Il mio secolo Günter Grass
Pubblicato: 1999 Categoria(e): Tag(s): "Gunter Grass" by turisbeggiu 1
Parte 1 Introduzio...
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Il mio secolo Günter Grass
Pubblicato: 1999 Categoria(e): Tag(s): "Gunter Grass" by turisbeggiu 1
Parte 1 Introduzione
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Günter Grass Il Mio Secolo 100 Racconti
Titolo originale Mein Jahrhundert Traduzione di Claudio Groff **** Cento racconti, uno per ogni anno del nostro secolo. Con continui cambi di prospettiva, assumendo il punto di vista di persone sempre diverse, Grass ritorna su avvenimenti grandi e piccoli -le trincee della Grande guerra, le tragedie provocate dal nazionalsocialismo, la divisione della Germania, ma anche i balli, dal charleston alle gemelle Kessler, gli incontri di pugilato, le finali di calcio, i record mondiali -dipingendo, ora ironico, ora ammonitore, un quadro variegato e sorprendente degli ultimi cento anni della nostra storia. Guglielmo II, ormai ex imperatore tedesco, passa il tempo a tagliare legna e a imprecare contro i generali traditori; Max Schmeling batte Joe Louis, il «bombardiere nero»; si ballano fox-trot, one step e shimmy; Ernst Jünger ed Erich Maria Remarque discutono a Zurigo delle loro esperienze in trincea, Bertolt Brecht e Gottfried Benn, ormai anziani, più sommessamente, si scambiano opinioni in riva a un lago; un gruppo di giornalisti rievoca la Seconda guerra mondiale e una donna descrive Berlino distrutta; la Germania vince il suo primo campionato del mondo di calcio («con la bava alla bocca», cioè col doping, insinuano gli ungheresi); le gemelle Kessler sgambettano in giro per l'Europa; nell'anno delle Olimpiadi di Roma, l'inventore delle Adidas si sofferma sulla gloriosa ma non sempre limpida carriera di Armin Hary, l'uomo dei 10 secondi netti; uno scrittore coi baffi ha grande successo raccontando la storia di un bambino col tamburo e qualche anno dopo, alla Fiera del libro di Francoforte, Adorno deve vedersela con gli studenti; una sera di novembre di dieci anni fa, la televisione della Repubblica Democratica Tedesca annuncia all'improvviso che il Muro non c'è più. Non romanzo, ma con una cornice saldamente strutturata, la nuova opera di Günter Grass, è un insieme di cento brevissime narrazioni
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ciascuna dedicata a un anno del 1900 e incentrata su un protagonista diverso («Sono stato presente anno dopo anno, dando il cambio a me stesso», suona l'incipit). Con la maestria che tutti gli riconoscono, lo scrittore fa entrare in scena le sue infinite maschere: storia grande e storia minuta, personaggi famosi e del tutto sconosciuti, episodi autentici e non, vengono così a comporre un quadro variegato e sorprendente il cui punto focale è ancora una volta la Germania con le sue indiscutibili responsabilità storiche. Eppure, nonostante gli orrori, anche speranze e sempre nuovi inizi, in attesa del nuovo secolo che è ormai arrivato: «Stiamo un po' a vedere cosa ci porta… Basta che non sia di nuovo la guerra… Prima laggiù e poi dappertutto… » Nato nel 1927 a Danzica, Günter Grass vive nei pressi di Lubecca. Fra le sue opere tradotte in italiano, Il tamburo di latta (1962), Gatto e topo (1973), Anni di cani (1966), edite da Feltrinelli; Einaudi ha invece pubblicato Anestesia locale (1971), Viaggio elettorale. Discorsi politici di uno scrittore (1973), Dal diario di una lumaca (1974), Il Rombo (1979), L'incontro di Telgte (1982), La Ratta (1987, ripreso nel 1997 nei Tascabili), Mostrare la lingua (1989)e È una lunga storia (1998). Premio Nobel 1999 per la Letteratura In memoria di Jakob Suhl Le note a piè di pagina sono a cura di Daniela Hermes e Claudio Groff.
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Parte 2 Il mio secolo. 100 racconti
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dedica In memoria di Jakob Suhl
Le note a piè di pagina sono a cura di Daniela Hermes e Claudio Groff.
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1900 Sono stato presente anno dopo anno... Sono stato presente anno dopo anno, dando il cambio a me stesso. Non sempre in prima linea, in quanto, visto che di guerre ce n’erano in continuazione, quelli come noi si ritiravano volentieri nelle retrovie. All’inizio però, quando partì la spedizione contro i cinesi e il nostro battaglione era schierato a Bremerhaven, mi trovavo in prima fila nel blocco di mezzo. Quasi tutti erano volontari, ma da Straubing mi ero presentato soltanto io, sebbene da poco fidanzato con Resi, la mia Therese. Pronti a imbarcarci, avevamo l’edificio del Norddeutscher Lloyd alle spalle e il sole in faccia. Davanti a noi c’era il Kaiser su un alto podio e parlava in tono risoluto sopra le nostre teste. Nuovi cappelli a larga tesa, chiamati sud-ovest, proteggevano dal sole. Eravamo carini. Invece il Kaiser portava un elmo speciale: un’aquila che brillava sul fondo azzurro. Parlava di grande missione, di nemico spietato. Un discorso trascinante. Disse: «Una volta arrivati, sappiate: nessuna pietà, non si fanno prigionieri… » Poi raccontò di Attila e delle sue orde di unni. Elogiava gli unni, anche se avevano infuriato in modo davvero terribile. Per questo i socialisti, più tardi, hanno pubblicato le insolenti «lettere degli unni», sparlando miserevolmente del discorso del Kaiser[1]. Alla fine ci affidò l’incombenza per la Cina:«Aprite la strada alla civiltà, una volta per tutte!» Rispondemmo con un triplice hurrà. Per me, che vengo dalla Bassa Baviera, la lunga traversata fu un’esperienza proprio da schifo. Quando finalmente arrivammo a Tientsin, c’erano già tutti: inglesi, americani, russi, persino veri giapponesi e piccole truppe da nazioni minori. Gli inglesi in realtà erano indiani. Noi all’inizio eravamo in pochi, ma per fortuna disponevamo dei nuovi cannoncini da 5 cm a tiro rapido della Krupp. E gli americani collaudavano le loro mitragliatrici Maxim, proprio un aggeggio diabolico. Così Pechino fu conquistata rapidamente. Perchè quando la nostra compagnia entrò in città, sembrava già tutto finito, un vero peccato. Però alcuni boxer non vollero darsi per vinti. Venivano chiamati così perchè erano una società segreta di nome «I ho ch’üan», ovvero, nella nostra lingua, «quelli che combattono col pugno». Per questo prima gli inglesi, poi tutti gli altri, parlavano di rivolta dei boxer. I boxer odiavano gli stranieri, perchè vendevano ai cinesi ogni genere di merce, gli inglesi di preferenza oppio. E così avvenne come il Kaiser aveva comandato: non si fecero prigionieri. Per ragioni d’ordine i boxer furono radunati sulla piazza della porta Chian-Men, proprio davanti al muro che divide la città manciù dal resto di Pechino. Erano legati gli uni agli altri per i codini, una scena buffa. Poi
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vennero fucilati a gruppi o decapitati singolarmente. Ma sugli aspetti raccapriccianti non ho scritto neanche mezza parola, alla mia fidanzata, solo di uova centenarie e canederli al vapore alla cinese. Gli inglesi, e anche noi tedeschi, erano più propensi ad andar per le spicce col fucile, mentre i giapponesi, col taglio della testa, seguivano la loro antica tradizione. Però i boxer preferivano la fucilazione, perchè temevano di doversi aggirare di lì a poco per l’inferno con la testa sottobraccio. Peraltro non dimostravano nessuna paura. Ne ho visto uno che prima di essere fucilato si mangiava avidamente una tortina di riso inzuppata nello sciroppo. Sulla piazza Chian-Men soffiava un vento che arrivava dal deserto e continuava a sollevare nuvole di polvere gialla. Tutto era giallo, anche noi. Questo l’ho scritto alla mia fidanzata, e le ho messo un po’ di sabbia del deserto dentro la lettera. Ma poichè i giustizieri giapponesi tagliavano via il codino ai boxer, che erano ragazzi giovani come noi, per assicurarsi un colpo più netto, sulla piazza si trovavano spesso, nella polvere, mucchietti di codini cinesi recisi. Uno l’ho raccolto e l’ho mandato a casa come ricordo. Tornato in patria, me lo sono poi messo a carnevale tra il divertimento di tutti, finchè la mia fidanzata ha bruciato il regalino. «E’ roba che ti porta i fantasmi in casa», ha detto Resi due giorni prima delle nozze. Ma questa è già un’altra storia. [1] I soldati tedeschi avevano descritto le atrocità commesse contro i rivoltosi in lettere ai famigliari, che vennero poi pubblicate da giornali socialisti e liberali.
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1901 Chi cerca trova...
Chi cerca trova. Ho sempre rovistato tra le anticaglie. Sulla Chamissoplatz, e precisamente da un rigattiere che prometteva pezzi di antiquariato con un’insegna bianconera, ma le cui cose di valore erano molto ben nascoste tra i fondi di bottega e possedeva comunque oggetti rari che risvegliavano la mia curiosità, scoprii, verso la fine degli anni Cinquanta, tre cartoline illustrate legate con una cordicella i cui motivi - moschea, Santo Sepolcro e muro del Pianto - rilucevano opachi. Stampigliate a Gerusalemme nel gennaio del ‘45, erano indirizzate a un certo dottor Benn con recapito a Berlino, ma durante gli ultimi mesi di guerra la posta non era riuscita a scovare il destinatario - e un timbro lo certificava - tra le macerie della città. Una fortuna, che il ricettacolo di Kurtchen Mühlenhaupt nel quartiere di Kreuzberg avesse offerto loro asilo. Il testo infiorato da omini stilizzati e code di comete, che si succedeva su tutte e tre le cartoline, era decifrabile a fatica e diceva così: «Com’è sottosopra, il tempo! Oggi, primissimo giorno di marzo, mentre il secolo appena sbocciato ostenta la rigida gamba di un 1, e tu, mio barbaro e tigre, in lontane giungle sei all’avida ricerca di carne, mio padre Schüler mi allungò la sua mano da burlone per salire con me e con il mio cuore di vetro sulla ferrovia sospesa da Barmen a Elberfeld, in viaggio verginale. Via, sopra la nera Wupper! E’ un drago di duro acciaio, con mille piedi si torce e si rigira sopra il fiume che i tintori devoti alla Bibbia, per poco salario, anneriscono con le acque di scarico dei loro inchiostri. E senza tregua vola attraverso l’aria la nave-treno con prolungato frastuono, mentre il drago incede su pesanti piedi ad anello. Ah, potessi tu, mio Giselher sulla cui dolce bocca io feci vibrare tante beatitudini, con me, la tua Sulamita - o devo forse essere Jussuf, il principe? -, librarti così sopra lo Stige, il fiume dei morti che è l’altra Wupper, fino a spegnere la nostra incandescenza nella caduta, ringiovaniti e riuniti. Invece no, io sono salva sulla terra santa e vivo totalmente promessa al Messia, mentre tu sei perduto, mi hai rinnegata, traditore dal duro volto, barbaro quale sei. Grido di dolore! Vedi il cigno nero sulla nera Wupper? Senti il mio canto, lamentevolmente accordato sul pianoforte azzurro? Ma adesso dobbiamo scendere, dice padre Schüler alla sua Else. In questo mondo sono stata per lo più una bambina obbediente… » Ora è noto che il giorno in cui venne solennemente aperto al servizio pubblico il primo tratto della ferrovia sospesa di Wuppertal, lungo
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quattro chilometri e mezzo, Else Schüler non era certo una bambina, aveva più di trent’anni, era sposata con Berthold Lasker ed era madre di un figlio di due, ma l’età si è sempre adattata docilmente ai suoi desideri, ragione per cui i tre segni di vita da Gerusalemme, indirizzati al dottor Benn, affrancati e spediti poco prima di morire, la sapevano comunque molto più lunga. Non mercanteggiai a lungo, pagai un prezzo da amatore per le tre cartoline ora nuovamente legate dalla cordicella, e Kurtchen Mühlenhaupt, le cui anticaglie erano sempre singolari, mi strizzò l’occhio.
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1902 La cosa, a Lubecca... La cosa, a Lubecca, assunse l’aspetto di un piccolo avvenimento, quando il liceale che ero si comperò, apposta per le passeggiate alla Mühlentor o lungo le rive della Trave, il suo primo cappello di paglia. Non un morbido feltro, non una bombetta, ma un cappello di paglia di un trionfale giallo ranuncolo che, da poco di moda, veniva chiamato o elegantemente «canotier» o popolarmente «paglietta». Anche le signore portavano cappelli di paglia ornati di nastri, cionondimeno si serravano e si sarebbero serrate ancora per molto in corsetti di stecche di balena; soltanto poche osavano mostrarsi, ad esempio davanti al Katharineum, provocando lo scherno di noi liceali delle ultime classi, in vesti pratiche permeabili all’aria. Quegli anni pullulavano di novità. Per dirne una, le poste imperiali misero in circolazione francobolli validi per tutto il territorio del Reich, con su l’immagine di profilo della Germania, le poppe strette nella corazza. E poiché dappertutto si annunciava il progresso, molti portatori di cappelli di paglia dimostravano curiosità riguardo all’epoca che si stava aprendo. Il mio è stato testimone di vari avvenimenti. Lo spinsi sulla nuca quando ammirai il primo Zeppelin. Nel caffè Niederegger lo posai vicino ai Buddenbrook freschi di stampa che turbavano violentemente la sensibilità borghese. Poi, da studente universitario, lo portai a spasso per lo zoo Hagenbeck che era appena stato inaugurato, e vidi, sotto quella protezione uniforme, scimmie e cammelli nel recinto, così come loro mi vedevano col cappello di paglia, i cammelli altezzosi e le scimmie bramose. Scambiato nella sala di scherma, dimenticato nell’Alsterpavillon. Alcuni esemplari furono ripetutamente danneggiati dal sudore di esami. Di volta in volta toccava a un nuovo cappello di paglia, che mi toglievo con slancio o con indolenza davanti alle signore. Ben presto me lo sistemai di sghimbescio, come lo portava Buster Keaton nelle pellicole mute, solo che nulla riusciva a rattristarmi mortalmente, anzi qualsiasi occasione era motivo di risa, tanto che a Gottinga, dove dopo l’esame di laurea lasciai l’università portando gli occhiali, somigliavo piuttosto a Harold Lloyd con la paglietta che, in anni più tardi, sgambettava ad altezza vertiginosa, appeso alla lancetta dell’orologio secondo le regole della comicità cinematografica. Di nuovo ad Amburgo, fui uno dei molti uomini in paglietta che si accalcarono all’inaugurazione del tunnel sotto l’Elba. Dagli uffici commerciali al quartiere dei magazzini, dal tribunale agli studi legali corremmo
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con i nostri cappelli e li sventolammo quando la nave più grande del mondo, il piroscafo veloce Imperator in servizio sulle linee nordatlantiche, lasciò il porto per il viaggio inaugurale. Le occasioni per sventolare i cappelli si offrivano spesso. E poi, mentre passeggiavo sulla riva dell’Elba presso Blankenese sottobraccio alla figlia di un pastore protestante che più tardi sposò un veterinario - non so più se fosse primavera o autunno -, una folata di vento rapì il mio leggero copricapo. Che rotolò, veleggiò. Lo rincorsi, invano. Lo vidi trascinato via dalla corrente, fui inconsolabile, per quanto Elisabeth, temporaneo oggetto del mio amore, si adoperasse per me. Solo una volta diventato uditore giudiziario, e poi da aspirante giurista, mi concessi cappelli di paglia di qualità superiore, quelli con il marchio della fabbrica sulla fascia interna. Restarono di moda finché molte migliaia di uomini in paglietta, in città piccole e grandi - io a Schwerin presso la corte d’appello -, si raccolsero attorno a un gendarme che sulla pubblica via e in nome di Sua Maestà in un giorno di tarda estate, leggendo un comunicato, ci annunciò lo stato di guerra. Allora molti lanciarono in aria le loro pagliette, si sentirono liberati dalla monotona vita borghese e scambiarono volontariamente - non pochi definitivamente - i luminosi cappelli di paglia giallo ranuncolo con elmi grigioverdi, chiamati «cuffie chiodate».
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1903 La finale iniziò poco dopo le quattro e mezzo... La finale iniziò poco dopo le quattro e mezzo del giorno di Pentecoste. Noi del Lipsia avevamo preso il treno della notte: i nostri undici, tre riserve, l’allenatore, due dirigenti. Ma quale vagone letto! Ovvio che tutti, anch’io, viaggiammo in terza classe, i soldi per la trasferta li avevamo racimolati a fatica. Comunque i nostri ragazzi si sdraiarono senza lamentarsi sulle dure panche, e fino a poco prima di Uelzen mi venne proposto da parte di chi russava un vero e proprio concerto. Così raggiungemmo Altona con le ossa abbastanza rotte, ma gagliardi nello spirito. Come di consueto altrove, anche qui ci accolse la solita piazza d’armi, addirittura attraversata da uno stradino inghiaiato. Protestare non servì. Il signor Behr, l’arbitro dell’Fc 93 di Altona, aveva già recintato con un cavo il campo da gioco sabbioso ma impeccabilmente spianato, e tracciato di sua mano con la segatura sia le aree di rigore che la linea di metà campo. Che i nostri avversari, i ragazzi del Praga, avessero potuto arrivare, lo dovevano solo agli sbadati dirigenti dell’Fv Karlsruhe, i quali avevano preso una bella bidonata dando retta a un telegramma truffaldino, e quindi non erano andati in Sassonia per l’eliminatoria. Con rapida decisione, la Lega calcio tedesca aveva perciò mandato in finale il Dfc Praga. Tra l’altro, era la prima a essere disputata, per di più con un tempo magnifico, cosicché il signor Behr poté incassare una bella sommetta, dentro un piattino di latta, coi biglietti d’ingresso dei circa duemila spettatori. Comunque gli appena cinquecento marchi non bastarono a coprire tutte le spese. Proprio all’avvio, un intoppo: prima del fischio d’inizio mancava il pallone. I praghesi protestarono prontamente. Ma gli spettatori hanno più riso che imprecato. Gran giubilo, di conseguenza, quando finalmente il pallone fu sulla linea di metà campo e il nostro avversario, vento e sole alle spalle, diede il calcio d’inizio. Con un traversone da sinistra arrivarono quasi subito sotto la nostra porta, e solo a stento Raydt, l’allampanato estremo difensore del Lipsia, riuscì a salvarci da un prematuro svantaggio. Cercammo di contrattaccare, ma i lanci sulla destra erano troppo tesi. Poi però, in seguito a una mischia appena fuori l’area di rigore, i praghesi misero a segno un goal che solo grazie a una serie di vigorosi attacchi contro la porta difesa da Pick, l’efficace portiere avversario, riuscimmo a pareggiare prima dell’half—time. Dopo l’intervallo fummo incontenibili: Friedrich realizzò il secondo goal, Stany il suo primo, quindi
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dilagammo con altri tre di Stany e Riso in soli cinque minuti. I praghesi riuscirono sì a segnare ancora una volta grazie a un nostro passaggio sbagliato, ma poi - come si è detto - tutto filò liscio e l’entusiasmo salì alle stelle. Nemmeno il valido centromediano Robitsek, che ad ogni modo commise un pesante fallo ai danni di Stany, riuscì a contenere i nostri ragazzi. Dopo che il signor Behr ebbe ammonito lo scorretto Robi, Riso segnò il settimo goal poco prima del fischio finale. I praghesi - in precedenza tanto esaltati - delusero abbastanza, specie gli attaccanti. Troppi passaggi all’indietro, troppo deboli in area di rigore. Più tardi si disse che Stany e Riso erano stati gli eroi della giornata. Ma non è vero. Tutti gli undici combatterono come un sol uomo, anche se Bruno Stanischewski, che noi chiamavamo semplicemente Stany, già allora lasciò intravvedere quello che nel corso degli anni i giocatori di origine polacca avrebbero fatto per il calcio tedesco. Poiché sono rimasto in servizio ancora per molto tempo nel nostro direttivo, gli ultimi anni come cassiere, e ho presenziato spesso alle partite in trasferta assistendo ai grandi trionfi dello Schalke con Fritz Szepan e suo cognato Ernst Kuzorra, cioè le cosiddette «trottole dello Schalke», posso dire tranquillamente che a partire dalla vittoria di Altona il calcio tedesco è andato sempre migliorando, non ultimo grazie alla verve e alla pericolosità sotto porta dei polacchi germanizzati. Per tornare ad Altona: fu una bella partita, anche se non eccezionale. Ma già allora, quando il Vfb Lipsia era chiaramente e incontestabilmente considerato il campione tedesco, più di un giornalista ebbe la tentazione di scaldare la sua minestrina nelle cucine della leggenda. Ad ogni modo, le voci secondo le quali i praghesi avrebbero passato la notte prima della partita in bagordi con le donnine della Reeperbahn a Sankt Pauli, e per questo, specie nel secondo tempo, sarebbero stati così fiacchi in attacco, si dimostrarono pretestuose. Di suo pugno l’arbitro, il signor Behr, mi scrisse: «Hanno vinto i migliori!»
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1904 Da noi a Herne è cominciata già poco prima di Natale... - Da noi a Herne è cominciata già poco prima di Natale… - Sono le miniere dell’Hugo Stinnes… - Ma i vagoncini annullati ci sono anche da altre parti, nella miniera di Harpen, quando non sono pieni del tutto o c’è in mezzo un po’ di carbone con delle impurità… - E si beccano anche una multa… - Certo, signor consigliere. Ma una ragione per lo sciopero dei minatori che di solito se ne stanno tranquilli può essere probabilmente l’elmintiasi diffusa in tutta la Ruhr e minimizzata dalle amministrazioni minerarie, un quinto di tutti i minatori… - Se volete il mio parere, anche i cavalli si son presi quei vermi… - Macché, sono stati i polacchi a importare i germi di quella roba… - Però scioperano tutti, anche i minatori polacchi, che, come Lei sa, signor consigliere, di solito sono facili da calmare… - Con l’acquavite! - Stupidaggini! A sbevazzare son pronti tutti… - Ad ogni modo il comitato di sciopero si richiama all’accordo di Berlino dell’ottantanove, cioè alla normale giornata di otto ore… - Non esiste da nessuna parte! Le cordate vengono prolungate dappertutto… - Da noi a Herne siamo alle dieci ore sottoterra… - Ma se volete il mio parere, sono i vagoncini annullati che aumentano sempre di più negli ultimi tempi… - Adesso stanno scioperando in più di sessanta pozzi… - Oltretutto ci sono di nuovo le liste nere… - E a Wesel il 57° reggimento di fanteria è già consegnato e sta sul pied’arm… - Sciocchezze, gente! Finora in tutto il distretto sono in azione solo i gendarmi… - Ma da noi a Herne hanno armato da polizia mineraria gli impiegati, quelli come Lei, con fascia sul braccio e manganello… - Li chiamano i Pinkerton, perché l’americano Pinkerton è stato appunto il primo a farsi venire in mente questa trovata schifosa… - E visto che adesso c’è sciopero generale dappertutto, l’Hugo Stinnes vuol chiudere le sue miniere… - D’altra parte ora c’è in corso una roba tipo rivoluzione, in Russia… - E a Berlino il compagno Liebknecht ha…
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- Ma lì hanno schierato subito l’esercito e sono partiti gli spari… - Come nel Sudovest[1], lì i nostri uomini fanno piazza pulita degli ottentotti, in un lampo… - Ad ogni modo, in tutta la Ruhr stanno scioperando più di duecento miniere… - Hanno fatto i calcoli, sono l’ottantacinque per cento… - Ma finora la situazione è abbastanza tranquilla, ordinata, signor consigliere, perché anche la direzione del sindacato… - Non come in Russia, dove la rivoluzione si allarga sempre di più… - E perciò, compagni, a Herne sono stati presi per la prima volta provvedimenti contro i crumiri… - Ma poiché Stinnes continua a rifiutare qualsiasi accordo, bisogna temere… - Adesso in Russia c’è lo stato di guerra… - Ma i nostri ragazzi hanno ricacciato nel deserto senza tanti complimenti questi herero e altri ottentotti del genere… - Ad ogni modo, Liebknecht ha chiamato gli operai di Pietroburgo e noi del distretto eroi del proletariato… - Ma con i giapponesi i russi non se la sbrigheranno in quattro e quattr’otto… - E da noi a Herne però hanno sparato… - Ma solo in aria… - Comunque ce la siamo data tutti a gambe… - Dall’ingresso della miniera via di corsa attraverso il piazzale… - No, signor consigliere, niente soldati, solo polizia… - Ma siamo scappati lo stesso… - Filiamocela da qui, e subito, ho detto ad Anton… [1] La Namibia, nel sudovest dell’Africa, colonia tedesca dal 1884 al 1919.
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1905 Già il mio signor padre... Già il mio signor padre aveva lavorato a Tangeri, Casablanca e Marrakech su incarico di una società armatrice di Brema, e molto prima della prima crisi marocchina. Un uomo sempre in ansia, al quale la politica, e soprattutto il cancelliere Bülow che governava da lontano, guastava i bilanci. In qualità di figlio che teneva sí passabilmente a galla la nostra ditta a fianco della forte concorrenza francese e spagnola, ma che seguiva senza vera passione gli affari giornalieri con zafferano, fichi, datteri e noci di cocco, e quindi lasciava volentieri l’ufficio per la casa da tè e inoltre visitava i souk cercando passatempi di tutti i generi, trovavo piuttosto ridicole le continue chiacchiere sulla crisi, a tavola o al club. Così ho osservato tenendomi a distanza e solo attraverso un ironico monocolo anche la visita non preannunciata dell’imperatore al sultano, tanto più che Abd al-Hafiz seppe reagire persino all’inaspettata visita di Stato offrendo uno spettacolo ammirevole, protesse l’augusto ospite con una pittoresca guardia del corpo e agenti inglesi, assicurandosi al contempo segretamente il favore e la tutela della Francia. Nonostante gli intoppi nel corso dell’attracco, accolti con molti sorrisetti - il vaporetto si era quasi rovesciato assieme al sovrano -, l’entrata in scena dell’imperatore fu grandiosa. Fece il suo ingresso a Tangeri, assolutamente saldo in sella, su un cavallo bianco preso a prestito e senza dubbio nervoso. Si alzarono persino grida di giubilo. Ma l’ammirazione spontanea si indirizzò anzitutto al suo elmo, che irradiava segnali luminosi quand’era colpito dal sole. In seguito, nelle case da tè ma anche al club, circolarono disegni caricaturali sui quali, tralasciati tutti i tratti del viso, la calotta abbellita dall’aquila dialogava animatamente con i baffi imperiali. Inoltre il disegnatore - no, non ero io l’iconoclasta, bensì un artista che avevo conosciuto a Brema e che frequentava la piccola colonia di Worpswede - seppe mettere in mostra elmo e baffi a tortiglione davanti allo sfondo marocchino in modo tale che le cupole delle moschee e i loro minareti vennero a trovarsi in vivissima sintonia con la rotondità della calotta riccamente ornata e con il chiodo appuntito. Oltre a preoccupati dispacci l’apparizione dimostrativa non sortì nulla. Mentre Sua Maestà teneva discorsi risoluti, Francia e Inghilterra si mettevano d’accordo sulle sorti di Egitto e Marocco. Trovai comunque ridicola tutta la faccenda. E un’impressione altrettanto ridicola suscitò sei anni dopo l’incrociare della nostra cannoniera Panther davanti ad Agadir.
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Certo, la cosa scatenò tuoni teatrali dal persistente brontolio. Ma un’impronta duratura l’ha lasciata unicamente l’elmo dell’imperatore scintillante alla luce del sole. I ramai locali l’hanno imitato zelantemente e portato su tutti i mercati. Ancora per molto tempo - in ogni caso più a lungo di quanto resistette il nostro export-import - nei souk di Tangeri e di Marrakech si poterono comperare gli elmi prussiani en miniature e in grandezza superiore al naturale come souvenir, ma anche come utili sputacchiere; uno di questi, col chiodo infilato in una cassetta di sabbia, mi serve allo scopo a tutt’oggi. A mio padre però, che non solo negli affari possedeva una lungimiranza sempre timorosa del peggio e che all’occasione e non del tutto infondatamente gratificava il figlio del titolo di «leggerone», neanche le mie trovate più divertenti riuscivano a stimolare il muscolo risorio, anzi gli davano motivo di esprimere, non solo a tavola, il suo preoccupato parere: «Veniamo accerchiati, in combutta con i russi gli inglesi e i francesi ci accerchiano». E talvolta ci allarmava con l’aggiunta: «Il Kaiser è certamente bravo a minacciar guerra, ma la vera politica la fanno altri».
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1906 Chiamatemi Capitan Sirius... Chiamatemi Capitan Sirius. Il mio inventore porta il nome di Sir Arthur Conan Doyle, celebre come autore delle storie di Sherlock Holmes note in tutto il mondo, nelle quali la criminologia viene esercitata con rigore scientifico. E, quasi incidentalmente, Doyle ha cercato di mettere in guardia l’Inghilterra insulare contro un pericolo incombente, quando - otto anni dopo il varo del nostro primo U-Boot atto alla navigazione - venne pubblicato il suo racconto Danger!, che uscì in traduzione tedesca nell’anno di guerra 1915 col titolo La guerra dei sommergibili - Come Capitan Sirius domò l’Inghilterra, arrivò alla 17a ristampa verso la fine del conflitto, ma nel frattempo sembra essere purtroppo caduto nell’oblio. Secondo questo lungimirante libriccino, nelle vesti di Capitan Sirius riuscivo a convincere il re di Norland, nome con cui si alludeva al nostro Reich, dell’audace ma nondimeno probante possibilità di tagliar fuori l’Inghilterra da qualsiasi approvvigionamento di derrate alimentari usando soltanto otto sommergibili - di più non ne avevamo - e di ridurla letteralmente alla fame. I nostri natanti si chiamavano Alfa, Beta, Gamma, Delta, Epsilon, Theta, Jota e Kappa. Nel corso dell’impresa complessivamente coronata dal successo, l’ultimo dell’elenco andò purtroppo perduto nella Manica. Io ero capitano dello Jota e avevo il comando dell’intera flottiglia. Registrammo le prime vittorie alla foce del Tamigi, vicino a Sheerness: via via affondai, centrandole con i siluri nella mezzeria, l’Adela, carica di carne di montone dalla Nuova Zelanda, subito dopo la Moldavia della compagnia Oriental, quindi la Cusco, entrambe cariche di granaglie. In seguito a ulteriori successi davanti alla costa della Manica e solerti affondamenti fin dentro il mar d’Irlanda, a cui la nostra flottiglia partecipava in gruppi o con azioni singole, i prezzi cominciarono a salire, prima a Londra e poi in tutta l’isola: una pagnotta da cinque pence arrivò ben presto a costare uno scellino e mezzo. Con il blocco sistematico di tutti i principali porti d’entrata continuammo a spingere in alto questi prezzi da usura e provocammo una carestia nell’intero paese. La popolazione languente protestò con violenza contro il governo. La Borsa, il Sancta Sanctorum dell’impero, venne presa d’assalto. Gli appartenenti alle classi elevate o coloro che in ogni caso potevano permetterselo si rifugiarono in Irlanda, dove almeno c’erano patate a sufficienza. Alla fine la superba Inghilterra, umiliata, dovette concludere la pace con il Norland.
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Nella seconda parte del libro prendevano la parola esperti di marina e altri tecnici, che confermavano tutti la messa in guardia contro il pericolo degli U-Boot pubblicata da Doyle. Qualcuno – un viceammiraglio a riposo - consigliava d’ora in avanti di costruire granai in Inghilterra come un tempo Giuseppe in Egitto, e di proteggere con i dazi i prodotti dell’agricoltura autoctona. Si richiedeva con urgenza di prendere le distanze dalle dogmatiche concezioni insulari e di cominciare a scavare il tunnel verso la Francia. Un altro viceammiraglio proponeva di far viaggiare le navi da carico solo in convoglio e di approntare navi da guerra particolarmente veloci per la caccia agli U-Boot. Tutte indicazioni sagge, la cui utilità è stata purtroppo confermata nel corso della guerra vera e propria. Potrei dilungarmi in particolari, riguardo agli effetti delle bombe di profondità. Spiace che Sir Arthur, il mio inventore, abbia scordato di raccontare che da giovane sottotenente ero presente, a Kiel, quando il 4 agosto 1906, nel cantiere Germania, una gru mise in acqua il nostro primo sommergibile atto a tenere il mare, sotto strettissima sorveglianza perché segreto. Fino ad allora ero stato secondo ufficiale su una torpediniera, ma mi ero presentato volontario per il collaudo della nostra arma sottomarina non ancora perfezionata. Facendo parte dell’equipaggio, fui testimone della prima volta in cui l’U 1 venne portato a trenta metri di profondità e poco dopo raggiunse il mare aperto con le proprie forze. Devo tuttavia ammettere che già in precedenza la ditta Krupp aveva fatto costruire, secondo i progetti di un ingegnere spagnolo, un natante di tredici metri in grado di raggiungere sott’acqua i cinque nodi e mezzo. La Trota suscitò persino l’interesse dell’imperatore. Il principe Enrico prese parte personalmente a un’immersione. Purtroppo il ministero della Marina del Reich ha ritardato l’ulteriore rapida evoluzione della Trota. E per giunta ci furono difficoltà con il motore a petrolio. Ma quando l’U 1 venne armato a Eckernförde con un anno di ritardo, non ci furono più interruzioni, anche se la Trota e un nostro trentanove metri, il Kambala, già provvisto di tre siluri, vennero in seguito venduti alla Russia. Mi vidi purtroppo incresciosamente destinato alla solenne consegna. Alcuni pope arrivati espressamente da Pietroburgo benedissero con l’acqua santa i natanti, da prua a poppa. Dopo un complicato trasporto via terra furono messi in acqua a Vladivostok, troppo tardi per farli entrare in azione contro il Giappone. Ma il mio sogno nondimeno si realizzò. Nonostante il suo fiuto da detective confermato in innumerevoli storie, Conan Doyle non è stato in grado di immaginare quanti giovani tedeschi si siano entusiasmati -
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similmente a me - per l’immersione rapida, l’occhio vagante del periscopio, le navi cisterna come beccheggianti bersagli, l’ordine «fuori il siluro!», i molti colpi andati a segno tra grida di giubilo, il vivere cameratescamente gomito a gomito e il rientro pavesati a festa. E io, che sono stato presente fin dall’inizio e che nel frattempo appartengo alla letteratura, non sono stato in grado di immaginare che migliaia dei nostri giovani non sarebbero riemersi dal loro sogno sottomarino. Purtroppo, grazie all’avvertimento di Sir Arthur, il nostro ripetuto tentativo di mettere in ginocchio l’Inghilterra è fallito. Quanti morti. Solo Capitan Sirius restò condannato a sopravvivere a ogni immersione.
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1907 Alla fine di novembre... Alla fine di novembre il nostro impianto di stampaggio sul Celler Chaussee venne distrutto dal fuoco: fino alle fondamenta. E dire che eravamo in pieno slancio. Parola: sfornavamo trentaseimila dischi al giorno. Ci strappavano il prodotto di mano. E il fatturato del nostro assortimento di grammofoni ammontava a dodici milioni di marchi all’anno. Gli affari andavano particolarmente bene perché da due anni stampavamo ad Hannover dischi incisi su entrambi i lati. Come li trovavi soltanto in America. Molti strombazzamenti militari. Poco che soddisfacesse più elevate esigenze. Ma poi finalmente Rappaport, che sarebbe la mia modesta persona, riuscì a convincere Nellie Melba, la «grande Melba», a registrare. All’inizio fece un sacco di smorfie, come più tardi ¬saljapin, che aveva una paura fottuta di perdere la sua morbida voce di basso per colpa di quell’opera del demonio, così chiamava la nostra modernissima tecnica. Joseph Berliner, che col fratello Emile aveva fondato ad Hannover ancor prima della fine del secolo la «Deutsche Grammophon», poi aveva spostato la sede a Berlino e con soli ventimila marchi di capitale iniziale aveva corso un notevole rischio, un bel mattino mi disse: - Fa’ la valigia, Rappaport, devi filare immediatamente a Mosca e, non chiedermi come, riuscire a convincere Šaljapin. Parola! Salii sul primo treno, senza tirarmi dietro tanta roba, però portai con me i nostri primi dischi in gommalacca, quelli con su la Melba, come dono dell’ospite, per così dire. Che viaggio! Conoscete il ristorante Yar? Una raffinatezza! Poi fu una lunga notte, nella chambre séparée. Dapprima bevemmo soltanto vodka da bicchieri per l’acqua, finché Fedor si fece il segno della croce e cominciò a cantare. No, non il suo cavallo di battaglia del Boris Godunov, sempre quella roba religiosa che i monaci biascicano con le loro abissali voci di basso. Quindi passammo allo champagne. Ma solo verso l’alba firmò, piangendo e continuando a segnarsi. Poiché zoppicavo fin da bambino, avrà certamente visto in me il diavolo, quando lo incalzai per la firma. Alla quale si arrivò solo perché avevamo già ingaggiato il grande tenore Sobinov e potei sottoporgli il suo contratto, come modello, per così dire. In ogni caso, Šaljapin divenne il nostro primo vero divo. Adesso arrivavano tutti: Leo Slezak, Alessandro Moreschi, che registrammo su disco presentandolo come l’ultimo castrato. E poi, nell’Hotel de Milan - incredibile, lo so, proprio un piano sopra la stanza dov’era morto Verdi -, riuscii a realizzare le prime registrazioni - dieci arie! - con
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Enrico Caruso. Ovviamente sotto contratto esclusivo. Presto cantò per noi anche Adelina Patti e non so quanti altri. Fornivamo tutti i paesi della terra. Le case reali inglese e spagnola facevano parte della nostra clientela abituale. Per quanto riguarda il ramo parigino di casa Rothschild, Rappaport riuscì persino a liquidare con un paio di trucchi i loro fornitori americani. Tuttavia, come commerciante di dischi, mi era chiaro che non potevamo puntare sull’esclusivo, perché quel che conta è la quantità, e che per essere in grado di reggere sul mercato mondiale dovevamo decentralizzare con altri impianti di stampaggio a Barcellona, Vienna e - parola! - Calcutta. Perciò l’incendio di Hannover non fu proprio un disastro totale. Ma certamente ci ha rattristato, perché sul Celler Chaussee con i fratelli Berliner avevamo mosso i primi piccoli passi. E’ vero che quelli erano due geni e io solo un commerciante, ma Rappaport l’ha sempre saputo: con il disco e il grammofono il mondo si reinventa da capo. Eppure ancora per molto tempo, prima di ogni registrazione, ¬saljapin si è fatto il segno della croce non so quante volte.
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1908 Si usa così, nella nostra famiglia... Si usa così, nella nostra famiglia: il padre porta con sé il figlio. Già mio nonno, che lavorava nelle ferrovie ed era inquadrato nel sindacato, si tirava dietro l’erede maschio quando Wilhelm Liebknecht tornava a parlare nella Hasenheide. E mio padre, che era anche lui nelle ferrovie ed era un compagno, di quelle grandi manifestazioni - proibite finché Bismarck fu al potere - mi ha ficcato bene in testa la frase in qualche modo profetica «L’annessione dell’Alsazia-Lorena non ci porta la pace, ci porta la guerra!» Adesso mi prendeva con sé, pivello di nove o dieci anni, quando il figlio di Wilhelm, il compagno Karl Liebknecht, parlava all’aperto oppure, se arrivava il divieto, in fumose taverne. Mi portò anche a Spandau, perché là Liebknecht era candidato alle elezioni. E nel 1905 ebbi la possibilità di andare addirittura a Lipsia, in treno, visto che come macchinista papà aveva diritto a biglietti gratuiti, perché nella Felsenkeller di Plagwitz Karl Liebknecht parlava del grande sciopero nel distretto della Ruhr, che allora era su tutti i giornali. Ma Liebknecht non trattò soltanto dei minatori e non si scagliò solo contro i grandi latifondisti e i padroni del vapore prussiani, si dilungò soprattutto e in toni veramente profetici sullo sciopero generale come futura arma di battaglia delle masse proletarie. Parlava a braccio e sembrava inventasse le parole lì su due piedi. E già affrontava il tema della rivoluzione in Russia e dello zarismo che grondava sangue. Intanto fioccavano gli applausi, a ripetizione. E alla fine venne approvata all’unanimità una mozione nella quale gli assembrati – mio padre diceva che erano stati certamente più di duemila - solidarizzavano con gli eroici combattenti della Ruhr e in Russia. Forse erano addirittura tremila, le persone che si accalcavano nella Felsenkeller. Io riuscivo a vedere meglio di mio padre, perché mi aveva preso in spalla, come già aveva fatto suo padre quando Wilhelm Liebknecht o il compagno Bebel parlavano della situazione della classe operaia. Era questo l’uso, da noi. Ad ogni modo, da ragazzino, ho sempre non solo visto ma anche sentito il compagno Liebknecht dall’alto, per così dire da un osservatorio elevato. Era un trascinatore di masse. Le parole non gli si esaurivano mai. Gli piaceva soprattutto incitare i giovani. In aperta campagna l’ho sentito gridare sopra le teste di migliaia di convenuti: «Chi domina i giovani, domina l’esercito!» Altra cosa che si è dimostrata anch’essa profetica. In ogni caso, sulle spalle di papà ho avuto veramente paura, quando ci ha urlato in tono di rimprovero: «Il militarismo è il brutale esecutore e il baluardo di
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sangue e di ferro del capitalismo!» Perché me lo ricordo ancora come fosse oggi che mi ha fatto proprio paura, appena parlò del nemico interno che bisogna combattere. Probabilmente per questo mi scappava con tanta urgenza e mi dimenavo sulle spalle di mio padre. Ma lui non si accorse minimamente del mio bisogno, perché era tutto preso dall’entusiasmo. Allora non riuscii più a trattenermi, là sulla mia postazione elevata. E così, nell’anno 1907, accadde che ho pisciato sul collo di mio padre attraverso la patta dei calzoni. Poi il compagno Liebknecht venne arrestato e dovette farsi un anno intero, il 1908, e più di fortezza a Glatz, condannato dalla corte suprema del Reich a causa del suo libello contro il militarismo. Mio padre però, quando nell’estrema emergenza gli innaffiai la schiena, mi tirò giù dalle spalle e mentre la manifestazione proseguiva e il compagno Liebknecht continuava a incitare i giovani, me le suonò di santa ragione, tanto che ancora per parecchio tempo ho avvertito il peso della sua mano. E per questo, solo per questo, quando più tardi scoppiò finalmente la guerra, sono corso al distretto militare, mi sono presentato volontario; mi hanno conferito addirittura una medaglia al valore e dopo esser stato ferito due volte presso Arras e davanti a Verdun mi hanno promosso sottufficiale, anche se ho sempre nutrito la certezza, persino alla testa di truppe d’assalto nelle Fiandre, che il compagno Liebknecht, il quale più tardi, molto più tardi, venne ucciso come la compagna Rosa da alcuni camerati del corpo franco, e uno dei cadaveri fu addirittura gettato nel Landwehrkanal, avesse cento volte ragione, quando incitava i giovani.
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1909 Poiché mi facevo tutti i giorni in bicicletta... Poiché mi facevo tutti i giorni in bicicletta la strada per l’ospedale Urban e in genere passavo per un fanatico del velocipede, divenni assistente del dottor Willner alla Sei Giorni che si svolse al velodromo d’inverno del Giardino Zoologico, tra l’altro non solo per la prima volta a Berlino e nel Reich, ma addirittura in Europa. Solo in America si conosceva già da alcuni anni questa sfaticata, perché lì comunque il pubblico è attratto da tutto ciò che ha del colossale. E quindi i vincitori newyorkesi della stagione precedente, Floyd Macfarland e Jimmy Moran, erano considerati i favoriti. Peccato che il corridore tedesco Rütt, che due anni prima aveva vinto la gara americana con il suo partner olandese Stol, non potesse essere presente a Berlino. Avendo disertato, nel Reich era passibile di pena, e non osava rientrare in patria. Ma Stol, quel simpatico birbantello, era in pista e presto divenne il beniamino del pubblico. Naturalmente speravo che Robl, Stellbrink e Willy Arend, il nostro asso del velocipede, rappresentassero i colori tedeschi al meglio delle loro forze. Ininterrottamente, vale a dire ventiquattr’ore su ventiquattro, il dottor Willner dirigeva la stazione medica della Sei Giorni. Anche noi, come i corridori, occupavamo delle cuccette grandi quanto una stia per polli sistemate alla bell’e meglio sul lato lungo dello spazio interno, proprio accanto alla piccola officina meccanica e al reparto dell’assistenza medica, relativamente riparato. E da fare ne avevamo. Già il primo giorno della gara Poulain cadde trascinando con sé il nostro Willy Arend. Al posto dei due, che dovettero restare fermi per alcuni giri, proseguirono Georget e Rosenlöcher, quest’ultimo più tardi fu poi costretto a ritirarsi, esausto. Secondo il nostro programma sanitario, già prima dell’inizio della gara il dottor Willner aveva ordinato di registrare il peso corporeo di tutti i partecipanti, cosa che venne ripetuta di nuovo scaduto il termine dei sei giorni. Inoltre offrì a tutti i corridori, non solo ai tedeschi, inalazioni di ossigeno. Una proposta alla quale quasi tutti i concorrenti hanno dato l’assenso. Ogni giorno nella nostra stazione venivano consumate da sei a sette bombole di ossigeno, il che dimostra l’enorme onerosità della gara. Dopo la ristrutturazione, terminata appena in tempo, i centocinquanta metri di pista del velodromo mostravano un aspetto diverso. La corsia di gara battuta di fresco era dipinta di verde. Nei posti in piedi della galleria si accalcavano i giovani. Nei palchi e nei distinti dello spazio interno si vedevano signori della Berlino
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elegante in frac e ventriera bianca. Con i loro enormi cappelli le signore impedivano la vista. Il palco reale era stato occupato già al secondo giorno, quando il nostro Willy Arend si trovava ormai in svantaggio di due giri, dal principe Oskar e seguito, ma quando il quarto giorno, nel corso di venticinque giri, si svolsero frenetici sorpassi tra i favoriti MacfarlandMoran e Stol-Berthet, e il francese Jacquelin schiaffeggiò il nostro Stellbrink - scoppiarono tumulti in galleria e il pubblico minacciò di linciare Jacquelin, ragione per cui la gara ebbe una breve sospensione e il francese fu squalificato -, comparve, con il seguito sfarzosamente agghindato, Sua Altezza Imperiale il principe ereditario, il quale rimase, di ottimo umore, ben oltre la mezzanotte. Grande giubilo al suo apparire. Come accompagnamento, svelte marce militari, ma anche canzonette di moda per la galleria fracassona. Persino durante le ore tranquille, quando i ciclisti compivano i loro giri con tutta calma, per tener sveglia la compagnia risuonavano musiche vigorose. Stellbrink, un ragazzo tenace che adesso girava col mandolino sottobraccio, non poteva naturalmente tener testa al fracasso delle marce. Avevamo il nostro daffare persino al mattino presto, quando non succedeva assolutamente nulla di eccitante. Grazie alla società elettrica «Sanitas», la nostra stazione era dotata dei più recenti apparecchi Rotar-Röntgen, cosicché, quando ci fu l’ispezione del generale comandante maggiore medico professor Schjerning, il dottor Willner aveva già fatto sessanta radiografie dei corridori partecipanti o già eliminati e adesso poté mostrarle al professor Schjerning. Il quale consigliò al dottor Willner di pubblicare in seguito questo e altro materiale, cosa che è avvenuta su una prestigiosa rivista specializzata, senza peraltro il minimo accenno alla mia attività. Ma anche la corsa suscitò un certo interesse nel nostro illustre visitatore. Il professore vide come al quinto giorno la coppia Stol-Berthet, in testa fino a quel momento, venisse superata dai favoriti americani. Più tardi, dopo che Brocco ebbe ostacolato Berthet nella volata, costui affermò che il suo partner Stol era stato comprato dal team Macfarland-Moran, senza poter dimostrare questa accusa di fronte alla giuria della gara. Così Stol, anche se il sospetto rimase, continuò a essere il beniamino del pubblico. Il dottor Willner ha consigliato ai nostri ciclisti, come alimentazione ricostituente, lecitina e diamalto, uova crude e roastbeef, riso, pasta e budino. Robl, un tipo scontroso che non legava con nessuno, dietro raccomandazione del suo medico privato ingollava robuste porzioni di caviale. Quasi tutti i ciclisti fumavano, bevevano spumante, e Jacquelin, fino all’eliminazione, persino porto. Pensavamo di aver motivo di ritenere
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che alcuni atleti stranieri facessero uso di sostanze eccitanti; il dottor Willner sospettava preparati a base di stricnina e di caffeina. Riguardo a Berthet, figlio neroricciuto di un milionario, potei osservare come nella sua cuccetta masticasse avidamente una radice di zenzero. Ciononostante, la coppia Stol-Berthet retrocesse superata di un giro, e il settimo giorno, alle dieci di sera, Floyd Macfarland e Jimmy Moran riportarono la vittoria, intascando il premio di quindicimila marchi. Naturalmente il nostro Willy Arend, con diciassette giri di distacco, deluse persino i suoi più fedeli sostenitori. Comunque il velodromo, nonostante i prezzi dei biglietti raddoppiati verso la fine della manifestazione, fece il tutto esaurito fino al 21 marzo. Delle quindici coppie iniziali alla fine ne rimasero in pista solo nove. Applausi scroscianti quando suonò la campanella di chiusura. Anche se Stol, quel simpatico birbantello, si prese un’ovazione speciale, agli americani venne elargito un leale battimano, durante il giro d’onore. Ovviamente il palco reale era occupato dal principe ereditario, dai principi von Thurn und Taxis insieme ad altra nobiltà. Un mecenate fanatico dei velocipedi offrì addirittura ai nostri ciclisti Arend e Robl ragguardevoli premi di consolazione per i giri riguadagnati. Stol mi regalò come ricordo una delle sue pompe per pneumatici fabbricate in Olanda. E il dottor Willner ritenne degno di nota il fatto che nel corso della Sei Giorni avessimo potuto constatare in tutti i ciclisti notevoli escrezioni di albumina.
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1910 Adesso voglio proprio raccontare... Adesso voglio proprio raccontare perché i ragazzi qui, solo perché mi chiamo Berta e sono di figura grossa, mi hanno appioppato quella specie di soprannome. Allora abitavamo dentro la colonia, sì, insomma, nel villaggio operaio. Era roba della fabbrica e proprio vicina al lavoro. Così ci arrivava addosso anche tutto il fumo. Ma quando volevo tirar madonne perché il bucato ad asciugare era di nuovo di un grigio da schifo e i ragazzini avevano sempre la tosse, pa’ ha detto: lascia perdere, Berta. Chi è a cottimo dai Krupp deve arrivare in fretta al lavoro. Siamo rimasti lì fino all’ultimo per un sacco di anni, anche se si stava stretti, perché la stanza dietro, quella verso la gabbia dei conigli, abbiamo dovuto darla a due uomini non sposati, che da noi li chiamavano dozzinanti, e io per la macchina da cucire che mi son tirata fuori coi miei risparmi non ci avevo posto. Ma il mio Köbes, lui mi diceva sempre: lascia perdere, Berta, l’importante è che non ci piove in testa. Lavorava in fonderia. Era il momento che colavano le canne dei cannoni. Con tutti gli annessi e connessi. Già, è stato qualche anno prima della guerra. Ce n’era, da fare. E allora hanno colato una roba che tutti avevan messo su la cresta, perché un affare così enorme non c’era ancora in tutto il mondo. E dato che da noi nella colonia molti lavoravano in fonderia, anche tutti e due i nostri dozzinanti, eran sempre lì a parlare di quella cosa, anche se a sentir loro era roba segretissima. Ma dai e dai, non c’era verso di finirla. Di per sé doveva essere una specie di mortaio. Sono quelli con la canna mozza. Quarantadue centimetri di diametro esatti, si diceva. Ma un paio di volte la colata era andata storta. E anche quanto al resto la tiravano per le lunghe. Ma pa’ ha sempre detto: se vuoi il mio parere, vedrai che la mettiamo in sesto per quando comincerà per davvero. Altrimenti il Krupp, lui è capace di vendere quella roba magari allo zar di Russia. Ma quando poi è cominciata per davvero, un paio d’anni dopo, non l’hanno mica venduta, anzi con quell’arnese hanno tirato cannonate su Parigi, da lontano. La chiamavano dappertutto la Grossa Berta. Anche dove nessuno mi conosceva. Erano stati i colatori dentro la nostra colonia che per primi l’hanno chiamata così, col mio nome, perché allora da noi ero la più grassa. Non mi è piaciuto per niente essere in quel modo sulla bocca di tutti, anche se il mio Köbes mi ha detto: non lo dicono mica con cattiveria. Oltretutto non ho mai avuto niente a che spartire con i cannoni, anche se con le cose del Krupp ci abbiamo vissuto. E neanche male, se volete saperlo. C’erano perfino oche e polli che giravano da noi, dentro la colonia.
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Quasi tutti davano da mangiare al loro maiale, nel porcile. E poi ancora, quando veniva la primavera, tutti quei conigli… Però non dev’essere servita a molto in guerra, la loro Grossa Berta. Se la son fatta addosso dal ridere, i francesi, quando il coso ha di nuovo sbagliato bersaglio. E il mio Köbes, che quel Ludendorff proprio alla fine ha tirato dentro con la leva in massa, per cui adesso è storpio e non possiamo più stare dentro la colonia e viviamo in affitto nel capanno con quel poco che ho risparmiato, mi dice sempre: lascia perdere, Berta. Per me puoi metter su tranquillamente ancora qualche chilo, l’importante è che rimani in salute…
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1911 Mio caro Eulenburg... Mio caro Eulenburg[1], se posso ancora chiamarla così, dopo che quella canaglia di Harden con le sue porcherie giornalistiche ci ha lordati tanto brutalmente e io, pur controvoglia, ho dovuto piegarmi alla ragion di stato e lasciare in asso il mio fedele compagno di viaggio e consigliere. Eppure, caro principe, adesso La prego di esultare con me: è fatta! Oggi ho nominato grande ammiraglio il mio ministro della Marina Tirpitz, che al Reichstag ha saputo cantarle così bene ai liberali di sinistra. Già, tutti i miei schizzi sulla consistenza della flotta nemica: Lei ne ha spesso blandamente criticato l’acribia, perché durante le sedute più mortalmente noiose non mi stancavo di indulgere al mio piccolo talento disegnando sulle cartelle degli atti, anzi, persino dentro gli stessi incartamenti di assoluta insignificanza, e - a nostro monito - registravo con tutte le torrette la compatta potenza navale della Francia, con il Charles Martel e i suoi incrociatori corazzati di 1a classe, in testa il Jeanne d’Arc, poi le nuove unità della Russia, in primo luogo le corazzate Petropavlovsk, Poltava e Sevastopol. Perché, cosa potevamo contrapporre alle «dreadnoughts» dell’Inghilterra, prima che le leggi navali ci lasciassero poco alla volta mano libera? Al massimo i quattro incrociatori della classe Brandeburgo, e nient’altro. Eppure questa raccolta di schizzi che abbraccia il probabile avversario trova adesso - come Lei, mio caro amico, può desumere dal materiale allegato - una risposta da parte nostra, non è più solo un progetto, bensì già solca il Mare del Nord e il Baltico, oppure è in costruzione nei cantieri di Kiel, Wilhelmshaven e Danzica. Lo so, abbiamo perso anni. La nostra gente, in rebus navalibus, era purtroppo totalmente analfabeta. E’ stato necessario destare nel popolo un’eccitazione generale, più ancora, un entusiasmo per la marineria. Dovette arrivare la lega navale, una legge navale, e in questo gli inglesi - o dirò meglio i miei amabili cugini inglesi? - mi hanno involontariamente aiutato, quando durante la guerra dei Boeri - ricorda, mio caro amico? catturarono in modo del tutto illegale due nostre navi a vapore davanti alla costa orientale dell’Africa. Ci fu grande indignazione nel Reich, allora. E la cosa è stata d’aiuto, nel Reichstag. Anche se la mia frase: «Noi tedeschi dobbiamo contrapporre alle “dreadnoughts” inglesi i nostri “Fürchtenichts”[2] corazzati», suscitò un bel po’ di clamore. (Sì, sì, lo so, caro Eulenburg: la mia più grande tentazione è e rimane l’agenzia telegrafica Wolff). Ma adesso i primi sogni realizzati galleggiano. E per il resto?
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Tirpitz metterà ordine. In ogni caso, per me resta un piacere sublime schizzare unità di linea e incrociatori corazzati. Ora seriamente, al mio scrittoio, davanti al quale, come Lei sa, siedo su una sella, sempre pronto all’attacco. Dopo la solita cavalcata, sento come dovere mattutino quello di mettere sulla carta, con audace intuizione, la nostra flotta ancora così giovane di fronte allo strapotere nemico, e del resto so che Tirpitz punta, come me, sui grandi tonnellaggi. Dobbiamo diventare più veloci, più agili, avere maggior potenza di fuoco. Le idee appropriate mi vengono facilmente. Spesso è come se durante questo atto creativo le grandi navi mi balzassero fuori dalla testa. Ieri ho avuto davanti agli occhi alcuni incrociatori pesanti, il Seydlitz, il Blücher, che poi ho schizzato rapidamente. Vedo intere squadre incrociare in formazione in linea. Mancano ancora le grandi navi da combattimento. Solo per questo motivo i sottomarini devono aspettare, dice Tirpitz. Se avessi Lei vicino come un tempo, mio ottimo amico, l’amante delle belle lettere e delle arti! Come potremmo discorrere con spavalderia e perspicacia. Con quale ollecitudine placherei i Suoi timori. Perché sì, carissimo Eulenburg, io voglio essere un principe della pace, ma un principe in armi… [1] Lettera di Guglielmo II al principe Philipp zu Eulenburg und Hertefeld (1847-1921), suo consigliere e confidente fino al 1906; nel novembre di quell’anno Eulenburg venne travolto da uno scandalo fomentato dal giornalista Maximilian Harden, che lo accusava di omosessualità e di far parte di una camarilla che influenzava negativamente l’imperatore. [2] Letteralmente «impavidi, intrepidi».
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1912 Sebbene mi guadagnassi la pagnotta... Sebbene mi guadagnassi la pagnotta come sorvegliante delle rive nell’ufficio opere idrauliche di Potsdam, scrivevo comunque poesie nelle quali baluginava la fine del mondo e la morte attendeva al proprio ufficio, insomma ero preparato a tutti gli orrori. Accadde a metà gennaio. Due anni prima avevo assistito per la prima volta al suo esordio nel Nollendorf-Casino, dove i mercoledì sera si riuniva il Neuer Club della Kleiststrasse. In seguito più spesso, ogniqualvolta mi era possibile intraprendere il lungo viaggio per arrivare fin lì. I miei sonetti suscitavano ben poca attenzione, ma lui non si poteva ignorarlo. Più tardi sperimentai la forza delle sue parole al Neopathetischer Cabaret. Erano presenti Blass e Wolfenstein. I versi sfilavano in colonne chiassose. Una marcia di monotoni monologhi, che conduceva dritta al macello. Ma poi esplose il gigante bambino. Fu come l’eruzione del Krakatoa dell’anno precedente. Allora lui scriveva già per l’«Aktion» di Pfemfert, ad esempio, subito dopo l’ultima crisi marocchina, quando tutto era in bilico e noi potevamo sperare che adesso si arrivasse allo scontro, la sua poesia La guerra. Sento ancora: «Innumerevoli sono le salme distese nel canneto coperte di bianco dagli impetuosi uccelli della morte… » Aveva una particolare predilezione per il nero e il bianco, soprattutto per il bianco. Non c’è da stupirsi che sulla Havel gelata da settimane, nel biancore sconfinato della superficie percorribile, si trovasse quel buco nero che sembrava lo stesse aspettando. Quale perdita! Ma perché, ci chiedevamo, la «Vossische» non gli ha scritto un necrologio? Unicamente la breve notizia: «Nel pomeriggio di martedì, mentre pattinavano di fronte a Kladow, l’uditore giudiziario dottor Georg Heym e il laureando in giurisprudenza Ernst Balcke sono caduti in una buca che era stata aperta nella superficie ghiacciata per gli uccelli acquatici». Niente di più. Ma questo è certo: da Schwanenwerder ci eravamo accorti della disgrazia. Dall’ufficio opere idrauliche io e il mio assistente ci avviammo verso quel punto pericoloso insieme ad alcuni pattinatori, ma trovammo soltanto il bastone di Heym, come più tardi risultò, con l’impugnatura elegantemente decorata e i suoi guanti. Forse aveva cercato di soccorrere l’amico e nel tentativo era finito anche lui sotto la coltre di ghiaccio. O forse Balcke l’aveva trascinato giù con sé. Oppure hanno cercato volontariamente la morte, tutti e due. Sulla «Vossische» si diceva ancora, come se fosse una notizia importante, che era figlio dell’avvocato militare a riposo Heym, residente a Charlottenburg, Königsweg 31. Il
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padre dell’altra vittima, il laureando Balcke, era un banchiere. Ma niente, neanche una parola su cosa poteva aver indotto i due giovani a deviare volontariamente dal tracciato per pattinatori segnato da fasci di paglia e paletti, che poteva essere considerato sicuro. Niente sul travaglio interiore della nostra già allora perduta generazione. Niente sulle poesie di Heym. Eppure un giovane editore di nome Rowohlt l’aveva pubblicato. Tra non molto sarebbero usciti i suoi racconti. Solo sul «Berliner Tagblatt» comparve l’accenno, posposto alla notizia dell’incidente, che l’uditore giudiziario annegato aveva avuto rilevanza anche in campo letterario e qualche tempo prima aveva pubblicato un volume di poesie, Il giorno eterno. Si sarebbero evidenziate tracce di un notevole talento. Tracce! Semplicemente ridicolo. Noi dell’ufficio opere idrauliche partecipammo al recupero del cadavere. Certo, i miei colleghi mi prendevano in giro quando definivo «di una terribile grandezza» le sue poesie e citavo i versi più recenti del giovane Heym - «Gli uomini stanno avanti nelle strade e fissano i grandi segni zodiacali» -, però non si stancarono di rompere il ghiaccio a picconate in diversi punti della Havel e di scandagliare il fondo con le cosiddette ancore della morte. Così alla fine lo trovarono. E io, appena tornato a Potsdam, ho scritto la poesia dedicata a Heym dal titolo àncora della morte, che Pfemfert avrebbe veramente voluto stampare, ma poi mi ha restituito con rincrescimento. Come la «Kreuzzeitung» si era affrettata ad annunciare, attraverso il ghiaccio un pescatore vide Balcke, che aveva un anno meno di Heym, mentre andava alla deriva nella Havel. Fece un buco e tirò a sé il cadavere con il gancio d’accosto. Balcke aveva sul volto un’espressione tranquilla. Invece Heym aveva le gambe strette contro il corpo, come un embrione. Rattrappito, il viso distorto, le mani scorticate. Giaceva sul ghiaccio incrostato con i pattini da corsa ai piedi. Un giovane robusto solo esteriormente. Dilaniato da intenzioni diverse. Lui che detestava tutto ciò che avesse a che fare con l’esercito, poche settimane prima si era presentato volontario al reggimento di fanteria alsaziano di Metz. Eppure era pieno di progetti che andavano in tutt’altra direzione. Voleva scrivere drammi, per quanto ne so…
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1913 Questa massa minacciosa... Questa massa minacciosa su un terreno pianeggiante[1], un colosso pietrificato, la follia espressiva di un architetto con la diarrea di granito, l’avrei dunque costruita io - no, non progettata e disegnata -, ma nel corso di ben quattordici anni come direttore dei lavori io avrei scavato le fondamenta, io l’avrei ammucchiata, innalzata, accatastata contro il cielo? Al consigliere Thieme, che è a capo della Lega dei patrioti e che - fin dove si estende il Reich - era riuscito a raggranellare quasi sei milioni, ho detto oggi, dopo che più di un anno fa era stata solennemente posata l’ultima pietra e uno dei miei capomastri in persona aveva chiuso le ultime fessure: - Un pochino eccessivo, il tutto! - Dev’esserlo, Krause, dev’esserlo. Con novantun metri superiamo il monumento del Kyffhäuser di ben ventisei… E io: - E il tempio imperiale della Porta Westfalica di quasi trenta… - E di trenta esatti la Colonna della Vittoria di Berlino… - E soprattutto il monumento di Arminio! Per non parlare della Bavaria di Monaco con i suoi appena ventisette metrucci… Il consigliere Thieme aveva certo colto la mia ironia: - In ogni caso, esattamente a cent’anni di distanza dalla Battaglia delle Nazioni, il nostro memoriale patriottico verrà inaugurato nel modo più solenne. Versai qualche cucchiaiata di dubbio nella sua minestra nazionalistica: - Con un po’ di metri in meno si sarebbe ottenuto lo stesso effetto -. Poi cominciai a parlare di questioni tecniche, scavando ancora una volta le fondamenta: - Della gran immondizia, da Lipsia e dintorni. Anno dopo anno, strato dopo strato: immondizia. Ma tutti i miei avvertimenti - qua sopra non si può costruire bene, presto si formeranno le crepe, questa trascuratezza avrà come conseguenza continue spese di riparazione - sono stati, a suo tempo, fiato sprecato. Thieme guardava con un’aria da babbeo, come se già adesso gli piombassero tra capo e collo somme spaventose per il mantenimento. - Già, - dissi, - se non avessimo scavato le fondamenta su una discarica ma sul solido terreno del campo di battaglia, sarebbe venuta alla luce una montagna di crani e di ossa, di sciabole e di lance, uniformi a brandelli, elmi intatti e spaccati, galloni da ufficiali e volgarissimi bottoni, prussiani, svedesi, asburgici, ma anche quelli della legione polacca e naturalmente bottoni francesi, in particolare della Garde. Del resto, di morti
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ce ne furono parecchi. Buoni centomila, ne hanno sacrificati i popoli riuniti. Poi tornai a comportarmi con obiettività, parlai dei centoventimila metri cubi di cemento che compensavano i quindicimila di granito. Il consigliere Thieme, al cui fianco era apparso nel frattempo l’architetto di quell’ammasso articolato, il professor Schmitz, si mostrò fiero e definì il monumento «degno dei caduti». Quindi si congratulò con Schmitz, il quale da parte sua ringraziò Thieme per il denaro rastrellato e la fiducia dimostrata. Chiesi ai due signori se l’iscrizione granitica «Gott mit uns» sullo zoccolo superiore, esattamente sull’asse centrale, li convincesse davvero. Mi guardarono entrambi con aria interrogativa, poi scossero la testa e si diressero verso il colosso pietrificato che gravava su un’ex discarica. ’Sti filistei bisognerebbe scolpirli nel granito e piazzarli tra quei macisti spalla a spalla là in alto, che personificano il monumento, pensai dentro di me. Il giorno dopo ci sarebbe stata l’inaugurazione. Non solo Guglielmo, anche il re di Sassonia era annunciato, sebbene a quei tempi i sassoni e i prussiani… Il luminoso cielo d’ottobre prometteva tempo splendido. Uno dei miei capomastri, sicuramente un socialista, sputò fuori: - Beh, in queste cose a noi tedeschi non ci batte nessuno. Tirar su monumenti! Costi quello che costi. [1] Il monumento alla Battaglia delle Nazioni (16-18 ottobre 1813), inaugurato nei pressi di Lipsia nel 1913 per celebrare il centenario della vittoria prussiana.
