanzioni da parte degli USA in base alla contestata sezione 907 dell'Iran Libya Sanctions Act (ILSA). 6-9 L'oleodotto BTC ha anche stretto i legami fra le nazione caucasiche e Israele: un 20 per cento circa (e la percentuale è in crescita) del petrolio utilizzato da Israele arriva attraverso il tortuoso percorso dal Caspio a Ceyhan e il suo successivo trasporto via nave; a loro volta, gli israeliani hanno in progetto di riesportarne una parte in Estremo Oriente attraverso il Mar Rosso. 6-10In apertura della melancolica love story transcaucasica Alì e Nino si trova la dichiarazione di un maestro di scuola di Baku: «Il confine orientale dell'Europa passa attraverso l'impero russo, lungo i monti Urali, poi taglia a metà il Mar Caspio e attraversa la Transcaucasia […]. Alcuni dotti ritengono che la regione a sud dei monti del Caucaso appartenga all'Asia, mentre altri, in virtù dell'evoluzione culturale della Transcaucasia, credono che essa dovrebbe essere considerata parte dell'Europa. Può pertanto essere detto, miei cari bambini, che sarà anche vostra responsabilità fare in modo che la nostra città debba appartenere al mondo progredito dell'Europa o a quello retrivo dell'Asia» (Kurban Said, Alì e Nino). Benché l'autore pseudonimo del romanzo sia convenzionalmente identificato con Lev Nussenbaum, un emigrato ebreo di Baku, ricerche recenti hanno dato credito alla possibilità che esso sia da attribuire in realtà al diplomatico azero Yusuf Vezir Cemenzeminli. 6-11Le guerre russo-iraniane del 1813 e del 1828 divisero geograficamente gli azeri. L'Azerbaigian attuale, infatti, ospita solo un quarto della popolazione azera complessiva, di cui altri 25 milioni di persone abitano nell'Iran settentrionale (rappresentando un terzo della popolazione totale di questo paese). Secondo Afshin Molavi, il primo, clemente scià della dinastia dei safavidi che si insediò in Persia, nel XVI secolo, era azero, e la città in cui risiedeva la sua corte, Tabriz, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento fu il centro del movimento progressista e costituzionalista dell'Iran (Afshin Molavi, The Soul of Iran: A Nation's Journey to Freedom, New York, W.W. Norton & Company, 2005, p. 211).
6-12Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives, New York, Basic Books, 1997. 6-13Thomas Goltz, Azerbaijan Diarv: A Rogue Reporier's Adventures in an Oil-Rich, War-torn, Post-Soviet Republic, Armonk, NY, M.E. Sharpe, 1998. 6-14La compagnia petrolifera di Stato della Repubblica dell'Azerbaigian (SOCAR) ha resistito a ispezioni finanziarie e ha respinto l'eventualità di dislocare il fondo petrolifero di Stato (SOFAZ) – che ha la possibilità di reinvestire in infrastrutture e in programmi sociali una percentuale significativa dei profitti del petrolio – fuori del paese, dove avrebbe dovuto conformarsi a criteri di trasparenza. 6-15How Freedom is Won: From Civic Resistance to Durable Democracy, Freedom House, 2005. 7-1 Peter Hopkirk, The Great Game: The Struggle for Empire in Central Asia, Londra, Kodansha International, Ltd., 1992, p. 466 [Il grande gioco. I servìzi segreti in Asia centrale, Milano, Adelphi, 2004]. 7-2 Secondo la descrizione di Jack Weatherford, l'impero di Gengis Khan «si estendeva dalle tundre ghiacciate della Siberia alle pianure torride dell'India, dalle risaie del Vietnam ai campi di grano dell'Ungheria, dalla Corea ai Balcani […]. [Gengis] aprì vie commerciali che diedero vita a un'area di libero scambio che correva da una parte all'altra del continente. […] Prese le città mercantili sonnacchiose e separate della Via della seta e le organizzò nella più vasta zona di libero scambio della storia» (Jack Weatherford, Genghis Khan and the Making of the Modern World, New York, The Crown Publishing Group, 2004, pp. XVIII-XIX). 7-3 «Una generazione fa sembrava che il vapore e il Canale di Suez avessero dato un vantaggio di mobilità al potere marittimo rispetto a quello terrestre. Le ferrovie alimentavano sostanzialmente il commercio transoceanico. Ma adesso le ferrovie transcontinentali stanno trasformando le condizioni del potere terrestre, e in nessun luogo producono risultati come nel chiuso cuore continentale dell'Euro-Asia, in sconfinati territori in cui non sono mai stati a disposizione né legno né pietre per costruire strade. Le ferrovie fanno miracoli nelle steppe perché si sostituiscono direttamente al trasporto via cavallo e via cammello, saltando del tutto il livello di sviluppo intermedio costituito dalle strade» (Halford Mackinder, "The Geographical Pivot of History", in «Geographical Journal», n. 23, 1904, pp. 421-437). 7-4 «Turkestan, Afghanistan, Transcaspia, Persia», ammise George Curzon, allora viceré dell'India, «ispirano a molti nient'altro che un senso di totale distanza […]. Per me, lo confesso, sono i pezzi della scacchiera sulla quale si svolge un gioco per il dominio del mondo» (George Curzon, Persia and the Persian Question, 1896). 7-5 Petev Hopkirk, The Great Game, cit., p. 231; vedi anche Karl E. Meyer – Shareen B. Brysac, Tournament of Shadows: The Great Game and the Race for Empire in Central Asia, New York, Counterpoint, 2000. 7-6 Potenze periferiche quali Turchia, Iran e India formano un più largo anello di Stati che cercano allo stesso modo di influire sulla regione. I tentativi dei missionari provenienti dall'Arabia Saudita e dall'Iran, i primi ad agire nei paesi dell'area dopo la loro indipendenza, di esportare rispettivamente l'ideologia sunnita e sciita hanno soprattutto ottenuto il risultato di alimentare la violenza religiosa in Pakistan e di suscitare la resistenza contro qualsiasi teocrazia di stile iraniano. Il piano di costituzione di una fratellanza geopolitica, inizialmente perseguito dalla Turchia, è stato respinto, già poco dopo la loro indipendenza, da questi Stati di lingua turca che si erano appena liberati di un Grande fratello e non ne cercavano un altro. L'India vanta notevoli legami culturali con la regione, ma la barriera geografica rappresentata dal suo vicino e nemico storico, il Pakistan, limita sul breve periodo la portata delle sue ambizioni alla costruzione di oleodotti dal Turkmenistan o dall'Iran. 7-7 R. James Ferguson, "China and the Emerging Eurasian Agenda: From Special Interests to Strategic Cooperation", in «Research Paper», n. 8, Centre for East-West Cultural and Economic Studies, 8 dicembre 2001; Matthew Oresman, "Beyond the Baule of Talas, China's Reemergence in Central Asia", in In the Tracks of Tamerlane: Central Asia's Path to the 21st Century, a cura di Daniel L. Burghart e Theresa Sabonis-Helf, Washington, DC, Center for Technology and Security Policy, National Defense University, 2005. 7-8 Come ha osservato Bates Gill, «per quanto riguarda il soft power e le relazioni diplomatiche […] la Cina si fa avanti per saldare vecchi conti e cercare di istituire un suo modello benevolo di egemonia»; citato in Howard W. French, "China Moves Toward Another West: Central Asia", in «New York Times», 28 marzo 2004. 7-9 Joseph E Fletcher, "China and Central Asia, 1368-1884", in The Chinese World Order: Traditional China's Foreign Relations (Harvard East Asian Series), a cura di John K. Fairbank, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1968. 8-1 Come ha osservato Henry Kissinger, l'Europa senza gli Stati Uniti non è che «un'estensione peninsulare, un ostaggio, persino, dell'Eurasia, che rischia di annegare nel vortice dei suoi conflitti e di diventare un obiettivo primario dei movimenti radicali e rivoluzionari che imperversano in tante delle regioni che confinano con essa. […] Gli Stati Uniti senza l'Europa sono geopoliticamente un'isola al largo delle coste dell'Eurasia, come lo fu la Gran Bretagna nel XIX secolo» (Henry Kissinger, Does America Need a Foreign Policy? Toward a Diplomacy for the twenty-first century, New York, Simon & Schuster, 2001, p. 52). 8-2 Fen Montaigne, Reeling in Russia: An Angler's Paradise, New York, St. Martin's Press, 1998. 8-3 Geoffrey Hosking, Russia and the Russians: A History, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2002. 8-4 Fiona Hill – Clifford Gaddy, The Siberian Curse: How Communist Planners Left Russia Out in the Cold, Washington, DC, The Brookings Institution Press, 2003. Vedi Harm De Blij, Why Geography Matters. Three Challenges Facing America: Climate Change, the Rise of China, and Global Terrorism, New York, Oxford University Press, 2005, p. 240. 8-5 Gli oblast più esposti sono quelli di Krasnojarsk, Amur, Irkutsk, della Transbaikalia e di Magadan. Vedi Plundering Russia's Far Eastern Taiga: Illegal Logging, Corruption and Trade, Friends of the Earth, luglio 2000. 8-6 Un'analisi degli scenari demografici sino-russi in Estremo Oriente in Olga Oliker – Tanya Charlick-Paley, Assessing Russia' s Decline: Trends and Implications for the United States and the U.S. Air Force, Santa Monica, CA, Rand, 2002, capitolo 5. All'inizio della guerra fredda George Kennan vedeva le relazioni URSS-Cina in termini per cui «una grande potenza militare che confina con la Cina per 6500 chilometri di frontiera terrestre […] non sarà probabilmente mai priva della sua
dovuta parte di influenza sulle decisioni di quel paese». Attualmente i ruoli sono rovesciati. George Kennan, American Diplomacy, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1951, p. 23 [Diplomazia americana, 1900-1950, Milano, Garzanti, 1952]. 8-7 Michael Schuman, "The New El Dorado", in «Time», 7-14 agosto 2006. 8-8 Mikhail Alexseev, "The Chinese Are Coming: Public Opinion and Threat Perception in the Russian Far East", Ponars Policy Memo, n. 184, gennaio 2001. 8-9 Christopher Andrews – Vasili Mitrokhin, The World Was Going Our Way: The KGB and the Battle for the Third World, New York, Basic Books, 2005, pp. 279-280. 8-10Gaye Christoffersen, "The Dilemmas of China's Energy Governance: Recentralization and Regional Cooperation", in «China-Eurasia Forum Quarterly», n. 3, novembre 2005, pp. 55-80. 8-11The Transformation of Central Asia: States and Societies from Soviet Rule to Independence, a cura di Pauline Jones Luong, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2004. 8-12Oliver Roy, The New Central Asia: The Creation of Nations, New York, New York University Press, 2000. 8-13Gregory Gleason, "Reform Strategies in Central Asia: Early Starters, Late Starters, and Non-Starters", in In the Tracks of Tamerlane, cit. 8-14Mancur Olson, "Dictatorships, Democracy and Development", in «American Political Science Review», vol. 87, n. 3, 1993. 8-15In questi casi il termine "evoluzione" deve essere inteso come una serie di mutamenti casuali che conferma l'imprevedibilità della successione dei poteri in Asia centrale, seppure non per via di rivoluzione. 8-16Anders Aslund, Building Capitalism: The Transformatìon of the Former Soviet Bloc, New York, Cambridge University Press, 2002; Sustaining Growth in Uncertain Times, Eurasia Economic Summit 2002 Report, World Economic Forum. 9-1 Mahnaz Z. Ispahani, Roads and Rivals: The Political Uses of Access in the Borderlands of Asia, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1989, p. XII. Come sostiene l'autrice, «strade e ferrovie possono ancora definire l'estensione territoriale e le potenzialità fisiche dello Stato e sono parte integrante del conseguimento del suo potenziale politico, economico e militare». 9-2 Benché la presenza dell'esercito cinese sia assai più massiccia nello Xinjiang che non in Tibet, una diramazione dell'autostrada militare del Sud del paese ha ridotto drasticamente i tempi di percorrenza fra le due province, consentendo ad esempio la rapida repressione della rivolta tibetana del 1959. Vedi John E Avedon, In Exile from the Land of Snows, New York, Vintage Books, 1986, p. 317 [Il Dalai Lama. In esilio dal paese delle nevi, Milano, Dall'Oglio, 1989]. 9-3 Come dichiara un manifesto politico del governo cinese, «sin dalla dinastia degli han occidentali (206 a.C.-24 d.C.) lo Xinjiang è sempre stato una parte inseparabile dell'unitaria, multietnica nazione cinese». 9-4 Ross Terrill, The New Chinese Empire: And What It Means for the United States, New York, Basic Books, 2003, p. 54. 9-5 Halford Mackinder, Democratic Ideals and Reality, cit. Vedi anche Robert Harkavy, "Strategic Geography and the Greater Middle East", in «Naval War College Review», autunno 2001. 10-1Molti studiosi si riferiscono attualmente alla regione con la denominazione di «Asia interna»; vedi i contributi in Thinking Strategically: The Major Powers, Kazakhstan, and the Central Asian Nexus, a cura di Robert Legvold, American Academy of Arts and Sciences, 2003. 10-2Kasymzhomart Tokayev, Meeting the Challenge: Memoirs by Khazakstan's Foreign Minister, Redding, CT, Begell House, Inc., 2004. 10-3Stephen Blank, "China, Kazakh Energy, and Russia: An Unlikely Menage a Trois", in «China-Eurasia Forum Quarterly», vol. 3, n. 3,2005, p. 101. 10-4Steve LeVine, The Oil and the Glory, New York, Random House, 2007. 10-5Taleh Ziyadov, "Prospects of Caspian Gas and its Potential Markets", in «Central Asia and the Caucasus Journal», vol. 29, n. 5, 2004. 10-6Johannes Linn – David Tiomkin, Economic Integration of Eurasia: Opportunities and Challenges of Global Significance, Varsavia, Center for Social and Economic Research, 2005. 10-7Vedi a proposito Paul Starobin, "Sultan of the Steppes", in «The Atlantic Monthly», dicembre 2005. 10-8Una discussione dei trend e degli scenari economici della regione in Malcolm Dowling – Ganeshan Wignarajan, "Central Asia's Economy: Mapping Future Prospects to 2015", Central Asia-Caucasus Institute, Silk Road Paper, luglio 2006. Vedi anche Alan Rousso, "Escaping the Resource Trap: Market Reform and Political Governance in the Resource Rich Countries of Eurasia", in «The China and Eurasia Forum Quarterly», vol. 4, n. 3, autunno 2006, pp. 3-14; Republic of Kazakhstan: Selected Issues, Imf Country Report, n. 04/362, novembre 2004. 10-9Fiona Hill, "Whither Kazakhstan?", in «In the National Interest», 20 settembre 2005. 10-10Vedi Kazakhstan: Reducing Nuclear Dangers, Increasing Global Security, Nuclear Threat Initiative, 2004; Nursultan Nazarbaev, Epicenter of Peace, Hollis, NH, Puritan Press, 2001. 10-11Nazarbayev ha ricevuto il 90 per cento dei consensi, con una percentuale di votanti pari al 75 per cento. 11-1Alexander Cooley, "Depoliticizing Manas: The Domestic Consequences of the U.S. Military Presence in Kyrgyzstari", in «Ponars Policy Memo», n. 362, febbraio 2005. 12-1Assel Rustemova, "National Identities of Central Asia States and their Impact on the Prospects for Regional Integration", intervento alla International Studies Association, San Diego, marzo 2006. 12-2Gli ordini sufi hanno poi effettivamente giocato un ruolo importante nei movimenti nazionalisti del paese; vedi Chris Seiple – Joshua White, "Uzbekistan and the Central Asian Crucible of Religion and Security", in Religion and Security: The New Nexus in International Relations, New York, Roman & Littlefield, 2004. 12-3Martha Olcott, Central Asia's Second Chance, Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace, 2005, p.
207. 12-4Vedi a tal proposito "The Imu and the Hizb-ut-Tahrir: Implications of the Afghanistan Campaign", International Crisis Group, Central Asia Briefing, 30 gennaio 2002; Zeyno Baran, "Fighting the War of Ideas", in «Foreign Affairs», dicembre 2005, p. 68; Hizb ut-Tahrir: Islam's Insurgency, Washington, DC, Nixon Center, dicembre 2004. 12-5Martha Brill Olcott – Bakhtiar Babajanov, "The Terrorist Notebooks", in «Foreign Policy», marzo-aprile 2003. 12-6Tiffany Petros, "Islam in Central Asia: The Emergence and Growth of Radicalism in the Post-Communist Era", In the Tracks of Tamerlane, cit. 12-7Chris Seiple, "Uzbekistan and the Bush Doctrine", in «The Review of Faith & International Affairs», vol. 3, n. 2, 2005. 12-8Dana Priest, The Mi ssion: Waging War and Keeping Peace with America's Military, New York, W.W. Norton & Company, 2003, p. 108. 12-9Sylvia W. Babus, "Democracy-building in Central Asia post-September 11", in In the Tracks of Tamerlane, cit. 12-10Alexander Cooley, "Base Politics", in «Foreign Affairs», vol. 84, n. 6, 2005, pp. 79-92. 12-11Martha Olcott, Central Asia's Second Chance, cit., p. 100. 12-12Theresa Sabonis-Helf, "The Rise of the Post-Soviet Petro-States: Energy Exports ad Domestic Governance in Turkmenistan and Kazakhstan", in In the Tracks of Tamerlane, cit. 12-13Uno studio di fattibilità condotto nel 2005 dall'Asian Development Bank ha concluso che la pipeline è economicamente sostenibile. 12-14Kathleen J. Hancock, "Escaping Russia, Looking to China: Turkmenistan Pins Hopes on China's Thirst for Natural Gas", in «The China and Eurasia Forum Quarterly», vol. 4, n, 3, 2006, pp. 67-87. 13-1L'attuale presidente del Pakistan è Asif Zardari, eletto nel settembre del 2008 dopo le dimissioni di Musharraf. [N.d.T.] 13-2Olga Oliker – David A. Shlapak, U.S. Interests in Central Asia: Policy Priorities and Military Roles, Santa Monica, CA, Rand Corporation, 2005, p. V. Solo nel 2006 gli Stati Uniti sono riusciti a guarire da questa schizofrenia geografica per cui il Pentagono includeva la regione nel suo Central Command (CENTCOM) e il Dipartimento di Stato nella sezione di affari europei. 13-3Citato in Mahnaz Ispahani, Roads and Rivals, cit., p. 117. 13-4Rachel Morajee, "Narcotecture in Afghanistan", in «Monocle», 2007. 13-5Elizabeth Rubin, "In the Land of the Taliban", in «New York Times Sunday Magazine», 22 ottobre 2006. 13-6La diffusa classificazione geografica del Pakistan e dell'Afghanistan nell'Asia meridionale è una costruzione storica indocentrica di matrice britannica, e non riflette certo l'attuale realtà strategica nella quale l'India è sempre più compresa nei calcoli di potere dell'Asia orientale. 13-7Aprendo la catena ininterrotta delle barriere montuose, il Karakorum «ha alterato l'equilibrio della geografia politica nel subcontinente» (Mahnaz Ispahani, Roads and Rivals, cit., pp. 151, 201). Inoltre non esiste più l'Unione Sovietica a spalleggiare l'India nelle sue denunce della cooperazione militare sino-pakistana lungo il Karakorum. 13-8Husain Haqqani, "Counter-Terrorism or Bounty Hunting", in «The Nation», Pakistan, 8 novembre 2006; Mansour Ijaz, "Musharrafistan", in «The Wall Street Journal», 19 settembre 2006. 13-9Ziad Haider, "Sino-Pakistan Relations and Xinjiang's Uighurs: Politics, Trade and Islam Along the Karakorum Highway", in «Asian Survey», luglio-agosto 2005, pp. 522-545. 13-10Ayesha Siddiqa, Military, Inc.: Inside Pakistan's Military Economy, Londra, Pluto Press, 2007. C2-1S. Frederick Starr, "A 'Greater Central Asia Partnership' for Afghanistan and Its Neighbors", Central Asia-Caucasus Institute Silk Road Studies Program, marzo 2005. C2-2Halford Mackinder, Democratic Ideals and Reality, cit., p. 144. C2-3Bates Gill – Matthew Oresman, China's New Journey to the West: China's Emergence in Central Asia and Implications for U.S. Interests, Washington, DC, Center for Strategic and International Studies, 2003. C2-4Johannes Linn – David Tiomkin, Economic Integration of Eurasia: Opportunities and Challenges of Global Significance, Varsavia, Center for Social and Economic Research, 2005, p. 17. 14-1Eduardo Galeano, Open Veins of Latin America: Five Centuries of the Pillage of a Continent, in «Monthly Review Press», New York, 1973, p. 11 [Le vene aperte dell'America Latina, Milano, Sperling e Kupfer, 1997]. 14-2Peter H. Smith, Talons of the Eagle: Dynamics of U.S.-Latin American Relations, New York, Oxford University Press, 1996, p. 17. 14-3I nuovi Stati sorsero dal disfacimento dell'impero spagnolo in base al principio dell'uti possidetis ('come possedete'), ossia definendo i confini così come erano controllati al termine del conflitto. 14-4Le note sulla «Porta aperta» di John Hay articolavano l'obiettivo di garantire uguali diritti d'accesso commerciale oltremare alle compagnie straniere, soprattutto in Cina, mantenendo l'integrità territoriale e amministrativa del paese interessato (William Appleman Williams, The Tragedy of American Diplomacy, New York, W.W. Norton & Company, 1959, p. 50). 14-5Come osserva William Appleman Williams, l'ideologia di Wilson era al fondo liberale anziché mercantilista, poiché partiva dal presupposto di un'armonia degli interessi. 14-6Peter H. Smith, Talons of the Eagle, cit., p. 62. 14-7Come sostiene William Appleman Williams, la diplomazia americana racchiude in sé tre principi contraddittori: un generoso impulso umanitario, la ricerca dell'autodeterminazione all'estero, e un terzo, inconciliabile con i primi due, quello per cui i problemi altrui si risolvono con i metodi americani (William Appleman Williams, The Tragedy of American Diplomacy, cit., p. 13). 14-8Peter H. Smith, Talons of the Eagle, cit., p. 134. 14-9Ivi, p. 151.
