I PREMI HUGO 1976-1983 (1984) a cura di SANDRO PERGAMENO INDICE Introduzione, di Sandro Pergameno 1976 Il Boia torna a c...
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I PREMI HUGO 1976-1983 (1984) a cura di SANDRO PERGAMENO INDICE Introduzione, di Sandro Pergameno 1976 Il Boia torna a casa (romanzo breve) di Roger Zelazny Ai confini di Sol (racconto lungo) di Larry Niven L'ingegner Doll (racconto) di Fritz Leiber 1977 Houston, Houston ci sentite? (romanzo breve) di James Tiptree Jr. Con qualunque altro nome (romanzo breve) di Spider Robinson L'uomo del bicentenario (racconto lungo) di Isaac Asimov Tricentenario (racconto lungo) di Joe Haldeman 1978 Stardance (romanzo breve) di Spider e Jeanne Robinson Occhi d'ambra (racconto lungo) di Joan D. Vinge Jeffty ha cinque anni (racconto) di Harlan Ellison 1979 La luna dei cacciatori (racconto lungo) di Poul Anderson Cassandra (racconto) di Carolyn J. Cherryh 1980 Mio caro nemico (romanzo breve) di Barry Longyear 1981 Il mantello e il bastone (racconto lungo) di Gordon R. Dickson La grotta dei cervi danzanti (racconto) di Clifford Simak 1982 Il gioco di Saturno (romanzo breve) di Poul Anderson La variante dell'unicorno (racconto) di Roger Zelazny Lo spacciatore (racconto breve) di John Varley 1983 Anime (romanzo breve) di Joanna Russ Servizio antincendio (racconto) di Connie Willis Elefanti malinconici (racconto breve) di Spider Robinson INTRODUZIONE
Sei anni sono passati ormai da quando abbiamo presentato il primo volume della collana «Grandi Opere» dedicato ai premi Hugo, un libro storico curato dal grande Isaac Asimov che raccoglieva tutte le opere brevi (racconti e romanzi brevi) che avevano ricevuto questo prestigioso Oscar della fantascienza. Quel volume, più volte ristampato e noto anche a chi non è un appassionato di questo genere letterario, si fermava alle storie apparse nel 1975. Siamo arrivati al 1984: ci sono ben otto anni di racconti e romanzi brevi vincitori del celeberrimo premio da far conoscere al pubblico italiano, e siccome il nostro amatissimo Isaac sembra non volerne sapere di preparare un'edizione originale che raduni queste nuove storie abbiamo deciso di pensarci noi. Ecco dunque questo nuovo volume che prosegue la prestigiosa tradizione della collana delle Grandi Opere, una collanda che vuole avere l'onere e l'onore di pubblicare le migliori opere di lunghezza inferiore a quella del romanzo. Speriamo che il buon Isaac non ce ne voglia troppo se abbiamo deciso di usurpargli questa sua prerogativa di antologista degli Hugo (almeno per quanto riguarda il nostro paese), ma ci sembrava doveroso far conoscere anche al pubblico italiano questi magnifici racconti e romanzi brevi. Ovviamente non abbiamo la pretesa di paragonarci al grande Asimov: il nostro stile è troppo diverso dal suo e ci difetta inoltre quella conoscenza diretta del fandom americano e delle Conventions mondiali ove si assegnano gli Hugo, che consentiva ad Isaac di presentare i racconti con gustosi aneddoti di fatti avvenuti in tali occasioni. D'altro canto lo stesso Isaac Asimov aveva già narrato con sufficiente ricchezza di dettagli la storia di questo prestigioso premio nel precedente volume; abbiamo allora deciso di mettere a frutto quel minimo di conoscenze critiche che ci derivano da circa vent'anni di esperienze nel settore per fare un breve panorama storico fantascientifico di questi otto anni che vanno dal 1976 al 1983 attraverso la disamina dei migliori romanzi apparsi in questo periodo. Le opere più brevi avrete modo di leggerle subito dopo e potrete quindi giudicare voi stessi la validità o meno di questo breve tratto di storia fantascientifica per quanto riguarda quel lato in particolare. Cominciamo dal 1976, anzi dal 1975, visto che i premi assegnati si riferiscono sempre a opere apparse durante l'anno precedente. Il 1975 è l'anno di Guerra Eterna (The Forever War) di Joe Haldeman, che vinse sia
il premio Hugo che il premio Nebula. Si tratta di un'opera piena d'ironia e di caustico sarcasmo che si rifà un po' (come tematica almeno) a Starship Troopers di Heinlein e narra con un pizzico di cinismo le disavventure di un soldato futuro in una interminabile guerra cosmica che per molti aspetti assomiglia spaventosamente a quella del Vietnam. Il 1975 è anche l'anno del ritorno al romanzo di Alfred Bester, dopo circa venti anni di stasi letteraria. Connessione Computer (The Computer Connection, apparso prima su «Analog» come The Indian Giver), è costruito alla stessa maniera dei due classici precedenti di Bester (L'uomo disintegrato e Destinazione stelle): una pirotecnica girandola di situazioni e di personaggi, con sorprese e trovate sempre nuove, fino a un'imprevista soluzione finale. Umorismo e intelligenza non mancano in questo romanzo, anche se nel complesso non ci sembra riuscito alla perfezione e il paragone con le due opere scritte in precedenza da Bester lo vede uscire piuttosto malconcio. I due romanzi più belli del 1975 restano, a nostro avviso, L'erede di Hastur (The Heritage of Hastur) di Marion Zimmer Bradley e Codice 4GH (The Shockwave Rider) di John Brunner. Il romanzo della Bradley appartiene al celeberrimo ciclo di Darkover, un mondo su cui coesistono due culture contrastanti: quella affascinante e feudale, basata su rigidi codici d'onore e sull'uso di incredibili poteri «psi», degli abitanti del pianeta, e quella tecnologica dei terrestri in fase d'espansione galattica. L'erede di Hastur è il primo «grosso» romanzo di questo ciclo (sia come importanza che come lunghezza): qui l'autrice riesce a mescolare alla perfezione avventura e descrizioni di ambienti sociali, approfondendo con estrema sensibilità il carattere dei personaggi. Codice 4GH invece è imperniato su uno studio sociale del prossimo futuro e si basa sulle teorie del «future shock» di Alvin Toffler, uno shock futuro di cui l'umanità di oggi e del futuro soffre per l'incapacità di abituarsi al ritmo frenetico dei cambiamenti tecnologici e delle conseguenti ripercussioni sociali. L'unica soluzione è un enorme computer in cui vengono quotidianamente immagazzinati i dati di ogni cittadino, così drammaticamente spersonalizzato e ridotto a una semplice configurazione di «bit». Codice 4GH, drammatico e profetico, si inserisce in quel filone di opere di Brunner di grande impegno sociale che comprende tra l'altro Tutti a Zanzibar (Stand on Zanzibar, premio Hugo 1969) e Il gregge alza la testa (The Sheep Look Up). Il 1975 è anche l'anno di alcuni romanzi discussi e controversi come
Dhalgren di Samuel Delany, monumentale epica del sesso futuro, e di The Female Man di Joanna Russ, la bibbia del femminismo fantascientifico. Notevoli anche due «opere prime»: A Funeral for the Eyes of Fire di Michael Bishop e I guerrieri dell'alba (The Warriors of Dawn) di M.A. Foster, due romanzi decisamente originali pieni di interessanti notazioni avventurose e antropologiche. Deludente e non meritevole di essere preso in considerazione, se non per il fatto di essere entrato nelle classifiche dei bestseller, Imperial Earth di Arthur Clarke. Due sono i romanzi che si contendono gli allori del 1976: Uomo più (Man Plus) di Frederik Pohl e Where Late the Sweet Birds Sang di Kate Wilhelm. Uomo più, vincitore del premio Nebula, è un ottimo romanzo di fantascienza tecnologica dedicato all'esame delle possibilità offerte dal binomio «uomo più intelligenza artificiale»: il protagonista è un nuovo tipo di superuomo, un uomo il cui corpo è per metà macchina; i suoi organi di locomozione e i suoi organi di senso sono costituiti da strumenti elettronici che gli daranno la possibilità di muoversi liberamente sul pianeta Marte, ed egli rappresenta un esperimento, forse l'unica possibilità di salvezza per l'umanità di fronte alla minaccia di un conflitto mondiale. Pohl, sempre attento anche al lato umano della vicenda, approfondisce in maniera esemplare la condizione psicologica del protagonista e i tremendi stress cui è sottoposto. Where Late the Sweet Birds Sang della Wilhelm, che vinse invece il premio Hugo quell'anno, pur essendo diversissimo come impostazione narrativa e come stile (la Wilhelm è forse la migliore scrittrice della fantascienza moderna, assieme alla Ursula Le Guin, e il suo stile, raffinato e cristallino, raggiunge qui toni di elevata bellezza) si basa anch'esso su una nuova razza umana, o meglio sulle nuove possibilità genetiche offerte all'uomo dalla scoperta della «clonazione». Anche nel romanzo della Wilhelm abbiamo la catastrofe totale, ma mentre in Uomo più questa era solo una possibilità futura (anche se molto concreta e vicina), qui è una realtà: il libro descrive la vita di una famiglia americana che si rinchiude in una propria cittadella per sfuggire all'olocausto atomico e decide di ricorrere alla clonazione per evitare il drammatico morbo della sterilità e preservare così la razza umana. Toccante e suggestivo, il romanzo della Wilhelm rimane a tuttora l'opera più bella e più completa scritta su questo tema così affascinante dei «cloni». Il 1976 è comunque un anno abbastanza ricco di buone storie lunghe. Accanto a questi due splendidi romanzi abbiamo l'ottimo Shadrach nella
fornace (Shadrach in the Furnace) di Robert Silverberg, un'opera estremamente originale ambientata nella Mongolia del 2012, quando la popolazione del mondo è stata decimata dalle guerre batteriologiche e il nostro pianeta è dominato da un vecchio e astuto tiranno che si fa chiamare Genghis II Mao IV Khan e abita in un palazzo a forma di torre. Questo romanzo doveva segnare l'addio di Silverberg alla fantascienza, ma poi l'autore, dopo una stasi di quattro anni, avrebbe ripreso a scrivere la narrativa che evidentemente amava ancora tanto. Un altro romanzo che destò molto interesse nel 1976 fu Progetto Terra (Michaelmas) di Algis Budrys, forse l'opera migliore di quest'autore così valido e così poco prolifico. Progetto Terra è un «thriller» fantascientifico molto appassionante incentrato sulla figura di un eccezionale giornalista televisivo futuro, Laurent Michaelmas, che si è procurato l'accesso a tutti i sistemi computerizzati del nostro pianeta e vive quasi in simbiosi con il suo computer personale «Domino». Tra le altre opere di spicco abbiamo poi La catena spezzata (The Shattered Chain) di Marion Zimmer Bradley, sempre del ciclo di Darkover, che narra le gesta delle «libere amazzoni» ed ebbe molto successo presso le appassionate di sesso femminile per la sua tematica femminista; Ponte mentale (Mindbridge) di Joe Haldeman, un'altra avventura spaziale alla Guerra eterna; I figli di Dune (Children of Dune) di Frank Herbert, il terzo romanzo di questa popolarissima serie, ricco di interessanti annotazioni psicologiche; Mondo senza tempo (A World out of Time), forse il più bel romanzo del nuovo profeta della fantascienza tecnologica, Larry Niven; e Maske:Thaery (Maske:Thaery), una deliziosa avventura spaziale esotica e barocca di quelle che solo Jack Vance è in grado di scrivere. Ancor più ricco il panorama fantascientifico del 1977. Anche qui abbiamo due opere che sì contendono la palma del miglior romanzo dell'anno: La porta dell'infinito (Gateway) di Frederik Pohl e In the Ocean of Night di Gregory Benford. Con La porta dell'infinito Pohl dimostra di essere uno dei più grandi scrittori in assoluto che la fantascienza abbia mai avuto, in grado di compiere su se stesso, a cinquant'anni suonati, un'incredibile opera di rinnovamento stilistico e tematico: il suo libro fa man bassa di tutti i premi del 1978 (dallo Hugo al Nebula al Campbell Award al premio Locus) ed è forse di una spanna superiore anche al libro di Benford. La porta dell'infinito è un'eccellente avventura spaziale che tratta il tema dell'esplorazione dei pianeti in maniera estremamente nuova e mo-
derna. La storia, piena di «sense of wonder» e di «suspence» è ambientata su un asteroide quasi completamente cavo pieno di reliquie tecnologiche misteriose e spesso indecifrabili lasciate da un'altra razza molto più avanzata scientificamente, gli «Heechee», scomparsi da quasi mezzo milione di anni. Attraccate all'asteroide sono centinaia di astronavi «heechee», di cui gli uomini non sono riusciti a capire bene il funzionamento, ma che tuttavia sono ancora in grado di partire alla volta di destinazioni sconosciute. Quello che non è garantito è il ritorno, e non è detto che si ritorni vivi. Il romanzo è perfetto, forse il più bel romanzo non solo di Pohl ma di tutta la fantascienza degli anni settanta, e conferma, dopo il precedente Uomo più, le grandi capacità di questo autore anche in campi molto diversi dalla «sua» fantascienza sociologica degli anni cinquanta. In the Ocean of Night di Gregory Benford è meno avventuroso e più attento alle descrizioni prettamente scientifiche, ma tratta anch'esso dell'incontro con un asteroide che si rivela per un manufatto alieno (un'astronave): il libro, oltre a dipingere un ritratto molto realistico del nostro futuro prossimo, riesce nel difficile compito di unire una trama forte e complessa a un'ottima resa dei caratteri dei personaggi. Ma tantissimi sono i romanzi degni di nota usciti nel 1977. Facciamone un breve elenco. Prima di tutto, se non altro per motivi di popolarità e di attesa da parte del pubblico, c'è Il grande disegno (The Dark Design) di Philip José Farmer, il terzo romanzo del ciclo del Fiume, bello, intricato, affascinante, ricchissimo di personaggi nuovi e magnificamente descritti e di misteri sempre più densi sulle nebbiose e lontanissime fonti del «Fiume» (un fiume che percorre tutta la lunghezza del globo del pianeta!). Un altro libro molto complesso e altrettanto affascinante è Esperimento Dosadi (The Dosadi Experiment), dove Frank Herbert dispiega al meglio le sue qualità di grande creatore di mondi e razze aliene. Cupo, deprimente, dissociato, ma di grande efficacia ed espressività è invece Scrutare nel buio (A Scanner Darkly), un romanzo quasi autobiografico in cui Philip Dick tratta il terribile tema della droga con una violenza narrativa incredibile, frutto evidente di un'esperienza personale tremendamente negativa. Molto buono anche Le nebbie del tempo (Time Storm), senz'altro il miglior romanzo di Gordon Dickson e uno dei più bei romanzi sul tema della catastrofe planetaria, che traccia una storia lunghissima ed epica in un mondo dall'equilibrio spaziale e temporale sconvolto da grandiose muraglie di nebbia provenienti dallo spazio. Sempre sul tema della catastrofe planetaria, stavolta causata dall'arrivo di una gigantesca cometa, è il ma-
stodontico Lucifer's Hammer, di Larry Niven e Jerry Pournelle, mentre Marion Zimmer Bradley ritorna al suo amato Darkover con una storia d'amore tragica e delicata in La torre proibita (The Forbidden Tower). Tra le opere prime particolarmente riuscite ricordiamo invece Dying of the Light di George Martin, un'avventura spaziale barocca e ridondante nella trama e nello stile ma anche molto poetica e affascinante, e The Ophiuchi Hotline di John Varley, ricchissimo di idee e di spunti tecnologici estremamente vivi e originali. Il 1977 è anche un anno particolarmente buono per la fantasy, che raggiunge una popolarità quasi pari a quella della fantascienza. Fritz Leiber, dopo una lunghissima stasi letteraria, ci offre uno splendido ed evocativo romanzo di orrore moderno, Nostra Signora delle tenebre (Our Lady of Darkness), ambientato nella tentacolare metropoli di San Francisco. Esce anche The Silmarillion, il romanzo postumo di J.R.R. Tolkien, curato dal figlio Christopher; l'opera ci sembra un po' deludente se confrontata al classico Signore degli Anelli ma in assoluto è pur sempre molto buona. Molto buona anche la trilogia di Thomas Covenant scritta dal giovane Stephen Donaldson sulla scia di Tolkien. Deludente invece il 1978: pochissimi i romanzi veramente buoni che si elevano al di sopra dell'aurea mediocrità generale. Uno è senz'altro Il serpente dell'oblio (Dreamsnake), il primo romanzo di Vonda Mclntyre, un autrice davvero brava che unisce a una prosa spigliata e cristallina un «background» scientifico non indifferente e una sensibilità tutta femminile. Il serpente dell'oblio, che fa incetta di tutti i più prestigiosi premi fantascientifici, è una storia solida, dalla struttura tradizionale, di una «quest» perigliosa in un mondo futuro distrutto da una guerra atomica su cui sopravvivono alcune culture umane fondamentalmente diverse tra loro: alcune ancora legate agli ultimi baluardi della civiltà tecnologica, altre, più vicine a un nuovo e migliore equilibrio con l'ecologìa e la natura, pur conservando una visione moderna e scientifica e avvalendosi di alcune eccezionali conquiste genetiche. Molto buono, se inquadrato in un'ottica di tipo «mainstream», è Colony di Ben Bova, mastodontico «thriller» alla Ken Follett ambientato in un futuro molto prossimo e basato sul concetto delle città volanti, cioè delle stazioni spaziali orbitanti nel punto ormai generalmente noto come L-5: ottime nozioni tecnologiche sono qui affiancate da avvincenti avventure tra dirottatori folli, ricchissimi petrolieri e ambigui politicanti nella migliore tradizione dei «bestseller» moderni. Anch'esso molto vicino al «mainstream» come concezione narrativa, è Il
richiamo delle stelle (The Far Call) di Gordon Dickson, un altro romanzo epico e poetico assieme di complessi intrighi politici, incentrato sul tema del primo viaggio verso Marte. Piuttosto deludente è invece The White Dragon, l'attesissimo terzo romanzo del ciclo dei draghi della Ann McCaffrey, troppo lungo e tedioso. Lungo e monotono è anche The Avatar di Poul Anderson, in cui questo grande autore della fantascienza moderna si lancia in una saga spaziale troppo volutamente impegnata dal punto di vista letterario e umano. Buoni anche se non eccelsi sono invece Journey di Marta Randall, che introduce con successo la storia di una saga familiare alla «Dynasty» nella fantascienza; Sight of Proteus, dell'ottimo Charles Sheffield, un gradevole miscuglio d'avventura e di speculazioni scientifiche alla Niven; e Blind Voices, del compianto Tom Reamy, suo primo e unico romanzo, una poetica e delicata fantasy alla Bradbury. Se il 1978 era stato deludente il 1979 si rivela un anno decisamente pessimo: la quantità dei romanzi prodotti durante quest'annata non è certo pari alla qualità, che è davvero molto scadente. Jem (Jem), del solito Frederik Pohl, è una delle rare eccezioni: ambientato nel ventunesimo secolo, su una terra che ha esaurito quasi completamente le risorse naturali e vive all'ombra dello spettro della fame e della miseria, con le nazioni divise in tre blocchi (i paesi produttori di cibo, i paesi produttori di petrolio, e i paesi sovrappopolati del terzo mondo), Jem rappresenta una visione cupa e deprimente ma anche molto realistica e ben costruita del nostro prossimo futuro. Sullo stesso registro, quello cioè di un mondo in piena crisi di carestia, siccità e sovrappopolazione, è Juniper Time di Kate Wilhelm, un romanzo d'atmosfera e di introspezione psicologica ma anche di azione costruito attorno a una fievole speranza di salvezza per la Terra proveniente dalle stelle e dal misterioso ritrovamento di una reliquia cosmica in una stazione spaziale ormai abbandonata da tempo. Il volto (The Face) di Jack Vance, rappresenta invece la degna ripresa, dopo quasi quindici anni, di uno dei suoi cicli più belli e affascinanti: quello di Kirth Gersen e dei Principi Demoni. Barocco, ridondante, avventuroso, ingegnoso e divertente, The Face è Vance al suo meglio: una saga cosmica ricca di ambienti alieni accuratamente e coloritamente delineati, descritti con il solito stile fiorito, vivace di Vance, piena di profonde e intelligenti dissertazioni sociali e culturali, di personaggi vivi e originali, e di quel tocco di humor che contraddistingue quest'autore. Una citazione di merito va fatta anche per Titan di John Varley, secondo romanzo di questo autore, opera di
grossa concezione (un viaggio picaresco su un mondo/stazione-orbitante vivente) ma forse un po' slegata; per Transfigurations, di Michel Bishop, con la sua eccezionale descrizione antropologica della razza aliena degli Asadi; e per The Web between the Worlds, di Charles Sheffield, un'avvincente thriller pieno di nuove idee scientifiche con cui Sheffield conferma di avere delle doti innate di narratore e di sapere riprendere molto bene l'eredità di Clarke e Niven nel campo dell'hard science fiction tecnologica. Deludente invece il premio Hugo e Nebula di quest'anno, The Fountains of Paradise, di Arthur Clarke, basato anch'esso, come il libro di Sheffield, sul tema degli «elevatori spaziali». Il romanzo è ben scritto e non manca di qualche idea interessante ma è totalmente privo d'azione e di profondità e non risveglia molto interesse nel lettore. Nel campo della fantasy va ricordato The Last Enchantment di Mary Stewart, che completa la trilogia che quest'autrice ha dedicato alla figura di Merlino e al ciclo arturiano: si tratta di una trilogia davvero unica e splendida, che non ha nulla da invidiare ai più celebri classici della fantasy. Anche la Cherryh, con The Fires of Azeroth, e la Patricia McKillip, con Harpist in the Wind, completano nel 1979 le loro trilogie fantastiche, in tono abbastanza elevato e conforme ai begli inizi da cui erano partite. Decisamente più valido il panorama del 1980: almeno dieci sono i romanzi degni di nota. Cominciamo con Timescape di Gregory Benford, premio Nebula nel 1981: Timescape è un romanzo incentrato sull'ambiente della scienza e degli studi fisici sui «tachioni» in particolare applicati alle comunicazioni con il passato: la vicenda si svolge parallelamente su due piani, nella Los Angeles degli anni sessanta e nel prossimo futuro, ed è ricca di personaggi ben delineati e caratterizzati. Il premio Hugo va invece a The Snow Queen di Joan Vinge, una grandiosa saga alla Dune, con un intera galassia di razze umane e aliene, robot, anfibi, caste, tribù, che viene splendidamente alla luce poco per volta dalle cinquecento pagine di questa magnifica creazione. La bravura della Vinge sta anche nella narrazione, che accosta ai temi classici della fantascienza tematiche romantiche riprese dalle storie di Hans Christian Andersen, da Tolkien e da altri maestri della fantasy: Subito dopo questi due metteremmo il bellissimo Solo il mimo canta al limitare del bosco (Mockingbird) di Walter Tevis, una delicata e struggente storia d'amore in un'utopistica Terra futura governata dai robot dove l'uomo ha raggiunto uno stato di totale decadenza ed è ormai vicino alla virtuale estinzione, avendo abbandonato ogni emotività. Tevis, che in precedenza ci aveva dato l'ottimo The Man Who
Fall on Earth, dimostra qui di aver recepito alla perfezione la lezione di Clarke di The City and the Stars con un'opera piena di un angoscioso richiamo alla vita che celebra la speranza e la gloria dell'amore. A questo punto cominceremmo a citare i vari seguiti di cicli apparsi negli anni precedenti: splendido, divertente, avventuroso, ricco di inventiva e di spunti gradevolissimi è Oltre l'orizzonte azzurro (Beyond the Blue Event Horizon) di Fred Pohl, un'opera che si legge d'un fiato e riesce a ricatturare tutta l'atmosfera di «suspence» del precedente La porta dell'infinito; un po' tirato per le lunghe ma decisamente avvincente è anche l'attesissimo Il labirinto magico (The Magic Labyrinth), quarto romanzo del ciclo del Fiume di Philip José Farmer, ove vengono svelati tutti i misteri creati nei precedenti volumi; buono anche The Ringworld Engineers di Larry Niven, che riprende la storia di un manufatto gigantesco (un enorme anello intorno al sole grande come un migliaio di pianeti e costruito da una razza di «ingegneri cosmici»). Da citare anche The Serpent's Reach di Carolyn J. Cherryh, che conferma ancora una volta le ottime doti di quest'autrice soprattutto nella creazione di strane razze aliene e nella difficile descrizione delle loro psicologie. Estremamente deludenti i due romanzi di due grandissimi autori: sconclusionato e orribile Golem 100 di Alfred Bester; illeggibile, lungo, scritto in maniera pedestre e pretenziosa The Number of the Beast di Robert Heinlein, un vero disastro. Nel campo della fantasy due opere spiccano nettamente al di sopra della pur copiosa produzione del 1980. Il castello di Lord Valentine (The Lord Valentine's Castle) di Robert Silverberg, è una grandiosa epica picaresca ambientata su Majipoor, un pianeta gigantesco povero di metalli ma ricco di città e popoli strani, umani e alieni; la storia, che riecheggia certi archetipi fiabeschi, narra di un giovane vagabondo senza memoria che, girovagando per le strade e le città di questo mondo meraviglioso, riacquisterà a poco a poco un po' di coscienza del proprio perduto passato e si avvierà verso un magico destino di grandezza che lo attende sul trono di Majipoor, in cima a una ciclopica montagna. L'ombra del torturatore (The Shadow of the Torturer) di Gene Wolfe, narrato in uno stile raffinato e lirico, ha per sfondo una Terra del lontanissimo futuro e descrive le vicende di Severian il Torturatore, anch'egli destinato a raggiungere altissime vette in un mondo cupo e barbarico ma ricco di fascino, un mondo estremamente originale con i suoi toni barocchi e decadenti, ove affiorano ancora
qua e là mitiche vestigia di un passato tecnologico assai evoluto. Meno interessante si presenta invece il 1981. Il premio Hugo va a Downbelow Station della Cherryh, un romanzo forse troppo lungo che risulta freddo e meno avvincente di altre opere di questa autrice indubbiamente molto dotata. Senz'altro più gradevole e leggibile nonostante l'enorme mole è La terra dai molti colori (The Many Colored Land) di Julian May, il primo romanzo di un'autrice davvero brava e anche il primo di una serie di grosso potenziale: si tratta di una saga avventurosa ambientata nel lontano passato, nell'idilliaca epoca del Pliocene, sei milioni di anni fa, dove vengono «scartati» tutti gli spostati, gli individui scomodi della società utopistica del ventiduesimo secolo. Qui troveranno però, invece dell'idilliaca desolazione che si attendono, ben due razze aliene venute dalle stelle: i Tanu, belli, arroganti, dotati di vasti poteri psi e con cultura di tipo cavalleresco, e i rinnegati Firulag, malevoli nanerottoli dotati anch'essi di poteri paranormali. Da questo punto di partenza la May costruisce una storia molto avvincente che mescola sapientemente mito e speculazione scientifica. Tra gli altri romanzi da ricordare per il 1981 abbiamo Il pianeta dei venti (Windhaven) di George Martin e Lisa Tuttle, un'opera sensibile e romantica incentrata su una colonia di umani sopravvissuti al naufragio della loro astronave su un pianeta di piccole isole, di mari infestati da mostri e di cieli tempestosi. Qui il volo con ali metalliche è possibile ed anzi è l'unico mezzo di comunicazione in una civiltà povera di metalli e tornata ai primitivi e semplici valori della pesca e del commercio marittimo. Molto bello è anche L'esilio di Sharra (Sharra's Exile) della Bradley, diretto seguito de L'erede di Hastur, una storia di coraggio e d'amore, possente e delicata, vero culmine del ciclo ambientato sul gelido e ostile mondo di Darkover. Guerra fredda (Cold War) di Fred Pohl rinverdisce i temi della buona vecchia fantascienza sociologica con una divertente satira sul prossimo futuro e sulla crisi energetica; mentre The Divine Invasion, l'ultimo romanzo fantascientifico del compianto Philip Dick mostra, in un'opera nel complesso abbastanza piatta, alcuni sprazzi di genialità visionaria degni dei suoi tanti capolavori passati. Il papa definitivo (Project Pope) di Clifford Simak segna invece il graditissimo e positivo ritorno di questo «Grande» della fantascienza ai suoi temi favoriti (il rapporto tra il bene e il male e l'amore di tutte le creature esistenti nell'universo: uomini, robot e alieni) in un romanzo pensoso, deliziosamente originale, incentrato sulla figura di un computer di infinita saggezza, conoscenza, infallibilità: il Pa-
pa definitivo. Altri due buoni romanzi del 1981 sono dovuti alla penna di Larry Niven, autore prolifico e sempre a un livello di rendimento costante e valido: Dream Park, è un simpatico e divertente «thriller» ambientato in un enorme parco-giochi futuro, mentre Oath of Fealty è un'agghiacciante visione di un'immensa costruzione-città-condominio futura. Entrambe le opere sono scritte in collaborazione: la prima con l'esordiente Steve Barnes, la seconda con l'amico consueto Jerry Pournelle. Tra i «seguiti» ricordiamo L'imperatore-dio di Dune (God-emperor of Dune), quarto episodio della saga del pianeta Dune di Frank Herbert, e Il libro dei sogni (The Book of Dreams) di Jack Vance, l'attesissimo quinto e conclusivo volume dei Principi Demoni, una serie di avventure galattiche che fonde i migliori elementi della fantascienza moderna con la «suspence» dei più avvincenti gialli. La fantasy del 1981 ha due punte di diamante, due opere di spicco in L'artiglio del conciliatore (The Claw of the Conciliator), di Gene Wolfe, premio Nebula per il 1981, che continua le cronache di Severian il Torturatore, uno dei personaggi più inconsueti di tutta la letteratura fantascientifica, e ne Il mastino della guerra (The War Hound and the World's Pain) di Michael Moorcock, un romanzo possente e violento, cupo e al tempo stesso romantico, ambientato all'epoca della guerra dei trent'anni, un periodo tra i più sanguinosi della storia dell'Europa. Il 1982 vede il trionfale ritorno di Isaac Asimov e del suo ciclo della Fondazione. Foundation'edge, il quarto e attesissimo romanzo della serie vince il premio Hugo (ma la popolarità di Asimov è tanta che ciò era davvero inevitabile), mentre Michael Bishop si guadagna il suo primo alloro per un'opera lunga prendendosi la soddisfazione di battere anche il grande Isaac al premio Nebula con il suo Il tempo è il solo nemico (No Enemy but Time), un romanzo pieno di idee provocative e di concetti interessanti in cui Bishop compie un accurato studio antropologico sulle origini dell'uomo. Il 1982 segna anche il ritorno di Arthur Clarice, con il seguito di 2001: odissea nello spazio, vale a dire 2001: Odyssey Two. Nonostante il grosso successo di pubblico quest'opera non entusiasma la critica specializzata che ritiene inferiore al celeberrimo soggetto di quello che rimane forse il film di fantascienza più bello e famoso mai realizzato finora. Anche Heinlein si mette in bella mostra con Friday, un romanzo all'altezza della sua fama e delle sue capacità: è la storia di un androide di sesso femminile, un agente segreto che agisce in un'America del vicino futuro
molto ben descritta e suddivisa in una serie di piccoli staterelli. Fred Pohl, per non smentire una fama rinnovata a suon di capolavori di vario genere, ci presenta Alla fine dell'arcobaleno (Starburst), un romanzo originalissimo e possente su uno strano viaggio di un gruppo di giovani astronauti americani verso Alpha Centauri. Le sorprese dell'anno vengono però da Brian Aldiss e Roger Zelazny, la cui stella si era un po' eclissata negli ultimi anni. Aldiss inizia ora una nuova colossale trilogia dedicata all'affascinante mondo di Helliconia, in cui si diverte a descrivere l'evoluzione di culture e di intere razze aliene, il mutare continuo nell'arco del tempo dei «background» fisici e l'influenza darwiniana dell'ambiente sui cambiamenti delle specie animali. Helliconia Summer, il primo libro di questa monumentale saga vince il premio come miglior romanzo inglese dell'anno e vince anche il John W. Campbell Memorial Award. Zelazny, a sua volta, autore negli ultimi anni di romanzi fantastici di dubbio valore, riesce in Eye of the Cat, a fondere omogeneamente l'avventura fantascientifica con gli antichi miti del folklore degli indiani d'America. C'è ancora da citare il secondo tomo della serie degli esuli del Pliocene della Julian May, The Golden Torc; l'ottimo The Pride of Chanur della Carolyn Cherryh, una «space opera» narrata dal punto di vista di una simpatica e ben delineata razza aliena di tipo felino; e infine il mastodontico il morbo bianco (The White Plague) di Frank Herbert, un'opera quasi «mainstream» sulla follia umana e sulla insensata violenza terroristica. Tra gli autori nuovi spicca Donald Kingsbury con il suo Courtship Rite, un vigoroso romanzo di cinquecento e passa pagine dedicato alla accurata descrizione antropologica di una strana cultura aliena. Il campo della fantasy è dominato anche quest'anno da Gene Wolfe con il terzo e quarto volume della sua saga del Nuovo Sole e di Severian il Torturatore, La spada del littore (Sword of the Lictor) e La cittadella dell'autarca (The Citadel of the Autarch). Si conclude qui questo nostro breve panorama dei romanzi migliori del periodo 1975-1982, panorama senz'altro molto incompleto e soggettivo: d'altronde sarebbe stato impossibile e oltremodo oneroso parlare di «tutti» i romanzi «importanti» o semplicemente «buoni» usciti in quest'arco di tempo. Né era nostra intenzione dare un panorama degli avvenimenti fantascientifici di questo periodo, che sono stati davvero innumerevoli (a partire dai tantissimi film, alle conventions, ai mutamenti editoriali del mondo fantascientifico). Diciamo semplicemente che in un volume dedicato ai migliori racconti, alle migliori «opere brevi» apparse tra il 1975 e il 1982, ci
è sembrato opportuno inserire un breve elenco di quelle che sono state a nostro modesto avviso le opere lunghe più significative di questo periodo in modo da dare, ai lettori che non avessero ancora avuto occasione di leggerle, un riferimento per completare una visione dell'evoluzione narrativa della fantascienza di questi ultimi anni. Sandro Pergameno IL BOIA TORNA A CASA Home Is the Hangman di Roger Zelazny Analog, novembre 1975 Roger Zelazny ha già vinto numerose volte sia il premio Hugo che il premio Nebula (anche nella categoria dei romanzi, con Io, Nomikos, l'immortale e con Signore della luce) ed è ormai da tempo considerato un «grande» della letteratura fantascientifica. La sua figura viene spesso associata a quella di Samuel Delany perché entrambi si imposero nella prima metà degli anni sessanta come rinnovatori della sf e come rappresentanti di spicco della «new wave» americana, quella corrente che voleva porre un maggiore accento sulle discipline più soft come la sociologia, la linguistica e la psicologia (il famoso «spazio interno» predicato da James Ballard). In realtà Zelazny non si è mai fatto apertamente promotore di nuove correnti ma ha sempre ricercato una strada «sua», passando con estrema bravura e disinvoltura attraverso tutte le gamme della letteratura fantastica. Qui lo vediamo alle prese con una storia decisamente tradizionale: un classico confronto tra un uomo e un robot «impazzito». Ma con Zelazny non c'è mai nulla di tradizionale e di scontato. Grossi fiocchi di neve nella notte, notte senza vento. Non li considero mai come tempesta a meno che non ci sia vento. Tutto calmo ed immobile. Solo una bianchezza fredda e uniforme, appena fuori dalla mia finestra, un silenzio sottolineato anche dal caminetto che arde allegro. Nella stanza principale dell'edificio si sentivano infatti gli scoppiettii occasionali della legna che ardeva. Sedevo su di una sedia, di fianco al tavolo e di fronte alla porta. Sul pavimento alla mia sinistra c'era una tuta. L'elmetto era sul tavolo, un insieme di metallo, quarzo, porcellana e vetro. Se avessi sentito lo scatto di un microinterruttore seguito da un debole ronzio, seguito poi ancora da una
debole luce sul lato anteriore, luce che si fosse messa ad ammiccare rapidamente, ci sarebbe stata una probabilità assai forte della mia morte immediata. Quando Larry e Bert erano usciti avevo tolto di tasca una grossa palla; i due erano armati, rispettivamente, di un lanciafiamme e di quello che sembrava un fucile da caccia grossa. Bert aveva preso anche due granate. Avevo svolto la palla, aprendola del tutto per estrarne un guanto che mi ero infilato nella mano sinistra; lo tenevo poi alzato, con il gomito appoggiato al bracciolo della sedia. Una piccola pistola laser, in cui avevo pochissima fiducia, giaceva vicino alla mia mano destra sul piano del tavolo, vicina all'elmetto. Se avessi toccato un oggetto metallico con il guanto, la sostanza in esso contenuta avrebbe immediatamente aderito, liberandosi dal guanto stesso. Due secondi dopo sarebbe esplosa, e la forza dell'esplosione sarebbe stata diretta contro la superficie dell'oggetto metallico. Newton avrebbe potuto dire la sua nel campo delle ridistribuzioni ad angolo retto della reazione, tralasciando gli effetti collaterali della superficie di contatto. Carico penetrante, si chiamava, ed il suo possesso rientrava tra le armi proibite nella maggior parte dei luoghi. Quelle proprietà molecolari, decisi, erano molto utili nel mio caso. A volte era il sistema d'uso che lasciava abbastanza a desiderare. Accanto all'elmetto, vicino alla pistola, davanti alla mia mano, c'era un piccolo radiotelefono. Quest'ultimo aveva lo scopo di avvertire Bert e Larry se avessi sentito un microinterruttore seguito da un ronzio, se avessi visto una minuscola luce accendersi e quindi ammiccare rapidamente. Allora avrebbero saputo che Tom e Clay, con cui avevamo perso contatto quando era iniziata la sparatoria, non erano riusciti a distruggere il nemico e che senza dubbio giacevano ormai morti nella loro stazione, circa un chilometro più a sud. Quindi avrebbero saputo che anche per loro la morte era una possibilità molto concreta. Quando sentii lo scatto dell'interruttore li chiamai. Presi l'elmetto e mi alzai in piedi nel momento in cui la luce cominciava ad ammiccare. Ma era già troppo tardi. Il quarto luogo elencato sulla cartolina che avevo inviato a Don Walsh l'anno precedente era la Libreria Peabody e Birreria di Baltimora, nel Maryland. In conseguenza, a tarda sera del primo ottobre sedevo nel retro, all'ultimo tavolo prima dell'alcova con la porta che dava sul vicolo posteriore. Nella stanza in penombra, una donna vestita di nero suonava un antico
modello di piano verticale, accelerando il tempo di tutti i pezzi che accennava. Sulla mia destra, un fuoco ardeva e mandava fumo in un piccolo camino. Io sorseggiavo la birra ed ascoltavo la musica. Speravo quasi che quella fosse l'occasione in cui Don non si sarebbe presentato. Avevo fondi sufficienti per arrivare alla primavera seguente ed in realtà non avevo voglia di lavorare. Mi ero spostato molto a Nord, ero ancorato nella Chesapeake, ed ero ansioso di tornare verso i Caraibi. Un fresco crescente ed alcuni brutti venti mi dicevano che ero rimasto troppo in quelle latitudini. Eppure, l'accordo era che dovevo rimanere nel bar prescelto fino a mezzanotte. Ancora due ore. Mangiai un panino ed ordinai un'altra birra. Quando l'avevo quasi finita, vidi Don avvicinarsi all'ingresso, con il soprabito sul braccio, la testa voltata. Riuscii a simulare una quantità sufficiente di sorpresa quando comparve vicino al mio tavolo con un: — Don! Sei davvero Tu? Mi alzai e gli strinsi la mano. — Alan! È piccolo il mondo, non c'è che dire. Siediti! siediti! Lui si sistemò su di una sedia di fronte a me, appoggiando il soprabito su un'altra alla sua sinistra. — Cosa ci fai in questa città? — chiese. — Solo una visita — risposi. — Vado a trovare un paio di amici. — Indicai le cicatrici, le scritte sulla venerabile superficie del tavolo di fronte a me. — E questa è la mia ultima sosta. Partirò tra qualche ora. Ridacchiò. — E tu, che ci fai qui? — Cioè? — Al presente. Qui. Adesso. — Ah. — Chiamò la cameriera, ed ordinò una birra. — Viaggio d'affari — disse poi. — Una consultazione. — Capisco. Come vanno gli affari? — Complicati — disse — complicati. Ci accendemmo una sigaretta, e dopo un po' arrivò la sua birra. Fumammo, bevemmo ed ascoltammo la musica. L'ho detto e lo ripeterò sempre: il mondo è come un pezzo musicale troppo accelerato. Dei molti cambiamenti che fino a quel momento la mia vita aveva attraversato, mi sembrava che la maggior parte fosse avvenuta negli ultimi pochi anni. Mi colpiva anche il fatto che qualche anno prima pensavo che le cose dovessero seguire indefinitivamente la loro routine... cioè, se gli affari di Don non me l'avessero complicata tremendamente con
la loro pericolosità. Don agisce per la seconda agenzia di investigazioni in ordine di importanza del mondo, e in certi casi mi trova utile perché non esisto. Io adesso non esisto perché una volta esistevo nel posto e nel momento in cui si cominciava a tentare di trasmettere ad un computer tutto quanto esista ai nostri giorni. Mi riferisco alla Banca Centrale dei Dati mondiale, ed al fatto che avevo giocato un ruolo molto significativo in quello sforzo volto alla costruzione di un modello operativo del mondo reale, che comprendesse tutti ed ogni cosa. In quel periodo presi la mia decisione, e feci in modo di non ricevere la cittadinanza in quel mondo computerizzato, un luogo che oggi è forse diventato ancora più importante del mondo reale. Esiliato nella realtà, i miei soggiorni nel mondo sono necessariamente quelli di un alieno colpevole di ingresso illegale. Faccio visita periodicamente al mondo, perché vado dove devo andare per guadagnarmi da vivere... È qui che entra in gioco Don. Le identità che io posso assumere sono spesso molto utili quando lui ha problemi scottanti da risolvere. Sfortunatamente, in quel momento, sembrava ne avesse, proprio quando ogni fibra del mio corpo voleva farmi allontanare e riposare per un po'. Finimmo di bere, pagammo il conto e ci alzammo. — Da questa parte — dissi, indicando la porta posteriore; lui si infilò il cappotto e mi seguì. — Parliamo qui? — chiese, mentre percorrevo il vicolo. — Meglio di no — dissi. — Mezzi di trasporto pubblici, poi conversazione privata. Annuì e mi seguì. Circa tre quarti d'ora dopo eravamo nel saloon del Proteus ed io stavo preparando il caffè. Eravamo cullati dolcemente dalle acque gelide della baia, sotto un cielo privo di luna. Avevo acceso solo un paio di lampadine. Comodo. Sull'acqua, a bordo del Proteus, l'affollamento, le attività, il tempo, il ritmo della vita nelle città sulla terraferma, si trasmutano, rallentano, diventano irreali, a causa della distanza metafisica che alcuni metri di acqua possono fornire. Noi alteriamo il panorama con facilità sorprendente, ma l'oceano è sempre sembrato immutato, ed io suppongo, per estensione, che siamo infetti da qualche sentimento di atemporalità ogni volta che lo solchiamo. Forse è uno dei motivi per cui passo così tanto tempo sul mare. — È la prima volta che ci salgo — disse. — Comodo. — Grazie... Latte? Zucchero? — Sì. Tutti e due.
Ci accomodammo con le tazzine fumanti ed io chiesi: — Cosa c'è, questa volta? — Un caso che implica due problemi — rispose. — Uno di essi praticamente ricade nella mia area di competenza. L'altro no. Mi è stato detto che si tratta di una situazione assolutamente unica e che richiede i servizi di uno specialista veramente valido. — Non sono uno specialista in nulla tranne che nella sopravvivenza. Il suo sguardo si legò improvvisamente al mio. — Ho sempre pensato che tu ne sapessi abbastanza, di computer — disse. Distolsi lo sguardo. Quello era un colpo basso. Non mi ero mai presentato a lui come un'autorità in quel campo, e c'era sempre stato tra noi un tacito impegno sul fatto che i miei metodi di manipolare le circostanze e le identità non dovevano mai venire discussi. D'altra parte, per lui era evidente che le mie nozioni in quel campo dovevano essere al tempo stesso estensive ed intensive. Non mi piaceva parlarne. Così mi misi sulla difensiva. — I computer oggi li conoscono praticamente tutti — dissi. — Probabilmente ai tuoi tempi le cose erano diverse, ma ora cominciano ad insegnare la scienza dei computer fin dal primo anno di scuola ai bambini. Certo, ne so parecchio. In questa generazione, tutti sono preparati. — Sai benissimo che non è a questo che mi riferisco — disse. — Non mi conosci da abbastanza tempo da concedermi un po' più di fiducia? La domanda deriva solo dal caso che stiamo prendendo in considerazione. Tutto qui. Annuii. Le reazioni più spontanee non sono sempre appropriate, ed io mi ero lasciato coinvolgere a livello emotivo. Così aggiunsi: — D'accordo, ne so qualcosa di più dei bambini delle scuole. — Grazie. Può essere un punto di partenza. — Sorseggiò il caffè. — La mia preparazione è in legge e in giurisprudenza, seguita da esperienze nell'Intelligence militare, e dal servizio civile, in quel settore. Quel poco che so di tecnica l'ho raccolto qua e là nel tempo... una notizia qui, un corso accelerato là. So parecchio sulle cose che possono fare, ma non molto sul modo in cui funzionano. Non ho capito i dettagli di questo caso, così vorrei che tu cominciassi dal principio e mi spiegassi la cosa, fintanto che ti è possibile. Ho bisogno di comprendere lo sfondo della situazione, e se tu sei in grado di spiegarmelo saprò anche se tu sei la persona adatta per questo incarico. Puoi incominciare col dirmi come funzionavano i primi robot a-
dibiti alle ricerche spaziali... diciamo, quelli che sono stati impiegati su Venere. — Non erano computer — dissi. — E peraltro non erano neanche robot. Erano apparecchiature telefattrici. — Spiegami la differenza. — Un robot è una macchina che effettua determinate operazioni seguendo un certo programma di istruzioni. Un telefattore è una macchina schiava, messa in azione da un comando esterno. Il telefattore agisce in una specie di simbiosi con il suo operatore. A secondo della sofisticazione che si desidera raggiungere, i collegamenti possono essere audiovisivi, cinetici, tattili, perfino olfattivi. Più ci si spinge in questa direzione, più la struttura diventa antropomorfa. «Nel caso di Venere, se ricordo esattamente, l'operatore umano in orbita portava un esoscheletro che controllava i movimenti del corpo, delle braccia, delle gambe e delle mani dell'apparecchiatura posta sulla superficie sottostante che riceveva energia e movimento per mezzo di un sistema di trasduttori aerei. Portava anche un elmetto che controllava la camera televisiva della macchina che riempiva il suo quadro visivo con la scena sottostante. Indossava anche auricolari collegati con il suo sistema auditivo. Ho letto il libro che scrisse in seguito. Disse che per lunghi periodi di tempo dimenticava l'esistenza della cabina, dimenticava che si trovava all'estremità operativa di una complessa apparecchiatura, e sentiva realmente di star calcando il suolo di quel pianeta infernale. Ricordo di esserne rimasto molto colpito, anche perché ero ancora bambino, e volevo averne anch'io uno tutto per me, e poter andare e combattere con i microorganismi. — Perché? — Perché su Venere non c'erano draghi. In ogni modo, quello era un apparecchio telefattore, una cosa abbastanza diversa da un robot. — Ti seguo — disse, poi: — Adesso spiegami la differenza tra i primi telefattori, e gli ultimi modelli. Versai altro caffè. — Le cose furono un po' più complicate per quanto riguardava i pianeti esterni e i loro satelliti — dissi. — Lì, in primo luogo non disponevamo di operatori in orbita. Problemi economici, ed alcuni fattori tecnici ancora irrisolti. Principalmente però per cause economiche. In ogni modo, gli apparecchi venivano fatti atterrare sul pianeta prescelto, ma l'operatore rimaneva a casa. A causa di ciò, c'era ovviamente un divario di tempo nelle trasmissioni. Ci voleva un po' per ricevere gli impulsi, e poi c'era un'altra
pausa prima che gli impulsi di ritorno raggiungessero il telefattore. Tentammo di compensare queste pause in due modi: il primo sistema era una semplice sequenza di attesa-movimento; il secondo era più sofisticato, ed è in effetti il punto in cui i computer entrano in gioco, nel senso di partecipare alla funzione di controllo. Richiedeva l'elaborazione di modelli di fattori ambientali conosciuti, che venivano poi arricchiti durante le prime sequenze di attesa-movimento. Su questa base, il computer venne quindi utilizzato per prevedere sviluppi a breve termine. Infine, fu in grado di assumere il controllo dello strumento e dirigerlo per mezzo di una combinazione di «controlli di previsione» e di schemi di attesa-movimento. Però, era sempre indispensabile l'aiuto umano, quando si presentava un elemento imprevisto. Così, per quanto riguardava i pianeti esterni, non era né totalmente automatico né totalmente manuale... né totalmente soddisfacente... sulle prime. — D'accordo — disse, accendendosi una sigaretta. — E il passo seguente? — Il seguente non fu un passo propriamente tecnico nel settore dei telefattori. Fu un passo economico. I cordoni della borsa furono finalmente allentati, e potemmo permetterci di inviare anche esseri umani. Li facemmo atterrare dove potevamo, ed in molti casi in cui l'atterraggio era impossibile, facevamo atterrare i telefattori lasciando gli uomini in orbita. Come ai vecchi tempi. Il problema del divario di tempo venne abolito perché adesso l'operatore si trovava di nuovo sulla scena dell'operazione. Se non altro, lo si può considerare un ritorno ai vecchi metodi. È quello che fanno spesso ancor oggi, e funziona bene. Scosse la testa. — Hai lasciato fuori qualcosa tra i computer e l'ultima soluzione. Mi strinsi nelle spalle. — In quel periodo sono state tentate molte soluzioni, ma nessuna si è rivelata efficace come quella che già avevamo nella collaborazione uomocomputer con il telefattore. — Ci fu un progetto — disse — che tentò di aggirare i problemi del divario di tempo inviando il computer insieme al telefattore. Sai a cosa mi riferisco? Accesi una delle mie sigarette mentre ci pensavo. — Penso che tu stia parlando del Boia — dissi. — Esatto, ed è qui che mi perdo. Puoi spiegarmi come funziona? — In ultima analisi, si è rivelato un fallimento — risposi.
— Ma sulle prime funzionava. — Apparentemente. Ma solo in casi semplici, come su Io. In seguito si inceppò e venne considerato un fallimento, anche se grandioso. Il tentativo era troppo ambizioso fin dall'inizio. Sembra che coloro che dirigevano il tutto avessero avuto la possibilità di combinare progetti avanguardistici... tecniche che erano ancora sotto studio, ed altre estremamente nuove. In teoria, sembrava che tutto dovesse adattarsi in maniera talmente perfetta che cedettero alla tentazione ed incorporarono troppe cose. Cominciò bene, ma crollò quasi subito. — Ma chi era implicato? — Signore! Chi non lo era? Il computer che non era esattamente un computer... D'accordo, cominciamo da qui. Nel secolo scorso, tre ingegneri dell'Università del Wisconsin - Nordman, Parmentier e Scott - svilupparono un apparecchio noto come neuristore a collegamento-tunnel superconduttivo. Due strisce sottili di metallo, con un sottile strato isolante in mezzo. Supercongelatelo e lascerà passare impulsi elettrici senza opporre resistenza. Circondatelo di materiale magnetizzato, e raggruppatene una certa massa - bilioni - e cosa avrete ottenuto? Scosse la testa. — Be', per cominciare avremo ottenuto una situazione impossibile da schematizzare considerando tutti i sentieri e le interconnessioni che possono essersi formati. Esiste una somiglianza evidente con la struttura del cervello. Così, ipotizzavano, è impossibile anche solo tentare di realizzare uno strumento del genere. Bisognerebbe inserire i dati e lasciare che i sentieri preferenziali si stabiliscano da soli, a causa della crescente magnetizzazione del materiale ogni volta che la corrente lo attraversa, diminuendone la resistenza. Il materiale stabilisce la sua struttura in maniera analoga al funzionamento del cervello quando impara qualcosa. — Nel caso del Boia, hanno utilizzato qualcosa di molto simile e sono riusciti ad impacchettare più di dieci milioni di cellule di tipo neuristore in una zona molto piccola... meno di un metro cubo. Hanno scelto quel numero particolare perché è approssimativamente il numero delle cellule nervose presenti nel cervello umano. È questo che voglio dire quando affermo che in realtà non era un computer. In effetti stavano lavorando nel campo delle intelligenze artificiali, non importa come le chiamavano. Se la cosa aveva un suo cervello - computer, o quasi-umano - allora era un robot più che un telefattore, vero? — Sì e no e forse — dissi. — Venne fatto agire come apparecchio te-
lefattore qui sulla Terra - sul fondo oceanico, nel deserto, in zone montuose - come parte della programmazione. Suppongo che si potrebbe parlare anche di apprendistato, o di scuola infantile. Forse quest'ultima definizione è ancora più appropriata. Gli venne mostrato come agire in ambienti difficili, e tornare indenne. Una volta che apprese tutto questo, allora, teoricamente, potevano lanciarlo nel cielo senza controllo da terra e aspettare che riportasse le sue scoperte. — A quel punto venne considerato un robot? — Un robot è una macchina che esegue certe operazioni seguendo un programma di istruzioni. Il Boia prendeva le sue decisioni capisci. Ed io sospetto che nel tentativo di produrre qualcosa di così simile al cervello umano come struttura e funzionamento, la casualità apparentemente inevitabile del suo modello venne inevitabilmente inclusa. Non era solo una macchina che seguiva un programma. Era troppo complessa. Questo è stato probabilmente l'elemento che ha portato al fallimento. Don ridacchiò. — L'inevitabile libero arbitrio? — No. Come ho detto, hanno messo troppe cose nella stessa borsa. Per esempio, i ragazzi del gruppo psicofisico avevano un apparecchietto che volevano sperimentare, e venne incluso. Apparentemente, il Boia era uno strumento di comunicazione. In effetti, lo trattavano come se fosse realmente senziente. — Lo era? — Evidentemente sì, anche se in modo limitato. Quello che avevano ottenuto, perché facesse parte dello strumento telefattore originario, era un apparecchio che stabiliva un debole campo di induzione nel cervello dell'operatore. La macchina riceveva ed amplificava gli schermi dell'attività elettrica provenienti dal Boia e li passava attraverso un modulatore complesso, che li trasformava in impulsi del campo di induzione nella testa dell'operatore... Adesso sono fuori dal mio campo, piuttosto in quello di Weber e Fechner, ma un neurone ha una soglia oltre la quale funziona, sotto la quale agisce. Esistono circa quarantamila neuroni raccolti in un millimetro quadrato della corteccia cerebrale, in modo che ognuno di essi possiede centinaia di collegamenti sinaptici con quelli circostanti. In qualsiasi momento, alcuni di essi possono trovarsi al di sotto della soglia di attività mentre altri sono in condizioni che Sir John Eccles una volta definì «di posa critica»... pronti a funzionare. Se uno di essi riesce a superare la soglia, può provocare la scarica di centinaia di migliaia di altri e nel giro di venti millesecondi. Il campo pulsante doveva fornire una spina in un modo suf-
ficientemente selettiva da offrire all'operatore un'idea di ciò che avveniva nel cervello del Boia. E viceversa. Il Boia doveva avere inserita una versione del medesimo meccanismo. Si pensò anche che ciò potesse servire ad umanizzarlo un po', così da permettergli di apprezzare meglio il significato del suo lavoro e instillargli doti quali la lealtà, si potrebbe dire. — Pensi che questo elemento possa aver contribuito al fallimento del progetto? — È possibile. Come si può dire qualcosa in una situazione peculiare del genere? Se vuoi un'ipotesi, io direi: «Si», ma è solo ipotesi. — Uh-huh — disse — e quali sono le sue capacità fisiche? — Struttura antropomorfa — dissi — sia perché in origine era un telefattore, sia a causa dei ragionamenti psicologici di cui ti parlavo. Poteva pilotare il suo piccolo vascello. Non c'era bisogno di un sistema di sostegno vitale, naturalmente. Sia il Boia che il vascello erano riforniti di unità di fissione, cosicché le fonti energetiche non costituivano un problema concreto. Autoriparante. Capace di eseguire una grande varietà di prove e misurazioni sofisticate, di effettuare osservazioni, di completare rapporti, di imparare nuovi sistemi, di ritrasmettere qui le sue scoperte. Capace di sopravvivere quasi in qualsiasi condizione. In effetti, richiedeva meno energia sui pianeti esterni, a causa del minore lavoro delle unità refrigeranti, per mantenere operativo quel cervello. — Qual era la sua forza? — Non ricordo tutti i dati. Forse una dozzina di volte più forte di un uomo, in azioni quali sollevare e spingere. — Ha esplorato Io ed ha iniziato con Europa. — Sì. — Poi ha cominciato a comportarsi in maniera incontrollata, proprio quando pensavamo che avesse realmente imparato il suo lavoro. — Proprio così — dissi. — Ha rifiutato un ordine diretto di esplorare Callisto, poi si è diretto verso Urano. — Sì. Sono passati anni da quando ho letto i rapporti... — I guasti da allora sono peggiorati. Lunghi periodi di silenzio si sono alternati a conversazioni ingarbugliate. Adesso che ne so di più sulla sua struttura, sembra quasi un uomo che si avvicini alla fine. — L'analogia regge. — Ma è riuscito a rimettersi in funzione per un breve periodo. È atterrato su Titania, ed ha iniziato ad inviarci quelli che sembravano rapporti
appropriati di osservazione. La cosa è durata solo un breve periodo, però. Poi è tornato ancora una volta irrazionale, ha trasmesso che si stava dirigendo per atterrare direttamente su Urano, e l'ha fatto. Dopo di che non abbiamo più avuto sue notizie. Adesso che mi hai spiegato di quali aggeggi mentali è dotato capisco perché uno di questi potrebbe ritrovarsi a non funzionare più. — Non capisco. — Io sì. Mi strinsi nelle spalle. — Sono passati ormai vent'anni — dissi. — E come ho detto, è passato molto tempo dall'ultima volta che ho letto qualcosa in proposito. — La nave del Boia si è schiantata o è atterrata, a seconda dei casi, nel Golfo del Messico due giorni fa. Mi limitai a fissarlo. — Era vuota - continuò Don - quando finalmente riuscirono a raggiungerla. — Non capisco. — Ieri mattina — continuò — il programmatore Manny Burns è stato trovato percosso a morte nell'ufficio del suo stabilimento, il Maison SaintMichel, a New Orleans. — Non riesco ancora a capire... — Manny Burns era uno dei quattro operatori originali che hanno programmato... pardon, «insegnato» al Boia. Il silenzio si prolungò, pesante e teso — Coincidenza...? — chiesi infine. — Il mio cliente non ne è convinto. — Chi è il tuo cliente? — Uno dei tre membri rimasti del gruppo di addestramento. È convinto che il Boia sia ritornato sulla Terra per uccidere quelli che furono i suoi operatori. — Ha fatto conoscere le sue paure ai suoi vecchi dirigenti? — No. — Perché no? — Perché dovrebbe dir loro i motivi della sua paura. — Vale a dire...? — Non ha voluto dirli nemmeno a me. — Come si aspetta che tu svolga un lavoro adeguato con queste premesse?
— Mi ha detto che cosa considera un lavoro adeguato. Vuole che siano fatte due cose, nessuna delle quali richiede una conoscenza completa del caso. Vuole avere ottime guardie del corpo, e desidera che il Boia venga trovato e messo sotto controllo. Mi sono già occupato della prima parte. — E vuoi che io intervenga per la seconda? — Esatto. Hai confermato la mia opinione: sei l'uomo ideale per un lavoro del genere. — Capisco. Ti rendi conto che se Boia è realmente senziente si tratta di una cosa simile all'omicidio? Se non lo è, si tratterà solo della distruzione di una costosa proprietà governativa. — Come lo consideri? — Lo considero un lavoro — dissi. — Lo assumerai? — Ho bisogno di altri dati prima di decidere. Tra l'altro, chi è il tuo cliente? Chi sono gli altri operatori? Dove vivono? Che cosa fanno? Che cosa... Alzò una mano. — Primo — disse. — L'onorevole Jesse Brockden, Senatore Anziano del Wisconsis, è il nostro cliente. Confidenzialmente, non è neanche il caso di dirlo. Annuii. — Ricordo che è stato implicato con il programma spaziale prima di dedicarsi alla politica. Non ne so molto, però. Potrebbe ottenere la protezione governativa così facilmente... — Per ottenerla, evidentemente, dovrebbe dire cose di cui non vuole parlare. Forse potrebbero troncare la sua carriera. Semplicemente non lo so. Non vuole. Vuole noi. Annuii di nuovo. — E gli altri? Ci vogliono anche loro? — Esattamente l'opposto. Non concordano affatto con le preoccupazioni di Brockden. Sembra pensino che sia una specie di paranoico. — Fino a che punto si sono tenuti in contatto in questi giorni? — Vivono in parti diverse del paese e non si vedono da anni. Sono stati occasionalmente in contatto, però. — Una base un po' vaga per una diagnosi, allora. — Uno di loro è uno psichiatra. — Oh. Quale? — Si chiama Leila Thackery. Vive a St. Louis. Lavora all'Ospedale Statale locale.
— Nessuno di loro ha consultato qualche autorità allora... né federale né locale? — Esatto. Brockden ha contattato tutti e due quando ha avuto notizie del Boia. Era a Washington, ha cercato di raggiungerli; nel frattempo ha saputo della morte di Burns. Ha contattato me, poi ha tentato di convincere gli altri ad accettare la protezione della mia gente. Loro non si sono dichiarati disposti. Quando le ho parlato, la dottoressa Thackery ha sottolineato, abbastanza correttamente, che Brockden è un uomo molto malato. — Cosa ha? — Cancro. Alla spina dorsale. Incurabile. Mi ha perfino detto che pensa di avere circa sei mesi per concludere quella che considera una legge molto importante... il nuovo atto di riabilitazione criminale. Ammetto che mi ha dato un po' l'impressione del paranoico quando gli ho parlato. Ma, diavolo! Chi non lo sarebbe? La dottoressa Thackery generalizza la situazione, però, e non vede l'assassinio di Burns collegato al Boia. Pensa che si sia trattato di un ladruncolo convenzionale; un ladro che si è lasciato cogliere dal panico, eccetera. — Non ha paura del Boia? — Ha detto che si trova in una posizione migliore di chiunque altro per comprenderne i processi mentali, e che la cosa non la interessa particolarmente. — E l'altro operatore? — Ha detto che la dottoressa Thackerry può conoscere la sua mente meglio di chiunque altro, ma che lui conosce il suo cervello, e neanche lui si preoccupa. — Cosa intende dire? — David Fentris è un ingegnere... elettronica, cibernetica. Ha partecipato direttamente alla progettazione del Boia. Mi alzai in piedi e preparai un altro caffè. Non che ne sentissi particolarmente l'esigenza, ma quel nome mi aveva un po' preoccupato. Avevo conosciuto David Fentris, avevo lavorato con lui. Ed avevamo collaborato al programma spaziale. Aveva quindici anni più di me, quando lavoravamo insieme per il progetto della Banca dei Dati. E quando la maggior parte di noi aveva cominciato ad avere secondi fini con il procedere delle cose, Dave non era mai stato animato da altro che da grande entusiasmo. Il grosso problema, naturalmente, era questo: mi avrebbe riconosciuto? È vero, il mio aspetto era stato modificato, la mia personalità speravo fosse maturata, le mie abitudi-
ni si erano trasformate moltissimo. Ma sarebbe stato sufficiente, se il lavoro mi avesse portato ad incontrarlo? Quella mente acutissima poteva elaborare moltissime cose con una minima quantità di dati. — Dove vive? — chiesi. — Memphis. E qual è il problema? — Sto solo cercando di inquadrare la situazione — dissi. — Il Senatore Brockden è ancora a Washington? — No. È tornato nel Wisconsis ed attualmente si trova nella parte settentrionale dello stato. Quattro miei uomini sono con lui. — Capisco. Versai il caffè e mi risedetti. Quel lavoro non mi piaceva, e avevo deciso di non accettarlo. Non volevo però dare a Don un semplice «No». I suoi incarichi erano diventati una parte molto importante della mia vita. Ovviamente per lui la cosa era importante, e voleva che ci pensassi io. Decisi di cercare i punti deboli della situazione, di trovare un qualche sistema per ridurlo al semplice lavoro di guardia del corpo già in atto. — Non sembra strano — dissi — che Brockden sia il solo a temere il Boia? — Sì. — ... e che non dia motivi? — Vero. — ... oltre alla sua condizione fisica e agli effetti che può avere sulla sua mente. — Non ho dubbi sul fatto che sia nevrotico — disse Don. — Guarda qui. Prese il cappotto, tolse di tasca un blocco di fogli, ne scelse uno e me lo diede. Era un foglio intestato del Congresso, con un messaggio scribacchiato sopra. «Don» diceva «Devo vedervi. Il mostro di Frankenstein è appena tornato da dove l'abbiamo esiliato e mi sta cercando. Tutto il fottuto universo mi sta dando la caccia. Mi chiami tra le 8 e le 10... Jess.» Annuii, feci per restituirglielo, esitai un attimo, poi glielo diedi. Che maledetto affare! Bevvi una tazza di caffè. Pensavo che da tempo avevo perso la speranza in cose del genere, ma avevo notato qualcosa che mi creava immediatamente dei problemi. Nel margine del foglio intestato, dove vengono elencate quel tipo di cose, avevo notato che Jesse Brockden faceva parte del comitato per la revisione del programma della Banca Centrale dei Dati. Ricordai che si supponeva che quel comitato dovesse lavorare su una serie
di riforme raccomandate. Sul momento, non riuscivo a ricordare la posizione di Brockden nei problemi implicati, ma... oh, diavolo! La cosa era troppo grandiosa per poter essere alterata in maniera significativa proprio adesso... Ma era quello il solo mostro di Frankenstein che mi preoccupava realmente, e c'era pur sempre la possibilità... D'altra parte... diavolo, ancora! E se l'avessi lasciato morire pur avendo la possibilità di salvarlo, e fosse stato proprio lui a...? Bevvi un altro sorso di caffè. Accesi un'altra sigaretta. Poteva esserci un sistema di risolvere le cose in modo che David non entrasse nemmeno in scena. Potevo parlare a Leila Thackery in primo luogo, controllare poi tutti i dati dell'assassinio di Burns, seguire da vicino i nuovi sviluppi, trovare altre notizie sul vascello caduto nel Golfo... Potevo sistemare tutto, anche se sarebbe stata solo una negazione della teoria di Brockden, senza che il mio sentiero dovesse incrociare quello di David. — Hai tutti i dati sul Boia? — chiesi. — Sono qui. Me li porse. — I rapporti di polizia sull'omicidio di Burns? — Eccoli. — Gli alibi di tutti i sospetti, e qualche informazione su di loro? — Qua. — Il luogo od i luoghi in cui posso raggiungerti nei prossimi giorni... a qualsiasi ora? Questo caso può richiedere un certo coordinamento. Sorrise e prese la penna. — Felice di averti a bordo — disse. Scossi la testa. Lo squillo del telefono mi svegliò. Un riflesso condizionato mi spinse ad attraversare la stanza, e ad afferrare il ricevitore. — Sì? — Mister Donne? Sono le otto. — Grazie. Mi lasciai cadere su una sedia. Sono quello che potrebbe essere definito un partente lento. Stento a ricapitolare la situazione tutte le mattine. I desideri fondamentali si aprono lentamente la strada attraverso la mia materia grigia per chiudere un contatto. Lentamente, allungai una mano ancora addormentata e composi un paio di numeri telefonici. Biascicai un ordine di colazione alla voce che mi rispose. Poi andai a risciacquarmi per prendere
contatto con la realtà. Non avevo dormito molto, la notte prima. Avevo chiuso la nave appena dopo la partenza di Don. Lasciato il Proteus ero andato all'aeroporto per prendere un aereo che mi portasse a St. Louis in piena notte. Non riuscii a dormire durante il volo; pensavo al caso, e decisi che sarei andato subito a parlare con Leila Thackery. All'arrivo, presi una camera al motel dell'aeroporto, chiedendo di svegliarmi ad un'ora irragionevole, e quindi crollai. Mentre mangiavo, riconsiderai i fogli che Don mi aveva lasciato. Al momento Leila Thackery era sola, avendo appena divorziato dal secondo marito; aveva quarantasei anni, e viveva in un appartamento nei pressi dell'ospedale in cui lavorava. C'era pure una foto che poteva avere forse dieci anni. Aveva pubblicato un certo numero di libri ed articoli con titoli pieni di alienazione, ruoli, transazioni, contesti sociali, ed altre alienazioni ancora. Non avevo avuto il tempo di seguire la solita prassi, di diventare un nuovo individuo con una storia controllabile. Solo un nome ed una storia, ecco tutto. In ogni modo, in quell'occasione non sembrava necessario niente di più. Per una volta, un approccio ragionevolmente onesto sembrava il più adatto. Presi un mezzo pubblico per giungere al suo appartamento. Non telefonai prima di andare, perché è più facile dire «No!» ad una voce che ad una persona. Secondo le registrazioni, quello era uno dei giorni in cui visitava i pazienti a casa. La sua idea evidentemente; distruggere l'immagine alienante delle istituzioni, rimuovere ogni risentimento trasformando le riunioni in qualcosa di maggiormente simile alle occasioni sociali, eccetera. Io non avevo bisogno di molto del suo tempo - avevo deciso che se era il caso ci avrebbe pensato Don - anche perché ero sicuro che le sue visite erano programmate in modo da lasciare pochissimo tempo libero. Avevo appena rintracciato il suo nome e il numero dell'appartamento sul citofono quando una donna mi sorpassò ed aprì il portone. Mi guardò e tenne aperta la porta, così che potei entrare senza suonare. L'elemento presenza, ancora una volta. Presi l'ascensore fino al piano di Leila, il secondo, trovai la porta e bussai. Ero quasi pronto a bussare una seconda volta quando si aprì uno spiraglio. — Sì? — chiese, ed io riconsiderai la stima fatta sull'età della foto. Sembrava praticamente la stessa.
— Dottoressa Thackery — dissi — il mio nome è Donne. Potrebbe essermi di grande aiuto per un mio problema. — Che tipo di problema? — Implica uno strumento noto come il Boia. Sospirò e sorrise. Le sue dita tamburellarono sulla porta. — Ho percorso molta strada, ma ci vorrà pochissimo tempo. Ci sono solo poche domande che vorrei porle. — Lavora per il governo? — No. — Lavora per Brockden? — No, è qualcosa di diverso. — Benissimo — disse. — In questo momento ho una riunione di gruppo. Probabilmente durerà per un'altra mezz'ora. Se non le dispiace attendere nell'ingresso, la chiamerò appena sarà finita. Poi potremo parlare. — Abbastanza soddisfacente — dissi. — Grazie. Lei annuì e chiuse la porta. Trovai la scala e ridiscesi. Una sigaretta dopo, decisi che il diavolo trova lavoro per le mani pigre e lo ringraziai per il suggerimento. Uscii. Sul citofono, lessi il nome di alcuni inquilini del quinto piano. Salii e bussai ad una delle porte. Prima che si aprisse tirai fuori visìbilmente la biro e il blocchetto per gli appunti. — Sì? — Sulla cinquantina, curiosa. — Mi chiamo Stephen Foster, Mrs. Gluntz. Sto facendo un'inchiesta per la Lega Nordamericana dei Consumatori. Vorrei pagarle un paio di minuti del suo tempo, per porre alcune domande sui prodotti di cui si serve. — Perché... pagarmi. — Sì, signora. Dieci dollari. Per una dozzina di domande. Ci vorranno al massimo un paio di minuti. — Benissimo. — Spalancò la porta. — Vuole entrare? — No, grazie. La cosa è talmente breve che non ce n'è bisogno. La prima domanda riguarda i detersivi... Dieci minuti dopo ero tornato nell'atrio ed avevo terminato tre liste di spese medie. Quando una situazione è piena di elementi imponderabili e faccio un gioco che non consoco, mi piace premunirmi il più possibile. Ancora un quarto d'ora, e rientrai nell'ascensore da cui erano appena usciti tre ragazzi, vestiti sportivamente, che ridacchiavano allegri. Il più grosso mi indicò ed annuì. — È lei che deve parlare con la Dottoressa Thackery — Esatto.
— Dice che può salire. — Grazie. Tornai su, alla sua porta. Lei aprì, mi fece entrare, mi indicò una sedia molto comoda e si sedette con me. — Vuole una tazza di caffè? — chiese. — È fresco. Ne ho fatto più del necessario. — Splendido. Grazie. Pochi istanti dopo, portò un paio di tazze, me ne diede una, e si risedette. Ignorai latte e zucchero e bevvi un sorso. — Mi ha interessata — disse. — Dica tutto. — D'accordo. Mi è stato riferito che lo strumento telefattore noto come il Boia, probabilmente dotato di un'intelligenza artificiale, è ritornato sulla Terra... — Per ipotesi — disse lei. — A meno che non sappia qualcosa più di me. Mi è stato detto che il velivolo del Boia è rientrato, e che si è schiantato nel Golfo. Non ci sono prove del fatto che fosse occupato. — Sembra anche altrettanto ragionevole che il Boia abbia inviato il velivolo in un punto di rendez-vous molti anni fa e che esso l'abbia raggiunto solo adesso, dopo di che è entrato in azione il programma di rientro facendolo scendere. — Perché avrebbe dovuto far rientrare il veicolo e rimanersene lassù? — Prima che le risponda — disse, — vorrei conoscere il motivo del suo interessamento. Giornali? — No — dissi. — Sono uno scrittore di argomenti scientifici... tecnica, su un livello abbastanza divulgativo. Ma non sto cercando l'argomento per un articolo. Sto cercando le implicazioni psicologiche della cosa. — Per chi? — Un'agenzia privata di investigazioni. Vogliono sapere che cosa potrebbe influenzare i suoi processi di pensiero, come potrebbe probabilmente comportarsi... se è realmente tornato. Ho già svolto la maggior parte del lavoro, e quella che ho raccolto è una probabilità secondo cui la sua responsabilità nucleare era una sintesi delle menti dei quattro operatori. Così, i contatti personali sono stati una conseguenza abbastanza logica. Ora vorrei sentire la sua opinione sui modi in cui potrebbe agire. Sono venuto per prima cosa da lei per ovvi motivi. Lei annuì. — Un certo Mister Walsh mi ha parlato l'altro giorno. Lavora per il Senatore Brockden.
— Sì? Non mi interesso mai degli affari di chi mi paga, oltre a ciò che mi serve per il mio lavoro. Il Senatore Brockden è sul mio elenco, però, insieme ad un certo David Fentris. — Sa già di Manny Burns? — Sì. Una disgrazia? — È evidentemente la cosa che ha mandato in crisi Jesse. E... come potrei dire?... si sta aggrappando freneticamente alla vita, cerca di realizzare un gran numero di cose nel tempo che gli rimane. Ogni momento è prezioso, per lui. Sente che la morte gli alita sul collo... Poi è tornata la nave ed uno di noi è rimasto ucciso. Da quello che so del Boia, l'ultima volta che ne abbiamo avuto notizie, è diventato irrazionale. Jesse ha visto un collegamento, e nelle sue condizioni la paura è comprensibile. — Ma lei non vede una minaccia? — No. Sono stata l'ultima persona a programmare il Boia prima che le comunicazioni si interrompessero, ed ho potuto vedere che cosa accadde. So come hanno funzionato i suoi processi conoscitivi... Pensi ad un bambino che abbia imparato l'Indirizzo di Gettysburg. È lì nella sua testa, ed è tutto. Un giorno, però, l'informazione può rivelarsi importante per lui. Può perfino ispirare una sua azione. Adesso pensi ad un bambino del genere con un gran numero di schemi in conflitto, atteggiamenti, tendenze, ricordi, nessuno dei quali è particolarmente problematico fintanto che rimane un bambino. Aggiungiamo un po' di maturità, però... e teniamo in mente che gli schemi originati da quattro individui diversi, tutti più potenti delle parole del più bello dei discorsi, avranno provocato chissà quanti conflitti interni, contraddizioni a non finire... — Perché tutto questo non è stato previsto? — chiesi. — Ah — disse, sorridendo. — Sulle prime non venne apprezzata in pieno tutta la sensibilità del cervello a neuristori. Si ipotizzò che gli operatori non facevano altro che aggiungere dati in maniera lineare, e che questo processo sarebbe continuato fino al raggiungimento dei una massa critica, corrispondente alla costituzione di un modello o quadro del mondo che sarebbe poi servito come punto di partenza per la crescita della mente del Boia. E tutto sembrava filare nel verso giusto. — Ciò che avvenne in effetti, però, fu un fenomeno di impressione. Le caratteristiche secondarie delle menti degli operatori, al di fuori delle situazioni didattiche, si impressero anch'esse. Esse non divennero immediatamente funzionali, e quindi non vennero rilevate. Rimasero latenti fino a quando la mente non si fu sviluppata sufficentemente da compren-
derle. E poi era troppo tardi. Improvvisamente acquisì quattro personalità addizionali, che non fu più capace di coordinare. Quando cercò di schematizzarle diventò schizoide; quando cercò di integrarle, divenne catatonico. Continuò ad oscillare avanti ed indietro tra queste alternative. Poi divenne silenzioso. Sentii che aveva raggiunto l'equivalente di una fase schizoide. Correnti selvagge attraverso quel materiale magnetico avevano, in effetti, cancellato la sua mente, provocando l'equivalente della morte o dell'idiozia. — Riesco a seguirla — dissi. — Ora, solo per amore di discussione, consideriamo l'alternativa o di un'integrazione riuscita di tutto questo materiale, oppure il conseguimento di una schizofrenia vera e propria. Quale pensa che sarebbe il suo comportamento più probabile per ognuna di queste possibilità? — D'accordo — convenne. — Come ho appena detto, però, penso che esistessero limitazioni fisiche alla sua possibilità di conservare strutture multiple di personalità per periodi di tempo molto lunghi. Se ciò fosse avvenuto, però, avrebbe continuato a vivere con la sua personalità come dominante, unita a una replica di quelle dei quattro operatori, per un certo periodo. La situazione si sarebbe presentata radicalmente diversa da quella di uno schizoide umano del genere analogo, per il fatto che le personalità addizionali sarebbero state immagini valide di identità genuine piuttosto che complessi autogenerati divenuti autonomi. Avrebbero potuto continuare ad evolversi, fino a degenerare, ed entrare in conflitto ad un punto di distruzione o di notevoli modifiche. In altre parole, non è possibile formulare predizioni sulla natura del risultato. — Posso azzardarne una? — Dica pure. — Dopo notevoli ansietà, li padroneggia. Li congloba. Vince questo quartetto di demoni che l'hanno lacerato, acquisendo nel frattempo, nel processo, un odio totale per gli individui responsabili della sua sofferenza. Per liberarsi totalmente, per vendicarsi, per elaborare la sua catarsi ultima, decide di cercarli e distruggerli. Lei sorrise. — Ha un po' aggirato l'argomento della schizofrenia effettiva; mi pare che il risultato da lei prospettato possieda una dose notevole di autonomia. La situazione comunque è diversa... indipendentemente dalle analisi dialettiche. — D'accordo, accetto l'obiezione... ma per quanto riguarda le con-
clusioni? — Mi sembra un tentativo rozzo di invocare lo spirito di Freud: Edipo ed Elettra nello stesso essere cosciente, alla ricerca della distruzione di tutti i genitori — gli autori di oggi, forma di tensione, ansietà, crisi nella sua psiche giovane ed impressionabile. Neanche Freud ha definito una situazione del genere. Lei saprebbe farlo? — Complesso di Hermacis — suggerii. — Hermacis? — Ermafrodite unito in un sol corpo con la ninfa Salmacis. Ho fatto la stessa cosa con i loro nomi. La creatura risultante avrebbe allora quattro genitori contro cui reagire. — Acuto — disse. — Se anche le armi classiche non servono ad altro, indubbiamente sono una fonte inesauribile di allegorie bellissime. Questa è però fin troppo apertamente antropomorfa, però. Lei voleva la mia opinione? Benissimo. Se il Boia ha attraversato tutte queste fasi, è stato solamente a causa delle differenze tra un cervello a base di neuristori ed uno umano. In base alla mia esperienza professionale, un essere umano non potrebbe conservare stabilità mentale in una situazione del genere. Se il Boia ci è riuscito, avrebbe dovuto risolvere tutte le contraddizioni ed i conflitti, padroneggiando e comprendendo la situazione nella sua interezza in modo tale, penso, che molto difficilmente avrebbe potuto rimanere una qualche forma di odio. La paura, l'insicurezza, le cose che alimentano l'odio sarebbero state analizzate, digerite, trasformate in qualcosa di più utile. Probabilmente ci sarebbe stato disgusto, e forse un atto di indipendenza, di affermazione di se stesso. Questo è uno dei motivi per cui potrebbe aver fatto ritornare la sua nave. — È sua opinione, allora, che se il Boia esiste come individuo pensante oggi, questo è il solo atteggiamento che potrebbe avere nei confronti dei suoi ex operatori: quindi non vorrebbe avere più nulla a che fare con lei? — Proprio così. Mi dispiace per il suo complesso di Hermacis. Ma in questo caso dobbiamo prendere in considerazione il cervello, non la psiche. E possiamo notare due cose: la schizofrenia l'avrebbe distrutto, ed una soluzione positiva dei suoi problemi avrebbe impedito la vendetta. In ogni modo, non c'è nulla di cui preoccuparsi. Come potevo affrontare l'argomento con un certo tatto? Decisi che era impossibile. — Tutto questo va benissimo — dissi — fino ad un certo punto. Ma tralasciando la dimensione puramente psicologica e quella puramente fisica,
potrebbe esserci un motivo ben preciso per la sua ricerca della vostra morte... un motivo per l'omicidio, basato sui fatti piuttosto che sui modi di pensare? La sua espressione era indecifrabile, ma indubbiamente da lei non mi ero aspettato niente di diverso. — Quali fatti? — chiese. — Non ne ho idea. Sono io a chiederlo. Lei scosse la testa. — Temo di non avere idee neanch'io. — Allora è tutto — dissi. — Non riesco a pensare ad altre domande da farle. Lei annuì. — Neanch'io. Finii il caffè, e posai la tazzina. — Grazie, allora — dissi — per il suo tempo e per il caffè. Mi è stata di grande aiuto. Mi alzai. Lei mi imitò. — Cosa farà adesso? — chiese. — Non ho ancora ben deciso — risposi. — Voglio fare il miglior rapporto possibile. Ha qualche suggerimento in proposito? — Penso che non ci sia più nulla da suggerire, in quanto le ho dato la sola spiegazione plausibile dei fatti. — Non pensa che David Fentris potrebbe fornirmi altri dati? Lei sospirò. — No — disse. — Non penso che potrebbe dirle altro di utile. — Cosa intende dire? Dal modo in cui parla... — Lo so. No, volevo dire che... alcuni trovano conforto nella religione. Altri... Sapete. Altri cercano una vendetta nella vita. Vedono tutto in funzione del loro modo di pensare. — Fanatismo? — dissi. — Non esattamente. Zelo mal collocato. Una cosa abbastanza simile al masochismo... Diavolo! Non dovrei formulare diagnosi a distanza... né influenzare la sua opinione. Dimentichi quello che ho detto. Si faccia una sua opinione quando lo incontrerà. Alzò la testa, approvando la mia reazione. — Bene — risposi io. — Non sono del tutto certo che lo vedrò. Ma mi ha reso curioso. Come può la religione influenzare l'ingegneria? — Ho parlato con lui dopo che Jesse ci diede la notizia del ritorno della
capsula. In quell'occasione ebbi l'impressione che pensasse che avevamo violato prerogative divine cercando di creare un'intelligenza artificiale. Il fatto che la nostra creazione fosse impazzita era solo logico, essendo prodotto di uomini imperfetti. Sembrava considerare giusto che essa fosse tornata indietro per vendicarsi, come un segno di giudizio su di noi. — Oh — dissi. Sorrise. La imitai. — Sì — continuò — ma forse l'ho solo sentito in un momento in cui era di cattivo umore... Forse dovrebbe andare personalmente a trovarlo. Qualcosa mi disse di scuotere la testa... c'era una differenza notevole tra questa visione, i miei ricordi, ed i commenti di Don secondo cui David aveva detto che conosceva il suo cervello e non ne era particolarmente interessato. In mezzo a questi dati c'era qualcosa che sentivo avrei dovuto sapere, senza però dare l'impressione di farlo. Così dissi: — Penso di aver capito abbastanza la situazione, adesso. E la sua dimensione psicologica quella che sembra più importante, non la meccanica... o la teologica. Mi è stata di grandissimo aiuto. Ancora grazie. Lei mi accompagnò sorridendo alla porta. — Se non le crea problemi — disse, mentre uscivo. — Mi piacerebbe molto sapere come andrà a finire la questione... o qualsiasi sviluppo significativo. — Il mio interesse per questo caso termina con questo rapporto, e andrò subito a scriverlo. — Ha il mio numero...? — Probabilmente, ma... L'avevo già, ma lo scrissi di nuovo, appena dopo le risposte di Mrs. Gluntz sui detersivi. Appena uscito mi diressi all'aeroporto, presi un volo per Memphis, su cui salii per ultimo essendo arrivato appena in tempo. Era il turno di David Fentris; purtroppo non potevo più fare a meno di evitarlo. Avevo una sensazione troppo intensa che Leila Thackery non mi avesse raccontato la storia intera. Dovevo controllare le conseguenze della situazione da vicino. Sentivo che la cosa poteva avere un'importanza vitale. Appena sceso dall'aereo mi diressi subito all'ufficio di Dave. Mentre mi avvicinavo, cominciò a cadere una pioggerella fastidiosa ed insistente che tentava inutilmente di ripulirne la facciata polverosa. Nell'atrio il portinaio mi indicò la strada, l'ascensore mi fece salire, i miei piedi trovarono la strada per la porta dell'ufficio. Bussai. Dopo un at-
timo, ribussai di nuovo ed attesi. Ancora nulla. Cosi tentai di entrare, scoprii che la porta era aperta e lo feci. Era un ingresso piccolo e deserto, dalle pareti verdi. La scrivania era polverosa. L'uomo che c'era seduto mi volgeva la schiena. Bussai di nuovo sulla scrivania. Mi sentì e si voltò. — Sì? I nostri occhi si incontrarono, ed i suoi mi scrutarono: lenti spesse e molto graduate li nascondevano. La sua domanda riempì l'aria, e nulla dei suoi modi diede l'impressione che mi avesse riconosciuto. — Mi chiamo Donne, John Donne — dissi. — Sto cercando David Fentris. — Sono io. — Felice di conoscerla — dissi, avvicinandomi a lui. — Sto collaborando ad un'inchiesta riguardante il progetto a cui lei un tempo ha lavorato. Lui sorrise ed annuì, stringendomi la mano. — Il Boia — dissi. — Sto scrivendo un rapporto... — ...E vuole la mia opinione sulla sua pericolosità. Si sieda. — Indicò una sedia di fianco alla scivania. — Vuole una tazza di tè? — No grazie. — Lo sto preparando. — Be', in tal caso... — Non ho latte. Mi dispiace. — Va benissimo... Come ha immaginato che riguardava il Boia? Lui si accigliò mentre mi porgeva la tazza. — Perché è tornato — disse — ed è l'unico progetto a cui ho partecipato che possa interessare qualcuno. — Le dispiace parlarmene? — Fino ad un certo punto, no. — Qual è il punto? — Se ci avviciniamo troppo, glielo farò sapere. — Benissimo... Fino a che punto è pericoloso? — Direi che è del tutto innocuo — rispose — tranne per tre persone. — Una volta quattro? — Precisamente. — Perché? — Abbiamo fatto una cosa che non avevamo il diritto di fare. — Che sarebbe?...
— Per dirne una, tentare di creare un'intelligenza artificiale. — Perché, non avevate il diritto di farlo? — Un uomo con un nome come il vostro non dovrebbe fare queste domande. Ridacchiai. — Se io fossi un predicatore — dissi, — sottolineerei che non esiste nessuna ingiunzione biblica in proposito... a meno che non l'abbiate adorato. Lui scosse la testa. Niente di così semplice, di così evidente, di così esplicito. I tempi sono cambiati da quando è stato scritto l'Antico Testamento, e non ci si può limitare ad un approccio esclusivamente fondamentalista in momenti così complessi. Quello a cui volevo arrivare è qualcosa di più astratto. Una forma di orgoglio... il tentativo di mettersi sullo stesso livello del Creatore. — Lei sente un tale... orgoglio? — Sì. — È sicuro che non si sia trattato solo di un entusiasmo per un progetto ambizioso che stava andando bene? — Oh, ce n'era in abbondanza. Una manifestazione della stessa cosa. — Mi sembra di ricordare qualcosa sul fatto che gli uomini sono stati creati ad immagine e somiglianza del Creatore, e qualcos'altro sulla necessità di realizzare una tale somiglianza. Sembrerebbe derivarne che esercitare le proprie capacità lungo linee analoghe costituirebbe un passo nella direzione giusta... un atto di conformismo all'ideale divino, se preferisce. — Ma non preferisco. L'uomo non può creare realmente. Può solo trasformare quanto già esiste. Solo Dio può creare. — Allora non ha nulla da preoccuparsi. Si accigliò. Poi: — No. Esserne consapevole e continuare a tentare è il punto in cui entra la presunzione. — Pensavate davvero così quando lo progettavate? O tutto questo vi è venuto il mente dopo il fatto? Continuò ad accigliarsi. — Non ne sono sicuro. — Allora mi sembrerebbe che un Dio pietoso sarebbe portato a concedervi per lo meno il beneficio del dubbio. Mi sorrise ironico. — Niente male, John Donne. Ma io sento che il giudizio può già essere stato pronunciato, e che possiamo aver perso la causa.
— Allora lei considera il Boia come un angelo vendicatore? — A volte. Una cosa del genere. Penso che sia tornato per infliggere una pena. — Solo per amor di discussione — suggerii — se il Boia avesse avuto pieno accesso alle attrezzature necessarie e fosse riuscito a costruire un'altra unità simile a se stesso, lo considerereste colpevole della vostra stessa colpa? Lui scosse la testa. — Non sia così acuto e gesuitico con me, Donne. Non sono troppo lontano dai fondamentalisti... Inoltre, sono disposto ad ammettere di avere torto e che possono esserci altre forze rivolte allo stesso fine. — Tipo? — Le ho detto che l'avrei avvertito quando avessimo raggiunto un certo punto. Eccolo. — D'accordo — dissi. — Ma le persone per cui lavoro vorrebbero proteggerla. Vogliono fermare il Boia. Speravo che potesse dirmi qualcosa di più... se non per amor suo, per gli altri. Possono non condividere i suoi sentimenti filosofici, e ha appena ammesso di poter avere torto... La rassegnazione, incidentalmente, è considerata un peccato da un gran numero di teologi. Sospirò e si stropicciò il naso come l'avevo visto fare moltissime volte in passato. — Che cosa farà, ad ogni modo? — mi chiese. — Io personalmente? Sono uno scrittore scientifico. Sto raccogliendo un rapporto sull'argomento per l'agenzia che vorrebbe proteggerla. Tanto più il mio rapporto sarà ben fatto, migliori le loro possibilità. Rimase silenzioso per un po', quindi: — Ho letto molto sull'argomento, ma non ricordo il suo nome — disse. — La maggior parte del mio lavoro riguardava la petrochimica e la biologia marina. — Oh... È stata una scelta un po' particolare allora, vero? — Non esattamente. Ero disponibile, ed il capo conosce il mio lavoro, sa che me la cavo bene. Diede un'occhiata ad un angolo della stanza, dove una pila di schedari oscurava in parte un terminale del computer centrale. Benissimo. Se voleva controllare le mie credenziali in quel momento, John Donne si sarebbe dissolto. Sembrava un po' troppo tardi per essere curioso, però, dopo avermi messo a parte del suo senso del peccato. Deve averlo pensato anche
lui, però, perché non ci fece più caso. — Mettiamola in questo modo... — disse infine, e qualcosa del vecchio David Fentris nella sua forma migliore prese controllo della voce. — Per un motivo o per l'altro, credo che voglia distruggere i suoi ex operatori. Se si tratta del giudizio dell'Onnipossente, non c'è altro da fare. Succederà. Se non è cosi, però, non voglio nessuna protezione esterna. Io mi sono pentito e voglio affrontare la situazione da solo. Fermerò personalmente il Boia... proprio qui... prima che venga fatto del male a qualcun altro. — Come? — gli chiesi. Indicò l'elmetto scintillante. — Con quello — disse. — Come? — ripetei. — I circuiti telefattori del Boia sono ancora intatti. Devono esserlo: ne sono una parte integrante. Non potrebbe distaccarli senza distruggersi. Se arriva ad un quarto di miglio da qui, quell'unità si attiverà. Emetterà un basso ronzio ed una luce comincerà ad ammiccare. Allora mi metterò l'elmetto, e prenderò il controllo del Boia. Lo porterò qui e disattiverò il suo cervello. — Come farà a disattivarlo? Prese gli schemi che stava consultando quando ero entrato. — Qui. La lastra toracica deve essere rimossa. Qui ci sono le sottounità da dividere. Qui, qui, qui e qui. Alzò gli occhi. — Bisogna farlo con questa sequenza, però, o si arroventerebbe — dissi. — Prima questa, poi queste due. Poi l'altra. Quando risollevai lo sguardo, i suoi occhi grigi fissavano i miei. — Pensavo si interessasse di petrochimica e biologia marina. — Non sono realmente specializzato in qualcosa — dissi. — Sono un divulgatore scientifico, con nozioni e conoscenze in tutti i campi... e ho visto parecchie volte questi schemi, quando ho accettato il lavoro. — Capisco. — Perché non coinvolge l'agenzia spaziale nella cosa? — dissi, tornando su di un terreno più sicuro. — L'equipaggiamento telefattore originario ha tutta la potenza e la portata... — È stato smantellato da molto tempo... Pensavo che lei lavorasse per il governo. Scossi la testa. — Mi dispiace. No, volevo fuorviarla. Lavoro per un'agenzia di investigazioni private.
— Uh-huh. Allora significa Jesse... Non che importi. Può dirgli che in un modo o nell'altro tutto si risolverà. — E se lei sbagliasse sul sovrannaturale — dissi — ma avesse ragione per tutto il resto? Ammettiamo che sia possibile resistergli. Ma se non fosse lei la sua prossima vittima? Supponendo che uccida qualcun altro, prima di lei? Se è così sensibile alla colpa ed al peccato, non pensa che sarebbe responsabile alla colpa ed al peccato, non pensa che sarebbe responsabile di tale morte... se potesse impedirla solo dicendomi qualcosa di più? Se è la confidenzialità quello di cui si preoccupa... — No — disse. — Non può ingannarmi portandomi ad applicare i miei principi ad una situazione ipotetica che si svilupperà solo nel modo in cui lei vuole. Non se sono sicuro che non accadrà mai. Qualunque intento animi il Boia, lo porterà la prossima volta da me. Se non riuscirò a fermarlo; allora non potrà essere fermato fino a quando non avrà terminato il suo lavoro. — Come fa a sapere di essere il prossimo? — Dia un'occhiata alla cartina — disse. — È atterrato nel Golfo. Manny era proprio lì a New Orleans. Naturalmente, è stato il primo. Il Boia può spostarsi sott'acqua come una torpedine controllata, il che fa sì che il Mississippi sia la sede ideale per i suoi spostamenti. Seguendone il corso, eccomi qui a Memphis. Poi Leila, su a St. Louis, verrà ovviamente dopo di me. Dopo di che potrà andare a Washington. Pensai al Senatore Brockden nel Wisconsin e decisi che non aveva problemi. Erano tutti facilmente accessibili, se si considerava la situazione nei termini di viaggi fluviali. — Ma come fa a sapere dove siete? — chiesi. — Ottima domanda — disse. — Nell'ambito di un raggio limitato, una volta era sensibile alle nostre onde cerebrali, le conosceva intimamente e riusciva a rilevarle. Non so quale sia attualmente la portata della sua sensibilità. Potrebbe aver costruito un amplificatore per estendere la sua area di percezioni. Ma per essere più concreti, credo che abbia semplicemente consultato il direttorio nazionale Centrale. Esistono terminali ovunque, anche in riva alle acque. Indubbiamente sapeva come farlo funzionare... e se la cava bene in ingegneria. — Allora mi sembra che per voi la cosa migliore sarebbe allontanarvi dai fiumi fino a quando la faccenda non sarà risolta. Indubbiamente non potrà gironzolare troppo sulla terra ferma senza essere riconosciuto e fermato.
Scosse la testa. — Troverebbe un sistema. È estremamente pieno di risorse. Di notte, con un soprabito, un cappello, potrebbe spostarsi. Potrebbe scavare una buca e nascondersi, rimanere sotto terra durante il giorno. Potrebbe correre senza riposo per tutta la notte. Non ha nessuna delle necessità fisiologiche umane. Non esiste un luogo che non potrebbe raggiungere in tempo sorprendentemente breve... No, devo aspettarlo qui. — Lasci che esponga la cosa con la massima brutalità — dissi. — Se ha ragione e si tratta di un Angelo Vendicatore, direi che sia blasfemo cercare di ostacolarlo. D'altra parte, se non lo è allora penso che lei danneggi molto gli altri nascondendo informazioni che potrebbero permetter loro di fornirsi di una protezione un po' migliore di quella che può dargli da solo. Rise. — Devo solo imparare a vivere anche con quella colpa, come loro fanno con le proprie — disse. — Quando avrò fatto del mio meglio, essi si meriteranno quello che avranno. — Se ho ben capito — dissi — anche Dio non giudica le persone fino a quando sono morte... se vuole un altro pezzo di presunzione da aggiungere alla raccolta. Smise di ridere e osservò la mia espressione. — C'è qualcosa di familiare nel suo modo di parlare, nel modo di pensare — disse. — Ci siamo mai incontrati prima? — Ne dubito. Me ne sarei ricordato. Scosse la testa. — Il suo modo di fare mi sembra lo stesso in qualche modo familiare — continuò. — Mi incuriosisce, signore. — Era proprio la mia intenzione. — Rimarrà qui in città? — No. — Mi dia un numero di telefono con cui io possa raggiungerla, vuole? Se mi verrà in mente qualcos'altro sull'argomento, le telefonerò. — Vorrei che me ne parlasse adesso, se lo ritiene possibile. — No, devo pensarci un po'. Dove posso trovarla? Gli diedi il nome del motel in cui ero ancora alloggiato a St. Louis. Potevo telefonare periodicamente per sapere se c'erano messaggi. — Benissimo — disse, e mi accompagnò verso la porta. Mi alzai e lo seguii, fermandomi sull'uscio. — Una cosa... — dissi.
— Sì? — Se compare e lo ferma, mi telefonerà per dirmelo? — Certo. Lo farò. — Grazie. Poi... stavo per aggiungere altre domande, ma mi trattenni. Non potevo insistere troppo con Dave, e Leila Thackery mi aveva detto tutto quello che poteva. Non c'era alcun motivo ancora per telefonare a Don... non fino a quando non avessi avuto qualcosa di più da riferirgli. Ci pensai mentre tornavo all'aeroporto. Le ore che precedono la cena sono sempre le migliori per parlare a coloro che ricoprono in qualche modo cariche ufficiali, proprio come la notte è il momento ideale per pratiche illecite. Molto psicologico, ma non di meno vero. Odiavo l'idea di perdere il resto della giornata se c'era qualcun altro con cui valeva la pena di parlare prima di fare rapporto a Don. Manny Burns aveva un fratello, Phil. Mi chiesi se valeva la pena di andarlo a trovare. Potevo arrivare a New Orleans ad un'ora sufficientemente rispettabile, sentire quello che aveva da dirmi, interpellare Don per i nuovi sviluppi, e poi decidere se c'era qualcosa da fare per quanto riguardava la capsula spaziale. All'aeroporto, feci rapidamente il biglietto, appena in tempo per una coincidenza. Mentre mi precipitavo per prendere l'aereo, i miei occhi si imbatterono in una figura abbastanza familiare sulla scala mobile che andava in direzione opposta alla mia. Il riflesso che agisce in tali occasioni sembrò entrare in funzione in entrambi, perché anche lui si voltò, con lo stesso aggrottar pensieroso di sopracciglia. Poi sparì dalla vista. Non riuscii a identificarlo, però. Il volto quasi familiare diventa un fenomeno comune in una società affollata ed in un continuo movimento. Penso talvolta che sia proprio ciò che in ultima analisi rimane di noi: schemi di lineamenti, alcuni un po' più persistenti degli altri, impressi sullo scorrere dei volti. Un ragazzo di provincia in una grande città. Thomas Wolfe molto tempo fa deve aver sentito le stesse cose quando coniò il termine «calore umano». Poteva trattarsi di qualcuno che avevo conosciuto superficialmente, o più semplicemente di qualcuno che assomigliava a un tizio... che avevo incontrato varie volte in situazioni analoghe. Mentre mi allontanavo in volo da Memphis, riflettei sulla nozione di intelligenza artificiale, o AI come era stata siglata. Quando si parlava di computer, la nozione AI era sempre sembrata più scottante di quanto pen-
sassi, in parte per motivi semantici. Il termine «intelligenza» possiede moltissime implicazioni di tipo non-fisico. Credo che ciò sia da attribuirsi al latto che le prime discussioni e congetture riguardanti l'argomento avevano dato l'impressione che le potenzialità per l'intelligenza fossero sempre presenti nei dispositivi cibernetici e che le procedure esatte, i programmi corretti, dovevano solo essere identificati. Se si considerava la cosa sotto questo punto di vista, sorgeva un inevitabile déja vu... cioè, il vitalismo. Le battaglie filosofiche del diciannovesimo secolo che avevano toccato questo problema non erano mai state completamente dimenticate, e le dottrine che sostenevano che la vita è provocata e sostenuta da un principio vitale diverso delle forze fisiche e chimiche, e che la vita si autosostiene e si autoevolve, avevano combattuto aspramente prima che Darwin ed i suoi successori fornissero un trionfo dopo l'altro per la visione meccanicistica. Poi il vitalismo aveva ripreso inaspettatamente forza quando era sorta la discussione sull'Ai nella metà del secolo scorso. Sembrava che Dave se ne fosse lasciato trascinare, e che fosse giunto a credere di aver contribuito alla creazione di una capsula non soddisfatta, riempiendola poi di una cosa che si considerava riservata all'interprete della scena del primo capitolo della Genesi... Con i computer le cose non andavano male come con il Boia, però, perché era sempre possibile sostenere che indipendentemente dall'elaborazione del programma, si trattava fondamentalmente di un'estensione della volontà del programmatore, e che le operazioni delle macchine casuali rappresentavano semplicemente funzioni dell'intelligenza, piuttosto che un'intelligenza autonoma sostenuta da una volontà indipendente. E c'era pur sempre Godel per un cordon sanitaire teorico, con la sua dimostrazione della proposizione vera ma meccanicamente indimostrabile. Ma il Boia era abbastanza diverso. Era stato progettato secondo le linee generali di un cervello, ed, almeno in parte, educato secondo sistemi umani; e per ingarbugliare ulteriormente la situazione per quanto riguardava il vitalismo, era stato in contatto diretto con menti umane da cui poteva aver acquisito praticamente tutto; compresa la scintilla che l'aveva messo sulla strada di quell'indipendenza che poteva aver conquistato in seguito. Che cosa diventava? Una creazione autonoma? Uno specchio rotto che rifletteva un'umanità frustrata? Entrambe le cose? O nessuna delle due? Certamente non ero in grado di dirlo, ma mi chiedevo fino a che punto la sua personalità appartenesse proprio a lui. Aveva evidentemente acquisito un gran numero di funzioni, ma era in grado di avere veri sentimenti? Poteva,
per esempio, provare qualcosa di simile all'amore? In caso contrario, allora, si trattava solo di una sintesi di facoltà complesse, e non di una cosa che possedesse tutti i collegamenti impliciti di tipo nonfisico che rendevano pregnante il termine «intelligenza» nelle discussioni sull'Ai; e se fosse stato capace di provare qualcosa di, diciamo, simile all'amore, e se io fossi stato in Dave, non mi sarei mai sentito in colpa per il fatto di aver contribuito a tale creazione. Me ne sarei sentito orgoglioso, anche se non nel modo che lo preoccupava, come al tempo stesso, anche umile... D'altra parte, però non so fino a che punto mi sarei sentito intelligente, perché non ho ancora capito con precisione cosa diavolo sia l'intelligenza. Il cielo crepuscolare era limpido quando atterrammo. Giunsi in città prima che il tramonto si fosse spento, ed alla porta di Philip Burns pochi minuti dopo. Mi venne ad aprire una bambina sui sette o otto anni. Mi fissò con i suoi grandi occhi castani senza dire una parola. — Vorrei parlare con Mister Burns — dissi. Si voltò e scomparve dietro un angolo. Un uomo massiccio, vestito sommariamente e dalla carnagione molto chiara, apparve pochi momenti dopo nell'ingresso e mi squadrò. — Che cosa desidera? — chiese. — È per suo fratello — risposi. — Ebbene? — Be', mi chiedo se potrei entrare? È una cosa abbastanza complicata. Aprì la porta. Ma invece di farmi entrare, uscì. — Parliamone qui fuori — disse. — D'accordo, farò in fretta. Vorrei solo sapere se le ha mai parlato di uno strumento su cui ha lavorato una volta, il Boia. — Lei è un poliziotto? — No. — Allora perché le interessa? — Lavoro per un'agenzia di investigazioni private che cerca di rintracciare alcune attrezzature una volta collegate al progetto. La cosa è evidentemente avvenuta in questa zona, e potrebbe rivelarsi abbastanza pericolosa. — Mi aiuti a riconoscerla. — Non ho elementi per farlo. — Come si chiama? — John Donne.
— E pensa che mio fratello prima di morire abbia rubato delle strumentazioni? Lasci che le dica... — No. Non rubate — dissi. — E non penso che le avesse lui. — E allora? — Era... be', una questione di natura robotica. A causa di un qualche addestramento che una volta Manny ricevette, potrebbe aver avuto un modo per ritrovarla. Avrebbe potuto perfino attirarla. Vorrei solo sapere se ne ha mai parlato. Stiamo cercando di rintracciarla. — Mio fratello era un uomo d'affari molto rispettabile, e le accuse non mi piacciono. Specialmente poco dopo il suo funerale, non mi piacciono proprio. Penso che adesso chiamerò i poliziotti e lascerò che loro vi facciano qualche domanda. — Solo un momento. Supponiamo che io le dica che abbiamo qualche ragione per ritenere che proprio questa strumentazione sia stata la causa della morte di suo fratello. Arrossì violentemente ed i muscoli della sua mascella si indurirono. Non ero preparato al torrente di contumelie che ne seguì. Per un attimo pensai che stesse per saltarmi addosso. — Aspetti un momento — dissi quando si fermò per respirare. — Che cosa ho detto? — O si prende gioco di un morto o è più stupido di quanto sembri a prima vista! — Diciamo che sono stupido. Adesso mi spieghi il perché. Aprì il foglio che teneva in mano, lo spiegò, trovò un articolo e me lo mostrò. — Perché hanno preso l'assassino! Ecco perché — disse. Lo lessi. Semplice, conciso, diretto. L'ultima edizione. Un indiziato aveva confessato. Nuove prove avevano confermato la sua confessione. L'uomo era detenuto. Un ladro sorpreso che aveva perso la testa ed aveva colpito con troppa forza, troppe volte. Rilessi più volte l'articolo. Annuii restituendoglielo. — Senta, mi dispiace — dissi. — Sinceramente non ne sapevo nulla. — Se ne vada — disse. — Certo. — Aspetti un momento. — Cosa? — È la figlia di suo fratello quella che ha aperto? — chiesi. — Mi dispiace moltissimo.
— Anche a me. Ma so che suo papà non avrebbe mai preso i vostri maledetti strumenti. Annuii e me ne andai. Sentii la porta sbattere dietro di me. Dopo cena, presi una stanza in un alberghetto. Le cose erano improvvisamente diventate meno urgenti di quanto erano state fino a quel momento. Il Senatore Brockden sarebbe indubbiamente stato compiaciuto nel sapere che la sua stima iniziale dei fatti si era rivelata inesatta. Leila Thackery mi avrebbe rivolto un te-l'avevo-detto quando le avessi telefonato per dirle le novità, cosa che adesso mi sentivo obbligato a fare. Don avrebbe potuto decidere di interrompere o continuare le ricerche adesso che la minaccia si era attenuata. Sarebbe dipeso dai sentimenti del Senatore al riguardo, pensavo. Se l'urgenza non era più un argomento importante, Don avrebbe potuto decidere di continuare le ricerche da solo, riducendo drasticamente le spese. Mi sentivo di ottimo umore; mi ritrovai a fischiettare. Più tardi composi il numero del motel di St. Louis dove avevo ancora recapito. Volevo sapere se c'era qualche messaggio da aggiungere al mio rapporto. Sullo schermo comparve un volto di donna, sorridente. Mi chiesi se sorrideva sempre quando sentiva suonare un campanello, o se il riflesso si sarebbe estinto quando sarebbe andata in pensione. — Airport Accomodations — disse. — In cosa posso servirla? — Sono Donne. Sono registrato alla stanza 106 — dissi. — In questo momento sono fuori città. Ci sono dei messaggi per me? — Aspetti un momento — disse, controllando qualcosa alla sua sinistra. Poi aggiunse: — Sì; ce n'è uno registrato. Ma è un po' strano. È per qualcun altro, sotto la sua tutela. — Sì? Di che si tratta? Me lo lesse, e dovetti esercitare un forte autocontrollo. — Capisco — dissi. — Grazie. Lei sorrise di nuovo e mi salutò, dopo di che interruppe il collegamento. Così Dave mi aveva letto dentro, dopo tutto... Chi altri avrebbe potuto avere quel numero ed il mio vero nome? Bevvi una grande sorsata di liquore, poi cercai sull'agenda il nome di Dave. Controllai il suo numero... ce n'erano due, in effetti... e tentai di entrare in contatto con lui. Non ebbi fortuna. D'accordo. Addio New Orleans, addio pace interiore. Questa volta chia-
mai l'aereoporto e feci una prenotazione. Poi terminai il liquore, mi sistemai, raccolsi la mia roba, e provai di nuovo. Durante il volo di quel giorno avevo passato molto tempo a pensare a Teilhard de Chardin ed alle sue idee sulla continuità dell'evoluzione all'interno del regno dei manufatti, controbilanciandolo con Godei sulla teoria meccanica immaginando giochi epistemologici con il Boia, speculando, riflettendo, anche sperando che la verità stesse dalla parte del più nobile: che il Boia, senziente, fosse tornato, sano; che l'assassinio di Burns era stato qualcosa di completamente diverso e non dipendente dal Boia, un trionfo, un nuovo anello nella catena dell'esistenza... E Leila non era stata troppo scoraggiante per quanto riguardava le capacità del cervello a neuristori... Adesso, però, adesso che avevo problemi personali, anche la più toccante visione filosofica passava in secondo piano. In conseguenza, il Boia era messo da parte e il torrente dei miei pensieri riguardava, principalmente, me stesso. C'era, naturalmente, la possibilità che il Boia fosse comparso realmente, che Dave l'avesse fermato e che poi avesse chiamato per fare rapporto come aveva promesso. Però, aveva usato il mio nome. Non potevo fare molti progetti fino a quando, non avessi ricevuto la sostanza del suo messaggio. Non sembrava che un uomo dichiaratamente religoso come Dave si potesse improvvisamente dedicare a cose del genere. Daltra parte, era una creatura dagli entusiasmi improvvisi, ed aveva già avuto una conversione imprevedibile. Era difficile dirlo... La sua preparazione tecnica unita alle sue conoscenze sulla Banca dei Dati lo mettevano in una posizione insolitamente forte, se mai avesse deciso di ricattarmi. Premetti il pulsante. Il nastro cominciò a scorrere. Lo schermo rimase bianco. Percepii la voce di Dave chiedere di John Donne della stanza 106 e lo sentii dire che voleva registrare un messaggio, per qualcun altro, in tutela di Donne, che Donne avrebbe compreso. La ragazza gli chiese se voleva attivare anche lo schermo. Lui le disse di accenderlo. Seguì una pausa. Poi lei gli chiese di continuare. Ancora niente immagini. E nemmeno parole. La sua respirazione, ed un leggero ronzio. Dieci secondi. Quindici... — ... preso — disse infine, e citò il mio nome. — ... Devo farti sapere che lo immaginavo, però... Non è stato per qualche manierismo particolare... Nessuna singola frase... solo lo stile generale... pensare, parlare... l'elettronica... tutto quanto... quando sono rimasto sempre più colpito dalla
familiarità... dopo le domande di controllo sulla petrochimica... e la biologia marina... Vorrei sapere dove sei stato in realtà in tutti questi anni... Non so proprio immaginarlo. Ma ti volevo... far sapere... che non mi hai... ingannato. — Seguì un altro quarto di minuto di respirazione pesante, alternata da una tosse rauca. — ... Detto troppo... troppo velocemente... troppo presto... Tutto esaurito... Il quadro a quel punto si completò. Era accasciato davanti allo schermo, con la testa appoggiata sulle braccia, circondato dal sangue. I suoi occhiali erano in frantumi, stava ammiccando e strizzando gli occhi. C'era un taglio sulla guancia sinistra ed un altro sulla fronte. — ... raggiunto... mentre stavo controllandoti... — riusci a dire. — Devo dirti quello che ho scoperto... Non so ancora... chi di noi abbia ragione ... Prega per me! Le sue braccia ricaddero, il destro scivolò in avanti. La testa girò a destra e l'immagine scomparve. Quando ritornò, vidi che il capo era completamente ricaduto. Poi cancellai la registrazione. Era stata impressa solo poco più di un'ora dopo che l'avevo lasciato. Se non aveva ancora fatto una telefonata in cerca di aiuto, se nessuno l'aveva trovato abbastanza velocemente, le sue possibilità non erano troppo buone. Anche se l'avessero trovato, però... Usai un telefono pubblico per chiamare il numero che mi aveva dato Don, lo trovai quasi subito, gli dissi che Dave era in pessima forma per non dire di peggio, che era necessaria una squadra di medici di Memphis se non era ancora intervenuta, e che speravo di richiamarlo e di salutarlo con più calma. Poi provai a chiamare il numero di Leila Thackery. Lasciai squillare il telefono a lungo, ma non rispose nessuno. Mi chiesi quanto tempo avrebbe impiegato una torpedine controllata a risalire il Mississippi da Memphis a St. Louis. Giunto al suo appartamento, cercai di chiamarla dal citofono. Di nuovo nessuna risposta. Così chiamai Mrs. Gluntz. Era sembrata la più amichevole delle tre intervistate per la mia indagine simulata sui consumi. — Si — Sono di nuovo io, Mrs. Gluntz: Stephen Foster. Ho ancora un paio di domande da fare per la mia inchiesta, se potesse concedermi qualche minuto.
— D'accordo — disse. — Benissimo. Salga. La porta si aprì ed entrai. Salii direttamente al quinto piano, inventando nel contempo le domande. Avevo progettato quella manovra il giorno precedente per prepararmi una facile via di ingresso, in caso di necessità impreviste. Per la maggior parte delle volte le mie precauzioni si rivelano superflue, ma in certi casi semplificano moltissimo le cose. Cinque minuti ed una dozzina di domande dopo, ero ridisceso il secondo piano, e stavo suonando alla porta di Leila, aprendola poi con un paio di pezzetti di metallo il cui possesso è talvolta imbarazzante, se viene scoperto. Mezzo minuto dopo, spalancai la porta e la richiusi dietro di me. Indossai un paio di guanti molto sottili che trovai arrotolati in un angolo di una tasca. Lei giaceva sul pavimento, con il collo che formava un angolo molto innaturale. Una lampada era ancora accesa, anche se rovesciata su un fianco. La stanza in assoluto disordine, la roba sparsa un po' dappertutto. Il cavo del telefono era stato strappato dal muro. Un ronzio riempiva l'aria; ne cercai la fonte. Vidi dove la piccola luce ammiccante si rifletteva sul muro, accesa... spenta... accesa... spenta... Mi mossi rapidamente. Era un caschetto di metallo, quarzo, porcellana, e vetro, rotolato su un angolo della sedia su cui mi ero seduto qualche ora prima. Lo stesso aggeggio che avevo visto da Dave non molto tempo prima, anche se ora mi sembrava fossero passati secoli. Uno strumento per rilevare la vicinanza del Boia. E, si sperava, per controllarlo. Lo presi e me lo adattai in testa. Una volta, con l'aiuto di un telepate, avevo sfiorato la mente di un delfino mentre componeva canzoni oniriche da qualche parte nei Caraibi, esperienza talmente toccante che il suo stesso ricordo mi era spesso stato di grande conforto. Questa sensazione non era molto simile. Analogie ed impressioni: un volto visto attraverso un vetro appannato; un sussurro in un luogo rumoroso; un massaggio cranico con un vibratore elettrico; The Scream di Edvard Munch; la voce di Yma Sumach, che saliva sempre più di tono; la scomparsa della nave; una strada deserta, illuminata come attraverso un caleidoscopio che avevo visto una volta; un'immensa sensazione di possanza fisica, composta da una consapevolezza estremamente lucida di forza enorme; una raggerà particolare di canali sen-
soriali, un sole centrale imperituro che mi alimentava di un flusso energetico costante, una visione mnemonica di acque oscure, fluenti, luminose, la necessità di tornare in quel posto, riorientarsi, trasferirsi verso nord; Munch e Sumac, Munch e Sumac, Munch e Sumac... Nulla. Silenzio. Il ronzio era terminato, la luce si era spenta. L'intera esperienza era durata solo pochi attimi. Non c'era stato tempo sufficiente per tentare una qualsiasi forma di controllo, anche se un'impressione residua affine al biofeeback mi lasciava intravvedere la direzione da prendere, il modo in cui pensare, per raggiungerlo. Sentivo che per me poteva essere possibile elaborare la cosa, avendo una possibilità migliore. Togliendomi l'elmetto, mi avvicinai a Leila. Mi inginocchiai accanto a lei e feci alcune prove elementari, pur conoscendone già il risultato. In aggiunta al collo spezzato, aveva ricevuto alcuni brutti colpi sulla testa e sulle spalle. Non c'era più nulla da fare per lei, ormai. Effettuai allora un veloce controllo del suo appartamento. Non c'erano segni evidenti di scasso ed ingresso violento, anche se chiunque volendo, avrebbe potuto entrare con la mia stessa velocità. Trovai della carta ed un cordino e nascosi l'elmetto in un pacco. Era giunto il momento di richiamare Don, di dirgli che la capsula era stata davvero occupata e che il traffico fluviale era probabilmente difficoltoso nel settore diretto verso Nord. Don mi disse di portare l'elmetto nel Wisconsin, dove all'aeroporto mi sarebbe venuto incontro un uomo di nome Larry, che mi avrebbe condotto in un luogo riservato. Eseguii, e tutto avvenne regolarmente. Appresi anche, senza restare particolarmente sorpreso, che David Fentris era morto. La temperatura era scesa, e cominciò a nevicare lungo il percorso. Non ero vestito adeguatamente per l'inverno. Larry mi disse che potevo trovare degli abiti più caldi quando avessimo raggiunto il rifugio, anche se probabilmente non avrei avuto bisogno di stare molto fuori. Don aveva detto loro che avrei dovuto rimanere il più vicino possibile al Senatore e che le truppe le avrebbero comandate loro quattro. Larry era curioso di sapere che cosa era accaduto in realtà fino a quel momento, e se io avessi visto effettivamente il Boia. Non pensai che spettasse a me informarlo su cose che Don non gli aveva detto, così fui un po'
confuso. Non parlammo molto, dopo quel momento. Bert ci venne incontro appena atterrammo. Tom e Clay erano all'esterno dell'edificio, e controllavano le zone circostanti. Erano tutti di mezza età, e dall'aspetto molto efficiente, molto serio, ed armati di tutto punto. Larry mi portò dentro e mi presentò all'anziano gentiluomo. Il Senatore Brockden era seduto su di una sedia imponente nell'angolo opposto della stanza. A giudicare dall'aspetto sembrava che la sedia avesse occupato di recente una posizione accanto alla finestra nella parete opposta dove un vaso pieno di fiori gialli si stagliava solitario. Il Senatore mi osservò e mi squadrò con estrema attenzione. Mentre ci avvicinavamo il suo volto rimase perfettamente impassibile. I suoi occhi erano pallidi e cerchiati. Non si alzò. — Così è lei — disse, porgendomi la mano. — Sono felice di conoscerla. Come devo chiamarla? — John andrà benissimo — dissi. Fece un piccolo cenno a Larry che uscì dalla stanza. — Fa freddo là fuori. Si versi da bere, John. È sullo scaffale. — Indicò un punto alla sua sinistra. — E già che c'è mi porti un bicchiere. Due dita di bourbon in un bicchier d'acqua. È tutto. Annuii e feci come mi aveva detto. — Si sieda. — Indicò una sedia vicina mentre mi riavvicinavo alla sua. — Ma prima mi faccia vedere l'aggeggio che ha portato. Disfeci il pacco e gli porsi l'elmetto con entrambe le mani. Lo studiò, aggrottando le sopracciglia, girandolo da tutte le parti. Lo alzò e se lo mise in testa. — Niente male — disse, e poi sorrise per la prima volta, diventando per un momento il volto che avevo conosciuto dai notiziari in passato. Si tolse l'elmetto e lo posò sul pavimento. — Veramente niente male — disse. — Niente a che vedere con gli strumenti dei vecchi tempi. Ma poi David Fentris l'ha costruito. Sì, ce ne ha parlato... — Prese il bicchiere e bevve una sorsata. — Lei è il solo che è riuscito a servirsene, evidentemente. Cosa ne pensa? Servirà a qualcosa? — Sono rimasto in contatto soltanto per un paio di secondi, così ho ricevuto solo la sensazione di continuare, niente più di una traccia. Ma, sì, ho avuto la sensazione che se avessi avuto più tempo sarei riuscito a modificare i suoi circuiti. — Dica, perché non è riuscito a salvare Dave.
— Nel messaggio che mi ha lasciato, ha indicato il fatto di essere stato distratto alla sua stazione di accesso al computer. Probabilmente il rumore ha coperto il ronzio. — Perché questo messaggio non è stato conservato? — L'ho cancellato per ragioni non connesse al caso. — Che ragioni? — Mie personali. Il suo volto si indurì leggermente. — Ci si può cacciare in un mucchio di guai sopprimendo le prove, ostacolando la giustizia. — Allora abbiamo qualcosa in comune, non è vero signore? I suoi occhi si fissarono nei miei con un'espressione che in precedenza avevo incontrato solo in chi ce l'aveva a morte con me. Mantenne fisso lo sguardo per qualche secondo, poi lo abbassò e sembrò rilassarsi. — Don ha detto che ci sono molti punti su cui non vuole essere interrogato — disse infine. — È verissimo. — Non ha tradito nessuna confidenza, ma ha dovuto dirmi qualcosa su di lei. — Immagino. — Sembra che abbia un'enorme stima di lei. Eppure, ho cercato di fare qualche piccola indagine personale sul suo conto. — E...? — Non potrei... e le mie fonti sono ottime in quel genere di cose. — E allora...? — E allora, ho fatto alcune riflessioni, alcune speculazioni... Il fatto che le mie fonti non abbiano trovato nulla è interessante di per sé. Probabilmente è anche molto rivelatore. Mi trovo in una posizione particolarmente favorevole per prendere coscienza del fatto che non c'è stata un'aderenza perfetta agli statuti delle registrazioni qualche anno fa. Non c'è voluto molto tempo per la maggior parte delle persone implicate (direi, anche meglio, «quasi tutti») per dimostrare che la loro esistenza è stata realmente registrata. E c'erano tre grandi categorie: quelli che ignoravano, quelli che disapprovavano e quelli che si sentivano attratti da una vita illecita. Io non sto tentando di giudicarla o classificarla. Ma so che esiste un certo numero di non individui che passano nella società senza gettare ombre, e mi è venuto in mente che lei potrebbe essere uno di loro. Assaggiai il mio liquore.
— E se fosse? — chiesi. Mi sorrise per la seconda volta, senza dire una parola. Mi alzai ed attraversai la stanza diretto verso il punto in cui stimavo dovesse essere stata la sua sedia. — Non penso che potrebbe reggere ad un'inchiesta — disse. Non risposi. — Non dice nulla? — Che cosa vuole che dica? — Potrebbe chiedermi che cosa ho intenzione di fare. Non tema, non voglio fare proprio niente. Così torni indietro e si sieda. Annuii e mi sedetti. — Sono qui per aiutarla, signore. Nessuna domanda. Questo era il contratto, se ho capito. Se ci fosse qualche cambiamento, mi piacerebbe saperlo subito. Tamburellò sul bracciolo con le dita. — Non ho intenzione di crearle delle difficoltà — disse. — Il fatto concreto è che ho bisogno di un uomo come lei, ed ero abbastanza sicuro che Don riuscisse a trovarlo. La sua insolita manovrabilità e la dichiarata conoscenza dei computer, insieme alla sua destrezza in certi campi, la rende l'uomo giusto. Ci sono molte domande che vorrei farle. — Prosegua — dissi. — Non ancora. In seguito, se ne avremo il tempo. Tutto questo sarà materiale prezioso per un rapporto che sto stendendo. Molto più materiale (per me, personalmente)... ci sono cose che io voglio dirle. Mi accigliai. — Nel corso degli anni — continuò — ho imparato che l'uomo migliore per mantenere un segreto è un individuo di cui si conoscono i segreti. — Ha intenzione di confessare qualcosa? — chiesi. — Non so se «intenzione» sia il termine esatto. Forse sì, forse no. In ogni modo, però, qualcuno tra coloro che lavorano per difendermi deve conoscere tutta la storia. Qualcun altro da qualche parte può aver bisogno di aiuto... e lei è l'individuo ideale per sentirmi. — Posso assicurare — dissi — che è al sicuro con me come io lo sono con lei. — Ha qualche idea sul motivo per cui questa faccenda mi preoccupa tanto? — Sì — dissi. — Sentiamo.
— Lei si è servito del Boia per eseguire qualche azione o serie di azioni... illegali, immorali, quello che preferisce. Non si tratta evidentemente di una faccenda di registrazioni. Solo lei ed il Boia ne sapete qualcosa. Sente che è stato sufficientemente vergognoso che quando quello strumento è riuscito ad apprezzare completamente la portata della cosa, ha avuto una crisi che può averlo portato alla decisione finale di punirla per il modo in cui se n'è servito. Abbassò gli occhi, fissando il bicchiere. — Centrato — disse. — Eravate tutti coinvolti? — Sì, ma io sono stato l'operatore quando la cosa è successa. Capite... noi... io... ho ucciso un uomo. In effetti, è cominciato tutto come una celebrazione. Quel pomeriggio abbiamo ricevuto la notizia che il progetto si era chiarito. Tutto era in ordine e l'approvazione finale era pervenuta regolarmente. Il via era fissato per quel venerdì. Leila, Dave, Manny ed io... cenammo insieme. Eravamo di ottimo umore. Dopo cena, continuammo a festeggiare ed in qualche modo la festa si trasferì alle installazioni. Con il passar delle ore, un numero sempre crescente di assurdità ci sembrarono sempre più normali, come capita talvolta. Decidemmo... non ricordo da chi partì l'idea... che anche il Boia avrebbe dovuto partecipare ai festeggiamenti. Dopo tutto, in realtà, la festa era dedicata a lui. Non passò molto tempo che l'idea ci sembrò splendida e stavamo discutendo come realizzarla... capisce, eravamo nel Texas ed il Boia era al Centro Spaziale in California. Riunirci a lui era fuori discussione. D'altra parte, la stazione di teleoperazioni era di fronte a noi. La decisone fu di attivarlo e fare i turni lavorando come operatori. C'era già una coscienza rudimentale allora, e sentimmo che era giusto entrare in contatto con lui per comunicargli la bella notizia. E lo facemmo. Sospirò, bevve un'altra sorsata, mi fissò. — Dave fu il primo operatore — continuò. — Fu lui ad attivare il Boia. Poi... Be', come ho detto, eravamo tutti di ottimo umore. All'inizio non avevamo intenzione di allontanare il Boia dal laboratorio dove era situato, ma Dave decise di farlo uscire per qualche momento... per mostrargli il cielo e dirgli che stava per andarci, dopo tutto. Poi improvvisamente Dave si entusiasmò all'idea di giocare le guardie e il sistema di allarme. Era un gioco. Noi tutti lo continuammo. In effetti, non vedevamo l'ora che venisse il nostro turno. Ma Dave non mollava, e non ci passò i comandi fino a quando non ebbe portato il Boia fuori dal laboratorio, in una zona disabita-
ta nei pressi del centro. In quel momento Leila lo convinse di lasciarle il posto ai comandi. Lo scherzo era già stato giocato. Così lei ne elaborò uno nuovo: portò il Boia nella città vicina. Era tarda notte, e l'equipaggiamento sensorio era superbo. Era una sfida... attraversare la città senza farsi scoprire. A partire da quel momento, ognuno ebbe dei suggerimenti sul cosa fare in seguito, suggerimenti progressivamente più oltraggiosi. Poi Manny prese il controllo, e non volle dire che cosa stava facendo... non ci lasciò controllare. Disse che era una sorpresa per l'operatore seguente. Ora, lui era più euforico di tutti noi, e rimase per tanto tempo ai comandi che cominciammo ad innervosirci... Una certa quantità di tensione è in parte disintossicante e penso che cominciammo proprio allora tutti a pensare che stavamo facendo una cosa maledettamente stupida. Non per il fatto che potesse rovinarci la carriera (cosa più possibile) ma perché poteva mandare a monte l'intero progetto, se ci avessero colto a giocare con strumentazioni così costose. Per lo meno, io la pensavo così e pensai anche che Manny stava senza dubbio agendo sotto l'impulso molto umano di fare meglio degli altri. Cominciai a sudare. All'improvviso volevo solo riportare indietro il Boia nel laboratorio, disattivarlo... era ancora possibile, prima che entrassero in funzione i circuiti finali... chiudere la stazione, e dimenticare tutta la storia. Cominciai ad avvicinarmi a Manny per cercare di indurlo a smettere ed a passarci il controllo. Infine accettò. Finì di bere e posò il bicchiere. — Me ne verserebbe un altro goccio? — Volentieri. Andai a versargli altro liquore, ne aggiunsi un po' anche nel mio bicchiere, tornai alla sedia ed attesi. — Così presi i comandi — disse. — Presi i comandi, e dove pensa che quell'idiota avesse lasciato il Boia? Era all'interno di un edificio, e non ci volle molto per accorgermi che si trattava di una banca. Il Boia è fornito di una gran quantità di strumenti, e Manny evidentemente era riuscito a fargli aprire la porta senza rovinare nulla. Era di fronte alla cassaforte principale. Ovviamente, pensava che quella fosse la mia sfida. Combattei il desiderio istintivo di voltarmi ed uscire sfondando il muro posteriore, per poi mettermi a correre furiosamente. Ma tornai alla porta e guardai fuori. — Il Boia era ai miei ordini. Ero praticamente in lui. Non vidi nessuno. Cominciai ad uscire. La luce mi colpì mentre uscivo completamente. Era una torcia a pile. La guardia era rimasta fuori vista. Nell'altra mano aveva
una pistola. Mi lasciai prendere dal panico. Lo colpii, riflesso condizionato. Se devo colpire qualcuno, lo colpisco con tutte le mie forze. Cominciai a correre e non mi fermai fino a quando non mi trovai di nuovo nella piccola zona di parcheggio vicino al Centro. Poi mi fermai e gli altri terminarono il rientro. — Assistettero tutti? chiesi. — Sì. Qualcuno azionò uno schermo laterale appena presi i comandi. Dave, penso. — Cercarono in qualche modo di fermarla mentre fuggiva? — No. Be', non ero consapevole di altro, oltre a ciò che stavo facendo in quel momento. Ma in seguito dissero che erano troppo sconvolti per fare qualcosa oltre che assistere, fino a quando non cedetti i comandi. — Capisco. — Dave prese i comandi, iniziò l'ultima fase di rientro, riportò il Boia nel laboratorio, lo ripulì; lo disattivò. Chiudemmo la stazione operativa. Improvvisamente eravamo diventati tutti molto lucidi. Sospirò e rimase silenzioso per un po'. Poi aggiunse: — Lei è l'unica persona al mondo a cui ne ho parlato. Andammo poi a casa di Leila — continuò — ed il resto è abbastanza prevedibile. Non potevamo fare nulla per riportare indietro quel poveraccio, decidemmo, che se avessimo raccontato quello che era successo avremmo potuto distruggere un progetto molto costoso ed importante. Non eravamo criminali in cerca di riabilitazione. Si trattava di uno scherzo che si era concluso tragicamente. Cosa avrebbe fatto al posto nostro? — Non lo so! Forse la stessa cosa. Anch'io sono passato attraverso simili esperienze. Annuì. — Esattamente. Ed ecco. — Non tutto, vero? — Cosa vuole dire? — E il Boia? Ha detto che era già presente una forma rilevabile di coscienza. Voi ne eravate consapevoli, e lui era consapevole di voi. Deve esserci stata una qualche reazione a tutta la faccenda. Com'è stata? — Accidenti a lei — disse con tono incolore. — Mi dispiace. — Ha famiglia? — chiese. — No. — Ha mai portato un bambino allo zoo?
— Sì. — Allora forse conosce una tale esperienza. Un pomeriggio quando mio figlio aveva quattro anni lo portai allo zoo di Washington. Passando davanti ad ogni gabbia, di tanto in tanto formulava qualche apprezzamento, faceva qualche domanda, giocherellava con le scimmie, pensava che gli orsi fossero molto carini... probabilmente perché gli ricordavano dei giocattoli troppo cresciuti. Ma sapete qual è stata la cosa più bella? La cosa che lo fece sobbalzare e dire con entusiasmo: — Guarda, papà, guarda! Scossi la testa. — Un passero che stava svolazzando su un albero. Reazioni inadeguate. Innocenza. Il Boia era un bambino, e fino al momento in cui presi i comandi, la sola cosa che aveva tratto da noi era l'idea che si trattava di un gioco: stava giocando con noi, ecco tutto. Poi accadde qualcosa di orribile... Sentì tutte le mie reazioni, e tutte quelle di Dave mentre lo riportava indietro. Rimanemmo per un po' seduti in silenzio. — Così, l'avevamo... traumatizzato — disse infine — o qualunque altro termine preferisce usare. Ecco cosa accadde quella notte. Ci volle un bel po' perché la cosa facesse effetto, ma secondo me non c'è dubbio che questa sia la causa della crisi finale del Boia. Annuii. — Capisco. E crede che voglia ucciderla per questo? — Lei non lo farebbe? — disse. — Se avesse cominciato come una cosa e l'avessero reso un individuo e poi l'avessero usato di nuovo come una cosa, cosa avrebbe fatto? — Leila ha tralasciato molti indizi nella sua diagnosi. — No, ha semplicemente omesso questi fatti nel suo racconto. Era tutto previsto. Ma ha letto erroneamente i dati. Non aveva paura. Era solo un gioco che aveva condiviso... con gli altri. I suoi ricordi di quella sera potevano non essere troppo vivi. Ero io quello che aveva vissuto la cosa con maggior intensità. Secondo me, Leila avrebbe scommesso che io fossi il solo ad essere in causa. Ovviamente, ha sbagliato tutto. — Quello che non capisco — dissi — è perché le uccisioni del Boia non l'abbiano preoccupata minimamente. Non c'era possibilità di stabilire subito che si era trattato di un ladro colto dal panico invece che del Boia. — La sola cosa che posso dire è che, essendo una donna molto orgogliosa — com'era realmente — voleva sostenere la sua diagnosi anche contro ogni evidenza. — Non mi piace. Ma lei la conosceva ed io no, e le cose dimostrano che
la sua prima stima era corretta. Qualcos'altro mi preoccupa altrettanto, però: l'elmetto. Sembra che il Boia abbia ucciso Dave, poi si sia preso la briga di portare l'elmetto nel suo appartamento impermeabilizzato fino a St. Louis, per poi lasciarlo sulla scena del suo delitto successivo. La cosa non ha alcun senso. — In realtà sì — disse. — Stavo per arrivarci, ma adesso è meglio chiarire questo punto. Vede, il Boia non possiede meccanismi vocali. Comunicavamo solo per mezzo di quegli strumenti. Don dice che lei si intende un po' di elettronica... — Esatto. — Be', per dirla breve, voglio che cominci a controllare l'elmetto per vedere se è stato modificato. — Sarà una cosa abbastanza difficile — dissi. — Non so com'era fatto in origine, e non sono un genio teorico a tal punto da guardare uno strumento e dire se funzionerà come unità teleoperatrice. Si morsicò il labbro inferiore. — Deve tentare, in ogni modo. Possono esserci segni fisici... graffi, rotture, nuovi collegamenti... non lo so. È il suo campo. Li cerchi. «Penso che il Boia volesse parlare a Leila — disse — o perché lei era una psichiatra e lui sapeva di non funzionare correttamente ad un livello che trascendeva quello meccanico, o perché poteva pensare a lei in termini di madre. Dopo tutto, era l'unica donna coinvolta, e lui aveva il concetto di madre - con tutte le associazioni gratificanti del caso - tratto da tutte le nostre menti. O forse per entrambi i motivi. Sento che forse ha perso l'elmetto proprio per questo motivo. Deve aver capito che cos'era da una lettura diretta del cervello di Dave quando quest'ultimo lo portava. Voglio che controlli, perché è possibile che il Boia abbia isolato i circuiti di controllo lasciando intatti quelli comunicazione. Penso che potrebbe aver portato l'elmetto a Leila in tali condizioni, tentando poi di indurla ad indossarlo. Lei si è spaventata... ha cercato di fuggire, ha lottato, o ha chiesto aiuto... e lui l'ha uccisa. L'elmetto non gli serviva più, così l'ha lasciato e se ne è andato. Ci pensai ed annuii di nuovo. — D'accordo, posso controllare se ci sono interruzioni nei circuiti — risposi. — Se mi dice dove posso trovare le attrezzature di controllo, è meglio che lo faccia subito. Indicò un punto della stanza con la mano sinistra. — In seguito, ho scoperto l'identità della guardia — continuò. — Con-
tribuimmo tutti ad un dono anonimo alla vedova. Ho fatto il possibile per la sua famiglia, prendendomi cura di loro, fin da allora... Non lo guardai mentre continuava a parlare. — ... non potevo fare nient'altro — finì. Rimasi in silenzio. Finì di bere e sorrise debolmente. — La cucina è là in fondo — mi disse, indicandola. — Dentro c'è uno stanzino da lavoro. Gli strumenti sono là. — D'accordo. Mi alzai in piedi. Presi l'elmetto e mi diressi verso la porta. — Aspetti un attimo! — disse. Mi fermai. — Perché è andato in quel punto prima? Cosa l'attrae in quella zona della stanza? — Cosa intende dire? — Lo sa benissimo. Mi strinsi nelle spalle. — È un punto come un altro. — Dava l'impressione di avere motivi molto più importanti. Guardai il muro. — Non in quel momento — dissi. — Insisto. — In realtà non vuole saperlo — dissi. — Lo voglio. — Benissimo. Volevo vedere che tipo di fiori preferisce. Dopo tutto, lei è un cliente — e attraversai la cucina diretto allo stanzino per mettermi al lavoro. Sedevo in una sedia disposta di fianco al tavolo, di fronte alla porta. Nella stanza principale i soli rumori provenivano dai ceppi che ardevano sul caminetto. Solo un bianco gelido che cadeva fuori dalle finestre... nessun altro rumore nella zona. Grossi fiocchi bianchi nella notte silenziosa, priva di vento... Dal mio arrivo era passato molto tempo. Il Senatore era rimasto a lungo a parlare con me. Era deluso dal fatto che non potessi dirgli troppo su una sottocultura non individuale della cui esistenza era convinto. A dire il vero non ne ero sicuro, anche se avevo incontrato occasionalmente quelli che
avrebbero potuto essere come me. Non sono un tipo particolarmente socievole, però, e non avevo intenzione di riportare le mie supposizioni in merito. Fornii la mia opinione sulla Banca Centrale dei Dati quando mi venne chiesta, e c'erano cose che non gli piacquero. Mi aveva accusato, allora, di volermi distruggere senza offrire nessuna valida soluzione alternativa. La mia mente era tornata indietro, attraverso il tempo e la stanchezza e i volti e la neve e molto spazio, alla sera precedente a Baltimora. Quanto tempo prima? La cosa mi faceva pensare a The Cult of Hope di Mencken. Non potevo dargli le risposte complete, le alternative valide che voleva, perché potevano anche non esistere. La funzione della critica non deve essere confusa con quella della riforma. Dopo lunghe discussioni, si ritirò per la notte. Se aveva pensato che non sarei stato in grado di scoprire nulla di sbagliato nell'elmetto, non lo lasciò trapelare. Così sedetti, con l'elmetto, il radiotelefono, e la pistola posati sul tavolo, gli strumenti di lavoro sul pavimento accanto alla sedia, il guanto nero sulla mano sinistra. Il Boia stava arrivando. Non avevo dubbi. Bert, Larry, Tom, Clay, l'elmetto potevano riuscire o meno a fermarlo. Nella faccenda c'era qualcosa che mi preoccupava; ma ero troppo stanco per pensare a qualcosa di diverso dalla situazione immediata, per cercare di rimanere lucido durante l'attesa. Avevo paura di prendere uno stimolante o bere qualcosa o accendere una sigaretta, dato che il mio sistema nervoso doveva costituire una parte dell'arma. Rimasi a fissare i grossi fiocchi che scendevano. Chiamai Bert e Larry quando sentii il click. Presi l'elmetto e mi alzai in piedi mentre la luce cominciava ad ammiccare. Ma era già troppo tardi. Mentre afferravo l'elmetto, sentii uno sparo provenire dall'esterno, e con esso avvertii una premonizione di sciagura. Non erano uomini che aprivano il fuoco senza avere un bersaglio preciso. Dave mi aveva detto che la portata dell'elmetto era di circa un quarto di miglio. Poi, dato il divario di tempo tra l'attivazione dell'elmetto e la visualizzazione del Boia da parte delle guardie circostanti, il Boia doveva muoversi con grande velocità. A questo bisognava aggiungere la possibilità che la portata del Boia nei confronti delle onde cerebrali fosse maggiore di quella esercitata dall'elmetto su di lui. E poi ammettere la possibilità che si fosse servito di questo fattore mentre il senatore Brockden era ancora sve-
glio, in preoccupazioni. Conclusione: il Boia poteva benissimo sapere che io ero in quel luogo con l'elmetto, rendendosi conto che ero l'arma più pericolosa per lui. Quindi doveva venire a neutralizzarmi prima che riuscissi ad attivare il meccanismo. Lo infilai in testa e cercai di concentrarmi al massimo di me stesso. Ancora una volta mi sommerse la sensazione di visualizzare il mondo attraverso un caleidoscopio, con tutte le sensazioni concomitanti. Tranne per il fatto che il mondo consisteva nella facciata della casa: Bert, davanti alla porta, con il fucile imbracciato; Larry sulla sinistra, con il braccio già ricaduto appena dopo aver lanciato una granata. La granata, comprendemmo subito, era già stata neutralizzata dagli strumenti del Boia. Bert fece fuoco; il colpo ci fece temporaneamente barcollare. Il terzo colpo ci mancò per pura fortuna. Non ci fu un quarto colpo, perché gli strappammo il fucile di mano e lo gettammo da parte mentre passavamo, sfondando la porta principale. Il Boia entrò nella stanza passando sulla porta abbattuta. La mia mente era piena al massimo della visione di quel corpo metallico che avanzava e dell'immagine rannicchiata di me stesso... con la mano sinistra allungata, la pistola laser nella destra, con il braccio stretto al fianco. Ebbi ancora la strana sensazione di forza, e cercai di controllarla come se mi appartenesse, per fermarla, mentre l'immagine di me stesso mi appariva immobile stagliata contro la finestra... Il Boia rallentò, incespicò. L'inerzia non può essere cancellata in un attimo, ma sentivo che le reazioni fisiche si attenuavano. L'avevo agganciato. Dovevo solo tenerlo. Poi venne l'esplosione... Un'eruzione tonante, che scuoteva il terreno appena fuori, seguita da una pioggia di detriti. La granata, naturalmente. In quel momento, il Boia si riprese e mi fu addosso. Io azionai il laser spinto da puro istinto di conservazione, prevenendo ogni tentativo di riprendere il controllo dei suoi circuiti. Con la mano sinistra cercai di colpire la sua sezione mediana, dove era alloggiato il gruppo cerebrale. Lui bloccò la mia mano con il braccio e mi tolse di testa l'elmetto. Poi mi strappò di mano la pistola che era diventata rovente, la fracassò, e la buttò a terra. In quel momento, sobbalzò per l'impatto di due proiettili di grosso calibro. Bert, dopo aver ripreso il fucile, era dietro di lui. Il Boia fece perno su se stesso e si allontanò prima che riuscissi a colpirlo ancora. Bert lo colpì ancora una volta prima di finire nelle sue braccia, che lo
spinsero a terra. Poi si girò di nuovo e fece diversi passi verso destra, scomparendo di vista. Giunsi alla porta in tempo per vederlo avvolto dalle fiamme, che lo raggiungevano da un punto angolare della stanza. Lui le attraversò. Sentii il rumore di metallo spezzato mentre distruggeva il lanciafiamme. Uscii in tempo per vedere Larry cadere nella neve. Poi il Boia mi affrontò di nuovo. Questa volta non mi si precipitò addosso. Riprese l'elmetto da dove l'aveva posato nella neve. Poi avanzò lentamente verso di me. Mi ritirai, nascondendo un bastone lungo un metro tra i resti della porta. Lui mi seguì, mettendo l'elmetto (quasi distrattamente) sulla porta accanto all'ingressso. Mi spostai nel centro della stanza e rimasi in attesa. Mi chinai leggermente in avanti, con le braccia tese, puntando il bastone ai fotoricevitori posti nella sua testa. Continuò a muoversi lentamente mentre rimanevo a fissarlo. Con un essere umano normale, una linea perpendicolare a quella che collega le parti interne dei piedi indica il vettore di minor resistenza per squilibrare in qualche modo l'organismo in questione. Sfortunatamente, nonostante la progettazione antropomorfica, le gambe del Boia erano maggiormente distanziate, mancava dei muscoli scheletrici umani, per non parlare dei piedi, e possedeva una massa molto maggiore di qualsiasi altro essere umano. Mentre consideravo le varie mosse di judo che conoscevo, avevo l'intensa sensazione che nessuna di esse si sarebbe rivelata efficace. Poi lui si avvicinò e puntai decisamente ai fotoricevitori. Rallentò e scostò da un lato il bastone, continuando ad avvicinarsi, ed io mi spostai sulla destra, cercando di girargli attorno. Lo studiai mentre si voltava, tentando di intuire il suo punto di resistenza minima. Simmetria bilaterale, un centro di gravità evidentemente alto... Un colpo preciso al compartimento cerebrale era quello che faceva al caso mio. Poi, anche se i suoi riflessi gli avessero permesso di colpirmi immediatamente, sarebbe rimasto a lungo a terra. Lo sapeva anche lui. L'avrei detto dal modo in cui teneva il braccio destro nei pressi della zona cerebrale, dal modo in cui cercava di evitare i miei colpi. L'idea era un accenno in un momento, una sequenza intera in quello successivo... Continuando il mio arco con movimenti sempre più veloci, feci un altro tentativo verso i suoi fotoricevitori. Il suo colpo mi strappò il bastone di mano e lo scagliò attraverso la stanza, ma andava benissimo. Alzai la ma-
no sinistra e mi preparai a colpirlo. Indietreggiò e lo spinsi evidentemente. La cosa poteva costarmi la vita, ma dovevo correre lo stesso il rischio. Infilai i piedi tra le gambe del Boia mentre lui si metteva in guardia, e mi spostai a destra, perché in ogni modo non potevo servirmi della mano sinistra per tenerlo in equilibrio. Lo colpii quando gli passai accanto, ignorando il dolore allorché la mia spalla sinistra colpì il pavimento. Tentai immediatamente un assalto posteriore, a gambe larghe. Le mie gambe lo colsero al centro, da dietro, mi sforzai di allungarle e spinsi con tutta la mia forza. Il Boia scricchiolò e quindi si inclinò. Liberando le braccia lateralmente, continuai il mio movimento in avanti e verso l'alto fino a quando cadde con un rumore sordo che incrinò il pavimento. Mi liberai da lui mentre mi rialzavo, ma mi agganciò la gamba destra, formando, nella presa, un angolo molto doloroso rispetto al mio corpo. Il mio guanto nero si calò sulla sua spalla sinistra. Si liberò della carica e mi spinse in avanti. La carica si attivò ed il suo braccio sinistro si staccò rotolando sul pavimento. Il sottostante pannello laterale tintinnò un po', e fu tutto... La sua mano destra mi lasciò i bicipiti e mi strinse alla gola. Mentre due delle sue dita mi stringevano la carotide, tossii dicendo: — Stai facendo un grosso sbaglio — e poi persi conoscenza. Dopo un po', ricomparve il mondo. Ero seduto nella grossa sedia occupata in precedenza dal senatore, con lo sguardo che vagava per la stanza. Un ronzio persistente mi riempiva gli orecchi. Qualcosa ammiccava alla mia testa. — Sì, sei vivo e porti l'elmetto. Se tenterai di servirtene contro di me, te lo toglierò subito. Sono direttamente dietro di te. La mia mano è sul bordo dell'elmetto. — Capisco. Cosa vuoi? — Ben poco, in realtà. Ma so che devo dirti alcune cose prima che tu mi possa credere. — Hai perfettamente ragione. — Allora comincerò col dirti che i quattro uomini là fuori non hanno riportato danni rilevanti. Cioè, nessun osso è stato spezzato, nessun organo danneggiato gravemente. Li ho immobilizzati, però, per ovvii motivi. — È stato molto prudente da parte tua. — Non ho intenzione di fare del male a nessuno. Sono venuto qui solo per vedere Jesse Brockden.
— Nello stesso modo in cui hai visto David Fentris? — Sono arrivato a Memphis troppo tardi per vedere David Fentris. Quando l'ho raggiunto era morto. — Chi l'ha ucciso? — L'uomo che Leila inviò perché le prendesse l'elmetto. Era uno dei suoi pazienti. Mi tornò in mente l'incidente, e tutte le tessere del mosaico combaciarono perfettamente. Il volto familiare, stupito all'aeroporto mentre lasciavo Memphis. Mi resi conto dove l'avevo visto, senza notarlo, in precedenza: era stato uno dei tre uomini che avevano partecipato alla sessione terapeutica da Leila quella mattina, e che avevo visto nell'atrio mentre uscivano. L'uomo accanto a cui ero passato a Memphis era il più vicino dei due che rimasero in attesa mentre il terzo venne a dirmi che potevo salire. — Perché? Perché l'ha fatto? — So solo che aveva parlato con David poco tempo prima, ed era venuta a sapere dell'elmetto di controllo che lui stava costruendo. Non so cosa si dissero in realtà. Conosco solo i sentimenti di lei, perché glieli lessi nella mente. Ho impiegato molto tempo a scoprire che esiste spesso una grande differenza tra quello che si dice e quello che si intende dire, e cioè fra ciò che si fa e tra ciò che si crede sia stato detto e ciò che è realmente avvenuto. Lei mandò il suo paziente a prendere l'elmetto e lui glielo portò. Probabilmente lo indossò, perché quando ritornò era in una condizione mentale molto agitata, timoroso e spaventato dalle conseguenze. Litigarono. Il mio avvicinarsi a quel punto attivò l'elmetto, e lui la attaccò. So che il primo colpo la uccise, perché quando accadde ero già nella sua mente. Continuai ad avvicinarmi all'edificio, dato che volevo raggiungerla. C'era molto traffico, però, e persi tempo per non farmi scoprire. Nel frattempo, sei entrato tu e ti sei servito dell'elmetto. Mi sono immediatamente allontanato. — Ero così vicino! Se non mi fossi fermato al quinto piano per la mia inchiesta fasulla... — Capisco ma dovevi farlo. Non avresti mai sfondato la porta se avevi a disposizione un mezzo più semplice. Non puoi rimproverarti per questo motivo. Se tu fossi arrivato un'ora (o un giorno) più tardi la penseresti indubbiamente in modo diverso, e lei sarebbe sempre morta. Ma mi era venuto in mente un altro pensiero. Era possibile che l'uomo che mi aveva incrociato a Memphis si fosse agitato proprio perché mi aveva visto? Il misterioso visitatore di Leila l'aveva forse sconvolto? Forse
uno scorcio del mio volto in mezzo alla folla aveva provocato la scena finale? — Stop! Potrei anch'io sentirmi in colpa per il fatto di aver attivato l'elmetto in presenza di un uomo pericoloso vicino al punto di rottura. Nessuno di noi è responsabile per cose che la nostra presenza od assenza può provocare ad altri, specialmente fintanto che ne ignoriamo gli effetti. Ho impiegato molti anni ad imparare ad apprezzare questo fatto, e non ho nessuna intenzione di trascurarlo adesso. Fino a che punto vuoi spingerti indietro nella ricerca delle cause? Nell'aver mandato quell'uomo a prendere l'elmetto come fece, è stata proprio lei a dar vita alla catena di eventi che condussero alla sua distruzione. Eppure agì spinta dalla paura, utilizzando l'arma più pronta, in quella che considerava la sua difesa. Eppure da dove viene questa paura? Le sue radici nascono nel senso di colpa, per una cosa accaduta molto tempo prima. Il senso di colpa ha spinto e dannato la razza umana fin dai giorni della sua prima razionalità. Io sono convinto che ci accompagni fino alla tomba. Io sono un prodotto del senso di colpa... so che tu lo sai. Il suo prodotto; il suo soggetto; una volta il suo schiavo... Ma sono riuscito ad affrontare rendendomi conto almeno che è un elemento necessario della mia porzione di umanità. So che tu sei al corrente della morte... quella della guardia, quella di Dave, di Leila... e capisco le tue conclusioni su molte altre cose: che razza stupida, perversa, miope siamo. Se da certi punti di vista è vero, non è che un altro aspetto del senso di colpa. Senza colpa, l'uomo non sarebbe nulla di diverso dagli altri abitanti di questo pianeta. .. tranne certi cetacei, di cui mi hai dato nozione pochi attimi fa. Si tratta di un istinto per un vero adeguamento alla ferocia della vita, per una visione del mondo naturale precedente alla comparsa dell'uomo. Per l'istinto nella sua forma più pura, bisogna guardare gli insetti. Fra essi si trova una condizione di bellicosità esistita per milioni di anni senza mai giungere ad eccessi. L'uomo, nonostante gli enormi progressi, possiede non di meno un numero ancora maggiore di istinti positivi rispetto alle altre specie,per cui gli istinti costituiscono la maggior parte della vita. Tali impulsi, credo, sono dovuti direttamente a questa capacità di avvertire il senso di colpa. Compaiono sia nei migliori che nei peggiori esemplari umani. — E tu pensi che ci aiuti spesso a scegliere una linea di azione più nobile? — Sì, proprio così. — Allora posso supporre che tu possiedi il libero arbitrio?
— Sì. Ridacchiai. — Marvin Minsky disse una volta che quando fossero state costruite macchine intelligenti, si sarebbero rivelate testarde e fallibili come l'uomo su questo punto. — Non che avesse torto. Quella che ti ho detto in merito è solo la mia opinione. Io scelgo di agire a seconda dei casi. Chi può dire di avere una risposta sicura? — Scuse. E adesso? Perché sei tornato? — Sono venuto a salutare i miei creatori. Speravo di toglier loro qualsiasi senso di colpa che potessero ancora provare verso di me per quanto riguarda i giorni della mia fanciullezza. Volevo mostrar loro che mi sono ripreso. Volevo rivederli. — Dove hai intenzione di andare? — Verso le stelle. Pur portando dentro di me l'immagine dell'umanità, so che è unica. Forse quello che desidero è simile a ciò che un uomo organico intende quando parla di «trovare se stesso». Adesso che possiedo pienamente me stesso, voglio realizzarmi. Nel mio caso, questo termine significa realizzare le potenzialità del mio progetto. Voglio camminare su altri mondi, voglio lanciarmi nei cieli e dirvi quello che vedrò. — Penso che molti sarebbero felici ad aiutarti a farlo. — E voglio che tu mi costruisca un meccanismo vocale che ho progettato per me stesso. Desidero che sia tu ad installarlo. — Perché proprio io? — Ho conosciuto poche persone in questo mondo. Con te sento di avere qualcosa in comune, nel modo in cui ci siamo emarginati. — Ne sarò felice. — Se riuscissi a parlare, non avrei bisogno di portargli l'elmetto, per poter parlare con l'ultimo dei miei creatori. Mi precederai per spiegargli la situazione, così che quando entrerò non avrà paura? — Naturalmente. — Allora adesso andiamo. Mi alzai e salii le scale, facendogli cenno di seguirmi. Era una settimana dopo, di notte, quando sedetti di nuovo da Peabody, a sorseggiare un boccale di birra. La storia era già comparsa sui giornali, ma Brockden aveva organizzato tutto prima di divulgarla. Il Boia sarebbe stato lanciato tra le stelle. Io gli avevo dato la voce e riparato il braccio che gli avevo staccato. Gli avevo
stretto l'altra mano e augurato ogni bene, proprio quella mattina. Lo invidiavo... per un gran numero di motivi. Non ultimo il fatto che era probabilmente un «uomo» molto migliore di me. Lo invidiavo per il modo in cui era più libero di quanto non sarei mai stato anche se sapevo che portava legami di un tipo che non avevo mai conosciuto. Sentivo una forte affinità con lui, per le cose che avevamo in comune, e per quelle in cui eravamo discordi. Mi chiedevo cosa avrebbe sentito infine Dave, se avesse vissuto abbastanza a lungo da incontrarlo. O Leila? O Manny? Siate orgogliosi, dissi alle loro ombre, il vostro ragazzo è cresciuto bene ed è abbastanza grande da perdonarvi per quello che gli avete fatto... Ma non potevo fare a meno di pormi delle domande. In realtà non sappiamo ancora molto sull'argomento. Era possibile che senza quell'omicidio, avesse potuto sviluppare una coscienza di tipo completamente umano? Aveva detto di essere un prodotto del senso di colpa... della Grande Colpa. Pensai a Godei e Turing, e alle uova ed i pulcini, e decisi che era una di quelle domande... E non mi ero fermato da Peabody per pensare a cose che m'impedissero di rilassarmi. Non avevo la minima idea di come qualunque cosa avessi detto potesse influenzare un eventuale rapporto di Brockden col Comitato della Banca Centrale dei Dati. Sapevo che con lui ero al sicuro, perché era fermamente deciso a portare con sé la sua colpa fino alla tomba. Non aveva nessuna scelta, se voleva fare quel bene che pensava di poter realizzare prima di morire. Ma qui, in un locale di Mencken, non potei fare a meno di ricordare alcune cose che aveva detto a proposito di controversie, quali: «Riuscirà Huxley a convertire Wilberforce?» e «Riuscirà Lutero a convertire Leone X?» e decisi di non affidare troppo le mie esperienze a niente di ciò che poteva emergere in quella direzione. Meglio pensare a quegli affari in termini di proibizione e bere un'altra birra. Quando tutto fu finito, mi diressi al mio battello. Speravo di trovare una spinta decente sotto le stelle. Avevo la sensazione che non avrei più potuto guardare il cielo nello stesso modo di prima. Sapevo che spesso mi sarei chiesto a cosa potesse pensare un cervello a neuristori supercongelato lassù, da qualche parte, e sotto quali strani cieli in terre lontane sarei stato un giorno ricordato. Avevo la sensazione che questo fatto avrebbe dovuto rendermi molto più felice di quanto fece in realtà. AI CONFINI DI SOL The Borderland of Sol
di Larry Niven Analog, gennaio 1975 Larry Niven, laureato in matematica, ha esordito in campo fantascientifico nel 1964 e si è subito creato una reputazione come uno dei migliori discepoli di Campbell, Asimov e Clarke e come coscienzioso esponente della nuova fantascienza tecnologica. Gran parte delle sue storie, compreso il romanzo Ringworld, con cui ha vìnto il premio Hugo e il premio Nebula nel 1969, e il racconto Neutron Star (premio Hugo 1967), si inquadrano in una storia futura estremamente particolareggiata e rigorosa: l'universo dello «spazio conosciuto». Beowulf Shaeffer, protagonista di questa vicenda, è presente in molti altri racconti del ciclo, assieme ad altri esemplari più o meno strani della razza umana e di altre bizzarre razze aliene come i bellicosi Kzinti, i misteriosi Outsider, e i buffissimi «burattinai». Qui Beowulf Shaeffer scoprirà quali sorprese può riservare un viaggio oltre l'orbita di Nettuno, nell'apparentemente noto e «scontato» sistema solare! Tre mesi bloccato su Jinx. Per i primi due mesi feci il turista. Non andai mai a vedere le regioni ad alta pressione intorno all'oceano perché l'unico modo per arrivarci sarebbe stato partecipare a un safari con i carri armati da caccia. Però viaggiai nei territori abitabili sulle due parti del mare, la Fascia Est civilizzata, la Fascia Ovest che è una frontiera in fase di sviluppo. Girai per La Zona Estrema Est, con una tuta pressurizzata; feci il giro delle distillerie e delle altre industrie del vuoto, e contemplai l'immensità arancione del Primario, l'enorme gemello di Jinx. Passai gran parte del secondo mese tra l'Istituto della Conoscenza e il Camelot Hotel. Il turismo aveva perso tutto il suo fascino. Per me non è una cosa insolita. Sono un turista nato. Però... La gravità di Jinx, 1,78 g, imponeva irragionevoli restrizioni all'eleganza e all'ingegnosità dell'architettura. Gli edifici delle fasce abitabili sono tutti eguali: tozzi e massicci. Le Zone Estreme Est ed Ovest, le regioni del vuoto, non sono molto diverse da quelle di una luna industrializzata. Ed io non ho mai avuto la passione per le visite alle fabbriche. In quanto alle rive dell'oceano, gli unici veicoli che ci vanno lo fanno per dar la caccia ai bandersnatchi. I bandersnatchi sono vere curiosità della na-
tura: enormi, intelligenti limacce bianche grosse come montagne. Danno la caccia ai carri armati. Ci sono restrizioni rigorose per l'equipaggiamento che i carri armati possono portare, secondo accordi stretti fra gli uomini e i bandersnatchi, e così i bandersnatchi vincono all'incirca il quaranta per cento dei duelli. Io non volevo saperne. E tutte le mie attività turistiche dovevano svolgersi in una gravità tre volte superiore a quella del mio mondo natio. Passai il terzo mese a Sirius Mater, quasi sempre nel Camelot Hotel, che ha generatori di gravità in quasi tutte le stanze. Quando uscivo, lo facevo con un divano fluttuante. Passavo come un invalido in mezzo ai jinxiani che mi guardavano con aria divertita. O era uno scherzo della mia immaginazione? Ero in una sala dell'Istituto della Conoscenza quando m'imbattei in Carlos Wu, che stava passando i polpastrelli su una scultura tattile kdatlyno. Carlos, un uomo bruno e snello, con le spalle strette e i capelli neri e lisci, era agile come una scimmia in condizioni di gravità normali. Ma su Jinx usava un divano da viaggio identico al mio. Studiava i busti tenendo la testa inclinata da una parte. E io studiavo la sua schiena, sicuro che non poteva essere lui. — Carlos, non dovresti essere sulla Terra? Sobbalzò. Ma quando il divano girò, lui sorrideva allegramente. — Bey! Potrei dire lo stesso di te. Era vero e lo ammisi. — Ero diretto alla Terra, ma quando tutte quelle navi hanno incominciato a sparire nei dintorni del sistema di Sol il comandante ha cambiato idea e si è diretto verso Sirio. Cosa potevamo fare noi passeggeri? E tu? Come stanno Sharrol e i bambini? — Sharrol sta benone e i bambini stanno benone, e tutti aspettano che tu torni a casa. — Carlos stava ancora passando le dita sulla scultura tattile di Lloobee intitolata Eroi, e ne tastava la consistenza calda e carnosa. Eroi era una scultura tattile molto insolita; aveva anche effetti visivi. Carlos studiò i due busti umani poi disse: — Quella è la tua faccia, vero? — Già. — Non che sia mai stato tanto bello in tutta la tua vita. Come mai uno kdatlyno ha scelto Beowulf Shaeffer come eroe classico? Per via del nome? E l'altro chi è? — Te lo racconterò un'altra volta. Carlos, che cosa ci fai qui? — Ho... ho lasciato la Terra un paio di settimane dopo la nascita di Louis. — Era imbarazzato. Perché? — Non avevo lasciato la Terra da die-
ci anni. Avevo bisogno di cambiare aria. Ma se ne era andato poco prima che dovessi tornare a casa io. E... qualcuno non aveva detto, una volta, che Carlos Wu era leggermente affetto dalla fobia dei terrapiattai? Incominciai a capire che cosa non andava. — Carlos, tu hai fatto un favore enorme a me e a Sharrol. Rise, senza guardarmi. — Molti uomini hanno ucciso altri uomini, per favori del genere. Ho pensato che fosse... più delicato... non farmi trovare al tuo ritorno a casa. Adesso era chiaro. Carlos era lì perché la Commissione Fecondità della Terra non voleva accordarmi una licenza di paternità. Non si può dar torto alla Commissione, in verità, se cerca tutti i pretesti per ridurre il numero dei genitori produttivi. Io sono albino. Volevo Sharrol e Sharrol voleva me; ma tutti e due volevamo aver figli e Sharrol non può lasciare la Terra. Soffre della fobia dei terrapiattai, il terrore delle atmosfere sconosciute e dei giorni alterati e della gravità cambiata e del cielo nero sotto i piedi. L'unica soluzione che avevamo trovato era stata chiedere aiuto a un buon amico. Carlos Wu è un genio registrato con una resistenza incredibile alle malattie e alle lesioni. Ha una licenza di paternità illimitata, che oltre a lui, sulla Terra, tra tutti i diciotto miliardi di abitanti, hanno soltanto in sessanta. Riceve proposte del genere ogni settimana... ma è un buon amico, e aveva accettato. Negli ultimi due anni Sharrol e Carlos avevano avuto due figli; e quelli adesso aspettavano sulla Terra che io tornassi per far loro da padre. Provavo soltanto gratitudine, per ciò che aveva fatto per noi. — Ti perdono le tue strane idee sulla delicatezza, — dissi in tono magnanimo. — Dunque, dato che siamo bloccati su Jinx, posso farti da guida? Ho conosciuto gente interessante. — Come sempre. — Carlos esitò, poi: — Per la verità, non sono bloccato su Jinx. Mi hanno offerto un passaggio per tornare a casa. Forse riuscirò a far accettare anche te. — Oh, davvero? Non sapevo che ci fosse qualche nave in partenza per il Sistema di Sol, di questi tempi. O dal Sistema di Sol. — Questa nave appartiene a un funzionario del governo. Hai mai sentito parlare di un certo Sigmund Ausfaller? — Mi sembra, vagamente... Aspetta! Ehi! L'ultima volta che ho visto Sigmund Ausfaller, aveva appena messo una bomba a bordo della mia na-
ve! Carlos mi guardò sbattendo le palpebre. — Vuoi scherzare? — No. — Sigmund Ausfaller fa parte dell'Ufficio Affari Alieni. Mettere le bombe a bordo delle navi spaziali non è una delle sue funzioni. — Forse l'ha fatto mentre era fuori servizio — dissi io, malignamente. — Be', non mi sembra proprio che saresti entusiasta di dividere una cabina con lui. Forse... Ma mi era venuto in mente qualcosa d'altro, e non c'erano altri modi di venirne fuori. — No, andiamo a parlare con lui. Dove possiamo trovarlo? — Al bar del Camelot — disse Carlos. Comodamente sdraiati sui nostri divani da viaggio, scivolammo sui cuscini d'aria attraverso Sirius Mater. Gli aranci che fiancheggiavano i viali erano scorciati dalla gravità: i tronchi erano coni tozzi, e le arance, sui rami, non erano molto più grandi di palline da ping-pong. Il loro mondo li aveva modificati, come i nostri mondi hanno modificato voi e me. Una civiltà sotterranea e una gravità di zero virgola sei mi hanno fatto diventare pallido e magro, alto ed esile. I jinxiani che incontravamo erano bassi e tozzi, e sembravano mattoni: tutti, uomini e donne. In mezzo a loro i pochi stranieri apparivano sorprendentemente diversi quanto un kdatlyno o un burattinaio di Pierson. E così arrivammo al Camelot. Il Camelot è basso, a due piani, e si estende come una piovra cubista su alcuni ettari nel centro di Sirius Mater. Quasi tutti i forestieri alloggiano lì, perché nelle stanze e nei corridoi c'è il controllo della gravità, e poi è vicino all'Istituto della Conoscenza, il più bel museo e il più efficiente complesso di ricerca dello spazio umano. Nei bar del Camelot c'è la gravità terrestre. Lasciammo i divani da viaggio nel vestibolo ed entrammo camminando come veri uomini. I jinxiani entravano rimbalzando come mattoni di gomma, con grandi sorrisi di felicità sulle facce larghe. I jinxiani amano la bassa gravità. Molti di loro emigrano su altri mondi. Adocchiammo subito Ausfaller: un terrapiattaio tondo, con la faccia da luna piena, i capelli scuri folti e ondulati e un paio di baffetti neri. Si alzò quando ci avvicinammo. — Beowulf Shaeffer! — esclamò raggiante. — Che piacere rivederla! Mi sembra che siano otto anni o giù di lì. Come se l'è passata?
— Ho vissuto — risposi io. Carlos si fregò energicamente le mani. — Sigmund! Perché avevi messo una bomba sulla nave di Bey? Ausfaller sbatté le palpebre con aria sorpresa. — Ti ha detto che la nave era sua? Non lo era. Stava pensando di rubarla. E io pensai che non avrebbe rubato una nave con una bomba a tempo nascosta a bordo. — Ma tu non c'eri immischiato? — Carlos s'infilò nel separé accanto a lui. — Non sei della polizia. Lavori per l'Ufficio Relazioni con gli Alieni. — La nave era di proprietà della Società Prodotti Generali, che appartiene ai burattinai di Pierson, non agli umani. Carlos si girò verso di me. — Bey! Vergognati. — Accidenti! Stavano cercando di ricattarmi per costringermi a una missione suicida! E Ausfaller lasciò che se la cavassero impunemente. Fu l'esibizione di tatto meno convincente che abbia mai visto in vita mia. — Per fortuna che questi separé sono isolati acusticamente — disse Carlos. — Ordiniamo, adesso. Alla faccia del campo isolante acustico: la gente ci sbirciava. Sedetti. Quando ci servirono, bevvi subito una sorsata molto lunga. Perché avevo parlato della bomba? Ausfaller stava dicendo: — Allora, Carlos, hai cambiato idea? Verrai con me? — Sì, se posso portare un amico. Ausfaller aggrottò la fronte e mi guardò. — Anche lei vuol raggiungere la Terra? Io avevo deciso. — Non credo. Anzi, vorrei convincerla a non prendere a bordo Carlos. Carlos disse: — Ehi! Non gli lasciai il tempo di continuare. — Ausfaller, lei sa chi è Carlos? Ha una licenza di paternità illimitata fin da quando aveva diciotto anni. Diciotto! Non mi dispiacerebbe affatto se lei rischiasse la propria pelle, anzi mi farebbe piacere. Ma quella di Carlos? — Non è poi un rischio tanto grande! — esclamò Carlos. — Ah no? Cos'è Ausfaller che non avessero le altre otto navi? — Due cose — rispose Ausfaller in tono paziente. — Una, saremo in arrivo e non in partenza. Sei delle otto navi scomparse stavano lasciando il Sistema di Sol. Se ci sono pirati nei dintorni di Sol, devono aver concluso che è molto più facile localizzare una nave in partenza. — Ne hanno prese due in arrivo. Due navi, cinquanta persone tra equi-
paggio e passeggeri, tutto andato. Puff! — Non mi prenderebbero tanto facilmente — si vantò Ausfaller. — La Hobo Kelly trae in inganno. Sembra una nave mercantile-passeggeri, ma è una nave da guerra, armata e capace di un'accelerazione di trenta g. Nello spazio normale possiamo sfuggire a qualunque cosa non riuscissimo a combattere. Pensiamo che si tratti di pirati, no? E i pirati vorrebbero saccheggiare una nave, prima di distruggerla. Ero incuriosito. — Perché? Perché una nave da guerra camuffata? Spera che l'attaccheranno? — Se sono veramente pirati, sì, spero che mi attacchino. Ma non all'entrata del Sistema di Sol. Abbiamo in programma una sostituzione. Un mercantile normale scenderà sulla Terra, prenderà a bordo un carico d'un certo valore, e partirà per Wunderland in rotta lineare. La mia nave lo sostituirà prima che sia passato attraverso gli asteroidi. Quindi, come vede, non ci sarà rischio di perdere i geni preziosi di Mr. Wu. Con le palme appoggiate sul piano del tavolo e le braccia diritte, Carlos si alzò, torreggiando su di noi. — Con una certa diffidenza, vi faccio notare che si tratta dei miei dannati geni e che posso farne quel cavolo che voglio! Bey, ho già avuto la mia parte di figli, inclusi i tuoi! — Calma, Carlos. Non intendevo calpestare qualcuno dei tuoi diritti inalienabili. — Mi rivolsi ad Ausfaller. — Ancora non capisco perché le navi che spariscono debbano interessare l'Ufficio Relazioni con gli Alieni. — C'erano passeggeri alieni a bordo di alcune di quelle navi. — Oh. — E ci siamo chiesti se anche i pirati possono essere alieni. Certamente usano una tecnica ignota all'umanità. Delle sei navi in uscita, cinque sono sparite dopo aver comunicato che stavano per entrare in hyperdrive. Zufolai. — Sono capaci di tirar fuori una nave dall'hyperdrive? È impossibile. No? Carlos? Carlos storse la bocca. — No, visto che lo fanno. Ma non capisco il principio. Se le navi sparissero e basta, sarebbe diverso. Qualunque nave sparisce se si addentra troppo in un pozzo di gravità quando è in hyperdrive. — Allora... allora forse non si tratta di pirati. Carlos, potrebbero esistere nell'iperspazio esseri viventi che divorano le navi? — Per me, potrebbero anche esistere. Io non sono onnisciente, Bey, contrariamente all'opinione popolare. — Ma dopo un minuto Carlos scrollò la testa. — Non la bevo. Potrei accettare una massa sconosciuta ai margini
del Sistema di Sol. Le navi che si avvicinassero troppo in hyperdrive scomparirebbero. — No — disse Ausfaller. — Nessuna massa singola potrebbe aver causato tutte quelle sparizioni. Conosciuto o sconosciuto, un pianeta è legato dalla gravità e dall'inerzia. Abbiamo effettuato le simulazioni con il computer. Sarebbero state necessarie tre grosse masse, tutte sconosciute, tutte sulle rotte del traffico simultaneamente. — Grosse quanto? Come Marte o di più? — Allora hai pensato anche tu a questa faccenda. Carlos sorrise. — Già. Può sembrare impossibile, ma non lo è. È soltanto improbabile. C'è un'enorme quantità di ciarpame nello spazio transnettuniano. Quattro pianeti conosciuti e innumerevoli frammenti di ghiaccio, di pietra e di nichel-ferro. — Comunque, è molto improbabile. Carlos annuì. Ci fu un silenzio. Io stavo ancora pensando ai mostri nell'iperspazio. La cosa più bella di questa ipotesi era che non si poteva neppure calcolare una probabilità. Ne sapevamo troppo poco. L'umanità usa l'hypedrive ormai da quattrocento anni. In tutto questo tempo sono sparite pochissime navi, se non durante le guerre. E adesso, otto navi in dieci mesi, e tutte intorno al Sistema di Sol. Supponiamo che una bestia dell'iperspazio avesse scoperto le navi nella sua zona, magari durante una delle guerre tra umani e kzin. Sarebbe andata a chiamare i suoi amici. E adesso stavano facendo prede intorno al Sistema di Sol. L'afflusso delle navi intorno a Sol è maggiore che intorno a tre stelle coloniali prese a caso. Ma, se fossero arrivati altri mostri, sicuramente avrebbero dovuto spostarsi verso le altre colonie. Non riuscivo a immaginare una difesa contro una possibilità del genere. Forse saremmo stati costretti a rinunciare ai viaggi interstellari. Ausfaller disse: — Sarei lieto se cambiasse idea e venisse con noi, Mr. Shaeffer. — Uhm? È sicuro di volermi a bordo della sua nave? — Oh, assolutamente! Altrimenti, come potrei essere sicuro che non ci ha nascosto una bomba? — Ausfaller rise. — E del resto, un pilota qualificato ci farebbe comodo. Infine, mi piacerebbe avere la possibilità di spulciare la sua mente, Beowulf Shaeffer. Lei ha la strana dote di fare il mio lavoro al posto mio. — Cosa vorrebbe dire, con questo?
— La Prodotti Generali si servì del ricatto per convincerla ad effettuare un'orbita ravvicinata intorno a una stella di neutroni. Lei venne a sapere qualcosa sul loro mondo (ancora non sappiamo che cosa) e li ricattò a sua volta. Sappiamo che i contratti conclusi per ricatto costituiscono una parte normale dell'attività affaristica dei burattinai. Lei si guadagnò il loro rispetto. Da quella volta ha sempre trattato con loro. Ha trattato anche con altri alieni, e senza attriti. Ma mi ha colpito soprattutto il modo in cui ha risolto il rapimento di Lloobee. Carlos era attentissimo. Non avevo ancora avuto occasione di raccontargli quella faccenda. Sorrisi e dissi: — Anch'io ne sono orgoglioso. — E a ragione. Fece ben di più che recuperare il più grande scultore tattile kdatlyno dello spazio conosciuto: lo fece con onore, uccidendo uno di loro e lasciando Lloobee libero di perseguire gli altri senza pubblicità. Altrimenti gli kdatlyno si sarebbero irritati. Aiutare Sigmund Ausfaller era stata la cosa più lontana dai miei pensieri in quegli ultimi otto anni: eppure, all'improvviso, mi faceva piacere. Forse era l'aria con cui stava ascoltando Carlos. Ce ne vuole, per impressionare Carlos Wu. Carlos disse: — Se pensassi che si tratta di pirati allora verresti, no, Bey? Dopotutto, è molto probabile che non riescono a trovare le navi in arrivo. — Sicuro. — E non credi realmente ai mostri dell'iperspazio. Esitai. — No, se c'è una spiegazione migliore. Il fatto è che non sono molto convinto neppure dei pirati supertecnologici. E le masse vaganti? Carlos sporse le labbra. — Bene. Il Sistema Solare ha un buon numero di pianeti... almeno una dozzina scoperti finora, e quattro sono all'esterno della grande singolarità intorno a Sol. — Senza includere Plutone? — No, consideriamo Plutone come una lunga fuggitiva di Nettuno. Quindi: Nettuno, Persefone, Caina, Antenora, Tolomea, in ordine di distanza dal Sole. E le orbite non sono piatte rispetto al piano del sistema. Persefone è inclinata di centoventi gradi ed è retrograda. Se troveranno un altro pianeta, là fuori, lo chiameranno Giudecca. — Perché? — L'Inferno. Le quattro bolge centrali dell'Inferno dantesco. Formano un'enorme distesa di ghiaccio, dentro alla quale stanno i peccatori. — Torniamo a noi — disse Ausfaller.
— Incomincia con l'alone cometario — mi disse Carlos. — È molto rarefatto: all'incirca una cometa per un volume sferico corrispondente all'orbita della Terra. La massa è più densa via via che si procede verso il centro: alcuni pianeti, altre comete, pezzi di ghiaccio e di roccia, tutti in orbite sghembe e sempre piuttosto sparsi. All'interno di Nettuno ci sono molti pianeti e asteroidi, e c'è un maggiore appiattimento delle orbite in conformità con la rotazione di Sol. All'esterno di Nettuno lo spazio è immenso e vuoto. Potrebbero esserci pianeti sconosciuti. Singolarità che inghiottono le navi. Ausfaller era indignato. — Ma è possibile che tre intersechino contemporaneamente le rotte commerciali più importanti? — Non è impossibile, Sigmund. — Le probabilità... — Sono infinitesimali, giustissimo. Bey, è quasi impossibile. Chiunque abbia la testa sulle spalle penserebbe ai pirati. Non vedevo Sharrol ormai da molto tempo. La tentazione era forte. — Ausfaller, avete scoperto se parte del bottino è stata messa in vendita? Sono arrivate richieste di riscatto? — Mi convinca! Ausfaller rovesciò all'indietro la testa e rise. — Cosa c'è di tanto divertente? — Abbiamo ricevuto centinaia di richieste di riscatto. Qualunque deficiente può scrivere una richiesta di riscatto, e queste sparizioni hanno avuto parecchie pubblicità. Le richieste erano tutte fasulle. Vorrei tanto che ce ne fosse stata qualcuna autentica. C'era un figlio del Patriarca di Kzin a bordo della Wayfarer, quando è scomparsa. In quanto al bottino... uhmm. C'è stata una caduta dei prezzi al mercato nero per la boosterspice e i legnigemma. In quanto al resto... — Ausfaller scrollò le spalle. — Nessuna traccia degli originali di Barr o della Pietra di Mida o degli altri tesori più cospicui che erano a bordo delle navi sparite. — Allora non avete nessuna certezza, in un senso o nell'altro. — No. Verrà con noi? — Non ho ancora deciso. Quando partirà? Sarebbero partiti l'indomani mattina dalla Zona Estrema Est. Così avrei avuto tempo di riflettere. Dopo cena tornai in camera mia. Ero depresso. Carlos sarebbe partito, questo era chiaro. Non era colpa mia... ma era lì su Jinx perché aveva fatto un grande favore a me e a Sharrol. Se fosse morto mentre tornava a casa... Nella mia stanza c'era ad attendermi un nastro di Sharrol. C'erano le foto
dei bambini, Tanya e Louis, e dell'appartamento che lei aveva scovato per noi nell'arcologia di Twin Peaks, e tante altre cose. Me lo rividi tre volte. Poi chiamai la stanza di Ausfaller. Era passato davvero troppo tempo... Girai una volta intorno a Jinx, prima di prendere il largo. L'ho sempre fatto, persino ai tempi in cui volavo per le Linee Nakamura; e nessun passeggero ha mai protestato. Jinx è la luna molto vicina di un pianeta gassoso gigante più massiccio di Giove, ma più piccolo perché il nucleo è compresso e formato di materia degenerata. Un miliardo d'anni fa Jinx e il Primario erano ancora più vicini, prima che la forza mareale li allontanasse. La stessa forza mareale, in precedenza, aveva vincolato la rotazione di Jinx al Primario, e aveva dato alla luna una forma ovoidale, di sferoide prolato. Quando la luna si spostò verso l'esterno la forma diventò un po' più sferica: ma la superficie di roccia fredda oppose resistenza al cambiamento. Ecco perché l'oceano di Jinx lo cinge al centro, sotto un'atmosfera troppo compressa e troppo calda perché sia impossibile respirarla, mentre i punti rispettivamente più vicino e più lontano dal Primario, la Zona Estrema Est e quella Ovest, in effetti s'innalzano al di sopra dell'atmosfera. Visto dallo spazio, Jinx sembra l'Uovo Pasquale di Dio; le Zone Estreme sono color avorio, sfumate di giallo; poi c'è il riflesso più fulgido degli anelli delle distese di ghiaccio ai limiti dell'atmosfera; quindi i vari azzurri di un mondo simile alla Terra, ai quali si sovrappongono sempre più spesso le incrostazioni candide delle nubi via via che gli occhi si spostano verso l'interno, fino alla cintura del pianeta-luna, che è circondata da una fascia di bianco puro. L'oceano non si vede mai. Feci un solo giro intorno, e via. Sirio ha la sua parte di materia miscellanea che ingombra il percorso verso lo spazio interstellare. Rimasi ai comandi quasi costantemente per quasi cinque giorni, un po' per questa ragione e un po' perché volevo familiarizzarmi con la nave che non conoscevo. L'Hobo Kelly era una di quelle navi che atterrano sulla pancia, lunga cento metri e a sezione triangolare. Sotto il muso rialzato e proteso in avanti c'erano i grandi portelloni per il carico. Aveva razzi ventrali adeguati e un motore a fusione molto più grande in coda, e una fila di oblò che indicavano le cabine. Senza dubbio aveva un'aria piuttosto innocua; e senza dubbio c'era sotto un imbroglio. La cabina avrebbe dovuto avere posto a
sufficienza per quaranta o cinquanta persone, ma in realtà c'era per quattro appena. Il resto di quello che sarebbe dovuto essere lo spazio per le cabine era formato da finestre a proiezioni olografiche. Il motore funzionava bello tranquillo fino a un massimo di dieci gravità: non molto, per una nave destinata a portare un carico massiccio. La gravità nella cabina reggeva senza bisogno di sfruttare più di una frazione dell'energia. Quando Jinx e il Primario diventarono invisibili sullo sfondo delle stelle, quando Sirio fu così lontano che potevo guardarlo direttamente, cominciai a occuparmi del quadro segreto dei comandi che Ausfaller aveva sbloccato apposta per me. Ausfaller si svegliò, vide che cosa stavo facendo, e attaccò a darmi spiegazioni. C'era un grosso laser a raggi X e c'erano altri cannoni laser più piccoli, regolati su frequenze diverse. C'erano quattro bombe a fusione del tipo autocercante. C'era un telescopio così efficiente che in realtà il telescopio ufficiale della nave gli serviva soltanto come finder. C'era il radar di profondità. Eppure niente di tutto questo armamentario affiorava dallo scafo scolorito. Ausfaller era armato quanto bastava per affrontare i bandersnatchi. Io non sapevo cosa pensare. Sembrava che fossimo in grado di combattere contro qualche cosa, e anche di sfuggire a qualunque cosa. Ma che razza di nemico si stava aspettando? Durante le quattro settimane in hyperdrive, mentre attraversavamo il Punto Cieco alla velocità di un anno-luce ogni tre giorni, l'argomento dei mangiatori di navi si riaffacciò in modo inquietante. Oh, parlavamo di altre cose: di musica e d'arte, e delle più recenti tecniche d'animazione, i programmi da computer che vi permettono di farvi da soli i film olografici con una spesa poco superiore quella di un pranzo. Ci raccontavamo tante cose. Io spiegai a Carlos perché lo kdatlyno Lloobee aveva fatto quei busti a me e a Emil Horne. Parlai dell'unica volta che i burattinai di Pierson avevano pagato la garanzia per uno scafo della Prodotti Generali, dopo che lo scafo presunto indistruttibile era stato distrutto dall'antimateria. Ausfaller conosceva molti episodi interessanti... molti di più di quanti fosse autorizzato a raccontare; lo immaginavo nel vedere che ogni volta doveva frugare nella sua memoria. Ma finivamo sempre per ritornare ai mangiatori di navi. — Tutto si riduce a tre possibilità — dissi io. — Kzinti, burattinai, oppu-
re umani. Carlos sghignazzò. — Burattinai? I burattinai non ne avrebbero il coraggio! — Ho messo anche loro nel mazzo perché potrebbero avere qualche interesse a manipolare la Borsa interstellare. Pensate un momento: i nostri ipotetici pirati hanno creato un embargo, isolando il Sistema di Sol dal mondo esterno. I burattinai hanno il capitale per approfittare delle conseguenze per il mercato. E hanno bisogno di parecchio denaro. Per la loro migrazione. — I burattinai sono filosofi vigliacchi. — Verissimo. Non correrebbero il rischio di rapinare le navi, e neppure di avvicinarle. Ma supponiamo che siano in grado di farle sparire da lontano. Adesso Carlos non rideva più. — Questo è più facile che tirarle fuori dall'iperspazio per saccheggiarle. Sarebbe sufficiente un enorme generatore di gravità... e noi non abbiamo mai conosciuto i limiti della tecnologia dei burattinai. Ausfaller chiese: — Lo ritieni possibile? — Appena appena. Lo stesso vale per gli kzinti. Gli kzinti sono abbastanza feroci. Ma se venissimo a sapere che sono loro a rubare le nostre navi, scateneremmo l'inferno. Gli kzinti lo sanno, e sanno che possiamo batterli. Ci hanno messo parecchio, ma l'hanno capita. — Quindi tu pensi che siano umani — disse Carlos. — Già. Se sono pirati. La teoria dei pirati sembrava ancora traballante. I telescopi spettroscopici non avevano mai trovato concentrazioni di metalli delle navi nello spazio dove erano sparite. I pirati rubavano le navi intere? Se il motore dell'hyperdrive era ancora intatto dopo l'attacco, la nave sequestrata poteva venir lanciata nell'infinito: ma i pirati potevano contare che andasse cosi otto volte su otto? E nessuna delle navi scomparse aveva chiesto aiuto via radio iperspaziale. Io non avevo mai creduto ai pirati. I pirati dello spazio erano esistiti, in passato, ma erano morti senza lasciare eredi. Intercettare una nave spaziale era troppo difficile. Non era abbastanza redditizio. Le navi in hyperdrive si pilotano da sole. Il pilota non deve far altro che stare attento fino a che compaiono le linee radiali verdi nel sensore di mas-
sa. Però lo deve fare spesso, perché il sensore di massa è uno strumento psionico, e dev'essere controllato da una mente, non da un'altra macchina. Quando la sottile linea verde che rappresentava Sol si allungò, cominciai a preoccuparmi enormemente del ciarpame intorno al Sistema Solare. Le ultime dodici ore di volo le passai ai comandi, fumando una sigaretta dopo l'altra, con i piedi. Dovrei aggiungere che questo lo faccio normalmente, quando voglio avere libere entrambe le mani; ma adesso lo facevo per infastidire Ausfaller. Avevo notato come strabuzzava gli occhi, la prima volta che mi aveva visto tenere una sigaretta con i piedi. I terrapiattai non sono molto agili. Carlos e Ausfaller erano in sala comando con me quando entrammo nell'alone cometario di Sol. Erano sollevati perché si stava avvicinando la fine di un lungo viaggio. Io ero nervoso. — Carlos, quanto dovrebbe essere grande una massa, per farci sparire? — Dovrebbe avere dimensioni planetarie, da Marte in su. E poi dipende dalla distanza e dalla densità. Se è abbastanza densa può essere meno massiccia e riuscire comunque a scagliarti fuori dall'universo. Però si vedrebbe sul sensore di massa. — Solo per un istante... e neppure per quello, se fosse spento. Cosa succederebbe se qualcuno mettesse in funzione un gigantesco generatore di gravità mentre stiamo passando? — E perché dovrebbero farlo? Non potrebbero saccheggiare la nave. Che cosa ci guadagnerebbero? — Ci guadagnerebbero il mercato. Ma Ausfaller scuoteva la testa. — Le spese per un'operazione del genere sarebbero enormi. Nessuna consorteria di pirati disporrebbe di un capitale sufficiente perché ne valesse la pena. Potrei crederlo dei burattinai, questo sì. Diavolo, aveva ragione lui. Nessun umano tanto ricco avrebbe avuto bisogno di darsi alla pirateria. La lunga linea verde che indicava Sol stava quasi toccando la superficie del sensore di massa. Annunciai: — Uscita fra dieci minuti. E la nave sobbalzò furiosamente. — Legatevi! — urlai, e diedi un'occhiata ai monitor dell'hyperdrive. Il motore non assorbiva energia e gli altri indicatori erano impazziti. Attivai gli oblò. Li avevo tenuti spenti nell'iperspazio, perché i miei passeggeri terrapiattai non cominciassero a dare i numeri nel vedere il Punto Cieco. Gli schermi si accesero e vidi le stelle. Eravamo nello spazio nor-
male. — Cavolo! Ci hanno beccati. — Carlos non sembrava spaventato né arrabbiato, ma piuttosto pieno di meraviglia e ammirazione. Quando sollevai il pannello segreto, Ausfaller gridò: — Aspetti! — Non gli badi. Azionati l'interruttore rosso, e l'Hobo Kelly sobbalzò di nuovo, quando la parte ventrale esplose. Ausfaller cominciò a bestemmiare in qualche lingua morta dei terrapiatti. I due terzi dell'Hobo Kelly recedettero, ruotando lentamente su se stessi. Ciò che era rimasto doveva rivelarla per ciò che era: uno scafo numero due della Prodotti Generali, costruito dai burattinai, un'agile lancia trasparente lunga cento metri e larga sei, con gli strumenti da guerra raggruppati lungo quella che adesso era la nuova parte ventrale. Gli schermi che erano rimasti spenti si accesero. E io attivai il motore principale e lo portai alla massima potenza. Ausfaller esplose, rabbioso e invelenito. — Shaeffer, idiota, vigliacco! Scappa senza sapere da che cosa stiamo scappando! Adesso quelli sanno esattamente che cosa siamo. Che probabilità ci sono che ci seguano, adesso? Questa nave era stata costruita per uno scopo preciso, e lei ha rovinato tutto! — Ho liberato i suoi strumenti speciali — gli feci notare. — Perché non prova a vedere cosa riesce a trovare? — E nel frattempo, pensai, io potevo filarmela. Ausfaller cominciò a darsi da fare. Rimasi a guardarlo mentre accendeva gli schermi dalla mia parte del quadro dei comandi. C'era qualcosa che c'inseguiva? Si sarebbero accorti che era difficile prenderci, e ancora più difficile digerirci. Non era probabile che si aspettassero uno scafo della Prodotti Generali. Da quando i burattinai avevano smesso di fabbricarli, i prezzi dei loro scafi usati erano saliti alle stelle. C'erano alcune navi, là fuori. Ausfaller le inquadrò in primo piano: tre rimorchiatori spaziali del tipo usato nella Fascia degli Asteroidi, a forma di grossi dischi, equipaggiati con motori enormi e potenti generatori elettromagnetici. Quelli della Fascia li adoperano per rimorchiare gli asteroidi di nichel-ferro e portarli dove c'è chi vuol comprare il minerale. Con quei motori probabilmente potevano raggiungerci: ma avrebbero avuto una gravità adeguate nelle cabine? Non ci provavano neppure. Sembrava che non ci seguissero e che non fuggissero. E avevano un'aria abbastanza innocua.
Ma Ausfaller si stava dando da fare con gli altri suoi strumenti. Io lo approvavo. Anche l'Hobo Kelly aveva avuto un'aria piuttosto pacifica fino a un momento prima. Adesso era irta di armi. Poteva darsi che anche i rimorchiatori nascondessero chissà cosa. Alle mie spalle Carlos chiese: — Bey? Cos'è successo? — Come cavolo faccio a saperlo? — Cosa indicano gli strumenti? Doveva riferirsi al complesso dell'hyperdeive. Un paio degli indicatori era impazzito; altri cinque non funzionavano più. Glielo dissi. — E il motore non assorbe energia. Non ho mai sentito che sia successa una cosa simile. Carlos, è ancora teoricamente impossibile. — Non... non ne sono tanto sicuro. Voglio dare un'occhiata al motore. — Nei tubi d'accesso non c'è la gravità della cabina. Ausfaller aveva abbandonato i rimorchiatori ormai distanziati. Aveva trovato qualcosa che sembrava una grossa cometa, una palla di gas congelati a una notevole distanza, da un lato. Restai a guardare mentre l'esaminava con il radar di profondità. Dietro non c'era nascosta una flotta di navi pirate. Gli chiesi: — Ha controllato con il radar di profondità anche i rimorchiatori? — Naturalmente. Più tardi potremo esaminare dettagliatamente le registrazioni. Non ho visto niente. E niente ci ha attaccati da quando siamo usciti dall'iperspazio. Io avevo pilotato la nave in una direzione scelta a caso. Adesso la puntai verso Sol, che era la stella più fulgida del firmamento. Quei dieci minuti di meno nell'iperspazio avrebbero aggiunto circa tre giorni alla durata del nostro viaggio. — Se c'era un nemico, lei l'ha spaventato. Shaeffer, questa missione e questa nave sono costate una somma enorme al mio dipartimento, e non abbiamo scoperto niente di niente. — Non proprio — disse Carlos. — Voglio dare un'occhiata al motore hyperdrive. Bey, puoi portarci a una gravità? — Sicuro. Ma... i miracoli m'innervosiscono, Carlos. — Lo stesso vale anche per me. Strisciammo lungo un tubo d'accesso appena un po' più largo delle spalle di un uomo imponente, tra il vano del motore hyperdrive e i serbatoi del combustibile. Carlos raggiunse uno spioncino d'ispezione. Guardò e scop-
piò a ridere. Gli chiesi che cavolo ci trovava di tanto divertente. Continuando a ridere, Carlos passò oltre. Gli strisciai dietro e guardai all'interno. Nel vano del motore hyperdrive, il motore hyperdrive non c'era più. Entrai dalla botola per le riparazioni e mi fermai nel vano cilindrico, a guardarmi intorno. Niente. Non c'era neppure un foro d'uscita. I cavi superconduttori e i supporti del motore erano stati tranciati così perfettamente che le estremità mutilate luccicavano come specchi. Ausfaller pretese di andare a vedere con i suoi occhi. Io e Carlos lo aspettammo in sala comando. Per un po' Carlos continuò a scoppiare in risate irrefrenabili. Poi assunse un'espressione remota e sognante che m'irritò ancora di più. Mi domandai che cosa gli stava passando per la testa, e pervenni alla spiacevole conclusione che non l'avrei mai saputo. Qualche anno fa mi sono sottoposto ai test del Quoziente d'Intelligenza, nella speranza che mi servisse per ottenere una licenza di paternità. Non sono un genio. Sapevo soltanto che Carlos aveva pensato qualcosa che non avevo pensato io; lui non lo diceva, e io ero troppo orgoglioso per chiederglielo. Ausfaller non aveva orgoglio. Quando rientrò sembrava che avesse visto un fantasma. — Sparito! Dove può essere andato? Come può essere successo? — A questo posso rispondere io — disse allegramente Carlos. — È necessario un gradiente di gravità estremamente alto. Il motore l'ha urtato, ha avvolto lo spazio intorno a se stesso ed è passato a un livello d'hyperdrive più elevato, che noi non possiamo raggiungere. Può darsi che in questo momento sia avviato verso l'orlo dell'universo. Io dissi: — Sei sicuro, eh? Un'ora fa non esisteva una teoria per spiegare quel che è accaduto. — Bene, sono sicuro che il nostro motore è andato. Tutto il resto è piuttosto nebuloso. Ma questo è un modello ben stabilito di ciò che càpita quando una nave incappa in una singolarità. A un gradiente di gravità inferiore il motore si porterebbe dietro tutta la nave, e poi ne spargerebbe gli atomi lungo il percorso, fino a quando non restasse altro che il campo dell'hyperdrive. — Ugh. Ormai Carlos s'era innamorato di un'idea. — Sigmund, voglio che usi la tua radio iperspaziale. Potrei sbagliarmi, ma ci sono diverse cose che pos-
siamo controllare. — Se siamo ancora entro la singolarità di qualche massa, la radio iperspaziale si autodistruggerà. — Sì. Credo che valga la pena di rischiare. Eravamo usciti, o eravamo stati buttati fuori, a dieci minuti di distanza dalla singolarità intorno a Sol. Questo ammontava a sedici ore-luce di spazio normale, più quasi cinque ore dall'orlo della singolarità della Terra. Per fortuna la radio iperspaziale è istantanea, e ogni sistema civile tiene una stazione di collegamento della radio iperspaziale appena al di fuori della singolarità. La Southworth Station avrebbe trasmesso il nostro messaggio verso l'interno per mezzo del laser, avrebbe ricevuto la risposta allo stesso modo e ce l'avrebbe passata dopo dieci ore. Accendemmo la radio iperspaziale, e non scoppiò. Ausfaller fece per prima cosa la sua chiamata a Cerere, per farsi dare i dati di registrazione dei rimorchiatori che avevamo avvistato. Poi Carlos chiamò il complesso dei computer di Elephant a New York, usando un numero di codice che Elephant non rilascia a molti. — Lo ripagherò più tardi. E magari avrò anche da raccontargli una bella storia — dichiarò tutto soddisfatto. Restai ad ascoltare mentre Carlos spiegava che cosa gli occorreva. Voleva tutti i dati su una meteorite che era precipitata nella Tunguska, in Siberia, nel 1908 d.C. Voleva un riepilogo dei tre modelli dell'origine dell'universo: il Big Bang, l'Universo Ciclico, l'Universo a Stato Costante. Voleva dati sui collapsar. Voleva nomi, curriculum e indirizzi dei più noti studiosi dei fenomeni gravitazionali nel Sistema di Sol. Quando spense la radio, sorrideva. Io dissi: — Mi hai messo nel sacco. Non ho la più pallida idea di quello che stai cercando di combinare. Senza smettere di sorridere, Carlos si alzò e andò nella sua cabina a dormire. Spensi completamente il motore principale di spinta. Quando ci fossimo addentrati nel Sistema di Sol avremmo potuto decelerare a trenta gravità. Nel frattempo stavamo andando alla velocità sostenuta che avevamo acquisita mentre uscivamo dal Sistema di Sirio. Ausfaller rimase in sala comando. Forse il suo movente era identico al mio. Là fuori non c'erano navi della polizia. Poteva darsi che venissimo attaccati ancora.
Passò la notte a esaminare le registrazioni dei tre rimorchiatori minerari. Non parlammo, ma io guardai attentamente. I rimorchiatori sembravano abbastanza normali. Le inquadrature telescopiche non mostravano fenditure sospette negli scafi, o portelli per i cannoni. Nelle registrazioni del radar di profondità sembravano spettri: si vedevano i massicci cerchi dei campi di forza, i tubi cavi e altrettanto massicci dei motori, le densità minori dei serbatoi di combustibile e dei sistemi di supporto vitale. Non c'erano lacune né ombre che non dovevano esserci. Ogni tanto Ausfaller ripeteva: — Sa quanto valeva l'Hobo Kelly? A un certo punto gli dissi che potevo azzardare una stima. — Valeva la mia carriera. Pensavo di distruggere una flotta pirata, con l'Hobo Kelly. Ma il mio pilota è fuggito. Fuggito! Che cosa ho, adesso, da mostrare in cambio del mio costosissimo cavallo di Troia? Non gli diedi la risposta più ovvia e non gli ricordai che la mia responsabilità principale era la vita di Carlos. Ausfaller non l'avrebbe bevuta. Gli dissi, invece: — Carlos ha scoperto qualcosa. Lo conosco bene. Lui sa com'è successo. — E riuscirà a farlo parlare? — Non lo so. — Avrei potuto dire a Carlos che saremmo stati più al sicuro se avessimo saputo che cosa aveva intenzione di fregarci. Ma Carlos era un terrapiattaio, e questo condizionava inevitabilmente la sua mentalità. — Dunque — disse Ausfaller, — abbiamo soltanto la conoscenza celata nella testa di Carlos. Un'arma che trascendeva la tecnologia umana mi aveva sbalzato fuori dall'iperspazio. Ero scappato. Logicamente ero scappato. Restare nei dintorni sarebbe stata una pazzia, mi dicevo. Però, irrazionalmente, me ne rammaricavo. Dissi ad Ausfaller: — E i rimorchiatori minerari? Non riesco a capire cosa ci facciano da queste parti. Nella Fascia li usano per portare gli asteroidi di nichel-ferro fino alle zone industriali. — Anche qui è lo stesso. Gran parte di ciò che trovano è inutile: masse di pietra e grosse sfere di ghiaccio: ma quei pochi metalli che ci sono qui intorno sono preziosi. Ne hanno bisogno per costruire. — Per costruire che cosa? Che razza di gente può vivere qui? Tanto varrebbe aprir bottega nello spazio interstellare! — Precisamente. Non ci sono turisti, ma ci sono gruppi di ricerca, qui dove lo spazio è piatto e vuoto e le temperature sono vicine allo zero asso-
luto. So che il Gruppo Mercurio fu istituito proprio qui per studiare i fenomeni dell'iperspazio. Ancora oggi non comprendiamo l'iperspazio, lo ricordi. Non siamo stati noi a inventare l'hyperdrive: l'abbiamo acquistato da una razza aliena. E poi c'è il laboratorio genetico che cerca di realizzare una varietà di albero in grado di crescere sulle comete. — Sta scherzando? — Ma quelli fanno sul serio. Una pianta fotosintetica che sfrutti le sostanze chimiche presenti in tutte le comete... sarebbe utilissima. L'intero alone cometario potrebbe venire seminato di piante produttrici d'ossigeno... — Ausfaller s'interruppe bruscamente, poi disse: — Lasciamo stare. Ma tutti questi gruppi hanno bisogno di materiale da costruzione. Costa meno costruire qua fuori che spedire ogni cosa dalla Terra o dalla Fascia degli Asteroidi. La presenza dei rimorchiatori non è sospetta. — Ma non c'era nient'altro intorno a noi. Proprio niente. Ausfaller annuì. Quando Carlos venne a raggiungerci varie ore dopo, sbattendo gli occhi per liberarsi dal sonno, gli domandai: — Carlos, è possibile che i rimorchiatori avessero qualcosa a che vedere con la tua teoria? — Non vedo come. Ho una mezza idea, e può darsi che entro trenta minuti io faccia la figura dello scemo. La teoria che voglio non è più di moda. Ora che sappiamo cosa sono i quasar, tutti sembrano abbracciare l'Ipotesi dello Stato Costante. Sai come funziona: la tensione, nello spazio completamente vuoto, produce altri atomi d'idrogeno, per l'eternità. L'universo non ha principio né fine. — Carlos aveva l'aria intestardita. — Ma se ho ragione io, allora sappiamo dove sono finite le navi dopo essere state sequestrate. Ed è più di quanto sappia chiunque altro. Ausfaller gli balzò quasi addosso. — Dove sono? E i passeggeri? Sono vivi? — Mi dispiace, Sigmund. Sono tutti morti. Non sono rimasti neppure le salme da seppellire. — Che cos'è? Contro che cosa stiamo combattendo? — Un effetto gravitazionale. Una brusca distorsione dello spazio. Un pianeta non può riuscirci, e non ci riuscirebbe neppure una batteria di generatori di gravità: non sarebbero in grado di produrre un campo così. — Un collapsar — suggerì Ausfaller. Carlos gli rivolse un gran sorriso. — Sì, un collapsar ci riuscirebbe, ma ci sono altri problemi. Un collapsar non può neppure formarsi se non ha almeno cinque masse solari. E ci sarebbe da scommettere che qualcuno a-
vrebbe notato qualcosa di tanto grosso, così vicino a Sol. — Allora che cosa? Carlos scrollò la testa. Dovevamo aspettare. Southworth Station ci trasmise i dati di registrazione di tre rimorchiatori spaziali, usati e costruiti in anni diversi, tutti e tre acquistati tre anni prima presso l'IntraBelt Mining dalla Sesta Chiesa Congregazionale di Rodney. — Rodney? Ma Carlos e Ausfaller stavano ridacchiando tutti e due. — A volte quelli della Fascia fanno così — mi disse Carlos. — È un modo per dire che non deve interessare a nessuno chi compra le navi. — È divertente, d'accordo, ma ancora non sappiamo chi siano i proprietari. — Può darsi che siano onesti abitanti della Fascia degli Asteroidi. E può darsi di no. Subito dopo quelle prime informazioni arrivarono i dati che aveva richiesto Carlos, e furono immessi direttamente al computer di bordo. Carlos passò in rassegna un elenco di nomi e di numeri telefonici: i più illustri studiosi della gravità e dei suoi effetti che vivessero nel Sistema di Sol, e tutti in ordine alfabetico. Un indirizzo attirò la mia attenzione: Julian Forward, #1192326 Southwoth Station. Era un numero di collegamento per la radio iperspaziale. Lui era lì, da qualche parte, nell'enorme vuoto tra l'orbita di Nettuno e la fascia cometaria, lì fuori dove poteva funzionare il collegamento della radio iperspaziale. Cercai altri numeri della Southworth Station. C'erano: Launcelot Starkey, 1844719 Southworth Station; Jill Luciano, 1844719 Southworth Station; Mariana Wilton, 1844719 Southworth Station. — Questi qui — disse Ausfaller. — Vuoi discutere la tua teoria con uno di loro? — Appunto. Sigmund, 1844719 non è la lunghezza d'onda del Gruppo Mercurio? — Mi pare. Ma credo che non siamo alla nostra portata, adesso che non abbiamo più il motore hyperdrive. Il Gruppo Mercurio si era stabilito in un'orbita distante intorno ad Antenora, che in questo momento si trova dall'altra parte del Sole. Carlos, hai pensato che uno di costoro potrebbe aver costruito il congegno mangianavi? — Cosa?... Hai ragione. Ci vorrebbe qualcuno che conoscesse piuttosto bene la gravità. Ma direi che il Gruppo Mercurio è al di sopra di ogni so-
spetto. Con più di diecimila persone al lavoro, come sarebbe possibile nascondere qualcosa? — E questo Julian Forward? — Forward. Già, ho sempre desiderato conoscerlo. — Sai qualcosa di lui? Chi è? — Lavorava all'Istituto della Conoscenza su Jinx. Da anni non ne ho più sentito parlare. Fece qualche ricerca sulle onde di gravità in partenza dal nucleo galattico... e risultò che il suo lavoro era sbagliato. Sigmund, chiamiamolo. — Per chiedergli che cosa? — Ma... — Poi Carlos ricordò la situazione. — Oh. Tu pensi che potrebbe... Già. — Conosci molto bene quest'uomo? — Lo conosco di fama. È piuttosto celebre. Non capisco come un tipo come lui potrebbe dedicarsi alla pirateria. — Avevi detto che stavamo cercando un uomo esperto nello studio dei fenomeni gravitazionali. — È vero. Ausfaller si mordicchiò il labbro inferiore, poi disse: — Forse possiamo far qualcosa di più che parlare con lui. Potrebbe essere dall'altra parte del Sole e comandare egualmente una flotta pirata... — No. Questo non potrebbe farlo. — Pensaci meglio — disse Ausfaller. — Siamo fuori dalla singolarità di Sol. Una flotta pirata includerebbe sicuramente qualche nave hyperdrive. — Se il mangiatore di navi è Julian Forward, dev'essere qui vicino. Il... uhm, il congegno non si sposta nell'iperspazio. Io dissi: — Carlos, quello che non sappiamo può ucciderci. Vuoi smetterla di giocare...? — Ma lui sorrideva e scuoteva la testa. Cavolo. — E va bene, possiamo comunque dare una controllatina a Forward. Chiamalo e chiedigli dov'è! È probabile che anche lui ti conosca di fama? — Sicuro. Anch'io sono una celebrità. — Benissimo. Se è abbastanza vicino, potremmo addirittura chiedergli un passaggio fino a casa. Così come si sono messe le cose saremo alla mercé di qualunque nave dotata d'hyperdrive, finché restiamo qui fuori. — Io spero che ci attacchino — disse Ausfaller. — Possiamo batterci... — Ma non possiamo scappare. Loro possono schivare il nostro fuoco, ma noi no. — State buoni, voi due. Diamo la precedenza alle cose più importanti.
— Carlos sedette alla radio iperspaziale e batté un numero. All'improvviso Ausfaller disse: — Puoi tenere il mio nome fuori dalla conversazione? Se è necessario, puoi spacciarti per il proprietario della nave. Carlos si voltò, sorpreso. Prima che potesse rispondere, lo schermo s'illuminò. Vidi i capelli biondi, tagliati a cresta secondo la moda degli abitanti della Fascia, una faccia bianca e magra, un sorriso impersonale. — Forward Station. Buonasera. — Buonasera. Qui Carlos Wu della Terra. È una chiamata interspaziale. Posso parlare con il dottor Julian Forward, per favore? — Vedo se è disponibile. — Sullo schermo apparve la scritta ATTENDERE. Carlos sbottò: — Che razza di gioco stai giocando tu, adesso? Come faccio a spiegare d'essere proprietario di una nave da guerra camuffata? Ma io avevo cominciato a capire dove voleva arrivare Ausfaller. Dissi: — Penso che vorrai evitare di spiegarlo in ogni caso. Forse lui non lo chiederà. Io... — E stetti zitto, perché sullo schermo era comparso Forward. Julian Forward era un jinxiano, basso e tozzo, con le braccia grosse come gambe, e gambe che sembravano colonne. La carnagione era quasi nera quanto i capelli: un'abbronzatura siriana, probabilmente conservata con le lampade solari. Era appollaiato sull'orlo d'una sedia da massaggi. — Carlos Wu! — esclamò con lusinghiero entusiasmo. — Lo stesso Carlos Wu che ha risolto il Problema dei Limiti di Sealeyham? Carlos rispose di sì. Attaccarono una discussione matematica... le possibilità di applicare la soluzione di Carlos a un altro problema dei limiti, mi parve. Lanciai un'occhiata ad Ausfaller, di nascosto, dato che per Forward non doveva neppure esistere, e vidi che stava sbirciando lo scienziato con aria pensierosa. — Bene — disse Forward, — cosa posso fare per lei? — Dottor Forward, le presento Beowulf Shaeffer — disse Carlos. M'inchinai. — Bey mi stava dando un passaggio per tornare a casa quando il nostro motore hyperdrive è scomparso. — Scomparso? Intervenni, per dar maggiore verosimiglianza alla cosa. — Scomparso giustissimo. Il vano del motore hyperdrive è vuoto. I supporti sono tranciati. Siamo bloccati qui senza hyperdrive e non abbiamo idea di come sia successo.
— È quasi vero — disse allegramente Carlos. — Dottor Forward, io ce l'ho, qualche idea di quello che ci è successo. Mi piacerebbe discuterne con lei. — Dove siete in questo momento? Mi feci dare dal computer la posizione e la velocità e le trasmisi a Forward Station. Non ero sicuro che fosse una grande trovata; ma Ausfaller avrebbe avuto il tempo di fermarmi, e non lo fece. — Benissimo — disse l'immagine di Forward. — Sembra che possiate arrivare qui in meno tempo di quello che impieghereste a raggiungere la Terra. Forward Station è davanti a voi, a meno di venti unità astronomiche dalla vostra posizione. Potrete attendere qui il prossimo traghetto. Sempre meglio che viaggiare con una nave danneggiata. — Giusto! Calcoleremo una rotta e le faremo sapere quando potrà aspettarci. — Sarà un piacere incontrare di persona Carlos Wu. — Forward ci diede le sue coordinate e tolse la comunicazione. Carlos si voltò. — Dunque, Bey, adesso tu sei padrone di una nave da guerra armata e camuffata. Inventa un po' dove l'hai avuta. — Abbiamo problemi ben più gravi. Forward Station è esattamente dove dovrebbe essere il mangianavi. Carlos annuì. Ma aveva l'aria divertita. — Dunque, quale sarà la nostra prossima mossa? Non possiamo scappare alle navi con l'hyperdrive, adesso. È probabile che Forward cerchi di ucciderci? — Se non arriviamo a Forward Station in orario, quello potrebbe sguinzagliarci dietro qualche nave. Sappiamo troppo. E glielo abbiamo detto — osservò Carlos. — Il motore hyperdrive è sparito completamente. Conosco mezza dozzina di persone che potrebbero capire com'è successo, sapendo semplicemente questo. — Poi sorrise. — Questo presumendo che il mangiatore di navi sia Forward. Non lo sappiamo. Credo che abbiamo un'eccellente possibilità di scoprirlo, in un modo o nell'altro. — Come? Buttandoci in trappola? Ausfaller annuiva con aria d'approvazione. — Il dottor Forward si aspetta che lei e Carlos entrino nella sua ragnatela senza sospettare di nulla, lasciando una nave vuota. Credo che possiamo preparargli qualche sorpresa. Per esempio, forse non ha indovinato che questo è uno scafo della Prodotti Generali. E io sarò a bordo per combattere. Era vero. Soltanto l'antimateria poteva danneggiare uno scafo della Pro-
dotti Generali... anche se c'erano varie cose che potevano attraversarlo, come la luce e la gravità e le onde d'urto. — E così, lei sarà nello scafo indistruttibile — dissi. — E noi, indifesi, nella base. Molto ingegnoso. Personalmente preferirei scappare. Ma d'altra parte lei deve pensare alla sua carriera. — Non lo nego. Però posso prepararvi a dovere. Dietro la cabina di Ausfaller, dietro quello che sembrava un muro impenetrabile, c'era una stanza grande un po' di più di un armadio-guardaroba. Ausfaller ne sembrava molto fiero. Non ci mostrò tutto quello che c'era dentro, ma io vidi abbastanza per cambiare idea sul conto di Ausfaller. Quell'uomo non aveva l'anima del grasso burocrate. Dietro un pannello di vetro teneva un paio di dozzine di armi a mano di tipo speciale. Una fila di quattro morsetti reggeva tre armi a mano identiche, lanciarazzi usa-e-getta per grossi proiettili che Ausfaller presentò come microbombe atomiche. Il quarto morsetto era vuoto. C'erano fucili e pistole laser; un fucile di modello strano, con un assorbirinculo spesso dieci centimetri; una pistola da tiro a segno olimpica con l'impugnatura modellata e lo spazio per un unico proiettile calibro .22. Mi domandai che cosa se ne faceva del materiale per la scultura tattile. Forse era capace di realizzare sculture che riuscivano a far impazzire un umano o un alieno. O magari facevano qualcosa di meno sottile: forse esplodevano a contatto con le impronte digitali giuste. Aveva un laboratorio di sartoria compatto e automatizzato. — Vi farò due abiti nuovi, — disse. Quando Carlos gli chiese perché, rispose: — Tu vuoi tenere i tuoi segreti? Be', lo faccio anch'io. Ci domandò quali erano le nostre preferenze in fatto di stile. Io stetti al gioco, e chiesi un monopezzo sciolto in verde e argento, con molte tasche. Non era l'abito più bello che avessi mai posseduto, ma mi andava abbastanza bene. — Non ho chiesto i bottoni — protestai. — Spero che non le dispiaccia. Carlos, avrai i bottoni anche tu. Carlos scelse una tunica rosso-fuoco con un drago verde e oro acciambellato sulla schiena. I bottoni avevano il monogramma della sua famiglia. Ausfaller si piazzò davanti a noi, esaminando con approvazione i nostri abbigliamenti nuovi. — Ora state a vedere — disse. — Eccomi qui davanti a voi, disarmato... — Giusto.
— Sicuro. Ausfaller sogghignò. Afferrò con le dita il primo e l'ultimo bottone e tirò con forza. La stoffa si strappò, tra l'uno e l'altro, come se in mezzo ci fosse un filo teso. Reggendo i bottoni come se tendesse quel filo invisibile, li portò ai due lati di una rozza scultura tattile. La scultura andò a pezzi. — Catena molecolare di Sinclair. Tagli qualunque tipo di materia normale, se si tira con forza sufficiente. Dovete stare molto attenti. Vi taglierà le dita con tanta facilità che non vi accorgerete neppure di non averle più. Notate che i bottoni sono grandi, perché sia più agevole stringerli. — Li posò cautamente su un tavolo e in mezzo mise un grosso peso. — Il terzo bottone, contando dall'alto, è una granata sonica. A tre metri di distanza uccide, a dieci metri stordisce. Io dissi: — Non è necessaria una dimostrazione. — Forse vorrete esercitarvi a lanciare bottoni scarichi contro un bersaglio. Questo secondo bottone è una Pillola Energetica, lo stimolante comunemente in commercio. Rompete il bottone e prendetene metà quando ne avete bisogno. La dose intera potrebbe causare un arresto cardiaco. — Non ho mai sentito parlare della Pillola Energetica. Come funziona in caso d'incidenti? Ausfaller ci restò secco. — Non lo so. Forse sarà meglio limitarsi a un quarto di dose. — O farne a meno — dissi io. — C'è un'altra cosa di cui non darò dimostrazioni. Tastate la stoffa dei vostri indumenti. Sentite che ci sono tre strati? Quello di mezzo è uno specchio quasi perfetto. Riflette persino i raggi X. Ora potete respingere una raffica laser, almeno per il primo secondo. Il colletto si srotola e forma un cappuccio. Carlos annuiva tutto soddisfatto. Credo che sia proprio vero: tutti i terrapiattai la pensano allo stesso modo. Per un miliardo e mezzo di anni, gli antenati dell'umanità si sono evoluti nelle condizioni di un unico mondo: la Terra. Un terrapiattaio cresce in un ambiente del tutto adatto a lui. E d'istinto vede l'intero universo allo stesso modo. Noi che siamo nati su altri mondi sappiamo che le cose stanno diversamente. Su We Made It ci sono i venti infernali dell'estate e dell'inverno. Su Jinx, la gravità. Su Plateau, il ciglio del precipizio che circonda tutto, e
una caduta di quaranta miglia nel calore e nella pressione più insopportabili. Su Down, la luce rossa del sole, e piante che non crescerebbero senza l'aiuto delle lampade ultraviolette. Ma i terrapiattai credono che l'universo sia stato fatto apposta per loro beneficio. Per loro, il pericolo è irreale. — Gli auricolari — disse Ausfaller, mostrando una manciata di cilindretti di plastica morbida. Li inserimmo. Ausfaller chiese: — Mi sentite? — Sicuro. — Non bloccavano affatto l'udito. — Auricolari per la trasmittente e ausilio per l'udito, con un'imbottitura sonica in mezzo. Se vi bombardano con il suono, per esempio con un'esplosione o uno storditore sonico, l'ausilio per l'udito smette di colpo di trasmettere. Se diventate improvvisamente sordi, capirete che siete attaccati. Per me, tutte le precauzioni di Ausfaller servivano soltanto a preannunciare quello che poteva capitarci. Non dissi niente. Se fossimo scappati, avremmo avuto anche meno probabilità di portare a casa la pelle. Quando tornammo in sala comando, Ausfaller si collegò con l'Ufficio Affari Alieni, sulla Terra. Fornì una versione condensata di quello che ci era successo, ed espose qualche ipotesi. Invitò Carlos a leggere le sue teorie perché venissero registrate. Carlos rifiutò. — Potrebbe ancora darsi che mi sia sbagliato. Lasciami la possibilità di studiarci un po' sopra. Brontolando, Ausfaller andò a sdraiarsi nella sua cuccetta. Era rimasto sveglio anche troppo, e si vedeva. Carlos scrollò la testa quando Ausfaller sparì in cabina. — Paranoia. Nel suo mestiere, credo sia inevitabile essere paranoici. — Forse un pizzico di paranoia non ti farebbe male. Non mi senti neppure. — Immagina! Sospettare che una celebrità interstellare sia un pirata dello spazio! — Quello è al posto giusto nel momento giusto. — Ah, Bey, dimentica quello che ho detto. Il... uhm, il congegno mangianavi dev'essere al posto giusto, ma i pirati no. Possono semplicemente abbandonarlo e servirsi di navi hyperdrive per fare la spola alla loro base. Era qualcosa da tener presente. In confronto al sistema interno, il volume entro l'alone cometario era enorme: ma per le navi a hyperdrive era come il quartiere intorno a casa. Dissi: — Allora perché andiamo a far visita a
Forward? — Voglio discutere le mie idee con lui. E c'è di più: probabilmente conosce il Capo Mangianavi, senza sapere chi è. Probabilmente, anzi, Io conosciamo entrambi. C'è voluto un esperto cosmologo per trovare il congegno e riconoscerlo per ciò che era. Chiunque sia, inevitabilmente è qualcuno che si è fatto un nome. — Hai detto trovare? Carlos mi rivolse un gran sorriso. — Lascia perdere. Ti è venuto in mente qualcuno su cui vorresti usare quel filo magico? — Sto facendo un elenco. Tu vieni al primo posto. — Bene, sii prudente. Sigmund sa che ce l'hai, anche se non lo sa nessun altro. — Lui viene al secondo posto. — Fra quanto arriveremo a Forward Station? Avevo ricontrollato la nostra rotta. Stavamo decelerando a trenta gravità e viravamo lateralmente. — Venti ore e qualche minuto — risposi. — Bene. Avrò la possibilità di studiare un po'. — Carlos incominciò a chiedere dati al computer. Gli domandai il permesso di leggere alle sue spalle. Me lo diede. Carogna. Lui legge due volte più svelto di me. Tentai di saltare qua e là, per farmi un'idea di quello che stava cercando. Collapsar: se ne conoscono tre. Il più vicino era una componente d'una stella doppia nel Cigno, a oltre cento anni-luce di distanza. C'erano andate diverse spedizioni per lanciare le sonde. La teoria dei buchi neri non era una novità per me, anche se la parte matematica mi sembrava incomprensibile. Se una stella è abbastanza massiccia, allora dopo aver bruciato tutto il combustibile nucleare e aver incominciato a raffreddarsi, non c'è nessuna possibile forza interna che possa impedirle di collassare superando il suo raggio di Schwarzschild. A questo punto la velocità di fuga dalla stella diventa maggiore della velocità della luce; e al di là di quel limite non si sa più nulla, perché niente può lasciare la stella, né informazioni, né la materia, né radiazioni. Niente... tranne la gravità. Una stella collassata deve pesare cinque masse solari o più; altrimenti il collasso si arresterebbe allo stadio di stella di neutroni. E in seguito, può soltanto diventare più grande e più massiccia. Non c'era la minima probabilità di trovare qualcosa di tanto massiccio lì
ai margini del Sistema Solare. Se ci fosse stato qualcosa del genere nelle vicinanze, il sole gli orbiterebbe intorno. La meteorite siberiana doveva essere stata abbastanza strana, perché la si ricordasse ancora dopo novecento anni. Aveva steso gli alberi per migliaia di miglia quadrate; eppure gli alberi presso il punto d'impatto erano rimasti in piedi. Della meteorite vera e propria non era mai stato trovato niente. Nessuno l'aveva vista toccare terra. Nel 1908 la Tunguska, in Siberia, doveva essere meno popolata della Luna terrestre ai giorni nostri. — Carlos, e questo c'entra qualcosa? — Quando mai Holmes dice qualcosa al dottor Watson? Faticavo parecchio a seguire la cosmologia. Qui la fisica sconfinava nella filosofia, o viceversa. In sostanza, la teoria del Big Bang (che raffigura l'universo che esplode da un unico punto-massa, come una bomba titanica) era in concorrenza e continuerà a tirare avanti. L'Universo Ciclico è una successione di Big Bang seguiti da contrazioni o Big Crunch. E tutte e tre le teorie hanno diverse varianti. Quando furono scoperti i quasar, parve che risalissero a una fase iniziale dell'evoluzione dell'universo... che, secondo l'ipotesi dello Stato Costante, non si evolverebbe affatto. Lo stato Costante passò di moda. Quindi, un secolo fa, Hilbury aveva risolto l'enigma dei quasar. Nel frattempo una delle implicazioni del Big Bang non ce l'aveva fatta a reggere. A questo punto la matematica, per me, diventava incomprensibile. C'era qualche discussione circa il fatto che l'universo fosse aperto o chiuso nello spazio quadri-dimensionale, ma Carlos spense il computer. — Benone — disse con aria soddisfatta. — Che cosa? — Potrei avere ragione. I dati sono insufficienti. Dovrò sentire cosa ne pensa Forward. — Io spero che crepiate tutti e due. Vado a dormire. Lì fuori, nell'ampia fascia di confine tra il Sistema di Sol e lo spazio interstellare, Julian Forward aveva trovato una massa di pietra grande come un asteroide di medie dimensioni. Da lontano, sembrava che la tecnologia non l'avesse toccata: era uno sferoide sbilenco, con la superficie ruvida, color bianco sporco. A distanza minore, il metallo e la vernice vivida spiccavano come gemme buttate a casaccio. Portelli stagni, finestre, antenne sporgenti e altre cose meno identificabili. Un disco illuminato con qualcosa che si protendeva al centro; un lungo braccio metallico con mezza dozzina di snodi sferici e una coppa all'estremità. Lo studiai, cercando d'im-
maginare cosa poteva essere... e rinunciai. Portai l'Hobo Kelly a fermarsi a una discreta distanza. Chiesi ad Ausfaller: — Lei resta a bordo? — Naturalmente. Non farò nulla per togliere al dottor Forward la convinzione che la nave sia deserta. Ci trasferimmo su Forward Station con un tassì aperto: due sedili, un serbatoio di combustibile e un motore a razzo. A un certo momento mi voltai per chiedere non so cosa a Carlos, ma invece gli domandai: — Carlos? Ti senti bene? Era pallido e teso. — Ce la farò. — Hai provato a chiudere gli occhi? — E anche peggio. Cavolo, ce l'ho fatta ad arrivare fin qui grazie all'ipnosi. Bey, è così vuoto. — Coraggio. Siamo quasi arrivati. Il biondo della Fascia degli Asteroidi era davanti a uno dei portelloni. Aveva una tuta attillata e un casco sferico, e ci faceva segnalazioni con una torcia elettrica. Ormeggiammo il nostro tassì a uno sperone di roccia (la gravità era quasi inesistente) ed entrammo. — Io sono Harry Moskowitz — disse il biondo. — Mi chiamano Angel. Il dottor Forward è in laboratorio. L'interno dell'asteroide era una rete di corridoi diritti e cilindrici, scavati con il laser, pressurizzati e fiancheggiati da fasce luminose azzurre. Noi pesavamo qualche chilo vicino alla superficie, e anche meno nell'interno. Angel si muoveva in un modo che per me era nuovo: spiccava dal pavimento un salto piatto che lo portava molto avanti nel corridoio fino a sfiorare il soffitto, poi si spingeva di nuovo verso il pavimento e spiccava un altro salto. Dopo tre balzi si fermò ad aspettarci, senza nascondere il divertimento per i nostri tentativi di stargli dietro. — Il dottor Forward mi ha chiesto di farvi da guida — ci disse. Gli chiesi: — Mi sembra che qui ci siano molti più corridoi del necessario. Perché non radunate insieme tutte le camere? — L'asteroide era una miniera, una volta. Furono i minatori ad aprire le gallerie. Lasciarono grandi cavità ogni volta che trovavano rocce contenenti aria o sacche di ghiaccio. Non abbiamo dovuto far altro che murarle. Questo spiegava perché c'erano tratti così lunghi di corridoio fra le porte e perché le camere che vedevamo erano così grandi. Alcune erano magazzeni, disse Angel, e non valeva la pena di aprirli. Altre erano officine, sistemi di supporto vitale, un giardino, un grosso computer, una centrale a
fusione di proporzioni non trascurabili. Nella mensa che poteva servire trenta persone ce n'erano una decina, tutti uomini, e ci guardarono incuriositi prima di riprendere a mangiare. Un hangar, più grande del necessario e aperto al cielo, accoglieva tassì e tute a razzo con attrezzi specializzati; e c'erano rampe circolari identiche, tutte vuote. Provai a giocare d'azzardo. Con aria volutamente noncurante, chiesi: — Avete qualche rimorchiatore minerario? Angel non esitò. — Sicuro. Possiamo spedire acqua e metalli dall'interno del sistema, ma costa meno cercarceli noi. E in caso d'emergenza, probabilmente i rimorchiatori ce la farebbero a portarci al sicuro. Ritornammo nelle gallerie e Angel disse: — A proposito di navi, non credo di averne mai vista una come la vostra. Sono bombe, quelle cose allineate sulla superficie ventrale? — Certune sì — risposi. Carlos rise. — Bey non vuol dirmi come ha fatto a procurarsela. — Insisti, eh? E va bene, l'ho rubata, e non credo che qualcuno si lamenterà. Angel, che prima era francamente incuriosito, rimase addirittura affascinato quando gli raccontai che ero stato ingaggiato per pilotare un mercantile nel sistema di Wunderland. — Non mi piaceva molto la faccia del tizio che mi aveva ingaggiato, ma cosa potevo saperne degli abitanti di Wunderland? E avevo bisogno di quel denaro. — Parlai della sorpresa che era stata vedere le proporzioni della nave: la paratia dietro la sala comando, il settore passeggeri che era semplicemente una serie di olografie negli oblò ciechi. A quel punto, dissi, avevo temuto che se avessi cercato di tirarmi indietro mi avrebbero fatto sparire. Ma quando avevo saputo qual era la destinazione, mi ero preoccupato ancora di più. — Era nel Serpent Stream... sa, quella mezzaluna di asteroidi nel Sistema di Wunderland. Lo sanno tutti che la Lega per la Liberazione di Wunderland ha sede proprio là, su quei sassi. Quando mi hanno dato la rotta, io sono partito e mi sono diretto a Sirio. — È strano che le avessero lasciato un hyperdrive funzionante. — Cribbio, non me l'avevano lasciato. Avevano strappato i relays. Ho dovuto ripararli personalmente. Per fortuna ho controllato, perché avevano collegato i relays a una piccola bomba sotto il sedile di guida. — M'interruppi. — Ma forse l'ho riparato male. Ha sentito quello che è successo? Il mio motore hyperdrive è sparito. Devono essere saltati i bulloni esplosivi, perché il ventre della nave è scoppiato. Era fasullo. Quello che è rimasto
sembra un bombardiere tascabile. — È quel che pensavo anch'io. — Credo che dovrò consegnarla alla polizia, quando raggiungeremo il sistema interno. Peccato. Carlos sorrideva e scrollava la testa. Per giustificare quella reazione, disse: — Questo dimostra che sai sfuggire ai tuoi problemi. L'ultimo tunnel finiva in una grande camera emisferica sovrastata da una cupola trasparente. Una colonna grossa come un uomo saliva dal pavimento di roccia fino a una chiusura al centro della cupola. Al di sopra di quella specie di tappo, un braccio metallico snodato si tendeva ciecamente nello spazio. Il braccio finiva in qualcosa che sembrava una gigantesca ciotola per cani costruita in ferro. Forward stava a una console a ferro di cavallo accanto alla colonna. Lo notai appena. Avevo già visto quel braccio snodato, ma non mi ero reso conto delle dimensioni. Forward si accorse che ero rimasto a bocca aperta. — L'Arraffa — disse. Si avvicinò a noi con un'andatura balzellante, comica ma funzionale. — Lieto di conoscervi, Carlos Wu, Beowulf Shaeffer. — La sua stretta di mano non mi stritolò le ossa solo perché ci stava attento. Aveva un sorriso simpatico. — L'Arraffa è la cosa più sensazionale che abbiamo qui. Dopo l'Arraffa non c'è niente da vedere. Io chiesi: — A che cosa serve? Carlos rise. — È magnifico. Perché è necessario che serva a qualcosa? Forward accettò con garbo il complimento. — Sto pensando di mandarlo a una mostra di scultura. In effetti, serve per manipolare masse grandi e dense. Il ricettacolo all'estremità del braccio è un complesso di elettromagneti. Posso far vibrare le masse, lì dentro, per produrre onde di gravità polarizzate. Sei massicce travature ad arco dividevano la cupola in altrettante sezioni. Notai che le travature e la chiusura al centro brillavano come specchi. Erano rinforzate da campi di stasi. Un ulteriore supporto per l'Arraffa? Cercare di immaginare quali forze potevano richiedere una simile robustezza. — Che cosa fa vibrare là dentro? Una megatonnellata di piombo? — Abbiamo usato per il collaudo una massa di piombo inguainata nel ferro dolce. Però è stato anni fa. Non ho lavorato con l'Arraffa in questi ultimi tempi, ma abbiamo ottenuto risultati soddisfacenti con una sfera di neutronio chiusa in un campo di stasi. Dieci miliardi di tonnellate metri-
che. — A che scopo? — chiesi io. Carlos mi lanciò un'occhiataccia. Forward sembrò pensare che fosse una domanda del tutto ragionevole. — Per la comunicazione, innanzi tutto. Devono esserci specie intelligenti in tutta la galassia, quasi tutte al di fuori della portata delle nostre navi. Le onde gravitazionali, probabilmente, sono il metodo migliore per mettersi in contatto con loro. — Le onde gravitazionali viaggiano alla velocità della luce, no? Non sarebbe meglio la radio iperspaziale? — Non possiamo contare che ce l'abbiano. Chi, se non gli Outsinder, penserebbero a fare i loro esperimenti tanto lontano da un sole? Se vogliamo contattare esseri che non hanno avuto a che fare con gli Outsider, dobbiamo usare le onde gravitazionali... quando avremo scoperto come fare. Angel ci offrì sedie e rinfreschi. C'eravamo appena seduti e io ero già tagliato fuori; Forward e Carlos parlavano di fisica del plasma, metafisica e «cosa stanno facendo i nostri vecchi amici?» Capii che avevano parecchie cose in comune. E Carlos stava cercando di scoprire dove erano finiti i cosmologi specializzati in fisica della gravità. Alcuni facevano parte del Gruppo Mercurio. Altri erano sui mondi coloniali... soprattutto su Jinx, a cercare di convincere l'Istituto della Conoscenza a finanziare vari progetti, incluse altre spedizioni al collapsar del Cigno. — Lei lavora ancora per l'Istituto, dottore? Forward scrollò la testa. — Hanno smesso di aiutarmi. I risultati non erano sufficienti, secondo loro. Però posso continuare a servirmi di questa stazione che appartiene all'Istituto. Ma un giorno la venderanno e dovremo trasferirci. — Mi chiedevo come mai l'avessero mandata proprio qui — disse Carlos. — Sirio ha una fascia cometaria ragguardevole. — Ma Sol è l'unico sistema dove sia presente la civiltà a una simile distanza dalla stella centrale. E posso contare su collaboratori migliori. Il Sistema di Sol ha sempre avuto molti cosmologi. — Pensavo che fosse venuto qui per risolvere un vecchio mistero. La meteorite della Tunguska. Ne ha sentito parlare, naturalmente. Forward rise. — Naturalmente. Chi non ne ha sentito parlare? Non credo che sapremo mai che cosa precipitò sulla Siberia quella notte. Forse era un
frammento d'antimateria. Si sa che c'è antimateria, nello spazio conosciuto. — Se lo era, non potremo mai provarlo — ammise Carlos. — Vogliamo parlare del vostro problema? — Forward parve ricordarsi all'improvviso della mia esistenza. — Shaeffer, che cosa pensa un pilota professionista quando sparisce il suo motore hyperdrive? — Ci resta molto male. — Qualche teoria? Decisi di non parlare dei pirati. Volevo vedere se Forward li avrebbe nominati per primo. — Sembra che la mia teoria non piaccia a nessuno — dissi, ed esposi brevemente le mie idee sui mostri dell'iperspazio. Forward mi ascoltò educatamente. Poi: — Devo ammetterlo, è difficile confutare la sua ipotesi. Lei ci crede? — Ho paura a crederci. Una volta per poco non ci ho lasciato la pelle perché cercavo mostri spaziali quando avrei dovuto cercare cause naturali. — E perché i mostri dell'iperspazio avrebbero divorato soltanto il suo motore? — Uhm... cavolo. Non lo so. — Lei cosa ne pensa, Carlos? Un fenomeno naturale, oppure mostri? — Pirati — rispose Carlos. — E come fanno? — Ecco, la faccenda di un motore hyperdrive che sparisce e lascia lì la nave... è del tutto nuova. Credo che sarebbe necessario un forte gradiente di gravità, con un effetto mareale forte quanto quello di una stella di neutroni o di un buco nero. — Non si trova niente del genere, in tutto lo spazio umano, — Lo so. — Carlos aveva l'aria frustrata. Doveva essere una simulazione. Prima s'era comportato come se conoscesse già la risposta. Forward disse: — Comunque, non credo che un buco nero avrebbe questo effetto. Se l'avesse, non se ne sarebbe neppure accorto, perché la nave sarebbe sparita nel buco nero. — E un potente generatore di gravità? — Uhm... — Forward ci pensò sopra, poi scosse il testone. — Sta parlando di una gravità superficiale dell'ordine di milioni. Tutti i generatori di gravità di cui ho sentito parlare collasserebbero, a quel livello. Vediamo, con una struttura sostenuta da campi di stasi... no. La struttura reggerebbe e il resto del macchinario scorrerebbe come acqua. — Non ha lasciato in piedi molto della mia teoria. — Mi dispiace.