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1914 Finalmente, dopo che due colleghi... Finalmente, dopo che due colleghi del nostro istituto si erano ripetutamente e vanamente adoperati, a metà degli anni Sessanta mi riuscì di convincere i due anziani signori a incontrarsi. È possibile che a me, alla giovane donna, fosse toccata maggior fortuna, e oltretutto, come svizzera, ero provvista del lasciapassare della neutralità. E’ possibile che le mie lettere, grazie all’obiettività con cui tratteggiai il nostro incarico di ricerca, siano state accettate come prudenti, se non addirittura timide richieste; nel giro di pochi giorni gli assensi arrivarono quasi contemporaneamente. Riferii ai miei colleghi di una coppia memorabile, «vagamente fossile». Avevo prenotato stanze tranquille all’hotel Zum Storchen. Ci incontravamo lì, di solito nella galleria della rotisserie, con vista sul Limmat, il municipio di fronte e la casa Zum Rüden. Il signor Remarque - allora nel suo sessantasettesimo anno d’età – era giunto da Locarno. Chiaramente un uomo di mondo, mi dava l’impressione di essere più fragile del gagliardo signor Jünger, che aveva appena superato i settanta e si dava un tono marcatamente sportivo. Residente nel Württemberg, era arrivato via Basilea dopo che un’escursione attraverso i Vosgi lo aveva portato all’Hartmannsweilerkopf, un tempo sanguinosamente conteso. Il nostro primo giro di colloqui ebbe un inizio abbastanza stentato. I miei due «testimoni diretti» parlarono con conoscenza di causa dei vini svizzeri: Remarque lodava le qualità del Ticino, Jünger dava la preferenza al Dole della parte francese. Entrambi erano visibilmente indaffarati a offrirmi il loro ben conservato charme. Comici, ma anche fastidiosi, i tentativi di chiacchierare con me in «schwyzerdütsch». Ma poi, quando citai il verso iniziale - «La morte cavalca su un nero morello, la faccia celata da un ampio cappello» - di una canzone molto in voga durante la prima guerra mondiale: La danza macabra fiamminga, il cui autore è rimasto anonimo, prima Remarque e subito dopo anche Jünger canticchiarono la malinconica melodia che metteva i brividi; entrambi conoscevano il verso che chiude ogni volta le strofe: «In pericolo son le Fiandre, la morte cavalca nelle Fiandre». Poi guardarono in direzione del Grossmünster, le cui torri sovrastavano le case della Schiffslände. Dopo questa pausa di riflessione interrotta da alcuni raschi di gola, Remarque disse che nell’autunno del ’14 - andava ancora a scuola a Osnabrück, mentre i reggimenti di volontari si dissanguavano presso Bixschoote o davanti a Ypres - aveva fatto anche a lui una grande impressione la leggenda di Langemarck, secondo la quale si era risposto al fuoco
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delle mitragliatrici inglesi con il canto dell’inno nazionale tedesco. Certo per questo motivo - e incoraggiata dagli insegnanti - qualche classe di ginnasiali si era presentata volontaria. Uno su due ci aveva lasciato la pelle. E i sopravvissuti come lui, che però il ginnasio non l’aveva potuto frequentare, erano ancor oggi rovinati. In ogni caso, si considerava sempre un «morto vivente». Il signor Jünger, che aveva tributato ai ricordi di scuola – con tutta evidenza solo di liceo tecnico - del suo collega un lieve sorriso, definì sì il culto di Langemarck «una baggianata patriottica», ma ammise che già molto prima dell’inizio della guerra era stato afferrato da una brama di pericolo, dalla voglia di azioni inconsuete, «magari anche al servizio della Legione straniera; quando poi si arrivò al conflitto, ci sentimmo tutti fusi in un unico grande corpo. E persino quando la guerra mostrò i suoi artigli, la battaglia come esperienza interiore riuscì ad affascinarmi fino ai miei ultimi giorni da comandante di una squadra d’azione. Lo riconosca tranquillamente, caro Remarque, persino in Niente di nuovo sul fronte occidentale, il Suo eccellente romanzo d’esordio, Lei ha raccontato, non senza commozione interiore, la grande esperienza del cameratismo che lega i soldati fino alla morte». Quel libro, disse Remarque, non allineava una serie di avvenimenti personali, ma raccoglieva l’esperienza del fronte di una generazione bruciata. «Il mio servizio negli ospedali militari è stata una fonte più che sufficiente». Non che i due vecchi signori adesso avessero cominciato a litigare, ma ci tenevano a sottolineare di avere opinioni diverse sulla questione della guerra, di coltivare uno stile opposto e, anche quanto al resto, di provenire in ogni caso da schieramenti diversi. Se l’uno si considerava sempre un «pacifista irriducibile», l’altro chiedeva di essere capito nel ruolo di «anarcoide». - Ma andiamo! - esclamò Remarque. - Nelle Sue Tempeste d’acciaio Lei è andato a caccia di avventure come un ragazzino, fino all’ultima offensiva di Ludendorff. Ha messo assieme sventatamente una squadra d’azione per catturare alla svelta due o tre prigionieri e magari, all’occasione, fregarsi una bottiglia di cognac, un divertimento cruento… - Poi però ammise che nel suo diario il collega Jünger aveva descritto felicemente, almeno in parte, la guerra di trincea e di posizione, soprattutto il carattere della battaglia di materiale. Verso la fine del nostro primo colloquio - i signori avevano vuotato due bottiglie di vino rosso - Jünger tornò a parlare delle Fiandre: - Quando due anni e mezzo dopo scavammo trincee nel settore del fronte di Langemarck, cozzammo contro fucili,
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cinturoni e cartucce del ’14. C’erano persino elmi chiodati, con i quali allora si erano messi in marcia i volontari in forza ai reggimenti…
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1915 Il nostro incontro successivo... Il nostro incontro successivo si svolse nell’Odéon, quel vecchio caffè nel quale già Lenin, fino al suo viaggio in Russia sotto scorta tedesca, aveva letto la «Neue Zürcher Zeitung» e altri giornali, pianificando in segreto la rivoluzione. Noi invece non guardavamo al futuro, volevamo meditare sul passato. Ma per il momento i miei due signori insistettero nell’iniziare la nostra seduta sotto forma di colazione a base di champagne. A me venne consentita spremuta d’arancia. Come argomenti di prova, i due volumi a suo tempo al centro di feroci discussioni giacevano sul tavolo di marmo tra i croissant e un piatto di formaggi: Niente di nuovo sul fronte occidentale era comunque diffuso in tirature molto più alte rispetto a Nelle tempeste d’acciaio. - E’ vero, disse Remarque, - si è dimostrato un campione di vendite. Però dopo il ’33, quando venne bruciato pubblicamente, il mio libro fu costretto a prendersi una pausa di buoni dodici anni, e lo stesso dicasi per alcune traduzioni, mentre il Suo inno alla guerra era ovviamente disponibile in qualsiasi momento. Jünger non replicò. Solo quando cercai di portare il discorso sui combattimenti in trincea nelle Fiandre e nei terreni gessosi della Champagne, spiegando sul tavolo della colazione ormai sgombro anche carte geografiche dettagliate delle regioni contese, lui, che era subito arrivato all’offensiva e alla controffensiva della Somme, buttò lì un argomento dal quale non riuscimmo più a staccarci del tutto: - Quel misero elmo chiodato, che Lei, mio caro Remarque, non ha più dovuto portare, nel nostro settore del fronte venne sostituito dall’elmetto d’acciaio già a partire dal giugno del ’15. Si trattava di elmetti sperimentali che un capitano d’artiglieria di nome Schwerd, dopo parecchi tentativi a vuoto, aveva realizzato in gara con i francesi, i quali cominciavano anch’essi a introdurre elmetti d’acciaio. Visto che Krupp non era in grado di produrre la lega di acciaio al cromo idonea allo scopo, questa fu commissionata ad altre ditte, tra cui la ferriera Thale. Dal febbraio del ’16 l’elmetto d’acciaio fu in dotazione in tutti i settori del fronte. Le truppe davanti a Verdun e sulla Somme ebbero la precedenza nei rifornimenti, il fronte orientale dovette attendere molto più a lungo. Lei non ha idea, carissimo Remarque, di quale tributo di sangue abbiamo dovuto pagare, soprattutto nella guerra di posizione, grazie all’inutile calotta di cuoio che, quando mancava il cuoio, era fatta di feltro pressato. Ogni colpo di fucile andato a segno un uomo in meno, ogni più piccola scheggia passava attraverso.
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Poi si rivolse direttamente a me: - Anche il vostro elmetto svizzero ancor oggi in uso presso l’esercito è, seppure in forma mutata, una copia del nostro elmetto d’acciaio, fin nei perni traforati per la ventilazione. Sorvolò quando replicai: - Fortunatamente il nostro elmetto non ha dovuto dar buona prova di sé nelle battaglie di materiale da Lei celebrate con tanta forza lessicale, - e ricoprì l’ostentatamente silenzioso Remarque di ulteriori dettagli: dalla protezione antiruggine grazie a un procedimento di smerigliatura grigioverde fino al cuoio aggettante per riparare la nuca e al rivestimento interno di crine di cavallo o di feltro trapuntato. Poi si lamentò della vista impedita nelle battaglie in trincea, perché la parte anteriore sporgente doveva proteggere fino alla punta del naso. Beh, Lei sa bene che nelle operazioni con le squadre d’azione quella pesante cuffia d’acciaio mi dava un estremo fastidio. Preferivo, con una certa sventatezza, lo ammetto, il mio vecchio berretto da sottufficiale, che tra l’altro aveva la fodera di seta -. Quindi gli venne in mente ancora qualcosa che considerava spassoso: - A proposito, sulla mia scrivania c’è come ricordo un elmetto del tutto diverso, uno di quegli elmetti inglesi molto piatti, forato naturalmente. Dopo una pausa abbastanza lunga (i signori adesso si bevvero un pflümli con il caffè) Remarque disse: - Gli elmetti d’acciaio M 16, poi M 17, erano troppo grandi per la riserva, formata da reclute appena addestrate. Continuavano a scivolare. Delle loro facce da bambini si vedeva a stento la bocca dalla piega preoccupata, il mento tremante. Buffo e pietoso al tempo stesso. E che i proiettili della fanteria e persino gli shrapnel più piccoli forassero comunque l’acciaio, non devo certo raccontarlo a Lei… Ordinò un secondo pflümli. Jünger gli tenne dietro. A me, alla «ragazza», venne prescritto un secondo bicchiere di spremuta d’arancia.
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1916 Dopo una passeggiata... Dopo una passeggiata abbastanza lunga sul Limmatquai, passando davanti alla Helmhaus e proseguendo poi lungo la riva del lago di Zurigo - e dopo che i due signori ebbero osservato, a quanto pareva, la pausa di riposo da me prescritta -, cenammo alla Kronenhalle invitati da Remarque, che grazie alla riduzione cinematografica dei suoi romanzi era evidentemente da annoverare tra gli scrittori facoltosi, un ristorante con cucina casalinga e atmosfera artistica: appesi alle pareti autentici impressionisti, ma anche Matisse, Braque, persino Picasso, tutti di proprietà. Mangiammo filetto di coregone, quindi fricassea di vitello con rösti e i signori conclusero con caffè e armagnac. Io confidai troppo nelle mie forze affrontando un’imponente mousse au chocolat, alla quale lavorai di cucchiaio per molto tempo. Quando tutto fu sparecchiato, le mie domande si concentrarono sulla guerra di posizione lungo il fronte occidentale. Entrambi i signori, senza dover ricorrere ai loro libri, furono in grado di riferire su giorni e giorni di fuoco tambureggiante alternato, che talvolta colpiva le proprie trincee. Su sistemi graduati di traverse, spallette e paradorsi, su teste di trincee, ricoveri coperti di terra, gallerie profondamente infossate e munite di gradini, passaggi sotterranei, gallerie di intercettazione e gallerie minate che si spingevano fin sotto le linee nemiche, sull’intreccio dei reticolati. E fornirono anche informazioni su trincee e rifugi sommersi, riempiti d’acqua. Le loro esperienze davano l’impressione di non aver perso freschezza, anche se Remarque disse, con intento riduttivo, di essere stato impegnato solo negli scavi: - Non ho combattuto in trincea, però ho visto quel che n’è rimasto. Comunque, si trattasse di lavori di scavo, rifornimenti di cibo o posa notturna di fili metallici, ogni dettaglio era richiamabile alla memoria. Ricordavano con precisione, e solo occasionalmente si perdevano in aneddoti, ad esempio sulle chiacchierate che Jünger aveva fatto da una testa di trincea avanzata con il Tommy o il Franzmann[1] distanti neanche trenta passi, confidando nell’insegnamento delle lingue straniere ricevuto a scuola. Durante il racconto di due attacchi e contrattacchi fui colta dalla sensazione di essere stata presente. Poi si parlò di bombarde inglesi e di bombarde a collo di bottiglia inglesi e dei loro effetti, di cosiddette «raganelle», di shrapnel, proiettili inesplosi e granate pesanti con spoletta a percussione, a miccia e ad accensione ritardata, e dei rumori di proiettili di diverso calibro in avvicinamento.
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Entrambi i signori erano in grado di imitare le singole voci di quelle inquietanti manifestazioni concertistiche, chiamate «catenacci di fuoco». Dev’essere stato l’inferno. - Eppure, - disse il signor Jünger, - in noi tutti era vivo un elemento che la desolazione della guerra sottolineava e spiritualizzava, la gioia oggettiva del pericolo, l’impulso cavalleresco ad affrontare la battaglia. Sì, posso dirlo: nel corso degli anni il fuoco di questo perenne combattere ha forgiato una mentalità guerresca sempre più pura, sempre più audace… Il signor Remarque rise in faccia al collega seduto di fronte: - Ma andiamo, Jünger! Lei le spara davvero grosse, con la Sua prosa elevata. Quei soldati da prima linea nei loro stivali troppo larghi e con i cuori pieni di terra erano completamente abbrutiti. Può darsi che non conoscessero quasi più la paura. Ma l’angoscia della morte era sempre presente. Cosa sapevano fare? Giocare a carte, bestemmiare, immaginare donne sdraiate a gambe larghe e fare la guerra, cioè assassinare a comando. Erano anche in possesso di nozioni tecniche: si parlava dei vantaggi della vanga da campo rispetto alla baionetta, perché con la vanga si poteva colpire non solo sotto il mento, ma tirare un fendente ancor più energico press’a poco di sbieco tra spalle e collo. Che arriva facilmente a trapassare il petto, mentre la baionetta restava spesso incastrata tra le costole e bisognava puntare il piede contro la pancia, per liberarla… Poiché nessuno dei camerieri della Kronenhalle, particolarmente riservati, osava avvicinarsi al nostro tavolo piuttosto chiassoso, Jünger, che per quello che definiva il nostro «colloquio di lavoro» aveva scelto un rosso leggero, se ne versò ancora e, con sottolineata lentezza, ne bevve un sorso: - Tutto vero, mio caro Remarque. Eppure insisto: quando vedevo i miei uomini in trincea, rigidi come pietre, fucile in mano, baionetta inastata, e alla luce di un proiettile tracciante vedevo brillare elmetto accanto a elmetto, lama accanto a lama, mi pervadeva un senso di invulnerabilità. Potevamo essere maciullati, ma non vinti. Dopo un certo silenzio che non fu possibile colmare - il signor Remarque avrebbe certo voluto dire qualcosa, ma poi fece un cenno di rinuncia -, alzarono entrambi i bicchieri, evitando di guardarsi, ma ingollando comunque nello stesso istante il resto del contenuto. Remarque continuava a sistemarsi il minuscolo fazzoletto da taschino. Di tanto in tanto Jünger mi guardava come se fossi uno strano coleottero che evidentemente mancava alla sua collezione. Io combattevo sempre contro la mia gigantesca porzione di mousse au chocolat. Più tardi i miei due signori parlarono, piuttosto rilassati e divertiti, del gergo dei soldati in prima linea. Si menzionarono le «voci di latrina»[2].
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Per le espressioni troppo crude, alla «Vreneli»[3], come scherzò Remarque, cioè a me, vennero cavallerescamente rivolte delle scuse. Alla fine lodarono a vicenda la chiarezza dei loro resoconti dal fronte. - E chi c’è del resto oltre a noi? - chiese Jünger. - Tutt’al più, per i francesi, quel matto di Céline… [1] Nomignoli con cui i soldati tedeschi chiamavano il nemico rispettivamente inglese e francese. [2] Il termine «Latrinengerüchte» gioca sulla somiglianza tra «Gerüchte» (voci, dicerie) e «Gerüche» (puzze, cattivi odori). Anche l’espressione usata per designare i soldati al fronte è gergale («Frontschweine», letteralmente «maiali da prima linea»). [3] Diminutivo di Verena.
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1917 Subito dopo colazione... Subito dopo colazione - stavolta nessuna opulenza a base di champagne, i signori si accordarono invece sul birchermüsli che avevo consigliato io - proseguimmo il nostro colloquio, nel corso del quale entrambi mi istruirono con cautela, quasi fossi una scolaretta che non può essere scioccata, sulla guerra chimica, vale a dire lo scarico di gas di cloro, l’utilizzazione mirata di munizioni a base di gas irritante, di fosgene e infine di gas mostarda, un argomento sul quale erano in grado di riferire esperienze in parte personali, ma anche riportate. Eravamo arrivati agli aggressivi chimici senza tanti giri di parole, dopo che Remarque aveva menzionato la guerra del Vietnam, attuale al tempo del nostro colloquio, definendo delinquenziale l’uso del napalm e altrettanto quello dell’Agent Orange. Disse: - Chi ha lanciato la bomba atomica non ha più nessuno scrupolo -. Jünger giudicava la defoliazione sistematica della giungla tramite sostanze tossiche sparse per vasto raggio una logica conseguenza dell’impiego, a suo tempo, dei gas da combattimento, ma era dell’opinione - e qui in accordo con Remarque - che nonostante la superiorità materiale gli americani avrebbero perso quella «sporca guerra», che non consentiva più nessun «agire soldatesco». - Però ammettiamolo: siamo stati i primi, nell’aprile del ’15, a scaricare il cloro addosso ai francesi davanti a Ypres, - disse Jünger. E adesso Remarque gridò: - Attaccano col gas! Gas! Gaaas! così forte che una cameriera nelle vicinanze del nostro tavolo si bloccò spaventata e poi corse via, mentre Jünger imitava il suono delle campane d’allarme con l’aiuto di un cucchiaino da tè, poi improvvisamente, come obbedendo a un ordine interiore, assunse un tono impersonale: - Seguendo le disposizioni cominciavamo subito a lubrificare le canne dei fucili, qualsiasi cosa di metallo. Poi si indossava la maschera protettiva. Più tardi, a Monchy - fu poco prima che iniziasse la battaglia della Somme -, vedemmo una quantità di intossicati che rantolavano e soffocavano, mentre l’acqua gli usciva dagli occhi. Ma il cloro agisce soprattutto corrodendo e bruciando i polmoni. Ho visto lo stesso effetto anche nelle trincee nemiche. Ben presto gli inglesi ci servirono elargendoci il fosfene, che ha un odore dolciastro. Adesso riattaccò Remarque: - Vomitavano pezzi di polmoni bruciati, in crisi di soffocamento che duravano giorni. Il peggio era quando non uscivano dai crateri a causa del fuoco di sbarramento simultaneo, perché la nuvola di gas si adagiava in ogni avvallamento del terreno come
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un’enorme medusa. Guai a chi si strappava troppo presto la maschera… Era sempre la riserva inesperta a esser colta di sorpresa, con conseguenze spaventose… Questi ragazzini che vagavano disperatamente qua e là… Queste facce pallide, tirate su a olio di colza… Nelle loro uniformi troppo larghe… Ancora vivi, avevano la terribile inespressività di bambini morti… Ho visto, quando raggiungemmo la nostra linea più avanzata per scavare trincee, un rifugio pieno di quei poveretti… Li ho trovati con le teste blu e le labbra nere… E in un cratere si erano tolti le maschere troppo presto… Morirono soffocati tra sbocchi di sangue… I due signori si scusarono: questo era certamente troppo, così di prima mattina. D’altronde era strano che una giovane donna mostrasse interesse per bestialità di tal fatta, che la guerra portava inevitabilmente con sé. Tranquillizzai Remarque che, in questo superiore a Jünger, si riteneva un esponente della vecchia scuola. Li pregai di non avere alcun riguardo. L’incarico di ricerca che ci aveva conferito la ditta Bührle richiedeva, dissi, precisione di dettagli. - Loro sanno bene quali calibri si producono qui alla Oerlikon per l’export, vero? - Poi chiesi di fornirmi ulteriori particolari. Visto che Remarque taceva e distogliendo lo sguardo fissava il ponte del municipio verso il Limmatquai, Jünger, che dava l’impressione di controllarsi di più, mi rese edotta sull’evoluzione della maschera antigas e quindi sull’arma del gas mostarda, che venne impiegato per la prima volta nel giugno del ’17 - e da parte tedesca - durante la terza battaglia di Ypres. Si trattava di un vapore gassoso quasi inodore, difficilmente individuabile, di una specie di nebbia che si incollava al terreno, e il cui effetto di disgregazione delle cellule cominciava solo dopo tre o quattro ore. Diclorodietilsolfuro, un composto oleoso, nebulizzato in minuscole gocce, contro il quale non c’era maschera che servisse. Quindi il signor Jünger mi spiegò ancora come venivano contaminate le trincee nemiche tramite i lanci di iprite e di conseguenza dovessero essere abbandonate senza opporre resistenza. Disse: - Ma nel tardo autunno del ’17, presso Cambrai, gli inglesi si impadronirono di un vasto deposito di granate al gas mostarda e le impiegarono subito contro di noi. Molti persero la vista… Dica un po’, Remarque, non è così che hanno beccato il più gran Caporale di tutti i tempi? In seguito finì all’ospedale militare di Pasewalk… Lì vide il termine della guerra… Lì decise di darsi alla politica…
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1918 Dopo un breve giro di compere... Dopo un breve giro di compere - Jünger fece scorta di sigari, anche di quelli di Brissago; Remarque, dietro mio consiglio, acquistò da Grieder uno scialle di seta per la moglie Paulette - portai i due signori alla stazione con un taxi. Visto che ci restava ancora del tempo, andammo al buffet. Come bicchiere della staffa, proposi un vino bianco leggero. Sebbene in sostanza fosse stato detto tutto, nello spazio di un’ora abbondante saltò fuori qualche altra notizia. Alla mia domanda se nell’ultimo anno di guerra si fossero fatte esperienze con i tank inglesi che venivano impiegati in numero sempre maggiore, entrambi i signori negarono una conoscenza ravvicinata dei loro cingoli, ma Jünger affermò che la sua pattuglia, nel corso di contrattacchi, si era imbattuta in numerosi «colossi bruciacchiati». Si cercava di difendersi coi lanciafiamme e grappoli di bombe a mano. - Quell’arma - disse - stava appena muovendo i primi passi. Il tempo delle puntate veloci e avvolgenti con i panzer doveva ancora arrivare. Ma poi entrambi i signori si rivelarono osservatori di battaglie aeree. Remarque ricordava scommesse fatte dalla visuale delle trincee o delle retrovie: - La posta era una porzione di salsiccia o cinque sigarette, non importa se ad avvitarsi con la scia di fumo fosse un nostro Fokker o un monoposto inglese Spad. Ma riguardo al numero ci superavano comunque. Alla fine, per un nostro aereo ce n’erano cinque inglesi o americani. Jünger confermò: - La superiorità materiale era schiacciante in genere, quella aerea in particolare. Eppure guardavo i nostri ragazzi nei loro triplani con una certa invidia. C’era pur sempre della cavalleria, nelle battaglie aeree. Con quale temerarietà un singolo apparecchio, spuntando dal sole, si sceglieva l’avversario nella formazione nemica! Cosa diceva il motto della squadriglia di Richthofen? Ah sì: «Ferrei, ma folli!» In ogni caso, hanno fatto onore a questo slogan. Spietati eppure leali. Tra l’altro merita di essere letto, Il cacciatore rosso, mio caro Remarque, sebbene verso la fine delle sue vivacissime memorie anche il barone debba ammettere che la bella guerra allegra era già finita nel ’16, al più tardi. Di sotto solo fango e crateri. Tutto era diventato serio, rabbioso. Eppure: valoroso fino alla conclusione, quando tirarono giù anche lui. E questo atteggiamento si manifestò anche di sotto, nella stessa misura. Solo il materiale fu più forte. Invitti sul campo! si diceva. Ma alle spalle avevamo la rivolta. Se però enumero le mie ferite: almeno quattordici colpi, cinque di fucile, due di schegge di granata, una
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causata dalla pallottola di uno shrapnel, quattro da attribuire a bombe a mano e due che derivano da altre schegge - tra fori d’entrata e d’uscita fanno più di venti cicatrici -, arrivo alla constatazione che sì, ne è valsa la pena! Concluse questo bilancio con una sonora risata, per meglio dire, una risata che era insieme senile e giovanile. Remarque sedeva ritirato in se stesso: - Non voglio competere su questo piano. Mi hanno beccato solo una volta. Mi è bastato. Non ho nessuna azione eroica da mettere in tavola. In seguito ho lavorato solo nell’ospedale militare. Lì ho visto e ho sentito a sufficienza. Non posso certo competere con il Suo collare. «Pour le Mérite». Ma vinti lo siamo stati, eccome. In ogni senso. A Lei e a quelli come Lei è solo mancato il coraggio di ammettere la disfatta. Coraggio che evidentemente manca ancora oggi. Con ciò si era detto tutto? No. Jünger fece il bilancio delle vittime di quell’epidemia influenzale che negli ultimi anni di guerra si aggirò in entrambi i campi avversi: - Più di venti milioni di morti, quasi lo stesso numero di quelli caduti in battaglia su tutti i fronti, che almeno sapevano il perché! - A voce piuttosto bassa Remarque chiese: - Per l’amor del cielo, quale perché? Un po’ imbarazzata posai sul tavolo i libri diventati tanto famosi dei due autori, e li pregai di farmi una dedica. Jünger si affrettò a firmarmi il suo volume con l’aggiunta «Per la nostra valorosa Vreneli»; Remarque firmò sotto la dichiarazione decisamente netta: «Come dei soldati si mutarono in assassini». Solo adesso si era proprio detto tutto. I signori finirono di bere. Si alzarono quasi contemporaneamente - Remarque per primo -, si inchinarono appena evitando però di stringersi la mano, e mi pregarono, senza avermi risparmiato un doppio accenno di baciamano, di non accompagnare al marciapiede né l’uno né l’altro; viaggiavano ambedue solo con bagaglio leggero. Cinque anni dopo il signor Remarque morì. Il signor Jünger ha evidentemente intenzione di sopravvivere al secolo.
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1919 Ma questi son proprio pescecani... Ma questi son proprio pescecani, sono. Tutti, nessuno escluso. Prenda quello lì, quello che ha fatto i milioni a palate col «Bratolin», che dovrebbe essere una specie di cotoletta. E invece era solo roba macinata, una soppressata con dentro mais, piselli e navone. Anche nelle salsicce. E dopo che han pastrocchiato coi salumi adesso gridano: noi, il cosiddetto fronte interno, sì, insomma, tutti quelli che non avrebbero preparato abbastanza granate e anche la massaia tedesca avrebbe, eh già, perfidamente pugnalato i nostri soldati… alla schiena… E intanto mio marito, che l’han tirato dentro proprio alla fine con la leva in massa, mi è tornato storpio, e le bambine, tutte e due, malandate com’erano, se l’è portate via l’influenza. E anche Erich, che era il mio unico fratello e che in marina se l’era cavata dappertutto, con un po’ di fortuna, Doggerbank, Skagerrak, in tutti i pimpumpam vi dico, adesso c’è rimasto a Berlino, su una barricata, quando è arrivato giù da Kiel ed è entrato in città col suo battaglione marciando per la repubblica. Pace? Non fatemi ridere. Ma quale pace. Continuano a sparare dappertutto. E noi si tira avanti a navone. Navone nel pane, dentro nelle polpette. Ho fatto perfino una torta di navone, tempo fa, con dentro un po’ di faggiola, perché era domenica e avevamo visite. E adesso arrivano questi imbroglioni che ci hanno rifilato a caro prezzo come salsa dell’arrosto bianco di Spagna mescolato con cosiddette sostanze odoranti, e parlano sui giornali di pugnalate, di pugnalate alla schiena. Eh no! Bisognerebbe farli fuori, al lampione, così la finiamo con tutti i surrogati. E che vuol dire poi, tradimento? Semplicemente non vogliamo più nessun Kaiser e nessun navone. Ma neanche una rivoluzione continua e niente pugnali da davanti o da dietro. Ma del vero pane che basti per tutti. E non fruttosio, ma vera marmellata. E niente uova in polvere, dove c’era dentro solo amido, ma vere uova di gallina. E mai più carne tritata, ma pezzi di vero maiale. Questo vogliamo, solo questo. Visto che c’è la pace, finalmente. Ecco perché adesso, da noi al Prenzlau[1], mi sono schierata per una repubblica dei Consigli, e precisamente nel Consiglio delle donne per le questioni alimentari, dove abbiamo fatto un appello che ora è stampato e appiccicato a tutte le colonne delle affissioni. «Massaia tedesca! - ho gridato giù dalla scala davanti al municipio, - è ora di finirla con l’imbroglio e coi pescecani. Pugnalata, e che vuol dire? Non abbiamo forse combattuto anche noi per tutti questi anni sul fronte interno? Già nel novembre del ’15 è
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cominciata, poca margarina e navone a tutto spiano. Ed è andata sempre peggio. Noo! Niente latte, ma le pastiglie all’odor di latte del dottor Caro. E poi ci è arrivata addosso anche l’influenza che di morti ne ha fatti una quantità, come c’era scritto sul giornale. E poi, dopo il duro inverno, niente patate, solo navone, sempre e solo navone. "Sembra di mangiare reticolato", ha detto mio marito, quando veniva in licenza. E adesso che il Guglielmo ha tagliato la corda con tutti i suoi tesori e si è piazzato nel suo castello in Olanda, saremmo stati noi che dal fronte interno, con un pugnale, e proprio vigliaccamente da dietro… » [1] Prenzlauer Berg, un quartiere di Berlino.
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1920 Signori, alla salute!... Signori, alla salute! Dopo amare settimane si può festeggiare in letizia. Ma prima di levare il calice, sia detto al principio: cosa sarebbe il Reich senza la ferrovia![1]. Finalmente l’abbiamo. Del resto era presente come esplicita richiesta nell’altrimenti irresoluta costituzione: Compito del Reich è… E proprio i signori compagni, che di solito della patria se ne sbattono altamente, hanno insistito su questo punto. Ciò che a suo tempo non volle riuscire al cancelliere Bismarck, ciò che a Sua Maestà non è stato concesso, ciò che in guerra ci è costato caro, perché non essendo uniformata, anzi frazionata in duecentodieci modelli di locomotive, la ferrovia rimase spesso priva di pezzi di ricambio, cosicché gli spostamenti delle truppe, i rifornimenti urgenti, le munizioni mancanti davanti a Verdun restarono per strada, insomma questa cattiva amministrazione, che probabilmente ci è costata la vittoria, adesso l’hanno eliminata i socialisti. Lo ripeto, proprio quei socialisti che erano pronti al tradimento di novembre hanno convertito questo lodevole progetto non già nell’opera così a lungo dilazionata, ma ne hanno purtuttavia resa possibile la realizzazione. Perché - chiedo Loro - quale vantaggio ci ha portato la più fitta delle reti ferroviarie fintantoché la Baviera e la Sassonia si sono opposte diciamolo francamente, per puro odio verso la Prussia - a un’uniformazione valida per tutto il territorio federale, cosa che si accorda non solo con la volontà di Dio, ma anche con i fondamenti della ragione? Perciò ho continuato a ripetere: solo sulle rotaie di una Reichsbahn il treno si muoverà verso la vera unità. O come già disse il vecchio Goethe con saggia preveggenza: «Ciò che l’ostinazione dei principi impedisce, lo sistemerà la strada ferrata… » Ma prima c’è voluta una pace imposta - in seguito alla quale ottomila locomotive e migliaia di vagoni passeggeri e merci furono consegnati nelle mani spudoratamente rapaci del nemico per completare la nostra sventura, perché fossimo pronti, dietro ordine di questa incerta repubblica, a concludere un trattato con la Prussia e la Sassonia, persino con la Baviera e l’Assia, col Meclemburgo-Schwerin e l’Oldemburgo, secondo il dettato del quale il Reich prendeva in consegna tutte le ferrovie dei Länder, che tra l’altro affogavano nei debiti, e dire che questi avrebbero potuto coprire i costi del rilevamento se l’inflazione non si fosse fatta beffe di qualunque calcolo. Ma non appena do un’occhiata retrospettiva all’anno Venti, qui davanti a Loro con il calice ormai levato, posso dire fiducioso: ebbene sì, signori, da quando la legge sulla Reichsbahn ci ha forniti di un capitale soddisfacente siamo
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usciti dalle cifre in rosso, siamo addirittura in condizione di ottemperare alle riparazioni di guerra che sfacciatamente si pretendono da noi, e inoltre stiamo provvedendo a un’ampia modernizzazione, e precisamente con il Loro meritorio aiuto. Anche se mi hanno chiamato - all’inizio sottovoce, poi con tutta franchezza il «padre della locomotiva tedesca unitaria», ho però sempre saputo che la standardizzazione nella costruzione di locomotive può riuscire solo unendo le forze. Sia Hanomag per quanto concerneva le boccole assiali, o Krauss & Co’ riguardo al dispositivo di comando, sia che Maffei costruisse coperchi di cilindri o che Borsig si occupasse del montaggio, tutte queste aziende, i cui dirigenti sono oggi qui riuniti in gruppo festoso, hanno compreso: la locomotiva unica simboleggia, oltre all’unità della tecnica, l’unità del Reich! Eppure, abbiamo appena cominciato a esportare con profitto ultimamente persino nella Russia bolscevica, dove il famoso professor Lomonosov ha rilasciato un attestato di eccellenza alla nostra locomotiva a vapore surriscaldato per treni merci -, e già si alzano le prime voci che parlano di privatizzazione. Si vuole lucrare alla svelta. Risparmiare sul personale. Chiudere le tratte considerate non redditizie. E allora io posso solo proclamare in tono ammonitore: impedite che si inizi! Chi consegna la Reichsbahn in mani private, vale a dire estranee perché alla fin fine straniere, danneggia la nostra povera patria umiliata. Perché come già Goethe, alla cui saggia preveggenza vogliamo adesso vuotare i calici, ha detto al suo Eckermann… [2]. [1] Le ferrovie tedesche si chiamavano Reichsbahn (termine che nella Ddr sarebbe rimasto in uso fino alla riunificazione): nella traduzione si perde il gioco di parole «Reich ohne Bahn». [2] La frase del poeta, riportata dal suo segretario Eckermann nei Colloqui con Goethe negli ultimi anni di vita, suona: «Non temo che la Germania non trovi la sua unità: le nostre buone strade e le future ferrovie faranno certo la loro parte… »
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1921 Caro Peter Panter... Caro Peter Panter[1], di solito non scrivo mai lettere ai giornali, ma quando qualche giorno fa il mio fidanzato, che legge un po’ tutto quel che gli capita, ha messo sotto al portauovo - stavamo facendo colazione - un paio di cose Sue proprio divertenti, ho riso davvero di cuore, anche se non ho capito del tutto le allusioni politiche che c’erano dentro. Lei è davvero molto tagliente, ma insieme sempre spiritoso. E questo mi piace. Solo di ballo non capisce veramente nulla. Perché quello che Lei scrive su un ballerino di shimmy «con le mani nelle tasche dei pantaloni», sinceramente non sta né in cielo né in terra. Forse può ancora andare per l’one step o il fox-trot. Ad ogni modo Horst-Eberbard, che, come Lei ha giustamente osservato nel Suo articoletto, lavora alla posta ma non è un ispettore, di solito sta agli sportelli - e che ho conosciuto l’anno passato nella Walterchens Shimmydiele, balla lo shimmy con me con tutte e due le mani fuori, nelle figure aperte come in quelle chiuse. E venerdì scorso, quando la mia paga settimanale bastava giusto per un paio di calze, ma volevamo a tutti i costi metterci in ghingheri - forse sono davvero io la Sua «signorina Piesenwang» che Lei prende abbastanza in giro -, si è lanciato con me all’Admiralspalast, dove c’era una gara di ballo, nell’ultima novità dall’America, un charleston da togliere il fiato. Lui col frac preso in prestito, io in giallo-oro sopra il ginocchio. Ma non è certo stata una «danza attorno al vitello d’oro»! E’ qui che si sbaglia, caro signor Panter. Noi balliamo per puro divertimento. Perfino in cucina, col grammofono. E’ qualcosa che abbiamo dentro. Dappertutto. Nella pancia, fin nelle spalle. Perfino nelle orecchie, che, come Lei ha giustamente notato nel suo articoletto, il mio Horst-Eberhard ha piuttosto a sventola. Perché si tratti di shimmy o di charleston, non è solo una questione di gambe, ma viene da dentro e ti prende da capo a piedi. In vere e proprie ondate dal basso verso l’alto. Fin sotto il cuoio capelluto. Persino tremare fa parte del tutto e rende un pochino felici. Ma se Lei non sa cos’è la felicità, voglio dire la felicità del momento, allora lasci che Le dia lezioni gratis ogni martedì e sabato, da Walterchen. Promesso, veramente! E niente paura. Cominciamo pian piano. Prima, come riscaldamento, qualche passo dione-step sul parquet, avanti e indietro. Guido io, e Lei per una volta, in via eccezionale, si lascia guidare. E’ solo una questione di fiducia. Oltretutto è più facile di quanto sembra. E poi proviamo con «Yes, We Have no Bananas». Si può andarci dietro
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cantando. E’ una cosa divertente. E se dopo è ancora in forze e il mio Horst-Eberhard non ha niente in contrario, noi due ci buttiamo in un vero charleston. All’inizio lo si sente eccome nei polpacci, però ti dà la carica. E poi quando siamo belli su di giri apro la mia scatolina apposta per Lei. Niente paura! Solo una presa. Mica da farci l’abitudine. Solo per il buonumore, davvero. Tra l’altro, il mio Horst-Eberhard dice che Lei scrive di solito sotto una specie di pseudonimo. A volte Pantera, a volte Tigre, a volte signor Wrobel. E ha letto da qualche parte che Lei è un piccolo grasso ebreo polacco. Ma fa niente. Anche il mio nome finisce in ki. E i grassi in genere sono bravi ballerini. Però se sabato prossimo Lei volesse fare il generoso e fosse di buonumore anche quanto al resto, ci apriamo subito una bottiglia di champagne, o magari due. E io Le racconto quello che succede a vendere scarpe. Già, lavoro da Leiser, reparto signori. Solo di politica non parliamo. Promesso? Cordialmente, Sua Ilse Lepinski [1] Pseudonimo («Pietro Pantera») dello scrittore Kurt Tucholsky (1890-1935), al tempo collaboratore della rivista «Weltbühne».
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1922 Ma cosa si vuol sentire ancora da me!... Ma cosa si vuol sentire ancora da me! Tanto voi giornalisti sapete sempre tutto. La verità? Quello che c’era da dire l’ho detto. Sta di fatto che non mi crede nessuno. «Disoccupato e di cattiva reputazione», hanno messo a verbale davanti alla corte. «Questo Theodor Brüdigam è una spia, - hanno detto, - al soldo dei socialisti e per giunta anche della reazione». Certo, ma a pagare era solo gente della brigata Ehrhardt che, una volta fallito completamente il putsch di Kapp[1] e sciolta di forza la brigata, non si è mica fermata. Cosa avrebbe dovuto fare, altrimenti? E cosa significa poi «illegale», quando quasi tutto quello che succede succede comunque in barba alla legge e il nemico sta a sinistra, e non, come afferma il cancelliere Wirth, a destra? No, non il capitano di corvetta Ehrhardt, il capitano Hoffmann era addetto ai compensi. E lui fa parte certamente all’O.C.. Con gli altri non si sa mai di preciso, perché loro stessi non sanno chi è dentro all’organizzazione e chi no. Anche da Tillessen arrivavano piccoli importi. E’ il fratello di quel Tillessen che ha sparato a Erzberger ed è cattolico esattamente come questo bonzo del Centro, che adesso si è tolto di mezzo. Ora Tillessen è in Ungheria o si nasconde da qualche altra parte. Ma in realtà l’incarico me l’ha affidato Hoffmann. Dovevo spiare per l’Organizzazione Consul alcuni gruppi di sinistra, non solo comunisti. Del tutto incidentalmente mi ha fatto un elenco di quelli a cui doveva toccare dopo Erzberger, il traditore di novembre[2]. Naturalmente il socialista Scheidemann e Rathenau, il politico dell’adempimento[3]. C’erano progetti anche per il cancelliere Wirth. E’ vero, sono stato io che a Kassel ho messo in guardia Scheidemann. Perché? Beh, perché sono dell’opinione che bisogna scardinare l’intero sistema non con l’assassinio, ma per vie più o meno legali, a cominciare dalla Baviera, rovesciarlo e poi, come ha fatto Mussolini in Italia, creare uno Stato nazionale basato sull’ordine, se necessario con questo caporale Hitler, che certamente è un fuori di testa, però è un trascinatore di folle nato e ha un gran seguito soprattutto a Monaco. Ma Scheidemann non ha voluto darmi retta. Tanto a me non crede nessuno. Per fortuna non ha funzionato, perché l’attentato nell’Habichtswald con l’acido cianidrico in faccia è fallito. Già, l’hanno protetto i baffi. Sembra una barzelletta, ma è andata proprio così. Ed è anche la ragione per cui questo metodo non viene più applicato. E’ vero: l’ho trovata una cosa disgustosa. Ecco perché poi volevo lavorare solo per Scheidemann e la sua gente. Ma i
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socialisti non mi hanno creduto, quando dicevo che dietro all’Organizzazione Consul c’erano le forze armate, dipartimento Difesa. E naturalmente Helfferich, dalla cui banca arrivano i soldi. E da Stinnes, ovvio. Per i plutocrati si tratta solo di spiccioli. Rathenau in ogni caso, che poi è un capitalista lui stesso e un altro che ho messo in guardia, doveva ben immaginare cosa stava per succedere. Perché come con la sua campagna «Erzberger vattene!» Helfferich ha messo a punto l’attentato - «Solo un traditore della patria poteva esser disposto a negoziare il vergognoso armistizio con il francese Foch» -, così, poco prima degli spari, ha marchiato Rathenau con l’appellativo di «politico dell’adempimento». Ma nonostante tutto il signor ministro non si fidava. E non ha potuto salvarlo, comunque, anche perché era ebreo, il fatto che all’ultimo momento, quando la cosa era già avviata, abbia voluto un colloquio a quattr’occhi tra capitalisti, appunto con Hugo Stinnes. Quando gli feci capire, «Lei è particolarmente in pericolo durante il tragitto mattutino verso il ministero», lui disse, arrogante come sa esserlo quest’aristocrazia del denaro ebraica: «Ma caro signor Brüdigam, come posso crederle, visto che Lei, secondo le mie informazioni, gode di una pessima reputazione… » Non c’è da stupirsi che più tardi, al processo, il procuratore di Stato abbia impedito che prestassi giuramento come testimone, perché, ha affermato, «ero sospettato di partecipazione al fatto in dibattimento». E’ chiaro, il tribunale voleva tener fuori l’O.C.. Già, quelli che erano dietro le quinte dovevano restare sconosciuti. Tutt’al più si mormorò di organizzazioni che forse sarebbero state illegali. Solo questo von Salomon, uno stupido giovanotto che si dava arie da scrittore, durante l’interrogatorio ha sputato fuori dei nomi, per pura millanteria. Così gli hanno appioppato cinque anni, sebbene lui abbia procurato soltanto l’autista di Amburgo. Ad ogni modo i miei avvertimenti sono stati fiato sprecato. Tutto si è svolto come nel caso Erzberger. Già allora i ragazzi della brigata erano addestrati all’obbedienza cieca, ragione per cui l’O.C. ha potuto tranquillamente estrarre a sorte gli esecutori Schulz e Tillessen. Non ci furono intoppi, da quel momento in poi. Come del resto dovrebbe esser Loro noto dal lavoro che svolgono, lo beccarono nella Foresta Nera, dov’era in vacanza con moglie e figlia. Gli fecero la posta durante una passeggiata con un altro politico del Centro. Dei dodici colpi sparati lo uccise uno alla testa. L’altro, un certo dottor Diez, rimase ferito. Poi gli assassini si incamminarono con tutta calma verso la vicina località di Oppenau, dove bevvero il caffè in una pensione. Ma quello che Lor signori non sanno, è che si estrasse a sorte anche nel caso Rathenau, come uno degli esecutori ha confessato a un prete ancor prima dell’attentato, al
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che costui avvisò il cancelliere Wirth rispettando però il cosiddetto segreto confessionale, quindi senza fare nomi. Ma Rathenau non ha voluto dar retta né al prete né a me. E non si lasciò convincere alla necessaria prudenza neppure dal Consiglio degli ebrei tedeschi di Francoforte, che ero stato ancora io a informare, rifiutò qualsiasi protezione di polizia. Ad ogni modo, come d’abitudine, il 24 giugno volle farsi scarrozzare in una macchina scoperta dalla sua villa di Grunewald nel Königsallee verso la Wilhelmstrasse. Non diede ascolto neanche al suo autista. Quindi tutto si svolse come da copione. Ancora in Königsallee, com’è universalmente noto, l’autista dovette frenare all’angolo tra Erdener e la Lynarstrasse, perché un carro a cavalli, il cui conducente peraltro non è stato interrogato, stava attraversando il viale. Dalla Mercedes-Benz da turismo che li seguiva vennero sparati nove colpi, cinque dei quali andarono a segno. Durante il sorpasso riuscirono a piazzare una bomba a mano. Gli esecutori erano animati non solo da spirito soldatesco, ma anche dall’odio per tutto ciò che fosse non-tedesco. Techow guidava la Mercedes, Kern sapeva usare la pistola, Fischer, che si tolse la vita durante la fuga, gettò la bomba. Eppure tutto ha funzionato solo perché nessuno ha voluto credere a me, alla persona di cattiva reputazione, allo spione Brüdigam. Ben presto l’Organizzazione Consul chiuse i cordoni della borsa, e l’anno dopo la marcia del caporale Hitler sulla Feldherrnhalle di Monaco finì nel sangue. Il mio tentativo di avvertire Ludendorff andò a vuoto. E dire che stavolta mi ero messo all’opera senza compenso, perché per me non è mai stata una questione di soldi. Tanto perdevano valore di giorno in giorno. Ero unicamente in ansia per le sorti della Germania… da patriota… Ma nessuno vuole ascoltarmi. Nemmeno Lei. [1] Wolfgang Kapp (1858-1922), fondatore del partito di destra Deutsches Vaterland, organizzò un putsch nel marzo 1920 insieme al generale von Lüttwitz: la brigata Ehrhardt occupò il quartiere governativo a Berlino, ma il colpo di stato fallì. [2] Matthias Erzberger (1875-1921), leader del partito cattolico (Zentrum), l’11 novembre 1918 aveva firmato l’armistizio di Compiègne ed era quindi considerato un traditore dai movimenti di destra; venne assassinato nell’agosto del ’21. [3] S’intende l’adempimento dei patti sottoscritti dalla Germania con le potenze vincitrici nel trattato di Versailles.
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1923 Oggi hanno un’aria proprio graziosa... Oggi hanno un’aria proprio graziosa, le banconote. E i miei pronipoti ci giocano volentieri a Monopoli, tanto più che dell’epoca prima della caduta del Muro ho conservato alcuni bigliettoni con la spiga e il compasso, che però, non essendo decorati da tanti zeri, i bambini considerano di minor valore e quindi, per loro, sono soltanto spiccioli. I soldi dell’inflazione li ho trovati dopo la morte della mamma nel suo libro di casa, che adesso sfoglio spesso immersa nei miei pensieri, perché risveglia in me, a proposito di prezzi e di ricette di cucina, ricordi tanto tristi quanto piacevoli. Eh sì, per la mamma non è certo stato facile. Noi quattro ragazze le abbiamo dato un sacco di preoccupazioni, seppure involontariamente. Io ero la più grande. E quel grembiule da cucina che alla fine del ’22 costava come leggo - tremilacinquecento marchi era di sicuro destinato a me, perché ogni sera aiutavo la mamma a servire in tavola le pietanze che preparava con tanta fantasia per i subinquilini. Il vestito alla tirolese da ottomila l’ha portato mia sorella Hilde, anche se lei non riesce a ricordare il motivo verderosso. Ma Hilde, che già negli anni Cinquanta se n’è andata all’Ovest e che anche da ragazzina era davvero caparbia, si è comunque staccata, interiormente, da tutto ciò che rappresenta il passato. Eh sì, quei prezzi spaventosi. Ci siamo cresciute assieme. E a Chemnitz, ma certamente anche altrove, cantavamo una conta che i miei pronipoti trovano ancor oggi proprio carina: Un, due, tre, quattro, cinque milioni. La mia mamma fa i fagioli. Una libbra ne costa dieci. Senza lardo tu sei fuori! E i fagioli c’erano tre volte la settimana, oppure lenticchie. Perché i legumi, che sono facili da immagazzinare, diventavano sempre più preziosi, se, come la mamma, ne avevi fatto scorta in tempo. Lo stesso valeva per il corned beef, di cui nella credenza si ammucchiavano parecchie dozzine di scatole che ci eravamo accaparrate. E dunque per i nostri tre subinquilini, che a causa del continuo rialzo dei prezzi dovevano pagare giornalmente, la mamma cucinava involtini di cavolo e pasta lievitata con ripieno di corned beef. Per fortuna uno dei subinquilini, che noi bambine chiamavamo zio Eddi e che prima della guerra aveva fatto lo steward su superbi piroscafi, aveva un sacchettino di dollari d’argento come scorta. E poiché dopo la prematura scomparsa di papà lo zio Eddi è stato vicino alla mamma, nel libro di casa trovo anche accenni al fatto
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che un dollaro americano si poteva acquistarlo all’inizio con settemilacinquecento, più tardi con venti e più milioni di marchi. Verso la fine comunque, quando nel sacchettino dello zio Eddi tintinnavano ormai poche monete, il controvalore - sembra incredibile! - arrivò ai bilioni. Ad ogni modo lo zio Eddi procurava il latte, l’olio di fegato di merluzzo, le gocce per il cuore alla mamma. E talvolta, se eravamo state brave, ci ricompensava con dolcetti di cioccolata. Ma per i piccoli impiegati e funzionari, e non parliamo di tutti quelli che dovevano ricorrere all’assistenza pubblica, le cose andavano veramente male. Come vedova, solo con ciò che le spettava della pensione di impiegato di papà, la mamma non sarebbe riuscita a tenerci a galla. E dappertutto mendicanti e invalidi che chiedevano la carità. Invece il signor Heinze, che abitava al piano rialzato e che subito dopo la guerra aveva ricevuto una cospicua eredità, evidentemente si era fatto consigliare bene, investendo il suo patrimonio in più di quaranta ettari di terreno arabile e da pascolo e facendosi pagare in natura dai fittavoli che lavoravano i suoi campi. Si diceva che in casa tenesse appesi interi quarti di maiale. E poi, quando i soldi erano ormai solo una sfilza di zeri e dappertutto si emetteva moneta provvisoria, da noi in Sassonia addirittura moneta per il carbone, li ha scambiati con balle di stoffa - pettinato, gabardine -, in modo che, quando finalmente arrivò il marco del ’23, entrò subito in affari. Oh sì, lui ce l’ha fatta eccome! Ma profittatore di guerra, come la gente l’ha tacciato, il signor Heinze non lo è stato di certo. Quelli avevano altri nomi. E lo zio Eddi, che già allora era comunista e che più tardi, con lo Stato Operaio e Contadino, qui a Karl-Marx-Stadt, come poi hanno ribattezzato Chemnitz, è diventato qualcuno, poté chiamarli tutti per nome, quei «pescecani col cilindro», come era solito definire i capitalisti. Per lui e per la mamma è stato certo meglio che non abbiano fatto in tempo a vedere i soldi occidentali. Così gli è stata risparmiata anche la preoccupazione di cosa succede adesso che arriva l’euro.
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1924 La data di Colombo era sicura... La data di Colombo era sicura. Dovevamo sollevarci esattamente in quel giorno. Come nel 1492 il genovese aveva fatto vela in direzione delle Indie, ma in realtà verso l’America, con un «Molla le cime!», così noi, con uno strumento certo più preciso, volevamo affrontare una rischiosa avventura. A dire il vero, la nostra aeronave era pronta nel capannone aperto già l’11 ottobre, di primo mattino. Carburante per cinque motori Maybach e zavorra idrica erano a bordo in quantità calcolata di misura. I cavi di fissaggio già tra le mani degli addetti. Ma l’Lz 126 non volle galleggiare, era diventato pesante e pesante rimase, perché improvvisamente affluì nebbia con masse d’aria più calde, gravando su tutta la regione del lago di Costanza. Poiché non potevamo ridurre né l’acqua né il carburante, la partenza dovette essere rimandata al mattino successivo. Lo scherno della folla in attesa fu sopportato a stento. Ma il 12 decollammo felicemente. Equipaggio di ventidue uomini. La concessione di partecipare all’impresa come meccanico di bordo era stata in forse per molto tempo, visto che passavo per uno di quelli che per protesta nazionalista avevano distrutto i nostri ultimi quattro dirigibili da guerra, sotto sorveglianza a Friedrichshafen in attesa di essere consegnati al nemico; come del resto più di settanta navi della nostra flotta da guerra, tra le quali una decina di navi da battaglia e di linea che dovevano essere affidate agli inglesi, erano state affondate nel giugno del ’19 dalla nostra gente, davanti a Scapa Flow. Subito gli alleati pretesero un indennizzo. Gli americani volevano spillarci più di tre milioni di marchi oro. Allora la Zeppelin S.r.l’ propose di cancellare tutti i debiti con la consegna di un dirigibile costruito secondo gli ultimissimi ritrovati della tecnica. E poiché le forze armate americane nutrivano un interesse assai vivo per il nostro modello più recente, che garantiva un volume di riempimento di 70.000 metri cubi di gas elio, il mercimonio andò in porto: l’Lz 126 doveva essere trasferito a Lakehurst e consegnato subito dopo l’atterraggio. Proprio questo venne considerato un’onta da molti di noi. Anche da me. Non eravamo sufficientemente umiliati? Le imposizioni del trattato di pace non avevano accollato alla patria gravami a dismisura? Noi, o meglio alcuni di noi, accarezzavano l’idea di privare della materia prima questo miserabile negozio. Ho dovuto lottare a lungo con me stesso per trovare nell’impresa un senso in qualche modo positivo. Ma solo quando
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promisi solennemente al dottor Eckener, che noi tutti ammiravamo come capitano e come uomo, di rinunciare al sabotaggio, ebbi il permesso di partecipare al viaggio. L’Lz 126 era di una bellezza così perfetta che mi è rimasta negli occhi fino a oggi. Eppure fin dall’inizio, ancora in territorio europeo, quando passammo a soli cinquanta metri d’altezza sopra le selle della Côte d’Or, i miei pensieri covavano l’idea della distruzione. Non avevamo passeggeri a bordo, sebbene l’apparecchio fosse allestito per ospitarne lussuosamente una ventina, solo alcuni militari americani che ci sorvegliavano giorno e notte. Ma quando ci trovammo a dover lottare tra violenti vuoti d’aria sopra la costa spagnola nei pressi di Capo Ortegal, con il dirigibile che beccheggiava sensibilmente, quando tutte le forze erano impegnate a tenere la rotta e i militari dovettero concentrarsi sulla navigazione, un attentato sarebbe stato possibile. Sarebbe bastato sganciare i serbatoi di combustibile per costringere a un atterraggio forzato. Una tentazione che provai una seconda volta quando vidi le Azzorre sotto di noi. Giorno e notte ero scosso dai dubbi, mi sentivo turbato, cercavo l’occasione. E quando salimmo poi a duemila metri d’altezza sopra la nebbia dei banchi di Terranova, e poco più tardi, quando uno strallo si spezzò durante una tempesta, nutrivo ancora il proposito di impedire l’oltraggio ormai prossimo della consegna dell’Lz 126, ma tutto rimase una semplice intenzione. Cosa mi fece esitare? Non certo la paura. In fondo, durante la guerra sopra Londra, appena il nostro dirigibile veniva inquadrato dai fari mobili, ero stato esposto al continuo pericolo dell’abbattimento. No, non conoscevo la paura. Solo la volontà del dottor Eckener mi ha frenato, anche se non mi ha convinto. Insisteva nel voler fornire la prova dell’efficienza tedesca a dispetto di qualsiasi arbitrio delle potenze vincitrici, foss’anche sotto forma del nostro sigaro dei cieli dai riflessi argentei. Infine mi piegai a questa volontà, fino alla totale rinuncia; perché un guasto da poco, per così dire solo simbolico, non avrebbe fatto nessuna impressione, tanto più che gli americani ci avevano mandato incontro due incrociatori con i quali eravamo in costante contatto radio. In una situazione d’emergenza ci sarebbero venuti in aiuto, non solo nel caso di un persistente vento contrario, ma anche nell’eventualità del più piccolo sabotaggio. Solo oggi mi rendo conto che la mia rinuncia all’atto liberatorio è stata giusta. Ma già allora, quando l’Lz 126 si avvicinò a New York, quando il 15 ottobre la Statua della Libertà ci salutò dalla caligine mattutina, quando facemmo rotta sulla baia, quando infine la metropoli col suo mare di
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grattacieli si allargò sotto di noi e tutte le navi alla fonda nel porto salutarono con ululati di sirene, quando per due volte sorvolammo a media altezza Broadway in tutta la sua estensione per poi salire fino a tremila metri, in modo che l’immagine dell’efficienza tedesca sfavillante nel sole del mattino si imprimesse in tutti gli abitanti di New York, quando infine virammo in direzione di Lakehurst e trovammo ancora il tempo per lavarci e farci la barba con quanto restava della riserva d’acqua, quando ci fummo impeccabilmente preparati per l’atterraggio e l’accoglienza, provai solo un senso di infinita fierezza. Più tardi, dopo che la triste consegna del dirigibile era ormai cosa fatta e d’ora innanzi tutto il nostro orgoglio si sarebbe chiamato Los Angeles, il dottor Eckener mi ringraziò, assicurandomi che aveva condiviso la mia lotta. «Eh sì, - disse, - è difficile obbedire all’ardente imperativo di mantenere la dignità». Chissà cosa avrà provato quando, tredici anni dopo, la più bella espressione del Reich nuovamente rinvigorito, l’Hindenburg riempito purtroppo non con elio, ma con idrogeno infiammabile, si incendiò durante l’atterraggio a Lakehurst. Avrà avuto anche lui la certezza, come me, che si trattò di sabotaggio? Sono stati i rossi! Quelli non hanno esitato. La loro dignità conosceva un altro imperativo.
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1925 Molti vedevano in me solo il bambino piagnucoloso... Molti vedevano in me solo il bambino piagnucoloso. Nessun mezzo tradizionale riusciva a mettermi tranquillo. Non mi divertiva nemmeno il teatro dei burattini, il cui tramezzo colorato e le sei o sette marionette papà aveva costruito con le sue mani, proprio con tanto amore. Piagnucolavo di continuo. Nessuno sforzo era in grado di spegnere questa modulazione perenne che ora aumentava di tono, ora si smorzava. Né il tentativo della nonna con le fiabe, né il gioco del nonno a «palla prigioniera» mi impedivano di frignare, infine di strillare e quindi di snervare la mia famiglia e chi arrivava in visita con un malumore sempre invariato e di annientare i loro discorsi marcatamente orientati verso tematiche spirituali. Sì, la cioccolata - lingue di gatto - riusciva a conquistarmi per cinque minuti, ma non esisteva nient’altro che mi avrebbe calmato per un tempo più lungo, come in passato il seno materno. Persino alle liti tra genitori non permettevo di svilupparsi indisturbate. Poi finalmente, e ancor prima che diventassimo membri paganti della Società radiofonica del Reich, con l’aiuto di un apparecchio a galena, cuffie comprese, la mia famiglia riuscì a trasformarmi in un bambino muto e raccolto in se stesso. Il miracolo avvenne all’interno della portata del trasmettitore di Breslavia, dove la Schlesische Funkstunde Ag offriva, mattina e pomeriggio, un programma variegato. Ben presto seppi regolare le poche manopole e provvedere a una ricezione libera da disturbi atmosferici e altri rumori parassiti. Ascoltavo di tutto. La ballata di Carl Loewe L’orologio, il radioso tenore Jan Kiepura, la divina Erna Sack. Sia che Waldemar Bonsels leggesse dall’Ape Maja o che la cronaca in diretta di una regata mantenesse alta la suspense, ero tutt’orecchi. Conferenze sull’igiene orale o dal titolo Quello che bisogna sapere delle stelle mi fornivano una cultura poliedrica. Due volte al giorno ascoltavo le notizie di borsa e così ero al corrente dello slancio produttivo dell’industria; mio padre esportava macchine agricole. Ancor prima della famiglia, che ormai, liberatasi dal mio peso, poteva dedicarsi alle sue liti perenni su questioni di principio, appresi della morte di Ebert e poco dopo che già alla seconda votazione il feldmaresciallo Hindenburg era stato eletto suo successore alla presidenza della repubblica. Ma anche le trasmissioni dedicate ai bambini, nelle quali il leggendario Rübezahl si aggirava per i patri monti dei Giganti spaventando poveri carbonai, trovavano in me un grato ascoltatore. Mi piacevano meno gli gnomi della buonanotte, quegli zelanti precursori di futuri
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hit televisivi che, sia all’Est che all’Ovest, si sarebbero chiamati «maghi Sabbiolini». Ma la mia vera predilezione, nei primissimi tempi della radio, andava alle prove di drammi radiofonici nei quali il vento fischiava, la pioggia tambureggiava sul tetto come nella realtà, il tuono brontolava, il destriero dell’«uomo dal cavallo grigio» nitriva, una porta cigolava o un bambino piagnucolava, come io avevo piagnucolato una volta. Poiché nei giorni di primavera e d’estate mi parcheggiavano spesso nel giardino della nostra villa, dove con l’aiuto della radio a galena trovavo comunque soddisfazione, mi istruivo in mezzo alla natura. Ma le numerose voci d’uccelli non mi venivano offerte tanto dal cielo o dai rami dei nostri alberi da frutta, quanto dal dottor Hubertus, un geniale imitatore di voci animali che attraverso le cuffie mi mediava il lucherino e la cincia, i merli e i fringuelli, il rigogolo, lo zigolo giallo e l’allodola. Non c’è da stupirsi se il dissidio tra i miei genitori elevatosi a crisi matrimoniale rimase per me una cosa lontana. E anche il loro divorzio non si trasformò in un avvenimento troppo doloroso, perché alla mamma e a me rimasero la villa con giardino nei sobborghi di Breslavia, tutta la mobilia e quindi anche il radioricevitore e le cuffie. Il nostro apparecchio a galena era provvisto di un amplificatore per le basse frequenze. Per le cuffie la mamma aveva comprato dei padiglioni protettivi che attenuavano la fastidiosa pressione. Più tardi apparecchi con altoparlanti - avevamo una radio portatile a cinque valvole della Blaupunkt - soppiantarono la mia amata galena. Adesso potevamo sì sentire la stazione Königs Wustenhausen, persino i concerti nel porto di Amburgo e i Fanciulli Cantori di Vienna, ma l’esclusività della cuffia andò perduta. Tra l’altro la Schlesische Funkstunde è stata la prima stazione a introdurre il segnale d’intervallo con un gradevole accordo di terza, che in seguito divenne consueto in tutta la Germania. Non è un caso che io sia rimasto fedele alla radio, e proprio professionalmente. Così durante la guerra mi assunsi la responsabilità tecnica di popolari trasmissioni dal Mare Glaciale al Mar Nero, dal Vallo atlantico fino alla costa libica, ad esempio sotto Natale: quadri d’ambiente da tutti i fronti. E quando per noi batté l’Ora Zero, mi specializzai in drammi radiofonici presso la Nordwestdeutscher Rundfunk, un genere nel frattempo in via d’estinzione, mentre le cuffie della mia infanzia godono adesso di un crescente favore da parte dei giovani: sono tappati, ripiegati silenziosamente su se stessi, assenti a cui però nulla sfugge.
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1926 Gli elenchi dei trattini sono di mia mano... Gli elenchi dei trattini sono di mia mano. Quando Sua Maestà Imperiale si vide costretta ad andare in esilio, a me fu affidato l’incarico, fin dall’inizio, di segnare in bell’ordine: quattro tratti verticali, uno sopra di traverso. Già nel primo alloggio olandese Sua Maestà si dilettava nel tagliare personalmente gli alberi, poi, nel castello di Doorn che si trovava fra i boschi, tutti i giorni. L’elenco dei trattini era un’occupazione secondaria, perché in realtà ero addetto alla custodia delle carrozze nella rimessa. E a Doorn S. M., anche col brutto tempo, segava i tronchi per la lunghezza di una tesa insieme a me e talvolta insieme al suo aiutante, von Ilsemann, in modo da farne scorta per i caminetti dell’edificio principale e dell’Orangerie, che serviva da alloggio per gli ospiti. Però la legna la tagliava da solo, ovviamente con la mano sana[1]. Già di primo mattino, appena terminata la funzione che S. M’ celebrava con la servitù, ci si recava nel bosco, anche se pioveva. E questo giorno dopo giorno. Pare comunque che l’abbattere alberi fosse servito alla distensione imperiale già nel quartier generale di Spa, alla fine di ottobre di allora, quando Ludendorff venne liquidato e gli successe il generale Groener. Ho ancora nelle orecchie le imprecazioni di S. M., più tardi, mentre segava nella rimessa: «La colpa è di quel Ludendorff!» E di chi altro ancora era responsabile dell’armistizio e di tutto ciò che poi era seguito. I rossi, naturalmente. Ma anche il principe Max von Baden, tutti i ministri, la diplomazia, persino il principe ereditario. Voleva privare l’ammiraglio Tirpitz del Grande Ordine dell’Aquila Nera, ma i suoi consiglieri, consigliere segreto in testa, lo indussero ad accontentarsi di un ammonimento. Comunque Sua Maestà ne ha distribuite, di onorificenze, e, mi permetto di osservare, spesso con troppa generosità, ad esempio quando arrivavano visite subito dopo la segatura e il taglio della legna, tra le quali molti adulatori che in seguito l’hanno piantato in asso. Così è andata comunque, per settimane e mesi. Visto che mi competeva redigere l’elenco coi trattini, posso assicurare che già dopo un anno sotto protezione olandese ad Amerongen Sua Maestà Imperiale aveva abbattuto undicimila alberi. Quando poi a Doorn cadde il numero dodicimila, venne segato in dischi che, contrassegnati ognuno da una grande W, furono apprezzati come dono per gli ospiti. No, a me non toccò il favore di un presente del genere. Ma sì, certo! Più di dodicimila alberi. Ho conservato l’elenco.
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Beh, per il futuro, quando l’impero risorgerà e la Germania si sarà infine svegliata. E poiché attualmente qualcosa nel Reich si sta muovendo, sperare è sempre lecito. Perché per questo, solo per questo S. M’ è andata avanti. Di recente, quando la votazione sugli espropri dei beni principeschi venne bocciata dal popolo e ci consegnarono, mentre stavamo spaccando ciocchi, il dispaccio con il risultato ottenuto di misura ma pur sempre gradito[2], ci fu motivo per cullare più vaste speranze. In ogni caso Sua Maestà Imperiale dichiarò spontaneamente: «Se il popolo tedesco mi chiama, sono pronto!» Già in marzo, quando arrivò in visita, il celebre esploratore Sven Hedin esortò vivamente il Kaiser, dopo che gli fu concesso di partecipare all’abbattimento mattutino degli alberi: «Chi taglia un tronco dopo l’altro con la sola mano destra può anche riportare l’ordine in Germania». Quindi raccontò dei suoi viaggi nel Turkestan orientale, in Tibet e nel deserto di Gobi. Il mattino dopo, tra un albero e l’altro, S. M’ assicurò più volte allo svedese come avesse profondamente odiato la guerra e come certo non l’avesse voluta. Posso testimoniarlo io. Soprattutto durante il taglio della legna accatastata, alla mattina, ha spesso affermato parlando tra sé e sé: «Stavo ancora facendo il mio viaggio estivo in Norvegia, quando francesi e russi erano già con l’arma al piede… Ero assolutamente contrario alla guerra… Ho sempre voluto essere considerato un principe della pace… Ma se ti tirano per i capelli… E la nostra flotta, tutta in ordine sparso… invece quella inglese a Spithead… Già, compatta e pronta a salpare… Ho dovuto agire… » Poi di solito S. M’ cominciava a parlare della battaglia della Marna. Malediceva i generali, con particolare violenza Falkenhayn. Gli piaceva proprio, sfogarsi tagliando legna. Ogni colpo - e sempre con la mano destra, quella sana - andava a segno. Specie quando si trattava del novembre ’18. Innanzitutto si buscavano la loro bella strigliata gli austriaci, con quel rinnegato dell’imperatore Carlo, poi se la prendeva con gli imboscati al fronte, l’insubordinazione strisciante e le bandiere rosse nei cortei dei combattenti in licenza. Accusava anche il governo, tra un colpo e l’altro, primo fra tutti il principe Max: «Quel cancelliere da rivoluzione!» E infine, mentre la montagna di legna tagliata cresceva, S. M’ approdava all’abdicazione coatta. «No! - esclamava. - La mia stessa gente mi ha costretto, e solo dopo i rossi… Questo Scheidemann… Non io ho abbandonato l’esercito, è l’esercito che ha abbandonato me… Più nessuna possibilità di tornare a Berlino… Tutti i ponti sul Reno controllati… Avrei dovuto rischiare una guerra civile… o sarei caduto in mano al nemico… Una fine ingloriosa… oppure cacciarmi una pallottola… mi
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restava solo il passo oltre il confine… » Così trascorrono i giorni per noi, caro signore. Sua Maestà Imperiale sembra essere instancabile. Però ultimamente spacca la legna in silenzio. E anch’io non ho più il compito di tenere gli elenchi. Ma nei disboscamenti totali attorno a Doorn crescono anno dopo anno nuove piantate, boschi giovani, che S. M., quando sarà il momento, è intenzionato ad abbattere. [1] Guglielmo II aveva il braccio sinistro deforme fin dalla nascita. [2] Il referendum popolare, che si tenne nel giugno del ’26, fallì nonostante i quasi 15 milioni di voti favorevoli e solo 600.000 contrari, perché non si raggiunse la maggioranza assoluta (20 milioni).
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1927 Fino a metà dell’ottobre dorato... Fino a metà dell’ottobre dorato la mamma mi portò nel suo grembo, ma a ben guardare solo il mio anno di nascita fu dorato, mentre gli altri vent’anni prima e dopo tutt’al più luccicarono o tentarono di soverchiare chiassosamente e disordinatamente la quotidianità. Ma cosa ha procurato al mio anno lo splendore? Forse il marco che si era stabilizzato? O forse Essere e tempo, un libro che apparve sul mercato con grandiosa magniloquenza, dopodiché qualsiasi scrittorello di romanzi d’appendice cominciò a heideggereggiare? E’ vero, del resto: dopo guerra, fame, inflazione, che storpi a ogni angolo di strada e in genere il ceto medio impoverito richiamavano alla memoria, si poteva celebrare la vita come «l’essere-gettato» oppure passarla conversando davanti a una coppa di champagne o anche solo a un bicchierino di Martini come «essere-per-la-morte». Ma queste parole altisonanti che si gonfiavano in un finale esistenziale, dorate non lo erano di certo. Piuttosto era il tenore Richard Tauber ad avere l’oro nella voce. E la mia mamma, che da lontano, non appena il grammofono in soggiorno si metteva a suonare, lo amava appassionatamente, dopo la mia nascita e per tutto il tempo della sua vita - non arrivò a invecchiare - ha avuto sulle labbra quello Zarevic allora osannato in ogni teatro d’operetta: «C’è un soldato sulla riva del Volga… » oppure «Laggiù anche di me ti sei scordata… » o «Solo, di nuovo solo… » fino alla conclusione dolceamara: «Son chiuso in una gabbia d’or… » Ma tutto questo era solo oro in foglie. Veramente dorate erano le Girls, unicamente le Girls. Persino da noi a Danzica si esibirono in tournée coi loro lustrini, non proprio nel teatro cittadino, ma al Casinò di Zoppot. Max Kauer, comunque, che con la sua medium Susi riscuoteva un certo successo nei varietà come chiaroveggente e illusionista, tanto che sulle sue valigie si potevano passare in rivista le capitali europee grazie alle etichette degli alberghi, e che più tardi io avrei chiamato zio Max perché fin dai tempi di scuola amico di Friedel, il fratello di papà, faceva uno stanco cenno di diniego - «Misere imitazioni!» - allorché il discorso cadeva sulle «Girls di passaggio qui». Quando la mamma era ancora incinta di me, pare che lui abbia esclamato: «Dovete assolutamente fare una scappata a Berlino, almeno una volta. Lì succede sempre qualcosa!», e con le sue lunghe dita magiche abbia imitato le Tiller-Girls, vale a dire le loro gambe vertiginose, e inoltre abbia mimato Chaplin. Raccontava delle «membra» delle Girls. Affermava che erano «sviluppate in modo perfettamente armonico». Poi parlava
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di «precisione ritmica» e di «momenti sublimi all’Admiralspalast». Cadevano anche, riferiti al programma di accompagnamento, nomi incastonati in oro: «Come questa frizzante Trude Hesterberg ha trasformato, con la sua piccola compagnia, i Masnadieri di Schiller in un divertentissimo balletto a tempo di jazz». Lo si sentiva esaltarsi per i «Chocolate Kiddies», che aveva visto alla Skala o nel Wintergarten. «E prossimamente dovrebbe arrivare a Berlino in tournée Josephine Baker, questo animalefemmina dalla testa ai piedi. "L’essere-gettato" a suon di musica, come dice il filosofo… » La mamma, che dava sfogo volentieri ai suoi aneliti, mi ha trasmesso gli entusiasmi dello zio Max: «Soprattutto si balla molto, a Berlino, non si fa che ballare. Dovete venirci una volta, assolutamente, e assistere a una Haller-Revue originale, con La Jana che danza davanti al sipario trapunto d’oro». Dopodiché tornava alle Tiller-Girls con le sue dita magiche trasformate in lunghe gambe. E la mamma, che mi portava in grembo, deve aver sorriso: «Forse più avanti, quando col negozio andrà meglio». Ma ad arrivare fino a Berlino non ce l’ha mai fatta. Solo una volta, verso la fine degli anni Trenta, quando neanche una pagliuzza d’oro dei Venti brillava più, ha affidato a mio padre il negozio di generi coloniali e si è spinta fin sui monti del Salzkammergut con un viaggio organizzato dalla «Kraft-durch-Freude»[1]. Nel regno delle braghe di cuoio. Dove si ballava lo schuhplattler. [1] «Forza attraverso la gioia», organizzazione nazista specializzata in viaggi di gruppo e nella pianificazione del tempo libero.