14-10Fernando H. Cardoso – Mauricio A. Font, Charting a New Course: The Politics of Glohalization and Social Transformation, New York, Rowman & Littlefield, Inc., 2001, p. 122. 14-11Moises Naim, "The Lost Continent", in «Foreign Policy», 2004. 14-12Eduardo Galeano, Open Veins of Latin America, cit., p. 255. 14-13Vedi Tomoe Funakushi – Claudio Loser, China's Rising Economic Presence in Latin America, Inter-American Dialogue, 2005, p. 2; "Magic, or Realism?", in «The Economist», 29 dicembre 2004. 14-14Christopher Andrew – Vasili Mitrokhin, The World Was Going Our Way, cit., p. 27. 14-15Vedi le dichiarazioni di Cynthia A. Watson davanti al Western Hemisphere Subcommittee del Committee on Foreign Affairs della Camera dei rappresentanti, 6 aprile 2005. 14-16Dal 60 al 90 per cento del PIL delle nazioni latinoamericane (a seconda della nazione) è realizzato con l'esportazione di materie prime. Come si legge su un report recente dell'UNDP, «la ricchezza generata dall'esportazione di petrolio e minerali può risultare nociva alla crescita, nociva alla democrazia e nociva allo sviluppo» (Human Development Report 2005: International cooperation at a crossroads: Ag trade, and security in an unequal world, New York, United Nations Development Program, 2005, p. 124). 14-17Tomoe Funakushi – Claudio Loser, China's Rising Economic Presence in Latin America, cit., pp. 3, 8. 14-18Un'analisi della percezione e della realtà della penetrazione cinese in America Latina in Sam Logan – Ben Bain, "China's Entrance finto Latin America: A Cause for Worry?", in «IRC Americas», 24 agosto 2005. 14-19Integrating the Americas: FTAA and Beyond, a cura di Antoni Estevadeordal, Dani Rodrik, Alan M. Taylor e Andres Velasco, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2004; Pamela K. Starr, "Pax America in Latin America: The Hegemony Behind Free Trade", in Between Compliance and Conflict: Between East Asia, Latin America, and the "New" Pax Americana, a cura di Jorge I. Dominguez e Byung Cook Kim, New York, Routlege, 2005, pp. 85-86. 14-20A differenza della UE, la FTAA non impone alcun legame fra apertura di un mercato, governance democratica ed equità sociale. Nonostante il basso livello di restrizioni, le discussioni all'interno della FTAA sembrano non avere fine per la semplice ragione che nessuna delle parti vuole essere accusata di negligenza – e non sembrano avere alcun successo a causa dei termini per cui ognuno sceglie quello che preferisce, con il risultato di un dedalo di regolamenti al posto di un vero libero mercato. Vedi Jorge I. Dominguez, "Bush Administration Policy: A View Toward Latin America", in «ReVista», primavera-estate 2005, p. 4. 14-21In tutta l'America Latina il PIL pro capite del 2003 era attestato ai livelli del 1980, con un forte incremento della povertà nello stesso periodo. Vedi The Urban Poor in Latin America (Directions in Development), a cura di Marianne Fay, Washington, DC, The International Bank for Reconstruction and Development, The World Bank, 2005; Inequality in Latin America and the Caribbean: Breaking with History?, a cura di David M. De Ferranti, Guillermo E. Perry, Francisco H.G. Ferreira, Michael Walton, Washington, DC, The International Bank for Reconstruction and Development, The World Bank, 2004. 14-22Nancy Birdsall – Augusto de la Torre, Washington Contentious: Economic Policies for Social Equity in Latin America, Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace and Inter-American Dialogue, 2001, p. 6. 14-23Dai tumultuosi programmi di stabilizzazione dell'FMI degli anni Novanta, scambi, investimento estero e spesa sociale sono cresciuti, mentre l'inflazione è sotto controllo; i paesi latinoamericani sono attualmente orientati verso la moltiplicazione degli accordi di libero scambio, reciproci oltre che con Stati Uniti, Europa e Cina. Vedi Dominguez Kim, Between Compliance and Conflict, cit., pp. 2, 11. 15-1Benché i redditi da turismo siano aumentati a un tasso di oltre 1 miliardo di dollari l'anno, le rendite petrolifere ammontano ancora al 40 per cento del bilancio messicano. 15-2Sono basati su catene di montaggio a bassa specializzazione secondo il modello fordista. [N.d.T.] 15-3Nel 2003 la Cina copriva il 25 per cento del mercato dell'abbigliamento negli USA contro il 10 per cento del Messico; nel 2005 le percentuali erano passate rispettivamente al 56 per cento e al 3 per cento (Funakushi – Loser, China's Rising Economic Presence in Latin America, cit., p. 5). 15-4Juan Enriques, The Untied States of America: Polarization, Fracturing, and Our Future, New York, Crown Publishing Group, 2005, capitolo 6. 15-5Joseph Contreras, "Losing the Battle", in «Newsweek», 11 luglio 2005; James C. McKinley, "With Beheadings and Attacks, Drug Gangs Terrorize Mexico", in «The New York Times», 27 ottobre 2006. 15-6TamarJacoby, "Immigration Nation", in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 2006. 15-7Building a North American Community, dossier della task force indipendente incaricata dal Council on Foreign Relations, 2005. 15-8Juan Enriques, The Untied States of America, cit., p. 154. 15-9"10 Questions for Pat Buchanan", in «Time», 28 agosto 2006, p. 6. 15-10"Applauding the Cafta 15", in «New York Times», 29 luglio, 2005. 15-11Fernando Cardoso – Peter Bell, A Break in the Clouds: Latin America and the Caribbean in 2005, Washington, DC, InterAmerican Dialogue, 2005, p. 8. 16-1Ricardo Hausmann, "A Case of Bad Latitude: Why Geography Causes Poverty", in «Foreign Policy», gennaio-febbraio 2001. 16-2Alma Guillermoprieto, The Heart that Bleeds: Latin America Now, New York, Alfred A. Knopf, 1994, p. X. 16-3Terry Lynn Karl, The Paradox of Plenty: Oil Booms and Petro-States, Berkeley, CA, University of California Press, 1997, p. 3. 16-4Ivi, p.32. 16-5Michael Rowan, Getting over Chavez and Poverty, 2006, edizione privata acquistabile presso
[email protected].
16-6Michael Rowan, "A Strategy for Success in Venezuela", «VenEconomia», 2 dicembre 2005. 16-7Charles S. Shapiro, "Venezuelan Labor Struggles to Find Autonomy", in «Georgetown Journal of International Affairs», inverno-primavera 2007, pp. 19-26. 16-8"Oil, missions and a chat show", in «The Economist», 14 maggio 2005, pp. 23-25. 16-9Michael Penfold-Becerra, "Social Funds, Clientelism, and Redistribution: Chavez's 'Misiones' Programs in Comparative Perspective", Working Paper, Instituto de Estudios Superiores de Administración (Iesa), novembre 2005. 16-10Secondo Javier Corrales, Chávez avrebbe «eliminato le contraddizioni fra autocrazia e competizione politica»: "Hugo Boss", in «Foreign Policy», gennaio-febbraio 2006, pp. 32-40; Id., "In Search of a Theory of Polarization: Lessons front Venezuela, 1999-2005", in «Revista Europea de Estudios Latinamericanos y del Caribe», n. 79, 2005. 16-11Asdrúbal Baptista, "El Estado y el capitalismo rentístico", intervento alla conferenza José Gil Portoni, Academia Nacional de la Historia, Caracas 2005, p. 25. 16-12Josep M. Colomer – Gabriel L. Negretto, "Can Presidentialism Work Like Parliamentarism?", in «Government and Opposition», 2005, pp. 60-89. 16-13Eduardo Galeano, We Say No: Chronicles 1963-1991, New York, W.W. Norton & Company, 1992, p. 195. Alvaro Vargas Llosa è meno discreto, e parla dei leader populisti di sinistra alla Chávez come di «idioti»: "The Return of the Idiot", in «Foreign Policy», maggio-giugno 2007. 16-14Alma Guillermoprieto, "The Gambler", in «New York Review of Books», 20 ottobre 2005. 16-15Id., "Don't cry for me, Venezuela", in «New York Review of Books», 6 ottobre 2005. 16-16Citato in Jens Erik Gould, "Plans for South American Pipeline has Ambitions Beyond Gas", in «The New York Times», 2 dicembre 2006. 17-1Arnold Toynbee, East to West, cit., pp. 1-3. 17-2International Crisis Group, Colombia's Borders: The Weak Link in Uribe's Security Policy, in «Latin America Report», n. 9, 23 settembre 2004; War and Drugs. in Colombia, in «Latin America Report», n. 11, 27 gennaio 2005. 17-3International Crisis Group, Colombia: Presidential Politics and Peace Prospects, in «Latin America Report», n. 14, 16 giugno 2005, p. 12. 17-4International Crisis Group, Coca, Drugs and Social Protest in Bolivia and Peru, in «Latin America Report», n. 12, 3 marzo 2005. 17-5Alma Guillermoprieto, The Heart that Bleeds, cit., p. 19. 17-6Arnold Toynbee, East to West, cit., p. 3. 17-7International Crisis Group, Uribe's Re-election: Can the EU Help Colombia Develop a More Balanced Peace Strategy?, in «Latin America Report», n. 17, 8 giugno 2006. 17-8È stato ampiamente denunciato che gli Stati Uniti, attraverso FMI e Banca Mondiale, abbiano appositamente incoraggiato pesanti prestiti per progetti di scarso impatto nelle regioni andine, assegnati ad appaltatori americani con pochi benefici per la popolazione locale, soprattutto durante gli anni Ottanta, con il risultato di massicci aumenti del debito. Jorge Castenada, "Latin America's Left Tum", in «Foreign Affairs», giugno 2006; Williaxn Finnegan, "The Economics of Empire: Notes on the Washington Consensus", in «Harper's», maggio 2003; Adam Isacson, "12 Elections in 12 Months", in
, gennaio 2006; John Nellis – Rachel Menezes – Sarah Lucas, Privatization in Latin America: the rapid rise, recent fall and continuing puzzle of a contentious economic policy, Center for Global Development, gennaio 2004; John Perkins, Confessions of an Economic Hit Man, San Francisco, Berrett Koehler, 2003; David Rieff, "Che's Second Coming?", in «The New York Times Magazine», novembre 2005. 17-9Per casualità, la stessa settimana dell'elezione di Morales, il presidente del Ciad si è ritirato da un accordo sponsorizzato dalla Banca Mondiale in base al quale i profitti della pipeline che collega il paese al Camerun sarebbero stati investiti in programmi di istruzione e assistenza sanitaria, orientandoli invece verso il bilancio della «sicurezza», in cui generalmente rientrano cose come jet privati, Mercedes blindate e armi pesanti. Il Ciad resterà probabilmente per sempre una nazione del Terzo Mondo, mentre la Bolivia di Morales ha tutte le chance per uscirne. 17-10"Democracy's ten-year rut", in «The Economist», 29 ottobre 2005, pp. 60-62. 17-11Heinrich Kreft, "The EU and Latin America Should Forge a Strategic Partnership", in «European Perspectives», estate 2005. 18-1Fu la guerra d'indipendenza americana a ispirare nei brasiliani la lotta per rompere le catene che li legavano al Portogallo, e furono le folle parigine che avevano fatto la Rivoluzione francese a suggerire ai rivoluzionari brasiliani le tattiche necessarie. Due secoli fa il Brasile considerava la schiavitù un male sociale che poteva essere rimpiazzato dalla manodopera in eccesso e dall'arrivo di immigrati dall'Europa. Vedi Kenneth Maxwell, Naked Tropics: Essays on Empire and Other Rogues, New York, Routledge, 2003, capitoli 7 e 8 e p. 129. 18-2Fernando Cardoso – Mauricio A. Font, Charting a New Course, cit., in particolare il saggio introduttivo di Font e il capitolo 21. 18-3Amaury de Souza, "Cardoso and the Struggle for Reform in Brazil", in «Journal of Democracy», vol. 10, n. 3, 1999, pp. 49-63. 18-4Gianpaolo Baiocchi, Radicals in Power: The Worker's Party and Experiments in Urban Democracy in Brazil, New York, Zed Books Ltd., 2003, p. 5; Id., "Taming an urban monster", in «The Economist», 29 gennaio 2005, pp. 45-46. 18-5Paulo Roberto de Almeida, "Two Foreign Policies from Cardoso to Lula", relazione alla Florida International University, 4 marzo 2004; Monica Hirst, The United States and Brazil: A Long Road of Unmet Expectations, New York, Routledge, 2004. 18-6Rubéns Antonio Barbosa, "Why the Group of 20 was Suddenly' Formed", note alla Trade Policy Roundtable del Cordell Hull Institute, Washington, DC, 25 novembre 2003. 18-7Larry Rohter, "Brazil Weights Costs and Benefits of Alliance with China", in «The New York Times», 20 novembre
2005; Charles Tang, "Brazil-China: A Strategic and Commercial Alliance", studio presentato al convegno dell'Itamaraty "Brazil-Asia in XXIst century: A Meeting of Horizons", Brasilia, 8 giugno 2001. 18-8Le gare di automobili con il motore modificato organizzate dalla National Association for Stock Car Auto Racing. 18-9Fernando Cardoso – Peter Bell, A Break in the Clouds, cit., p. 11. 18-10Una larga discussione delle questioni relative alla salvaguardia dell'Amazzonia da differenti prospettive in Environment and Security in the Amazon Basin, a cura di Jospeh L. Tulchin e Heather A. Golding, Washington, DC, Woodrow Wilson International Center for Scholars, 2002. 19-1V.S. Naipaul, Return of Eva Peron, New York, Alfred A. Knopf, 1980, pp. 103, 153. 19-2Mark Falcoff, A Culture of Its Own: Taking Latin America Seriously, New Brunswick, NJ, Transaction Publishers, 1998, p. 255. 19-3Secondo Paul Blustein, con il tracollo finanziario divenne chiaro che l'Argentina non era capace di amministrare grandi somme di denaro scottante meglio di quanto un teenager potrebbe guidare una macchina sportiva (Paul Blustein, And the Money Kept Rolling In And Out: Wall Street, the IMF, and the Bankrupting of Argentina, New York, Public Affairs, 2005). 19-4Monica Herz, "Brazilian Foreign Policy Since 1990 and the Pax Americana", in Between Compliance and Conflict, cit.; Laura Gomez Mera, "Explaining Mercosur's Survival: Strategic Sources of ArgentineBrazilian Convergente", in «Journal of Latin American Studies», vol. 37, 2005, pp. 109-140. 19-5L'integrazione del Cono Sud potrebbe anche avere successo nel mutare le sorti del Paraguay, uno Stato del Terzo Mondo senza sbocco al mare che è stato per lungo tempo laboratorio di esperimenti sociali come quelli dei gesuiti e dei mennoniti, e che pure, ironicamente, è ancora tremendamente bisognoso di redenzione. Dalla sua indipendenza il Paraguay è stato governato da grotteschi dittatori che, ancora di recente, hanno fatto cassa vendendo importanti porzioni di territorio ai seguaci sudcoreani del reverendo Moon, lasciando mano libera a santoni che perpetuano le condizioni di subalternità feudale delle popolazioni indigene. Nelle vaste pianure occidentali del Chaco, comunità libanesi, taiwanesi e amish godono di uno status di semisovranità. Il Paraguay fu creato come Stato cuscinetto fra le tradizionali potenze sudamericane dopo la guerra della Triplice alleanza (18641870), ma oggi di un tale cuscinetto non c'è più alcun bisogno. L'America Latina dovrebbe cercare di unificarsi come l'Europa invece di dividersi come l'Africa. Quasi tutta l'elettricità del Paraguay proviene dalla più grande centrale elettrica del mondo, quella di Itaipú, in Brasile, e la maggior parte del suo commercio estero consiste di vendite tax-free e di contrabbando di prodotti elettronici a Ciudad del Este, vicino alle maestose cascate dell'Iguaçú. In altre parole il Paraguay è assorbito dai suoi vicini, e potrebbero essere questi a metterne a frutto il territorio trasformandolo da luogo di sperimentazione religiosa a zona a vocazione agricola. 19-6June Erlick, "Chile: A Changing Country", in «ReVista», 2004. 19-7Vedi Peter H. Smith, Democracy in Latin America: Political Change in Comparative Perspective, New York, Oxford University Press, 2005, p. 231; Id., "Writing the next chapter in a Latin American success story", in «The Economist», 2 aprile 2005, pp. 32-33. 19-8Larry Rohter, "Debating the Course of Chile's Rivers", in «The New York Times», 6 agosto 2006. 19-9Peter H. Smith, Democracy in Latin America, cit., p. 327. 20-1Il dibattito terminologico su come indicare questa regione è ancora dominante nelle attuali policies su di essa (e nelle correlate posizioni politiche): le nazioni transatlantiche attualmente preferiscono l'espressione "Medio Oriente esteso" [broader Middle East], la Banca Mondiale "Medio Oriente e Nordafrica" (MENA), in cui sono compresi l'Afghanistan e il Pakistan, l'ONU "Asia occidentale", la Cina quella geograficamente più neutra di "Asia sud-occidentale". 20-2Cohen intendeva come «zona rompicapo» una «regione vasta e con una collocazione strategica, occupata da un alto numero di Stati in conflitto e stretta fra gli interessi contrastanti delle grandi potenze che confinano con essa» (Saul Cohen, Geography and Politics in a Divided World, New York, Random House, 1963). A tal proposito vedi anche Geoffrey Kemp – Robert E. Harkavy, Strategic Geography and the Changing Middle East, Washington, DC, Brookings Institution Press, 1997. 20-3Come ha sottolineato Halim Barakat, il mondo arabo dovrebbe essere visto come «una sola società che trascende i confini di tanti Stati-nazione indipendenti» (Halim Barakat, The Arab World: Society, Culture and State, Berkeley, University of California Press, 1993, p. XI). 20-4Vedi i diversi Arab Human Development Reports stilati dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite. 20-5Edward N. Luttwak, "The Middle of Nowhere", in «Prospect», maggio 2007. 20-6Anoush Ehteshami, Globalization and Geopolitics in the Middle East, Londra, Routledge, 2007. 20-7Frarwois Burgat, "French and US Approaches to Understanding Islam", lezione al France-Stanford Centre on Interdisciplinary Studies, 12-14 settembre 2004. 20-8«L'ascesa dell'islam», ha scritto Toynbee, «è forse l'evento più spettacolare nella storia dell'uomo. Scaturito da una terra e da un popolo prima del tutto trascurabili, nel corso di un secolo l'islam si è diffuso in più di metà delle terre conosciute, sbaragliando grandi imperi, sostituendo religioni antichissime, riplasmando l'anima delle razze, ed erigendo dal nulla un mondo nuovo. […] L'islam è salpato per la sua enorme avventura con il più infimo sostegno umano e contro tutti i possibili ostacoli materiali. Eppure ha trionfato con una facilità che ha del miracoloso; nel giro di un paio di generazioni la Mezzaluna si è erta vittoriosa dai Pirenei all'Himalaya, dai deserti dell'Asia centrale a quelli dell'Africa del Nord» (Arnold Toynbee, Civiltà al paragone, cit.). 20-9Harm De Blij, Why Geography Matters, cit., p. 123. Secondo lo U.S. National Intelligence Council, «l'islam politico avrà un impatto globale significativo, in grado di allineare gruppi etnici e nazionali disparati e forse addirittura di dare vità a un'unica autorità che trascenda i confini nazionali» (Global Trends 2020, U.S. National Intelligence Council, 2005). 20-10Vedi John L. Esposito, Unholy War: Terror in the Name of Islam, New York, Oxford University Press, 2002 [Guerra santa?