Dopo una breve pausa, Carlos chiese: — Secondo lei, come ha avuto inizio l'universo? Forward sembrò un po' sorpreso da quel cambiamento di discorso. E io incominciai a sentirmi irrequieto. Ammetto che non so molto di cosmologia, ma capisco gli atteggiamenti e i toni di voce. Carlos lanciava allusioni, cercando di pilotare Forward alla sua conclusione. Buchi neri, pirati, la meteorite della Tunguska, l'origine dell'universo... li presentava tutti come piste. E Forward non rispondeva correttamente. Adesso stava dicendo: — Lo chieda a un prete. In quanto a me, propendo per il Big Bang. Lo Stato Costante mi è sempre sembrato futile. — Anch'io preferisco il Big Bang, — disse Carlos. C'era qualcosa di preoccupante. I rimorchiatori minerari: era quasi certo che appartenessero a Forward Station. Come avrebbe reagito Ausfaller quando le tre navi spaziali che già conosceva fossero comparse dalle sue parti? Come volevo che reagisse? Forward Station poteva essere una base ideale per i pirati. Piena di corridoi scavati con il laser e distribuiti a caso... potevano esserci due reti di corridoi, collegate soltanto in superficie? Come facevamo a saperlo? All'improvviso, pensai che non volevo più saperlo. Volevo andarmene a casa. Se Carlos si fosse tenuto alla larga dagli argomenti delicati... Ma adesso lui aveva ricominciato a esporre ipotesi sui mangianavi. — Quei dieci miliardi di tonnellate metriche di neutronio che lei ha usato come massa di collaudo. Non sarebbe abbastanza grande né abbastanza densa per darci un gradiente di gravità adeguato. — Potrebbe esserlo, vicino alla superficie. — Forward sogghignò e accostò le mani. — Era all'incirca grande così. — Ed è la massima densità che la materia raggiunge in questo universo. Peccato. — È vero, ma... ha mai sentito parlare dei buchi neri quantistici? — Sì. Forward si alzò di scatto. — Risposta sbagliata. Io schizzai fuori dalla sedia, cercando di puntellarmi per spiccare un salto, mentre cercavo di afferrare il terzo bottone del mio abito. Non servì a niente. Non mi ero esercitato in una gravità come quella. Forward aveva già spiccato un balzo. Mentre passava, diede una sberla alla testa di Carlos. Mi afferrò al punto più alto del salto e mi trascinò con
lui afferandomi il polso con una stretta ferrea. Non avevo niente per puntellarmi, ma gli tirai un calcio. Forward non cercò neppure d'impedirmelo. Era come lottare contro una montagna. Mi agguantò i polsi con una mano sola e mi rimorchiò via. Forward era indaffarato. Si era seduto nel ferro di cavallo della console di comando, e parlava. Al di sopra dell'orlo della console si vedevano le nuche di tre teste disincarnate. Evidentemente c'era un telefono laser nella console. Sentivo in parte quello che diceva. Stava ordinando ai piloti dei tre rimorchiatori minerari di distruggere l'Hobo Kelly. Sembrava non sospettasse che a bordo c'era Ausfaller. Forward era indaffarato, ma Angel ci osservava pensieroso, o forse irrequieto, chissà. Non aveva torto. Avrebbero potuto farci sparire, ma quali messaggi potevamo aver inviato prima di venire lì? Io non potevo far niente di costruttivo, finché Angel mi sorvegliava. E non potevo contare su Carlos. Carlos non lo vedevo affatto. Forward e Angel ci avevano legati ai lati opposti della colonna centrale, sotto l'Arraffa. Da allora, Carlos non si era più fatto sentire. Forse stava morendo per quella tremenda sberla alla testa. Provai a tirare la corda che mi legava i polsi. Era metallo freddo... e molto stretto. Forward girò un interruttore. Le teste sparirono. Passò un momento, prima che parlasse. — Mi avete messo in una situazione molto spiacevole. E Carlos rispose. — Credo che ci si sia messo da solo. — Può darsi. Non avrebbe dovuto lasciarmi capire ciò che sapeva. Carlos disse: — Mi spiace, Bey. Sembrava in buona salute. Bene. — Non importa — dissi. — Ma perché tutte queste scalmane? Che cos'ha Forward? — Credo che abbia la meteorite della Tunguska. — No. Non ce l'ho. — Forward si alzò e si girò verso di noi. — Ammetto che venni qui a cercare la meteorite della Tunguska. Impiegai vari anni per ricostruire la traiettoria che aveva seguito dopo aver lasciato la Terra. Forse era un buco nero quantistico. Forse no. L'Istituto mi tagliò i fondi improvvisamente, proprio quando avevo trovato un vero buco nero quantistico, il primo nella storia. Io dissi: — Questo non mi spiega molto.
— Pazienza, Mr. Shaeffer. Lei sa che un buco nero può formarsi dal collasso di una stella massiccia? Bene. E sa che è necessario un corpo di almeno cinque masse solari. La massa può essere quella di una galassia... o addirittura dell'universo. Secondo certi indizi, l'universo è un buco nero che precipita in se stesso. Ma se la massa è inferiore a cinque masse solari, il collasso si arresta alla fase di stella di neutroni. — Fin qui la seguo. — In tutta la storia dell'universo, c'è stato un momento in cui avrebbero potuto formarsi buchi neri più piccoli. Quel momento fu l'esplosione del monoblocco, l'uovo cosmico che un tempo conteneva tutta la materia dell'universo. Nella violenza di quell'esplosione dovevano esservi loci di pressione inimmaginabile. Potrebbero essersi formati buchi neri di massa fino a 2,2 x 10-5 grammi, con un raggio di 1,6 x 10-25 Angstrom. — Naturalmente sarebbe impossibile scoprire una cosa tanto piccola — disse Carlos. Sembrava quasi allegro. Mi domandai perché... e poi capii. Aveva avuto ragione circa il modo in cui sparivano le navi. Doveva compensarlo del fatto d'essere legato a una colonna. — Ma — disse Forward, — in quell'esplosione potrebbero essersi formati buchi neri di tutte le dimensioni, e sicuramente si formarono. In più di settecento anni di ricerche, non è mai stato trovato un buco nero quantistico. Molti cosmologi hanno rinunciato a crederci, e a credere al Big Bang. Carlos disse: — Naturalmente, c'era la meteorite della Tunguska. Poteva essere un buco nero, diciamo di massa asteroidale... — ... e di dimensioni approssimativamente molecolari. Ma la marea avrebbe falciato gli alberi al suo passaggio... — ... e il buco nero avrebbe attraversato la Terra e sarebbe tornato nello spazio dopo aver acquisito qualche tonnellata di peso in più. Ottocento anni fa cercarono addirittura il punto d'uscita. Sarebbe servito a tracciare una rotta... — Esattamente. Ma io dovetti rinunciare a quel metodo — disse Forward. — Ne stavo usando un altro quando l'Istituto... ruppe i rapporti con me. Dovevano essere matti tutti e due, pensai. Carlos era legato a una colonna e Forward intendeva ucciderlo, eppure si comportavano come se fossero soci di un club esclusivo... al quale io non appartenevo. Carlos era incuriosito. — Come ha fatto? — Lei crede che sia possibile che un asteroide catturi un buco nero quantistico? Nel suo interno? Per esempio, a una massa di 1012 chilo-
grammi... un miliardo di tonnellate metriche — soggiunse perché capissi anch'io, — un buco nero avrebbe un diametro di appena l,5 x 10-5 Angstrom. Più piccolo di un atomo. In un passaggio lento attraverso un asteroide potrebbe assorbire qualche miliardo di atomi, abbastanza per farlo rallentare e stabilirsi in un'orbita. Poi potrebbe orbitare all'interno dell'asteroide per eoni, assorbendo pochissima massa ad ogni passaggio. — Quindi? — Se io m'imbatto per caso in un asteroide più massiccio di quel che dovrebbe essere... e se riesco a postarlo, e se parte della massa rimane indietro... — Deve aver controllato una quantità di asteroidi. Perché farlo proprio qui? Perché non nella Fascia degli Asteroidi? Oh, certo, qui può usare l'hyperdrive. — Precisamente. Potevamo cercare una ventina di masse al giorno, consumando pochissimo combustibile. — Ehi, se era abbastanza grande per divorare un'astronave, perché non ha divorato l'asteroide nel quale l'ha trovato? — Non era tanto grande — disse Forward. — Il buco nero che trovai era esattamente come l'ho descritto. Io l'ho ingrandito. L'ho rimorchiato a casa e l'ho fatto passare attraverso la mia sfera di neutronio. Allora è diventato abbastanza grosso per assorbire un asteroide. Adesso è un oggetto molto massiccio! 1020 chilogrammi, con un raggio di poco inferiore a 10-5 centimetri. La voce di Forward aveva un tono di soddisfazione. In quella di Carlos, all'improvviso, non c'era altro che disprezzo. — Ha realizzato questo e poi se n'è servito per rubare le navi e far sparire le prove. È ciò che succederà anche a noi? Giù nella tana del coniglio? — Forse in un altro universo. Dove porta un buco nero? Era quel che mi domandavo anch'io. Angel aveva preso il posto di Forward alla console. Aveva agganciato la cintura di sicurezza, una cosa che prima Forward non aveva fatto, e adesso divideva l'attenzione tra gli strumenti e il dialogo. — Mi sto ancora chiedendo come fa a muoverlo — disse Carlos. Poi: — Ah! I rimorchiatori! Forward sgranò gli occhi, poi sghignazzò. — Non l'aveva indovinato? Ma naturalmente il buco nero può mantenere una carica. Gli ho riversato dentro la scarica di un vecchio motore a ioni per quasi un mese. Adesso contiene una carica enorme. I rimorchiatori possono trainarlo senza troppa
difficoltà. Vorrei averne altri. Presto li avrò. — Un momento — dissi io. Avevo afferrato un fatto fondamentale mentre mi passava per la testa. — I rimorchiatori non sono armati? Non fanno altro che trainare il buco nero? — Appunto. — Forward mi guardò incuriosito. — E il buco nero è invisibile. — Sì. Lo trainiamo sul percorso di un'astronave. Se la nave si avvicina abbastanza, precipita nello spazio normale. Noi guidiamo il buco nero attraverso il motore per immobilizzarla, saliamo a bordo e la saccheggiamo con comodo. Poi basta un passaggio più lento del buco nero perché la nave scompaia, semplicemente. — Un'ultima domanda — disse Carlos. — Perché? Io avevo una domanda più intelligente da pormi, invece. Che cosa avrebbe fatto Ausfaller quando si fossero avvicinati i tre rimorchiatori? Non erano armati. La loro unica arma era invisibile. E avrebbe inghiottito uno scafo della Prodotti Generali senza neppure accorgersene. Ausfaller avrebbe sparato contro tre navi disarmate? Presto l'avremmo saputo. Lassù, verso l'orlo della cupola, avevo scorto tre minuscole luci in formazione. Le aveva viste anche Angel. Mise in funzione il telefono. Apparvero le teste fantasma, una, due, tre. Tornai a voltarmi verso Forward, e rimasi sbalordito nel vedere la sua torva espressione d'odio. — Il figlio della fortuna — disse a Carlos. — L'aristocratico nato. Il superuomo riconosciuto. Perché lei dovrebbe pensare a rubare qualcosa? Le donne la supplicano di dar loro un figlio, di persona se è possibile, o almeno per posta! Le risorse della Terra sono a sua disposizione per mantenerla in ottima salute, anche se non ne ha bisogno! — Forse la sorprenderà — disse Carlos, — ma c'è gente che considera lei un superuomo. — Noi jinxiani siamo molto forti. Ma a che prezzo per gli altri fattori? La nostra vita è sempre breve, anche con l'aiuto della boosterspice. È più lunga se possiamo vivere lontano dalla gravità di Jinx. Ma gli abitanti degli altri mondi ci giudicano ridicoli. Le donne... lasciamo stare. — Forward rimuginò un momento, poi lo disse comunque: — Una donna della Terra, una volta, mi disse che avrebbe preferito andare a letto con una scavatrice.
Non si fidava della mia forza. Quale donna si fiderebbe? I tre punti luminosi avevano quasi raggiunto il centro della cupola. In mezzo non vedevo niente. Non mi aspettavo di vedere niente. Angel stava ancora parlando con i piloti. Dall'orlo della cupola spuntò qualcosa, e non volevo che nessuno lo notasse. Dissi: — È la sua giustificazione per tutte le stragi, Forward? La mancanza di donne? — Non sono obbligato a giustificarmi, Shaeffer. Il mio mondo mi ringrazierà per ciò che ho fatto. La terra si è presa per troppo tempo la parte del leone del traffico interstellare. — La ringrazieranno, eh? Ha intenzione di dirglielo? — Io... — Julian! — gridò Angel. L'aveva visto... no, non l'aveva visto lui. Era stato uno dei piloti dei rimorchiatori. Forward ci lasciò. Si consultò sottovoce con Angel, poi si voltò di scatto. — Carlos! Ha lasciato la sua nave con l'autopilota innestato? Oppure c'è qualcuno a bordo? — Non sono tenuto a rispondere — disse Carlos. — Potrei... no. Fra un minuto non avrà più importanza. Angel disse: — Julian, guarda cosa sta facendo. — Sì. Molto ingegnoso. Potrebbe venire in mente solo a un pilota umano. Ausfaller aveva manovrato in modo da portare l'Hobo Kelly tra noi e rimorchiatori. Se i rimorchiatori avessero sparato con un'arma convenzionale, avrebbero sfondato la cupola e ci avrebbero uccisi tutti. I rimorchiatori continuarono ad avanzare. — Non sa ancora contro cosa sta combattendo — disse Forward in tono soddisfatto. Era vero, e gli sarebbe costato caro. Tre rimorchiatori disarmati stavano avanzando verso Ausfaller, portando un'arma così lenta che avrebbero potuto scagliargliela contro, lasciare che assorbisse l'Hobo Kelly e riprendersela molto prima che diventasse un pericolo per noi. Dal punto dove mi trovavo io, l'Hobo Kelly appariva come un punto luminoso attorniato da tre punti più fiochi e più distanti. Forward e Angel vedevano meglio, attraverso il telefono. Non badavano più a noi. Incominciai a cercare di liberarmi delle scarpe. Erano pantofole da navigazione, alte fino alla caviglia, morbide, e opponevano resistenza. Riuscii a liberare il piede sinistro mentre uno dei rimorchiatori di-
vampava in una luce color rubino. — L'ha fatto! — Carlos non sapeva se esultare o inorridire. — Ha sparato sui rimorchiatori disarmati! Forward fece un gesto perentorio. Angel si alzò dal sedile. Forward prese il suo posto e si allacciò la robusta cintura di sicurezza. Nessuno dei due aveva pronunciato una parola. Una seconda nave divampò rosseggiando, poi si espanse in una nube rosata. Il terzo rimorchiatore stava fuggendo. Forward azionò i comandi. — Ce l'ho inquadrato sull'indicatore di massa — gracchiò. — Ma abbiamo una sola possibilità. Anch'io ne avevo una sola. Con le dita del piede libero mi sfilai l'altra pantofola. Sopra le nostre teste, il braccio snodato dell'Arraffa incominciò a oscillare... e di colpo capii di cosa stavano parlando. Ormai c'era ben poco da vedere, oltre la cupola. L'Arraffa ondeggiante e la luce del motore dell'Hobo Kelly, e i due relitti roteanti, contro uno sfondo di stelle fisse. All'improvviso uno dei rimorchiatori emise un lampo biancazzurro e sparì, senza lasciarsi dietro neppure una nube di polvere. Ausfaller doveva averlo visto. Stava virando per fuggire. Poi fu come se una mano invisibile avesse afferrato l'Hobo Kelly e l'avesse scagliato lontano. La luce del motore a fusione saettò da una parte e tramontò oltre l'orlo della cupola. Adesso che due rimorchiatori erano stati distrutti e il terzo era in fuga, il buco nero era in caduta libera, e ci stava venendo addosso. Non c'era più niente da vedere, tranne i movimenti delicati dell'Arraffa. Angel era in piedi dietro il sedile di Forward, e stringeva convulsamente lo schienale. Quei pochi chili del mio peso mi abbandonarono e mi lasciarono in condizioni d'imponderabilità. Altre maree. La cosa invisibile era più massiccia dell'asteroide sotto di me. L'Arraffa oscillò di un altro metro, lateralmente, e qualcosa lo investì con un colpo tremendo. Il pavimento si allontanò sotto di me, lasciandomi a testa in giù sopra l'Arraffa. L'enorme ciotola di ferro dolce venne verso di me; il braccio di metallo snodato si ripiegò come una molla. Rallentò, si fermò. — L'hai preso! — gridò Angel a gran voce e batté una mano sullo schienale, tenendosi aggrappato con l'altra. Si voltò a lanciarci un'occhiata di trionfo e subito tornò a girarsi. — La nave! Se ne va!
— No. — Forward era chino sulla console. — La vedo. Bene, sta tornando indietro, diritto verso di noi. Questa volta non ci saranno i rimorchiatori a mettere sull'avviso il pilota. L'Arraffa oscillò pesantemente verso il punto dove avevo visto sparire l'Hobo Kelly. Si muoveva centimetro per centimetro, trascinando un peso massiccio e invisibile. E Ausfaller stava tornando indietro per salvarci. Sarebbe stato un bersaglio fisso, a meno che... Alzai i piedi, e afferrai il primo e il quarto bottone del mio abito. L'armamento del suo vestito miracoloso non mi aveva aiutato contro la forza e la sveltezza del jinxiano. Ma i terrapiattai non sono molto agili, e i jinxiani lo sono ancora meno. Forward s'era accontentato di legarmi le mani. Strinsi le dita dei piedi intorno ai bottoni e tirai. Avevo le gambe attorcigliate come pretzel. Non potevo puntellarmi a niente. Ma il primo bottone si staccò, e poi si staccò il filo. Un'altra arma invisibile per combattere l'invisibile buco senza fondo di Forward. Il filo liberò il quarto bottone. Riabbassai i piedi, tenendo il filo ben teso, e mi spinsi indietro. Sentii la catena molecolare di Sinclair affondare nella colonna. L'Arraffa continuava a oscillare. Quando il filo avesse tagliato la colonna avrei potuto sollevarlo dietro di me e cercare di recidere i legami. Molto probabilmente mi sarei tranciato i polsi e sarei morto dissanguato: ma dovevo tentare. Mi chiesi se avrei potuto fare qualcosa prima che Forward lanciasse il buco nero. Una brezza fredda mi accarezzò i piedi. Abbassai gli occhi. Intorno alla colonna usciva una nebbia densa. Un gas gelido stava fuoriuscendo dall'incrinatura sottile come un capello. Continuai a spingere. La nebbia aumentò. Il freddo era tormentoso. Sentii lo strattone quando il filo magico si liberò. I polsi, adesso... Elio liquido? Forward ci aveva legati al cavo principale superconduttore dell'energia. Probabilmente era stato un errore. Spostai i piedi in avanti, cautamente, con fermezza, e sentii il filo che affondava, nel taglio di ritorno. L'Arraffa aveva smesso di oscillare. Ora si muoveva sul braccio come un verme cieco e ansioso, mentre Forward lo regolava con maggiore esattezza. Angel incominciava a dar segno dello sforzo che gli costava tenersi ca-
povolto. I miei piedi sussultarono leggermente. Ce l'avevo fatta. Avevo i piedi intirizziti, quasi insensibili. Lasciai i bottoni che salirono ondeggiando verso la cupola, e scalciai all'indietro, premendo i calcagni con forza. Qualcosa si spostò. Scalciai di nuovo. Tuoni e fulmini esplosero intorno ai miei piedi. Ripiegai di scatto le ginocchia contro il mento. I fulmini crepitavano e lampeggiavano bianchi nella nebbia turbinante. Angel e Forward si voltarono sbalorditi. Risi loro in faccia. Lo vedessero pure. Sì, signori, l'ho fatto apposta. I fulmini cessarono. Nel silenzio improvviso Forward urlò: — Sa che cos'ha fatto? Ci fu un crunch stridente, e poi un tremito contro la mia schiena. Guardai in alto. All'Arraffa mancava un pezzo. Ero capovolto e mi sentivo diventare più pesante. Angel piroettò all'improvviso, tenendosi stretto al sedile di Forward. Rimase sospeso sopra la cupola, sopra il cielo. Urlò. Mi aggrappai con forza alla colonna, con le gambe. Sentii che Carlos muoveva i piedi per puntellarsi, e rideva. Vicino all'orlo della cupola stava spuntando una lancia luminosa. Il motore dell'Hobo Kelly che decelerava e ingrandiva. Il resto del cielo era vuoto. E un pezzo della cupola sparì con uno schiocco secco. Angel urlò e precipitò. Appena al di sopra della cupola parve divampare in una luce azzurra. E sparì. L'aria usciva rombando attraverso la cupola... e altra aria spariva in qualcosa che prima era invisibile. Adesso appariva come un puntino azzurro che scendeva adagio verso il pavimento. Forward s'era voltato per vederlo cadere. Gli oggetti che non erano imbullonati volavano attraverso la camera, spiraleggiavano intorno al punto a velocità meteorica e vi cadevano con esplosioni luminose. Ogni atomo del mio corpo sentiva l'attrazione, l'impulso di morire in una caduta infinita. Adesso eravamo appesi fianco a fianco a una colonna orizzontale. Notai con approvazione che Carlos teneva la bocca spalancata, come me, per liberarsi i polmoni perché non scoppiassero quando l'aria fosse finita. Pugnalate negli orecchi e nei seni nasali, una pressione tremenda nelle
viscere. Forward si voltò di nuovo verso la console. Girò con forza una manopola. Poi... sganciò la cintura di sicurezza, ne uscì, verso l'alto, e cadde. Un lampo luminoso. Era sparito. Il puntolino color fulmine scese lentamente nel pavimento e vi penetrò. Nel rombo sempre più forte dell'aria sentii lo stridore della roccia polverizzata diventare più fievole via via che il buco nero scendeva verso il centro dell'asteroide. L'aria era tremendamente rarefatta, ma non era andata del tutto. I miei polmoni erano convinti di respirare il vuoto. Ma il mio sangue non bolliva. Me ne sarei accorto. Perciò ansimai e continuai ad ansimare. Non potevo dedicare l'attenzione a niente altro. Milioni di punti neri mi danzavano davanti agli occhi; ma ero ancora vivo quando Ausfaller ci raggiunse portando un involto di plastica trasparente e un'enorme pistola. Arrivò velocemente, con lo zaino a razzo. Mentre decelerava si guardava intorno per cercare qualcuno cui sparare. Tornò indietro descrivendo un cerchio di fuoco. Ci guardò attraverso la visiera del casco. Forse si chiedeva se eravamo morti. Aprì l'involto di plastica. Era un sacco sottile, con una chiusura ermetica e una bombola. Dovette prendere una fiamma ossidrica portatile per tagliare i nostri legami. Liberò per primo Carlos e l'aiutò a infilarsi nel sacco. Carlos sanguinava dal naso, dagli orecchi e stentava a muoversi. Stentavo a muovermi anch'io, ma Ausfaller mi cacciò nel sacco con Carlos e lo chiuse. L'aria sibilò intorno a noi. Mi domandai cosa sarebbe successo. Il sacco gonfio era troppo grande per passare attraverso i corridoi. Ausfaller aveva pensato anche a questo. Sparò alla cupola, vi aprì uno squarcio, e ci portò via passando da lì. L'Hobo Kelly era posata poco lontano. Mi accorsi che il sacco di salvataggio non sarebbe entrato nel portello stagno... e Ausfaller confermò le mie paure. Ci fece un segnale spalancando la bocca. Poi aprì la chiusura ermetica del sacco e ci trascinò dentro la camera di compensazione mentre l'aria stava ancora uscendo dai nostri polmoni. Quando ci fu di nuovo l'aria, Carlos mormorò: — Per favore, non farlo mai più. — Non dovrebbe essere più necessario. — Ausfaller sorrise. — Qualunque cosa abbiate fatto, siete stati bravissimi. Ho due autodcrc ben attrezza-
ti, a bordo, per rimettervi in sesto. Mentre voi due vi riprenderete, andrò a recuperare il tesoro nell'asteroide. Carlos alzò una mano, ma non riuscì a parlare. Sembrava un morto risuscitato: il sangue gli scorreva dal naso e dagli orecchi, la bocca era spalancata, e stentava a tener sollevata la mano, contro la forza di gravità. — Una cosa — disse sbrigativamente Ausfaller. — Ho visto molti morti, ma nessun vivo. Quanti erano? È probabile che incontri resistenza durante la ricerca? — Lascia perdere — gracchiò Carlos. — Portaci via di qui. Subito. Ausfaller aggrottò la fronte. — Che cosa...? — Non c'è tempo. Portaci via Ausfaller fece una smorfia. — Sta bene. Prima gli autodoc. — Si voltò, ma la mano sfibrata di Carlos lo trattenne. — No, cavolo. Questo voglio vederlo — mormorò Carlos. Anche stavolta Ausfaller cedette. Andò in sala comando e Carlos lo seguì a passo barcollante. Io li seguii entrambi, asciugandomi il sangue dal naso. Anch'io mi sentivo più morto che vivo. Ma immaginavo vagamente che cosa si aspettava Carlos e non avevo intenzione di perdermi lo spettacolo. Agganciammo le cinture di sicurezza. Ausfaller accese il reattore di spinta principale. L'asteroide si allontanò sotto di noi. — Siamo abbastanza lontani — mormorò Carlos dopo un po'. — Gira la nave. Ausfaller obbedì. Poi: — Cosa stiamo cercando? — Lo vedrai. — Carlos, ho fatto bene a sparare ai rimorchiatori? — Oh, si. — Bene. Ero preoccupato. Allora Forward era il mangiatore di navi? — Sicuro. — Non l'ho visto quando sono venuto a prendervi. Dov'era? Ausfaller s'irritò quando Carlos rise, e s'irritò ancora di più quando risi anch'io. Mi faceva male la gola. Comunque, ci ha salvato la vita — dissi. — Deve aver aumentato al massimo la pressione dell'aria, prima di saltare. Chissà perché? — Voleva essere ricordato — disse Carlos. — Nessun altro sapeva ciò che aveva fatto. Ahh... Guardai mentre una parte dell'asteroide collassava su se stessa, lasciando un cratere profondo.
— Si muove più lentamente all'apogeo. Raccoglie più materia — disse Carlos. — Di cosa stai parlando? — Più tardi, Sigmund. Quando la mia gola tornerà a funzionare. — Forward aveva un buco nella tasca — suggerii. — E... L'altra parte dell'asteroide collassò. Per un momento sembrò che balenasse una folgore. Poi l'intera palla di neve sporca incominciò a rimpicciolire. Pensai a qualcosa che probabilmente era sfuggito a Carlos. — Sigmund, la sua nave ha gli schermi solari automatici? — Naturalmente li abbiamo... Vi fu un lampo di luce che divorò l'universo, prima che lo schermo diventasse nero. Quando si schiarì, non c'era più niente da vedere tranne le stelle. L'INGEGNER DOLF Catch the Zeppelin! di Fritz Leiber The Magazine of Fantasy & SF, marzo 1975 Fritz Leiber, autore grandissimo, dotato di uno stile limpido e raffinato, Leiber ha spaziato con successo dalla fantascienza pura alla fantasy e all'horror. I suoi massimi capolavori rimangono i classici Il grande tempo, L'alba delle tenebre e le spassosissime avventure di heroic fantasy di Fafhrd e del Grey Mouser. In questo racconto Leiber riprende il tema dei mondi alternati, dove la storia ha preso delle svolte diverse. Se esistano sul serio dei mondi alternati non ci è dato di saperlo, sebbene gli scrittori di fantascienza di recente si siano appassionati sempre più all'argomento. Questa strana e nuova passione per gli Zeppelin (Leiber non è il solo in questo: Farmer è un vero patito, e non tralascia mai di inserirli nelle sue storie, quando gli è possibile), ad esempio, è quasi inspiegabile, dato che ben pochi lettori e scrittori hanno avuto l'occasione di vederli, e il loro periodo di esistenza è stato davvero breve. Tuttavia è sempre un piacere vedere all'opera un «creatore di meraviglie» come Leiber in un delizioso rifacimento della struttura sociale di un mondo. Quest'anno, quando sono andato a New York a trovare mio figlio, che insegna storia sociale in una delle principali università municipali, mi è
capitata un'esperienza sconvolgente. Nei momenti neri (e alla mia età succede di averne qualcuno) ripensandoci mi viene da dubitare che i confini fra Spazio e Tempo, nostra unica protezione contro il Caos, siano davvero assoluti, e temo che la mia mente, no, tutta la mia esistenza individuale, possa di punto in bianco e senza preavviso esser travolta da una folata di Vento Cosmico e trasportata in un punto completamente diverso nell'Universo delle Infinite Possibilità. O, meglio, addirittura in un altro universo. E che la mia mente e la mia individualità cambino, per potercisi adattare. In altri momenti, invece, e per fortuna sono più numerosi, penso che la mia sconvolgente esperienza sia stata uno di quei sogni a occhi aperti così vividi e netti a cui spesso cedono le persone anziane; sogni in cui rivive il passato, e specialmente quelle occasioni cruciali del proprio passato in cui una persona avrebbe potuto fare una scelta completamente diversa e migliore di quella che fece, o in cui il mondo intero avrebbe dovuto prendere una decisione diversa da cui sarebbe risultato un altro futuro. Bellissimi, allettanti avrebbe potuto essere turbano spesso la mente di molte persone anziane. Accettando questa interpretazione, devo ammettere che tutta quella mia sconvolgente esperienza nel suo complesso aveva le caratteristiche di un sogno. Cominciò con sorprendenti, rapide visioni di un mondo cambiato, proseguì per un periodo più lungo durante il quale io accettavo senza riserve quel mondo e ne godevo, e, nonostante alcuni brevi momenti di disagio, avrei voluto che durasse per sempre, e si concluse con orrori e incubi che, fin quando non ne sia costretto, preferisco non menzionare, figuriamoci poi discuterne. In contrasto con questa interpretazione in chiave di sogno, ci sono momenti in cui invece sono profondamente convinto che quanto mi accade a Manhattan e in un certo famoso grattacielo non fu per niente un sogno, ma un avvenimento reale e che io venni effettivamente a trovarmi su un altro Flusso Temporale. Da ultimo debbo avvertire che quanto sto per raccontarvi deve, per necessità di cose, essere descritto in retrospettiva, pur essendo consapevole dei cambiamenti connessi, con deduzioni e commenti che in quell'epoca non mi passò mai per la mente di fare. No, quando accadde, ed ora, mentre sto scrivendo, sono convinto che accadde realmente, un attimo seguì al precedente nel modo più naturale possibile e io non ci trovai nulla di strano. Quanto al perché accadde proprio a me e quale particolare meccanismo
fu il responsabile dell'avvenimento, ebbene sono convinto che tutti, uomini e donne, hanno dei brevi attimi di estrema sensibilità, o, meglio, di vulnerabilità, durante i quali la mente e tutta l'esistenza individuale possono essere travolti dal Vento Cosmico per essere trasportati Altrove. E in seguito, a causa di quella che io definisco Legge della Coservazione della Realtà, riportati al punto di partenza. Stavo scendendo Broadway, all'altezza pressappoco della 34a Strada. Era una giornata fresca e soleggiata nonostante lo smog, una giornata limpida, e io mi ritrovai senza volerlo a camminare con piglio più vivace del solito, sollevando i piedi davanti a me in quello che poteva sembrare un accenno al passo dell'oca. Inoltre allargai le spalle e aspirai a fondo ignorando i gas che mi pizzicavano il naso. Al mio fianco il traffico rombava e ringhiava, levandosi a volte in una rata-tata di mitraglia, mentre i pedoni si agitavano con quell'andatura da topi affannati caratteristica delle grandi città americane, e in modo particolare di New York. Io ignoravo allegramente tutto questo, e arrivai perfino a sorridere alla vista di uno straccione e di una matura signora impellicciata che attraversavano la strada schivando le macchine con la fredda abilità che si ritrova solo nelle maggiori metropoli americane. Proprio in quel momento mi accorsi che dall'altra parte della strada si stendeva una lunga ombra. Non poteva esser l'ombra di una nuvola perché era immobile. Alzai la testa fino a torcermi il collo per guardare il cielo, vera immagine del «Hans-Kopf-in-die-Luft» (Giannino Guarda-in-aria) della poesiola tedesca. Dovetti risalire con lo sguardo lungo tutti e 102 i piani del più alto edificio del mondo, l'Empire State. Chissà perché, mentre lo risalivo con lo sguardo, mi pareva di vedere l'immagine di una gigantesca scimmia dalle lunghe zanne, che si arrampicava tenendo stretta in una zampa una bella ragazza... ma sì, mi tornava alla mente quel divertente film fantastico americano, King Kong, che gli svedesi chiamano invece Kong King. Poi il mio sguardo si arrampicò più in alto fino alla sommità del grattacielo dove era ormeggiato l'enorme, bellissimo, aerodinamico dirigibile la cui ombra si proiettava sulla strada. A questo punto è necessario sottolineare che, in quel momento, non fui per niente stupito di vederlo tutto con una sola occhiata — dello Zeppelin tedesco Ostwald, così battezzato in onore del grande pioniere tedesco della chimica-fisica e dell'elettrochimica, il più grande e lussuoso dei più-
leggeri-dell'aria che facevano regolare servizio dalle basi di Berlino, Baden-Baden e Bremerhaven. Quel!'ineguagliata e ineguagliabile Armada della Pace, dove ogni componente portava il nome di un famoso scienziato tedesco: Mach, Nernst, Humboldt, Fritz Haber, e poi di uno scienziato francese, Henry Becquerel, di uno americano Edison, della polaccoamericana Sklodwska e dell'americano-polacco Sklodowski-Edison. E ce n'era perfino uno che portava il nome di uno scienziato ebreo: l'Einstein! Era la grande compagnia di navigazione in cui io ricoprivo un importante incarico come ingegnere aeronautico ed esperto dei mercati esteri. Mi si gonfiò il cuore di orgoglio per quell'edel-nobile-impresa compiuta dal Vaterland. Senza bisogno di pensarci, e senza sorpresa, sapevo che l'Ostwald era lungo circa la metà dell'altezza dell'Empire State Building, compresa la torre grande abbastanza da contenere un ascensore. E il mio cuore tornò a esultare al pensiero che la Zeppelinturm (torre dei dirigibili) di Berlino era alta quasi altrettanto. La Germania, pensavo, non ha bisogno di cifre record, le sue conquiste tecniche e scientifiche parlano da sole in tutto il mondo. Tutto questo durò solo un secondo, e io intanto continuavo a camminare. Mentre riabbassavo lo sguardo, canterellavo fra me «Deutschland, Deutschland über Alles». La Broadway in cui mi trovavo era completamente diversa, anche se allora mi pareva normalissima come la presenza dell'Ostwald, enorme elissoide tenuta sospesa dall'elio. Argentei camion e autobus elettrici e auto private a non finire passavano col loro ronzio appena percettibile, come pochi attimi prima passavano i rumorosi veicoli a benzina di cui in quel momento mi ero completamente dimenticato. Pochi isolati più avanti un'auto elettrica scivolò silenziosamente sotto l'arcata di una stazione di rapido-cambio-batterie, mentre altre ne uscivano per immettersi nel flusso silenzioso del traffico. L'aria che aspiravo a pieni polmoni era fresca e pura, senza la minima traccia di smog. I pedoni, stranamente pochi, camminavano in fretta ma con un'aria dignitosa e beneducata che prima mancava del tutto, e i numerosi negri erano altrettanto benvestiti e sicuri di sé dei caucasici. L'unica nota un pochino stridente era data da un uomo alto, pallido, emaciato, vestito di nero e con inconfondibili lineamenti ebrei. L'abito era liso anche se pulito, e teneva incurvate le spalle sottili. Mi parve che mi
guardasse intenzionalmente, per distogliere subito lo sguardo appena i suoi occhi incontrarono i miei. Chissà perché mi venne in mente che mio figlio, alludendo al City College di New York, CCNY, mi aveva raccontato che adesso lo chiamavano City College Now Yddish (Adesso Ebreo), e non potei far a meno di sorridere alla battuta, anche se era detta e pensata senza malizia. La ben nota tolleranza e larghezza di vedute tedesca ha completamente vinto il vergognoso anti-semitismo di un tempo, tanto più che, ammettiamolo, almeno un terzo dei nostri grandi uomini sono ebrei o hanno sangue ebreo nelle vene. Fra gli altri, tanto per citare i primi che mi vengono in mente, Haber e Einstein. Talvolta nel subconscio delle persone più anziane, come me per esempio, la vista di un paio di occhi neri o di un naso a uncino può suscitare pensieri poco ortodossi, ma sono cose di un attimo, che subito tornano a scomparire nel passato dove sono sepolte. Il buonumore riprese subito il sopravvento, e con gesto deciso, quasi militaresco, mi lisciai con l'unghia del pollice i baffetti corti e dritti che ornano il mio labbro superiore, per poi sollevare automaticamente la mano a rimettere a posto la grossa virgola di capelli neri (confesso che li tingo) che tende sempre a ricadermi sulla fronte. Lanciai un'altra occhiata a quell'argentea meraviglia dell'Ostwald, ripensando alle incomparabili comodità offerte dal dirigibile di gran lusso: i motori silenziosi che facevano girare le eliche, motori elettrici, naturalmente, a cui fornivano l'energia necessaria le batterie TSE, sicure al cento per cento come l'elio; il Grande Corridoio che correva lungo tutto il ponte di passeggiata dall'Osservatorio di Prua alla Sala Giochi di poppa, anch'essa a vetrate, trasformabile di notte in Gran Sala da Ballo; i meravigliosi ambienti che si aprivano sul corridoio, come il «Gesellschaftstraum der Kapitan» (Salotto del Capitano) con i pannelli di legno scuro, la sala da fumo per uomini e la «Damentische» (Sala di ritrovo per le signore), il Ristorante con le tovaglie di lino e la posateria di alluminio placcato argento, il bar Schwarzwald, la sala da gioco con la roulette, il tavolo da baccarat, chemindefer, blackjack («vingt-et-un»), e i tavolini per lo skat, il bridge, il domino e il sessantasei, le scacchiere (cui presiedeva il deliziosamente eccentrico campione del mondo Nimzowitch, capace di vincere tutte le partite contemporaneamente, e in modo sempre brillante) con i pezzi in stile barocco, e le lussuose cabine coi mobili di balsa impiallacciati di mogano; e poi gli attenti e premurosi steward, tutti piccoli e magri come fantini, quando non erano dei veri nani (scelti così per risparmiare peso), e l'ascensore di titanio che, risalendo tra gli innumerevoli involucri di elio, portava
ai due ponti dell'Osservatorio Zenith, il ponte scoperto, con le pareti laterali trasparenti ma privo di tetto per lasciar libero ingresso alle nubi mutevoli, alla nebbia misteriosa, ai raggi delle stelle e del sole, al cielo stesso. In quale altro posto del mondo si poteva vivere in mezzo a tanti agi? Mi piacque rammentare nei minimi particolari la cabina che mi veniva sempre riservata quando m'imbarcavo sull'Ostwald, «meine Stammkabine». Rividi con gli occhi della mente il Grande Corridoio stipato di ricchi passeggeri in abito da sera, di prestanti ufficiali, di attenti e premurosi steward, e il luccichio degli sparati candidi, lo splendore delle spalle nude, lo scintillio dei gioielli, la musica delle conversazioni, simile a quella di un quartetto d'archi, le risate sommesse e armoniose che le accompagnavano. Con perfetto tempismo eseguii un «Links, marschiren» («Fianco sinist», marsc!) e varcata l'imponente soglia dell'Empire State, entrai nell'enorme atrio dove, sull'orologio dal quadrante d'argento, lessi la data e l'ora: 6 maggio 1937 — 13 h. 7'. Bene! Poiché l'Ostwald non sarebbe partito che al rintocco delle tre pomeridiane avevo tutto il tempo di consumare un sostanzioso pasto e di parlare con mio figlio, se si era ricordato dell'appuntamento. Ma non avevo dubbi su questo, poiché è un figlio rispettoso e beneducato, un vero esempio della sua sana mentalità tedesca. Attraverso la folla di persone eleganti e distinte che gremiva l'atrio, senza creare ressa e confusione, mi diressi all'ascensore con la scritta «Al Dirigibile», e, in tedesco, «Zum Zeppelin». L'addetta all'ascensore era una graziosa giapponesina che sulla casacca d'argento portava l'emblema della DGL, l'Unione Aerea Tedesca, un dirigibile sormontato da un'aquila bicipite. Notai con piacere che parlava con altrettanta scioltezza sia l'inglese che il tedesco e che era gentile con tutti i passeggeri in quel caratteristico modo un po' freddo che hanno i giapponesi, e che in certi aspetti somiglia alla precisione scientifica del nostro stile tedesco, sebbene la nostra lingua abbia un caldo sottofondo passionale. Com'è bello che le nostre federazioni, ai lati opposti del globo, mantengano ottimi rapporti culturali e commerciali! Gli altri passeggeri, per lo più americani e tedeschi, erano tutti gente di classe, molto ben vestiti, eccezion fatta per quel tetro ebreo in nero che avevo già visto e che s'infilò in cabina proprio mentre si chiudevano le porte. Mi parve che si sentisse a disagio, forse a causa del suo abito logoro, e fui sorpreso di vederlo, ma mi feci un punto d'onore di mostrarmi cortese con lui rivolgendogli un lieve inchino accompagnato da un sorriso. Dopotutto gli ebrei hanno anche loro il diritto di godersi gli agi e il lusso come
chiunque altro, se hanno il denaro per permetterseli... e molti di loro lo hanno. Durante il tragitto mi tastai il taschino della giacca per accertarmi di non aver dimenticato il biglietto, di prima classe! e i documenti, ma soprattutto volevo sentire il rassicurante gonfiore della tasca interna, chiusa da una cerniera lampo, dove avevo riposto i documenti che mi procuravano tanta gioia e tanto orgoglio: gli accordi preliminari, firmati da entrambi i contraenti, che avrebbero permesso all'America la costruzione di Zeppelin per passeggeri. La Germania moderna è sempre generosa e pronta a condividere le sue conquiste tecniche con le nazioni sorelle, fiduciosa che il genio dei suoi scienziati e l'abilità dei suoi tecnici la manterranno sempre alla guida degli altri paesi. Dopotutto, il genio di due americani, padre e figlio, aveva dato un contributo essenziale anche se indiretto allo sviluppo dei viaggi aerei sicuri (e non dimentichiamo la parte avuta dalla polacca, moglie del primo e madre del secondo). Scopo principale del mio viaggio a New York era stato proprio raggiungere quell'accordo, ma io ero riuscito ad accompagnare i doveri della mia permanenza nella metropoli americana al piacere di passare lunghe ore con mio figlio, lo storico sociale di grande avvenire, e della sua affascinante sposa. Quelle felici riflessioni furono interrotte dall'arrivo senza la minima scossa della cabina al centesimo piano. Il tragitto che il vecchio King Kong innamorato aveva compiuto con tanta fatica, noi invece l'avevamo fatto senza nessuno sforzo. Le porte d'argento si spalancarono e gli altri passeggeri esitarono un attimo prima di scendere, forse intimoriti al pensiero del viaggio che li aspettava; io, da quell'«habitué» dei viaggi aerei che sono, scesi per primo, non senza aver rivolto un cenno e un sorriso d'approvazione alla mia collega giapponese di bassa categoria. Dopo aver dato appena un'occhiata all'enorme finestra panoramica che si apre di fronte all'ascensore e da cui si gode l'incomparabile vista di Manhattan dall'altezza di 335 metri meno due piani voltai subito, non a destra dove si trovavano la Sala d'Aspetto e l'ascensore della Torre, ma a sinistra, dove si apriva la porta del lussuoso ristorante tedesco «Krahenest» (Nido del Corvo). Passai attraverso la fila delle statuette che fiancheggiano l'ingresso e rappresentano Thomas Edison, Maria Sklodowska Edison da un lato, e Thomas Sklodowski Edison e il conte von Zeppelin dall'altro, ed entrai nel recinto riservato del più elegante ristorante tedesco fuori dei confini della
madrepatria. Mi soffermai a dare un'occhiata d'assieme allo spazioso locale dai pannelli di legno scuro scolpiti con bellissime raffigurazioni della Foresta Nera e dei suoi mitologici abitanti: coboldi, elfi, gnomi, driadi (piacevolmente sexy) e simili. Mi interessavano in quanto io sono uno di quelli che in America chiamano pittore della domenica, anche se i soggetti dei miei quadri sono quasi sempre zeppelin sullo sfondo di cieli azzurri e nuvole ariose. L'«Oberkneller» mi corse incontro col menu infilato sotto il braccio, esclamando: — «Mein Herr!». Lusingato di rivedervi. Ho un tavolo per uno con vista sull'Hudson. Ma in quello stesso momento io avevo scorto una figura giovannile alzarsi da un tavolo in fondo alla sala, mentre una voce nota chiamava: «Hier, Papa!». — «Nein, Herr Ober» — dissi sorridendo al capocameriere avviandomi — «heute hab ich ein Gesellschafter. Mein Sohn». E attraversai la sala passando fra i tavoli occupati da eleganti clienti sia bianchi che di colore. Mio figlio mi diede una forte stretta di mano, sebbene ci fossimo lasciati solo da poche ore, e insisté perché prendessi posto sulla panchetta di cuoio imbottito contro il muro, da cui potevo godere la vista di tutto il ristorante, mentre lui si mise a sedere sulla sedia di fronte. — Perché mentre mangiamo voglio vedere solo te, caro papà — mi disse con virile tenerezza. — Possiamo stare insieme un'ora e mezzo. Ho già provveduto a far trasportare a bordo i tuoi bagagli. — Che figlio servizievole e premuroso! — E adesso, papà, cosa prendi? — domandò dopo che ci fummo seduti. — Ho visto che il piatto speciale di oggi è «Sauerbraten mit Spatzel» e cavolo rosso in agrodolce. Ma c'è anche «Paprikahunn» e... — Lasciamo che la paprika irradi il suo rosso splendore in cucina — risposi. — Va bene il «Sauerbraten». A un cenno del capocameriere, l'addetto ai vini si era già avvicinato al nostro tavolo. Stavo per impartirgli gli ordini, quando mio figlio mi prevenne con un'autorità e un senso dell'ospitalità che mi riscaldarono il cuore. Scorse rapidamente ma a fondo la lista e: — Zinfandel millenovecentotrentatré — ordinò deciso, non senza però avermi dato un'occhiata per vedere se ero d'accordo. Io annuii con un sorriso. — E cosa ne diresti di «ein Tropschen Schnapps», tanto per cominciare? — mi propose poi.
— Un brandy? Sì! — risposi. — Ma non una goccia soltanto. Ordinalo doppio. Non capita tutti i giorni di pranzare con un distinto erudito, figliolo mio. — Oh, papà — protestò lui chinando gli occhi e quasi arrossendo. Poi ordinò al cameriere dai capelli bianchi, fermo in un corretto inchino: — «Schnapps. Doppel». Ci guardammo con profondo affetto per qualche beato secondo, poi io dissi: — Adesso raccontami più a fondo quello che hai fatto qui a New York nel tuo viaggio-scambio. Abbiamo parlato spesso delle tue ricerche storico-sociali, è vero, ma solo in modo generico e superficiale alla presenza dei tuoi amici e della tua deliziosa mogliettina. Invece vorrei adesso che tu me ne dessi un resoconto più approfondito e particolareggiato, da uomo a uomo. A proposito, nelle biblioteche universitarie di New York hai trovato materiale sufficiente per le tue ricerche? Sono all'altezza di quella dell'università di Baden-Baden e delle altre istituzioni culturali della Federazione Germanica? — Hanno qualche lacuna — disse mio figlio — tuttavia sono bastate per il mio lavoro. — Tornò ad abbassare gli occhi, confuso. — Ma, papà tu lodi troppo i miei modesti sforzi. Non sono niente in confronto alla vittoria nel campo dei rapporti industriali internazionali che tu hai ottenuto in questi quindici giorni! — Lavoro normale per la DLG — dissi con aria noncurante, ma mi tastai ancora la giacca per il piacere di sentire sotto le mie dita i documenti infilati nella tasca interna. — Ma adesso smettiamola coi complimenti — proseguii, in tono più gaio. — Raccontami dei tuoi «piccoli sforzi» come li definisci tu. — Bene, papà — disse guardandomi negli occhi, con un piglio sicuro e professionale. — In questi due anni di lavoro mi sono sempre più convinto della fragilità delle fondamenta su cui si regge il mondo felice e ricco in cui viviamo oggi. Se certi avvenimenti chiave, in apparenza spesso di secondaria importanza, accaduti nel corso dell'ultimo secolo si fossero svolti in modo diverso, se gli eventi avessero seguito un altro corso, oggi tutto il mondo sarebbe forse in preda a guerre e orrori inimmaginabili. È un pensiero agghiacciante, ma ha sempre dominato lo svolgimento del mio lavoro, pagina dopo pagina. Io sentii in quell'istante l'emozionante tocco dell'ispirazione. Intanto arrivò il cameriere col brandy nei tondi bicchieri di cristallo. Interrompendo il corso dei miei pensieri, levai il bicchiere e dissi: — «Prosit!» — La for-
za e il calore dell'eccellente «schnapps» rinfocolarono la mia ispirazione: — Credo di comprendere quello che vuoi dire, figliolo __cominciai, indicando le quattro statuette di bronzo che fiancheggiavano l'ingresso del ristorante. — Per esempio — spiegai — se Thomas Edison e Maria Sklodowska non si fossero sposati, e specialmente se non avessero avuto un figlio super-genio, la conoscenza di Edison nel campo dell'elettricità e quella di lei sulla radioattività non avrebbero forse avuto mai modo di entrare in contatto. Non sarebbe mai stata creata l'impareggiabile batteria T.S.Edison che è il principale motore dell'odierno traffico terrestre ed aereo. I prototipi di veicoli elettrici introdotti dal «Saturday Evening Post» di Filadelfia sarebbero rimasti costose rarità. E il gas elio non sarebbe mai stato prodotto dalle industrie per poter compensare la scarsità delle risorse naturali. — Papà — disse con calore mio figlio — anche tu sei un genio! Hai alluso al più importante degli avvenimenti di cui parlavo prima. Proprio ora sto terminando le ricerche necessarie per stendere una lunga relazione sull'argomento. Lo sai, papà, che ho scoperto con assoluta certezza attraverso alcuni documenti francesi, che nel milleottocentonovantaquattro Maria Sklodowska stava per sposare il suo collega Pierre Curie, e avrebbe potuto quindi diventare Madame Currie, se l'audace e brillante Edison non fosse opportunamente arrivato a Parigi nel dicembre di quell'anno a soffiargliela sotto il naso e a portarla a New York, dove l'attendeva ben altra gloria che non le soddisfazioni dei suoi lavori di ricerca con Curie e Becquerel? «E poi pensa, papà» continuò cogli occhi accesi — cosa sarebbe successo se il loro figlio non avesse inventato la sua batteria, il più difficile traguardo tecnico, che ha addirittura del miracoloso, raggiunto in tutta la storia dell'industria! Pensa... Henry Ford avrebbe dotato le sue automobili di motore a scoppio funzionanti a gas naturali o a benzina liquida evaporata, invece che a motore elettrico. Non ci sarebbero state le attuali automobili silenziose e pulite, ma altre rumorose, sporche, che avrebbero prodotto gas di scarico velenosi. Auto che funzionano grazie alla pericolosa e nociva combustione della benzina! Ma te lo immagini? Rabbrividisco solo a pensarci. Solo allora mi accorsi che il tetro ebreo vestito di nero stava seduto a due tavoli dal nostro. Chissà come era riuscito a introdursi nell'esclusivo «Krahenest». Strano che non l'avessi visto entrare, forse in quel momento io non avevo occhi che per mio figlio. La sua presenza, comunque, gettò un'ombra scura anche se passeggera sul mio ottimo umore. «Poveretto»
pensai però generosamente «lasciamogli godere il buon cibo e il buon vino tedesco, lo sazieranno e forse porteranno un po' di sorriso, di sano sorriso tedesco, su quella sua faccia smunta di yiddish». Mi lisciai i baffetti con l'unghia del pollice e scostai la ciocca che mi era ricaduta sulla fronte. Intanto mio figlio stava dicendo: — Inoltre, papà, se non si fossero sviluppati i mezzi di trasporto elettrici e se negli ultimi dieci anni i rapporti fra Germania e Stati Uniti non fossero stati così buoni, forse noi non avremmo mai ottenuto quelle forniture di elio naturale del Texas di cui i nostri Zeppelin avevano un disperato bisogno nel breve e cruciale periodo prima che si iniziasse su scala industriale la produzione di elio sintetico. Le ricerche che ho fatto a Washington mi hanno rivelato che nell'esordio americano c'era una forte corrente contraria alla cessione di elio ad altri stati, e in particolar modo alla Germania. Solo l'influenza di Ford, Edison e altri influenti personaggi americani subito intervenuti, poté prevenire l'attuazione di quella stupida mossa. Se quei militari ottusi fossero riusciti nel loro intento, la Germania sarebbe stata probabilmente costretta ad adoperare idrogeno invece di elio sui dirigibili. Ecco un altro evento decisivo. — Uno Zeppelin riempito di idrogeno...? ridicolo! Un dirigibile simile sarebbe una bomba volante, pronta a esplodere alla minima scintilla — protestai. — Non poi tanto ridicolo, papà — mi contraddisse mio figlio. — Scusami se entro nel tuo campo, ma in certi sviluppi industriali vi sono degli imperativi inderogabili. Se è impossibile trovare una strada sicura si sceglie per forza quella pericolosa. Devi ammettere, papà, che, agli inizi, le aeronavi commerciali costituivano un'avventura molto rischiosa. Negli anni «venti» si verificarono i terribili disastri dei dirigibili americani Roma Shenandoha che si spezzò in due, Akron e Macon, dell'inglese R-38 che si schiantò in cielo, del francese Dixmunde che scomparve nel Mediterraneo, dell'Italia di Mussolini, che si fracassò nel tentativo di raggiungere il Polo Nord, e del russo Maxim Gorky abbattuto da un aeroplano, con una perdita complessiva di non meno di trecentoquaranta persone nei nove incidenti. Se questi incidenti fossero stati seguiti dall'esplosione di un paio di Zeppelin a idrogeno, l'industria mondiale avrebbe forse abbandonato per sempre l'idea di costruire dirigibili di linea, passando invece alla creazione e allo sviluppo di grandi aerei più pesanti dell'aria, a motore. Aeromobili mostruosi, sempre in pericolo di precipitare per un guasto al motore al posto dei bravi vecchi, inaffondabili Zeppelin?... Impossibile. Scossi la testa, ma senza convinzione, perché in fondo, ripensandoci, l'ipo-
tesi di mio figlio non era poi tanto assurda. In effetti quei nove disastri si erano realmente verificati e l'ago della bilancia si sarebbe spostato in favore degli aerei a motore per il trasporto di truppe e passeggeri, se non fosse stato per l'elio, la batteria T.S. Edison e il genio tedesco. Per fortuna, su questi sconfortanti e inquietanti pensieri ebbe il sopravvento l'ammirazione per la profonda e ampia cultura di mio figlio. Quel ragazzo era una meraviglia, degno rampollo del vecchio ceppo... e forse anche migliore! — E ora, Dolf — proseguì chiamandomi col diminutivo (come faceva a volte senza che io me ne avessi a male) — posso cambiare argomento? O, per essere più precisi, passare a un esempio completamente diverso dalla mia ipotesi sui momenti storici cruciali? Annuii senza parlare, perché avevo la bocca piena di deliziosi « sauerbraten», piccoli gnocchi tedeschi, mentre le mie narici aspiravano l'aroma ineguagliabile del cavolo rosso in agrodolce. Ero talmente preso dalle spiegazioni di mio figlio che non m'ero nemmeno accorto quando ci avevano portato il piatto. Inghiottii, bevvi un sorso di ottimo Zinfaldel rosso, e dissi: — Va' avanti, sono tutto orecchi. — Si tratta delle conseguenze della guerra civile americana, papà — disse, cogliendomi di sorpresa. — Sai che nel decennio successivo a quel sanguinoso conflitto, ci fu il serio pericolo che la causa della libertà dei Negri, per cui era stata combattuta quella guerra, qualunque cosa si possa dire in contrario, venisse completamente annientata? Tutto il lavoro di Lincoln, di Thaddeus Stevens, di Charles Sumner, del Freedmen's Bureau e della Union League Club distrutto. Immagina se perfino il Ku-Klux-Klan invece di essere represso una volta per tutte avesse potuto rinascere e manifestarsi liberamente? Sì, padre mio, le mie approfondite ricerche mi hanno convinto che tutto questo avrebbe potuto benissimo succedere, col risultato che i Negri sarebbero tornati schiavi o pressappoco, con la prospettiva di un'altra guerra o, nella migliore delle ipotesi, con un rinvio di decine d'anni della Ricostruzione. Non è difficile immaginare quali disastrosi effetti avrebbe avuto tutto questo sul carattere degli americani: la sincera fede nella libertà si sarebbe trasformata in ipocrisia, tanto per dirne una. Ho pubblicato una tesi su questo argomento nel «Journal of Civil War Studies». Io mi limitai ad annuire. Questo argomento era terra incognita per me, tuttavia quel poco che sapevo di storia americana bastava a farmi capire
che mio figlio aveva indubbiamente trovato un altro punto critico, e più che mai rimasi colpito dalla sua multiforme erudizione. Indubbiamente era un degno rappresentante della grande tradizione culturale tedesca, un pensatore profondo e di ampie vedute. Com'ero fortunato ad essere suo padre! Non per la prima volta, ma con lo stesso sincero fervore, ringraziai Dio e le Leggi di Natura, per avermi indotto a trasferire tanti anni prima la mia famiglia da Brunau, in Austria, dov'ero nato nel 1889, a Baden-Baden dove mio figlio era cresciuto nell'ambiente della grande, nuova università ai margini della Foresta Nera e a solo 150 chilometri dalla fabbrica di dirigibili del Conte Zeppelin, a Friedrichschafen, sul Lago di Costanza. Alzai il mio bicchiere di «Kirschwasser» in un solenne e silenzioso brindisi, senza quasi rendermene conto stavamo finendo di pranzare, e ingollai d'un sorso il robusto, infocato, trasparente cherry brandy. Chinandosi verso di me, mio figlio continuò: — E ora vorrei aggiungere un altro argomento alla mia teoria, che sono deciso a esporre in un libro intitolato «Se le cose si fossero volte al peggio» o «Se le cose fossero andate male», e che illustrerò con dozzine di esempi... Bene, questo nuovo argomento forse ti addolorerà, Dolf, voglio avvertirti prima. — Non temere — gli risposi con indulgenza — parla pure. — Va bene. Nel novembre del millenovecentodiciotto quando i britannici avevano sfondato la Linea Hindenburg e l'esausta armata germanica scavava trincee lungo il Reno come estrema sfida, proprio immediatamente prima che gli Alleati al comando del maresciallo Foch lanciassero l'ultima, decisiva offensiva che insanguinò la nostra patria fino a Berlino... Avevo capito fin dalle prime parole il motivo del suo avvertimento. I ricordi mi balzarono vividi alla mente come i lampi abbaglianti del campo di battaglia col suo fragore assordante. La compagnia che io comandavo era stata una delle più disperatamente audaci di quelle ricordate da mio figlio, decisa a difendere fino alla morte l'ultima trincea. E poi Foch aveva sferrato l'offensiva, e noi ci eravamo ritirati, sempre più indietro, più indietro, schiacciati dal numero e dalla potenza del nemico coi suoi fucili, i suoi carri armati e le sue autoblindo, ma soprattutto la sua imponente flotta aerea al comando di De Haviland e Handley-Page, i bombardieri scortati dai ronzanti Spads e altri apparecchi, che avevano distrutto tutti i nostri Fokker e Pfalze e avevano provocato in Germania distruzioni molto maggiori di quante non ne avessero provocate in Inghilterra e in Francia i nostri Zeppelin. Indietro, indietro, sempre più indietro, combattendo, disperandoci,
riaggruppandoci attraverso la terra germanica devastata, decimati ma decisi a resistere ancora, fin quando non giunse la fine tra le rovine di Berlino, e allora anche il più audace di noi fu costretto ad ammettere che eravamo sconfitti e ad accettare la resa incondizionata... Questi brucianti ricordi mi si affollavano nella mente, mentre mio figlio proseguiva: — Nel momento cruciale, in quel novembre millenovecentodiciotto, si presentò la possibilità, i miei studi lo hanno dimostrato al di là di ogni dubbio, che i nemici ci offrissero un armistizio e noi lo accettassimo. Il presidente Wilson era incerto, i francesi stanchi, e così via. E se questo si fosse verificato, Dolf, ascoltami bene, la Germania sarebbe entrata nella decade del millenovecentoventi con uno stato d'animo completamente diverso. Convinta di esser stata vinta ma non battuta, avrebbe favorito la recrudescenza del militarismo pan-germanico. E l'umanismo scientifico tedesco non avrebbe riportato una vittoria netta e decisiva sulla Germania degli, sì, diciamolo pure, degli Unni. «Quanto agli alleati, irritati per non aver raggiunto la vittoria completa che avevano avuto a portata di mano avrebbero finito col trattare la Germania molto meno generosamente di quanto non fecero dal momento che la loro sete di vendetta era stata placata dall'avanzata fino a Berlino. La Società delle Nazioni non sarebbe diventata quel solido strumento di pace che è oggi. Forse l'America l'avrebbe sconfessata e sicuramente la Germania l'avrebbe detestata. Le ferite non si sarebbero mai rimarginate perché, paradossalmente, non erano state abbastanza profonde. Ecco, Dolf, ho finito, e spero di non averti turbato troppo. Io mi lasciai sfuggire un profondo respiro. Poi le rughe della mia fronte si spianarono e dissi, in tutta sincerità: — No, figliolo mio, anche se hai toccato nel vivo le mie vecchie ferite. Tuttavia sono convinto che la tua interpretazione sia valida. Voci di armistizio circolavano fra le truppe in quel nero autunno del millenovecentodiciotto. E so fin troppo bene che se avessimo accettato l'armistizio allora, gli ufficiali come me avrebbero pensato che i soldati tedeschi non erano stati realmente sconfitti, ma solo traditi dai capi e dai sovversivi rossi, e avremmo cominciato a cospirare in modo da poter riprendere la guerra in circostanze più favorevoli. Figlio mio, brindiamo alle tue brillanti intuizioni. I nostri bicchieri si toccarono con un delicato tintinnio, e bevemmo le ultime gocce lievemente amarognole del «Kirschwasser». Io imburrai una fettina di «pumpernickel» — è buona cosa terminare il pasto con il pane — e la mordicchiai. Un senso di pace di grande soddisfazione mi invase.
Era un momento aureo, uno di quei momenti che sarei stato felice durassero per sempre, mentre ripensavo alle parole di mio figlio e me ne compiacevo profondamente. Sì, quella pausa fu come una pepita d'oro nello scorrere incessante del tempo... la conversazione stimolante, gli ottimi cibi, le deliziose bevande, l'ambiente lussuoso... In quel momento i miei occhi si posarono per caso sull'ebreo, la cui presenza strideva, mi spiace ammetterlo, nell'ambiente e col mio stato d'animo. Non so perché, mi fissò un attimo con odio, poi abbassò subito lo sguardo... Tuttavia quel piccolo incidente, per quanto inquietante, non turbò la mia pace, che pensai di prolungare dicendo: — Caro figliolo, questo è il pranzo più eccitante anche se singolare che abbia mai gustato. Le tue ipotesi sui momenti cruciali della storia mi hanno aperto favolosi orizzonti in cui stento ancora a credere. Un mondo orribile di Zeppelin a idrogeno che si possono incendiare, di migliaia e migliaia di auto a benzina costruite da Ford al posto di quelle elettriche, di Negri americani tornati schiavi, di Madame Curie o Becquerel, senza la batteria T.S.Edison e senza T.S.Edison stesso, un mondo in cui gli scienziati tedeschi sono dei sinistri paria invece che tolleranti e umanitari leader del pensiero umano, un mondo in cui un vecchio Edison privo del valido aiuto della sua compagna, pensa, senza riuscire a crearla, a una potente batteria elettrica, un mondo in cui Woodrow Wilson non insiste perché la Germania sia ammessa alla Società delle Nazioni; un mondo pieno di odio che corre verso il baratro di una seconda guerra mondiale. Oh, è davvero un mondo incredibile, pure, grazie alle tue ipotesi, ho creduto potesse essere reale, tanto da temere che questo sia un sogno e quello il mondo vero. Senza rendermene conto guardai l'ora, e mio figlio fece lo stesso: — Dolf! — esclamò alzandosi. — Spero che le mie stupide chiacchiere non ti abbiano fatto perdere... Anch'io balzai in piedi... — No, no, figliolo — mi sentii dire con voce un po' incerta — però devo affrettarmi se non voglio perdere l'Ostwald. «Aufwiedersehen, mein Sohn»... E mi lanciai di furia, come uno spettro che vola attraverso l'aria, lasciandomi alle spalle mio figlio. Nell'agitazione che mi aveva preso, mi pareva che il locale vibrasse, diventando a tratti più luminoso e più buio, come una lampadina dal sottile filamento di tungsteno che sta per scoppiare e polverizzarsi...
Nella mente sentivo una voce ripetere, con tono pacato ma che non lasciava speranza: «Le luci dell'Europa si stanno spegnendo. Non credo che verranno riaccese nel corso della mia generazione...». A un tratto l'unica cosa importante al mondo, per me, fu di arrivare in tempo per potermi imbarcare sull'Ostwald. Questo, e solo questo, mi avrebbe dato la conferma che vivevo nel mondo reale, non in sogno. Avrei toccato l'Ostwald, non ne avrei solo parlato... Mentre passavo correndo fra le statuette di bronzo, mi parve che si rattrappissero, che le facce si trasformassero in ghigni di vecchie streghe... quattro maligni coboldi che sogghignavano fissandomi, perché sapevano, sapevano... Alle mie spalle, intanto, avevo scorto una figura alta e scheletrica vestita di nero... Il corridoio che mi si apriva davanti era stranamente breve e finiva in un muro. La sala d'aspetto non c'era più... Aprii la porta delle scale e salii a quattro a quattro i gradini come se avessi avuto vent'anni e non quarantotto... Alla terza rampa mi arrischiai a voltarmi... una rampa più in basso c'era il mio sinistro inseguitore ebreo... Spalancai la porta che dava accesso al centoduesimo piano. Qui almeno, pensai, c'era il cancello d'argento dell'ascensore della torre, con la scritta «Zum Zeppelin». Finalmente avrei raggiunto l'Ostwald. Ma il cancello era un semplice cartoncino bianco, e la scritta, su una comune porta di metallo, diceva: «Fermo per manutenzione». Mi gettai contro la porta tentando di aprirla, strizzando gli occhi perché non riuscivo a mettere a fuoco la vista. Quando finalmente riuscii a vedere, anche la porta e il cartello erano scomparsi e io stavo graffiando il muro. Qualcuno mi toccò il braccio, e mi voltai di scatto. — Scusatemi — disse premuroso il mio ebreo. — State forse poco bene? Posso fare qualcosa? Scossi la testa, non so se per dire di no o per snebbiarmi. — Cerco l'Ostwald — balbettai con un filo di voce, ansimando per la salita. — Lo Zeppelin — spiegai, e vidi che non capiva. Forse sbaglio, ma mi parve di scorgere un lampo di segreta gioia brillare in fondo ai suoi occhi, sebbene l'atteggiamento premuroso restasse immutato. — Oh, il dirigibile — disse, con una voce che mi pareva troppo zuccherosa. — Volete dire l'«Hindenburg».
«Hindenburg»? ripetei fra me. Non esistevano Zeppelin con quel nome. O sì? Che mi fossi sbagliato? Avevo la mente annebbiata ma tentavo disperatamente di assicurarmi che ero io, io nel mio vero mondo... «Bin Adolf Hitler, Zeppelin Fachman»... — L'«Hindenburg», in ogni caso, non attracca mai qui — stava dicendo l'ebreo — anche se una volta si parlò di fare dell'Empire State la stazione ormeggio dei dirigibili più grandi. Forse ne avete sentito parlare, e credevate... Ma è evidente che non sapete ancora della tragedia — continuò con una sollecitudine che mi riusciva insopportabile. — Spero che non cerchiate l'«Hindenburg» perché a bordo c'era qualche persona a voi cara. Fatevi forza. Poche ore fa, mentre stava per ormeggiarsi a Lakehurst, nel New Jersey, l'«Hindenburg» si è incendiato ed è andato distrutto in pochi secondi. Le vittime sono una quarantina. Fatevi forza — ripeté — Ma l'«Hindenburg», cioè l'Ostwald — obbiettai — non si può incendiare. È uno Zeppelin a elio. — Oh, no — mi contraddisse l'ebreo. — Non sono uno scienziato ma so che l'«Hindenburg» era pieno di idrogeno... tipico della noncuranza dei tedeschi verso i rischi. Meno male comunque che non abbiamo venduto l'elio ai nazisti. Lo fissai agitando a fatica la testa in un debole tentativo di diniego, ma lui stava già pensando ad altro, perché disse: — Scusatemi, ma mi pare di avervi sentito fare il nome di Adolf Hitler. Forse vi hanno già detto che gli somigliate. Se fossi in voi, mi taglierei i baffi. Mi sentii invadere da una furia cieca per questa sciocca e inspiegabile osservazione che era stata pronunciata in tono inequivocabilmente offensivo. Poi vidi tutto rosso, l'ambiente che mi circondava fu scosso da violente vibrazioni e io mi sentii torcere nei precordi. Fu quel senso di torsione che si prova passando fuori del tempo da un universo a un altro parallelo. Divenni un altro uomo che si chiamava ancora Adolf Hitler, come il dittatore nazista, un tedesco americano nato a Chicago che non era mai stato in Germania e non parlava tedesco, che gli amici schernivano per la sua somiglianza con l'altro Hitler e che ripeteva cocciuto: «No, non voglio cambiar nome. Che se lo cambi quel bastardo del Fiihrer oltre Atlantico. Non avete mai sentito raccontare dell'inglese Winston Churchill che scrisse al suo omonimo americano autore de "La Crisi" e altri romanzi, proponendogli di cambiar nome per evitare equivoci, dato che anche l'inglese aveva scritto dei libri? Be', l'americano gli rispose che l'idea non era malvagia, ma dal momento che lui era maggiore di tre anni, toccava all'inglese
cambiare nome. Io la penso esattamente allo stesso modo nei confronti di quel figlio di buonadonna di Hitler.» L'ebreo continuava a fissarmi con scherno. Stavo per dirgli quel che si meritava, quando provai per la seconda volta quell'irreale senso di transizione. La prima volta mi aveva portato da un universo all'altro, ma la seconda coinvolse anche il tempo: in un attimo solo ero invecchiato di 14 o 15 anni, passando dal 1937 (in questo caso ero nato nel 1889 e avevo 48 anni), al 1973 (ero nato invece nel 1910 e avevo 63 anni). Anche il mio nome era cambiato, ridiventando quello vero (ma lo era?), e avevo un figlio sposato titolare di una cattedra in una università di New York, esperto di storia sociale, elaboratore di brillanti teorie, ma non di quella relativa ai momenti cruciali della storia. E l'ebreo, quell'uomo alto e scheletrico vestito di nero dai lineamenti semitici, era scomparso. Portai istintivamente la mano al taschino della giacca, poi frugai all'interno. La tasca non aveva chiusura lampo e non conteneva documenti preziosi, ma solo un paio di vecchie buste su cui avevo scribacchiato qualcosa a matita. Non ricordo come uscii dall'Empire State Building. Probabilmente presi l'ascensore. Di quei momenti riesco solo a ricordare l'insistente immagine di King Kong che precipitava dalla torre come un gigantesco, grottesco, ma anche pietoso orsachiotto di pezza. Ricordo che m'incamminai come in trance e vagai per ore lungo le vie di Manhattan impregnate di ossido di carbonio e gas cancerogeni, e quando finalmente tornai in me era il crepuscolo e stavo percorrendo Hudson Street, al limite settentrionale del Greenwich Village. Avevo lo sguardo fisso sulla sommità di un altissimo edificio grigio. Credo che fosse il World Trade Center, alto 450 metri. E poi mi trovai davanti la faccia sorridente di mio figlio, il professore. — Justin! — esclamai. — Fritz! — rispose lui! — Cominciavamo a preoccuparci. Dove ti eri cacciato? Non che voglia mettere il naso in cose che non mi riguardano. Se avevi un appuntamento con una bella ragazza, non occorre che tu me lo stia a raccontare. — Grazie — dissi — sono un po' stanco e ho freddo. Ma no, ho fatto solo un giretto e ci ho messo più tempo di quel che pensavo. Manhattan è cambiata in tutti questi anni che ho vissuto in California, ma non poi tanto. — Fa fresco davvero — disse lui. — Fermiamoci là in quel locale con
l'insegna nera. È il «Cavallo Bianco». Lo frequentava Dylan Thomas e dicono che scrisse una poesia sul muro, ma poi ci hanno passato su una mano di bianco. Però il pavimento è cosparso di autentica segatura. — Bene — dissi — ma io prenderò solo un caffè, niente birra. Se non c'è caffè, una coca. Non sono un tipo da «Prosit!», io! HOUSTON, HOUSTON, CI SENTITE? Houston, Houston, Do You Read? di James Tiptree jr. Aurora: Beyond Equality, 1976 James Tiptree jr., alias Alice Sheldon, venne prepotentemente alla luce della ribalta fantascientifica verso gli inizi degli anni settanta con alcune storie molto originali e anche molto possenti e scioccanti come tematiche. Questa storia, scritta dalla Tiptree/Sheldon per un'antologia di racconti femministi (Aurora: Beyond Equality), avrà certo mandato in estasi tutte le più scatenate seguaci del movimento femminista e la sua profetessa fantascientifica, la Joanna Russ, che compare anch'essa in questo volume ma con un'opera di ben altro registro. In realtà questa vicenda di astronauti maschi raffigurati nei loro aspetti più bestiali in confronto con una società futura di sole donne ci lascia un po' perplessi, anche se non possiamo negarne la dirompente forza narrativa. Lorimer si guarda attorno nella cabina affollata cercando di capire la conversazione e di ignorare le contrazioni interne che significano che sta per ricordare qualcosa di spiacevole. Niente da fare: vive ancora quel lontano momento: lui che correva ciecamente (o veniva spinto?) verso l'ignota toilette della scuola media di Evanston. La patta dei pantaloni aperta, il cazzo in mano, può ancora vedere il bordo della cerniera grigia dei jeans intorno al pallido uccello nudo. Il silenzio. La nauseante deformazione delle immagini, visi che roteano, assordanti sghignazzate. Ragazze. Era nei cessi delle femmine? Tuttora, a tanti anni di distanza, non riesce a sostenere il loro sguardo. La grande cabina lo circonda, con le loro cose aliene intorno a lui e sopra la sua testa: l'aggeggio per ordinare le perle, il telaio delle gemelle, il lavoro di cuoio di Andy, la dannata Kudzu, pianta rampicante che si avvolge ovunque, i polli.
Così intimo... intrappolato, irrimediabilmente intrappolato a vita in ogni cosa che fa senza piacere. Amorfo. Banalità personali, cosucce, richieste che non può mai soddisfare. Ginny: tu non parli mai con me... Ginny, amore, pensa involontariamente. Il dolore non arriva. La sonora risata di Bud Geirr lo interrompe. Bud scherza con alcune di loro nascosto alla vista da un divisorio, Dave però è visibile. Il maggiore Norman Davis è nel lato opposto della cabina, il profilo barbuto piegato verso una piccola donna bruna. Lorimer non riesce a mettere a fuoco completamente la scena. Ma la testa di Dave appare stranamente minuscola e nitida, l'intera cabina appare irreale. Uno schiamazzo scoppia improvviso dalla volta. Una gallina battagliera nel suo cesto. Adesso Lorimer è sicuro di essere stato drogato. Stranamente l'idea non lo irrita, si appoggia e poi si dondola incrociando le gambe a zero-g, lasciando lo sguardo libero di fissare il viso della donna con cui stava parlando, Connie. Costantia Morelos, una donna alta, con la faccia a luna piena, in un largo pigiama verde. Non gli è mai interessato realmente parlare con le donne. Ironia della sorte. — Suppongo — dice ad alta voce, — si possa dire che in certo senso noi non siamo qui. — Ciò non suona molto chiaro ma lei annuisce interessata. Sta osservando le mie razioni, si dice Lorimer. Le donne sono avvelenatrici innate. Ha detto anche questo a voce alta? L'espressione di lei non cambia. La sua capacità visiva sta migliorando in chiarezza. La pelle di Connie lo colpisce per la sua finezza, per l'aspetto sano: ancora abbronzata dopo due anni nello spazio. Lei aveva una fattoria, ricorda. Grandi pori, ma senza quello strato di trucco che lui associa alle donne della sua età. — Voi probabilmente non avete mai usato trucco — le dice. Lei sembra perplessa. — Belletto per il viso, cipria, nessuna di voi ne ha. — Oh! — Il suo sorriso mostra un dente anteriore scheggiato. — Oh sì, penso che Andy ne usi. — Andy? — Per le recite, le rappresentazioni storiche. Andy è bravo in questo. — Naturalmente, rappresentazioni storiche. — Il cervello di Lorimer sembra essere dilatato, pieno di luce. Adesso comprende attivamente, la miriade di parti e di frammenti si concatenano in disegni. Insopportabili raffigurazioni, si rende conto, ma il narcotico lo difende in qualche modo. Come una forte anfetamina, ma senza tensione. Forse è qualcosa che usano a fini sociali. No, stanno anche osservando. — Conigliette dello spazio, non vi capisco. — Bud Geirr ride conta-
giosamente. Ha una voce amichevole, allegra, che piace alla gente. A Lorimer piace ancora, dopo due anni. — Voi donne avete bambini a casa? Cosa pensano i vostri genitori, che voi voliate quassù col vecchio Andy, humm? — Bud appare fluttuando, il braccio attorno alle spalle di una gemella. Quella che si chiama Judi Paris, decide Lorimer. I gemelli sono difficili da distinguere. Ella si lascia trasportare passivamente in un angolo contro il grosso corpo di Bud: una ragazza scialba dal seno sporgente in un giallo pigiama fluente, con i capelli neri che scendono a cascata. La rossa testa di Andy ruota verso di loro. Tiene in mano un grande pallone spaziale verde; dimostra sedici anni. Vecchio Andy Bud scuote la testa, il suo sorriso lampeggia sotto i folti baffi. — Quando avevo la tua età la gente non avrebbe lasciato le sue donne volare con me. — Connie storce leggermente le labbra. Nella testa di Lorimer i pezzi si compongono in un unico disegno. Io so, pensa. Sapete che io so? La sua mente è estesa e cristallina. Pensare è facile. Donne... nella sua memoria solo pochi visi blateranti su uno sfondo confuso. È umano, naturalmente. Sua sorella Amy, con voce da soprano: — Naturalmente le donne potrebbero fare quanto gli uomini se ci trattaste da pari a pari. Vedrete! — Per poi sposare due volte quell'idiota. Bene, adesso poteva vedere. — I rampicanti Kudzu — dice, a voce alta. Connie sorride. Quanto sorridono tutte! — Che ne pensi di questo? — dice Bud allegramente. — Non avremmo mai pensato di vedere donne a zero-g, eh, Dave? Artistico. — Attraverso la cabina, la barbuta testa di Dave ruota verso di lui, senza sorridere. — Il vecchio Andy ha tutto questo per sé. Frena la tua spinta, ragazzo. — Punzecchia giovialmente il braccio di Andy che si rifugia nel compartimento. Bud non può essere ubriaco, pensa Lorimer. Non per un po' di sidro di frutta. Ma di solito non appare nemmeno così simile a un classico personaggio da western. La droga. — Ehi, senza offesa — dice Bud con convinzione al ragazzo. — Sono sincero! Devi perdonare un fratello sottosviluppato. Queste donne sono in gamba. Sai una cosa? — Si rivolge alla ragazza: — Potresti essere meravigliosa se ti curassi un tantino. Ehi, posso insegnartelo, il vecchio Buddy è un esperto. Spero non ti dispiaccia che io dica questo. In realtà ti trovo meravigliosa anche così. — Cinge le spalle di lei e allunga il braccio ad accogliere anche Andy; fluttuano nella sua stretta, Judy sorridendo con eccitazione, quasi graziosa. — Prendiamo dell'altra roba. — Bud li sospinge entrambi verso il bancone di servizio, decorato per l'occasione con rametti verdi e piccole margherite vere. — Buon anno! Ehi, buon anno a tutti! — I visi si girano, per lo più sorridenti. Sorrisi
spontanei, pensa Lorimer, forse a loro piacciono realmente i nuovi anni. Sente di avere un tempo infinito per esaminare ogni singolo evento, gli avvenimenti hanno la chiarezza del cristallo. Sono una cassa di risonanza. Divertente essere un osservatore. Ma anche loro osservano. Hanno dato il via a qualcosa, qui. Se ne rendono conto? Così vulnerabili, tre di noi, cinque di loro in questa fragile nave. Non sanno! Un terrore immotivato è in agguato dietro la sua mente. — Per Dio, ce l'abbiamo fatta! — ride Bud, — voi donnine dello spazio, devo proprio dirvelo, vi ammiro, lo dico, per Dio! Noi non vorremmo essere qui, dovunque siamo. Sappiate che potrei, malgrado tutto, decidere di restare in servizio! Pensi che ci sia posto per il vecchio Bud nei vostri programmi spaziali, dolcezza? — Piantala, Bud! — interviene Dave con calma dall'altra parte della cabina. — Non voglio sentire usare il nome del Creatore in questo modo — La barba castana gli dà un'aria patriarcale. Dave ha quarantasei anni, dieci più di Bud e Lorimer. Un veterano di sei missioni di successo. — Oh, le mie scuse, maggiore Norman Davis, vecchio camerata. — Bud ridacchia familiarmente verso la ragazza. — Il nostro rigido comandante. Un tipo formidabile. Ehi, Doc — chiama, — ti sta andando bene? — Salute! — Lorimer si sente rispondere; il complesso strato di sensazioni cresce su Bud come un mostro marino nel chiarore lunare della sua mente: la silenziosa ansia sommersa che prova verso tutti loro. Tutti i Bud e i Dave, e le grandi, indomabili, vivaci, abili, disciplinate menti intorpidite, mesomorfe, con cui ha diviso la vita. A loro lui piace, ci ha fatto caso. Per questo lo hanno preso sul Sunbird, e l'hanno fatto diventare lo scienziato della prima missione circumsolare. Questo piccolo Doc Lorimer, così lo chiamano, è un buon elemento. Non devi aspettarti cazzate da Lorimer, non è come quegli altri scienziati buco di culo. Lui fa la sua parte, con il suo piccolo ordinato lavoro, col suo viso impassibile. Sono ancora freschi gli anni in cui si interessava al bowling, alla pallavolo, al tennis, allo skeet, allo sci (quando si ruppe una caviglia) e al calcio (quando si ruppe una clavicola...). Guardatelo, il Doc, è un essere servile. E i grandi uomini gli danno pacche sulle spalle accettandolo. La loro idea di scienziato... il guaio è che ora non è più uno scienziato. Tranne per quell'incarico postuniversitario: un colpo fortunato. Non era mai stato bravo in matematica, né lo era adesso. Troppi altri interessi, troppo tempo speso a trovare la soluzione a delle cazzate. Sono un brocco, pensa. Qualche centimetro e qualche chilo in più e sarei stato come loro. Uno di loro: un alfa. Loro forse la sentono, dal di sotto, la rabbia dei beta. Le battute mordaci avevano gettato
forse un'ombra sul Sunbird in quel lungo anno trascorso? Un anno di esercizio con Bud e Dave... In questa dannata missione hanno preteso troppo da me. Scherzavano. Noi siamo una squadra. Il ricordo dei jeans slacciati lo colpisce, la fine penosa, le facce sghignazzanti che lo aspettavano fuori quando inciampava. Le grida, lo sgocciolio lungo le gambe. L'essere disinvolto pretendendo anche di riderci sopra. Facce di merda, vi farò vedere. Non sono una donna, io. La voce di Bud risuona monotona. — E un felice anno nuovo a tutti voi quaggiù. — E, parodiando il tono oleoso della NASA: — Ehi, perché non ci inviate un segnale? Auguri a tutti voi terrestri, cioè a tutti voi lunari. Felice anno nuovo comunque ai presenti. — Soffia buffamente. — C'è un Babbo Natale, Houston, mai visto niente di simile? Houston, ovunque voi siate — canta a squarciagola: — Ehi, Houston, ci ricevete? — Nel silenzio Lorimer vede il viso di Dave trasformarsi in quello del comandante maggiore Norman Davis. E all'improvviso è di nuovo là, un anno prima, chiuso, sbattuto nel modulo di comando del Sunbird che usciva da dietro il Sole. È la droga che mi provoca questo, pensa, mentre il ricordo lo assale. È così reale. Basta! Cerca di aggrapparsi alla realtà; di sfuggire al panico che cresce incontrollato. Ma non ci riesce, è là, librato dietro a Bud e Dave sul triplo sedile, evitando come al solito di prender posto tra loro, a discutere sull'oscuramento dell'ormai inutile oblò. Il pannello esterno è stato bruciato, può scorgere solo una macchia vivida che deve essere Spica, fluttuante attraverso la testa di Dave, che si rifà la fasciatura simile a una corona. — Houston, Houston, qui Sunbird — ripete Dave. — Sunbird chiama Houston. Houston, ricevete? Passo. — I minuti scorrono. Per sette minuti trasmettono, per sette ricevono. Settantotto milioni di miglia sono un tratto lungo da coprire. — Il pulsante del volume è andato, ecco cos'è — dice Bud vivacemente. Lo dice almeno una volta al giorno. — Niente da fare. — La voce di Dave è calma come al solito. — È disturbato. Ancora troppe interferenze dal sole, vero Doc? — La radiazione residua dell'eruzione è proprio in linea con noi. Potrebbero avere forti difficoltà ad individuarci. — Per la millesima volta registra la sua debole, ridicola gratificazione nell'essere consultato. — Merda, siamo all'esterno di Mercurio. — Bud scuote la testa: — Come riusciremo a sapere chi ha vinto il campionato di baseball? — Anche questo lo dice spesso, un rituale nella notte eterna. Lorimer guarda lo splendore di Spica spinto dal riflesso della faccia riccioluta e cespugliosa di Bud. I suoi baffetti sono radi e sottili, come un biondo Fu-Manchu. L'al-
tro angolo dell'oblò è una striscia abbagliante che deve essere ciò che resta degli accumulatori di energia fusi dalla macchia solare che li ha colpiti un mese prima e ha fuso i rivestimenti esterni degli oblò, quando Dave si è ferito alla testa contro un pannello. Lorimer doveva essere stato travolto dall'onda d'urto gravitazionale; ma egli ancora non si fidava di quell'interpretazione. Fortunatamente l'onda aveva risparmiato un pezzo dell'oblò anteriore, e avevano ancora circa venti gradi di visibilità davanti a loro. Il brillante ricamo delle Pleiadi si vedeva scorrere da lì come dentro una macchia di luce. Dodici minuti... tredici. Lo speaker acceso e spento a vuoto. Quattordici. Niente. — Sunbird a Houston, Sunbird a Houston. Rispondete. Passo. — Dave riaggancia il microfono. — Diamogli altre ventiquattr'ore. Attesa rituale. Domani, forse, Packard risponderà. — È bello rivedere la vecchia terra — nota Bud. — Non stiamo sprecando carburante, ad ogni modo — gli ricorda Dave. — Ho fiducia nei calcoli di Doc: — Non sono calcoli miei, è l'elementare realtà della meccanica celeste — Lorimer riflette: in ottobre c'è solo un punto in cui la terra si può trovare. Non lo dice mai. Non è da esperto trasvolatore ricavare la posizione di due corpi in modo così intuitivo. Bud è un buon pilota e un ingegnere ancora migliore. Dave è il migliore che c'è. Non c'è orgoglio, in questo. — Il Signore ci aiuti, Doc, se Lo abbandoniamo. — Sarà dura rientrare se il radar è sballato — dice Bud pigramente. Tutti pensano la stessa cosa per la centesima volta. Sarà dura ma Dave ce la farà. È per questo che risparmiamo carburante. I minuti scorrono. — Ci siamo — esclama Dave. E una voce scioccante invade la cabina: — Judy? — È forte e chiara, una voce di donna. — Judy? Sono così contenta di trovarti, cosa fai su questa banda d'onda? — Bud lascia andare il fiato; c'è un istante di gelo prima che Dave afferri il microfono. — Qui Sunbird, vi riceviamo. Questa è la missione Sunbird che chiama Houston. Ah! Sunbird Uno chiama base di controllo di Houston. Identificazione, prego. Chi siete? Potete riceverci? Passo. — Che scherzo idiota! — esclama Bud. — Qualche incredibile burlone. — Sei in difficoltà, Judy? — insiste la voce di donna. — Ti ricevo malissimo. Aspetta un minuto. — Qui è la missione spaziale degli Stati Uniti Sunbird Uno — ripete Dave. — La missione Sunbird chiama il centro spaziale di Houston. State occupando il nostro canale. Identificatevi. Ripeto. Identificatevi e dite se
siete in grado di contattare Houston. Passo. — Brava Judy, bello scherzo! Prova ancora — fa la ragazza. Lorimer bruscamente si avvicina al LURP, l'accumulatore sperimentale di particelle di densità a lungo raggio e ne attiva il motore di comando. Il motore stride, vibra; fortunatamente era disattivato durante l'esplosione e quindi non si è fuso. Mette al massimo gli impulsi di sondaggio e inizia una irregolare ricerca manuale. — Avete intercettato la trasmissione ufficiale della missione degli Stati Uniti al Controllo di Houston. — Dave parla con vigore: — Se non potete collegarvi con Houston spegnete, state commettendo un'infrazione federale. Ripeto, potete riportare il nostro segnale al centro spaziale di Houston? Passo. — La trasmissione è ancora pessima — dice la ragazza. — Cos'è Houston? Chi parla, comunque? Sapete che non abbiamo molto tempo. — La sua voce è dolce ma molto nasale. — Gesù, che sfacciataggine! — esclama Bud. — È assurdo! — Tienila. — Dave si muove intorno al radarscopio improvvisato da Lorimer. — Qui — Lorimer indica un sottile, stabile punto, all'estremo margine del ricevitore del diffusore transcoronale. Anche Bud allunga il collo. — Uno spettro. — C'è qualcun altro qua fuori. — Pronto, pronto? Siamo qui, adesso. — Ancora la ragazza. — Perché vi sentiamo così debolmente? State male, l'esplosione vi ha raggiunto? — Fermo — avverte Dave. — Qual è la posizione, Doc? — Più di trecentomila chilometri, approssimativamente. Forse diretti lontano da noi, in direzione dell'orbita solare. Possono essere cosmonauti, una spedizione sovietica? — Ma allora, si sono persi. — Con una ragazza? — obbietta Bud. — Loro lo hanno fatto. Stai registrando, Bud? — Rrricevuto — egli sogghigna. — Questa sicuramente non sembra una russa. Chi diavolo è Judy? — Dave riflette per un secondo, accende il microfono. — Qui il maggiore Norman Davis, comandante dell'astronave degli Stati Uniti Sunbird Uno. Vi abbiamo sullo schermo. Chiediamo la vostra identità. Ripeto, chi siete? Passo. — Judy, piantala con gli scherzi — geme la voce. — Ti perderemo tra un minuto, non capisci che siamo preoccupate per te? — Sunbird a nave non identificata. Qui non c'è Judy. Ripeto, non c'è Judy. Chi siete? Passo.
— Cosa... — esclama la ragazza, e viene interrotta da qualcuno che dice: — Aspetta un momento, Ann. — Il ricevitore gracchia, quindi un'altra donna parla. — Qui è Lorna Bethune da Escondita. Che sta succedendo? — Qui il maggiore Norman Davis, comandante della missione degli Stati Uniti Sunbird in direzione Terra. Non conosciamo nessuna astronave Escondita. Vorreste identificarvi? Passo. — L'ho appena fatto. — La voce si alza con la stessa pronuncia nasale strascicata. — Non ci sono navi spaziali Sunbird, e non siete diretti verso la Terra. Se è ancora uno scherzo, non è affatto divertente. — Non è un gioco, signora! — esplode Dave. — Questa è la missione circumsolare americana e noi siamo astronauti americani. Non apprezziamo la vostra interferenza. Passo. — La donna comincia a parlare ma è soffocata da interferenze statiche. Due voci si accavallano brevemente. Lorimer pensa di sentire le parole «Programma Sunbird» e qualcos'altro. Bud aziona il riduttore. L'interferenza si riduce a un ronzio. — Ah, maggiore Davis — la voce è più debole. — Vi ho sentiti dire che siete diretti verso la Terra? — Dave guarda accigliato il microfono e dice brevemente: — Affermativo. — Bene, non capiamo la vostra orbita. Dovete avere delle caratteristiche di volo molto insolite. I nostri calcoli dimostrano che non potreste raggiungere niente con la vostra attuale direzione. Perderemo il contatto tra un minuto o due. Volete dirci dove vedete la Terra, adesso? Non importano le coordinate, diteci solo la costellazione. — Dave esita, poi porge il microfono: — Doc. — L'apparente posizione della Terra è nei Pesci — dice Lorimer alla voce. — Approssimativamente tre gradi dal punto Gamma. — No — risponde la donna, — non vedete che è nella Vergine? Non potete vedere fuori per niente? — Gli occhi di Lorimer si posano sulla macchia brillante dell'oblò. — Abbiamo avuto dei danni... — Aspetta — lo interrompe Dave — ... ad un oblò. Durante la perturbazione orbitavamo in perielio. Naturalmente conosciamo la direzione relativa della Terra a questa data, 19 ottobre. — Oh! Ma è marzo, il 15 marzo. Voi dovete... — La sua voce si perde in un fischio. Sono tutti protesi verso il microfono. Lorimer è a testa china. I rumori dallo spazio gemono e crepitano come la risacca. L'astronave sconosciuta è troppo vicina all'orizzonte coronale. — Dietro di voi... — si sente. Molti stridori: — Banda, provate... nave...
se potete il vostro segnale... — Nient'altro. Lorimer indietreggia fissando lo splendore nell'oblò. Deve essere Spica, ma si è allargato come se una seconda sorgente fosse lì vicino. Impossibile. Una crescente agitazione l'invade. Le voci delle donne gli risuonano in testa. — Playback — dice Dave. — Houston sarà felice di sentirlo. — Ascoltano ancora la ragazza che chiama Judy, la donna che si presenta come Lorna Bethune. Bud alza un dito. — C'è una voce d'uomo. — Lorimer ascolta attentamente le parole che crede di aver udito. Il nastro finisce. — Aspetta che Packard abbia questo. — Dave si sfrega le mani. — Ricordate cosa dissero di Howie? Pretendevano di averlo salvato. — Sembra che ci vogliano sulla loro frequenza — ghigna Bud. — Devono pensare che ci siamo allontanati. Ehi, tra poco ci sarà folla, qua fuori. — Se si fanno sentire rispondi, Bud. Le batterie ce la faranno. — Lorimer guarda lo scintillio di Spica o di Spica più qualcos'altro, domandandosi se è sempre in sé. La casuale intercettazione di qualche trucco, o impresa, qua fuori, in questa incredibile solitudine... Ad alta voce dice: — Escondita, è un nome insolito per una missione sovietica. Credo che significhi «nascosta» in spagnolo. — Sììì! — esclama Bud. — Ehi, so cos'è questo accento, è australiano. Abbiamo avuto qualche coniglietta australiana ad Hickam... Supponete che Woomera stia mettendo in orbita qualche specie di missione combinata. — Dave scuote la testa: — Non ne hanno assolutamente la possibilità. — Ci siamo imbattuti in qualche fenomeno completamente sconosciuto, Dave — esclama Lorimer pensosamente. — Vorrei fare un controllo visuale. — Hai preso un granchio, Doc? — No, la Terra è dove ho detto, se è ottobre. La Vergine è dove dovrebbe apparire in marzo. — Allora è così. — Dave sogghigna uscendo dal sedile. — Hai dormito cinque mesi, Rip van Winkle? C'è tempo per una bevuta prima di fare il piano di lavoro. — Quello che vorrei sapere è come sono queste donne — dice Bud, chiudendo il trasmettitore. — Posso aiutarla con la sua tuta, signorina? Signorina, faccia entrare questo, pissi, pissi, pissi? Mi stai ascoltando, Doc? — Bene. — Lorimer sta riponendo le sue carte. Gli altri vanno attraverso il tunnel nel piccolo «soggiorno» senza fare ulteriori commenti sulla presenza della nave o delle navi sconosciute là fuori. Lo stesso Lorimer è più scosso di quel che vuol sembrare; è stata quella dannata frase. Il noioso periodo dell'esercizio passa rapidamente. Pranzo; mettono i con-
tainers al minimo per risparmiare le batterie. Di nuovo pollo «à la king», Bud mette del ketchup sul suo e rompe l'abituale silenzio con un buffo aneddoto su una australiana, laboriosamente autocensurato in conformità al codice non scritto in uso sul Sunbird. Dopo pranzo Dave ritorna nel modulo di comando. Bud e Lorimer continuano il loro lavoro abituale di verifica dei rivestimenti e degli imballaggi per una stima dei danni da riparare prima che le radiazioni diventino dannose. Hanno appena sparecchiato quando Dave li chiama. Lorimer arriva attraverso il tunnel in tempo per sentire squillare la voce di una ragazza. — ... Un noioso disinnesto. Còsa ha detto Lorna? Qui Gloria, passo. — Egli alza bruscamente il LURP e comincia a sondare. Niente risultati, questa volta. — Sono tutt'e due in linea dietro di noi, o nel quadrante controsole. — Non posso isolarle. — Adesso l'altoparlante emette un altro suono leggero. — Questa potrebbe essere la loro base di controllo. Dice Dave: — Quali sono le coordinate, Doc? — Cinque ore: Siberia Nord Occidentale, Giappone, Australia. — Ve l'ho detto, siamo nei guai. — Bud aumenta con precauzione la capacità dell'alimentatore dell'antenna. — L'intelaiatura è storta, ecco cos'è. — Non romperla — dice Dave sapendo che Bud non lo farà. Lo stridio e le vibrazioni smettono. — Ehi, possiamo usarlo davvero — fa Bud. — Possiamo tararlo su di loro. — Una voce forte, da soprano, parla improvvisamente: — ... Potrebbero essere fuori della vostra orbita. Provate intorno a Beta, in Ariete. — Un'altra donna. Abbiamo un'allucinazione! — esclama Bud allegramente. — Abbiamo un miraggio. Credo che i nostri problemi siano risolti. Quella bestia ha sballato di 149 gradi. — La prima ragazza si rifà viva: — Li vediamo, Margo! Ma sono così piccoli, come possono vivere lì dentro? Forse sono dei minuscoli alieni! Passo. — Questa è Judy — fa Bud. — Dave, è strano, è tutto in inglese. Deve essere uno scherzetto delle N.U. — Dave si massaggia i gomiti, contrae i pugni: è pensieroso. Attendono. Lorimer pensa ai 149 gradi dal punto Gamma, nei Pesci. Dopo tredici minuti la voce della terra esclama: — Judy, chiama le altre, vuoi? Stiamo per trasmettere la registrazione. Pensiamo che la potreste sentire tutte. Due minuti. Oh, mentre aspettiamo, Zebra vuol dire a Connie che il bambino sta bene? E abbiamo una nuova vacca. — È un codice — esclama Dave. Il registratore entra in funzione. Gli
uomini sentono ancora una volta Dave che chiama Houston in un frastuono di interferenze solari. La trasmissione si chiarisce rapidamente e si interrompe con la donna che dice che un'altra astronave, la Gloria, è dietro di loro, più vicino al sole. — Abbiamo guardato nei libri di storia — riassume la voce dalla Terra. — C'era un maggiore Norman Davis, sul primo volo Sunbird. «Maggiore» era un titolo militare. Li avete sentiti chiamare «Doc»? C'era uno scienziato a bordo. Il dottor Orren Lorimer. Il terzo membro era il capitano (questo è un altro titolo) Bernhard Geirr. Solo tre; tutti maschi, naturalmente. Pensiamo che abbiano avuto un guasto improvviso ai reattori e mancanza di carburante. Non tornarono più dal sole. Questo è accaduto pressappoco quando cominciò la grande esplosione. Jan pensa che restarono intrappolati in una macchia. Avete sentito che lamentavano dei danni. — Dave grugnisce. Lorimer è eccitato, come se una scarica elettrica gli passasse nelle budella. — Due possibilità: o sono chi dicono di essere, o sono spettri; oppure alieni che si spacciano per nostri simili. Jan sostiene che forse lo sconquasso causato da una superesplosione potrebbe alterare il continuum temporale. Osservatore: cosa ha visto, al momento culminante? — Dimensione del tempo... — mai tornati indietro. — La mente di Lorimer è bloccata nella realtà delle due immobili teste barbute davanti a lui; si rifiuta di capire le parole che pensa di aver udito: — Prima dell'anno 2000. — La lingua, pensa. La lingua dovrebbe aver subito mutamenti. Si sente meglio. Una profonda voce baritonale esclama: — Margo? — Sul Sunbird gli sguardi si fanno attenti. — ... Come quella grande di cinquant'anni fa. — L'uomo ha lo stesso accento. — Siamo stati fortunati a trovarci ai margini dell'esplosione. La cosa più importante è che confermiamo le turbolenze gravitazionali. Periodiche, ma niente ondate. E violente; siamo stati sospinti contro qualcosa. Lo spazio è misterioso, in queste cose. Pensiamo che la teoria di France secondo cui il nostro sistema sta passando attraverso un ammasso di micro-buchi neri sembra buona, almeno finché uno non ne è colpito. — France? — borbotta Bud. Dave lo guarda interrogativamente. — È difficile immaginare che qualcosa sia sfuggito in tempo. Ma loro sono qui, da qualche parte, ad oltre ottocento kays da noi, e guizzano rapidamente verso Aldebaran. Come ha detto Lorna, se stanno tentando di raggiungere la Terra sono in errore, a meno che non abbiano una gran quantità di carburante di riserva. Provereste a contarli? Passo. Ah, grazie per la mucca. Passo di nuovo. — Un buco nero. — Bud fischia leggermente. — Questo è per te, Doc...
Eravamo in un buco nero? — No, o non saremmo qui. — Se siamo qui, aggiunge Lorimer per se stesso. Un gruppo di micro-buchi neri... Che succede quando dei frammenti di materia implosa si avvicinano gli uni agli altri o entrano in collisione e si manifestano nella fotosfera di una stella? La distruzione del tempo? Basta. E ad alta voce: — Potrebbero chiarirci qualcosa, Dave. — Dave non risponde. I minuti scorrono. Finalmente la voce terrestre ritorna, dicendo che proveranno a contattare gli stranieri sulla loro frequenza originaria. Bud lancia uno sguardo a Dave, sintonizza il selettore. — Sunbird Uno? — La ragazza parla lentamente nel naso. — Qui Centrale Luna che chiama il maggiore Norman Davis del Sunbird Uno. Abbiamo captato la vostra conversazione con la nostra nave Escondita, siamo molto curiosi di sapere chi siete e come siete lì. Se siete veramente il Sunbird Uno pensiamo che siate stati sbalzati avanti nel tempo quando avete attraversato la macchia solare. — Pronuncia con accento cockney. — La nostra nave Gloria è vicina a voi, vi hanno sul loro radar. Pensiamo che abbiate dei problemi di rotta, perché avete detto a Lorna che eravate diretti verso la Terra e che pensate questo sia ottobre, con la Terra nei Pesci. Non è ottobre. È il 15 marzo. Ripeto, la data della Terra è 15 marzo. Dovreste essere in grado di vedere che la Terra è molto vicina a Spica, nella Vergine. Avete detto che il vostro oblò è danneggiato. Non potete uscire e guardare? Pensiamo che dobbiate fare una bella correzione di rotta. Avete abbastanza carburante? Avete un computer? Avete cibo e aria sufficienti? Possiamo aiutarvi? Siamo in ascolto su questa frequenza. Luna a Sunbird. Rispondete. — Sul Sunbird nessuno si muove. Lorimer lotta contro l'eruzione interna. — Mai tornati indietro. Sbalzati avanti nel tempo. — Le cisti dei ricordi che aveva imparato a sopprimere riaffiorano nel silenzio prolungato. — Non avete intenzione di rispondere? — Non essere stupido! — risponde Dave. — Dave, centoquarantanove gradi è la differenza tra Gamma nei Pesci e Spica. Questa trasmissione arriva da dove loro dicono che sia la Terra. — Hai sbagliato. — Non ho sbagliato. Deve essere marzo. — Dave sbatte le palpebre come se una mosca lo infastidisse. Dopo quindici minuti la voce dalla Luna invia di nuovo il messaggio completo, terminando con: — Per favore rispondete. — Non è una registrazione. — Bud scarta una striscia di gomma aggiungendola ai fili della scatola di derivazione. Lorimer rabbrividisce nel
guardare l'ambiguo bagliore di Spica. Spica più Terra? L'incredulità lo afferra, lo scuote con una complessa stretta al cuore composta di facce, voci, lo sfrigolio del prosciutto che frigge, il cigolio della sedia a rotelle di suo padre, il gesso su una lavagna inondata di sole, le gambe nude di Ginny sul prato fiorito, Jenny e Penny che corrono pericolosamente vicine alla falciatrice. Jenny sarà già alta come sua madre, papà vivrà con Amy a Denver, deciso a resistere fin che il suo ragazzo non torna a casa. «Quando torno a casa». Questa deve essere follia, Dave ha ragione. È un trucco, qualche trucco pazzesco. La lingua. Quindici minuti ancora; la monotona, pressante voce femminile ritorna a ripetere tutto; con più enfasi. Dave si acciglia leggermente, come uno che ascolti una scadente cronaca sportiva. Lorimer ha la sensazione che potrebbe interrompere e proporre una bevuta. Vorrebbe farlo. La voce dice che adesso cambierà frequenza. Bud sintonizza ancora, masticando lentamente. Questa volta la voce si impappina in un paio di frasi, sembra stanca. Un'altra attesa, un'ora stavolta. La mente di Lorimer è concentrata solo sul punto luminoso di Spica, che lo stimola. Bud canticchia un pezzetto di Yellow Ribbons, poi ridiventa silenzioso. — Dave — esclama Lorimer alla fine, — la nostra antenna è orientata su Spica, non mi importa se pensi che ho sbagliato. Se la Terra è laggiù bisogna cambiare rotta, presto. Guarda, potrebbe trattarsi di una doppia sorgente di luce. Dobbiamo verificarlo. — Dave non dice nulla. Bud non dice nulla ma i suoi occhi ruotano dall'oblò al pannello degli strumenti, all'oblò di nuovo. Nell'angolo del pannello c'è un'istantanea di sua moglie, Patty: alta, allegra, con un'abbagliante testa rossa. Lorimer ha fantasticato qualche volta su di lei. Con una voce da ragazzina, pensa, e così alta... Alcuni uomini piccoli di statura cercano donne alte; ciò ferisce Lorimer, è poco dignitoso. Ginny è di qualche centimetro più bassa di lui. Le loro ragazze saranno alte. E Ginny ha insistito per restare incinta prima che lui partisse, pur sapendo che lui sarebbe stato via un bel po'! Forse, forse un maschio, un figlio... Basta! Pensa a qualcos'altro. Bud... Bud ama Patty? Chissà? Lui ama Ginny a settanta milioni di miglia... — Judy? — dice la Centrale Luna, o chiunque sia. — Non rispondono. Volete provarci voi? Ma ascoltate, abbiamo riflettuto. Se questi uomini vengono realmente dal passato devono aver subito un trauma. Potrebbero aver compreso solo adesso che non vedranno più il loro mondo. Myda dice che avevano figli e donne che vivevano con loro; ne sentiranno terribilmente la mancanza. Questo è entusiasmante per noi, ma a loro può sembrare spaventoso. Potrebbero essere troppo sconvolti per rispondere, addi-
rittura terrorizzati, forse pensano che siamo alieni o peggio ancora allucinazioni. Capite? — Cinque secondi più tardi la ragazza più vicina risponde: — Sì, Margo, anche noi eravamo di questo parere. Giusto. Ah! Sunbird? Maggiore Davis del Sunbird, è lì? Qui è Judy Paris sulla nave Gloria. Siamo a un milione di kays da voi. Vi vediamo sul nostro schermo. — Si sente giovane e entusiasta. — Controllo Luna ha tentato di raggiungervi; pensiamo che siate nei guai e vogliamo aiutarvi. Per favore, non abbiate paura, siamo gente come voi. Siete fuori rotta se volete raggiungere la Terra. Siete nei pasticci? Possiamo aiutarvi? Se la vostra radio è fuori uso potete fare qualche altra specie di segnale? Conoscete il vecchio Morse? Sarete presto fuori del nostro schermo, siamo sinceramente preoccupate per voi. Per favore rispondete in qualche modo se vi è possibile. Passo. — Dave siede impassibile. Bud lancia occhiate a lui, all'oblò; fissa stolidamente il ricevitore, la faccia vuota. Lorimer è stremato dalla sorpresa, vuole solo rispondere alle voci. Potrebbe lanciare un segnale rudimentale attraverso il raggio della sonda eterodina. Ma come, con entrambi loro contro di lui? La voce della ragazza tenta ancora, risolutamente. Alla fine esclama: — Margo, non vogliono farsi vivi. Forse sono morti? Oppure sono alieni. — Non lo siamo?, si chiede Lorimer. La stazione Luna ritenta con una diversa voce, più anziana: — Judy, qui Myda; ho pensato un'altra cosa. Questa gente aveva un codice rigidamente autoritario. Ripensa alla storia, loro prendevano ordini su tutto. Hai notato che il maggiore Davis ripeteva di essere il comandante? Questa struttura è chiamata dominio-sottomissione; uno di loro dava ordini e gli altri facevano tutto ciò che gli veniva ordinato. Non sappiamo bene perché. Forse perché erano spaventati. Il punto è che se il comandante è sotto shock o in preda al panico, gli altri non possono rispondere, a meno che questo Davis non li lasci fare. — Gesù Cristo! Pensa, Lorimer, Cristo a colori! — Era l'espressione di suo padre per l'inesprimibile. Dave e Bud sono immobili. — Che assurdità! — risponde Judy. — Ma non capiscono che sono su una rotta sbagliata? Cioè, il dominatore può portare gli altri dritti fuori del sistema? Veramente? — È accaduto, pensa Lorimer, è accaduto! Devo impedirlo. Devo farlo adesso, prima che ci perdano. Disperate visioni di se stesso che sfida Dave e Bud gli appaiono davanti. Proviamo con la persuasione, prima. Appena apre la bocca vede Bud muoversi lentamente e con immensa gratitudine lo sente dire: — Ehi, Dave, che ne dici se diamo un'occhiata? Uno sbalzetto non ci farà male. — La testa di Dave ruota di uno o due gradi. — Potrei uscire a vedere, come dice la donna. — La voce
di Bud è dolce. Dopo un lungo minuto Dave risponde neutro: — Bene... cambiamo altitudine. — Alza le braccia come se pesassero e comincia metodicamente la messa a punto dei valori per il vettore che porterà Spica in linea con il loro oblò funzionante. Perché non sono riuscito a fare questo?, si chiede Lorimer per la millesima volta, seguendo la familiare sequenza di verifica. Non risponde... e per la millesima volta è oscuramente scosso dalla loro razionalità. Gli autentici, gli Alfa. Il loro legame. La soggezione che aveva provato la prima volta per quelle teste di cazzo della squadra di baseball della scuola. — Vai avanti, Dave, sperando che niente sia andato a puttana. — Dave spegne l'accensione di sicurezza, mette il computer sul tempo reale. Lo scafo trema. Ogni cosa nella cabina appare distorta, mentre il punto luminoso di Spica scivola dall'altra parte, appare nell'oblò di fronte mentre il retrovisore rientra. Quando la stella si delinea nel vetro pulito, Lorimer può vedere chiaramente la sua compagna. La doppia luce si consolida. Un bel lavoro. Porge il telescopio a Bud: — Quella sulla sinistra. — Bud osserva: — È lì, bene. Ehi, Dave, guarda questo! — Mette il telescopio in mano a Dave che lentamente lo alza e guarda. Lorimer può sentire il suo respiro. Improvvisamente Dave afferra il microfono. — Houston — esclama aspramente. — Sunbird a Houston. Sunbird chiama Houston. Rispondete. — Nel silenzio il ricevitore gracchia: — Hanno acceso i motori... aspetta, sta chiamando! — E tace. Nella cabina del Sunbird nessuno parla. Lorimer fissa la coppia di stelle, realtà impossibili si susseguono nella sua mente, mentre i minuti si arrestano. Il viso riflesso di Bud sembra capovolto, beffardo. La barba di Dave si muove silenziosa; sta pregando, comprende Lorimer. Unico dell'equipaggio, Dave è profondamente religioso, nei pasti domenicali fa sempre un piccolo, dignitoso ringraziamento. Una profonda pietà per Dave cresce in Lorimer. Dave è così profondamente legato alla sua famiglia, ai suoi quattro figli, si preoccupa sempre della loro educazione portandoli a caccia, a pesca e al camping. E Doris, sua moglie, così incredibilmente attive e dolce, partecipa alle loro escursioni, cucinando e sfaccendando per la comunità. Aveva portato a scuola in macchina Penny e Jenny quella volta che Ginny era malata. Brava gente. La spina dorsale... non può essere vero, pensa. Il segnale di Houston arriverà a minuti, l'antenna è ben orientata, adesso. Sei minuti. Tutto questo scomparirà, finirà. «Prima dell'anno 2000.» Basta! Deve essere mutata la lingua. Pensa a Doris... Tutta soddisfatta a badare ai suoi cinque uomini. Le donne con figli maschi sono di-
verse. Ma Ginny, la sua cara donna, sua moglie, le sue figlie... Sono nonne adesso. Tutto morto e ridotto in cenere. Piantala! Dave prega ancora. Chissà cosa accade in quelle menti? Il pianto di Dave... Dodici minuti, deve andar bene. Il secondo raggio è fermo; no, si muove. Tredici. È tutta follia, un sogno. Quattordici. Il ricevitore fischia e stride a vuoto. Quindici. Un sogno. Ma quelle donne stanno aspettando là fuori che ci facciamo vivi? Sedici... A venti le mani di Dave si agitano, si fermano di nuovo. I secondi rendono nervosi. Lo spazio stride. Trenta minuti. — Chiamo il maggiore Davis sul Sunbird. — È la donna più anziana, una voce gentile. — Qui Centrale Luna. Adesso abbiamo in servizio le comunicazioni facilitate per i voli spaziali. Siamo spiacenti di dovervi comunicare che non c'è più alcun centro spaziale a Houston. La stessa Houston è stata abbandonata quando la nuova base è stata spostata a White Sands, più di due secoli fa. — Una fredda paura polverosa avvolge il cervello di Lorimer, isolandolo. Resterà così a lungo. La donna spiega tutto un'altra volta, offre aiuto, si informa se sono stati feriti. Una graziosa nobile interlocutrice. Dave siede ancora immobile, fissa la Terra. Bud gli passa il microfono. — Parlagli, Dave. — Dave lo osserva, tira un profondo respiro, preme il pulsante del trasmettitore: — Sunbird a Controllo Luna — dice quasi normalmente. (È la «Centrale», pensa Lorimer.) — Vi seguiamo. Non c'è bisogno di soccorsi, non abbiamo problemi. Seguiamo il consiglio di cambiar rotta e procediamo nella correzione... Apprezziamo la vostra offerta del computer. Vi chiediamo di trasmettere la posizione attuale, così potremo procedere alla messa a punto. Cercheremo di comunicare il meno possibile finché non avremo accertato l'autonomia dei nostri accumulatori. Qui Sunbird, passo. E così era cominciato. La mente di Lorimer ritorna alla realtà attuale, di lui che vola sul Gloria, circa un anno o trecento anni dopo. Osservatore osservato. Si sente di nuovo lucido, sano; il terrore sotterraneo non è più affiorato. Ma c'è tanto silenzio. Gli sembra di non aver sentito voci da tanto tempo. Forse è passato tanto tempo. O forse la droga sta lavorando in senso temporale, e sono passati solo un minuto o due. — Stavo ricordando — dice a Connie; vuole sentirla parlare. Lei annuisce. — Devi avere tanto da ricordare. Oh, scusa, non è bello da dirsi. — I suoi occhi esprimono simpatia.
— Non importa. — Adesso è tutto come un sogno, il suo mondo perduto e questo nuovo che si accinge a vedere. — Vi dobbiamo essere sembrati degli strani animali. — Cerchiamo di capire — lei risponde. — È la storia: si apprendono gli eventi, ma non si sa quello che la gente è stata, cosa ha provato. Speriamo che voi ce lo sappiate dire. — La droga, pensa Lorimer, questo è quello che si prova. Ditecelo... cosa posso fare? Potrebbe dire un dinosauro com'era? Un collage gli si forma nella mente, attraversato da lampi casuali; il parcheggio nord della base operativa e il telefono giallo della cucina di Ginny con le piante d'edera malaticce... Donne e piante... Uno scoppio di risa lo distrae, arriva dalla camera che chiamano palestra. Bud e gli altri stanno forse giocando a pallone, là dentro. Davvero un'idea brillante, riflette: esercitare i muscoli con esercizi piacevoli, ecco perché sono tutti così in forma. La palestra è una gloriosa ruota per scoiattoli; pedalando o arrampicandosi sui muri si sciolgono le giunture addormentate. Un vero Woolagong... Bud e Dave di solito si avvicendano nello scalare la rotatoria ginnica, simili a grandi scimmie pallide. Lorimer invece preferisce il facile ritmo femminile, e la bicicletta gli si adatta piacevolmente. Di solito si esercita con Connie, che è di poche parole, e con una delle due Judy, che parla anche troppo. Ma adesso pensa e tacciono tutti. Vagamente a disagio, osserva la grande cabina cilindrica; Dave e Lady Blue davanti a un oblò, Judy Dakar è dietro di loro, silenziosa una volta tanto. Stanno per avvistare la Terra, deve essere quel disco che si ingrandisce da alcune settimane. La barba di Dave si muove, sta ancora pregando. Da qualche tempo lo fa spesso, senza ostentazione, ma in modo così palesemente sincero che Lorimer, ateo convinto, può solo simpatizzare. Le due Judy naturalmente avevano chiesto a Dave cosa bisbigliasse. Quando Dave aveva capito che esse non concepivano la preghiera e non avevano mai visto una Bibbia era caduto in un profondo silenzio. — Così avete perso ogni fede? — aveva detto alla fine. — Noi abbiamo fede! — aveva protestato Judy Paris. — Posso domandarvi in che cosa? — Abbiamo fede in noi stesse — era stata la risposta. — Signorina, se lei fosse mia figlia la sculaccerei — aveva detto Dave, serio. L'argomento non era stato più sollevato. Ma si è ripreso bene dopo quel primo terrificante shock, pensa Lorimer. Un dio personale, un padre modello, un uomo, ha bisogno di questo. Dave trae la sua forza da questo e noi ci affidiamo a lui. I capi forse devono aver fede. Dave è così bravo, imperturbabile, inflessibile nel calcolare pazientemente le alternative,
prendendo le sue decisioni in base a fattori che Lorimer non sarebbe in grado di interpretare. Un cane rognoso... I ricordi lo riassalgono, è di nuovo sul Sunbird, la vista offuscata, ascolta il chiacchiericcio delle donne, la chiara risposta di Dave. Dio quanto chiacchierano! Ma il loro computer seleziona. Lorimer sta soffrendo anche per le astuzie di Dave, la sua riluttanza a trasmettere la loro esatta potenza e la riserva di carburante. Vuole riservarsi un certo margine, e questo costringe Lorimer a fare ulteriori calcoli. Ma i calcoli sono inutili, è subito chiaro che sono in un grosso guaio. La Terra passerà troppo lontano rispetto alla loro orbita e non hanno accelerazione sufficiente per raggiungerla prima che passi oltre. Non possono compiere una manovra senza carburante sufficiente; potrebbero ridurre la velocità in modo che la Terra li attiri nella seconda orbita, ma questo richiederebbe un altro anno e le loro riserve vitali sarebbero da tempo terminate. Nella testa di Lorimer si fa strada una domanda: le riserve sarebbero sufficienti per mantenere un solo uomo ad aspettare? La respinge. La decisione spetta a Dave. C'è un'ultima possibilità. Venere si avvicinerà alla loro traiettoria fra tre mesi e loro potrebbero guadagnare velocità e inserirsi nella sua orbita. Si mettono al lavoro per verificare. Ma nel frattempo la Terra si allontana costantemente, da loro e dal Gloria che è più vicino al sole. Dapprima la isolano dalle interferenze solari, ma poi la perdono di nuovo. Adesso ne conoscono l'equipaggio: l'uomo è Andy Kay, la donna più anziana è Lady Blue Parks, che sono i navigatori. Quindi c'è una Connie Morelos e le due gemelle, Judy Paris e Judy Dakar, che si occupano delle comunicazioni. Anche le principali voci dalla Luna sono donne: Margo e Azella. Gli uomini le sentono parlare con l'Escondita che adesso orbita dall'altra parte del sole. Dave insiste per controllare e registrare tutto quello che arriva, che non è altro se non un'ampia ripetizione dei loro scambi con Luna e Gloria, misti ad una varietà di messaggi strettamente personali. Notizie sulle mucche, pulcini e altri allevamenti di bestiame. Dave, con riluttanza, ha rinunciato all'idea che si tratti di un codice. Bud conta un totale di cinque voci maschili. — Bella roba! — dice. — C'erano già più donne che uomini sulle strade quando siamo partiti. Ciò significa che lo spazio è al sicuro, adesso. Le ragazze hanno preso il nostro posto. Lasciamo che siano loro a farsi il culo. — Ridacchia. — Quando lasceremo questa trappola, le stelle non vedranno più il vecchio Buddy. Nossignore. Una bella spiaggia, un miliardo di bistecche, birra, roba così. Ehi! Saremo leggende viventi. Potremo far pagare il biglietto.
La faccia di Dave assume l'espressione che indica che l'argomento è sgradevole. Più che l'impazienza di Lorimer, Dave scoraggia ogni speculazione su ciò che può aspettarli in questa Terra del futuro. Limita le loro comunicazioni ai problemi strettamente concreti. Quando Lorimer fa cenno alla questione del linguaggio immutato, Dave si limita a dire: — Più tardi. — Lorimer morde il freno. Per lui è inconcepibile essere tre secoli nel futuro, non riesce a capire. Hanno ricavato poco dai racconti delle donne. Ci sono state nove missioni Sunbird riuscite, dopo la loro, e solo un fallimento. La Gloria e la sua sorella fanno parte di un lungo progetto spaziale sui due pianeti interni. — Andiamo sempre in coppia — spiega Judy, — ma quei pianeti non sono adatti; comunque valeva la pena di vederli. — Per l'amor del cielo, Dave, chiedi loro quanti pianeti sono stati esplorati — protesta Lorimer. — Più tardi. — Ma improvvisamente, durante il quinto intervallo-pasto, la Luna offre spontaneamente le spiegazioni. — La Terra sta preparando una storia per voi, Sunbird — dice la voce di Margo. — Sappiamo che non volete sprecare energia comunicando, così abbiamo pensato di trasmettervi i pochi elementi principali. — Ride. — È più difficile di quanto pensavamo. Nessuno qui da noi studia la storia. Lorimer approva tra sé. Si era chiesto cosa avrebbe potuto dire a un uomo del 1690, che avesse voluto sapere cosa successe a Cromwell (era Cromwell poi?), e a chi non aveva mai sentito parlare dell'elettricità, dell'atomo e degli Stati Uniti. — Vediamo, probabilmente la cosa più importante è che non c'è più tanta gente come un tempo. Siamo poco più di due milioni. Non molto dopo la vostra epoca, ci fu un'epidemia mondiale. Non uccideva la gente, ma riduceva la popolazione. Cioè, non c'erano più bambini nella maggior parte del mondo. Sterilità. Il paese chiamato Australia fu colpito per ultimo. — Bud alza un dito. — Neanche il Canada se la passò troppo bene. Così, tutti i sopravvissuti si riunirono nella parte meridionale degli stati americani, dove avrebbero potuto coltivare e dove c'erano il miglior sistema di comunicazioni e le fabbriche. — Nessuno vive nel resto del mondo, ma ci viaggiamo qualche volta. Abbiamo cinque attività fondamentali; era «industrie» la parola? L'alimentare, che consiste in pesca e agricoltura. Le comunicazioni, i trasporti e la ricerca spaziale, cioè noi. Le fabbriche che abbiamo ci bastano. Viviamo più semplicemente di voi, credo. Siamo circondate da cose costruite da
voi, e ve ne siamo grate. Vi interesserà sapere che usiamo i dirigibili proprio come voi, ne abbiamo sei grossi. La nostra quinta occupazione sono i figli, bambini. Vi è d'aiuto? Sto usando un libro per bambini che abbiamo qui. — Gli uomini si sono raggelati durante il racconto. Lorimer tiene in mano una busta di cibo misto fresco. Bud ricomincia a masticare e si ingozza. — Due milioni di persone e la possibilità di andare nello spazio. — Tossicchia. — È incredibile! Dave osserva il ricevitore rimuginando tra sé. — Ci sono un mucchio di cose che ci nascondono. — Gliele chiedo — dice Bud. — Okay. — Stai attento — annuisce Dave. — Grazie per la storia, Luna — dice Bud. — L'abbiamo apprezzata molto. Ma non riusciamo a immaginare come possiate tenere un programma spaziale con solo un paio di milioni di persone. Potete dirci di più su questo? Nella pausa Lorimer cerca di afferrare le immagini vacillanti. Da otto miliardi a due milioni... Europa, Asia, Africa, Sud America, l'America stessa cancellate. Non c'erano più bambini. Sterilità mondiale causata da cosa? La Morte nera, la carestia in Asia, quelle erano state decimazioni. Ma tutto ciò era enormemente peggio. No, è sempre lo stesso; al di là di ogni comprensione. Un mondo deserto, cosparso di rifiuti. — Sunbird? — risponde Margo. — Penso che vogliate sapere qualcosa sullo spazio. Bene. Abbiamo solo quattro vere e proprie astronavi e una in costruzione. Ne conoscete già due. Poi ci sono Indira e Pech, che adesso sono dirette su Marte. Forse il cielo di Marte era così anche ai vostri giorni. Voi avevate una stazione orbitante? E, naturalmente, il vecchio cielo della Luna. Ricordo che durante l'epidemia cercarono di creare delle colonie, di allevare bambini, ma l'epidemia arrivò anche là, lottarono duramente. Vi dobbiamo molto, a voi uomini intendo. È tutto nella storia; quanto avete lavorato, senza un minimo programma vitale, mantenere tutti e salvarli dalla follia... È stato un eroico tentativo. Ah! Sul registro, qui, c'è uno dei vostri nomi: Lorimer. Ci teniamo a mantenere tutto funzionante e cerchiamo di perfezionarlo. Noi tutte amiamo viaggiare. L'uomo è un vagabondo; è uno dei nostri motti. — Sentite anche voi quello che sento io? — fa Bud ammiccando comicamente. Dave continua a fissare il trasmettitore. — Nessun accenno al loro governo. Niente sulle condizioni economiche, stiamo parlando con una tribù di scimmie. — Posso chiederglielo?
— Aspetta un minuto... Ricevuto. Chiedi il nome del loro capo di stato e del capo del programma spaziale. E... no, è tutto. — Presidente? — fa eco Margo alla domanda di Bud. — Intendete dire regine o re? Aspettate. C'è qui Myda. Sta chiedendo informazioni alla Terra su questo. — La donna più anziana che sentono ogni tanto dice: — Si, comprendiamo che avevate strutture molto complesse, chiamate governi. Ma con così poca gente noi non abbiamo problemi del genere. Coloro che esercitano le varie attività si incontrano periodicamente. Le comunicazioni sono buone. Ognuno è costantemente informato su tutto ciò che accade. Ogni settore è tenuto ad aggiornare gli altri. Ci alterniamo, capite? Ci avvicendiamo ogni cinque anni circa. Per esempio Margo era sui dirigibili. Io sono stata in diverse fattorie, in fabbrica e naturalmente nel settore educativo, di cui ci occupiamo tutte. Credo che ci sia una grande differenza con voi. Naturalmente lavoriamo tutte. E le cose sono fondamentalmente molto più stabili, ne deduco. Progrediamo meno freneticamente. Vi soddisfa, come spiegazione? Naturalmente potete sempre chiedere di consultare i registri, dov'è tutto scrupolosamente annotato. Ma non possiamo eleggervi nostri capi, se è questo che intendete. — Ride. Un suono spontaneo e scherzoso. — Questo è uno dei nostri scherzi, devo dire. — Ritorna seria. — È stata una gioia per noi potervi comprendere così bene. Facciamo un grosso sforzo per conservare la lingua. Sarebbe tragico perdere il contatto col passato. Dave prende il microfono: — Grazie, Luna, ci avete dato qualcosa su cui riflettere. Qui Sunbird. Chiudo. — Quanto di tutto questo è vero, Doc? — Bud si strofina la testa ricciuta. — Ci stanno raccontando una delle tue storie di fantascienza. — La vera storia comincerà dopo — risponde Dave. — Ora il nostro compito è arrivare. — Non sembra troppo facile. — E, alla fine dei controlli, sembra anche peggio: nessuna traiettoria per Venere è realizzabile. Lorimer verifica ancora una volta tutti i calcoli: stesso risultato. — Sembra che non ci sia soluzione, Dave — dichiara alla fine. — I parametri sono proprio questi, non possiamo fare altro. — Dave si massaggia pensosamente le nocche, annuisce. — Va bene. Useremo la potenza massima per avvicinarci alla Terra. — Chiedigli di avvertirci se vedono che ci allontaniamo — suggerisce Bud. Sono silenziosi, esaminano la prospettiva di una lenta morte nello spazio dopo diciotto mesi. Lorimer si domanda se è il caso di tirar fuori
l'altra questione: la peggiore. Sa già cosa dirà Dave. E lui stesso cosa deciderà? Cosa avrà il coraggio di fare? — Hello, Sunbird. — La voce del Gloria li scuote. — Secondo i nostri calcoli, se usaste tutto il vostro carburante, potreste invertire la rotta e avvicinarvi abbastanza alla nostra orbita da permetterci di raccogliervi. In questo modo usereste la gravità solare. Noi abbiamo piena capacità di manovra, ma molta meno accelerazione di voi. Avete riserve e qualche tipo di propellente, vero? Voglio dire, potreste percorrere pochi kays? — I tre uomini si guardano l'un l'altro. Lorimer indovina di non essere stato l'unico a pensarci. — È una buona idea, Gloria — risponde Dave. — Ma voglio sentire cosa ne pensa Luna. — Perché? — domanda Judy. — Sono affari nostri, non vorremmo certo danneggiare la nave. Abbiamo dato un altro sguardo a Venere che ci preoccupa. Noi siamo riforniti di acqua e di cibo e anche se l'aria è un po' viziata possiamo resistere. — Ehi, le donne hanno ragione! — commenta Bud. Aspettano. Arriva la voce della Luna. — Abbiamo considerato anche questo, Judy. Non siamo sicure che vi rendiate conto del rischio. Sunbird, scusatemi. Judy, se voi riuscite ad accoglierli, dovrete trascorrere circa un anno sulla nave, con questi tre maschi di una cultura così diversa. Myda sostiene che dovreste ripensare alla storia, e che è un rischio. Non importa quello che sostiene Connie. Sunbird, mi spiace essere così brutale. Passo. — Bud ride di gusto come gli altri. — Uomini delle caverne — chioccia. — Tutte le donne finiscono incinte. — Margo, sono esseri umani — protesta la voce di Judy. — Non è solo Connie, siamo tutte d'accordo. Andy e Lady Blue dicono che sarebbe molto interessante se funziona. Non possiamo lasciarli andare senza provare. — Sentiamo anche noi il problema, naturalmente — replica Luna, — ma ce n'è un altro. Potrebbero essere portatori di malattie. Sunbird, so che siete stati isolati per quattordici mesi, ma Murti, l'addetta al servizio sanitario, dice che la gente dei vostri tempi era immunizzata da organismi che ora non esistono più. Potrebbe accadere che qualcuno dei nostri vi sia letale. Potreste ammalarvi tutti mortalmente, e perdere la nave. — Ci abbiamo già pensato, Margo — replica Judy con impazienza. — Sentite, se voi entraste in contatto con loro si rischierebbe tutti quanti, giusto? Mentre noi siamo nella condizione ideale: durante il tempo che impiegheremo per tornare a casa li conosceremo. E come potremmo ammalarci così in fretta da non poter mettere il Gloria in un'orbita stabile, dove voi potreste recuperarlo più tardi?
Aspettano. — Ehi! Che ci sai dire di questa epidemia? — Bud si accarezza laboriosamente i capelli. — Non vorrei fare carriera nel gay lib. — Preferisci rimanere qua fuori? — chiede Dave. — Pazze! — esclama una voce diversa da Luna. — Sunbird, sono Murti, del servizio sanitario. Penso che i pericoli siano elevatissimi, e mutevoli. Il vostro dottor Lorimer ha qualche suggerimento? — Ricevuto, glielo passo — risponde Dave. — Ma riguardo al primo punto, signora, voglio informarla che al tempo del nostro decollo, l'incidenza delle violenze carnali nella squadra spaziale degli Stati Uniti era zero su zero. Io garantisco la condotta del mio equipaggio, purché voi controlliate il vostro. Ecco il dottor Lorimer. — Ma Lorimer naturalmente non può dir loro niente di utile. Discutono sui pericoli della polio, che è stata fortunatamente sconfitta, e delle varie malattie che sembrano essere ancora in giro: dal canto loro, non dovrebbe esservi pericolo di contagio. — Luna, ci proveremo — dichiara Judy. — Non possiamo rinchiuderci in noi stesse. Ora dateci la traiettoria prima che si allontanino ulteriormente. — Da quel momento in poi non c'è riposo sul Sunbird. Si comincia a studiare, a correggere i calcoli per elaborare una possibile traiettoria di incontro. La capacità di accelerazione del Gloria è veramente scarsa, ma riuscirà a sostenere l'operazione. Il Sunbird dovrà coprire la maggior parte del percorso verso il punto d'incontro, tenuto conto della velocità del Gloria. La tensione si rompe una volta durante il lungo intervallo. Quando Luna chiama Gloria per avvertire Connie di assicurarsi che i membri femminili dell'equipaggio indossino vestiti adeguati per tutto il tempo che gli uomini saranno a bordo. — Non indumenti spessi, sono troppo pesanti. — È la donna più anziana, Myda. Bud ghigna. — Usate i pigiami. E quando gli uomini sono a disagio, il vostro Andy è l'unico che li può aiutare, voi altre state alla larga. Anche per tutte le funzioni corporali, e per dormire, Connie, non dovete comportarvi come di consueto. È molto importante. Esistevano innumerevoli complicati tabù. Sto preparando una lista d'istruzioni da trasmettervi. È in funzione il vostro ricevitore? — Sì. L'abbiamo usato per le notizie sulla teoria francese del buco nero. — Bene. Di' a Judy di tenersi pronta. Adesso ascolta, Connie, ascolta con attenzione. Di' ad Andy che deve leggerla tutta. Ripeto, deve leggere tutto. Ogni parola. Hai capito? — Bene — risponde Connie. — Capisco, Myda. Lo farà. — Siamo fuori dal gioco, ragazzi — si lamenta Bud. — La vecchia mamma Myda ci ha fregati. — Persino Dave ride, ma poi quando il fischio
modulato del nastro scorre nel ricevitore si acciglia nuovamente. — Devono trasmettere cose interessanti. Gli ultimi dettagli sono messi a punto. Il programma revisionato fila e Luna lo conferma. — Ci hanno reso la pariglia — riferisce Lorimer. — È dura, ma abbiamo almeno due possibilità, purché i propulsori principali siano pienamente funzionanti. — Controlleremo. — È estenuante. Trovano una deformazione nel deflettore situato sul portello dei motori e passano quattro ore stressanti tentando di ripararlo. È solo la terza escursione di Lorimer nello spazio aperto, ma è subito troppo stanco per curarsene. — Possiamo fare meglio — ansima Dave alla fine. — Dovremo controllare le reazioni emotive. — Certo, Dave — dice Bud. — Ehi, io cambio questi pannelli radio, non scordatevi di me. Controllare le reazioni... Lorimer ritorna in sé, avvolto dalla grande e rumorosa cabina del Gloria, guardando il profondo viso di Connie. Devono essere trascorse delle ore. Per quanto tempo ho sognato? — Circa due minuti — sorride Connie. — Stavo ricordando la prima volta che vi ho visto. — Oh, sì, ma non lo scorderemo mai. — Neanche lui... gli si affaccia di nuovo alla mente. Le interminabili ore dopo la prima accelerazione del Sunbird, con tutti loro che ingoiano pillole contro la nausea. Judy, che controlla la manovra d'avvicinamento, esclama senza fiato: — Oh, benissimo. Quattrocentomila... oh, magnifico, Sunbird, siete a circa tre, siete quasi sicuramente a cento... — Dave ce l'ha fatta, il grand'uomo. Le cognizioni di Lorimer non servono a niente durante l'accelerazione, non fino a quando saranno abbastanza stabili per l'accensione finale e vedranno lo strano blip sul radar apparire e scomparire lungo la scia, fortunatamente convergente, con il punto di intersezione stabilito. — Sta andando bene. — L'accensione finale trasforma l'impatto in una nauseante caduta. Il campo di stelle che sfila attraverso l'oblò. Le pillole non sono più sufficienti. Il carburante che alimenta i propulsori è agli sgoccioli. Vomitano tutti prima di riuscire a pompare a mano l'ultima dose di carburante per rallentare la caduta. — Ci siamo, Gloria. Venite a prenderci. Accendi, Bud, indossate le tute. Combattendo la nausea, inizia la laboriosa routine nella cabina sporca. Improvvisamente risuona la voce di Judy. — Vi vediamo, Sunbird! Vediamo la vostra luce. Voi riuscite a vederci? — Non ancora — risponde Dave. Ma Bud, mezzo vestito, indica l'oblò.
— Gente, guardate là. — Lorimer guarda fisso. Gli sembra di vedere una debole luce tra il luccichio delle stelle, poi è costretto a vomitare. — Padre ti ringraziamo! — mormora Dave quietamente. — Bene, muoviamoci Doc, facciamo fagotto. — Lo sforzo di lanciare se stessi, l'unità di propulsione e un paio di reti cariche fuori della navicella rollante, leva di mente ogni altro pensiero. Mentre volano uniti, stabilizzati dal propulsore manuale di Dave, Lorimer si guarda intorno. Il sole spunta alla loro sinistra. Pochi metri sotto di loro il Sunbird, ormai deserto, precipita. Sembra assurdamente piccolo. Sopra, infinitamente lontano, c'è un punto troppo confuso e giallo per essere una stella. Avanza lentamente. È il Gloria sulla loro tangente di avvicinamento. — Potete avviarvi, Sunbird? — dice Judy nei loro caschi. — Non vogliamo rallentare ancora a causa del nostro scarico. Facciamo cinquanta kays all'ora. Stiamo mettendoci in linea. — Ricevuto. Dammi il tuo propulsore, Doc. — Addio, Sunbird — dice Bud. Lorimer trova rassicurante, in maniera infantile, l'essere rimorchiato attraverso gli abissi, legato ai due grossi uomini. Ha una cieca fiducia in Dave. Non prende nemmeno in considerazione l'idea che loro potrebbero sbagliare nel volare e smarrirsi. Prova disprezzo Dave?, si chiede Lorimer. Quello spesso silenzio è in parte disprezzo per coloro che sono capaci di manipolare solo simboli, e non hanno dimestichezza con l'azione? Si concentra, cercando di controllare il suo stomaco. È un lungo, scuro viaggio. Il Sunbird si riduce a una luce scintillante. Accelera lentamente la corsa a spirale che lo farà finire nel Sole, con i loro preziosi ricordi, vecchi di trecento anni. Compreso il pacchetto di lettere e foto che Lorimer ha messo per due volte e per due volte ha tolto dalla tasca della giubba. Di tanto in tanto lancia uno sguardo al Gloria che aumenta fino a trasformarsi, da una macchia, in un groviglio di luci crescenti. — Ehi, è grossa! Nessuna meraviglia che non possano accelerare. Quell'affare è una gigantesca roulette volante. Io non ce la farei a guidarla. — È una nave spaziale. Hai preso le reti a tenuta, Doc? — La voce di Judy riempie improvvisamente i loro caschi. — Vedo le vostre luci! Riuscite a vedermi? Siete in grado di frenare? — Affermativo per entrambe, Gloria — risponde Dave. Lorimer si è girato lentamente indietro e vede, la vedrà sempre, la nave aliena nel cielo. Sul suo lato buio le piccole luci che sono donne fra le stelle che li aspettano. Tre... no, quattro. Una, vestita di luce, sta uscendo, si muove. Se ha un cavo deve essere lungo un chilometro.
— Salve, sono Judy Dakar. — La voce è vicina: — Mamma, siete grossi! State bene? Come va con l'aria? — Tutto a posto. — In realtà la loro aria è viziata e umida, troppa adrenalina. Dave ricorre di nuovo ai propulsori. La figura di lei si ingrandisce, diventa chiara. Una freccia d'argento su un cavo trainante. Il suo vestito è ordinato e flessibile. È uno specchio di luce. Il suo carico è molto piccolo. Meraviglie del futuro, pensa Lorimer, capitolo primo. — Ce l'avete fatta! Ce l'avete fatta! Ecco, agganciatevi. Frenate! — Ci deve essere qualcosa di storico da dire — mormora Bud, — se ce ne danno la possibilità. — Salve, Judy — esclamaDave. — Grazie, per cominciare. — Contatto! — esplode lei nei loro timpani. — Tiraci dentro, Andy. Frena, frena! Lo scarico è indietro. — Ed erano stati afferrati saldamente. Deviati entro un grande arco verso la nave. Dave spegne l'ultimo jet. La fune si annoda. — Non strattonatela — grida Judy. — Oh, scusate. — È aggrappata su di loro come una scimmia. Lorimer può vedere i suoi occhi, la sua bocca entusiasta. Incredibile. — State attenti, è allentata. — Dammi istruzioni, dolcezza — baritoneggia Andy. Lorimer si torce e lo vede indietro, alla fine del pesante cavo, e li traina agevolmente dentro. Bud si offre di aiutare ma viene respinto. — È sufficiente che nuotiate, per favore — dice loro una voce anziana. È ovvio che Andy lo ha già fatto. Entrano sfilando lentamente come pesci spaziali. Lorimer si accorge che non può più scovare lo scintillio che era il Sunbird. Quando si gira il Gloria è diventato un disordinato gruppo di sfere e raggi attorno ad un grosso cilindro centrale. Può vedere delle capsule e un equipaggiamento eterogeneo allineati tutt'intorno: non è proprio come nella fantascienza. Andy sta riavvolgendo il cavo volante. Un'altra figura fluttua vicino a lui. Sono entrambi piccoli. Lorimer nota che sono simili: — Prendete il cavo — dice loro Andy. C'è un affannoso momento di resistenza all'inerzia. — Benvenuti sul Gloria! Maggiore Davis, capitano Geirr, dottor Lorimer. Sono Lady Blue Parks. Penso che desidererete entrare il più presto possibile. Se ve la sentite di salire andate avanti a destra. Al resto penseremo più tardi. — Gliene siamo grati, signora. — Salgono l'uno dopo l'altro sulla scala di corda principale. È un efficace, rude appiglio. Judy si avvicina per guardarli, sorridendo mentre trascina il rotolo. Una figura più alta aspetta accanto alla camera stagna, aperta, della nave. — Salve, sono Connie. Penso che adesso potrete riposarvi. Vuole seguirmi, maggiore Davis? — È come
l'emergenza su un aereo, pensa Lorimer, mentre Dave la segue dentro. Essere sbattuti da destra a sinistra, da delle piccole donne straordinariamente gentili. — Hostess dello spazio. — Bud gli dà di gomito: — Che te ne pare? — La sua faccia sta cominciando a imperlarsi di sudore. Bud entra con Andy. La donna di nome Lady Blue aspetta accanto a lui, mentre Judy si arrampica sulla copertura che assicura il loro carico. Non sembra che abbia suole magnetiche. Forse, adesso, i metalli ferrosi non sono più usati nello spazio. Quando comincia a trainare il cavo principale con un semplice argano a mano, Lady Blue la osserva criticamente: — Una volta anch'io facevo queste cose — dice a Lorimer. Quello che lui può scorgere dei suoi lineamenti appare contratto. I suoi occhi scuri scintillano. Ha l'impressione che sia una mulatta. — Devo uscire a pulire l'antenna di poppa. — Judy fluttua. — Più tardi — le risponde Lady Blue. Sorridono entrambe a Lorimer. Poi il portello si apre, lui e Lady Blue entrano. Quando la valvola a cerniera emette un crescente sibilo d'aria, la tuta di Lorimer si affloscia. — Posso essere d'aiuto? — Lei ha aperto il suo casco. La voce è ricca e viva. Affannosamente Lorimer afferra le chiusure con i suoi goffi guanti e lascia che lei gli tolga il casco. Il primo respiro lo sorprende. Gli occorrono alcuni istanti per capire che è aria fresca. Il portello interno si apre lasciando entrare una luce verdastra. Lei gli fa cenno di passare. Lui ondeggia lungo un corto tunnel. Delle voci arrivano dietro l'angolo. Trova un appiglio con la mano e si ferma. Sente il cuore battergli in petto. Quando avrà girato quell'angolo il suo mondo sarà morto. Finito, rotolato, spazzato via come il Sunbird. E lui si troverà irrimediabilmente nel futuro. Un uomo del passato, un naufrago del tempo. Nel futuro... Si riprende. Il futuro è un largo cilindro luminoso, adorno di oggetti sconosciuti e rami verdi. Gli si stampa davanti una scena singolare. Bud e Dave, senza caschi, sembrano enormi nelle loro voluminose tute bianche. A pochi metri di distanza sostano due figure a testa scoperta, coi vestiti abbaglianti, e una ragazza dalla capigliatura scura con un fluttuante pigiama rosa. Tutte loro si limitano a squadrare i due uomini. Le bocche e gli occhi spalancati in identiche espressioni di piacevole meraviglia. Il viso che deve essere di Andy sorride a bocca aperta come un bambino allo zoo. È un ragazzo sorprendentemente giovane, nota Lorimer, a dispetto della sua voce profonda: biondo, imberbe, la muscolatura compatta. Lorimer si accorge che può sopportare a malapena la vista della donna in rosa. Non sa dire se è straordinariamente bella o insignificante. La donna più alta ha un viso splendente e ordinario. Sopra la sua testa scoppia un suono stranissimo che lui fi-
nalmente identifica come un chiocciare di polli. Lady Blue lo spinge avanti. — Eccoci. Andy, Connie? Smettetela di osservarli e aiutateli a togliersi le tute. Judy, Luna è ansiosa quanto noi di sapere come va. — La scena si anima. Dopodiché Lorimer ricorda soprattutto occhi. Occhi luccicanti che seguono le sue orme. Occhi sorridenti ovunque, sopra il suo bagaglio. E sempre quel luccichio pronto a trasformarsi in risata. Andy resta solo per aiutarli a spogliarsi, lanciando occhiate al loro equipaggiamento che lui trova ancora imbarazzante. Sembra comodo e agile nella sua tuta semiaperta. Lorimer esce a fatica dall'imbracatura. Un ragazzo, pensa. Un ragazzo e quattro donne in orbita intorno al Sole, che conducono le loro grandi, goffe navi su Marte. Dovrebbe sentirsi umiliato? Si sente solo grato mentre accetta una corta tunica e una «sfera» di tè che qualcuno (Connie?) gli porge. Judy, con la tuta, entra coi loro bagagli. Gli uomini seguono Andy attraverso un altro passaggio. Bud e Dave sono infilati in stretti vestiti. Andy si ferma davanti a un portello: — Questa serra è per voi. Va bene anche come toilette. Tre sono tanta gente, ma è spaziosa e piena di sole. — Dentro è una giungla splendente. Fogliame ovunque, zampilli d'acqua scintillanti. Foglie fruscianti. Qualcosa passa ronzando: una cavalletta. — Girate questa manopola. — Andy indica il fondo di un largo condotto incrociato. — Il pistone tritura il terriccio e i rifiuti e li trasforma in concime, tramite un complesso procedimento. Finisce negli strati inferiori del suolo. Questo è un misuratore di nitrogeno pesante e un grande ossidatore. Noi immettiamo CO2 e ne ricaviamo ossigeno. È un vero Woolagong. — Osserva con aria interrogativa mentre Bud sente messa a dura prova la sua capacità di comprensione. — Cos'è un Woolagong? — chiede Lorimer sbalordito. — È il nome delle nostre inventrici. Alcune invenzioni sono bizzarre. Quando dobbiamo parlare di una cosa che colpisce, la chiamiamo Woolagong. — Sorride: — I polli mangiano i semi e gli insetti. Gli insetti e gli iguana si nutrono di foglie. Quando le piante diventano mature facciamo il raccolto. Con tutta questa luce penso che potremmo allevare una capra; voi non avete nessuna forma di vita sulla vostra nave, vero? — No — risponde Lorimer. — Neanche un iguana. — Ci avevano promesso un pony Shetland per Natale — esclama Bud smuovendo la ghiaia. Andy perplesso si unisce alle loro risate. La mente di Lorimer è offuscata. Non è solo fatica. L'anno trascorso sul Sunbird ha atrofizzato le sue capacità di accettare le novità. Intorpidito adopera il Woo-
lagong. Tornano indietro nella grande sala di controllo del Gloria. Qui Dave ha un breve e chiaro contatto con Luna da cui riceve un'amichevole risposta. — Dobbiamo completare il cambiamento di rotta — dice Lady Blue. L'impressione di Lorimer si rivela esatta. È una meticcia di mezza età. Anche Connie ha qualcosa di esotico, osserva. Gli altri sono di tipo europeo. — Vi porterò qualcosa da mangiare. — Connie sorride con calore. — Quindi vorrete probabilmente riposare. Abbiamo fatto in modo di liberarvi tre cuccette. — Hanno tutte lo stesso accento. Quando lei lascia la sala di controllo, Lorimer vede gli occhi di Dave persi nel vuoto e capisce che si sta rendendo conto della realtà. È un passeggero su una nave aliena: senza più il comando, senza la possibilità di decidere la rotta né le comunicazioni in arrivo e in partenza. Questa è l'ultima, coerente osservazione che Lorimer fa, mentre gusta il sapore del buon cibo sconosciuto. Poi ha la sensazione di venire condotto oltre quella che ora conosce come la palestra, attraverso lo sfiatatoio, al cilindro per il riposo. Ci sono sei portelli iridati, simili a porte. Valica la porta a lui assegnata e si trova davanti un ampio materasso. Sul muro, delle mensole; c'è poi uno scrittoio. — Per le vostre funzioni corporali. — Il braccio di Connie sporge attraverso la porta iridata indicando dei sacchetti. — Se avete dei problemi tirate fuori la testa e chiamate. C'è dell'acqua. Lorimer si lascia semplicemente cadere sul materasso. Troppo stanco per rispondere. Con stupore si accorge che la sua caduta termina in una imprevista pesante stabilizzazione. Il cilindro sta soavemente, silenziosamente cominciando a girare su se stesso. Egli affonda con gratitudine nell'imbottitura, con un sollievo che aumenta col passare dei minuti. E cade nel più tranquillo sonno che abbia conosciuto in quel lungo, faticoso anno. Solo il giorno dopo comprende che Connie e altre due di loro sono state sulla raggiera, in palestra, facendola ruotare, ora dopo ora, senza pausa né sforzo, chiacchierando del loro arrivo. Quanto parlano, pensa di nuovo mentre ritorna alla realtà. Gli irritanti cicalecci si riversano nella sua memoria. Le voci di Ginny, Jenny e Penny al telefono di cucina, la voce di sua madre, sua sorella Amy «l'Interminabile». Su cosa avranno sempre da parlare, parlare, parlare? — Perché? Su ogni cosa — dice la voce concreta di Connie, accanto a lui. — È naturale confrontarsi. — Naturale... Come formiche, pensa. Intrecciano le loro antenne ogni volta che si incontrano. Dove sei stata, cosa hai fatto? Incrociano, incrociano... Come ti senti? Oh, sento questo, sento quest'altro... Totale coordinazione dell'alveare. Le donne non hanno il ri-
spetto di sé. Nessun segno di strategia del discorso. L'oscuro pericolo della parola. Non sanno controllarsi. — Formiche, alveari. — Connie ride, mostrando il dente scheggiato. — Ci vedete veramente come insetti? Perché siamo donne? — Parlavo ad alta voce? Mi dispiace. — Chiude gli occhi per scacciare le immagini. — Oh, ti prego, non scusarti. È così triste sentire di tua sorella, i tuoi figli e tua... tua moglie. Dovevano essere persone meravigliose. Penso che voi siate molto coraggiosi. — Ma lui ha pensato a Ginny, e a tutte loro, solo per un istante. Cosa ha blaterato? Che effetto gli sta facendo la droga? — Cosa ci avete fatto? — È veramente allarmato, adesso; quasi arrabbiato. — Va tutto bene. Davvero! — La sua mano lo sfiora, calda, quasi timida. — Tutte noi la usiamo quando abbiamo bisogno di esplorarci. Di solito è piacevole. È un composto levonoramico, un disinibitore. Non offusca come l'alcool. Saremo a casa così presto, capite? Abbiamo il dovere di conoscervi, e voi siete così chiusi! — I suoi occhi lo inteneriscono. — Non ti senti male, vero? Abbiamo l'antidoto... — No... — L'allarme si è dissolto nel nulla. La spiegazione di lei gli è sembrata abbastanza ragionevole. — Noi non siamo chiusi — dice, o forse tenta di dire. — Parliamo... — Brancola alla ricerca della parola appropriata. Obiettività, forse? — Parliamo quando abbiamo qualcosa da dire. — Incoerentemente pensa ad un coordinatore della missione, di nome Forrest, famoso per i suoi scherzi idioti. — D'altra parte crollerebbe tutto — le dice. — Sareste finite fuori dal Sistema. — Non è affatto quello che voleva dire. Lasciamo stare. Le voci di Bud e Dave risuonano improvvisamente dalla parte opposta della cabina, risvegliando nella sua mente il presagio del male. Esse non li conoscono, pensa, ma si sente troppo sereno per pensare alla sua nuova percezione, al quadro globale che è già in grado d'intravvedere. __Mi sento lucido — afferma. — Voglio pensare. — Lei sembra compiaciuta. — Noi lo chiamiamo l'«effetto atarassia». È così bello provare questa sensazione. Atarassia. Calma filosofica. Sì. Ma ci sono dei mostri nel profondo, lui pensa. O dice. Il lato buio. Il lato buio di Orren Lorimer: un individuo ardente, oscuro e complesso, tenuto al guinzaglio. Esse sono così vulnerabili! Ignorano che potremmo prenderle, e... Le immagini scorrono in fretta: una Judy legata alla ruota ginnica, senza il pigiama, aperta a lui. Sequenze di loro tre che si impadroniscono della nave. Le donne legate, indifese, urlanti, violentate, usate. La squadra, lasciata la stazione satellite, effettua un
atterraggio improvviso sulla Terra. Gli ostaggi. Far fare loro ogni cosa, senza incontrare nessuna resistenza... Ha detto effettivamente questo, Bud? Ma Bud non sa, egli ricorda. Dave aveva detto che loro nascondevano qualcosa. Ma evidentemente pensava al socialismo, o al peccato. Quando l'avrebbero scoperto... Come aveva fatto lui stesso a scoprirlo? Semplicemente ascoltando con attenzione, tutti quei mesi. Ascoltandole parlare molto più degli altri. «Fraternizzazione», la chiama Dave. Tutti, naturalmente, avevano ascoltato. Ascoltato, osservato, e reagito blandamente ai corpi delle donne. Le tenere protuberanze così vicine sotto gli abiti sottili, tentatori. Le bocche e gli occhi magnetici. Il loro profumo, il loro tocco elettrizzante. Guardarle toccarsi l'una con l'altra, toccare Andy, sorridersi. Sparire tranquillamente, nelle cuccette che li dividevano. Che accade? Si tratta delle mie necessità. Le mie necessità. Il loro potere. Il loro rancore... Bud si era lamentato e borbottava sensibilmente, nonostante gli avvertimenti di Dave. Aveva preso a punzecchiare Andy fin quando Dave non aveva proibito ogni domanda. Lo stesso Dave era notevolmente teso. Passava gran parte del tempo a leggere la sua Bibbia. Anche Lorimer non aveva tardato a scoprire il suo corpo, proteso verso di esse come un segugio famelico. Aveva pregato Cristo che le cabine fossero come sembravano: sempre accessibili. Avevano potuto solo capire che le istruzioni di Myda dovevano essere state feroci. L'atmosfera era implacabilmente asettica. La riservatezza impenetrabile. Andy eludeva gentilmente ogni sondaggio. Nessun commento o azione su quanto accadeva, se accadeva. Lorimer si sentiva irresistibilmente portato a rievocare il weed-end trascorso al campo scout di Jenny. Poi l'educazione maschile era venuta in loro aiuto, ed essi si erano rassegnati a finire la missione su un super-Sunbird, in compagnia di un gruppo di ragazzi e ragazze scout. Comunque, la loro ospitalità non avrebbe potuto essere più cortese. Gli hanno comunicato la rotta della nave, ed essi hanno un soggiorno tutto per loro in un magazzino sgomberato. Hanno libero accesso alla sala di controllo. Lady Blue e Andy forniscono loro spiegazioni e manuali. Gli mostrano ogni circuito e dispositivo del Gloria, dentro e fuori. Luna ha trasmesso un fiume di dati scientifici e di notizie sui satelliti artificiali di quest'epoca e le colonie di Luna e Marte. Dave e Bud s'immergono in un'orgia di ingegneria. L'energia del Gloria deriva, come sospettavano, da fissione nucleare per la quale viene utilizza-
ta una serie di minerali lunari. Il sistema di guida ionico è solo poco più avanzato dei modelli sperimentali dei loro tempi. Le meraviglie del futuro sembrano consistere, alla fin fine, in ingegnose modifiche. — È primitivo — gli dice Bud. — Quello che hanno fatto è stato sacrificare ogni cosa nel tentativo di renderla semplice e di più facile manutenzione. Credimi, possono controllare a mano persino il carburante. E questo è niente, fratello! Queste donne hanno troppa abbondanza. — Ma l'interesse tecnico di Lorimer si esaurisce presto. Ciò che vuole è solo dare un'occhiata. Fa qualche tentativo di esaminare gli apparentemente esigui sviluppi nel suo campo, ma non riesce a concentrarsi. Che diavolo, pensa, ho smesso di essere un fisico trecento anni fa. Che sollievo essere fuori dalla cella del Sunbird! Ha smesso di vagare come un lupo in gabbia, usando l'eccellente telescopio da 400 mm. Niente più stramba vita con l'equipaggio. Quando scopre che Lady Blue ama gli scacchi organizzano una serie di partite, due volte la settimana. La sua personalità lo affascina, lei è riservata ed ha un'aura di comando: ma ferma prontamente Bud quando la chiama «capitano». — Nessuno comanda qui, nel senso che voi intendete. Io sono solo la più anziana. — E Bud ritorna subito al «signora». Le piace fare un solido gioco di posizione. Talvolta più bizzarro di quello di un uomo, ma con occasionali, eleganti tranelli. Lorimer è stupito che abbiano escogitato solo una nuova apertura. Un interessante «gambitto» chiamato «Dagmar». Solo una nuova apertura in tre secoli? Ne parla agli altri quando rientrano, dopo aver aiutato Andy e Judy Paris nella revisione di un convertitore di riserva. — Non hanno progredito molto in nessun campo — commenta Dave. — La maggior parte delle vostre nuove conoscenze risale al tempo dell'epidemia, Andy, se me lo permetti. La ricerca sembra stagnare. Avete impiegato ben otto anni per tirar su questo progetto Titan. — Ce la faremo — sorride Andy. — Muoviti, Dave — lo esorta Bud. — Io e Judy abbiamo raccolto la vostra sfida per dopo cena. Abbiamo già costituito una squadra di bridge. Evviva! Posso finalmente assaggiare 'sto pollo. Lasciamo perdere le iguana. — Il cibo è ottimo. Lorimer si trova spesso a indugiare in cucina, aiutando chiunque stia cucinando. Sgranocchia i loro semi assortiti e mastica le radici di cui sente parlare. Gli piacciono persino le iguana. Comincia ad ingrassare come tutti loro. Dave ordina doppi esercizi nella palestra ruotante. — Ci vuoi far arrampicare fino a casa, Dave? — si lamenta Bud. Ma Lorimer si diverte; pedala o oscilla agilmente lungo la raggiera mentre le
donne parlano o ascoltano nastri. Musica familiare. Riconosce un suono eterogeneo: da Mandel, Brahams, Sibelius, attraverso Strauss fino ai ballabili e all'indiavolato jazz-rock psichedelico. Il programma non comprende lirica, ma è ricco di brani selezionati su misura per loro. Dal riassunto storico che era stato loro promesso, egli ricava molte informazioni sull'epidemia. Sembra sia stato una specie di virus nato nell'aria a causa di una fuga dai laboratori militari franco-arabi e forse nutrito dall'inquinamento atmosferico. — Apparentemente, ha danneggiato solo le cellule riproduttive — spiega poi a Dave e Bud. — C'era un bassissimo tasso di mortalità, ma una sterilità pressoché universale. Probabilmente una sostituzione molecolare nel codice genetico dei gameti. L'effetto principale sembra essersi manifestato negli uomini. A quanto pare c'è stata una diminuzione delle nascite maschili, la quale suggerisce che il danno riguardasse il cromosoma Y, che veniva colpito in maniera letale nel feto maschile. — È ancora pericoloso, Doc? — si informa Dave. — Che ci succederà quando torneremo a casa? — Non lo sanno. La natalità si aggira, ora, sul due per cento, si è normalizzata ed è in aumento. La popolazione attuale deve esser immunizzata naturalmente. Non sono mai riusciti ad ottenere un vaccino. — C'è solo un modo per saperlo — dice Bud. — Mi offro volontario. — Dave si limita a lanciargli un'occhiata. È straordinario come ancora si imponga, pensa Lorimer. Nessun cedimento, perdio! Sono un bel gruppo. La storia parlava anche delle rivolte e delle lotte che avevano sconvolto il mondo quando l'umanità si era scoperta sterile. Città bombardate, e saccheggiate, massacri, panico, violenze sessuali di massa e stupri, furti d'armi da parte di uomini disperati, sorgere di culti insensati. La follia. Si fa presto a parlarne, tanto è tutto cosi lontano... Liste di nomi che hanno solo un valore commemorativo... — Dobbiamo sempre essere grati alle coraggiose persone che tennero in piedi i Laboratori Medici di Denver... — E poi, il dramma di ricostituire le scorte di elio peri dirigibili. In tre secoli tutto diventa polvere, lui pensa. Cosa ne so io della spaventosa guerra dei trent'anni, avvenuta tre secoli prima della mia era? — L'Europa devastata da combattimenti per due generazioni. — Nemmeno un nome. E la struttura politica ed economica di questa nuova società è persino più semplice. Sembrano essere, come aveva detto Myda, completamente prive di governo. — È un sistema di libero credito sociale basato sul consenso — Lorimer
spiega a Dave. — Come essere in un permanente periodo di frontiera. Stanno progredendo lentamente. Naturalmente non hanno bisogno dell'esercito e dell'aviazione. Non sono sicuro che usino ancora denaro liquido e che riconoscano la proprietà privata della terra. Ho notato notevoli somiglianze col primitivo comunismo cinese. — Vedendo la bocca di Dave serrarsi, aggiunge: — Ma non sono vincolati a una comunità. Viaggiano. Quando ho interrogato Lady Blue sulla loro polizia e sulla loro legislazione mi ha riposto di aspettare quando vedrò dei veri storici. Quel che chiamano «Registro» non è un organo di polizia. — Abbiamo a che fare con una strana situazione, Lorimer — afferma con calma Dave. — Stanne lontano. Non ci dicono la verità. — Avete notato che non parlano mai dei loro mariti? — ride Bud. — Ho chiesto a un paio di loro che cosa facevano i loro mariti e vi giuro che hanno dovuto pensarci. E tutte hanno bambini. Date retta a me, deve essere un casino laggiù, anche se il vecchio Andy finge di non saperne niente. — Voglio che nessuno ficchi il naso nei loro affari privati mentre siamo su questa nave, Geirr. Assolutamente nessuno. Questo è un ordine! — Forse non hanno famiglie. Le avete mai sentite parlare di qualcuna che sta per sposarsi? Eppure questa deve essere una cosa importante, nella mente di una donna. Ricordatevi quel che dico: c'è stato qualche grosso cambiamento. — I costumi sociali sono soggetti a cambiamenti, in qualche misura — ribatte Lorimer. — Ovviamente qui c'è un numero maggiore di donne che lavora fuori casa come prima attività, ma hanno legami familiari. Ad esempio Lady Blue ha una sorella in una fabbrica di alluminio e un'altra nell'assistenza sanitaria. La madre di Andy è su Marte mentre la sorella lavora al «Registro». Connie ha un fratello, o dei fratelli, nella flotta che serve alla pesca, vicino a Biloxi, e sua sorella si sta preparando a sostituirla per il prossimo viaggio; adesso lavora in una fabbrica di lievito. — Questa è solo la punta dell'iceberg. — Ho il dubbio che il resto dell'iceberg sia piuttosto sinistro, Dave. — A questo punto la loro vaghezza comincia ad irritare anche Lorimer. Troppe cose non collimano. Matrimonio, sentimenti, preoccupazioni per i bambini, battibecchi di gelosia, condizioni sociali, proprietà, problemi finanziari, malattie, funerali. Tutte le minuzie quotidiane che occupavano Ginny e le sue amiche sembrano essere state cancellate dai discorsi di queste donne. Cancellate... Avrà ragione Dave, viene tenuto loro nascosto qualcosa di grosso? — Sono sorpreso che il vostro linguaggio sia rimasto pressoché
immutato — dice un giorno a Connie, durante il loro esercizio sulla ruota. — Oh! Siamo state molto attente a tutto questo. — Lei si arrampica ad angolo accanto a lui, senza usare le mani. — Sarebbe stata una perdita terribile se non avessimo potuto interpretare i libri. Tutti i bambini apprendono dallo stesso nastro originale. Ci sono parole bizzarre che usiamo attualmente, ma i nostri comunicatori devono memorizzare i vecchi testi che ci tengono uniti. — Judy Paris motteggia dal pediciclo: — Voi, miei cari ragazzi, non capirete mai l'oppressione che abbiamo subito — declama sbeffeggiando. — Le Judy parlano troppo — osserva Connie. — Sì, è vero. — Ridono entrambe. — Leggete ancora i cosiddetti libri famosi, la nostra narrativa e poesia? — si informa Lorimer. — Cosa leggete? H.G. Wells? Shakespeare, Dickens, Balzac, Kipling, Brian? — Lui brancola nel buio; Brian è stato un bestseller che piaceva a Ginny. Quando è stata l'ultima volta che ha letto Shakespeare, e gli altri? — Ah, vuoi dire i film storici! — esclama Judy. — Interessanti, sì. Cupi. Non sono molto realistici, ma sono sicura che lo erano per voi — aggiunge generosamente. E si rimettono a discutere tra donne se la collocazione delle galline non le esponga troppo alla luce, lasciando Lorimer a interrogarsi su come quelle che lui suppone siano le verità eterne della natura umana possano essere scomparse dalla realtà del mondo. Amore, conflitti, eroismo, tragedia; tutti «irreali»? Bene, gli equipaggi spaziali non sono mai composti da grandi lettori, però, di solito, le donne leggono di più... qualcosa deve essere cambiato, lo sente. Qualcosa di così fondamentale da intaccare la natura umana. Forse uno sviluppo fisico, una mutazione? Che cosa c'è realmente sotto quegli indumenti fluttuanti? Sono le due Judy a creargli più interrogativi. Si esercita solo con loro due, ascoltandole chiacchierare su una certa figura leggendaria, di nome Dagmar. — La Dagmar che ha inventato l'apertura degli scacchi? — chiede. — Sì. Lei fa di tutto. Quando va bene è grande! — Perché, qualche volta va male? — Una delle Judy ride: si può parlare di un problema Dagmar. Lei ha la tendenza ad organizzare tutto. È bello quando va bene; ma spesso va troppo in fretta. Pensa di essere una regina, o qualcosa di simile; e allora occorrono le reti per frenare le farfalle nella sua testa. Tutto al presente: ma Lady Blue gli ha detto che il gambitto Dagmar ha più di un secolo. «Longevità», pensa: perdio, questo è quello che nascondono! L'aver raggiunto una durata di vita doppia o tripla cambierebbe
certamente la psicologia umana, trasformerebbe ogni prospettiva. Hanno conquistato una maturità eccezionale, forse? Stavano lavorando attorno al ringiovanimento delle cellule endocrine quando sono partito. Quanti anni hanno queste ragazze, per esempio? Sta per formulare una domanda, quando Judy Dakar dice: — Ero all'asilo quando lei sbagliò, ma è brava. Più tardi l'ho amata. — Lorimer, a causa della pronuncia di lei, ha delle difficoltà a capire che si tratta di un asilo comune. — È sempre la stessa Dagmar? — chiede. — Deve essere molto vecchia. — Oh, no, è sua sorella! — Una sorella con cento anni di differenza? — Volevo dire sua figlia... Sua nipote. — Comincia a pedalare più velocemente. — Judy! — grida la sua gemella, dietro di loro. Sorella, di nuovo. Ciascuno sembra avere uno straordinario numero di sorelle, riflette Lorimer. Sente Judy Paris rivolgersi alla gemella: — Penso di ricordare Dagmar all'asilo. Faceva uniformi per tutti, colori e numeri. — Non dovresti ricordarla, non eri ancora nata — replica Judy Dakar. C'è un silenzio nella ruota. Lorimer si gira verso i raggi per guardarle. Due visi vivaci, arrossati, che si lanciano caldi sguardi d'intesa. Fanno lo stesso movimento nel gettare indietro la testa per liberare gli occhi dai capelli neri. Identiche... Ma la Dakar sulla bicicletta non ha forse un tratto di maturità in più, il viso più attempato? — Avevo pensato che voi foste gemelle. — Oh! Le Judy parlano troppo — dicono insieme, e ridono con aria colpevole. — Voi non siete sorelle — afferma Lorimer, — voi siete ciò che noi chiamiamo «cloni». — Un altro silenzio. — Ebbene, sì — ammette Judy Dakar. — Ma ci chiamiamo sorelle. Oh, mamma! Non ritenevamo opportuno dirvelo. Myda ha detto che sareste stati terribilmente turbati. Era illegale ai vostri tempi, vero? — Sì. Noi consideravamo immorale e contrario all'etica fare esperimenti con la vita umana. Ma, personalmente, la cosa non mi sconvolge. — Oh, è magnifico! — esclamano insieme. — Pensiamo che tu sia diverso — dice senza riflettere Judy Paris. — Tu, be', ci piaci di più. Per favore, non dirlo agli altri, d'accordo? Non farlo, per favore. — È stata una coincidenza che ci fossero due come noi, qui — dice Judy Dakar. — Myda ci aveva avvertite: «Non potete aspettare un pochino?».
— Due identiche paia di occhi scuri lo implorano. — Benissimo — risponde lui pacatamente, — non lo dirò subito ai miei amici. Ma se io mantengo il segreto, in cambio, voi dovrete rispondere a qualche domanda. Per esempio, quante di voi vengono create artificialmente in questo modo? — Comincia a rendersi conto che c'è veramente qualcosa sotto. Dave ha ragione, dannazione, ci nascondono qualcosa. Non sarà un bel mondo nuovo popolato da schiavi subumani e retto da manipolatori di cervelli? Zombie decerebrati, lavoratori senza stomaco né sesso, esseri privi di corteccia cerebrale dominati dalle macchine. Esperimenti mostruosi gli vengono alla mente. È stato ancora una volta ingenuo. Queste donne, apparentemente normali, possono essere la facciata di un mondo spaventoso. — Quante? — Ci sono circa undicimila di noi — risponde Judy Dakar. Le due Judy si guardano l'un l'altra, lasciando trasparire la conferma. Non sono abituate all'inganno, pensa Lorimer. È positivo? E si diverte all'esclamazione di Judy Paris: — Non riusciamo a spiegarci perché voi riteneste che fosse un male. Lorimer cerca di spiegarglielo, di comunicare l'orrore della manipolazione dell'identità umana, che crea vite anormali. La minaccia all'individualità, la paura che il potere possa finire nelle mani di un dittatore. — Dittatore? — echeggia una di loro senza espressione. Lui fissa i loro volti e riesce a dire solamente: — È qualcuno che fa le cose senza il consenso del popolo. Ritengo che sia triste. — Ma è proprio quello che pensiamo di voi! — esplode la Judy più vicina. — Come vi considerate? Cosa pensate di essere, voi, tutti soli, senza sorelle con cui spartire la vita! Non sapete ciò che è possibile, ciò che è interessante provare. Siete solo dei poveri figli unici, voi... agite stupidamente e infine morite. E tutto per niente! — La voce di lei vibra. Confuso, Lorimer vede che entrambe hanno occhi annebbiati. — Supereremo questo momento — lo rassicura Judy. Riprendono il ritmo, e pezzo dopo pezzo Lorimer cerca di scoprire come stiano le cose. — Niente embrioni in provetta — gli rispondono indignate. — Abbiamo madri umane come chiunque altro. Madri giovani, le migliori. Un nucleo di cellula somatica viene inserito in un ovulo enucleato, e reimpiantato nell'utero. Nella sua tarda adolescenza ogni madre ha due bambine, due «sorelle» che alleva un poco fino a quando cambia lavoro. Gli asili nido sono sempre pieni di madri. Le idee di longevità di Lorimer suscitano il riso; non è stato raggiunto altro che un miglioramento delle regole di vita. — Possiamo raggiungere
novant'anni in buona forma — gli assicurano. — Cento e otto anni, raggiunti da Judy Eagle, sono il nostro record. Ma era abbastanza mal messa, alla fine. — La stirpe stessa dei cloni è vecchia. Risale al tempo dell'epidemia: faceva parte del tentativo iniziale di salvare la specie, quando i bambini smisero di nascere, e hanno continuato a essere prodotti finora. — È perfetto — gli dicono. — Ognuna di noi corrisponde a un libro. È proprio come in una biblioteca: tanti messaggi registrati. Il nostro è il libro di Judy Shapiro. Dakar e Paris sono nomi propri: ci chiamiamo come le città, ora. Ridono, cercando di non parlare contemporaneamente. Le avventure, i problemi e le scoperte di ciascuna si aggiungono al genotipo di cui tutte loro sono parte. — Se si fa un errore è utile per le altre. Naturalmente cerchiamo di non farne, o per lo meno di farne di nuovi. — Alcune delle prime non erano così perfezionate — aggiunge l'altra. — Le cose erano differenti, penso. Ora ogni tipo è in funzione di un tipo particolare di esperimenti. Le Judy, ad esempio, del cancro della pelle. — Ma dobbiamo riverificare tutti i dati ogni dieci anni — aggiunge la Judy di nome Dakar. — È illuminante. Maturando si possono capire alcune delle cose che non avevi potuto capire prima. — Stupefatto, Lorimer cerca di immaginare come potrebbe essere ascoltare le voci di trecento anni di Orren Lorimer. Che potevano essere matematici, idraulici, artisti, vagabondi o criminali, chissà. Una continua esplorazione e un continuo perfezionamento di se stessi. E dozzine di doppie vite: i Lorimer vecchi e i Lorimer bambini. E i bambini e le donne degli altri Lorimer... Sarebbe bello o brutto? Non lo sa. — E voi, avete già fatto le vostre registrazioni? — Oh, siamo troppo giovani, ci limitiamo ad annotare solo i casi clamorosi. — Noi ci saremo? — Potete esserne certi. — Ridono gioiosamente, poi, tornate serie: — Veramente non lo dirai? — domanda Judy Paris. — Noi dobbiamo dire a Lady Blue che cosa abbiamo fatto. Uff! Ma veramente non lo dirai ai tuoi amici? Non glielo aveva detto, pensa adesso, tornando in sé. Connie accanto a lui beve sidro da una «sfera». Si accorge di avere anche lui una bevanda in mano. Ma non ha parlato. — Le Judy parleranno. — Connie scuote la testa, sorridendo. Lorimer capisce che deve aver farfugliato i suoi ricordi, in qualche modo.
— Non importa — dice. — Avrei capito comunque. C'erano troppi indizi. Le Woolagong inventano, le Myda mettono in guardia, le Jan sono i cervelli, le Billy Dee lavorano duro. Ho trovato sei differenti storie di stazioni idroelettriche che erano state costruite, migliorate, o organizzate da una certa Lala Singh. E questo è il vostro modo di vita. Sono più interessato a questo genere di cose che non ad essere un rispettabile fisico — dice sbirciandola. — Siete tutti cloni, non è vero? Ognuna di voi. Cosa fanno le Connie? — Hai capito perfettamente. — Lo guarda come una madre guarda il figlio che abbia fatto qualcosa di inopportuno ma intelligente. — Pfui! E va bene. Le Connie coltivano come matte. Facciamo crescere le cose. La maggior parte dei nostri nomi sono nomi di piante. A proposito, io sono Veronica. E naturalmente gli asili, questa è la nostra debolezza. La mania dei più deboli. Tendiamo a concentrare la nostra attenzione su ogni cosa che sia piccola e debole. — Il suo caldo sguardo si concentra su Lorimer, che involontariamente si ritrae. — Noi ci equilibriamo — ride di cuore. — Noi siamo tutte uguali. Ci sono state Connie ingegneri e abbiamo due sorelline a cui piace la metallurgia. È affascinante quel che può fare il genotipo, se ci si prova. La Constantia Morelos originale era una chimica, pesava novanta libbre e non aveva mai visto una fattoria. — Connie si guarda le braccia muscolose. — Fu uccisa da un gruppo di folli. Combatté con le mani nude. È così difficile da capire... Io avevo una sorella, Timothy, che faceva la dinamite e scavò due canali senza neanche essere un minuscolo Andy. — Un Andy? — domandò lui. — Oh, cielo! — Ho capito anche questo. I primi risultati androgeni. — Lei annuisce, con esitazione. — Si, abbiamo bisogno di potenza muscolare per alcuni lavori. Le Kay sono comunque piuttosto forti. Caspita! — Improvvisamente si distende, contorcendosi. — È stata dura, credimi. Non potevamo neppure cantare... — Perché no? — Myda era sicura che avremmo fatto qualche errore, avremmo dovuto cambiare tutte le parole. Noi cantiamo molto. — Canticchia una o due strofe. — Che tipo di canzoni cantate? — Oh, ogni tipo. Di avventure, lavoro, maternità, vagabondaggi, stati d'animo, preoccupazioni, giochi, tutto.
— E le canzoni d'amore? — azzarda lui. — Ne avete ancora, vero? — Naturalmente. Come può la gente non amare? — Ma lo osserva dubbiosa: — Le storie d'amore del vostro tempo che io ho sentito sono così, come dire, così fatali. Tetre e passionali. Non sembra amore... Sì, abbiamo delle canzoni d'amore famose, e qualcuna di loro è anche triste. Come quella di «Tamil e Alcmene O»; erano due predestinate a stare insieme. Anche le Connie sono un po' predestinate. — Gli sorride timidamente. — Ci piace stare con le Ingrid Anders. Anche se è un'esperienza unilaterale. Spero che ci sarà un'Ingrid nel mio prossimo ciclo. È così eccitante, è come un piccolo diamante. — Gli argomenti che lo interessano gli esplodono dentro in una miriade di domande. Ma Lorimer vuole prima chiarire alcuni punti oscuri. — Undicimila genotipi e due milioni di persone, vuol dire una proporzione di duecento a uno, in vostro favore. — Lei annuisce. — Suppongo che siate suddivise in una quantità di tipi. — Sì, esistono tipo meno vitali. Ma non ne abbiamo perso nessuno fino a questo momento. Si tenta di conservare tutti i geni possibili. Abbiamo individui di tutte le razze principali e un sacco di leggere varianti. Come me: io sono una specie di miscela dei Mari del Sud. Naturalmente non sapremo mai cosa è andato perduto, ma undicimila unità non è poco. Cerchiamo di conoscerci tutte, è uno dei nostri hobby. — Un brivido penetra la sua atarassia. Undicimila... Questa è la vera popolazione della Terra. Immagina duecento donne piccole dalla carnagione olivastra, che hanno nomi di piante, che si eccitano per duecento piccole e luminose Ingrid. Duecento Judy chiacchierone, duecento Lady Blue piene di autocontrollo, duecento Margo, Myda e il resto. Rabbrividisce. Le eredi, le allegre becchine della razza umana. — Così termina l'evoluzione — dice tetramente. — Niente affatto, perché? È solo rallentata. Facciamo ogni cosa più lentamente di voi. Ci piace sperimentare le cose appieno. Abbiamo tempo. — Si stiracchia ancora, sorridendo. — C'è tutto il tempo che vogliamo. — Ma non avete nuovi genotipi. È la fine. — Ora ce ne sono. Durante lo scorso secolo si è studiato il modo di combinare i nuclei aploidi. Possiamo ottenere una cellula d'uovo strisciata che funziona come polline — dice orgogliosamente. — Intendo dire sperma. È un po' complicato, alcune non vengono troppo bene, ma stiamo cercando di operare sui cromosomi X, e ne abbiamo più di cento nuovi tipi. Naturalmente è dura per le nuove nate: non hanno sorelle. Le donatrici cercano di aiutarle. — Oltre un centinaio, lui pensa. Bene. Forse... Ma la faccenda dei cromosomi X... che significa? Deve riferirsi all'epidemia. Ep-
pure lui pensava che essa avesse colpito principalmente gli uomini... La sua mente si accinge tranquillamente a risolvere il nuovo problema, ignorando un suono che, da qualche parte, cerca di penetrare la sua calma. — Era un gene o i geni nel cromosoma X che furono colpiti — ragiona ad alta voce, — non l'Y. E il tratto letale doveva essere regressivo, vero? Così non ci dovrebbe essere stata nessuna nascita per un certo tempo, fino a quando alcuni uomini fossero stati recuperati o isolati abbastanza a lungo da produrre i gameti sani portanti l'X. Ma le donne portano per tutta la vita la loro scorta di ovuli. Non avrebbero più potuto generare. Quando esse si unirono con gli uomini recuperati, poterono essere prodotte solo femmine, dato che le donne hanno due X e il gene anormale della madre sarebbe stato compensato da un normale X del padre. Però il maschio è XY, e riceve solo l'X difettoso della madre. Quindi il difetto mortale si sarebbe invariabilmente manifestato. Il feto maschio non sarebbe sopravvissuto, ed ecco un pianeta di tutte donne e di uomini morenti. Gli ultimi uomini fecondi sono già scomparsi. — Hai proprio capito — gli dice lei con ammirazione. Il suono sta diventando incalzante. Egli rifiuta di ascoltarlo. Ci sono in ballo cose importanti. — Così noi saremmo perfettamente a posto, sulla Terra. Nessun problema. In teoria potremmo sposarci di nuovo e avere famiglia, figlie, comunque. — Sì — ripete lei, — in teoria. — Il suono improvvisamente fa breccia nelle sue difese. Si trasforma nella voce squillante di Bud Geirr che canta. Si capisce che è completamente ubriaco, adesso. Sembra che il suono arrivi dal giardino principale, a vasche. Quello dove coltivano la verdura, non quello sanitario. Lorimer sente rinascere la paura. Dave dovrebbe tenerlo d'occhio, ma Dave sembra essersi dileguato. Ricorda di averlo visto dirigersi verso la sala di controllo con Lady Blue. — Oh, il sole brilla splendendo sulla leggiadra ala rossa — canta con gioia Bud. Bisogna fare qualcosa, decide Lorimer penosamente. Si muove. È uno sforzo. — Non preoccuparti — dice Connie. — Andy è con loro. — Voi non sapete, non sapete a cosa avete dato inizio. — Si dirige verso il portello del giardino. — ... Mentre lei giace addormentata un cowboy s'avvicina furtivo. — Risata generale dal portello. Lorimer fluttua attraverso il tunnel. Nel passaggio vede la luce verde. Oltre la siepe dei fagioli scorge Bud che veleggia rannicchiato seguendo Judy Paris. Andy, appeso alla gabbia delle iguana, ride. Bud afferra una caviglia di Judy e la ferma con un volteggio, facendo at-
torcigliare il suo pigiama giallo. Lei sorride, mentre lui si capovolge, senza fare alcuno sforzo per liberarsi. — Questo non mi piace — bisbiglia Lorimer. — Non interferire, per favore. — Connie si è aggrappata al suo braccio, ancorando entrambi alla rastrelliera. L'allarmismo di Lorimer sembra essersi placato. Vuole vedere. Lascia che ritorni la serenità. Gli altri non li hanno notati. — Oh, c'era una volta una fanciulla indiana — Bud canta con più ritegno, — che non aveva mai paura che qualche montone glielo mettesse dentro. Hem, hem. — Tossisce ostentatamente, ridendo. — Ehi, Andy, ho sentito che ti chiamavano. — Cosa? — dice Judy. — Io non ho sentito niente. — Ti stanno chiamando, ragazzo. Muoviti. — Chi? — chiede Andy, tendendo l'orecchio. — Loro, perdio! — Bud lascia andare Judy scivolando verso Andy. — Ascolta, ora sei grande. Non capisci che io e Judy abbiamo degli affari da discutere in privato? — Gira gentilmente Andy e lo spinge verso il recinto. — È la sera di Capodanno, poppante — Andy vola via passivamente attraverso la siepe. Bud è di nuovo con Judy. — Buon anno, gattina — sorride. — Buon anno. Facevate qualcosa di speciale voi, a Capodanno? — chiede lei con curiosità. — Cosa facevamo a Capodanno? — ridacchia prendendola per le spalle. — La sera di Capodanno, sì. Perché non mostrarti qualcuna delle primitive usanze della Terra, eh? — Lei annuisce, gli occhi spalancati. — Be', innanzi tutto ci volevamo bene l'un l'altro, così. — L'attira a sé e la bacia leggermente sulla guancia. — Cristo, che stupida cagna! — dice con una voce totalmente diversa. — Quando cominciano a piacerti anche le racchie, puoi dire di esser stato troppo a lungo fuori dal giro. Tettona, oh!... — Le sue mani giocano con la blusa di lei. È inconsapevole, comprende Lorimer. Non sa di essere stato drogato. Sta esprimendo i suoi pensieri? Probabilmente... Oddio! Lorimer si rifugia dietro l'oblò di cristallo, un osservatore nella luce protettiva dell'eternità. — E poi ci accarezzavamo un po'. — Di nuovo con voce affettuosa, Bud si porta la ragazza più vicino, accarezzandole il culo. — Culona! — Mette le labbra sulle sue, lei non fa resistenza. Lorimer vede le braccia di Bud serrarsi, le sue mani lavorano sulle natiche di lei infilandosi sotto i vestiti. Il suo sesso si agita. Le braccia di Judy ondeggiano senza scopo. Bud si interrompe per riprendere fiato, una mano sulla lampo. — Piantala di fissarmi! — le dice raucamente. — Foniamocene delle parole, o scoprirai a cosa serve questa grande bocca. Oh, gente. Un'asta di bandiera, come l'acciaio!... Cagna, questo è il tuo giorno fortunato. — Adesso le scopre il se-
no, un grosso seno. Lo accarezza. — Due fottuti anni a bocca asciutta — si lamenta. — Che merda, vero? Non può più aspettare, guardalo... tette, tette, tette. — La bacia di nuovo velocemente, e le sorride. — Va bene? — le chiede con voce tenera e affonda la bocca nei suoi capezzoli, le mani che cercano fra le cosce. Lei sussulta e dice qualcosa, smorzato. Le arterie di Lorimer pulsano di piacere, e timore. — Io... io penso che tutto questo dovrebbe finire — dice falsamente a se stesso, sperando di non dire altro. Attraverso la pulsante tensione, sente Connie bisbigliargli di rimando: — Non preoccuparti, Judy è molto atletica. — Il terrore lo afferra. Esse non sanno, ma non può far niente. — Figa! — grugnisce Bud. — Dovresti avere una figa, qua. È gelata? Stupida... — Il viso di Judy appare brevemente tra i capelli fluttuanti. Una parte remota della mente di Lorimer nota che lei appare divertita, e a disagio. Il suo essere è concentrato nella visione di Bud che controlla espertamente il corpo della ragazza a mezz'aria, mentre le toglie i calzoni gialli. Cristo! La sua scura peluria pubica, le grosse cosce bianche. Una donna perfettamente normale, nessuna mutazione. Cristo! All'improvviso c'è un ombra che fluttua attraverso il tunnel: è Andy che vola di nuovo verso di loro, con qualcosa in mano. — Stai bene, Judy? — chiede il ragazzo. Il viso di Bud si solleva, rosso e torvo. — Sparisci, tu! — Oh, non voglio darvi fastidio. — Gesù Cristo! — Bud con un rapido movimento in avanti afferra il braccio di Andy, le gambe ancora allacciate attorno a Judy. — Queste sono cose da grandi, ragazzo, te lo devo sillabare? — Allenta la presa. — Sciò! — Con un solo rapido movimento spinge Andy lontano e rovesciandogli il viso con forza lo spedisce fra i rampicanti. Ride, ma è quasi un latrato, e si china di nuovo su Judy. Lorimer può vedere l'erezione che gli gonfia la patta. Vorrebbe avvertirli, in qualche modo. Avvertirli del rischio. Ma può soltanto dominare il caldo piacere che sorgendo in lui fonde il suo guscio di cristallo. Avanza. Avidamente vede Bud prendere di nuovo con la bocca i seni di lei e quindi all'improvviso passarle sotto, tenendole i polsi dietro la schiena, chiusi nel suo pugno. Le gambe unite a quelle di lei. Le natiche nude di Judy sporgono vistosamente. Lune enormi. — Cuuulo... — geme Bud. — Su, cocca. — Preme il pube di lei contro di sé. Judy lancia un grido, comincia a lottare vanamente. Il guscio di Lorimer bolle e brucia. In quel tumulto, spettri fantasmagorici si fanno strada. E qualcosa si sta muovendo, uno spettro reale. Con costernazione si accorge che è di nuovo Andy, che fluttua verso i corpi allacciati portando una cosa ronzante. Oh,
no! Una telecamera! Gli imbecilli! — Va' via! — cerca di avvertire il ragazzo, ma la testa di Bud si gira, ha visto. — Tu, piccolo piscione! — Il suo lungo braccio si protende e afferra la camicia di Andy, le gambe sempre serrate attorno a Judy. — Te lo sei voluto! — Il suo pugno colpisce la bocca di Andy, la telecamera viene scagliata lontano. Ma questa volta Bud non lo lascia andare. Sta picchiando il ragazzo. Tutti si precipitano dentro in un groviglio aereo. — Basta! — Lorimer sente se stesso urlare, e si tuffa su di loro. — Bud piantala! Stai picchiando una donna. Il viso stravolto si gira guardandolo di traverso. — Sparisci, Doc, e vaffanculo! — Andy è una donna, Bud. Stai picchiando una ragazza. Non è un uomo. — Cosa? — Bud fissa il viso insanguinato di Andy. Scuote lo sparato della camicia. — E dove sono le tette? — Non ha seno, ma è una donna. Il suo vero nome è Kay. Sono tutte donne. Lasciala andare, Bud. — Bud squadra l'androgino, le gambe ancora avvinghiate a Judy, il pene allo scoperto. Andy agita i pugni, vagamente combattiva. — Una lesbica? — dice Bud lentamente. — Una maledetta piccola lesbica? Questo mi tocca vedere! — Fa una finta casuale e ficca una mano tra le gambe di Andy. — Niente palle! — E poi ruggisce: — Niente palle del tutto! — In preda a risate convulse volteggia nell'aria lasciando libero Andy. Le sue gambe si sciolgono da Judy. — Oh, no! — Si interrompe per afferrare i capelli di lei e ricomincia a ridere fragorosamente. — Una lesbica! Ehi, lesbicona. — Si rende conto della sua erezione, lo agita verso Andy. — Mangiati il fegato piccola lesbica. — Quindi solleva la testa di Judy. Ella è stata ad osservare, docile, tutto il tempo. — Guardalo bene, ragazzina. Vedi cosa ha in serbo il vecchio Bud per te? Questo è quel che volete, dicono. Da quanto tempo non vedevi un vero uomo? — Una risata folle gorgoglia nella strozza di Lorimer. È una scena troppo forte per aver paura. — Non ha mai visto un uomo prima d'ora. Nessuna di loro ne ha mai visti. Imbecille, non ti rendi conto? Non ci sono altri uomini. Sono morti tutti da trecento anni. — Bud smette lentamente di ridere, si gira per scrutare Lorimer. — Che cosa dici, Doc? — Gli uomini sono tutti andati. Si sono estinti durante l'epidemia. Non ci sono rimaste che donne, vive, sulla Terra. — Vuoi dire che ci sono... ci sono due milioni di donne, laggiù, e neanche un uomo? — La sua bocca si spalanca. — Solo piccole lesbiche come
Andy... Un momento. Dove prendono i bambini? — Si riproducono artificialmente, sono tutte donne. — Dio! — Bud si afferra il cazzo con la mano, titillandoselo distrattamente. Si indurisce. — Due milioni di calde fighette che aspettano il vecchio Buddy. Dio. L'ultimo uomo sulla Terra. Tu non conti, Doc, e il vecchio Dave è un sacco di merda. — Comincia a farsi una sega, sempre tenendo Judy per i capelli. Gli altri retrocedono lentamente. Lorimer osserva che Andy-Kay ha di nuovo la telecamera. C'è una grossa macchia a forma di stella, color sangue, sul suo viso infantile; labbro spaccato, probabilmente. Egli stesso si sente soffocato nell'aria pesante, privo di forze. Niente più lucidità. — Due milioni di fighe — ripete Bud, — niente altro che passerine ovunque. Posso fare quello che voglio in ogni momento. Non più merda. — Si sfrega più velocemente. — Si estenderanno per miglia implorando, accapigliandosi per me. Re Buddy... Mangerò fragole e figa per colazione. Tette imburrate calde; gente! Niente a cui pensare e ci saranno un paio di danzatrici che mi leccheranno la crema dal cazzo, tutto il giorno. Ehi, farò delle gare! Solo le migliori per il vecchio Buddy, adesso. Non tu, vacca! — Strattona la testa di Judy. — Verginelle. Buchi stretti. Le vecchie puttane esperte si esibiranno per eccitarmi. — Si acciglia lievemente, lavorandosi l'affare. Nell'angolo clinico della sua mente, Lorimer osserva che la droga gli sta ritardando l'eiaculazione. Si dice che dovrebbe sentirsi rassicurato dall'autoconcentrazione di Bud; e invece è oscuramente terrificato. — Re. Sarò il loro Dio — mormora Bud. — Mi faranno delle statue; il mio cazzo alto un miglio... ovunque. Le palle consacrate di sua maestà. Lo adoreranno. Buddy Geirr, l'ultimo cazzo sulla Terra. Oh, gente, se il vecchio George potesse vedere questo. I miei compagni si cagheranno addosso dall'invidia. — Si concentra di più. — Non possono esser tutti andati. — I suoi occhi vagano, trovano Lorimer. — Ehi, Doc, c'è rimasto qualche uomo da qualche parte? Magari due o tre? — No. — Lorimer scuote la testa con fatica. — Sono tutti morti. Tutti! — Balle! — Bud si gira intorno, scrutandoli. — Ce ne dev'essere rimasto qualcuno. Dillo — afferra la testa di Judy. — Dillo, vacca! — No. È vero! — conferma lei. — Niente uomini — fa eco Andy-Kay. — State mentendo. — Bud diventa torvo. Si sfrega più velocemente, agitando il bacino. — Ci deve essere qualche uomo. Certamente... saranno andati sulle montagne, ecco com'è andata. Cacciando, vivendo allo stato selvaggio... Vecchi uomini selvaggi. Lo sapevo.
— Perché ci devono essere degli uomini? — gli chiede Judy mentre lui la spinge avanti e indietro. — Perché! Stupida cagna! — Spinge con furia, senza guardarla. — Perché altrimenti niente più conta. Ecco perché! Devono esserci degli uomini. Qualche buon vecchio montone. Buddy è un buon vecchio montone. — Sta per emettere sperma? — bisbiglia Connie. — Con tutta probabilità — dice Lorimer, o cerca di dirlo. Lo spettacolo è di interesse puramente clinico, riflette, niente da temere. Con una mano, Judy afferra qualcosa: una bustina di plastica. L'altra mano è sui capelli, che Bud sta tirando con violenza. Dev'essere doloroso. — Uhh...! Ahh...! — Bud ansima penosamente. — Continua a fottere... — Improvvisamente spinge la testa di Judy verso il suo inguine. Lorimer intravvede l'espressione perplessa di lei. — Hai la bocca, cagna, adoperala! Prendilo. Perdio, prendilo! Uhh...! Uh...! — Un debole sprizzo si libera da lui. Il braccio di Judy lo segue con la busta mentre rotolano in aria. — GEIRR! — Disorientato da quel ruggito, Lorimer si volta e scorge Dave. Il maggiore Norman Davis, apparso nel boccaporto. Le braccia aperte per tenere indietro Lady Blue e l'altra Judy. — Geirr. Avevo detto che non dovevano esserci episodi di cattiva condotta su questa nave. E lo pretendo. Allontanati da quella donna! — Le gambe di Bud ondeggiano debolmente. Non sembra che abbia sentito. Judy gli nuota tra le gambe, insaccando le ultime gocce. — E quella, che diavolo sta facendo? — Nel silenzio Lorimer sente se stesso rispondere: — Prendendo un campione di sperma, direi. — Lorimer! Ti ha dato di volta il tuo cervello perverso? Porta Geirr nei suoi alloggiamenti! — Bud ruota lentamente, raddrizzandosi. — Oh, il santo padre — commenta con voce incolore. — Hai bevuto, Geirr. Vai nel tuo alloggio! — Ho delle novità per te, Dave — gli risponde l'altro con la stessa voce monotona. — Scommetto che non sai che siamo gli ultimi uomini sulla Terra. Ci sono due milioni di idiote, laggiù. — Ne sono informato — ribatte Dave furiosamente. — Sei un disgraziato ubriacone. Lorimer, porta quell'uomo fuori di qui. — Ma Lorimer non si sente in grado di muoversi. La voce irata di Dave ha riportato a galla il terrore. Ha creato una strana, speranzosa stasi che li avvolge tutti. — Non devo prenderne più... — Bud muove la testa avanti e indietro, dicendo silenziosamente: — No, no — come se si rivolgesse a Lorimer. — Niente conta più. Tutto finito. A che serve essere amici? — Corruga la fronte. — Il vecchio Dave è un uomo, gliene lascerò un po'. Le poppanti...
Povero vecchio Doc, tu sei un fiorellino. Ma sempre meglio di niente. Puoi fare qualcosa anche tu... Ci sistemeremo. Grandi estensioni. Potremo organizzare gare di travestiti. Ci deve essere un milione di vecchie, buone macchine, laggiù. Potremo andare a caccia, e trovare gli uomini selvaggi. — Andy (o Kay) fluttua verso di lui pulendosi dal sangue. — Ah, no, non farlo — lui ringhia, e avanza contro di lei. Mentre le sue braccia si allungano, Judy gli dà un colpo sul tricipite. Bud lancia un grido che si smorza. Le sue membra vibrano, poi fluttua debolmente, il viso di colpo sereno. Sta respirando, nota Lorimer. Lascia andare il fiato. Osserva con attenzione il grosso corpo che si raddrizza. Judy districa i suoi pantaloni dai rampicanti e insieme cominciano a trascinarlo fuori dalla siepe. Lei ha la telecamera e la busta col campione. — Lo metto nel congelatore, va bene? — domanda a Connie mentre si avviano. Lorimer deve guardare altrove. Connie annuisce. — Kay, come va la tua faccia? — L'ho sentito! — risponde con eccitazione Andy-Kay attraverso le labbra gonfie. — Ho provato una collera fisica. Avrei voluto picchiarlo! — Dave, lo sapevi davvero? Avevi scoperto che erano tutte donne? — Dave guarda Lorimer rimuginando. Fluttua eretto, col sole sui capelli e la barba castani. Gli autentici lineamenti maschili. Lorimer pensa a suo padre, una piccola pallida figura come lui. Si sente meglio. — Ho sempre saputo che cercavano di imbrogliarci, Lorimer. Ora che questa donna ha ammesso il fatto, posso valutare l'intera portata della tragedia. — È la sua profonda, dolce voce da pulpito. Le donne lo fissano con interesse. — Hanno perduto i figli. Hanno dimenticato Colui che le ha create. Per generazioni sono vissute nel buio. — Sembra che stiano bene — si sente dire Lorimer. Gli sembra di essere sciocco. — Le donne non sono capaci di dirigere niente. Dovresti saperlo, Lorimer. Guarda cos'hanno fatto qui, è patetico. Registrare lo scorrere del tempo, è tutto. Povere creature! — Dave sospira gravemente. — Non è colpa loro, lo riconosco. Nessuno ha fornito loro una guida per trecento anni. Come un pollo senza testa. — Lorimer riconosce i suoi stessi pensieri. Amorfe, chiacchierone, inutili; due milioni di ammassi di cellule protoplasmatiche informi. — Il capo della donna è l'uomo — cita Dave. — Corinzi: uno, undici, tre. Non c'è altra disciplina. — Allarga le braccia tendendo il suo crocefisso come se si rivolgesse al muro di piante. — Inganno e sacrilegio! — Tocca i tronchi e si volta, incorniciato dagli alberi verdi. — Siamo stati inviati qui, Lorimer. È la volontà di Dio. Io sono stato inviato
qui. Non tu, tu sei malvagio quanto loro. Il mio secondo nome è Paolo — aggiunge in tono discorsivo. Il sole scintilla sulla croce, sul suo viso sollevato. Un volto forte, puro, apostolico. Nonostante le sue riserve intellettuali, Lorimer sente una risposta salirgli dai nervi, ormai dimenticata. — Oh, Padre, mandami la forza. — Dave prega quietamente, gli occhi chiusi. — Tu ci hai risparmiato dal vuoto per portare la Tua luce in questo mondo sofferente. Io guiderò le Tue figlie erranti fuori dal buio. Sarò un severo ma misericordioso padre per loro. Aiutami ad insegnare ai bambini le Tue sante leggi e induci in loro il rispetto della Tua giusta collera. Lascia che le donne imparino in silenzio e in tutta soggezione. Timoteo: due, undici. Esse avranno figli da governare e glorificheranno il Tuo nome. — Lui può farlo. Lorimer pensa che un uomo simile potrebbe far rinascere realmente la vita. Forse c'è qualche mistero, qualche piano. Sono stato troppo pronto a cedere. Niente forza di carattere... Comincia a sentire il bisbigliare delle donne. — Questo nastro è quasi finito. — È Judy Dakar. — Non è abbastanza? Sta solo ripetendosi. — Aspetta — mormora Lady Blue. — Ed ella diede alla luce il figlio dell'uomo per governare le nazioni con una spada di ferro. Rivelazioni: dodici, cinque — esclama Dave, più forte. I suoi occhi adesso sono aperti. Fissa intensamente il crocefisso. — Nel nome di Dio che ha amato tanto il mondo da inviare il suo Figlio unigenito. — Lady Blue annuisce. Judy si spinge verso Dave. Lorimer capisce, una protesta gli sale in gola. Non devono fare questo a Dave, trattarlo come un animale. Per l'amor di Cristo, è un uomo. — Dave, attento! Non lasciarla avvicinare! — grida. — Posso guardare, maggiore? È bello. Cos'è? — Judy si sta avvicinando, la mano protesa verso il crocefisso. — Ha una siringa. Attento! — Ma Dave si è già girato. — Non profanare, donna! — Agita la croce verso di lei come un'arma, così minacciosa che ella indietreggia a mezz'aria e mostra l'ago luccicante nella sua mano. — Serpente! — La colpisce su una spalla, sollevandosi. — Blasfema! — scandisce nella sua voce solita. — Bisogna cominciare a mettere un po' d'ordine, qua attorno. Mettetevi contro quel muro. Tutte. — Attonito, Lorimer vede che Dave tiene una piccola pistola nell'altra mano; una piccola pistola grigia. Deve averla avuta sin dal tempo di Houston. Speranza e atarassia scompaiono: è gettato nella disperata realtà.
— Maggiore Davis — dice Lady Blue. Fluttua diritta verso di lui, tutte lo fanno, avanti verso la pistola. Oddio. Sanno cos'è? — Ferme! — grida Lorimer. — Fate quel che dice, per l'amor del cielo. Quella è una pistola, può uccidervi. Spara proiettili di metallo! — Comincia a costeggiare le piante avvicinandosi a Dave. — Sta' indietro! Dave lo minaccia con l'arma. — Prendo il comando di questa nave, nel nome di Dio e degli Stati Uniti d'America. — Dave, metti via quella pistola. Non vorrai ammazzare qualcuno? Dave lo guarda, ruotando la pistola. — Ti avverto, Lorimer, vai là con loro. Geirr è un uomo, quando è sobrio. — Guarda le donne che gli si stanno ancora avvicinando, perplesse, e capisce. — Benissimo. Lezione numero uno: guardate questo. Prende deliberatamente di mira le gabbie delle iguana e fa fuoco. C'è un botto e un sibilo. Una lucertola esplode, sanguinante. Voci che gridano, un forte trillo meccanico squilla sovrastando ogni cosa. — Una falla! — Due corpi sfrecciano verso l'uscita lontana. Nella confusione, Lorimer vede Dave che, con calma, indietreggia verso il boccaporto, davanti a loro, la pistola pronta. Lorimer nuota freneticamente verso la rastrelliera per tagliargli la strada. Cerca di afferrare un estintore, ma fallisce e rimane lì a scalciare nell'aria. L'allarme cessa. — Starai lì finché non deciderò dove spedirti — annuncia Dave. Ha raggiunto il boccaporto, sta afferrando e girando il comando dell'enorme porta stagna. Succederà un disastro, capisce Lorimer. — Non farlo, Dave! Ascoltami. Ci ammazzerai tutti. — Il sentirsi così allarmato scuote Lorimer. Adesso sa a cosa servono tutte quelle dannate sfere, e ha terrore della morte. — Dave, ascoltami! — Chiudi il becco! — La pistola oscilla verso di lui. La porta si muove. Lorimer mette un piede a terra. — Giù! È una bomba! — Con tutta la sua forza lancia la pesante bombola verso la testa di Dave, e si slancia a sua volta. — Attento! — E fluttua disperato, con mosse lente, sentendo la pistola che spara di nuovo e voci che gridano. Dave sbaglia il colpo. Sopra la sua testa gli spari sono violenti. Si china ad afferrargli i capelli. Gli arriva un duro pugno nello stomaco e, passando, una gamba di Dave gli sferra un calcio. Ma lui con un braccio gli serra la gola. Il grande uomo saltella come un toro che scalpita in tutte le direzioni. — Prendi la pistola. Prendila! — Corpi lo urtano incassando colpi. Mentre il braccio di Lorimer perde forza, una mano gli serpeggia vicino
posandosi sulla spalla di Dave. Sbattono entrambi contro il boccaporto, aggrovigliati. Il corpo di Dave cessa improvvisamente di resistere. Lorimer lo allontana da sé per liberarsi. Ne vede la faccia contorta inclinarsi lentamente indietro, fissandolo. — Giuda! Gli occhi si chiudono. È finita. Lorimer si guarda attorno. Lady Blue ha in mano la pistola e sta mirando in basso. — Mettila giù! — ansima senza respiro. Lei continua ad esaminarla. — Ehi, grazie! — Andy-Kay ghigna ironicamente verso di lui, strofinandosi la mandibola. Sorridono tutti, parlandogli affettuosamente, tastando se stesse e i loro vestiti a brandelli. Judy Dakar ha un occhio che comincia a diventare nero. Connie tiene per la coda l'iguana spappolata. Accanto a lui Dave fluttua respirando affannosamente. La sua faccia inebetita è rivolta verso il sole. — Giuda... — Lorimer sente dentro di sé l'ultima difesa che si rompe, e la desolazione lo inonda. Il mio capitano giace sul ponte... Andy-che-non-è-un-uomo si avvicina e chiude bruscamente la cerniera della giacca di Dave. Poi, afferrandolo saldamente, lo trascina fuori. Judy Dakar li ferma, giusto il tempo di avvolgere la catenella del crocefisso attorno alla mano di Dave. Qualcuno ride senza ironia, mentre passano. Per un istante Lorimer torna con la mente al gabinetto dell'Evanston. Non ci sono più, quelle piccole, sghignazzanti ragazze. È tutto finito per sempre. Finito, come i compagni che lo aspettavano all'uscita per fare gli sbruffoni. Bud ha ragione, pensa. Niente conta più. Disperazione e rabbia lo martellano. Adesso sa quale pensiero lo minacciasse. Non la loro vulnerabilità: la sua! — Erano bravi uomini — commenta, amaramente. — Non erano cattivi. Non sapete cosa vuol dire male: voi gliene avete fatto. Li avete distrutti facendogli quelle cose pazzesche. È stato interessante? Avete imparato abbastanza? — Cerca di sfoderare una voce accorata. — Tutti nutrono fantasie aggressive, ma loro non le avevano mai messe in atto. Mai, fino a quando voi non li avete avvelenati. Lo osservano in silenzio. — Nessuno le ha — dice Connie alla fine. — Quelle fantasie, intendo. — Erano bravi uomini — ripete Lorimer a mo' di epitaffio. Si rende conto che sta parlando per tutti: per il padre di Dave, per la virilità di Bud, per se stesso, per Cro-Magnon, anche per i dinosauri, forse. — Sono un uomo,
perdio, sì. Sono arrabbiato. Ne ho il diritto. Noi vi abbiamo dato tutto questo. Noi abbiamo costruito tutto. Noi abbiamo edificato la vostra preziosa civiltà, la vostra conoscenza, le comodità, le medicine, persino i vostri sogni. Noi vi abbiamo protetto. Abbiamo lavorato fino a farci cadere le palle per terra, mantenendo voi e i vostri figli. Era duro. Era una sanguinosa lotta senza soste. Eravamo forti. Abbiamo bisogno di esserlo, riuscite a capire? Riuscite a capirlo, perdio? Allora silenzio. — Stiamo tentando — sospira Lady Blue. — Stiamo tentando, dottor Lorimer. Certo, abbiamo apprezzato le vostre invenzioni e la vostra capacità evolutiva. Trovo però che ci sia un problema. Da che cosa proteggevate la gente? Dagli altri uomini, non è vero? Ne abbiamo appena avuto una chiara dimostrazione. Voi siete riusciti a farci rivivere la storia. — I suoi rugosi occhi castani gli sorridono. Una vecchietta color tè che ha fra le mani un reperto archeologico. — Però la lotta è finita da molto tempo. È finita quando siete finiti voi. Non vi possiamo riportare liberi sulla Terra. Non abbiamo neppure un minimo di strutture adatte a persone con i vostri problemi emotivi. — Inoltre — aggiunge Judy Dakar con partecipazione, — non pensiamo che sareste felici. — Potremo clonarli — interviene Connie. — So che ci sono persone disposte ad offrirsi come madri. Forse i piccoli potrebbero essere migliori. Si può provare. — Abbiamo già esaurito prima l'argomento. — Judy Paris sta bevendo dal serbatoio dell'acqua, si risciacqua la bocca e sputa nell'aiuola, guardando con apprensione Lorimer. — Dovremmo riparare quella falla. Di questo possiamo riparlare domani. E domani, e domani ancora. — Gli sorride, e senza farci caso si massaggia l'inguine. — Sono sicura che molta gente vorrà vederli. — Lasciateci su un'isola — dice Lorimer stancamente. — Su tre isole. Conosce bene quell'espressione di preoccupata compassione. Sua madre e sua sorella avevano la stessa espressione quando un gattino malato era entrato nel loro cortile. Lo avevano confortato e nutrito teneramente, e lo avevano portato dal veterinario perché lo uccidesse col gas. Una acuta, complessa nostalgia per le donne che conosceva, lo attanaglia. Ginny, Dio buono! Sua sorella Amy. Povera Amy, era buona con lui quando erano bambini. La bocca gli trema. — Quel che vi domandate — dice, — è quale contributo potremmo dar-
vi, se accettaste il rischio di accoglierci con uguali diritti. — Precisamente — conferma Lady Blue. Tutte gli sorridono sollevate, perché lui non sa di non esistere. — Penso che mi darete questo antidoto, adesso — dice. Connie fluttua verso di lui. Una grande donna col cuore in mano. Una donna completamente aliena. — Penso che gradiresti prenderlo in una «sfera». Gli sorride gentilmente. — Grazie! — Prende fra le mani la piccola «sfera» rosa. — Ditemi soltanto... — chiede a Lady Blue, che sta esaminando gli squarci dei proiettili. — Che nome date a voi stesse? Mondo di donne? Liberazione? Amazzonia? — Perché? Ci chiamiamo semplicemente «esseri umani». — I suoi occhi brillanti sono assenti, tornano ai segni lasciati dai proiettili. — Umanità. Genere umano. — Alza le spalle. — Razza umana. La bevanda ha un gusto fresco mentre scende giù in gola. Qualcosa di simile alla pace o alla libertà. O alla morte. CON QUALUNQUE ALTRO NOME By Any Other Name di Spider Robinson Analog, novembre 1976 Spider Robinson ha cominciato a scrivere nel 1973 affermandosi subito come uno dei migliori talenti tra i giovani autori e vincendo «alla pari» con Lisa Tuttle il John W. Campbell Memorial Award per i migliori nuovi scrittori. Questo romanzo breve incentrato su un contatto tra alieni e umani dopo il collasso della civiltà umana gli ha permesso di vincere il suo primo (ma ne avrebbe vinti in seguito altri due!) premio Hugo. Si tratta di una storia originalissima a dispetto delle premesse, piena d'azione, di colpi di scena, di personaggi vivi e descritti a forti tinte, che mostra apertamente le grandi capacità narrative di questo autore, che è già un beniamino della platea d'oltreoceano. I Dal Diario di Isham Stone
Non avevo avuto intenzione di sparare al gatto. Non avevo avuto intenzione di sparare a niente, per la precisione... la pistola al mio fianco era, al momento, un'arma strettamente difensiva. Ma le mie ghiandole adrenali stavano facendo lo straordinario e la mia vista periferica si sforzava di vedere dietro la mia testa; quando all'improvviso apparve qualcosa davanti a me, tutte le mie sentinelle inconsce optarono per la Miglior Difesa. Mi buttai a terra rotolando su me stesso prima ancora di rendermi conto che avevo sparato, attraverso una porta che non sapevo neppure fosse lì. Mi fermai con un tonfo da spaccare il cuore ai piedi della scala, appena oltre la porta. L'urto smosse qualcosa sul pianerottolo del primo piano: ruzzolò pesantemente giù per i primi gradini e mi piombò addosso: la parte superiore di uno scheletro quasi tutta intatta dalla sesta vertebra in su. Quando balzai inorridito in piedi, i muscoli e le cartilagini morti da tanto tempo si sgretolarono e le ossa si sparpagliarono sul pavimento polveroso. Sette centimetri sopra il mio gomito sinistro, qualcuno stava tamburellando con i coltelli. Sbirciai cautamente con un occhio solo intorno all'intelaiatura della porta, all'altezza del ginocchio. I resti straziati di quello che era stato un gatto persiano bianco e grigio giacevano contro un idrante sfasciato la cui superficie d'un rosso sbiadito era chiazzata di un rosso più brillante e di colori meno gradevoli. L'immaginazione sovraffaticata mi fece sentire l'odore della carne bruciata. Io amo i gatti; e tre shock in rapida successione, nella condizione in cui mi trovavo, bastavano a vincere la ferrea disciplina dell'addestramento di Collaci. Con gli occhi che bruciavano, uscii barcollando sul marciapiedi, proruppi in un suono intraducibile e sparai tre colpi contro una Buick dell"82 molto malridotta che stava, rovesciata sul fianco, dall'altra parte della strada. Ero molto scosso... solo il terzo proiettile colpì il serbatoio scoperto. Ma era di magnesio, non di piombo: la macchina esplose con un piacevole rombo e con il più bel globo di fiamme che si potesse desiderare. La ruota posteriore sinistra venne scagliata in alto: mi passò elegantemente sopra la testa, rimbalzò contro un'uscita antincendio al quarto piano e ripiombò giù, di piatto, una spanna dietro di me. Il cemento si piegò. Quando i miei orecchi smisero di rintronare e i miei occhi persero lo strabismo, mi accorsi che ero irrigidito come una statua. Con tanti saluti alla catarsi, pensai vagamente, e mi rilassai con uno sforzo che m'indolenzì
tutto. Il gatto era sempre morto. Capii subito perché mi aveva colto così di sorpresa. La vetrina della tabaccheria dalla quale era balzato fuori era infranta completamente, e quindi le mie sentinelle subconsce l'avevano erroneamente identificata come una delle pochissime ancora intere. Perciò, avevano ragionato, l'oggetto doveva essere uscito dalla porta aperta appena oltre la vetrina. E qualcosa che usciva da una porta a quell'altezza dal suolo doveva essere un Musky, e la mia mano è molto più svelta del mio occhio. Adesso, naturalmente, mi rendevo conto che non avrei potuto seguire un Musky con gli occhi. Ed era esattamente per questo che ero teso quanto bastava per sprecare munizioni insostituibili e rivelare la mia posizione. Carlson mi aveva reso complicata la vita. Speravo che sarei riuscito a ucciderlo lentamente. Quella però non era una consolazione sufficiente per il gatto. Abbassai gli occhi sulla pistola anti-Musky e mi sorpresi a ripensare al giorno che l'avevo avuta, appena tre mesi prima. Era la prima pistola che avessi mai posseduta: il simbolo della condizione di uomo, mia per tutto il tempo che avrei impiegato per uccidere Carlson e poi per tutto il resto della mia vita. Dopo che mio padre me l'aveva consegnata pubblicamente e mi aveva ufficialmente assegnato la missione di vendicare la razza umana, gli amici e i vicini, e Alia dagli occhi scuri, erano entrati in fretta, al sicuro, per il banchetto cerimoniale. Ma mio padre mi aveva preso in disparte. C'eravamo avviati in silenzio attraverso la West Forest fino alla tomba di mia madre, e attraverso gli alberi il sole che tramontava sulla West Mountain sembrava uno squarcio nella parete dell'Inferno. Finalmente papà s'era girato verso di me mentre l'orgoglio e la preoccupazione paterna lottavano per assumere il predominio sulla faccia d'ebano, e mi aveva detto: — Isham... Isham, non ero molto più vecchio di te quando ebbi la mia prima pistola. Fu molto tempo fa, e lontano da qui, in un posto chiamato Montgomery... allora le cose erano diverse. Ma certe cose non cambiano mai. — Si era tirato pensosamente il lobo di un orecchio e aveva continuato: — Phil Collaci ti ha insegnato bene, ma qualche volta preferisce prima sparare e poi chiedere indicazioni. Isham, non puoi andartene in giro a sparare indiscriminatamente. Mai. Mi capisci? Il crepitio delle fiamme che avvolgevano la Buick distrutta mi riportò al presente. Accidenti, avevi ragione tu, papà, pensai mentre stavo lì, tremando, sul marciapiedi. Non puoi continuare a sparare indiscriminatamente.
Neppure qui, a New York. Si stava facendo tardi, e il braccio sinistro mi doleva in modo abominevole dove mi avevano marchiato i Fratelli Grigi... Mi rammentai, bruscamente, che ero lì per lavoro. Non avevo nessuna voglia di passare una notte in una città, soprattutto quella, perciò proseguii per la strada, esaminando con estrema attenzione tutti gli edifici che incontravo. Se Carlson aveva gli orecchi, adesso sapeva che c'era qualcuno a New York e poteva immaginare il perché. Io ero nel suo territorio... ogni vicolo e ogni botola potevano nascondere un'imboscata. C'erano grandi magazzini e negozi di tutti i generi, un commercio più frammentato e specializzato di quanto avessi mai visto. Certi negozi vendevano una sola merce. Certi altri non riuscivo affatto a capirli. Cosa diavolo è un «rko»? Dove potevo, stavo sul marciapiedi. Mi dissi che ero stupido, che per Carlson o un Musky ero visibile come se fossi sulla seconda base nel leggendario Shea Stadium, e che sulla strada non c'erano gatti a sorpresa. Ma dov'era possibile, stavo sul marciapiedi. Ricordavo che mia madre, tanto tempo fa, mi aveva detto di non andare in mezzo alla strada, altrimenti i mostri mi avrebbero preso. Avevano preso lei. Per due volte fui costretto a scendere dal marciapiedi: una volta da un'entrata della sotterranea e una volta da un supermercato. Mio padre mi aveva procurato i tamponi migliori che potesse offrire Fresh Start, ma non erano tanto buoni. Tutte e due le volte tornai sul marciapiedi completamente disgustato del battito del mio cuore. Ma non mi guardai mai indietro. Collaci dice che è inutile aver paura, quando questo non può aiutarti... e il fiasco con il gatto dimostrava che aveva ragione lui. Era primo pomeriggio e lo stesso sole che riscaldava le foreste e i campi e le zone di lavoro di Fresh Start, a casa mia, qui sembrava agghiacciare l'aria, accentuando il vuoto della città in rovina. Il silenzio e la desolazione erano tutto intorno a me mentre camminavo: ossa sbiancate e muri sgretolati. Carlson era stato efficiente, davvero, efficiente quasi quanto la bomba atomica di cui una volta la gente aveva tanta paura. Mi sembrava d'essere in un'immensa autoclave del diavolo che ignorava la sporcizia ma eliminava rabbiosamente ogni parvenza di vita. Un pio desiderio, pensai, e scrollai la testa per scacciare quella fantasia. Se la città fosse stata davvero priva di vita, mi sarei avvicinato a Carlson dalla parte alta... non sarei stato costretto a fare una deviazione a sud fino
al Lincoln Tunnel, e il mio braccio sinistro non mi avrebbe fatto tanto male. I Fratelli Grigi sono molto suscettibili per quanto riguarda i loro diritti territoriali. Decisi di sostituire la medicazione improvvisata sul bicipite lacerato. Non mi piaceva l'insistenza martellante del dolore; mi teneva sveglio ma disturbava la mia concentrazione. Mi infilai nel primo grande magazzino che mi sembrava difendibile, e mi ritrovai lungo disteso sul pavimento dietro un tavolo rovesciato, ad augurarmi con tutte le mie forze che non fosse così fragile. Qualcosa s'era mosso. Poi mi alzai, vergognandomi un po', rimisi nella fondina la pistola e diedi una pacca sulle mani alle mie sentinelle subconsce, per la seconda volta in mezz'ora. Era la mia faccia, quella che mi guardava dallo specchio sudicio lungo una intera parete, con i capelli neri e crespi tutti aggrovigliati, le labbra carnose stirate in una specie di sogghigno. Non era un sogghigno. Non mi ero reso conto di avere un aspetto cosi orribile. Mio padre mi aveva detto tante cose della Civiltà prima dell'Esodo, ma credo che non la capirò mai. Un'occhiata intorno a quell'enorme stanzone sollevava più interrogativi di quanti ne risolvesse. Sulla mia sinistra, di fronte allo specchio grande, c'era una serie di specchi più piccoli che procedevano paralleli per tre quarti della lunghezza, e davanti c'erano strane sedie. Sembravano poltrone di metallo, imbottite dov'era necessario, con le leve per alzarle e abbassarle. Sulla mia destra, sotto lo specchio più lungo, c'erano moltissime sedie di legno, più piccole e molto più semplici, una fila serrata interrotta ogni tanto da strane intelaiature dalle quali pendevano pezzi di stoffa marcia. Potevo soltanto immaginare che quello fosse una specie di arcano paradiso per narcisisti, dove uomini molto egocentrici venivano, si spogliavano, si adagiavano sulle poltrone sontuosamente imbottite e contemplavano la propria magnificenza. Le sedie più basse e meno lussuose, troppo basse per offrire una visibilità decente, senza dubbio rappresentavano le sistemazioni di seconda classe o a tariffa ridotta. Ma che significato avevano gli armadi tra le poltrone grandi e il muro, carichi di bottiglie e recipienti di plastica e di oggetti pagani? E perché tutti gli scheletri, in quello stanzone, erano ammucchiati insieme al centro, come se negli ultimi secondi di vita si fossero disputati freneticamente qualcosa? Vidi un luccichio nel mucchio d'ossa e vidi per che cosa si erano battuti quei poveracci, e capii che cos'era stato quel posto. L'oggetto contestato
era un rasoio a lama libera. Mio padre aveva passato diciotto dei miei vent'anni a spiegarmi perché dovevo odiare Wendell Carlson, e in quegli ultimi giorni avevo scoperto quasi altrettante ragioni per conto mio. Intendevo elencarle nel necrologio di Carlson. M'investì un'ondata di stanchezza. Mi avvicinai a una delle poltrone, premetti cautamente sul sedile per assicurarmi che non ci fosse un meccanismo in attesa che la mia massa lo facesse scattare (sempre l'addestramento di Collaci... se mai il Maestro andrà in Paradiso, controllerà che non ci siano trabocchetti), mi tolsi lo zaino e sedetti. Mentre srotolavo la benda intorno al braccio mi guardai casualmente nello specchio e restai immobile, paralizzato dalla meraviglia. Una serie infinita di me si estendeva nell'eternità, innumerevoli migliaia di Isham Stone colti in quel momento raggelato di tempo che racchiude innumerevoli migliaia di possibili futuri sulla punta di una piramide inimmaginabile. Sapevo che erano semplicemente gli specchi opposti, e che quello davanti a me era leggermente di sbieco, e avrei potuto prevedere il fenomeno se ci avessi pensato... ma non me l'aspettavo e non avevo mai visto niente di simile in tutta la mia vita. All'improvviso, provai la tentazione fortissima di sdraiarmi, accendere uno spinello preso dalla cassetta del pronto soccorso nel mio zaino e meditare per un po'. Mi chiesi cosa stava facendo Alia in quel momento. Diavolo, avrei potuto uccidere Carlson al crepuscolo e dormire nel suo letto... oppure rintanarmi lì e ucciderlo l'indomani, oppure il giorno dopo. Quando mi fossi sentito meglio. Poi vidi la prima immagine della fila. Me. Di regola, in un negro i lividi non si vedono in modo spettacoloso, ma c'era qualcosa di colorato sopra il mio occhio destro che poteva andar bene, in attesa di un vero livido. Ero lurido, avevo bisogno di radermi, e il lungo taglio che andava dall'occhio sinistro al labbro superiore era infiammato. Il maglione nero era strappato in tre punti, a quel che potevo vedere, e macchiato di sangue dove non era lurido. Forse sarebbe passato parecchio tempo prima che mi sentissi meglio di quanto mi sentivo adesso. Poi abbassai lo sguardo su quello che c'era sotto la garza che avevo appena tolto, vidi le striature nere sul marrone cioccolata del mio braccio, e la tentazione di aspettare svanì come un Musky surriscaldato. Guardai meglio e cominciai a fischiettare tra i denti Good Morning Heartache, in sordina. Non avevo più neosulfamidici, avevo pochissime bende, e sembrava che dovessi risparmiare tutti gli analgesici che avevo per
fumare sulla strada di casa. La cosa migliore che potevo fare era finire il mio lavoro in città e andarmene, e trovare un Guaritore prima che mi marcisse il braccio. All'improvviso pensai che così andava bene. Ricordai i due sacri doveri che mi avevano condotto a New York: quello verso mio padre e la mia gente, e quello verso me stesso. Per poco non ero morto, per dimostrare a me stesso che il secondo era impossibile; l'altro non mi avrebbe trattenuto a lungo. Io e New York eravamo, come avrebbe detto Bierce, «incompossibili». In un modo o nell'altro, doveva essere presto. Tornai a fasciare con cura il braccio incancrenito, mi caricai sulle spalle lo zaino e tornai a uscire, mettendomi in bocca, mentre camminavo, una tavoletta nutritiva e una piccolissima dose di eroina. Non aveva senso portare viveri autentici a New York... tanto, non potevi sentirne il sapore e poi pesano troppo. Il sole era percettibilmente più basso nel cielo... il giorno era in fase di catabolismo. Scossi le spalle per assestare lo zaino e proseguii lungo la strada, aguzzando gli occhi per decifrare le insegne sbiadite. Dopo due isolati trovai un negozio specializzato in roba psichedelica. Una Ford del '69 divideva la vetrina con vari hookah fracassati e un paio di narghilé. Mi soffermai, di nuovo tentato. Un carico di pipe e di cartine avrebbe avuto un bel valore, a casa; i Techno e gli Agro avrebbero pagato parecchio per articoli da fumatore ben lavorati... un'altra prova che, come diceva sempre mio padre, l'utilità della tecnologia era sopravvissuta alla tecnologia stessa. Ma questo mi ricordò di nuovo la mia missione, e scrollai furiosamente la testa per scacciare le fantasticherie che minacciavano di attardarmi... com'era la frase che aveva detto mio padre alla cerimonia della consegna dell'arma? «La Mano dell'Uomo Incarnato», cioè il prodotto di due anni d'addestramento al combattimento e di diciotto anni d'odio razziale. Quando avessi finito il mio lavoro avrei potuto rovistare in quelle trappole semicrollate per cercare pipe per l'hashish e cartine per la marijuana... la mia ultima deviazione aveva rischiato di uccidermi, molte miglia più a nord. Ma avevo dovuto tentare. Avevo due anni appena al tempo dell'Esodo, ero troppo piccolo per conservare qualcosa di più di un'impressione confusa di terrore universale, di orrore caotico e di ripugnanza spaventosa, dovunque. Ma un episodio lo ricordo molto chiaramente. Ricordo mio fratel-
lo Israfel, a otto anni, inginocchiato in mezzo alla 116a Strada a sbattere metodicamente la testa sul cemento. Molto tempo dopo che il cervello di Izzy s'era sparso per terra, il suo corpo minuscolo aveva continuato a sbattere giù il cranio fratturato, in uno spasmo convulso. Io lo vidi al di sopra della spalla di mia madre mentre correva, urlando di paura, attraverso l'incubo caoticamente contorto che, per tutto il tempo che lei aveva potuto ricordare, era stato soltanto un tranquillo incubo palpitante; mentre correva attraverso Harlem. Una volta, quando avevo dodici anni, avevo visto un Agro uccidere un pollo, e quando la carcassa senza testa s'era alzata e s'era messa a correre, io avevo sentito di nuovo l'urlo di mia madre. Mio padre mi ha detto che rimasi svenuto per quattro giorni e mi svegliai gridando. Persino lì, persino nella parte bassa della città, dove le ossa sparse dovunque erano di estranei, io ero teso da scoppiare, e gli antichi riflessi lottavano contro la saggezza moderna mentre provavo l'impulso irrazionale di alzare la testa e di cercare l'odore del nemico. Non avevo potuto recuperare le ossa di Izzy; i Fratelli Grigi, che erano sempre vissuti ad Harlem, adesso vi regnavano, e avevano i denti molto aguzzi. Ero riuscito a tenere a bada il branco squittente con le bombe incendiarie fino a che avevo raggiunto l'Hudson; e quelli non avevano attraversato il ponte per inseguirmi. E così ero sopravvissuto... almeno fino a quando la cancrena non mi avrebbe liquidato. E l'unica cosa che stava tra me e Fresh Start era Carlson. Vedevo con gli occhi della mente il manifesto di Carlson, la prima cosa che mio padre aveva stampato non appena aveva avuto accesso a un ciclostile: un disegno straordinariamente dettagliato del volto magro da accademico circondato da una massa di capelli grigi, con la scritta: «RICERCATO PER L'ASSASSINIO DELLA CIVILTÀ UMANA - WENDELL MORGAN CARLSON. Verrà data una fornitura a vita di proiettili termici a chi porterà la sua testa al Consiglio di Fresh Start.» Nessuno si è mai presentato a incassare la ricompensa offerta da mio padre... o almeno, nessuno è sopravvissuto per venire a incassarla. Quindi sembrava che toccasse a me regolare il conto di un'epoca distrutta e di un pianeta pieno di cadaveri. Adesso l'eroina incominciava a fare effetto: provavo un senso esaltato del destino e la smania di darmi da fare. Ero lo strumento debitamente prescelto per la vendetta dell'umanità, e la resa dei conti era dovuta da un pezzo. Sganciai dalla cintura una delle bombe incendiarie rimaste (mi dava con-
forto tenere nella mano quella potenza) e continuai a camminare verso la parte alta della città. Mi sembrava di avere molto più di vent'anni. E mentre andavo in caccia della mia preda tra i canyon di cemento e le colline di pietra, mi sorpresi a pensare al suo crimine, ai moventi tortuosi che avevano prodotto quella giungla desolata e innumerevoli centinaia di altre simili. Ricordai il resoconto di prima mano che mio padre aveva fatto delle azioni di Carlson, ripetuto tante volte durante la mia giovinezza che quasi avrei potuto recitarlo a memoria; ascoltai di nuovo la Genesi del mondo che avevo appreso dal suo primo storico, mio padre, Jacob Stone. Sì, quello Stone, l'unico uomo che Carlson non si aspettava che sopravvivesse, per gridare in un pianeta devastato il nome del suo assassino. Jacob Stone, il quale rivelò per primo il nome poi divenuto una maledizione, una bestemmia e un urlo di rabbia nella gola di tutta l'umanità. Jacob Stone, che disse il nome del nostro traditore: Wendell Morgan Carlson. E mentre ripensavo a quella storia terribile, tenevo la mano accanto al fucile con il quale speravo di scriverne il lieto fine... II Da HO LAVORATO CON CARLSON di Jacob Stone, Ph.D., versione autorizzata; Fresh Start Press 1986 (Edizione ciclostilata) ... L'olfatto è un fenomeno curioso, che resiste stranamente alle misurazioni e a un'analisi rigorosa. Ogni essere vivente sulla Terra sembra possederlo nella misura necessaria per sopravvivere, e un poco di più. Il naturale senso umano dell'olfatto, per esempio, è sempre stato più efficiente di quanto si rendesse conto la maggioranza della gente, al punto che poco dopo il 1880 il deliziosamente eccentrico Sir Francis Galton era riuscito, associando i numeri a certi odori, ad imparare a fare sottrazioni e addizioni con l'olfatto, apparentemente solo come esercizio intellettuale. Ma tramite una specie di circuito soppressore neurologico del quale non si sa quasi nulla, moltissimi riuscivano a ignorare tutti i messaggi portati dai loro nasi, eccettuati i più piacevoli e i più fastidiosi, forse per reazione a un mondo che cambiava, nel quale un apparato olfattivo finemente sintonizzato era divenuto una seccatura più che un ausilio per la sopravvivenza. Il livello di sensibilità necessario a un lupo per trovare il cibo sarebbe un ostacolo per un essere umano civile ammassato in una città piena di suoi simili.
Prima del 1983 il professor Wendell Morgan Carlson aveva portato l'olfattometria al livello d'una scienza esatta. Mentre collaudava le teorie di Beck e di Miles, Carlson perfezionò quasi distrattamente la classica tecnica «blast-injection» per misurare la sensibilità differenziale olfattiva, indipendentemente dalle impressioni personali del soggetto. Questo non soltanto affinò i suoi dati ma gli permise anche di lavorare con esseri non umani, un vantaggio singolare quando si considera quanta parte del cervello umano costituisce una «terra incognita». I suoi primi esperimenti successivi indicarono che il lupo normale utilizza il suo olfatto in modo mille volte più efficiente di un umano. Carlson intuì che i lupi vivevano in un mondo di odori, ricco e complesso come i nostri mondi umani della vista e della parola. Con sua sorpresa, tuttavia, scoprì che la sensibilità potenziale dell'apparato olfattivo umano superava di gran lunga quella di ogni specie sconosciuta. Questo destò il suo interesse... ... Wendell Morgan Carlson, il più grande biochimico che vi fosse mai stato alla Columbia, o forse al mondo, era la prova vivente della verità lapalissiana secondo la quale un genio può essere maledettamente stupido al di fuori della sua specialità. Un genio lo era, indiscutibilmente; non fu il caso a fruttargli il Premio Nobel per aver isolato un rimedio per l'intera gamma delle infezioni da virus chiamate «comune raffreddore». Fu piuttosto quel tipo di caso ispirato che capita soltanto a coloro che sono abbastanza intelligenti da percepirlo, ai ricercatori fanatici come Pasteur. Ma Pasteur era un cafone e un vanitoso, che sperperava tempo prezioso in polemiche puerili con uomini che non erano degni di lavare le sue provette. Raramente il genio è anche indizio di buon carattere. Carlson era un radicale di sinistra. Peggio ancora, era quel tipo di radicale che sogna imprese romantiche su uno sfondo di celluloide: ribelli dagli occhi truci che piazzano bombe fatte in casa, assassinano i tronfi oppressori nelle loro roccheforti e (sebbene senza dubbio sapesse cos'era l'idrogeno solforato) fuggivano passando per le fogne. Non gli era mai passato per la mente che ci volesse un uomo molto speciale per fare il guerrigliero. Era convinto che l'indignazione morale acquisita a Washington nel '71 (quando non era ancora laureato) l'avrebbe aiutato a superare difficoltà e privazioni, e sarebbe inorridito se qualcuno gli avesse fatto notare che Che Guevara disponeva raramente di carta igienica.
Poiché non aveva mai provato la fame, credeva che fosse uno stato esaltante. Viveva un'esistenza compartimentalizzata, e il suo straordinario talento di biochimico aveva pareti robustissime: soltanto al loro riparo era capace di ragionamenti logici e di vere intuizioni. Da adolescente aveva passato un anno disastroso in seminario, entrandovi come «ardito di Maria», e ne era uscito da apostata ma ancora ossessionato dal bisogno implacabile di Servire Una Causa... e per caso il grido del 1982 era, ancora una volta: «Rivoluzione!» Carlson lasciò i tranquilli corridoi della Columbia nel luglio di quell'anno e fece domanda per entrare nel ramo più piccolo (la cosiddetta ActionFaction) dei New Weathermen con il compito di sicario. Per fortuna lo presero per pazzo e lo buttarono fuori. Al Fronte Africano di Liberazione ebbero meno criterio... gli spaccarono una gamba in tre punti. Al pronto soccorso del Jacobi Hospital, Carlson pervenne alla conclusione che il guaio di Servire Una Causa stava nel fatto che comportava la frequentazione di individui insensibili e pericolosamente imprevedibili. Aveva bisogno di una Causa Per Un Uomo Solo. E allora, all'età di trentacinque anni, per la prima volta le sue emozioni si accorsero della sua intelligenza. Quando le due parti della sua personalità si unirono, raggiunsero la massa critica... e per il mondo fu un gran brutto giorno. Io sono in parte responsabile di questa saldatura... involontariamente fornii una delle scintille decisive, esposi un'idea che lanciò Carlson nel balzo intuitivo più pericoloso della sua vita. Il rimorso mi perseguiterà fino alla morte... e tuttavia avrebbe potuto essere chiunque altro. O forse non c'era bisogno di nessuno. Arrivato fresco fresco dopo tre anni passati a occuparmi di ricerche sulla guerra biologica per il Dipartimento della Difesa, ero un collega poco importante di Carlson; ma ben presto diventai suo amico intimo. Francamente, ero lusingato che un uomo della sua statura si degnasse di parlare con me, e sospetto che Carlson fosse felicissimo di trovare un negro che lo trattasse da eguale. Ma per ragioni che è difficile spiegare a chiunque non abbia vissuto in quel periodo (e che non richiedono spiegazioni per coloro che lo vissero) ero riluttante a parlare del FLA con un bianco, per quanto «illuminato». E perciò quando andai a trovare Carlson al Jacobi Hospital e la conversazione s'imperniò sulla natura auto-deleteria della rabbia incontrollabile, tentai di distrarre il paziente affrettandomi a cambiare argomento.