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1928 Può leggersela tranquillamente... Può leggersela tranquillamente, tutta ’sta roba. L’ho messa giù per i miei pronipoti, per dopo. Già, oggi non ci crede nessuno a quello che allora è successo qui a Barmbek[1] e dappertutto. Si legge come un romanzo, ma son tutte cose vissute sulla propria pelle. Eh sì, sono rimasta sola con tre ragazzi e un po’ di pensione, quando papà è finito sotto una lastra carica di casse d’arance davanti al capannone 25 sul Vermannskai, dove faceva lo stivatore. «Per colpa sua», ha detto l’armatore. E non c’è stato niente da fare col risarcimento dei danni morali o un indennizzo adeguato. Il mio maggiore allora era già in polizia, commissariato 46, può leggere qui: «Herbert non è entrato nel partito, ma ha sempre votato a sinistra… » Perché in realtà noi eravamo una vecchia famiglia di socialisti, già mio padre e il padre di mio marito. E insomma Jochen, il secondo, di colpo, quando qui son cominciate le risse e gli accoltellamenti, è diventato un comunista tutto d’un pezzo, faceva parte perfino del Rotfrontkämpferbund[2]. Un tipo molto tranquillo, per la verità, che prima si era interessato solo dei suoi coleotteri e di farfalle. Trasportava maone dal porto al canale cieco e in altre parti nella zona dei magazzini. E di botto è diventato un fanatico. Proprio come Heinz, il nostro più piccolo, che quando qui e da altre parti ci sono state le elezioni per il Reichstag, è diventato un nazistello fatto e finito, senza prima dirmi neanche mezza parola. Già, si è presentato da un giorno all’altro con l’uniforme delle Sa e ha cominciato a far discorsi. Un monellaccio allegro, peraltro, amato da tutti. Lavorava anche lui ai magazzini, nella spedizione di caffè verde. A volte mi portava a casa di straforo qualcosa da tostare. E allora si sentiva l’odore in tutto l’appartamento e fin sulle scale. E adesso di colpo… All’inizio però è ancora andata in modo pacifico. Perfino di domenica, quando erano seduti tutti e tre al tavolo di cucina e io stavo ai fornelli. Si sono solo punzecchiati, i due più giovani. E se poi l’atmosfera si riscaldava, tipo pugni sul tavolo, ci pensava il mio Herbert a mettere calma. Gli obbedivano tutti e due, anche quando non era in servizio e non aveva l’uniforme. Già, ma poi non ci sono state che liti, qua dentro. Può leggerlo, quello che ho scritto sul diciassette maggio, quando due nostri compagni, entrambi del Reichsbanner, sì, erano quelli del gruppo di difesa socialdemocratico che facevano vigilanza nelle riunioni e davanti ai seggi, ci hanno lasciato la pelle tutti e due. Uno da noi a Barmbek, l’altro assassinato a Eimsbüttel. Il compagno Tiedemann l’hanno fatto secco i comunisti, sparandogli dalla loro macchina della propaganda elettorale.
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Il compagno Heidorn l’hanno eliminato le Sa, quando li ha scoperti che incollavano i loro manifesti sopra i nostri, all’angolo tra la Bundesstrasse e la Hohe Weide. Beh, allora sì che si son levate le urla, al nostro tavolo di cucina. - Eh noo! - strepitava Jochen. Prima ci hanno sparato addosso quei socialfascisti, e hanno beccato giusto un loro uomo, ’sto Tiedemann… - E il mio Heinz ha strillato: - E’ stata legittima difesa, per noi, legittima difesa pura e semplice! Quei vigliacchi del Reichsdelcazzo, loro hanno cominciato… - Allora il mio maggiore, che sapeva bene dal rapporto di polizia com’erano andate le cose, per tagliare la testa al toro ha sbattuto sul tavolo il «Volksblatt», e lì c’era scritto - ecco, può leggere, l’ho incollato - che «la vittima Tiedemann, di professione falegname, ha ricevuto un colpo d’arma da fuoco alla testa nella parte laterale superiore del capo e considerando la posizione del foro d’entrata e quella situata più in basso del foro d’uscita è certo che il colpo è stato sparato da un punto elevato… » Già, adesso era chiaro: i comunisti dall’alto in basso, e a Eimsbüttel le Sa, per prime. Ma non è servito proprio a niente. La lite al tavolo di cucina è andata avanti, perché adesso il mio Heinz faceva proprio l’Sa e ha insultato il mio maggiore chiamandolo «sporco piedipiatti», al che gli ha tenuto bordone nientemeno che il mio secondo e ha gridato in faccia al mio Herbert, proprio da infame, «socialfascista», che è veramente una brutta offesa. Però è rimasto calmo e tranquillo, il mio maggiore, com’è nel suo carattere. Ha solo detto quello che ho trascritto qui: - Da quando quelli di Mosca vi hanno rincoglioniti con una risoluzione del Komintern, non sapete neanche distinguere il rosso dal bruno… - E ha aggiunto un paio d’altre cose, che se i lavoratori si fanno fuori a vicenda, il capitalista se la ride sotto i baffi. - E’ proprio così, - ho gridato io dai fornelli. In ogni caso, dopo la notte di sangue di Barmbek e Eims-büttel non c’è stata più pace in tutta Amburgo. E certo non da noi al tavolo di cucina. Solo quando il mio Jochen, ancor prima che arrivasse Hitler, ha mollato i comunisti, e solo perché aveva perso il lavoro su due piedi se n’è andato a Pinneberg dalle Sa, dove ha presto trovato di nuovo lavoro nel silo delle granaglie, qui c’è stata più calma. Ma il mio minore è sì rimasto nazista almeno all’esterno, però ha aperto sempre meno la bocca e gli è sparita tutta l’allegria, finché, quand’è stato il momento, è entrato in marina a Eckernförde, e così è morto in guerra dentro a un sottomarino. Già, come anche il mio secondo. E’ arrivato fino in Africa, ma non è più tornato indietro. Ho solo lettere, di lui, le ho incollate tutte qui. Invece il mio maggiore è rimasto in polizia e ha salvato la pelle. Però quando è dovuto andare in Russia, fino in Ucraina, con un battaglione di polizia, deve aver preso parte a un paio di brutte faccende. Non ne ha
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mai parlato. Neanche dopo la guerra. E io non ho fatto domande. Lo sapevo anche così cos’era capitato al mio Herbert, fino alla fine, quando - è stato nell’autunno del ’53 - si è dimesso dal servizio di polizia, perché aveva il cancro e gli restavano pochi mesi. Ha lasciato la sua Monika, che è mia nuora, con tre bambini, già, tre femmine. Sono sposate da un pezzo e ormai hanno tutte dei figli. E’ per loro che ho messo giù queste cose, per dopo, anche se fa male, scrivere, voglio dire. Tutto quello che è successo una volta. Ma legga, legga pure. [1] Quartiere operaio di Amburgo. [2] Organizzazione di autodifesa fondata nel ’24 dal partito comunista; venne proibita nel ’29.
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1929 E di colpo ci siamo ritrovati... E di colpo ci siamo ritrovati tutti americani. Eh sì, ci han proprio comprato. Perché il vecchio Adam Opel non c’era più e i giovani von Opel non ci hanno più voluti. Però la nostra gente la conosceva da un pezzo, la storia della catena di montaggio. Ovvio, erano tutti a cottimo collettivo. E anch’io prima ho lavorato a cottimo per la Ranocchia… Che si chiamava così perché i ragazzini in strada, quando la due posti tutta verniciata di verde è arrivata sul mercato, gridavano proprio così: «Ranocchia». Eh sì, la produzione in serie è cominciata intorno al ’24. Erano i cosiddetti eccentrici dei freni, quelli a cui lavoravo io. Venivano usati sull’asse anteriore. Ma quando poi nel ’29 siamo diventati tutti americani c’è stato soltanto il cottimo collettivo, anche per la Ranocchia, perché ormai veniva fatta stabilmente alla catena. Certo che no, non più con tutta la gente, perché hanno licenziato, poco prima di Natale, è stato proprio brutto. C’era scritto sull’«Opel-Prolet», che era il nostro giornale aziendale, che gli americani usavano il cosiddetto sistema Ford, come a casa loro: ogni anno buttar fuori la gente e poi prendere dei non qualificati a buon mercato. Funziona, una cosa del genere, alla catena e col cottimo collettivo. Però la Ranocchia era veramente fantastica. Andava a ruba. Eh sì, certo che ha sacramentato, la gente del ramo: è scopiazzata dalla Citroën dei francesi, solo che quella era gialla, ecco cosa dicevano. I francesi han fatto ricorso in tribunale per il risarcimento dei danni, ma non hanno visto un soldo. E la Ranocchia girava e rigirava per tutte le province tedesche. Beh, perché era a buon prezzo, perfino per la gente semplice, non solo per i signoroni del volante o per quelli con l’autista. No, io no. Con quattro figli e la casetta da finir di pagare? Ma mio fratello, che era rappresentante di filo cucirino e altri articoli di merceria, è passato dalla motocicletta, che doveva girarci con qualsiasi tempo, alla nostra due posti. 12 cavalli vapore, aveva! Non se l’aspettava, eh? Consumava solo cinque litri e arrivava ai 60. All’inizio costava ancora quattromilaseicento, ma mio fratello l’ha comprata per duemilasettecento, perché i prezzi andavano giù dappertutto e con la disoccupazione era sempre peggio. No, mio fratello ha continuato a girare ancora per un bel po’, col suo campionario nella Ranocchia. Sempre in viaggio, eh sì, fin giù a Costanza. E in gita con Elsbeth, che allora era la sua fidanzata, a Heilbronn o a Karlsruhe. Gli è andata bene, in quei tempi difficili. Perché l’anno dopo, quando da noi tutti sono diventati americani, già prendevo il sussidio da disoccupato, come tanti
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altri a Rüsselsheim e da altre parti. Che tempi, eh? Però un paio di volte mio fratello mi ha preso con sé in viaggio d’affari, come copilota, per così dire. Una volta siamo arrivati fin su a Bielefeld, con la Ranocchia, dove c’era la sua ditta. E ho visto la Porta Westfalica e com’è bella la Germania. E dove tanto tempo fa i cherusci le hanno suonate ai romani, nella selva di Teutoburgo. Lì abbiamo fatto merenda. E’ stato proprio bello. Ma altrimenti ho avuto ben poco da fare. Qualcosa per la divisione parchi e giardini, a volte sostituto nel cementificio. Solo dopo il ribaltone, quando è arrivato l’Adolfo, si è liberato di nuovo qualcosa alla Opel, e cioè all’inizio sono stato propagandista per gli acquisti e poi nell’officina collaudi, perché al tornio mi ero fatto un’esperienza bella lunga, già ai tempi di Adam Opel. Ma mio fratello, lui ha girato ancora anni con la Ranocchia per i suoi affari, più tardi addirittura in autostrada, finché è andato sotto la naia e la Ranocchia è rimasta da noi nella rimessa, per dopo la guerra. Però è lì ancora oggi, perché mio fratello non è tornato dalla Russia e io non me la sento di darla via. No, me come abile arruolato mi hanno spedito solo a Riga, dove c’era la nostra officina riparazioni. Eh sì, e poi subito dopo la guerra ho ricominciato alla Opel, con la nostra gente. E’ stato un bene che eravamo americani. Solo poche bombe prima e niente smantellamento dopo. Ho avuto fortuna, eh?
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1930 Quel singolare locale... Quel singolare locale si trovava vicino alla Savignyplatz, nella Grolmanstrasse, poco prima del sottopassaggio della sopraelevata. Come avventore occasionale al bancone di Franz Diener mi capitava di afferrare al tavolo dei clienti abituali, occupato ogni sera da personalità di tutto rilievo, le vivaci discussioni, innaffiate di birra, su grandi e piccoli avvenimenti. Si sarebbe potuto credere che da Franz, il quale verso la fine degli anni Venti, prima che Max Schmeling lo detronizzasse dopo quindici riprese, era stato campione tedesco dei pesi massimi, i clienti fissi fossero alcuni ex pugili e qualche altro ancora in attività. Ma così non era. Negli anni Cinquanta e all’inizio dei Sessanta da lui si incontravano attori, cabarettisti e gente della radio, persino scrittori e personaggi ambigui che si spacciavano per intellettuali. Insomma, il tema delle serate non erano i successi di Bubi Scholz e la sua sconfitta nel combattimento contro Johnson, bensì pettegolezzi teatrali, ad esempio scottanti illazioni sulle cause della morte di Gustav Gründgens nelle lontane Filippine o un qualche intrigo alla Sfb[1]. Tutto questo, a livelli sonori di notevole altezza, traboccava fino al bancone. Ci si accalorava, ricordo, anche per il Vicario di Hochhut, ma in genere la politica restava esclusa, sebbene l’epoca di Adenauer volgesse chiaramente al termine. Per quanto ponesse l’accento sull’aspetto da oste bonario, Franz Diener aveva una faccia da pugile velata di dignità e malinconia. Con lui si stava volentieri. Quella solidità emanava qualcosa di misteriosamente tragico. Del resto era sempre stato così: artisti e intellettuali erano attirati dalla boxe. Non solo Brecht coltivava la sua predilezione per uomini dotati di forza d’urto; attorno a Max Schmeling, ancor prima che andasse in America e riempisse le prime pagine dei giornali, si era raccolta gente famosa, tra cui l’attore Fritz Kortner e il regista Josef von Sternberg, ma anche Heinrich Mann si era fatto vedere con lui. Perciò nella taverna di Franz Diener, su tutte le pareti del locale e anche dietro al bancone si potevano ammirare non solo fotografie di pugili nella classica posa, ma una quantità di ritratti incorniciati dei grandi esponenti della vita culturale passata o ancora presente. Franz faceva parte di quei pochi professionisti che avevano saputo investire abbastanza bene i loro guadagni. In ogni caso, il suo locale era sempre strapieno. Le sedie al tavolo dei clienti fissi restavano spesso tutte occupate ben oltre la mezzanotte. Del servizio si occupava lui personalmente. Ma quando, in via del tutto eccezionale, si parlava di incontri
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di pugilato, la discussione non cadeva mai sui combattimenti di Diener contro Neusel o Heuser - Franz era troppo modesto per portare il discorso sulle sue vittorie -, bensì sempre e soltanto sul primo e secondo incontro Schmeling-Sharkey nel ’30 e nel ’32, quando Max era diventato campione mondiale dei pesi massimi, ma ben presto aveva dovuto cedere il titolo. E si parlava anche della sua vittoria a Cleveland contro Young Stribling, messo k’o’ alla quindicesima ripresa. Eppure questi ricordi di uomini ormai abbastanza anziani si dipanavano, riguardo alla politica di quegli anni, in una specie di vuoto pneumatico: neanche una parola sul governo Brüning e sullo shock quando i nazisti uscirono d’un sol colpo come secondo partito dalle elezioni del Reichstag. Non ricordo più se a offrire lo spunto sia stato l’attore O.E. Hasse, che si era fatto un nome recitando nel Generale del diavolo, o lo scrittore svizzero Dürrenmatt, già allora famoso, che prove teatrali portavano occasionalmente a Berlino; forse sono stato io, dal bancone. E’ probabile, perché le successive discussioni s’indirizzarono essenzialmente su quella sensazionale trasmissione radio del dodici giugno ’30, che a partire dalle 3 del mattino del tredici fu possibile ascoltare da noi tramite la trasmittente americana a onde corte; e io, come tecnico radiofonico, mi ero assunto la responsabilità della stazione tedesca di Zehlendorf. Con il nostro ricevitore a onde corte appena costruito ho provveduto a una ricezione ottimale, come già in precedenza - anche se non privo di disturbi avevo trasmesso l’incontro tra Schmeling e Paulino, e prima ancora ero presente in qualità di assistente quando venne mandato in onda l’arrivo dello Zeppelin a Lakehurst. Si sintonizzarono a migliaia, mentre l’Lz 126 teneva il suo show volando su e giù, alto sopra Manhattan. Ma stavolta la festa finì dopo una mezzora: Sharkey, che con i suoi mirati ganci di sinistro era stato in vantaggio per tre riprese, venne squalificato alla quarta dopo un gancio allo stomaco che aveva colpito troppo in basso e che fece subito finire Schmeling a terra. Mentre ancora si stava torcendo per il dolore, Max venne proclamato dall’arbitro nuovo campione mondiale, tra il giubilo degli astanti, d’altronde, perché Schmeling era un beniamino del pubblico persino nello Yankee-Stadium di New York. Alcuni dei clienti abituali al tavolo di Franz Diener avevano ancora la trasmissione nell’orecchio. «Però Sharkey è stato inequivocabilmente il migliore!!», si sentì dire. «Macché! Max era uno ad accensione ritardata. Entrava davvero in forma soltanto dopo la quinta ripresa… » «Vero. Infatti quando due anni più tardi ha comunque perso contro Sharkey dopo quindici dure riprese, tutti, persino il sindaco di New York, hanno protestato, perché Schmeling, ai punti, era stato chiaramente il migliore».
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I successivi incontri con il «Bombardiere nero» - nel primo Max vinse per k’o’ dopo dodici riprese, e nel secondo Joe Louis già alla prima, anche lui per k’o’ - vennero menzionati solo marginalmente, e così pure l’ancora accresciuta qualità delle nostre trasmissioni. Adesso i discorsi riguardavano piuttosto la «leggenda Schmeling». In realtà non era poi stato un pugile di levatura eccezionale, si diceva, quanto uno che sapeva accattivarsi le simpatie. Ciò che di veramente grande c’era in lui si era manifestato attraverso la sua personalità, non con la potenza dei suoi pugni. E gli era stata anche d’aiuto, quantunque non richiesto, la maledetta politica di quegli anni: era un tedesco da esibire. Non c’era da stupirsi se dopo la guerra, quando ad Amburgo e a Berlino perse contro Neusel e Vogt, non gli riuscì di rientrare nel giro. E qui Franz Diener, che era rimasto dietro al bancone e che molto di rado faceva commenti sugli incontri, disse: - Sono ancora orgoglioso di aver perso il mio titolo contro Max, anche se oggi è ridotto a dirigere un’azienda avicola. Poi tornò a spillare birra, mise sui piatti uova sode o polpette con la montagnola di mostarda, versò acquavite fino al trattino, facendo il giro. E al tavolo fisso ripresero i pettegolezzi teatrali, finché Friedrich Dürrenmatt, meticolosamente e alla bernese, spiegò l’universo, comprese galassie, nebulose e anni luce, alla cerchia ormai condannata al silenzio. - La nostra terra, voglio dire quello che ci striscia sopra e si dà tante arie, è soltanto una briciola! esclamò e chiese al bancone di mescere un altro giro. [1] Sender Freies Berlin, stazione radio inaugurata nel 1953.
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1931 - A Harzburg, a Braunschweig, era la parola d’ordine... - A Harzburg, a Braunschweig, era la parola d’ordine… [1]. - Sono arrivati da tutte le regioni. Col treno, per la maggior parte, ma noi camerati del Vogtland abbiamo viaggiato in autocolonna… - La schiavitù sta per finire! Si formano nuove squadre! Persino dalla costa, dalle spiagge della Pomerania, dalla Franconia, da Monaco, sono venuti su dalla Renania, in camion, in corriera, con le moto… - E tutti nell’uniforme bruna… - Noi dello scaglione motorizzato due siamo partiti da Plauen, venti macchine, cantando: «Tremano le ossa decrepite… » - Il nostro reparto ha lasciato Crimmitschau già all’alba. E ci siamo diretti verso Lipsia passando da Altenburg, col più bel tempo d’autunno… - Sì, camerati! Per la prima volta ho sentito profondamente tutta la forza del monumento, ho visto le figure eroiche appoggiate sulle spade, ho capito che oggi, più di cent’anni dopo la Battaglia delle Nazioni, suona di nuovo per noi l’ora della liberazione… Basta con la schiavitù! - E’ così, camerata! Non in quel baraccone di chiacchiere del Reichstag, che va passato alla fiamma, no, sulle strade della Germania si trova finalmente la Nazione… - Però quando ci siamo lasciati alle spalle la ridente Turingia, col nostro Gauleiter Sauckel alla testa della colonna, quando abbiamo oltrepassato Halle e Eisleben, la città di Lutero, siamo arrivati nella Aschers-leben prussiana, dove abbiamo dovuto deporre le nostre camicie brune per proseguire da lì in poi in camicia bianca, neutra, per così dire… - Perché lì ci sono ancora i socialisti col loro divieto… - E quel maiale di ministro degli Interni. Segnatevi il nome: Severing! - Ma a Bad Harzburg, già in territorio braunschweighese, eravamo di nuovo liberi da costrizioni: migliaia e migliaia in uniforme bruna… - Come ancora una settimana dopo, nella stessa Braunschweig, dove i nostri dirigevano la polizia, e si sono radunate ordinatamente più di centomila camicie brune… - E lì ho guardato il Führer negli occhi… - Anch’io, durante la sfilata! - E io per un secondo, no, per un’eternità… - Macché, camerati! Là non c’era più nessun Io, solo un grande Noi che ha sfilato per ore con la mano levata nel saluto tedesco. Tutti, tutti noi abbiamo assorbito il suo sguardo… - Era come se i suoi occhi mi avessero benedetto…
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- Un esercito bruno in parata. E il suo sguardo posava su ciascuno di noi… - Ma prima ha passato in rassegna personalmente i più di quattrocento autocarri, corriere, motociclette, tutti disposti in fila, perché solo con scaglioni motorizzati il futuro… - E poi, sul Franzschen Feld, ha consacrato le nuove squadre, ventiquattro di numero, con parole che sembravano scolpite nel bronzo… - La sua voce risuonava dagli altoparlanti. Era come se il destino ci sfiorasse. Come se quella Germania dell’ubbidienza e della disciplina volesse inviare un segnale luminoso dalle tempeste d’acciaio della grande guerra. Come se in lui parlasse la provvidenza. Come se il Nuovo, fuso nel bronzo… - Eppure c’è chi dice che tutto questo ce l’hanno già fatto vedere i manipoli fascisti di Mussolini. Sì, con le loro camicie nere, il loro squadrismo, le loro truppe d’assalto… - Baggianate! Lo vede chiunque che in noi non c’è niente di latino. Preghiamo in tedesco, amiamo in tedesco, odiamo in tedesco. E chi ci intralcia il passo… - Ma al momento abbiamo ancora bisogno di un paio di alleati, come nella settimana prima, quando è stato ideato il Fronte di Harzburg e questo Hugenberg con i suoi babbei nazionaltedeschi… [2]. - Tutti borghesucci e plutocrati con cappello e cilindro… - E’ roba di ieri e un giorno bisognerà spazzarli via tutti, anche quelli degli Elmetti d’acciaio… [3]. - Ma certo, il futuro parla dalla nostra bocca, solo dalla nostra… - E quando dal Leonhardsplatz, in colonne interminabili, le Sa motorizzate hanno ricondotto le masse brune dalla città di Enrico il Leone alle nostre vicine e lontane regioni, tutti ci siamo portati dietro quel fuoco che lo sguardo del Führer aveva acceso dentro di noi, affinché continuasse a bruciare, ancora e ancora… [1] Nell’ottobre del 1931 il partito nazista organizzò due raduni in queste città: a Braunschweig i partecipanti furono più di 100.000, e si arrivò a violenti scontri con le forze della sinistra che causarono morti e feriti. [2] Presidente del partito popolare nazionaltedesco (Dnvp), di tendenze fortemente conservatrici e antisemite, Alfred Hugenberg (1865-1951) era anche a capo di un gruppo monopolistico che esercitava la propria influenza soprattutto in campo editoriale e cinematografico.
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[3] Lo Stahlhelm era un’organizzazione paramilitare composta da ex combattenti fondata nel 1918, di cui era presidente Hindenburg; negli anni Trenta venne assorbita dal partito nazista.
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1932 Qualcosa doveva pur succedere... Qualcosa doveva pur succedere. In ogni caso, così non si andava avanti, con ordinanze di emergenza ed elezioni continue. Ma in linea di massima, fino a oggi non è cambiato molto. Sì certo, essere senza impiego allora ed essere disoccupato adesso è un po’ diverso. Allora non si diceva «sono senza lavoro», bensì «vado a timbrare». Suonava più operoso, in qualche modo. Già, nessuno voleva ammettere di essere disoccupato. Era considerata una vergogna. Io in ogni caso, se me lo chiedevano a scuola o nell’ora di catechismo il reverendo Watzek si informava, dicevo «papà va a timbrare», mentre mio nipote vive di nuovo e in tutta rilassatezza «col sussidio», come si esprime lui. E’ vero che quando c’era ancora Brüning ci avvicinavamo ai sei milioni, ma se si conta bene siamo un’altra volta a quota cinque. Perciò, oggi come allora, si tira la cinghia e si compra solo lo stretto necessario. Quindi in linea di massima non è cambiato niente. Solo che intorno al ’32, quando andava a timbrare già per il terzo inverno consecutivo, papà era escluso da un pezzo dalle prestazioni assicurative e il sussidio gli veniva continuamente decurtato. Prendeva in tutto tre marchi e cinquanta alla settimana. E dato che anche i miei due fratelli andavano a timbrare e solo mia sorella Erika, che faceva la commessa da Tietz, portava a casa un vero stipendio, la mamma non aveva neanche cento marchi al mese per le spese domestiche. Non bastavano neppure lontanamente, ma nella nostra zona era così dappertutto. Guai se qualcuno si beccava l’influenza o un’altra cosa. Solo per il certificato di malattia bisognava sganciare cinquanta pfennig. Risuolare le scarpe voleva dire prosciugare la cassa. Le mattonelle di carbone venivano due marchi circa al mezzo quintale. Ma nel distretto minerario le scorte crescevano. Ovvio che erano sorvegliate, addirittura strettamente, col filo spinato intorno e i cani. E con le patate tardive andava malissimo. Insomma qualcosa doveva succedere, perché nell’intero sistema c’era del marcio. Oggi non è diverso, in linea di massima. Anche le attese all’ufficio di collocamento. Una volta papà mi portò con sé: «Così vedi come si svolge la faccenda». Davanti all’ufficio due poliziotti sorvegliavano che nessuno violasse la successione della timbratura, perché fuori c’era la fila, e dentro anche, in piedi, perché non c’erano abbastanza posti a sedere. Ma sia fuori che dentro regnava una calma assoluta, perché tutti pensavano soltanto ai fatti loro. Per questo si riusciva a sentire così bene il rumore dei timbri. Quello schiocco secco. Si timbrava a cinque o sei sportelli.
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Ce l’ho ancora oggi nell’orecchio. E vedo chiaramente le espressioni, quando qualcuno veniva rimandato indietro. «Termine scaduto» o «documenti mancanti». Papà aveva tutto con sé: modulo di registrazione, gli attestati dell’ultimo lavoro, il certificato di povertà e la carta dei pagamenti. Perché da quando riceveva soltanto il sussidio, lo stato di povertà veniva controllato, fin dentro casa. Guai se c’erano dei mobili troppo nuovi o una radio. Ah sì, e si sentiva l’odore di vestiti bagnati. Fuori stavano in coda sotto la pioggia, appunto. No, nessun pigia pigia e nessuna gazzarra, neanche politica. Beh, perché tutti ne avevano le tasche piene e tutti sapevano che così non si andava avanti. Che qualcosa doveva succedere. Ma in seguito papà mi ha portato alla sezione autodifesa dei disoccupati, nella sede del sindacato. C’erano appesi manifesti e appelli alla solidarietà. E c’era anche qualcosa da mangiare, per lo più piatti unici. La mamma non doveva sapere che ci eravamo andati. «Ci penso io a tirarvi avanti tutti», diceva, e rideva quando mi raschiava un po’ di strutto sulle due fette di pane per la scuola, o se c’era solo pane asciutto diceva: «Oggi picche». Certo, adesso non siamo messi così male, ma può capitare di nuovo. Ad ogni modo, allora c’era già qualcosa di simile al periodo di lavoro obbligatorio, per i cosiddetti disoccupati a carico dell’assistenza sociale. Da noi a Remscheid hanno dovuto sgobbare alla costruzione di strade vicino alla diga di sbarramento. Anche papà, perché vivevamo col sussidio. Poiché i cavalli costavano troppo, hanno attaccato una ventina di uomini davanti a un rullo compressore di non so quanti quintali e via a forza di «ehh-ohh!» Lì non ho potuto andare e stare a guardare, perché papà, che era stato capo macchinista, si vergognava davanti a suo figlio. Ma a casa l’ho sentito piangere, quando era disteso al buio accanto alla mamma. Lei non ha mai pianto, ma alla fine, poco prima della presa di potere, continuava a dire: «Peggio di così non può essere». Una cosa del genere oggi non ci può capitare, ho tranquillizzato mio nipote, quando ha riattaccato con le sue critiche verso tutto e tutti. - Certo, hai ragione, - ha ribattuto il ragazzaccio, - per quanto butti male col lavoro, le azioni non fanno che salire.
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1933 La notizia della nomina ci sorprese... La notizia della nomina ci sorprese verso mezzogiorno, mentre stavo mangiando qualcosa nella galleria insieme a Bernd, il mio giovane collaboratore, e ascoltavo distrattamente la radio. Cioè, proprio sorpreso non ero: dopo le dimissioni di Schleicher tutto indicava Lui, solo Lui era ormai in questione, alla Sua Volontà di Potenza si era dovuto piegare anche il vecchio presidente. Cercai di reagire con una battuta: - Adesso l’imbianchino ci renderà felici nelle vesti di pittore, - ma Bernd, al quale di solito la politica interessava, per dirla con lui, «meno di niente», si sentiva minacciato direttamente: - Via! Dobbiamo andarcene! - esclamò. Sì, mi feci beffe della sua reazione eccessiva, però vidi convalidate le mie precauzioni: già da mesi avevo messo al sicuro ad Amsterdam una parte di quei quadri che, in vista della prevedibile presa di potere, potevano essere considerati particolarmente equivoci, diversi Kirchner, Pechstein, Nolde ecc.. Nella galleria si trovavano ancora, di mano del Maestro[1], solo alcune cose, le tarde e coloratissime immagini di giardini. Certo non facevano parte della categoria «arte degenerata». Era in pericolo unicamente in quanto ebreo, come sua moglie, per quanto cercassi di convincere me stesso e Bernd: - Ha più di ottant’anni. Non oseranno toccarlo. Tutt’al più dovrà dimettersi dalla carica di presidente dell’Accademia. Macché, fra tre o quattro mesi questa storia sarà già finita. Eppure la mia inquietudine persisteva o aumentava. Chiudemmo la galleria. E dopo esser riuscito a calmare un po’ il caro Bernd, che naturalmente era in lacrime, nel tardo pomeriggio uscii in strada. Ben presto fu quasi impossibile riuscire a passare. Avrei dovuto prendere la sopraelevata. Colonne che arrivavano da tutte le parti. Già in Hardenbergstrasse. In fila per sei risalivano il Siegesallee, una squadra di Sa dietro l’altra, risolute. Un risucchio sembrava indicare loro la direzione, verso il Grosser Stern, dove evidentemente tutte le colonne avevano il punto di raduno. Appena i cortei si bloccavano, cominciavano a segnare il passo, incalzanti, impazienti: niente soste. Ah, quella spaventosa serietà sui giovani volti segnati dai sottogola. E un ammassarsi sempre più fitto di curiosi, che poco alla volta sbarrava le aree pedonali. Tutto sovrastato da questo canto concorde… Allora mi diedi alla macchia, per così dire, presi attraverso il Tiergarten già buio, ma non ero l’unico che si sforzava di avanzare lungo percorsi secondari. Finalmente, vicino alla meta, si vide che la Porta di
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Brandeburgo era chiusa al traffico normale. Solo con l’aiuto di un poliziotto al quale raccontai non so più cosa, riuscii a raggiungere la Pariser Platz, subito al di là della Porta. Quante volte ci eravamo fermati qui, impazienti per l’attesa! Che indirizzo esclusivo eppure conosciuto! Quante visite nell’atelier del Maestro! E sempre in un’atmosfera ricca di spirito, spesso allegra. Il suo asciutto umorismo berlinese. Davanti all’edificio altoborghese, da decenni possesso della famiglia, c’era il portiere che sembrava mi stesse aspettando. - I signori sono sul tetto, - disse, e mi accompagnò su per le scale. Nel frattempo doveva essere iniziata quella fiaccolata che pareva avessero provato per anni e invece era stata organizzata all’ultimo momento, perché quando misi piede sul tetto piano grida di giubilo annunciavano già le colonne in avvicinamento. Certo, disgustosa quella plebaglia! Eppure le grida che aumentavano di intensità avevano un effetto eccitante. Oggi devo ammettere di essere rimasto affascinato… sia pure solo il tempo di un fremito. Ma perché si esponeva alla massa? Il Maestro e la moglie Martha erano in piedi sul limite estremo del tetto. Più tardi, quando eravamo seduti nell’atelier, ci spiegò che da lì già nel ’71 aveva visto marciare attraverso la Porta i reggimenti vittoriosi di ritorno dalla Francia, poi nel ’14 i fanti che partivano con in testa ancora l’elmo chiodato, quindi nel ’18 l’arrivo dei battaglioni di marinai rivoltosi, e adesso aveva voluto rischiare un’ultima occhiata da lassù. E in proposito si potevano dire una quantità di scemenze. Ma prima, sul tetto piano, era rimasto lì muto, con l’avana spento in bocca. Entrambi col cappello, i cappotti invernali, come pronti per la partenza. Silhouette scure contro il cielo. Una coppia statuaria. Anche la Porta di Brandeburgo era ancora scura, una massa solo di tanto in tanto frugata dai riflettori della polizia. Ma poi si avvicinò, si riversò in tutta la sua larghezza la fiaccolata simile a un fiume di lava, separata brevemente dai pilastri per confluire di nuovo, incessante, inarrestabile, solenne, fatale, e rischiarò la notte, illuminò la Porta fino alla quadriga, fino al bordo dell’elmo e al simbolo di vittoria della dea; persino noi, sul tetto di casa Liebermann, fummo rischiarati da quel fulgore fatidico, e al tempo stesso ci raggiunsero il fumo e il puzzo di centomila e più fiaccole. Che vergogna! Ammetto molto malvolentieri che quell’immagine, no, quel dipinto di una forza della natura mi ha sì spaventato, ma nello stesso tempo mi ha profondamente colpito. Promanava una volontà che sembrava necessario dover seguire. Nulla sbarrava il cammino all’avanzata di quella grandiosa fatalità. Una fiumana che trascinava con
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sé. E il giubilo che dal basso saliva da ogni parte avrebbe forse strappato anche a me - sia pure in via sperimentale - un «Sieg Heil!» di approvazione, se Max Liebermann non avesse buttato lì quella frase che più tardi circolò, come parola d’ordine solo sussurrata, per tutta la città. Distogliendo lo sguardo dal quadro gravido di eventi come da un polpettone storico di smagliante apparenza, berlineggiò: Non riesco proprio a ingozzarmi tanto quanto vorrei vomitare. Quando il Maestro lasciò il tetto della casa, Martha lo prese sottobraccio. E io cominciai a cercare le parole adatte per convincere l’anziana coppia alla fuga. Ma nessuna servì. Non potevano essere trapiantati, nemmeno ad Amsterdam, dove mi sono subito rifugiato con Bernd. Tuttavia solo pochi anni dopo fu la Svizzera il luogo relativamente sicuro, anche se poco amato, dei nostri prediletti quadri, tra i quali alcuni di Liebermann. Bernd mi abbandonò… ahimè… Ma questa è già un’altra storia. [1] Max Liebermann (1847-1935), massimo dell’impressionismo tedesco; dal 1920 al 1933 dell’Accademia prussiana delle arti.
rappresentante fu presidente
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1934 Detto tra noi... Detto tra noi: questo caso avrebbe dovuto essere risolto in modo più accurato. Mi sono lasciato guidare troppo da ragioni personali. Il pasticcio è cominciato con il precipitoso trasferimento causato dal putsch di Röhm: distaccati da Dachau, il 5 luglio prendemmo in consegna il campo di concentramento di Oranienburg, poco dopo che a un vero e proprio branco di Sa era subentrata una squadra della Leibstandarte, tra l’altro camerati che qualche giorno prima, a Wiessee e altrove, erano andati per le spicce con la cricca di Röhm. Ancora visibilmente affaticati, raccontarono della «notte dei lunghi coltelli» e ci affidarono la baracca, compresi alcuni sottocapi delle Sa che dovevano dare una mano riguardo alla parte burocratica della sostituzione, ma che si dimostrarono totalmente incapaci. Uno di questi energumeni - non a caso si chiamava Stahlkopf[1] fece schierare per l’appello gli internati che ci erano stati affidati e ordinò agli ebrei tra loro di disporsi separatamente. Una decina di presenze, tra le quali una saltava particolarmente all’occhio. In ogni caso riconobbi subito Mühsam[2]. La sua faccia era inconfondibile. Sebbene all’ex rivoluzionario dei Consigli avessero tirato via la barba, nel penitenziario di Brandeburgo, e nel complesso lo avessero strigliato a dovere, di lui era avanzato quanto bastava. Detto tra noi: un anarchico di razza e in più un tipico letterato da caffè che durante i miei anni giovanili a Monaco era apparso piuttosto una figura stravagante, soprattutto come poeta e assertore della libertà assoluta e in particolare, ovviamente, del libero amore. Ora davanti a me c’era un essere ridotto a uno straccio, al quale non si poteva quasi rivolgere la parola perché era diventato sordo. Come motivazione si indicava le orecchie in parte affette da scoli purulenti, in parte incrostate, e sogghignava con l’aria di scusarsi. In qualità di suo aiutante, feci rapporto al comandante di brigata Eicke, definendo Mühsam da un lato innocuo, dall’altro particolarmente pericoloso, perché persino i comunisti avevano temuto la sua sediziosa fiumana di parole: «Quello a Mosca l’avrebbero liquidato da un bel pezzo». Il comandante Eicke disse che del caso dovevo occuparmi io e mi consigliò un trattamento speciale, espressione dal significato abbastanza chiaro. In fondo è stato Theodor Eicke in persona a eliminare Röhm. Ma subito dopo l’appello feci il mio primo errore pensando di poter affidare il lavoro sporco a quel deficiente di Stahlkopf.
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Detto tra noi: avevo un certo timore nell’impicciarmi di quell’ebreo più di quanto fosse strettamente necessario. C’è poi da aggiungere che durante l’interrogatorio mantenne un contegno stupefacente. A ogni domanda mi rispondeva con versi di poesie, evidentemente suoi, ma anche con alcuni di Schiller: «… E se la vita non rischierete… »[3]. Sebbene gli mancassero parecchi denti davanti, citava con una sicurezza degna di un attore. La cosa era da un lato ridicola, ma dall’altro… Oltretutto mi irritava il pince-nez sul suo naso da ebreo… E ancora di più le incrinature in tutt’e due le lenti… E dopo ogni citazione sorrideva irremovibile… Comunque, gli concessi quarantotto ore, consigliandogli con insistenza di farla finita con le sue stesse mani durante questo lasso di tempo. Sarebbe stata la soluzione migliore. Beh, questo piacere non ce l’ha fatto. E allora entrò in azione Stahlkopf. Probabilmente l’ha annegato nella tazza di un gabinetto. Non ho voluto conoscere i dettagli. A ben guardare, risultò un lavoro proprio tirato via. Dopo fu difficile, naturalmente, simulare un suicidio per impiccagione. Le mani contratte in maniera atipica. Non riuscimmo a tirar fuori la lingua. Anche il nodo era troppo a regola d’arte. Mühsam non ce l’avrebbe mai fatta. E poi Stahlkopf, quell’idiota, ha combinato altri guai rendendo pubblica la faccenda col suo ordine, all’appello del mattino: «Ebrei per recidere la corda un passo avanti!» Naturalmente questi signori, tra loro c’erano due medici, hanno subito capito il pasticcio. Mi presi una lavata di capo dal comandante Eicke: «Perdio, Ehardt, avrebbe dovuto sistemare la questione in modo un po’ più pulito!» C’era solo da dargli ragione, perché, detto in confidenza, questa storia ci peserà addosso ancora per un bel pezzo, visto che non siamo riusciti a rendere muto l’ebreo sordo. La voce si sparse dappertutto… All’estero hanno fatto di Mühsam un martire… Persino i comunisti… E il campo di Oranienburg abbiamo dovuto chiuderlo, distribuire gli internati in altri lager. Adesso sono di nuovo a Dachau, per riabilitarmi, suppongo. [1] Letteralmente «testa d’acciaio». [2] Erich Mühsam (1878-1934), scrittore e uomo politico di tendenze anarchiche. Membro della repubblica dei Consigli bavarese, dopo il fallimento della rivoluzione venne condannato a 15 anni di carcere, di cui ne scontò 6. Fu nuovamente arrestato nel ’33. [3] «Und setzet ihr nicht das Leben ein, nie wird euch das Leben gewonnen sein» (E se la vita non rischierete, mai nella vita vincitori sarete): sono i versi finali de L’accampamento di Wallenstein.
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1935 Tramite la mia corporazione... Tramite la mia corporazione, la «Teutonia», alla quale anche mio padre era legato in qualità di «Alter Herr»[1], una volta conclusi gli studi di medicina mi venne offerta la possibilità di far pratica con il dott’ Brösing - anch’egli un vecchio teutone -, vale a dire, sono stato suo assistente medico in quei campi di lavoro che erano stati istituiti in aperta campagna per la costruzione del primo tratto di autostrada da Francoforte sul Meno a Darmstadt. Conformemente alle condizioni di allora, l’ambiente di lavoro era molto primitivo, tanto più che tra la manodopera, e in particolare nelle colonne degli spalatori, si trovava un cospicuo numero di elementi il cui comportamento asociale era fonte di continui conflitti. «Far casino» e «fare il diavolo a quattro» erano fenomeni quotidiani. Di conseguenza, tra i nostri pazienti non si contavano solo gli infortunati nel corso dei lavori, ma anche parecchi figuri di dubbia origine che erano rimasti feriti nelle risse. Il dott’ Brösing curava lesioni da taglio senza chiederne le cause. Semmai sentivo la sua frase tipica: «Ma signori, il tempo dei duelli studenteschi dovrebbe proprio essere passato». La maggior parte dei lavoratori, comunque, teneva un comportamento tranquillo e di norma si dimostrava riconoscente, perché la grande iniziativa del Führer, la costruzione di una rete autostradale che collegasse tutta la Germania, già annunciata il 1o maggio del ’33, aveva portato lavoro e guadagno a migliaia di giovani. E in questo modo era finita anche per i non più giovani la disoccupazione che durava da anni. Molti però non reggevano bene il lavoro insolitamente duro. E’ probabile che la causa del crollo fisico fosse dovuta alla cattiva e poco variata alimentazione del periodo precedente. In ogni caso, nel corso dell’impresa in rapido avanzamento, il dott’ Brösing e io ci trovammo di fronte a un tipo di invalidità finora sconosciuta e quindi non studiata, che il dottore, un medico generico certamente conservatore ma non privo di senso dell’umorismo, soleva definire la «frattura degli spalatori». Parlava anche di «scricchiolio degli spalatori». Si trattava sempre del medesimo caso: i lavoratori colpiti, non importa se giovani o già in età avanzata, nei momenti di maggior sforzo fisico, in particolare quando enormi masse di terra dovevano essere continuamente smosse con la pala, avvertivano tra le scapole il suddetto scricchiolio, seguito da forti dolori che impedivano la prosecuzione del lavoro. Nelle
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radiografie il dott’ Brösing trovò la prova della malattia a cui aveva dato un nome così pertinente: una frattura dei processi spinali vertebrali al limite tra collo e petto, che, di norma, colpiva la prima vertebra toracica e la settima cervicale. Questa gente, a dire il vero, avrebbe dovuto essere dichiarata subito inabile al lavoro ed esonerata; ma il dott’ Brösing, che definiva «irresponsabile» - e parlando con me addirittura «micidiale» - il ritmo prescritto dalla direzione dei lavori, e però quanto al resto sembrava non avere opinioni politiche, rinviava i licenziamenti, al punto che l’infermeria del campo era sempre sovraffollata. Si potrebbe dire che collezionava pazienti, sia per studiare il decorso della «frattura dello spalatore», sia per far rilevare gli abusi. Ma poiché la manodopera libera non mancava di certo, alla fine il primo tratto dell’autostrada venne comunque portato a termine nei tempi stabiliti. Il 19 maggio ebbe luogo la solenne inaugurazione alla presenza del Führer e di alti papaveri del partito, e con la partecipazione di più di quattromila lavoratori. Purtroppo il tempo fu pessimo. Pioggia che si alternava a grandine. Solo di rado fece capolino il sole. Ciononostante, in piedi nella Mercedes aperta e salutando i centomila curiosi col braccio destro ora teso, ora piegato ad angolo, il Führer percorse tutto il tratto già costruito. Grandi manifestazioni di giubilo. Continuava a risuonare la marcia di Badenweiler. E dall’ispettore generale dott’ Todt fino alle colonne di spalatori, tutti erano consapevoli della solennità di quell’istante. Dopo lo stringato discorso di ringraziamento del Führer, indirizzato ai «lavoratori del braccio e della mente», il capo macchinista Ludwig Droessler salutò l’augusto ospite in rappresentanza di tutti i partecipanti ai lavori, e trovò, tra le altre, queste schiette parole: «Con la costruzione dell’autostrada, mio Führer, Lei ha dato l’avvio a un’opera che ancora dopo secoli parlerà dello slancio vitale e della grandezza di quest’epoca… » Più tardi, col tempo lievemente migliorato, il tratto venne aperto a un corteo di macchine al quale, per la gioia del pubblico, presero parte sbuffando e scoppiettando veicoli vecchissimi ma anche dell’altro ieri, compresa l’Opel due posti del dott’ Brösing che aveva almeno dieci anni e che un tempo era stata probabilmente verniciata di verde. Ai festeggiamenti ufficiali il dottore pensò di non dover intervenire; per lui era più importante fare un giro d’ispezione in infermeria, verso sera, mentre io, come disse, potevo partecipare a quelle «ciance in uniforme». Purtroppo non gli fu permesso pubblicare la sua relazione medica sulla cosiddetta «frattura dello spalatore» in nessuna rivista specializzata;
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persino il giornaletto della nostra associazione, la «Teutonia», rifiutò di stamparla senza addurre motivazioni. [1] Letteralmente «vecchio signore»: nelle associazioni studentesche era il termine che definiva chi rimaneva iscritto anche dopo la laurea.
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1936 Non sono mai mancati... Non sono mai mancati, quelli che nutrivano speranze. Da noi, nel campo di Esterwegen che ha raggiunto una certa notorietà grazie alla Canzone dei soldati di palude, il cui ritornello incomodava la «vanga»[1], dall’inizio dell’estate del ’36 si cominciò a mormorare che ancor prima dell’apertura dei giochi olimpici un’amnistia avrebbe messo fine alla nostra misera esistenza di nemici del popolo e scavatori di torba nell’Emsland. Questa voce traeva alimento dalla pia congettura che lo stesso Hitler dovesse tener conto delle reazioni all’estero, che adesso l’epoca del terrore intimidatorio fosse passata, e che inoltre si volesse riservare lo scavar torba, quale tedeschissima attività, ai volontari del servizio del lavoro. Ma poi cinquanta internati, tutti abili artigiani, vennero trasferiti a Sachsenhausen, vicino a Berlino. Lì, sorvegliati dalle Ss delle unità Totenkopf accasermate in loco, dovevamo costruire un grande campo progettato per iniziali duemilacinquecento occupanti, circa trenta ettari di superficie recintata: un lager con un futuro. In qualità di progettista facevo parte degli scavatori in trasferta. Poiché gli elementi prefabbricati delle baracche venivano consegnati da una ditta berlinese, avevamo alcuni contatti col mondo esterno, altrimenti severamente proibiti, e ci arrivava una qualche eco della frenesia che dominava nella capitale già prima dell’apertura dei giochi: turisti di tutto il mondo animavano il Kurfürstendamm, la Friedrichstrasse, l’Alexander e la Potsdamer Platz. Ma di più non filtrava. Solo quando nella guardiola della baracca del comando, già costruita e dove aveva sede anche la direzione dei lavori, venne installata una radio che dalla mattina alla sera trasmetteva cronache d’atmosfera sulla cerimonia inaugurale e in seguito i risultati delle prime gare, potemmo godere occasionalmente di questa novità. Visto che da solo o con altri dovevo recarmi abbastanza spesso in direzione, riguardo all’inizio dei giochi eravamo in qualche misura al corrente. E quando all’annuncio dei risultati delle prime finali l’apparecchio venne messo al massimo volume e il suono inondò persino la piazza dell’appello e i cantieri confinanti, molti di noi appresero della pioggia di medaglie. Inoltre sentivamo da vicino chi c’era seduto nella tribuna d’onore: tutta una serie di personalità internazionali, tra cui l’erede al trono svedese Gustavo Adolfo, il principe ereditario italiano Umberto, un sottosegretario di Stato inglese di nome Vansittart, più una schiera di diplomatici, alcuni dei quali dalla Svizzera. Perciò alcuni di
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noi speravano che a questa massiccia presenza straniera il grande lager in costruzione alle porte di Berlino non sarebbe sfuggito. Ma il mondo non si accorgeva di noi. La «gioventù sportiva del mondo» era troppo occupata con se stessa. La nostra sorte non turbava nessuno. Non esistevamo. E quindi la vita quotidiana del lager scorreva normalmente, a prescindere dalla radio nella guardiola. Perché quell’apparecchio grigioverde, evidentemente preso a prestito dall’esercito, riportava notizie da una realtà che si svolgeva oltre il filo spinato. Già il 1° di agosto ci furono vittorie tedesche nel lancio del peso e del martello. Mi trovavo in direzione con Fritjof Tuschinski, un «verde», come chiamavamo i criminali a causa del contrassegno, per apportare delle correzioni ai disegni del progetto, quando la radio annunciò la seconda medaglia d’oro, subito festeggiata a gran voce nella stanza accanto dai Totenkopf che non erano di guardia. Ma appena Tuschinski pensò di potersi unire al giubilo lo trafisse un’occhiata del direttore dei lavori, il caporeparto Esser, che aveva la fama di essere rigido, anche se corretto. Un aperto tripudio da parte mia avrebbe certo avuto per conseguenza una severa punizione, perché come politico, contrassegnato da un triangolino rosso, sarei stato trattato più duramente del «verde». Tuschinski dovette fare solo cinquanta piegamenti sulle ginocchia, mentre io, grazie a un’estrema disciplina, riuscii ad attendere istruzioni apparentemente impassibile, pur esultando dentro di me per queste e altre vittorie tedesche; del resto, fino a pochi anni prima avevo fatto parte dello Spartakus di Magdeburgo come mezzofondista, riportando persino dei successi nei tremila metri. Nonostante la proibizione dell’entusiasmo collettivo - Esser fece capire che non eravamo degni di mostrare apertamente la nostra partecipazione alle vittorie tedesche -, durante lo svolgimento dei giochi non fu possibile evitare che per qualche minuto si arrivasse a un avvicinamento spontaneo tra internati e sorveglianti, ad esempio quando lo studente di Lipsia Luz Long si produsse in un appassionante duello nel salto in lungo con il trionfatore americano dei cento e poco dopo - dei duecento metri Jesse Owens, un negro, vinto alla fine da Owens con il suo salto di otto metri e sei, record olimpico. Il record mondiale di otto e tredici lo deteneva comunque. Ma la medaglia d’argento di Long venne ugualmente festeggiata da tutti quelli che si trovavano nei pressi della radio: due sottocapireparto delle Ss che passavano per sanguinari, un kapò «verde» che disprezzava noi politici e ci angariava a ogni occasione, e io, un funzionario di medio livello del partito comunista, che è sopravvissuto a tutto
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questo e ad altro ancora e oggi mastica cupi ricordi con una dentiera traballante. Può darsi che la stretta di mano con il negro più volte vincitore, alla quale Hitler pare si sia abbassato, abbia fatto nascere quel momentaneo spirito di corpo. Dopo regnò nuovamente il distacco. Il caporeparto Esser fece rapporto. Misure disciplinari colpirono internati e sorveglianti. La radio contraria alle norme sparì, ragione per cui ci siamo persi il successivo svolgimento dei giochi. Solo per vie traverse appresi della sfortuna delle nostre ragazze, che nella finale della staffetta sui quattrocento metri persero il testimone durante il cambio. E quando i giochi finirono, finì anche la speranza. [1] Il ritornello del testo tedesco suona: «Wir sind die Moorsoldaten und ziehen mit dem Spaten ins Moor… » (Siamo i soldati di palude e andiamo con la vanga nella palude… )
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1937 I nostri giochi durante la ricreazione... I nostri giochi durante la ricreazione in cortile non terminavano con il suono della campanella, ma proseguivano, di intervallo in intervallo, sotto i castagni e davanti all’edificio a un piano dei bagni, chiamato pisciatoio. Combattevamo tra di noi. Il pisciatoio confinante con la palestra era l’Alcázar di Toledo. L’evento risaliva, è vero, all’anno prima, ma nei nostri sogni di studenti la Falange continuava a difendere eroicamente quelle mura. I rossi ripetevano i loro assalti, invano. L’insuccesso era però attribuibile anche alla svogliatezza: nessuno voleva essere annoverato tra i rossi, neanch’io. Tutti i ragazzi si vedevano schierati dalla parte del generale Franco, pronti a sfidare la morte. Alla fine alcuni allievi di quarta ci hanno suddivisi tirando a sorte: con altri primini estrassi il colore rosso, senza immaginare il futuro significato di questa coincidenza; evidentemente l’avvenire si delineava già nei cortili scolastici. E così ponemmo l’assedio al pisciatoio. La cosa avvenne non senza un compromesso, perché gli insegnanti di sorveglianza provvedevano a che i gruppi di ragazzi neutrali, ma anche i combattenti, avessero la possibilità di vuotare la vescica almeno durante una tregua prescritta. Uno dei punti culminanti della vicenda guerresca era il colloquio telefonico tra il comandante dell’Alcázar, colonnello Moscardó, e il figlio Luis, che i rossi avevano catturato e che minacciavano di fucilare se la fortezza non fosse stata disposta ad arrendersi. Helmut Kurella, un ragazzo di terza con faccia d’angelo e voce appropriata, interpretava il ruolo di Luis. Io dovevo mimare il commissario Caballo, della milizia comunista, e passargli il ricevitore. - Pronto, papà, risuonò nel cortile con la chiarezza di uno squillo di tromba. Al che il colonnello Moscardó: - Cosa succede, ragazzo mio? - Niente. Dicono che mi fucileranno, se l’Alcázar non si arrende. - Se dovesse essere vero, figlio mio, allora raccomanda a Dio la tua anima, grida «Viva España» e muori da eroe. - Addio, padre. E un grosso, grosso bacio. Questo esclamò l’angelico Helmut nelle vesti di Luis. E allora io, il commissario rosso, al quale un ragazzo dell’ultimo anno aveva ficcato in testa il grido conclusivo «Viva la muerte!», dovetti fucilare il valoroso giovane sotto un castagno in fiore. No, non sono sicuro se l’esecuzione l’ho portata a termine io o qualcun altro; ma avrei potuto essere io. Poi la battaglia proseguì. Durante l’intervallo successivo venne fatta saltare la torre della fortezza. L’evento fu reso acusticamente. Ma i difensori non si diedero per
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vinti. Quella che più tardi si chiamò guerra civile spagnola, nel cortile del Conradinum di Danzica-Langfuhr si svolgeva come un avvenimento unico e sempre ripetibile. Naturalmente alla fine vinceva la Falange. L’anello degli assedianti veniva sgominato dall’esterno. Un’orda di ragazzi di quinta attaccava di sorpresa con irruenza esagerata. Seguivano grandi abbracci. Il colonnello Moscardó salutava i liberatori con il motto diventato famoso «Sin novedad», che press’a poco significa «Niente da riferire». Dopodiché noi, i rossi, venivamo liquidati. Così, verso la fine dell’intervallo, il pisciatoio poteva tornare alla sua normale funzione, ma già il giorno successivo riprendevamo il nostro gioco. La cosa andò avanti fino alle vacanze estive del ’37. A dire il vero avremmo potuto giocare anche al bombardamento della città basca di Guernica. Il cinegiornale ci aveva mostrato questa missione dei nostri volontari prima del film in programma. Il 26 aprile la cittadina era stata ridotta in cenere. Sento ancora oggi la musica che rafforzava il frastuono dei motori. Ma da vedere c’erano solo i nostri Heinkel e Junkers in avvicinamento, picchiata e allontanamento. Sembrava facessero delle esercitazioni. Niente che offrisse azioni eroiche da poter imitare nel cortile della scuola.
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1938 L’incazzatura con il nostro insegnante di storia... L’incazzatura con il nostro insegnante di storia è cominciata quando tutti hanno visto in televisione come a Berlino il Muro all’improvviso si era aperto e tutti, anche mia nonna che abita a Pankow, potevano passare all’Ovest. C’è da dire che le intenzioni del professor Hösle erano certamente buone, quando ha parlato non solo della caduta del Muro, ma ha chiesto a tutti noi: - Sapete quante altre cose sono accadute in Germania un 9 novembre? Per esempio esattamente cinquantun anni fa? Visto che tutti avevano qualche vaga idea, ma nessuno sapeva niente di preciso, allora ci ha spiegato la Notte dei Cristalli del Reich. Si chiamava così perché ha riguardato tutto il Reich tedesco, e insomma sono andate rotte un sacco di stoviglie che appartenevano agli ebrei, in particolare molti vasi di cristallo. Hanno anche fracassato con i cubetti di porfido tutte le vetrine dei negozi i cui proprietari erano ebrei. E sono state distrutte proprio senza senso molte altre cose di valore. Forse l’errore da parte del signor Hösle è stato che non riusciva a smetterla, e che per troppe ore di storia ci ha raccontato di questa faccenda e ci ha letto dei documenti su quante sinagoghe sono state bruciate e che hanno assassinato così su due piedi novantun ebrei. Storie di una tristezza unica, mentre a Berlino, anzi in tutta la Germania, naturalmente l’entusiasmo era alle stelle, perché adesso tutti i tedeschi potevano finalmente essere unificati. Ma a lui interessavano solo le vecchie storie, e come sono potute succedere. Insomma è vero che ci ha rotto abbastanza, con quello che è accaduto qui una volta. In ogni caso, la sua «ossessione del passato», come la definivano, è stata criticata da quasi tutti i presenti durante la riunione dei genitori. Perfino mio padre, che è uno a cui piace raccontare dei tempi andati, ad esempio quando è scappato dalla zona sovietica ancor prima che costruissero il Muro ed è arrivato qui, in Svevia, ed è rimasto a lungo un estraneo, col signor Hösle ha parlato più o meno così: - Naturalmente non c’è nulla da obiettare sul fatto che mia figlia apprenda come le orde delle Sa abbiano infierito dappertutto e purtroppo anche qui a Esslingen, ma, per piacere, nel momento adatto e non proprio quando, come adesso, c’è finalmente un motivo per essere contenti e tutto il mondo si congratula con noi tedeschi… C’è anche da dire che noi ragazzi ci siamo già in qualche modo interessati a quello che allora è successo nella nostra città natale, ad esempio
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nell’orfanotrofio israelita Wilhelmspflege. Tutti i bambini dovettero scendere in cortile. I libri di scuola, i libri di preghiere, perfino i rotoli della Torah vennero buttati in un mucchio e bruciati, tutti. I bambini, che avevano dovuto assistere, piangevano, avevano paura di essere bruciati anche loro. Ma hanno picchiato fino a farlo svenire solo l’insegnante Fritz Samuel, con le clavette da ginnastica prese dalla palestra. Per fortuna a Esslingen c’era anche gente che ha cercato di aiutare, ad esempio un tassista che voleva portare alcuni orfani a Stoccarda. In ogni caso, quello che il signor Hösle ci ha raccontato era emozionante, in qualche modo. Perfino i maschi della nostra classe stavolta hanno seguito la lezione, anche i ragazzi turchi, e ovviamente la mia amica Shirin, la cui famiglia viene dalla Persia. E davanti ai genitori il nostro insegnante di storia si è difeso molto bene, come ha ammesso mio padre. Pare abbia spiegato che nessun ragazzo può comprendere nel modo giusto la fine dell’epoca del Muro se non sa esattamente quando e dove è cominciato l’errore, e insomma cosa ha portato alla divisione della Germania. E sembra che quasi tutti i genitori fossero d’accordo. Però le altre lezioni sulla Notte dei Cristalli il signor Hösle le ha poi dovute interrompere e rimandarle a più avanti. Un vero peccato. Ma adesso qualcosina di più la sappiamo. Ad esempio, che a Esslingen quasi tutti sono rimasti a guardare senza aprir bocca o hanno girato la testa, quando è successa la faccenda dell’orfanotrofio. Perciò, quando alcune settimane fa un nostro compagno curdo, Yasir, doveva essere rispedito in Turchia con i suoi genitori, ci è venuta l’idea di scrivere una lettera di protesta al sindaco. Hanno firmato tutti. Ma al destino dei bambini ebrei dell’orfanotrofio Wilhelmspflege non abbiamo accennato, nella lettera, su consiglio del signor Hösle. Adesso speriamo tutti che Yasir possa restare.
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1939 Tre giorni sull’isola... Tre giorni sull’isola. Dopo aver ricevuto l’assicurazione che a Westerland e dintorni c’erano stanze libere e che il grande soggiorno offriva spazio sufficiente per le nostre chiacchierate, ringraziai l’ex collega che ci avrebbe ospitati, il quale, adesso attivo in campo editoriale e ben fornito quanto a portafoglio, si poteva permettere a Sylt una di quelle case frisone dal tetto di canne. Il nostro incontro ebbe luogo in febbraio. Arrivarono più di metà di quelli che erano stati invitati, persino alcuni pezzi grossi che nel frattempo pontificavano alla radio o - come al solito - nel ruolo di capiredattori. Si fecero scommesse: in effetti comparve il direttore di una rivista di grande tiratura, anche se in ritardo e solo per una capatina. La maggior parte degli ex colleghi, tuttavia, dopo la guerra aveva sbarcato il lunario in uffici redazionali di sottordine, oppure, come me, giravano in veste di freelance. Su di loro - e dunque anche su di me - pesava il marchio, ma anche il leggendario certificato di qualità, di essere stati corrispondenti di guerra nei ranghi delle compagnie di propaganda, ragione per cui a questo punto vorrei ricordare che secondo una stima approssimativa un migliaio di nostri camerati ha trovato la morte vuoi in missione sull’Inghilterra nella carlinga di un He-111, vuoi come reporter sulla prima linea del fronte. Ora, tra noi sopravvissuti si faceva sempre più vivo il desiderio di un incontro. Perciò, dopo qualche esitazione, mi addossai l’impegno organizzativo. Si convenne sulla necessità di racconti all’insegna della compostezza. Non si dovevano far nomi, non sarebbe stata consentita nessuna personale resa dei conti. Si auspicava una normalissima riunione tra ex commilitoni, paragonabile a quei raduni degli anni del dopoguerra nei quali si incontravano le ex croci di ferro di prima classe, gli appartenenti a questa o quella divisione, ma anche ex internati nei campi di concentramento. Poiché sono sempre stato in ballo fin dall’inizio, quando ero ancora uno sbarbatello, vale a dire dalla campagna di Polonia, e non ero sospettabile di aver scaldato sedie nel ministero della Propaganda, godevo di una certa considerazione. Inoltre molti camerati ricordavano i miei primi resoconti a guerra appena scoppiata, che avevo scritto sul 79o battaglione pionieri della 2a divisione corazzata durante la battaglia della Bzura - costruzione di ponti sotto il fuoco nemico e sull’avanzata dei nostri carri armati fino alle porte di Varsavia, dove aveva dato il tono, dal punto di vista del semplice soldato di fanteria, l’azione degli Stukas. Del resto ho sempre raccontato unicamente della truppa, dei poveri
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disgraziati in prima linea e del loro silenzioso eroismo. Il soldato semplice tedesco. Le sue faticate quotidiane sulle strade polverose della Polonia. Prosa da stivaletti militari! Sempre in coda agli inarrestabili carri armati, incrostato di fango, bruciato dal sole, ma sempre di buonumore, anche quando dopo un breve scontro qualche villaggio in fiamme lasciava intravvedere il vero volto della guerra. O il mio sguardo non privo di partecipazione sulle infinite colonne di polacchi prigionieri, totalmente sconfitti… Insomma, questo tono occasionalmente pensoso dei miei resoconti deponeva a favore dell’attendibilità. Tra l’altro, la censura qualcosa mi ha tagliuzzato. Ad esempio quando avevo dipinto troppo da «fratelli in armi» l’incontro delle nostre colonne corazzate con i russi a Mosty Wielkie. O quando la descrizione delle barbe di vecchi ebrei orientali mi riuscì troppo amabilmente comica. In ogni caso, nel corso del nostro raduno, alcuni colleghi di allora mi hanno confermato che i miei articoli dalla Polonia, nella loro vivace chiarezza, non si differenziano da quanto ho messo sulla carta negli ultimi tempi per una delle riviste leader del settore, sia in Laos che in Algeria o in Medio Oriente. Dopo aver sistemato le questioni dell’alloggio, ci abbandonammo a colloqui amichevoli e privi di formalità. Solo il tempo non era ben disposto nei nostri riguardi. A una passeggiata sulla spiaggia o a un giretto in direzione dei bassifondi dell’isola non c’era neanche da pensare. Pur abituati a esporci a qualsiasi clima, ci rivelammo dei pantofolai appassionati e restammo seduti attorno al fuoco del caminetto con grog e ponce che il nostro ospite ci faceva servire in abbondanza. Quindi discutemmo della campagna di Polonia. La guerra lampo. I diciotto giorni. Una volta caduta Varsavia, ridotta a un cumulo di macerie, uno degli ex colleghi che si diceva fosse un abile collezionista d’arte e in genere bravo negli affari, cambiò registro passando a toni prolissi e sempre più roboanti. Ci ammannì citazioni dai resoconti che aveva scritto a bordo di un U-Boot e che in seguito aveva pubblicato in volume col titolo Cacciatori dell’oceano, con tanto di prefazione del grande ammiraglio: «Siluro cinque pronto al lancio! Mezzeria centrata! - Ricaricare siluro… » Naturalmente questo era interminabili strade maestre della Polonia…
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1940 Di Sylt non ho visto molto... Di Sylt non ho visto molto. Come ho già detto, il tempo permetteva al massimo brevi passeggiate sulla spiaggia in direzione di List o nella direzione opposta, verso Hörnum. Quasi avesse ancora i piedi doloranti dai giorni delle ritirate, il nostro variegato circolo di ex se ne stava seduto attorno al caminetto, fumando e bevendo. Ciascuno rovistava tra i ricordi. Se l’uno aveva preso parte alle vittorie in terra di Francia, l’altro snocciolava imprese eroiche a Narvik e nei fiordi norvegesi. Sembrava che tutti dovessero rimasticare gli articoli che erano apparsi sull’«Adler», la rivistucola della Luftwaffe, o su «Signal», un giornale illustrato della Wehrmacht abilmente confezionato: stampa a colori, grafica moderna, presto diffuso in tutta Europa. Tra i capiredattori di «Signal» l’impronta l’aveva data un certo Schmidt. Dopo la guerra, ovviamente sotto altro nome, aveva dominato nel «Kristall» di Springer[1]. E adesso ci veniva concesso il dubbio piacere della sua ostinata presenza. Fummo costretti a sorbirci il suo sermone sulle «vittorie regalate». Si parlava di Dunkerque, dove si era rifugiato l’intero corpo di spedizione britannico: i quasi trecentomila uomini dovevano essere imbarcati il più velocemente possibile. Lo Schmidt di un tempo, il cui nome attuale non può essere fatto, traboccava ancora indignazione: - Se Hitler non avesse bloccato le truppe corazzate di Kleist ad Abbeville, e avesse invece permesso ai carri armati di Guderian e di Manstein di avanzare fino alla costa, se avesse dato l’ordine di travolgere d’infilata le spiagge e di farla finita, gli inglesi avrebbero perso un intero esercito e non solo gli armamenti. La guerra avrebbe potuto essere decisa in breve tempo, sicuro, a un’invasione gli inglesi non avrebbero avuto da contrapporre quasi niente. Ma il comandante supremo regalò la vittoria. Certo pensava di dover risparmiare l’Inghilterra. Credeva nelle trattative. Già, se allora i nostri carri armati… Così si lamentava lo Schmidt di un tempo, per poi sprofondare in cupe riflessioni, lo sguardo fisso sul fuoco del caminetto. Quanto gli altri avevano da offrire su vittoriosi movimenti a tenaglia e audaci tecniche di combattimento non lo interessava. Ad esempio c’era uno che negli anni Cinquanta si era tenuto a galla da Bastei-Lübbe con giornaletti per soldati e adesso vendeva la propria anima a fogli di dubbia fama - quella che si definisce la «stampa rosa» -, ma al tempo aveva avuto un grande
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successo sull’«Adler» coi resoconti delle missioni della Luftwaffe. Ora ci spiegò i vantaggi dello Ju 88 rispetto allo Ju 87, chiamato brevemente Stuka, illustrando con le mani incurvate il procedimento di lancio delle bombe durante la picchiata, cioè il puro e semplice prendere la mira con tutto l’aereo, lo sgancio durante il richiamo dell’apparecchio, i brevi intervalli di disinnesto nel lancio in serie e l’attacco a virata esterna su navi in movimento, vale a dire mentre cercavano di sfuggire con spostamenti serpentini. Era stato sugli Junker, ma anche sull’He-111. E proprio nella cabina di pilotaggio con vista su Londra e su Coventry. Raccontava in modo abbastanza sobrio. Gli si poteva credere, quando diceva di essere sopravvissuto per puro caso alla battaglia aerea d’Inghilterra. Ad ogni modo riuscì a dimostrarci così efficacemente - e accompagnandolo con le paroline «radere al suolo» il lancio in serie di bombe da una formazione chiusa, che avemmo di nuovo davanti agli occhi l’epoca dei contrattacchi, quando Lubecca, Colonia, Amburgo, Berlino venivano distrutte da terrorizzanti aggressioni. Poi l’atmosfera attorno al caminetto minacciò di afflosciarsi. La cerchia si accontentava dei soliti pettegolezzi giornalistici: chi ha fatto fuori quale caporedattore. La sedia di chi è traballante. Quanto paga Springer o Augstein[2] a chi. Alla fine la salvezza arrivò dal nostro esperto d’arte e di U-Boot. Alternò chiacchiere in stile colorito sull’espressionismo e i tesori figurativi che aveva accumulato con ordini urlati all’improvviso, tali da farci sobbalzare: - Prepararsi all’immersione! - Ben presto pensammo di sentire le bombe di profondità, - … ancora lontano - rilevamento acustico a sessanta gradi, - poi fu la volta di - avanzare a quota periscopica… - e poi vedemmo il pericolo: Cacciatorpediniere a dritta di traverso… - Com’era bello starsene seduti all’asciutto, mentre fuori un vento a raffiche provvedeva alla musica di sottofondo. [1] Axel Springer (1912-85), uno dei grandi editori di giornali tedeschi dopo il ’45, di tendenze conservatrici. [2] Rudolf Augstein (1923), fondatore nel ’46 della rivista «Der Spiegel».