Il terrore nel nome dell'islam, Milano, Vita e pensiero, 2004]; George P. Fletcher, Romantics at War: Glory and Guilt in an Age of Terrorism, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2002; "Islamic Extremists: How Do They Mobilize Support?", United States Institute of Peace, Special Report 89, luglio 2002; George Perkovich, "Giving Justice Its Due", in «Foreign Affairs», luglio-agosto 2005, p. 83; Guy Raz, "The War on the Word 'Jihad'", in <www.npr.org>, 31 ottobre 2006; Ionathan Schanzer, Al-Qaeda's Armies: Middle East Affiliate Group' s & The Next Generation of Terror, Washington, DC, Washington Institute for Near East Policy, 2005. Un manifesto firmato da decine di studiosi islamici, dal titolo How we can co-exist è stato pubblicato sul sito <www.islamtoday.net>. 20-11Si racconta che, alla conferenza di pace di Parigi del 1919, Woodrow Wilson abbia osservato che «nel bolscevismo esisteva senza dubbio una forza latente che era in grado di generare attrazione, allo stesso modo in cui i suoi aspetti più brutali provocavano un generale disgusto. Si respirava ovunque una diffusa aria di rivolta contro i grandi interessi costituiti che influenzavano il mondo nella sfera economica e politica. Il modo per arginare il loro dominio stava soltanto nella loro costante messa in discussione e in un lento processo di riforma, ma il mondo, per lo più, sembrava non essere più in grado di tollerare ulteriori ritardi». 20-12Come ha scritto Francis Fukuyama «concepire il conflitto più ampio come una guerra globale paragonabile a quelle dei tempi della guerra fredda significa esagerare di parecchio i termini del problema, e sostenere che attualmente staremmo tenendo testa a gran parte del mondo arabo e musulmano. Prima della guerra in Iraq non eravamo probabilmente in guerra che con qualche migliaio di persone preoccupate di assicurarsi il martirio e di causare danni ciechi agli Stati Uniti. Le dimensioni del problema sono cresciute da quando abbiamo scatenato il caos» (Francis Fukuyama, America at the Crossroads: Democracy, Power, and the Neoconservative Legacy, New Haven, CT, Yale University Press, 2006. 21-1Fernand Braudel, The Mediterranean and the World in the Age of Philip II, Londra, Collins Sons & Company, Ltd. and Harper & Row Publishers, Inc., 1972, p. 276 [Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1953]. 21-2Robert D. Kaplan, Mediterranean Winter: The Pleasures of History and Landscape in Tunisia, Sicily, Dalmatia and Greece, New York, Random House, 2004. 21-3Dal momento che gli Stati del Maghreb si collocano geograficamente tra l'Europa e il Terzo Mondo dell'Africa, uno fra i principali motivi di apprensione per gli europei è l'ingrossarsi dell'ondata migratoria proveniente non soltanto dal mondo arabo, ma anche dall'Africa occidentale e subsahariana. Tombouctou, in passato grande centro di cultura islamica e punto di partenza delle carovane che attraversavano il Sahara, oggi è un simbolo dell'incapacità dell'Africa di recuperare persino il livello di progresso materiale e di organizzazione sociale di cui godeva un secolo fa sotto i governi coloniali. Grandi gruppi di giovani provenienti dall'Africa occidentale attraversano clandestinamente la Mauritania, il Marocco, l'Algeria e la Tunisia per convergere sulle exclave spagnole di Ceuta e Melilla e da lì guadagnare l'ingresso in Europa. Emigranti dalla Mauritania prendono il mare su imbarcazioni disperatamente affollate per raggiungere le isole Canarie, viste come un punto debole della «fortezza Europa», arrivando disidratati, malati e privi di documenti d'identità. La piccola isola di Malta, aderente all'Unione Europea, è presa d'assalto da migranti africani abbandonati sulle sue spiagge, ed è stata costretta a costruire campi di detenzione per le procedure di accoglienza o di espulsione. E i tanti altri africani che non riescono a raggiungere le sponde del Maghreb si fermano negli Stati nordafricani, contribuendo a peggiorarne le già critiche condizioni economiche e sociali. 21-4L'«Eurosfera» d'influenza che sta emergendo comprende non soltanto i 450 milioni di cittadini della UE, ma anche i 385 milioni di abitanti dei paesi che hanno in comune confini terrestri e marittimi con l'Unione, dal Nordafrica ai Balcani alla Turchia, fino all'ex Unione Sovietica. La UE destina due miliardi di dollari annui in assistenza allo sviluppo nella regione del «Medio Oriente e Nordafrica» e 6 miliardi nell'Africa subsahariana, ben più di ogni altra potenza. Vedi Mark Leonard, Why Europe Will Run the Twenty-first Century, Londra, Fourth Estate, 2005 [Europa 21, Milano, Bompiani, 2006]. 21-5Tamara Cofman Wittes – Sarah Yerkes, "The Middle East Partnership Initiative: Progress, Problems and Prospects", Saban Center Middle East Memo 5,29 novembre 2004; Mona Yacoubian, "Promoting Middle East Democracy: European Initiatives", United States Institute of Peace, Special Report 127, ottobre 2004. 21-6La forza lavoro della regione supera di poco i cento milioni di persone e si prevede che raddoppierà nell'arco del prossimo decennio a causa della piramide demografica del mondo arabo, con il 60 per cento della popolazione al di sotto dei ventiquattro anni. I tassi di crescita demografica sono in ascesa, o si mantengono quantomeno sugli alti livelli attuali in Marocco, Algeria ed Egitto. Con una percentuale di disoccupazione che supera in media il 15 per cento, per assorbire una tale eccedenza di forza lavoro giovanile, le economie dei paesi arabi dovrebbero crescere a un tasso più che doppio rispetto a quello corrente (ossia del 7 per cento a fronte del 3 per cento attuale). Vedi a tal proposito Graham E. Fuller, The Youth Factor: The New Demographics of the Middle East and the Implications for U.S. Policy, Analysis Paper 3, Saban Center for Middle East Policy at the Brookings Institution, giugno 2003; Unlocking the Employment Potential in the Middle East and North Africa: Toward a New Social Contract, Washington, DC, The International Bank for Reconstruction and Development, The World Bank, 2004. 21-7Arnold Toynbee, East to West, cit., p. 155. 21-8Il grande storico ibn Khaldun individuò questo motivo già più di sei secoli or sono, scrivendo di una tensione permanente fra popolazioni beduine (bedu) e sedentarie (hadar), con i primi che a ondate regolari prendevano d'assalto le città dei secondi e indebolivano il governo centrale. Nel corso di tre generazioni, però, spiegava ancora Khaldun, i beduini stessi si lasciarono urbanizzare di buon grado, esponendosi a loro volta agli attacchi di una nuova ondata di popolazioni tribali dell'entroterra. 21-9Un secolo fa la «politica della porta aperta» USA comprendeva fra i suoi obiettivi anche il Marocco, per il quale era previsto il sostegno all'evoluzione di una regolare amministrazione pubblica come primo passo per rendere il paese un mercato stabile e appetibile per le merci americane. Come in America Latina, tuttavia, questa politica fallì il proprio disegno di dirigere enormi mutamenti sociali e prendersene il merito, sino a che non fu abbandonata prima che i termini
volgessero a sfavore degli Stati Uniti. Vedi William Appleman William, The Tragedy of American Diplomacy, cit., p. 67. Una panoramica delle relazioni occidentali (americane ed europee) con il Marocco in Haim Malka – Jon B. Alter-man, Arab Reform and Foreign Aid Lessons from Morocco, Washington, Center for Strategic and International Studies, 2006. 21-10Gary S. Gregg, The Middle East: A Cultural Psychology, New York, Oxford University Press, 2005; Modernization, Democracy and Islam, a cura di Shireen T. Hunter e Huma Malik, Westport, CT, Praeger, 2005, capitolo 2. 21-11Daniel Brumberg, "Liberalization versus Democracy", in Uncharted Journey: Promoting Democracy in the Middle East, a cura di Thomas Carothers e Marina Ottoway, Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace, 2005, p. 16; Mehran Kamrava, "Development and Democracy: The Muslim World in a Comparative Perspective", in Modernization, cit., p. 53; Thomas W. Simons, Islam in a Globalizing World, Palo Alto, CA, Stanford University Press, 2003, p. 62. 21-12Vedi Frarwois Burgat, Face to Face with Political Islam, Londra, I.B. Tauris & Company, Ltd., 2003, pp. 170-172. 21-13Public Opinion Survey, Tns Sofres, marzo 2005; German Marshall Fund, Transatlantic Trends 2005. 21-14Marcus Noland – Howard Pack, "Globalization and Economic Performance in the Middle East", in «In the National Interest», 30 giugno 2004. 21-15Geoff D. Porter, "Tourism Meets Terrorism in Morocco", in «The Daily Star», 24 aprile 2007. 21-16Il sistema della Jamahiriyya voluto da Gheddafi si rifà all'intero passato del paese, a partire dalle agorái greche del I secolo a.C. come quella di cui restano le tracce fra le rovine di Cirene (attuale Shahhat), dove statue di Apollo si alzavano nei pressi dei templi in onore di Dioniso. Gheddafi ha preteso di creare la pura democrazia partecipativa delle póleis greche, sgombrando il campo da ogni possibilità di sistema partitico in base al principio per cui «la rappresentanza è una menzogna» e insistendo sulla tautologia del suo Libro verde, «l'autorità è solo per il popolo, che dovrebbe possedere l'autorità». Al tempo stesso, poiché l'identità libica comprende l'islam, Gheddafi ha dichiarato che «il sacro Corano è la legge della società» – ed effettivamente esistono analogie fra il sistema della Jamahiriyya e i consigli islamici detti shura. Infine, la governance libica comprende la personale funzione di Gheddafi quale uomo forte dell'esercito, per cui, nonostante le pretese di democrazia, il Libro verde ammette concisamente l'inevitabile realtà che «coloro che sono più forti nella società tengono le redini del governo». 21-17Dirk Vandewalle, A History of Modern Libya, Cambridge, UK, Cambridge University Press, 2006, p. 1 [Storia della Libia contemporanea, Roma, Salerno, 2007]. 21-18Le riserve petrolifere della Libia sono stimate in 39 milioni di barili, le più ingenti di tutta l'Africa. 21-19Dirk Vandewalle, A History of Modem Libya, cit., p. 1. 21-20Joshua Eisenman – Joshua Kurlantzick, "China's Africa Strategy", in «Current History», maggio 2006, pp. 219-224; James Traub, "China's African Adventure", in «The New York Times Sunday Magazine», 19 novembre 2006; Ernest J. Wilson, "China's Influence in Africa: Implications for U.S. Policy", intervento al Subcommittee of Africa, Human Rights and International Operations della Carriera dei rappresentanti, 28 luglio 2005. 21-21Un quarto delle importazioni cinesi di gas naturale proviene complessivamente da Algeria, Angola, Ciad, Sudan, Nigeria Guinea Equatoriale. 21-22Karby Leggett, "China Flexes Economic Muscle Throughout Burgeoning Africa", in «The Wall Street Journal», 29 marzo 2005. 21-23More Than Humanitarianism: A Strategic U.S. Approach Toward Africa, New York, Council on Foreign Relations, 2006; "No questions asked", in «The Economist», 21 gennaio 2006, pp. 53-54. 22-1All'Egitto fu garantito il controllo privilegiato delle acque del Nilo in base al trattato firmato con la Gran Bretagna nel 1929, prima che gli Stati dell'Africa orientale conseguissero l'indipendenza. L'iniziativa per il bacino del Nilo, cui aderiscono dieci paesi, è l'esito del tentativo di raggiungere una distribuzione e una gestione più eque delle acque del fiume. 22-2Benché il Corno d'Africa abbia storicamente goduto di legami più stretti con lo Yemen e gli Stati del Golfo Persico – sui due lati dello Stretto di Bab-el-Mandab, che separa l'Africa dall'Asia, l'orografia è identica –, l'Egitto e l'Occidente lavorano per stabilizzare la regione al fine di proteggere il traffica navale che dal Canale di Suez sbocca nel Golfo di Aden e nell'Oceano Indiano attraverso il Mar Rosso e lo stretto di Tiran. Le nazioni del Corno d'Africa (Somalia, Etiopia, Eritrea, Gibuti) sono essenzialmente simulacri di Stato assediati da fame, guerra civile, malattie e proliferazione di armi leggere. Nel minuscolo territorio di Gibuti sono in funzione basi europee e americane con il compito di contrastare la minaccia di gruppi islamisti radicali come Al Qaeda, che può contare su cellule attive in Africa orientale. 22-3Scott Anderson, "Under Egypt's Volcano", in «Vanity Fair», ottobre 2006. 22-4Christopher Andrews – Vasili Mitrokhin, The World Was Going Our Way, cit., p. 148. 22-5Andreu Batson – Shai Oster, "Egypt Sees China Replacing U.S. as Top Trade Partner by 2012", in «The Wall Street Journal», 12 settembre 2006. 22-6Gamal Hamdan, The Personality of Egypt: A Study on the Genius of Place, Cairo, 2003. 22-7Paul Berman, "The Philosopher of Islamic Terror", in «The New York Times Magazine», 23 marzo 2003. 22-8Vedi Graham Fuller, "Islamists and Democracy", in Uncharted Journey, a cura di Carothers e Ottoway, cit., pp. 41-42, e "Islam and Democracy", United States Institute of Peace, Special Report 93, settembre 2002. 22-9Vedi Olivier Roy, Globalized Islam: The Search for a New Ummah, New York, Columbia University Press, 2004, pp. 80-81 [Global muslim. Le radici occidentali del nuovo islam, Milano, Feltrinelli, 2003]. I partiti islamisti hanno elaborato almeno quattro approcci differenti alle sfide della modernità: il fondamentalismo, che rifiuta democrazia e occidentalizzazione ma impiega la tecnologia per la causa di un califfato islamico autoritario; il tradizionalismo, diffidente nei confronti della secolarizzazione e favorevole a norme sociali conservatrici; il modernismo, che cerca la conciliazione fra princìpi islamici e norme dominanti sul piano internazionale; il secolarismo, che vede la religione come un fatto appartenente alla sfera privata, come nelle democrazie liberali dell'Occidente. È in verità difficile negare in modo credibile il pluralismo
dell'islam quando tali divergenze sono all'ordine del giorno nelle politiche islamiste di oggi, riflettendosi in orientamenti profondamente diversi intorno a questioni politiche e sociali di primo piano come la democrazia, il jihad, la poligamia o il velo. Inoltre, in virtù delle ampie basi di potere e delle reti di sostenitori, nessuno di questi quattro campi può essere ignorato: i modernisti, ad esempio, scelti come interlocutori privilegiati dall'Occidente, possono contare su risorse molto inferiori a quelle di cui dispongono i tradizionalisti grazie a riscossione di tassi, sussidi, donazioni, società, fondazioni, moschee, scuole, stazioni radio e TV. Vedi Cheryl Bernard, Civil, Democratic Islam: Partners, Resources, and Strategies, RAND Corporation, 2003. Una tipologia leggermente differente in "Understanding Political Islam", International Crisis Group, Middle East/North Africa Report 37, 2 marzo 2005. 22-10Democracy Without Democrats?: The Renewal of Politics in the Muslim World, a cura di Ghassan Salame, Londra, I.B. Tauris & Company, Ltd., 1994; Frainois Burgat, Face to Face with Political Islam, cit., p. 180; Amr Hamzawy, "The Key to Arab Reform: Moderate Islamists", Carnegie Endowment for International Peace, Policy Brief 40, agosto 2005; Judy Barsalou, "Islamists at the Ballot Box: Findings from Egypt, Jordan, Kuwait, and Turkey", United States Institute of Peace, Special Report 144, luglio 2005. 22-11Non è ancora scontato che la Fratellanza musulmana, se conseguisse democraticamente il potere, smetterebbe i panni dell'agnello per abolire le elezioni, occupare l'intero apparato del potere, perseguitare minoranze come i copri cristiani (il 10 per cento della popolazione) e proclamare la sharia. È ugualmente probabile invece che la sua leadership intenda conservare la separazione fra moschee e Stato per evitare di cedere al clero parte della propria autorevolezza, guadagnata a un prezzo così alto, e resti fedele alla democrazia e alla propria piattaforma anticorruzione. Se il regime di Mubarak la riconoscesse come partito politico anziché solo come associazione religiosa compirebbe comunque un grande passo in avanti. Vedi Samer Shehata – Joshua Stacher, "The Brotherhood Goes to Parliament", in «Middle East Report», n. 240, autunno 2006. 22-12Saad Eddin Ibrahim, "Islam Can Vote, if We Let It", in «The New York Times», 21 maggio 2005. 22-13Lawrence Groo – Parag Khanna, "The Regime Change We Need", in «The National Interest», inverno 2006. 22-14Steven A. Cook, "The Promise of Pacts", in «Journal of Democracy», vol. 17, n. 1, 2006. 22-15"The US project for democracy in the Greater Middle East. Yes, but with whom?", in «Al-Hayat», 23 febbraio 2004. 22-16Shibley Telhami, "In the Middle East, the Third Way is a Myth", in «The Washington Post», 17 febbraio 2006. 22-17Come sottolinea Ray Takeyh «il dilemma fondamentale dell'ordine politico arabo non sta nella scarsa familiarità con la competizione politica, ma nella presenza di élite radicate determinate a conservare il potere» (Ray Takeyh, "Close, But No Democracy", in «The National Interest», inverno 2004-2005, p. 58). 22-18E Gregory Gause III, "Can Democracy Stop Terrorism?", in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2005; John M. Owen, "Democracy, Realistically", in «The National Interest», primavera 2006, p. 40. 22-19«La civiltà araba», scrive T.E. Lawrence, «è fatta di una natura astratta, morale e intellettuale più che applicata; negli arabi la mancanza di spirito pubblico rende inutili le qualità eccellenti che mostrano in privato». (T.E. Lawrence, Seven Pillars of Wisdom: A Triumph, New York, Anchor Books, 1935) [I sette pilastri della saggezza, Milano, Bompiani, 2002]. Lawrence cita l'Encyclopaedia Britannica che nell'edizione del 1905 riporta che dal punto di vista mentale gli arabi superano molte altre razze, salvo essere «trattenuti nella marcia verso il progresso dalla singolare assenza di un potere organizzativo e dall'incapacità di stabilire azioni combinate». 22-20Halim Barakat, The Arab World, cit., capitolo 10. 22-21Fouad Ajami, "The End of Pan-Arabism", in «Foreign Affairs», inverno 1978-1979; Michael Barnett, Dialogues in Arab Politics: Negotiations in Regional Order, New York, Columbia University Press, 1998. A oggi, tutti gli eserciti dei paesi arabi soffrono di risorse umane deboli, scarso addestramento, comandi scelti per ragioni politiche, tecnologia obsoleta e insufficiente esperienza di operazioni congiunte; vedi Daniel Byman, "The Future Security Environment and the Middle East", intervento al Defense Review Threat Panel del Committee on Armed Services della Camera dei rappresentanti, 28 settembre 2005. 23-1David Fromkin, A Peace to End All Peace: The Fall of the Ottoman Empire and the Creation of the Modern Middle East, New York, Henry Holt and Company, 1989 [Una pace senza pace, Milano, Rizzoli, 1992]. 23-2Ivi, pp. 24 e 96. 23-3Robert D. Kaplan, Eastward to Tartar y: Travels in the Balkans, the Middle East, and the Caucasus, New York, Random House, 2000. 23-4Arnold Toynbee, East to West, cit., p. 214. 23-5Secondo il National Insurance Institute il tasso di povertà in Israele si attesta al 28 per cento, con un bambino su tre che soffre di malnutrizione. 23-6Come notano senza infingimenti John Mearsheimer e Stephen Walt «nella lotta al terrorismo e nello sforzo più generale di rapportarsi con gli Stati canaglia Israele è un peso […]. Sostenere che Israele e gli USA siano uniti dalla comune minaccia del terrorismo significa scambiare la causa per l'effetto: per gli USA il terrorismo è un problema in buona parte a causa della loro stretta alleanza con Israele, e non viceversa» (John Mearsheimer – Stephen Walt, "The Israel Lobby", in «The London Review of Books», 23 marzo 2006). 23-7Le azioni terroristiche, in realtà, non sono che l'ultimo anello di una lunga catena di umiliazione sociale, marginalizzazione politica, malessere economico e seduzioni radicali. I terroristi e gli agitatori più famosi sono in genere professionisti con un buon livello di istruzione che usano le loro competenze e la loro mobilità per quella che considerano una nobile causa, che prevede il sacrificio di tanti e a volte anche di loro stessi. Come osserva Michael Mazaar, «le minacce alla sicurezza che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare hanno parecchio a che fare con le pressioni imposte dalla modernità e dalla globalizzazione, con la natura diafana dell'identità, il peso delle scelte e la vulnerabilità degli esclusi. Naturalmente non tutto si risolve in questo, e l'influenza dei fattori psicologici rimanda a un più largo
contesto di realtà socioeconomiche, culturali, demografiche e di altra natura. Eppure questi fattori materiali diventano più rilevanti, e più pericolosi, quando danno ossigeno a un latente malessere psicologico» (Michael Mazaar, "The Psychological Sources of Islamic Terrorism", in «Policy Review», giugno 2004). Vedi anche Robert A. Pape, Dying to Win: The Strategic Logic of Suicide Terrorism, New York, Random House, 2005 [Morire per vincere. La logica strategica del terrorismo suicida, Bologna, il Ponte, 2007]; Marc Sageman, Understanding Terror Networks, Philadelphia, PA, University of Pennsylvania Press, 2004. 23-8Secondo il geografo e demografo Jan Je Jong sotto l'attuale divisione territoriale la popolazione palestinese ha la disponibilità di non più del 55 per cento della West Bank a causa delle irregolarità di accesso dovute agli insediamenti dei coloni. Inoltre, Israele si appropria dell'85 per cento dell'acqua prodotta dalle falde della West Bank, e potrebbe potenzialmente disseccarle prima che i palestinesi conseguano l'effettivo controllo del territorio. 23-9Doug Suisman et al., The Arc: A Formai Structure for a Palestinian State, Santa Monica, CA, RAND Corporation, 2005. Vedi anche Abdel Monem Said Aly – Shai Feldman, Ecopolitics: Changing the Regional Context of Arab-Israeli Peacemaking, Cambridge, MA, Belfer Center for Science and International Affairs, John E Kennedy School of Government, 2003; Khalil Shikaki, Building a State, Building Peace: How to Make a Roadmap That Works for Palestinians and Israelis, Washington, DC, The Brookings Institution Press, 2003 (Saban Center for Middle East Policy, monografia n. 1). 23-10Grazie agli oltre 100 milioni di dollari l'anno di spesa per l'educazione la Giordania ha il bilancio pro capite per l'istruzione più alto al mondo. 23-11Muhamad Magraby, "Some Impediments to the Rule of Law in the Middle East and Beyond", in «Fordham International Law Journal», vol. 26, n. 3, 2003, p. 777. 23-12La ricchezza di Hariri prima della sua elezione a premier era valutata fra i 2 e i 3 miliardi di dollari. Alla sua morte, secondo la rivista «Fortune», ammontava a 16 miliardi. 23-13Thomas L. Friedman, From Beirut to Jerusalem, New York, Farrar, Straus & Giroux Publishers, 1989, p. 214 [Da Beirut a Gerusalemme, Milano, Mondadori, 1990]. 23-14P.W. Singer, "Mike Tyson and the Hornet's Nest: Military Lessons of the Lebanon Crisis", Brookings Institution, 1" agosto 2006. 23-15Muhamad Mugraby, "Lebanon, a Wholly Owned Subsidiary", in «Middle East Quarterly», marzo 1998. 23-16T.E. Lawrence, Seven Pillars of Wisdom, cit., p. 131. 23-17Il precetto del pellegrinaggio. [N.d.T.] 24-1Hugh Kennedy, When Baghdad Ruled the Muslim World: The Rise and Fall of Islam's Greatest Dynasty, New York, De Capo Press, 2004. 24-2Christopher Andrews – Vasili Mitrokhin, The World Was Going Our Way, cit., p. 193. 24-3Affermazione del rappresentante al Congresso David Bonior, "U.S. Congressmen Criticize Iraqi Sanctions", BBC News Online, 17 febbraio 2000. 24-4Citato in David Fromkin, A Peace to End All Peace, cit., p. 453. 24-5Durante le prime fasi dell'occupazione a parecchi ufficiali dell'esercito americano in partenza per l'Iraq fu mostrato il film La battaglia di Algeri, e nonostante questo è sembrato che si siano ricreate le stesse condizioni di tattiche brutali e di minacce alla popolazione che determinarono la vergognosa rotta dei francesi in Algeria. Già nel 1920 l'amministratore coloniale inglese Gertrude Bell aveva avvertito della difficoltà di occupare un paese e al tempo stesso stabilirvi un governo locale dotato di qualche legittimità. In modo molto simile agli inglesi, gli americani hanno scelto di appoggiare quelle politiche «sanguinose e inefficaci» (secondo le parole di T.E. Lawrence) inevitabilmente destinate a degenerare in quella che Churchill deplorò come un'infinita, «miserabile, dispendiosa guerra a intermittenza». Con poche persone in grado di parlare arabo all'interno della Green Zone, dove sorge la più colossale ambasciata americana al mondo, i diplomatici USA sono stati per lo più impiegati come appoggi logistici dell'esercito, la cui presenza è visibile ovunque. Quale che sia l'acronimo usato per indicare la stabilizzazione postbellica (PCRU in Gran Bretagna e SCRS negli Stati Uniti), il coordinamento necessario a garantire continuità fra stabilizzazione e ricostruzione è a livelli minimi, tanto fra i diversi governi impegnati in Iraq quanto all'interno di ciascuno di essi. Per arrivare finalmente al suo manuale ideale di controguerriglia – il cosiddetto «lavoro sociale armato» – la U.S. Army si è basata sulla lezione degli inglesi, che avrebbe dovuto imparare molto prima: l'importanza di garantire sicurezza ai civili, rimettere in piedi le infrastrutture, dare vita a servizi di sicurezza nazionali e ristrutturare l'esercito regolare iracheno il più rapidamente possibile. Vedi Noah Feldman, What We Owe Iraq: War and the Ethics of Nation Building, New York, Princeton University Press, 2005. 24-6Vedi Amatzia Baram, "Who are the Insurgents?", United States Institute of Peace, Special Report 134, aprile 2005; Peter Bergen Alec Reynolds, "Blowback Revisited", in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 2005; Rik Coolsaet – Teun van de Voorde, "The Evolution of Terrorism in 2005: A statistical assessment", Università di Gand, febbraio 2006; Andrew E Krepinevich, "How to Win in Iraq", in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2005; Vali Nasr, The Shia Revival: How Conflicts within Islam will Shape the Future, New York, W.W. Norton & Company, 2006 [La rivincita sciita. Iran, Iraq, Libano: la nuova mezzaluna, Milano, Università Bocconi, 2007]; Kenneth Pollack, "A Switch in Time: A New Strategy for America in Iraq", Brookings Institution, Saban Center Analysis Paper, n. 7, I 5 febbraio 2006. 24-7Nir Rosen, "The Exodus", in «The New York Times Sunday Magazine», 13 maggio 2007. Attualmente quella irachena è la più vasta massa di rifugiati presente nei paesi confinanti dai tempi della crisi dei profughi palestinesi in occasione della fondazione dello Stato di Israele, nel 1948. 24-8Vedi Geoffrey Kemp, "Iran and Iraq: The Shia Connection, Soft Power, and the Nuclear Dilemma", United States Institute of Peace, Special Report 156, novembre 2005. 24-9Come scrive l'ex funzionario del Dipartimento di Stato Richard Haas, «è un'ironia della storia che la prima guerra in Iraq, una guerra subita, abbia segnato l'inizio dell'era americana nel Medio Oriente, e che la seconda, una guerra voluta,
