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Veduta di Troia dalla riva dello Scamandro dopo gli scavi del
demolendone accuratamente la vett...
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Veduta di Troia dalla riva dello Scamandro dopo gli scavi del
demolendone accuratamente la vetta costituita da un pianoro lungo 233 metri e largo altrettanto. Solo tra i sette e i dieci m_etri Dopo aver individuato le colline su cui sorgeva Troia, seguendo incontrerà gli strati troianì ... (Lettura alla fi.t;e del Canto prtmo, alla lettera le descrizioni d1 Omero, inizia a proprie spese gli scavi cfr. pag. 50). www.scribd.com/Baruhk 1871-73 compiuti dal tedesco Heinrich Schliemann.
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Itinerari virgiliani in occasione del bimillenario della morte (19 a. C. -1981) Mantova - Roma- Napoli appiamo per esperienza critica diretta che la maggior parte della letteratura celebrativa ha un valore occasionale e relativo, e che, quando si saranno spente le luci e l'eco degli ultimi discorsi sarà svanita, ben poco rimarrà nelle memorie ed ancor più nelle coscienze. Infatti, in questo secolo buio e triste, in cui si sono distrutti ad uno ad uno i sacri riferimenti del sapere antico per far posto ad un'ignoranza presuntuosa, che spaccia per nuova cultura un arido bagaglio di cognizioni tecniche, e per libertà umana l'esperienza diuturna di tutte le possibili corruzioni ed il disfrenarsi incontrollato dei sensi, chi ha il coraggio di leggere ancora Virgilio, il poeta della natura e del lavoro, il cantore che dalla guerra sa trarre un sogno ed un insegnamento di pace e di fraternità, e soprattutto la grande anima, ricca di forza morale e di spiritualità? Ben pochi.
Ed è triste constatare che i non numerosi lettori delle opere, in latino ed in traduzione italiana, sono giovani, ai quali è stata imposta la conoscenza di Virgilio come un dovere scolastico, uggioso ed obbligato, forse nella speranza che, così facendo, si salvi quel residuo di cultura, indispensabile alla vita di ciascuno di noi. È proprio pensando a questi giovani ed al detto che non esiste alcun futuro senza la conoscenza del passato, che ci siamo proposti di fare, in occasione del bimillenario virgiliano, un pellegrinaggio nelle tre città italiane, in cui sono avvenute le principali celebrazioni per raccogliere le testimonianze più eloquenti e poi corredarne l'ENEIDE, edita dall'Emsco. Così facendo, anche il nostro sarà un valido contributo alla conoscenza del grande Mantovano e nello stesso tempo un invito ai giovani e vecchi lettori a seguire il monito dantesco:
ONORATE L' ALTISSIMO POETA: L'OMBRA SUA TORNA CH'ERA DIPARTITA!
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Mantova Si dice che Manto, figlia del celebre indovino Tiresia ed indovina essa stessa, dopo la caduta di Tebe, sua città natale, vagasse lungamente per il mondo e finalmente scegliesse come sua stabile dimora là dove l'acqua del Mincio, scendendo «giù pei verdi pascoli» si «distende e s'impaluda» in una lama incolta e deserta. lvi «la Vergine cruda» lasciò «il suo corpo vano» e fu sepolta. Gli abitanti dei dintorni si riunirono allora in quel luogo, facilmente defendibile per la posizione e <
L'itinerario culturale in memoria e conoscenza di Virgilio potrebbe cominciare, dunque, dal XX canto dell'Inferno per poi continuare con alcune notizie che lo storico Velleio Patercolo ci dà in testimonianza dell'esistenza di Mantova quattro secoli prima della fondazione di Roma, come città facente parte di una grande Confederazione Etrusca formatasi sulla sinistra del Po. Conquistata dai Galli, divenne in seguito colonia e municipio romano. Poi fu dominio dei Visigoti, dei Bizantini, dei Longobardi, dei Franchi ed infine, dopo essere stata in balia di diversi signori, si resse a libero comune (1115) . Nel 1276 Pinamonte Bònacolsi si fece
proclamare capitano generale del popolo, inaugurando la signoria della famiglia Bonacolsi, che fu sostituita nel 1328 dai Gonzaga, i quali tennero il dominio della città sino al 1709, anno in cui gli Austriaci la aggregarono al proprio impero. Furono i Gonzaga a rendere Mantova una grande capitale, ospitando alla loro corte fastosa letterati ed artisti, quali Leon Battista Alberti, il Mantegna, il Fancelli, il Sansovino, Giulio Romano, il Primaticcio, il Cellini, il Rubens, il Francia, il Carracci, Claudio Monteverdi, il Poliziano, il Tasso, il Rinuccini ed il Chiabrera, che nei grandissimi monumenti, sparsi un po' dappertutto, lasciarono l'indelebile segno della loro presenza e della loro attività creativa.
A pochi chilometri da Mantova sorge il comune chiamato Virgilio che comprende Andes, oggi Piero/e, luogo natale del Poeta.
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Eneide: uccisione di Priamo.
Sezione della Tavola di Mantova del 1575 con l'indicazione della casa di Virgilio.
OPE RE DI A . FALCHI CON SERVATE NEL MUNICIPIO DI VIRGILIO Bucoliche: Titiro e Melibeo. Eneide: duello tra Enea e Turno.
Georgiche: Orfeo nell'Averno. ,....,..-~,,....,..,,.,. ~
Eneide: fuga da Troia.
Georgiche: interno rustico.
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ALLA RICERCA DEL VOLTO a sinistra : Statua medievale di Virgilio (fin sec. XIV). Già in una nicchia del Palazzo de/l Ragione e trasportata, nel 1853, nel Muse del Palazzo Ducale di Mantova.
Proprio per questa mirabile fusione tra le bellezze naturali e le testimonianze di altissima spiritualità, il Coryat, viaggiatore inglese ed autore di una originale «Guida d'Italia », edita nel 1611, definiva Mantova «dolcissimo Paradiso, sede della bellezza e delle Grazie ... città fra tutte nel mondo, ove più desidererei vivere » . Oltre a questi pregi, Mantova ha l'ineguagliabile merito di aver dato i natali a Virgilio. Come migliaia di altri visitatori che si avvicendarono attraverso i secoli, anche noi, seguendo le indicazioni stradali, ci siamo diretti ad Andes, frazione del Comune di Virgilio, non certo con la speranza di sedere sotto l'ombra del « patulae fagi » e nemmeno di potere con certezza individuare il piccolo possedimento del padre di Virgilio qua se subducere colles incipiunt molli que iugum demil!ere clivo, usque ad aquam et veteris , iam fracta cacumina, fagi.
sopra : Busto virgiliano del secolo XVI (Mantova, Museo di Palazzo Ducale). Scoperto da Giambattista Fiera (1469-1538), è da riteners la "vera similitudine di Virgilio ".