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1941 Nel corso delle mie corrispondenze... Nel corso delle mie corrispondenze, sia in Russia che più tardi in Indocina o in Algeria - per quelli come noi la guerra andava comunque avanti -, solo raramente mi è riuscito di mettere sulla carta avvenimenti sensazionali, perché, come nelle campagne di Polonia e di Francia, anche in Ucraina di solito mi trovavo insieme alle nostre divisioni di fanteria dietro alle teste delle colonne corazzate: all’inizio da una battaglia di accerchiamento all’altra, fino a Smolensk passando da Kiev, e quando cominciò la stagione del fango ero sulle tracce di un battaglione di pionieri che per assicurare i rifornimenti allestiva strade di tronchetti attraverso i pantani e provvedeva a rimuovere i veicoli danneggiati. Come si è già detto: prosa da stivaletti e da pezze per i piedi. In questo senso l’eloquio dei miei colleghi era decisamente più glorioso. Uno di loro, che più tardi, molto più tardi, ci ha tenuti al corrente da Israele sulle «vittorie-lampo» nel nostro giornale scandalistico per antonomasia, proprio come se la guerra dei Sei Giorni fosse stata la prosecuzione dell’«Operazione Barbarossa»[1], nel maggio del ’41 si era lanciato su Creta insieme ai nostri paracadutisti - «… E così Max Schmeling si è slogato un piede… » -, un altro aveva osservato da bordo dell’incrociatore Prinz Eugen come la Bismarck, tre giorni prima di colare a picco con più di mille uomini, aveva affondato la nave da guerra inglese Hood: - E se un siluro aereo non avesse colpito le apparecchiature del timone rendendo la Bismarck incapace di manovrare, forse sarebbe ancora… - E altre storie che si svolgevano all’insegna del «se» e del «ma»… Così anche lo stratega da caminetto Schmidt, che aveva fatto i milioni con le sue puntate su «Kristall», pubblicate più tardi da Ullstein in un voluminoso mattone. Nel frattempo si era convinto della plausibilità di una circostanza, secondo la quale la campagna dei Balcani ci avrebbe defraudati della vittoria finale in Russia: Solo perché un generale serbo di nome Simovi¬c aveva fatto un putsch a Belgrado fummo prima costretti a riportare l’ordine laggiù, il che ci è costato la perdita di cinque preziose settimane. Ma cosa sarebbe successo se il nostro esercito fosse avanzato verso oriente non il 22 giugno, ma già il 15 maggio, se insomma i carri armati del generale Guderian avessero iniziato l’attacco finale contro Mosca non a metà novembre, ma cinque settimane prima, prima che arrivasse il fango e che Babbo Gelo ci chiudesse le porte in faccia… E di nuovo cominciò a rimuginare su «vittorie regalate», in muta corrispondenza con il fuoco del caminetto, cercando di vincere a posteriori -
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più tardi furono Stalingrado e El Alamein a offrire l’occasione - battaglie perdute. Rimase solo con le sue speculazioni. Ma nessuno osò replicare, nemmeno io, visto che oltre a lui erano presenti due o tre altri nazistoni - oggi come allora capiredattori -, molto influenti nella nostra cerchia di veterani. E chi si azzarda a irritare di sua volontà i propri padroni? Solo quando riuscii a sottrarmi all’orbita dei grandi strateghi insieme a un collega che, come me, aveva sempre raccontato dalla prospettiva dei poveri disgraziati in prima linea, ci facemmo quattro risate sulla filosofia dell’«avrebbe e sarebbe» in una delle osterie di Westerland. Ci conoscevamo dal gennaio del ’41, quando ricevemmo l’ordine di accompagnare in Libia - lui come fotografo, io come imbrattacarte - l’Afrikakorps di Rommel. Le sue foto del deserto e le mie corrispondenze sulla riconquista della Cirenaica vennero pubblicate su «Signal» con grande evidenza e godettero di una certa considerazione. Ne parlammo al bancone dell’osteria, ingollando acquavite. Decisamente alticci, più tardi ci fermammo chinati contro il vento sulla passeggiata a mare di Westerland. All’inizio provammo a intonare «Amiam le tempeste, i flutti mugghianti… » Poi fissammo muti le onde che si infrangevano monotone. Sulla via del ritorno attraverso la notte tenebrosa cercai di parodiare il nostro ex signor Schmidt, di cui è meglio non nominare il nuovo nome: - Pensa un po’ se Churchill fosse riuscito, proprio all’inizio della prima guerra mondiale, a mettere in atto il suo piano e a sbarcare a Sylt con tre divisioni. Non sarebbe finito tutto molto prima? E alla storia non sarebbe venuto in mente un altro corso? Niente Adolfo e tutti i guai che sono seguiti. Niente filo spinato, nessun Muro lì di traverso. Oggi avremmo ancora un Kaiser e magari le colonie. E anche quanto al resto staremmo meglio, molto meglio… [1] Il giornale è il «Bild» edito da Springer; l’«Operazione Barbarossa» è il nome in codice dell’aggressione tedesca contro l’Unione Sovietica, iniziata nel giugno del ’41.
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1942 Il mattino successivo... Il mattino successivo ci radunammo con qualche esitazione, si avanzava a piccoli passi, per così dire. Poiché la coltre di nubi concedeva qualche squarcio di sole, era possibile spingersi in direzione di Keitum, almeno fino a mezza strada. Ma nel soggiorno dalle rustiche travature che promettevano una solidità in grado di sfidare i secoli, già bruciava - o aveva continuato a bruciare - il fuoco del caminetto. Il nostro ospite provvedeva al tè in bricchi panciuti. Però i dialoghi si svolgevano in toni smorzati. Nemmeno l’attualità offriva materiale. Solo con una certa pazienza si potevano spilluzzicare dai discorsi confusi di quella cerchia restia ad aprir bocca alcuni spunti, più allusivi che circostanziati, sulla sacca di Volchov, l’assedio di Leningrado o il fronte dell’Artico. Uno raccontava del Caucaso con accenti quasi turistici. Un altro, anche lui come se ci fosse stato in vacanza, era alle prese con l’occupazione della Francia meridionale. Comunque Harkov venne conquistata: iniziava la grande offensiva d’estate. Una montagna di comunicati straordinari. Ma pian piano la situazione divenne critica. A un corrispondente avevano cancellato i morti assiderati del Ladoga, all’altro i rifornimenti mancanti davanti a Rostov. E poi, inserendomi in una pausa casuale, parlai io. Fino a quel momento ero riuscito a trattenermi. Può darsi che la presenza dei super-redattori mi avesse un po’ intimidito. Ma visto che la loro squadra, compreso l’intenditore d’arte e di U-Boot, non era ancora comparsa e probabilmente aveva trovato un pubblico più allettante nelle rocche dei notabili attorno a Sylt, sfruttai l’occasione e parlai, anzi biascicai tra me e me, perché quanto a espressione orale non sono mai stato bravo: - Ero partito da Sebastopoli per Colonia, in licenza. Abitavo da mia sorella, vicino al Neumarkt. Tutto aveva un aspetto ancora abbastanza tranquillo, quasi come prima. Sono andato dal mio dentista a farmi trapanare un molare di sinistra che picchiava da maledetto. Doveva impiombarmelo due giorni dopo. Ma non ce l’ha fatta. Perché nella notte dal 30 al 31 maggio… Con la luna piena… Come una martellata… Quasi mille bombardieri della Royal Air Force… Prima hanno fatto fuori la nostra contraerea, poi tonnellate di bombe incendiarie, e poi ancora bombe dirompenti, bombe al fosforo, mine aeree… Non solo sul centro, anche sui quartieri periferici, persino Deutz, Mülheim sull’altra riva del Reno… Senza mirare, bombe a tappeto… Rioni interi… Da noi è bruciato solo il tetto, ma intorno l’ira di Dio…
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E ho visto di quelle cose da non crederci… Nell’appartamento sopra di noi ho aiutato due vecchie signore a spegnere le fiamme in camera da letto, avevano preso fuoco le tende e le due lettiere… Neanche avevo finito, che una delle vecchie ha detto: «E adesso chi ci trova qualcuno per pulire la casa?» Ma son cose che non si possono raccontare. Neanche di quelli rimasti sotto… O i cadaveri carbonizzati… Però vedo ancora i fili del tram penzolare in Friesenstrasse tra le macerie ancora in fumo, già, come le stelle filanti a carnevale. E nella Breite Strasse quattro grandi palazzi per uffici ridotti a scheletri di ferro. Completamente bruciata l’Agrippahaus con i due cinema. Sul Ring il Café Wien, dove un tempo andavo con Hildchen, che poi è diventata mia moglie… Spariti i piani alti della questura… E i Santi Apostoli spaccata in due come con un’ascia… Ma il Duomo è in piedi, fuma ma è in piedi, mentre attorno e anche il ponte per Deutz… Ah sì, e la casa dove c’era lo studio del mio dentista non esisteva più, neanche un mattone. E’ stato, se si prescinde da Lubecca, il primo grande attacco aereo. Beh, in realtà abbiamo cominciato noi con Rotterdam, Coventry, senza contare Varsavia. E poi è andata avanti così, fino a Dresda. C’è sempre qualcuno che comincia. Ma con mille bombardieri, tra cui quasi settanta quadrimotori Lancaster… La nostra contraerea ne ha sì tirati giù più di trenta… Ma diventavano sempre di più, di più… I treni hanno ricominciato a viaggiare solo quattro giorni dopo. Ho interrotto la licenza. Anche se il dente picchiava di nuovo. Volevo tornare al fronte. Lì almeno sapevo di che morte si moriva. Ho pianto, ho proprio pianto, vi dico, quando ho visto la mia Colonia da Deutz. Fumava ancora, solo il Duomo era in piedi… Restarono ad ascoltarmi. Non capita spesso. E non solo perché oralmente non me la cavo tanto bene. Ma stavolta aveva dato il tono la mia modesta persona. Alcuni hanno poi raccontato di Darmstadt e di Würzburg, di Norimberga, di Heilbronn eccetera. E naturalmente di Berlino, di Amburgo. Montagne di macerie… Storie sempre uguali… Cose che non si possono raccontare… Poi, verso mezzogiorno, quando il nostro gruppo si era in qualche modo completato, fu la volta di Stalingrado, solo e unicamente Stalingrado, sebbene nessuno di noi si sia trovato nella sacca. Abbiamo avuto un bel culo, tra tutti…
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1943 Per quanto olimpicamente... Per quanto olimpicamente il nostro ospite si tenesse al di sopra delle parti, riusciva comunque a far sì che le nostre chiacchierate seguissero in qualche modo la china della guerra, ragione per cui dopo Stalingrado e El Alamein restò da riferire quasi solo di ritirate o, come si diceva allora, di «allineamenti» del fronte. I più si lamentarono delle difficoltà nello scrivere, non solo perché la censura accorciava i loro testi o li travisava, ma in senso generale: le battaglie in una sacca, i convogli decimati nell’Atlantico e la parata sugli Champs-élysées erano argomenti molto più maneggevoli rispetto ai geloni, all’evacuazione dell’intero bacino del Donec o alla resa di quel che rimaneva dell’Afrikakorps a Tunisi. Spunti eroici aveva semmai offerto la difesa di Montecassino. «Sì, certo, la liberazione del Duce fu un colpetto di mano che si vendette bene, ma per il resto?» Quindi venne ritenuto imbarazzante, se non fuori luogo, un intervento che relazionava sulla repressione della rivolta nel ghetto di Varsavia e che oltretutto pretendeva di veder posto quel massacro sullo stesso piano di una vittoria. Un tale che finora non aveva aperto bocca, un signore corpulento, tutto vestito in loden da cacciatore, che, come appresi in seguito, entusiasmava una clientela appassionata di caccia con splendide immagini di animali e reportage fotografici di safari, si era trovato sul posto con la sua Leica quando, nel maggio del ’43, più di cinquantamila ebrei del quartiere murato furono liquidati a colpi d’artiglieria e coi lanciafiamme. Dopodiché del ghetto di Varsavia quasi non rimase traccia. Come appartenente a un reparto di propaganda della Wehrmacht, lo avevano distaccato lì in qualità di fotografo: solo per la durata del rastrellamento. Inoltre - o per meglio dire: nel tempo libero - aveva riempito con le sue fotografie quell’album nero, rivestito in pelle granitata, che venne consegnato in tre esemplari al capo delle Ss Himmler, al comandante delle Ss e della polizia di Cracovia, Krüger, e al comandante di brigata delle Ss Jürgen Stroop, massima autorità militare tedesca a Varsavia. In seguito comparve tra i documenti del tribunale di Norimberga come «rapporto Stroop». - Quasi seicento ne ho scattate, di foto, - disse, - ma per l’album ne furono selezionate solo cinquantaquattro. Tutte accuratamente incollate su cartoncino Bristol liscio. Un lavoro riflessivo, in realtà, roba per pignoli. Ma le didascalie scritte a mano sono solo in parte opera mia. Ci ha messo il becco Kaleske, l’aiutante di Stroop. E il motto in caratteri gotici che sta
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davanti, «Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia!», è stata un’invenzione di Stroop. Comunque, all’inizio si trattava solo di sgomberare il ghetto, per un presunto pericolo di epidemie. E quindi ho scritto in bella calligrafia sotto le foto: «Fuori dalle fabbriche!» Ma poi i nostri uomini incontrarono resistenza: ragazzotti male armati, e anche donne, tra cui alcune del famigerato movimento Hechalutz. Da noi entrarono in azione Waffen-Ss e un reparto di genieri della Wehrmacht coi lanciafiamme, ma anche gente di Trawniki[1], che erano volontari lettoni, lituani e polacchi. Ovvio, anche noi abbiamo avuto delle perdite. Ma non le ho fissate sulla pellicola. In genere le immagini di morti sono poche. Più che altro foto di gruppo. Una che in seguito è diventata famosa dappertutto si chiamava «Trascinati fuori dai rifugi con la forza». Un’altra, altrettanto nota, «Verso il piazzale del raduno». Andavano tutti alla rampa di carico, infatti. E poi si partiva per Treblinka. Ho sentito allora questa parola per la prima volta. Ne hanno deportati quasi centocinquantamila. Ma ci sono anche foto senza didascalia, perché parlano da sole. Una è spassosa, coi nostri uomini che si intrattengono amichevolmente con un gruppo di rabbini. Ma quella che è diventata più famosa dopo la guerra mostra donne e bambini con le mani alzate. A destra e sullo sfondo alcuni dei nostri uomini col fucile spianato. E in primo piano un tenero birbantello ebreo col berretto che scivola di lato e i calzettoni. La conoscete certamente. E’ stata riprodotta migliaia di volte. In Germania e all’estero. Persino come copertina. Ne fanno una vera immagine di culto, ancor oggi. Naturalmente senza mai nominare il fotografo… Neanche un centesimo ho visto… Neanche l’ombra di un marco… Ma quali diritti d’autore… Onorario zero… Una volta ho fatto un calcolo approssimativo… Perché se avessi ricevuto cinquanta marchi per ogni copia, con quest’unica foto la mia modesta persona… No, non ho sparato neanche un colpo. Però sempre in testa. Sapete bene com’è. Solo queste foto. E le didascalie scritte a mano, naturalmente… Proprio all’antica, con la vecchia grafia tedesca… Documenti importantissimi, come sappiamo oggi… Continuò a cianciare ancora per un pezzo, quasi parlando da solo. Nessuno stava più ad ascoltare. Fuori il tempo era migliorato, finalmente. Tutti avevano voglia di aria fresca. E così, in gruppo o da soli, arrischiammo una passeggiata contro il vento sempre teso. Lungo i sentieri sopra le dune. Avevo promesso al mio figlioletto di portargli qualche conchiglia. Alcune le ho anche trovate. [1] Campo di addestramento delle Ss.
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1944 Prima o poi, al battibecco si doveva arrivare... Prima o poi, al battibecco si doveva arrivare. Non che l’atmosfera fosse tesa, ma gli incontri di questo genere comportano simili conseguenze. Quando ormai restava da riferire solo di ritirate «Kiev, Lemberg cadute, l’Ivan alle porte di Varsavia… » -, quando il fronte di Nettuno cedette, Roma si arrese senza combattere e lo sbarco ridicolizzò l’inespugnabile Vallo atlantico, quando a casa una città dopo l’altra veniva bombardata, non c’era più niente da mangiare e i manifesti sui furti di carbone e ilnemicotiascolta erano buoni al massimo per uno scherzetto, quando persino la nostra cerchia di veterani si compiacque, a posteriori, solo di battute sulla resistenza a oltranza, qualcuno - uno di quegli uomini del reparto propaganda che non avevano mai sentito l’odore della truppa, che sapevano solo scaldare sedie e lanciare nitriti da stalloni di fureria, e più tardi fabbricare bestseller in registri stilistici leggermente variati - tirò fuori dal cilindro il termine provocatorio «armi segrete». Ebbe in risposta un urlio. Il gran capo della rivista ad alta tiratura gridò: - Non si renda ridicolo! - Ci furono persino dei fischi. Ma quel signore che nel frattempo aveva raggiunto un’età considerevole non desistette. Con un sorrisetto di sfida promise un futuro al «mito di Hitler». Chiamando a testimoni il macellatore di sassoni Carlo Magno, naturalmente il grande Federico e manco a dirlo la «belva Napoleone», eresse per l’avvenire un monumento al «principio del Führer». Non cancellò nemmeno una parola di quell’articolo sulle armi segrete che, apparso nell’estate del ’44 sul «Völkischer Beobachter», aveva fatto furore e - ovviamente aveva rafforzato la volontà di resistenza. Adesso era in piedi, la schiena alla fiamma del caminetto, e si irrigidì: Chi ha indicato la strada all’Europa prevedendo il futuro? Chi si è opposto fino alla fine alla marea bolscevica salvando l’Europa? Chi, con le armi a lunga gittata, ha compiuto il primo passo decisivo verso l’evoluzione di missili a testate atomiche? Solo lui. Solo a lui si associa una grandezza che reggerà al cospetto della storia. E riguardo al mio articolo sul «Völkischer», chiedo qui a tutti i presenti: non siamo forse di nuovo richiesti come soldati, sia pure solo nella forma di questo ridicolo esercito attuale? Non siamo forse punta di lancia e baluardo al tempo stesso? Non si dimostra al giorno d’oggi, anche se in ritardo, che la guerra in realtà l’abbiamo vinta noi, la Germania? Con invidia e rispetto il mondo guarda l’opera di ricostruzione che abbiamo iniziato. Dopo la disfatta totale, dalla nostra eccedenza di energia nasce la solidità
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economica. Siamo tornati a essere qualcuno. Presto saremo al comando. E allo stesso modo il Giappone è riuscito… Il resto si perse tra urla, risate, interventi e repliche. Qualcuno gli gridò in faccia «Deutschland über alles!», citando così il titolo del suo bestseller in classifica da anni. Il gran capo privò la nostra cerchia della sua gigantesca apparizione, protestando ad alta voce. Ma l’autore gioiva degli effetti che aveva provocato. Adesso era di nuovo seduto e conferiva al suo sguardo le stimmate di un potere visionario. Il nostro ospite e io tentammo invano di avviare una discussione in qualche modo ordinata. Alcuni volevano assolutamente pagare lo scotto di ritirate e sopravvivere ancora una volta al disastro della battaglia di accerchiamento presso Minsk, ad altri suggeriva speculazioni l’attentato nella Tana del Lupo: - Se fosse andata bene, una tregua con gli alleati occidentali avrebbe sicuramente stabilizzato il fronte orientale, in modo che insieme agli americani contro l’Ivan… -, ma i più rimpiangevano la perdita della Francia e rievocavano i «bei giorni di Parigi», soprattutto i vantaggi del «modo di vivere francese», e si scoprivano favolosamente lontani dall’inizio dell’invasione sulle spiagge della Normandia, quasi avessero preso coscienza della notizia del grande sbarco solo negli anni del dopoguerra, e precisamente attraverso i film americani su schermo panoramico. Alcuni com’è naturale sciorinarono storie di donne, ad esempio il nostro esperto d’arte e di U-Boot, che rimpianse le fidanzate nei porti francesi per poi ripartire a caccia del nemico e restare in immersione. Il vecchio bacucco che aveva a cuore il «mito di Hitler» insistette invece nel ricordarci la consegna del Nobel per la chimica a un tedesco. Dalla panca del caminetto dove, a quanto sembrava, aveva schiacciato un pisolino, arrivò il messaggio: - Questo avvenne, signori miei, poco dopo la caduta di Aquisgrana e alcuni giorni prima dell’inizio della nostra ultima offensiva, quella delle Ardenne, quando la Svezia neutrale onorò l’eminente scienziato Otto Hahn, che per primo aveva scoperto la fissione nucleare. Certamente troppo tardi per noi. Ma se avessimo avuto a disposizione prima dell’America, e sia pure all’ultimo momento, quest’arma segreta che decise tutto… Ogni strepito cessò. Solo silenzio e cupe riflessioni sulle conseguenze dell’occasione mancata. Sospiri, scrollate di testa, raschiamenti di gola a cui però non fece seguito alcuna dichiarazione autorevole. Anche al nostro sommergibilista, un sentimentale del genere fracassone, si esaurì il filo delle frottole marinaresche. Ma poi il padrone di casa arrivò col grog alla frisona, che poco alla volta provvide a migliorare la disposizione di
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spirito. Ci sentimmo riavvicinati. Nessuno aveva voglia di uscire nella notte che calava precocemente. Era annunciato brutto tempo.
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1945 Stando alle parole del nostro ospite... Stando alle parole del nostro ospite, una depressione ciclonica era in arrivo dall’Islanda per dirigersi verso la Svezia. Aveva sentito il servizio meteorologico. La pressione atmosferica scendeva rapidamente. C’erano da aspettarsi raffiche di vento forza dodici. Ma niente paura, gente, questa casa sfida tutte le tempeste. Quel venerdì, 16 febbraio 1962, le sirene ulularono poco dopo le otto di sera. Fu come una guerra. L’uragano si abbatté sull’isola nel senso della lunghezza con tutta la sua violenza. E’ comprensibile che questo spettacolo naturale ringalluzzisse in sommo grado alcuni di noi. Anni al fronte ci avevano allenati a essere presenti, a distanza il più possibile ravvicinata. Eravamo pur sempre degli specialisti, anch’io. Nonostante i consigli del nostro ospite, un manipolo di ex corrispondenti di guerra abbandonò la casa che, come ci era stato assicurato, era insensibile alle intemperie. Solo a fatica e chinati avanzammo, anzi, strisciammo carponi da Alt-Westerland fino al lungomare, vedemmo aste di bandiere spezzate, alberi sradicati, tetti di canne scoperchiati, panchine e staccionate roteare nell’aria. E attraverso gli spruzzi vedemmo, o meglio immaginammo, le onde altissime che spazzavano la costa occidentale dell’isola. Solo in seguito venimmo a conoscenza di ciò che questa mareggiata, risalendo l’Elba, aveva provocato ad Amburgo, specie nel quartiere di Wilhelmsburg: livello dell’acqua tre metri e mezzo al di sopra della norma. Argini crollati. Mancanza di sacchi di sabbia. Più di trecento morti. L’intervento dell’esercito. Uno che più tardi divenne cancelliere[1] impartì ordini, evitò il peggio… No, a Sylt non ci furono vittime. Ma la costa occidentale venne strappata via fino a sedici metri di profondità. Persino sul lato dei bassifondi si sentiva dire «inondazione!» La falesia di Keitum avvolta dai flutti. List e Hörnum minacciate. Niente più treni attraverso l’Hindenburgdamm. Quando la tempesta si calmò esaminammo i danni. Volevamo informare. Era quello che avevamo imparato. In cui ci eravamo specializzati. Ma quando la guerra si avvicinò alla fine e ormai ci sarebbe stato da riferire solo di danni e di perdite, quello che semmai veniva richiesto - e fino all’ultimo - erano appelli alla resistenza a oltranza. Scrissi sì sull’esodo dei profughi dalla Prussia orientale, che da Heiligenbeil volevano raggiungere la Frische Nehrung attraverso lo Haff gelato, ma nessuno, nessun «Signal» pubblicò la mia cronaca di dolore. Vidi navi stracariche di
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civili, feriti, bonzi di partito salpare da Danzica-Neufahrwasser, vidi la Wilhelm Gustloff tre giorni prima che affondasse. Su questo non scrissi neanche una parola. E quando Danzica bruciò, e le fiamme si vedevano da lontano, non mi riuscì nessuna elegia che gridasse vendetta, anzi, mi aprii un varco tra soldati sbandati e profughi civili verso la foce della Vistola. Ho assistito a come veniva sgomberato il campo di concentramento di Stutthof, come gli internati, quelli sopravvissuti alla marcia fino a Nickelswalde, venivano stipati sulle chiatte e poi caricati sulle navi alla fonda davanti alla foce. Nessuna prosa a forti tinte, nessuna rifrittura di crepuscolo degli dèi. Ho visto tutto e non ho scritto niente. Ho visto come nel campo evacuato i cadaveri lasciati lì venivano accatastati e bruciati, ho visto i profughi da Elbing e da Tiegenhof occupare le baracche vuote con la loro roba. Ma non ho più visto nessun sorvegliante. Adesso arrivavano i contadini polacchi. Di tanto in tanto un saccheggio. E ancora battaglie, perché la testa di ponte alla foce della Vistola resse fino a maggio. Tutto questo sotto il più bel cielo primaverile. Mi sdraiavo tra i pini marittimi, prendevo il sole, ma non ho messo sulla carta neanche una riga, sebbene tutti, la contadina della Masuria che aveva perso i figli, un’anziana coppia che si era trascinata fin qui da Frauenburg, un professore polacco, rimasto uno dei pochi internati del lager, mi riempissero gli orecchi con la loro sventura. Non avevo imparato a descrivere queste cose. Mi mancavano le parole. Così imparai a tacere. Con una delle ultime navi guardacoste che da Schiewenhorst fece rotta verso ovest e che nonostante alcuni attacchi aerei a bassa quota il 2 maggio giunse a Travemünde, portai a casa la pelle. Adesso mi trovavo fra altri che se l’erano anch’essi cavata, i quali, come il sottoscritto, erano esercitati a riferire di avanzate e di vittorie, e a passare il resto sotto silenzio. Cercai, come fecero gli altri, di registrare i danni della tempesta sull’isola di Sylt e di dar retta, mentre registravo, alle lamentele di chi era stato rovinato dall’acqua. Cos’altro avremmo potuto fare? Alla fin fine quelli come noi vivono di resoconti. Il giorno dopo il gruppo si dissolse. Gli assi tra noi ex avevano senza dubbio trovato alloggio nelle massicce ville sul mare della crème isolana. Da ultimo, con un tempo invernale ora gelidamente soleggiato, assistetti a un tramonto indescrivibile. Poi, appena la ferrovia riprese a funzionare, me la svignai attraverso l’Hindenburgdamm. No, non ci siamo più incontrati in nessun posto. Il mio resoconto successivo lo scrissi da molto lontano, dall’Algeria, dove dopo sette anni di continua carneficina la guerra della Francia era
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entrata in agonia, ma non voleva cessare. Pace, e cosa significa? Per quelli come noi la guerra non è mai finita. [1] Helmut Schmidt (1918), senatore ad Amburgo dal ’61 al ’65.
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1946 Polvere di mattone... Polvere di mattone, Le dico, polvere di mattone dappertutto! Nell’aria, nei vestiti, tra i denti e non so ancora dove. Ma a noi donne non ce ne fregava niente. C’era la pace, finalmente, questo importava. E oggi ci vogliono costruire un monumento, addirittura. Ma certo! C’è una vera e propria iniziativa per la Donna delle macerie di Berlino. A quei tempi però, quando tutt’intorno c’erano solo rovine e montagne di calcinacci dove riuscivi a passare, ti davano appena 61 pfennig all’ora, me lo ricordo bene. Ma c’era anche una tessera migliore, si chiamava Numero due, era una tessera da lavoratore. Perché su quella delle casalinghe c’erano solo 300 grammi di pane al giorno e 7 grammi scarsi di strutto. Cosa ci facevi poi con ’sta miseria, lo chiedo a Lei. Era un lavoro duro, sgombrar macerie. Io con la Lotte, che è mia figlia, abbiamo pulito in squadra: Berlino centro, dove quasi tutto era spianato. Lotte si tirava sempre dietro la carrozzina. Si chiamava Felix, il marmocchietto, ma si è beccato la Tbc, per via dell’eterna polvere di mattone, immagino. Le è poi morto già nel quarantasette, ancor prima che suo marito tornasse dalla prigionia. Si conoscevano appena, i due. Era stato un matrimonio di guerra, per procura, perché lui ha combattuto prima nei Balcani e poi sul fronte orientale. Non ha mica tenuto, il matrimonio. Beh, perché erano degli estranei, dentro. E lui non ha mai voluto dare una mano, neanche andare a prendere la legna nel Tiergarten. Voleva solo starsene sdraiato sul letto e fissare il soffitto. Beh, perché in Russia, immagino, ha avuto delle esperienze piuttosto brutte. Non faceva che lamentarsi, come se per noi donne le notti coi bombardamenti fossero state un bel divertimento. Ma lamentarsi non serviva a niente. E noi ci siamo date da fare: dentro nelle macerie, fuori dalle macerie! Qualche volta abbiamo anche sgomberato soffitte scoperchiate dalle bombe e piani interi. I calcinacci nel secchio, giù per cinque scale, perché non avevamo ancora uno scivolo. E una volta, me lo ricordo ancora, abbiamo rovistato in un appartamento vuoto, danneggiato solo in parte. Non c’era più niente, soltanto la tappezzeria a brandelli. Ma in un angolo Lotte ha trovato un orsacchiotto. Era pieno di polvere, prima che gli desse una sbattuta. Poi sembrava come nuovo. E ci siamo chieste tutte cosa ne sarà stato del bambino a cui l’orsacchiotto apparteneva. Nessuna della nostra squadra l’ha voluto tenere, finché Lotte l’ha preso per il suo Felix, perché allora il piccolo era
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ancora vivo. Ma per lo più abbiamo spalato i calcinacci nei vagoncini o tirato via l’intonaco dai mattoni ancora buoni. I calcinacci all’inizio li rovesciavano nei crateri delle bombe, più tardi ne hanno fatto una collina, coi camion, che intanto è diventata tutta verde e offre una bella vista. Appunto! I mattoni ancora buoni venivano impilati. L’abbiamo fatto Lotte e io, a cottimo: ripulire mattoni. Eravamo una squadra fantastica. C’erano dentro donne che avevano senz’altro visto giorni migliori, vedove di funzionari e perfino una vera contessa. Ricordo ancora: von Türkheim, si chiamava. Aveva avuto i suoi feudi all’est, immagino. E come eravamo conciate! Calzoni fatti con vecchie coperte della Wehrmacht, maglie di scampoli di lana. E tutte con un fazzoletto da testa ben annodato in alto, già, per via della polvere. Saremo state un cinquantamila, a Berlino. No, solo donne e neanche un uomo. Ce n’erano troppo pochi. E quelli che ancora c’erano, non facevano niente o trafficavano con la borsanera. I lavori da sporcarsi non erano roba per loro. Ma una volta, me lo ricordo ancora, quando avevamo appena iniziato con un ammasso di macerie e abbiamo dovuto tirar fuori una trave di ferro, mi sono ritrovata in mano una scarpa. Esatto, c’era attaccato un uomo. Non restava più molto da vedere, solo che era della milizia popolare, era scritto sul bracciale del suo cappotto. E questo cappotto sembrava ancora proprio in buono stato. Pura lana, roba di prima della guerra. Opplà! mi son detta, e ho fatto sparire il bel capo prima che portassero via l’uomo. Perfino i bottoni erano ancora tutti attaccati. E in una tasca era infilata un’armonica a bocca della Hohner. L’ho regalata a mio genero, perché si tirasse un po’ su. Ma non ha voluto suonarla. E quelle rare volte, solo cose tristi. Certo che Lotte e io avevamo tutto un altro spirito. Bisognava pur andare avanti, in qualche modo. Ed è andata, un po’ alla volta… Giusto! Io ho trovato lavoro nella mensa del municipio di Schöneberg. E Lotte, che in guerra era stata ausiliaria nel genio radiotelegrafisti, quando le macerie erano abbastanza sparite ha poi sgobbato con la stenografia e la dattilografia in un’università popolare. Ha avuto un posto abbastanza presto, e adesso è qualcosa tipo segretaria, da quando è divorziata. Ma me lo ricordo ancora come Reuter, che era il sindaco di allora, ci ha elogiate tutte. E di solito ci vado, quando le donne delle macerie si incontrano di nuovo da Schilling nella Tauentzienstrasse, per un caffè e la torta. Si sta sempre in allegria.
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1947 In quell’inverno senza precedenti... In quell’inverno senza precedenti, quando abbiamo dovuto sopportare temperature di 20 gradi sottozero e a causa del ghiaccio che bloccava le vie d’acqua, Elba, Weser e Reno, il trasporto del carbone della Ruhr all’interno delle zone occidentali era diventato impossibile, mi sono ritrovato, in qualità di senatore, a essere responsabile del rifornimento di energia per la città di Amburgo. Come il sindaco Brauer aveva sottolineato in appelli alla radio, la situazione non era mai stata così drammatica, neppure negli anni di guerra. Durante il lungo periodo di freddo dovemmo lamentare ottantacinque morti per congelamento. Ma non chiedetemi il numero delle vittime dell’influenza. Un qualche rimedio lo fornirono le sale riscaldate allestite dietro iniziativa del senato cittadino in tutti i quartieri, a Eimsbüttel come a Barmbek, a Langenhorn come a Wands-bek. Poiché le nostre riserve di carbone immagazzinate l’anno precedente erano state sequestrate a favore dei militari da parte dell’autorità d’occupazione britannica e le scorte dell’azienda elettrica amburghese bastavano ancora per poche settimane, si dovettero decidere drastiche misure di risparmio. Così in tutte le zone della città ci furono interruzioni di energia. La sopraelevata ridusse il servizio, stessa cosa i tram. Tutti i ristoranti chiudevano alle 19, teatri e cinema avevano generalmente sospeso le rappresentazioni. Più di cento scuole dovettero chiudere i battenti. E per le aziende che non producevano beni essenziali restò, nella migliore delle ipotesi, l’orario ridotto. Sì, volendo essere precisi, avvenne anche di peggio: persino gli ospedali furono colpiti dalle interruzioni di corrente. L’amministrazione sanitaria fu costretta a sospendere le visite radiologiche di massa nell’istituto vaccinogeno della Brennerstrasse. A questo si aggiunse che il rifornimento di viveri in ogni caso poveri di calorie in pratica restava solo sulla carta, visti gli scarsi risultati, l’anno prima, del raccolto di sementi oleose: venivano distribuiti mensilmente 75 grammi a testa di margarina. E come la richiesta di una partecipazione tedesca alla flotta baleniera internazionale era stata respinta dalle autorità britanniche, così non ci si poteva nemmeno aspettare che risolvessero la situazione le aziende locali produttrici di margarina del gruppo olandese Unilever. Nessuno che desse una mano! Ovunque imperavano fame e freddo. Ma se Lei mi chiede chi fossero i più colpiti, ancor oggi, non senza accusare quelli che già allora se la cavavano meglio, indico tutti coloro che
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furono costretti a trovar rifugio nelle cantine di case in rovina perché sinistrati dai bombardamenti, e nelle baracche degli orti o in stamberghe di lamiera ondulata perché profughi dall’Est. Anche se come senatore non ero competente per le questioni edilizie, non ho però rinunciato a visitare quegli alloggi d’emergenza, i semicilindri di lamiera messi in piedi in fretta e furia su una base di calcestruzzo, e le catapecchie negli orti di Waltersdorf. Ho visto cose inenarrabili. Il vento gelido soffiava attraverso tutte le fessure, ma la maggior parte delle stufe cilindriche restavano spente. Gli anziani non lasciavano più il letto. Nessuno poteva stupirsi se i più poveri tra i poveri, che non disponevano ormai di alcuna merce di scambio al mercato nero - dove quattro mattonelle di carbone valevano un uovo o tre sigarette erano ridotti alla disperazione o imboccavano vie illegali; soprattutto i figli dei sinistrati e dei profughi prendevano parte ai saccheggi dei treni che trasportavano carbone. Non ho difficoltà ad ammettere che già allora mi sono rifiutato di giudicare secondo le norme. In presenza di alti funzionari di polizia potei osservare le attività illecite nello scalo di smistamento di Tiefstack: figure protette dall’oscurità della notte, tra le quali adolescenti e bambini, che sfidavano qualsiasi rischio. Arrivarono con sacchi e gerle, sfruttando ogni zona d’ombra, solo a volte sorpresi dalla luce delle lampade ad arco. Alcuni gettavano giù dai vagoni, altri raccoglievano. E già si erano dileguati, carichi come muli e felici, si poteva supporre. Perciò pregai il comandante dell’unità operativa della polizia ferroviaria di non intervenire, per stavolta. Ma la caccia era già in corso. I riflettori illuminarono tutta l’area. Ordini amplificati dagli altoparlanti. Cani poliziotto che abbaiavano. Sento ancora i fischietti e vedo facce afflitte di bambini. Almeno avessero pianto, ma non ne erano neanche capaci. No, La prego di non chiedermi come mi sono sentito. Per il Suo resoconto prenda nota solo di questo: non si poteva fare altrimenti. Le autorità cittadine e soprattutto la polizia erano tenuti a non assistere passivamente. Solo verso marzo la morsa del freddo si allentò.
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1948 In realtà mia moglie e io... In realtà mia moglie e io avevamo voluto fare per la prima volta una vera vacanza. Vivendo di una piccola pensione, eravamo costretti a lesinare, anche se il marco non valeva quasi più niente. Ma poiché siamo sempre stati dei non fumatori, riuscivamo ad arrangiarci al mercato nero con le tessere dei fumatori - trovavi tutto solo coi bollini - e persino a risparmiare qualcosina. Insomma, siamo andati su in Algovia. Però non ha fatto che piovere. Mia moglie, più tardi, è riuscita a scrivere su questo, e su tutto quello che abbiamo passato in montagna e su quant’altro è ancora successo, una vera e propria poesia in rima, e in puro dialetto renano, perché infatti siamo tutti e due nativi di Bonn. La poesia cominciava così: Tre giorni e tre notti di pioggia a torrenti. Non vidi né cielo, né stelle, né monti… Ma a quel punto, nella pensione e dovunque, già si parlava dei soldi nuovi che finalmente dovevano arrivare, finché corse voce: tra due giorni ci siamo! E’ stato un bel guaio per una vacanza. La nuova valuta ti toglie ogni speranza… ha poetato mia moglie. Allora ho messo assieme alla svelta un po’ di provviste e mi sono fatto tagliare i capelli dal barbiere del villaggio, più corti del solito, pagandolo in vecchi marchi. Mia moglie si è fatta tingere i suoi di castano e - costi quello che costi - ha voluto una nuova permanente. Poi però abbiamo dovuto fare le valigie. Fine della vacanza! Ma i treni per qualsiasi direzione e in particolare per la Renania erano stracolmi, quasi si corresse all’accaparramento, perché tutti volevano tornare velocemente a casa, e allora Anneliese ha scritto: Il treno era pieno zeppo da scoppiare. La valuta alla gente la testa faceva girare… E così, appena arrivati a Bonn, siamo filati alla cassa di risparmio e abbiamo tirato su quel poco che c’era ancora, perché la domenica dopo, esattamente il 20 giugno, cominciava la faccenda della conversione. Prima cosa, mettersi in fila. E sotto la pioggia. Infatti fu una giornata piovosa dappertutto, non solo in Algovia. Siamo rimasti in piedi tre ore, tanto lunga era la coda. Ciascuno ricevette 40 marchi, e un mese dopo altri 20, ma non più Reichsmark, bensì Deutsche Mark, perché ormai il Reich era tutta roba passata. Doveva essere una specie di giusto provvedimento, ma non lo era per niente. Certo non per noi titolari di una piccola pensione. Perché quello che ci è capitato sott’occhio già il giorno dopo, poteva davvero farti venire le vertigini. Di colpo, come se qualcuno avesse detto «abracadabra»,
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tutte le vetrine erano piene. Salsicce, prosciutto, radio, scarpe normali, non quelle con la suola di legno, e vestiti - filato pettinato! - di ogni taglia. Naturalmente era tutta merce tenuta nascosta. Dei gran truffatori, che han fatto incetta di provviste finché sono arrivati i soldi giusti. In seguito hanno detto che tutto questo lo dovevamo all’Erhard col suo grosso sigaro[1]. Però sono stati gli americani che hanno stampato di nascosto la nuova moneta. E hanno anche fatto in modo che il D-Mark ci fosse solo nella cosiddetta Trizona, e non anche in quella sovietica. Ecco perché i russi, dall’altra parte, si son stampati i loro marchi e hanno chiuso tutto attorno a Berlino, e così si è arrivati al ponte aereo e la nostra Germania è stata divisa anche a causa dei soldi. Che però hanno cominciato presto a scarseggiare. Per le piccole rendite in ogni caso. Perciò Anneliese ha scritto: Non ci han dato la quota, a noi povera gente. Vivere senza soldi non va bene per niente… Non c’è da stupirsi che nella nostra sezione il compagno Hermann abbia imprecato: - E da dove salta fuori di colpo tutta questa gran merce? Perché l’industria privata non serve alla copertura del fabbisogno, ma unicamente al profitto… - Aveva ragione, del resto, anche se in seguito è andata un po’ meglio. Ma per le piccole rendite c’era sempre poco da scialare. Certo, potevamo metterci davanti alle vetrine piene e sgranare gli occhi, ma niente di più. La cosa davvero positiva è stata che finalmente c’era frutta fresca e verdura, ciliegie, cinquanta pfennig mezzo chilo, e cavolfiore per sessantacinque ogni testa. Dovevamo comunque far bene i conti. Per fortuna mia moglie ha mandato la sua poesia, che era intitolata La fuga dall’Algovia, a un concorso a premi della «Kölnische Rundschau». Si doveva mettere in rima La mia vacanza più bella. Cosa devo dire: si è classificata seconda. Si trattava di venti nuovi marchi sull’unghia. E per la pubblicazione sulla «Rundschau» ce ne hanno dati altri dieci. Li abbiamo portati alla cassa di risparmio. In genere abbiamo risparmiato, dove appena riuscivamo. Ma per una vacanza non è stato sufficiente, in tutti gli anni successivi. Eh sì, eravamo, come si diceva allora, i «danneggiati dalla valuta». [1] Ludwig Erhard (1897-1977), ministro dell’Economia dal ’49 al ’63, considerato il padre del miracolo economico tedesco. Successe ad Adenauer nella carica di cancelliere.
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1949 ...e pensa un po’, mio caro Ulli... … e pensa un po’, mio caro Ulli, accadono miracoli e prodigi, perché di recente, alla mia ragguardevole età, ho avuto un incontro di quelli particolari: esiste ancora, la bella Inge, la cui fragrante apparizione (in natura et figura) infiammava una volta - o devo dire ai tempi dell’Adolfo? - noi ragazzi di Stettino, suscitava bollori o balbettii, insomma ci faceva proprio girare la testa; e posso addirittura affermare di esserle arrivato vicino gomito a gomito, col cuore in tumulto. No, non in campeggio sullo Haff, ma quando abbiamo organizzato assieme il soccorso invernale per l’infreddolito fronte d’oriente: ci siamo caduti addosso ammucchiando e impacchettando mutande, maglioni, scaldapolsi e altri indumenti di lana. Alla fine tutto si ridusse però a una tormentosa pomiciata, sepolti tra pellicce e golf. Dopo puzzavamo tremendamente di palline antitarme. Per tornare alla Inge attuale: come per noi, anche per lei l’età ha avuto il suo peso, eppure, persino segnata dalle rughe e ingrigita tra riflessi argentei, dalla dottoressa Stephan promana quel flusso di forza giovanile che a suo tempo l’ha condotta a ricoprire importanti cariche. Te ne ricordi certamente: promozione dopo promozione. Verso la fine era Mädelringführerin nella Bdm[1], mentre noi due siamo arrivati io a Jungzugführer, e tu a Fähnleinführer soltanto. Quando poi ci hanno infilati nell’uniforme della Luftwaffe, l’epoca delle camicie brune, dei fazzoletti al collo e delle cordelline (chiamate anche «altalena delle scimmie») era definitivamente tramontata. Inge però, come mi ha pudicamente sussurrato, ha tenuto unite le sue ragazze fino agli ultimi giorni di guerra: assistenza ai profughi della Pomerania ulteriore, esibizioni canore nell’ospedale da campo. Solo quando sono arrivati i russi ha rinunciato, senza riportare danni fisici, al Bund Deutscher Mädel. Per non chiedere troppo alla tua pazienza di lettore di questa lettera: ci siamo incontrati in occasione della Fiera del Libro di Lipsia, del cui programma collaterale faceva parte una consultazione tecnica, peraltro tollerata dallo Stato Operaio e Contadino, della Dudengesellschaft[2], tra i membri della quale si contano tedeschi delle due specie, e quindi anch’io, il professore ormai vicino alla pensione (proprio come te), le cui sottigliezze linguistiche saranno tuttavia ancora richieste, con bella continuità, dal Duden occidentale. E poiché, e non sempre senza attriti, collaboriamo col Duden orientale, si è arrivati a questo incontro, perché anche Inge, da linguista comprovata, fa parte della comunità pantedesca per il
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rinnovamento peggiorativo dell’idioma, nella quale austriaci e svizzeri tedeschi possono dire la loro. Ma non voglio annoiarti con le nostre beghe nel campo della riforma ortografica; è una montagna che ha le doglie da un pezzo e un giorno partorirà il proverbiale topolino. L’unica cosa interessante è stato il mio tête-à-tête con Inge. Ci siamo dati educatamente appuntamento per un caffè nel Mädlerpassage e io, invitato da lei, ho potuto assaggiare una specialità sassone chiamata «Eierschecke». Dopo un breve dialogo su quisquilie professionali siamo ripiombati negli anni giovanili di Stettino. All’inizio solo le consuete storielle da liceali. Lei esitava a rovistare tra i brandelli di ricordi del nostro comune periodo nella Hitlerjugend e scomodava metafore del tipo «in quegli oscuri anni di traviamento… » Disse anche: «Hanno infangato i nostri ideali e abusato della pienezza della nostra fede». Ma quando sono approdato al periodo dopo il ’45, non ha avuto alcuna difficoltà a definire il suo cambio di sistema e di colore verso il campo socialista, completato dopo solo un anno e mezzo di tregua, come «dolorosa conversione all’antifascismo». Viste le sue qualifiche sotto ogni aspetto, ha fatto rapidamente carriera anche nella Fdj[3]. Mi ha raccontato di aver partecipato alle celebrazioni per la fondazione della Ddr, che nel ’49, com’è noto, ebbero luogo nell’ex ministero dell’Aviazione del Reich, di goeringhiana memoria. Poi è intervenuta ai festival della gioventù, ai cortei del 1o maggio e ha persino preso parte, da zelante agit-prop di contadini cocciuti, alla collettivizzazione dell’agricoltura. Ma nel corso di queste azioni di propaganda forzata, «condotta tramite un diluvio di suoni amplificati dagli altoparlanti» - così si è espressa -, le sono venuti i primi dubbi. Comunque la nostra bella Inge è a tutt’oggi membro del partito, e come tale, mi ha assicurato, si sforza di «rimediarne gli errori con una critica costruttiva». Poi divagammo, seguendo gli itinerari di fuga delle nostre famiglie. La sua, per via terra, si era stabilita a Rostock, dove lei, documentabilmente figlia di un operaio - il padre di Ingrid era saldatore nel cantiere Vulkan -, aveva potuto cominciare subito gli studi universitari e preparare la futura carriera nel partito. I miei genitori, come sai, sono stati sbattuti via mare prima in Danimarca, poi nello Schleswig-Holstein, finendo precisamente a Pinneberg. Ho detto a Inge: - Beh, per fortuna il destino mi ha sospinto all’Ovest sulle acque dell’Elba, dove mi hanno beccato gli inglesi, - e le ho elencato le mie stazioni: la prigionia nel campo di Munster, la zia a Gottinga, la maturità recuperata, i primi semestri lì, il posto di assistente a Giessen, la borsa di studio per l’America eccetera eccetera.
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Mentre ancora stavamo chiacchierando, mi è venuto in mente con quanti svantaggi e al tempo stesso quante agevolazioni si è svolto il nostro percorso occidentale: la camicia bruna era sì sparita, ma non ci hanno preso le misure per nessuna camicia azzurra[4]. - Questi sono aspetti esteriori, - ha detto Inge. - Noi abbiamo creduto in qualcosa, mentre col vostro capitalismo si è perso qualsiasi ideale -. Naturalmente le ho tenuto testa: - Non si può certo dire che la fermezza della fede ci sia mancata, prima, quando io indossavo la camicia bruna e tu eri credente in camicetta candida e gonna fino alle ginocchia! - Eravamo bambini, irretiti! - ho avuto in risposta. Quindi Inge si è irrigidita. E’ sempre stata una sua caratteristica. Ovviamente non ha tollerato la mia mano sulla sua. Quasi parlando tra sé ha confessato a fior di labbra: - A un certo punto da noi qualcosa è andato storto -. La mia eco è risuonata spontanea: - Anche da noi. Poi abbiamo parlato solo di questioni impersonali, della Dudengesellschaft e delle sue beghe pantedesche. Alla fine si è affrontato il tema della riforma ortografica. Eravamo entrambi dell’opinione che dovesse essere radicale oppure non entrare affatto in vigore. - Niente cose a metà! - ha esclamato lei, colorandosi un po’ fino all’attaccatura dei capelli. Ho annuito, mentre ripensavo al mio amore giovanile… [1] Bund Deutscher Mädel, l’associazione femminile della Gioventù Hitleriana. [2] Società linguistica che prende il nome da Konrad Duden (1829-1911), autore dell’omonimo dizionario; in seguito alla divisione della Germania, anche la Dudengesellschaft si scisse in una sezione occidentale e una orientale. [3] Freie Deutsche Jugend, l’associazione che inquadrava i giovani della Ddr. [4] Era la divisa dei giovani della Fdj.
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1950 Poiché un tempo... Poiché un tempo, molto prima della guerra, ho fatto il panettiere, i coloniesi mi hanno soprannominato «lievito matto». Ma lo dicevano senza la minima cattiveria, perché dopo il grande Willi Ostermann i più bei valzer rustici ero riuscito a scriverli io[1], in barba a tutti gli altri. Nel ’39, quando potemmo celebrare il carnevale e gridare «Kölle Alaaf» per l’ultima volta, la canzone più richiesta fu «Allegro cerbiattino… », e «Salutiamo, capitano… », con la quale ho reso immortale la «barchetta di Mülheim», la suonano ancora oggi. Ma poi, buio completo. Solo a guerra finita, quando della nostra cara Colonia restavano solo le rovine, quando la potenza occupante aveva severamente vietato il nostro carnevale e tutte le prospettive per il futuro sembravano nere, me ne sono uscito alla grande con «Siamo gli indigeni della Trizonesia[2]… », perché ai Matti di Colonia non è possibile proibire proprio niente. Passando sopra alle macerie e agghindati con gli stracci rimasti: le Scintille Rosse, tutti i Bambini, persino un paio di invalidi del comitato organizzatore, la Prinzengarde, e via, partenza dall’Hahnentor. Poi nel ’49 la prima Triade dei Matti dopo la guerra - ossia Principe, Contadino, Vergine - ha cominciato a spalar fuori con le proprie mani i calcinacci dal Gürzenich totalmente distrutto. Era un atto simbolico, perché nel Gürzenich si sono sempre tenute le sedute più belle. Solo l’anno dopo abbiamo potuto festeggiare di nuovo ufficialmente. Era un giubileo, perché gli antichi romani hanno fondato la nostra città nell’anno 50. «Colonia, com’era e com’è, da 1900 anni», diceva quindi anche il motto. Ma purtroppo non l’ho scritto io, il successo di quella stagione carnevalesca, e neanche qualcun altro di noi professionisti, non Jupp Schlösser, non Jupp Schmitz, no, è stato un certo Walter Stein, al quale, come si disse, il motivo di «E chi paga, chi c’ha tanti soldi» è venuto in mente mentre si faceva la barba. Devo ammettere che rendeva bene l’atmosfera: «Chi ha tanta grana, chi c’ha tanti soldi… » Ma questa canzone da cantare tenendosi sottobraccio e dondolandosi l’ha lanciata qualcuno della radio, di nome Feltz. Una furbata coi fiocchi, dato che lo Stein e il Feltz erano poi una sola persona. Certo, si è trattato di un grosso imbroglio da autentica combutta coloniese, ma «E chi paga» sfondò eccome, perché questo Stein o Feltz aveva trovato il tono giusto. Nessuno infatti aveva in tasca un centesimo, dopo la riforma valutaria, in ogni caso non certo la gente semplice. Però il nostro Principe
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Carnevale, Peter III, lui di soldi ne aveva sempre in abbondanza: commercio all’ingrosso di patate! E il nostro Contadino dirigeva una ditta di marmi a Ehrenfeld. Ben sistemata era anche la nostra Vergine Wilhelmine, che per statuto doveva essere un uomo, e costui era gioielliere e per giunta orafo. Questa Triade ha poi sbattuto via un sacco di soldi anche quando nel mercato coperto si festeggiò il carnevale delle donne con quelle che ci lavoravano… Ma volevo raccontare del corteo del Lunedì delle Rose. Pioveva. Eppure è arrivato più di un milione di persone, persino dall’Olanda e dal Belgio. Anche gli occupanti hanno partecipato, perché adesso era permesso di nuovo praticamente tutto. E’ andata quasi come una volta, se si riusciva a non pensare alle rovine che ti saltavano all’occhio spettrali, dovunque. Era un corteo storico con antichi germani e antichi romani. Cominciava con la stirpe degli ubi, dalla quale pare discendano i coloniesi. Ma poi si scatenarono i balli e le majorette, musica in testa. E tutti i carri, quasi cinquanta. Se l’anno prima il motto era stato «Siamo di nuovo qui e facciamo quel che possiamo», dove il «possiamo» era veramente poca cosa, stavolta dai carri si rovesciò una pioggia di caramelle per i Bambini e i Matti, quindici quintali in tutto. E da una fontana mobile la ditta 4711 ha spruzzato sulla folla qualche migliaio di litri di vera Eau de Cologne. C’era proprio da dondolarsi cantando «E chi paga… » Il successo di questo motivo durò ancora per un pezzo. Ma quanto al resto, di politico non si è visto molto, il Lunedì delle Rose, già, perché gli occupanti erano lì a controllare. Solo che nel corteo spiccavano due maschere, sempre una accanto all’altra. Si sono persino baciate e ballavano insieme. Erano culo e camicia, per così dire, il che naturalmente faceva un po’ schifo e c’era anche una certa malignità, perché una maschera riproduceva esattamente le fattezze del vecchio Adenauer, e l’altra era il Barbetta di là, sì insomma, ’sto Ulbricht. Chiaro che la gente ha riso del capo indiano dall’aria furba e della capra siberiana. Ma questo è stato l’unico motivo pantedesco presente nel corteo del Lunedì delle Rose. E certo era diretto più contro Adenauer, che i Matti di Colonia non hanno mai potuto soffrire, perché già prima della guerra, quando era sindaco, aveva parlato male del carnevale. Da cancelliere gli sarebbe tanto piaciuto proibirlo. E per sempre. [1] Karl Berbuer (1900-77), uno dei compositori di canzoni più famosi dell’epoca. [2] Si intendono le tre zone della Germania occidentale occupate da americani, inglesi e francesi.
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1951 Egregi Signori dello Stabilimento Volkswagen!... Egregi Signori dello Stabilimento Volkswagen! Ancora una volta sono costretta a reclamare, perché da parte Vostra non riceviamo risposta. Dipende dal fatto che, come ha voluto il destino, abbiamo la residenza nella Repubblica Democratica? Peraltro la nostra casetta si trova presso Marienborn, vicinissima al confine che non possiamo più oltrepassare, da quando si è purtroppo dovuto erigere il baluardo protettivo. E’ un’ingiustizia, se non rispondete! Mio marito ha lavorato da Voi fin dall’inizio, io ho cominciato più tardi. Già nel ’38, a Braunschweig, ha imparato a fare l’utensilista per la Vw. Poi è diventato saldatore e quando la guerra è finita ha aiutato a sgomberare le macerie, visto che quasi metà fabbrica era distrutta dalle bombe. Più tardi, quando il signor Nordhoff ha preso la direzione e si è ricominciato a pieno ritmo col montaggio, mio marito era addirittura controllore della qualità e anche membro del consiglio di fabbrica. Sulla foto che allego potete vedere che era presente quando, il 5 ottobre del ’51, la 250millesima Vw è uscita dalla catena di montaggio, e noi abbiamo festeggiato. Il signor Nordhoff ha tenuto un bel discorso. Stavamo tutti attorno al Maggiolino, che non era ancora verniciato in giallo-oro, come il milionesimo, che è stato festeggiato quattro anni dopo. Una festa che, bisogna dirlo, è andata meglio di quella di tre anni prima, perché allora, per il 50millesimo esemplare, non c’erano abbastanza bicchieri e abbiamo usato delle coppe di un qualche materiale sintetico che ha procurato a molti ospiti e collaboratori tremendi dolori di stomaco, al punto che parecchi hanno vomitato già lì nel capannone o appena fuori. Ma stavolta c’erano dei veri bicchieri. Peccato solo che il professor Porsche, che ha inventato lui la Volkswagen, e non ’sto Hitler, sia morto a Stoccarda in quell’anno e perciò non abbia potuto festeggiare con noi. Lui ci avrebbe risposto di sicuro, se avesse visto le nostre tessere di risparmio di allora. Io ho cominciato solo durante la guerra, alla Vw di Wolfsburg, subito dopo Stalingrado, quando tutti dovettero dare una mano. Al tempo, come certamente sapete, non si producevano Maggiolini, bensì una gran quantità di vetture aperte per la Wehrmacht. Alle presse, dove tranciavo la lamiera, c’erano anche molte donne russe, fuori contratto, con le quali però non dovevamo parlare. E’ stato un brutto periodo. Così ho assistito anche al bombardamento. Ma poi, quando tutto ha ricominciato a funzionare, mi hanno assegnato un lavoro più leggero alla catena di
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montaggio. E’ allora che ho conosciuto mio marito. Sono passata nella zona di occupazione sovietica solo nel ’52, quando è morta la mia cara mamma e ci ha lasciato la casetta col giardino vicino a Marienborn. Mio marito è rimasto ancora un anno scarso, finché ha avuto il grave incidente. Forse è stato un errore, da parte nostra. Perché adesso il destino vuole che siamo tagliati fuori da tutto. Neanche le nostre lettere ottengono risposta da Voi. Non è giusto! Per di più, l’anno scorso abbiamo consegnato puntualmente la nostra dichiarazione di adesione all’accordo giudiziario dei risparmiatori Volkswagen e Vi abbiamo inviato tutti i documenti. In primo luogo l’attestazione che mio marito, Bernhard Eilsen, a partire dal marzo ’39 ha versato almeno cinque marchi ogni settimana e per quattro anni ha incollato i bollini sulle tessere di risparmio per una vettura Kraft-durch-Freude, come a quel tempo si chiamava ancora la Vw, neroazzurra. In totale mio marito ha risparmiato 1230 marchi. Questo era il prezzo d’acquisto di allora, franco stabilimento. In secondo luogo, Vi è stata recapitata un’attestazione dell’autorità di controllo territoriale sugli automezzi dell’associazione nazionalsocialista «Kraft-durch-Freude». Ma poiché le poche Volkswagen prodotte durante la guerra erano destinate solo ai bonzi del partito, mio marito è rimasto a mani vuote. Pertanto, e dal momento che ora è invalido, rivendichiamo il nostro diritto al possesso di un Maggiolino, e precisamente una Vw 1500 verde tiglio senza accessori particolari. Adesso che dalla catena sono usciti più di cinque milioni di Maggiolini e avete costruito uno stabilimento addirittura per i messicani, sarà pur possibile soddisfare la nostra richiesta di risparmiatori Volkswagen, anche se abbiamo la residenza fissa nella Ddr. O non siamo più considerati tedeschi? Poiché la Vostra corte federale di giustizia ha recentemente concluso a Karlsruhe un accordo con il comitato di assistenza per gli ex risparmiatori Volkswagen, ci spetta uno sconto di 600 marchi. Il resto siamo pronti a pagarlo nella nostra valuta. Sarà pure una cosa possibile… o no? In attesa di un Vostro riscontro, con i più distinti ossequi Elfriede Eilsen
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1952 Continuo a ripeterlo... Continuo a ripeterlo, quando i clienti ce lo chiedono: lo «specchio magico», come all’inizio - e non solo su «Hör zu»[1] - veniva chiamata la televisione, ci ha fatto incontrare, l’amore è arrivato poi un poco alla volta. E’ successo a Natale del ’52. La gente faceva ressa dappertutto, e quindi anche da noi a Lüneburg, davanti alle vetrine dei negozi di apparecchi radio e assisteva al primo vero programma televisivo che scorreva sugli schermi. Dove ci trovavamo noi, c’era un unico apparecchio. Beh, niente di particolarmente trascinante: prima una storia che trattava del canto natalizio Notte silente, notte santa, di un maestro e di un intagliatore di crocefissi di nome Melchior. Di seguito un balletto, liberamente tratto da Wilhelm Busch, nel quale sgambettavano Max e Moritz. Il tutto sulle musiche di quel Norbert Schulze a cui noi ex fantaccini dovevamo non solo Lili Marleen, ma anche Bombe sull’Inghilterra. Ah sì, all’inizio il direttore della Nordwestdeutscher Rundfunk ha sproloquiato qualcosa di solenne, un certo dott’ Pleister, poi soprannominato «dott’ Sbobba»[2] dalla critica televisiva. E c’era un’annunciatrice che si presentava quasi timidamente nel suo vestito a fiori e sorrideva a tutti, a me in particolare. E’ stata Irene Koss a farci da ruffiana in questo modo, perché, nel grappolo di persone davanti al negozio, Gundel è venuta a trovarsi per puro caso accanto a me. Le piaceva tutto, di quello che lo specchio magico aveva da offrire. La storia natalizia la commosse fino alle lacrime. Applaudì apertamente ogni birbonata di Max e Moritz. Ma quando, dopo le notizie del giorno (non ricordo più cosa ci fosse, oltre al messaggio del papa) presi coraggio e le rivolsi la parola: - Ha notato, signorina, la Sua straordinaria somiglianza con l’annunciatrice? -, le venne sulle labbra solo un birichino: - Non saprei proprio. Tuttavia ci incontrammo il giorno dopo, senza esserci dati appuntamento, davanti alla vetrina nuovamente assediata, e già nel primo pomeriggio. Rimase, sebbene la trasmissione della partita tra l’F.C’ St Pauli e l’Hamborn 07 l’annoiasse. Alla sera, ma solo per via dell’annunciatrice, guardammo il programma. E nel frattempo ebbi fortuna: Gundel seguì il mio invito a prendere un caffè «per riscaldarsi». Mi si presentò come una profuga della Slesia, che faceva la commessa da «Salamander». Io, che allora architettavo progetti ambiziosi e volevo diventare direttore teatrale o quanto meno attore, ammisi che purtroppo dovevo dare una mano
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nella locanda di mio padre che navigava in cattive acque, e in fondo ero un disoccupato, anche se pieno di idee. - E non solo castelli in aria, affermai. Dopo il telegiornale guardammo una trasmissione che ci sembrò spiritosa, nella quale si parlava della preparazione di dolci natalizi. Gli impasti erano incorniciati da briosi commenti di Peter Frankenfeld, che in seguito divenne popolare come scopritore di talenti con Chi vuole, può. Poi ci divertimmo con Ilse Werner, che fischiettò e cantò, ma soprattutto con la diva-bambina Cornelia Froboess, una marmocchia berlinese che era diventata famosa col tormentone Prendi su il costume. E andò avanti così. Ci incontravamo davanti alla vetrina. Ben presto restammo lì a guardare mano nella mano. Ma le cose rimasero a questo punto. Solo dopo l’inizio del nuovo anno presentai Gundel a mio padre. A lui piacque la sosia dell’annunciatrice televisiva Irene Koss, e a lei piacque la locanda posta ai margini del bosco. Per farla breve: Gundel ha riportato la vita nella malandata Heidekrug. Seppe convincere mio padre, abbattuto dalla morte della mamma, ad accendere un credito e a piazzare nella sala grande un televisore, non un piccolo apparecchio da tavolo, ma il cassone della Philips, un acquisto che ha compensato la spesa. A partire da maggio, nell’Heidekrug non ci fu più un tavolo o una sedia libera. Arrivavano clienti da lontano, perché il numero dei possessori di un televisore rimase limitato ancora per molto tempo. Ben presto avemmo un pubblico fedele di clienti fissi, che non soltanto sbarrava gli occhi davanti allo schermo, ma consumava come si deve. E quando il cuoco televisivo Clemens Wilmerod divenne popolare, Gundel, che adesso non vendeva più scarpe ed era la mia fidanzata, adottò le sue ricette per inserirle nella lista delle vivande, prima davvero monotona, dell’Heidekrug. Dall’autunno del ’54 - nel frattempo ci eravamo sposati - la serie della Famiglia Schölermann attirò sempre più pubblico. E insieme ai nostri clienti ci lasciammo coinvolgere dalle mutevoli situazioni sullo schermo, quasi che la famiglia televisiva ci avesse influenzati, quasi fossimo anche noi i Schölermann, cioè, come spesso si sentiva dire in tono sprezzante, tedeschi medi. Beh, è vero. Abbiamo la benedizione di due figli, il terzo è in arrivo. Entrambi lamentiamo qualche chilo di troppo. Certo, i miei ambiziosi programmi li ho messi in naftalina, ma non sono scontento del mio ruolo di secondo piano. Perché è Gundel che adesso - copiando diligentemente dai Schölermann - dirige l’Heidekrug e fa anche pensione. Come molti profughi che hanno dovuto ricominciare tutto da capo, è piena di
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iniziative. E lo dicono anche i nostri clienti: la Gundel, quella sì sa cosa vuole.
[1] La più diffusa rivista di attualità radiotelevisiva, edita da Springer. [2] Nel testo originale, «Pleister» fa rima con «Scheibenkleister», termine che significa «mastice da vetrai» ed è usato anche come interiezione nel senso di «cavolo!», «porca miseria!»
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1953 La pioggia era cessata... La pioggia era cessata. Quando si alzò il vento, la polvere di mattone scricchiolò sotto i denti. Tipico di Berlino, ci venne detto. Anna[1] e io eravamo lì da sei mesi. Lei aveva abbandonato la Svizzera, io mi ero lasciato alle spalle Düsseldorf. Lei studiava danza mimica a piedi nudi da Mary Wigman, in una villa di Dahlem, io volevo sempre fare lo scultore nell’atelier di Hartung sulla Steinplatz, ma dovunque mi trovassi, in piedi, seduto o sdraiato accanto ad Anna, scrivevo poesie, lunghe e corte. Poi accadde qualcosa al di fuori dell’arte. Prendemmo la sopraelevata fino alla Lehrter Bahnhof, il cui scheletro d’acciaio era sempre in piedi. Passammo accanto alle rovine del Reichstag, alla Porta di Brandeburgo, sulla cui sommità mancava la bandiera rossa. Solo in Potsdamer Platz, restando sul lato occidentale del confine di settore, vedemmo cosa era accaduto e cosa stava accadendo in quel momento, o da quando la pioggia era cessata. La Columbushaus e l’Haus Vaterland erano avvolte dal fumo. Un chiosco bruciava. Propaganda incenerita, che il vento aveva sollevato insieme al fumo denso, nevicava dal cielo a fiocchi neri. E vedemmo assembramenti di gente che vagava qua e là senza meta. Niente Vopos. Ma imbottigliati tra la folla carri armati sovietici, T 34, conoscevo il modello. Su un cartello c’era la scritta ammonitrice: «Attenzione! State lasciando il settore americano». Alcuni adolescenti, in bicicletta o senza, osarono comunque avventurarsi di là. Noi restammo all’ovest. Non so se Anna abbia visto di più o altro, rispetto a me. Entrambi vedemmo le facce da bambini dei soldati russi che si appostavano lungo il confine. E più lontano vedemmo quelli che lanciavano sassi. Di sassi c’era abbondanza dovunque. Coi sassi contro i carri armati. Avrei potuto schizzare il gesto del lancio, scrivere una poesia, in piedi, lunga o corta, sul gettare sassi, ma non tracciai una linea, non scrissi una parola, eppure la dinamica del lancio rimase impressa. Solo dieci anni dopo, mentre Anna e io vivevamo l’esperienza reciproca di genitori assillati dai figli e vedevamo la Potsdamer Platz come terra di nessuno ormai murata, scrissi un’opera teatrale che si intitolava, da dramma tedesco, I plebei provano la rivolta, e che risultò increscioso ai guardiani del tempio di entrambi gli Stati. Nei quattro atti si parlava di potenza e di impotenza, di rivoluzione programmata e spontanea, della questione se si potesse modificare Shakespeare, di innalzamento delle
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norme di produzione e di uno straccio rosso sbrindellato, di parole d’ordine e di controparole, di arroganti e di pusillanimi, di carri armati e di lanciatori di sassi, di una rivolta operaia bagnata dalla pioggia, che, appena repressa, venne datata al 17 giugno, falsificata in sollevazione di popolo e trasfigurata in giorno festivo, con la conseguenza che all’ovest, a ogni ricorrenza, ci furono sempre più vittime della strada. I morti all’est, invece, erano stati fucilati, linciati, giustiziati. Inoltre vennero inflitte pene detentive. Il carcere di Bautzen era sovraffollato. Tutto questo venne alla luce più tardi. Anna e io abbiamo visto solo lanciatori di sassi impotenti. Ci tenemmo a distanza, nel settore occidentale. Ci amavamo e amavamo l’arte, e non eravamo operai che tirano sassi contro i carri armati. Ma da quel momento sappiamo che questa battaglia continua ad aver luogo. A volte, allora però con decenni di ritardo, vincono persino i lanciatori di sassi. [1] Anna Schwarz, la prima moglie di G’ Grass.
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1954 Certo, a Berna non c’ero... Certo, a Berna non c’ero, ma attraverso la radio che quel giorno noi giovani economisti stringevamo d’assedio nella mia stanzetta da studente a Monaco, fui comunque testimone del cross di Schäfer nell’area di rigore ungherese. Sì, persino oggi, da attempato ma ancora attivissimo dirigente di una ditta di consulenze con sede in Lussemburgo, mi sembra quasi di vedere come Helmut Rahn, che tutti chiamano il «boss», si impadronisce della sfera ed entra in azione. Adesso tira in piena corsa, anzi no, dribbla due avversari che gli si parano contro, supera altri difensori e col sinistro, da buoni quattordici metri, fa partire un missile verso l’angolo basso di sinistra della porta. Irraggiungibile per Grosics. Cinque o sei minuti alla fine: 3:2. E gli ungheresi attaccano. Dopo un allungo di Kocsis, Puskás si fa trovare pronto. Ma il gol non viene concesso. Le proteste non servono. Presumibilmente il maggiore della Honvéd si trovava in fuori gioco. All’ultimo minuto Czibor arriva sul pallone, mira all’angolo corto da sette, otto metri, ma Toni Turek è lì pronto a respingere con entrambi i pugni. Ancora una rimessa in gioco degli ungheresi. Poi mister Ling fischia la fine. Siamo campioni del mondo, l’abbiamo fatta vedere a tutti, siamo tornati, non siamo più i vinti, cantano sotto gli ombrelli nello stadio di Berna, come noi schierati attorno alla radio nella mia stanzetta monacense abbiamo berciato a voce altissima «über alles in der Welt». Ma la mia storia non finisce qui. Anzi, comincia solo adesso. Perché i miei eroi del 4 luglio 1954 non si chiamavano Czibor o Rahn, e neppure Hidegkùti o Morlock, no, per decenni, da ultimo dalla mia sede del Lussemburgo, in qualità di economista e consulente di investimenti mi sono preso cura, anche se invano, del benessere economico dei miei idoli Fritz Walter e Ferenc Puskás. Ma loro non vollero farsi aiutare. Il mio ponte gettato a superamento di qualsivoglia nazionalismo rimase inutilizzato. Anzi, subito dopo la grande partita entrambi erano diventati nemici giurati, perché il maggiore ungherese aveva accusato i calciatori teutonici di megalomania e addirittura di doping. «Giocavano con la bava alla bocca», pare avesse detto. Solo anni dopo, quando era già sotto contratto con il Real Madrid ma aveva sempre la proibizione di giocare sui campi tedeschi, acconsentì a scusarsi per iscritto, e a questo punto sembrava che più niente si sarebbe frapposto a una relazione d’affari tra Walter e Puskás; e il mio ufficio ha subito cercato di fare da intermediario fornendo consigli.