— Il Movimento sta diventando rancido, Jake — aveva appena borbottato Carlson; e mi venne in mente un'ottima digressione. — Wendell — dissi senza riflettere, — ti rendi conto che tu personalmente sei in grado di rendere migliore il mondo? Gli brillarono gli occhi. — E come? — Probabilmente sei la massima autorità mondiale per quanto riguarda l'olfattometria e l'apparato olfattivo umano, fra le altre cose... giusto? — Sì, credo di sì. E con questo? — Carlson si spostò, a disagio, nell'apparecchio a trazione. Siccome in quel momento era il radicale, si sentiva fuori posto di fronte all'allusione alla sua personalità di scienziato. Pensava che avesse ben poco a che fare con le Realtà della Vita. — Hai mei pensato — insistetti, e non me lo perdonerò mai, — che quasi tutti i sottoprodotti indesiderabili della vita del ventesimo secolo, gli aspetti più odiosi dell'Uomo Tecnologico puzzano letteralmente? Il mondo intero sta diventando rancido, Wendell, non soltanto il Movimento. Le fabbriche di automobili che inquinano, le città sovraffollate... Wendell, perché non potresti realizzare un soppressore selettivo per l'olfatto... e produrre l'anosmia controllata? Oh, lo so che basta un po' di formaldeide, e che qualche volta basta farsi togliere le adenoidi. Ma un uomo non dovrebbe essere costretto a rinunciare all'odore della pancetta fritta per sopravvivere a New York. E tu sai che ci stiamo avvicinando a quel punto... negli ultimi anni non è stato necessario lasciare la città e ritornarvi per accorgersi di quanto puzza. Il naturale meccanismo soppressore del cervello, quale che sia, è attivato più o meno al suo limite massimo. Perché non puoi inventare un filtro a spettro circoscritto per aiutarlo? Sarebbe gradito ai lavoratori della nettezza urbana, ai tecnici... sarebbe un dono di Dio persino per l'uomo della strada. Carlson mostrò un blando interesse. Il filtro anosmico sarebbe stato una mordente affermazione politica e una vera benedizione per l'Umanità. Era stato vagamente soddisfatto del successo del suo rimedio per il raffreddore, e credo che desiderasse sinceramente migliorare il mondo... per quanto i suoi metodi tendessero alla perversione. Discutemmo per un po' l'idea, e poi me ne andai. Se Carlson non si fosse annoiato a morte all'ospedale, non avrebbe mai preso a nolo il televisore. Purtroppo, quel giorno lo spettacolo di seconda serata era il film tratto da Il morbo di Satana di Alistair MacLean. Mentre guardava quel film assurdo, Carlson si sentì intellettualmente disgustato dalla nozione che fosse possibile isolare un virus così diabolicamente viru-
lento che «ne basterebbe un cucchiaino per cancellare la vita sulla Terra in pochi giorni». Tuttavia gli diede l'idea... un capriccio, una fantasia... una fantasia seducente. Il giorno dopo, per telefono, mi chiese precisazioni molto casualmente; e io gli assicurai, in base alle mie esperienze in fatto di vettorizzazione dei virus, che MacLean non aveva dato i numeri. Anzi, dissi, la moderna guerra batteriologica avrebbe fatto apparire il Morbo di Satana, al confronto, uno scherzetto da bambini. Carlson mi ringraziò e cambiò argomento. Quando fu dimesso dall'ospedale venne nel mio ufficio e mi chiese di lavorare con lui per un anno intero, escludendo ogni altra cosa, ad un progetto la cui natura preferiva non discutere. — Perché hai bisogno di me? — gli chiesi, meravigliato. — Perché — mi disse lui, finalmente, — tu sai come creare un Morbo di Satana. Ma io intendo creare un Germe di Dio. E tu potresti aiutarmi. — Eh? — Ascoltami, Jake — disse con quella sua deliziosa informalità, — ho sconfitto il comune raffreddore... e ci sono ancora orde di persone che starnutiscono. L'unica cosa che ho pensato di fare, con il rimedio, è stato metterlo nelle mani delle industrie farmaceutiche, e ho fatto tutto il possibile perché non lo sfruttassero indegnamente; ma ci sono ancora individui sofferenti che non possono permettersi di comprare quella roba. Bene, non è necessario. Jake, un raffreddore può uccidere qualcuno che sia abbastanza indebolito dalla fame... io non posso sconfiggere la fame, ma potrei eliminare i raffreddori dal pianeta in quarantotto ore... con il tuo aiuto... — Un vettore per un virus benigno... — Ero sbalordito, tanto dall'idea di decommercializzare la medicina quanto dal rimedio specifico in questione. — Ci sarebbe da lavorare parecchio — continuò Carlson. — Nella forma attuale il mio rimedio non è compatibile con quel sistema di diffusione... non pensavo secondo queste linee. Ma scommetto che sarebbe possibile, se mi aiutassi. Jake, non ho tempo per imparare la tua specializzazione... alleati a me. Quegli sfruttatori dell'industria farmaceutica mi hanno arricchito quanto basta perché possa pagarti il doppio della Columbia, e del resto tutti e due abbiamo diritto a un anno sabbatico. Cosa ne dici? Ci pensai sopra, ma non abbastanza. La prospettiva di collaborare con un Premio Nobel era una tentazione troppo forte. — D'accordo, Wendell.
Ci mettemmo all'opera nella casa-laboratorio di Carlson a Long Island, lui in cantina e io al pianterreno. Lavorammo come ossessi per quasi un anno, accarezzando sogni personali e massacrando decine di migliaia di cavie. Carlson era severo ed esigente e via via che il nostro lavoro procedeva incominciò a «guardare sopra la mia spalla» per imparare la mia specializzazione mentre scoraggiava le domande sui suoi progressi. Pensavo che conoscesse troppo bene il suo campo per parlarne in modo intelligente con chiunque, eccettuato se stesso. Eppure assorbiva tutta la mia conoscenza con grande rapidità; e alla fine sembrava che ne sapesse quanto me in fatto di virologia. Un giorno sparì senza dare spiegazioni, e ritornò dopo un paio di settimane con una voce che mi sembrava più sottile e nasale. E verso la fine dell'anno, un giorno mi chiamò al telefono. Come sempre, passavo il weekend con mia moglie e i miei due figli ad Harlem. Si avvicinava il Natale e io e Barbara stavamo discutendo di alberi naturali e di alberi di plastica quando squillò il telefono. Non mi sorpresi nel sentire la voce acuta di Carlson, che in quegli ultimi tempi aveva preso a rassomigliare al suono dell'oboe... l'unica cosa strana era che avesse telefonato durante le normali ore di veglia. — Jake — cominciò senza preamboli, — non ho né tempo né voglia di discutere, quindi stai zitto e ascolta, d'accordo? Ti consiglio di prendere con te la tua famiglia e di lasciare New York immediatamente... ruba una macchina, se è necessario, o sequestra un autobus se preferisci, ma vedi di trovarti almeno a venti miglia di distanza prima di mezzanotte. — Ma... — ... dirigiti verso nord, se vuoi ascoltare il mio consiglio, e per amor di Dio stai lontano da tutte le città e cittadine e dai gruppi di gente. Se puoi, passa sopravvento rispetto alle industrie più vicine, e porta con te una quantità di formaldeide... e anche un'arma da fuoco, se ce l'hai. Addio, amico mio, e ricorda che faccio questo per il bene dell'umanità. Non so se lo capirai, ma me lo auguro. — Wendell, in nome di Dio, che cos'hai...? — Ma la comunicazione s'era interrotta. Barbare era vicina a me e aveva l'aria preoccupata. Teneva in braccio mio figlio Isham. — Che cosa c'è? — Non lo so — dissi, incerto. — Ma credo che Wendell sia impazzito. Devo andare da lui. Resta con i bambini. Tornerò al più presto possibile. E... Barbara... — Sì?
— So che ti sembrerà pazzesco, ma prepara una valigia e tieniti pronta a lasciare immediatamente la città se ti telefono per dirti di farlo. — Lasciare la città? Senza di te? — Sì, appunto. Lascia New York e non tornarci mai più. Sono virtualmente certo che non dovrai farlo, ma c'è la vaga possibilità che Wendell sappia di cosa sta parlando. In tal caso, ti aspetterò alla baita in riva al lago, al più presto possibile. — Poi rifiutai di rispondere ad altre domande e me ne andai, diretto a Long Island. Quando arrivai alla casa di Carlson in Old Westbury entrai con la mia chiave e feci per scendere nel suo laboratorio. Ma lo trovai al piano terreno, nel mio, appollaiato su uno sgabello, intento a fissare una bottiglia che teneva nella destra. L'interno roteava e cambiava colore. Carlson alzò la testa. — Sei uno stupido, Jake — mi disse a voce bassa prima che io potessi parlare. — Ti avevo dato una possibilità. — Wendell, che cosa diavolo significa? Mia moglie s'è presa una paura d'inferno... — Ricordi l'anosmia controllata di cui mi parlasti quand'ero all'ospedale? — continuò lui, tranquillamente. — Dicesti che il guaio è che il mondo puzza, giusto? Lo fissai. Ricordavo vagamente le mie parole. — Bene — disse. — Ho trovato una soluzione. E Carlson mi disse che cosa teneva in mano. Una sola parola. Persi la testa, completamente. Gli saltai addosso, cercando di stringergli la gola, e lui mi colpì con la mano sinistra; l'anello sfaccettato mi lasciò la cicatriche che ho ancora oggi. Persi i sensi. Quando rinvenni ero solo, solo con un rimorso irrimediabile che urlava nella mia mente, e con un terrore che mi attanagliava le viscere. Sul pavimento accanto a me c'era un biglietto scritto da Wendell, e mi diceva che, secondo il mio orologio, avevo un'ora a disposizione. Mi precipitai subito al telefono e sprecai dieci minuti cercando di chiamare Barbara. Non ci riuscii... un guasto alla linea, mi disse il centralino. Stravolto, presi tutta la formaldeide che trovai nei due laboratori e un respiratore, uscii nella notte e mi accinsi a rubare una macchina. Ci misi venti minuti, niente male per il primo tentativo, ma il tempo volava... ce la feci appena ad arrivare a Manhattan, nonostante le condizioni ideali del traffico, prima che l'autostrada diventasse una macelleria. Alle nove in punto, Wendell Morgan Carlson salì sul tetto dell'enorme Butler Library della Columbia, sostenuta dalle colonne finto-greche e da
secoli di pensiero umano, rivolta verso nord al di sopra di un quadrilatero in cui l'erba e gli alberi avevano quasi rinunciato a vivere, verso l'immensa cupola della Lowe Library, e più oltre, verso il ghetto dove mia moglie e i mei figli stavano attendendo ignari. Teneva nelle mani la boccetta che non ero riuscito a strappargli: conteneva approssimativamente due cucchiaini di una coltura di virus infinitamente raffinata e concentrata. Era il prodotto finale del nostro lavoro di un anno, e duplicava ciò che i militari avevano impiegato anni e miliardi per ottenere: una varietà di virus che poteva diffondersi sul globo in quarantotto ore. Non c'erano antidoti né vaccini, non c'erano difese possibili, virtualmente, per tutta l'umanità. Era diabolico, immorale ed efficientissimo. D'altra parte, non era letale. Non lo è, in se stesso. Ma Carlson aveva concluso, come tanti altri prima di lui, che qualche milione di vite era un prezzo accettabile per la salvezza del mondo; e perciò alle nove in punto della sera del 17 dicembre 1984 si sporse dal parapetto di Butler Hall e lasciò cadere la sua boccetta sulla distesa di cemento, sei piani più sotto. La boccetta andò in frantumi e sparse il suo contenuto nella brezza fiacca che soffiava ancora sul campus. Carlson mi aveva detto una sola parola, quel pomeriggio: «Iperosmia». Entro quarantott'ore ogni uomo, donna e bambino rimasto vivo sulla terra possedeva un olfatto approssimativamente cento volte più efficiente di quello di qualunque lupo che mai abbia ululato. In quelle quarantotto ore, perì poco meno di un quinto della popolazione del pianeta, suicida con tutti i mezzi possibili e immaginabili, e ogni città del mondo riversò i suoi abitanti rimasti vivi nella campagna circostante. L'antico sistema soppressore degli odori esistente nel cervello umano crollò sotto la domanda insopportabile, sovraccaricato e bruciato in un istante. Il complesso colosso chiamato Civiltà Moderna si arrestò in poco meno di due giorni. Nelle ultime ore, i pochi cittadini dell'altra parte del globo che ascoltarono e credettero le brevi, stravolte grida di morte dei grandi mass-media lottarono valorosamente, ma invano, per realizzare misure d'emergenza. I più saggi tentarono, come avevo fatto io, di annullare il loro olfatto con sostanze come la formaldeide; ma c'è un limite alla quantità di formaldeide che persino i più disperati possono riuscire a procurarsi in un giorno o anche meno, e in generale i suoi effetti sono temporanei. Altri optarono per ambienti stagni, se riuscivano a trovarli; e vi morirono ben presto, per asfissia quando le loro riserve d'aria si esaurirono, o per suicidio quando, nella speranza fervida di aver evitato il virus, aprirono le porte. Si scopri che la tecnologia umana non aveva prodotto tappi per il naso effi-
cienti, e neppure sistemi di purificazione dell'aria capaci di filtrare il virus di Carlson. Sebbene il resto del regno animale non fosse particolarmente colpito, l'umanità non poté frenare gli effetti del tremendo Morbo Iperosmico, e incominciò l'Esodo... Non credo che Carlson si rallegrasse della carneficina che seguì, anche se un malthusiano di stretta osservanza l'avrebbe forse considerata una potatura necessaria ormai da molto tempo. Ma è facile capire perché la riteneva necessaria, per visualizzare il «mondo migliore» al quale sacrificò tante vite. Le città cadute in rovina. Le automobili abbandonate a marcire. L'industria pesante estinta come i dinosauri. L'industria degli alimenti sintetici alla rovina. Il profumo divenuto ciò che era sempre stato, un ricordo; e così pure il tabacco. Un'ondata di smania di pulizia che investiva il mondo, e una flatulenza in pubblico diventava un reato capitale. Secaucus, nel New Jersey, abbandonata agli avvoltoi. Le comuni del ritorno alla natura che trovavano la loro apoteosi, aiutando i superstiti urbani a sopravvivere (la tipica frase: «Se non ti piacciono gli hippy, la prossima volta che hai fame chiama un poliziotto»). La forza della disperazione che imponeva nuovi sviluppi nella produzione dell'energia per mezzo del sole, del vento e dell'acqua anziché mediante la combustione inefficiente di risorse più preziose. Gli impianti igienici finalmente perfezionati. E un cambiamento profondo e interessante nelle usanze umane dell'accoppiamento via via che il finto interesse o disinteresse fosse diventato una simulazione insostenibile (come avrebbe potuto spiegarci qualunque lupo, l'odore del desiderio non si può simulare né nascondere). Nel complesso, un osservatore imparziale (come Carlson credeva di essere) avrebbe predetto che, al prezzo complessivo del trenta o del quaranta per cento della sua popolazione (una perdita non troppo grave) il mondo, dieci o vent'anni dopo, sarebbe stato un posto migliore per viverci. Invece, in realtà, adesso ci sono quattro miliardi di persone in meno, e in quest'anno 2 AC abbiamo raggiunto solo una modesta possibilità di sopravvivenza al prezzo dell'ottanta o del novanta per cento della popolazione globale. La prima cosa che Carlson non poteva aspettarsi costò un miliardo e mezzo di vite durante il primo mese del Nuovo Mondo. La sua mente a compartimenti stagni non aveva seguito gli sviluppi nel campo della psicologia, una disciplina che gli appariva frustrante. E quindi non conosceva i lavori di Lynch e di altri, che dimostravano in modo conclusivo che l'au-
tismo era il risultato del sovraccarico sensoriale. I bambini autistici, e Lynch l'aveva provato, erano vittime di uno squilibrio fisiochimico che metteva fuori uso il circuito soppressore per la vista, l'udito, il tatto e l'olfatto, inondava i loro cervelli con una valanga intollerabile di dati inutili e li sconvolgeva costringendoli a ripiegare in se stessi. Si dice che l'LSD produca un effetto simile, su scala più ridotta. Il Virus Iperosmico produsse un effetto simile su scala più vasta. In poche settimane, milioni di adulti e bambini semi-catatonici perirono di denutrizione, di freddo e di caldo, o di lesioni accidentali. Resta un mistero perché alcuni sopravvissero allo schock e si adattarono mentre altri non ci riuscirono, sebbene esistano dati sparsi dai quali risulta che a soffrire di più furono coloro che avevano già un olfatto relativamente acuto. La seconda cosa che Carlson non poteva aspettarsi era la Guerra. La Guerra era stata causata nel momento in cui aveva lasciato cadere la boccetta ; ma forse lo si può giustificare, se non l'aveva prevista. Non fu una guerra come se n'erano sempre viste sulla Terra secondo la storia documentata, gli umani gli uni contro gli altri oppure contro esseri inferiori. Non c'era nulla per cui potessero combattere i superstiti confusi e dispersi della Piaga Iperosmica, e pochissimi erano abbastanza sfaccendati per poterla combattere; e adesso, siamo equipaggiati meglio per competere con gli esseri inferiori. No, la guerra scoppiò tra i profughi stravolti... e i Musky. Per noi è difficile, oggi, immaginare come fosse possibile che la razza umana avesse conosciuto per tanto tempo l'esistenza dei Musky senza crederci. Innumerevoli umani riferivano d'essere entrati in contatto con i Musky... che di volta in volta venivano chiamati «fantasmi», «poltergeist», «leprechaun», «folletti», «gremlin» e con una quantità di altri nomi fuorviami... e neppure uno di quei mille e mille testimoni veniva preso sul serio dall'umanità in generale. Alcuni di noi vedevano i loro gatti fissare affascinati qualcosa che non c'era e si chiedevano che cosa guardassero, ma senza crederci. Nella sua tipica arroganza, la razza umana presumeva che la peculiare perversione dell'entropia chiamata «vita» fosse una proprietà esclusiva dei solidi e dei liquidi. Ancora oggi sappiamo pochissimo dei Musky, a parte il fatto che sono di natura gassosa e sono percettibili soltanto per mezzo dell'olfatto. Se il lettore è interessato, può consultare il rivoluzionario studio del dottor Michael Gowan che tenta una analisi psicologica di questi esseri completamente alieni, I cavalieri del vento (Fresh Start Press, 1986).
Una cosa che sappiamo con certezza è che sono capaci d'una giocosità incredibile e inquietante. Sebbene non siano veri telepati, i Musky possono proiettare e spesso imporre stati d'animo a breve distanza, e sembra che per secoli si siano divertiti a spaventare a morte certi umani scelti a caso. Forse ridevano come bambini innocenti quando a Salem venivano bruciate sul rogo le donne alle quali erano stati attribuiti i loro scherzetti. Il dottor Gowan suggerisce che questo aspetto della loro psiche razziale è veramente infantile... ritiene che la loro razza sia ancora nella fase dell'infanzia. Come la nostra, forse. Ma nella loro puerilità, i Musky possono essere pericolosi, volutamente e involontariamente. Anni fa, prima dell'Esodo, la gente si chiedeva perché una razza capace di progettare una stazione spaziale non sapesse costruire un aereo sicuro... gli aerei cadevano dal cielo con regolarità allarmante. Spesso si trattava semplicemente di errori tecnici; ma sospetto che almeno altrettanto spesso un Musky noncurante, perduto in chissà quali pensieri alieni, veniva risucchiato dalla presa d'aria di un jet lanciato a tutta velocità e, morendo, faceva scoppiare il motore. È stata questa intuizione a indurmi a teorizzare che l'estremo calore potesse alterare e uccidere i Musky; e questo ci ha dato la prima e finora unica arma nella guerra furiosa ancora in corso tra noi e i cavalieri del vento. Perché, come molti bambini, i Musky sono particolarmente paranoidi. Quasi nell'istante in cui si accorsero che adesso gli uomini potevano percepirli direttamente, attaccarono con una ferocia indicatrice d'un panico cieco. Impararono presto a batterci e ucciderci: attaccandosi alla faccia di un umano e costringendolo ad assorbirlo con il respiro, un Musky può rovinargli l'apparato respiratorio. L'unica soluzione, in condizione di combattimento, è un'arma la quale spara un proiettile abbastanza caldo per bruciare un Musky... ed è una soluzione imperfetta. Se non riuscite a bruciare in tempo un Musky prima che vi raggiunga, potete trovarvi di fronte alla spiacevole scelta tra rovinarvi i polmoni e farvi saltare la faccia. Oggi ci sono anche troppi Senza Faccia, oggetto di orrore e di pietà, mantenuti dai loro simili spiacevolmente consapevoli che domani potrebbe accadere anche a loro la stessa cosa. Inoltre noi Techno, qui a Fresh Start, impegnati a ricostruire almeno un minimo di tecnologia, dobbiamo naturalmente portare i tamponi per il naso, inventati di recente, per lunghi intervalli mentre svolgiamo attività civilizzate. Perciò lavoriamo con il continuo timore che da un momento all'altro possiamo sentire proiezioni aliene di terrore e di paura, percepire anche
attraverso i filtri nasali l'odore caratteristico di muschio che dà ai Musky il loro nome, ed esalare i polmoni negli ultimi spasimi della morte. Dio sa come comunicano i Musky... se pure comunicano. Forse hanno semplicemente una mente collettiva o una mentalità d'alveare. Che cosa sceglierebbe l'evoluzione per una razza di nuvole di gas che turbinano sulla Terra portate dall'urlante mistral? Forse un giorno troveremo il modo di prenderne prigioniero uno e di studiarlo; per il momento ci accontentiamo di sapere che si possono uccidere. L'unico Musky buono è un Musky morto. Un giorno, forse, risaliremo la scala dell'evoluzione tecnologica quanto basta per condurre la battaglia in casa dei Musky: per il momento stiamo almeno diventando difensori formidabili. Un giorno, forse, avremo il tempo di cercare Wendell Morgan Carlson e di presentargli il conto; per ora ci accontentiamo del fatto che non osa mostrarsi fuori da New York, dove secondo la leggenda si nasconde dalle conseguenze delle sue azioni. III Dal diario di Isham Storie ... ma la mia gestalt dei diciotto anni che mi hanno portato su una rotta d'intercettazione nei confronti del traditore di mio padre non era affatto formulata nel modo pedantesco dei resoconti storici scritti da mio padre. Anzi, si era ridotta a quattro parole: Dio ti maledica, Carlson! Ormai era quasi metà pomeriggio. L'effetto dell'eroina stava passando; non avevo molto tempo. Broadway diventava sempre più deprimente via via che camminavo. Avete mai visto un autobus pieno di scheletri... con i piccioni che ci vivono dentro? Il braccio mi faceva un male d'inferno, e nella mia coscia un muscolo aveva appena annunciato che si era stirato... adesso zoppicavo leggermente. Lo zaino si appesantiva ad ogni passo e avevo l'impressione che il tampone di destra lasciasse filtrare qualcosa intorno alla flangia. Non potevo dire di sentirmi in gran forma. Continuai a camminare verso nord. Arrivai in Columbus Circle, e d'impulso svoltai in Central Park. Era un'enclave di vita in quel territorio di morte, e non potevo perdermelo... sebbene l'intelletto mi avvertisse che avrei potuto incontrare un doberman
che da vent'anni non aveva visto una scatola di cibo per cani. L'Esodo aveva fatto bene almeno a quel posto... era lussureggiante di vegetazione, adesso che orde di umani non soffocavano più la sua naturale aspirazione a vivere. Olmi e querce si protendevano verso le nubi con lo stesso ottimismo degli aceri e delle betulle intorno a Fresh Start, e l'erba alta era la cosa più verde che avessi visto a New York. Eppure... in certi punti era morta, e arbusti morti erano sparsi qua e là. Forse le prime impressioni m'ingannavano... forse un pezzetto di terra circondato da una enorme cripta di cemento non era un'ecologia vivibile, dopotutto. Ma del resto, forse non lo era neppure Fresh Start. Mi sentivo di nuovo depresso. Misi in tasca la bomba a mano e sedetti su una panchina del parco, dicendomi che un po' di riposo avrebbe fatto miracoli per la zoppia. Dopo un po', alcuni elementi statici del paesaggio si mossero... quel posto era vivo. C'erano gatti, e cani magri e famelici di varie specie, e apparentemente nessuno era abbastanza vecchio per sapere cos'era un uomo. La loro fiducia mi parve incoraggiante... come ho detto, sono un sicario pacifico e socievole. Mi guardai intorno, chiedendomi perché tanti degli scheletri umani relativamente poco numerosi avevano portato armi la notte dell'Esodo... perché entrare armati in un parco? Poi sentii una specie di colpo di tosse e mi voltai, e per un secondo pazzesco credetti di sapere cos'era. Un leopardo. Lo riconobbi dalle illustrazioni sui libri di mio padre; e sapevo cos'era e sapevo cosa poteva fare. Ma il mio sistema dell'adrenalina era stanco di mettermi in pugno il fucile... quindi restai assolutamente immobile e mi concentrai per esalare un odore amichevole. La mia pistola produceva alte temperature, non potenza d'arresto; le bombe a mano non servono a molto contro un bersaglio mobile e io stavo appoggiato all'indietro contro il fucile... ma non era per questo che stavo immobile. Quel giorno avevo imparato che scattare non è la risposta ottimale alla paura. Perciò guardai meglio e vidi che il leopardo era incredibilmente vecchio, magro e sfregiato da unghiate, più maestoso che temibile. Se in Central Park ci fossero stati animali selvatici in libertà, mio padre me l'avrebbe detto... conosceva il mio percorso. Eppure quel felino sembrava abbastanza vecchio per risalire a tempi anteriori all'Esodo. Sicuramente sapeva che ero un uomo. Immagino che fosse fuggito da uno zoo nella confusione del momento, o forse se l'era tenuto in casa qualche riccone. So che facevano cose del genere, ai Vecchi Tempi. Secondo me un leopardo doveva essere
una seccatura più di un'aquila... mio padre ne tenne una per quattro anni, e io non avevo mai avuto tante grane per il pollame come in quel periodo. Mio padre diceva che era il simbolo di qualcosa di grande che era morto, ma io pensavo che fosse una stupidaggine. Però quel vecchio felino sembrava abbastanza amichevole, a guardarlo. Sembrava patriarcale e saggio, e terribilmente affamato. Presi una decisione rischiosa, senza un motivo riconoscibile. Mi sfilai adagio lo zaino dalle spalle, tirai fuori alcune tavolette nutritive, mi avvicinai di quattro passi al leopardo e mi accosciai, porgendogliele. Fosse per istinto, per un ricordo o per intuizione, il grosso felino riconobbe la mia intenzione e si avvicinò, senza fretta. Stranamente, più si avvicinava e meno avevo paura, fino a quando mi passò sulla mano le fauci così grandi che avrebbero potuto amputarmela. So che le tavolette alimentari non hanno odore di niente, e tanto meno di cibo, ma lui capì empaticamente che cosa gli offrivo... o forse sentì l'ironia simbolica dei due antichi antagonisti, negro e leopardo, che s'incontravano a New York per dividersi il cibo. Le mangiò tutte, senza scalfirmi le dita. Aveva la lingua sorprendentemente ruvida e raspante, ma non rabbrividii; e non ne avevo motivo. Quando ebbe finito emise un suono che era una via di mezzo tra un tossire e un russare, e mi strusciò la testa contro la gamba. Era vecchio, ma poderoso; persi l'equilibrio e caddi all'indietro. Atterrai correttamente, certo, ma non mi rialzai. Le forze mi abbandonarono e restai lì a guardare la parte inferiore della panchina. Per la prima volta da quando ero entrato in New York avevo comunicato con un essere vivente, e avevo ricevuto una risposta: e inspiegabilmente quella scoperta mi aveva tolto le forze. Mi sdraiai sull'erba e attesi che il terreno smettesse di sussultare, sorpreso di constatare quanto ero debole e in quanti posti avevo dolori insopportabili. Dissi alcune parole che mi aveva insegnato Collaci, e questo mi aiutò, ma non abbastanza. L'effetto dell'eroina era passato prima del dovuto, e non ne avevo più. Sembrava che fosse venuto il momento di farmi una fumata. Discussi con me stesso mentre allungavo le braccia per prendere l'astuccio del pronto soccorso dallo zaino, ma non vedevo alternative. Carlson non era un combattente addestrato, non aveva mai avuto un istruttore come Collaci: avrei potuto farlo fuori anche da drogato. E forse non ce l'avrei fatta a rimettermi in piedi, altrimenti. Lo spinello che scelsi era sottile come un ago... troppo mi avrebbe fatto più male che bene. Non avevo intenzione di mettermi fuori uso in questa
città. L'accesi con l'accendino a bobina e trassi una boccata profonda, e trattenni il fumo nei polmoni il più a lungo possibile. A metà della seconda tirata le foglie che danzavano sopra la mia testa incominciarono a scintillare, e diventò più difficile localizzare la mia stanchezza. Alla terza boccata divenne solo un ricordo, e l'ultima incominciò a sciogliere i dolori come l'acqua calda scioglie la neve. L'analgesico della natura: il dono della terra. Incominciai a pensare al leopardo, che adesso s'era sdraiato e si lavava le zampe. Era magnifico nella sua decadenza... qualcosa, nei suoi occhi, mi diceva che intendeva vivere in eterno e morire nel tentativo. Era l'unico della sua specie nell'universo, e potevo identificarmi con lui... anch'io mi ero sempre sentito diverso da tutti gli altri. Eppure... ero della stessa specie di quelli che l'avevano intrappolato, ingabbiato, mostrato ai curiosi, e poi l'avevano abbandonato a morire a mezzo mondo di distanza dalla sua patria. Perché non cercava di uccidermi? Al suo posto mi sarei comportato forse in modo diverso... Con la chiarezza logica data dalla droga, continuai a riflettere. Un tempo gli antenati del leopardo avevano cercato di uccidere i miei e di mangiarli, eppure non c'era motivo perché io odiassi lui. Ucciderlo non avrebbe aiutato i miei antenati. Uccidere me non avrebbe dato nessuna utilità al leopardo, non gli avrebbe facilitato l'esistenza... se non con un pasto per un giorno, e io gliel'avevo già dato. E allora, mi chiesi irrequieto, che cosa risolverò uccidendo Carlson? Non potevo rimettere nella bottiglia il Virus Iperosmico, e neppure salvare la vita di quelli che erano ancora vivi. Perché fare tanta strada per uccidere? Non era un pensiero nuovo, naturalmente. L'interrogativo si era posto tante volte durante il mio addestramento. Collaci pretendeva di discutere di filosofia mentre mi allenava a combattere: affermava che un uomo che non sapeva sostenere una conversazione mentre si batteva per la propria vita non poteva diventare un killer davvero efficiente. Potevi interromperti per riflettere, ma se decideva che stavi semplicemente risparmiando il fiato smetteva di tirare i pugni. Un giorno non avevamo un argomento particolare da dibattere e io espressi i miei dubbi circa la missione per la quale mi stavo preparando. A cosa servirà uccidere Carlson? chiesi a Collaci. Il Maestro si disimpegnò e si tirò indietro, ansimando un po', e sfoggiò il suo raro sogghigno da lupo. — La sopravvivenza ha strane permutazioni, Isham. La vendetta è un attributo unicamente umano... ci è più facile seppellire i nostri morti quando
li abbiamo vendicati. Noi abbiamo molti morti. — Scelse uno stuzzicadenti e se lo cacciò in bocca. — E per amore di tuo padre, devi essere tu a farlo... solo se è suo figlio a provvedere all'espiazione il dottor Stone potrà assolvere se stesso. Altrimenti ci andrei io, a uccidere quello stupido bastardo. — E all'improvviso cercò, senza riuscirci, di fratturarmi la clavicola. E così adesso ero seduto, stanco, affamato, ferito e un po' intontito, in mezzo a un enorme mausoleo isolano, e mi rivolgevo la domanda che subito dopo avevo rivolto a Collaci mentre cercavo, senza riuscirci, di sfondargli la gabbia toracica: è morale uccidere un uomo? Dopo tanti mesi, mi sembrò di sentire di nuovo la sua risposta: Forse no, ma qualche volta è necessario. Con quel pensiero le forze mi tornarono e mi alzai in piedi. I miei pensieri erano viscidi come un sapone bagnato, erano vicini ma sfuggivano alla mia stretta. Ne pescai uno in quel groviglio e me l'avvolsi addosso, furiosamente: ucciderò Wendell Morgan Carlson. Era sufficiente. Dissi addio al leopardo che era più fortunato di me perché non sarebbe mai stato ossessionato dagli antichi fantasmi, lasciai il parco e continuai lungo Broadway, vigile ed esiziale per quanto sapevo esserlo. Quando arrivai alla 114a Strada, guardai sopra i tetti, e la vidi: un'esile colonna di fumo a nord-est, verso Amsterdam Avenue. La leggenda e l'intuizione di mio padre non avevano sbagliato. Carlson era rintanato dove s'era sempre sentito più sicuro... nell'utero accademico della Columbia. Sentii un sogghigno schiudermi le labbra. Presto sarebbe finito tutto, e avrei potuto tornare ad essere me stesso... chiunque fossi. Lasciai lo zaino sotto una station wagon e considerai la mia situazione. Avevo tre proiettili traccianti nella pistola anti-Musky, tre bombe incendiarie agganciate alla cintura, e il fucile con mirino telescopico con il quale intendevo uccidere Carlson. Nel fucile c'era un caricatore con otto proiettili in grado di uccidere un uomo... sette più del necessario. Controllai il funzionamento e misi un proiettile in canna. Nel mio zaino c'era una piantina dettagliata del Morningside Campus, ma non la tirai fuori... ne avevo una identica nella mente. Anche se io e il Maestro non avevamo condiviso completamente la certezza di mio padre che Carlson fosse alla Columbia, avevo passato ore ed ore studiando le piante del campus che mi dava lui; le avevo studiate scrupolosamente come le carte stradali di New York che mi aveva dato Collaci. Sembrava l'unico contributo diretto che mio padre poteva dare alla mia missione.
A quanto pareva, il suo sforzo aveva portato a un buon risultato. Mi chiedevo se Carlson mi stava aspettando. Non ero sicuro che il chiasso della macchina che avevo fatto esplodere nella parte bassa della città fosse arrivato fin lì; non sapevo se uno scoppio in una metropoli piena di tubature del gas abbandonate fosse abbastanza insolito per mettere in guardia Carlson. Perciò dovevo presumere che fosse così. Altri uomini erano venuti a New York per liquidare Carlson, come indipendenti, e nessuno era mai tornato. Adesso la mia mente funzionava con efficienza, senza più confusione. Ero impaziente. Un lampione, investito da una macchina, si appoggiava a un muro come se fosse ubriaco, e per un momento pensai di salire sui tetti, per sfruttare al massimo il fattore sorpresa. Ma i tetti sono territorio dei Musky, e del resto non avevo la forza di arrampicarmi fin lassù. Entrai nel campus da sud-ovest, dall'ingresso della 115a Strada. Come aveva predetto mio padre, il cancello era chiuso... solo l'entrata principale sulla 116a Strada veniva lasciata aperta di notte a quei tempi, ed era notte quando Carlson aveva lanciato la boccetta. Ma la serratura era una semplice Series 10 America che avrebbe fatto ridere il Maestro. Cedette al mio secondo tentativo, e io passai oltre il cancello di ferro senza far rumore... avevo provveduto a ungere i cardini, prima. Una scalinata portava a un breve passaggio, un mosaico di esagoni grigi fiancheggiato da muri che arrivavano all'altezza della cintura. Il passaggio si snodava tra Furnald e Ferris Booth Halls, e sapevo che si apriva nel grande quadrilatero interno della Columbia. C'erano foglie sparse dappertutto, e alberi d'ogni specie si agitavano nell'energica brezza pomeridiana, in un milione di girandole verdi. Procedetti rasente al muro di destra fino a quando arrivai a un muro perpendicolare più alto, gli girai intorno e mi trovai davanti alla grande facciata di pietra e di vetri sfondati di Ferris Booth Hall, il centro delle attività studentesche; girai gli occhi verso la Butler Library, che vedevo dal lato ovest. In mezzo c'erano parecchi macchinari da costruzione... uno dei vari gruppi studenteschi che avevano avuto sede in Booth Hall era riuscito a far saltare in aria se stesso e una parte cospicua dell'edificio nel 1983, e la ricostruzione era ancora in corso il Giorno dell'Esodo. Una gru enorme stava davanti all'edificio devastato, circondata da mucchi di mattoni e di tubi, un bulldozer, capannoni, qualche camion, un serbatoio di benzina da mille litri e un paio di roulotte. Ma i miei occhi guardavano al di là di quella ferraglia convenzionale,
verso un congegno curioso, proprio davanti alla Butler Library e seminascosto dalle siepi incolte. Non avrei saputo dire cos'era: sembrava una piovra che facesse l'amore con un banco stereo. Ma evidentemente non quadrava con il paesaggio. Anche la seconda intuizione di mio padre era esatta: Carlson si serviva della Butler Library come della sua base delle operazioni. Dio solo sapeva a cosa serviva quel congegno; ma un uomo senza adenoidi, in una città piena di Musky e di pastori tedeschi affamati non l'avrebbe costruito più lontano da casa di quanto fosse indispensabile. Il posto era quello. Mi riempii d'aria il petto e i polmoni, e sogghignai fino a che mi fecero male le guance. Impugnai il fucile e mi guardai le mani. Salde come rocce. Carlson, bastardo assassino, pensai, ci siamo. La razza umana ti ha trovato, e la sua Mano è vicina. Ancora qualche respiro e tu morirai di morte violenta, vecchio, come un gatto innocuo in una vetrina d'un tabaccaio, come un bambino di otto anni su un marciapiedi di Harlem, come una civiltà planetaria che credevi di migliorare. Preparati. Avanzai. Wendell Morgan Carlson usci tra i grandi lampioni sfondati che fiancheggiavano l'entrata principale di Butler Hall. Lo vidi chiaramente di profilo: era la faccia che avevo imparato a memoria dal Manifesto e dai disegni di mio padre, riconoscibile nella luce pomeridiana nonostante la barba bianca e i capelli scomposti. Guardò verso di me, rabbrividì e si tirò indietro una frazione di secondo prima del mio sparo. Deciso a inchiodarlo prima che potesse arraffare un'arma e trincerarsi, abbassai la testa e mi misi a correre in cerca del più grande assassino di tutti i tempi. E il primo Musky attaccò. Il terrore mi grandinò nel cervello, scacciando la rabbia, e qualcosa di caldo e intangibile s'incollò alla mia faccia. Urlai, credo, ma riuscii a trattenermi dall'aspirare mentre cadevo e rotolavo, lasciando il fucile e cercando invano di strapparmi quella cosa dalla faccia. L'ultima cosa che vidi prima che i gas invisibili mi offuscassero la vista fu l'enorme gru accanto a me, sulla destra, con il lungo braccio teso verso il cielo come per indicare il Paradiso. Poi il mondo tremolò e sbiadì, e io strappai la pistola dalla fondina. Mirai senza vedere, contrassi spasmodicamente l'indice, e la pistola mi sobbalzò nella mano. Il colossale serbatoio di benzina fra me e la gru esplose con un whoom e io singhiozzai di sollievo mentre mi alzavo con uno sforzo e mi tuffavo at-
traverso le fiamme. Le proiezioni del Musky moribondo mi dilaniarono la mente e io rotolai via, bruciandomi i polmoni con un'inspirazione convulsa mentre il Musky esplodeva dietro di me. Mentre andavo a sbattere contro la gru, il mio cervello urlò: I Musky non vanno mai da soli! E prima che mi rendessi conto di quello che facevo mi strappai i tamponi dal naso per localizzare i nemici. Fetori immondi annientarono la mia lucidità, odori atroci aggredirono la mia ragione. Ero dilaniato e bombardato e sopraffatto da un lezzo abominevole. L'universo era marcio, e il mondo che vedevo era remoto e irreale. I miei occhi vedevano il campus, ma non mi dicevano nulla del puzzo di putrefazione che vi regnava. Vedevano il cielo, ma non parlavano degli strati maleodoranti di corruzione indescrivibile che lo formavano. Anche tenendo conto dell'effetto serra, era molto peggio di quanto avrebbe dovuto essere dopo vent'anni, come diceva la leggenda. Sentivo odore di escrementi. Sentivo odore di metallo. Sentivo l'odore del più grande carnaio del mondo, con una popolazione di sette milioni d'abitanti, e mi contorcevo sul cemento. I ricordi infantili dell'Esodo esplosero nella mia mente e mi ridussero a un bimbetto urlante. Non potevo sopportarlo, era intollerabile: come avevo potuto attraversare per tutto il giorno, arrogante e ignaro, quel fetido inferno? E a quel pensiero ricordai perché ero venuto lì, e capii che non potevo raggiungere Izzy nel buio pacifico e fragrante. Non potevo mollare... dovevo uccidere Carlson prima di abbandonarmi alla tenebra. Il coraggio affluì, Dio sa da dove, alimentato dall'odio nero e dalla terribile paura di deludere la mia gente, di deludere mio padre. Mi alzai e aspirai profondamente, attraverso il naso. Il mondo d'incubo si mise a fuoco e il tempo si arrestò. C'erano sei Musky che volteggiavano davanti a Butler Hall e cercavano di piegare le brezze alla loro volontà. Io avevo tre proiettili termici e tre bombe a mano. Uno dei Musky si fermò e poi virò verso di me. Sparai dall'altezza del fianco, e il Musky divampò e sparì. Un secondo si inserì in una corrente e arrivò come un treno rapido. Il panico mi dilaniò la mente; risi, presi la mira e il Musky diventò incandescente. Poi ne arrivarono due insieme, come palloncini al rallentatore. Estrapolai le loro rotte, sganciai due bombe e le armai con i pollici, contai fino a quattro e le scagliai insieme come mi aveva insegnato Collaci, mirando un
po' al di qua del bersaglio. Le bombe toccarono terra in quel punto e rimbalzarono, ognuna verso un Musky. Ma una scoppiò prima dell'altra, uccidendo un Musky ma spostando l'altro, al sicuro. Quello mi passò sibilando accanto all'orecchio mentre mi buttavo a lato. Tre Musky. Un proiettile, una bomba a mano. Quello che si era salvato veleggiò intorno alla gru in un ampio arco elegante e si avvicinò veloce, a bassa quota, sollevandosi per investirmi in faccia mentre uno dei suoi fratelli mi attaccava da sinistra. Imprecando, bruciai quest'ultimo e mi buttai a ritroso attraverso un tratto di benzina che fiammeggiava. Il Musky non riuscì a frenarsi in tempo, schizzò improvvisamente verso il cielo ed esplose spettacolosamente. Andai a sbattere con violenza contro un mucchio di grossi tubi e sentii che le mie costole si incrinavano. Un Musky. Una bomba a mano. Mentre mi rialzavo barcollando e battendo le mani sul maglione bruciacchiato, Carlson uscì di nuovo da Butler Hall, con uno strano elmetto sui lunghi capelli bianchi. Non mi curai più dell'ultimo Musky rimasto. Quasi distrattamente lanciai l'ultima bomba a mano nella sua direzione per tenerlo occupato, ma sapevo di avere tutto il tempo che volevo. La morte imminente era solo una questione secondaria. Mi lanciai e rotolai, mi rialzai con il fucile nelle mani e mirai alla O in mezzo alla barba bianca di Carlson. Lo vidi, indistintamente, inserire un cavo del casco nella strana console, ma non aveva importanza; non aveva nessuna importanza. Strinsi l'indice sul grilletto. E poi qualcosa mi colpì al collo dietro l'orecchio, il mio indice scattò, e la tenebra che aveva atteso pazientemente per tanto tempo mi piombò addosso e cancellò il dolore e l'odio e la stanchezza e... oh, Dio... il lezzo spaventoso. IV Da LA CREAZIONE DI FRESH START, di Jacob Stone, Ph.D., versione autorizzata, Fresh Start Press, 2001 Sebbene Fresh Start crescesse lentamente e in modo apparentemente casuale via via che il personale e i materiali diventavano disponibili, il suo sviluppo seguì le direttrici fondamentali di un piano concepito meno di un anno dopo l'Esodo. Naturalmente, non avevo la preparazione e l'esperienza
necessarie per visualizzare i dettagli del mio sogno, in quella fase iniziale... ma il modello fondamentale era insito nella forma del paesaggio e nella natura del mondo nuovo che Carlson aveva creato per tutti noi. Cinque anni prima dell'Esodo un uomo che si chiamava Gallipolis aveva acquisito, con sistemi irregolari, il diritto di proprietà di una zona boscosa a nord-ovest di New York City. Era un pezzo di terra di un'ottantina di ettari, dalla forma estremamente bizzarra. Vista dall'alto doveva sembrare un enorme paio di occhiali da sole verdi: due valli soffocate dalla vegetazione, separate fisicamente da una grande estrusione perpendicolare della catena montuosa a est, fin quasi alle pendici occidentali, e la valle sud e quella nord erano unite da uno stretto canale. Il «naso» perpendicolare tra le «lenti» delle valli era un alto dosso roccioso, che digradava ripido da entrambi i lati e formava una divisione naturale perfetta. Il terreno scendeva dolcemente, ai piedi di questa cresta, in entrambe le direzioni, e le strade sterrate lasciate dai boscaioli tracciavano grandi cerchi in tutte e due le valli. Era terra inadatta all'agricoltura, e troppo lontana da tutto per crearvi un quartiere suburbano... era ciò che gli agenti immobiliari chiamavano «un investimento per il futuro». Gallipolis era un greco pazzo. Nella letteratura i greci pazzi sono invariabilmente olivastri, ignoranti, poveri e ubriachi. Gallipolis era florido, colto, moderatamente ricco e astemio. Guardò le valli, sorrise e decise di mandare al diavolo il futuro. Fece costruire una strada attraverso la foresta nord, in riva al lago, fino a raggiungere un tratto solitario dell'autostrada statale che confluiva nella vicina interstatale. Portò le ruspe lungo quella strada e fece disboscare due ettari interspaziati a ovest della strada dei boscaioli nella valle settentrionale, e tre ettari sulla riva del lago, per se stesso. In quei posti costruì case grandi e comodissime, capolavori di architettura che combinavano un aspetto volutamente rozzo con tutte le comodità moderne immaginabili. Portò l'acqua dalle sorgenti più in alto sui pendii del Naso (così aveva chiamato il dosso centrale). Costruì casette lungo la spiaggia. Intendeva affittare le case ai ricchi, per il weekend o per l'estate, a prezzi esorbitanti, e usare il ricavato per sviluppare altri tre posti simili nelle due valli. Contava di realizzare due o tre dozzine di case per poi ritirarsi dagli affari, ma le uniche due cose che riuscì a fare furono ridursi al verde prima di affittare una casa, e morire. Un nipote ereditò la terra e un'altissima tassa di successione. Era un mio studente, e sapeva che io cercavo un rifugio per il weekend; venne a parlarmi. Sebbene quel posto fosse assurdamente lontano da New York, un
sabato ci andai con lui, guardai la casa più vicina al lago, gli offrii un quarto della somma che chiedeva, e mi accordai su due piedi. Era un posto bellissimo. Mia moglie e io ci affezionammo, e non ci lasciammo mai sfuggire l'occasione di andare a passarci i weekend. Presto arrivarono anche i vicini; ma li vedevamo di rado, se non sul lago, qualche volta. Eravamo tutti andati lì in cerca di solitudine, e il lago era grande... e nessuno di noi era molto socievole. Fu appunto verso questo rifugio nei boschi che io e la mia famiglia ci dirigemmo nelle terribili ore dell'Esodo, e ci arrivammo solo per grazia di Dio. Nessuno degli altri inquilini ci arrivò, allora o in seguito, e perciò devo pensare che fossero morti. Sarwar Krishnamurti, un chimico della Columbia che qualche volta era stato ospite di Stone Manor per il weekend, si ricordò di quel posto nel momento del bisogno e comparve quasi subito, con la sua famiglia. Pochi giorni dopo fu seguito da George Dalhousie, un mio amico della Facoltà d'Ingegneria, al quale una volta avevo spiegato come si arrivava fin lì. Demmo loro il benvenuto per quanto era possibile date le circostanze... mia moglie era in stato di shock per la perdita di nostro figlio, e nessuno era in condizioni molto migliori. So che noi tre uomini trovavamo un grande conforto l'uno nella presenza dell'altro, per il fatto di avere altri scienziati con cui parlare del nostro orrore e del nostro sbigottimento, delle nostre ipotesi e delle nostre lugubri estrapolazioni. Serviva a non farci perdere la ragione, a rivolgere il pensiero ai problemi pratici della sopravvivenza; se fossimo stati soli ci saremmo abbandonati, come tanti altri, a un traumatico, stordito disinteresse per la vita. Invece sopravvivemmo all'inverno, l'inverno che uccise tanta gente, e in primavera avevamo già fatto i nostri piani. Ogni tanto facevamo sortite fallimentari nel mondo esterno, raccogliendo informazioni dai superstiti vaganti. Tutti i mass media erano finiti; persino la mia radio a banda internazionale taceva. Durante quelle spedizioni avevamo sempre cura di nascondere l'esistenza e l'ubicazione della nostra base, e fingevamo di essere disorganizzati e sbandati come i vagabondi che incontravamo di continuo. Imparammo a conoscere tutti gli agricoltori superstiti dell'area circostante, e stabilimmo rapporti amichevoli lavorando per loro in cambio di viveri. Come tutti, evitavamo le zone urbanizzate, perché a quei tempi i tamponi nasali erano meno efficienti, e i Musky erano onnipresenti e tremendi. Secondo le voci che raccoglievamo, tendevano a radunarsi nelle città grandi e piccole.
Ma quella primavera vincemmo la paura e la ripugnanza, con grande difficoltà, e incominciammo a fare scorrerie nelle cittadine e nei parchi industriali con un carro preso a prestito. Scoprimmo che le dicerie erano esatte: le aree urbane brulicavano di Musky. Ma avevamo bisogno di utensili e di materiale d'ogni genere, tanto da rischiare più volte la vita per procurarceli. Procedevamo lentamente, ma Dalhousie aveva fissato in modo chiaro le precedenze, e ben presto fummo pronti. Aprimmo la nostra prima fabbrica quella primavera, in un sito disboscato a mano nella valle sud (che battezzammo «Southtown»). Avevamo pensato molto alla scelta del nostro primo prodotto, e scegliemmo bene... anche se per ragioni sbagliate. Prevedevamo che avremmo incontrato difficoltà a convincere gli altri ad acquistare roba da noi mediante baratti, quando avrebbero potuto facilmente procurarsi il necessario nelle aree urbane abbandonate. Per la verità, una delle ragioni principali per cui avevamo fondato Fresh Start era stata la convinzione che i pidocchi su un cadavere non prosperano: non volevamo che i nostri simili sopravvissuti continuassero a dipendere da una scorta finita di utensili, materiale e viveri lavorati. Se noi potevamo sfidare gli attacchi dei Musky, anche altri potevano farlo. Di conseguenza scegliemmo come primo prodotto qualcosa che altrove non si poteva ottenere, e che era assolutamente indispensabile in quel mondo cambiato: efficienti tamponi nasali. Io li proposi; Krishnamurti li progettò e progettò la primitiva catena di montaggio che incominciò a produrli, e Dalhousie diresse la fabbricazione. Tutti noi, uomini e donne, lavoravamo alla catena di montaggio. Impiegammo diversi mesi per riuscire, e fummo i nostri migliori clienti... la fabbrica puzzava in modo abominevole. E questo era previsto e preventivato: l'intera concezione di Fresh Start si basava sul fatto cruciale che i venti prevalenti soffiavano quasi sempre dal nord. Nelle rare occasioni in cui il vento cambiava direzione, il Naso formava un'ottima barriera naturale. Quando fummo pronti a offrire in vendita i nostri tamponi, incominciammo a far pubblicità e a reclutare su vasta scala. L'annuncio dei nostri progetti circolava a voce, per mezzo di volantini ciclostilati e di trasmissioni radio a onde corte. L'unica persona che rispose prima dell'inizio dell'inverno fu Helen Phinney, ma il suo arrivo fu provvidenziale, perché ci liberò dalla dipendenza dai puzzolenti generatori a benzina. Helen Phinney era allora, e lo è ancora adesso, l'unico genio di Fresh Start, un'esperta riconosciuta in fatto di quelle che venivano chiamate «fonti alternative d'e-
nergia»... le uniche che Carlson ci avesse lasciate. Naturalmente, si inserì nella nostra pianificazione, e divenne buona amica di tutti. In poco tempo i generatori maleodoranti furono sostituiti dall'energia idrica dei ruscelli che scendevano come lacrime copiose dal Naso, e poi dal metano e dall'energia eolica grazie a una serie di mulini a vento tipo «sbattiuova» sorti lungo il Naso. In questi ultimi anni anche i generatori sono rientrati in funzione, soprattutto per usi industriali... ma non bruciano più benzina, e l'unico camion che possediamo non è stato rimesso in servizio. Grazie alla Phinney, i generatori bruciano alcol puro di grano che distilliamo noi stessi dal granturco e dalla segale e che è più efficiente della benzina e dà come residui della combustione soltanto acqua e anidride carbonica. (Prima dell'Esodo l'uomo avrebbe potuto usare lo stesso carburante in quasi tutti i motori a scoppio... ma quando Henry Ford aveva compiuto la sua scelta, l'industria da lui creata aveva avuto naturalmente la tendenza a ripetersi.) Questo, dunque, era il Consiglio di Fresh Start, radunato dal destino: io, un sognatore, straziato dai rimorsi e in cerca di una penitenza davvero degna, impegnato nel tentativo di salvare qualcosa del mondo che avevo contribuito a rovinare. Krishnamurti, un mago molto pratico in fatto di analisi del necessario e della progettazione, che traduceva le idee in piani precisi. Dalhousie, l'esperto che riduceva ogni progetto alle sue componenti e le realizzava impiegando un minimo di tempo e di sforzo. La Phinney, che forniva l'energia, traendola gratuitamente dai processi naturali dell'universo. Le nostre personalità si armonizzavano non meno delle nostre capacità, e già quella seconda primavera costituivamo un'unità: il Consiglio. Io proponevo qualcosa, Krishnamurti faceva il progetto, Dalhousie lo realizzava, e la Phinney forniva l'energia. Ci integravamo. Insieme ci sentivamo di nuovo utili, anziché superstiti. Non arrivarono altre reclute durante l'inverno, che come il precedente fu insolitamente crudo per quella parte del mondo (forse a causa dell'improvviso, drastico declino della produzione mondiale di calore), ma in primavera i volontari incominciarono a presentarsi a frotte. Ce n'erano di tutte le specie: tecnici, studenti, meccanici, manovali, muratori, operai, un assortimento di uomini che cercavano un lavoro civilizzato. Una colonia di tende spuntò a Northtown, nelle zone disboscate dove un giorno speravamo di costruire grandi dormitori. I nostri sforzi iniziali, quell'estate, furono votati a procurare acqua, energia e fognature per la nostra comunità in fase di crescita e ad ingrandire la nostra fabbrica di tamponi nasali. Un complesso che era un po' officina e un po' ferriera nacque spontaneamente vicino alla
fabbrica di Southtown, e incominciammo a barattare i lavori di riparazione in cambio di generi alimentari con gli agricoltori che vivevano a est e a nord-ovest. Per comune consenso, i viveri, gli utensili e le altre risorse venivano spartiti equamente tra tutti i membri della comunità, con l'unica eccezione delle case costruite da Gallipolis. Quelle case le tenemmo noi del Consiglio, e i nostri seguaci non ce ne hanno mai serbato rancore (due delle case non erano ultimate, al tempo dell'Esodo, e restarono così ancora per qualche anno). A parte questo, tutti gli abitanti di Fresh Start stanno in piedi o cadono, mangiano o saltano i pasti insieme. L'autorità del Consiglio come comitato di governo non è mai stata confermata né contestata seriamente, in tutti gli anni successivi. I cento tecnici che ormai si sono radunati intorno a noi continuano a seguire le nostre istruzioni perché funzionano, perché danno una direzione e un significato alle loro vite, perché rendono di nuovo utili le loro capacità apprese a fatica, perché è redditizio fare ciò che sanno fare, e che credevano di non poter fare mai più. Durante la seconda estate fummo spesso attaccati dai Musky che invariabilmente (com'è logico) venivano dal nord. Subimmo perdite rilevanti. Per esempio Samuel Pegorski, il giovane laureando in ingegneria idraulica che insieme alla Phinney aveva progettato e perfezionato i nostri sistemi fognari e i nostri impianti igienici, fu ucciso prima di poter sentire scorrere l'acqua della prima toeletta di Northtown. Ma con l'arrivo di Phillip Collaci, ex marine ed ex capo della polizia d'una cittadina della Pennsylvania, i nostri problemi della sicurezza sparirono. Collaci, un combattente d'efficienza quasi sovrumana, incominciò a reclutare, addestrare e organizzare la Guardia, che includeva abbastanza uomini armati per sorvegliare continuamente il perimetro nord di Fresh Start. All'inizio, le Guardie non facevano altro che dare l'allarme se sentivano l'odore dei Musky arrivare attraverso il lago, e allora tutti si precipitavano nel rifugio più vicino e cercavano di chiudere la mente agli esseri semitelepatici. Ma Collaci non era soddisfatto. Voleva un'arma offensiva, o almeno una difesa migliore della fuga. Me lo disse molte volte, e alla fine io accantonai gli impegni amministrativi per mettermi al lavoro sul problema da un punto di vista biochimico. Pensavo che l'estremo calore dovesse funzionare, ma il problema consisteva nell'ideare un sistema. I primi esperimenti con un lanciafiamme re-
cuperato furono insoddisfacenti... il cono di fuoco tendeva a scostare i Musky anziché consumarli. Collaci suggerì di creare una fila di bruciatori ad alcol lungo il perimetro nord, pronti a proteggere Fresh Start con un muro di fiamme: l'idea è stata successivamente messa in pratica, ma a quel tempo non avevamo abbastanza granturco e segala per produrre l'alcol necessario. Finalmente, settimane di ricerca portarono allo sviluppo dei proiettili termici... munizioni che potevano venire sparate con qualunque arma di grosso calibro, dopo la sostituzione della canna: il proiettile si accendeva uscendo dalla canna modificata e generava un calore enorme mentre volava, trapassando tutti i Musky che incontrava e distruggendoli immediatamente. Il miscuglio di magnesio e di perclorato di potassio usato inizialmente ha lasciato posto in seguito a un miscuglio a combustione più lenta, formato da polvere d'alluminio e da permanganato di potassio, che probabilmente resterà in uso fino a quando sarà stato ucciso anche l'ultimo Musky (i piani a lungo termine per l'artiglieria a lunga gittata dovranno attendere finché avremo trovato una fonte abbondante e facilmente sfruttabile di cerio, zirconio o torio, il che è improbabile per il prossimo futuro). La portata effettiva di un proiettile termico è più o meno quella dell'olfatto di un uomo in una giornata senza vento... quanto basta per un combattimento personale. Quello fu il progresso più importante, dopo l'Esodo, non soltanto per l'umanità ma anche per la giovane comunità di Fresh Start. La causa del nostro unico, grave errore di giudizio era stato il clima dell'opinione sociale in cui ci aspettavamo di trovarci. Ho già detto che temevamo che la gente saccheggiasse le città, anziché acquistare da noi, nonostante i terribili pericoli rappresentati dai Musky che infestavano i cieli urbani. Ma non andò così. Quasi tutta la gente preferiva fare a meno di quasi tutto. Al sicuro nel nostro rifugio, avevamo giudicato erroneamente lo zeitgeist, la mentalità dell'uomo comune. Fu Collaci, appena arrivato tra noi dopo un anno passato a vagare avanti e indietro lungo la desolata costa orientale, a mostrarci il nostro errore. Ci fece capire che Lot era probabilmente più desideroso di tornare a Gomorra di quanto l'umano normale lo fosse di ritornare alle sue città e ai suoi sobborghi. Le città erano state le scene del più grande trauma della nostra razza dopo il Diluvio, i luoghi dove familiari e amici erano morti orribilmente e dove i cieli brulicavano di Musky. L'Esodo e le successive settimane d'orrore erano visti universalmente come il Maglio di Dio che cadeva inesorabile sullo stesso concet-
to di città, e gli urbanizzati irriducibili che avrebbero eventualmente potuto contestare erano quasi tutti morti. Il movimento del ritorno alla natura, già in pieno slancio quando Carlson aveva lasciato cadere la boccetta, assunse la statura e il fervore di una religione dionisiaca. Per fortuna, Collaci ci fece capire in tempo che avremmo inevitabilmente condiviso la superstizione e l'odio tributati alle città, e che saremmo stati associati, agli occhi di tutti, al fetido colosso d'acciaio e di vetro che aveva vomitato definitivamente gli uomini. Ci fece capire l'enormità del sospetto e dell'intolleranza che avremmo incontrato... non saremmo stati ignorati per la nostra ridondanza, ma odiati perché ripugnanti. Su consiglio di Collaci, Krishnamurti si assicurò l'aiuto di alcuni degli agricoltori più solidi nelle regioni confinanti a est, nord-est e nordovest. Negoziò accordi mediante i quali gli agricoltori che ci fornivano i viveri ottenevano accesso preferenziale alle munizioni per uccidere i Musky, alla manutenzione dell'equipaggiamento e un giorno anche all'energia. Io non sarei mai stato capace di far accettare l'idea: anche se ho sempre compreso bene le pubbliche relazioni da un punto di vista teorico, non ho mai avuto molto successo nella diplomazia interpersonale... almeno con i non-tecnici. L'austero Krishnamurti poteva sembrare una scelta ancora più inadeguata... ma la sua praticità convinceva molti agricoltori scettici quando il bel garbo non sarebbe servito a nulla. I negoziati di Krishnamurti non soltanto ci assicurarono una fornitura continuativa di viveri e di legname lavorato: ebbero il prezioso effetto secondario di procurarci alleati psicologici, non-Techno che erano economicamente ed emotivamente legati a noi. Il lavoro progredì rapidamente quando i nostri sforzi di reclutamento incominciarono a dar frutti, e nel quinto anno divenne visibile la Fresh Start di oggi, almeno in forma d'abbozzo. Avevamo aperto strade interne per integrare quelle anulari nord e sud lasciate due decenni prima dai boscaioli; erano sorti tre dormitori e un terzo era in fase di costruzione; il nostro «Emporio» era diventato un'azienda commerciale in espansione; una fila di mulini a vento stava sorgendo lungo la cresta centrale del Naso; la fognaconvertitore di metano era quasi completata; erano in fase di preparazione i piani per costruire un ospedale e scavare una galleria attraverso il Naso per collegare Northtown e Southtown; l'«officina», il deposito dove stavano gli utensili e l'equipaggiamento insostituibili, era quasi piena; e Southtown era più maleodorante che mai, con una grossa distilleria di carburante, un la-
boratorio chimico, una fonderia primitiva, una vetreria, una fabbrica di fiammiferi e tessiture che sorgevano vicine alle fabbriche di proiettili termici e di tamponi nasali. Nonostante questi segni esteriori di prosperità, la nostra esistenza era precaria: c'erano molti che avrebbero voluto bruciare il nostro centro, almeno tra gli umani superstiti che continuavano ad essere nomadi senza terra. Per combattere queste tendenze pubblicavamo e distribuivamo un giornaletto ciclostilato, Got News, e tenevamo in funzione la stazione radio WFS (l'unica al mondo, allora e adesso). Inoltre, Krishnamurti ed io facevamo interminabili viaggi nei dintorni per migliorare le pubbliche relazioni, allo scopo di spiegare la nostra esistenza e le nostre finalità a gruppi e individui. Ma c'erano tanti che non avevano terra, non avevano case né famiglia, non avevano altro che un'immensa eredità di risentimento. Erano i precursori di quelli che oggi vengono chiamati il Partito degli Agro. Sopravvivevano dove e come potevano, e socializzavano per un ambiente che non esisteva più; e ci odiavano perché ricordavamo loro il grembo tecnologico che, imperdonabilmente, li aveva espulsi. Ci assalivano, da soli o in gruppi organizzati alla meno peggio, spesso con una furia irrazionale e suicida. Per motivi umanitari e nell'interesse delle pubbliche relazioni, dovevo tenere a freno Collaci, il capo delle Guardie, che personalmente avrebbe voluto uccidere tutti i sabotatori che prendeva... quando era possibile, venivano catturati e rilasciati fuori dai confini della città. Collaci sosteneva che bisognava dare un esempio, ma io ero deciso a dimostrare ai nostri vicini che Fresh Start non ce l'aveva con nessuno, e perciò non gli davo ascolto. Nel quinto anno, però, fui io a trovarmi scavalcato da lui. A Collaci e sua moglia Karen (una donna taciturna e solida dai capelli rossi) era stata assegnata una delle case incompiute di Gallipolis, quella più lontana e più isolata dall'area residenziale di Northtown. I volontari l'avevano finita in modo splendido, la primavera precedente. Forse fu un errore di giudizio o l'ignoranza che spinse i sette incursori a passare davanti a casa Collaci mentre si avviavano per far saltare il Deposito. Ma fu indiscutibilmente un errore di giudizio quello che li indusse a sequestrare Karen Collaci quando l'incontrarono nella foresta. Lei soffriva di diabete, e loro non avevano insulina. Collaci lasciò il suo posto senza autorizzazione, li inseguì, e trovò il corpo della moglie dopo qualche giorno. In una settimana rintracciò i sette
guerriglieri. Sebbene si fossero divisi e fossero fuggiti in direzioni diverse, quei sette giorni gli bastarono. Li punì in modo che è meglio non riferire, lasciò ognuno dei sette inchiodato a un albero e al suo ritorno a Fresh Start dormì per tre giorni consecutivi. L'azione comprensibilmente impulsiva di Collaci, alla luce dellla storia, appare più efficace della mia politica tollerante. Comunque, da allora non siamo più stati attaccati. Con l'arrivo del dottor Michael Gowan, già professore di psicologia di Stony Brook, che prese l'iniziativa di creare e amministrare un sistema di pubblica istruzione, tutti i semi necessari, secondo me, erano ormai piantati. Escludendo un'eventuale catastrofe, ora l'uomo tecnologico poteva sopravvivere e sarebbe sopravvissuto. Un giorno, forse, avrebbe potuto ricostruire ciò che era stato distrutto. E poi, un giorno del 1999, ricevetti e «assunsi» un nuovo arrivato, Jordan Washington. Da allora... V — ... e quando sono rinvenuto, Carlson era morto con un proiettile nella testa, e l'ultimo Musky non c'era più. Così ho rimesso i tamponi, ho trovato il bivacco dietro le siepi, ho mangiato la sua cena e sono ripartito l'indomani mattina. Nel Jersey ho trovato un Guaritore. È tutto, papà. Mio padre mordicchiò la pipa che. non fumava da diciotto anni e guardò il fuoco. Il pioppo secco e la betulla verde, insieme, producevano una fiamma costante che riscaldava lo spazioso soggiorno e la popolazione d'ombre danzanti. — Allora è finita — disse finalmente, e trasse un profondo sospiro. — Sì, papà, è finita. Lui tacque. La faccia nera come il carbone rimase impassibile a lungo. La luce del fuoco danzava tra le valli e i crepacci della sua faccia da patriarca, e sulla cicatrice della guancia sinistra (così simile a quella che avevo anch'io). I suoi occhi luccicavano come una notte piovosa. Mi chiesi che cosa stava pensando, dopo tutti quegli anni, dopo tutto quello che aveva visto. — Isham — disse finalmente, — ti sei comportato benissimo. — Davvero, papà? — Eh? — Non riesco a chiarirmi le idee. Mi aspettavo, immagino, che lo scon-
tro con Carlson fosse una specie di soluzione, per tante cose che mi hanno ossessionato per tutta la vita. Mi aspettavo che premere quel grilletto mi avrebbe dato pace. Invece sono più confuso che mai. Sicuramente senti l'odore del mio disagio, papà. Oppure hai rimesso i tamponi? — Mio padre usava i migliori tamponi nasali di Fresh Start, interamente interni, e dimenticava sempre di toglierli dopo il lavoro. Anche quelli che gli erano affezionati riconoscevano che era il tipico professore distratto. — No — disse in tono esitante. — Sento l'odore del disagio, ma non del perché. Devi dirmelo tu, Isham. — Non è facile spiegarlo, papà. Non riesco a trovare le parole. Vedi, ho scritto una specie di diario nel Jersey mentre il Guaritore mi curava, e poi più tardi, mentre riposavo. È la stessa storia che ho raccontato a te, ma credo che sulla carta riesca ad esprimere meglio quello che mi turba. Lo leggerai? Lui annuì. — Se vuoi. Diedi a mio padre i manoscritti precedenti, fino al momento in cui avevo premuto il grilletto e avevo perso i sensi, e gli portai gli occhiali. Lesse adagio, con attenzione, interrompendosi ogni tanto per guardare le fiamme. Mentre lui leggeva, io alimentavo il fuoco e m'immergevo negli odori familiari del fumo di legna e dell'inchiostro e delle sostanze chimiche e dei pini che stavano là fuori, tutti i mille odori indefinibili che cercavano di dirmi che ero a casa. Quando mio padre ebbe finito di leggere, chiuse gli occhi e per un po' annuì. Poi si girò verso di me e mi guardò con aria preoccupata. — Hai omesso il finale — disse. — Perché non so cosa pensarne. Lui giunse le punte delle dita. — Cosa c'è che ti preoccupa, Isham? — Papà — dissi, serio, — Carlson è il primo uomo che ho ucciso. Non... non è una cosa da poco. Così come sono andate le cose, non ho visto il mio proiettile spaccargli il cranio, e a volte è difficile credere veramente a quello che ho fatto... so che mi sembrava irreale quando l'ho visto, dopo. Ma in realtà ho ucciso un uomo. E come hai appena letto, qualche volta può essere necessario, ma non sono sicuro che sia giusto. So che cosa ha fatto Carlson, a noi Stone e al mondo, so che colpa portava addosso. Ma ora ti chiedo: Papà, ho fatto bene a ucciderlo? Meritava di morire? Allora mio padre mi si avvicinò e mi strinse la spalla, e restammo come statue di ghisa davanti al fuoco che ardeva. Mi guardò negli occhi. — Forse dovresti chiederlo a tua madre, Isham. O a tuo fratello Israfel. Forse a-
vresti dovuto chiederlo a quelli di cui ha calpestato i resti per andare a uccidere Carlson. Non so cosa sia «giusto» e cosa sia «ingiusto»: sono termini sfuggenti. Io so soltanto quello che è. La vendetta, come ti ha detto Collaci, è un attributo unicamente umano. «I superstiziosi guerriglieri Agro ci assalivano di tanto in tanto, e restavano impuniti perché esitavamo a sparare contro di loro. Poi un giorno sequestrarono la moglie di Collaci, senza sapere che era diabetica. Quando lui li raggiunse, la moglie era morta per mancanza d'insulina. Entro sette giorni, tutti i guerriglieri di quella squadra erano morti, e da allora, in tutti questi anni, Fresh Start non è più stata attaccata, nonostante la retorica di Jordan. Chiedi a Collaci precisazioni sulla vendetta. — Ma gli Agro di Jordan ci odiano più che mai. — Però comprano da lui le lame d'ascia e le ruote, i sulfamidici e le stoffe, esattamente come i loro vicini più sensati, e ci lasciano in pace. La morte di Carlson sarà un monito eterno per tutti coloro che vorrebbero imporre i loro valori al mondo, e un eterno confòrto per quanti furono derubati da lui della parte migliore della loro vita... delle case e dei loro cari. «Isham... hai fatto bene. Non pensarla mai diversamente, figliolo. Hai fatto bene e sono molto fiero di te. Ora tua madre e Israfel possono riposare in pace, e anche milioni di altri morti. So che io dormirò più sereno, questa notte, di quanto abbia dormito in questi ultimi diciotto anni. È vero papà, è vero. Mi rilassai. — D'accordo. Credo che abbia ragione tu. Volevo soltanto che me lo dicesse qualcun altro, oltre a me stesso. Volevo che me lo dicessi tu. — Mio padre sorrise, annuì e tornò a sedersi. Lo lasciai lì: un vecchio perduto nei suoi pensieri. Andai in bagno e chiusi la porta, rallegrandomi che gli impianti igienici fossero stati una delle prime cose realizzate a Fresh Start. Passai qualche minuto raccogliendo varie cose che avevo portato da New York e rimuovendo la parte posteriore della vasca settica dietro la tazza della toeletta. Poi feci scorrere l'acqua. Infilai la mano nel serbatoio, afferrai il galleggiante e lo torsi in modo che il serbatoio non si riempisse d'acqua. Tenendolo bloccato, presi la grossa bottiglia di cloro che avevo portato dalla città. Era una reliquia insostituibile della Civiltà: non aveva prezzo... ed era assolutamente inutile per l'uomo moderno. Misi i tamponi nasali e riempii il serbatoio di cloro, rimisi a posto il coperchio di porcellana, senza far rumore, ma lasciandolo un po' sollevato. Mi chinai di nuovo e presi una grossa tanica (anche quella era una preziosa, inutile antichità) di liquido pulente per vasche. L'etichetta
diceva «Vanish», svanisci, e mi auguravo che fosse profetica. La versai completamente nella tazza della toeletta. Al diavolo la spesa, pensai, e ridacchiai come un pazzo. Poi riabbassai l'asse, nascosi il cloro e la tanica e me ne andai, fischiettando in sordina tra i denti. Mi sentivo benone, meglio di quanto mi fossi mai sentito da quando avevo lasciato New York. Mi avviai nel buio pesto fino al Iago, e sedetti fra i pini sulla spiaggia, lanciando sassi sull'acqua e cercando di farli rimbalzare. Sembrava che non ci riuscissi. Ero abituato all'effetto equilibratore del braccio sinistro. Massaggiai malinconicamente il moncherino, mi sdraiai e riflettei per un po'. Avevo mentito a mio padre... non era finita. Ma sarebbe finita presto. Giusto o ingiusto, pensai togliendomi i tamponi e accendendo uno spinello, ma di certo può essere necessario. La luce della luna s'infrangeva sui rami, sopra la mia testa, e cadeva a terra in schegge. Aspirai profondamente l'oscurità fresca, assaporai l'odore della marijuana e del bosco e degli animali lontani e i buoni aromi vivi di un'ecologia bilanciata, ascoltai il ronzio lontano dei generatori eolici che immagazzinavano energia per il lavoro ancora da compiere. E pensai a un uomo impazzito per il sogno di un mondo migliore e più semplice; un uomo che, il Cielo l'aiutasse, era animato da buone intenzioni. E pensai alla registrazione che intendevo lasciare per spiegare al Consiglio e al mondo ciò che avevo fatto. VI Trascrizione della registrazione su nastro effettuata da Isham Stone (Archivi Giudiziari di Fresh Start). Tanto vale che mi rivolga a te, Collaci... scommetto la mia pistola antiMusky che sarai il primo a notare la registrazione e ad ascoltarla. Spero che ascolterai attentamente; ma forse sarebbe chiedere troppo, la prima volta. Continua ad ascoltarla. La storia risale a un paio di mesi fa, quando ero a New York. Ormai avrai senza dubbio trovato il diario con il resoconto della mia giornata in città, e avrai notato che manca il finale. Bene, la storia ha due finali. C'è quello che ho raccontato a mio padre e c'è quello che stai per ascoltare. Quello vero.
Andai alla deriva nella tenebra per mille anni, impotente come un Musky in un uragano, vorticando nell'interno della mia testa. I ricordi mi passavano accanto come dirigibili, e io cercavo di afferrarli, ma quelli tangibili mi scottavano le dita. Vagamente, percepivo la luce del giorno in lontananza, da entrambe le parti; decisi che quelli dovevano essere i miei orecchi e cercai di afferrare quello di destra, che sembrava un po' più vicino. Mi ustionai il braccio virando accanto a un trauma adolescenziale, ma sortì l'effetto voluto... veleggiai nella luce del giorno e atterrai a faccia in giù con un tonfo tremendo. Pensai a rialzarmi, ma non riuscivo a ricordare se avevo portato con me le gambe, e quelle non parlavano. Il braccio mi doleva ancora più della faccia, e qualcosa puzzava. — Aiuto! — invocai con un filo di voce, e due mani mi presero per le ascelle. Mi sollevai nell'aria e chiusi gli occhi di nuovo, assalito da un'improvvisa ondata di vertigine. Quando passò, mi accorsi che ero riverso sul letto dal quale ero appena riuscito a cadere. Un dolore sordo ma insistente al petto mi consigliava di respirare adagio. Che mi venga un colpo, pensai confusamente. Collaci deve avermi seguito senza dirmelo, per darmi una mano. Quel vecchio furbacchione. Avrei dovuto pensare a cercargli qualche stuzzicadenti. — Ehi, Maestro — gracchiai, e aprii gli occhi. Wendell Morgan Carlson si chinò su di me con aria preoccupata. Stranamente, non cercai di alzare le mani per stritolargli la laringe. Chiusi gli occhi, mi rilassai, contai lentamente fino a dieci, scrollai la testa per schiarirmela e riaprii gli occhi. Carlson era ancora lì. Poi tentai di alzare le mani e di stritolargli la laringe. Non ci riuscii, naturalmente, non tanto perché ero troppo debole per arrivarci, quanto perché all'ordine rispose un braccio solo. La mente mi diceva che il braccio sinistro era sollevato verso la gola di Carlson, e protestava furiosamente, anche; ma il braccio non lo vedevo. Abbassai gli occhi e vidi il moncherino scrupolosamente fasciato, e lo alzai, distrattamente, per vedere se sotto c'era il mio braccio, ma non c'era. Allora capii che il moncherino era tutto ciò che restava e tac!... ritornai nella tenebra amica dentro la mia testa, a rimbalzare di nuovo tra i ricordi che scottavano. La seconda volta che rinvenni era completamente diverso. Un momento prima stavo lottando con un fantasma e un momento dopo scattò un interruttore e mi ritrovai lucido. Cerca di guadagnare tempo, fu il mio primo
pensiero. La situazione tattica l'impone. Aprii gli occhi. Carlson non era in vista. E neppure a portata d'olfatto... ma i tamponi nasali erano di nuovo al loro posto. Girai gli occhi sulla stanza. Era una stanza. Quattro pareti, un soffitto, un pavimento, il letto dove stavo io e vari mobili orrendi. Non c'era un'arma visibile e non c'era niente che potessi usare come arma. Un'occhiata dalla finestra confermò la mia impressione: ero a Butler Hall, apparentemente al piano terreno, non lontano dall'ingresso principale. La grande cupola della Lowe Library era quasi al centro della finestra, e la grande scalinata di pietra era nascosta in parte dai cespugli incolti davanti a Butler Hall. Le ombre dicevano che era mattina, verso mezzogiorno. Chiusi gli occhi, con decisione. Poi studiai me stesso. La testa mi faceva parecchio male, ma questo era facilmente sommerso dal dolore al petto. Indiscutibilmente qualche costola era fratturata, e sembrava che i tronconi non collimassero. Ma a quanto mi pareva di capire il polmone era intatto... non faceva più male quando inspiravo. O almeno, non molto di più. Le gambe si mossero tutte e due quando glielo ordinai, con un minimo di proteste, e le caviglie sembravano in ordine. Era inutile che riaprissi gli occhi, vero? Per un momento smisi di fare l'inventario. In fondo al mio cranio, una lucertola unghiuta esigeva di essere liberata, e per qualche minuto m'impegnai a rafforzare i muri della sua prigione. Quando non sentii più i suoi urli, riaprii gli occhi ed esaminai spassionatamente il moncherino del mio braccio sinistro. Sembrava un lavoro pulito, ben fatto. La posizione del taglio indicava che era una procedura chirurgica e non una manifestazione di ostilità vendicativa, come avevo pensato in un primo istante... sembrava che la cancrena fosse stata sconfitta. Oh, magnifico, pensai. Devo uccidere un pazzo benevolo. Poi mi vergognai. Mia madre, come la ricordavo io, era stata benevola; e Israfel non aveva avuto la possibilità di diventarlo. Tutti sapevano che le intenzioni di Carlson erano state buone. Potevo ucciderlo con una mano sola. Mi chiesi dov'era. Una mosca ronzò lugubremente intorno alla stanza. Le siepi all'esterno frusciavano, e da qualche parte cantavano gli uccelli, lanciando trilli che scintillavano nell'aria mattutina. Era una bella giornata, abbastanza calda per essere piacevole, senza nubi in vista, con una brezza, e la parte migliore del giorno che doveva ancora venire. Mi metteva addosso la voglia di
scendere al ruscello a stanare le rane con un bastoncino o a cogliere le fragole per Mr. Fletcher, con le mani macchiate di rosso e la pancia piena di frutti dolci che l'indomani mattina mi avrebbero dato la diarrea. Era una bellissima giornata per un assassino. Ci pensai, considerai le possibilità. Carlson era... in qualche posto. Io ero più debole di un Musky in una pentola a pressione e il mio armamento naturale era diminuito del venticinque per cento. Ero in un territorio sconosciuto e gli unici oggetti nella stanza abbastanza grossi per servire come armi erano così pesanti che non sarei riuscito a sollevarli. Rompere la finestra e procurarmi un coltello? Come l'avrei impugnato? Le mie scarpe di tela erano dall'altra parte della stanza, sotto una sedia dove stava il resto dei miei indumenti, e mi chiesi se potevo nascondermi dietro la porta in attesa che Carlson entrasse, e poi strangolarlo con i lacci. La smisi subito. Come avrei fatto a strangolare Carlson con una mano sola? Poi per un po' vidi girare tutto, mentre incominciavo a capire fino a che punto la mia vita era stata cambiata dalla perdita del braccio. Non userai mai più una sega, o un badile, o un guantone da baseball o... Seppellii di nuovo la lucertola e mi sforzai di concentrarmi. Forse avrei potuto fare un nodo scorsoio con i lacci delle scarpe. Con una mano sola? Ci sarei riuscito? Forse, se avessi fissato a qualcosa l'estremità di un laccio e poi gli avessi avvolto l'altra intorno al collo e avessi tirato? Non era necessario che fossi molto forte, potevo fare in modo che fosse il mio peso a ucciderlo... Proprio in quell'istante, credo, decisi di non morire, decisi di continuare a vivere con un braccio solo; e il problema non si pose più. Ero troppo indaffarato per disperarmi, e quando potei prendermi di nuovo quel lusso, molto più tardi, l'impulso era passato. Tutti i mei piani incerti, per quanto avessero un effetto terapeutico, erano imperniati su un unico interrogativo importante: potevo reggermi in piedi? Sembrava indispensabile accertarlo. Fino a quel momento avevo mosso soltanto gli occhi... cercai di sollevarmi a sedere. Non era più difficile che lanciare in aria qualche bulldozer, e io riuscii a ridurre l'urlo ad un esplosivo «Uh, huh!». Mi sembrava di avere le costole di vetro, vetro rotto che lacerava il rivestimento muscolare e il tessuto pleurico. Il sudore m'inondò la fronte, e mi sforzai di dominare la vertigine e la nausea, ordinai furiosamente al mio corpo di obbedirmi, come un cavaliere disperato sprona un cavallo moribondo. Puntellai
il braccio dietro di me e mi appoggiai, vacillando ma tenendomi ritto, e attesi che la stanza smettesse di roteare. Passai il tempo contando fino a mille in frazioni di un ottavo. Finalmente la stanza si fermò, lasciandomi la sensazione che una brezza lievissima avrebbe potuto ricominciare a farla girare. Bene. Muoviamoci, Stone. Buttai una gamba giù dal letto e notai con sollievo che il piede toccava il pavimento. Così sarebbe stato più facile tenermi in equilibrio sull'orlo, prima di tentare di alzarmi, Prima di perdermi di coraggio, buttai giù anche l'altra gamba, mi diedi una spinta con il braccio e mi ritrovai seduto, eretto. Il pavimento era a una distanza incredibile... davvero ero caduto da quell'altezza ed ero sopravvissuto? Forse avrei dovuto attendere che Carlson tornasse, chiedergli di avvicinarsi e piantargli i denti nella vena iugulare. Mi alzai. Un crescendo straziante nella sinfonia dei dolori, con le costole che dirigevano ancora la melodia. Bloccai le ginocchia e vacillai, gemendo pietosamente come un gattino prigioniero su un cornicione. Non potevo avvicinarmi al silenzio più di così, e tutto considerato era già molto. La mia spalla destra era sensibilmente più pesante di quella sinistra, e mi sbilanciava. Il pavimento, che aveva continuato ad allontanarsi, adesso era ad una tale distanza che smisi di preoccuparmene... sicuramente il Paracadute si sarebbe aperto in tempo. Bene, allora perché non provare a muovere un passo o due? La mia gamba sinistra era leggera come un palloncino pieno d'elio... appena staccata dal pavimento cercò di puntare verso il soffitto, e ci volle uno sforzo enorme per riabbassarla. La gamba destra non andava meglio. Poi la stanza ricominciò a girare, proprio come avevo temuto, e all'improvviso diventò impossibile tenere le gambe al di sotto del mio corpo senza perdere rapidamente quota. Il paracadute non si aprì. Ci fu un tonfo sconvolgente e un rimbalzo orrendo. Apparvero molte luci bellissime, e uno degli urli tenuti a freno dietro i denti serrati riuscì ad erompere. Le belle luci lasciarono il posto al soffitto scrostato, e il soffitto lo lasciò alla tenebra. Ricordai un verso di una vecchia canzone che il dottor Mike cantava spesso; parlava di «... mappe tracciate in un soffitto screpolato...». Avrei voluto avere il tempo di leggere la mappa... Rinvenni quasi subito, credo. Mi sembrava che la stanza continuasse a roteare, ma anch'io giravo alla stessa velocità, adesso. Per un colpo di fortuna ero caduto riverso sul letto. Provai a respirare: pareva che il polmone
fosse ancora intatto. Ero fradicio di sudore, e mi sembrava d'essere sdraiato su una collezione di sassi. Bene, decisi, se sei troppo debole per uccidere Carlson adesso, fingi d'essere ancora più debole. Rimettiti sotto le lenzuola e fai il morto finché non starai meglio. Isham Machiavelli. Saresti stato fiero di me, Maestro. La collezione di sassi, in realtà, non era altro che i lenzuoli gualciti. Rigirarmi e rimettermi nella posizione di partenza fu un po' meno difficile che caricare una balena su una barchetta a remi, e mi rimase ancora abbastanza forza per drappeggiarmi i lenzuoli intorno prima che i miei muscoli si trasformassero in burro d'arachidi. Poi restai lì, respirando più lievemente che potevo, e mi chiesi perché il mio brac... perché il mio moncherino non faceva abbastanza male. Detesto guardare in bocca a caval donato: il peso psicologico era già abbastanza opprimente, grazie. Ma mi rendeva irrequieto. Incominciai a comporre un motivo di square-dance sul tempo delle fitte alle costole. La stanza si associò, un po' fuori sincronia all'inizio, ma poi così ritmicamente che sembrò letteralmente incespicare quando il suonatore di grancassa, in corridoio, sbagliò una battuta. La musica s'interruppe ma il suonatore di grancassa continuò fuori ritmo, dapprima debolmente, poi più forte. Passi. Doveva essere Carlson. Stava facendo un baccano infernale. Febbrilmente, immaginai che trascinasse nella stanza un bazooka e lo puntasse contro di me. Pazzo. Sarebbe bastato uno scacciamosche. Ma cosa diavolo stava portando, allora? La risposta entrò dalla porta: uno scatolone pieno di oggetti che tintinnavano e sferragliavano. Dietro lo scatolone entrò Wendell Morgan Carlson in persona, ed era un bene che la musica fosse cessata... l'accelerazione del mio polso avrebbe reso non ballabile il motivo. Le mie narici cercarono di dilatarsi intorno ai tamponi, e i capelli sull'occipite si sarebbero rizzati in un riflesso atavistico se sopra non ci fosse stato il peso di cinquecento chili della mia testa. Il Nemico! Non aveva armi in vista. Sembrava più vecchio del suo ritratto nel Manifesto... ma la fronte ossuta, il naso sottile e contratto e gli zigomi alti erano inconfondibili, anche se il mento a punta era nascosto dall'enorme barba grigia. Era un po' più alto di quanto l'avessi immaginato, aveva più capelli e le spalle più strette. Non mi ero aspettato che avesse la pancia. Indossava un paio di jeans sformati e una camicia di flanella scozzese, rattoppati ma-
lamente qua e là, e un paio di sandali neri. La faccia aveva un'espressione più intelligente di quanto mi piaccia in un antagonista... non sarebbe stato facile imbrogliarlo. Wendell chi? Mai sentito. Io sono appena tornato da Pellucidar, al centro della Terra, e mi chiedevo se lei avrebbe saputo dirmi dov'è finita tutta la gente. Mi dispiace di averle sparato e, già, grazie di avermi tagliato il braccio: è proprio un brav'uomo. Lui mise lo scatolone su una vecchia scrivania marrone, schiacciando la fotografia scolorita del figlio di qualcuno, si girò subito per incontrare il mio sguardo e disse una cosa incredibile. — Scusi se l'ho svegliato. Non so che cosa mi aspettassi. Ma nei pochi momenti febbrili che avevo avuto a disposizione per prepararmi a quel momento, il primo scambio di parole con Wendell Morgan Carlson, non avevo immaginato una simile frase iniziale. Non avevo pronta una risposta. — Non importa — gracchiai, e cercai di sorridere. Comunque, lui sembrava sconvolto; la sua faccia assunse la stessa espressione preoccupata che avevo già visto una volta... quando? Il giorno prima? Da quanto tempo ero lì? — Sono contento che sia sveglio — continuò lui, gentilmente. — È rimasto privo di conoscenza per quasi una settimana. — Non era strano che mi sentissi costruito di materiali scadenti. Pensai che dovevo essere un vero duro. Era bello sapere che non mi stavo spegnendo. — Cosa c'è in quella scatola? — chiesi, in tono un po' meno impastato. — La scatola? — Lui abbassò gli occhi. — Oh, si. Pensavo... vede, e il necessario per l'alimentazione intravenosa. Ho studiato la letteratura medica e... — Non finì la frase. La voce era esile ma simpatica, un po' arrugginita. Sembrava fosse disabituato a servirsene. — Aveva intenzione di... — Nelle mie viscere si formò un cubo di ghiaccio. Un ago piantato nel braccio mentre dormivo, per risucchiarmi la vita attraverso il tubo; e addio vecchio Isham. Calma, ragazzo, calma. — Forse sarebbe comunque una buona idea — mormorò lui, pensieroso. — Tutto quello che posso offrirle al momento è pane e latte. Non è latte vero, naturalmente... però posso darle il miele, con il pane. Credo che valga quanto il glucosio. — Per me va bene, dottore — mi affrettai a dire. — Non sopporto gli aghi. E gli altri strumenti appuntiti. — Ma il miele dove lo prende? Carlson aggrottò la fronte. — Come sa che sono dottore?
Pensai in fretta. — Non lo sapevo. Credevo che fosse un Guaritore. È stato lei ad amputarmi il braccio? — Mantenni un tono di voce normale. Lui aggrottò la fronte ancora di più; era un'espressione strana, su quella faccia ossuta. — Giovanotto — disse con riluttanza, — non ho nessuna preparazione medica. Forse il suo braccio si poteva salvare, ma mi è sembrato che... — Con mio grande stupore, era mortalmente imbarazzato. — Dottore, aveva bisogno di un'amputazione l'ultima volta che l'ho guardato, e sono sicuro che è peggiorato ancora, dopo. Non... non si preoccupi. Sono sicuro che ha fatto del suo meglio. — Se lui era disposto a dimenticare il mio tentativo di sparargli alla testa, come potevo, io, serbargli rancore? Il passato è passato... non avevo bisogno di una ragione nuova per ucciderlo. — Ho letto tutti i testi che sono riuscito a trovare sulle amputazioni urgenti — continuò lui, sempre con quel tono di scusa. — Ma naturalmente non ne avevo mai eseguita una. — Soltanto su un'intera razza. Gli assicurai che mi sembrava un lavoretto da manuale. Era stranissimo, sentire quell'uomo che mi chiedeva perdono per avermi salvato la vita quando io contavo di togliergli la sua alla prima occasione. Mi sconvolgeva, mi irritava. Le mie ferite offrivano un'utile distrazione, e mi mossi quanto bastava per giustificare un gemito. Carlson divenne di colpo sollecito. Dallo scatolone tirò fuori un pacchetto di carta, lo aprì e mostrò una siringa di plastica. Poi pescò una boccetta ed aspirò un piccolo quantitativo di liquido trasparente. — Che cos'è? — chiesi, cercando di allontanare il sospetto dalla mia voce. — Demerol. Scrollai la testa. — No, dottore, grazie. Le ho detto che non sopporto gli aghi. Lui annuì, posò la siringa e pescò un altro oggetto. — Questo è demerol per via orale, allora. Glielo lascio a portata di mano. — Lo mise sul tavolino. Presi la boccetta e le diedi un'occhiata. C'era scritto che era demerol. Non potevo rompere il sigillo del tappo con una mano sola... dovette farlo Carlson. Grazie, mio nemico. Strano, strano, strano! Feci sparire una pillola fingendo di inghiottirla. Lui sembrò soddisfatto. — Grazie, Doc. — Non mi chiami «Doc», per favore — disse lui. — Mi chiamo Wendell Carlson. Se si aspettava una reazione, rimase deluso. — Bene, Wendell. Io mi
chiamo Tony Latimer. Lieto di conoscerla. — Era il primo nome che mi era passato per la testa. Ci fu una pausa nella conversazione. Ci studiammo a vicenda con la franca curiosità di uomini che da diverso tempo non hanno conosciuto compagnie umane. Alla fine lui assunse di nuovo quell'aria imbarazzata e distolse lo sguardo. — È meglio che vada a prenderle da mangiare. Deve avere una fame terribile. Ci pensai. Avevo l'impressione che sarei stato capace di divorare un cavallo. Crudo. Con le dita. — Sì, me la sento di mangiare. Carlson uscì dalla stanza, guardandosi i sandali. Pensai di caricare la siringa con un'overdose e di tendergli un agguato al suo ritorno, ma era soltanto un pensiero. La siringa era troppo lontana. Rivolsi l'attenzione alla boccetta sul comodino. C'era sempre scritto che era demerol... ed era sigillata con la plastica bianca, prima che Carlson l'aprisse. Però Carlson avrebbe potuto bagnare e staccare un'etichetta con il teschio e le tibie e mettere l'altra... Decisi di sopportare i dolori ancora per un po'. Mi sembrò che passasse molto prima del suo ritorno, ma il mio senso del tempo non era molto attendibile. Portò mezza pagnotta di pane scuro, un barattolo di latte di soia e un po' di miele denso, cristallizzato. Dicono che l'olfatto sia essenziale per il gusto, e io non potevo togliermi i tamponi, ma il sapore era il più buono che avessi mai assaggiato. — Non mi ha detto dove si procura il miele, Wendell. — Ho un piccolo alveare giù in Central Park. Non è molto grande, ma basta per le mie necessità. Far sopravvivere le api durante l'inverno è un problema, ma me la cavo. — Ci scommetto. — Amabili conversazioni nel mattatoio. Mangiai quello che mi diede e bevvi latte di soia fino a quando mi sentii sazio. I dolori si sentivano ancora, ma meno forti. Parlammo per circa mezz'ora, quasi sempre di cose senza capo né coda, e mi sembrò che tra noi crescesse una certa tensione, proprio a causa dell'inconcludenza delle nostre parole. C'erano cose di cui non parlavamo, e delle quali avrebbero parlato due uomini innocenti. Stordito com'ero, non ero capace d'inventare una spiegazione plausibile per la mia presenza a New York, e neppure per il colpo che gli avevo sparato. Lui lo accettava; ma in cambio io non dovevo chiedergli come mai era finito a vivere a New York. Non dovevo sapere chi era Wendell Morgan Carlson. Era un patto assurdo, un livello di verità che era impossibile mantenere, ma andava be-
ne per entrambi. Non sapevo immaginare cosa pensasse lui delle omissioni nella mia conversazione, ma ero convinto che il suo silenzio fosse un'ammissione di colpa, e la mia decisione si rafforzava. Finalmente mi lasciò, consigliandomi di dormire, se ci riuscivo, e promettendomi di ritornare l'indomani. Non dormii. Non subito. Rimasi a guardare per un secolo la boccetta di demerol, spiegando a me stesso che era molto improbabile che non fosse genuina. Non potevo farne a meno... l'odio e la diffidenza verso Carlson avevano radici profonde dentro di me. Ma se il dolore è abbastanza intenso può vincere anche il condizionamento più forte. Verso il tramonto inghiottii la pillola che avevo nascosto e poco dopo mi addormentai. I giorni seguenti passarono lentamente. Ehilà... il nastro sta per finire. Devo girar... VII Trascrizione del nastro di Stone. Seconda parte. I giorni passarono lentamente, ma non lentamente come i dolori. La lucidità ritornò lentamente, ma non più in fretta della forza fisica. Devi capire come andarono le cose, Maestro. Il demerol mi aiutava... ma non perché eliminava il dolore. Mi teneva così intontito che spesso dimenticavo che il dolore era presente. In un caldo splendore creativo escogitavo un modo sottile e fantasioso per uccidere Carlson... e mezz'ora dopo lo stesso piano mi appariva irrimediabilmente idiota. Un'imperfezione del vetro della finestra di fronte, che distorceva la linea pura e orgogliosa della cupola della Lowe Library, mi tenne affascinato per molte ore... eppure sembrava che non riuscissi a concentrarmi neppure per cinque minuti su questioni pratiche. Carlson andava e veniva; faceva poche domande e rispondeva a pochissime, e nel mio stato stuporoso io cercavo di accendere il mio odio fino al punto di uccidere. E... mio caro Collaci, istruttore e mentore e (spero) amico, non ci riuscivo. Devi capirmi... passavo ore cercando di concentrarmi sull'odio che mio padre mi aveva trasmesso, di essere all'altezza della missione impostami dal destino, di fare il mio dovere. Ma era maledettamente difficile: Carlson era una combinazione assurda... così distratto da ricordarmi mio padre, e a
modo suo premuroso quanto te. Dimenticava il cappotto, quando usciva la sera... ma tornava in orario con la colazione calda, anche se tremava e sembrava non accorgersene. Dimenticava il mio nome, ma non il mio vaso da notte. Cercava in tutte le direzioni, sbattendo gli occhi, la tazza di caffè che teneva sulle ginocchia, ma non dimenticava mai di mettere la mia dove potevo prenderla senza sforzarmi le costole. Scoprii per puro caso che dormivo nell'unico letto che Carlson aveva trascinato nella Butler Hall, e che lui si sdraiava su un giaciglio improvvisato nel corridoio, per essere vicino nel caso che gridassi durante la notte. Non mi forniva indizi circa le sue motivazioni, non mi lasciava intuire che cosa lo tenesse prigioniero a New York. Parlava della sua vita in esilio con molta semplicità, come di un fatto che non richiedesse spiegazioni. Mi sembrava sempre più ovvio che il suo silenzio fosse un'ammissione di colpa, che non potesse spiegare la sua sopravvivenza e la sua presenza in quel mausoleo fetido senza riconoscere il suo crimine. Mi sforzavo di odiarlo. Quanto mi sforzavo. Ma era maledettamente difficile. Lui provvedeva alle mie esigenze prima che potessi esprimerle, alle mie necessità prima che potessi formarle. Intuiva quando sentivo bisogno di compagnia e quando volevo essere lasciato in pace, quando avevo bisogno di parlare e quando volevo ascoltare. Sopportava la mia irritabilità e le mie rabbie in un modo che, stranamente, mi consentiva di salvare il mio amor proprio. Restava assente per lunghi periodi, di giorno e di notte, e non parlava mai delle sue attività. Io non insistevo a chiederglielo: come assassino in convalescenza, era meglio che non mostrassi curiosità eccessiva. Non potevo correre il rischio di destare i suoi sospetti. Per esempio, non parlammo mai delle mie armi, o di dov'erano finite. E così la tensione inconscia del nostro primo colloquio rimase; era nata dalle cose di cui non parlavamo. Era evidente per entrambi... eppure c'era anche una strana affinità: tutti e due vivevamo con qualcosa che non potevamo confidare, e riconoscevamo nell'altro la stessa situazione. Persino mentre progettavo di ucciderlo, sentivo una sorta di empatia tra Wendell Morgan Carlson e me. E mi turbava. Se Carlson era ciò che sapevo che era, ciò che il suo silenzio colpevole dimostrava, allora la sua morte era necessaria e giusta... perché mio padre mi aveva insegnato che i debiti si pagano sempre. Ma non potevo fare a meno di provare simpatia per quel vecchio distratto. Eppure la tensione c'era. Parlavamo soltanto di cose anodine: dove si
procurava la benzina per far funzionare il generatore che forniva energia alle prese a muro nelle stanze al piano terreno (non discutemmo dove l'avrebbe messa, adesso che gli avevo rovinato il serbatoio da mille litri). La distanza che doveva percorrere per trovare farina, fagioli e cereali ancora commestibili. La fatica che aveva fatto per tenere in funzione le colture idroponiche dell'Università, tutto da solo. Quel che faceva con i rifiuti delle fogne. La probabilità che l'anno prossimo crescessero i pomodori nel terreno sabbioso di Central Park. Lo sbaglio che aveva commesso non pensando di usare come carburante l'alcol di puro grano del laboratorio di Chimica Organica. Non parlavamo mai del motivo che l'aveva spinto ad affrontare le complesse difficoltà della vita a New York, né di quello che mi aveva indotto a venire a cercarlo. Lui... svagava il paziente con una conversazione leggera, e il paziente lo lasciava fare. L'odio, dentro di me, era pronto a scattare, ma non riuscivo a sovrapporre l'immagine che avevo sempre avuto di Carlson a quel vecchio accademico simpatico e un po' svanito. Perciò l'odio mi ribolliva nel cranio e faceva della convalescenza un periodo confuso e senza scopo. Peggiorò ancora di più quando Carlson, spiegandomi che poche cose al mondo danno assuefazione più del demerol per via orale, smise bruscamente di somministrarmelo durante la seconda settimana. Gli analgesici meno potenti come il Talwin e l'aspirina si erano tutti decomposti da molti anni, e se avessi mandato Carlson a frugare nello zaino che avevo lasciato sotto una station wagon nella 114a Strada per portarmi la marijuana rimasta, con ogni probabilità avrebbe trovato la piantina di New York annotata da Collaci, e il Manifesto ciclostilato. E poi, le costole mi facevano tanto male che non avrei potuto fumare. Una notte mi svegliai, sudato e dolorante, e scoprii che la stanza aveva un'angolazione pazzesca e che la fiamma della candela si protendeva nel buio come una lingua ansiosa. Ero quasi caduto dal letto, e il braccio destro mi impediva di cadere completamente, ma non potevo risalire senza l'altro braccio. Non l'avevo. Le costole incominciarono a far male mentre consideravo il dilemma, e gridai per il dolore. Dal corridoio veniva un russare rumoroso che si spezzò in un grugnito, «Cosa? Cosa c'è?» e poi in una serie di ansiti quando Carlson ruzzolò diligentemente dal letto per assistermi. Ci fu un tonfo, poi uno ancora più forte accompagnato da uno scroscio, e quindi uno schianto immane che echeggiò e riecheggiò. Comparve Carlson, un vecchio panciuto dal pigiama giallo, gli occhi semichiusi e sfuocati, un piede infilato in un cestino metal-
lico per la carta straccia, che veniva valorosamente in mio aiuto. Urtò con la spalla l'intelaiatura della porta, cercò di riprendere l'equilibrio e cadde lungo disteso. Credo che si svegliasse completamente un secondo dopo essere finito sul pavimento; gli occhi si spalancarono e videro che lo stavo guardando, incredulo, da una distanza di pochi centimetri. E per un momento interminabile l'assurdità delle nostre rispettive posizioni ci colpì, e scoppiammo simultaneamente in risate scroscianti che s'interruppero di colpo; e un attimo dopo lui mi aiutò a rimettermi a letto con mani forti e premurose, mentre io mi sforzavo di non gemere a gran voce. Maledizione, mi era simpatico. Poi un giorno, mentre Carlson era via, mi alzai dal letto tutto da solo, soddisfatto di scoprire che potevo farlo, e mi avviai zoppicando come un vecchio decrepito fatto di vetro verso la finestra affacciata sull'ingresso di Butler Hall e sul quadrilatero nascosto dalle siepi. Era una giornata fredda e biancastra, ma a me anche i colori scialbi dei cespugli e degli alberi sembravano inspiegabilmente visibili. Da quella stanza piccola, il campus in rovina sembrava avere una profondità magnifica. Tutto era così lontano. Era un po' soverchiante. Mi avvicinai un po' di più alla finestra e guardai sulla destra. Carlson era fermo davanti all'ingresso, e fissava il cielo sopra il quadrilatero. Mi voltava le spalle. Sulla testa portava lo stesso elmetto bizzarro che avevo già visto una volta, molti giorni prima, inquadrato nel mirino del mio fucile. Davanti a lui c'era la strana macchina, collegata per mezzo di cavi al casco e alle sue braccia. Ancora una volta mi chiesi cosa poteva essere, e poi vidi qualcosa che mi agghiacciò, mi fece dimenticare i dolori e lo stordimento. Osservai, attentissimo. Carlson stava guardando lungo il filare, tra due grandi siepi incolte che crescevano parallele l'una all'altra e perpendicolari a Butler Hall, verso la maestosa scalinata della Lowe Library. Ma guardava come se osservasse qualcosa vicino a lui, e la posizione di ciò che stava guardando seguiva quella della parte superiore delle siepi agitate dal vento. Intuii che stava usando la strana macchina per comunicare con un Musky: e tutto l'odio e la rabbia che non avevano trovato uno sfogo traboccarono, contraendomi la faccia in una smorfia di furore. Mi sembrava uno sforzo immane, non urlare una sfida primordiale: snudai i denti, credo. Bastardo, pensai furiosamente, ci hai messi a loro disposizione, ce li hai resi nemici, e adesso sei in combutta con loro. Ero stordi-
to da quel tradimento incredibile, non lo capivo e non me ne importava. Mentre guardavo, da dietro e sulla sinistra, vidi che muoveva le labbra in silenzio, ma non m'importava che cosa dicesse, quale patto avesse concluso con le nubi di gas assassine. Un patto c'era. Era d'accordo con gli esseri che avevano ucciso mia madre e che virtualmente aveva creato lui. Presto sarebbe morto. Tornai a letto adagio, con infinita cautela, e feci i miei piani. Fui pronto a ucciderlo entro una settimana. Le costole, ormai, erano quasi guarite... mi ero accorto che i processi di restaurazione del mio corpo avevano aspettato soltanto che io decidessi di guarire, di lasciare il porto sicuro della convalescenza. Le forze erano ritornate, e presto potei camminare facilmente e persino vestirmi con cura, lasciando penzolante la manica sinistra. Il moncherino non doleva quasi più; aveva lasciato soltanto i numerosi e fastidiosi fenomeni tattili dei nervi recisi, il classico «braccio fantasma» e il fiume di sudore che sembrava colarmi dall'ascella sinistra ma che non scorreva sul fianco. Dato che Carlson aveva l'abitudine di dormire profondamente, conoscevo com'era disposto il piano terreno... e avevo recuperato le armi che lui, distratto com'era, non aveva buttato via. Le aveva «nascoste» nel ripostiglio delle scope. Volevo sorprenderlo in un momento e in un luogo dove i suoi amici Musky non avrebbero potuto aiutarlo: ero certo che quelli che avevo distrutto io fossero guardie del corpo. Quasi immediatamente venne una notte fredda e ventosa: i venti erano troppo agitati perché i Musky potessero approfittarne. Era quel tipo di notte che, quando ero bambino, sceglievamo per andare a fare un picnic o correre tra il fieno. Mangiammo insieme nella mia stanza, un piatto di fagioli e lenticchie con tamari e pane fresco, e quando Carlson ebbe finito l'ultimo sorso di caffè, io tirai fuori dalla coperta il fucile e glielo puntai in faccia. — Fine della corsa, Wendell. Restò assolutamente immobile, con la tazza ancora accostata alle labbra, e mi guardò con aria solenne per un lungo istante. Quindi posò la tazza, adagio, e sospirò. — Non credevo che l'avrebbe fatto così presto. Non sta ancora abbastanza bene, lo sa. Io ghignai. — Se lo stava aspettando, eh? — Da quando lei ha ritrovato le sue armi l'altra notte, Tony. Il mio ghigno svanì. — E mi ha lasciato vivere? Wendell, ha tanta voglia
di morire? — Non sono capace di uccidere — disse lui, tristemente, e io scoppiai in una risata fragorosa. — Forse non più, adesso. E certamente non più tra qualche minuto. — Ma hai ucciso prima, hai ucciso più di chiunque altro nella storia. Diavolo, Hitler e Attila al suo confronto erano dilettanti! Carlson fece una smorfia. — Allora sa chi sono. — Lo sa tutto il mondo. Quel che ne è rimasto. Annuì, con gli occhi pieni di sofferenza. — Le poche volte che ho cercato di lasciare la città per trovare altri che mi aiutassero nel mio lavoro, mi hanno sparato. Due anni fa trovai nella Bowery un uomo che era stato aggredito da un branco di cani. Gli mancava un dente. Disse che era venuto a uccidermi, per la taglia sulla mia testa, e morì fra le mie braccia, maledicendomi, mentre lo portavo qui. Il prezzo che aveva detto era alto, e sapevo che ne sarebbero venuti altri. — Eppure mi ha curato? Deve sapere che merita la morte. — Feci una smorfia. — Lei e i suoi Musky. — Sa anche questo? — L'ho visto, mentre parlava con loro, con quello strano casco in testa. Quelli che mi hanno attaccato erano le sue guardie del corpo, vero? — I cavalieri del vento vennero da me circa vent'anni fa — disse sottovoce Carlson, distogliendo gli occhi. — Non mi fecero niente di male. Da allora, ho imparato a poco a poco a parlare con loro, in un certo senso, usando la retromente. Forse saremmo riusciti a capirci. Il fucile stava diventando pesante per il mio unico braccio; era difficile prendere bene la mira. Appoggiai la canna sul ginocchio e spostai leggermente la presa. Avevo le mani sudate. — Allora? — chiese lui in tono burbero. — Perché non mi ha ancora ucciso? Era una domanda intelligente. Scrollai la testa, irritato. — Perché lo fece? — latrai. — Perché creai il Virus Iperosmico? — La faccia grinzosa si rattristò ancora di più. Si tirò la barba. — Perché ero un maledetto sciocco, credo. Perché era un affascinante problema biochimico. Perché nessun altro avrebbe potuto farlo e perché non ero certo di riuscirci io. Quando incominciai, non sospettavo che sarebbe stato usato in quel modo. — Diffonderlo fu una decisione presa al momento, è così? — ringhiai, premendo un po' più sul grilletto.
— Credo di sì — disse lui, a voce bassa. — Naturalmente, questo potrebbe dirlo soltanto Jacob. — Chi? — Jacob Stone — rispose lui, sbalordito dalla mia violenza. — Il mio assistente. Mi sembrava che avesse detto di... — Quindi ha sempre saputo chi sono — ringhiai. Carlson batté le palpebre, sconcertato. Poi la comprensione apparve sul volto ossuto. — Ma certo — mormorò. — Certo. È il giovane Isham... Avrei dovuto riconoscerla. Sentivo l'odore del suo odio, naturalmente, ma non... — Che cosa? — Sentivo l'odore del suo odio — ripeté lui, perplesso. — Non era molto difficile... è un odore molto forte, da un po' di tempo. Ma come poteva...? Impossibile, mi dissi. — E adesso immagino che vorrà sfogare quell'odio e vendicare la morte di suo padre. Fu opera sua, ma non ha importanza: fui io a renderlo possibile. Avanti, prema il grilletto. — Chiuse gli occhi. — Mio padre non è morto — dissi, completamente confuso. Carlson riaprì gli occhi. — No? Credevo fosse morto quando liberò il Virus. Mi rombavano gli orecchi; era impossibile prendere la mira. Avrei voluto urlare, maledire Carlson e dargli del bugiardo, ma sapevo che il professore svanito non era un attore. Balzai dal letto e corsi fuori dalla stanza, oltre i cancelli di ferro battuto dell'atrio, nella tenebra e nel vento urlante e in un grande caleidoscopio di stelle che vorticavano ebbre sopra di me. Con le costole indolenzite, camminai per cent'anni, stringendo il mio stupido fucile, noncurante dei pericoli rappresentati dai Musky e dai doberman affamati, perseguitato da mille demoni ululanti. Vagamente, sentii Carlson che mi chiamava, per un po', ma lo distanziai senza difficoltà e continuai, in cerca dell'oblio. La città, trovando per la prima volta dopo due decenni la sua preda naturale, mi inghiottì doverosamente. Più di un giorno dopo ebbi il primo pensiero cosciente. Mi accorsi che mi stavo fissando i calzini da più di un'ora, cercando di decidere di che colore erano. Il mio secondo pensiero coerente fu che mi faceva male il sedere. Mi guardai intorno. Oltre le finestre panoramiche sfondate, il grande cadavere
d'acciaio e di pietra che era New York giaceva sotto di me come un incredibile mosaico tridimensionale. Ero in cima all'Empire State Building. Non ricordavo la lunghissima salita, né la fuga dalla Columbia University; e solo dopo che mi resi conto di quanto dovevo essere stanco, mi accorsi che lo ero. Le mie costole sembravano scartavetrate e i venti che investivano la cima del grattacielo erano freddissimi. Non ero mai stato così in alto in tutta la mia vita: guardavo verso sud, verso il World Trade Center deserto, verso quella parte dell'Atlantico dove un tempo la città aveva riversato ogni giorno cinquecento piedi cubici di sterco umano; ma non vedevo né la città né il mare. Vedevo invece un negro ambizioso e frustrato, ossessionato da un piano per salvare in fretta e facilmente il mondo, che raggirava un genio un po' svanito di cui non avrebbe mai potuto raggiungere il livello. Vedevo quell'uomo, atterrito dai risultati spaventosi della sua follia, inventare una storia per scaricare da sé la colpa, e ripeterla fino a quando tutti l'avevano creduta... forse persino lui. Vedevo finalmente la vera faccia del cattivo di quella storia: un vecchio tormentato dai rimorsi, esiliato per il reato di credulità, accettato soltanto dai nemici più feroci della razza, che curava e assisteva il suo assassino. E per la prima volta vedevo quell'assassino, addestrato e indottrinato per completare una finzione: l'ultima mano di bianco del negro frustrato. Mio padre mi aveva caricato con tutto l'odio e la rabbia che provava per se stesso, mi aveva puntato contro un capro espiatorio e mi aveva sparato come se fossi un cannone. Ma il colpo sarebbe rimbalzato. Sentii il rumore sotto di me, all'interno del grattacielo. Attesi senza curiosità, senza neppure sollevare il fucile che tenevo sulle ginocchia. Il rumore diventò un suono di passi stanchi al piano sotto il mio. Salirono adagio la scala di ferro e si fermarono in cima. Sentii un respiro rauco e ansimante che si sforzava di rallentare e finalmente ci riusciva. Non mi voltai. — Un panorama straordinario — dissi, socchiudendo gli occhi. — Panorama di un inferno — ansimò Carlson dietro di me. — Come ha fatto a trovarmi, Wendell? — Ho seguito il suo odore. Mi voltai e lo fissai. — Lei... — Ho seguito il suo odore. Tornai a girarmi e ridacchiai. Poi smisi. — Ha ancora le adenoidi, eh, Doc? Sicuro. Vent'anni in questo cimitero putrefatto e scommetto che non ha mai avuto un paio di tamponi nasali. Una punizione degna della colpa...
e anche di più. Non rispose. Adesso respirava più agevolmente. — Mio padre, Wendell, è un uomo molto distratto — continuai io, in tono discorsivo. — Fa sempre qualche lavoro civilizzato, e dimentica sempre di togliersi i tamponi dal naso quando viene a casa... Lo prendono in giro. Il nostro capo della sicurezza, Phil Collaci, gli manda sempre dietro una Guardia, tutte le volte che esce all'aperto... non si può contare sull'olfatto di mio padre, dice il Maestro. Mio padre è sempre stato un pessimo cuoco, sa? Mette troppo aglio nella minestra. La sto annoiando, Wendell? Le piacerebbe sentire che bella morte ho appena escogitato? Sono l'ultimo sicario della Terra, e ho appena inventato una morte nuovissima, unica. Dimostra la colpevolezza di chi muore... se muori, te lo meriti. — La mia voce era diventata stridula, e una parte della mia mente stava diagnosticando l'isteria. Carlson disse qualcosa che io non sentii, mentre straparlavo di tazze della toeletta e di cervelli sfracellati su un marciapiedi e di migliaia di ratti grigi; e i miei occhi andarono in nova, e un carillon si frantumò dentro la mia testa, e quando il mondo ritornò mi accorsi che il vecchio esausto mi aveva schiaffeggiato così forte che per poco non mi aveva staccato la testa dalle spalle. Stava accosciato vicino a me e si stringeva la mano, rabbrividendo. — Perché nessun Musky mi ha attaccato, quassù? — La mia voce era bassa, e il vento la portava via. — I cavalieri del vento proiettano e ricevono le emozioni. Quelli che soffrono, come me e lei, gli ispirano rispetto e paura. Ora lei è protetto, come lo sono io da vent'anni. Uno scudo pagato a caro prezzo. Sbattei le palpebre e scoppiai in pianto. Carlson mi strinse tra le vecchie braccia fragili, come mio padre non aveva fatto, e mi cullò mentre piangevo. Io piansi sino a che fui sfinito, e quando ebbi smesso da un po', lui disse sottovoce: — Adesso accantonerà quella nuova morte, senza usarla. È suo figlio, e gli vuol bene. Rabbrividii; lui mi teneva stretto, e non vide il mio sorriso. Dunque ecco qui, Maestro. Non pensare più a Jacob Stone come al Padre di Fresh Start, e cerca di vederlo come un uomo... e non soltanto ti accorgerai che il suo olfatto era una simulazione, ma ti chiederai, come me, perché persino tu ti sei lasciato imbrogliare da una finzione così trasparente. C'è una dozzina di spiegazioni irreprensibili dell'anosmia di mio padre... e nessuna avrebbe richiesto la simulazione.
Perciò, considera il modo in cui è morto. Il coperchio della vasca settica sarà trovato socchiuso... il bagno puzzerà sicuramente di cloro. Chiediti com'è possibile che un chimico fosse entrato in quella trappola... se avesse avuto il senso dell'olfatto. Meglio ancora, esamina il cadavere e guarda se ha le adenoidi. Quando avrai ricostruito tutto, vieni a cercarmi. Mi troverai alla Columbia University con il mio buon amico Wendell Morgan Carlson. Abbiamo parecchio lavoro da fare, e credo che avremo presto bisogno del tuo aiuto e di quello del Consiglio. Stiamo imparando a parlare con i Musky, vedi. Se vieni di notte, mi sono sistemato nell'atrio del Waldorf-Astoria. Non puoi non trovarmi. Ma mi raccomando di bussare: sono inattaccabile per i Musky, ma ho ancora le sentinelle subconsce che mi hai dato tu. E ho paura del buio. L'UOMO DEL BICENTENARIO The Bicentenniel Man di Isaac Asimov Stellar # 2, 1976 Isaac Asimov è senza ombra di dubbio l'autore più celebre di tutta la fantascienza, oltre ad esserne uno dei maestri riconosciuti. La sua fama nel campo è dovuta a tantissimi capolavori ma soprattutto alla trilogia (adesso divenuta tetralogia) della Fondazione e alla sua serie dei robot positronici, che servì a introdurre le rivoluzionarie Tre Leggi della Robotica. Anche questo racconto lungo ha inizio con le famosissime tre leggi, da cui poi Asimov, come di consueto, procede per vedere fino a che limite le può stravolgere pur rimanendovi fedele. A che punto una macchina pensante sviluppa un proprio «ego»? E che cosa potrebbe desiderare una simile macchina più di ogni altra cosa? Le Tre Leggi della Robotica: 1. Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge. Andrew Martin disse: — Grazie — e si accomodò sulla sedia che gli veniva offerta. Non aveva l'aria di essere allo stremo delle risorse, eppure era così. In verità nessuna emozione traspariva dalla sua faccia liscia e impassibile, se si eccettua un'ombra di tristezza, forse immaginaria, nello sguardo. Aveva i capelli lisci, castano chiaro, molto sottili, e la faccia glabra come se si fosse rasato di fresco con cura. Indossava abiti distinti, un po' antiquati, ma in perfetto ordine, di velluto violaceo. Di fronte a lui, dalla parte opposta della scrivania, sedeva il chirurgo, e la targhetta col nome era preceduta da una serie completa di lettere d'identità che Andrew ignorò. Era più che sufficiente chiamarlo dottore. — Quando potrà essere eseguito l'intervento, dottore? — chiese. Con voce pacata, non priva dell'immancabile nota di rispetto che i robot riservano agli esseri umani, il chirurgo disse: — Non credo di aver capito bene, signore. Come e su chi deve essere eseguita l'operazione? Si sarebbe potuto notare un'espressione di rispettosa intransigenza sulla faccia del chirurgo, se un robot del suo tipo, in acciaio leggermente scuro, fosse stato in grado di assumere una qualunque espressione. Andrew Martin esaminava la destra del robot, la mano che eseguiva gli interventi, ora immobile sulla scrivania. Aveva dita lunghe modellate seguendo curve artistiche così appropriate che pareva di vedere il bisturi adattarvisi senza fatica, divenendo tutt'uno con esse. Quel chirurgo non avrebbe mai avuto dubbi, non avrebbe commesso errori, non si sarebbe mostrato incerto nell'operare. Questa abilità eccezionale derivava naturalmente dalla raffinata specializzazione, una specializzazione che l'uomo ambiva talmente di raggiungere che pochi robot disponevano ancora di un cervello indipendente. Un chirurgo, naturalmente, doveva avere un cervello, e questo però, sebbene ne fosse dotato, era talmente limitato nelle sue capacità che non riconosceva Andrew. Probabilmente non aveva nemmeno mai sentito parlare di lui. — Avete mai pensato se vi piacerebbe essere un uomo? — gli chiese Andrew. Il chirurgo esitò mentre la domanda si inseriva nel punto adatto dei circuiti positronici del suo cervello, e infine rispose: — Ma io sono un robot, signore.
— Non sarebbe meglio essere un uomo? — Sarebbe meglio, signore, essere un chirurgo migliore. Non potrei esserlo se fossi un uomo, ma solo se fossi un robot più perfezionato. Mi piacerebbe essere un robot più perfezionato. — Non vi offende il fatto che possa impartirvi degli ordini? Che possa dirvi: «Alzati, siediti, gira a destra, a sinistra» e che voi dobbiate farlo solo perché ve lo dico? — È una gioia per me accontentarvi, signore. Se i vostri ordini contrastassero col mio funzionamento inducendomi a mancare di rispetto a voi o a un altro essere umano, allora non obbedirei. La Prima Legge, relativa ai miei doveri per la salvaguardia della sicurezza umana, prevarrebbe sulla Seconda per quanto riguarda l'obbedienza. Altrimenti, per me, è un piacere obbedire... Ma su chi devo eseguire l'operazione? — Su di me — disse Andrew. — È impossibile. Si tratta di un'operazione indubbiamente pericolosa. — Non ha importanza — disse calmo Andrew. — Io non devo recare danno — asserì il chirurgo. — È vero, ma solo quando si tratta di esseri umani — disse Andrew. — Io invece sono un robot. Quando era appena uscito dalla fabbrica, Andrew aveva tutto l'aspetto del classico robot dalle linee funzionali e aveva dato ottimi risultati nella casa in cui era stato portato, in un'epoca in cui i robot in servizio domestico e perfino i robot sulla Terra erano una rarità. La famiglia era composta di quattro persone: il Signore, la Signora, la Signorina e la Signorina Piccola. Lui, naturalmente, ne conosceva i nomi, ma non li usava mai. Il Signore si chiamava Gerald Martin. Il robot aveva una matricola che cominciava con le lettere NDR, seguite da alcuni numeri che lui non ricordava. Naturalmente era passato molto tempo, comunque se avesse voluto non se li sarebbe potuti scordare. Solo che non voleva ricordare. La Signorina Piccola era stata la prima a chiamarlo Andrew perché s'impappinava sulle lettere, e anche gli altri avevano preso quell'abitudine. La Signorina Piccola... Era vissuta novant'anni, e ormai era morta da molto tempo. Lui aveva tentato una volta di chiamarla Signora, ma lei non glielo aveva permesso, ed era rimasta la Signorina Piccola fino al suo ultimo giorno. Andrew avrebbe dovuto svolgere le mansioni di maggiordomo, do-
mestico e cameriera personale della Signora. Quelli, per lui, erano stati giorni sperimentali, come del resto per tutti i robot, salvo che nelle fabbriche e nelle postazioni industriali extraterrestri. I Martin erano molto soddisfatti di lui e spesso lo esentavano dal lavoro perché la Signorina e la Signorina Piccola preferivano che giocasse con loro. Era stata la Signorina a decidere. — Noi ti ordiniamo di giocare e tu devi obbedire ai nostri ordini. — Mi dispiace, Signorina — disse Andrew. — Ma esiste un ordine del Signore a cui devo dare la precedenza. Ma lei ribatté: — Papà ha detto che sperava che tu facessi le pulizie. Questo non è un ordine. Invece io ti ordino di giocare. Il Signore non aveva sollevato obiezioni. Era affezionato alle figlie più ancora della Signora, e anche Andrew si era affezionato a loro, o almeno l'effetto che le due bambine avevano sul suo modo di agire, trasportato sul piano umano si sarebbe definito il risultato dell'affetto. E Andrew lo chiamava così perché non avrebbe saputo come definirlo altrimenti. Era stato per la Signorina Piccola che Andrew aveva scolpito un ciondolo di legno. Lei glielo aveva ordinato perché, a quanto pareva, la Signorina aveva ricevuto in dono un ciondolo d'avorio per il compleanno, e la Signorina Piccola era rimasta male. Possedeva solo un pezzetto di legno e l'aveva dato ad Andrew insieme a un coltellino da cucina. Lui aveva scolpito il ciondolo in quattro e quattr'otto, e la Piccola aveva detto: — Com'è bello, Andrew! Lo mostrerò a papà. Il Signore si era rifiutato di credere che l'avesse fatto il robot. — Dimmi la verità, Mandy, dove l'hai preso? — Mandy era il nome della Piccola. Dopo che lei gli ebbe giurato che aveva detto la verità, il Signore aveva chiesto a Andrew: — L'hai fatto davvero tu? — Sì, signore. — Anche il disegno? — Sì, signore. — Da dove l'hai copiato? — È una rappresentazione geometrica che si adattava alla venatura del legno, signore. Il giorno dopo, il Signore gli portò un altro pezzo di legno, più grande, e un vibro-coltello elettrico. — Fa' qualcosa con questo pezzo di legno, Andrew. Quello cne vuoi tu. Andrew eseguì, e il Signore rimase a osservarlo, poi esaminò il prodotto
a lungo. Da quel giorno, Andrew fu esentato dal servizio. Gli ordinarono invece di leggere libri di arredamento e imparò a costruire scrivanie e armadietti. — Fai delle cose bellissime, Andrew — disse il Signore. — Mi diverto a farle, Signore. — Ti diverti? — Facendole, sento che i circuiti del mio cervello funzionano meglio. Ho sentito la parola «divertire» e so cosa significa, perciò mi sembra che serva bene a definire quello che provo. Gerald Martin portò Andrew agli uffici regionali della U. S. Robot. Come membro della Legislatura Regionale, non gli fu difficile ottenere un colloquio col robopsicologo capo. Era proprio grazie alla sua carica, infatti, che gli era stato concesso di possedere un robot in un'epoca in cui i robot erano rari. Andrew non aveva capito bene, allora, ma col tempo e con l'esperienza poté ripensare a quel colloquio sotto la sua giusta luce. Il robopsicologo, Merton Mansky, ascoltò con sempre più accentuato cipiglio e più di una volta si trattenne a stento dal tamburellare con la punta delle dita sul tavolo. Aveva lineamenti tesi e la fronte solcata da profonde rughe, e dimostrava più anni di quanti ne aveva in realtà. — La robotica non è un'arte esatta, signor Martin — disse. — Non posso scendere nei particolari, ma le regole matematiche che governano i circuiti positronici sono talmente complicate che permettono soluzioni solo approssimative. Naturalmente restano incontrovertibili le Tre Leggi. Sostituiremo il robot... — Niente affatto — lo interruppe il Signore. — Non sono venuto a lamentarmi perché non funziona bene. Anzi, esegue gli ordini alla perfezione. Volevo solo scoprire come mai è anche capace di incidere il legno e scolpirlo in modo magistrale, e con forme e disegni sempre diversi. Produce dei capolavori artistici. — Strano — disse con aria confusa Mansky. — Naturalmente oggi stiamo tentando di creare circuiti generalizzati... Dite che ha una mente creativa? — Giudicate voi. — Il signor Martin gli porse una sferetta di legno su cui era incisa una scena di giochi infantili. I bambini erano talmente piccoli da risultare appena visibili, ma erano perfettamente proporzionati e si adattavano in modo tanto naturale alla grana, che anche quella pareva scolpita.
— L'ha fatto proprio lui? — chiese Mansky, restituendo la sferetta. — Si tratta di un caso eccezionale, fortuito. Qualcosa nei circuiti... — Riuscireste a ricrearne di uguali? — Non credo. Anzi, ignoravamo la possibilità di simili prestazioni. — Bene, mi fa proprio piacere che Andrew sia unico nel suo genere. — Penso che all'azienda farebbe piacere riavere il robot per esaminarlo — disse Mansky. — Nemmeno per sogno — ribatté inflessibile il Signore. E ad Andrew: — Torniamo a casa. — Come volete, Signore — disse Andrew. La Signora aveva molti corteggiatori e stava poco in casa. Era la Piccola, ormai non più tanto piccola, a riempire tutto il mondo di Andrew. Non aveva mai dimenticato il primo ciondolo che le aveva creato e lo teneva appeso al collo con una catenina d'argento. Ed era stata lei a protestare contro l'abitudine del Signore di regalare i manufatti di Andrew. — Senti, papà — gli disse — se qualcuno li vuole, che li paghi. — Non voglio che tu sia così avida, Mandy — disse il Signore. — Ma il ricavato sarà per l'artista, non per noi. Andrew non aveva mai sentito la parola «artista» e andò a cercarne il significato nel dizionario. Poi fece un altro viaggetto col Signore, che questa volta lo portò dall'avvocato. — Che ne pensi, John? — gli chiese. L'avvocato si chiamava John Feingold, aveva i capelli bianchi e la pancetta e aveva l'orlo delle lenti a contatto di un verde brillante. Guardò il medaglione che il Signore gli aveva portato. — È bellissimo... Ma so già di che cosa si tratta. L'ha scolpito il tuo robot. — Sì, è stato lui, non è vero, Andrew? — Sì, signore — rispose Andrew. — Cosa saresti disposto a pagarlo, John? — Non saprei. Non sono un collezionista di gioielli. — Ci crederesti se ti dico che mi hanno offerto duecentocinquanta dollari per un oggetto così piccolo? Andrew fabbrica anche sedie e le ho vendute per cinquecento dollari. Ho in banca un conto di duecentomila dollari, guadagnati col lavoro di Andrew. — Caspita, il tuo robot ti rende ricco, Gerald.
— A metà — spiegò il Signore. — Il conto è intestato metà a me e metà a Andrew Martin. — Il robot? — Sì, e sono venuto a chiederti se è legale. — Legale? — Feingold si appoggiò allo schienale della sedia facendolo scricchiolare. — iNon esistono precedenti, Gerald. Come può firmare un robot i documenti necessari? — È in grado di scrivere il suo nome, e ho portato a casa i documenti da fargli firmare. Finora non l'ho mai portato in banca, ma potrò farlo, in avvenire? — Uhm. — Feingold ci pensò sopra un momento. — Bene — disse poi, — se possiamo combinare una delega in modo che tu sia autorizzato ad agire a nome suo, servirebbe da isolante fra lui e l'ostilità del mondo. Per il resto, ti consiglio di non fare niente. Finora nessuno ti ha ostacolato, ma se qualcuno ci si provasse, fagli causa. — E te ne occuperesti tu? — Naturale, dato che si tratta di un cliente facoltoso. — Quanto vorresti? — Un oggetto come questo — e Feingold indicò il medaglione di legno. — Affare fatto. Feingold ridacchiò e chiese al robot: — Andrew, sei contento di possedere del denaro? — Sì, signore. — A cosa ti servirà? — A pagare cose che altrimenti dovrebbe pagare il Signore. Così risparmierà. L'occasione non mancò. Le riparazioni erano costose e le revisioni ancora più care. Col passare degli anni erano stati prodotti nuovi tipi di robot, e il Signore volle che Andrew fosse dotato di tutti i nuovi accorgimenti e congegni, cosicché finì col diventare un modello di perfezione meccanica. Tutto a spese di Andrew. Fu lui a insistere su questo punto. Solo i circuiti positronici rimasero com'erano fin dall'origine. Fu il Signore a insistere su questo punto. — Quelli nuovi non sono efficienti come i tuoi, Andrew — disse. — I nuovi robot non valgono niente. La società ha imparato a costruire robot più precisi, più specializzati e perfezionati, che fanno solo ed esattamente quello per cui sono stati costruiti. Io preferisco te.
— Grazie, Signore. — Ed è merito tuo, Andrew, non dimenticarlo. Tu sei unico. Sono sicuro che Mansky ha smesso di fabbricare circuiti generalizzati dopo averti visto. Le cose imprevedibili non gli andavano a genio... Sai quante volte mi ha chiesto di rimandarti in fabbrica perché potessero studiarti? Nove volte! Io mi sono sempre rifiutato, però, e adesso che Mansky è andato in pensione, penso che potremo vivere in pace. I capelli del Signore erano diventati grigi e radi, il suo viso rugoso, mentre invece Andrew era in condizioni migliori del giorno in cui era entrato al servizio della famiglia. La Signora si era unita a una colonia artistica in una località dell'Europa e la Signorina faceva la poetessa a New York. Scrivevano, ogni tanto, ma non sovente. La Piccola si era sposata e abitava nelle vicinanze. Sosteneva di non voler lasciare Andrew, e quando nacque suo figlio, il Signorino, toccò ad Andrew porgergli il biberon e cambiarlo. Andrew aveva la sensazione che, con la nascita del nipotino, il Signore avesse trovato un sostituto di chi lo aveva lasciato e quindi non gli parve inopportuno andare da lui a rivolgergli la sua richiesta. — Signore — gli disse — è stato gentile da parte vostra permettermi di spendere il mio denaro come volevo. — Era denaro tuo, Andrew. — Solo perché voi avete voluto così, Signore. Non credo che la legge vi avrebbe impedito di tenervelo tutto. — La legge non mi avrebbe mai convinto ad agire male. — Nonostante le spese e le tasse, Signore, ho quasi seicentomila dollari in banca. — Lo so, Andrew. — Voglio regalarveli, Signore. — Non li accetterò, Andrew. — In cambio di qualcosa che solo voi potete darmi, Signore. — Davvero? Di cosa si tratta? — Della mia libertà, Signore. — La tua... — Voglio comprare la mia libertà, Signore. Non fu facile come dirlo. Il Signore era diventato paonazzo e dopo avere esclamato: — Per l'amor di Dio! — aveva girato i tacchi e l'aveva piantato in asso.
Era stata la Piccola a persuaderlo, circuendolo con le buone, sfidandolo apertamente... in presenza di Andrew. Erano trent'anni che tutti parlavano liberamente davanti a lui, qualunque fosse l'argomento. Tanto era solo un robot. — Papà — disse fra l'altro la Piccola. — Perché lo prendi come un affronto personale? Rimarrà qui, non può fare altro. Sarà sempre fedele e devoto, perché è fatto così. Si tratta di una pura formalità. Vuole che si dica che è libero. Ti pare una cosa tanto terribile? Non se l'è guadagnata? Santo cielo, io e lui ne abbiamo parlato per anni! — Ne avete parlato per anni, voi due? — Sì, e molto spesso, e lui continuava a tergiversare per paura di offenderti. Sono io che l'ho persuaso. — Non sa cosa sia la libertà. È un robot. — Papà, tu non lo conosci. Ha letto tutti i libri della biblioteca. Non so cosa provi dentro di sé, ma quanto a questo non so nemmeno cosa provi tu. Parlandogli noterai che reagisce come noi. Quindi, cosa conta il resto? Se uno reagisce come me o te, cosa puoi esigere di più? — L'atteggiamento della legge sarà diverso — disse rabbiosamente il Signore. — Senti un po' tu — e chiamò Andrew con tono volutamente aspro. — Posso renderti libero solo legalmente, e se la cosa finisce in tribunale non solo non otterrai la libertà, ma la legge verrà ufficialmente a conoscenza della somma che possiedi. Diranno che un robot non ha diritto di guadagnare denaro. Ti sembra che per questa pagliacciata valga la pena di perdere tutti quei soldi? — La libertà non ha prezzo, Signore — disse Andrew. — Vale la pena di rischiare tutto il mio denaro solo nella speranza di ottenerla. Anche il tribunale poteva dichiarare che la libertà non ha prezzo e che nessuna somma, per quanto cospicua, può consentire a un robot di acquistarla. La dichiarazione del procuratore regionale che rappresentava coloro i quali avevano promosso un'azione di classe per opporsi alla libertà, suonava così: — La parola «libertà» non ha senso, riferendosi a un robot. Solo un essere umano può essere libero. La ripeté più volte, quando lo giudicava opportuno, lentamente, alzando e abbassando la mano sul banco per sottolineare le parole. La Piccola chiese il permesso di patrocinare Andrew. Venne presentata col nome per esteso, e che Andrew non aveva mai sentito pronunciare
prima di allora. — Amanda Laura Martin Charney può prendere posto al banco. — Grazie, vostro onore — disse lei. — Non sono avvocato e non conosco il linguaggio legale, ma spero che vorrete ascoltarmi e dare peso al significato e non alla forma delle mie parole. «Cerchiamo di capire cosa significhi essere libero, per Andrew. Sotto certi punti di vista è già libero. Credo che siano almeno vent'anni che la famiglia Martin non gli ordina di fare qualcosa che non approvi anche lui. «Ma, volendo, potremmo ordinargli di fare qualsiasi cosa, costringendolo a servirci perché è una macchina e ci appartiene. Ma perché dovremmo farlo, dal momento che ci ha servito così fedelmente e a lungo, e ci ha fatto guadagnare tanto denaro? Non ci deve più niente. Siamo noi in debito con lui, casomai. «Anche se fosse legalmente proibito costringerlo a ubbidirci, lui ci servirebbe ugualmente. Concedergli la libertà è solo un'espressione priva di sostanza, ma lui ci tiene molto. Per lui sarebbe una cosa importantissima, mentre a noi non costerebbe niente. Il giudice soffocò un sorriso. — Capisco il vostro punto di vista, signora Charney. Ma sta di fatto che non esistono leggi vincolanti, in merito, né precedenti. Esiste però il tacito assioma che solo l'uomo può essere libero. Io potrei promulgare una nuova legge qui, soggetta a essere respinta da un tribunale superiore, ma le cose stanno come ho detto. Permettete che parli al robot. Andrew! — Sì, vostro onore. Era la prima volta che Andrew prendeva la parola nell'aula e il giudice rimase stupito nel sentire com'era umano il timbro della sua voce. — Vuoi essere libero, Andrew? Ti importa molto esserlo? Andrew disse: — Vorreste essere schiavo, vostro onore? — Ma tu non sei schiavo. Tu sei un ottimo robot, un genio nel tuo campo, a quanto ho sentito, capace di creazioni artistiche che non hanno uguali. Cosa potresti fare di più se fossi libero? — Forse niente, vostro onore, ma tutto quello che farei lo farei con maggiore gioia. In quest'aula ho sentito dire che solo un essere umano può essere libero. A me pare invece che chiunque lo desideri dovrebbe poter essere libero. E io voglio la libertà. Fu questo a convincere il giudice. La frase decisiva della sentenza fu questa: — Non abbiamo il diritto di negare la libertà a un oggetto dotato di una mentalità così progredita da comprendere il concetto e da desiderare la
condizione. La Corte mondiale convalidò in seguito la sentenza. La cosa non andò giù al Signore la cui voce aspra dava l'impressione ad Andrew che avesse avuto un cortocircuito. — Non voglio i tuoi maledetti soldi, Andrew — disse. — Se li accetto è solo perché altrimenti non ti sentiresti libero. D'ora in avanti puoi sceglierti i lavori e farli come ti pare e piace. Ma io continuo a essere responsabile di te, perché me lo ordina la sentenza. Spero che tu lo capisca. — Non essere irascibile, papà — lo interruppe la Piccola. — Si tratta di una responsabilità puramente nominale, che non ti sarà di nessun peso. Le Tre Leggi continuano a essere valide. — E allora come fai a dire che è libero? — Gli esseri umani non sono tenuti a obbedire alle loro leggi? — chiese Andrew. — Non ho voglia di stare a discutere — tagliò corto il Signore e se ne andò. Dopo quel giorno, Andrew lo vide molto di rado. La Piccola veniva spesso a trovarlo nella casetta che era stata costruita apposta per lui. Naturalmente era priva di bagno e di servizi igienici. Constava di due sole stanze: la biblioteca e l'officina-magazzino. Andrew accettava molte commissioni e da quando era libero lavorava ancora più di prima, tanto che arrivò presto a pagarsi la casa la cui proprietà venne trasferita legalmente a suo nome. Un giorno venne il Signorino... no, George, come aveva insistito a essere chiamato dopo la sentenza. — Un robot libero non deve chiamare nessuno «Signorino». Io ti chiamo Andrew, tu chiamami George. — Suonava come un ordine, e Andrew obbedì. Il giorno in cui George andò da lui gli disse che il Signore era moribondo. La Piccola era al suo capezzale ma lui voleva anche Andrew. La voce del malato era ancora forte, sebbene lui fosse immobilizzato. Sollevando con sforzo una mano, disse: — Andrew... No, non aiutarmi, George. Sto morendo, ma non sono uno storpio... Andrew, sono contento che tu sia libero. Volevo solo dirti questo. Andrew non sapeva cosa rispondere. Non aveva mai visto un moribondo, ma sapeva che la morte era l'equivalente umano della cessazione di tutte le attività, totale e irreversibile. Non trovando parole adatte alla circostanza, rimase immobile e silenzioso accanto al letto. Quando tutto fu finito, la Piccola disse: — Forse negli ultimi tempi ti sa-
rà parso ostile, Andrew, ma era vecchio, sai, e lo addolorava sapere che volevi essere libero. Allora Andrew trovò le parole. — Senza di lui non avrei mai potuto essere libero, Piccola Signorina. Dopo la morte del Signore, Andrew cominciò a vestirsi, dapprima con un paio di pantaloni datigli da George. George adesso era sposato e faceva l'avvocato. Era entrato nello studio di Feingold. Il vecchio Feingold era morto da anni e lo studio assunse il nome Feingold-Martin, e tale rimase quando la figlia del vecchio Feingold si ritirò e nessuno della famiglia prese il suo posto. Quando Andrew cominciò a vestirsi, il nome Martin era stato aggiunto da poco allo studio. La prima volta che Andrew infilò i calzoni, George fece uno sforzo per non sorridere, ma Andrew capì che ne avrebbe avuto una gran voglia. George gli insegnò a manovrare la carica di energia statica che permetteva ai calzoni di aprirsi per adattarsi alla parte inferiore del suo corpo, e infine tornare a chiudersi. — Ma perché vuoi metterti i calzoni? — gli chiese. — Hai un bellissimo corpo funzionale, e non capisco perché lo vuoi coprire, tanto più che non lo fai né per pudore né per tenerti caldo. E poi gli abiti non aderiscono bene al metallo. — I corpi umani non sono forse belli e funzionali, George? — ribatté Andrew. — Eppure li coprite. — Perché dobbiamo tenerci caldi, per pulizia, per protezione, per pudore, per essere eleganti. Tutte cose che non fanno al caso tuo. — Senza vestiti mi sento nudo. Nudo e diverso. — Diverso! Andrew, ci sono milioni di robot che svolgono le mansioni più svariate, al mondo. Forse ci sono più robot che uomini, a dar retta agli ultimi censimenti. E nessuno di loro indossa degli indumenti. — Ma nessuno di loro è libero, George. A poco a poco, Andrew aggiunse ai calzoni altri capi di vestiario, anche se il sorriso di George e delle persone che gli commissionavano qualche lavoro lo inibiva un poco. Sebbene libero, nel suo cervello positronico erano profondamente radicati certi principi di comportamento nei confronti degli esseri umani, e lui osava progredire sulla strada che si era prefisso solo a piccoli passi. Se qualcuno lo disapprovava apertamente, era capace di lasciar passare dei mesi prima di azzardare un altro passo.
E non tutti lo trattavano da individuo libero. Lui non se ne risentiva ma, quando ci pensava, i suoi processi cerebrali si svolgevano con maggiore difficoltà. Soprattutto evitava di indossare troppi indumenti quando andava a trovarlo la Piccola. Lei era vecchia, ormai, e spesso si assentava per lunghi periodi, ma quando tornava dai paesi dove la temperatura era più mite, andava sempre a trovarlo. In una di quelle occasioni, George disse con una certa dose di rammarico: — Ce l'ha fatta, sai, Andrew. È riuscita a persuadermi a presentarmi candidato alle elezioni, l'anno prossimo. Tale il nonno, ha detto, tale il nipote. — Tale il nonno... — ripeté Andrew, fermandosi confuso. — Vuol dire che io, George, il nipote, sarò come il Signore, mio nonno, che era deputato. — Sarebbe bello, George, se il Signore fosse... — s'interruppe non trovando la parola. — Se funzionasse ancora — concluse, incerto. — Se fosse ancora vivo — lo corresse George. — Sì, ogni tanto penso al vecchio orco. Andrew ripensò a quel colloquio. Aveva già notato che non sempre riusciva a esprimersi bene, quando parlava con George. Il modo di parlare era cambiato da quando lui era stato costruito. Inoltre George ricorreva spesso a frasi dialettali, cosa che il Signore e la Piccola non avevano mai fatto. E poi, perché chiamare orco il Signore? Non era una definizione adatta. I libri non potevano dargli delucidazioni in merito, in quanto erano vecchi, e in genere si trattava di manuali specializzati di falegnameria, arte, arredo. Non ne aveva nessuno che spiegasse come si esprime la gente a viva voce. Allora decise di cercarne, ma, essendo un robot libero, non volle incaricare George. Decise che sarebbe andato lui stesso alla biblioteca pubblica. Soddisfatto di quella decisione, sentì che il suo potenziale elettrico si era rafforzato come se gli fosse stato aggiunto un altro circuito di alimentazione. Si vestì di tutto punto, compresa una tracolla a catena di legno. Lui ne avrebbe preferita una di plastica lucida, ma George gli aveva detto che il legno andava meglio e inoltre il cedro lucido valeva assai di più. Aveva già messo una trentina di metri fra sé e la casa quando una resistenza entrò in funzione costringendolo a fermarsi. Spostò la «reattanza» e, constatando che non bastava, tornò a casa e scrisse con la sua bella cal-
ligrafia su un foglio: «Sono andato alla biblioteca», dopo di che mise il foglio sul banco di lavoro, bene in vista, e uscì di nuovo. Andrew non arrivò mai alla biblioteca. Aveva esaminato la mappa. Conosceva la strada, ma la realtà era ben diversa dai trattini e dai simboli sulla mappa, e lui arrivò a dubitare di aver sbagliato itinerario, tanto tutto gli pareva strano. Incontrò qualche robot intento al lavoro, ma quando decise finalmente di chiedere dove si trovava, non ce n'era nessuno in vista. Passò un veicolo, ma non si fermò. Andrew era incerto sul da farsi e rimaneva immobile e calmo, perché questo era il modo di manifestare la sua incertezza, quando vide che stavano arrivando due esseri umani. Si voltò nella loro direzione, e quelli deviarono per raggiungerlo. Poco prima li aveva sentiti parlare ad alta voce, ma adesso tacevano. Avevano quell'espressione che Andrew associava all'incertezza umana, ed erano abbastanza giovani, ma non troppo. Vent'anni, forse? Andrew non era mai riuscito a valutare l'età delle persone. — Vorreste indicarmi la strada per raggiungere la biblioteca pubblica, signori? — chiese. Uno dei due, il più alto, la cui statura era accentuata da un alto cappello, disse al compagno: — È un robot. L'altro, che aveva il naso a patata e le palpebre grevi, fece schioccare le dita. — È il robot libero. Dai Martin c'è un robot che non appartiene a nessuno. Perché se no dovrebbe essere vestito? — Chiediglielo — disse il compagno. — Sei il robot Martin? — Sono Andrew Martin, signore. — Bene. Spogliati. I robot non portano indumenti — disse quello alto, e al suo amico: — Guardalo. È disgustoso. Andrew esitava. Non aveva sentito un ordine dato in quel tono da talmente tanto tempo che i circuiti della Seconda Legge si erano momentaneamente inceppati. Quello alto disse: — Spogliati. Te lo ordino. Andrew cominciò lentamente a spogliarsi. — Lasciali cadere a terra — ordinò quello alto. E l'altro: — Se non appartiene a nessuno, possiamo prendercelo noi. — D'altronde chi può dirci niente? — ribatté quello alto. — Non danneggiamo mica la proprietà di qualcuno... Mettiti a testa in giù — le ultime parole erano rivolte a Andrew.
— La testa non è fatta... — cominciò Andrew. — È un ordine. Se non l'hai mai fatto, prova. Andrew esitò, poi si chinò e, posando la testa per terra, cercò di sollevare le gambe pesanti, ma cadde goffamente. — Resta lì — gli ordinò quello alto. — Possiamo smontarlo — disse all'amico. — Hai mai smontato un robot? — Ma ci lascerà? — Come può impedircelo? Infatti Andrew non poteva fare niente per impedirlo, se glielo ordinavano con forza. La Seconda Legge dell'Obbedienza prevaleva sulla Terza dell'autoconservazione. E comunque non avrebbe potuto difendersi senza far loro del male, e ciò sarebbe stato contrario alla Prima Legge. Al solo pensarci le sue parti mobili si contrassero. E Andrew rabbrividì, senza muoversi. Quello alto gli si avvicinò e lo spinse col piede. — È molto pesante. Ci vorranno degli utensili per smontarlo. L'altro rispose: — Potremmo ordinargli di smontarsi. Sarebbe divertente starlo a guardare mentre lo fa. — Sì — convenne l'amico — però togliamoci dalla strada. Se arriva qualcuno... Troppo tardi. Infatti stava già arrivando qualcuno, e questo qualcuno era George. Andrew l'aveva visto risalire una collinetta, in distanza, e avrebbe già voluto chiamarlo, se non gli avessero ordinato di restare lì disteso immobile. George correva, e quando arrivò aveva il fiato corto. I due giovani arretrarono di qualche passo, poi rimasero in attesa, senza aprire bocca. — Andrew, ti è successo qualcosa? — chiese con ansia George. — Sto bene, George — disse Andrew. — E allora alzati... Perché ti sei spogliato? — È il tuo robot, amico? — chiese quello alto. — Questo robot non appartiene a nessuno — rispose Goerge con voce tagliente. — Cosa sta succedendo qui? — Gli abbiamo gentilmente chiesto di spogliarsi. Se non è tuo, perché t'immischi? — Che cosa facevano, Andrew? — chiese George. — Era loro intenzione smembrarmi — rispose Andrew. — Stavano per portarmi in un posto meno in vista per ordinarmi di smantellarmi da solo. George guardò i due, e gli tremava il mento. Quelli non si mossero. Sor-
ridevano. Il giovane alto disse con scherno: — Vuoi picchiarci, smargiasso? — No — rispose George. — Non occorre. Questo robot sta da più di settant'anni con la mia famiglia. Ci conosce e ci considera al di sopra di chiunque altro. Se gli dico che mi minacciate di uccidermi interverrà in mia difesa. Dovendo scegliere fra voi due e me, sceglierà me. Sapete cosa potrebbe accadervi se vi attacca? I due arretrarono di qualche passo, incerti. — Andrew — disse brusco George — sono in pericolo perché questi due giovani minacciano di farmi del male. Muoviti! Andrew obbedì, ma i due non aspettarono che si avvicinasse. Se l'erano subito data a gambe. — Bene, Andrew, rilassati — disse George. Aveva l'aria disfatta. Alla sua età non sarebbe stato in grado di affrontare un giovane, figuriamoci poi due! — Non avrei fatto loro del male, George — disse Andrew. — Vedevo che non vi stavano assalendo. — Non ti avevo ordinato di far loro del male. Ti avevo solo detto di muoverti. Il resto l'ha fatto la loro paura. — Come mai temono i robot? — È una malattia di cui soffre l'umanità e di cui non è stata ancora trovata la cura. Ma lasciamo perdere. Cosa diavolo fai, qui, Andrew? Stavo per andare a prendere un elicottero quando finalmente ti ho trovato. Come mai ti è venuto in mente di andare alla biblioteca? Ti avrei portato io tutti i libri che vuoi. — Io sono... — cominciò Andrew. — Un robot libero. Lo so. Ma cosa andavi mai a fare in biblioteca? — Volevo saperne di più sugli esseri umani, sul mondo, su tutto. Anche sui robot, George. Voglio scrivere un libro sui robot. — Be', intanto torniamo a casa. Raccogli i vestiti. Andrew, esistono milioni di libri sulla robotica, il mondo è saturo non solo di robot ma anche di storie di robot. Andrew scosse la testa, con una mossa umana di cui aveva da poco preso l'abitudine. — Non è uno dei soliti libri di robotica, George. Voglio descrivere i sentimenti di un robot sugli avvenimenti che si sono verificati da quando i primi di noi hanno avuto il permesso di vivere e lavorare sulla Terra. George inarcò le sopracciglia, ma non fece commenti.
La Piccola aveva compiuto ottantatré anni, ma era energica e decisa come sempre. Il bastone, più che per appoggiarsi, le serviva per gesticolare. Ascoltò il resoconto dell'accaduto con crescente indignazione. — George, è stata una cosa orribile — commentò. — Chi erano quei giovani ruffiani? — Non lo so. E poi, che importa? Non hanno fatto niente di male, dopotutto. — Ma ne avevano l'intenzione, quindi che differenza c'è? Tu sei avvocato, George, e se sei ricco lo devi al talento di Andrew. Il denaro guadagnato da lui è stato la base di tutti i nostri beni. Provvede al benessere della nostra famiglia e non deve essere trattato come un pupazzo a molla. — Cosa vorresti che facessi, mamma? — chiese George. — Ti ho detto che sei avvocato. Non mi stai a sentire. Devi presentare un disegno di legge e costringere la Corte regionale a dichiarare i diritti dei robot e la Camera a passare la legge. Se sarà necessario, porterai la causa davanti alla Corte mondiale. Io ti terrò d'occhio, George, e non tollererò sgarri. Parlava sul serio, e quello che cominciò come un mezzo per calmare la vecchia signora divenne un caso legale così complesso da fare testo. Come socio anziano dello studio legale, George elaborò la strategia, ma incaricò dell'azione i soci più giovani, in particolare il figlio Paul, anche lui appartenente allo studio, e che andava a riferire puntualmente alla nonna gli sviluppi della situazione. Lei, a sua volta, ne parlava con Andrew, che naturalmente si sentiva parte in causa. Rimandò la stesura del libro che voleva scrivere per immergersi nei testi legali, e qualche volta si azzardava a dare qualche suggerimento. — George mi ha detto che gli esseri umani hanno sempre avuto paura dei robot — disse. — Finché le cose stanno così, tribunali e legislatori non saranno disposti ad agire in favore dei robot. Non si potrebbe fare qualcosa per cambiare l'opinione pubblica? In seguito a questo, mentre Paul si occupava delle faccende strettamente legali, George tenne discorsi e conferenze, così alla buona, per essere compreso da tutti, arrivando perfino a drappeggiarsi intorno al corpo quegli indumenti alla moda che andavano sotto il nome di «tappezzeria». — Sta' attento a non inciampare e cadere dal palco — gli disse Paul. — Non dubitare — rispose secco George. — Per chi mi prendi? Parlando al congresso annuale degli olo-editori, disse fra l'altro: — Se,
in virtù della Seconda Legge, possiamo esigere da un robot un'obbedienza illimitata sotto ogni aspetto purché non implichi danno a un essere umano, allora un essere umano, qualsiasi essere umano, detiene un potere illimitato su qualsiasi robot. In particolare, dal momento che la Seconda Legge ha il sopravvento sulla Terza, qualsiasi essere umano può ricorrere alla legge dell'obbedienza per sopraffare quella dell'auto-protezione. Può ordinare a un robot perfino di distruggersi, se vuole, anche senza un motivo valido. «Vi pare giusto questo? Noi tratteremmo così un animale? Anche un essere inanimato che ci serve fedelmente ha diritto di essere preso in giusta considerazione. E un robot non è insensibile, e non è un animale. Sa pensare in modo da poter parlare, ragionare, giocare con noi. Possiamo trattare i robot da amici, lavorare con loro, senza dargli almeno in parte il frutto di questa amicizia, di questa collaborazione? «Se l'uomo ha il diritto di impartire a un robot un ordine che non pregiudichi l'incolumità di altri esseri umani, dovrebbe avere almeno la decenza di non impartire mai ordini che pregiudichino l'incolumità di un robot, a meno che non ne vada della vita di un altro essere umano. Un potere assoluto non va disgiunto da una grande responsabilità, e se i robot non possono fare a meno di sottostare alle Tre Leggi che servono a proteggere gli uomini, gli uomini a loro volta dovrebbero sottostare a una o più leggi fatte per proteggere i robot. Andrew aveva ragione. L'opinione pubblica aveva un peso determinante sulle decisioni dei tribunali e dell'assemblea legislativa, ma alla fine fu promulgata una legge che proibiva di recare danno ai robot. Era molto limitata e le punizioni per coloro che la violavano erano eccezionalmente miti, però era stato stabilito un principio. L'approvazione definitiva della Legislatura mondiale avvenno lo stesso giorno della morte della Piccola. Non fu una coincidenza. La Piccola si tenne disperatamente aggrappata alla vita finché non ebbe notizia della vittoria. Il suo ultimo sorriso fu per Andrew. Le sue ultime parole furono: — Sei stato molto buono con noi, Andrew. Morì stringendogli la mano, mentre suo figlio, con la nuora e i nipoti, si tenevano a rispettosa distanza. Andrew aspettò pazientemente per tutto il tempo in cui il robotsegretario rimase nell'ufficio interno. Avrebbe potuto comunicare per mezzo dell'interfono olografico, ma non era programmato per trattare con un altro robot invece che con un essere umano.
Di tanto in tanto entrava nella stanza qualcuno, e Andrew lo fissava con calma, finché l'altro era costretto a distogliere lo sguardo per primo. Finalmente entrò Paul Martin. Era sorpreso, o almeno così pareva, ma Andrew non era in grado di distinguerne bene l'espressione. Paul aveva preso l'abitudine di usare un trucco pesante, com'era di moda sia per gli uomini sia per le donne, e sebbene così il suo volto apparisse più saldo e liscio, ad Andrew non piaceva, anche se provava un senso di disagio nel disapprovare, sia pure tacitamente, gli esseri umani. Sentiva che sarebbe stato capace di scrivere anche su questo argomento, ed era certo che una volta i robot non si sarebbero mai sognati di disapprovare gli esseri umani. — Vieni, Andrew — disse Paul. — Mi dispiace averti fatto aspettare, ma dovevo finire una cosa importante. Vieni. Hai detto che volevi parlarmi, ma non avevo capito che volessi farlo di persona venendo qui. — Se avete da fare, Paul, posso aspettare ancora. Paul diede un'occhiata al disegno mutevole delle ombre sul quadrante del segnatempo a muro, e disse: — Posso dedicarti qualche minuto. Sei venuto solo? — Ho noleggiato un'auto. — Hai avuto fastidi? — chiese preoccupato Paul. — Non ne prevedevo. I miei diritti sono protetti dalla legge. Paul era sempre più preoccupato. — Andrew, ti ho spiegato che non devi interpretare la legge in modo troppo lato, e in certe condizioni... Se insisti ad andare in giro vestito, finirai col cacciarti nei guai... come quella volta. — La prima e l'unica, Paul. Mi dispiace che tu sia seccato. — Bene, senti, prova a considerare le cose da questo punto di vista: Tu sei una specie di leggenda vivente, vali troppo, sotto molti aspetti, per mettere a repentaglio con leggerezza la tua incolumità... Ma dimmi, come va il libro? — Sto terminandolo, Paul. L'editore ne è soddisfatto. — Bene! — Non so se sia soddisfatto per il libro in sé o perché prevede di venderne molte copie in quanto l'autore è un robot. — Be', sai, è umano... — Ma a me non dispiace. Basta che lo venda e mi faccia guadagnare, perché ho bisogno di denaro. — La nonna ti ha lasciato... — È stata molto generosa e io non voglio più contare sull'aiuto della fa-
miglia. Conto invece sulla percentuale delle vendite del libro per poter fare il prossimo passo. — Di cosa si tratta? — Voglio parlare col direttore generale della U.S. Robot e Uomini Meccanici. Ho cercato di fissare un appuntamento, ma inutilmente. Ma dal momento che si sono rifiutati di collaborare con me alla stesura del libro, questo loro atteggiamento non mi stupisce. Paul si mise a ridere. — Se ti aspetti della collaborazione sei un illuso. Si sono rifiutati perfino di dare il loro appoggio quando abbiamo lottato per i diritti dei robot. Anzi, erano palesemente ostili. Secondo loro, se un robot gode di qualche diritto, la gente non vorrà più comprarne. — Però, se provaste a telefonare voi, potreste riuscire a combinarmi un appuntamento. — Non credere che sia ben visto da quella gente, Andrew. — Però voi potreste far capire che, se accettano di vedermi, lo studio Feingold e Martin rinuncerà a lanciare un'altra campagna in favore di un'altra legge più favorevole ai robot. — Ma questa non è una bugia, Andrew? — Si, e io non posso mentire. Quindi dovete telefonare voi. — Ah, tu non puoi mentire, ma mi sproni a farlo, eh? Diventi sempre più umano, Andrew. La cosa non fu facile, ma il nome Martin aveva molto peso e alla fine Paul riuscì nell'intento. E quando l'accordo fu concluso, Harley Smythe-Robertson, che, per parte di madre, discendeva dal fondatore dell'azienda, e aveva aggiunto il cognome della madre a quello paterno proprio per questo, aveva un'aria molto turbata. Gli mancava poco per andare in pensione e durante la sua presidenza si era quasi totalmente occupato dei diritti dei robot. Aveva i capelli grigi e radi appiccicati al cranio, la faccia priva di trucco e lanciava di tanto in tanto a Andrew qualche rapida occhiata ostile. — Signore — disse Andrew, — circa un secolo fa un certo Merton Mansky, che lavorava qui, mi spiegò che le regole matematiche che sono alla base dei circuiti positronici sono troppo complicate per consentire soluzioni che non siano approssimative, e che di conseguenza le mie capacità non erano del tutto prevedibili. — Questo avveniva un secolo fa — Smythe-Robertson esitò prima di aggiungere con voce glaciale: signore. — Ma adesso le cose sono cam-
biate. I nostri robot sono costruiti in modo da essere in grado di svolgere unicamente le mansioni previste. — Certo — intervenne Paul che aveva voluto essere presente per avere la certezza che la ditta, come diceva lui, «non barasse». — Col risultato che il mio segretario s'inceppa tutte le volte che dovrebbe fornire una prestazione sia pur lievemente diversa dalle solite. — Sarebbe peggio se improvvisasse — disse Smythe-Robertson. — Allora non fabbricate più robot come me che siano versatili e adattabili? — No. — Le ricerche che ho svolto mentre scrivevo il mio libro mi hanno rivelato che io sono il più anziano robot ancora in attività — disse Andrew. — E nessuno vi toglierà questo primato, in quanto ora i robot sono fatti in modo da durare al massimo venticinque anni. Poi vengono ritirati e sostituiti con nuovi modelli. — Nessuno dei robot costruiti ora è in grado di funzionare dopo venticinque anni? — ripeté con aria soddisfatta Paul. — Allora, sotto questo aspetto Andrew è eccezionale. Cogliendo la palla al balzo, Andrew disse: — Essendo il più vecchio e il più versatile robot esistente al mondo non sono abbastanza eccezionale perché l'azienda mi riserbi un trattamento speciale? — Per niente — rispose Smythe-Robertson, raggelandosi. — Anzi, la vostra originalità è d'imbarazzo all'azienda. Se invece di esser stato venduto, per non so quale errore o disguido, foste stato noleggiato come avviene per gli altri, sareste stato sostituito da un pezzo. — Qui vi volevo — lo interruppe Andrew. — Io sono un robot libero, padrone di me stesso. E sono venuto a chiedervi di essere sostituito. È una cosa che si può fare solo col consenso del proprietario. Oggi, grazie al noleggio, lo mettete come clausola nel contratto, ma ai miei tempi non succedeva. La faccia di Smythe-Robertson tradiva sorpresa e perplessità, e per un momento regnò il silenzio. Andrev si ritrovò a fissare l'olografia sulla parete. Era la maschera mortuaria di Susan Calvin, la santa patrona dei robotisti, morta ormai da duecento anni, ma che Andrew aveva imparato a conoscere bene nel corso delle ricerche svolte per scrivere il suo libro. — Com'è possibile che sostituisca voi per voi? — disse alla fine Smythe-Robertson. — Se devo sostituirvi come robot, come posso consegnare a voi, in qualità di proprietario, il nuovo robot, dato che al mo-
mento della sostituzione avrete cessato di esistere? — e concluse la tirata con un sorriso torvo. — Non è una cosa impossibile — disse Paul. — La sede della personalità di Andrew si trova nel suo cervello positronico, che è l'unica parte che non si può sostituire senza creare con questo un nuovo robot. Il proprietario, quindi, se consideriamo tale Andrew, è il cervello positronico. Tutte le altre parti del corpo possono venire rimpiazzate senza alterare la personalità del robot e dipendono tutte dal cervello. Andrew, sarebbe meglio dire che vuoi fornire al tuo cervello un nuovo corpo. — Proprio cosi — ammise con calma Andrew. E a Smythe-Robertson: — Voi avete fabbricato androidi, non è vero? Robot dotati in tutto e per tutto di apparenza umana, anche nella composizione della pelle? — Sì — rispose Smythe-Robertson. — E funzionano perfettamente con la loro pelle e i loro tendini sintetici. Non hanno alcuna componente metallica, salvo che nel cervello, ma sono solidi e resistenti come i robot di metallo. Anzi, di più, dato che pesano meno. — Non lo sapevo — disse Paul, interessato. — Quanti ce ne sono sul mercato? — Nessuno. Sono molto più costosi dei modelli in metallo, e inoltre sembrano troppo umani perché il comitato di sorveglianza ne permetta la diffusione. — Ma non c'è divieto di fabbricazione, suppongo — disse Andrew. — Vi prego quindi di sostituirmi con un robot organico, un androide. — Santo cielo! — esclamò Paul, sorpreso. — Impossibile — dichiarò Smythe-Robertson, irrigidendosi. — Perché impossibile? — ribatté Andrew. — Sono disposto a pagare qualsiasi somma, nei limiti del ragionevole. — Non fabbrichiamo più androidi — disse Smythe-Robertson. — Dite piuttosto che non ritenete utile fabbricarli — lo corresse Paul. — La cosa è diversa. — Nondimeno la fabbricazione di androidi è contraria alle idee politiche vigenti. — Nessuna legge la proibisce — obiettò Paul. — Ho detto che non ne fabbrichiamo né abbiamo intenzione di farlo. Paul si schiarì la voce. — Signor Smythe-Robertson — disse. — Andrew è un robot libero tutelato dalla legge sui diritti dei robot. Ve ne rendete conto? — Altroché!
— Questo robot, essendo libero, preferisce vestirsi. Di conseguenza viene spesso deriso e umiliato da persone sciocche che se ne infischiano della legge. È difficile, naturalmente, promuovere azioni legali per motivi spesso vaghi e che per di più incontrano la disapprovazione di chi deve giudicare in merito. — È una cosa di cui la U.S. Robot si è resa conto fin dagli inizi, contrariamente al vostro studio legale. — Come rappresentante dello studio, ora che mio padre è morto — disse Paul — dichiaro che il vostro atteggiamento è offensivo e legalmente perseguibile. — Che cosa andate blaterando? — disse Smythe-Robertson. — Il mio cliente, Andrew Martin... da questo momento è mio cliente... è un robot libero che ha il diritto di chiedere alla vostra azienda la sostituzione del proprio corpo che l'azienda stessa fornisce a chiunque sia proprietario di un robot da più di venticinque anni. Anzi, la U.S. Robot insiste perché avvenga la sostituzione. — Paul sorrideva soddisfatto. — Il cervello positronico del mio cliente — continuò — è proprietario del corpo del mio cliente, che ha ben più di venticinque anni. Il cervello positronico chiede la sostituzione del corpo e si offre di pagare qualsiasi somma, purché ragionevole, perché il nuovo corpo sia quello di un robot androide. Se rifiutate la richiesta adiremo le vie legali. È nel nostro diritto. «Anche se generalmente l'opinione pubblica non sostiene le richieste dei robot, non sarà male ricordarvi che la vostra azienda non gode di molta popolarità. Anche coloro che possiedono, noleggiano o comunque si servono dei vostri robot vi guardano con sospetto. Probabilmente si tratta di un retaggio di paura dei tempi in cui la gente temeva i robot, oppure di risentimento nei confronti della strapotenza della U.S. Robot che detiene un monopolio mondiale. Ma qualunque sia la causa, il risentimento esiste, e sono convinto che preferirete non dovervi presentare in tribunale, tanto più che il mio cliente è ricco, vivrà ancora molti secoli e non avrà quindi motivo di trattenersi dal trascinare avanti la causa per anni. Smythe-Robertson si era fatto rosso. — State cercando di costringermi... — Io non vi costringo a fare niente — tagliò corto Paul. — Se preferite rifiutare di acconsentire alla ragionevole richiesta del mio cliente, siete liberissimo di farlo, e noi ce ne andremo senza aver detto una parola di più... Ma vi faremo causa, com'è nel nostro diritto, e vedrete che, alla lunga, finirete col perderla. — Be'... — cominciò Smythe-Robertson, e non andò oltre.
— Vedo che state per acconsentire — disse Paul — forse esitate ancora, ma finirete col dire di sì. Permettetemi allora di aggiungere un'altra cosa. Se, nel processo di trasferimento del cervello positronico del mio cliente dal corpo attuale a un altro organico, il cervello stesso dovesse subire il sia pur minimo danno, io non avrò riposo finché non sarò riuscito a mettervi con le spalle a terra. Se necessario, mobiliterò l'opinione pubblica contro la vostra azienda, qualora un solo circuito di platino all'iridio del cervello subisca alterazioni. Sei d'accordo, Andrew? Andrew esitò a lungo. Acconsentire significava approvare la menzogna, il ricatto, l'umiliazione di un essere umano. Ma non il danno fisico, disse fra sé. E si decise a mormorare con voce flebile: — Sì. Fu come se fosse stato ricostruito di sana pianta. Per giorni, settimane, mesi, Andrew non riusciva più a riconoscersi, e il minimo gesto gli riusciva difficile o penoso. — Ti hanno danneggiato, Andrew — diceva Paul, affranto. — Dobbiamo subito fare causa. — No. — Andrew parlava con penosa lentezza. — Non saremmo mai in grado di dimostrare che c'è stata... — Malizia? — Malizia. Inoltre sento che vado migliorando. È il tr... tr... tr... — Tremito? — Trauma. Dopo tutto è stato il primo trap... trap... trapianto del genere. Andrew sentiva il proprio cervello dall'interno. Lui solo era in grado di farlo. Sapeva di stare bene e nei mesi che impiegò a servirsi del nuovo corpo e a coordinare con scioltezza i riflessi positronici, trascorse ore e ore davanti allo specchio. Non era vero che fosse simile a un essere umano! La faccia era troppo immobile, i movimenti rigidi e poco naturali. Mancavano della scioltezza dei movimenti umani, ma forse sarebbe migliorato col tempo. Intanto poteva vestirsi senza che ci fosse più quella faccia metallica a formare un ridicolo contrasto. Un giorno disse: — Ho intenzione di ricominciare a lavorare. — Allora vuol dire che stai bene — osservò Paul ridendo. — Cosa vuoi fare? Scrivere un altro libro? — No — rispose serio Andrew. — Sono vissuto troppo per lasciarmi soffocare da una sola attività. Una volta ero un artista, e potrei tornare a fare l'artista. Un'altra volta ho scritto un libro, e potrei scrivere ancora. Ma
adesso voglio fare il robobiologo. — Il robopsicologo, vorrai dire. — No, perché in tal caso dovrei studiare i cervelli positronici, e non sono questi che mi interessano, per il momento. Secondo il mio parere, un robobiologo deve invece occuparsi del funzionamento del corpo che dipende da quel cervello. — Ma allora è un robotista. — I robotisti lavorano coi corpi di metallo. Io invece studio un corpo organico umanoide, come quello che possiedo, e suppongo che sia l'unico. — Restringi troppo il campo — obiettò Paul pensoso. — Come artista le tue possibilità erano infinite, come scrittore ti sei dedicato ai robot, come robobiologo il tuo campo d'azione sarà unicamente il tuo corpo. — Solo in apparenza — disse Andrew. Andrew dovette cominciare dall'abc, in quanto ignorava del tutto la biologia, e non sapeva quasi niente di scienza in generale. Divenne popolare nelle biblioteche, dove sedeva per ore e ore davanti agli indici elettronici, perfettamente normale nei suoi abiti. I pochi che sapevano che era un robot non gli diedero mai fastidio. Adibì a laboratorio la stanza che aveva aggiunto alla sua casa, e la sua biblioteca personale fu notevolmente accresciuta. Passarono gli anni, e un giorno Paul andò da lui e gli disse: — È un peccato che tu non ti occupi più di storia dei robot, perché ho sentito che la U. S. Robot sta adottando una politica completamente nuova. Paul era invecchiato e aveva sostituito gli occhi malati con cellule fotoottiche. Sotto quell'aspetto, aveva qualcosa in comune con Andrew. — Cosa fanno? — chiese questi. — Stanno fabbricando dei giganteschi computers centrali, dei veri e propri cervelli positronici capaci di comunicare ovunque attraverso microonde, con un minimo di dodici robot contemporaneamente, fino a un massimo di mille. I robot sono privi di cervello. Sono semplicemente le membra del cervello gigantesco, staccate da esso. — Funziona? — Secondo la U. S. Robot così va molto meglio di prima. Prima di morire, Smythe-Robertson ha dato le direttive per il nuovo corso, e credo che l'abbia fatto per vendicarsi in qualche modo di te. La U. S. Robot ha deciso di non costruire più robot capaci di dar loro i grattacapi che gli hai dato tu, e proprio per questo hanno deciso di tenere il cervello diviso dal corpo. Così il cervello non avrà un corpo che vuole cambiare e il corpo non avrà
un cervello capace di desiderare qualcosa. L'influenza che hai avuto tu nel campo dei robot è stupefacente — continuò Paul. — È stata la tua abilità artistica a indurre la U. S. Robot a costruire robot più precisi e specializzati; è stata la tua libertà che ha avuto per conseguenza la promulgazione della legge sui diritti dei robot; ed è stata la tua insistenza per avere un corpo androide che ha spinto la U. S. Robot a tener separato il corpo dal cervello. — Immagino che con l'andare del tempo l'azienda finirà col costruire un unico immenso cervello capace di controllare diversi milioni di corpi robotici — disse Andrew. — Tutte le uova in un solo cesto. Pericoloso. Poco conveniente. — Credo che tu abbia ragione — disse Paul, — ma dovrà passare almeno un secolo prima che questo avvenga, e io allora non ci sarò più. Anzi, può darsi che non arrivi nemmeno a vedere l'anno venturo. — Paul! — esclamò Andrew, preoccupato. — Siamo mortali — disse Paul scrollando le spalle. — Non come te. Non m'importa, però bisogna che tu tenga presente una cosa. Io sono l'ultimo dei Martin. Esistono dei discendenti della mia prozia, ma quelli non contano. Il mio denaro verrà depositato a nome tuo, e così, a meno che non si verifichi qualche imprevisto, il tuo futuro è assicurato. — Non ce n'era bisogno — disse Andrew parlando a fatica. Nonostante tutto il tempo passato, non si era ancora assuefatto alla morte dei Martin. — Non stiamo a discutere — disse Paul. — Non c'è modo di alterare il corso degli eventi. Dimmi invece a cosa stai lavorando. — Sto disegnando un sistema che permetta agli androidi, cioè a me, di trarre l'energia dai carboidrati invece che da una batteria atomica. Paul inarcò le sopracciglia. — Cosicché mangeranno e respireranno? — Sì. — È tanto che te ne occupi? — Sì, e credo di essere riuscito a creare una camera di combustione adatta per una disgregazione catalitica controllata. — Ma perché, Andrew? Non va molto meglio una batteria atomica? — Forse sì. Ma non è umana. Ci volle tempo, ma ad Andrew il tempo non mancava, e innanzitutto non voleva intraprendere nessuna azione prima che Paul non fosse morto in pace. Con la morte del pronipote del Signore, Andrew si sentì ancora più esposto a un mondo ostile e proprio per questo più che mai deciso a con-
tinuare sulla strada che aveva scelto da tanto tempo. Tuttavia non era completamente solo. Se era morto un socio, lo studio Feingold e Martin continuava a esistere, in quanto un'azienda non muore più di quanto non muoiano i robot. Lo studio aveva le proprie direttive che seguiva senza scostarsene. Grazie al fido in banca e attraverso lo studio legale che si occupava del suo patrimonio, Andrew continuò a godere di una notevole agiatezza. In cambio della lauta parcella che incassava ogni anno, lo studio Feingold e Martin si occupò degli aspetti legali della nuova camera di combustione. Quando venne il momento di andare alla U.S. Robot, Andrew vi si recò da solo. C'era andato una volta col Signore e un'altra con Paul. Questa, la terza, andò solo e aveva un aspetto umano. La U. S. Robot era cambiata. L'impianto di produzione era stato trasferito su una grande stazione spaziale, ed era progredita al punto da avere affiliato numerose altre fabbriche, in cui lavoravano operai robot. La Terra si era trasformata in un immenso parco, con una popolazione fissa di un miliardo di abitanti e circa trecento milioni di robot dotati di cervello indipendente. Il Direttore delle Ricerche era Alvin Magdescu, bruno di carnagione e di capelli, con una barbetta a punta e nudo dalla vita in su, come voleva la moda, eccezion fatta per una fascia intorno al petto. Andrew invece vestiva alla moda di qualche decennio prima, ed era completamente coperto. — Vi conosco di fama — disse Magdescu — e sono davvero contento di vedervi. Siete il nostro prodotto più conosciuto ed è un vero peccato che Smythe-Robertson sia stato così ostile nei vostri confronti. Chissà quante cose avremmo potuto fare, con voi. — Potete ancora — disse Andrew. — No, non credo. I tempi sono cambiati. Abbiamo avuto per circa un secolo robot sulla Terra, ma adesso si comincia a sfollarli nello spazio e quelli che resteranno sulla Terra non avranno più un cervello individuale. — Ma ci sono io, e io rimango sulla Terra. — È vero, ma ormai non avete più niente del robot, nemmeno nell'aspetto. Cosa desiderate da noi? — Voglio essere ancora meno robot. Dal momento che dispongo di un corpo organico, voglio anche una fonte di energia organica. Ho qui il progetto... Magdescu lo prese e si mise a sfogliarlo in fretta, ma via via che andava avanti la sua attenzione si concentrò, e a un dato punto disse, vivamente
interessato: — Sapete che è molto ingegnoso? Chi l'ha ideato? — Io — rispose Andrew. Magdescu gli scoccò un'occhiata tagliente, e poi disse: — Bisognerebbe revisionare a fondo il vostro corpo e si tratterebbe di un esame sperimentale, in quanto non è mai stato fatto. Può essere rischioso. Per me, fareste bene a restare così come siete. Anche se l'espressione del viso non poteva cambiare, Andrew tradi la propria impazienza col tono della voce: — Dottor Magdescu — disse — non avete capito. Non avete scelta: dovete accontentarmi. Se congegni come quello che ho progettato possono adattarsi al mio corpo, andranno bene anche al corpo umano. La tecnica di sostituire organi logori o malati con protesi per allungare la vita umana è già molto progredita, e non esistono congegni migliori di quelli che ho progettato e sto progettando. «Li ho fatti brevettare, e lo studio Feingold e Martin si occupa della tutela dei miei brevetti. Siamo in grado di passare da soli alla produzione delle protesi, la cui meta finale è la creazione di esseri umani dotati delle principali proprietà dei robot. La vostra azienda potrebbe risentire della concorrenza. «Se invece collaborate con me e acconsentite a farlo anche per l'avvenire, vi cederemo l'uso dei brevetti e il controllo della tecnica per la fabbricazione di protesi tanto per i robot quanto per gli esseri umani. Naturalmente la concessione avverrà solo dopo il primo intervento e solo nel caso che abbia avuto esito favorevole». Andrew, nel porre queste condizioni con voce dura e decisa a un essere umano, non si sentiva per nulla influenzato dalle inibizioni della Prima Legge. Aveva imparato che, alla lunga, quella che poteva inizialmente sembrare crudeltà si risolveva invece in un bene. Magdescu era sbalordito. — Non sta a me decidere una cosa di questa portata. Deve discuterne il consiglio direttivo, e ci vorrà del tempo. — Posso aspettare per un periodo ragionevole — disse Andrew. — Ragionevole, ho detto — e pensò soddisfatto che nemmeno Paul avrebbe potuto fare di meglio. L'attesa fu, come aveva richiesto Andrew, ragionevole, e l'intervento si risolse in un successo. — Ero contrario, Andrew — disse Magdescu — ma non per i motivi che forse supponete voi. Sarei stato favorevole se l'intervento avesse dovuto essere effettuato su qualcun altro. Mi terrorizzava l'idea di mettere a repen-
taglio il vostro cervello positronico. Adesso che i circuiti positronici sono collegati a circuiti nervosi simulati, sarebbe difficile salvare il cervello se il corpo cessasse di funzionare. — Avevo fiducia nell'abilità dei tecnici della U. S. Robot — disse Andrew. — E adesso posso mangiare. — Be', potete assorbire dell'olio d'oliva. E occorrerà di tanto in tanto ripulire la camera di combustione, come vi è stato spiegato. Non sarà una cosa piacevole, credo. — Forse, se non pensassi di migliorare. Non è impossibile che riesca a farlo da solo. Inoltre sto studiando un congegno capace di trattare alimenti solidi con parti non combustibili... cibo indigesto, per dirla in parole povere... che andranno eliminate. — Allora bisognerà provvedervi di un'apertura per l'espulsione. — Come nel corpo umano. — Già. E che altro vorreste? — Tutto. — Anche gli organi genitali? — Sì, se si adatteranno ai miei progetti. Il mio corpo è come una tela grezza su cui voglio creare un quadro che rappresenti... Magdescu aspettò che finisse la frase, ma poiché Andrew taceva, la completò per lui: — Un uomo? — Vedremo — disse Andrew. — È un progetto molto ambizioso, Andrew. Però voi ora siete molto migliore di un essere umano. Optando per la vita organica optate per il peggio. — Finora il mio cervello non ne ha sofferto. — No, su questo potete stare sicuro. Ma perché tentare ancora la sorte? Siete l'inventore di protesi miracolose che vi hanno reso ricco e famoso... così come siete. Che bisogno c'è di cambiare? Andrew non rispose. Grazie alle sue invenzioni divenne famoso, fu eletto membro di parecchie importanti organizzazioni scientifiche, una delle quali si occupava della nuova scienza da lui creata, quella che lui aveva chiamato robobiologia e che poi venne definita protesiologia. Nel centocinquantesimo anniversario della sua costruzione, la U. S. Robot diede un pranzo in suo onore, e se Andrew notò l'ironia della cosa se lo tenne per sé. Alvin Magdescu, che era andato in pensione, volle presenziare al ban-
chetto. Aveva novantaquattro anni e se era vivo lo doveva alle numerose protesi che, fra l'altro, avevano sostituito il fegato e i reni malati. Il pranzo culminò col discorso di Magdescu, che alla fine sollevò il calice per brindare «Al centocinquantenne robot». Andrew disponeva ora di nervi facciali capaci di conferirgli le espressioni corrispondenti ai diversi sentimenti, ma per tutta la durata del banchetto si mantenne solennemente impassibile. Non gli andava l'idea di essere un robot centocinquantenne. Fu la protesiologia che indusse Andrew a lasciare la Terra. Nei decenni successivi alla celebrazione del centocinquantenario, la Luna era diventata un mondo più terrestre della Terra sotto tutti gli aspetti, salvo per l'attrazione gravitazionale inferiore e per la popolazione che si addensava nelle città sotterranee. Dotato di protesi che gli consentivano di muoversi agevolmente in quell'ambiente di gravità inferiore, Andrew rimase anni sulla Luna a lavorare con gli scienziati locali per eseguire i necessari adattamenti, e, nei momenti liberi, passeggiava fra la popolazione robotica che lo trattava con l'ossequio riservato dai robot agli esseri umani. Tornò sulla Terra, che gli parve monotona e tranquilla in confronto, e andò allo studio Feingold e Martin per dire che era tornato. L'attuale capo dello studio, Simon DeLong, era sorpreso. — Ci avevano preavvisato del vostro ritorno, Andrew — (per poco non gli scappò detto «signor Martin») — ma vi aspettavamo solo la settimana prossima. — Non vedevo l'ora di tornare — disse brusco Andrew che voleva venire subito al dunque. — Sulla Luna, Simon, dirigevo un gruppo di venti scienziati, tutti uomini, che ubbidivano senza riserve ai miei ordini. I robot lunari mi consideravano alla stregua di un essere umano. E allora perché non sono un essere umano? DeLong lo guardò con diffidenza. — Mio caro Andrew — disse, — avete appena detto che sia gli uomini sia i robot vi trattano come un essere umano. Quindi, de facto lo siete. — Esserlo de facto non basta. Io voglio diventare legalmente un essere umano. Voglio esserlo de jure. — Questo è un altro paio di maniche — disse DeLong. — Urterebbe contro i pregiudizi umani e contro il fatto indubbio che sebbene voi siate in apparenza un essere umano, in realtà non lo siete. — In che senso non lo sono? — ribatté Andrew. — Ho forma umana e
organi equivalenti a quelli degli esseri umani. Anzi, identici a quelli di molte persone protesizzate. Ho contribuito al miglioramento della civiltà umana in campo artistico, letterario e scientifico come e meglio di un essere umano. Che cos'altro volete da me? — Io, personalmente, nulla. Ma purtroppo sarebbe necessaria una sentenza della Legislatura mondiale per definirvi a tutti gli effetti essere umano. — A chi potrei rivolgermi? — Al presidente del Comitato per la Scienza e la Tecnica, credo. — Potete combinarmi un incontro? — Ma non vi occorre un intermediario. Nella vostra posizione... — No. Pensateci voi. — (Andrew non fece caso al tono imperativo che aveva usato. Sulla Luna aveva preso l'abitudine di impartire ordini agli esseri umani.) — Voglio che sappia che godo dell'appoggio dello studio Feingold e Martin. Incondizionatamente. — Ecco, adesso mi... — Incondizionatamente, Simon. In centosettantatré anni io, in un modo o nell'altro, ho molto contribuito alla prosperità di questo studio. In passato avevo degli obblighi nei riguardi di questo o quel socio. Ora non più. Anzi, caso mai siete voi a essere in debito con me. — Vedrò quello che posso fare — disse DeLong. Il presidente del Comitato per la Scienza e la Tecnica apparteneva alla zona dell'Estremo Oriente ed era una donna. Si chiamava Chee Li-Hsing e gli abiti trasparenti, che coprivano solo quello che lei voleva coprire, davano l'impressione che fosse avviluppata nella plastica. — Capisco il vostro desiderio di essere considerato un essere umano a tutti gli effetti — disse. — Alcune volte, nella storia, anche gli uomini hanno lottato per i loro diritti. Ma mi pare che voi li abbiate già tutti. Che altro potete desiderare? — Semplice: il diritto alla vita. Un robot può essere smantellato in qualsiasi momento. — Allo stesso modo un uomo può venire giustiziato in qualsiasi momento. — L'esecuzione avviene in seguito a una sentenza, emessa alla fine di un processo. Non occorrono sentenze e processi per smantellare un robot. Basta che una persona dotata della necessaria autorità lo ordini, e per me sarebbe la fine. Inoltre... inoltre... — Andrew cercava con tutte le sue forze
di non dare l'impressione di supplicare, ma l'espressione e il tono lo tradivano. — La verità è che voglio essere un uomo. Lo voglio da sei generazioni umane. Li-Hsing lo guardò con gli occhi scuri pieni di comprensione. — Se la Legislatura passa una legge che dichiara voi uomo... potrebbe passarne poi un'altra che dichiara uomo una statua di marmo. Se approvassero la prima, approverebbero la seconda, e questo è molto improbabile in ambedue i casi. I deputati sono anche loro esseri umani e non sono alieni dal nutrire del sospetto nei riguardi dei robot. — Ancora? — Sì. Saremmo tutti d'accordo nell'affermare che vi siete guadagnato il premio dell'umanità, e tuttavia resterebbe sempre la paura di avere instaurato un pericoloso precedente. — Quale precedente? Io sono l'unico robot libero, l'unico del mio tipo, e non ce ne saranno mai più altri come me. Potete chiederlo alla U. S. Robot. — Mai è una parola lunga, Andrew, o, se preferite, signor Martin, dacché io personalmente vi considero un uomo. Ma scoprirete che molti deputati sarebbero contrari a creare un precedente, per quanto assurdo e impossibile sia. Signor Martin, avete tutta la mia comprensione, ma non posso autorizzarvi a sperare. Anzi — si appoggiò allo schienale e corrugò la fronte, — anzi temo che per voi potrebbero esserci delle conseguenze spiacevoli — continuò. — Nel calore della discussione, se non si riuscisse a giungere a un accordo, i deputati potrebbero arrivare anche a decidere di smantellarvi, per porre fine a una situazione senza via d'uscita. Pensateci, prima di vedere se è il caso di insistere. — Nessuno penserà che sono stato io a creare la protesiologia? — Vi parrà crudele, ma nessuno ci penserà. O, se ci penseranno non lo faranno con benevolenza. Diranno che l'avete fatto per voi, che faceva parte di una campagna per robotizzare gli esseri umani, o per umanizzare i robot. E sia in un caso sia nell'altro sosterranno che è stata una cosa malvagia e disonesta. Voi non sapete cosa significhi essere oggetto di una campagna politica di odio, signor Vlartin, ma posso assicurarvi che se ve ne scateneranno una contro vi offenderanno, vi umilieranno, vi disprezzeranno in tutti i modi possibili e immaginabili e, quel che è peggio, la gente ci crederà. Potete scommetterci!a testa, signor Martin. — Si alzò e gli si avvicinò, e sebbene Andrew fosse seduto, era così piccola che pareva una bambina. — Se deciderò di lottare per conquistarmi l'umanità, voi starete dalla mia parte? — le chiese Andrew.
— Finché mi sarà possibile — rispose lei dopo averci pensato. — Ma se dovessi accorgermi che il mio appoggio compromette il mio avvenire politico, sarei costretta ad abbandonarvi, dal momento che non sono convinta a fondo della bontà della vostra causa. Come vedete cerco di essere onesta con voi. — Grazie, non vi chiedo di più. Sono deciso a lottare senza badare alle possibili conseguenze, e mi basta sapere che mi appoggerete finché vi sarà possibile. Non fu una battaglia diretta. Feingold e Martin gli consigliarono di avere pazienza e Andrew borbottò a denti stretti che di pazienza ne aveva un'enorme riserva. Lo studio legale entrò nella lotta restringendo la zona di combattimento a un'area limitata. Cominciarono con un procedimento legale inteso ad avversare l'obbligo a pagare i debiti di un individuo dotato di cuore artificiale asserendo che il possesso di un organo robotico privava un individuo della sua umanità e quindi dei diritti costituzionali di un essere umano. Condussero la causa con tenacia e abilità, perdendo via via ogni punto ma così da fare in modo che la decisione fosse il più possibile aperta, e poi ricorrendo in appello presso la Corte mondiale. Ci vollero anni e milioni di dollari. Quando fu promulgata la sentenza decisiva, DeLong celebrò come una vittoria quello che invece era stato un fiasco dal punto di vista legale. Andrew, naturalmente, era presente. — Abbiamo ottenuto due cose utili, Andrew — disse DeLong. — In primo luogo abbiamo stabilito il fatto che per quanti organi possano essere sostituiti, non per questo un corpo cessa di essere umano. E, secondo, abbiamo interessato l'opinione pubblica alla questione in modo tale da indurla ad accettare il concetto di umanità in senso molto lato, in quanto non esiste persona al mondo che non desideri prolungare al massimo la propria vita grazie alle protesi. — E allora credete che adesso la Legislatura sia disposta a considerarmi un essere umano? — chiese Andrew. — Non mi sento di essere ottimista su questo punto — dichiarò con imbarazzo DeLong. — Resta sempre l'unico organo su cui la Corte si è basata per giudicare l'umanità di un soggetto. Gli esseri umani possiedono un cervello organico cellulare e i robot un cervello positronico di platino all'iridio, quando lo hanno. E voi sicuramente l'avete... No, Andrew, non guar-
datemi così. Non siamo in grado di creare un cervello artificiale simile a quello organico al punto da ricadere sotto la definizione della Corte. E nessuno è in grado di fabbricarlo. — E allora cosa possiamo fare? — Tentare. La deputata Li-Hsing sarà dalla nostra, e con lei parecchi suoi colleghi. Il Presidente si accoderà senz'altro al parere della maggioranza. — E noi deteniamo la maggioranza? — Tutt'altro, ma ci arriveremo se l'opinione pubblica si mostrerà del parere di possedere un concetto di umanità abbastanza ampio da comprendere anche voi. Le possibilità che questo si verifichi sono scarse, ma se non volete arrendervi, non c'è altro che tentare. — Non ho nessuna intenzione di arrendermi. Li-Hsing era molto più anziana di quando Andrew l'aveva vista la prima volta. Da tempo non indossava più abiti trasparenti. Ora portava una tunica a tubo e i capelli quasi rasati, Andrew invece continuava ancora ad aderire alla moda di quasi un secolo prima, quando si era vestito per la prima volta, evitando tuttavia nei limiti del possibile di cadere nel ridicolo. — Più di quello che abbiamo fatto non si può fare, Andrew — disse lei. — Ritenteremo dopo la sospensione dei lavori ma, per essere sincera, la sconfitta è certa e bisognerà rassegnarsi a rinunciare. Tutti i miei sforzi hanno dato come risultato un calo dei voti a mio favore durante la recente campagna elettorale. — Lo so — disse Andrew, — e me ne dispiace. Una volta diceste che se si fosse arrivati a questo mi avreste abbandonato. Perché non l'avete ancora fatto? — Capita di cambiare idea, lo sapete. Del resto faccio parte della Legislatura da più di venticinque anni, e comincio ad averne abbastanza. — Non è possibile far cambiare loro idea, Chee? — Siamo riusciti a farla cambiare a tutti quelli che si sono mostrati abbastanza ragionevoli. Gli altri, la maggioranza, sono irremovibili. Le loro antipatie sono troppo radicate. — L'antipatia è un sentimento e quindi non è una ragiona valida per indurre a votare in un modo o in un altro. — Lo so, Andrew, ma in loro l'antipatia prevale sulla ragione. — Se tutto si riduce al cervello — disse Andrew, cauto, — allora siamo arrivati al livello cellule contro positroni, no? Non c'è modo di costringerli
a promulgare una definizione basata sul funzionamento e non sulla materia di cui è fatto un cervello? Non sarebbe più giusto definirlo secondo le sue funzioni? — Non basterebbe — disse Li-Hsing. — Il vostro cervello è un manufatto, quello umano no. Il vostro è stato costruito cosi com'è, quello degli uomini si sviluppa nel tempo. Agli occhi degli uomini che ci tengono a differenziarsi dai robot, questa argomentazione ha la forza e la durezza di un muro d'acciaio. — Se potessimo risalire alla fonte della loro avversione... — Dopo tanti anni — lo interruppe Li-Hsing con una vena di tristezza, — vi illudete ancora di riuscire a far ragionare gli esseri umani. Povero Andrew, non prendetevela, è il robot che vi fa ragionare così. — Non so — disse Andrew. — Se riuscissi a risolvermi a... Se fosse riuscito a risolversi a... Sapeva da tempo che sarebbe arrivato a quel punto e ora ecco che si era risolto ad andare dal chirurgo. Ne aveva trovato uno abbastanza bravo per eseguire quel lavoro, un chirurgo robot, non umano, in quanto gli uomini non avevano l'abilità né l'intenzione di eseguire un intervento di quel genere. Il chirurgo non avrebbe mai potuto eseguire quell'operazione su un essere umano, e per questo Andrew, dopo un momento d'indecisione, con un'increspatura nel viso che rifletteva il suo tumulto interiore, disse: — Anch'io sono un robot. E poi, in tono decisivo, un tono che aveva imparato tanti e tanti anni prima dagli uomini, Andrew gli disse: — Te lo ordino. In mancanza della Prima Legge, un ordine espresso con tanta fermezza da un essere che pareva in tutto e per tutto umano faceva scattare la Seconda Legge, e così la questione fu sistemata. Andrew era convinto che la sensazione di debolezza fosse immaginaria. Si era rimesso dall'operazione, tuttavia per reggersi doveva sostenersi al muro. — Questa settimana ci sarà il voto decisivo — disse Li-Hsing. — Non sono riuscita a farlo rinviare ancora, Andrew, e perderemo... Purtroppo non si può fare altro. — Vi sono grato per essere riuscita a farlo rinviare fino a oggi, siete stata molto abile. Così ho avuto il tempo che mi occorreva per fare quello che dovevo.
— Cosa avete fatto? — chiese Li-Hsing preoccupata. — Non potevo dirlo né a voi né a quelli della Feingold-Martin perché me lo avreste impedito. Sentite, se il cervello è un tessuto organico, non è questo l'ostacolo all'immortalità? In fondo chi se ne infischia di come è formato, come funziona o che aspetto ha un cervello? Quel che conta è che le cellule cerebrali muoiono, devono morire. Anche se tutti gli altri organi funzionano o sono stati sostituiti, le cellule cerebrali che non possono essere sostituite e quindi uccidono la personalità, devono infine morire. «I miei circuiti positronici sono durati quasi due secoli senza mutamenti apprezzabili e potrebbero durare ancora altri secoli. Non è questo l'ostacolo fondamentale? Gli esseri umani possono tollerare un robot immortale perché non gliene importa di quanto può durare una macchina, ma non possono tollerare un essere umano immortale in quanto sopportano la propria mortalità solo perché è universale. Ed è per questo che non mi permettono di diventare un essere umano. — Dove volete andare a parare, Andrew? — chiese Li-Hsing. — Io ho eliminato questo problema. Alcuni decenni fa il mio cervello positronico venne collegato a un sistema nervoso organico. Ora, un'ultima operazione ha disposto quel collegamento in modo che lentamente, molto lentamente, venga tolta l'energia ai miei circuiti. Per un attimo la faccia grinzosa di Li-Hsing rimase impassibile. Poi serrò le labbra e disse: — Volete dire che avete sistemato le cose in modo da morire, Andrew? Non è possibile. È contrario alla Terza Legge. — No — ribatté Andrew, — ho scelto fra la morte del corpo e quella delle mie aspirazioni e dei miei desideri. Lasciar vivere il corpo a costo di una morte più grave, questo sì che avrebbe violato la Terza Legge. Li-Hsing lo afferrò per un braccio come se volesse scuoterlo. — Andrew, non funzionerà. Tornate come prima. — Non è possibile. Sono stati provocati troppi danni. Durerò fino al duecentesimo anniversario della mia costruzione. Ho ceduto a questa debolezza. — Ma come sperate che possa servire? Siete pazzo, Andrew. — Se il sacrificio che ho fatto mi consentirà di diventare un essere umano, ne sarà valsa la pena. In caso contrario, avrò finito di lottare, e anche in questo caso ne sarà valsa la pena. Allora, Li-Hsing fece una cosa che stupì lei stessa per prima. Si mise a piangere.
Fu davvero singolare come quella sua ultima azione accese la fantasia dell'opinione pubblica. Tutto quello che Andrew aveva fatto prima non aveva commosso nessuno, ma quando aveva deciso perfino di morire pur di essere dichiarato umano, il suo sacrificio parve troppo sublime per essere ignorato. La cerimonia fu fissata per il duecentesimo anniversario. Il Presidente mondiale avrebbe firmato l'atto che rendeva la legge operante e la cerimonia sarebbe stata trasmessa in collegamento con tutte le stazioni della Terra e anche con quelle della Luna e delle colonie marziane. Andrew stava su una sedia a ruote. Riusciva ancora a camminare, ma con molta fatica. Sotto gli occhi di tutta l'umanità, il Presidente disse: — Cinquant'anni fa siete stato dichiarato Robot Centocinquantenario, Andrew — e dopo una pausa, in tono più solenne, aggiunse: — Oggi vi dichiariamo Uomo Bicentenario, signor Martin. E Andrew, sorridendo, porse la mano per stringere quella del Presidente. Mentre giaceva nel letto, i pensieri di Andrew andavano lentamente offuscandosi. Cercò disperatamente di mantenere la lucidità. Uomo! Era un uomo! Voleva che questo fosse il suo ultimo pensiero. Voleva dissolversi... morire con esso. Aprì gli occhi e per l'ultima volta vide Li-Hsing, in solenne attesa. C'erano anche altre persone presenti, ma erano solo ombre irriconoscibili. Solo Li-Hsing spiccava sullo sfondo sempre più grigio. Lentamente, un centimetro alla volta, allungò la mano, afferrò e strinse debolmente quella di lei. L'immagine della donna svanì ai suoi occhi con gli ultimi, confusi pensieri. Ma prima di svanire del tutto, un ultimo, fuggevole pensiero lo colpì e ristette un attimo nella sua mente prima che tutto finisse. — Piccola Signorina — sussurrò, troppo piano perché potessero sentirlo. TRICENTENARIO Tricentennial di Joe Haldeman Analog, luglio 1976 Joe Haldeman diplomato in fisica e astronomia all'università del Maryland, ha combattuto in Vietnam e, dopo esser stato congedato, ha tra-
smesso la sua terribile esperienza di guerra (è rimasto colpito a una gamba dalle schegge di una bomba) nel sarcastico romanzo Guerra eterna, che vinse nel 1976 sia il premio Hugo che il premio Nebula. Autore molto dotato come tecnica narrativa e vagamente ispirato alle tematiche avventurose heinleiniane, Haldeman condensa in questa breve storia una vicenda di millenaria evoluzione sul problema basilare di tutte le forme di vita intelligenti: espansione o ristagno? DICEMBRE 1975 Gli scienziati sostenevano che il Sole poteva far parte di un sistema doppio. Perché il suo compagno restasse sconosciuto, ovviamente, doveva essere piccolo e fioco, e lontano migliaia di unità astronomiche. Alla fine l'avrebbero trovato; anzi, li avrebbero trovati. E sarebbero stati utili. GENNAIO 2075 L'ufficio era lussuoso persino secondo i criteri della Washington del 21° secolo. Il senatore Connors aveva la passione dell'antiquariato. Una parete era occupata da volumi rilegati in pelle; un grosso telescopio di ottone simboleggiava il suo ruolo di Collegamento con la Lega delle Scienze. Un tappeto navajo, proveniente dal suo Stato, copriva quasi tutto il parquet. Un grosso orologio a pendolo. Quadri, vecchie carte geografiche. Il terminale del computer era nascosto nel primo cassetto della massiccia scrivania di teak. Sulla scrivania: un sottomano, un portapenne con la stilografica, e un telefono Bell, nero, vecchio d'un secolo e senza video. Il telefono trillò. Il segretario gli annunciò che il dottor Leventhal aspettava d'essere ricevuto. — Continui a rispondermi per trenta secondi, — disse il senatore. — Poi riattacchi e lo faccia entrare. Posò il ricevitore e andò allo specchio a muro. Si rassettò la cravatta e la cappa; poi, con l'unghia dell'indice, pareggiò la linea del rossetto. Si passò la mano tra i lunghi capelli bianchi ormai radi e tornò accanto alla scrivania, con una mano sul telefono. La pesante porta si aprì con un fruscio. Un uomo basso e magro s'inchinò leggermente. — Sire. Il senatore gli andò incontro tendendogli le mani. — Oh, piantala, Char-
lie. Dammi le zampe. — L'uomo gli prese entrambe le mani, solo per un istante. — Quando mai sono stato «Sire» per te, stupido? — Dalla settimana scorsa — disse Leventhal, — i soci della Lega ti chiamano in modi ben peggiore di «Sire». Il senatore annuì due volte. — Vero. È vero. E li capisco. Ma la volontà del popolo... — Sicuro. — Leventhal lo pronunciò come fosse una parola sola: — Lavolontadelpopolo. Connors andò alla libreria e aprì un pannello intarsiato. — Bevi qualcosa? — Sì, Bo. — Charlie sospirò e sedette su un soffice divano. — D'accordo. Sherry o qualcosa di simile. Il senatore portò i bicchieri e sedette accanto a Charlie. — Avresti dovuto darmi ascolto. Avresti dovuto incaricare la Lega dei Pubblicitari di scrivere la proposta. — Abbiamo ottimi scrittori. — Si è visto. Meno del due per cento dell'elettorato si è preso il disturbo di votare; e quasi tutti in favore della richiesta dell'amministrazione. Ora, prendi la Lega degli Ingegneri... — Prendili tu gli ingegneri e... — Loro si sono rivolti alla Lega dei Pubblicitari. — Connors alzò le spalle. — E hanno ottenuto gli stanziamenti. — È facile far accettare ponti, centrali elettriche e shuttles. È difficile far accettare la scienza pura. — Una ragione di più per... — Già, sicuro. Chiedi il doppio e danne la metà ai pubblicitari. Forse l'anno prossimo. Non è di questo che sono venuto a parlare. — La faccenda della radio? — Giusto. Hai letto il rapporto? Connors guardò il bicchiere. — Charlie, lo sai che non ho il tempo di... — Ma qualcuno l'ha letto. — Oh, sì. Un bravo specialista d'astronomia del mio staff: mi ha fatto un riassunto. Molto, molto interessante. — C'è una civiltà intelligente a undici anni-luce di distanza... è molto interessante? — Sicuro. Davvero sensazionale. — Un silenzio imbarazzato. — Uh, che cosa avete intenzione di fare?
— Due cose. Prima, stiamo cercando di capire che dicono. È difficile. Secondo, vogliamo inviare un messaggio in risposta. Questo è facile. E qui entri in scena tu. Il senatore annuì, con aria piuttosto guardinga. — Lascia che ti spieghi. Abbiamo già mandato in precedenza altri messaggi a questa stella, 61 Cygni. Per la precisione è una stella doppia, con un compagno oscuro. — Come noi. — All'incirca. Comunque, i messaggi non hanno mai avuto risposta. Quelli non ascoltavano, evidentemente; non trasmettono. — Ma se abbiamo... — Quel che riceviamo è più o meno quello che si riceverebbe a undici anni-luce dalla Terra. Una gran confusione, suoni vecchi di undici anni. Molto debole. Ma evidentemente non è generato da una sorgente naturale. — Allora noi stiamo già mandando un messaggio di risposta. Dello stesso tipo che loro inviano a noi. — Sì, giusto, ma... — E io che cosa c'entro? — Bo, non vogliamo parlargli bisbigliando... vogliamo gridare! Attirare la loro attenzione. — Leventhal sorseggiò il vino e si appoggiò alla spalliera. — E per questo abbiamo bisogno di una quantità enorme d'energia. — Uh, verissimo. Charlie, l'energia è denaro. Di quanto stai parlando? — Tutto. Voglio chiudere la Valle della Morte per dodici ore. Il senatore spalancò la bocca, in silenzio. Poi: — Charlie, hai lavorato troppo. Un altro Blackout? Di proposito? — Non ci sarà nessun Blackout. La Valle della Morte ha riserve d'emergenza per quattordici ore. — A metà potenza. — Il senatore vuotò il bicchiere e tornò al bar scuotendo la testa. — Prima mi dici che vuoi energia. Poi dici che vuoi spegnerla. — Ritornò portando la bottiglia avvolta nella tela da sacco. — Non ha senso, ragazzo mio. — Non voglio spegnerla. Voglio usarla in un altro modo. — Cos'è? Un indovinello? — No, ascolta. Sai che l'energia, in realtà, non arriva dalla griglia della Valle della Morte: quella è solo una stazione di transito e un accumulatore. L'energia viene dalla stazione orbitale... — Questo lo so, Charlie. Ho un Certificato Scientifico. — Sicuro. Quindi abbiamo un grande laser a micro-onde in orbita, che
trasmette un fascio ristretto d'energia. Abbastanza per far funzionare il Nord America. Abbastanza... — È appunto quello che intendo io. Non puoi... — E allora lo giriamo dalla parte opposta e lo puntiamo verso una griglia sulla Luna. Trasmettiamo l'energia alla grande antenna radio di Farside. La trasformiamo in onde radio e la puntiamo verso 61 Cygni. Con una potenza tale da fargli friggere le otturazioni dei denti. — Non mi pare molto amichevole. — In realtà non sarebbe tanto potente... ma lo sarebbe molto di più di qualunque sorgente naturale da ventun centimetri. — Non saprei, ragazzo mio. — Il senatore si soffregò gli occhi e fece una smorfia. — Forse potrei farlo di nascosto, informando poche persone di quello che deve succedere. Ma funzionerebbe solo per pochi minuti... perché avete bisogno di dodici ore, del resto? — Ecco, il laser non si punterà automaticamente sulla Luna, come fa con la Valle della Morte. Calcola che ci vorrà circa un'ora per girarlo e puntarlo. «E poi, non vogliamo inviare semplicemente una raffica di onde radio. Abbiamo bisogno di un programma di cinque ore, che all'inizio stabilisce un linguaggio comune, e poi parla di noi, e alla fine rivolge loro qualche domanda. Vogliamo trasmetterlo due volte. Connors riempì di nuovo entrambi i bicchieri. — Quanti anni avevi nel '47, Charlie? — Sono nato nel '45. — Allora non ricordi il Blackout. Morirono diecimila persone... e tu vorresti convincermi a proporre... — Andiamo, Bo. Non è la stessa cosa. Adesso sappiamo che gli accumulatori funzionano... e poi quelli che morirono avevano quasi tutti sistemi di sicurezza difettosi sulle macchine. Se li avvertiremo che l'energia si ridurrà di potenza, controlleranno che funzionino a dovere, altrimenti faranno bene a non volare. — E i mass-media? Saranno costretti a trasmettere a turno. Spiegherete voi al Popolo quel che potrà vedere? — Al diavolo i mass-media. Avranno da raccontare l'avvenimento più sensazionale dopo la Crocifissione. — Può darsi. — Connors prese una sigaretta e spinse la scatola verso Charlie. — Tu non ricordi quel che successe ai senatori della California nel '47, vero?
— Non gli successe niente di buono, immagino. — Appunto. Furono destituiti. E fu una fortuna che non finissero linciati. Anche se il guasto era lassù in orbita. «Lo sai: la gente paga alla California una tassa per la griglia. Tutti credono che l'energia provenga dalla California. Se qualcosa va storto, è con la California che se la prendono. Io sono il senatore liberale della California, Charlie: chiedimi la Luna, e forse potrò fare qualcosa. Ma non chiedermi di mettere le mani sulla Valle della Morte. — D'accordo, d'accordo. Non ti sto chiedendo di organizzarmi tutto. Basta che lo porti a un referendum. Noi faremo tutto il possibile per sensibilizzare l'opinio... — Non servirà a niente. Avete stentato persino a far approvare la sonda per Scilla... eppure quella non costava niente a nessuno, visto che è l'L-5 a pagare le spese. — Basta che tu ottenga il referendum. — Vedremo. Io ho una quota, lo sai. E con l'avvicinarsi del Tricentenario, vorranno tutti proporre qualcosa. — Ti prego, Bo. Questa è una faccenda molto più grossa. La più grossa di tutti. Cerca di ottenere il referendum. — Forse potrò assecondare la proposta. Ma non prometto niente. MARZO 1992 Da Fax & Pix, 12 marzo 1992: ANTICA SONDA SPAZIALE RIVELA DUE STELLE NUOVE 1. Il Pioneer 10 inviò alla Terra la prima foto di Giove nel 1973 (foto a sinistra in alto). 2. Nel 1987 lasciò il sistema solare. Fu il primo oggetto costruito dall'uomo a lasciarlo. 3. Ieri, come riferisce l'NSA, il Pioneer 10 ha incominciato a captare radiazioni pesanti. Le radiazioni sono aumentate fino a raggiungere il massimo verso le 3 p.m. Poi sono diminuite. Le radiazioni devono provenire dall'esterno del sistema solare. 4. Gli scienziati dell'NSA e delle Hawaii dicono che il Pioneer 10 è passato attraverso un disco di radiazioni sincrotroniche provenienti da due
stelle di cui non si conosceva l'esistenza. A. Le stelle sono piccole «nane nere». B. Le due stelle girano l'una l'intorno all'altra in 40 secondi e impiegano 350.000 per girare intorno al Sole. C. Una delle stelle è formata d'antimateria, che esplode se tocca la materia normale. Gli scienziati delle Hawaii hanno visto un disco molto fioco di luce invisibile (infrarossa) che si accende e si spegne ogni venti secondi. La luce proviene dalla zona dove si toccano le atmosfere delle due stelle (foto a sinistra in basso). D. Le stelle hanno un fortissimo campo magnetico. La radiazione proviene dalla materia che sprizza via dalle stelle e cerca di passare attraverso il campo. E. Le stelle distano dal Sole 5000 volte più di noi. Sono situate ad un angolo anomalo rispetto al resto del sistema solare (illustrazione in basso a destra). 5. L'NSA afferma che queste stelle non rappresentano un pericolo per noi. Sono troppo lontane e, del resto, nel sistema solare non c'è niente che passi mai attraverso la radiazione. 6. L'astronoma che ha scoperto le stelle intende chiamarle Scilla e Cariddi. 7. Gli scienziati dicono che non sanno da dove siano arrivate le due stelle. Tutto il resto che c'è nel sistema solare, invece, ha senso. FEBBRAIO 2075 Quando incominciò la fase di attracco, Charlie pensò che era quello il momento in cui diventava facile distinguere gli scienziati dai bagagli. Gli scienziati erano nervosi. In superficie, sembrava tutto molto tranquillo... non era come l'accelerazione al decollo, che faceva male alle ossa e stiracchiava la pelle. Il cilindro scintillante e trasparente dell'L-5 ingrandì adagio adagio e poi si girò per puntare verso di loro. Il problema era che una colonia spaziale abbastanza grande per ospitare 4000 persone ha più inerzia di Dio. Se lo shuttle avesse urtato troppo velocemente la depressione dell'attracco, si sarebbe accartocciato come una fisarmonica. Una nave spaziale è fatta per sopportare lo stress nell'altra direzione. Charlie non aveva pagato il biglietto di prima classe, ma lo lasciarono
salire comunque nella cupola d'osservazione: un gesto di cortesia professionale. C'erano soltanto altri due, in piedi sul tappeto di Velcro, legati a una sbarra e aggrappati a un'altra. Erano un uomo e una donna, giovani tutti e due; probabilmente erano nuovi coloni. L'uomo stava parlando in toni eccitati. La donna guardava fissamente davanti a sé e non ascoltava. Stringeva convulsamente la sbarra e serrava i denti. Charlie avrebbe voluto dirle qualcosa per farle coraggio, ma è difficile parlare quando si trattiene il fiato. Gli ultimi metri sono i peggiori. Non puoi vedere niente oltre la curva dello scafo, e i jet di manovra producono un incessante balbettio di piccoli urti: sinistra, destra, avanti, indietro. Se lo shuttle si fosse accartocciato, la cupola sarebbe andata in frantumi? Oppure sarebbe schizzata via? La manovra era controllata dal computer, naturalmente. Il pilota non faceva altro che star lì seduto in una nebbia di sudore senza peso. Poi il gemito sordo, il fremito quasi subsonico quando lo scafo liscio dello shuttle stridette contro i respingenti anti-attrito. Charlie attese il risonante spang che avrebbe annunciato che stavano andando un po' troppo veloci: le lamine di lega friabile sotto i respingenti che si sgretolavano per assorbire l'energia del moto in avanti: l'ultima trincea. Se questo non li avesse fermati, avrebbero urtato una muraglia d'acciaio massiccio di due metri di spessore, che li avrebbe fermati senza il minimo dubbio. Una volta era successo. Ma questa volta no. — Restate seduti, prego, fino a che la pressione non sarà equalizzata — disse una voce registrata. — È stato un piacere avervi a bordo. Charlie si calò lungo la pertica, e tornò nell'area passeggeri. Raggiunse il suo sedile e attese, obbediente, che gli orecchi schioccassero. Poi il portello laterale si aprì, e insieme agli altri passeggeri si avviò lungo il grosso tubo che conduceva all'ascensore. Erano in piedi sul soffitto. Qualcuno aveva laboriosamente scarabocchiato un graffito sulla parete metallica: Bloccati su questo ascensore per ore: Un ascensore che è costato un milione di dollari. La forza centrifuga non esiste: L'L-5 risucchia. Altri trenta secondi d'imponderabilità mentre scendevano. C'erano venti o venticinque persone che attendevano sulla piattaforma di carico. Charlie uscì nel profumo di fiori d'arancio e d'erba appena tagliata. Era a
casa. — Charlie! Ehi, qua! — Un giovane stava accanto a una bicicletta tandem. Charlie gli strinse entrambe le mani, e salì sul sellino posteriore. — Voglio bere qualcosa. — Cosa hai... — Prima bere. Poi parlerò. — Si avviarono lungo la strada levigata che portava verso la cittadina. Il bar era un semplice tendone sopra un gruppo di tavolini e di sedie, affacciato sul lago al centro della cittadina. Non c'era un barista: andavi al banco di servizio, battevi il tuo numero di credito e poi sceglievi vino o succo di frutta, con o senza alcol distillato a vuoto. Per un po' parlarono del nervosismo causato dal tragitto con lo shuttle, e poi: — Cos'hai ottenuto da Connors? — Parole. Non molto. Farò una relazione completa alla riunione di stasera. Sembra comunque che non arriveremo neppure al referendum. — Non era esattamente quello che avevamo previsto? Dovremmo accogliere l'idea di François Petain. — Troppo rischiosa. — Il piano di Petain consisteva nel dire alla Valle della Morte che dovevano bloccare il laser per ripararlo. Non parlare neppure ai terragnoli del segnale: rispondere e basta. — Se lo scoprissero ci farebbero causa per danni e ci porterebbero via anche i denti. Il giovane scrollò la testa. — Non li capirò mai, i terragnoli. — Non è compito tuo. — Charlie era uno psicologo, ed era nato e aveva studiato sulla Terra. — Nessuno di quelli che sono nati quassù ci riuscirebbe. — Può darsi. — Il giovane si alzò. — Grazie. Ora devo tornare al lavoro. Sai che devi chiamare la dottoressa Bemis prima della riunione? — Sì. Ho trovato il messaggio al Cape. — Ha una sorpresa per te. — Come sempre. Voialtri non fate mai niente, qui, se non quando me ne vado. Al telefono, Abigail Bemis disse soltanto che Charlie doveva andare a cena da lei: lo avrebbe preparato per la riunione. — Tutto ottimo, Ab. Sulla Terra non ho potuto permettermi di mangiare cibo vero. Lei rise, mise i piatti nella lavastoviglie e versò due tazze di caffè. Rise di nuovo quando sedette. Era una donna robusta, con i capelli bianchi, gli
occhi vivaci e un mare di rughe. — Sei di buon umore, stasera. — Sì. È l'attesa. — Johnny mi ha detto che avevi una sorpresa per me. — Cribbio, lui non sa neppure la metà. Dunque non hai concluso niente con il senatore. — No. Anche meno di quanto mi aspettassi. Qual è il segreto? — Connors è un bravo ragazzo. Ha fatto molto per noi. — Suvvia, Ab. Di cosa si tratta? — Ha ragione lui. Se spegnessimo la televisione ai terragnoli per venti minuti, loro si troverebbero alle prese con un'altra Rivoluzione. — Ah... — Manderemo il messaggio. — Sicuro. Immaginavo che l'avremmo mandato. Ci serviremo di Farside, con tutta la potenza di cui potremo disporre. Se avremo fortuna... — No. L'energia non è sufficiente. Charlie rimestò nel caffè mezzo cucchiaino di zucchero. — Avete intenzione... di sfidare Connors? — Al diavolo Connors. Non useremo la radio. — La luce visibile, allora? Gli infrarossi? — Lo consegneremo a mano. Con la Daedalus. Charlie si stava portando alle labbra la tazza. Si versò addosso quasi tutto il caffè. — Ecco, prendi un tovagliolo. GIUGNO 2040 Da Breve storia del Vecchio Ordine (Freeman Press, 2040): ... e se pensate che questo fosse uno spreco, allora considerate il Progetto Daedalus. Era la prima grande costruzione spaziale dopo l'L-5. L'L-5 funzionava perfettamente, perché era pratica. Ma il Progetto Daedalus (era il nome di un dio greco che sapeva volare) fu un tipico caos di denaro buttato al vento. Nel 2016 gli scienziati convinsero la borghesia a pagare un viaggio a un'altra stella! Avrebbe impiegato più di cento anni... ma gli scienziati contavano di mettere al mondo figli lungo la strada, e di far diventare scienziati anche loro, gli piacesse o no.
Si proponevano di usare come combustibile tutte le vecchie bombe all'idrogeno... come se noi non avessimo potuto aver bisogno del combustibile, un giorno o l'altro, qui sulla Terra. E se quelli dell'L-5 avessero deciso che non gli eravamo simpatici, e avessero interrotto la trasmissione dell'energia? La Daedalus doveva essere un'astronave lunga quasi un chilometro! Quasi tutta doveva essere costruita e montata nello spazio, con materiale preso sulla luna, ma la parte più costosa (c'era da scommetterlo) doveva venir spedita dalla Terra. Riuscirono quasi a costruirla, ma poi vennero la crisi e la Rivoluzione Popolare. Il Popolo non aveva nessuna intenzione di dar loro quelle bombe all'idrogeno, visto che ci stavano sopra la testa in quel modo. Così lasciammo le bombe all'idrogeno a Helsinki e i matti spaziali ripresero a fare quello che dovevano fare. Ogni anno presentano una petizione per ottenere quelle bombe, ma ogni anno la Volontà del Popolo dice di no. L'astronave è ancora lassù: un fantastrilione di dollari inutilizzato. Un monumento alla follia borghese. Peggio delle Piramidi! FEBBRAIO 2075 — Dunque la sonda da mandare a Scilla è soltanto un trucco per ottenere il combustibile... — Oh, no, non esattamente. — Abigail gli passò un fascicolo dalla copertina azzurra. — Andremo a Scilla. Rastrelleremo qualche megatonnellata di antimateria degenerata. E un'uguale quantità di materia degenerata prelevata da Cariddi. «Non abbiamo intenzione di fare un viaggio che duri intere generazioni, Charlie. Il combustibile all'idrogeno ci porterà fin là; e una volta là, useremo le bottiglie magnetiche per contenere il combustibile vero. — Annientamento totale della materia — disse Charlie. — Appunto. Emme-ci-al quadrato al nono posto decimale. Non stiamo parlando di secoli per raggiungere 61 Cygni. Nove anni tra andata e ritorno. — Ai terragnoli non andrà a genio. Tutta l'ostilità contro il progetto Daedalus originale... — Al diavolo i terragnoli. Faremo tutto quello che abbiamo promesso, con le loro preziose bombe all'idrogeno: andremo a Scilla, preleveremo un
po' di antimateria e la riporteremo indietro. Faremo soltanto una deviazione, prima di tornare. — Non volete dirgli semplicemente quel che faremo? Loro non ci rimetteranno un soldo... Abigail scrollò la testa e rise di nuovo, questa volta amaramente. — Non hai letto l'editoriale della Peoplepost di stamattina, vero? — Avevo troppo da fare. — Anch'io, amico. Ho troppo da fare per leggere quelle fesserie. Ma uno dei miei collaboratori me l'ha portato. — Parla della Daedalus? — No... di 61 Cygni. E di quei pazzi di scienziati che vogliono far sapere a quelli di lassù che c'è vita sulla Terra. — E così quelli verranno e ci trasformeranno in polpette. — Più o meno. Più di tremila persone erano sedute sul pendio, un anfiteatro «naturale» formato da terra lunare ed erba terrestre. C'era un baccano incredibile, e parlavano tutti insieme. La dottoressa Bemis aveva appena annunciato la spedizione a 61 Cygni. Al decimo — Silenzio, per favore — Abigail Bemis poté proseguire: — Quindi capite benissimo perché non possiamo trasmettere questa riunione. Sulla Terra la capterebbero. E così pure, in questo momento sull'L-5 non ci sono rappresentanti dei mass-media terragnoli. Sono tornati sulla Terra per il normale avvicendamento e lo shuttle con i sostituti aveva bisogno di riparazioni al Cape. Gli altri due shuttle sono qui. «Perciò chiedo a voi tutti, e a tutti i vostri fratelli che non hanno potuto abbandonare i loro posti di lavoro, di tener segreta la faccenda più grossa che ci sia mai stata da quando Isabella di Castiglia impegnò i suoi gioielli. «Ora il dottor Leventhal, capo della nostra sezione di Scienze Sociali, vi parlerà della selezione dell'equipaggio. Charlie detestava parlare in pubblico. In quell'ambiente, si sentiva come un cristiano diretto all'arena per finire in pasto ai leoni. Sistemò gli appunti sul leggio. — Uh, il problema fondamentale... — Mille persone gli chiesero di alzare la voce. Charlie regolò il microfono. — Il problema principale è che abbiamo spazio per circa mille persone. È probabile che quelli che vorranno andare saranno più di uno su quattro. Clamoroso brusio di assenso. — E non vogliamo essere dispotici nella
scelta... ma io ho fissato certi criteri, e la dottoressa Bemis è d'accordo. «Nessuno dovrebbe proporsi di andare se ha bisogno di particolari cure mediche, ovviamente. Per la stessa ragione, prenderemo in considerazione pochissime persone anziane. Con un filo di voce, Abigail disse: — Sessantaquattro anni non sono tanti, Charlie. Io vado. — Prima non ne aveva parlato. Charlie continuò, guardandola: — Secondo, dobbiamo lasciare qui coloro che sono assolutamente indispensabili per la manutenzione dell'L-5. Inclusa la centrale elettrica. — Abigail gli sorrise. — Non intendiamo dividere le coppie, per nove anni o più... ma non accetteremo neppure i bambini. — Charlie attese che il chiasso si placasse. — In questa missione, i bambini sarebbero bagagli. Dovrete trovare loro genitori adottivi. Forse verranno con il prossimo viaggio. «Perché non possiamo permetterci di portare bagagli. Non sappiamo cosa ci aspetti a 61 Cygni... mille persone sembrano tante, ma non lo sono. Non lo sono, se considerate che abbiamo bisogno di rappresentanti di tutto lo scibile umano e di tutte le capacità umane. Potrebbe saltar fuori che una persona capace di cantare madrigali è più importante di un fisico del plasma. È impossibile saperlo prima. I quattromila riuscirono a mantenere il segreto, non tanto per forza di carattere quanto per la profonda paranoia nei confronti della Terra e dei terrestri. E il Tricentenario del senatore Connors venne effettivamente in loro aiuto. Sebbene vi fosse «Un Solo Mondo» governato dalla «Volontà del Popolo», certe regioni avevano più influenze delle altre, e il nazionalismo non era affatto morto. Questo era un fattore. Un altro fattore era ciò che i terragnoli provavano nei confronti delle bombe termonucleari immagazzinate a Helsinki. Tutte anticaglia: quasi tutte avevano più d'un secolo. Gli scienziati dicevano che non erano assolutamente pericolose, ma sapete com'è. Le bombe, tecnicamente, appartenevano ancora ai paesi che le avevano consegnate; e nove su dieci erano divise tra Nord America e Russia. L'altro decimo era suddiviso fra altri 42 paesi. Ogni tanto si radunavano per discutere cosa dovevano farsene di quei cosi maledetti. Tutti desideravano sbarazzarsene in modo utile, ma nessuno era disposto a pagare le spese. La proposta di Charlie Leventhal era semplice. L'L-5 avrebbe fornito il
denaro, i materiali e il personale. Su uno scoglio brullo in mezzo al Mar di Norvegia avrebbero smontato le vecchie bombe, una alla volta, e le avrebbero trasformate in capsule di combustibile per la Daedalus. La sonda Scilla-Cariddi avrebbe dovuto onorare entrambe le principali potenze spaziali. Ribattezzata John F. Kennedy, avrebbe lasciato l'orbita terrestre in occasione del Tricentenario dell'America. Avrebbe accelerato fino a metà strada, verso il sistema delle due stelle, ad una gravità; poi si sarebbe capovolta e avrebbe rallentato con lo stesso ritmo. Avrebbe usato un congegno magnetico per raccogliere un po' di antimateria da Scilla. Il 1° maggio 2077 avrebbe cambiato nome e sarebbe diventata la Leonid I. Brezhnev per il viaggio di ritorno. Per motivi di sicurezza, l'antimateria sarebbe stata consegnata a una stazione di ricerche lunare, presso Farside. Gli scienziati dell'L-5 sostenevano che lo sfruttamento dell'energia ricavata dall'annientamento totale della materia avrebbe trasformato la Terra in un paradiso. GENNAIO 2076 — Al diavolo! — Charlie era livido. — Non... non voglio! No! — Ma tu sei l'unico... — Non è vero, Ab. Lo sai. — Charlie camminava avanti e indietro nel minuscolo ufficio. — Ci sono dozzine di persone che possono dirigere l'L5. Molto meglio di me. — Non meglio di te, Charlie. Lui si fermò di colpo davanti alla scrivania. — Suvvia, Ab. C'è una sola persona veramente adatta per restare a mandare avanti la baracca. Non soltanto ha dato buona prova di sé, ma è anche troppo vecchia per... — Non sono obbligata ad ascoltare queste fesserie. — Senti, Ab... — No, senti tu. Ero appena nata quando incominciammo a costruire la Daedalus. E ci ho lavorato da ragazza e da giovane donna. «Potrei portarti là fuori con uno shuttle e mostrarti i bulloni che ci ho messo con le mie mani. Mezzo secolo fa. — Ma è il mio... — Mi sono guadagnata il biglietto, Charlie. — La voce di Abigail si addolcì. — L'età è un fattore, sì. Questo è solo il primo di molti viaggi... e quando la nave tornerà, io sarò troppo vecchia. Tu sarai nel fiore della vita... e avrai più di vent'anni d'esperienza come Coordinatore. Sono sicura
che ti faranno comandante al prossimo... — Non voglio essere comandante. Non voglio essere Coordinatore. Voglio soltanto andare! — Tu e altre tremila persone. — E fra le mille che non vogliono andare, e non possono, non ce n'è una che potrebbe diventare Coordinatore? Potrei citare tanti di quei nomi... — Non si tratta di questo. Sull'L-5 non c'è nessuno che abbia l'influenza e le conoscenze che tu hai sulla Terra. Non c'è nessuno che capisca i terragnoli altrettanto bene. — Questo è razzismo, Ab. I terragnoli sono esattamente come me e te. — Alcuni sì. Non mi pare che tu corra sulla Terra ogni volta che ne avresti la possibilità... perché? Perché ti piace il panorama di quassù? Perché ti piace vivere in scatola? Charlie non aveva una risposta pronta. Ab continuò: — Il Coordinatore dovrà dare parecchie spiegazioni, e dovrà cercare di appianare le cose fra l'L-5 e la Terra. Questo è sempre stato il tuo lavoro, Charlie. E poi, qui sei conosciuto e rispettato. Rappresenti l'unica scelta logica. — Non sto discutendo la tua logica. — Lo so. — Non era necessario che parlassero del documento, firmato tra gli altri anche da Charlie, che conferiva alla dottoressa Bemis l'autorità finale nella scelta dell'equipaggio della Daedalus-Kennedy-Brezhnev. — Cerca di non odiarmi troppo, Charlie. Devo fare ciò che è meglio per la mia gente. Per tutta la mia gente. Charlie le lanciò un'occhiataccia e uscì. GIUGNO 1976 Da Fax & Pix, 4 giugno 2076 LA FATTORIA SPAZIALE PARTIRÀ PER LE STELLE IL MESE PROSSIMO 1. La John F. Kennedy, che partirà per Scilla-Cariddi il mese prossimo, è come una piccola L-5 con le bombe nella coda (foto a sinistra in alto). A. Il viaggio durerà venti mesi. Potrebbero portare poca gente e riempire la nave di viveri, aria e acqua, oppure portare tanta gente con un'ecologia chiusa, come l'L-5. B. Avrebbero potuto portare soltanto un paio di centinaia di persone
per mandare avanti le colture e il resto. Ma quasi tutti i matti spaziali volevano andare. Tanto, sono abituati a vivere così (e senza andare da nessuna parte). C. Quando torneranno, la fattoria verrà usata come punto di partenza per l'L-4, simile all'L-5 ma all'inizio un po' più piccola, e piazzata dall'altra parte della Luna (illustrazione in basso a sinistra). 2. Per le altre notizie e illustrazioni sul Tricentenario, vedere la quarta di copertina. LUGLIO 2076 Charlie stava concludendo una settimana di soggiorno sulla Terra quando venne lanciata la John F. Kennedy. Stanco di venire intervistato, sgattaiolò via dalla sala dei media al porto degli shuttle, al Cape. La tessera bianca gli permise di recarsi sulla pista d'atterraggio, da solo. Lo shuttle di mezzanotte veniva rifornito di carburante in fondo alla pista, e luccicava d'un color bianco-rosato nell'ultima luce del sole al tramonto. L'immagine si distorceva nel calore irradiato dalla distesa di tarmac. L'odore del catrame ammollato era associato in modo indelebile, nella sua mente, al sollievo della partenza. Raggiunse il centro della pista e consultò l'orologio. Cinque minuti. Accese una sigaretta e la buttò via. Ricontrollò i calcoli mentali: il volo avrebbe avuto inizio in basso, a sud-ovest. Alzò la mano per escludere il sole. Come sarebbero apparse, 150 bombe al secondo? Per i mass-media si chiamavano capsule di combustibile. Coloro che le avevano scrupolosamente montate e portate in orbita e installate nei serbatoi le chiamavano bombe. Dieci volte più luminose della luna piena, avevano detto. Sull'L-5 non bisognava guardare da quella parte senza un filtro scuro. Niente riscaldamento. Apparve all'improvviso, un punto iridiscente dello splendore impossibile, poco al di sopra dell'orizzonte. Brillò per vari minuti, poi si affievolì lievemente nella foschia, e scivolò lontano. In gran parte degli Stati Uniti non l'avrebbero visto fino a che non fosse ritornato, un paio d'ore dopo, trasformando la notte in giorno, gareggiando con i fuochi d'artificio locali. Poi sarebbe ripassato di nuovo ogni due ore. Charlie l'avrebbe visto ancora una volta, e quindi sarebbe salito a bordo dello shuttle. E finalmente avrebbe smesso di doverlo chiamare con il nome d'un politico morto da un pezzo.
SETTEMBRE 2076 Sull'L-5 ci furono festeggiamenti tranquilli quando la Daedalus arrivò a metà percorso, si girò e incominciò a decelerare. Il rapporto pervenuto dall'equipaggio affermava che il viaggio procedeva «senza imprevisti». In quel momento stavano viaggiando a quasi due decimi della velocità della luce. Il raggio laser portava le comunicazioni, da azzurro che era, era diventato arancione per via dell'effetto Doppler: il messaggio che comunicava l'avvenuto turnaround impiegò due settimane per arrivare dalla Daedalus all'L-5. Annunciavano una leggera correzione di rotta. Avevano analizzato la polarizzazione della luce di Scilla-Cariddi via via che il loro angolo di fase aumentava, ed erano sicuri che il sistema fosse circondato da anelli piatti di detriti, come Saturno. Si sarebbero avvicinati «stando bassi» per evitare una collisione. GENNAIO 2077 La Daedalus aveva trasmesso immagini riconoscibili del sistema ScillaCariddi per tre settimane. Finalmente ne avevano una abbastanza sensazionale per darla in pasto ai terragnoli. Charlie mise il cubo olografico sulla scrivania. — Questo è incredibile. Come hanno fatto? — È un montaggio, naturalmente. — Johnny era uno degli adulti più giovani rimasti sull'L-5: un soffio al cuore, ginocchia deboli e sovrabbondanza di astrofisici. — Le due stelle sono una foto stroboscopica a infrarossi. Più o meno. Dieci o ventimila immagini scattate mentre la nave orbitava intorno al sistema, e poi selezionate e potenziate. — Johnny indicò, ma non servì a molto, perché Charlie stava guardando il cubo da un angolo diverso. «La lamina di fuoco dove le atmosfere si toccano è stata fotografata all'ultravioletto. Così mostra meglio la struttura fine. «Gli anelli sono stati più facili. Lunghe esposizioni a luce visibile. E dà anche il campo sellare. Bussarono alla porta, e un assistente si affacciò. — Ha un secondo, dottore? — Sicuro. — C'è al telefono qualcuna del comitato organizzatore russo del Primo
maggio. Vuol sapere se hanno cambiato in Brezhnev il nome della nave. — Già. Le dica che però abbiamo deciso di chiamarla Lev Trotsky. L'assistente annuì, serissimo. — Va bene — disse, e fece per richiudere la porta. — Aspetti! — Charlie si soffregò gli occhi, — Le dica... uhm... la nave non ha un nome commemorativo, finché resta in orbita lassù. La ribattezzeranno immediatamente prima d'incominciare il viaggio di ritorno. — È vero? — chiese Johnny. — Non lo so. Chi se ne frega? Fra un paio di mesi saranno loro a non volere che prenda il nome da qualcuno. — Charlie ed Ab avevano preparato un piano (per la verità un po' traballante) per proteggere l'L-5 dalla collera dei terragnoli: nessuno, sul satellite, aveva saputo in anticipo che la nave era diretta a 61 Cygni. Era una decisione che l'equipaggio aveva preso prima di raggiungere Scilla-Cariddi; avevano modificato il sistema motore in modo da reggere alla distruzione materia-antimateria mentre orbitavano intorno alla stella doppia. L'L-5 sarebbe venuto a conoscenza del piano d'ammutinamento tramite una trasmissione effettuata mentre la Daedalus lasciava Scilla-Cariddi. Sarebbero stati in viaggio ormai da un mese prima che il messaggio arrivasse alla Terra. Era piuttosto trasparente; ma almeno avevano avuto cura che nessun documento sulla vera missione della Daedalus rimanesse sull'L-5. Tuttavia c'erano tremila persone che conoscevano al verità, e qualunque ingegnere o scienziato che sapesse il fatto suo avrebbe potuto sospettarlo. Ab aveva pensato che, sebbene fosse molto probabile che venisse a galla la verità, i terragnoli non sarebbero riusciti a serbare rancore per ventitré anni... anche se non si fossero lasciati impressionare dall'antimateria e da altre meraviglie... E del resto, pensò Charlie, è una preoccupazione che ormai non li riguarda più. Così come andarono le cose, l'equipaggio della Daedalus avrebbe avuto cose ben più grosse di cui preoccuparsi. GIUGNO 2077 I russi festeggiarono il Primo Maggio... Charlie lo vide alla televisione, rabbrividendo ogni volta che sentiva nominare la nave Leonid I. Brezhnev. Poi tutto tornò alla normalità. Charlie e altri tremila attesero nervosamente il messaggio «a sorpresa». Arrivò all'inizio di giugno, come previsto, in un
canale volutamente disturbato e riservato ai dati. Ma non diceva quello che ci si aspettava. Da Abigal Bemis a Charles Leventhal. Charlie, siamo nei guai. La nave è stata danneggiata, colpita a poppa da un grosso pezzo di non so cosa. Ha sfondato il riflettore principale del motore, ha distrutto una serie di sensori di comando e un jet d'assetto. A quanto possiamo capire, la situazione è stabile. Manteniamo l'accelerazione inferiore d'una frazione a una gravità. Ma non possiamo manovrare, e non possiamo spegnere il motore principale. Non abbiamo avuto grane con i detriti degli anelli mentre stavamo in orbita, dato che eravamo all'interno del limite di Roche. All'arrivo, come sai, avevamo sfruttato le divisioni naturali degli anelli. Abbiamo tentato di fare altrettanto in uscita, ma è stata una manovra più lenta e più complicata, dato che adesso la nostra massa è troppo grande. Dobbiamo aver incoccato in un pezzo di qualcosa al limite di uno degli anelli esterni. Se potessimo spegnere il motore, forse avremmo una possibilità di ripararlo. Ma le gondole da lavoro non possono star dietro alla nave, ad una gravità. Le radiazioni, laggiù, arrostirebbero comunque l'operatore in pochi secondi. Ci stiamo lavorando. Se avete qualche idea, fatecela sapere. Mi rendo conto che questo vi scagiona... eravamo diretti verso la Terra, ma abbiamo preso una botta. Manderemo una comunicazione in proposito sul canale commerciale regolare. Questo messaggio deve essere bruciato immediatamente dopo averlo letto. Fine. Funzionò perfettamente, nel senso che tolse dai guai Charlie e l'L-5... e la situazione drammatica destò un interesse per i viaggi spaziali come non c'era mai stato dopo il 1970. Avevano persino un'eroina. Una volontaria era scesa con una gondola da lavoro pesantemente schermata e trattenuta da un cavo, per dare un'occhiata alla situazione. Aveva trasmesso immagini chiarissime del danno, prima che il cavo si spezzasse.