In duemila anni la natura del luogo h certamente subito dei profondi cambia menti e sarebbe inutile ora, seguend le molte tradizioni medioevali, cercar di localizzare la « pioppa di Virgilio», il « monte di Virgilio » ed il «faggio d" Virgilio » , anche se siamo d'avviso eh la leggenda ed il mito custodiscano ne profondo una parte essenziale della ve rità.
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a destra: Busto di Virgilio ergentesi sulla colonna che i francesi eressero nel 1801 in Piazza Virgiliana. Ora si trova nella Sala Consiliare del Municipio di Mantova.
Monumento a Virgilio in Pietole.
Ci accontenteremo di sostare innanzi al monumento che gli abitanti dell'antichissimo borgo vollero erigere al loro grande conterraneo, un secolo fa, in occasione del XIX centenario della morte . L'inaugurazione avvenne nel 1884, alla presenza di Giosue Carducci, che pronunciò da par suo il discorso inaugurale, del quale riportiamo un breve brano, che ci pare particolar-
sopra: Busto virgiliano del secolo XVI. Si trova nel cortile del Palazzo Ducale di Mantova.
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Il monumento di Piazza Virgiliana a Mantova, che ebbe compimento nell'anno 192 7. Luca Beltrami ne ideò il progetto, Emilio Ouadrelli modellò la s tatua del Poeta, il mantovano Giusepp Menozzi i due gruppi allegorici. Il Comitato per l'erezione di un monumento a si era costituito in Mantova cinquant'anni prima, nel 1877.
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mente illuminante per capire l' anima e lo spirito di Virgilio: « In questa dolcezza profonda di paesaggio, corcato nel verde, egli aveva il podere paterno, tra la collina e la palude giuncosa, oltre la quale tremolava la distesa del Mincio: qui aveva un vigneto, un verziere e grasse terre da pascolo; anche aveva nel podere sorgenti vive, e i suoi stagni popolati di cigni, e fresche ombre di alberi, alle quali seduto nella splendida primavera poteva sentire il ronzìo delle . sue api dalla siepe vicina, ed il gemito dei colombi, suo amore, dalla casa fra gli olmi; e mesto nella lontananza il canto del potatore. Temperato e modesto crebbe in abitudini di silenzio e meditazione; e dal consentimento del quieto paesaggio alla placida vita, dalla monotonia della natura con l'anima, aspirò una tristezza serena, che è il fondo su cui ondeggiano le fantasie, sorridenti tra le lacrime, della sua gioventù, il fondo da cui si leva il pensiero melanconico ed alto della sua virilità». Lasciato il monumento, ci ritroviamo poco dopo nel Municipio per ammirare i bronzei bassorilievi del Falchi, donati Il francobollo da L. 600 emesso per ricordare il bimillenario con /'annullo del 19 settembre 1981 .
dalla Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno per il Bimillenario . Sono sei, e rappresentano, con bella evidenza, delle scene tratte dalle« Bucoliche», dalle «Georgiche» e dall' « Eneide ». Ci viene data anche l'occasione di sfogliare un prezioso volume, edito a cura del Comune di Virgilio su « Virgilio alla ricerca del volto » di tre insignì studiosi, il Fiorini Galassi, il Guerra, lo Schiatti. È sulla scorta delle riproduzioni del libro che, tornati a Mantova, ci mettiamo anche noi ad affrontare il difficile e stimolante quesito di dare un volto al nostro grande poeta. La ricerca non ci pare accademica e fine a se stessa, ma ripropone il naturale bisogno di effigiare colui, la cui opera abbiamo letto, amato ed ammirato. Eccoci dunque a Mantova di fronte alla prima raffigurazione, il «Virgilio in cattedra », posto all'esterno del Palazzo del Podestà nella Piazza Broletto. Esempio dell'arte romanica veronese e scolpito nel 1227, non ci pare in alcun modo fedele all'originale, tanto che riteniamo giusta la tradizione popolare che ravvisa in questa immagine l'indovina Manto,
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di cui abbiamo parlato. Migliore, anche se un po ' statica e pesante, la statua medioevale che troviamo nel Museo di Palazzo Ducale . Nello stesso Museo ci soffermiamo innanzi ad un busto del secolo XVI, scoperto dal letterato mantovano Giambattista Fiera (1469-1538) e definito da lui «la vera similitudine di Virgilio». Concordiamo con la sua affermazione, contemplando l'atteggiamento pensoso, la fronte alta e spaziosa, i tratti forti del contadino padano, le guance scavate di chi ha sofferto e peregrinato, la bocca dolce ed amara insieme. Gli altri busti che ammiriamo ci paiono un'interpretazione intellettualistica: quello del cortile del Palazzo Ducale con i lineamenti duri di un legionario romano, quello di Palazzo Barco, barocca similitudine di un semidìo; il dipinto di casa Pescasio ci sembra frivolo; il busto della Sala Consiliare del Municipio, leccata interpretazione neoclassica. Non ci persuade il monumento nel giardino del marchese Cavriani, in cui il Poeta è raffigurato in un atteggiamento oratorio, che non risponde in modo assoluto alla sua indole schietta e modesta. Diverso discorso per il monumento di Piazza Virgiliana, condotto a termine nel 1927. Qui non si tratta di indagare sul valore artistico, ma di ammirare incondizionatamente lo sforzo che i Mantovani fecero per onorare il loro grande fratello. La decisione di erigere un grande monumento a Virgilio fu presa nel 1877 e soltanto cinquant'anni dopo il piano venne completato. Luca Beltrami ne ideò il progetto; Emilio Quadrelli modellò la statua; Giuseppe Menozzi, i due gruppi allegorici che vorrebbero simboleggiare le
tre maggiori opere, le « Bucoliche , le « Georgiche » e l'« Eneide » . Infatti sotto i gruppi sono scolpiti rispettivamente i seguenti versi: Tu regere imperio populos , Roma ne, memento. Haec tibi erunt arte - pacis imponere morem. Parcere subiectis et debellare superbos. Aen. VI Tale tuum carmen nobi s, di vine poeta, Quale sopor fessis in gramine, qua le per aestum Dulcis aquae saliente sitim restringere rivo . Bue. V Salve , magna pa rens frugum , Saturni a tellus Magna virum ... Georg. II
Intorno al basamento della statua corrono gli endecasillabi danteschi: «Tu se' solo colui dal quale io trassi lo bello stile che m'ha fatto onore ».