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Fatica sprecata! Certo, Fritz Walter fu sommerso di onorificenze, venne definito «il re del Betzenberg», ma il suo impegno pubblicitario per l’Adidas troppo sottovalutato e una cantina di vini spumanti che poté persino fregiare del suo nome alcune marche - ad esempio Il brindisi di Fritz Walter - portarono degli incassi inadeguati; solo dopo che i suoi bestseller sull’allenatore Sepp Herberger (il «Bundessepp») e sull’immarcescibile vittoria ai campionati mondiali degli undici «walteriani» gli ebbero procurato grassi guadagni, riuscì ad allestire a Kaiserslautern, vicino alle rovine del castello, una sala cinematografica senza pretese con ricevitoria Toto e Lotto nel foyer. Davvero poca cosa, che non portò grandi introiti. E pensare che avrebbe potuto fare la sua fortuna già all’inizio degli anni Cinquanta, in Spagna. L’Atlético Madrid aveva mandato qualcuno con un quarto di milione di ingaggio nella valigetta per soffiarlo alla Germania. Ma il modesto, sempre troppo modesto Fritz rifiutò, voleva restare nel Palatinato ed essere re lì, soltanto lì. Tutt’altra storia quella di Puskás. Dopo la sanguinosa rivolta d’Ungheria, scoppiata mentre si trovava con la nazionale in Sudamerica, rimase in occidente, rinunciò al suo ben avviato ristorante a Budapest e in seguito prese la cittadinanza spagnola. Col regime di Franco non ebbe nessun problema, perché dall’Ungheria dove il partito al potere lo aveva celebrato quale «eroe del socialismo», proprio come avevano fatto i cechi col loro Zátopek - si portava dietro la necessaria esperienza. Giocò sette anni per il Real Madrid facendo milioni a palate che investì in un salumificio: la Salchichas Puskás esportava persino all’estero. E a latere il forte mangiatore che aveva sempre dovuto combattere col sovrappeso, gestì un ristorante per buongustai, che si chiamava significativamente Pancho Puskás. Certo, i miei due idoli si sono messi sul mercato, ma non hanno saputo coniugare i loro interessi, vendersi come confezione doppia, per così dire. Persino a me e alla mia ditta specializzata in fusioni non è riuscito di far diventare partner commerciali l’ex operaio di un sobborgo di Budapest e l’ex praticante di banca del Palatinato, ad esempio offrendo i salami del maggiore Puskás insieme allo spumante scelto Nettare di Fritz Walter, e riconciliando sul terreno del profitto l’eroe di provincia con il cittadino del mondo. Diffidenti nei confronti di qualsiasi fusione, entrambi rifiutarono direttamente o per interposta persona. Senza dubbio il maggiore della Honvéd è ancora convinto di non essersi trovato in fuorigioco, a Berna, e di aver pareggiato 3:3. Magari pensa che l’arbitro, mister Ling, si sia preso la sua vendetta, perché l’anno prima l’Ungheria era riuscita a suggellare nel sacro stadio
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di Wembley la prima sconfitta in casa dell’Inghilterra: i magiari vinsero 6:3. E la segretaria di Fritz Walter, implacabile schermo protettivo del re del Betzenberg, si è persino rifiutata di accettare in regalo un salame di Puskás portatole da me personalmente. Una sconfitta che ancora non ho digerito. Forse per questo mi coglie ogni tanto il pensiero di cosa ne sarebbe stato del calcio tedesco se l’arbitro, quando Puskás tirò in porta, non avesse fischiato il fuorigioco, se nei tempi supplementari fossimo finiti in svantaggio o avessimo perso la ripetizione della partita, se avessimo lasciato il campo nuovamente vinti e non campioni del mondo…
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1955 La nostra casa unifamiliare... La nostra casa unifamiliare era già pronta l’anno scorso, parzialmente finanziata da un contratto di risparmio immobiliare credo con Wüstenrot - che papà, da funzionario statale «in condizioni economiche relativamente sicure», come diceva lui, ha creduto di poter stipulare. La casa tuttavia, nelle cui cinque stanze più ripostiglio ci trovammo ben presto a nostro agio non solo noi tre ragazze, ma anche la mamma e la nonna, era stata costruita senza vano a prova di bomba, sebbene papà avesse sempre affermato di non temere le spese aggiuntive. Ancora durante la progettazione ha scritto lettere su lettere alla ditta esecutrice e alle autorità competenti, allegando fotografie di funghi atomici sopra i siti degli esperimenti americani e, come diceva, di «rifugi di ripiego relativamente indenni» a Hiroshima e Nagasaki. Ha persino presentato come proposta alcuni maldestri disegni di un ambiente sotterraneo per sei-otto persone con ingresso a camera di compensazione e porta in grado di reggere alla pressione esterna, più un’uscita di emergenza concepita nello stesso modo. Si può comprendere la sua delusione quando queste misure protettive «indispensabili nell’era atomica per una parte relativamente numerosa della popolazione civile», come diceva, non furono minimamente considerate. Mancavano, si disse da parte delle autorità preposte all’edilizia, direttive specifiche in ambito statale. Non che papà fosse un dichiarato oppositore della bomba atomica. L’accettava come un male necessario al quale si doveva accondiscendere fin quando la pace mondiale fosse stata minacciata dalla potenza sovietica. Ma avrebbe certamente criticato con foga i futuri tentativi del cancelliere Adenauer di ostacolare qualsiasi discussione sulla protezione civile. «Questi sono trucchetti da tattica elettorale, - lo sento dire, - non vuole allarmare la popolazione, considera i cannoni atomici una semplice evoluzione dell’artiglieria, e si crede anche furbo, la vecchia volpe». Comunque adesso era lì, la nostra casetta, che dal vicinato fu ben presto soprannominata la «casa delle tre ragazze». E anche il giardino poté essere coltivato. Ci fu permesso dare una mano quando vennero piantati gli alberi da frutto. In quell’occasione non solo la mamma, ma anche noi bambine ci accorgemmo che papà cercava di lasciar libero un quadrilatero di notevoli dimensioni nella parte in ombra del giardino. Solo quando la nonna, com’era suo costume, lo sottopose a stringente interrogatorio, lui rivelò i suoi piani e confessò che stava progettando un bunker sotterraneo e, come disse, «relativamente economico», secondo le recentissime
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cognizioni acquisite dalla protezione civile svizzera. Quando poi in estate numerosi giornali resero noti i terrificanti particolari di una manovra militare che si era svolta il 20 giugno 1955 sotto il nome di «Operazione Carte Blanche» con la partecipazione di tutte le potenze occidentali, e aveva destinato l’intera Germania, non solo la nostra Repubblica federale, a teatro di una guerra atomica mettendo in conto, sulla base di una valutazione approssimativa, quasi due milioni di morti e tre milioni e mezzo di feriti - naturalmente senza calcolare i tedeschi orientali -, papà passò all’azione. Purtroppo non si lasciò aiutare, nei suoi propositi. Il risentimento verso le autorità edilizie ebbe come conseguenza che volle affidarsi unicamente, come disse, «alle proprie forze». Nemmeno la nonna riuscì a trattenerlo. Quando poi oltretutto si riseppe quale pericolo rappresentavano le nuvole che da anni ruotavano attorno al globo con un inquietante carico di radioattività, e che in qualsiasi momento c’era da aspettarsi una ricaduta, il cosiddetto «fall out», peggio ancora, che già nel ’52 questo genere di nuvole contaminate era stato scoperto sopra Heidelberg e dintorni, cioè proprio sopra le nostre teste, papà non ebbe più remore. Adesso persino la nonna divenne una sostenitrice di «quei raspamenti», come li chiamava, e finanziò parecchi sacchi di cemento. Senza nessun aiuto, finito il lavoro - era caporeparto all’ufficio del catasto -, papà ha scavato il buco profondo quattro metri e mezzo. Senza nessun aiuto riuscì, in un fine settimana, a cementare il basamento rotondo. Fu anche in grado di costruire le entrate e le uscite insieme alle camere di compensazione in calcestruzzo colato. La mamma, che di solito era piuttosto avara di incoraggiamenti, lo lodava in termini entusiastici. Forse per questo papà ha poi rinunciato a qualsiasi aiuto anche quando si trattò di rivestire la cupola del nostro «bunker famigliare relativamente sicuro in caso di attacco atomico», come lo definiva, con una colata di cemento fresco. Anche quest’operazione sembrava essere riuscita. Lui si trovava dentro la rotonda per controllare l’interno quando accadde la disgrazia. Il rivestimento cedette. Sepolto dalla massa di cemento, ogni soccorso arrivò troppo tardi. No, non abbiamo portato a termine il suo progetto. Non solo la nonna era contraria. Io però, cosa che papà certo non avrebbe visto volentieri, da allora ho preso parte alle marce antiatomiche di Pasqua. Per anni sono stata un’oppositrice. E anche in età matura c’ero, a Mutlangen e a Heilbronn, con i miei figli, a causa dei Pershing. Non che sia servito a molto, come ben si sa.
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1956 Nel marzo di quell’anno luttuoso... Nel marzo di quell’anno luttuoso, in cui l’uno morì in luglio appena compiuti i settant’anni, l’altro in agosto, a neanche sessanta, dopodiché il mondo mi sembrò vuoto, la scena deserta, io, lo studente di germanistica che all’ombra dei due giganti produceva diligenti poesie, mi imbattei in entrambi nei pressi della tomba di Kleist, in quel luogo appartato con vista sul Wannsee dove già, sia casualmente che dietro appuntamento, era avvenuto più di un incontro incredibile. Suppongo che si fossero accordati segretamente su luogo e ora, forse con l’aiuto di mediazioni femminili. Per puro caso ero presente soltanto io, lo studentello sullo sfondo, che alla seconda occhiata riconobbe la testa calva, quasi buddistica, dell’uno e la figura fragile, già segnata dalla malattia, dell’altro. Mi riuscì difficile tenermi a distanza. Ma poiché la giornata di marzo solare e infreddolita si presentava priva di vento, le loro voci arrivavano lontano, l’una borbottante in toni morbidi, l’altra chiara e leggermente in falsetto. Non parlavano molto, si concedevano delle pause. Ora stavano vicinissimi, come su un piedistallo comune, poi di nuovo attenti a quella breccia che era stata loro prescritta. Se nella parte occidentale della città l’uno era considerato il re senza corona della letteratura, l’altro era l’autorità citabile a piacimento della metà orientale. E poiché in quegli anni Est e Ovest si facevano la guerra, anche se solo fredda, li si era spinti entrambi a un inasprimento reciproco. Soltanto mettendo in atto un doppio stratagemma il loro incontro poté trovare il proprio luogo al di fuori di questo schieramento. Ai miei idoli non dispiacque certo rinunciare per un’oretta ai loro ruoli. Davano quest’impressione, questo era il tono della loro comunanza. I periodi o mezze frasi che ho immaginato in una ricerca di completezza non erano astiosamente diretti contro l’altro. Ciò che entrambi citavano, non prendeva in parola se stesso, ma l’altro, di volta in volta. La loro scelta cercava il divertimento nell’ambiguità. Uno sapeva a memoria la breve poesia Colui che verrà e ne recitò il verso conclusivo voluttuosamente, come se fosse stato suo: Quando gli errori sono esauriti siede come ultimo compagno di fronte a noi il nulla. L’altro declamò un po’ alla buona gli ultimi versi della poesia giovanile Uomo e donna attraversano il padiglione dei cancerosi: Qui il campo già si inturgidisce attorno a ciascun letto. Carne si appiana in suolo. Calore si disperde. Umore si appresta a stillare. La terra chiama.
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Così gli intenditori si citavano a vicenda con soddisfazione. Si scambiavano anche elogi, tra una citazione e l’altra, ostentando con intento derisorio quel lessico che a noi studenti era fin troppo noto. - Le è riuscito uno straniamento fenotipico, - esclamò l’uno, e l’altro parlando in falsetto: - La Sua necroscopia da obitorio occidentale aiuta il mio teatro epico sia monologicamente che dialetticamente -. E ulteriori punzecchiature con divertimento reciproco. Poi si presero gioco di Thomas Mann, che era morto l’anno prima, parodiando i suoi «motivi conduttori resistenti a ogni strapazzo». Fu quindi la volta di Becher e di Bronnen, con quei nomi che consentivano giochi di parole[1]. Quanto alla peculiarità delle loro colpe politiche, si presero di mira solo brevemente. Così l’uno recitò in tono beffardo due versi da un inno partigianesco dell’altro, «… e il gran Raccoglitore del popolo sovietico, Josif Stalin, parlò del miglio, parlò di concime e di vento caldo… », al che l’altro accostò il temporaneo entusiasmo del primo per lo Stato del Führer al suo saggio propagandistico Mondo dorico e a un discorso tenuto in onore del futurista e fascista Marinetti. Per contro, il primo lodò ironicamente la Linea di condotta dell’altro come «universo espressivo di un vero tolemaico», per poi subito affrancare entrambi i peccatori riuniti accanto alla tomba di Kleist con una citazione dalla grande poesia A coloro che verranno. Voi che sarete emersi dai gorghi dove fummo travolti pensate quando parlate delle nostre debolezze anche ai tempi bui cui voi siete scampati. Il «voi» era indubbiamente rivolto a me, il nato dopo che origliava in disparte. Dovetti accontentarmi di questa esortazione, sebbene dai miei idoli mi fossi aspettato un esame più aperto dei loro indicativi errori. Ma non ci fu altro. Allenati a passar le cose sotto silenzio, entrambi si interessarono adesso del reciproco stato di salute. L’uno, come medico, era preoccupato per l’altro, al quale poco tempo prima un certo professor Brugsch aveva consigliato un prolungato ricovero alla Charité, e quindi per spiegarsi si batteva sul petto. Lo stesso era preoccupato anche per il «bailamme» che lo aspettava coi festeggiamenti del suo settantesimo compleanno - «Mi basterebbe una bella birra fresca!» - mentre l’altro insisteva sulle precauzioni testamentarie: nessuno, neanche lo Stato, doveva avere il permesso di esporre pubblicamente la sua salma. Niente discorsi sulla tomba… L’uno approvava l’altro, sì, ma poi lo coglievano dei dubbi: - La precauzione va bene. Però chi ci protegge dai nostri epigoni? Nemmeno un accenno alla situazione politica. Neppure una parola sul riarmo, all’Ovest come all’Est. Ridendo delle ultime battute che
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sbeffeggiavano morti e viventi, entrambi si allontanarono dalla tomba di Kleist senza aver menzionato o citato il poeta là condannato all’immortalità[2]. Alla stazione di Wannsee l’uno, che abitava a Schöneberg nei pressi di Bayerischer Platz, prese la sopraelevata; una macchina aspettava l’altro, con l’autista in attesa che lo avrebbe condotto, c’era da supporre, a Buchow o allo Schiffbauerdamm. Quando poi arrivò l’estate ed entrambi morirono a poca distanza di tempo l’uno dall’altro, decisi di bruciare le mie poesie, di rinunciare alla germanistica e di mettermi a studiare diligentemente ingegneria meccanica al Politecnico. [1] Johannes Becher (1891-1958), scrittore e poeta espressionista e Arnolt Bronnen (1895-1959), drammaturgo austriaco. I loro nomi si prestano a giochi di parole in quanto l’uno significa «calice, coppa», e l’altro «fonte, sorgente». [2] Si allude all’iscrizione sulla tomba di Kleist: «Ora, immortalità, mi appartieni interamente», verso tratto dal Principe di Homburg.
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1957 Caro amico, dopo un così lungo lavoro... Caro amico, dopo un così lungo lavoro in comune sento l’urgenza di scriverti questa lettera. Anche se le nostre strade si sono separate, conto sul cameratismo che ci ha sempre uniti e spero al tempo stesso che il mio scritto confidenziale possa raggiungerti; purtroppo nella nostra patria divisa si impone un comportamento fatto di cautele. Ma veniamo al motivo della mia dichiarazione di amicizia: potendosi considerare concluse, sia da voi che anche da noi, le fasi di ricostituzione dell’esercito federale e delle forze armate popolari, il primo maggio di quest’anno mi è stata conferita la medaglia di bronzo al merito della Nva[1]. Mentre si rendeva omaggio alla mia attività, mi sono reso conto che questo onore spetta anche a te, e non in piccola parte: insieme ci siamo guadagnati la benemerenza di aver contribuito all’evoluzione dell’elmetto d’acciaio tedesco. Purtroppo nel corso della cerimonia si è tralasciato di menzionare (per motivi facilmente comprensibili) gli antecedenti del modello M 56; e dire che già durante l’ultima guerra mondiale la realizzazione dell’elmetto d’acciaio fu di nostra pertinenza, nella ferriera A.G. Thale, quando portammo a compimento, in qualità di ingegneri esperti nel campo, gli elmetti B e B II progettati dal prof’ Fry e dal dott’ Hänsel e più tardi collaudati sotto tiro. Come certo ricorderai, purtroppo il comando supremo ci vietò di scartare gli M 35, sebbene i loro difetti - bande laterali troppo scoscese e angolo di impatto fino a 90 gradi - fossero dimostrati da rilevanti perdite fra le truppe. Quelli nuovi, sperimentati già nel ’43 alla scuola di fanteria di Döberitz, diedero prova di maggior resistenza al fuoco grazie agli angoli di inclinazione ribassati e risultati eccellenti quando si trattò di operare coi fucili anticarro da 2 cm e coi lanciagranate da 8 cm - chiamati «tubi di stufa» -, e così pure nell’impiego di cannocchiali a forbice e delle ricetrasmittenti «Dora». Inoltre emersero ulteriori vantaggi, confermati da numerose perizie: lo scarso peso, la maggior libertà di movimento della testa nel manovrare qualsiasi arma e apparecchio come anche un’accresciuta facoltà uditiva con la soppressione dei rumori parassiti. Purtroppo, come sai, si restò fedeli all’M 35 fino alla fine. Solo oggi, con la costituzione delle forze armate popolari, ho potuto perfezionare ulteriormente presso la fonderia Veb[2] di Thale i modelli B e B II sperimentandoli ancora una volta e avviandone la produzione in serie col nome di elmetto Nva-M 56. Prevediamo di iniziare con centomila pezzi. Le
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rifiniture interne sono state affidate alla Veb Pellami e Sellerie Taucha. Il nostro elmetto si presenta bene, e respingo come non oggettiva la critica derisoria, espressa in alcune occasioni, che sia simile al modello ceco. Al contrario, caro amico! Come vedi, riguardo alla configurazione degli elmetti come pure al taglio delle uniformi, nella nostra repubblica si è aderito (anche se non dichiaratamente) ai modelli prussiani e si sono adottati persino gli sperimentati stivaletti per la truppa e gli stivaloni dei graduati, mentre da voi l’infausto «Ufficio Blank»[3] vuole chiaramente prendere congedo da qualsiasi tradizione. Così si è accettato pedissequamente un elmetto di modello americano. Il grigioverde delle uniformi è stato annacquato nel grigio ardesia di Bonn. Spero che non ti senta offeso se faccio una semplice constatazione: questo esercito federale si sforza certo, esteriormente, di apparire il più possibile disinvolto e imborghesito, ma non riesce, nonostante il travestimento davvero ridicolo, a nascondere la sua volontà di aggressione. Comunque, per il comando delle truppe, è ricorso - cosa che anche noi siamo decisi a fare - a benemeriti generali della Wehrmacht. Ma adesso voglio menzionare ancora una volta l’onorificenza che è stata concessa a me e, in linea di principio, anche a te: perché, quando nell’ambito delle celebrazioni del primo maggio mi fu consegnata la medaglia di bronzo, mi è tornato in mente il nostro professor Schwerd del Politecnico di Hannover. In fondo è stato lui che nel ’15 ha realizzato quell’elmetto d’acciaio entrato in azione prima davanti a Verdun e poi su tutti i fronti, sostituendo il misero elmo chiodato. Noi ci siamo considerati suoi allievi. In ogni caso mi sono sentito colmo di riconoscenza, quando a me (e segretamente anche a te) è stato tributato tanto onore. Eppure qualcosa ha offuscato la mia gioia: purtroppo ora ci sono due eserciti tedeschi, uno contro l’altro. La nostra patria è dilaniata. Un potere straniero l’ha voluto. Resta solo da sperare che un giorno non troppo lontano l’unità nazionale divenga per noi una certezza. Allora, come al tempo della gioventù, potremo camminare insieme nello Harz, non ostacolati da nessun confine. E i nostri soldati, uniti, porteranno quell’elmetto che nel corso di due guerre mondiali si è evoluto fino a raggiungere una forma ottimale quanto a protezione dai proiettili e al tempo stesso debitrice della tradizione tedesca. A questo, caro amico e camerata, ci è stato concesso dare il nostro contributo! tuo Erich [1] Nationale Volksarmee, le forze armate della Ddr. [2] Volkseigener Betrieb: era la sigla delle imprese nazionalizzate nella Ddr.
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[3] Struttura diretta dal sindacalista cattolico Theodor Blank (1905-72), che divenne poi ministro della Difesa, istituita da Adenauer nel 1950 per la ricostituzione delle forze armate tedesco-occidentali.
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1958 Questo è certo... Questo è certo: come all’ondata di abbuffamenti seguì l’ondata dei viaggi, col miracolo economico arrivò il miracolo della Fräulein tedesca. Ma quali furono le prime covergirls? Chi diede l’avvio già nel ’57 su «Stern»? Quali, tra le molte bellezze in vivaio, vennero chiamate per nome quando il miracolo della Fräulein traboccò oltre Atlantico, e la «Sensation from Germany» esplose sulla copertina di «Life»? Da voyeur dell’ultima scuola, già all’inizio degli anni Cinquanta mi ero preso una cotta per le gemelle, subito dopo che erano arrivate dalla Sassonia durante le vacanze, in visita dal padre che aveva piantato la madre. Rimasero all’Ovest, ma rimpiangendo un po’ la loro scuola di balletto di Lipsia non appena, grazie alla mia mediazione, cominciarono entrambe a sgambettare nel varietà Palladium, perché Alice e Ellen nutrivano più alte ambizioni e avevano sognato un ingaggio all’Opera di Düsseldorf: Lago dei cigni e avanti di quel passo. Di una comicità contagiosa, il loro accento sassone, quando le portavo a passeggiare in calze viola lungo le vetrine del Königsallee, all’inizio come attrazione, ben presto come sensazione. In questo modo furono scoperte dai direttori del Lido, in viaggio alla ricerca di talenti, e grazie alla mia intercessione presso il padre, le gemelle partirono per Parigi con una scrittura in tasca. Allora feci i bagagli anch’io. La boria di Düsseldorf mi era ormai diventata insopportabilmente noiosa. E poiché dopo la morte della mamma non avevo voluto unirmi in matrimonio col consiglio di vigilanza della nostra fiorente fabbrica di detersivi, la ditta mi liquidò con tale generosità che da allora dispongo di contanti in qualsiasi momento e ho potuto permettermi viaggi, alberghi di categoria superiore, una Chrysler con autista, poco più tardi uno chalet vicino a Saint-Tropez, insomma una tipica esistenza da playboy; ma in fondo mi infilai in questo ruolo, divertente solo se visto dall’esterno, a causa delle gemelle Kess-ler. La loro doppia bellezza mi attraeva. Ero diventato schiavo di due fiori di serra sassoni. La cui longistilità divinamente eccessiva forniva alla mia inutile esistenza un obiettivo che ovviamente non ho mai raggiunto, perché Alice e Ellen, Ellen e Alice vedevano in me solo un cagnolino da salotto, comunque ben fornito quanto a soldi. Ad ogni modo, avvicinare le due a Parigi divenne piuttosto difficile. La «Campanula», miss Bluebell, una vera arpia che in realtà si chiamava Leibovici, custodiva le sedici girls dalle gambe lunghe della sua rivista
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come educande: niente visite maschili in camerino! nessun contatto con i frequentatori del Lido! E dopo lo spettacolo, per il trasporto in taxi all’albergo erano ammessi solo conducenti sopra i sessanta. Nella mia cerchia di amici - e allora frequentavo una compagnia di sottanieri internazionali - si diceva: «E’ più facile forzare la cassaforte di una banca che una delle Bluebell». Tuttavia trovai l’occasione, o me lo permise la severissima carceriera, di portare a spasso le mie adorate gemelle sugli Champs-élysées. Inoltre mi affidò l’incarico di consolarle entrambe contemporaneamente, perché a causa della loro origine teutonica venivano ignorate dalle guardarobiere e aggredite in maniera odiosa dalle girls francesi. Nella suprema snellezza della loro figura dovevano rispondere di qualunque crimine di guerra avessero commesso i «boches». Che pena! Il loro pianto poteva spezzare il cuore! Con quale furia da collezionista ho asciugato quelle lacrime… Ma in seguito, col successo, gli attacchi diminuirono. E in America l’ammirazione per la «Sensation from Germany» non venne offuscata da alcun oltraggio. Alla fine anche Parigi giacque ai loro piedi. Si trattasse di Maurice Chevalier o di Françoise Sagan, di Grace di Monaco o di Sophia Loren, tutti restavano estasiati appena presentavo loro le gemelleKessler. Solo Liz Taylor è probabile abbia osservato con invidia la vita sottile dei miei gigli sassoni. Ah, Alice, ah, Ellen! Per quanto bramate fossero, nessuno dei vari stalloni in fregola è mai arrivato al dunque, con loro. Persino durante la lavorazione di Trapezio, quando Tony Curtis e Burt Lancaster tentarono instancabilmente di attaccare ora con l’una ora con l’altra, non ebbero successo, senza che io dovessi fare il sorvegliante. Erano comunque buoni amici e si punzecchiavano. Se le star hollywoodiane gridavano «Icecreams!» appena Ellen e Alice comparivano durante le pause di lavorazione, le mie creature ribattevano: «Hot dogs! Hot dogs!» E anche se Burt Lancaster, come più tardi è stato detto, si è ripassato una delle due, non deve averne ricavato granché e difficilmente avrà indovinato quale delle due fosse. Erano belle solo da guardare. E io ho potuto farlo, quando e dove ho voluto. Soltanto a me è stato possibile, finché hanno imboccato da sole quelle strade che il successo aveva loro spianato. Il loro fulgore eclissò ogni altra cosa, persino il miracolo spesso citato che si attribuisce esclusivamente all’economia tedesca, perché con Alice e Ellen iniziò quel miracolo sassone della Fräulein che ancora oggi ci lascia stupiti.
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1959 Come noi due, Anna e io... Come noi due, Anna e io, ci eravamo incontrati - era il cinquantatre sulla pista da ballo dell’Eierschale nella gelida Berlino di gennaio, adesso, poiché si poteva trovar scampo solo lontano dai capannoni della Fiera del Libro con le sue ventimila novità editoriali e le migliaia di redattori chiacchieroni, ballavamo leggiadri a spese della casa editrice (Luchterhand, o forse era nell’«arnia» appena inaugurata della S. Fischer, certo non sui pavimenti tirati a cera della Suhrkamp, no, era in un locale affittato da Luchterhand), come sempre, Anna e io, che ci eravamo cercati e trovati ballando, sull’onda di una musica che seguiva il ritmo dei nostri anni giovanili - dixieland! -, come se solo ballando riuscissimo a salvarci da quella confusione, dalla marea di libri, da tutta quella gente importante, e sottrarci così agilmente ai loro discorsi - «Un successo! Böll, Grass, Johnson vanno davvero forte… » - e al tempo stesso superare in giravolte veloci, con le gambe elastiche, stretti l’uno all’altro o a distanza di un soffio, il nostro presentimento, adesso qualcosa finisce, adesso qualcosa comincia, adesso abbiamo un nome, perché questo mormorio fieristico «Biliardo, Congetture, Tamburo di latta… » - e questo bisbigliare di ricevimento in ricevimento - «Eccola qui finalmente, la letteratura tedesca del dopoguerra… » - o anche valutazioni militaresche «Nonostante Sieburg[1] e il Frankfurter Allgemeine lo sfondamento è riuscito… » - si poteva fingere di non sentirli solo così, scatenandosi nella frenesia delle danze, perché il dixieland e il nostro battito cardiaco erano più forti, ci mettevano le ali ai piedi ed eliminavano la gravità, cosicché il peso del librone - una sberla di settecentotrenta pagine - si annullava nella danza e noi crescevamo di tiratura in tiratura, quindici, no, ventimila, e allora Anna, quando qualcuno gridò «Trentamila!» e ipotizzò contratti con Francia, Giappone e Scandinavia, improvvisamente, poiché noi oltrepassavamo anche questo successo e ora ballavamo senza più aderire al terreno, perse la sottoveste dall’orlo inferiore lavorato a smerlo e le tre pieghe con le ruches, quando l’elastico cedette o ebbe smarrito insieme a noi qualsiasi inibizione, e quindi Anna si librò dall’indumento caduto, con la punta del piede nudo lo scagliò là dove avevamo degli spettatori, la folla della fiera, tra essa persino dei lettori che festeggiavano con noi a spese della casa editrice (Luchterhand) quello che già era un bestseller e gridavano «Oskar!», «Os-kar balla», ma non era Oskar Matzerath che si esibiva in Jimmy the Tiger con una signora del centralino telefonico, eravamo Anna e io, esperti nel ballo, che avevano sistemato da amici Franz
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e Raoul, i loro figlioletti, ed erano arrivati in treno, e precisamente da Parigi, dove in una stamberga umida avevo riempito di coke il riscaldamento delle nostre due stanze e scritto capitolo dopo capitolo davanti alla parete stillante, mentre Anna, la cui sottoveste caduta era un’eredità della nonna, sudava ogni giorno alla stanga da Madame Nora in Place Clichy, finché avevo battuto le ultime pagine, spedito le bozze a Neuwied e finito di dipingere anche la copertina, con su Oskar dagli occhi azzurri, cosicché l’editore (Reifferscheid, si chiamava) ci invitò alla fiera di Francoforte, perché potessimo, in due, conoscere, assaporare, gustare e rigustare il successo; però Anna e io abbiamo sempre ballato, anche in seguito, quando ci eravamo fatti sì un nome, ma di ballo in ballo avevamo sempre meno da dirci.
[1] Il critico letterario Friedrich Sieburg (1893-1964).
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1960 Che peccato!... Che peccato! Certo, ai Giochi olimpici di Roma si presentò ancora una volta una squadra pantedesca, ma all’Adidas si arrivò alla rottura definitiva. E ciò accadde a causa di Hary. Non che fosse stata sua intenzione provocare un’altra lite tra noi fratelli, ma ha inasprito ugualmente il nostro dissidio, anche se negli affari ci eravamo separati già molto tempo prima, perché mio fratello ha fondato la Puma, la sua ditta concorrente, proprio qui, nelle vicinanze di Fürth, senza comunque raggiungere neanche alla lontana gli indici di produzione dell’Adidas. E’ vero: entrambe le imprese hanno dominato il mercato mondiale delle scarpette da corsa e da calcio. Ma è altrettanto vero che Armin Hary ci ha messi l’uno contro l’altro quando si presentava alla partenza delle sue gare da primato ora con le scarpette chiodate dell’Adidas, ora con quelle della Puma. E le due ditte hanno entrambe pagato. Così a Roma ha corso con le scarpette di mio fratello, ma poi, una volta conquistato l’oro con la sua fantastica gara, è salito sul podio indossando le Adidas. Però sono stato io quello che ha incluso le sue scarpette nel nostro museo già dopo il primato mondiale di dieci secondi a Zurigo, e ha elaborato il futuristico modello «9,9» in modo che a Roma Hary potesse presentarsi al via con le scarpette 9,9. Un peccato che si sia lasciato accaparrare da mio fratello, ed è tipico della nostra faida famigliare che subito dopo il trionfo degli ori - Hary aveva vinto anche la staffetta quattro per cento venissero presentati alla stampa sportiva otto modelli Puma con la sua firma autografa. Cominciava con «Hary-Start» e «Hary-Sprint», e si concludeva con «Hary-Victory». Ad ogni modo, non so quanto la Puma abbia dovuto sborsare. Oggi però, quando è ormai tardi per inversioni di rotta e riconciliazioni, la ditta è stata venduta, mio fratello è morto e le ostilità sono sepolte, riconosco con dolorosa lucidità che noi due non avremmo dovuto impegolarci con questo ragazzo, giustamente definito un velocissimo scapestrato[1]. Il conto della nostra eccessiva generosità è arrivato sul tavolo molto presto. Si era appena portato a casa il record mondiale finalmente confermato che sono cominciati gli scandali. Già a Roma, quando si trattò della staffetta, il ragazzaccio viziato si mise a litigare con i funzionari sportivi. L’anno seguente la sua carriera di scattista era bell’e finita. E questo dopo un’ascesa rapidissima. Macché, non un incidente d’auto, come si disse, il motivo furono grossolane infrazioni delle regole amatoriali. E noi - Adidas e Puma - avremmo traviato quel povero giovane.
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Naturalmente è un’assurdità, anche se devo ammettere che il mio caro signor fratello la sapeva lunga su come soffiare i corridori agli altri, costasse quel che costasse. Ha provato con tutti, Fütterer, Germar, Lauer. Ma con Hary ci ha sbattuto il naso, per quanto oggi penso proprio che il tribunale sportivo abbia giudicato con troppa pedanteria, impedendo così qualsiasi altra vittoria e record a questo ineguagliabile fenomeno di velocità: persino il nero Jesse Owens ha stretto la mano in segno di approvazione al bianco Armin Hary. Insisto: un vero peccato! Anche se la carriera di questo genio della corsa rivela quanto il suo talento sia stato insufficientemente corazzato sotto l’aspetto morale, con quale frequenza si sia più tardi trovato coinvolto in scandali come agente immobiliare o come imprenditore, e infine, all’inizio degli anni Ottanta, sia stato trascinato nella palude di intrighi della «Neue Heimat», un’impresa del sindacato, e in quelli dell’ordinariato arcivescovile di Monaco, cosa che gli è costata due anni di carcere per truffa e malversazione, tuttavia ho ancora davanti agli occhi quel ragazzone, e certo lo vedeva così anche mio fratello, mentre a tempo di record mondiale divorava i cento metri in quarantacinque passi, con una lunghezza massima del passo misurata in 2 metri e 29. Ah, la sua partenza! Appena fuori dai blocchi, era già davanti a tutti, anche agli atleti di colore. Per lunghi anni quest’ultimo record di un bianco sulla breve distanza ha resistito. Peccato che non abbia potuto battere lui stesso il suo famoso 10’’00. Perché se Armin Hary fosse rimasto all’Adidas e non si fosse impelagato con la Puma e con mio fratello, avrebbe certamente fatto 9’’9. Pare che Jesse Owens lo credesse capace persino di un 9’’8. [1] Il termine «Windhund» ha il doppio significato di «levriero» e di «scapestrato, persona poco raccomandabile».
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1961 Anche se oggi... Anche se oggi la cosa non fa più né caldo né freddo quasi a nessuno o non interessa per niente, mi dico che a ben guardare è stato il mio periodo migliore. Eri richiesto, ti cercavano. Per più di un anno hai vissuto pericolosamente, ti sei mangiato le unghie per la paura, ti sei esposto a dei rischi senza star lì tanto a chiederti se anche il prossimo semestre sarebbe andato a puttane. Studiavo al Politecnico, infatti, e già allora mi interessavo di tecnica del riscaldamento a distanza, quando da un giorno all’altro hanno tirato su il Muro. Il casino che scoppiò! Molti corsero a dimostrare, protestando davanti al Reichstag o da altre parti, io no. Ancora in agosto mi sono portato di qua Elke, che studiava pedagogia di là. E’ stato abbastanza facile, con un passaporto tedesco-occidentale che non le ha dato problemi riguardo a dati e foto. Ma già alla fine del mese dovemmo truccare lasciapassare e lavorare a gruppi. Io tenevo i contatti. Col mio passaporto federale, che era stato rilasciato a Hildesheim, da dove infatti provengo, è andata bene fino all’inizio di settembre. Da allora, uscendo dal settore orientale, fu necessario consegnare i lasciapassare. Probabilmente saremmo riusciti a fare anche quelli, se qualcuno ci avesse fornito in tempo la tipica carta dell’Est. Ma di queste storie oggi non ne vuol più sapere nessuno. A cominciare dai miei figli. Proprio non stanno ad ascoltare, oppure dicono: «Sì, certo, papà. Allora eravate molto più in gamba di noi, lo sanno tutti». Beh, forse andrà meglio in futuro con i miei nipoti, quando gli racconterò come ho portato di qua la loro nonna, che era appunto bloccata dall’altra parte, e poi ho partecipato all’«Operazione Ufficio Viaggi», come ci chiamavamo per camuffarci. C’erano degli specialisti, tra noi, che operavano con uova sode per falsificare i timbri. Altri facevano affidamento su complicati lavori con fiammiferi appuntiti. Eravamo quasi tutti studenti, molta sinistra, ma anche membri di associazioni goliardiche e gente che, come me, proprio non riusciva a scaldarsi per la politica. C’erano le elezioni, all’Ovest, e il borgomastro di Berlino si candidava per i socialisti, ma io non ho messo la crocetta né per Brandt e compagni né per il vecchio Adenauer, perché l’ideologia e le panzane elettorali con noi non funzionavano. Contava solo la prassi. Dovevamo infatti «appendere», come si diceva, le foto-tessera, anche su passaporti stranieri, svedesi, olandesi. Oppure, tramite persone di collegamento, si rubavano quelli con foto e dati somiglianti:
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colore dei capelli, degli occhi, altezza, età. E poi ci volevano i giornali adatti, spiccioli, vecchi biglietti, le tipiche cianfrusaglie che qualcuno, ad esempio una giovane danese, aveva in tasca. Era un lavoro pazzesco. E tutto gratis o a prezzo di costo. Ma oggi che non si fa niente per niente, non ti crede nessuno, che noi da studenti non si battesse cassa. Certo, c’è stato qualcuno che più tardi, con la costruzione del tunnel, ha steso la mano. Anche per questo è poi andato a puttane, il progetto della Bernauer Strasse. E’ stato quando tre operatori di una televisione americana si sono fatti pagare, senza che noi lo sapessimo, 30.000 marchi per filmare nel tunnel. Abbiamo scavato per quattro mesi. Sabbia del Brandeburgo! Era lunga più di cento metri, la galleria. E quando poi filmarono mentre noi stavamo facendo passare all’Ovest una trentina di persone, tra cui nonne e bambini, ho pensato che ne avrebbero tirato fuori un documentario per gli anni a venire. Invece no, l’hanno trasmesso quasi subito in televisione, e avrebbero fatto scoprire il passaggio clandestino in quattro e quattr’otto se il tunnel, nonostante il costoso sistema di pompaggio, non si fosse poco prima riempito d’acqua. Comunque, noi abbiamo continuato a operare in altri punti. No, morti non ne abbiamo avuti. Lo so. Quelle storie rendono di più. I giornali ci sguazzavano quando qualcuno si lanciava dalla finestra del terzo piano di una casa lungo il confine e si spiaccicava sul selciato, a un pelo da dove i pompieri avevano teso il telone di salvataggio. O quando un anno dopo Peter Fechter volle passare dal Checkpoint Charlie, gli spararono, e dato che nessuno lo soccorse è morto dissanguato. Storie del genere non potevamo offrirle, perché noi andavamo sul sicuro. Eppure potrei raccontarne di quelle che già allora più d’uno non ci voleva credere. Ad esempio, quanta gente abbiamo portato di qua attraverso le fognature. E la puzza di ammoniaca che c’era là sotto. Una delle vie di fuga, che dal centro arrivava a Kreuzberg, la chiamavamo «Acqua di Colonia 4711», perché tutti, i fuggiaschi e noi, dovevamo avanzare nei liquami fino al ginocchio. Più tardi ho fatto il tombinaro, e appena tutti se l’erano squagliata rimettevo a posto il chiusino, perché di solito gli ultimi fuggiaschi si lasciavano prendere dal panico e dimenticavano di sistemarlo bene. E’ successo così nel canale per l’acqua piovana sotto l’Esplanadenstrasse, nella zona nord della città, quando alcuni, appena messo piede all’Ovest, hanno fatto un canaio d’inferno. Per la gioia, è ovvio. Però ai Vopos che erano di guardia di là si è accesa la lampadina. E allora hanno buttato gas lacrimogeni nel canale. Oppure la faccenda del cimitero, il cui muro era inglobato nel Muro vero e proprio, e dove noi
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abbiamo scavato nel terreno sabbioso un tunnel puntellato nel quale si doveva strisciare e che arrivava direttamente alle tombe, cosicché la nostra clientela, tutta gente dall’aria candida, con fiori e altri addobbi funerari, di colpo spariva nel nulla. Per un po’ tutto è filato liscio, finché una giovane donna che voleva passare di qua col suo bambinetto ha piantato lì la carrozzina vicino all’accesso nascosto, e la cosa ha dato subito nell’occhio… Erano da prevedere, alcuni insuccessi. Ma adesso, se vuole, un’altra storia dove tutto è finito bene. Ne ha abbastanza? Capisco. Ci sono abituato, dopo un po’ la gente si stanca. Fino a un paio d’anni fa, quando il Muro c’era ancora, era diverso. A volte i colleghi coi quali lavoro qui nella centrale di teleriscaldamento, la domenica mattina mentre ci facevamo una birretta mi chiedevano: «Com’era quella storia, Ulli? Dai, racconta com’è andata quando hai portato di qua la tua Elke… » Ma oggi nessuno vuol più sentirne parlare, in particolare qui a Stoccarda, beh, perché gli svevi già nel ’61 non hanno capito un bel niente, quando a Berlino… E quando poi il Muro è sparito, di colpo, ancora meno. Tutto sommato sarebbero contenti se ci fosse ancora, beh, perché allora cadrebbe la tassa di solidarietà che devono sborsare da quando manca il Muro. Perciò non ne parlo più, anche se è stato il mio periodo migliore, quando passavamo nelle fogne coi liquami fino al ginocchio… O strisciavamo nelle gallerie… Ad ogni modo ha ragione mia moglie, quando dice: «Allora eri proprio diverso. Allora sì che abbiamo vissuto sul serio… »
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1962 Come oggi il papa... Come oggi il papa quando va in viaggio e vuol vedersi la sua gente in Africa o in Polonia senza che gli possa capitare niente di brutto, così, quando sedeva in tribunale da noi, hanno infilato il grande organizzatore di trasporti in una gabbia, che però era chiusa solo da tre lati. Verso la parte dove i signori giudici avevano il loro tavolo, la cabina di vetro era aperta. L’aveva prescritto il servizio di sicurezza, e perciò ho messo i vetri solo su tre lati, vetri speciali, blindati, che costavano un occhio. Con un po’ di fortuna la mia ditta ha ottenuto l’incarico, perché abbiamo sempre avuto clienti dalle richieste molto particolari. Beh, sedi di banche in tutto Israele e gioiellieri della Dizengoffstrasse, che presentano le loro vetrine piene di oggetti preziosi e hanno voluto renderle sicure magari contro violenze. Ma già a Norimberga, che una volta era una bella città e dove prima ha vissuto tutta la famiglia, mio padre era a capo della sua vetreria, che consegnava fino a Schweinfurt e a Ingolstadt. Sì, c’è stato abbastanza lavoro fino al trentotto, quando hanno sfasciato dappertutto molta roba, è facile immaginare il perché. Giusto Dio, sacramentavo da ragazzino, perché papà era severo e dovevo fare ogni giorno il turno di notte. Con un po’ di fortuna siamo venuti fuori, mio fratello più piccolo e io. Eravamo gli unici. Tutti gli altri, quando già c’era la guerra, da ultime le mie sorelle e tutte le cugine, sono finiti prima a Theresienstadt e poi chissà, a Sobibor, magari a Auschwitz. Solo la mamma è morta già prima, in modo del tutto naturale, come si dice, di un colpo. Ma qualcosa di più preciso non ha cavato fuori neanche Gerson, che è mio fratello, quando, una volta che finalmente c’era la pace, è andato in giro con le orecchie dritte in Franconia e dappertutto. Solo quando c’è stato il trasporto, di quello ha trovato il giorno preciso, perché da Norimberga, dove la mia famiglia ha sempre avuto il domicilio, partivano interi treni pieni zeppi. Beh, e adesso era seduto lì, quello che su tutti i giornali chiamavano «trasportatore di morte», nella mia gabbia di vetro che doveva essere a prova di proiettile, e lo era anche. Chiedo scusa per il mio tedesco che magari non è tanto buono, perché avevo diciannove anni quando col fratellino piccolo per mano ho tagliato la corda con la nave verso la Palestina, ma quello lì seduto nella gabbia e che continuava a trafficare con le cuffie parlava ancora peggio. I signori giudici, tutti quanti, che sapevano parlare bene il tedesco, l’hanno detto anche loro, quando lui infilava frasi lunghe un chilometro, che non si arrivava a niente. Però questo l’ho
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capito bene, io che ero seduto tra gli ascoltatori comuni, che lui ha fatto tutto solo per eseguire gli ordini. E che ce n’erano ancora tanti che hanno fatto tutto perché comandati, ma adesso con un po’ di fortuna possono andare in giro liberi. E sono ben pagati, uno addirittura come sottosegretario dell’Adenauer[1], col quale il nostro Ben Gurion ha dovuto trattare di soldi. Allora mi sono detto: senti un po’, Jankele! Di queste cabine coi vetri blindati ne dovevi costruire cento, anzi no, mille. Con la tua ditta e assumendo un po’ di gente in più ce la potevi fare, anche se non tutte insieme in una volta. Beh, allora quando veniva detto il nome di uno nuovo, magari dell’Alois Brunner, si poteva magari mettere una piccola gabbia di vetro, solo con dentro la targhetta col nome e un po’ come simbolo, tra la gabbia di Eichmann e il bancone dei giudici. Lì in bella evidenza. In poco tempo sarebbe stato pieno. Si è scritto molto sulla faccenda, beh, sul male e sul fatto che è un po’ banale. Solo dopo che l’hanno appeso per il collo si è scritto di meno. Ma finché il processo è andato avanti tutti i giornali ne erano pieni. Solo Gagarin, quel famoso sovietico nella sua capsula spaziale, ha fatto concorrenza al nostro Eichmann, tanto che i nostri e gli americani crepavano di invidia per il Gagarin. Io mi sono detto, quella volta: non trovi, Jankele, che sono tutti e due in una situazione simile? Ognuno lì per conto suo nella capsula. Però questo Gagarin è ancora più solo, perché il nostro Eichmann trova sempre qualcuno con cui blaterare, da quando i nostri ragazzi l’han portato via dall’Argentina, dove allevava polli. Perché parlare gli piace. Soprattutto gli piace raccontare di come più di ogni altra cosa voleva spedire noi ebrei giù in Madagascar, e non nel gas. E che non ha mai avuto assolutamente nulla contro gli ebrei. Anzi ci ammira addirittura per l’idea del sionismo, perché un’idea così bella si può organizzarla bene, ha detto. E se non avesse avuto l’ordine di pensare ai trasporti, magari il popolo ebreo gli sarebbe ancor oggi riconoscente, perché si è preso così a cuore l’emigrazione di massa. Allora mi sono detto: anche tu, Jankele, dovresti essere riconoscente all’Eichmann per quel po’ di fortuna, perché Gerson, che è il tuo fratello piccolo, ha potuto andarsene via con te nel trentotto. Solo per tutto il resto della famiglia non devi essere riconoscente, per il papà e tutte le zie e gli zii, le sorelle e le tue graziose cugine, una ventina di persone, a conti fatti. Ne avrei parlato volentieri con lui, magari, beh, perché lui conosceva le destinazioni dei trasporti e dove insomma sono finite le mie sorelle e il severo papà. Ma non mi hanno lasciato. Di testimoni ce n’erano
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abbastanza. Inoltre ero contento di essermi potuto occupare della sua sicurezza. Magari gli piaceva, nella sua cabina di vetro blindato. Dava quest’impressione, quando sorrideva un po’. [1] Il giurista Hans Globke (1898-1973), uno degli estensori delle leggi antiebraiche di Norimberga, fu per un decennio (1953-63) sottosegretario alla cancelleria federale.
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1963 Un sogno abitabile... Un sogno abitabile. Un’apparizione che si concretizzò e rimase saldamente ancorata. Ah, come riuscì a entusiasmarmi! Una nave, veliero e piroscafo musicale al tempo stesso, audacemente progettata, venuta a trovarsi nel suo color salmone vicino all’orribile Muro che tutto separa, arenatasi su un terreno incolto, offre la fronte alla barbarie con l’alta prora e, come più tardi si poté vedere, rispetto a qualche altro edificio nei suoi pressi, per quanto modernamente possa essere concepito, lievita in una dimensione iperreale. Il mio giubilo venne definito fanciullesco, anzi, adolescenzialmente eccentrico, eppure non mi vergognavo della mia esaltazione. Con pazienza, forse anche con una calma un po’ presuntuosa, ho sopportato le prese in giro delle guardarobiere più anziane, ben sapendo che io, figlia di contadini del Wilstermarsch e adesso, grazie alla borsa di studio, diligente studentessa di musica che solo occasionalmente e per guadagnare qualche soldo prestava servizio come guardarobiera, non avevo diritto a nessun genere di pretenziosa saccenteria. Inoltre, la derisione delle mie mature colleghe dietro al bancone del guardaroba era di natura bonaria. «La nostra flautista si esercita un’altra volta sui toni più alti», dicevano alludendo al mio strumento, il flauto traverso. In realtà è stato Aurèle Nicolet, il mio venerato maestro, che ha incoraggiato me e certo anche altre studentesse con tendenza all’esaltazione a esprimere in modo eloquente l’entusiasmo sia per un’idea al servizio dell’umanità, sia per una nave incagliata di nome Filarmonica; del resto, anche lui è un ingegno focoso dai crespi capelli fiammeggianti che - come trovavo allora - gli conferiscono un fascino seducente. In ogni caso, ha subito tradotto in francese il mio paragone con la nave incagliata: bateau échoué. I berlinesi, invece, incomodarono di nuovo il loro senso dell’umorismo mescolando gli elementi a forma di tenda dell’edificio con la posizione centrale del direttore d’orchestra e riducendo seduta stante il grande progetto al volgare denominatore di «Circo Karajani». Altri elogiavano e criticavano al tempo stesso. L’invidia tra colleghi architetti trovò occasione di sfogarsi. Solo il professor Julius Posener, da me altrettanto venerato, ha detto una cosa giusta con la sua osservazione: «A Scharoun è stato dato modo di costruire uno spazio piranesiano e di volgere in festosità il suo connotato carcerario… » Comunque resto della mia idea: è una nave, se volete una nave-prigione, la cui vita interiore è abitata, animata,
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dominata dalla musica, una musica catturata, se volete, e subito messa in libertà nello spazio. E l’acustica? Fu elogiata da tutti, da quasi tutti. Io c’ero, ho potuto esserci, quando l’hanno provata. Poco prima della solenne inaugurazione ovviamente Karajan aveva preteso la Nona! - mi ero infilata nella sala semibuia, senza chiedere permessi. Le balconate si potevano appena indovinare. Solo il podio giù in basso era illuminato dai proiettori. Poi dall’oscurità mi chiamò una voce bonariamente burbera: - Non star lì con le mani in mano, ragazza! Ci serve aiuto. Sul podio, forza! - E io, di solito sempre pronta alla replica, io, la cocciuta figlia di contadini del Marsch, obbedii all’istante, mi affrettai a scendere le scale, dopo alcuni giri viziosi mi trovai nel fascio di luce e mi lasciai ficcare in mano da un uomo, che più tardi mi venne presentato come tecnico del suono, una pistola a tamburo con qualche parola di spiegazione. Dall’oscurità della sala stratificata in favi di poltrone che giravano tutt’attorno risuonò di nuovo la voce burbera: - Tutti e cinque i colpi uno dopo l’altro. Niente paura, ragazza, sono soltanto cartucce a salve. Adesso, ecco, adesso! Sollevai obbediente la pistola, con piglio intrepido, e pare che in quel momento, come mi è stato detto più tardi, la mia figura fosse «angelicamente bella». Insomma, ero lì in piedi e lasciai partire cinque colpi a brevi intervalli, in modo che si potessero rilevare le misurazioni acustiche. Ed ecco: tutto andò per il meglio. Ma la voce burbera che era uscita dall’oscurità apparteneva all’architetto Hans Scharoun, che da allora venero proprio quanto in precedenza il mio insegnante di flauto. Per questo motivo - e certo anche seguendo un richiamo interiore - ho lasciato la musica e adesso studio con entusiasmo architettura. Ma quando capita - e perché ora non ho borse di studio - do ancora una mano come guardarobiera, alla Filarmonica. Così, di concerto in concerto, mi rendo conto di come musica e architettura coincidano, particolarmente quando un costruttore di navi cattura e libera la musica nello stesso istante.
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1964 Giusto, a tutte le cose tremende... Giusto, a tutte le cose tremende che sono successe lì e agli annessi e connessi ci sono venuta sopra tardi, e precisamente quando abbiamo dovuto sposarci in fretta perché ero incinta, e ci siamo proprio perduti nel Römer, dove da noi a Francoforte c’è lo stato civile. Appunto, tutte quelle scale e l’agitazione. Ad ogni modo ci hanno detto: - Avete sbagliato. E’ due piani più sotto. Qui c’è il processo. - Che processo? - ho chiesto. - Ma sì, contro quelli di Auschwitz. Non li legge i giornali? Non parlano d’altro. Allora siamo scesi di nuovo giù, dove ci aspettavano già i testimoni. Non i miei genitori, però, perché da principio erano contrari al matrimonio, ma c’era la mamma di Heiner, emozionatissima, e anche due amiche dei servizi telefonici. Una volta fatta, siamo andati tutti al Palmengarten, dove Heiner aveva prenotato un tavolo, e abbiamo festeggiato come si deve. Ma dopo il matrimonio non sono riuscita a liberarmi, da quella storia, ho continuato ad andarci, anche quando ero già al quinto o sesto mese e la giustizia aveva trasferito il processo in Frankenallee, dove nella Haus Gallus una sala piuttosto grande ha offerto più spazio, specialmente per il pubblico. Heiner non è mai venuto, neanche quando aveva il turno di notte allo scalo merci dove lavorava, e avrebbe potuto. Ma quello che si poteva raccontare gliel’ho raccontato. Tutte le cose tremende e le cifre che arrivavano ai milioni, lì non si capiva mai bene, perché, come cifre reali, ne dicevano sempre di diverse. Giusto, pareva fossero tre, poi al massimo due, i milioni di gassati o morti in altri modi. Ma il resto che hanno portato in tribunale era altrettanto tremendo o ancora peggio, perché l’avevi davanti agli occhi, e io ho potuto raccontarlo a Heiner, finché lui ha detto: Adesso piantala. Avevo quattro, al massimo cinque anni, quando è successo. E tu eri appena nata, allora. Vero. Ma il papà di Heiner e suo zio Kurt, che in realtà è una persona proprio a posto, sono stati soldati tutti e due, e precisamente fin su in Russia, come mi ha raccontato una volta la mamma di Heiner. Però dopo il battesimo di Beate, dove finalmente si è riunita tutta la famiglia, quando volevo raccontare a loro due del processo nella Haus Gallus, e di Kaduk e di Boger[1], mi son sentita rispondere solo: - Noi non ne sapevamo niente. Quando sarebbe successo? Quarantatre? C’era da pensare alla ritirata, e basta… - E lo zio Kurt ha detto: - Quando abbiamo dovuto abbandonare la Crimea e finalmente sono venuto in licenza, qui non
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avevamo più la casa, grazie ai bombardamenti. Ma di tutto quello che ci hanno fatto gli americani e gli inglesi nessuno parla. Ovvio, perché hanno vinto, e i colpevoli sono sempre gli altri. Smettila con questa storia, Heidi! Ma Heiner, lui ha dovuto starmi a sentire. L’ho proprio costretto, perché certamente non è stato un caso se ci siamo perduti nel Römer quando dovevamo sposarci, e siamo incappati in Auschwitz e, ancor peggio, in Birkenau, dove c’erano i forni. Da principio non ci voleva assolutamente credere che, ad esempio, un imputato ha ordinato a un detenuto di annegare il proprio padre, e dopo il detenuto è veramente impazzito e per questo, solo per questo, l’imputato l’ha ucciso all’istante. O quello che succedeva nel piccolo cortile tra il blocco 11 e il blocco 10, alla parete nera. Fucilazioni! Migliaia, a occhio e croce. Perché quando hanno trattato l’argomento, nessuno sapeva la cifra esatta. In genere c’erano difficoltà a ricordare. Quando poi ho raccontato a Heiner dell’altalena che aveva preso il nome da questo Wilhelm Boger, che ha inventato un congegno del genere per far parlare gli internati, da principio non voleva proprio capire. Allora gli ho disegnato su un pezzo di carta quello che un testimone ha fatto vedere ai giudici con un modello che aveva costruito apposta per il processo. Sulla stanga, in alto, era appeso il detenuto, un pupazzo vestito con quella roba a righe, e legato in modo tale che questo Boger potesse colpirlo proprio in mezzo alle gambe e sempre sui testicoli. Sì, direttamente sui testicoli. - E pensa un po’, Heiner, - gli ho detto, mentre il testimone raccontava tutto questo alla corte, Boger, che sedeva sul banco degli imputati un po’ sulla destra dietro di lui, sorrideva soddisfatto, sì insomma, un sorriso a tutta bocca… Appunto! Me lo sono chiesta anch’io! Ma questo è ancora un essere umano? Comunque ci sono stati dei testimoni che hanno affermato che per il resto Boger era abbastanza corretto e si è sempre occupato dei fiori nella baracca del comando. Pare che odiasse davvero solo i polacchi, gli ebrei molto meno. Beh certo, la faccenda delle camere a gas e del crematorio nel campo principale e a Birkenau, dove c’era una quantità di zingari in baracche separate e sono stati tutti gassati, era molto più complicata da capire rispetto alla storia dell’altalena. Ma il fatto che questo Boger avesse una certa somiglianza con lo zio Kurt, in particolare quando guardava così da bonaccione, naturalmente non l’ho raccontato, perché sarebbe stata una cattiveria verso lo zio Kurt, che è del tutto innocuo e l’amabilità in persona. Però questa storia dell’altalena e altre cose evidenti ci sono rimaste in testa, a me e a Heiner, tanto che ce ne ricordiamo sempre quando c’è
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l’anniversario di matrimonio, anche perché io allora andavo lì incinta di Beate e dopo ci siamo detti: - Speriamo che la bambina non abbia capito niente, di tutta quella roba -. Ma la primavera scorsa Heiner mi ha detto: - Forse in estate, quando ho le ferie, ci facciamo un viaggio fin su a Cracovia e a Katowice. La mamma è un pezzo che lo desidera, perché viene proprio dalla Slesia superiore. Sono già stato all’Orbis. E’ l’agenzia di viaggi polacca… Io però non so se per noi è la cosa giusta e se poi lo faremo, anche se ormai è facile ottenere il visto. Appunto. Da Cracovia non ci si deve impiegare molto fino a Auschwitz. Si può perfino visitare, c’è scritto qui sul dépliant… [1] Oswald Kaduk (1906) e Wilhelm Boger (1906-77), due dei principali imputati al processo di Francoforte, entrambi condannati all’ergastolo.
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1965 Con gli occhi sullo specchietto retrovisore... Con gli occhi sullo specchietto retrovisore, di nuovo a divorare chilometri. In viaggio tra Passavia e Kiel. A battere contrade. A caccia di voti. Dietro al volante della nostra Dkw presa in prestito si è incastrato Gustav Steffen, uno studente di Münster, il quale, poiché di famiglia non troppo buona, anzi cresciuto in un ambiente di proletari cattolici - il padre aveva militato nel Centro -, ha dovuto percorrere al trotto il corso di studi di secondo livello, un apprendistato da meccanico, il liceo serale, e adesso, visto che come me vuol far propaganda per i socialisti, ragionevole, precisa - «Noi siamo diversi. Noi non arriviamo troppo tardi!» -, spunta le tappe del nostro viaggio elettorale: «Ieri a Magonza, oggi a Würzburg. Molte chiese e campane. Un covo nero con schiarite ai margini… » E già parcheggiamo di fronte alla sala Hutten. Poiché sono assegnato allo specchietto, leggo dapprima a rovescio, poi dal verso giusto, la scritta su uno striscione che viene tenuto alto come un messaggio pentecostale dai ragazzi della Junge Union[1] con la scriminatura sempre a posto: «Cosa cerca l’ateo nella città di san Kilian[2]?», e solo nella sala stracolma, occupata nelle prime file dagli studenti delle corporazioni riconoscibili dai loro pendagli, trovo una risposta - «Cerco Tilman Riemenschneider!» - che placa la tempesta di fischi appellandosi a quello scultore e borgomastro della città al quale il governo dei principi-vescovi ha fatto storpiare entrambe le mani al tempo delle guerre dei contadini, e che adesso, così chiaramente evocato, procura spazio e magari anche ascolto al mio discorso, paragrafo dopo paragrafo: «Te io canto, democrazia!»… Walt Whitman, leggermente variato a scopi elettoralistici… Ciò che si può desumere non dallo specchietto retrovisore, ma solo dalla memoria: questo viaggio l’hanno organizzato studenti della lega socialdemocratica universitaria e studenti della lega liberale, che sono pattuglie sperdute sia a Colonia, sia ad Amburgo a o Tübingen, e ai quali, quando tutto era solo un progetto nutrito di vaghe speranze, io ho preparato nella Niedstrasse di Friedenau una pentola di cospirativa minestra di lenticchie. Fino a quel momento la Spd non ebbe alcun sentore della sua immeritata fortuna, ma in seguito, quando cominciammo a girare, considerò riuscito almeno il nostro manifesto, il mio gallo che gracchia «Es-Pe-De». I compagni erano anche stupiti per il fatto che le sale, sebbene si dovesse pagare l’ingresso, fossero piene da scoppiare. Solo riguardo ai contenuti non hanno gradito un paio di cose, ad esempio la mia citatissima richiesta del definitivo riconoscimento della linea Oder-
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Neisse, ovvero l’esplicita rinuncia a Prussia orientale, Slesia, Pomerania e - cosa che mi addolorava particolarmente - a Danzica. Questo andava al di là di tutte le risoluzioni congressuali, come del resto anche la mia polemica contro il paragrafo 218[3]; però si diceva: d’altra parte, guarda quanti giovani elettori arrivano, ad esempio a Monaco… Oggi è pieno zeppo, il circo Krone con i suoi 3500 posti. Contro l’epidemia di fischi diffusa anche qui dalla cricca di destra mi soccorre la mia poesia d’occasione L’effetto caldaia a vapore, che ogni volta, e anche qui, rallegra l’atmosfera: «… Guardate questo popolo, unito nei fischi. Fischiomane, fischiofrenico, fischiofilo, perché fischiare rende uguali, costa poco e riscalda. Ma di chi sono i soldi con cui viene formata questa élite, arguta e fischiante… » Mi piace vedere, riflessi nello specchietto, gli amici seduti sotto la tenda del Krone, tra i quali alcuni che nel frattempo sono morti. Hans Werner Richter, il mio padre adottivo letterario, che all’inizio, prima che mi mettessi in viaggio, era scettico, ma poi disse: - Fallo. Io ci sono già passato: circolo di Grünwald, lotta contro l’atomica. Adesso puoi logorarti tu… No, caro amico, nessun logoramento. Imparo cose nuove, sondo aria viziata che ristagna da lungo tempo, seguo la traccia della lumaca, arrivo in contrade dove infuria ancora la guerra dei Trent’anni, adesso, ad esempio, a Cloppenburg, più nera di Vilshofen o di Biberach an der Riss. Gustav Steffen ci pilota fischiettando attraverso il piatto Münsterland. Mucche, dappertutto mucche che si moltiplicano nello specchietto e sollevano la questione se in questo posto persino le mucche siano cattoliche. E sempre più trattori stracarichi, che come noi si dirigono alla volta di Cloppenburg. Sono famiglie di contadini dai molti membri, vogliono essere presenti quando nella Münsterlandhalle che abbiamo affittato prenderà la parola il Maligno… Mi occorrono due ore per il discorso Scegliere tocca a voi, che di solito fila via in meno di una. Avrei potuto leggere gridando anche il mio Inno per Willy o I vestiti nuovi dell’imperatore; ma persino un brano dal Nuovo Testamento non avrebbe placato quel tumulto. Ai lanci di uova reagisco con accenni alle sovvenzioni per l’agricoltura «gettate al vento». Qui non si fischia. Qui si procede più energicamente. Alcuni giovani contadini che lanciarono e soprattutto colpirono con determinazione, quattro anni dopo, ormai convertiti al socialismo, mi inviteranno per un secondo giro a Cloppenburg; ma stavolta ammonisco i lanciatori di uova facendo leva sui sedimenti palustri di un’erudizione cattolica: - Lasciate perdere, ragazzi!
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Altrimenti sabato prossimo dovrete andarlo a confessare all’orecchio del vostro signor parroco… Quando lasciammo il luogo del reato con una cesta piena di uova avuta in regalo - la zona attorno a Vechta e Cloppenburg è famosa per le sue stipatissime aziende avicole -, con me, piuttosto insudiciato, nella parte del passeggero, Gustav Steffen, che pochi anni dopo avrebbe perso la sua giovane vita in un incidente d’auto, disse con gli occhi allo specchietto: Andranno certamente male, le elezioni. Ma qui di voti ne prendiamo. Tornato a Berlino, mentre dormivo un sonno di piombo, la porta di casa bruciò, spaventando Anna e i bambini. Da allora in Germania qualcosa è cambiato, ma non nel campo degli incendi dolosi. [1] L’organizzazione giovanile del partito cristiano-democratico (Cdu). [2] Predicatore itinerante irlandese, assassinato a Würzburg attorno al 689. [3] Uno degli articoli della legge sull’aborto allora in vigore, particolarmente restrittiva.
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1966 Il «Sein» o «Seyn»... Il «Sein» o «Seyn», le parole solenni, scritte con o senza y, d’improvviso non dicevano più nulla. D’improvviso, come se l’essenza, il fondamento, l’ente e il nullificante fossero semplicemente delle parole vuote, mi vidi messo in discussione e in un certo qual modo esortato a rendere qui testimonianza. Dopo una così lunga serie di anni, e poiché nella confusione attuale si festeggiano malamente, come si trattasse di una svendita, tutti gli eventi più disparati in qualche modo memorabili, ad esempio il marco che ha cominciato a circolare cinquant’anni fa, ma anche l’inquietante Sessantotto, metto per iscritto ciò che mi è capitato un pomeriggio del semestre estivo ancora in corso. Perché d’improvviso, dopo aver introdotto il mio seminario del mercoledì con riferimenti a dire il vero cauti sulle corrispondenze testuali tra le poesie Fuga sul tema morte e Todtnauberg - ma avendo per il momento tralasciato il memorabile incontro tra il filosofo e il poeta -, e mentre i primi contributi di studentesse e studenti scivolavano nella genericità concettuale, fui assalito da domande che nascevano dal profondo e che in realtà sorgevano troppo rapportate al tempo per soppesarle con istanze esistenziali del genere: Chi ero io allora? Chi sono oggi? Cosa ne è stato di quel sessantottino una volta oblioso dell’essere ma tuttavia radicale, che già nel ’66, anche se quasi per caso, era presente quando a Berlino prese corpo la prima protesta contro la guerra in Vietnam? No no, ma quali cinquemila, saranno stati al massimo duemila quelli che - con tanto di notifica e di autorizzazione - dalla Steinplatz si diressero verso l’Amerikahaus lungo la Hardenbergstrasse tenendosi sottobraccio e gridando slogan. Gruppi e gruppuscoli di tutti i generi, gli studenti socialisti, gli universitari socialdemocratici, la lega degli studenti liberali e l’Argument-Club, ma anche la comunità degli studenti evangelici, avevano organizzato la manifestazione. In precedenza alcuni, e di certo anch’io, erano passati da Hoffmann per comperare premeditatamente uova della qualità più scadente. Con le quali bombardammo la «sede degli imperialisti», come si diceva. Non solo presso contadini renitenti, anche nei circoli studenteschi il lancio di uova era, al tempo, venuto di moda. Oh sì, anch’io ho lanciato e gridato insieme agli altri «Giù le mani dal Vietnam!» e «Johnson boia!» In realtà si sarebbe dovuto arrivare a una discussione, e il direttore dell’Amerikahaus, un uomo che si atteggiava a liberale, era addirittura disposto a intervenire, ma subito volarono le uova, e dopo il lancio collettivo, mentre la polizia si teneva in disparte,
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sfilammo per il Kurfürstendamm, poi lungo la Uhlandstrasse fino a tornare in Steinplatz. Ricordo alcune scritte sugli striscioni, ad esempio «Marines fate fagotto!» e «Uniti contro la guerra!» Fu però spiacevole che alcuni funzionari del partito unico dell’Est si fossero infilati nel corteo per sobillarci - anche se vanamente - con la propaganda. Per la stampa di Springer, comunque, la loro presenza fu la ciliegina sulla torta. Ma io? Come sono arrivato a correre in corteo? A tenermi a braccetto? A gridare fino alla raucedine? Cresciuto in un ambiente borghese e in certo modo conservatore, avevo studiato scienza delle religioni con Taubes, assaggiato Husserl, gustato Scheler, inalato Heidegger, mi vedevo tranquillo sul suo sentiero di campagna, ero avverso a qualsivoglia tecnica, al semplice «supporto», e fino a quel momento liquidavo ogni cosa palese, ad esempio la politica, come «oblio dell’essere». Ma adesso, di punto in bianco, prendevo partito, insultavo il presidente americano e il suo alleato, il dittatore sudvietnamita Thieu e il generale Ky, però non ero ancora pronto a sfrenarmi totalmente al grido di Ho-Ho-Ho-Chi-Minh. Insomma, chi ero io in realtà, allora, trent’anni fa? Mentre le tesine sul seminario, due, tre brevi relazioni, coinvolgevano meno della metà del mio interesse, la questione non smetteva di tormentarmi. I miei studenti è probabile abbiano notato la parziale distrazione del loro professore, ma la domanda rivoltami direttamente da una studentessa, perché mai nella poesia su Todtnauberg l’autore avesse abbreviato la «speranza, oggi, per la parola che verrà (che verrà senza indugi) di un uomo di pensiero» della prima versione, visto che nella versione definitiva, quella contenuta nel volume Luce coatta, le parole tra parentesi non ci sono più, questa domanda fondamentale mi riportò alla quotidianità universitaria e in qualche modo, poiché era stata posta con tale brusca immediatezza, evocò una situazione nella quale già da giovane mi ero trovato «gettato»: ancor prima che iniziasse il semestre invernale 66-67, abbandonai il selciato inquieto di Berlino, presto percorso da cortei di protesta sempre più numerosi, per andare a studiare a Friburgo. Venivo da lì. In più mi aveva affascinato il germanista Baumann. Cercai di interpretare il mio ritorno nel senso di una «svolta» heideggeriana. Alla mia studentessa, comunque, la cui domanda formulata in tono provocatorio doveva obbligarmi a una risposta «senza indugi», replicai in modo evasivo e certo inadeguato - tanto più che ripresi subito a rivolgere domande solo a me stesso -, facendo riferimento alla temporanea adesione del discusso filosofo allo Stato del Führer, e al suo silenzio coprente qualsiasi misfatto.