ne abbia decretata la fine» ("The New Middle East", in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 2006). 24-10The Future of Kurdistan in Iraq, a cura di Brendan O'Leary, John McGarry e Khaled Salih, Philadelphia, PA, University of Pennsylvania Press, 2005. 24-11Meglio, manca il ritorno alla vecchia moneta, giacché i curdi ne hanno avuta una propria per undici anni fino alla reintroduzione del «dinaro Bremer» e poi del dinaro iracheno. Per una discussione delle implicazioni regionali della dinamica curda in Iraq vedi Henri J. Barkey – Ellen Laipson, "Iraqi Kurds and Iraq's Future", in «Middle East Policy», vol. 12, n. 4, 2005. 24-12In realtà, la presenza di minoranze curde all'interno degli Stati confinanti serve gli interessi del Kurdistan meglio di quanto non farebbe il loro arrivo nel paese. Un Kurdistan puro potrebbe finire isolato dai vicini ostili, mentre lo status di minoranza dei gruppi curdi nelle nazioni confinanti è utile a favorire la pressione internazionale per ottenere maggiori diritti. Ad esempio, dopo un'ondata di manifestazioni di protesta dei curdi in Turchia, nel 2006, una stazione televisiva curda ha presentato istanza contro Ankara presso la Corte europea dei diritti dell'uomo per avere subito restrizioni sui tempi e i contenuti delle trasmissioni. 25-1Fu Ciro il Grande a liberare i persiani dal dominio babilonese e a ristabilire gli ebrei in Palestina nel VI secolo a.C. allo scopo di creare uno Stato che lo dividesse dall'Egitto. 25-2Christopher Andrews – Vasili Mitrokhin, The World Was Going Our Way, cit., p. 169. 25-3Le entrate petrolifere iraniane sono schizzate da un miliardo di dollari nel 1971 a 18 miliardi nel 1975. 25-4A differenza di tutte le altre società musulmane, quella iraniana sperimentò la modernizzazione, la democrazia parlamentare e una vivace tradizione socialista già nel XIX secolo, sotto la dinastia Qajar; vedi Modernization, Democracy and Islam, a cura di Shireen T. Hunter e Huma Malik, cit., capitolo 16. 25-5Nikki R. Keddie, Iran and the Muslim World: Resistance and Revolution, New York, New York University Press, 1995, pp. 1315; Afshin Molavi, The Soul of Iran, cit., p. 13. 25-6Come scrive Azar Nafisi «la verità del passato dell'Iran divenne irrilevante per coloro che se ne appropriarono» (Azar Nafisi, Reading Lolita in Tehran: A Memoir in Books, New York, Random House, 2003, p. 37) [Leggere Lolita a Teheran, Milano, Adelphi, 2004]. 25-7Timothy Garton Ash, "Soldiers of the Hidden Imam", in «The New York Review of Books», 3 novembre 2005. 25-8Le riserve dell'Iran sono stimate in ventiseimila miliardi di metri cubi di gas naturale (seconde solo a quelle della Russia) e 130 miliardi di barili di petrolio (dietro Arabia Saudita e Canada). Nel sistema politico iraniano gli interessi dello Stato sono considerati al di sopra della sharia in molte questioni, e lo Stato controlla le entrate del clero. Tuttavia l'ayatollah Khamenei, erede dello spirito rivoluzionario di Khomeini e supremo guardiano religioso della nazione, è uno dei motori del radicalismo della politica estera del paese senza dover affrontare le responsabilità degli altri leader. Vedi Michael Ignatieff, "Iranian Lessons", in «New York Times Magazine», 17 luglio 2005; Henry A. Kissinger, "Now Tehran's Choice is Cast in Starker Terms", in «International Herald Tribune», 1° agosto 2006. 25-9Philip Gordon, "America, Europe, and the Challenge of Bringing Democracy to Iran", intervento alla Aspen Berlin Conference «Iran and Democracy in the Greater Middle East», Amman, 23-24 maggio 2005; Robin Niblett – Derek Mix, Transatlantic Approaches to Sanctions: Principles and Recomniendations for Action, Center for Strategic and International Studies, 10 ottobre 2006. 25-10Vedi Justin Bernier, "China's Strategic Proxies", in «Orbis», autunno 2003, pp. 629-643; Afshin Molavi, "Buying Time in Tehran", in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2004; Kenneth M. Pollack, The Persian Puzzle: The Conflict Between Iran and America, New York, Random House, 2004. 25-11La classe mercantile. [N.d.T.] 25-12Neil MacFarquhar, "Exiles in 'Tehrangeles' Are Split on How U.S. Should Sway Iran", in «The New York Times», 9 maggio 2006; Michael McFaul – Larry Diamond – Abbas Milani, "Beyond Incrementalism: A New Strategy for Dealing with Iran", Hoover Institution, 2005; Afshin Molavi, "Our Allies in Iran", in «The New York Times», 3 novembre 2005; Id., The Soul of Iran, cit., p. 175; Mahmood Sariolghalam, "Cutting a Deal With Tehran", in «Newsweek», 24 aprile 2006. 25-13Karim Sadjadpour, "How Relevant is the Iranian Street?", in «The Washington Quaterly», inverno 2007. 25-14Tared Cohen – Abbas Milani, "The Passive Revolution", in «Hoover Digest», inverno 2005; Mohsen Sazegara, "Iran's road to democracy", 4 novembre 2005, accessibile all'indirizzo <www.opendemocracy.net>. 25-15Afshin Molavi, The Soul of Iran, cit. 25-16Arnold Toynbee, East to West, cit., p. 221. 25-17Christopher de Bellaigue, In the Rose Garden of Martyrs: A Mernoir of Iran, New York, Harper Collins, Inc., 2005. 26-1Secondo le proiezioni, la domanda mondiale di energia dovrebbe conoscere un incremento del 35 per cento, fino ai 120 milioni di barili al giorno nel 2030. 26-2Olivier de Lage, "Saudi Arabia and the Smaller Gulf States: The Vassals Take Their Revenge", Ceri Colloquium on Gulf Monarchies in Transition, Parigi, 10-11 gennaio 2005. 26-3"Economic Relations with Regions Neighboring the Euro Area and in the 'Euro Time Zone'", Banca Centrale Europea, dicembre 2002. 26-4Gli scambi bilaterali fra Cina e Arabia Saudita hanno superato i 14 miliardi di dollari nel 2005, quelli complessivi fra Cina e mondo arabo i 50 miliardi. Vedi Chu Shulong, "The Middle East in China's National Strategy", intervento al convegno "The Vital Triangle: China, the United States, and the Middle East", Center for Strategic and International Studies, Washington, DC, 14 settembre 2006; Jin Liangxiang, "Energy First: China and the Middle East", in «Middle East Quarterly», primavera 2005. 26-5Secondo Samuel Huntington, questa alleanza «potrebbe materializzarsi non perché Maometto e Confucio siano antioccidentali, ma perché le culture cui hanno dato vita costituiscono un veicolo per l'espressione di recriminazioni
parzialmente dirette contro l'Occidente – un Occidente la cui supremazia politica, militare, economica e culturale è più bruciante che mai in un mondo di Stati che "hanno la percezione di non doverci avere più nulla a che fare"» (Samuel Huntington, The Clash of Civilizations, cit., p. 239). 26-6Anche il Kuwait sta investendo 8 miliardi di dollari nella costruzione di una grande raffineria nella provincia di Guangzhou. 26-7Hassan Fattah, "Avoiding Political Talk, Saudis and Chinese Build Trade", in «The New York Times», 23 aprile 2006. 26-8Wilfred Thesiger, Arabian Sands, Londra, Penguin, 1991, p. 7 [Sabbie arabe, Milano, Jaca Book, 1984]. 26-9The Military Balance, International Institute for Strategic Studies, 2005. 26-10Bank of International Settlements, 2006. 26-11Nazioni Unite, Arab Human Development Report. 26-12Yaroslav Trofimov, Faith at War: A Journey on the Frontlines of Islam, from Baghdad to Timbuktu, New York, Henry Holt and Company, 2005, p. 4. 26-13Monarchies and Nations: Globalization and Identity in the Arab States of the Gulf, a cura di Paul Dresch e James Piscatori, Londra, I.B. Tauris & Company, Ltd., 2005. 26-14Solo in Kuwait, una nazione del Primo Mondo, la più ricca tra le monarchie del Golfo che tutte le altre amano odiare, il livello del progresso politico ed economico è tale da rendere plausibile l'utilizzo dell'espressione "monarchia costituzionale" senza che questa suoni ossimorica. Il Majlis ha persino destituito l'emiro, nel 2005. L'alfabetismo è superiore al 90 per cento, il suffragio femminile è diventato universale nel 2006 e una donna è stata recentemente nominata al Consiglio dei ministri. Il governo spende cifre pro capite molto più alte degli altri paesi del Golfo in salari, abitazioni e progetti d'impresa che diano lavoro ai cittadini residenti. Il Kuwait è stato per decenni il più generoso (e il più silenzioso) donatore di aiuti internazionali in Africa e in Asia, con il finanziamento di aeroporti, scuole, ospedali e aree di pesca. L'Oman, al contrario, è la tartaruga della regione. Con il suo clima influenzato dall'Oceano Indiano, è battuto da monsoni che lo rendono più fresco della restante, rovente penisola arabica, e guadagna molto di più dal commercio delle conchiglie di ostrica che da quello del petrolio. I suoi costruttori di dhow indiani sono ancora i migliori dell'area e vendono ai mercanti di tutto il Golfo. La cultura dell'Oceano Indiano e la scarsità di risorse petrolifere fanno dell'Oman una monarchia più morbida, benché la sua Grande moschea sia il nuovo modello di riferimento dell'estetica religiosa. 26-15Afshin Molavi, "The Real New Middle East", in «The Washington Post», 20 agosto 2006; Nawaf Obaid – Khalid alRhodan, "Saudi Arabia's Sustainable Capacity and Security Issues", Center for Strategic and International Studies, 27 settembre 2005. 26-16Esiste un dibattito costante sulla longevità delle riserve petrolifere dell'Arabia Saudita, in base alla possibilità che essa abbia raggiunto o meno il picco di produzione, sugli anni di disponibilità di petrolio in base alla domanda globale e sul volume di petrolio contenuto nei giacimenti di recente scoperta. Vedi al proposito Matthew R. Simmons, Twilight in the Desert: The Coming Saudi Oil Shock and the World Economy, Hoboken, NJ, John Wiley & Sons, 2005; Peter Maass, "The Breaking Point", in «The New York Times Magazine», 21 agosto 2005. 26-17Peter Bergen – Alec Reynolds, "Blowback Revisited", in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 2005, pp. 2-6. Come nota lo U.S. Defense Science Board, «i musulmani non odiano le nostre libertà, odiano piuttosto le nostre politiche». 26-18John Bradley, Saudi Arabia Exposed: Inside a Kingdom in Crisis, New York, Palgrave Macmillan, 2005; "The Shiite Question in Saudi Arabia", International Crisis Group, Middle East Report 145, 19 settembre 2005. 26-19Michael Scott Doran, "The Saudi Paradox", in «Foreign Affairs», gennaio-febbraio 2004; Thomas W. Simons, Islam in a Globalizing World, cit. 26-20Gli abitanti del Qatar, anch'essi wahabiti, vedono l'Arabia Saudita come una vera e propria palla al piede culturale. Mentre l'Arabia Saudita ha distrutto il proprio patrimonio culturale in omaggio al puritanesimo wahabita, il Qatar presta i propri tesori artistici al Louvre (che a sua volta li presta ai sauditi). 26-21"Ijtihad: Reinterpreting Islamic Principles for the Twenty-First Century", United States Institute of Peace, Special Report 125, agosto 2004; Vartan Gregorian, Islam: A Mosaic, Not a Monolith, Washington, DC, The Brookings Institution Press, 2003 [Mosaico Islam. Alcune cose essenziali che dobbiamo smettere di ignorare, Venezia, Marsilio, 2005]; Tariq Ramadan, Western Muslims and the Future of Islam, New York, Oxford University Press, 2004; Olivier Roy, Globalized Islam, cit., pp. 18-19. 26-22Citato in "Verbatim», in «Time Magazine», 5 maggio 2003. 26-23Arnold Toynbee, Civilization on Trial, cit., p. 205. 26-24"A long walk", speciale sull'Arabia Saudita, in «The Economist», 7 gennaio 2006. 26-25Sono frequenti gli appelli a una riforma dell'islam simile a quella che il cristianesimo conobbe nel XVI secolo; tuttavia quest'ultima si risolse nella spaccatura della cristianità in due grandi tradizioni e in tante sette frammentate, ciascuna delle quali si sviluppò autonomamente dalle altre cancellando ogni speranza di un unico centro religioso in grado di frenare i gruppi estremisti. L'islam ha sofferto parecchio della divisione originaria fra Sunna e Shi'a e dell'assenza di una riforma religiosa. In realtà, però, l'islam è una religione profondamente democratica e altamente decentralizzata, al punto che persino i muftì sono elettivi. Molti musulmani non desiderano ulteriori scismi, ma al contrario una riconciliazione fra le due dottrine in competizione e i loro messaggeri più estremisti in grado di ridurre la violenza reciproca e quella scatenata contro le altre civiltà. Come sostiene Gilles Kepel, benché l'ascesa dell'islamismo militante sia stata spettacolare, la sua iperviolenza si è dimostrata una passività anziché un attivo (Gilles Kepel, Jihad: The Trial of Political Islam, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2003 [Jihad, ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Roma, Carocci, 2001]. 26-26"A Thwarted Civilization", in «The Wall Street Journal», 16 ottobre 2001. 26-27Kito de Boer – John M. Turner, "Beyond oil: Reappraising the Gulf States", in «The McKinsey Quarterly», edizione speciale 2007.
26-28Le imbarcazioni arabe a vela triangolare. [N.d.T.] 26-29T.E. Lawrence, Seven Pillars of Wisdom, cit., p. 336. 26-30Come Dubai, anche il Qatar conta un settore immobiliare in piena espansione e costruisce interi isolati che riproducono i motivi dell'architettura araba. Fra le altre cose, ha offerto la cittadinanza agli atleti che erano disposti a gareggiare nella sua squadra di atletica per fare bella figura ai Giochi asiatici del 2006. Il modello del Qatar si sostanzia di un'aggressiva ricerca di un più ampio benessere sociale attraverso l'istruzione, i diritti delle donne (cui è consentito guidare) e la formazione professionale. Con i suoi smisurati finanziamenti, l'Education City della Qatar Foundation è il fiore all'occhiello del settore della conoscenza nel paese: è una collezione di campus satelliti delle università d'élite del mondo, in cui si formano studenti locali, americani ed europei in ingegneria, medicina e scienze politiche che possono costantemente seguire conferenze di altissimo livello. Con la sua creazione di uno spazio dedicato alla sinergia fra governo, imprese, società civile e università, Doha sta cercando di replicare il modello vincente americano del mix di Silicon Valley e Ivy League. Le scuole del Qatar hanno scelto i propri boards e i propri libri di testo con la prospettiva di far seguire alla popolazione una specie di corso intensivo di modernità attraverso l'accesso universale all'educazione secondaria. 26-31Il tradizionale abito bianco maschile del Mashreq. [N.d.T.] 26-32Wilfred Thesiger, Arabian Sands, cit. 26-33"Building Towers, Cheating Workers", Human Rights Watch, 2006. 26-34Anche nel Qatar i centocinquantamila nativi sono largamente superati dal numero degli stranieri, e le persone che complessivamente vivono nel paese – poco meno di un milione – sono classificate secondo otto gradi di cittadinanza. Ai lavoratori migranti è assicurato il diritto di presentare ricorsi senza timore di conseguenze fisiche: ma va notato che la temperatura climatica ufficiale del Qatar è regolarmente ferma sui 48 gradi Celsius, appena due gradi sotto la temperatura alla quale ai lavoratori è consentito abbandonare il lavoro in ragione del caldo. 26-35Con questa espressione si intendono i processi di immigrazione legati a preferenze politiche. [N.d.T.] C4-1Gabriel Weimann, Terror on the Internet: The New Arena, The New Challenges, Washington, DC, United States Institute of Peace Press, 2006. C4-2Come nota Milton Viorst «per l'Occidente, immaginare di imporre i propri valori all'Oriente è un errore di calcolo enorme. Per l'Oriente, immaginare che i propri guerrieri zeloti possano intimidire l'Occidente è ingenuo. Un'ulteriore lezione è che nessuno dei due ha il potere di scegliere la direzione dell'altro. […] Finché l'Occidente, malgrado la sua superiorità militare, non accetterà il diritto dell'Oriente a determinare il proprio futuro, lo spargimento di sangue che macchia il confronto attuale non si fermerà. Ovviamente, per ciascuna delle due civiltà sarà la scelta peggiore» (Milton Viorst, Storm from the East: The Struggle between the Arab World and the Christian West, New York, The Modem Library, 2006). C4-3T.E. Lawrence, Seven Pillars of Wisdom, cit., p. 30. 27-1David Shambaugh non spreca parole: «L'Asia sta cambiando, e la ragione principale di questo cambiamento è la Cina» (David Shambaugh, "China Engages Asia", in «International Security», vol. 29, n. 3, inverno 2004-2005, pp. 64-99. Vedi anche dello stesso autore, "The Rise of China and Asia's New Dynamics" in Power Shift: China and Asia's New Dynamics, Berkeley, CA, University of California Press, 2005, p. 1. Se per tradizione con "Asia orientale" si intende la regione compresa fra il Giappone e il Myanmar, T.J. Pempel ci ricorda che – come per l'Europa orientale – «nessuna cartina è così scontata da non avere alternative, e può essere estesa per includere/escludere qualsivoglia numero di nazioni/zone» (Remapping East Asia: The Construction of a Region, a cura di T.J. Pempel, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2005, p. 98). 27-2Milton Osborne, The Paramount Power: China and Countries of Southeast Asia, Lowy Institute Paper 11, 2006. Come scrive Samuel Huntington, «storia, cultura, tradizioni, dimensioni, economia, dinamismo e percezione di sé, tutto impone alla Cina di assumere una posizione egemonica in Asia orientale. Tale obiettivo è il portato naturale del suo rapido sviluppo economico» (Samuel Huntington, The Clash of Civilizations, cit., p. 229). 27-3David C. Kang, "Hierarchy, Balancing, and Empirical Puzzles in Asian International Relations", in «International Security», vol. 28, n. 3, 2003-2004, pp. 165-180; "Hierarchy in Asian International Relations: 1300-1900", in «Asian Security», vol. 1, n. 1, 2005. 27-4L'ordine sinico ebbe inizio durante il III millennio a.C. sotto la dinastia Xia, allorché un processo imperiale di integrazione e assoggettamento dilatò lo Stato cinese secondo cerchi concentrici. Il modello dei tributi è diventato poi il metadiscorso con cui interpretare la politica estera cinese durante la dinastia Ming, dal XIV al XVII secolo. La zona interna dell'impero comprendeva i tibetani e le popolazioni dell'Asia centrale, quella esterna le popolazioni del Sudest asiatico, mentre l'immediato nucleo cinese includeva territori non soggetti a tributo quali la Corea, il Vietnam e parte del Giappone. Vedi The Chinese World Order, a cura di John K. Fairbank, cit. 27-5Vedi Thomas Sowell, Migrations and Cultures: A World View, New York, Basic Books, 1996, capitolo 5. 27-6La flessibilità delle regioni di confine crea una politica di sicurezza che ha il fine di impedire il sovrappopolamento interno. La rivolta dei Taiping, nel XIX secolo, fu in questo senso lo sbocco del superamento di un rapporto accettabile fra popolazione e terra, e la dinastia Qing fu perennemente assediata dal problema di uno Stato che non si era allargato a sufficienza per ospitare una popolazione in rapida crescita. Nel caso una nuova ondata di problemi economici dovesse colpire la campagna e la periferia cinesi, tali confini aperti costituirebbero una valvola di sfogo da cui la popolazione potrebbe emigrare verso paesi come il Myanmar e il Laos per costruirsi una nuova vita – ricalcando l'antico motivo cinese di espansione demografica, diffusione e controllo dei nuovi territori. Vedi Robert E. Ash, "China's Regional Economies and the Asian Region", in Power Shift, cit., pp. 96-131. 27-7L'espressione «ascesa pacifica» (heping jueqi) è stata coniata da Zheng Bijian, dell'elitaria Scuola centrale di Partito. Ufficialmente questa dottrina è stata successivamente riformulata nei termini di «sviluppo pacifico», per suonare più accettabile ed enfatizzare il focus cinese sulla politica interna senza però dare ambigui segnali di tolleranza verso