Tutta la composizione architettonica, nel bianco marmo che la caratterizza, appare austera e gentile, circondata com'è da nere e verdi piante che la rendono ancor più suggestiva. C'è nell'opera il nobile proposito di cogliere l'universalità di Virgilio, quell 'universalità che riscontriamo trovandone l'effigie nel Museo Nazionale di Atene, in quello di Boston, nel Museo di Corfù, all'Hermitage di Leningrado, ad Oxford ed a Coo, a Susa in Tunisia ed al Louvre di Parigi, senza contare naturalmente Roma . Le poste italiane, con discutibile buon gusto, hanno scelto, tra tanti , il Virgilio raffigurato nel mosaico di Treviri, opera di Monno del III secolo d . C ., per riprodurla su un imponente francobollo del valore di L. 600. L' A~sociazione Filatelica e Numismatica, In accordo con la Provincia di Mantova è andata oltre ed ha curato l'emissione di una serie di bozzetti , ispirati ai capolavori virgiliani, di gusto squisito.
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Antonio Ruggero Giorgi: Contadini al lavoro.
Aldo Borgonzoni: Maternità virgiliana. Renato Guttuso: Contadine al lavoro. Giacomo Manzù: La seggiola.
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Per parte sua la Zecca Italiana, ricordando la moneta mantovana del 1257 e quella del marchese Francesco II, c~ niò un sesterzio in oro ed argento, nproducendo la testa del Poeta, tratta da un'incisione del 1790. Tuttavia l'omaggio più alto e significativo è stato tributato in una mostra, allestita nelle Sale dell'Estivale del Palazzo Ducale ed intitolata «Lo spirito di Virgilio». Otto maestri - Aldo Bergonzoli, Ruggero Giorgi, Renato Guttuso, Giacomo Manzù, Henry Moore, Augusto Murer, Ernesto Treccani - , ispirandosi al messaggio universale che si fonda sull'amore, sulla giustizia, sulla pace e sulla verità, hanno creato una serie di opere che rimarranno come patrimonio primo del costituendo Museo della Grafica, nella Basilica di San Benedetto Po. È veramente un godimento dell'occhio e dello spirito ammirare queste opere, pensare alla loro matrice comune d'_ispirazione e constatare come la poes1a virgiliana vinca di venti secoli il silenzio. Queste verità ci hanno confermato nello splendido catalogo della Mostra i saggi di Giulio Argan e di Carlo Bo. Né poteva mancare alla rassegna artistica la musica. Infatti nel teatro Accademico del Bibbiena abbiamo avuto l'opportunità, veramente unica, di assistere ad uno dei concerti su temi virgiliani dal Medioevo al Barocco con l'esecuzione di brani dello Scarlatti, del Marcello, del Vivaidi e del Tartini. Con questo viatico abbiamo lasciato Mantova, una città d'arte che ha voluto ricordare il famoso figlio, dopo duemila anni, come colui che ha aperto un itinerario eterno della spiritualità umana.
Roma A Roma, oltre al Convegno Mondiale scientifico di studi su Virgilio, spostatosi a Napoli e conclusosi in Vaticano, dopo essere stato in Campidoglio, convegno che ha visto la partecipazione dei più illustri «virgilianisti» viventi, il Bimillenario ha dato occasione di allestire una mostra intitolata «Enea nel Lazio - Archeologìa e mito». Una visita alla mostra è dunque d'obbligo per chi voglia affrontare l'affa: scinante tema di Enea, fondatore d1 Lavinium, per poi vagliare le varie ipo: tesi storiche e letterarie sul formarsi della leggenda che è all'origine della fondazione di Roma. Nell'Eneide (Xl, 483) la preghiera delle matro ne inizia cosi: Armipotens, praeses belli, Trito nia virgo: sembra la migliore definizione dello statua armata e caratterizzata dall'immagino di Tritone.
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Il materiale raccolto risulta imponente e proviene dagli scavi di Ardea, di Cori, di Alba Longa, di Nemi, di Antemnae, di Nomentum, di E retum, di Atina, di Norba e da altri di minore importanza. Ma i reperti più eloquenti sono quelli trovati negli scavi di Lavinium (oggi Pratica di Mare), che mostrano senz'ombra di dubbio i contatti che il Lazio centromeridionale e la Sabina ebbero nella tarda età del bronzo con il mondo Miceneo, cui Troia ed Enea appartennero. Il materiale rinvenuto nel Santuario delle Tredici Are e nello Heron di Enea e raccolto in 25 anni di scavi ne è la fedele testimonianza. Basterebbe a persuadercene la statua di Minerva, la cui iconografia è del tutto eccezionale nel repertorio delle figurazioni della dea. La mostra, il cui catalogo illustrativo è quanto di più esauriente si possa desi-
Immagine verticale dell'lferoon di Enea.
Statua di Minerva. Vestita di un chitone con pieghe parallele scanalate, la dea porta sul petto e le spalle l'egida intessuta a squame, con un gorgoneion; a fianco un Tritone che regge il pesante scudo; la mano destra impugnava una spada.
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derare, è stata uno straordinario contributo che Comune, Università di Roma e Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali abbiano offerto agli studiosi di tutto il mondo.