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Eh sì, era la vicinanza del grande sciamano quella che cercavo, quando fuggii a Friburgo. Lui o la sua aura mi attraevano. Le parole solenni mi erano diventate precocemente familiari, perché già da bambino papà, che era primario in una clinica della Foresta Nera e trascorreva sui sentieri il suo limitato tempo libero, mi aveva portato da Todtnau a Todtnauberg, non trascurando mai di indicare la modesta casetta del filosofo…
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1967 Il mio seminario... Il mio seminario del mercoledì che andava per le lunghe e, se si prescinde da una farfalla che si era perduta entrando dalle finestre aperte, sembrava essere animato da un interesse piuttosto tiepido, presentava tuttavia una ripidezza sufficiente per rigettarmi di continuo sul mio Essere caduto in prescrizione e, in certo qual modo, mettermi di fronte a questioni di grosso calibro: Cosa in realtà mi aveva spinto via da Berlino? Non avrei dovuto essere lì presente, il 2 giugno? Non avrei dovuto cercare il mio posto tra coloro che protestavano davanti al municipio di Schöneberg? Non sarei stato anch’io, che pensavo di odiare lo Scià di Persia, un bersaglio adatto per i persiani acclamanti che picchiavano con assi di legno? Tutte domande a cui rispondere affermativamente, con qualche piccola riserva. Certo avrei potuto anch’io dichiararmi solidale con un manifesto dalla scritta «Libertà immediata per gli studenti iraniani!» e farmi notare dalla polizia. E poiché nel municipio, contemporaneamente alla visita dello Scià, una commissione parlamentare deliberava sull’aumento delle tasse universitarie, sarebbe stato logico che cantassi in coro con altri dimostranti quello stupido successo di un carnevale d’altri tempi, «E chi paga». E quando alla sera lo Scià con la sua Farah Diba, accompagnato in pompa magna da Albertz, il sindaco della città, si recò alla Deutsche Oper in Bismarckstrasse, le truppe di pronto intervento della polizia avrebbero potuto spingere anche me, se non me la fossi vigliaccamente svignata a Friburgo, nel budello tra la Krumme e la Sesenheimer Strasse e - mentre in teatro il programma della festa aveva già preso il via - inseguirmi coi manganelli. Sì, mi chiesi o la domanda sorse dal fondo dell’animo, quando poi fu attuato il piano della polizia «Caccia alle volpi matricolate»[1], non avrebbero potuto colpire me, da distanza ravvicinata, invece dello studente di germanistica e romanistica Benno Ohnesorg? Come me, si considerava un pacifista, ed era membro della comunità studentesca evangelica. Come me, aveva ventisei anni e come me, in estate, gli piaceva portare i sandali senza calzini. Oh certo, avrebbero potuto beccare me, per così dire, eliminarmi. Ma io me n’ero andato, e con l’aiuto di un filosofo che dopo la sua «svolta» si era affidato alla tranquillità mi ero portato a distanza ontologica. Quindi hanno massacrato a manganellate lui, non me.
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Quindi Kurras, il funzionario di polizia in borghese, ha puntato la pistola d’ordinanza modello Ppk, cui aveva tolto la sicura, non contro la mia testa, e ha invece colpito Benno Ohnesorg sopra l’orecchio destro, trapassandogli il cervello e fracassandogli la volta cranica… All’improvviso turbai i miei studenti interrompendo a voce alta la loro felicità esegetica riguardo a due importanti poesie: Scandaloso! Il poliziotto Kurras venne assolto in due processi e continuò a lavorare fino al pensionamento presso la centrale operativa della polizia berlinese… - Poi tacqui di colpo, ma vidi lo sguardo di sfida beffarda della suddetta studentessa puntato su di me, addirittura lo sentii che mi frugava dentro e mi trovai soverchiato di domande che mettevano alle strette il mio Essere impaurito già dai tempi dell’infanzia. Quando aveva avuto luogo la mia svolta? Cosa mi aveva imposto di prendere congedo dal mero Ente? Ed esattamente da quando, nel corso della serie di anni, il Sublime si era impadronito di me, per non abbandonarmi più nonostante momentanei distacchi? Potrebbe essere accaduto un mese dopo, quel 24 di luglio, quando il poeta, guarito da una lunga malattia, arrivò a Friburgo, dove vinse la sua iniziale esitazione e decise quindi di incontrare il filosofo, il cui discutibile passato lo aveva reso dubbioso, prima di offrire a noi tutti una pubblica e solenne lettura delle sue poesie. Paul Celan non volle però vedersi fotografato insieme a Heidegger. Più tardi dichiarò invece che sì, era disposto; ma per un’istantanea atta a fissare quel memorabile incontro poi non ci fu più tempo. Ormai libero da quesiti interiori, comunicai questi e altri aneddoti al mio seminario pomeridiano, perché con abili interventi quella certa studentessa in particolare era riuscita a sciogliermi dalle inibizioni regressive e a farmi per così dire «cantare» sulla testimonianza di quel complesso confronto; infatti ebbi io l’incarico, su disposizione del professor Baumann, di controllare le vetrine delle librerie di Friburgo. Per desiderio del filosofo, tutti i volumi di liriche del poeta dovevano essere esposti in bella mostra. Ed ecco, dall’opera d’esordio, Papavero e memoria, fino a Grata di parole e alla Rosa di nessuno, tutto era inconcepibile[2] eppure disponibile; furono esibiti persino, sulla spinta del mio zelo, rari estratti. E sempre a me è stato concesso preparare con le dovute cautele, per la mattina del giorno successivo, la visita del poeta su nella Foresta Nera, dove aspettava la casetta del filosofo. Ma Celan si sdegnò di nuovo per l’atteggiamento di Heidegger durante gli anni bui, pare l’abbia definito, citando se stesso, un «maestro nato in Germania» e quindi, anche
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omettendo il resto, abbia fatto entrare in gioco la morte. Così rimase il dubbio se avrebbe accettato l’invito. Il poeta esitò a lungo e si barricò nell’isolamento. Eppure partimmo, alla mattina, anche se il cielo si era fatto di piombo. Dopo la visita alla casetta e quel memorabile colloquio o silenzio al quale nessuno poté assistere, nemmeno io, ci si incontrò a St Blasien, dove un caffè offrì a tutti ospitalità. Non sembravano esserci elementi di sconcerto. Al poeta il pensatore era ormai visibilmente gradito. Presto si incamminarono entrambi sul sentiero verso la palude di Horbach, della cui riva orientale tutti percorremmo un tratto su tondelli di legno inseriti nel terreno. Ma poiché il tempo restava brutto e le scarpe del poeta erano troppo da città o, come osservò lui stesso, «non abbastanza rustiche», la passeggiata venne presto interrotta, dopodiché pranzammo comodamente nell’angolo più riservato di una trattoria. No no, non si discusse della situazione politica del momento, ad esempio dei disordini a Berlino e della morte di uno studente annunciata poco tempo prima; si chiacchierò di botanica, campo in cui risultò che il poeta conosceva i nomi di molte erbe, altrettanti, se non più, di quelli che sapeva il pensatore. Inoltre Paul Celan era in grado di indicare alcune erbette non solo nella definizione latina, ma anche in rumeno, ungherese, persino yiddish. D’altronde era originario di ¬cernovcy, che notoriamente si trova nella plurilingue Bucovina. Tutto questo e ulteriori memorabilia rivelai ai miei studenti, ma alla domanda, che mi arrivò da una direzione ormai nota, su cosa fosse poi stato detto o taciuto nella casetta, potei rispondere solo rimandando alla poesia Todtnauberg. Da lì emerge parecchio. Ad esempio «arnica», sapientemente chiamata «eufrasia»[3], consente tutta una serie di interpretazioni. E ricca di riferimenti è la fontana davanti alla casa con sopra il caratteristico dado stellato. Inoltre, in posizione centrale, per così dire nel cuore della poesia, si nomina quel libro degli ospiti in cui il poeta si registrò con la preoccupata domanda «quali nomi accolse prima del mio», e certo con «la speranza, oggi, dentro il cuore, per la parola che verrà di un uomo di pensiero… », verso a proposito del quale bisogna ripetere ancora che le parole tra parentesi «che verrà senza indugi», più tardi espunte dal poeta, erano espressione esigente dell’urgenza del suo desiderio che, come sappiamo, non venne esaudito. Ma quant’altro possa essere stato detto o taciuto nella casetta non è dato sapere, resta nel vago, è appena intuibile, lascia per così dire la ferita aperta…
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Questo dissi all’incirca ai miei studenti, senza rivelare loro o addirittura a quella certa persona quante volte mi sono immaginato il colloquio nella casetta; perché tra il poeta senza patria e il maestro nato in Germania, tra l’ebreo con l’invisibile stella gialla e l’ex rettore dell’università di Friburgo con il rotondo e tuttavia cancellato distintivo del partito, tra colui che dice e colui che passa sotto silenzio, tra il sopravvissuto che sempre si dichiara morto e l’annunciatore dell’Essere e del Dio che verrà avrebbe dovuto trovare parole l’indicibile, ma non ne trovò nemmeno una. E questo tacere non si interruppe. Anch’io nascosi al seminario i motivi della mia fuga da Berlino, mi lasciai frugare con aria indifferente dallo sguardo di quella studentessa e non rivelai cosa mi estraniò momentaneamente dal Sublime e già l’anno successivo, di nuovo con una specie di fuga, mi trascinò nelle turbolenze di Francoforte, tra l’altro il luogo dove Paul Celan, subito dopo aver lasciato la nostra cittadina universitaria, scrisse la poesia Todtnauberg nella prima versione. [1] Nell’originale «Füchsejagd»; in tedesco il termine «Fuchs» significa tanto «volpe» quanto «matricola». [2] Il testo originale gioca sui significati del verbo «fassen», che può voler dire tanto «prendere, toccare», quanto «capire, afferrare»; e l’aggettivo «unfasslich» è evidentemente riferito all’ermetismo dei versi di Celan. [3] In tedesco «Augentrost», che ha anche il significato di «delizia per gli occhi».
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1968 Il seminario sembrava tranquillizzato... Il seminario sembrava tranquillizzato, ma in me restava l’inquietudine. Ero appena riuscito, grazie a una testimonianza autorevole avvedutamente mediata, a sentire quella poesia della casetta come tarda eco di Fuga sul tema morte e come sfida al «maestro nato in Germania», illustre ma al tempo stesso personificazione della morte, quando mi trovai di nuovo insistentemente contestato: cosa ti ha cacciato da Friburgo subito dopo la Pasqua dell’anno seguente? Quale svolta ti ha trasformato in un radicale sessantottino, tu che fino a quel momento avevi porto orecchio al silenzio tra le parole e ti eri impelagato nella sublimità del frammento, nel progressivo ammutolire di Hölderlin? Se non, tardivamente, l’assassinio dello studente Benno Ohnesorg, è stato certo l’attentato contro Rudi Dutschke a farti diventare un rivoluzionario, almeno a livello verbale, con la rinuncia al gergo dell’Autenticità e l’inizio di blateramenti in un altro gergo, quello della Dialettica. Così press’a poco me lo spiegavo, ma non ero sicuro della causa più profonda del mio cambiamento di linguaggio e cercai, mentre il seminario del mercoledì si teneva autonomamente occupato, di placare l’improvviso tumulto dei miei errori. In ogni caso, a Francoforte abbandonai per prima cosa la germanistica e mi iscrissi, come a dimostrazione della mia reiterata svolta, alla facoltà di sociologia. Quindi seguii i corsi di Habermas e Adorno, al quale però noi - io da nuovo membro dell’associazione degli studenti socialisti quasi non lasciavamo prendere la parola, tanto lo consideravamo un’autorità contestabile. E visto che dappertutto, e a Francoforte con particolare veemenza, gli studenti si rivoltavano contro gli insegnanti, si arrivò all’occupazione dell’università, che però, poiché Adorno, il grande Adorno, si vide costretto a chiamare la polizia, venne subito sgomberata. Uno dei nostri più facondi portavoce, dalla cui eloquenza era affascinato anche il maestro della negazione, insomma Hans-Jürgen Krahl, che peraltro pochi anni prima aveva ancora fatto parte della fascistoide Lega Ludendorff e quindi della reazionaria Junge Union, e che adesso, dopo una svolta totale, si concepiva quale diretto successore di Dutschke e come istituzione antagonista, questo Krahl venne arrestato, ma dopo pochi giorni tornò nuovamente libero e operante, sia contro le leggi d’emergenza, sia contro il suo nonostante tutto veneratissimo maestro. Per esempio l’ultimo giorno della Fiera del Libro, il 23 settembre, quando nella Haus Gallus, dove nel ’65 era finito il primo processo di Auschwitz,
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una tavola rotonda di cui Adorno finì per restare vittima minacciò di naufragare nei disordini. Che periodo turbolento! Al sicuro nel mio tranquillo seminario e infastidito solo dalle domande provocatorie di una giovane donna particolarmente ostinata, cercavo di superare con un balzo la serie di trent’anni trascorsi e di infilarmi in una discussione che si trasformò in tribunale. Quale voluttà nella parola aggressiva! Anch’io, tra la folla, interruppi gridando, trovai termini che facevano a brandelli, pensai di dover superare l’accaloramento di Krahl, con lui e con altri mirai a denudare totalmente, cosa che infatti riuscì, il maestro dalla testa rotonda, con la sua dialettica che risolveva tutto in contraddizione, e che adesso, confuso e imbarazzato, era a corto di parole. Del resto c’erano lì, ammassate ai piedi del professore, delle studentesse che poco tempo prima si erano scoperte i seni davanti a lui, costringendolo a interrompere la lezione. Adesso volevano vederlo nudo, quell’uomo sensibile. Lui, che si vestiva in modo accuratamente borghese nella sua rigida rotondità, doveva essere per così dire disvelato. Più scabroso ancora: doveva togliersi pezzo dopo pezzo la teoria che lo proteggeva e - questo pretendevano Krahl e altri - permettere alla rivoluzione l’uso della sua autorità appena ridotta a brandelli e miseramente rappezzata. Doveva rendersi utile, ecco. C’era ancora bisogno di lui. Tra non molto, per la marcia su Bonn da tutte le direzioni. Ci si vedeva costretti, di fronte alla classe dominante, a trarre vantaggio dalla sua autorità. Ma in linea di massima doveva essere tolto di mezzo. Quest’ultima frase l’ho gridata proprio io. Oppure chi o che cosa mi faceva gridare? Cosa mi ordinava di prestare voce alla violenza? Non appena mi tornarono presenti i volti dei miei studenti che si guadagnavano con zelo moderato i loro attestati del seminario su Celan, misi in dubbio il mio radicalismo di allora. Forse ci siamo, mi sono solo voluto divertire un po’. Oppure ero confuso, ho frainteso alcune frasi retoriche un po’ troppo arzigogolate, ad esempio quella sulla tolleranza repressiva, come in precedenza avevo mal interpretato il verdetto del maestro contro ogni oblio dell’essere. Krahl, che passava per l’allievo più dotato di Adorno, amava predisporre il cappio definitivo dopo ampie digressioni e appuntire all’estremo il concetto un attimo prima ancora smussato. Certo, si sentivano anche opinioni contrarie. Da Habermas, ad esempio, che però col suo monito, sempre presente dopo il congresso di Hannover, riguardo alla minaccia del fascismo di sinistra era calato precipitosamente nella nostra stima. Oppure quello scrittore baffuto che si era venduto alla Es-
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Pe-De e adesso pensava di doverci rinfacciare un «attivismo accecato dall’ira». La sala strepitava. Devo supporre di aver strepitato anch’io. Ma cosa mi ha spinto a lasciare prima del tempo la sala stracolma? Fu una mancanza di radicalismo? Non riuscivo più a sopportare la vista di Krahl che, cieco da un occhio, portava sempre gli occhiali da sole? O mi sottrassi a quell’immagine di sofferenza che emanava dall’umiliato Theodor W. Adorno? Vicino all’uscita, dove la gente si assiepava ancora, un signore piuttosto anziano, chiaramente ospite della Fiera del Libro, mi rivolse la parola con un lieve accento straniero: - Quante stupidaggini avete detto là dentro. Da noi a Praga ci sono dappertutto carri armati sovietici, da un mese, e voi qui delirate sul processo di apprendimento collettivo del popolo. Fatevi un rapido viaggetto nella bella Boemia. Lì potete imparare nel collettivo cos’è il potere e cos’è l’impotenza. Non sapete niente, ma volete saperne più di tutti… - Eh sì, - dissi improvvisamente sopra le teste dei miei studenti, che spaventati alzarono gli occhi dalle loro interpretazioni testuali delle due poesie, - nella tarda estate del ’68 successe anche dell’altro. La Cecoslovacchia venne occupata, con la partecipazione di soldati tedeschi. E dopo neanche un anno Adorno era morto: infarto, si disse. Del resto, Krahl rimase ucciso in un incidente stradale nel febbraio del ’70. E a Parigi, nello stesso anno, Paul Celan, senza aver ricevuto da Heidegger la parola sperata, gettò nell’acqua giù da un ponte quello che restava della sua vita. Non conosciamo il giorno preciso… Poi il mio seminario del mercoledì si disperse. Solo la suddetta studentessa rimase seduta. Poiché evidentemente non aveva altre domande, anch’io non aprii bocca. Forse le bastava stare sola con me per un po’. Solo al momento di uscire mi riservò ancora un paio di frasi: - Io vado, - disse. - Tanto da Lei non si ricava più nulla.
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1969 Certo dev’essere stato un periodo fantastico... Certo dev’essere stato un periodo fantastico, anche se allora mi hanno inquadrata tra i bambini difficili. Lo dicevano in continuazione: «Carmen è difficile» oppure «particolarmente difficile» o «Carmen è una bambina problematica». E questo non solo perché mia madre era divorziata e mio padre di solito era in giro, lontano, per le sue installazioni. Ma nel nostro Kinderladen[1] di bambini problematici ce n’erano anche altri, persino alcuni che in realtà avrebbero dovuto essere cresciuti, ad esempio i nostri studenti dell’università della Ruhr, che all’inizio avevano aperto l’asilo solo per studentesse-madri, ma volevano anche impostare assolutamente tutto in modo antiautoritario, persino con i bambini proletari, come ci hanno chiamato quando ci siamo aggiunti. Questo ha provocato subito dei guai, perché noi eravamo invece abituati alla mano pesante, per non parlare dei nostri genitori. Solo mia madre, che più tardi ha fatto le pulizie nei due locali che una volta dovevano esser stati un ufficio o qualcosa del genere perché le studentesse-madri erano troppo delicate per questi lavori, pare abbia detto alle altre madri del vicinato: «Lasciamo che i rossi provino un po’ come vanno ’ste cose», perché a Bochum il gruppo che ha voluto l’iniziativa dell’asilo anche per i bambini dei cosiddetti svantaggiati era di estrema sinistra, ragione per cui si è sempre arrivati al frazionismo, così si diceva, e le assemblee dei genitori, che di solito duravano fin dopo mezzanotte, ogni volta rischiavano di andare a monte, come mi ha raccontato mia madre. Ma all’epoca deve aver regnato una specie di caos, in generale, non solo da noi bambini. Nella società, dovunque giravi gli occhi dappertutto c’era casino. E come se non bastasse, eravamo in campagna elettorale. Da noi però, davanti all’asilo, c’era appeso uno striscione con su scritto, come mia madre ricorda ancora, «Lotta di classe, non lotta elettorale!» E da noi c’era eccome, la lotta di classe. Zuffe continue, perché ognuno, in particolare noi bambini proletari, voleva avere per sé i giocattoli che gli studenti di sinistra avevano raccolto per l’asilo. Io specialmente, dice mia madre, devo essere stata piuttosto arraffona. Ma a parte questo, della campagna elettorale non ci siamo praticamente resi conto. Solo una volta i nostri studenti ci hanno portato a una manifestazione, proprio davanti all’università, che era un enorme blocco di cemento. E lì abbiamo dovuto gridare con gli altri: «Chi ci ha tradito? - I socialdemocratici!» Che però poi in qualche modo hanno vinto, col loro Willy. Noi bambini naturalmente non l’abbiamo capito, perché in estate hanno
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fatto vedere tutt’altro, in televisione, vale a dire l’arrivo sulla luna. Che per noi, visto che a casa tutti, e io dalla signora Pietzke, la nostra vicina, stavamo con gli occhi fissi sul cassone, era molto più interessante dei risultati delle elezioni. Per cui, con grandi pennarelli e tubetti di colori che si potevano mescolare, in pieno antiautoritarismo, cioè ognuno quello che voleva, abbiamo dipinto su tutte le pareti del Kinderladen le nostre impressioni sull’allunaggio. Naturalmente i due omini nei loro buffi vestiti. E poi il modulo lunare, che in tedesco si chiamava «Adler». Dev’essere stato proprio divertente. Ma io, da bambina problematica, pare abbia di nuovo provveduto a far litigare l’assemblea dei genitori, perché non solo avevo scarabocchiato sulla parete e imbrattato coi colori i due omini - Armstrong e Aldrin, si chiamavano -, ma anche la bandiera americana con molte stelle e strisce che adesso sventolava sulla luna, come avevo visto bello chiaro in televisione. Naturalmente la cosa non andò giù ai nostri studenti, in ogni caso non a quelli più di sinistra. Grande intervento pedagogico! Ma i bei discorsi su di me non ebbero nessun effetto. E mia madre ricorda che solo una minoranza, cioè gli studenti antiautoritari e basta, che non erano maoisti o rivoluzionari di chissà cosa, ha votato contro quando nel consiglio dei genitori fu deciso che la mia pittura, cioè «Stars and Stripes», come la chiama ancora mia madre, doveva essere radicalmente lavata via dalla parete del Kinderladen. No, non ci ho frignato sopra neanche un po’. Ma pare che abbia proprio puntato i piedi quando uno degli studenti - giusto, oggi è una specie di sottosegretario a Bonn - cercò di convincermi a piantare sulla luna una bandiera rosso vivo. Io non volevo. Non ci pensavo neanche. No, non avevo niente contro il rosso. Solo che in televisione non era rossa, c’era l’altra… E allora, visto che questo studente non mollava, devo aver piantato un vero casino e mi sono messa a calpestare tutti i bei pennarelli, tutti i gessi e i tubetti, anche quelli degli altri bambini, tanto che poi mia madre, che puliva l’asilo tutti i giorni e veniva pagata dalle studentesse, che erano madri anche loro, ha faticato non poco per grattar via dai pavimenti tutto quel miscuglio di colori, per cui ancora oggi, quando si trova con le madri di allora, dice: «La mia Carmen è stata proprio una bambina difficile… » Io in ogni caso, ammesso che ne abbia, educherò i miei figli in modo certamente diverso, cioè normale, anche se l’anno in cui conquistarono la luna e subito dopo mia madre ha votato per il suo Willy dev’essere stato un periodo proprio fantastico, e ancora oggi, a volte, il nostro Kinderladen me lo sogno bello chiaro.
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[1] Asilo autogestito basato su principî antiautoritari (letteralmente «negozio per bambini»).
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1970 Questo il mio giornale... Questo il mio giornale non me l’accetterà mai. Vogliono delle sviolinate. Qualcosa tipo «Si è caricato di tutte le colpe… » oppure «All’improvviso il cancelliere cadde in ginocchio… » o caricando ancora di più le tinte «Si è messo in ginocchio per la Germania!» Col cazzo, all’improvviso. Tutto sottilmente escogitato. Di sicuro questo numero da circo gliel’ha suggerito quel furbacchione, sì, il suo informatore e mediatore[1], che in patria ti spaccia per conquista la vergognosa rinuncia a territori da sempre tedeschi. E adesso il suo capo, lo sbronzone, fa il finto cattolico. Cade in ginocchio. Notare che non crede a un cazzo. Tutta una gran sceneggiata. Ma come notizia da prima , da un punto di vista puramente giornalistico, è stato un colpo sensazionale. Ha avuto l’effetto di una bomba. Una cosa che si è staccata bellamente dal protocollo. Tutti pensavano alla solita scena: depositare la corona di garofani, sistemare i nastri, indietreggiare di due passi, abbassare la testa, di nuovo su il mento, guardare fisso davanti a sé. E poi via a sirene spiegate verso il castello Wilanów, l’alloggio di lusso, dove aspettano le bottigliette e i bicchieri da cognac. Invece no, si concede una stravaganza: e mica sul primo gradino, che sarebbe stato poco rischioso, ma direttamente sul granito bagnato, senza puntellarsi con l’una o l’altra mano, va giù con un’abile manovra di popliti e intanto tiene le mani agganciate davanti alle palle, fa una faccia da venerdì santo, come se fosse più papista del papa, si espone agli scatti dell’orda di fotografi, tiene duro con pazienza per un minuto buono e poi torna su, ma non nel modo più comodo - prima una gamba, poi l’altra -, bensì con una spinta, come se si fosse allenato, per giorni, davanti allo specchio, su di colpo, adesso è in piedi e guarda oltre le nostre teste, come se gli fosse apparso lo Spirito Santo in persona, come se dovesse dimostrare non solo ai polacchi, no, a tutto il mondo quanto fotogenicamente si può porgere le proprie scuse. Beh certo, bravo è stato bravo. Persino il tempo di merda ha giocato a favore. Ma una cosa così, strimpellata per bene con qualche tocco bizzarro sul pianoforte del cinismo, il mio giornale non me l’accetterà mai, anche se i capi questo cancelliere genuflesso vorrebbero vederlo fuori dalle palle al più presto, rovesciato o trombato alle elezioni o in qualche altro modo, solo fuori dalle palle! Allora prendo di nuovo la rincorsa e batto la grancassa: «Dove un tempo c’era il ghetto di Varsavia, che nel maggio del ’43 fu distrutto e brutalmente cancellato in maniera tanto insensata quanto crudele, ora, davanti
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a un monumento commemorativo sul quale giorno e notte, e dunque anche in questa giornata di dicembre fredda e umida, da due candelabri di bronzo si sprigionano fiamme lacerate dal vento, è caduto in ginocchio, figura solitaria, il cancelliere tedesco, manifestando pentimento, pentimento per tutti i misfatti commessi in nome della Germania, e prendendo su di sé l’immensa colpa, lui, che non se n’è macchiato, è tuttavia caduto in ginocchio… » E voilà. Questo lo pubblica chiunque. L’ecce homo, sotto il peso della croce! Forse ancora un po’ di colore locale, in aggiunta? Un paio di piccole perle. Male non fanno. Ad esempio qualcosa sullo stupore dei polacchi, perché l’insigne ospite di Stato è caduto in ginocchio non davanti al monumento al Milite Ignoto, che qui è un sacrario nazionale, ma proprio davanti a quello degli ebrei. Basta fare qualche domanda, sondare un po’, e già il vero polacco si rivela antisemita. Non è mica passato molto tempo, un po’ più di due anni, quando qui gli studenti polacchi hanno pensato di poter fare pazzie, esattamente come gli studenti da noi o a Parigi. Ma poi la milizia, in testa il ministro degli Interni locale, Moczar, ha preso a manganellate i «provocatori sionisti», come si disse. Qualche migliaio tra funzionari di partito, professori, scrittori e altri intellettualoidi, la maggior parte ebrei, sono stati buttati fuori, hanno fatto le valigie e tagliato la corda, verso la Svezia o Israele. Qui non ne parla più nessuno. Ma addossare a noi tutte le colpe fa parte delle buone maniere. Si blatera di «atteggiamento cattolico che tocca il cuore di ogni polacco onesto», quando questo traditore della patria che ha combattuto contro noi tedeschi con l’uniforme norvegese arriva qui col suo seguito - Beitz, il manager della Krupp, un paio di scrittori di sinistra e i soliti intellettualoidi -, serve ai polacchi su un piatto d’argento la nostra Pomerania, Slesia e Prussia Orientale, e in più, come un fuori programma al circo, zac, ti piomba in ginocchio. E’ inutile. Non lo stampano. Piuttosto il mio giornale se ne sta zitto. Notizia d’agenzia e chiuso. Oltretutto, che me ne importa? Io sono di Krefeld, un renano dal carattere allegro. Perché me la prendo? Breslavia, Stettino, Danzica? Non dovrebbe fregarmene nulla. Scriverò semplicemente qualcosa sull’atmosfera: il baciamano alla polacca, com’è graziosa la città vecchia, che il castello Wilanów e qualche altro bell’edificio sono stati ricostruiti, sebbene, dovunque si butti l’occhio, la situazione economica sia disastrosa… Vetrine vuote… Code davanti a ogni macelleria… Per cui tutta la Polonia spera in un credito miliardario, che questo cancelliere genuflesso ha promesso di sicuro ai suoi amici comunisti. ’Sto emigrante! Quanto mi sta sulle palle. E non perché è un illegittimo… Sono cose che succedono… Ma il resto… Tutte
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quelle smancerie… E quando si è inginocchiato qui, sotto la pioggerella… Disgustoso… Come lo odio. Beh, vedrà che sorpresa quando torna a casa. Lo faranno a pezzi, lui e i suoi accordi con l’Est. Non solo sul mio giornale… Certo però che gli è riuscito bene, giù così, sulle ginocchia. [1] Egon Bahr (1922), sottosegretario dal ’69 al ’72 e stretto collaboratore di Willy Brandt; fu uno dei fautori della Ostpolitik.
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1971 Davvero, si potrebbe scriverci sopra un romanzo... Davvero, si potrebbe scriverci sopra un romanzo. Era la mia migliore amica. Ci siamo immaginate le cose più pazze, anche pericolose, ma non questa disgrazia. Tutto è iniziato quando hanno aperto un po’ dovunque delle discoteche e io, che in realtà preferivo andare ai concerti e approfittavo a tutto spiano dell’abbonamento teatrale di mia madre, che già allora cominciava a non stare bene, ho convinto Uschi a provare insieme a me qualcosa di diverso, una volta tanto. Solo per dare un’annusatina, ci siamo dette, ma poi ci siamo subito inchiodate nella prima discoteca che ci è capitata. Era veramente carina, con i capelli crespi rossicci e le lentiggini sul nasino. E quel suo accento svevo, poi. Un po’ sfacciata, ma sempre spiritosa. Da invidiare come agganciava i ragazzi senza impegolarsi in niente di serio, pensavo, e spesso, in confronto a Uschi, mi sembrava di essere un’imbranata che sta lì a pesare ogni parola. Eppure, come mi sono lasciata rintronare: «Hold That Train… », a tutto volume. Ovviamente Bob Dylan. Ma anche Santana, i Deep Purple. Avevamo un debole per i Pink Floyd, in particolare. Come ci facevano andare su di giri. «Atom Heart Moth-er… » Ma Uschi preferiva il complesso degli Steppenwolf, «Born To Be Wild… » Allora si scatenava. Una cosa che a me non è mai riuscita del tutto. No, certi limiti non li abbiamo superati. Una canna che ci si passava, due, non di più. Siamo sinceri, chi non si è fatto uno spinello, a quei tempi? Di un vero pericolo non si poteva parlare. In ogni caso, la mia soglia di inibizione era troppo alta, e poi mancava poco al mio esame finale per diventare hostess e ho cominciato subito a lavorare sulle rotte interne, non avevo quasi più tempo per le discoteche e ho un po’ perso di vista Uschi, un peccato, certo, ma è stato inevitabile, tanto più che dall’agosto del ’70 ho volato sempre più spesso a Londra con la Bea e tornavo sempre più di rado a Stoccarda, dove del resto, visto che adesso mia madre era veramente inferma, mi aspettavano tutt’altri problemi, tanto più che mio padre… Ma lasciamo perdere. In ogni caso, durante la mia assenza Uschi dev’essere passata a sostanze più toste, probabilmente al pakistano. E poi di colpo ha cominciato a bucarsi, si faceva di eroina. Sono venuta a conoscenza di tutta la storia troppo tardi, tramite i suoi genitori, gente veramente a posto, modesta. Le sue condizioni sono peggiorate di brutto, però, quando è rimasta incinta, senza neanche sapere di chi.
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Si può ben dirlo: per lei è stata una vera disgrazia, perché la ragazza stava ancora studiando, scuola interpreti, ma in realtà le sarebbe piaciuto fare la hostess, come me. «Andare in giro, vedere il mondo!» Dio, che idee si faceva, la bambina, del mio lavoro, pesante, soprattutto sulle rotte più lunghe. Ma Uschi restava comunque la mia migliore amica. E perciò le ho fatto coraggio: «Forse ci riesci, sei ancora giovane, dai… » E adesso capitava anche questa. Sebbene Uschi avesse intenzione di portare a termine la gravidanza, poi però ha voluto abortire, per via della dipendenza dall’eroina, ed è corsa da un dottore all’altro, naturalmente invano. Quando ho voluto aiutarla, mandarla a Londra, perché lì fino al terzo mese la faccenda si poteva risolvere, con un biglietto da mille, più tardi con un sovrapprezzo, e tramite una collega conoscevo degli indirizzi, ad esempio la Nursing Home in Cross Road, e inoltre le ho offerto il volo di andata e ritorno e ovviamente le spese da sostenere lì più il pernottamento, prima voleva, poi non voleva, e, cosa che certo non dipendeva da me, è diventata sempre più scostante nei rapporti personali. Ha finito per abortire da qualche parte nella Schwäbische Alb, da uno di quei praticoni, pare fosse una coppia, lui con un occhio di vetro. Dev’essere stata una cosa proprio tremenda, con una soluzione di sapone duro e un’iniezione gigantesca direttamente nel collo dell’utero. Non è andata per le lunghe. Subito dopo l’espulsione del feto tutto è finito nella tazza del gabinetto. Tirato lo sciacquone, e via. Pare fosse un maschio. Questo ha dato il colpo di grazia a Uschi, più che le siringate di eroina. Insomma, bisogna partire dalla considerazione che tutte e due le cose, l’ago da cui non riusciva a staccarsi e la spaventosa esperienza con i fabbricanti d’angeli, l’hanno proprio portata al limite. E tuttavia ha cercato di lottare, coraggiosamente. Ma non si è disintossicata del tutto finché, tramite l’associazione per l’assistenza paritetica, non sono riuscita ad arrivare a un indirizzo in campagna, vicino al lago di Costanza. Un villaggio terapeutico, no, in realtà era piuttosto una fattoria di grandi dimensioni nella quale un gruppo di antroposofi veramente in gamba stava costruendo una specie di centro medico e dove con i metodi steineriani, quindi attraverso l’euritmia terapeutica, la pittura, la coltivazione di ortaggi biologico-dinamica e l’allevamento di animali con lo stesso sistema, si cercava di tener lontani dalla siringa un primo gruppo di tossicodipendenti. Ho sistemato Uschi lì. E le piaceva anche. Ha ricominciato a ridere un po’ ed è proprio tornata a vivere, anche se, per altri versi, nella fattoria succedevano cose pazzesche. I vitelli che continuavano a scappare. Calpestavano tutto. E i gabinetti! Mancava il minimo necessario, perché a
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Stoccarda il parlamento regionale negava qualsiasi sovvenzione. Anche in altri sensi molte cose andavano storte, specie nelle discussioni di gruppo. Ma a Uschi queste cose non importavano. Ci rideva sopra e basta. Persino quando l’edificio principale fu distrutto da un incendio, perché, come saltò fuori dopo, i topi avevano fatto il nido ammucchiando della paglia su un tubo di stufa nascosto, per cui c’era stata una combustione lenta e infine si erano alzate le fiamme, lei rimase lì, aiutò a preparare gli alloggi di fortuna nel fienile, e tutto stava andando veramente bene, finché uscì una di quelle riviste illustrate con un titolo a caratteri cubitali: Noi abbiamo abortito! Purtroppo sono stata io, in un giorno di visita, a portarle questo reportage pieno di foto con l’incredibile copertina, perché pensavo che per la ragazza potesse essere un aiuto, se varie centinaia di donne, molte delle quali famose, escono allo scoperto con tanto di fototessera: Sabine Sinjen, Romy Schneider, Senta Berger eccetera, attrici importanti, che da noi erano sulla lista dei Vip. Naturalmente, dato che si trattava di un reato, la procura della repubblica avrebbe dovuto indagare. E l’ha anche fatto. Ma alle donne che hanno confessato non è successo niente. Erano troppo in vista. Così vanno le cose. Però la mia Uschi davanti a tutto quel coraggio è andata proprio «su di giri», come diceva, e perciò ha voluto partecipare anche lei all’iniziativa, e allora ha scritto alla redazione allegando foto e curriculum. Subito è arrivato un rifiuto. La sua descrizione dettagliata - eroina più praticone - era troppo radicale. Pubblicare un caso così estremo significava danneggiare la buona causa. Forse se ne poteva riparlare in seguito. La battaglia contro l’articolo 218 era ben lontana dalla conclusione. Roba da non credere. Questa routine senza la minima sensibilità. E’ stato troppo, per Uschi. Pochi giorni dopo il rifiuto è scomparsa. L’abbiamo cercata dappertutto. I suoi genitori e io. Appena il lavoro me lo permetteva, andavo in giro, ho battuto tutte le discoteche. Era svanita nel nulla. E quando alla fine l’hanno trovata nella stazione di Stoccarda, era lì per terra nei gabinetti delle donne. La solita overdose, il «buco d’oro», come lo chiamano qui. Naturalmente mi faccio dei rimproveri, ancora oggi. In fondo era la mia migliore amica. Avrei dovuto prenderla per mano, ben stretta, volare a Londra con lei, recapitarla in Cross Road, pagare in anticipo, e dopo riprenderla in consegna, acchiapparla, sostenerla moralmente, vero, Uschi? E in realtà la nostra figlioletta avrebbe dovuto chiamarsi Ursula, ma secondo mio marito, che è davvero molto comprensivo e si occupa
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della bambina in modo commovente, perché io infatti volo ancora con la Bea, era meglio che piuttosto scrivessi qualcosa, su Uschi…
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1972 Ora io sono lui... Ora io sono lui[1]. Lui abita ad Hannover-Langenhagen, è maestro elementare. Lui - non più io, adesso - non ha mai avuto la vita facile. Ha lasciato il liceo dopo la settima. Poi ha interrotto il tirocinio commerciale. Ha fatto il venditore di sigarette, nell’esercito è arrivato al grado di caporale, ha tentato ancora una volta in una scuola privata, ma non è stato ammesso all’esame conclusivo perché gli mancava la licenza intermedia. E’ andato in Inghilterra per migliorare le conoscenze linguistiche. Lì ha fatto il lavamacchine. Ha voluto studiare spagnolo a Barcellona. Ma solo a Vienna, dove un amico ha cercato di rimetterlo in carreggiata tramite una specie di psicologia del successo, si è fatto coraggio, ha ripreso slancio, è andato ad Hannover alla scuola di formazione per i quadri amministrativi e c’è riuscito, ha potuto studiare anche senza maturità, ha superato i suoi esami per diventare maestro e adesso è membro del sindacato Scienza ed Educazione, addirittura presidente del comitato dei giovani insegnanti, un pragmatico uomo di sinistra che vuole cambiare la società passo dopo passo, cosa che sogna nella sua poltrona a orecchioni comprata a buon mercato da qualche rigattiere. Dunque suonano da lui, in Walsroder Strasse, secondo piano a destra. Io, cioè lui, apro. C’è una ragazza dai lunghi capelli castani, vuole parlare con me, con lui. - Possono stare qui da voi due persone, solo per stanotte? - Dice «voi» perché sa da qualcuno che lui o io vive insieme a una ragazza. Lui e io diciamo di sì. Più tardi, dice lui, mi sono venuti dei dubbi, a colazione, e anche alla mia ragazza. - Però sono solo delle supposizioni… - ha detto lei. Comunque siamo andati tutti e due a scuola, perché lei insegna come me, ma in una scuola media polivalente. Da me c’era in programma una gita al parco ornitologico, che è vicino a Walsrode. Più tardi i dubbi li avevamo ancora: - Magari quelli intanto sono già entrati, perché ho dato la chiave di casa alla capellona… E allora lui parla con un amico, come anch’io avrei certamente parlato con un amico fidato. L’amico dice quello che aveva già detto la ragazza a colazione: - Chiama il 110… - Lui compone il numero (col mio consenso) e si fa mettere in comunicazione con il commando speciale Bm. Quelli del commando ascoltano attentamente, dicono: Seguiremo le Sue indicazioni, - e lo fanno, in borghese. Stanno già controllando le scale, insieme al portiere. Nel frattempo una donna sale verso di loro, insieme a un giovane. Il portiere vuole sapere chi stiano cercando. Vogliono andare dal
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maestro. - Sì, - dice il portiere, - abita al secondo piano, ma credo non sia in casa -. Più tardi il giovane ritorna, entra in una cabina telefonica, viene arrestato mentre sta inserendo le monete, ha con sé una pistola. Politicamente, il maestro è certo più a sinistra di me. A volte, quando è seduto nella sua poltrona da rigattiere, sogna di vivere in un futuro progressista. Crede nel «processo emancipativo dei meno privilegiati». Con un professore di Hannover - che negli ambienti di sinistra è conosciuto quasi quanto Habermas e che, a proposito di Bm, pare abbia detto: «I segnali luminosi che vogliono collocare con le loro bombe in realtà sono fuochi fatui» -, si trova abbastanza d’accordo: - Questa gente ha offerto alla destra gli argomenti per diffamare l’intero schieramento di sinistra. E’ anche la mia opinione. Perciò lui e io, lui come maestro e rappresentante sindacale, io da libero professionista, abbiamo chiamato il 110. Per questo adesso i funzionari della polizia giudiziaria sono in un appartamento che è l’appartamento del maestro e nel quale troneggia una poltrona a orecchioni comprata dal rigattiere. La donna che apre la porta dopo che i poliziotti hanno suonato, ha un aspetto sofferente, con i capelli corti e arruffati, e non somiglia affatto, dimagrita com’è, alla foto segnaletica. Forse non è lei quella che cercano. E’ stata più volte data per morta. A causa di un tumore al cervello, avevano scritto i giornali. - Porci! - grida mentre l’arrestano. Ma solo quando in casa del maestro trovano una rivista aperta nella quale è riprodotta la radiografia del cranio della persona ricercata, gli agenti del commando speciale sono sicuri dell’identità di chi hanno beccato. E poi trovano anche dell’altro, in casa del maestro: munizioni, armi da fuoco, bombe a mano e un beauty-case marca Royal che contiene una bomba da quattro chili e mezzo. - No, - dice il maestro più tardi, in un’intervista, - dovevo agire co-sì -. E anch’io sono del parere che altrimenti sarebbe rimasto coinvolto nella faccenda insieme alla sua ragazza. Lui dice: - E tuttavia mi ha colto un senso di disagio. In fondo, prima, prima che cominciasse con le bombe, a volte ero della sua stessa opinione. Ad esempio quando, dopo l’attentato ai magazzini Schneider di Francoforte, su «konkret» ha scritto: «Contro gli incendi dolosi in generale parla il fatto che possono mettere in pericolo delle persone che non vogliono essere messe in pericolo… » Poi però, a Berlino, quando Baader è stato liberato, ha partecipato anche lei, e un semplice impiegato è rimasto ferito gravemente. Poi è sparita dalla circolazione. Poi ci sono stati morti da entrambe le parti. Poi è arrivata da me. Poi io ho… Ma in realtà ero convinto che non fosse più in vita. Lui, il maestro nel quale mi vedo, adesso vuole mettere a disposizione dell’imminente procedimento penale la forte ricompensa che gli spetta
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da parte dello Stato perché ha chiamato il 110, in modo che tutti quelli finora arrestati, anche Gudrun Ensslin - che ha dato nell’occhio quando è entrata in un’elegante boutique di Amburgo -, abbiano il loro processo equo, nel quale, come dice lui, «venga spiegato il contesto sociale… » Io non lo farei. Un peccato, per tutti quei soldi. Perché dovrebbero approfittarne gli avvocati, Schily e compagni? Devolva piuttosto il denaro alla sua e ad altre scuole, a favore degli svantaggiati di cui solitamente si occupa. Ma a chiunque finirà per dare i soldi, il maestro elementare è in ogni caso angustiato, perché adesso, per tutta la vita, resterà l’uomo che ha chiamato il 110. E io mi sento come lui. [1] Fritz Rodewald, nel cui appartamento venne arrestata Ulrike Meinhof.
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1973 Macché shock salutare!... Macché shock salutare! Allora Lei non conosce proprio i miei generi, tutti e quattro. Quelli non sono sposati con le mie figlie, ma con le loro macchine, in segreto. Sempre lì a lustrarle, figuriamoci la domenica. Tragedie per la più piccola ammaccatura. Parlano in continuazione di auto che costano un occhio, Porsche e roba del genere, ci sbavano dietro come se fossero pezzi di figliole con cui si vorrebbe fare una scappatella. E adesso code davanti a ogni distributore. La crisi petrolifera! Un fulmine a ciel sereno, glielo dico io. Certo che è stato uno shock, ma per niente salutare. Beh, chiaro, hanno fatto incetta. Tutti e quattro. E Gerhard, che di solito parla come un salutista - «Per carità, niente carne! E niente grassi animali!» - ed è un fanatico del pane integrale, travasando nelle taniche che si era accaparrato per scorta ha succhiato talmente dal tubo da beccarsi quasi un avvelenamento da benzina. Vomito, mal di testa. Latte a litri, ha bevuto. E Heinz-Dieter ha addirittura riempito la vasca da bagno, che si sentiva la puzza in tutta la casa e la piccola Sophie è caduta giù svenuta. I miei signori generi! Gli altri due mica meglio. Una lagna continua per il limite di velocità a cento. E poiché nell’ufficio di Horst la temperatura non deve superare i 19 gradi, lui pensa di dover stare lì a tremare come un ghiacciolo. E in più le sue eterne imprecazioni: «Colpa degli arabi, ’sti cammellieri!» Poi tocca agli israeliani, perché hanno fatto di nuovo la guerra irritando i poveri sauditi. - Si capisce, - esclama Horst, - che quelli hanno chiuso il rubinetto, in modo che da noi scarseggi e magari venga a mancare il petrolio… - Al che Heinz-Dieter quasi si mette a piangere: Non val più la pena di risparmiare per la nuova Bmw, se tutti sono obbligati ad andare a cento in autostrada e a ottanta sulle statali… - E’ l’egualitarismo dei socialisti. Gli andrebbe bene così, a questo Lauritz, che ha il coraggio di chiamarsi ministro dei Trasporti… - ha imprecato Eberhard, che è il mio genero più anziano, e ha finito per litigare di brutto con Horst, perché lui è un compagno, anche se altrettanto fanatico di macchine: - Beh, aspettate, le prossime elezioni arrivano di sicuro… - Son volate parole grosse. - Statemi tutti un po’ a sentire, - ho detto io allora. - La vostra autonoma suocera, che è sempre stata di gamba buona, ha un’idea fantastica -. Perché da quando è morto il papà, e le ragazze non avevano ancora spiccato il volo, il capofamiglia sono io, che certo brontola quando c’è da brontolare, ma tiene unita la baracca e all’occorrenza dà le dritte, ad
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esempio quando ci piomba addosso una vera crisi energetica, contro la quale la gente del Club of Rome ha messo in guardia con tanta insistenza, e tutti pensano di poter fare i matti. - Dunque ascoltatemi bene tutti, ho detto al telefono, lo sapete, che la fine della crescita la vedevo arrivare già da un pezzo. Ma non c’è ancora motivo di cadere in depressione, anche se domani è il giorno dei morti. E c’è comunque il divieto assoluto di girare in macchina, come ogni domenica che verrà. Allora facciamo una gita, tutta la famiglia. Ma certo, a piedi. Prendiamo prima il 3 e al capolinea si prosegue a piedi, visto che attorno a Kassel abbiamo tanti bei boschi. Si va nello Habichtswald! Un coro di gemiti. - E se piove? - Se proprio dovesse diluviare, arriviamo solo fino al castello di Wilhelmshöhe, ci guardiamo i Rembrandt e gli altri quadri, e poi torniamo giù a piedi. - Le conosciamo già, quelle vecchie croste. - E chi gira per il bosco in novembre, quando non c’è più neanche una foglia sugli alberi? Andiamo tutti al cinema, se proprio si deve fare la riunione di famiglia… - Oppure ci troviamo da Eberhard, mettiamo un po’ di legna nel caminetto e ce ne stiamo lì belli comodi… - Non se ne parla! - ho detto. - Niente scuse. I bambini non vedono l’ora -. E così, dal capolinea di Druseltal siamo entrati nello Habichtswald, che anche se è spoglio ha un suo fascino, tutti insieme, con gli impermeabili e gli stivali di gomma, all’inizio sotto una pioggerella. Siamo andati su e giù per due ore. Abbiamo visto persino i caprioli, da lontano, ci guardavano e poi balzavano via. E io ho spiegato gli alberi ai bambini: - Questo è un faggio. Questa una quercia. E le conifere lassù, quelle hanno le cime già intaccate. E’ colpa dell’industria e delle molte, troppe macchine. Sono i gas di scarico, capite? E poi ho fatto vedere ai bambini le ghiande e le faggiole, e ho raccontato come le raccoglievamo, durante la guerra. E abbiamo visto gli scoiattoli, che correvano su e giù dai tronchi. Proprio bello. Poi però, visto che cominciava a piovere più forte, ci siamo rifugiati a precipizio in un alberghetto, dove io, la cattiva suocera e buona nonna, ho offerto caffè e dolci a tutto il clan. Per i bambini, limonata. E naturalmente c’era anche l’acquavite. - Oggi se li possono concedere anche i guidatori, - ho sfotticchiato i miei signori generi. E ai bambini ho dovuto raccontare di tutto il resto che scarseggiava durante la guerra, non solo la benzina, e che dalle faggiole, quando se ne sgusciano molte, schiacciandole si può tirar fuori un olio alimentare. Solo non mi chieda quello che è successo dopo. Non conosce i miei generi. Ma quale riconoscenza. Hanno brontolato che è stupido andare in
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giro così con quel tempo schifoso. E poi che ai bambini avrei dato un esempio sbagliato, con la mia «esaltazione sentimentale dell’economia di sussistenza». - Non viviamo mica nell’età della pietra! - ha gridato Heinz-Dieter. E Eberhard, che si definisce liberale nei momenti meno opportuni, ha fatto una bella litigata con Gudrun, la mia maggiore, tanto che alla fine se n’è andato dalla camera da letto tirandosi dietro le coperte. E adesso indovini un po’ dove ha dormito, poveraccio. Giusto, in garage. E precisamente nella sua vecchia Opel, che ogni domenica si pulisce con tanta cura.
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1974 Cosa succede quando... Cosa succede quando davanti al televisore ci si sente sdoppiati? Chi è abituato a tenere il piede in due scarpe non dovrebbe essere infastidito più di tanto, appena, in particolari occasioni, incontra il suo Io un pezzo di qua e un pezzo di là. Si resta solo moderatamente sorpresi. Si è imparato a lesinare su se stessi, su questo Io di due specie, non solo durante il severo periodo di addestramento, ma anche nell’esercizio della professione. E più tardi, quando si erano scontati già quattro anni nel penitenziario di Rheinbach e solo dopo una lunga procedura si ottenne, per decreto del tribunale esecutivo, l’autorizzazione all’uso del televisore personale, si era consci da un pezzo della propria esistenza salvaguardata nella dissociazione, ma nel ’74, quando ancora si era al fresco in qualità di detenuto in custodia preventiva nel carcere di Colonia-Ossendorf, e accondiscesero senza formalità al desiderio di avere in cella un televisore per la durata del campionato mondiale di calcio, allora sì che, per diversi aspetti, gli avvenimenti sullo schermo mi hanno dilaniato[1]. Non quando i polacchi giocarono una partita fantastica sotto una pioggia torrenziale, non quando si vinse contro l’Australia, e col Cile si raggiunse comunque un pareggio, no, accadde quando la Germania giocò contro la Germania. Per chi tenere? Per chi ero io o io? Per quale squadra si poteva esultare? Cosa, quale conflitto interiore esplose dentro di me, quali campi magnetici mi hanno strattonato quando Sparwasser segnò il gol? In nostro favore? Contro di noi? Visto che ogni mattina mi scarrozzavano a Bad Godesberg per l’interrogatorio, l’ufficio criminale federale avrebbe dovuto sapere che queste e simili tensioni esasperate non mi sono estranee. Ma in realtà non si trattava di tensioni, quanto di una condotta che si era doppiamente obbligati a seguire, imputabile al duplice organismo statale tedesco. Fin quando ho potuto dar buona prova di me in doppia guisa come fidatissimo addetto del cancelliere, oltre che interlocutore in situazioni a quattr’occhi, ho sopportato questa tensione, tanto più che non solo il cancelliere era contento delle mie prestazioni, ma uguale soddisfazione mi si manifestava da parte della centrale berlinese, tramite persone di collegamento, e in alto loco, dal compagno Mischa[2], venivo encomiato per la mia attività. Si era certi che tra lui che si considerava il «cancelliere della pace», e me che attendevo alla mia missione come «esploratore della pace», esistesse una concordanza dai risultati fruttuosi. Fu un bel periodo, nel quale i dati biografici del cancelliere
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armonizzarono, riguardo alla pace, con le scadenze del suo addetto. Ogni volta ci si metteva a disposizione con sollecitudine. Ma adesso ci si scoprì combattuti, quando il 22 giugno, nello stadio di Amburgo, davanti a più di sessantamila spettatori, venne dato il fischio d’inizio della partita Ddr-Brd. E’ vero che nel primo tempo non ci furono gol, ma quando al quarantesimo il piccolo, lesto Müller fu a un pelo dal portare in testa la Repubblica Federale, ma poi colpì il palo, stavo quasi per cadere in deliquio sbraitando gol, gol, goool!, esaltandomi nella mia cella per il vantaggio dei separatisti occidentali, come d’altra parte volevo scoppiare in grida di giubilo quando Lauck dribblò facilmente Overath - e più avanti nel corso della partita superò addirittura Netzer -, ma mancò di poco la porta dei federali. A quale doccia scozzese ci si vedeva esposti! Si accompagnavano con commenti di parte, a favore ora dell’una, ora dell’altra Germania, anche le decisioni dell’arbitro uruguayano. Mi scoprivo indisciplinato, per così dire scisso. E sì che alla mattina, mentre il commissario capo Federau mi interrogava, ero generalmente riuscito ad attenermi al copione stabilito. Si parlava della mia attività presso la circoscrizione socialista dell’Assia meridionale, su posizioni di sinistra decisa, dove ero stato considerato un compagno bravo sì, ma piuttosto conservatore. Ammisi senza difficoltà di appartenere all’ala destra, più pragmaticamente orientata, dei socialdemocratici. Poi fui messo a confronto con gli accessori del mio laboratorio fotografico sotto sequestro. In questi casi si minimizza, ci si richiama a una precedente attività di fotografo professionista, si rimanda a foto delle vacanze, l’ultimo hobby rimasto. Poi però saltarono fuori la mia potente cinepresa Super 8 e due cassette con materiale filmico superresistente e ultrasensibile, adatto, come si diceva, «in particolare per l’attività di emissario». Beh, non era una prova, al massimo un indizio. Visto che riuscii ad attenermi al copione, tornai tranquillo nella mia cella con l’intenzione di godermi la partita. Nessuno, qui come là, avrebbe immaginato che io fossi un tifoso. Prima di allora non sapevo neppure che in patria Jürgen Sparwasser giocava con successo nel Magdeburgo. Ma adesso imparai a conoscerlo, vidi come al settantottesimo, su passaggio di Hamann, si aggiustò la palla di testa, sfrecciò davanti a Vogts, quel ragazzo tenace, lasciò in asso anche Höttges e schiaffò in rete una cannonata imparabile per Maier. 1:0 per la Germania. Per quale? Per la mia o per la mia? Sì, certo, nella mia cella ho strepitato gol, gol, goool!, ma al tempo stesso mi addolorava la sconfitta dell’altra Germania. Quando Beckenbauer cercò
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ripetutamente di rimettere ordine in attacco, ho incitato gli undici federali. E al mio cancelliere, che mica noi abbiamo fatto dimettere, naturalmente, sono stati i vari Nollau e in testa a tutti Wehner e Genscher[3], ho scritto su una cartolina postale il mio dispiacere per l’esito della partita, come più tardi gli ho scritto per le feste e il 18 dicembre, per il suo compleanno. Ma non mi ha risposto. Comunque si può star certi che anche lui ha vissuto il gol di Sparwasser con sentimenti contrastanti. [1] Chi parla è Günther Guillaume (1927-95), funzionario della cancelleria federale e stretto collaboratore di Willy Brandt; la scoperta della sua attività spionistica a favore della Ddr portò alle dimissioni di Brandt. [2] Soprannome di Markus Wolf (1923) per molti anni responsabile della sicurezza interna della Ddr. [3] Günther Nollau (1911), presidente dell’ufficio federale per la tutela della costituzione, Herbert Wehner (1906-1990), presidente dei deputati socialisti e Hans-Dietrich Genscher (1927), all’epoca ministro degli Interni.
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1975 Un anno come altri?... Un anno come altri? O già un anno di piombo, e noi assordati dalle nostre stesse grida? Riesco a ricordare solo confusamente, tutt’al più un’inquietudine che girava a vuoto, perché da me, in casa, sia a Friedenau che a Wewelsfleth an der Stör, c’era burrasca, perché Anna, perché io, perché Veronika, e allora i ragazzi feriti o scappati dal nido, e mi ero rifugiato nel manoscritto - e dove altrimen-ti? -, mi ero immerso nel caldo corpo cavernoso del Rombo, adesso correvo giù per le scale dei secoli e mi trattenevo per un po’ presso nove e più cuoche che mi controllavano, ora severe ora indulgenti, mentre lontano dalle tracce della mia fuga il presente si scatenava e dovunque, sia nelle celle di Stammheim che attorno alla centrale nucleare di Brokdorf, il potere raffinava i suoi metodi, ma per il resto, da quando Brandt non c’era più e Schmidt, come cancelliere, ci oggettivava tutti, non succedeva molto; solo sullo schermo regnava la ressa. Insisto: non fu un anno particolare, o particolare solo perché noi cittadini dell’Ovest, quattro o cinque di numero, ci lasciavamo controllare al confine e poi, a Berlino Est, incontravamo cinque o sei cittadini dell’Est, anch’essi arrivati col manoscritto stretto al petto, Rainer Kirsch e Heinz Czechowski addirittura da Halle. All’inizio ci si rintanava da Schädlich, poi da Sarah Kirsch o da Sybille Hentschke, poi da questo o da quello, per leggerci ad alta voce, dopo il caffè e la torta (e i consueti sfotticchiamenti estovest), poesie rimate e non rimate, capitoli troppo lunghi e storie brevi, quello che all’epoca era in lavorazione da entrambe le parti del Muro e doveva interpretare il mondo nei dettagli. E’ stato dunque questo rituale, il controllo al confine più o meno stiracchiato, il viaggio verso il punto dell’incontro (Rotkäppchenweg o Lenbachstrasse), le schermaglie a volte spiritose, a volte preoccupate e le geremiadi pantedesche snocciolate fino in fondo, oltre al fiume d’inchiostro di autori accaniti letto ad alta voce, poi la critica in parte aspra, in parte reticente delle cose lette, questa copia del Gruppo 47 ridotta a incontro carbonaro, da ultimo, poco prima di mezzanotte, il precipitoso passaggio di confine - posto di controllo alla stazione della Friedrichstrasse -, l’unico avvenimento da ricordare che l’anno aveva in calendario? Lontanissimo e lì a due passi, in televisione, cadeva Saigon. Gli ultimi americani lasciavano il Vietnam dal tetto della loro ambasciata, in preda al panico. Ma questa fine era prevedibile e per noi, tra un dolcetto al
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miele e uno allo zucchero, non ha rappresentato un argomento. Oppure il terrorismo della Raf, che operava non solo a Stoccolma (ostaggi), ma adesso faceva parte della vita quotidiana anche tra i reclusi di Stammheim, finché l’anno dopo Ulrike Meinhof si impiccò o venne impiccata nella sua cella. Ma persino questo problema di lunga durata non deve aver toccato particolarmente noi signori della penna. Semmai la novità era rappresentata, dopo la siccità estiva, dagli incendi boschivi nella landa di Luneburgo, nella cui vasta estensione trovarono la morte cinque vigili del fuoco, circondati dalle fiamme. Anche questo non era un tema estovest. Ma forse, prima che Nicolas Born leggesse dal suo Lato opposto alla terra, che Sarah berlineggiasse con le sue poesie brandeburghesi, che Schädlich ci turbasse con una di quelle storie apparse in seguito all’Ovest sotto il titolo Tentata vicinanza, e che io collaudassi un frammento del Rombo, ci siamo offerti come novità quell’avvenimento che in maggio aveva fatto rumore nella parte occidentale di Berlino: sulla Gröbenufer a Kreuzberg, vicino al passaggio di confine del ponte di Oberbaum, un bambino turco di cinque anni (Cetin) cadde nel canale della Sprea che delimitava le due metà cittadine, cosicché nessuno né la polizia di Berlino Ovest, né i marinai dell’esercito popolare nella loro motovedetta - volle o poté soccorrerlo. E poiché all’Ovest nessuno osava spingersi in acqua e all’Est si doveva attendere la decisione di un ufficiale di grado superiore, trascorse del tempo, finché per Cetin fu troppo tardi. Quando infine i vigili del fuoco ebbero il permesso di recuperare il cadavere, sulla riva occidentale del canale le donne turche cominciarono a intonare il loro canto lamentoso, che durò a lungo e si dev’essere sentito in buona parte della zona orientale. Cosa ci sarebbe stato da raccontare ancora, col caffè e la torta, in quell’anno che trascorse come erano trascorsi gli altri? In settembre, quando ci incontrammo di nuovo coi manoscritti, la morte dell’imperatore d’Etiopia - fu assassinio, fu cancro alla prostata? mi avrebbe offerto l’occasione di ammannire un’esperienza dell’infanzia. Nel «cinegiornale sonoro della Fox», lo spettatore cinematografico che ero allora aveva visto il Negus Hailé Selassié in visita a un porto (quello di Amburgo?) sotto una tipica pioggerellina. Piccolo di statura, barbuto, con un casco coloniale troppo grande, stava sotto a un ombrello da sole che un servo teneva aperto. Aveva un’aria triste o preoccupata. Dev’essere stato il ’35, poco prima che i soldati di Mussolini entrassero in Abissinia, come allora si chiamava l’Etiopia. Da bambino mi sarebbe piaciuto essere amico del Negus e fargli compagnia, quando dovette fuggire davanti alle soverchianti forze italiane.
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No, non sono sicuro se nei nostri incontri estovest si sia parlato del Negus o magari di Menghistu, il nuovissimo ras comunista. L’unica cosa certa era che prima di mezzanotte, nel capannone dei controlli al confine chiamato «palazzo delle lacrime», dovevamo mostrare i nostri passaporti e il permesso d’entrata. E l’altra certezza era che a Berlino Ovest e a Wewelsfleth, dovunque cercassi un tetto con i frammenti del mio Rombo, in casa c’era burrasca.
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1976 A Berlino Est... A Berlino Est, dovunque ci incontrassimo, pensavamo di essere intercettati. Immaginavamo cimici accuratamente piazzate dappertutto, sotto l’intonaco, nella lampada del soffitto, persino nei vasi da fiori, e perciò commentavamo con ironia la previdenza dello Stato e il suo inestinguibile bisogno di sicurezza. Scandendo lentamente le parole, in modo che potessero trascriverle, rivelavamo segreti che mettevano a nudo il carattere sostanzialmente sovversivo della lirica e attribuivano intenti cospirativi all’uso mirato del congiuntivo. Consigliavamo alla «ditta», come venivano familiarmente chiamati i servizi di sicurezza dello Stato Operaio e Contadino, di chiedere rogatorie alla concorrenza occidentale (Pullach e Colonia)[1] nel caso fosse risultato che le nostre sottigliezze intellettuali e metafore decadenti potevano essere decifrate solo travalicando la frontiera, cioè grazie a una collaborazione pantedesca. Giocavamo a fare gli arroganti, con la Stasi, e nella nostra cerchia supponevamo - un po’ sul serio, un po’ per divertimento - la presenza di almeno una spia, affermando amichevolmente che «in linea di massima» chiunque era sospettabile. Due decenni più tardi Klaus Schlesinger, che ora, presso quell’ufficio conosciuto sotto il nome «Gauck»[2], aveva passato al filtro tutto lo zelo della Stasi a suo riguardo, mi spedì alcuni rapporti che avevano per oggetto i nostri incontri cospirativi di metà anni Settanta. Ma lì dentro trovai da leggere solo chi si era incontrato con chi davanti alla libreria della stazione di Friedrichstrasse, chi aveva baciato chi come saluto o aveva consegnato un presente, ad esempio bottiglie avvolte in carta colorata, dove si erano dirette le persone in oggetto e sulla Trabi di chi (targa), in quale casa (strada, numero civico) e in quale momento tutte le persone sotto controllo erano sparite, e quando dopo più di sei ore di sorveglianza - tutti avevano lasciato la casa in oggetto e si erano allontanati in direzioni diverse, gli occidentali verso il passaggio di confine, alcuni ridendo e parlando ad alta voce, dopo un consumo di bevande alcoliche evidentemente sostenuto. Dunque niente cimici. Nessuna spia nella nostra cerchia. Non c’era neanche una parola sui nostri esercizi di lettura. Nulla - che delusione! sulla potenzialità dirompente di poesie rimate e non rimate. E nessun accenno alle chiacchiere sovversive davanti al caffè e alla torta. Così non fu tramandato ciò che gli occidentali seppero riferire riguardo alle sensazioni suscitate dal film Lo squalo, da poco in programmazione in uno dei
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cinema del Ku’damm. Valutazioni sui processi contro i colonnelli che si protraevano ad Atene risuonarono inascoltate. E quando noi, io da esperto del luogo, relazionammo i nostri amici sulla battaglia attorno alla centrale nucleare di Brokdorf, nella quale la polizia impiegò per la prima volta e con immediato successo la «clava chimica»[3] sperimentata in America, per poi dare la caccia con gli elicotteri a bassa quota sopra i campi pianeggianti del Wilstermarsch a migliaia di civili che protestavano, le autorità orientali avevano trascurato anche di prendere atto dell’efficienza delle forze di polizia occidentali. O forse nella nostra cerchia non si è mai fatto parola di Brokdorf? Può essere che abbiamo avuto riguardo per i nostri colleghi isolati al di là del Muro, non abbiamo scalfito la loro immagine di un Ovest abbastanza integro, gli abbiamo risparmiato l’impiego della clava chimica e la descrizione troppo deprimente di poliziotti che picchiano, che picchiano senza pietà persino donne e bambini? Penso piuttosto che Born o Buch o io fummo in grado di accennare in maniera marcatamente obiettiva a quel gas impronunciabile, il cloroacetofenone, di cui erano state riempite le bombolette spray entrate in azione a Brokdorf, mettendolo in relazione con l’altro gas già in uso nella prima guerra mondiale col nome di «iprite», e che allora Sarah o Schädlich, Schlesinger o Rainer Kirsch abbiano sostenuto che attualmente la polizia popolare non era ancora così ben attrezzata, ma la situazione avrebbe subìto un cambiamento non appena ci fosse stata maggior disponibilità di valuta estera, perché in linea di massima i risultati raggiunti dall’Ovest potevano essere ambiti anche dall’Est. Speculazioni inutili. Niente di tutto questo si trova nei documenti della Stasi speditimi da Schlesinger. E quello che lì non si trova, non è mai esistito. Ogni fatto che invece è stato messo sulla carta, con data, denominazione del luogo e sintetica descrizione delle persone, era una realtà, e una realtà importante, esprimeva una verità. E così nel regalo di Schlesinger erano fotocopie - potei leggere che durante una delle visite a Berlino Est tenute sotto osservazione fin sulla porta di casa mi aveva accompagnato una persona - sesso femminile, statura alta, riccioli biondi -, la quale, come fu in grado di integrare il controllo di frontiera, era nata nell’isola baltica di Hiddensee, portava con sé il suo lavoro a maglia, ma fino al momento presente risultava sconosciuta nei circoli letterari. Così Ute[4] entrò negli incartamenti. Da allora è una realtà. Nessun sogno me la può togliere. Perché da allora in poi non dovetti più vagare da qui a là, dove ogni volta c’era burrasca in casa.
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Invece, con lei che mi riparava dal vento, scrissi capitolo dopo capitolo sulla pelle coriacea del Rombo, e in seguito, appena ci ritrovammo seduti assieme, ne lessi dei brani agli amici, fosse qualcosa di gotico su «Aringhe di Scania», fosse un’allegoria barocca, «Del peso dell’epoca oscura». Ma ciò che Schädlich, Born, Sarah e Rainer Kirsch o io abbiamo veramente letto in luoghi alterni, nelle carte di Schlesinger non c’è, quindi non è reale, non ha l’imprimatur né della Stasi né dell’ufficio Gauck; si può semmai supporre che io, quando Ute fu una realtà, abbia letto la fiaba ininterrotta «L’altra verità», e Schädlich, già allora o l’anno successivo, ci abbia fatto ascoltare l’inizio del suo Tallhover, la storia della spia immortale. [1] A Pullach, un sobborgo di Monaco, c’è la sede dei servizi segreti federali, e a Colonia si trova l’ufficio federale per la tutela della costituzione, responsabile della sicurezza interna. [2] Così chiamato dal suo direttore Joachim Gauck; si tratta di un’istituzione aperta nell’ottobre del ’90 per conservare i documenti della Stasi: a partire dal dicembre ’91 chiunque ha libero accesso alla consultazione di rapporti che lo riguardavano. [3] Nebulizzatore contenente gas lacrimogeno. [4] Ute Grunert, la seconda moglie di Grass.