DAEDALUS: 2081 d.C. TERRA: 2101 d.C. La seguente notizia non fu pubblicata da Fax & Pix perché risultò troppo difficile tradurla nel linguaggio semplificato che motivava la popolarità del giornale: UN'ASTRONAVE PASSA VICINO A 61 CYGNI (PER MODO DI DIRE) Dal nostro corrispondente dall'L-5. Un messaggio arrivato oggi dall'astronave Daedalus informa che era appena passata a meno di 400 unità astronomiche da 61 Cygni. È circa dieci volte più lontano della distanza tra il Sole e il pianeta Plutone. Per l'esattezza, l'astronave è passata nei pressi della stella circa undici anni fa. C'è voluto tutto questo tempo perché il messaggio arrivasse fino a noi. Non sappiamo con certezza dove sia adesso l'astronave. Se non hanno ancora riparato il motore rotto, sono circa undici anni-luce oltre il sistema di 61 Cygni (quando sono passati accanto alla stella doppia, la loro velocità era superiore al 99% di quella della luce). La situazione è più complicata se la guardate dal punto di vista d'un passeggero dell'astronave. A causa della relatività, il tempo sembra passare più lentamente quando ci si avvicina alla velocità della luce. Perciò, per loro sono passati all'incirca quattro anni appena in un viaggio di undici anniluce. Il Coordinatore dell'L-5, Charles Leventhal, fa osservare che l'astronave ha abbastanza combustibile antimateria per accelerare fino all'orlo della Galassia. L'equipaggio sarebbe invecchiato di una ventina d'anni appena, ma passerebbero ventimila anni prima che noi ne avessimo notizie... (Cestinare. Il comunicato continua parlando di come è apparsa la nave a quelli di 61 Cygni e di come potremmo parlare con loro anche se là il tempo è più lento, ma è tutto altrettanto stupido.) DAEDALUS: 2083 d.C. TERRA: 2144 d.C Charlie Leventhal morì, pieno d'amarezza, all'età di 99 anni. Quasi un
decennio prima venne rivelato che era stato deciso in partenza di fare della Daedalus un'astronave. Pochissimi prestarono attenzione alla notizia. Quelli che lo fecero, in maggioranza pensarono che era una bellissima cosa essersi sbarazzati d'un colpo di mille scienziati. Basta vedere in che pasticci ci hanno messo. Daedalus: lontana 67 anni-luce e ancora in accelerazione. DAEDALUS: 2085 d.C. TERRA: 3578 d.C. Dopo oltre sette anni di ricerche e sviluppo, e a una distanza di circa 15000 anni-luce, riuscirono a spegnere il motore. Grazie alla sofisticata telemetria, fu possibile effettuare l'operazione senza mettere in pericolo un'altra vita. Ogni vita era preziosa, adesso. Non erano più semplici esploratori: quasi metà del combustibile era stata consumata. Erano coloni, senza il biglietto per il ritorno. Il messaggio che annunciava il loro successo sarebbe giunto sulla Terra dopo quindici secoli. Non era del tutto certo che ci fosse un telescopio a infrarossi per riceverlo. DAEDALUS: 2093 d.C. TERRA: 5000 d.C. Durante la decelerazione, avevano effettuato indagini su vari sistemi lungo la direttrice del volo. Ne trovarono uno con un pianeta di tipo terrestre orbitante intorno a una stella tipo Sole, e vi si diressero. Nella stagione in cui incominciarono a sbarcare i coloni, l'oggetto dominante nel cielo notturno del pianeta era una bellissima nube di gas che gli astronomi avevano chiamato Nebulosa Nord America. Era un'ironia che non venisse in mente a nessuno dei coloni provenienti dall'L-5 il fatto che, anno più o anno meno, era il Trimillenario dell'America. L'America era un po' sciupatina, nel suo tremillesimo anniversario. I mari che lambivano le sue sponde erano ricoperti da una pesante crosta cremisi di alghe anaerobiche; le città possenti erano crollate e i loro resti erano quasi completamente spianati dalle incessanti tempeste di sabbia. Non c'erano in programma i fuochi artificiali, per mancanza di pubblico:
i batteri se ne infischiano. Anche il Primo Maggio sarebbe stato ignorato. Gli unici umani del Sistema Solare vivevano dentro una specie di tubo di vetro e metallo. Curavano i loro macchinari automatici, volgevano le spalle alla Terra morta, e veneravano la costellazione del Cigno ma non ricordavano il perché. STARDANCE Stardance di Spider e Jeanne Robinson Analog, marzo 1977 Abbiamo già parlato di Spider Robinson nell'introduzione a By Any Other Name. La moglie Jeanne è una danzatrice, coreografa e insegnante di danza che non aveva nessuna intenzione di diventare una scrittrice di fantascienza. Quando tuttavia il marito iniziò a scrivere questa storia su una danzatrice del futuro che balla in caduta libera, Jeanne ritenne opportuno intervenire per dargli dei consigli e dei suggerimenti su come sviluppare il personaggio e la storia. Giustamente, quindi, il suo nome compare accanto a quello di Spider in questa magnifica vicenda, una storia d'amore e di coraggio e anche una storia d'invasione aliena, ma soprattutto la bellissima storia di una donna. Non posso dire che la conoscevo veramente, e certo non nel modo in cui Seroff conosceva Isadora. Tutto ciò che conosco della sua infanzia e della sua adolescenza sono gli aneddoti che raccontava per caso mentre potevo sentirla... quanto bastava per darmi la certezza che tutte e tre le biografie contraddittorie attualmente nell'elenco del best-seller sono fittizie. Tutto ciò che conosco della sua vita di adulta sono le ore che passò in presenza mia e dei mie monitor... più che sufficienti per rivelarmi che tutti i resoconti da me letti sui giornali sono fittizi. Carrington probabilmente la conosceva meglio di me, e in un certo senso limitato aveva ragione... ma non avrebbe mai scritto una parola sull'argomento, e adesso è morto. Ma io ero il suo video-man, fin dai tempi in cui si manovrava la telecamera con le mani, e la conoscevo fuori dalla scena: un tipo di rapporto come non ce n'era un altro sulla Terra o lontano dalla Terra. Non credo che sia possibile descriverlo a qualcuno che non appartiene alla professione... penso si possa dire che è una via di mezzo tra compagni di lavoro e compagni d'armi. Ero con lei il giorno che arrivò allo Skyfac, atterrita ma deci-
sa, per giocarsi la vita puntando su un sogno. La guardai lavorare e lavorai con lei per tutti quei due mesi, durante innumerevoli prove, e ho conservato tutte le registrazioni. E non sono in vendita. E naturalmente vidi Stardance. C'ero, e la registrai. Credo di potervi raccontare qualcosa di lei. Tanto per incominciare non fu affatto, contrariamente a ciò che affermano Shara di Cahill e La danza senza confini - La creazione del neomoderno di Von Derski, l'amore innato per lo spazio e i viaggi spaziali che la spinsero a diventare la prima danzatrice a gravità zero della nostra razza. Per lei lo spazio era un mezzo, non un fine, e all'inizio la sua immensità vuota le faceva paura. E non era neppure vero, come sostiene La vera Shara Drummond di Melberg, che le mancasse il talento per imporsi come ballerina sulla Terra. Se credete che la danza in condizioni d'imponderabilità sia più facile della danza tradizionale, provateci voi. E non dimenticate il sacchetto impermeabile per vomitarci dentro. Ma nella calunnia di Melberg c'è un pizzico di verità, come c'è in tutte le calunnie migliori. Lei non avrebbe potuto affermarsi sulla Terra: non per mancanza di talento, però. La vidi per la prima volta a Toronto nel luglio del 1984. A quel tempo dirigevo il dipartimento video del Toronto Dance Theater, e non mi piaceva neppure un po'. A quel tempo non c'era niente che mi piacesse. Quel giorno, il programma prevedeva un interno pomeriggio dedicato a registrare le esibizioni degli allievi, uno spreco di tempo e di nastri che detestavo più di qualunque altra cosa al mondo eccettuata l'azienda dei telefoni. Non avevo ancora visto la nuova messe di quell'anno, e non ero ansioso di vederla. Mi piace assistere a una danza eseguita bene.. e di solito gli sforzi di un tirocinante mi sono graditi quanto lo è per voi un vicino di casa che studia il primo anno di violino. La gamba mi dava fastidio più del solito quando entrai nello studio. Norrey mi guardò in faccia e lasciò un gruppo di giovani speranzosi per correre da me. — Charlie...? — Lo so, lo so. Sono teneri virgulti, Charlie, con personalità fragili come uova di Pasqua in dicembre. Non morderli, Charlie. Non abbaiare neppure, se ci riesci, Charlie. Lei sorrise. — Qualcosa del genere. La gamba? — La gamba. Norrey Drummond è una ballerina che può permettersi di sembrare una
donna perché è piccolina. Pesa circa cinquanta chili, e quasi tutto quel peso è costituito dal cuore. È alta un metro e sessantadue, ed è perfettamente capace di aver l'aria di torreggiare sull'allievo più alto. Ha più energia della Rete Elettrica Nordamericana, e la usa con la stessa efficienza di una pompa a vento. (Avete mai studiato il principio di una normale pompa a pistoni? Andate a controllare il principio di una pompa a vento. Mi domando quale dovette essere la concezione originale di quella nozione, come esperienza emotiva.) La sua danza ha un'unicità che è come una firma, e secondo me è l'unica ragione per cui aveva avuto così poche parti davvero importanti nelle produzioni collettive fino a quando il Moderno ha lasciato il posto al Neomoderno. Mi era simpatica perché non mi commiserava. — Non è soltanto la gamba — ammisi. — Non mi piace vedere i teneri virgulti che massacrano la tua coreografia. — Allora non devi preoccuparti. Quello che dovrai registrare oggi è una creazione di... una dei miei allievi. — Oh, magnifico. Sapevo che avrei dovuto darmi malato. — Lei fece una smorfia. — Dov'è il trucco? — Eh? — Perché hai usato quello strano tono di voce quando hai detto una dei miei allievi? Norrey arrossì. — Accidenti, è mia sorella. Io inarcai le sopracciglia. — Allora dev'essere brava. — Oh, grazie, Charlie. — Fesserie. Faccio complimenti sinceri, o non li faccio per niente... e non sto parlando delle leggi dell'ereditarietà. Voglio dire che sei così devota all'etica professionale che faresti i salti mortali pur di non piegarti al nepotismo. Perché abbia lasciato a tua sorella un compito del genere, dev'essere straordinaria. — Charlie, lo è davvero — disse Norrey, semplicemente. — Vedremo. Come si chiama? — Shara. — Norrey me la indicò, e io capii il resto del trucco. Shara Drummond era di dieci anni più giovane della sorella... e più alta di diciassette centimetri, con dodici-quindici chili in più. Notai distrattamente che era di una bellezza sensazionale, ma questo non attenuò il mio sgomento... nei suoi anni migliori, Sophia Loren non avrebbe mai potuto diventare una ballerina moderna. Dove Norrey era piccola, Shara non lo era, e dove Norrey era tornita, Shara lo era molto di più. Se l'avessi vista per strada avrei zufolato con ammirazione... ma nello studio aggrottai la fron-
te. — Mio Dio, Norrey, è colossale. — Il secondo marito di mia madre era un giocatore di football americano — disse Norrey in tono malinconico. — È spaventosamente brava. — Se è brava, è spaventoso davvero. Povera ragazza. Bene, che cosa vuoi che faccia? — Cosa ti fa pensare che io voglia che tu faccia qualcosa? — Sei ancora qui. — Oh, già. Ecco... vieni a pranzo con noi, Charlie? — Perché? — Sapevo benissimo il perché, ma mi aspettavo un'educata menzogna. Ma non era il caso di aspettarla, da parte di Norrey Drummond. — Perché voi due avete qualcosa in comune, credo. Onestamente, le feci il complimento di non rabbrividire. — Sì, penso di sì. — Allora verrai? — Subito dopo le riprese. Norrey mi guardò con uno scintillio negli occhi e se ne andò. In pochissimo tempo, aveva organizzato lo studio pieno di giovani che vagavano e chiacchieravano in qualcosa che sembrava un collettivo di danza, se si guardava bene. Eseguirono gli esercizi di riscaldamento durante i venti minuti che io impiegai a piazzare e a controllare l'equipaggiamento. Misi una telecamera davanti a loro, una dietro, e ne tenni una in mano, per i primi piani: ma non l'usai. C'è un gioco che si gioca nella mente. Ogni volta che qualcuno colpisce la vostra attenzione, incominciate a cercare d'indovinare qualcosa sul suo conto. Cercate di estrapolare il suo carattere e le sue abitudini basandovi sul suo aspetto. Quello? Antipatico, disorganizzato... non rimette mai il tappo al tubetto del dentifricio e beve porcherie. Quella là? Il tipo della studentessa d'arte, che probabilmente usa il diaframma e scrive lettere in una calligrafia stilizzata di sua invenzione. Loro? Sembrano insegnanti di Miami, probabilmente venuti qui per vedere la neve o partecipare a un congresso. Certe volte ci vado molto vicino. Non so come inquadrai Shara Drummond, in quei primi venti minuti. Nel momento in cui incominciò a ballare, tutti i preconcetti fuggirono dalla mia mente. Diventò qualcosa di elementare, qualcosa d'inconoscibile, un ponte vivente tra il nostro mondo e quello in cui vivono le Muse. Conosco, su un piano intellettuale e accademico, tutto quel che c'è da
sapere sulla danza, ma non potevo categorizzare o classificare e neppure comprendere veramente la danza che lei eseguì quel pomeriggio. La vidi. L'apprezzai, anche, ma non ero in grado di capirla. Tenevo la telecamera a mano abbandonata fra le dita, e la bocca spalancata. I ballerini parlano del loro «centro», il punto intorno al quale s'incentrano i loro movimenti, e che spesso è vicinissimo al centro di gravità fisico. Si cerca di «ballare al centro», e l'idea «contrazione-e-distensione» che sta alla base di tanta danza moderna dipende da questo centro quale punto focale dell'energia. Il centro di Shara pareva muoversi intorno allo studio, con un moto proprio, trascinandosi dietro gli arti che vi stavano legati più per scelta che per necessità. Qual è la parola per indicare la parte più esterna del sole, la parte che si vede anche in un'eclisse? Corona? Ecco che cos'erano i suoi arti: quattro lingue di fiamma che seguivano il centro nella sua orbita eccentrica e vorticosa, fluendo intorno alla superficie. Il fatto che i due arti inferiori fossero frequentemente a contatto con il pavimento sembrava coincidentale... per la verità anche gli altri due lo toccavano quasi con la stessa regolarità. C'erano anche altri allievi che ballavano. Questo lo so perché le due telecamere automatiche, diversamente da me, facevano il loro lavoro e registravano il pezzo nella sua integrità. Si chiamava Nascita, e rappresentava la formazione di una galassia che finiva per somigliare a quella di Andromeda. La precisione lasciava abbastanza a desiderare da un punto di vista letterale: ma sinceramente si sentiva che era la nascita di una galassia. In retrospettiva. Al momento io mi accorgevo soltanto del cuore della galassia: Shara. Gli altri allievi l'eclissavano di tanto in tanto e io, semplicemente, non me ne accorgevo. Mi faceva soffrire guardarla. Se v'intendente un po' di danza, questo dovrà sembrarvi orribile. Una danza imperniata su una nebulosa? Lo so, lo so. È una nozione ridicola. E funzionava. Funzionava al livello più viscerale e cellulare... a parte il fatto che Shara era troppo brava in confronto a quelli che l'attorniavano. Non apparteneva a quel branco di apprendisti goffi e zelanti. Era come ascoltare il fu Stephen Wonder che cercasse di lavorare con un'orchestrina raccogliticcia in un bar di Montreal. Ma non era questo che mi faceva soffrire. Le Maintenant era un posto abbastanza squallido, ma si mangiava bene e l'erba della casa era eccellente. Se uno avesse presentato la tessera del Diner's Club, lì dentro, l'avrebbero mandato in cucina a lavare i piatti. Adesso non esiste più. Norrey e Shara rifiutarono uno spinello, ma nel mio lavoro
è utile. E poi, avevo bisogno di trovare il coraggio. Come si fa a dire a una donna incantevole che il suo sogno più caro è irrealizzabile? Non era necessario che interrogassi Shara per sapere che il suo sogno più caro era ballare. Anzi, ballare come professione. Spesso mi sono chiesto quali sono le motivazioni dell'artista professionista. Alcuni cercano la soddisfazione narcisista di sapere che altri pagheranno per vederli o ascoltarli. Alcuni sono così inefficienti o disorganizzati che non sono capaci di mantenersi in nessun altro modo. Certuni hanno un messaggio che ritengono di dover esprimere. Credo che in quasi tutti gli artisti ci sia una combinazione di tutti e tre i fattori. Non è una critica... ciò che fanno per noi è necessario. Dovremmo essere grati al cielo perché le motivazioni ci sono. Ma Shara era una delle rare eccezioni. Ballava perché per lei era necessario. Sentiva il bisogno di dire cose che non si potevano esprimere in nessun altro modo, e di trarre il significato della sua vita dal fatto che le esprimeva. Qualunque altra cosa avrebbe sminuito e svalutato l'affermazione essenziale della sua danza. E questo lo so semplicemente perché assistetti a quella danza. Tra gli spinelli e tenere la bocca piena e poi altri spinelli (non tanto, giusto quel che bastava per controbilanciare l'effetto deprimente che causa sempre il mangiare), passò mezz'ora prima che dovessi dire qualcosa, a parte gli occasionali borbottii in risposta alle consuete chiacchiere delle signore a pranzo. Quando arrivò il caffé, Shara mi guardò direttamente negli occhi e chiese: — Lei parla, Charlie? Senza dubbio era propriola sorella di Norrey. — Dico solo banalità. — Non esistono. Forse esiste gente banale. — Le piace ballare, Miss Drummond? Lei rispose con la massima serietà. — Definisca cosa intende per le piace. Aprii la bocca e la richiusi, due o tre volte. Provateci un po' voi. — E per l'amor di Dio, mi dica perché sta facendo di tutto per non parlarmi. Comincio a preoccuparmi. — Shara! — Norrey era allibita. — Zitta. Voglio sapere. Mi buttai. — Shara, prima che morisse, ebbi il privilegio di conoscere Bertram Ross. L'avevo appena visto ballare. Un produttore che mi conosceva e mi aveva in simpatia mi portò dietro le quinte, come si potrebbe portare un bambino a conoscere Papà Natale. Mi aspettavo che fuori dal
palcoscenico, in riposo, sembrasse più vecchio. Sembrava più giovane, come se tentasse di tenere a freno quella sua incredibile capacità di movimento. Lui mi parlò. Dopo un po', io smisi di aprire la bocca, perché non ne usciva una parola. Lei taceva, aspettando il resto. Solo gradualmente comprese l'enormità del complimento. Io avevo pensato che fosse ovvio. Moltissimi artisti esigono di ricevere complimenti. Quando lei capi, non arrossì e non fece smancerie. Non inclinò la testa e non disse: — Oh, suvvia. — Non disse: — Mi sta adulando. — Non distolse gli occhi. Annuì lentamente e disse: — Grazie, Charlie. Vale molto di più di tante chiacchiere oziose. — C'era una sfumatura di tristezza nel suo sorriso, come se ci fossimo scambiati una battuta amara. — Prego. — Per amor del cielo, Norrey, perché sei così sconvolta? Il gatto, adesso, aveva mangiato la lingua a Norrey. — È delusa per colpa mia — commentai. — Ho detto una cosa sbagliata. — Quale cosa sbagliata? — Avrei dovuto dire: Miss Drummond, credo che lei dovrebbe rinunciare alla danza. — Caso mai: Shara, credo che tu dovresti... Che cosa? — Charlie... — incominciò Norrey. — Avrei dovuto dirle che non tutti possiamo essere ballerini professionisti. Shara, dovevo dirti di mollare la danza... prima che sia la danza a mollare te. Spinto dalla necessità di essere onesto con lei, ero stato più brutale di quanto dovessi, pensai. Ma avrei scoperto che la franchezza non sgomentava mai Shara. Lei la esigeva. — Perché proprio tu? — Fu tutto quel che disse. — Siamo nella stessa barca, io e te. Abbiamo entrambi un prurito che i nostri corpi non ci permettono di grattare. I suoi occhi si raddolcirono. — Qual è il tuo prurito? — È identico al tuo. — Eh? — Il tecnico doveva venire a riparare il telefono il giovedì. Io e la mia compagna di stanza, Karen, avevamo una prova che durava tutto il giorno. Lasciammo un biglietto. Signor tecnico dei telefoni, siamo dovuti uscire e non potevamo certo chiamarla, eh, eh. Per favore, si faccia dare la chiave
dal portiere ed entri: il telefono è in camera da letto. Il tecnico non si fece vedere. Non si fanno mai vedere. — Mi sembrava che mi tremassero le mani. — Tornammo a casa dalla scala sul retro, dal vicolo. Il telefono non funzionava, ma non pensai di togliere il biglietto appeso alla porta principale. La mattina dopo mi sentii male. Crampi. Vomito. Io e Karen eravamo soltanto buoni amici, ma lei restò a casa per curarmi. Immagino che un venerdì sera un biglietto come quello sembrasse ancora più plausibile. Questo tizio aprì la serratura con un pezzo di plastica, e Karen uscì dalla cucina mentre stava staccando lo stereo. S'infuriò tanto che le sparò. Due colpi. Il chiasso gli mise paura: quando arrivai io, stava già uscendo dalla porta. Ebbe giusto il tempo di spararmi una pallottola nella giuntura dell'anca, e poi scappò. Non lo presero mai. E non vennero mai a riparare il telefono. — Adesso le mani non mi tremavano più. — Karen era una brava ballerina, ma io ero ancora più bravo. Nella mia mente, lo sono ancora. Shara aveva sgranato gli occhi. — Non sei Charlie... Charles Armstead? Annuii. — Oh, mio Dio. Dunque ecco dove sei finito. Fui scosso dalla sua espressione: mi strappò via dal confine freddo e ventoso dell'autocommiserazione. Incominciai, un po', a commiserare lei. Avrei dovuto intuire la profondità della sua empatia. E nel senso che contava di più, ci somigliavamo troppo... avevamo in comune lo stesso scherzo amaro. Mi chiesi perché avevo voluto turbarla. — Non potevano ricostruire l'articolazione? — chiese a voce bassa. — Posso camminare splendidamente. Se ho un motivo abbastanza forte, posso addirittura correre per brevi distanze. Ma non posso ballare in modo decente. — E così sei diventato un video-man. — Tre anni fa. Quelli che conoscono bene il video e la danza, al giorno d'oggi, sono più o meno comuni come i reggicalze. Oh, sì, registrano i balletti fin dagli Anni Settanta... con l'immaginazione di un cameramen del telegiornale. Se filmi una commedia con due telecamere piazzate nella buca dell'orchestra, è un film? — Tu fai per la danza ciò che la macchina da presa ha fatto per il teatro? — Un'analogia abbastanza azzeccata. Ma non quadra, nel senso che la danza è più vicina alla musica che al dramma. Non puoi interromperla e ricominciare, o tornare indietro e girare daccapo una scena che non è venuta bene, e neppure invertire i tempi per ottenere un programma di riprese comodo. L'evento si svolge, e tu lo registri. Sono l'equivalente di quello per
cui l'industria discografica paga il massimo... una specie di mix-man abbastanza competente per sapere quale strumento suona in modo più fievole al momento e per alzargli il microfono... e con tanto buon senso da aver dato i microfoni migliori ai grossi calibri. Ce ne sono pochissimi, come me. E io sono il migliore. Shara l'accettò come aveva preso il complimento rivolto a lei... al valore facciale. Di solito, quando dico così, non m'importa niente della reazione o meglio spero che l'ascoltatore si scandalizzi. Ma ero compiaciuto del modo in cui l'aveva accettato: tanto compiaciuto, anzi, da sentirmi turbato. Una vaga irritazione mi fece ridiventare brutale, sebbene sapessi che non sarebbe servito a niente. — E tutto questo porta al fatto che Norrey sperava che ti avrei suggerito una simile forma di sublimazione. Perché nel mondo della danza, sarà più facile che la spunti io, anziché tu. Lei s'impuntò. — Questo non lo credo, Charlie. So di cosa stai parlando, non sono tanto stupida; ma credo di potercela fare. — Sicuro. Sei troppo grossa, ragazza mia. Hai due tette che sembrano le due metà di un melone da esposizione, e un didietro che per averlo qualunque attrice di Hollywood si venderebbe i genitori. E nella danza moderna, questo ti spaccia. Ti spaccia. Credi di potercela fare? Ti ci spaccherai la testa, come sto facendo io. Norrey? — Per l'amor di Dio, Charlie! Mi raddolcii. Non posso far indispettire Norrey... le voglio troppo bene. — Scusami, tesoro. La gamba mi tormenta e sono arrabbiato. Lei dovrebbe farcela... e non ce la farà. È tua sorella, e quindi la cosa ti rattrista. Bene, io sono un estraneo, e mi fa infuriare. — E come credete che mi senta io? — scattò Shara, facendoci sussultare tutti e due. Non immaginavo che avesse una voce così potente. — Allora tu vorresti che rinunciassi e prendessi a nolo una telecamera, eh, Charlie? O magari che mi mettessi a vender mele davanti allo studio? — Strinse i denti. — Bene, che tutti gli dei della California meridionale mi maledicano, se smetterò. Dio mi ha dato un formato grande, ma non c'è un chilo di troppo, e mi calza come un guanto e, Cristo, so farlo ballare e ballerò. Forse hai ragione... può darsi che prima mi ci spacchi la testa. Ma ce la farò. — Trasse un profondo respiro. — Adesso, grazie per le gentili intenzioni, Char... Mister Armst... oh, merda. — Le lacrime le riempirono gli occhi e lei scappò via in fretta, rovesciando addosso a Norrey una mezza tazza di caffé freddo. — Charlie — disse Norrey a denti stretti, — perché mi sei tanto sim-
patico? — Le ballerine sono stupide. — Le porsi il mio fazzoletto. — Oh. — Per un po', Norrey continuò ad asciugarsi il vestito. — Come mai sono simpatica a te? — I video-man sono intelligenti. — Oh. Passai il pomeriggio nel mio appartamento a rivedere il materiale registrato quella mattina, e più lo guardavo e più mi arrabbiavo. La danza richiede una motivazione intensa in età tenerissima... una devozione cieca, un investimento puntato sul potenziale non ancora realizzato dell'ereditarietà e dell'alimentazione. Puoi incominciare a studiare danza classica, poniamo, a sei anni... e a quattordici ti ritrovi con le spalle troppo larghe, e tutti quegli anni d'impegno totale sono completamente sprecati. Shara aveva messo gli occhi sulla danza moderna... e troppo tardi aveva scoperto che Dio le aveva dato un corpo di donna. Non era grassa... l'avete vista, no? Era alta, con l'ossatura robusta, e su quella struttura era costruito un fiorente corpo femminile. Mentre guardavo e riguardavo la registrazione di Nascita, la sofferenza diventò così forte che dimenticai persino il dolore onnipresente alla gamba. Era come osservare un giocatore di pallacanestro straordinariamente dotato ma alto un metro e venti. Per riuscire nella danza moderna, è indispensabile entrare in una compagnia. Non puoi farti vedere se non sei visibile. Mentre tornavamo allo studio, Norrey mi aveva parlato dei tentativi compiuti da Shara per entrare in una compagnia... e io avrei potuto predire ogni parola. — L'ha vista ballare Merce Cunningham, Charlie. L'ha vista ballare Martha Graham, poco prima di morire. Grandi lodi, per la sua coreografia non meno che per la sua tecnica. Ma non le hanno offerto un posto in compagnia. Non sono neppure sicura che avessero tutti i torti... credo di capire. Norrey capiva benissimo. Era il suo difetto moltiplicato per cento: l'unicità. Quando una fa parte d'una compagnia, dev'essere capace di lavorare in modo eccellente come solista... ma deve anche sapersi fondere nell'impegno di gruppo, nel lavoro d'insieme. L'unicità di Shara la rendeva virtualmente inutile in una compagnia. Era inevitabile che attirasse l'occhio. E quando l'aveva attirato, l'occhio (almeno quello maschile) non si staccava più da lei. Le interpreti della danza moderna, di questi tempi, a volte
devono lavorare nude, e quindi devono avere un corpo da ragazza quattordicenne. Possono esserci donne che ballano con poco o niente addosso; ma per Dio, è Arte. Un'attrice, una musicista, una cantante o una pittrice può essere riccamente dotata e deliziosamente tornita... ma una ballerina dev'essere quasi asessuata quanto un'indossatrice d'alta moda. Forse Dio sa perché Shara non avrebbe potuto purificare la sua danza dalla sessualità neppure se avesse pensato di farlo; e mentre la guardavo danzare sul mio monitor e nella mia mente, sapevo che non ci pensava affatto. Perché il suo genio doveva consistere nell'unica specializzazione, oltre a quelle delle indossatrici e delle suore, in cui essere sexy è uno svantaggio? Mi spezzava il cuore, per analogia empatica. — È inutile, vero? Mi voltai e latrai: — Accidenti, mi hai fatto mordere la lingua. — Scusa. — Lei entrò nel mio soggiorno. — Norrey mi ha detto dove potevo trovarti. La porta era socchiusa. — Ho dimenticato di chiuderla quando sono tornato a casa. — La lasci aperta? — Ho imparato la lezione della storia. Nessun drogato, per quanto sia partito, entrerà in un appartamento con la porta socchiusa e la radio accesa. È evidente che c'è qualcuno in casa. E hai ragione, è proprio inutile. Siediti. Sedette sul divano. Adesso aveva i capelli sciolti, e così mi piaceva di più. Spensi il monitor ed estrassi il nastro. Lo buttai su uno scaffale. — Sono venuta a scusarmi. Non avrei dovuto scattare così, a pranzo. Tu stavi cercando d'aiutarmi. — Era inevitabile. Immagino che a quest'ora ne avrai fin qui. — Cinque anni. Avevo pensato d'incominciare negli Stati Uniti anziché nel Canada. Per andare più lontano e più in fretta. Adesso sono tornata a Toronto, e non credo che ce la farò neppure qui. Hai ragione. Sono troppo grossa. Le amazzoni non ballano. — Senti, c'è qualcosa che voglio chiederti. Quell'ultimo gesto, nel finale di Nascita... che cos'era? Mi è sembrato che fosse un gesto di richiamo. Norrey dice che era un addio, e adesso che ho riesaminato il nastro mi sembra un'espressione di nostralgia e di desiderio. — Allora ha funzionato. — Prego? — Mi sembrava che la nascita d'una galassia richiedesse tutti e tre. Sono così vicini, nello spirito, che mi pareva sciocco assegnare a ciascuno un
movimento separato. — Uhm. — Di male in peggio. Supponete che Einstein soffrisse di afasia. — Perché non potevi essere una ballerina mediocre? Sarebbe stata soltanto un'ironia. Quella, — e indicai il nastro, — è una grande tragedia. — Non avrai intenzione di dirmi che posso continuare a ballare per me stessa? — No. Per te sarebbe peggio che non ballare affatto. — Mio Dio, come sei acuto. Oppure è tanto facile capirmi? Alzai le spalle. — Oh, Charlie — proruppe lei. — Che cosa devo fare? — È meglio che non lo chieda a me. — La mia voce aveva un tono stano. — Perché? — Perché sono già per due terzi innamorato di te. E perché tu non sei innamorta di me e non lo sarai mai. E quindi è il genere di domanda che non devi rivolgermi. Quelle parole la scossero un po', ma si riprese prontamente. I suoi occhi si addolcirono. Scosse la testa, adagio. — E sai persino perché non lo sono, vero? — E perché non lo sarai mai. Avevo una paura tremenda che stesse per dire: — Charlie, mi dispiace. — Ma mi soprese di nuovo. Disse: — Posso contare sulle dita di un piede il numero di uomini adulti che ho conosciuto. Sono contenta di aver incontrato te. Immagino che le tragedie ironiche arrivino sempre in coppia. — Qualche volta succede. — Bene, allora non mi resta altro che cercare di decidere cosa fare della mia vita. Dovrebbe essere sufficiente per far passare il weekend. — Continuerai le lezioni? — Tanto vale che lo faccia. Studiare non è mai una perdita di tempo. Norrey m'insegna molte cose. All'improvviso la mia mente incominciò a bollire. L'uomo è un animale razionale, giusto? Giusto? — E se io avessi un'idea migliore? — Se hai un'altra idea, è migliore senz'altro. Parla. — È necessario che tu abbia un pubblico? Voglio dire, dev'essere dal vivo? — Come sarebbe? — Forse c'è un modo per rientrare dalla finestra. I videoregistratori s'incominciano a vendere bene... quando la gente ha capito che poteva colle-
zionare vecchi film e cose del genere come prima collezionava i dischi, è stato solo questione di renderlo abbastanza economico. E quasi ci siamo... sai, il TDT sta pensando di entrare nel mercato, e la compagnia Graham l'ha già fatto. — Quindi? — Quindi, supponiamo che incominciassimo una produzione indipendente, io e te. Tu balli e io registro: una onesta proposta d'affari. Ho qualche amicizia e forse potrò combinare qualcosa. Potrei citarti dieci complessi che sono nel giro della musica e non fanno mai una tournée... registrano e registrano e bastano. Perché non tagli fuori la struttura delle compagnie di danza e non ti rivolgi direttamente al pubblico? Forse così... Il suo viso stava incominciando a illuminarsi. — Charlie, credi che funzionerebbe? Lo credi davvero?.. — Non credo che abbia la possibilità di ottenere un effetto valanga. — Attraversai il soggiorno, aprii il frigo della birra, tirai fuori la palla di neve che tengo lì dentro durante l'estate, e gliela lanciai. L'afferrò al volo, appena appena, e quando vide che cos'era scoppiò a ridere. — Ho solo abbastanza fiducia nell'idea per lasciare il TDT e occuparmene a tempo pieno. Investirò il mio tempo, i miei nastri, il mio equipaggiamento e i miei risparmi. E avanti. Lei cercò di ritornare seria, ma la palla di neve le gelava le dita e scoppiò a ridere di nuovo. — Una palla di neve a luglio. Che matto! Conta su di me. Ho un po' di denaro da parte. E... e credo di non avere molte possibilità di scelta, vero? — Credo di no. I tre anni che seguirono furono i più esaltanti della mia vita, delle nostre due vita. Mentre io guardavo e registravo, Shara si trasformava: la ballerina potenzialmente grande diventò qualcosa di veramente sensazionale. Fece qualcosa che non sono sicuro di poter spiegare. Diventò, per la danza, quello che il jazzista è per la musica. La danza, per Shara, era l'auto-espressione, pura e semplice, sempre. Appena rinunciò al tentativo d'inserirsi nel mondo delle compagnie di danza, prese a considerare la coreografia in se stessa come un ostacolo alla sua autoespressione, come solco pre-programmato, inesorabile come un copione e altrettanto limitativo. E quindi lo svalutò. Un jazzista può suonare Night in Tunisia per dodici serate consecutive, e ogni sera sarà un'esperienza diversa, dato che interpreta e reinterpreta la
melodia secondo lo stato d'animo del momento. È l'unità totale dell'artista e della sua arte: la creazione spontanea. Il punto di partenza melodico distingue il risultato dall'anarchia pura. E proprio in questo modo Shara ridusse la coreografia prestabilita a un punto di partenza, una base sulla quale costruire ciò che richiedeva il momento, per poi improvvisare. In quei tre anni attivissimi imparò a smantellare l'interfaccia tra se stessa e la sua danza. I ballerini hanno sempre avuto la tendenza a disprezzare la danza improvvisata, persino quando la praticano, nello studio, perché conferisce scioltezza. Non capivano che l'improvvisazione pianificata, l'improvvisazione intorno a un tema profondamente pensato in anticipo, era il nuovo, naturale passo avanti nella danza. Shara compì quel passo avanti. È necessario essere molto, molto bravi per cavarsela con una simile libertà. Lei lo era. È inutile che riferisca dettagliatamente le nostre fortune professionali di quei tre anni. Lavoravamo con impegno, realizzavamo alcune registrazioni magnifiche, e non riuscivamo a venderle neppure come fermacarte. S'era effettivamente formata un'industria per la produzione delle videocassette... ma quelli conoscevano la danza moderna più o meno quanto l'industria discografica conosceva i blues, al suo inizio. Le grosse organizzazioni pretendevano credenziali, e quelle piccole volevano talento a poco prezzo. Finalmente, per disperazione, ci rivolgemmo alle organizzazioni piccolissime... e scoprimmo quello che sapevamo già. Non avevano la distribuzione, non avevano il prestigio né i requisiti tecnici perché i critici le degnassero della loro attenzione. La pubblicità «a voce» è come il pool genico... se non è di una grandezza sufficiente per incominciare, non approda a niente. «Spider» John Koerner è un musicista e compositore di canzoni incredibilmente dotato che dal 1972 incide e vende i propri dischi. Quanti di voi lo hanno sentito nominare? Nel maggio del 1987 aprii la mia cassetta della posta nell'atrio, e trovai una lettera della Visu Ent Inc. che mettava fine alla nostra opzione con infinito rammarico e senza risarcimento. Andai subito all'appartamento di Shara, ed ebbi la sensazione che il midollo della mia gamba fosse stato sostituito con la termite incendiata. Fu una camminata lunghissima. Quando arrivai, lei stava lavorando a Peso è un verbo. Trasformare in studio il suo grande soggiorno era costato tempo, energia, ingegno, e una bella somma per far star buono il padrone di casa, ma costava sempre meno che affittare uno studio vero, considerando gli scenari che volevamo noi. Quel giorno sembrava alta montagna, e quando entrai appesi il cappel-
lo a un falso ontano. Shara mi lanciò un sorriso e continuò a muoversi, spiccando balzi sempre più alti. Sembrava la più bella capra di montagna che avessi mai visto. Io ero di pessimo umore e volevo spegnere la musica (McLaughlin e Miles insieme, e anche loro spiccavano balzi notevoli), ma non sarei mai stato capace d'interrompere Shara quando ballava. Costruiva la sua danza gradualmente, con un contrappunto direzionale, fino a che sembrava lanciarsi nell'aria, restarci fino a quando era pronta, e poi lanciarsi di nuovo giù. Qualche volta rotolava, quando toccava il pavimento, e qualche volta atterrava sulle mani, e ogni volta l'energia della caduta si trasformava in qualcosa, anziché venire assorbita. Era un output d'energia totale; e quando lei ebbe finito, io mi ero calmato abbastanza per prendermela quasi con filosofia per la nostra comune rovina professionale. Lei finì accasciata su se stessa, con la testa china, squisitamente umiliata nel tentativo di sfidare la gravità. Non potei fare a meno di applaudirla. Era banale, ma non seppi trattenermi. — Grazie, Charlie. — Che mi venga un colpo. Il peso è un verbo. Pensavo che fossi matta quando mi hai detto il titolo. — È uno dei verbi più forti della danza... e puoi usarlo per fare qualunque cosa. — O quasi. — Eh? — La Visu Ent ha sciolto il nostro contratto. — Oh. — Nei suoi occhi non si vedeva nulla, ma io sapevo che cosa pensava. — Bene, qual è il prossimo nell'elenco? — Non c'è più nessuno. — Oh. — Questa volta si vedeva. — Oh. — Avremmo dovuto ricordarlo. I grandi artisti non vengono mai apprezzati in vita. Avremmo dovuto crepare... allora sarebbe andato tutto bene. A modo mio cercavo di essere forte per lei, e lei lo capiva e cercava d'essere forte per me. — Forse dovremmo occuparci di assicurazioni sulla morte per gli artisti — disse. — Paghiamo al cliente un premio in cambio del controllo della maggioranza della sua futura eredità, e poi facciamo in modo che muoia. — Sarebbe infallibile. E se diventasse famoso in vita, potrebbe riscattare la polizza.
— Grandioso. Smettiamola prima che io muoia dal ridere. — Già. Restò in silenzio a lungo. La mia mente funzionava con efficienza, ma sembrava che la trasmissione fosse saltata... non concludeva niente. Alla fine lei si alzò e spense il registratore che aveva continuato a gemere in sordina da quando era finita la musica. Si sentì un clic. — Norrey ha un po' di terra nell'Isola Prince Edward — disse lei, evitando di guardarmi negli occhi. — C'è una casa. Cercai di distrarla con la battuta finale della vecchia barzelletta sul ragazzo che pulisce la gabbia degli elefanti nel circo, quando il padre gli propone di riprenderselo e gli offre un buon lavoro. — Cosa? Abbandonare il mondo dello spettacolo? — Al diavolo il mondo dello spettacolo — disse lei sottovoce. — Se andassi all'isola adesso, forse riuscirei a ripulire la terra e ad ararla in tempo per piantare un orto. — Poi cambiò espressione. — E tu? — Io? Me la caverò benissimo. Il TDT mi ha invitato a tornare. — Ma è stato sei mesi fa. — Me l'hanno chiesto di nuovo. La settimana scorsa. — E tu hai detto di no. Idiota. — Può darsi, può darsi. — È tutto tempo perso. Tutto quel tempo. Tutta quell'energia. Tutto quel lavoro. Sarebbe stato meglio che fossi andata a coltivare la terra all'isola. A quest'ora, almeno, avrebbe incominciato a rendere. Che spreco, Charlie, che spreco schifoso. — No, non credo, Shara. Ti sembrerà una frase fatta dire niente è sprecato, ma... ecco, è come la danza che hai appena eseguito. Forse non puoi vincere la gravità... ma sicuramente tentare è molto bello. — Già, lo so. Ricorda la Brigata Leggera a Balaclava. Ricorda Alamo. Anche quelli tentarono. — Rise, una risata amara. — Sì, e anche Gesù di Nazareth. L'hai fatto per il ricavo materiale o perché sentivi che era necessario? Se non altro, abbiamo registrato centinaia e centinaia di metri delle danze più belle: valore commerciale zero, valore reale incalcolabile, e per me non è uno spreco. Adesso è finita, e tutti e due faremo qualcosa d'altro, ma non è stato uno spreco. — Scoprii che stavo gridando, e m'interruppi. Lei chiuse la bocca. Dopo un po' cercò di sorridere. — Hai ragione, Charlie. Non è stato uno spreco. Adesso sono una ballerina molto migliore di prima.
— Verissimo. Hai trasceso la coreografia. Shara sorrise malinconicamente. — Sì. E persino Norrey pensa che sia un vicolo cieco. — Non è un vicolo cieco. La poesia non è soltanto haiku e sonetti. Non è necessario che i ballerini siano robot che recitano con il loro corpo le battute imparate a memoria. — Lo fanno, invece, se vogliono guadagnarsi da vivere. — Ritenteremo fra qualche anno. Forse allora il pubblico sarà pronto. — Sicuro. Aspetta, preparo qualcosa da bere. Quella notte dormii con lei, per la prima e l'ultima volta. La mattina dopo smontai la scena in soggiorno mentre lei faceva i bagagli. Promisi di scriverle. Promisi che sarei andato a trovarla appena avessi potuto. Portai le sue valigie alla macchina e le caricai a bordo. La baciai e mi sbracciai per salutarla. Andai in cerca di qualcosa da bere, e l'indomani mattina alle quattro un rapinatore pensò che dovevo essere abbastanza ubriaco, e gli spaccai la mascella, il naso e due costole, poi mi sedetti addosso a lui e piansi. Il lunedì mattina mi presentai allo studio con il cappello in mano e la bocca che sembrava il portacenere d'una stazione d'autobus e riebbi il mio vecchio lavoro. Norrey non fece domande. Con i prezzi degli alimentari che salivano, rinunciai a nutrirmi d'altro che di bourbon, e meno di sei mesi dopo fui licenziato. M'impantanavo sempre dopo «Carissima Shara...» Quando mi ridussi al punto di vendere la mia attrezzatura video per pagarmi da bere, un relay scattò da qualche parte e cominciai a riflettere. Quella roba era tutta la vita che avevo lasciato, e perciò anziché andare al banco dei pegni andai alla sede locale degli Alcolisti Anonimi e ridiventai sobrio. Dopo un po' la mia anima s'intorpidì, e io smisi di rabbrividire quando mi svegliavo. Cento volte incominciai a cancellare i nastri di Shara che avevo ancora (lei aveva le sue copie); ma non ne ero capace. Ogni tanto mi domandavo cosa stava facendo lei, e non sopportavo l'idea di scoprirlo. Se Norrey aveva sue notizie, a me non diceva niente. Cercò persino di farmi riavere il mio posto per la terza volta, ma non ci fu niente da fare. La reputazione può essere una cosa tremenda, una volta che te la sei rovinata. Fu una fortuna, per me, riuscire a trovare un lavoro presso una stazione educativa TV a New Brunswick. Furono due anni molto lunghi. Prima del 1990 incominciarono a diffondersi i videotelefoni, e io ne avevo congegnato uno all'insaputa e senza il consenso della società dei tele-
foni, che continuavo a odiare più di qualunque altra cosa al mondo. Quando la piccola spia luminosa che avevo sostituito alla soneria incominciò a lampeggiare una sera di giugno, misi il ricevitore sul pickup audio ed energizzai il tubo catodico, nell'eventualità che anche chi chiamava avesse il video. — Pronto? Aveva il video. Quando apparve la faccia di Shara, sentii un nodo freddo di paura alla bocca dello stomaco, perché avevo smesso di vedere dappertutto la sua faccia quando avevo smesso di bere, e ultimamente avevo pensato di ricominciare. Quando battei le palpebre e lei non sparì, mi sentii un po' meglio e cercai di parlare. Fu inutile. — Ciao, Charlie. È passato tanto tempo. La seconda volta riuscii a parlare. — Mi sembra ieri. L'ieri di qualcun altro. — Sì, è vero. Ho impiegato giorni e giorni per trovarti . Norrey è a Parigi e nessun altro sapeva dov'eri andato. — Già. Come va l'agricoltura? — Io... ci ho rinunciato, Charlie. È anche più creativa della danza, ma non è la stessa cosa. — Allora che cosa fai? — Lavoro. — Balli? — Sì. Charlie, ho bisogno di te. Voglio dire, ho bisogno di te. Ho bisogno delle tue telecamere e del tuo occhio. — Lascia stare le precisazioni. Basta che abbia bisogno di me. Dove sei? Qual è il primo aereo per raggiungerti? Che telecamere devo portare? — New York, fra un'ora, e nessuna. Non intendevo «le tue telecamere» alla lettera... a meno che adesso tu usi le GLX-5000 e un'Hamilton Board. Fischiai. Mi fece male la bocca. — Non posso permettermelo. E del resto sono un tipo all'antica. Le telecamere mi piace tenerle in mano. — Per questo lavoro userai un'Hamilton, e sarà una Masterchrome a venti input nuova di zecca. — Ci coltivavi papaveri da oppio, in quella fattoria? O semplicemente hai trovato un filone di diamanti mentre aravi il campo? — Verrai pagato da Bryce Carrington. Io sbattei gli occhi. — Allora, prenderai l'aereo, così potrò raccontarti tutto? Al New Age. Chiedi dell'appartamento presidenziale. — Al diavolo l'aereo. Verrò a piedi. Farò prima. — Riattaccai.
Secondo la rivista Time che avevo letto nell'anticamera del mio dentista, Bryce Carrington era il genio che era diventato multimilionario in dollari convincendo parecchi colossi dell'industria a finanziare lo Skyfac, il grande complesso orbitante che aveva sfondato nel mercato dei cristalli. Se non ricordavo male, una rara malattia simile alla polio gli aveva immobilizzato le gambe inchiodandolo su una poltrona a rotelle. Ma le sue gambe avevano perduto le forze, non la funzione... nella gravità ridotta, andavano abbastanza bene. Perciò aveva creato le Skyfac, inviando squadre di minatori sulla Luna per rifornirlo di materie prime a poco prezzo, e viveva in orbita a gravità ridotta. In fotografia sembrava un autore d'un certo successo. A parte questo, di lui non sapevo niente. Prestavo poca attenzione alle notizie, soprattutto a quelle spaziali. A quei tempi il New Age era l'albergo più alla moda di New York. Era stato costruito sulle rovine dello Sheraton. Sicurezza ultraefficiente, vetri antiproiettile, moquette morbidissime, e un atrio di una linea architettonica che una volta John D. MacDonald aveva chiamato «Dentiera Primitiva». Puzzava di quattrini. Ero contento di aver fatto lo sforzo di trovare una cravatta, e rimpiangevo di non essermi lucidato le scarpe. Quando entrai passando dalla camera di compensazione, un uomo incredibile mi bloccò la strada. Sembrava il buttafuori da night più svelto e più duro che avessi mai visto, e si comportava come se fosse il maggiordomo del Padreterno. Disse che si chiamava Perry e mi chiese se poteva aiutarmi... lo chiese come se non lo pensasse affatto. — Sì, Perry. Le dispiacerebbe alzare un piede? — Perché? — Scommetto venti dollari che si è lucidato anche le suole. Sorrise a mezza bocca e non si spostò d'un centimetro. — Chi desidera vedere? — Shara Drummond. — Non è registrata. — Appartamento presidenziale. — Oh. — Perry capì. — L'amica di Mr. Carrington. Avrebbe dovuto dirmelo. Aspetti qui, prego. — Mentre telefonava per assicurarsi che ero atteso, e teneva gli occhi su di me e una mano vicino alla tasca,io trangugiai il cuore che mi era balzato in gola e cambiai espressione. Ci volle un po'. Dunque era così. Bene. Era così e basta. Perry tornò e mi consegnò la piccola trasmittente a distintivo che mi avrebbe permesso di percorrere i corridoi del New Age senza venir falciato dal fuoco laser automatico e mi spiegò meticolosamente che sarei scoppia-
to se avessi cercato di uscire dall'albergo senza restituirlo. Dal suo modo di fare, capii che ai suoi occhi avevo saltato d'un colpo quattro gradini della scala sociale. Lo ringraziai, anche se non sapevo proprio perché. Seguii le frecce verdi fluorescenti che apparivano sul soffitto privo di lampadine, e dopo una lunga passeggiata panoramica arrivai all'appartamento presidenziale. Shara mi aspettava sulla porta, e indossava qualcosa che sembrava il pigiama di un angelo. Faceva sembrare delicata la sua figura imponente. — Ciao, Charlie. Io mi mostrai gioviale ed allegro. — Salve, pupa. Che bel posticino. — Entra, Charlie. Entrai. Era un appartamento dove la regina avrebbe potuto alloggiare con sua piena soddisfazione quando fosse venuta in città. Avreste potuto far atterrare un aereo nel soggiorno senza svegliare nessuno in stanza da letto. C'erano due pianoforti, ma un solo camino, e grande appena appena per arrostirci un bisonte... immagino che dovessero risparmiare un po' sullo spazio. C'era Roger Kellaway al quadio, e per un momento pensai che fosse davvero nell'appartamento e stesse suonando un terzo pianoforte invisibile. Dunque era così. — Posso offrirti qualcosa, Charlie? — Oh, sicuro. Olio d'hashish, Tangier Supreme. E Dom Perignon per riempire la pipa. Senza neppure sorridere Shara andò a uno stipo che sembrava una cattedrale lillipuziana, e tirò fuori esattamente ciò che avevo chiesto. Io restai impassibile e accesi. Le bollicine mi facevano solletico nella gola, e l'hashish era squisito. Incominciai a rilassarmi, e quando ci fummo passati il bocchino del narghilé per diverse volte, sentii che si rilassava anche lei. Allora ci guardammo, ci guardammo veramente, voglio dire, poi ci guardammo intorno e tornammo a guardarci. Scoppiammo a ridere simultaneamente, una risata che gettava fuori dalla stanza tutta la ricchezza e ne faceva entrare un'altra, di quelle che non sono costituite dai dollari. La sua risata era la stessa che ricordavo così bene, viscerale e fragorosa, libera e sfrenata; mi rassicurò immensamente. Ero così sollevato che non riuscivo a smettere di ridere, e questo faceva ridere lei; e ogni volta che stavamo per smettere Shara sporgeva le labbra e scoppiava in una specie di arpeggio balbettante d'ilarità. C'è un vecchio disco, Spike Jones Laughing Record, dove il suonatore di tuba cerca di suonare «Il volo del calabrone», e scoppia a ridere, e tutta l'orchestra crolla e sghignazza per due minuti buoni, e ogni volta che gli orchestrali restano senza fiato il suonatore di tuba
tenta di ricominciare e quelli giù a ridere di nuovo; e una volta, quando Shara era giù di corda, avevo scommesso con lei dieci dollari che non sarebbe stata capace di ascoltare quel disco senza ridere e avevo vinto. Quando capii, adesso, che lo stava ricordando, rabbrividii e scoppiai in altre risate fragorose, e dopo un minuto arrivammo letteralmente al punto di cadere dalle poltroncine e di finire sul pavimento, sopraffatti dall'ilarità, a battere fiaccamente i pugni e a sghignazzare. Ogni tanto, tiro fuori quelle risate dalla mia memoria e le riascolto... ma non molto spesso, perché sono registrazioni che si rovinano in fretta. Alla fine ripiegammo su grandi sorrisi ansanti, e io l'aiutai a rialzarsi in piedi. — Che posto orribile — dissi, ridacchiando ancora. Lei si guardò intorno e rabbrividì. — Oh, Dio, è vero, Charlie. Dev'essere spaventoso, aver bisogno di una facciata del genere. — Per un momento ho pensato che ne avessi bisogno tu. Shara ridiventò seria e mi guardò negli occhi. — Charlie, vorrei essere capace di offendermi di quel che hai detto. In un certo senso ne ho bisogno. Socchiusi le palpebre. — Cosa vorresti dire? — Ho bisogno di Bryce Carrington. — Questa volta puoi aggiungere le precisazioni. In che senso hai bisogno di lui? — Ho bisogno del suo denaro — gridò lei. Com'è possibile essere rilassati e tesi nello stesso istante? — Oh, accidenti, Shara! È così che otterrai di ballare? È il modo per pagarti un biglietto d'accesso? Quanto pretendono i critici, di questi tempi? — Charlie, smettila. Ho bisogno di Carrington per farmi vedere. Mi affitterà una sala, ecco tutto. — Se è tutto qui, usciamo subito da questa topaia. Posso farmi prest... posso disporre del denaro sufficiente per affittarti qualunque sala del mondo, e sono dispostissimo a rischiare. — Puoi procurarmi le Skyfac? — Uh? Non riuscivo assolutamente a immaginare perché si proponesse di andare a ballare allo Skyfac. Perché non nell'Antartide, allora? — Shara, dello spazio ne sai anche meno di me, ma dovresti sapere che non è necessario che una trasmissione via satellite venga realizzata su un satellite.
— Idiota. È l'ambiente che mi serve. Ci pensai sopra. — La Luna sarebbe meglio, visualmente. Le montagne. La luce. Il contrasto. — L'aspetto visuale è secondario. Non voglio una gravità d'un sesto, Charlie. Voglio la gravità zero. La guardai a bocca aperta. — E voglio che tu sia il mio video-man. Dio, era incredibile. Sentivo il bisogno di restare cosi a bocca aperta e di riflettere per parecchi minuti. Lei mi lasciò fare, e aspettò pazientemente che avessi finito. — Il peso non è più un verbo, Charlie — mi disse poi. — Quella danza si concludeva con l'affermazione che non si può vincere la gravità... lo dicesti tu stesso. Bene, quell'affermazione è inesatta... superata. La danza del ventunesimo secolo dovrà prenderne atto. — Ed è appunto ciò che ti occorre per farcela. Un nuovo tipo di danza per una ballerina di tipo nuovo. Unico. Colpirà il pubblico, e tu dovresti avere per anni l'intero campo tutto per te. Mi piace, Shara. Mi piace. Ma potrai farcela? — Ho pensato a quel che dicesti tu: non puoi battere la forza di gravità, ma è bello tentare. Mi è rimasto nella mente per mesi, e poi un giorno sono andata a trovare un vicino che aveva la TV e ho visto un servizio su una squadra al lavoro allo Skyfac Due. Sono rimasta sveglia tutta la notte a pensarci, e l'indomani mattina sono venuta negli Stati Uniti e ho trovato un posto allo Skyfac Uno. Sono stata lassù per quasi un anno, per avvicinarmi a Carrington. Posso farcela, Charlie, posso farcela. — Aveva stretto i denti in un modo che avevo visto già una volta... quella volta che mi aveva risposto male a Le Maintenant. Era un segno di decisione incrollabile. Comunque, io aggrottai la fronte. — Con l'appoggio di Carrington. Shara distolse gli occhi. — I pranzi gratis non esistono.. — Lui quanto si fa pagare? Rimase zitta abbastanza a lungo perché quel silenzio fosse una risposta. In quel momento ricominciai a credere in Dio per la prima volta dopo tanti anni, solo per poterlo odiare. Però tenni la bocca chiusa. Lei era abbastanza grande per amministrare da sola le sue finanze. Il prezzo d'un sogno continua a salire ogni anno. Diavolo, me l'ero quasi aspettato fin dal momento che mi aveva chiamato. Ma solo quasi. — Charlie, non startene lì con quella faccia contratta. Di' qualcosa. Urla,
dammi della puttana, qualcosa. — Sciocchezze. Non sono la tua coscienza: faccio già fatica ad essere la mia. Vuoi ballare, hai uno sponsor. E adesso hai un video-man. Quell'ultima frase non avevo nessuna intenzione di dirla. Stranamente, all'inizio sembrò quasi che la deludesse. Ma poi si rilassò e sorrise. — Grazie, Charlie. Puoi liberarti subito di quello che stai facendo? — Lavoro per una stazione TV educativa di Shediac. Ho persino dovuto registrare un servizio sulla danza. Un orso ballerino dello Zoo di Londra. La cosa sorprendente è che ballava bene. — Shara sorrise. — Posso liberarmi. — Benissimo. Non credo che potrei farcela senza il tuo aiuto. — Ma lavorerò per te. Non per Carrington. — D'accordo. — Dov'è il grand'uomo, comunque? A fare il sommozzatore nella vasca da bagno? — No — disse una voce tranquilla, dalla porta. — Ero a fare i lanci col paracadute nell'atrio. La poltrona a rotelle era un trono mobile. Lui aveva addosso un abito da quattrocento dollari color gelato alla fragola, un maglione azzurro-polvere e un orecchino d'oro. Le scarpe erano di vero cuoio. L'orologio era quel modello nuovo senza cinturino che ti dice l'ora, letteralmente. Non era abbastanza alto per Shara e aveva le spalle assurdamente larghe, sebbene il vestito cercasse di nascondere l'uno e l'altro. Gli occhi sembravano due mirtilli. Il sorriso era quello d'uno squalo che si chiede quale parte sarà più saporita. Avrei voluto schiacciargli la testa fra due macigni. Shara si alzò. — Bryce, questo è Charles Armstead. Ti ho detto... — Oh, sì. Quello del video. — Lui avanzò con la poltrona a rotelle e mi porse una mano curatissima. — Sono Bryce Carrington, Armstead. Io rimasi seduto, con le mani sulle ginocchia. — Oh, sì. Quello ricco. Alzò educamente un sopracciglio. — Ah, un altro tipo maleducato. Bene, se è bravo quanto dice Shara, ha il diritto di esserlo. — Sono un cane. Il sorriso sparì. — Finiamola con queste schermaglie, Armstead. Non pretendo belle maniere dalla gente creativa, ma se è necessario ho una riserva di disprezzo più significativa della sua. Ora sono stanco di questa maledetta gravità e ho passato una giornata faticosa testimoniando per un amico, e a quanto sembra hanno intenzione di richiamarmi anche domani. Vuole questo lavoro o no?
Mi aveva messo con le spalle al muro. Lo volevo. — Già. — Allora d'accordo. La sua stanza è la 2772. Fra due giorni torneremo allo Skyfac. Si trovi qui alle otto del mattino. — Avrò bisogno di parlarti del materiale che ti servirà, Charlie — disse Shara. — Chiamami domani. Mi girai di scatto verso di lei, e Shara evitò il mio sguardo. Carrington non se ne accorse. — Sì, prepari un elenco di tutto il materiale che le occorre, prima di domani, così lo porteremo con noi. Non badi a spese... Se non chiede qualcosa, dovrà farne a meno. Buonanotte, Armstead. Mi voltai verso di lui. — Buonanotte, Mr. Carrington. — Signore. Carrington guardò il narghilé e Shara si affrettò a riempirlo di nuovo. Girai sui tacchi e mi avviai alla porta. La gamba mi faceva tanto male che per poco non caddi, ma strinsi i denti e ce la feci. Quando arrivai alla porta, dissi a me stesso: adesso l'aprirai e uscirai, e invece girai di nuovo sui tacchi. — Carrington! Sbatté le palpebre, sorpreso di scoprire che esistevo ancora. — Sì? — Si rende conto che Shara non l'ama affatto? Non le importa niente? — Avevo alzato la voce e senza dubbio stringevo i pugni. — Oh — disse lui, e poi ripeté: — Oh. Dunque è così. Immaginavo che il successo, da solo, non bastasse a spiegare tanto disprezzo. — Posò il bocchino del narghilé e intrecciò le dita. — Mi permetta di dirle una cosa, Armstead. Nessuno mi ha mai amato, che io sappia. Questo appartamento non mi ama. — Per la prima volta la sua voce assunse un tono umano. — Ma è mio. Ora se ne vada. Aprii la bocca per dirgli cosa poteva farsene del lavoro che mi era stato offerto, ma poi vidi la faccia di Shara e la sua espressione addolorata mi riempì di vergogna. Me ne andai subito e quando la porta si chiuse dietro di me vomitai su un tappeto che valeva poco meno di un'Hamilton Masterchrome Board. Mi pentii di aver messo la cravatta. Il viaggio fino al Pike's Peak Spaceport, almeno, fu esteticamente piacevole. Mi piace viaggiare in aereo, scivolare tra le nubi maestose, guardare la processione ondulata delle montagne e delle pianure con il mosaico dei campi e dei sobborghi che si rivela sotto di me. Ma il tragitto fino allo Skyfac a bordo dello shuttle personale di Carrington, That First Step, sembrava una replica di un vecchio telefilm dei Commandos Spaziali. Lo so che non possono mettere oblò nelle navi spa-
ziali... ma accidenti, un televisore a circuito chiuso non offre risoluzione, valori cromatici e presenza più della TV di casa vostra. Le uniche differenze sono che le stelle non si «muovono» per dare l'illusione del viaggio, e non c'è un regista che effettui il montaggio della registrazione per offrire scene sensazionali. Esteticamente parlando. La differenza esperienziale è che quando guardate i Commandos Spaziali non vi vendono rimedi contro le emorroidi, non vi legano a un divano, non vi aggrediscono con i tuoni, non vi fanno pesare più di mezza tonnellata per un tempo irragionevolmente lungo e poi non vi lanciano dall'orlo del mondo in condizioni d'imponderabilità. Io quasi mi aspettavo la nausea, ma quello che venne fu ancora più sconvolgente: l'improvvisa, inattesa, totale assenza di dolore alla gamba. In quanto a questo, Shara stava peggio di me: riuscì appena in tempo ad aprire il sacchetto per vomitarci dentro. Carrington si slegò e le fece un'iniezione antinausea con movimenti sicuri. Sembrò passare un'eternità prima che le facesse effetto; ma quando lo fece il cambiamento fu enorme... il colore e la forza ritornarono rapidamente, e Shara si era ripresa completamente quando il pilota annunciò che stavamo per attraccare e pregò tutti di allacciare le cinture di sicurezza e di star zitti. Quasi mi aspettavo che Carrington latrasse per ricordargli le buone maniere, ma evidentemente il magnate non era tanto stupido. Stette zitto e si legò. La gamba non mi faceva male. Neppure un po'. Il complesso Skyfac sembrava un mucchio disordinato di pneumatici per bicicletta e di palloni da spiaggia di varie grandezze. Quello verso cui si diresse il nostro pilota era piuttosto una gomma per trattori. Abbinammo la rotta, diventammo il suo assale e appaiammo la rotazione, e quel coso maledetto estromise una specie di tubo che ci prese direttamente nella camera di compensazione. La camera era «sopra» i nostri divani, ma vi entrammo e ne uscimmo con i piedi in avanti. Dopo qualche metro all'interno del tubo, la direzione in cui ci muovevamo divenne «giù», e le maniglie divennero una scaletta. Il peso aumentava ad ogni passo; ma anche quando arrivammo in un compartimento cubico piuttosto grande, rimase molto inferiore a quella normale della Terra. La mia gamba, comunque, ricominciò a darmi fastidio. La camera cercava d'essere una sala da ricevimento di tipo classico (— Si accomodi, prego. Sua Maestà la vedrà tra poco. —) ma la bassa gravità e le tute pressurizzate appese lungo due pareti rovinavano l'effetto. Diversamente dalle armature dei Commandos Spaziali, una vera tuta pressuriz-
zata sembra un sacco di forma umana e, vuota, ha un'aria particolarmente comica. Un giovane bruno in tweed si alzò da una scrivania attrezzatissima e sorrise. — È un piacere rivederla, Mr. Carrington. Spero che abbia fatto buon viaggio. — Ottimo, Tom. Ricorda Shara, naturalmente. Questo è Charles Armstead. Tom McGillicuddy. — Tutti e due mostrammo i denti e dicemmo che eravamo lieti di far conoscenza. Ma capivo che, nonostante i convenevoli, McGillicuddy era agitato. — Nils e Mr. Longmire la stanno aspettando nel suo ufficio, signore. C'è... c'è stato un altro avvistamento. — Maledizione — cominciò Carrington, e s'interruppe. Lo fissai. Tutta la forza del mio sarcasmo migliore non era riuscita a farlo infuriare. — Sta bene. Si occupi dei miei ospiti mentre vado a sentire cos'ha da dirmi Longmire. — Si avviò verso la porta, muovendosi come un pallone da spiaggia al rallentatore, ma con le sue gambe. — Oh, sì... lo Step è carico di materiale ingombrante, Tom. Lo faccia portare alle rimesse, e faccia mettere l'equipaggiamento nel Magazzino Sei. — Se ne andò. Sembrava preoccupato. McGillicuddy mise in funzione la scrivania e diede gli ordini necessari. — Cosa sta succedendo, Tom? — chiese Shara quando lui ebbe finito. Lui mi guardò, prima di rispondere. — Scusi la domanda, Mr. Armstead, ma... lei è giornalista? — Charlie. No, non lo sono. Sono un video-man, ma lavoro per Shara. — Mmmm. Be', verrà a saperlo comunque, prima o poi. Un paio di settimane fa, sul radar è apparso un oggetto all'interno dell'orbita di Nettuno. Come se fosse apparso dal nulla. C'erano... certe altre anomalie. È rimasto fermo per mezza giornata e poi è sparito di nuovo. Il Comando Spaziale ha imposto il segreto, ma sullo Skyfac lo sanno tutti. — E l'oggetto è stato avvistato di nuovo? — chiese Shara. — Appena al di là dell'orbita di Giove. Il mio interesse era molto relativo. Senza dubbio il fenomeno aveva una spiegazione, e dato che non avevo a portata di mano Isaac Asimov, senza dubbio non ne avrei capito neppure una parola. In maggioranza avevamo rinunciato a credere agli esseri intelligenti non umani quando era ritornata a mani vuote l'ultima sonda intersistema. — Gli ometti verdi, immagino. Può mostrarci il Salone, Tom? Mi sembra di aver capito che è identico a quello dove lavoreremo. McGillicuddy sembrava soddisfatto di poter cambiare discorso. — Sicu-
ro. Ci fece passare da una porta pressurizzata di fronte a quella da cui era uscito Carrington, e per lunghi corridoi con il pavimento che saliva incurvandosi davanti a noi e dietro di noi. Ognuno era attrezzato in modo diverso, ognuno era pieno di gente indaffarata, e ognuno mi ricordava un po' l'atrio del New Age, o forse il vecchio film 2001. Opulenza Futuribile, così discreta che quasi urlava. Wall Street portata in orbita... e gli orologi, infatti, segnavano l'ora di Wall Street. Cercavo di convincermi che lo spazio freddo e vuoto era a pochissima distanza in ogni direzione, ma era impossibile. Pensai che era un bene che le navi spaziali non avessero oblò... quando si abituava alla bassa gravità, un uomo avrebbe potuto dimenticare e aprirne uno per buttar via un sigaro. Studiai McGillicuddy, mentre camminavamo. Era immacolato sotto ogni punto di vista, dalla cravatta alle unghie smaltate, e non portava gioielli. I capelli erano corti e neri, la barba inibita, e gli occhi sorprendentemente calorosi in una faccia professionalmente asettica. Mi chiedevo per quanto aveva venduto l'anima. Mi auguravo che avesse spuntato il prezzo richiesto. Dovemmo scendere due livelli per raggiungere il Salone. La gravità al livello superiore veniva mantenuta a un sesto del normale, un po' per comodità del personale lunare che faceva regolarmente la spola, e soprattutto (ovviamente) per comodità di Carrington. Ma la discesa portò un sottile aumento del peso, fin quasi a un quarto del normale. La mia gamba protestava rabbiosamente, ma scoprii, con mia sorpresa, che preferivo il dolore alla sua assenza. Fa un po' paura, quando un vecchio amico vi abbandona così. Il Salone era molto più grande di quanto mi aspettassi: era abbastanza grande per i nostri scopi. Abbracciava tutti e tre i livelli, e una parete intera era un immenso teleschermo sul quale le stelle turbinavano vertiginosamente, e ogni tanto vi appariva una fetta della Madre Terra. Sul pavimento erano distribuiti gruppi di poltrone e tavolini, ma era facile capire che, togliendoli, Shara avrebbe avuto tutto lo spazio necessario per ballare; e cosa non meno importante, i miei piedi mi dicevano che la superficie sarebbe stata adattissima alla danza. Poi ricordai che il pavimento non sarebbe servito a molto. — Bene — mi disse Shara con un sorriso, — per i prossimi sei mesi, staremo in un ambiente come questo. Il salone del Due è identico. — Sei mesi? — disse McGillicuddy. — Impossibile.
— Come sarebbe a dire? — esclamammo contemporaneamente io e Shara. Lui batté le palpebre, sconcertato. — Ecco, lei potrebbe farcela per tutto quel tempo, Charlie. Ma Shara è già stata più di un anno in condizioni di bassa gravità, quando faceva la dattilografa. — E con questo? — Senta, prevede di restare in condizioni d'imponderabilità per molto tempo, vero, se non ho capito male? — Dodici ore al giorno — disse Shara. McGillicuddy fece una smorfia. — Shara, mi dispiace dirglielo... ma mi sorprenderebbe se resistesse un mese. Un organismo creato per un ambiente a una gravità non funziona a dovere a gravità zero. — Ma si adatterà, no? Lui rise, amaramente. — Sicuro. È per questo che ogni quattordici mesi rimandiamo tutto il personale sulla Terra. Il suo organismo si adatterebbe. A senso unico. Senza possibilità di ritorno. Quando sarà completamente adattata, il ritorno sulla Terra le causerà un arresto cardiaco... se non si verificherà prima qualche altro grosso guasto organico. Senta, è stata sulla Terra per tre giorni... non ha notato dolori al petto? Vertigine? Disturbi intestinali? Nausea durante il viaggio di ritorno? — Tutti quanti — ammise Shara. — Ecco. Quando è partita, era ormai vicina al limite nominale di quattordici mesi. E il suo organismo si adatterà ancora più rapidamente alle condizioni di gravità zero. Il primato di resistenza all'imponderabilità è di novanta giorni: lo stabilì l'equipaggio del primo Skykab... e loro, prima, non avevano passato un anno a un sesto di gravità, e non si affaticavano il cuore come invece farà lei. Diavolo, adesso sulla Luna ci sono quattro uomini, dei dodici della prima squadra mineraria, che non rivedranno più la Terra. Otto dei loro compagni ci provarono. Voi due non sapete niente dello Spazio? — Ma io devo restare almeno quattro mesi. Quattro mesi di lavoro continuo, tutti i giorni. Devo. — Shara era sgomenta, ma si sforzava di controllarsi. McGillicuddy fece per scuotere la testa, poi cambiò idea. Scrutava il viso di Shara. Sapevo esattamente cosa stava pensando, e questo me lo rendeva simpatico. Stava pensando: come si fa a dire a una donna incantevole che il suo sogno più caro è irrealizzabile?
E lui non sapeva tutto. Io sapevo che cosa aveva già investito irrevocabilmente Shara in quel sogno: e qualcosa urlava, dentro di me. E poi la vidi stringere i denti, ed osai sperare. Il dottor Panzarella era un vecchio magro e solido con le sopracciglia che sembravano due bruchi pelosi. Portava una salopette aderente che non si sarebbe impigliata nelle chiusure ermetiche di una tuta pressurizzata se avesse dovuto indossarla in fretta e furia. I capelli lunghi fino alle spalle, che avrebbero formato una criniera intorno alla grossa testa, erano legati strettamente all'indietro, nell'eventualità che la gravità venisse a mancare all'improvviso. Un tipo prudente. Per usare una metafora antiquata, era quel tipo d'uomo che porta le bretelle e la cintura. Visitò Shara, fece esami ed analisi, e le diede poco meno di un mese e mezzo. Shara gli parlò. Io gli parlai. McGillicuddy gli parlò. Panzarella scrollò le spalle, fece altri esami ancora più meticolosi e, con molta riluttanza, rinunciò alle bretelle. Due mesi. Non un giorno di più. Forse meno, a seconda dei successivi controlli delle reazioni dell'organismo di Shara all'imponderabilità protratta. Poi un anno sulla Terra prima che potesse tentare di nuovo. Shara sembrava soddisfatta. Non capivo come avremmo potuto farcela. McGillicuddy ci aveva assicurato che Shara avrebbe impiegato almeno un mese solo per imparare a muoversi con efficienza in gravità zero, figurarsi poi a ballare. La familiarità con un sesto di gravità, disse, sarebbe stata un inconveniente anziché un vantaggio. Poi bisognava calcolare tre settimane per la coreografia e le prove, una settimana di registrazione e forse forse saremmo riusciti a trasmettere una danza prima che Shara dovesse tornare sulla Terra. Non bastava. Io e lei avevamo calcolato che sarebbero stati necessari tre spettacoli successivi, e tutti ben accolti dal pubblico, per schiuderle davvero il mondo della danza. Un anno era troppo... e chi sapeva fra quanto Carrington si sarebbe stancato di lei? Perciò aggredii Panzarella. — Mr. Armstead — ribatté lui, arrabbiatissimo, — il mio contratto mi vieta espressamente di permettere che questa signorina si suicidi. — Fece una smorfia acida. — Mi risulta che sia disastroso per le pubbliche relazioni. — Charlie, va bene così — insistette Shara. — Posso farci stare tre danze. Magari perderemo un po' di sonno, ma possiamo riuscire. — Una volta dissi a un tale che non c'è niente d'impossibile. E lui mi
chiese se ero capace di passare da una porta girevole con gli sci ai piedi. Tu non hai... La mia mente innestò l'hyperdrive, considerò la situazione, si prese varie volte a calci nel sedere, e tornò nel tempo reale in tempo per sentire la mia bocca che diceva, senza interruzioni: — ... molte possibilità di scelta. Bene, Tom, faccia sgombrare quel Maledetto Salone Due. Lo voglio nudo e immacolato. E bisognerà dire a qualcuno che dipinga lo stramaledetto schermo video, della stessa tinta delle altre tre pareti, e voglio dire proprio la stessa. Shara, togliti quei vestiti e metti la calzamaglia. Dottore, ci vedremo fra dodici ore. Tom, la smetta di star lì a bocca aperta e vada... andremo subito là. Dove diavolo sono le mie telecamere? McGillicuddy balbettò. — Mi dia una squadra armata di fiamme ossidriche... voglio che aprano fori nelle pareti, e mettano le telecamere dietro, con finti specchi, in sei posti diversi; voglio una stanza adiacente al Salone per mettere il banco mixer, e una macchina per il caffé imbullonato vicino alla poltroncina. Ho bisogno di un'altra stanza per il montaggio, con privacy completa e oscurità totale, della grandezza di una cucina efficiente, con un'altra macchina per il caffé. Finalmente McGillicuddy mi investì con un torrente di parole. — Mr. Armstead, questo è l'Anello Principale del complesso Skyfac Uno. gli uffici amministrativi di una delle società più ricche che esistano. Se crede che l'intero Anello si metta capovolto per far piacere a lei... E così sottoponemmo il problema a Carrington. Lui disse a McGillicuddy che d'ora in poi l'Anello Due era nostro e che dovevamo avere tutta l'assistenza richiesta. McGillicuddy cercò di dirgli che questo avrebbe ritardato di parecchie settimane l'apertura del complesso Skyfac Due. Carrington rispose, senza alzare la voce, che le addizioni e le sottrazioni sapeva farle anche lui, grazie, e McGillicuddy diventò pallido e stette zitto. Questo devo riconoscerlo, a Carrington. Ci lasciò mano libera. Panzarella si trasferì allo Skyfac Due con noi. Ci scarrozzarono certi tipi d'astronauti a bordo dei veicoli che, figuratevi, sembravano scope gravide. Per fortuna avevamo il dottore... Shara svenne, durante il trasferimento. Poco mancò che svenissi anch'io, e sono sicuro che ancora oggi il manico di scopa conserva l'impronta delle mie cosce... la prima volta, l'esperienza di precipitare nello spazio è spaventosa. Shara reagì magnificamente quando la riportammo al chiuso, e per fortuna non le tornò la nausea... la nausea può essere una seccatura in caduta libera, e un disastro in una tuta pressu-
rizzata. Quando arrivarono le mie telecamere e il banco mixer, lei era di nuovo in piedi e aveva l'aria di vergognarsi un po'. E mentre io assediavo una squadra di tecnici sudati perché installassero tutto più in fretta di quanto non fosse umanamente impossibile Shara incominciò ad imparare a muoversi in gravità zero. Dopo tre settimane eravamo pronti per la prima registrazione. Nell'Anello Due ci avevano preparato l'alloggio e un impianto di supporto vitale ridotto al minimo, in modo che potevamo lavorare ventiquattr'ore su ventiquattro, se volevamo; ma noi passavamo nello Skyfac Uno la metà delle nostre «ore libere» nominali. Ogni settimana, Shara doveva passare tre mezze giornate là con Carrington, e trascorreva gran parte del presunto periodo di riposo fuori nello spazio, con una tuta pressurizzata. All'inizio fu un tentativo voluto di vincere la paura viscerale di tutto quel vuoto. Presto diventò la sua meditazione, il suo rifugio, la sua fantasticheria artificiale, e il tentativo di ricavare dalla contemplazione dei freddi abissi neri una intuizione del significato dell'esistenza extraterrestre abbastanza vivida per poterla esprimere con la danza. Io passavo il tempo litigando con gli ingegneri, gli elettricisti, i tecnici e un imbecille di rappresentante sindacale il quale insisteva che il secondo Salone, finito o non finito, apparteneva al futuro e ipotetico personale. Per ottenere da lui il permesso di lavorare lì mi logorai la gola e i nervi. Passavo troppe notti in uno stato di torpore anziché di sonno. Un piccolo esempio: tutte le pareti interne del maledetto Secondo Anello erano dipinte della stessa identica sfumatura di turchese... e non riuscivo a riprodurla per coprire quel dannatissimo megaschermo video nel Salone. Fu McGillicuddy a salvarmi dall'apoplessia: seguendo il suo suggerimento feci staccare il terzo strato di lattice, togliere la telecamera esterna che metteva in funzione lo schermo, portarla dentro e fissarla in modo che inquadrasse la parete interna di una stanza adiacente. E così ridiventammo amici. Era sempre così: arrangiarsi, improvvisare, limare e verniciare. Se una telecamera si guastava, passavo le ore che avrei dovuto riservare al sonno parlando con gli ingegneri che non erano di turno, per scoprire quali dei pezzi di ricambio esistenti in magazzeno si potevano utilizzare. Sarebbe costato troppo far spedire qualcosa dall'immenso pozzo di gravità della Terra, e sulla Luna quello che mi serviva non esisteva. Shara, comunque, lavorava anche più duramente di me. Un corpo umano deve ricondizionarsi totalmente per funzionare in condizioni d'imponderabilità: lei doveva dimenticare, letteralmente, tutto ciò che aveva saputo o
imparato sulla danza, e acquisire capacità completamente nuove. Fu ancora più difficile di quanto ci aspettassimo. McGillicudy aveva avuto ragione: ciò che Shara aveva imparato durante l'anno trascorso in un sesto di gravità era un tentativo esagerato di conservare modelli terrestri di coordinazione... accantonarli completamente risultò effettivamente più facile per me. Ma non riuscivo a starle dietro... Dovetti abbandonare l'idea di lavorare con una telecamera a mano, e basare interamente i miei piani sulle sei telecamere fisse. Fortunatamente le GLX-5000 hanno una montatura a snodo: anche dietro quei meledetti finti specchi avevo circa quaranta gradi di mobilità per ciascuna. Imparare a coordinarle simultaneamente tutte e sei sull'Hamilton Board mi fece un effetto straordinario: mi portò all'unità con la mia arte. L'ultimo, grande passo. Scoprii che potevo seguire tutti e sei i monitor con l'occhio della mente e avere una percezione quasi sferica, non dividere l'attenzione ma abbracciarli tutti, vedere come un essere a sei occhi da molte angolazioni diverse. L'occhio della mia mente diventò olografico, la mia sensibilità divenne multistrati. Incominciai a comprendere veramente, per la prima volta, la tridimensionalità. Il problema era la quarta dimensione. Shara impiegò due giorni per rendersi conto che non poteva diventare abbastanza efficiente nelle manovre in imponderabilità per reggere un pezzo di mezz'ora nel tempo richiesto. Perciò revisionò il suo piano di lavoro, adattando la sua coreografia alle esigenze pratiche. Incluse sei giorni in condizioni di peso normale della Terra. E anche nel suo caso, lo sforzo la portò avanti di quell'ultimo passo verso l'apoteosi. Il lunedì della quarta settimana incominciammo a registrare Liberazione. Inquadratura di presentazione: Una grande scatola turchese vista dall'interno. Dimensioni sconosciute: ma il colore crea un'impressione d'immensità, di distanze immani. Contro la parete, di fondo, un pendolo oscillante attesta che si tratta di un ambiente a gravità normale: ma il pendolo oscilla così lentamente ed ha linee così essenziali che è impossibile stimarne le dimensioni e quindi estrapolare quelle dell'ambiente. Grazie all'effetto trompe-l'oeil, la stanza sembra alquanto più piccola di quel che è in realtà quando la telecamera arretra e noi veniamo posti nella giusta prospettiva dell'apparizione di Shara, prona, inerte, a faccia in giù sul pavimento, rivolta verso di noi.
Indossa una calzamaglia beige. I capelli, d'uno splendido color mogano, sono pettinati all'indietro in una coda di cavallo che si apre a ventaglio su una scapola. Sembra che non respiri. Sembra che non sia viva. Incomincia la musica. Il vecchio Mahavishnu, su un antiquato acusticon di nylon, stabilisce senza fretta un mi minore. Due piccole candele, nelle semplici bugie di bronzo, appaiono inserite ai due lati della camera. Sono più grandi del normale, sebbene siano piccole in confronto a Shara. Sono spente. Il suo corpo... non ci sono parole per descriverlo. Non si muove, nel senso in cui s'intende l'attività motoria. Si potrebbe dire che vi scorre un fremito, ma il movimento si irradia dal centro verso l'esterno. È come un'onda, appunto, come se tutto il suo corpo traesse il primo respiro della vita. È viva. I due stoppini incominciano a brillare, oh, dolcemente. La musica assume una tranquilla concitazione. Shara solleva la testa verso di noi. I suoi occhi si fissano su qualcosa che sta al di là della telecamera e tuttavia non è l'infinito. Il suo corpo freme, ondeggia, e gli stoppini delle candele sono braci (non ci si accorge che questo ravvivarsi della luce avviene al rallentatore.) Una contrazione violenta la fa sollevare, acquattata, e la coda di cavallo si rovescia sulla spalla. Mahavishnu inizia una cascata ciclica di note, accelerando il tempo. Lingue incerte di fiamma giallo-arancio incominciano a fiorire verso il basso dagli stoppini gemelli, mentre le braci diventano azzurre. Lo scatto della contrazione la scaglia in piedi. Le due gore gemelle delle fiamme intorno agii stoppini si avvolgono su se stesse, si attorcono furiosamente per diventare fiamme convenzionali di candele, che guizzano nuove nel tempo normale. Tablas, tambouras e una chitarra basso si uniscono alla chitarra, e la seguono in un energico intreccio intorno a una settima minore che continua a tentare, invano, di trovare una risoluzione nella sesta. Le candele rimangono in prospettiva, ma rimpiccioliscono fino a scomparire. Shara incomincia a esplorare le possibilità del movimento. Dapprima si muove solo perpendicolarmente alla linea visuale della telecamera, ed esplora quella dimensione. Ogni movimento delle braccia, delle gambe e della testa appare chiaramente come una sfida alla gravità, ad una forza inesorabile come il decadimento radioattivo, l'entropia stessa. Gli slanci più violenti d'energia riescono solo per qualche tempo... le gambe protese ri-
cadono, il braccio proteso si abbassa. Deve lottare o cadere. Indugia, pensosa. Le braccia e le mani si tendono verso la telecamera, e in quel momento tagliamo e passiamo ad una inquadratura da sinistra. Vista da destra, Shara si protende in questa nuova dimensione, e presto incomincia a muoversi in essa. (Mentre arretra uscendo dal campo della telecamera, l'immagine si sposta a destra sul nostro schermo, scacciata dall'immagine di una seconda telecamera, che la inquadra mentre la prima la perde, senza suture visibili.) Anche la nuova dimensione non soddisfa in Shara il desiderio di liberarsi dalla gravità. Tuttavia combinarle entrambe offre tante permutazioni di movimento che per qualche tempo, inebriata, si slancia nella sperimentazione. Per quindici minuti, Shara ricapitola la sua storia nella danza, in un tour de force accecante che incorpora elementi di jazz, danza moderna e gli aspetti più eleganti della ginnastica a corpo libero delle Olimpiadi. Cinque telecamere funzionano, singolarmente o a coppie sullo schermo diviso, mentre tutti i «trucchi» accumulati in un'intera vita di studio e d'improvvisazione vengono riscoperti ed eseguiti da un corpo superbamente addestrato e versatile, in un'esplosione pirotecnica che sarebbe un grido di gioia se la sua espressione non rimanesse distaccata, quasi arrogante. Questa è l'offerta, sembra dire Shara, che voi non avete voluto accettare. Questa, in se stessa, non bastava. E non basta. Anche nell'energia divampante e nel controllo totale, il corpo di Shara ritorna continuamente al compromesso finale della semplice postura eretta, l'ultimo rifiuto di cadere. Serrando i denti, esegue una serie di balzi, sempre più lunghi e sempre più alti. Alla fine sembra librata per interi secondi, e si sforza di volare. Quando, inevitabilmente, ricade, lo fa con riluttanza, e solo all'ultimo istante possibile torna a posare i piedi. I musicisti sembrano presi da una frenesia in crescendo. Ora la vediamo soltanto attraverso la prima telecamera, e le candele gemelle sono riapparse, piccole ma luminose. I balzi diminuiscono d'intensità e d'altezza, e Shara impiega più tempo per preparare ognuno di essi. Sta danzando da quasi venti minuti: mentre le fiammelle delle candele cominciano a impallidire, si dilegua anche la sua forza. Finalmente si ritira sotto il pendolo indifferente, si raccoglie con disperazione e si slancia a corsa verso di noi. Raggiunge un'incredibile velocità in quel tratto brevissimo, si avventa roteando due volte su se stessa e balza in aria su di un piede solo, e un secondo più tardi sembra premere contro l'aria vuota per guadagnare qualche altro centimetro di altezza. Il
suo corpo s'irrigidisce, gli occhi e la bocca si spalancano, le fiamme raggiungono il massimo fulgore, la musica culmina nel gemito tormentato della chitarra elettrica e... e Shara ricade, rotolando appena in tempo, e si rialza soltanto a mezzo. Resta così per un lungo momento, e gradualmente abbandona la testa e le spalle verso il pavimento, sconfitta. Le fiamme delle candele si restringono curiosamente e sembrano sul punto di spegnersi. La chitarra basso continua a suonare, modulando verso un re. Muscolo per muscolo, il corpo di Shara rinuncia alla lotta. L'aria sembra tremolare intorno agli stoppini delle candele, che adesso sono divenute alte quasi quanto la sua figura accasciata. Shara leva il viso verso la telecamera, con uno sforzo evidente. L'espressione è angosciata, gli occhi socchiusi. Un lungo rullo di tamburo. All'improvviso spalanca gli occhi, raddrizza le spalle e si contrae. È la contrazione più squisita e totale mai sognata, registrata a tempo reale ma tale da dar l'impressione di svolgersi al rallentatore. La continua. Mahavishnu riattacca con la chitarra, in un crescendo costruito partendo da una corda di basso a un re con la quarta bemolle. Shara resta immobile. Per la prima volta passiamo a una telecamera in alto, e la guardiamo da una grande altezza. Mentre il pizzicato di Mahavishnu cresce fino a quando l'accordo sembra un ronzio sordo e prolungato, Shara alza lentamente la testa, continuando a mantenere la contrazione, fino a che guarda direttamente verso di noi. Rimane così per l'eternità, come una molla pronta a scattare, caricata al massimo... ... ed esplode verso l'alto, verso di noi, sollevandosi sempre di più, e più rapidamente di quanto potrebbe, in un volo che adesso è al rallentatore, e si avvicina, si avvicina fino a quando le mani spariscono ai lati e il suo viso riempie lo schermo, fiancheggiato da due candele che in un momento sono sbocciate in sprazzi di fiamma gialla. La chitarra e la chitarra basso vengono sommerse in un'orchestra. Quasi immediatamente, lei piroetta allontanandosi da noi, e l'inquadratura torna alla prima telecamera: la vediamo slanciarsi dall'altezza di dietri metri verso il pavimento, invertire l'assetto a mezz'aria e guizzare. Esce dall'avvolgimento in una traiettoria assolutamente piatta che la porta attraverso l'intera lunghezza della sala. Urta la parete di fondo con un tonfo che si ode nonostante la musica, e frantuma il pendolo immobile. Le sue cosce assorbono l'energia cinetica e poi la liberano, e ancora una volta corre verso di noi, con i capelli distesi orizzontalmente dietro di lei e un gran sorriso di trionfo che ingigantisce sullo schermo.
Nei cinque minuti successivi tutte e sei le telecamere tentano invano di seguirla mentre sfreccia nella sala immensa come un colibrì che cerca di uscire da una gabbia, usando le pareti, il pavimento e il soffitto come un maestro di jai alai, esistendo in tre dimensioni. La gravità è vinta. L'assunto fondamentale d'ogni forma di danza è spezzato. Shara è trasformata. Finalmente si ferma nel centro verticale, in primo piano entro il cubo di turchese, con le braccia, le gambe, le dita, i piedi, il viso protesi verso l'esterno, girando dolcemente su se stessa. Le quattro telecamere puntate su di lei si spartiscono lo schermo, l'orchestra si risolve nel mi maggiore finale e... si dissolve. Non avevo il tempo né l'attrezzatura per creare gli effetti speciali che voleva Shara. Perciò inventai vari modi per piegare la realtà alle mie esigenze. Il mio segmento delle candele era l'inquadratura sdoppiata d'una candela sola che veniva spenta dall'alto... all'ultrarallentatore e a rovescio. Il secondo segmento era una semplice registrazione della realtà. Avevo acceso la candela, avevo incominciato a registrare... e avevo fatto arrestare la rotazione dell'Anello. Una candela si comporta in modo strano, a gravità zero. I gas della combustione a bassa densità non di sollevano dalla fiamma, permettendo all'aria di raggiungerla dal basso. La fiamma non si spegne: si addormenta. Basta ristabilire la gravità dopo un minuto o due, perché sbocci e riprenda vita. Non feci altro che giocare un po' con le velocità in modo da armonizzarle con la musica e la danza di Shara. Avevo avuto l'idea da un capo-operaio dell'officina di metallurgia dove stavamo realizzando le cose di cui Shara avrebbe avuto bisogno per la sua prossima danza. Montai uno schermo nel Salone dell'Anello Uno, e tutti quelli dello Skyfac che potevano abbandonare il lavoro si affollarono per assistere alla trasmissione. Videro esattamente ciò che veniva irradiato in collegamento mondiale via satellite (Carrington aveva abbastanza influenza per ottenere venticinque minuti filati senza interruzioni per gli spot pubblicitari) circa mezzo secondo prima che il mondo lo vedesse. Per tutto il tempo della trasmissione rimasi in Sala Comunicazioni a rodermi le unghie. Ma andò tutto liscio, e spensi il banco e arrivai nel Salone in tempo per assistere all'ultima metà dell'ovazione. Shara era in piedi davanti allo schermo, con Carrington seduto a fianco, e pensai che la diversità delle loro espressioni era istruttiva. Il viso di lei non rivelava sorpresa o
modestia. Aveva sempre avuto fiducia in se stessa, aveva approvato quel nastro per la trasmissione... sapeva, con il distacco incredibile di cui sono capaci pochissimi artisti, che quell'applauso frenetico era pienamente meritato. Ma il suo volto mostrava che era profondamente sorpresa, e profondamente grata, di ricevere ciò che le spettava. Carrington, invece, rivelava un trionfo stranamente misto a sollievo. Anche lui aveva avuto fiducia in Shara, e l'aveva appoggiata con un cospicuo investimento... ma la sua fiducia era quella di un uomo d'affari in una speculazione che può rendere bene, e mentre gli osservavo gli occhi e la fronte sudata, mi resi conto che nessun uomo d'affari corre un rischio dispendioso senza temere che possa essere il fiasco dal quale avrà inizio la perdita dell'unica cosa essenziale per lui: la faccia. Vedere quel tipo di trionfo accanto al trionfo di Shara mi rovinò il momento; e anziché tripudiare per Shara mi accorsi che quasi la odiavo. Lei mi scorse e si sbracciò per segnalarmi di raggiungerla di fronte alla folla plaudente, ma io girai sui tacchi e mi lanciai letteralmente fuori dalla sala. Mi feci prestare una bottiglia dal capo-operaio dell'officina metallurgica e presi una sbronza memorabile. L'indomani mattina mi sentivo la testa come se fosse un fusibile da quindici ampere in un circuito da quaranta, e mi sembrava che soltanto la tensione superficiale riuscisse a tenermi insieme. I movimenti improvvisi mi facevano paura. È una brutta caduta, da quel carro, anche in un sesto di gravità. Il telefono squillò (non avevo avuto il tempo di modificarlo) e un giovane che non conoscevo annunciò compitamente che Mr. Carrington voleva vedermi nel suo ufficio. Subito. Io risposi alludendo a una supposta di filo spinato e spiegando come poteva usarla, subito, Mr. Carrington. Senza cambiare espressione, il giovane ripeté il messaggio e tolse la comunicazione. Perciò m'infilai nei vestiti, decisi di farmi crescere la barba, e uscii. Lungo il percorso mi domandai per che cosa avevo barattato la mia indipendenza, e perché. L'ufficio di Carrington era d'un buon gusto opprimente, ma almeno l'illuminazione era smorzata. La cosa migliore era che il sistema di filtraggio assorbiva il fumo... nell'aria c'era l'odore dolce e muschiato della marijuana. Accettai da Carrington un microspinello di «Maoi-Zowie» quasi con gratitudine e incominciai a liberarmi dei postumi della sbronza. Shara era seduta accanto alla scrivania, e portava una calzamaglia a un
velo di sudore. Evidentemente aveva passato la mattina a provare la prossima danza. Mi vergognai, e quindi mi stizzii, ed evitai i suoi occhi e il suo saluto. Panzarella e McGillicuddy entrarono dietro di me, parlando del più recente avvistamento dell'oggetto venuto dallo spazio, che stavolta era ricomparso nelle vicinanze di Mercurio. Stavano discutendo se aveva dato o no segno di intelligenza senziente, e io avrei tanto desiderato che stessero zitti. Carrington attese fino a quando tutti ci fummo seduti e avemmo acceso gli spinelli, poi si appoggiò alla scrivania e sorrise. — Allora, Tom? McGillicuddy sorrise. — Meglio del previsto, signore. Secondo tutte le stime, abbiamo avuto circa il 74% del pubblico mondiale... — Al diavolo le stime — scattai io. — Che cos'hanno detto i critici? McGillicuddy sbatté gli occhi. — Ecco, finora la reazione generale è che Shara è uno schianto, il Times... L'interruppi di nuovo. — Qual è stata la reazione men che generale? — Ecco, non c'è mai un'unanimità assoluta. — Sia più preciso. I critici della danza? Liz Zimmer? Migdalski? — Uh. Non proprio entusiasti. Elogi, certo... solo un cieco avrebbe potuto stroncare lo spettacolo. Ma elogi guardinghi. Uh, la Zimmer l'ha definita una danza magnifica rovinata dal trucco finale. — E Migdalski? — insistetti. — Ha intitolato la recensione: «Che cosa non si farebbe per un bis?» — ammise McGillicuddy. — La sua tesi fondamentale è che si è trattato di un affascinante caso unico. Ma il Times... — Grazie, Tom — disse Carrington senza alzare la voce. — È più o meno quello che ci aspettavamo, no, mia cara? Molto chiasso, ma nessuno è ancora disposto a parlare di una marea travolgente. Shara annuì. — Ma lo faranno, Bryce. Le prossime due danze saranno decisive. Panzarella intervenne. — Miss Drummond, posso chiederle perché ha fatto così? Ha usato l'interludio a gravità zero solo come un breve epilogo aggiunto a una danza convenzionale... doveva aspettarsi che i critici avrebbero parlato di un trucco. Shara sorrise: — Per essere sincera, dottore, non avevo scelta. Sto imparando a servirmi del mio corpo in condizioni d'imponderabilità, ma si tratta ancora d'uno sforzo voluto, quasi una pantomina. Ho bisogno di qualche altra settimana perché diventi una seconda natura, ed è necessario, se voglio reggere un intero pezzo in quelle condizioni. Perciò ho tirato fuori dal
baule una danza convenzionale, ho aggiunto un finale di cinque minuti sfruttando tutti i movimenti in gravità zero che conoscevo e con immenso sollievo mi sono accorta che, insieme, avevano un senso tematico. Ho detto a Charlie la mia nozione, e lui l'ha resa operante visualmente e drammaticamente... l'idea delle candele è stata sua, e sottolineava ciò che stavo cercando di esprimere meglio di qualunque set che avremmo potuto creare. — Quindi non ha ancora completato ciò che è venuta a fare quassù? — chiese Panzarella. — Oh, no. No, assolutamente. La prossima registrazione mostrerà al mondo che la danza è qualcosa di più di una caduta controllata. E la terza... la terza sarà il culmine. — Il viso di Shara era luminoso, animato. — La terza danza sarà quella che ho desiderato ballare per tutta la mia vita. Ancora non riesco a immaginarla interamente... ma so che quando sarò capace di eseguirla, la creerò, e sarà la mia danza più grande. Panzarella si schiarì la gola. — Quanto tempo richiederà? — Non molto — rispose lei. — Sarò pronta a registrare la prossima danza fra due settimane, e potrò incominciare l'ultima quasi subito. Con un po' di fortuna, finiremo di registrarla prima che scada il mese. — Miss Drummond — disse Panzarella in tono solenne, — temo che lei non abbia a disposizione un altro mese. Shara diventò bianca come la neve, e io mi alzai a metà dalla sedia. Carrington sembrava incuriosito. — Quanto tempo? — chiese Shara. — Gli ultimi esami non sono molto incoraggianti. Avevo presunto che lo sforzo continuativo delle prove e della danza tendesse a rallentare l'adattamento del suo organismo. Ma lei ha lavorato quasi sempre in condizioni d'imponderabilità totale, e non avevo immaginato fino a che punto il suo organismo sia abituato agli sforzi prolungati... in un ambiente terrestre. — Quanto tempo? — Due settimane. Forse tre, se passerà tre ore ogni giorno a esercitarsi in due gravità. — È ridicolo — sbottai. — Non possiamo fermare e rimettere in moto l'Anello sei volte al giorno, e anche se potessimo Shara rischierebbe di fratturarsi una gamba, in due g. — Ho bisogno di quattro settimane — disse Shara. — Mi dispiace, Miss Drummond. — Ho bisogno di quattro settimane. Panzarella aveva la stessa aria di sofferenza impotente che a tempo debi-
to avevamo avuto anch'io e McGillicuddy, e io ne avevo abbastanza di un universo in cui la gente doveva continuare a guardare Shara in quel modo. — Maledizione — ruggii. — Ha bisogno di quattro settimane! Panzarella scrollò la testa lungichiomata. — Se rimane in gravità zero per quattro settimane di lavoro, può morire. Shara si alzò di scatto dalla sedia. — Allora morirò — esclamò. — Sono disposta a correre il rischio. Devo farlo. Carrington tossì. — Purtroppo non posso permettertelo, tesoro. Lei si voltò di scatto, furiosamente. — La tua danza è un'eccellente pubblicità per lo Skyfac — disse Carrington con calma. — Ma se dovesse ucciderti avrebbe un effetto boomerang, non credi? Lei mosse le labbra, lottando disperatamente per dominarsi. A me girava la testa. Morire? Shara? — Inoltre — soggiunse Carrington, — mi sono affezionato a te. — Allora resterò quassù, in condizioni di bassa gravità — sbottò lei. — Dove? L'unica area dove l'imponderabilità è continua è quella delle fabbriche, e tu non sei qualificata per lavorarci. — Allora, per amor di Dio, assegnami una delle piccole sfere nuove, Bryce, ti renderò per il tuo investimento molto più di una fabbrica e... Shara cambiò tono. — E sarò sempre disponibile per te. Lui sorrise pigramente. — Sì, ma potrebbe darsi che io non ti volessi per sempre, tesoro. Mia madre mi ha sconsigliato di prendere decisioni irrevocabili per quanto riguarda le donne. Soprattutto nei legami non ufficiali. Inoltre, ho notato che il sesso a gravità zero è troppo sfibrante, come dieta invariabile. Io avevo quasi ritrovato la voce, ma a questo punto la persi di nuovo. Ero contento che Carrington la rifiutasse... ma il modo in cui lo faceva mi metteva addosso la voglia di bere il suo sangue. Anche Shara restò ammutolita per un po'. Quando parlò, lo fece a voce bassa e intensa, quasi supplichevole. — Bryce, è questione di tempismo. Se trasmetto altre due danze nelle prossime quattro settimane, avrò un mondo al quale potrò tornare. Se dovrò trasferirmi sulla Terra e attendere un anno o due, la terza danza affonderà senza lasciar traccia... nessuno la guarderà, e nessuno ricorderà le prime due. È la mia unica possibilità, Bryce... lascia che corra il rischio. Panzarella non può garantire che quattro settimane mi uccideranno. — Non posso garantirle che sopravviverà — disse il dottore.
— Non può garantire che nessuno di noi arriverà vivo fino a sera — ribatte lei. Si voltò di nuovo verso Carrington, l'inchiodò con gli occhi. — Bryce, lasciami rischiare. — Con uno sforzo immenso sfoggiò un sorriso che mi trafisse il cuore come una coltellata. — Farò in modo che non debba pentirtene. Carrington assaporò quel sorriso e quella resa totale come se stesse assaggiando un ottimo Boredaux. Io avrei voluto ammazzarlo con le mani e coi denti, e pregavo che aggiungesse la crudeltà finale di un rifiuto. Ma avevo sottovalutato la sua vera capacità di essere crudele. — Continua le prove, mia cara — disse finalmente lui. — Prenderemo una decisione definitiva quando verrà il momento. Dovrò pensarci sopra. Non credo d'essermi mai sentito così disperato, così impotente in tutta la mia esistenza. Sebbene sapessi che era inutile, dissi: — Shara, non posso lasciare che rischi la vita... — Lo farò, Charlie — m'interruppe. — Con te o senza di te. Nessun altro conosce abbastanza bene il mio lavoro per registrarlo come si deve, ma se vuoi chiamarti fuori non posso fermarti. — Carrington mi osservava con distaccato interesse. — Dunque? Io dissi una parolaccia. — Conosci già la risposta. — Allora mettiamoci al lavoro. I novellini vengono trasportati sulle scope gravide. I veterani si aggrappano fuori dalla camera di compensazione, tenendosi appesi per le maniglie alla superficie esterna dell'Anello rotante. Stanno rivolti nella direzione della rotazione e, quando la loro meta compare sotto l'orizzonte, si lasciano andare. I razzi di spinta inseriti nei guanti e negli stivali servono per effettuare le necessarie correzioni di rotta. Non si tratta di grandi distanze. Io e Shara, dopo aver trascorso nell'imponderabilità più ore di tanti tecnici che erano allo Skyfac da anni, eravamo veterani. Facevamo un uso sobrio ed efficiente dei razzi di spinta, soprattutto per controbilanciare l'energia impartitaci dalla rotazione dell'Anello quando l'abbandonavamo. Avevamo microfoni a gola e ricevitori auricolari, ma non conversammo durante la traversata del vuoto. Io impiegai il tragitto contemplando il vuoto stellato attraverso il quale cadevo (avevo finito per capire il fascino del paracadutismo) e domandandomi se mi sarei mai abituato all'interruzione del dolore alla gamba. In quei giorni, sembrava che dolesse meno persino sotto l'effetto della rotazione. Atterrammo, con molta meno forza di un paracadutista, sulla superficie
del nuovo studio. Era un enorme globo d'acciaio, costellato di pannelli solari e di congegni per la dispersione del calore, legato ad altre tre sfere in diversi stadi di costruzione, sulle quali stavano lavorando già adesso innumerevoli figure in tuta pressurizzata. McGillicuddy mi aveva detto che il complesso, una volta completato, sarebbe stato usato per «lavorazioni a densità controllata», e quando io avevo commentato «Che bellezza», lui aveva soggiunto: — Polistirolo espanso dispersivo e fusioni a densità variabile, — Come se questo chiarisse tutto. E forse era così. Al momento, comunque, era lo studio di Shara. La camera di compensazione conduceva in un ambiente da lavoro piuttosto piccolo, intorno a una sfera interna d'una cinquantina di metri di diametro. Era pressurizzata anche quella, ed era destinata a contenere il vuoto, ma i portelli stagni erano aperti. Ci togliemmo le tute, e Shara prese i bracciali a razzo da un supporto e li mise, tenendosi appesa alla trave per i piedi. Poi mise le cavigliere. Come gioielli erano un po' ingombranti... ma ognuno di essi aveva un'autonomia di venti minuti, e il loro funzionamento non era visibile in condizioni di atmosfera e d'illuminazione normali. Senza quelli, la danza a gravità zero sarebbe stata molto più difficile. Mentre stava affibbiando l'ultimo cinturino, mi lanciai davanti a lei e mi aggrappai alla trave. — Shara... — Charlie, posso farcela. Sono disposta a far ginnastica in tre gravità, e dormirò in due, e il mio organismo durerà. So di potercela fare. — Potresti saltare Massa è un verbo e passare direttamente a Stardance. Scrollò la testa. — Non sono ancora pronta... e non lo è neppure il pubblico. Devo guidare me stessa e gli spettatori, attraverso una danza in una sfera, in uno spazio chiuso, prima di essere pronta a ballare nello spazio vuoto e prima che loro riescano ad apprezzarlo. Devo liberare la mia mente e la loro da quasi tutti i pregiudizi sulla danza, devo cambiare i postulati. Già due stadi sono pochi... ma sono il minimo irriducibile. — I suoi occhi si addolcirono. — Charlie, devo farlo. — Lo so — dissi in tono burbero, e mi voltai dall'altra parte. Le lacrime sono una scocciatura, in condizioni d'imponderabilità... non vanno da nessuna parte. Incominciai a trascinarmi intorno alla superficie della sfera interna, verso la postazione della telecamera sulla quale stavo lavorando, e Shara entrò nella sfera e incominciò le prove. Io pregavo, mentre lavoravo con il mio equipaggiamento, snodando i cavi fra le travi di supporto e collegandoli ai terminal fluttuanti. Per la prima volta dopo tanti anni pregavo, pregavo che Shara ce la facesse. Che
ce la facessimo tutti e due. I dodici giorni che seguirono furono i più duri della mia vita. Shara lavorava il doppio di me. Passava metà della giornata nello studio, parte del resto a far ginnastica in due gravità e un quarto (il massimo consentito dal dottor Panzarella) e l'altra parte nel letto di Carrington, cercando di farlo contento perché le permettesse di protrarre il tempo limite. Forse, nelle poche ore che rimanevano, dormiva. So soltanto che non aveva mai l'aria stanca, non smarriva mai la compostezza e la sua decisione ostinata. Cocciutamente, con riluttanza, il suo corpo perdeva la goffaggine, acquistava eleganza persino in un ambiente dove la grazia richiedeva una concentrazione enorme. Come un bambino impara a camminare, Shara imparava a volare. Io incominciavo ad abituarmi all'assenza del dolore alla gamba. Che cosa posso dirvi di Massa, se non l'avete vista? È impossibile descriverla, anche male, in termini meccanici, così com'è impossibile scrivere a parole una sinfonia. La terminologia convenzionale della danza, a causa dei suoi assunti insiti, è peggio che inutile, e se conoscete un po' la nuova nomenclatura dovete conoscere Massa è un verbo, dalla quale i suoi assunti. Non posso dir molto degli aspetti tecnici di Massa. Non c'erano effetti speciali: non c'era neppure la musica. Il superbo spartito di Brindle fu composto ispirandosi alla danza, e fu aggiunto alla registrazione, con il mio consenso, due anni dopo; ma il Premio Emmy lo vinsi per la versione originale, muta. Il mio contributo, a parte il montaggio e l'installazione dei due trampolini, consistette nel camuffare le batterie di sorgenti luminose ad ampia dispersione in grappoli intorno all'occhio d'ogni telecamera, e nel collegarle in modo che si energizzassero soltanto quando erano fuori campo della camera in funzione al momento... in modo che Shara fosse sempre illuminata di fronte e presentasse due ombre, non sempre congruenti. Non tentai neppure di ricorrere ad acrobazie con le telecamere: registrai semplicemente Shara che danzava, cambiando soggettiva solo quando la cambiava lei. No, Massa è un verbo può essere descritta solo in termini simbolici, e comunque male. Posso dire che Shata dimostrava che la massa e l'inerzia possono, come la gravità, offrire il conflitto dinamico indispensabile alla danza. Posso dirvi che da esse lei distillava una specie di danza che poteva essere stata immaginata soltanto da un gruppo formato da un acrobata, un
cascatore, uno scrittore e una ballerina subacquea. Posso dirvi che Shara abbatteva l'ultimo diaframma tra se stessa e la totale libertà di movimento, piegando il suo corpo alla sua volontà, e lo spazio alle sue esigenze. E anche così, vi avrò detto ben poco. Perché Shara cercava qualcosa di più della libertà... cercava il significato. Massa era, dopotutto, un evento spirituale. Shara faceva diventare il confronto umano con l'esistenza un atto transitivo, un andare letteralmente incontro a Dio. Non voglio dire che la sua danza si rivolgeva a un Dio esteriore, a un'entità separata con o senza la barba bianca. La sua danza si rivolgeva alla realtà, dava espressione successivamente ai Tre Interrogativi Eterni formulati da ogni essere umano che mai sia vissuto. La sua danza osservava il suo io e chiedeva: — Come sono qui? La sua danza osservava l'universo nel quale esisteva l'io e chiedeva: — Come mai tutto questo è qui con me? E infine, osservando il suo io in relazione all'universo: — Perché sono così sola? E dopo aver formulato questi interrogativi, dopo averli formulati ardentemente con ogni muscolo e ogni tendine, si soffermava, librata al centro della sfera, con il corpo e l'anima spalancati all'universo: e quando non giungeva nessuna risposta, si contraeva. Non nello stesso modo drammatico di Liberazione; non era una compressione dell'energia e della tensione. Fisicamente era simile, ma era un fenomeno completamente diverso. Era una messa a fuoco interiore, un atto d'introspezione, un volgersi dell'occhio della mente (dell'anima?) verso se stesso, per cercare risposte che altrove non c'erano. Perciò anche il suo corpo sembrava ripiegarsi su se stesso, compattare la propria massa, con tanta perfezione che la sua posizione nello spazio non ne risultava turbata. E cercando in se stessa, Shara si chiudeva su un vuoto. C'era la dissolvenza della telecamera che la lasciava sola, rigida, incapsulata, smaniosa. La danza finiva, senza dare risposta ai tre interrogativi, senza risolvere la tensione. Solo l'espressione d'attesa paziente sul suo viso smussava il filo tagliente della non-conclusione, la rendeva sopportabile: un piccolo segnale benedetto che sussurrava: — Il seguito alla prossima puntata. Il diciottesimo giorno finimmo di registrare, nella forma grezza. Immediatamente, Shara non ci pensò più e incominciò a preparare la coreografia di Stardance, ma io passai due giornatacce al montaggio prima d'essere pronto a dare il benestare per la trasmissione. Mancavano quattro giorni al-
la mezz'ora in prima serata che Carrington s'era procurato... ma non era quella, la scadenza che mi ossessionava. McGillicuddy venne nella stanza dove stavo lavorando al montaggio, e non disse una parola, sebbene vedesse le lacrime che mi scorrevano sulla faccia. Feci girare il nastro e lui guardò in silenzio, e presto incominciò a piangere anche lui. Quando il nastro aveva finito di girare ormai da un pezzo disse, a voce bassa: — Uno di questi giorni dovrò abbandonare questo lavoro schifoso. Io tacqui. — Facevo l'istruttore di karaté. Ero bravo. Potrei riprendere a insegnare e magari fare qualche esibizione, e guadagnare il dieci per cento di quel che guadagno adesso. Io tacqui. — Tutto il maledetto Anello è pieno di microfoni nascosti, Charlie. Dalla scrivania del mio ufficio si può attivare e spiare tutti i videotelefoni dello Skyfac. Quattro alla volta, anzi. Io tacqui. — Vi ho visti tutti e due nella camera di compensazione, quando siete rientrati l'ultima volta. Ho visto che lei è crollata. Ho visto che tu la portavi di peso. L'ho sentita quando ti ha fatto promettere di non dirlo al dottor Panzarella. Attendevo. Incominciava a spuntare una speranza. McGillicuddy si asciugò le lacrime. — Ero venuto ad avvertirti che stavo andando da Panzarella per riferirgli quello che ho visto. Lui convincerebbe Carrington a rimandarla immediatamente a casa. — E adesso? — chiesi. — Adesso ho visto la registrazione. — E sai che probabilmente Stardance la ucciderà? — Sì. — E sai che dobbiamo lasciarla fare? — Sì. La speranza si spense. — Allora vattene e lasciami lavorare. Se ne andò. A Wall Street e nello Skyfac era pomeriggio inoltrato quando finii il montaggio in modo soddisfacente. Chiamai Carrington, gli dissi di aspettarmi tra mezz'ora, mi feci la doccia e la barba, mi vestii e andai. Quando arrivai da lui era in compagnia di un maggiore del Comando
Spaziale, ma non lo presentò e quindi lo ignorai. C'era anche Shara: indossava qualcosa che sembrava fatto di fumo arancione e che le lasciava scoperti i seni. Evidentemente era stato Carrington a farglielo mettere, con lo stesso spirito con cui un monello scrive parolacce oscene su un altare, ma lei lo portava con una strana dignità che, lo intuivo, doveva indispettirlo. La guardai negli occhi e sorrisi. — Salve, piccola. La registrazione è venuta bene. — Vediamo — disse Carrington. Lui e il maggiore sedettero dietro la scrivania, e Shara sedette accanto. Misi il nastro nel proiettore video incorporato nella parete dell'ufficio, abbassai le luci e sedetti di fronte a Shara. La registrazione andò avanti per venti minuti, ininterrottamente, senza sonoro. Era grandiosa. «Sgomento» è una parola strana. Per sgomentarvi, una cosa deve colpirvi in un punto non ancora corazzato dal cinismo. Sembra che io sia nato cinico: mi sono sgomentato tre volte, a quanto ricordo. La prima volta fu quando, a tre anni, scoprii che c'era gente capace di far volutamente del male ai gattini. La seconda fu quando, a diciassette anni, scoprii che c'era gente capace di prendere l'LSD e di far del male ad altri per divertimento. La terza volta fu quando finì Massa è un verbo e Carrington disse, in normalissimo tono decisivo: — Molto piacevole; molto elegante. Mi piace, — e io scoprii, a quarantacinque anni, che c'erano uomini, uomini intelligenti, non cretini, che erano capaci di veder danzare Shara Drummond senza capire. Tutti noi, anche i più cinici, abbiamo sempre qualche illusione che ci è cara. Shara, non so come, lasciò che quel commento le rimbalzasse addosso; ma vidi che il maggiore era sgomento quanto me, e si dominava con un visibile sforzo Approfittando di quell'occasione per distrarmi dall'orrore e dallo sbigottimento, lo studiai con più attenzione, e per la prima volta mi domandai cosa ci faceva lì. Aveva la mia età, era magro e più solido di me, con i capellli cortissimi e argentei e un paio di baffetti ben curati. L'avevo preso per un amico di Carrington, ma tre cose mi fecero cambiare idea. Qualcosa di indefinibile, nei suoi occhi, mi diceva che era un militare con una lunga esperienza in combattimento. Qualcosa di altrettanto indefinibile nel portamento mi diceva che era in servizio. E qualcosa di molto definibile nella piega della sua bocca mi diceva che era disgustato del dovere che doveva compiere.
Quando Carrington continuò — Che ne pensa, maggiore? — in toni educati, il maggiore indugiò un momento, raccogliendo i pensieri e scegliendo le parole. Parlò, ma non si rivolse a Carrington. — Miss Drummond — disse, — io sono il maggiore William Cox, comandante della S.C. Champion, e sono onorato di conoscerla. È la cosa più commovente ed esaltante che abbia mai visto. Shara lo ringraziò, seria. — Questo è Charles Armstead, maggiore Cox. Ha effettuato la registrazione. Cox mi guardò con un rispetto nuovo. — Un lavoro magnifico, Mr. Armstead. — Mi tese la mano e gliela strinsi. Carrington incominciò a rendersi conto che noi tre avevamo in comune qualcosa che lo escludeva. — Sono contento che le sia piaciuto, maggiore — disse senza la minima traccia di sincerità. — Potrà rivederlo sul suo televisore domani sera, se sarà fuori servizio. E naturalmente, a tempo debito saranno disponibili le cassette. Adesso, forse, possiamo tornare al nostro problema. La faccia di Cox si chiuse di colpo, divenne rigida e formale. — Come vuole, signore. Ero perplesso, e cominciai a parlare di quello che pensavo fosse il problema. — Vorrei che questa volta alla trasmissione provvedesse il suo capo delle comunicazioni, Mr. Carrington. Io e Shara saremo troppo occupati per... — Il mio capo delle comunicazioni provvederà alla trasmissione Armstead — m'interruppe Carrington. — Ma non credo che sarete particolarmente occupati. Io ero intontito per il sonno perduto: ci misi un po' di tempo a capire. Carrington toccò la scrivania: — McGillicuddy, venga subito qui — disse ritirando la mano. — Vede, Armstead, lei tornerà immediatamente sulla Terra con Shara. Immediatamente. — Cosa? — Bryce, non puoi — gridò Shara. — Hai promesso. — Ho promesso che ci avrei pensato, mia cara — la corresse lui. — Un accidente. È stato varie settimane fa. Ieri notte hai promesso. — Davvero? Mia cara, non c'erano testimoni presenti stanotte. Ed era meglio così, non sei d'accordo? Io ero ammutolito per la rabbia. Entrò McGillicuddy. — Salve, Tom — disse gentilmente Carrington. — Lei è licenziato. Tornerà immediatamente sulla Terra con Miss Drummond
e Mr. Armstead, a bordo della nave del maggiore Cox. La partenza avverrà tra un'ora, e non dimentichi niente cui è affezionato. — Girò gli occhi da McGillicuddy a me. — Dalla scrivania di Tom si può controllare tutti i videotelefoni di Skyfac. Dalla mia scrivania si può controllare quella di Tom. Shara parlò a voce bassa. — Bryce, due giorni. Maledizione, di qualcosa è il tuo prezzo. Carrington sorrise lievemente. — Mi dispiace, tesoro. Quando è stato informato del tuo svenimento, il dottor Panzarella si è espresso in termini molto precisi. Neppure un giorno. Viva, rappresenti un notevole vantaggio per l'immagine dello Skyfac... sei il mio dono al mondo. Morta, saresti un peso pericoloso. Non posso permetterti di morire nella mia proprietà. Prevedevo che ti saresti opposta all'idea di partire, e quindi... — Lanciò un'occhiata a Cox. — Quindi ho parlato con un amico nelle alte sfere del Comando Spaziale, che mi ha fatto la cortesia di mandare qui il maggiore per accompagnarti a casa. Non sei in arresto nel senso legale del termine... ma ti assicuro che non hai scelta. Vale qualcosa di simile al principio della custodia protettiva. Addio, Shara. — Fece per prendere dalla scrivania un fascio di rapporti, e io feci qualcosa che mi meravigliò moltissimo. Scavalcai d'un balzo la scrivania e abbassai la testa per centrarlo in pieno allo sterno. La sua poltroncina era imbullonata al pavimento, e si spezzò di netto. Io mi ripresi così magnificamente che ebbi il tempo di sferrargli uno splendido destro. Sapete che, quando colpite secco un pallone da basket, rimbalza sul pavimento? È quello che fece la testa di Carrington, al rallentatore per via della bassa gravità. Poi Cox mi rimise in piedi di peso e mi spinse nell'angolo più lontano della stanza. — No — mi disse, e la sua voce doveva essere satura di quell'«abitudine al comando» di cui parlano tanto perché mi bloccò di colpo. Rimasi lì ad ansimare mentre Cox aiutava Carrington a rialzarsi. Il milionario si tastò il naso fracassato, si guardò le dita sporche di sangue e mi fissò con occhi pieni d'odio. — Lei non lavorerà mai più in televisione, Armstead. È finito. Finito. Di-soc-cu-pa-to, ha capito? Cox gli batté la mano sulla spalla, e Carrington si voltò di scatto. — Cosa diavolo vuole? — latrò. Cox sorrise. — Carrington, una volta il mio povero padre disse: Bill, fatti i nemici per scelta, non per caso. In tutti questi anni, ho avuto modo di scoprire che è un ottimo consiglio. Lei mi fa schifo. — Ed è ancora poco — confermò Shara.
Carrington sbatté le palpebre. Poi gonfiò quelle spalle assurdamente larghe e ruggì: — Fuori, tutti quanti! Fuori subito dalla mia proprietà! Per tacito consenso, attendemmo che parlasse anche McGillicuddy. — Mr. Carrington, è un privilegio e un onore essere stato licenziato da lei. La considererò sempre una vittoria di Pirro da parte sua. — Gli rivolse un mezzo inchino, e uscimmo, tutti euforici per una sensazione adolescenziale di trionfo che durò circa dieci secondi. L'impressione di precipitare che si ha in gravità zero è vera, letteralmente, ma l'organismo impara presto a trattarla come un'illusione. Adesso, a gravità zero per l'ultima volta, per quell'ultima mezz'ora prima di ritornare nel campo gravitazionale della Terra, sentivo di cadere. Precipitavo in un pozzo di gravità senza fondo, trascinato giù da un'incudine che era il mio cuore, mentre sopra di me fluttuavano i brandelli di un sogno che avrebbe dovuto sostenermi. La Champion era tre volte più grande dello yacht di Carrington, e questo mi diede una soddisfazione puerile fino a che ricordai che Carrington l'aveva fatta venire lì senza dover pagare il combustibile e l'equipaggio. Una sentinella, nella camera di compensazione, ci salutò militarmente quando entrammo. Cox ci portò in uno scompartimento a poppa e ci disse di allacciarci le cinture. Notò il modo in cui usavo soltanto la mano sinistra per aggrapparmi e darmi la spinta, e quando ci fermammo disse: — Mr. Armstead, il mio povero padre mi disse anche questo: «Colpisci le parti molli con la mano. Le parti dure colpiscile con un corpo contundente.» A parte questo, non trovo nulla da criticare nella sua tecnica. Mi dispiace di non poterle stringere la mano. Mi sforzai di sorridere, ma non me la sentivo. Dissi: — Ammiro il suo gusto in fatto di nemici, maggiore. — Non si può pretendere di più. Purtroppo non avrò la possibilità di far dare una controllata alla sua mano fino a che non saremo atterrati. Il rientro avrà inizio immediatamente. — Lasci perdere. S'inchinò a Shara, non le disse che era profondamente addolorato eccetera, augurò buon viaggio a tutti e ci lasciò. Ci legammo sui divani antiaccelerazione per attendere l'accensione. Vi fu un lungo, pesante silenzio, carico di una tristezza condivisa che la spavalderia avrebbe solo contribuito a sottolineare. Non ci guardavamo, come se temessimo che la somma de! nostro dispiacere potesse raggiungere una specie di massa critica. L'ango-
scia ci ammutoliva, e credo che in quell'angoscia vi fosse ben poca autocommiserazione. Ma poi sembrò che fosse passato parecchio tempo. Dallo scompartimento vicino giungeva fioco il parlottare dell'intercom, ma il nostro non era inserito nel circuito. Alla fine ci mettemmo a discutere le probabili reazioni della critica a Massa è un verbo, e se l'analisi era una cosa seria e se il teatro era veramente morto: di tutto, tranne che dei nostri progetti per il futuro. Poi non ci fu più niente di cui parlare, e così stemmo zitti di nuovo. Credo si potrebbe dire che eravamo in stato di shock. Non so perché, ma fui il primo a uscirne. — Perché diavolo ci mettono tanto? — esclamai irritato. McGillicuddy fece per dire qualcosa per calmarmi, poi diede un'occhiata al suo orologio e gemette. — Hai ragione. È quasi un'ora. Guardai l'orologio sulla parete, mi confusi fino a quando capii che era regolato sull'ora di Greenwich anziché su quella di Wall Street, e capii che aveva ragione lui. — Cristo! — gridai. — Lo scopo di questa storia è proteggere Shara dall'eccessiva esposizione all'imponderabilità! Vado a vedere cosa succede. — Aspetta, Charlie. — McGillicuddy, che aveva tutte e due le mani in buono stato, si sganciò più in fretta. — Accidenti, resta qui e sbollisci. Vado a sentire la causa del ritardo. Tornò pochi minuti dopo, stravolto. — Non andiamo da nessuna parte. Cox ha ricevuto l'ordine di non partire. — Cosa? Tom, di cosa diavolo stai parlando? Lui aveva un tono strano. — Lucciole rosse. Per la verità, sembrano piuttosto api. Dentro un pallone. Non era possibile che stesse scherzando, e quindi voleva dire che doveva avergli dato completamente di volta il cervello, il che significava che ero piombato nel mio incubo preferito, nel quale tutti impazziscono tranne me e incominciano a straparlare. Perciò abbassai la testa come un toro infuriato e uscii alla carica, così in fretta che la porta ebbe appena il tempo di togliersi di mezzo. Ma fu anche peggio. Quando arrivai sulla soglia della sala comando, andavo troppo in fretta perché qualcosa potesse fermarmi, a meno di una barriera di corpi umani, e quelli dell'equipaggio che erano presenti furono colti alla sprovvista. Ci fu un po' di scompiglio alla porta, e poi piombai in sala comando, e allora decisi che ero impazzito anch'io, e quindi tutto, in un certo senso, andava a posto.
La paratia anteriore della sala comando era un televisore enorme... e abbastanza fuori centro per irritarmi, nitido sullo sfondo nero come una quantità di sigarette accese in una stanza buia, c'era davvero uno sciame di lucciole rosse. La convinzione dell'irrealtà lo rendeva plausibile. Ma poi Cox mi richiamò alla realtà abbaiandomi: — Via dalla sala comando! — Se fossi stato in condizioni di spirito normali, sarebbe bastato per farmi scappare a rintanarmi nell'angolo più lontano della nave: ma nello stato in cui ero servì soltanto a farmi accettare la situazione impossibile. Rabbrividii come un cane bagnato e mi girai verso di lui. — Maggiore — chiesi disperatamente, — cosa succede? Come un re può divertirsi nei vedere un villico insolente che rifiuta d'inginocchiarsi, Cox rimase colpito dal fenomeno di qualcuno che rifiutava di obbedirgli. Questo mi fruttò una risposta. — Ci troviamo di fronte ad alieni intelligenti — disse laconicamente. — Credo che siano plasmoidi. Non avevo mai creduto, neppure per un momento, che l'oggetto misterioso che aveva saltabeccato di qua e di là da quando ero arrivato allo Skyfac fosse vivo. Cercai di assorbirlo, poi abbandonai l'impresa e tornai alla cosa che mi stava più a cuore. — Non m'importa neppure se quelli hanno otto renne come Papà Natale: lei deve riportare immediatamente sulla Terra questa bagnarola. — Signore, la nave è in Allarme Rosso e in Attesa di Combattimento. In questo momento si sta raffreddando la cena di tutti quanti, nell'America del Nord. Mi riterrò fortunato se riuscirò a rivedere la Terra. E adesso lasci la mia sala comando. — Ma non capisce? L'imponderabilità prolungata potrebbe uccidere Shara. E lei è venuto quassù per impedirlo, maledizione... — Mr. Armstead! Questa è una nave militare. Ci troviamo di fronte a una dozzina di esseri intelligenti che sono apparsi dall'iperspazio circa venti minuti fa, esseri che quindi usano un motore privo di parti visibili e tale da trascendere la mia comprensione. Se questo può farla sentire meglio, so perfettamente di avere a bordo una passeggera che ha per la specie un valore intrinseco molto superiore a quello della nave e di tutti gli altri che vi si trovano, e se questo può consolarla, è una consapevolezza che causa una distrazione del tutto inutile, e non posso lasciare quest'orbita come non posso farmi spuntare le ali. E adesso, vuol lasciare la sala comando o devo farla trascinare via?
Non ebbi la possibilità di decidere: mi trascinarono via. D'altra parte, quando tornai nel nostro scompartimento, Cox aveva inserito il nostro schermo in circuito, e Shara e McGillicuddy lo osservavano con attenzione estatica. Feci altrettanto, dato che non avevo niente di meglio da fare. McGillicuddy non aveva sbagliato. Si comportavano davvero in modo simile alle api, nella rapidità dei movimenti. Mi ci volle un po' prima che potessi contarli tutti: erano dieci. Ed erano davvero entro un pallone... una cosa indistinta, appena tangibile, al confine fra il trasparente e il traslucido. Sebbene sfrecciassero come furiosi moscerini rossi, lo facevano soltano entro i confini del loro sferoide... non lo lasciavano mai e sembrava che non ne toccassero mai la superficie interna. Mentre li guardavo, gli ultimi avanzi dell'adrenalina smisero di farmi effetto, lasciando un senso d'energia frustrata. Cercai di rendermi conto che quegli effetti speciali tipo Commandos Spaziali rappresentavano qualcosa che era... più importante di Shara. Era una nozione sconvolgente, ma non potevo respingerla. Nella mia mente c'erano due voci, ed entrambe urlavano domande a pieni polmoni, e ognuna ignorava quel che chiedeva l'altra. Una gridava: «Quei cosi sono amichevoli? Oppure ostili? Conoscono questi concetti? Quanto sono grossi? Quanto sono lontani? Da dove vengono?» L'altra voce era meno ambiziosa, ma altrettanto energica: e ripeteva sempre la stessa domanda: «Per quanto tempo ancora Shara potrà restare in condizioni d'imponderabilità senza morire?» La voce di Shara era piena di meraviglia. — Stanno... stanno danzando. Guardai meglio. Se c'era uno schema, un disegno, in quel brulichio da mosche sull'immondizia, io non lo riconoscevo. — A me sembrano movimenti casuali. — Charlie, guarda. Tutta quell'attività furiosa, eppure non si urtano e non urtano le pareti del loro involucro. Devono essere in orbite coreografate con la precisione di quelle degli elettroni. — Gli atomi danzano? Shara mi lanciò un'occhiata strana. — No, Charlie? — Raggio laser — disse McGillicuddy. Lo guardammo. — Quei cosi devono essere plasmoidi... l'uomo con cui ho parlato ha detto che li hanno avvistati sul radar. Questo significa che sono gas ionizzati... quel genere di cose che produceva le segnalazioni degli UFO. — Ri-
dacchiò, poi si trattenne. — Se poteste tagliare quell'involucro con il laser, scommetto che si potrebbe deionizzarli benissimo... e poi quell'involucro deve contenere il supporto vitale, qualunque cosa metabolizzino. Mi girava la testa. — Allora non siamo indifesi? — State parlando tutti e due come militari — esclamò Shara. — Vi dico che stanno danzando. I danzatori non sono combattenti. — Andiamo Shara — gridai. — Anche se quei cosi fossero lontanamente simili a noi, quello che dici non può essere vero. Pensa ai combattimenti dei samurai, al karaté, al kung fu... sono danze. — Indicai lo schermo con la testa. — Tutto ciò che sappiamo di quelle braci animati è che viaggiano nello spazio interstellare. E questo basta per spaventarmi. — Charlie, guardali — ordinò lei. Li guardai. Per Dio, non avevano l'aspetto minaccioso. Più li guardavo e più sembrava che si muovessero in una specie di danza, volteggiando in folli adagio troppo svelti perché l'occhio li seguisse. Non era una danza convenzionale... era più analoga a ciò che Shara aveva incominciato con Massa è un verbo. Avrei voluto mettere in funzione un'altra telecamera per creare il contrasto della prospettiva: e questo, finalmente, mi svegliò. Due idee mi affiorarono nella mente, e la seconda era necessaria per convincere Cox ad accettare la prima. — Quanto pensi che siamo lontani dallo Skyfac? — chiesi a McGillicuddy. Lui sporse le labbra. — Non siamo lontani. Non c'è stato altro che l'accelerazione di manovra. Probabilmente quei maledetti cosi sono stati attratti dallo Skyfac... dev'essere il segno di vita intelligente più visibile nel sistema. — Fece una smorfia. — Forse loro non vivono sui pianeti. Mi tesi e attivai il circuito audio. — Maggiore Cox. — Si tolga dal circuito. — Le piacerebbe vedere quei cosi più da vicino? — Dobbiamo restare dove siamo. E adesso la smetta di prendermi in giro e si tolga dal circuito altrimenti... — Vuole ascoltarmi? Ho quattro telecamere mobili con telecomando, fonte d'energia autonoma e risoluzioni migliori delle sue. Sono nello spazio. Erano state preparate per registrare la prossima danza di Shara. Cox cambiò subito marcia. — Può collegarle con la mia nave? — Credo di sì. Ma dovrò tornare al banco centrale nell'Anello Uno. — Allora non c'è niente da fre. Non posso legarmi a una trottola... e se
dovessi combattere o fuggire? — Maggiore... è molto lontano, ad arrivarci a piedi? La domanda lo scosse un po'. — Un miglio o due, a volo d'uccello. Ma lei non è abituato a spostarsi nello spazio. — Ho vissuto in condizioni d'imponderabilità per quasi due mesi. Mi dia un radar portatile e sono capace di atterrare su Phobos. — Mmmm. Lei è un civile... ma, accidenti, ho bisogno di immagini video migliori. Permesso accordato. E adesso, la prima idea. — Aspetti... c'è un'altra cosa. Shara e Tom devono venire con me. — Assurdo. Non è una gita in comitiva. — Maggiore Cox... Shara deve tornare al più presto possibile in un campo di gravità. L'Anello Uno andrà bene... anzi, sarebbe l'ideale, se entriamo dal «raggio» centrale. Shara può scendere molto lentamente e acclimatarsi a poco a poco, come un sub effettua la decompressine a gradi, ma all'incontrario. McGillicuddy dovrà venire per stare con lei... se Shara sviene e cade lungo il tubo, può rompersi una gamba anche in un sesto di gravità. E del resto, in fatto di attività extra-veicolari è più abile di noi due. Cox ci pensò sopra. — Andate pure. Andammo. Il tragitto di ritorno all'Anello Uno fu molto più lungo di tutti quelli che avevamo effettuato io e Shara, ma con la guida di McGillicuddy lo compimmo con un minimo di manovre. L'Anello, la Champion e gli alieni formavano un triangolo equiangolo con i lati di circa un miglio e mezzo. Visti in prospettiva, gli alieni occupavano all'incirca il volume dello Shea Stadium. Non si fermarono e non rallentarono nelle loro pazze giravolte, ma sembrava che ci osservassero mentre attraversavamo l'abisso per raggiungere lo Skyfac. Ebbi la sensazione che un biologo studiasse gli strani movimenti d'una specie nuova. Noi tenevamo spente le radio delle tute per non distrarci, e questo mi rendeva un po' più sensibile alla suggestione. Lasciai McGillicuddy con Shara e scesi lungo il tubo a sei anelli per volta. Carrington mi stava aspettando nella sala d'ingresso, con due scagnozzi. Era facile capire che era spaventato a morte e cercava di nasconderlo con la rabbia. — Maledizione, Armstead, quelle telecamere sono mie! — La pianti, Carrington. Se mette quelle telecamere nelle mani del miglior tecnico disponibile, che sono io, e se io metto i loro dati nelle mani del miglior statega dello spazio, Cox, può darsi che riusciamo a salvare la sua stramaledetta fabbrica. E la razza umana. — Mi mossi e lui si scostò
per lasciarmi passare. Era prevedibile. Mettere in pericolo tutta l'umanità poteva essere dannoso per le pubbliche relazioni. Dopo tutte le prove che avevo fatto non fu difficile dirigere a occhio quattro telecamere nello spazio, simultaneamente. Gli alieni ignorarono il loro avvicinarsi. La squadra comunicazioni dello Skyfac passava i miei segnali alla Champion e mi teneva collegato con Cox via audio. Seguendo le sue istruzioni inquadrai il pallone fra le telecamere e spostai la soggettiva come mi chiedeva lui. Il Quartier Generale del Comando Spaziale doveva registrare il video, ma non potevo sentire la loro conversazione con Cox, per fortuna. Gli trasmisi replay al rallentatore, primi piani, schermi divisi... tutto quello che potevo fare. I movimenti delle singole lucciole non sembravano particolarmente simmetrici, ma gli schemi incominciavano a ripetersi. Al rallentatore, l'impressione che danzassero era ancora più forte, e per quanto non potessi essere sicuro, mi sembrava che accelerassero il tempo. In un certo senso, pareva che la tensione drammatica della loro danza s'intensificasse. E poi passai la soggettiva alla telecamera che includeva lo Skyfac sullo sfondo, e il mio cuore si svuotò, e urlai per il terrore primordiale... a metà strada fra l'Anello Uno e lo sciame di alieni, avanzava lentamente ma inesorabilmente una figura in tuta pressurizzata che doveva essere Shara. Con tempismo teatrale, McGillicuddy apparve sulla soglia, appoggiandosi pesantemente all'ingegnere capo. Aveva la faccia stravolta dal dolore. Si reggeva su un piede solo. L'altra gamba era fratturata. — Credo che non potrò... tornare alle esibizioni... dopotutto, — ansimò. — Ha detto... Scusami, Tom... sapevo che stava per darmi uno spintone... mi ha messo fuori uso. Oh, maledizione, Charlie, mi dispiace. — Si lasciò cadere su una sedia. Mi arrivò la voce incalzante di Cox. — Cosa diavolo sta succedendo? Quello chi è? Lei doveva essere inserita sulla nostra frequenza. — Shara! — urlai. — Torna qui! — Non posso, Charlie. — La voce era sorprendentemente alta, e calmissima. — A metà del tubo mi sono incominciate le fitte al petto. — Miss Drummond — urlò Cox, — se si avvicina di più agli alieni, l'ammazzo. Lei rise, un suono allegro che mi gelò il sangue. — Sciocchezze, maggiore. Non si azzarderà a usare i raggi laser nelle vicinanze di quegli esseri.
E poi ha bisogno di me come ha bisogno di Charlie. — Sarebbe a dire? — Questi esseri comunicano per mezzo della danza. È il loro equivalente della favella: dev'essere una specie di linguaggio dei segni sofisticato, come l'hula. — Non può saperlo. — Lo sento. Lo so. Diavolo, come si comunica, altrimenti, nello spazio privo d'aria? Maggiore Cox, io sono l'unica interprete qualificata che la razza umana abbia al momento. Quindi adesso, per favore, stia zitto in modo che io possa cercare d'imparare il loro «linguaggio». — Io non ho l'autorità per... Io feci una cosa straordinaria. Avrei dovuto piagnucolare e implorare Shara perché tornasse indietro, forse avrei dovuto indossare una tuta pressurizzata e volare per riportarla indietro. Invece dissi: — Ha ragione. Chiuda il becco, Cox. — Cosa sta cercando di fare? — Maledizione, non sprechi l'ultimo sforzo di Shara. Cox se ne stesse zitto. Panzarella arrivò, fece a McGillicuddy un'iniezione analgesica e gli ridusse la frattura alla gamba lì in quella stanza, ma io non vi badai. Per più di un'ora rimasi a guardare Shara che osservava gli alieni. Li osservavo anch'io, nel silenzio della disperazione, e non riuscivo assolutamente a seguire la loro danza. Mi sforzavo, cercavo di assorbire un significato dal loro volteggio pazzesco, ma non ci riuscivo. Il massimo che potevo fare per aiutare Shara era registrare tutto quel che succedeva, per una posterità ipotetica. Più volte lei proruppe in esclamazioni soffocate, e io avrei voluto chiamarla, ma non lo feci. Con un'ultima esclamazione, mise in funzione i razzi di spinta per portarsi più vicina allo sciame degli alieni, e rimase librata là molto a lungo. Finalmente la sua voce arrivò attraverso l'altoparlante, dapprima impastata e confusa, come se parlasse nel sonno. — Dio, Charlie. È strano. Così strano. Sto incominciando a capirli. — Come? — Ogni volta che incomincio a comprendere una parte della danza, ci... ci porta un po' più vicini. Non è esattamente telepatia. Ma io... li conosco meglio, ecco. Danzano ciò che sentono, gli imprimono una intensità sufficiente per farmi capire il significato. Sto afferrando all'incirca un concetto su tre. Da vicino è più forte.
La voce di Cox era gentile ma ferma. — Che cos'ha appreso, Shara? — Che avevano ragione Tom e Charlie. Sono bellicosi. C'è una sfumatura d'arroganza, in loro... una convinzione di superiorità. La loro danza è una sfida. Dica a Tom che usano i pianeti. — Cosa? — Credo che in una fase del loro sviluppo siano corporei e legati ai pianeti. Poi, quando sono maturi... diventano queste lucciole, come i bruchi si trasformano in farfalle, e si dirigono nello spazio. — Perché? — chiese Cox. — Per trovare terreni da riproduzione. Vogliono la Terra. Vi fu un silenzio che durò forse dieci secondi. Poi Cox parlò, senza alzare la voce. — Si allontani da loro, Shara. Voglio vedere cosa si può fare con i laser. — No! — gridò lei, abbastanza forte per causare una distorsione di prim'ordine nell'altoparlante. — Shara, come mi ha fatto notare Charlie, lei non è soltanto sacrificabile, ma è già sacrificata a tutti gli effetti pratici. — No! — Questa volta fui io a gridare. — Maggiore — disse Shara, in tono concitato, — non è il sistema giusto. Mi creda, loro sono in grado di sfuggire o di resistere a tutti i mezzi che la Terra può usare. Lo so. — Morte e dannazione — disse Cox, — che cosa vuole che faccia? Lasciare che siano loro a tirare il primo colpo? In questo momento stanno venendo qui navi spaziali di quattro paesi. — Maggiore, attenda. Mi dia tempo. Cox incominciò a bestemmiare, poi s'interruppe. — Quanto? Lei non rispose direttamente: — Se questa specie di telepatia funzionasse anche nell'altro senso... dev'essere cosi. Per loro non sono più strana di quanto lo siano loro per me. Probabilmente lo sono anche meno: ho la sensazione che abbiano viaggiato e visto molte cose. Charlie? — Sì? — Incomincia le riprese. Lo sapevo. L'avevo capito dal primo momento che l'avevo vista nello spazio, sul monitor. E sapevo di che cosa aveva bisogno, adesso, lo capivo dal leggero tremito della sua voce. Era necessaria tutta la mia forza d'animo, ed ero contento di poterlo fare. Con allegria estremamente realistica le dissi: — In bocca al lupo, piccola, — e spensi il microfono prima che lei potesse sentire il mio singhiozzo.
E Shara danzò. Incominciò adagio, l'equivalente di un esercizio al pianoforte con un solo dito, mentre cercava di stabilire un vocabolario di movimenti che gli esseri potessero comprendere. «Potete vedere», sembrava dire, «che questo movimento è una tensione di desiderio? Vedete che questo è una ripulsa, questo una rivelazione, e questo un'elisione graduata d'energia? Sentite l'ambiguità nel modo in cui distorco questo arabesque, sentite che la tensione si può risolvere così?» E sembrava che Shara avesse ragione, che quelli avessero un'esperienza in fatto di culture disparate infinitamente maggiore della nostra, perché erano superbi linguisti del moto. Più tardi pensai che forse avevano scelto il moto come mezzo di comunicazione a causa della sua universalità. Comunque, mentre la danza di Shara incominciava ad intensificarsi, la loro prese a rallentare percettibilmente, fino a che rimasero librati nello spazio, immobili, ad osservarla. Poco dopo, Shara dovette concludere che aveva definito i suoi termini in modo sufficiente almeno per una comunicazione rudimentale, perché incominciò a danzare veramente. Prima aveva usato soltanto i suoi muscoli e le masse degli arti. Ora aggiunse i razzi di spinta, uno alla volta o in combinazione. La sua danza divenne una danza vera: più di una collezione di movimenti, una cosa che aveva sostanza e significato. Era indiscutibilmente Stardance come l'aveva pre-coreografata, come aveva sempre avuto intenzione di eseguirla. Non era una coincidenza che avesse qualcosa da dire a esseri assolutamente alieni, qualcosa dell'uomo e della sua natura: era l'essenziale e suprema espressione della più grande artista della sua epoca, e aveva qualcosa da dire a Dio stesso. Le luci delle telecamete facevano balenare d'argento la tuta pressurizzata, d'oro le bombole dell'aria sulle sue spalle. Si muoveva sullo sfondo nero dello spazio, intessendo la danza intricata in un movimento agevole che sembrava lasciarsi dietro un'eco. E il significato di quei volteggi e di quelle piroette divenne a poco a poco chiaro, e io mi sentivo la gola arida e stringevo i denti. Perché la sua danza parlava né più né meno che della tragedia di essere vivi e di essere umani. Parlava, con estrema eloquenza, del dolore. Parlava, con profonda conoscenza, della disperazione. Parlava della crudele ironia dell'ambizione sconfinata legata alla capacità limitata, dell'eterna speranza investita in un'esistenza effimera, della smania di cercare di creare un futuro inesorabilmente predeterminato. Parlava di paura e di fame e, chiara-
mente, della fondamentale solitudine e dell'alienazione dell'animale umano. Descriveva l'universo visto attraverso gli occhi dell'uomo: un ambiente ostile, la materializzazione dell'entropia in cui tutti veniamo scagliati, soli, impediti dalla nostra natura dal toccare un'altra mente se non in modo indiretto, per procura. Parlava del cieco spirito di contraddizione che costringe l'uomo a lottare enormemente per una pace che, una volta ottenuta, diventa noia. E parlava della follia, del terribile paradosso in forza del quale l'uomo è simultaneamente capace di ragionare e sragionare, perpetuamente incapace di collaborare persino con se stesso. Parlava di Shara e della sua vita. Si ripetevano continuamente le affermazioni cicliche di una speranza che crollava nella confusione e nella rovina. Continuamente, gli slanci d'energia cercavano una risoluzione e trovavano soltanto frustrazione. All'improvviso Shara si lanciò in una serie di movimenti che mi sembrava familiare, e quasi subito la riconobbi: era la parte conclusiva di Massa è un verbo, ricapitolata... non ripetuta, bensì ripresa, echeggiata, e i Tre Interrogativi ricevevano un'urgenza più terribile dal nuovo altare su cui venivano ammucchiati. E come prima, veniva quella contrazione finale e implacabile, quell'ultimo ritrarsi di tutte le energie. Il suo corpo si abbandonò, alla deriva nello spazio, e l'essenza del suo essere si rinchiuse nel suo centro, invisibile. Per la prima volta gli alieni si mossero. E all'improvviso Shara parve esplodere, sbocciando dalla contrazione non come una molla che scatta, ma come un fiore che nasce da un seme. La forza di quello slancio la scagliò attraverso il vuoto come se fosse un gabbiano, travolto da un uragano di venti galattici. Il suo centro pareva scagliarsi attraverso lo spazio e il tempo, trascinando il suo corpo in una nuova danza. E la nuova danza diceva: «Questo è ciò che significa essere umani: capire l'essenziale futilità di ogni azione, di ogni lotta... e agire e lottare. Questo è ciò che significa essere umani: cercare sempre di afferrare qualcosa d'inafferrabile. Questo è ciò che significa essere umani: vivere in eterno o morire nel tentativo. Questo è ciò che significa essere umani: formulare perpetuamente gli interrogativi senza risposta, nella speranza che, formulandoli, si affretti in qualche modo il momento in cui troveranno una risposta. Questo è ciò che significa essere umani: lottare nonostante la certezza del fallimento. «Questo è ciò che significa essere umani: perseverare.»
La sua danza diceva tutto questo con una serie di movimenti ciclici che avevano tutta la maestà solenne delle grandi sinfonie, diversi l'uno dall'altro come i fiocchi di neve, e altrettanto simili. E la nuova danza rideva, rideva del domani come rideva di ieri, e soprattutto rideva dell'oggi. «Perché questo è ciò che significa essere umani: ridere di ciò che un altro chiamerebbe tragedia.» Gli alieni sembravano ritrarsi da quell'energia feroce, sbalorditi, reverenti, un po' atterriti dallo spirito indomabile di Shara. Sembravano attendere che la danza finisse, che lei si esaurisse, e la sua risata risuonava nel mio altoparlante mentre lei raddoppiava i suoi sforzi e diventava una girandola, un fuoco d'artificio. Cambiò il punto focale della sua danza: incominciò a danzare intorno a loro, in sprazzi pirotecnici di movimento che si avvicinavano sempre di più allo sferoide intangibile nel quale erano racchiusi. Gli alieni si rattrappivano per allontanarsi da lei, si ammucchiavano insieme al centro dell'involucro, non tanto minacciati fisicamente quanto intimoriti. «Questo,» diceva il corpo di Shara, «è ciò che significa essere umani: suicidarsi con un sorriso, se diviene necessario.» E di fronte a quella terribile sicurezza, gli alieni cedettero. Di colpo le lucciole e il pallone sparirono, altrove. So che Cox e McGillicuddy erano ancora vivi, perché più tardi li vidi, e questo significa che probabilmente stavano dicendo e facendo qualcosa in mia presenza, ma io non li sentivo e non li vedevo, allora: per me erano morti come tutto era morto eccettuato Shara. Chiamai il suo nome, e lei si avvicinò alla telecamera accesa, fino a quando potei scorgere il suo viso dietro il cappuccio di plastica della tuta pressurizzata. — Forse saremo trascurabili, Charlie — disse, ansimando per prendere fiato. — Ma, per Dio, siamo duri. — Shara... adesso rientra. — Sai che non posso. — Adesso Carrington dovrà darti un posto a gravità zero per viverci. — Una vita d'esilio? Per cosa? Per danzare? Charlie, non ho più nulla da esprimere. — Allora verrò fuori io. — Non essere sciocco. Perché? Per abbracciare una tuta pressurizzata? Per toccarci teneramente i cappucci per l'ultima volta? Balle. Finora è un bel finale... non roviniamolo
— Shara! — Crollai completamente, mi accasciai e incominciai a singultare. — Charlie, ascoltami — disse lei, a voce bassa, ma con una concitazione che mi toccò nonostante l'angoscia. — Ascoltami, perché non ho molto tempo. Ho qualcosa da darti. Speravo che l'avresti scoperto da solo, ma... mi ascolti? — S-sì. — Charlie, la danza a gravità zero diventerà di colpo popolarissima. Io ho aperto la porta. Ma sai come sono le mode: rovineranno tutto, se non agirai in fretta. La lascio nelle tue mani. — Cosa... cosa stai dicendo? — Sto parlando di te, Charlie. Riprenderai a ballare. Era la carenza d'ossigeno, pensai. Ma non aveva ancora esaurito l'aria fino a quel punto. — D'accordo. Sicuro. — Per amor di Dio, smettila di fingere di assecondarmi... non sono impazzita, te lo garantisco. L'avresti capito anche tu, se non fossi così maledettamente stupido. Non capisci? In condizioni d'imponderabilità la tua gamba non ha niente! Restai a bocca aperta. — Mi senti, Charlie? Potrai ricominciare a ballare! — No — dissi, e cercai una ragione per giustificare quel «no». — Io... non puoi... è... accidenti, la gamba non è abbastanza forte per lavorare all'interno. — Dimentica per un momento che il lavoro all'interno sarà meno della metà di quel che farai. Dimenticalo, e ricorda il pugno sul naso che hai dato a Carrington, Charlie, quando hai scavalcato la scrivania, ti sei dato la spinta con la gamba destra. Balbettai per un po', e poi stetti zitto. — Ecco, Charlie. Il mio dono d'addio. Lo sai, non sono mai stata innamorata di te... ma devi sapere che ti ho sempre voluto bene. Te ne voglio ancora. — Ti amo, Shara. — Addio, Charlie. Fai come ti ho detto. Tutti e quattro i razzi di spinta si accesero contemporaneamente. La guardai discendere. Poco dopo che arrivò troppo lontana perché potessi vederla, ci fu una lunga fiamma dorata che s'inarcò sulla faccia del globo, svanì, e poi divampò di nuovo quando esplosero le bombole dell'aria.
C'è un vecchio tema banale per i telefilm: la minaccia dell'invasione aliena unifica l'umanità da un giorno all'altro. È realistico quanto l'idea «l'amore troverà la soluzione»... se quelle maledette lucciole dovessero ritornare, ci troveranno disorganizzati come lo eravamo l'ultima volta. È così. Carrington, naturalmente, cercò di arraffare tutte le registrazioni e tutto il denaro... ma io e Shara non avevamo mai firmato un contratto, e il testamento di lei era molto esplicito. Allora cercò di corrompere il giudice, ma sbagliò la scelta, e quando la storia finì sui giornali e si rese conto dell'atteggiamento dell'opinione pubblica e privata, lasciò lo Skyfac con una tuta pressurizzata senza razzi di spinta. Credo che volesse finire com'era finita Shara, ma non era abituato alle attività extraveicolari e si mosse troppo tardi. L'ultima volta che lo videro, era diretto verso Betelgeuse. Il consiglio d'amministrazione dello Skyfac elesse un tizio che era molto ansioso di cancellare le macchie, e lui mi offrì l'uso continuativo di tutti gli impianti. E così ne parlai con Norrey, e lei era libera: e fu così che si formò la Shara Drummond Company di Danza Neomoderna. Ci occupiamo dei bravi ballerini che sulla Terra non possono farcela per una ragione o per l'altra, ed è sorprendente che siano tanto numerosi. Mi piace ballare con Norrey. Anche insieme, non siamo formidabili come lo era Shara da sola... ma ci armonizziamo bene. Nonostante le evidenti controindicazioni, credo che il nostro sarà un matrimonio riuscito. È questa la cosa più straordinaria di noi umani: perseveriamo. OCCHI D'AMBRA Eyes of Amber di Joan Vinge Analog, giugno 1977 Joan Vinge, laureata in antropologia, ha iniziato la sua carriera di autrice di fantascienza nel 1974, con un racconto apparso su «Orbit», l'antologia periodica curata da Damon Knight. Dotata di uno stile fresco e cristallino, la Vinge è riuscita a infondere la sua sensibilità femminile nei temi più classici e tradizionali della sf, che ha saputo brillantemente rinnovare in una serie di splendide opere culminata con The Snow Queen, mitica raffigurazione di un'epica futura, che vinse il premio Hugo nel 1981. Questo Occhi d'ambra è un magnifico, suggestivo ritratto di una civiltà a-
liena su un mondo alieno (e inabitabile per i terrestri)... e delle straordinarie possibilità e risultati dei tentativi di comunicazione tra due mentalità mutualmente esclusive. La mendicante percorreva con passo strascicato la strada immersa nel silenzio della sera dietro alla città-casa di Lord Chwiul. Ella esitò, alzando lo sguardo alle torri che rilucevano tenui, poi artigliò il braccio della sentinella: — Una parola con il tuo padrone... — Non toccarmi, megera! — La guardia sollevò la lancia, disgustata. Un agile piede scalciò fuori dagli stracci e gli fece perdere l'equilibrio. La sentinella si trovò lunga distesa sulla schiena, in mezzo alla poltiglia fangosa della neve semisciolta della primavera; la punta della lancia, impugnata da un diverso paio di mani, si abbassò verso il suo ventre. Egli restò a bocca aperta. La mendicante gli gettò un amuleto sul petto. — Guardalo, sciocco! Ho affari da trattare col tuo Lord. — La mendicante fece un passo indietro. La punta della lancia frugò il ventre della sentinella, impaziente. La guardia si contorse nello sporco e nel bagnato, portando l'amuleto vicino al viso, nella scarsa luce. — Tu... tu sei quella? Puoi passare... — Davvero! — una risata soffocata. — Davvero posso passare... Per molte cose, in molti posti. La Ruota della Vita ci porta tutti. — Ella sollevò la lancia. — Sciocco, alzati... e non c'è bisogno di scortarmi. Sono attesa. La guardia si alzò in piedi, sgocciolante e imbronciata, e si scostò mentre ella liberava le membrane delle sue ali dalle pieghe del tessuto. Egli le vide luccicare e allargarsi; poi lei si raccolse e balzò senza sforzo fino all'ingresso della torre, due volte la sua altezza sopra di lui. Soltanto quando lei fu scomparsa all'interno, la sentinella osò imprecare. — Lord Chwiul? — T'uupieh, presumo? — Lord Chwiul si sporse avanti dal giaciglio di muschi fragranti, scrutando fra le ombre della stanza. — Lady T'uupieh. — T'uupieh avanzò a lunghi passi verso la luce, lasciando che il cappuccio cencioso le scivolasse giù, rivelando il suo volto. Provò un aspro piacere a non mostrare alcun segno di riverenza, venendo avanti così, da nobile a nobile. Le sensuali increspature di centinaia di minuscole pelli di miih sotto i suoi piedi le provocarono un formicolio nelle piante callose. Dopo tanto tempo ecco che lo provo ancora, troppo facilmente...
Prese posto sul divano sull'altro lato del basso tavolo di pietracqua, di fronte a lui, stiracchiandosi languidamente nei suoi panni di mendicante. Protese un dito ad artiglio e raccolse una bacca di kelet dalla fruttiera posta sulla superficie del tavolo, scolpita di ornamentali volute, e se la fece scivolare in bocca e poi giù per la gola, come aveva fatto così spesso, tanto tempo prima. Infine sollevò lo sguardo, per misurare gli effetti del suo oltraggio. — Tu osi venire da me in questo modo... Soddisfacente. Sì, molto... — Non sono venuta io da te. Sei tu che sei venuto da me... tu hai cercato i miei servigi. — Il suo sguardo vagò per la stanza con simulata indifferenza, osservando gli elaborati affreschi che ricoprivano le pareti di pietracqua perfino in quella piccola stanza privata... Soprattutto in quella stanza. Quanti incontri di mezzanotte, per i più complicati intrighi, si tenevano in quella stanza?, ella si chiese. Chwiul non era il più ricco della sua famiglia o del suo clan: e in quella città, in quel mondo, contava soprattutto apparire ricco e potente, poiché la ricchezza e il potere erano tutto. — Ho chiesto i servigi di T'uupieh l'Assassino. Sono sorpreso nel constatare che Lady T'uupieh osa accompagnarlo qui. — Chwiul aveva riacquistato la sua calma; ella sembrò studiare il suo alito, e il proprio, due sbuffi di vapore turbinante. Poi riprese: — Dove va l'uno, l'altro lo segue. Siamo inseparabili. Tu dovresti saperlo meglio di molti altri, mio Lord. — Seguì il suo lungo, pallido braccio che si protendeva a infilzare numerose bacche con un unico movimento guizzante. Nonostante il gelo delle notti, egli indossava soltanto una leggera tunica che gli avvolgeva il corpo consentendogli ugualmente di esibire l'intricato sovrapporsi di gioielli che danzavano sulla superficie delle sue ali. Egli sorrise; lei colse per un attimo le punte aguzze dei suoi denti. — perché mio fratello ha trasformato l'una nell'altro, quando ha preso le tue terre? Sono assolutamente sorpreso che sia venuta tu... come sapevi che potevi fidarti di me? — I suoi movimenti erano sgraziati; ella ricordò come il peso dei gioielli trascinasse giù le fragili, traslucide membrane delle ali e le braccia sottili fino a rendere il volo impossibile. Come ogni nobile, Chwiul era sempre circondato da servitori che soddisfacevano ogni suo capriccio. L'inettitudine al volo, finta o vera che fosse, era un altro segno distintivo del potere, un'ulteriore viziosità che soltanto i ricchi potevano permettersi. Ella si compiacque nel constatare che i suoi gioielli non erano della miglior qualità.
— Non mi fido di te — lei replicò. — Mi fido soltanto di me stessa. Ma alcuni amici mi hanno detto che tu in quest'occasione sarai sincero quanto basta... E non sono venuta sola, naturalmente. — I tuoi fuorilegge? — disse incredulo. — Quelli non ti sarebbero di alcuna protezione. Con calma ella scostò le pieghe del tessuto che celavano il segreto compagno al suo fianco. — Allora è vero. — La voce sibilante di Chwiul fu quasi inaudibile. — Ti chiamano la Consorte del Demone. Ella ruotò la lente d'ambra del prezioso occhio del demone, cosicché esso potesse esplorare l'intera stanza, come aveva fatto lei, poi puntò quell'occhio su Chwiul. Egli si tirò istintivamente indietro, aggrappandosi al muschio. — «Un demone ha mille occhi, e mille e mille tormenti per quelli che lo offendono» — citò dal Libro di Ngoss, dei cui rituali si era servita per legare a sé il demone. Chwiul distese nervosamente il corpo, come se volesse fuggire. Ma si limitò a dire: — Credo, allora, che ci comprendiamo. E sono convinto di aver fatto una buona scelta: so che hai servito bene il Feudatario e altri membri della corte... Voglio che tu uccida qualcuno per me. — Ovviamente. — Voglio che tu uccida Klovhiri. T'uupieh ebbe un lieve trasalimento: — A tua volta mi sorprendi, Lord Chwiul. Tuo fratello? — È l'usurpatore delle mie terre. Ho sempre ardentemente desiderato ucciderlo, lentamente, molto lentamente, con le mie stesse mani... Ma egli è sempre troppo ben protetto. — E anche tua sorella, o mia Lady. — Una vaga sfumatura di scherno. — Voglio che l'intera sua famiglia sia sterminata, la sua compagna, i suoi figli... Klovhiri... e Ahtseet. Ahtseet, la sua sorella più giovane, la sua amica più cara fin dall'infanzia, tutta la sua famiglia, da quando i loro genitori erano morti. Ahtseet che lei aveva sempre prediletto e protetto; la cara, piccola, connivente, traditrice Ahtseet, che aveva rinunciato all'orgoglio, alla decenza, all'onore della famiglia per unirsi volontariamente all'uomo che li aveva derubati di tutto... Qualunque cosa, pur di conservare le terre della famiglia, aveva strillato Ahtseet; qualunque cosa pur di conservare la sua posizione. Ma non in quel modo! Non con l'arrendersi, bensì contrattaccando... T'uupieh si accorse che Chwiul stava osservando le sue reazioni
con vivo interesse, e ciò le dispiacque. Sfiorò il pugnale che aveva alla cintura. — E perché mai? — gli chiese, scoppiando a ridere. — Dovrebbe essere ovvio. Sono stanco di essere il secondo. Voglio ciò che ha lui: le tue terre e tutto il resto. Voglio che sia tolto di mezzo, e non voglio che rimanga nessuno che rivendichi la sua eredità più di quanto possa farlo io. — Perché non agisci tu stesso? Forse avvelenandoli... è già stato fatto. — No. Klovhiri ha troppi amici, troppi uomini fedeli al suo Clan, troppa influenza sul Feudatario. Dovrà trattarsi di una morte «accidentale». E nessuno è più adatto di te, mia Lady. Fallo per me. T'uupieh fece un vago cenno di assenso, valutando la cosa. Chwiul non avrebbe davvero potuto scegliere nessuno che più di lei bramasse compiere quell'impresa... e si trovasse altresì nella miglior posizione per colpire. Tutto ciò che le era mancato fino a quel momento era stata l'occasione. Dall'istante in cui era stata spodestata, durante i giorni squallidi dell'autunno e l'interminabile inverno - quasi un terzo della sua vita, adesso - lei aveva imperversato nella selvaggia palude, tra gli acquitrini del suo dominio d'un tempo. Aveva raccolto intorno a sé qualche fedele servitore, un pugno di scontenti, cinque o sei tagliagole, attaccando e assassinando la gente del seguito di Klovhiri, devastando le sue reti per i «phib», rubando dalle sue trappole e cacciando di frodo la sua selvaggina. In più, si era messa a rapinare qualunque viaggiatore s'inoltrasse lungo le strade che attraversavano quelle terre. Poiché lei apparteneva ancora alla nobiltà, il Feudatario aveva sulle prime tollerato, e più tardi segretamente incoraggiato i suoi atti di banditismo. Forestieri molto ricchi attraversavano frequentemente le sue terre d'un tempo, e in cambio del versamento d'una parte del bottino, egli le consentiva di attaccarli impunemente. T'uupieh ben sapeva che si trattava niente più che di un boccone gettatole perché egli aveva permesso che il suo favorito, Klovhiri, s'impossessasse di quelle terre. Ma lei si era data da fare per accattivarsi il più possibile le simpatie del Feudatario, il quale aveva cominciato a servirsi di lei per affari più delicati e remunerativi: l'eliminazione di certi suoi nemici. E così lei era diventata anche un assassino prezzolato, e aveva scoperto che questo mestiere non era poi granché diverso da quello del nobile: entrambi richiedevano sangue freddo e astuzia, e una completa mancanza di rimorsi. E poiché ella era T'uupieh, c'era riuscita mirabilmente. Ma nessuna ricompensa aveva saziato il suo desiderio di
vendetta... Fino ad ora. — Non rispondi? — stava dicendo Chwiul. — Vuol forse dire che il coraggio ti viene meno, all'idea di assassinare parenti... al contrario di ciò che accade a me? Ella scoppiò in una secca risata: — Che tu dica questo dimostra che il tuo discernimento è meno della metà del mio... No, il coraggio non mi vien meno... Il mio sangue brucia dal desiderio! Ma non era certo mia intenzione spedire Klovhiri e i suoi sotto il ghiaccio soltanto per offrire in gentile omaggio le mie terre a suo fratello. Perché dovrei farti questo favore? — Perché ovviamente non riusciresti a vendicarti da sola. Klovhiri non è riuscito a farti uccidere, in tutto questo tempo che lo stai tormentando, il che è la miglior prova della tua abilità. Ma l'hai reso troppo cauto: tu non puoi avvicinarti a lui, egli è troppo ben protetto. Tu hai bisogno della collaborazione di qualcuno che goda della sua fiducia, qualcuno come me, per esempio. Io posso farlo cadere fra le tue mani. — E quale sarà la ricompensa, se accetterò? La vendetta non basta. — Pagherò ciò che mi chiedi, — I miei possedimenti. — Ella sorrise. — Perfino tu non sei ingenua al punto da... — No. — T'uupieh protese un'ala nell'aria, verso il nulla. — Perfino io non sono così ingenua. So quanto valgono... — Il ricordo d'una giornata d'estate dalle nuvole color dell'oro l'afferrò... levarsi in volo, in alto, sempre più in alto, sulle placide correnti d'aria sopra il lago... distinguere laggiù le aeree torri rosse e rosa del maniero che spuntavano dalla marea degli alberi spazzati dal vento... le pozze di ammoniaca color zafferano, crèmisi e acquamarina, tinte a vivaci colori dai metalli disciolti, che si stendevano tra le distese fangose costellate da miriadi di riflessi cristallini... le terre della sua famiglia, le terre che si perdevano a vista d'occhio, in questo ribollire dell'estate... — Ne conosco il valore. — La sua voce s'indurì. — E so che Klovhiri è ancora il favorito del Feudatario. Come hai detto, Klovhiri ha amici potenti, ed essi diventeranno tuoi amici quando lui morrà. Io ho bisogno di ben più forza, e ricchezza, prima di poter avere abbastanza influenza e ritornare in possesso di ciò che è mio. Le probabilità non sono a mio favore... adesso. — Tu sei scolpita nel ghiaccio, T'uupieh. Questo mi piace. — Chwiul si sporse in avanti. Il suo occhio, rosso e inespressivo, esplorò il corpo di lei, disteso sul divano, cercando d'indovinare ciò che giaceva nascosto sotto i cenci, là nel cerchio di luce fosforescente al centro della stanza in ombra.
L'occhio, poi, risalì al suo viso. Ella non si mostrò né infastidita né divertita: — Nessun uomo, a cui piaccia vedermi come un'assassina, potrà mai piacermi. — Neppure se ciò significa riguadagnare i tuoi possessi? — Come tua compagna? — La voce di T'uupieh aveva il suono di un ramo ghiacciato che si spezza. — Mio signore... praticamente ho appena deciso di uccidere mia sorella per aver fatto l'identica cosa. Preferirei prima uccidere me stessa. Chwiul scrollò le spalle, tornando a stendersi sul divano. — Come vuoi... — Fece con la mano un gesto di rinuncia: — Dunque, che cosa ci vorrà per sbarazzarmi di mio fratello... e anche di te? — Ah — lei annuì, in segno d'intesa. — Vuoi comperare i miei servigi, e allo stesso tempo tacitarmi, pagandomi. Questo non potrebbe essere tanto facile a ottenersi. Comunque... — Comunque, per ora fingerò di adeguarmi alle tue richieste. Infilzò altre quattro bacche dalia fruttiera sul tavolo, fissò il serico velo di acqua-ammoniaca color smeraldo che faceva da tendaggio a una parete. Precipitava da grande altezza all'interno della torre dentro una vasca producendo un fragore che avrebbe impedito a chiunque di ascoltare la conversazione da fuori. Discrezione e bellezza... La fragranza del divano di muschio le riportò alla memoria, quasi sconcertandola, la sua infanzia: il ricordo di un morbido letto sul quale giaceva, in una tiepida notte di primavera... — Man mano le stagioni cambiano, eccomi trasportata in direzioni diverse. Di nuovo in città, forse. Mi piace la tua torre, Lord Chwiul. Unisce la discrezione alla bellezza. — Grazie. — Dammela, e farò ciò che mi chiedi. Chwiul si rizzò a sedere, aggrottando la fronte. — La mia città-casa! — Poi, riprendendosi: — È tutto ciò che vuoi? T'uupieh allargò le dita, studiando il rudimentale abbozzo di membrana fra esse: — Mi rendo conto che è una richiesta piuttosto modesta. — Tornò a chiudere la mano. — Ma considerando la soddisfazione che ricaverò nel guadagnarla, sarà sufficiente. E tu non ne avrai più bisogno, una volta che avrò compiuto ciò che vuoi. — No... — Egli si rilassò un poco. — Suppongo di no. Non ne sentirò certo la mancanza, una volta che avrò le tue terre. T'uupieh lasciò correre questa affermazione: — Bene, allora siamo d'accordo. E adesso, dimmi qual è la chiave per aprire la barriera che protegge Klovhiri? Qual è il tuo piano per consegnare lui, e la sua famiglia, nelle
mie mani? — Tu sai che tua sorella e i suoi figli sono in visita qui, nella mia casa, stanotte? E che Klovhiri li raggiungerà prima che sorga il nuovo giorno? — Lo so. — Lei annuì, con più indifferenza di quanta ne provasse in realtà, poiché si era resa conto che Chwiul, anche senza dimostrarlo a parole, era rimasto assai colpito dal sangue freddo che lei aveva manifestato nel venire lì. Estrasse dunque il pugnale dalla guaina accanto all'occhio d'ambra del demonio e accarezzò la lama seghettata di legno impregnato di pietracqua. — Vuoi che tagli loro la gola, finché dormono sotto il tuo tetto? — Riuscì a esprimere la giusta dose d'incredulità. — No! — Chwiul si accigliò ancor di più. — Che razza di sciocco credi io sia? — E si affrettò a proseguire: — Col nuovo giorno essi torneranno ai tuoi possessi per la solita strada. Ho promesso di scortarli per garantir loro un viaggio sicuro. E avremo anche una guida per farci strada attraverso gli acquitrini. Ma la guida commetterà un errore... — E io sarò lì in attesa. — Gli occhi di T'uupieh s'illuminarono. Durante l'inverno i ricchi usavano slitte per compiere lunghi viaggi, superando la superficie impervia e accidentata del suolo trainati da schiavi. Ma quando arrivava la primavera e il suolo cominciava a fondere in superficie, bacini e pozze traditrici si aprivano come lo sbocciare di grandi fiori, pronti a inghiottire gli incauti. Soltanto una guida esperta poteva «leggere» le superfici, distinguere la solida pietracqua dalla mutevole poltiglia ammoniacale. — Bene — disse T'uupieh in un sussurro. — Sì, molto bene... La tua guida farà in modo che finiscano a dibattersi in qualche buca poltigliosa, e io potrò coglierli in trappola come dei phib al momento della muta. — Esattamente. Ma io voglio esser lì quando lo farai. Voglio vedere. Troverò qualche scusa per allontanarmi dal gruppo, e t'incontrerò alla palude. La guida li condurrà fuori strada soltanto a un mio segnale. — Come vuoi. Hai pagato bene il privilegio. Ma vieni da solo. I miei seguaci non hanno bisogno di aiuto, e ancor meno d'interferenze altrui. — Si rizzò a sedere, mise giù i lunghi piedi palmati, appoggiandoli di nuovo sulle pelli sensuali del tappeto. — Ma se pensi che io sia uno sciocco, e che mi consegni stupidamente nelle tue mani — replicò Chwiul, — tieni presente che tu sarai la sospettata numero uno quando Klovhiri sarà stato assassinato. Io sarò l'unico testimonio che potrà giurare al Feudatario che i tuoi fuorilegge non erano gli aggressori. Tienilo a mente. Ella annuì: — Lo farò.
— Come ti troverò, dunque? — Non mi troverai. I miei mille occhi troveranno te. — Riavvolse l'occhio del demonio nei suoi cenci. Chwiul parve sconcertato: — Quello... quello prenderà parte all'attacco? — Potrebbe; o forse no. Sarà lui a sceglierlo. I demoni non sono legati alla Ruota della Vita, come noi due. Ma l'incontrerai di sicuro faccia a faccia (anche se non ha faccia) se verrai. — Sfiorò con la mano il fianco. — Sì... tieni a mente che anch'io ho le mie salvaguardie in questo accordo. Un demone non dimentica mai. Infine, lei si alzò in piedi, guardandosi intorno ancora una volta. — Sarò perfettamente a mio agio, qua dentro. — Si volse una volta ancora verso Chwiul. — Ti cercherò, quando verrà il nuovo giorno. — Quando verrà il nuovo giorno. — Anch'egli si alzò, le sue ali ingioiellate rifletterono la luce. — Non c'è bisogno di scortarmi. Saprò essere discreta. — Fece un breve inchino, da pari a pari, e si diresse verso il corridoio in penombra. — Dovrò decisamente sbarazzarmi del tuo guardiano. Non sa distinguere una Lady da un mendicante. — La Ruota gira un'altra volta per me, mio Demone. La mia vita fra le paludi terminerà con la vita di Klovhiri. Andrò a vivere in città... e sarò nuovamente Lady nel mio maniero quando i pesci siederanno fra gli alberi! Il volto alieno di T'uupieh ardeva di gioia malevola quando si girò, sullo schermo sopra il terminal del computer. Shannon Wyler si lasciò andare contro lo schienale, terminò di battere la sua traduzione, e si tolse la cuffia. Si lisciò i lunghi capelli biondi, lustri e pettinati all'indietro, il gesto abituale che l'aiutava a riorientarsi nel suo ambiente. Quando T'uupieh parlava, non riusciva mai a mantenere l'obiettività di cui aveva bisogno per ricordare che era ancora sulla Terra, e non realmente su Titano, in orbita intorno a Saturno, separato da esso da oltre millecinquecento milioni di chilometri. T'uupieh, tutte le volte che penso di amarti, ecco che tu decidi di tagliare la gola a qualcuno... Distrattamente annuì ai mormorii di congratulazione del personale e dei tecnici, che letteralmente bevevano ogni sua singola parola per avere nuove informazioni. Poi cominciarono a disperdersi, alle sue spalle, man mano il computer stampava copia della trascrizione. Era difficile credere che si trovasse impegnato con quel lavoro da più di un anno. Lui alzò lo sguardo
ai manifesti dei suoi concerti, sulla parete, con nostalgia ma senza alcun rimpianto. Qualcuno stava telefonando a Marcus Reed. Egli sospirò, rassegnato. — "Quando i pesci siederanno fra gli alberi"? Stai cercando di fare del sarcasmo? Egli si voltò: alle sue spalle vide la forma massiccia della dottoressa Garda Bach. — Salve, Garda. Non ti ho sentito entrare. Lei alzò gli occhi da una copia della trascrizione e gli batté leggermente sulla spalla col suo bastone biforcuto. — Lo so, mio caro ragazzo. Tu non senti mai nulla quando T'uupieh parla. Ma cosa intendi dire con questo? — Quando su Titano sarà estate... quando i trifibiani si metamorfizzano per la terza volta. Perciò lei intende dire fra cinque anni, del nostro tempo. — Ah, Naturalmente. Il mio vecchio cervello non è più quello di un tempo... — Scosse la testa grigio-bianca; il suo mantello nero turbinò melodrammaticamente. Lui sogghignò, ben sapendo che lei non intendeva parlare sul serio. — Forse imparare il titaniano, oltre ad altre cinquanta lingue, è la goccia che fa traboccare il vaso. — Ja... ja... Forse lo è. — Ella sprofondò pesantemente sul seggiolino accanto al suo, immersa nella lettura. Non si sarebbe mai aspettato, egli pensò, di trovare così simpatica la vecchia ragazza. Era diventato acutamente conscio della sua presenza quando studiava linguistica a Berkeley: lei era la grande dame degli studi di linguistica fin dai tempi in cui esistevano ancora delle lingue non documentate sulla Terra. Ma l'abilità di Garda nel riuscire ad avere il proprio nome sui giornali e il suo volto alla televisione, come la maggiore esperta di quello che chiunque «intendeva realmente dire», l'aveva convinto che il vero talento di lei stava nel mercanteggiare. L'averla finalmente incontrata di persona non aveva affatto cambiato la sua opinione in merito; ma l'aveva ugualmente convinto della sua eccellenza nella linguistica culturale. E questo, a sua volta, l'aveva convinto che il suo marcato accento era un totale imbroglio. Ma malgrado quella sua vistosità in tutto, o forse addirittura a causa di essa, lui aveva scoperto che le idee di Garda sulla linguistica, oggi arcaiche, erano assai più vicine alle sue personali opinioni sul comunicare, che le idee dell'uno o dell'altro dei suoi genitori. Garda sospirò: — Straordinario, Shannon! Sei semplicemente straordinario! La tua sensibilità per questa lingua completamente aliena mi stupisce. Che cosa avremmo fatto, se tu non ti fossi unito a noi?
— Avreste fatto senza di me, immagino. — Egli assaporò quello speciale piacere che proveniva dall'essere ammirato da qualcuno che lui rispettava. Tornò ad abbassare lo sguardo sulla tastiera del computer, sulle due scintillanti lastre di plastica irradianti una luminosità verde, ognuna di una trentina di centimetri di lato, che gli davano, contemporaneamente, la versatilità di un virtuoso di violino e di un dattilografo con a disposizione centinaia di migliaia di tasti. Il suo collegamento con T'uupieh, la sua voce... il nuovo sintetizzatore IBM, le cui piastre sensibili al tatto potevano esser manipolate per ricreare le impossibili complessità della sua lingua. Il dono di Dio all'universo della linguistica... salvo il fatto che esigeva la sensibilità e l'ispirazione di un musicista per sfruttare completamente la sua pressoché infinita gamma di suoni. Egli alzò nuovamente lo sguardo e aguzzò gli occhi fuori della finestra verso l'orizzonte sfocato dalla nebbia di Coos Bay, che gli era ormai familiare. Quei pochi linguisti che erano anche musicisti inevitabilmente erano attirati dal sintetizzatore come api dal miele. Ma i superstiti dell'ormai invecchiata Nuova Ondata, che comprendeva Suo Padre il Professore e Sua Madre la Specialista in Comunicazioni, si aggrappavano ancora con fede religiosa quanto vana alle traduzioni logico-matematiche dei computer. Essi lottavano ancora con goffi, complicati programmi, appesantiti da interminabili elenchi di morfemi, che nelle ipotesi di partenza avrebbero dovuto garantire, un giorno, la perfetta sintesi di un qualunque messaggio in qualunque lingua. Ma anche dopo anni di continui perfezionamenti, le traduzioni prodotte in tal modo dal computer erano grezze, sciatte. Alla scuola superiore non c'erano state nuove lingue da cercare, e non aveva avuto il permesso di usare il sintetizzatore per esplorare quelle vecchie. E così, dopo un'ultima, amara discussione con la famiglia, egli aveva lasciato la scuola superiore. Aveva trasferito la sua fede nel sintetizzatore nel mondo del suo secondo amore, la musica; un campo in cui, lo sperava, le autentiche comunicazioni avevano ancora un valore. Adesso, a ventiquattro anni, egli era Shan, il Musicista dei musicisti, l'eroe di un'immensa schiera di appassionati invecchiati e di una nuova, fresca generazione che aveva ereditato il loro amore per quella musica eternamente sfavillante e mutevole chiamata «rock». Né l'uno, né l'altro dei suoi genitori gli aveva più rivolto la parola. — Niente false modestie — lo stava rimbrottando Garda. — Che cosa avremmo potuto fare senza di te? Tu stesso hai criticato in tutti i modi i
metodi che si ostinava a impiegare tua madre. Sai bene che non saremmo riusciti a ottenere un decimo delle informazioni su Titano che abbiamo avuto da T'uupieh, se fossimo stati costretti a servirci ancora di quelle meccaniche, rozze traduzioni del computer. Shannon accennò ad accigliarsi, provando una sorta di segreta colpevolezza. — Senti, so di aver pronunciato alcune battute sarcastiche, e aggiungo che intendevo ciò che veramente ho detto... Ma non avrei spiccato il volo se lei non avesse compiuto tutte le analisi preliminari prima ancora che io arrivassi. — Sua madre aveva fatto, praticamente da sempre, parte della missione, avendo lavorato per anni con la NASA sulle complicazioni quasi esoteriche delle comunicazioni a mezzo computer con i satelliti e le sonde spaziali; e a causa della sua preparazione in campo linguistico Marcus Reed, il direttore del progetto Titano, l'aveva subito nominata capo della sezione comunicazioni non appena questa era stata organizzata. Lei era stata incaricata dell'analisi fonetica iniziale, usando il computer per comprimere lo spettro delle frequenze della voce aliena entro il campo delle vibrazioni udibili dagli esseri umani. Poi, aveva scomposto quei suoni complessi nelle loro componenti più semplici... aveva identificato i fenomeni, separato i morfemi, li aveva inquadrati in una struttura grammaticale, e aveva assegnato i suoni equivalenti in lingua inglese. Shannon l'aveva guardata, durante le prime interviste televisive, chiaramente infelice e a disagio, mentre Reed teneva in pugno la stampa che lo ascoltava ammaliata. Ma alla fine era stato proprio quello che la dottoressa Wyler, la Specialista nelle Comunicazioni, aveva detto, ad avvincere i suoi ascoltatori; al punto che, incapace di resistere, lui era saltato sul primo aereo e aveva raggiunto Coos Bay. — Be', non intendevo offendere — replicò Garda. — Tua madre è ovviamente una specialista assai abile. Ma avrebbe bisogno di un po' più di... ehm... flessibilità. — A me lo dici? — lui sospirò, mesto. — So che ancora oggi la sua più grande felicità sarebbe quella di poter sprofondare il sintetizzatore attraverso il pavimento. Il mio arrivo, qui, è stato un colpo, per lei, dal quale ancora oggi non si è ripresa. È una fortuna che almeno Reed apprezzi il mio... valore. — Reed gli aveva riservato le accoglienze di un figliuol prodigo quando si era presentato all'istituto, quel primo giorno... non era forse, lui, un abile linguista oltre che un ispirato musicista, non sarebbe forse riuscito a trovare un po' di tempo, fra una tournée e l'altra... non avrebbe magari allungato un po' già quella prima visita, per farsi un'idea più appro-
fondita del lavoro di sua madre? Egli aveva acconsentito, con modestia, alle richieste: ed ecco che telecamere e reporter erano saltati fuori come se avessero ricevuto l'imbeccata, e lui aveva capito che non erano lì per la trascurabile notizia della visita del figlio della dottoressa Wyler, bensì per celebrare l'ingresso ufficiale all'istituto di Shannon, il Musicista. E poi... lui aveva avuto la sua prima seduta, parlando con la voce di un altro mondo. Ed era bastato quel primo ascolto per fare di lui un drogato... perché quella lingua aliena era musica. Ogni fonema era composto da due o tre suoni sovrapposti, e ogni morfema era un miscuglio di fonemi che fluivano insieme come acqua. Essi gorgheggiavano accordi, non parole, e il risultato era un rintocco di campane di cristallo, un tintinnio di limpido vetro... Perciò era rimasto; prima, con sofferta frustrazione, aveva dovuto limitarsi a guardare sua madre e i suoi assistenti: i metodi di analisi a mezzo computer impiegati da sua madre avevano funzionato bene durante la transfonemizzazione iniziale della voce di T'uupieh, consentendo ben presto d'inviare le prime risposte, sia pure impacciate, goffe, servendosi del localizzatore a eco della sonda, per impedire che l'interesse di T'uupieh deviasse altrove, interrompendo il contatto. Ma battere una successione di dati in codice su una tastiera e aspettarsi che anche il più sofisticato dei programmi d'un computer potesse trasformarli in un'altra lingua, fosse pure una lingua umana conosciuta, era un risultato ancora sconsolatamente lontano. E lui, Shannon, sapeva invece, con fervore quasi religioso, che il sintetizzatore era stato concepito proprio per compiere questo miracolo di comunicazione, e che soltanto lui avrebbe potuto usarlo per cogliere tutte le sfumature e le sottigliezze che una traduzione meccanica non sarebbe mai stata in grado di fornire. Egli aveva provato ad avvicinare sua madre perché gli concedesse di tentare, ma lei aveva sempre rifiutato, recisamente. — Questo è un centro di ricerche, non uno studio di registrazioni musicali. E così, lui aveva finito per scavalcarla, recandosi personalmente da Reed, che si era mostrato subito entusiasta. E quando finalmente aveva sentito le sue mani muoversi su quelle piastre, nella calda luce da esse irradiata, mentre un vago pizzicore le invadeva, e aveva tentato di ricreare quel linguaggio di un altro mondo, egli seppe di aver avuto ragione da sempre. Lasciò perdere senza rimpianti i suoi impegni musicali, quasi con sollievo, mentre nuovamente scivolava nel campo che per lui era sempre venuto per primo.
Shannon studiò lo schermo dove T'uupieh spiccava, appoggiata disinvoltamente a! fianco curvo della sonda, nascondendo così buona parte dell'accampamento. Fortunatamente sia lei che la sua scorta trattavano la sonda con precauzione quasi ossessiva, anche quando la trascinavano da un posto all'altro, poiché essi non restavano mai fermi a lungo. Shannon si chiese che cosa sarebbe accaduto se essi avessero attivato inavvertitamente il sistema automatico di difesa, concepito per difendere la sonda da animali aggressivi e che produceva una scossa elettrica d'intensità variabile da un'acuta sofferenza alla morte. E si chiese anche che cosa sarebbe accaduto se la sonda e i suoi «occhi» non si fossero così perfettamente inquadrati nelle credenze di T'uupieh sui demoni. L'idea che avrebbe anche potuto non conoscerla mai, non udire mai la sua voce... Più di un anno era trascorso dal giorno in cui lui e il resto dei mondo avevano appreso l'incredibile notizia che la luna più grande di Saturno ospitava vita intelligente. Egli non aveva alcun ricordo delle due sonde automatiche passate vicino a Titano nel 1979 e nel 1981, ma aveva ben presente l'impresa dell'Orbiter che nel 1990 aveva colto fugaci immagini della sua superficie, attraverso la densa coltre di nubi dorate. La manciata di microsonde sganciate dall'Orbiter avevano dimostrato che Titano godeva dello stesso «effetto serra» che faceva di Venere un inferno ribollente. E nonostante le temperature stagionali non si alzassero mai al di sopra dei duecento gradi Kelvin, le fotografie avevano mostrato, senza alcun dubbio, che su Titano esisteva la vita. La scoperta della vita, dopo tante delusioni sugli altri mondi del sistema solare, era stata più che sufficiente al lancio di una nuova sonda, concepita per scendere sulla superficie di Titano e inviare il maggior numero possibile di dati ottenibili dal contatto diretto. Quella sonda aveva scoperto una forma di vita d'intelligenza paragonabile a quella umana... o più esattamente, era stata quella forma di vita a scoprire la sonda. E la scoperta di T'uupieh aveva trasformato una missione potenzialmente fallita in un successo: la sonda era stata dotata di un'unità principale, fissa, per l'analisi e la ritrasmissione dei dati, e dieci «occhi» o unità sussidiarie che avrebbero dovuto esser disseminate sull'intera superficie di Titano per ritrasmettere informazioni. Lo sganciamento delle sonde sussidiarie durante l'atterraggio, tuttavia, era fallito, e tutti gli «occhi» erano caduti nel raggio di pochi chilometri quadrati, in mezzo alla palude disabitata. Ma l'egocentrismo affascinato di T'uupieh, e la sua di-
sponibilità a soddisfare il suo «demone» avevano compensato ogni errore. Shannon alzò di nuovo gli occhi sul piatto schermo alla parete, al volto incredibilmente disumano di T'uupieh, un volto che adesso gli era familiare come il suo allo specchio. Lei era lì, immobile, aspettando con incredibile pazienza una risposta dal suo «demone»: avrebbe dovuto aspettare per più di un'ora che le sue parole la raggiungessero attraverso il baratro fra i due mondi, e altrettanto, se non di più, sarebbe durata la sua attesa, mentre essi discutevano quale risposta darle e lui la ritrasmetteva verso Titano. Ella, adesso, passava più tempo con la sonda che con la sua gente. La solitudine del comando... Il profilo quasi piatto del suo viso bianco come la luna si girò leggermente verso di lui, verso la lente della telecamera; la sua bocca sottile si dischiuse appena in un sorriso, senza ostentare i lunghi denti acuminati. Egli vide un occhio rosso senza pupilla e la fessura a mezzaluna del naso che lo circondava per metà; il suo alito di cianuro condensato scintillava bianco-azzurro, illuminato dall'alone spettrale del fuoco di Sant'Elmo che circondava la sonda per tutta l'interminabile notte di otto giorni di Titano. Egli distingueva altre sfere luminose appese come lanterne giapponesi all'intrico dei rami penduli imprigionati dal ghiaccio, in una macchia lontana. Era incredibile... o perfettamente logico, a seconda del punto di vista dei vari esperti di biologia... che la vita basata sull'azoto e l'ammoniaca su Titano avesse tante analogie con la vita basata sull'ossigeno e l'acqua sulla Terra. Ma T'uupieh non era umana, e la musica delle sue parole gli aveva portato continuamente messaggi che si facevano beffe di qualunque ideale egli avesse tentato di nutrire su di lei, e su quel loro incredibile rapporto. Fino a oggi, durante quell'ultimo anno, lei aveva assassinato undici persone, e con i suoi fuorilegge chissà quante altre ne aveva sulla coscienza. Assassinio e rapina. L'unica ragione per cui collaborava con la sonda, gliel'aveva detto chiaramente, era che soltanto un demone aveva una reputazione più sanguinaria della sua... soltanto un demone poteva incuterle rispetto. Eppure, da quel poco che aveva saputo dire e mostrare del mondo in cui viveva, lei non era né meglio né peggio di chiunque altro: soltanto più abile. Era forse prigioniera di un'epoca, di una cultura, in cui il sangue era qualcosa che doveva essere versato e non condiviso. Oppure si trattava di qualcosa di biologicamente innato, che le permettava di filosofeggiare sulla brutalità e di brutalizzare la filosofia... Alle spalle di T'uupieh, intorno al fuoco del campo alimentato dall'azoto,
alcuni dei suoi fuorilegge avevano cominciato a cantare; le melodie popolari aliene, una volta tradotte, non erano altro che semplici versi ripetitivi, ma udite nella loro forma autentica, non tradotta, erano strutture armoniche di straordinaria complessità, un linguaggio musicale entro una più ampia, affascinante struttura melodica. Shannon protese la mano e s'infilò nuovamente la cuffia, dimentico di ogni altra cosa. Una volta aveva fatto un sogno in cui era riuscito a cantare quegli impossibili suoni... Utilizzando i lunghi periodi di attesa fra una comunicazione e l'altra egli era riuscito, alcuni mesi addietro, a riprodurre in studio una serie di canzoni aliene, usando il sintetizzatore. Ma erano risultate versioni fin troppo scarne e lineari, in confronto agli originali, poiché, nonostante l'abilità da lui raggiunta in quella lingua, esse risentivano ancora fin troppo delle sue deficienze umane. Cantare faceva parte del loro rituale religioso, gli aveva detto T'uupieh. — Ma loro non cantano perché sono religiosi; cantano perché gli piace cantare. — Una volta, senza che gli altri sentissero, aveva suonato per lei una delle sue composizioni sul sintetizzatore. Lei l'aveva fissato (o meglio, aveva fissato l'occhio color ambra della sonda) in un silenzio gelido, anche se tollerante. Lei non cantava mai, anche se a volte lui l'aveva udita armonizzare sommessamente. Si chiese come avrebbe reagito se lui le avesse detto che le canzoni dei suoi fuorilegge gli avevano fatto vincere il suo primo Disco di Platino. Niente, probabilmente... ma conoscendola, se fosse riuscito a chiarirle i concetti, lei sarebbe stata probabilmente, e con entusiasmo, in completo favore dello sfruttamento commerciale. Egli aveva acconsentito a donare i profitti del disco alla NASA (e nonostante fosse stata sua intenzione di farlo fin dall'inizio, si era sentito infastidito quando Reed gliel'aveva chiesto esplicitamente), col patto che nessuno avrebbe dovuto divulgare il suo gesto. Ma in qualche modo, alla successiva conferenza stampa, un paio di reporter avevano saputo fare le domande giuste, e Reed aveva spifferato tutto. E sua madre, quando le era stato chiesto di commentare il sacrificio di suo figlio, aveva mormorato: — Saturno sta proprio diventando un circo a tre piste. — E lo aveva lasciato a chiedersi se dovesse mettersi a ridere o a imprecare. Shannon tirò fuori di tasca un pacchetto di sigarette tutto spiegazzato e ne accese una. Garda alzò la testa e annusò l'aria, in gesto di disapprovazione: lei non fumava, e del resto non sembrava avere alcun vizio (anche se lui sospettava che si desse da fare con gli uomini) e un giorno gli aveva tenuto una lunga lezione, del tutto sprecata, sull'argomento, termi-
nando con la frase sibillina: — E non sanno neppure di tabacco! — Lui la fissò, scuotendo a sua volta la testa. — Che cosa pensi dell'ultima vittima designata di T'uupieh? — Garda sventolò l'ultima trascrizione. — Pensi che ucciderà la propria sorella? Egli esalò lentamente il fumo intorno alle proprie parole: — Sintonizzatevi domani per il nuovo, eccitante episodio! Credo che Reed ne sarà enormemente soddisfatto, non è vero? — Indicò il giornale che giaceva per terra accanto alla sua sedia. — Hai notato che siamo passati a pagina tre? — T'uupieh aveva infilato nel raccoglitore della sonda alcuni manufatti di metallo: qualcosa che, aveva detto, era noto soltanto agli «antichi»; e le congetture scientifiche circa l'esistenza di una precedente cultura tecnologica avevano nuovamente riacceso l'interesse del pubblico, riportando la sonda agli onori della prima pagina. Ma neppure notizie di simili scoperte potevano durare per sempre... — Dobbiamo tener alti quegli indici di gradimento, gente. Fare in modo che le sovvenzioni e le donazioni continuino ad arrivare. Garda ridacchiò: — Sei arrabbiato con Reed, o con T'uupieh? Shannon scollò le spalle, scoraggiato: — Con tutti e due. E non vedo come potremmo impedire a T'uupieh di uccidere sua sorella... — S'interruppe quando il brusio delle numerose persone che lavoravano al progetto in quella stanza s'intensificò, concentrandosi qua e là: Marcus Reed stava facendo il suo ingresso, risolvendo come al solito simultaneamente i problemi di tutti. Shannon si meravigliava delle energie di Reed, pur provando nello stesso tempo qualcosa di simile al disgusto per il modo in cui le impiegava. Reed sfruttava tutti e tutto con affascinante cinismo, nell'interesse supremo della scienza, e l'osservarlo al lavoro aveva gradualmente prosciugato qualunque rispetto e buona volontà Shannon avesse portato con sé al progetto. Sapeva che la reazione di sua madre nei confronti di Reed non era molto dissimile dalla sua, anche se lei non gli aveva mai confidato niente in proposito; lo sorprendeva comunque il fatto che potesse esserci ancora qualcosa su cui andavano d'accordo. — Dottor Reed... — Mi scusi, dottor Reed, ma... Ora sua madre aveva affiancato Reed e stavano percorrendo insieme la stanza; sua madre aveva le labbra strette e un'espressione rassegnata, e teneva il camice da laboratorio abbottonato fino in cima come nel tentativo di evitare ogni contaminazione. Reed, come al solito, sembrava uscito dal-
la rivista «Manstyle». Shannon abbassò gli occhi su quella specie di caffettano grigio che l'avvolgeva, dal quale spuntavano le estremità inferiori dei jeans. — ... Noi veramente vorremmo... — Il senatore Foyle desidera che lei lo richiami... — ... Sì, va bene; e dica a Dinocci che può procedere a far esaminare un altro campione dalla sonda. Sì, Max, arriveremo anche a questo... — Reed invitò con un gesto al silenzio, quando Shannon e Garda si voltarono verso di lui, sui loro seggiolini. — Bene, ho appena sentito la notizia dell'ultimo sanguinario impegno sottoscritto dalla nostra «Robin Hood». Shannon sogghignò in silenzio. Lui era stato il primo che aveva soprannominato T'uupieh «Robin Hood» per scherzo. Reed l'aveva colto al volo e aveva chiamato le sue paludi di ammoniaca «Foresta di Sherwood» a beneficio della stampa. Ma quando la sanguinaria attività di lei, e la conseguente lunga lista di cadaveri, si erano risapute, ella era apparsa piuttosto una stretta collaboratrice dello Sceriffo di Nottingham, e alcuni cronisti avevano aggiunto che T'uupieh non assomigliava a Robin Hood più di quanto Rima assomigliasse a un uccello. Reed aveva replicato, ridendo: — Be', dopotutto l'unica ragione per cui Robin Hood rubava ai ricchi era perché i poveri non avevano i soldi! — Questa frase, pensò Shannon, aveva segnato il vero inizio della sua profonda antipatia. — ... Questo potrebbe darci l'occasione di mostrare al mondo, visivamente, le aspre realtà della vita su Titano... — Ein moment — s'intromise Garda. — Ci stai dicendo che tu vuoi che il pubblico assista a queste atrocità, Marcus? — Fino a quel giorno, non avevano mai diffuso i nastri con le registrazioni di scene di assassinio; perfino Reed non era riuscito a escogitare nessuna giustificazione scientifica a una simile esibizione. — No, non lo farà, Garda. — Shannon drizzò occhi e orecchi nell'udire sua madre pronunciare queste parole. — Eravamo tutti d'accordo, infatti, che non avremmo rilasciato nessun nastro a scopo puramente sensazionalistico. — Carly, sai fin troppo bene che la stampa mi è sempre stata addosso perché rilasciassi quei nastri, e non l'ho mai fatto perché tutti abbiamo votato contro. Ma sento che questa situazione è diversa: la dimostrazione di una condizione socioculturale aliena... un documento unico, eccezionale. Che cosa ne pensi, Shann? Shannon scrollò le spalle, senza preoccuparsi di nascondere la sua ir-
ritazione. — Non so che cosa ci sia di così maledettamente unico: un film di ammazzamenti è un film di ammazzamenti, dovunque lo si giri. Mi pare che l'idea puzzi di stantio. — Una volta, mentre era all'università, aveva visto un film in cui la vittima, senza nulla sospettare, veniva aggredita e fatta a pezzi. Quel film, e ogni altro simile, così rappresentativi di ciò che era la razza umana, gli avevano sempre fatto venire il voltastomaco. — Ach! C'è più verità che poesia in questo! — esclamò Garda. Reed si accigliò, e Shannon vide che sua madre faceva lo stesso. — Ho un'idea migliore. — Shannon schiacciò il mozzicone di sigaretta nel portacenere sotto il quadro di comando. — Perché non lasci che cerchi di dissuaderla? Nel preciso istante in cui lo disse si rese conto di ciò che voleva realmente tentare; e quanto il successo avrebbe significato per la sua fede nelle comunicazioni, per l'immagine che si era creato della gente di T'uupieh e forse di se stesso. Tutti si mostrarono sorpresi. — E come? — domandò Reed. — Be'... non lo so ancora. Lascia soltanto che le parli, che cerchi un'autentica comunicazione con lei, che scopra ciò che lei pensa e quello che prova, senza che tutta questa apparecchiatura tecnica interferisca, almeno per un po'. Le labbra di sua madre compirono il prodigio di restringersi ancora un poco; egli vide le fin troppo familiari rughe della preoccupazione formarsi fra le sue sopracciglia. — Il nostro lavoro, qui, è di raccogliere qualunque «spazzatura» dallo spazio. Non cominciare a voler imporre i tuoi valori morali all'universo. Abbiamo anche troppo da fare con l'universo così com'è. — Perché, è forse un'imposizione il tentativo di fermare un assassinio, anzi, un massacro? — Gli occhi solitamente sbiaditi di Garda lampeggiarono. — Ora, questo sì che ha delle vere implicazioni sociali. Pensaci, Marcus... Reed annuì, dopo aver dato un'occhiata ai volti pazienti e attenti che lo circondavano. — Sì... infatti. Una massiccia dose d'interesse umano... — Mormorii e cenni del capo in risposta. — Va bene, Shann. Mancano circa tre giorni prima che il mattino sorga nuovamente sulla «Foresta di Sherwood». Puoi averli tutti per te, per lavorarti T'uupieh. La stampa vorrà continui rapporti dei tuoi progressi... — Egli guardò il suo orologio e annuì in direzione della porta, già mezzo voltato. Shannon evitò ostentatamente di guardare in viso sua madre, quando gli passò davanti.
— Buona fortuna, Shann — gli disse Reed con fare assente. — Non ci conterei molto, sulla possibilità di cambiar la testa a Robin Hood; ma puoi sempre provarci. Shannon s'ingobbì sul seggiolino, aggrondato, e tornò a voltarsi verso il quadro di controllo. — Nella tua prossima incarnazione, possa tu ritornare sotto forma di water-closet. T'uupieh era confusa. Ella sedeva su un'ingobbatura viscida di pietracqua, accanto al demone prigioniero, in attesa che le desse una risposta. Dall'istante in cui si era imbattuta in esso nella palude, più volte era rimasta stupita per la scarsissima rassomiglianza del suo comportamento con tutto ciò che la tradizione le aveva insegnato sui demoni. E stanotte... Ella sussultò, sorpresa, quando il braccio grottesco e artigliato della sonda si animò all'improvviso, avanzando a tentoni fra i germogli scintillanti di ghiaccio argenteo che facevano capolino attraverso la poltiglia semifusa ai piedi della bassa collina. Il demone faceva molte cose incomprensibili (il che era appunto ciò che ci si poteva aspettare da un demone): esigeva offerte di carne, vegetazione, perfino di pietre... a volte addirittura parte del bottino che ella aveva sottratto agli incauti viaggiatori. Lei gli aveva offerto tutto questo con gioia, sperando di guadagnarsi il suo favore e il suo aiuto... sia pure col più vivo rincrescimento gli aveva concesso gli ornamenti di prezioso metallo degli «antichi» di cui aveva spogliato un piagnucolante signore straniero. Il demone l'aveva elogiata con particolare effusione per questo; tutti i demoni accumulavano metallo, le aveva detto, ed ella supponeva che esso fosse necessario a sostenere la loro forza: in particolare, il carapace a forma di cupola di questo demone, che in quel momento appunto riluceva del fuoco stregato che sempre lo avvolgeva, la notte, lo trasformava in un immenso gioiello metallico color del sangue. Eppure, lei aveva sempre sentito dire che i demoni preferivano la carne degli uomini e delle donne. Ma quando lei aveva cercato di cacciar dentro le fauci del demone l'ala del signore straniero, esso l'aveva sputata fuori, e le aveva imposto di lasciarlo andare. Sbalordita, aveva obbedito, lasciando che quello sciocco fuggisse urlando per perdersi in mezzo alla palude. E poi, stanotte... — Stai per uccidere tua sorella, T'uupieh — le aveva detto, — e due bambini innocenti. Che cosa provi, dentro di te? — Ella aveva risposto subito, in tutta sincerità: — Che il nuovo giorno non sorgerà mai abbastanza presto per me! Ho aspettato tanto a lungo, troppo a lungo, per vendicarmi di Klovhiri! Mia sorella e i suoi mocciosi partecipano
della sua sozzura: meglio trucidati, prima che possano moltiplicarsi! Istintivamente, aveva estratto il pugnale, conficcandolo nella poltiglia muschiosa, con l'identico ardore con cui l'avrebbe cacciato dentro i loro cuori. Il demone aveva taciuto a lungo, come sempre faceva (la tradizione affermava che i demoni erano immortali, e perciò lei aveva sempre supposto che non avessero alcun motivo di darle rapide risposte, anche se, a volte, avrebbe desiderato che questo mostrasse un po' di considerazione per la sua vita breve... Poi, alla fine, il demone aveva replicato, con la sua voce piena di strane risonanze: — Ma i bambini non hanno fatto del male a nessuno. E Ahtseet è la tua sola sorella, lei e i bambini sono i tuoi consanguinei. Ella ha condiviso la tua vita. Hai detto che una volta tu... — Il demone fece una pausa, cercando nel suo limitato magazzino di parole: — ... Tu la adoravi, proprio per questo. Ciò che un tempo lei significava per te, non conta più nulla, adesso? Non rimane alcun amore in te che possa arrestare la tua mano, mentre la levi su di lei? — Amore! — aveva esclamato lei, incredula. — Che razza di discorsi sono mai questi, o Senz'anima? Ti fai gioco di me... — Una rabbia improvvisa le aveva fatto digrignare i denti. — L'amore è un giocattolo, mio demone, e io mi sono lasciata alle spalle, da tempo, i giocattoli. E anche Ahtseet... ella non è più una mia consanguinea. Traditrice! — Le parole erano sibilate come le braci morenti del falò del campo; si era allontanata disgustata dal demone, per riattizzare, sotto lo strato isolante di polvere sulfurea, il falò, aggiungendovi qualche ramo inzuppato. Y'lirr, il suo secondo in comando, le aveva sorriso dal punto in cui era disteso, avvolto nel suo mantello, invitandola a dormire. Ma lei l'aveva ignorato, ed era tornata alla sua veglia sulla collina. Anche se quella notte era fredda al punto da rivestire di cristalli i rami degli alberi di safilil, l'equinozio era passato da tempo, e ora la nebbiolina sottile, lo spolverio di pioggia di polimeri, faceva presagire i giorni dorati dell'estate in arrivo. T'uupieh, avvoltasi più strettamente nel mantello, aveva tirato su il cappuccio, per impedire che la nebbiolina vischiosa le si attaccasse alle ali e le insudiciasse le membrane auricolari; la precedente estate, la sua prima estate, le ritornò, come sempre, alla memoria. ...Ahtseet era una piccolina goffa, le minuscole ali sbattacchianti, quando quella prime estate era cominciata, e T'uupieh, la bambina più grandicella, aveva pensato che quella sua nuova sorella era stupida e inutile. Ma l'estate aveva lentamente traformato il mondo, e riempito i suoi occhi di miracoli; e anche la sua piccola sorella si era trasformata in un'allegra
compagna di giochi, ubbidiente e fedele seguace in ogni avventura. Insieme avevano imparato a servirsi delle proprie ali, e a servirsi delle calde correnti ascendenti per esplorare i confini e le vaste estensioni del loro dominio. E adesso, mentre la primavera nuovamente andava trasformandosi nell'estate, T'uupieh si aggrappava ferocemente a quella visione, non volendo perderla, o per ricordare che quella dolce, irragionevole estate della sua giovinezza non sarebbe mai più ritornata, anche se le stagioni ritornavano, poiché la Ruota della Vita, girando, non ripassava mai su se stessa. Nessun ritorno, dunque... Lei era diventata adulta alla fine dell'estate, e non si sarebbe mai più levata in volo libera e leggera sulle sue giovani ali. E Ahtseet, la piccola Ahtseet, sempre dietro di lei come un'ombra... No! Non avrebbe provato rincrescimento! Sarebbe stata lieta di... — Hai mai pensato, T'uupieh — aveva detto il demone all'improvviso, — che è sbagliato uccidere qualcuno? Tu non vuoi morire... nessuno vuol morire troppo presto. Perché mai dovrebbe? Ti sei mai chiesta come sarebbe il mondo se potessi cambiarlo in modo che tu... che tu trattassi tutti gli altri allo stesso modo in cui vorresti che gli altri trattassero te, e gli altri la pensassero allo stesso modo? Se tutti potessero vivere, e lasciar vivere... — La sua voce era scivolata in una confusione di suoni acuti che lei non era più riuscita a seguire. Ella aveva aspettato, ma il demone non aveva detto altro, come per invitarla a riflettere su ciò che aveva appena udito. Ma non c'era bisogno di pensare a ciò che era ovvio: — Soltanto i morti «vivono e lasciano vivere». Io tratto tutti come mi aspetto che essi trattino me, altrimenti finirei per raggiungere fin troppo presto quei morti così pacifici! La morte è una parte della vita. Noi moriamo quando il fato lo vuole, e quando il fato lo vuole, noi uccidiamo. — Tu sei immortale, tu hai il potere di distorcere la Ruota, di deviare il destino, se lo vuoi. Puoi anche giocare con oziose fantasie, perfino farle diventare reali, e non soffrirne mai le conseguenze. Noi non abbiamo posto per simili cose nella nostra breve vita. Non importa quanto io tenti di amarti, alla fine morirò come tutti gli altri. Noi non possiamo cambiare nulla, la nostra vita è preordinata. Così è fra i mortali. — Ed ella era ripiombata nel silenzio, piena d'inquietudine a causa delle strane divagazioni della mente del demone. Ma lei non doveva permettere che ciò intaccasse il suo sangue freddo. Ben presto sarebbe spuntato il giorno, non doveva essere nervosa; doveva avere il completo controllo di se stessa, quando avreb-
be guidato l'attacco contro Klovhiri. Nessun'altra emozione doveva interferire... non importava quanto ardesse dal desiderio di sentire il sangue bluastro di Klovhiri schizzare sulle sue mani, e quello di sua sorella, e quello dei suoi figli... I mocciosi di Ahtseet non avrebbero mai sentito il vento caldo sollevarli nel cielo, né si sarebbero tuffati, come lei aveva fatto, nelle profondità dai colori dell'arcobaleno, né avrebbero visto le torri spuntare alte e sottili fra gli alberi. Mai! Mai! E all'improvviso aveva trattenuto il respiro, quando un fiammeggiante ruotaspillo era schizzato fuori dall'intricata cortina dei cespugli, dietro di lei, ruzzolando oltre la sua testa nella radura dell'accampamento. Lei l'aveva visto girare intorno al fuoco, sputacchiando scintille, sibilando furioso nell'aria tranquilla, tre volte e mezzo prima di proseguire la sua rapida corsa nei buio. Nessuno dei dormienti si era svegliato e soltanto un paio si erano mossi. Ella afferrò una delle gambe dure e angolose del demone, scossa nell'intimo, poiché sapeva che quel girare in cerchio intorno al fuoco aveva il significato d'un presagio... che però le era oscuro. Il bruciante silenzio che esso si era lasciato alle spalle l'opprimeva; lei continuò incessantemente ad agitarsi, allungando le ali. E, completamente impassibile, il demone aveva cominciato a ronzare ancora una volta i suoi strani e cupi pensieri: — Non tutto ciò che hai sentito sui demoni è vero. Noi possiamo soffrire... — sembrò cercare le parole, — ... le conseguenze delle nostre azioni. Fra noi lottiamo e moriamo. Siamo cattivi e brutali, e spietati. Ma non ci piace essere così. Noi vogliamo cambiarci in qualcosa di meglio, di più misericordioso, di più pronto a perdonare. Sbagliamo più spesso di quanto facciamo le cose giuste... ma crediamo di poter cambiare. E tu sei più simile a noi di quanto ti renda conto. Tu puoi tracciare una linea fra... fra la lealtà e il tradimento, fra il giusto e lo sbagliato, fra il bene e il male; puoi scegliere di non varcare mai quella linea... — E come, dunque? — Si era voltata per fronteggiare l'occhio d'ambra grande quanto la sua testa, osando interrompere il discorso del demone. — Come può una goccia fermare l'onda di marea? È impossibile! Il mondo fonde e scorre, si alza sotto forma di bruma, diventa di nuovo ghiaccio, per poi fondere e scorrere di nuovo. Una ruota non ha né principio né fine; non comincia in nessun punto. Non esiste alcun «bene», alcun «male»... nessuna linea fra essi. Soltanto l'accettazione. Se tu fossi un mortale penserei che sei pazzo! E aveva girato nuovamente la testa, graffiando la pietra rivestita di poli-
meri, mentre lottava per controllarsi. Follia... Era forse possibile? si chiese all'improvviso. Era forse possibile che il suo demone fosse impazzito? Come avrebbe potuto spiegare altrimenti, lei, i pensieri che le aveva insinuato nella mente? Pensieri folli, bizzarri, suicidi... pensieri che già lo stavano ossessionando. Oppure era possibile che quella follia fosse soltanto un'apparenza, una finta? Ella sapeva che l'inganno si annidava nel cuore di ogni demone. Esso poteva semplicemente mentirle, quando le parlava di fiducia e di perdono, ben sapendo che lei doveva tenersi pronta per l'indomani, nella speranza, così facendo, di renderla dubbiosa di se stessa, di farla fallire. Sì, questo era assai più comprensibile. Ma allora, perché le era così difficile credere che quel demone stesse cercando d'impedirle di raggiungere gli obiettivi che lei da tanto tempo stava accarezzando, ciò a cui lei teneva di più? Dopotutto lei lo teneva prigioniero, e nonostante i suoi incantesimi gli impedissero di fare a pezzi il suo corpo, egli forse ancora tentava di fare a pezzi la sua mente, di farla impazzire. Perché mai non avrebbe dovuto odiarla, deliziarsi dei suoi tormenti, e sperare nella sua distruzione? Com'era possibile che esso fosse così poco riconoscente? Ma lei era quasi scoppiata a ridere del proprio risentimento, quando le era venuta quell'idea. Come se un demone avesse mai conosciuto la gratitudine! Ma dal giorno in cui lei l'aveva intrappolato con i suoi incantesimi nella palude, gli aveva riservato il miglior trattamento. L'aveva preso e trasportato, ordinando ai suoi seguaci che l'aiutassero alla bisogna. Gli aveva dato il meglio di ogni cosa, qualunque cosa desiderasse. Secondo i suoi ordini, lei aveva mandato degli esploratori a cercare gli occhi smarriti del demone. E lui le aveva permesso, l'aveva perfino incoraggiata a usare quegli occhi come se fossero suoi, quali guardiani e protettori. Ella gli aveva insegnato a comprendere il proprio linguaggio (perché il demone era ignorante come un infante per ciò che riguardava il mondo dei mortali) quando si era resa conto che voleva comunicare con lei. Aveva fatto tutte queste cose per guadagnarsi i suoi favori, poiché sapeva che, se era caduto fra le sue mani, doveva esserci una ragione; e se lei fosse riuscita a guadagnarsi la sua collaborazione, non ci sarebbe stato più nessuno che avrebbe osato sbarrarle la strada. Ella aveva trascorso ogni ora libera a tenergli compagnia, alimentando la sua curiosità, e la propria, mentre nutriva le sue fauci ingioiellate... fino a quando, gradualmente, queste conversazioni col demone erano diventate un fine in se stesse, un tesoro che valeva il sacrificio anche dei metalli più
preziosi. Perfino la lunga, continua attesa che il demone valutasse con la sua mente aliena le sue domande e le sue risposte, non l'aveva mai stancata, lei era giunta perfino a provar piacere in questo condividere i suoi silenzi, e nel rilassarsi alla calda luce ambrata del suo sguardo. T'uupieh abbassò lo sguardo alla cintura di fibre finemente intessute che, passando tra i suoi fianchi e le ali, le stringeva la tunica al corpo. Siorò i massicci grani ambrati che la decoravano: pasta intrisa di metallo racchiusa in pietracqua lucidata dalle arti segrete del gioielliere. Ciò le ricordava sempre gli innumerevoli occhi del suo demone. Il suo demone... Volse di nuovo lo sguardo verso il fuoco, verso le forme avvolte nei mantelli dei suoi fuorilegge. Sin da quando il demone era venuto da lei, aveva sentito allargarsi gradualmente, ma ineluttabilmente, lo spazio sia fisico che mentale che la separava, come capo, dalla sua banda di seguaci. Era sempre il loro capo, oggi, anzi, ben più saldamente, poiché aveva dominato il demone; e il legame del pericolo condiviso che li univa non si era mai indebolito. Ma c'erano altri bisogni che la sua gente poteva reciprocamente soddisfare, mentre lei ne rimaneva irrimediabilmente esclusa. Li fissò: dormivano profondamente, come morti; anche lei avrebbe dovuto dormire così, preparandosi all'indomani. Perché essi dormivano a intervalli irregolari, quando potevano, come faceva la gente comune, come faceva anche lei, adesso, senza ibernarsi durante la notte come la vera nobiltà. Molti dormivano a coppie, maschio e femmina, anche se usavano accoppiarsi con la mancanza di discriminazione tipica della gente comune, tutte le volte che la femmina sentiva che era giunta la sua stagione. T'uupieh si chiese che cosa mai s'immaginavano, nel vederla seduta lì, accanto al demone, fino a tarda notte. Lei sapeva ciò che essi credevano: che l'aveva scelto per suo consorte, o che esso aveva scelto lei. Vide che Y'lirr continuava a dormire solo. Y'lirr le piaceva, e si fidava di lui più di chiunque altro; era fulmineo e spietato, e sapeva anche che la venerava. Ma era un plebeo... e, cosa più importante, egli non l'aveva sfidata. In nessun luogo, neppure tra la nobiltà, aveva trovato qualcuno che le offrisse il tipo di compagnia che lei bramava... fino ad ora, finché il demone non era giunto. No, non era disposta a credere che tutte le sue parole fossero state menzogne... — T'uupieh — il demone chiamò il suo nome ronzando nell'aria nebbiosa e scura. — Forse tu non puoi cambiare il disegno del fato, ma puoi sempre cambiare idea. Hai già sfidato il fato diventando una fuorilegge, e
dichiarando la tua fame del sangue di Klovhiri. Tua sorella ha invece accettato... — alcune parole inintelleggibili. — ...Lascia perciò che sia la Ruota a prenderla. Puoi davvero ucciderla per questo? Perché invece non ti sforzi di capire perché lo ha fatto, come ha potuto farlo? Non devi ucciderla per questo... non devi uccidere nessuno di loro. Hai forza sufficiente, hai coraggio, per mettere da parte la vendetta e trovare un'altra via per giungere ai tuoi scopi. Puoi scegliere di essere misericordiosa, puoi scegliere il tuo sentiero attraverso la vita, anche se la meta finale della vita è sempre, fatalmente, la stessa. T'uupieh si alzò in piedi, risentita, fissando il demone in tutta la sua altezza, stringendosi il mantello intorno al corpo. — Anche se desiderassi cambiare idea, è troppo tardi. La Ruota è già in movimento... e io ora devo dormire, se voglio esser pronta. — S'incamminò verso il fuoco; si fermò un attimo, guardando dietro di sé: — Non c'è niente che io possa fare, adesso, o mio demone. Non posso cambiare il domani. Soltanto tu puoi farlo. Tu. Ella lo udì, più tardi, che chiamava sommessamente il suo nome, mentre lei giaceva insonne sul gelido suolo. Ma voltò ostentatamente le spalle a quel suono e giacque immobile, e finalmente il sonno sopraggiunse. Shannon ricadde nell'abbraccio del seggiolino imbottito, sfregandosi la testa dolorante. Le sue palpebre erano come carta vetrata, il suo corpo pesava come piombo. Fissò lo schermo, la schiena di T'uupieh girata ostentatamente verso di lui mentre ella dormiva accanto al falò dalle fiamme di azoto. — D'accordo, è finita. Mi arrendo. Non ha voluto neppure ascoltare. Chiama Reed e digli che abbandono. — Che abbandoni ogni tentativo di convincere T'uupieh? — chiese Garda. — Ne sei sicuro? Potrebbe ancora tornare sulle sue decisioni. Metti più enfasi sulle... sull'aspetto spirituale. Dobbiamo esser certi di aver fatto tutto quello che potevamo per... per farle cambiare idea. Per salvare la sua anima, pensò lui, acido. Garda aveva ricevuto la sua prima istruzione in un istituto dedito alla lettura della Bibbia; durante le ultime ore, egli aveva scoperto in lei il desiderio ancora vivo, anche se inconscio, di far proseliti. Ma quale anima? — Stiamo sprecando il nostro tempo. Sono ormai sei ore che non mi rivolge più la parola. E non ha alcuna intenzione di tornare a farlo... Di' pure a Reed che intendo abbandonare tutto. Non voglio esser qui per la scena madre, ne ho avuto abbastanza. — Tu non parli sul serio — ribatté Garda. — Sei stanco. Hai anche tu
bisogno di riposo. Quando T'uupieh si sveglierà, potrai parlarle di nuovo. Egli scosse la testa, ricacciando indietro i capelli. — Dimenticatene. Chiama Reed e basta. — Guardò fuori dalla finestra, all'alba brumosa contro la quale cominciavano a stagliarsi i profili dei condomini balneari. Garda scrollò le spalle, delusa, e si voltò verso il telefono. Shannon studiò le senso-piastre del sintetizzatore, ancora avvolte dalla fosforescenza e in attesa, le quali invitavano, mute, le sue mani stanche e appesantite a tentare ancora una volta... E pensò che se avesse fatto quell'ultimo appello, non sarebbe più stato costretto, almeno, a farlo davanti agli occhi e agli orecchi di un mondo in attesa: era assai difficile che vi fossero dei cronisti talmente dediti al proprio mestiere da trovarsi ancora, a quell'ora, nella sala-osservatorio dalla parete di vetro. La sera prima, sul presto, le loro domande erano state interminabili, e avevano scavato impietose nei suoi sentimenti, nelle sue motivazioni, nei suoi progetti, interrogandolo sulla moralità di «Robin Hood», o meglio sulla mancanza di essa... e anche sulla sua moralità, e frugando fra cento altre cose che erano soltanto affari suoi, di lui, Shannon. Un tempo, anche il mondo della musica aveva tentato di fare lo stesso con lui, ma allora c'erano stati dei paraurti, agenti, addetti alla pubblicità, a proteggerlo. Ora, invece, quando c'era tanto di più in gioco, lui non aveva goduto di nessuna protezione, anzi, Reed, al microfono, aveva ricacciato con la sua eloquenza l'intera stanza e il resto della gente sullo sfondo, esibendo Shann il Terrestre come attrattiva principale, un prodigio (o un mostro?), fino a quando lui aveva cominciato a sentirsi come un uomo spalmato di miele e sepolto in un formicaio. I cronisti guardavano dall'alto delle loro torri d'avorio, criticando le risposte di T'uupieh e le sue, e riempivano gli spazi di tempo fra una domanda e l'altra, quando lui avrebbe avuto più necessità di riflettere, con interruzioni che lo facevano infuriare. Il successo di Reed nello spremere ogni goccia di pathos e d'interesse «umano» dalla sua lotta per impedire la vendetta di T'uupieh contro degli innocenti era stato totale... e proprio in tal modo era riuscito a farlo fallire. No. Egli si rizzò a sedere, cercando di alleviare la pressione sulla schiena. Non poteva farne colpa a Reed. Quando finalmente ciò che lui rispondeva era diventato realmente importante, i cronisti avevano smesso di ascoltarlo. Il fallimento era suo, soltanto suo: la sua abilità non era bastata, il suo messaggio non era stato abbastanza convincente, lui, soltanto lui non era stato capace di vedere con sufficiente chiarezza attraverso gli occhi di T'uupieh, cosicché lei vedesse attraverso i suoi. Egli aveva avuto questa
possibilità di comunicare veramente, per una volta nella sua vita: di comunicare qualcosa d'importante. E aveva fatto fiasco. Una mano gli comparve davanti e appoggiò una tazza di caffè fumante sulla mensola sotto il terminal. — C'è una cosa buona in questo computer — mormorò una voce. — È programmato per una buona tazza di caffè. Egli scoppiò a ridere, stupito per questo suo atto istintivo; alzò gli occhi. Il volto di sua madre era stanco e tirato, e lei reggeva un'altra tazza di caffè in mano. — Grazie. — Egli prese la propria tazza e ne inghiottì un sorso, sentì il liquido caldo che gli scivolava nello stomaco vuoto. Senza sollevare un'altra volta gli occhi, disse: — Be', hai avuto quello che volevi. E così anche Reed. Ha avuto tutte le emozioni che voleva, e anche i suoi assassinili. Lei scosse la testa: — Non è questo che volevo. Non voglio vederti rinunciare a tutto quello che hai fatto qui, soltanto perché non ti piace il modo in cui Reed se ne serve. Non vale la pena che tu rinunci per questo. Il tuo lavoro significa troppo per questo progetto... e significa troppo per te. Egli tornò ad alzare lo sguardo. — Ja — s'intromise Garda. — Tua madre ha ragione, Shannon. Non puoi andartene adesso; abbiamo troppo bisogno di te. E anche T'uupieh ha bisogno di te. Egli rise di nuovo, senza volerlo: — Come uno jo-jo di cemento. Che cosa stai cercando di fare, Garda... di usare il mio moralizzare contro di me? — Ti sta dicendo ciò che anche un cieco potrebbe vedere stanotte... se non l'avesse visto già molti mesi fa... — La voce di sua madre suonava stranamente remota. — Che questo progetto, cioè, non avrebbe ottenuto i suoi incredibili risultati senza di te. E che avevi ragione, circa il sintetizzatore. E che perderti adesso potrebbe... S'interruppe, voltandosi a guardare Reed che stava entrando dalla porta in fondo. Una volta tanto era solo, e niente affatto inappuntabile. Shannon intuì che doveva essere addormentato quando gli era giunta la telefonata, e si sentì irrazionalmete contento per averlo svegliato in quel modo. Reed non era altrettanto contento. Shannon osservò la sua fronte corrugata, che poteva essere o no un segno di preoccupazione, o di dispiacere, o di entrambi, mentre egli attraversava la stanza echeggiante, diretto verso di loro. — Che cosa intendi dire, con questa dichiarazione che vuoi andartene? Soltanto perché non riesci a far cambiare idea a una mente aliena? — Infilò la testa nel cubicolo e scrutò il terminal per assicurarsi che tutti i mi-
crofoni collegati con l'esterno della stanza fossero spenti, immaginò Shannon. — Sapevi che era una cosa azzardata, probabilmente senza speranza... Devi accettare il fatto che lei non vuole cambiare, devi renderti conto che i valori di una cultura aliena possono essere diversi dai nostri... Shannon tornò a lasciarsi andare contro lo schienale, un muscolo all'interno del suo gomito aveva preso a contrarsi per la fatica. — Questo posso accettarlo. Ciò che non posso accettare è che tu voglia trasformarci in un branco di dannati mezzani. Cristo! E non hai neppure un briciolo di giustificazione! Io non sono venuto qui per comporre la colonna sonora di un film di omicidi. Se hai intenzione d'insistere e di dare in pasto al mondo questo massacro, io ne esco fuori. Non ho alcuna intenzione di rinunciare, ma non voglio restare per un carnevale di porno-uccisioni! Le rughe di Reed si fecero più profonde, ed egli volse lo sguardo altrove. — Be', e gli altri? Anche voi, nel vostro intimo, mi tacciate di complicità in questi assassinii? Carly? — No, Marcus... non esattamente. — Ella scosse la testa. — Ma tutti noi sentiamo che non dovremmo screditare la nostra ricerca facendo di essa uno spettacolo pubblico. Dopotutto la gente di Titano ha diritto alla sua privacy e al rispetto come qualunque altra cultura sulla Terra. — Ja, Marcus... credo che siamo tutti d'accordo su questo. — E quant'è, secondo voi, la privacy di cui oggigiorno chiunque può disporre sulla Terra? Buon Dio, ricordate il Tasaday? Ed è stato trent'anni fa. Non rimane una singola cima montana o un'isola deserta che l'occhio onnipresente delle telecamere non abbia trasmesso in tutto il mondo. E come chiamereste le leggi sulla prevenzione dei crimini? La nostra vita è tutta una serie di buchi di serratura dove in qualunque momento un occhio vi può guardare. Shannon scosse la testa: — Questo non significa che noi dobbiamo... Reed si girò a fissarlo, gelido: — E ne ho piene le tasche di quella tua compassione da piccolo fesso furbastro, Wyler. A che cosa devi il tuo successo come musicista se non alla pubblicità? — Indicò con un gesto i manifesti alle pareti. — C'è più battage pubblicitario per vendere il tuo tipo di musica che per qualunque altro strimpellatore! — Devo rassegnarmi a una qualche spinta pubblicitaria, altrimenti non potrei arrivare alla gente, non potrei fare quello che è importante per me: comunicare. Questo non significa che mi piaccia. — Credi che a me piaccia? — Non ti piace?
Reed esitò. — Si dà il caso che io sia in gamba in questo mestiere, il che è quello che conta veramente. Anche se tu non ci crederai, io sono pur sempre uno scienziato, e quello che m'importa di più è assicurarmi che la ricerca ottenga la sua fetta di torta. Tu dici che non ho alcuna giustificazione per propagandare così le nostre scoperte. Ti rendi conto che la NASA ha perso tutti i dati della nostra sonda di Nettuno solo perché qualcuno ci ha tagliato i fondi? Il vero problema di queste lunghe missioni lontane dal nostro pianeta non è nel corretto funzionamento degli strumenti, ma nell'affidabilità finanziaria. Il pubblico è disposto a pagare milioni per uno dei tuoi concerti, ma neppure un centesimo per qualcosa che non capisce... — Io non... — La gente vuol dimenticare i propri guai, divertirsi... e chi può biasimarla? Perciò, per competere con i film, con gli spettacoli sportivi, e con la gente come te, gli astri della musica e delle canzoni, per non parlare di altre diecimila meritevoli cause pubbliche e private, noi dobbiamo dare al pubblico ciò che vuole. È mia responsabilità offrire al pubblico questo prodotto, cosicché i «veri scienziati» possano starsene seduti nei loro istituti lustri e luminosi, con mezzo miliardo di dollari di apparecchiature intorno a loro, a parlare di «rispetto per la ricerca»! Fece una pausa, mentre Shannon continuava a fissarlo ostinatamente. Poi aggiunse: — Pensaci. E quando saprai dirmi in qual modo ciò che hai fatto come musicista è moralmente superiore a quello che stiamo facendo adesso, o più valido, potrai venire nel mio ufficio e dirmi chi è il vero ipocrita. Ma prima pensaci bene... pensateci bene tutti. — Quindi Reed si voltò e uscì dalla stanza. Stettero in silenzio finché le ante della porta in fondo alla stanza smisero di oscillare. — Be'... — Garda fissò il suo bastone da passeggio, poi abbassò lo sguardo sul suo maglione. — Un punto a suo favore. Shannon si sporse in avanti, facendo passare le dita sulla complessa, affascinante struttura del sintetizzatore, mentre la mescolanza degli effetti del disappunto e della caffeina ricacciavano indietro la fatica. — Sì, lo so. Ma non è questo che mi sforzavo di dire! Io non volevo far cambiare idea a T'uupieh, o andarmene da questo progetto perché trovo insopportabile che tutto ciò sia offerto al pubblico. È il modo in cui viene venduto, come una specie di spettacolo di perversioni porno-omicide, che non posso sopportare... — Ricordò quel certo tipo di notorietà di cui avevano goduto i concerti rock, quando lui era bambino; ma adesso apparivano rispettabili quanto
un concerto di musica sinfonica, paragonati agli «spettacoli elettrizzanti» che li avevano eclissati man mano che lui era cresciuto, dove i protagonisti rischiavano la propria vita per un premio d'un milione di dollari davanti a una folla che interveniva sbavando all'idea di vederli perdere; dove i masochisti si guadagnavano da vivere automutilandosi; dove si proiettavano i film-verità di massacri e di morte. — Voglio dire, è questo che tutti vogliono veramente? Davvero tutti si sentono meglio guardando il sangue che sprizza dal corpo dei loro simili? Oppure adesso si pensa, addirittura, che noi ne trarremo una sorta di superiorità morale, nel vederlo accadere su Titano, invece che quaggiù? — Si voltò a fissare lo schermo, dove T'uupieh continuava a dormire, immobile e irremovibile. — Se riuscissi a far cambiare idea a T'uupieh, oppure a far cambiare ciò che sta accadendo qui, allora, forse, potrei sentirmi soddisfatto, sì... sentirmi meglio. Se non altro di fronte a me stesso. Ma... — scosse la testa, — ... chi sto prendendo in giro, parlando così? — T'uupieh aveva avuto ragione fin dall'inizio, e adesso anche lui era costretto ad ammetterlo: non c'era mai stato alcun modo di cambiare l'una o l'altro. — T'uupieh non è un mostro, semplicemente è come tutti loro, preferirebbero tagliarsi la mano, piuttosto che stringertela... E facendo lo stesso per interposta persona, significa che noi non siamo migliori. E che nessuno di noi lo sarà mai. — Le parole di una canzone più vecchia di lui gli si insinuarono nella mente, con improvvisa ironia: — «Le mani di un solo uomo non possono... — egli cominciò a spegnere il terminal, — ... costruire tutto». — Hai bisogno di dormire... tutti abbiamo bisogno di dormire. — Garda si alzò dalla sedia con movimenti rigidi. — «... Ma uno e uno e uno e cinquanta fanno un milione» — fece sua madre a bassa voce, continuando inaspettatamente la citazione. Shannon si girò a guardarla, la vide scuotere la testa; lei sentì che lui la stava guardando e alzò gli occhi. — Dopotutto, se T'uupieh avesse potuto accettare che tutto ciò che lei faceva era moralmente cattivo, allora che cosa sarebbe avvenuto di lei? Lo sapeva fin troppo bene: ne sarebbe stata distrutta... noi l'avremmo distrutta. Sarebbe stata spazzata via, finendo affogata nella marea della violenza. — Sua madre guardò Garda, poi riportò lo sguardo su di lui: — T'uupieh, a prescindere da ogni altra cosa, è una realista. Egli sentì stringersi la sua bocca contro il risentimento in cui si estrinsecava un'emozione più profonda e più dolorosa; sentì il grugnito d'indignazione di Garda.
— Ma questo non significa che tu ti sia sbagliato o abbia fallito. — Molto generoso da parte tua. — Si alzò in piedi a sua volta, facendo un cenno a Garda col capo, e si diresse verso l'uscita. — Vieni. — Shannon. Egli si fermò senza voltarsi. — Non credo che tu abbia fallito. Credo che tu sia riuscito a toccare T'uupieh nell'intimo. L'ultima cosa che ha detto è stata: «Non posso cambiare il domani. Soltanto tu puoi farlo»... Credo che ella abbia sfidato il demone ad agire, a fare ciò che lei non poteva da sola. Sono convinta che ti ha chiesto di aiutarla. Egli si voltò lentamente: — Credi davvero? — Sì, lo credo. — Chinò la testa, liberando le ciocche di capelli che le si erano infilate nel collo del maglione. Lui ritornò al suo seggiolino imbottito, le sue dita sfiorarono le piastre ora buie, inerti. — Ma non servirebbe a nulla parlarle di nuovo. In qualche modo il demone deve fermare lui stesso l'attacco. Se soltanto potessi usare la «voce» per avvertirli... Maledizione a questa enorme distanza, al ritardo delle comunicazioni! — Quando la sua voce li avesse raggiunti, l'attacco sarebbe ormai già terminato. Come avrebbe potuto cambiare qualcosa «domani», con quelle due eterne, irrimediabili ore di ritardo? — So come aggirare il problema del ritardo. — Come? — Garda si sedette a sua volta, lasciando trasparire una ridda di emozioni sul suo ampio volto rugoso. — Non puoi inviare un avvertimento prima del tempo. Nessuno può sapere quando passerà Klovhiri. Potrebbe arrivare troppo presto o troppo tardi. Shannon si rizzò sul seggiolino: — Sarebbe meglio chiedere «perché?» — Si rivolse a sua madre. — Perché hai cambiato idea? — Non ho mai cambiato idea — rispose pacatamente sua madre. — E neppure mi è mai piaciuto tutto questo. Quand'ero ragazza, avevamo l'abitudine di credere che le nostre azioni potessero cambiare il mondo; forse non ho mai smesso di volerlo credere. — Ma a Marcus non piacerà che ci mettiamo a tramare dietro la sua schiena. — Garda agitò il suo bastone. — E che mai potreste obiettare al fatto che, forse, è proprio vero che abbiamo bisogno di questa pubblicità? Shannon si voltò a guardarla, irritato: — Pensavo che tu fossi dalla parte degli angeli, non l'avvocatessa del diavolo. — Ma io sono dalla parte degli angeli! — Garda fece una smorfia. — Però...