Napoli Se le «Bucoliche» ci ricordano il pacato e silente paesaggio nordico, all'ombra del più virgiliano tra gli alberi, il faggio, e paiono immerse in una luce di crepuscolo e di nostalgìa, !'«Eneide», ed ancor più le «Georgiche», sono state ispirate e scritte in Campania, terra dove è bello cantare i frutti del lavoro agricolo, dove la «Saturnia tellus» mostra la sua fecondità ed i suoi antichis-
stmt miti. Qui Virgilio ha potuto celebrare in m() do duplice l'uomo: dapprima quell• che, mediante il duro lavoro dei cam pi, è divenuto autore di una civiltcontadina, nella quale i valori della fa tica diuturna, della pace e della fam i glia emergono su tutti gli altri; pc quello che, esule eroe senza patria, ar: prodando ai Campi Flegrei, sarà inve stito dalla Sibilla Cumana della subl= me missione di dare vita ad una nuovstirpe ed a una nuova civiltà. Perciò, certamente, la Campania è L regione che, ancor oggi, tra Napoli Cuma, conserva miracolosamente ir tatte le testimonianze di una presen~ virgiliana: basta seguire l'itinerario cl::: un grande archeologo, il Maiuri, ci ac dita dal sepolcro di Virgilio all'antro <::: Cuma attraverso i Campi Flegrei, pc;
Cuma: l'Acropoli.
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calarci in un paesaggio ed in una atmosfera che ci portano a rivivere gli stati d'animo ed i sogni dai quali nacque l'immortale poema. Cosicché quando saliamo ali' Acropoli di Cuma, ci sentiamo fuori del tempo, in una dimensione storica e spirituale simile a quella in cui Enea si presentò alla Sibilla nel grande antro trapezoidale, rimasto intatto dopo migliaia di anni. Plaudiamo allora alla Regione Campania che, oltre a convegni e pubblicazioni, ha fatto formale promessa di fare dei Campi Flegrei un parco archeologico unico al mondo, e di istituire, nel castello di Baia, un Museo, m cui rac-
cogliere il magnifico patrimonio di reperti, venuto alla luce negli scavi delle terme severiane o pescati nel mare antistante. Forse più che a Mantova, più che a Roma, Virgilio è ancor vivo qui, nei dintorni della «villula» di Posillipo o in quelli della casa del maestro Sirone, o ancora negli avanzi dei templi e nelle statue acefale. Ma è vivo soprattutto nello spirito e nell'insegnamento che ci ha lasciati. Abbiamo sentito dalla viva voce dei contadini le leggende di un Virgilio mago, di uno che dopo aver vissuto totalmente il suo tempo, ha anticipato la storia ed il futuro.
Cuma: l'Antro della Sibilla.
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Napoli: il Parco Virgiliano. In alto, a destra, il p iccolo colombario rotondo è ritenuto la tomba del Poeta. Come testimonianza della predilezione che legò il Poeta a Napoli, sono sempre stati ricordati i versi che si leggevano presso la tomba : MANTUA ME GENUIT, CALABRI RAPUERE TENET NUNC PARTENOPE, CENCINI PASCUA, RURA, DUCES.
Carlo Bo lo ha paragonato ad un aratore che prepara «il terreno su cui più tardi verrà seminato il grano del Vangelo».
Il fascino dell'uomo e la grandezza del poeta avevano fatto sì che in pieno Medioevo Dante lo eleggesse a sua guida ed a suo maestro e lo indicasse a
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noi come colui che per volere divino Virgilio potrà quindi apparire loro, pur salda il vecchio con il nuovo, l'antico a 2000 anni di distanza, la voce poetica più attuale, più commisurata alle nocon il moderno. Sulla sua modernità Ettore Paratore, stre esigenze spirituali». Presidente del Convegno Mondiale, ha Noi, che ai giovani abbiamo dedicato detto, rivolto ai giovani: «Del resto le nostre fatiche virgiliane, non esclusa per poco che le nuove generazioni la presente, ci uniamo a lui, nella speprendano in mano le opere virgiliane ranza che, spazzati via i troppi idoli, adeguandosi all'attuale modo di inten- falsi e bugiardi, della pseudo civiltà derle, è inevitabile che da esse risuoni- moderna, gli ideali del Mantovano torno per loro gl'ideali della pace, della nino ad essere la luce che illumina ed il fratellanza e del lavoro, che sono pro- . fuoco che riscalda. prio quelli di cui vibra più intimamente CESARE MussiNI la trepidante società contemporanea.
Baia: il tempio di Diana; particolare della cupola.
Pozzuoli: pendici esterne della solfatara.
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Ai miei compagni
del tempo di scuola e del dopo coi quali ho sognato quanto aspramente va diventando realtà l'Editore
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I giudizi della critica sulla traduzione di Cesare Vivaldi sono riportati al fondo del volume.
Ne hanno parlato:
Carlo Bo, Ettore Paratore, Enzo V. Marmorale, Tommaso Fiore, Giorgio Caprord, Attilio Bertolucci, Oreste del.Buono, Luigi Baldacci, Umberto Albini, Emilio Mattioli, Enzo Golino, Sandra Malosti, Enzo Siciliano
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PUBLIO
VIRGILIO
MARONE
ENEIDE Versione poetica di Cesare Vivaldi Presentazione di Giuseppe Ungaretti Commento e note di Cesare Mussini e Francesco Marzari Chiesa In appendice il Dizionario dei Nomi e dei Luoghi con riferimento al Canto e al verso in cui sono citati
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edisto
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torino
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È veramente opportuno
per la migliore comprensione e per gustare di più questa traduzione dell'Eneide, leggere con gli allievf la Presentazione e la «Nota del Traduttore» che seguono. Si capirà soprattutto lo spirito che ha animato il lavoro di tutti.
AVVERTENZA DEI COMMENTATORI L'Eneide è un poema in crescendo, fiorisce dal V canto in poi; perciò il nostro commento ne risente e si sviluppa in conformità dell'interesse che Enea va assumendo in rapporto alle finalità dell'opera.
Di ogni Canto diamo:
Il Riassunto generale. La suddivisione per Argomenti, con relativi Riassunti nella colonna delle note. Il Commento critico. La «Galleria di ritratti». Una pagina di «Raffronti di traduzione» della versione di Annibal Caro con alcune delle versioni moderne: Guido Vitali, Ed. Mursia, Milano - Adriano Bacchielli, Ed. Paravia, Torino - Giuseppe Albini, Ed. Zanichelli, Bologna.