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1977 Questo ebbe delle conseguenze... Questo ebbe delle conseguenze. Ma cosa non aveva conseguenze? Terrorismo che si inventava il proprio controterrorismo. E domande, che restavano scoperchiate. Così ancora oggi non so come due pistole provviste di munizioni, con le quali Baader e Raspe si sarebbero sparati, siano entrate nell’ala di massima sicurezza di Stammheim, e come Gudrun Ensslin abbia potuto impiccarsi con il cavo di un altoparlante… Questo ebbe delle conseguenze. Ma cosa non aveva conseguenze? Ad esempio, l’anno precedente, fu privato della cittadinanza il cantautore Wolf Biermann, al quale da allora in poi vennero a mancare lo Stato Operaio e Contadino solidamente murato e - appena cominciò a cantare sulla scena occidentale - il terreno di risonanza. Lo vedo come fosse oggi nella Niedstrasse di Friedenau, dove, in visita nel corso della tournée autorizzata, al nostro tavolo prima parlò spiritosamente di sé, del vero comunismo, poi di nuovo di sé, e quindi, nel mio studio davanti a un piccolo pubblico - Ute, i molti bambini e i loro amichetti -, provò il programma della grande entrata in scena a Colonia, graziosamente concessa, come lo vedemmo in televisione il giorno successivo, ancora una volta «live», perché ha provato tutto, ogni grido contro l’arbitrio del partito dominante, ogni risata di scherno che gli strappava il sistema spionistico nazionalizzato, ogni singhiozzo sul comunismo tradito, tradito dai compagni dirigenti, ogni suono gracchiante generato dalla sofferenza, fino a un’ombra di raucedine incombente, fino alla testualità dell’impaperamento spontaneo, ha provato ogni battito di ciglia, ogni espressione clownesca o dolente, si era esercitato da mesi, da anni, per tutto il tempo in cui il severo divieto di esibirsi al di fuori della sua tana (di fronte alla «delegazione permanente»[1]) lo aveva reso muto, aveva studiato il grande spettacolo numero dopo numero; perché tutto quello che a Colonia sconvolse le folle di spettatori in ascolto gli era già riuscito il giorno prima davanti al piccolo pubblico. A tal punto era carico di intenti preparati in precedenza. Così sicuro di colpire nel segno. E così collaudato, il suo coraggio si presentò alla ribalta. Appena privato della cittadinanza, tutti sperammo che un coraggio del genere avrebbe avuto delle conseguenze, che questo coraggio adesso si sarebbe messo alla prova in Occidente. Invece non accadde più granché. In seguito, molti anni dopo, quando il Muro crollò, si sentì offeso, perché era successo senza il suo intervento.
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Recentemente gli hanno assegnato il Premio di Stato. Dopo che a Biermann ebbero tolto la cittadinanza ci incontrammo per l’ultima volta nell’Est della città. In casa di Kunert con i molti gatti, all’inizio ci leggemmo a vicenda le nostre cose (come d’abitudine), ma poi si aggiunsero altri che avevano protestato pubblicamente contro la misura nei confronti di Biermann, per cercare di venire a capo delle conseguenze del loro atto. Una delle conseguenze fu che molti (non tutti) si videro costretti a chiedere il visto d’uscita dal loro Stato. I Kunert se ne andarono insieme ai gatti. Con bambini, libri e suppellettili se ne andarono Sarah Kirsch e Jochen Schädlich. Anche questo ebbe delle conseguenze. Ma cosa non aveva conseguenze. Più tardi ci morì Nicolas Born. Più tardi, molto più tardi, le nostre amicizie si ruppero: danni da riunificazione. Comunque i nostri manoscritti, dai quali avevamo letto di volta in volta, arrivarono sul mercato. Anche il rombo superò il primo esame di nuoto. Ah sì, e sul finire del ’77 morì Charlie Chaplin. Si avviò con la sua camminata barcollante verso l’orizzonte, semplicemente se ne andò, senza trovare successori. [1] La rappresentanza consolare della Repubblica Federale a Berlino Est.
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1978 Certo, reverendo, sarei dovuta venire prima... Certo, reverendo, sarei dovuta venire prima, aprirle il cuore. Eppure credevo fermamente che si sarebbe risolta da sola, la faccenda con i ragazzi. Mio marito e io avevamo la certezza che non mancassero di niente, eravamo molto affezionati a entrambi. E da quando abitavamo nella villa di mio suocero, per suo desiderio, tra l’altro, sembrava proprio così, che fossero felici o quanto meno contenti. La casa spaziosa. La grande tenuta con tutti quei vecchi alberi. E sebbene abitassimo un po’ fuori, non è poi tanto lontano dal centro città, reverendo, Lei lo sa bene. I loro compagni di scuola venivano sempre a trovarli. E nelle feste in giardino c’era veramente tanta allegria. Persino mio suocero, il nostro nonno amatissimo dai ragazzi, era felice di quella pittoresca confusione. E poi di colpo hanno perso tutti e due la bussola. A cominciare da Martin. Ma Monika ha pensato di dover superare il fratello. Improvvisamente il ragazzo si presenta rasato a zero, a parte un ciuffetto sulla fronte. E la ragazza si è tinta i suoi bei capelli biondi metà lilla e metà verde bandiera. Beh, su questo si sarebbe anche potuto chiudere un occhio cosa che abbiamo fatto -, ma quando ce li siamo visti davanti con addosso quegli stracci spaventosi siamo rimasti scioccati, io più di mio marito. Martin, che fino a quel momento vestiva addirittura un po’ snob, si era infilato dei jeans pieni di buchi tenuti su da una catena arrugginita, ai quali pareva facesse da pendant una giacca nera chiodata chiusa sul petto da un mostruoso lucchetto. E la nostra Moni si presentava con della roba di pelle tutta logora, girava in stivali coi lacci. In sovrappiù, dalle due camere usciva quella musica, se così si può definire un fracasso intollerabilmente aggressivo. Appena tornavano da scuola, cominciava il frastuono. Senza riguardi per il nostro nonno che, da quando è in pensione, coltiva solo la quiete, pensavamo noi, ignari… Sì, reverendo. Così o qualcosa del genere si chiamava quella tortura per le orecchie, «Sex Pistols». Sembra che Lei se ne intenda. Ma certo. Abbiamo tentato di tutto. Coi buoni consigli, però anche con severità. Mio marito, di solito la tolleranza in persona, addirittura con la sospensione della paghetta. Non è servito a niente. I ragazzi sempre in giro e in cattiva compagnia. I loro amici di scuola, tutti di buona famiglia, naturalmente non sono più venuti. E’ stato l’inferno, perché adesso ci portavano in casa quei tipi, i punk. Non c’era posto dove si fosse al sicuro, con loro. Seduti sui tappeti. Stravaccati persino nelle poltrone di pelle, nel fumoir. E poi quel linguaggio
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fecale. Che situazione, reverendo. Sempre queste chiacchiere no-future, finché, beh, come posso dire, improvvisamente il nonno ha dato di testa. Proprio da un giorno all’altro. Mio marito e io siamo rimasti esterrefatti. Perché mio suocero… Del resto, Lei lo conosce. Un signore distinto, elegante - la discrezione in persona -, dotato d’uno charme d’altri tempi e di uno spirito arguto mai offensivo, che da quando si era ritirato da tutti gli affari di banca viveva solo del suo amore per la musica classica, non lasciava quasi mai le sue stanze, in rare occasioni stava seduto sulla terrazza del giardino, assorto nei suoi pensieri, come se si fosse lasciato completamente alle spalle il finanziere dalla posizione prestigiosa - Lei lo sa bene, reverendo, faceva parte dei quadri dirigenti della Deutsche Bank -, lui che non ha mai parlato di sé e della sua lunga attività, tutto discrezione in rigatino… Perché quando una volta, ero appena sposata, gli ho chiesto del suo lavoro durante il terribile periodo della guerra, ha risposto con la lieve ironia che gli era propria: «Questo è un segreto bancario», e persino Erwin, che del resto opera nello stesso ramo, sa poco sulle tappe della sua infanzia, e ancor meno sulla carriera del padre, che adesso di colpo, l’ho già detto, reverendo, era cambiato come dal giorno alla notte. Provi a immaginare: ci coglie di sorpresa, anzi ci sciocca, a colazione, in quella mise spaventosa. Si è rasato i suoi bei capelli grigi, ancora folti nonostante l’età, ad esclusione di una striscia centrale ritta come una cresta e, per di più, si è tinto quel misero resto di rossiccio. In aggiunta indossa, proprio assortito, un camice cucito assieme, evidentemente di nascosto, con pezzi di stoffa bianchi e neri sopra i suoi vecchi pantaloni a righe, che metteva per le sedute del consiglio d’amministrazione. Sembrava un carcerato. E tutto, le strisce di stoffa e persino la patta, era tenuto assieme da spille da balia. Allo stesso modo - La prego di non chiedermi come si era trapassato i lobi delle orecchie con due spille da balia particolarmente grosse. In più deve aver scovato chissà dove un paio di manette, che però metteva solo al momento di uscire di casa. Ma certo, reverendo. Nessuno poteva fermarlo. Era sempre in giro, è diventato lo zimbello di tutti non solo qui a Rath, ma anche, come ci hanno riferito, nel centro della città, persino sul Königsallee. E ben presto ha raccolto attorno a sé un’orda di questi punk, coi quali ha infestato la zona fin su verso Gerresheim. No, reverendo, anche se Erwin gli faceva le proprie rimostranze, la risposta era: «Il signor Abs adesso esce. Il signor Abs deve prendere in consegna la Union Bank boema e il Credito viennese. Inoltre il signor Abs deve prossimamente arianizzare rinomate società commerciali a Parigi e ad Amsterdam. Il signor Abs è stato pregato di
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agire con discrezione, come del resto è avvenuto per la banca Mendelssohn. Il signor Abs è noto per la sua discrezione e desidera che non gli vengano rivolte ulteriori domande… » Questo e ben altro ancora abbiamo dovuto stare a sentire, giorno dopo giorno, reverendo. L’ha detto: nostro nonno si è totalmente identificato con il suo ex capo, al quale è chiaro che deve essere stato legatissimo non solo durante la fase di ricostruzione del dopoguerra, ma anche negli anni del conflitto, sì certo, Hermann Josef Abs, che a suo tempo ha potuto consigliare il nostro cancelliere su importanti questioni finanziarie. Si tratti di fastidiosi problemi di indennizzo riguardanti la I.G. Farben, o di nuove pretese che arrivano da Israele, lui pensa sempre di dover entrare in azione come negoziatore di Adenauer. E allora dice: «Il signor Abs respinge tutte le richieste. Il signor Abs provvederà a che noi si resti degni di fido… » E così l’hanno chiamato anche quegli orribili punk, quando usciva dalla villa: «Papà Abs!» E lui che ci rassicurava sorridendo: «Non c’è ragione di stare in pensiero. Il signor Abs intraprende solo un viaggio d’affari». I ragazzi? Non ci crederà, reverendo. Guariti da un giorno all’altro, tanto li ha scioccati il nonno. Monika ha ficcato nel bidone delle immondizie il vestito di pelle e quegli orrendi stivaletti. Adesso si sta preparando alla maturità. Martin ha riscoperto le sue cravatte di seta. Gli piacerebbe, come ho sentito da Erwin, andare a Londra, in un college. In realtà, ma solo se si prescinde dalle tragiche conseguenze, dovremmo essere grati al vecchio signore per aver riportato alla ragione i suoi nipoti. Certo, reverendo. Per noi è stato difficilissimo prendere questa decisione che, lo so, può sembrare crudele. Abbiamo cercato per ore una soluzione, assieme ai ragazzi. Sì, adesso è a Grafenberg. L’ha detto: l’istituto gode di buona fama. Andiamo a trovarlo regolarmente. Certo, anche i ragazzi. Non gli manca nulla. Purtroppo continua a spacciarsi per il «signor Abs», ma, come ci ha assicurato uno degli infermieri, intrattiene rapporti davvero cordiali con altri assistiti. Di recente pare che il nonno abbia addirittura stretto amicizia con un caso che, appropriatamente, si fa passare per il «signor Adenauer». Hanno il permesso di divertirsi assieme giocando a bocce
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1979 E piantala con tutte ’ste domande... E piantala con tutte ’ste domande. Cosa vuol dire poi, il mio più grande amore? Sei tu, naturalmente, mio Klaus-Stephan un po’ spaccapalle, mentre io per te… E va bene, basta che la smetti di rompere. Immagino che con amore tu intenda una cosa tipo batticuore, mani sudate, balbettamenti prossimi al delirio. Sì, una volta è scoccata, la scintilla, quando avevo tredici anni tredici. Mi sono innamorata pazzamente, proprio da perdere la testa, di un vero aeronauta, questa non te l’aspettavi, eh? Per essere più precisa, del figlio di un aeronauta, o più precisamente ancora del figlio maggiore di uno degli aeronauti, perché erano due gli uomini che con le loro famiglie - quand’è stato? dodici anni fa, a metà settembre - hanno volato dalla Turingia di qua in Franconia in un pallone ad aria calda. Ma va’, quale gita di piacere! Allora non capisci niente o fai finta di non capire. Sopra il confine, sono passati. Sopra filo spinato, mine a contatto, impianti di sparo automatici, strisce della morte, via, con un bel fegato, dritti fin qui da noi. Infatti io vengo da Naila, se ti sforzi di ricordare, un buco in Franconia. E a neanche cinquanta chilometri di distanza, in quella che allora era ancora l’altra Germania, c’è Pössneck, da dove sono scappate le due famiglie. Te l’ho detto, con un pallone, e precisamente uno cucito assieme da loro. Dopodiché Naila è diventata famosa, è arrivata su tutti i giornali, perfino in televisione, perché gli aeronauti sono atterrati da noi, non proprio davanti alla porta di casa, ai margini della città, su un prato in mezzo al bosco: quattro adulti, quattro ragazzi. E uno di questi era Frank, quindici appena compiuti, per il quale ho perso la testa, all’istante ti dico, quando noialtri ragazzini stavamo lì a guardare dietro lo sbarramento come le due famiglie si sono arrampicate di nuovo nella navicella, per la televisione, e su richiesta hanno fatto ciao ciao con la manina. No, il mio Frank no. Non ha battuto ciglio. La cosa lo imbarazzava. Ne aveva abbastanza di quel casino. Sì, di tutte le smorfie per i giornalisti. Voleva scendere dalla navicella, ma non lo lasciavano. Ma io ero già cotta, lì su due piedi. Volevo correre da lui o scappare via. Appunto, tra noi due è stata tutta un’altra cosa, è nata pian piano e di spontaneo non è successo praticamente niente. Ma con Frank, quello è stato amore a prima vista. Eccome se gli ho parlato! Anzi, era appena sceso dalla navicella che gli ho attaccato bottone. Lui non ha quasi aperto bocca. Era abbastanza bloccato. Proprio carino. Ma io l’ho trapanato, volevo sapere tutto, sì, tutta la storia. Come le due famiglie ci avevano già provato una volta, ma il
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pallone, perché c’era nebbia, si era inumidito ed era venuto giù poco prima del confine, ancora di là, e nessuno capiva dove si trovavano. Hanno avuto un bel culo, a non farsi beccare. E poi Frank mi ha raccontato come tutte e due le famiglie non hanno mica rinunciato, ma hanno continuato a comprare qua e là, dappertutto nella ex Ddr, metri e metri di stoffa da impermeabile, e che non è certo stata una cosa facile. Di notte poi le donne e gli uomini hanno messo assieme il nuovo pallone con due macchine da cucire, per cui, subito dopo la fuga riuscita, la Singer voleva regalargli due macchine elettriche nuove di zecca, perché immaginavano che il pallone l’avessero cucito con due vecchie Singer, di quelle col pedale… Ma non era vero… L’hanno fatto con prodotti dell’Est… Elettrici, addirittura… Quindi niente super-regali… Ovvio, perché adesso mancava l’effetto pubblicitario… Ad ogni modo il mio Frank mi ha raccontato tutto un po’ alla volta, quando ci incontravamo di nascosto sul prato dov’erano atterrati. Lui era proprio timido e molto diverso dai ragazzi qui all’Ovest. Se ci siamo baciati? All’inizio no, più tardi. E ci sono state subito rogne con mio padre. Il quale infatti pensava, e non era del tutto sbagliato, che i genitori del pallone avevano agito da incoscienti, mettendo in pericolo le loro famiglie. Io naturalmente non volevo ammetterlo. Ho detto a mio padre, e anche questo non era sbagliato: sei solo invidioso, perché quegli uomini hanno osato una cosa per cui tu avresti senz’altro troppa paura… Ma roba da matti! Adesso il mio adorato Klaus-Stephan si mette anche a fare il geloso, vuol piantarmi una scenata, magari farla di nuovo finita. Solo perché tanto tempo fa… E va bene. Ho mentito. Mi sono semplicemente inventata tutto. Ero troppo imbranata, a tredici anni, per attaccare bottone col ragazzo. Sono solo stata a guardare, l’ho sempre e solo guardato. Anche più tardi, quando lo vedevo in strada. Andava a scuola a Naila, proprio vicino a noi, in Albin-Klöver-Strasse, non lontano dal prato dove erano atterrati col pallone. Poi ci siamo trasferiti, già, a Erlangen, dove mio padre ha cominciato a lavorare nella pubblicità dei prodotti Siemens. Ma Frank… No, non ero solo un po’ cotta, l’ho amato, appassionatamente e profondamente, che ti piaccia o no. E per quanto tra noi non sia successo proprio niente, gli voglio ancora bene, anche se Frank non ne ha la più pallida idea.
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1980 - Ma è solo un salto, da Bonn... - Ma è solo un salto, da Bonn, - mi ha detto sua moglie[1] al telefono. Lei non immagina, signor sottosegretario, quanto sia ingenua questa gente, e al tempo stesso cordiale: - Venga a dare un’occhiata con calma, così capirà come funziona la cosa qui da noi, dal mattino alla sera… - Insomma, in veste di direttore dell’ufficio competente mi sono visto obbligato a fare un sopralluogo, anche solo per poterle eventualmente riferire. In effetti: dal ministero degli Esteri era proprio un salto. Ma no, si trova in una normalissima casa a schiera, la sede o quello che si ritiene tale. E da lì si pensa di intervenire con decisione negli avvenimenti mondiali, e di sollecitarci eventualmente ad agire. Così sua moglie mi ha anche assicurato che sbriga lei tutto «il ciarpame organizzativo», nonostante debba badare alla casa e ai tre bambini piccoli. Lo fa «con la sinistra», però tiene costantemente i contatti con la suddetta nave nel Mar Cinese Meridionale e distribuisce, quasi en passant, i soldi delle sottoscrizioni che affluiscono sempre in abbondanza. Solo con noi, ha detto, «con la burocrazia», ci sono difficoltà. D’altronde lei si attiene allo slogan elettorale del marito «Siate realisti, osate l’impossibile!», che lui, anni fa, era il Sessantotto, ha acchiappato al volo a Parigi, sì, allora, quando gli studenti erano ancora temerari eccetera eccetera. Consiglia anche a me, leggi al ministero degli Esteri, di seguire questo motto, perché senza ardimento politico i boat people continueranno ad affogare o a morire di fame su quell’Isola dei Topi, Pulau Bidong. In ogni caso si dovrebbe finalmente permettere alla nave per il Vietnam, che suo marito ha potuto noleggiare per altri mesi ancora grazie alle numerose sottoscrizioni, di prendere in consegna senza tante storie i profughi ripescati da altre navi, ad esempio quella povera gente salvata da un mercantile danese della compagnia Maersk. Lo esige. Lo considera un imperativo umanitario eccetera eccetera. Eccome se l’ho fatto notare, a quella brava donna. Ripetutamente e secondo le direttive, ovvio, signor sottosegretario. In fin dei conti è la convenzione del diritto marittimo del 1910 l’unica norma alla quale possiamo attenerci in questo momento di precarietà. Stando al cui testo tutti i capitani, come non ho smesso di assicurarle, sono obbligati a raccogliere i naufraghi, ma soltanto direttamente dall’acqua, e non da altri mercantili, come dovrebbe succedere nel caso del Maersk Mango, che batte la bandiera di comodo di Singapore e ha raccolto più di venti naufraghi dei quali adesso vorrebbe liberarsi. E al più presto possibile. Secondo il
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radiomessaggio, c’è un carico di frutta esotica facilmente deperibile, non si potrebbe cambiare rotta eccetera eccetera. E comunque, ho continuato ad asserire di fronte a lei, una presa in consegna diretta da parte della Cap Anamur dei boat people messi in salvo contravverrebbe al diritto marittimo internazionale. Mi ha riso in faccia, mentre stava ai fornelli e tagliuzzava carote. Questo regolamento, ha detto, risale ai tempi del Titanic. Le catastrofi odierne sono di un’altra dimensione. Bisogna partire già adesso da una cifra di trecentomila fuggiaschi annegati o morti di sete. Anche se finora la Cap Anamur è riuscita a salvarne qualche centinaio, non ci si può certo accontentare. Alla mia relativizzazione di numeri calcolati così a occhio e ad altre obiezioni ho avuto in risposta: - Macché! A me non interessa se tra i profughi ci sono anche contrabbandieri, ruffiani, magari delinquenti o collaborazionisti degli americani, - per lei si tratta di esseri umani che muoiono affogati tutti i giorni, mentre il ministero degli Esteri e tutti quanti i politici si aggrappano a norme dei tempi di Adamo ed Eva. Ancora un anno fa, quando la tragedia è cominciata, ci sono stati alcuni boiardi dei Länder che ad Hannover e a Monaco hanno accolto, per la televisione, qualche centinaio di «vittime del terrore comunista», come li hanno definiti, ma adesso, di colpo, si parla solo di immigrati per motivi economici e di scandaloso abuso del diritto d’asilo… No, signor sottosegretario, impossibile calmare quella brava donna. Cioè, non era neanche particolarmente agitata, anzi, quasi serena e tranquilla, anche se sempre affaccendata, o ai fornelli col suo piatto unico - «Verdure con carne di montone», come mi è stato assicurato - oppure attaccata al telefono. Inoltre arrivava gente in continuazione, tra cui medici che offrivano i propri servigi. Discussioni interminabili su liste d’attesa, idoneità ai tropici, vaccinazioni eccetera eccetera. E i tre bambini sempre tra i piedi. Come ho detto, io stavo in cucina. Volevo andarmene e non me ne andavo. Non c’era una sedia libera. Più volte lei mi ha pregato di rimestare nella pentola con un cucchiaio di legno, mentre era al telefono in soggiorno. Quando alla fine ho preso posto su una cesta della biancheria, mi sono seduto su un’anatra di gomma, un giocattolo dei bambini, che ha mandato squittii miserandi suscitando risate da parte di tutti. No, prive di derisione o di scherno. Questa gente, signor sottosegretario, ama il caos. Li rende creativi, ho sentito dire. Qui abbiamo a che fare con degli idealisti ai quali non importa un fico secco di disposizioni vigenti, direttive eccetera eccetera.
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Piuttosto sono graniticamente convinti, come questa brava donna nella sua casa a schiera, di poter smuovere il mondo. Ammirevoli, in realtà, li ho trovati, anche se non mi è andato a genio di dover stare lì come un mostro, per la mia funzione al ministero, come qualcuno che deve dire sempre di no. Certo, niente è più seccante di dover negare aiuto. Un particolare che commuove, ma anche umiliante: quando mi sono congedato, uno dei figli, una bambina, mi ha regalato l’anatra che pigola. Questa sa stare a galla, mi è toccato di sentire. [1] Christel Neudeck, moglie di Rupert Neudeck, il fondatore dell’associazione tedesca «Una nave per il Vietnam».
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1981 Puoi credermi, Rosi... Puoi credermi, Rosi, per me è stato proprio un viaggio imbarazzante. Non avevo mai visto prima tante croci di ferro, solo quella sulle foto, che aveva al collo mio zio Konrad. Ma adesso ne penzolavano a quintali, anche certe con le foglie di quercia, come mi ha spiegato mia nonna, che al cimitero stava accanto a me, a voce abbastanza alta, perché è dura d’orecchi. Infatti mi era arrivato da lei, quel telegramma: «Prendere subito treno per Amburgo. Poi metrò fino capolinea Aumühle. Qui nostro grande ammiraglio[1] accompagnato ultima dimora… » Ovvio che ho dovuto. Non conosci mia nonna. Quando dice «subito», è così e basta. Anche se di solito non mi faccio comandare da nessuno e a Kreuzberg, come ben sai, appartengo al gruppo di quelli che occupano le case e ogni giorno dobbiamo aspettarci che questo Lummer[2] ci mandi i suoi piedipiatti: squadra di sgombero della Hermsdorfer Strasse. In ogni caso, è stato imbarazzante mostrare il telegramma alla mia comune. Ovvio che hanno imprecato per quel cazzo di grande ammiraglio. E adesso ero lì vicino a mia nonna e fra tutti quegli altri vecchietti che avevano parcheggiato le loro Mercedes davanti al cimitero e ora, quasi uno su due con la croce di ferro sotto al mento, però in abiti civili, «facevano ala» - secondo l’espressione di mia nonna - dalla cappella fino alla fossa. Io gelavo. Ma i nonnetti erano quasi tutti senza cappotto, anche se il terreno era coperto di neve e faceva un freddo cane, nonostante il sole. Però avevano sulla testa i berretti con la visiera, alla marinara. Erano tutti sommergibilisti, come i tizi che ci sono passati davanti lentamente portando la bara con dentro il grande ammiraglio e sopra il drappo nero-rosso-oro, come del resto sono stati sommergibilisti i due fratelli maggiori di mio padre, il quale invece alla fine l’hanno reclutato nella milizia popolare. Sono crepati uno nell’Artico e l’altro in qualche punto dell’Atlantico, ovvero, come dice sempre mia nonna, «dormono nelle fredde profondità del mare». Uno era tenente di vascello, che è una cosa simile al capitano, l’altro, mio zio Karl, solo capo in seconda. Roba da non credere, Rosi. In totale pare che ne siano annegati quasi trentamila, in circa cinquecento sommergibili. E tutti per ordine di questo grande ammiraglio, che in realtà è stato un criminale di guerra. In ogni caso, è quello che dice mio padre. E dice che la maggior parte, anche i suoi fratelli, sono saliti volontariamente su quelle «bare galleggianti». Per lui è imbarazzante proprio come per me, quando verso Natale la
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nonna attacca col suo culto degli «eroici figli scomparsi», anche per questo mio padre è in lite perenne con lei. Solo io vado a trovarla ogni tanto a Eckernförde, dove ha la sua casetta e ha sempre venerato, anche dopo la guerra, questo grande ammiraglio. Ma per il resto è davvero okay. E tutto sommato con lei mi intendo meglio che con mio padre, al quale naturalmente il nostro occupar case non sta bene. Per questo la nonna ha spedito il telegramma solo a me e non a mio padre, nella Hermsdorfer Strasse al numero 4, dove già da mesi, con l’aiuto di simpatizzanti che sono medici, insegnanti di sinistra, avvocati eccetera, abbiamo sistemato la casa in modo proprio confortevole. Herbi e Robi, che come ti ho scritto sono i miei migliori amici, non erano certo entusiasti quando gli ho mostrato il telegramma. - Ma allora ti manca una rotella, - ha detto Herbi quando ho messo in borsa i miei due stracci. - Un vecchio nazista di meno! - Ma io ho detto: - Voi non conoscete mia nonna. Se dice «venire subito», non c’è santo che tenga. E in realtà - puoi credermi, Rosi - sono proprio contento di essermi visto quel circo al cimitero. C’erano quasi tutti, i sopravvissuti della guerra sottomarina. Certo è stato strano e un po’ da brividi, ma anche abbastanza penoso, quando tutti hanno poi cantato davanti alla tomba, con la maggior parte che sembrava fosse ancora a caccia del nemico e dovesse scrutare l’orizzonte alla ricerca di un qualche pennacchio di fumo. Anche la nonna ha cantato, naturalmente a voce altissima. Prima über alles in der Welt e poi Ich hatt’ einen Kameraden. Proprio una cosa agghiacciante. In più hanno sfilato anche alcuni di quegli stamburatori destrorsi, in calzettoni, col freddo che faceva. E i discorsi davanti alla tomba, su tutti i temi possibili, con particolare insistenza sulla fedeltà. Però la bara era proprio deludente. Una bara normalissima. Non avrebbero potuto costruire una specie di minisommergibile, mi sono chiesto, naturalmente di legno e dipinto in grigio come una nave da guerra? E non avrebbero potuto metterci dentro bello comodo il grande ammiraglio? Quando poi ce ne siamo andati e le croci di ferro erano schizzate via tutte con le loro Mercedes, ho detto alla nonna, che mi ha offerto una pizza alla stazione di Amburgo e mi ha infilato in tasca qualcosa di più dei soldi del viaggio: - Pensi davvero, nonna, che questa storia dello zio Konrad e dello zio Karl che dormono in fondo al mare abbia avuto un senso? - Dopo mi sono pentito di averle fatto una domanda così diretta. Non ha detto niente per un minuto buono, poi però: - Beh, ragazzo mio, un qualche senso deve pur averlo avuto… Come nel frattempo certamente saprai, appena tornato i piedipiatti di Lummer ci hanno buttato fuori. Con un discreto impiego di manganelli.
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Adesso abbiamo occupato un paio d’altre case, a Kreuzberg. Anche la nonna trova che questa storia con tutte le abitazioni che stanno lì vuote sia una gran porcheria. Ma se tu vuoi, Rosi, quando mi butteranno fuori di nuovo possiamo andare ad abitare dalla nonna, nella sua casetta. Ne sarebbe felicissima, ha detto. [1] Karl Dönitz (1891-1980), comandante in capo della marina durante la guerra e stretto collaboratore di Hitler, che lo nominò suo successore. Al processo di Norimberga fu condannato a dieci anni di carcere. [2] Uomo politico democristiano, all’epoca membro del senato berlinese, divenne noto per la durezza dei suoi interventi contro gli occupanti di case.
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1982 A prescindere dai malintesi... A prescindere dai malintesi che ha palesemente scatenato la mia citazione della «perfida Albione», sono più che soddisfatto riguardo alla perizia eseguita per i cantieri Howaldt e il reparto di tecnica navale della Aeg di Wedel, e intitolata Conseguenze della guerra delle Falkland, anche vista con gli occhi d’oggi. Infatti, ammesso che i due sommergibili della serie 209, consegnati all’Argentina dalla Howaldt e il cui sistema di siluri elettronici viene considerato ottimale, fossero riusciti al primo colpo a essere impiegati con successo contro la task-force inglese, ad esempio affondando la portaerei Invincible e così pure il trasporto truppe Queen Elizabeth utilizzato al massimo della capienza, questo doppio risultato avrebbe avuto conseguenze devastanti per il governo federale, nonostante il suo atteggiamento dichiaratamente positivo nei riguardi della doppia risoluzione della Nato[1] e prescindendo dall’ormai inevitabile cambio di cancelliere[2]. «Armamenti tedeschi impiegati contro alleati della Nato!», si sarebbe detto. «Impensabile!», scrissi, facendo al tempo stesso notare che persino l’affondamento del cacciatorpediniere Sheffield e della nave da sbarco Sir Galahad causato da aerei argentini di provenienza francese non avrebbe ridotto la portata di un eventuale successo conseguito da sommergibili di produzione tedesca. Certamente sarebbe venuta alla luce in maniera palese quella germanofobia che gli inglesi celano solo a fatica. «Unni», ci avrebbero definiti. Per fortuna, allo scoppio della guerra delle Falkland uno dei sommergibili Howaldt, il Salta, era alla fonda con danni alle macchine, mentre l’altro, il San Luis, è sì entrato in azione, ma con un equipaggio non sufficientemente addestrato che, come doveva rivelarsi, non era in grado di manovrare il complicato sistema elettronico Aeg per il comando dei siluri. «Così, - ho scritto nella mia perizia, - la marina britannica e anche noi come nazione ce la siamo cavata con uno spavento», tanto più che sia gli inglesi che noi abbiamo sempre presente l’eroica prima battaglia delle Falkland dell’8 dicembre 1914, quando la squadra navale tedesca dell’Asia orientale, fino a quel momento baciata dal successo sotto il comando del leggendario viceammiraglio von Spee, venne annientata dalla supremazia britannica. Per sostenere le considerazioni della mia perizia, che, in quanto storicamente motivate, oltrepassavano i dati meramente tecnici, otto anni fa, quando Schmidt dovette andarsene e con Kohl iniziò la svolta, ho
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allegato alla mia analisi peraltro obiettiva la fotocopia di un quadro a olio. Si tratta di una «marina» del pittore Hans Bordt, noto per questo genere di dipinti, che ha come motivo l’affondamento di un incrociatore corazzato nel corso della suddetta battaglia. Mentre sullo sfondo la nave si inabissa di poppa, in primo piano un marinaio tedesco aggrappato a un’asse è in balia della corrente, ma nella destra tiene alta una bandiera evidentemente quella dell’incrociatore che affonda -, in un gesto che resta impresso in modo indelebile. Come può vedere, è una bandiera particolare. E per questo, caro amico e camerata, Le scrivo rifacendomi a un passato così lontano. Nella drammatica rappresentazione riconosciamo infatti quella bandiera di guerra dell’Impero che assai di recente, in occasione delle dimostrazioni del lunedì a Lipsia[3], è più volte tornata di attualità. Purtroppo si è arrivati anche a odiose scene di violenza. Lo trovo deplorevole. Perché, come ho proposto in una perizia che mi è stata richiesta sul processo di riunificazione, la modifica di quello slogan piuttosto anodino «Noi siamo il popolo!» nel grido «Noi siamo un popolo!», che, come si vede, incita la politica al successo, avrebbe dovuto procedere, secondo la mia esposizione, in modo assolutamente pacifico, e sì, ordinato. D’altra parte possiamo essere contenti che a quei ragazzi rapati a zero e decisi a tutto comunemente noti come skinheads - sia riuscito di dominare, quasi per un colpo di mano, la scena dei lunedì di Lipsia con le loro bandiere di guerra dell’Impero radunate in così gran numero e di mettere l’accento sul grido - d’accordo, di smodato livello sonoro - che invoca l’unità della Germania. Così ci si rende conto di quali vie traverse sia capace di percorrere la storia. A volte, comunque, bisogna venirle in aiuto. Meno male che, quando i tempi erano maturi, mi sono ricordato della mia perizia di allora sulla guerra delle Falkland e del quadro che Le ho menzionato. All’epoca, i signori della Aeg si sono dimostrati, come sempre succede, privi di qualsiasi conoscenza storica, e quindi di comprensione per il mio audace salto temporale, ma nel frattempo dovrebbero essersi chiariti le idee sul senso più profondo della bandiera di guerra dell’Impero. La vediamo sempre più spesso. Giovani, persone nuovamente capaci di entusiasmo la mettono in mostra, la tengono alta. E da quando l’unità è ormai andata in porto, a Lei, carissimo amico, posso confessare che mi sento orgoglioso perché ho riconosciuto il cenno della storia e con la mia perizia sono stato d’aiuto quando si è trattato di ricordarsi nuovamente dei valori nazionali e di issare un vessillo finalmente visibile da lontano…
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[1] Nel dicembre del ’79 i paesi europei aderenti alla Nato decisero di aumentare, a partire dall’’83, le loro dotazioni di missili a portata intermedia se l’Unione Sovietica non avesse smantellato il proprio sistema missilistico. [2] Nel 1982 Helmut Kohl subentrò a Helmut Schmidt. [3] Le «dimostrazioni del lunedì» si svolsero inizialmente a Lipsia, e in seguito in molte altre città della Ddr, dal settembre dell’’89 al marzo del ’90, con una sempre crescente partecipazione popolare. Dapprima le richieste dei dimostranti riguardarono soprattutto i diritti civili, e solo in un secondo tempo prevalse il motivo della riunificazione (da qui la diversità dei due slogan).
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1983 E dove lo troviamo un altro così!... E dove lo troviamo un altro così! Da quando non ha avuto il tempo di lanciare il suo ultimo hallalì - indovinate dove? - durante una partita di caccia in mezzo al bosco, e adesso anche il suo amicone, il fornitore di carne-formaggio-birra, se n’è andato, e solo il terzo della banda, che è passato qui all’Ovest giusto in tempo, tiene autorevolmente occupata la sua villa sul Tegernsee[1], a noi cabarettisti manca il materiale, perché persino il peso massimo che ci governa non è in grado di controbilanciare quel trio. Noia, da allora. Solo qualche svenevolezza alla Süssmuth, scipitaggini alla Blüm, giochetti con le sopracciglia[2] e simili cavillosità. Non c’è più niente da ridere. E noi, i buffoni professionali della nazione, abbiamo perciò pensato, preoccupatissimi, di doverci riunire a consulto. In un alberghetto bavarese, va da sé. Grossholzleute, si chiama quel buco di paese dove già altri si sono riuniti, più o meno premiabili, con le loro carte scricchianti, ormai molto tempo fa[3]. Ma noi ce ne stavamo seduti lì perplessi, in una cerchia di facce note. In tutta serietà venne tenuta addirittura una relazione «Sulla situazione del cabaret tedesco dopo la dipartita del grande Franz Josef, con particolare riguardo all’unità realizzatasi a poca distanza dalla sua morte» -, che però non sortì effetti di palese divertimento. Semmai eravamo noi, i comici seriosamente radunati, a stimolare il riso. Ah, come ci manca! Strauss, Franz Josef, santo datore di lavoro e di spunti per gli specialisti dell’umorismo ormai sulla strada della pensione. I tuoi affari poco puliti erano il nostro pane quotidiano. Sia che fosse questione di carri armati da tiro ingrassati a bustarelle, di vetro di specchio frantumato[4], di contorte transazioni con gli «amici» o dei tuoi amorazzi con i dittatori di tutto il mondo, ogni volta maturava un piccolo capolavoro. Del resto, il cabaret tedesco è sempre stato servizievole quando si trattava di deporre a discarico della povera opposizione strapazzata. Riguardo a te, all’uomo senza collo, ci veniva sempre in mente qualcosa. E se c’era carenza di cavalli da tiro, mettevamo, «fianco a fianco a te d’accanto», i finimenti a Wehner[5], il vecchio bacucco. Ma anche lui e la sua pipa non tirano più. Su di te e su di noi si poteva sempre fare affidamento. Solo una volta, nell’’83, quando ci fu la faccenda del miliardo - a beneficio dei poveri fratelli e sorelle dell’Est, s’intende -, dobbiamo aver schiacciato un sonnellino, in ogni caso non eravamo presenti quando a Rosenheim, nella foresteria Spöck, si riunì un triumvirato impareggiabile. Qui Strauss,
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tarchiato, là il messaggero dell’Est Schalck, nel mezzo, in veste di uomo di mondo, il fornitore di carne-formaggio-birra März. Armato delle migliori intenzioni, un trio di furfanti e trafficanti si produsse in una pièce che, come commedia di guitti[6], avrebbe riempito la sala. Perché la somma a nove zeri uscita dalla cassa occidentale doveva non solo tornare utile allo Stato orientale dalla valuta debole, ma anche provvedere a che intere mandrie di buoi un tempo di proprietà del popolo e adesso pronte per la macellazione finissero sotto il coltello dell’ospite e padrone di casa, in quanto grande importatore bavarese. Ci si stimava, tra fratelli. Che senso può avere, in tale contesto, «mangiarossi» e «nemico del capitalismo», quando sottobanco lievitano i conti di carne-formaggio-birra e, del tutto incidentalmente, il sullodato Schalck può offrire al suo copritetto ricoprente la massima carica[7] le ultimissime barzellette su Kohl, di prima mano. Certo, non si arrivava agli abbracci, ma una strizzata d’occhio pantedesca era comunque prevista. Si sa come vanno le cose nei grandi eventi che si svolgono in località tenute segrete. Ognuno ha qualcosa da offrire: vantaggi sulla concorrenza, fascino rustico, interni bonnensi, quarti di maiale a buon prezzo, segreti di Stato ben frollati e altre esalazioni mefitiche degli anni Ottanta, acide a sufficienza per fare la gioia, alternativamente, del rispettivo servizio segreto. Dev’essere stata una delizia per occhi, nasi e orecchi, e una baldoria pantedesca. Si banchettò, naturalmente: carne, formaggio, birra. Ma noi non eravamo stati invitati. Erano una satira che bastava a se stessa. Il nostro imitatore di professione, al quale i gorgoglii di Strauss riuscivano come a nessun altro, poté tutt’al più congetturare sul falsetto di Schalck, e il mandriano März era comunque immaginabile solo come maestro di dattilologia numerica. Così si arrivò al credito miliardario senza noi cabarettisti. Un vero peccato, perché in seguito nel nostro teatrino si sarebbe potuto presentare il tutto come prologo della riunificazione tedesca col motto «Una mano lava l’altra»[8], ma Strauss e März senior sono usciti di scena prima che cadesse il Muro, e il nostro caro Schalck, le cui ditte Koko continuano a prosperare di nascosto, se ne sta tranquillo nella sua villa sul Tegernsee, perché sa più di quanto farebbe bene alla salute biancoazzurra della Baviera, ragione per cui il suo silenzio è d’oro. Quando la nostra cerchia di veterani si riunì tanto alla paesana quanto alla balorda, si disse: il cabaret tedesco possiamo tranquillamente scordarcelo. Però il nuovo aeroporto di Monaco è stato battezzato col nome di Franz Josef, non solo perché il nostro oltre alla licenza di caccia
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possedeva una licenza di volo, ma anche affinché ci torni alla memoria a ogni decollo e a ogni atterraggio. Sì, è stato molte cose allo stesso tempo: da un lato la nostra più autorevole macchietta, dall’altro, quando nell’’80 voleva diventare cancelliere, un rischio di quelli che noi, da elettori prudenti e cabarettisti preoccupati, non abbiamo voluto correre. [1] I tre personaggi sono Franz Josef Strauss (1915-88), morto in seguito a un infarto che lo aveva colpito durante una partita di caccia, il commerciante Josef März (1925) e l’economista Alexander Schalck-Golodowski (1932), ex dirigente della sezione Coordinamento Commerciale (Koko) del ministero del Commercio estero della Ddr. [2] I giochi di parole imperniati sui nomi di politici tedeschi (Rita Süssmuth, ministro della Sanità, Norbert Blüm, ministro del Lavoro, e Theo Weigel, ministro delle Finanze, noto per le sue folte sopracciglia) sono pressoché intraducibili. [3] In questa località Grass ricevette nel 1958 il premio del Gruppo 47 per la sua lettura da Il tamburo di latta. [4] Allusioni a due scandali famosi nella cronaca tedesca, entrambi riconducibili a macchinazioni di Strauss e del suo partito: l’ordinazione di alcune migliaia di carri armati Hispano-Suiza di cui ancora non esisteva il prototipo (1955-57), e l’incriminazione per alto tradimento dell’editore e di alcuni redattori del settimanale «Der Spiegel» (Lo Specchio) (1962). [5] Presidente dei deputati socialisti al Bundestag, già citato nel racconto del 1974 [6] Nell’originale, il termine «Schmierenkomödie» gioca sul significato di «corrompere, ungere» proprio del verbo «schmieren». [7] Erich Honecker (1912-94), presidente della Ddr, in gioventù copritetto di professione. [8] L’originale presenta un intraducibile gioco di parole tra «Hand» (mano) e «Treuhand» (amministrazione fiduciaria, letteralmente «mano fedele»). La Treuhand venne istituita nel 1990 con il compito di riconvertire o di liquidare gran parte delle aziende dell’ex Germania orientale.
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1984 Lo so, lo so!... Lo so, lo so! Si fa presto a parlare e a esigere quel «Rammentatevi dei morti», ma lì sul posto c’è necessità di tutta una serie di direttive di tipo organizzativo. Perciò, con sollecitudine crescente - stimolata anche dal simbolico mano nella mano a cui il Presidente e il Cancelliere hanno accondisceso davanti all’ossario in quel memorabile 22 settembre dell’anno 1984 -, sull’ex campo di battaglia di Verdun vengono segnati sempre più sentieri, mentre, da parte nostra, ci si sforza d’essere d’aiuto con indicazioni bilingui che guidino ad esempio alla meta escursionistica di MortHomme, vale a dire Toter Mann, tanto più che lì e nei dintorni del Rabenwald (Bois des Corbeaux) imbevuto di sangue si sospetta possano trovarsi ancora mine e proiettili inesplosi nel paesaggio di crateri nel frattempo coperti dalla vegetazione, per cui l’avviso già esistente «Ne pas piétiner» dovrebbe essere integrato sui cartelli col nostro «Betreten verboten». In determinati punti, ad esempio là dove si vedono ancora i resti del villaggio di Fleury e dove adesso una cappella invita alla riconciliazione, e altrettanto sulla Höhe 304 (Côte 304) che tra il maggio e l’agosto del 1916 fu ripetutamente presa d’assalto e conquistata nel contrattacco, non si dovrebbe nemmeno esitare a suggerire con un richiamo discreto che qui come presso molte mete del campo di battaglia sarebbe opportuna una pausa di riflessione. Questo rilievo non manca di una certa urgenza, perché da quando il Cancelliere ha visitato il nostro cimitero militare di Consenvoye e successivamente il cimitero francese nella zona di Fort Douaumont, dove si è giunti alla storica stretta di mano con il Presidente della repubblica, il numero dei visitatori è in continuo aumento. Arrivano con pullman stracarichi, e c’è da dire che il comportamento eccessivamente turistico di alcuni gruppi offre motivo di lagnanze. Così l’ossario, la cui volta è sormontata da una torre che si ispira alla granata d’artiglieria, viene spesso considerato solo un’attrazione da brivido, per cui davanti alle vetrate, che comunque permettono di vedere solo una minima parte di ossa e teschi dei centotrentamila caduti francesi, non di rado capita di sentire delle risate o, peggio ancora, commenti osceni. Talvolta vengono anche espresse parole un po’ troppo energiche, dimostrando così che quella grande opera di riconciliazione tra i nostri popoli, alla quale Cancelliere e Presidente si erano premurati di contribuire con un gesto di grande effetto, è ben lungi dall’essere compiuta. Da parte dei nostri connazionali, ad esempio, si manifesta uno sdegno non
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del tutto infondato per l’incontestabile dato di fatto che i caduti francesi vengono ricordati con quindicimila croci bianche, la scritta «Mort pour la France» e un cespuglio di rose davanti a ogni tomba, mentre ai nostri caduti spettano solo croci nere in numero molto minore, oltretutto senza alcuna iscrizione e nessuna traccia di ornamento floreale. Qui va detto che per noi è difficile trovare una risposta a queste lamentele. E allo stesso modo ci si scopre spesso perplessi quando si affronta il problema del numero delle vittime di guerra. Per lungo tempo si è affermato che sarebbero da lamentare circa trecentocinquantamila caduti da entrambe le parti. Ma troviamo esagerato parlare di un milione di vittime su 35.000 metri quadrati. E’ probabile si sia trattato in totale solo di mezzo milione - circa sette-otto morti per metro quadrato -, che ha perso la vita nell’accanita battaglia attorno a Fort Douaumont e a Fort Vaux, presso Fleury, sulla quota 304 come sulla «Kalte Erde» (Froideterre), che può essere presa a simbolo del terreno argilloso e povero dell’intero campo di battaglia di Verdun. Del resto, negli ambienti militari si usava comunemente il concetto di «guerra di logoramento». Ma per quanto alto possa essere stato il numero delle perdite, il nostro Cancelliere e il Presidente francese hanno aperto una nuova strada che va al di là di qualsiasi conteggio, quando si sono fermati mano nella mano davanti all’Ossuaire (Beinhaus). Sebbene noi si facesse parte della delegazione allargata, che annoverava anche Ernst Jünger, il vecchio scrittore e testimone di un massacro che sembra così assurdo, i due statisti si sono potuti vedere solo da dietro. Più tardi hanno piantato insieme un acero, non prima di essersi assicurati che l’atto simbolico non avvenisse su un terreno ancora minato. Questa parte del programma è piaciuta a tutti. Sono invece state accolte con poco favore le manovre franco-tedesche che si sono svolte contemporaneamente nei dintorni. I nostri carri armati sulle strade di Francia e i nostri Tornado a volo radente sopra Verdun: la cosa non è stata vista di buon occhio, in questo paese. Certo avrebbe avuto molto più senso se - al posto delle manovre - il nostro Cancelliere avesse percorso uno dei sentieri segnati, ad esempio fino ai resti di quel ricovero in trincea che si chiama Abri de Quatre Cheminées (Vier Schornsteine) e attorno al quale il 23 giugno 1916 reggimenti bavaresi e alpini francesi hanno tanto accanitamente quanto sanguinosamente combattuto. Al di là di ogni simbologia, qui la sosta di riflessione del Cancelliere sarebbe stata assolutamente appropriata, per quanto possibile disgiunta dal protocollo.
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1985 Mia cara bambina... Mia cara bambina, vorresti sapere come ho vissuto gli anni Ottanta, perché informazioni personali di questo genere sono importanti per la tua tesi di laurea, che dovrebbe intitolarsi La vita quotidiana degli anziani. Sono contenta di darti una mano. Però mi scrivi che bisogna considerare anche le «minori attitudini al consumo». Sotto questo aspetto posso contribuire ben poco, perché la tua nonna non ha molto di cui lamentarsi. A parte il nonno, quel carissimo uomo che nessuno può sostituire, non mi è mancato niente. All’inizio avevo ancora buone gambe, aiutavo a mezza giornata nella lavanderia espresso qui accanto e mi davo da fare in parrocchia. Ma se mi chiedi dei miei momenti liberi, volendo essere onesta devo confessare che gli Ottanta li ho in parte sprecati, in parte trascorsi abbastanza piacevolmente davanti al televisore. Specie da quando le gambe hanno cominciato a fare i capricci non ho quasi più messo il naso fuori di casa, e per la vita di società di qualsiasi genere non ho mai avuto un debole particolare, come ti possono confermare i tuoi cari genitori. Del resto, non è che sia poi successo granché. In politica, di cui chiedi ripetutamente, proprio nulla. Solo le solite promesse. Su questo sono sempre stata d’accordo con la mia vicina, la signora Scholz. A proposito, si è presa cura di me in modo toccante per tutto il tempo, e direi, devo ammetterlo onestamente, più dei miei figli, non escluso purtroppo il tuo caro papà. Solo sulla signora Scholz, ho potuto contare. A volte, quando alla posta aveva il turno di mattina, arrivava già al pomeriggio portando dolcetti fatti in casa. Allora ci mettevamo comode e guardavamo quello che c’era in televisione, spesso fino a tardi. Mi ricordo di Dallas e della Clinica della Foresta Nera. A Ilse Scholz piaceva quel professor Brinkmann, a me meno. Quando poi però quello che danno ancora adesso, la Lindenstrasse, è cominciato circa a metà degli anni Ottanta, le ho detto: questa è una cosa diversa. Sembra proprio presa dalla vita. E cioè così com’è, nella normalità. Una confusione continua, a volte allegra a volte triste, con liti e riconciliazioni, ma anche con molte pene e dolori, come succede pure qui da noi in Gütermannstrasse, anche se Bielefeld non è Monaco e da noi la taverna all’angolo non è gestita da un greco, ma da una famiglia italiana, già da anni, e davvero bene. Comunque la nostra portinaia è attaccabrighe proprio come la Else Kling di Lindenstrasse numero 3. Non fa che criticare suo marito e può
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diventare veramente perfida. In compenso mamma Beimer è la bontà in persona. Ascolta sempre i problemi degli altri, quasi come la mia vicina, la signora Scholz, che ha già un bel daffare con i figli, e la sua Jasmin, un po’ sul tipo della Marion dei Beimer, ha una relazione a esser sinceri davvero problematica con uno straniero. In ogni caso l’abbiamo seguita fin dall’inizio, la serie, quando è cominciata, mi pare in dicembre. Già nella puntata di Natale c’è stato un litigio tra Henry e Franz per via dell’albero proprio misero. Poi però sono andati d’accordo, i due. E la sera della vigilia dai Beimer l’atmosfera era triste, perché Marion voleva a tutti i costi andare in Grecia con il suo Vasily, ma poi Hans Beimer ha portato a casa due bambini orfani. E poiché era stato invitato anche il vietnamita Gung, sempre solo, alla fine è comunque diventata una bella festa. A volte, mentre guardavo la Lindenstrasse con la signora Scholz, mi venivano in mente i primi anni di matrimonio, quando tuo nonno e io, in un ristorante dove c’era già la televisione, ci siamo visti la serie della Famiglia Schölermann. Naturalmente solo in bianco e nero. Dev’essere stato a metà degli anni Cinquanta. Ma tu volevi sapere per la tua tesi cos’altro c’è stato di interessante negli anni Ottanta. Giusto, proprio nell’anno in cui la Marion della signora Beimer è tornata a casa troppo tardi con una leggera ferita alla testa, anzi già prima, è cominciato il cancan con il Boris e la Steffi. Di solito non è che il tennis mi dica molto, questo eterno avanti e indietro, però l’abbiamo guardato, spesso per delle ore, quando «quella di Brühl» e «quello di Leimen», come li chiamavano, hanno infilato un successo dietro l’altro. La signora Scholz in poco tempo era già esperta su come funzionavano servizio e risposta. Cosa significasse tie-break non riuscivo a capirlo, e quindi ho dovuto spesso chiedere. Ma quando c’è stato Wimbledon e il nostro Boris si è imposto contro un tizio del Sudafrica e l’anno dopo ancora una volta contro il ceco Lendl, che tutti ritenevano imbattibile, allora sono stata veramente in ansia per il mio Bobbele, che aveva appena diciassette anni. Ho proprio fatto gli scongiuri. E poi nell’’89, quando in politica è finalmente successo qualcosa, e lui, ancora a Wimbledon, ha riportato la vittoria contro lo svedese Edberg dopo tre set, mi sono messa a piangere, davvero, e anche la mia cara vicina. Per Steffi, che la signora Scholz ha sempre chiamato «signorina Diritto», non sono mai riuscita a entusiasmarmi veramente, e men che meno per il suo signor padre, quell’evasore fiscale con i suoi affari poco puliti. Ma il mio Bobbele, lui non si faceva piegare, poteva essere proprio sfacciato e a volte è stato fin troppo impertinente.
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Però il fatto che non volesse pagare le tasse e perciò si è trasferito nel principato di Monaco, a noi due non è piaciuto. «Ma Le sembra possibile?», ho chiesto alla signora Scholz. E poi, quando per lui e per Steffi già stava andando male, ha cominciato addirittura a far pubblicità per la Nutella. Era carino, quando in televisione leccava il coltello facendo un sorrisetto da birbante, ma certo non ne aveva bisogno, visto che comunque guadagnava più di quanto riusciva a spendere. Però questo è successo negli anni Novanta, mentre tu, mia cara bambina, volevi sapere cosa sono stati per me gli Ottanta. Comunque con la Nutella ho avuto a che fare già negli anni Sessanta, quando tutti i nostri figli volevano assolutamente avere sul pane quella roba da spalmare che a me sembra una crema da scarpe. Chiedi un po’ a tuo padre se si ricorda che litigate venivano fuori con i suoi fratelli, ogni giorno. Si sentiva un gran gridare, da noi, porte sbattute eccetera. Quasi come nella Lindenstrasse, che del resto la trasmettono ancora…
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1986 Noi gente dell’Alto Palatinato... Noi gente dell’Alto Palatinato ci ribelliamo raramente, si dice, ma questo è stato davvero troppo. Prima Wackersdorf, dove volevano ritrattare quella robaccia del diavolo, e poi ci è arrivato sulla testa anche ¬cernobyl. Fino a maggio inoltrato la nube si allargava su tutta la Baviera. Anche sulla Franconia e chissà ancora dove, di meno solo al nord. Ma verso ovest, almeno così dicevano i francesi, dovrebbe essersi fermata al confine. Già, e chi ci crede! Di quelli che se l’intendono con san Floriano ce ne sono sempre[1]. Da noi ad Amberg, comunque, il pretore è sempre stato contro la Waa, che sarebbe la sigla dell’impianto di ritrattamento. Perciò, di domenica, distribuiva una vera e propria merenda ai ragazzi che si erano accampati fuori dalla recinzione dell’impianto e pestavano con bastoni di ferro contro la rete quello che dai giornali è stato definito «le trombe di Gerico» -, per cui ’sto Beckstein del tribunale, che è sempre stato uno duro e quindi più tardi è diventato ministro degli Interni, lo ha attaccato - «Gente come il giudice Wilhelm deve essere annientata» diffamandolo in modo proprio ignobile. E tutto a causa di Wackersdorf. Ci sono andato anch’io. Ma solo quando è arrivata la nube di ¬cernobyl e si è piazzata sopra l’Alto Palatinato e la bella foresta bavarese. Ci siamo andati tutti, veramente, tutta la famiglia. Alla mia età, hanno detto, la cosa non avrebbe dovuto preoccuparmi più di tanto, ma visto che, come da noi è tradizione, in autunno siamo sempre andati a funghi, adesso bisognava stare attenti, anzi, dare l’allarme. E poiché questa diavoleria che si chiama cesio è piovuta giù dagli alberi e ha impregnato il sottobosco in un modo tremendo, sia il muschio che il fogliame che gli aghi, mi sono dato una mossa anch’io e mi sono avvicinato alla recinzione con la mia sega per metalli, anche se tutti i miei nipoti hanno cominciato a gridare: «Lascia perdere, nonno, non è roba per te!» E’ probabile che avessero ragione. Perché una volta, quando mi sono mescolato a tutti quei giovani e abbiamo gridato: «Brodaglia atomica, brodaglia atomica!», sono stato buttato a gambe all’aria dall’idrante che i signori di Regensburg avevano mandato lì apposta. E nell’acqua c’era dentro una cosiddetta sostanza irritante, un vero veleno schifoso, anche se non così nocivo come questo cesio che dalla nube di ¬cernobyl è gocciolato giù sui nostri funghi e adesso resta lì e ci resta per un pezzo.
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Perciò più tardi, nella foresta bavarese e nei boschi attorno a Wackersdorf, hanno misurato tutti i funghi, non solo la saporita bubbola maggiore e le vesce gemmate, perché la selvaggina mangia anche ogni genere di russole, che noi non consumiamo, e così si è contaminata. A noi, che nonostante tutto volevamo andare a funghi, hanno mostrato su delle tabelle che il boleto dei castagni - spunta in ottobre ed è particolarmente saporito - ha assorbito cesio concentrato più di tutti gli altri. Quelli che ne hanno beccato di meno sono invece i chiodini, perché non vengono su dal terreno, ma crescono sui tronchi come funghi parassiti. Ed è stato risparmiato anche il coprino, gustoso se viene raccolto giovane. Pesantemente impregnati invece, ancora oggi, sono i boleti subtomentosi, i boleti rufi, i peveracci gialli, che crescono di preferenza sotto le giovani conifere, persino il porcinello, meno la porcinella, ma purtroppo moltissimo i cantarelli, che vengono chiamati gallinacci e da altre parti capogalli. Se la vede brutta il porcino, detto anche ceppatello buono, che quando lo si trova è un vero dono del cielo. Beh, alla fine con Wackersdorf non hanno combinato niente, perché i signori dell’industria atomica ritrattano la loro robaccia in Francia a prezzo inferiore, e là non piantano tante grane come nell’Alto Palatinato. Adesso qui regna di nuovo la tranquillità. E anche di ¬cernobyl e della nube che ci è arrivata sopra la testa, oggi non parla più nessuno. Ma la mia famiglia, tutti i nipoti, non vanno più a funghi, il che è comprensibile, anche se così la nostra tradizione è finita. Io ci vado ancora. Qui dove i ragazzi mi hanno parcheggiato, in una casa di riposo per anziani, c’è intorno tanto bosco. E là raccolgo quello che trovo: funghi del pane e boleti gialli, in estate il porcino e quando arriva ottobre i boleti dei castagni. Li preparo nel mio minuscolo angolo cottura per me e per altri vecchi della casa che non hanno più le gambe tanto buone. Abbiamo tutti superato di un bel po’ i settanta. Che male potrà poi farci il cesio, ci chiediamo, se i nostri giorni sono comunque contati… [1] Riferimento al detto popolare «Lieber Sankt Florian, verschon mein Haus und zünd das des Nachbarn an» (Caro san Floriano, risparmia la mia casa e appicca il fuoco a quella del vicino).
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1987 Cosa c’entravamo noi con Calcutta?... Cosa c’entravamo noi con Calcutta? Cosa mi aveva portato fin laggiù? Lasciati alle spalle la Ratta e il disgusto per i riti tedeschi della macellazione[1], disegnavo montagne di immondizia, gente che dormiva per strada, la dea Kalì che mostra la lingua per la vergogna, vedevo le cornacchie su gusci di cocco accatastati, le tracce dell’Empire in rovine sommerse dalla vegetazione e per il momento, tanto scandalosamente incredibile era la realtà, non trovavo parole. Allora feci un sogno… Ma prima di quel sogno così ricco di conseguenze va confessata una gelosia tormentosa, perché Ute, che legge sempre molte cose di vario genere, per tutto il tempo in cui subì Calcutta diventando via via più magra lesse un Fontane dopo l’altro; come contrappeso alla quotidianità indiana, avevamo infatti messo molti libri in valigia. Ma perché leggeva solo lui, il prussiano ugonotto? Perché con tanta passione, sotto il ventilatore acceso, il cronista chiacchierone della marca di Brandeburgo? Perché sotto il cielo del Bengala e insomma perché proprio Fontane? Allora feci un sogno, sul mezzogiorno… Ma prima di sbobinare questo sogno dev’essere detto che non avevo niente, assolutamente niente contro lo scrittore Fontane e i suoi romanzi. Alcune opere le ricordavo come letture tardive: Effi sull’altalena, gite in barca sulla Havel, passeggiate con la signora Jenny Treibel lungo lo Halensee, villeggiature nello Harz… Ma Ute conosceva tutto, i detti di ogni pastore evangelico, la causa di ogni incendio, sia che così fosse stata distrutta Tangermünde, sia che una combustione per difetto d’ossigeno avesse avuto delle conseguenze in Senza ritorno. Leggeva persino durante le lunghe interruzioni di corrente sotto il ventilatore fermo, mentre Calcutta sprofondava nel buio, a lume di candela, gli Anni d’infanzia, ancora una volta, e a dispetto del Bengala occidentale si rifugiava sulla banchina di Swinemünde o mi scappava via lungo le spiagge baltiche della Pomerania ulteriore. Allora verso mezzogiorno, mentre giacevo sotto la zanzariera, sognai qualcosa di freddamente nordico. Dalla finestra del mio atelier sotto il tetto guardavo giù nel giardino di Wewelsfleth, ombreggiato dagli alberi da frutta. Ora, questo sogno l’ho sì raccontato spesso, con variazioni, e davanti a un pubblico sempre diverso, ma a volte ho dimenticato di dire che il villaggio di Wewelsfleth nello Schleswig-Holstein si trova sulla Stör, un affluente dell’Elba. Dunque, nel sogno vedevo il nostro giardino
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nello Holstein con l’albero di pere carico di frutti, sotto la cui ombra Ute era seduta a un tavolo rotondo, di fronte a un uomo. Lo so, i sogni - specie quelli sognati sotto la zanzariera e madidi di sudore - non si possono mai raccontare bene: tutto risulta troppo razionale. Ma questo sogno non fu disturbato da nessuna azione secondaria, nessun secondo o terzo film sfarfallò in dimensione fondatamente onirica, ebbe piuttosto uno svolgimento lineare e nondimeno fu gravido di conseguenze, perché quell’uomo con cui Ute sedeva chiacchierando sotto l’albero di pere mi sembrava di conoscerlo: un signore dai capelli bianchi, col quale lei parlava e parlava diventando via via sempre più bella. Ora, durante il periodo dei monsoni, a Calcutta si rileva un’umidità del 98%. Dunque non c’è da stupirsi se sotto la zanzariera che il ventilatore muoveva appena - semmai la muoveva -, io abbia sognato qualcosa di freddamente nordico. Ma il vecchio signore che chiacchierava con Ute sorridendo confidenzialmente sotto l’albero di pere[2] e nei cui capelli bianchi giocavano arricciature argentee doveva assomigliare per forza a Theodor Fontane? Era lui. Ute tentava degli approcci. Se l’intendeva con un mio famoso collega che solo in età avanzata aveva cominciato a scrivere un romanzo dopo l’altro; e in alcuni dei suoi romanzi si parlava di adulterio. Fino a quel momento io non comparivo nella storia sognata, o soltanto come lontano spettatore. I due bastavano a se stessi. E allora sognai di essere geloso. Vale a dire che saggezza o furbizia mi imposero, in sogno, di tenere celata la mia crescente gelosia, di agire accortamente o scaltramente, insomma di prendere una sedia che nel sogno era lì vicino, scendere le scale reggendola e sedermi in giardino sotto l’ombra gradevolmente fresca dell’albero di pere accanto alla coppia di sogno, accanto a Ute e al suo Fontane. Da allora in poi - e questo lo dico sempre, quando racconto il sogno abbiamo portato avanti un matrimonio a tre. I due non sono riusciti a liberarsi di me. A Ute questa soluzione piaceva addirittura, e io entrai sempre più in confidenza con Fontane, sì, cominciai, ancora a Calcutta, a leggere di lui tutto quello che era a portata di mano, ad esempio le sue lettere a un inglese di nome Morris, nelle quali si mostrava un esperto di politica internazionale. In occasione di un tragitto assieme in risciò nel centro della città - Writers Building - gli chiesi cosa ne pensasse dei postumi della dominazione coloniale inglese e della divisione del Bengala in Bengala occidentale e Bangladesh. Ero d’accordo con lui: questa divisione poteva essere paragonata solo forzatamente a quella tedesca, e a una riunificazione bengalese è difficile pensare. E quando più tardi, dopo
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lunghi giri, tornammo a Wewelsfleth an der Stör, lo portai con me di mia volontà, vale a dire che mi abituai a lui come a un divertente, a volte lunatico coinquilino, ormai mi comportavo come un fan di Fontane, e mi liberai di lui solo quando a Berlino e altrove la storia si dimostrò un ruminante e io, con l’amichevole concessione di Ute, potei prenderlo logorroicamente in parola trasportando la sua esistenza fallita nel nostro secolo che volge alla fine. Da quando - imprigionato nel romanzo E’ una lunga storia - vive della propria immortalità, non riesce più a ipotecare i miei sogni, tanto più che, nelle vesti di Fonty, verso la fine della vicenda sparisce nelle Cevenne presso gli ultimi ugonotti che lì sopravvivono, sedotto da una giovane creatura… [1] Il romanzo di Grass La Ratta, pubblicato nel 1986, venne accolto molto negativamente da buona parte della critica tedesca. [2] Sotto l’albero di pere è il titolo di un romanzo di Fontane (1885).
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1988 ...ma prima, l’anno prima... … ma prima, l’anno prima che il Muro diventasse inconsistente e dovunque, prima che ci si scoprisse estranei, la gioia era immensa, cominciai a disegnare ciò che saltava all’occhio in dimensioni colossali, pini caduti, faggi sradicati, alberi morti. Già da alcuni anni si parlava, incidentalmente, di «morte delle foreste». Perizie ebbero come conseguenza controperizie. Ancora una volta, poiché i gas di scarico delle macchine danneggiano i boschi, si richiese inutilmente il limite di velocità a 100 km. Imparai nuovi termini: piogge acide, getti di sostituzione, necrosi delle radichette, aghi abbruniti… E il governo pubblicava annualmente un bollettino dei danni forestali che più tardi, per suonare meno inquietante, si chiamò bollettino sullo stato delle foreste. Poiché io credo soltanto a ciò che si lascia disegnare, da Gottinga mi recai nell’Alto Harz, mi insiedai in un albergo pressoché vuoto per villeggianti estivi e vacanzieri della neve, e con un carboncino siberiano un prodotto del legno - disegnai quanto era andato in malora su pendii e creste. Dove l’amministrazione forestale aveva già rimosso i danni togliendo di mezzo le piante cadute erano rimasti i ceppi, vicini uno all’altro, che coprivano vaste superfici in un allentato ordine cimiteriale. Arrivai fino ai cartelli d’avvertimento e vidi che qui la moria dei boschi si estendeva ignorando il confine e aveva avuto ragione, silenziosamente e senza che si fosse sparato un colpo, della rete metallica che correva lungo monti e valli, della striscia della morte minata, della «cortina di ferro» che divideva non solo le montagne dello Harz, ma l’intera Germania, anzi l’Europa. I monti spogli lasciavano la vista libera verso est. Non incontrai nessuno, né streghe né carbonai solitari. Non accadde nulla. Tutto si era già compiuto. Nessuna lettura di Goethe o di Heine mi aveva preparato a questo viaggio nello Harz. Il mio unico materiale erano carta da disegno granulosa, una cassettina piena di carboncini incurvati e due dosi di fissativo che le istruzioni per l’uso affermavano essere del tutto privo di gas propellente e quindi certo non dannoso per l’ambiente. Con la stessa attrezzatura, poco più tardi - ma ancora ai tempi degli spari a vista - partii con Ute alla volta di Dresda, da dove era arrivato un invito scritto che ci aveva aiutato a ottenere il visto. I nostri ospiti, un pittore serio e una danzatrice allegra, ci diedero la chiave di un’accogliente capanna nei Monti Metalliferi.