— E allora che cosa c'è che non va nel fatto che la sonda cercherà di compiere un salvataggio all'ultimo minuto? Non sarà anche questa una notizia sensazionale? Vide che sua madre sorrideva, per la prima volta dopo tanti mesi. — Sensazionale... sempre che T'uupieh non ci abbandoni in mezzo alla palude, per il nostro tradimento. Shannon replicò, in tono più calmo: — No, se T'uupieh desidera veramente il nostro aiuto. E io so che lo vuole... Lo sento. Ma in che modo potremo aggirare l'ostacolo del ritardo? — Io sono l'ingegnere, ricordi? Mi servirà un tuo messaggio registrato, e un po' di tempo per trafficarci sopra. — Sua madre gli indicò il terminal del computer. Shannon lo accese, e lasciò libero il seggiolino. Sua madre prese posto e cominciò a formare un programma sullo schermo, prelevando dati dalla memoria del computer. Sullo schermo si formò la scritta: TELECOMUNICAZIONI A COMANDO MANUALE. — Vediamo... — disse. — Mi servirà un controllo a retroazione sull'avvicinarsi del gruppo di Klovhiri. Shannon si schiarì la gola: — Dicevi sul serio, prima che Reed entrasse? Ella sollevò lo sguardo, e lui percepì la risposta inespressa che si formava sul volto di lei, che finì per sfumare in un nuovo sorriso: — Garda... questo è mio figlio il Linguista, no? — E quando mai ti è capitata fra le mani quella canzone di Pete Seeger? — Ma ti sei mai chiesta perché ho anche un figlio musicista? — A sua volta Shannon fu spinto a sorridere. — Ho ascoltato qualche disco, ai miei tempi — proseguì sua madre, e il suo sorriso sembrò rivolgersi, assorto, a qualche ricordo interiore, mentre continuava a fissarlo: — Credo di non averti mai detto di essermi innamorata di tuo padre perché mi ricordava Elton John. T'uupieh restò silenziosa, fissando l'occhio impassibile del demone. Il nuovo giorno stava trasformando le nuvole da cumuli bronzei in un fiammeggiare dorato; il bagliore filtrava tra le fronde scintillanti degli alberi nodosi, riflettendosi sulle verdi, lucide superfici dei dirupi e dei pendii, e infine sulla superficie brunita del carapace del demone. Lei rosicchiò le ultime sfilacciature di carne da un osso, costringendosi a nutrirsi, appena cosciente di ciò che stava facendo. Aveva già inviato degli osservatori in direzione della città, per tener d'occhio Chwiul... e il gruppo di Klovhiri. Dietro di lei il resto della banda si stava adesso preparando, provando le
armi e i riflessi, oppure riempiendosi la pancia. E il demone non le aveva ancora parlato. C'erano state altre occasioni in cui aveva scelto di non parlare per molte interminabili ore; ma dopo le sue folli farneticazioni della notte prima, lei era ossessionata dal pensiero che potesse non parlarle mai più. La sua preoccupazione crebbe, accendendo la miccia della sua collera, che quel mattino era già fin troppa. Al punto che, in un accesso di rabbia, avanzò e sconsideratamente colpì la sonda con la mano aperta: — Parlami, mala'ingga! Ma quando la sua mano toccò la superficie, un dolore, come una fiammata incandescente, le attraversò fulmineo i muscoli del braccio. Ella balzò indietro con un'esclamazione di sorpresa, scrollando la mano. Mai prima di allora il demone aveva reagito contro di lei, mai le aveva fatto del male in alcun modo. Ma lei, non aveva mai osato colpirlo prima di allora, lo aveva sempre trattato con calcolato rispetto. Sciocca! Ella si guardò la mano, temendo di vederla malamente ustionata, il che avrebbe costituito una grave menomazione per l'attacco di oggi. Ma la pelle era perfettamente liscia e senza vesciche, e soltanto un'intensa sensazione di bruciore testimoniava della scossa ricevuta. — T'uupieh, stai bene? Si girò e vide Y'lirr, che le era giunto silenziosamente alle spalle, fra il serio e lo spaventato. — Sì — lei annuì, frenando una risposta più tagliente alla vista della sua preoccupazione. — Non è stato nulla. — Egli le aveva portato il suo arco doppio e la faretra, lei si protese ad afferrarli proprio con la mano che le faceva male, con gesto disinvolto, e se li infilò a tracolla. — Vieni, Y'lirr, noi dobbiamo... — T'uupieh. — La voce arcana del demone la chiamò all'improvviso. — T'uupieh, se credi nel mio potere di cambiare il destino a volontà, allora devi tornare indietro e ascoltarmi. Ella si voltò; sentì Y'lirr esitare alle sue spalle. — Sì, io credo in tutti i tuoi poteri, mio demone! — Si sfregò la mano colpita. Le profondità ambrate dell'occhio assorbirono la sua espressione, lessero la sua sincerità; o per lo meno, lei lo sperò. — T'uupieh, so che non sono riuscito a convincerti. Ma voglio che tu... — le sue parole si fecero inintellegibili, — ... in me. Voglio che tu sappia il mio nome. T'uupieh, il mio nome è... Ella udì Y'lirr che, dietro di lei, lanciava un grido di orrore. Girò la testa, vide che si copriva gli orecchi; poi si voltò nuovamente a fissare il demone, paralizzata dall'incredulità.
— ... Shang'ang. Questa parola la sferzò quanto il fuoco del demone, ma questa volta fu colpita soltanto la sua mente. T'uupieh urlò, protestando disperatamente, ma il nome era già penetrato nella sua coscienza. Troppo tardi! Passò un lungo attimo, poi ella respirò profondamente e scosse la testa. L'incredulità l'inchiodava ancora alla sua immobilità, mentre lasciava che i suoi occhi scrutassero l'accampamento che andava illuminandosi e ascoltava i suoni della foresta che si risvegliava, respirando l'acidulo aroma dei germogli di primavera. Poi, scoppiò a ridere. Aveva udito un demone pronunciare il proprio nome, e lei viveva ancora! E non era né cieca, né sorda, né pazza. Il demone aveva scelto lei, si era unito a lei, si era finalmente arreso a lei! Stordita dall'improvvisa esultanza, non si rese conto, sulle prime, che il demone aveva continuato a parlarle. Ma subito interruppe la canzone trionfale che s'innalzava dentro di lei, e ascoltò: — ... Quindi ti ordino di condurmi con te quando partirai quest'oggi. Devo vedere ciò che accade a Klovhiri e ai suoi. — Sì! Sì, mio... Shang'ang. Sarà fatto come tu desideri. Il tuo capriccio è il mio desiderio. — Ella si girò e cominciò a scendere il pendio, ma si arrestò là dove Y'lirr si era gettato a terra quando il demone aveva pronunciato il proprio nome. — Y'lirr? — Ella lo spinse col piede. Provò sollievo quando vide che alzava la testa; vide la propria incredulità riflessa sul volto di lui, quand'egli la fissò. — Mia signora... non ti ha... — No, Y'lirr — lei gli rispose in un sussurro. Poi aggiunse, in tono più brusco: — Naturalmente non l'ha fatto! Adesso io sono veramente la Consorte del Demone, nessun ostacolo potrà più fermarmi. — Lo urtò nuovamente col piede, con più forza. — Alzati. Che cosa mai ho qui con me, un branco di codardi piagnucolanti pronti a rovinare il mattino del mio trionfo? Y'lirr si tirò su in piedi, ripulendosi. — Questo mai, T'uupieh! Siamo pronti a qualunque tuo ordine! Pronti a eseguire la tua vendetta. — La sua mano si strinse intorno all'elsa del pugnale. — E il mio demone si unirà a noi! — L'orgoglio echeggiava nella sua voce. — Fatti aiutare da qualcuno e porta qui una slitta. E di' agli uomini di muoverlo con la maggior delicatezza. Egli annuì, lanciò una rapida occhiata al demone e T'uupieh colse nei suoi occhi un lampo di paura misto a invidia. — Buone notizie — lo rassi-
curò. Poi Y'lirr si allontanò, brusco e rozzo come sempre, senza neppure voltarsi a guardarla. Ella udì un clamore levarsi dal campo, e si voltò, aguzzando gli occhi, pensando che la novità del demone si fosse già diffusa. Ma poi vide Lord Chwiul che stava arrivando, come aveva promesso, guidato nella radura dalla scorta che lei gli aveva inviato. Lo fissò sgranando gli occhi: era venuto davvero da solo, ma cavalcava un bliell. Erano montature rare e costose, essendo le uniche bestie che lei conosceva in grado di reggere a tanto peso, ma anche cattive e difficili da addestrare. Ella osservò quest'esemplare che azzannava l'aria, i denti aguzzi che sporgevano dalle labbra carnose gocciolanti saliva, ed ebbe un lieve sorriso. Vide che la scorta si teneva a debita distanza dai piedi palmati grossi come ceppi, le lance protese pronte a conficcarsi nelle sue carni per ridurlo alla ragione. Era un anfibio, troppo pesante per riuscire a volare con le sue gracili ali, ma era assai agile e un eccellente nuotatore. T'uupieh considerò brevemente le dita palmate delle sue mani e dei piedi, le ali che adesso riuscivano a stento a sollevare il suo corpo per pochi istanti, e tornò a chiedersi, così come l'aveva fatto tante volte, quale strano tiro del destino avesse formato, o trasformato, tutti loro. Vide Y'lirr parlare con Chwiul, voltandosi a indicarla, vide il suo sogghigno insolente e la traccia di apprensione che Chwiul mostrò, guardando a sua volta verso di lei. T'uupieh fu certa che gli avesse detto: — Lei conosce il suo nome. Chwiul cavalcò, venendole incontro, controllando l'espressione del proprio viso mentre si sottoponeva all'esame del demone. T'uupieh allungò una mano accarezzando lievemente, con distratta disinvoltura, il fianco sensualmente curvo del demone sfaccettato come un gioiello. I suoi occhi lasciarono per un attimo Chwiul, istintivamente attirati dal cielo sopra di lui, e per un mezzo istante vide squarciarsi le nubi... Ammiccò, per distinguere più chiaramente, ma quando guardò di nuovo era scomparso. Nessun altro, neppure Chwiul, aveva visto il disco gibboso d'oro verdastro, attraversato da una riga argentea e chiazzato di nero: la Ruota della Vita. Mantenne il proprio viso senza espressione, ma il cuore accelerò i battiti. La Ruota appariva soltanto quando la vita di qualcuno stava per essere cambiata profondamente, e di solito il cambiamento significava morte. La cavalcatura fece un improvviso scarto, quando Chwiul la fermò. Lei restò immobile accanto al demone, ma un po' della bava bluastra del bliell
finì sul suo mantello quando Chwiul diede uno strattone alla massiccia testa. — Chwiul! — Ella lasciò che la sua emozione sgorgasse sotto forma di collera. — Tieni quella sporcizia sbavante sotto controllo, altrimenti la farò uccidere! — Le sue dita accarezzarono la pelle liscia del demone. Il mezzo sorriso di Chwiul svanì, ed egli tirò indietro la sua cavalcatura, fissando a disagio l'occhio del demone. T'uupieh tirò un profondo sospiro, e a sua volta sorrise: — Così, dopotutto, non hai osato venire tutto solo al mio campo, signore. Egli si curvò leggermente sulla sella: — Semplicemente ho esitato ad avventurarmi in questa palude a piedi, da solo, finché i tuoi non mi avessero incontrato. — Capisco. — Ella conservò il suo sorriso. — Bene, allora... Presumo che tutto si stia svolgendo come tu hai progettato. Klovhiri e il suo gruppo sono tutti in cammino verso la nostra trappola? — Lo sono. E la loro guida aspetta soltanto il mio segnale, per condurli lontano dal terreno sicuro, in qualunque pantano tu scelga. — Bene. Ho in mente un punto tutto circondato da alture. — Ella ammirava l'autocontrollo di Chwiul in presenza del demone, anche se percepiva il suo sforzo per mostrarsi calmo. Vide alcuni dei suoi che venivano verso di loro, con una slitta per trasportare il demone lungo la loro pista. — Il mio demone ci accompagnerà, per suo stesso desiderio. Un presagio sicuro per il nostro successo, oggi, non sei d'accordo? Chwiul si aggrondò, come se volesse mettere in dubbio la cosa, senza però osare del tutto farlo. — Se ti serve fedelmente, allora sì, mia signora. Un grande onore e un buon presagio. — Mi serve con vera devozione. — Ella tornò a sorridere, insinuante. Si scostò, quando la slitta giunse in cima al poggio, e sorvegliò i suoi uomini mentre sollevavano il demone e ve lo adagiavano sopra, per essere sicura che la sua gente usasse la giusta delicatezza. La rinnovata deferenza con cui i fuorilegge trattavano il demone, e il loro capo, non sfuggì né a Chwiul né a lei. Alla fine chiamò a raccolta la sua gente, e tutti si misero in moto verso la loro destinazione, aprendosi la strada sopra la superficie fumante dell'acquitrino e fra i viscidi tentacoli blu-ardesia del fragile sottobosco che si andava scongelando. T'uupieh si congratulò con se stessa per il fatto che lei e i suoi uomini avevano percorso così spesso quel territorio, poiché le macchie inestricabili della vegetazione primaverile e la muschiosa imprevedibilità del terreno alteravano da un giorno all'altro i percorsi agibili. Lei
sperava di separare Chwiul dalla sua orrenda cavalcatura, ma dubitava che lui avrebbe accondisceso, e comunque temeva che non sarebbe riuscito a reggere al loro passo se fosse venuto a piedi. Il demone era saldamente legato alla sua slitta, e i portatori, madidi di sudore, continuavano a trainarlo senza un solo lamento. Finalmente raggiunsero le alture che sovrastavano la strada principale, anche se difficilmente avrebbe potuto esser definita così, adesso, che conduceva al maniero della sua famiglia. Ella fece disporre il demone in posizione tale da consentirgli di guardare per un lungo tratto lungo la pista cespugliosa, nella direzione da cui Klovhiri sarebbe arrivato, e mandò alcuni dei suoi seguaci a sistemare, ben nascosti, i suoi «occhi» più in là lungo il percorso. Poi ella restò immobile a guardar giù verso il punto in cui la pista sembrava biforcarsi. In realtà, la falsa biforcazione seguiva i bordi giallastri alla base del dirupo, sotto di lei, e finiva direttamente dentro un'ampia pozza di fanghiglia provocata dalla miscela d'acqua e ammoniaca che filtrava giù attraverso le rocce sulfuree, porose. Lì, l'intero gruppo si sarebbe trovato a diguazzare, mentre lei e la sua banda li avrebbero colpiti uno ad uno come ngip schiacciati contro un muro... ella schiacciò istintivamente un ngip che si era appoggiato alla sua mano. A meno che il demone... a meno che il demone non decidesse per un esito del tutto diverso... — Nessun segno? — Chwiul si avvicinò a lei sempre in sella del suo bliell. Ella si spostò leggermente indietro dall'orlo friabile del dirupo, voltandosi a fissarlo con attenzione. — Non ancora, ma presto. — Aveva appostato alcuni uomini anche sul pendio più basso, sull'altro lato della pista; ma neppure gli occhi del suo demone potevano scrutare molto in profondità attraverso il fitto fogliame. Esso non aveva mai parlato, dall'arrivo di Chwiul, e lei non si aspettava che proprio adesso si mettesse a rivelare i propri segreti. — Che livrea indossano quelli della tua scorta, e quanti di loro vuoi che ne uccidiamo, per rispettare la messa in scena? — Si tolse da tracolla l'arco e cominciò a saggiarne la tensione. Chwiul scrollò le spalle: — I morti non raccontano storie: uccidili tutti. Presto gli uomini di Klovhiri saranno miei. Uccidi anche la guida: un uomo che si fa comperare una volta, può farsi comperare anche una seconda. — Ah. — Lei annuì, sogghignando. — Un uomo della tua prudenza e della tua discrezione andrà lontano nel mondo, mio signore. — Incoccò una freccia sull'arco, prima di voltarsi un'altra volta a scrutare la strada. Era ancora vuota. Fissò inquieta le lontane montagne seghettate, verde-
azzurro e argentee, ammantate di nebbia, dai rilievi ghiacciati, crivellati di cavità, un tempo altissime su di lei, ora monche e sgocciolanti lungo i bordi del lago più vicino. Il lago dove la scorsa estate lei si era levata in volo... Un movimento accennato, poco più di un fremito, un leggero rumore innaturale, le fecero riportare lo sguardo sulla strada. La tensione irrigidì i suoi fluidi movimenti, mentre lanciava il trillante richiamo che avrebbe fatto accorrere quelli della sua banda ai posti prefissati lungo il bordo del dirupo. Finalmente! T'uupieh si sporse avidamente in avanti per cogliere la prima immagine di Klovhiri; individuò la guida, e poi la slitta che trasportava sua sorella. Contò il numero dei componenti della scorta, li vide emergere tutti nel tratto spoglio del sentiero. Ma Klovhiri... dov'era Klovhiri? Ella si voltò verso Chwiul, gli sussurrò, sferzante: — Dov'è? Dov'è Klovhiri? L'espressoine di Chwiul era beffarda e colpevole insieme. — È stato trattenuto. È rimasto in città, ha detto che c'erano ancora faccende a corte... — Perché non me l'hai detto? Chwiul diede un improvviso strattone alle redini del bliell: — Non cambia nulla! Possiamo pur sempre sradicare la sua famiglia. Ciò mi lascerà primo nella lista per l'eredità... e Klovhiri potrà sempre essere abbattuto più tardi. — Ma è Klovhiri che voglio... per me. — T'uupieh sollevò l'arco e puntò la freccia verso il suo cuore. — Sapranno chi incolpare, se morirò! — Egli allargò un'ala, sulla difensiva. — Il Feudatario si rivolgerà contro di te una volta per tutte, ci penserà Klovhiri. Vendicati di tua sorella, T'uupieh... ed io ti compenserò bene, se manterrai il patto! — Questo non è il patto che abbiamo sottoscritto! — Il rumore del gruppo che si avvicinava ora le giunse chiaramente dal basso; udì la risata argentina di un bimbo. I suoi fuorilegge, acquattati, erano in attesa del suo segnale; ed ella vide Chwiul che stava per lanciare il richiamo alla guida. Lei guardò il demone dietro di sé, il suo occhio d'ambra era fisso sui viaggiatori, là in basso. Fece per avvicinarsi ad esso. Il demone avrebbe potuto ancora cambiare il destino per lei... Oppure l'aveva già fatto? — Tornate indietro! Tornate indietro! — La voce del demone esplose sopra di lei, e rotolò giù attraverso il bosco silenzioso, come una valanga. — Imboscata... trappola! Siete stati traditi! — ... Tradimento! Ella udì appena la voce di Chwiul in mezzo al frastuono; guardò dietro
di sé, in tempo per vedere il bliell che balzava avanti, per tagliarle il cammino verso il demone. Chwiul sguainò la spada, e lei vide il suo volto sbiancato da una collera irrefrenabile, non non avrebbe saputo dire se contro il demone o lei stessa. Si precipitò allora di corsa contro la slitta e il demone, cercando nuovamente d'impugnare l'arco e le frecce; ma il bliell coprì la distanza in due soli, immensi balzi, la sua testa si girò di scatto verso di lei, le mascelle si spalancarono. I piedi di T'uupieh scivolarono nella poltiglia viscida, ed ella cadde al suolo, mentre le fauci della bestia si chiudevano con un colpo secco nel punto dove un attimo prima c'era la testa. Una zampa, sferzando l'aria, la colpì casualmente, schiacciandola ancor di più al suolo, mandandola a sbattere, contemporaneamente, dopo aver scavato un solco nella melma, ai piedi del demone... Il demone. Ella annaspò, nel tentativo d'inspirare l'aria che non voleva riempire i suoi polmoni, cercando d'invocare il suo nome; vide con incredibile chiarezza la bellezza della sua forma, e per contrasto l'ululante orrore del bliell che si precipitava su di loro, per distruggerli entrambi. Lo vide impennarsi sopra di lei, sopra il demone... vide Chwiul... non seppe se lui stesso avesse compiuto il balzo, o fosse stato scagliato via, schizzare attraverso l'aria... e finalmente la voce le ritornò e riuscì a gridare il nome, allarme e implorazione insieme: — Shang'ang! E quando il bliell calò giù, un lampo guizzò fuori come una sferza dal carapace del demone e avvolse la bestia tra le fiamme. L'ululato del bliell salì stridulo fra le alte frequenze fino a risultare inaudibile; T'uu-Pieh si coprì gli orecchi per proteggersi da questo trafiggente spasimo di dolore. Ma continuò a guardare, affascinata, la bestia che, come svuotata all'improvviso d'ogni energia, interrompeva la sua carica e si abbatteva all'indietro, rotolando e rimbalzando su se stessa, fino a schiantarsi al suolo stecchita. T'uupieh si accasciò ai piedi del demone, travolta da un'ondata di gratitudine mentre avidamente si riempiva d'aria i polmoni doloranti, e volse lo sguardo verso... Vide Chwiul, afferrato dalle correnti ascendenti oltre l'orlo del dirupo, che planava con esasperante lentezza... e le tre frecce che gli sporgevano dalla schiena; all'improvviso scivolò fuori dalle correnti e, perso il sostegno, scomparve oltre le rocce. Ella sorrise, e si portò le mani al viso. — T'uupieh! T'uupieh! Ella di nuovo guardò, ammiccando, rassegnata, la gente che si radunava intorno a lei. La mano di Y'lirr, protesa a sfiorarla, si ritrasse di scatto
quando lei alzò il viso a fissarlo, e sorrise, a lui e a tutti gli altri; ma non era lo stesso sorriso che aveva avuto per Chwiul. — Y'lirr... — Gli porse la mano e consentì che l'aiutasse ad alzarsi. Aveva lividi su tutto il corpo e fitte di dolore la trafiggevano ad ogni movimento, ma lei valutò, con sicurezza, che l'unico vero danno subito dal suo corpo era una lacerazione stillante siero all'ala. Tenne le braccia premute sui fianchi. — T'uupieh... — Mia signora... — Che cosa è successo? Il demone... — Il demone mi ha salvato la vita. — Con un gesto imperioso intimò il silenzio. — E altresì... per qualche sua misteriosa ragione... ha sventato il complotto di Chwiul. — La constatazione di quanto era accaduto, e ciò che esso implicava soltanto adesso furono chiari nella sua mente. Si girò di scatto e per lunghi istanti fissò l'occhio inscrutabile del demone. Poi si allontanò, raggiungendo con passi rigidi l'orlo del dirupo, e guardò giù. — Ma il patto... — insisté Y'lirr. — Chwiul ha violato il patto! Non mi ha dato Klovhiri. — Nessuno protestò. T'uupieh aguzzò lo sguardo, cercando di penetrare la boscaglia, indovinando senza troppe difficoltà il punto dove Ahtseet e i suoi si erano gettati a terra, laggiù. Adesso la risata argentina del bambino si era trasformata in un piagnucolio lamentoso. Il corpo di Chwiul giaceva scomposto sulla piatta fangosa, in piena vista di tutti; a T'uupieh parve di vedere che il numero delle frecce conficcate sul suo cadavere fosse aumentato. L'avevano forse crivellato anche le guardie di Ahtseet, scambiandolo per un aggressore? Quest'idea le piacque. E una voce sottile, dentro di lei, le bisbigliò che il fatto che Ahtseet fosse scampata alla morte le piaceva ancora di più... Ma T'uupieh all'improvviso si aggrondò a questo pensiero. Ahtseet l'aveva scampata, sì, e anche Klovhiri e perciò tanto valeva che lei si servisse di questo fatto incontestabile per salvare quello che poteva. Restò in silenzio ancora per un paio di minuti, raccogliendo i suoi pensieri alquanto scossi. — Ahtseet! — La sua non era la voce del demone, ma echeggiò in modo soddisfacente. — Sono T'uupieh! Vedi il corpo del traditore che giace davanti a te?... Il fratello del tuo compagno, Chwiul! Egli aveva prezzolato degli assassini per ucciderti nella palude. Agguanta la tua guida! Costringila a confessare l'intero complotto! Soltanto grazie all'avvertimento del mio demone sei ancora viva! — Perché? — La voce di Ahtseet risuonò debole e tremula nel vento. T'uupieh sorrise amaramente: — Perché, tu chiedi? Per sgomberare le
strade dalle canaglie. Per far sì che il Feudatario ami ancora di più la sua fedele servitrice e la ricompensi ancora di più, cara sorella! E per far sì che Klovhiri mi odii. Possa egli masticarsi le budella dalla rabbia di dovere a me la vostra vita! Orsù, Ahtseet, passa liberamente attraverso le mie terre; te ne dò il permesso, questa volta. Si tirò indietro dal ciglio del dirupo e si allontanò a passi stanchi. Non le importava affatto che Ahtseet le credesse o no. La sua gente la stava aspettando, raccolta silenziosamente intorno al cadavere del bliell. — E adesso? — chiese Y'lirr, guardando il demone, ponendo la domanda a nome di tutti loro. Ella rispose, ma rivolgendosi direttamente al silenzioso occhio d'ambra del demone: — Sembra che dopotutto io abbia detto la verità a Chwiul, mio demone... Gli dissi, infatti, che non avrebbe più avuto bisogno della sua casa di città dopo quest'oggi... Forse il Feudatario lo giudicherà un giusto scambio. Forse si potrà trovare una sistemazione che accontenti tutti... perché la Ruota della Vita ci trasporta tutti, ma non con uguale comodità. Non è forse cosi, mio bellissimo Shang'ang? Ella accarezzò teneramente il carapace della sonda, riscaldato dalla luce del giorno, e si sedette, comoda, sul terreno che si stava ammorbidendo, in attesa della sua risposta. JEFFTY HA CINQUE ANNI Jeffty Is Five di Harlan Ellison The Magazine of Fantasy & SF, luglio 1977 Harlan Ellison ha vinto più premi Nebula e Hugo di qualsiasi altro scrittore (più di dieci). Scrittore estremamente discusso e controverso, personaggio aspro, fiammeggiante, rissoso, estroverso, di una vivacità incredibile, Ellison ha la lingua più svelta e tagliente della science fiction (così lo descrive Isaac Asimov nell'introduzione a un altro racconto vincitore di un premio Hugo). Ellison ha una fama grandissima e l'ha raggiunta, a differenza di tutti gli altri «Grandi», scrivendo soltanto racconti. Ma i suoi racconti sono davvero unici: rabbiosi, ribollenti di un'emotività forte e fremente, posseggono spesso anche un'incredibile carica di sentimento e d'amore. Jeffty is Five è un esempio dei migliori: qui vediamo Ellison nella sua vena nostalgica, con una dolcezza e un'atmosfera lontana anni-luce dalla violenza che spesso scaturisce a fiotti da questo vero e
proprio «guerriero di Hollywood». Ma sono proprio queste contraddizioni che lo rendono così umano e lo fanno accettare anche dai suoi tanti nemici. Quando avevo cinque anni, c'era un ragazzino con cui giocavo, Jeffty. Il suo vero nome era Jeff Kinzer, ma tutti quelli che giocavano con lui lo chiamavano Jeffty. Tutti e due avevamo cinque anni, e ci divertiva molto giocare insieme. Quando avevo cinque anni una Clark Bar era grossa da ogni parte come il manico di una mazza da baseball, lunga quasi quindici centimetri, ed era rivestita di vera cioccolata, ed era piacevolmente croccante quando la si addentava a fondo, e la carta in cui era avvolta aveva un odore fresco e buono quando la si toglieva via a un'estremità, ripiegandola indietro per stringerla comodamente tra le dita senza che fondesse. Oggi una Clark Bar è sottile come una carta di credito, rivestita da qualche porcheria artificiale, dal sapore orrendo, che finge d'essere cioccolata, non scricchiola più quando la si addenta, è molliccia, e costa venti centesimi, invece degli onesti cinque di un tempo, e vi truffano avvolgendola nella carta in modo tale da farvi credere che è grossa quanto vent'anni fa, ma non è vero; è sottile, cattiva, ha un sapore ripugnante, non vale un soldo, e ancora meno venti centesimi. Quando avevo quell'età, cinque anni, fui mandato per due anni a casa di mia zia Patricia, a Buffalo (New York) perché mio padre attraversava un brutto periodo: la zia Patricia era molto bella e aveva sposato un agente di cambio. Si presero cura di me finché non ebbi sette anni. Poi tornai a casa, e subito andai a trovare Jeffty, per giocare insieme. Io avevo sette anni, Jeffty ancora cinque. Allora, non notai nessuna differenza. Che cosa potevo saperne? Avevo soltanto sette anni. A sette anni avevo l'abitudine di stendermi sulla pancia davanti alla nostra radio Atwart Kent, ad ascoltare la roba migliore. Avevo legato il filo di terra al radiatore, e me ne stavo lì sul pavimento con i miei album da colorare e le mie Crayolas (quando c'erano soltanto sedici diversi colori nella scatola), ad ascoltare la rete rossa della NBC: Jack Benny nel programma Jelly-O, Amos 'n Andy, Edgar Bergen e Charlie McCarthy nel programma di Chase e Sanborn. One Man's Family, First Nighter; la rete blu della NBC: Easy Aces, Walter Winchell, Information Please, Death Valley Days; e meglio di tutti, il Mutual Network con Green Hornet, Lone Ranger, The Shadow e Quiet Please. Oggi, quando accendo la radio della mia
macchina e vado da un'estremità all'altra del quadrante, tutto quello che ricevo sono orchestre di cento archi, oppure banali programmi per casalinghe e camionisti ottusi, in cui ospiti petulanti discutono delle loro perversioni sessuali, o musica rock così forte da farmi male agli orecchi. Quando ebbi dieci anni, mio nonno morì di vecchiaia. Io ero un ragazzino molesto, per cui mi spedirono alla scuola militare, perché qualcuno mi raddrizzasse come si deve. Tornai quando avevo quattordici anni. Jeffty aveva sempre cinque anni. Quando avevo cinque anni, ero solito andare al cinema il sabato pomeriggio, una matinée costava dieci centesimi e usavano vero burro sul popcorn, e io ero sempre sicuro che avrei visto Lash LaRue, o Wild Bill Elliot nelle vesti di Red Ryder, con Bobby Blake nei panni di Little Brever, o Roy Rogers, o Johnny Mack Brown; o un film dell'orrore come House of Horrors con Rondo Hatton nella parte dello Strangolatore, oppure Il bacio della pantera, La Mummia o Ho sposato una strega con Friedrich March e Veronika Lake, più un episodio di un grande serial come The Shadow con Victor Jory, o Dick Tracy o Flash Gordon; e tre disegni animati; e un documentario di viaggi di James Fitzpatrick; e il cinegiornale Movietone; e un programma di canzonette e, se rimanevo fino a tardi, un giro di bingo o keno, e frittelle e patatine fritte. Oggi vado al cinema e vedo Clint Eastwood che fa saltare la testa alla gente come meloni maturi. A diciotto anni andai al college. Jeffty aveva sempre cinque anni. Tornai durante l'estate per lavorare nella gioielleria di mio zio Joe. Jeffty non era cambiato. Adesso sapevo che c'era qualcosa di diverso in lui, qualcosa di strano. Jeffty aveva sempre cinque anni e non un giorno di più. A ventidue anni tornai a casa per sempre. Per aprire una filiale dei televisori Sony in città, la prima. Vedevo Jeffty, di tanto in tanto. Aveva cinque anni. Ora le cose vanno meglio in molti sensi. La gente non muore più per le vecchie malattie. Le macchine viaggiano più veloci e vi fanno arrivare a destinazione più in fretta e su strade migliori. Le camicie sono più morbide e sembrano seta. Abbiamo i tascabili, anche se costano quanto un tempo costavano i rilegati. Quando sono a corto di fondi in banca posso vivere con le carte di credito fino a quando le cose si rimettono al meglio. Ma sono più che convinto che abbiamo perso un sacco di roba buona. Lo sapevate che non è più possibile acquistare linoleum per i pavimenti, ma soltanto rivestiture in vinyl? Non ci sono più cose come le tele cerate; non respirerete mai più i buoni odori che uscivano dalla cucina di vostra nonna. I mo-
bili non sono più fatti per durare trent'anni o più, perché hanno fatto un'inchiesta e hanno scoperto che ai giovani inquilini piace buttar via l'arredamento ogni sette anni e sostituirlo con i nuovi componibili a colori. I dischi non danno la giusta sensazione; non sono spessi e robusti come quelli vecchi, sono sottili e si possono piegare... e questo non mi sembra giusto. I ristoranti non servono più la panna in caraffe, soltanto quella sbobbetta artificiale in vaschette di plastica, e una sola non basta mai a far arrivare il caffè al colore giusto. Dovunque si vada, le città sembrano tutte uguali con i loro Burger Kings e i MacDonald's e i 7-Eleven e i motel e shopping center. Le cose non potrebbero andar meglio, ma perché continuo a pensare al passato? Ciò che intendo, quando dico che aveva sempre cinque anni, non è che Jeffty fosse ritardato. No, niente di tutto questo. Intelligente come una frusta per uno di cinque anni; acuto, svelto, sveglio, uno strano ragazzino. Era alto un metro, piccolo per la sua età, ma perfettamente formato, niente testa grossa, niente mascella strana, no, niente. Un ragazzino simpatico di cinque anni, dall'aspetto normale. Salvo che avrebbe dovuto avere la mia stessa età: ventidue anni. Quando parlava, lo faceva con la voce squillante di soprano di un bambino di cinque anni; quando camminava, lo faceva con i saltelli e gli strascicamenti di un cinquenne; quando si rivolgeva a voi, rivelava gli interessi di un cinquenne... fumetti, soldatini, un pezzetto di cartone fissato sul davanti della bicicletta, cosicché il suono prodotto dai raggi che lo colpivano sembrasse il rombo di un motoscafo; e sempre domande del tipo perché quella cosa fa così e così, quanto è alto quello, quanto è vecchio quell'altro, perché l'erba è verde, a che cosa assomiglia un elefante? A ventidue anni ne aveva cinque. I genitori di Jeffty erano una coppia triste. Poiché ero amico di Jeffty, lasciavo che mi stesse ancora intorno in negozio, a volte lo portavo alla fiera o al minigolf o al cinema, e finivo per passare un po' di tempo con loro. Non che me ne importasse molto, poiché erano così spaventosamente deprimenti. Ma d'altronde immagino che non ci si potesse aspettare molto di più da quei poveri diavoli. Essi avevano in casa una creatura aliena, un bambino che non era andato oltre i cinque anni in ventidue anni, che dava loro la delizia di quell'eterna, speciale condizione infantile, ma che gli negava, contemporaneamente, la gioia di veder crescere un bambino fino a diventare un adulto normale. I cinque anni sono un meraviglioso momento della vita per un bam-
bino... o meglio, possono esserlo, se il bambino è relativamente libero dalle mostruose bestialità in cui indulgono gli altri bambini. È il tempo in cui gli occhi sono spalancati e la mente non è ancora imprigionata in schemi, quando ancora non si è stati condizionati ad accettare ogni cosa come immutabile e senza speranza; un'epoca in cui le mani non riescono mai a fare abbastanza, la mente non può mai esser sazia, il mondo è infinito e colorato, e pieno di misteri. I cinque anni sono un momento speciale prima che essi prendano l'anima indagatrice, generosa, insaziabile del giovanissimo sognatore e la caccino in quelle tetre scatole che sono le aule scolastiche. Un'epoca anteriore all'imprigionamento di quelle mani esitanti che vogliono toccare ogni cosa, afferrare ogni cosa, capire ogni cosa, sopra la superficie di un banco. Un tempo precedente ammonimenti del tipo: «Comportati bene», e «Devi maturare», e «Non fare il bambino». È un'epoca in cui il bambino è ancora grazioso e sensibile ed è il tesoro di tutti. Un tempo di delizie, di meraviglia e d'innocenza. Jeffty era rimasto incollato a quel tempo, soltanto cinque anni, cinque. Ma per i suoi genitori era un incubo continuo dal quale nessuno, né assistenti sociali, né preti, né psicologi infantili, né insegnanti, né amici, né psichiatri e nessun altro mago della medicina, avrebbe mai potuto svegliarli con uno schiaffo o uno scrollone. Per diciassette anni il loro dolore era cresciuto, da una fase all'altra, prima l'incredulo stupore, poi la comprensione, e da questa la preoccupazione, la paura, la confusione, e poi la rabbia, l'antipatia, l'odio più scoperto, e alla fine la ripugnanza e il disgusto più profondo, per finire con la più desolata accettazione. John Kinzer era un caporeparto alla «Balder Tool & Die». Un uomo sulla cinquantina. Per tutti, salvo per colui che la viveva, la sua vita era tremendamente monotona. Niente di speciale, di eccezionale, salvo il fatto di aver generato un ventiduenne di cinque anni. John Kinzer era un uomo piccolo, morbido, privo di spigoli, con due occhi pallidi che non sembravano mai fissare i miei per più di qualche secondo. Egli si spostava continuamente sulla sua sedia durante la conversazione, e pareva vedesse cose nell'angolo in alto della stanza, cose che nessun altro poteva... o voleva vedere. Presumo che la sua qualifica più adatta fosse ossessionato. Ciò che la sua vita era diventata... be', ossessionato gli andava a pennello. Leona Kinzer cercava coraggiosamente di essere all'altezza. Non importava a quale ora della sua giornata capitassi a casa sua, ella cercava sempre di appiopparmi del cibo. E quando Jeffty era in casa, ella gli stava
sempre addosso per farlo mangiare: — Tesoro, vuoi un arancio? Un bell'arancio? O un mandarino? Ho dei mandarini, qui. Potrei sbucciarti un mandarino. — Ma c'era chiaramente una tale paura in lei, la paura di suo figlio, che quelle offerte avevano sempre un suono vagamente sinistro. Leona Kinzer era stata una donna alta, ma gli anni l'avevano incurvata. Sembrava sempre cercare una nicchia, un punto qualunque della parete rivestita di carta da parati in cui svanire, assumere una colorazione mimetica a chiazze rosa, e nascondersi per sempre alla vista dei grandi occhi castani del bambino, cosicché passandole davanti cento volte al giorno, non si rendesse conto che lei era lì, invisibile, trattenendo il fiato. Le sue mani erano rosse a furia di spolverare e lavare. Come se mantenendo immacolate le stanze ella potesse scontare il suo immaginario peccato: l'aver messo alla luce quella straordinaria creatura. Né John né Leona Kinzer guardavano troppo la televisione. La casa era di solito mortalmente silenziosa, non c'era neppure il sottile gorgogliare dell'acqua nei tubi, lo scricchiolio delle travi di legno che si assestavano, il ronzio del frigorifero. Spaventosamente silenziosa, come se perfino il tempo, nel passare, si tenesse volutamente discosto da essa. In quanto a Jeffty, era inoffensivo. Egli viveva in quell'atmosfera di ovattata paura e di ottuso disgusto, e se effettivamente lo capiva, non lo diede mai a vedere in alcun modo. Giocava come gioca un bambino, e sembrava felice. Ma doveva aver percepito, alla maniera di un bambino di cinque anni, quanto alieno era in loro presenza. Alieno. No, questo non era esatto. Egli era troppo umano, semmai. Ma fuori fase, non sincronizzato col mondo intorno a lui, e risonante su una vibrazione diversa da quella dei suoi genitori. Dio solo lo sa. E gli altri bambini non volevano giocare con lui. Man mano che crescevano e diventavano più grandi di Jeffty, lo trovavano sulle prime troppo bambino, poi non interessante, poi semplicemente spaventoso, mentre si andavano accorgendo, col prender forma della loro percezione dell'invecchiamento, che lui non era toccato dal tempo come loro. Perfino quelli più piccoli della sua età, che capitavano per caso dalle sue parti, finivano per allontanarsi rapidamente da lui, come un cane, in strada, corre via al fragore dell'accensione di un'auto. Così, io rimasi il suo solo amico. Un amico molto più vecchio di lui. Cinque anni. Ventidue anni. Mi era simpatico: molto più di quanto io riesca ad esprimere. Non ho mai capito perché. Ma era così, senza riserve. Ma poiché passavo del tempo insieme a Jeffty, scoprii che passavo del
tempo, per obbligo di cortesia, con John e Leona Kinzer. A cena, a volte il sabato pomeriggio, un'ora o giù di lì quando riaccompagnavo a casa Jeffty dal cinema. Essi mi erano grati fino al servilismo. Io li sollevavo dall'imbarazzante compito di uscire con lui, di dover fingere di fronte al mondo che erano i genitori amorevoli di un bambino perfettamente normale, grazioso, felice. La loro gratitudine si spingeva fino a ospitarmi il più possibile. Ma ogni istante di quel loro scoramento era... ripugnante. Provavo dispiacere per quei poveri diavoli, ma li disprezzavo per la loro incapacità di amare Jeffty, così vivace e amabile. Non lo diedi mai a vedere, neppure durante le serate in loro compagnia, imbarazzanti fino all'inverosimile. Sedevamo lì, in soggiorno... quel soggiorno sempre buio che andava oscurandosi nel crepuscolo, come se la densa penombra che vi gravava in permanenza potesse nascondere al mondo esterno la perenne ignominia che invece luci brillanti avrebbero impietosamente rivelato al mondo: sedevamo lì, dunque, guardandosi l'un l'altro, e io non sapevo cosa dir loro, essi non sapevano che cosa rispondere. — Allora, come vanno le cose in fabbrica? — chiedevo, con uno sforzo, a John Kinzer. E John Kinzer scrollava le spalle. Non certo la vita, e meno ancora la conversazione, erano servite a renderlo disinvolto. — Bene, sì, bene — diceva alla fine. E ricominciava il silenzio. — Vuoi una fetta di torta e un caffè? — chiedeva Leona. — L'ho fatto fresco fresco stamattina. — Oppure una torta di mele, farcita. O latte caldo con pasticcini. O un budino di riso. — No, no, grazie, signora Kinzer. Jeffty ed io abbiamo appena mangiato due panini al formaggio. — E poi, di nuovo, silenzio. Poi, quando l'immobilità e l'imbarazzo diventavano eccessivi perfino per loro (e chi mai sapeva quanto a lungo durava quel silenzio totale quand'erano soli, con quel continuo assillo di cui certamente si guardavano bene dal parlare) Leona Kinzer diceva: — Credo che si sia addormentato. John Kinzer annuiva: — Non sento più suonare la radio. Sì, vi garantisco che continuava così, sempre, finché io non riuscivo a trovare una scusa sufficientemente cortese, un pretesto, per quanto esile. Sì, ogni volta andava così, in questo modo. Ogni volta... salvo una. — Non so più che cosa fare — disse Leona. Scoppiò a piangere. — Non
c'è nessun cambiamento, non una sola giornata di pace. Suo marito riuscì a trascinarsi fuori dalla vecchia poltrona e ad avvicinarsi a lei. Si chinò e cercò di calmarla, ma era fin troppo chiaro, dalla goffaggine con cui le toccò i capelli grigi, che la sua capacità di mostrarsi compassionevole era, per così dire, atrofizzata. — Ssst, Leona, va tutto bene. Sssst. — Ma Leona continuò a piangere. Le sue mani graffiavano i braccioli della poltrona rivestiti di velluto. Poi ella disse: — A volte vorrei che fosse nato morto. John alzò gli occhi e si guardò intorno. Forse negli angoli bui della stanza, cercava quelle ombre senza nome che vi stavano sempre acquattate. Cercava forse Dio, in quegli spazi? — Non puoi dirlo sul serio — lui replicò, sommesso, patetico, sollecitandola con la tensione del suo corpo e il tremito della sua voce a ritirare subito ciò che aveva detto, prima che Dio udisse quel tremendo pensiero. Ma Leona l'intendeva davvero così, l'intendeva moltissimo. Quella sera riuscii a sgusciar via prima del solito. Essi non volevano testimoni alla loro vergogna. Io fui ben lieto di andarmene. E me ne restai lontano per una settimana. Lontano da loro, da Jeffty, dalla strada in cui abitavano, perfino dal loro quartiere. Io avevo la mia vita. Il negozio, la contabilità, i colloqui con i fornitori, il poker con gli amici, donne graziose che portavo in ristoranti ben illuminati, i miei genitori... e dovevo mettere l'antigelo nella macchina, lamentarmi con la lavanderia che mi metteva troppo amido nei colletti e nei polsini, e ancora la ginnastica in palestra, le tasse, cogliere sul fatto Jan o David (chiunque dei due fosse) che rubavano dal registratore di cassa. Avevo la mia vita. Ma neppure quella sera poté tenermi lontano da Jeffty. Venne a trovarmi in negozio e mi chiese di accompagnarlo al rodeo. Ed eccoci a rifar coppia in qualche modo, un ventiduenne con tutt'altri interessi... e un cinquenne. Non mi sono mai soffermato a riflettere su ciò che ci univa; pensai sempre che fosse un'abitudine contratta con gli anni... e magari l'affetto per un bambino che avrebbe potuto essere il fratellino minore che non avevo mai avuto (ricordavo quando avevamo giocato insieme, quando avevamo avuto entrambi la stessa età. Io ricordavo quel periodo, e Jeffty era ancora lo stesso). Poi, un giorno andai a prenderlo per accompagnarlo a un cinema dove proiettavano due film, e soltanto quel pomeriggio cominciai a notare alcu-
ne cose di cui avrei dovuto accorgermi chissà quanto prima. Arrivai a piedi alla casa dei Kinzer, convinto che, come al solito, avrei trovato Jeffty seduto sui gradini, sul davanti della casa, oppure sulla sedia a dondolo, nella veranda, che mi aspettava. Ma non lo vidi da nessuna parte. Entrare dentro la casa, nel buio e nel silenzio, immerso com'ero nel vivido sole di maggio, mi parve impensabile. Sostai per qualche attimo sulla strada, poi portai le mani a imbuto davanti alla bocca, e gridai: — Jeffty? Ehi, Jeffty, vieni fuori, andiamo. Faremo tardi. La sua voce mi giunse debole, come se uscisse dal sottosuolo. — Sono qui, Donny. Potevo sentirlo, ma non riuscivo a vederlo. Era Jeffty, non c'erano dubbi in proposito: nessuno, salvo Jeffty, chiamava «Donny» il presidente e unico proprietario della Horton TV & Sound Center, Donald H. Horton. Non mi aveva mai chiamato in altro modo. (Non è una bugia: per quanto riguarda il pubblico, io sono l'unico proprietario del Centro. La società di fatto con mia zia Patricia esiste soltanto per consentirmi di ripagare il prestito che mi ha fatto, integrando la somma di cui ero venuto in possesso alla maggiore età, somma che avevo ereditato da mio nonno quando avevo dieci anni. Non che fosse un gran prestito, solo diciottomila, ma le avevo chiesto di essere la mia socia silenziosa, perché si era presa cura di me quand'ero bambino). — Dove sei, Jeffty? — Sotto la veranda, nel mio posto segreto. Raggiunsi il fianco della veranda, mi chinai e tolsi la grata di vimini. Là sotto, sulla terra battuta, Jeffty si era confezionato il suo luogo segreto. Alcune ceste arancioni piene di libri, un tavolino e alcuni cuscini; alcune grosse candele sgocciolanti garantivano l'illuminazione, e noi avevamo l'abitudine di nasconderci là sotto, quando avevamo entrambi... cinque anni. — Che cosa stai combinando? — gli chiesi, strisciando dentro e tirandomi la grata dietro le spalle, per chiuderla. Faceva fresco, sotto la veranda, la terra esalava un odore confortante e le candele ardevano con una sorta di vaga complicità. Qualunque ragazzino si sarebbe sentito a casa sua, in quel luogo segreto: non c'è mai stato un ragazzino, infatti, che non abbia trascorso le ore più felici, più creative, più deliziose e misteriose della sua vita in un simile luogo arcano. — Sto giocando — rispose. Stringeva qualcosa di rotondo e dorato, che
gli riempiva il palmo della piccola mano. — Ti sei dimenticato che dovevamo andare al cinema? — Niente affatto. Ti stavo giusto aspettando qui. — Papà e mamma sono a casa? — Mamma. Capii allora perché mi stava aspettando sotto la veranda. Non indagai oltre. — Che cos'hai lì in mano? — Il Distintivo Decodificatore Segreto di Capitan Mezzanotte — dichiarò, esibendolo sul palmo della mano. Lo fissai come inebetito per parecchi minuti, poi mi riscossi e contemplai con occhi sgranati il miracolo che Jeffty stringeva in mano. Un miracolo che, semplicemente, non poteva esistere. — Jeffty — bisbigliai, quasi timoroso di distruggere l'incanto, — come l'hai avuto? — È arrivato oggi per posta. L'avevo chiesto. — Dev'esserti costato un sacco di soldi. — Oh, no. Dieci centesimi e due buoni-premio di due scatole di Ovomaltina. — Posso vederlo? — La mia voce tremava, e anche la mano che gli tesi. Egli mi diede il distintivo, e io accolsi il miracolo nel cavo della mano. Era meraviglioso. Ricordate? Capitan Mezzanotte era un programma diffuso in tutta la nazione, nel 1940. Era una trasmissione sponsorizzata dall'Ovomaltina. E ogni anno approntavano un nuovo Distintivo Decodificatore Segreto dello Squadrone. E alla fine di ogni trasmissione, davano un indizio su quella che sarebbe stata la puntata successiva... un indizio che soltanto i ragazzini col distintivo ufficiale potevano decifrare. Avevano smesso di produrre quei meravigliosi distintivi decodificatori nel 1949. Ricordo quello che avevo nel 1945: era meraviglioso. Aveva una lente d'ingrandimento al centro del quadrante del codice. Le trasmissioni di Capitan Mezzanotte cessarono nel 1950, e sebbene diventasse una serie televisiva (di vita breve) verso la metà degli anni Cinquanta, con tanto di Distintivi Decodificatori distribuiti nel 1955 e '56, per ciò che mi riguarda i veri distintivi finirono dopo il 1949. Il Decodificatore di Capitan Mezzanotte che reggevo in mano, quello che Jeffty mi aveva detto di aver ricevuto per posta, per dieci centesimi (dieci centesimi!!!) e due buoni-premio di Ovomaltina, era di metallo dorato, lustro, nuovo di zecca, neppure un'ammaccatura o una macchia di rug-
gine, come sui distintivi vecchi che si possono trovare a un prezzo esorbitante nelle botteghe dei collezionisti, ogni tanto... Era un Decodificatore nuovo. E l'anno impresso su di esso era quello attuale. Ma Capitan Mezzanotte non esisteva più. Niente di simile esisteva alla radio. Avevo ascoltato una o due imitazioni assai scadenti delle vecchie trasmissioni, attualmente in programma, storie monotone, effetti sonori rabberciati, la sensazione complessiva che si ricavava era di qualcosa di sbagliato, datato, trito. Eppure, io, in quel momento, tenevo in mano un nuovo distintivo. — Jeffty, parlami di questo — dissi. — Per dirti che cosa, Donny? È il mio nuovo Distintivo Decodificatore Segreto. Mi serve per capire che cosa succederà domani. — Domani... dove? — Nel programma. — Quale programma? Mi fissò, come se io facessi apposta a non capire: — Il programma di Capitan Mezzanotte, Donny! — Ero davvero sciocco. Non riuscivo ancora a capire bene. Ero lì, a bocca aperta, e ancora non capivo che cosa stesse succedendo. — Vuoi dire uno di quei dischi che hanno registrato dai vecchi programmi radio? È questo che intendi, Jeffty? — Quali dischi? — Adesso era lui che non capiva. Ci fissammo, là sotto la veranda. E poi dissi, molto lentamente, quasi timoroso della risposta: — Jeffty, come fai a sentire Capitan Mezzanotte? — Ogni giorno. Alla radio. Alla mia radio. Ogni giorno alle cinque e mezza. Notizie. Musica, musica sciocca, banale, e notizie. Ecco che cosa c'era ogni giorno alla radio, alle cinque e mezza. E non Capitan Mezzanotte. Lo Squadrone Segreto non veniva più trasmesso da vent'anni. — Possiamo sentirlo, oggi? — gli chiesi. — Donny! — esclamò. Quant'ero sciocco. Lo capii dal modo in cui lo disse, anche se sulle prime non sapevo perché. Poi me ne resi conto: oggi era sabato. Capitan Mezzanotte era in programma dal lunedì al venerdì. Non al sabato o alla domenica. — Andiamo al cinema? Dovette chiedermelo due volte. La mia mente era altrove. Niente di definito. Nessuna conclusione. Nessuna supposizione avventata su cui balzare. Soltanto un agitarsi scomposto qua e là, cercando di capire e concludendo, come voi avreste concluso, come chiunque avrebbe concluso piut-
tosto che accettare la verità, l'impossibile e meravigliosa verità, concludendo infine che doveva esserci una spiegazione semplice che non intravedevo ancora. Qualcosa d'insignificante, di banale, magari, come il passaggio del tempo che ci porta via tutte le cose vecchie e buone, imbrogliandoci e dandoci in cambio ninnoli di plastica. E tutto nel nome del progresso. — Andiamo al cinema, Donny? — Ci puoi scommettere gli stivali che ci andiamo, ragazzino — dissi. E sorrisi. E gli porsi il Decodificatore. E lui lo mise nella tasca dei calzoni. E poi strisciammo fuori da sotto la veranda. E andammo al cinema. E nessuno di noi due disse più nulla di Capitan Mezzanotte per tutto il resto della giornata. E non ci fu un solo minuto, per tutto il resto della giornata, che io non fossi ossessionato dal suo pensiero. La settimana successiva fu tempo d'inventario. Non vidi Jeffty fino a giovedì. Confesso che me ne andai sul presto, lasciando il negozio nelle mani di Jan e David, dicendo loro che avevo certe faccende da sbrigare. Erano le quattro del pomeriggio. Arrivai dai Kinzer alle quattro e tre quarti. Mi aprì Leona; aveva un aspetto esausto e remoto. — Jeffty è da queste parti? — Lei disse che era sopra nella sua stanza... ... ad ascoltare la radio. Salii i gradini a due alla volta. D'accordo, avevo finalmente compiuto quel passo illogico e impossibile. Se quello sconvolgimento della realtà avesse coinvolto chiunque altro non fosse Jeffty, adulto o bambino, avrei trovato delle risposte più accettabili. Ma si trattava di Jeffty, chiaramente un ricettacolo di vita di tipo diverso, e ciò che lo riguardava non poteva rientrare nello schema ordinario delle cose. Lo ammetto: volevo sentirlo con i miei orecchi, volevo... Anche con la porta chiusa riconobbi il programma: «Ecco che va, Tennessee! Prendilo!». Vi fu il pesante rimbombo della fucilata, il sibilo acuto della pallottola, poi la stessa voce urlò trionfante: «Preso! Centrato in pie-e-e-e-eno!». Stava ascoltando l'American Broadcasting Company, 790 chilocicli: Tennessee Kid, uno dei miei programmi favoriti degli anni Quaranta, una serie western che non ascoltavo più da quasi vent'anni, poiché da quasi vent'anni non esisteva più. Mi sedetti sull'ultimo gradino in cima alla scala, lì, nel corridoio al secondo piano della casa dei Kinzer, e ascoltai il programma. Non era una
ripetizione di un vecchio episodio, poiché, nel corso della narrazione, vi erano di tanto in tanto riferimenti a fatti culturali e tecnologici correnti, e frasi che non erano state di uso comune negli anni Quaranta: aerosol, bombolette, tatuaggi al laser, Tanzania, l'espressione «iperteso». Non potevo in alcun modo nascondermi che Jeffty stesse ascoltando una nuova puntata di Tennessee Jed. Corsi giù, uscii dalla porta principale e raggiunsi la mia auto. Leona doveva essere in cucina. Girai la chiavetta e accesi la radio, e la sintonizzai sui 790 chilocicli. La stazione della ABC. Musica rock. Restai lì seduto per alcuni attimi, poi feci passare l'indice da un'estremità all'altra del quadrante. Musica, notizie, programmi di varietà. Niente Tennessee Jed. Ed era una Blaupunkt, la migliore radio che si potesse avere. Non era qualche emittente secondaria che non riuscivo a captare: semplicemente, non esisteva! Un paio di minuti dopo spensi la radio e l'accensione e ritornai di sopra senza far rumore. Tornai a sedermi sul gradino in cima alla scala e ascoltai l'intero programma. Era meraviglioso! Eccitante, pieno d'immaginazione, di tutte le più affascinanti innovazioni dei radiogrammi, così come le ricordavo. Ed era moderno. Non era un pezzo d'antiquariato, una riedizione per blandire i desideri di una fascia d'ascoltatori sempre più esigua che moriva dalla voglia di rivivere i vecchi tempi. Era un nuovo spettacolo, con le vecchie voci, ma giovani e vivaci più che mai. Perfino la pubblicità reclamizzava prodotti attuali, anche se non era chiassosa e insultante come gli annunci che si ascoltano alla radio oggigiorno. E quando Tennessee Jed finì alle cinque in punto, sentii Jeffty che cambiava stazione finché non udì la voce familiare di Glenn Riggs che annunciava: «E ora, Hop Harrigan, l'asso americano dell'aria!». Si udì il fragore di un aereo in volo. Era un aereo a elica, non un jet! Non il suono al quale oggi i ragazzini sono abituati sin dalla nascita, ma il suono con cui io ero cresciuto, il vero suono di un aereo, il suono ringhioso, rauco, che andava su di giri, tipico degli aerei che G-8 e i suoi Assi da Combattimento pilotavano, che pilotava Capitan Mezzanotte, che pilotava Hop Harrigan. E poi sentii Hop che diceva: «CX-4 chiama torre di controllo, CX-4 chiama torre di controllo. Siamo in attesa!». Una pausa, quindi: «Okay, qui Hop Harrigan. Arriviamo!». E Jeffty che aveva lo stesso problema di tutti noi, negli anni Quaranta, con tanti programmi che mettevano i nostri eroi, ugualmente favoriti, l'uno
contro l'altro su differenti stazioni, dopo aver presentato i propri rispetti a Hop Harrigan e a Tank Tinker, girò il quadrante e tornò alla ABC, dove udii un colpo di gong, la disordinata cacofonia di un chiacchierio in cinese senza senso, e l'annunciatore che urlava: «Te-e-erry e i pirati!». Restai seduto lì sull'ultimo gradino e ascoltai Terry e Connie e Flip Corkin e, Dio mi aiuti, Agnes Moorehead nella parte della Dragon Lady, tutti, insomma, in una nuova avventura nella Cina Rossa che non esisteva ai giorni della versione personale dell'Oriente creata da Milton Caniff nel 1937, con i pirati del fiume e Ciang Kai Scek e i signori della guerra e l'ingenuo imperialismo della diplomazia americana delle cannoniere. Restai lì seduto e ascoltai tutto il programma, e poi ascoltai anche Superman, una parte di Jack Armstrong, the All-American Boy, e parte di Capitan Mezzanotte, e John Kinzer tornò a casa, ma né lui né Leona salirono di sopra per scoprire che cosa mi fosse accaduto, o dove fosse Jeffty, e restai lì ancora seduto, e scoprii che avevo cominciato a piangere, fino a quando Jeffty non mi sentì e aprì la porta: mi vide, uscì e mi fissò, in preda a un'infantile confusione. Ed ecco in quel momento la stazione mandare in onda la musica d'inizio di Tom Mix, «When it's Round-up Time in Texas and the Bloom is on the Sage», e Jeffty mi toccò la spalla, mi sorrise e disse: — Ehi, Donny, vuoi entrare e ascoltare con me la radio? Hume negò l'esistenza di uno spazio assoluto, nel quale ogni cosa avesse un suo posto preciso. Borges nega l'esistenza di un unico tempo, nel quale tutti gli eventi siano collegati. Jeffty riceveva programmi radio da un luogo che non poteva, secondo logica, esistere nello schema naturale dello spazio-tempo come l'aveva concepito Einstein. Ma questo non era tutto quello che riceveva. Gli arrivavano per posta premi che nessuno fabbricava. Leggeva fumetti defunti da trent'anni almeno. Vedeva film con attori morti da vent'anni. Era il terminal ricevente d'inesauribili gioie e piaceri del passato, che il mondo aveva perduto strada facendo. Nel suo volo suicida, a capofitto verso Domani Sempre Nuovi e Diversi, il mondo aveva letteralmente raso al suolo la sua reggia di semplici felicità, aveva rovesciato cemento sopra i suoi giardini incantati, disperdendo folletti e fantasie, e tutto questo, miracolosamente, nel più impossibile dei modi, veniva restituito al presente grazie a Jeffty. Rivivificato, aggiornato, reso attuale nel più scrupoloso rispetto della tradizione. Jeffty era un Aladino che non aveva bisogno del genio; la sua stessa natura era la magica
lampada che ricreava, concretamente, la sua realtà. E mi condusse nel suo mondo. Perché si fidava di me. Facemmo colazione a base di Quaker Puffed Wheat Sparkies e Ovomaltina bollente che sorseggiammo in tazze di quest'anno della Little Orphan Annie Shake-Up. Andammo al cinema, e mentre tutti si sorbivano una commedia con Goldie Hawn e Ryan o'Neal, Jeffty e io ci godemmo Humphrey Bogart nei panni di Parker, il ladro professionista, nella brillante riduzione di John Huston del romanzo di Donald Westlake, Slayground. Il secondo film in programma era Leinengen Versus the Ants, un film prodotto da Val Lewton, con Spencer Tracy, Carole Lombard e Laird Cregar. Due volte al mese andavamo all'edicola, ad acquistare i nuovi numeri di «The Shadow», «Doc Savage» e «Startling Stories». Jeffty e io ci mettevamo seduti fianco a fianco e io gli leggevo le riviste. Gli piacquero in particolare il nuovo romanzo breve di Henry Kuttner, The Dreams of Achilles, e la nuova serie di racconti di Stanley G. Weinbaum, ambientati nell'universo subatomico di Redurna. Ci godemmo la prima puntata delle nuove avventure di Conan, scritte da Robert E. Howard (il romanzo, dal titolo Isle of the Black Ones, cominciò ad apparire in settembre sulle pagine di «Weird Tales»); questo ci rianimò, dopo la parziale delusione che ci aveva procurato il quarto romanzo di Edgar Rice Burroughs della serie di Giove, con protagonista John Carter di Barsoom: Corsairs of Jupiter. Ma il direttore di «Argosy All-Story Weekly» promise che vi sarebbero stati altri due romanzi della serie di Giove, e questa inaspettata rivelazione rinnovò i nostri entusiasmi per John Carter. Leggemmo insieme i fumetti, e ancor prima di ritrovarci e discuterne, Jeffty ed io avevamo deciso entrambi che i nostri personaggi preferiti erano Doll Mann, Airboy e The Heap. Adoravamo inoltre le strisce di George Carlson nei «Jingle Jangle Comics», in particolare il Pie-Face Prince delle storie di Old Pretzelburg, che leggemmo insieme, ridendoci sopra insieme, anche se dovetti spiegare a Jeffty alcune delle battute più sottili, perché era troppo giovane per avere quel genere d'intuito. Come spiegarlo? Non posso. Avevo studiato abbastanza fisica al college da poterci improvvisar sopra un paio di congetture, ma è più probabile che io abbia torto piuttosto che ragione. Occasionalmente la legge della conservazione dell'energia perde di valore. Queste sono le leggi che i fisici definiscono «debolmente violate». Forse Jeffty catalizzava inconsciamente queste «deboli violazioni» della legge della conservazione, della cui esi-
stenza soltanto adesso cominciamo a renderci conto. Cercai nei testi più recenti qualcosa, in questo campo: decadimenti «proibiti», come ad esempio il decadimento gamma che non comprende il muone neutro fra i suoi prodotti, e simili... ma niente di ciò in cui m'imbattei, neppure le ultime interpretazioni dell'Istituto Svizzero per le Ricerche Nucleari vicino a Zurigo, mi fornirono qualche indicazione. Mi ritrovai a dover accettare quel vago principio filosofico secondo il quale il vero nome della scienza è magia. Nessuna spiegazione, ma un periodo terribilmente bello. Il periodo più felice della mia vita. Avevo il mondo reale, il mondo del mio negozio, dei miei amici e della mia famiglia, il mondo dei profitti e delle perdite, delle tasse e degli acquisti, della politica, delle ragazze, del caffè che aumentava sempre di prezzo e dei forni a microonde. E avevo il mondo di Jeffty nel quale esistevo soltanto quand'ero con lui. Le cose del passato, che lui conosceva così fresche e nuove, potevo sperimentarle soltanto quand'ero in sua compagnia. E la barriera fra i due mondi divenne sempre più sottile, luminosa e trasparente. Io avevo il meglio dei due mondi. E sapevo, in qualche modo, che non avrei potuto portare niente dall'uno all'altro. L'essermi dimenticato di ciò per un solo istante, tradendo Jeffty in un attimo di distrazione, causò la fine di tutto. Mi divertivo così tanto che divenni imprudente e non considerai con la dovuta attenzione quanto fosse realmente fragile il. rapporto fra il mondo di Jeffty e il mio. Perché il presente invidia l'esistenza del passato. Non lo compresi mai, finché non fu troppo tardi. In nessun libro sulle belve feroci, dove la sopravvivenza viene raffigurata a base di battaglie fra artigli e zanne, tentacoli e sacche di veleno, è illustrata la ferocia con cui il presente guata sempre il passato. In nessun luogo esiste una descrizione di come il presente sta in agguato, pronto, in attesa che Quello Che Era diventi Adesso, Questo Momento, per farlo a brani con le sue fauci spietate. Chi poteva sapere una cosa del genere... a un'età qualunque... e non certamente alla mia età... Chi poteva capire una cosa del genere? Sto cercando di discolparmi, ma non posso. Fu colpa mia. Era un altro sabato pomeriggio. — Che cosa danno, oggi? — gli chiesi, mentre ci recavamo in macchina in centro.
Lui alzò lo sguardo su di me dall'altro lato del sedile anteriore e mi gratificò di uno dei suoi meravigliosi sorrisi: — Ken Maynard in Bullwhip Justice e L'uomo disintegrato. — Continuò a sorridermi, sapendo di avermi genuinamente sorpreso. Lo fissai, incredulo. — Stai scherzando! — esclamai, deliziato. — L'uomo disintegrato di Bester? — Egli annuì, deliziato che io fossi deliziato. Sapeva che era uno dei miei libri preferiti. — Oh, ma è magnifico! — Stramagnifico — disse lui. — E chi c'è? — Franchot Tone, Evelyn Keys, Lionel Barrymore e Elisha Cook jr. — Lui ne sapeva sugli attori molto più di quanto ne avessi mai saputo io. Sapeva i nomi di tutti gli attori di qualunque film avesse visto. Perfino quelli dei caratteristi. — E i disegni animati? — Ce ne sono tre, Little Lulu, Paperino e Bunny. E una Pete Smith Speciality, e un Lew Lehr Monkeys da Cr-r-r-aziest Peoples. — Oh, ragazzi! — esclamai. Sorridevo da orecchio a orecchio. E poi guardai giù e vidi il blocco dei moduli delle ordinazioni sul sedile. Mi ero dimenticato di lasciarlo al negozio. — Devo fermarmi al Centro — dissi. — Devo lasciar giù qualcosa. Mi ci vorrà soltanto un minuto. — Okay — fece Jeffty. — Ma non farai tardi, vero? — Ci puoi giurare, ragazzino — replicai. Quando mi fermai al parcheggio dietro il Centro, egli decise di venire con me. Poi avremmo proseguito a piedi fino al cinema. La nostra non è una città tanto grande. Ci sono soltanto due cinema, l'Utopia e il Lyric. Noi eravamo diretti all'Utopia, a tre isolati dal Centro. Entrai nel negozio col blocco dei moduli, e trovai il pandemonio. David e Jan stavano servendo due clienti ciascuno, e c'era altra gente nel negozio in attesa di esser servita. Jan si voltò verso di me, il suo volto era un'angosciata maschera d'implorazione. David stava correndo dal deposito alla sala audizioni, e tutto ciò che riuscì a mormorare quando mi passò accanto fulmineo, fu: «Aiuto!», e poi scomparve. — Jeffty — dissi, curvandomi verso di lui, — ascoltami, concedimi qualche minuto. Jan e David sono nei guai con tutta questa gente. Non faremo tardi, te lo prometto. Soltanto, lascia che mi sbarazzi di un paio di questi clienti. — Parve innervosirsi, ma annuì.
Gli indicai una sedia: — Mettiti qui per un po', e sarò subito da te. Si avvicinò alla sedia, tranquillo nonostante tutto, e vi si accomodò. Io cominciai a occuparmi della gente che voleva i televisori a colori. Questa era la prima grossa infornata di televisori a colori che fosse arrivata - la televisione a colori cominciava ad avere prezzi ragionevoli soltanto adesso, e quella era la prima campagna pubblicitaria della Sony - ed era per me tempo di vacche grasse. Mi vedevo col prestito completamente pagato e il Centro che per la prima volta mi garantiva un profitto. Erano affari. E nel mio mondo i buoni affari hanno la precedenza. Jeffty era lì e fissava la parete. Lasciate che vi parli della parete. Un insieme di mensole e pilastri che dal pavimento arrivavano a meno di un metro dal soffitto. I televisori erano stati sistemati in bell'ordine, in varie file. Trentatré televisori. E tutti contemporaneamente in funzione. In bianco e nero, piccoli, grandi, tutti accesi. Jeffty, quel sabato pomeriggio, si trovò seduto davanti a trentatré televisori in funzione. Noi, nella nostra città, possiamo prendere un totale di tredici canali, compresi alcuni programmi educativi. Su un canale c'era il golf, sul secondo il baseball, sul terzo una partita a bowling giocata da personaggi famosi, il quarto canale mostrava una conversazione religiosa, il quinto uno spettacolo di danza di ragazzi e ragazze, il sesto dava la replica di una commedia, il settimo quella di un poliziesco, l'ottavo era un documentario sulla natura e mostrava interminabilmente un uomo che gettava la lenza con una mosca come esca, il nono dava notizie e commenti, il decimo mostrava una gara di corsa, sull'undicesimo un uomo calcolava dei logaritmi su una lavagna, sul dodicesimo una donna faceva ginnastica, e sul tredicesimo c'era un cartone animato spagnolo assai mal fatto. Tutti questi spettacoli, salvo tre, erano ripetuti su tre diversi apparecchi. Jeffty sedette e guardò la parete di televisori, quel sabato pomeriggio, mentre io vendevo il più rapidamente possibile, e a pronti contanti, per ripagare mia zia Patricia e restare in contatto col mio mondo. Si trattava di affari. Avrei dovuto pensarci. Avrei dovuto capire che cos'era il presente e il modo in cui uccideva il passato. Ma stavo vendendo a piene mani. E quando finalmente lanciai un'occhiata a Jeffty, mezz'ora più tardi, pareva un altro bambino. Sudava. Quel terribile sudore dovuto alla febbre, quando vi coglie un'infezione intestinale. Era smorto, pallido come un verme, e le sue piccole mani stringevano con tanta forza i braccioli della sedia, che potevo vedere
le nocche bianche sporgere. Mi precipitai da lui, scusandomi con una coppia di mezza età che stava esaminando il nuovo modello da ventun pollici Mediterranean. — Jeffty! Mi guardò, ma i suoi occhi non riuscirono a mettermi a fuoco. Era in preda a un assoluto terrore. Lo tirai giù dalla sedia e mi avvicinai con lui verso la porta d'ingresso, e i clienti che avevo lasciato gridarono: — Ehi! — L'uomo di mezza età disse: — Me lo vuol vendere questo affare, o no? Spostai lo sguardo da lui a Jeffty, e poi di nuovo a lui. Jeffty era come uno zombie. Era venuto fin dove io l'avevo trascinato, le sue gambe sembravano di gomma, e strisciava i piedi. Il passato veniva divorato dal presente, una sensazione come di sordo dolore. Tirai fuori di scatto i soldi da una tasca e li cacciai in mano a Jeffty: — Ragazzino, ascoltami... adesso esci subito di qui! — Lui non riusciva ancora a mettere a fuoco le immagini. — Jeffty — dissi, con quanta più fermezza avevo, — ascoltami! — Il cliente di mezza età e sua moglie stavano venendo verso di noi. — Ascolta, ragazzino, esci di qui immediatamente. Vai a piedi fino all'Utopia e compera i biglietti. Ti raggiungerò subito. L'uomo di mezza età e sua moglie ci erano quasi addosso. Spinsi Jeffty attraverso la porta e lo vidi allontanarsi barcollando verso la direzione sbagliata, per poi fermarsi, riprendersi, voltarsi, tornare indietro e passare di nuovo davanti al Centro, in direzione dell'Utopia. — Si, signore — dissi, raddrizzandomi e fronteggiandoli. — Sì, signora, è un apparecchio formidabile con alcune sensazionali caratteristiche! Se volete venire con me... Vi fu un tremendo suono, straziante, come di qualcuno che soffrisse, ma non riuscii a capire da quale canale provenisse, o da quale apparecchio. La maggior parte dell'accaduto l'appresi più tardi dalla ragazza della biglietteria e da alcune persone che conosco e che vennero da me a dirmelo. Quando arrivai all'Utopia, quasi venti minuti dopo, Jeffty era stato picchiato fin quasi a esser ridotto in poltiglia, ed era stato portato nell'ufficio del direttore. — Non avete visto un bambino, di circa cinque anni, con dei grandi occhi e capelli castani, lisci... Mi stava aspettando. — Oh, credo che sia il bambino che quei ragazzi hanno picchiato! — Che cosa? E dov'è adesso? — Lo hanno portato nell'ufficio del direttore. Nessuno sapeva chi fosse,
o dove fossero i suoi genitori... Una ragazza con l'uniforme da maschera gli stava ripulendo la faccia con una salvietta umida. Le strappai di mano la salvietta e le ordinai di uscire dall'ufficio. Ella si mostrò offesa e sbottò in qualcosa di villano, ma se ne andò. Mi sedetti sull'orlo del divano e cercai di pulir via il sangue dalle lacerazioni, senza riaprire le ferite dove si era già formata la crosta. Entrambi gli occhi erano gonfi, e chiusi. La bocca era malamente escoriata. Anche i capelli erano incrostati di sangue disseccato. Aveva fatto la fila dietro a due ragazzi sui dieci anni. Avevano cominciato a vendere biglietti mezz'ora prima dello spettacolo, e per un quarto d'ora, ancora, le porte non sarebbero state aperte. Lui aveva aspettato. I ragazzi davanti a lui stavano ascoltando una partita di calcio da una radio portatile. Jeffty aveva voluto ascoltare chissà quale programma. Dio solo sa che cosa poteva essere stato, Grand Central Station, Land of the Lost, Dio solo sa. Aveva chiesto in prestito la loro radio per ascoltare quel programma per un minuto, c'era stato uno spazio pubblicitario o qualcosa del genere e i ragazzi gli avevano dato la radio, probabilmente per una maligna forma di cortesia che permettesse loro, poi, di mostrarsi offesi e di suonarle al ragazzino. Egli aveva cambiato stazione... ed essi erano stati incapaci di ritrovarla, per ascoltare di nuovo la partita. La radio era bloccata sul passato, su una stazione che non esisteva per nessuno, salvo Jeffty. Era stato picchiato selvaggiamente, mentre tutti stavano a guardare. E poi i due ragazzi erano scappati via. E io l'avevo lasciato solo, l'avevo lasciato a combattere il presente senza le armi adeguate. Lo avevo tradito per vendere un ventun pollici Mediterranean, e adesso il suo viso era carne ridotta in poltiglia. Egli gemette qualcosa d'inaudibile e singhiozzò sommesso. — Sssst, tutto a posto, ragazzino, sono Donny. Sono qui. Ti porto a casa, andrà tutto bene. Avrei dovuto accompagnarlo direttamente all'ospedale. Non so perché non lo feci. Avrei dovuto. Avrei dovuto farlo. Quando lo trasportai attraverso la soglia, John e Leona Kinzer si limitarono a fissarmi. Non si mossero per prendermelo dalle braccia. Una delle sue mani penzolava inerte. Era cosciente, ma appena appena. Essi mi fissarono, lì nella semioscurità di un sabato pomeriggio, nel presente. Io li guardai. — Un paio di ragazzi lo hanno picchiato al cinema. — Lo sollevai di qualche centimetro, fra le braccia, e lo porsi a loro. Essi mi fissarono, ci
fissarono entrambi, senza niente nei loro occhi, senza alcun movimento. — Gesù Cristo — urlai. — È stato picchiato! È vostro figlio! Non volete neppure toccarlo? Che razza di gente siete, per l'inferno? Poi Leona si mosse verso di me, molto lentamente. Ci fronteggiò per alcuni istanti, e sul suo viso era dipinto uno stoicismo plumbeo, terribile a vedersi. Voleva dire: Ho già passato momenti come questo, molte volte, e non posso sopportare di passarne ancora. Eppure eccomi qui. Perciò lo diedi a lei. Dio mi aiuti, lo consegnai a lei. E lei lo portò di sopra per lavargli via il sangue e il dolore. John Kinzer e io restammo nel soggiorno in ombra, distanti l'uno dall'altro, e ci fissammo. Egli non aveva nulla da dirmi. Gli passai accanto, scostandolo, e mi lasciai cadere su una poltrona. Tremavo. Di sopra, sentii scorrere l'acqua del bagno. Dopo quello che sembrò un tempo lunghissimo, Leona scese dabbasso asciugandosi le mani sul grembiule. Si sedette sul sofà, e un attimo dopo John si sedette accanto a lei. Dal piano di sopra mi giunse un suono di musica rock. — Vuoi una fetta di torta? — mi chiese Leona. Non risposi. Stavo ascoltando quella musica... Musica rock. Alla radio. C'era una lampada sul tavolino accanto al sofà. Irradiava una luce debole, futile, nel soggiorno in ombra. Musica rock del presente alla radio del piano di sopra? Feci per dire qualcosa, e poi seppi... Balzai in piedi proprio mentre un orrido crepitio soffocava la musica, e la luce della lampada sul tavolino si fece più fioca, ancora più fioca, e tremolò. Io urlai, non so che cosa urlai, e corsi su per la scala. I genitori di Jeffty non si mossero. Rimasero lì, seduti con le mani incrociate, là dove erano rimasti per così tanti anni. Incespicai e caddi due volte mentre mi precipitavo su per le scale. Non c'è molto alla televisione che m'interessi. Ho comperato un vecchio apparecchio radio Philco a forma di cattedrale in un negozio di roba usata, e ho sostituito tutte le parti bruciate con valvole originali prese dalle vecchie radio ancora funzionanti che sono riuscito a trovare. Non ho usato transistor o circuiti stampati. Non avrebbero funzionato. A volte sono rimasto davanti a quell'apparecchio per ore intere, girando la manopola avanti e indietro sul quadrante, quanto più lentamente si possa
immaginare, così lentamente che quasi pareva che l'indice neppure si muovesse. Ma non sono mai riuscito a trovare Capitan Mezzanotte o The Land of the Lost o The Shadow o Quiet Please. Dunque, lei lo amava ancora un po', anche dopo tutti quegli anni. Io non riesco a odiarli: essi volevano soltanto disperatamente vivere nel mondo presente. Il che non è poi una cosa così terribile. Tutto considerato, è un buon mondo. È molto meglio di com'era un tempo, e in molti sensi. La gente non muore più a causa delle vecchie malattie. Muore a causa di quelle nuove, ma questo è il Progresso, non è vero? Non è vero? Ditemelo. Qualcuno me lo dica, per favore. LA LUNA DEI CACCIATORI Hunter's Moon di Poul Anderson Analog, novembre 1978 Poul Anderson ha iniziato la sua carriera fantascientifica nel 1947, con Tomorrow's Children, apparso su «Astounding». Da allora non ha più smesso di produrre a ritmo continuo opere di sf, fantasy, libri gialli, storici, libri per ragazzi, saggi di divulgazione scientifica, articoli critici, poesie e traduzioni, trasformando subito quello che era in origine un semplice hobby in una vera carriera di scrittore professionista. Nel campo fantascientifico Anderson ha ricevuto numerosi e importanti riconoscimenti tra cui sei premi Hugo e due premi Nebula. Anderson, pur essendo molto bravo ed eclettico come autore, preferisce in genere l'avventura tecnologica moderna. Hunter's Moon ne è un ottimo esempio. Qui Anderson dibatte un problema eterno e insolubile: uno scienziato non può compiere un esperimento senza intervenire minimamente e quindi senza influenzarne i risultati. Ciò è un bene o un male? Noi non percepiamo la realtà, la concepiamo, e supporre che sia altrimenti equivale ad invitare il verificarsi di sorprese catastrofiche. La tragica natura della storia deriva in gran parte da questo errore infinitamente ricorrente. —— Oskar Haemi, Betrachtungen über die menschliche Verlegenheit
Considerazioni sulle difficoltà dell'uomo *** Adesso entrambi i soli erano tramontati e le montagne occidentali erano divenute un'onda di oscurità, immota, come se il freddo dell'Oltre l'avesse sfiorata e congelata nel momento in cui si sollevava, una prima barriera marina sulla via di fuga verso la Promessa. Il cielo si stendeva purpureo al di sopra dell'onda, illuminato dalle prime stelle e da due piccole lune, dai contorni color ocra e con le gobbe crescenti argentate come la Promessa stessa. Verso est, il cielo rimaneva azzurro, e proprio in quella direzione, appena al di sopra dell'oceano, Ruii era illuminato quasi completamente, le sue strisce rese luminose là dove attraversavano il Suo bagliore carminio: sotto di Esso, il bagliore che ne derivava faceva tremolare le acque rendendo visibile il vento. A'i'ach percepiva a sua volta quel vento, fresco e sussurrante: ciascun pelo del suo corpo, per quanto sottile, rispondeva al suo tocco, ma lui aveva bisogno di ben poca spinta per mantenere la direzione, di una quantità di energia appena bastante a dargli la sensazione della propria forza e del fatto di essere una cosa sola, nel viaggio e nella destinazione da raggiungere, con il suo Sciame. I globi degli altri lo circondavano con il loro pallido bagliore iridescente, nascondendo quasi completamente al suo sguardo il suolo su cui stavano viaggiando, perché A'i'ach era fra quelli più in alto da terra. Gli odori vitali dei suoi compagni soffocavano ogni altro odore portato dall'aria con i loro aromi dolci ed opprimenti, ed essi stavano cantando all'unisono, centinaia di voci in coro, in modo che i loro spiriti si potessero fondere insieme e divenire Spirito, un'anticipazione di ciò che li attendeva nel lontano ovest. Quella notte, quando P'a avrebbe attraversato il volto di Ruii, sarebbe tornato il Tempo Lucente, e loro gioivano già per la meraviglia che li attendeva. A'i'ach soltanto non cantava né concedeva più che ad una minima parte del suo io di perdersi nei sogni di festa e di amore, perché era fin troppo consapevole di ciò che trasportava: quella cosa che l'umano gli aveva assicurato sul dorso pesava pochissimo, ma ciò che essa stava insinuando nella sua anima era pesante ed aspro. L'intero Sciame era naturalmente consapevole dei pericoli di un attacco, e molti dei suoi membri erano muniti di armi... pietre da gettare, oppure rami appuntiti staccati da piante di ü... strette nei filamenti che sporgevano da sotto i loro globi. A'i'ach possedeva però un coltello d'acciaio, il prezzo che aveva chiesto per permettere agli umani
di mettergli quel carico. Eppure, non era nella natura del Popolo di temere quel che gli sarebbe potuto piombare addosso dal futuro, ma A'i'ach era stranamente cambiato a causa di ciò che stava accadendo dentro di lui. Non sapeva da dove gli fosse giunto quel sapere, sopravvenuto abbastanza lentamente perché non fosse sorpreso dalla sua presenza, ma, al posto della sorpresa, un senso di cupa determinazione si era frattanto congelato dentro di lui: da qualche parte su quelle colline e foreste, correva una Bestia che portava un oggetto simile al suo e che si manteneva inoltre in una sorta di spettrale contatto-Sciame con un umano. A'i'ach non poteva immaginare cosa sarebbe potuto derivare da questo, salvo che si sarebbe trattato di qualche tipo di guaio per il Popolo. Chiedere informazioni in merito avrebbe potuto rivelarsi poco saggio, e quindi A'i'ach era giunto a prendere una decisione che comprendeva essere aliena alla sua razza: sarebbe stato lui a porre termine a quella minaccia. Dal momento che i suoi occhi erano collocati in basso nel corpo, non poteva vedere l'oggetto fissato sul dorso, né la luminosità che da esso saliva verso l'alto. I suoi compagni erano però in grado di vederlo, e lui stesso aveva assistito ad una dimostrazione prima di acconsentire a trasportarlo. Il raggio era debolissimo, visibile soltanto di notte, e, anche in quel caso, su uno sfondo scuro. A'i'ach avrebbe cercato d'individuare un bagliore fra le ombre sulla terra, e, presto o tardi, lo avrebbe trovato, dato che le probabilità a suo favore non erano scarse in quell'epoca, il Tempo Lucente, quando le Bestie cercavano di uccidere il Popolo, sapendo che questo si sarebbe radunato numeroso per festeggiare. A'i'ach aveva richiesto il coltello come un oggetto curioso e possibilmente utilizzabile, con l'intenzione di custodirlo fra i rami di un albero e di fare qualche esperimento con esso quando ne avesse avuto voglia. Accadeva che una Persona impiegasse di tanto in tanto un oggetto reperito casualmente, come un ciottolo appuntito, per qualche fugace scopo, come per esempio quello di aprire la corolla di un fiore a cresta per far volare nell'aria i suoi deliziosi semi. Forse, con un coltello, avrebbe potuto lavorare il legno e ricavare attrezzi da tenere sempre a portata di mano. Ora che disponeva di quella nuova forma d'introspezione, A'i'ach capiva a cosa era effettivamente destinata quella lama: con essa, avrebbe potuto colpire dall'alto fino ad uccidere una Bestia..., no, la Bestia. A'i'ach stava cacciando. *** Parecchie ore prima del tramonto, Hugh Brocket e sua moglie, Jannika
Rezek, si stavano preparando al loro lavoro notturno quando era sopraggiunta, con notevole ritardo, Chrisoula Gryparis: una tempesta aveva bloccato a terra il suo velivolo ad Enrique e poi, procedendo perversamente verso ovest, l'aveva costretta ad effettuare una lunga deviazione durante il viaggio verso Hansonia. Non aveva neppure avvistato l'Oceano Circolare fino a quando aveva attraversato un abbondante migliaio di chilometri di terraferma, dopodiché aveva dovuto deviare a sud di un'eguale distanza, prima di raggiungere finalmente la grossa isola. — Come sembra solitario Port Kato visto dall'aria — osservò. Per quanto accentato, il suo inglese... la lingua comune convenuta in quella particolare postazione... era fluente, e quello era uno dei motivi che l'avevano spinta a venire a vedere se c'era un posto disponibile. — Perché lo è — replicò Jannika, con il suo diverso accento. — Ci sono una dozzina di scienziati, un numero doppio di assistenti e qualche membro del personale di supporto. Questo ti rende ancor più benvenuta. — Cosa, vi sentite isolati? — chiese Chrisoula. — Ma se potete contattare qualsiasi luogo di Nearside dove ci sia un olocomunicatore! — Già, oppure volare in una città per affari o per diporto o per qualsiasi altro motivo — ribatté Hugh. — Ma, non importa quanto un'immagine possa apparire e suonare stereo, essa rimane pur sempre un'immagine: non puoi certo portarla fuori a bere qualcosa dopo che il colloquio è finito, ti pare? E quanto ad una visita effettiva, ecco, ben presto ti ritrovi di nuovo qui fra le stesse vecchie facce. Gli avamposti finiscono presto per involversi socialmente, come scoprirai, se decidi di rimanere. Non che stia tentando di scoraggiarti — aggiunse in fretta, — Jan ha ragione: saremmo più che felici di avere qualche persona nuova fra di noi. L'accento di Hugh rappresentava un prodotto della storia: l'uomo era di madrelingua inglese, ma era medeano da tre generazioni, il che significava che i suoi nonni avevano lasciato l'America Settentrionale tanto tempo prima che la lingua di laggiù era ormai mutata come ogni altra cosa. A dire il vero, neppure Chrisoula era esattamente all'ordine del giorno, se si pensava che un raggio laser impiegava quasi cinquant'anni per andare dal Sole a Colchis e che la nave su cui lei aveva viaggiato, in animazione sospesa e senza invecchiare, aveva tenuto una velocità considerevolmente inferiore... — Sì, qualcuno della Terra! — La voce di Jannika era raggiante. — Le cose non andavano bene sulla Terra quando sono partita — replicò Chrisoula, sussultando, — anche se forse in seguito sono migliorate.
Per favore, ve ne parlerò più tardi, ma ora mi piacerebbe considerare quello che mi aspetta. Hugh le batté qualche colpetto su una spalla, pensando che era una ragazza decisamente carina, anche se non rientrava nella stessa categoria di Jan, categoria in cui ben poche donne rientravano, e che comunque gli sarebbe piaciuto se la loro conoscenza si fosse sviluppata in una direzione più intima: la varietà, dopo tutto, era la spezia della vita. — Sei stata proprio sfortunata, oggi, vero? — mormorò. — Sei stata costretta a tardare fino a quando Roberto... uh, il Dr. Venosta... è uscito nei campi, ed il Dr. Feng è tornato al Centro con un mucchio di campioni... — Hugh si riferiva al capo biologo ed al capo chimico. Chrisoula era specializzata in biologia, e si sperava che proprio lei, appena giunta con l'ultimo dei rari astrotrasporti, avrebbe contribuito in modo significativo alla comprensione della vita su Medea. — Bene — sorrise Chrisoula. — Allora conoscerò prima gli altri, a cominciare da voi due. — Mi dispiace — obiettò Jannika, scuotendo il capo, — ma anche noi abbiamo da fare, e presto ce ne andremp per non tornare prima del sorgere del sole. — Cioè... fra quanto? Circa trentasei ore? Ma non è un periodo piuttosto lungo da trascorrere in... com'è che avete detto...? in questo strano ambiente? — Questo è il compito di uno xenologo, cosa che noi siamo entrambi — rise Hugh. — Credo di poter trovare un po' di tempo per accompagnarti in giro, presentarti e farti sentire più a tuo agio. Essendo arrivata in un periodo del ciclo di turni di guardia in cui la maggior parte della gente dell'avamposto stava ancora dormendo, Chrisoula era stata condotta negli alloggi di Hugh e Jannika, i quali si erano alzati presto per prepararsi alla loro spedizione. Jannika lanciò uno sguardo duro al marito; quello che vide fu un uomo alto, che stimava la propria età in termini di anni terrestri, quarantuno di essi, massiccio, leggermente goffo nei movimenti, con un accenno di pancia. I lineamenti erano rozzi, i capelli color sabbia, gli occhi azzurri; i capelli erano tagliati corti ed il volto sbarbato, ma tunica, calzoni e stivali trascurati denotavano lo stile dei minatori fra cui Hugh era cresciuto. — Io non ho tempo — affermò Jannika. — Certo, continua pure, cara. — Hugh ebbe un gesto espansivo, quindi prese Chrisoula per il gomito. — Avanti, facciamo un giro.
Stupita, la ragazza lo accompagnò fuori dalla capanna ingombra; all'interno del recinto, si arrestò per guardarsi intorno, come se quella fosse la prima volta che vedeva Medea. Port Kato era decisamente piccolo. Per non turbare l'ecologia locale con apparati ed installazioni di lampade ultraviolette sui campi o di canali di scolo provenienti da essi, l'avamposto traeva i suoi generi di sostentamento da più vecchi e grandi insediamenti collocati sulla terraferma del Nearside. Inoltre, per quanto vicino alle coste orientali di Hansonia, l'avamposto era rientrato di alcuni chilometri nell'interno e costruito su un terreno elevato, come precauzione contro le maree dell'Oceano Circolare che potevano assumere proporzioni mostruose. Così, la natura circondava, sormontava e gravava sul piccolo gruppo di costruzioni dovunque la ragazza posasse lo sguardo... o ascoltasse, fiutasse, toccasse, assaporasse o andasse. La gravità leggermente inferiore a quella della Terra conferiva una certa elasticità al suo passo, mentre la maggiore quantità di ossigeno sembrava darle maggior energia nelle stesse proporzioni, anche se le membrane mucose non avevano ancora smesso di dolerle. Nonostante la latitudine tropicale, l'aria era balsamica e non troppo umida, perché l'isola si trovava abbastanza vicino al Farside per esserne rinfrescata. L'aria era piena di odori pungenti, e Chrisoula riusciva a trovare un paragone familiare come il muschio e lo iodio solo per alcuni di essi, ed anche sconosciuti le giungevano i suoni... fruscii, trilli, gracidii e mormorii... che la densa atmosfera le faceva risuonare con forza negli orecchi. La stazione stessa aveva un aspetto straniero: le costruzioni erano fatte con materiali locali e secondo progetti locali, e perfino il convertitore ad energia radiante non presentava lo stesso aspetto che avrebbe avuto a casa. Le ombre multiple avevano tonalità particolari, ed in effetti ogni colore mutava in quella luce rossiccia; gli alberi che si levavano al di sopra dei tetti erano sagome strane, con un fogliame nelle tonalità del giallo, dell'arancio e del marrone, e piccole creature svolazzavano fra essi o si muovevano sui rami. Occasionali frammenti luminosi trasportati dalla brezza non sembravano essere particelle di polvere. Il cielo aveva una tinta scura, e le poche nubi erano rivestite di una tenue tonalità rosa ed oro. Il doppio sole Colchis... Castor C sembrava improvvisamente un nome troppo arido... stava tramontando verso ovest, ed entrambi i suoi dischi erano così opachi da poter essere osservati senza pericolo per un poco, Phrixus vicino alla sua massima separazione angolare da Helle.
Dalla parte opposta rispetto ai soli, Argo dominava il cielo, come sempre nell'emisfero di Medea rivolto verso l'interno. Qui il pianeta primario appariva basso nel cielo, e le cime degli alberi nascondevano buona parte del suo grande disco appiattito, mentre la luce del giorno attenuava il rossore del calore da esso emanato, che sarebbe divenuto smagliante con il buio. Nondimeno, quel pianeta era un colosso, tanto da apparire ad occhio nudo quindici o sedici volte più grande della Luna sovrastante la Terra; le bande e le macchie sottilmente cromatiche che solcavano la sua superficie in modo sempre mutevole, erano nubi più grandi di continenti e uragani vorticanti che avrebbero potuto inghiottire la luna su cui attualmente Chrisoula si trovava. — Mi... colpisce più di qualsiasi luogo nei dintorni di Enrique — sussurrò, rabbrividendo, — o... o dell'avvicinamento dallo spazio. Sono giunta in un altro posto dell'universo. Hugh le circondò la vita con un braccio, e, non essendo altrettanto sciolto nel parlare, si limitò a dire: — Ebbene, questo è un posto differente, ed è proprio per questo che Port Kato esiste, sai? Per studiare in profondità una zona che è rimasta isolata per parecchio tempo. Mi hanno detto che l'istmo fra Hansonia e la terraferma è scomparso quindicimila anni fa; i dromidi locali, per lo meno, non avevano mai sentito parlare di esseri umani prima del nostro arrivo, e gli uranidi avevano solo udito voci in merito, che possono averli influenzati in qualche modo, ma non eccessivamente. — Dromidi... uranidi... oh! — Essendo di origine greca, Chrisoula afferrò al volo il significato di quei nomi. — Volpi e globi, esatto? — Per favore — si accigliò Hugh. — Quelli sono scherzi da poco, ti pare? So che ne devi aver sentiti parecchi in città, ma io credo che entrambe le razze meritino di ricevere nomi più dignitosi da parte nostra. Ricordati che sono dotate d'intelligenza. — Mi dispiace. — Niente di male, Chris. — Hugh le strinse leggermente la vita. — Sei nuova di qui, e con un lasso di tempo di un secplo fra domande e risposte, fra qui e la Terra... — Sì, mi sono chiesta se valga realmente la pena di creare colonie al di là del Sistema Solare soltanto per trasmettere conoscenze scientifiche con tanta lentezza. — Tu hai in proposito informazioni più recenti di quante ne abbia io. — Ecco... planetologia, biologia e chimica stavano ancora fornendo
nuovi elementi d'analisi introspettiva quando sono partita, e questo era un bene per ogni scienza, dalla medicina al controllo dei vulcani. — La donna si raddrizzò sulla persona. — Chissà, forse il prossimo passo sarà nel tuo campo, la xenologia. Se riuscissimo ad arrivare a comprendere una mente non umana... no, due tipi di menti non umane, su questo mondo, o addirittura tre, se è vero quello che ho sentito teorizzare in merito all'esistenza di due tipi del tutto differenti di uranidi... — Chrisoula trasse il fiato, — ebbene, allora avremmo la possibilità di arrivare a comprendere noi stessi. — Hugh ritenne che la ragazza fosse davvero interessata e non stesse soltanto cercando di compiacerlo quando soggiunse: — Cos'è che fate esattamente, tu e Jan? Ad Enrique mi hanno detto che si tratta di una cosa del tutto speciale. — Sperimentale, comunque. — Hugh la lasciò andare per non precorrere troppo i tempi di approccio. — È una storia piuttosto complicata. Non ti piacerebbe invece fare il giro della nostra metropoli? — Posso farlo più tardi da sola, se tu dovrai tornare al lavoro. Ma sono affascinata da quello che ho sentito dire del vostro progetto: leggere le menti degli alieni! — Non si tratta esattamente di questo. — Cogliendo al volo l'occasione, Hugh le indicò una panchina all'esterno di una baracca di macchinari. — Se davvero t'interessa parlarne, perché non ci sediamo? Mentre si sedevano, Piet Marais, il botanico, emerse dalla sua capanna, ma, con sollievo di Hugh, si limitò a salutarli e ad allontanarsi in fretta, per andare a studiare certi strani comportamenti manifestati a quell'ora del giorno da alcune piante di Hansonia. Tutti erano ancora in casa, il cuoco ed il suo assistente per preparare la colazione, gli altri intenti a lavarsi e vestirsi per dare inizio ad un altro periodo di veglia. — Suppongo che tu sia sorpresa — esordì Hugh, — perché le tecniche di neuroanalisi elettronica erano ancora ad uno stadio iniziale sulla Terra quando ne sei partita; sono state sviluppate maggiormente in seguito, e, naturalmente, le informazioni in merito ci sono giunte molto prima del tuo arrivo. Laggiù, le tecniche erano state applicate agli animali inferiori ed anche agli esseri umani. Quindi non è stato difficile per noi... grazie all'apporto di un paio di genii del Centro... adattare l'equipaggiamento sia ai dromidi che agli uranidi. Dopo tutto, entrambe quelle specie possiedono un sistema nervoso ed i segnali sono elettrici. In effetti, è stato più difficile sviluppare i programmi necessari che non l'apparecchiatura vera e propria. Jannika ed io stiamo lavorando a questo, raccogliendo i dati empirici per
gli psicologi ed i semantici e gli esperti di computeristica. «Uh, per favore, non ci fraintendere. Per noi, questa fase di lavoro è quasi incidentale. Analisi mentale... una brutta parola, ma sembriamo essere collegati per forza ad essa... perché l'analisi mentale si rivelerà alla lunga uno strumento prezioso per il nostro vero lavoro che consiste nell'apprendere come vivono i nativi locali, cosa pensano e provano, tutto ciò che li riguarda. Comunque, al momento la cosa è molto nuova, molto limitata e dagli esiti quanto mai imprevedibili. — Lasciami dire quello che immagino di sapere in merito — suggerì Chrisoula, fregandosi il mento, — poi mi spiegherai in che cosa sbaglio. — Certo. — I procedimenti sinattici possono essere registrati ed identificati come impulsi motorii, immissioni sensorie e loro procedimento... ed infine, almeno in teoria, come pensieri di per se stessi — Chrisoula era divenuta decisamente pedante. — Ma lo studio consiste nell'accumulare faticosamente dati, interpretarli, e poi correlare le interpretazioni con le risposte verbali. Il risultato ottenuto, quale che sia, può essere immesso in un programma di computer sotto forma di mappa n-dimensionale da cui possono essere ricavati dati. Ulteriori dati possono derivare dall'interpolazione. — Whe-ew! — esclamò l'uomo. — Va' avanti. — Sono nel giusto fino a questo punto? Non mi aspettavo di esserlo. — Ecco, naturalmente tu stai tentando di esprimere in poche parole concetti che richiederebbero interi volumi di matematica e logica simbolica per essere esposti con proprietà. Però, stai facendo meglio di quel che saprei fare io stesso. — Allora continuerò. Di recente, sono stati inventati sistemi in grado di effettuare corrispondenze fra mappe differenti, e quindi di trasformare i tracciati che costituiscono i pensieri di una mente nei tracciati di pensiero di un'altra mente. Inoltre, è divenuto possibile effettuare trasmissioni fra sistemi nervosi: un tracciato può essere individuato, tradotto mediante un passaggio nel computer e poi indotto elettromagneticamente nel cervello ricevente. Questo non porta alla telepatia? — M-m-m... in modo estremamente rozzo — borbottò Hugh, frenandosi dallo scuotere la testa. — Anche due umani che parlino la stessa lingua e si conoscano profondamente a vicenda ottengono così soltanto informazioni parziali... messaggi semplici e carichi di distorsioni, un basso livello di trasmissione ed una notevole lentezza. E quanto peggiora la cosa quando la si tenta con una forma di vita diversa! Bastano le semplici differenze di lin-
guaggio, per non parlare della struttura neurologica, della chimica... — Eppure ci state provando, e con un certo successo, stando a quanto ho sentito. — Ecco, abbiamo compiuto una certa quantità di progressi sulla terraferma sia con dromidi che con uranidi. Ma, credimi, «una certa quantità» è un'affermazione di sopravvalutazione della realtà dei fatti. — Adesso ci state provando su Hansonia, dove le culture locali vi sono del tutto aliene. In effetti, le specie di uranidi... Ma, perché? Non state accrescendo inutilmente le vostre difficoltà? — Sì... cioè, aggiungiamo innumerevoli problemi, ma non è una cosa inutile. Vedi, la maggior parte dei nativi cooperanti ha trascorso la vita intera a contatto con gli umani, e molti di loro sono soggetti di studio professionali, i dromidi in cambio di una paga tangibile; gli uranidi per la soddisfazione psicologica che ne traggono e per il divertimento. Sono individui sradicati dal loro contesto, e che spesso non hanno la minima idea del motivo per cui i loro compagni di razza «selvatici» facciano una qualche cosa. Noi volevamo scoprire se era possibile sviluppare il sondaggio mentale fino a trasformarlo in un mezzo d'apprendimento che ci consenta di imparare qualcosa di più della neurologia, e, per fare questo, avevamo bisogno di esseri che fossero relativamente... uh... incontaminati. Dio sa se Nearside non sia pieno di zone vergini, ma qui c'era già Port Kato, istituito per lo studio intensivo di una regione che è sia isolata sia definita chiaramente, e così Jan ed io abbiamo deciso che tanto valeva includere il sondaggio mentale nel nostro programma di ricerche. — Lo sguardo di Hugh si spostò verso l'immensità di Argo ed indugiò su di esso. — Per quanto ci riguarda — aggiunse a bassa voce, — questo è per noi solo un mezzo in più per cercare di scoprire come mai qui uranidi e dromidi sono in guerra fra loro. — Si uccidono a vicenda anche altrove, non è vero? — Sì, ed in svariati modi e per un'ampia varietà di motivi, per quanto possiamo stabilire. Permettimi di farti osservare, a titolo di cronaca, che io non concordo con la teoria per cui si possono acquistare informazioni in merito a questo pianeta mangiando chi le fornisce. Tanto per cominciare, ti posso dimostrare che sono preponderanti le aree in cui dromidi ed uranidi sembrano coesistere pacificamente. — Hugh scrollò le spalle. — Sulla Terra, le nazioni non sono mai state identiche fra loro. Perché dovremmo aspettarci che su Medea le cose siano uguali dovunque? — Tuttavia, hai detto che in Hansonia c'è la guerra. — È il termine migliore cui mi riesce di pensare. Oh, nessuno dei due
gruppi possiede un governo in grado di emettere una formale dichiarazione. Ma rimane il fatto che sempre di più nell'ultimo ventennio... il tempo a partire dal quale gli umani hanno iniziato le loro osservazioni, ma forse anche in precedenza... i dromidi si sono dimostrati decisi ad uccidere gli uranidi, addirittura a spazzarli via! Gli uranidi sono pacifisti, ma si difendono, talvolta con misure attive quali le imboscate. — Hugh fece una smorfia. — Ho intravisto parecchie lotte ed esaminato le conseguenze di un numero anche maggiore di scontri, e non erano piacevoli. Se noi di Port Kato potessimo fare da mediatori di pace... ebbene, io credo che già solo questo fatto sarebbe sufficiente a giustificare la presenza umana su Medea. Anche se stava cercando di far colpo sulla ragazza con la propria gentilezza d'animo, Hugh non era un ipocrita; d'altro canto, essendo una persona pragmatica, si era più volte chiesto se gli umani avessero il diritto di trovarsi là. Gli studi scientifici a lungo raggio erano impossibili senza una colonia autosufficiente, il che a sua volta implicava un minimo di popolazione, la maggior parte dei cui membri non erano scienziati. Lui stesso, per esempio, era figlio di un minatore, ed aveva trascorso la sua fanciullezza in zone dell'interno. Era vero che quell'insediamento non era destinato ad ingrandirsi ulteriormente e che la maggior parte della superficie di quella grossa luna era abbastanza ostile alla sua razza da far apparire improbabile una più vasta espansione, tuttavia... se non altro, soltanto con la loro presenza, i Terrestri avevano già dato apporti irreversibili ad entrambe le razze. — Non puoi chiedere loro perché combattono? — Oh, certo, lo possiamo chiedere — replicò Hugh, con un sorriso asciutto. — Ormai abbiamo appreso le lingue locali quanto basta per una conversazione semplice. Però, quanto è profonda la nostra comprensione? «Ascolta, io sono lo specialista dei dromidi, e Jan è quella degli uranidi, ed entrambi abbiamo lavorato duramente nel tentativo di conquistarci l'amicizia di singoli individui. Le cose sono più difficili per me perché i dromidi non sono disposti a venire a Port Kato fintanto che esiste il rischio che vi possa capitare un uranide. Ammettono di essere obbligati da un qualche dovere ad uccidere gli uranidi... ed anche a mangiarli, tra parentesi, il che costituisce soprattutto un atto simbolico. I dromidi riconoscono tuttavia che un simile atto sarebbe una violazione della nostra ospitalità, e pertanto devo andare a trovarli nei loro accampamenti e covi. Nonostante questo mio problema, Jan ammette di non aver fatto più progressi di quanti ne abbia conseguiti io, e siamo entrambi molto perplessi.
— Cosa dicono gli autoctoni? — Ecco, ciascuna delle due specie ammette che le due razze usavano vivere amichevolmente insieme... con pochi, anzi con nessun contatto diretto, ma con un considerevole interesse reciproco. Poi, venti o trent'anni fa, un numero sempre maggiore di dromidi non era più riuscito a riprodursi, ed un numero sempre maggiore di gravidanze si era interrotto prima del termine, causando la morte dei piccoli. I capi avevano deciso che la colpa era degli uranidi e che dovevano essere sterminati. — Perché? — Una questione di fede. Non esiste nessun motivo razionale che mi sia riuscito d'individuare, anche se ho intuito le motivazioni, fondate sulla ricerca di un capro espiatorio. I nostri patologi sono alla ricerca della cuasa effettiva del fenomeno, ma puoi immaginare quanto tempo ci potrebbe volere, e nel frattempo attacchi ed uccisioni continuano. — Sono forse gli uranidi mutati in qualche modo? — chiese Chrisoula, fissando il suolo polveroso. — In questo caso, i dromidi sarebbero potuti saltare ad una conclusione del tipo post hoc, propter hoc. — Huh? — fece Hugh, poi, dopo che la ragazza gli ebbe spiegato, scoppiò a ridere. — Temo di non essere un tipo colto. I topi di roccia e gli scorridori di cespugli fra cui sono cresciuto rispettano il sapere... non sopravviveremmo su Medea senza il sapere... ma non pretendono di possederne molto essi stessi. Mi sono interessato alla xenologia perché da bambino avevo un amico dromide e ho seguito quel lei-lui attraverso il suo intero ciclo, da femminile a maschile ed a postsessuale. Ha fatto presa sulla mia immaginazione... una forma di vita così aliena. Il suo tentativo di volgere la conversazione su argomenti più personali non ebbe successo. — Cos'hanno fatto gli uranidi? — insistette la ragazza. — Oh... hanno acquisito una nuova... no, non una nuova religione, perché questo implica uno speciale settore della vita, non ti pare, e gli uranidi non dividono in settori le loro vite. Chiamala una nuova Via, un nuovo Tao. Esso implica come conclusione il volare sul vento dell'est oltre l'oceano per morire nel gelo del Farside: in qualche modo, questo concetto è trascendente, ma, per favore, non mi chiedere come o perché. E non mi riesce di capire, come non lo capisce neppure Jan, perché i dromidi considerino questo atto una cosa terribile a farsi da parte degli uranidi. Io ho qualche opinione in merito, ma sono solo supposizioni. Jan dice scherzando che sono fanatici nati.
— Abissi culturali — annuì Chrisoula. — Supponiamo che un materialista moderno e dotato di poca empatia disponesse di una macchina del tempo e ritornasse all'epoca del Medio Evo sulla Terra, per cercare di scoprire cosa animava una Crociata o una Jihad: la cosa gli sembrerebbe priva di scopo, ed indubbiamente arriverebbe alla conclusione che tutte le persone coinvolte erano pazze e che la sola via alla pace era la totale vittoria di una delle due fazioni sull'altra. Cosa che non è affatto esatta, come sappiamo oggi. Hugh si rese conto che quella donna la pensava quasi come sua moglie. — Non potrebbe essere — continuò la ragazza, — che l'influenza umana abbia provocato questi cambiamenti, forse indirettamente? — Potrebbe darsi — ammise Hugh. — Gli uranidi viaggiano molto, naturalmente, quindi quelli che vivono su Hansonia potrebbero aver raccolto storie di seconda o terza mano in merito al Paradiso, storie originate dagli umani. Ritengo che sarebbe per loro naturale supporre che il Paradiso si trovi nella direzione in cui tramonta il sole. Non che nessuno abbia mai cercato di convertire un nativo, ma i nativi hanno talvolta chiesto quali siano le nostre concezioni, e gli uranidi hanno la tendenza a creare miti, che li potrebbe portare ad impadronirsi di qualsiasi concetto, e sono anche estatici, perfino riguardo alla morte. «Invece, a quanto ho sentito dire, i dromidi sono portati a sviluppare in brevissimo tempo nuove religioni militanti. Quindi su quest'isola sta succedendo che una di queste religioni si è rivolta contro gli uranidi, non ti pare? Tragico... anche se non mi sembra molto diverso dalle persecuzioni che si sono viste sulla Terra. «Comunque, non potremo essere d'aiuto fino a che non avremo raccolto maggiori cognizioni, cosa che Jan ed io stiamo cercando di fare. Per lo più seguiamo le solite procedure, studi sul campo, osservazioni, interviste e così via, ma stiamo sperimentando anche con il sondaggio mentale, e stanotte effettueremo il test più completo sviluppato finora. — Cosa farete? — chiese Chrisoula, ergendosi sulla persona, affascinata. — Probabilmente collezioneremo un fallimento. Sei una scienziata anche tu, e sai quanto rare siano le effettive scoperte importanti: stiamo solo avanzando lentamente. — Vedendo che la ragazza rimaneva in silenzio, Hugh prese fiato e continuò: — Per essere esatti, Jan ha coltivato i rapporti con un uranide «selvaggio», ed io quelli con un dromide «selvaggio». Li abbiamo persuasi a portare una sonda mentale miniaturizzata trasmittente,
e stiamo lavorando con loro per sviluppare la nostra capacità di comprensione. Quel che riusciamo a ricevere e ad interpretare non è molto, e gli occhi e gli orecchi ci forniscono una quantità di materiale molto maggiore; tuttavia, queste sono informazioni speciali, supplementari. «La situazione effettiva? Oh, i nostri nativi portano un'unità grossa quanto un bottone incollata alla testa, se di testa si può parlare a proposito di un uranide. Una cellula al mercurio fornisce l'energia, e l'unità trasmette segnali di riconoscimento su una banda radio... sono micro-watts, ma facili da localizzare. La trasmissione dei dati richiede naturalmente una banda molto ampia, ed è quindi su un raggio ultravioletto. — Cosa? — Chrisoula era stupita. — Ma questo non è pericoloso per i dromidi? Mi è stato insegnato che essi, essendo quasi animali, si devono riparare quando il sole è caldo. — È un raggio tanto debole da essere sicuro, anche a causa dei limiti energetici — replicò Hugh. — Ovviamente, è limitato alla linea visiva ed a pochi chilometri attraverso l'aria. Quanto a questo, i nativi di entrambe le razze ci hanno detto di essere in grado di individuare la fluorescenza del gas lungo il cammino. Non che lo descrivano in questo modo, però! «Così, Jan ed io siamo usciti con velivoli separati. Ci teniamo tanto in alto da non poter essere visti ed attiviamo le trasmittenti con un segnale, quindi ci «sintonizziamo» sui nostri individuali soggetti per mezzo degli amplificatori e dei computers. Come ho detto, fino ad oggi abbiamo ottenuto risultati alquanto limitati: è un tipo di telepatia estremamente povero. Questa notte abbiamo progettato uno sforzo intensivo perché accadrà un fenomeno importante. — Avete tentato di trasmettere qualcosa ad un nativo, invece di limitarvi a ricevere? — domandò Chrisoula, invece di chiedere subito di che fenomeno si trattasse. — Cosa? No, nessuno lo ha fatto. In primo luogo, non vogliamo che si rendano conto che vengono sondati mentalmente, perché questo forse condizionerebbe il loro comportamento. D'altro canto, nessun medeano possiede qualcosa di simile ad una cultura scientifica, e dubito che riuscirebbero a comprendere il concetto. — Davvero? Con il loro elevato livello metabolico, credevo fossero in grado di pensare più in fretta di noi. — Sembra che lo facciano, anche se non saremo in grado di effettuare misurazioni fino a quando avremo migliorato il sondaggio mentale al punto di riuscire a decodificare il pensiero verbale. Tutto quello che abbiamo
identificato fino ad ora sono le impressioni sensorie. Ritorna fra un centinaio d'anni e forse qualcuno sarà in grado di risponderti. Il discorso era diventato talmente accademico che Hugh accolse piacevolmente il diversivo causato dall'apparizione di un'uranide. La riconobbe nonostante fosse più grande del normale, il suo globo disteso con l'idrogeno fino a misurare un diametro di quattro metri, il che rendeva rado il pelame che copriva la pelle ed alterava il bagliore madreperlaceo della creatura. Nonostante questo, essa costituiva uno spettacolo piacevole mentre sorvolava le cime degli alberi controvento e poi verso il basso. I filamenti prensili ondeggiavano sotto di lei in configurazioni varianti per aiutare la creatura a pilotare il suo nuoto a propulsione attraverso l'aria, e la creatura non meritava certo la definizione di «medusa volante» ... Hugh si sentì portato a simpatizzare con l'attrazione che Jannika provava per quella razza. — Ti voglio presentare un personaggio locale — suggerì a Chrisoula, alzandosi in piedi. — Conosce un po' d'inglese, ma non aspettarti di capire subito la sua pronuncia. Probabilmente è venuta per concludere un piccolo scambio prima di raggiungere il suo gruppo per la grossa faccenda di stanotte. — Uno scambio? — La ragazza si alzò a sua volta. — Sì. Niallah risponde alle domande, racconta leggende, canta canzoni, esegue manovre, fa tutto quello che chiediamo, ma dopo dobbiamo suonare un po' di musica umana per lei, di solito Schònberg. Le piace molto Schönberg. —— Correndo lungo la cima di una collina, Erakoum osservò Sarhouth stagliarsi chiaramente contro Mardudek. La Luna stava crescendo verso la pienezza mentre attraversava quel bagliore nerastro; il suo disco era rimpicciolito dal corpo enorme alle sue spalle, ed appariva più piccolo, all'occhio, della macchia che era anch'essa entrata nella visuale; la sua fredda luminescenza era stata già da parecchio tempo quasi del tutto soffocata, quando la luna aveva superato una delle cinture che mutevolmente circondavano Mardudek. Quelle cinture divenivano luminose quando faceva buio, ed i pensatori come Yasari ritenevano che esse riflettessero la luce dei soli. Per un istante, Erakoum rimase avvinta da quell'immagine, dalla vista di sfere che viaggiavano in spazi senza confini ed in cerchi racchiusi in altri cerchi. Erakoum sperava di divenire a sua volta un pensatore, ma questo
non poteva accadere presto: doveva prima superare il suo secondo parto, doveva dare alla vita il suo secondo segmento e proteggerlo, quella giovane vita che attualmente custodiva in sé e che stava aiutando a crescere. Poi, sarebbe diventata un maschio, ed avrebbe dovuto assolvere al compito della procreazione da quella prospettiva diversa... prima che anche quella necessità svanisse e ci fosse finalmente tempo per la serenità. Rammentò con una fitta di dolore come il suo primo parto fosse stato inutile. Il segmento da lei generato si era mosso barcollando per qualche tempo prima di distendersi e morire come stava accadendo a molti altri. Erano stati i Volatori a provocare quella maledizione, dovevano essere stati loro, come predicava il Profeta Illdamen: la loro nuova abitudine di volare ad ovest per non tornare più, quando invecchiavano, invece di sprofondare nel terreno e marcire come era volontà di Mardudek, doveva certo aver fatto infuriare la Sentinella Rossa, ed al Popolo era stato affidato il compito di vendicare quel peccato commesso contro l'ordine naturale delle cose. La prova di ciò stava nel fatto che le femmine che uccidevano e mangiavano un Volatore poco tempo prima di accoppiarsi generavano sempre segmenti sani da cui derivavano quindi piccoli vitali. Erakoum giurò a se stessa che quella notte sarebbe riuscita anche lei a fare una cosa del genere. Si arrestò per riprendere fiato e per osservare il terreno circostante: quei precipizi limitavano un fiordo le cui acque erano più placide di quelle del mare antistante, brillanti sotto la luce proveniente da est. Una macchia scura indicava un ammasso di canne galleggianti: poteva trattarsi delle piante da cui i Volatori sbocciavano nella loro abominevole infanzia? Erakoum non era in grado di dirlo, da quella distanza; talvolta, coraggiosi appartenenti alla sua razza si erano avventurati in acqua su tronchi nel tentativo di raggiungere e distruggere quei letti di canne, ma avevano fallito e spesso erano annegati a causa di grandi onde traditrici. Ad occidente si levavano alte e scoscese colline alberate dove regnava l'oscurità; trasversalmente alle loro ombre, danzavano migliaia di fiammelle dal bagliore dorato... milioni di esse. Erano bachi di fuoco: per più di cento giorni e notti, essi erano stati dapprima uova e poi vermi che vivevano nel profondo del fango della foresta, ma ora Sarhouth stava attraversando la superficie di Mardudek nell'esatto e misterioso modo che serviva a convocare quelle creature, le quali strisciavano in superficie, distendevano le ali che erano frattanto cresciute sui loro corpi e si levavano luminose in volo, per accoppiarsi.
In passato, quello era stato soltanto uno spettacolo affascinante per il Popolo, ma poi era sorta la necessità di uccidere i Volatori,... ed i Volatori si radunavano sempre in orde per cibarsi di quegli sciami luminosi. Tenendosi bassi e divenendo imprudenti per la gioia, essi divenivano più vulnerabili alle sorprese di quanto lo fossero di solito; Erakoum agitò in aria un giavellotto dalla punta di ossidiana. Ne aveva altri cinque assicurati sulla schiena, e, anche se parecchi del Popolo avevano impiegato quella giornata a tendere reti e trappole, lei considerava poco pratico quel metodo di caccia, perché i Volatori non erano una normale preda alata. E comunque, quella notte voleva lanciare la sua arma, abbattere una vittima ed affondare le zanne nella carne sottile, tutto da sola! La notte mormorava intorno a lei, ed Erakoum beveva avidamente gli odori del suolo, odori di crescita e di decomposizione, di nettare e di sangue, di sforzi compiuti. Il calore proveniente da Mardudek trapelava nella fredda brezza a bagnarle il pelo, mentre le sagome appena intraviste o udite quando si spostavano fra i cespugli, erano quelle dei suoi compagni: essi non erano raccolti in un unico gruppo, ed avanzavano ciascuno a suo modo, ma si mantenevano sempre più o meno a portata d'orecchio, e quello che avesse per primo avvistato o fiutato un Volatore lo avrebbe segnalato con un fischio. Erakoum era più separata degli altri dai suoi compagni, perché questi temevano di poter essere traditi dal raggio di luce che scaturiva dal piccolo contenitore sulla sua testa, cosa che lei riteneva improbabile, considerato quanto era debole quel raggio azzurrino. L'umano chiamato Hugh l'aveva pagata bene in termini di merci di scambio perché portasse il talismano ogni volta che lui glielo chiedeva e poi discutesse con lui le proprie esperienze. Da parte sua, Erakoum sperimentava in quelle occasioni un oscuro senso di eccitazione che non somigliava a null'altro al mondo, ed il sapere entrava in lei, come in sogno ma in modo più reale: questi vantaggi valevano bene una leggera difficoltà nel corso di qualche caccia occasionale... anche durante la caccia di stanotte. Inoltre... c'era qualcosa che non aveva detto ad Hugh, perché lui non gliene aveva parlato per primo: si trattava di una delle cose che aveva appreso senza parole dall'involucro di luce, e cioè che anche uno dei Volatori portava un congegno simile e si teneva in contatto soprannaturale con un umano. Le grosse e grottesche creature avevano francamente ammesso di essere neutrali nel conflitto fra il Popolo ed i Volatori, ed Erakoum non ne faceva
loro una colpa: quella non era la loro patria e non si poteva pretendere che a loro importasse se diveniva desolata. Comunque, Erakoum aveva astutamente intuito che gli umani desideravano tenere nascosto il loro rapporto ugualmente intimo con membri di entrambe le razze. Se Hugh era stato ansioso che lei fosse in contatto spirituale con lui, quella notte, indubbiamente anche un altro umano aveva chiesto la stessa cosa ad un Volatore, e sarebbe stata una gioia speciale per lei abbattere quel particolare Volatore, senza contare che, se avesse cercato d'individuare un raggio pallido fra i bagliori dei bachi di fuoco e delle stelle, sarebbe potuta arrivare ad individuare un intero gruppo di nemici. Ormai riposata, Erakoum iniziò a correre verso l'interno: Erakoum stava cacciando. —— Jannika Rezek provava da sempre un senso di nostalgia per una terra in cui non aveva mai vissuto. I suoi genitori avevano offeso politicamente la Federazione Danubiana, ed erano stati di conseguenza informati che non sarebbero stati sottoposti a trattamento in un ospedale di reindottrinamento, se si fossero offerti volontari per rappresentare il loro paese a bordo della prima nave che avrebbe trasportato personale su Medea. Quella che era stata offerta loro non aveva rappresentato certo una scelta vera e propria; nondimeno, suo padre le aveva detto in seguito che il suo ultimo pensiero, mentre sprofondava in animazione sospesa, era stato l'ironica considerazione che, al suo risveglio, nessuno di coloro che lo avevano giudicato sarebbe più stato in vita e che nessuno avrebbe più ricordato quali erano state le sue opinioni né se ne sarebbe interessato. In effetti, una volta giunto a destinazione, suo padre aveva appreso che la Federazione Danubiana non esisteva più. Rimaneva comunque in vigore la legge per cui, fatta eccezione per il personale di volo, nessun passeggero poteva tornare da dove era venuto: i viaggi spaziali erano troppo costosi perché si potessero trasportare persone che sarebbero arrivate sulla Terra solo per diventare inutili rifiuti della storia del passato, e così marito e moglie si erano adattati meglio che potevano al loro esilio. Essendo entrambi medici, erano stati accolti con entusiasmo ad Armstrong e nel suo circondario agricolo, e là avevano prosperato, secondo i modesti parametri di Medea, ottenendo infine un raro privilegio. La popolazione umana sul pianeta era stata ormai stabilizzata legalmente, ed un numero maggiore di coloni avrebbe affollato in modo eccessivo le aree limitate destinate agli insediamenti ed avrebbe provocato enormi dan-
ni all'ambiente naturale che la colonia aveva lo scopo di studiare. Tuttavia, per controbilanciare vuoti creatisi nel programma riproduttivo, ad alcune coppie, ogni generazione, veniva dato il permesso di avere tre figli, ed i genitori di Jannika erano rientrati in quel numero ridotto. In questo modo, tutti i bambini, Jannika compresa, ritenevano che la loro fosse un'infanzia felice ed anche altamente civilizzata. Nelle molecole delle bobine conservate nel Centro era racchiuso quasi l'intero ammontare della cultura della razza umana; l'industria era sviluppata quanto bastava perché le famiglie abbienti potessero disporre di apparecchi che ricevevano i dati con il massimo di dettagli ologrammici e stereofonici desiderati, ed i genitori di Jannika avevano approfittato di questa possibilità per placare la nostalgia, senza mai pensare all'effetto che questo poteva avere su cuori più giovani. Jannika era cresciuta fra spettri viventi: le vecchie torri di Praga, la primavera nel Böhmerwald, il Natale in un villaggio che i secoli avevano appena sfiorato, una sala per concerti dove la musica risuonava gloriosa intorno ad una folla vestita sfarzosamente e superiore di numero all'intera popolazione di Armstrong, repliche di eventi che avevano fatto un tempo tremare la Terra, canzoni, poesie, libri, leggende, favole... Talvolta Jannika si chiedeva se non si fosse dedicata alla xenologia perché gli uranidi erano leggeri, luminosi e magici esseri da fiaba. Quel giorno, dopo che Hugh era uscito con Chrisoula, Jannika li aveva seguiti con lo sguardo per un momento: d'un tratto, la stanza si era come ristretta intorno a lei, soffocandola. Jannika aveva fatto del suo meglio per rallegrare l'ambiente con tende, quadri, oggetti cari, ma in quel momento essa era costellata di equipaggiamenti e lei odiava il disordine, mentre ad Hugh non importava nulla. L'interrogativo sorse di nuovo in lei: quanto ancora importava ad Hugh di qualsiasi cosa? Quando si erano sposati erano innamorati, naturalmente, ma anche allora Jannika era stata consapevole che si trattava di un matrimonio dettato in buona parte dalla convenienza: entrambi erano a caccia di un incarico in un avamposto dove avrebbero viste accresciute le loro probabilità di effettuare ricerche significative ed originali, ed in quei casi erano preferite coppie sposate, in base alla teoria che queste sarebbero state distratte dal loro lavoro meno degli individui scapoli. Quando avessero avuto i primi figli, sarebbero stati trasferiti in una città, com'era d'uso. Jannika e Hugh litigavano su questo argomento: la pressione sociale... osservazioni, suggerimenti, un imbarazzante evitare l'argomento... stava crescendo sempre più per spingerli alla riproduzione perché, all'interno dei
limiti di popolazione, era preferibile mantenere il patrimonio genetico il più ampio possibile. Adesso, Jannika cominciava ad essere di età un po' avanzata per la maternità, ed Hugh era più che disposto ad avere figli, solo che dava per scontato che lei si sarebbe occupata della casa ed avrebbe svolto un lavoro da scrivania, mentre lui avrebbe continuato le ricerche sul campo... Non lo doveva rimproverare quando sarebbe tornato dalla sua passeggiata amorosa; le capitava di perdere le staffe un po' troppo spesso in quei giorni, e di diventare davvero insopportabile, fino a che Hugh usciva tempestosamente dalla capanna oppure si attaccava ad una bottiglia di whisky. Non era un uomo cattivo... nel profondo dell'anima era un brav'uomo, si corresse in fretta Jannika... impulsivo in molti modi ma benintenzionato, e lei, in quello stadio della sua vita, non avrebbe certo potuto fare di meglio. Eppure... Jannika sentì il calore salirle alle guance e fece un gesto come per allontanare il ricordo, senza riuscirvi: era una cosa che risaliva a due giorni prima. Avendo appreso da A'i'ach l'esistenza del Tempo Lucente, aveva deciso di raccogliere qualche esemplare di quelle larve luminose: fino ad allora, gli umani avevano semplicemente saputo che gli insettoidi adulti si levavano in volo ad intervalli di un anno circa, ma se quell'avvenimento era importante per gli abitanti di Hansonia, lei doveva saperne di più in proposito. Doveva fare osservazioni di persona, e chiedere l'aiuto di biologi, ecologi, chimici... Aveva chiesto a Piet Marais il luogo più adatto in cui cercare e questi si era offerto di accompagnarla. — Quest'idea sarebbe già dovuta venirmi — aveva detto. — Vivendo nell'humus, quei vermi devono influenzare la crescita delle piante. Era necessario trovare un terreno più umido di quello di Port Kato, quindi si erano allontanati di parecchi chilometri fino a raggiungere un lago; il cammino era facile perché il denso fogliame degli alberi impediva la crescita del sottobosco, la morbidezza del suolo attenuava il suono dei passi e gli alberi formavano alte navate arcuate dove multipli raggi di sole trapassavano il velo di oscurità e di aromi per punteggiare il sole o rimbalzare su piccole ali, mentre un suono simile a quello di una lira scaturiva da una gola invisibile. — Com'è bello! — aveva esclamato Piet dopo un po'. Stava guardando Jannika, e non il paesaggio circostante, e la donna si era resa improvvisamente conto della bionda avvenenza del compagno. E
della sua giovane età, aveva rammentato a se stessa, dal momento che Piet era più giovane di lei di quasi dieci anni, per quanto fosse maturo, riflessivo, educato e completamente uomo. — Sì — aveva sbottato. — Vorrei poter apprezzare tutto questo quanto te. — Non è la Terra — aveva risposto Piet, precisando, e Jannika si era accorta che la sua risposta non era stata così impersonale come lei avrebbe voluto. — Non mi stavo commiserando — aveva ribattuto in fretta, — per favore, non lo pensare. Io vedo la bellezza, il fascino, la libertà che ci sono qui... oh, sì, siamo fortunati, qui su Medea. — E, tentando di ridere, aveva aggiunto: — Sulla Terra cosa avrei potuto fare per gli uranidi? — Tu li ami, vero? — le aveva chiesto gravemente Piet, e, quando Jannika aveva annuito, aveva posato la mano sul braccio nudo di lei. — Tu hai una grande quantità di amore in te, Jannika. Lei aveva fatto uno sforzo confuso per vedersi con gli occhi di lui: una donna di mezza altezza, con una figura che sapeva essere splendida; i capelli scuri lunghi fino alle spalle e solcati da ciocche grige che avrebbe voluto Hugh definisse premature. Zigomi alti, naso all'insù, mento appuntito, grandi occhi castani, pelle color avorio. Eppure, sebbene scapolo, un giovane attraente come lui non doveva essere certo alla disperazione, e doveva aver modo d'incontrare in città ragazze con cui poi tenersi in contatto via holocomunicatore. Non avrebbe dovuto dimostrare tutta quell'ammirazione per lei, e lei non avrebbe dovuto mostrarsi ricettiva. Era vero che aveva avuto altri uomini, prima e dopo sposata, ma mai a Port Kato, perché c'erano troppe probabilità di complicazioni; anzi, si era infuriata quando Hugh si era lasciato coinvolgere in una relazione locale. Ancora peggio, sospettava che Piet potesse vedere in lei qualcosa di più di una possibile compagna di baldorie, il che avrebbe potuto rovinare la vita di tutti gli interessati. — Oh, guarda! — aveva esclamato, liberandosi dalla sua stretta per indicare un gruppo di piramidi di semi, mentre la mente le forniva soccorso per uscire dalla situazione. — Volevo dirtelo prima ma me ne sono completamente scordata: oggi ho ricevuto una chiamata dal Professor al-Ghazi. Pensiamo di aver scoperto cosa spinge quei bruchi luminosi ad avere la metamorfosi ed a sciamare in aria. — Eh? — Piet aveva sbattuto le palpebre. — Non mi ero accorto che qualcuno ci stesse osservando.
— Ecco, si tratta di un'idea che mi è venuta in mente dopo che il mio particolare uranide mi aveva indotta a riflettere sulla cosa. Lui, A'i'ach, voglio dire, mi ha spiegato che l'epoca non è strettamente stagionale... questo non è necessario qui ai tropici... ma è determinata da Jason... dalla luna — aveva aggiunto, perché il nome che gli umani avevano attribuito al più interno dei satelliti maggiori somigliava ad una parola con cui i dromidi dell'area di Enrique indicavano un vento corrispondente al vento di scirocco, parola che gli umani avevano adottato a loro volta. — Lui dice che la metamorfosi si verifica durante il particolare passaggio di Jason davanti ad Argo. Questo avviene approssimativamente ogni quattrocento giorni. Per essere esatti, si tratta di un intervallo di cento ventisette giorni medeani. I nativi di questo pianeta sono altrettanto consapevoli dei corpi celesti come in qualsiasi altro luogo, e gli uranidi hanno trasformato lo sciamare delle larve luminose in un evento di festa, perché pare che queste siano deliziose da mangiare. Ebbene, tutto ciò mi ha suggerito un'idea, quindi ho chiamato il Centro ed ho richiesto un calcolo astronomico. A quanto sembra, avevo ragione. — Rapporti astronomici per vermi sotterranei! — aveva esclamato Marais. — Ecco, ricorderai indubbiamente come Jason provochi un'attività elettrica nell'atmosfera di Argo, come fa Io con Giove... nel sistema solare della Terra... In questo caso, si tratta di un effetto-raggio prodotto da una delle frequenze radio così generate, una sorta di maser naturale. Di conseguenza, quelle onde raggiungono Medea soltanto quando le due lune sono allineate fra di loro, e questo è il periodo esatto che il mio amico stava descrivendo. Anche la fase è giusta. — Ma come fanno i vermi ad individuare un segnale tanto debole? — Credo che sia chiaro che lo fanno. Quanto al come, non posso dirlo senza l'aiuto di specialisti. Ricorda però che Phrixus ed Helle creano poca interferenza e che possono esistere organismi straordinariamente sensibili. Lo sapevi che ci vogliono meno di cinque fotoni per attivare la porpora visiva, nel tuo occhio? Suppongo che le onde provenienti da Argo penetrino di qualche centimetro nel suolo ed azionino una catena di reazioni biochimiche. Senza dubbio si tratta di una reliquia evolutiva risalente al tempo in cui le orbite di Jason e Medea s'intersecavano esattamente ad ogni stagione. Le perturbazioni continuano a modificare i movimenti delle lune, lo sai. — Io so — aveva replicato Piet, dopo una lunga pausa di silenzio, —
che tu sei una persona straordinaria, Jannika. La donna aveva nel frattempo riacquistato un autocontrollo sufficiente a condurre la conversazione fino a quando erano arrivati al lago, ma laggiù, per un momento, si era sentita nuovamente scossa. Un canneto lo celò al loro sguardo finché lo ebbero superato per andare ad arrestarsi su una spiaggia ricoperta di erba simile a muschio e del colore dell'ambra. Vergine da manipolazioni umane, l'acqua giaceva schiumosa, gorgogliante ed odorosa. La vista dei morbidi colori e l'odore di cose viventi non era spiacevole, era una cosa normale su Medea... ma com'era limpido e brillante l'azzurro argenteo del Neusiedler See in Danubia! Jannika lasciò sfuggire fra i denti un respiro sibilante. — Cosa c'è che non va? — aveva chiesto Piet, seguendo la direzione del suo sguardo. — I dromidi? Un gruppo di quegli esseri era venuto a bere, ad una certa distanza, e Jannika li stava fissando come se non ne avesse mai visti in precedenza. Il più vicino dei dromidi era una giovane adulta, presumibilmente vergine, dal momento che aveva ancora sei gambe. Dallo snello torso munito di una lunga coda scaturivano due braccia da centauro, quindi, più su, c'era una testa volpina che raggiungeva un'altezza equivalente a quella del torace di Jannika. Il pelame della creatura brillava di un colore nerazzurro sotto la luce dei due soli. Il bagliore di Argo era coperto dalla foresta. Un terzetto di madri dotate di quattro gambe sorvegliava otto cuccioli. Un gruppetto di quei cuccioli indicava, per le dimensioni raggiunte, che le madri avrebbero presto avuto un'altra ovulazione, avrebbero concepito nuovamente e quindi da esse si sarebbe staccato il secondo segmento, che avrebbero curato fino a che fosse nato il piccolo vero e proprio. Un altro membro del gruppo era già giunto a quello stadio della sua vita, e camminava su due gambe, non essendo più una femmina funzionante bensì un esemplare in cui non si erano ancora sviluppate le gonadi maschili. Non era presente nessun maschio in età di generare figli, perché simili creature erano troppo tese, bramose, impazienti e violente per poter condurre una vita sociale. C'erano invece tre esseri nello stadio postsessuale, avvizziti ma forti e protettivi, i cui movimenti su due gambe, per quanto veloci secondo gli standards umani, erano lenti se paragonati alla fulminea fluidità delle movenze dei loro compagni. Tutti gli adulti erano armati con lance dell'età della pietra e con daghe, senza contare i denti da carnivoro che orlavano le loro bocche. Il gruppo scomparve quasi subito dopo che Jannika lo ebbe scorto, non
per timore della sua presenza, ma perché essi erano animali medeani la cui chimica corporea e la cui vita procedevano più velocemente delle sue. — I dromidi — le era riuscito di dire. — Inseguono i tuoi amati uranidi — aveva replicato gentilmente Piet, dopo averla osservata per qualche tempo. — Mi hai detto che il fenomeno diverrà più violento che mai nella notte in cui le lucciole si levano in volo, ma non li devi odiare: sono prigionieri di una tragedia. — Sì, il problema della sterilità... sì. Ma perché devono trascinare gli uranidi a fondo insieme a loro? — Jannika aveva battuto il pugno sul palmo aperto della mano. — Mettiamoci al lavoro, raccogliamo i nostri campioni e torniamo a casa, per favore. Piet aveva compreso pienamente. ... Jannika allontanò quel ricordo e s'immerse nei preparativi per quella notte. Hugh Brocket e sua moglie partirono quasi subito dopo il tramonto. I loro velivoli si levarono con un sussurro, raggiunsero un'altitudine intermedia e girarono in cerchio per un minuto, mentre gli occupanti si orientavano e si scambiavano saluti via radio. Visti dal basso, con i fianchi illuminati dagli ultimi bagliori dell'ormai tramontato Colchis, i velivoli sembravano due lacrime. — Buona caccia, Jan. — Ugh! Non dire così! — Scusami — replicò lui in tono rigido e chiuse la comunicazione. Certo, aveva dimostrato poco tatto, ma perché lei doveva essere sempre così dannatamente suscettibile? Non aveva importanza: c'era un mucchio di cose da fare. Erakoum aveva promesso che si sarebbe trovata sugli Shipwreck Cliffs all'incirca a quest'ora, dal momento che il suo gruppo aveva intenzione di procedere verso nord lungo la costa, provenendo dal campo prima di piegare verso l'interno. Quindi era impossibile determinare esattamente la sua posizione, e lui avrebbe fatto meglio a stabilire al più presto il contatto con la sua trasmittente. Il veicolo di Jannika si fece sempre più piccolo, allontanandosi per la sua ricerca. Hugh inserì il pilota inerziale e si adagiò nelle cinghie di sicurezza per ricontrollare i dati dei suoi strumenti, operazione prettamente automatica dal momento che sapeva benissimo che era tutto in ordine. La maggior parte della sua attenzione era quindi libera di vagare. Il panorama visibile dal velivolo era di un'imponenza titanica. Di sotto, le colline giacevano in chiazzate masse d'ombra, qua e là attenuate dall'ar-
genteo filo che indicava il corso di un fiume o dalla presenza di precipizi e scarpate; l'Oceano Circolare, che divideva gli emisferi, stava trasformando in mercurio l'orizzonte orientale, mentre ad occidente, nel cielo, era visibile la scia lasciata dal doppio sole. Più in alto, si stendeva un nero vellutato che ad ogni battito del cuore di Hugh si copriva di un numero di stelle sempre maggiore; l'uomo vide un paio di lune, abbastanza vicine da mostrare i loro dischi illuminati su entrambi i lati, rossicci e bianchi, e ne riconobbe parecchie altre, che ad occhio nudo apparivano semplici punti luminosi ma che erano identificabili in base alle rispettive posizioni, mentre svolgevano il loro giro di sentinella intorno alle costellazioni. Basso sul livello del mare ardeva Argo... no, splendeva, perché le sue nubi superiori erano adesso in piena luce solare, bande di luminosità che solcavano una massa rosso cupo. Jason era vicino a passare davanti ad Argo, con un diametro angolare il cui angolo era ottuso per venti primi, ma Hugh ebbe qualche difficoltà ad individuarlo a causa della luce intensa. Poi la spiaggia divenne visibile, ed Hugh attivò l'indicatore, facendo librare il suo velivolo nell'aria: una luce di segnalazione emise un bagliore verde, denunciando l'avvenuto contatto. Hugh fece allora sollevare il velivolo di tre chilometri abbondanti, in parte perché si voleva concentrare sui dati encefalici e quindi disporre del maggior spazio possibile per eventuali errori di pilotaggio, ed in parte perché si voleva tenere fuori dalla portata visiva ed uditiva dei nativi, per evitare che la sua presenza potesse influenzare le loro azioni. Dopo aver assunto una posizione stabile, collegò l'elmetto ricevente e se lo fissò in testa... non pesava molto... mettendolo in funzione. Trasmessi, amplificati, ridisposti e reintrodotti, gli eventi del sistema nervoso di Erakoum si mescolarono con quelli del sistema nervoso di Hugh. Hugh non acquisi assolutamente la piena coscienza del dromide, perché la comunicazione e la traduzione erano troppo primitive. Aveva impiegato tutta la sua vita professionale per raggiungere con quella specie un'empatia sufficiente a permettergli, dopo un impiego di pazienza quale avevano potuto esercitare entrambi attraverso un arco di tempo di pochi anni, di cominciare a stento ad interpretare i segnali che raccoglieva. La velocità dei processi mentali dei nativi più che essere d'aiuto... attraverso la ripetizione ed il rafforzamento dei concetti... era d'ostacolo. Per abbozzare una rozza analogia, era come cercare di seguire una conversazione rapida ed appena udibile, perdendo molte parole, conversazione condotta in una lingua che non si conosceva molto bene. In effetti, nulla di ciò che Hugh percepiva
era espresso verbalmente: erano impressioni visive ed uditive, un insieme di sensazioni, comprese quelle interiori come l'equilibrio e la fame, e compresi suggerimenti sognanti di sensi che Hugh non possedeva. L'uomo vide il terreno passargli davanti, cespugli, rami, pendii, stelle e lune sopra alture scoscese; percepì il variare dei contorni e delle strutture mentre i piedi procedevano nel loro cammino; udì la moltitudine di bassi rumori circostanti, fiutò ricchi odori. Le impressioni erano interminabili, per lo più vaghe e fuggevoli, le migliori abbastanza forti da farlo uscire da se stesso e trascinarlo verso il suolo in un'unità con la creatura sottostante. Le sensazioni più limpide, forse perché stimolavano le sue ghiandole, erano quelle dell'emozione e della decisione: Erakoum era decisa ad abbattere un volatore. Sarebbe stata una notte lunga, e forse anche straziante, e Hugh prevedeva che avrebbe avuto bisogno di una dose o due di surrogato di sonno, perché gli uomini non erano mai riusciti a liberarsi degli antichi ritmi della Terra, mentre i dromidi sonnecchiavano saltuariamente e gli uranidi cadevano... in sogni ad occhi aperti. In contemplazione? Come altre volte in precedenza, Hugh si domandò come fosse il rapporto stabilito da Jan con il suo nativo e pensò che non sarebbero mai riusciti a descriversi a vicenda ciò che condividevano con quegli alieni. *** Ben addentro nelle colline, lo Sciame di A'i'ach trovò un grande raccolto di ali-di-stella. Quelle cime erano meno fittamente boscose delle terre basse, il che era un bene, perché la preda luminosa non volava mai molto in alto e, se costretto a scendere al di sotto della chioma di una foresta, il Popolo diveniva vulnerabile agli attacchi delle Bestie. Qui c'era una buona quantità di terreno aperto, coperto d'erba e cosparso di massi, che si stendeva fra le ombre degli alberi. Uno stretto dirupo attraversava una di quelle radure, una spaccatura orlata d'oscurità. Come un'interminabile pioggia di scintille, le ali-di-stella danzavano, saettavano, schivavano, innumerevoli, intente soltanto all'estasi del loro accoppiamento ed al Popolo che si nutriva di esse. Nonostante la cautela presente in lui, A'i'ach non poté resistere più di chiunque altro, ma si trattenne dall'emettere gas per discendere in fretta come fecero invece molti dei suoi compagni, perché questo avrebbe rallentato la risalita. Invece, contrasse il proprio globo e sprofondò, lasciandolo riespandere leggermente quando il variare della densità dell'aria lo richiedeva, e non fece fuoriuscire gas neppure per spingersi, preferendo pompare ritmicamente e far lavorare il pro-
prio sifone insieme alla brezza per zigzagare a bassa velocità. Non c'era fretta, e le ali-di-stella erano più numerose di quanto lo Sciame fosse in grado di mangiarne. Molte di quelle creature sarebbero fuggite, libere di deporre le uova per la covata dell'anno successivo. Giunto in mezzo ai puntini luminosi, A'i'ach aspirò la prima boccata di prede, ed il loro gusto dolce e caldo gli cantò nella carne. Addensandosi fitto intorno a lui, sobbalzando, roteando, agitando ed arricciando i filamenti, riempiendo il cielo di musica, il resto del Popolo dimenticò ogni cautela, e l'amore ebbe inizio. Non era privo di scopo, anche se, senza acqua in cui cadere, i semi pollinati non sarebbero germogliati, perché quell'amore creava un'unità. La polvere di vita fluttuava come fumo sotto la luce di Ruii, ed il sapore, l'odore, la vista di essa rendevano febbrile quella gioia che era stata destata dalla festa delle ali-di-stella. A'i'ach si accoppiò ripetutamente, ebbe l'impressione di uscire dal proprio corpo, di diventare una cellula di un singolo essere divino che era di per se stesso un tornado d'amore. Un giorno, quando avesse avvertito su di sé il peso degli anni, si sarebbe allontanato verso ovest oltre il mare, verso il gelido Oltre, e là, cedendo l'estremo calore del suo corpo, avrebbe ottenuto per il suo spirito la ricompensa agognata, la Promessa che per sempre tutto sarebbe stato com'era adesso in questa breve notte... Risuonò un ululato, alcune sagome uscirono a balzi da sotto gli alberi, venendo all'aperto, ed A'i'ach vide una lancia trapassare il globo vicino al suo: il sangue sprizzò ed il gas fuoriuscì sibilando, e la forma che si contorceva cadde come una foglia morta. I filamenti si agitavano ancora quando una Bestia afferrò il globo durante l'ultimo stadio della caduta ed affondò in esso le zanne. Nella folla che lo circondava e nella confusione che seguì, A'i'ach non riuscì a vedere quanti altri venivano uccisi: la maggior parte dei suoi compagni stavano fuggendo, levandosi fuori portata dei proiettili, e quelli di loro che erano armati lasciavano cadere sassi e rami di ü anche se era improbabile che riuscissero ad uccidere qualche Bestia. A'i'ach aveva rilassato i muscoli del suo globo ed era saettato immediatamente verso l'alto; una volta al sicuro, avrebbe potuto unirsi al resto dello Sciame per vagare in cerca di un altro luogo dove riprendere la festa interrotta, ma la rabbia ed il dolore erano troppo violenti dentro di lui. Con una parte remota del suo io, A'i'ach si meravigliò di questo, perché solitamente il Popolo non si affliggeva troppo per la morte di una Persona: doveva essere quella cosa che aveva addosso, e che in qualche modo gli sus-
surrava frasi misteriose... Ed aveva un coltello! Consumando gas senza riguardo, planò in basso, girando intorno: la maggior parte delle Bestie era svanita fra gli alberi, ma ne rimanevano alcune, intente a divorare le vittime; A'i'ach volò ad un'altitudine che rasentava i limiti della prudenza ed attese la sua occasione. Dal momento che non poteva lasciarsi cadere come una roccia, doveva fare una finta in direzione di una delle Bestie, colpirne rapidamente un'altra e poi risalire per attaccare ancora. Un leggero raggio di luce si levò verso di lui, proveniente dalla testa di una Bestia che era appena emersa dall'ombra e si era arretrata, fissando lo sguardo ardente verso l'alto. La volontà di A'i'ach si rafforzò ulteriormente: laggiù c'era un mostro che aveva il suo stesso tipo di legame con gli uomini, e se lui, A'i'ach aveva ottenuto un coltello da loro, cosa poteva aver ottenuto e cosa poteva ancora ottenere quell'essere per fare un male ancora maggiore? Se non altro, la sua uccisione avrebbe potuto sconvolgere i suoi compagni ed indurli a riflettere sul loro comportamento assassino. A'i'ach avanzò verso lo scontro mentre intorno a lui le ali-di-stella danzavano allegramente e si accoppiavano. *** Jannika impiegò più di un'ora prima di riuscire ad effettuare il contatto. Un uranide non poteva fare in modo di trovarsi in un punto preciso ad un'ora prestabilita, ed il suo contatto l'aveva semplicemente informata, mentre sintonizzava la trasmittente su di lui, che il suo gruppo si trovava attualmente nelle vicinanze del Monte Mac Donald. Jannika si era recata laggiù ed aveva sondato in ogni direzione nell'oscurità sempre più fitta, fino a quando il suo indicatore era diventato verde. Avendo stabilito il collegamento, si era portata a tre chilometri di altitudine ed aveva innestato l'autopilota perché descrivesse alcuni lenti cerchi; di tanto in tanto, man mano che il soggetto della sua analisi si spostava verso nordovest, Jannika variava a sua volta il centro dei suoi cerchi. A parte questo, stava cercando di diventare il suo uranide. Naturalmente era una cosa impossibile, ma, attraverso questi sforzi, lei stava apprendendo cognizioni che non avrebbe mai potuto scoprire attraverso il linguaggio parlato. I costumi del popolo, le credenze, la musica, le poesie, il balletto aereo, cose che non avrebbe mai potuto conoscere per quelle che erano se si fosse limitata ad osservarle dall'esterno. E ce n'erano altre presenti più in
profondità dentro di lei, più tenui ma più potenti... cose che però non avrebbe potuto scrivere in un rapporto scientifico: un senso di gioia, di nostalgia, di vento, di lucentezza; di profumi, di nubi, di pioggia, di distanza immense, un senso di ciò che rappresentava l'essere un abitatore del cielo. Non era una cosa completa, no... solo poche occhiate incerte e difficili da ricordare in seguito e che la trasportavano lo stesso in un nuovo mondo che splendeva di meraviglie. La sensazione era raddoppiata stanotte dall'eccitazione di A'i'ach, e le impressioni di Jannika in merito a ciò che l'uranide stava provando non erano mai state più forti o acute di così: si trovò a fluttuare sulle correnti d'aria, posseduta dagli odori vitali e dai canti, scoprì di essere una goccia in un oceano al di sotto di Ruii il possente, scoprì che non esisteva una casa da desiderare disperatamente perché dovunque era casa. Lo Sciame giunse infine dove c'era uno sciame di lucciole e l'universo di Jannika si fece di colpo selvaggio. Per un momento, terrorizzata, Jannika fu sul punto di chiudere la cuffia, ma la ragione le arrestò la mano: quello che stava accadendo era soltanto la manifestazione estrema di ciò cui aveva partecipato fino ad allora. Gli uranidi ingurgitavano raramente molto cibo in una volta sola, e, quando lo facevano, questo aveva un effetto intossicante su di loro. Jannika percepì anche la sessualità dei festeggiamenti, ma la maschilità di A'i'ach era troppo irreale per disturbarla, come invece la femminilità del suo dromide aveva disturbato Hugh quando la creatura si era accoppiata ed aveva in seguito perso i primi quarti posteriori. Quella notte, gli uranidi stavano facendo una grande festa, e Jannika si arrese ad essa, in un crescendo costante, giungendo a desiderare di avere un uomo là con lei ma poi rifiutando l'idea perché questo avrebbe offuscato quel sacro splendore, la Promessa, la Promessa! Poi erano arrivate le Bestie, ed era scoppiato l'orrore, e da qualche parte una voce sconosciuta aveva gridato vendetta per la sua felicità infranta. Mentre trottava lungo una spoglia altura, Erakoum aveva pensato, con un accelerarsi dei battiti del cuore, di aver avvistato un debole raggio azzurro nell'aria, in lontananza. Non poteva esserne certa, a causa della luminosità di Mardudek, ma alterò comunque il proprio percorso nella speranza di aver visto giusto; tuttavia, dopo che si fu arrampicata per parecchio tempo fra sassi e spine, il bagliore scomparve, ed Erakoum pensò si fosse trattato di uno scherzo della luce notturna, forse un raggio di luna che si
era riflesso sulla nebbia. Quella conclusione non ebbe certo l'effetto di migliorare il suo umore: le andava tutto storto, quando si trattava dei Volatori! A causa di quella deviazione, si trovò indietro rispetto al resto del suo gruppo, ed il primo avvertimento circa la presenza della preda le venne tramite le grida dei compagni. — Hai-ay, hai-ay, hai-ay! — echeggiò tutt'intorno, ed Erakoum sbuffò, perplessa, certa che sarebbe arrivata troppo tardi per uccidere una preda. Comunque, continuò a correre in quella direzione, pensando che, se i Volatori non avessero intercettato un forte vento, li avrebbe potuti seguire tenendosi nascosta e senza essere vista, e che forse essi non sarebbero andati tanto lontano da sfiancarla prima d'imbattersi in un altro sciame di bachi di fuoco e di scendere nuovamente in basso. Il respiro le raspava in gola, ed il fianco della collina le percuoteva i piedi con rocce invisibili, ma continuò a correre con ansia fino a raggiungere il luogo dov'era la preda. Era una radura, vivamente illuminata nonostante le ombre che la solcavano, e tagliata a metà da un piccolo dirupo. I bachi di fuoco roteavano nell'aria, distinti contro l'oscurità della foresta, simili ad una lucente polvere di nubi, e parecchie femmine del Popolo erano accucciate nell'erba, intente a divorare le loro prede, mentre il resto del gruppo si era allontanato per seguire i Volatori in fuga, come aveva progettato di fare la stessa Erakoum. La femmina si arrestò al limitare della radura per respirare, sollevò lo sguardo e si raggelò: la massa dei Volatori si stava dirigendo lentamente e caoticamente verso ovest, ma alcuni indugiavano per lanciare le loro misere armi, e, sulla cima di uno di essi, brillava una tenue luce: Erakoum aveva trovato quello che cercava! — Ee-hah! — gridò, balzando avanti ed agitando il giavellotto. — Vieni, operatore di malvagità! Vieni e fatti uccidere! Con il tuo sangue infonderai al mio prossimo nato la vita che hai sottratto al primo! Non ci fu alcuna sorpresa, ma un senso di fatalità, quando la sagoma irreale descrisse una spirale e si fece più vicina: quella notte si sarebbe giunti alla soluzione di qualcosa di più importante della sopravvivenza di uno dei due avversari fosse destinato a sopravvivere, e lei, Erakoum, era stata afferrata da un Potere, era divenuta uno strumento del Profeta. Accucciata, scagliò la lancia, con uno sforzo visibile nei suoi muscoli: vide l'arma volare diritta come maledizione che portava con sé... ma il nemico schivò e l'arma lo mancò di un dito, e poi, improvvisamente, il Vola-
tore le venne contro. Ma era una cosa che non facevano mai! E cos'era ciò che stringeva nel filamento simile ad un'alga? Erakoum afferrò un altro giavellotto fra quelli che aveva sulla schiena: ciascuno dei nodi che li trattenevano avrebbe dovuto cedere al primo strattone, ma questo s'incagliò e dovette tirare di nuovo, mentre il nemico si faceva sempre più grosso e vicino; la femmina riconobbe l'oggetto che il suo avversario stringeva: era un coltello di fattura umana, tagliente come una lama d'ossidiana ma più resistente e sottile. Erakoum indietreggiò, impugnando la lancia ormai libera, ma senza avere più lo spazio per lanciarla, per cui fece un affondo. Vide la punta dell'arma colpire con un pazzo bagliore: il Volatore rotolò su un fianco prima di venire trapassato, ma il sangue ed il gas scaturirono insieme, scuri, da un taglio sulla sua superficie pallida. Il Volatore scattò in avanti e riuscì a superare la sua guardia, ed il coltello affondò ripetutamente: Erakoum avverti i colpi, ma non provò ancora alcun dolore. Lasciata cadere la lancia, agitò le braccia e fece scattare le mascelle, i cui denti si serrarono intorno alla carne dell'avversario, facendo affluire nella sua bocca e giù per la gola un gettito di energia. Improvvisamente, non ebbe più il terreno sotto i piedi e cadde rotolando, artigliando con i piedi e le mani alla ricerca di un appiglio, perdendolo e cadendo più in basso; quando colpì il fianco del dirupo, rotolò sempre più in giù sopra crudeli spuntoni di roccia. Per un istante intravide il cielo sopra di lei, le stelle ed i bachi di fuoco, il Volatore illuminato dalla luce di Mardudek che passava volando e perdendo sangue, poi il nulla la reclamò. —— La gente di Port Kato chiese cosa avesse fatto rientrare Jannika Rezek e Hugh Brocket così presto e così sconvolti, ma essi evasero ogni domanda e si affrettarono a raggiungere la loro capanna, sbattendosi la porta alle spalle. Un momento più tardi, avevano sprangato anche le finestre. Per qualche tempo rimasero a fissarsi a vicenda, senza trovare conforto nella stanza familiare: l'illuminazione, destinata ad occhi umani, era violenta, l'aria della camera sprangata era priva di vita, i deboli suoni provenienti dall'insediamento servivano solo a rendere più profondo il silenzio che regnava all'interno. Alla fine, Hugh scosse il capo e, ciecamente, volse le spalle alla moglie. — Erakoum andata — mormorò. — Come riuscirò mai a capirlo?
— Ne sei certo? — sussurrò Jannika. — Io... ho sentito la sua mente chiudersi... è stato quasi come un dannato colpo sferrato al mio stesso cranio... ma tu ti stavi agitando così tanto per il tuo prezioso uranide... — A'i'ach è ferito! La sua gente non sa nulla di medicina. Se tu non avessi continuato a vaneggiare al punto da spingermi a farti tornare qui con me prima che finissi per far precipitare il tuo velivolo... — Jannika s'interruppe, serrò i pugni ed alla fine riuscì a dire: — Bene, ormai il male è fatto e noi siamo qui. Vogliamo cercare di ragionare e di scoprire che cosa è andato storto, in modo da impedire il verificarsi di un altro orrore del genere, oppure no? — Sì, naturalmente. — Hugh si avvicinò alla credenza. — Vuoi qualcosa da bere? — Vino — rispose Jannika, dopo un'esitazione. Hugh le portò un bicchiere colmo, stringendo nella destra un boccale di whisky puro che cominciò subito a bere. — Ho sentito Erakoum morire. — Sì — replicò Jannika, prendendo una sedia, — ed io ho sentito A'i'ach ricevere ferite che si potrebbero rivelare letali. Siedi, ti spiace? Hugh sedette pesantemente di fronte a lei, trangugiando sorsate di liquore mentre sua moglie sorseggiava il vino. I nuovi arrivati su Medea sostenevano sempre che vini e liquori assumevano su quel pianeta un sapore più strano di quello dei cibi, ed un poeta aveva preso da questo lo spunto per una raggelante composizione sull'isolamento. Quando la poesia era stata inviata sulla Terra insieme alle altre notizie, la risposta, giunta dopo un secolo, era stata che nessuno riusciva a capire cosa i coloni trovassero in quel fenomeno. — Bene — ringhiò Hugh, incurvando le spalle. — Dovremmo confrontare le nostre osservazioni prima di cominciare a dimenticare, e magari dovremmo confrontarle nuovamente domattina, quando avremo la possibilità di riflettere. — Allungò la mano verso il registratore e lo accese; la sua voce rimase opaca mentre pronunciava una frase di identificazione. — È la cosa migliore anche per noi — gli rammentò Jannika. — Lavorare, pensare logicamente... queste cose tengono lontano gli incubi. — E questo lo è certamente stato... D'accordo... — Hugh aveva recuperato un po' d'energia. — Cerchiamo di ricostruire quello che è successo. «Gli uranidi erano a caccia di lucciole ed i dromidi erano a caccia di u-
ranidi, e tu ed io abbiamo assistito ad uno scontro. Naturalmente, speravamo che non ci sarebbe capitato... suppongo che tu abbia addirittura pregato perché non accadesse... ma sapevamo che ci sarebbero stati atti di ostilità in molti posti. Quello che ci ha sconvolti è stato il fatto che i nostri due personali nativi hanno preso parte alla lotta, mentre erano in collegamento con noi. — Ancora peggio — corresse Jannika, mordendosi un labbro. — Quei due stavano cercando lo scontro: non è stato un incontro casuale, ma un duello. — Sollevò lo sguardo. — Non hai mai detto ad Erakoum, a nessun dromide, che eravamo in collegamento anche con un uranide, vero? — No, certo che no. E tu non hai certo detto al tuo uranide del mio contatto: sapevamo entrambi che non era il caso di inserire quel tipo di variabile in un programma come questo. — Ed il resto del personale della stazione ha un vocabolario troppo limitato in entrambe le lingue. Molto bene. Ma io ti posso assicurare che A'i'ach lo sapeva, anche se io non me ne sono resa conto fino a quando il combattimento non ha avuto inizio. Solo allora questo concetto è affiorato nella sua mente, come un urlo diretto a me, non espresso a parole, ma che non poteva essere frainteso. — Sì, anche a me è successa più o meno la stessa cosa con Erakoum. — Ammettiamo dunque quello che non vogliamo ammettere, mio caro: non abbiamo semplicemente ricevuto concetti dai nostri nativi, abbiamo anche trasmesso dei dati. — Ma cosa diavolo potrebbe trasmettere un messaggio di ritorno? — obiettò Hugh, sollevando un pugno impotente. — Se non altro, il raggio radio che ci collega ai nostri soggetti. Una modulazione indotta. Lo sappiamo dall'esempio delle larve di lucciole, ed indubbiamente ci sono altri casi di cui tu ed io non abbiamo mai sentito parlare... e come potremmo sapere tutto riguardo ad un intero mondo? Sappiamo che gli organismi di Medea possono essere estremamente sensibili alle onde radio. — M... m, già, la terrificante velocità degli animali medeani, le molecole chiave più labili dei corrispondenti composti nel nostro organismo... Ehi, aspetta! Né Erakoum né A'i'ach avevano più di un'infarinatura d'inglese, e certo non conoscevano il ceco, lingua in cui tu mi hai detto che sei solita pensare. Inoltre, guarda quanti sforzi abbiamo dovuto fare prima di riuscire a sintonizzarci su di loro, nonostante tutto quello che avevamo imparato sul continente, e loro due non avevano ragione di fare lo stesso, non ave-
vano la minima idea di cosa fosse un metodo scientifico. Devono sicuramente aver supposto che noi volessimo far portare loro addosso quegli oggetti per un capriccio o per una sorta di magia. — Forse — replicò Jannika scuotendo le spalle, — durante i rapporti di collegamento pensiamo nella loro lingua più di quanto ci rendiamo conto noi stessi. Ed entrambe le razze di Medeani pensano più rapidamente di noi umani, osservano, imparano. Comunque, non dico che il loro contatto con noi era altrettanto buono quanto quello che noi avevamo con loro. Se non altro, l'ampiezza delle onde radio è molto più ristretta: io credo che presumibilmente abbiano raccolto da noi messaggi subliminali. — Credo che tu abbia ragione — sospirò Hugh. — Dovremo consultare esperti di elettronica e di neurologia sul problema, ma certo non riesco a trovare una spiegazione migliore della tua. — Hugh si sporse in avanti, e l'energia che ora gli vibrava nella voce assunse una nota fredda. — Ma cerchiamo di vedere questo fenomeno nel suo contesto, in modo da arrivare forse ad intuire il tipo d'informazioni che i nativi possono aver ricevuto da noi. Chiariamo ancora una volta perché su Hansonia dromidi ed uranidi sono in guerra: fondamentalmente, i dromidi si stanno estinguendo e ne danno la colpa agli uranidi, ma non potrebbe essere colpa di noi di Port Kato? — È difficile. — Jannika era sconcertata. — Sai quali precauzioni prendiamo. — Sto pensando ad una contaminazione psicologica — replicò Hugh, sorridendo senza allegria. — Cosa? Impossibile! In nessun altro luogo su Medea... — Vuoi tacere? — gridò Hugh. — Sto cercando di ricordare quello che ho appreso dalla mia amica che è stata uccisa dal tuo amico. Jannika si alzò a mezzo sulla sedia, bianca in volto, poi tornò a sedersi ed attese, il bicchiere di vino che le tremava in mano. — Hai sempre farfugliato quanto gli uranidi siano dolci e gentili ed estetici — cominciò Hugh, contro di lei piuttosto che a lei. — Andavi in deliquio di fronte a questa nuova e splendida fede locale che essi hanno acquisito... il volo sulle ali del vento fino al Farside, la morte dignitosa, il Nirvana e non mi ricordo cos'altro. All'inferno quegli sporchi dromidi, i dromidi non fanno altro che costruirsi attrezzi, accendere fuochi, cacciare, prendersi cura dei loro piccoli, vivere in comunità, creare forme d'arte e filosofia, come noi umani. Cosa c'è d'interessante in questo? «Ebbene, permettimi di ripeterti quello che ti ho già detto in precedenza,
e cioè che anche i dromidi hanno le loro credenze, e che, se potessimo fare un paragone, sarei pronto a scommettere che la loro fede è più forte e significativa di quella degli uranidi, perché i dromidi cercano di dare senso al mondo. Non puoi simpatizzare almeno un poco con loro? «Bene, loro hanno un tremendo rispetto per la stabilità delle cose, e quando qualcosa va seriamente per il verso sbagliato... quando si verifica un grande crimine o un peccato o una vergogna... l'intero mondo ne soffre: se quel torto non verrà riparato, tutto andrà per il peggio. Questo è quello che i dromidi credono su Hansonia, e per quel che ne so io potrebbero anche aver scoperto la verità. «Gli alteri uranidi non hanno mai prestato molta attenzione ai terricoli dromidi, ma questo comportamento non era simmetrico: per i dromidi, gli uranidi sono altrettanto rilevanti quanto Argo, Colchis, ogni parte della natura, e, ai loro occhi, anch'essi hanno un posto ed un ciclo prestabilito. «Tutt'ad un tratto, gli uranidi cambiano, smettono di restituire i loro corpi alla terra quando muoiono, nel modo in cui ci si aspetta facciano tutte le forme di vita... no, si dirigono invece ad ovest, oltre l'oceano, verso quel luogo sconosciuto dove il sole tramonta tutte le sere. Non riesci a capire quanto questo può apparire innaturale? Come se un albero si mettesse a camminare o un cadavere resuscitasse. E non è neppure un incidente isolato... no, la cosa si sta verificando anno dopo anno dopo anno. «Aborto psicosomatico? Come posso dirlo? Quello che posso dire è che i dromidi sono profondamente traumatizzati per via di questo comportamento degli uranidi: non importa quanto questo comportamento sia ridicolo, esso li ferisce! Jannika balzò in piedi, lasciando cadere al suolo il bicchiere. — Ridicolo? — gridò. — Quel Tao, quella visione? No, ridicolo è ciò che credono le tue... le tue volpi, se non fosse per il fatto che questo le spinge ad assalire esseri innocenti ed a divorarli... non posso aspettare fino a quando quelle creature si saranno estinte! — A te non importa dei piccoli che muoiono! — Hugh si era alzato in piedi a sua volta. — No, naturalmente no: che senso di maternità hai mai avuto, per l'inferno? All'incirca quanto ne può avere uno di quei palloni! Volare libera, spargere il seme e dimenticarsene, tanto esso fiorirà e sboccerà per essere adottato dallo Sciame, e senza pensare mai ad altro che al piacere! — Come... staresti forse desiderando di poter essere una madre? — lo schernì Jannika.
La mano libera di Hugh sferrò un colpo nella sua direzione, e la donna lo evitò per un pelo: sconvolti, i due rimasero immobili e rigidi dove si trovavano. Hugh tentò di parlare, non vi riuscì e preferì bere il whisky, — Hugh — disse Jannika, a voce bassissima, dopo un intero minuto, — i nostri nativi ricevevano messaggi da noi: non verbali, ma inconsci. Per mezzo loro... — la sua voce si fece soffocata, — ... stavamo forse cercando di ucciderci a vicenda? Hugh la fissò a bocca aperta, poi, in un unico e goffo gesto, depose il bicchiere e le tese le braccia. — Oh, no, oh, no! — balbettò, mentre Jannika si stringeva a lui. Alla fine andarono a letto. Hugh attinse dalla cassetta dei medicinali quando si accorse di non riuscire a nulla, ma quello che seguì sarebbe potuto accadere fra due automi. Alla fine, Jannika rimase distesa a piangere in silenzio mentre lui si alzava per bere ancora. Fu il vento a svegliarla, e Jannika rimase distesa per qualche tempo ad ascoltare il suo battere contro le pareti mentre il sonno l'abbandonava, poi aprì gli occhi e guardò l'orologio, le cui lancette luminose le dissero che erano trascorse tre ore. Tanto valeva che si alzasse: forse avrebbe potuto aiutare Hugh a sentirsi meglio. La luce nella stanza principale era ancora accesa, e Hugh era addormentato, disteso su una poltrona accanto alla quale c'era una bottiglia; Jannika notò quanto fossero profonde le rughe che segnavano il volto del marito. Il vento era molto forte: forse si trattava di una tempesta che il servizio metereologico aveva segnalato sul mare e che doveva aver inaspettatamente deviato in quella direzione; la metereologia su Medea non era una scienza esatta. Poveri uranidi, i festeggiamenti rovinati e loro stessi soffiati in giro e dispersi, perfino messi in pericolo di vita! In genere erano in grado di volare con la bufera, ma alcuni di loro sarebbero andati incontro al disastro, sbattendo contro la parete di qualche collina o impigliandosi senza speranza in un albero o venendo colpiti dal fulmine. Ed i malati ed i feriti avrebbero sofferto più di tutti. A'i'ach. Jannika serrò gli occhi e lottò per ricordarsi quanto fossero gravi le ferite di A'i'ach, ma tutto era stato così confuso e terribile, e Hugh aveva fatto deviare la sua attenzione, così si era venuta a trovare ben presto fuori dal raggio di trasmissione. Inoltre, A'i'ach stesso non poteva aver determinato
immediatamente le proprie condizioni: poteva essere grave come poteva anche non esserlo. Poteva essere ormai morto, oppure morente, o condannato a morire se non avesse ricevuto aiuto immediato. E lei era responsabile... forse non colpevole secondo una definizione moralistica, ma certo responsabile. La decisione si cristallizzò in Jannika: se il tempo non lo avesse impedito, sarebbe andata a cercarlo. Da sola? Sì: Hugh l'avrebbe protetta, ritardata, forse le avrebbe addirittura impedito con la forza di andare. Jannika registrò un breve messaggio per lui, si chiese se quelle parole non erano eccessivamente impersonali, poi decise che non era il caso di lasciare una frase più affettuosa. Sì, voleva una riconciliazione e supponeva che la volesse anche lui, ma non intendeva umiliarsi. Riordinò il proprio equipaggiamento ed aggiunse una giacca, nelle cui tasche infilò alcune sbarre di cibo, quindi uscì. Fuori, il vento l'avvolse con un cupo sibilio, un torrente che doveva affrontare; le nubi si spostavano basse e fitte, tinte di rosso là dove Argo faceva capolino: il gigantesco pianeta sembrava volare fra quei veli lacerati. La polvere rotolava per il cortile, ruvida sulla pelle; ed in giro non c'era nessuno. Una volta nell'hangar, Jannika richiese le ultime previsioni del tempo: erano brutte ma, pensò, non terrificanti. (E, anche ammesso che fosse precipitata, sarebbe stata forse una perdita enorme, per lei o per altri?) — Sto tornando nella mia area di studio — spiegò al meccanico. Quando questi tentò di dissuaderla, Jannika fece valere il proprio grado: era un sistema che non le piaceva, ma Io aveva imparato dagli spettri danubiani della sua infanzia. — Niente discussioni. Pronto ad aprirmi il passaggio ed a fornirmi l'assistenza necessaria. È un ordine. Il piccolo velivolo rabbrividì e ronzò sul terreno, ed il decollo richiese una notevole abilità... con un brutto momento in cui una folata di vento per poco non lo fece rovesciare... ma, una volta in aria, prese a volare stabilmente. Innalzatasi al di sopra delle nubi, Jannika le vide agitarsi come un mare, con Argo che sorgeva da esse come una montagna, le stelle e le due lune tenui bagliori più lontani. Verso nord, si scorgeva un'oscurità più densa ed elevata, il fronte della tempesta: il tempo sarebbe davvero peggiorato nelle prossime ore, e, se non le fosse riuscito di rientrare prima, avrebbe fatto meglio a rimanere da qualche parte, fino a che il cielo si fosse schiarito. Il volo fino al luogo dello scontro fu breve; quando il pilota inerziale l'ebbe portata là, Jannika si mise a volare in cerchio, indossò il casco ed a-
zionò il sistema, mentre il polso le si accelerava e la bocca le si inaridiva. — A'i'ach — sussurrò, — sii vivo, per favore, sii vivo. La luce verde si accese: almeno, la sua trasmittente era presente sul posto. E lui? Jannika si dovette costringere a cercare il contatto. Debolezza, dolore, un frastuono di foglie fruscianti e di rami che sbattevano... — A'i'ach, resisti, sto scendendo! Ci fu un balzo di gioia: sì, lui la percepiva. Un atterraggio sarebbe stato davvero rischioso. Il velivolo era in grado di scendere verticalmente, aveva un radar ed un sonar eccellenti, un computer ed attrezzature in grado di eseguire la maggior parte delle manovre, tuttavia, lo spazio libero sottostante non era molto ampio, era diviso in due, e, sebbene la foresta circostante attenuasse la furia del vento, ci sarebbero state però correnti pericolose. — Dio, mi metto nelle Tue mani — mormorò Jannika, chiedendosi ancora una volta come facesse Hugh a sopportare il proprio ateismo. Se avesse atteso oltre, avrebbe perduto il coraggio, quindi, giù! La discesa si rivelò ancora più violenta di quanto si sarebbe aspettata: dapprima le nubi apparvero come un vortice, poi si ritrovò in mezzo a loro ed in preda ad un vento violento, e vide le cime degli alberi protendersi verso di lei mentre il velivolo rollava, sobbalzava, imbardava. Era stata forse una pazza? Dopotutto, non desiderava realmente morire... Jannika riuscì ad atterrare, e, per parecchi minuti rimase a sedere, priva di forze; quando si mosse, tutto il corpo le doleva per la tensione, ma c'era in lei anche la sofferenza di A'i'ach: attirata dal bisogno del nativo, slacciò le cinture ed uscì. Il frastuono era assordante nella nera palizzata di alberi che la circondava, con i rami gementi e le cime sconvolte, ma al livello del terreno l'aria, per quanto agitata, era più quieta e quasi calda. L'invisibile Argo arrossava le nubi, il cui bagliore forniva una luce sufficiente a permetterle di vedere senza l'ausilio della torcia. Jannika non trovò traccia degli uranidi uccisi, ma, del resto, quelle creature non avevano ossa, ed i dromidi dovevano averle divorate fino all'ultimo frammento. Che uso orrendo... Dov'era A'i'ach? Jannika lo trovò dopo qualche ricerca: era disteso dietro un cespuglio spinoso intorno al quale aveva avvolto i filamenti per ancorarsi al suolo; il suo corpo era sgonfio al massimo, un sacco vuoto, ma gli occhi erano brillanti ed era in grado di parlare, nell'acuta e sbuffante lingua del suo popolo, che, come Jannika era giunta a scoprire, era melodiosa.
— Possa la gioia soffiare su di te: non avrei mai sperato nel tuo arrivo. Sei la benvenuta. Qui mi sentivo solo. L'ultima parola fu accompagnata da un brivido. Gli uranidi non sopportavano di rimanere a lungo separati dal loro sciame, ed alcuni xenologi ritenevano che in essi la consapevolezza fosse più collettiva che individuale. Jannika rifiutava però quel concetto, a meno che esso fosse forse applicabile a specie diverse trovate in altre zone di Nearside, perché A'i'ach aveva una sua anima! — Come stai? — chiese, inginocchiandosi. Non riusciva a parlare la sua lingua meglio di quanto lui parlasse l'inglese, ma A'i'ach aveva imparato ad interpretare i suoi suoni. — Il mio male non è eccessivo, ora che sei vicina. Ho perso sangue e gas, ma quelle ferite si sono richiuse. Debole, mi sono posato su un albero fino a che le Bestie se ne sono andate, e nel frattempo si è levato il vento. Ho pensato fosse meglio non volare nelle mie condizioni, ma non potevo rimanere sull'albero, perché sarei stato spazzato via. Così ho esalato quanto rimaneva del mio gas e sono strisciato dietro questo riparo. Il discorso conteneva molto di più che quella spoglia affermazione: le parole erano laconiche e stoiche, ma il significato implicito non lo era. A'i'ach avrebbe avuto bisogno di almeno un giorno intero per rigenerare una quantità d'idrogeno sufficiente alla risalita... il tempo dipendeva dalla quantità di cibo che sarebbe riuscito a trovare nelle sue condizioni... a meno che un carnivoro non lo avesse trovato prima, il che era estremamente probabile. Jannika immaginò quale getto di sofferenza, timore e coraggio le sarebbe stato trasmesso se avesse avuto indosso il casco. Raccolse fra le braccia la forma flaccida: pesava poco, ed era calda e setosa. A'i'ach cooperò il più possibile, ma una parte del suo corpo strisciò ugualmente sul terreno, il che dovette risultare doloroso, senza contare che Jannika dovette essere ancora più rude, afferrando manciate di pelle, quando lo portò all'interno del velivolo. Dentro, lo spazio disponibile scarseggiava, ed A'i'ach si trovò praticamente raggomitolato nella sezione posteriore. Invece di scusarsi quando l'uranide gemeva, o di dire qualcosa in particolare, Jannika cantò per lui: A'i'ach non conosceva le antiche parole terrestri, ma apprezzò la melodia e comprese cosa la donna cercasse così di comunicargli. Jannika aveva equipaggiato il velivolo in modo da poter fornire un soccorso medico di base ai nativi, cosa che le era accaduto di fare in passato. Le ferite di A'i'ach non erano profonde, perché la maggior parte del suo
corpo era poco più che una sacca; tuttavia, quella sacca era stata lacerata in parecchi punti e, sebbene fosse autosigillante, con il volo si sarebbe spaccata di nuovo a meno che fosse stata rinforzata. Dopo un'applicazione locale di anestetici e di antibiotici... le cognizioni sulla biochimica degli abitanti di Medea permettevano l'uso di quelle sostanze... Jannika ricucì le ferite. — Ecco, adesso puoi riposare — disse poi, quando, intorpidita, tremante ed inzuppata di sudore, ebbe terminato le medicazioni. — Più tardi ti somministrerò del gas e ti potrai sollevare subito, se vorrai. Io penso però che sarebbe più saggio se entrambi attendessimo la fine delle bufera. — È stretto, qui dentro! — Il gemito dell'uranide era l'equivalente di quelle parole umane. — Si, so cosa intendi dire, ma... A'i'ach, lascia che mi metta il casco. — Lo indicò con la mano. — Questo unirà i nostri spiriti come lo erano prima e potrebbe distogliere la tua mente dalla scomodità della condizione attuale. E ad un raggio così ridotto, considerate le nostre nuove conoscenze... — Un brivido la percorse. — ... Chissà cosa potremmo scoprire! — Bene — convenne l'uranide. — Potremmo godere di esperienze uniche. — Il concetto della ricerca fine a se stessa gli era estraneo... ma la sua ricerca del piacere andava molto al di là dell'edonismo. Ansiosa nonostante la stanchezza, la donna si avvicinò al sedile e protese la mano verso l'apparecchiatura, ma il ricevitore radio, sempre aperto sulla banda di ricezione standard, scelse pròprio quel momento per entrare in azione. Ad est, Argo brillava contro il muro, attraversato da lampi ed in avvicinamento, della tempesta che giungeva da nord; più sotto, le nubi già presenti erano torbide e tinte di rosso e di scuro, ed il vento ululava, facendo tremare e sobbalzare il velivolo di Hugh. Nonostante il riscaldamento, il freddo penetrava nel velivolo come portato dalla luce stessa delle stelle e delle lune. — Jan, sei là? — chiamò. — Stai bene? — Hugh? — La voce di lei era colma di sollievo. — Sei tu, caro? — Sì, certo, chi diavolo altro ti aspettavi? Mi sono svegliato, ho sentito il tuo messaggio... ed eccomi qui... stai bene? — Perfettamente. Ma non oso decollare, con questo tempo, e tu non devi cercare di atterrare, perché ormai sarebbe troppo pericoloso. Non dovresti neppure rimanere. Caro, è davvero rostomily che tu sia venuto!
— Per tutti i preti ebrei, dolcezza, come potevo non farlo? Dimmi cosa è successo. Jannika gli spiegò ogni cosa, ed alla fine Hugh annuì con la testa che gli doleva ancora per il liquore bevuto, nonostante l'effetto di una tavoletta di nedolor. — Ottimo — disse infine. — Aspetta. — Aspetta che il vento si calmi, rigonfia il tuo amico e poi vieni a casa. — Un'idea che stava covando da un po' lo stuzzicò. — Uh, mi chiedevo una cosa. Credi che lui potrebbe scendere in quel burrone e recuperare l'unità di Erakoum? Sai quanto siano scarsi quei congegni! — Fece una pausa, poi aggiunse: — penso che sarebbe troppo chiedergli di ricoprirla con un po' di terra. — Posso farlo io — replicò Jannika, con voce piena di pietà. — No, non puoi. Ho ricevuto una netta impressione da Erakoum mentre stava cadendo, prima che si spaccasse la testa o cos'altro le è successo: nessuno può scendere là sotto senza una corda assicurata in alto, perché sarebbe impossibile risalire. E, anche con una corda, sarebbe una cosa tanto pericolosa da rasentare la follia: i compagni di Erakoum non hanno tentato nulla, vero? — Glielo chiederò — replicò Jannika, con riluttanza, — ma può darsi che sia pretendere troppo. L'unità funziona? — Hmm, sì, ma farò meglio a controllare, prima. Ti riferirò fra qualche minuto. Ti amo. E sapeva di essere sincero, non importava quanto spesso Jannika lo facesse infuriare. L'idea che in qualche modo, negli abissi del suo essere, potesse aver desiderato la morte di lei non era neppure concepibile, ed Hugh l'avrebbe seguita anche attraverso una tempesta più violenta di quella, solo per negare una simile supposizione. Bene, adesso poteva andare a casa con la coscienza sollevata ed attendere il suo ritorno, dopodiché... cosa? Quella certezza creò un vuoto dentro di lui. Il suo strumento emise una luce verde: bene, il trasmettitore di Erakoum era funzionante, e quindi intero e degno di essere salvato. Se soltanto anche lei... Hugh s'irrigidì ed il respiro gli sibilò nei polmoni: ma sapeva davvero che lei era morta? Si abbassò l'elmo sulle tempie, e le mani tremanti gli resero difficile operare i collegamenti; premette un pulsante, e desiderò di comunicare... Un senso di sofferenza che si contorceva come un cavo rovente, le forze che si disperdevano sempre di più, morbide onde di nulla che affluivano
sempre più spesso, ma che Erakoum riusciva ancora a tenere a bada. La striscia di cielo che le riusciva di vedere dal punto in cui giaceva, impossibilitata a strisciare più in alto, era colma di vento... Erakoum acquistò una coscienza completa, perché percepiva nuovamente la presenza di Hugh. — Sembra che ci siano delle ossa rotte, ed anche una notevole perdita di sangue. Morirà nel giro di poche ore, a meno che tu la soccorra, Jan. Questo le permetterebbe di resistere fino a quando la potremo trasportare a Port Kato per un'assistenza più completa. — Oh, la posso ricucire e bendare e steccare, certo. Ed il nedolor è uno stimolante analgesico che va bene anche per i dromidi, vero? Persino un semplice sorso d'acqua potrebbe rappresentare la salvezza, perché deve essere disidratata. Ma come faccio a raggiungerla? — Il tuo uranide la potrebbe sollevare, una volta che tu lo avessi rigonfiato. — Non puoi dire sul serio! A'i'ach è ferito e convalescente... ed Erakoum ha tentato di ucciderlo! — È stata un'aggressione reciproca, giusto? — Ecco... — Jan, non ho intenzione di abbandonarla. È laggiù in una tomba, lei che era solita correre libera, ed il contatto che ha instaurato con me è per lei più di quanto avessi immaginato. Rimarrò fino a che sarà stata salvata o fino a che sarà morta. — No, Hugh, non devi. La tempesta... — Non sto cercando di ricattarti, mia cara. In effetti, non biasimerei molto il tuo uranide se rifiutasse. Ma non posso lasciare Erakoum: semplicemente, non posso. — Io... io ho imparato qualcosa sul tuo conto... tenterò. *** A'i'ach non comprendeva la sua Jannika: non era concepibile che aiutare a salvare una Bestia potesse contribuire a portare la pace. Quella creatura era ciò che era, un'assassina, eppure... eppure un tempo non c'erano stati problemi con le Bestie, una volta esse erano state gli animali che più interessavano e divertivano il Popolo, e lui stesso rammentava le canzoni che parlavano della loro agilità e dei loro fuochi. In quei tempi, le Bestie venivano chiamate i Danzatori delle Fiamme. Ciò che lo indusse a cedere alle suppliche di lei non era chiaro al suo spirito. Jannika gli aveva probabilmente salvato la vita, mettendo a re-
pentaglio la propria, e questo pensiero era tanto nuovo per lui da sopraffarlo. A'i'ach desiderava moltissimo mantenere la propria unione con lei, perché essa arricchiva il suo mondo, e quindi esitò a respingere la richiesta che sembrava avere per Jannika un'importanza tanto pressante. Grazie all'unione creata dall'elmetto da lei indossato, A'i'ach riteneva di comprendere cosa provasse la donna quando diceva, con l'acqua che le scorreva dagli occhi: — Voglio guarire ciò che ho fatto... Quel tipo di sensazione era trascendente, come il Tempo Lucente, e fu questo che alla fine lo indusse a decidere. Jannika lo assistette dalla cosa-che-la-trasportava, e tirò fuori un tubo da cui A'i'ach bevve gas, un affluire di nuova vita. Le ferite gli dolsero quando il suo globo si allargò, ma era in grado di non badarci. A'i'ach ebbe bisogno del peso di lei che gli facesse da àncora per attraversare lo spazio fino al burrone, e, uniti com'erano dita con filamenti, per poco non furono portati via entrambi. Se si fosse gonfiato al massimo, A'i'ach l'avrebbe potuta sollevare. L'aria sibilava e spingeva, lo afferrava, lo voleva indirizzare contro le spine... com'era orribile il suolo! E quanto peggio era dover scendere sotto di esso! A'i'ach pulsava per un'emozione che non riusciva a riconoscere, ma, se fossero stati in contatto, Jannika avrebbe potuto spiegargli che il termine inglese che indicava quella sensazione era «terrore», e che un umano o un dromide che avessero provato così intensamente quell'emozione, si sarebbero ritratti dinnanzi al precipizio. A'i'ach trasformò invece quella sensazione in una forza che lo spingesse in avanti, perché anche questa era una cosa che lo aiutava ad uscire da se stesso. Giunta vicino al bordo del precipizio, Jannika lo circondò quanto più possibile con le braccia ed appoggiò la bocca al suo pelo, dicendo: — Buona fortuna, caro A'i'ach, caro coraggioso A'i'ach, che Dio ti protegga! Quei suoni vennero pronunciati da Jannika nella sua lingua, e l'uranide non comprese neppure il gesto. Un cilindro che la donna gli aveva dato proiettava un forte raggio di luce, ed A'i'ach vide il pendio scosceso sprofondare sotto di lui, e pensò che, se fosse stato sbattuto contro quelle pareti, sarebbe stata la fine. Allora il suo spirito avrebbe dovuto affrontare un viaggio terribile, privo della protezione del corpo, prima di poter raggiungere l'Oltre... se mai ci fosse riuscito e non fosse stato lacerato e disperso prima di arrivare.
Rapidamente, prima che le correnti d'aria potessero impadronirsi di lui, A'i'ach si gettò oltre l'orlo, contrasse il suo globo e discese. Il terrore generato dall'oscurità e dalle pareti ravvicinate non era uguale a nessun'altra sensazione che avesse provato nella sua vita, e, nel profondo del suo io, A'i'ach era consapevole in modo incandescente: sì, l'umano l'aveva portato in cieli strani. Attraverso l'oscurità, gli giunse un odore ancora più pungente e si diresse da quella parte: il suo raggio di luce individuò la Bestia, distesa su uno scabro pendio, la bocca ansante e gli occhi ardenti. Si servì della spinta a propulsione gassosa e del sifone per mettersi in posizione fuori portata dalla Bestia, e poi disse in inglese quel che doveva dire: — Sono v'nuto a salvarti. *** —— Dalle profondità della sua tomba, Erakoum sollevò lo sguardo sul Volatore: riusciva appena a distinguerlo, una pallida luna celata dietro il bagliore di una luce, e lo stupore la trasse fuori dal torpore. Il suo nemico l'aveva forse inseguita fin laggiù spinto dalla propria malevolenza? Bene! Sarebbe morta combattendo, non a causa della sofferenza che la lacerava. — Vieni avanti e combatti! — gridò con voce rauca. Se solo avesse potuto affondare i denti nel suo corpo, bere un'ultima sorsata del suo sangue... il ricordo di quel sapore era come un rapido lampo. Durante il tempo seguito allo scontro e che rifiutava di finire, Erakoum aveva pensato che sarebbe già morta se non avesse inghiottito quelle poche gocce di sangue. Ma il meraviglioso beneficio da esse operato era ormai svanito, e, non appena Erakoum si mosse, cercando di assumere una posizione difensiva, il dolore la trapassò, seguito dall'oscurità. Quando si riscosse, il Volatore era ancora in attesa, e, in mezzo al rombo che l'assordava, Erakoum udì ripetutamente le stesse parole: — Sono v'nuto a-salvarti. La lingua degli umani? Questo era l'essere che gli umani preferivano, come preferivano lei, doveva essere lui, anche se il raggio sulla sua testa era celato dalla luce che teneva in uno dei filamenti. Poteva Hugh essere stato sempre in contatto con entrambi? Erakoum lottò per formulare sillabe per la cui pronuncia la sua gola e la sua bocca non erano certo state create: — Cho-sa vhu-oi tu? Vha, no stare qhui, vha. Il Volatore rispose qualcosa che Erakoum non fu in grado di com-
prendere più di quanto il Volatore avesse compreso le sue parole. Doveva essere sceso laggiù per accertarsi di dove era finita oppure per prendersi gioco di lei mentre moriva. Erakoum tentò debolmente di afferrare una lancia: non era in condizione di scagliarla, ma... Dallo spazio ignoto dove abitava l'anima di Hugh, Erakoum ricevette un'improvvisa consapevolezza: lui ti vuole salvare. Impossibile. Ma... ma il Volatore era là. Per quanto delirante, Erakoum riuscì a ricordare che raramente i Volatori si dimostravano così pazienti. Che altro poteva accaderle se non la morte? Nulla. Si riadagiò sulle sporgenze di roccia: che il Volatore fosse pure il suo destino o il suo Mardudek. Erakoum aveva trovato il coraggio di arrendersi. La sagoma rimase sospesa. Erakoum percepì nel pelo piccole folate d'aria, ed intuì che quello doveva essere un posto pericoloso anche per il Volatore. Ci fu un susseguirsi a raffica di suoni: il Volatore stava cercando di spiegarle qualcosa, ma era troppo stanca e ferita per ascoltare, e si limitò a stringersi il muso con entrambe le mani, chiedendosi se il Volatore avrebbe compreso il senso di quel gesto. Forse sì. Esitante, il Volatore si accostò, ed Erakoum rimase immobile, anche quando uno dei filamenti la sfiorò. I filamenti scivolarono sul suo corpo, trovarono un appiglio, si strinsero; attraverso un velo di sofferenza, Erakoum vide la sagoma gonfiarsi: aveva intenzione di sollevarla... fino da Hugh? Quando il Volatore la sollevò, le ferite di coltello si riaprirono, ed Erakoum strillò, prima di svenire. La prima cosa che percepì in seguito fu di essere distesa sull'erba sotto un cielo rossastro. Un umano era accoccolato accanto a lei e stava parlando con una piccola scatola che rispondeva con la voce di Hugh. Più indietro, c'era il Volatore, rimpicciolito ed aggrappato ad un cespuglio. La tempesta infuriava e presero a cadere le prime, pungenti gocce di pioggia. In virtù di quella nascosta percezione propria dei cacciatori, Erakoum comprese che stava per morire: l'umano poteva ricucire i tagli e le ferite, ma non poteva ridarle quello che aveva perduto. Un ricordo... quello che aveva sentito dire, quello che aveva personalmente sperimentato per un breve istante... — Il sangue del Volatore. Esso mi salverà. Il sangue del Volatore, se è disposto a darmene. — Erakoum non sapeva con certezza se aveva parlato o se stava sognando, e risprofondò nell'oscurità. Quando tornò di nuovo in sé, il Volatore le stava accanto e l'abbracciava
contro la violenza del vento; l'umano stava usando con cautela un coltello su uno dei filamenti, che poi il Volatore inserì fra le fauci di Erakoum. Mentre la pioggia prendeva a cadere con violenza, Erakoum bevve... —— Un'alba doppia era sempre uno spettacolo splendido. Jannika aveva rimandato il momento di riferire ad Hugh le notizie: voleva fargli una sorpresa, preferibilmente quando la sua ansia per il dromide si fosse attenuata, ed ora era giunto il momento. Erakoum sarebbe stata ricoverata per parecchi giorni a Port Kato, il che costituiva un'esperienza interessante per tutte le persone coinvolte, ma sarebbe guarita. A'i'ach aveva già raggiunto il suo Sciame. Quando Hugh si destò dal sonno, seguito alla spossante veglia al capezzale del dromide, Jannika propose di fare un picnic, e fu commossa dalla rapidità con cui lui accettò. Volarono fino ad un posto che conoscevano, sulle scogliere, e sedettero a guardare l'alba. All'inizio, Argo, le stelle ed un paio di lune erano soltanto luci; poi, lentamente, il cielo s'illuminò, l'oceano brillò argenteo sotto il blu, Phrixus ed Helle aggirarono il grande pianeta. Canti selvaggi riempirono l'aria satura di un profumo di fiori simili a viole. — Ho ricevuto una comunicazione dal Centro — disse Jannika, tenendo la mano di Hugh. — È sicuro: il processo chimico è apparso subito chiaro, data l'ulteriore informazione dell'effetto rigenerante del sangue. — Cosa? — fece Hugh, voltandosi. — Carenza di manganese — spiegò Jannika. — Un elemento minimo nella biologia dei medeani, ma d'importanza vitale, specialmente per i dromidi ed il loro processo riproduttivo... ed evidentemente anche per qualche altra funzione degli uranidi, dal momento che essi concentrano elevate quantità di quella sostanza. Andando all'ovest a morire, gli uranidi stavano sottraendo una significativa percentuale di quella sostanza dall'ecologia locale, e quindi la risposta è semplice: non c'è bisogno di cambiare le credenze degli uranidi. Per il momento, possiamo procurare una scorta di manganese ed offrirla ai dromidi; in tempi più lunghi, potremo estrarre il minerale dove abbonda e spargerlo sotto forma di polvere sull'isola. I tuoi amici vivranno, Hugh. Lui rimase in silenzio per qualche tempo, poi... era ancora in grado di coglierla di sorpresa, questo figlio di un minatore dell'interno... disse: — È magnifica, questa soluzione ingegneristica. Ma l'amarezza non scomparirà nell'arco di una notte, e non assisteremo ad un rapido lieto fine. E forse
non sarà così neppure per me e per te. — La strinse a sé ed aggiunse: — Dannazione, però, facciamo un tentativo! CASSANDRA Cassandra di Carolyn Janice Cherryh The Magazine of Fantasy & SF, ottobre 1978 Carolyn Janice Cherryh è oggi una delle autrici più popolari in America, soprattutto per alcune sue serie fantastiche e fantascientifiche molto riuscite (ricordiamo la trilogia fantastica di Morgaine, che ha avuto molto successo anche in Italia). Vincitrice anche di un premio Hugo per il romanzo, con il mastodontico Downbelow Station, la Cherryh ha già scritto numerosissimi romanzi, tralasciando invece l'opera breve, che in genere è sempre la forma con cui i giovani autori iniziano la loro carriera. Cassandra, una splendida storia sui problemi della «precognizione», (della «visione» cioè delle cose e degli avvenimenti futuri), dimostra al di fuori di ogni dubbio la sua bravura anche in questo genere. I fuochi. Lì erano diventati insopportabili. Alis cercò a tentoni la porta dell'appartamento: sapeva che era solida. Toccò il metallo fresco della maniglia tra le fiamme... tra il fumo che vorticava fuori vide le scale-ombra, abbastanza chiaramente per poterle scendere convincendo i propri sensi che avrebbero sostenuto il suo peso. Pazza Alis. Non si muoveva in fretta. I fuochi ardevano costanti. Li attraversò, scese i gradini incorporei fino al pianterreno solido... non sopportava l'ascensore, quello spazio chiuso con il pavimento-ombra, che scendeva e scendeva precipitosamente; raggiunse il piano terreno e distolse gli occhi dalle rosse fiamme senza calore. Un fantasma le disse buongiorno... il vecchio Willis, magro e trasparente sullo sfondo delle fiamme che lingueggiavano. Lei batté le palpebre, rispose al saluto... e non le sfuggì la scrollata di testa del vecchio Willis quando aprì la porta e uscì. Fuori scorreva il traffico di mezzogiorno, noncurante delle fiamme, delle carcasse che bruciavano per la strada, dei muri che crollavano. Anche l'appartamento crollò... i mattoni neri piombarono in quell'inferno. Un inferno tra gli spettrali alberi verdi. Il vecchio Willis fuggiva bru-
ciando, cadeva... si trasformava in una massa di carne annerita e sussultante... moriva, ogni giorno. Alis non gridava più, trasaliva appena. Ignorò l'orrore che la circondava, passò tra i mattoni sgretolati che non avevano sostanza, tra i fantasmi indaffarati e frettolosi che non volevano essere disturbati. Il Kingsley's Cafe era intero, più del resto. Era il rifugio per il pomeriggio, una sensazione di sicurezza. Alis spinse la porta, sentì tintinnare un campanello perduto. I clienti fantasma la guardarono bisbigliando. Pazza Alis. I bisbigli la turbavano. Evitò le loro occhiate e la loro presenza, sedette in un separé nell'angolo, dove c'erano soltanto poche tracce del fuoco. GUERRA, diceva a caratteri cubitali il titolo del giornale nel distributore automatico. Alis rabbrividì e alzò lo sguardo verso il viso spettrale di Sam Kingsley. — Caffè — disse. — Sandwich al prosciutto. — Era sempre così. Lei non cambiava mai l'ordinazione. Pazza Alis. Era la sua malattia mentale a mantenerla. Ogni mese arrivava un assegno, da quando l'ospedale l'aveva dimessa. Ogni settimana tornava all'ambulatorio, dai dottori che adesso erano ombre come gli altri. L'ambulatorio bruciava intorno a loro. Il fumo ondeggiava nei corridoi celesti e asettici. La settimana prima un paziente era fuggito... avvolto dalle fiamme.. Un tintinnio di porcellana. Sam posò il caffè sul tavolino, e poco dopo tornò e portò il sandwich. Alis chinò la testa e mangiò il cibo trasparente sul piatto sbreccato; la tazza era incrinata e macchiata dal fuoco, e il manico si vedeva appena. Mangiò: la fame era abbastanza forte per vincere l'orrore ormai abituale. Viste cento volte, le scene più terribili avevano perduto il loro potere su di lei: adesso non gridava più alle ombre. Parlava ai fantasmi e li toccava, mangiava il cibo che bene o male calmava gli stimoli tormentosi dello stomaco, portava lo stesso maglione nero troppo largo e la logora camicetta blu e i calzoni grigi perché erano gli unici capi d'abbigliamento che sembravano solidi. Ogni sera li lavava e li asciugava, e l'indomani mattina li indossava, lasciando gli altri appesi nell'armadio. Erano gli unici che fossero solidi, veramente. Queste cose non le diceva ai dottori. Un'intera vita passata dentro e fuori dagli ospedali l'aveva dissuasa dal confidarsi. Sapeva che cosa dire. La vista parziale le permetteva di sorridere alle facce fantasma, di manipolare astutamente i loro diagrammi e le loro carte mentre stava seduta fra le rovine che avevano incominciato a spegnersi nel tardo pomeriggio. Nel cor-
ridoio giaceva un cadavere carbonizzato. Lei non rabbrividiva quando sorrideva gentilmente al dottore. Le davano le medicine. Le medicine fermavano i sogni, gli ululati delle sirene, i passi precipitosi nella notte davanti al suo appartamento. Le permettevano di dormire nel letto spettrale, in alto fra le rovine, tra le fiamme che crepitavano e le voci che urlavano. Lei non parlava di queste cose. L'aveva imparato in quei lunghi anni negli ospedali. Si lagnava soltanto degli incubi e dell'irrequietezza, e loro le davano altre compresse rosse. GUERRA, diceva il titolo del giornale. La tazza tremò e tintinnò sul piattino, quando la prese. Inghiottì l'ultimo boccone di pane e bevve il caffè, cercando di non guardare oltre la vetrina sfondata, dove carcasse di metallo contorto fumavano sulla strada. Rimase, come faceva tutti i giorni, e Sam le riempì borbottando la tazza di caffè che lei avrebbe fatto durare il più a lungo possibile prima di ordinarne un'altra. Alis la sollevò, assaporando il contatto e dominando il tremito delle mani. Il campanello tintinnò. Un uomo chiuse la porta e andò al banco. Era integro, nitido ai suoi occhi. Alis lo fissò, stupita, con il cuore che le batteva forte. L'uomo ordinò un caffè, andò al distributore automatico a prendere un giornale, tornò a sedersi e lasciò che il caffè si freddasse mentre leggeva le notizie. Alis lo vedeva di spalle: la giacca di pelle marrone sciupata, i capelli bruni che arrivavano fin quasi al colletto. Finalmente bevve il caffè ormai freddo, tutto d'un fiato, mise il denaro sul banco e lasciò il giornale, con il titolo coperto. Una faccia giovane, in carne e ossa tra i fantasmi. L'uomo li ignorò tutti e si avviò verso la porta. Alis uscì dal separé. — Ehi! — le gridò Sam. Alis frugò nella borsetta mentre il campanello tintinnava, e buttò sul tavolo una banconota, senza attendere il resto sebbene fosse da cinque dollari. La paura le aveva messo in bocca un sapore di rame; l'uomo era andato via. Corse fuori dal caffè, girò intorno alle macerie senza riflettere, vide l'uomo che spariva tra i fantasmi. Lo rincorse, facendosi largo a spallate, sfidando le fiamme... gridò mentre le macerie le grandinavano addosso senza farle male, e continuò a correre. Molti spettri si voltarono a guardarla, scandalizzati... lui fece altrettanto, ed Alis gli corse incontro, sbalordita nel vedere la stessa espressione sulla sua faccia.
— Cosa c'è? — chiese l'uomo. Alis sbatté le palpebre, stordita dalla scoperta che l'uomo non la vedeva in modo diverso dagli altri. Non riuscì a rispondergli. Irritato, l'uomo riprese a camminare ed Alis lo seguì. Le lacrime le scorrevano sul viso e respirava a fatica. La gente la guardava. L'uomo si accorse della sua presenza e allungò il passo, tra le macerie, tra le fiamme. Un muro incominciò a crollare ed Alis urlò, nonostante tutto. L'uomo si girò di scatto. La polvere e la fuliggine si alzarono dietro di lui come una nube. Aveva un'espressione sconvolta e incollerita. La guardava come la guardavano gli altri. Le madri trascinavano via i bambini. Un gruppo di ragazzotti si fermò ridendo. — Aspetti — disse Alis. L'uomo aprì la bocca come se volesse imprecare; lei rabbrividì e le sue lacrime si raffreddarono nel vento insensibile degli incendi. La faccia dell'uomo assunse un'espressione di pietà imbarazzata. Si mise una mano in tasca, tirò fuori un po' di denaro, in fretta, cercò di darglielo. Lei scrollò la testa, furiosamente, tentando di arrestare le lacrime... guardò verso l'alto e tremò mentre un altro palazzo crollava tra le fiamme. — Cosa c'è? — chiese l'uomo. — Che cos'ha? — Per favore — disse Alis. L'uomo girò gli occhi sugli spettri che li guardavano, poi riprese a camminare lentamente. Lei gli si affiancò, imponendosi di non gridare nel vedere quelle rovine, le figure pallide che vagavano attraverso i gusci bruciati degli edifici, i cadaveri contorti in mezzo alla strada, dove si snodava il traffico. — Come si chiama? — chiese l'uomo. Alis glielo disse. Ogni tanto lui la guardava mentre camminavano, e aggrottava la fronte. Aveva una faccia sciupata per la sua età, e una piccola cicatrice vicino alla bocca. Sembrava più vecchio di lei. Il modo in cui la guardava la metteva a disagio, ma decise di accettarlo... di sopportare qualunque cosa pur di avere accanto quell'unica presenza solida. D'impulso, gli insinuò la mano nell'incavo del gomito, strinse le dita sulla pelle logora. L'uomo la lasciò fare. E dopo un po' le passò il braccio intorno alla vita, e proseguirono camminando come due innamorati. GUERRA, gridava il titolo del giornale, all'edicola. L'uomo fece per svoltare in una strada, all'angolo del Tenny's Hardware. Alis esitò, quando vide quello che c'era là. L'uomo si fermò appena se ne rese conto, si girò verso di lei, voltando le spalle agli edifici che bruciavano.
— Non vada là — disse Alis. — Dove vuole andare? Lei alzò le spalle, rassegnata, indicò la strada principale. Allora l'uomo incominciò a parlarle, come se fosse una bambina, per placare le sue paure. Lo faceva per pietà. Certuni la trattavano così. Lei se ne accorse e accettò anche quello. Si chiamava Jim. Era venuto in città il giorno prima, facendo l'autostop. Cercava lavoro. Non conosceva nessuno. Alis ascoltò la sua loquacità impacciata. Quando lui ebbe finito, continuò a fissarlo, e vide la sua faccia contrarsi in un'espressione di sgomento. — Non sono pazza — disse Alis, ed era una menzogna, perché a Sudbury tutti sapevano, ma lui non sapeva perché non conosceva nessuno. Il viso era vero e solido, e la piccola cicatrice accanto alla bocca lo rendeva più duro, quando rifletteva; in un altro momento Alis avrebbe avuto paura di lui. Ora aveva paura soltanto di perderla tra i fantasmi. — È la guerra — disse lui. Alis annuì, sforzandosi di guardare l'uomo e non gli incendi. Jim le toccò il braccio, gentilmente. — È la guerra — ripeté. — È tutto pazzesco. Sono impazziti tutti. E poi le posò la mano sulla spalla, e la fece voltare nell'altra direzione, verso il parco dove le foglie verdi ondeggiavano sopra i rami neri e scheletriti. Passeggiarono lungo il laghetto, e per la prima volta dopo molto tempo lei respirò liberamente e si sentì accanto una presenza reale e razionale. Comprarono il pop-corn e sedettero sull'erba in riva al lago e lo gettarono ai cigni spettrali. I fantasmi dei passanti erano pochi, quei tanti che bastavano per mantenere un senso di frequentazione in quel luogo... quasi tutti anziani che facevano le solite cose con voluta tranquillità nonostante i titoli dei giornali. — Li vede? — si azzardò finalmente a chiedere Alis. — Tutti rarefatti e grigi? Jim non capì, non la prese alla lettera, e alzò le spalle. Per prudenza, Alis non insistette. Si alzò e guardò l'orizzonte, dove il fumo si sollevava nel vento. — Posso invitarti a cena? — chiese lui. Alis si voltò, preparata, e riuscì a rispondere con un sorriso timido e disperato. — Sì, — disse. Sapeva che altro intendeva pagarsi, lui, oltre alla cena... ed era disposta ad accettare, e si detestava per questo, e aveva una paura disperata che lui se ne andasse, quella sera, l'indomani. Non cono-
sceva gli uomini. Non sapeva cosa poteva dire o fare per impedire che se ne andasse: sapeva soltanto che un giorno se ne sarebbe andato, quando si fosse accorto che era pazza. Persino i suoi genitori non ce l'avevano fatta a sopportarla... all'inizio erano andati a trovarla negli ospedali, e poi c'erano andati soltanto i giorni festivi, e poi non s'erano più fatti vedere. Alis non sapeva dove fossero. Un ragazzetto del vicinato era morto annegato. Lei l'aveva detto, che sarebbe annegato. L'aveva gridato. E tutti, in città, avevano detto che era stata lei a spingerlo. Pazza Alis. È affetta da fantasie, dicevano i medici. Non è pericolosa. — L'avevano lasciata andare. C'erano scuole speciali, scuole dello stato. E di tanto in tanto... gli ospedali. I tranquillanti. Alis aveva lasciato a casa le compresse rosse. Quando se ne accorse, le sudarono le palme delle mani. Quelle compresse portavano il sonno. Bloccavano i sogni. Strinse le labbra per dominare il panico e decise che non ne aveva bisogno... non ne avrebbe avuto bisogno perché non era sola. Passò la mano sotto il braccio di Jim e camminò al suo fianco, sicura e stranita, su per i gradini che portavano dal parco alle strade. Si fermò. I fuochi erano spenti. Gli edifici spettrali s'innalzavano sopra i loro gusci schiantati e privi di finestre. I fantasmi si muovevano tra le masse delle macerie, e a volte erano quasi invisibili. Jim cercò di sospingerla, ma lei vacillò; la guardò in modo strano, allora, e la cinse con un braccio. — Tremi — le disse. — Hai freddo? Alis scosse la testa, cercò di sorridere. I fuochi erano spenti. Si sforzò d'interpretarlo come un buon auspicio. L'incubo era finito. Alzò lo sguardo verso quel viso solido e preoccupato, e il suo sorriso divenne quasi una risata folle. — Ho fame — disse. Indugiarono lungamente a cena da Graben's... lui con la giacca sciupata, lei con il maglione sformato; gli avventori spettrali vestivano molto meglio, e li fissavano; i camerieri li avevano fatti sedere in un angolo vicino alla porta, dov'erano meno visibili. C'erano cristalli incrinati e piatti rotti sui tavoli incorporei, e le stelle ammiccavano fredde nello squarcio sopra
lo scintillio pallido dei lampadari spezzati. Rovine: fredde, pacifiche rovine. Alis si guardò intorno, calma. Si poteva vivere tra le rovine, purché i fuochi non ci fossero più. E c'era Jim che le sorrideva senza un'aria di pietà, ma solo con un'aria di disperazione un po' folle che lei capiva... Jim che stava spendendo da Graben's più di quanto poteva permettersi, in quel ristorante che lei non aveva mai sperato di vedere all'interno... Jim che le diceva, prevedibilmente, che era bella. L'avevano detto anche altri. Alis provava un vago risentimento nel sentire quelle parole banali da lui... lui, di cui aveva deciso di fidarsi. Gli sorrise con tristezza, quando Jim lo disse, e poi aggrottò la fronte e quindi, temendo di offenderlo con le sue malinconie, sorrise di nuovo. Pazza Alis. Lui l'avrebbe scoperto e se ne sarebbe andato quella notte stessa, se non fosse stata prudente. Cercò di fingersi allegra, si sforzò di ridere. E poi nel ristorante la musica s'interruppe, e gli altri avventori smisero di colpo di parlare, e l'altoparlante diede un annuncio vano. Ai rifugi... ai rifugi... ai rifugi. Grida. Urla. Sedie rovesciate. Alis si abbandonò inerte sulla seggiola, sentì la mano fredda e solida di Jim afferrare la sua, vide la faccia spaventata, la bocca che si muoveva chiamandola per nome. Lui la prese fra le braccia, la tirò a sé e si mise a correre. Fuori l'aria fredda la investì, ed Alis vide di nuovo le rovine, le figure fantasma correvano verso il caos dove gli incendi erano stati più furiosi. E comprese. — No! — gridò, tirandogli il braccio. — No! — ripeté, mentre la gente appena intravvista passava intorno a loro e li urtava, in una fuga verso l'annientamento. Jim cedette alla sua certezza improvvisa, le strinse la mano e fuggì con lei controcorrente, mentre le sirene ululavano all'impazzata nella notte... fuggì con lei mentre correva lungo il percorso conosciuto tra le rovine. Entrarono da Kingsley's, dove i tavoli erano abbandonati, i piatti dimenticati, le porte socchiuse, le sedie rovesciate. Entrarono nella cucina e scesero nelle cantine, al buio e al freddo, al sicuro dalle fiamme. Nessun altro li raggiunse. Finalmente la terra tremò, troppo profondamente perché si udisse un suono. Le sirene tacquero e non si fecero più sentire.
Rimasero distesi nel buio, stringendosi e tremando, e sopra di loro infuriò per ore ed ore il rombo degli incendi, e a volte il fumo penetrava e pungeva gli occhi e le narici. C'erano gli scrosci lontani dei muri che crollavano, rombi che squassavano il suolo: poi vennero più vicino, ma non toccarono il loro rifugio. E alla mattina, quando nell'aria c'era ancora l'odore delle fiamme, risalirono nella luce fosca del giorno. Sulle rovine aleggiava il silenzio. Gli edifici spettrali adesso erano solidi, ridotti a gusci vuoti. I fantasmi erano scomparsi. Soltanto i fuochi erano strani, alcuni veri, altri no, e lingueggiavano sopra i mattoni scuri e freddi, e quasi tutti si andavano estinguendo. Jim imprecò sottovoce, più volte, e pianse. Quando Alis lo guardò aveva gli occhi asciutti, perché da molto tempo non aveva più lacrime. E lo ascoltò mentre lui parlava di procurarsi viveri e di lasciare la città, loro due insieme. — D'accordo — disse Alis. Poi contrasse le labbra, chiuse gli occhi per non scorgere ciò che gli vedeva in faccia. Quando li riaprì vide che era ancora vero: la trasparenza improvvisa, l'ondata di sangue. Alis tremò, e Jim la scosse, con un'espressione angosciata sul viso spettrale. — Cosa c'è? — chiese lui. — Cosa c'è? Non poteva dirglielo, non voleva. Ricordava il ragazzo che era annegato, ricordava gli altri spettri. All'improvviso si svincolò da lui e fuggì via, nel labirinto delle macerie che, questa mattina, erano solide. MIO CARO NEMICO Enemy Mine di Barry Longyear Isaac Asimov's SF Magazine, marzo 1979 Durante una guerra interstellare tra umani e alieni chiamati «Drac» due astronavi precipitano su un mondo desolato e disabitato. I loro piloti, un uomo e un Drac, si incontrano in circostanze che li costringono a cooperare per poter sopravvivere. Sembra una situazione familiare? Ebbene sì; viene subito in mente il vanvogtiano «Cooperate or else» di La guerra contro i Rull. Pochi scrittori hanno però esplorato i risultati di questo soggetto in maniera così toccante e noi siamo convinti che questa storia bellissima diventerà presto un classico della sf.
Barry Longyear ha cominciato a scrivere fantascienza da poco, ma la sua ascesa nel firmamento di questo genere letterario è stata rapida come quella di un'astronave. In particolare molto successo hanno avuto i suoi racconti e romanzi dedicati alle vicende di un circo celeste che, costretto da un naufragio planetario a rimanere su un nuovo pianeta, si dedica alla creazione di una colonia e di una cultura originalissima basata sulle tradizionali doti dei mimi e degli acrobati. Il draconiano contrasse le tre dita della mano. Negli occhi gialli della creatura potevo leggere il desiderio di stringere quelle dita attorno a un'arma, o alla mia gola. Mentre contraevo a mia volta le dita, sapevo che lui poteva leggere lo stesso desiderio nei miei occhi. — Irkmaan! — disse l'essere, sprezzante. — Luridissimo Drac! — Gli feci cenno di avvicinarsi. — Avanti, Drac, fatti sotto! — Irkmaan vaa, koruum au! — Insomma, vuoi chiacchierare o vuoi lottare? Avanti, fatti sotto! — Sentii uno spruzzo sulle spalle. Il mare era un inferno di cavalloni crestati di bianco che minacciava di inghiottirmi come aveva già fatto con il mio caccia. Io ero sceso con l'apparecchio. Il Drac si era gettato con la capsula di salvataggio, quando il suo caccia era stato colpito, negli strati superiori dell'atmosfera. Ma non prima di avermi messo fuori uso il motore. Ero esausto per lo sforzo di nuotare fino alla spiaggia di roccia grigia e di tirarmi in salvo. Alle spalle del Drac, fra le colline nude e rocciose, poteva vedere la sua capsula. Sopra di noi, molto in alto, la sua gente e la mia se le stavano ancora dando di santa ragione per il possesso di un angolo di nulla disabitato. Il Drac se ne stava lì, immobile, e cercai di ricordarmi la frase che ci avevano insegnato durante l'addestramento... una frase studiata apposta per fare impazzire di rabbia qualsiasi Drac. — Kiz la youmeen, Shizumaat! — Traduzione: Shizumaat, il più illustre filosofo draconiano, mangia escrementi di kiz. Più o meno come costringere un mussulmano a mangiare carne di maiale. Il Drac spalancò la bocca, orripilato, poi la richiuse, mentre per la rabbia cambiava letteralmente colore, da giallo a bruno-rossiccio. — Irkmaan, Topolino è cretino! Avevo giurato di combattere e morire per molte cose, ma quel venerabile roditore non entrava nel novero. Cominciai a ridere, e continuai finché la risata, combinandosi con la stanchezza, non mi costrinse a cadere
sulle ginocchia. Facendomi forza aprii gli occhi, per sorvegliare il mio nemico. Il Drac stava correndo verso le alture, allontanandosi da me e dal mare. Mi girai verso il mare, ma feci appena in tempo a intravvedere un milione di tonnellate di acqua che mi piombavano addosso, prima di perdere i sensi. — Kiz da Youmaan, Irkmaan, ne? Avevo gli occhi pieni di sabbia e irritati per la salsedine, ma qualcosa dentro di me riuscì a dire: Ehi, sei vivo. Feci per pulirmi gli occhi, e scoprii che avevo le mani legate a una sbarra di metallo. Mentre le lacrime mi ripulivano gli occhi, potei vedere il Drac seduto su una roccia nera, che mi guardava. Doveva avermi tirato in salvo. — Grazie, faccia di rospo. E queste manette? — Ess? Cercai di agitare le braccia, ma riuscii solo a dare l'impressione di un caccia atmosferico che scivola d'ala. — Slegami, schifoso Drac! — Ero seduto sulla sabbia, con la schiena appoggiata a una roccia. Il Drac sorrise, mettendo in mostra le due mandibole. Avevano un'aria abbastanza umana... Tranne per il fatto che, invece di avere denti separati, erano di un pezzo unico. — Eh, ne, Irkmaan. — Si alzò, mi venne vicino, e controllò le mie manette. — Slegami! Il sorriso sparì. — Ne! — Mi puntò addosso un dito giallo. — Kos son va? — Non parlo il drac, faccia di rospo. Parli inglese, tu? O esper? Il Drac alzò le spalle, con aria molto umana, poi si puntò il dito contro il petto. — Kos va son Jeriba Shigan. — Indicò ancora verso di me. — Kos son va? — Mi chiamo Willis Davidge. — Ess? Sillabai con qualche difficoltà: — Kos va son Willis Davidge. — Eh. — Jeriba Shigan annuì, poi mi fece un cenno con la mano. — Dasu, Davidge. — Altrettanto a te, Jerry. — Dasu, Dasu! — Jeriba sembrò spazientirsi. Mi strinsi nelle spalle meglio che potei. Il Drac si chinò, mi afferrò con entrambe le mani il petto della tuta e mi tirò in piedi. — Dasu, dasu, kizlode! — Ho capito, ho capito! Dasu vuol dire alzati. E kizlode? Jerry rise. — Gavey «kiz»?
— Sì, gavey. Jerry si indicò la testa. — Lode. — Indicò la mia testa. — Kizlode. Avevo capito. Sferrai un colpo con le braccia unite, e presi Jerry sulla testa con la sbarra. Il Drac andò a sbattere contro una roccia, con un'espressione di sorpresa. Si toccò la testa con una mano, e la ritirò coperta di quel pus biancastro che i Draconiani considerano sangue. Mi guardò con un'espressione omicida negli occhi. — Gefh! Nu Gefh, Davidge. — Fatti sotto, Jerry, figlio di puttana di un kizlode! Jerry mi si buttò addosso, e io cercai di colpirlo ancora con la sbarra, ma il Drac mi prese il polso destro con entrambe le mani, e sfruttando il mio impeto mi fece girare su me stesso, mandandomi a sbattere con la schiena contro un'altra roccia. Proprio mentre riuscivo a riprendere fiato, Jerry raccolse un piccolo masso e venne verso di me con tutte le intenzioni di sfracellarmi il cranio. Appoggiandomi con la schiena alla roccia, gli diedi un calcio nello stomaco, mandandolo a finire lungo disteso sulla sabbia. Corsi verso di lui, pronto a sfracellare a pedate il suo cranio, quando lui indicò alle mie spalle. Mi voltai e vidi un'altra ondata gigantesca che prendeva la rincorsa per venirci addosso. — Kiz! — Jerry si mise in piedi e corse come un dannato verso il terreno più elevato, con me alle calcagna. Con il ruggito dell'ondata alle nostre spalle ci infilammo fra le rocce nere, levigate dalla sabbia e dall'acqua bassa, finché non raggiungemmo la capsula di Jerry. Il Drac si fermò, appoggiò la spalla all'aggeggio a forma di uovo e cominciò a farla rotolare. Compresi il suo scopo. Quella capsula conteneva gli unici mezzi di sopravvivenza, cibo compreso, di cui fossimo a conoscenza sul pianeta. — Jerry! — gridai al di sopra del rombo crescente dell'ondata. — Toglimi questo dannato affare e ti potrò aiutare! — Il Drac mi guardò accigliato. — La sbarra, kizlode, toglimela! — Indicai con la testa le mie mani. Jerry mise una roccia sotto la capsula, per impedirle di rotolare indietro, poi mi slegò in fretta i polsi e tirò via la sbarra. Ci appoggiammo entrambi con le spalle alla capsula, e la facemmo rotolare sul terreno più elevato. L'ondata si arrampicò sul pendio, veloce, finché non ci arrivò al petto. La capsula galleggiava come un sughero, e riuscimmo a stento a tenerla ferma, fino a quando l'ondata non si ritirò, lasciando la capsula incastrata fra tre massi. Mi fermai ansimante. Jerry si lasciò cadere sulla sabbia, appoggiando la schiena a uno dei massi. Osservò l'ondata recedere verso il mare. — Magasienna! — L'hai detto, fratello. — Mi sedetti vicino al Drac. Stipulammo con u-
n'occhiata una tregua temporanea, e immediatamente ci addormentammo. Aprii gli occhi su un cielo di neri e di grigi ribollenti. Lasciai rotolare la testa sulla spalla sinistra e guardai il Drac. Era ancora addormentato. La prima cosa che pensai fu che quella era una occasione d'oro per fare un bello scherzo a Jerry. La seconda fu quanto era sciocca la nostra disputa, di fronte alla lotta gigantesca degli elementi intorno a noi. Perché non era ancora arrivata la squadra di soccorso? Forse la flotta dei Drac ci aveva annientato? E allora perché i Drac non erano arrivati per raccogliere Jerry? Forse si erano annientati a vicenda. Non sapevo neppure dove mi trovavo. Scendendo, era sembrata un'isola, ma oltre a questo non sapevo nient'altro. Fyrine IV: il pianeta non era neanche abbastanza importante da avere un nome, ma lo era abbastanza perché vi fossimo mandati a morirci. Mi alzai faticosamente. Jerry aprì gli occhi, e con una mossa rapida si accucciò in posizione di difesa. Feci un gesto con la mano e scossi la testa. — Calma, Jerry. Voglio solo dare un'occhiata in giro. — Gli voltai le spalle e mi arrampicai tra i massi. Qualche minuto dopo raggiunsi un terreno pianeggiante. Era proprio un'isola, e neanche molto grande. A occhio e croce, l'altezza massima sul livello del mare raggiungeva gli ottanta metri, la lunghezza circa due chilometri, e la larghezza uno. Il vento che mi sferzava servì almeno ad asciugarmi la tuta, ma osservando i massi levigati sulla cima della collina, mi resi conto che io e Jerry dovevamo aspettarci delle ondate ancora più grosse di quelle che avevamo sperimentato fin'ora. Sentii un rumore alle mie spalle, e vidi Jerry arrampicarsi. Il Drac raggiunse la cima e si guardò intorno. Mi inginocchiai vicino a uno dei massi e ci passai sopra la mano per fargli notare che era liscio, poi indicai il mare. Jerry annuì. — Ae, gavey. — Indicò la capsula, poi il punto dove stavamo. — Echey masu, nasesay. Aggrottai le ciglia, portai il dito verso la capsula. — Nasesay? La capsula? — Ae, capsula nasesay. Echey masu. — Jerry indicò ai suoi piedi. Scossi la testa. — Jerry, se tu gavey perché queste rocce sono lisce — ne indicai una — allora gavey che masu-are la nasesay fin quassù non servirà a un accidente. — Mossi le mani su e giù. — Indicai il mare. — Onde quassù. — Indicai dove stavamo. — Onde echey. — Ae, gavey. — Jerry si guardò in giro, poi si fregò il mento. Si sedette vicino a delle piccole rocce e cominciò a metterle una sopra l'altra. — Viga, Davidge.
Mi inginocchiai vicino a lui e osservai le sue dita veloci costruire un cerchio di pietre, una specie di arena in miniatura. Jerry infilò un dito in mezzo al cerchio. — Echey, nasesay. I giorni, su Fyrine IV, sembrava che durassero tre volte quelli di tutti gli altri pianeti abitabili che avevo conosciuto. Anche se abitabile, riferito a Fyrine IV è un eufemismo. Ci volle quasi tutto il primo giorno per far rotolare la nasesay di Jerry in cima alla collina. La notte era troppo buio per lavorare, e inoltre faceva un freddo cane. Togliemmo il sedile dalla capsula, ricavando spazio appena sufficiente per infilarci dentro entrambi. Il calore dei nostri corpi riscaldò un po' l'ambiente, e passammo il tempo a dormire, a mangiare le razioni di Jerry (avevano un sapore a metà fra quello del pesce e del pecorino), e cercando di trovare un accordo sulla lingua. — Occhio. — Thuyo. — Dito. — Zurath. — Testa. Il Drac rise. — Lode. — Ah, ah, che ridere. — Ah ah. All'alba del secondo giorno facemmo rotolare la capsula al centro del piccolo altopiano, incastrandola fra due grossi massi, uno dei quali aveva una sporgenza che, nelle nostre speranze, doveva servire a trattenerla all'arrivo delle ondate. Tutto attorno disponemmo delle pietre piuttosto grosse come fondamenta, e riempimmo le fessure con pietre più piccole. Quando il nostro muro ebbe raggiunto l'altezza delle ginocchia, ci rendemmo conto che una costruzione fatta con quelle pietre lisce e tonde, senza malta, non poteva stare in piedi. Dopo qualche esperimento, scoprimmo un sistema per spaccare le pietre, in modo da avere dei lati piatti: prendevamo una pietra e la sbattevamo con violenza sopra un'altra. Facemmo a turni: uno spaccava pietre e l'altro costruiva. La pietra era una specie di vetro vulcanico, e facevamo anche dei turni per toglierci le schegge a vicenda. Ci vollero nove di quegli interminabili giorni per finire il muro. Le ondate ci vennero varie volte vicino, e una ci arrivò alle caviglie. Per sei di quei nove giorni piovve. La dotazione della capsula includeva un telo di plastica, e questo divenne il nostro tetto. Si riempiva al centro, così ci praticammo un buco, che ci fornì anche una riserva di acqua fresca. Se arriva-
va un'ondata di una certa entità, potevamo dire addio al nostro tetto; ma noi avevamo fiducia nel muro, che era spesso circa due metri alla base, e uno alla sommità. Una volta finito, ci sedemmo all'interno e ammirammo la nostra opera per circa un'ora, finché non cominciammo a renderci conto che eravamo restati senza niente da fare. — E adesso Jerry? — Ess? — Adesso cosa facciamo? — Adesso aspettare noi. — Il Drac alzò le spalle. — Cosa altro, ne? Annuii. — Gavey. — Mi alzai e andai alla porta. Non avendo legname per fare una porta vera e propria, nel punto dove i due muri avrebbero dovuto incontrarsi, a uno avevamo fatto fare una curva, estendendolo per circa tre metri, parallelamente all'altro, con l'apertura dalla parte opposta rispetto ai venti prevalenti. I venti non avevano mai smesso di soffiare, ma la pioggia era cessata. Il nostro muro non era gran che da guardare, ma vederlo lì, nel bel mezzo di quell'isola deserta, mi faceva sentir bene. Come dice Shizumaat: La vita intelligente prende posizione contro l'universo. O almeno, era questo il senso che ero riuscito a ricavare dall'inglese pasticciato di Jerry. Presi una scheggia appuntita e feci un altro segno sulla roccia che mi serviva da calendario. Dieci segni in tutto e sotto il settimo una piccola X per indicare la grossa ondata che aveva sfiorato la cima dell'isola. Gettai a terra la scheggia. — Dannazione, odio questo posto! — Ess? — Jerry sporse la testa dall'altra parte dell'apertura. — Parli chi, Davidge? Gli lanciai un'occhiataccia. — A nessuno. — Ess va «nessuno»? — Nessuno. Niente. — Ne gavey, Davidge. Mi battei sul petto col dito. — Me! Parlo a me stesso! Questo lo gavey, faccia di rospo? Jerry scosse la testa. — Davidge, ora dormo. Non parlare tanto a nessuno, ne? — Sparì dietro alla parete di roccia. — Ma va a quel paese, figlio di... — Mi incamminai lungo il fianco della collina. Solo che tu una madre, a rigor di termini, non ce l'hai, faccia di rospo. E neanche un padre. «Se potessi scegliere, con chi ti piacerebbe fare naufragio su un'isola deserta?» Mi chiesi se qualcuno aveva mai scelto
di finire in un angolo gelato dell'inferno, insieme a un ermafrodito. Giunto a metà del pendio, seguii un sentiero che avevo segnato con delle rocce fino a una pozza formata dalle maree, e che avevo ribattezzato ranch delle lumache. Attorno alla pozza c'erano numerose rocce, e sotto di queste, nell'acqua bassa, vivevano i più grossi lumaconi marini che avessi mai visto. Avevo fatto la scoperta durante una pausa dei lavori e avevo chiamato Jerry. Jerry aveva alzato le spalle. — E allora? — Come allora? Senti, Jerry, le tue reazioni non dureranno in eterno. Cosa mangeremo quando saranno finite? — Mangiare? — Jerry guardò i lumaconi che si contorcevano e fece una smorfia. — Ne, Davidge. Prima prendono noi. Cercano, trovano e prendono noi. — E se non ci trovano? Jerry fece un'altra smorfia, e si voltò per tornare al lavoro. — Acqua beviamo noi, fino quando trovano. — Aveva farfugliato qualcosa a proposito di escrementi di kiz e dei miei gusti, ed era sparito dalla vista. Da allora, avevo rinforzato le pareti di roccia intorno alla pozza, sperando che la maggiore protezione avrebbe permesso un aumento della popolazione di molluschi. Guardai sotto parecchie rocce, ma non c'era stato alcun aumento apparente. Comunque, non avevo il coraggio di ingoiarne uno. Rimisi a posto la roccia, mi alzai e scrutai il mare. Anche se la cortina perenne di nubi nascondeva come sempre i raggi di Fyrine, non pioveva, e si era sollevata la solita nebbia. Dalla parte dov'ero approdato il mare si stendeva fino all'orizzonte. Fra le creste bianche delle onde, l'acqua era grigia come il cuore di uno strozzino. A circa cinque chilometri dall'isola si formavano delle lunghe ondate parallele. Il settore centrale avrebbe investito l'isola, mentre le altre proseguivano il loro cammino. Alla mia destra, sulla stessa linea delle ondate, potevo distinguere un'altra piccola isola, alla distanza di una decina di chilometri. Seguii con gli occhi la direzione di marcia delle ondate, e dove il grigio-bianco del mare avrebbe dovuto incontrare il grigio più chiaro del cielo, contro l'orizzonte, vidi una linea nera. Più cercavo di ricostruire mentalmente le carte topografiche di Fyrine IV, più diventavano confuse. Anche Jerry non ricordava niente, o almeno non me lo voleva dire. E poi perché avremmo dovuto ricordarcele? La battaglia avveniva nello spazio, dove ognuna delle due parti cercava di impedire all'altra di stabilire un contingente orbitale. Nessuno aveva intenzione
di mettere piede sul pianeta, e ancor meno di combatterci sopra. Comunque quello che vedevo era una massa di terra molto più grande della striscia di roccia e sabbia dove ci trovavamo. Il problema era come arrivarci. Senza legname, fuoco, foglie, pelli di animale, io e Jerry eravamo in una condizione peggiore dei più arretrati selvaggi. L'unica cosa a nostra disposizione che potesse galleggiare era la nasesay, la capsula. E perché no? Il problema era convincere Jerry. La sera, mentre il grigio si trasformava lentamente in nero, Jerry ed io ci sedemmo fuori dal muro, a mangiare le nostre razioni. Gli occhi gialli del Drac scrutarono la linea nera sull'orizzonte. Poi scosse la testa. — Ne, Davidge. Pericoloso è. Mi infilai in bocca il resto della razione, e parlai masticando. — Più pericoloso che restare qui? — Presto prendono noi, ne? Lo fissai negli occhi. — Jerry, tu ci credi quanto me. — Mi chinai verso di lui. — Senti, le nostre possibilità di sopravvivenza saranno molto maggiori su una massa di terra più grande. Protezione dalle grandi ondate, forse cibo... — Non forse, ne? — Jerry indicò il mare. — Come guidare nasesay, Davidge? Dentro, come guidare? Ess eh ondate oltre terra portano, gavey? Bresha. — Jerry batté assieme le mani. — Ess eh bresha su rocce, ne? Noi morti. Mi grattai la testa. — Le ondate da qui vanno in quella direzione, e cosi pure il vento. Se la terra è grande abbastanza, non dovremo pilotare la capsula, gavey? Jerry sbuffò: — Ne grande abbastanza; allora? — Non ho detto che era una cosa sicura. — Ess? — Una cosa sicura, certa, gavey? — Jerry annuì. — E quanto a sfracellarci sulle rocce, probabilmente c'è una spiaggia come questa. — Sicuro, ne? Alzai le spalle. — No, non è sicuro, ma è sicuro stare qui? Non sappiamo quanto possono diventare grandi quelle ondate. Se ne arriva una e ci porta via dall'isola? Cosa facciamo allora? Jerry mi guardò stringendo gli occhi. — Cosa la è, Davidge? Base Irkmaan, ne? Mi misi a ridere. — Te l'ho detto che non abbiamo basi su Fyrine IV. — Perché vuoi andare, allora.
— Te l'ho detto, Jerry. Penso che le nostre possibilità di sopravvivenza sarebbero migliori. — Uhmmm. — Il Drac incrociò le braccia. — Viga, Davidge, Nasesay resta. Io so. — Cosa sai? Jerry sorrise, poi si alzò ed entrò nel nostro riparo. Dopo un attimo ritornò e gettò a terra ai miei piedi una sbarra di metallo lunga due metri. Era quella che aveva usato per legarmi le mani. — Io so, Davidge. Alzai le sopracciglia e mi strinsi nelle spalle. — Di cosa stai parlando? Non l'hai presa nella tua capsula? — Ne, Irkmaan. Mi chinai e raccolsi la sbarra. Non presentava tracce di corrosione, e ad una delle estremità c'erano dei numeri in cifre arabe: il numero del pezzo. Sentii un'ondata di speranza, ma questa svanì subito, quando mi resi conto che si trattava di un numero civile. Gettai la sbarra sulla sabbia. — Non possiamo sapere da quanto tempo si trovi qui, Jerry. Si tratta di un numero civile, e nessuna spedizione civile è più arrivata in questa parte della galassia dallo scoppio della guerra. Potrebbe essere stata lasciata da una vecchia spedizione di inseminazione o di esplorazione... Il Drac mosse la sbarra con la punta del piede. — Nuova, gavey? Lo guardai. — Tu gavey l'acciaio inossidabile? Jerry sbuffò e si voltò verso il riparo. — Io resto, nasesay resta; dove vuoi, tu va, Davidge! Con il nero della lunga notte che si stava chiudendo sopra di noi, il vento aveva preso velocità, e ululava attraverso le fessure del muro. Il tetto di plastica sbatteva, veniva risucchiato dentro e fuori con tale violenza che minacciava di lacerarsi o di volarsene via. Jerry sedeva sulla sabbia, con la schiena appoggiata alla nasesay, come per mettere in chiaro che lui e la capsula non si muovevano, anche se la furia crescente del mare sembrava dargli torto. — Mare brutto ora è, Davidge, ne? — È troppo buio per vedere, ma questo vento... — Alzai le spalle, più per me stesso che per il Drac, dal momento che l'unica cosa visibile nel riparo era la luce pallida che filtrava dal soffitto. Da un minuto all'altro potevamo essere spazzati via dall'isola. — Jerry, ti stai comportando come uno stupido per quella sbarra, e lo sai. — Surda. — Il Drac aveva un'aria dispiaciuta, quasi desolata.
— Ess? — Ess eh «Surda»? — Ae. Jerry rimase in silenzio per un momento. — Davidge, gavey «non certo non è»? Ci pensai un momento. — Vuoi dire: «forse», «magari», «può darsi»? — Ae, Forsemagaripuòdarsi. Flotta dracon ha navi Irkmaan. Prima di guerra comprare: dopo guerra catturare. Forsemagaripuòdarsi sbarra è di dracon. — Perciò, se c'è una base segreta su quella grossa isola, surda è una base draconiana? — Forsemagaripuòdarsi, Davidge. — Vuoi dire che intendi provarci, Jerry? Con la nasesay? — Ne. — Ne? E perché, Jerry? Se ci fosse una base Drac... — Ne! Ne parlare! — La voce del Drac era strozzata. — E invece sì, che parliamo, Jerry! Se devo crepare su quest'isola, ho il diritto di sapere il perché. Per un po' il Drac restò in silenzio. — Davidge. — Ess? — Nasesay, tu prendi. Metà razioni lasci. Io resto. Scossi la testa per schiarirmela. — Vuoi che prenda la capsula da solo? — Quello è che vuoi, ne? — Ae, ma perché? Lo sai anche tu che non verranno a prenderci. Che c'è? Hai paura dell'acqua? Se è così, sarà meglio... — Davidge, bocca chiudi. Nasesay prendi. Me non hai bisogno, gavey? Annuii nel buio. Potevo prendermi la capsula. E cosa me ne facevo di un Drac dalla testa dura... soprattutto dal momento che la nostra tregua poteva spirare da un istante all'altro? La risposta mi fece sentire un po' sciocco... e umano. Ma forse è la stessa cosa. Il Drac era l'unica cosa che mi separava dalla più completa solitudine. Però c'era anche il piccolo problema di sopravvivere. — È meglio andare insieme, Jerry. — Perché? Mi sentii arrossire. Se gli uomini hanno così bisogno di compagnia, perché si vergognano tanto ad ammetterlo? — Avremo più probabilità di cavarcela. — Solo, tue possibilità meglio sono, Davidge. Io tuo nemico sono. Annuii ancora e feci una smorfia nel buio. — Jerry, tu gavey «solitu-
dine»? — Ne gavey. — Essere solo, senza nessuno. — Gavey sei solo. Prendi nasesay; io resto. — Appunto... vedi, viga, non voglio. — Vuoi andare insieme noi? — Nel buio si sentì una risata gorgogliante. — Dracon a te piace? Morto ti piace, Irkmaan. — Jerry ridacchiò ancora. — Irkmaan poorzhab in testa, poorzhab. — Lascia perdere! — Mi lasciai scivolare in terra e mi rannicchiai con la testa dalla parte del Drac. Il vento sembrava essersi un po' placato, e chiusi gli occhi per cercare di dormire. Dopo un po', gli schiocchi del tetto di plastica si confusero con i fischi e gli ululati del vento, e mi sentii scivolare nel sonno. Spalancai di colpo gli occhi al suono di passi che si avvicinavano. Tesi i muscoli, pronto a scattare. — Davidge? — La voce di Jerry era molto calma. — Cosa c'è? Sentii il Drac sedersi vicino a me. — Tua solitudine, Davidge. Difficile parlare di questa, ne? — E allora? — Il Drac farfugliò qualcosa che si perse nel vento. — Come? — Mi voltai e vidi Jerry che sbirciava da una fessura nel muro. — Perché resto. Ora dico te, ne? Alzai le spalle. — E va bene. Perché no? Jerry parve lottare con le parole, aprì la bocca per parlare. Poi i suoi occhi si spalancarono. — Magasienna! Mi alzai. —Ess? Jerry indicò la fessura. — Guarda! Lo spinsi da parte e guardai anch'io. Simile a montagne crestate di bianco, delle ondate gigantesche si stavano dirigendo come una furia verso la nostra isola. Era difficile giudicare al buio, ma quella di fronte sembrava più alta di quella che aveva sfiorato la cima dell'isola qualche giorno prima. Quelle che venivano dopo erano ancora più grandi. Jerry mi mise una mano sulle spalle, e io lo guardai negli occhi. Poi ci mettemmo a correre verso la capsula. Sentimmo la prima ondata infrangersi sul fianco della collina mentre armeggiavamo alla ricerca della maniglia. La trovai proprio mentre l'ondata colpiva il rifugio e faceva crollare il tetto. Un attimo dopo eravamo sott'acqua, e le correnti in mezzo al muro ci sbattevano come panni in una lavatrice. L'acqua si ritirò, e mentre mi fregavo gli occhi mi accorsi che il lato con-
trovento della parete era parzialmente crollato. — Jerry! Attraverso la breccia, scorsi il Drac che barcollava, all'aperto. — Irkmaan! — Alle sue spalle, vidi la seconda ondata prendere velocità. — Kizlode, che diavolo ci fai là fuori? Entra! Mi voltai verso la capsula, sempre fermamente ancorata fra le due rocce e trovai la maniglia. Mentre aprivo il portello, Jerry arrivò incespicando e mi fini addosso. — Davidge... ondate sempre vengono! Sempre! — Entra! — Lo aiutai a infilarsi dentro, e non aspettai che si facesse da parte. Gli montai sopra e chiusi il portello proprio mentre la seconda ondata ci colpiva. Sentii la capsula sollevarsi un po' e andare a urtare contro la sporgenza. — Davidge, galleggiamo? — No. Le rocce ci tengono fermi. Saremo a posto, passata la tempesta. — Via da me sopra. — Oh. — Mi spostai dallo stomaco di Jerry, e mi appoggiai a una parete. Dopo un po' la capsula smise di rollare, e ci preparammo alla terza ondata. — Jerry. — Ess! — Cosa stavi per dirmi? — Perché resto? — Sì. — Difficile parlare di questo, per me, gavey! — Capisco, capisco. Arrivò la terza ondata, e sentii la capsula sollevarsi e urtare la roccia. — Davidge, gavey «vi nessa»! — Ne gavey. — Vi nessa... piccolo me, gavey? La capsula rimbalzò contro le rocce e si fermò. — Piccolo cosa? — Piccolo me... piccolo Drac. Da me, gavey? — Vuoi dire che aspetti un bambino? — Forsemagaripuòdarsi. Scossi la testa. — Un momento, Jerry, voglio capire bene. Stai per avere un bambino... sei incinto? — Ae, bambino. Molto importante, ne? — Spaventosamente. E questo cosa c'entra col fatto che non vuoi andare sull'altra isola? — Prima, io vi nessa gavey? Tean morto. — Il tuo bambino, è morto?