l'indipendenza di Taiwan. Tale strategia si fonda sulla consapevolezza che l'eccesso dei consumi e dell'inquinamento è pericoloso e inefficace, che espansionismo e aggressività sono in ultima analisi autodistruttivi mentre lo sviluppo economico e quello sociale devono essere in equilibrio. 27-8In termini geopolitici l'emergente ordine sinocentrico si compone di un aggregato di concetti che comprende egemonie, condomini, sfere d'influenza, sistemi a sovranità subordinata e complesse interdipendenze. Vedi David C. Kang, "Getting Asia Wrong", in «International Security», vol. 27, n. 4, 2003, pp. 57-85; David A. Lake, "Beyond Anarchy: The Importance of Security Institutions", in «International Security», vol. 26, n. 1, 2001, pp. 129-160; David Shambaugh, "The Rise of China", cit., pp. 12-17. 27-9Agli inizi della guerra fredda l'amministrazione Truman tracciò un perimetro di difesa degli Stati Uniti che si estendeva dalle isole Aleutine alle Filippine passando per il Giappone, mentre la Corea, sotto la protezione dell'ONU, non era considerata una priorità strategica. L'allargamento delle garanzie americane di protezione a Taiwan si verificò solo con l'amministrazione Eisenhower, e soltanto dopo il bombardamento di Quemoy e Matsu. Vedi Robert S. Ross, "The U.S.China Peace: Great Power Politics, Spheres of Influence, and the Peace of East Asia", in Between Compliance and Conflict, a cura di Dominguez e Cook Kim, cit. 27-10America's Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, New York, Harcourt Brace and Company, 1942. 27-11Robert Sutter, China's Rise in Asia: Promises and Perils, Boulder, CO, Rowman & Littlefield, Inc., 2005, introduzione; Avery Goldstein, "The Diplomatic Face of China's Grand Strategy: A Rising Power's Emerging Choice", in «China Quarterly», 2001, p. 837. 27-12Per una discussione dell'opposizione tra equilibrio e protezione vedi Barry Buzan, The United States and the Great Powers, cit. pp. 178-179. 27-13Asian Security Practice: Material and Ideational Influences, a cura di Muthiah Alagappa, Palo Alto, CA, Stanford University Press, 1998, p. IX; Remapping East Asia, a cura di T.J. Pempel, cit., p. 5. Alastair Iain Johnston definisce la cultura strategica come «livello ideativo che limita le scelte comportamentali» (Alastair Iain Johnston, "Thinking About Strategic Culture", in «International Security», vol. 19, n. 4, 1995, p. 45. 27-14Sempre ansioso di giocare su tutte le sponde Singapore ospita l'Asia-Europe Meeting (ASEM), che ora si concentra sul potenziamento commerciale europeo in vista del superamento della Cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC) a guida americana – che è spesso stata ironicamente definita come «quattro aggettivi in cerca di un sostantivo». Il tramonto dell'APEC è evidente anche nella preferenza della Cina per accordi commerciali bilaterali, dal Canada al Sudamerica. 27-15Amitav Acharya, "Regional security arrangements in a multipolar world: the EU's contribution", in Strategic views on the European Union, Chaillot Paper 72, novembre 2004, p. 94; Stanley Crossick – Fraser Cameron – Axel Berkofsky, "EuChina Relations: Towards a Strategic Partnership", European Policy Centre Working Paper, luglio 2005; David Shambaugh, "China and Europe: The Emerging Axis", in «Current History», settembre 2004, pp. 243-248; Xu Jian, "Facing the Challenge of Unconventional Security: The Chinese Perspective", in Overcoming Vulnerability: Managing New Security Challenges in Asia and Europe, a cura di Betrand Fort, Singapore, Marshall Cavendish Academie, 2005, pp. 30-31. 27-16L'analogia è con la politica del «Concerto europeo» che alla metà dell'Ottocento regolava i rapporti tra Gran Bretagna, Austria, Russia, Prussia e Francia. Vedi Amitav Acharya, "East Asia's Arrested Multilateralism", giugno 2006 (testo non pubblicato); Aaron L. Friedberg, "Ripe for Rivalry: Prospects for Peace in Multipolar Asia", in «International Security», vol. 18, n. 3, 1993-1994, pp. 5-33; Nicholas Khoo – Michael L.R. Smith, "A 'Concert of Asia'?", in «Policy Review», agosto 2001. 27-17Vedi Eric Ringmar, The Mechanics of Modernity in Europe and East Asia: The Institutional Origins of Social Change and Stagnation, Londra, Routledge, 2004, p. 2. 27-18Come dimostra lo storico economico Angus Maddison, nel 1500 l'Asia copriva il 60 per cento dell'economia mondiale, e la Cina, all'inizio del XIX secolo, all'epoca della rivoluzione industriale in Europa, copriva da sola un terzo di essa (Angus Maddison, The World Economy: A Millennial Perspective, Parigi, Oecd Development Centre, 2001) [L'economia mondiale. Una prospettiva millenaria, Milano, Giuffrè, 2005]. 27-19Vedi Coral Bell, "The Twilight of the Unipolar World", in «The American Interest», inverno 2005, p. 20. Vedi anche David Gress, From Plato to NATO: The Idea of the West and its Opponents, New York, Free Press, 1998. Toynbee stesso dimostrò di avere chiaro questo gap psicologico quando scrisse che «il fatto che il nostro avversario – il comunismo – sia una minaccia perché mostra i nostri difetti anziché superare persuasivamente le nostre virtù è una prova che la sfida che esso rappresenta non viene da esso, alla fine, ma da noi stessi. […] L'accelerazione del passaggio del potere materiale dalle vecchie potenze […] alle nuove potenze che appartengono all'anello esterno […] dell'Asia […] è di cattivo auspicio per gli americani. […] Con un mondo unificato a farsi gradualmente strada verso l'equilibrio fra le differenti culture che lo compongono, l'elemento occidentale non potrà che essere lentamente relegato a quel modesto spazio che gli spetta in virtù del suo valore intrinseco a confronto di quelli di altre culture – viventi ed estinte – che la società occidentale, con la sua espansione nell'età moderna, ha associato a se stessa e le une alle altre» (Arnold Toynbee, Civilizations on Trial, cit., pp. 23, 129, 158). 27-20Paul Bracken, Fire in the East, cit., p. 88. 27-21Samuel Huntington, The Clash of Civilizations, cit. 27-22Il liberalismo vanta spesso la propria universalità, ma la sua concretizzazione nello spazio e nel tempo mostra che esso funziona meglio dove già esiste. Come sostiene Amartya Sen, nessun sistema politico sopporta anarchia e disordine, e per questo la domanda è quale sistema politico consenta la massima fioritura della libertà. I paesi a maggiore sviluppo economico dell'Asia orientale sono quelli in cui vigono diritti individuali e democrazia – la Corea del Sud, Taiwan, il Giappone –, il che significa che il loro successo non può essere attribuito a uno stile autoritario di governo. E tuttavia c'è
ben poco di liberale nelle politiche che hanno portato a questo risultato. In questi paesi, infatti, sono ancora oggi le élite burocratiche ad avere l'ultima parola nelle contese politiche ed economiche, e la stretta cooperazione tra governo e business, fatta di relazioni incrociate tra banche e fornitori, è stata la chiave che ha permesso loro di eliminare il gap che li separava dall'Occidente. Corruzione e capitalismo familiare non sono invenzioni asiatiche, bensì elementi di fondo della storia universale del capitalismo. La democrazia dà il meglio di sé quando esiste una classe media sufficientemente ampia, e la democratizzazione dell'economia, prerequisito di un ordine liberale diffuso e sostenibile, è sempre venuta dopo. 27-23Secondo alcuni, la crescita asiatica è frutto della capacità di mobilitare risorse (ossia di mobilitare l'input, impiegando lavoratori e risorse materiali dove ce n'è bisogno) anziché di una maggiore efficienza della produzione, e per questo sarebbe costretta a decelerare in corrispondenza della diminuzione dei profitti. Vedi a tal proposito Paul Krugman, "The Myth of Asia's Miracle", in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 1994. 27-24Un'analisi delle risposte dell'Asia orientale alle sfide della globalizzazione in East Asia and Globalization (Asia in World Politics), a cura di Samuel Kim, Londra, Rowman & Littlefield, Inc., 2000. 27-25Gli scambi tra ASEAN e Cina sono cresciuti cinque volte tra il 1997 e il 2005, fino a raggiungere la cifra di 105 miliardi di dollari. L'acquisto da parte della Cina di un corrispettivo di valuta nazionale pari a 15-20 miliardi di dollari al mese tiene il renminbi artificialmente basso, consentendo al tempo stesso alle altre nazioni della regione di chiamarsi fuori dai processi di aggiustamento globale della moneta, conservando competitività nei confronti della Cina. Alimentando il deficit commerciale con i propri vicini dell'ASEAN, quest'ultima li tiene dalla sua come mercato di export sempre più aggressivo. Benché il mostro industriale cinese attiri fino all'80 per cento dell'investimento estero diretto (FDI) dell'area, il Sudest asiatico ha ancora grandi prospettive di guadagno in termini di potenziale manifatturiero a lungo termine, stante il rapido invecchiamento di Cina, Giappone e Corea del Sud. 27-26Se attualmente il Giappone è la seconda più grande economia del mondo e la Cina la quarta (ma occorre ricordare che la UE collettivamente presa è un'economia più grande di tutte le altre), si prevede che nel 2020 la Cina conterà per il 20 per cento dell'economia e della popolazione mondiali, giusto dietro UE e USA. In termini di parità di potere d'acquisto, in realtà, l'economia cinese ha già superato quella giapponese nel 1992 e attualmente si avvicina ai due terzi di quella americana, benché in termini assoluti ne raggiunga solo la settima parte (Ted C. Fishman, China, Inc., New York, Scribner Book Company, 2005, p. 10) [Cina s.p.a.. La superpotenza che sta sfidando il mondo, San Lazzaro di Savena, BO, Nuovi mondi media, 2005]. 27-27Keniche Ohmae, The End of the Nation-State: The Rise of Regional Economies, New York, Simon & Schuster, Inc., 1995 [La fine dello Stato-nazione. L'emergere delle economie regionali, Milano, Baldini e Castoldi, 1996]. 27-28Ian Buruma – Avishai Margalit, Occidentalism: The West in the Eyes of its Enemies, New York, The Penguin Press, 2004, p. 95 [Occidentalismo. L'Occidente agli occhi dei suoi nemici, Torino, Einaudi, 2004]. 27-29Anziché da strutture di governo concepite per limitare il potere statale, la storia cinese, giapponese e coreana è fatta di governanti dotati di autorità suprema sulla vita politica, sociale e culturale, dotati dell'autorevolezza morale per sradicare la corruzione e "ripulire" la società anche con misure extralegali. Vedi Daniel A. Bell, East meets West, cit., pp. 127, 153. 27-30Daniel A. Bell, East Meets West, cit., p. 111. 27-31Fareed Zakaria, The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad, New York, W.W. Norton & Company, 2003 [Democrazia senza libertà. In America e nel resto del mondo, Milano, Rizzoli, 2003]. Zakaria descrive il fenomeno della democrazia illiberale in termini di esistenza di uno stile democratico (elezioni, partiti e così via) senza la sostanza del liberalismo (protezioni costituzionali garantite, separazione dei poteri). 27-32Daniel A. Bell, Beyond Liberal Democracy: Political Thinking for an East Asian Context, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2006, pp. 10-18. 27-33Id., East Meets West, cit., pp. 96, 155. 27-34Chalongphob Sussangkarn, "East Asian Financial Cooperation and Integration", Thailand Development Research Institute, 2005. 28-1Vedi Phillip C. Saunders, "China's Global Activism: Strategy, Drivers, and Tools", National Defense University, Occasional Paper, ottobre 2006. 28-2L'ascesa del Giappone Meiji e il suo miracolo economico post-seconda guerra mondiale furono legati a doppio filo ai rapporti con Gran Bretagna nel primo caso e Stati Uniti nel secondo; come per la Gran Bretagna, la sicurezza del Giappone riposa su una potenza navale capace di proteggere la sua condizione insulare da una terraferma continentale largamente estranea. Durante la modernizzazione giapponese dell'inizio del XX secolo era popolare lo slogan «Lasciare l'Asia per raggiungere l'Europa»; del resto, la percezione corrente oggi in Asia è che il Giappone si comporti più come una potenza del G8 o dell'OCSE che come una potenza asiatica, e secondo molti osservatori la semplice crescita della Cina potrebbe costringere il Giappone a rafforzare il proprio asse con gli USA. Vedi a tal proposito Michael Green – Nicholas Szechenyi, "Common Values: A New Agenda for U.S.-Japan Relations", in «Georgetown Journal of International Affairs», estate-autunno 2006, pp. 47-55. 28-3Howard W. French – Norimitsu Onichi, "Economic Ties Binding Japan to Rival China", in «The New York Times», 31 ottobre 2005. 28-4Vedi Mike M. Mochizuki, "China-Japan Relations", in Power Shift, a cura di David Shambaugh, cit., pp. 135-150; Mixin Pei – Michael Swaine, "Simmering Fire in Asia: Averting Sino-Japanese Strategic Conflict", Carnegie Endowment Policy Brief 44, novembre 2005. 28-5Mikkal E. Herberg, "The Emergence of China Throughout Asia: Security and Economic Consequences for the U.S.", relazione al Committee on Foreign Relations del Senato degli Stati Uniti, 7 giugno 2005; Niklas Swanstrom, "An Asian Oil and Gas Union: Problems and Prospects", in «China-Eurasia Forum», vol. 3, n. 3,2005.
28-6Byung-Kook Kim, "To Have a Cake and Eat It Too: The Crisis of Pax Americana in Korea", in Between Compliance and Conflict, a cura di Dominguez e Cook Kim, cit. 28-7Sheila A. Smith, "Shifting Terrain: The Domestic Politics of the U.S. Military Presence in Asia", East-West Center Special Reports 8, marzo 2006. 28-8Robert Paalberg, "A New Pax Americana? The U.S. Exercise of Hard Power in East Asia and Latin America", in Between Compliance and Conflict, a cura di Dominguez e Cook Kim, cit. 28-9Jae Ho Chung, "China's Ascendancy and the Korean Peninsula", in Power Shift, a cura di David Shambaugh, cit., pp. 151169. 28-10Robert D. Kaplan, "When North Korea Falls", in «The Atlantic Monthly», ottobre 2006, pp. 64-73; Jim Yardley, "Sanctions Don't Dent China-North Korea Trade", in «The New York Times», 27 ottobre 2006. 28-11Un sondaggio svolto dal Lowy Institute nel 2005 ha rivelato che il 69 per cento degli australiani ha una disposizione favorevole verso la Cina, e solo il 58 per cento verso gli Stati Uniti. 28-12Paul Kelly, "Australian for Alliance", in «The National Interest», primavera 2003, p. 90. 28-13La vendita di uranio alla Cina ha sollevato scarse proteste dal momento che questa può già contare su materiali fissili sufficienti per un programma nucleare ed è firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare. 28-14Robert D. Kaplan, "How We Would Fight China", in «The Atlantic Monthly», giugno 2005. 28-15Lee Kuan Yew, The Singapore Story: Memoirs of Lee Kuan Yew, New York, Prentice Hall, Inc., 1999, p. 23. 28-16Ivi, p. 87. 28-17Daniel A. Bell, East Meets West, cit., p. 185. Come scrive Larry Diamond, «una democrazia può dirsi realmente stabile quando le persone arrivano ad apprezzarla non soltanto in base ai risultati economici e sociali, ma anche ai suoi attributi politici». 28-18Riprendo questi criteri in ivi, p. 186. 28-19Arnold Toynbee, East to West, cit., p. 58-59. 28-20Sugata Bose, A Hundred Horizons: The Indian Ocean in the Age of Global Empire, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2006, p. 1. 28-21Citato in C. Raja Mohan, "India and the Balance of Power", in «Foreign Affairs», luglio-agosto 2006. Il Pacific Command (PACOM) degli Stati Uniti comprende già l'India nella propria orbita. Vedi Amitav Acharya, "Will Asia's Past Be Its Future?", in «International Security», vol. 28, n. 3, inverno 2003-2004, pp. 149-164. 28-22Il rapporto Trends 2020 del National Intelligence Council indica la Cina e l'India come potenze «arriviste» che possono definitivamente riallinearsi all'attuale ordine internazionale o respingerlo – o entrambe le cose insieme. 28-23Mark Minevich – Frank-Juergen Richter – Faisal Hoque, Six Billion Minds: Managing Outsourcing in the Global Knowledge Economy, Boston, MA, Aspatore Books, 2006. 28-24Il celebre settore indiano dell'alta tecnologia non impiega più di due milioni di persone, con altri otto milioni a godere di benefici indiretti. Inoltre, con soli trenta milioni di lavoratori impiegati nell'economia ufficiale su un totale di 420 milioni disponibili, l'impressionante crescita economica dell'India non produce virtualmente nuova occupazione. Come scrive Amartya Sen «nemmeno cento Bangalore e cento Hyderabad potranno di per sé risolvere la povertà tenace e le diseguaglianze così profondamente radicate in India» (Amartya Sen, The Argumentative Indian: Writings on Indian History, Culture, and Identity, New York, Farrar, Straus, and Giroux Publishers, 2005, p. 197) [L'altra India. La tradizione razionalistica e scettica alle origini della cultura indiana, Milano, Mondadori, 2005]. 29-1Nella regione i governi militari si sono affermati secondo modelli diversi: per il Myanmar e la Thailandia si è trattato del governo diretto da parte dell'esercito, in Corea del Nord l'esercito ha costituito la spina dorsale del Partito comunista, in Indonesia e nelle Filippine governi autoritari hanno affidato all'esercito un ruolo costituzionale adibendolo a guardia pretoriana del potere. 29-2Young Jong Choi, "The Rise of Regionalist Ideas in East Asia", in Between Compliance and Conflict, a cura di Dominguez e Cook Kim, cit.; Allan Collins, Security in Southeast Asia: Domestic Regional and Global Issues, Boulder, CO, Lynne Rienner Publishers, 2003, capitolo 1; Donald K. Emmerson, "Goldilock's Problem: Rethinking Security and Sovereignty in Asia", in The Many Faces of Asian Security, a cura di Sheldon W. Simon, Lanham, Rowman & Littlefield, 2001, pp. 89-111; "Integration and Illusion: ASEAN in the New Century", in «Georgetown Southeast Asia Survey», p. 34; Perspectives from Asia on Military Intervention, report della conferenza "Regional Responses to Internal War, Fund for Peace", settembre 2002. Per un giudizio scettico sul futuro dell'ASEAN vedi Nicholas Khoo, "Rhetoric versus Reality: Asean's Clouded Future", in «Georgetown Journal of International Affairs», estate-autunno 2004, pp. 49-56. 29-3Gli Stati Uniti hanno nominato uno specifico ambasciatore presso l'ASEAN, hanno iniziato a versare contributi più generosi alla sua segreteria, a Jakarta, e si stanno impegnando più a fondo nell'attività dell'ASEAN Regional Forum (ARF), la più larga piattaforma di sicurezza della regione, che vede la presenza di altre nazioni europee e nordamericane. Sotto la rubrica «sicurezza cooperativa» il calendario annuale dell'ARF elenca decine di eventi per l'addestramento degli addetti al peacekeeping e il potenziamento della cooperazione tra ufficiali di ogni livello. Il passaggio dei membri ASEAN a una reciproca interferenza potrebbe essere uno strumento per ammorbidire le posizioni della Cina riguardo alla propria affermazione di sovranità. Data la mancanza di trasparenza militare della Cina, inoltre, l'ARF potrebbe fungere da meccanismo che spinge i paesi asiatici a trasmettere dati più accurati sui propri bilanci militari come misura di confidence-building regionale. Vedi "US Security Relations With Southeast Asia: A Dual Challenge", Stanley Foundation Policy Bulletin, marzo 2004. 29-4Già Samuel Huntington aveva sostenuto che se la Cina fosse divenuta la potenza dominante della regione, quest'ultima avrebbe assistito alla crescita del sostegno alla sua integrità territoriale, a un più stretto controllo di Pechino sul Mar Cinese meridionale, all'accettazione della sua supremazia militare e della sua leadership sulla regione, a un appoggio alla
Cina sulle questioni dei diritti umani e del commercio, all'abbassamento delle barriere contro l'immigrazione cinese e alla promozione del mandarino. Questo è più o meno quanto sta attualmente accadendo (Samuel Huntington The Clash of Civilizations, cit., pp. 230-231). Sulle relazioni Cina-ASEAN vedi Dana Dillon – John J. Tkacik, "China's Quest for Asia", in «Policy Review», dicembre 2005; Michael A. Glosny, "Heading toward a Win-Win Future? Recent Developments in China's Policy toward Southeast Asia", in «Asian Security», vol. 2, n. 1, 2006, pp. 24-57; Jane Perlez, "Asian Leaders Find China a More Cordial Neighbor", in «The New York Times», 18 ottobre 2003; Oded Shenkar, The Chinese Centuty: The Rising Chinese Economy and Its Impact on the Global Economy, the Balance of Power, and Your Job, Upper Saddle, Philadelphia, PA, Wharton School Publishing, 2005 [Il secolo della Cina. Impatto della crescita cinese sull'economia globale, gli equilibri planetari; il lavoro, Milano, Il Sole 24 Ore, 2005]; Robert Sutter, China's Rise in Asia, cit., capitolo 7. 29-5In realtà un'altra nazione immune a questa maledizione è il minuscolo Brunei, il Qatar dell'Asia sud-orientale, quietamente collocato fra le province malesi di Sarawak e Sabah sull'isola del Borneo. 29-6Malesia e Indonesia guidano congiuntamente il cosiddetto gruppo del «D8», che comprende Bangladesh, Egitto, Iran, Nigeria, Pakistan e Turchia, un cartello di consumatori e di produttori di energia che si sono accordati per accelerare le proprie relazioni di scambio. Vedi il rapporto del chairman dell'International Conference of Islamic Scholars II, Jakarta, Indonesia, 20-22 giugno 2006; Wayne Arnold, "Malaysia works to sell Islam on trade benefits", in «International Herald Tribune», 23 giugno 2005. 29-7Daniel A. Bell, East Meets West, cit., p. 144. 29-8V.S. Naipaul, Among the Believers: An Islamic Journey, Londra, Penguin, 1982, pp. 312,442 [Tra i credenti. Un viaggio nell'Islam, Milano, Rizzoli, 1983]. 29-9"Too High a Price: The Human Rights Cost of the Indonesian Military's Economic Activities", Human Rights Watch, giugno 2006. 29-10L'indonesiana Papua e l'autonoma Papua Nuova Guinea sono separate dal confine forse più artificiale al mondo, una linea verticale tracciata attraverso una fitta giungla che nessuno può pattugliare. Timor Est, ora un paese indipendente, rimarrà anch'essa uno sperduto angolo di Terzo Mondo sulle carte geografiche, a meno che l'Australia non decida di dividere equamente i giacimenti di petrolio che si trovano fra i due paesi. 29-11Arnold Toynbee, East to West, cit., p. 56. 29-12Adam Schwarz, A Nation in Waiting: Indonesia's Search for Stability, Boulder, CO, Westview Press, 2000. 29-13Anthony Bubalo – Greg Fealy, "Between the Global and the Local: Islamism, the Middle East and Indonesia", Saban Center Project on U.S. Policy Towards the Islamic World, Analysis Paper 9, ottobre 2005; Greg Sheridan, "Jihad Archipelago", in «The National Interest», inverno 2004-2005, pp. 73-80; Terrorism in Southeast Asia: The Threat and Response, report della conferenza internazionale organizzata dall'Institute of Defence and Strategic Studies e dall'Office of the Coordinator for Counter terrorism del Dipartimento di Stato americano, Singapore, 12-13 aprile 2006. 29-14Adam Schwarz, "Indonesia alter Suharto", in «Foreign Affairs», luglio-agosto 1997. 29-15Toynbee ha catturato con grande maestria questo persistente fenomeno dei non cinesi che affidano le proprie attività economiche ai cinesi perché incapaci di gestirle in prima persona: «Il negoziante cinese avanza perennemente, senza mai recedere. […] Non è un avventuriero. Vive sulla difensiva, dietro sbarre e saracinesche di ferro, in Chinatown che sono il corrispettivo dei ghetti dell'Occidente cristiano del Medioevo. Vive nel timore costante di furiosi assalti da parte dei popoli del Sudest asiatico, economicamente incompetenti, che servono e sfruttano allo stesso tempo […]. Nessun pogrom e nessuna legislazione discriminatoria possono fermare lo scorrere di questa gentile ma persistente onda cinese [...]. Europei che costruiscono imperi, conquistatori giapponesi, nazionalisti del Sudest asiatico, in ugual misura tutti, a dispetto di noi stessi, abbiamo spianato la strada agli interessi dell'onnipresente venditore ambulante cinese» (Arnold Toynbee, East to West, cit., pp. 48, 58). 29-16I cinesi in Indonesia costituiscono quella che Amy Chua definisce «market-dominant minority» (Amy Chua, World on Fire: How Exporting Free Market Democracy Breeds Ethnic Hatred and Global Instability, New York, Doubleday Books, 2003, p. 43) [L'età dell'odio. Esportare democrazia e libero mercato genera conflitti etnici?, Roma, Carocci, 2004]. 29-17Oltre cinquantamila navi attraversano ogni anno lo Stretto di Malacca, con una media di undici milioni di barili al giorno. 29-18Ora che la Cina è diventata il consumatore di legname in più forte ascesa, gli standard di certificazione per la produzione di legname della UE potrebbero avere un impatto assai scarso sulla rapida deforestazione del paese. 30-1Nel 2007 la Banca Mondiale, la Banca asiatica di sviluppo e donatori occidentali hanno versato complessivamente nelle casse della Cambogia 600 milioni di dollari, la maggior parte del bilancio pubblico del paese. Subito dopo la Cina ha offerto una somma corrispondente, svincolata da alcun tipo di condizione. 30-2Arnold Toynbee, East to West, cit., p. 92. 30-3Sterling Seagrave, Lords of the Rim: The Invisible Empire of Overseas Chinese, New York, Putnam Publishing Group, 1995, p. 304. 30-4Come nota Amy Chua «in Birmania la globalizzazione ha un volto cinese» (Amy Chua, World on Fire, cit., p. 36). 30-5Jane Perlez, "In Life on the Mekong, China's Dams Dominate", in «The New York Times», 19 marzo 2005. 30-6Arnold Toynbee, East to West, cit., p. 86. 30-7Panitan Wattanayagorn, "Thailand: The Elite's Shifting Conceptions of Security", in Asian Security Practice, a cura di Muthiah Alagappa, cit. 30-8Chulacheeb Chinwanno, "Thailand-China Relations: From Strategic to Economic Partnership", Iuj Research Institute, Asia-Pacific Series 6. 30-9Secondo le stime correnti il progetto del canale dell'istmo di Kra richiederebbe dieci anni, trentamila lavoratori e un costo di circa 25 miliardi di dollari per la realizzazione.