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PRESENTAZIONE Anni fa, nel1932, seguii lungo la via Appia, dal Lazio a Palinuro e più giù :fino al mare dall'altra parte a ritroso, il viaggio che aveva fatto Enea, e più volte nei due sensi mi ero mosso tra Mrica e Italia. Percorrevo i luoghi di Virgilio, l'orecchio teso alla sua inimitabile parola. Perché inimitabile? Perché la parola d'un altro, bella o brutta che sia, è inimitabile, non può caratterizzare e definire se non la persona cui appartiene e che la esprime. Perché una parola che appartenga a una lingua ha suono, cadenza, possibilità d'intreccio verbale che non possono trasferirsi in alcun modo ad altra lingua. Perché Virgilio è il poeta più musicale che la storia delle lettere possa ricordare, voglio dire il poeta più capace di distruggere, in soggettivo fluire di musica e in sublime suggestione mentale, la materialità della parola. Tutte queste difficoltà Vivaldi le conosceva benissimo, e il suo primo merito è di avere ammesso con umiltà di non poterle risolvere e che nessuno mai avrebbe potuto risolverle. Quanto un traduttore scrupoloso possa fare, l'ha fatto. Ha tradotto con la maggiore fedeltà possibile il significato delle parole, e spesso, anche nel loro semplice significato, esse non sono traducibili se non approssimativamente. Ha fatto di più, ha cercato di portare la sua fedeltà al punto di fare indovinare al lettore, per allusione, per eco, la musica, la portentosa musica verbale di Virgilio. Devo ancora intrattenermi su questa musica? Non finirei più. L'Eneide è un viaggio nel tempo, di millenni. È un viaggio nello spazio di cui abbiamo indicato il percorso. Il lungo tempo, il succedersi dei luoghi, le persone del passato, le persone del mito, intese come misure del tempo, le persone sue contemporanee, tutto è presente nello spazio percorso dal proprio passo, secondo le proprie sensazioni, le proprie emozioni, i propri pensieri, il vivere della propria persona via via trasfuso, sorpreso e raffigurato negli oggetti dall'inimitabile musica della sua parola. La traduzione di Vivaldi, forse per la prima volta da parte d'un traduttore, è un'opera che avvia a intendere veramente il testo originale, non essendosi egli lasciato muovere se non dal desiderio di portare con essa a termine un attento commento dettato da un intraducibile capo1avoro. GIUSEPPE UNGARETTI
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NOTA DEL TRADUTTORE Ho affrontato il problema di una traduzione dell'Eneide nel modo più semplice e diretto possibile, nell'unico modo cioè in cui oggi mi sembra ci si possa accostare a un testo classico: quello della sua «lettura» con gusto moderno, senza la pretesa né del ricalco fonetico dell'originale né tanto meno del «rifacimento», della creazione di un'opera che abbia una sua autonomia completa rispetto all'originale, che sia fatta per « durare». Se è stato possibile a Annibal Caro creare sulla semplice traccia dell'Eneide un poema manieristico, pre-barocco, se è stato altrettanto possibile a Vincenzo Monti dar vita, sulla traccia dell'Iliade, a un poema neoclassico (due poemi fatti appunto per« durare», ma che già ora sono in gran parte illeggibili) un tentativo del genere nella nostra epoca è assurdo. Ogni generazione ha bisogno di un particolare recupero dei classici, fatto con proprie traduzioni o se si preferisce con propri « esercizi di lettura»: e chi traduce deve aver coscienza di ciò al punto di rassegnarsi (e non è detto che sia una prova di modestia) a concepire il suo lavoro come destinato al consumo dell'epoca in cui vive, e non alla posterità. Se di questi tempi si parla tanto di classici, della necessità addirittura di leggerli nella lingua in cui furono scritti, è segno palese che le vecchie illustri versioni, i gloriosissimi rifacimenti virgiliani e omerici sono inutilizzabili. Al limite ciò significa che il poema manieristico del Caro e quello neoclassico del Monti non possono sopravvivere che come opere del Caro e del Monti e non come opere di Virgilio e di Omero. Pur con tutti i loro meriti e le loro pretese all'eternità, almeno in quanto tradu-
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Nota deÌ traduttore
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zioni essi sono logori: ed è troppo evidente che l'interesse. a rileggere oggi Caro e Monti è scarsissinio rispetto all'interesse a rileggere Virgilio e Omero. Il problema di una lettura moderna dei classici mi sembra abbia cominciato ad avvertirsi vivamente in Italia, con un sensibile ritardo sulle altre nazioni specie di lingua inglese, per opera di Salvatore Quasimodo. Quasimodo ha tradotto rivoltanto addirittura il criterio del « rifacimento» e trasformandolo nel suo contrario (mason contrari che, come sempre, si toccano): il conglobamento del testo antico nella propria poesia. Quasimodo ha saputo applicare alla lirica, con risultati splendidi (pensiamo ovviamente ai Lirici greci), un metodo di trascrizione che però è inadeguato alla poesia epica e di lungo respiro. In questo caso infatti il metodo non può portare (e l'han dimostrato più dello stesso Quasimodo i suoi epigoni) che all'isolamento di frammenti lirici o liricheggianti, cui si finisce per attribuire un valore troppo maggiore di quello che essi hanno effettivamente nel contesto. D'altra parte un metodo siffatto renderebbe praticamente impossibile la traduzione integrale di tutto un poema o una lunga opera, che verrebbe ridotta a una monotona successione di eventi e versi relativamente insignificanti, destinati a far da tessuto connettivo a una serie di pezzi di bravura (del traduttore naturalmente), di punti di concentrazione improvvisa, con degli sbalzi di tono inevitabili e fortissimi. Un poema epico ha un tono narrativo costante, ed anche i suoi luoghi capitali, gli episodi e le situazioni famose che si presterebbero ad essere stralciati e trattati appunto liricamente, nel contesto si distinguono non certo per un'alterazione tonale, per una smagliatura o un'interruzione del ritmo. In un testo come, poniamo, l'Eneide non esiste la possibilità di distinguere poesia da ·non poesia (per usare una terminologia che corrisponde appuntino al metodo in questione) in modo cosl netto da permettere di isolare i passi o i versi «memorabili» facendo a meno del resto: tanto è vero che l'esperienza personale mi ha dimostrato, e in qualche modo il lettore della mia versione se ne renderà conto, che molti dei luoghi comuni della critica virgiliana, di tradizione romana e poi umanistica consolidatasi attraverso i secoli, vanno risolutamente accantonati o quanto meno modificati e che, a una lettura fatta con gusto moderno, più di una cosa considerata sempre mediocre in realtà si rivela eccellente.