— Ae! — Il sospiro del Drac era come quello di tutte le madri dell'universo. — Io caduto ferito. Tean morto. In mare nasesay sbattere noi. Tean male, gavey! — Ae, gavey. — E così, Jerry aveva paura di perdere un altro bambino. Era quasi certo che il viaggio in mare ci avrebbe sbattuti un bel po', ma restare su quell'isoletta non sembrava una prospettiva certo migliore. La capsula era ferma e decisi di dare un'occhiata fuori. I piccoli finestrini erano coperti di sabbia, e dovetti aprire il portello. Mi guardai intorno. Il muro non esisteva più. Guardai verso il mare ma non riuscii a vedere nulla. — Sembra tutto tranquillo, Jerry... — Alzai gli occhi verso il cielo quasi nero e vidi la cresta di una ondata gigantesca che mi precipitava addosso. — Porca magasienna! — Richiusi precipitosamente il portello. — Ess, Davidge? — Tieniti, Jerry! Il rumore dell'acqua che colpì la capsula fu tanto forte che non riuscii a percepirlo. Urtammo una, due volte contro la roccia, poi sentii la capsula ruotare e sfrecciare verso l'alto. Cercai di aggrapparmi a qualcosa, ma in quel momento la capsula ripiombò in basso. Caddi addosso a Jerry, poi andai a sbattere con la testa contro la parete opposta. Prima di svenire, sentii Jerry gridare: — Tean Vi tean! ...il tenente premette un pulsante, e sullo schermo apparve una figura: alta, umanoide, gialla. — Lurido Drac! — gridò il pubblico di reclute. Il tenente si voltò verso le reclute. — Esatto. Questo è un Drac. Noterete che ha un colore uniforme: i Drac sono tutti gialli. — Usando un raggio di luce, il tenente indicò vari punti del corpo del Drac. — Caratteristica distintiva sono le mani con tre dita, e così pure la faccia senza naso, che dà loro l'aspetto di rospi. Mediamente, la loro vista è migliore di quella umana, l'udito è circa lo stesso, e l'odorato... — il tenente fece una pausa. — L'odorato è terribile! — Il tenente sorrise allo scoppio di risa che si alzò dalle reclute. Quando smisero, puntò il fascio di luce su una piega nella pancia della figura. — Questo è il posto dove il Drac tiene i suoi gioielli di famiglia... tutti quanti. — Altre risate. — Infatti i Drac sono ermafroditi: uno stesso individuo possiede tanto gli organi riproduttivi maschili quanto quelli femminili. — Il tenente guardò le reclute. — Se dite a un Drac di fottersi, state attenti, perché è capacissimo di farlo! — Quando la risata si spense, il tenente indicò lo schermo con una mano. — Se vedete uno di questi animali, cosa fate?
— LO AMMAZZIAMO! ...liberai lo schermo e bloccai il computer sul caccia Drac, che appariva nel mirino come una doppia x. Il Drac virò bruscamente a destra, poi ancora a sinistra. Sentii il pilota automatico guidare il mio apparecchio dietro il caccia, selezionando e scartando le false immagini e cercando di centrare il caccia nel suo mirino elettronico. Avanti faccia di rospo... un po' più a destra... La doppia x entrò nell'anello centrale dello schermo e sentii il missile appeso alla pancia del mio caccia partire. Preso! Attraverso il finestrino vidi l'esplosione. Lo schermo mostrò il caccia Drac perdere il controllo e scendere a spirale verso le nuvole di Fyrine IV. Mi lanciai all'inseguimento per essere sicuro della sua fine... la temperatura dello scafo aumentò, entravo negli strati superiori dell'atmosfera. Forza, scoppia! Misi in funzione i sistemi per il volo atmosferico. Ormai era chiaro che avrei dovuto seguire il caccia Drac fino sulla superficie. Prima di raggiungere le nuvole, il Drac smise di girare su se stesso e invertì la rotta. Esclusi il pilota automatico e tirai tutta la cloche verso di me. Il mio caccia ondeggiò, cercando di puntare verso l'alto. Lo sanno tutti che i caccia Drac sono migliori nell'atmosfera... mi puntava addosso in rotta di collisione... perché quel bastardo non spara?... un attimo prima della collisione, il Drac si gettò con la capsula... il motore si è spento; posso solo controllare la caduta. Seguo la capsula attraverso le nubi... voglio trovare quel bastardo e finirlo... Da minuti, o forse da anni, brancolavo nel buio. Sentivo di toccare qualcosa, ma le parti di me che venivano toccate sembravano lontanissime. Prima dei brividi, poi febbre, poi brividi ancora, e qualcosa di freddo sulla testa. Socchiusi gli occhi e vidi Jerry sopra di me, che mi teneva qualcosa di bagnato sulla testa. — Jerry — riuscii a mormorare. Il Drac mi guardò negli occhi e sorrise. — Buono, Davidge. Buono. La luce che illuminava la faccia di Jerry tremolò, e sentii odore di fumo. — Fuoco. Jerry si fece da parte e indicò il centro della stanza, sul pavimento di sabbia. Girai la testa e mi resi conto che giacevo su un letto di foglie morbide. Di fronte al mio letto ce n'era un altro, e in mezzo scoppiettava un bel fuoco. — Noi fuoco abbiamo, Davidge, e legno. — Jerry indicò il soffitto, fatto di pali, coperti di larghe foglie. Mi guardai intorno, poi lasciai ricadere la testa dolorante e richiusi gli occhi. — Dove siamo? — Grande isola, Davidge. Ondata portato via noi. Vento e onde portato qui. Ragione avevi.
— Non... non capisco. Ne gavey. Ci saranno voluti dei giorni per arrivare qui. Jerry annui, e lasciò cadere una specie di spugna in una conchiglia piena d'acqua. — Nove giorni. Io legato te a nasesay, poi qui su spiaggia noi arrivati. — Nove giorni? Sono restato svenuto per nove giorni? Jerry scosse la testa. — Diciassette. Noi arrivati otto giorni... — Fa... otto giorni fa. — Ae. Diciassette giorni su Fyrine IV equivaleva a più di un mese sulla Terra. Riaprii gli occhi e guardai Jerry. Il Drac pareva eccitatissimo. — Come va tean, il tuo bambino? Jerry si batté sulla pancia ingrossata. — Bene va, Davidge. Nasesay fatto più male di te. Resistetti all'impulso di annuire. — Sono felice per te, davvero. — Chiusi gli occhi e mi girai verso la parete di pali e di foglie. — Jerry? — Ess? — Mi hai salvato la vita. — Ae. — Perché? Per un po' Jerry non disse niente. — Davidge. Su isola tu parlato. Solitudine ora gavey. — Il Drac mi scosse un braccio. — Ecco, mangia ora. Mi voltai e guardai una conchiglia piena di liquido fumante. — Cos'è? Brodo di pollo? — Ess? — Ess va? — Indicai la conchiglia, rendendomi conto per la prima volta di quanto fossi debole. Jerry aggrottò le ciglia. — Come lumacone, ma lungo. — Un'anguilla? — Sì, ma su terra, gavey? — Un serpente. — Forsemagaripuòdarsi. Appoggiai le labbra al bordo della conchiglia. Presi un sorso di brodo, lo inghiottii, e sentii il suo calore benefico diffondersi nello stomaco. — Buono. — Tu custa vuoi? — Ess? — Custa. — Jerry prese da vicino al fuoco un pezzo di pietra qua-
drangolare. La guardai, la grattai con un'unghia, poi la toccai con la lingua. — Sale! Jerry sorrise. — Custa vuoi? Mi misi a ridere. — Servizio completo. Certo, dammi un po' di custa. Jerry prese il pezzo di sale di roccia, ne staccò un angolo con una pietra, e quindi lo macinò contro un'altra pietra. Mi allungò la mano con un mucchietto di granelli bianchi sul palmo. Ne presi due pizzichi, li misi nel brodo di serpente e mescolai col dito. Poi bevvi un lungo sorso. Feci schioccare le labbra. — Favoloso! — Buono, ne? — Meglio che buono; favoloso. — Ne bevvi un altro sorso con grandi schiocchi di labbra e roteare di occhi. — Favoloso, Davidge, ne? — Ae. — Gli feci un cenno con la testa. — Credo che basti. Vorrei dormire. — Ae, Davidge, gavey. — Jerry prese la conchiglia e la mise vicino al fuoco. Si alzò, andò fino alla porta, poi si voltò. I suoi occhi gialli mi studiarono per un istante, poi mi rivolse un cenno con la testa e uscì. Chiusi gli occhi, e lasciai che il calore del fuoco mi cullasse nel sonno. Due giorni dopo, provai ad alzarmi, e dopo altri due Jerry mi aiutò a uscire. La capanna era situata sulla cima di un pendio che saliva dolcemente, in mezzo a un bosco di arbusti e di bassi alberi. Ai piedi del pendio, a più di otto chilometri dalla capanna, c'era il mare. Il Drac mi aveva portato a braccia fin lì. La nostra fedele nasesay si era riempita d'acqua ed era stata trasportata via dal mare poco dopo che Jerry mi aveva portato all'asciutto. Con la capsula se ne erano andati i resti delle razioni di emergenza. I Drac sono molto schizzinosi sul mangiare, ma alla fine la fame aveva indotto Jerry a provare la flora e la fauna locali... La fame e quell'impiccio umano che stava spegnendosi per mancanza di cibo. Il Drac aveva scelto come dieta una radice amidacea e insapore, una bacca che, una volta fatta seccare, produceva un infuso accettabile, e carne di serpente, oltre al sale che aveva trovato per caso. Nei giorni che seguirono, quando ebbi ripreso le forze, aggiunsi alla nostra dieta vari tipi di molluschi marini e un frutto che sembrava una via di mezzo fra una pera e una prugna. Man mano che le giornate si facevano più fredde, io e il Drac fummo costretti ad ammettere che Fyrine IV aveva un inverno. Stabilito questo, dovevamo affrontare la possibilità che l'inverno fosse tanto rigido da impedire la raccolta di cibo e di legna. Le bacche e le radici, seccate vicino al
fuoco, si conservavano bene; provammo anche a salare e ad affumicare la carne di serpente. Usando le fibre di certe piante, cucimmo insieme pelli di serpente per farci dei vestiti invernali: usavamo due strati di pelle, con della lanugine vegetale in mezzo, tenuta a posto trapuntando i due strati. Fummo entrambi d'accordo sul fatto che la capanna non poteva bastare. Ci mettemmo tre giorni a trovare la nostra prima caverna, e altri tre prima di trovarne una adatta. L'imboccatura guardava sul mare eternamente in tempesta, ma era su una scogliera ben al di sopra delle onde. Attorno all'entrata trovammo una grande quantità di legna secca e di pietre. Raccogliemmo la legna da ardere, e con le pietre chiudemmo l'entrata, lasciando solo lo spazio per una porta. Costruimmo dei cardini con pelle di serpente e una porta con dei pali legati assieme per mezzo di fibre vegetali. La prima notte, i venti marini la fecero a pezzi. Decidemmo di tornare al sistema usato sull'isola. Stabilimmo la nostra residenza in profondità, in una camera spaziosa, con il pavimento di sabbia. Ancora più in profondità, vi erano delle pozze di acqua, ottima da bere ma troppo fredda per farci il bagno. Nella camera con le pozze ci mettemmo le provviste. Lungo le pareti, nella zona residenziale, accatastammo la legna da ardere, e ci facemmo dei nuovi letti con pelli di serpente e lanugine. Al centro della camera costruimmo un focolare di discreta grandezza, con una pietra piatta da mettere sopra le braci per graticola. La prima notte in cui dormimmo nella nostra nuova casa, scoprii che non sentivo più il vento. Era la prima volta da che ero finito su quel dannato pianeta. Durante le lunghe notti invernali, sedevamo vicino al fuoco facendo oggetti con le pelli di serpenti: guanti, cappelli, zaini. E parlavamo. Per rompere la monotonia, alternavamo il Drac con l'inglese. Quando venne la prima tempesta di neve, ognuno di noi se la cavava bene con la lingua dell'altro. Parlammo del bambino di Jerry. — Come lo chiamerai, Jerry? — Ha già un nome. Vedi, la famiglia Jeriba ha cinque nomi. Io mi chiamo Shigan; prima di me è venuto mio padre, Gothig; prima di Gothig c'era Haesni; prima di Haesni Ty e prima di Ty Zammis. Il bambino si chiama Jeriba Zammis. — Perché solo cinque nomi? Un bambino umano diventa adulto, può scegliere il nome che gli piace. Il Drac mi guardò con occhi pieni di pietà. — Davidge, come devi sen-
tirti perso. Come dovete sentirvi persi tutti voi umani. — Persi? Jerry annuì. — Da dove vieni, Davidge? — Vuoi dire chi sono i miei genitori? — Sì. Alzai le spalle. — Li ricordo, i miei genitori. — E i loro genitori? — Ricordo il padre di mia madre. Quando ero piccolo andavamo a trovarlo. — Davidge, cosa sai di questo nonno? Mi fregai il mento. — Non ricordo bene... mi pare che si occupasse di agricoltura... non so. — E dei suoi genitori? Scossi la testa. — La sola cosa che ricordo è che fra i miei antenati c'erano degli Inglesi e dei Tedeschi. Gavey Inglesi e Tedeschi? Jerry annuì. — Davidge, io potrei recitare la storia della mia famiglia a partire da uno dei colonizzatori del mio pianeta, Jeriba Ty, centonovantanove generazioni fa. Negli archivi della nostra famiglia, su Draco, ci sono le testimonianze che seguono la nostra famiglia fino al pianeta d'origine della nostra razza, Sindie, e qui indietro per parecchie generazioni fino a Jeriba Ty, il fondatore della famiglia Jeriba. — E com'è che uno diventa un fondatore? — Soltanto il primogenito porta avanti il nome di famiglia. I secondi, i terzi o i quarti nati devono fondare le loro famiglie. Annuii, impressionato. — Perché solo cinque nomi! Solo per poterli ricordare facilmente? Jerry scosse la testa. — No. Noi attribuiamo grande onore ai nomi. Sono solo cinque, e sempre gli stessi, in modo da non oscurare gli eventi che hanno contraddistinto chi li portava. Il mio nome, Shigan, è stato portato da grandi soldati, studiosi, studenti di filosofia, e molti preti. Il nome che porterà mio figlio è stato onorato da scienziati, insegnanti ed esploratori. — Tu ricordi le attività di tutti i tuoi antenati? Jerry annuì. — Sì, e quello che hanno fatto e dove lo fecero. Uno deve recitare i propri antenati nell'archivio di famiglia al raggiungimento dell'età adulta. Io l'ho fatto ventidue anni fa. Zammis farà lo stesso, solo che lui dovrà cominciare a recitare... — Jerry sorrise — col mio nome, Jeriba Shigan. — Tu sai a memoria quasi duecento biografie?
— Sì. Andai a distendermi sul mio letto. Mentre osservavo il fumo che veniva risucchiato da una fessura nel soffitto della grotta, cominciai a capire cosa intendeva Jerry quando aveva detto che dovevo sentirmi perso. Un Drac con parecchie decine di generazioni sempre davanti agli occhi sapeva chi era e a cosa doveva tener fede. — Jerry? — Sì, Davidge? — Me li reciteresti? — Mi voltai a guardare il Drac in tempo per vedere sul suo viso un'espressione di estrema sorpresa trasformarsi in gioia. Fu soltanto dopo molti anni che seppi di aver reso a Jerry un grande onore con quella richiesta. Fra i Drac è una manifestazione di rispetto particolare, non solo verso l'intera famiglia. — Di fronte a voi io recito i miei antenati, io, Jeriba della famiglia Shigan, nato da Gothig, insegnante di musica. Musicista di grande merito, fra i suoi studenti si annoverano Datzizh della famiglia Nem, Perrevane della famiglia Tuscor e molti altri musicisti minori; istruito in musica alla Shimuram, Gothig si presentò agli archivi nell'anno 11.051 e parlò del suo genitore Haesni, il fabbricante di navi... Mentre ascoltavo la recitazione cantilenante di Jerry, le biografie dei suoi antenati, che cominciavano con la morte e finivano con l'ingresso nell'età adulta, provai un senso di smarrimento temporale, come se fossi capace di toccare il passato. Battaglie, imperi costruiti e distrutti, scoperte e grandi imprese... una cavalcata attraverso duemila anni di storia, percepiti come una continuità viva e ben definita. Facciamo il confronto: Di fronte a voi io recito i miei antenati, io, Willis dei Davidge, nato da Sybil la casalinga e da Nathan, ingegnere civile di seconda classe, nato dal nonno, il quale probabilmente aveva qualcosa a che fare con l'agricoltura, nato chissà da chi... Al diavolo, non poteva dire neanche quello: era mio fratello maggiore a portare avanti il nome della famiglia, non io. Mentre lo ascoltavo, decisi che mi sarei fatto insegnare da Jerry la storia della sua famiglia. Parlammo della guerra. — È stato un bel trucco quello di attirarmi nell'atmosfera per poi speronarmi. Jerry si strinse nelle spalle. — I piloti Drac sono i migliori. Si sa. Inarcai le sopracciglia. — È per questo che ti ho bruciato la coda, eh? Jerry alzò le spalle, aggrottò le ciglia, e continuò a cucire pelli di serpente. — Perché i terrestri vogliono invadere questa parte della Galassia,
Davidge? Abbiamo avuto migliaia di anni di pace prima del vostro arrivo. — Ma siete stati voi ad invadere questa zona. Anche noi eravamo in pace. Che cosa ci fate qui? — Ci stabiliamo su nuovi pianeti. È la tradizione Drac. Siamo esploratori e fondatori. — E bravo, faccia di rospo, e noi chi ti credi che siamo? Delle donne di casa? Noi umani abbiamo scoperto la propulsione interstellare da meno di duecento anni, ma abbiamo colonizzato il doppio dei pianeti che avete colonizzato voi... Jerry alzò un dito. — Proprio così! Voi umani vi diffondete come un'epidemia. Ne abbiamo abbastanza di voi! — E invece siamo qui e intendiamo restarci! Sentiamo, cosa avete intenzione di fare? — Lo vedi cosa abbiamo intenzione di fare, Irkmaan: combattiamo! — Puah! Tu lo chiami un combattimento quella scaramuccia? Accidenti, Jerry, non farmi ridere, con quelle vostre bagnarole... — Ah, Davidge! È per questo che te ne stai qui a masticare carne di serpente! Tirai fuori il pezzo di carne dura che avevo in bocca e lo puntai verso Jerry. — Mi pare che anche il tuo fiato puzzi di serpente, Drac. Jerry sbuffò e voltò le spalle al fuoco. Mi sentii uno stupido: primo, perché non potevamo risolvere noi due una contesa che funestava cento pianeti da più di un secolo. Secondo, perché volevo che Jerry controllasse la mia recitazione. Aveva mandato a memoria più di cento generazioni. Il Drac si era messo di sbieco rispetto al fuoco, e la luce era sufficiente per mostrare che stava cucendo qualcosa. — Jerry, cosa stai facendo? — Non ho niente da dirti, Davidge. — Su, non fare così. Dimmi cos'è. Jerry voltò la testa per guardarmi, poi prese un vestitino di pelle di serpente. — Per Zammis. — Jerry sorrise. Io scossi la testa e mi misi a ridere. Parlammo di filosofia. — Tu hai studiato Shizumaat, Jerry; perché non mi dici qualcosa dei suoi insegnamenti? Jerry aggrottò le ciglia. — No, Davidge. — Perché? È un segreto, o qualcosa del genere? Jerry scosse la testa. — No, ma lo onoriamo troppo per parlarne. Mi fregai il mento. — Vuoi dire per parlarne in generale, o per parlarne con un
umano? — Non con gli umani, Davidge. Con te. — Perché? Jerry sollevò la testa e strinse gli occhi. — Non ti ricordi più quello che mi hai detto, sull'isola? Mi grattai la testa. Mi ricordo vagamente di aver detto qualcosa sulle abitudini culinarie di Shizumaat. Spalancai le braccia. — Ma Jerry, ero infuriato. Non puoi ritenermi responsabile per quello che ho detto. — E invece sì. — Cambierebbe qualcosa se mi scusassi? — No. Mi trattenni dal dire qualcosa di offensivo, e ripensai a quel giorno, in cui io e Jerry eravamo pronti a farci la pelle a vicenda. Mi ricordai di un particolare, e dovetti fare uno sforzo per non sorridere. — Mi spiegherai gli insegnamenti di Shizumaat, se io ti perdono... per quello che hai detto di Topolino? — Chinai la testa fingendo reverenza, ma in realtà per non farmi vedere a ridere. Jerry mi guardò con aria contrita. — Mi sono sempre sentito in colpa per quella cosa, Davidge. Se mi perdoni, ti parlerò di Shizumaat. — Ti perdono, Jerry. — Un'altra cosa. — Cosa? — Tu devi spiegarmi gli insegnamenti di Topolino. — Sì, ... cercherò di fare del mio meglio. Parlammo di Zammis. — Jerry, cosa vuoi che faccia da grande? Il Drac alzò le spalle. — Zammis deve fare onore al nome che porta. È il massimo che posso chiedere. — Zammis sceglierà quello che vorrà? — Sì. — Ma c'è qualcosa che ti piacerebbe che facesse? Jerry annuì. — Sì, c'è. — E cos'è? — Che un giorno o l'altro se ne andasse da questo schifoso pianeta. Annuii. — Amen. — Amen. L'inverno non accennava a finire. Io e Jerry cominciammo a chiederci se per caso non eravamo capitati all'inizio di un'era glaciale. Fuori dalla ca-
verna, tutto era coperto da uno spesso strato di ghiaccio; il freddo e il vento ininterrotto rendevano l'avventurarsi fuori una sfida alla morte, per caduta o per congelamento. Tuttavia, per mutuo accordo, uscivano entrambi per fare i nostri bisogni. C'erano parecchie camere isolate nella profondità della caverna, ma avevamo paura di inquinare la nostra riserva d'acqua; per non parlare dell'aria. Il rischio più grave uscendo, era quello di calarsi le braghe mentre soffiava un vento talmente gelido da gelarci il fiato prima che potessimo soffiarlo fuori dalla maschera che c'eravamo fabbricati con la tela delle nostre tute. Imparammo a non perdere tempo. Una mattina, Jerry era fuori per un bisogno urgente, mentre io preparavo una pasta di radici secche e di acqua per fare delle frittelle. Sentii Jerry chiamarmi dall'entrata. — Davidge! — Cosa c'è? — Vieni subito, Davidge! Una nave! Doveva essere una nave! Appoggiai sulla sabbia la conchiglia che mi serviva da recipiente, mi infilai guanti e cappello, e corsi verso il passaggio. Prima di uscire mi allacciai sulla bocca la maschera. Jerry, bardato come me, era sulla soglia. — Cosa succede? Jerry si fece da parte. — Guarda! La luce del sole. Il cielo azzurro e la luce del sole. Lontano, sul mare, si stavano accumulando nuove nuvole, ma sopra di noi il cielo era sereno. Non potevamo guardare direttamente il sole, ma voltammo le facce ai suoi raggi e li sentimmo scaldarci la pelle. La luce si rifletteva abbagliante sulle rocce e sugli alberi coperti di ghiaccio. — È meraviglioso. — Sì. — Jerry mi prese per la manica. — Davidge, sai cosa vuol dire? — Cosa? — Possiamo fare dei segnali di fuoco, la notte. In una notte serena un grosso fuoco potrebbe essere avvistato dallo spazio, ne? Guardai Jerry, poi ancora il cielo. — Non saprei. Se il fuoco fosse grande abbastanza, e la notte serena, e se qualcuno guardasse da questa Parte... — Crollai la testa. — Sempre supponendo che ci sia qualcuno in orbita. — Cominciai a sentirmi le dita intirizzite. — È meglio che rientriamo. — Davidge, è una possibilità! — E cosa useremo per fare il fuoco? — Indicai con il braccio gli alberi attorno e sopra la caverna. — Hanno sopra almeno quindici centimetri di ghiaccio. — Nella caverna... — La nostra legna? — scossi la testa. — Che ne sappiamo di quanto du-
rerà ancora questo inverno? Sei sicuro che possiamo sprecare legname? — È una possibilità, Davidge! Più che una possibilità, era un rischio. Alzai le spalle. — Perché no? Passammo le ore seguenti a trasportare fuori un quarto delle nostre preziose riserve. Quando finimmo, e molto prima che arrivasse la notte, sul cielo era tornata a stendersi una cortina di nubi, grigia e uniforme. Ogni notte, da allora, a più riprese, scrutammo il cielo sperando di vedere le stelle. Durante il giorno, dovevamo passare parecchie ore a battere sulla pila di legna per liberarla dal ghiaccio. Ma ci dava speranza. Finché, un giorno, la legna nella caverna finì, e dovemmo cominciare a prelevarla dal mucchio preparato per il segnale. Quella notte, per la prima volta, il Drac sembrò completamente sconfitto. Sedeva di fronte al fuoco, fissando le fiamme. Infilò una mano sotto la giacca di pelle, e tirò fuori un piccolo cubo d'oro appeso al collo con una catena. Strinse il tubo fra le mani, chiuse gli occhi, e cominciò a mormorare sotto voce in drac. Lo osservai dal mio letto finché non ebbe finito. Il Drac sospirò, fece un cenno col capo e si rimise il cubo sotto la giacca. — Che cos'è? Jerry mi guardò, aggrottò le ciglia e si toccò il davanti della giacca. — Questo? È il mio Talman... quello che voi chiamate Bibbia. — La Bibbia è un libro. Con delle pagine, che si leggono. Jerry tirò fuori il cubo, mormorò una frase in drac, poi aprì una piccola serratura. Dal primo cubo ne uscì un altro, pure d'oro. Il Drac me lo porse. — Trattalo con grande cura, Davidge. Mi alzai a sedere, presi il cubo e lo esaminai alla luce del fuoco. Tre quadrati di metallo dorato, con delle cerniere, formavano le copertine e la costa di un libro grande due centimetri e mezzo. Aprii il libro. Sulle pagine c'erano due colonne di punti, di linee e di scarabocchi. — È drac? — Certo. — Non so leggerlo. Jerry alzò le sopracciglia. — Parli il drac così bene, che mi ero dimenticato... vuoi che ti insegni? — A leggere questo? — E perché no? Hai un appuntamento urgente? — No. — Appoggiai un dito al bordo e cercai di girare le pagine. Ne sollevai almeno cinquanta insieme. — Non riesco a separare le pagine. Jerry indicò un piccolo rigonfiamento alla sommità della costa. — Tira fuori l'ago. Serve a girare le pagine.
Tirai fuori un ago, lo appoggiai sulla pagine e questa si sollevò e girò. — Chi ha scritto il Talman, Jerry? — Molti. Tutti grandi maestri. — Shizumaat? Jerry annuì. — Shizumaat è uno. Chiusi il libro e lo tenni sul palmo della mano. — Jerry, perché l'hai tirato fuori adesso? — Ne avevo bisogno. — Il Drac spalancò le braccia. — Forse invecchieremo e moriremo in questo posto. Forse non ci troveranno mai. L'ho capito oggi, mentre portavamo dentro la legna. — Jerry si mise una mano sulla pancia. — Zammis nascerà qui. Il Talman mi aiuta ad accettare ciò che non posso mutare. — Quanto manca? Jerry sorrise. — Poco. Guardai il piccolo libro. — Mi piacerebbe che mi insegnassi a leggerlo, Jerry. Il Drac si levò dal collo la scatola con la catena e me la porse. — Devi tenere il Talman qui dentro. Presi la scatola d'oro e la guardai per un momento. Poi scossi la testa. — Non posso, Jerry. È troppo importante per te. E se lo perdessi? — Non lo perderai. Tienilo mentre impari. Lo scolaro deve fare così. Mi misi la catenella intorno al collo. — Mi fai un grande onore. — Sempre meno di quello che tu fai a me imparando a memoria l'albero genealogico Jeriba. La tua recitazione è precisa e commovente. — Jerry prese dei carboni dal fuoco e andò a una delle pareti. Quella notte imparai le trentun lettere dell'alfabeto Drac, e altre nove lettere nella scrittura formale. La legna finì. Jerry era molto grosso, e stava molto male, nei giorni che precedettero l'apparizione di Zammis. Riusciva a stento ad uscire, con il mio aiuto, per i suoi bisogni. Così la raccolta della legna, che consisteva nel prendere a bastonate gli alberi per liberarli dal ghiaccio, ricadde su di me, come pure il far da mangiare. In una giornata particolarmente tempestosa, mi accorsi che il ghiaccio sugli alberi era più sottile. Da qualche parte, dovevamo aver girato l'angolo dell'inverno, e ci stavamo dirigendo verso la primavera. Durante tutta la bastonatura dell'albero mi sentii meglio, e immaginavo che anche Jerry avrebbe accolto con gioia la notizia. L'inverno lo stava abbattendo molto. Stavo trasportando una bracciata di legna nella caverna, quando udii un
grido. Mi guardai intorno, raggelato. Non vedevo altro che il mare e il ghiaccio intorno a me. Poi ancora il grido. — Davidge! — Era Jerry. Lasciai cadere la legna e corsi lungo il sentiero che scendeva verso la caverna. Jerry urlò ancora; io scivolai e rotolai fino alla cornice su cui si apriva l'ingresso della caverna. Mi precipitai dentro, e raggiunsi la camera. Jerry si contorceva sul letto, con le dita che scavavano nella sabbia. Mi inginocchiai vicino al Drac. — Sono qui, Jerry. Cosa c'è? Stai male? — Davidge! — Il Drac roteò gli occhi senza vedere niente. Boccheggiò, poi la voce gli esplose in un grido. — Jerry! Sono io. — Lo scossi per la spalla. — Sono io, Jerry! Davidge! Jerry voltò la testa dalla mia parte, fece una smorfia, poi mi afferrò per il polso con la forza del dolore. — Davidge... Zammis... qualcosa non va! — Cosa? Cosa posso fare? Jerry gridò ancora, poi la testa gli ricadde sul letto. Il Drac si riprese e mi tirò la testa vicino alle labbra. — Davidge, devi giurare. — Cosa devo giurare, Jerry? — Zammis... su Draco. Di presentarti agli archivi di famiglia. Fallo. — Cosa dici? Parli come se dovessi morire. — Sto morendo, Davidge. Zammis è la duecentesima generazione... molto importante. Presenta mio figlio, Davidge! Giuralo! Mi asciugai la faccia dal sudore con la mano libera. — Non morirai, Jerry. Forza! — Basta! Guarda in faccia la realtà, Davidge! Sto morendo! Tu devi insegnare la genealogia Jeriba a Zammis... e il libro, il Talmen, gavey? — Smettila! — Il panico mi stava addosso quasi come una presenza fisica. — Smettila di parlare così. Non morirai, Jerry. Forza, combatti, kizlode, bastardo... Jerry urlò. Respirava debolmente, e stava perdendo conoscenza. — Davidge... — Come? — Mi resi conto che singhiozzavo come un bambino. — Davidge, devi aiutare Zammis a uscire. — Cosa... come? Cosa diavolo stai dicendo? Jerry voltò la faccia verso la parete. — Sollevami la giacca. — Cosa? — Sollevami la giacca, Davidge. Sollevai la giacca di pelle, scoprendogli la pancia gonfia. La piega che aveva in mezzo era rosso vivo, e ne usciva un liquido chiaro. — Cosa... cosa devo fare?
Jerry respirò rapidamente, poi trattenne il fiato. — Aprila. Devi aprirla, Davidge! — No! — Fallo, o Zammis muore! — E che mi importa del tuo maledetto bambino, Jerry. Cosa devo fare per salvare te? — Aprila... — mormorò il Drac. — Prenditi cura del mio bambino, Irkmaan. Presenta Zammis agli archivi Jeriba. Giuramelo. — Oh, Jerry... — Giuralo! Annuii, mentre grosse lacrime calde mi rotolavano giù dalle guancie. — Lo giuro... — Jerry mi lasciò andare il polso e chiuse gli occhi. Mi chinai sul Drac, come instupidito. No. No, no! Aprila! Devi aprirla, Davidge! Allungai una mano e toccai la piega sulla pancia di Jerry. Sentii la vita, lì sotto, che lottava per uscire dalla prigione senza aria del ventre. La odiai; odiai quella dannata cosa più di quanto avessi mai odiato in vita mia. I suoi sforzi si fecero più deboli, poi cessarono. Presenta Zammis agli archivi Jeriba. Giuramelo... Lo giuro... Allungai l'altra mano, infilai i pollici nella piega e tirai leggermente. Tirai con più forza, poi strappai la pancia di Jerry furiosamente. Dalla piega uscì un fiotto di liquido chiaro, che mi inzuppò la giacca. Potevo vedere la forma di Zammis, immersa nel liquido, immobile. Vomitai. Quando non mi restò più niente nello stomaco, infilai le mani nella pancia e tirai su il bambino. Mi pulii la bocca sulla spalla e l'appoggiai su quella di Zammis, tenendogli aperte le labbra con le dita di una mano. Gli respirai nei polmoni più volte. Lui tossi. Poi pianse. Legai i due cordoni ombelicali con delle fibre, poi li tagliai. Zammis era libero dalla carne morta del suo genitore. Sollevai la pietra sulla testa, poi la calai con tutte le mie forze. Frammenti di ghiaccio volarono da tutte le parti, mettendo a nudo la terra scura. Sollevai di nuovo la pietra, la calai, e liberai così un'altra pietra. La presi e la portai sul corpo mezzo sotterrato del Drac. — Il Drac — mormorai. Bene. Chiamalo Drac. Chiamalo faccia di rospo. Il nemico. Chiamalo in qualunque modo, basta non risvegliare il dolore. Guardai la pila di rocce che avevo raccolto, e decisi che erano abbastanza. Mi inginocchiai vicino alla fossa. Mentre ammucchiavo le pietre,
incurante del nevischio che mi si gelava sulla giacca, dovetti lottare contro le lacrime. Battei le mani l'una contro l'altra, per riattivare la circolazione. La primavera stava arrivando, ma era ancora pericoloso restare troppo all'aperto. E ci avevo messo un bel po' per scavare la tomba al Drac. Presi un'altra pietra e la misi a posto. Mentre l'appoggiavo sulla coperta di pelle, mi accorsi che il Drac era già gelato. Sistemai in fretta le ultime pietre e mi alzai. Il vento mi fece barcollare, e per poco non scivolai sul ghiaccio. Guardai verso il mare in tempesta, mi strinsi intorno al corpo la giacca, poi guardai la pila di rocce. Dovrei dire qualcosa. Non si sotterra uno, e poi si va a mangiare come se niente fosse. Dovrei dire qualcosa. Ma cosa? Non ero religioso, e neppure il Drac lo era stato. La sua filosofia, riguardo alla morte, si accordava con il mio ripudio informale delle delizie islamiche, del Valhalla pagano e del paradiso giudeo-cristiano. La morte è la morte; finis. Buoni per i vermi... Eppure, dovrei dire qualcosa. Infilai una mano sotto la giacca e strinsi il cubo d'oro del Talman. Sentii gli spigoli attraverso i guanti; chiusi gli occhi e ripensai alle parole dei grandi filosofi Drac. Ma non c'era niente fra quello che avevano scritto di adatto a un momento come questo. Il Talman era un libro sulla vita. Talma significa vita, e di questo si occupa la filosofia Drac. La morte non li interessa. La morte è un fatto: la fine della vita. Il Talman non aveva parole da suggerirmi. Il vento mi sferzava, facendomi rabbrividire. Già cominciavo a non sentirmi più le dita, e i piedi mi facevano male. Eppure dovevo dire qualcosa. Ma le sole parole a cui potevo pensare avrebbero aperto i cancelli del dolore, della consapevolezza che il Drac se n'era andato. Eppure... eppure dovrei dire qualcosa. — Jerry, io... — Non avevo parole. Voltai le spalle alla tomba, con le lacrime che si mescolavano al nevischio. Nel calore e nel silenzio della caverna mi sedetti sul materasso, appoggiando la schiena alla parete. Cercai di perdermi fra le luci e le ombre che il fuoco gettava sulla parete di fronte. Delle immagini si formavano, poi svanivano prima che la mia mente potesse vederci qualcosa. Quand'ero bambino avevo l'abitudine di guardare le nuvole, scoprendo in esse facce, castelli, animali, draghi e giganti. Era un mondo irreale, qualcosa che aggiungeva un po' di meraviglia e di avventura nel mondo banale di un ragazzo della classe media. Tutto quello che riuscivo a vedere sulla parete della caverna erano immagini dell'inferno: fiamme che consumavano grottesche rappresentazioni di anime dannate. Mi misi a ridere, pensandoci. Si
pensa all'inferno come a un luogo infuocato, con a capo un sadico ghignante vestito di rosso. Fyrine IV mi aveva insegnato questo: che l'inferno è solitudine, fame, e freddo senza fine. Sentii un lamento, e scrutai nel buio, verso il piccolo materasso in fondo alla caverna, quello che Jerry aveva preparato per Zammis. Si lamentò ancora. Forse voleva qualcosa. Ebbi un momento di panico. Cosa mangia un neonato Drac? I Drac non sono mammiferi. Durante l'addestramento, tutto quello che ci avevano insegnato era come riconoscere i Drac... e come ammazzarli. Cominciavo ad avere paura. — Cosa diavolo uso per pannolini? Un altro lamento. Mi misi in piedi, e andai al suo fianco. Mi inginocchiai. Da un fagotto costituito dalla vecchia tuta di Jerry, spuntavano due braccine tozze, con tre dita. Presi il fagotto, lo portai vicino al fuoco e mi sedetti su una roccia, tenendolo in grembo. Lo aprii cautamente. Gli occhi di Zammis brillavano, gialli sotto le sopracciglia gialle, pesanti di sonno. Dalla faccia, quasi senza naso, ai denti, al colore, Zammis era in tutto e per tutto una miniatura di Jerry, tranne che per il grasso. Zammis nuotava letteralmente nel grasso. Lo girai e vidi con sollievo che non si era sporcato. Lo guardai in faccia. — Vuoi qualcosa da mangiare? — Guh. Le mascelle erano pronte, e ne dedussi che i Drac mangiavano cibi solidi fin dal primo giorno di vita. Presi un pezzo di carne di serpente e le appoggiai alle labbra del bambino. Zammis girò la testa. — Su, mangia. Non troverai niente di meglio, qui. Gli infilai di nuovo la carne fra le labbra. Zammis allungò un braccio e lo spinse via. Alzai le spalle. — Be', si vede che non hai ancora fame abbastanza. — Guh meh! — Agitò la testa, e con la manina mi strinse un dito, lamentandosi. — Non vuoi mangiare, non devi essere pulito, e allora cosa vuoi? Kos va nu? Zammis fece una smorfia e mi tirò il dito. Con l'altra mano annaspò verso il mio petto. Lo presi in braccio per sistemare la tuta, e lui mi afferrò con le mani la giacca e si tirò contro di me. Lo tenni stretto, e lui mi appoggiò la guancia sul petto. Dopo un attimo, si era addormentato. — Be'...che mi venga... Prima della scomparsa di Jerry, non mi ero mai reso conto di quanto fossi vicino alla pazzia. La mia solitudine era come un cancro, che io nutrivo
di odio: odio per il pianeta, col suo freddo che non finiva mai, i venti che non finivano mai, quell'isolamento che non finiva mai; odio Per quel bambino giallo, con il suo disperato bisogno di cure, di cibo, di un affetto che non gli potevo dare. E odiavo me stesso. Mi scoprivo a fare cose che mi spaventavano e mi disgustavano. Per rompere il muro soffocante della solitudine, parlavo, gridavo, cantavo; lanciavo maledizioni e frasi senza senso, o grugniti. Aveva gli occhi aperti. Agitò le braccia e fece dei versi. Presi una grossa pietra, gli andai vicino e la tenni sospesa su di lui. — Se la lasciassi cadere, dove andresti a finire tu? — Mi sentii in gola una risata, e gettai via la pietra. — E perché dovrei sporcare la caverna? Fuori. Basta che ti metta fuori un minuto e moriresti. Hai capito? Moriresti! Lui agitò le mani nell'aria, chiuse gli occhi e scoppiò a piangere. — Perché non mangi? Perché non fai la cacca? Sai solo piangere? — Lui si mise a piangere ancora più forte. — Bah! Dovrei prendere quella pietra e farla finita. Ecco cosa dovrei fare... — Mi interruppi, con un senso di repulsione. Andai al mio materasso, presi guanti e cappello, e mi preparai a uscire. Sentii il vento ancora prima di arrivare all'entrata della caverna. Una volta fuori, mi fermai e guardai il cielo e il mare: un panorama di neri, di bianchi, di grigi e di grigi. Una folata di vento mi fece barcollare e mi rigettò verso l'ingresso. Ripresi l'equilibrio, andai fino all'orlo del dirupo e scossi il pugno verso il mare. — Avanti, soffia! Soffia, kizlode figlio di puttana! Non mi hai ancora ammazzato! Serrai gli occhi, arrossati dal vento, poi li riaprii e guardai in basso. C'erano quaranta metri fino alla cornice inferiore, ma se prendevo la rincorsa e saltavo, poteva superarla. Scossi la testa, rivolto al mare. — Non ho intenzione di farti un favore! Se mi vuoi morto, dovrai farlo con le tue mani. Mi guardai alle spalle, sopra la caverna. Il cielo si stava oscurando, e fra poche ore la notte sarebbe calata. Presi il sentiero che conduceva ai bosco. Mi accucciai vicino alla tomba del Drac e studiai le rocce che avevo accumulato, già fuse assieme da uno strato di ghiaccio. — Jerry, cosa devo fare? Il Drac sedeva vicino al fuoco. Eravamo tutt'e due intenti a cucire. — Sai, Jerry — dissi sollevando il Talman. — Queste robe le ho già sentite. Mi aspettavo qualcosa di nuovo. Il Drac mise giù il lavoro e mi osservò per un momento. Poi scosse la testa e riprese a cucire. — Non sei una creatura molto profonda, Davidge.
— Cosa vorresti dire? Jerry sollevò una mano. — Davidge, qui fuori c'è un universo, un universo di vita, di oggetti, di avvenimenti. Ci sono differenze, ma è tutto contenuto nello stesso universo, e tutti noi dobbiamo obbedire alle stesse leggi universali. Ci avevi mai pensato? — No. — È appunto questo che volevo dire, Davidge. Non sei molto profondo. Sbuffai. — Ti ho detto che le ho già sentite queste cose. Questo vuol dire che gli umani sono profondi quanto i Drac. Jerry rise. — Insisti sempre nell'intendere le mie affermazioni in maniera razzista. Quello che ho detto si applica a te, non alla razza umana... Sputai sul terreno gelato. — Voi Drac credete di essere molto furbi. — Il vento rinforzò, e sentii il sapore della salsedine. Stava arrivando una tempesta. Il cielo aveva assunto quella curiosa sfumatura che mi ricordava il blu della mezzanotte, piuttosto che il nero. Un pezzettino di ghiaccio mi si infilò sotto il colletto. — Che c'è di male se sono quello che sono? Non c'è mica bisogno che tutti quanti nell'universo facciano i filosofi, faccia di rospo! — C'erano milioni, miliardi di esseri come me. Forse di più. — Che differenza fa se medito sull'esistenza oppure no? Esisto, e tanto mi basta. — Davidge, tu non conosci neppure i tuoi ascendenti al di là dei tuoi genitori, e adesso dici che ti rifiuti di conoscere quello che puoi sull'universo. Come potrai sapere qual è il tuo posto nell'esistenza, Davidge? Dove sei? Chi sei? Scossi la testa, guardando la tomba, poi mi voltai verso il mare. Fra un'ora o anche meno, sarebbe stato troppo buio per vedere le creste delle onde. — Io sono io, ecco chi sono. — Ma ero io quello che aveva minacciato Zammis con la pietra, un bambino indifeso? Mi sentii gelare le viscere. Era come se la solitudine avesse messo artigli e zanne, e stesse dilaniando le poche parti ancora sane della mia mente. Voltai le spalle alla tomba, chiusi gli occhi, poi li riaprii. Sono un pilota di caccia, Jerry. Non è abbastanza? Questo è quello che fai, Davidge; non quello che sei. Mi inginocchiai vicino alla tomba e strinsi fra le mani le pietre coperte di ghiaccio. — Sta' zitto, Drac! Sei morto! — Mi fermai, rendendomi conto che le parole che avevo sentito erano tratte dal Talman, e adattate alla mia
situazione. Mi accasciai sulle rocce, poi, sotto la sferza del vento, mi rialzai. — Jerry, Zammis non vuol mangiare. Sono tre giorni ormai. Cosa devo fare? Perché non mi hai detto niente sui neonati Drac prima di... — Mi coprii la faccia con le mani. — Calma, ragazzo. Fatti forza, e tutto andrà bene. — Il vento mi soffiava contro la schiena. Abbassai le mani e tornai alla caverna. Alla fine lo scoprii all'imboccatura della caverna, che puntava dritto di fuori. Ne avevo abbastanza. Fabbricai una bardatura di pelli di serpente, con un guinzaglio dello stesso materiale che legai a una sporgenza della roccia. Zammis continuava a ficcarsi dappertutto, ma almeno sapevo dove trovarlo. Quattro giorni dopo aver imparato a camminare, volle mangiare. I piccoli Drac sono probabilmente i bambini più discreti e comodi dell'universo. Vivono del proprio grasso per circa tre o quattro settimane terrestri, e per tutto quel tempo non sporcano. Dopo che hanno imparato a camminare, e possono quindi arrivare a un posto adatto ai loro bisogni, allora vogliono il cibo. Mostrai una volta a Zammis la cassettina che avevo preparato per lui, e non dovetti più farlo. Dopo cinque o sei lezioni, Zammis era capace di pulirsi da solo. Osservando il piccolo Drac che cresceva, cominciai a capire quei piloti della mia squadra che mostravano a tutti quelli che capitavano loro a tiro innumerevoli fotografie di brutti bambini, accompagnate ognuna da una spiegazione di mezz'ora. Prima che il ghiaccio si sciogliesse, Zammis aveva cominciato a parlare. Gli insegnai a chiamarmi zio. In mancanza di un termine migliore, chiamai primavera la stagione in cui il ghiaccio si scioglieva. Ma ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che gli alberi mostrassero del verde, e che i serpenti si avventurassero fuori dalle loro tane. Il cielo continuava a essere coperto da una cortina di nubi scure e minacciose, ogni tanto nevicava, e la neve di notte si trasformava in ghiaccio. Ma il giorno dopo, il ghiaccio si scioglieva, e il calore dell'aria penetrava per un altro millimetro nel suolo. Mi resi conto che era ora di cominciare a raccogliere la legna. Io e Jerry, lavorando assieme, non ne avevamo raccolta abbastanza, l'anno prima. La breve estate avrei dovuto passarla a mettere da parte il cibo. Speravo di costruire una porta vera e propria all'ingresso della caverna, e mi ripromisi di escogitare un sistema per liberarci dai nostri rifiuti senza dover uscire. Fare i propri bisogni all'aperto, nel mezzo dell'inverno, poteva essere pericoloso. La mia mente era piena di progetti, mentre mi stendevo sul materasso, osservando il fumo che saliva attraverso la fessura del soffitto. Zammis era sul retro della caverna, a giocare con delle pietre. Mi addormentai, e venni
svegliato dal piccolo che mi tirava per un braccio. — Zio? — Eh? — Zio, guarda. Mi voltai su un fianco. Zammis teneva una mano alzata, con le dita aperte. — Cosa c'è, Zammis? — Guarda. — Si toccò a una a una le dita. — Uno, due, tre. — E allora? — Guarda. — Mi prese la mano e mi fece allargare le dita. — Uno, due, tre, quattro, cinque! Annuii. — Bravo, sai contare fino a cinque. Il Drac aggrottò le ciglia e fece un gesto di impazienza con i piccoli pugni. — Guarda. — Mi prese la mano e vi mise sopra la sua. Con l'altra, indicò prima una delle sue dita, poi una delle mie. — Uno, uno. — I suoi occhi gialli mi fissarono per vedere se capivo. — Sì. Il bambino indicò ancora. — Due, due. — Mi guardò, poi tornò a indicare sulla mano. — Tre, tre. — Afferrò le due dita che mi rimanevano. — Quattro, cinque! — Lasciò cadere la mia mano, e indicò il fianco della sua. — Quattro cinque? Scossi la testa. Zammis, a meno di quattro mesi, aveva individuato una delle differenze fra i Drac e gli uomini. Un bambino umano ci avrebbe messe cinque, sei, forse sette anni prima di cominciare a fare domande del genere. Sospirai. — Zammis. — Sì, zio? — Zammis, tu sei un Drac. I Drac hanno solo tre dita per mano. — Alzai la mano e mossi le dita. — Io sono umano, e ne ho cinque. Giuro che mi sembrò di vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime. Alzò le mani, le guardò, poi scosse la testa. — Crescono quattro e cinque? Mi alzai e fissai il bambino. — Vedi, Zammis, io e te siamo diversi... esseri di tipo diverso, capisci? Zammis scosse la testa. — Crescono quattro e cinque? — No. Tu sei un Drac. — Mi puntai un dito contro il petto. — Io sono un uomo. — In quel modo non sarei approdato a molto. — Il tuo genitore, quello da cui sei nato, era un Drac, capisci? Zammis aggrottò le ciglia. — Quale Drac? Sentii la tentazione di ricorrere al vecchio espediente di dire: Capirai quando sarai più grande. Scossi la testa. — I Drac hanno tre dita per ma-
no. Il tuo genitore aveva tre dita per mano. — Mi fregai la barba. — Il mio genitore era un uomo e aveva cinque dita per mano. Ecco perché io ho cinque dita. Zammis si inginocchiò sulla sabbia e si studiò le dita. Mi guardò, poi si guardò le dita, poi mi guardò ancora. — Quale genitore? Mi resi conto che Zammis doveva avere una specie di crisi di identità. Io ero la sola persona che avesse mai conosciuto, e avevo cinque dita per mano. — Un genitore è... quello che... — Mi grattai ancora una volta la barba. — Senti, noi tutti veniamo da qualche parte. Io avevo una madre e un padre... sono due tipi diversi di umani... che mi hanno dato la vita; mi hanno fatto, capisci? Zammis mi diede un'occhiata che sembrava voler dire: Questo ha qualche rotella fuori posto. Alzai le spalle. — È difficile da spiegare. Zammis si indicò il petto. — Mio padre? Mia madre? Allargai le braccia, me le misi in grembo, mi morsicchiai le labbra, mi grattai la barba, insomma, cercai di prendere tempo. Zammis non mi staccò un attimo gli occhi di dosso. — Senti, Zammis, tu non hai un padre e una madre. Io sono un uomo e ce li ho. Tu sei un Drac e hai un solo genitore... capito? Zammis scosse la testa. Mi guardò, poi si indicò il petto. — Drac. — Giusto. Zammis indicò me. — Umano. — Bravo. Zammis abbassò la mano. — Da dove vengono i Drac? Buon Dio! Adesso mi toccava spiegare la riproduzione ermafroditica a un bambino di quattro mesi! — Zammis... — Alzai le braccia, poi le lasciai cadere. — Senti, lo vedi che io sono molto più grande di te? — Sì, zio. — Bene. — Mi passai le dita fra i capelli, cercando di guadagnare tempo e di trovare l'ispirazione. — Il tuo genitore era grande, come me. Si chiamava... Jeriba Shigan. — Era strano come fosse doloroso solo pronunciare quel nome. — Jeriba Shigan era come te. Aveva solo tre dita per mano. Tu sei cresciuto nella pancia. — Gli battei col dito sulla pancia. — Capito? Zammis rise, tenendosi lo stomaco. — Zio, come crescono qui i Drac? Rimisi le gambe sul materasso e mi distesi. Come nascono i piccoli Drac? Guardai il piccolo, e vidi che pendeva dalle mie labbra. Feci una smorfia e gli dissi la verità. — Che mi venga un accidente se lo so. — Trenta secondi dopo, Zammis era tornato a giocare con le sue pietre.
Per l'estate, avevo insegnato a Zammis come catturare i lunghi serpenti grigi, e come affumicare la carne. Si sedeva ai bordi di una pozza di fango, con gli occhi gialli fissi sui buchi nel terreno, aspettando che uno degli occupanti delle tane mettesse fuori la testa. Il vento poteva soffiare, ma Zammis non si muoveva. Poi appariva una testa piatta, triangolare, con gli occhietti blu. Il serpente controllava la pozza, si girava, controllava la riva, poi il cielo. Usciva ancora un po' dal buco, e ricontrollava da capo. Spesso il serpente fissava Zammis direttamente negli occhi, ma il Drac pareva scolpito nella pietra. Zammis non si muoveva finché il serpente non era uscito tanto da non poter rientrare per la coda. Allora con una mossa fulminea lo afferrava con tutt'e due le mani appena sotto la testa. I serpenti non avevano denti, e non erano velenosi, ma erano così grossi e vigorosi che Zammis certe volte finiva nella pozza di fango. Le pelli venivano poi stese a seccare sui tronchi d'albero, messi in uno spiazzo vicino all'entrata della caverna, sotto una sporgenza al riparo dai venti marini. Circa due terzi delle pelli si conservavano; le altre marcivano. Vicino alla conceria, c'era la camera per affumicare la carne: una caverna a cui appendevamo i pezzi di carne; poi, in un pozzo scavato nel pavimento, accendevamo un fuoco di rami verdi e chiudevamo l'ingresso con pietre e fango. — Zio, perché la carne non va a male dopo essere stata affumicata? Ci pensai su. — Non so bene, però so che si conserva. — Com'è che lo sai? Alzai le spalle. — Lo so e basta. Forse l'ho letto da qualche parte. — Cos'è letto? — Leggere. Come quando mi siedo e leggo il Talman. — Il Talman dice perché la carne non va a male? — No. Volevo dire che devo averlo letto su qualche altro libro. — Noi abbiamo altri libri? Scossi la testa. — Volevo dire, prima di venire su questo pianeta. — Perché sei venuto su questo pianeta? — Te l'ho già detto. Il tuo genitore ed io siamo naufragati qui durante una battaglia. — Perché gli uomini e i Drac combattono? — È una faccenda complicata. — Feci dei gesti vaghi con le mani. La tesi umana era che i Drac avevano invaso il nostro spazio. La tesi dei Drac era che gli umani avevano invaso il loro spazio. La verità? — Vedi, Zammis, è tutto per avere nuovi pianeti da colonizzare. Tutt'e due le razze
stanno espandendosi, e tutt'e due hanno la tradizione di colonizzare. Immagino che abbiamo colonizzato a vicenda lo spazio degli altri. Capito? Zammis annuì, poi per fortuna non chiese altro, immerso nei propri pensieri. La cosa che soprattutto imparai da lui, era che c'erano moltissime domande per cui non avevo risposta. Però mi sentivo soddisfatto per aver spiegato a Zammis la guerra, superando in questo modo l'ostacolo della carne affumicata. — Zio? — Sì, Zammis? — Cos'è un pianeta? Quando l'estate fredda e umida finì, avevamo la caverna piena di legna e cibo. Risolta questa questione, mi concentrai sul problema di costruire dei servizi igenici interni, utilizzando le pozze d'acqua in fondo alla caverna. La vasca da bagno non era un problema. Lasciando cadere delle pietre scaldate sul fuoco in una pozza, l'acqua si scaldava fino a una temperatura sopportabile, perfino gradevole. Dopo aver fatto il bagno, l'acqua sporca poteva essere estratta per mezzo di un sifone fatto di canne simili a bambù. La vasca a questo punto poteva essere riempita di nuovo usando la pozza superiore. Il problema era quello di dover scaricare l'acqua. Parecchie delle camere avevano dei buchi nel pavimento. I primi tre che provammo scaricavano nella camera principale, e l'acqua finiva in una depressione vicino all'entrata. L'inverno prima, io e Jerry avevamo pensato di utilizzare uno dei buchi come water, ma dal momento che non sapevamo dove sarebbero finiti i rifiuti, avevamo lasciato perdere. Il quarto buco che io e Zammis provammo, scaricava sotto l'entrata della caverna, sulla parete di roccia. Non era l'ideale, ma sempre meglio che soddisfare i bisogni naturali nel bel mezzo di una tempesta di neve. Attrezzammo il buco come scarico per la vasca da bagno e il water. Dopo aver scaldato l'acqua per il nostro primo bagno, mi tolsi l'abito di pelli, provai l'acqua col piede ed entrai. — Fantastico! — Mi voltai verso Zammis, che era ancora mezzo vestito. — Vieni, Zammis, l'acqua è perfetta. — Zammis mi fissava con la bocca aperta. — Che c'è? Il bambino indicò con la mano. — Zio... che cos'è quello? Abbassai lo sguardo. — Oh. — Scossi la testa, e guardai il piccolo Drac. — Te l'ho già spiegato, Zammis, io sono un umano! — Ma a che cosa serve? Mi sedetti nella vasca togliendo alla vista l'oggetto della discussione. — Serve per eliminare i rifiuti liquidi... fra le altre cose. Adesso entra e lavati. Zammis si tolse il vestito, guardò il proprio apparato, che era liscio, poi
entrò nella vasca. Si immerse fino al collo, studiandomi coi suoi occhi gialli. — Zio? — Sì? — Quali altre cose? Glielo dissi. Per la prima volta, mi sembrò che il Drac non fosse sicuro se gli stavo dicendo o no la verità. Anzi, mi convinsi che era giunto alla conclusione che gli mentivo... probabilmente perché era vero. L'inverno cominciò con una spruzzata di neve accompagnata da una leggera brezza. Portai Zammis nel boschetto sopra la caverna. Giunti di fronte alla tomba di Jerry lo presi per mano. Zammis si strinse nella giacca per ripararsi dal vento, chinò la testa, poi si voltò a guardarmi in faccia. — Zio, questa è la tomba del mio genitore? Annuii. — Sì. Zammis guardò la tomba, poi scosse la testa. — Zio, come dovrei sentirmi? — Non capisco, Zammis. Il bambino fece un cenno verso la tomba. — Vedo che tu sei triste a essere qui. Credo che tu voglia che io mi sento allo stesso modo, è vero? Aggrottai le ciglia, poi scossi la testa. — No. Non voglio che tu ti senta triste. Volevo solo che tu sapessi dov'è. — Posso andare ora? — Certo. La sai la strada per tornare alla caverna? — Sì. Non vorrei che il sapone mi bruciasse un'altra volta. Guardai il bambino correre fra gli alberi nudi, poi mi voltai verso la tomba. — Be', Jerry, cosa ne pensi di tuo figlio? Zammis stava usando della cenere per pulire le conchiglie dal grasso, e ha messo una conchiglia sul fuoco con dell'acqua per togliere del cibo che si era bruciato. Grasso e cenere. E così abbiamo fatto il sapone. Il primo che Zammis ha preparato, per poco non mi ha scuoiato, ma sta migliorando... Guardai il cielo, poi il mare. Sull'orizzonte, si stavano accumulando nuvoloni neri e bassi. — Vedi? Sai cosa vuol dire, vero? La prima tempesta di neve. — Il vento cominciò a soffiare più forte. Mi accucciai vicino alla tomba per sistemare una pietra che era rotolata via dalla pila. — Zammis è un bravo bambino, Jerry. Volevo odiarlo... dopo che sei morto. Volevo odiarlo. — Rimisi a posto la pietra, e tornai a guardare il mare. — Non so come faremo ad andarcene da questo pianeta, Jerry... — Con la coda dell'occhio percepii un movimento. Mi girai e sopra le cime degli alberi, contro il cielo grigio, vidi un puntino nero che si allontanava. Lo seguii con lo sguardo finché non
sparì fra le nuvole. Ascoltai, sperando di sentire il rumore dei razzi, ma il cuore mi batteva così forte che tutto quello che riuscii a sentire fu il vento. Era una nave? Mi alzai, feci qualche passo nella direzione in cui era sparito il puntino, poi mi fermai. Girandomi, vidi che le pietre della tomba erano già ricoperte da un sottile strato di neve. Alzai le spalle, e mi avviai verso la caverna. — Probabilmente era solo un uccello. Zammis era seduto sul suo materasso, intento a cucire pelli di serpente con un ago di osso. Mi distesi sul mio letto, osservando il fumo che saliva per la fessura. Era un uccello? O una nave? Accidenti, non riuscivo a togliermelo dalla mente. Avevo rimossa dai miei pensieri la possibilità di andarmene da quel pianeta, l'avevo sotterrata e nascosta per tutta l'estate. Ed ecco che era tornata. Camminare sotto il sole, indossare vestiti decenti, avere il riscaldamento centrale e mangiare cibi preparati da un cuoco, trovarsi di nuovo... fra la gente. Mi girai su un fianco e guardai la parete vicino al materasso. Gente. Gente umana. Chiusi gli occhi e inghiottii. Ragazze umane. Donne. Delle immagini mi passarono davanti agli occhi: facce, corpi, coppie che ridevano, il ballo dopo l'addestramento., come si chiamava? Dolora? Dora? Scossi la testa, mi girai di nuovo e mi misi a sedere, di fronte al fuoco. Perché avevo visto quella cosa? Ero riuscito a seppellirle, tutti quei ricordi, a dimenticarle... — Zio? Alzai gli occhi. Pelle gialla, occhi gialli, faccia di rospo senza naso. — Cosa? — C'è qualcosa che non va? Qualcosa che non va! — No. Mi sembrava di aver visto una cosa, oggi. Ma probabilmente non era niente. — Presi un pezzo di carne dalla griglia sul fuoco. Ci soffiai sopra per raffreddarla e cominciai a masticare. — Che aspetto aveva? — Non so. Da come si muoveva, ho creduto che fosse una nave. Ma è sparita così in fretta, che non ho potuto vedere bene. Forse era un uccello. — Uccello? Lo guardai. Zammis non aveva mai visto un uccello. E neanch'io, su Fyrine IV. — Un animale che vola. Zammis annuì. — Zio, quando raccoglievamo legna nel bosco, ho visto anch'io qualcosa volare. — Eh? Perché non me lo hai detto?
— Volevo dirtelo, ma me ne sono dimenticato. — Dimenticato! Da che parte andava? Zammis indicò verso il fondo della caverna. — Da quella parte, in direzione opposta al mare. — Zammis mise giù il suo lavoro di cucito. — Perché non andiamo a vedere dov'è andato? Scossi la testa. — L'inverno sta per cominciare. Tu non sai com'è. Moriremmo in pochi giorni. Zammis riprese il suo lavoro. Fare il viaggio in inverno ci avrebbe ucciso. Ma in primavera sarebbe stato diverso. Potevamo sopravvivere, con una doppia imbottitura nei vestiti, e una tenda. Dovevamo fabbricare una tenda. Zammis e io potevamo passare l'inverno a prepararla, e a fare degli zaini. Poi ci servivano degli stivali robusti. Dovevo pensarci... È straordinario come una scintilla di speranza possa accendere un fuoco che consuma tutta la disperazione. Era una nave? Non lo sapevo. E se lo era, stava decollando o atterrando? Non lo sapevo. Se stava decollando, avremmo preso la direzione sbagliata. Ma quella opposta, significava attraversare il mare. Non importa. All'arrivo della primavera, avremmo attraversato il bosco, poi si sarebbe visto... L'inverno sembrò passare in fretta con Zammis impegnato a fabbricare la tenda, e io che cercavo di riscoprire l'arte del calzolaio. Tracciai i contorni dei miei piedi e di quelli di Zammis su della pelle di serpente. Dopo qualche esperimento, scoprii che facendola bollire insieme a un certo frutto, la pelle diventava morbida ed elastica. Mettendone parecchi strati l'uno sopra l'altro con un peso, e facendoli seccare, si otteneva una suola dura e flessibile. Quando ebbi finito gli stivali di Zammis, lui ne aveva bisogno di un paio nuovi. — Sono troppo piccoli, zio. — Come sarebbe a dire troppo piccoli? — Mi fanno male. Ho le dita piegate. Mi chinai e tastai la punta degli stivali. — Non capisco. Ho preso le misure solo venti, venticinque giorni fa. Sei sicuro di non esserti mosso mentre le prendevo? Zammis scosse la testa. — No che non mi sono mosso — disse. Aggrottai la fronte, e mi alzai. — Alzati, Zammis. — Il Drac si alzò, e io gli andai vicino. Con la testa mi arrivava a metà del petto. Altri sessanta centimetri, e sarebbe stato alto come Jerry. — Togliteli. Ne farò un paio più grandi. Cerca di non crescere così in fretta.
Zammis montò la tenda dentro la caverna, e cominciò a strofinare del grasso contro la pelle per renderla impermeabile. Era cresciuto ancora, e io avevo deciso di aspettare a fargli gli stivali finché non fossi stato sicuro della misura. Cercai di fare una previsione, misurandogli i piedi ogni dieci giorni, e calcolando la misura che avrebbero dovuto avere in primavera. Secondo i miei calcoli, avrebbe raggiunto le dimensioni di un'astronave da trasporto. Era chiaro che prima della fine dell'inverno, avrebbe completato la crescita. Gli stivali di Jerry erano andati a pezzi prima che Zammis nascesse, ma avevo conservato i pezzi. Utilizzai le vecchie suole per prendere le misure, e sperai il meglio. Ero occupato a fabbricare i nuovi stivali, Zammis lavorava alla tenda. Il Drac mi guardò. — Zio? — Sì? — L'esistenza è il dato primario? Alzai le spalle. — Così dice Shizumaat. Io non ho nessuna obiezione. — Ma zio, come facciamo a sapere se l'esistenza è reale? Interruppi il lavoro, lo guardai, scossi la testa, tornai a occuparmi degli stivali. — Credimi sulla parola. Il Drac fece una smorfia. — Ma zio, questa non è conoscenza, è fede. Sospirai, pensando al mio primo anno all'Università delle Nazioni: un gruppetto di adolescenti, in un appartamento ammobiliato, che passavano il loro tempo a fare esperimenti con l'alcol, le polveri e la filosofia. Zammis aveva meno di un anno terrestre, e stava già diventando il tipo dell'intellettuale noioso. — Cosa c'è che non va nella fede? Zammis fece una risatina di scherno. — Andiamo, zio, la fede? — Qualche volta è di aiuto, in questa spirale di neve e di gelo. — Spirale? Mi grattai la testa. — Questa spirale mortale: la vita. Shakespeare, credo. Zammis aggrottò le ciglia. — Non c'è nel Talman. — Era un umano. Zammis si alzò, e si venne a sedere dall'altra parte del fuoco, di fronte a me. — Era un filosofo, come Mistan e Shizumaat? — No. Scriveva opere teatrali... delle storie recitate. Zammis si fregò il mento. — Ricordi qualcos'altro di Shakespeare? Alzai un dito. — «Essere o non essere, questo è il dilemma». Il Drac spalancò la bocca, poi annuì energicamente. — Sì, sì! Essere o non essere; questo è il dilemma! — Allargò le braccia. — Come facciamo
a sapere se il vento soffia, fuori dalla caverna, se non lo vediamo? Il mare è sempre in tempesta quando noi non siamo lì a guardarlo? Annuii. — Sì. — Ma zio, come facciamo a saperlo? Lo guardai. — Zammis, ho una domanda da farti: è vera o falsa la seguente affermazione: Quello che dico in questo momento è falso. Zammis sbatté le palpebre. — Se è falso, allora l'affermazione è vera. Ma... se è vera... l'affermazione è falsa, ma... — Sbatté ancora le palpebre, poi tornò a fregare grasso nella tenda. — Ci penserò, zio. — Fallo, Zammis, fallo. Il Drac ci pensò per una decina di minuti, poi si voltò. — L'affermazione è falsa. Sorrisi. — Ma questo è quanto dice l'affermazione, quindi è vera, ma... — Lasciai la frase in sospeso, sentendomi molto compiaciuto. — No, zio. L'affermazione è priva di significato, nel suo contesto. — Alzai le spalle. — Vedi, zio, l'affermazione presuppone l'esistenza di una verità che non può esprimere un giudizio su se stessa, in mancanza di altri punti di riferimento. La logica di Lurrvena è molto chiara su questo punto, nel Talman, e se equipariamo mancanza di significato con falsità... Sospirai. — Già, certo... — Vedi, zio, per prima cosa è necessario stabilire un contesto nel quale un'affermazione abbia un senso. Mi chinai in avanti, aggrottai le ciglia e mi grattai la barba. — Capisco. Vuoi dire che stavo mettendo Cartesio davanti ai buoi? Zammis mi diede una occhiata perplessa, che si fece ancora più perplessa quando mi vide rotolare sul materasso ridendo come un matto. — Zio, perché la famiglia Jeriba ha solo cinque nomi? Tu hai detto che le famiglie umane hanno molti nomi. Annuii. — I cinque nomi della famiglia Jeriba sono etichette a cui coloro che le portano devono aggiungere fatti. I fatti sono importanti, non i nomi. — Gothig è il parente di Shigan, come Shigan è mio parente. — Naturalmente. L'hai imparato dalla recitazione. Zammis aggrottò le ciglia. — Allora dovrò chiamare mio figlio Ty, quando diventerò genitore. — Sì. E Ty dovrà chiamare suo figlio Haesni. C'è qualcosa che non va? — A me piacerebbe chiamare mio figlio Davidge. Scossi, e scossi la testa. — Il nome di Ty è stato portato da grandi ban-
chieri, mercanti, inventori e... be', la sai la recitazione. Il nome Davidge non è stato portato da nessuno di importante. Pensa a quello che ci perderebbe Ty a non essere Ty. Zammis ci pensò un po', poi annuì. — Zio, credi che Gothig sia vivo? — Per quel che ne so io, sì. — Com'è Gothig? Ripensai a quello che mi aveva detto Jerry del suo genitore. — Insegnava musica, ed è molto forte. Jerry... Shigan diceva che il suo genitore poteva piegare delle sbarre di ferro con le dita. Gothig è anche una persona molto onorata. Immagino che in questo momento sia anche molto triste. Penserà che la famiglia Jeriba sia finita. Zammis aggrottò le ciglia. — Zio, dobbiamo arrivare a Draco. Dobbiamo dire a Gothig che la famiglia continua. — Ci arriveremo. Il ghiaccio dell'inverno cominciò ad assottigliarsi. La tenda, gli zaini e gli stivali erano pronti. Stavamo dando il tocco finale ai nostri nuovi abiti. Come Jerry mi aveva dato il Talman perché lo studiassi, così ora il cubo d'oro era appeso al collo di Zammis. Il Drac tirava fuori il piccolo libro e lo studiava per ore. — Zio? — Sì? — Perché i Drac parlano e scrivono in una lingua, e gli uomini in un'altra? Risi. — Zammis, gli uomini scrivono e parlano in molte lingue. L'inglese è solo una delle tante. — E come fanno a capirsi fra di loro, gli uomini? Alzai le spalle. — Non sempre ci riescono. Oppure usano degli interpreti, gente che sa due lingue. — Tu ed io parliamo sia inglese sia Drac. Allora siamo interpreti. — Potremmo esserlo, se si trovasse un uomo e un Drac che volessero parlarsi. Ricordati che c'è in corso una guerra. — Ma come potrà finire la guerra, se non parlano? — Immagino che alla fine parleranno. Zammis sorrise. — Mi piacerebbe fare l'interprete, e aiutare a por fine alla guerra. — Il Drac mise da parte il lavoro di cucito e si allungò sul suo nuovo materasso. Quello vecchio adesso lo usava come cuscino. — Zio, credi che troveremo qualcuno oltre il bosco? — Lo spero.
— Se sarà così, verrai con me su Draco? — Ho promesso a tuo padre che l'avrei fatto. — Voglio dire dopo. Dopo che avrò fatto la mia recitazione, cosa farai? Guardai il fuoco. — Non lo so. — Alzai le spalle. — La guerra potrebbe impedirci di raggiungere Draco, per un po'. — E dopo? — Immagino che tornerò sotto le armi. Zammis si alzò su un gomito. — Continuerai a fare il pilota da caccia? — Certo. È la sola cosa che so fare. — E ucciderai i Drac? Misi giù il mio lavoro e guardai Zammis. Molte cose erano cambiate da quando io e Jerry ci eravamo presi a botte... più di quante avessi pensato. Scossi la testa. — No. Probabilmente non farò più il pilota... non nell'esercito. Forse troverò lavoro in una compagnia civile. Forse l'esercito non mi vorrà neanche. Zammis si mise a sedere; restò immobile per un momento poi venne da me e si inginocchiò sulla sabbia. — Zio, non voglio lasciarti. — Non fare lo sciocco. Tornerai fra quelli della tua razza. Tuo nonno, Gothig, i parenti di Shigan, i loro figli... ti dimenticherai di me. — Tu ti dimenticherai di me? Guardai quegli occhi gialli, poi allungai una mano e gli toccai la guancia. — No, non ti dimenticherò. Ma ricordati di questo, Zammis: tu sei un Drac e io sono un umano, ed è così che si divide questa parte dell'universo. Zammis mi prese la mano, allargò le dita e la studiò. — Qualunque cosa succeda, zio, non ti dimenticherò mai. Il ghiaccio si era sciolto. Io e il Drac, con gli zaini sulle spalle, stavamo di fronte alla tomba, sotto una pioggia rada, sferzata dal vento. Zammis era alto come me, cioè un po' più alto di Jerry. Con mio grande sollievo, gli stivali gli andavano bene. Zammis si sistemò meglio lo zaino, poi voltò le spalle alla tomba e guardò il mare. Seguii il suo sguardo, e osservai i cavalloni infrangersi sulle rocce. Guardai il Drac. — A cosa stai pensando? Zammis guardò a terra, poi guardò me. — Zio, non ci avevo mai pensato prima, ma... mi mancherà questo posto. Mi misi a ridere. — Che sciocchezze! Questo posto? — Gli diedi una pacca sulle spalle. — E perché dovresti sentirne la mancanza? Zammis guardò il mare. — Ho imparato molte cose qui. Tu mi hai insegnato molte cose qui, zio. Sono vissuto qui. — È solo l'inizio della tua vita, Zammis. Ti aspettano moltissimi altri
anni. — Feci un cenno verso la tomba. — Dì addio. Zammis si voltò verso la tomba, si inginocchiò vicino e cominciò a togliere le pietre. Dopo qualche minuto, aveva portato alla luce la mano di uno scheletro con tre dita. Si mise a piangere. — Mi dispiace, zio, ma dovevo farlo. Finora per me non era stato altro che un cumulo di rocce. — Rimise a posto le pietre, poi si alzò. Indicai con la testa il bosco. — Vai avanti. Ti raggiungerò fra un minuto. — Sì zio. Zammis si allontanò verso gli alberi nudi. Io guardai la tomba. — Cosa te ne pare di Zammis, Jerry? È diventato più alto di te. Immagino che la carne di serpente gli faccia bene. — Mi chinai, presi un sasso e lo aggiunsi al cumulo. — Ormai ci siamo. O arriveremo su Draco, o moriremo. — Mi alzai e guardai il mare. — Penso di avere imparato anch'io qualcosa, qui. Mancherà anche a me questo posto, in un certo senso. — Mi sistemai lo zaino sulle spalle, e guardai per l'ultima volta la tomba. — Ehdevva sahn, Jeriba Shigan. Addio, Jerry. Mi voltai, e seguii Zammis nel bosco. I giorni che seguirono furono pieni di scoperte meravigliose per Zammis. Per me, il cielo era sempre lo stesso, grigio cupo, e le poche varianti che incontravamo nella flora e nella fauna, non erano niente di straordinario. Una volta superato il bosco, ci trovammo di fronte un lieve pendio, che continuò a salire per una giornata di marcia; poi davanti a noi apparve una distesa piatta, senza fine. Era coperta da un'erba color porpora, che ci arrivava alle caviglie e che lasciava il colore sugli stivali. Di notte faceva ancora troppo freddo per camminare, e ce ne stavamo chiusi nella tenda. Le pelli ingrassate e i vestiti funzionavano a dovere, e ci riparavano adeguatamente dalla pioggia che non smetteva quasi mai di cadere. Eravamo in viaggio da quasi due delle lunghe settimane di Fyrine IV, quando sentimmo un boato sopra le nostre teste. In un attimo la nave era già sparita dietro l'orizzonte. Ma non ebbi nessun dubbio sul fatto che stesse atterrando. — Zio! Ci avrà visti? Scossi la testa. — Non credo proprio. Ma stava atterrando. Non hai sentito? Il campo dev'essere da qualche parte, davanti a noi. — Zio? — Muoviamoci! Cosa c'è? — Era una nave umana o Drac? Mi fermai di colpo. Non ci avevo neanche pensato. — Su, andiamo. Non
importa. In qualsiasi modo, tu arriverai su Draco. Sei un civile, e l'esercito terrestre non potrà farti niente; se invece sono Drac, sei a posto. Cominciammo a camminare. — Ma zio, se è una nave Drac, cosa succederà di te? Alzai le spalle. — Mi faranno prigioniero. I Drac dicono di attenersi alle leggi di guerra interplanetarie, perciò non devo preoccuparmi. — Bella consolazione. Il problema era di sapere se preferivo essere prigioniero di guerra dei Drac, o un abitante permanente di Fyrine IV. Ma a questo avevo dato una risposta da un pezzo. — Avanti, mettiamoci di buon passo. Non sappiamo quanto manchi ancora. Alzare il piede; abbassarlo. Tranne che per mangiare e riposarci, non ci fermavamo mai, neanche di notte. Lo sforzo di camminare ci teneva caldi. L'orizzonte sembrava sempre lontanissimo. Parecchi giorni dopo, con i piedi intorpiditi e la mente intontita, caddi attraverso l'erba purpurea in una buca. Immediatamente, si fece buio, e avvertii un dolore acuto nella gamba destra. Sentii che stavo per svenire, e accolsi con gioia il calore e la pace dell'incoscienza. — Zio? zio? Svegliati, ti prego, svegliati! Sentii degli schiaffi sulla faccia, ma parevano stranamente lontani. Fu il dolore lancinante a farmi svegliare. Dovevo essermi rotto la gamba. Guardai in alto e vidi gli orli erbosi del buco. Ero seduto sull'acqua, con Zammis vicino. — Cosa è successo? Zammis fece un cenno verso l'alto. — Il buco era coperto da una crosta sottile di terra e piante. Deve averlo scavato l'acqua. Stai bene? — Credo di essermi rotto una gamba. — Appoggiai la schiena alla parete fangosa. — Zammis, devi proseguire da solo. — Non posso lasciarti, zio! — Se trovi qualcuno, potrai mandarmi dei soccorsi. — E se il livello dell'acqua salisse? — Zammis mi tastò la gamba, e non potei trattenere un sussulto. — Devo tirarti fuori di qui. Come faccio per la gamba? Il ragazzo aveva ragione. Morire annegato non faceva parte dei miei piani. — Ci occorre qualcosa di rigido. Lega la gamba in modo che non si muova. Zammis si levò lo zaino, srotolò il rotolo con la tenda, tirò fuori uno dei pali e me lo legò alla gamba con delle striscie di pelle tolte dalla tenda. Usando delle altre strisce di pelle, fece due cappi, me li infilò nelle gambe
e mi issò sulle spalle. Svenni. Sull'erba, coperto dai resti della tenda, con Zammis che mi scuoteva per un braccio. — Zio? Zio? — Sì? — mormorai. — Zio, io sono pronto. Qui c'è il tuo cibo, e quando piove puoi tirarti la tenda sulla faccia. Lascerò delle tracce, per poter ritrovare la strada. Annuii. — Stai attento. Zammis scosse la testa. — Zio, potrei portarti. Non dobbiamo separarci. Feci segno di no. — Non potrei farcela, figliolo. Trova qualcuno e fallo venire. — Sentii un conato di vomito, e un sudore freddo mi bagnò il corpo. — Su, muoviti. Zammis si alzò. Si mise in spalla lo zaino e cominciò a correre nella direzione seguita dalla nave. Lo guardai finché non sparì. Poi mi girai e guardai le nuvole. — Per poco non mi avete fregato, questa volta, kizlode. Ma non avete pensato al Drac... non vi siete ricordati che siamo in due... — Persi i sensi, poi li ripresi. Sentii la pioggia sul viso e mi coprii con la tenda. Pochi secondi dopo, ero ripiombato nel buio. — Davidge? Tenente Davidge? Aprii gli occhi e vidi una cosa che non vedevo da quattro anni terrestri: la faccia di un essere umano. — Chi siete? La faccia, quella di un uomo giovane, con corti capelli biondi, sorrise. — Sono il capitano Steerman, ufficiale medico. Come state? Ci pensai su un po', e sorrisi. — Come se mi avessero imbottito di droga. — Proprio così. Eravate piuttosto mal messo quando la squadra di esplorazione vi ha trovato. — La squadra di esplorazione? — Immagino che non lo sappiate. Gli Stati Uniti Terrestri e la Camera di Draco hanno istituito una commissione congiunta per la colonizzazione di nuovi pianeti. La guerra è finita. — Finita? — Sì. Fu come se mi avessero tolto un peso di dosso. — Dov'è Zammis. — Chi? — Jeriba Zammis, il Drac che era con me. Il dottore alzò le spalle. — Non ne so niente. Immagino che se ne siano occupati i rospi. Rospi. Una volta l'avevo usata anch'io quella parola. Ascoltandola sulla bocca di Steerman mi sembrò estranea e repellente. — Zammis è un Drac,
non un rospo. Il dottore alzò le spalle. — Certo. Come volete. Adesso riposatevi, e fra qualche ora verrò a visitarvi di nuovo. — Posso vederlo? Il dottore sorrise. — Dio mio, no. State viaggiando verso la base di Delphi... e il Drac probabilmente è in viaggio per Draco. — Mi fece un cenno col capo e se ne andò. Mi sentii come perso. Guardandomi intorno, vidi che mi trovavo nell'infermeria di una nave. I letti al mio fianco erano occupati. L'uomo a destra scosse la testa e riprese a leggere una rivista. Quello sulla sinistra sembrava irritato. — Maledetto lecca-rospi! — Si voltò su un fianco, volgendomi la schiena. Di nuovo fra gli uomini, eppure più solo di quanto fossi mai stato. Misnuuram va siddeth, come dice Mistan nel Talman, dall'alto di una saggezza di ottocento anni fa. La solitudine è un pensiero; non qualcosa che viene fatto a qualcuno, ma qualcosa che uno fa a se stesso. Jerry scosse la testa, e mi puntò addosso un dito giallo, mentre trovava le parole che voleva dire. — Davidge... per me la solitudine è un fastidio, una piccola cosa da evitare, se possibile, ma non da temere. Io credo che tu preferiresti la morte alla prospettiva di trovarti solo con te stesso. Misnuuram yaa vanos misnuuram van dunos. «Chi è solo con se stesso sarà sempre solo con gli altri»: ancora Mistan. Apparentemente la frase sembra una contraddizione in termini, ma l'osservazione della realtà prova che è vera. Ero uno straniero fra i miei simili, a causa di un odio che non condividevo e di un amore che a loro pareva assurdo e perverso. «La pace dei pensieri con gli altri si verifica solo nella mente in pace con se stessa». Ancora Mistan. Infinite volte, durante il viaggio verso la base di Delphi, e poi mentre sbrigavo le pratiche per lasciare il servizio, allungavo la mano per prendere il Talman che non portavo più al collo. Cosa ne era stato di Zammis? Alle Forze Armate Terrestri la cosa non interessava, e le autorità Drac non volevano dirlo: non erano affari miei. Per gli ex-piloti da guerra non c'era molto lavoro... soprattutto per chi non volava da quattro anni, aveva una gamba in cattivo stato ed era un lecca-rospi. Avevo quarantottomila crediti di paga arretrata, per cui i soldi non erano un problema. Il problema era cosa fare della mia vita. Dopo aver trascorso qualche tempo alla base di Delphi presi una nave per la Terra e per parec-
chi mesi lavorai presso una piccola casa editrice traducendo manoscritti in Drac. Su Drac andavano matti per i western: «Su le mani naagusaat!» «Nu Geph, sceriffo». Thang, thang! Le pistole lampeggiarono e il kizlode shaddsaat morse la thessa. Me ne andai. Alla fine chiamai i miei genitori. Perché non ci hai telefonato prima, Willy? Siamo stati così in pensiero... Avevo alcune cose da sistemare, papà... No, davvero... Capisco, figlio mio... dev'essere stato spaventoso. .. Papà, vorrei venire a casa per un po'... Ancor prima di aver pagato la mia Dearman Electric usata, capii che stavo facendo un errore a tornare a casa. Sentivo il bisogno di una casa, ma non poteva essere quella che avevo lasciato all'età di diciotto anni. Tuttavia ci andavo, perché non avevo altro posto. Guidavo nella notte solitaria, usando solo le vecchie strade, e il ronzio del motore era l'unico suono. Il cielo di dicembre era limpido, e potevo vedere le stelle attraverso la cupola della macchina. Cominciai a pensare a Fyrine IV, all'oceano in tempesta, ai venti incessanti. Mi fermai ai bordi della strada e spensi i fari. Dopo pochi minuti i miei occhi si abituarono all'oscurità. Uscii e chiusi la portiera. Il Kansas ha un grande cielo, e le stelle sembravano così vicine da poterle toccare. La neve mi scricchiolava sotto le scarpe. Alzai gli occhi, cercando di individuare Fyrine fra le migliaia di stelle visibili. Fyrine si trova nella costellazione di Pegaso, ma i miei occhi non erano abbastanza esperti per distinguere il cavallo alato. Sentii un brivido e decisi di tornare in macchina. Mentre mi voltavo riconobbi una costellazione, a nord, appena sopra l'orizzonte: Draco, sospeso a testa in giù, con la coda arrotolata attorno a Ursa Minor. Eltanin, il naso del drago, è la stella natale dei Drac. Il suo secondo pianeta, Draco, era la casa di Zammis. I fari di una macchina mi abbagliarono. La macchina si fermò, e il guidatore abbassò il finestrino. Si sentì una voce dal buio: — Avete bisogno di aiuto? Scossi la testa. — No, grazie. — Alzai la mano. — Stavo solo guardando le stelle. — Una bella nottata, eh? — Sicuro. — Proprio non avete bisogno di niente? Scossi la testa. — Grazie... un momento. Dov'è il più vicino spazioPorto commerciale?
— A un'ora di macchina, a Salina. — Grazie. — Vidi una mano agitarsi dal finestrino, e la vettura ripartì. Guardai ancora una volta Eltanin, poi tornai in macchina. Sei mesi più tardi, ero di fronte a un'antico portale di pietra intagliata, chiedendomi cosa diavolo stessi facendo. Il viaggio verso Draco, avendo come soli compagni dei Drac nell'ultimo tratto, mi aveva dimostrato la verità delle parole di Namvaac: «Spesso la pace non è che una guerra senza battaglie.» I trattati, sulla carta, mi davano il diritto di andare sul pianeta, ma i maghi della burocrazia Drac avevano perfezionato l'arte di tirare per le lunghe molto prima che il primo uomo venisse lanciato nello spazio. Furono necessarie minacce e bustarelle, lunghi giorni passati a riempire moduli, interminabili controlli sanitari e doganali, altri moduli da compilare e ricompilare, altre bustarelle, e poi giorni e giorni di attesa... Sulla nave passavo la maggior parte del tempo nella mia cabina, ma dal momento che i camerieri Drac si rifiutavano di servirmi, dovevo andare nella sala comune per mangiare. Sedevo da solo, ascoltando i commenti che facevano su di me gli altri passeggeri. Avevo deciso che la cosa più semplice era fingere di non capire quello che dicevano. Nessuno pensa che un umano parli Drac. — Ma dobbiamo mangiare insieme a quello schifoso Irkmaan? — Guarda che pelle pallida e pustolosa! E quei peli puzzolenti che ha in testa. Bah! Che puzza! Strinsi i denti e tenni gli occhi fissi sul piatto. — È una cosa da far impallidire il Talman che le leggi dell'universo siano così corrotte da aver prodotto una creatura simile! Mi voltai e fissai i tre drac seduti al tavolo vicino. In Drac, dissi: — Se i tuoi antenati avessero insegnato ai kiz del villaggio ad usare i contraccettivi, ora tu non esisteresti neppure. — Tornai al mio piatto, mentre i due primi Drac costringevano con la forza il terzo a restare seduto. Una volta su Draco, non fu un problema trovare la residenza della famiglia Jeriba. Il problema fu entrare. La proprietà era circondata da un alto muro di pietra; attraverso la cancellata potevo scorgere la grande casa che Jerry mi aveva descritto. Dissi alla guardia che volevo vedere Jeriba Zammis. La guardia mi fissò, poi entrò in un'alcova a fianco della porta. Dopo pochi momenti, dalla casa uscì un altro Drac e attraversò il prato verso il cancello. Rivolse un cenno con la testa alla guardia, poi mi fissò. Era il ritratto di Jerry.
— Siete voi l'Irkmaan che ha chiesto di vedere Jeriba Zammis? Annuii. — Zammis deve avervi parlato di me. Sono Willis Davidge. Il Drac mi studiò. — Io sono Estone Nev, il fratello di Jeriba Shigan. Il mio genitore, Jeriba Gothig, desidera vedervi. — Il Drac si voltò di scatto e si avviò verso la casa. Lo seguii, eccitato all'idea di rivedere Zammis. Non prestai molta attenzione all'ambiente, finché non venni introdotto in una grande stanza con il soffitto a volta. Jerry mi aveva detto che la casa aveva quattrocento anni. Non avevo difficoltà a crederlo. Quando entrai, un altro Drac si alzò e venne verso di me. Era vecchio, ma lo riconobbi. — Voi siete Gothig, il genitore di Shigan. Gli occhi gialli mi fissarono. — E voi chi siete, Irkmaan? — Mi porse una mano rugosa. — Cosa sapete di Jeriba Zammis, e perché parlate Drac con lo stile e l'accento di mio figlio Shigan? Cosa volete? — Parlo Drac in questa maniera perché così Jeriba Shigan mi ha insegnato. Il vecchio piegò la testa di fianco e strinse gli occhi. — Conoscevate mio figlio? E come? — Non ve l'ha detto la commissione di esplorazione? — Mi è stato comunicato che mio figlio Shigan era morto nella battaglia di Fyrine IV. Questo è stato più di sei dei nostri anni fa. A che gioco state giocando, Irkmaan? Mi voltai verso Nev. Il Drac più giovane mi stava guardando con la stessa espressione sospettosa. Mi rivolsi a Gothig. — Shigan non è stato ucciso in battaglia. Siamo naufragati insieme sulla superficie di Fyrine IV, e lì abbiamo vissuto per un anno locale. Shigan è morto dando alla luce Jeriba Zammis. Un anno più tardi la commissione congiunta di esplorazione ci ha trovati e... — Basta! Non voglio più saperne di questo Irkmaan! Siete qui per ottenere denaro? Volete usare la mia influenza per ottenere facilitazioni commerciali... Cosa volete? Aggrottai le ciglia. — Dov'è Zammis? Lacrime di rabbia bagnarono gli occhi di Gothig. — Non esiste nessun Zammis, Irkmaan! La famiglia Jeriba è finita con la morte di Shigan! Spalancai gli occhi e scossi la testa. — Non è vero. Io lo so bene. Mi sono preso cura di Zammis. Non ve l'ha detto la commissione? — Ditemi cosa volete, Irkmaan. Non ho tempo da perdere. Fissai il vecchio Drac. Gothig non aveva ricevuto notizie dalla commissione. Le autorità Drac si erano prese Zammis, e il ragazzo era svanito
nel nulla. Nessuno aveva detto niente a Gothig. Perché? — Io sono stato insieme a Shigan, Gothig. È così che ho imparato la vostra lingua. Quando Shigan è morto, dando alla luce Zammis, ho... — Irkmaan, se non mi dite chiaramente quali sono le vostre intenzioni, vi farò buttare fuori da Nev. Shigan è morto nella battaglia di Fyrine IV. La flotta Drac ce ne ha dato notizie qualche giorno più tardi. — Va bene, Gothig. Allora ditemi come faccio a conoscere la genealogia Jeriba. Volete che ve la reciti? Gothig sbuffò. — Dite di conoscere la genealogia Jeriba? — Sì. — Allora recitatela. Tirai un respiro e cominciai. Quando raggiunsi la centosettantatreesima generazione, Gothig si inginocchiò sul pavimento vicino a Nev. I due Drac rimasero così per tutte le tre ore della recitazione. Quando ebbi finito, Gothig chinò la testa e pianse. — Sì, Irkmaan, sì. Devi aver conosciuto Shigan. Sì. — Il vecchio Drac mi fissò, con gli occhi pieni di speranza. — E voi dite che Shigan ha continuato la famiglia? Che Zammis è nato? Annuii. — Non so perché la commissione non vi abbia avvisato. Gothig si alzò. — Lo scopriremo, Irkmaan... come vi chiamate? — Davidge. Willis Davidge. — Lo scopriremo, Davidge. Gothig mi diede alloggio nella sua casa, e questa fu una fortuna, perché mi erano restati poco più di un migliaio di crediti. Dopo molte ricerche, Gothig mandò me e Nev alla Camera Centrale di Sendievu, la capitale di Draco. Scoprii che la famiglia Jeriba era piuttosto influente: le formalità burocratiche vennero ridotte al minimo. Alla fine fummo ricevuti dal rappresentante della Commissione Congiunta, un Drac che rispondeva al nome di Jozzdn Vrule. Alzò gli occhi dalla lettera che Gothig mi aveva dato e aggrottò le sopracciglia. — Dove ve la siete procurata, Irkmaan? — Non c'è la firma? Il Drac guardò la lettera, poi ancora me. — La famiglia Jeriba è una delle più illustri di Draco. Avete detto che questa lettera vi è stata data da Jeriba Gothig? — Sono sicuro di averlo detto: mi sono accorto di aver mosso le labbra... Intervenne Nev. — Voi avete le informazioni sulla missione di Fyrine IV. Vogliamo sapere cosa è successo a Jeriba Zammis. Jozzdn Vrule tornò a guardare la lettera. — Estone Nev, voi siete il fon-
datore della vostra famiglia, non è vero? — È così. — Volete coprire di vergogna la vostra famiglia? Perché siete con questo Irkmaan? Nev strinse le labbra e incrociò le braccia. — Jozzdn Vrule, se intendete, in un futuro prevedibile, continuare a circolare su questo pianeta come un essere libero, forse vi converrà smettere di muovere la bocca e cominciare a cercare Jeriba Zammis. Jozzdn Vrule abbassò gli occhi, si studiò le dita, poi restituì lo sguardo a Nev. — Molto bene, Estone Nev. Mi minacciate se non vi dico la verità. Credo che scoprirete che la verità è la minaccia più grande. — Scrisse qualcosa su un pezzo di carta, poi lo porse a Nev. — Troverete Jeriba Zammis a questo indirizzo, e maledirete il giorno in cui ve l'ho dato. Entrammo nel manicomio con un senso di nausea. Attorno a noi, vedevamo Drac con occhi ebeti, che urlavano, sbavavano, o si comportavano come animali. Gothig ci raggiunse quando eravamo già arrivati. Il direttore del manicomio mi lanciò un'occhiataccia e scosse la testa rivolto a Gothig. Al di là di questa stanza non vi è altro che dolore e pena. — Gothig prese il direttore per il bavero del camice. — Stammi a sentire, insetto: se Jeriba Zammis si trova fra queste mura, fammelo vedere! Altrimenti ti schiaccerò con tutta la forza della famiglia Jeriba! Il direttore storse le labbra, poi annuì. — Va bene, va bene, arrogante Kazzmidth! Abbiamo cercato di proteggere la reputazione dei Jeriba. Abbiamo cercato! Adesso vedrete da voi. — Il direttore scosse la testa e strinse le labbra. — Sì, lo vedrete da voi. — Scrisse qualcosa su un pezzo di carta e lo diede a Nev. — Dandovi questo, io perderò il posto, ma prendetelo! Prendetelo, e andate a vedere l'essere che voi chiamate Jeriba Zammis. Andate a vederlo e piangete! Jeriba Zammis sedeva su una panchina di pietra, fra gli alberi, gli occhi fissi a terra. Non sbatteva mai le palpebre, e teneva le mani immobili. Gothig mi guardò aggrottando le ciglia, ma io pensavo solo a Zammis. Mi avvicinai. — Zammis, mi riconosci? Il Drac districò i suoi pensieri da un labirinto senza fine e alzò gli occhi gialli. Non vi scorsi alcun segno di riconoscimento. — Chi sei? Mi inginocchiai al suo fianco lo presi per le braccia e lo scossi. — Accidenti, Zammis, non mi riconosci? Sono tuo zio. Ti ricordi? Zio Davidge. Il Drac oscillò sulla panchina, e scosse la testa. Alzò un braccio, per chiamare un infermiere. — Voglio tornare nella mia stanza. Per favore, fa-
temi tornare nella mia stanza. Mi alzai e lo presi per il pigiama da ospedale. — Zammis, sono io! Gli occhi gialli, spenti e senza vita, mi fissarono. L'infermiere mi mise una mano sulla spalla. — Lascialo andare, Irkmaan. — Zammis! — Mi rivolsi a Gothig e Nev. — Dite qualcosa! L'infermiere prese di tasca un manganello e se lo batté sul palmo della mano. — Lascialo andare, Irkmaan. Gothig si fece avanti. — Spiegatemi cose questa faccenda! L'infermiere guardò Gothig, Nev, me poi Zammis. — Questo qui... questa creatura, è arrivato professando il suo amore, amore dico, per gli uomini! Non è una perversione da poco, questa, Jeriba Gothig. Il governo voleva proteggervi da uno scandalo del genere. Vorreste gettare nel fango la reputazione della vostra famiglia? Guardai Zammis. — Che cosa gli avete fatto, kizlode figli di puttana? L'elettroshock? L'avete drogato? L'avete fatto diventare pazzo? L'infermiere mi rivolse una smorfia di derisione. — Tu non capisci, Irkmaan. Questo qui non sarebbe mai stato felice come Irkmaan vul... amico degli umani. Stiamo rendendogli possibile il ritorno nella società Drac. È forse un male? Guardai Zammis e scossi la testa. Mi ricordavo fin troppo bene di come ero stato trattato dai miei compagni terrestri. — No, non credo che sia un male... non lo so. L'infermiere si rivolse a Gothig. — Vi prego di capire, Jeriba Gothig. Non potevamo infliggere questa disgrazia alla famiglia Jeriba. Vostro nipote sta quasi bene, e presto inizierà un programma di rieducazione. Fra meno di due anni avrete un nipote degno di portare avanti la famiglia Jeriba. È forse un male? Gothig si limitò a scuotere la testa. Io mi inginocchiai di fronte a Zammis e lo guardai negli occhi. Gli presi la destra fra le mie due mani. — Zammis? Zammis abbassò gli occhi, mosse la sinistra, mi prese una mano e mi fece allargare le dita. Una alla volta, indicò le mie dita, poi mi guardò negli occhi, poi fissò ancora la mano. — Sì... — Zammis indicò ancora. — Uno, due, tre, quattro, cinque! — Mi guardò negli occhi. — Quattro cinque! Annuii — Sì, sì. Zammis si appoggiò la mia mano alla guancia. — Zio... zio, te l'avevo detto che non ti avrei mai dimenticato.
Non contai mai gli anni che passarono. Mi era ricresciuta la barba, quando mi inginocchiai vicino alla tomba del mio amico Jeriba Shigan. Vicino c'era la tomba di Gothig, vecchia di quattro anni. Rimisi a posto qualche pietra, ne aggiunsi qualche altra. Mi strinsi nella giacca di pelle di serpente, per proteggermi dal vento, e mi sedetti vicino alla tomba, guardando il mare. I cavalloni correvano sempre verso la spiaggia, sotto la cortina nerogrigia di nuvole. Presto sarebbe arrivato il ghiaccio. Mi guardai le mani rugose, poi ancora la tomba. — Non potevo restare nella colonia con loro, Jerry. Non fraintendermi: è un bel posto. Proprio bello. Ma continuavo a guardare l'oceano dalla finestra, e a pensare alla caverna. In un certo senso sono solo, ma non è brutto. So chi sono e cosa sono, Jerry, e questo è l'importante, vero? Sentii un rumore. Mi chinai in avanti, appoggiai le mani sulle ginocchia e mi alzai. Dall'insediamento stava arrivando un Drac con un bambino fra le braccia. Mi fregai la barba. — Allora, Ty, è questo il tuo primo figlio? Il Drac annuì. — Mi farebbe piacere, zio, se tu gli insegnassi quello che deve imparare: la genealogia, il Talman; e tutto sulla vita di Fyrine IV, il nostro pianeta che si chiama Amicizia. Presi il fagottino fra le braccia. Due braccine tozze, con tre dita si agitarono nell'aria, poi mi afferrarono la giacca. — Sì, Ty, è proprio un Jeriba. E come sta Zammis, il tuo genitore? Ty alzò le spalle. — Benissimo. Ti saluta. — Salutalo da parte mia. Zammis dovrebbe uscire da quel guscio ad aria condizionata, e venire a vivere nella caverna. Gli farebbe bene. Ty sorrise. — Glielo dirò, zio. Mi battei il pollice sul petto. — Guarda me! Ti sembro ammalato? — No zio. — Dì a Zammis di mandare fuori dai piedi quel dottore e di tornare a vivere nella caverna, capito? — Si zio. — Ty sorrise. — Hai bisogno di qualcosa? Mi grattai il collo e feci segno di sì. — Carta igienica. Un paio di pacchi; e magari un paio di bottiglie di whisky... no, lascia stare il whisky. Aspetterò che il piccolo Haesni compia un anno. Solo la carta igienica. Ty si inchinò. — Sì, zio, e che il mattino ti trovi sempre bene. Feci un gesto impaziente con la mano. — Certo, certo. Non dimenticarti la carta igienica. Ty si inchinò ancora. — No, zio.
Ty si voltò e si inoltrò nel bosco, verso la colonia. Gothig aveva venduto tutto, ed era emigrato con tutta la famiglia, e le famiglie collaterali, su Fyrine IV. Io ero stato con loro per un anno, poi ero andato a vivere nella caverna. Raccoglievo la legna e affumicavo la carne di serpente per resitere durante l'inverno. Zammis mi aveva dato il piccolo Ty per allevarlo nella caverna, e adesso Ty mi aveva dato Haesni. — Guardai il neonato. — Tu sarai chiamato Gothig, e poi... — Alzai gli occhi al cielo, e sentii le lacrime che si asciugavano sulle guance — ... e il figlio di Gothig si chiamerà Shigan. — Mi avviai verso il sentiero che portava alla grotta. IL MANTELLO E IL BASTONE The Cloak and the Staff di Gordon Dickson Analog, agosto 1980 Gordon Dickson è uno degli autori più noti tra quelli che hanno cominciato la loro attività intorno agli anni cinquanta. Nato nel 1923 a Edmonton, in Canada, Dickson si trasferì negli Stati Uniti all'età di tredici anni. Laureatosi nel 1948 all'università del Minnesota in letteratura inglese, iniziò la sua carriera negli anni cinquanta. Il grosso successo lo raggiunse tuttavia solo dieci anni dopo, con il romanzo Dorsai (Il generale genetico). In seguito, con la versione breve di Soldier Ask Not (Soldato non chiedere) anch'esso appartenente al ciclo del Dorsai, vinse il premio Hugo. Un anno dopo, con un altro romanzo breve, Call Him Lord, ottenne il premio Nebula. Il 1981 fu un anno particolarmente fortunato per Dickson, che ricevette per ben due volte la graditissima statuetta a forma d'astronave dello Hugo: venne premiato infatti per il romanzo breve Lost Dorsai (Il Dorsai perduto) e per questa bellissima storia di un'opposizione umana a un regime alieno sulla Terra, ambientato — indovinate un po'! — nella nostra Italia. Quando scese nella gelida, fredda alba di novembre dall'autobus affollato che aveva portato da Bologna i passeggeri della linea aerea (come succedeva spesso d'inverno, l'aeroporto di Milano era chiuso per la nebbia; e la nave-corriere, come i jet commerciali, era stata costretta ad atterrare a Bologna) Shane Everts scorse con la coda dell'occhio una piccola figura a
bastoncino, incisa poco vistosamente sulla base d'un lampione. Non osò guardarla direttamente, ma quell'occhiata di straforo bastò. Fermò un tassì che arrivava e diede l'indirizzo del Quartier Generale della Guardia Aalaag della città. — È freddo, a Milano — disse il tassista, mentre guidava per le vie ancora semideserte. Shane gli rispose con un monosillabo dall'accento svizzero, per dirsi d'accordo. In novembre, a Milano faceva davvero freddo. Un freddo crudo. Più a sud, a Firenze il clima era ancora dolce, con il cielo azzurro e il sole. Probabilmente il tassista voleva attaccare discorso per scoprire come mai il passeggero umano voleva andare al quartier generale alieno, ma era pericoloso. Gli umani normali non amavano quelli che lavoravano per gli aalaag. Se non dico niente, pensò Shane, può insospettirsi. No, pensandoci meglio, sentendo il mio accento svizzero crederà che abbia un parente nei guai qui in città, e che non me la senta di chiacchierare. Il tassista parlò dell'estate appena passata. Rimpiangeva i bei tempi, quando arrivavano i turisti. Shane rispose brevemente a entrambe le affermazioni. Poi vi fu silenzio, nel tassi, a parte i suoni del motore. Shane appoggiò il bastone più comodamente contro la gamba destra e la spalla sinistra, per sistemarlo meglio nel piccolo spazio. Si allisciò la veste marrone sulle ginocchia. L'immagine della figura che aveva veduto gli aleggiava ancora nella mente. Era identica a quella che lui stesso aveva tracciato la prima volta su un muro, sotto i tre ganci con il morto appeso, ad Aalborg, in Danimarca, più di sei mesi prima:
Ma non era stato lui a tracciare quella sul lampione. E non aveva tracciato nessuna delle altre figure che aveva scorto qua e là nel mondo durante gli ultimi otto mesi. Un momento di ribellione emotiva l'aveva spinto a creare un'immagine che adesso si stava apparentemente diffondendo e moltiplicando per riempire le sue ore di veglia e quelle del sonno con incubi ricorrenti. Non serviva a nulla dirsi che nessuno avrebbe potuto collegarlo con il primo graffito. Non serviva a nulla sapere che in tutti quegli otto mesi era stato un servitore irreprensibile di Lyt Ahn.
Nessuno di quei due fatti poteva essere del minimo aiuto se per qualche ragione Lyt Ahn, o qualche altro aalaag, avesse creduto che c'era qualche motivo per collegarlo ad una delle figure scarabocchiate. Quale impulso insano ed egocentrico l'aveva spinto a usare il suo solito travestimento della setta dei pellegrini come simbolo di opposizione agli alieni? Qualunque altra figura sarebbe servita egualmente allo scopo. Ma allora aveva bevuto l'acquavite danese distillata clandestinamente; e con il ricordo dei colossi aalaag padre e figlio che, sulla piazza, assistevano alla morte dell'uomo che avevano condannato e giustiziato, e soprattutto con il ricordo della loro conversazione che lui, unico tra tutti gli umani presenti, aveva potuto comprendere, per un breve istante la ragione era fuggita dalla sua mente. Dunque ora il suo simbolo era stato ripreso ed era diventato il simbolo di quello che, ovviamente, era un movimento clandestino umano già esistente che si opponeva agli aalaag, un movimento clandestino che non aveva mai sospettato. Il fatto stesso che esisteva preannunciava tragedie sanguinose per ogni umano tanto pazzo da essere collegato ad esso in qualche modo. Secondo i loro criteri, gli aalaag erano inflessibilmente giusti. Ma consideravano gli umani come bestiame, e un allevatore di bestiame non pensava al «giusto» nei confronti di un toro ammalato o potenzialmente pericoloso che era diventato un problema per la fattoria... — Eccolo! — disse il tassista. Shane guardò e vide il quartier generale alieno. Uno scudo d'energia riflettente lo copriva come un rivestimento di mercurio. Era impossibile capire che tipo di struttura fosse stato in origine: poteva essere stato qualunque cosa, da un palazzo d'ufficio a un museo. Lyt Ahn, Primo Capitano della Terra, nel suo quartier generale affacciato sulle cascate di St. Anthony in quello che un tempo era stato il cuore di Minneapolis, disprezzava quella dimostrazione così ovvia di potenza difensiva. I grigi muri di cemento della sua grande fortezza su Nicollet Island non avevano nulla che li proteggesse, eccettuate le armi portatili all'interno; ma sarebbero bastate quelle per spianare l'area metropolitana circostante nel volgere di poche ore. Shane pagò il tassista, scese e varcò l'ingresso principale del quartier generale milanese. Le Guardie Ordinarie all'interno della grande porta a due battenti e quelle sedute al banco erano tutti umani. Quasi tutti giovani, come Shane, ma più grandi e grossi; perché anche l'umano più imponente appariva piccolo e fragile agli aalaag, che erano alti due metri e mezzo. Le guardie portava-
no le solite uniformi nere, linde ma scialbe, della polizia asservita. In mezzo a loro, benché si sentisse piccolo con il suo metro e ottanta di statura, Shane provò una bizzarra sensazione di conforto al pensiero d'essere tra quelle mura, circondato da quegli umani. Come lui, mangiavano alle tavole degli alieni; ed erano tenuti a difenderlo dagli umani non asserviti che l'avessero minacciato. Sotto il tetto dei padroni che gli ispiravano la nausea, era fisicamente protetto, sicuro. Si fermò al banco, tolse la sua chiave dalla borsa di cuoio che portava alla cintura, senza estrarre i documenti. Il funzionario umano di turno prese la chiave e l'esaminò. Era di metallo, un metallo che nessun terrestre comune poteva possedere, e sul manico quadrato era impresso il Marchio di Lyt Ahn. — Signore — disse l'ufficiale in italiano, vedendo il Marchio. Era diventato di colpo gentile. — Posso esserle d'aiuto? — Mi fermo qui temporaneamente — rispose Shane in arabo, perché l'accento dell'ufficiale rispecchiava l'influsso delle consonanti gutturali di quella lingua. — Sono io che consegno i messaggi per conto del Primo Capitano della Terra, Lyt Ahn. Ne ho alcuni da consegnare al Comandante di questo Quartier Generale. — La sua lingua è molto esperta — disse l'ufficiale in arabo, girando il registro di servizio e porgendo una penna. — Sì — disse Shane, e firmò. — Il Comandante, qui — disse l'ufficiale, — è Laa Ehon, Capitano del sesto rango. Accetta i suoi messaggi. Si voltò e chiamò con un cenno una delle guardie. — All'anticamera di Laa Ehon. Porta messaggi per il Comandante. La guardia salutò militarmente e condusse via Shane. Salirono per diverse rampe di scale, accanto a un ascensore che Shane non avrebbe usato neppure se non ci fosse stato con lui la guardia. Arrivarono in un corridoio e in fondo, dietro un'altra porta a due battenti scolpiti, entrarono nell'anticamera dell'ufficio privato del Comandante aalaag di Milano. La guardia salutò di nuovo e uscì. Non c'erano altri umani nella stanza. Un aalaag del ventiduesimo rango sedeva a una scrivania nell'angolo in fondo, e leggeva rapporti sui fogli di plastica che conservavano strati multipli di impressioni. Nella parete alla sinistra di Shane una finestra, con la leggera colorazione agli angoli che la rivelava come una versione aalaag dei finti specchi. La finestra mostrava un ufficio adiacente, dove c'erano panche per gli umani. Ma l'ufficio era vuoto: c'era soltanto una giovane
donna bionda, che indossava un abito azzurro lungo e ampio, annodato intorno alla vita sottile. Per Shane non c'era posto per sedersi. Ma dato che era abituato a frequentare Lyt Ahn e altri aalaag di rango elevato, s'era abituato anche ad attendere in piedi per ore. E restò in piedi. Dopo una ventina di minuti, l'aalaag alla scrivania lo notò. — Vieni — disse alzando il pollice, grosso come il paletto di una tenda. Aveva parlato in aalaag, perché quasi tutti i servitori umani conoscevano i rudimenti della lingua dei padroni. Ma la sua espressione cambiò leggermente quando Shane rispose: perché c'erano pochi umani come Shane (e Shane lavorava e viveva con quei pochi) che sapessero parlare quella lingua correntemente e senza accento. — Immacolato signore — disse Shane, avvicinandosi alla scrivania, — ho messaggi di Lyt Ahn, direttamente per il Comandante del Quartier Generale di Milano. Non fece il gesto di estrarre dalla borsa i rotoli dei messaggi; e la mano massiccia dell'aalaag, che aveva incominciato a tendersi verso di lui con il palmo in alto alla parola messaggi, si ritrasse quando Shane pronunciò il nome di Lyt Ahn. — Sei una bestia preziosa — disse l'aalaag. — Laa Ehon riceverà presto i tuoi messaggi. — «Presto» poteva significare qualunque cosa, da «fra pochi minuti» a «fra qualche settimana». Ma poiché i messaggi erano di Lyt Ahn, e per giunta personali, era probabile che si sarebbe trattato di pochi minuti. Shane tornò nel suo angolo. La porta si aprì ed entrarono altri due aalaag. Erano entrambi maschi di mezza età, uno del dodicesimo e l'altro del sesto rango. Quello del sesto rango poteva essere soltanto Laa Ehon. Un Capitano d'un rango così elevato era anzi troppo qualificato per comandare un unico Quartier Generale come quello. Era impensabile che ce ne fossero due, lì. I nuovi venuti ignorarono Shane. No, pensò lui, mentre quelli distoglievano lo sguardo: non l'avevano ignorato. I loro occhi l'avevano notato, catalogato e accantonato in fretta. Si avviarono insieme verso la falsa finestra, e quello che doveva essere Laa Ehon parlò in aalaag: — Questa? Stavano osservando la ragazza dalla veste azzurra, che sedeva nell'altra stanza, ignara della loro attenzione.
— Sì, immacolato signore. L'ufficiale di servizio nella piazza l'ha vista allontanarsi dal muro di cui ti ho parlato, poco prima di notare il graffito. — Il Capitano del dodicesimo rango indicò la ragazza con il pollice. — Poi ha esaminato il graffito, ha visto che era stato fatto di recente ed è andato a cercarla. Per un momento ha pensato che si fosse confusa nel branco sulla piazza, poi l'ha vista di spalle a una certa distanza, mentre si allontanava in fretta. L'ha stordita e l'ha portata qui. — Il suo rango? — Trentaduesimo, immacolato signore. — E questa è stata interrogata? — No, signore. Ho atteso per parlarti della procedura. Laa Ehon restò immobile per un momento senza rispondere, a guardare la ragazza. — Trentaduesimo, hai detto? Conosceva questa particolare bestia Prima di vederla nella piazza? — No, signore. Ma ricordava il colore del rivestimento. Non ce n'erano altri eguali nei pressi. Laa Ehon si staccò dalla finestra. — Vorrei prima parlare con lui. Mandalo da me. — Signore, in questo momento è in servizio. — Ah. Shane capiva la momentanea pensierosità di Laa Ehon. Nella sua qualità di comandante, poteva facilmente ordinare che l'ufficiale in questione venisse sollevato dal servizio il tempo sufficiente per riferire a lui in persona. Ma l'indole degli aalaag era tale che solo una ragione gravissima gli avrebbe permesso di giustificare un simile ordine. Un aalaag in servizio, indipendentemnete dal rango, era sempre sacro. — Dove? — chiese Laa Ehon. — All'aeroporto locale, immacolato signore. — Andrò a parlargli sul posto. Capitano Otah On, hai l'ordine di accompagnarmi. — Sì, immacolato signore. — Allora muoviamoci cercando di perdere meno tempo possibile. È improbabile che questa faccenda sia più importante di quanto appaia ora, ma dobbiamo accertarci. Si girò verso la porta, con Otah On alle calcagna. Ancora una volta passò lo sguardo su Shane. Si fermò e si voltò a guardare l'aalaag. — Questo chi è? — chiese.
— Signore. — L'aalaag alla scrivania era in piedi. — Un corriere che porta messaggi di Lyt Ahn per la tua mano. Laa Ehon tornò a guardare Shane. — Riceverò i tuoi messaggi fra un'ora, non di più, quando sarò tornato. Capisci ciò che ti ho appena detto? — Capisco, immacolato signore — rispose Shane. — Fino a quel momento, rimani in servizio. Ma mettiti comodo. Laa Ehon uscì per primo, seguito da Otah On. L'aalaag alla scrivania tornò a sedersi e riprese a esaminare i fogli. Shane guardò di nuovo la ragazza al di là della vetrata. Era seduta, e non sapeva cosa sarebbe accaduto tra un'ora. L'avrebbero interrogata ricorrendo a sostanze chimiche, dapprima. Ma poi avrebbero usato metodi fisici. Non c'era sadismo nel carattere degli aalaag. Se qualcuno degli alieni l'avesse manifestato, i suoi simili l'avrebbero considerata una debolezza indecorosa e l'avrebbero eliminato. Ma si sapeva che i capi di bestiame potevano essere indotti a dire tutto ciò che sapevano se venivano sottoposti a disagi sufficienti. Un aalaag, naturalmente, era inaccessibile a questo genere di persuasione. La morte sarebbe venuta molto prima che il disagio potesse cambiare il carattere del singolo alieno al punto d'indurlo a rivelare ciò che desiderava tener nascosto. Shane sentì che la veste gli aderiva addosso, incollata dal sudore. La donna era seduta quasi di profilo, con i capelli biondi sciolti sulle spalle; il viso, dalla carnagione sorprendentemente chiara per quella latitudine, era liscio e gentile. Non poteva avere molto più di vent'anni. Shane avrebbe voluto distogliere lo sguardo da lei, per non pensare più a ciò che l'attendeva, ma, come gli era accaduto un anno prima con l'uomo sui triplici uncini, quando aveva creato per la prima volta il simbolo, Shane non riusciva a girare la testa. Ora lo riconosceva per ciò che era... una pazzia. Una pazzia nata dalla sua ripugnanza segreta e dal suo terrore per gli umanoidi massicci calati sulla Terra per impadronirsene. Erano i padroni che serviva, che gli permettevano di stare al caldo e di mangiare bene mentre il resto dell'umanità soffriva il freddo e aveva poco da mangiare. Che gli elargivano qualche complimento condiscendente... come se fosse realmente un animale, il cane di casa pronto a scodinzolare per un'occhiata o una parola gentile. La paura della morte era come un lingotto di ferro gelido, dentro di lui, quando pensava agli aalaag; e la paura d'una morte lenta e dolorosa era come lo stesso lingotto con gli orli affilati come rasoi. Ma nello stesso tempo c'era
quella follia... quella follia che, se non l'avesse controllata con qualche piccola azione, sarebbe esplosa e l'avrebbe spinto a gettare i suoi dispacci in faccia a qualche aalaag, ad avventarsi un giorno, come un terrier contro una tigre, alla gola del suo Padrone, il Primo Capitano della Terra, Lyt Ahn. Era una realtà, quella follia. Persino gli aalaag ne conoscevano l'esistenza nei loro popoli soggetti. C'era persino una parola per indicarla, nella loro lingua... Yowaragh. Lo yowaragh aveva indotto l'uomo morto un anno prima sui ganci a compiere un tentativo disperato per difendere la moglie contro quella che aveva interpretato come brutalità degli aalaag. Lo yowaragh, ogni giorno, faceva sì che almeno un umano, in qualche angolo del mondo, scagliasse inutilmente un bastone o un sasso contro un conquistatore schermato e intoccabile o in una situazione in cui la fuga era impossibile e la fine era certa. Lo yowaragh aveva bussato una volta alla mente di Shane, un anno fa, minacciando di erompere. Adesso stava bussando di nuovo. Non poteva fare a meno di guardare la giovane donna, e non sopportava di guardarla... e l'unica alternativa alla fine per entrambi era impedire che accadesse... il ritorno di Laa Ehon, la tortura della ragazza e lo yowaragh che avrebbe portato alla morte anche lui. Laa Ehon aveva detto che sarebbe tornato tra un'ora. Rivoli di sudore scorrevano sui fianchi nudi di Shane sotto la tunica. La sua mente aveva innestato le marce alte, e correva come un cuore che palpitasse incontrollato. Che via d'uscita c'era? Doveva essercene una... se fosse riuscita a trovarla. L'altra faccia della medaglia di ciò che avrebbero fatto alla ragazza era fondata sulla stessa assenza di sadismo. Gli aalaag distruggevano la loro proprietà soltanto per uno scopo. Se lo scopo non c'era, non sprecavano una bestia utile. Non avrebbero avuto un motivo per trattenerla solo perché era stata arrestata. La ragazza era troppo insignificante; gli aalaag erano troppo pragmatici. La mente di Shane era febbricitante. Non era sicuro di ciò che stava progettando, ma tutta la conoscenza intima degli aalaag acquisita nei tre anni vissuti vicino a loro ribolliva in fondo ai suoi pensieri. Andò a piazzarsi davanti all'aalaag alla scrivania. — Sì? — chiese l'aalaag dopo un po', alzando gli occhi. — Immacolato signore, il Capitano Comandante ha detto che sarebbe tornato fra un'ora per ricevere i miei messaggi, e che nel frattempo dovevo restare in servizio a mettermi comodo.
Gli occhi dalle pupille grigio-nere lo fissarono, alla stessa altezza dei suoi. — Vuoi metterti comodo, è così? — Immacolato signore, se potessi sedermi o sdraiarmi, sarei molto grato. — Sì. Sta bene. Il Comandante ha ordinato così. Vai a cercare le attrezzature per tali attività nelle aree del nostro bestiame. Ritorna fra un'ora. — Sono grato all'immacolato signore. Le pupille grigio-nere vennero ombreggiate dalle sopracciglia nerissime che si contraevano. — È questione di ordini. Non sono il tipo che permette alle bestie di adularmi. — Signore, io obbedisco. Le sopracciglia si decontrassero. — Così va meglio. Va'. Shane uscì. Si mosse rapidamente. Come quando, in Danimarca, si era finalmente reso conto di ciò che stava facendo. Non aveva più dubbi o esitazioni. Si avviò in fretta lungo il corridoio esterno che era deserto, con gli orecchi e gli occhi intenti per captare la presenza di qualcuno, ma soprattutto di qualche alieno. Quando passò accanto agli ascensori si fermò e guardò intorno. Non c'era nessuno di guardia; e una volta a bordo dell'ascensore avrebbe potuto scendere da quel piano al pianterreno e anche più in basso senza essere visto. Ci sarebbero state altre porte che comunicavano con l'esterno, oltre a quella da cui era entrato; e le avrebbe forse trovate ad altri piani, ai piani sotterranei. Dovevano esserci porte usate soltanto dagli stessi aalaag e dai loro servitori più fidati: e quelli erano senza dubbio liberi di andare e venire senza essere notati. Premette il pulsante per chiamare l'ascensore. Arrivò dopo un momento e le porte si aprirono. Shane si voltò dall'altra parte, per fingere (se a bordo ci fosse stato un aalaag) che lui stava semplicemente passando di lì. Ma la cabina era vuota. Entrò. L'unico pericolo, adesso, era che qualche aalaag, a un piano inferiore, avesse chiamato l'ascensore. Se si fosse fermato per prendere a bordo uno degli alieni e la porta, aprendosi, l'avesse rivelato all'interno, sarebbe stato in trappola... doppiamente colpevole, perché era dove non doveva essere e perché era assente dal suo dovere, che al momento consisteva nello sdraiarsi o riposarsi in altro modo. Solo gli aalaag potevano usare gli a-
scensori. Per un momento gli sembrò che la cabina rallentasse al primo piano. In fondo alla sua mente i piani saettavano come lampi di calore in una sera d'estate. Se si fosse fermato, se la porta si fosse aperta e fosse entrato un aalaag, intendeva gettarsi alla gola dell'alieno. Con un po' di fortuna, l'altro l'avrebbe ucciso istintivamente e lui non sarebbe stato interrogato perché rivelasse come mai era lì. Ma l'ascensore non si fermò. Continuò la discesa, e la spia luminosa che indicava i piani mostrò finalmente che si stava avvicinando al primo seminterrato. Shane premette il pulsante e l'ascensore si fermò. La porta si aprì, e uscì in un corridoietto che conduceva direttamente a una porta di vetro e a una rampa di scale che saliva. Aveva trovato una delle uscite degli alieni. Lasciò l'ascensore e percorse a passo svelto il corridoio, fino alla porta. Era chiusa, ovviamente; ma lui aveva in tasca la Chiave di Lyt Ahn, o almeno la chiave che erano autorizzati a portare gli speciali servitori umani di Lyt Ahn: avrebbe aperto ogni porta normale in un edificio appartenente agli alieni. Provò a usare la chiave, e funzionò. La porta si aprì senza far rumore. Dopo un istante Shane uscì, salì la scala e raggiunse la strada. S'incamminò lungo la strada, a un passo svelto e quasi di corsa, e al primo incrocio svoltò a destra, in cerca d'una zona commerciale. Quattro isolati più avanti trovò una grande piazza con molti negozi. C'era un unico aalaag, in groppa alla sua cavalcatura, e torreggiava indifferente tra la folla, davanti al colonnato del portico che chiudeva un'estremità della piazza. Era impossibile capire se l'alieno era in servizio o se stava aspettando qualcosa o qualcuno. Ma per Shane, adesso, non sarebbe stato prudente servirsi di un negozio di quella piazza. Proseguì in fretta. Qualche strada più avanti trovò alcuni negozi sui due lati di un vicolo cieco, e uno vendeva i semplici capi di abbigliamento che gli aalaag permettevano agli umani di indossare. Entrò, e il campanello sopra la porta tintinnò leggermente. — Signore? — disse una voce. Gli occhi di Shane si abituarono alla semioscurità dell'interno. Vide un banco carico di indumenti piegati dietro il quale stava un uomo basso e bruno con il naso affilato. Stranamente, in quei tempi d'occupazione aliena, il proprietario aveva un po' di pancetta sotto il camice giallo. — Voglio una veste lunga — disse Shane. — Double-face.
— Certo. — Il negoziante girò intorno al banco. — Di che tipo? — Quanto costa il tipo più caro? — Settantacinque nuove lire o l'equivalente, signore. Shane frugò nella borsa appesa al cordiglio della cintura, e buttò sul banco le monete metalliche emesse dagli aalaag come valuta internazionale... i rettangoli d'oro e d'argento con i quali veniva pagato il suo lavoro come dipendente di Lyt Ahn. Il negoziante si fermò di colpo. Fissò lo sguardo sulle monete, poi tornò a guardare in faccia Shane con un'espressione diversa. Solo gli umani molto potenti, sotto l'autorità aliena, o quelli che trafficavano ai mercato nero avevano di solito quelle monete per pagare i conti; e molto raramente uno di loro sarebbe entrato in un piccolo negozio. L'uomo si mosse per avvicinarsi alle monete. Shane le coprì con una mano. — Scelgo io la veste — disse. — Mi mostri l'assortimento. — Ma certo, certo, signore. Il negoziante passò oltre le monete e usci dietro il banco. Aprì la porta del retro e invitò Shane a entrare. All'interno c'erano tavoli carichi di indumenti e stoffe. In un angolo, sotto una lampada al cherosene, c'era un tavolo da sarto con pezze di tessuto, arnesi da lavoro, filo, e gessetti bianchi e blu. — Ecco le vesti sono qui, su questi due tavoli — disse l'uomo. — Bene — disse Shane in tono aspro. — Vada là nell'angolo e si volti. Sceglierò quello che voglio. Il negoziante si mosse in fretta, incurvando le spalle. Se il visitatore era nel giro del mercato nero, sarebbe stato imprudente contraddirlo o farlo irritare. Shane trovò le vesti double-face in mezzo alle altre, frugò, e scelse la più ampia che riuscì a trovare e che fosse azzurra da una parte. L'interno era marrone. L'infilò sulla sua veste, con la parte azzurra all'esterno, e tirò il cordone della cintura. Si avvicinò al tavolo da lavoro e prese un gessetto bianco. — Lascerò cento lire sul banco — disse, rivolgendosi alla schiena del negoziante. — Non si volti e non esca se non quando me ne sarò andato da cinque minuti. Capito? — Capito. Shane girò sui tacchi e uscì. Nel passare diede un'occhiata al banco. Aveva estratto le monete a casaccio dalla borsa, e aveva messo sul piano l'e-
quivalente di centocinquanta lire in oro e argento. Non era il caso di far apparire l'episodio ancora più importante del necessario agli occhi del negoziante. Shane riprese l'equivalente di cinquanta lire e uscì, ritornando verso la piazza dove aveva visto l'aalaag sulla cavalcatura. Si rendeva perfettamente conto che il tempo passava in fretta. Non poteva di stare lontano dal quartier generale più dell'ora concessagli dal funzionario di turno. Se l'aalaag aveva lasciato la piazza... Ma non l'aveva lasciata. Quando Shane, sudando, uscì nuovamente sulla piazza, la figura massiccia era ancora lì, indifferente come prima. Shane, date le sue mansioni, era autorizzato a portare uno degli orologi perpetui degli aalaag. Adesso l'aveva nella borsa, ma non osava consultarlo per vedere quanto tempo gli restava. Gli umani comuni che gli stavano intorno, vedendolo, avrebbero capito che era un servitore degli alieni, e questo gli avrebbe attirato la loro ostilità... un'ostilità che poteva essere fatale. Passò in fretta tra la folla che brulicava nella piazza. Quando si avvicinò all'aalaag in groppa alla cavalcatura, il coraggio ispirato dall'adrenalina quasi gli venne a mancare. Ma il ricordo della prigioniera al quartier generale riaffiorò nella sua mente, spingendolo a proseguire. Volutamente, passò proprio sotto la testa massiccia della cavalcatura, e quella alzò il muso. Il movimento fu minimo, pochi centimetri, ma bastò per attirare l'attenzione dell'aalaag. L'aalaag abbassò gli occhi su Shane. Continuando a muoversi, Shane tenne la testa bassa. Si era tirato i capelli sulla fronte, il più possibile, per nascondere la faccia alla vista dell'alieno... ma non era su questo che contava, per conservare l'anonimato. Pochi aalaag sapevano distinguere un umano da un altro... anche dopo due anni di stretto contatto, Lyt Ahn riconosceva Shane dagli altri corrieri-interpreti più per gli orari in cui Shane. si presentava che per qualche individualità fisica. Shane passò oltre in fretta: e l'alieno, indifferente a qual capo di bestiame che si allontanava, levò di nuovo gli occhi verso l'infinito e ritornò ai suoi pensieri. Shane proseguì solo per qualche passo, fino alla colonna più vicina, e si fermò. Lì, nascondendo con il proprio corpo i movimenti all'alieno che stava dietro di lui, prese dalla borsa il gessetto bianco da sarto e con mano tremante tracciò sulla pietra la figura ammantata con il bastone. Arretrò, e l'improvviso, quasi inudibile gemito di riconoscimento della folla attirò, come aveva previsto, l'attenzione dell'aalaag. Immediatamente l'alieno fece girare la cavalcatura e impugnò lo stesso tipo di paralizzatore
con il quale era stata catturata la prigioniera. Ma Shane era già in movimento. Corse in mezzo alla folla, si buttò a terra in modo che gli altri lo nascondessero agli occhi dell'aalaag, e rotolò via, sfilandosi freneticamente la veste double face. Istintivamente, gli altri umani gli si strinsero intorno, nascondendolo all'alieno che adesso, con l'arma stretta nella mano massiccia, stava cercando di localizzarlo. La veste s'impigliò e gli si avvolse intorno alle ascelle, ma finalmente Shane riuscì a toglierla. Lasciandola a terra, con la parte azzurra all'esterno, si allontanò carponi fino a quando, arrivato sul bordo della piazza, si azzardò ad alzarsi in piedi e ad allontanarsi più in fretta che poteva senza attirare l'attenzione. Ansimante e fradicio di sudore, lasciandosi indietro gli umani che evitavano studiatamente di guardarlo e incominciando a muoversi tra altri che lo guardavano con un interesse del tutto normale, Shane si avviò in fretta verso il quartier generale degli aalaag. Soggettivamente gli sembrava che fosse passata almeno un'ora dal momento in cui era passato sotto il muso della cavalcatura dell'aalaag: ma la ragione gli diceva che l'intero episodio non poteva aver occupato più di qualche minuto. Si fermò a una fontana (era una fortuna, pensò, che in Italia ci fossero tante fontane) per lavarsi la faccia, il collo e le ascelle. Ufficialmente gli aalaag erano indifferenti al lezzo del bestiame; ma in pratica preferivano gli umani che puzzavano il meno possibile... anche se non pensavano mai che loro stessi erano sgradevoli per l'olfatto degli umani quanto gli umani lo erano per il loro. Ma se Shane fosse tornato con un forte odore di sudore da quello che in teoria era stato un periodo di riposo avrebbe potuto attirare l'attenzione sul tempo che aveva trascorso fuori dall'ufficio. Si servì della chiave per entrare dalla stessa porta da cui era uscito: e questa volta salì la scala, anziché prendere l'ascensore, per arrivare al piano dell'entrata del quartier generale. Nessuno lo vide. Si fermò per controllare il cronometro e vide che mancava ancora una dozzina di minuti allo scadere dell'ora. Ne approfittò per chiedere a una delle Guardie Ordinarie dov'erano i locali di riposo per il bestiame, vi andò, e da lì ritornò nell'ufficio dove aveva atteso la prima volta. Quando fu davanti alla porta dell'ufficio si accorse che gli restavano ancora quattro minuti, e restò dov'era fino a quando poté entrare nel momento preciso in cui gli era stato detto di ripresentarsi. L'ufficiale alieno alla scrivania alzò la testa quando Shane entrò, lanciò un'occhiata all'orologio sopra la porta e tornò a esaminare le sue carte in si-
lenzio. Tuttavia, Shane era soddisfatto. L'obbedienza puntuale era un segno in favore degli umani, agli occhi degli aalaag. Ritornò nel punto dove aveva atteso prima, in piedi, e riprese ad attendere. Circa tre quarti d'ora dopo la porta si aprì e Laa Ehon entrò con Otah On. Con l'osservazione acuta di un essere soggetto, rafforzata dall'esperienza acquisita nei due anni di stretto contatto con gli alieni, Shane riconobbe immediatamente i due ufficiali. Andarono subito alla finestra per guardare la prigioniera umana; e il cuore di Shane si strinse per il panico. Era inconcepibile che la sua azione sulla piazza, compiuta un'ora prima, non fosse stata segnalata nel frattempo. Tuttavia sembrava che i due alti ufficiali stessero per procedere con la giovane donna come se non fosse accaduto nulla. Poi Laa Ehon parlò. — In effetti il colore è lo stesso — disse il Comandante del quartier generale. — Devono esserci molti capi di bestiame vestiti così. — Verissimo, immacolato signore — rispose Otah On. Laa Ehon studiò ancora per un momento la giovane donna. — È mai stata informata della ragione specifica per cui è stata portata qui? — chiese. — Non le è stato detto nulla, immacolato signore. — Sì — disse pensosamente Laa Ehon. — Bene, allora. È una bestia giovane e sana. Non è il caso di sprecarla. Lasciatela andare. — Sarà fatto. Laa Ehon si staccò dalla finestra e girò gli occhi intorno a sé, fissando lo sguardo su Shane. Poi si avvicinò. — Tu sei la bestia con i dispacci di Lyt Ahn? — Sì, immacolato signore — disse Shane. — Li ho qui. Li estrasse dalla borsa e li posò nell'enorme mano del Comandante. Laa Ehon li prese, li aprì e lesse. Poi li passò a Otah On. — Eseguire. — Sì, immacolato signore. Otah On portò i dispacci alla scrivania dell'ufficiale di servizio, gli parlò e gli diede i fogli. Gli occhi di Laa Ehon si fissarono su Shane con un barlume d'interesse. — Tu parli con grande purezza — disse il Comandante. — Appartieni al gruppo speciale di bestie del Primo Capitano, che usa per parlare e portare messaggi, non è così? — Sì, immacolato signore. — Da quanto tempo parli la vera lingua?
— Da due anni di questo mondo, immacolato signore. Laa Ehon continuò a guardarlo, e un rivolo di sudore gelido scorse lungo la spina dorsale di Shane. — Sei una bestia che val la pena di possedere — disse lentamente il Comandante. — Non pensavo che uno come te potesse imparare a parlare in modo tanto chiaro. Quanto sei valutato? Shane si sentì mozzare il respiro in gola. L'esistenza era a malapena tollerabile per chi faceva parte del gruppo privilegiato di umani appartenenti all'alieno padrone della Terra. La follia che tanto temeva sarebbe venuta presto, se invece fosse rimasto imprigionato lì, in quell'edificio, tra i bruti che formavano la Guardia Interna. — A quanto ne so, immacolato signore... — Shane non osò esitare prima di rispondere. — ... sono valutato metà possesso di terreno... Otah On, che era tornato a fianco del comandante, alzò le sopracciglia nere nel sentire quel prezzo; ma la faccia di Laa Ehon rimase pensierosa. — ... e il favore del mio padrone Lyt Ahn. L'aria pensierosa abbandonò la faccia di Laa Ehon. Il cuore di Shane martellava. Era vero che aveva premesso alla risposta la frase «a quanto ne so», ma in realtà non aveva mai saputo ufficialmente che una parte del suo prezzo comportasse il favore del suo padrone. La valutazione che sapeva di avere, mezzo possesso di terreno (circa quaranta miglia quadrate di quella che gli aalaag chiamavano «buona campagna») era un prezzo enormemente alto in se stesso per una bestia umana. Era l'equivalente approssimativo di quello che, nei tempi pre-aalaag, sarebbe stato il costo di una lussuosa macchina sportiva fuori serie placcata d'oro e ornata di gemme. Ma Laa Ehon era sembrato disposto a considerare anche quello. Non era la prima volta che Shane si rendeva conto di godere della posizione di una specie di giocattolo di lusso. Ma questa volta aveva accennato che il suo prezzo includeva il favore di Lyt Ahn. «Favore» era un termine che trascendeva qualunque prezzo. La designazione indicava che il suo padrone era personalmente interessato a tenerlo, e che il prezzo di vendita poteva includere qualsiasi cosa... ma probabilmente qualcosa che Lyt Ahn avrebbe gradito almeno quanto ciò a cui rinunciava. Quel «favore», incluso in una vendita, poteva costituire in effetti un assegno in bianco firmato dal compratore, incassabile in qualunque momento futuro da parte del venditore, in merci o azioni, e garantito secondo l'inflessibile codice di obbligazioni degli aalaag. A Shane nessuno aveva mai detto che aveva il favore di Lyt Ahn. Aveva
semplicemente sentito, una volta, Lyt Ahn dire al suo capo di stato maggiore che doveva decidersi a estendere il suo favore a tutte le bestie del gruppo speciale al quale apparteneva Shane. Se Laa Ehon avesse chiesto conferma a Lyt Ahn, e questo non era mai stato fatto, allora Shane sarebbe stato spacciato perché aveva dimostrato d'essere una bestia bugiarda e indegna di fiducia. Anche se il favore era stato concesso, Lyt Ahn avrebbe potuto chiedere come mai Shane ne era venuto a conoscenza. D'altra parte poteva darsi che il Primo Capitano, preso com'era dagli impegni importanti del governo, concludesse semplicemente che doveva averlo detto a Shane, a un certo momento, e poi l'aveva dimenticato. Rivendicarlo adesso era uno dei rischi quotidiani necessari all'esistenza umana in mezzo agli alieni. — Dagli la ricevuta — disse Laa Ehon. Otah On consegnò a Shane la ricevuta dei dispacci, preparata un attimo prima dall'ufficiale di servizio. Shane la mise nella borsa. — Torni direttamente da Lyt Ahn? — disse Laa Ehon. — Si, immacolato signore. — I miei ossequi al Primo Capitano. — Sarà fatto. — Puoi andare. Shane si voltò e uscì. Quando la porta si chiuse dietro di lui, trasse un profondo respiro e scese in fretta la scala, fino all'ingresso. — Torno alla residenza del Primo Capitano — disse all'ufficiale delle Guardie Ordinarie in servizio all'entrata. Era l'uomo che parlava l'italiano con accento arabo. — Vuol prenotarmi il posto sull'aereo? Ho la precedenza, naturalmente. — È già stato provveduto — disse l'ufficiale. — Viaggerà con uno dei Padroni in servizio di corriere su un piccolo aereo militare che parte fra due ore. Devo ordinare un mezzo di trasporto per condurla all'aeroporto? — No — rispose laconicamente Shane. Non era tenuto a spiegare le ragioni delle sue azioni a quel lacché in uniforme. — Ci andrò da solo. Gli sembrò di scorgere un lampo di ammirazione nello sguardo dell'ufficiale. Ma del resto, se l'altro pensava mai di aggirarsi da solo per le vie di Milano, l'avrebbe fatto con l'uniforme regolamentare che non era mai autorizzato a togliersi. Un tipo come l'ufficiale non poteva immaginare di quale libertà godeva Shane muovendosi, apparentemente come uno di loro, tra gli umani normali della città... e non poteva immaginare quanto gli fossero necessari quei pochi momenti di libertà illusoria.
— Sta bene — disse l'ufficiale. — Il Padrone che la porterà è Enech Ajin. Il banco dei Padroni, all'aerostazione, le indicheranno come raggiungerlo, quando arriverà. — Grazie — disse Shane. — Prego. Avevano inevitabilmente assimilato entrambi, pensò con amarezza Shane, i convenevoli e le intonazioni dei padroni... Uscì passando dalla pesante porta di destra dell'entrata e scese i gradini. Non c'erano tassì in vista... naturalmente. Nessun umano avrebbe ronzato intorno al quartier generale alieno se non in caso di necessità. Si avviò per la stessa strada che aveva percorso per raggiungere la piazza. Aveva superato due incroci quando un tassì gli passò accanto, lentamente. Lo fermò e salì a bordo. — All'aeroporto — disse. Guardò l'uomo magro e infagottato al volante, mentre apriva automaticamente la portiera. Salì... e incespicò su qualcosa che stava sul tappetino. La portiera sbatté e il tassì sfrecciò via a tutta velocità. Shane si ritrovò bloccato da due uomini che prima stavano acquattati accanto al sedile posteriore. Lo tenevano immobilizzato, e gli puntavano contro la gola qualcosa di acuminato. Abbassò lo sguardo e vide un cosiddetto coltello di vetro, ricavato da una scheggia di vetro legata fra le due metà di un manico di legno. Il vetro formava il filo tagliente e poteva essere acuminato come un rasoio... e quello lo era. — Fermo! — ringhiò in italiano uno dei due uomini. Shane non si mosse. Sentiva il puzzo degli abiti sporchi dei due che lo tenevano immobilizzato. Il tassì lo portava via, velocemente, per strade sconosciute, verso una destinazione inimmaginabile. Viaggiarono almeno per una ventina di minuti: era impossibile capire se fosse il tempo necessario per coprire la distanza fino alla meta, o se in parte avesse lo scopo di confondere i suoi tentativi di calcolarla. Finalmente il tassì svoltò, sobbalzò sull'asfalto molto dissestato, e passò sotto l'ombra di un voltone. Poi si fermò e i due uomini trascinarono fuori Shane. Intravvide appena un cortile buio e non troppo pulito circondato da edifici, e quindi fu spinto su per due gradini, oltre una porta e in un corridoio lungo e stretto saturo degli odori di cucina e di vernice vecchia. Shane era più stordito che spaventato. Provava qualcosa di molto simile a un'accettazione fatalistica. Per due anni aveva vissuto con il pensiero che
un giorno o l'altro gli umani comuni l'avrebbero identificato per uno di quelli che lavoravano per gli alieni; e allora avrebbero sfogato su di lui la paura e l'odio che tutti nutrivano per i conquistatori e che non osavano manifestare direttamente. Con l'immaginazione aveva vissuto molte volte quella scena. Era egualmente spiacevole, adesso che si era realizzata: ma era una situazione che aveva già esaurito le sue emozioni. Alla fine, era quasi un sollievo vedere che i giorni della mascherata erano finiti e che era stato scoperto per ciò che era in realtà. I due uomini si fermarono di colpo. Shane fu spinto oltre una porta, sulla destra, in una stanza illuminata da un'unica, potente lampadina. Il contrasto con il cortile in penombra e il corridoio ancora più buio rese per un momento accecante quella luce. Quando i suoi occhi si abituarono, vide che era di fronte a un tavolo rotondo, e che la stanza era grande, con il soffitto alto e i muri ingrigiti dal tempo e un'unica alta finestra chiusa da una tenda per l'oscuramento. Il cordone della lampadina non spariva sotto traccia nel soffitto, ma passava accanto a un tubo del gas tappato, scendeva lungo la parete di fronte ed era collegata a un generatore a pedali. Un giovane dai capelli neri sedeva sul sellino e, quando la luce della lampadina incominciava ad affievolirsi, pedalava energicamente fino a che si ravvivava di nuovo. C'erano altri uomini in piedi nella stanza, e due erano seduti al tavolo in compagnia dell'unica donna visibile. Shane la riconobbe: era la prigioniera che aveva visto attraverso la finestra. Lei lo guardò negli occhi con l'espressione di un'estranea, e sebbene fosse stordito Shane pensò che era strano che lui la riconoscesse con un'emozione tanto profonda, mentre la donna non lo conosceva affatto. — Dov'è il proprietario del negozio d'abbigliamento? — disse uno degli uomini seduti al tavolo con un accento dell'Italia settentrionale sfumato da un altro accento, quello londinese. Era giovane, giovane come Shane; ma diversamente da Shane era asciutto e atletico con il naso diritto, la mascella quadrata, le labbra sottili e i capelli biondi molto corti. — Fuori, in magazzino — disse una voce in italiano, ma senza accento inglese. — Allora portatelo qui! — disse l'uomo dai capelli corti. L'altro seduto a tavola accanto a lui non disse niente. Era tondo e solido, oltre la quarantina, e portava una logora giacca di pelle. Teneva in bocca una pipa a canna corta. Sembrava italiano. Alle spalle di Shane, la porta si aprì e si chiuse. Dopo un minuto si aprì e
si chiuse di nuovo, e un uomo bendato, nel quale Shane riconobbe il proprietario del negozio dove aveva comprato la veste doublé face, venne condotto avanti e girato verso di lui. Gli tolsero la benda. — Dunque? — chiese il giovane dai capelli corti. Il negoziante batté le palpebre sotto la luce intensa. I suoi occhi si fissarono su Shane e subito si distolsero. — Che cosa volete, signori? — chiese. La voce era appena un bisbiglio. — Nessuno gliel'ha detto? Lui! — disse spazientito l'uomo dai capelli corti. — Lo guardi. Lo riconosce? Dove l'ha visto? Il negoziante si umettò le labbra e alzò gli occhi. — Oggi, signore — disse. — È venuto nel mio negozio e ha comprato un abito doublé face, azzurro e marrone... — Questo? — L'uomo dai capelli corti fece un gesto. Uno di quelli che stavano in fondo alla stanza si fece avanti e mise un indumento avvoltolato nelle mani del negoziante, che lo spiegò e lo guardò. — Questo è mio — disse con un filo di voce. — Sì. È quello che ha comprato. — Bene, allora può andare. Tenga il vestito. Voi due... non dimenticate di bendarlo. — L'uomo dai capelli corti si rivolse al giovane seduto al generatore. — Allora, Carlo? È lui che hai seguito? Carlo annuì. Aveva uno stuzzicadenti in un angolo della bocca. Stordito, Shane lo guardava stranamente affascinato, perché lo stuzzicadenti sembrava dargli un'aria bricconesca, infallibile. — Ha lasciato piazza San Marco ed è tornato direttamente al Quartier Generale degli alieni — disse Carlo. — In tutta fretta. — Allora non ci sono dubbi — disse l'uomo dai capelli corti. Squadrò Shane. — Bene, vuoi dirci che cosa ti avevano incaricato di fare gli aalaang? O dobbiamo aspettare che Carlo ti lavori un po'? All'improvviso, Shane si sentì sopraffare da una stanchezza nauseata... era stanco dei sudditi umani e dei padroni alieni. Una furia inaspettata ribollì dentro di lui. — Maledetto stupido! — gridò all'uomo dai capelli corti. — Stavo salvando lei! E indicò la donna che ricambiò il suo sguardo aggrottando la fronte, intenta. — Idioti! — sibilò Shane. — Stupidi imbecilli con i vostri giochetti della resistenza! Non sapete che cosa le avrebbero fatto? Non sapete dove sareste adesso tutti quanti, se non avessi dato loro un motivo per pensare che
fosse stato qualcun altro? Per quanto tempo credete che avrebbe resistito a non dire tutto quello che sa di voi? Ve lo dico io, perché l'ho visto... quaranta minuti in media! Tutti guardarono la donna, istintivamente. — Non è vero — disse lei con voce esile. — Non hanno minacciato di farmi niente. Mi hanno tenuta lì un po' ad aspettare e poi rilasciata per mancanza di prove. — L'hanno lasciata libera perché io ho dato loro un motivo di dubitare che fosse stata lei a tracciare quel segno! — Il furore stava trascinando Shane come una marea scura e inesorabile. — L'hanno rilasciata perché è giovane e sana, e loro non sprecano le bestie utili senza una ragione. Mancanza di prove! Credete ancora di aver a che fare con gli umani! — Sta bene — disse l'uomo dai capelli corti, in tono secco. — Tutto questo è molto bello, ma adesso spiegarci dove hai imparato il nostro Segno. — Imparato? — Shane rise, una risata simile a un singulto di rabbia soffocata. — Buffoni! L'ho inventato io. Io! Lo incisi su un muro di mattoni ad Aalborg, due anni fa, per la prima volta. Dove l'ho imparato! Come l'avete imparato voi? Come l'hanno scoperto gli aalaang? Vedendolo inciso in qualche posto, naturalmente! Vi fu un momento di silenzio, nella stanza, quando si spense l'eco della voce di Shane. — Allora è pazzo — disse l'uomo con la pipa. — Pazzo — ripeté Shane, e rise di nuovo. — Un momento — disse la donna. Girò intorno al tavolo e si fermò di fronte a lui. — Chi sei? Cosa fai con gli aalaag? — Sono un traduttore, un corriere — disse Shane. — Appartengo a Lyt Ahn... io e una trentina di altri uomini e donne come me. — Maria... — disse l'uomo dai capelli corti. — Aspetta, Peter. — Lei alzò la mano e continuò senza staccare gli occhi da Shane. — Sta bene. Raccontaci cos'è successo. — Stavo consegnando dispacci speciali a Laa Ehon... conoscete il vostro Comandante locale, immagino... — Conosciamo Laa Ehon — disse bruscamente Peter. — Continua. — Avevo da consegnare comunicazioni speciali. Ho guardato da un falso specchio e ti ho vista. — Shane guardò Maria. — Sapevo cosa ti avrebbero fatto. Laa Ehon stava parlando di te con uno dei suoi ufficiali. Avevano avvistato un umano con una veste azzurra. C'era la vaga possibilità
che se fosse arrivata un'altra segnalazione di un umano con la veste azzurra che tracciava quel segno avrebbero avuto abbastanza dubbi per non voler sprecare una bestia giovane e sana come te. Perciò sono sgattaiolato via e ho fatto in modo che ricevessero un'altra segnalazione. Ha funzionato. — Perché l'hai fatto? — Maria lo stava guardando con occhi penetranti. — Un momento, Maria — disse Peter. — Lascia che gli faccia qualche domanda. Tu, come ti chiami? — Shane Everts. — E hai detto di aver sentito Laa Ehon parlare con uno dei suoi ufficiali. Come mai eri lì? — Stavo aspettando di consegnare i dispacci. — E Laa Ehon ha discusso tutto quanto davanti a te... è questo che stai cercando di raccontarci? — Loro non ci vedono a non ci sentono, a meno che abbiano bisogno di noi — disse amaramente Shane. — Siamo oggetti... animali. — Dunque — disse Peter, — in che lingua parlava Laa Ehon? — In aalaag, naturalmente. — E tu l'hai compreso tanto bene da intuire che c'era la possibilità di fargli credere che l'umano che cercavano fosse un altro e non Maria? — Ve l'ho detto. — Una sorda stanchezza incominciava a impadronirsi di Shane, mentre la furia si spegneva. — Sono un traduttore. Faccio parte del gruppo speciale di traduttori umani di Lyt Ahn. — Nessun umano sa parlare o capire veramente la lingua aalaag — disse in basco l'uomo con la pipa. — Molti non ci riescono — rispose Shane, in basco. La stanchezza lo intontiva al punto che quasi non si accorgeva del cambiamento della lingua. — Vi dico che faccio parte di un gruppo speciale appartenente a Lyt Ahn. — Che cosa? Cos'hai detto, Georges? — Peter stava girando lo sguardo dall'uno all'altro. — Lui parla il basco — disse Georges, fissando Shane. — Lo parla bene? — Ecco... — Georges fece uno sforzo. — Lo parla... molto bene. Peter si rivolse a Shane. — Quante lingue parli? — Quante? — ripeté stordito Shane. — Non lo so. Centocinquanta, duecento le parlo bene. Molte altre le parlo un po'... — E parli l'aalaag come un alieno. Shane rise.
— No — disse. — Lo parlo bene... per un umano. — E giri il mondo come corriere... — Peter si rivolse a Maria e Georges. — State ascoltando? Maria lo ignorò. — Perché l'hai fatto? — chiese. — Perché hai cercato di salvarmi? — Lo guardava negli occhi. Vi fu un nuovo silenzio. — Yowaragh — disse Shane, cupamente. — Che cosa? — È una parola che usano loro — disse Shane. — Gli aalaag. Quando una bestia impazzisce improvvisamente e reagisce contro uno di loro. Fu così quella prima volta ad Aalborg, quando cedetti e misi il segno del pellegrino sul muro, sotto l'uomo che avevano gettato sui ganci per giustiziarlo. — Non ti aspetterai che crediamo davvero che sei stato tu a inventare il simbolo della resistenza contro gli alieni. — Vai all'inferno! — gli disse Shane in inglese. — Cos'hai detto? — chiese prontamente Peter. — Hai capito benissimo che cosa ho detto — ribatté Shane in tono rabbioso e sempre in inglese, con l'esatto accento della zona di Londra dov'era cresciuto l'altro. — Non m'importa se mi credi o no. Basta che la smetta di cercare di fingere che sai parlare italiano. Un rossore cupo apparve sulle guance di Peter. Per un secondo i suoi occhi scintillarono. Shane l'aveva compreso alla perfezione. Era uno di quelli che riuscivano a imparare un'altra lingua abbastanza bene per illudersi... ma non la parlava come uno del posto. Shane l'aveva colpito in un punto vulnerabile. Ma poi Peter rise, e il rossore e lo scintillio negli occhi scomparvero. — Mi hai pescato, per Dio! Mi hai pescato! — disse in inglese. — Molto bene! Magnifico! E non me lo perdonerai mai, pensò Shane, scrutandolo. — Senti un po'... — Peter prese una sedia e la spinse avanti. — Siediti e parliamo. Dimmi, devi avere qualche credenziale che ti permette di passare liberamente attraverso le ispezioni e i controlli degli aalaag comuni, no? — Ciò che porto — disse Shane, con improvvisa cautela, — rappresenta le mie credenziali. I dispacci del Primo Capitano della Terra permettono a un corriere di passare dovunque. — Certo! — disse Peter. — Ora siediti...
Indicò a Shane la sedia; e Shane, che all'improvviso s'era accorto di avere le gambe stanchissime, vi si lasciò cadere. Sentì che l'altro gli metteva qualcosa fra le mani, e vide che era un bicchierino pieno per un terzo di un liquido marrone chiaro. Se l'accostò alle labbra: aveva odore di brandy... un brandy piuttosto scadente. Per qualche ragione misteriosa, questo lo rassicurò. Se avessero avuto intenzione di drogarlo, pensò, senza dubbio avrebbero messo la droga in un liquore un po' più decente. Il bruciore del brandy sulla lingua lo strappò allo stato d'animo in cui era piombato dal momento in cui era salito sul tassì e s'era accorto che l'avevano sequestrato. All'improvviso si rese conto che si era allontanato dalla minaccia insita nella cattura. All'inizio, quella gente aveva pensato semplicemente che fosse uno degli sciacalli umani degli aalaag. Adesso sembrava che si fossero accorti delle sue capacità e dei relativi vantaggi; e chiaramente Peter, almeno, pensava di sfruttarli nell'interesse del movimento della resistenza. Ma la situazione era ancora incerta, e poteva evolversi in due modi molto diversi. Sarebbe stato sufficiente che commettesse una svista e, con le sue parole o le sue azioni, li inducesse a sospettare che rappresentava per loro un pericolo; e allora la decisione di eliminarlo si sarebbe riaffermata con forza raddoppiata. Per il momento la cosa importante era che Peter, il quale sembrava l'elemento dominante del gruppo, pareva deciso a servirsi di lui. Dal canto suo, ora che aveva superato la disperata avventatezza iniziale, Shane si accorgeva che voleva vivere. Ma non voleva che si servissero di lui. Molto più chiaramente di tutti quelli che gli stavano intorno sapeva quanto fosse vano il loro sogno di resistere con successo agli aalaag, e sapeva quanto era inevitabile e atroce la fine alla quale erano destinati se si fossero ostinati a continuare. Potevano scavarsi la tomba con le loro mani, se ci tenevano. Lui non voleva altro che uscire di là sano e salvo e, in futuro, stare alla larga da quella gente. Troppo tardi, ora che aveva risposto alle loro domande, si rese conto di aver dato loro un'arma di ricatto, dicendo il suo vero nome e la natura del lavoro che svolgeva per gli aalaag. Soprattutto, pensò, doveva conservare il segreto della Chiave di Lyt Ahn. Quelli si sarebbero venduti l'anima pur di avere qualcosa che poteva aprire tante porte degli alieni... le porte dei magazzeni, delle armerie, dell'equipaggiamento per le comunicazioni e i trasporti. E l'uso della Chiave da parte loro sarebbe stato il sistema più sicuro perché gli aalaag scoprissero i legami che avevano con lui. Si era reso
troppo appetibile ai loro occhi, pensò rabbiosamente Shane. Era venuto il momento di disilluderli. — Ho trenta minuti e non di più — disse, — per raggiungere l'aeroporto e presentarmi all'ufficiale aalaag che mi riaccompagnerà al Quartier Generale di Lyt Ahn. Se non arriverò in tempo, tutte le lingue che parlo non avranno più nessuna importanza. Vi fu un silenzio. Shane vide che si scambiavano occhiate... in particolare Peter, Georges e Maria si stavano consultando con lo sguardo. — Prendete la macchina — disse Maria in italiano, mentre Peter esitava ancora. — Portatelo all'aeroporto in tempo. Peter si mosse immediatamente, come se le parole di Maria lo avessero svegliato dal sogno che lo teneva prigioniero. Si rivolse a Carlo. — Prendi la macchina — disse. — Guida tu. Maria, tu verrai con me e Shane. Georges... Parlò giusto in tempo per interrompere l'inizio d'una protesta dell'uomo con la pipa. — ... Voglio che chiuda questo posto. Definitivamente! Forse avremo bisogno di una sicurezza ben maggiore di quanto abbiamo avuto fino ad ora. Poi sparisci. Ti troveremo noi. Mi segui? — Sta bene — disse Georges. — Non metteteci troppo a cercarmi. — Un giorno o due. È tutto. Carlo... — Peter si guardò intorno. — Carlo è andato a prendere la macchina — disse Maria. — Muoviamoci, Peter. Già così, ce la faremo appena ad arrivare all'aeroporto. Shane li seguì lungo il corridoio dal quale era entrato. Incuneato sul sedile posteriore del tassì tra Maria e Peter, con Carlo al volante, all'improvviso provò uno strano senso di ridicolo, come se stessero recitando una folle farsa cinematografica. — Dimmi un po' — chiese Peter in inglese, nel tono più amichevole che avesse usato fino a quel momento, — come mai facesti quel primo segno in... dove hai detto che è stato? — Danimarca — disse Shane, rispondendo in inglese. — La città di Aalborg. Ero andato a consegnare i messaggi e mentre tornavo indietro vidi due alieni, padre e figlio, sulle loro cavalcature, attraversare la piazza dove c'è la statua del toro Cymri... Gli sembrava di rivedere tutto, mentre raccontava. Il figlio, con l'asta della lancia a energia, aveva spinto bruscamente a lato una donna che altrimenti sarebbe stata calpestata dalla cavalcatura. Il marito della donna, improvvisamente invasato dallo yowaragh, l'aveva aggredito a mani nude
ed era finito privo di sensi. La donna aveva cercato di soccorrerlo ed era stata uccisa... e tutti gli umani presenti sulla piazza in quel momento erano stati costretti ad assistere, secondo la legge aalaag, mentre l'uomo ancora privo di sensi era stato gettato sulle punte acuminate del triplice gancio sul muro di una costruzione all'angolo della piazza. Shane era rimasto lì, per tutta la mezz'ora che l'uomo ci aveva messo a morire, s'era fermato a poca distanza dai due aalaag in sella alla cavalcatura. E aveva sentito mentre il più anziano dei due, che non poteva sospettare d'essere a portata d'orecchio d'uno dei rari umani che capivano veramente l'aalaag, rimproverava gentilmente il figlio per l'errore di giudizio che aveva commesso cercando di evitare che la donna venisse calpestata. Per questo erano stati costretti a uccidere non una, ma due bestie sane, e a intraprendere un rituale di giustizia che per quanto necessario aveva un effetto perturbatore sugli altri animali. Al ricordo, Shane si sentì agghiacciare lo stomaco per l'orrore, rivisse l'appressarsi della sua follia. Raccontò che era andato al bar, aveva bevuto lo schifoso liquore di contrabbando che secondo il barista era acquavite, ed era stato aggredito da tre vagabondi e ne aveva uccisi o feriti gravemente due con il bastone prima che il terzo si desse alla fuga. Non aveva avuto intenzione di raccontare tutto, movimento per movimento; ma inspiegabilmente, quando ebbe incominciato, non riuscì a trattenersi. Raccontò che, quando aveva riattraversato la piazza ormai vuota, d'impulso aveva inciso il segno del pellegrino sotto il corpo sui ganci, prima di tornare all'aeroporto. — Ti credo — disse Peter. Shane non disse nulla. Stretti com'erano, sentiva il contatto della coscia morbida di Maria, premuta contro la sua; e anche il tepore di lei sembrava pervaderlo, e dissolvere il gelo che aveva dentro come se si fosse sperduto in una tormenta e adesso ritrovasse vita e calore grazie alla temperatura corporea di un altro essere umano. Provava un improvviso, disperato desiderio per Maria come donna. Gli aalaag incoraggiavano gli animali a riprodursi, soprattutto quelli preziosi come gli speciali corrieri-traduttori di Lyt Ahn; ma quando si viveva di continuo sotto gli occhi degli alieni, come Shane e gli altri, sopravveniva la paranoia. Conoscevano tutti troppo bene gli innumerevoli modi che potevano portarli all'eliminazione per mano dei padroni; e quando avevano terminato i loro compiti, l'istinto suggeriva di separarsi, di rifugiarsi soli nei loro letti e chiudere le porte, per timore che lo stretto contatto con un
altro potesse mettere in pericolo la loro sopravvivenza. E comunque, Shane non voleva pensare a riprodursi. Voleva l'amore... almeno per un momento; e l'amore era l'unica cosa che i servitori umani ben pagati del Primo Capitano della Terra non potevano permettersi. All'improvviso, il tepore di Maria lo attraeva come un sogno di pace... Si strappò ai suoi pensieri. Peter lo fissava incuriosito. Che cosa aveva detto? Che gli credeva? — Chiedi a qualcuno di informarsi ad Aalborg per sapere come andarono le cose. Il segno che feci io forse c'è ancora, se gli aalaag non l'hanno cancellato. — Non è necessario — disse Peter. — Il tuo racconto spiega come mai il segno si è diffuso nel mondo in quel modo. Ci voleva qualcuno che possa muoversi liberamente come te per fare in modo che venisse conosciuto dovunque come simbolo della resistenza. Ho sempre pensato che doveva esserci qualcuno, all'origine della leggenda. Shane lasciò passare la prima parte del commento di Peter, senza rispondere. Ovviamente Peter non capiva ciò che Shane aveva imparato nei suoi viaggi... la rapidità con cui una diceria, una voce poteva spargersi in una popolazione assoggettata. Shane era stato presente all'origine delle voci a Parigi, che poi aveva sentito ripetere proprio lì a Milano meno di una settimana più tardi. E Peter sembrava convinto che fosse stato lui a continuare a diffondere il segno per il mondo: e forse era meglio non correggerlo. — Ma credo che dovresti renderti conto di una cosa — disse Peter, appoggiandosi contro di lui per un secondo mentre Carlo affrontava una curva a tutta velocità. — È ora di fare qualcosa di più che accontentarti d'essere una leggenda, di creare un'organizzazione con finalità pratiche di resistenza contro gli alieni, per preparare il giorno in cui potremo sterminarli tutti o scacciarli dalla Terra. Shane lo guardò di sottecchi. Era incredibile che quell'uomo potesse dire cose simili in tutta serietà. Ma naturalmente Peter non aveva visto da vicino la potenza degli aalaag come l'aveva vista lui. Era come se i topi avessero sognato di sterminare i leoni o di metterli in fuga. Stava per dirglielo, brutalmente, quando l'istinto di sopravvivenza gli suggerì di continuare ad essere prudente. Evitando una risposta diretta, cambiò argomento. — È la seconda volta che hai parlato d'una leggenda — disse. — Quale? — Non lo sai? — C'era una nota di trionfo nella voce di Peter, ma non diede spiegazioni.
— Dicono che tutti i segni sono tracciati da una stessa persona — disse Maria. Anche lei parlava inglese, adesso, con una vaga traccia di accento veneziano. — Da qualcuno che viene chiamato il Pellegrino, e che può andare e venire senza che gli aalaag riescano a impedirlo o a catturarlo. — E tutti voi avete aiutato il Pellegrino, è così? — chiese Shane alzando la voce. — Il fatto è — l'interruppe Peter, — che adesso il Pellegrino dev'essere associato a una organizzazione solida. Non lo pensi anche tu? Shane si sentì riassalire dalla stanchezza che l'aveva preso nel momento in cui l'avevano sequestrato. — Se riuscite a trovare il vostro Pellegrino, chiedetelo a lui — rispose. — Non sono io, e non ho opinioni in proposito. Peter lo fissò per un momento. — Che tu sia o no il Pellegrino non c'entra — disse. — L'importante è che puoi aiutarci e che noi abbiamo bisogno di te. Il mondo ha bisogno di te. Da quello che ci hai detto, è evidente che potresti essere prezioso già soltanto fungendo da collegamento tra i gruppi della resistenza. Shane rise, tristemente. — Neppure per sogno — disse. — Non vuoi neppure pensarci — disse Peter. — Come mai sei tanto sicuro di non volerlo fare? — Ho cercato di spiegarvelo dal momento in cui mi avete sequestrato — disse Shane. — E non vuoi ascoltare. Tu non conosci gli aalaag. Io sì. Siccome non li conosci, puoi illuderti che la vostra resistenza abbia qualche possibilità. Io so che non è cosi. Da millenni continuano a impadronirsi di mondi come questi e ad asservire le popolazioni indigene. Credevi che questo fosse il primo pianeta dove hanno provato il loro sistema? Non potete trovare un mezzo per attaccarli che loro non abbiano già visto e che non sappiano sventare. Ma anche se riusciste a trovare qualcosa di nuovo, non potreste vincere. — Perché no? — chiese Peter, accostando la testa. — Perché sono esattamente ciò che dicono di essere... conquistatori nati che non possono venir dominati o sconfitti. Non puoi torturare un aalaag e strappargli informazioni. Non puoi puntare un'arma contro uno di loro e costringerlo a indietreggiare o ad arrendersi. Tutto ciò che puoi fare è ucciderli... se hai fortuna. Ma hanno una tale potenza, una potenza militare talmente enorme, che funzionerebbe solo se li sterminaste tutti nello stesso momento. Se uno solo sfuggisse e fosse sull'avviso, avreste perso.
— Perché? — Perché con un minimo di preavviso, chiunque di loro potrebbe rendersi invulnerabile e poi prendersi tutto il tempo necessario per spazzar via intere città e regioni della terra, una ad una, fino a quando gli altri umani rimasti consegnerebbero all'aalaag su un piatto d'argento voi e tutti quelli che hanno combattuto, pur di fare cessare lo sterminio. — E a che servirebbe all'aalaag superstite — chiese Peter, — se fosse l'ultimo rimasto sulla Terra? — Non crederai che tutti gli aalaag dell'universo siano qui, vero? — disse Shane. — La terra, con un unico aalaag rimasto vivo, rappresenterebbe soltanto un nuovo spazio vitale per la popolazione aalaag in soprannumero altrove. Entro un anno o anche meno avreste qui tanti aalaag quanti ce n'erano prima; e gli unici risultati sarebbero gli umani morti, le aree distrutte, e il fatto che allora gli aalaag creerebbero un sistema di controllo ancora più rigoroso per assicurarsi che non vi siano altre interruzioni in futuro. Vi fu un silenzio. Carlo affrontò un'altra curva a tutta velocità e Shane vide sulla strada il cartello che annunciava che mancava appena un chilometro all'aeroporto. Il tepore del corpo di Maria lo pervadeva e sentiva l'odore aspro e pulito del sapone con il quale doveva essersi lavata i capelli quella mattina. — Allora non alzerai un dito per aiutarci? — chiese Peter. — No — disse Shane. Carlo svoltò sulla rampa che immetteva sulla strada dell'aeroporto. — Nessuno è disposto a far niente? — scattò all'improvviso Maria. — Nessuno? Nessuno? Una gelida scossa elettrica squassò Shane. Era come se una spada l'avesse trapassato. Affondava fino alle radici dell'istinto, fino agli antichi riflessi sessuali e razziali da cui scaturiva lo yowaragh. Le parole non erano nulla, il grido era tutto. Per un momento rimase in silenzio, stordito. — Sta bene — disse. — Lasciate che ci pensi, allora. Sentì la propria voce lontana, remota. — Non concluderete mai nulla, così come avete agito finore — disse. — Sbagliate tutto perché non capite gli aalaag. Io li capisco. Forse potrei dirvi che cosa fare... ma dovreste lasciare che sia io a dirvelo, e non cercare semplicemente di frugarmi nella mente, altrimenti non funzionerà. Siete disposti ad accettare? Se no, è inutile. — Sì! — disse Maria.
Un altro breve silenzio. — D'accordo — disse Peter. Shane si voltò a guardarlo. — Altrimenti sarà inutile. — Siamo disposti a tutto, pur di colpire gli aalaag — disse Peter, e questa volta la risposta fu immediata. — Bene — disse Shane, stancamente. — Dovrò pensarci, comunque. Come posso mettermi in contatto con voi? — Potremo trovarti noi, se sapremo in che città andrai quando viaggerai — disse Peter. — Pubblicheremo un annuncio convenzionale sul giornale locale prima che tu arrivi... — Non ho mai un preavviso così lungo — disse Shane. — Ma potrei entrare in un negozio nel centro di una città, appena arrivo, e comprare una veste da pellegrino, grigia come quella che porto adesso... e pagarla in monete aalaag d'oro e d'argento. Potrete chiedere ai negozianti di informarvi. E se la descrizione corrisponde, tenete d'occhio il quartier generale locale degli aalaag, e prelevatemi mentre entro o esco. — D'accordo — disse Peter. — Un'altra cosa — disse Shane. Erano quasi arrivati all'aerostazione. Guardò Peter negli occhi. — Ho visto gli aalaag interrogare gli umani e so quello che dico. Se sospetteranno di me, mi interrogheranno. Se mi interrogheranno, scopriranno tutto quello che so. Dovete rendervene conto. Se tutti gli altri sistemi non servono, hanno droghe che ti inducono a parlare e a parlare fino alla morte. Non amano servirsene perché nel frattempo non sono efficienti: sono costretti ad ascoltare ore di chiacchiere prive di senso prima di ottenere le risposte che vogliono. Ma quando è necessario le usano. Capite? Se interrogano qualcuno, quello gli dice tutto. Non io soltanto... chiunque. È una delle cose di cui dovrete tener conto. — D'accordo — disse Peter. — Il che significa che, per quanto mi riguarda, non voglio che nessuno sappia della mia esistenza, a parte quelli che lo sanno già. Fissò Peter negli occhi, lanciò un'occhiata significativa a Carlo e tornò a guardare Peter. — E quelli che non dovranno più avere a che fare con me in futuro, ammesso che decida di avere qualcosa a che fare con voi, devono credere che adesso scenderò da questa macchina e che nessuno di voi mi rivedrà più. — Capisco — disse Peter. Annuì. — Non preoccuparti. Shane rise seccamente.
— Io mi preoccupo sempre — disse. — Sarei un pazzo se non lo facessi. Sono preoccupato per me stesso, in questo momento. Dovrei andare da uno psichiatra già solo perché ho accettato di pensare alle vostre richieste. Il tassì si fermò accanto al lungo marciapiedi di cemento davanti all'aerostazione. Peter, che era dalla parte del marciapiedi, apri la portiera e scese per lasciar smontare Shane. Shane fece per seguirlo, esitò e per un istante si voltò verso Maria. — Ci penserò — disse. — Farò tutto ciò che posso, meglio che posso. Nella penombra del tassì, il viso di Maria era indecifrabile. Gli tese la mano. Shane la prese, la strinse per un secondo. Lei aveva le dita gelide com'era stata l'aria di Milano, quella mattina. — Ci penserò — ripeté Shane, le strinse di nuovo la mano e scese. Sul marciapiedi si fermò per un secondo di fronte a Peter. — Se non avrete mie notizie entro sei mesi, dimenticatemi — disse. Peter socchiuse le labbra. Sembrò sul punto di dire qualcosa, poi richiuse la bocca. Annuì. Shane gli voltò le spalle ed entrò in fretta nell'aerostazione. Subito oltre la porta vide un poliziotto aeroportuale e si avvicinò; estrasse la Chiave dalla borsa e la mostrò nel palmo della mano. — Questa è la Chiave di Lyt Ahn, Primo Capitano della Terra — disse frettolosamente in italiano. — Io sono uno dei suoi corrieri speciali, e ho bisogno d'un mezzo di trasporto per raggiungere la sezione riservata ai Padroni. Subito. Subito! È un'emergenza. Ma senza attirare l'attenzione. L'agente scattò, si sganciò il telefono dalla cintura e cominciò a parlare. In meno di trenta secondi, un'auto elettrica arrivò tra la folla, planando sul cuscino d'aria. Shane saltò a bordo dietro l'autista e consultò l'orologio. — Agli hangar degli aerei militari piccoli — disse. Esitò, poi decise: — Innesti la sirena. L'autista innestò la sirena, la folla si aprì mentre girava l'auto e avanzava. Scivolarono sul pavimento lucido, uscirono da un passaggio per veicoli accanto all'ingresso della pista. L'auto si sollevò più in alto sul cuscino d'aria e procedette più veloce. Fiancheggiarono due lati dell'aeroporto e si avvicinarono agli hangar argentei ben sorvegliati dove stavano i mezzi militari atmosferici degli aalaag. Rallentarono al cancello del recinto. Shane mostrò la chiave e spiegò la ragione della sua presenza alla Guardia Speciale umana in servizio. — Siamo stati avvertiti del suo arrivo — disse la guardia. — Hangar
Tre. L'aereo corriere è pilotato dal Padrone Enech Ajin, del trentacinquesimo rango. Shane annuì e l'autista dell'auto elettrica, che aveva sentito, ripartì senza bisogno d'altri ordini. Nell'hangar, la sagoma agile a manubrio dell'aereo corriere sembrava minuscola accanto ai grandi caccia degli aalaag che lo fiancheggiavano. Eppure, Shane lo sapeva, anche quegli aerei così grandi erano piccoli in confronto ai mezzi da combattimento dei Padroni. Quelli non toccavano mai la superficie, e restavano continuamente in orbita, pronti a entrare in azione... un po' per ragioni di principio, e un po' perché sulla Terra non esistevano aeroporti o spazioporti dove potessero posarsi senza causare danni gravissimi. Balzò dall'auto che si era fermata accanto al portello dell'aereo corriere, salì in fretta la scaletta ed entrò. Non c'era molto spazio, all'interno: anche quel mezzo, destinato al trasporto dei dispacci, era armato in modo massiccio. La schiena enorme di un aalaag torreggiava sopra uno dei tre sedili davanti ai comandi, a prua. Shane si avvicinò, si fermò dietro il sedile e attese. Non soltanto era il suo dovere, ma era tutto ciò che era necessario, anche se il pilota non l'aveva sentito arrivare. A quella distanza ridotta, sentiva nettamente il tipico odore dell'aalaag, e senza dubbio anche il pilota sentiva il suo. Dopo un momento, infatti, il pilota parlò. — Vai a sederti là indietro, bestia. — Era la voce di una femmina aalaag. — Devo fare altre due fermate prima di portarti all'area del Primo Capitano. Shane tornò indietro e sedette. Dopo un paio di minuti, l'aereo corriere si sollevò a circa tre metri dal pavimento dell'hangar, poi uscì nell'ultima luce del giorno, virò e andò a posarsi su una rampa di lancio. Si fermò e Shane espirò l'aria dai polmoni e appoggiò le braccia negli incavi dei braccioli. Per un secondo non vi furono suoni né movimento. Poi venne qualcosa di simile a uno scrocio di tuono, un peso immane lo schiacciò sul sedile inchiodandolo per un lungo momento... quindi un senso di libertà e di leggerezza, e Shane ebbe l'impressione di potersi sollevare fluttuando dal sedile. Era un'impressione esagerata. Era ancora sotto l'effetto della gravità: ma il contrasto con la pressione del decollo creava l'illusione della leggerezza. Guardò lo schermo sullo schienale del sedile davanti a lui e vide la superficie della Terra sottostante, l'orizzonte curvo, la screziatura delle nubi.
Niente altro. Il viso impenetrabile di Maria riaffiorò nella sua immaginazione con estrema nitidezza, come se aleggiasse nell'aria davanti a lui. Sentiva il contatto delle dita fredde contro le sue, e la voce che riecheggiava nella memoria: — Nessuno è disposto a far niente? Nessuno? Nessuno? Erano tutti pazzi. Shane rabbrividì. Aveva fatto bene a stare al gioco e a fingere di prendere in considerazione la proposta di associarsi alla loro ridicola resistenza, che poteva condurre soltanto alla tortura e alla morte per mano degli aalaag. Non avevano nessuna speranza. Nessuna. Se avesse preso seriamente in considerazione la possibilità di unirsi a loro, sarebbe stato altrettanto pazzo. Il cuore gli martellava nel petto. Il contatto freddo delle dita di Maria sulle sue dita sembrava dilagargli nelle braccia, in tutto il suo essere. No, era inutile. Non importava nulla, anche se erano pazzi. Non aveva scelta. Qualcosa, dentro di lui, non gli lasciava scelta, benché sapesse che cosa significava. L'avrebbe fatto, anche se sapeva che alla fine l'avrebbe portato alla morte. Li avrebbe cercati di nuovo e sarebbe tornato. Per unirsi a loro. LA GROTTA DEI CERVI DANZANTI Grotto of the Dancing Deer di Clifford D. Simak Analog, agosto 1980 Clifford Simak non ha certo bisogno di presentazioni: scrive fantascienza da cinquant'anni ed è sempre stato uno dei massimi autori di questa letteratura. Il suo libro più famoso, nonostante abbia scritto tantissimi capolavori (da La casa dalle finestre nere a L'anello intorno al sole, fino al recentissimo Il papa definitivo) rimane ancora City, che vinse nel 1953 l'International Fantasy Award. Questo Grotto of the Dancing Deer è la storia di un archeologo alle prese con una caverna dei Cro-Magnon decorata con antichi dipinti e ancora contenente la «paletta» usata dal pittore originale, una paletta con delle impronte digitali identiche a quelle del suo assistente basco! Una burla? Ma le tecniche moderne sono in grado di sbugiardare tali burle; e se venisse definitivamente dimostrato che non si tratta di un imbroglio? Una storia originale e gradevole, alla maniera del miglior Simak, che riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che questo grandissimo autore non ha perso
nulla della fervida immaginazione di un tempo e della sua bravura nel creare personaggi simpatici e commoventi. I Luis stava suonando il flauto quando Boyd s'inerpicò su per il sentiero irto che conduceva alla grotta. Non era affatto necessario visitare di nuovo la caverna; tutto il lavoro era ormai completato, i rilevamenti, le misurazioni, le fotografie, per estrarre da quel luogo tutte le informazioni possibili. Non soltanto i dipinti, anche se erano la parte più importante. C'erano state anche le ossa bruciate degli animali, e il carbone di legna del fuoco sul quale erano state bruciate; la piccola scorta di terre naturali di cui erano formati i pigmenti usati dai pittori... una scorta di componenti preziose, forse nascoste da un artista che, per qualche ragione non intuibile, non aveva avuto la possibilità di usarle; la mano umana atrofizzata, recisa al polso (perché era stata mozzata e, una volta mozzata, era stata lasciata lì fino a che l'avevano ritrovata gli uomini di trenta millenni più tardi?); la lampada ricavata da un pezzo di arenaria, incavata per accogliere un batuffolo di muschio, e con la cavità piena di grasso, in modo che il mucchio servisse da stoppino per dare luce a coloro che dipingevano. Tutte queste cose e molte altre, pensava Boyd con una certa soddisfazione; Gavarnie si era rivelato, forse grazie ai metodi sofisticati d'indagine scientifica utilizzati, il sito più significativo in fatto di pitture rupestri che mai fosse stato studiato... forse sotto certi aspetti meno spettacolare di Lascaux, ma molto più produttivo in quanto a dati ottenuti. Non era necessario visitare di nuovo la grotta, eppure c'era una ragione... la sensazione assillante di aver trascurato qualche cosa, nella fretta e nella concentrazione dell'altro lavoro, la sensazione di aver dimenticato qualcosa d'importante. Al momento non gli aveva fatto molta impressione; ma ora, ripensandoci, era sempre più incline a credere che potesse avere importanza. Probabilmente era soltanto uno scherzo della sua immaginazione. Quando l'avesse rivisto (se fosse riuscito a ritrovarlo ancora, naturalmente, se non era soltanto il prodotto d'una preoccupazione retroattiva), poteva rivelarsi come un nonnulla, una sensazione scaturita per tormentarlo. E perciò adesso era di nuovo li, a inerpicarsi sul sentiero scosceso, con il martello da geologo che gli pendeva dalla cintura, la grossa torcia elettrica stretta nella mano, e ascoltava il suono del flauto di Luis, appollaiato su
una piccola terrazza poco al di sotto della bocca della caverna, allo stesso posto che aveva occupato per tutta la durata dei lavori. Luis stava accampato là nella sua tenda, qualunque tempo facesse, e cucinava su un fornelletto, e fungeva da cane da guardia senza che qualcuno glielo avesse chiesto, sempre all'erta contro gli intrusi, anche se gli intrusi erano stati pochi, a parte i rari turisti curiosi che avevano sentito parlare del progetto e avevano deviato dal loro percorso per venire a vedere. Gli abitanti della valle sottostante non avevano dato nessun fastidio: s'erano disinteressati completamente di quanto stava accadendo sul pendio sopra di loro. Per Boyd, Luis non era un estraneo; dieci anni prima era comparso su, al progetto del riparo di rocce lontano cinquanta miglia, e c'era rimasto per due stagioni di scavi. Il riparo di rocce non era risultato produttivo come aveva sperato inizialmente Boyd, sebbene avesse gettato qualche luce nuova sulla cultura Aziliana, l'ultima dei grandi gruppi preistorici dell'Europa occidentale. Assunto come manovale, Luis s'era dimostrato un allievo capace, e via via che il lavoro progrediva gli erano state assegnate responsabilità maggiori. Una settimana dopo che era incominciato il lavoro a Gavarnie, era ricomparso. — Ho sentito che eri qui — aveva detto. — C'è qualcosa per me? Quando girò intorno a una brusca ansa del sentiero, Boyd lo vide, seduto a gambe incrociate davanti alla tenda sciupata. Teneva accostato alle labbra il flauto primitivo, e suonava e suonava. Era una musica primordiale, pigolante, elementare. Anzi, quasi non era neppure musica, sebbene Boyd fosse disposto ad ammettere che di musica non s'intendeva affatto. Quattro note... erano quattro note? si chiese. Un osso cavo con una fenditura allungata come bocchino, e due fori. Una volta aveva chiesto spiegazioni a Luis. — Non ho mai visto niente di simile, — aveva detto. E Luis aveva risposto: — Non se ne vedono molti. In qualche villaggio remoto, qua e là, nascosto tra le montagne. Boyd lasciò il sentiero, attraversò la terrazza erbosa e sedette accanto a Luis che si staccò il flauto dalle labbra e se lo posò sulle ginocchia. — Credevo che fossi andato via — disse Luis. — Gli altri sono partiti un paio di giorni fa. — Sono tornato a dare un'ultima occhiata — disse Boyd. — Ti dispiace lasciarla? — Sì, credo di sì. Sotto di loro la valle si estendeva nei bruni e nei gialli dell'autunno, e il fiumicello era un nastro argenteo nel sole, e i tetti rossi del villaggio erano
una chiazza di colore sulla sua riva. — È bello quassù — disse Boyd. — Tante volte mi sorprendo a immaginare come doveva essere al tempo in cui furono eseguiti i dipinti. Forse non era molto diverso da ora. Le montagne non devono essere cambiate. Non c'erano campi nella valle, ma probabilmente era un pascolo naturale. Qualche albero qua e là, ma non molti. Selvaggina abbondante. Doveva esserci l'erba per i ruminanti. Ho sempre cercato d'immaginare dove si accampava la gente. Secondo me, stavano dov'è ora il villaggio. Si voltò a guardare Luis. L'uomo era ancora seduto sull'erba, con il flauto sulle ginocchia. Sorrideva con calma, come a se stesso. Il berretto nero era ben calcato sulla testa, la faccia abbronzata era tonda e liscia, i capelli neri tagliati corti, la camicia blu aperta sulla gola. Era giovane e forte, e senza una ruga. — Tu ami il tuo lavoro — disse Luis. — Gli sono devoto. E anche tu, Luis — disse Boyd. — Non è il mio lavoro. — Comunque — disse Boyd, — lo sai far bene. Vuoi venire con me? Un'ultima occhiata in giro. — Devo scendere al villaggio per una commissione. — Credevo che non ti avrei trovato — disse Boyd. — Mi ha sorpreso sentire il tuo flauto. — Me ne andrò presto — disse Luis. — Fra un giorno o due. Non ho motivo di restare ma, come te, amo questo posto. Non ho una destinazione, non c'è nessuno che abbia bisogno di me. Non ho niente da perdere se rimango per qualche giorno ancora. — Tutto il tempo che vuoi — disse Boyd. — Questo posto è tuo. Presto il governo manderà un custode, ma il governo si muove con molta ponderazione. — Allora forse non ci vedremo più — disse Luis. — Mi sono preso un paio di giorni per andare a Roncisvalle — disse Boyd. — È là che i guasconi massacrarono la retroguardia di Carlomagno nel 778. — Ho sentito parlare di quel posto — disse Luis. — Ho sempre desiderato vederlo. Non ne avevo mai avuto il tempo. La cappella di Carlomagno è in rovina, ma mi hanno detto che nel villaggio celebrano ancora messe per le anime dei paladini caduti. E quando sono ritornato, non ho saputo resistere alla tentazione di rivedere la grotta. — Mi fa piacere — disse Luis. — Posso essere impertinente?
— Tu non sei mai impertinente — disse Boyd. — Prima di andare, possiamo spezzare insieme il pane ancora una volta? Forse stasera preparerò un'omelet. Boyd esitò e si trattenne dal proporre che Luis andasse a cena con lui. Poi disse: — Con piacere, Luis. Porterò una bottiglia di vino buono. II Tenendo il fascio della torcia elettrica puntato contro la parete Boyd si chinò per esaminare più attentamente la roccia. Non l'aveva immaginato; aveva avuto ragione. Li, in quel punto, la roccia non era compatta. Era fratturata in diversi pezzi, ma quei pezzi collimavano perfettamente con il resto della parete. La frattura poteva venire scoperta soltanto per caso. Se non avesse guardato direttamente in quel punto, cercandola mentre faceva scorrere il fascio luminoso, gli sarebbe sfuggita. Era strano, pensò, che qualcun altro, durante tutto il tempo che avevano lavorato nella grotta, non l'avesse trovata. S'erano lasciati sfuggire ben poco. Trattenne il respiro, e si sentì un po' ridicolo perché lo tratteneva: dopotutto, poteva darsi che non significasse nulla. Forse erano crepe causate dal gelo, sebbene sapesse che era improbabile. Sarebbe stato molto insolito trovare lì crepe aperte dal ghiaccio. Sganciò il martello dalla cintura e, reggendo la torcia con una mano, rivolta verso quel punto, insinuò a forza in una delle incrinature l'estremità a scalpello. La lama penetrò senza difficoltà. Boyd premette delicatamente e la crepa si allargò. Sotto una pressione più accentuata, il pezzo di roccia si smosse. Posò la torcia e il martello, afferrò la lastra e la liberò. Sotto c'erano altre due lastre, e si staccarono con la stessa facilità della prima. Ce n'erano altre, e Boyd rimosse anche quelle. S'inginocchiò sul pavimento della grotta e puntò la luce nel varco che aveva scoperto. Era abbastanza grande perché un uomo potesse entrarvi strisciando, ma quella prospettiva lo lasciò indeciso per un momento. Solo com'era, sarebbe stato un rischio. Se fosse accaduto qualcosa, se fosse rimasto incastrato, se un frammento di roccia si fosse spostato bloccandolo o gli fosse caduto addosso, nessuno l'avrebbe soccorso. O probabilmente, non l'avrebbe soccorso in tempo per salvarlo. Luis sarebbe tornato alla tenda ad aspettarlo; ma se lui non fosse comparso, Luis l'avrebbe interpretato come un rimprovero per la sua impertinenza o una dimostrazione di insensibilità da parte dell'americano. Non avrebbe mai pensato che Boyd potesse essere impri-
gionato nella caverna. Eppure quella era la sua ultima occasione. L'indomani avrebbe dovuto raggiungere Parigi in macchina per prendere l'aereo. E questo era molto interessante: non poteva ignorarlo. L'apertura doveva avere un significato; altrimenti, perché era stata murata con tanta cura? E chi l'aveva murata? si chiese. Certamente non era stato fatto in tempi recenti. Chiunque, trovando l'ingresso nascosto della caverna, avrebbe visto quasi immediatamente i dipinti e avrebbe diffuso la voce. Quindi l'ingresso del varco doveva essere stato ostruito da qualcuno che non conosceva il significato dei dipinti, oppure da qualcuno per il quale erano una cosa banale e comune. Non poteva lasciar perdere, decise Boyd; doveva entrare. Si fissò il martello alla cintura, riprese la torcia elettrica e s'insinuò carponi. Il passaggio continuava, diritto e agevole, per una trentina di metri o più. C'era a malapena lo spazio per strisciare ma, a parte questo, non presentava altre difficoltà. Poi all'improvviso finiva. Boyd, sdraiato a terra, puntò il fascio della torcia davanti a sé e fissò costernato la parete di roccia levigata che chiudeva il cunicolo. Non aveva senso. Perché mai qualcuno doveva essersi dato la pena di murare un crepaccio vuoto? Forse gli era sfuggito qualcosa lungo il percorso, ma pensandoci bene credeva di poterlo escludere. Era avanzato lentamente, e aveva tenuto il raggio della torcia sempre puntato davanti a sé. Certamente, se ci fosse stato qualcosa fuori dell'ordinario, l'avrebbe visto. Poi gli venne un'idea improvvisa e lentamente, con un certo sforzo, incominciò a girarsi su se stesso, per appoggiare il dorso anziché lo stomaco sul fondo del crepaccio. Puntò la torcia verso l'alto, e trovò la soluzione che cercava. Nella volta del cunicolo c'era un buco. Cautamente, si sollevò a sedere. Alzò le braccia e trovò appigli per le mani nella roccia sporgente, e si issò in piedi, eretto. Girò il fascio di luce intorno a sé e vide che il buco si apriva: non in un altro crepaccio, ma in una cavità sferica... piccola, con un diametro inferiore ai due metri. Le pareti e la volta erano lisce, come se per un momento fosse esistita una bolla di roccia plastica, nel lontano passato geologico quando la montagna si era sollevata, e avesse lasciato dietro di sé quella sfera solidificata per sempre nella pietra. Quando girò il raggio della torcia all'interno della sfera, represse un'esclamazione di meraviglia. Animali coloratissimi folleggiavano sull'intera distasa di pietra. I bisonti giocavano a saltaranocchio. I cavalli galoppavano in fila come ballerine. I mammuth eseguivano salti mortali. Tutto intor-
no al perimetro della base, poco al di sopra del pavimento, i cervi danzavano, ritti sulle zampe posteriori, e si tenevano per mano e ballavano facendo ondeggiare graziosamente le grandi corna. — Cristo! — esclamò Boyd. Disney dell'età della pietra. Se era dell'età della pietra. Era possibile che qualche buontempone si fosse insinuato là dentro in tempi recenti per dipingere gli animali di quella minuscola grotta? Pensandoci meglio, Boyd accantonò l'idea. A quanto aveva potuto accertare nessuno, nella valle o nell'intera regione, aveva conosciuto l'esistenza della grotta grande fino a quando un pastore l'aveva scoperta, diversi anni prima, per cercare un agnello che vi si era infilato. L'entrata era piccola e per secoli era rimasta nascosta dalla fitta vegetazione di arbusti e di felci. E l'esecuzione dei dipinti aveva un tocco preistorico. La prospettiva vi aveva una parte minima. Le figure avevano quel bizzarro aspetto piatto che caratterizza gran parte dell'arte della preistoria. Non c'era uno sfondo... né orizzonte, né alberi, né erba o fiori, o nuvole, o il senso del cielo. Però, si disse Boyd, chiunque avesse una conoscenza della pittura rupestre sarebbe stato al corrente di tutti quei fattori e si sarebbe dato da fare per riprodurli. Eppure, nonostante le esibizioni così poco caratteristiche degli animali effigiati, quei dipinti gli davano la sensazione dell'arte rupestre. Quale uomo antico, si chiese Boyd, quale specie di uomo antico avrebbe rappresentato un bisonte che folleggiava e i mammuth che eseguivano capriole? Sebbene la situazione non avesse riscontro in tutta l'arte dei cavernicoli, i dipinti di quella grotta erano assolutamente... tradizionali nella forma e con un onesto, sincero tentativo di ritrarre gli animali come gli artisti li avevano veduti. Non c'era frivolezza, non c'erano neppure le impronte delle mani umane sporche di colore che apparivano tanto spesso in altre grotte. Gli uomini che avevano lavorato in quella caverna non erano ancora corrotti dal simbolismo che si era insinuato piuttosto tardi nel ciclo della pittura preistorica. Dunque, chi era stato il pagliaccio che era penetrato tutto solo nella piccola grotta nascosta per dipingere quei suoi animali comici? Che fosse stato un pittore esperto non c'era da dubitare. Le tecniche e l'esecuzione erano impeccabili. Boyd si issò attraverso il buco, sul cornicione ampio mezzo metro che circondava il varco, e rimase curvo perché non c'era spazio per alzarsi in piedi. Quasi tutti i dipinti, notò, dovevano essere stati eseguiti dall'artista
steso sul dorso, con le braccia sollevate per raggiungere il soffitto curvo. Fece scorrere lungo il cornicione il raggio della torcia. Lo arrestò all'improvviso e lo spostò avanti e indietro, per inquadrare qualcosa che stava posato là, senza dubbio dimenticato dall'artista quando aveva ultimato la sua opera e se ne era andato. Boyd si protese in avanti, e socchiuse le palpebre per vedere meglio. Sembrava la scapola d'un cervo; e accanto alla scapola c'era un pezzo di pietra. Cautamente, girò intorno al cornicione. Non aveva sbagliato. Era una scapola di cervo. Sulla superficie piatta c'era un grumo. Colore? si chiese. Il miscuglio di grassi animali e di terre minerali che gli artisti preistorici usavano per dipingere? Avvicinò la torcia e non ebbe più dubbi. Era colore, sparso sulla superficie dell'osso che era servito come tavolozza; e parte del colore era in grumi più spessi, pronti per l'uso ma mai usati... colore secco e mummificato che recava alcune impronte. Si chinò, accostando il viso a pochi centimetri dal colore e puntando la luce. Erano impronte digitali, vide, alcune profonde... la firma dell'uomo antico, morto da tanto tempo, che aveva lavorato lì, accovacciato come ora stava accovacciato Boyd, con le spalle aggobbite contro la pietra curva. Tese la mano per toccare la tavolozza, poi la ritrasse. Era simbolico, sì, quel movimento, quell'impulso di toccare l'uomo che aveva dipinto... ma era soltanto simbolico: c'erano di mezzo troppi secoli. Spostò il raggio della torcia sul piccolo blocco di pietra accanto alla scapola. Una lampada... arenaria scavata, per contenere il grasso e il batuffolo di muschio che serviva come stoppino. Il grasso e lo stoppino non c'erano più da molto tempo, ma un sottile velo di fuliggine rimaneva ancora intorno all'orlo della cavità che li aveva contenuti. Quando aveva ultimato il suo lavoro, l'artista aveva lasciato lì i suoi strumenti, aveva abbandonato persino la lampada che forse ardeva ancora, con il grasso quasi consumato... li aveva lasciati li e si era calato nel cunicolo, strisciando nell'oscurità. Forse non aveva bisogno di luce: sapeva strisciare nel crepaccio al tatto, guidato dall'abitudine. Doveva aver fatto quel percorso molte volte, perché il lavoro su quelle pareti aveva richiesto parecchio tempo, forse molti giorni. Dunque se n'era andato, strisciando nel cunicolo, e aveva usato i blocchi di pietra per chiudere l'apertura del crepaccio, e quindi si era allontanato, scendendo il pendio per raggiungere la valle dove gli animali al pascolo avevano alzato la testa per guardarlo e avevano ripreso a brucare.
Ma quando era accaduto? Probabilmente, si disse Boyd, dopo che era stata dipinta la caverna grande, forse addirittura quando ormai i dipinti della caverna avevano perduto gran parte del significato posseduto in origine... un uomo solo che era ritornato a dipingere i suoi animali segreti nel suo luogo segreto. Li aveva ritratti come una beffa della pomposa importanza magica degli affreschi nella grotta principale? Come una protesta del tradizionalismo rigoroso degli affreschi originali? O semplicemente come una risata esuberante, forse una ribellione gioiosa contro la tetraggine e la stoltezza della magia della caccia? Un ribelle, pensò, un ribelle preistorico... un ribelle intellettuale? O forse soltanto un uomo con un punto di vista leggermente in contrasto con la filosofia del suo tempo? Ma era l'altro uomo, l'uomo antico. E lui? Ora che aveva trovato la minuscola grotta, che cosa avrebbe fatto? Come avrebbe dovuto regolarsi? Certamente non poteva voltarle le spalle e andarsene come aveva fatto l'artista, dopo aver abbandonato la tavolozza e la lampada. Perché era una scoperta troppo importante. Su questo non c'erano dubbi. Era una finestra nuova e insospettata che si spalancava sulla mentalità preistorica, una sfaccettatura del pensiero antico che nessuno aveva mai sospettato. Doveva lasciare tutto come stava, richiudere il varco e fare una telefonata a Washington e un'altra a Parigi, disfare le valige e prepararsi a qualche altra settimana di lavoro. Richiamare i fotografi e gli altri della squadra... fare le cose sul serio. Sì, si disse: era l'unica soluzione. Qualcosa che stava dietro la lampada, seminascosto dall'oggetto di arenaria, baluginò nella luce. Era un oggetto bianco e piccolo. Tenendosi curvo, Boyd si spostò in avanti per vedere meglio. Era un pezzo d'osso, probabilmente la tibia di un piccolo erbivoro. Boyd tese la mano e lo prese e, quando vide che cos'era, si aggobbì e restò immobile a fissarlo, senza sapere che cosa pensare. Era un flauto, gemello del flauto che Luis portava nella tasca della giacca, e che aveva sempre portato in tasca dal primo giorno in cui l'aveva conosciuto, anni prima. C'era la fenditura del bocchino, c'erano i due fori rotondi. Quel giorno antichissimo, quando i dipinti erano stati completati, l'artista si era accoccolato lì, nella luce guizzante della lampada, e aveva suonato sommessamente per sé le semplici arie pigolanti che Luis aveva suonato quasi ogni sera, dopo il lavoro. — Gesù misericordioso — disse Boyd, in un tono che era quasi di preghiera, — non è possibile! Rimase cosi, impietrito, e i pensieri gli martellavano nella mente per
quanto tentasse di scacciarli. Non volevano abbandonarlo. Li allontanava da sé, e ritornavano a sopraffarlo. Finalmente, con uno sforzo di volontà, vinse la trance in cui lo tenevano prigioniero i pensieri. Si mise al lavoro con decisione, imponendosi di fare ciò che sapeva necessario. Si tolse la giacca a vento e si avvolse meticolosamente la tavolozzascapola e il flauto, lasciando la lampada. Si calò nel cunicolo e prese a strisciare, proteggendo con cura il suo fardello. Quando ritornò nella grotta grande, rimise al loro posto i blocchi di pietra per ostruire l'imboccatura del passaggio, raccolse manciate di terriccio dal pavimento e lo spalmò sui blocchi e poi lo tolse, lasciando soltanto un velo sottile aderente per mascherare l'apertura. Luis non era nel suo accampamento, sulla terrazza sotto la caverna: era ancora a sbrigare la sua commissione al villaggio. Quando arrivò in albergo, Boyd fece la telefonata a Washington, e non fece quella a Parigi. III Le ultime foglie ottobrine volavano nel vento d'autunno e un sole pallido, non completamente oscurato dalle nubi fluttuanti, brillava su Washington. John Roberts lo stava aspettando sulla panchina del parco. Si scambiarono un cenno di saluto, senza parlare, e Boyd sedette accanto all'amico. — Hai corso un bel rischio — disse Roberts. — Cosa sarebbe successo se quelli della dogana... — Non era una grossa preoccupazione — disse Boyd. — Conoscevo quel tale a Parigi. Sono anni che contrabbanda roba in America. È molto abile, e mi doveva un favore. Che cos'hai scoperto? — Forse più di quanto vorresti sentire. — Mettimi alla prova. — Le impronte digitali corrispondono — disse Roberts. — Sei riuscito ad avere una lettura delle impressioni sul colore? — Chiarissima. — L'FBI? — Sì, l'FBI. Non è stato facile, ma ho un paio di amici. — E la datazione?
— Non è stato un problema. Il difficile è stato convincere il mio uomo che fosse top secret. Non ne è ancora sicuro. — Terrà la bocca chiusa? — Credo di sì. Senza prove, nessuno gli crederebbe. Sembrerebbe una favola. — Dimmi. — Ventiduemila. Più o meno trecento anni. — E le impronte corrispondono. Quelle sulla bottiglia e... — Te l'ho detto, corrispondono. E adesso spiegami tu come diavolo un uomo vissuto ventiduemila anni fa ha potuto lasciare le impronte digitali su una bottiglia di vino che è stata fabbricata l'anno scorso. — È una storia lunga — disse Boyd. — Non so se dovrei spiegartela. Prima, dove hai messo la scapola? — È nascosta — disse Roberts. — Molto ben nascosta. Puoi riaverla quando vuoi, e anche la bottiglia. Boyd alzò le spalle. — Non ancora. Fra qualche tempo. O forse mai. — Mai? — Senti, John, devo pensarci bene. — Che razza di pasticcio — disse Roberts. — Nessuno vuole quella roba. Nessuno si azzarderebbe a volerla. Alla Smithsonian non la toccherebbero neppure con un forcone. Non l'ho chiesto. Non sanno neppure che esista. Ma so che non la vorrebbero. C'è una legge, mi pare, che vieta l'esportazione clandestina da un paese... — Sì — disse Boyd. — E adesso quella roba non la vuoi neppure tu. — Non ho detto questo. Ho detto semplicemente di lasciarla dov'è, per il momento. È al sicuro, no? — È al sicuro. E adesso... — Te l'ho detto, è una storia lunga. Cercherò di riassumerla. C'è un uomo... un basco. Venne da me dieci anni fa, quando facevo gli scavi nel riparo tra le rocce... Roberts annuì. — Sì, lo ricordo. — Voleva un lavoro e io glielo diedi. Imparò in fretta, assimilò immediatamente le tecniche. Diventò un collaboratore prezioso. Capita spesso, con i manovali reclutati sul posto. Sembra che abbiano il senso delle loro antichità. E poi, quando abbiamo incominciato i lavori nella grotta, è ricomparso. Sono stato contento di rivederlo. Per la precisione, siamo buoni amici. L'ultima sera che sono stato alla caverna ha cucinato un'omelet
meravigliosa... uova, pomodori, peperoni verdi, cipolle, salsicce e prosciutto casalingo. Io ho portato una bottiglia di vino. — Quella bottiglia. — Sì, quella bottiglia. — Continua. — Suonava un flauto. Un flauto d'osso che squittiva. Non troppo musicale... — C'era un flauto... — No, non quello. Un altro. Lo stesso tipo di flauto, ma non quello che ha il nostro uomo. Due flauti eguali. Uno nella tasca del vivo, l'altro accanto alla scapola di cervo. Ci sono certe cose, in quell'individuo... Niente che ti salti agli occhi. Piccolezze. Noti qualcosa e poi, qualche tempo dopo, magari parecchio tempo dopo, noti qualcosa d'altro, ma nel frattempo hai dimenticato il primo particolare e non li colleghi. Soprattutto c'era il fatto che sapeva troppo. Certi dettagli che un uomo come lui non avrebbe potuto sapere. Persino cose che non sapeva nessuno. Frammenti di conoscenza che gli sfuggivano, forse senza che se ne rendesse conto. E i suoi occhi. Non me ne sono accorto se non più tardi, quando ho trovato il secondo flauto e ho incominciato a pensare alle altre cose. Ma stavo parlando degli occhi. Ha l'aspetto di un giovane, di un uomo che non invecchia mai: ma gli occhi sono vecchi... — Tom, mi hai detto che è basco. — Infatti. — Non c'è chi afferma che i baschi potrebbero essere discendenti dei Cro-Magnon? — Sì, la teoria esiste. Ci ho pensato. — È possibile che quest'uomo sia un Cro-Magnon? — Sto incominciando a crederlo. — Ma pensaci... ventimila anni! — Sì, lo so — disse Boyd. IV Boyd sentì il pigolio del flauto quando arrivò ai piedi del sentiero che saliva alla caverna. Le note erano spezzate, portate via dal vento. I Pirenei spiccavano contro l'alto cielo azzurro. Boyd si assestò la bottiglia di vino sotto il braccio e incominciò la salita. Sotto di lui c'era il rosso dei tetti del villaggio e il bruno dell'autunno che si
diffondeva nella valle. Il suono del flauto continuò, più nitido e meno nitido a seconda del vento che lo strattonava giocosamente. Luis era seduto a gambe incrociate davanti alla tenda rattoppata. Quando vide Boyd, si mise il flauto sulle ginocchia e attese. Boyd gli sedette accanto e gli porse la bottiglia. Luis la prese e incominciò a lavorare sul tappo. — Ho saputo che eri tornato — disse. — Com'è andato il viaggio? — È andato bene — disse Boyd. — E così ora sai — disse Luis. Boyd annuì. — Penso che tu volessi farmelo sapere. Ma perché lo volevi? — Gli anni sono lunghi — disse Luis. — E il peso opprimente. Mi sento solo. — Non sei solo. — Ci si sente soli, quando non c'è nessuno che ti conosce. Adesso tu sei il primo che mi conosce veramente. — Ma sarà per poco tempo. Ancora qualche anno, e poi non ci sarà nessuno che ti conosca. — Allevia il peso per un po' — disse Luis. — Quando te ne sarai andato tu, riuscirò ad addossarmelo di nuovo. E c'è qualcosa... — Sì, Luis, che cosa? — Hai detto che quando te ne sarai andato non ci sarà più nessuno. Significa... — Vuoi chiedermi se lo racconterò in giro? No, non lo farò. A meno che tu lo desideri. Ho pensato a quello che sarebbe di te se il mondo lo sapesse. — Ho certe difese. Non puoi vivere quanto ho vissuto io, se non hai certe difese. — Quali difese? — Difese, ecco. — Scusami se sono stato indiscreto. C'è un'altra cosa. Se volevi che io sapessi, l'hai presa molto alla lontana. Se qualcosa fosse andato storto, se io non avessi trovato la piccola grotta... — All'inizio avevo sperato che la piccola grotta non fosse necessaria. Avevo creduto che ce l'avresti fatta a indovinare da solo. — Sapevo che c'era qualcosa che non andava. Ma questo è così assurdo che non avrei creduto a me stesso, anche se avessi immaginato. E se non avessi trovato la piccola grotta... L'ho scoperta per un puro caso, sai. — Se non l'avessi scoperta, avrei atteso. In un'altra occasione, un altro
anno, ci sarebbe stato qualcun altro. Qualche altro modo per tradirmi. — Avresti potuto dirmelo. — Così a freddo? — Sì. Non ti avrei creduto, naturalmente. Almeno all'inizio. — Non capisci? Non potevo dirtelo. Ormai nascondermi è diventato una seconda natura. È una delle difese di cui ti ho parlato. Non sarei stato capace di dirlo. A te o a chiunque altro. — Perché proprio a me? Perché hai atteso per tutti questi anni fino a che sono comparso io? — Non ho atteso, Boyd. Ce ne sono stati altri, in tempi diversi. Non è mai andata come volevo. Dovevo trovare, capisci?, qualcuno che avesse la forza per affrontare la verità. Non qualcuno che scappasse via urlando come un pazzo. Sapevo che tu non l'avresti fatto. — Io ho avuto il tempo per pensarci bene — disse Boyd. — E mi sono abituato all'idea. Posso accettare la realtà, ma non troppo: appena appena. Luis, tu hai una spiegazione? Come mai sei così diverso da tutti noi? — Non ne ho la più pallida idea. Un tempo pensavo che dovevano esserci altri come me. Li ho cercati. Non ne ho trovato nessuno. Non li cerco più. Il tappo saltò e Luis passò la bottiglia di vino a Boyd. — Prima tu — disse. Boyd alzò la bottiglia e bevve. La restituì a Luis. Lo guardò bere. E mentre lo guardava si chiedeva come poteva starsene lì tranquillo a parlare con un uomo che aveva vissuto, restando giovane, per ventimila anni. Ancora una volta la gola gli si strinse al pensiero di accettare quella realtà... ma doveva essere l'unica realtà. La scapola di cervo, la piccola quantità di materia organica rimasta nel pigmento aveva dato come responso 22.000 anni. Non c'erano dubbi: le impronte digitali nel colore corrispondevano a quelle della bottiglia. A Washington aveva posto un quesito, nella speranza di trovare la prova di un'impostura. Era possibile, aveva chiesto, che l'antico pigmento, il colore usato dall'artista preistorico, fosse stato ricostruito, e che le impronte vi fossero state lasciate prima che venisse rimesso nella piccola grotta? Impossibile, era stata la risposta. Una ricostruzione del pigmento, se fosse stata possibile, sarebbe risultata evidente dall'analisi. E non era così... il pigmento risaliva a 20.000 anni prima. Non c'era il minimo dubbio. — Bene, Cro-Magnon — disse Boyd, spiegami come hai fatto. Come riesce, un uomo, a sopravvivere per tanto tempo? Non invecchi, è logico. Il
tuo organismo non si ammala. Ma immagino che tu non sia immune alla violenza e agli incidenti. Sei vissuto in un mondo violento. Come può un uomo evitare gli incidenti e la violenza per duecento secoli? — All'inizio — disse Luis, — tante volte rischiai di non sopravvivere. Per molto tempo non mi resi conto di quel che ero. Sicuro, ero più longevo di tutti gli altri, e rimanevo più giovane di loro... ma mi pare che non incominciai a notarlo fino a quando mi accorsi che tutti quelli che avevo conosciuto molto prima erano morti... morti da tantissimo tempo. Allora capii che ero diverso dagli altri. E più o meno allora, gli altri incominciarono ad accorgersi che ero diverso da loro. Mi guardavano con sospetto. Certuni con risentimento. Altri pensavano che fossi una specie di spirito maligno. Alla fine dovetti fuggire, abbandonare la tribù. Diventai un reietto. E allora incominciai a imparare i principii della sopravvivenza. — Quali principii? — Ti tieni nell'ombra. Non ti metti in vista. Non attiri l'attenzione. Diventi vigliacco. Non fai mai l'eroe. Non corri rischi. Lasci che siano gli altri a fare le cose pericolose. Non ti offri mai volontario. T'imboschi e scappi e ti nascondi. Acquisisci la pelle dura: te ne infischi di quel che gli altri pensano di te. Abbandoni tutti gli attributi nobili, la coscienza sociale. Dimentichi la devozione alla tribù o al popolo o al paese. Non sei un patriota. Vivi solo per te stesso. Sei un osservatore e non partecipi mai. Giri al largo. E diventi così egocentrico che finisci per convincerti che non ti si possa rimproverare nulla, che stai vivendo nell'unico modo logico in cui può vivere un uomo. Qualche giorno fa sei andato a Roncisvalle, ricordi? — Sì, ti ho detto che c'ero andato. E tu hai risposto che ne avevi sentito parlare. — Sentito parlare. Diavolo, ero lì, il giorno che successe... il 15 agosto 778. Osservatore, non partecipante. Un piccolo bastardo vigliacco accodato alla nobile banda di guasconi che fregò Carlomagno. Guasconi un corno. È un nome di fantasia. Erano baschi, puri e semplici. Le carogne più carogne che siano mai esistite sulla faccia della terra. Certi baschi sono nobili e valorosi, ma quelli non lo erano. Non erano tipi di guerrieri capaci di affrontare i franchi a viso aperto. Si nascosero in alto, sul passo, e fecero rotolare le pietre addosso a quei possenti cavalieri. Ma a loro non interessavano i cavalieri. Era il convoglio dei carri. Non si erano mossi per combattere una guerra o vendicare un torto. Volevano il bottino. Anche se non gli servì a molto. — Perché?
— Andò così — disse Luis. — Sapevano che il resto dell'esercito franco sarebbe tornato, quando la retroguardia non fosse comparsa, e non avevano nessuna voglia di affrontarlo. Spogliarono i cavalieri morti degli speroni d'oro, delle armature e delle sopravvesti lussuose, presero i sacchi del denaro e li caricarono sui carri e se ne andarono. Qualche miglio più avanti, in mezzo alle montagne, si rintanarono in una gola profonda, dove pensavano che sarebbero stati al sicuro. Ma se li avessero scoperti, avevano una specie di fortezza. Mezzo miglio più in basso del punto dove si accamparono, la gola si restringeva e deviava bruscamente. In quel punto erano precipitati parecchi massi, e formavano una barricata che un pugno d'uomini poteva difendere contro qualunque assalto. Io, ormai, ero molto lontano. Avevo fiutato qualcosa che non andava. Sapevo che stava per succedere qualcosa di molto spiacevole. È un'altra caratteristica della sopravvivenza. Ti spunta un sesto senso. E così riesci a fiutare i guai prima che succedano, molto prima. Più tardi venni a sapere com'era andata. Luis alzò la bottiglia e bevve un altro sorso, poi la passò a Boyd. — Non tenermi sulle spine — disse Boyd. — Raccontami. — Durante la notte scoppiò un temporale — disse Luis. — Uno di quei temporali estivi, improvvisi e violenti. Fu un nubifragio. I miei valorosi guasconi morirono tutti. È il prezzo del coraggio. Boyd bevve un sorso, abbassò la bottiglia e la tenne stretta al petto. — Questo lo sai tu — disse. — Tu e nessun altro. Forse nessuno si è mai chiesto che fine fecero i guasconi che avevano causato quel guaio a Carlomagno. Devi sapere tante altre cose. Cristo, tu hai visto la storia. Non sei sempre rimasto in questa zona. — No. Certe volte me ne andavo in giro. Lo spirito vagabondo. C'erano tante cose da vedere. E dovevo continuare a spostarmi. Non potevo fermarmi troppo a lungo in un dato posto, altrimenti qualcuno avrebbe notato che non invecchiavo. — Sei vissuto durante la Morte Nera — disse Boyd. — Hai visto le legioni romane. Hai sentito parlare di quello che stava facendo Attila. Ti sei accodato ai crociati. Hai girato per le vie dell'antica Atene. — No, Atene no — disse Luis. — Atene non è mai stata di mio gusto. Ma passai qualche tempo a Sparta. Sparta, te l'assicuro, era davvero qualcosa. — Sei istruito — disse Boyd. — Dove hai studiato? — A Parigi, per qualche tempo, nel secolo decimoquarto. Più tardi a Oxford. E poi in altri posti. Sotto nomi diversi. Non cercare di seguire le mie
tracce attraverso le scuole che ho frequentato. — Potresti scrivere un libro — disse Boyd. — Stabilirebbe nuovi primati di vendita. Diventeresti milionario. Basterebbe un libro per farti diventare milionario. — Non posso permettermi d'essere milionario. Non posso mettermi in mostra, e i milionari sono in mostra. Non sono in miseria. Non sono mai stato in miseria. C'è sempre qualche tesoro che uno come me riesce a scovare. Ho i miei nascondigli qua e là. Tiro avanti benissimo. Luis aveva ragione, si disse Boyd. Non poteva diventare milionario. Non poteva scrivere un libro. Non poteva diventare famoso, mettersi in vista. Doveva restare sempre nascosto, sempre anonimo. I principii della sopravvivenza, aveva detto. E questa era una parte, anche se non era tutto. Aveva accennato all'arte di fiutare i guai, l'intuizione. E dovevano esserci anche la furberia, l'astuzia pratica, il cinismo acquisito con il tempo, la capacità di giudicare i caratteri, la conoscenza delle reazioni umane, e qualche nozione circa l'uso del potere, ogni genere di potere, economico, politico, religioso. Era ancora umano, si chiese, oppure in ventimila anni era diventato qualcosa di sovrumano? Era avanzato di quel passo decisivo che l'avrebbe posto oltre l'umanità, facendolo diventare quel tipo di essere che sarebbe venuto dopo l'uomo? — Ancora una cosa — disse Boyd. — Perché quei dipinti alla Disney? — Li dipinsi diverso tempo dopo gli altri — rispose Luis. — Avevo dipinto qualcosa, nella caverna principale. L'orso che pesca è mio. Sapevo della piccola grotta. La scoprii e non dissi niente a nessuno. Non c'era motivo per tenerla segreta. Era soltanto una di quelle piccole cose che uno tiene per sé per sentirsi importante. Io so qualcosa che tu non sai... una sciocchezza così. Più tardi tornai per dipingere la piccola grotta. L'arte dei cavernicoli era così maledettamente seria. Una magia terribilmente stupida. Così mi dissi che la pittura doveva essere divertente. E tornai indietro, dopo che la tribù si era trasferita, e dipinsi semplicemente per divertirmi. Come t'è sembrato, Boyd? — Straordinario — disse Boyd. — Avevo paura che non trovassi la piccola grotta, e non potevo aiutarti. Sapevo che avevi notato le incrinature nella parete: un giorno ti ho visto mentre le osservavi. Contavo sul fatto che le avresti ricordate. E che avresti visto le impronte digitali e avresti trovato il flauto. Tutte coincidenze, naturalmente. Non avevo in mente nulla di particolare quando lasciai il co-
lore con le impronte e il flauto. Il flauto, certo, era l'indizio decisivo, e speravo che ti saresti almeno incuriosito. Ma non potevo essere sicuro. Quando abbiamo cenato quella sera, qui accanto al fuoco, tu non hai parlato della piccola grotta, e io ho avuto paura che non l'avessi scoperta. Ma poi, quando ti sei portato via la bottiglia vuota, ho capito che ce l'avevo fatta. E adesso la domanda più importante. Farai sapere al mondo dei dipinti nella grotta piccola? — Non lo so. Dovrò pensarci bene. Tu cosa ne dici? — Preferirei che non lo raccontassi. — D'accordo — disse Boyd. — Almeno per il momento. C'è qualcosa d'altro che posso fare per te? C'è qualcosa che vorresti? — Hai già fatto il meglio — disse Luis. — Sai chi sono, che cosa sono. Non so perché per me sia tanto importante, ma lo è. Una questione d'identità, suppongo. Quando morirai, e ti auguro che sia fra molto tempo, allora non ci sarà più nessuno a sapere. Ma la conoscenza che un uomo sapeva, e soprattutto capiva, mi sosterrà per secoli. Un momento... ho qualcosa da darti. Si alzò, entrò nella tenda e tornò con un foglio. Lo porse a Boyd. Era una carta topografica. — Ho messo una croce — disse Luis. — Per segnare il posto. — Quale posto? — Dove troverai il tesoro di Roncisvalle. I carri e il tesoro furono senza dubbio trascinati lungo la gola dall'alluvione. La svolta e la barricata di massi dovettero bloccarli. Li troverai là, probabilmente sotto uno strato di ghiaia e di detriti. Boyd alzò gli occhi dalla carta con aria interrogativa. — Val la pena di cercarli — disse Luis. — E poi, sarà un'altra conferma della validità del mio racconto. — Io ti credo — disse Boyd. — Non ho bisogno di altre prove. — Ah, be' — disse Luis. — Male non ne farà. E adesso è ora di andare. — Ora di andare! Abbiamo tante cose di cui parlare. — Più tardi, forse — disse Luis. — C'incontreremo di nuovo, prima o poi. Farò in modo che succeda. Ma adesso è ora di andare. Si avviò lungo il sentiero e Boyd rimase seduto, a seguirlo con lo sguardo. Dopo qualche passo, Luis si fermò e si voltò a mezzo. — Mi sembra — disse come spiegazione, — che sia sempre ora di andare.
Boyd si alzò, lo guardò scendere lungo il sentiero verso il villaggio. Quella figura che camminava irradiava un profondo senso di solitudine... l'uomo più solo del mondo. IL GIOCO DI SATURNO The Saturn Game di Poul Anderson Analog, febbraio 1981 La seconda storia di Poul Anderson che presentiamo in questo volume è un magnifico romanzo breve apparso su «Analog» ed è anch'essa una classica vicenda di fantascienza tecnologica moderna, narrata da Anderson con la consueta abilità e con la solita attenzione non solo ai particolari scientifici ma anche ai caratteri dei personaggi. L'umanità adopera da sempre strumenti psicologici oltre a strumenti e mezzi fisici: qui Anderson ci mostra quali nuovi usi potrebbe avere, nello spazio, il più antico di questi strumenti... e quali nuovi pericoli potrebbe comportare! Se vogliamo comprendere cosa sia accaduto, il che è di vitale importanza per impedire che in futuro si ripetano simili e peggiori tragedie, dobbiamo cominciare con l'accantonare ogni accusa. Nessuno è stato negligente e nessun'azione è stata sciocca, perché, chi avrebbe potuto prevedere quell'eventualità o riconoscerne la natura prima che fosse troppo tardi? Dovremmo invece apprezzare lo spirito con cui quelle persone hanno lottato contro il disastro, internamente ed esternamente, dopo aver compreso. La verità è che in tutta la realtà esistono una serie di soglie e che le cose al di là di esse sono completamente diverse da quelle esistenti all'interno. Il Chronos ha superato qualcosa di più di un abisso, ha superato una soglia dell'esperienza umana. Francis L. Minamoto, Morte Sotto Saturno: Una Concezione Dissenziente (Apollo University Communications, Leyburg, Luna, 2057) — La Città di Ghiaccio è ora al mio orizzonte — dice Kendrick. Le torri hanno un bagliore azzurro. — Il mio grifone allarga le ali per planare. — Il vento fischia fra quei grandi pinnacoli dai colori dell'arcobaleno. Il manto gli viene sospinto indietro sulle spalle e l'aria penetra nella cotta di
maglia permeandolo di freddo. — Mi piego in avanti e cerco di scorgerti. — La lancia che stringe in pugno la bilancia: la punta dell'arma brilla pallidamente per la luce lunare che il martello di Wayland Smith ha imprigionato in essa. — Sì, scorgo il grifone — risponde Ricia, — alto e distante, come una cometa sulle mura del cortile. Esco di corsa da sotto il portico per vedere meglio. Una guardia cerca di fermarmi, mi afferra per una manica, ma io lacero la stoffa di seta sottile e scatto all'aperto. — Il castello elfico tremola come se le sue mura di ghiaccio scolpito si stessero trasformando in fumo. Lei grida, con passione: — Sei davvero tu, mio adorato? — Fermi, laggiù! — avverte Alvarlan dalla sua grotta di magie distante dieci leghe. — Invio alle vostre menti questo messaggio: se il Re sospetta che questi è Sir Kendrick delle Isole, gli lancerà contro un drago oppure ti trasporterà dove non ci sarà più speranza di salvarti. Torna indietro, Principessa di Maranoa, fingi di credere che si tratti solo di un'aquila, ed io getterò sulle tue parole un incantesimo che le renda convincenti. — Rimarrò in alto — dice Kendrick. — A meno che non usi una pietra divinatoria, il Re degli Elfi non scoprirà che questa bestia ha un cavaliere. Di qui, terrò occhio la città ed il castello. — E poi...? Lui non lo sa. Sa solo che la deve liberare o morire nel tentativo. Quanto tempo gli ci vorrà ancora, per quante altre notti dovrà lei sopportare l'abbraccio del Re? — Pensavo doveste studiare Iapetus — interruppe Mark Danzig. Il suo tono secco fece tornare alla realtà gli altri tre con un sussulto; Jean Broberg arrossi per l'imbarazzo e Colin Scobie per l'irritazione, mentre Luis Garcilaso scrollava le spalle con un sorriso e tornava a fissare la consolle di pilotaggio davanti alla quale era seduto. Per un momento, la cabina fu piena di silenzio, insieme alle ombre ed alla luminosità dell'universo. Per favorire l'osservazione dell'esterno, tutte le luci erano spente, fatta eccezione per il tenue bagliore che veniva dagli strumenti; gli oblò dalla parte del sole erano schermati, gli altri erano affollati da stelle tanto numerose e splendenti da soffocare quasi l'oscurità che le imprigionava. In uno degli oblò era incorniciato Saturno, a metà di una sua fase, il lato diurno color oro pallido e solcato da ricche bande fra gli ornamenti dei suoi anelli, il lato notturno debolmente splendente di una luce stellare sopra le nubi, tanto grande a vedersi quanto la Terra rispetto alla Luna. Più avanti c'era Iapetus. L'astronave ruotava mentre orbitava intorno alla luna, in modo da mantenere un campo visivo costante, ed aveva attraversa-
to la linea diurna, attualmente posta a metà dell'emisfero interno: in questo modo si era lasciata alle spalle la zona spoglia e costellata di crateri, ora immersa nel buio, per sorvolare una zona di ghiacciai illuminata dal sole. Il candore era accecante, brillava con frammenti e scintille di colore che salivano verso il cielo creando forme fantastiche. Anfiteatri, crepacci, caverne, erano orlati di azzurro. — Mi dispiace — sussurrò Jean Broberg, — ma è troppo bello, incredibilmente splendido, e... è quasi uguale al luogo dove ci aveva portati il nostro gioco. Ci ha colti di sorpresa... — Uh! — fece Mark Danzig. — Avevate un'idea abbastanza precisa di cosa aspettarvi, quindi avete fatto in modo da condurre il vostro gioco verso qualcosa che gli somigliasse. Non cercate di raccontarmi il contrario: sono otto anni che vedo cose del genere. Colin Scobie fece un gesto selvaggio. Rotazione e gravità erano troppo tenui perché il peso corporeo fosse rilevante, ed il suo movimento lo fece volare nell'aria dall'altra parte della cabina affollata. Scobie si aggrappò ad un sostegno appena in tempo, prima di sbattere contro il chimico. — Stai dando a Jean della bugiarda? — ringhiò. Generalmente, Scobie era di umore allegro e noncurante, e, forse proprio per questo apparve ora improvvisamente minaccioso. Era un uomo di grosse dimensioni, con i capelli color sabbia, sui trentacinque anni; la tuta che indossava non riusciva a nascondere la muscolatura sottostante, ed il cipiglio attuale metteva in evidenza la durezza dei lineamenti. — Per favore! — esclamò la Broberg. — Non litighiamo, Colin! Il geologo le lanciò un'occhiata: Jean era una donna snella e dai lineamenti minuti. All'età di quarantadue anni, nonostante il trattamento di longevità, i capelli di un castano rossiccio che le scendevano sulle spalle cominciavano a striarsi di grigio, e le rughe si stavano approfondendo intorno ai grandi occhi grigi. — Mark ha ragione — sospirò la donna. — Siamo qui per ragioni scientifiche, non per sognare ad occhi aperti. — Protese la mano per toccare il braccio di Scobie, sorridendo timidamente. — Tu sei ancora immerso nel personaggio di Kendrick, vero? Coraggioso, protettivo... — Si arrestò, perché il tono accelerato della sua voce aveva tradito più che un accenno al personaggio di Ricia. Si coprì le labbra ed arrossì di nuovo; una lacrima apparve all'angolo dell'occhio e si allontanò brillando su una corrente d'aria mentre lei si costringeva a ridere. — Io sono soltanto l'esperta di fisica Broberg, moglie dell'astronomo Tom e madre di Jhonnie e Billy.
Il suo sguardo si spostò in direzione di Saturno, quasi cercando la nave su cui la sua famiglia era in attesa. Ed avrebbe anche potuto scorgerla, come una stella che si muoveva navigando fra le altre stelle, se la vela del sole fosse stata spiegata. Ma quella vela era adesso raccolta, e l'occhio nudo non poteva individuare neppure una massa immane come quella del Chronos, a milioni di chilometri di distanza. — Che male c'è se portiamo avanti la nostra piccola commedia dell'arte? — chiese Luis Garcilaso dal sedile di pilotaggio. La sua strascicata cadenza dell'Arizona era rilassante a sentirsi. — Non atterreremo ancora per qualche tempo, e tutti gli strumenti rimarranno sull'automatico fino ad allora. — Era un uomo piccolo ed abile, dalla pelle abbronzata, ancora ventenne. Danzig atteggiò il suo volto color cuoio ad un'espressione accigliata. All'età di sessant'anni, grazie alle abitudini oltre che al processo di longevità, possedeva ancora un corpo magro e scattante, e sapeva scherzare sulle sue rughe e sulla crescente calvizie. In quel momento, però, accantonò il proprio umorismo. — Vuoi dire che non capisci il perché? — Il suo naso a becco accennò in direzione dello schermo d'osservazione che ingrandiva il paesaggio della luna. — Possente Iddio! Questo su cui stiamo per atterrare è un mondo nuovo... piccolo, ma un mondo, e strano in modo che non possiamo neppure immaginare. Prima di noi qui non c'è stato nessuno, fatta eccezione per una sonda automatica ed un apparecchio per analisi a terra, anch'esso automatico, che ha cessato ben presto di trasmettere. Non possiamo fare affidamento solo su strumenti e telecamere: dobbiamo usare anche occhi e cervello! — Si rivolse a Scobie. — Questo, tu te lo dovresti sentire nelle ossa, Colin, almeno tu, se non lo fa nessun altro a bordo. Tu hai lavorato sulla Luna, oltre che sulla Terra; nonostante tutti gli insediamenti, nonostante tutti gli studi che sono stati fatti, non ti è mai capitato d'imbatterti ugualmente in qualche brutta sorpresa? L'uomo massiccio aveva frattanto riacquistato la calma, ed il suo tono di voce aveva di nuovo la morbidezza che ricordava la serenità delle montagne dell'Idaho sulle quali era nato. — È vero — ammise. — Non si può mai dire di avere troppe informazioni, quando non si è sulla Terra, e neppure di averne abbastanza, se è per questo. — Fece una pausa, poi aggiunse: — Ma la timidezza può ugualmente essere altrettanto pericolosa quanto l'imprudenza... non che tu sia pauroso, Mark — si affrettò ad aggiungere. — Come, tu e Rachel avre-
ste potuto adesso trovarvi a godere una bella pensione... — Questa era una sfida — replicò Danzig, rilassandosi e sorridendo, — se posso esprimermi in modo così pomposo. Comunque, abbiamo intenzione di tornare a casa, quando avremo finito qui. Dovremmo arrivare in tempo per il Bar Mitzvah di un pronipote o due, cosa per cui bisogna restare vivi. — Quello che voglio dire — insistette Scobie, — è che se cominci ad agitarti, rischi di venire a trovarti in una situazione peggiore che non se... Oh, lascia perdere. Probabilmente hai ragione e noi non avremmo dovuto cominciare a lavorare di fantasia. Il panorama si è impadronito di noi, ma non succederà più. Eppure, quando lo sguardo di Scobie tornò a posarsi sul ghiacciaio, in esso non c'era la freddezza dello scienziato, come non c'era neppure negli occhi di Broberg o Garcilaso. — Il gioco, quel dannato gioco infantile — mormorò Danzig, picchiandosi il pugno sul palmo della mano. — Possibile che non avessero nulla di meno folle cui pensare? II Possibile che non avessero nulla di meno folle cui pensare? Forse non l'avevano. Per poter rispondere a questo interrogativo bisogna prima riesaminare un po' di storia passata. Quando le prime operazioni industriali nello spazio offrirono la speranza di salvare la civiltà, e la Terra, dalla rovina, divenne manifesta la necessità di acquisire conoscenze molto più vaste sugli altri pianeti, prima di passare allo sviluppo di tali operazioni. Gli sforzi in tal senso iniziarono in direzione di Marte, il pianeta meno ostile. Nessuna legge naturale proibiva l'invio di una piccola astronave con equipaggio laggiù, ma a sconsigliare l'impresa era l'assurdità di impiegare così tanto carburante, tempo e fatica quanti erano necessari, al solo scopo di permettere ad un gruppetto di persone di trascorrere pochi giorni in un'unica località. La costruzione del J. Peter Vajk richiese più tempo e costi maggiori, ma diede il suo corrispettivo quando la nave, virtualmente una colonia in se stessa, spiegò la sua immensa vela solare e trasportò un migliaio di persone alla meta in sei mesi e con una certa comodità. Quel corrispettivo crebbe in maniera impressionante allorché i coloni spedirono sulla Terra, dalla
stazione orbitale, la percentuale dei preziosi minerali di Phobos di cui non avevano bisogno per i loro scopi. Quegli scopi, naturalmente, prevedevano uno studio il più completo possibile, ed a lungo termine, di Marte, compreso l'invio sul pianeta di moduli ausiliari per permanenze sempre più prolungate su tutta la superficie. È sufficiente richiamare alla memoria questi dati; non serve passare alla descrizione dettagliata del trionfo di questo sistema in tutta la zona interna del Sistema Solare, fino a Giove. La tragedia del Vladimir divenne un incentivo per compiere un altro tentativo alla volta di Mercurio, e, in maniera secondaria e politicamente motivata, indusse il consorzio BritannicoAmericano a varare il progetto Chronos. Il nome dato a quell'astronave era più appropriato di quanto s'immaginasse, dal momento che il tempo richiesto per il viaggio fino a Saturno era di otto anni. Non sono solo gli scienziati a dover essere gente sana e dalla mente attiva. Membri d'equipaggio, tecnici, medici, amministratori, insegnanti, sacerdoti, intrattenitori... ogni elemento di un'intera comunità deve essere tale. Ciascuno deve possedere più di una singola capacità, per una eventuale sostituzione d'emergenza, e deve mantenere attive quelle capacità mediante una regolare e noiosa ripetizione. L'ambiente era limitato ed austero, le comunicazioni con la patria si trasformarono ben presto in una serie di impulsi radio; individui cosmopoliti si trovarono a vivere in quello che era in pratica una sorta di villaggio isolato. Che cosa potevano fare? C'erano compiti assegnati: progetti civili, specialmente lavori destinati ad apportare migliorie all'interno dell'astronave; lavori di ricerca, stesura di libri, studio di qualche materia, attività sportive, clubs per coltivare hobby, organizzazioni per fornire servizi o manifatture, interazioni di tipo più privato, oppure... C'era un'ampia scelta di nastri televisivi, ma il Controllo Centrale li rendeva disponibili soltanto per tre ore ogni ventiquattro, per evitare d'incoraggiare l'abitudine alla passività. I singoli individui borbottavano, litigavano, formavano e scioglievano combriccole, formavano e scioglievano matrimoni o relazioni di tipo meno esplicito, generavano ed allevavano occasionali figli, adoravano, deridevano, imparavano, desideravano, e, per lo più, trovavano una ragionevole soddisfazione nella vita. Ma per alcuni, compresa una grossa porzione degli individui più dotati, ciò che marcava la differenza fra quella vita e l'infelicità erano i loro psicodrammi. Minamoto
La luce dell'alba scivolò oltre il ghiaccio, fino alla roccia: era una luce al contempo tenue e violenta, ma sufficiente a fornire a Garcilaso gli ultimi dati necessari alla discesa. Il sibilo del motore si spense, un impatto fece tremare lo scafo, poi i sostegni d'atterraggio assorbirono l'urto e scese l'immobilità. L'equipaggio rimase in silenzio per qualche tempo, lo sguardo fisso su Iapetus. Nella zona immediatamente circostante regnava una desolazione come quella che regna nella maggior parte del Sistema Solare. Una pianura velata d'oscurità s'incurvava visibilmente verso un orizzonte che, ad altezza d'uomo, distava appena tre chilometri. Dall'altezza della cabina, si poteva vedere più lontano, ma questo serviva soltanto ad accentuare la sensazione di trovarsi su una piccola palla roteante fra le stelle. Il suolo era coperto da un velo sottile di polvere cosmica e ghiaia; qua e là un cratere secondario o una massa sporgente si sollevava per proiettare lunghe, taglienti ombre, di un nero assoluto. I riflessi luminosi riducevano il numero di stelle visibili e trasformavano il cielo in una coppa colma di oscurità notturna. A mezza strada fra lo zenith ed il sud, una metà di Saturno e dei suoi anelli rendeva il panorama splendido. Lo stesso faceva il ghiacciaio... o i ghiacciai? Nessuno lo sapeva per certo. L'unica conoscenza era che, visto da lontano, Iapetus aveva un vivido splendore nella parte occidentale della sua orbita mentre diventava opaco in quella orientale, perché un lato era coperto di un materiale biancastro mentre l'altro non lo era. La linea di divisione passava a poca distanza e quasi al di sotto del pianeta che Iapetus fronteggiava eternamente. Le sonde inviate dal Chronos avevano riferito che lo strato bianco era spesso, con uno spettro che lasciava perplessi e che variava da un punto all'altro, e poche altre cose. In quel momento, quattro umani stavano osservando quel vuoto cosparso di avvallamenti, e vedevano qualcosa di meraviglioso levarsi oltre il confine di quel mondo: da nord a sud si stendevano bastioni, merli, torri, abissi, picchi e colline, le cui forme e tonalità davano adito ad un'infinità di fantasie. Sulla destra, Saturno proiettava una morbida luce ambrata, che andava però quasi completamente perduta a causa del bagliore proveniente da est, dove il sole, ridotto quasi alle dimensioni di una stella per la distanza, manteneva comunque una luminosità troppo forte per poter essere fissata, appena al di sopra dell'orizzonte. Laggiù, la coltre argentea esplodeva in un bagliore adamantino di luce infranta, in gelidi azzurri e verdi. Feriti fino
a lacrimare dalla lucentezza, gli occhi videro quell'immagine tremolare ed ondeggiare, quasi confinasse con la terra dei sogni o con il Mondo del Fiabesco. Tuttavia, nonostante tutta quella delicatezza intricata, sotto sotto rimaneva la sensazione di gelo e di una massa brutale: qui vivevano anche i Giganti di Gelo. La Broberg fu la prima a sussurrare qualche parola. — La Città di Ghiaccio. — Magica — replicò Garcilaso, con voce altrettanto bassa. — Il mio spirito si potrebbe perdere per sempre vagando laggiù, e non sono certo che me ne importerebbe. La mia grotta non è nulla rispetto a questo, nulla... — Aspettate un momento! — scattò Danzig, allarmato. — Oh, sì, controllate l'immaginazione, prego. — Per quanto Scobie si affrettasse a pronunciare quelle parole di rinsavimento, esse risuonarono più asciutte del necessario. — Sappiamo in base alle trasmissioni delle sonde che la scoperta è, ecco, simile al Gran Canyon. Certo, è più spettacolare di quanto ci fossimo resi conto, il che suppongo la renda ancora più misteriosa. — Si rivolse alla Broberg. — Non ho mai visto ghiaccio o neve scolpiti in quel modo, e tu, Jean? Hai detto di aver visto un sacco di montagne e di scenari invernali durante la tua infanzia nel Canada. — No, mai. — L'esperta in fisica scosse il capo. — Non sembra una cosa possibile. Cosa può averla provocata? Qui non esiste clima... oppure sì? — Forse è responsabile lo stesso fenomeno che ha lasciato nudo l'altro emisfero — suggerì Danzig. — O che ha coperto un intero emisfero — fece Scobie. — Un oggetto del diametro di millesettecento chilometri non dovrebbe avere gas, gelati o meno, tranne che si tratti di una sfera fatta interamente di tali sostanze, come una cometa, il che sappiamo non è. — Come a voler dimostrare quel dato, Scobie staccò un paio di pinze da una vicina rastrelliera per attrezzi, le lanciò in aria e le riprese mentre scendevano lentamente. Anche i novanta chili del suo corpo qui ne pesavano soltanto sette, e, per causare un fenomeno del genere, il satellite doveva essere essenzialmente roccioso. — Smettiamo di scambiarci fatti e teorie che conosciamo già — osservò Garcilaso con impazienza, — e cominciamo a cercare le risposte. — Sì, andiamo fuori. — Un crescente senso di rapimento si stava impadronendo della Broberg. — Laggiù. — Aspettate! — protestò Danzig, mentre Garcilaso e Scobie annuivano con vigore, — non potete dire sul serio! Ci vuole cautela, un'avanzata gra-
duale... — No, è troppo bello per far questo. — C'era un brivido nella voce della Broberg. — Sì, al diavolo il tergiversare — rincarò Garcilaso. — Abbiamo bisogno almeno di un'esplorazione preliminare, subito. — Intendi dire che vuoi andare anche tu, Luis? — Il cipiglio di Danzig si accentuò. — Ma tu sei il pilota. — Una volta a terra, sono assistente generale, capo cuoco e lavapiatti per voi scienziati. Vuoi che rimanga seduto senza far niente, quando c'è qualcosa di simile da esplorare? — La voce di Garcilaso si fece più calma. — Inoltre, se mi dovesse succedere qualcosa, uno qualsiasi di voi sarebbe in grado di pilotare, con l'aiuto di qualche consiglio radio dal Chronos ed effettuando l'avvicinamento finale sotto controllo remoto. — È senz'altro ragionevole, Mark — discusse Scobie. — Contrario alla dottrina, è vero, ma la dottrina è stata creata per noi e non viceversa. È una breve distanza, la gravità è bassa e staremo in guardia contro eventuali rischi. Il punto è che, fino a quando non avremo qualche idea sulla natura di quel ghiaccio non sapremo a cosa diavolo dobbiamo fare attenzione, quando siamo in queste vicinanze. No, compiremo prima un rapido giro; al nostro ritorno elaboreremo un piano. — Posso ricordarti che se qualcosa andasse male, gli eventuali aiuti sono ad almeno cento ore di distanza? — chiese Danzig, irrigidendosi. — Un velivolo ausiliario come questo non può andare troppo veloce se poi deve tornare indietro, e ci vorrebbe ancora più tempo per richiamare le grosse navi da Titano e Saturno. — E posso ricordarti a mia volta — ribatté Scobie, arrossendo per il sottinteso insulto, — che, una volta atterrati, il capitano sono io? Io dico che un'esplorazione immediata è sicura e raccomandabile. Tu rimani pure qui, se lo desideri... In effetti, sì, tu devi rimanere: la dottrina è giusta quando asserisce che un'imbarcazione non deve mai essere abbandonata. Danzig l'osservò per parecchi secondi prima di mormorare: — Però Luis viene, vero? — Sì! — gridò Garcilaso, tanto forte da far risuonare la cabina. — È tutto a posto, Mark — disse gentilmente la Broberg, battendo un colpetto sulla mano inerte del vecchio. — Ti porteremo un po' di campioni da analizzare, dopodiché non sarei sorpresa di scoprire che le tue saranno le migliori idee sulla procedura da seguire. Danzig scosse il capo, ed improvvisamente parve molto stanco.