30-10Chinese Entrepreneurship and Asian Business Networks, a cura di Thomas Menkhoff e Solvay Gerke, Londra, Routledge Curzon, 2002. 30-11Sterling Seagrave si riferisce a questo stile operativo nei termini di «impero volutamente opaco delle conglomerate» (Sterling Seagrave, Lords of the Rim, cit., p. 2). 30-12William A. Callahan, "Beyond Cosmopolitanism and Nationalism: Diasporic Chinese and Neo-Nationalism in China and Thailand", in «International Organization», vol. 57, estate 2003, pp. 481-517; Busakorn Chantasasawat, "Bourgeoning Sino-Thai Cooperation: Heightening Cooperation, Sustaining Economic Security", in «China: An International Journal», vol. 4, n. 1, 2006, pp. 86-112. 30-13Citato in "The Bold Coast", in «Newsweek», 12 gennaio 2004. 30-14Keith Bradsher, "Vietnam's Roaring Economy is Set for World Stage", in «The New York Times», 25 ottobre 2006. 30-15Un'analisi del punto di vista dei paesi della regione sul potenziamento dell'esercito e della marina cinesi in Richard Sokolsky – Angel Rabasa – C.R. Neu, The Role of Southeast Asia in U.S. Strategy Toward China, Santa Monica, CA, Rand Corporation, 2000; Michael D. Swaine, "China's Regional Military Posture", in Power Shift, a cura di David Shambaugh, cit., pp. 266-285. 30-16John Henderson – Benjamin Reilly, "Dragon in Paradise: China's Rising Star in Oceania", in «The National Interest», estate 2003, pp. 94-104. 31-1Ross Terrill individua ancora nella Cina, sotto diversi punti di vista, «un'economia del Terzo Mondo sposata a un ego da superpotenza» (Ross Terrill, The New Chinese Empire, p. 265). 31-2Vedi George Kennan, American Diplomacy, cit., p. 21. Per un'interpretazione più scettica delle intenzioni che stavano dietro la politica americana della «Porta aperta» vedi William Appleman Williams, The Tragedy of American Diplomacy, cit. 31-3Nel 1949 Mao dichiarò anche che «la Cina è sempre stata una nazione grande, coraggiosa e industriosa; solo nell'epoca moderna è rimasta indietro, e questo è interamente dovuto all'oppressione e allo sfruttamento esercitati dall'imperialismo straniero e dai governi reazionari che hanno retto la nazione. […] Il nostro non sarà più un paese soggetto all'insulto e all'umiliazione. Ci siamo rialzati». 31-4Wu Xinbo, "China: Security Practice of a Modernizing and Ascending Power", in Asian Security Practice, a cura di Muthiah Alagappa, cit. 31-5Lucian Pye, China, New York, Harper Collins, 1990, p. 58. 31-6Bates Gill – Yanzhong Huang, "Sources and Limits of Chinese 'Soft Power'", in «Survival», vol. 48, n. 2, 2006, pp. 1736. 31-7Frank Viviano, "China's Great Armada", in «National Geographic», luglio 2005. 31-8Geoff Wade, "The Zheng He Voyages: A Reassessment", in «Journal of the Malaysian Branch of the Royal Asiatic Society», vol. 78, n. 1, 2005, pp. 37-58. Vedi anche Alastair Ian Johnston, Cultural Realism: Strategic Culture and Grand Strategy in Chinese History, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1995. 31-9Joshua Cooper Ramo, "The Beijing Consensus", Foreign Policy Centre, maggio 2004. Per Mark Leonard in realtà non ci sarebbe ancora accordo sul Consenso di Pechino, a causa della rapidità dell'evolversi dell'economia e della società del paese (Mark Leonard, "The road obscured", in «Financial Times Magazine», 9-10 luglio 2005). 31-10Peter van Ness, "China's Response to the Bush Doctrine", in «World Policy Journal», inverno 2004-2005, p. 40. 31-11Una discussione delle prospettive cinesi in merito alla teoria e alla pratica della governance globale in Cai Tuo, "Global Governance: the Chinese Angle of View and Practice", in «Social Sciences in China», estate 2004, pp. 57-68. 31-12Peter Gries, China's New Nationalism: Pride, Politics, and Diplomacy, Berkeley, University of California Press, 2004; Suisheng Zhao, A Nation-State by Construction: Dynamics of Modem Chinese Nationalism, Palo Alto, CA, Stanford University Press, 2004. 31-13James Lilley, China Hands: Nine Decades of Adventure, Espionage, and Diplomacy in Asia, New York, Public Affairs, 2004. 31-14Come sostiene autorevolmente Wang Jisi «Cina e Stati Uniti non possono sperare di stabilire relazioni amichevoli» (Wang Jisi, "China's Search for Stability With America", in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2005). Per una storia delle relazioni sino-americane nell'età contemporanea rinvio a David Lampton, Same Bed, Different Dreams: Managing U.S.China Relations 1989-2000, Berkeley, CA, University of California Press, 2001. Per una rassegna delle differenti prospettive teoriche al riguardo vedi invece Aaron L. Friedberg, "The Future of US-China Relations: Is Conflict Inevitable?", in «International Security», vol. 30, n. 2, 2005. Secondo Henry Kissinger «con l'inizio di questo nuovo secolo saranno esattamente le relazioni fra Cina e Stati Uniti a determinare se i nostri figli vivranno nel disordine […] o saranno testimoni di un nuovo ordine mondiale compatibile con […] la pace e il progresso» (Henry Kissinger, in «The Washington Post», 13 giugno 2005). 31-15Come sostiene, Li Shaojun «la Cina non minaccerà nessun altro Stato, e non tollererà minacce da nessun altro Stato» (Li Shaojun, "Explaining elements in China's foreign strategy", testo inedito, 2006). 31-16William S. Murray III – Robert Antonellis, "China's Space Program: The Dragon Eyes the Moon (and Us)", in «Orbis», autunno 2003, pp. 645652. I diversi aspetti del dibattito sugli obiettivi e i progressi del programma spaziale cinese sono analizzati nel numero speciale "China's Space Ambitions", in «China Security», n. 2, 2006. 31-17La Cina è comunque già una potenza nucleare, e sta velocemente ammodernando il proprio arsenale atomico e la propria forza missilistica, che include missili balistici intercontinentali; la flotta cinese si sta inoltre dotando di nuovi sottomarini e di cacciatorpedinieri in grado di assicurarle capacità di sea-denial [contenimento dell'accesso dell'avversario al mare, N.d.T.] e raggio d'azione oceanico. Se la Cina non possiede ancora una proiezione militare globale, è anche vero che i potenziali obiettivi che stanno dietro alla sua ricerca di forze armate più efficienti e meno visibili – ad esempio l'occupazione di isole di piccole dimensioni e la capacità di affondare navi americane e giapponesi o di lottare efficacemente per la conquista marittima e terrestre di Taiwan – non richiedono una dispersione globale di mezzi. Vedi a
tal proposito Brad Roberts – Robert A. Manning – Ronald N. Montaperto, "China: The Forgotten Nuclear Power", in «Foreign Affairs», luglio-agosto 2000, pp. 53-63; Edward Cody, "China Builds a Smaller, Stronger Military", in «The Washington Post», 12 aprile 2005. 31-18Per osservazioni e aneddoti sull'importanza della conoscenza del cinese ai fini della comprensione della visione del mondo e della cultura della nazione rinvio a Tim Clissold, Mr. China, New York, Harper Collins, Inc., 2004 [Mister Cina, Torino, EDT, 2005]. 31-19Ross Tendl, The New Chinese Empire, cit., p. 26. 31-20L'espressione cinese per «potenza nazionale complessiva» è Zonghe guoli, una concezione che abbraccia risorse naturali, potenzialità economiche, scambi esterni e potenzialità d'investimento, alti livelli di sviluppo sociale, potenzialità militari, alti livelli di efficacia di governo e potenzialità diplomatiche. 31-21Quando geopolitica e globalizzazione si incrociano tutto diventa permesso. In un testo non autorizzato e altamente provocatorio dal titolo Unrestricted Warfare (Guerra senza limiti), due colonnelli cinesi hanno spinto all'estremo lo scenario di un mondo in cui le divisioni fra istituzioni governative e non governative stanno svanendo, i disegni strategici possono essere privi di forma definita, gli individui sono in grado di esercitare un potere non inferiore a quello degli Stati e il livello degli strumenti tecnologici cancella le regole della guerra. «Non c'è nulla oggi, al mondo», scrivono, «che non possa diventare un'arma, e le armi a disposizione, quali che siano – il denaro, internet, l'ambiente, i media, il diritto –, devono essere impiegate per piegare a proprio favore il conflitto e controllare invisibilmente il destino dei rivali attraverso l'inganno e l'offuscamento della realtà, che sono gli equivalenti asiatici della dissimulazione araba». Tale «guerra combinata» è l'unico, e legittimo mezzo con il quale le potenze più deboli possono sconfiggere quelle più forti, reggendosi sul proprio diritto a superare la propria inferiorità. Vedi Ling-Xiangsui, Unrestricted Warfare [Guerra senza limiti. L'arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Gorizia, Leg, 2001]. 31-22Gerald Segal, "East Asia and the 'constrainment' of China", in «International Security», vol. 20, n. 4, 1996, pp. 107135; Zalmay Khalilzad, "Congage China", Rand Issue Paper 187, 1999. 31-23Evan S. Medeiros – M. Taylor Fravel, "China's New Diplomacy", in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 2003. 31-24Stanley Crossick, "The Rise of China and its Implications for the EU", lezione alla National University di Singapore, 26 maggio 2006. 31-25Negli anni Novanta, sotto il titolo China Rule of Law Initiative, fu elaborato dagli Stati Uniti un insieme di programmi mirati a vincolare lo status commerciale di nazione più favorita (MFN) a decisivi progressi nel campo dei diritti umani; la liberalizzazione economica in Cina non funzionò tuttavia come cavallo di Troia della riforma politica, e Pechino ebbe buon gioco a innalzare barriere intese a impedire che le riforme del settore commerciale si allargassero alla politica e all'esercizio della giustizia (Matthew C. Stephenson, "A Trojan Horse Behind Chinese Walls?: Problems and Prospects of US-Sponsored 'Rule of Law' Reform Projects in the People's Republic of China", Center for International Development, Working Paper 47, Harvard University, maggio 2000). In Cina la società civile non è considerata un autonomo terzo settore accanto allo Stato e al settore privato, ma è semplicemente un'accozzaglia di «organizzazioni popolari» generalmente sponsorizzate e rigidamente monitorate dal governo. Pechino detta senza mezzi termini quali ONG straniere accogliere, dove, e su quali basi, e queste possono ambire al massimo al rango di interferenze utili, attive come agenzie di consulenza in merito agli obiettivi del governo e non come elementi di instabilità. Attraverso una serie infinita di cavilli legali la Cina ha impedito per anni l'apertura di un ufficio del Comitato della Croce rossa internazionale (ICRC) sul proprio territorio. 31-26Gordon Chang, The Coming Collapse of China, New York, Random House, 2001; George J. Gilboy, "The Myth Behind China's Miracle", in «Foreign Affairs», luglio-agosto 2004, p. 34; Mixin Pei, China's Trapped Transition: The Limits of Developmental Autocracy, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2006. 31-27Ted C. Fishman, China, Inc., cit., p. 167; David Hale – Lyric Hughes Hale, "China Takes Off", in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 2003, p. 44; Sedi G. Jones – E Stephen Larrabee, "Arming Europe", in «The National Interest», inverno 2005-2006, p. 68. 31-28Ian Bremmer – Fareed Zakaria, "Hedging Political Risk in China", in «Harvard Business Review», novembre 2006. 31-29Jehangir S. Pocha, "One Sun in the Sky: Labor Unions in the People's Republic of China", in «Georgetown Journal of International Affairs», inverno-primavera 2007, p. 11. 31-30Anne Stevenson-Yang – Ken DeWoskin, "China Destroys the IP Paradigm ", in «Far Eastern Economic Review», vol. 168, n. 3, 2005; Richard P. Suttmeier, "Assessing China's Technology Potential", in «Georgetown Journal of International Affairs», estate-autunno 2004, pp. 97-105. 31-31Vedi "Red, Inc.", in «Harper's», febbraio 2006. 31-32Del resto la cultura confuciana cinese è fondata molto più sull'idea di trasmissione che non su quella di creazione: l'apprendimento attraverso la pratica conduce infatti necessariamente a infrazioni, che in quanto tali devono essere evitate. Inoltre, le stesse aziende occidentali hanno senza dubbio passato la misura nella loro smania di brevetti, che a volte non sono altro che coperture legali dell'appropriazione di prodotti dell'antica sapienza medievale, come nel caso dei medicinali erboristici dell'Ayurveda. Secondo questa logica è l'Occidente che, controllando il quadro legale internazionale, non ha fatto altro che sottrarre indebitamente idee all'Oriente infliggendo poi punizioni a quanti hanno continuato a fare ciò che facevano da secoli. Vedi a tal proposito "Intellectual Property and Traditional Chinese Culture", in Topics in Contemporary Philosophy, a cura di Philip J. Ivanhoe e Campbell O'Rourke-Shier, pp. 125-142. 31-33Le aziende occidentali possono comunque trarre ampi profitti dalle società cinesi che entrano nel mercato anziché limitarsi a invaderlo con i loro prodotti a basso costo. Un noto esempio è quello dell'acquisto di una divisione dell'IBM da parte di Lenovo, che ha costretto quest'ultima a installare versioni legali del sistema operativo Windows, trasformando Microsoft da vittima a vincitore del software piratato che circola in Cina.
31-34Si tratta di un'idea implicita nella dottrina del «piccolo Stato, grande società». 31-35Secondo l'Accademia cinese di scienze sociali (CASS) la Cina avrebbe dodici distinte classi sociali, anziché le classiche tre – come si conviene a una nazione di tali dimensioni. 31-36Il grando salto verso l'eliminazione della povertà in Cina ebbe luogo negli anni Ottanta, quando l'investimento estero diretto era ancora trascurabile, come esito dei massicci prestiti al nascente settore privato e degli investimenti nell'agricoltura che aprirono la strada a settori ad alta occupazione come quello della trasformazione alimentare. Benché il 60 per cento della popolazione cinese sia ancora costituito da coltivatori, l'agricoltura rappresenta ormai meno del 15 per cento del PIL del paese (Emile Kok-Kheng Yeoh, "Development Policy, Demographic Diversity, and Interregional Disparities in China", relazione alla sessione inaugurale del workshop internazionale China World, 10-11 marzo 2006, Asia Research Centre, Copenhagen Business School). Vedi anche Shang-Jin Wei, "Is Globalization Good for the Poor in China?", in «Finance and Development», settembre 2002. In Cina il coefficiente di Gini, l'indice standard di diseguaglianza del reddito, dall'inizio delle riforme è salito a 45 in virtù del rapido arricchimento degli strati superiori della società – un livello comunque non peggiore di quello degli USA. Nei contesti urbani l'indice Gini si attesta a 32, in linea con la media mondiale. 31-37La priorità dello sviluppo delle campagne decisa da Hu Jintao ha acuito il dibattito ideologico sui meriti del capitalismo alla luce del gap sempre più profondo tra i redditi urbani e quelli rurali. 31-38Le aziende petrolchimiche sono responsabili del significativo inquinamento di un terzo dei fiumi del territorio e del 90 per cento di quelli che scorrono nelle città, con il caso clamoroso della fuoriuscita di benzene nelle acque del fiume Songhua, a Harbin, che nel 2005 ha messo a rischio l'intera disponibilità idrica di una regione già cronicamente a corto di acqua. Un terzo del territorio della Cina è peraltro già soggetto a desertificazione, e migliaia di villaggi sono stati abbandonati a causa dello scarsissimo afflusso delle acque dello Huang He nei laghi in secca della provincia di Qinhai. 31-39Jim Yardley, "China's Next Big Boom Could be the Foul Air", in «The New York Times», 30 ottobre 2005. 31-40Wenran Jiang, "Beijing's 'New Thinking' on Energy Security", Jamestown Foundation China Brief, 12 aprile 2006. 31-41La Cina può contare sulla metà soltanto della media mondiale di risorse pro capite, eppure usa sette volte l'energia del Giappone per il medesimo volume di produzione, sei volte quella degli Stati Uniti e tre volte quella dell'India. È stata discussa l'eventualità che la Cina obblighi le aziende straniere a pagare per i carburanti che impiegano negli stabilimenti sul suo territorio, una mossa intelligente che le impegnerebbe a sostenerla nel reperimento di risorse e nella garanzia dell'apertura delle rotte del petrolio. La verità, tuttavia, è che sono le fabbriche urbane cinesi, e non le multinazionali, la maggiore fonte di produzione inquinante. 31-42Yongjin Zhang, "China Goes Global", Foreign Policy Centre, 2005. 31-43La diga delle Tre gole sullo Yangtze (il terzo fiume più lungo al mondo dopo il Rio delle Amazzoni e il Nilo) fornirà, con il suo completamento nel 2010, fino al 10 per cento del fabbisogno energetico della Cina. In Tibet, una diga sullo Tsangpo (che prosegue il suo corso in India e nel Bangladesh con il nome di Brahmaputra) genererà trentotto milioni di kilowatt grazie alla centrale elettrica di Mendok, e la deviazione delle acque del fiume rifornirà seicento città nel Nord del paese. Un canale di duemila chilometri, la più lunga via d'acqua artificiale al mondo, collegherà presto sei province (fra cui quella di Pechino) e quattro sistemi idrografici, drenando enormi quantità di acqua dalla provincia di Jiansu. Come nel caso degli Stati del Golfo Persico, la gestione delle risorse è comunque prima di tutto un affare politico: i ministeri cinesi del carbone, del petrolio e del gas competono fra loro e con le compagnie petrolifere di Stato – a loro volta dotate di un rango praticamente ministeriale –, impedendo l'emergere di una strategia energetica nazionale. Come hanno fatto gli sceicchi di Abu Dhabi, Pechino potrebbe essere costretta a innestare i diversi State energy leading groups del paese, le 'grandi compagnie energetiche statali', ai vertici dei relativi ministeri per riuscire finalmente a conseguire una vera riforma del settore energetico. 31-44Joanna I. Lewis, "Leading the Renewable Energy Revolution", in «Georgetown Journal of International Affairs», estate-autunno 2006, pp. 147-154. 31-45Sterling Seagrave, Lords of the Rim, cit., pp. 61-63. 31-46Norimitsu Orishi – Howard W. French, "Chinese Warships Remind Japan of Challenge on the Seas", in «International Herald Tribune», 11 settembre 2005. 31-47Barry Lynn, End of the Line: The Rise and Coming Fall of the Global Corporation, New York, Doubleday Books, 2005. 31-48Banning Garrett – Jonathan Adams – Franklin Kramer, "Taiwan In Search of a Strategic Consensus", Atlantic Council Issue Brief, marzo 2006. 31-49Daniel A. Bell, Beyond Liberal Democracy, cit., capitolo 7. 31-50Il PIL pro capite di Shenzhen si attesta sui dodicimila dollari, quello di Shanghai sugli ottomila. 31-52Bruce Gilley, China's Democratic Future: How it Will Happen and Where It Will Lead, New York, Columbia University Press, 2004. 31-52James Lilley, China Hands, cit., p. 341. 31-53Daniel A. Bell, "Chinese Leaders Rediscover Confucianism", in «International Herald Tribune», 14 novembre 2006. 31-54Il Politburo e il Consiglio per gli affari di Stato sono diventati più simili a squadre sportive che a una monolitica scatola nera del Partito, con dibattiti concreti e sostanziali passaggi di potere tra le fazioni e i diversi gruppi di voto (Cheng Li, "The new Bipartisanship within the Chinese Communist Party", in «Orbis», estate 2005, pp. 387-400). 31-55Come sostiene Mixin Pei «se non sarà il successo economico a porre fine al regime monopartitico in Cina, probabilmente sarà la corruzione a farlo» (Mixin Pei, "The Chinese Communist Party", in «Foreign Policy», settembreottobre 2005, p. 46). 31-56Albert Keidel, "China's Social Unrest: The Story Behind the Stories", Carnegie Endowment Policy Brief, n. 48, settembre 2006.