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Nota del traduttore
Ripeto quindi di essermi accostato all'Eneide come semp]jce lettore, senza altra ambizione che di rendere in un italiano piano e corrente- da leggersi senza fatica come senza fatica si legge l'originale - uno dei libri più grandi dell'umanità. Il modesto talento poetico che posseggo l'ho posto al servizio di questa «lettura»; spero quindi non sia destituita di grazia poetica e sia riuscita di un livello più elevato di quello di una comune prosa; anche se è stato necessario rassegnarsi à priori a dare per perduto il grande, sostenutissimo «tono» virgiliano. La lingua oggi non sopporterebbe senza inturgidirsi nel melodramma (almeno per quanto mi riguarda, poiché quel che a me non riesce potrebbe forse riuscire a un poeta di me più dotato) il tono epico vero e proprio, e ho creduto risolvere il problema della leggibilità del poema immergendomi, è la parola, in un flusso narrativo il più possibile teso e costante.
Le preoccupazioni maggiori, per chi debba oggi proporre in una lingua moderna un capolavoro classico, mi sembra siano in effetti quelle della leggibilità e dell'aderenza sensibile al testo. Più che di due problemi collegati si tratta delle due facce d'uno stesso problema. Aderire al testo significa, credo, seguirne i minimi moti, le minime oscillazioni senza imbrigliarlo in schemi precostituiti: solo cosl esso sarà obbiettivamente leggibile. Traduzioni dell'Eneide letteralmente fedeli come quelle compiute dagli epigoni della scuola carducciana (e pascoliana) sono illeggibili per l'adozione forzata di un genere di endecasillabo che non è mai esistito se non nelle esercitazioni accademiche, per la costrizione del testo in uno schema non solo metrico ma anche linguistico che lo mortifica: quasi che un classico dovesse andare per il mondo non in panni comuni, ma con un travestimento aulico preso in prestito, nel modo più goffo, un po' qui e un po' là, attraverso sei secoli di letteratura italiana. Evidentemente si tratta anche di una questione di gusto poetico personale, tanto è vero che, per fare un esempio, la versione del Vivona è alquanto più nobile di quella dell'Albini, ma il problema è soprattutto di impostazione critica. Nei casi in parola sembra ci si sia preoccupati di fare delle versioni meccanicamente fedeli alla lettera (e non allo spirito) dell'originale, ma ancora di più delle versioni «sonanti», dei modelli di retorica: mai s'è pensato semplicemente a far leggere il testo e a farlo capire. Con mag-
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Nota del traduttore
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giore o minore gratuità il criterio che ha presieduto a simili tentativi" è ancora quello della creazione di un'opera autonoma, di un testo italiano che possa prescindere dal latino e vivere per suo conto. I risultati, dato che Albini, Vivona e gli altri non erano certo dei poeti, sono più che modesti. All'inizio del Canto decimo ha luogo una di quelle assemblee di Numi che sono i punti più noiosi del poema e insieme i suoi indispensabili «puntelli». Gli Dei, per ascoltare la parola di Giove, Considunt tectis bipantentibusj incipit ipse ...
Verso che Albini traduce: ... Ne la stanza siedono bipatentej esso incomincia...
E Vivona: ... E già seduti sono nell'aula dalle doppie valve. Esso comincia...
Mi è parso invece logico - per evitare una nota a piè di pagina che spieghi come si tratti qui di una stanza a due aperture, una a levante e una a ponente, secondo lo schema dei templi- tradurre, come con altre parole aveva fatto il Caro, così: ... Gli Dei prendono posto nell'ampia sala aperta a levante e a ponente e Giove dice ...
L'esempio citato è minimo, ma sufficiente a far intendere il senso in cui mi sono sforzato di rendere leggibile il testo. La scorrevolezza, il flusso narrativo costante che ho cercato di raggiungere sono possibili solo rendendo esplicito tutto quanto Virgilio dà per implicito e che tale effettivamente era per un uomo dell'epoca sua. Alla lettura non devono sorgere dei problemi di significato tali da richiedere delle note e quindi un'interruzione della lettura stessa: tanto è vero che a questa versione non
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Nota del traduttore
ho apposto alcuna nota, certo che il lettore che abbia frequentato almeno le scuole medie non ne avrà bisogno. Per chiarire questo punto mi sia concesso ancora un altro esempio; di genere alquanto diverso, poiché riguarda la complessità di significati e l'enorme concentrazione del linguaggio virgiliano. La maggioranza delle traduzioni dell'Eneide, proprio perché non si preoccupano abbastanza di far leggere e di far intendere il testo, tendono a dare interpretazioni univoche a versi o a frasi che hanno invece uno « spessore » di significati notevolissimo: Il celeberrimo verso del Canto primo Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt
è tradotto da Caro: Là 've umana miseria si compiagne.
E dall'Albini: ... Anche qui virtù si pregia e piange la pietà sui casi umani.
E dal Vivona: ... Anche qui tenuta è in pregio la virtù, son qui pur le umane sorti onorate di pianto e le sventure toccano i cuori ...
Un verso come quello citato è invece polisenso, e non può essere reso, sia pure approssimativamente, se non si cerca di penetrare nello spirito dell'originale, sciogliendone il nodo densissimo almeno in due (poiché potrebbero essere di più) interpretazioni giustapposte. Ho quindi tradotto cosi: ... Anche qui si loda il merito, ci sono lagrime per le sventure, le lagrime che intridono tutte le cose del mondo, e i travagli degli uomini toccano i cuori ...
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Nota del traduttore
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Date le preoccupazioni sopra esposte non potevo attenermi per il mio lavoro a nessun tipo di schema rigido, neppure per quanto riguarda il metro. Ho usato quindi un verso libero, da Ieggersi ritmicamente, ma invariabilmente costituito da due versi italiani regolari, tradizionali. Spesso sono due settenari, spesso un ottonario e un settenario, o un senario e un ottonario, o un novenario e un senario eccetera eccetera. Alla lettura non è necessario suddividere il verso « lungo » in due versi brevi: anzi il modo in cui ogni verso lungo è composto non dovrebbe nemmeno essere avvertito. Mi è parso indispensabile ricorrere all'espediente di accoppiare due versi per marcare una cesura, una sospensiohe impercettibile del ritmo; se vogliamo per creare quella certa monotonia e quella certa « sostenutezza » senza di che il verso si livellerebbe troppo nella prosa. Insomma, i miei san versi, non prosa che va a capo: si leggano come versi liberi, sempre tenendo <:onta che non esiste verso libero italiano che non possa essere scomposto in brevi versi del tipo tradizionale e che, nel caso specifico, si tratta d'un verso libero con una cesura. Comunque esso si articoli: Cos} uno specchio tremulo d'acqua in un vaso di bronzo colpito da un raggio di sole o dall'immagine della radiosa luna riflette un bagliore che vola lontano e macchia di pallida luce il soffitto.