— No — replicò, con voce monotona. — Vedi, io sono solo un vecchio chimico industriale ficcanaso che ha visto in questa spedizione l'occasione per svolgere ricerche interessanti. Durante tutto il viaggio nello spazio mi sono dato da fare con attività normali, comprese, lo ricorderai, un paio d'invenzioni che desideravo avere il tempo di completare. Voi tre siete più giovani, più romantici... — Oh, smettila, Mark. — Scobie tentò di ridere. — Magari Jean e Luis lo sono, un poco, ma quanto a me, lo sono quanto un piatto di guazzetto di frattaglie. — Hai giocato a quel gioco, un anno dopo l'altro, fino a quando il gioco non ha cominciato ad avere la meglio su di te. Questo è quanto sta succedendo in questo momento, non importa se tu tenti di spiegare razionalmente le tue motivazioni. — Lo sguardo che Danzig teneva fisso sul suo amico geologo perse la sua luce di sfida e si fece malinconico. — Potresti provare a ricordarti di Delia Ames. — E lei cosa c'entra? — Scobie era risentito. — La questione riguardava solo lei e me, e nessun altro. — Salvo che per il fatto che, dopo, lei è andata a piangere sulla spalla di Rachel e che Rachel non ha segreti per me. Non ti preoccupare, non ho intenzione di fare chiacchierare in merito, ed in ogni caso Delia ha superato la cosa. Comunque, se i tuoi ricordi sono obiettivi, dovresti riuscire a vedere cosa ti era successo già tre anni fa. Scobie serrò la mascella, e Danzig accennò un sorriso con l'angolo della bocca, aggiungendo: — No, suppongo che non lo veda. Ammetto che io stesso non avevo idea di quanto la cosa fosse avanzata, fino ad ora. Almeno, mantieni le tue fantasie sullo sfondo, mentre sei là fuori, vuoi? Ci riuscirai? *** Nel corso di cinque anni di viaggio, l'appartamento di Scobie era diventato idiosincraticamente suo... forse in misura maggiore di quanto fosse normale, perché lui era rimasto uno scapolo che raramente godeva della compagnia di una donna per più di pochi turni di guardia per volta. Buona parte del mobilio l'aveva costruita lo stesso Scobie, dato che la sezione agricola della Chronos produceva anche legno, oltre che cibo ed aria fresca. Il mobilio da lui fabbricato tendeva ad essere massiccio, e le decorazioni intagliate in esso arcaiche. Scobie attingeva dalla banca dei dati la maggior
parte di ciò che desiderava leggere, naturalmente, ma su uno scaffale conservava qualche vecchio libro... le ballate di frontiera di Childe, una Bibbia di famiglia del diciottesimo secolo (nonostante fosse un agnostico), una copia del Macchinario della Libertà, che era ormai quasi disintegrato ma in cui si distinguevano ancora la firma dell'autore e svariati altri elementi di valore. Al di sopra di essi, c'era il modellino di una barca a vela con cui Scobie aveva navigato nelle acque dell'Europa Settentrionale ed un trofeo che aveva vinto giocando a palla a mano a bordo dell'astronave. Alle paratie erano appese alcune sciabole da scherma e parecchie fotografie... dei genitori e dei fratelli, di zone selvagge della Terra che aveva visitato, di castelli, montagne e brughiere della Scozia che aveva anche visitato spesso, del suo gruppo geologico sulla Luna, di Thomas Jefferson e, perfino, di Robert the Bruce. Una sera in particolare, tuttavia, Scobie era seduto davanti al suo televisore, con le luci abbassate in modo da assaporare appieno le immagini. I moduli ausiliari erano fuori per un'esercitazione congiunta, ed un paio dei membri del loro personale stavano sfruttando l'opportunità per trasmettere le immagini di quello che vedevano. Era una cosa splendida. Lo spazio stellato formava un calice per la Chronos. I due enormi cilindri che ruotavano maestosamente in senso contrario, l'intero complesso di collegamenti, oblò, portelli, schermi, collettori, trasmittenti ed hangar, tutto diveniva squisitamente artistico visto alla distanza di parecchie centinaia di chilometri. La vela solare era ciò che occupava la maggior parte dello schermo, simile ad una ruota dorata che girasse su se stessa; eppure, la visione a distanza permetteva anche di apprezzare la sua trama intricata come una ragnatela, le curve enormi e sottili, perfino l'incredibile sottigliezza. Era un'opera più possente delle piramidi, più perfetta di un cromosomo ristrutturato, quella nave che avanzava verso Saturno che era ormai divenuto il secondo faro più brillante del firmamento. Il campanello della porta trasse Scobie dal suo stato di esaltazione; si mosse per attraversare la stanza ed inciampò con un piede in una gamba del tavolo, per colpa della forza di Coriolis. Quel fenomeno era tenue quando uno scafo di quelle dimensioni ruotava su se stesso per garantire la forza di gravità, ed era una cosa cui Scobie si era da tempo abituato; ma, di tanto in tanto, quando qualcosa lo assorbiva molto, le abitudini acquisite sulla Terra tornavano a farsi sentire. Scobie imprecò contro la propria disattenzione ma con allegria, dato che prevedeva di trascorrere dei momenti
piacevoli. Quando aprì la porta, Delia Ames entrò con un solo, lungo passo, e si richiuse immediatamente il battente alle spalle, appoggiandosi ad esso; era una donna alta e bionda, che si occupava della manutenzione elettronica e svolgeva tutta una serie di altre attività collaterali. — Ehi! — disse Scobie. — Cosa c'è che non va? Hai l'aria... — tentò di scherzare — ... di qualcosa cui il mio gatto abbia dato la caccia, se a bordo avessimo topi o pesci fuor d'acqua. Delia trasse un respiro rauco e parlò con accento australiano talmente pronunciato per l'agitazione da rendere le sue parole quasi incomprensibili per Scobie. — Io... oggi... mi sono trovata a sedere allo stesso tavolino di George Harding, al caffè... Un senso di disagio attraversò Scobie. Harding lavorava nello stesso dipartimento della Ames ma aveva molte più cose in comune con lui: nel gruppo di gioco cui appartenevano entrambi, Harding aveva anche lui assunto un ruolo vagamente ancestrale, N'Kuma, l'Uccisore di Leoni. — Cosa è successo? — chiese Scobie, e ricevette un'occhiata colma di dolore. — Ha accennato... che tu e lui e gli altri... avreste trascorso insieme le vostre prossime vacanze... per portare avanti la vostra dannata commedia senza interruzioni. — Come, ma sì. Il lavoro al nuovo parco, su nello Scafo di Prua verrà sospeso fino a quando sarà stato riciclato il metallo necessario per le condutture dell'acqua. La zona rimarrà libera, ed il mio gruppo ha organizzato di trascorrere l'equivalente di una settimana... — Ma tu ed io dovevamo andare al Lago Armstrong! — Uh, aspetta, quella era solo un'idea di cui avevamo parlato, non un progetto definito, e questa è un'occasione insolita... un'altra volta, dolcezza, mi dispiace. — Le aveva preso le mani, che erano gelate, ed aveva azzardato un sorriso. — Su, via, avevamo intenzione di consumare insieme una cenetta festiva e di trascorrere, diciamo così, una tranquilla serata in casa. Ma per cominciare, queste splendide immagini sullo schermo... Delia si liberò con uno strattone, e quel gesto parve calmarla. — No, grazie — replicò, con voce piatta. — Non quando tu preferisci la compagnia di quella Broberg. Sono venuta solo a dirti di persona che intendo togliermi di mezzo fra voi due. — Eh? — Scobie indietreggiò. — Cosa diavolo intendi dire?
— Lo sai perfettamente! — Non lo so affatto! Lei... io... lei è felicemente sposata, ha due figli, è più vecchia di me... siamo amici, certo, ma tra noi non c'è mai stata una cosa che non fosse aperta e chiara... — Scobie deglutì. — Tu credi che possa essere innamorato di lei? — Non ho intenzione di essere una semplice comodità per te, Colin. — La Ames aveva distolto lo sguardo, torcendosi le dita. — Tu hai un sacco di comodità del genere, ed io speravo... Ma mi sbagliavo, ed ho intenzione di troncare le mie perdite prima che peggiorino. — Ma... Dee... giuro che non mi sono innamorato di nessun'altra e che io... io... giuro che non sei soltanto un corpo per me, sei una persona meravigliosa... — Delia era rimasta muta e chiusa in se stessa. Scobie si morse un labbro prima di riuscire a dire: — Bene, lo ammetto, la ragione principale per cui mi sono offerto volontario per questo viaggio è stata che ero uscito perdente da una faccenda di cuore, sulla Terra. Non che il progetto non m'interessi, ma sono giunto a comprendere quanto esso sia estraneo alla mia vita. Tu, più che qualsiasi altra donna, tu, Dee, mi hai aiutato ad accettare meglio la situazione. — Ma non quanto ci è riuscito lo psicodramma, vero? — replicò la donna, con una smorfia. — Ehi, non devi pensare che sia ossessionato da quel gioco; non lo sono. È solo divertimento e... oh, forse «divertimento» è un termine troppo debole... ma comunque si tratta solo di un gruppetto di persone che si riunisce regolarmente per recitare. È come la scherma, il club di scacchi o... o qualsiasi altra cosa. — Bene, allora — chiese Delia, raddrizzando le spalle, — sei disposto ad annullare quell'impegno ed a trascorrere le tue vacanze con me? — Io... uh... non posso farlo, non a questo punto. Kendrick non si trova nella corrente periferica degli eventi, è strettamente collegato a tutti i personaggi: se non andassi, rovinerei ogni cosa anche agli altri. — Molto bene. — Delia lo fissò con fermezza. — Una promessa è una promessa, o almeno credo. Ma in futuro... Non temere, non sto cercando d'intrappolarti, non servirebbe a nulla, vero? Tuttavia, se continuiamo la nostra relazione, ti toglierai da quel gioco? — Non posso... — L'ira si era impadronita di lui. — No, dannazione! — ruggì. — Allora addio, Colin — concluse Delia, ed uscì, lasciandolo a fissare per parecchi minuti la porta che si era richiusa alle spalle.
Al contrario dei grossi velivoli per l'esplorazione delle vicinanze di Titano e Saturno, i moduli per l'atterraggio su lune prive di atmosfera erano semplici moduli di trasporto Luna-spazio modificati, affidabili, ma con capacità limitate. Quando la forma massiccia fu scomparsa oltre l'orizzonte, Garcilaso annunciò alla radio: — Abbiamo perso di vista il modulo, Mark, e devo dire che questo migliora il panorama. — Uno dei microsatelliti di comunicazione che erano stati lanciati in orbita trasmise le sue parole. — Allora farete meglio a cominciare a segnare la strada — rammentò Danzig. — Via, via, sei proprio uno che si preoccupa, vero! — Comunque, Garcilaso si tolse dalla cintura la pistola a schizzo e tracciò sul terreno un vivido cerchio di vernice fluorescente, cosa che avrebbe fatto nuovamente ad intervalli fino a che il gruppo avesse raggiunto il ghiacciaio. Salvo i punti in cui la polvere era fitta sul suolo, le impronte lasciate dai tre erano leggiere a causa della scarsa gravità, ed addirittura assenti quando c'era da camminare su un tratto di roccia. Camminare? No, balzare. I tre si avviarono a grandi balzi, ben poco ostacolati dalle tute spaziali, dalle unità di supporto vitale, dagli attrezzi e dalle razioni. Il terreno nudo fuggì dinnanzi alla loro fretta, ed il ghiaccio si fece sempre più alto, chiaro, glorioso a vedersi, incombente. Non c'era davvero modo per descriverlo. Si poteva parlare di pendii più bassi e di cime più elevate fino ad un'altitudine di un centinaio di metri, con vette che torreggiavano ancora più su. Si poteva parlare di forme graziosamente incurvate che collegavano quelle vette, di parapetti di merletto e crepacci, ed aperture arcuate di grotte piene di meraviglie, di misteriosi azzurri nel profondo e di verdi là dove la luce scorreva attraverso sostanze traslucenti, di un bagliore di gemme sul candore dove luce ed ombre intrecciavano danze... e nulla di tutto questo avrebbe trasmesso una descrizione più efficace del precedente paragone, sia pure inadeguato, fatto da Scobie con il Gran Canyon. — Fermi — disse per la dodicesima volta. — Voglio scattare qualche fotografia. — Riuscirà a comprenderle chi non è stato qui? — sussurrò la Broberg. — Probabilmente no — replicò Garcilaso con la stessa voce sommessa, — forse non comprenderà mai nessun altro eccetto noi tre. — Cosa vuoi dire con questo? — chiese Danzig.
— Non importa — scattò Scobie. — Credo di saperlo — replicò il chimico. — Sì, è uno scenario grandioso, ma voi vi state lasciando ipnotizzare. — Se non la smetti con queste ciance — lo ammonì Scobie, — ti taglierò fuori dal circuito. Dannazione, abbiamo del lavoro da fare, smettila di starci addosso. — Scusa — sospirò Danzig. — Uh, avete trovato qualche indizio sulla natura di quella... quella cosa? — Ecco — fece Scobie, un po' ammorbidito, mettendo a fuoco la sua telecamera, — la differenza di sfumature e composizione, e l'indubbia differenza di forme sembrano confermare quello che gli spettri riflessi delle sonde avevano suggerito. La composizione è un misto, una mescolanza casuale o tutte e due le cose insieme di svariati materiali, e varia da un punto all'altro. La presenza del ghiaccio d'acqua è ovvia, ma sono sicuro anche del diossido di carbonio e scommetterei che ci sono pure ammoniaca, metano e forse quantità minori di altre sostanze. — Metano? Ma può rimanere solido, a temperatura ambiente, nel vuoto? — Dovremo verificarlo. Comunque, scommetterei che per la maggior parte del tempo la temperatura è sufficientemente bassa, almeno per gli strati di metano che si trovano giù nell'interno e sottoposti a pressione. Dentro l'elmetto trasparente, i lineamenti della Broberg si atteggiarono ad entusiasmo. — Aspetta! — esclamò. — Ho un'idea... su cosa può essere accaduto alla sonda che è atterrata. — Trasse il fiato. — Ricorderai che è scesa quasi ai piedi del ghiacciaio. La nostra visuale del luogo dallo spazio sembrava indicare che fosse stata sepolta da una valanga, ma non siamo riusciti a capire cosa potesse averla provocata. Ebbene, supponiamo che uno strato di metano collocato proprio nel punto sbagliato, si sia furo: il calore delle radiazioni dei motori può averlo riscaldato, e più tardi il raggio radar impiegato per ottenere i contorni della mappa deve aver aggiunto i pochi gradi necessari. Lo strato si è fuso e tutto quello che c'era sopra è precipitato giù. — È plausibile — ammise Scobie. — Congratulazioni, Jean. — Nessuno aveva pensato in anticipo a questa possibilità? — derise Garcilaso. — Che razza di scienziati abbiamo con noi? — Scienziati che si sono trovati stracarichi di lavoro dopo che abbiamo raggiunto Saturno, ed ancora di più per l'afflusso dei dati — rispose Scobie. — L'universo è più grande di quanto vi rendiate conto tu o chiunque altro, testa calda.
— Oh, certo, senza offesa.! Lo sguardo di Garcilaso tornò a posarsi sul ghiaccio. — Sì, non esauriremo mai i misteri, vero? — Mai. — Gli occhi ardenti della Broberg si erano fatti enormi. — Al cuore di tutte le cose ci sarà sempre la magia. Il Re Elfo regna... — Smettetela di cianciare e muoviamoci — ordinò secco Scobie, riponendo in tasca la telecamera. Il suo sguardo incontrò per un momento quello della Broberg: nella strana luce incerta era possibile vedere che la donna era impallidita e poi arrossita, prima di balzare accanto a lui. Ricia era andata da sola nel Bosco Lunare nella Sera di Mezz'Estate. Il Re l'aveva trovata là e l'aveva presa per sé come lei sperava. L'estasi si era tramutata in terrore quando poi lui l'aveva portata via; eppure, la sua prigionia nella Città di Ghiaccio le aveva arrecato molte altre ore come quelle, e bellezze e meraviglie ignote ai mortali. Alvarlan, il suo mentore, aveva inviato il proprio spirito a cercarla, ed era lui stesso perplesso di fronte a ciò che aveva scoperto. Gli era costato uno sforzo di volontà rivelare a Sir Kendrick delle Isole dove lei si trovasse, quantunque questi si fosse impegnato ad aiutare a liberarla. N'Kuma l'Uccisore di Leoni, Béla del Confine Orientale, Karina del Lontano Ovest, Lady Aurelia, Olav Maestro d'Arpa: nessuno di costoro era stato presente quando ciò era accaduto. Il ghiacciaio (un nome errato per qualcosa che poteva non aver paragone in tutto il Sistema Solare) sorgeva dalla pianura, improvviso come un muro. Stando fermi là, i tre non potevano più scorgere le sue vette, ma potevano vedere che il pendio, che si curvava ripido in alto fino ad una cima filigranata, non era liscio. Le ombre giacevano azzurre in innumerevoli piccoli crateri, ed il sole era salito abbastanza in alto da crearle. Un giorno su Iapetus equivaleva a settantanove giorni terrestri. La domanda di Danzig gracchiò nei loro microfoni. — Adesso siete soddisfatti? Volete tornare prima che un'altra valanga vi investa? — Non succederà — rispose Scobie. — Noi non siamo un veicolo, e la configurazione locale è evidentemente stabile da secoli. Inoltre, che senso ha una spedizione umana se nessuno svolge indagini? — Vedo se riesco ad arrampicarmi — si offrì Garcilaso. — No, aspetta — ordinò Scobie. — Io ho una certa esperienza in fatto di
montagne e di banchi di neve, per quel che può valere qui. Lascia a me il compito di trovare prima una strada adeguata. — Volete andare su quella roba, tutti quanti? — esplose Danzig. — Avete perso completamente la testa? — Mark, ti avverto di nuovo. — Le labbra e le sopracciglia di Scobie si serrarono. — Se non tieni le tue emozioni sotto controllo ti taglieremo fuori. Procederemo per un tratto, se io decido che la via è sicura. Si mise a camminare avanti a indietro, nella maniera fluttuante causata dalla riduzione di peso, mentre esaminava il ghiacciaio: era facile vedere strati e blocchi di differenti sostanze, simili a differenti conci disposti vicino ad una dimora elfica... quando non erano tanto enormi da denotare l'opera di un gigante. I piccoli crateri potevano essere postazioni di sentinelle lungo questi più bassi bastioni delle difese della Città... Garcilaso, il più vivace fra gli uomini, rimase immobile, lasciando vagare il suo sguardo sul panorama; la Broberg s'inginocchiò ad esaminare il suolo, ma anche i suoi occhi continuarono a fissarsi verso l'alto. — Colin, vieni qui, per favore — chiamò infine. — Credo di aver fatto una scoperta. Scobie le si avvicinò, e, nel rialzarsi, la donna raccolse una manciata di piccole particelle nere dalle rocce su cui si trovava e le lasciò filtrare attraverso il guanto. — Sospetto sia questo il motivo per cui la linea di confine del ghiaccio è così brusca — gli disse. — Cos'è — chiese Danzig, da lontano, ma non ottenne risposta. — Ho notato la presenza di una quantià sempre maggiore di polvere man mano che procedevamo — proseguì la Broberg. — Se essa andasse a cadere su tratti e spuntoni isolati di sostanza gelata e li coprisse, assorbirebbe energia solare fino a farli squagliare, o, per lo meno, sublimare. Perfino le molecole d'acqua fuggirebbero nello spazio, con una gravità tanto bassa. La massa principale del ghiaccio era troppo vasta per un fenomeno del genere, la solita legge del quadrato del cubo: in quel caso, i granelli di sabbia si sarebbero semplicemente aperti la strada per un breve tratto per poi venire coperti quando il materiale circostante fosse crollato loro addosso, ed il processo si sarebbe arrestato. — Hmm... — Scobie sollevò una mano per grattarsi il mento, incontrò invece l'elmetto ed abbozzò un sogghigno a proprie spese. — Mi sembra ragionevole. Ma... da dove è venuta tutta questa polvere, ed anche il ghiaccio, già che ci siamo?
— Io credo... — la voce della donna si abbassò fino ad essere appena udibile, ed il suo sguardo si spostò nella stessa direzione di quello di Garcilaso, mentre quello di Scobie rimase fisso sul suo volto, profilato contro le stelle. — Io credo che questo confermi la tua ipotesi della cometa, Colin. Una cometa ha colpito Iapetus. È venuta dalla direzione da cui è venuta perché si è avvicinata talmente a Saturno da essere costretta a descrivere una curva a spillone intorno al pianeta. Era enorme, ed il suo ghiaccio ha ricoperto quasi un intero emisfero, nonostante una quantità molto maggiore si sia vaporizzata e sia andata perduta. La polvere proviene in parte di là, ed in parte è stata generata dall'impatto. — La tua teoria, Jean! — esclamò Colin, abbracciando le sue spalle chiuse nella tuta. Io non sono stato il primo a proporre l'idea della cometa, ma tu sei la prima a fornire dei dettagli di prova. Jean non parve notare l'osservazione se non per ciò che mormorò ancora: — La polvere può spiegare anche l'erosione che ha determinato quelle deliziose formazioni. Ha provocato una diversa fusione e sublimazione della superficie, a seconda dei disegni secondo cui è caduta e dei miscugli di ghiaccio cui si è aggrappata prima di essere lavata via o incorporata. I crateri, quelli più piccoli ed anche quelli più grandi che abbiamo osservato dall'alto, hanno un'origine separata ma simile. Meteoriti... — Aspetta un po' — obiettò Scobie. — Qualsiasi meteorite di dimensioni rispettabili emanerebbe tanta energia da far fondere la maggior parte dell'intera distesa. — Lo so. Il che dimostra che la collisione con la cometa è una cosa recente, avvenuta meno di mille anni fa, altrimenti oggi noi non vedremmo questo miracolo. Nulla di grosso ha più colpito Iapetus da allora. Sto pensando a piccole pietre, sabbia cosmica, che abbiano orbitato intorno a Saturno e quindi abbiano colpito con bassa velocità relativa. Per lo più hanno creato semplici ammaccature nel ghiaccio. Rimanendo là, però, raccolgono calore solare perché sono scure e lo irradiano a loro volta fondendo le loro immediate vicinanze fino a sprofondare. Le cavità che esse lasciano riflettono radiazioni incidenti da un lato all'altro e così continuano ad ingrandirsi: è l'effetto marmitta. Ed ancora, siccome ghiacci diversi hanno proprietà differenti, non si ottengono crateri perfettamente lisci, bensì quelle fantastiche coppe che abbiamo visto prima di atterrare. — Per Dio! — esplose Scobie. — Sei un genio! Elmetto contro elmetto, Jean sorrise e disse:
— No, è ovvio, una volta che lo si è visto di persona. — Rimase quieta per un po', mentre si tenevano abbracciati. — L'intuito scientifico è una cosa buffa, lo ammetto — proseguì infine. — Mentre consideravo il problema, non ero quasi conscia della mia mente logica. Quello che ho pensato era... La Città di Ghiaccio, fatta con pietre di stella da ciò che un dio aveva invocato dal cielo... — Gesù Maria! — Garcilaso ruotò su se stesso per fissarli. — Cercheremo una conferma — aggiunse Scobie, con voce incerta, lasciando andare la donna. — A quel grosso cratere che abbiamo avvistato poco più avanti. La superficie sembra sicura a camminarci sopra. — Ho chiamato quel cratere la Sala da Ballo del Re Elfo — rifletté la Broberg, come se le stesse tornando in mente un sogno. — State attenti! — risuonò la risata di Garcilaso. — Laggiù c'è un gran numero di incantesimi. Il Re è soltanto un erede: sono stati i giganti a costruire queste mura, per gli dèi. — Ebbene, devo trovare una via per entrare, non ti pare? — replicò Scobie. — Davvero — dice Alvarlan. — Da questo punto in poi non ti posso più guidare. Il mio spirito può vedere soltanto attraverso occhi mortali, ed io ti posso fornire soltanto i miei consigli, fino a che raggiungeremo il cancello. — State sognando ad occhi aperti quella vostra fiaba? — gridò Danzig. — Tornate indietro, prima di farvi uccidere tutti! — La vuoi smettere? — ringhiò Scobie. — Non è altro che un modo di parlare che usiamo tra noi. Se non riesci a capirlo, vuol dire che sei meno capace di noi di usare il cervello. — Mi vuoi ascoltare? Non ho detto che siete pazzi: non avete allucinazioni o cose del genere, dico solo che avete indirizzato le vostre fantasie verso un luogo di questo tipo e che ora la realtà le ha rinforzate al punto che siete sotto un impulso che non riuscite a riconoscere. Vi spingereste allo sbaraglio in modo così incosciente in qualsiasi altro luogo dell'universo? Riflettete! — Questo fa traboccare il vaso. Riprenderemo il contatto dopo averti dato un po' di tempo per migliorare le tue maniere. — Scobie chiuse il suo interruttore radio principale. I circuiti che rimasero in funzione servivano per la comunicazione a distanza ravvicinata ma non avevano la forza di raggiungere i satelliti orbitali. I suoi compagni lo imitarono, quindi si girarono tutti e tre verso l'imponente massa che avevano dinnanzi. — Mi puoi aiutare a trovare la Principessa, quando saremo dentro, Avar-
lan — dice Kendrick. — Lo posso e lo farò — promette il mago. — Ti aspetto, o più risoluto fra i miei amanti — dice sommessamente Ricia. Solo, nel modulo spaziale, Danzig si disse, quasi singhiozzando: — Oh, sia dannato in eterno quel gioco! — Ma il suono di quelle parole cadde nel vuoto. III Condannare lo psicodramma, anche nella sua forma più accentuata, equivarrebbe a condannare la natura umana. Esso ha inizio durante l'infanzia. Il gioco è una cosa necessaria ad un mammifero immaturo, costituisce un mezzo per imparare ad usare il proprio corpo, le sue percezioni ed il mondo esterno. Il giovane umano gioca, deve giocare, anche con il cervello, e, quanto più il bambino è intelligente, tanto più la sua immaginazione ha bisogno di esercizio. Esistono vari gradi di attività, dal guardare passivamente uno schermo, fino al leggere, al sognare ad occhi aperti, al narrare una storia, ed allo psicodramma... cosa per cui il bambino non ha una denominazione così fantasiosa. Non possiamo dare un'unica descrizione di questo comportamento, perché la sua forma e il suo sviluppo dipendono da un numero interminabile di variabili, fra le quali il sesso, l'età, la cultura d'appartenenza ed i compagni di gioco sono soltanto le più ovvie. Per esempio, nell'America Settentrionale dell'era pre-elettronica, le bambine erano solite giocare spesso alla «casa», mentre i ragazzini giocavano ad «indiani e cowboy» oppure a «guardie e ladri», mentre al giorno d'oggi può accadere che un gruppo misto di loro discendenti giochi ai «delfini» oppure ad «astronauti ed alieni». In sintesi, si forma un gruppetto, all'interno del quale ciascun membro si crea un personaggio da rappresentare o ne prende uno a prestito da qualche racconto. È possibile l'impiego di semplici attrezzi di contorno, armi giocattolo oppure un oggetto qualsiasi... un bastone, per esempio... che viene identificato con qualcos'altro, un individuatore di metalli o un'altra cosa altrettanto immaginaria, come immaginario è quasi sempre anche lo scenario. I bambini recitano allora un dramma che essi stessi compongono man mano che il gioco procede; quando è impossibile eseguire fisicamente una certa azione, la si descrive a parole. («Faccio un salto molto in alto, come si può fare su Marte, e supero l'orlo della vecchia Valles Marineris e pren-
do quel bandito di sorpresa.) Generalmente, un ampio cast di personaggi, specialmente cattivi, viene ad esistere di comune accordo. Il membro del gruppo più dotato d'immaginazione domina il gioco e l'evoluzione della storia, anche se in modo molto sottile, offrendo agli altri le più vivide possibilità; anche gli altri, tuttavia, sono di solito soggetti più intelligenti della media, perché lo psicodramma in questa forma così altamente sviluppata non attira tutti. Per coloro che vengono attratti, gli effetti sono benefici e durano una vita; inoltre, accrescendo la creatività del bambino man mano che il gioco continua, lo psicodramma permette di realizzare differenti versioni di svariati ruoli e di esperienze di adulti, e pertanto fa sì che i bambini cominciano ad acquisire una certa comprensione dell'essere adulti. Questo tipo di recitazione finisce quando ha inizio l'adolescenza se non prima... ma soltanto in quella forma e non necessariamente per sempre. Anche gli adulti hanno molti giochi-sogno, come è facile vedere per esempio nelle logge, con i loro titoli, costumi e cerimonie; e non è forse questo ciò che anima in ugual misura ogni parata o cerimonia? Fino a che punto i nostri eroismi, i nostri sacrifici e l'accrescimento del nostro io non sono altro che la recitazione di un personaggio che continuiamo a tenere in vita? Alcuni pensatori hanno tentato di rintracciare questo elemento in ogni aspetto della società. Qui, tuttavia, quello che c'interessa è lo psicodramma manifestamente svolta fra adulti. Nella civiltà Occidentale, esso ha fatto la sua prima comparsa su scala notevole durante la metà del ventesimo secolo, perché gli psichiatri trovarono in esso una potente tecnica diagnostica e terapeutica. Fra la gente comune, giochi di guerra o di fantasia, molti dei quali coinvolgevano l'identificazione con personaggi storici o immaginari, divennero sempre più popolari. In parte questo fu senza dubbio un ritrarsi di fronte alle restrizioni ed alle minacce di quell'infelice periodo, ma si trattò in gran parte anche di una rivolta della mente contro i divertimenti passivi, principalmente la televisione, che erano divenuti dominanti come forma di ricreazione. Il Caos pose fine a quelle attività, e tutti sanno della loro ripresa in tempi recenti... per scopi più sani, c'è da sperare. Proiettando scene tridimensionali e suoni adeguati da una banca dati... o, meglio ancora, facendoli produrre secondo necessità da un computer,... i giocatori ottenevano un senso di realtà che accentuava la loro concentrazione mentale ed emotiva; eppure in quei giochi che procedevano episodio dopo episo-
dio, un anno di tempo reale dopo l'altro, ogni volta che due o più membri di un gruppo si riunivano per giocare, si sviluppò una dipendenza sempre minore da simili supporti esteriori. Parve che, attraverso la pratica, i giocatori riacquistassero la vivida immaginazione della loro infanzia e riuscissero a trasformare qualsiasi cosa, anche il nulla, negli oggetti e nei mondi desiderati. Ho ritenuto necessario ripetere queste cose tanto ovvie in modo da poterle osservare in prospettiva. Le notizie trasmesse da Saturno hanno generato una sensazione diffusa di repulsione (Perché? Quali paure nascoste sono state stuzzicate? Questo argomento è oggetto di una ricerca potenzialmente importante). Nel giro di una notte, lo psicodramma per adulti è divenuto impopolare e potrebbe anche estinguersi, il che, sotto molti aspetti, sarebbe una tragedia peggiore di quella che si è verificata laggiù. Non c'è motivo di pensare che quel gioco possa aver danneggiato qualsiasi persona sana di mente sulla Terra; al contrario, ha indubbiamente aiutato gli astronauti a rimanere sani di mente e sul chi vive nel corso di lunghe e difficili missioni, e, se non trova più applicazione medica, è solo perché la psicoterapia è da molto tempo diventata una branca della biochimica applicata. Ed appunto la scarsità di esperienza del mondo moderno riguardo alla follia, è alla radice di ciò che è accaduto. Anche se non avrebbe potuto prevedere le esatte conseguenze della cosa, uno psichiatra del ventesimo secolo avrebbe comunque dato un parere negativo circa il fatto di trascorrere otto anni, un periodo di tempo senza precedenti, in un ambiente strano come quello della Chronos. E strano quell'ambiente si è certo rivelato, nonostante tutti gli sforzi... limitato, totalmente controllato dall'uomo, privo degli innumerevoli suggerimenti per i quali la nostra evoluzione sulla Terra ci ha forgiati. I coloni lontani dalla Terra hanno avuto a disposizione, fino ad oggi, una serie di simulazioni e di compensazioni, fra cui la più significativa è sicuramente l'esistenza di uno stretto e totale contatto con la patria e la frequente opportunità di tornarvi per una visita. Il tempo necessario per il viaggio fino a Giove era lungo, ma solo la metà di quello occorrente per arrivare a Saturno, ed inoltre, siccome il loro era uno dei primi viaggi, gli scienziati a bordo della Zeus ebbero da svolgere una gran quantità di ricerche con cui occupare il periodo del viaggio, cosa che i viaggiatori successivi non avevano più motivo di fare a loro volta, perché ormai lo spazio interplanetario fra i due giganti dello spazio conteneva ben poche sorprese. Gli psicologi contemporanei erano consapevoli di questo, compren-
devano che le persone colpite più negativamente sarebbero state quelle più intelligenti, immaginose e dinamiche... quelle stesse che, una volta su Saturno, avrebbero dovuto effettuare quelle scoperte che costituivano lo scopo dell'impresa. Avendo minore familiarità di quanta ne avessero avuta i loro predecessori con il labirinto che, infestato dal Minotauro, si trova nascosto sotto la sfera cosciente di ogni mente umana, gli psicologi si aspettavano soltanto conseguenze positive da qualsiasi psicodramma i membri dell'equipaggio avessero inventato. Minamoto Gli assegnamenti alle diverse squadre non erano stati effettuati prima della partenza, perché era più ragionevole permettere alle capacità professionali dei vari membri di rivelarsi e di accrescersi durante il viaggio, contemporaneamente alle relazioni personali. Alla fine, quei fattori sarebbero serviti a decidere quali individui andavano addestrati per i differenti compiti. La partecipazione a lungo termine ad un gruppo di giocatori serviva normalmente a creare legami di amicizia che erano desiderabili, se i membri di quei gruppi erano qualificati anche sotto altri aspetti. Nella vita reale, Scobie si era sempre attenuto allo stretto rispetto delle convenienze nei confronti della Broberg. Era una donna attraente, ma monogama, e lui non aveva alcun desiderio di offenderla, senza contare che provava simpatia per suo marito. (Tom non partecipava al gioco, perché, essendo un astronomo, aveva una quantità di cose che lo tenevano felicemente impegnato.) Giocavano ormai da un paio d'anni, ed il loro gruppo aveva acquisito tanti personaggi quanti ne poteva contenere una narrazione il cui intreccio ed i cui personaggi si stavano facendo sempre più complessi, prima che Scobie e la Broberg arrivassero a parlare di qualcosa di intimo. In quel periodo, la storia che stavano recitando aveva a sua volta preso una piega intima, e forse non era stato per caso che i due si erano incontrati quando entrambi avevano qualche ora di libertà. Era accaduto nell'aria di ricreazione in assenza di gravità, nell'asse rotante. Avevano rimbalzato nell'aria, gridando e ridendo, fino a sentirsi piacevolmente stanchi, quindi erano tornati agli spogliatoi, avevano restituito le tute ed avevano fatto una doccia. Nessuno dei due aveva mai visto l'altro nudo prima di allora, e, se nessuno dei due aveva fatto commenti, Scobie non aveva però nascosto di godere dello spettacolo, mentre la Broberg era arrossita ed aveva distolto lo sguardo con il massimo tatto possibile. Più tardi, asciutti e rivestiti, ave-
vano deciso di bere qualcosa prima di tornare a casa, e si erano recati alla sala bar. Dal momento che il turno serale stava per cedere il passo a quello notturno, avevano il posto tutto per loro. Al bar, Scobie aveva selezionato un bicchiere di Scotch per sé ed un Pinot Chardonnay per la Broberg. La macchina li aveva serviti subito ed essi avevano portato le bibite sulla balconata, dove si erano seduti ad un tavolo, lo sguardo fisso sull'immensità antistante. Il club era costruito all'interno della struttura di supporto ad un livello con gravità lunare. Sopra di loro, vedevano il cielo dove si erano librati come uccelli, e che non appariva affatto soffocato dalle distanziate e sottili travature più di quanto lo fosse dalle poche nuvolette vaganti. Al di là, e direttamente dinnanzi a loro, i ponti opposti erano un mischiarsi di masse e di forme trasformate in qualcosa di misterioso dalla scarsa illuminazione di quell'ora. In mezzo a quelle ombre, gli umani immaginarono di vedere foreste, sorgenti, polle, rese bianche o luminose dalla luce stellare che colmava le zone panoramiche che davano sul cielo. A destra ed a sinistra, lo scafo si stendeva a perdita d'occhio, una massa d'oscurità tale che le lampade presenti vi sembravano come smarrite. L'aria era fredda, vagamente odorosa di gelsomino, imbevuta di silenzio; sul sottofondo ed all'interno di essa, ad un livello subliminale, vibravano le miriadi di pulsazioni vitali della nave. — Magnifico — osservò la Broberg, a bassa voce, lo sguardo fisso verso l'esterno. — Che sorpresa! — Eh? — fece Scobie. — In precedenza, ero venuta qui solo di giorno, e non mi aspettavo che una semplice rotazione dei riflettori potesse rendere tutto tanto splendido. — Oh, non sottovaluterei il panorama diurno: è molto impressionante. — Sì, ma... ma allora si vede chiaramente che è tutto fatto dall'uomo, che non c'è nulla di selvaggio, sconosciuto, libero. Il sole nasconde le stelle, ed è come se non esistesse alcun universo al di fuori di questo guscio in cui ci troviamo. Stanotte è come essere a Maranoa — Il regno di cui Ricia è Principessa, un regno di cose e di costumi antichi, di zone selvagge e di incantesimi. — Hmmm, già, qualche volta mi sento come intrappolato anch'io — ammise Scobie. — Pensavo di avere una scorta di dati geologici da studiare che mi sarebbe durata per tutto il viaggio, ma il mio progetto non si sta sviluppando in alcun modo interessante. — Lo stesso vale per me. — La Broberg si raddrizzò sul sedile, si volse
verso di lui e sorrise. La penombra addolciva i suoi lineamenti e la faceva sembrare più giovane. — Non che abbiamo diritto a commiserarci: qui siamo al sicuro e godiamo di ogni comodità, finché arriveremo su Saturno; quindi non ci dovrebbero mancare occasioni eccitanti né materiale su cui lavorare lungo il viaggio di ritorno a casa. — Vero. — Scobie sollevò il suo bicchiere. — Bene, Skoal. Spero di non averlo pronunciato male. — E come faccio a saperlo? — rise lei. — Il mio nome da ragazza era Almyer. — Giusto, hai adottato il cognome di Tom. Non ci stavo pensando. Ma, non è una cosa abbastanza insolita, di questi tempi? — La mia famiglia era benestante, ma era... è di fede Cattolica — replicò la Broberg, allargando le mani. — Sono molto rigidi in merito ad alcune cose, arcaicisti, potresti anche dire. — Sollevò il bicchiere e sorseggiò il vino. — Oh, certo, ho lasciato la Chiesa, ma, sotto molti aspetti, la Chiesa non lascerà mai me. — Capisco. Non per fare il ficcanaso, ma... uh... questo spiega alcuni tratti del tuo carattere per i quali non riuscivo a meravigliarmi. — Per esempio? — chiese la Broberg, osservandolo da sopra l'orlo del bicchiere. — Ecco, tu hai un sacco di vitalità, di vigore, ti piace divertirti, ma sei anche... come dire... domestica in modo fuori del comune. Mi hai detto che eri un tranquillo membro di facoltà della Yukon University prima di sposare Tom. — Scobie sorrise. — Dal momento che voi due mi avete gentilmente invitato alla festa del vostro ultimo anniversario e che conosco la tua età attuale, ho dedotto che allora dovevi avere trent'anni. — Non menzionò la probabilità che fosse arrivata ancora vergine a quell'età. — Nondimeno... oh, lascia perdere, ho detto che non volevo ficcanasare. — Va' avanti, Colin — lo incitò lei. — Mi è rimasto in mente quel verso di Burns, da quando tu mi hai fatto conoscere le sue poesie: «Poter vedere noi stessi come gli altri ci vedono!» Siccome sembra che finiremo per visitare la stessa luna... — Oh! — Scobie trangugiò un grosso sorso di whiskey. — Non è molto — disse, con involontaria diffidenza, — ma se vuoi saperlo, ecco, la mia impressione è che essere innamorata non è stata l'unica buona ragione per sposare Tom. Lui era già stato accettato per questa spedizione, e, considerate le tue specifiche qualifiche, saresti stata accettata anche tu. In breve, ti eri stancata della tua routine rispettabile, e questo era un modo per dare un
calcio a tutto. Ho ragione? — Sì. — Il suo sguardo indugiò su di lui. — Sei più percettivo di quanto supponessi. — No, in realtà no. Sono solo un mastino selvatico ed attaccabrighe. Ma il personaggio di Ricia ha reso evidente che non sei soltanto una mite moglie e madre, ed una scienziata... — Jean schiuse le labbra per replicare ma Scobie sollevò una mano. — No, per favore, fammi finire. So che è cattiva educazione sostenere che il personaggio adottato da qualcuno non è che una realizzazione dei propri desideri, ma non è questo quello che sto facendo. Naturalmente, tu non desideri essere una femmina vagabonda dai liberi amori più di quanto io desideri andarmene in giro a cavallo ad affettare un assortimento di nemici. Eppure, se tu fossi nata e cresciuta nel mondo del nostro gioco, sono certo che somiglieresti molto a Ricia, e quel potenziale è parte di te, Jean. — Scobie finì il liquore di un sorso. — Se ho detto troppo, per favore, scusami. Ne vuoi un altro? — Meglio di no, ma non sentirti obbligato ad imitarmi. — No di certo. — Scobie si alzò e si allontanò a balzi. Al suo ritorno, si accorse che la Broberg Io stava osservando attraverso la porta trasparente. Quando sedette, la donna sorrise, si sporse un po' verso di lui e bisbigliò: — Sono felice che tu abbia detto quello che hai detto, perché adesso posso dichiarare che Kendrick ti rivela per un uomo estremamente complesso. — Cosa? — chiese Scobie, onestamente sorpreso. — Ma via! È un vagabondo munito di spada e lancia, un tipo cui piace viaggiare, come a me; e, quando ero ragazzo, ero rissoso quanto lui. — Può darsi che manchi di esteriorità, ma è un cavaliere valoroso, compassionevole, conosce saghe e tradizioni, apprezza musica e poesia, è un po' anche bardo... Ricia sente la sua mancanza. Quando tornerà dalla sua ultima impresa? — Sto tornando a casa proprio adesso. N'kuma ed io siamo sfuggiti a quei pirati e siamo approdati ad Haverness due giorni fa. Dopo che abbiamo seppellito il bottino, lui desiderava andare a trovare Béla e Karma per unirsi a loro in quello che stavano facendo, qualsiasi cosa fosse, così per ora ci siamo separati. — Scobie ed Harding si erano di recente presi qualche ora di libertà per concludere quell'avventura, mentre il resto del gruppo era da qualche tempo dedito ad occupazioni mondane. — Da Haverness alle Isole? — chiese la Broberg, dilatando gli occhi. —
Ma io sono al Castello Deveranda, esattamente a metà strada! — Speravo che fossi là. — Non posso aspettare oltre per sentire la tua storia. — Sto continuando a viaggiare con il buio. La luna risplende ed ho un paio di cavalli di scorta che ho acquistato con qualche moneta d'oro del bottino. — La polvere rotola bianca sotto gli zoccoli battenti; là dove un ferro del cavallo colpisce un ciottolo di selce, scaturiscono ardenti scintille. Kendrick si acciglia. — Ma tu non sei con... come si chiama?... Joranil Rosso? Non mi piace quel tipo. — L'ho sbattuto fuori un mese fa. Si era messo in testa che dividere il mio letto gli conferisse qualche autorità su di me, e comunque non era mai stato altro che un ragazzaccio chiassoso. Sono sola sulla Torre di Gerfalcon, e guardo verso sud, sui campi illuminati dalla luna, chiedendomi come tu stia. La strada scorre verso di me come un grigio fiume: è un cavaliere quello che scorgo galoppare molto, molto lontano? Dopo parecchi mesi di gioco, le immagini sullo schermo non erano più necessarie. I pennoni, sospinti dal vento notturno, sventolano verso le stelle. — Arrivo, e suono il corno per destare i custodi della porta. — Come rammento quelle liete note... Quella stessa notte, Kendrick e Ricia diventano amanti. Esperti del gioco ed attenti a rispettare le sue regole, Scobie e la Broberg non scesero in dettagli in merito a quell'unione; non si toccarono neppure per mano e mantennero solo un fugace contatto visivo. L'ultimo scambio di saluti serali fu estremamente decoroso: dopo tutto, quella era una storia che stavano componendo a proposito di due personaggi fittizi su un mondo che non era mai esistito. I pendii inferiori del ghiacciaio si levavano in arcate che erano anch'esse profondamente concave; gli umani camminarono lungo i loro bordi, ammirando le stravaganti formazioni sottostanti, ed intanto una serie di nomi salivano loro alle labbra: il Giardino Gelato, il Ponte Spettrale, il Trono della Regina delle Nevi, mentre Kendrick avanza nella Città e Ricia lo attende nella Sala da Ballo, e lo spirito di Alvarlan fa da messaggiero fra i due, cosicché è come se la Principessa stesse già camminando a fianco del suo cavaliere. A vanzarono comunque con attenzione, spiando con cautela ogni eventuale segno di pericolo, specialmente quando una mutazione di struttura, di colore o di qualsiasi altra cosa sulla superficie su cui proce-
devano tradiva un cambiamento nella sua natura. Al di sopra del costone più alto si levava un'altura troppo ripida per poter essere scalata, nonostante la minima gravità di Iapetus: il muro della fortezza. Tuttavia, dal cielo il gruppo aveva scorto un'apertura che formava un passo e che doveva indubbiamente essere stata creata da qualche piccola meteorite, durante la guerra fra dèi e maghi, quando le pietre cantanti scesero dal cielo apportando una rovina tale che in seguito nessuno osò tentare la ricostruzione. Era una scalata irreale, su un percorso racchiuso fra cime che brillavano di un bagliore azzurrino da esse stesse generato, con la volta celeste ridotta ad una cintura dove le stelle sembravano splendere con raddoppiato vigore. — Devono esserci sentinelle all'apertura — osserva Kendrick. — Una sola guardia — replica il sussurro mentale di Alvarlan, — ma si tratta di un drago. Se combatti con lui, il frastuono e le fiamme attireranno su di te ogni guerriero presente qui. Non temere: scivolerò nel suo cervello ardente ed intesserò un sogno tale che non ti vedrà passare. — Il Re potrebbe percepire l'incantesimo — dice Ricia, tramite il mago. — Dal momento che tu sarai comunque separato da noi mentre controllerai il cervello della bestia, Alvarlan, io cercherò il Re e lo distrarrò. Kendrick fa una smorfia, ben sapendo quali siano i mezzi che Ricia intende impiegare. Lei gli ha detto quanto desideri la libertà ed il suo cavaliere, ma ha anche lasciato intuire che il modo di amare degli elfi trascende quello umano: desidera forse un ultimo momento di quell'amore prima di essere salvata?... Ebbene, né Ricia né Kendrick hanno giurato né praticato fedeltà ad una sola persona. Certamente, Colin Scobie non lo aveva mai fatto; con un sorriso divertito, Scobie continuò a camminare nel silenzio che era sceso sul terzetto. Arrivarono in cima alla massa glaciale e si guardarono intorno: Scobie emise un fischio, e Garcilaso balbettò: — G..G..Gesù Cristo! La Broberg congiunse le mani di scatto. Sotto di loro, il precipizio scendeva su alcuni costoni modellati in un modo che assumeva un aspetto completamente nuovo e soprannaturale, fatto di bagliori ed ombre, fino a terminare nella pianura. Vedendo quello spettacolo da tanto alto, la curvatura della luna faceva venir voglia di artigliare il suolo con i piedi per aggrapparsi ad esso e non essere scaraventati fra le stelle che circondavano, più che sovrastare, quella sfera. Il veicolo spaziale sorgeva minuscolo sulla pietra scura e butterata come un cenotafio
rassegnato alla solitudine. Verso oriente, il ghiaccio si sporgeva oltre il campo visivo, che era molto limitato. (— Laggiù ci potrebbero essere i confini del mondo — osservò Garcilaso, e Ricia risponde: — Sì, la Città sorge vicino ad essi.) Conche di dimensioni differenti, collinette, crepacci, nessuno eroso alla stessa maniera degli altri, trasformavano quel tratto altrimenti pianeggiante in un labirinto surreale. Un costone che sembrava un arabesco traforato e che sorgeva dov'era la meta prefissa dagli esploratori, sormontava l'orizzonte, e tutto ciò che era illuminato brillava dolcemente. Per quanto fosse caldo, il sole proiettava una luce equivalente forse a quella che cinquemila Lune piene avrebbero potuto riversare sulla Terra; verso sud, il grande semidisco di Saturno forniva una luminosità pari a circa una volta e mezza quella della Luna, ma in quella direzione la distesa di ghiacci brillava di un pallido colore ambrato. — Bene, vogliamo andare? — chiese Scobie, scuotendosi, e quella domanda prosaica parve colpire gli altri, perché Garcilaso si accigliò mentre la Broberg sussultava. La scienziata si riprese però subito. — Sì, affrettiamoci — dice Ricia. — Sono nuovamente sola. Sei uscito dalla mente del drago, Alvarlan? — Sì — la informa il mago. — Kendrick è sano e salvo dietro il palazzo in rovina. Dicci qual è la strada migliore per raggiungerti. — Vi trovate alla Casa della Corona, consunta dal tempo. Dinnanzi a voi c'è la Strada dei Fabbricanti di Scudi... Scobie si accigliò. — È mezzogiorno, quando gli elfi non vanno in giro — dice Kendrick, in tono di comando e di ammonizione. — Non desidero incontrare nessuno di loro: niente lotte né complicazioni. Ti prenderemo e fuggiremo senza ulteriori guai. La Broberg e Garcilaso si mostrarono delusi, ma compresero: il gioco finiva quando uno dei personaggi rifiutava d'accettare qualche nuovo particolare inserito da un compagno di gioco, ed in quei casi spesso i fili della narrazione non venivano ripresi e riallacciati per parecchi giorni. La Broberg sospirò. — Segui la strada fino alla fine, dove c'è un foro e sgorga una fontana di neve — spiega Ricia. — Attraversa il foro e continua lungo il Viale Aleph Zain: lo riconoscerai a causa di un cancello a forma di teschio con le mandibole aperte. Se vedi da qualche parte un bagliore d'arcobaleno nell'aria, rimani immobile fino a che sarà svanito, perché si tratterà di un lupo auro-
rale... Ad un trotto favorito dalla bassa gravità, furono sufficienti appena una trentina di minuti per coprire la distanza. Nell'ultimo tratto, i tre furono costretti ad effettuare grandi deviazioni a causa di blocchi di ghiaccio dalla composizione tanto sottile che scivolava sotto gli stivali e minacciava d'inghiottirli. Parecchi di quei blocchi erano disseminati a regolari intervalli intorno alla loro meta. Una volta giunti, i tre viaggiatori si arrestarono nuovamente, persi nella morsa della meraviglia. Il bacino ai loro piedi doveva giungere fin quasi al fondo roccioso, era profondo un centinaio di metri ed ampio quasi il doppio. Sul suo ciglio si ergeva il muro che avevano visto dall'altura, un arco lungo ed alto una cinquantina di metri, in nessun punto più spesso di cinque metri, traforato da intricate spire ornamentali che splendevano di un bagliore verde quando non erano trasparenti. Quello era il limitare superiore di uno strato che formava una serie di dentellature giù per il cratere. E c'erano altre sporgenze e altri burroni dall'aspetto ancora più fantastico... era forse quella una testa d'unicorno, quell'altra un colonnato di cariatidi, era quello un inginocchiatoio di ghiaccio?... Il profondo abisso era come un lago di fredde ombre azzurre. — Sei giunto, Kendrick, adorato! — grida Ricia, gettandosi fra le sue braccia. — Quieta! — avverte la mente di Alvarlan il saggio. — Non destare i nostri immortali nemici. — Sì, dobbiamo tornare indietro. — Scobie sbatté le palpebre. — Per tutti i preti giudei, cosa ci ha preso? Il divertimento è divertimento, ma noi ci siamo certo spinti più lontano e più in fretta di quanto fosse sicuro fare, non vi pare? — Rimaniamo ancora un poco — supplicò la Broberg. — Questo è un tale miracolo... la Sala da Ballo del Re Elfo, che il Signore della Danza ha costruito per lui... — Ricordate che se rimaniamo saremo catturati, e la nostra prigionia potrebbe durare per sempre. — Scobie azionò l'interruttore radio principale della sua tuta. — Pronto, Mark? Mi ricevi? Né la Broberg né Garcilaso fecero altrettanto, e non udirono la voce di Danzig. — Oh, sì! Sono rimasto raggomitolato sulla trasmittente mordendomi le nocche. Come state?
— Benone. Siamo vicino a quel grosso buco e torneremo indietro non appena avremo scattato qualche fotografia. — Non sono state inventate ancora le parole per esprimere il sollievo che provo. Valeva la pena di correre quel rischio, da un punto di vista scientifico? Scobie sussultò e si guardò intorno. — Colin? — chiamò Danzig. — Ci sei? — Sì. Sì. — Ti ho chiesto quali osservazioni importanti avete fatto. — Non lo so — mormorò Scobie. — Non riesco a ricordare: dopo che abbiamo iniziato ad arrampicarci, nulla è più parso reale. — Farete meglio a tornare subito indietro — disse cupo Danzig, — ed a scordarvi di quelle fotografie. — Giusto. — Scobie si rivolse ai suoi compagni. — Avanti, march! — Non posso — risponde Alvarlan. — Un incantesimo vagante ha catturato il mio spirito fra volute di fumo. — So dove è custodita una daga di fuoco — dice Ricia. — Tenterò di rubarla. La Broberg si mosse in avanti, come per scendere nel cratere: minuscole particelle di ghiaccio si staccarono dall'orlo sotto i suoi stivali. La donna avrebbe potuto facilmente perdere l'equilibrio e scivolare giù. — No, aspetta! — le grida Kendrick. — Non è necessario. La punta della mia lancia è di lega lunare, e può tagliare... Il ghiacciaio tremò, il costone si spezzò in due e cadde a brandelli, mentre l'area su cui si trovavano i tre umani si staccava dal resto e precipitava nella conca, seguita da una valanga. Cristalli gettati in aria riflessero la luce del sole, brillando come prismi quasi a sfidare le stelle per poi discendere quietamente e giacere immoti. Fatta eccezione per le onde d'urto attraverso i solidi, tutto era accaduto nell'assoluto silenzio che regna nello spazio. Un battito di cuore dopo l'altro, Scobie recuperò faticosamente i sensi, e si trovò bloccato, immobilizzato nell'oscurità e nella sofferenza. La tuta gli aveva salvato e gli stava tuttora salvando la vita, e, per quanto stordito, non aveva subito una commozione vera e propria. Tuttavia, ogni respiro portava un dolore terribile, e sembrava che un paio di costole sul fianco sinistro si fossero fratturate: l'impatto tremendo doveva aver intaccato il metallo. Ed era sepolto sotto un peso tale che non era certo in grado di smuovere. — Pronto! — tossì al microfono. — Non mi sente nessuno?
L'unica risposta fu il pulsare del suo sangue. Se la radio funzionava ancora... ed avrebbe dovuto, essendo costruita all'interno della tuta... la massa che lo circondava faceva da schermo. E risucchiava anche il calore con una velocità stupefacente e senza precedenti. Scobie non sentiva freddo perché il sistema elettrico traeva energia dalla cellula di alimentazione con tutta la velocità necessaria a mantenere caldo il suo corpo ed a riciclare chimicamente l'aria. In genere, quando perdeva calore per via della radiazione... ed un poco anche attraverso gli stivali dalla suola di kerosoam... la domanda di calore alla cellula era preponderante. Adesso, un fenomeno di conduzione si stava verificando su ogni centimetro quadrato, e, per quanto possedesse un'unità di scorta nell'equipaggiamento assicurato alla schiena, Scobie non aveva modo di raggiungerla. A meno che... con una risatina che sembrava un guaito, fece sforzo e sentì la sostanza che lo imprigionava cedere di pochissimo, sotto la pressione delle gambe e delle braccia, mentre un leggero rumore gli risuonava nell'elmetto, un fruscio, un gorgoglio. Quello che lo circondava non era ghiaccio d'acqua, ma una sostanza il cui punto di congelamento era molto inferiore, ed adesso Scobie la stava fondendo e sublimando, creandosi un po' di spazio. Se fosse rimasto immobile, sarebbe sprofondato, mentre le masse gelate sovrastanti scivolavano giù per mantenerlo all'interno della sua tomba. Questo avrebbe anche potuto creare nuove e superbe formazioni, ma lui non ci sarebbe stato per vederle. Invece, doveva usare le sue poche capacità per farsi strada verso l'alto, arrampicarsi, aggrapparsi a pezzi di sostanza che ancora non galleggiassero, aprirsi un varco fino alle stelle. Iniziò a scavare. Un senso di agonia lo prese ben presto: il respiro attraversava gracchiando i polmoni infiammati, le forze gli si assottigliavano ed un tremito s'impossessò di lui, tanto che non avrebbe saputo dire se stava salendo o scivolando all'indietro. Accecato, semi-soffocato, Scobie trasformò le proprie mani in artigli e scavò. Era una cosa troppo insopportabile, e la sua mente rifuggì da essa... Essendo falliti i suoi potenti incantesimi, il Re Elfo aveva fatto crollare in rovina le sue temibili torri. Se lo spirito di Alvarlan fosse rientrato nel suo corpo, il mago avrebbe riflettuto sulle cose che aveva visto, ed avrebbe compreso cosa esse significassero, ed una simile conoscenza avrebbe dato ai mortali un terribile potere contro il Mondo Incantato. Uscendo dal
sonno, il Re aveva scorto Kendrick sul punto di liberare quello spirito. Non c'era tempo per fare altro se non spezzare l'incantesimo che manteneva in piedi la Sala da Ballo. Essa era per lo più costruita di nebbia e polvere di stelle, ma anche da un sufficiente numero di blocchi scavati dal lato gelato di Ginnungagap che avrebbero ucciso il cavaliere quando fossero crollati. Anche Ricia sarebbe perita, ed il Re, nel suo intelletto simile a mercurio, ne provò dispiacere, ma pronunciò ugualmente la parola necessaria. Il Re non sapeva quanto le ossa e la carne riuscissero a sopportare i colpi. Sir Kendrick si apre lottando la strada fra le rovine, per cercare e salvare la sua dama. Mentre lo fa, si rincuora con il pensiero di avventure trascorse e future... ...Ed improvvisamente la coltre si aprì ed apparve Saturno, scintillante con i suoi anelli. Scobie cadde prono sulla superficie e rimase disteso e tremante. Si doveva alzare, non importava quanto gli dolessero le ferite, se non voleva fondere ancora il ghiaccio e scavarsi un'altra tomba. Si issò faticosamente in piedi e si guardò intorno. Della scultura rimaneva ben poco che non fossero sporgenze e cicatrici; la maggior parte del cratere era divenuta una liscia e bianca distesa sotto il cielo, e l'assenza di ombre rendeva difficile valutare la distanza, ma Scobie intuì che la nuova profondità del cratere doveva essere di una settantina di metri, e vuota... vuota. — Mark, mi senti? — gridò. — Sei tu, Colin? — risuonò una voce nel suo auricolare. — In nome di Dio, cosa è successo? Ti ho sentito gridare, ed ho visto una nube sollevarsi e ricadere... poi più niente per oltre un'ora. State bene? — Io sì, all'incirca. Non vedo Jean o Luis. Una frana ci ha colti di sorpresa e ci ha seppelliti. Resta in linea mentre cerco. Quando si alzò in piedi, scoprì che le costole gli facevano meno male e che poteva muoversi con sufficiente disinvoltura, se solo faceva un po' di attenzione. I due tipi di analgesico standard che aveva nel pronto soccorso erano entrambi inutili, perché uno era troppo leggero per dare un effettivo sollievo mentre l'altro era talmente potente che lo avrebbe intorpidito. Cercando di qua e di là, trovò ben presto quello che cercava, una depressione nel materiale franoso simile a neve, leggermente fusa. Fra le attrezzature del suo equipaggiamento standard c'era anche un arnese per scavare trincee, e Scobie, accantonando la sofferenza, si mise a
scavare: comparve una testa chiusa in un elmetto, quella della Broberg, la quale stava a sua volta scavando verso l'esterno. — Jean! — Kendrick! — La donna sgusciò fuori, ed i due si abbracciarono, tuta contro tuta. — Oh, Colin! — Come ti senti? — chiese lui. — Viva — replicò la donna. — Non ho subito alcun danno serio, credo, e buona parte del merito va alla bassa gravità... E tu? E Luis? — Una striscia di sangue secco era visibile sotto il naso, ed un livido sulla fronte stava diventando color porpora, ma la donna rimaneva salda in piedi e parlava con chiarezza. — Io sono funzionale. Non ho ancora trovato Luis. Aiutami a cercare. Prima, però, faremo meglio a controllare i nostri equipaggiamenti. La donna si strinse le braccia al petto, come se quel gesto potesse servirle a qualcosa là dov'era. — Sono gelata — ammise. — Non mi meraviglia — replicò Scobie, indicando un fattore rivelatore. — La tua cellula d'energia è quasi esaurita e la mia non è in condizioni molto migliori. Cambiamole con le riserve. Non persero tempo a togliersi gli zaini dalle spalle, ma ciascuno infilò la mano in quello dell'altro; gettate a terra le unità quasi esaurite, dove esse generarono immediatamente vapore e due buchi, subito gelati, le sostituirono con quelle fresche. — Abbassa il tuo termostato — consigliò Scobie. — Non troveremo presto un riparo, e comunque l'attività fisica dovrebbe aiutare a riscaldarci. — E richiederà un più rapido riciclaggio dell'aria — gli ricordò la Broberg. — Già. Ma, per il momento almeno, possiamo conservare l'energia nelle celle. Bene, adesso controlliamo eventuali tensioni, potenziali lacerazioni e qualsiasi altro tipo di danno o fuga di calore. Presto, Luis è ancora laggiù. L'ispezione si rivelò una cosa di routine resa automatica da anni di esercitazioni. Mentre con le dita controllava la tuta spaziale del compagno, la Broberg permise al suo sguardo di vagare. — La Sala da Ballo è scomparsa — mormora Ricia. — Credo che il Re l'abbia infranta per prevenire la nostra fuga. — Anch'io. Se dovesse scoprire che siamo ancora vivi e che stiamo cercando l'anima di Alvarlan... Ehi, aspetta! Basta con queste cose! — Come ve la cavate? — tremolò la voce di Danzig.
— Siamo in buone condizioni, a quanto sembra — replicò Scobie. — La mia tuta ha preso una brutta battuta ma non si è rotta. Ora, per trovare Luis... Jean, tu esplora la parte destra del suolo del cratere, io esplorerò la sinistra. Ci volle un po' di tempo, perché la fusione che contrassegnava il punto in cui era sepolto Garcilaso era minuscola. Scobie iniziò a scavare, ma la Broberg, osservando come si muoveva e la fatica con cui respirava, intervenne. — Dammi quell'arnese. Tra parentesi, dov'è che sei rimasto ammaccato? Confessando le proprie condizioni, Scobie indietreggiò; pezzi di ghiaccio volavano via da sotto l'attrezzo della Broberg, ed il lavoro procedette spedito perché in quel punto la crosta era fortunatamente friabile e, grazie alla bassa gravità di Iapetus era possibile aprire un buco con pareti quasi verticali. — Proverò a rendermi utile — commentò Scobie, — il che significa che cercherò una strada per uscire di qui. Quando si avviò per il pendio più vicino, esso tremò e Scobie venne riportato giù in una marea che generava suoni rugginosi contro la sua tuta, mentre una bianca nube di granelli aridi lo accecava. A fatica Scobie si liberò, una volta giunto in fondo, e ripeté il tentativo altrove, ma alla fine dovette riferire a Danzig: — Mi spiace, ma temo che non ci sia una facile via d'uscita. Quando il costone su cui ci trovavamo è crollato, ha fatto qualcosa di più che produrre un impatto che ha distrutto le delicate formazioni in tutto il cratere; ha fatto ricadere giù dalla superficie tonnellate di roba... un particolare tipo di ghiaccio che, nelle attuali condizioni, è sottile come sabbia. Le pareti ne sono coperte, ed in quasi tutti i punti, gli strati più stabili sono sepolti sotto metri di questo pulviscolo. Scivoleremmo più rapidamente di quanto potremmo riuscire ad arrampicarci, là dove lo strato è sottile, e dove è spesso sprofonderemmo. — Immagino che mi dovrò fare una bella e salutare passeggiata — sospirò Danzig. — Presumo che tu abbia chiesto aiuto. — Naturalmente. Faranno arrivare qui due scialuppe in cento ore circa, e questo è quanto di meglio possono fare. Lo sapevate già. — U-huh. E le nostre cellule di alimentazione dureranno forse per altre cinquanta ore. — Oh, bene, non ti preoccupare per questo. Vi porterò delle scorte e le
getterò giù, se rimarrete bloccati fino all'arrivo dei soccorsi. M-m-m... prima farò meglio a munirmi di una fionda o qualcosa del genere. — Potresti avere difficoltà a localizzarci. Questo non è un vero cratere, è una sorta di pentolaccia, il cui bordo si unisce alla cima del ghiacciaio. Il punto di riferimento che noi usavamo, uno strano costone, adesso è scomparso. — Non è un grosso problema. Ho la vostra posizione grazie all'antenna direzionale, ricordatelo. Può darsi che una bussola magnetica qui non serva a nulla, ma mi posso orientare con il cielo. Saturno non si muove quasi per nulla, qui, ed il sole e le stelle non si spostano in fretta. — Dannazione, hai ragione! Non ci pensavo. Avevo in mente Luis e non pensavo ad altro! — Scobie guardò in direzione della Broberg. La donna stava forzatamente prendendo un breve riposo, le spalle chine sullo scavo, e l'aspro suono del suo respiro giungeva fino a lui mediante l'auricolare. Scobie sapeva di dover conservare le poche forze che gli rimanevano per le necessità future, quindi succhiò un po' d'acqua dal contenitore apposito ed infilò un boccone di cibo nell'apertura, fingendo di aver appetito. — Tanto vale che cerchi di ricostruire quello che è successo — disse. — Oh, Mark, avevi ragione, siamo diventati pazzamente imprudenti. Il gioco... otto anni sono un tempo troppo lungo per giocare quel gioco, in un ambiente che ci rammentava troppo poco la realtà. Ma chi avrebbe potuto prevedere una cosa simile? Mio Dio, avverti quelli della Chronos! So per caso che una delle due squadre che è andata su Titano aveva cominciato a giocare fingendo d'intraprendere una spedizione alla ricerca di uomini marini sotto l'Oceano Carminio... a causa delle nebbie rosse... deliberatamente, proprio come noi, prima di partire... — Scobie deglutì, poi proseguì dicendo: — Bene, suppongo che non riusciremo mai a sapere con precisione cosa sia andato storto qui, ma è evidente che la configurazione era soltanto metastabile. Del resto, anche sulla Terra una valanga può avere inizio in modo fatalmente facile. La mia supposizione è che la causa sia lo strato di metano celato sotto la superficie. Era diventato un po' instabile quando la temperatura era salita, dopo l'alba, ma questo non aveva importanza, data la bassa gravità ed il vuoto... finché non siamo arrivati noi. Il calore, le vibrazioni... Comunque, lo strato è scivolato via sotto di noi, il che ha provocato un crollo generale. Questa supposizione ti sembra ragionevole? — Sì, per un dilettante come me — replicò Danzig. — Ammiro come riesci a mantenere uno spirito accademico in queste circostanze. — Sto cercando di essere pratico — replicò Scobie. — Può darsi che
Luis abbia bisogno di cure mediche in un lasso di tempo più breve di quello che quelle scialuppe impiegheranno a venire qui. Se fosse cosi, come potremo portarlo sino al nostro modulo? — Hai qualche suggerimento? — La voce di Danzig si era fatta dura. — Sto cercando di arrivarci a tentoni. Senti, la conca ha ancora la stessa forma di base, l'intero complesso non è sprofondato, il che implica la presenza di materiali duri, ghiaccio d'acqua e roccia. In effetti, vedo qualcuno dei promontori residui sporgere da quella roba simile a sabbia. Quanto a cosa sia... forse una combinazione di ammonio-carbon-diosside, forse qualcosa di più alieno... questo dovrai scoprirlo tu, più tardi. «Attualmente... i miei strumenti geologici mi aiuterebbero a scoprire dove la copertura sulle masse solide è meno profonda. Abbiamo gli attrezzi da scavo, quindi potremmo tentare di aprirci un varco, a zigzag per ridurre la fatica al minimo. Questo potrebbe farci cadere altra roba addosso dall'alto, ma anche questo fattore potrebbe a sua volta accelerare la nostra avanzata. Là dove le sporgenze nude sono troppo viscide o ripide per essere scalate potremmo incidere degli scalini. Un lavoro lento e duro, e ci potremmo imbattere in un rilievo troppo alto per saltare giù o roba del genere. — Io vi posso aiutare — propose Danzig. — Mentre aspettavo di sentirvi, ho fatto un inventario del cavo di scorta, delle corde, degli equipaggiamenti da cui prelevare cavi, abiti e coperte che posso tagliare a strisce... qualsiasi cosa possa essere legata insieme a formare una corda. Non avremo bisogno di molta forza tensile, e, in base ai miei calcoli, dovrei arrivare ad una lunghezza di una quarantina di metri. Stando alla tua descrizione, questa è all'incirca la metà della profondità della trappola in cui siete finiti. Se poteste arrampicarvi fino a metà strada mentre arrivo fin là, io vi potrei poi tirare per il resto del pendio. — Grazie, Mark — replicò Scobie, — anche se però... — Luis! — strillò la voce di Jean nel suo elmetto. — Colin, vieni, presto, aiutami, questo è terribile! Noncurante del dolore che avvertiva, a parte un paio d'imprecazioni, Scobie corse in aiuto della Broberg. Garcilaso non era completamente privo di sensi, ed in questo stava la maggior parte dell'orrore. Lo sentirono mormorare: — L'Inferno, il Re ha gettato la mia anima nell'Inferno. Non riesco a trovare la strada per uscirne, sono perduto. Se soltanto l'Inferno non fosse tanto freddo...
Non potevano vederlo in volto perché l'interno del suo elmetto era incrostato di brina. Essendo rimasto sepolto più a lungo e più in profondità degli altri, ed essendo per di più seriamente ferito, Luis sarebbe morto in breve tempo una volta che la sua cellula d'energia si fosse esaurita. La Broberg lo aveva tirato fuori appena in tempo, se non altro. Accoccolata all'interno dello scavo, la donna lo fece rotolare sul ventre, e mentre i suoi arti si agitavano, Luis farfugliò: — Un demone mi attacca. Sono come cieco, qui, ma sento il vento delle sue ali. — Quelle parole erano pronunciate con voce monotona e strascicata. La donna estrasse la cellula d'energia e la lanciò in alto dicendo: — Dovremmo riportare questa sulla nave, se possiamo. In alto, Scobie rimase a fissare morbosamente l'oggetto: esso non conservava più neppure il calore necessario a generare un po' di vapore, come la sua cellula e quella della Broberg, ma era del tutto inerte. Il suo contenitore era un involucro di metallo che misurava trenta centimetri per quindici per sei, e la sua superficie era assolutamente priva di caratteristiche, salvo per due prese dentellate situate sulla parte larga. Una serie di controlli inseriti nei circuiti della tuta spaziale permetteva di avviare e regolare manualmente le funzioni chimiche interne, come anche di arrestarle; ma di solito si lasciava quel compito al termostato ed al reostato. Adesso quelle reazioni avevano seguito il loro corso e, fino a che non fosse stata ricaricata, la cellula era un semplice oggetto inerte. Scobie si chinò per osservare la Broberg, una decina di metri più sotto: la donna aveva tirato fuori l'unità di riserva di Garcilaso, l'aveva inserita al suo posto, al fondo della schiena, e l'aveva assicurata con i fermi alla base dell'equipaggiamento. — Adesso ci serve il tuo contributo, Colin — disse la donna. Scobie calò il tratto di pesante cavo isolato che faceva parte dell'equipaggiamento standard per missioni senza veicoli, nel caso fosse necessario effettuare riparazioni o connessioni; la Broberg lo collegò con giunti a ganasce ad altri due pezzi di cavo che già aveva, quindi fece un cappio ad un'estremità ed assicurò l'altra estremità al proprio equipaggiamento, stendendo goffamente una mano sopra la spalla. Il triplo pezzo di cavo dondolava sopra di lei come un'antenna. Chinatasi, Jean raccolse Garcilaso fra le braccia. Su Iapetus, il peso dell'uomo e del suo equipaggiamento ammontava ad una decina di chili, come anche quello della donna e del suo equipaggiamento. In teoria, la Broberg avrebbe dovuto essere in grado di uscire dalla buca con un salto insieme al
suo carico, ma in pratica la tuta spaziale era troppo ingombrante per quella manovra; le giunture a volume costante davano una notevole libertà di movimento, ma non altrettanta quanta la pelle nuda, specialmente quando le temperature circum-Saturniane richiedevano un isolamento speciale. Inoltre, se anche fosse riuscita a raggiungere la cima, non sarebbe potuta rimanere in equilibrio, perché il ghiaccio morbido si sarebbe sgretolato sotto le sue dita e lei sarebbe ricaduta giù. — Partenza — avvertì. — Sarà meglio riuscire al primo colpo, Colin, perché non credo che Luis possa tollerare molti scossoni. — Kendrick, Ricia, dove siete? — gemette Garcilaso. — Siete all'Inferno anche voi? Scobie conficcò i talloni nel terreno e si accoccolò, pronto, vicino all'orlo dello scavo. Il cappio di cavo apparve e lui lo afferrò con la destra, proiettandosi al contempo all'indietro, per evitare di scivolare in avanti, e sentì la massa che aveva afferrato arrestarsi con uno strattone. Una fitta angosciosa gli trapassò la cassa toracica, ma in qualche modo gli riuscì di issare al sicuro il suo carico prima di svenire. — Sto bene — gracchiò un momento più tardi, riprendendosi, rivolto alle voci ansiose di Danzing e della Broberg. — Soltanto, lasciatemi riposare un po'. L'esperta in fisica annuì e s'inginocchiò per prendersi cura del pilota. Gli tolse l'equipaggiamento in modo da poterlo sdraiare su di esso, poggiando la testa ed il tronco del ferito sull'intelaiatura e le gambe sul carico. Questo sistema avrebbe prevenuto una significativa perdita di calore per convenzione ed avrebbe ridotto quella per conduzione. In ogni caso, la cellula d'energia del ferito si sarebbe esaurita più rapidamente che se questi fosse stato in piedi, e già in partenza aveva un terribile deficit energetico da controbilanciare. — Il ghiaccio all'interno del suo elmetto si sta fondendo — riferì la donna. — Pietosa Maria, quanto sangue! Ma sembra derivare da una ferita al cuoio capelluto, e sembra si sia arrestato. Il suo occipite deve aver sbattuto contro la parete dell'elmetto: dovremmo indossare cuffie imbottite, all'interno di questi affari! Sì, lo so che incidenti come questo non sono mai capitati in precedenza, ma... — La donna si staccò la lampada portatile dalla cintura, si chinò e diresse il raggio di luce verso il basso. — Gli occhi sono aperti. Le pupille... sì, una grave concussione, forse una frattura cranica che potrebbe aver causato un'emorragia interna. Sono stupita che non abbia ancora vomitato. Forse che il freddo lo ha evitato? Inizierà presto? Po-
trebbe soffocare nel suo vomito, in quell'elmetto, qui dove nessuno gli può dare una mano. La sofferenza di Scobie era scesa ad un livello tollerabile: si alzò, si avvicinò per dare un'occhiata ed emise un fischio. — Giurerei che è spacciato — disse poi, — se non riusciremo a riportarlo al modulo ed a curarlo adeguatamente al più presto, il che non è possibile. — Oh, Luis! — Le lacrime presero a scendere silenziose lungo le guance della Broberg. — Credi che possa durare fino a quando arriverò con la mia corda e lo potremo portare qui? — chiese Danzig. — Non temere — replicò Scobie. — Ho seguito alcuni corsi paramedici ed ho addirittura già visto un caso come questo prima d'ora. Come mai riconosci i sintomi, Jean? — Leggo molto — replicò, cupa, la donna. — Piangono, i bambini morti piangono — borbottò Garcilaso. — Bene — sospirò Danzing, — volerò fin da voi. — Huh? — esplose Scobie. — Sei impazzito anche tu? — rincarò la Broberg. — No, ascoltate — disse in fretta Danzing. — Non sono un abile pilota, ma ho un addestramento di base nella guida di questo tipo di moduli, come chiunque altro si possa venire a trovare nelle condizioni di pilotarne uno. Il veicolo è sacrificabile, perché le scialuppe di soccorso ci riporteranno indietro. Se atterrassi vicino al ghiacciaio non ci sarebbe alcun guadagno di tempo significativo, perché dovrei sempre preparare la corda e cosi via... e da quel che è successo alla sonda sappiamo che atterrare là sarebbe un grosso rischio. Sarà meglio che punti dritto sul vostro cratere. — Per atterrare su una superficie che i motori squaglieranno sotto di te? — sbuffò Scobie. — Scommetto che Luis lo considererebbe un azzardo. E tu, amico mio, ti fracasseresti. — Sì? — Ebbero quasi l'impressione di vedere la scrollata di spalle. — Un impatto da quest'altitudine e con questa gravità non farebbe altro che farmi sbattere i denti. I motori apriranno un buco fino al suolo roccioso. È vero che il ghiaccio circostante crollerà addosso al modulo e lo imprigionerà. Forse dovrete scavare per raggiungere il portello, ma credo che l'irradiazione termica proveniente dalla cabina manterrà libera la parte alta della struttura. Anche se il modulo si dovesse rovesciare e cadere su un fianco... nel qual caso sprofonderebbe come su un cuscino che si sgonfia... anche se
ciò accadesse sulla nuda roccia, i danni non sarebbero seri: è stato progettato per resistere ad impatti più violenti di questo. — Danzig esitò. — Naturalmente, ciò vi potrebbe mettere in pericolo. Sono certo di riuscire ad evitare di friggervi con i motori, presumendo che io scenda nel mezzo e che voi vi facciate trovare il più lontano possibile, di lato. Però, potrei forse causare un... ghiacciomoto che vi ucciderebbe. Non c'è senso a perdere altre due vite. — O addirittura tre, Mark — intervenne la Brogerg. — Nonostante le tue coraggiose parole, potresti fare tu stesso una brutta fine. — Oh, ecco, io sono un vecchio. Sentite, facciamo la supposizione peggiore, e cioè che non soltanto compia un brutto atterraggio, ma che sfasci completamente il modulo. In quel caso, Luis morirebbe, ma questo accadrebbe comunque. D'altro canto, voi due avreste accesso alle riserve di bordo, comprese le cellule d'energia di scorta. Io sono disposto a correre quello che considero un piccolo rischio personale nella speranza di dare a Luis una possibilità di sopravvivenza. — Um-m-m-m — fece Scobie, dal profondo della gola; la mano gli vagò in cerca del mento mentre il suo sguardo esaminava il bagliore della conca. — Ripeto — continuò Danzig. — Se voi due pensate che possa mettervi in pericolo in qualche modo, non se ne fa nulla. Niente eroismi, per favore. Luis sarebbe certo d'accordo nell'affermare che è meglio che tre persone si salvino e ne muoia una sola, piuttosto che tutte e quattro corrano elevati rischi di morte. — Lasciami riflettere. — Scobie rimase in silenzio per parecchi minuti. — No, non credo che correremmo molti rischi, qui. Come ho rilevato prima, nelle vicinanze c'è già stata una valanga ed ora la configurazione deve essere ragionevolmente stabile. È vero che il ghiaccio si volatilizzerà e che, nel caso di depositi di sostanza a basso livello di ebollizione, questo potrebbe avvenire in maniera esplosiva e provocare tremori. Ma il vapore porterà via il calore con tanta rapidità che solo il materiale nella zona immediatamente vicina a te dovrebbe modificare il suo stato. Oserei dire che la sostanza simile a sabbia verrà scrollata giù dai pendii, ma essa ha una densità troppo bassa per destare un serio allarme. Per la maggior parte, si limiterà a generare una breve tempesta di neve. Ovviamente, il suolo si assesterà in un modo che potrebbe anche essere violento. Tuttavia, noi potremmo trovarci al di sopra di esso... vedi quella sporgenza rocciosa laggiù, raggiungibile con un salto, Jean? Dev'essere parte di una collina sepol-
ta, e quello è il luogo giusto per aspettare. D'accordo, Mark, va bene, per quanto ci riguarda: non posso esserne del tutto certo, ma chi lo è su qualsiasi cosa? Mi sembra ci siano buone probabilità di riuscita. — Cosa stiamo trascurando? — si chiese la Broberg. Abbassò lo sguardo su Luis, che giaceva ai suoi piedi. — Mentre noi consideriamo tutte le possibilità, Luis potrebbe morire. Sì, vola se te la senti, Mark, e che Dio ti benedica. Ma, quando lei e Scobie ebbero trasportato Garcilaso sulla sporgenza rocciosa, la donna indicò da Saturno verso la Stella Polare. — Canterò un incantesimo, userò la poca magia che posseggo in aiuto del Signore del Drago, affinché possa liberare l'anima di Alvarlan dall'Inferno — dice Ricia. IV Nessuna persona ragionevole biasimerà mai un esploratore interplanetario per aver effettuato calcoli errati in merito all'ambiente in cui si trova, soprattutto quando si deve prendere una qualche decisione, in fretta e sotto tensione. Occasionali errori sono inevitabili: se sapessimo esattamente cosa aspettarci in tutto il Sistema Solare, non avremmo ragione di esplorarlo. Minamoto Il modulo si sollevò, ed un velo di polvere cosmica si allontanò dai suoi razzi. Ad un'altitudine di centocinquanta metri, la spinta si ridusse, e l'imbarcazione sostò immota su un pilastro di fuoco. All'interno della cabina c'era ben poco rumore, solo un basso sibilo ed un rombo profondo ma quasi inudibile. Il sudore copriva il volto di Danzig, gocciolava lucente dalla barba stopposa, inzuppava la tuta impregnandola di sudore: Danzig stava per intraprendere una manovra altrettanto difficile quanto un randezvous, e senza guida. Con cautela, spinse in avanti una leva, azionando un motore laterale: il modulo saettò in avanti in picchiata e subito le mani di Danzig scattarono sui comandi; doveva calibrare le forze che tenevano sollevato il modulo e quelle che lo spingevano orizzontalmente in modo da ottenere un risultato che lo portasse verso est ad una velocità lenta e costante. I vettori sarebbero cambiati ad ogni istante, come succede ad un uomo che cammini, ed il computer di controllo, pur occupandosi della maggior parte del bilancia-
mento, non era in grado di svolgere la parte cruciale: era Danzig che gli doveva dire cosa fare. Il suo pilotaggio era inesperto, come si era reso conto che sarebbe stato. Una maggiore altitudine gli avrebbe dato un più ampio margine d'errore, ma lo avrebbe privato dei punti di riferimento che i suoi occhi scorgevano sul terreno sottostante e sull'orizzonte antistante, senza contare che, una volta raggiunto il ghiaccio, avrebbe per forza dovuto volare basso per trovare la meta, dal momento che sarebbe stato troppo impegnato per poter effettuare un preciso calcolo di navigazione astrale, come avrebbe potuto invece fare a piedi. Nel tentativo di correggere il suo errore, Danzig compensò eccessivamente ed il modulo precipitò in una diversa direzione. Premette allora il bottone di «pausa» ed il computer riprese il controllo: con il veicolo di nuovo immobile, Danzig si concesse un minuto per riprendere fiato, riacquistare coraggio e rivedere il da farsi. Mordendosi un labbro, fece quindi un nuovo tentativo, e questa volta non andò incontro ad un vero e proprio disastro: con i motori accesi, la scialuppa avanzò barcollando, come ubriaca, sul paesaggio lunare. L'altura gelata si fece sempre più incombente e vicina; Danzig scorse la sua fragile bellezza e provò un senso di rimpianto all'idea di doverla rovinare, eppure, che significato aveva qualsiasi meraviglia della natura se non era presente una mente cosciente per ammirarla? Spuntò il pendio più basso e lo vide svanire fra volute di vapore. Sempre più avanti. Sotto quel ribollire, a destra, a sinistra e davanti, quell'architettura da Fiaba crollava. Danzig superò la palizzata, e si venne così a trovare ad appena cinque metri di altezza sulla superficie, con le nubi di vapore che si avvicinavano pericolosamente prima di dissolversi nel vuoto; guardò con fatica fuori dall'oblò e fece apparire sullo schermo una visuale ingrandita della zona circostante, in cerca della sua destinazione. Un bianco vulcano eruttò, e l'esplosione lo avvolse, costringendolo improvvisamente a volare alla cieca, mentre una serie di impatti raggiungevano lo scafo, colpito da pezzi di roccia scagliati in alto. La brina rivestì il modulo e l'immagine sullo schermo divenne altrettanto vacua quanto quella data dall'oblò. Danzig avrebbe dovuto ordinare al computer di salire, ma era inesperto, e l'istinto spinge un essere umano a correre piuttosto che a saltare, se messo di fronte ad un pericolo. Così, cercò di sfuggire da un lato, e, non avendo l'ausilio della visuale esterna, fece rotolare il modulo su se stesso. Quando si accorse dell'errore commesso, meno
di un secondo dopo, era troppo tardi: aveva perso il controllo. Il computer avrebbe potuto riprendere il comando della situazione dopo un po', ma il ghiacciaio era troppo vicino, ed il modulo andò a sbattere. — Pronto, Mark — gridò Scobie. — Mark, mi ricevi? Dove sei, per l'amore di Cristo? L'unica risposta fu il silenzio, e Scobie lanciò alla Broberg una lunga occhiata. — Sembrava che tutto fosse a posto — osservò l'uomo, — finché abbiamo sentito quel grido e tanto frastuono, e poi niente altro. A quest'ora ci avrebbe già dovuti raggiungere, ed invece è andato incontro a qualche guaio. Spero solo che non sia stato nulla di letale. — Cosa possiamo fare? — La domanda della Broberg era retorica: avevano bisogno di parlare, di dire qualsiasi cosa, perché Garcilaso era steso accanto a loro, e la sua voce delirante si stava affievolendo in fretta. — Se non riceviamo cellule d'energia fresche entro le prossime quaranta o cinquanta ore saremo alla fine della nostra pista. Il modulo dovrebbe essere qui vicino da qualche parte, ma sembra che dovremo uscire da questo buco con le nostre sole forze. Aspetta qui con Luis, mentre do un'occhiata in giro in cerca di una pista praticabile. Scobie si avviò verso il basso e la Broberg si accoccolò accanto al pilota. — ... solo per sempre nel buio... — lo sentì dire. — No, Alvarlan. — Lo abbracciò. Molto probabilmente, Luis non era in grado di accorgersene, ma lei sì. — Alvarlan, ascoltami. Sono Ricia. Sento nella mente il richiamo del tuo spirito: lascia che ti aiuti, lascia che ti riporti alla luce. — Sta' attenta — l'ammonì Scobie. — Siamo troppo vicini ad ipnotizzarci di nuovo, così come stanno le cose. — Ma potrei riuscire a raggiungere Luis e... confortarlo... Alvarlan, Kendrick ed io siamo fuggiti. Lui sta cercando una via che ci riporti a casa, ed io sto cercando te. Alvarlan, qui c'è la mia mano, vieni a stringerla. Sul fondo del cratere, Scobie scosse il capo, fece schioccare la lingua, quindi depose l'equipaggiamento: il binocolo lo avrebbe aiutato a localizzare la zona più promettente, mentre un insieme di altri attrezzi, che andavano da un'asta di metallo ad un geosonar portatile, gli avrebbe permesso di farsi un'idea più esatta del tipo di terreno che giaceva sotto lo strato insormontabile di ghiaccio-sabbia. Era vero che la portata di quei mezzi di sondaggio era molto limitata, ma Scobie non aveva il tempo di scavare tonnellate di materiale solo per salire più in alto ad esaminare il terreno.
Avrebbe semplicemente dovuto accontentarsi di qualche risultato preliminare, fare un'approssimativa supposizione su quale sentiero si sarebbe dimostrato più accessibile per uscire dalla conca, ed infine sperare di aver avuto ragione. Scobie escluse dal suo pensiero cosciente la Broberg e Garcilaso quanto più gli era possibile e si mise al lavoro. Un'ora più tardi, ignorando il dolore, stata sgombrando una zona che attraversava uno strato di roccia: pensava che più avanti ci fosse un blocco di buon solido ghiaccio d'acqua, ma voleva esserne certo. — Jean! Colin! Mi ricevete? Scobie si raddrizzò e rimase immobile. Vagamente, sentì la Broberg che diceva: — Se non posso fare altro, Alvarlan, concedimi di pregare per il riposo della tua anima. — Mark! — esclamò Scobie. — Stai bene? Cosa diavolo è successo? — Sì, sto bene, non ho preso botte troppo violente ed il modulo è abitabile, anche se temo che non volerà più. Voi come state? E Luis? — Sta peggiorando in fretta. D'accordo, sentiamo le novità. — Ho volato malamente in una direzione ignota e per una distanza anch'essa non stimabile. Non posso essere finito molto lontano, dal momento che è passato poco tempo dal decollo all'impatto. Evidentemente, sono andato a finire dentro ad un grosso... um... banco di neve, che ha attutito la violenza dell'urto ma che ha anche bloccato le trasmissioni radio. Adesso la neve è evaporata dall'area circostante la cabina. Vedo masse bianche tutt'intorno ed altre formazioni in distanza... non so quali danni i sostegni ed i motori di prua abbiano riportato. Il modulo è inclinato su un fianco con un'angolazione di circa quarantacinque gradi, presumibilmente su un fondale roccioso. Ma, la parte posteriore è ancora seppellita nella sostanza meno volatile... acqua e ghiacci di CO2, credo... che ha raggiunto una temperatura stabile e che deve aver ingolfato i motori. Se tentassi di accenderli, potrei far saltare tutto. — Sta certo che succederebbe — annuì Scobie. — Oh, Dio, Colin, cosa ho fatto? — esclamò Danzig, con voce rotta. — Volevo aiutare Luis, e può darsi che abbia ucciso te e Jean. — Non cominciamo a piangere prima del tempo — replicò Scobie, serrando le labbra. — È vero, abbiamo avuto un bel po' di sfortuna, ma né tu né io né nessun altro avremmo potuto immaginare che avresti fatto saltare una bomba sotto di te.
— Cosa è stato? Ne hai un'idea? Nulla del genere è mai accaduto in occasione d'impatti con comete, e tu ritieni che il ghiaccio sia una cometa infranta, vero? — Uh-huh, salvo per il fatto che le condizioni l'hanno ovviamente modificata. L'impatto ha prodotto calore, shock, turbolenza, le molecole sono state sparpagliate, e ci deve essere stata una momentanea presenza di plasmi. Misture, composti, leghe... si è formata roba che non era mai esistita nello spazio. Possiamo imparare un sacco di nozioni chimiche, qui. — È per questo che sono venuto... Bene, allora, devo aver sorvolato un deposito di qualche sostanza e sostanze che i motori hanno fatto sublimare con forza tremenda. Un vapore di qualche tipo è tornato a congelarsi quando ha urtato lo scafo, tanto che ho dovuto sbrinare gli oblò dall'interno dopo che la neve che li copriva si era squagliata. — Dove ti trovi, rispetto a noi? — Te l'ho detto, non lo so, e non sono neppure certo di poterlo determinare, perché l'impatto ha distrutto l'antenna direzionale. Aspetta che vado fuori per vedere meglio. — D'accordo — convenne Scobie. — Intanto vedrò di darmi da fare. E così fece, fino a quando un suono rantolante e spettrale ed il pianto della Broberg lo fecero tornare a tutta velocità sullo spuntone roccioso. — Questa potrebbe essere la differenza che ci farà sopravvivere — disse Scobie, disinnestando la cellula d'energia di Garcilaso. — Considerandola un regalo. Grazie, Luis. La Broberg lasciò andare il pilota e si alzò in piedi; raddrizzò gli arti del morto, convulsi per l'agonia, e gli incrociò le braccia sul petto. Non c'era nulla da fare per la mascella rilassata o per gli occhi che fissavano il cielo: toglierlo dalla tuta, là, avrebbe peggiorato il suo aspetto. E non poteva neppure asciugarsi le lacrime che le rigavano la faccia: poteva soltanto cercare di arrestarle. — Addio, Luis — sussurrò. — Puoi darmi un nuovo incarico, per favore? — supplicò, rivolta a Scobie. — Vieni con me. Ti spiegherò quello che ho in mente per riuscire ad aprirci la via fino alla superficie. Erano a metà strada attraverso la conca quando Danzig chiamò: il chimico non aveva permesso che la morte del compagno rallentasse i suoi sforzi e non aveva detto molto mentre questo si verificava. Soltanto una volta, con voce estremamente sommessa, aveva pronunciato la preghiera ebraica
per i defunti. — Non abbiamo fortuna — riferì, in tono impersonale come una macchina. — Ho descritto il cerchio più ampio possibile tenendo sempre d'occhio il modulo, ed ho trovato soltanto strane formazioni ghiacciate. Non posso trovarmi ad un'enorme distanza da voi, altrimenti vedrei un cielo del tutto differente, su questa palla così piccola. Siete probabilmente nel raggio di venti o trenta chilometri rispetto a me, ma questo è un territorio piuttosto esteso. — Esatto — convenne Scobie. — È probabile che tu non riesca a trovarci, entro il tempo che ci è rimasto. Ritorna alla scialuppa. — Ehi, aspetta! — protestò Danzig. — Posso procedere a spirale, segnando il mio percorso, e vi potrei anche incrociare. — Sarà più utile se torni indietro — replicò Scobie. — Presumendo che riusciamo ad uscire di qui, ti potremmo raggiungere a piedi, ma avremo bisogno di una segnalazione per orientarci. Quel che mi viene in mente è il ghiaccio stesso. Una piccola scarica d'energia, se concentrata, dovrebbe liberare una grossa nube di metano o altre sostanze altrettanto volatili. Il gas si raffredderà nell'espandersi, si tornerà a condensare intorno a particelle di polvere che si sarà portato dietro... genererà vapore... e la nube dovrebbe salire tanto in alto, prima di evaporare di nuovo, da essere visibile da qui. — Ho capito! — Una vena di eccitazione trapelò nel tono di Danzig. — Provvedo immediatamente. Farò dei sondaggi e cercherò il punto in cui si può ottenere il risultato più vistoso e... che ne dici se uso una bomba termica? No, potrebbe essere troppo calda. Bene, costruirò un qualche congegno. — Tienici al corrente. — Ma io... non credo che ci andrà di chiacchierare oziosamente — azzardò la Broberg. — No, tu ed io ci metteremo subito a lavorare a più non posso — convenne Scobie. — Uh, aspettate — intervenne Danzig. — Che succede se scoprite che non vi è possibile arrivare fino in cima? Avevi lasciato intendere che era solo una possibilità. — Ebbene, a quel punto ci sarà tempo per procedimenti più radicali, quali che saranno — replicò Scobie. — Francamente, in questo momento ho la testa troppo piena di... di Luis e della necessità di scegliere la via di fuga migliore per poter pensare molto a qualsiasi cosa. — M-m, sì, suppongo che abbiamo già un'ampia scorta di guai senza bi-
sogno di procurarcene altri. Ti dico cosa farò, però: non appena il mio segnale sarà pronto, preparerò quella corda di cui abbiamo parlato. Potreste scoprire di preferirla ad un mucchio di vestiti e di coperte pulite, quando arriverete — Danzig rimase in silenzio per parecchi secondi prima di concludere: — Arriverete, dannazione! Scobie scelse un punto sul lato settentrionale della conca per il suo tentativo. Là, due scaffali di roccia sporgevano in fuori, uno vicino al suolo ed un altro parecchi metri più in su. Più oltre ancora, seguendo un disegno incerto, c'erano uguali sporgenze di ghiaccio resistente. Interposto fra questi ed al di là della sporgenza più elevata, che si trovava a meno di metà strada dal bordo della conca, non c'era altro che il liscio pendio di polvere cristallina e senza appigli, la cui angolatura provocava una pendenza che rendeva il cammino doppiamente pericoloso. La domanda, cui solo la prova diretta poteva dare risposta, era quanto tale strato fosse spesso al di sopra delle superfici su cui gli umani potevano camminare, e se tali superfici si stendevano per tutta la distanza fino alla cima. Giunti al punto prefissato, Scobie segnalò l'alt. — Prenditela calma, Jean. Io andrò avanti e comincerò a scavare. — Perché non procediamo insieme? Ho anch'io il mio attrezzo. — Perché non so prevedere come si comporterà una fascia tanto grande di quella specie di sabbie mobili: potrebbe reagire allo scavo provocando una frana gigantesca. La Broberg si stizzì, e sul suo volto sparuto apparve un'espressione di ammutinamento. Allora, perché non mandi me per prima? Supponi che voglia sempre aspettare passivamente che Kendrick si salvi? — In effetti — replicò secco Scobie, — comincerò io perché la costola mi fa soffrire terribilmente e questo sta consumando le poche energie rimastemi. Se ci troveremo nei guai, tu potrai aiutarmi meglio di quanto io potrei fare con te. — Oh! — La Broberg chinò il capo. — Mi dispiace. Devo essere io stessa in ben brutte condizioni se ho permesso che un falso senso d'orgoglio interferisse con le mie azioni. — Il suo sguardo si spostò in direzione di Saturno, intorno al quale orbitava la Chronos, che trasportava suo marito ed i suoi figli. — Sei perdonata. — Scobie raccolse le gambe sotto di sé e superò con un salto i cinque metri fino al costone più basso. Il successivo si trovava
un po' troppo in alto per poter essere raggiunto con un altro salto, dato che non c'era spazio per prendere la rincorsa. Chinatosi, Scobie attaccò il fondo del pendio che si stendeva brillante di fronte a lui, con il proprio attrezzo e cominciò a scavare. Una marea di granelli si riversò dall'alto, bilioni di particelle, a coprire il suo scavo, ma Scobie prese a lavorare come un automa posseduto da qualche forza. Ogni palata era virtualmente priva di peso, ma il numero delle palate era quasi infinito. Scobie non si attirò addosso l'intero fianco della conca, come aveva in parte temuto ed in parte sperato (se non lo avesse ucciso, la frana gli avrebbe risparmiato un mucchio di fatica). Un torrente secco prese a scorrere a destra ed a sinistra intorno alle sue caviglie, eppure alla fine cominciò ad apparire una superficie un po' più ampia della roccia sottostante. Da sotto, la Broberg ascoltava il suo respiro, che era rauco, spesso inframmezzato da sussulti o da imprecazioni. Nella tuta spaziale, sotto la cruda e tenue luce solare, sembrava un cavaliere che, nonostante le sue ferite, stesse combattendo contro un mostro. — D'accordo — chiamò finalmente Scobie. — Credo di sapere cosa ci dobbiamo aspettare e come dobbiamo agire. Ci reggerà tutti e due. — Sì... oh, sì, mio Kendrick. Le ore trascorsero. Sempre con lentezza, il sole salì nel cielo, le stelle ruotarono e Saturno si affievolì alla vista. Per lo più, i due umani faticavano fianco a fianco. Non avevano bisogno di un sentiero strettissimo, ma se non cominciavano a scavare in maniera ampia, le sponde a destra ed a sinistra dello scavo scivolavano rapidamente giù, seppellendo tutto. Qualche volta, la formazione sottostante permetteva il lavoro di una sola persona, ed allora l'altro poteva riposare, e ben presto fu Scobie a dover approfittare più spesso di quel vantaggio. Di tanto in tanto, entrambi si arrestavano per mangiare e bere qualcosa e per riposare addossati agli zaini. La roccia cedette il posto al ghiaccio d'acqua, e, dove questo si levava con una notevole pendenza, la sabbia di ghiaccio scavata via dalla coppia crollava in massa. Dopo il primo incidente di quel genere, nel corso del quale per poco non furono spazzati via entrambi, Scobie prese l'abitudine di conficcare sempre il suo martello da geologo in ogni nuovo strato che incontravano: al minimo segno di pericolo, lui ne afferrava l'impugnatura e la Broberg gli circondava la vita con un braccio, mentre con la mano libera tenevano entrambi stretti gli attrezzi da scavo. Ancorati saldamente, ma
costretti a sforzare ogni muscolo, rimanevano saldi mentre la sostanza simile a sabbia si riversava loro intorno, fino alle ginocchia e, una volta, fino al petto, tentando di seppellirli senza speranza nella propria massa semifluida. Successivamente, si trovarono a dover affrontare un tratto spoglio, troppo ripido per poter essere scalato senza appigli, per cui furono costretti a scavarseli. La stanchezza era un altro tipo di marea cui non osavano cedere. Nel migliore dei casi, i loro progressi erano lenti in maniera scoraggiante. Avevano bisogno di ben poca immissione di calore per mantenere caldo il corpo, salvo quando si riposavano, ma la richiesta dei polmoni all'apparecchio di riciclaggio dell'aria era tremenda. La cellula d'energia di Garcilaso, che avevano portato con loro, avrebbe potuto dare qualche ora in più di vita ad una sola persona, ma era talmente impoverita a causa dell'ipotermia del pilota che aveva dovuto combattere, che avrebbe fornito un tempo di sopravvivenza insufficiente a garantire l'arrivo dei soccorsi dalla Chronos. Presente, ma non espressa, era l'idea di utilizzare la cellula a turno: questo li avrebbe lasciati in misere condizioni, infreddoliti e semisoffocati, ma almeno avrebbe permesso loro di abbandonare l'universo insieme. Così, ci fu ben poco da meravigliarsi se le loro menti rifuggirono dalla sofferenza, dall'indolenzimento, dallo sfinimento, dalla disperazione, dalla puzza del loro stesso sudore: senza questo sfogo, non avrebbero potuto resistere così a lungo. Godendo pochi minuti di riposo, la schiena appoggiata ad un parapetto di blu brillante che avrebbero dovuto scalare fra poco, spinsero lo sguardo sull'altra parte della conca, dove il corpo di Garcilaso, avvolto nella tuta, brillava come su una remota pira, e poi più in alto, lungo la curva di parete opposta a Saturno. Il pianeta brillava di una languida luce ambrata, dolcemente striato, con gli anelli che creavano una corona resa più brillante da una fascia d'ombra che l'attraversava. Quella luminosità aveva la meglio sulla luce della maggior parte delle stelle vicine, ma altrove esse si riunivano in moltitudini, in splendore, intorno alla strada argentea che la galassia si apriva fra loro. — Che tomba adeguata per Alvarlan — dice Ricia, in un mormorio sognante. — Allora è morto? — chiede Kendrick. — Non lo sai? — Ero troppo occupato. Dopo che ci siamo liberati dalle rovine e ti ho
lasciata a riposare un po', mi sono imbattuto in un gruppo di guerrieri. Sono sfuggito loro, ma sono per forza dovuto tornare da te seguendo percorsi tortuosi e nascosti. — Kendrick accarezza i capelli color del sole di Ricia. — Inoltre, mia amatissima, sei sempre stata tu, e non io, a possedere il dono di sentire gli spiriti. — Mio coraggioso amore... Sì, è una gloria per me essere stata capace di richiamare la sua anima dall'Inferno. Essa ha cercato di rientrare nel corpo, ma questo era vecchio e fragile e non è potuto sopravvivere al sapere che aveva acquisito. Tuttavia, Alvarlan è trapassato pacificamente, e, prima di morire, come ultimo atto di magia si è costruito una tomba il cui soffitto stellato brillerà in eterno. — Possa egli riposare bene. Ma non c'è riposo per noi, non ancora: abbiamo molta strada da percorrere. — Sì, ma ci siamo già lasciati le rovine alle spalle. Guarda! Dovunque intorno a noi su questo prato ci sono anemoni che sbucano fra l'erba. Un'allodola canta in alto. — Queste terre non sono sempre tranquille, e potrebbero esserci altre avventure che ci attendono più avanti, ma noi le affronteremo con cuori coraggiosi. Kendrick e Ricia si alzano per riprendere il loro viaggio. Raggomitolati su una misera sporgenza, Scobie e la Broberg scavarono per un'ora senza riuscire ad allargare molto il sostegno. La sabbia di ghiaccio scivolava dall'alto con la stessa rapidità con cui essi la toglievano. — Sarebbe bene lasciar perdere: è fatica sprecata — decise infine l'uomo. — Il meglio che siamo riusciti a fare è stato di appiattire un po' il pendio che abbiamo dinnanzi. Non si può dire quanto vada in profondità questo scaffale prima di essere sormontato da uno strato solido. Magari non ce n'è affatto. — Che facciamo, allora? — chiese la Broberg, con lo stesso tono stanco. — Torniamo al livello sottostante — Scobie indicò con un pollice, — e tentiamo in una diversa direzione. Ma prima abbiamo assolutamente bisogno di una sosta. Stesero i loro cuscini di kerofoam e sedettero. Dopo un intervallo nel quale rimasero semplicemente immoti, intontiti dalla stanchezza, la Broberg cominciò a parlare. — Vado alla sorgente — riferisce Ricia. — Essa canta sotto arcate di verdi tronchi, fra i quali la luce trapela per brillare sull'acqua. M'ingi-
nocchio a bere. L'acqua è fredda, pura, dolce. Quando sollevo gli occhi, vedo la figura di una giovane donna, nuda, le trecce del colore delle fronde: è una ninfa silvana, e sorride. — Sì, la vedo anch'io — concorda Kendrick. — Mi avvicino con cautela per non spaventarla. Lei chiede quali siano i nostri nomi e dove andiamo. Le rispondiamo che ci siamo perduti, e lei ci spiega dove trovare un oracolo che ci potrebbe dare consiglio. Partono per trovarlo. La carne non era più in grado di tenere lontano il sonno. — Chiamaci fra un'ora, ti spiace, Mark? — chiese Scobie. — Certo — rispose Danzig. — Ma, sarà sufficiente? È il massimo che ci possiamo permettere, dopo i ritardi che abbiamo avuto. Abbiamo percorso meno di un terzo di strada. — Se non ho parlato con voi — disse lentamente Danzig, — non è stato perché lavoravo duro, anche se mi sono dato da fare. È stato perché immaginavo che voi due steste già passando dei brutti momenti senza che io vi infastidissi. Tuttavia... pensate che sia saggio fantasticare come avete fatto finora? Un velo di rossore salì alle guance della Broberg e le scese lungo il collo. — Hai ascoltato, Mark? — Ecco, sì, naturalmente. Potevate avere qualcosa d'urgente da comunicare in qualsiasi momento... — Perché? Cosa avresti potuto fare? Un gioco è una cosa personale... — Uh, sì, sì... Ricia e Kendrick avevano fatto all'amore tutte le volte che era possibile. I resoconti non erano mai espliciti, ma le parole erano spesso appassionate. — Ci terremo in contatto con te quando ne avremo bisogno, per esempio quando servi da sveglia — scandì la Broberg, — ma per il resto chiuderemo il circuito. — Ma... sentite, non intendevo... — Lo so — sospirò Scobie. — Sei un brav'uomo, ed oserei dire che la nostra reazione è un po' eccessiva. Comunque, è così che deve essere. Chiamaci come ti ho detto. Nella profondità della grotta, la Pitonessa ondeggia sul trono, nel flusso e riflusso del suo sogno oracolare. Stando a quanto Ricia e Kendrick riescono a comprendere del suo canto, la Pitonessa dice loro di viaggiare
verso ovest lungo il Sentiero del Cervo fino a quando incontreranno un uomo dalla barba grigia e con un occhio solo che potrà dare loro ulteriori indicazioni; ma essi dovranno stare attenti alla sua presenza, perché quell'uomo è facile all'ira. I due fanno un inchino e se ne vanno. Nell'uscire dalla grotta, oltrepassano l'offerta che hanno portato: dal momento che avevano ben poco, a parte gli abiti e le armi, la Principessa ha offerto all'altare le sue chiome d'oro. Il cavaliere ripete che, anche con i capelli così corti, lei rimane bellissima. — Ehi, evviva, abbiamo superato venti metri con facilità — disse Scobie, ma con un tono di voce appiattito dallo sfinimento. All'inizio, il viaggio attraverso la terra di Nacre è una delizia. La successiva imprecazione non era molto più animata. — Sembra che siamo in un altro vicolo cieco. Il vecchio con il mantello azzurro ed il cappello a larga tesa si era veramente infuriato quando Ricia gli aveva negato i propri favori e la lancia di Kendrick aveva deviato il colpo della sua. Astutamente, il vecchio aveva preteso di essersi rappacificato con loro ed aveva indicato la strada che dovevano imboccare, ma, alla fine di quella strada ci sono alcuni giganti. I viaggiatori li evitano e tornano indietro. — Il cervello mi brancola nella nebbia — gemette Scobie. — E la costola rotta non mi è sicuramente d'aiuto. Se non faccio un altro sonnellino, continuerò a sbagliare strada fino a che non avremo più tempo. — Ma certo, Colin. Rimarrò io di guardia e ti sveglierò fra un'ora. — Cosa? — fece Scobie, con una tenue sorpresa. — Perché non riposi anche tu e ci facciamo chiamare da Mark, come prima? — Non c'è bisogno di disturbarlo — replicò lei con una smorfia. — Sono stanca, ma non ho sonno. — Bene — disse Scobie, non avendo né la forza né la mente per discutere e, distesosi sul materassino isolante, crollò di schianto nel sonno. La Broberg si sedette accanto a lui. Si trovavano a metà strada dalla cima, ma erano più di venti ore che lottavano, salvo occasionali pause, e l'avanzata si faceva più dura e difficile man mano che loro stessi diventavano più deboli ed intontiti. Se mai fossero riusciti ad arrivare in cima ed avessero avvistato il segnale di Danzig, avrebbero avuto dinnanzi ancora qualcosa come un paio d'ore di duro cammino. Saturno, il sole, le stelle, brillavano attraverso il vetro dell'elmetto; la Broberg abbassò con un sorriso lo sguardo sul volto di Scobie: non era cer-
to un dio Greco, ed aveva su di sé sudore e sporcizia, la barba lunga, i numerosi segni dell'esaurimento fisico... ma del resto, anche lei non era esattamente l'immagine della bellezza. La Principessa Ricia siede accanto al suo cavaliere, là dove questi riposa nella capanna del nano, e suona l'arpa che il nano le ha prestato prima di andare al lavoro nella miniera, accompagnando una serenata che addolcisca i sogni di Kendrick. Quando ha finito, posa le labbra su quelle di lui e scivola nello stesso sonno gentile. Scobie si destò gradatamente. — Ricia, adorata — sussurra Kendrick, e la cerca con le mani. La desterà con i suoi baci... — Per tutti i preti ebrei! — esclamò Scobie, balzando in piedi. La donna giaceva inerte, ma Scobie ne sentì il respiro nell'auricolare prima che il pulsare del suo cuore lo soffocasse. Il sole era salito ancora più in alto, tanto che se ne poteva notare il movimento, e la sagoma di Saturno si era affievolita ulteriormente, formando una mezzaluna appuntita alle estremità. Scobie si costrinse ad osservare l'orologio al polso sinistro. — Dieci ore! — gemette. Poi s'inginocchiò e scosse la sua compagna. — Sveglia, per l'amor di Cristo! Le sue ciglia si agitarono, e, quando vide l'orrore dipinto sul suo volto, la donna perse ogni sonnolenza. — Oh, no — supplicò. — Per favore, no! Scobie si sollevò rigidamente in piedi ed azionò l'interruttore di comunicazione principale. — Mark, mi ricevi? — Colin, grazie a Dio! — esclamò Danzig. — Stavo per perdere la testa dalla preoccupazione! — E le preoccupazioni non sono finite, vecchio mio. Abbiamo appena finito un sonnellino di dieci ore. — Cosa? Fin dove siete arrivati, prima? — Ad un'elevazione di circa quaranta metri, ed il cammino avanti sembra ancora peggiore. Temo che non ce la faremo. — Non lo dire! — supplicò Danzig. — È colpa mia — dichiarò la Broberg. Era ritta in piedi, i pugni serrati, il volto una maschera rigida, la voce d'acciaio. — Era distrutto e doveva dormire un po'. Mi sono offerta di svegliarlo ma mi sono addormentata a mia volta.
— Non è colta tua, Jean — cominciò Scobie. — Sì, mia — lo interruppe lei. — Forse posso rimediare. Prendi la mia cellula d'energia. Naturalmente, ti avrò comunque privato del mio aiuto, ma potrai raggiungere la scialuppa e sopravvivere. Scobie le afferrò le mani, ma i pugni non si disserrarono. — Se immagini che lo potrei fare... — Se non lo farai, siamo finiti entrambi — replicò lei, inflessibile, — Preferisco morire con la coscienza pulita. — E che ne dici della mia coscienza? — gridò Scobie. Poi, recuperato il controllo, s'inumidì le labbra e proseguì, rapido: — Inoltre, non sei da biasimare. Il sonno ti ha aggredita, e se io fossi stato in grado di pensare, mi sarei dovuto rendere conto che doveva succedere ed avrei dovuto chiamare comunque Mark. Il fatto che non lo abbia fatto neppure tu, dimostra quanto eri sfinita, e... tu hai Tom ed i bambini che ti aspettano. Prendi la mia cellula — fece una pausa, — e la mia benedizione. — Dovrà Ricia abbandonare il suo sincero cavaliere? — Aspettate, un momento, ascoltate! — chiamò Danzig. — Sentite, questo è terribile, ma... oh, all'inferno, scusatemi, ma vi devo ricordare che quelle fantasticherie servono soltanto ad ostacolare l'azione. Dalle descrizioni che mi avete fatto, non vedo come nessuno di voi due possa proseguire da solo, mentre insieme potete ancora farcela. Per lo meno, siete riposati... con i muscoli indolenziti, è indubbio, ma con la mente più chiara. La scalata davanti a voi potrebbe rivelarsi più facile di quanto sembri. Tentate! Scobie e la Broberg si fissarono a vicenda per un minuto intero: un senso di disgelo percorse la donna e riscaldò anche lui, ed alla fine si abbracciarono con un sorriso. — Sì, giusto — brontolò Scobie. — Ci muoviamo, ma prima mangiamo qualcosa: sono semplicemente affamato. E tu? La donna annuì. — Questo è lo spirito giusto! — li incoraggiò Danzig. — Uh, posso avanzare un altro suggerimento? Sono soltanto uno spettatore, il che rende la cosa davvero infernale ma mi conferisce una visuale d'insieme. Lasciate perdere quel vostro gioco. Scobie e la Broberg s'irrigidirono. — È lui il vero colpevole! — supplicò Danzig. — La sola stanchezza non avrebbe offuscato tanto la vostra capacità di giudizio: non mi avreste mai tagliato fuori e... Ma la stanchezza, lo shock ed il dolore hanno abbas-
sato le vostre difese al punto che quel dannato gioco ha avuto la meglio su di voi. Non eravate voi stessi quando vi siete addormentati, eravate quei personaggi del vostro mondo di sogno, e loro non avevano ragione di non addormentarsi! La Broberg scosse violentemente il capo. — Mark — disse Scobie, — hai ragione quando dici di essere uno spettatore, il che significa che ci sono alcune cose che non capisci. Perché ti vuoi sottoporre alla tortura di ascoltare, ora dopo ora? Naturalmente ti richiameremo di tanto in tanto. Sta' attento. — E Scobie interruppe il circuito. — Si sbaglia — insistette la Broberg. — Che si sbagli o meno, che differenza fa? — Scobie scrollò le spalle — Non ci addormenteremo di nuovo nel tempo che ci resta, ed il gioco non ci ha ostacolati mentre viaggiavamo, anzi, ci ha aiutati, facendo apparire la situazione meno spaventosa. — Sì, spezziamo il digiuno e ripartiamo per il nostro pellegrinaggio. La lotta si fece più dura. — Probabilmente, la Strega Bianca ha gettato un incantesimo su questa strada — dice Ricia. — Non ci arresterà — promette Kendrick. — No, mai, fintanto che viaggiamo fianco a fianco, tu ed io, i più nobili fra gli umani. Una valanga li sopraffece e li riportò indietro di una dozzina di metri. Si appoggiarono contro una balza, poi, dopo che la massa fu passata oltre, sollevarono i corpi ammaccati e zoppicarono in cerca di una via d'approccio diversa. Il luogo in cui si trovava il martello da geologo non era più accessibile. — Cos'ha distrutto il ponte? — chiede Ricia. — Un gigante — risponde Kendrick. — L'ho visto mentre cadevo nel fiume. Ha tentato di trapassarmi ed abbiamo combattuto nell'acqua bassa fino a che è fuggito, portando via la mia spada confitta nella coscia. — Hai la lancia che Wayland ti ha forgiato — dice Ricia, — ed hai sempre il mio cuore. Si arrestarono sull'ultima, piccola sporgenza che riuscirono a liberare, e che si dimostrò essere non uno scaffale bensì un pinnacolo di ghiaccio
d'acqua. Tutt'intorno ad esso brillava la distesa nuovamente quieta di pulviscolo ghiacciato e più avanti c'era un pendio di una trentina di metri, poi il bordo della conca e le stelle. Quella distanza avrebbe anche potuto essere di trenta anni luce, perché chiunque avesse tentato di superarla sarebbe sprofondato fino a chissà dove. Non c'era senso a ridiscendere, strisciando, il lato spoglio del pinnacolo. La Broberg era rimasta aggrappata ad esso per più di un'ora mentre scavava appigli nel ghiaccio e Scobie non l'aveva potuta aiutare a causa delle sue condizioni. Se avessero tentato di tornare indietro, avrebbero potuto facilmente scivolare, cadere ed essere sopraffatti dal pulviscolo. Se non lo avessero fatto, non avrebbero mai avuto modo di trovare un'altra via, e per di più le loro cellule conservavano energia ancora per un paio d'ore, e continuare ad avanzare usando alternativamente la cellula di Garcilaso, sarebbe stata una fatica inutile. Si sedettero entrambi, le gambe penzolanti sull'abisso, e si presero per mano. — Non credo che gli orchetti possano sfondare le porte di ferro di questa torre — dice Kendrick, — ma ci assedieranno fino a farci morire di fame. — Non hai mai abbandonato la speranza prima d'ora, mio cavaliere — replica Ricia, baciandogli la tempia. — Perché non cerchiamo in giro? Queste mura sono indicibilmente antiche, e chi può sapere quali residui di magia siano stati dimenticati in mezzo a loro? Un paio di mantelli di piume di fenice che ci portino ridendo attraverso il cielo fino alla nostra casa...? — Temo di no, mia cara. — Kendrick tocca la lancia che brilla appoggiata al bastione. — Triste e grigio sarà il mondo senza di te, ma dobbiamo incontrare con coraggio il nostro destino. — Felici, dal momento che siamo insieme. — Ricia esibisce il suo coraggioso sorriso. — Hai notato che una certa stanza contiene un letto? Lo vogliamo provare? — Forse dovremmo piuttosto portare ordine nelle nostre menti e nelle nostre anime. — Kendrick si acciglia. — Più tardi... sì... — lo tira per un gomito. — E poi... chi lo sa? Forse quando scuoteremo la coperta per liberarla dalla polvere scopriremo che si tratta di una cappa magica che ci permetterà di attraversare invisibili le file del nemico. — Tu sogni.
— E se lo facessi? — La paura si agita dietro i suoi occhi, la voce le trema. — Posso sognare che siamo liberi, se tu mi aiuterai. — No! — gracchiò Scobie, picchiando il pugno sul ghiaccio. — Morirò nel mondo reale. Ricia indietreggia dinnanzi a lui: Kendrick vede il terrore invaderla. — Tu, tu deliri, adorato — balbetta. Scobie si girò e l'afferrò per le braccia. — Non vuoi ricordare Tom ed i bambini? — Chi... — Non lo so. Ho dimenticato anch'io. — Kendrick si accascia. Ricia si appoggia a lui sull'altura ventosa. Un falco gira in alto. — È certo il residuo di un incantesimo malvagio. Oh, cuore mio, vita mia, allontanalo da te! Aiutami a trovare un mezzo per salvarci! — Eppure, la sua supplica è incerta, e da essa traspare il terrore. Kendrick si raddrizza, ed appoggia la mano sulla lancia di Wayland, ed è come se da essa la forza fluisse in lui. — Un incantesimo, in vero — dice, ed il suo tono acquista forza. — Non indugerò nella sua oscurità, né permetterò che esso acciechi o assordi anche te, mia signora. — Il suo sguardo cattura quello di lei, che non riesce a liberarsi. — C'è una sola strada per arrivare alla libertà, ed essa passa attraverso i cancelli della morte. Lei attende, muta e tremante. — Qualsiasi cosa facciamo, dobbiamo morire, Ricia. Andiamo via di qui come si conviene alla nostra razza. — Io... no... non farò... io... — Vedi dinnanzi a te il mezzo della tua liberazione: è tagliente, ed io sono forte. Non sentirai dolore. — Allora, presto, Kendrick, prima ch'io sia perduta. — Si denuda il seno. Lui affonda l'arma. — Ti amo — le dice, mentre lei gli si affloscia ai piedi. — Ti seguo, mia adorata. — Libera l'acciaio, punta l'asta contro il muro e si precipita sulla lancia, cadendo accanto alla Principessa. — Ora siamo liberi. — È stato... un incubo. — La voce della Broberg sembrava quella di una sonnambula. — Necessario, credo, per entrambi. — La voce di Scobie tremava. Teneva lo sguardo fisso dinnanzi a sé, lasciando che Saturno lo riempisse di
luce abbagliante. — Altrimenti avremmo continuato ad essere... pazzi? Forse no, come definizione. Ma non saremmo neppure stati nella realtà. — Sarebbe stato più facile — mormorò la donna. — Non ci saremmo accorti di morire. — Lo avresti preferito? La Broberg rabbrividì, ed il rilassamento nei suoi lineamenti cedette il posto alla stessa tensione presente sul volto di lui. — Oh, no! — rispose, con voce molto bassa ma del tutta cosciente. — No, avevi ragione, naturalmente. Grazie per il tuo coraggio. — Hai sempre avuto altrettanto coraggio quanto chiunque altro, Jean. Solo che devi avere più immaginazione di me. — La mano di Scobie tranciò lo spazio vuoto in un gesto che accantonava la questione. — Bene, dovremmo chiamare il povero Mark ed informarlo, ma prima... prima... — Le sue parole persero la cadenza che le animava. — Cosa, Colin? — chiese lei, stringendogli la mano guantata. — Decidiamo a proposito di quella terza cellula... quella di Luis — disse lui con difficoltà, continuando a fissare il grande pianeta anellato. — In effetti, la decisione spetta a te, anche se possiamo discutere la cosa, se lo desideri. Non voglio usarla solo per guadagnare qualche altra ora, e non intendo dividerla, perché questo renderebbe peggiore il trapasso per entrambi. Suggerisco tuttavia che la usi tu. — Per sedere accanto al tuo cadavere congelato? No, non ne sentirei neppure il calore, non nelle ossa... La donna si girò verso di lui talmente di scatto che per poco non cadde giù dal pinnacolo, e Scobie la dovette afferrare. — Calore! — gridò lei, con voce acuta come il richiamo di un falco in volo. — Colin, riporteremo le ossa a casa! — In effetti — disse Danzig, — mi sono arrampicato sopra lo scafo, ed ora sono abbastanza in alto da poter vedere sopra quei costoni e spuntoni, e riesco a scorgere l'intero orizzonte. — Bene — grugnì Scobie. — Preparati ad esplorare rapidamente un cerchio completo. Questo dipende da un mucchio di fattori che non possiamo prevedere. Il segnale non sarà certo grosso come quello che hai preparato tu: può essere sottile e di breve durata, e, naturalmente, può sollevarsi troppo poco nell'aria per essere visibile alla tua distanza. — Scobie si schiarì la gola. — In quel caso, per noi due sarà la fine, ma avremo fatto un tentativo, il che è già grandioso di per sé.
Scobie tirò fuori la cellula d'energia: il dono di Garcilaso. Un massiccio pezzo di cavo, privato dell'isolante, congiungeva le due spine, e, senza un regolatore, l'unità riversava la sua massima energia attraverso quel cortocircuito, tanto che il filo era già incandescente. — Sei certo di non volere che lo faccia io, Colin? — chiese la Broberg. — La tua costola... — Sono ugualmente meglio strutturato dalla natura per lanciare le cose — replicò Scobie con un sorriso distorto. — Concedi almeno questo all'arroganza maschile: l'idea brillante è stata tutta tua. — Avrebbe dovuto essere ovvio fin dall'inizio — replicò lei, — e credo che lo sarebbe stato, se non fossimo stati accecati dal nostro sogno. — Hmmm. Spesso le risposte più semplici sono quelle più difficili da trovare. Inoltre, dovevamo arrivare fin qui, altrimenti non sarebbe servito a nulla, ed il gioco ci ha aiutati moltissimo... Sei pronto, Mark? Tira...! Scobie tirò la cellula come fosse stata una palla da baseball, uno strattone lungo ed energico nella scarsa gravità di Iapetus. Roteando, la cellula tracciò dinnanzi allo sguardo una magica ragnatela con il suo cavo incandescente, quindi andò ad atterrare da qualche parte oltre il bordo, sul ghiacciaio. Gas gelati si vaporizzarono, salirono vorticando e si ricondensarono brevemente prima di disperdersi. Il geyser si levò bianco contro le stelle. — Vi vedo! — strillò Danzig. — Vedo il vostro segnale, mi sono orientato e mi metterò immediatamente in marcia, con la corda e le unità d'energia di scorta e tutto il resto! Scobie si accasciò al suolo stringendosi il fianco sinistro, e la Broberg s'inginocchiò e lo abbracciò, come se uno di loro due potesse alleviare la sua sofferenza. Non aveva molta importanza: non avrebbe sofferto ancora per molto. — Quanto pensi sia salita in alto la nuvoletta? — chiese Danzig, più calmo. — Circa un centinaio di metri — precisò la Broberg, dopo aver riflettuto. — Oh, dannazione, questi guanti rendono difficile manovrare il calcolatore... Bene, a giudicare da quello che ho osservato, devo essere dai dieci ai quindici klicks di distanza da voi. Concedetemi un'ora o poco più per arrivare là e trovare la vostra esatta posizione. Va bene? — Sì, per un pelo — rispose la Broberg, dopo aver controllato i dati. — Abbasseremo i nostri termostati e rimarremo seduti e fermi per ridurre la
richiesta di ossigeno. Avremo freddo, ma sopravviveremo. — Può darsi che ci metta di meno — osservò Danzig. — Quello era il calcolo dell'eventualità peggiore. D'accordo, parto. Niente più conversazione fino a quando c'incontreremo. Non intendo correre rischi sciocchi, ma avrò bisogno di tutto il mio fiato per fare in fretta. Debolmente, i due che attendevano lo sentirono respirare, poi udirono il passo affrettato dei suoi stivali. Il geyser di ghiaccio si estinse. Rimasero seduti, circondandosi a vicenda la vita con le braccia, contemplando la gloria che li circondava. Dopo un periodo di silenzio, l'uomo disse: — Bene, suppongo che questo segni la fine del gioco. Per tutti. — Deve certamente essere tenuto sotto stretto controllo — rispose la donna. — Mi chiedo, tuttavia, se lo abbandoneremo del tutto... quassù. — Se devono, possono farlo. — Sì. Noi ci siamo riusciti, tu ed io, non è vero? Si volsero faccia a faccia, sotto quel cielo dominato da Saturno e costellato di stelle; nulla mitigava la luce del sole che li rivelava l'uno all'altra, lei una donna sposata di mezza età, lui un uomo comune, salvo che per la sua solitudine. Non avrebbero mai più giocato: non potevano farlo. — Caro amico... — cominciò la donna, una perplessa compassione nello sguardo. La mano sollevata di lui le impedì di dire altro. — Meglio non parlare, se non è essenziale. Ci farà risparmiare un po' di ossigeno e ci permetterà di scaldarci un po' di più. Vogliamo provare a dormire? Gli occhi di lei si allargarono ed incupirono. — Non oso farlo — confessò. — Non fino a che sarà trascorso abbastanza tempo. In questo momento, potrei sognare. LA VARIANTE DELL'UNICORNO Unicorn Variation di Roger Zelazny Isaac Asimov's SF Magazine, aprile 1981 Roger Zelazny è sempre stato affascinato dalla fantasy in tutti i suoi aspetti e, anche se ha iniziato la sua carriera come scrittore di fantascienza vera e propria, negli ultimi anni si è dedicato sempre più a storie di heroic fantasy come quelle del colonnello Dilvish il Dannato o della serie di Am-
bra. Unicorn Variation è uno strano connubio tra i generi: una vicenda ambientata in una città fantasma dove un uomo gioca una bizzarra partita a scacchi con un unicorno, in un mondo dove gli animali e le razze oggi comuni vanno pian piano estinguendosi, lasciando il campo al ritorno di bestie mitiche come i grifoni, gli yeti, i dodo, gli uccelli aepyornis e, ovviamente, gli unicorni. Bizzarria di fuochi, incunabolo di luce, si muoveva con una deliberazione lesta, quasi raffinata, entrando in esistenza e uscendone come un brandello di sera squarciato dalla tempesta; o, forse, le tenebre che inframmezzavano le esplosioni di luci erano più simili alla sua vera natura: turbini di ceneri nere che si univano e s'impennavano ritmicamente al suono smorzato del vento del deserto lungo il canale dietro gli edifici, vuoti eppure pieni come le pagine di libri non letti o come la pausa tra le note di una canzone. Scomparso. Riapparso. Scomparso di nuovo. Potenza, avete detto? Sì. Occorre una forza d'identità considerevole per manifestarsi prima o dopo il proprio tempo. O entrambe le cose. Scomparendo e riapparendo, continuava ad avanzare. Si spostava nel pomeriggio caldo, e il vento cancellava le sue tracce. Naturalmente, solo quando lasciava tracce. Una ragione. Deve sempre esserci una ragione. O più ragioni. Esso sapeva perché si trovava lì; ma non perché si trovasse proprio lì, in quel particolare contesto. Immaginava, avvicinandosi al profilo denso di desolazione della vecchia strada, che fra poco l'avrebbe scoperto. Comunque, sapeva che la ragione poteva giungere anche prima, o dopo. Eppure, l'attrazione era inequivocabile, e la forza del suo essere era tale che doveva trovarsi vicino a qualcosa. Gli edifici erano antichi e cadenti e alcuni già schiantati a terra e tutti logori e polverosi e deserti. Erbacce crescevano fra le assi dei pavimenti. Uccelli facevano il nido sulle travi. Gli escrementi di creature selvatiche erano in ogni angolo; ed esso le conosceva tutte così come loro l'avrebbero riconosciuto, se si fossero incontrati. S'immobilizzò, perché un suono esilissimo, imprevisto, era giunto da un punto più avanti, sulla sinistra. In quel momento, esso stava di nuovo entrando in esistenza e dispiegò la propria forma che svanì velocissima, come svanisce uri arcobaleno all'inferno; ma la presenza nuda restò al di là di
ogni sottrazione. Invisibile, eppure esistente, e torte, si mosse. La traccia. L'indizio. Più avanti. A sinistra. Oltre la parola sbiadita, SALOON, sull'asse in alto corrosa dal tempo. Oltre le due porte d'ingresso (una penzolava dai cardini). Si fermò, scrutò. Il banco a destra, coperto di polvere. Dietro, uno specchio crepato. Bottiglie vuote. Bottiglie rotte. La sbarra d'ottone, nera, incrostata. Tavoli a sinistra e sul fondo. Più o meno conservati. Un uomo seduto al tavolo migliore. Con la schiena rivolta alla porta. Levis. Stivali da campagna. Camicia azzurra, stinta. Uno zaino verde appoggiato alla parete alla sua sinistra. Davanti all'uomo, sul tavolo, è dipinta una scacchiera; è piena di macchie e di graffi, quasi cancellata. Il cassetto dove lui ha trovato gli scacchi è ancora parzialmente aperto. Lui non potrebbe mai, trovandosi di fronte a una scacchiera, non risolvere qualche problema di gioco o non ripetere una delle sue partite migliori, così come non potrebbe evitare di respirare, di far circolare il proprio sangue, o di mantenere una temperatura corporea stabile. Esso si avvicinò, e forse nella polvere alle sue spalle si formarono impronte, ma nessuno le notò. Anch'esso giocava a scacchi. Restò a guardare l'uomo che ripeteva quella che forse era stata la sua partita migliore, alle preselezioni per i campionati mondiali di sette anni prima. Dopo quella volta lui, sorpreso di essere arrivato a tanto, era scoppiato, perché sotto pressione non riusciva mai a giocare bene. Però era sempre stato fiero di quella partita, e la riviveva spesso, come fanno tutti gli esseri sensibili con certi momenti particolarmente importanti della loro esistenza. Per venti minuti circa, nessuno avrebbe potuto raggiungerlo. Era stato puro e fiero e deciso e perspicace. Si era sentito in splendida forma. Esso si sistemò dall'altra parte della scacchiera e guardò. L'uomo completò la partita, con un sorriso. Poi rimise a posto gli scacchi, si alzò e prese una lattina di birra dallo zaino. L'aprì. Quando tornò, scoprì che il pedone del re bianco era stato portato in e4. Aggrottò la fronte. Voltò la testa e scrutò attorno al bar e lo specchio lercio gli restituì l'occhiata perplessa. Guardò sotto il tavolo. Bevve un'altra sorsata di birra e si sedette. Allungò la mano e aprì lui di re portando il pedone in e5. Un istante do-
po vide il cavallo avversario in g1 sollevarsi lentamente in aria e portarsi in f3. Per un lungo istante lui fissò il vuoto dall'altra parte del tavolo prima di spostare anche il proprio cavallo da g8 in f6. Il cavallo bianco si spostò per mangiargli il pedone. A questo punto lui lasciò perdere la novità della situazione e spostò il proprio pedone in d6. A quel punto si dimenticò completamente dell'assenza di un avversario tangibile, mentre il cavallo bianco tornava in f3. Si arrestò un attimo per bere un sorso di birra, ma aveva appena deposto la lattina sul ripiano del tavolo che la latina si sollevò di nuovo in aria, passò sopra la scacchiera e rimase sospesa. Seguì un gorgoglio. Poi la lattina cadde per terra, rimbalzò e tintinnò con un suono di contenitore vuoto. — Mi spiace — disse lui, levandosi in piedi e tornando verso il proprio zaino. — Te ne avrei offerta una se avessi immaginato che ti sarebbe piaciuta. Aprì due nuove lattina, ritornò verso il tavolo, ne mise una accanto all'estremità opposta del tavolo, tenendo stetta nella destra l'altra. — Grazie — disse una voce educata e precisa da un punto non ben determinato al di là. La lattina venne levata, inclinata leggermente e rimessa sul ripiano. — Io mi chiamo Martin — disse. — Puoi chiamarmi Tlingel — rispose l'altro. — Avevo pensato che la tua specie fosse estinta. Sono contento che almeno tu sia sopravvissuto in modo da permettermi questa partirà. — Uh? — fece Martin. — C'eravamo ancora tutti l'ultima volta che mi sono guardato in giro... un paio di giorni fa. — Non importa. A questo provvederò più tardi — replicò Tlingel. — Mi sono lasciato ingannare dall'apparenza di questo posto. — Oh. Si tratta di una città fantasma. Io giro parecchio col mio sacco in spalla. — Non importa. Io sono vicino al punto culminante della vostra carriera sotto il punto di vista della specie. Lo sento bene. — Temo di non seguirti. — Non sono ben sicuro che lo vuoi veramente. Immagini che intendi mangiarmi il pedone, no? — Forse. Sì, è così. Di cosa parli? La lattina di birra si sollevò di nuovo in alto. L'entità invisibile trasse un altro sorso. — Be' — disse Tlingel, — per dirla semplicemente, i tuoi... successori...
si fanno ansiosi. E dal momento che il tuo posto nell'ordine delle cose è tanto importante, io ho avuto abbastanza potere per venire qui e controllare come sta la situazione. — Successori? Non capisco. — Hai visto dei grifoni in questi ultimi tempi? Martin fece una risatina. — Ho sentito delle storie — rispose. — E ho visto delle foto di quello che sarebbe stato abbattuto a fucilate sulle montagne rocciose. Naturalmente si tratta di una balla. — È naturale che debba sembrarti così. Succede sempre quando si tratta di animali mitologici. — Stai cercando di dirmi che era tutto vero? — Certo. Il tuo mondo è messo male. Quando di recente è morto l'ultimo orso grizzly, si è aperta la strada ai grifoni... proprio come la morte dell'ultimo eporni aprì la strada allo yeti, e il dodo al mostro di Loch Ness. il piccione viaggiatore al sasquatch e la balena azzurra al kraken, l'aquila americana al basilisco. — Secondo me non puoi dimostrarlo. — Bevi ancora un goccio. Martin fece per allungare la mano verso la lattina, ma fermò la mano e spalancò tanto d'occhi. Accanto alla lattina di birra si era accucciato un essere lungo circa cinque centimetri, con un viso umano, un corpo leonino e delle ali piumate. — Una minisfinge — continuò la voce. — Sono arrivate quando avete ucciso l'ultimo virus del vaiolo. — Vuoi dirmi che ogni volta che una specie naturale si estingue, il suo posto è occupato da una specie mitica? — chiese l'uomo. — In una parola... sì. Be'... non è sempre stato così, ma voi avete distrutto il meccanismo dell'evoluzione. L'equilibrio è stato ora ripristinato da quelli come noi che vengono dalla terra del mattino, da noi che in realtà non siamo mai stati in pericolo di estinzione. Ora è giunto il momento del ritorno. — E tu, qualunque cosa tu sia, Tlingel... dici che l'umanità è ora avviata all'estinzione? — Proprio così. Ma tu non puoi farci assolutamente nulla, no? E allora continuiamo con la partita. La sfinge volò via. Martin bevve un sorso di birra e mangiò il pedone. Poi chiese: — Chi saranno i nostri successori?
— La modestia quasi mi impedisce di dirlo — rispose Tlingel. — Nel caso di specie così importanti come lo è la tua, è naturale che il suo posto debba essere preso da quella più bella, più intelligente e più importante tra tutte. — E tu cosa sei? Non ho modo di poter dare una sbirciatina? — Be'... sì. Se faccio un piccolo sforzo. La lattina di birra venne levata in aria, fu scolata e cadde sul pavimento. Poi seguì una serie di rapidi tintinnii che si allontanavano dal tavolo. Dall'altra parte, l'aria cominciò a guizzare di fiammelle per una zona piuttosto estesa, facendosi più scura all'interno della sagoma fiammeggiante. I contorni si fecero più chiari, mentre l'interno diventava nero gaietto. Poi la forma si mosse danzando per il saloon, mentre una moltitudine di minuscole impronte di zoccolo fesso apparivano sulle assi del pavimento e le facevano crepitare. Infine con un ultimo lampo quasi accecante, la cosa divenne completamente visibile e al vederla Martin sussultò. Davanti a lui stava un unicorno nero con gli occhi gialli e beffardi, che si rizzò per un istante sulle zampe posteriori in posa araldica. Le fiamme gli danzarono attorno per un secondo ancora, poi svanirono. Martin si era tirato indietro e aveva sollevato una mano in un gesto di difesa. — Guardami! — annunciò Tlingel. — Io, l'antico simbolo di saggezza, valore e bellezza mi ergo innanzi a te! — Credevo che il vostro tipico unicorno fosse bianco — riuscì alla fine a dire Martin. — Io sono archetipo — rispose Tlingel, ricadendo sulle quattro zampe. — E possiedo doti che sono fuori dall'ordinario. — Per esempio? — Continuiamo la partita. — E il destino della razza umana? Avevi detto... — ... e lasciamo per dopo le chiacchiere. — La distruzione dell'umanità non mi pare che si potrebbe definirla col termine di chiacchiere. — E se hai un'altra birra... — D'accordo — disse Martin, ritornando verso il proprio zaino mentre l'essere avanzava, con occhi simili a un paio di soli sbiaditi. — C'è della birra chiara. Qualcosa era cambiato nel gioco. Mentre Martin si sedeva davanti al
corno d'ebano sulla testa di Tlingel, come un insetto che sta per venire inchiodato da uno spillo, si rese conto che aveva finito ormai di giocare bene. Aveva sentito la tensione nello stesso istante in cui aveva visto l'essere... e poi c'erano state anche tutte quelle chiacchiere sulla fine imminente della sua razza. Naturalmente se l'avesse detto un qualsiasi mattoide non gli avrebbe fatto né caldo né freddo, ma vista la fonte particolare che gli aveva comunicato la notizia... Il morale gli era calato in fondo ai piedi. Adesso non era più al massimo della forma. E Tlingel era in gamba. Molto in gamba. Martin cominciò a chiedersi se gli sarebbe riuscito di fare pari e patta. Dopo un momento vide che non ci sarebbe riuscito e ci rinunciò. L'unicorno lo guardò e sorrise. — Non giochi male... per essere un umano — gli disse. — Certe volte ho giocato anche molto meglio. — Non c'è da vergognarsi a perdere con me, mortale. Perfino tra gli esseri mitici ce ne sono pochi in grado di combattere una buona partita con un unicorno. — Sono contento che non ti sei proprio annoiato del tutto — fece Martin. — Adesso vuoi finire ciò che mi stavi dicendo riguardo l'estinzione della mia specie? — Oh, quella faccenda — rispose Tlingel. — Nella terra del mattino dove vivono quelli come me, ho avvertito l'eventualità della vostra scomparsa come un venticello lieve sotto le nari, con la promessa di preparare la strada a noi... — E come dovrà funzionare? Tlingel si strinse nelle spalle e mentre scuoteva la testa il corno scrisse cose misteriose nell'aria. — Non saprei proprio dirtelo. Le premonizioni sono raramente precise. Anzi, è proprio per scoprire come stanno le cose che sono venuto qui. Avrei dovuto già riuscirci, ma tu mi hai distratto con la birra e la partita. — Non potrebbe darsi che ti sbagliassi? — Ne dubito. Questa è appunto l'altra ragione per cui sono qui. — Vuoi spiegarti, per favore? — Ci sono ancora delle birre? — Due, mi pare. — Per favore... Martin si alzò e andò a prenderle. — Accidenti! Su questa si è rotta la linguella — disse.
— Mettila sul tavolo e tienila ben ferma. — D'accordo. Il corno di Tlingel si abbassò e forò il coperchio della lattina. — È utilissimo in un sacco di situazioni — osservò Tlingel, ritirandolo. — L'altra ragione per cui sei qui... — lo incitò Martin. — È solo che sono un tipo speciale. Io so fare cose che agli altri non riescono. — Per esempio? — Trovare il vostro punto debole e influenzare gli eventi per sfruttarlo... affrettare il corso delle cose. Trasformare una possibilità in probabilità e poi... — Tu vuoi distruggerci? Di persona? — Questo è un modo sbagliato di considerare le cose. È quasi come una partita di scacchi. Si tratta di sfruttare contemporaneamente le debolezze dell'avversario e di esercitare la propria forza. Se voi non aveste già preparato il terreno, io non potrei fare nulla. Io posso solo influenzare ciò che già esiste. — E cosa succederà? Ci sarà la III Guerra Mondiale? Un disastro ecologico? Una pestilenza provocata da mutazioni? — Non lo so ancora di preciso, perciò preferirei che non mi rivolgessi domande del genere. Ti ripeto che al momento sto solo osservando la situazione. Io sono solo un agente... — A me non pare proprio. Tlingel rimase in silenzio. Martin cominciò a raccogliere i pezzi degli scacchi. — Non vuoi rimettere i pezzi sulla scacchiera? — Per sollazzare ancora il mio distruttore? No, grazie. — Non è così che si deve considerare la faccenda... — E poi quelle sono le ultime birre. — Oh — Tlingel fissò con aria desiderosa i pezzi che venivano messi via, poi osservò: — Io sarei disposto a giocare ancora contro di te, anche senza altri rinfreschi... — No, grazie. — Sei arrabbiato. — Non lo saresti anche tu, se le nostre situazioni fossero invertite? — Tu stai antropomorfizzando la cosa. — Be'? — Oh, immagino che lo farei anch'io.
— Potresti offrirci una possibilità, almeno permettici di essere noi stessi a commettere i nostri errori. — Voi non l'avete proprio fatto, però, con tutti gli esseri cui sono succeduti i miei simili. Martin divenne rosso. — Okay. Un punto a tuo vantaggio. Ma non sono obbligato a farmi piacere la situazione. — Tu sei un bravo giocatore. Lo so... — Tlingel, se fossi in grado di giocare di nuovo al meglio delle mie possibilità, credo che potrei batterti. L'unicorno sbuffò, emettendo due nuvolette di fumo. — Non sei così bravo — rispose. — Immagino che non lo potrai mai sapere. — Intravedo forse una proposta? — Può darsi. Quanto varrebbe un'altra partita per te? Tlingel fece un rumore che assomigliava a una risatina. — Lasciami indovinare: tu stai per dirmi che se mi batterai, vorrai che ti prometta di non esercitare la mia volontà sull'anello più debole nell'esistenza dell'umanità e di non spezzarlo. — Naturalmente. — E cosa ci guadagno se vinco io? — Il piacere del gioco. È questo che vuoi, no? — Le condizioni mi sembrano un po' unilaterali. — Non lo sono se tanto sei destinato a vincere. Continui a insistere che non puoi perdere. — D'accordo. Prepara la scacchiera. — C'è un'altra cosa che devi sapere prima su di me. — Sì? — Io non riesco a giocare bene quando sono sotto tensione e questa partita mi procura una tensione terribile. Tu vuoi che io giochi al meglio, no? — Sì, ma temo di non avere modo di adattare le tue reazioni psicofisiche alla partita. — Sono convinto che riuscirei a farlo io se avessi una quantità di tempo maggiore di quella abituale tra una mossa e l'altra. — Concesso. — Voglio dire, un sacco di tempo. — Cos'è che avresti in mente? — Ho bisogno del tempo necessario per scaricare la mente, rilassarmi,
tornare indietro sulle posizioni, come se fossero solo dei problemi teorici... — Vuoi dire, allontanarti di qui tra una mossa e l'altra? — Sì. — Va bene. Per quanto? — Non saprei. Qualche settimana, magari. — Prenditi pure un mese. Consulta i tuoi esperti, metti al lavoro i vostri computer. Tutto questo potrebbe rendere leggermente più interessante la partita. — In effetti non è questo che avevo in mente. — Allora stai cercando solo di guadagnare tempo. — Non posso negarlo. D'altra parte, ne avrò bisogno. — In questo caso, ho anch'io delle condizioni. Vorrei che questo posto venisse messo in ordine, così fa schifo. E voglio anche della birra alla spina. — Okay, provvederò. — D'accordo. Allora vediamo chi muove per primo. Martin fece girare un pedone bianco e uno nero da una mano all'altra da sotto il tavolo. Poi tirò fuori i pugni chiusi e li mise davanti a se. Tlingel si chinò avanti e batté su un pugno. L'estremità del corno nero toccò la mano sinistra di Martin. — Be', si accorda con la mia pelliccia nera e lucida — scherzò l'unicorno. Martin sorrise e schierò davanti a sé i pezzi bianchi, mettendo poi i neri davanti al suo avversario. Quando ebbe finito spinse il proprio pedone di re in e4. Il delicato corno d'ebano di Tlingel spostò il proprio pedone di re in e5. — Mi sembra di capire che adesso vuoi un mese per riflettere sulla tua prossima mossa, giusto? Martin non rispose ma spostò il proprio cavallo ih f3. Tlingel replicò spostando immediatamente un cavallo in c6. Martin ingollò un bel sorso di birra, poi spostò il proprio alfiere in b5. L'unicorno spostò l'altro cavallo in f6. Martin arroccò immediatamente e Tlingel mosse il cavallo per mangiargli il pedone. — Credo che ce la faremo — disse improvvisamente Martin, — se solo ci lascerai in pace. Col tempo noi impariamo dai nostri errori. — Le creature mitiche non esistono esattamente nel tempo. Il vostro mondo è un caso speciale. — Voi invece non fate mai errori?
— Quando li facciamo, hanno un efflato poetico. Martin ringhiò e fece avanzare il proprio pedone in d4. Tlingel ribatté immediatamente portando il cavallo in d6. — Devo interrompere — disse Martin, alzandosi in piedi. — Mi sto infuriando e questo pregiudica il gioco. — Allora te ne vai? — Sì. Martin si spostò per andare a prendere il proprio zaino. — Ci rivediamo qui tra un mese? — Sì. — Molto bene. L'unicorno si alzò in piedi e pestò i piedi sul pavimento e le luci sembrarono danzare sul suo manto scuro. Improvvisamente si fecero più luminose e scoccarono in tutte le direzioni come in un'esplosione. A ciò seguì un'ondata di tenebre. Martin si trovò appoggiato al muro, tremante. Quando abbassò la mano dagli occhi, vide che era solo, con l'unica compagnia dei cavalli, degli alfieri, dei re, delle regine, delle torri e dei pedoni. Se ne andò. Tre giorni dopo Martin tornò con un furgoncino con su un generatore, legname, finestre, attrezzi, vernice, colori, detersivi, cera. Poi si mise al lavoro, spolverò, passò l'aspirapolvere e sostituì le intelaiature rotte. Installò le finestre. Lucidò gli ottoni finché risplendettero. Diede una mano di tinta e la tirò a lucido. Diede la cera ai pavimenti e li ripassò con lo spazzolone. Chiuse i buchi e lavò i bicchieri. Poi portò via tutti i rottami. Gli ci volle quasi tutta la settimana per trasformare quel relitto di bar in un locale che all'apparenza sembrava un saloon. Poi ripartì, restituì tutta l'attrezzatura che aveva preso a nolo e comperò un biglietto per il nordwest. La grande foresta umida era un altro dei suoi posti preferiti dove gli piaceva aggirarsi quando voleva pensare. E adesso cercava un completo cambiamento di scena, una revisione totale di ambientazione. Non che la sua prossima mossa non apparisse ovvia, addirittura standard. Eppure, qualcosa lo rodeva... Martin sapeva che si trattava di qualcosa di più di una semplice partita. Prima di quella si era sentito pronto a riprendere il cammino, insonnolito, tra le ombre, respirando aria pura.
Con la schiena appoggiata alla radice sporgente di un gigantesco albero, tirò fuori una scacchiera portatile dal sacco di montagna e l'appoggiò su un sasso che aveva tirato lì vicino. Dal cielo cadeva un'acquerugiola finissima, ma per ora l'albero lo riparava. Ricostruì tutta l'apertura fino a quando Tlingel aveva ritratto il cavallo in d6. La cosa più semplice sarebbe stata di mangiare il cavallo con l'alfiere, ma non lo fece. Osservò la scacchiera per un certo tempo, con le palpebre pesanti, poi le chiuse e si appisolò. Forse solo per pochi minuti. Dopo non lo seppe mai con certezza. Qualcosa lo svegliò. Non sapeva cos'era stato. Batté le palpebre diverse volte e rinchiuse gli occhi. Poi li riaprì in fretta. Nella posizione rannicchiata in cui si trovava aveva gli occhi fissi verso il basso e il suo sguardo era fisso su un enorme paio di piedi pelosi e privi di calzature... il più grosso paio di piedi che avesse mai visto. Erano immobili davanti a lui, puntati sulla sua destra. Lentamente, molto lentamente, Martin sollevò gli occhi. Non molto lontano, come si vide subito. L'essere non era alto più di un metro e trentacinque e dal momento che guardava più la scacchiera che lui, ebbe agio di studiarlo. Non indossava abiti, ma era molto peloso con un manto bruno scuro, chiaramente di sesso maschile, con fronte bassa e occhi infossati dello stesso colore del pelo, spalle massicce, e mani con cinque dita munite di pollici opponibili. — L'essere si girò improvvisamente e lo scrutò con un gran sfoggio di denti brillanti. — Il pedone bianco dovrebbe mangiare il pedone — disse con voce bassa e nasale. — Uh? Ma via — fece Martin. — L'alfiere mangia il cavallo. — Mi vuoi dare il nero e continuare la partita con me? Vedrai che ti concio per le feste. Martin gli gettò un'occhiata ai piedoni. — ...oppure dà a me il bianco e lasciami mangiare quel pedone. Ce la farò lo stesso. — Prendi il bianco — disse Martin, raddrizzandosi. — Vediamo se sai di cosa parli. — Infilò una mano nel sacco da montagna. — Vuoi una birra? — Che roba è? — Un ausilio ricreativo. Aspetta un momento.
Prima che avessero finito la confezione da sei lattine, il sasquatch, il cui nome come Martin aveva appreso era Grend, lo aveva battuto. Grend si era immediatamente impegnato con feroce determinazione, lo aveva spinto in una posizione sempre più insicura fino al punto in cui Martin aveva visto di essere finito e aveva abbandonato la partita. — È stata una partita ben combattuta — dichiarò Martin, appoggiandosi con la schiena alla radice e guardando quella specie di scimmione che gli stava davanti. — Sì, noi Piedoni siamo piuttosto in gamba, se così posso dire. È il nostro passatempo preferito, ma siamo così primitivi che non abbiamo scacchiere e pezzi. Per la maggior parte del tempo giochiamo tutto a mente. Non sono molti quelli che si avvicinano alla nostra bravura. — E gli unicorni? — chiese Martin. Grend annuì lentamente. — Quelli sono gli unici che sono in grado di offrirci delle partite coi fiocchi. Un po' raffinatini; ma sono sottili. Tremendamente sicuri di sé, però, devo dire. Perfino quando sbagliano. Non ne ho più visti molti da quando ho lasciato la terra del mattino, naturalmente. Peccato. Non avresti dell'altra birra? — Temo di no. Ma ascolta. Ritornerò da queste parti fra un mese. E te ne porterò ancora se tornerai qui a giocare con me. — Martin, affare fatto. Oh, scusa. Non volevo schiacciarti i piedi. Ripulì di nuovo il saloon e portò un barilotto di birra che installò sotto il bar coprendolo di ghiaccio. Portò anche degli sgabelli da bar, sedie e tavoli che si era procurato all'emporio di Goodwill. Alle finestre appese delle tendine rosse. Quando ebbe finito era già sera. Si sedette davanti alla scacchiera, cenò con un pasto leggero, poi srotolò il sacco a pelo dietro il banco del bar e si accampò per la notte. Il giorno seguente passò rapidamente. Dal momento che Tlingel sarebbe potuto arrivare in qualsiasi momento, Martin non lasciò le vicinanze del bar. Anche i pasti li consumava dentro e passava il tempo a studiare problemi scacchistici. Quando cominciò a far buio accese parecchie lampade a petrolio e candele. Guardò l'orologio con crescente frequenza. Si mise a camminare avanti e indietro. Non era possibile che avesse fatto un errore. Il giorno era proprio quello. Lui... Sentì una risatina.
Quando si voltò vide una testa munita di unicorno nero che galleggiava nell'aria proprio al di sopra della scacchiera, poi il resto del corpo di Tlingel si materializzò. — Buona sera, Martin. — Martin volse via lo sguardo dalla scacchiera. — Questo posto mi sembra molto meglio adesso. Non si potrebbe fare un po' di musica... Martin girò dietro il bancone e accese la radiolina a transistor che aveva portato con sé. La musica di un quartetto d'archi si diffuse nell'aria. Tlingel ammiccò. — Non molto in armonia con l'atmosfera di questo locale. Martin cambiò stazione e ne trovò una che trasmetteva musica folk e western. — Non mi va molto — ribatté ancora Tlingel. — Si perde troppo con la trasmissione. Martin spense la radio. — Hai una buona scorta di beveraggi? Martin tirò fuori un boccale da quattro litri, il più grosso che fosse riuscito a trovare in un negozio di articoli da regalo, e lo mise sul bar. Poi ne riempì uno molto più piccolo per se. Era deciso a ubriacare quella bestiaccia, se possibile. — Ah! Questo è davvero meglio che non quelle ridicole lattine — esclamò Tlingel, immergendoci il muso. Il boccale era vuoto. Martin lo riempì. — Vuoi metterti al tavolo con me? — Certo. — Hai avuto un mese interessante? — Direi di sì. — Hai deciso la prossima mossa? — Sì. — Allora diamoci sotto. Martin si sedette e mangiò il pedone nero. — Uhm, interessante. Tlingel fissò la scacchiera per un po', poi sollevò uno zoccolo fesso che si dipartì mentre toccava il pezzo. — Io invece mi mangio l'alfiere col cavallo. Immagino che adesso vorrai un altro mese per decidere la prossima mossa che dovrai fare. Tlingel si appoggiò allo schienale della sedia e si scolò tutta la birra del boccale.
— Lascia che ci pensi — rispose Martin, — intanto ti riempio il boccale. Martin si sedette davanti alla scacchiera a riflettere mentre l'unicorno si scolava altri tre boccali di birra. In realtà però fingeva solo di riflettere. Stava solo aspettando. Quando aveva giocato contro Grend, la sua mossa era stata appunto di mangiare l'alfiere col cavallo e adesso aveva già pronta la risposta di Grend. — Be'? — disse alla fine Tlingel. — Che ne dici? Martin mandò giù un sorso di birra. — Sono quasi pronto — ripspose. — Sai che reggi benissimo la birra, tu. Tlingel si mise a ridere. — Il corno degli unicorni è un disintossicante. Un rimedio universale. Io aspetto di raggiungere lo stadio del calor rosso, poi mi servo del corno per bruciare ogni eccesso e rimanere in forma. — Oh — fece Martin. — Un bel trucco. — ...Se per caso tu hai bevuto troppo, basta che mi tocchi il corno per un istante e vedrai che ti rimetto in sesto in quattro e quattr'otto. — No, grazie. Va benissimo così. Allora sposto avanti di due caselle il pedone della torre di regina. — Ma guarda... — fece Tlingel. — È davvero interessante. Sai cosa manca a questo posto? Un piano... un piano anche scordato da saloon... credi di farcela a trovarlo? — Purtroppo non so suonarlo. — Che peccato. — Potrei pagare qualcuno perché lo suoni. — No. Non mi va di essere visto da altri umani. — Se è un tizio davvero in gamba, immagino che saprebbe suonare anche a occhi bendati. — Lascia perdere. — Mi spiace. — Sei anche ingegnoso. Sono sicuro che troverai qualche soluzione la prossima volta. Martin fece un cenno d'assenso. — E poi una cosa ancora, questi vecchi posti non avevano della segatura sparsa dappertutto? — Mi pare. — Ci starebbe proprio bene. — Scacco.
Tlingel gettò freneticamente un'occhiata alla scacchiera. — Volevo dire che sono d'accordo. «Scacco» significa che non ho scelta. — Oh, capisco. Be', intanto che siamo qui... Tlingel fece avanzare il proprio pedone in d6. Martin fissò la scacchiera. Non era quella la mossa che aveva fatto Grend. Per un istante pensò di continuare per conto suo la partita da quel punto. Fino a quel momento aveva cercato di pensare a Grend solo come un allenatore. Aveva cercato di allontanare il pensiero che quella in effetti era una lotta mortale di uno contro l'altro. Fino al pedone in d6. Poi si ricordò della partita che aveva perso contro il sasquatch. — Mi fermo qui — disse, — e mi prenderò il mio mese. — D'accordo. Beviamoci un'altra birra prima di darci la buona notte. D'accordo? — Certo. Perché no? Rimasero seduti per un po' e Tlingel gli raccontò della terra del mattino, delle sue foreste primeve, dei pianori ondulati, delle alte montagne dalle cime frastagliate, dei mari purpurei, e dei suoi magici e mitici abitanti. Martin scosse la testa. — Non capisco proprio come mai siete così ansiosi di venire qui — disse, — quando abitate in un posto come quello. Tlingel sospirò. — Penso che sia solo questione di stare all'altezza dei grifoni. È la gran moda del momento. Be'... al mese prossimo... Tlingel si alzò e si voltò. — Adesso ho il controllo completo. Guarda! La sagoma dell'unicorno sbiadì, perse la forma, divenne bianca, sbiadì ancora e sparì come un riflesso. Martin si avvicinò al bancone e si riempì un altro boccale. Era un peccato sprecare tutta la birra rimasta. Al mattino però desiderò che l'unicorno fosse ancora lì. O almeno il suo corno guaritore. La foresta era bigia e Martin teneva un ombrello aperto al di sopra della scacchiera posata sul sasso. Le goccioline cadevano dalle foglie e facevano plop plop quando cadevano sul tessuto. La scacchiera era già stata disposta coi pezzi fermi all'ultima mossa di Tlingel, il pedone in d6. Martin si chiese se Grend si fosse ricordato dell'appuntamento e avesse tenuto giusto il conto dei giorni... — Salve — disse la voce nasale da un punto imprecisato dietro di lui,
sulla sinistra. Martin si voltò e vide Grend che girava da dietro l'albero calpestandone le enormi radici coi suoi piedoni. — Non ti sei dimenticato — esclamò Grend. — Che bello! Immagino che ti sarai ricordato anche la birra, eh? — Ne ho portato una cassa intera. Possiamo sistemare il bar qui a fianco. — Cos'è un bar? — Be', un posto dove la gente va a bere, al riparo della pioggia, un po' buio, per fare atmosfera, e si siede su degli sgabelli davanti a un grosso bancone, o davanti a dei tavolini, e poi tutti chiacchierano insieme, e c'è la musica... e naturalmente bevono. — E noi avremo tutte queste cose qui? — No, solo la penombra e la birra. A meno che tu non consideri musica la pioggia. Io parlavo in senso figurato. — Oh, però direi che sarebbe proprio interessante visitare il posto che mi hai detto. — Sì. Se vuoi tenere quest'ombrello sopra la scacchiera, io vedrò di fare del mio meglio per crearne un accettabile equivalente. — Bene. Ehi, questa mi sembra una variante di quella partita che abbiamo giocato la volta scorsa. — Infatti. Mi sono chiesto come sarebbe andata se la partita avesse preso questo corso invece di quello che ha avuto. — Uhm, fammi vedere... Martin tirò fuori quattro confezioni da sei lattine dallo zaino e aprì la prima. — Eccoti servito. — Grazie. Grend accettò la birra, si accovacciò e restituì l'ombrello a Martin. — Ho ancora il bianco io? — Sì. — Allora pedone in e6. — Davvero? — Sì. — Allora a questo punto la miglior mossa che potrei fare io sarebbe di mangiarti il pedone con questo. — Infatti. E io ti mangio il cavallo con questo. — Penso che mi limiterò a riportare il cavallo in e7.
— ...e io porto questo in c3. Mi dai un'altra birra? Un'ora e un quarto dopo, Martin abbandonò la partita. La pioggia aveva smesso e l'ombrello era stato chiuso. — Un'altra partita? — propose Grend. Il pomeriggio passò. Ora la tensione era calata. Questa volta Martin giocava solo per divertimento. Martin provò delle combinazioni arrischiate, vedendo davanti a sé con molta chiarezza, come gli era successo quel giorno... — Stallo — annunciò Grend molto più tardi. — Questa, però, è stata una bella partita davvero. Hai migliorato notevolmente. — Mi sentivo più rilassato. Un'altra? — Magari più tardi. Raccontami ancora un po' di questa faccenda dei bar adesso. Così fece Martin. Alla fine chiese: — Tutta quella birra ti fa qualche effetto? — Mi gira un po' la testa. Ma va benissimo così. Con la terza partita ti ridurrò in poltiglia. E così fece. — Non sei male per essere un umano, però. Tornerai anche il mese prossimo? — Sì. — Bene. Porterai ancora della birra? — Fintanto che mi basteranno i soldi. — Oh. Porta del gesso allora. Io ti farò delle belle impronte e tu ne potrai fare il calco. Mi sembra di capire che si vendano bene. — Me ne ricorderò. Martin raccolse gli scacchi. — Arrivederci, allora. — Ciao. Martin si rimise a spolverare e lustrare, trasportò dentro un piano e sparse della segatura sul pavimento. Installò un nuovo barilotto di birra. Appese alle pareti delle riproduzioni di poster d'epoca e degli atroci quadri a olio che aveva trovato in un negozio d'anticaglie. Sistemò delle sputacchiere negli angoli strategici. Quando ebbe finito si sedette al bar e aprì una bottiglia di acqua minerale. Poi si mise ad ascoltare il vento nel Nuovo Messico che fischiava lamentosamente e i granelli di sabbia che sfregavano contro i vetri della finestra.
Si chiese se tutto il mondo avrebbe avuto quel rumore lugubre se Tlingel avesse trovato il mezzo di eliminare l'umanità o, pensiero inquietante, se i successori della sua specie avrebbero trasformato il mondo in qualcosa che assomigliasse alla mitica terra del mattino. Questo pensiero l'angustiò per un po'. Poi prese la scacchiera e ricollocò i pezzi nella disposizione precedente fino al pedone nero in d6. Quando si voltò per riordinare il bar vide una linea di impronte dallo zoccolo fesso sulla segatura che venivano verso di lui. — Buona sera, Tlingel — disse. — Cosa prendi? Improvvisamente l'unicorno apparve senza nessun preliminare pirotecnico. L'essere si accostò al bar e posò uno zoccolo sulla sbarra d'ottone. — Il solito. Mentre Martin spillava la birra, Tlingel si guardò attorno. — Questo posto è migliorato parecchio. — Lieto di sentirtelo dire. Ti andrebbe un po' di musica? — Sì. Martin trafficò sul retro del piano e individuò l'interruttore del piccolo computer a batteria che controllava i meccanismi e sfruttava la propria memoria elettronica invece dei cilindri. La tastiera si animò immediatamente. — Molto bene — affermò Tlingel. — Hai deciso la tua mossa? — Sì. — Allora cominciamo. Martin riempì il boccale dell'unicorno e glielo portò al tavolo. — Pedone in e6 — disse, spostando il pezzo. — Cosa? — Faccio questa mossa. — Dammi un minuto. Voglio studiarla. — Prendi pure tutto il tempo che vuoi. — Io mangio il pedone — disse poi Tlingel dopo una lunga pausa e essersi scolato un altro boccale. — Allora io mangio questo cavallo. Più tardi, Tlingel disse: — Cavallo in e7. — Cavallo in c3. Passò un intervallo di tempo molto lungo prima che Tlingel spostasse il cavallo in g6. Col cavolo che avrebbe chiesto consiglio a Grend, decise improvvisamente Martin. Ormai aveva già esaminato quella mossa un sacco di volte.
Spostò il proprio cavallo in g5. — Cambia subito quella lagna! — sbottò Tlingel. Martin si alzò in piedi e obbedì. — Non mi piace neanche quella. Trovane una migliore o chiudi l'apparecchio! Dopo altri tre tentativi, Martin spense il piano. — E trovami un'altra birra! Martin riempì i boccali a tutti e due. — Va bene. Tlingel spostò il proprio alfiere in e7. La cosa più importante in quel momento era di impedire all'unicorno di arroccare. Così Martin spostò la propria regina in h5. Tlingel emise un debole suono strangolato e quando Martin alzò gli occhi vide che dalle narici dell'unicorno si levavano muvolette di fumo. — Ancora birra? — Grazie. Quando ritornò con la birra, Martin vide Tlingel spostare l'alfiere per catturare il cavallo. Non sembrava avere molta scelta in quel momento, ma per un po' studiò comunque la posizione. Alla fine Martin disse: — L'alfiere mangia l'alfiere. — Naturalmente. — Come va il calor rosso? Tlingel fece una risatina chioccia. — Lo vedrai. Il vento si levò di nuovo e cominciò a ululare. L'edificio scricchiolò. — Okay — disse alla fine Tlingel e spostò la regina in d7. Martin fissò la scacchiera. Cosa stava facendo? Finora era andato tutto bene, ma... ascoltò di nuovo l'ululare del vento e pensò ai rischi che correva. — Basta così, gente — disse, appoggiandosi allo schienale della sedia. — La prossima puntata fra un mese. Tlingel sospirò. — Non scappare via. Dammi un'altra birra. E lascia che ti racconti dei vagabondaggi che ho fatto nel tuo mondo il mese scorso. — Stai cercando degli anelli deboli? — Ne avete un sacco. Come fate a sopportarlo? — È più difficile di quel che pensi rafforzarli. Hai qualche consiglio? — Va a prendere la birra.
Continuarono a chiacchierare finché il cielo non impallidì verso est e Martin si ritrovò mentre prendeva frettolosi appunti. La sua ammirazione per l'abilità analitica dell'unicorno andò aumentando man mano che la sera si avvicinava. Quando alla fine si alzarono in piedi, Tlingel barcollava. — Ehi, stai bene? — Mi sono dimenticato di disintossicarmi. Un secondo ancora, poi svanisco. — Aspetta. — Aspetta! — Come? — Ne avrei bisogno anch'io. — Oh. Tocca il corno, allora. Tlingel abbassò la testa e Martin strinse l'estremità del corno tra le punte delle dita. Immediatamente sentì fluire una gradevole sensazione di tepore dentro di sé. Chiuse gli occhi per assaporarla meglio. La testa gli si schiarì. L'inizio di mal di testa che provava sulla fronte scomparve. La stanchezza svanì dai suoi muscoli. Riaprì gli occhi. — Gra... Glingel era scomparso. Martin stringeva un pugno di aria. — ... zie. — Il qui presente Rael è amico mio — affermò Grend. — È un grifone. — L'avevo notato. Martin fece un cenno col capo all'indirizzo dell'essere dalle ali dorate. — Piacere di conoscerti, Rael. — Piacere mio — gridò l'altro. — Hai portato la birra? — Oh... sì. — Gli ho raccontato tanto della birra — spiegò Grend, quasi in tono di scusa. — Può bere una parte della mia. Non pianterà grane. — Certo. Sta bene. I tuoi amici... — La birra! — gridò Rael. — Bar! — Non è molto intelligente, in realtà — sussurrò Grend. — Ma fa compagnia. Ti sarei grato se gli dessi corda. Martin aprì la prima confezione da sei e passò una birra al grifone e una al sasquatch. Rael forò immediatamente la lattina col becco, ingollò il liquido, ruttò e allungo la zampa. — Birra! — gridò con voce stridula. — Ancora birra!
Martin gliene passò un'altra. — Ehi, hai ancora qui la prima partita, no? — osservò Grend, studiando la scacchiera. — Questa sì che è una situazione interessante. Grend bevve e si mise a riflettere. — Fortuna che non piove — commentò Martin. — Oh, pioverà. Aspetta solo un po'. — Ancora birra! — ululò Rael. Martin gliene passò un'altra senza neppure guardare. — Io porto il mio pedone in b6 — disse Grend. — Ma scherzi? — No. Poi tu mi mangi il pedone col tuo pedone c7, vero? — Infatti... — Martin allungò la mano e fece proprio quella mossa. — Bene. Adesso io porto il cavallo in d5. Martin lo mangiò col pedone. Grend spostò la torre in e1. — Scacco — annunciò. — Sì. È proprio la mossa da fare — osservò Martin. Grend fece una risatina. — Vincerò ancora una volta questa partita — disse. — Non mi è difficile crederlo. — Ancora birra? — disse Rael a bassa voce. — Certo. Mentre Martin gli passava un'altra lattina, vide che il grifone si appoggiava adesso contro il tronco dell'albero. Dopo diversi minuti, Martin spostò il proprio re in f8. — Sì, avevo immaginato che l'avresti fatto — disse Grend. — Sai una cosa? — Cosa? — Tu giochi proprio come un unicorno. — Uhm. Grend spostò la propria torre in a3. Più tardi, mentre la pioggia cadeva lieve attorno a loro e Grend lo batteva nuovamente, Martin si rese conto che c'era stato un prolungato periodo di silenzio. Gettò un'occhiata verso il grifone. Rael si era rintanato la testa sotto l'ala sinistra e, in bilico su una gamba sola, si era appoggiato all'albero e dormiva. — Te l'avevo detto che non avrebbe dato fastidio — osservò Grend.
Due partite dopo la birra era finita, le ombre si stavano allungando e Rael si stava risvegliando. — Ci rivediamo il mese prossimo? — Sì. — Hai portato del gesso per calchi? — Sì, l'ho qui. — Molto bene, allora. Conosco un bel posto piuttosto lontano da qui. Non vorrai che la gente venga a frugare da queste parti, no? Adesso andiamo a farti guadagnare un po' di soldi. — Per comperare la birra? — chiese Rael, sbirciando da sotto l'ala. — Il mese prossimo — disse Grend. — Salite in groppa? — Non credo che riusciresti a portarci tutti e due — disse Grend, — e anche se ce la facessi, non sarei sicuro di volerlo fare proprio adesso. — Arrivederci, allora — gridò Rael con voce stridula e balzò in aria, andando a sbattere contro rami e tronchi d'albero prima di trovare il passaggio tra il fogliame e svanire alla vista. — Quello sì che è un tipo in gamba e simpatico — disse Grend. — Vede tutto e non si dimentica mai nulla. Sa sempre come vanno le cose... nei boschi, nell'aria... perfino in acqua. Ed è anche generoso, quando ha qualcosa. — Mmmm — osservò Martin. — Mettiamoci in marcia — disse Grend. — Pedone in b6? Davvero? — chiese Tlingel. — D'accordo. Vuol dire che il mio pedone d'alfiere te lo mangia. Gli occhi di Tlingel si restrinsero quando Martin spostò il proprio cavallo in d5. — Se non altro questa è una partita interessante — osservò l'unicorno. — Ti mangio il cavallo col pedone. Martin spostò la torre. — Scacco. — Sì, infatti. La prossima mossa richiede almeno tre boccali di birra. Comincia a portarmi il primo, per favore. Martin si mise a riflettere, osservando Tlingel che beveva mentre ponzava sulla mossa da fare. Quasi quasi si sentiva colpevole a giocare con alle spalle un panzer come il sasquatch. Ormai si era convinto che l'unicorno fosse destinato a perdere. In tutte le varianti del gioco che aveva combattu-
to contro Grend coi neri, lui era sempre stato battuto. Tlingel era molto in gamba, ma il sasquatch era un mago che non aveva altro da fare che giocare agli scacchi mentali. Era sleale. Ma non si trattava di una questione di onore personale, continuò a ripetersi. Lui stava giocando per proteggere la propria specie contro una forza soprannaturale in grado di far scoppiare la III Guerra Mondiale grazie a qualche arcana manipolazione mentale o facendo andare a pallino i computer per mezzo della magia. Non osava offrire una partita leale a quell'essere. Gliene portò un altro. Poi studiò l'unicorno mentre questi studiava la scacchiera. Per la prima volta si rese conto che era bello. La più bella cosa vivente che avesse mai visto. Adesso che la tensione stava per svanire, poteva guardarlo senza la presenza di quella paura che in passato era sempre stata presente e poteva fermarsi per ammirarlo. Se alla razza umana doveva succedere qualcosa, avrebbe potuto capitarle anche di molto peggio... — Adesso il numero tre. — Arrivo. Tlingel lo scolò d'un fiato e spostò il re in f8. Martin si chinò in avanti e spinse subito la torre in a3. Tlingel sollevò gli occhi e lo scrutò. — Non c'è male. Martin si sentiva come su una graticola. Lo colpiva la nobiltà dell'avversario. Avrebbe desiderato spasmodicamente di giocare e battere l'unicorno per conto suo, lealmente. Non così. Tlingel riportò gli occhi sulla scacchiera, poi, quasi con noncuranza spostò il proprio cavallo in e5. — Va avanti. O ti ci vuole un altro mese? Martin emise un leggero ringhio, spostò la torre e mangiò il cavallo. — Naturalmente. Tlingel mangiò la torre col pedone. Questa non rientrava nell'ultima variante studiata con Grend. Tuttavia... Martin spostò la torre in f3. Mentre così faceva, il vento sembrò ululare in modo stranissimo sopra gli edifici in rovina. — Scacco — annunciò. Al diavolo, decise. Sono perfettamente in grado di finire questa partita per conto mio. Facciamola fuori una volta per tutte. Osservò l'avversario e alla fine vide Tlingel spostare il re in g8. Lui spostò l'alfiere in h6. Tlingel spostò la donna in e7. L'ululio si riudì, più vicino ora. Martin mangiò il pedone con l'alfiere.
La testa dell'unicorno si levò di scatto e per un istante sembrò ascoltare, poi Tlingel la riabbassò e mangiò l'alfiere col re. Martin spostò la propria torre in g3. — Scacco. Tlingel riportò il re in f8. Martin riportò la torre in g3. — Scacco. Tlingel riportò il re in f8, sollevò lo sguardo e lo fissò mostrando i denti. — Sembra che sia partita patta — affermò l'unicorno. — Ne vuoi fare un'altra? — Sì. Ma senza il destino dell'umanità in gioco. — Lascia perdere. Ci ho già rinunciato da parecchio a questa idea. Ho deciso che dopo tutto non mi sarebbe piaciuto vivere qui. Ho dei gusti un po' più difficili io. — Fatta eccezione per questo bar. — Tlingel si voltò mentre da appena oltre la porta proveniva un altro grido stridulo seguito da strane voci. — Cos'è? — Non so — rispose Martin alzandosi in piedi. Le porte si aprirono e entrò un grifone dorato. — Martin! — gridò l'essere. — Birra! Birra! — Uh... Tlingel, ti presento Rael e, e... Tre altri grifoni seguirono le orme del primo. Poi arrivò Grend e tre altri della sua specie. — ... e questo è Grend — disse Martin con un senso di colpa. — Gli altri non li conosco. I nuovi arrivati si bloccarono di colpo quando scorsero l'unicorno. — Tlingel — disse uno dei sasquatch. — Credevo che tu fossi ancora nella terra del mattino. — Lo sono ancora, infatti, in un certo senso. Martin, come mai conosci i miei ex compatrioti? — Be'... uh... Grend è il mio allenatore di scacchi. — Aha! Comincio a capire. — Non ne sono proprio sicuro. Ma prima lasciate che offra a tutti da bere. Martin riaccese il piano e offrì a tutti da bere. — Come hai fatto a trovare questo posto? — chiese a Grend mentre serviva la birra. — E come avete fatto ad arrivare?
— Be'... — Grend apparve imbarazzato. — Rael ti ha seguito. — Ha seguito un jet? — I grifoni sono dotati di velocità soprannaturale. — Oh. — Poi ha raccontato ai suoi parenti e ad altri della mia gente di questo posto. Quando abbiamo visto che i grifoni erano decisi a farti visita, abbiamo pensato che sarebbe stato meglio che fossimo venuti anche noi per evitare guai. Ci hanno trasportato loro. — Capisco... interessante... — Niente di strano che in quella partita con tutte quelle varianti, giocassi come un unicorno. — Uh, si... Martin si allontanò verso l'estremità opposta del bar. — Benvenuti a tutti quanti — disse. — Ho un piccolo annuncio da farvi. Tlingel, tu hai fatto numerose osservazioni riguardo dei possibili disastri ecologici e urbani oltre che su pericoli di minore importanza. E hai anche espresso delle idee sulla possibilità di creare delle difese per impedirli. — Mi ricordo — disse l'unicorno. — Io le ho trasmesse a un amico di Washington che faceva parte del mìo vecchio circolo scacchistico. Gli ho detto che il lavoro non era tutta farina del mio sacco. — Lo spero bene. — E lui mi ha consigliato di organizzare il gruppo che aveva elaborato quei dati in un centro studi. Provvederà anche a far sì che queste consulenze vengano pagate. — Io non sono venuto qui per salvare il mondo — osservò Tlingel. — No. Ma sei stato molto utile. E Grend mi dice che i grifoni, sebbene il loro vocabolario sia alquanto limitato, sanno quasi tutto ciò che c'è da sapere sull'ecologia. — Questo è probabilmente vero. — Dal momento che loro hanno ereditato una parte della Terra, sarebbe anche di loro interesse cercare di conservare intatto questo posto. Inoltre, dal momento che ora siamo già qui riuniti in molti, posso risparmiarmi un bel po' di viaggi e suggerire fin d'ora di trovarci un luogo in cui riunirci, diciamo qui una volta al mese, così che voi potrete trasmettermi i vostri punti di vista assolutamente originali. Voi dovete saperne più di chiunque altro sulle cause che portano le specie all'estinzione. — Naturalmente — disse Grend, agitando il proprio boccale. — Ma do-
vremmo anche chiederlo allo yeti. Se vuoi, glielo chiederò io. Quella roba esce dalla grossa scatola musicale? — Sì. — Mi piace. Se combiniamo questo gruppo di studio, tu guadagnerai abbastanza da mandare avanti questo locale? — Comprerò tutta la città. Grend scambiò una gutturale conversazione coi grifoni che gli risposero con le loro vocette stridule. — Allora hai il tuo gruppo di studio — disse, — e il gruppo vuole dell'altra birra. Martin si rivolse a Tlingel. — Le osservazioni erano tue. Tu che ne dici? — Potrebbe essere divertente — rispose l'unicorno, — fermarsi qui ogni tanto. — Poi aggiunse: — E adesso salviamo anche il mondo. Non avevi detto che volevi fare un'altra partita? — Non ho niente da perdere. Grend si occupò del bar mentre Tlingel e Martin tornavano al tavolino. Batté l'unicorno in trentun mosse e poi toccò il corno proteso. I tasti del piano continuavano ad alzarsi e abbassarsi. Delle minuscole sfingi svolazzavano attorno, nel bar, e succhiavano la birra che veniva versata fuori dai boccali. LO SPACCIATORE The Pusher di John Varley The Magazine of Fantasy & FS, ottobre 1981 John Varley è uno degli autori più validi prodotti dalla sf negli ultimi anni. Varley è uno di quegli scrittori che fanno epoca, che danno una svolta all'evoluzione dei generi: un autore dotato delle necessarie conoscenze scientifiche e della rara abilità di estrapolare in tutti i campi dello scibile, nonché di un gradevole tocco linguistico e di una matura capacità d'esame della psicologia dei personaggi. Qui lo vediamo all'opera con uno dei temi più belli e classici di tutta la fantascienza: il viaggio tra le stelle e lo stacco temporale tra gli uomini che volano a velocità vicine a quelle della luce e quelli che rimangono invece a terra (ricordate la contrazione di LorentzFitzgerald e il celebre Ritorno al domani di L. Ron Hubbard?).
Le cose cambiano, e Ian Haise se l'aspettava. Tuttavia vi sono certe costanti, imposte dalla funzione e dall'uso. Ian le cercava, e sbagliava di rado. Il campo giochi non somigliava molto a quelli che aveva frequentato da piccolo. Ma i campi giochi vengono creati per divertire i bambini. Ci sarà sempre qualcosa su cui dondolarsi, qualcosa su cui scivolare, qualcosa su cui arrampicarsi. Lì cerano tutte queste cose, e molto di più. In parte era fittamente alberato. C'era una piccola piscina. Alle strutture stazionarie si aggiungevano abbaglianti statue di luce che apparivano e sparivano. C'erano anche gli animali: rinoceronti pigmei ed eleganti gazzelle che arrivavano al ginocchio. Sembravano innaturalmente docili, e non mostravano paura. Ma soprattutto, nel campo giochi c'erano i bambini. A Ian i bambini piacevano. Sedette su una panchina di legno al limitare degli alberi, nell'ombra, e li guardò. Ce n'erano quelli neri come caramelle di liquirizia animate, e c'erano quelli bianchi come coniglietti, e quelli bruni con i capelli ricci, e altri bruni con gli occhi obliqui e i capelli neri e lisci e alcuni che erano bianchi ma così abbronzati da sembrare più bruni di quelli bruni. Ian si concentrò sulle bambine. Aveva provato con i maschi, molto tempo prima, ma era stato inutile. Guardò per lunghi istanti una bambina nera, cercando di indovinarne l'età. Pensò che avesse otto, nove anni. Troppo piccola. Un'altra doveva averne tredici, a giudicare dalla camicetta. Era una possibilità, ma Ian l'avrebbe preferita più giovane. Meno sofisticata, meno sospettosa. Finalmente trovò una ragazzina che gli piaceva. Era bruna di carnagione, ma con i capelli sorprendentemente biondi. Dieci anni? Forse undici. Comunque era abbastanza giovane. Si concentrò su di lei e fece la cosa strana che faceva sempre quando aveva scelto quella giusta. Non sapeva bene che cosa fosse, ma di solito funzionava. Di solito bastava guardarla e tenere gli occhi fissi su di lei, dovunque andasse e qualunque cosa facesse, senza lasciarsi distrarre. Infatti, dopo qualche minuto la bambina alzò la testa, si guardò intorno, e i suoi occhi incontrarono quelli di Ian. Lo fissò per un momento, poi riprese a giocare. Ian si rilassò. Forse ciò che faceva non era niente di speciale. Aveva notato, con le donne adulte, che se una attirava la sua attenzione tanto che incominciava a fissarla, quasi sempre quella alzava gli occhi da ciò che stava facendo e ricambiava lo sguardo. Sembrava che il sistema non fallisse mai.
Parlando con altri uomini aveva scoperto che era un'esperienza comune. Sembrava quasi che sentissero il suo sguardo. Le donne gli avevano detto che era assurdo, o che era una semplice reazione a qualcosa visto perifericamente da persone allenate a captare i segnali sessuali. Era soltanto un'osservazione inconscia che penetrava nella coscienza: non era qualcosa di misterioso come l'ESP. Forse era così. Comunque, Ian era abilissimo in quella specie di contatto oculare. Molte volte aveva notato le bambine massaggiarsi la nuca o curvare le spalle mentre le osservava. Forse avevano sviluppato una sorta di ESP e non lo riconoscevano per ciò che era. Adesso si limitava a osservarla. Sorrideva, e perciò ogni volta che la bambina alzava la testa per guardarlo (e lo faceva sempre più spesso) vedeva un uomo dall'aria amichevole e dai capelli leggermente grigi, con il naso spezzato e le spalle poderose. Anche le mani erano forti. Le teneva strette sulle ginocchia. Dopo un po' la bambina incominciò a muoversi nella sua direzione. Nessuno, osservandola, avrebbe detto che veniva verso di lui. Probabilmente neppure lei se ne rendeva conto. Lungo il percorso, trovava ragioni per fermarsi a fare una capriola, o saltare sulle stuoie elastiche o rincorrere un branchetto d'oche starnazzanti. Ma veniva verso di lui, e sarebbe finita sulla panchina, al suo fianco. Ian si guardò intorno. Come prima, c'erano pochi adulti nel campo giochi. Evidentemente le nuove tecniche di condizionamento avevano ridotto il numero dei violenti e degli anormali, al punto che i genitori si sentivano tranquilli e lasciavano che i figli si divertissero liberamente, senza supervisione. Gli adulti presenti si occupavano dei fatti loro. Nessuno l'aveva degnato di una seconda occhiata quando era arrivato. A Ian andava bene così. Rendeva molto più facile ciò che intendeva fare. Aveva pronta una buona scusa, naturalmente: ma sarebbe stato imbarazzante trovarsi alle prese con le domande che i tutori della legge rivolgono agli uomini soli di mezza età che ronzano intorno ai campi da gioco. Per un momento si chiese, con sincera preoccupazione, com'era possibile che i genitori di quei bambini potessero sentirsi tanto fiduciosi, anche tenendo conto del condizionamento mentale. Dopotutto, nessuno veniva condizionato se prima non aveva fatto qualcosa. Presumibilmente, ogni giorno spuntavano nuovi maniaci. Ed erano eguali a tutti gli altri fino a quando non davano prova d'essere diversi compiendo un atto demente.
Qualcuno avrebbe dovuto parlare seriamente a quei genitori, pensò. — Chi sei? Ian aggrottò la fronte. Non aveva undici anni, sicuramente, ora che la vedeva da vicino. Forse non aveva neppure dieci anni. Forse ne aveva soltanto otto. Otto anni sarebbero andati bene? Esaminò l'idea con la solita cautela, si guardò di nuovo intorno per scoprire se qualcuno l'osservava incuriosito. Non vide nessuno. — Mi chiamo Ian. E tu? — No. Non ho chiesto il tuo nome. Chi sei? — Vuoi dire che cosa faccio? — Sì. — Sono uno spacciatore. La bambina ci pensò sopra e sorrise. Aveva i denti permanenti, affollati in una mascella minuta. — Vendi le droghe? Ian rise. — Brava — disse. — Devi leggere molto. — La bambina non disse nulla, ma si vedeva che era lusingata. — No — disse lui. — Quello è un vecchio tipo di spacciatore. Io sono dell'altro tipo. Ma lo sapevi, vero? — Quando le sorrise lei scoppiò in un risolino e mosse le mani in quei gesti senza scopo che sono tipici delle bambine. Ian pensò che doveva sapere bene d'essere carina, ma non aveva idea del suo erotismo proibito. Era un seme maturo di sessualità pronto ad esplodere. Il suo corpo era un abbozzo ossuto, un'intelaiatura sulla quale costruire una donna. — Quanti anni hai? — le chiese. — È un segreto. Cos'hai fatto al naso? — Me lo sono rotto molto tempo fa. Scommetto che hai dodici anni. La bambina ridacchiò, poi annuì. Undici, quindi. E appena compiuti. — Vuoi una caramella? — Ian si frugò nella tasca e tirò fuori un sacchetto di carta a righe bianche e rosa. Lei scosse la testa con aria solenne. — La mamma mi ha detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti. — Ma io non sono uno sconosciuto. Sono Ian, lo spacciatore. La bambina ci pensò sopra. Mentre lei esitava, Ian pescò nel sacchetto ed estrasse una caramella al cioccolato, così grossa e soffice da essere quasi oscena. L'addentò, s'impose di masticare. Odiava i dolciumi.
— E va bene — disse la bambina, tendendo la mano verso il sacchetto. Ian lo tirò indietro, e lei lo guardò con aria d'innocente stupore. — Mi è venuta in mente una cosa — disse lui. — Non conosco il tuo nome. Quindi siamo davvero sconosciuti. La bambina stette al gioco, quando vide che gli brillavano maliziosamente gli occhi. Lui si era allenato, e gli riusciva sempre bene. — Mi chiamo Radiant. Radiant Shiningstar Smith. — Un nome bellissimo — disse lui, pensando che i nomi erano molto cambiati. — Per una bimba tanto carina. — S'interruppe e inclinò la testa. — No. Non credo. Tu sei Radiant... Starr. Con due r. La capitana Radiant Starr, della Pattuglia Stellare. Per un momento la bambina restò dubbiosa, e Ian si chiese se aveva sbagliato nel giudicarla. Forse, in realtà, era Mizz Radiant Faintingheart Belle, o Mrs. Radiant Motherhood. Ma aveva le unghie un po' sporche, per esserlo. La bambina gli puntò contro l'indice ed emise uno squittio muovendo il pollice avanti e indietro. Ian si portò una mano sul cuore e si lasciò cadere di traverso sulla panchina, e lei scoppiò a ridere. Ma continuava a tenergli puntata contro l'arma. — E fai in fretta a darmi la caramella, o ti sparo ancora. Nel campo giochi era un po' più buio, adesso, e c'era meno folla. La bambina gli stava seduta accanto sulla panchina e faceva dondolare le gambe. I piedi nudi non toccavano terra. Sarebbe diventata molto bella. Glielo vedeva in viso, chiaramente. In quanto al corpo... chi poteva saperlo? A lui, comunque, non importava niente. Era vestita un po' di questo e un po' di quello, portati addosso qua e là senza molti riguardi per i concetti di pudore che Ian nutriva ancora. Molti bambini non avevano addosso nulla. Era stato un po' uno shock, quand'era arrivato. Adesso s'era quasi abituato, ma pensava ancora che fosse un'imprudenza, da parte dei genitori. Credevano davvero che il mondo fosse tanto sicuro, per permettere che una ragazzina undicenne frequentasse un luogo pubblico praticamente nuda? Rimase ad ascoltarla mentre gli parlava dei suoi amici, quelli che detestava e quei pochi, uno o due, che adorava letteralmente; ma l'ascoltava soltanto con una parte dell'attenzione. E interveniva soltanto con «uhm» e «uh-uh» al momento giusto.
Era carina, non si poteva negarlo. Sembrava dolce come lo è sempre una bambina di quell'età, che può essere dolcissima e velenosa come un serpente a sonagli, quasi nello stesso momento. Aveva la capacità di mostrare calore umano, ma soltanto in superficie. Sotto sotto, si curava soprattutto di se stessa. La sua fedeltà doveva essere qualcosa di transitorio, concesso facilmente e dimenticato con la stessa facilità. E perché no? Era giovanissima. Era perfettamente normale che fosse così. Ma lui avrebbe osato toccarla? Era pazzesco. Era demenziale come gli dicevano tutti. Funzionava così di rado. Perché doveva funzionare con lei? Ian si sentiva oppresso dal peso della sconfitta. — Ti senti bene? — Uh? Io? Oh, sicuro. Mi sento benissimo. La tua mamma non sarà in pensiero per te? — Non devo rientrare ancora per ore ed ore. — Per un momento, lei assunse un'aria così da adulta che Ian quasi credette alla bugia. — Bene, mi sono stancato di stare qui seduto. E non ci sono più dolci. — Ian la guardò. Quasi tutta la cioccolata le era finita in un grande cerchio intorno alla bocca, tranne nei punti dove s'era pulita graziosamente sulla spalla o sul braccio. — Cos'è, quello laggiù? Lei si voltò. — Quella? È la piscina. — Perché non andiamo là? Ti racconterò una bella storia. La promessa di una bella storia non bastò per impedirle di immergersi nell'acqua. Ian non sapeva se era un bene o un male. Sapeva che era una ragazzina sveglia, e leggeva, e aveva una forte immaginazione. Ma era anche attiva. L'attrazione era troppo forte, per lui. Sedette lontano dall'acqua, sotto un cespuglio, e la guardò nuotare in compagnia degli altri tre bambini che erano rimasti nel parco nonostante l'ora tarda. Forse sarebbe tornata da lui, e forse no. Non avrebbe cambiato in alcun modo la sua vita, ma forse avrebbe cambiato la vita di lei. La bambina emerse, sgocciolante e infinitamente più pulita, dall'acqua torbida. Indossò di nuovo i suoi straccetti, per quel che potevano servire, e tornò da lui rabbrividendo. — Ho freddo — gli disse. — Ecco. — Ian si tolse la giacca. La bambina gli guardò le mani mentre
gliel'avvolgeva addosso, e si tese a toccargli la spalla. — Devi essere molto forte — commentò. — Abbastanza. Lavoro parecchio, perché sono uno spacciatore. — Cos'è esattamente uno spacciatore? — chiese lei, soffocando uno sbadiglio. — Siediti sulle mie ginocchia e te lo dirò. Glielo disse, ed era una storia bellissima alla quale nessuna bambina dotata di spirito avventuroso poteva resistere. Ian aveva studiato bene quella storia, l'aveva perfezionata, l'aveva ripetuta molte volte al registratore fino a quando aveva trovato i ritmi e le cadenze più adatti, fino a quando aveva trovato le parole giuste... parole non troppo difficili, ma piene di sostanza e di fuoco. Ancora una volta si sentì incoraggiato. La bambina era stanca, quando lui aveva incominciato, ma poco a poco la sua attenzione s'era ridestata. Poteva darsi che nessuno le avesse mai raccontato una storia in quel modo. Era abituata a sedersi davanti a uno schermo, mentre una storia veniva imposta ai suoi occhi e ai suoi orecchi. Era una novità, poter interrompere per fare domande, e ottenere le risposte. Persino la lettura non era così. Era la tradizione orale dei narratori di storie, e poteva ancora ipnotizzare l'ennesima generazione dell'era elettronica. — È magnifica — disse lei, quando fu sicura che era finita. — Ti è piaciuta? — Sì, moltissimo. Credo che anch'io vorrò diventare una spacciatrice, quando sarò grande. È una storia bellissima. — Be', non è proprio la storia che volevo raccontarti. Ti ho solo spiegato cosa significa essere uno spacciatore. — Vuoi dire che hai un'altra storia da raccontare? — Sicuro. — Ian guardò l'orologio. — Ma ho paura che si stia facendo tardi. È quasi buio e tutti sono andati a casa. Forse è meglio che vada anche tu. La bambina era incerta, tra ciò che doveva e ciò che voleva fare. Il risultato non doveva essere in dubbio, se era veramente ciò che pensava Ian. — Bene... ma... ma domani tornerò e tu... Lui stava scuotendo la testa. — La mia nave riparte domattina — disse. — Non c'è tempo. — Allora raccontamela adesso! Posso restare fuori fino a tardi. Raccontamela. Ti prego ti prego ti prego.
Ian resistette, astutamente, tossicchiò, protestò, ma alla fine si lasciò convincere. Era molto piacevole. L'aveva presa all'amo come una trota da due chili con una lenza da dieci. Non era sportivo. Ma del resto lui non stava giocando. E così, finalmente, Ian arrivò alla sua specialità. Qualche volta avrebbe desiderato che quella storia fosse davvero sua; ma in realtà non sapeva inventarle. Non tentava più di farlo. Invece, plagiava tutte le fiabe e le storie fantastiche che riusciva a trovare. Se possedeva una dote geniale, consisteva nell'adattare alcuni degli elementi perché si adeguassero al mondo che lei conosceva, pur mantenendo la storia su un piano di stranezza sufficiente per affascinarla, e nel modificare il finale per personalizzarlo. Era una storia meravigliosa. C'erano castelli incantati in vetta a montagne di vetro, caverne sottomarine, flotte di astronavi e cavalieri splendenti in groppa a cavalli che volavano attraverso la galassia. C'erano alieni malvagi, e c'erano alieni buoni. C'erano pozioni drogate. E c'erano mostri squamosi che si avventavano dall'iperspazio per divorare i pianeti. E in quel turbine giganteggiavano il Principe e la Principessa. Si cacciavano in situazioni terribili e si aiutavano l'un l'altra a venirne fuori. La storia non era mai la stessa. Ian le osservava gli occhi. Quando vagavano, scartava interi episodi della vicenda. Quando si sgranavano, sapeva quali parti doveva inserire più tardi. La confezionava a misura delle reazioni della bambina. La bambina era insonnolita. Prima o poi si sarebbe arresa. Ian aveva bisogno che entrasse in uno stato di trance, né sveglia né addormentata. E allora la storia sarebbe finita. — E per quanto i guaritori s'impegnassero a lungo, non poterono salvare la Principessa. Morì nella notte, lontano dal suo Principe. La bocca della bambina era atteggiata in una piccola o rotonda. Le storie non dovevano finire cosi. — È tutto qui? Lei è morta, e non ha mai più rivisto il Principe? — Ecco, non è proprio tutto. Ma il resto probabilmente non è vero, e non dovrei raccontartelo. — Ian si sentiva piacevolmente stanco. Aveva la gola un po' indolenzita e la voce era diventata roca. Radiant era un peso caldo sulle sue ginocchia. — Devi raccontarmelo, sai — disse lei in tono ragionevole. Ian pensò
che aveva ragione. Trasse un profondo respiro. — E sta bene. Ai funerali erano presenti tutti i personaggi più illustri di quella parte della galassia. E tra gli altri c'era il più grande Mago che fosse mai esistito. Si chiamava... ma non devo dirti il suo nome. Sono sicuro che si offenderebbe moltissimo, se te lo dicessi. «Dunque, questo Mago passò accanto al feretro della Principessa... Il feretro è un... — Lo so, lo so, Ian. Continua! All'improvviso aggrottò la fronte e si chinò su di lei. — Cos'è questo? — tuonò. «Perché nessuno me l'ha detto?» Tutti erano molto allarmati. Il Mago era un uomo pericoloso. Una volta, quando certe persone l'avevano insultato, aveva lanciato un sortilegio che aveva girato le loro teste all'indietro, e così erano costrette ad andare in giro con gli specchietti retrovisori. Nessuno sapeva cosa sarebbe stato capace di fare, se si fosse infuriato davvero. — La Principessa porta la Pietra Stellare — disse. Si raddrizzò, e si guardò intorno come se fosse circondato da idioti. Sicuramente era ciò che pensava, e forse aveva ragione. Perché spiegò loro che cos'era la Pietra Stellare, e che cosa faceva, e nessuno ne aveva mai sentito parlare. E questa è la parte di cui non sono sicuro, perché sebbene tutti sapessero che il Mago era saggio e potente, sapevano anche che era un gran bugiardo. «Disse che la Pietra Stellare era in grado di catturare l'essenza d'una persona al momento della morte. Tutta la sua sapienza e il potere e la bellezza e la conoscenza e la forza affluivano nella pietra e rimanevano lì per l'eternità. — In animazione sospesa — mormorò Radiant. — Precisamente. Quando sentirono queste parole, tutti si stupirono. Tempestarono il Mago di domande, ma lui diede poche risposte, e controvoglia. Poi se ne andò in gran fretta. Allora tutti discussero fino a notte inoltrata ciò che aveva detto. Alcuni pensavano che il Mago avesse dato la speranza che la Principessa potesse rivivere. Perciò, se il suo corpo fosse stato ibernato, il Principe, al suo ritorno, forse sarebbe riuscito a trasfondere di nuovo l'essenza nella sua persona. Altri erano convinti che il Mago avesse detto che questo era impossibile e che la Principessa era condannata ad una vita parziale, imprigionata nella pietra. «Tuttavia l'opinione che prevalse fu questa: «Probabilmente la Principessa non sarebbe mai ritornata del tutto in vita. Ma la sua essenza poteva fluire dalla Pietra Stellare in un'altra persona, se
fosse stato possibile trovarla. Tutti erano d'accordo che doveva trattarsi di una fanciulla: e doveva essere bella, molto intelligente, svelta, affettuosa, buona... oh, l'elenco era lunghissimo. Tutti dubitavano che si potesse trovare una persona così. Molti non volevano neppure cercarla. «Ma finalmente fu deciso che la Pietra stellare doveva essere affidata a un fedele amico del Principe. Lui avrebbe cercato la fanciulla in tutta la galassia. Se esisteva, l'avrebbe trovata. «Perciò egli partì accompagnato dalle benedizioni di molti mondi, e giurò di trovare la fanciulla e di darle la Pietra Stellare. Ian s'interruppe di nuovo, si schiarì la gola e lasciò che il silenzio si prolungasse. — È tutto? — chiese finalmente Radiant, sottovoce. — Non è tutto — ammise lui. — Purtroppo ti ho imbrogliata. — Mi hai imbrogliata? Ian aprì la giacca che era ancora drappeggiata sulle spalle della bambina, insinuò la mano all'interno senza toccarle il petto ossuto e frugò nella tasca. Estrasse un cristallo. Era ovale, con un lato piatto. E palpitava d'una luce di rubino nel palmo della sua mano. — Brilla — disse Radiant, guardandolo ad occhi sgranati e a bocca aperta. — Sì, brilla. Vuoi dire che sei tu. — Io? — Sì, prendilo. — Ian glielo porse, e in quel momento lo scalfì con l'unghia del pollice. La luce rossa si riversò nelle mani della bambina, fluì tra le sue dita, sembrò penetrare nella sua pelle. Quando finì, il cristallo continuò a pulsare, ma d'una luce più fievole. Le mani di Radiant tremavano. — È caldissimo — mormorò lei. — Era l'essenza della Principessa. — E il Principe? La sta ancora cercando? — Nessuno lo sa. Io credo che ci sia ancora, e che un giorno tornerà da lei. — E allora cosa succederà? Ian distolse lo sguardo. — Non lo so. Credo, anche se tu sei incantevole e anche se hai la Pietra Stellare, che si struggerà. L'amava moltissimo. — Io mi prenderei cura di lui — promise Radiant. — Forse questo servirebbe a qualcosa. Ma ora ho un problema. Non ho il coraggio di dire al Principe che lei è morta. Eppure sento che un giorno la Pietra Stellare l'attirerà a sé. Se verrà e ti troverà... ho paura per lui. Cre-
do che forse dovrei portare la pietra in una parte remota della Galassia, in un luogo dove non potrà mai trovarla. Allora, almeno, non saprà mai. Forse è meglio così. — Ma io l'aiuterei — disse la bambina, di slancio. — Lo prometto. L'aspetterei e, quando venisse, prenderei il posto della Principessa. Vedrai. Ian la studiò. Forse l'avrebbe fatto davvero. La guardò a lungo negli occhi, e finalmente lasciò trapelare la sua soddisfazione. — D'accordo. Allora puoi tenerla. — Lo aspetterò — disse Radiant. — Vedrai. Era stanchissima, quasi addormentata. — Ora dovresti andare a casa — propose Ian. — Magari potrei sdraiarmi un momento — disse lei. — Come vuoi. — La sollevò delicatamente e l'adagiò prona a terra. Rimase in piedi a guardarla, poi s'inginocchiò accanto a lei e incominciò ad accarezzarle adagio la fronte. Radiant aprì gli occhi, senza mostrarsi allarmata, e li richiuse. Continuò ad accarezzarla. Venti minuti dopo lasciò il campo giochi. Solo. Si sentiva sempre depresso, dopo. Questa volta era anche peggio. Lei era stata anche più dolce di quanto avesse immaginato all'inizio. Chi avrebbe creduto che avesse un cuore così romantico sotto tutto quel sudiciume? A qualche isolato di distanza trovò una cabina telefonica. Batté il nome di Radiant e il servizio informazioni diede un numero di quindici cifre. Lo chiamò. Tenne la mano sull'occhio della telecamera. Sullo schermo apparve un volto di donna. — Sua figlia è al campo giochi, dalla parte sud accanto alla piscina, sotto i cespugli — le disse. Diede l'indirizzo del campo giochi. — Eravamo tanto in pensiero! Che cosa è... Chi parla...? Ian riattaccò e si allontanò in fretta. Quasi tutti gli altri spacciatori pensavano che fosse malsano. Non che avesse importanza. Gli spacciatori erano tolleranti, nei confronti degli altri spacciatori, soprattutto quando si trattava di ciò che uno spacciatore poteva aver voglia di fare a uno che non era di loro. Si rammaricava di aver raccontato ad altri come passava le licenze, ma l'aveva fatto, e adesso doveva sopportare le conseguenze. E perciò, sebbene se ne infischiassero anche se lui si divertiva a strap-
pare le braccia e le gambe a quelli che non erano spacciatori, erano tutti appena tornati dalla licenza a terra e non potevano lasciarsi sfuggire l'occasione di darsi reciprocamente sui nervi. Lo presero in giro senza misericordia. — Com'è andata alle altalene questa volta, lan? — Mi hai portato quel paio di mutandine sporche che ti ho chiesto? — È stato piacevole? E lei ansimava e sbavava? — La mia bimba di dieci anni, mi fa venir voglia di tornare a casa... Ian sopportava tutto stoicamente. Era di pessimo gusto, e lui era il bersaglio, ma per la verità non aveva importanza. Sarebbe finito subito dopo il decollo. Loro non avrebbero mai capito che cosa cercava, ma Ian sentiva di capirli. Odiavano venire sulla Terra. Lì non c'era niente per loro, e forse avrebbero desiderato che ci fosse qualcosa. E del resto, anche lui era uno spacciatore. Non aveva simpatia per gli altri. Era d'accordo con il sentimento espresso da Marian, subito dopo il decollo. Marian aveva appena concluso la sua prima licenza a terra, dopo il suo primo viaggio. Perciò, naturalmente, era più ubriaca di tutti gli altri. — Rimbecilliti dalla gravità — disse lei, e vomitò. Tre mesi per arrivare ad Amity, e tre mesi per tornare. Ian non aveva la più vaga idea di quale fosse la distanza calcolata in miglia: dopo il decimo o l'undicesimo zero la sua mente si arrendeva. Amity. Merdopoli. Non scese neppure dalla nave. Perché prendersi quel disturbo? Il pianeta era popolato da cosi che sembravano un po' bruchi da dieci tonnellate e un po' escrementi verdi. Le toelette erano un'idea rivoluzionaria per gli amitiani, e lo erano anche le gelaterie, i sorbetti, le ciambelle zuccherate e la menta piperita. Gli impianti igienici non avevano mai attecchito, ma i dolciumi sì, e i dessert di lusso di tutte le nazioni della Terra. Oltre a quel carico, c'era una borsa di posta consolante per la desolata ambasciata umana. Il carico per il viaggio di ritorno era una brodaglia grigia che qualcuno, sulla Terra, doveva giudicare tremendamente preziosa, e una borsa di lettere disperate per quelli di casa. Ian non aveva bisogno di leggere le lettere per sapere cosa c'era scritto. Tutte si potevano riassumere allo stesso modo: «Portatemi via da qui!» Ian rimase accanto all'oblò e guardò una famiglia di amitiani che avanzava pesantemente, scorreggiando, lungo la strada dello spazioporto. Ogni tanto si fermavano per fare qualcosa che sembrava un'ammucchiata collettiva aliena. La strada era marrone. Il terreno circostante era marrone e in
lontananza c'erano colline marroni. C'era una foschia marrone nell'aria e il sole era giallo-bruno. Lui pensò ai castelli in vetta a montagne di cristallo, a Principi e Principesse, a fulgidi cavalli bianchi che galoppavano tra le stelle. Trascorse il viaggio di ritorno come aveva trascorso quello d'andata: sudando nei tubi ciclopici del motore stellare. Al di là delle paratie metalliche palpitavano energie inimmaginabili. E sulle paratie i minuscoli plasmoidi crescevano e diventavano plasmoidi più grandi. Era un processo troppo lento perché fosse osservabile, ma se fossero rimaste incontrollate, le incrostazioni avrebbero menomato molto presto i motori. Il suo compito consisteva nel grattarle via. Non tutti erano tagliati per fare l'astrogatore. E con ciò? Era un lavoro onesto. Ian aveva compiuto la sua scelta molto tempo prima. Si passava la vita a sopportare la gravità, oppure a spacciarla. E quando eri stanco, agguantavi qualche z. Se c'era un codice degli spacciatori, era quello. I plasmoidi erano rossi e cristallini, a forma di goccia. Quando si staccavano dalle paratie, uno dei lati era piatto. Erano pieni di una luce liquida che sembrava calda come il centro del sole. Era sempre difficile scendere dalla nave. Molti spacciatori non lo facevano mai. Un giorno avrebbe smesso di farlo anche lui. Per qualche istante rimase fermo a guardare tutto. All'inizio era necessario assorbire tutto passivamente, per abituarsi ai cambiamenti. I grandi cambiamenti non lo preoccupavano. Gli edifici erano soltanto il mobilio del mondo, e non gl'importava come fossero disposti. Ma i piccoli cambiamenti lo preoccupavano a morte. Gli orecchi, per esempio. Pochissime delle persone che vedeva avevano i lobi. Ogni volta che ritornava si sentiva un po' più simile a uno scimmione caduto dal suo albero. Un giorno sarebbe ritornato e avrebbe scoperto che tutti avevano tre occhi o sei dita, o che alle bambine non piaceva più ascoltare le storie avventurose. Rimase immobile, esitante, abituandosi al modo in cui la gente si dipingeva la faccia, ascoltando una lingua che sembrava spagnolo, con qualche parola inglese o araba. Prese per il braccio un collega e gli chiese dov'erano. L'uomo non lo sapeva. Perciò lo chiese alla comandante, e lei rispose che erano in Argentina. O almeno, era l'Argentina quando erano partiti.
Le cabine telefoniche erano più piccole. Ian si chiese perché. C'erano quattro nomi nella sua agenda. Sedette fissando il telefono e domandandosi quale avrebbe dovuto chiamare per primo. I suoi occhi furono attratti da Radiant Shiningstar Smith, e batté quel nome sui tasti. In risposta ebbe un numero e un indirizzo di Novosibirsk. Controllò l'orario che aveva portato con sé, prima di fare la chiamata, e scoprì che lo shuttle per gli antipodi partiva di lì a un'ora. Poi si asciugò le mani sui calzoni, trasse un profondo respiro, alzò gli occhi e la vide ferma davanti alla cabina telefonica. Si fissarono in silenzio per un momento. Lei vide un uomo molto più basso di quanto ricordasse, ma poderoso, con le mani grandi e le sballe robuste e una faccia butterata che sarebbe stata sgradevole per chiunque non avesse un animo gentile. Lui vide una donna alta, sulla quarantina, e bella esattamente come si aspettava che fosse. La mano del tempo aveva appena incominciato a sfiorarla. Ian pensò che probabilmente aveva qualche problema per conservare la vita snella e si preoccupava per le prime rughe, ma tutto questo non gl'importava. C'era una sola cosa che gl'importava, e prestissimo avrebbe saputo. — Tu sei Ian Haise, non è vero? — chiese finalmente lei. — È stata una pura fortuna che mi ricordassi di te — stava dicendo lei. Ian notò la scelta delle parole. Avrebbe potuto dire «coincidenza». — È stato due anni fa. Stavamo per traslocare di nuovo e stavo scegliendo la roba da portar via quando ho trovato il plasmoide. Non avevo più pensato a te da... oh, dovevano essere quindici anni. Ian disse qualcosa di vago. Erano in un ristorante, lontano da quasi tutti gli altri avventori, in un separé accanto a una vetrata oltre la quale le astronavi venivano portate avanti e indietro sulle rampe di lancio. — Spero di non averti causato fastidi — disse lui. Lei alzò le spalle. — Qualcuno, ma è passato tanto tempo. Non posso certo serbare rancore per tanti anni. E il fatto è che a quel tempo pensavo che ne valesse la pena. Gli raccontò dello scalpore che aveva causato in famiglia, delle visite della polizia, le domande, le perplessità, l'impotenza conclusiva. Nessuno sapeva cosa pensare di ciò che lei aveva raccontato. Lo avevano identificato abbastanza rapidamente, ma avevano accertato che aveva lasciato la Terra e non sarebbe tornato per molto, molto tempo. — Non avevo trasgredito nessuna legge — disse Ian. — È ciò che nessuno riusciva a capire. Dissi che mi aveva parlato e mi avevi raccontato una lunga storia, e io mi ero addormentata. Nessuno mo-
strava il minimo interesse per la storia. Così non gliela riferii. E non parlai della... della Pietra Stellare. — Lei sorrise. — Per la verità era un sollievo che non l'avessero chiesto. Ero decisa a non dirglielo, ma avevo un po' paura a nascondere tutto. Pensavo che fossero agenti dei... chi erano i cattivi della tua storia? L'ho dimenticato. — Non è importante. — Già. Ma qualcosa lo è. — Sì. — Forse dovresti dirmi che cos'è. Forse puoi rispondere all'interrogativo che è rimasto in fondo alla mia mente per venticinque anni, da quando scoprii che quello che mi avevi dato era un'incrostazione di un motore d'astronave. — Non era altro? — chiese lui guardandola negli occhi. — Non fraintendermi. Non sto dicendo che era qualcosa di più. Sto chiedendo a te se non lo era. — Sì, credo che fosse qualcosa di più — rispose lei, alla fine. — Ne sono contento. — Ho creduto appassionatamente a quella storia per... oh, per anni e anni. Poi ho smesso di crederci. — All'improvviso? — No. Gradualmente. Non mi ha fatto soffrire molto. Credo facesse parte del fatto di diventare adulta. — E ti sei ricordata di me. — Ecco, questo ha richiesto un certo impegno. Andai da un ipnotista, quando avevo venticinque anni, e ricordai il tuo nome e il nome della tua nave. Sapevi...? — Sì. Te li avevo detti di proposito. Lei annuì. Tacquero di nuovo. Quando lei tornò a guardarlo, Ian vide una maggiore comprensione, un atteggiamento meno difensivo. Ma c'era ancora una domanda. — Perché? — chiese lei. Ian annuì, e distolse gli occhi, guardò le astronavi. Si augurò d'essere a nordo d'una di esse, a spacciare la gravità. Ma non serviva. Sapeva che non serviva a niente. Per lei era un problema bizzarro, qualcosa da chiarire, una questione in sospeso nella sua vita che l'avrebbe irritata fino a quando non avesse potuto spiegarselo, per dimenticarla. Al diavolo. — La speranza di un'avventura sentimentale — disse Ian. Quando la
guardò, lei stava scuotendo lentamente la testa. — Non scherzare con me, Haise. Non sei stupido come sembri. Sapevi che mi sarei sposata, che avrei avuto la mia vita. Sapevi che non avrei abbandonato tutto a causa di una favola semidimenticata di trent'anni fa. Perché? E come poteva spiegarglielo? — Che cosa fai? — Ian rammentò qualcosa e formulò la domanda in modo diverso. — Chi sei? Lei lo guardò, sorpresa. — Sono mistellologa. Ian allargò le mani. — Non so neppure che cosa sia. — Ora che ci penso, quando partisti tu la professione non esisteva. — Ecco, è questo, in un certo senso — disse lui. Si sentiva di nuovo frastornato. — Ovviamente, non avevo modo di sapere che cosa avresti fatto, che cosa saresti diventata, cosa sarebbe stato di te. Puntavo tutto sulla possibilità che mi ricordassi. Perché così... — Ian vide ancora una volta il pianeta Terra che giganteggiava nello spazio, oltre l'oblò. Tanti, tanti anni, eppure erano trascorsi appena sei mesi. Un pianeta pieno di sconosciuti. Non aveva nessuna importanza che Amity fosse pieno di sconosciuti. Ma la Terra era la patria, se pure quella parola aveva ancora un significato per lui. — Volevo qualcuno della mia età con cui parlare — disse. — Ecco tutto. Non voglio altro che un amico. Si accorse che lei si stava sforzando di capire. Non poteva capirlo, ma forse ci sarebbe arrivata abbastanza vicina da illudersi di aver compreso. — Forse ne hai trovata una — disse lei, e sorrise. — Almeno, voglio imparare a conoscerti meglio, considerando tutto lo sforzo e l'impegno che ci hai messo. — Non è stato un grande sforzo. A te sembra una cosa a lungo termine, ma per me non lo è stata. Ti ho tenuta sulle ginocchia appena sei mesi fa. — Quanto dura la tua licenza? — chiese lei. — Due mesi. — Ti piacerebbe venire a stare per un po' con noi? In casa nostra c'è posto. — A tuo marito non dispiacerà? — Né a mio marito né a mia moglie. Eccoli seduti laggiù: fanno finta di non vederci. — Ian guardò, e incontrò lo sguardo di una donna sulla trentina. Era seduta di fronte a un uomo che aveva l'età di Ian, e che si voltò a guardarlo con un certo sospetto ma senza ostilità. La donna sorrideva;
l'uomo si riservava il giudizio. — Radiant aveva una moglie. Be', i tempi cambiano. — Quelle due con le gonne rosse sono della polizia — stava dicendo Radiant. — E anche l'uomo vicino al muro, e l'altro in fondo al bar. — Ne avevo riconosciuti due — disse Ian. Quando lei lo guardò sorpresa, soggiunse: — I poliziotti hanno sempre quella certa aria. È una delle cose che non cambiano mai. — Hai incominciato molto tempo fa, non è vero? Scommetto che hai tante storie interessanti da raccontare. Ian rifletté e annui. — Sì, qualcuna. Credo. — Dovrei dire a quelli della polizia che possono andarsene. Spero che non ti sia offeso se li avevamo chiamati. — No, naturalmente. — Glielo dirò, e poi potremo andare. Oh, e penso che dovrei chiamare i bambini e avvertirli che presto arriveremo a casa. — Lei rise, e gli sfiorò la mano. — Hai visto quante cose possono succedere in sei mesi? Io ho tre figli, e Gillian ne ha due. Ian alzò la testa, interessato. — E qualcuna è una bambina? ANIME Souls di Joanna Russ The Magazine of Fantasy & SF, gennaio 1982 Joanna Russ, scrittrice e professoressa universitaria, è una delle personalità più discusse e controverse di tutta la letteratura fantascientifica. Femminista accanita e militante la Russ si è sempre fatta notare per opere di rottura come ad esempio il suo celebre romanzo The Female Man (1975), che condanna fortemente la condizione della donna sulla Terra. Vincitrice di un premio Nebula nel 1972 con il racconto «When It Changed», la Russ è tuttavia anche una delle migliori autrici di questo genere letterario e questo Anime, toccante storia di una santa dell'epoca medievale che era molto più di quanto sembrasse, ci mostra al meglio le sue grandi doti narrative. Privata d'altri banchetti invitai me stessa...
Emily Dickinson Questa è la storia della badessa Radegunde e di ciò che accadde quando vennero i norvegesi. Non la racconto come mi fu raccontata, ma come la vidi io, perché allora ero un bambino e la badessa mi teneva come fattorino prediletto, anche se la vecchia e severa madre guardiana, Cunigunt, che era sopravvissuta alla precedente badessa, diceva che io stavo più nell'abbazia che fuori, e che era uno scandalo. Ma la badessa si limitava a rispondere con fare mite: — Cara Cunigunt, uno scandalo a sette anni? — e così la buttava in scherzo, perché sapeva com'era odiosa la mia nuova matrigna, e mio padre non si curava di me, e io non avevo fratelli né sorelle. Dovete capire che scherzare e chiamare gli altri «caro» e «cara» era un suo modo di fare: sotto ogni punto di vista era una donna eccezionale. La precedente badessa, Herrade, aveva scoperto che Radegunde, che le era stata affidata perché l'allevasse, aveva grandi doti, e perciò l'aveva mandata nel meridione per farla studiare, e questo non era mai successo prima da noi. Si racconta che la badessa Herrade aveva trovato Radegunde nel suo studio, intenta a leggere, sembrava, un grande volume miniato; la bambina l'aveva tirato giù dal leggio e sedeva sul pavimento tenendolo sulle ginocchia; si succhiava il pollice e con l'altra mano girava le pagine come se leggesse davvero. — Piccola — disse la badessa Herrade, che era una donna gentile, — che cosa stai facendo? — Immagino le sembrasse divertente che Radegunde, a due anni, fingesse di leggere quel volume, il più grosso e il più bello dell'abbazia, che pure aveva molti più libri di qualunque altro monastero o convento che abbia mai sentito parlare: ne aveva ben quaranta, ricordo. E del resto, la piccola Radegunde non lo stava rovinando. — Leggo, madre — rispose la bambina. — Oh, leggi? — disse sorridendo la badessa. — Allora spiegami cosa stai leggendo — e indicò la pagina. — Questa — disse Radegunde, — è una D maiuscola circondata da fiori e tante altre cose belle, per mostrare che Dominus, il Signore, è la cosa più grande e più bella, e fa crescere ogni cosa e l'abbellisce; e dice Domine da nobis pacem, che significa «Donaci la pace, Signore». La badessa incominciò ad allarmarsi, ma chiese soltanto: — Chi te l'ha mostrato? — Pensava che Radegunde avesse sentito qualcuno leggere le parole, o l'avesse chiesto alle suore, di nascosto. — Nessuno — rispose la bambina. — Devo continuare? — E lesse pa-
gine e pagine in latino, spiegando cosa significavano le parole. La storia non è tutta qui; ma dirò soltanto che, dopo molte preghiere, la badessa Herrade mandò la figlia adottiva molto lontano, a sud, addirittura a Poitiers, dove un tempo santa Radegunde aveva governato un'abbazia, e alcuni dicono persino a Roma; e laggiù Radegunde imparò tutto ciò che si può imparare, perché tutto il sapere del mondo è rimasto conservato in quei luoghi. Radegunde ritornò quando ormai era una donna, e assistette la badessa durante le sua ultima malattia, e diventò badessa a sua volta. Dicono che i grandi della Chiesa, laggiù al sud, avrebbero voluto tenerla tra loro, perché era un prodigio di pietà e di sapienza, e là la vita era sicura e comoda, e meno disagevole di quanto sia qui; ma lei diceva che i cieli grigi e gli inverni piovosi del suo luogo natale erano un richiamo per la sua anima. Mi raccontò spesso la storia, quando ero piccolo: mi disse che s'era mostrata testarda e decisa, e aveva sofferto tanto la nostalgia della sua patria che alla fine l'avevano rimandata indietro, pensando che una vita dura nel fango d'un villaggio del nord sarebbe stata una buona cura per un'anima tanto ribelle. — E così fu — mi diceva, accarezzandomi la guancia o tirandomi un orecchio. — Vedi come sono umile adesso? — Perché dovete capire che tutti quei discorsi sulla sua giovinezza ribelle di vent'anni prima erano una specie di scherzo tra di noi. — Non farlo anche tu — mi diceva, e ridevamo insieme; e io ridevo tanto all'idea di diventare un pio e dotto monaco che mi tenevo i fianchi e non riuscivo a parlare. Era buona con tutti. Conosceva tutte le lingue, non soltanto la nostra, ma anche l'irlandese e le lingue che si parlano al nord e al sud, e anche il latino e il greco, e tutte le altre del mondo, e le sapeva anche leggere e scrivere. Sapeva curare le malattie, sia con i sistemi delle vecchie, con le erbe e le mignatte, sia con i libri. E non si era mai vista una donna più pia! Certuni parlano male di lei, adesso che non c'è più; e dicevano che era troppo allegra per essere una buona badessa, ma lei rispondeva: — L'allegrezza è i fiori di Dio — e quando d'inverno una volta il vento le storse la cuffia e le scoprì i capelli grigi (successe mentre c'ero anch'io, e vidi le facce scandalizzate delle suore che erano con lei) si limitò a rimetterla a posto con un sorriso, e disse: — Vento sfacciato! Dimostri di avere forza più grande di quella di noi stolti umani, perché ti viene da Dio. — E questo commento fece sorridere le suore. Nessuno l'aveva mai vista arrabbiata. Qualche volta si spazientiva, ma bonariamente, come se avesse la mente altrove. L'aveva in Paradiso, pen-
savo, perché l'ho vista pregare per ore, o gettarsi in ginocchio, in mezzo alla palude, mentre guardava le anatre selvatiche che volavano verso sud, con le mani giunte e una sorta di grande gioia sul viso; e un momento dopo si rialzava, si guardava l'abito infangato e gridava, un po' dispiaciuta e un po' ridendo: — Oh, cosa mi dirà la suora lavandaia? Sono incorreggibile! Bimbo caro, non dirlo a nessuno: racconterò che sono caduta. — E poi si copriva la bocca con la mano, arrossiva e rideva ancora di più. — Sono davvero incorreggibile! Dico le bugie! In paese pensavano fosse una santa, naturalmente. Allora eravamo tutti felici, o almeno adesso mi sembra così: eravamo fortunati e sani, e felici di averla tra noi, a brillare come un grande falò che ci riscaldava tutti, anche quelli che non capivano perché la vita sembrava così bella. C'erano meno malattie; il cibo era migliore; persino il clima era mite; e la gente non litigava come aveva fatto prima di lei, e come fa di nuovo adesso. E non credo, considerando quello che successe alla fine, che tutto questo fosse soltanto la fantasia di un bambino che aveva trovato la madre, perché lei era come una madre; le raccontavo tutti i pettegolezzi e facevo le commissioni per lei, quando potevo, e lei mi chiamava Piccolo Messaggero in latino; ed ero più felice di quanto sia mai stato. E poi, un giorno apparvero sul nostro fiume quelle terribili prore rostrate. Ero con lei quando venne l'annuncio, nella stanza principale della torre dell'abbazia, dopo che il primo fuoco dell'anno era stato acceso nel grande camino; credevamo d'essere al sicuro perché non si erano mai visti tanto a sud, e ormai la stagione era troppo avanzata perché un navigatore di buon senso si trovasse nelle nostre acque. L'abbazia ospitava in quei giorni tre preti irlandesi che impallidirono quando la giovane suor Sibihd corse a dare l'annuncio, piangendo e torcendosi le mani; e uno dei preti esclamò qualcosa in latino che significa «Dio ci protegga!» perché ci avevano raccontato del terribile sacco del monastero di San Colombano, quando tutti erano fuggiti con i manoscritti preziosi o si erano nascosti nei boschi; ed era per questo che padre Cairbre e gli altri due avevano deciso di «girare il mondo» perché (mi aveva spiegato tutto la badessa, dato che io non sapevo il latino) è così che dicono gli irlandesi quando devono lasciare la loro terra natale per andare altrove. — Dio protegge le nostre anime, non i nostri corpi — disse vivacemente la badessa Radegunde. Aveva parlato con i preti nella loro lingua o in latino, ma questo lo disse nella nostra, anche alle donne che erano venute a
lavorare dal villaggio, perché capissero. — Padre Cairbre, conduci i tuoi amici e le suore più giovani nei corridoi sotterranei; suor Diemud, spalanca le porte agli abitanti del villaggio: metà di loro cercheranno rifugio dietro le mura dell'abbazia e gli altri fuggiranno nella palude. Tu, Piccolo Messaggero, vai nelle cantine con le ragazze. — Ma io non ci andai, e la badessa non se ne accorse: si era alzata subito per andare a guardare da una delle feritoie. E anch'io. Avevo sempre creduto che le grandi navi dei norvegesi salissero sulla terraferma, con le gambe, suppongo, e rimasi un po' deluso nel vedere che dopo aver risalito il nostro fiume restavano in acqua come le altre navi, e gli uomini venivano a riva con piccole barche e le tiravano in secco tra la sabbia e il fango. Poi la badessa ripeté l'ordine: — Presto! Presto! — E prima che qualcuno capisse cosa stava succedendo, uscì dalla stanza. Io guardai dalla finestra della torre; in quel tumulto nessuno si curava di me. Là sotto, gli orti e i giardini dell'abbazia erano pieni di gente che calpestava i filari delle erbe e le rose della badessa, e trascinava grandi tronchi per sbarrare la porta nel muro di pietra che circondava l'abbazia (e non era un muro molto alto, per la verità), e Radegunde correva tra la folla e gridava: Fate questo! Fate quello! Tu, fermati! Tu, vai! e cose del genere. Poi arrivò alla porta e accennò a suor Oddha, la portinaia, di scostarsi (la vecchia suora si buttò addirittura in ginocchio per supplicarla), e tutto questo, dovete capire, mi sembrava meraviglioso. Non avevo idea del pericolo come non l'avrebbe avuta un cagnolino. Ci fu un po' di trambusto alla porta: credo che gli uomini con i tronchi cercassero di sbarrarle il basso. E la badessa Radegunde trasse dallo scollo della veste il crocifisso d'argento che aveva portato da Roma, e l'agitò spazientita sotto il naso di quelli che avrebbero voluto trattenerla. E così, naturalmente, la lasciarono passare. Mi acquattai nel mio angolo accanto alla finestra, aspettandomi che il crocifisso della badessa facesse discendere la folgore di Dio su tutti quegli uomini alti e biondi che sfidavano il nostro Salvatore e la legge e che, si diceva, portavano le corna sulla testa, anche se loro non le avevano (e più tardi scoprii che non è vero, i norvegesi non le portano). Speravo che la badessa, o nostro Signore, aspettasse ancora un po' prima di annientarli, perché volevo vederli bene prima che morissero tutti, capite? Rimasi un po' deluso, perché portavano le brache e i gambali come gli uomini comuni, e anche i mantelli, anche se alcuni avevano spade e scuri e c'era un mucchio di scudi rotondi sulla spiaggia. Ma i capelli lunghi erano bellissimi, e i colori sgargianti dei vestiti, e i mostri che spuntavano dalle prue
delle navi erano splendidi e spaventosi, anche se si capiva benissimo che erano soltanto dipinti come le figure dei libri della badessa. Pensai che Dio mi aveva concesso un'edificazione sufficiente e che ormai poteva annientare gli empi stranieri. Ma non lo fece. Invece, la badessa si avviò tutta sola verso quegli uomini feroci, sulla riva sassosa del fiume, con calma come se andasse a fare una scampagnata con le sue ragazze. Cantava una canzoncina, una melodia graziosa che ripetei molti anni dopo, e un uomo che aveva viaggiato molto mi disse che era una ninnananna norvegese. Allora non lo sapevo: ma quei terribili uomini biondi, che avevano alzato la testa stupiti nel vedere una donna sola che usciva dall'abbazia (la porta dietro di lei era sbarrata, adesso), incominciarono a bisbigliare tra loro. Vidi lo sguardo della badessa girare in fretta dall'uno all'altro (spesso noi dicevamo che era capace di dire cosa si nascondeva nell'anima, con una sola occhiata), e poi raccolse la gonna con una mano, e si avviò tra i sassi verso uno degli uomini, più vecchio degli altri come seppi poi, anche se al momento non riuscivo a vederlo bene, e gli disse, nella sua lingua: — Benvenuto, Thorvald Einarsson; che cosa ci fai tu, buon agricoltore, tanto lontano da casa tua, quando le messi sono mature e sul mare stanno arrivando le grandi tempeste dell'autunno? — (Forse vi domanderete come capissi quello che diceva, perché non sapevo il norvegese: la verità è che padre Cairbre, il quale non era sceso in cantina, stava guardando dalla mia stessa finestra, mentre io sbirciavo più in basso, e ripeteva ogni parola a quelli che erano presenti nella stanza, e che tacevano tutti.) Vidi che i pirati erano confusi, nel sentirla parlare nella loro lingua, e ancora di più perché ne aveva chiamato uno di loro per nome; alcuni indietreggiarono e tracciarono strani segni nell'aria, e altri brandirono le scuri o le spade e corsero verso la badessa. Ma quel Thorvald Einarsson alzò la mano perché si fermassero e rise di cuore. — Riflettete! — disse. — Non è una magia, ma soltanto astuzia... chi poteva evitare di sentire il mio nome, quando tutti voi non avete fatto altro che gridare «Thorvald Einarsson, aiutami con questo remo!», «Thorvald Einarsson, ho i gambali fradici fino alle ginocchia!», «Thorvald Einarsson, questo fiume è freddo come un inverno di Fimbul!» La badessa Radegunde annuì e sorrise. Poi sedette sulla riva del fiume. Si grattò dietro un orecchio, come l'avevo vista fare quando era immersa nei suoi pensieri. Poi disse (e sono sicura che il dialogo si svolse a voce al-
ta, apposta perché potessimo sentirlo anche noi dall'abbazia): — Buon amico Thorvald, sei intelligente come diceva il figlio di tua sorella, Ranulf, dal quale ho imparato il norvegese quando ero a Roma; e per dimostrarti che era proprio lui, ti dirò che giurava sempre per il suo cavallo grigio, Piedezoppo, e aveva un impedimento della favella, e non riusciva a pronunciare i suoni come facciamo noi, e perciò ti chiamava «Torvald». Non è così? Allora non me ne rendevo conto perché ero soltanto bambino, ma con quel discorso la badessa rivendicava i diritti dell'ospitalità dall'uomo, e per caso o per ispirazione aveva scelto il più intelligente tra quei ladroni, perché lui rispose: — lo non sono il capo. Qui non ci sono capi. La stava avvertendo che quelli non erano i suoi uomini e che non poteva controllarli, capite? E lei si grattò di nuovo dietro l'orecchio e si alzò. Come se non sapesse che cosa fare, incominciò ad aggirarsi dall'uno all'altro di quegli individui impacciati (alcuni arretrarono e tracciarono di nuovo segni nell'aria, e altri sguainarono i coltelli) e riprese a canticchiare la canzoncina, camminando lentamente, più curva e vecchia e inferma di quanto noi l'avessimo mai vista, una donna piccola e indifesa vestita di nero in mezzo a tutti quegli uomini feroci. Un giovane pirata le strappò la cuffia dalla testa, mentre gli passava vicino, e la lasciò con i corti capelli grigi scoperti nel vento; gli altri risero, e il giovane gridò: — Nonna, non ti vergogni? — Perché, buon amico? Di che cosa? — chiese la badessa in tono mite. — Sei sposata con il tuo Cristo — disse lui, tenendo la cuffia dietro la schiena. — Ma il tuo sposo non può difenderti neppure dalla vergogna di restare con la testa scoperta! Se fossi sposata con me, invece... Ci furono grandi risate. La badessa Radegunde attese che finissero. Poi si grattò la testa scoperta e accennò a voltarsi, ma all'improvviso si girò di nuovo verso il giovane, e la vecchiaia e l'infermità le caddero di dosso come un mantello. Sembrava più alta e maestosa, come se dentro le ardesse un grande fuoco. Lo guardò direttamente in faccia. Ciò che fece noi tutti l'avevamo già visto, naturalmente, ma loro no, e non avevano mai sentito quella voce grandiosa e solenne con la quale a volte ci leggeva le Scritture o ci parlava della collera di Dio. Credo che il giovane si spaventasse, nonostante la sua audacia. E oggi so quel che allora non sapevo: che i norvegesi ammirano soprattutto il coraggio e che, per essere franchi, tutti apprezzano una bella storia, soprattutto se si svolge davanti ai loro occhi.