31-57Un'analisi storica dei precedenti sforzi di riforma del regime agrario in Yuan-Tsung Chen, The Dragon's Village: An Autobiographical Novel of Revolutionary China, New York, Penguin Group, Inc., 1981. 31-58Per i cinesi la democrazia è uno strumento per frenare la corruzione e rafforzare la trasparenza, non una modalità concorrenziale della politica. In una popolazione così estesa le petizioni restano un'arma più efficace della democrazia. Vedi Daniel A. Bell, East meets West, cit., pp. 138-141. 31-59Negli anni Ottanta fu creato un Ufficio per la riforma politica che si avvaleva frequentemente di pareri di esperti di business e di avvocati formatisi all'estero (Mixin Pei, "Political Reform in China: Leadership Differences and Convergence", relazione al convegno "Chinese Leadership, Politics and Policy, Carnegie Endowment for International Peace", 2 novembre 2005). 31-60Zheng Bijian, "China's 'Peaceful Rise' to Great-Power Status", in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2005. 31-61Un'ampia discussione di quello che potrebbe significare una democrazia con caratteri cinesi in Daniel A. Bell, East Meets West, cit., capitolo 5. 31-62Speak No Evil: Mass Media Control in Contemporary China, Washington, DC, Freedom House, 2006; Clive Thompson, "Google's China Problem (and China's Google Problem)", in «The New York Times Sunday Magazine», 23 aprile 2006. C5-1Come sostengono Alberto Alesina ed Enrico Spolaore, ogni potenza è un "Leviatano" impegnato a determinare la propria configurazione ottimale, ossia l'equilibrio del rapporto tra compensazione di dimensioni, risorse ed eterogeneità, da un lato, e la necessità di procurare vantaggi ai membri eterogenei che costituiscono la compagine statale (Alberto Alesina – Enrico Spolaore, The Size of Nations, Cambridge, MA, Mit Press, 2003, capitolo 5). C5-2Secondo John Mearsheimer, uno studioso che di certo non manca di realismo, «questo ciclo di violenza continuerà a lungo anche nel nuovo millennio. Le speranze di pace avranno probabilmente forti difficoltà a realizzarsi poiché le grandi potenze che definiscono il sistema internazionale sono guidate dal timore reciproco mentre competono per il potere». Vedi The Tragedy of Great Power Politics, New York, W.W. Norton & Company, 2001 [La logica di potenza. L'America, le guerre, il controllo del mondo, Milano, Università Bocconi, 2003]. C5-3Già George Kennan era perfettamente consapevole che questa era solo una parte della questione, così concepita per assicurare agli americani «il piacere di dipingerci come protettori illuminati, benefattori e maestri di popoli meno fortunati e meno progrediti di noi. […] Una forma di narcisismo nazionale, di autoammirazione collettiva […] fatta apposta per nascondere un profondo, inconscio sentimento di insicurezza, un bisogno di rassicurazione, e dunque qualche cosa che discorda bruscamente con il nostro superbo atteggiamento esterno. […] Le offese che abbiamo arrecato al resto del mondo sin dalla proclamazione dell'indipendenza non sono sorte di regola da alcun desiderio di offendere gli altri o di stabilire un dominio su di loro, bensì dalla nostra tendenza ad assumere nobili atteggiamenti per fare impressione su noi stessi» (American Diplomacy, cit., pp. 158, 169). Né la retorica della supremazia americana può ormai fare affidamento sul benessere della nazione, dal momento che, come scrive il Nobel Robert Solow, «più passa il tempo e più l'idea che Dio abbia voluto che gli americani fossero perennemente più ricchi del resto del mondo diventa sempre meno realistica» (Robert Solow, in «The New York Times», 14 dicembre 2003). In realtà, quanto più la superiorità americana è concepita in termini materiali, militari soprattutto, tanto più gli altri sistemi possono giustificare le loro ideologie nel nome del conseguimento di un uguale peso materiale e militare. In altri termini esiste uno squilibrio fra la superiorità militare degli Stati Uniti e la loro pretesa leadership mondiale: ci si dimentica spesso, del resto, che anche l'Unione Sovietica esercitava un soft power considerevole, e che esso fu drammaticamente indebolito dal suo impiego brutale dello hard power, finché né l'uno né l'altro riuscirono più a salvarla dal collasso. C5-4Come scrive Benjamin Barber «in quanto conseguenza di un'anarchia priva di legge, lo stato di natura è per Hobbes soprattutto uno stato di paura. […] Il rimedio non è il potere, che gli uomini già possiedono nello stato di natura, ma la legge e il contratto che la determina, che nello stato di natura non sono presenti» (Benjamin Barber, Fear's Empire: War, Terrorism and Democracy, New York, W.W. Norton and Company, 2004, p. 70). C5-5Hans Morgenthau, Scientific Man vs. Power Politics, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1946 [L'uomo scientifico versus la politica di potenza, Roma, Ideazione, 2005]. C5-6Sulla scia della teoria delle sfide e delle risposte di Toynbee, George Kennan temeva le conseguenze dell'eccessivo affidamento degli Stati Uniti sul loro esercito: «La forza, come la pace, non è un'astrazione; non può essere concepita o gestita come un concetto estraneo a una data cornice di obiettivi e metodo». Kennan prevedeva già che l'evoluzione della guerra fredda verso crescenti investimenti in armamenti, unita all'abitudine americana di individuare un grande nemico esterno, avrebbe creato una dipendenza dalla pratica pericolosa di costituire enormi arsenali privi di ragione: «Esiste una curiosa tendenza americana a cercare senza sosta un unico, esterno centro del male, cui possano essere attribuite tutte le difficoltà del paese, invece di riconoscere che ci possono essere molteplici fonti di resistenza ai nostri obiettivi e alle nostre imprese, e che queste fonti possono essere relativamente indipendenti l'una dall'altra». Vedi American Diplomacy, cit., pp. 90, 164, 173. Vedi anche Andrew J. Bacevich, The New American Militarism: How Americans are Seduced by War, New York, New York University Press, 2005; Victor Davis Hanson, A War Like No Other: How the Athenians and Spartans Fought the Peloponnesian War, New York, Random House, 2005 [Una guerra diversa da tutte le altre. Come Atene e Sparta combattevano nel Peloponneso, Milano, Garzanti, 2008]. C5-7L'America è dichiaratamente anticolonialista, ma di certo agisce in base a un'ideologia imperiale. È una condizione catturata in modo divertente dalla parodia di Niall Ferguson degli americani in guerra all'altro capo del mondo: «Fatto! Adesso possiamo tornare a casa?». L'imperialismo americano è una tradizione che risale all'epoca dell'espansione all'Ovest, e che successivamente si è fatta strada nel XX secolo prima attraverso il ripetuto impegno a impedire l'egemonia di altre potenze, poi con gli attuali interventi nel nome dei diritti umani, della democrazia, della lotta al terrorismo o del petrolio. Fino a oggi la dialettica fra democratici e repubblicani non ha toccato la questione se l'America dovesse intervenire, ma solo dove e quando. Come aveva predetto John Quincy Adams, l'America non si troverà mai a
corto di giustificazioni per «andarsene in giro per il mondo alla ricerca di mostri da distruggere», né, come nota Andrew Bacevich, di ragioni per lanciare una «Operation [digitare il nome] Freedom». C5-8Come E.H. Carr scrisse del valzer geopolitico fra le due guerre, «i pensatori utopisti dei paesi anglofoni erano veramente convinti che la fondazione della Società delle Nazioni avrebbe eliminato il potere dalle relazioni internazionali. Quello che fu comunemente noto come "il ritorno alla politica di potenza", nel 1931, fu in realtà la fine del monopolio del potere da parte delle potenze che avevano garantito lo status quo (seguito alla prima guerra mondiale)». Vedi Edward Hallett Carr, The Twenty Years' Crisis, 1919-1939: An Introduction to the Study of International Relations, New York, Harper Perennial, 1964. C5-9«Proprio nel momento in cui il mondo sta scoprendo la democrazia e imparando a sbrigarsela politicamente senza gli Stati Uniti, questi ultimi cominciano a perdere le proprie caratteristiche democratiche e a scoprire di non potercela fare senza il resto del mondo» (Emmanuel Todd, After the Empire: The Breakdown of the American Order, New York, Columbia University Press, 2002, p. 20) [Dopo l'impero, Milano, Tropea, 2003]. C5-10Abituati a vivere in quello che Tocqueville chiamava uno stato di «autoadorazione perpetua», gli americani soffrono di una cronica amnesia storica riguardo alla realtà del loro vero ruolo nella storia. Mark Hertsgaard ha isolato un certo numero di peculiarità che gli stranieri attribuiscono agli Stati Uniti e che stridono clamorosamente con l'auto-percezione degli americani: il provincialismo e l'egotismo, l'ipocrisia e l'atteggiamento dispotico, le ingenuità nella visione del mondo, il conformismo, il moralismo e il perseguimento a senso unico dei propri interessi (Mark Hertsgaard, The Eagle's Shadow: Why America Fascinates and Infuriates the World, New York, Farrar, Straus & Giroux Publishers, 2002, p. 21 [L'ombra dell'aquila. Perché gli Stati Uniti sono così amati e così odiati, Milano, Garzanti, 2003]. Vedi anche Julia Sweig, Friendly Fire: Losing Friends and Making Enemies in the Anti-American Century, New York, Public Affairs, 2006. C5-11Harold Nicolson, Peacemaking 1919. C5-12Un'analisi dei costi crescenti delle alleanze degli USA nel corso del XX secolo in David A. Lake, Entangling Relations: American Foreign Policy in its Century, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1999. Vedi anche Julianne Smith – Thomas Sanderson, "Evaluating Our Partners and Allies Five Years Later", in «The Washington Post», 11 settembre 2006. C5-13Christopher Layne, "The Unipolar Illusion Revisited: The Coming End of the United States Unipolar Moment", in «International Security», vol. 31, n. 2, 2006, pp. 7-41. C5-14Andrew Kohut – Bruce Stokes, America Against the World: How We Are Different and Why We Are Disliked, New York, Times Books, 2006, p. 49. C5-15Arnold Toynbee, A Study of History, cit., vol 11. C5-16Leon Fuerth, "Strategic Myopia", in «The National Interest», primavera 2006. C5-17David J. Kilcullen, "New Paradigm for the 21st Century Conflict", in «eJournal USA: An Electronic Journal of the US Department of State», maggio 2007. C5-18Michael Barnett – Raymond Duvall, "Power in International Politics", in «International Organization», vol. 59, 2005, pp. 39-75; Daniel H. Nexon – Thomas Wright, "What's at Stake in the American Empire Debate", in «American Political Science Review», vol. 101, n. 2, 2007. Una serie di articoli affronta il dibattito in merito alle contromisure hard e soft nei confronti del potere degli Stati Uniti attualmente in via di elaborazione nel mondo. Vedi Robert A. Pape, "Soft Balancing Against the United States", T.V. Paul, "Soft Balancing in the Age of U.S. Primacy", e Stephen G. Brooks – William C. Wohlforth, "Hard Times for Soft Balancing", tutti in «International Security», vol. 30, n. 1, 2005. C5-19Bruce Bueno de Mesquita – George W. Downs, "Development and Democracy", in «Foreign Affairs», settembreottobre 2005. Jeane Kirkpatrick, ambasciatrice degli Stati Uniti presso l'ONU negli anni Ottanta, giustificava l'appoggio di Washington ai regimi autoritari sulla base del fatto che essi, a differenza dei totalitarismi, non cercano di mutare la società ("Dictatorships and Double-Standards", in «Commentary», vol. 68, n. 5, 1979). C5-20La prospettiva regionale è diventata così importante che alcune proposte del Consiglio di sicurezza dell'ONU prevedono la creazione di seggi regionali occupati a rotazione dai paesi appartenenti a ciascuna regione. Gli Stati Uniti potrebbero promuovere i propri vicesegretari di Stato al rango dei CINC del Pentagono [i responsabili dei comandi strategici delle forze USA, N.d.T.], assegnando loro più autorità in materia decisionale e di coordinamento politico sulle rispettive regioni. C5-21Secondo Spengler la decadenza tecnologica e culturale era la causa prima del declino di una civiltà (Spengler, The Decline of the West, cit.). C5-22Benché il controllo sulla quantità mondiale di moneta sia senza dubbio uno strumento chiave per esercitare influenza, allo status eccezionale del dollaro come valuta di riserva del globo non corrisponde, con le attuali condizioni di denazionalizzazione delle valute, un effettivo dominio monetario americano. Vedi Benjamin J. Cohen, "The Geopolitics of Currencies and the Future of the International System", University of California, Santa Barbara, Global & International Studies Program, Paper 10, 2003. Per una panoramica sulle relazioni tra moneta e territorio rinvio a Benjamin J. Cohen, The Geography of Money, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1998. C5-23Joseph Stiglitz, "The Roaring Nineties", in «Atlantic Monthly», ottobre 2002. C5-24Erik Erikson, Childhood and Society. C5-25Ajay Kapur – Niall Macleod – Narendra Singh, "Plutonomy: Buying Luxury, Explaining Global Imbalances", Citigroup Industry Note, 16 ottobre 2005. C5-26Robert B. Reich, The Future of Success, New York, Alfred A. Knopf, 2001 [L'infelicità del successo, Roma, Fazi, 2001]. Il salario minimo in termini reali è soltanto del 37 per cento inferiore a quello che era nel 1968. C5-27Dal 1980 a oggi gli Stati Uniti hanno speso in infrastrutture meno del 2 per cento del PIL. C5-28Steven A. Camarota, "Immigration from Mexico: Assessing the Impact on the United States", Center for Immigration Studies, 2001.
C5-29David Rieff, Los Angeles: Capital of the Third World, New York, Touchstone Books, 1992. C5-30Samuel Huntington, Who Are We? The Challenges to America's National Identity, New York, Simon & Schuster, Inc., 2004 [La nuova America. Le sfide della società multiculturale, Milano, Garzanti, 2005]. C5-31Alberto Alesina – Edward L. Glaeser – Bruce Sacerdote, "Why Doesn't the U.S. have a European-Style Welfare State?", Harvard Institute of Economic Research, Discussion Paper 1933, ottobre 2001. C5-32Michael Ignatieff, "The Broken Contract", in «The New York Times Magazine», 24 settembre 2005, p. 16. C5-33Richard G. Wilkinson, The Impact of Inequality: How to Make Sick Societies Healthier, Londra, Routledge, 2005. C5-34Per Christopher Lasch «negli Stati Uniti i segni dilaganti dell'inefficienza e della corruzione diffuse, il declino della produttività, la caccia ai profitti derivanti dalla speculazione alle spese dell'industria, il deterioramento delle infrastrutture materiali, le condizioni squallide delle grandi città in preda al crimine, l'aumento allarmante e rovinoso della povertà, e l'allargarsi della forbice tra poveri e ricchi, moralmente oscena e politicamente esplosiva, sono condizioni i cui esiti sinistri non possono più a lungo essere ignorati o nascosti, e che hanno riaperto il dibattito storico sulla democrazia. Proprio nel momento del suo folgorante trionfo sul comunismo la democrazia è sottoposta a un pesante fuoco di fila interno, e il dissenso non potrà che crescere davanti a questo susseguirsi di insuccessi. Istituzioni formalmente democratiche non garantiscono un ordine sociale accettabile, come possiamo apprendere dall'esempio dell'India e dell'America Latina. In una fase in cui le condizioni di vita delle città americane cominciano a diventare simili a quelle delle città del Terzo Mondo, la democrazia stessa è chiamata in causa» (Christopher Lasch, The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy, New York, W.W. Norton & Company, 1996) [La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1995]. C5-35Michael Lind, Made in Texas: George W. Bush and the Southern Takeover of America Politics, New York, Basic Books, 2003. C5-36Come nota Alan Wolfe «il sistema politico ideale dovrebbe essere composto da un partito conservatore simile a quello che furono i tories all'epoca di Benjamin Disraeli e da un partito liberale basato sull'ideale socialdemocratico portato a compimento nell'Europa del secondo dopoguerra. Se l'America ha rinunciato alla sua grandezza è perché il suo sistema politico non prevede né l'uno né l'altro di questi due modelli» (Alan Wolfe, Return to Greatness: How America Lost Its Sense of Purpose and What it Needs to Do to Recover It, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2005, p. 169) [Ritorno alla grandezza. Come l'America ha perso la consapevolezza dei propri fini e come può ritrovarla, Torino, UTET libreria, 2007]. C5-3737. J.K. Galbraith, The Economics of Innocent Fraud: Truth for Our Time, New York, Houghton Mifflin, 2004 [L'economia della truffa, Milano, Rizzoli, 2004]. C5-38Robert Gilpin, War and Change in World Politics, cit., capitolo 4. Amitai Etzioni, di suo, nota come la democrazia cominci a decadere allorché la leadership ignora i bisogni pubblici (Robert Gilpin, "How Liberty is Lost", in «Society», vol. 40, n. 5, 2003, pp. 44-51). C5-39Il realismo non comporta necessariamente l'assenza di regole e di norme, né fa del conflitto qualcosa di inevitabile, e si limita piuttosto a spiegare le dinamiche che si dipanano in una condizione di anarchia, cioè in un mondo privo di un'unica autorità sovrana. Benché legato alle fondamentali pulsioni umane verso la sicurezza, la ricchezza e la dignità, il realismo non deve però essere confuso con la pura aggressività muscolare: quello che incoraggia è il calcolo prudente dei mezzi e dei fini, un mix fra una visione dettata dalla morale e la perspicacia. Se il refrain machiavelliano è che il fine giustifica i mezzi, il realismo e il pragmatismo vi aggiungono una considerazione dei costi. Morgenthau sosteneva che «il potere, anche se limitato e qualificato, è il valore che la politica internazionale riconosce come supremo»; ciò non toglie che la sua interpretazione del realismo – successivamente adottata da quanti rappresentano oggi la migliore scuola realista – comprenda una dura critica alle avventure imperiali che finiscono puntualmente per impantanarsi, preferendo sottolineare il valore del semplice arginamento dell'anarchia e della conservazione di relativi vantaggi di potere. Di qui la contrarietà di Morgenthau alla guerra del Vietnam e, nel 2003, quella di Kennan alla guerra in Iraq. Il realismo ha una forte connotazione psicologica, e per questo non abolisce la morale, ma si colloca piuttosto in una posizione di inquieta consapevolezza rispetto a essa. Come scrive Robert Jackson «l'etica dell'arte di governo è, sopra ogni altra cosa, un'etica situazionale il cui nucleo è costituito dalla norma della prudenza» (Robert Jackson, The Global Covenant: Human Conduct in a World of States, Londra, Oxford University Press, 2005). Vedi anche Anatol Lieven – John Hulsman, Ethical Realism: A Vision for America's Role in the World, New York, Pantheon Books, 2006; Reinhold Niebuhr, The Structure of Nations and Empires, New York, C. Scribner's Sons, 1959. C5-40Un'analisi delle implicazioni dell'aumento dell'influenza evangelica sulla politica estera americana in Walter Russell Mead, "God's Country?", in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2006, pp. 24-43. Stephen Walt sostiene che «la combinazione tra filosofia politica universalista e forti venature evangeliche è destinata senza dubbio a suscitare allarme nelle altre nazioni, comprese diverse democrazie a noi vicine» (Stephen Walt, Taming American Power: The Global Response to U.S. Primacy, New York, W.W. Norton & Company, 2005). C5-41Kevin Phillips, American Theocracy: The Peril and Politics of Radical Religion, Oil, and Borrowed Money in the 21' Century, New York, Viking Press, 2006 [La teocrazia americana. I pericoli e gli orientamenti politici connessi a radicalismo religioso, petrolio e indebitamento nel XXI secolo, Milano, Garzanti, 2007]. C5-42Arnold Toynbee, Civilization on Trial, cit. C5-43American Public Opinion and Foreign Policy, Chicago Council on Foreign Relations, 2002. C5-44Il persistente dibattito negli Stati Uniti tra fautori dell'investimento pubblico e fautori di quello privato è fuorviante, poiché è stato dimostrato che l'investimento pubblico traina verso l'alto anche quello privato. Vedi Realizing America's Economic Potential: A Growth Agenda for the New Abundant Economy, Washington, New America Foundation, 2006. C5-45Joel Kotkin – Delore Zimmerman, Rebuilding America's Productive Economy: A Heartland Development Strategy, Washington, New America Foundation, 2006. C5-46Il deficit commerciale americano nei prodotti industriali è più che triplicato fra il 1997 e il 2005, raggiungendo i 662,5
miliardi di dollari. C5-47Nicholas Kulish, "Things Fall Apart: Fixing America's Crumbling Infrastructure", in «The New York Times», 23 agosto 2006. C5-48Barry C. Lynn, "War, Trade and Utopia", in «The National Interest», inverno 2005-2006. C5-49Clyde V. Prestowitz, Three Billion New Capitalists: The Great Shift of Wealth and Power to the East, New York, Basic Books, 2005 [3 miliardi di nuovi capitalisti, Milano, Piemme, 2006]. C5-50La gara per l'influenza sulla periferia del mondo, anziché migliorarne le condizioni, non fa probabilmente che perpetuarne la povertà. Sembrerebbe logico che la combinazione tra la cancellazione del debito da parte di USA e UE e la crescita degli investimenti e degli scambi con la Cina possa essere un fattore di sviluppo per il Terzo Mondo, ma le pratiche imperiali correnti suggeriscono il contrario. Ad esempio, i sussidi all'agricoltura nei paesi occidentali restano un'enorme barriera alle possibilità di libero scambio per le nazioni del Terzo Mondo dell'America Latina e dell'Africa, e a fronte delle cancellazioni del debito da parte americana ed europea è ora la Cina a emulare la tradizionale pratica occidentale di prestiti massicci che si risolvono in bancarotte e indebitamento endemico – questa volta verso Pechino. Senza contare che i prestiti e gli aiuti cinesi, privi come sono di condizioni politiche, non innescano alcun circolo virtuoso di trasparenza, democrazia o aumento dei salari. Inoltre, se è vero che il boom dei consumi nei tre poli economici mondiali (cui sono da aggiungere India e Brasile) ha favorito la crescita in alcuni paesi del Terzo Mondo, esso si sostanzia anche di un ininterrotto saccheggio delle risorse naturali dei paesi poveri, cioè di erosione degli ecosistemi e di distruzione dell'ambiente. La loro dipendenza da industrie altamente inquinanti e da un turismo ecologicamente non sostenibile non è di grande aiuto per i paesi del Terzo Mondo, che peraltro hanno poche altre scelte in quanto devono fare completo affidamento su investimenti e tecnologia provenienti dal Primo Mondo. Il multipolarismo potrebbe essere una benedizione per le periferie mondiali, ma di certo il mercantilismo che vi è compreso è una condanna. In realtà, l'unica grande speranza per il Terzo Mondo risiede all'interno di esso, negli scambi e negli investimenti globalizzati tra le sue regioni, attualmente pari a 50 miliardi di dollari all'anno e in rapida crescita. C5-51Michael Mandelbaum, The Case for Goliath: How America Acts as the World's Government in the Twenty-first Centuty, New York, Public Affairs, 2006. C5-52Ovviamente, il potere imperiale non fa mai il pari con la rettitudine morale. I cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e Russia – sono anche i maggiori venditori di armi al mondo. La Cina ha fatto lauti guadagni vendendo tecnologia nucleare e per missili a lungo raggio a Iran, Pakistan e Corea del Nord, nonché armi leggere ai peggiori regimi violatori di diritti umani al mondo in cambio di contratti energetici a lungo termine. C5-53Samuel Huntington, The Clash of Civilizations, cit., p. 21. C5-54Robert D. Kaplan, Warrior Politics: Why Leadership Demands a Pagan Ethos, Random House, 2002, p. 139. Vedi anche Barry Buzan, The United States and the Great Powers, cit., capitolo 9. Un simile scontro ideologico è intrinsecamente pericoloso, poiché, come avverte Kennan «una guerra combattuta nel nome di alti principi morali non è destinata a finire a meno che non si raggiunga qualche forma di dominio totale» (George Kennan, American Diplomacy, cit., p. 101). C5-55Difficilmente molte persone al mondo sottoscriverebbero ciecamente, oggi, le considerazioni di Woodrow Wilson del 1917: «Questi sono principi americani, sono politiche americane […]. E sono anche i principi e le politiche degli uomini e delle donne che, dovunque, guardano al futuro, in ogni nazione moderna, in ogni comunità illuminata. Sono i princìpi dell'umanità e, come tali, devono prevalere». Un'eco a queste parole di Wilson lo si trova nella dichiarazione di Clinton per cui «gli interessi americani richiedono che gli Stati Uniti si facciano carico del compito di costruire un ordine mondiale basato sui loro valori». Non è esagerato sostenere che tutti gli americani, democratici o repubblicani, liberal o conservative, religiosi o laici, professino il credo nell'eccezionalismo della loro nazione. Il filosofo Richard Hofstadter ha sottolineato che il destino dell'America è quello di non avere un'ideologia, ma di esserlo. Il sessanta per cento degli americani è convinto che la loro cultura sia superiore alle altre, anche se una percentuale maggiore del resto del mondo si permette di dissentire. Gli Stati Uniti suscitano sfavore nel mondo non soltanto per l'impopolarità di molte loro decisioni di politica estera, ma anche per lo scarso rispetto che riscuote la debolezza intrinseca del loro sistema. L'America, insomma, può essere tollerata finché un'altra potenza mondiale non le sia preferita. Vedi a tal proposito Andrew Kohut – Bruce Stokes, America Against the World, cit. C5-56Woodrow Wilson riteneva che «l'equilibrio dei poteri è il grande gioco che è finito screditato una volta per tutte. È l'ordine vecchio e malvagio che prevaleva prima di questa guerra». Su questa base annunciò al Senato USA, nel 1917, che l'America si sarebbe messa a capo «non di un nuovo equilibrio dei poteri, ma di una comunità dei poteri; non di rivalità organizzate, ma di una pace comune organizzata». Con tutto ciò, la Società delle Nazioni progettata da Wilson (di cui gli Stati Uniti però non fecero mai parte) si dimostrò incapace di impedire la politica aggressiva scatenata dalle potenze dell'Asse dagli anni Trenta. Come ha osservato sardonicamente E.H. Carr «i metafisici di Ginevra hanno trovato difficile credere che un accumulo di ingegnosi testi che proibiscono la guerra non sia un argine sufficiente contro la guerra» (Edward Hallett Carr, The Twenty Years' Crisis, cit., p. 30). A Yalta, nel 1945, Franklin D. Roosevelt dichiarò la fine «delle azioni unilaterali, delle alleanze esclusive, delle sfere d'influenza, dell'equilibrio dei poteri e di tutti gli altri espedienti che sono stati tentati per secoli, e che sempre hanno fallito»; al posto di tutto ciò Roosevelt propose le Nazioni Unite, che più tardi Eisenhower indicò come la migliore speranza di «sostituire il tavolo della conferenza al campo di battaglia». Nel 1991 George Bush annunciò la nascita di un «new world order» in cui l'ONU, «liberata dalle pastoie della guerra fredda, è pronta a realizzare la visione storica dei suoi fondatori». Vedi The Parliament of Man: The Past, Present and Future of the United Nations, New York, Random House, 2006 [Il parlamento dell'uomo. Le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale, Milano, Garzanti, 2007]. C5-57Arnold Toynbee, Civilization on Trial, cit., p. 127.