Un tal genere di verso lungo composto permette un numero di variazioni notevolissimo, pur entro una sostanziale unitarietà. M'è parso poi l'unico verso adatto (t"elativamente ai miei mezzi, s'intende) a piegarsi all'agilità e alla perspicuità della prosa pur restando di un tono superiore a quello della prosa, ad accogliere insieme espressioni di linguaggio parlato e di linguaggio letterario e perfino ricercato. Virgilio è un poeta che racconta servendosi di una molteplicità e ricchezza di procedimenti narrativi e di movimenti retorici da sbalordire; molto spesso con effetti impreveduti, d'urto, con effetti della surprise teorizzata da Poe. Mi è sembrato valesse la pena di conservarli intatti o di trasparii appena, in modo che mantenessero il loro valore di shock anche nel nuovo contesto. Per far questo non c'era che aderire all'originale - come già ho detto seguendone (o riflettendole nella trasposizione) le minime oscillazioni,
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Nota del traduttore
la compressione di un metro rigido. Così spero, per esempio, di aver saputo. conservare l'effetto di certo fulminante, modernissimo ;flash-back virgiliano: Al secondo dà in dono una lorica intrecciata di catenelle d'oro a tre fili, sottili, magnifico ornamento e difesa in battaglia: armatura che dopo un vittorioso duello aveva tolto egli stesso all'immenso Demòleo sotto l'alta rocca di Troia, vicino al veloce Simoenta. Era tanto pesante che appena, riuscivano a portar/a sulle sflalle due servi, Sàgari e Fègeo,· e pensare che un tempo con quell'armatura Demòleo inseguiva di corsa i Troiani dispersi!
Purtroppo la musica virgiliana è molto lontana dalla mia trascrizione che del resto, altro non volendo essere che una semplice lettura, la presuppone, le si affianca. Un ricalco vero e proprio dei valori fonici dell'originale sarebbe stato assurdo e impossibile anche a prezzo di un'intera vita di lavoro, e infatti non è stttto tentato neppure dai più strenui e presuntuosi rifacitori. D'altronde un poeta-traduttore non può avere altra risorsa (e altra scusante per tutto ciò che ha dovuto sacrificare deliberatamente nel tentativo di salvare il possibile) se non quella di tenersi ben saldo ai propri mezti che, nel mio caso, son forse soprattutto d'ordine visivo. Non è quindi casuale il fatto che la lettura virgiliana da me proposta sia intensamente·visiva, ma non è neppure del tutto volontario: ho dato coscientemente un'importanza altissima alle immagini, ai concetti, alle «figure» (magari giovandomi di modi che possono addirittura far pensare all'école du regard), ma a ciò mi hanno condotto il mio temperamento e la stessa poesia virgiliana, che è molto più concreta e aderente al particolare· plastico e colorato di quanto comunemente non si creda e di quanto le vecchie versioni non lascino immaginare. L'Eneide che è filtrata sino al lettore normale non è altro, tutto sommato, che quella rifatta dal Caro, il quale ha dissolto sistematicamente la corposità degli oggetti e delle immagini virgiliane in ghirigori barocchi talmente insistiti da diventare pressòché astratti. Un recupero della potenza anche visiva di Virgilio, grazie alla quale ogni minima frase, ogni verso del poema ha un s'uo peculiare modo di tendere al massimo dell'espres-
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Nota del traduttore
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sività ed ha una sua pienezza di vita, non può non apparire necessario dal punto di vista del gusto contemporaneo. Poema italico nel senso più profondo e più vero, di un'Italia tutta riassunta nel Latium vetus, in una regione di tufi, di macchie, di boschi neri di lecci, di contadini rudi ma anticamente civili, l'Eneide è dominata dal grande, fisso occhio di Virgilio, il quale tutto osserva, su tutto indugia - immagini del passato, del presente, dell'avvenire - e tutto riconduce a una matrice naturale atavica, data sempre (per quanto si possa andare a ritroso nel tempo) per pre-esistente. Siamo agli antipodi del « naturalismo » come lo si intende oggi: non si tratta di forma trovata nell'informe ma, e sembra ovvio, di informe che diventa forma. Ma una tale forma presuppone l'informe, la vita della natura minerale e vegetale a livello precosciente (se si vuole a livello, per l'appunto, unicamente visivo) e trascina dietro di sé l'informe come un'ombra protettrice. L'illustrazione storico-mitico-geografica che nel Canto ottavo Evandro fa dei colli sui quali un giorno sorgerà Roma, pur ricalcando i luoghi comuni della mitologia dell'età dell'oro commuove profondamente proprio perché sot· tintende una siffatta concezione della natura, che non è tanto del pensiero filosofico o cosmologico di Virgilio quanto del suo sentimento poetico: Fauni e indigene Ninfe abitarono primi questi boschi, e una razza d'uomini nati dai tronchi durissimi delle quercie, che non avevano né costume civile né arti, e non sapevano mettere i bovi all'aratro, conservare i raccolti, ma vivevano solo di caccia e di frutti selvatici. Poi a"ivò Saturno ...