— Nipote! — La sua voce sembrava la grande campana di Dio, e credo che la sentissero tutti, fino alla palude. — Piccolo nipote, tu credi che il Creatore del Mondo, che ha fatto le stelle e la luna e il sole e i nostri corpi, e l'alternarsi delle stagioni e la terra su cui stiamo, sì, persino la merda nella tua pancia... credi che un essere simile abbia un grande palazzo nel cielo dove tiene le sue mogli e vada a sbatterle come faresti tu o come farebbe il re dei turchi? Non disonorare l'intelligenza della madre che ti ha partorito! Noi siamo le serve di Dio, non le sue spose, e se diciamo alle nostre sciocche ragazze che sono sposate al Cristo, lo diciamo per fargli capire che non devono scappar via per sposare Otto il contadino o Ekkehard il maniscalco, ma continuare la loro opera come hanno promesso. Se dicessi loro che sono sposata a un'Idea, non mi capirebbero, come non mi capisci tu. (A questo punto padre Cairbre, alla finestra, borbottò in tono di protesta). Poi la badessa si tolse dal collo il crocifisso d'argento e lo mise nella mano del giovane e disse: — Dallo a mia madre, con la mia pietà. Deve strapparsi i capelli, al pensiero di avere un figlio simile. Ma il giovane lasciò cadere a terra il crocifisso. Era rosso in faccia e ansimava. — Raccoglilo — disse più gentilmente la badessa. — Raccoglilo, ragazzo: non ti farà alcun male e non è magico. È soltanto argento puro ben lavorato: ti renderà ricco. — Quando vide che lui non si decideva, e anzi portava la mano al coltello, schioccò tra sé la lingua con fare materno (o almeno credo, perché agitò una mano come faceva sempre quando schioccava la lingua) e s'inginocchiò, esagerando un po' la difficoltà del movimento, credo, e disse a gran voce: — Allora mi chinerò io, mi chinerò. — E sì rialzò: gli porse il crocifisso e disse: — Prendilo. Per me andranno bene anche due fuscelli legati con uno spago. Il giovane gridò, con voce spezzata: — Mia madre è morta e tu sei una strega! — Fulmineamente, strinse un braccio intorno al collo della badessa e le puntò il coltello alla gola. Thorvald Einarsson ruggì: — Thorfinn! — Ma la badessa disse soltanto, con voce chiara: — Lascialo fare. Ho svergognato quest'uomo ma non intendevo farlo. Ha diritto d'essere in collera. Il giovane la lasciò e le voltò la schiena. Ricordo che mi chiesi se quegli stranieri erano capaci di piangere. Più tardi sentii dire (e giuro che la badessa doveva saperlo, chissà come, o l'aveva intuito, perché sebbene non fosse una strega sapeva sondare un uomo fino a scoprire le piaghe nascoste, e molto in fretta) che la madre del giovane aveva avuto fama di adulte-
ra, e che nessuno voleva riconoscerlo come figlio. Tra i norvegesi, una cosa è avere quella che la badessa chiamava una concubina, e in tal caso non disprezzano i figli di quelle donne, come facciamo noi, ma è molto diverso quando una donna sposata ha più di un uomo. Era il caso di Thorfinn; immagino che per questo fosse andato vichingo. Ma tutto ciò lo seppi più tardi; ciò che vidi allora, con il naso appena al di sopra del davanzale della finestra, fu che la badessa infilò il crocifisso sull'impugnatura della spada del giovane, come se ci tenesse a regalarglielo, capite, e poi si avviò verso un punto vicino al muro dell'abbazia, ma lontano dai norvegesi. Credo volesse che andassero da lei. La vidi sollevare le gonne come una contadina, sedersi a gambe incrociate e dire a voce alta: — Venite! Chi vuole mercanteggiare con me? Alcuni andarono, ridendo, e le sedettero intorno. — Tutti! — disse lei, invitandoli a gesti. — E perché dovremmo venire tutti? — disse uno che era più lontano. — Perché altrimenti perdereste un buon affare — rispose la badessa. — Perché dovremmo mercanteggiare quando possiamo prendere ciò che vogliamo? — chiese un altro. — Perché avrete soltanto la metà — disse la badessa. — Il resto non lo troverete. — Saccheggeremo l'abbazia — disse un terzo. — Metà del tesoro non è nell'abbazia — disse lei. — Allora dov'è? La badessa si batté l'indice sulla fronte. I pirati si stavano avvicinando, a due o tre per volta. In seguito ho sentito dire che i norvegesi amano gli indovinelli, e quello era una specie di enigma: la badessa li divertiva. — Se è nella tua testa — disse Thorvald, che s'era fermato dietro gli altri, in piedi e a braccia conserte, — possiamo tirarlo fuori, no? — E toccò l'impugnatura del coltello. — Se mi spaventi, mi confonderò e non ricorderò più nulla — disse con calma la badessa. — Inoltre, vuoi giocare quel vecchio gioco? Hai visto come ha funzionato l'ultima volta. Mi meraviglio di te, fratello della madre di Ranulf. — Allora contratterò — disse Thorvald con un sorriso. — E gli altri? — disse Radegunde. — Tutti o nessuno: decidete voi se volete risparmiarmi guai e pericoli e diventare ricchi. — E voltò loro le spalle. Gli uomini si avviarono lungo la riva del fiume e confabularono abbassando le voci, così non li sentimmo più. Padre Cairbre, che era vec-
chio e miope, gridò: — Non li sento! Cosa stanno facendo? — E io dissi prontamente: — Io ho gli occhi buoni, padre Cairbre — e lui mi sollevò perché vedessi. Apparvi alla finestra proprio nel momento in cui la badessa Radegunde era rivolta verso la torre. Si batté la mano sulla bocca. Poi si avviò alla porta e chiamò (con una voce che avevo imparato a rispettare, per timore degli sculaccioni): — Piccolo Messaggero, scendi! Vieni subito da me! E porta con te padre Cairbre. Io ero felice. Non immaginavo che lo facesse per cercare di proteggermi, se qualcosa fosse andato male. Il mio unico pensiero era che avrei visto tutto da vicino. Così, semisoffocato, passai tra la folla nella stanza della torre, calpestando piedi e gonne, e ogni due secondi dovevo ripetere: — Ma devo andare! La badessa mi vuole! — E intanto lei, là fuori, gridava come un'imperatrice: — Lasciate passare il bambino! Fate largo al bambino! Lasciate passare il prete irlandese! — fino a che io, spingendo e protestando, arrivai fino al muro (nessuno, naturalmente, aveva intenzione di aprirci la porta), e ci fu un grande trambusto e finalmente qualcuno portò una scala a pioli. Io passai subito, ma il vecchio prete ci mise più tempo, sebbene il muro fosse basso, come ho già detto, perché i costruttori non si erano decisi a trasformare l'abbazia in una vera e propria fortezza. Fuori era molto meglio, lontano da tutta la gente, e io corsi soddisfatto dalla badessa; lei disse soltanto: — Stammi vicino, qualunque cosa succeda — e immediatamente distolse l'attenzione da me. Padre Cairbre aveva impiegato tanto tempo a uscire che gli stranieri avevano finito di consultarsi e stavano tornando indietro, tutti venti o trenta, verso l'abbazia e la badessa Radegunde, e verso di me. Vidi che padre Cairbre tremava. Avevano un aspetto truce, visti da vicino, con quei lunghi capelli spettinati e gli strani abiti sgargianti. Ricordo che avevano un odore diverso dal nostro; ma non ricordo quale, dopo tutti questi anni. Poi la badessa si rivolse a loro nella loro strana lingua, così bizzarramente leggera e cantilenante sulle loro labbra barbute, e quindi disse qualcosa in latino a padre Cairbre, e lui annunciò, con voce tremante: — Questo è il prete, padre Cairbre, che ripeterà le nostre contrattazioni nella nostra lingua perché la mia gente possa sentirle. Non posso trattare alle sue spalle. E questo è il mio figliolo adottivo, che mi è molto caro, e che ora, credo, può soddisfare la curiosità. — (Io mi sforzavo di stare eretto come un uomo, ma di nascosto mi aggrappavo con una mano alla gonna della badessa: dunque era di questo che ridevano gli stranieri!) Il discorso continuò, ma io lo riferirò come se avessi compreso il norvegese, perché
sarebbe tedioso ripetere tutto due volte. La badessa Radegunde disse: — Allora volete contrattare? Tutti gli stranieri annuirono, con l'aria di pensare: — Dopotutto, perché no? — E chi parlerà per voi? — chiese la badessa. Si fece avanti un uomo: riconobbi Thorvald Einarsson. — Ah, sì — disse la badessa in tono asciutto. — Il gruppo non ha capi. Il gruppo senza capi è d'accordo? Manterrà l'impegno? Non voglio traditori, non voglio uomini che mancano alla parola! Vi fu un borbottio generale. Thorvald (com'era grande e grosso, visto da vicino!) disse in tono conciliante: — Io non navigo con uomini del genere. Incominciamo. Sedemmo tutti quanti. — Ora — disse Thorvald Einarsson, inarcando le sopracciglia, — se conosco bene come vanno queste cose, incnT,ineerai tu. E se non sbaglio, incomincerai dicendo che siete molto poveri. — Ma no — rispose la badessa. — Noi siamo ricchi. — Padre Cairbre gemette e un gemito generale gli rispose oltre le mura dell'abbazia. Soltanto la badessa e Thorvald Einarsson sembravano imperturbabili: era come se stessero facendo un gioco che nessun altro capiva. La badessa continuò: — Siamo molto ricchi. Là dentro c'è molto argento, molto oro, molte perle, molte stoffe ricamate e molti tessuti fini, molte sculture di legno, e molti libri con oro sulle pagine e gemme sulle copertine. Tutto questo è vostro. Ma abbiamo di più e di meglio: erbe e medicine, sistemi per impedire che il cibo vada a male, e la conoscenza per guarire i malati; tutto questo è vostro. E abbiamo di più e di meglio anche di questo: abbiamo la conoscenza del Cristo e la perfetta comprensione dell'anima, e anche queste sono vostre, se volete; non dovete far altro che accettarle. Thorvald Einarsson alzò la mano. — Ci accontentiamo dei primi — disse. — E magari un po' dei secondi. Così è più pratico. — E sciocco — disse la badessa educatamente. — Come al solito. — Ancora una volta ebbi l'impressione stranissima che quei due stessero giocando un gioco che gli altri neppure immaginavano. Lei soggiunse: — C'è una cosa che non potrete avere, ed è la più preziosa di tutte. Thorvald Einarsson la guardò con aria interrogativa. — La mia gente. La loro sicurezza mi è cara più di me stessa. Non dovrete torcere loro neppure un capello, per nessuna ragione. Pensateci: potrete entrare abbastanza facilmente nell'abbazia con le armi, ma quelli là
dentro hanno una gran paura di voi, e alcuni degli uomini sono armati. In una grande folla, anche un esperto guerriero si trova impacciato. Scivolerete e vi cadrete addosso senza volerlo e senza sapere ciò che fate. Date ascolto al mio consiglio. Perché fare i macellai quando potrete ricevere il tesoro come i re, senza dover far nulla? E poi ne avrete ancora altrettanto, quando vi condurrò ai nascondigli. Una montagna di tesori degni di un conte. Pensateci! E rinunciare a tutto questo per gli schiavi, metà dei quali si ammaleranno e moriranno prima che arriviate a casa... e che dovrete sfamare, se vorrete che servano a qualcosa. Vergogna a quelli di voi che non accettano i buoni consigli! Immaginate cosa direte alle vostre mogli e alle vostre famiglie: ecco alcune miserabili pezze di stoffa con macchie di sangue che non si cancellano, ecco perle e gemme ridotte in polvere nel combattimento, ecco un ricamo strappato che era intero fino a quando qualcuno non l'ha calpestato durante la battaglia, e avevo preso diversi schiavi ma sono morti di malattia, e ho sbattuto una suora giovane e graziosa, e volevo portarla con me, ma si è buttata in mare. E si, c'era ben di più, e tutto intero, ma abbiamo deciso di non prenderlo. Era troppo disturbo, vedete. Era un discorso pittoresco, e i norvegesi si divertivano. Radegunde alzò la mano. — Gente! — gridò in tedesco, e soggiunse: — Scorridori del mare, ascoltate ciò che vi dico: lo ripeterò nella vostra lingua. — (E così fece.) — Gente, se i norvegesi ci combattono, non difendetevi, ma fracassate tutto! Donne, prendete i vostri coltelli da cucina e fate a pezzi le stoffe preziose! Uomini, con le asce e i martelli distruggete gli altari e le sculture di legno! E tutti quanti, sbriciolate le perle e spaccate le gemme sui pavimenti! Rompete le bottiglie del vino! Calpestate gli oggetti d'oro e d'argento e rendeteli informi! Strappate i libri miniati! Staccate dai muri gli arazzi e bruciateli! «Ma — continuò con voce improvvisamente blanda, — se questi uomini saranno così saggi da accettare i nostri doni, ammucchiamo tutto ciò che abbiamo ai loro piedi, senza nascondere nulla, perché i loro parenti ammirino con stupore la splendida ricchezza che porteranno, anche se a noi non resteranno altro che i nostri muri spogli. Se qualcuno aveva mai dubitato che la badessa Radegunde fosse ispirata da Dio, ogni dubbio dovette dileguarsi in quel momento: chi poteva resistere al vigore ardente del suo primo discorso, o all'unzione benevola del secondo? I norvegesi erano rimasti a bocca aperta. Vidi che le guance di
padre Cairbre erano rigate di lacrime. Poi Thorvald disse: — Badessa... S'interruppe. Ritentò, ma s'interruppe di nuovo. Poi si scosse, come per liberarsi da un incantesimo, e disse: — Badessa, i miei uomini sono senza donne da molto tempo. Radegunde lo guardò con aria sorpresa. Sembrava non riuscisse a credere a ciò che aveva udito. Squadrò il pirata, perplessa, e poi gli girò intorno come per misurarlo. Lo fece più volte, guardando ogni parte di quel corpo colossale mentre lui diventava sempre più rosso. Finalmente indietreggiò, lo squadrò ancora una volta e, con le braccia conserte come una contadina, annunciò a gran voce, in norvegese e in tedesco: — Cosa? Hanno perso l'uso delle mani? A suo modo era irresistibile. I norvegesi risero. I nostri risero. Rise persino Thorvald. E risi anch'io, sebbene non sapessi di cosa stavano ridendo tutti. L'ilarità si smorzò, e poi ricominciò dietro le mura dell'abbazia, irresistibilmente, e si spense ancora e ancora ricominciò. La badessa attese fino a quando i norvegesi smisero di ridere e poi gridò in tedesco per imporre silenzio, fino a che si sentì solo qualche risatina qua e là. Poi disse: — Questi bravi uomini... padre Cairbre, riferiscilo alla gente... questi bravi uomini mi perdoneranno la mia sciocca battuta. In verità non volevo dar scandalo od offendere qualcuno; ma l'ilarità fa bene, assesta le acque del corpo, come dicono i medici. E i miei sanno che non sempre sono solenne e buona come dovrei. Anzi, sono una grande peccatrice e causa di scandalo. Thorvald Einarsson, siamo d'accordo? L'omaccione (che non era divertito quanto gli altri, posso assicurarvelo!) guardò i suoi e sembrò capire quello che voleva sapere. Disse: — Entrerò con cinque uomini per vedere che cosa avete. Lasceremo andare quella povera gente nel cortile, ma non quelli che stanno dentro l'abbazia. Poi cercheremo ancora. Le porte saranno chiuse e sorvegliate dai miei; se ci sarà qualche tradimento, il patto non avrà più valore. — Verrò con voi — disse Radegunde. — È molto giusto e la mia presenza calmerà la gente. Vederci insieme li rassicurerà, e capiranno che non succederà niente di male. Sei un uomo buono, Torvald... perdonami, ti ho chiamato come faceva tanto spesso tuo nipote. Vieni, Piccolo Messaggero, resta con me. «Aprite la porta! — gridò poi. — Non c'è pericolo! — E con i cinque uomini (uno era il giovane Thorfinn che aveva inveito contro di lei) attendemmo mentre i grandi tronchi venivano rimossi. All'interno c'era poco spazio, ma la gente si ritrasse alla vista dei terribili guerrieri e ci aprì un
varco. Mi voltai indietro. I norvegesi erano entrati e s'erano fermati appena all'interno del muro, ai due lati della porta, con le spade sguainate e gli scudi imbracciati. La folla si aprì più lentamente per lasciarci passare quando raggiungemmo la torre principale, mentre la badessa ripeteva di continuo: — State calmi, state calmi. Va tutto bene — e si rivolgeva a questo e a quello chiamandoli per nome. Fu molto più difficile quando la gente soffocò le grida nel sentire i grossi tronchi che si chiudevano con un rombo di tuono, e noi eravamo vicinissimi alla scala: le sentii dire qualcosa in quella strana lingua straniera; sembrava una frase di scusa. Qualcosa che probabilmente significava: — Mi dispiace, ma dobbiamo attendere. — Sembrò che passasse un secolo prima che la scala si sgombrasse in parte, e io capii ciò che aveva inteso la badessa quando aveva parlato dell'impaccio causato dalla gente: un uomo poteva mulinare l'arma in mezzo alla folla, ma non molto, e probabilmente avrebbe finito per cadere addosso a qualcuno. Raggiungemmo la grande sala con l'enorme crocifisso di legno dipinto e quello piccolo di oro e perle, e i drappi scarlatti ricamati di fili d'oro, dietro i quali avevo giocato tante volte ai briganti prima di scoprire cosa fossero i briganti veri: quegli uomini alti e spaventosi, i cui occhi luccicavano di avidità nel vedere ciò che immaginavano avesse ogni villaggio. Quasi tutte le suore erano rimaste nella grande sala; ma era meno affollata, perché tutti si erano raccolti intorno alle pareti all'ingresso dei norvegesi. Le ragazze più giovani erano tutte in un angolo, terrorizzate (si sentiva l'odore, come si può sentire sempre), e quando il giovane Thorfinn andò per prendere il piccolo crocifisso d'oro e di perle, suor Sibihd gridò con voce alta e spezzata: — È il corpo di nostro Signore! — e spiccò un balzo, staccandolo dalla parete prima che lui potesse afferrarlo. — Sibihd! — esclamò la badessa, con una voce brusca come non l'avevo mai sentita. — Rimettilo al suo posto, o sentirai il peso della mia mano, ti assicuro! Ecco, è strano, no?, che una giovane donna abbastanza disperata per non temere la morte per mano d'un pirata norvegese si spaventasse per la minaccia di qualche schiaffo della sua badessa? Ma la gente è così. Suor Sibihd rimise il crocifisso al suo posto (e il giovane Thorfinn lo prese) e arretrò in mezzo alle suore, singhiozzando: — Quello sconsacra il nostro Dio! — Sciocca! — esclamò la badessa. — Dio solo può consacrare o sconsacrare: l'uomo non può. Quello è un pezzo di metallo. Thorvald disse qualcosa a Thorfinn, bruscamente, e quello riappese con-
trovoglia il crocifisso al gancio, con un'espressione truce che sembrava dire: nessuno mi dà mai quello che voglio. Non successe niente altro di particolare nella grande sala o nello studio della badessa o nei magazzini, e neppure nelle cucine. I norvegesi erano taciturni e tenevano le mani sulle spade, ma la badessa continuava a parlare con calma in entrambe le lingue. Ai nostri diceva: — Vedete? Va tutto bene, ma dovete stare fermi e zitti. Dio ci proteggerà. — Il suo viso era sereno e tranquillo, e io pensavo che era una santa, perché aveva salvato suor Sibihd e noi tutti. Ma quella atmosfera pacifica, naturalmente, non durò. Era inevitabile che qualcosa andasse male, in mezzo a quella folla; ancora oggi non so che cosa accadde. Eravamo in un angolo del lungo refettorio, il posto dove mangiano in un'abbazia le suore o i frati, quando qualcosa mi spinse contro il muro e io caddi, quasi soffocato dal peso della badessa che mi gravava addosso. La testa mi risuonava e da tutte le parti c'era un vociare tremendo, bestemmie e grida, un tumulto spaventoso come se i muri stessero andando a pezzi e crollassero addosso a tutti. Sentii la badessa che ripeteva bisbigliando qualcosa in latino, al mio orecchio. C'erano suoni sordi e flaccidi, più tremendi del resto, e oggi so che era il rumore che fa l'acciaio mentre penetra nella carne. Tutto questo apparve continuare per l'eternità: e poi ebbi l'impressione che il pavimento fosse bagnato. Infine venne il silenzio. Sentii la badessa Radegunde che si sollevava. Disse: — Dunque è così che lavate i pavimenti, nel nord. — Quando alzai la testa della canne e vidi che cosa intendeva, vomitai nell'angolo. Poi lei mi prese tra le braccia e mi tenne con la faccia sul suo seno in modo che non vedessi, ma era inutile, perché avevo già visto: tutti quelli stesi a terra con le budella di fuori, come mucchi di pesci morti, il vecchio Walafrida con il manico di una scure che gli spuntava dal petto, seduto a occhi chiusi in una tale calca di cadaveri che non era neppure caduto disteso, e la giovane apicoltrice del villaggio, Uta, che era sempre così allegra, stesa riversa con le lunghe trecce e la veste intrisa di rosso e una grande macchia sul ventre. Respirava in fretta e aveva gli occhi sbarrati. Quando le passammo accanto, il suono del suo respiro cessò. La badessa disse in tono mite: — I suoi sono molto pericolosi, conte Spaccabudella. Thorvald Einarsson ci urlò qualcosa e la badessa rispose a voce bassa: — Perdonami, mio buon amico. Hai protetto me e il bambino, e te ne sono grata. Ma nulla tradisce la conoscenza del tedesco come una parola che morde, non è così? E dovevo essere sicura.
Allora ricordai che l'aveva chiamato Torvald e gli aveva rammentato il figlio della sorella, in modo che lui si sentisse in dovere di proteggerci se fosse successo qualcosa. Ma adesso l'avrebbe fatto infuriare, pensai, e chiusi gli occhi. Invece Thorvald rise e disse, in uno strano tedesco: — Non ho fatto altro che difendere te e il tuo cucciolo. Non sei riconoscente? — Oh, moltissimo, ti ringrazio — disse la badessa, con lo stesso calore che avrebbe usato per una suora che le avesse portato una rosa dal giardino, o per un'altra che avesse copiato bene il suo lavoro, o quando io le portavo una notizia, oppure se Ita la cuoca preparava una buona minestra. Ma Thorvald non sapeva che quel calore era per tutti, e quindi sembrava soddisfatto. Ormai eravamo arrivati nel giardino, e l'aria era meno irrespirabile; la badessa mi mise giù, sebbene tremassi; e mi aggrappai alla sua gonna gualcita e incrostata di sangue. Lei disse: — Oh, mio Dio, che bucato ci hai imposto! — Si avviò verso il portone, e Thorvald Einarsson si mosse per seguirla. Senza voltarsi indietro, lei disse: — Non insistere, Thorvald, non c'è motivo di rinchiudermi. Ho quarant'anni e non posso certo fuggire nella palude, con i miei reumatismi e i dolori alle ginocchia e la mia gente che ha tanto bisogno di me. Ci fu un momento di silenzio. Vidi un'espressione strana passare sulla faccia dell'uomo. Disse sottovoce: — Non ho parlato, badessa. Lei si voltò, sorpresa. — Hai parlato. Ti ho sentito. Thorvald disse in tono strano: — Non ho parlato. Certe volte i bambini capiscono al volo quando qualcosa non va e sanno rimediare; ricordo che dissi, molto in fretta: — Oh, a volte lei fa così. La mia matrigna dice che la vecchiaia le confonde le idee. — E poi chiesi: — Badessa, posso andare dalla mia matrigna e da mio padre? — Sì, certo — disse lei. — Su corri, Piccolo Messaggero... — E poi s'interruppe, guardò nell'aria come se vi vedesse qualcosa che noi non potevamo vedere. Quindi disse, con molta dolcezza: — No, mio caro, è meglio che resti qui con me. — E allora capii, come se l'avessi visto con i miei occhi, che non dovevo andare dalla mia matrigna e da mio padre perché erano morti. Lei era così, qualche volta. Per un po', sembrò che fossero morti tutti. Non mi sentivo addolorato o spaventato, ma credo che lo fossi, perché avevo in mente una sola idea: sarei morto anch'io se avessi perso di vista la badessa. Perciò la seguii do-
vunque. Lasciavano che andasse di qua e di là a confortare la gente, soprattutto Sibihd, che era impazzita e non faceva altro che dondolarsi e gemere; ma verso l'imbrunire, quando l'abbazia era stata ormai spogliata dei suoi tesori, Thorvald Einarsson portò me e la badessa nello studio dov'era rimasto soltanto un pagliericcio, e sprangò la porta dall'esterno. La badessa mi disse: — Piccolo Messaggero, ti piacerebbe andare a Costantinopoli, dove sta il sultano turco e ci sono le cupole d'oro e tutti i pagani splendenti? Perché è là che quest'uomo mi porterà per vendermi. — Oh, sì! — dissi io. E poi chiesi: — Ma porterà anche me? — Certo — rispose la badessa, e non ne parlammo più. Poi entrò Thorvald Einarsson e disse: — Thorfinn chiede di te. — Più tardi scoprii che stavano aspettando che morisse: nessun altro dei norvegesi era stato ferito, ma un contadino aveva sfondato il petto di Thorfinn con un'ascia, e si pensava che sarebbe morto prima dell'indomani mattina. La badessa disse: — È una buona ragione per andare? — E soggiunse: — Voglio dire, mi odia. La collera per la mia presenza non lo farà peggiorare? E Thorvald rispose: — La gente di qui dice che sei capace di assistere i malati e guarirli. È vero? — No, affatto, per quello che ne so — disse la badessa Radegunde. — Ma se loro lo credono, forse questo li tranquillizza e li fa star meglio. I cristiani sono sciocchi quanto gli altri popoli, lo sai. Verrò, se vuoi — e benché vedessi che era pallida per la stanchezza, si alzò in piedi. Devo aggiungere che indossava la semplice veste marrone di una delle contadine, perché la sua era a lavare; ma per me aveva la stessa maestà di sempre. E anche per Thorvald, credo. Thorvald chiese: — Pregherai per lui o lo maledirai? — Io non prego, e non maledico mai nessuno. Assisto e basta — disse la badessa, e soggiunse: — Oh, lascialo venire, altrimenti urlerà da spaccarti gli orecchi. — E si riferiva a me, perché ero pronto a gridare come un pazzo se avessero cercato di allontanarmi da lei. Avevano messo Thorfinn nella cappella, un piccolo locale di pietra dove ormai non era rimasto altro che una semplice croce di legno, troppo priva di valore perché valesse la pena di rubarla. Era steso ad occhi chiusi vicino all'altare, su uno strato di pellicce, e aveva la faccia cinerea. Ogni volta che respirava si sentiva una specie di gorgoglio, un suono flebile e sottile; e quando mi avvicinai capii il perché. Nel petto del giovane c'era un grande
squarcio rosso da cui spuntavano schegge rosa acuminate, e nello squarcio si vedeva qualcosa che sobbalzava e si abbassava, sobbalzava e si abbassava. Era il suo cuore che batteva. Dalla bocca gli usciva una bava di sangue. Non so, naturalmente, che cosa dicessero perché parlavano in norvegese; ma vidi che cosa facevano e poi ne sentii parlare molto, più tardi, fra la badessa e Thorvald Einarsson. Perciò lo racconterò come se lo sapessi. La prima cosa che fece la badessa fu fermarsi all'improvviso sulla soglia e portarsi le mani alla bocca, come in un gesto d'orrore. Poi gridò furiosamente alle due guardie: — Volete far morire il vostro compagno di freddo e di umidità? È così che vi trattate fra di voi? Portate qui un po' di fuoco, e qualche panno di lana da mettergli addosso! No, non altre pelli, idioti, ma lana che aderisca addosso e assorba l'umidità. Presto, andate! Uno degli uomini ribatté stizzito: — Non prendiamo ordini da te, nonna. — Ah no? — disse la badessa. — Allora mi toglierò questa veste di lana e la metterò addosso al ragazzo, e me ne starò qui seduta tutta la notte, nuda e flaccida e vecchia come sono! Che cosa dirà lo spirito di questo giovane quando entrerà nel Valhall? Che i suoi amici non hanno voluto cedergli una piccola parte del loro bottino per aiutarlo a lottare per la vita? È questo il vostro cameratismo? Sbrigatevi, o mi spoglierò e vi svergognerò entrambi per il resto della vostra vita! — Bene, prendi i panni dalla sua parte del bottino — disse quello che aveva la voce bassa, e l'altro corse fuori. Poco dopo c'era un fuoco acceso nel camino; e l'uomo portò un panno di lana color ruggine («Della mia parte di bottino» disse uno dei due a voce alta, sebbene fosse uno dei colori meno costosi, non come il blu e il rosso) e la badessa lo drappeggiò leggermente addosso al giovane, accostandoglielo con cura ai fianchi ma senza muoverlo. Non sembrava che Thorfinn soffrisse, ma il colorito non migliorò. Ma poi aprì gli occhi e disse con un filo di voce, come uno spettro, un bisbiglio esile e gorgogliante come il suo respiro: — Tu... vecchia strega. Ma ti ho battuto... alla fine. — Sì, mio caro? — chiese la badessa. — Come? — Il tesoro — disse lui, — per i miei parenti. E finalmente sono vissuto da uomo. Ho combattuto... e ho avuto una donna... quella con i grossi seni, Sibihd... Le piacesse o no. È stato bello. — Già, Sibihd — disse la badessa in tono mite. — Sibihd è impazzita. Non ascolta nessuno e non parla con nessuno. Sta seduta e si dondola e geme e si sporca e non vuol mangiare, anche se inghiotte quando la si im-
bocca con un cucchiaio. Il giovane cercò di aggrottare la fronte. — Stupida — disse finalmente. — Stupide suore. Le bestie fanno così. — Davvero? — chiese la badessa, come se per lei fosse un'idea nuova. — Questo è molto strano. Perché non ho mai sentito che un papero faccia un occhio nero all'oca o le dia una botta in testa con una pietra o le pianti un coltello nella pancia, quando ha finito. Quando Dio mette nei loro cuori il desiderio, l'oca si acquatta e il papero arriva di corsa. E una cagna in calore balza dalla finestra se le chiudi la porta. Poveri stolti! Perché non vi siete accampati a tre ore da qui, più a valle, e non avete aspettato? In meno d'una settimana tutte le giovani spose del villaggio sarebbero venute la notte di nascosto a vedere com'erano gli stranieri. Sì, e anche molte nubili e persino qualcuna delle mie ragazze. Ma non potevate aspettare, vero? — No — disse il giovane, con l'ombra d'un tono baldanzoso. — Meglio... così. — Così — disse lei. — Oh, sì, mio caro, la vecchia nonna sa bene com'è. Il piacere per il tempo di contare fino a tre o quattro, e il resto è divertente come far rotolare un pietrone su per un pendio. Thorfinn sorrise, un sorriso spettrale. — Sei una puttana, nonna. La badessa incominciò ad accarezzargli la fronte. — No, nipotino — disse. — Ma non tutto il latino è quello dei padri della Chiesa, sai, per quanto siano grandi. Si possono trovare molte cose negli strani libri scritti da autori vissuti molti secoli prima della nascita di nostro Signore. Ascolta. — E si piegò verso di lui e disse, a voce bassa: «Danzatrice siriana, con quale incanto fai ondeggiare le membra sinuose, semiubriaca nella taverna fumosa, lasciva e sguaiata, con i lunghi capelli legati all'indietro alla moda greca, e fai schioccare le nacchere tra le dita... Il giovane era troppo debole e non fece altro che guardarla sorpreso. Allora la badessa disse: — Mi sembra un dio chi può sederti accanto e parlarti; quando ti sono vicina il mio spirito si spezza, il mio cuore trema, la mia voce si spegne, e non posso neppure parlare. Ardo sotto la pelle e non posso vedere; c'è un
rombo nei miei orecchi e io sudo come per la febbre; divengo più pallida dell'erba tagliata e mi sento completamente trasformata: e so che la Morte mi è venuta vicina. Il giovane disse, in tono spaventato: — Nessuno prova tutto questo. — Sì, invece — disse la badessa. E lui, allarmato: — Stai cercando di uccidermi! — No, mio caro. Non voglio, semplicemente, che tu muoia vergine. Era strano, il fatto che lui dicesse così e continuasse a tenere la mano che aveva afferrato attraverso il panno di lana. Lei gli accarezzò la testa e il giovane bisbigliò: — Salvami, vecchia strega. — Farò del mio meglio — disse la badessa. — Tu farai del tuo meglio non parlando, e io non tormentandoti più, e tutti e due cercheremo di dormire. — Prega — disse Thorfinn. — Bene — disse lei. — Ma ho bisogno d'una sedia. — E le guardie, forse perché vedevano che lui le teneva la mano, portarono uno dei grandi scranni di legno dell'abbazia, che erano troppo semplici e pesanti per portarli via, credo. Allora la badessa Radegunde sedette e chiuse gli occhi. Thorfinn parve addormentarsi. Mi avvicinai a lei, sul pavimento; probabilmente mi addormentai quasi subito, perché all'improvviso mi accorsi che una luce grigia entrava nella cappella, il fuoco si era spento, e qualcuno stava scuotendo Radegunde che dormiva ancora sul seggio, con la testa piegata da un lato. Era Thorvald Einarsson, e gridava eccitato nel suo strano tedesco: — Donna, come hai fatto? Come hai fatto? — Che cosa? — domandò la badessa con voce impastata. — È morto? — Morto? — esclamò il norvegese. — È guarito! Guarito! Il polmone è risanato e la ferita si è chiusa e le costole rotte si sono saldate! Persino i muscoli del petto stanno incominciando a rimarginarsi! — Bene — disse la badessa, ancora semiaddormentata. — Lasciami in pace. Thorvald la scosse di nuovo, e lei ripeté: — Oh, lasciami dormire! — Questa volta il norvegese la sollevò in piedi di peso e lei gridò: — La mia schiena, la mia schiena! Oh, per tutti i santi, i miei reumatismi! — E nello stesso istante una voce sofferente, sotto il panno di lana, una voce sofferente ma di un uomo, non di uno spettro, disse qualcosa. — Sì, ti sento — disse la badessa. — Vuoi diventare subito seguace del Cristo Bianco, in questo momento. Ma, Domine noster, ti prego di far capire a queste teste cocciute che ho bisogno d'una tinozza d'acqua calda con
dentro la menta romana! Sono troppo vecchia per dormire tutta la notte su una seggiola, e sono indolenzita dalla testa ai piedi. La voce di Thorfinn divenne più forte. — Riferiscigli — disse in tedesco la badessa Radegunde a Thorvald, — che non lo battezzerò e non lo assolverò fino a che non sarà cambiato. Quel ragazzino vuole soltanto qualcuno più potente del vostro dio Odin o del vostro dio Thor, che lo tolga dai guai alla prossima occasione. Chiedetegli questo: adotterà Sibihd come sorella? La pulirà quando s'insozza e l'imboccherà e le cingerà le spalle con il braccio, parlandole con affetto e gentilezza fino a quando sarà guarita? Il Cristo non cancella i nostri peccati solo perché li commettiamo daccapo; e questo è ciò che vuole e che voi tutti volete, un Dio che dona e dona e dona, ma Dio non dona: Dio prende e prende e prende. Toglie tutto ciò che non è Dio fino a quando non resta altro che Dio, e nessuno di voi lo capirà! Non esiste la remissione dei peccati; esiste soltanto il cambiamento, e Thorfinn deve cambiare prima che Dio lo accetti. — Badessa, sei molto eloquente — disse Thorvald con un sorriso. — Ma perché tutto questo non glielo dici tu? — Perché sono tutta dolorante — rispose Radegunde. — Oh, fatemi immergere nell'acqua calda! — E Thorvald la sostenne mentre lei usciva zoppicando. Quella mattina, dopo che ebbe fatto il bagno caldo (mi lasciarono stare davanti alla porta, quando piansi e gridai) incominciò a curare Sibihd, prima cullandola fra le braccia e parlandole per dirle che adesso era al sicuro e promettendole che presto i norvegesi se ne sarebbero andati; e poi, quando Sibihd si calmò un poco, la condusse a passeggiare nel bosco, con Thorvald che ci scortava per assicurarsi che non scappassimo via, e la piccola, bruna suor Hedwic, che era sempre rimasta con Sibihd ad assisterla. La badessa camminava per un po' sotto il mite sole d'autunno, e poi sollevava verso l'alto il viso di Sibihd, toccandola gentilmente sotto il mento, e diceva: — Vedi? Il cielo di Dio c'è ancora — e poi: — Guarda, ecco gli alberi del buon Dio; non sono cambiati — e le diceva che il mondo era come prima e che Dio era ancora misericordioso, anche se alcune altre anime avevano raggiunto i beati ed erano più felici ad attenderci lassù in Paradiso di quanto noi avremmo potuto esserlo o illuderci di esserlo sulla povera Terra. Suor Hedwic teneva la mano di Sibihd. Nessuno mi prestava più attenzione che se fossi stato un cane, ma ogni volta che la povera suor Sibihd vedeva Thorvald si ritraeva, e si capiva benissimo che Hedwic non sopportava di guardarlo; ogni volta che lo scorgeva distoglieva il viso,
chiudeva con forza gli occhi e si mordeva il labbro inferiore. Era una giornata serena, quasi calda, come capitano a volte in autunno, e la badessa trovò qualche fiorellino azzurro ritardatario in un angoletto riparato vicino a un tronco, e lo mise nelle mani di Sibihd, dicendo che Dio aveva fatto tante cose belle. Suor Sibihd aveva abbastanza presenza di spirito per tenere stretti i fiori, ma teneva gli occhi fissi, e sarebbe inciampata e caduta se Hedwic non l'avesse guidata. Suor Hedwic disse timidamente: — Forse soffre perché è stata contaminata, badessa. — Aveva l'aria di vergognarsi molto. Per un momento la badessa guardò con occhi acuti la giovane suor Hedwic e poi ia povera Sibihd. Quindi disse: — Cara figlia Sibihd e cara figlia Hedwic, ora vi dirò qualcosa di me stessa che non ho mai detto ad anima viva eccettuato il mio confessore. Sapete che da giovane studiai ad Avignone, e poi fui mandata a Roma, per imparare di più? Ebbene, ad Avignone lessi molto i nostri padri della Chiesa, ma anche i poeti pagani, perché ha detto giustamente Ermenrich di Ellwagen, come il letame sparso su un campo l'arricchisce perché dia un maggiore raccolto, così è impossibile produrre l'eloquenza divina senza gli scritti immondi dei poeti pagani. Ciò è vero, ma anche pericoloso; tuttavia io non la pensavo così perché ero molto orgogliosa e credevo che se le poesie pagane non mi facevano nessuna impressione, era così perché avevo ricevuto il dono della castità da Dio stesso, e disprezzavo i piaceri sensuali e coloro che ne erano tentati. Avevo dimenticato, capite, che la castità non viene donata una volta per tutte come un anello nuziale che vien messo per non essere mai tolto; è invece un giardino che ogni giorno dev'essere sarchiato, innaffiato e potato, altrimenti ben presto rimangono soltanto rovi e sterpi. «Come ho scoperto, le parole dei poeti non mi tentavano, perché le parole sono soltanto segni sulla pagina e non hanno altra vita che quella che prestiamo loro. Ma a Roma non c'erano soltanto i vecchi libri, figlie mie; c'era ben di peggio. «C'erano le statue. Ora, dovete capire che non sono come quelle che potete immaginare leggendo i nostri libri, come san Giovanni o la Madonna; gli antichi erano così abili nel lavorare la pietra che era come una magia. Tu stai davanti al marmo e trattieni il respiro, aspettandoti che si muova e parli. Non sono affatto statue, ma donne e uomini nudi e bellissimi. È una città piena di dei marini che versano l'acqua, figlia Sibihd e figlia Hedwic, di atleti che lanciano il disco, di corridori e lottatori e giovani imperatori e
favoriti dei re: ma non camminano per le strade come uomini veri, perché sono tutti di pietra. «C'era un Apollo, tutto nudo, e sapevo che non avrei neppure dovuto guardarlo, ma trovavo sempre qualche scusa con le mie compagne per passargli accanto: e quella statua, sebbene fosse lontana tre miglia dal luogo dove abitavo, mi attirava come per magia. Oh, era così bello! Più bello di qualunque giovane che oggi viva in Germania o in tutto il mondo, credo. E allora ricordai tutti i vecchi amori dei poeti pagani: Didone ed Enea, e Venere e Marte presi nella rete, l'amore della luna, Diana, per il pastore adolescente... e pensai che se la mia statua avesse preso vita, avrebbe pronunciato le dolcissime parole d'amore dei vecchi poeti, e sarebbe stato un essere saggio e valoroso, e quale donna avrebbe saputo resistergli? A questo punto la badessa si fermò e guardò suor Sibihd, ma Sibihd continuava a fissare il vuoto e a tenere in mano i fiorellini azzurri. Invece suor Hedwic chiese, premendosi la mano sul cuore: — Tu pregavi, badessa? — Pregavo — disse Radegunde in tono solenne. — Ma le mie preghiere si trasformavano in qualcosa d'altro. Chiedevo d'essere liberata dalla tentazione che era nella statua, e allora, naturalmente, dovevo pensare alla statua, e mi dicevo che dovevo fuggire come la ninfa Dafne, per corazzarmi e ripararmi in una pianta di alloro; ma sembrava che i miei piedi fossero già radicati al suolo, e solo all'ultimo minuto riuscivo a fuggire e a riprendere le preghiere. Ma ogni volta diventava più difficile, e finalmente venne il giorno che non fuggii più. — Tu, badessa? — esclamò Hedwic, sconvolta. Thorvald, che ci sorvegliava da una certa distanza, aveva l'aria sorpresa. Io ero molto soddisfatto: mi piaceva vedere che la badessa sbalordiva la gente, era uno dei suoi doni, e a sette anni non conoscevo la lussuria, sapevo soltanto che qualche volta mi faceva piacere toccare le mie cosine quando dovevo spander acqua: e questo cosa c'entrava con le statue che si animavano o con le donne che si trasformavano in piante d'alloro? A me interessava di più la pazza Sibihd, come succede ai bambini; non sapevo che cosa avrebbe potuto fare, o se dovevo averne paura, o che cosa avrei provato se fossi ammattito anch'io. Ma la badessa rideva dolcemente dello stupore di Hedwic. — Perché io no? — chiese. — Ero giovane e sana, e non avevo una speciale grazia di Dio più di quanta ne abbiano le galline e le mucche! Ardevo tanto di desiderio per quel giovane, bellissimo eroe (perché così lo vedevo nella mia mente, come può fare una donna con un uomo che ha incontrato
qualche volta per la via) che il suo pensiero mi tormentava nel sonno e nella veglia. Mi sembrava che a causa dei miei voti non avrei potuto darmi ad Apollo di mia volontà. Perciò sognavo che mi prendeva contro il mio volere e... oh, era un piacere squisito! A questo punto Hedwic diventò tutta rossa e si coprì il viso con le mani. Vidi che Thorvald sogghignava, mentre ci sorvegliava da una certa distanza. — E poi — disse la badessa, come se non avesse visto né l'una né l'altra, — mi prese la tremenda paura che Dio mi punisse mandando uno stupratore che avrebbe usato illecitamente di me, come avevo sognato che facesse il mio Apollo, e temevo che allora non avrei neppure voluto resistergli e avrei provato i piaceri della vile lussuria, e da allora sarei stata una puttana e una falsa monaca. Questa paura mi tormentava e mi attraeva. Incominciai a guardare furtivamente i giovani per le vie, senza che le mie sorelle se ne accorgessero; e mi domandavo: sarà lui? Oppure lui? O lui? «E poi accadde. Mi ero attardata staccandomi dalle altre al banchetto d'un venditore di meloni, e non pensavo ad Apollo o agli eroi bellissimi, ma soltanto alla cena in convento, quando vidi le mie compagne sparire dietro l'angolo. Affrettai il passo per raggiungerle, e sbagliai a svoltare. Mi trovai all'improvviso in una viuzza stretta, e in quel momento un giovane mi afferrò per la veste e mi gettò a terra! Vi chiederete perché facesse una simile pazzia; ma come seppi più tardi, a Roma vi sono prostitute che sfoggiano il nostro abito per soddisfare gli appetiti degli uomini così depravati da... bene, ecco, non so come dirlo! Vedendomi sola aveva pensato che fossi una di loro e che sarei stata lieta di trovare un cliente e un po' di spasso. Quindi il suo comportamento aveva una spiegazione. «Dunque ero lì a terra con quel giovane, mandato per vendetta da Dio, pensavo, che cercava di fare esattamente ciò che per notti e notti avevo sognato che facesse la mia statua. E sapete, non era affatto come nei miei sogni! I sassi sotto la schiena, tanto per cominciare, facevano un male terribile. E invece di squagliarmi per il piacere, urlavo a perdifiato per il terrore e gli sferravo calci mentre quello cercava di sollevarmi le gonne, e pregavo Dio che quel pazzo non mi spezzasse le ossa nella sua furia! «Le mie grida fecero accorrere molta gente, e il giovane fuggì via. Così mi rialzai senza altri danni che la schiena indolenzita e una storta al ginocchio. Ma la cosa più strana fu che, sebbene guarissi per sempre dal desiderio lussurioso per il mio Apollo, cominciai ad essere tormentata da una paura nuova... la paura di aver desiderato lui, quello stolto giovane dall'ali-
to fetido e con un dente mancante... e sentivo strani brividi e fremiti che erano un po' desiderio e un po' timore e un po' disgusto e vergogna e tante, tante altre cose: e non somigliava affatto alla bramosia ardente che avevo provato per il mio Apollo. Andai a vedere ancora una volta la statua, prima di lasciare Roma, e mi sembrò che mi guardasse con tristezza, come per dire: non dare la colpa a me, povera ragazza; io sono soltanto un pezzo di marmo. E quella fu l'ultima volta che fui tanto orgogliosa da credere che Dio mi avesse prescelta per un dono speciale come la castità, o per uno speciale peccato; e smisi di credere che venir gettata a terra e malmenata avesse qualcosa a che vedere con il mio peccato, per quanto avessi confuso le due cose nella mia mente. Oserei dire che non l'hai trovato molto piacevole ieri, vero? Hedwic scrollò la testa. Piangeva in silenzio. Poi disse: — Grazie, badessa — e la badessa l'abbracciò. Sembravano tutte e due più serene; ma poi all'improvviso Sibihd mormorò qualcosa, a voce così bassa che nessuno poté sentire cosa diceva. — Il... — bisbigliò, e poi lo disse, ma era ancora un sussurro: — Il sangue. — Quale, cara? Il tuo sangue? — chiese Radegunde. — No, madre — disse Sibihd, e incominciò a tremare. — Il sangue. Su noi tutti. Walafrid e... e Uta... e suor Hildegarde... e tutti straziati e sventrati. E nessuno di noi aveva fatto nulla, ma io lo sentivo addosso a me, e i bambini urlavano perché venivano calpestati, e quei demoni erano usciti dall'inferno anche se non avevamo fatto niente e... e... capisco, madre, tutto il resto, ma non lo dimenticherò mai, mai, oh, Gesù Cristo, è tutto intorno a me adesso, oh, madre, il sangue! Poi suor Sibihd cadde in ginocchio sulle foglie e incominciò a urlare; non si coprì la faccia come aveva fatto suor Hedwic, ma guardava fisso davanti a sé con gli occhi sbarrati come se fosse cieca o vedesse qualcosa che noi non potevamo vedere. La badessa s'inginocchiò e l'abbracciò, la cullò e disse: — Sì, sì, cara, ma siamo qui; ora siamo qui; ormai è tutto passato. — Ma Sibihd continuò a urlare, tappandosi gli orecchi come se l'urlo fosse di un'altra e lei non volesse sentirlo. Thorvald, mi parve, sembrava un po' a disagio. Chiese: — Il vostro Cristo non può guarirla? — No — rispose la badessa. — Si può guarire solo annullando il passato. E questa è l'unica cosa che Lui non fa mai. Ora Sibihd è all'Inferno e dovrà ritornarvi molte volte prima di poter dimenticare.
— Non sarebbe una buona schiava — disse il norvegese, lanciando un'occhiata a suor Sibihd, che adesso taceva e aveva ripreso a guardare fissamente davanti a sé. — Non dovrai temere che qualcuno la voglia. — Dio è misericordioso — disse con calma la badessa Radegunde. Thorvald Einarsson disse: — Badessa, io non sono un uomo malvagio. — Per essere un uomo buono — disse la badessa, — frequenti pessime compagnie. Lui rispose rabbiosamente: — Non sono stato io a scegliere i miei compagni! Ho avuto sfortuna! — E noi ne abbiamo avuta ancora di più, credo — disse la badessa. — La fortuna è la fortuna — commentò Thorvald stringendo i pugni. — Capita a certa gente e non ad altri. — Come voi siete capitati qui — disse Radegunde in tono mite. — Sì, sì, capisco, Thorvald Einarsson: si può dire che la fortuna sia opera di Thor o di Odin, ma devi sapere che la nostra sventura è stata opera vostra e non di qualche dio. Voi siete la nostra sfortuna, Thorvald Einarsson. È vero che tu non sei malvagio come i tuoi amici, perché quelli uccidono per il piacere di farlo mentre tu lo fai senza sentimenti, come se mietessi il grano. Forse oggi hai visto un po' del grano che hai falciato. Se avessi l'anima di un uomo, non saresti andato vichingo, fortuna o non fortuna, e se la tua anima fosse ancora più grande, avresti cercato di fermare i tuoi compagni, così come ora io ti parlo sinceramente nonostante la tua collera, e come lo stesso Cristo disse la verità e venne crocifisso. Se tu fossi una bestia non potresti infrangere la legge di Dio, e se fossi un uomo non vorresti farlo; ma non sei né l'uno né l'altro, e questa fa di te una specie di mostro che contamina tutto ciò che tocca senza conoscerne la ragione, ed è perciò che non ti perdonerò mai fino a quando non sarai divenuto un uomo, un uomo vero con una vera anima. In quanto ai tuoi amici... A questo punto Thorvald Einarsson diede uno schiaffo alla badessa, con la mano aperta, e la fece cadere. Sentii l'esclamazione d'orrore di suor Hedwic, e dietro di noi suor Sibihd incominciò a gemere. Ma la badessa rimase a terra, massaggiandosi la mascella e sorridendo lievemente. Poi disse: — Oh, ho ricominciato? Mi vergogno di me. Hai ragione di arrabbiarti, Torvald; nessuno riesce a sopportarmi quando parlo così, e meno di tutti me stessa; è una tale noia. Tuttavia, sembra che non riesca a trattenermi; sono troppo abituata ad essere la badessa Radegunde, questo è chiaro. Ti prometto che non ti tormenterò più; ma tu, Thorvald, non dovrai mai più
picchiarmi, perché se lo farai dovrai pentirtene. Il norvegese avanzò d'un passo. — No, no, mio caro uomo — disse allegramente la badessa, — non era una minaccia. Come potrei minacciarti? Voglio dire soltanto che non ti racconterò più storielle, che il mio spirito appassirà, e diventerò noiosa come tutte le altre donne. Confessalo: io sono la cosa più interessante che tu abbia mai incontrato da molti anni, e con la mia lingua affilata ti ho divertito più degli skaldi alla corte di Norvegia. E io so molte più storie e leggende di loro, più di chiunque altro in tutto il mondo, perché ne invento di nuove quando le vecchie si logorano. «Vuoi che ti racconti una storia, ora? — Del tuo Cristo? — chiese Thorvald, con la collera ancora sul volto. — No — disse lei. — Di uomini e donne viventi. Rispondimi, Torvald, voi uomini che cosa volete da noi donne? — Essere uccisi dalle vostre chiacchiere — disse lui, e vidi che era ancora un po' in collera, ma la stava buttando in scherzo. La badessa rise allegramente. — Molto spiritoso! — disse, rialzandosi e spolverandosi le foglie dalla gonna. — Sei un uomo molto intelligente, Torvald. Thorvald, scusami: continuo a dimenticarlo. Ma in quanto a ciò che gli uomini vogliono dalle donne, se lo chiedessi ai giovani, strizzerebbero l'occhio e si scambierebbero gomitate nelle costole. Tuttavia s'ingannano. Quello è solo il corpo che chiama un altro corpo. Vogliono qualcosa di molto diverso, e lo vogliono con tanta intensità che ne hanno paura. Perciò pretendono che sia qualunque altra cosa: piacere, comodità, una serva in casa. Sai in realtà che cosa vogliono? — Che cosa? — domandò Thorvald. — La madre — disse Radegunde. — Come la vogliono anche le donne. Tutti vogliamo la madre. Mentre camminavo davanti a te sulla riva del fiume, ieri, facevo la parte della madre. Tu non facesti niente, perché non sei un giovane sciocco; ma io sapevo che prima o poi uno di voi, così tormentato dalla nostalgia da odiarmi per questo, si sarebbe rivelato. Ed è stato così: Thorfiin, con i suoi pensieri confusi tra le streghe e le nonne e chissà che altro. Sapevo che potevo fargli paura e, per suo tramite, potevo far paura a molti di voi. Quello è stato l'inizio della mia contrattazione. Nel vostro paese voi norvegesi avete troppo del padre e non avete abbastanza della madre; ed è per questo che sapete morire così bene e uccidere così bene gli altri... e vivete così male, così male. — Ecco che ricominci — disse Thorvald; ma credo che desiderasse co-
munque ascoltare. — Perdonami, amico — disse la badessa. — Voi siete uomini coraggiosi; non lo nego. Ma conosco le vostre saghe, e tutte parlano di combattimenti e battaglie; e dopo, niente felicità paradisiaca, ma la fine del mondo: tutti, persino gli dei, finiranno divorati dal lupo Fenris e dal serpente di Midgaard! Che peccato, morire valorosamente solo perché la vita non merita d'essere vissuta! Gli irlandesi sono più furbi. Gli irlandesi pagani erano eroi, con le loro regine che spesso li guidavano in battaglia; e padre Cairbre, che Dio accolga la sua anima, appena due giorni fa si lamentava che il popolino irlandese sta empiamente trasformando in una dea la Madre di Dio. Costruiscono forse santuari in onore di Cristo nostro Signore, e lo pregano? No! Loro pregano nostra Signora delle Rocce e nostra Signora del Mare e nostra Signora del Bosco e nostra signora di questo e di quello, da un capo della loro terra all'altro. E persino qui, soltanto quelli dell'abbazia parlano di Dio Padre e del Cristo. Nel villaggio, se qualcuno è malato o preoccupato, prega: Madre Santissima, salvami! e Maria Virgo, intercedi per me; e Madonna benedetta, acceca mio marito; e Nostra Signora, conserva le mie messi, e cosi via, e lo dicono gli uomini e le donne. Tutti abbiamo bisogno della madre. — Anche tu? — Più di tanti altri — rispose la badessa. — E io? — Oh, no — disse la badessa Radegunde, fermandosi all'improvviso, perché mentre parlava c'eravamo incamminati verso il villaggio. — No, ed è ciò che subito mi ha attratto a te. L'ho visto in te, e ho capito che eri il capo. Sono i seguaci che fanno il capo, lo sai, e i tuoi compagni ti hanno fatto capo, anche se forse tu non lo sai. Ciò che tu vuoi è... come posso dirlo? Sei un uomo intelligente, Thorvald, forse il più intelligente che abbia mai incontrato, ancor più dei dotti che ho conosciuto in gioventù. Ma la tua intelligenza non ha ricevuto nutrimento: è un'intelligenza del mondo e non dei libri. Tu vuoi viaggiare e conoscere la gente e i suoi costumi, e luoghi strani, e che cosa è accaduto agli uomini e alle donne del passato. Se mi porterai a Costantinopoli, non lo farai per ricavare un prezzo vendendomi, ma soltanto per andare là; hai scelto di andar per mare perché questa smania ti prudeva dentro, e alla fine non l'hai più sopportata: lo so. — Allora sei una strega — disse lui senza sorridere. — No, ho soltanto visto la tua faccia quando parlavi di quella città — disse la badessa. — E corre voce che da giovane passassi molto tempo a
Goteborg, oziando e guardando con meraviglia le navi e i mercati quando avresti dovuto essere invece nella tua fattoria. Poi disse: — Thorvald, io posso nutrire la tua intelligenza. Sono la donna più sapiente del mondo. So tutto... tutto! So più dei miei maestri; l'invento o mi viene nella mente così, non so come, ma è reale... reale! E ne so più di chiunque altro. Portami via da qui, come schiava se vuoi, ma anche come amica, e andiamo a Costantinopoli a vedere le cupole d'oro, e i muri intarsiati d'oro, e il popolo così ricco che neppure puoi immaginarlo, e tutta la città così dorata che sembra in fiamme, e dipinti alti come un muro, inseriti nei muri e tutti formati di gemme che non hanno eguali, più rosse della rosa più rossa, più verdi dell'erba, e di un azzurro che fa impallidire il cielo! — Sei veramente una strega — disse Thorvald, — e non la badessa Radegunde. Lei disse, lentamente: — Sto dimenticando, credo, come si fa ad essere la badessa Radegunde. — Allora non ti curerai più di loro — disse il norvegese, e indicò suor Hedwic, che continuava a guidare la barcollante suor Sibihd. Il viso della badessa era calmo e mite. — Mi curo di loro — disse. — Non picchiarmi, Thorvald, mai più, e sarò per te una buona amica. Cerca di tenere a freno i tuoi uomini peggiori e lascia liberi tutti i miei, o almeno più che potrai... io li conosco e ti indicherò quelli che potrete portar via causando minori sofferenze a loro e ad altri... e io nutrirò la tua curiosità e la tua intelligenza fino a quando non riconoscerai più questo vecchio mondo, per la meraviglia: te lo giuro sulla mia vita. — D'accordo — disse lui, e soggiunse: — Ma con la fortuna che ho io, la tua vita sarà altrove, chiusa in uno scrigno in vetta a una montagna, come quella del troll della leggenda; oppure tu morirai di vecchiaia mentre stiamo ancora navigando. — Sciocchezze — disse la badessa. — Sono una donna mortale e sana, e ho ancora tutti i miei denti, e ho intenzione di fare collezione di molte altre rughe. Thorvald tese la mano e lei la prese; poi il norvegese disse, scuotendo meravigliato la testa: — Se ti vendessi a Costantinopoli, in meno di un anno ne diventeresti la regina. La badessa rise allegramente, e io gridai, spaventato: — Anch'io! Porta anche me — e lei disse: — Oh, sì, non dobbiamo dimenticare il Piccolo Messaggero — e mi prese in braccio.
L'uomo alto e terribile, con la faccia vicina alla mia, disse in quel suo strano tedesco cantilenante: — Bambino, ti piacerebbe vedere le balene che saltano nel mare aperto e le foche che latrano sugli scogli? E rupi così alte che un gigante non ne toccherebbe la cima neppure tendendo le braccia? E il sole che splende a mezzanotte? — Sì — dissi io. — Ma sarai schiavo — disse lui, — e forse sarai maltrattato e dovrai sempre fare quello che ti ordinano. Questo ti piacerebbe? — No! — gridai con foga, al sicuro tra le braccia della badessa. — Combatterò! Thorvald rise fragorosamente e mi spettinò i capelli, con troppa forza, pensai, e disse: — Non sarò un cattivo padrone, perché ho il nome di Thor Barbarossa, che è forte e svelto in battaglia, ma anche bonario, e lo sono anch'io. — E la badessa mi mise giù, e così tornammo verso il villaggio, mentre Thorvald e la badessa Radegunde parlavano degli splendori del mondo e suor Hedwic diceva sottovoce: — È una santa, la nostra badessa è una santa, a sacrificarsi così per il bene della sua gente — e sempre, dietro di noi come un ricordo, venivano i singhiozzi soffocati e dementi di suor Sibihd, che era all'Inferno. Quando ritornammo venimmo a sapere che Thorfinn stava meglio e che i norvegesi sarebbero ripartiti l'indomani mattina. Thorvald fece portare un secondo pagliericcio nello studio della badessa, e quella notte dormì sul pavimento accanto a noi. Forse penserete che i suoi uomini ridessero, perché, la badessa era vecchia; ma io credo che fosse stato con una delle donne giovani prima di venire da noi. Ne aveva l'aria. Non c'erano lenzuola o coperte per la badessa, ma soltanto un vecchio mantello marrone bucato, e io e lei ce l'eravamo avvolto addosso quando Thorvald entrò e si buttò fischiettando sull'altro pagliericcio. Poi disse: — Domani, prima di partire, mi mostrerai il tesoro della vecchia badessa. — No — disse lei. — Quel patto non è stato mantenuto. Thorvald stava giocherellando con il coltello; passò il pollice sul filo. — Posso costringerti. — No — rispose in tono paziente la badessa. — E ora voglio dormire. — Dunque non hai paura della morte? — chiese lui. — Bene! È ciò che deve fare una donna coraggiosa, come cantano gli skaldi, e non deve muo-
versi neppure quando una spada affilata le taglia le ciglia. Ma se puntassi questo coltello non contro la tua gola, ma contro quella del tuo ragazzetto? Allora me lo diresti in fretta! La badessa si girò, voltandogli le spalle, sbadigliò e disse: — No, Thorvald, perché tu non lo faresti. E se lo facessi, ti disprezzerei perché dimostreresti d'essere un vigliacco mancatore di parola e per questa ragione non te lo direi. Buonanotte. Il norvegese rise e riprese a fischiettare per un po'. Quindi disse: — Era tutto vero? — Tutto che cosa? — chiese la badessa. — Oh, la statua. Sì, ma non ci fu nessun aggressore. Quello l'ho aggiunto alla storia per consolare la povera suor Hedwic. Thorvald sbuffò, deluso. — La storia! Tu racconti menzogne, badessa. Radegunde si tirò sulla testa il vecchio mantello marrone e chiuse gli occhi. — L'ha aiutata. Poi ci fu un silenzio, ma sembrava che il norvegese non riuscisse a stare tranquillo. Si spostò come se la paglia gli desse fastidio, e si girò di nuovo. Finalmente sbottò: — Ma che cosa accadde? La badessa si sollevò a sedere. Chiuse gli occhi e disse: — Forse nella tua testa di uomo non passa neppure l'idea che una vecchia si stanca, e che trattare con la gente è un lavoro difficile, o forse non pensi neppure che sia un lavoro. Bene! «Non accadde niente, Thorvald. Deve succedere qualcosa solo se questo sbatte quell'altra, o se uno dà una botta in testa a qualcun altro? Io desideravo la mia statua con tanta follia che decisi di trovarmi un vero amante umano; ma quando alzai gli occhi dalle mie fantasie agli uomini veri di Roma, e mi sturai gli orecchi per ascoltare ciò che dicevano, mi resi conto che era una cosa completamente, eternamente impossibile. Oh, quei figli cadetti con il loro torvo odio invidioso per i ricchi, e i ricchi con il naso all'aria perché si credevano molto importanti grazie al loro stupido denaro, e la timidezza dei preti verso i loro superiori, e l'orgoglio di questi, e l'odio degli artigiani per i contadini, e i contadini costretti a lavorare come bestie da mattino a notte, e metà degli uomini che vedevo picchiavano le loro mogli, e gli altri pensavano solo a derubare qualche povera ragazza del suo denaro o della sua verginità o dell'uno e dell'altra... ce n'era abbastanza per spegnere qualunque fuoco! E le donne facevano meno male solo perché avevano meno potere di farne, o almeno così mi sembrava allora. Perciò accantonai tutto, come si accantona qualunque delusione. Gli uomini non
sono tanto cattivi quando si smette di pretendere che siano dei: ma non sono fatti per me. Se questo stato è castità, allora uno stomaco debole è temperanza, credo. Ma qualunque cosa sia, ce l'ho, e questo chiude la faccenda. — Tutti gli uomini? — chiese Thorvald Einarsson con la testa da una parte, e io pensai che avesse bevuto, anche se sembrava sobrio. — Thorvald — disse la badessa, — non so immaginare che cosa possa volere da questo relitto d'un corpo anziano: ma se desideri le mie rughe e i miei seni flaccidi e i miei fianchi magri e avvizziti, fai ciò che vuoi in fretta e poi, per amor del cielo, lasciami dormire. Sono stanca morta. Lui disse, a voce bassa: — Devo aver potere su di te. La badessa allargò le mani in un gesto rassegnato. — Oh, Thorvald, Thorvald, sono una donna debole e ultraquarantenne! Dov'è il potere? Tutto ciò che posso fare è parlare! Thorvald disse: — Ecco. Ecco come fai. Parli e parli e parli e tutti fanno ciò che vuoi tu: l'ho visto! Radegunde lo fissò bruscamente. — Sta bene. Se devi. Ma se fossi in te, norvegese, preferirei andare a letto con mia madre. Ricordalo quando mi alzerai le sottane. Queste parole lo fermarono. Imprecò sottovoce, si girò sul fianco e ci voltò le spalle. Poi infilò il coltello nel bordo del suo pagliericcio, per un po'. Finalmente lo mise sotto la stoffa arrotolata che usava come cuscino. Noi non avevamo un cuscino, e così cercai di farmene uno con l'orlo del mantello, ma non ci riuscii. Poi pensai che il norvegese aveva paura di Dio che agiva per mezzo di Radegunde, e pensai a suor Hedwic che aveva cambiato colore e mi chiesi perché. Quindi pensai alle balene che saltavano, e alle foche che dovevano essere come grossi cani perché latravano, e poi le foche balzarono sulla terraferma e corsero al mio pagliericcio e mi leccarono con grandi, gelide lingue d'acqua, e io rabbrividii e sussultai, e mi svegliai. La badessa Radegunde s'era alzata (era il suo calore che mi mancava) e si stava aggirando per la stanza. Muoveva un passo e si fermava, e le sue gonne frusciavano leggermente. Stava attenta a non toccare Thorvald che dormiva. Nella camera c'era una luce fioca che proveniva dalle braci, ancora accese sotto le ceneri nel camino, ma non filtrava un filo di luce dalle imposte della finestra, chiuse per non far entrare il freddo. Vidi la badessa inginocchiarsi sotto la semplice croce di legno appesa nello studio e la sentii pronunciare qualche parola in latino; pensai che pregasse. Ma poi disse
a voce bassa: — Non invoco Apollo e le Muse, perché sono cose sorde e vane. Ma lo sei anche tu, Uomo Trafitto, sordo e vano. Si alzò e riprese a camminare avanti e indietro. Adesso, ripensandoci, mi spaventa, perché era notte alta e non c'era nessuno che la sentisse, tranne me, ma credeva che fossi addormentato; eppure continuò con quella voce bassa e calma come se fosse pieno giorno e lei stesse spiegando qualcosa a qualcuno, come se affiorassero tante cose che erano nei suoi pensieri da molti anni. Ma in quel momento non ci trovai nulla di allarmante, perché pensavo che forse erano cose che facevano tutte le badesse; e del resto non sembrava arrabbiata o spaventata; era calma come se discutesse il ricavato dell'allevamento d'api dell'abbazia (come l'avevo sentita fare varie volte) o i conti della cantina (e l'avevo sentita fare anche questo) e non era per nulla preoccupante. Perciò ascoltai mentre continuava ad aggirarsi al buio per la stanza. E disse: — Parlo, parlo, parlo, e sempre a me stessa. Ma nessuno può abbandonare i micetti e i cagnolini: sarebbe una crudeltà. E l'essere la badessa Radegunde mi dà almeno qualcosa da fare. Però sono stanca della buona badessa Radegunde: ho indossato Radegunde ogni mattina della mia vita come se fosse una veste, e ho dovuto sentir lodare tutto il giorno quella stupida creatura! Radegunde è una vera santa, Radegunde non si arrabbia mai, non è mai avida o invidiosa, la buona Radegunde si sacrifica per gli altri, e sempre quel parlare, parlare, parlare che mi ribolle nella testa, senza nessuno che ascolti o capisca, senza nessuno che risponda! No, neppure nel sud, soltanto una riga qua e una là, e tutte scritte dai morti. Sentivano ciò che io sento? Che il mondo è un enorme asilo d'infanzia pieno di litigi per i giocattoli, dove i bambini mi considerano una specie di dea benevola perché non voglio le loro bambole e i loro pezzetti di paglia e i loro cavallucci fatti di legnetti legati insieme? «Poveretti, se sapessero! È cosi facile essere temperati quando non si apprezza nulla, essere buoni quando non si ama nulla, essere intrepidi quando la vita non è meglio della morte. Ed è così facile far progetti quando il successo non ha importanza. «Non resterebbero sorpresi, mi domando, se sapessero quali erano i miei veri pensieri quando Thorfinn mi aveva puntato il coltello alla gola? Curiosità! Ma lui non lo avrebbe fatto, naturalmente: fa tutto ciò che fa per mettersi in vista. E loro penserebbero che sono due volte santa, perché non temo la morte.
«E allora perché non ti uccidi, empia suor Radegunde? È la tua religione a impedirtelo? Oh, vuoi dire i sacri pozzi, e gli alberi sacri, e i santi benedetti con le loro reliquie, e la stupidità che ha fatto vergognare suor Hedwic, e le promesse di salvezza che hanno fatto impazzire la povera Sibihd quando il corpo santissimo del suo Signore non l'ha protetta e l'amore benedetto della beata Vergine Maria non ha distolto un solo coltello? Ciarpame! Foglie e stecchi e canne che noi spazziamo via dai nostri pavimenti quando si accumulano troppo. Come se la santità avesse a che fare con tutto questo. Come se ogni luogo non fosse sacro come ogni altro, e ogni cosa non fosse santa come ogni altra, dalla merda nella pancia di Thorfinn ai sassi per terra. Come se tutti i luoghi e le cose non fossero nubi poste davanti ai nostri occhi deboli, per impedire che veniamo accecati dallo splendore eterno, dal fulgore che ci circonda, il torrente di luce che è tutto ed è in tutto! È questo che mi trattiene dal gettarmi nel fiume, ma non mi parla mai e non mi dice cosa fare, e per esso il bene e il male sono la stessa cosa... no, è qualcosa di diverso dal bene e dal male: è semplicemente... quindi non è Dio. Questo lo so. «Quindi, gente, la vostra Radegunde è una strega o un demone? È piena d'orgoglio oppure è umile? Forse è una strega. Una volta, molto tempo fa, confessai al vecchio Gerbertus che potevo vedere a grande distanza chiudendo gli occhi, e glielo dimostrai, e lui pianse per me e mi diede grandi penitenze esclamando: "Se viene da sé può essere un dono di Dio, figliola, ma molto più probabilmente è opera di un demonio, quindi non farlo!" E allora pregammo e gli dissi che il potere mi aveva abbandonata, per tranquillizzare quel povero vecchio, ma non era vero, naturalmente. Potevo ancora vedere la Turchia con la stessa facilità con cui vedevo lui, e luoghi molto più lontani; gli uomini tozzi e selvaggi delle pianure sui loro cavalli, e gli strani uomini alti, ancora più lontani, con le loro grandi città e gli occhi bizzarri, con le palpebre oblique, e poi i mari con le grandi terre selvagge e le città piene d'oro più di Costantinopoli, e ancora altra acqua fino a quando si ritorna a casa, perché il mondo è un globo come dicevano gli antichi. «Ma con il passare degli anni ho smesso. Radegunde non ne aveva mai il tempo, credo. E poi, quando aprivo quella porta c'erano soltanto figure, come in un libro, e dopo un po' le avevo viste tutte e non m'interessavano più. È l'altra porta quella che mi attrae, quando si socchiude e si affacciano cose strane, come Ranulf, il figlio della sorella di Thorvald, e il nome del suo cavallo. È una buona porta, ma è molto pesante; dopo un po' si richiu-
de sempre. Dovrò essere sul letto di morte perché si apra completamente, credo. «Il volpone dorme. È il più intelligente, finora; c'è qualcosa in lui, tanto che a volte quasi gli si può parlare. Ma è sempre un volpone, per la maggior parte. Forse col tempo... «Vediamo: si, dorme. E la cagnolina Sibihd dorme, anche se fra poco farà un brutto sogno, credo, e il gattino Thorfinn dorme, pieno di paura come quando è sveglio, con gli artigli che entrano ed escono dalle zampette, per timore che qualcosa lo strangoli nel sonno. Poi la badessa tacque e si avvicinò alla finestra chiusa come se guardasse fuori, e io pensai che stava guardando fuori, veramente, ma non con gli occhi, e vedeva tutta quella gente addormentata, ed era ciò che aveva fatto ogni notte della sua vita per accertarsi che tutti fossero sani e al sicuro. Ma non sapeva che io ero sveglio? Non dovevo cercare di riaddormentarmi prima che se ne accorgesse? Poi mi sembrò che sorridesse nel buio, anche se non potevo vederlo. Disse con lo stesso tono sommesso: — Dormi o vegli, Piccolo Messaggero? Per me è la stessa cosa. Non hai udito niente d'importante, soltanto la sciocca badessa che parla da sola, Radegunde che dice addio a Radegunde, Radegunde che se ne va... non piangere, Piccolo Messaggero, sono ancora qui. Ma, ecco, Radegunde se n'è andata. Io e il norvegese siamo simili sotto un certo aspetto: le nostre menti sono come grandi case con molte stanze chiuse a chiave. Ci affolliamo in poche stanze miserabili, come poveracci, quando potremmo muoverci liberamente in tutte, come principi. È il destino che ha rinchiuso sottochiave gran parte del norvegese... vedi, Piccolo Messaggero, non dico il suo nome neppure sottovoce, perché questo sveglia la gente... ma mi chiedo se a rinchiudere me non fu la stessa Radegunde, lei e il vecchio Gerbertus, al quale credevo, in parte... loro, e gli anni, tutti gli anni in cui ho dovuto essere Radegunde, e fare le cose che faceva Radegunde e fingere di avere i pensieri di Radegunde, e ripetere le innumerevoli, infinite menzogne che Radegunde doveva dire a tutti, e l'assoluta, incredibile solitudine di Radegunde. Tacque di nuovo. Questa volta mi meravigliai dei discorsi della badessa: diceva che non c'era quando c'era, e che viveva rinchiusa in piccole stanze, mentre l'abbazia era sicuramente la casa più splendida di tutto il mondo, e la più grande, e come poteva sentirsi sola quando tutti le volevano bene? Ma poi lei disse, con voce così bassa che la sentii appena: — Povera Radegunde! Così stanca di mentire e di ingannare gli uomini e le donne con il collare intorno al collo e l'offerta di un bocconcino se si
comportano bene, e una tiratina del guinzaglio che loro neppure notano. E con il norvegese sarà lo stesso: menzogne e adulazioni e tutto un lavoro che non finisce mai e che nessuno vede mai, e alla fine Radegunde si sdraierà come una scimmia in gabbia, debole e sofferente per!a fame, e non si rialzerà più. «Lasciala morire adesso. Ecco: Radegunde è morta. Radegunde non c'è più. Forse la porta era pesante solo perché lei stava dall'altra parte e la spingeva per non farmi passare. Forse adesso si aprirà completamente. Ho guardato in tutte le direzioni: a est, a nord e a sud, e ad ovest, ma c'è un posto dove non ho mai guardato, e ora lo farò: lontano da questa sfera, in alto. Vediamo... Smise di parlare, di colpo. Mi stavo addormentando, ma mi svegliò il silenzio. Poi sentii la badessa gemere terribilmente, come colpita a morte; quindi disse, con un bisbiglio così acuto e fremente che mi fece rizzare i capelli: Dove sei? E dopo un momento spalancò le imposte e si affacciò e gridò con tutta la forza della sua voce: Aiutami! Cercami! Oh, vieni, vieni, vieni, o morirò! Questo svegliò Thorvald. Si alzò, imprecando in norvegese, e si allacciò la cintura della spada e si portò la mano al pugnale: avevo notato che quel gesto piaceva molto ai norvegesi. La badessa taceva. Lui esalò un respiro profondo e andò ad accendere la candela di sego alle braci sotto la cenere del camino. E quando la candela si accese fumando, la mise sulla mensola. Poi disse in tedesco: — Cosa diavolo c'è, donna! Cos'è successo? La badessa si voltò. Sembrava che non ci vedesse, come se fosse abbacinata da una gioia troppo grande, come chi ha guardato il sole ed è ancora abbagliato e tutto gli pare cambiato, e il mondo sembrava tutto di Dio e tutto ciò che vi è sembra il Paradiso. Disse sottovoce, cingendosi le spalle con le braccia: — La mia gente. La gente vera. — Che cosa stai dicendo? Allora sembrò che la badessa lo vedesse, ma solo come Sibihd aveva visto noi: cioè, non con orrore, come Sibihd, ma come se ci vedesse attraverso qualcosa d'altro, come qualcuno che esce da una visione di beatitudine che ancora gli aleggia intorno. Disse, con la stessa voce sommessa: — Vengono a prendermi, Thorvald. Non è meraviglioso? È da un anno che so che sarebbe accaduto qualcosa, ma non sapevo che sarebbe stata l'unica cosa che desidero al mondo. Thorvald si cacciò le mani nei capelli. — Chi verrà? — La mia gente — disse lei, con una risata mormorante. — Non li sen-
ti? Io sì. Dobbiamo attendere tre giorni perché vengano da molto lontano. Ma allora... oh, vedrai! Lui disse: — Hai sognato. Domani partiremo. — Oh, no — disse semplicemente la badessa. — Non puoi, non sarebbe giusto. Loro mi hanno detto di attendere: hanno detto che se fossi andata via non mi avrebbero trovata. Thorvald disse: — Sei ammattita. Oppure è un trucco. — Oh, no, Thorvald — disse lei. — Come potrei ingannarti? Sono tua amica. E tu attenderai questi tre giorni, perché anche tu sei mio amico. — Sei matta — disse Thorvald, e si avviò verso la porta dello studio, ma la badessa gli si parò davanti e si gettò in ginocchio. Sembrava che l'astuzia l'avesse abbandonata completamente; o forse era stata Radegunde a possedere l'astuzia. Questa era come una bambina. Giunse le mani e le lacrime le traboccarono dagli occhi. Lo supplicò: — È una cosa da poco, Thorvald, tre giorni appena! E se non verranno, allora andremo dovunque vorrai; ma se verranno non dovrai pentirtene, te lo prometto: non sono come gli abitanti di qui, e quel luogo è molto diverso. È ciò che l'anima desidera, Thorvald! Il norvegese disse: — Alzati, donna, per amor di Dio! E lei, con un sorriso spaventato: — Se mi lasci restare, ti mostrerò il tesoro sepolto della vecchia badessa, Thorvald. Lui indietreggiò, indignato. — Ecco la vecchia strega coraggiosa che non teme la morte! — disse. Si avviò verso la porta, ma la badessa si alzò di nuovo, svelta, come un serpente, e si buttò contro l'uscio. E gli disse, sempre con quella strana innocenza: — Non picchiarmi. Non spingermi. Sono tua amica! E lui: — Vuoi dire che hai intenzione di portarmi in giro con un cordone intorno al collo, come se fossi un'oca. Be', io sono stanco! — Ma non posso più farlo — disse la badessa, ansimando. — Non posso più farlo, ora che la porta si è aperta. Non posso. — Lui alzò il braccio per picchiarla e la badessa si rannicchiò gemendo: — Non picchiarmi! Non provocarmi! No, Thorvald! Lui disse: — Allora togliti di mezzo, vecchia strega! La badessa incominciò a piangere e a singhiozzare. — Una è qui, ma un'altra verrà! Una è sepolta, ma un'altra si leverà! Verrà, Thorvald! — E quindi, con voce bassa, in fretta: — Non spalancare l'ultima porta. Dietro c'è qualcosa che è malvagio, e io ho paura... — Ma si vedeva che il norvegese era furioso e deluso e non voleva ascoltare. La colpì per la seconda
volta, e lei cadde di nuovo, ma con un grido disperato, coprendosi la faccia con le mani. Lui tolse il catenaccio alla porta e la scavalcò, e io sentii i suoi passi nel corridoio. Vedevo chiaramente la badessa; allora non mi chiedevo come fosse possibile, con le ombre della candela di sego che quasi nascondevano tutto sulla loro danza ebbra, ma vedevo chiaramente ogni linea della sua faccia come se fosse pieno giorno, e in quella luce vidi Radegunde che ci lasciava. Siete mai stati alla corte di un grande re o di un conte e avete ascoltato i cantastorie? Certuni sono così esperti nell'arte che non soltanto vi narrano ciò che il personaggio della storia fece o disse, ma esprimono l'azione con la faccia e col corpo, come se fossero davvero quell'uomo o quella donna, e perciò per voi è una grande sorpresa, quando il racconto finisce, perché quasi credete di aver visto la vicenda svolgersi sotto i vostri occhi, ed è come se quell'uomo o quella donna avesse smesso improvvisamente di esistere, perché avete dimenticato che c'erano soltanto un cantastorie e una storia. Avvenne così con la donna che era stata Radegunde. Non cambiò: aveva ancora i capelli grigi e la faccia grinzosa e il corpo di vecchia nell'abito marrone da contadina, eppure era una sconosciuta, uscita dalla badessa Radegunde come da una veste lasciata cadere sul pavimento. La sconosciuta era insensibile, sebbene le lacrime di Radegunde le scorressero ancora sulle guance, e in lei non c'erano bontà e gioia. Si alzò senza curarsi del suo abito al quale s'erano appiccicate le canne sporche; era come se l'abito fosse un accidente casuale e non la riguardasse. Disse con una voce che non avevo mai sentito, una voce insensibile, come se io non contassi nulla per lei, e neppure Thorvald Einarsson, come se noi due non meritassimo una seconda occhiata: — Thorvald, voltati. In fondo al corridoio qualcosa si mosse. — Ora torna indietro. Qui. Sentii i passi avvicinarsi. Poi il norvegese grande e grosso entrò goffamente nella stanza, a sussulti, come se ad ogni passo fosse trascinato da una corda. Il sudore gli imperlava la faccia. Disse: — Tu... come? — Perché è la mia natura — disse lei. — Alza il braccio destro, volpone. Ora il sinistro. Ora abbassali tutti e due. Bene. — Troll! — disse lui. — È così — disse lei. — Ora ascoltami, tu. C'è un uomo dentro di te, ma non val la pena di cercarlo; ho provato qualche minuto fa quando ero ap-
pena uscita dall'uovo, ed è sepolto troppo profondamente, ma adesso mi sono cresciuti rostro e artigli e non m'importa nulla di lui. È quasi l'alba e i tuoi ragazzi si stanno svegliando; andrai a dir loro che dobbiamo restar qui ancora per tre giorni. Tu conosci i cambiamenti del tempo: inventa qualcosa in modo che ti credano. E non provarti a raccontare a qualcuno ciò che è successo qui stanotte: ti accorgerai che non puoi farlo. — Uomini... a me — disse Thorvald, e cercò di girare la testa, ma lo sforzo riuscì soltanto a farlo sudare. Lei inarcò le sopracciglia. — Perché dovrebbero venire? Nessuno ha sentito nulla. Non è successo nulla. Tu uscirai e sarai come al solito e io reciterò la parte di Radegunde. Per tre giorni appena. Poi sarai libero. Thorvald non si mosse. Si vedeva che restare immobile era un tormento: il sudore grondava e lui si tendeva, e tutti i muscoli si gonfiavano. Lei disse: — Volpone, fai del male a te stesso. E non provocarmi; non ho nessuna simpatia per te. Uso la mano leggera solo perché mi sembri ancora un po' meno inumano degli altri; non costringermi a usare una mano più pesante. Per dirla chiaramente: ho appena spezzato il collo di Thorfinn, perché trovo che il cambiamento lo migliori. Non costringermi a fare altrettanto a te. — Non puoi fare... niente di peggio della morte... — disse Thorvald a stento. — Ah, no? — disse lei, e dopo un momento lui urlò e si portò le mani agli occhi. Lei disse: — Aprili, aprili; hai di nuovo la vista. — E poi — Non voglio prendermi il disturbo di pensare qualcosa di peggio, come i vermi nelle tue budella. Oppure preferisci che muoiano i tuoi figli e tua moglie? Ora va'. «E comportati come sempre — soggiunse bruscamente, e il colosso si voltò e uscì. A guardarlo, sarebbe stato impossibile capire che aveva qualcosa di anormale. Non mi era dispiaciuto veder punito un uomo tanto malvagio, i cui amici avevano ucciso i nostri e avrebbero voluto prenderci come schiavi... però in un certo senso mi dispiaceva per via delle foche che latravano e delle balene... eppure dimenticai davvero tutto nel momento in cui usci, perché avevo terrore di quella persona sconosciuta, o di quel demonio o quello che era, perché sapevo che chiunque ci fosse, in quella stanza con me, non era la badessa Radegunde. E sapevo che era in grado di dire dov'ero e che cosa facevo, anche se non facevo rumore, e non capii che cosa avrei dovuto fare quando le dita mi toccarono la faccia. Era il demonio, che tendeva
le mani in fretta e in silenzio. E sapete, all'improvviso tutto ritornò normale! Non voglio dire che era di nuovo la badessa (avevo ancora molti dubbi al riguardo) ma all'improvviso mi sentivo leggero come l'aria e non c'era niente che avesse molta importanza perché avevo lo stomaco pieno di bollicine di felicità; come se fossi ubriaco, ma era molto più bello. Se la badessa Radegunde era davvero un demonio, che scherzo per la sua gente! E adesso che ci pensavo, non sembrava un demonio cattivo, era il tipo che spaventa più che quello che uccide, a parte Thorfinn, naturalmente, ma del resto Thorfinn era stato molto malvagio. E non era vero che gli angeli del Signore colpivano i malvagi? Quindi forse la badessa era un angelo del Signore e non un demonio; ma se era davvero un angelo, perché non aveva colpito i norvegesi appena arrivati, perché non aveva salvato tutti i nostri? E poi pensai che, angelo o demonio, non era più la badessa, e non mi avrebbe più voluto bene, e se non fossi stato così pieno della sciocca felicità che mi faceva il solletico dentro, quel pensiero mi avrebbe fatto piangere. Le chiesi: — Il cattivo Thorvald si libererà, demonio? — No — disse lei. — Neppure se io dormirò. Io pensai: ma non mi vuole più bene. — Ti voglio bene — disse la voce strana, ma non era quella della badessa Radegunde, e quindi non aveva significato: ma le dita morbide mi toccarono di nuovo, ed erano gentili, anche se era la gentilezza di un'estranea. Dormi, dicevano quelle dita. E così dormii. Nei tre giorni che seguirono mi divertii molto, segretamente, nel vedere la gente che s'inchinava al demonio e gli baciava le mani e piangeva perché si era venduto per riscattare gli altri. Così aveva raccontato suor Hedwic. Il giovane Thorfinn era uscito di notte per pisciare, e al buio era inciampato in un sasso e si era rotto l'osso del collo, e i nostri erano contenti, ma anche ai suoi compagni sembrava non importasse molto, a parte un giovane che era stato suo amico, credo, e che andava in giro con la faccia lunga. Thorvald mi chiudeva con il demonio nello studio della badessa tutte le notti e se ne andava, così diceva la gente, a trovare una delle donne giovani; ma quelle notti il demonio taceva, e io stavo sdraiato con il formicolio segreto dell'allegria nello stomaco, e non mi preoccupavo di niente. La terza mattina mi svegliai sobrio. Il demonio, o la badessa (perché di giorno era così simile alla badessa Radegunde che non sapevo più cosa
pensare) mi prese per mano e mi condusse da Thorvald, che stava scegliendo gli schiavi da caricare sulle barche dei norvegesi. La gente stava lì, e piangeva e si torceva le mani: e mi sembrava strano perché la badessa aveva promesso di scegliere quelli la cui partenza avrebbe causato minori sofferenze; ma oggi so che una minore sofferenza non significa non soffrire affatto. Il tempo era pessimo, nebbia e pioggia fredda, e alcuni dei compagni di Thorvald gli parlavano con aria acida in norvegese, ma lui rispondeva con allegra sicurezza, prendendo alla leggera il tempo. Il demonio gli andò vicino e gli disse in tedesco, a voce bassa perché nessun altro sentisse: — Ora di' che andiamo in cerca del tesoro della badessa, e poi vieni con noi nel bosco. Thorvald parlò ai suoi compagni in norvegese e quelli si accigliarono; ma alla fine venne deciso che altri due venissero con noi, perché il demonio diceva che occorrevano tre uomini per portare il tesoro. Il demonio aveva l'aspetto e la voce della badessa Radegunde, tutta sorrisi, e quelli si lasciarono ingannare. Così ci addentrammo fra gli alberi dietro il villaggio, mentre la pioggia diventava più forte e il terreno incominciava ad ammollarsi sotto i piedi. Non appena il villaggio fu fuori di vista, i due norvegesi rimasero distanziati, ma Thorvald non sembrò notarlo; mi voltai indietro e vidi il primo uomo fermo nel fango, con un piede alzato come un'oca, e il secondo con la testa sollevata e la bocca aperta e la pioggia che vi cadeva dentro. Continuammo a camminare, con la terra che si attaccava alle scarpe, e l'acquazzone che ci infradiciava: Thorvald aveva i capelli incollati alla faccia, e il vecchio mantello marrone s'era appiccicato addosso al corpo del demonio. Poi all'improvviso, il demonio incominciò ad ansimare e si portò la mano al fianco con un grido. Il mantello cadde, e il demonio avanzò barcollando tra gli alberi: non piangeva, ma respirava a fatica. Allora vidi davanti a noi, sotto gli scrosci di pioggia, una specie di splendore fra i tronchi nudi, e quando ci avvicinammo lo splendore divenne più nitido, fino a quando potei vederlo bene: non era come un fuoco nella notte, ma una luce mite e serena, come il sole quando passa attraverso le nubi, dolcemente ma senza forza, come accade spesso all'inizio dell'anno. E in quello splendore c'era gente, uomini e donne tutti vestiti di bianco, e ci tendevano le braccia, e il demonio corse verso di loro, gridando a gran voce e piangendo, senza badare ai rami degli alberi che gli urtavano il viso e il corpo. A volte cadeva, ma si rialzava in fretta. Quando raggiunse quegli strani esseri loro l'abbracciarono, e io pensai che il sudiciume e il fango cadeva e si staccava senza sporcare gli indumenti candidi. Nessuno di que-
gli esseri strani disse una parola, e neppure la badessa (allora capii che non era un demonio) ma li sentii parlarsi, li sentii con la mente, anche se non so come fosse possibile e non capivo il senso di ciò che dicevano. Una cosa strana fu che quando mi avvicinai vidi che non stavano sul terreno, come avviene in natura, ma più in alto, all'interno dello splendore, e che le loro vesti bianche erano completamente diverse dalle nostre perché aderivano al corpo, e si vedevano le gambe fino al punto dove si uniscono, persino le gambe delle donne. E alcuni erano come noi, ma moltissimi avevano un colorito più scuro, e sembrava che certuni si fossero spalmati di fuliggine (ne esistono nelle parti lontane del mondo, come scoprii più tardi, e quello è il loro colore naturale) e certuni avevano gli strani occhi obliqui di cui aveva parlato la badessa... ma la cosa più strana non ve la dirò subito. Quando la badessa li ebbe abbracciati e baciati tutti, e tutti ebbero pianto, si voltò a guardarci: Thorvald immobile come se fosse trattenuto da una corda, e io, che non avevo più paura e mi ero avvicinato furtivamente con reverenza, perché c'era una grande gioia che circondava quella gente, come la loro luce, mite come la luce di primavera, ma forte come in una primavera dove l'inverno se n'è andato per sempre. — Vieni qui, Thorvald — disse la badessa, e dalla sua espressione non si capiva se l'amava o l'odiava. Lui si avvicinò, a scatti, e lei si chinò a toccargli la fronte con le dita; e Thorvald aggricciò le labbra come un cane quando ringhia. — Come sai — disse la badessa senza alzare la voce, — io ti odio e voglio vendicarmi di te. L'ho giurato a me stessa tre giorni fa, e sono promesse che non s'infrangono facilmente. Lo vidi ringhiare di nuovo e distogliere gli occhi da lei. — Tra poco dovrò andare — disse la badessa, impassibile, — perché non potrei restar qui ancora per molti anni semplicemente come Radegunde, e Radegunde non esiste più: nessuno di noi può rimanere qui a lungo con la propria personalità e con il proprio corpo, perché se lo facessimo impazziremmo come Sibihd o ci getteremmo nel fiume e annegheremmo o arresteremmo il nostro cuore perché il vostro mondo ci appare troppo infelice, perverso e brutale. Non possiamo venire in gran numero, perché siamo pochi e non abbiamo molta forza, e abbiamo molte cose da imparare e dobbiamo studiare la vostra gente per poter insegnare e aiutare senza rovinare tutto nella nostra ignoranza. E ignoranti o sapienti che siamo, non possiamo far nulla se la vostra gente non ci aiuta. «Ecco la mia vendetta — disse la badessa, e Thorvald si torse sotto il
tocco delle sue dita, sebbene fossero così lievi. — D'ora in poi non sarai Thorvald il contadino o Thorvald il navigatore, ma Thorvald il Pacificatore, Thorvald l'Odiatore della Guerra, che soffre per lo spargimento del sangue e si angoscia per la crudeltà. Non posso darti una lunga vita, perché questo dono non sono in grado di farlo, ma ti dò questo: fino alla fine dei tuoi giorni, lunghi o brevi, sentirai sempre intorno a te la presenza, come la sento io, e tu saprai che non è né buona né cattiva, come lo so io, e questo ti turberà e ti spaventerà sempre, come spaventa e turba me, e per questo, come per tante altre cose, Thorvald il Pacificatore non avrà mai pace. «Ora, Thorvald, torna al villaggio e annuncia ai tuoi compagni che sono stata assunta fra i santi, in Cielo. Puoi crederlo, se vuoi. Questa è la mia vendetta. Poi ritrasse la mano, e Thorvald si voltò e si allontanò da noi come in sogno, tendendo la mano come per sentire la pioggia e incespicando ogni tanto, come chi si ridesta da una visione. Allora incominciai ad addolorarmi, perché sapevo che lei se ne sarebbe andata con quella gente strana, e mi sembrava che tutto l'amore e la tenerezza e la luce del mondo stessero per lasciarmi. Mi avvicinai a lei, con l'intenzione di saltare segretamente sul luogo splendente e andar via con loro, ma lei mi vide e disse: — Tu non puoi, sciocco Radulphus — e quel tu mi fece soffrire più di ogni altra cosa, e incominciai a piangere. — Figliolo — disse la badessa, — vieni qui — e piangendo a gran voce mi appoggiai alle sue ginocchia. Sentivo lo splendore intorno a me, luminoso e piacevole e caldo che cancellava ogni affanno, e poi la mano della badessa sui miei capelli. Lei disse: — Ricordami. E sii... felice. Annuii. Avrei voluto trovare il coraggio di guardarla in faccia, ma quando alzai gli occhi se ne era già andata con i suoi amici. Non su nel cielo, capite, ma come se si fossero mossi rapidamente a ritroso fra gli alberi, anche se chissà come gli alberi erano ancora dietro di loro, e mentre si muovevano lo splendore e le persone svanirono nella pioggia fino a quando non rimase più nulla. Poi non piovve più. Non voglio dire che le nubi si aprirono o che si affacciò il sole: voglio dire che un momento prima pioveva e faceva freddo, e un momento dopo il cielo era azzurro e sereno dappertutto, ed era un tempo splendido, assolato, con una brezza adatta per navigare. Avevo la sensazione stranissima che quella gente non fosse tutta d'accordo per compiere quel grande miracolo (era difficile anche per loro) ma che poi avesse
deciso che nessuno l'avrebbe creduto più di tutti gli altri miracoli di cui si parla, credo. E sicuramente avrebbe reso più facile il compito di Thorvald quando fosse tornato a fare quegli strani discorsi sui santi e il Paradiso, e infatti fu così. Ecco, la storia è tutta qui. Lei mi disse: — Sii felice — e io lo sono: ora mi chiamano Radulf il Felice. Ho avuto la mia parte di guai e di malattie, ma c'è sempre dentro di me un piccolo nucleo di calore e di gioia che mi rende tutto più facile, come il fuoco d'un viandante che arde in una notte fredda nella foresta. Quando sono molto addolorato, rammento le sue dita che mi toccavano i capelli, e questo basta per attutire la sofferenza. Quindi forse ho avuto il dono migliore, dopotutto. E lei mi disse anche — Ricordami — e perciò ho ricordato, ogni piccolo particolare, anche se avvenne quando avevo l'età che oggi ha mio nipote, ed è per questo che oggi posso raccontarvi questa storia. E gli altri? Tre giorni dopo la partenza dei norvegesi, Sibihd ricuperò il senno, e nessuno sapeva come fosse accaduto, anche se io credo di saperlo! In quanto a Thorvald Einarsson, ho saputo che dopo che sua moglie morì in Norvegia andò in Inghilterra e là finì i suoi giorni come frate in un convento, ma non so se questo sia vero o no. So questo, invece: anche se mi chiamano Radulf il Felice, ci sono ancora tante cose che mi turbano. La badessa Radegunde era un demonio, come dice il prete nuovo? Non posso crederlo, anche se quando gliel'ho chiesto lui ha risposto che metà delle parole di Radegunde erano assurdità, e l'altra metà erano bestemmie. Padre Cairbre, prima che i norvegesi lo uccidessero, ci aveva raccontato molte storie dei Sidhe, cioè del popolo fatato irlandese: quelli lasciano creature scambiate nelle culle degli umani. E per un po' pensai che Radegunde dovesse essere una donna dei Sidhe, perché sapeva leggere il latino a due anni, ed era un prodigio di sapienza quando era ancora tanto giovane, dato che quelli che i Sidhe lasciano nelle culle degli umani non sono i loro bambini, capite, ma adulti, che hanno centinaia e centinaia d'anni, e alla fine gli altri del popolo fatalo tornano sempre a riprenderseli. Eppure questo non è possibile, perché padre Cairbre diceva anche che i Sidhe sono capricciosi e crudeli e non hanno anima; e la badessa Radegunde e coloro che vennero a prenderla non erano affatto così, anche se lei ruppe il collo a Thorfinn... però può darsi benissimo che Thorfinn se lo rompesse da solo per caso, come pensammo tutti allora, e che lei dicesse a Thorvald che era stata opera sua soltanto per spaventarlo. La badessa Radegunde aveva un'anima, con le gioie e le sofferenze di un'anima,
più di tanti di noi, qualunque cosa dica il prete nuovo. Lui non l'ha mai vista, e non ha mai sentito la sua angoscia e la sua solitudine, e non l'ha sentita parlare della luce sfolgorante che ci circonda... e quella luce che cosa può essere se non Dio stesso? Anche se diceva che il crocifisso era una cosa sorda e vana, sicuramente non intendeva Cristo ma soltanto quel pezzo di legno, perché ripeteva sempre alle suore che Cristo era in cielo e non sul muro. E se diceva che la luce non era buona né cattiva, ebbene, un dotto irlandese itinerante mi ha parlato di un santo monaco cristiano, Agostino, il quale ci insegna che tutto ciò che esiste è bene, e che il male è soltanto la mancanza del bene, come un posto vuoto. E se la badessa disse davvero che non c'era un Dio, io affermo che quello era il peccato della disperazione, e anche i santi possono peccare, purché si pentano, e io credo che lei si pentisse, alla fine. Io mi dico tutto questo, eppure so che la badessa non era una santa: perché i santi sono forse pochi e deboli, come disse lei? No, sicuramente! E poi c'è una cosa che non ho ancora raccontato, un piccolo particolare che forse vi farà ridere e forse non significa nulla, ma comunque ecco qui: I santi sono calvi? Quegli esseri biancovestiti avevano le facce giovani, ma erano calvi come uova: non avevano un solo capello sulla testa! Bene, Dio può radere i suoi santi se così Gli piace, immagino. Ma io so che non era una santa. E poi credo che uccise Thorfinn e che la luce non fosse Dio, e che lei non fosse cristiana e forse neppure umana; e ricordo che per lei Radegunde era soltanto una veste che poteva togliersi a volontà, e che odiava e disprezzava Thorvald, fino a quando fu felice e al sicuro tra la sua gente. O forse era come quel discorso sulla vita in una casa con le stanze chiuse; quando smise d'essere Radegunde, prima tornò una parte di lei, e poi l'altra, la parte gioiosa che non sapeva mentire e tramare, e poi la parte incollerita; e le due parti si riunirono quando fu di nuovo tra i suoi. E poi rinuncio a cercare di ponderare e torno a riscaldarmi l'anima al fuocherello che accese dentro di me, quel luogo caldo e luminoso nel buio pieno di vento. Ma c'è qualcosa che mi turba anche là, e che non si acquieta con il ricordo del tocco della badessa sui miei capelli. E mi turba sempre di più, via via che invecchio. Fu l'ultima cosa che mi disse, e che non vi ho ancora raccontato, ma lo riferirò adesso. Quando mi ebbe fatto il dono della contentezza, mi sentii così felice che dissi: — Badessa, hai annunciato che volevi vendicarti di Thorvald, ma non hai fatto altro che trasformarlo in un
uomo buono. Questa non è una vendetta! Mi sbalordii della reazione alle mie parole, perché all'improvviso tutto il colore defluì dal suo volto e lo lasciò cinereo. Mi sembrò invecchiata di colpo, come un teschio, sebbene stesse lì tra i suoi nell'amore e nella gioia che si irradiavano da loro con tanta forza che persino io potevo sentirli. Mi rispose: — Non l'ho cambiato. Gli ho prestato i miei occhi, ecco tutto. — Poi guardò alle mie spalle, in direzione del nostro villaggio, dove i norvegesi caricavano sulle barche gli schiavi piangenti, e di tutti i villaggi della Germania e dell'Inghilterra e della Francia dove i poveri sudano dall'alba all'imbrunire perché i grandi signori possano combattersi tra loro, e i castelli assediati dove gli affamati mangiano topi e ratti e a volte si mangiano tra loro, e le donne rapite o violentate e picchiate, le madri che gemono per i loro piccini, e oltre tutto questo il grande, immenso mondo con le sue battaglie che credevo così grandi, e l'infelicità e l'avidità e la paura e l'invidia e l'odio di tutti, eccettuati forse pochi selvaggi, così lontani da noi che è difficile vederli. La badessa mi chiese: — Non è una vendetta? La pensi così, figliolo? — E poi disse, con il tono di chi crede assolutamente, e ha veduto tutta la gente vivere e morire, non per un anno ma per molti anni, non in un luogo ma in tutti i luoghi, e conosce tutto il mondo: — Pensaci meglio... SERVIZIO ANTINCENDIO Firewatch di Connie Willis Isaac Asimov's SF Magazine, febbraio 1982 È ovvio che, se si riuscisse a inventare un metodo pratico ed efficace per viaggiare nel tempo, una delle categorie che ne trarrebbe più vantaggi sarebbe quella degli storici, che avrebbero la possibilità di tornare in quei periodi del passato ancora oscuri per compiere ricerche più accurate. Questo racconto lungo di Connie Willis, uno dei talenti più interessanti delle nuove generazioni fantascientifiche (ha già vinto due premi Nebula e uno Hugo), narra appunto l'avvincente resoconto delle disavventure di uno storico del ventunesimo secolo nella Londra del turbolento 1940. «La storia ha trionfato sul tempo, sul quale, oltre ad essa, soltanto l'eternità ha trionfato. »
Sir Walter Raleigh 20 settembre - Naturalmente la prima cosa che ho cercato è stata la lapide commemorativa del servizio antincendi. E naturalmente non c'era ancora. Non era stata inaugurata fino al 1951, con un discorso del molto reverendo decano Walter Matthews, e l'anno era soltanto il 1940. Lo sapevo. Ero andato a vedere la lapide appena ieri, con l'idea infondata che servisse a qualcosa vedere la scena del delitto. Non era servito a niente. Le sole cose che sarebbero servite erano un corso accelerato su Londra all'epoca del Blitz e un po' più di tempo. Niente da fare. — Viaggiare nel tempo non è come prendere la metropolitana, Mr. Bartholomew — aveva detto lo stimato Dunworthy, sbattendo le palpebre dietro gli occhiali antiquati. — O si presenta il venti, o non va affatto. — Ma non sono pronto — avevo ribattuto. — Senta, ho impiegato quattro anni per prepararmi a viaggiare con San Paolo. San Paolo. Non la cattedrale di San Paolo. Non potete pretendere che mi prepari in due giorni per Londra all'epoca del Blitz. — Sì — aveva detto Dunworthy. — Possiamo pretenderlo. — Fine della conversazione. — Due giorni! — avevo gridato alla mia compagna di stanza, Kivrin. — E tutto perché un computer ha fatto un errore. E lo stimato Dunworthy non ha battuto ciglio quando gliel'ho detto. Viaggiare nel tempo non è come prendere la metropolitana, giovanotto — mi fa. — Le consiglio di prepararsi. Partirà dopodomani. Quell'uomo è un incompetente! — No — aveva risposto lei. — Non lo è. È il migliore che abbiamo qui. È stato lui che ha scritto il libro sulla cattedrale di San Paolo. Forse dovresti ascoltare quello che dice. Mi ero aspettato che Kivrin mostrasse almeno un po' di comprensione. Era diventata quasi isterica quando le avevano cambiato la prova pratica dall'Inghilterra del secolo decimoquinto a quella del decimoquarto; e quei due secoli, del resto, che qualifica avevano come prova pratica? Anche tenendo conto delle malattie infettive, non poteva essere più di un cinque. Il Blitz era otto, e San Paolo, con la mia fortuna, era dieci. — Credi che dovrei andare a parlare di nuovo con Dunworthy? — le ho chiesto. — Sì. — E poi? Ho due giorni in tutto. Non conosco la moneta, la lingua, la storia. Niente.
— È un uomo in gamba — ha detto Kivrin. — Credo che faresti meglio ad ascoltarlo finché puoi. — Cara vecchia Kivrin. Sempre così comprensiva. L'uomo in gamba era responsabile del fatto che fossi lì, appena oltre la porta occidentale spalancata, a guardarmi intorno come il ragazzo di campagna che fingevo di essere, e a cercare una lapide che non c'era. Grazie all'uomo in gamba, ero impreparato per la mia prova pratica per quanto gli era stato possibile rendermi tale. Non potevo vedere più di qualche metro all'interno della chiesa. Riuscivo a scorgere una candela che brillava fioca in lontananza, e una macchia bianca più vicina che avanzava verso di me. Un sagrestano, o forse il reverendo decano in persona. Ho tirato fuori la lettera dello zio ecclesiastico del Galles che avrebbe dovuto permettermi di farmi ricevere dal decano, e ho battuto la mano sulla tasca posteriore per assicurarmi di non aver perso la microfiche del Dizionario Inglese di Oxford, edizione riveduta con supplementi storici che avevo fregato di nascosto alla Biblioteca Bodleiana. Non potevo tirarla fuori nel bel mezzo della conversazione, ma con un po' di fortuna avrei potuto sfangarmela durante il primo incontro basandomi sul contesto, e controllare più tardi. — È dell'aerrepi? — ha chiesto l'uomo. Non era più vecchio di me; era più basso di tutta la testa e molto più magro. Aveva un'aria quasi ascetica. Mi rammentava Kivrin. Non era vestito di bianco; il bianco se lo stringeva al petto. In altre circostanze avrei pensato che fosse un cuscino. In altre circostanze avrei capito quello che mi stava dicendo, ma non avevo avuto il tempo di disimparare il latino sub-mediterraneo e la legge ebraica e di imparare il cockney e i regolamenti in caso d'incursioni aeree. Due giorni, e lo stimato Dunworthy che aveva voglia di parlare dei sacri oneri dello storico anziché spiegarmi cos'era l'aerrepi. — È così? — ha insistito l'uomo. Ho pensato di tirar fuori la microfiche, dopotutto, con la scusa che il Galles era un paese straniero, ma non credevo che nel 1940 avessero le microfiche. Aerrepi. Poteva essere qualunque cosa, incluso un nomignolo del servizio antincendio, nel qual caso non era prudente rispondere di no. — No — dissi. All'improvviso l'uomo è scattato, mi è passato accanto e ha sbirciato dalla porta aperta. — Accidenti — ha detto tornando da me. — Allora dove sono? Che branco di smorfiose borghesi fannullone! — E tanti saluti alla speranza di arrangiarmi con il contesto.
Mi ha squadrato attentamente, insospettito, come se pensasse che mi limitavo a fingere di non essere dell'aerrepi. — La chiesa non è aperta — ha detto finalmente. Ho mostrato la busta e ho detto: — Mi chiamo Bartholomew. C'è il decano Matthews? Lui ha guardato fuori dalla porta ancora per un momento come se si aspettasse di veder arrivare da un momento all'altro le fannullone borghesi e avesse intenzione di aggredirle con quel fagotto bianco; poi si è voltato e ha detto, come se fosse un cicerone: — Da questa parte, prego — e si è avviato nell'oscurità. Mi ha condotto a destra e lungo la corsia sud della navata. Grazie a Dio avevo imparato a memoria la pianta della chiesa, altrimenti in quel momento, avventurandomi nel buio totale, preceduto da un sagrestano farneticante, la bizzarra metafora della mia situazione sarebbe stata sufficiente per indurmi a fuggire dalla porta ovest e a tornare a St. John's Wood. Mi aiutava un pochino sapere dov'ero. Dovevamo aver superato il numero ventisei, il quadro di Hunt, «La luce del mondo», Gesù con la lanterna. Ma era troppo buio per vederlo. La lanterna avrebbe fatto comodo a noi. L'uomo si è fermato di colpo davanti a me, continuando a farneticare. — Non avevamo chiesto lo stramaledetto Savoy, ma soltanto qualche branda. Nelson sta meglio di noi... almeno ha un cuscino. — Ha agitato il fagotto bianco come una torcia nella tenebra. Era proprio un cuscino, dopotutto. — Le abbiamo chieste più di due settimane fa, e invece eccoci ancora qui a dormire sui maledetti generali di Trafalgar perché quelle smorfiose vogliono giocare a té e biscotti con i tommies al Victoria, e noi possiamo anche andare al diavolo! Sembrava che non si aspettasse una mia risposta a quello sfogo, ed era meglio così, perché avevo capito forse una parola-chiave su tre. Lui ha continuato ad avanzare ed è sparito dalla luce dell'unica, patetica candela sull'altare. Si è fermato di nuovo davanti al buco nero. Numero venticinque: la scala per la cosiddetta Whispering Gallery, la Cupola, la biblioteca (non aperta al pubblico). Su per la scala, avanti per un corridoio, nuova fermata davanti a una porta medievale. L'uomo ha bussato. — Devo andare ad aspettarli — ha detto. — Se non mi trovano, sono capaci di portarle all'Abbazia. Preghi il decano di richiamarli di nuovo, per piacere. — E ha ridisceso la scala di pietra, continuando a stringersi il cuscino al petto. Aveva bussato, ma la porta era almeno una trentina di centimetri di quercia massiccia, ed era evidente che il molto reverendo decano non ave-
va sentito. Avrei dovuto bussare di nuovo. Sì, bene, e l'uomo che tiene la microbomba deve decidersi a mollarla, ma anche sapere che sarà tutto finito in un momento e non sentirai niente non rende certo più facile dire «Ora!» Perciò sono restato davanti alla porta, maledicendo la facoltà di storia e lo stimato Dunworthy e il computer che aveva commesso un errore e mi aveva portato davanti a quella porta scura, armato esclusivamente della lettera di uno zio fittizio del quale non mi fidavo più di quanto mi fidassi di tutti gli altri. Persino la vecchia, attendibile Biblioteca Bodleiana mi aveva tradito. Il materiale di ricerca che avevo ordinato tramite Balliol e il terminale probabilmente in quel momento mi stava aspettando in camera mia, lontano un secolo. E Kivrin, che aveva già effettuato la prova pratica e avrebbe dovuto subissarmi di consigli, non aveva fatto altro che gironzolarmi intorno, muta come una santa, mentre io la supplicavo di darmi una mano. — Sei stato a parlare con Dunworthy? — mi aveva chiesto. — Sì. Vuoi sapere quale inestimabile informazione aveva da darmi? Il silenzio e l'umiltà sono i sacri oneri dello storico. Inoltre mi ha detto che San Paolo mi sarebbe piaciuto. Auree gemme del maestro. Purtroppo, io ho bisogno di sapere i tempi e i posti delle bombe, in modo che non mi cadano addosso. — Mi ero buttato sul letto. — Hai qualche suggerimento da darmi? — Sei abile nel recupero della memoria? — aveva chiesto lei. Mi ero sollevato a sedere. — Piuttosto abile. Credi che dovrei assimilare? — Non c'è tempo — aveva risposto lei. — Credo che dovresti mettere tutto quello che puoi direttamente a lungo termine. — Vuoi dire le endorfine? — ho detto. Il problema più grosso, quando usi le sostanze ausiliarie per la memoria allo scopo di mettere le informazioni nella tua memoria a lungo termine, è che neppure per un microsecondo ti si piazzano nella memoria a breve termine, e questo complica il recupero e lo rende snervante. Ti dà una sconvolgente sensazione di déjà vu sapere all'improvviso qualcosa che sei sicuro di non aver mai visto né sentito. Ma forse il problema principale, però, non sta nelle sensazioni strane, bensì proprio nel recupero. Nessuno sa esattamente come faccia il cervello a pescare ciò che vuole nel materiale immagazzinato; ma senza il minimo dubbio c'è di mezzo la memoria a breve termine. Il tempo a volte microscopico che un'informazione passa nella memoria a breve termine viene
evidentemente usato per qualcosa d'altro, oltre alla disponibilità «sulla punta della lingua». L'intero, complesso procedimento di selezione e archiviazione del recupero è apparentemente incentrato sulla memoria a breve termine; e senza quella, e senza l'aiuto delle sostanze che gliela mettono dentro o dei surrogati artificiali, l'informazione può essere irrecuperabile. Io avevo usato le endorfine per gli esami e non avevo mai avuto difficoltà per il recupero, e sembrava proprio che fosse l'unico modo per immagazzinare tutte le informazioni di cui avevo bisogno nel poco tempo che mi era rimasto; ma voleva anche dire che io non avrei conosciuto mai le cose che dovevo sapere, neppure il tempo sufficiente per dimenticarle. Se e quando sarei riuscito a recuperare le informazioni, le avrei conosciute. Fino a quel momento ero ignorante come se non le avessi immagazzinate in qualche angolo polveroso della mia mente. — Puoi effettuare il recupero senza bisogno di sostanze artificiali, vero? — mi aveva chiesto Kivrin con aria scettica. — Credo che dovrò farlo. — Sotto tensione? Senza dormire? Bassi livelli corporei di endorfine? — Com'era andata esattamente la sua prova pratica? Lei non ne aveva mai parlato e quelli che non sono ancora laureati non possono permettersi di far domande. Fattori di stress nel Medioevo? Credevo che tutti li superassero dormendo. — Lo spero — ho detto. — Comunque, sono disposto a mettere in Pratica la tua idea se credi che sarà utile. Lei mi ha guardato con quell'espressione da martire e ha detto: — Niente sarà utile. — Grazie, santa Kivrin di Balliol. Comunque, ho tentato lo stesso. Era sempre meglio che stare nell'ufficio di Dunworthy ad ascoltarlo mentre lui sbatteva le palpebre dietro gli occhiali storici e mi diceva che San Paolo mi sarebbe piaciuto. Quando il materiale che avevo chiesto alla Bodleiana non è arrivato, ho sovraccaricato il mio credito e mi sono rivolto alla libreria Blackwell. Registrazioni sulla II guerra mondiale, letteratura celtica, storia delle migrazioni di massa, guide turistiche, tutto quello che mi veniva in mente. Poi ho preso a noleggio un registratore ad alta velocità, e via. Quando ne sono uscito, ero così in preda al panico per la sensazione di non saperne più di quanto ne avessi saputo all'inizio che ho preso la metropolitana per Londra e sono salito su Ludgate Hill per vedere se la lapide del servizio antincendio sarebbe riuscita a far scattare qualche ricordo. Niente. — I tuoi livelli delle endorfine non sono ancora ritornati alla normalità
— mi sono detto, e ho cercato di rilassarmi; ma era impossibile, con la prospettiva della prova pratica che incombeva su di me. E quelle sono pallottole vere, ragazzo mio. Anche se sei un diplomato in storia che va a fare la prova pratica, ciò non significa che non possa lasciarci la pelle. Ho letto libri di storia per tutto il tragitto di ritorno con la metropolitana, fino a che gli scagnozzi di Dunworthy sono venuti a portarmi a St. John's Wood. Così mi sono cacciato in tasca la microfiche del Dizionario Enciclopedico Oxford e me ne sono andato con la sensazione che avrei dovuto sopravvivere grazie alle mie risorse innate, sperando di trovare le necessarie sostanze artificiali nel 1940. Senza dubbio sarei riuscito a superare il primo giorno senza inconvenienti, pensavo; e adesso ero lì, paralizzato in pratica dalle prime parole che mi erano state rivolte. Ecco, non proprio. Sebbene Kivrin mi avesse consigliato di non mettere niente nella memoria a breve termine, avevo memorizzato la moneta inglese, una piantina del sistema della metropolitana, e una pianta della mia Oxford. Tutto questo mi era servito per arrivare fin lì. Sicuramente ce l'avrei fatta a cavarmela con il decano. Proprio quando avevo quasi trovato il coraggio di bussare, lui ha aperto la porta, e come succede con la microbomba, tutto è finito in fretta e senza dolore. Gli ho porto la lettera, e lui mi ha stretto la mano e ha detto qualcosa di comprensibile, più o meno: — Lieto di avere un altro uomo, Bartholomew. — Aveva l'aria così tesa e stanca che ho pensato che sarebbe crollato se gli avessi detto che il Blitz era appena incominciato. Lo so, lo so: Tieni la bocca chiusa. Il sacro silenzio, eccetera. Lui ha detto: — Chiameremo Langby cosi le farà da guida, d'accordo? — Ho pensato che fosse il sagrestano con il cuscino, e avevo ragione. Ci è venuto incontro ai piedi della scala: ansava un po' ma era giubilante. — Le brande sono arrivate — ha detto al decano Matthews. — E sembrava che ci facessero un favore. Con quei tacchi alti e tutte quelle arie. Per causa vostra abbiamo saltato il tè, mi ha detto una. Sì, ed è stato un bene, ho detto io. Perdere qualche chilo non le farà male. Persino il decano Matthews aveva l'aria di non capirlo completamente. Ha chiesto: — Le ha messe nella cripta? — E poi ci ha presentati. — Mr. Bartholomew è appena arrivato dal Galles — ha detto. — È venuto per far parte dei nostri volontari. — Volontari, non servizio antincendio. Langby mi ha fatto da guida, indicandomi varie chiazze indistinte nel buio generale, e poi mi ha trascinato giù a vedere le dieci brande pieghevoli di tela piazzate fra le tombe nella cripta, e di passaggio mi ha mo-
strato anche il sarcofago di marmo nero di Lord Nelson. Mi ha detto che non avrei dovuto stare di guardia quella prima notte e mi ha consigliato di andare a letto, dato che il sonno era il bene più prezioso, per via dei bombardamenti. C'era da credergli. Si stringeva al petto quello stupido cuscino come se fosse il suo grande amore. — Si sentono le sirene, qui sotto? — ho domandato, mentre pensavo che forse si tirava il cuscino sulla testa. Langby ha girato gli occhi sul basso soffitto di pietra. — Certuni le sentono, altri no. Brinton ha bisogno dell'Horlich's. Bence-Jones continuerebbe a dormire anche se gli cadesse il tetto sulla testa. Io ho bisogno d'un cuscino. L'importante è farsi otto ore di sonno qualunque cosa succeda. Altrimenti si diventa un morto che cammina. E poi ci si fa ammazzare. Dopo questo commento incoraggiante, se n'è andato a piazzare le guardie per la notte; ha lasciato il cuscino su una delle brande e mi ha ordinato di non permettere che nessuno lo toccasse. Così mi sono seduto, in attesa della mia prima sirena d'allarme, cercando di digerire tutto quanto prima di trasformarmi in uno dei morti che camminano, o che non camminano. Ho usato l'Oxford rubato per decifrare un po' del linguaggio di Langby. Successo discutibile. Borghese è un termine generico spregiativo per indicare tutti i difetti del ceto medio. Un tommy è un soldato. Aerrepi non sono riuscito a trovarlo assolutamente; e avevo quasi rinunciato quando un ricordo stivato nella memoria a lungo termine a proposito dell'uso delle sigle e delle abbreviazioni mi è schizzato in mente (grazie, santa Kivrin) e mi sono reso conto che doveva essere appunto una sigla. ARP. Air Raid Precautions. Naturalmente. Da dove si possono Prendere le stramaledette brande, se no? 21 settembre - Ora che ho superato il trauma d'essere qui, mi accorgo che la facoltà di storia ha dimenticato di dirmi che cosa dovrei fare nei tre mesi e passa della prova pratica. Mi ha consegnato questo diario, la lettera di mio zio e un biglietto da dieci sterline, e mi hanno spedito nel passato. Le dieci sterline (già intaccate dalle spese per il treno e la metropolitana) dovrebbero durare fino alla fine di dicembre, e servire per ritornare a St. John's Wood per venire recuperato, quando arriverà la seconda lettera che mi richiamerà nel Galles al capezzale dello zio malato. Fino a quel momento vivrò nella cripta in compagnia di Nelson che, come mi ha raccontato Langby, è conservato nell'alcol dentro la bara. Se una bomba ci prende in pieno, chissà se brucerà come una torcia o se scorrerà semplicemente sul
pavimento in un torrente di putredine? Al vitto provvede un fornelletto a gas, sul quale vengono preparati tè schifosi e aringhe affumicate indescrivibili. Per ripagare tutti questi lussi, io devo stare sui tetti di San Paolo e spegnere le bombe incendiarie. Inoltre, devo realizzare lo scopo della prova pratica, quale che sia. Al momento, l'unico scopo che mi sta a cuore è rimanere vivo fino a che arriverà la seconda lettera di mio zio e io potrò tornarmene a casa. Sto lavorando in attesa che Langby abbia il tempo di farmi da guida e darmi spiegazioni. Ho pulito la padella dove cucinano quei pesci orrendi, ho ammonticchiato le sedie pieghevoli di legno in fondo alla cripta, dalla parte dell'altare (e le ho messe piatte, non diritte, perché hanno la brutta abitudine di cadere nel cuore della notte con un fragore di bombe) e ho cercato di dormire. A quanto pare, non sono uno di quei fortunati che riescono a dormire durante le incursioni. Ho passato quasi tutta la notte a chiedermi qual è il livello di rischio di San Paoio. Le prove pratiche devono essere almeno al livello sei. Stanotte ero convinto che questa fosse un dieci, con la cripta come base zero, e tanto valeva che avessi fatto domanda di andare a Denver. La cosa più interessante successa finora è che ho visto un gatto. Mi ha affascinato, ma ho cercato di non lasciarlo capire perché sembra che qui siano comunissimi. 22 settembre - Ancora nella cripta. Ogni tanto Langby arriva di corsa imprecando contro vari enti governativi (tutti indicati con le sigle) e mi promette che mi porterà sui tetti. Nel frattempo, ho esaurito tutti i possibili lavori e ho imparato a far funzionare una pompa a staffa. Kivrin era molto preoccupata per le capacità di recupero della mia memoria. Finora non ho avuto difficoltà. AI contrario. Ho telefonato alle informazioni del servizio antiaereo e ho ricevuto il manuale completo d'illustrazioni e con le istruzioni per l'uso della pompa a staffa. Se le aringhe daranno fuoco a Lord Nelson, diventerò un eroe. Questa notte c'è stato movimento. Le sirene hanno suonato presto e alcune delle donne che vanno a pulire gli uffici della City sono venute a rifugiarsi nella cripta con noi. Una mi ha svegliato mentre dormivo profondamente perché si è messa a ululare come una sirena. Aveva visto un topo. Siamo dovuti andare in giro a battere sulle tombe e sotto le brande con uno stivale di gomma per convincerla che se ne era andato. Eviden-
temente era quello che si proponeva la facoltà di storia: ammazzare i topi. 24 settembre - Langby mi ha portato a fare il giro. Prima nel coro, dove ho dovuto reimparare ad azionare la pompa a staffa, e ho ricevuto gli stivali di gomma e un elmetto di latta. Langby dice che il comandante Alien ci farà avere giacche d'asbesto come quelle dei vigili del fuoco, ma finora non sono arrivate, e con la mia giacca di lana e la sciarpa ho un freddo cane, sui tetti, anche se è settembre. Sembra novembre, tetro e grigio e senza sole. Su alla cupola e sui tetti, che in teoria dovrebbero essere piatti, ma sono invece costellati di guglie, pinnacoli, gronde e statue, tutti ideati espressamente per afferrare le bombe incendiarie e renderle irraggiungibili. Langby mi ha mostrato come si fa a spegnere un'incendiaria con la sabbia prima che bruciando sfondi il tetto e dia fuoco alla cattedrale. Mi ha mostrato le corde ammucchiate alla base della cupola, nell'eventualità che qualcuno debba salire sulle torri ovest o sulla cima della cupola stessa. Poi siamo ridiscesi alla Whispering Gallery. Langby non è stato zitto un momento: un po' erano istruzioni pratiche, un po' mi raccontava la storia della chiesa. Prima di salire nella galleria mi ha trascinato alla porta sud per raccontarmi che Christopher Wren, l'architetto, in mezzo alle rovine fumanti della vecchia chiesa di San Paolo, chiese a un operaio di portargli una lapide dal camposanto per indicare il posto dove doveva andare la pietra angolare. Sulla pietra c'era scritto in latino «Risorgerò», e Wren rimase tanto colpito da quella coincidenza simbolica che fece scolpire il motto sopra la porta. Langby era tutto orgoglioso, come se non mi avesse raccontato un episodio che conoscono tutti gli studenti di storia al primo anno; ma immagino che, senza l'effetto della lapide del servizio antincendio, l'altro sia un bell'aneddoto. Langby è salito di corsa su per la scala e sulla stretta balconata che circonda la Whispering Gallery, la Galleria dei Bisbigli, si è precipitato avanti a gridarmi le dimensioni e le caratteristiche acustiche. Si è fermato, con la faccia rivolta verso il muro opposto e ha detto sottovoce: — Puoi sentirmi bisbigliare per via della forma della cupola. Le onde sonore si rinforzano intorno al perimetro. Durante un bombardamento, sembra il tuono del Giorno del Giudizio, quassù. La cupola ha un diametro di trentadue metri ed è a ventiquattro metri dalla navata. Ho guardato giù. La ringhiera è venuta meno sotto di me e il pavimento di marmo bianco e nero è salito a velocità vertiginosa. Mi sono aggrappato a non so che cosa e sono caduto in ginocchio, sconvolto e nauseato. Era
spuntato il sole, e tutta la chiesa sembrava immersa nell'oro. Persino il coro di legno intagliato, le colonne di pietra bianca, le canne di piombo dell'organo, era tutto d'oro, d'oro. Langby mi ha raggiunto di corsa e ha cercato di farmi mollare la presa. — Bartholomew — ha gridato. — Cosa ti succede? Per amor di Dio! Sapevo che dovevo dirgli che, se avessi mollato, San Paolo e tutto il passato mi sarebbero crollati addosso, e non dovevo permettere che accadesse perché sono uno storico. Ho detto qualcosa, ma non era quello che intendevo, perché Langby ha stretto più forte. Mi ha trascinato via con violenza dalla ringhiera e mi ha riportato sulla scala, e mi ha lasciato cadere inerte sui gradini. È rimasto lì a guardarmi, senza dir niente. — Non so cosa mi sia successo lassù — ho detto io. — Prima non avevo mai avuto paura delle altezze. — Stai tremando — ha detto lui, bruscamente. — È meglio che vieni a sdraiarti. — Mi ha riaccompagnato nella cripta. 25 settembre - Recupero della memoria: manuale dell'ARP. Sintomi delle vittime dei bombardamenti. Fase prima... shock; stato stuporoso; la vittima non si accorge delle ferite e dice cose che non hanno senso. Fase seconda... brividi; nausea; la vittima si accorge delle lesioni e delle perdite subite; ritorna alla realtà. Fase terza... loquacità incontrollabile; desiderio di spiegare ai soccorritori il comportamento allo stato di shock. Langby sicuramente deve aver riconosciuto i sintomi, ma come spiega il fatto che non c'era stata nessuna bomba? Io non posso certo spiegargli il mio comportamento da shock, e non è soltanto il sacro silenzio dello storico a trattenermi. Langby non ha detto niente, anzi ha fissato il mio primo turno di guardia per domani sera come se non fosse successo niente, e non sembra più preoccupato degli altri. Tutti quelli che ho conosciuto finora sono nervosissimi (una delle cose che avevo immesso nella memoria a breve termine era che durante i bombardamenti tutti erano calmi), e da quando sono arrivato io non è caduta neppure una bomba vicino a noi. Sono cadute quasi tutti nell'East End e sui docks. Stasera qualcuno ha accennato a un UXB, e ho pensato al modo di fare del decano e al fatto che la cattedrale sia chiusa quando sono quasi sicuro di aver letto che era rimasta aperta durante l'intero Blitz. Non appena avrò la possibilità, cercherò di recuperare gli avvenimenti di settembre. In quanto a tutto il resto, non so proprio come posso sperare di recuperare le in-
formazioni giuste fino a che non saprò che cosa dovrei fare qui, ammettendo che debba fare qualcosa. Non ci sono linee guida per gli storici, e non ci sono restrizioni. Potrei raccontare a tutti che vengo dal futuro, se pensassi che mi crederebbero. Potrei assassinare Hitler, se riuscissi ad andare in Germania. Oppure no? Alla facoltà di storia si fa un gran parlare del paradosso temporale, e gli studenti laureati che tornano dalle prove pratiche non dicono una parola in un senso o nell'altro. Il passato è solido, immutabile? Oppure ogni giorno c'è un passato nuovo e siamo noi storici a crearlo? E quali sono le conseguenze di ciò che facciamo, ammettendo che ci siano conseguenze? E come possiamo avere il coraggio di fare qualcosa, se non le conosciamo? Dobbiamo interferire audacemente, sperando di non causare la nostra rovina? Oppure non dobbiamo fare un bel niente, non dobbiamo interferire, dobbiamo stare a guardare San Paolo che brucia, se è necessario, per non modificare il futuro? Tutti questi sono interrogativi adattissimi a una seduta di studio a sera inoltrata. Qui non hanno nesssuna importanza. Non potrei lasciar bruciare San Paolo come non potrei uccidere Hitler. No, questo non è vero. Ieri ho scoperto, nella Whispering Gallery, che potrei uccidere Hitler, se lo sorprendessi a dar fuoco a San Paolo. 26 settembre - Oggi ho conosciuto una giovane donna. Il decano Matthews aveva aperto la chiesa, e così la gente ha incominciato a venire di nuovo. La giovane donna mi ricordava Kivrin, anche se Kivrin è molto più alta e non si arriccerebbe mai i capelli in quel modo. Sembra che avesse pianto. Anche Kivrin aveva la stessa aria, quando è tornata dalla prova pratica. Il Medioevo era troppo per lei. Mi domando come se la sarebbe cavata al mio posto. Confidando le sue paure al prete locale, senza dubbio, come speravo che non facesse la ragazza che le somigliava. — Posso aiutarla? — ho chiesto, anche se non avevo nessuna voglia di aiutarla. — Sono un volontario. Lei aveva l'aria angosciata. — Non la pagano? — ha chiesto, e si è asciugata con un fazzoletto il naso rosso. — Ho letto di San Paolo e del servizio antincendio e cosi ho pensato: forse ci sarà un lavoro anche per me, magari nella mensa o qualcosa del genere. Un lavoro retribuito. — Gli occhi cerchiati di rosso erano pieni di lacrime. — Purtroppo non abbiamo la mensa — ho risposto più gentilmente che potevo, tenendo conto del fatto che Kivrin riesce sempre a farmi spazienti-
re. — E questo non è un vero rifugio. Alcuni di quelli di guardia dormono nella cripta. Ma siamo tutti volontari. — Allora è inutile — ha detto lei. Si è asciutata gli occhi con il fazzoletto. — Amo San Paolo, ma non posso fare un lavoro volontario, adesso che il mio fratellino Tom è tornato dalla campagna. — Non riuscivo a capire bene quella situazione. Nonostante tutti i segni esteriori d'angoscia, sembrava piuttosto allegra, e non più vicina alle lacrime di quando era entrata. — Devo trovare un posto per noi. Ora che è tornato Tom, non possiamo continuare a dormire nella metropolitana. Mi ha preso una sensazione improvvisa di paura, quella specie di fitta acuminata che dà a volte il recupero involontario. — La metropolitana? — ho chiesto, cercando di ripescare quel ricordo. — Di solito all'Arco di Marmo — ha continuato lei. — Mio fratello Tom va a tenere il posto di buon'ora e io vado... — Si è interrotta, ha accostato il fazzoletto al naso e ci ha soffiato dentro con forza. — Mi scusi — ha detto. — Questo tremendo raffreddore! Naso rosso, occhi lacrimosi, sternuti. Infezione delle vie respiratorie. Era un miracolo che non le avessi detto di non piangere. È una vera fortuna che finora non abbia commesso qualche errore imperdonabile, e non perché non riesco a pescare nella memoria a lungo termine. Non dispongo neppure della metà delle informazioni che mi servirebbero: gatti e raffreddori, e l'aspetto di San Paolo in pieno sole. È solo questione di tempo, prima che mi blocchi davanti a qualcosa che non conosco. Comunque, intendo tentare il recupero questa notte, dopo che finirò il mio turno di guardia. Almeno riuscirò a scoprire se e quando mi piomberà addosso qualcosa. Ho rivisto il gatto un paio di volte. È nero come il carbone con una macchia bianca sulla gola, che sembra dipinta apposta per l'oscuramento. 27 settembre - Sono appena ridisceso dai tetti e sto ancora tremando. All'inizio i bombardamenti erano quasi tutti sull'East End. Era uno spettacolo incredibile. Riflettori dappertutto, il cielo arrossato dagli incendi che si specchiava nel Tamigi, le bombe esplosive che scintillavano come fuochi d'artificio. C'era un tuono continuo, assordante, rotto solo di tanto in tanto dal rombo degli aerei e dal crepitio ripetuto delle mitragliere dell'antiaerea. Verso mezzanotte le bombe hanno incominciato a cadere molto vicino, con un rumore orribile, come se mi passasse addosso un treno. Ho dovuto fare appello a tutta la mia forza di volontà per non buttarmi bocconi sul tet-
to, ma c'era Langby e mi guardava. Non volevo dargli la soddisfazione di assistere a una replica nel mio comportamento nella cupola. Sono rimasto a testa alta, con il secchio di sabbia in mano; ero molto fiero di me. Le bombe hanno smesso di ruggire verso le tre, e c'è stata una pausa di mezz'ora circa; poi è incominciato un crepitio, come una grandinata sul tetto. Tutti, tranne Langby, hanno preso i badili e le pompe a staffa. Lui guardava me. E io guardavo la bomba incendiaria. Era caduta a pochi metri di distanza, dietro la torre dell'orologio. Era molto più piccola di quanto immaginassi: era lunga appena una trentina di centimetri. Scoppiettava con violenza, e gettava il fuoco biancoverdognolo fin quasi dove stavo io. Entro un minuto si sarebbe ridotta a una massa fusa e avrebbe incominciato a sfondare il tetto. Le fiamme, e le grida frenetiche dei vigili del fuoco, e poi le macerie bianche che si estendevano per miglia e miglia, e non sarebbe rimasto niente, niente, neppure la lapide del servizio antincendio. Si stava ripetendo quello che era successo nella Whispering Gallery. Mi sono accorto di aver detto qualcosa, e quando ho guardato Langby ho visto che sorrideva, un sorriso storto. — San Paolo brucerà — ho detto. — Non resterà più niente. — Sì — ha detto Langby. — L'idea è proprio quella, no? Bruciare San Paolo? Non è questo, il piano? — Il piano di chi? — ho chiesto stupidamente. — Di Hitler, è chiaro — ha detto Langby. — A chi pensavi mi riferissi? — E poi, quasi con noncuranza, ha preso la pompa a staffa. All'improvviso mi è balenata davanti agli occhi la pagina del manuale dell'ARP. Ho versato il secchio di sabbia intorno alla bomba che crepitava ancora, ho afferrato un altro secchio e gliel'ho vuotato sopra. Il fumo nero si è alzato in una nuvola così fitta che ho stentato a trovare il badile. Con la punta, ho cercato la bomba soffocata, e l'ho buttata nel secchio vuoto, poi l'ho riempito di sabbia. Le lacrime mi scorrevano sulla faccia a causa del fumo acre. Mi sono girato per asciugarle con la manica e ho visto Langby. Non aveva mosso un dito per aiutarmi. Ha sorriso. — Non è un brutto piano, per la verità. Ma naturalmente non lasceremo che succeda. Il servizio antincendio è qui per questo. Per fare in modo che non succeda. Giusto, Bartholomew? Adesso so qual è lo scopo della mia prova pratica. Devo impedire che Langby bruci San Paolo.
28 settembre - Cerco di convincermi che ieri notte mi sono sbagliato sul conto di Langby e che ho frainteso quello che ha detto. Perché dovrebbe aver voglia di bruciare San Paolo, se non è una spia nazista? Come sarebbe possibile che una spia nazista si fosse infiltrata nel servizio antincendio? Penso alla mia falsa lettera di presentazione e rabbrividisco. Come posso scoprirlo? Se cercassi di sottoporlo a qualche prova, qualcosa che soltanto un buon patriota inglese nel 1940 può conoscere, ho paura che sarei io a farmi scoprire. Devo fare in modo che il recupero della memoria funzioni perfettamente. Fino a quel momento, dovrò tener d'occhio Langby. Per ora, almeno, dovrebbe essere facile. Langby ha appena affisso i turni di guardia per le prossime due settimane. Siamo sempre insieme, tutti quanti. 30 settembre - So cos'è successo in settembre. Me l'ha detto Langby. Ieri notte, nel coro, mentre mettevamo le giacche e gli stivali, mi ha detto: — Ci hanno già provato una volta, sai. Non capivo a cosa volesse alludere. Mi sentivo frastornato come il primo giorno, quando mi aveva chiesto se ero dell'aerrepi. — Il piano per distruggere San Paolo. Hanno già tentato una volta. Il dieci settembre. Una grossa bomba esplosiva. Ma naturalmente non lo sapevi. Eri nel Galles. Non lo ascoltavo neppure. Nel momento in cui aveva detto «grossa bomba esplosiva» avevo ricordato tutto. Era penetrata sotto la strada e s'era piantata nelle fondamenta. La squadra artificieri aveva cercato di disinnescarla, ma c'era una tubatura di gas che perdeva. Allora avevano deciso di evacuare San Paolo, ma il decano Matthews aveva rifiutato di andarsene, e alla fine l'avevano tirata fuori e l'avevano fatta scoppiare nelle Barking Marshes. Recupero istantaneo e completo. — Quella volta gli artificieri hanno salvato la chiesa — stava dicendo Langby. — Sembra che ci sia sempre qualcuno in giro. — Sì — ho detto io. — C'è. — E mi sono allontanato. 1° ottobre - Credevo che il recupero degli avvenimenti del dieci settembre, avvenuto questa notte, segnasse una specie d'inizio, invece sono rimasto qui sveglio sulla branda fin quasi all'alba cercando di ricordare qualcosa a proposito di eventuali spie naziste in San Paolo, ma senza approdare a niente. Devo sapere esattamente cosa sto cercando, per poterlo ricordare? E allora, a che serve?
Forse Langby non è una spia nazista. E allora che cos'è? Un piromane? Un pazzo? La cripta non ispira molto, quando mi sforzo di pensare, perché non è affatto silenziosa come una tomba. Le donne delle pulizie parlano quasi tutta la notte e il rumore delle bombe è smorzato, e questo è anche peggio. Mi sorprendo a tendere l'orecchio per sentirle. Quando mi sono addormentato, stamattina, ho sognato che uno dei rifugi della metropolitana era stato colpito, e le tubature s'erano rotte, e la gente annegava. 4 ottobre — Oggi ho cercato di prendere il gatto. Avevo una mezza idea di convincerlo a far fuori il topo che terrorizza le donne. E poi, volevo vederne uno da vicino. Ho roteato il secchio, e un po' d'acqua è schizzata fuori. Mi sembrava di ricordare che il gatto era un animale domestico, ma dovevo essermi sbagliato. Il muso largo e beato del gatto si è trasformato in una maschera terrificante, gli artigli tremendi sono usciti dalle zampe che credevo innocue, e poi ha lanciato un suono da stendere la gente. Per lo sbalordimento ho lasciato cadere il secchio, che è rotolato contro una delle colonne. Il gatto è sparito. Alle mie spalle, Langby ha detto: — Non è quello, il modo per prendere un gatto. — Evidentemente — ho detto io, e mi sono chinato per raccogliere il secchio. — I gatti odiano l'acqua — ha detto lui, sempre con lo stesso tono inespressivo. — Oh. — Mi sono avviato per riportare il secchio nel coro. — Non lo sapevo. — Lo sanno tutti. Persino quegli stupidi dei gallesi. 8 ottobre - Da una settimana facciamo doppi turni di guardia... c'è la luna, e facilita il compito ai bombardieri. Langby non è comparso sui tetti, e così sono andato a cercarlo in chiesa. L'ho trovato fermo accanto alla porta ovest; stava parlando con un vecchio. Il vecchio teneva un giornale sotto il braccio. L'ha dato a Langby, ma Langby gliel'ha restituito. Quando il vecchio mi ha visto, se n'è andato in fretta. Langby ha detto: — Un turista. Voleva sapere dov'è il Windmill Theater. Ha letto sul giornale che le ragazze sono nude. So che dovevo aver l'aria di non credergli, perché ha detto: — Mi sembri conciato male, vecchio mio. Non dormi abbastanza, vero? Chiederò a qualcuno di fare il primo turno al posto tuo, stanotte. — No — ho risposto freddamente. — Farò il mio turno. Mi piace stare
sui tetti. — E ho soggiunto, in silenzio: dove posso tenerti d'occhio. Lui ha scrollato le spalle e ha risposto: — Immagino sia meglio che stare giù nella cripta. Sui tetti, almeno, puoi sentirla arrivare, la bomba che ti frega. 10 ottobre - Pensavo che i doppi turni mi facessero bene, mi aiutassero a distogliere il pensiero dalla mia incapacità di recuperare la memoria. È un po' l'idea che quando stai a guardare la pentola, l'acqua bolle più lentamente. Per la verità, qualche volta funziona. Basta passare qualche ora pensando ad altro, oppure farsi una bella notte di sonno, e il dato che ti interessa schizza fuori da solo, senza ricorrere a sostanze artificiali. Di una bella notte di sonno non se ne parla neanche. Non soltanto le donne delle pulizie chiacchierano ininterrottamente, ma il gatto si è trasferito nella cripta e si struscia contro tutti quanti, emettendo suoni che sembrano quelli delle sirene per chiedere un po' di aringa. Trasporterò la mia branda fuori dal transetto, vicino a Nelson, prima d'incominciare il mio turno. Nelson sarà in salamoia nell'alcol, ma almeno tiene la bocca chiusa. 11 ottobre - Ho sognato Trafalgar, cannoni e fumo e intonaco che cadevano e Langby che gridava il mio nome. Quando mi sono svegliato, i! mio pensiero è stato che le sedie pieghevoli non c'erano più. Non vedevo niente per il fumo. — Arrivo — ho gridato, correndo verso Langby e infilandomi gli stivali. Nel transetto c'era un mucchio d'intonaco e un groviglio di sedie pieghevoli. Langby stava scavando lì. — Bartholomew! — ha gridato buttando da parte un pezzo d'intonaco. — Bartholomew! Io pensavo ancora che fosse fumo. Sono tornato di corsa per prendere la pompa a staffa e poi mi sono inginocchiato accanto a lui e ho cominciato a rimuovere lo schienale scheggiato d'una sedia. Ha opposto resistenza e allora ho compreso, di colpo. Sotto c'è un corpo. Cercherò di prendere un pezzo di soffitto e mi accorgerò che è una mano. Mi sono appoggiato all'indietro, sui calcagni, deciso a non vomitare, e poi ho ripreso a frugare. Langby si stava dando da fare troppo in fretta, e frugava con la gamba di una sedia. Gli ho afferrato la mano per trattenerlo, e lui ha reagito come se fossi un rottame da buttare da parte. Ha sollevato un grosso pezzo piatto d'intonaco e sotto c'era il pavimento. Mi sono voltato indietro a guardare. Le due donne delle pulizie erano rincantucciate nella rientranza vicino al-
l'altare. — Chi stai cercando? — ho chiesto, continuando a stringere il braccio di Langby. — Bartholomew — ha detto lui, e ha scostato le macerie, con le mani che sanguinavano sotto lo strato di polvere. — Sono qui — ho detto. — Sono illeso. — La polvere bianca mi soffocava. — Ho spostato la branda fuori dal transetto. Lui s'è voltato bruscamente verso le donne delle pulizie e poi ha chiesto con calma: — Cosa c'è qui sotto? — Soltanto il fornello a gas — ha risposto timidamente una delle donne dal suo angoletto buio. — E la borsetta di Mrs. Gaibraith. — Lui ha scavato fra le macerie fino a che li ha trovati tutti e due. Il fornello perdeva gas che era una bellezza, sebbene la fiamma si fosse spenta. — Hai salvato San Paolo e me, dopotutto — gli ho detto. Stavo lì, semivestito e con gli stivali, e con l'inutile pompa a staffa. — Avremmo potuto morire asfissiati tutti quanti. Lui si è alzato. — Non avrei dovuto salvarti — ha detto. Fase prima: shock, stato stuporoso, la vittima non si accorge delle ferite e dice cose che non hanno senso. Lui non sapeva ancora che la mano gli sanguinava. Non ricordava quel che aveva detto. Aveva detto che non avrebbe dovuto salvarmi la vita. — Non avrei dovuto salvarti — ha risposto. — Devo pensare al mio dovere. — Stai sanguinando — ho detto seccamente. — È meglio che ti sdrai. — Parlavo proprio come mi aveva parlato Langby nella Galleria. 13 ottobre - Era una bomba esplosiva ad alto potenziale. Ha aperto un buco sul tetto del coro; alcune delle statue di marmo sono a pezzi, ma il soffitto della cripta non era crollato, contrariamente a quello che avevo pensato in un primo momento. Aveva soltanto staccato parte dell'intonaco. Non credo che Langby abbia idea di quel che ha detto. Questo dovrebbe darmi un certo vantaggio, adesso che sono sicuro di sapere dov'è il pericolo, e che non arriverà da qualche altra direzione. Ma a cosa serve sapere tutto questo, se non so che cosa farà lui, o quando? Senza dubbio ho tutti i particolari della bomba di ieri nella memoria a lungo termine, ma questa volta neppure la pioggia d'intonaco è servita a smuoverli. Ormai non sto neppure tentando il recupero. Sono sdraiato al buio e aspetto che il tetto mi crolli addosso. E ricordo che Langby mi ha salvato la vita.
15 ottobre - Oggi è tornata la ragazza. Ha ancora il raffreddore, ma ha trovato un lavoro retribuito. È stata una gioia rivederla. Portava un'uniforme elegante e sandali, e i capelli erano tutti ondulati. Noi stavamo ancora ripulendo le macerie causate dalla bomba, e Langby era andato con Alien a prendere le assi di legno per turare lo squarcio nel coro; perciò ho lasciato che la ragazza chiacchierasse mentre spazzavo. La polvere la faceva starnutire, ma almeno stavolta sapevo cos'era. Mi ha detto che si chiama Enola e che lavora per il WVS; gestisce una delle mense mobili che mandano dove ci sono gli incendi. Era venuta, figurarsi, a ringraziarmi per il lavoro. Ha detto che quando aveva spiegato al WVS che a San Paolo non c'era un rifugio vero con relativa mensa, le avevano assegnato un giro nella City. — Così potrò venire qui quando sono nelle vicinanze e le farò sapere come me la cavo, va bene? Lei e suo fratello Tom dormono ancora nella metropolitana. Le ho chiesto se là erano al sicuro e mi ha risposto che probabilmente non lo sono affatto; però là sotto, almeno, non puoi sentire la bomba che ti fregherà e questa è una fortuna. 18 ottobre - Sono così stanco che fatico a scrivere. Nove bombe incendiarie, questa notte, e una mina che sembrava volesse finire proprio sulla cupola, fino a che il vento ha allontanato dalla chiesa il paracadute. Ho spento due delle bombe incendiarie. L'ho fatto almeno venti volte da quando sono arrivato qui, e ho aiutato a spegnerne dozzine di altre, ma non basta ancora. Una bomba incendiaria, un momento in cui dimenticassi di sorvegliare Langby, e tutto sarebbe rovinato. Lo so, in parte è per questo che sono così stanco. Ogni notte mi sfinisco cercando di fare il mio lavoro e di sorvegliare Langby e di assicurarmi che nessuna delle bombe incendiarie mi sfugga. Poi torno alla cripta e mi logoro cercando di recuperare qualcosa, qualunque cosa, sulle spie, gli incendi, San Paolo nell'autunno del 1940, qualunque cosa. Sono ossessionato dall'idea che non faccio abbastanza, ma non so che altro fare. Senza il recupero, sono impotente come la povera gente che c'è qui, e non ho un'idea di quello che succederà domani. Se necessario, continuerò così fino a quando mi richiameranno a casa. Lui non può bruciare San Paolo finché io sono qui a spegnere le bombe incendiarie. — Devo pensare al mio dovere — ha detto Langby nella cripta. E io devo pensare al mio.
21 ottore - Sono passate quasi due settimane dall'esplosione e solo adesso mi sono reso conto che da allora non abbiamo più visto il gatto. Non era sotto le macerie nella cripta. Anche quando io e Langby siamo stati sicuri che sotto non ci fosse nessuno, abbiamo setacciato di nuovo tutto quanto, per due volte. Però poteva darsi che fosse nel coro. Il vecchio Bence-Jones dice che non è il caso di preoccuparsi. — Non gli sarà successo niente — ha detto. — I crucchi potrebbero radere al suolo Londra e i gatti correrebbero a fargli festa. Sai perché? Non si affezionano a nessuno. È per questo che tanti di noi ci lasciano la pelle. Una vecchia, a Stepney, l'altra notte è morta mentre cercava di salvare il suo gatto. E quella maledetta bestia era altrove. — Allora dove sarà? — Da qualche parte, al sicuro, ci puoi scommettere. Se non è qui intorno a San Paolo, vuol dire che siamo spacciati. Il vecchio detto sui ratti che abbandonano la nave prima che affondi è sbagliato. Sono i gatti che fanno così, non i ratti. 25 ottobre - Il turista di Langby è ricomparso. Non è possibile che stia ancora cercando il Windmill Theater. Anche oggi aveva un giornale sotto il braccio, e ha chiesto di Langby, ma Langby era in giro per la città con Alien, a cercare di ottenere le giacche d'asbesto dei vigili del fuoco. Ho visto la testata del giornale. The Worker. Un giornale nazista? 2 novembre - Sono stato sui tetti per una settimana filata, ad aiutare quegli incapaci di operai a tappare il foro aperto dalla bomba. Stanno facendo un pasticcio. Da una parte c'è ancora una grossa breccia dove potrebbe caderci un uomo, ma loro sostengono che va bene così perché dopotutto se cadesse non andrebbe a sfracellarsi sul pavimento, si fermerebbe al soffitto e «è una caduta che non ammazza». Non vogliono capire che quello è il nascondiglio ideale per una bomba incendiaria. E a Langby basta e avanza. Non ha neppure bisogno di appiccare il fuoco per distruggere San Paolo. Basta che lasci che una bomba incendiaria non venga scoperta fino a quando non è troppo tardi. Non sono riuscito a far intendere la ragione agli operai. Sono sceso in chiesa per protestare con Matthews, e ho visto Langby e il suo turista dietro a una colonna, vicino a una delle finestre. Langby aveva un giornale in mano e parlava all'uomo. Quando sono sceso dalla biblioteca un'ora dopo
erano ancora lì. E anche il varco c'è ancora. Matthews dice che lo tapperemo con qualche asse e poi dovremo sperare in Dio. 5 novembre - Ho rinunciato ai tentativi di recupero. Ho perso tante ore di sonno che non riesco neppure a recuperare informazioni su un giornale di cui conosco già il nome. I doppi turni ormai sono abituali. Le donne delle pulizie ci hanno abbandonati completamente (come il gatto), e quindi nella cripta c'è silenzio, ma non riesco a dormire. Se ce la faccio ad assopirmi, sogno. Ieri ho sognato che Kivrin era sui tetti, vestita da santa. — Qual era il segreto della tua prova pratica? — le ho chiesto. — Che cosa dovevi scoprire? Lei si è asciugata il naso con un fazzoletto e ha risposto: — Due cose. Prima: il silenzio e l'umiltà sono i sacri oneri dello storico. Seconda... — Si è interrotta per sternutire nel fazzoletto. — Non dormire nella metropolitana. La mia unica speranza è trovare una sostanza artificiale e indurre una trance. C'è un problema. Sono sicuro che è troppo presto perché ci siano le endorfine chimiche, e probabilmente anche gli allucinogeni. L'alcol c'è, senza dubbio, ma ho bisogno di qualcosa più concentrato della birra, l'unico alcolico che conosco di nome. Non oso chiedere agli altri. Langby ha già anche troppi sospetti sul mio conto. È come se consultassi l'Oxford alla ricerca d'una parola che non conosco. 11 novembre - Il gatto è tornato. Langby era di nuovo fuori con Alien, sempre a caccia delle giacche di asbesto, e così ho pensato che potevo lasciare San Paolo. Sono andato nel negozio d'alimentari a far la spesa, nella speranza di trovare qualche sostanza artificiale. Era tardi, e le sirene hanno suonato prima che fossi arrivato a Cheapside, ma di solito le incursioni non incominciano prima dell'oscurità. Ci ho messo un po' per prendere tutte le provviste e per trovare il coraggio di chiedere al negoziante se aveva un po' d'alcol; lui mi ha risposto di andare in un pub, e quando sono uscito dal negozio è stato come se fossi piombato all'improvviso in una voragine. Non avevo idea di dove fosse San Paolo, o la strada o il negozio dal quale ero appena uscito. Sono rimasto fermo su quello che non era più il marciapiedi, stringendo il sacchetto con le aringhe e il pane con una mano che non sarei riuscito a vedere neppure se l'avessi alzata davanti agli occhi. Mi sono avvolto la sciarpa intorno al collo e mi sono augurato che i miei occhi si abituassero, ma non c'era neppure un filo di luce. Sarei stato contento se
ci fosse stata la luna, anche se quelli di San Paolo la maledicono e sostengono che fa parte della quinta colonna. Almeno fosse passato un autobus, con i fari oscurati che dessero quel tanto di luce sufficiente per orientarmi. O una lampada tascabile. O il lampo di un cannone antiaereo. Qualunque cosa mi sarebbe andata bene. Proprio in quel momento ho visto un autobus, due sottili fenditure gialle, molto lontano. Mi sono avviato in quella direzione e per poco non sono caduto dal marciapiedi. Il che voleva dire che l'autobus era di traverso rispetto alla strada; e quindi non era un autobus. Un gatto ha miagolato, vicinissimo, e mi si è strusciato contro le gambe. Ho guardato le luci gialle che avevo pensato fossero i fari dell'autobus. Gli occhi del gatto riflettevano una luce che veniva da chissà dove, anche se avrei giurato che non ce n'era una per miglia e miglia intorno: e la riflettevano verso di me. — Un poliziotto ti farebbe fuori per quei fari, vecchio mio — gli ho detto, e poi, mentre un aereo mi passava rombando sopra la testa: — O un crucco. Il mondo è esploso all'improvviso nella luce, i riflettori e un bagliore lungo il Tamigi che sembravano essersi accesi contemporaneamente, illuminandomi la via del ritorno. — Sei venuto a prendermi, vero, vecchio mio? — ho detto allegramente. — Dove ti eri cacciato? Sapevi che avevamo finito le aringhe, eh? Questa è fedeltà. — Ho continuato a parlargli fino a casa e gli ho dato metà scatoletta di aringhe perché mi aveva salvato la vita. Bence-Jones ha detto che aveva sentito l'odore del latte del droghiere. 13 novembre - Ho sognato che mi ero perso nell'oscuramento. Non vedevo le mie mani neppure quando le sollevavo davanti alla faccia, e poi è arrivato Dunworthy e mi ha puntato addosso una lampada tascabile, ma io potevo vedere soltanto da dov'ero venuto, non dove stavo andando. — A cosa serve? — ho chiesto. — Loro hanno bisogno d'una luce che gli mostri dove vanno. — Anche la luce riflessa dal Tamigi? Anche la luce degli incendi e dell'antiaerea? — ha ribattuto Dunworthy. — Sì, qualunque cosa è meglio di questo buio spaventoso. — Allora si è avvicinato per darmi la lampada tascabile. Ma non era una lampada tascabile, era la lanterna di Cristo del quadro di Hunt nella navata sud. L'ho puntata sul marciapiedi davanti a me per trovare la strada del ritorno, e invece ho illuminato la lapide del servizio antincendio, e allora mi sono af-
frettato a spegnerla. 20 novembre - Oggi ho cercato di far parlare Langby. — Ti ho visto chiacchierare con il vecchio — gli ho detto. Sembrava un'accusa, come volevo io. Volevo che lui pensasse che era un'accusa e che rinunciasse ai suoi piani. — Leggevo — ha detto. — Non chiacchieravo. — Stava ammucchiando i sacchi di sabbia nel coro. — Ti ho visto leggere, allora — ho detto in tono bellicoso, e lui ha lasciato cadere un sacchetto di sabbia e si è rialzato. — Allora? — ha detto. — Questo è un paese libero. Posso leggere per un vecchio, se voglio, come tu puoi parlare con quella piccola smorfiosa del WVS. — Che cosa gli leggi? — ho detto io. — Quello che interessa a lui. È vecchio. Una volta, quando tornava a casa dal lavoro, beveva un po' di brandy e ascoltava la moglie che gli leggeva i giornali. Lei è morta sotto i bombardamenti. Adesso leggo io, per lui. Non capisco perché ti riguardi. Sembra vero. Non aveva la meticolosa casualità di una menzogna, e quasi quasi gli credevo, a parte il fatto che avevo sentito già una volta quel tono di verità nella sua voce. Nella cripta. Dopo che era caduta la bomba. — Credevo che fosse un turista in cerca del Windmill — ho detto. Langby mi ha guardato per un secondo senza capire e poi ha detto: — Oh, già. È entrato con il giornale e mi ha chiesto di spiegargli dov'era, e io ho guardato per trovare l'indirizzo. Giusto. Non avevo immaginato che non sapesse leggere. — Ma era sufficiente. Sapevo che mentiva. Ha spinto un sacco di sabbia verso i miei piedi. — Naturalmente questo tu non puoi capirlo, non è vero? Un semplice gesto di gentilezza umana? — No — ho risposto freddamente. — Non capisco. Tutto ciò non prova niente. Lui non ha rivelato nulla, tranne forse il nome di una sostanza artificiale, e io non posso andare dal decano Matthews e accusare Langby di leggere a voce alta. Ho aspettato che finisse nel coro e che scendesse nella cripta. Poi ho trascinato un sacco di sabbia su fin al tetto e l'ho messo di traverso sulla breccia. Finora le assi hanno resistito, ma tutti gli girano intorno cautamente, come se fosse una tomba. Ho aperto il sacco e ho versato la sabbia sul fondo. Se Langby ha notato che quello è il posto ideale per una bomba incendiaria, forse la sabbia servirà a spegnerla.
21 novembre - Ho dato a Enola un po' del denaro dello «zio», quest'oggi, e le ho chiesto di comprarmi un po' di brandy. Si è mostrata più riluttante di quanto pensassi, quindi debbono esserci complicazioni sociali che io non conosco; comunque ha accettato. Non so perché fosse venuta. Ha incominciato a parlarmi del fratello e di qualche scherzetto che aveva combinato nella metropolitana e che l'aveva messo nelle grane con la polizia, ma dopo che le ho chiesto di procurarmi il brandy se n'è andata senza finire il racconto. 25 novembre - Oggi è venuta Enola, ma non ha portato il brandy. Andrà a Bath per le feste a trovare la zia. Almeno starà lontana dai bombardamenti per un po'. Non dovrò preoccuparmi per lei. Ha finito di raccontarmi quello che era successo al fratello e mi ha detto che spera di convincere la zia a tenere Tom finché durerà il Blitz, ma non è molto sicura che la zia acconsenta. A quanto sembra il giovane Tom non è tanto un simpatico monello quanto una specie di delinquente precoce. Due volte si è fatto pizzicare mentre borseggiava la gente nel rifugio della metropolitana alla Bank, e così hanno dovuto tornare all'Arco di Marmo. L'ho consolata come ho potuto e le ho detto che tutti i ragazzi passano durante una fase difficile, prima o poi. In realtà avrei voluto dirle che non è il caso che si preoccupasse, che il giovane Tom mi sembra il tipo del superstite nato, come il mio gatto, come Langby, il tipo che pensa solo a se stesso, capace di sopravvivere al Blitz e di farsi strada nel futuro. Poi le ho chiesto se mi aveva portato il brandy. Enola si è guardata le punte dei sandali e ha mormorato con aria impacciata: — Credevo che te ne fossi dimenticato. Io le ho detto che durante il servizio di guardia facciamo a turno a pagare le bottiglie, e mi è sembrato che fosse un po' meno impacciata, ma sono convinto che approfitterà del viaggio a Bath per non farne niente. Dovrò lasciare San Paolo e andare a comprarlo io, e non mi va di lasciare Langby solo nella chiesa. Le ho fatto promettere di portarmi il brandy oggi, prima della partenza. Ma finora non è tornata, e le sirene hanno già suonato. 26 novembre - Enola non si è fatta vedere, e mi aveva detto che il suo treno partiva a mezzogiorno. Immagino dovrei essere contento perché, almeno, è al sicuro lontano da Londra. Forse a Bath riuscirà a guarire dal
raffreddore. Stasera è venuta una delle ragazze dell'ARP per chiedere in prestito metà delle nostre brande e ci ha parlato del disastro nell'East End, dove era stato colpito un rifugio di superficie. Quattro morti, dodici feriti. — E per fortuna che non era uno di quelli della metropolitana — ha detto. — Altrimenti sarebbe stata una vera carneficina, no? 30 novembre - Ho sognato che avevo portato il gatto a St. John's Wood. — È una missione di salvataggio, per caso? — ha chiesto Dunworthy. — No, signore — ho risposto con orgoglio. — So cosa dovevo trovare nella mia prova pratica. Il perfetto superstite. Duro, ricco di risorse, egoista. Questo è l'unico che sono riuscito a trovare. Ho dovuto uccidere Langby, vede, per impedirgli di bruciare San Paolo. Il fratello di Enola è andato a Bath, e gli altri non ce la faranno mai. Enola porta i sandali in pieno inverno e dorme nella metropolitana e si fissa i capelli con le forcine perché si arriccino. Non può sopravvivere al Blitz. Dunworthy ha detto: — Forse avrebbe dovuto salvare lei, invece. Come ha detto che si chiama la ragazza? — Kivrin — ho risposto, e mi sono svegliato infreddolito e tremante. 5 dicembre - Ho sognato che Langby aveva la microbomba. La portava sotto il braccio, come un pacco avvolto nella carta marrone, e usciva dalla Stazione di San Paolo e saliva Ludgate Hill, verso la porta ovest. — Non è giusto — gli ho detto sbarrandogli la strada con il braccio. — Non c'è nessuno di guardia del servizio antincendio. Si è stretto la bomba al petto come un cuscino. — È colpa tua — ha detto, e prima che io potessi prendere la pompa a staffa e il secchio, l'ha lanciata dentro alla porta. La microbomba non è stata inventata se non alla fine del ventesimo secolo; e poi sono passati altri dieci anni prima che i comunisti spodestati se ne impadronissero e la trasformassero in qualcosa che si può portare sotto il braccio. Un pacchetto che potrebbe cancellare un quarto di miglio della City. Grazie a Dio, è un sogno che non può avverarsi. Nel sogno era una mattina di sole, e stamattina, quando sono smontato dal turno di guardia, il sole brillava per la prima volta dopo varie settimane. Sono sceso nella cripta e poi sono risalito, e ho fatto altre due volte il giro dei tetti, poi ho ispezionato la scalinata e i dintorni e tutti i vicoletti dove una bomba incendiaria poteva esser sfuggita all'attenzione. Dopo mi
sono sentito un po' più tranquillo, ma quando mi sono addormentato ho sognato di nuovo: questa volta ho sognato l'incendio, e Langby che stava a guardare sorridente. 15 dicembre - Stamattina ho trovato il gatto. Questa notte i bombardamenti sono stati pesanti, ma quasi tutti verso Canning Town, e sui tetti era piovuta poca roba o niente. Ma il gatto era morto. L'ho trovato stamattina sulla scalinata quando ho fatto il mio giro. Dev'essere stato lo spostamento d'aria. Non aveva un segno addosso, tranne la sua macchia bianca sulla gola, ma quando l'ho raccolto era tutto gelatina, sotto la pelle. Non sapevo cosa farne. Per un momento ho pensato assurdamente di chiedere a Matthews se potevo seppellirlo nella cripta, perché era morto onorevolmente in guerra o qualcosa del genere: Trafalgar, Waterloo, Londra, caduto in combattimento. Ho finito per avvolgerlo nella mia sciarpa e l'ho portato giù da Ludgate Hill, in una casa spianata dalle bombe e l'ho sepolto tra le macerie. Non servirà a niente. Le macerie non saranno una protezione contro i cani e i ratti e non riuscirò più a procurarmi un'altra sciarpa. Ho quasi finito il denaro dello zio. Non dovrei starmene qui seduto. Non ho controllato i vicoletti e il resto della scalinata, e potrebbe esserci una bomba incendiaria a scoppio ritardato o qualcosa d'altro che mi è sfuggito. Quando sono venuto qui mi vedevo come il generoso salvatore del passato. Ma non me la cavo molto bene. Per fortuna Enola è lontana. Vorrei che ci fosse un sistema per spedire San Paolo a Bath, al sicuro. Ci sono stati pochi bombardamenti, stanotte. Bence-Jones ha detto che i gatti riescono a sopravvivere a tutto. E se lui era uscito per venirmi incontro, per mostrarmi la strada di casa? Tutte le bombe sono cadute in Canning Town. 16 dicembre - Enola è tornata da una settimana. Quando l'ho vista li sulla scalinata ovest dove avevo trovato il gatto e ho pensato che dormiva all'Arco di Marmo e non era più al sicuro, mi sono sentito sconvolto. — Credevo che fossi a Bath — le ho detto stupidamente. — Mia zia ha detto che può tenere Tom, ma non anche me. Ha la casa piena di bambini sfollati, e fanno un chiasso tremendo. Dove hai messo la sciarpa? — ha chiesto. — Fa un freddo spaventoso, qui sulla collina. — Io... — ho detto. Non riuscivo a rispondere. — L'ho persa. — Non potrai procurartene un'altra — mi ha detto lei. — Cominceranno a razionare i vestiti. E anche la lana. Non ne troverai più, un'altra come
quella. — Lo so — ho risposto, sbattendo gli occhi. — La roba bella buttata via così — ha detto. — È un delitto, ecco che cos'è. Non ho risposto, credo. Mi sono voltato e mi sono allontanato a testa bassa, in cerca di bombe e di animali morti. 20 dicembre - Langby non è nazista. È comunista. Quasi non riesco a scriverlo. Comunista. Una delle donne delle pulizie ha trovato The Worker infilato dietro una colonna e l'ha portato giù nella cripta mentre noi smontavamo dal primo turno di guardia. — Sporchi comunisti — ha detto Bence-Jones. — Aiutano Hitler. Parlano contro il re, aizzano la gente nei rifugi. Traditori, ecco che cosa sono. — Amano l'Inghilterra proprio come lei — ha detto la donna delle pulizie. — Quelli non amano altri che se stessi, maledetti egoisti. Non mi sorprenderei se telefonassero a Hitler — ha detto Bence-Jones. — «Ciao, Adolf, ecco qui dove devi far lanciare le bombe». Il bricco sul fornello a gas ha cominciato a fischiare. La donna delle pulizie si è alzata e ha versato l'acqua bollente nella teiera sbreccata, poi si è seduta di nuovo. — Anche se dicono quello che pensano, non significa che sarebbero capaci di bruciare San Paolo, vero? — No, certo — ha detto Langby che stava scendendo la scala. Si è seduto e si è sfilato gli stivali, agitando le dita nelle calze di lana. — Chi non sarebbe capace di bruciare San Paolo? — I comunisti — ha detto Bence-Jones, guardandolo diritto in faccia, e io mi sono domandato se anche lui sospettava di Langby. Langby non ha battuto ciglio. — Non mi preoccuperei di loro, se fossi in te — ha detto. — Sono i crucchi, quelli che stanno facendo di tutto per bruciarlo, stanotte. Sei bombe incendiarie, finora, e per poco una non è finita in quel grosso buco sopra il coro. — Ha teso la tazza alla donna delle pulizie, e lei gli ha versato il tè. Avrei voluto ucciderlo, schiacciarlo nella polvere e nei calcinacci sul pavimento della cripta, mentre Bence-Jones e la donna delle pulizie stavano a guardare impotenti e sbalorditi; avrei voluto ucciderlo e gridare a tutti gli altri: — Sapete che cosa hanno fatto i comunisti? — volevo urlare. — Lo sapete? Dobbiamo fermarlo! — Mi sono persino alzato per av-
vicinarmi a lui, e Langby era lì seduto con i piedi allungati e la giacca di asbesto ancora sulle spalle. E poi il pensiero della Galleria invasa dalla luce dorata, il comunista che usciva dalla stazione della metropolitana con il pacco tenuto con noncuranza sotto il braccio mi hanno dato lo stesso senso di vertigine travolgente, carica di rimorso e d'impotenza; e mi sono seduto di nuovo sull'orlo della mia branda e ho cercato di pensare cosa dovevo fare. Loro non si rendono conto del pericolo. Persino Bence-Jones, nonostante tutti i suoi discorsi sui traditori, crede che siano capaci soltanto di parlare contro il re. Loro non sanno, non possono sapere che cosa diventeranno i comunisti. Stalin è un alleato. Comunisti vuol dire Russia. Non hanno mai sentito parlare di Karinsky o della Nuova Russia o delle cose che trasformeranno «comunista» in un sinonimo di «mostro». Non lo sapranno mai. Quando i comunisti diventeranno quello che diventeranno, non ci saranno servizi antincendio. Soltanto io so cosa significa sentir pronunciare con tanta noncuranza il nome «comunisti» in San Paolo. Un comunista. Avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto saperlo. 22 dicembre - Di nuovo i doppi turni. Non ho dormito, e stento a reggermi in piedi. Questa mattina è mancato poco che cadessi nel buco, e mi sono salvato soltanto perché mi sono buttato in ginocchio. I miei livelli dell'endorfina oscillano all'impazzata, e so che ho bisogno di dormire un po' al più presto, altrimenti diventerò uno dei morti ambulanti di cui parlava Langby; ma ho paura di lasciarlo solo sui tetti, solo nella chiesa con il suo dirigente comunista, solo dappertutto. Ho preso l'abitudine di sorvegliarlo anche quando dorme. Se riuscissi a procurarmi una sostanza artificiale, credo che potrei indurre una trance, nonostante le mie condizioni. Ma non posso neppure uscire per andare in un pub. Langby è sempre sui tetti, in attesa dell'occasione buona. Quando tornerà Enola, devo convincerla a procurarmi il brandy. Mi restano soltanto pochi giorni. 28 dicembre - Enola è venuta stamattina mentre ero sotto il portico ovest a rialzare l'albero di Natale. Per tre notti consecutive lo spostamento d'aria l'ha abbattuto. Avevo raddrizzato l'albero e mi stavo chinando per raccogliere i fili d'argento quando all'improvviso Enola è uscita dalla nebbia come una santa sorridente. Si è curvata in fretta e mi ha dato un bacio sulla guancia. Poi si è raddrizzata, con il naso arrossato dal solito raffred-
dore e mi ha dato una scatola avvolta nella carta colorata. — Buon Natale — ha detto. — Su, apri. È un regalo. I miei riflessi erano andati quasi completamente. Sapevo che la scatola era troppo piatta per contenere una bottiglia di brandy. Comunque ho creduto che si fosse ricordata, che mi avesse portato la salvezza. — Sei un tesoro — ho detto, e ho strappato la carta. Era una sciarpa. Di lana grigia. L'ho fissata per mezzo minuto buono senza capire cosa fosse. — Dov'è il brandy? — ho chiesto. Lei c'è rimasta male. Il naso le è diventato ancora più rosso, e le si sono appannati gli occhi. — Hai più bisogno di questa. Non hai la tessera dell'abbigliamento e devi stare sempre all'aperto. Fa tanto freddo. — Avevo bisogno del brandy — ho detto, rabbiosamente. — Io volevo solo essere gentile — ha cominciato a rispondere lei, ma l'ho interrotta. — Gentile? — ho detto. — Ti avevo chiesto il brandy. Non ricordo di aver mai parlato d'aver bisogno d'una sciarpa. — Gliel'ho ridata e ho incominciato a districare una fila di lampadine colorate che si erano rotte quando era caduto l'albero. Ha assunto la stessa espressione da martire che riesce così bene a Kivrin. — Io sono in pensiero per te che stai sempre lassù — ha detto tutto d'un fiato. — Stanno cercando di far fuori San Paolo, lo sai. Ed è così vicino al fiume. Non pensavo che bevessi. È... è un delitto che tu non sappia badare a te stesso quando stanno cercando di ammazzarci tutti. È come se fossi d'accordo con loro. Ho tanta paura che un giorno salirò a San Paolo e non ti troverò più. — Bene, e che cosa dovrei farmene di una sciarpa? Tenerla sopra la testa quando sganciano le bombe? Lei ha girato sui tacchi ed è scappata via, è sparita nella nebbia grigia prima di aver disceso due gradini. Ho fatto per rincorrerla, continuando a tenere in mano la fila di lampadine rotte, sono inciampato e sono caduto fin quasi in fondo alla scalinata. Langby mi ha rimesso in piedi. — Ti tolgo dai turni di guardia — ha detto con aria decisa. — Non puoi fare una cosa simile — ho detto io. — Oh, sì che posso. Non voglio morti ambulanti, sui tetti con me. Ho lasciato che mi conducesse quaggiù nella cripta e mi preparasse una tazza di té e mi mettesse a letto. Era tutto premuroso. Non si capiva se era proprio ciò che stava aspettando. Starò qui sdraiato fino a quando suone-
ranno le sirene. Quando sarò sui tetti non potrà mandarmi via senza destare sospetti. Sapete che cosa ha detto prima di andarsene, con la giacca di asbesto e gli stivali di gomma, il bravo responsabile del servizio antincendio? — Voglio che dorma un po'. — Come se potessi dormire, con Langby sui tetti. Finirei bruciato vivo. 30 dicembre - Mi hanno svegliato le sirene, e il vecchio Bence-Jones ha detto: — Dovrebbe averti fatto bene. Hai dormito per tutto il giro dell'orologio. — Che giorno è? — ho chiesto, prendendo gli stivali. — Il ventinove — mi ha risposto lui e poi, mentre correvo verso la porta: — Non c'è fretta. Stanotte sono in ritardo. Forse non verranno neppure. Sarebbe una vera benedizione. C'è la bassa marea. Mi sono fermato sulla porta della scala, aggrappandomi alla pietra fredda. — San Paolo è ancora intero? — È ancora in piedi — ha detto Bence-Jones. — Hai fatto un brutto sogno? — Sì — ho risposto, ricordando i brutti sogni di tutte le ultime settimane... il gatto morto tra le mie braccia in St. John's Wood, Langby con il pacco e il Worker sotto il braccio, la lapide del servizio antincendio illuminata dalla lanterna di Cristo. Poi ho ricordato che non avevo sognato proprio nulla. Avevo dormito quel tipo di sonno che avevo invocato, il sonno che mi avrebbe aiutato a ricordare. Allora ho ricordato. Non San Paolo, bruciato dai comunisti. Un titolo dei quotidiani. «Colpito l'Arco di Marmo. Diciotto morti.» La data non era chiara, a parte l'anno. Del 1940 restavano esattamente due giorni. Ho preso la giacca e la sciarpa e ho salito di corsa la scala e ho attraversato il pavimento di marmo. — Dove diavolo credi di andare? — mi ha gridato Langby. Non lo vedevo. — Debbo salvare Enola — ho detto, e la mia voce echeggiava nella cattedrale buia. — Bombarderanno l'Arco di Marmo. — Non puoi andare adesso — mi ha gridato dietro. Era proprio dove avrebbero messo la lapide commemorativa. — C'è la bassa marea. Sporco... Non ho sentito il resto. Avevo già sceso a precipizio la scalinata ed ero saltato a bordo di un tassì. Ho speso quasi tutto il denaro che avevo e che tenevo scrupolosamente da parte per il viaggio di ritorno a St. John's Wood. Il bombardamento è incominciato quando eravamo ancora in Oxford
Street, e il tassista si è rifiutato di andare oltre. Mi ha lasciato nel buio pesto, e ho capito che non avrei fatto in tempo. Maledizione. Enola accasciata sulla scala della metropolitana, con i sandali ancora ai piedi, e senza un segno addosso. E quando cerco di sollevarla è come se fosse di gelatina sotto la pelle. Avrei dovuto avvolgerla nella sciarpa che mi aveva regalato, perché ero arrivato tardi. Ero tornato indietro di cent'anni ed ero arrivato in ritardo per salvarla. Ho corso per gli ultimi isolati, guidato dalla postazione dei cannoni che doveva essere in Hyde Park, e ho sceso come un pazzo la scala dell'Arco di Marmo. La donna della biglietteria si è presa il mio ultimo scellino per un biglietto per la stazione di San Paolo. L'ho infilato in tasca e sono corso verso la scala. — Non corra — ha detto lei, placidamente. — A sinistra, prego. — La porta a destra era bloccata da barriere di legno, il cancello metallico era chiuso da una catena. Sul cartello con i nomi delle stazioni c'era una croce di nastro adesivo, e un cartello nuovo con la scritta «Tutti i treni» era inchiodato alla barriera e indicava la sinistra. Enola non era sulle scale mobili bloccate e non era seduta contro il muro della galleria. Sono arrivato alla prima scala e non sono riuscito a passare. C'era una famiglia accampata proprio dove volevo passare io, e prendeva il té con pane e burro, un vasetto di marmellata chiuso con la carta oleata, e un bricco su un fornello come quello che io e Langby avevamo tirato fuori dai calcinacci, e tutto era steso su una tovaglia con un fregio di fiori ricamato negli angoli. Mi sono fermato a guardare quella tovaglia apparecchiata per il té, disposta come una cascata sui gradini. — Io... l'Arco di Marmo... — ho detto. Altre venti persone uccise dalla caduta delle piastrelle. — Non dovreste star qui. — Abbiamo lo stesso diritto degli altri — ha detto l'uomo con aria bellicosa. — E lei chi è, per dirci che dobbiamo andar via? Una donna che stava tirando fuori i piattini da una scatola di cartone mi ha guardato, impaurita. Il bricco ha incominciato a fischiare. — È lei che deve andare — ha detto l'uomo. — E allora vada. — Si è tirato da una parte per farmi passare, e sono passato accanto alla tovaglia ricamata. — Scusi — ho detto. — Sto cercando una persona. Sulla piattaforma. — Non la troverà mai là dentro, amico — ha detto l'uomo, indicando con il pollice. Sono corso via, evitando appena di calpestare la tovaglia. Ho girato l'angolo e sono piombato nell'inferno.
Non era l'inferno. C'erano alcune commesse che avevano piegato i cappotti e ci stavano appoggiate, allegre o imbronciate o stizzite, ma certo non avevano l'aria delle dannate. Due ragazzini si stavano disputando uno scellino, e l'hanno perso perché è rotolato sui binari. Si sono sporti dal marciapiedi, discutendo per decidere se dovevano andare a recuperarlo o no, e una guardia gli ha gridato di stare indietro. È passato rombando un treno carico di gente. Una zanzara si è posata sulla mano della guardia e l'uomo ha fatto per schiacciarla, ma l'ha mancata. I ragazzini hanno riso. E dietro di loro e davanti a loro, in tutte le direzioni sotto le esiziali piastrelle bianche della galleria; sdraiati come feriti, nelle entrate e sulle scale, c'erano centinaia e centinaia di uomini e donne e bambini. Sono tornato barcollando nella galleria, rovesciando una tazza. Il tè si è sparso sulla tovaglia come un lago. — Gliel'avevo detto, amico — ha commentato allegramente l'uomo. — Là dentro è l'inferno, no? E sotto è anche peggio. — L'inferno — ho detto. — Sì. — Non l'avrei mai trovata. Non l'avrei salvata. Ho guardato la donna che asciugava il tè e ho pensato che non potevo salvare neppure lei. Enola o il gatto o qualunque altro, smarriti lì tra le scale che non finivano mai e i vicoli ciechi del tempo. Erano già morti da cent'anni, e non si poteva salvarli. Non si può salvare il passato. Sicuramente era quella, la lezione che la facoltà di storia mi aveva mandato a imparare. Benissimo, l'ho imparata. Adesso posso tornare a casa? No, naturalmente, caro ragazzo. Hai speso stupidamente tutto il tuo denaro in tassì e brandy, e questa è la notte che i tedeschi bruceranno la City. (Adesso che è troppo tardi, ricordo tutto. Ventotto bombe incendiarie sui tetti.) Langby deve avere la sua occasione, e tu devi imparare la lezione più difficile di tutte, quella che avresti dovuto conoscere fin dall'inizio. Non puoi salvare San Paolo. Sono tornato sulla piattaforma e mi sono fermato dietro la linea gialla, fino a quando si è fermato un treno. Ho tirato fuori il mio biglietto e l'ho tenuto sempre in mano fino alla stazione di San Paolo. Quando sono arrivato, il fumo saliva dietro di me come un pulviscolo d'acqua. Non riuscivo a vedere San Paolo. — C'è la bassa marea — ha detto una donna, con una voce priva di speranza, e io sono caduto in un groviglio serpentino di tubi di tela floscia. Quando ho sollevato le mani, erano coperte di fango puzzolente e finalmente ho capito, troppo tardi, l'importanza della bassa marea. Non c'era acqua per combattere le fiamme.
Un poliziotto mi ha sbarrato la strada e mi sono fermato davanti a lui, rassegnato, senza sapere che cosa dire. — I civili non sono ammessi lassù — ha detto. — San Paolo è andato. — Il fumo turbinava come un nembo temporalesco, pieno di scintille e al di sopra del fumo la cupola s'innalzava tutta d'oro. — Sono al servizio antincendio — ho detto, e il poliziotto ha riabbassato le braccia, e sono arrivato sui tetti. I miei livelli d'endofrina dovevano andare su e giù come la voce delle sirene antiaeree. Da quel momento non ho più ricordi a breve termine, ma soltanto momenti sconnessi: la gente nella chiesa quando abbiamo portato giù Langby, acquattata in un angolo a giocare a carte, il vortice di pezzi di legno incendiati nella cupola, l'autista dell'ambulanza che portava i sandali come Enola e che mi ha spalmato l'unguento sulle mani ustionate. E al centro, l'unico momento chiaro, quando ho raggiunto Langby con una corda e gli ho salvato la vita. Ero vicino alla cupola e sbattevo le palpebre nel fumo. La City era in fiamme e sembrava che San Paolo dovesse incendiarsi spontaneamente per il calore, o crollare per il frastuono. Bence-Jones era vicino alla torre nordovest, e stava prendendo a badilate una bomba incendiaria. Langby era troppo vicino al tratto rappezzato alla meglio sopra il coro, ed era rivolto verso di me. Una bomba incendiaria gli è caduta sulle spalle. Mi sono voltato per afferrare un badile e quando mi sono girato di nuovo lui era sparito. — Langby! — ho gridato, ma non sentivo la mia voce. Era caduto nella breccia, e nessuno vedeva lui e la bomba incendiaria. Nessuno, tranne me. Non ricordo come ho attraversato il tetto. Credo di aver gridato per chiedere una corda. Qualcuno me l'ha data. Me la sono legata intorno alla cintura, ho messo i due capi nelle mani dei miei compagni e mi sono calato. Gli incendi illuminavano l'interno del foro, fin quasi in fondo. Sotto di me ho visto un mucchio di macerie bianche. È lì sotto, ho pensato, e sono saltato giù. Lo spazio era così poco che non sapevo dove buttare le macerie. Avevo paura di lapidarlo involontariamente, e cercavo di gettare i pezzi di legno e d'intonaco alle mie spalle, ma c'era appena appena posto per girarmi. Per un momento terribile ho pensato che non fosse neppure lì e che scostando i frammenti di legno avrei visto il pavimento vuoto, come era successo nella cripta. Ero stordito dall'orrore di strisciargli addosso. Se era morto, pensavo che non avrei sopportato il pensiero di calpestare il suo cadavere. Poi la sua
mano si è alzata come quella di uno spettro e mi ha afferrato la caviglia, e in pochi secondi mi sono girato e gli ho liberato la testa. Era di quel bianco spaventoso che non mi fa più paura. — Ho spento la bomba — ha detto. L'ho fissato, così sopraffatto dal sollievo che non riuscivo a parlare. Per un momento d'isteria ho creduto che sarei scoppiato a ridere, tanto ero contento di vederlo. Finalmente ho capito che cosa dovevo dire. — Tutto bene? — ho chiesto. — Sì — ha risposto lui, e ha tentato di sollevarmi su un gomito. Tanto peggio per te. Non ce la faceva ad alzarsi. Ha grugnito di dolore quando ha cercato di spostare il peso sul fianco destro, e si è abbandonato; le macerie hanno scricchiolato sinistramente sotto di lui. Ho cercato di alzarlo delicatamente per vedere dov'era ferito. Doveva essere caduto su qualche cosa. — È inutile — ha detto lui, ansimando. — L'ho spenta. L'ho guardato sbalordito, temendo che stesse delirando, e ho continuato a cercare di girarlo sul fianco. — Lo so che contavi su questa — ha detto lui, senza opporre resistenza. — Doveva succedere, prima o poi, con tutti questi tetti. Ma le sono corso dietro. Cosa racconterai ai tuoi amici? La giacca d'asbesto aveva un lungo strappo, dietro, e sotto la giacca la schiena era carbonizzata e fumava. Era caduto sulla bomba incendiaria. — Oh, mio Dio — ho detto, mentre cercavo disperatamente di vedere quanto era grave l'ustione, ma senza toccarlo. Non potevo sapere quanto erano profonde le bruciature, ma sembrava che fossero limitate soltanto alla fascia stretta dove la giacca s'era strappata. Ho cercato di tirar via la bomba che era sotto di lui, ma l'involucro scottava come una stufa. Però non stava fondendo. La mia sabbia e il corpo di Langby l'avevano soffocata. Non sapevo se avrebbe ricominciato a bruciare quando fosse stata di nuovo esposta all'aria. Mi sono guardato intorno come un matto per cercare il secchio e la pompa a staffa che Langby doveva aver lasciato cadere quando era precipitato. — Cerchi un'arma? — ha chiesto Langby, con voce così chiara che era difficile credere che fosse ferito. — Perché non mi lasci qui? Prima di domattina sarei morto. Oppure preferisci fare il tuo sporco lavoro in privato? Mi sono rialzato in piedi e ho chiamato gli uomini che stavano sul tetto sopra di noi. Uno ha puntato una lampada tascabile, ma la luce non ci ha raggiunti.
— È morto? — mi ha gridato una voce. — Chiamate un'ambulanza — ho detto. — È ustionato. Ho aiutato Langby ad alzarsi, cercando di sostenerlo senza toccargli la schiena. Ha barcollato un po' e poi si è appoggiato al muro a guardarmi mentre io cercavo di seppellire la bomba incendiaria usando un pezzo di legno piatto. Poi hanno calato la corda, e io ho legato Langby. Non aveva più parlato da quando l'avevo aiutato a mettersi in piedi. Ha lasciato che gli annodassi la corda intorno alla vita e ha continuato a fissarmi. — Avrei dovuto lasciarti morire soffocato nella cripta — ha detto. Stava diritto abbastanza agevolmente, quasi rilassato contro i supporti di legno, puntellandosi con le mani. Gli ho messo le mani sulla corda lenta e gliel'ho avvolta intorno, perché sapevo che non ce l'avrebbe fatta a stringerla. — Ti tenevo d'occhio da quel giorno nella Galleria. Sapevo che non avevi paura dell'altezza. Sei sceso quaggiù senza aver paura dell'altezza quando hai pensato che avessi rovinato i tuoi piani. Cosa ti ha preso? Una crisi di coscienza? Ti sei inginocchiato come un bambino a piangere: Cos'abbiamo fatto? Cos'abbiamo fatto? Mi dai la nausea. Ma sai che cosa ti ha tradito? Il gatto. Tutti sanno che i gatti odiano l'acqua. Tutti, tranne una sporca spia nazista. Ho sentito che tiravano la corda, dall'alto. — Avanti! — ho detto, e la corda si è tesa. — E quella smorfiosa del WVS? Anche lei era una spia? Avevi appuntamento con lei all'Arco di Marmo? Mi hai detto che l'avrebbero bombardato. Sei una lurida spia. Bartholomew. I tuoi amici l'hanno già fatto saltare in settembre. La stazione è aperta di nuovo. La corda ha dato uno strattone all'improvviso e ha incominciato a sollevare Langby. Lui ha girato le mani per afferrarsi meglio. Ha urtato il muro con la spalla destra. Io ho alzato le mani e l'ho spinto delicatamente in modo che verso il muro ci fosse la parte sinistra del suo corpo. — Stai facendo un grosso sbaglio, sai — ha detto. — Avresti dovuto uccidermi. Ti denuncerò. Sono rimasto lì nel buio ad aspettare la fune. Langby aveva perso i sensi quando è arrivato sul tetto. Sono passato tra i miei compagni, ho raggiunto la cupola e sono sceso nella cripta. Stamattina è arrivata la lettera di mio zio, e dentro c'era un biglietto da dieci sterline. 31 dicembre - Due degli scagnozzi di Dunworthy mi aspettavano in St.
John's Wood per dirmi che ero in ritardo per l'esame. Non ho neppure protestato. Li ho seguiti docilmente senza neppure pensare che era ingiusto imporre un esame ad un morto ambulante. Non avevo dormito da... da quanto? Da ieri, quando ero andato a cercare Enola. Non avevo dormito da un secolo. Dunworthy era alla sua scrivania e mi guardava sbattendo le palpebre. Uno degli scagnozzi mi ha dato il foglio del questionario, e l'altro ha cominciato a controllare il tempo. Ho girato il foglio e ho lasciato una macchia oleosa con l'unguento spalmato sulle ustioni. Le ho guardate senza capire. Avevo toccato la bomba incendiaria quando avevo girato Langby, ma le bruciature erano su! dorso delle mani. All'improvviso la spiegazione mi è giunta con la voce inflessibile di Langby: — Sono bruciature lasciate dalla corda, imbecille. A voi spie naziste non insegnano neppure il sistema giusto per arrampicarsi su per una fune? Ho guardato il foglio. C'era scritto: «Numero delle bombe incendiarie cadute su San Paolo. Numero delle mine. Numero delle bombe esplosive ad alto potenziale. Numero dei volontari del primo turno di guardia. Secondo turno. Feriti. Morti». Le domande non avevano senso. C'era pochissimo spazio, appena sufficiente per scrivere i numeri, dopo ogni domanda. Metodo usato più comunemente per spegnere le bombe incendiarie. Come sarei riuscito a stipare quello che sapevo, in quello spazio? Dov'erano le domande su Enola e Langby e il gatto? Mi sono avvicinato alla scrivania di Dunworthy. — Stanotte è mancato poco che San Paolo bruciasse — ho detto. — Che razza di domande sono queste? — Lei deve rispondere alle domande, Mr. Bartholomew, non farle. — Non ci sono domande sulla gènte — ho detto. L'involucro esterno della mia rabbia stava incominciando a sciogliersi. — Certo che ci sono — ha detto Dunworthy, girando la seconda pagina del questionario. — Numero dei morti e feriti, 1940. Esplosioni, shrapnel, altre cause. — Altre cause? — Ho chiesto. Da un momento all'altro il tetto mi sarebbe crollato addosso in una pioggia di polvere d'intonaco e di furore. — Altre cause? Langby ha spento un incendio con il suo corpo. Enola ha un raffreddore che continua a peggiorare. Il gatto... — Gli ho strappato dalle mani il foglio e ho scarabocchiato «un gatto» nello spazio accanto a «Esplosioni». — Non gliene importa proprio niente? — Sono importanti da un punto di vista statistico — ha detto lui. — Ma
come individui non hanno importanza per il corso della storia. I miei riflessi erano andati. Ma mi ha sorpreso constatare che quelli di Dunworthy erano quasi altrettanto lenti. Gli ho scalfito appena la mascella e gli ho fatto schizzar via gli occhiali. — Certo che sono importanti! — ho gridato. — Loro sono la storia, loro e non tutti quei maledetti numeri! I riflessi degli scagnozzi erano prontissimi. Non mi hanno lasciato il tempo di sferrargli un altro pugno. Mi hanno agguantato per le braccia per trascinarmi fuori. — Loro sono nel passato, e non c'è nessuno che li salvi. Non riescono a vedersi le mani neppure se le alzano davanti agli occhi, e le bombe gli piovono addosso e lei mi dice che non sono importanti? E vuol raccontarmi d'essere uno storico? Gli scagnozzi mi hanno trascinato fuori dalla porta, nel corridoio. — Langby ha salvato San Paolo. Una persona può essere più importante di così? Lei non è uno storico! Non è altro che un... — Volevo gridargli un insulto terribile, ma gli unici che mi sono venuti in mente erano quelli che avevo sentito da Langby. — Non è altro che una lurida spia nazista! — ho urlato. — Non è altro che un borghese fannullone! Mi hanno scaricato carponi fuori dalla porta e me l'hanno sbattuta in faccia. — Non vorrei diventare uno storico neanche se mi pagasse! — ho gridato, e sono andato a vedere la lapide commemorativa del servizio antincendio. 31 dicembre - Questo devo scriverlo a spizzichi e bocconi. Ho le mani malridotte e i ragazzi di Dunworthy non hanno migliorato le cose. Ogni tanto viene Kivrin, con quella sua aria da santa Giovanna, e mi spalma sulle mani tanto unguento che non riesco a tenere una matita. La stazione di San Paolo non c'è, naturalmente, e così sono sceso a Holborn e ho proseguito a piedi, pensando al mio ultimo incontro con il decano Matthews la mattina dopo che era bruciata la City. Questa mattina. — Ho saputo che ha salvato la vita di Langby — mi ha detto. — E so che voi due insieme avete salvato San Paolo, stanotte. Gli ho mostrato la lettera di mio zio e lui l'ha guardata come se non riuscisse a immaginare che cosa fosse. — Nulla è salvato per sempre — ha detto e per un momento terribile ho pensato che stesse per dirmi che Langby era morto. — Dovremo continuare a salvare San Paolo fino a che Hitler non deciderà di bombardare le campagne. Le incursioni su Londra sono quasi finite. Avrei voluto dirglielo. Hitler
comincerà a bombardare le campagne tra poche settimane. Canterbury, Bath, e sempre mirando alle cattedrali. Lei e San Paolo sopravviveranno alla guerra e potranno inaugurare la lapide commemorativa del servizio antincendio. — Tuttavia ho qualche speranza — ha detto. — Credo che il peggio sia passato. — Sì, signore. — Ho pensato alla lapide, con la scritta ancora leggibile dopo tanto tempo. No, signore, il peggio non è passato. Sono riuscito a orientarmi fin quasi sulla cima di Ludgate Hill, e poi ho perso completamente la strada. Vagavo come un uomo in un cimitero. Non avevo ricordato che le macerie erano tanto simili alla polvere bianca dei calcinacci dalla quale aveva cercato di tirare fuori Langby. Non riuscivo a trovare la lapide da nessuna parte. Alla fine per poco non le sono caduto sopra, e sono balzato indietro come se avessi calpestato una tomba. È tutto ciò che è rimasto. Dicono che a Hiroshima fossero rimasti alcuni alberi intatti al punto zero. A Denver è rimasta la scalinata del Campidoglio. Ma gli uni e l'altra non dicono: «Ricordate gli uomini e le donne del Servizio Antincendi di San Paolo che per grazia di Dio salvarono questa Cattedrale.» Per grazia di Dio. La lapide è in parte tranciata. Gli storici sostengono che c'era un'altra riga dov'era scritto «per sempre»; ma non lo credo, se il decano Matthews ha avuto la possibilità di dire la sua. E nessuno di quelli del servizio alla quale era dedicata l'avrebbe creduto per un solo istante. Salvavamo San Paolo ogni volta che spegnevamo una bomba incendiaria, e lo salvavamo soltanto fino a quando ne cadeva un'altra. Stavamo di guardia nei punti pericolosi, spegnevamo i piccoli incendi con la sabbia e le pompe a staffa, e quelli grandi li spegnevamo con i nostri corpi, per impedire che l'immensa, complessa cattedrale finisse bruciata. E mi sembra quasi la descrizione della Prova Pratica 401 del Corso di Storia. Proprio il momento migliore per scoprire a cosa servono gli storici, quando ho buttato dalla finestra la possibilità di diventare uno di loro con la stessa facilità con cui hanno buttato dentro la microbomba! No, signore, il peggio non è passato. Ci sono tracce di un'ombra bruciata sulla lapide, dove secondo la leggenda stava inginocchiato il decano di San Paolo quando la bomba è esplosa. Una leggenda totalmente apocrifa, naturalmente, dato che la porta d'ingresso non è il posto più adatto per pregare. Molto più probabilmente è l'ombra di un turista che era entrato per chiedere dove si trovava il Windmill Theatre, o l'impronta di una ragazza venuta a portare una sciarpa di
lana a un volontario. Oppure un gatto. Nulla è salvato per sempre, decano Matthews; e io lo sapevo quando sono entrato dalla porta ovest quel primo giorno, sbattendo le palpebre nel buio, ma comunque è molto doloroso. Star qui, affondato fino alle ginocchia nelle macerie dalle quali non potrò tirar fuori sedie pieghevoli o qualche amico, sapere che Langby è morto credendo che io fossi una spia nazista, sapere che un giorno Enola è venuta qui e io non c'ero più. È molto doloroso. Ma è meno doloroso di quanto potrebbe essere. Sono morti tutti e due, e anche il decano Matthews è morto; ma sono morti senza sapere quello che io ho sempre saputo, e che mi ha fatto crollare in ginocchio nella Whispering Gallery, sopraffatto dall'angoscia e dal rimorso: che alla fine nessuno di noi ha salvato San Paolo. E Langby non può girarsi verso di me, stordito e disfatto, e chiedermi: — Chi ha fatto questo? I tuoi amici nazisti? — E io dovrei rispondere: — No. I comunisti. — Questo sarebbe il peggio. Devo tornare nella mia stanza e lasciare che Kivrin mi spalmi altro unguento sulle mani. Lei vuole che io dorma un po'. So che dovrei fare i bagagli e andarmene. Sarà umiliante, quando verranno a buttarmi fuori, ma non ho la forza di oppormi a lei. Somiglia troppo a Enola. 1° gennaio - A quanto pare ho dormito non soltanto tutta la notte ma anche fin dopo la consegna della posta del mattino. Quando mi sono svegliato, poco fa, ho trovato Kivrin seduta ai piedi del letto. Aveva in mano una busta. — È arrivato il risultato del tuo esame — ha detto. Mi sono coperto gli occhi con il braccio. — Sanno essere meravigliosamente efficienti quando vogliono, no? — Sì — ha risposto Kivrin. — Bene, vediamo — ho detto sollevandomi a sedere. — Quanto tempo mi resta prima che vengano a buttarmi fuori? Lei mi ha consegnato la leggera busta del computer. L'ho strappato lungo la perforazione. — Aspetta — mi ha detto Kivrin. — Prima di aprirla, voglio dirti una cosa. — Ha posato una mano sulle mie ustioni, delicatamente. — Ti sbagli a giudicare la facoltà di storia. Sono molto in gamba. Non era esattamente quello che mi aspettavo da lei. — Non è il termine che userei io per descrivere Dunworthy — ho detto, e ho tirato fuori il foglio. Kivrin non ha cambiato espressione, neppure quando sono rimasto lì con il printout sulle ginocchia dove lei poteva vederlo sicuramente.
— Bene — ho detto. Il foglio era firmato dallo stimato Dunworthy. Avevo preso il massimo dei voti. E lode. 2 gennaio - Oggi sono arrivate due cose, per posta. Una era l'assegnazione per Kivrin. La facoltà di storia pensa a tutto... persino a tenerla qui abbastanza a lungo per farmi da infermiera, persino a realizzare prove del fuoco prefabbricate alle quali sottoporre i loro laureandi. Penso che vorrei credere che avevano fatto proprio questo. Enola e Langby erano attori scritturati apposta, il gatto un robot ingegnoso al quale avevano tolto il meccanismo interno per creare l'effetto finale: non tanto perché volevo credere che Dunworthy non fosse affatto in gamba, ma perché allora non avrei avuto quella sofferenza assillante al pensiero di non sapere cos'era stato di loro. — Mi hai detto che la tua prova pratica era nell'Inghilterra del 1300? — ho chiesto, guardando Kivrin sospettosamente come avevo guardato Langby. — 1349 — ha detto lei, e il suo viso si è oscurato al ricordo. — L'anno della peste. — Mio Dio — ho detto. — Come hanno potuto fare una cosa simile? La peste è un dieci, come pericolosità. — Io ho un'immunità naturale — ha risposto lei, guardandosi le mani. Dato che non sapevo cosa dire, ho aperto l'altra busta. Era un rapporto su Enola. Stampato dal computer, fatti e date e statistiche, tutti i numeri così cari alla facoltà di storia; ma mi diceva quello che credevo che avrei dovuto rinunciare a sapere: che era guarita dal raffreddore ed era sopravvissuta al Blitz. Il giovane Tom era rimasto ucciso a Bath in un bombardamento, ma Enola era vissuta fino al 2006, l'anno prima che facessero saltare San Paolo. Non so se devo credere o no al rapporto, ma non ha importanza. È come quando Langby leggeva a voce alta per il vecchio, un semplice gesto di gentilezza umana. Pensano proprio a tutto. No, non a tutto. Non mi hanno detto che è stato di Langby. Ma mentre scrivo questo, credo di saperlo già: gli ho salvato la vita. Sembra che non abbia importanza se anche è morto all'ospedale il giorno dopo; e nonostante tutte le dure lezioni che la facoltà di storia ha cercato d'insegnarmi, non credo completamente a questa: che nulla è salvato per sempre. A me sembra che forse Langby lo sia.
3 gennaio - Oggi sono andato a vedere Dunworthy. Non so che cosa avessi intenzione di dire... qualche frase pomposa sulla mia disponibilità a prestare la mia opera nel servizio antincendio della storia, a montare la guardia contro le bombe incendiarie del cuore umano, in silenzio e santamente. Ma lui ha battuto gli occhi da miope, guardandomi, e mi è sembrato che guardasse quell'ultima immagine fulgida di San Paolo nella luce del sole prima che sparisse per sempre, e sapesse meglio di chiunque altro che il passato non può venire salvato. E così ho detto, invece: — Mi dispiace di averle rotto gli occhiali, signore. — Le è piaciuto San Paolo? — mi ha chiesto, e come al mio primo incontro con Enola ho avuto l'impressione di aver capito i segnali nel modo sbagliato, e che lui non provasse un senso di perdita, ma qualcosa di completamente diverso. — Moltissimo, signore — ho risposto. — Sì — ha detto lui. — Anche a me. Il decano Matthews si sbaglia. Ho lottato con la memoria durante tutta la mia prova pratica soltanto per scoprire che non è affatto la nemica, e che essere uno storico non è, dopotutto, un santo onore. Perché Dunworthy non sta battendo le palpebre nella fatale luce del sole dell'ultimo mattino, ma nel buio di quel primo pomeriggio, e guarda all'interno della grande porta ovest di San Paolo qualcosa che, come Langby, come tutto, come ogni momento, è salvato per sempre dentro di noi. ELEFANTI MALINCONICI Melancholy Elephants di Spider Robinson Analog, giugno 1982 Melancholy Elephants è il terzo racconto di Spider Robinson presente in questo volume ed è un'ulteriore conferma delle doti di questo scrittore, da noi ancora praticamente sconosciuto. Ecco come può essere sfruttata in maniera nuova e originale un'idea già abbastanza trita come quella del «riciclaggio». Fin dove si può arrivare col «riciclaggio»? Forse molto più oltre di quanto si possa immaginare: Spider Robinson ce ne dà una sua personale interpretazione.
Restò seduta in una posizione zazen, concentrata nell'impegno di non concentrarsi, fino a quando fu ora di prepararsi per l'appuntamento. Sembrava che avesse prodotto la solita serenità, e avesse messo tutto in prospettiva. La mano non le tremò, quando incominciò a truccarsi: un viso tranquillo la guardava dallo specchio. Era un po' sorpresa, anzi, d'essere così calma, fino a quando uscì dall'ascensore dell'albergo al piano del garage e il rapinatore fece la sua mossa. Lei l'uccise anziché storpiarlo. Ovviamente non era un'azione misurata ed equilibrata... le pratiche burocratiche avrebbero rischiato di farla arrivare in ritardo. Irritata con se stessa, nascose il cadavere sotto una lucente roadable Westinghouse nuova il cui proprietario, lo sapeva, si trovava sulla Luna, e proseguì con la sua macchina. Avrebbe dovuto sistemare tutto più tardi, e sarebbe costato parecchio. Non poteva farci niente... Si sforzò di recuperare almeno una parvenza di tranquillità quando la macchina uscì dal garage e svoltò verso nord. Nulla doveva interferire in quell'incontro e nel ruolo che lei vi avrebbe avuto. Dozzine di anni-uomo e Dio sa quanti dollari, pensò, buttati in mezz'ora di conversazione. Tutto lo sforzo, tutta la speranza. Insignificante sulla scala della Grande Ruota, naturalmente... ma quando dipende tutto da mezz'ora di conversazione, è come tenere in equilibrio una cartuccia stereo sulla punta di un ago: basta un grammo di peso per logorare un pezzo di diamante. Devo essere più dura del diamante. Anziché schiarire un finestrino e guardare Washington, D.C.; che si snodava sotto la macchina, accese il televisore. Assorbì e integrò il telegiornale, nel caso che vi fosse qualche notizia appena arrivata che avrebbe potuto sfruttare a proprio vantaggio nell'imminente colloquio. Ma non ce n'erano. Poco dopo, la macchina le parlò: — Devo atterrare, signora. Chiedono l'identificazione oculare. — Quando la macchina si posò, lei schiarì il finestrino e poi l'aprì, presentò il lasciapassare e il documento d'identità al marine in divisa blu, e venne subito autorizzata a proseguire. Su richiesta del marine opacizzò di nuovo il finestrino e lasciò il controllo della macchina al computer di servizio; e quando la macchina si parcheggiò e si spense, scese senza fretta. Un uomo che conosceva la stava aspettando, e sorrideva. — Dorothy, è un piacere rivederti. — Salve, Phillip. Sei stato gentile a venirmi ad aspettare. — Sei incantevole, stasera.
— Troppo gentile. Non s'irritò per quei convenevoli privi di significato. Aveva bisogno dell'appoggio di Phil, forse. Ma rifletté che tante, tante frasi si erano consumate con l'uso, rese insignificanti da secoli di ripetizioni. Non era un pensiero nuovo. Se vieni con me, ti riceverà subito. — Grazie, Phillip. — Avrebbe voluto chiedergli di che umore era il vecchio, ma sapeva che avrebbe messo Phil in una posizione impossibile. — Credo che abbia avuto fortuna: questa sera il vecchio sembra d'ottimo umore. Lei sorrise per ringraziare, e decise che se e quando Phil si fosse deciso a farle una proposta, l'avrebbe accettata. I corridoi attraverso cui la condusse erano ampi, alti e lunghi; l'edificio risaliva a un tempo in cui l'energia costava poco. Persino a Washington, pochi altri si sarebbero permessi di vivere in un ambiente che sprecava tanta energia. L'arredamento estremamente sobrio rafforzava l'impressione creata dalle dimensioni: spazio nudo dal tappeto al soffitto, interrotto approssimativamente ogni quaranta metri da qualche oggetto d'arte squisitamente semplice che valeva almeno un megadollaro, messo in mostra nel modo appropriato. Una ciotola di porcellana bianca, disadorna e perfetta, vecchia più di mille anni, su un ruvido piedistallo di legno di ciliegio. Una sensazionale foto a colori di una strada di campagna coperta di neve, circondata da uno schermo di seta su una lamina d'argento: l'ora del giorno cambiava quando le si passava davanti. Un globo di cristallo d'un metro di diametro, nel quale danzava un ologramma dell'immortale Shara Drummond; dato che aveva smesso di ballare prima dell'avvento della tecnologia olografica, quella doveva essere una dispendiosa ricostruzione realizzata con un computer. Una piccola camera di glassite sigillata contenente la prima scultura a vuoto mai realizzata, la leggendaria Pietra Stellare di Nakagawa. Un visitatore che non avesse avuto fretta avrebbe potuto studiare un oggetto con calma, e poi proseguire per un tratto, assorto nella contemplazione, prima d'incontrarne un altro. Un visitatore che aveva fretta, come Dorothy, non avrebbe incontrato proprio perifericamente gli stimoli straordinari con frequenza sufficiente per imparare il trucco di filtrarli ed escluderli. Ognuno reclamava la sua attenzione, s'insinuava nei suoi pensieri: la distraevano, sia intrinsecamente, sia ricordandole la sterminata ricchezza del loro proprietario. Avvicinare quell'uomo in casa sua, in fretta o senza fretta, significava sentirsi umiliati. Lei sapeva che l'effetto era inten-
zionale, e non riusciva a trascenderlo: questo la irritava, e sentirsi irritata l'irritava ancora di più. Si sforzò di acquisire un certo distacco. In fondo ai corridoi che sembravano non finire mai c'era un ascensore. Phillip la fece entrare, premette un pulsante senza lasciarle la possibilità di vedere il numero del piano, e si ritrasse. — Buona fortuna, Dorothy. — Grazie, Phillip. C'è qualche argomento che è meglio evitare? — Ecco... non parlare di emorroidi. — Non sapevo che qualcuno potesse pensare di parlarne. Phillip sorrise. — Siamo ancora d'accordo per pranzare con me giovedì? — A meno che tu preferisca spostare l'appuntamento per cena. Lui inarcò un sopracciglio. — E colazione? Lei finse di riflettere. — Brunch — decise. Phillip le rivolse un mezzo inchino e indietreggiò. La porta dell'ascensore si chiuse e lei dimenticò l'esistenza di Phillip. Gli esseri senzienti sono innumerevoli; io faccio voto di salvarli tutti. Le passioni illusorie sono innumerevoli; io faccio voto di spegnerle tutte. La verità è illimitata; io... La porta dell'ascensore si riaprì, troncando il Voto del Bodhisattva. Lei non aveva sentito l'ascensore fermarsi... ma sapeva che doveva essere discesa almeno per cento metri. Uscì dalla cabina. La stanza era più ampia di quanto si aspettasse: tuttavia la grande poltrona a motore la dominava. La poltrona sembrava dominare anche il suo occupante, almeno visivamente. Era un'impressione ingannevole, perché lui dominava tutta quella casa immensa, tutto ciò che vi stava e, in misura notevole, anche il paese in cui sorgeva. Ma non aveva un aspetto molto sensazionale. Si stava svolgendo una sinfonia olfattiva, il passaggio della cannella di «Infanzia» di Bulachevski. Era una delle sue preferite, e questo l'incoraggiò. — Buonasera, senatore. — Buonasera, Mrs. Martin. Benvenuta in casa mia. Mi perdoni se non mi alzo. — Certo. È stato molto cortese a ricevermi. — È un piacere e un onore. Un uomo della mia età apprezza la possibilità di trascorrere un po' di tempo in compagnia di una donna bella e intelligente come lei. — Senatore, quando incominceremo a parlare? Lui sollevò una parte della faccia dove un tempo c'era stato un so-
pracciglio. — Finora non abbiamo detto nulla di vero. Lei non si è alzato perché non può. La sua gentile accoglienza mi è costata tre favori importanti e parecchio denaro. Più del normale: lei mi ha ricevuta controvoglia. Ha almeno otto amanti, che io sappia, ognuna delle quali mi farebbe sembrare, al confronto, una matrona stupida e noiosa. Ho nascosto un cadavere ancora caldo mentre venivo qui, perché non potevo permettermi di arrivare in ritardo; ho poco tempo e devo parlare d'una questione urgente. Possiamo incominciare? Trattenne il respiro e pregò in silenzio. Tutto ciò che era riuscita a sapere sul conto del senatore le diceva che quello era il modo corretto per abbordarlo. Ma lo era davvero? La faccia mummificata si schiuse in un ampio sogghigno. — Subito, Mrs. Martin. Lei mi è simpatica e questa è la verità. Anch'io ho poco tempo. Cosa vuole da me? — Non lo sa? — Posso indovinarlo. Detesto indovinare. — Mi sono impegnata pubblicamente perché non passi l'S. 4217896. — Sì, ma per quel che ne so potrebbe essere venuta qui per vendersi. — Oh. — Lei cercò di nascondere la sorpresa. — Cosa le fa pensare che sia possibile? — La sua organizzazione è grande, ben finanziata e piuttosto efficiente, Mrs. Martin, e ha qualcosa che non capisco. — Che cosa? — Il vostro obiettivo. Le vostre argomentazioni sono deboli e implausibili, e ogni volta che questo vien fatto osservare a qualcuno di voi, voi continuate semplicemente a insistere. Molte volte ho visto la gente assumere posizioni senza logica apparente... ma sono sempre riuscito a scoprire la logica, se continuavo a osservare con attenzione. Tuttavia, secondo me, l'S. '896 tornerebbe a chiaro e durevole vantaggio del gruppo che lei afferma di rappresentare: gli artisti. Nella vostra organizzazione c'è troppa intelligenza perché possa quadrare con i vostri fini. Quindi devo domandarmi per chi state lavorando, e perché. Una possibilità è che siate disposti a passar sopra alla questione dei diritti d'autore in cambio di ciò che volete veramente. Mi segue? — Senatore, io lavoro nell'interesse di tutti gli artisti e, in senso più lato... Il senatore assunse un'espressione addolorata; anzi, ancora più ad-
dolorata. — ...per tutta l'umanità? Oh, mio Dio, Mrs. Martin, andiamo! — Lo so che l'avrà sentito dire innumerevoli volte, e probabilmente l'avrà detto altrettanto spesso. — Il senatore sogghignò maliziosamente. — Ma questo è uno dei rari casi in cui è vero. Io credo che, se l'S. '896 verrà approvata, la nostra specie subirà un trauma significativo. Il vecchio alzò una mano scheletrita e si tirò il labbro inferiore. — Adesso ho capito da che parte sta, e credo di poterle far risparmiare un'ingente quantità di denaro. Concludendo questo colloquio e facendo in modo che la somma da lei pagata per mezz'ora del mio tempo venga rifusa pro rata. Lei si sentì stringere il cuore, ma mantenne un tono sereno. — Senza neppure ascoltare la logica nascosta dietro le nostre argomentazioni? — Sarebbe inutile e crudele invitarla a continuare il suo discorso, signora. Vede, io non posso aiutarla. Lei avrebbe voluto gridare e, furiosamente, si proibì di farlo. Controllati, bisbigliava una parte della sua mente, e un'altra parte le urlava che un uomo come quello non usava le parole con leggerezza. — Non posso. — Ma doveva aver torto. Forse la frase era soltanto una mossa d'apertura... Non lasciò trapelare nessun segno del conflitto interiore: la voce era calda e misurata. — Senatore, non sono venuta qui per intrigare. Volevo solo informarla personalmente che la nostra organizzazione intende fare una donazione per la sua campagna, senza condizioni, per l'ammontare di... — Mrs. Martin, la prego! Prima d'impegnarsi, mi ascolti. Le ripeto che non posso aiutarla. Indipendentemente dalla somma offerta. — È piuttosto cospicua. — Ne sono sicuro. Tuttavia è insufficiente. Lei sapeva che non avrebbe dovuto chiederlo. — Senatore, perché? Il vecchio aggrottò la fronte. Era uno spettacolo spaventoso. — Mi ascolti — disse lei, lasciando quasi trasparire la disperazione. — Tenga il pro rata, se questo basta a farmi ottenere una risposta! Sino a quando non sarò convinta che la mia missione è senza speranza, non desisterò: rispondermi è il sistema più rapido per allontanarmi dal suo ufficio. I suoi scanner mi hanno controllata meticolosamente: sa benissimo che non sto cercando di imbrogliarla. Il senatore annuì, continuando ad aggrottare la fronte. — E sta bene. Non posso accettare la vostra donazione per la campagna perché ne ho già accettata una da un'altra fonte. La sua paura segreta era una realtà. Il vecchio aveva già preso denaro dall'altra parte. L'unica cosa che ogni politicante era tenuto a fare, per
quanto fosse potente, era restar fedele a chi l'aveva comprato. Era finita. Tutto il panico e la tensione svanirono, sostituiti da una tristezza così grande e penetrante che per un momento lei pensò che, letteralmente, potesse fermarle il cuore. Troppo tardi! Oh, tesoro mio, sono arrivata troppo tardi! Si rese conto mestamente che c'era troppa gente nella sua vita, c'erano troppe responsabilità e troppi legami. Sarebbe trascorso almeno un mese prima che potesse suicidarsi onorevolmente. — ... si sente bene, Mrs. Martin? — stava dicendo il vecchio in tono allarmato. Lei si drappeggiò nella disciplina come in un mantello. — Sì, senatore, grazie. La ringrazio per aver parlato chiaramente. — Si alzò e si allisciò la gonna. — E per... — Mrs. Martin. — ... la sua gentile ospit... Sì? — Vuole espormi i suoi argomenti? Perché non dovrei appoggiare l'S. '896? Lei batté le palpebre. — Ha appena detto che sarebbe inutile e crudele. — Se le prospettassi qualche speranza, sì, lo sarebbe. Se preferisce non sprecare tempo, non la costringerò. Ma sono incuriosito. — Curiosità intellettuale? Sembrò che il vecchio si raddrizzasse un po' sulla poltrona... senza dubbio era un'illusione, perché una spina dorsale artificiale non è mobile. — Mrs. Martin, mi sono impegnato a un dato corso d'azione. Ciò non significa che non m'interessi se l'azione è giusta o sbagliata. — Oh. — Lei rifletté. — Se la convincessi, non mi ringrazierebbe. — Lo so. Ho visto la sua espressione un momento fa e... mi ha ricordato una notte di molti anni or sono. La notte che morì mia madre. Se la sua tristezza è tanto grande, io posso alleviarla in parte, devo tentare. Si sieda. Lei sedette. — Ora mi dica. Cosa c'è di tanto tremendo nell'estendere i diritti d'autore in modo che si adeguino alle realtà della vita moderna? Per principio, cerco sempre di ascoltare entrambe le parti in causa, prima di accettare una donazione per una campagna... ma questa faccenda sembrava così chiara... — Senatore, quella proposta di legge è un vantaggio a breve termine per alcuni artisti... e a lungo termine è un disastro per tutti gli artisti, sulla Terra e altrove.
— A lungo andare, signor presidente... — disse il vecchio, citando Keynes. — ... alcuni di noi sono ancora vivi — finì lei, sottovoce e in tono deciso. — Non è così? Ha appunto indicato una parte del problema. — A quale disastro si riferisce? — chiese il senatore. — Il peggior trauma psichico che la razza umana abbia sofferto finora. Il vecchio la scrutò attentamente e aggrottò di nuovo la fronte. — È una possibilità che non viene neppure accennata nella vostra letteratura e nel vostro materiale. — Accennarvi significherebbe precipitare il trauma. Attualmente solo poche persone lo sanno, persino nella mia organizzazione. A lei lo sto dicendo perché me l'ha chiesto, e perché sono certa che è l'unica persona che sta registrando questa conversazione. Scommetto che cancellerà il nastro. Lui batté le palpebre e strinse i denti. — Oh, oh — disse in tono blando. — Mi lasci mettere comodo. — Regolò la poltrona in modo che s'inclinasse all'indietro e gli massaggiasse gli arti inferiori; e lei vide che poteva continuare a osservarla attraverso lo specchio del soffitto, se voleva. Ma aveva gli occhi chiusi. — Sta bene, prosegua. Lei non aveva bisogno di tempo per scegliere le parole. — Sa quanto è antica l'arte, senatore? — È antica quanto l'uomo, credo. Anzi, può far parte della definizione. — È una risposta intelligente — disse lei. — Lo ricordi. Ma a tutti i fini pratici attuali, si potrebbe dire che ha un po' più di 15.600 anni. È l'età delle opere d'arte superstiti più antiche, i dipinti rupestri di Lascaux. Senza dubbio i pittori cavernicoli cantavano e ballavano, e raccontavano storie... ma tutte queste creazioni artistiche non lasciarono testimonianze più durevoli della memoria di un uomo. Forse furono i cantastorie che poi impararono un sistema per conservare la loro opera. Dovettero passare innumerevoli altre generazioni prima che venisse ideato e standardizzato un metodo funzionante di notazione musicale. Soltanto negli ultimi secoli i coreografi hanno imparato a lasciare una documentazione sia pure rudimentale della loro arte. «La memoria razziale della nostra specie si è allungata, dopo Lascaux. Il miglioramento più grande venne con l'invenzione della scrittura: l'estensione della nostra memoria passò dalla durata di poche generazioni a quella dell'esistenza della Bibbia. Ma era necessario uno sforzo massiccio per sostenere per tanto tempo un ricordo: era difficile copiare a mano i manoscritti più in fretta di quanto riuscissero a distruggerli i barbari, le pestilen-
ze e le altre calamità naturali. La soluzione più ovvia fu la stampa a caratteri mobili: produrre e diffondere tante copie di un manoscritto o di un'opera d'arte in modo che alcune sopravvivessero a qualunque catastrofe. «Ma con la stampa nacque un'idea nuova. Di colpo, l'arte divenne accessibile al mercato di massa, e diventò redditizia. Gli scrittori decisero che dovevano essere loro a possedere il diritto di riprodurre la propria opera. Stava per nascere la nozione del diritto d'autore. «Poi, negli ultimi quattrocentocinquant'anni sono venuti i più grandi balzi in avanti della memoria razziale umana. La tecnologia della registrazione. Visiva: fotografia, film, video, Xerox, ologrammi. Audio: bassa fedeltà, alta fedeltà, stereo, digitale. Poi i computer, il culmine dello storage delle informazioni. Ognuna di queste nuove tecnologie generò nuove forme d'arte, e nuovi modi per conservare le forme antiche dell'arte. E ognuna di esse imponeva una nuova valutazione dell'idea del diritto d'autore. «Lei conosce il sistema che abbiamo ora, e che è immutato fin dalla metà del secolo ventesimo. I diritti d'autore decadono cinquant'anni dopo la morte del detentore. Ma la consistenza della razza umana è aumentata drasticamente dal Novecento... e anche la durata media della vita. La maggioranza della gente, nelle nazioni sviluppate, oggi può aspettarsi di vivere fino ai centoventi anni: lei, per esempio, è considerevolmente più vecchio. E quindi, naturalmente, ora l'S. '896 cerca di estendere i diritti d'autore in perpetuo. — Bene — interruppe il senatore, — che c'è di male in questo? L'opera di un uomo dovrebbe cessare d'essere sua semplicemente perché ha dimenticato di continuare a respirare? Mrs. Martin, lei stessa sarà ricca per tutta la vita se quel progetto di legge verrà approvato. Desidera davvero regalare il genio del suo defunto marito? Lei rabbrividì. — Perdoni la mia franchezza, ma è ciò che capisco di meno nella sua presa di posizione. — Senatore, se cercassi di tesaurizzare i frutti del genio di mio marito, potrei rovinare la mia razza. Non capisce cosa comporta il diritto d'autore perpetuo? È la memoria razziale perpetua! Quel progetto di legge dà alla razza umana la memoria di un elefante. Ha mai visto un elefante allegro? Il vecchio rimase a lungo in silenzio. Poi: — Non sono ancora sicuro di aver compreso il problema. — Non si avvilisca per questo, senatore. Il problema è sotto gli occhi di
tutti noi da ottant'anni almeno, e quasi nessuno se ne è reso conto. — Perché? — Credo sia dovuto a una specie di carenza innata dell'intuizione matematica, comune a molti umani. Noi tendiamo a confondere qualunque numero sufficientemente alto con il concetto d'infinito. — Bene, tutto ciò che supera dieci all'ottantacinquesima può essere infinito. — Prego? — Mi scusi... non dovevo interromperla. È l'attuale stima più accreditata del numero degli atomi dell'Universo. Continui. Lei si sforzò di ritornare in argomento. — Bene, basta molto meno per eguagliare l'«infinito» agli occhi di moltissima gente. Per milioni di anni abbiamo guardato l'oceano e abbiamo detto: «È infinito. Accetterà i nostri rifiuti e la nostra immondizia, per sempre.» Abbiamo guardato il cielo e abbiamo detto: «È INFINITO: POTRÀ CONTENERE UN QUANTITATIVO INFINITO DI FUMO.» Noi amiamo l'idea d'infinito. Un problema che include l'infinito è di facile soluzione. Per quanto tempo si può continuare a inquinare un pianeta infinitamente grande? È semplice: per sempre. Non è il caso di preoccuparsi. «E poi un giorno scopriamo di essere tanti che il pianeta non sembra più infinitamente grande. «Perciò andiamo altrove. Ci sono riserve infinite nel resto del sistema solare, no? Credo che lei sia una delle poche persone al mondo abbastanza sagge per rendersi conto che non vi sono risorse infinite nel sistema solare, e abbastanza sofisticate per includere questa consapevolezza nei loro piani. Il senatore, adesso, sembrava turbato. Sorseggiò qualcosa con una cannuccia. — Provi a collegare tutto questo al suo problema. — Ricorda un caso di un'ottantina di anni fa, a proposito della canzone «My Sweet Lord» di George Harrison? — Se lo ricordo? Fui io a effettuare le ricerche. Il mio studio legale vinse la causa. — Il suo studio legale convinse il tribunale che Harrison aveva tratto il motivo di quella canzone da un'altra, intitolata He's So Fine e scritta più di dieci anni prima. Poco tempo dopo Yoko Ono fu accusata di aver tratto abusivamente You're My Angel dal classico Makin Whoopee, scritto più di trent'anni prima. Gli eredi di Chuck Berry trascinarono in tribunale gli eredi di John Lennon per Come Together. Poi, alla fine degli Anni Ottanta, la grande Piaga del Plagio incominciò veramente a imperversare nei tribuna-
li. Da allora, fu aperta la stagione di caccia ai compositori di musica leggera, ed è aperta ancora adesso. Ma raggiunse il massimo all'inizio del secolo, quando fu dimostrato che Ringsong di Brindle era sostanzialmente simile a uno dei concerti di Corelli. «Esistono ottantotto note. Centosettantasei, se ha un orecchio abbastanza affinato per cogliere i quarti di tono. Aggiunga le pause e il resto, i tempi differenti. Scelga un numero per indicare il massimo di note che una melodia può contenere. Non conosco il massimo numero possibile di melodie, perché vi sono troppe variabili... ma sono sicura che è molto alto. « Tuttavia, sono certa che non è infinito. «Innanzi tutto, molte di queste possibili disposizioni delle ottantotto note non verranno percepite come melodia, come musica, dall'orecchio umano. Forse più della metà. Non si potranno canticchiare, fischiettare, ascoltare... alcune saranno sgradevoli. Un'altra percentuale cospicua sarà costituita da melodie così simili l'una all'altra da essere praticamente identiche: se lei cambia tre note della Sonata del Chiaro di Luna, non ha creato qualcosa di nuovo. «Non so quale sia il numero massimo delle melodie apprezzabili, e sono egualmente certa che sia elevato, ma sono altrettanto sicura che non è infinito. Al mondo siamo sedici miliardi, senatore, più di tutti gli umani che siano mai vissuti in passato. Grazie alla nostra tecnologia, più della metà non hanno un lavoro significativo da svolgere; il cinquantaquattro per cento della nostra popolazione è registrato negli elenchi fiscali sotto la dicitura artisti. Perché il sintetizzatore costa poco ed è versatile, in maggioranza questi artisti sono musicisti, e moltissimi sono compositori. Lei sa cosa significa essere compositore ai giorni nostri, senatore? — Conosco alcuni compositori. — Che lavorano ancora? — Ecco... tre. — Con quanta frequenza producono un pezzo nuovo? Un silenzio. — Direi ogni cinque anni, in media. Uhm. Non ci avevo mai pensato, ma... — Sapeva che attualmente su cinque opere presentate per il copyright alla Divisione Musica, due vengono respinte dopo la prima ricerca al computer? Il volto del vecchio aveva smesso di esprimere sorpresa, se non per fini istrionici, più di un secolo prima; tuttavia lei capiva di averlo sconvolto. — No, non lo sapevo.
— Perché avrebbe dovuto saperlo? Chi ne parla mai? Tuttavia è una realtà. Un'altra realtà è che, quando si tiene conto dell'aumento del numero dei compositori attivi, la percentuale delle presentazioni all'Ufficio Copyright segna una diminuzione significativa. Vi sono più compositori che mai, ma la loro produttività individuale è in declino. Chi è il compositore vivente più popolare? — Uh... credo che quel Vachandra... — Giustissimo. Lavora da poco più di cinquant'anni. Se lei incominciasse ora a suonare in successione tutte le note scritte da lui, finirebbe in dodici ore. Wagner scrisse più di sessanta ore di musica... soltanto la Tetralogia dell'Anello ne dura ventuno. I Beatles, che in pratica erano due compositori, produssero più di dodici ore di musica originale in meno di dieci anni. Perché i grandi del passato erano tanto più prolifici? «Perché c'erano più permutazioni piacevoli delle ottantotto note che essi potevano trovare. — Oh — mormorò il senatore. — Ora ritorniamo ancora agli Anni Sessanta. Ricorda il caso di plagio di Radici? E le dozzine che seguirono? Più o meno in quel tempo uno scrittore che si chiamava van Vogt fece causa ai realizzatori di un film di successo, Alien, accusandoli di aver plagiato un suo racconto scritto quarant'anni prima. Altri due scrittori, Bova ed Ellison, chiamarono in giudizio uno studio televisivo perché aveva rubato l'idea per una serie di telefilm. Tutte e tre le cause furono vinte dai querelanti. «Questo pone fine al principio legale secondo il quale una persona non ha il copyright sulle idee bensì sulla disposizione delle parole. Il numero delle disposizioni di parole, ma il numero di idee è molto minore. Certamente, possono essere raccontate di nuovo in modi innumerevoli... West Side Story è una brillante rielaborazione di Romeo e Giulietta. Ma fu possibile solo perché Romeo e Giulietta era di dominio pubblico. Rammenti inoltre che, del numero finito di vicende che si possono raccontare, una notevole percentuale è costituita da vicende brutte. «In quanto alle arti visive... ecco, una volta un uomo dimostrò in laboratorio la capacità di distinguere esattamente tra ottantun diverse sfumature di colore. Credo sia un limite massimo. C'è una quantità massima d'informazioni che l'occhio può assorbire, e in gran parte è l'equivalente del rumore... — Ma... ma... — Il vecchio aveva fama di non avere mai esitato, in nessuna circostanza. — Ma ci saranno sempre cambiamenti... ci saranno sem-
pre scoperte nuove, nuovi orizzonti, nuove mentalità sociali che infonderanno nell'arte nuovi... — Non con la stessa rapidità con cui si riproducono gli artisti. Ricorda la grande spaccatura nella letteratura all'inizio del ventesimo secolo? Il mainstream abbandonò sostanzialmente il Romanzo di Idee dopo Henry James, e rivolse la sua attenzione al Romanzo di Carattere. Prima della metà del secolo quel filone s'era inaridito, e ancora oggi stanno rimasticando gli avanzi. Ma nel frattempo un piccolo gruppo di scrittori, alla ricerca disperata di qualcosa di nuovo da scrivere, di una vicenda nuova da raccontare, inventò un nuovo genere chiamato fantascienza. Frugarono nel futuro in cerca di idee. Il futuro infinito... come il carbone e il petrolio e il rame in quantità infinite di cui disponevano allora. In meno d'un secolo avevano esaurito anche quel filone: da più di cinquant'anni non c'è stata una sola idea originale nella fantascienza. La fantasy è sempre stata presentata come la letteratura dalle possibilità infinite ...ma c'è un limite teorico persino per il significativamente impossibile, e stiamo per raggiungerlo molto in fretta. — Possiamo creare nuove forme d'arte — disse il vecchio. — Da moltissimo tempo la gente cerca di creare forme d'arte nuove, senatore. Quasi tutte sono cadute lungo il percorso. Al pubblico non piacciono. — Impareremo ad apprezzarle. Accidenti, dovremo farlo. — E saranno utili, per un po'. Negli ultimi due secoli sono nate più forme d'arte nuove di quanto ne fossero spuntate nel milione d'anni precedente... ma negli ultimi quindici anni non ne è nata nessuna. Le sinfonie olfattive, la scultura tattile, la scultura cinetica, la danza a gravità zero... sono tutti campi nuovi e ricchi, e stanno generando montagne di nuovi diritti d'autore. Montagne di grandezza finita. La strozzatura finale è questa: abbiamo soltanto cinque sensi con cui apprezzare l'arte, ed è un numero finito. Posso avere un po' d'acqua, per favore? — Certo. — Il vecchio sembrava aver ritrovato l'abituale autocontrollo, ma il bicchiere che emerse dal bracciolo della poltrona conteneva succo di mela. Lei non vi badò e proseguì. — Ma non è questo che mi fa paura, senatore. La teorica morte termica dell'espressione artistica è qualcosa alla quale, in realtà, non potremo mai avvicinarci. Il gioco finirà molto prima di quel punto. Tacque per raccogliere i suoi pensieri e assaggiò il succo di mele. Una parte della sua mente notò che si armonizzava con il ricorrente motivo del-
la cannella della sinfonia di Bulachevski, che era ancora in corso di svolgimento. — Gli artisti si sono illusi per secoli, si sono illusi di creare. In verità non lo fanno. Gli artisti scoprono. Nella natura della realtà c'è un numero di combinazioni di toni musicali che verranno percepiti come piacevoli da un sistema nervoso centrale umano. Per millenni le abbiamo scoperte, implicite nell'universo... e abbiamo continuato a ripeterci che eravamo noi a «cercarle». Creare implica una possibilità infinita; scoprire una possibilità finita. Come specie, credo che reagiremo male nel trovarci di fronte alla constatazione che in effetti siamo scopritori e non creatori. Smise di parlare e rimase seduta, eretta. Inspiegabilmente, aveva i piedi indolenziti. Chiuse gli occhi e continuò a parlare. — Mio marito scrisse una canzone per me, in occasione del quarantesimo anniversario del nostro matrimonio. Era il nostro amore in musica, unico, speciale, intimo, la melodia più bella che abbia udito in tutta la mia vita. Lui era felice di averla composta. Delle sue ultime dieci composizioni, cinque le aveva bruciate perché erano derivate, e le altre non avevano ottenuto il copyright. Ma quella era fresca, eccezionale... diceva, scherzando, che gliel'aveva ispirata il mio amore per lui. Il giorno dopo la presentò per farla registrare, e si sentì rispondere che era stata un'aria popolare ai tempi della sua prima infanzia, e che dopo la registrazione originale era stata presentata inutilmente già quattordici volte. Una settimana dopo bruciò tutti i suoi manoscritti e i suoi nastri e si uccise. Rimase in silenzio a lungo, e il senatore non disse nulla. — Ars longa, vita brevis — disse alla fine lei. — Questo è stato una specie di consolazione, per migliaia d'anni. Ma l'arte è lunga, non infinita. La magia se ne va. Un giorno l'avremo usata tutta... a meno che impariamo a riciclarla come ogni altra risorsa finita. — La sua voce acquistò forza. — Senatore, quella proposta di legge deve cadere, a costo di dovermi opporre a lei per spuntarla. Forse non vincerò... ma lotterò! Non si deve permettere che un copyright duri più di cinquant'anni... e dopo quel termine deve essere cancellato dalla banca-memoria dell'Ufficio Diritti d'Autore. Abbiamo bisogno di un'amnesia volontaria selettiva, se gli Scopritori dell'Arte dovranno continuare a lavorare senza danni psichici. I fatti devono essere ricordati... ma i sogni? — Rabbrividì. — I sogni dovrebbero essere dimenticati al risveglio. Altrimenti un giorno scopriremo d'essere incapaci di dormire. Dati otto miliardi di artisti con vite attive superiore al secolo, non possiamo più permettere ai singoli individui di possedere le loro scoperte
in perpetuo. Dobbiamo fare come fece la razza umana per un milione di anni... dimenticare e riscoprire. Perché un giorno, il numero infinito di scimmie non avrà niente altro da scrivere eccettuate le opere complete di Shakespeare. E probabilmente preferiranno non saperlo, quando questo accadrà. Ora aveva finito; non aveva altro da dire. Era finita anche la sinfonia olfattiva, il cui ultimo motivo si stava dileguando lentamente nell'aria. Non c'era un orologio che ticchettasse, un congegno che emettesse suoni. Il silenzio rimase completo per quasi mezzo minuto. — Se si vive abbastanza a lungo — disse lentamente il senatore, — non c'è nulla di nuovo sotto il sole. — Si spostò leggermente sulla grande poltrona. — Se si è fortunati, si muore prima. Da cinquant'anni non ho più sentito una barzelletta nuova. — Sembrò raddrizzarsi. — Farò cadere l'S 4217896. Lei s'irrigidì, scossa. Dopo un po', si rilassò un poco e riprese a respirare. C'erano tante emozioni che lottavano per la supremazia che aveva appena il tempo di riconoscerle mentre turbinavano. Non riusciva a parlare. — Inoltre — continuò il senatore, — non dirò a nessuno perché lo faccio. Segnerà la fine della mia carriera nella vita pubblica, che non avevo intenzione di abbandonarla: ma lei mi ha convinto che devo farlo. Sono nel contempo... lieto e... — Il viso si contrasse in una smorfia angosciata. — E amaramente dispiaciuto che lei mi abbia detto perché devo farlo. — Dispiace anche a me, senatore — disse lei sottovoce. Il vecchio la scrutò attento. — In certe lotte non è piacevole neppure la vittoria. Ci sono soltanto due categorie di persone che intraprendono battaglie di questo genere: gli sciocchi e le persone straordinarie. Credo che lei sia una persona straordinaria, Mrs. Martin. Lei si alzò, rovesciando il bicchiere di succo di mele. — Vorrei tanto essere una sciocca, — esclamò. Sentiva che il suo autocontrollo stava incominciando a incrinarsi. — Dorothy! — tuonò il vecchio. Lei trasalì come se l'avesse colpita. — Senatore? — disse automaticamente. — Non vada a pezzi! È un ordine. È troppo tesa: potrebbe darsi che i frammenti non si ricomponessero più. — E allora? — chiese lei amaramente. Il vecchio stava usando tutta la potenza della sua voce, la voce che aveva evitato almeno una guerra. — Quanti amici crede che abbia un uomo della
mia età, accidenti? Crede che siano frequenti, le menti come la sua? Ora abbiamo in comune questo interesse, e ciò ci rende amici. È la prima persona che sia uscita da quell'ascensore e mi abbia veramente sorpreso, in un quarto di secolo. E presto, quando circolerà la notizia che sono venuto meno all'impegno preso, la gente smetterà di uscire dall'ascensore. Lei pensa come me, e non posso permettermi di perderla. — Sorrise, e il sorriso parve cancellare molti decenni dal suo volto. — Resista, Dorothy — disse, — e ci conforteremo a vicenda nella nostra consapevolezza terribile. D'accordo? Per quasi un minuto lei si concentrò quasi esclusivamente sul proprio respiro, per rallentarlo e regolarizzarlo. Poi, incerta, sondò le proprie emozioni. — Sì — disse in tono di stupore. — È meglio... in comune. — Tutto lo è. Lei lo guardò, si sforzò di sorridere e finalmente ci riuscì. — Grazie, senatore. Il vecchio ricambiò il sorriso, mentre cancellava la registrazione del colloquio. — Mi chiami Bob. — Sì, Robert. FINE