C5-58Garton Ash, Free World, cit., p. 3. C5-59Nessuna delle tre attuali superpotenze concepisce l'ONU come un meccanismo superiore di governance, preferendo usarla come spazio per la propria visibilità e, soprattutto, per bloccare i movimenti altrui. Il palazzo di vetro non è mai stato centrale negli affari geopolitici se non come palcoscenico: è un luogo per la consultazione e le dichiarazioni congiunte, ma non è dove le decisioni sono realmente prese. L'ONU vive grazie alle grandi potenze e ai loro contributi, e meno cose queste avranno in comune nel loro approccio agli affari mondiali, meno ricorreranno a essa. Certo l'ONU ha ottenuto grandi successi umanitari, dalle operazioni di peacekeeping all'assistenza alimentare e medica in tutto il mondo; potrebbe decidere di creare un fondo per la promozione della democrazia, una forza di pace permanente e un consiglio per i diritti umani, ma di certo i suoi standard avrebbero efficacia solo dove, specialmente nel Terzo Mondo, le superpotenze non decidessero di intervenire autonomamente. C5-60David A. Lake, "Hierarchy in International Relations: Authority, Sovereignty, and the New Structure of World Politics", working paper inedito, University of California at San Diego, 2005. C5-61Vedi Alpo Rusi, Dangerous Peace: New Rivalry in World Politics, Boulder, CO, Westview Press, 1998, introduzione e capitolo 5. Tali pan-regioni fanno già, del resto, la parte del leone nell'economia mondiale. Assieme a esse, con il gas naturale quale combustibile di preferenza, stanno emergendo pure i mercati energetici pan-regionali costituiti da Stati Uniti-Canada-Sudamerica, UE-Russia-Africa settentrionale e Cina-Russia-Indonesia-Australia. C5-62La guerra non è un elemento estraneo a queste dinamiche di ascesa e caduta, ma l'agente principale. Come gli altri ordini mondiali che l'hanno preceduta, l'era americana ha conosciuto la fase dell'istituzionalizzazione e ora conosce quella della delegittimazione, che in passato è stata regolarmente seguita dalla guerra. Ogni disequilibrio irrisolto determina un conflitto sistemico, che a sua volta ha come conseguenza la nascita di un nuovo ordine fondato sulla configurazione postbellica dei poteri. Vedi Robert Gilpin, War and Change in World Politics, cit., capitolo 5. C5-63Gli Stati Uniti non sono mai stati visti in Europa come "la grande promessa" nella loro egemonia globale, quanto piuttosto come il minore di tutta una serie di mali. In ogni caso non esistono precedenti diplomatici analoghi all'impresa che consiste nell'includere la Cina nell'ordine mondiale esistente evitando il sorgere di un conflitto sistemico. Ha poco senso, infatti, parlare di «comunità di democrazie» allorché una fra le potenze più significative al mondo non è una democrazia; è vero, inoltre, che se difficilmente le democrazie entrano in guerra l'una contro l'altra, esse sono tuttavia particolarmente aggressive nei confronti dei sistemi non democratici, scegliendo di combattere nemici che sanno di poter sconfiggere (dando spesso per scontate le ragioni del combattere). In caso di democratizzazione della Cina, peraltro, una guerra globale sarebbe più probabile, giacché il nazionalismo cinese non sconterebbe più i vincoli attuali in una fase in cui la potenza della nazione si avvicina a quella degli Stati Uniti. Vedi a tal proposito Michael C. Desch, "Democracy and Victory: Fair Fights or Food Fights?", in «International Security», vol. 28, n. 1, 2003, pp. 180-194; Edward D. Mansfield – Jack Snyder, Electing to Fight: Why Emerging Democracies Go to War, Cambridge, MA, MIT Press, 2005; Dan Reiter -Allan C. Stan, Democracies at War, Princeton, NJ, Princeton, Princeton University Press, 2002. C5-64Simili scenari rappresentano la materia d'interesse di quel ramo della geopolitica noto come teoria della transizione del potere, basata sugli studi di A.F.K. Organski (Organski, World Politics, Alfred A. Knopf, 1958). Le transizioni del potere geopolitico sono analoghe alle transizioni di fase in fisica: periodi di alta instabilità nei quali particelle magnetiche si aggregano o si respingono in direzioni imprevedibili con il salire della temperatura; di fatto, entropia senza ordine. Lo stesso Churchill paragonava le grandi potenze a corpi celesti che producono «forti reazioni magnetiche» quando raggiungono una vicinanza eccessiva. Come avverte Charles Kupchan, il sistema internazionale «è instabile e fragile» e sempre soggetto a finire in frantumi con rapidità impressionante (Charles Kupchan, The End of the American Era: U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-first Century, New York, Alfred A. Knopf, 2002, p. XV) [La fine dell'era americana. Politica estera americana e geopolitica nel XXI secolo, Milano, Vita e pensiero, 2003]. Per Robert Gilpin, le transizioni di potere iniziano quando una potenza in ascesa riconsidera la propria disponibilità a conformarsi all'ordine esistente (Robert Gilpin, War and Change in World Politics, cit., capitoli 2 e 4). «Le grandi potenze», aggiunge Fareed Zakaria, «sono come dive, che entrano ed escono dalla scena con gran chiasso» (Fareed Zakaria, "Is Realism Finished?", in «The National Interest», inverno 1992-1993). C5-65David Hume, Trattato sulla natura umana, 1739. C5-66Michael Howard, The Invention of Peace, New Haven, CT, Yale University Press, 2000, capitolo 5 [L'invenzione della pace. Guerre e relazioni internazionali, Bologna, il Mulino, 2002]. Come nota Robert Cooper «non tutte le incomprensioni si risolvono in guerre, e non tutte le guerre sono causate da incomprensioni. […] Niente è inevitabile, e i grandi eventi storici dipendono ancora dalle decisioni e, a volte, dagli errori di singoli uomini e donne» (Robert Cooper, The Breaking of Nations: Order and Chaos in the Twenty-First Century, New York, Atlantic Monthly Press, 2003, p. 101) [La fine delle nazioni. Ordine e caos nel XXI secolo, Torino, Lindau, 2004]. C5-67Raymond Aron, Peace and War: A Theory of International Relations, Garden City, NY, Doubleday & Company, 1966 [Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Edizioni di Comunità, 1970]. C5-68Così scrisse Kissinger della creazione del concerto postnapoleonico delle potenze da parte di Castlereagh e Metternich: «Il loro obiettivo non era la perfezione ma la stabilità, e l'equilibrio dei poteri è la classica espressione della lezione della storia per cui nessun ordine può essere considerato sicuro senza protezioni fisiche contro le aggressioni. Il nuovo ordine internazionale venne così a essere creato con una sufficiente consapevolezza del nesso fra potere e moralità, fra sicurezza e legittimazione». Vedi Kissinger, A World Restored: Metternich, Castlereagh, and the Problems of Peace 1812-1822, Boston, Houghton Mifflin, 1973, pp. 317-318 [Diplomazia della Restaurazione, Milano, Garzanti, 1973]. C5-69Rousseau esaltò la dinamica concertativa scrivendo che «l'equilibrio che esiste fra il potere di questi diversi membri della società europea è più opera della natura che dell'artificio. Esso si preserva senza sforzo, in maniera tale che se viene a mancare da un lato, si ristabilisce con grande rapidità dall'altro».
C5-70Vedi Immanuel Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784; Lars-Erik Cederman, "Back to Kant: Reinterpreting the Democratic Peace as a Macro-historical Learning Process", in «American Political Science Review», vol. 95, 2001. Imparare da quello che José Ortega y Gasset chiamava «il tesoro dei nostri errori» richiede il costante accrescimento di questa memoria istituzionale. Alla fine di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Granger, il capo dei fuggitivi itineranti impegnati a salvare i libri, spiega alla nuova recluta Fisher che «noi sappiamo tutte quelle stupidaggini che abbiamo fatto per mille anni, e finché lo sappiamo e possiamo avere attorno qualcosa in cui lo possiamo vedere, prima o poi la finiremo di fare questi maledetti roghi funebri e di saltarci in mezzo. Quello che facciamo è raccogliere un po' di gente che ricordi ogni generazione» (Ray Bradbury, Fahrenheit 451, New York, Ballamine Books, 1950) [Fahrenheit 451, Milano, Mondadori, 1978]. C5-71Come scrive Brian Eno, il produttore degli U2, «non è forse la civiltà a farsi avanti quando le persone smettono di comportarsi come se fossero perennemente costrette a una spietata lotta darwiniana e a cominciare a pensare in termini di comunità e di futuro condiviso? […] Forse aspettarsi che l'America si comporti in modo diverso da tutti gli imperi della storia è chiedere troppo, ma non era questa l'idea originaria?» ("The U.S. Needs to Open Up to the World", in «Time International», 12 gennaio 2003). C5-72Karen A. Rasler – William R. Thompson, The Great Powers and Global Struggle, cit., p. 191. C5-73Robert Skidelsky identifica una «contraddizione fondamentale al cuore degli imperi», e precisamente il fatto che essi «promettono la pace ma provocano la guerra» attraverso «perenni conflitti alle loro frontiere» (Robert Skidelsky, "Hot, Cold and Imperial", in «The New York Review of Books», 13 luglio 2006). Secondo Konrad Adenauer «la storia è la somma totale delle cose che potevano essere evitate»: il compito che indicava all'uomo di Stato contemporaneo era di parare i colpi di quello che David Lloyd George chiamava «il martello del destino», ossia di evitare di passare la linea oltre la quale «la logica militare ha la meglio sul calcolo diplomatico». Vedi Niall Ferguson, 1914: Why the World Went to War, New York, Penguin Press, 1998, p. 27. C5-74Come nota Kissinger, in riferimento all'età napoleonica, se non esiste «accettazione della cornice dell'ordine internazionale» il sistema slitta dalla legittimità alla rivoluzione. «Gli Stati», continua, «tendono ad avere la memoria corta: è assai difficile che imparino dal passato, e ancora più raro che ne traggano le conclusioni corrette. Le lezioni che vengono dalle esperienze storiche, infatti, come quelle che si traggono dall'esperienza personale, sono contingenti. Insegnano le conseguenze di determinate azioni, ma non possono obbligare a riconoscere due situazioni analoghe. […] Un popolo può benissimo essere consapevole delle probabili conseguenze di una situazione rivoluzionaria, ma questa consapevolezza è del tutto vuota se esso non sa riconoscere una situazione rivoluzionaria. Si tratta della differenza tra la conoscenza fisica e la conoscenza storica: a ogni generazione è consentito un solo sforzo di astrazione; può tentare una sola interpretazione e un solo esperimento, perché è essa stessa il proprio oggetto. E questa la sfida della storia e al tempo stesso la sua tragedia: è la forma che il "destino" assume su questa Terra. E la sua soluzione, persino il suo riconoscimento, costituisce forse il compito più difficile dell'arte di governo» (Henry Kissinger, A World Restored, cit., pp. 1-3, 331-332). C5-75Kant e Rousseau teorizzarono una federazione internazionale di Stati come forma per raggiungere una pace repubblicana: Kant sottolineava la necessità della trasparenza degli affari di governo e i costi crescenti delle guerre, Rousseau sosteneva che la «Volontà generale» avrebbe impedito agli Stati di entrare in conflitto per il mero conseguimento del proprio interesse. Oggi esistono parecchie considerazioni analoghe sugli effetti pacificatori della globalizzazione, ricalcati sulla nozione della "Great illusion" di Norman Angell, della «totale futilità economica della conquista»: Francis Fukuyama parla di fine della lotta ideologica; John Mueller nota che la prospettiva della totale distruzione provocata da un conflitto rende la guerra «sub-razionalmente impensabile»; Jonathan Schell e Peter Singer vedono nel formarsi di una consapevolezza globale «l'equivalente morale della guerra», ossia un'«arma di civiltà»; Robert Wright dimostra che l'accumulazione di risultati positivi è un disincentivo al conflitto; Anatol Lieven e John Hulsman prevedono una prossima «Grande pace capitalista». Vedi Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York, Avon Books, Inc., 1992 [La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992]; John Mueller, Retreat from Doomsday: The Obsolescence of Major War, New York, Basic Books, 1989; Jonathan Schell, The Unconquerable World: Power, Non-violence, and the Will of the People, New York, Metropolitan Books, 2003; Peter Singer, One World: The Ethics of Globalization, New Haven, CT, Yale University Press, 2003 [One world. L'etica della globalizzazione, Torino, Einaudi, 2003]; Robert Wright, Non-Zero: The Logic of Human Destiny, New York, Vintage Books, 2000; Anatol Lieven – John Hulsman, Ethical Realism, cit. C5-76Esiste un perenne dibattito fra gli studiosi circa la questione se sia il bipolarismo oppure il multipolarismo a essere un fattore di stabilità, se la presenza di più diadi in potenziale conflitto crei incertezza o non permetta piuttosto il comporsi continuo di equilibrio e stabilità a fronte della supremazia di una sola potenza. Nella convinzione che non ci fosse una soluzione «unica e valida per sempre» al «problema del potere», Morgenthau scrisse che «poiché l'equilibrio dei poteri rappresenta l'essenza e l'elemento stabilizzatore delle relazioni internazionali, la distribuzione del potere non è mai fissata una volta per tutte, ma è sempre precaria, e soggetta a continue fluttuazioni». Nella condizione quasi omeostatica della tripolarità, ciascuna potenza agisce nel suo proprio interesse, ma le altre prendono contromisure attraverso feedback automatici, con il risultato della conservazione dello status quo. Da notare la discussione di Robert Jervis dell'effetto di Lijphart, per il quale la previsíone di pericolo o di instabilità genera politiche mirate a una compensazione dei potenziali rischi attraverso la moderazione e il compromesso (Robert Jervis, System Effects, pp. 107-112, 275-279. Vedi anche John J. Mearsheimer, The Tragedy of Great Power Politics, cit., pp. 338-344, e Kenneth Waltz, Theory of International Politics, cit. C5-77B.H. Liddell Hart, mezzo secolo fa, sostenne che ogni grand strategy avrebbe dovuto temperare gli istinti concorrenziali del sistema geopolitico. E per Charles Kupchan «la sfida centrale del futuro sarà la stessa del passato – governare le relazioni tra centri di potere in concorrenza» (Charles Kupchan, The End of the American Era, cit., p. XVIII).
C5-78Come ha scritto A.J.P. Taylor «gli uomini non sono stati sempre acquiescenti alla perpetua quadriglia dell'equilibrio dei poteri. Spesso si è desiderato che la musica finisse, e che si potesse porre termine alle danze senza bisogno di tenersi perpetuamente d'occhio a vicenda». Taylor, The Struggle for Mastery in Europe 1848-1918, Oxford, UK, Clarendon Press, 1954, p. XIX) [L'Europa delle grandi potenze. Da Metternich a Lenin, Roma-Bari, Laterza, 1977]. «La giustizia è affidabile soltanto in un contesto di ordine»: così Hedley Bull, The Anarchical Society: A Study of Order in World Politics, New York, Columbia University Press, 1977, p. 83 [La società anarchica. L'ordine nella politica mondiale, Milano, Vita e pensiero, 2005]. C5-79Se le superpotenze si comportassero come un direttorio, allora importerebbe meno quale di esse intraprenda una determinata azione rispetto al fatto che tale azione risponda a principi condivisi. Kupchan sostiene che se le potenze regionali fossero «sufficientemente benigne nel loro esercizio del potere, il risultato potrebbe essere un sistema stabile e cooperativo caratterizzato da una struttura di leadership più decentralizzata» (Charles Kupchan, "After Pax Americana: Benign Power, Regional Integration, and the Sources of a Stable Multipolarity", in «International Security», vol. 23, n. 2, 1998, pp. 40-79). Altrove Kupchan precisa l'idea: «La visione ultima del futuro risiede nella creazione di un direttorio di tipo concertativo, fondato sulle grandi potenze del Nordamerica, dell'Europa e dell'Asia orientale. Queste potenze preminenti governerebbero insieme lo sviluppo, e regolerebbero le relazioni internazionali sia all'interno delle rispettive regioni che fra queste ultime. Tali centri regionali sarebbero anche portatori della promessa di un'incorporazione graduale dei paesi in via di sviluppo nei flussi globali di scambio, informazioni e valori. Sono i centri regionali forti e vivaci, per ragioni di prossimità come di cultura comune, a poter generalmente contare sugli incentivi più efficaci per promuovere benessere e stabilità nelle loro immediate periferie. Il Nordamerica si dovrebbe fare carico dell'America Latina, l'Europa della Russia, del Medio Oriente e dell'Africa, e l'Asia orientale di quella meridionale come del Sudest asiatico. […] Il potere resterà una determinate ineludibile della vita internazionale. L'obiettivo non dovrebbe essere quello di negarlo, bensì di incanalarlo verso fini pacifici. E assai più intelligente e sicuro oltrepassare la curva e disegnare progettualmente un mutamento strutturale che non assistere all'unipolarità che soccombe al caos multipolare». "Empires and Geopolitical Competition: Gone for Good?", in Turbulent Peace, a cura di Chester Crocker, Washington, DC, United States Institute of Peace, 2001. C5-80Arnold Toynbee, Civilization on Trial, cit. C5-81Fred Charles Iklé, Every War Must End, New York, Columbia University Press, 2005. Come sottolinea Kupchan «il bambino che si ribella a genitori autoritari è generalmente più problematico di quello che è svezzato alla dipendenza e sviluppa un maturo senso di responsabilità e di fiducia» (Charles Kupchan, The End of the American Era, cit., p. 264). C5-82«Internazionalizzare il governo impone di internazionalizzare il potere. […] Deve essere riconosciuto senza finzioni il gioco delle forze politiche che precede ogni legge. Soltanto quando queste forze raggiungono un equilibrio stabile la legge può adempiere alla propria funzione sociale senza diventare uno strumento nelle mani dei guardiani dello status quo. Il raggiungimento di un tale equilibrio non è dunque un compito giuridico, bensì politico» (Edward Hallett Carr, The Twenty Years' Crisis, cit., pp. 107, 192). Analogamente, secondo Henry Kissinger «la logica della guerra è il potere, e il potere non ha alcun limite intrinseco. La logica della pace invece è la proporzione, e la proporzione implica limitazione. Il successo in guerra si chiama vittoria; il successo in pace stabilità. La condizione principe della vittoria è l'impegno, quella della stabilità è l'autolimitazione». Sul concetto di "costituzione internazionale" vedi John Ikenberry, After Victory: Institutions, Strategic Restraint, and the Rebuilding of Order After Major Wars, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2000 [Dopo la vittoria. Istituzioni, strategie della moderazione e ricostruzione dell'ordine internazionale dopo le grandi guerre, Milano, Vita e pensiero, 2003]. C5-83Banning Garrett, "A New Strategic Triangle? Relations Among China, Europe and the United States in a Global Context", intervento alla conferenza internazionale «China, Europe and the United States in a Changing International System», Pechino, 2-3 novembre 2006. La globalizzazione stessa richiede un governo multilaterale, poiché almeno per metà essa è fatta di forze negative e destabilizzanti: interruzioni nella catena di forniture a causa del terrorismo, traffici illeciti di armi, droga, denaro e persone, disastri ambientali per lo sfruttamento eccessivo delle risorse, diffusione di armamenti e agenti patogeni di distruzione di massa, contagi finanziari. Tutti questi fattori possono provocare crisi economiche devastanti. Queste forze nefaste transnazionali hanno già sortito l'effetto di rendere meno sicura la maggior parte del mondo, come testimonia l'aumento del ricorso a polizia ed esercito da parte di ogni paese all'interno dei propri confini per impedire l'aggravarsi dei punti deboli della globalizzazione. Vedi a tal proposito Moises Naim, Illicit: How Smugglers, Traffickers, and Copycats are Hijacking the Global Economy, New York, Doubleday Books, 2005 [Illecito. Come trafficanti, falsari e mafie internazionali stanno prendendo il controllo dell'economia globale, Milano, Mondadori, 2006], e "The Five Wars of Globalization", in «Foreign Policy», settembre-ottobre 2003, pp. 28-37. C5-84Va aggiunto che se anche la Cina diventasse un giocatore a tutto campo sul mercato mondiale dell'energia, la sua smisurata domanda interna non le consentirebbe di rinunciare agli affari con i più odiosi regimi del mondo. Una peer pressure da parte di Stati Uniti e UE e la perenne instabilità degli Stati che le assicurano petrolio potrebbero gradualmente portare a una limitazione della sua politica di pacchetti full-service comprensivi di forniture militari, annullamento del debito, aiuti, progetti di infrastrutture low cost e protezione diplomatica in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU: anche in questo caso, tuttavia, la Cina sarebbe riluttante verso sanzioni efficaci e politiche di regime change che potrebbero mettere in difficoltà i suoi approvvigionamenti energetici. Vedi David Zweig-Bi Janhai, China's Global Hunt for Energy, in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2005. C5-85Morgenthau pose in caricatura l'idealismo di Francis Bacon, per il quale «l'imperio dell'uomo sulla natura sostituisce l'imperio dell'uomo sull'uomo». La fiducia contemporanea nella globalizzazione come cura dei problemi sociali ricordava a Morgenthau la retorica ottocentesca sui pacifici effetti dell'avvento delle ferrovie e delle comunicazioni di massa. Allo stesso modo, erano oggetto della sua ironia «i liberali da Cobden a Hull [che] hanno cercato nel libero scambio e nei suoi sostituti la soluzione ai problemi politici internazionali» (Scientific Man vs. Power Politics, cit., pp. 43, 87, 125).
C5-86Come scrive Edward Luttwak «la follia è abbastanza rara fra gli individui. In compenso è abbastanza comune fra le nazioni» (Edward Luttwak, "Worst Case Scenario", in «Time», 8 aprile 2002, p. 30). C5-87Fra gli esempi basta citare il «Trans-Eurasian Security System» (TESS) di Zbigniew Brzezinski, la «Global Alliance for Security» (GAS) di Graham Allison, le «Global Authorities» di Amitai Etzioni. Vedi rispettivamente Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit.; Graham Allison – Karl Kaiser – Sergei Karaganov, "The World Needs a Global Alliance for Security", in «International Herald Tribune», 21 novembre 2001; Etzioni, From Empire to Community: A New Approach to International Relations, New York, Palgrave Macmillan, 2004. C5-88Freud sosteneva che «finché ci saranno nazioni e imperi […] essi dovranno essere ugualmente preparati alla guerra». Nella sua magistrale confutazione del celebre aforisma di Karl von Clausewitz per cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, lo storico John Keegan dimostra come la guerra sia naturale e culturale al tempo stesso – insita nella natura dell'uomo, cioè non dipendente dall'educazione ricevuta –, e come preceda la creazione della politica, dello Stato e dell'esercito. Dal cannibalismo ai conflitti tra nazioni, lo scontro è parte della condizione umana (Keegan, A History of Warfare, New York, Vintage Books, 1993) [La grande storia della guerra. Dalla preistoria ai giorni nostri, Milano, Mondadori, 1994]. C5-89H. Nicolson, Diplomacy, Londra, Oxford University Press, 1950, p. 13. C5-90Come sosteneva Kissinger, «la diplomazia in senso classico, ossia la composizione delle differenze attraverso il negoziato, è possibile solo all'interno di ordini internazionali "legittimi". […] È un errore ritenere che la diplomazia possa sempre risolvere le dispute internazionali a patto che esistano la "buona fede" e la "volontà di pervenire a un accordo". In un ordine internazionale rivoluzionario, infatti, ogni potenza sembrerà agli occhi dei propri oppositori priva esattamente di tali qualità. […] Quando è in gioco il destino degli imperi, i convincimenti dei loro governanti sono il mezzo per la sopravvivenza» (Kissinger, World Restored, cit.) [Diplomazia della Restaurazione, Milano, Garzanti, 1973].