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Vicino al confine ceco cominciai subito - quasi non avessi visto abbastanza - a disegnare il bosco che stava morendo. Sui pendii gli alberi giacevano in croce, così com’erano caduti. Sulle creste i venti avevano spezzato ad altezza d’uomo i tronchi rinsecchiti. Anche qui non accadeva niente, oltre al fatto che nella capanna del pittore Goschel di Dresda i topi si moltiplicavano. Per il resto, tutto si era già compiuto. Gas di scarico e residui di due aree industriali di proprietà del popolo, ampiamente depositatisi, avevano fatto un buon lavoro fregandosene del confine. Mentre disegnavo un foglio dopo l’altro, Ute leggeva, però non più Fontane. Un anno dopo, sui manifesti e striscioni della gente che manifestava a Lipsia e altrove si poteva leggere «Segate i bonzi, proteggete gli alberi». Ma non eravamo ancora arrivati a quel punto. Lo Stato teneva ancora assieme i suoi cittadini, faticosamente. I danni sconfinanti sembravano ancora destinati a durare. Comunque la zona ci piacque. Le case nei villaggi dei Monti Metalliferi erano coperte di scandole. Da queste parti la povertà aveva avuto per lungo tempo domicilio. I villaggi si chiamavano Fürstenau, Gottgetreu e Hemmschuh. Il percorso di transito per Praga correva attraverso la vicina località di frontiera di Zinnwald. Su questa strada battuta non solo dai turisti, vent’anni prima, in un giorno d’agosto, unità motorizzate dell’armata popolare avevano ubbidito all’ordine di marcia; e cinquant’anni prima, in un giorno d’ottobre del 1938, unità della Wehrmacht si erano messe in strada con lo stesso obiettivo, in modo che i cechi potessero ricordarsene di volta in volta. La ricaduta. Violenza in confezione doppia. La storia ama queste ripetizioni, anche se allora era tutto molto diverso; i boschi, ad esempio, c’erano ancora…
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1989 Stavamo viaggiando verso il Lauenburg... Stavamo viaggiando verso il Lauenburg, di ritorno da Berlino, quando la notizia ci arrivò all’orecchio in ritardo, dalla radio della macchina, perché eravamo abbonati al Terzo programma, al che io, come migliaia d’altri, ho probabilmente gridato «pazzesco!», per la gioia e lo spavento, «ma è pazzesco!», e poi, come Ute che era al volante, mi sono perso in pensieri che correvano in avanti e all’indietro. E un conoscente, il quale aveva il domicilio e il posto di lavoro dall’altra parte del Muro e, sia prima sia attualmente, vigila sui lasciti nell’archivio dell’Accademia delle Arti, apprese la buona novella, offerta per così dire con una spoletta a tempo, in maniera altrettanto differita. Secondo il suo racconto, stava tornando, grondante sudore, dal jogging praticato nel Friedrichshain. Niente di strano, perché quest’automacerazione di origine americana era ormai diventata usuale anche per i berlinesi dell’Est. All’incrocio tra la Niederkirchner-Strasse e la Bötzowstrasse incontrò un conoscente, anch’egli ridotto dalla corsa ad ansiti e traspirazioni. Sempre segnando il passo, ci si diede appuntamento alla sera per una birra e ci si ritrovò poi seduti nell’ampio soggiorno del conoscente, il cui posto di lavoro era al sicuro nella «produzione materiale», come veniva definita, e pertanto il mio conoscente non si stupì di vedere nell’appartamento del suo conoscente un parquet appena posato; per lui, che in archivio spostava solo carte e tutt’al più aveva competenza di note a piè , un simile acquisto sarebbe stato inarrivabile. Si bevve una birra, un’altra ancora. Più tardi arrivò in tavola l’acquavite. Si parlò dei tempi passati, dei figli che crescevano e delle barriere ideologiche nelle riunioni dei genitori. Il mio conoscente, che è originario dei Monti Metalliferi, dove l’anno prima avevo disegnato gli alberi morti sulle creste, disse al suo conoscente che voleva tornarci il prossimo inverno a sciare con la moglie, ma aveva dei problemi con la sua Wartburg, i cui pneumatici sia anteriori sia posteriori erano talmente consumati da non presentare quasi più il battistrada. Adesso sperava di potersi procurare nuovi pneumatici invernali tramite il suo conoscente: chi nel socialismo reale può farsi mettere in opera privatamente un parquet, sa anche come ottenere le gomme speciali con il marchio «M+S», che stava a significare «Matsch und Schnee», cioè «fanghiglia e neve». Mentre noi ci avvicinavamo a Behlendorf con la lieta novella ormai nel petto, nella cosiddetta «stanza berlinese» del conoscente del mio conoscente il televisore era acceso a volume bassissimo. E mentre i due, tra
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una birra e un’acquavite, stavano ancora parlando del problema dei pneumatici e il proprietario del parquet diceva che le gomme nuove, in linea di massima, si potevano ottenere solo coi «soldi giusti», però si offriva di procurare ugelli del carburatore per la Wartburg, ma quanto al resto non intendeva alimentare ulteriori speranze, il mio conoscente, lanciando una breve occhiata in direzione dello schermo afono, si accorse che evidentemente trasmettevano un film secondo l’intreccio del quale dei ragazzi si stavano arrampicando sul Muro, sedevano a cavalcioni sul rigonfiamento superiore e la polizia di confine osservava quel divertimento senza intervenire. Fattogli notare un tale spregio del baluardo protettivo, il conoscente del mio conoscente disse: Proprio roba da Ovest! - Poi commentarono entrambi quella cosa di cattivo gusto che scorreva sullo schermo - «Sicuramente un film sulla guerra fredda» - e ben presto tornarono ai consunti pneumatici estivi e ai mancanti pneumatici invernali. Dell’archivio e dei lasciti di scrittori più o meno significativi che vi erano depositati, non si fece parola. Mentre noi già vivevamo nella consapevolezza dell’epoca che si apriva, del tempo-senza-Muro, e - appena arrivati a casa - accendemmo il televisore, dall’altra parte del Muro ci volle ancora un po’ prima che il conoscente del mio conoscente facesse qualche passo sul parquet appena posato e alzasse al massimo il volume dell’apparecchio. Da quel momento, più nessun accenno ai pneumatici invernali. Un problema che avrebbero risolto la nuova cronologia e i «soldi giusti». Solo un’ultima sorsata di acquavite, e poi via verso l’Invalidenstrasse, dove già le macchine più Trabant che Wartburg si ingorgavano, perché tutti volevano dirigersi al punto di attraversamento del confine che era miracolosamente aperto. E a chi stava in ascolto con attenzione giungeva all’orecchio che tutti, quasi tutti coloro che a piedi o in Trabi volevano passare all’Ovest gridavano o mormoravano «pazzesco!», come io avevo esclamato «pazzesco!» poco prima di Behlendorf, ma poi mi ero lasciato andare a pensieri sconnessi. Ho dimenticato di chiedere al mio conoscente come e quando e con quali soldi si sia poi finalmente conquistato i pneumatici invernali. Mi sarebbe anche piaciuto sapere se ha festeggiato il passaggio dall’’89 al ’90 sui Monti Metalliferi, con sua moglie, che ai tempi della Ddr è stata una campionessa del pattinaggio di velocità. Perché in qualche modo la vita è comunque andata avanti.
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1990 Ci incontrammo a Lipsia... Ci incontrammo a Lipsia non solo per essere presenti allo spoglio dei voti. Jakob e Leonore Suhl erano arrivati dal Portogallo ed erano scesi all’hotel Merkur, nei pressi della stazione. Ute e io, giunti da Stralsunda, avevamo preso alloggio nel sobborgo di Wiederitzsch da un droghiere che conoscevo dai tempi della Tavola Rotonda[1]. Trascorremmo il pomeriggio sulle tracce di Jakob. E’ cresciuto in un quartiere operaio che una volta si chiamava Oetzsch e adesso si chiama Markkleeberg. Per primo emigrò in America suo padre, Abraham Suhl, che insegnava tedesco e yiddish nel ginnasio ebraico, con i fratelli più giovani. Nel ’38 lo seguì poi Jakob, quindicenne. Solo la madre rimase a Oetzsch, a causa del matrimonio fallito, finché anche lei dovette fuggire in Polonia, in Lituania, in Lettonia, dove nella tarda estate del ’41 venne raggiunta dall’esercito tedesco e come si seppe più tardi - fucilata durante la fuga da un picchetto di guardia. A New York, il marito e i figli non erano riusciti a trovare i soldi per un visto d’ingresso negli Stati Uniti, ultima speranza della moglie, della madre. A volte Jakob parlava, con voce rotta, di questo vano tentativo. Sebbene ormai malfermo sulle gambe, non si stancava di mostrarci la casa popolare, il cortile interno con la biancheria stesa, la sua scuola e, in una strada laterale, la palestra. Nel cortile ritrovò la stanga per battere i tappeti. Felice, Jakob continuava a indicare quel relitto della sua gioventù. Teneva la testa piegata, chiudeva gli occhi come se ascoltasse l’eco di colpi regolari, come se il cortile fosse ancora animato. E sotto una placca di smalto azzurro sulla quale, sopra la data 1o maggio 1982, si poteva leggere l’encomio ufficiale «Esemplare comunità domestica della città di Markkleeberg», volle che Leonore gli scattasse una foto. E si mise in posa anche davanti alla porta azzurra, purtroppo chiusa, della palestra, sopra la quale il busto di Friedrich Jahn, il fondatore del movimento ginnico della Giovane Germania, guardava lontano con occhi severi, da una nicchia. - No, - disse Jakob, - con i ricchi ebrei impellicciati del centro città non avevamo nulla a che fare. Qui tutti, ebrei e non ebrei, anche i nazisti, erano solo piccoli impiegati e operai -. Poi volle andare via, ne aveva abbastanza. Fummo testimoni del disastro elettorale nella «Casa della Democrazia», in Bernhard-Göring-Strasse, dove ci accompagnò un giovane perito edile. Lì, da qualche tempo, i movimenti per i diritti civili avevano dei locali adibiti a uffici. Prima andammo dai Verdi, poi dal Bündnis 90. Qui e
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là, in piedi, seduti, accovacciati, i giovani erano davanti ai televisori. Anche qui Leonore scattò delle foto, sulle quali sono visibili a tutt’oggi il silenzio e lo sgomento di fronte ai primi risultati parziali. Una giovane donna si copriva il viso. Tutti vedevano che per la Cdu si prospettava una vittoria schiacciante. - Eh già, - disse Jakob, - così vanno le cose in democrazia. Il giorno dopo, davanti all’ingresso laterale della Nikolaikirche, dalla quale nell’autunno dell’anno prima erano partite le dimostrazioni del lunedì, trovammo sulla lamiera ondulata del recinto di un cantiere un adesivo che col bordo azzurro e la scritta azzurra imitava una targa stradale. Leggemmo: «Piazza dei Fregati». E sotto c’era, in caratteri piccoli: «Saluti dai ragazzi d’ottobre. Sì, ci siamo ancora». Il nostro droghiere, che aveva votato democristiano - «No, solo per via dei maledetti soldi. Me ne pento già adesso… » -, prima che prendessimo congedo ci mostrò la sua casa, piscina e giardino compresi, con l’orgoglio sentimentale di un sassone capace di darsi da fare anche sotto il socialismo. Accanto a un minuscolo laghetto vedemmo una testa in bronzo di Goethe alta una cinquantina di centimetri che il nostro ospite aveva barattato con una più consistente partita di filo di rame, salvando appena in tempo il capo possente del poeta dalla deliberata fusione. In giardino ammirammo stupiti un candelabro che con altri candelabri sarebbe finito in Olanda in cambio di valuta pregiata se il nostro droghiere non si fosse compiaciuto di fregarsi questo esemplare o, come diceva lui, di «nasconderlo». Allo stesso modo aveva nascosto, incorporandole nel suo giardino, due colonne di labradorite e un’acquasantiera di porfido provenienti da un cimitero sotto minaccia di spianamento. E dovunque si incontravano posti a sedere intagliati nella pietra o in ghisa, i quali però da lui, che non stava mai seduto, in pratica non venivano usati. E poi il nostro droghiere rimasto autonomo nonostante il socialismo ci condusse alla piscina coperta, che da aprile veniva riscaldata tramite pannelli solari. Ma più di questi prodotti occidentali acquisiti col baratto ci sorpresero delle figure in arenaria di grandezza superiore al naturale che rappresentavano Gesù Cristo e sei apostoli, tra i quali gli evangelisti. Ci venne assicurato che solo all’ultimo minuto era riuscito a salvare quelle sculture, e precisamente prima che la Markuskirche, come altre chiese di Lipsia, fosse distrutta dalla - così si espresse - «barbarie comunista». Adesso il Cristo, raffigurato secondo gli stilemi del tardo diciannovesimo secolo, era disposto a semicerchio con alcuni suoi apostoli attorno al bacino dai riflessi turchesi e benediva due robot (di fabbricazione giapponese) che pulivano alacremente le pareti piastrellate, benediva anche
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noi, che eravamo arrivati a Lipsia per farci deludere, il 18 marzo, dalle prime libere elezioni della camera popolare, magari benediva l’unità in dirittura d’arrivo, e si ergeva benedicente sotto un tetto la cui struttura era sorretta da slanciate «colonne doriche», come al droghiere era ben chiaro. - Qui, - disse, - elementi ellenistici e cristiani si fondono col senso pratico dei sassoni. Durante il viaggio di ritorno, passando accanto ai vigneti lungo l’Unstrut, oltre Mühlhausen in direzione del confine, Jakob Suhl dormì, stremato dal suo rimpatrio a Lipsia-Oetzsch. Aveva visto abbastanza. [1] Istituzione informale sorta negli ultimi mesi della Ddr e designante una serie di incontri tra funzionari della Sed ed esponenti delle opposizioni per discutere sul futuro del paese.
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1991 - Morti non se ne vedono... - Morti non se ne vedono. Solo coordinate traballanti e colpi andati a segno, presumibilmente al millimetro. Sembra un gioco da bambini… - Ovvio, perché la Cnn ha i diritti televisivi di questa guerra e già adesso della prossima e della prossima ancora… - Ma i campi petroliferi in fiamme si vedono… - Perché la questione è il petrolio, solo il petrolio… - Lo sanno anche i ragazzini che sono in strada, dappertutto. Scuole intere vuote e scolari in giro, di solito senza insegnanti, ad Amburgo, Berlino, Hannover… - Persino a Schwerin e a Rostock. E con le candele, perché da noi due anni fa… - … mentre noi qui continuiamo ancora a cianciare del Sessantotto, e di come allora protestavamo duramente contro la guerra in Vietnam e il napalm… - … ma oggi non siamo capaci di alzare il culo, e intanto i bambini là fuori… - Non si possono fare paragoni. Noi almeno avevamo una prospettiva e un qualcosa tipo programma rivoluzionario, mentre quelli con le loro candele… - Però paragonare Saddam a Hitler si può, vero? Entrambi ridotti a un comune denominatore, e ognuno già sa dove sta il bene e dove il male. - Beh, era inteso più in senso metaforico, ma si sarebbe dovuto trattare, trattare molto più a lungo e fare pressione con l’embargo economico, come in Sudafrica, perché con la guerra… - Ma quale guerra? Lo show che la Cnn ha accuratamente organizzato con il Pentagono e che adesso il teleutente si beve sullo schermo sembra uno spettacolo di fuochi d’artificio, messo in scena apposta per il salotto. Bello pulito, niente morti. Lo si guarda come se fosse fantascienza, sgranocchiando salatini. - Ma i campi petroliferi in fiamme si vedono, e i missili che cadono su Israele, con la gente in cantina e le maschere antigas… - E chi ha fornito gli armamenti a Saddam contro l’Iran, per anni? Appunto. Gli americani e i francesi… - … e le ditte tedesche. C’è una lista lunga un chilometro, di chi ha procurato cosa: una quantità di ultimissimi ritrovati, accessori per missili, interi arsenali di veleni con le istruzioni per l’uso…
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- … perciò perfino questo Biermann, che ho sempre pensato fosse un pacifista, è per la guerra. Dice addirittura… - Non dice un cazzo, ma denuncia tutti quelli che non sono sulla sua linea… - … e i bambini con le candele, che sono per la pace, li chiama piagnoni… - Perché questi ragazzini non hanno un obiettivo sociale, non hanno prospettive né argomenti, mentre noi allora… - … però «Niente sangue per il petrolio» significa pure qualcosa… - Ma non abbastanza. Quando noi contro la guerra in Vietnam… - … beh, anche «Ho-Ho-Ho-Chi-Minh!» non era un’argomentazione proprio travolgente… - Ad ogni modo, adesso i bambini sono nelle strade e nelle piazze. Ora anche a Monaco, Stoccarda. Più di cinquemila. Escono in corteo persino dagli asili autogestiti. Fanno marce silenziose intervallate da grandi strilli. «Ho paura! Ho paura!», gridano. Non è mai successo che qui in Germania qualcuno ammetta così apertamente… Secondo la mia opinione… - Le opinioni non contano un cazzo. Ma guardateli, questi bambocci. Sotto Adidas, sopra Armani. Stronzetti viziati che di colpo si pigliano paura per i loro stracci firmati, mentre noi nel Sessantotto e più tardi, quando si è trattato della pista Ovest[1], o ancora più tardi contro i Pershing II a Mutlangen e in altri posti… Si andava giù duri, a quei tempi. E adesso arrivano questi bambinetti con le loro candele tremolanti… - E allora? Non è forse cominciata così anche a Lipsia? Io c’ero, quando ogni lunedì si usciva pacificamente dalla Nikolaikirche. Dico ogni lunedì, finché quelli in alto hanno cominciato a farsela sotto… - Non si può paragonare a quanto succede oggi. - Hitler e Saddam invece sì. Tutti e due su un francobollo. Questo si può, vero? - In ogni caso i campi petroliferi bruciano… - E a Baghdad un rifugio pieno di civili è stato… - Ma la Cnn trasmette tutto un altro film… - E tu cerca di capire. Questo è il futuro. Ancor prima che ci sia la guerra, i diritti televisivi vengono venduti al maggior offerente… - Oggi puoi addirittura preprodurla, una cosa del genere, tanto la prossima guerra arriva di sicuro. Da qualche altra parte o di nuovo nel Golfo. - Certo non nei Balcani contro i serbi o i croati… - Solo dove c’è il petrolio…
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- Di nuovo con morti che non compaiono… - E paura, davvero paura, ce l’hanno solo i bambini… [1] La costruzione della pista Ovest dell’aeroporto di Francoforte (1981-82), che distrusse molti ettari di bosco, suscitò una serie di imponenti manifestazioni che sfociarono in diversi episodi di violenza.
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1992 Un po’ stupito... Un po’ stupito, perché su richiesta e preghiera di anziani signori che erano stati al servizio della scomparsa compagine statale, mi misi in viaggio da Wittemberg. Come parroco ero discretamente in esercizio, nel caso si fosse trattato ancora una volta di sondare in veste pastorale abissi che in tempi recentissimi si erano spalancati in tutto il paese. Anch’io, subito dopo la caduta del Muro, mi ero dichiarato favorevole a far riconoscere lo zelo dell’ex servizio di sicurezza nazionale, e adesso mi attendeva una doppia responsabilità. Il caso in questione - «Marito spia per anni la propria moglie»[1] - l’avevo appreso, non solo grazie al titolo a caratteri cubitali, dalla stampa. Ma non i coniugi raggiunti dalla sventura o, per meglio dire, dall’eredità dei vertici della Stasi mi chiedevano consiglio, bensì erano i loro genitori a cercare aiuto, da un lato, dall’altro assicurandomi però al telefono di essere privi di vincoli confessionali; e io, per parte mia, affermai di voler intraprendere il viaggio a Berlino senza nessun fervore missionario. La coppia dei padroni di casa era seduta sul divano, i consuoceri e io in poltrona. - Noi, - questo fu quanto sentii, - semplicemente non vogliamo credere che la faccenda sia come viene riportata sui giornali. Ma nessuno degli interessati ci dice niente. - Ne soffrono soprattutto i bambini, disse la madre della moglie spiata, - perché entrambi sono molto affezionati al padre -. Tutti i genitori dell’infelice coppia erano d’accordo su un punto: il figlio e genero era sempre stato un papà buono e paziente con i bambini. Inoltre mi fu assicurato che la figlia e nuora era la personalità più forte, anzi dominante, ma che la critica verso il partito e più tardi verso lo Stato era stata espressa unanimemente da entrambi. Non c’era stata nessuna comprensione, ogniqualvolta si era cercato di far loro capire quanto dovevano allo Stato Operaio e Contadino. Né lei né lui, studiosi di ottima formazione, avrebbero mai trovato un’attività così altamente qualificata se non grazie ai provvedimenti socialisti… Dapprima mi limitai ad ascoltare. Dicono che ci riesco bene. Appresi quindi che entrambi i suoceri, l’uno apprezzato ricercatore in campo farmaceutico, e l’altro - il padre della figlia spiata attivo fino alla fine nel servizio di sicurezza nazionale, e precisamente nel settore della formazione quadri, si erano dati da fare. Ora disoccupato, l’ex ufficiale della Stasi deplorava il coinvolgimento di suo genero per ragioni di
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conoscenza interna dell’apparato: - Se mi avesse detto una parola a tempo debito. L’avrei dissuaso da quel rischioso doppio gioco. Perché da un lato voleva rendersi utile come informatore per lealtà nei confronti dello Stato, dall’altro gli stava certamente a cuore proteggere la moglie troppo critica, che era sempre stata incline all’irruenza, da eventuali contromisure del potere politico. Così si è trovato in difficoltà. Era troppo fragile per poter resistere a tanta pressione. So bene di cosa parlo. Più volte mi sono arrivati rimproveri dall’alto perché dopo la prima provocazione di mia figlia in una chiesa di Pankow mi ero rifiutato di rinunciare a qualsiasi contatto, il che avrebbe significato rompere con lei. No, l’ho anzi sostenuta finanziariamente fino alla fine, anche se ha sempre definito la mia sezione, con disprezzo, «la piovra». Analoghe lagnanze da parte del benemerito ricercatore. Suo figlio non gli aveva mai chiesto consiglio. E lui, antifascista di sicura fede e per molti anni membro del partito, che dall’epoca dell’emigrazione aveva familiarità con ogni sorta di deviazionismo e con le relative drastiche sanzioni, aveva esortato insistentemente il figlio a decidere in un modo o nell’altro: - Ma lui sognava una terza via. Le madri e suocere parlarono meno, o solo quando si offrì l’occasione di sottolineare le loro preoccupazioni per i nipoti e di mettere in risalto le qualità dello spione coniugale. La madre della figlia tenuta sotto controllo quale dissidente disse: - Erano seduti qui, su questo divano, con i bambini, solo pochi mesi fa. C’era grande armonia. E adesso è andato tutto in malora… Da ascoltatore esperto continuavo a tenermi in disparte. Arrivarono caffè e biscotti, tra l’altro occidentali, quelli della Bahlsen. Sentii che la fine della repubblica era stata vissuta non senza dolore, anche se con poca sorpresa. Stupefacente era stato solo il fatto che il figlio e genero, nonostante o a causa del suo doppio ruolo, avesse considerato il «nostro Stato» riformabile, modificabile fino alla fine. E altrettanto la figlia e nuora: nel momento in cui i compagni dirigenti avevano ormai rinunciato, lei era salita sulle barricate per un «socialismo in qualche modo democratico». Tutto ciò si poteva valutare solo come prova di ingenuità da parte di entrambi. - No! - esclamò l’ufficiale della Stasi ora disoccupato. - Non siamo stati sconfitti dall’opposizione dei nostri figli, ma da noi stessi -. Dopo una pausa nella quale venne versato dell’altro caffè, sentii: - Almeno fin dall’‘83, quando mia figlia e mio genero erano lì presenti in pieno
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accordo - così sembrava -, quando a Gotha venne fondata la cosiddetta «chiesa dal basso», partito e Stato avrebbero dovuto valutare positivamente questo stimolo critico, trasformarlo in «partito dal basso»… Ora seguirono le autoaccuse. E io, che a mia volta avevo fatto parte della «chiesa dal basso» nonostante le esitazioni delle nostre autorità religiose, mi sforzai di soffocare qualsiasi espressione di trionfo per tanto discernimento che arrivava molto, troppo tardi. Poi però il farmacologo rinfacciò all’ufficiale addetto alla formazione quadri di aver consegnato nelle mani dell’Ovest e delle sue autorità la popolazione di uno Stato comunque indebolito da un’eredità di pratiche troppo zelantemente tesaurizzate. E il suocero della spia della Stasi riconobbe questo fallimento degli organi di sicurezza. Si era trascurato di proteggere gli informatori leali e in buona fede, tra i quali c’erano membri della famiglia, con una tempestiva cancellazione dei rapporti e dei dati personali. Un dovere di accuratezza avrebbe dovuto imporre questa misura. - Lei che ne pensa, signor parroco? Con qualche imbarazzo nel rispondere, dissi: - Certo, certo. Però anche l’Ovest avrebbe dovuto capire che razza di bomba a orologeria ticchetta in Normannenstrasse. Dovevano sigillarla, la centrale, con tutto il materiale, segretandolo per almeno vent’anni. Ma è chiaro che all’Ovest non bastava aver vinto materialmente… Anche da un punto di vista cristiano si sarebbe dovuto… E per proteggere i nipoti, come nel Loro caso… Poi mi venne mostrato un album di fotografie. Su alcune immagini vidi la dissidente famosa da alcuni anni e il marito adesso altrettanto noto. Tra loro i bambini. La famiglia immortalata sedeva su quel divano sul quale ora erano seduti i genitori della figlia nelle vesti di nonni di nipoti da compiangere. Solo adesso appresi dell’imminente divorzio dei coniugi. I rispettivi suoceri approvavano questa intenzione. «Va bene così», dissero gli uni, e «Non c’è più niente da fare» gli altri. Poi mi ringraziarono per il paziente ascolto. [1] Si tratta del «caso Wollenberger»: Knud Wollenberger, un matematico, spiò per dieci anni la moglie Vera, una delle principali rappresentanti del movimento per i diritti civili nella Ddr, su incarico della Stasi; il caso venne alla luce nel dicembre del ’91.
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1993 Come piccolo poliziotto sei impotente... Come piccolo poliziotto sei impotente, di fronte a queste cose. Non in senso assoluto, perché ancora fino a qualche anno fa, quando verso Ovest era tutto sbarrato e gli organi del nostro Stato mantenevano ciò che avevano promesso, cioè di provvedere alla normalità e all’ordine, questi non c’erano, cinque-seicento teste pelate, tutti di estrema destra, e tra loro i tizi con le mazze da baseball, che menano, menano a tutto spiano, solo che appena vedano anche l’ombra di un negro. Al massimo si brontolava un po’ contro i polacchi che arrivavano qui, si intrufolavano e compravano a più non posso. Ma i veri nazisti, rigidamente organizzati, con la bandiera di guerra del Reich eccetera, quelli sono venuti fuori solo alla fine, quando di ordine non c’era comunque più traccia e i nostri compagni dirigenti se l’erano fatta addosso dalla fifa. Di là all’Ovest c’erano già da un pezzo, di là era roba normale. Ma poi quando hanno cominciato anche qui da noi, sì, prima a Hoyerswerda e dopo qui a Rostock-Lichtenhagen, perché l’ufficio del posto pubblico d’emergenza per i rifugiati politici e la casa d’accoglienza dei vietnamiti subito lì accanto disturbavano i vicini, noi poliziotti eravamo abbastanza impotenti, perché troppo pochi e senza direttive precise. Naturalmente si è detto subito: «Proprio roba da Est!» e «La polizia fa finta di non vedere… » Sissignore, questo ci è toccato di sentire. Ci imputavano di simpatie aperte e nascoste verso i picchiatori. E solo adesso, dopo che nell’ultimo anno c’è stato l’incendio di là, a Mölln, e hanno contato tre morti, e di recente a Solingen hanno appiccato il fuoco di nuovo, con morti, stavolta cinque, da quando il terrore si fa strada dappertutto, diciamo su scala pantedesca, e pian piano diventa una cosa normale, nessuno dice più: «Questo succede soltanto all’Est», anche se da noi a Rostock la popolazione che prima era tutta attiva e adesso l’hanno «liquidata», cioè in parole povere è senza lavoro, e in linea di massima non ha mai avuto niente contro gli stranieri, adesso in generale si dimostra soddisfatta, perché dopo i disordini hanno svuotato le case dei rifugiati, scomparsi i negri e anche i vietnamiti, scomparsi proprio no, insomma sono da qualche altra parte e non danno più nell’occhio. Certo, non è stato un bello spettacolo e a noi poliziotti non ha reso le cose più facili, quando qui a Lichtenhagen, come prima a Hoyerswerda, la gente si è accalcata alle finestre, è rimasta lì a guardare e basta e qualcuno ha anche applaudito quando le teste pelate con le loro mazze da baseball hanno dato la caccia a quei poveri disgraziati, tra cui anche
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qualcuno dei Balcani, e li hanno pestati, ma di santa ragione, e qui, si può ben dirlo, è scoppiato il casino. Abbiamo sudato sette camicie per salvare la pelle a quei pochi vietnamiti. Perché morti non ce ne sono stati, da noi, ma all’Ovest, come ho già detto, a Mölln e a Solingen. Erano turchi. Qui non se ne vede neanche l’ombra. Però le cose possono cambiare, se quelli dell’Ovest pensano che si potrebbero parcheggiare da noi, sì, proprio parcheggiare, i loro turchi e anche tutto il resto che piove qui dai Balcani, bosniaci, albanesi, tra cui musulmani di quelli veramente fanatici, perché qui, si dice, c’è ancora abbastanza posto. Se succede, allora come piccolo poliziotto sei abbastanza impotente, appena arrivano quei tizi coi randelli e fanno semplicemente quello che di norma dovrebbe essere compito della politica: cioè chiudere i confini e rimettere ordine, prima che sia troppo tardi. Ma i signori là in alto chiacchierano soltanto e poi lasciano a noi il lavoro sporco. Come dice? Fiaccolate? I centomila che con le candele hanno protestato contro la xenofobia? Cosa ne penso? Adesso faccio io una domanda: che grandi risultati hanno ottenuto? Ce ne sono state anche da noi, comunque. Una marea di candele. Già qualche anno fa. A Lipsia, persino a Rostock. E poi? Cosa n’è venuto fuori? Sì, certo: adesso il Muro è sparito. Ma il resto? Estremisti di destra a non finire, di colpo. Ogni giorno di più. Fiaccolate! Che dovrebbero risolvere la situazione! Ma non fatemi ridere. Chieda un po’ alla gente che prima aveva tutta un lavoro ai cantieri navali o da altre parti, cosa ne pensa delle fiaccolate e quella che è la realtà vera, cioè cosa significa essere messi in strada dall’oggi al domani. Oppure chieda ai miei colleghi, no, non a quelli di Amburgo che li hanno ritirati alla svelta, neanche erano arrivati, dopo che qui è cominciato il casino, ma ai nostri funzionari che hanno esperienza di servizio dai tempi dei Vopos, chieda la loro opinione sulla magia delle candele e altre cagnare pacifiste. Come dice? In questo modo si è dato ai vicini europei un chiaro segno della nostra vergogna, perché in Germania ancora una volta la peste bruna… Allora vorrei solo chiedere con molta semplicità, da piccolo poliziotto: in Francia queste cose vanno diversamente? O per esempio a Londra? Forse che trattano i loro algerini o pakistani coi guanti bianchi? O gli americani coi loro negri? E dunque. Adesso Le parlerò molto chiaramente: quello che è successo qui a Lichtenhagen, e più tardi a Mölln e a Solingen è diventato un caso limite, è stato senz’altro riprovevole, ma in linea di massima può essere considerato un fenomeno assolutamente normale. Come del resto noi tedeschi - e adesso Le parlo senza fare differenze tra
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Est e Ovest - siamo un popolo assolutamente normale, quanto i francesi, gli inglesi e anche gli americani. Come dice? E va bene. Schifosamente normale, per quel che mi riguarda…
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1994 Sarei una dura, si dice... Sarei una dura, si dice. E che significa! Avrei forse dovuto mostrare debolezza solo perché sono una donna[1]? Il signore che qui mi descrive e pensa di dovermi dare una pagella - «Sensibilità sociale: insufficien-te!» -, prima di bollare come fallimenti le mie attività complessivamente sempre coronate dal successo dovrà prendere in considerazione il fatto che sono uscita da tutte, dico tutte le commissioni d’inchiesta a testa alta, cioè senza il minimo danno, e che anche nel 2000, quando ci sarà l’Expo ad Hannover, terrò fronte a tutti gli sputasentenze e gli spilorci. Ma nel caso dovessi cadere, perché all’improvviso comandano questi socialromantici, sarà una caduta morbida, mi ritirerò nella nostra residenza di famiglia con vista sull’Elba, che è rimasta a me quando papà, uno degli ultimi grandi banchieri privati, è stato trascinato nella bancarotta. Allora dirò «E che importa» e rivolgerò la mia attenzione alle navi, soprattutto alle navi container: come viaggiano controcorrente verso Amburgo o da lì, basse perché a pieno carico, fanno rotta verso la foce dell’Elba dirette al mare, ai molti mari. E quando poi nell’atmosfera del tramonto il fiume metterà in scena tutti i suoi colori, allora cederò, mi abbandonerò alla fugacità delle immagini liquescenti, sarò solo sentimento, tutta morbidezza… Ma certo! Io amo la poesia, ma anche il rischio monetario e altrettanto l’imponderabile, come a suo tempo la «Fiduciaria», che sotto il mio, in definitiva solo sotto il mio controllo ha mosso miliardi, liquidato a tempo di record migliaia di aziende decotte e creato spazio per il nuovo, ragione per cui questo signore, che ha evidentemente intenzione di pareggiare i superstipendi da me accordati per le prestazioni fornite con gli inevitabili danni del risanamento, sta preparando un romanzo smisurato - come sempre -, nel quale vuole paragonarmi al personaggio di un’opera dello scrittore Fontane, solo perché una certa «Signora Jenny Treibel» ha saputo, proprio come me, accoppiare gli affari con la poesia… [2]. Perché no? D’ora in avanti non sarò più solo la durissima «signora Fiduciaria» - chiamata anche «lady di ferro» -, ma sarò per giunta annoverata nel patrimonio della storia letteraria. Quest’invidia sociale e questo odio verso di noi che guadagniamo meglio! Come se me lo fossi scelto io, l’uno o l’altro lavoro. Ogni volta mi ha chiamata il dovere. Mi hanno designata ogni volta, ad Hannover come ministro dell’Economia e più tardi nel grande palazzo della Wilhelmstrasse, quando il mio predecessore è stato fatto secco a pistolettate - e da chi poi? - e alla Fiduciaria c’era
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bisogno. Così mi hanno accollato anche l’Expo 2000, e precisamente perché non temo le sfide, perché non sono succube di nessuno, semmai del mercato, e so nascondere le perdite, perché faccio debiti che vale la pena fare, e perché supero ogni ostacolo senza inciampare, con durezza, costi quello che costi… Lo ammetto: ci sono stati disoccupati, ce ne sono ancora. Il signore che mi descrive vuole attribuirmene centinaia di migliaia. E che significa, mi dico. A quelli rimane sempre l’amaca sociale, mentre io devo trovarmi continuamente nuove incombenze, perché quando nel ’94 la Fiduciaria ebbe completato la sua opera impareggiabile spianando i resti dell’economia comunista, dovetti subito prepararmi alla nuova avventura, l’esposizione mondiale. Cosa significa prepararsi? Bisognava balzare sul cavallo in corsa chiamato Expo. Si doveva infondere vita a un’idea ancora vaga. E dire che avrei preferito di gran lunga, perché in un certo senso disoccupata, stravaccarmi pigramente e a spese dello Stato in una di quelle amache, naturalmente con preferenza per la terrazza della residenza di famiglia, con vista sull’Elba, che purtroppo posso godermi solo di rado e in pratica quasi mai prima del tramonto, perché la Fiduciaria mi pesa ancora addosso, perché c’è di nuovo la minaccia di una commissione d’inchiesta, perché questo signore che mi vuole accantonare sotto l’anno 1994 adesso intende presentarmi l’intera fattura: io - e non l’industria tedesco-occidentale di sale potassico - avrei causato il licenziamento di qualche migliaio di minatori a Bischofferode; io - e non ad esempio la Krupp - avrei spazzato via l’acciaieria di Oranienburg; io - e neanche minimamente la Kugelfischer di Schweinfurt - sarei stata quella che ha mandato in rovina tutte le fabbriche di cuscinetti a sfera risalenti alla preistoria della Ddr; mi si attribuisce l’espediente di aver rimesso in piedi aziende stracotte dell’Ovest - ad esempio i cantieri di Brema - con i soldi dello Stato orientale; a me, alla signora Fiduciaria detta anche Jenny Treibel, dovrebbe essere esemplarmente riuscita una truffa miliardaria, a spese di ometti che si dibattono senza speranza… No. Nessuno mi ha regalato niente. Ho dovuto conquistarmi tutto. Non lavoretti da due soldi con ammennicoli sociali, solo incombenze gigantesche hanno potuto stimolarmi. E’ così, io amo il rischio, e il rischio mi ama. Ma un giorno, quando saranno cessate le chiacchiere sulla disoccupazione a quanto si dice troppo alta e sui soldi spariti senza lasciare traccia, ripeto senza lasciare traccia, quando dopo il 2000 nessun galletto strepiterà più a causa di biglietti d’ingresso per l’Expo sovvenzionati e nessuno vorrà più parlare di simili bazzecole, si riconoscerà quali immensi spazi ha conquistato la Fiduciaria con un durissimo
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lavoro di sgombero, e che le probabili perdite dell’esposizione mondiale si possono serenamente registrare a credito del futuro, del nostro comune futuro. E io potrò finalmente godermi la vista dell’Elba dalla nostra residenza di famiglia, la poesia di un fiume operoso e tramonti gratuiti; a meno che non mi si ponga davanti al rischio di nuovi compiti. Ad esempio potrebbe allettarmi l’idea di guidare con un ruolo centrale la conversione del marco tedesco in banconote e monete euro… Poche storie, mi dirò poi, e interverrò con durezza, all’occorrenza con estrema durezza. E nessuno, nemmeno Lei, caro signore in vena di descrivermi, riuscirà a preservare la donna che non conosce debolezze da quel genere di bancarotta che ha una sua grandezza e che già solo per questo motivo è un preannuncio di successo… [1] Chi parla è Birgit Breuel, dal ’91 presidentessa dell’Amministrazione fiduciaria, l’ente preposto alla privatizzazione, riconversione o chiusura delle aziende della ex Ddr; il suo predecessore, Karsten Rohwedder (1932-91) era stato assassinato. [2] Nel capitolo XXXVI di È una lunga storia.
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1995 ...e ora, cari ascoltatori e ascoltatrici... … e ora, cari ascoltatori e ascoltatrici, l’orso si scatena, come si dice a Berlino. Tendete l’orecchio, saranno due, trecentomila che dalla Gedächtniskirche fin su verso lo Halensee fanno ribollire, anzi no, traboccare il Ku’damm, teatro di tante ore fatali, in tutta la sua lunghezza. Una cosa del genere è possibile solo in questa città. Solo qui, a Berlino, dove poco tempo fa un altro episodio unico, il Reichstag impacchettato con incomparabile magia da Christo, l’artista elogiato a livello internazionale, è diventato un avvenimento che ha attirato migliaia di persone, qui, solo qui, dove pochi anni addietro i giovani hanno ballato sul Muro preparando una festa spumeggiante alla libertà ed elevando il grido «pazzesco!» a parola dell’anno, unicamente qui, affermo, può andare in scena ancora una volta, ma oggi nelle dimensioni di una calca travolgente, la «Love Parade» tanto assetata di vita quanto totalmente flippata, e sì, finalmente, anche se all’inizio il senato ha reagito temporeggiando e a causa delle prevedibili montagne di immondizia ha persino preso in considerazione la possibilità di un divieto - certo, cari ascoltatori e ascoltatrici, noi rispettiamo i vostri dubbi -, finalmente possono radunarsi, in una manifestazione autorizzata dal senatore agli Interni, gli accaniti techno-ballerini, i cosiddetti raver, che sarebbe come dire esaltati, invasati, completamente fuori di testa, e rendere felice tutta Berlino, questa straordinaria città sempre aperta a ogni innovazione, con «il più grande party del mondo», dicono gli uni e si impressionano gli altri, perché ciò che qui è ormai in corso da ore non può offrire di più quanto a livello sonoro e a gioia di vivere, ma anche quanto a dinamico pacifismo, visto che il motto di questo «Carnevale di Rio» sulle rive della Sprea stavolta è «Peace on Earth». Sì, cari ascoltatori di entrambi i sessi, questo vogliono con assoluta certezza e prima di tutto i giovani così fantasiosamente vestiti che sono arrivati da ogni parte, persino dall’Australia: Pace sulla terra! Ma al tempo stesso vogliono anche dire a tutto il mondo: guardate, noi esistiamo. Siamo in tanti. Siamo diversi. Vogliamo divertirci. Divertirci e basta. E se lo procurano sfrenatamente, il divertimento, perché sono diversi, come si è detto, né picchiatori di destra o di sinistra, né clonazioni di sessantottini che erano sempre contro e mai veramente per qualcosa, ma neppure anime belle che, come abbiamo visto, volevano bandire la guerra con grida di paura o fiaccolate. No, questa gioventù degli anni Novanta è fatta di un’altra pasta, come la sua musica, che a voi, miei cari ascoltatori e ascoltatrici, probabilmente può sembrare solo
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un fracasso che brutalizza i timpani, perché anch’io, seppure malvolentieri, devo ammettere che questo ossessivo rimbombo dei bassi che squassa il Ku’damm, l’implacabile bum bum bum - tà tà tà concisamente chiamato techno, non è per tutti i gusti, ma questa gioventù è ormai follemente innamorata di se stessa e del caos, vuol farsi rintronare dalla testa ai piedi e sperimentare la dimensione estatica. Balla fino allo sfinimento, arriva al limite e lo oltrepassa, tra vapori e sudori, ora fa ribollire il Ku’damm ascoltate! -, tutta Berlino su camion che quasi non riescono ad avanzare, ma decorati nei modi più bizzarri, su motrici per semirimorchi, dentro e sopra a pullman noleggiati, al punto che, mentre oso spingermi col mio microfono tra la folla che saltella e pesta i piedi, cominciano a mancarmi le parole, per cui mi avvicino ad alcuni dei ballerini invasati, chiamati raver, e chiedo: perché ti ha attirato l’idea di venire in questa città, a Berlino? - «Perché è qualcosa di straordinario solo vedere quanti siamo… » - E Lei, signorina in rosa? - «Beh, perché qui alla Love Parade posso finalmente essere come sono in realtà… » - E Lei, giovanotto? «Ovvio, perché sono per la pace, e la pace me la immagino come quello che succede qui… » - E tu, bellezza in guaina di plastica trasparente? Cosa ti porta fin qui? - «Il mio ombelico e io, vogliamo essere visti… » - E voi due con le luccicanti minigonne di lacca? «Proprio una libidine, qui… » - «Una superfigata… » - «Uno sballo totale… » - «Solo qui il mio look può essere veramente apprezzato… » - Avete sentito, miei cari ascoltatori, giovani e anziani, donne e uomini. La parola d’ordine è: look! Perché questa gioventù scatenata, questi raver non solo ballano come se fossero dei tarantolati, vogliono essere visti, dare nell’occhio, aver successo, affermare se stessi. E quello che hanno addosso - spesso solo la biancheria - deve essere aderente. Non c’è da stupirsi che stilisti di fama già adesso si ispirino alla Love Parade. E nessuno si meraviglia se già adesso l’industria del tabacco, Camel in testa, ha scoperto i ballerini di techno come veicoli pubblicitari. E nessuno si scandalizza per l’alluvione di spot, perché questa generazione si è adattata al capitalismo senza alcuna forzatura. Loro, i ragazzi degli anni Novanta, sono i suoi figli. Ce l’hanno iscritto nel Dna. Sono il prodotto dei suoi mercati. Vogliono sempre essere e avere l’ultimissima novità. Cosa che porta qualcuno a dare una mano all’ultimissima euforia con l’ecstasy, all’ultimissima droga. Mi ha pur detto poco fa un giovane, di ottimo umore: «Non c’è modo di salvare il mondo, e allora lasciateci fare una festa… » E la festa, cari ascoltatori e ascoltatrici, è qui, oggi. Non sono richiesti motti rivoluzionari, solo
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peace, ora e in futuro, anche se da qualche parte nei Balcani, a Tuzla e a Srebrenica, si spara e si uccide. Perciò adesso lasciatemi concludere la mia cronaca sull’atmosfera del Kurfürstendamm con uno sguardo al futuro: qui, a Berlino, è già cominciato, qui, dove un tempo il leggendario borgomastro Reuter ha gridato ai popoli della terra: «Tenete d’occhio questa città!», qui, dove una volta il presidente americano John F. Kennedy ha dichiarato: «Anch’io sono un berlinese!», qui, in questa città un tempo divisa e che ora cresce riunita, in questo eterno enorme cantiere da dove precorrendo l’anno 2000 - sta prendendo il via la «repubblica di Berlino», qui anno dopo anno - ed entro il termine di un anno addirittura nel Tiergarten - ballerà in estasi una generazione alla quale già appartiene il futuro, mentre a noi non più giovanissimi, se in chiusura posso permettermi questa battuta, è consentito pensare all’immondizia, alle montagne di rifiuti che la Love Parade e il grande techno-party ci lasceranno in eredità, come già l’anno scorso, anche per il futuro.
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1996 In realtà, per quest’anno... In realtà, per quest’anno il professor Vonderbrügge, che assillo da molto tempo con domande da profano, voleva scrivermi qualche approfondimento di genetica, dati riguardanti la clonazione delle pecore gemelle Megan e Moran - la pecora scozzese Dolly è nata solo l’anno seguente da una madre incubatrice -, ma si è scusato con l’impegno urgente di un viaggio a Heidelberg. Doveva partecipare, da esperto richiestissimo, al congresso mondiale degli studiosi del genoma, e lì non si trattava di pecore clonate, bensì anzitutto, da un punto di vista bioetico, del nostro futuro, già adesso leggibile come sempre più contrassegnato dalla mancanza di padri. Quindi, in cambio, racconto di me, o meglio delle mie tre figlie e di me, il loro documentabile padre, e di come poco prima di Pasqua si sia fatto insieme un viaggio che non lesinò sorprese pur svolgendosi tutto secondo gli estri e i desideri. Laura, Helene e Nele mi sono state regalate da tre madri che, interiormente e - con sguardo affettuoso - osservate dall’esterno, non potrebbero essere più diverse, anzi, se mai fossero entrate in discorso tra loro, più contraddittorie; invece le figlie furono rapidamente d’accordo sulla meta del viaggio a cui le invitava il padre: si va in Italia! Potevo rivedermi Firenze e l’Umbria, il che, lo ammetto, nasceva da ragioni sentimentali, perché lì mi aveva condotto decenni prima, esattamente nell’estate del ’51, un viaggio in autostop. Allora il mio zaino col sacco a pelo e la camicia di ricambio, il blocco da disegno e la scatola degli acquerelli, pesava poco e ogni uliveto, ogni limone che maturava sull’albero erano stati oggetto della mia meraviglia. Adesso viaggiavo con tre figlie, e loro viaggiavano con me senza madri. (Ute, che non ha messo al mondo figlie, ma solo figli, mi concesse un temporaneo congedo con sguardo scettico). Laura, madre - se mai sorridente, solo per accenni - di tre bambini, aveva provveduto alle prenotazioni di alberghi e alla macchina a noleggio da Firenze. Helene, che ancora mordeva il freno in una scuola di teatro, era già capace di assumere pose adeguatamente istrioniche, per lo più divertenti, davanti a bacini di fontane, scalinate di marmo o appoggiandosi a colonne antiche. Nele probabilmente arguiva che questo viaggio le offriva l’ultima occasione di camminare per mano col papà, come una bambina. Così riusciva a prendere alla leggera turbamenti ormai prossimi, lasciando a Laura il compito di farle cambiare opinione con spirito sororale perché sostenesse ugualmente non foss’altro a dispetto della stupida scuola - l’esame di maturità.
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Tutte e tre, sulle ripide scale di Perugia, nelle salite di Assisi e di Orvieto, erano preoccupate per il loro padre, le cui gambe a ogni passo rammentavano al fumatore le malsane esalazioni disperse nell’aria per decenni. Ero costretto a fare delle pause, stando al tempo stesso attento alle cose che erano comunque da vedere: qui un portale, là una facciata che si sgretolava, dal colore particolarmente intenso, a volte solo una vetrina, stipata di scarpe. Mi mostrai più parco di insegnamenti che di tabacco di fronte a tutta quell’arte che dovunque, dapprima negli Uffizi, poi davanti alla facciata del duomo di Orvieto o nella basilica superiore e inferiore di Assisi, nel ’96 ancora intatta, invitava ai commenti; furono piuttosto le figlie a offrirmi l’insegnamento più vivo, perché appena le vedevo davanti a un Botticelli, a un Beato Angelico, davanti a quadri e affreschi sui quali i maestri italiani avevano raffigurato con grazia donne a gruppi, spesso a tre, a scaglioni, in fila, di faccia, di schiena, di profilo, mi accorgevo come Laura, Helene e Nele si rapportassero specularmente alle vergini dipinte, agli angeli, a fanciulle di allegorie primaverili, si fermassero davanti ai quadri ora simili a Grazie, ora in silenziosa adorazione, poi di nuovo con gestualità eloquente si muovessero a passo di danza, da sinistra a destra, solennemente, o avanzassero una verso l’altra, come se uscissero dal pennello di Botticelli, del Ghirlandaio, del Beato Angelico o (ad Assisi) di Giotto. Dovunque, escludendo i momenti di isolamento, mi venne offerto un balletto. Così l’osservatore distaccato vide la sua celebrazione come padre. Ma appena tornati a Perugia, dove avevamo preso alloggio, appena insieme alle figlie mi muovevo seguendo l’andamento delle mura etrusche avevo l’impressione - io, il padre fino a poco prima ancora padrone - di essere osservato dalle fessure dell’opera muraria saldamente commessa, come se su di me cadesse uno sguardo compatto, come se le tre madri così diverse fossero all’erta e - per quanto mi riguardava - concordemente preoccupate che tutto stesse procedendo bene, che io non facessi preferenze tra le figlie, mi sforzassi di riparare antiche dimenticanze, e soprattutto fossi all’altezza del mio dovere di padre. Nei giorni seguenti evitai la muraglia permeabile di fattura strettamente etrusca. Poi arrivò anche la Pasqua con gli scampanii. Come se avessimo già sbrigato l’andare in chiesa e la messa, passeggiammo su e giù per il corso: Laura sottobraccio a me, Nele tenuta per mano ed Helene davanti, a mettersi in scena. Poi andammo in campagna. E io, che avevo paternalmente provveduto, nascosi tra le radici screpolate, ricche di cavità e di tane di un uliveto non proprio uova di Pasqua, ma sorprese comunque squisite come
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mandorlato, sacchetti pieni di porcini secchi, concentrato di basilico, vasetti colmi di olive, capperi, sardine e quant’altro l’Italia ha da offrire al palato. Mentre io mi affrettavo tra gli alberi, le figlie dovettero restare ferme a guardare il paesaggio. Poi le cose si svolsero ancora come in una ripetizione o un recupero dell’infanzia. Tutte e tre frugarono nei nascondigli del padre e sembravano contente, anche se Helene affermò che tra le radici, proprio là dove aveva trovato un sacchettino di lavanda, avevano fatto il nido delle serpi, sicuramente velenose, ma poi grazie a Dio - erano sgusciate via. Subito mi tornarono alla mente le madri nascoste tra le vestigia etrusche come addensamento matriarcale. Poi però, già sulla via del ritorno e passando accanto a manifesti elettorali che facevano propaganda per un pescecane multimediale o per i suoi alleati fascistoidi, ma anche per un’alleanza di centrosinistra sotto il segno dell’Ulivo, vedemmo da lontano e poco dopo da vicino un gregge di pecore nel quale, seguendo il montone guidaiolo, le madri sfilavano con i loro agnelli pasquali, comportandosi così spensieratamente da pecore come se non fossero mai esistiti dei loro simili clonati di nome Megan e Moran, come se non ci fosse da far conto, tra non molto, sulla pecora Dolly senza padre, come se i padri potessero essere utili anche in futuro…
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1997 Egregio signore... Egregio signore, solo adesso, di ritorno dal congresso di Edimburgo, dove ho colto l’occasione per affrontare temi scientifici con il famoso e temuto embriologo dottor Wilmut, e prima di ripartire - già dopodomani alla volta di Boston per uno scambio di opinioni con i colleghi, riesco a trovare un po’ di tempo per confutare i Suoi timori certo non inconsistenti e tuttavia eccessivamente fantasiosi. Lei tende a lasciare libero e irrefrenabile corso alle Sue fantasticherie mentre, per il bene di tutti, sarebbe opportuno comunicare sobrietà. Cominciamo con quello che dovrebbe essere comprensibile anche a un profano, seppure i procedimenti di questo sistema modulare, di per sé semplice, gli possano sembrare un’opera di magia. Dolly deve la sua modesta esistenza a tre madri: alla madre genetica, alla quale sono state tolte cellule mammarie, la cui sostanza ereditaria è stata poi messa in grado di pilotare la costruzione di una nuova pecora completa; alla madre donatrice, alla quale sono stati prelevati degli ovuli, quindi si è aspirata la sostanza ereditaria di un solo ovulo unendo poi la cellula mammaria all’ovulo ormai privo di nucleo con l’aiuto di impulsi elettrici, per cui soltanto il patrimonio ereditario della madre genetica poteva impartire all’ovulo l’ordine di dividersi; a questo punto è stato possibile trapiantare nell’utero della madre incubatrice, la terza pecora, l’embrione in crescita, ed ecco che, dopo il normale periodo di gravidanza, è venuta al mondo la nostra Dolly, identica alla madre genetica, senza che - e da qui nasce lo scalpore - sia stata richiesta una qualsiasi prestazione da parte di animali maschi. Di per sé, è tutto qui. Ma questa rinuncia alla partecipazione maschile è evidentemente causa, se ho capito bene, della Sua persistente inquietudine. Lei teme che in tempi brevi o lunghi sarà possibile portare al successo la manipolazione genetica in totale assenza di padri, cominciata con la pecora, proseguita con il maiale e infine con la scimmia, anche con gli esseri umani, insomma, restringendo il campo, con le donne. In effetti, non si può escludere. Da ogni parte si auspica e si teme l’ampliamento non solo probabile del metodo modulare. E il dottor Wilmut, il «padre spirituale», per così dire, della pecora Dolly, mi ha riferito di donne fortemente motivate che già adesso si offrono quali madri genetiche, madri donatrici o madri incubatrici. No, egregio signore, tutto questo per il momento resta ancora nel campo della speculazione, anche se il Premio Nobel e benemerito ricercatore
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del genotipo James Watson, all’inizio degli anni Settanta, ha non solo predetto ma esplicitamente richiesto la clonazione di esseri umani allo scopo di creare copie di esemplari d’eccezione, vale a dire di geni come Einstein, la Callas o Picasso. E in un romanzo che purtroppo conosco solo per sommi capi, ma che al suo apparire dev’essere stato molto contestato, Lei non ha forse inserito in un gioco fittizio degli uomini-ratti, definendo, con lieve ironia, «Watsoncrick» questi prodotti sconciamente innaturali? Ma lasciamo gli scherzi. Quello che ci manca, egregio signore, è una bioetica dai fondamenti scientifici, la quale, poiché più efficace di superate concezioni morali, da un lato tenga a freno gli allarmismi troppo diffusi, e dall’altro sia autorizzata a progettare un nuovo ordine sociale per le future generazioni clonate che in un tempo non molto lontano cresceranno accanto alla vecchia, tradizionale generazione umana, perché questa vicinanza difficilmente potrà evolversi senza conflitti. Altro compito dei bioetici sarà quello di regolamentare la crescita della popolazione mondiale, in pratica di ridurla. Ormai ci troviamo al bivio. Già questo è motivo per doversi chiedere quale parte della sostanza ereditaria umana dovrebbe essere favorita nel senso della bioetica, e quale dovrebbe o addirittura deve essere eliminata. Tutto ciò richiede compromessi e progetti a lungo termine. Niente programmi immediati, per favore, anche se la scienza, come sappiamo, non si lascia arrestare. E già ci troviamo su un campo vasto, fin troppo vasto, che per essere coltivato ha bisogno di attrezzi ancora da perfezionare. Quanto prima. Il tempo incalza! Ma riguardo ai Suoi timori per quella che Lei definisce una «società senza padri», dal contenuto della Sua ultima lettera ho ricavato l’impressione che le Sue preoccupazioni siano da ricondurre - se mi permette - o a infantilismo caratteriale o all’ancora virulenta mania di mascolinità. Dovrebbe invece allietarci il fatto che il tradizionale atto procreativo, polarizzatore di tanti conflitti, perda via via d’importanza. C’è motivo di rallegrarsi, se il maschio infine sgravatosi di un peso, libero dalle costrizioni della responsabilità, verrà esentato da tutte le esigenze della potenza virile. Sì, possiamo permetterci di esultare, perché l’uomo del futuro, «l’uomo emancipato», come lo chiamo io, sarà libero. Libero di oziare. Libero di giocare. Libero di divertirsi come vuole. Una creatura di lusso, per così dire, che la società futura potrà permettersi. Proprio a Lei, egregio signore, dovrebbe riuscire facile utilizzare questi spazi liberi che tra poco si apriranno, in modo che in essi non solo
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possano moltiplicarsi le Dolly & Co’, ma anche scorrazzare su pascoli quasi sconfinati i parti della Sua immaginazione. A proposito: che ne dice della piena dell’Oder? Assolutamente lodevole il comportamento del nostro esercito. Ma se dovesse incombere un cambiamento di clima su scala mondiale, cosa confermata da molte rilevazioni, saremo colpiti da inondazioni di entità ancora maggiore. Da parte mia, nutro delle preoccupazioni in questo campo, sebbene di solito mi contraddistingua un atteggiamento di fondo ottimista. Nella speranza di aver un po’ ridimensionato i Suoi timori per il futuro e pregandola di porgere i miei omaggi alla Sua gentile signora, che poco tempo fa ho avuto il piacere di incontrare da un commerciante di vini di Lubecca, La saluto distintamente Suo Hubertus Vonderbrügge
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1998 Avevamo deciso di votare per posta... Avevamo deciso di votare per posta, ma poi, partiti da Hiddensee, arrivammo a Behlendorf già alla vigilia del 27 settembre, dove cercammo di coprire con l’operosità la spiacevole sensazione che ci accompagnava. Per la serata elettorale Ute preparò una minestra di lenticchie che doveva placare gli animi, qualunque fosse il risultato. Volevano venire uno dei figli, Bruno, con un amico, e i Rühmkorf. Di primo pomeriggio, dopo averlo pomposamente annunciato, me la filai nel bosco vicino per andare a funghi. La foresta di Behlendorf, che si estende fino al mare su collinose morene terminali, fa parte dei boschi attorno a Lubecca e, in qualità di bosco misto, in autunno ha un aspetto molto promettente. Ma sotto latifoglie e conifere non si trovavano né boleti dei castagni né porcini. Dove a metà mese avevo scoperto un pasto completo di mazze di tamburo, non c’era niente. I tricolomi nudi ai margini del bosco erano già troppo avanti, ingialliti. Il mio giro per funghi prometteva di essere poco fruttuoso. Nemmeno il cane aveva voluto accompagnarmi. Magari Lei non ci crederà: solo la mia superstizione residua, alla quale, come molti tardo-illuministi, sono surrettiziamente affezionato, mi ha indotto a continuare lo stesso la ricerca e a mettere in rapporto i risultati del ricavato in funghi, auspicati alla cieca, con l’altrettanto auspicato esito delle elezioni. Ma il coltello rimaneva inutilizzato, il cestino vuoto. Già volevo rinunciare, avvezzarmi per le ore restanti a un atteggiamento fatalista, già mi vedevo, da abituale frequentatore delle sconfitte, sulla panchina dei perdenti, già ero tentato di alleggerire di alcuni grammi, con tagli pragmatici, il peso di una grande coalizione attesa da tutti, già maledicevo la mia superstizione, quand’ecco un baluginare biancastro tra ramaglie fradice, su ceppaie muscose, era lì, isolata e a gruppi, mandava chiari, inconfondibili segnali: la purezza sotto forma di fungo. Conosce le vesce gemmate? Le è mai capitato di imbattersi in una vescia gemmata? Né lamelle né tubuli la caratterizzano. Non si erge né su un gambo sottile, magari legnoso, né su un corpo panciuto, già bacato. Non le fa ombra nessun cappello, né piano, né ombelicato, né campanulato. Se ne sta lì a testa nuda, si può confonderla solo con la giovane vescia areolata, che è sì commestibile, ma pare non sia altrettanto gustosa e si presenta meno bella. Invece la vescia gemmata porta la sua rotonda calvizie, che spesso appare incipriata di bianchi granelli, su un collo delicatamente profilato, seppure chiaramente ridotto. Tagliata via a livello
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del terreno, da giovane si dimostra soda, e a prova della sua giovinezza presenta una carne bianca alla quale tuttavia sono concessi solo pochi giorni, perché invecchiando precipitosamente testa rotonda e collo ingrigiscono, la polpa si decompone diventando acquosa, trapassa in un colore verdastro, inflaccidisce, per farsi brunastra nel vecchio involucro e ben presto ridursi a polvere entro un peridio di consistenza cartacea. Eppure Lei dovrebbe sapere che la vescia gemmata ha un gusto squisito e non causa sogni sgradevoli. Continuavo a trovarne. Predilige il legno marcio. Una isolata ne annuncia altre. Sono gregali. Si potrebbe tirarle su a manciate. Invece ciascun esemplare vuol essere raccolto con circospezione. Per quanto simili tra loro, pure ognuno ha un aspetto particolare. Quindi cominciai a contare una dopo l’altra le vesce che il mio coltello aveva decapitato. Presto, sulla carta spiegata del giornale - la «Frankfurter Rundschau» - dove si potevano leggere notizie invecchiate, commenti, previsioni elettorali, si raccolsero più di venti esemplari, piccoli, medi e pienamente maturi, questi ultimi dalla carne buona ancora per poco. La mia superstizione residua fece capolino. Si dedicò a giochi numerici. Cominciò a computare le vesce già raccolte con le percentuali di un risultato elettorale minaccioso o promettente. Già elucubrava su proiezioni favorevoli. Ma dopo trentacinque esemplari i luoghi di ritrovamento mi vennero meno. Iniziai a trepidare per i rossoverdi. Niente a perdita d’occhio o tutt’al più russole. Poi però trovai una colonia in un avvallamento vicino a un ruscello, in realtà un fossato di trabocco che collega il lago di Behlendorf con il canale Elba-Trave. Per non tenerla più a lungo sulle spine - Lei che nel frattempo sa com’è bella una vescia gemmata e può immaginare quanto il cercatore di funghi e i suoi ospiti sapranno gustare un piatto di tale bontà fritta brevemente nel burro -, posso ora assicurarle che, messo da parte ogni ritrovamento già anzianotto e colorato di verde all’interno, sono state quarantasette le vesce, allargate sul giornale superato, che portai a casa e in cucina. Ben presto arrivarono gli ospiti: Bruno e il suo amico Martin, Eva e Peter Rühmkorf. Subito dopo l’annuncio del trend favorevole e in attesa della prima proiezione portai in tavola come antipasto la pietanza di funghi, di cui, dimostrandomi fiducia, si servirono tutti, persino P. R., che, riguardo ai cibi, passa per difficile. Dato che avevo tagliato le vesce a fettine facendone così aumentare la quantità, il mio quadrato magico restò segreto, ma non perse efficacia.
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Gli ospiti erano stupefatti. Persino Ute, che sa sempre ogni cosa in anticipo ed è legata a superstizioni di tutt’altro genere, rinunciò a ogni scetticismo. Quando poco alla volta il risultato si stabilizzò sufficientemente a favore dei rossoverdi, con la previsione addirittura di un recupero di seggi uninominali, mi vidi confermato nella mia superstizione: le vesce gemmate non avrebbero potuto essere di meno, ma neanche di più. Ora arrivò in tavola la minestra di lenticchie di Ute, avvolta da un profumo di maggiorana, atta a smorzare la superbia montante. Sullo schermo che pareva troppo piccolo vedemmo il cancelliere svotato versare lacrime autentiche. Lo stupore dei vincitori per tutto quel potere in apparenza ancora poco maneggevole li faceva sembrare più giovani di quanto non fossero. Presto avrebbero litigato tra loro, per propensione. Ci rallegrammo persino di questo. Il conto era tornato; ma fino a ottobre inoltrato non trovai più neanche una vescia.
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1999 Non che mi abbia costretta... Non che mi abbia costretta, mi ha persuasa a forza di chiacchiere, il birbante. Ci riesce da sempre, finché alla fine ho detto di sì. E adesso pare che io viva ancora, ho più di cento anni e sono in buona salute, perché lui vuole così.[1] Fin dall’inizio è stato bravo in queste cose, quand’era ancora un soldo di cacio. Sapeva mentire con una gran faccia tosta e fare promesse meravigliose: «Quando sarò grande e ricco andremo in viaggio dove vorrai, mamma, perfino a Napoli». Ma poi è arrivata la guerra, e poi siamo stati scacciati prima nella zona sovietica, poi la fuga all’Ovest, dove quei contadini renani ci hanno messi nel magazzino dei foraggi, gelido, e ci tormentavano: «Ma tornate da dove siete venuti!» E dire che erano cattolici come me. Ma già nel ’52, quando mio marito e io avevamo casa da un pezzo, fu chiaro che mi ero presa il cancro. Ho resistito ancora due anni, mentre il ragazzo studiava a Düsseldorf la sua arte che non gli fruttava il becco di un quattrino, e non so di cosa è vissuto, e finché nostra figlia ha finito i corsi da segretaria, ma si è anche lasciata alle spalle tutti i suoi sogni, povera bambina. Non sono neanche arrivata ai cinquantotto. E adesso, perché lui vorrebbe recuperare proprio tutto quello che la sua povera mamma si è persa, bisogna festeggiare il mio centesimo e passa compleanno. Però mi piace, quest’idea che si è inventato zitto zitto. Sono sempre stata indulgente, quando raccontava bugie che non stavano né in cielo né in terra, come diceva mio marito. Comunque la casa di riposo con vista sul lago, che si chiama Augustinum e dove adesso, visto che lui vuole così, vengo assistita, è senz’altro di livello superiore, non ci si può davvero lamentare. Ho una stanza e mezzo, con bagno, angolo cottura e balcone. Mi ha fatto mettere un televisore a colori e un apparecchio per questi nuovi dischi argentati, quelli con su arie d’opera e d’operetta che mi è sempre piaciuto ascoltare, ho appena sentito «C’è un soldato sulla riva del Volga… », dallo Zarevic. Ma insieme facciamo anche piccoli e grandi viaggi, di recente a Copenaghen, e l’anno prossimo, se resto in salute, si andrà al sud, finalmente, a Napoli… Adesso però devo raccontare come sono andate le cose prima e prima ancora. Guerra, ecco cosa c’è stato, sempre guerra, con delle pause in mezzo. Mio padre, che faceva il fabbro nella fabbrica di fucili, è caduto subito all’inizio, a Tannenberg. E poi due fratelli in Francia. Uno dipingeva, dell’altro sono perfino state pubblicate poesie, sul giornale. Sicuramente mio figlio ha preso tutto da questi due, perché il mio terzo fratello
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era solo cameriere, ha sì girato in lungo e in largo, ma poi ci ha lasciato la pelle da qualche parte. Dev’essersi contagiato. Pare sia stata una di quelle malattie veneree, non saprei dire quale. Mia madre è morta subito dopo i suoi ragazzi, di puro e semplice dispiacere, ancor prima che arrivasse la pace, cosicché sono rimasta sola al mondo con la mia sorellina Betty, una bambinetta viziata. Fortuna che facevo la commessa al Kaiser’s Kaffee e avevo imparato un po’ di contabilità. Così poi, una volta sposata con Willy e subito dopo l’inflazione, quando da noi a Danzica arrivò il fiorino, siamo riusciti ad aprire il negozio, generi coloniali. All’inizio andavano anche bene, gli affari. E nel ’27, avevo già passato i trenta, è poi arrivato il maschietto e tre anni più tardi la femminuccia… Oltre al negozio avevamo solo due stanze, cosicché al piccolo restava unicamente un angolo sotto il davanzale della finestra, per i suoi libri e le scatole di colori e la plastilina. Ma gli bastava. Lì si è inventato di tutto. E adesso mi costringe a essere di nuovo viva, mi vizia - «mammetta qui e mammetta là» - e arriva nella casa di riposo con i suoi nipoti, che devono per forza essere i miei pronipoti. Senz’altro carini, ma a volte un po’ impertinenti, tanto che sono contenta e tiro il fiato quando quei discoli, tra cui due gemelli - ragazzini svegli ma presuntuosi -, sfrecciano su e giù di sotto, nel viale del parco, con quei loro aggeggi che sono come pattini senza ghiaccio e hanno un nome uguale a skat, se si scrive, ma i ragazzi li chiamano skäter. Posso vederli dal balcone, con uno che è sempre più veloce dell’altro… Skat! Per tutta la vita ci ho giocato volentieri. Di solito con mio marito e con Franz, il mio cugino casciubico che lavorava alle poste polacche e per questo l’hanno fucilato, subito all’inizio, quando è tornata la guerra. E’ stato tremendo. E non solo per me. Ma erano cose che all’epoca succedevano. Anche il fatto che Willy è entrato nel partito e io ero nella Frauenschaft, l’organizzazione femminile, perché lì si poteva fare dell’esercizio fisico gratis, e anche il ragazzo nello Jungvolk, con l’uniforme elegante… Più tardi il terzo a skat l’ha fatto in genere mio suocero. Però era sempre troppo nervoso, il signor falegname. Dimenticava spesso di scartare nello skat, per cui io lo contravo subito. Giocare mi piace ancora, perfino adesso, visto che devo vivere di nuovo, e proprio con mio figlio, quando porta con sé in visita sua figlia Helene, che sì, si chiama come me. Gioca piuttosto da furba, la ragazza, meglio di suo padre, al quale, si noti, ho insegnato lo skat quando aveva dieci o undici anni, ma che continua a dichiarare come un principiante. Gioca il suo prediletto cuori al buio nonostante abbia in mano un dieci secco…
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E mentre noi giochiamo e giochiamo e mio figlio non la smette di scaldarsi, di sotto nel parco dell’Augustinum i pronipoti volano sui loro skäter, da farti venire un colpo. Però hanno imbottiture dappertutto. Sulle ginocchia, sui gomiti, anche sulle mani, portano addirittura dei veri caschi, in modo che non succeda niente. Tutta roba che costa un occhio. Se solo penso ai miei fratelli, che sono morti già nella prima guerra o crepati altrimenti, loro, quando erano piccoli - ancora ai tempi del Kaiser - si sono procurati una botte fuori uso del birrificio Langfuhrer, hanno smontato le doghe, ci hanno strofinato sopra del sapone tenero, poi se le sono legate sotto le scarpe coi lacci e sono andati nel bosco di Jäschkental, su e giù di continuo dall’Erbsberg come veri sciatori. Non costava niente, però ha funzionato… Perché se solo penso cos’ha voluto dire per me, piccola commerciante, l’acquisto di pattini veri, quelli con la chiavetta per avvitare, e per due figli, oltretutto… Perché negli anni Trenta il negozio andava così così… Troppa clientela a credito e troppa concorrenza… E come se non bastasse è arrivata anche la svalutazione del fiorino… La gente canterellava sì «Tutto nuovo il maggio fa, da un fiorino due ne dà… », ma insomma i soldi scarseggiavano. A Danzica avevamo la valuta in fiorini, perché eravamo città libera, finché poi, quand’è scoppiata di nuovo la guerra, il Führer con il suo Gauleiter, Forster si chiamava, ci ha riportati «a casa nel Reich». Da allora tutto quello che allungavo sopra il banco del negozio veniva pagato solo in marchi. Però ce n’erano sempre di meno. Dopo la chiusura dovevo scegliere i bollini dei generi alimentari e incollarli su vecchi giornali. A volte il ragazzo dava una mano, finché hanno infilato anche lui in un’uniforme. Mi è tornato salvo solo dopo che i russi ci sono arrivati addosso, e poi i polacchi si sono presi tutto fino all’ultimo, e allora siamo diventati esuli e le miserie non finivano più. Aveva compiuto diciannove anni, nel frattempo, e si credeva ormai adulto. Poi ho fatto anche l’esperienza della riforma valutaria. Ognuno riceveva quaranta marchi in soldi nuovi. All’inizio è stata dura, per noi profughi dell’Est… Non avevamo niente di niente… L’album di fotografie… E giusto il suo album di francobolli sono riuscita a salvare… E poi quando sono morta… Ma adesso, poiché mio figlio vuole così, devo assistere anche all’entrata in vigore dell’euro. Prima però lui vuole assolutamente festeggiare il mio compleanno, appunto il centotreesimo. Perché no, se proprio ci tiene. Il ragazzaccio ha già superato i settanta e si è fatto un nome già da un pezzo. Ma non riesce a smetterla, con le sue storie. Alcune mi piacciono anche. Da altre avrei cancellato certi passi senza pensarci due
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volte. Ma le feste famigliari, proprio di quelle coi litigi e le riconciliazioni, mi sono sempre piaciute, perché quando noi casciubi abbiamo fatto festa si è pianto e si è riso, insieme. All’inizio mia figlia, che adesso anche lei si avvicina ai settanta, non voleva partecipare, perché trova troppo macabra l’idea del fratello di farmi tornare in vita per le sue storie. - Lascia perdere, Daddau, - le ho detto, - se no gli viene in mente qualcosa di ancora peggio -. E’ fatto così e basta. Si inventa le cose più incredibili. Deve sempre esagerare. C’è proprio da non crederci, a leggere quella roba… Però adesso mia figlia viene, alla fine di febbraio. E già sono contenta all’idea di rivedere tutti i pronipoti che sfrecciano di nuovo giù nel parco con i loro skäter, mentre li guardo dal balcone. E sono contenta anche se penso al 2000. Stiamo un po’ a vedere cosa ci porta… Basta che non sia di nuovo la guerra… Prima laggiù e poi dappertutto…
[1] Parla la madre di G. Grass, Helene (1896-1954)
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