La natura si fa uomo, e viceversa l'uomo è impastato di natura, è all'unisono con lei. Perciò il·Latium vetus non è soltanto natura o paesaggio ma si incarna in innumerevoli figure: Fallante, Camilla, Turno, Giuturna e molte altre, anche appena accennate. In questo senso esso è il vero protagonista di tutta la seconda metà del poema, la più alta. I punti in cui l'osmosi uomo-natura si fa esplicita, ed è dichiarata apertamente, sono parecchi. Basti pensare a Giuturna o al rapporto tra alcuni personaggi latini del poema e le antiche divinità italiche: LatinoFauno, Turno-Pilunno. Per Virgilio la personificazione delle forze natu-
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Nota del tratluttore
rali non è schietto mito, come poteva esserlo per Omero, ma una metafora ambigua: ambigua al punto da permettergli il recupero (richiesto dal1a ragion di Stato) del pantheon italico senza contraddire irrimediabilmente al proprio monoteismo orfico-pitagorico (affermato nel Canto sesto) e al processo stoico per cui Enea da succubo del destino ne diviene il cosciente esecutore. È un modo di «personificare», nel senso più stretto della parola (persona=maschera), attingendo al folklore, all'etnografia, alla tradizione magico-religiosa, che in epoca augustea almeno nelle campagne era ancor viva, quel tanto che basti per giustificare culturalmente un'intuizione puramente poetica, non razionale, per rendere « romano» un modo di intendere la natura che non è romano, che forse non è nemmeno mediterraneo, ma « padano » e, come è stato detto tante volte, pre-romantico. Solo da questo punto di vista, e da nessun altro, si potrebbe parlare dell'Eneide come di un poema anche padano: specie se ci si sofferma a considerare un canto (come il Canto ottavo) che nel tempo è forse il più vicino alle Georgiche, insieme al Canto sesto. Ma si tratta pur sempre d'un punto di vista eccessivamente marginale rispetto al complesso senso della storia che anima tutto il libro (e che prevale di gran lunga, almeno ideologicamente, sul senso della natura) perché sia il caso di insistervi.
Come traduttore confesso di essermi trovato più volte in serie difficoltà. Non mi è costata sforzi la parte finale: quei canti di guerra che insinuano nello schema omerico un tenerissimo patetismo, un senso struggente della morte, tanto inutile e cieca quanto necessaria, foriera d'avvenire ai nepotes, e che insieme si dibattono con sublime goffaggine tra le concezioni militari nazionali dell'epoca romana e la battaglia «epica» frammentata in duelli individuali. (Ed è una battaglia guardata con l'orrore di chi odia la guerra e si risolve ad occuparsene solo perché spera che Augusto abbia ristabilito la pace per sempre). Ho invece lavorato parecchio sui canti più scialbi, come il primp, il terzo e il settimo; e molta fatica m'è costato - non paia strano - il Canto quarto, quello di Didone, nonostante da tanti sia considerato (è uno dei più vecchi luoghi comuni della critica virgiliana) il punto più alto dell'intera Eneide. Il fatto è che l'episodio, pur toccando vette di lancinante potenza
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Nota del traduttore
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drammatica e di stupenda verità poetica, ha un tessuto narrativo abbastanza debole e incerto, rappresenta in qualche modo una rottura ritmica nello svolgimento del poema, ne sembra come avulso. L'innegabile alessandrinismo del Canto quarto è di troppo trasceso dal resto del poema - sia dal punto di vista compositivo che da quello della superiore idealità storica e filosofica - perché esso rimanga memorabile altrimenti che come «monologo drammatico». Il lungo monologo di Didone, continuamente spezzato e ripreso per poi serrarsi e farsi compatto verso il finale dell'episodio, è condotto in modo abbastanza incongruo nel senso della narrazione epica: tanto da render necessaria una serie di espedienti romanzeschi da repertorio, non tutti di primissimo ordine, la caccia, il risentimento di Jarba, il duplice intervento di Mercurio prima nella realtà e poi nel sogno, le pratiche magiche, un « orientalismo » che la guerra contro Cleopatra e Antonio doveva aver messo di moda nella Roma augustea, eccetera. Esso invece è sublime nel senso dell'analisi dello sviluppo di una passione e del crearsi di una situazione drammatica: e non è certo un caso che Virgilio proprio nel descrivere Didone infuriata citi, in un paragone, l'Oreste della tragedia greca. Qui allora tutte le interruzioni e fratture del monologo, dovute a necessità narrative non sempre risolte felicissimamente, assumono piena funzionalità, in quanto permettono alla, diciamo cosi, voce recitante di riprendere, dopo ogni sosta, a un punto di tensione sempre più alto e più arduo. Ma un monologo cosi tipicamente drammatico, rivolto a un interlocutore che di fatto risponderà soltanto in altra sede, nel Canto sesto, in cui l'episodio ha il suo culmine e (con la fuga di Didone nelle braccia di Sicheo) la sua sublimazione, non è facilmente riducibile ai moduli narrativi che io sono stato costretto ad usare molto più fermamente dello stesso Virgilio. Di qui le difficoltà, che non so sino a che punto ho risolto per il meglio. «Tutti i grandi scrittori- ha detto Walter Benjamin- devono contenere in una certa misura, fra le righe, la ]oro traduzione virtuale». Forse fra i canti dell'Eneide il Canto quarto è quello che meno la contiene.
Il testo seguito per questa edizione è sostanzialmente quello di Oxford, da cui però mi sono scostato in parecchi punti. La variante più notevole, e l'unica che mi par giusto segnalare, è la soppressione dei quattro versi
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Nota del traduttore
iniziali della tradizione donatiana, che ho ritenuto spuri, d'accordo con Funaioli, Paratore e quasi tutta la migliore critica virgiliana. Altri versi dubbi invece li ho tradotti, ove mi san parsi essenziali alla narrazione ed ove- non ho difficoltà ad ammetterlo- il tradurli m'ha fatto piacere. Non essendo uno specialista ho dovuto ricorrere in molti casi esclusivamente al buon senso e al mio gusto personale. Confesso di essere debitore di molte idee, che han trovato applicazione pratica nella versione, ad Ettore Paratore. Il suo libro su Virgilio non ha bisogno dell'elogio di una persona, come me, «non addetta ai lavori»; ma non posso tacere quanto esso m'è stato utile e quanti inconvenienti mi ha risparmiato. So bene come il mio lavoro sia ancora pieno di difetti che i latinisti non mancheranno di rilevare, ma non chiedo di meglio che di essere messo in grado di corre~gerlo e migliorarlo in eventuali ristampe. Infine esprimo tutta la mia riconoscenZa a Giacinto Spagnoletti, direttore di questa collana, che per anni mi è stato largo di incoraggiamenti, di appunti, di assistenza affettuosa. Senza il suo aiuto impareggiabile e continuo la mia Eneide non sarebbe stata probabilmente compiuta. A Spagnoletti dunque, come al migliore e più paziente dei lettori e come al più caro degli amici, dedico quest'opera, nella speranza che non sia indegna di lui. CESARE VIVALDI
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VIRGILIO, LE SUE OPERE, IL SUO TEMPO Publio Virgilio Marone, massimo poeta del mondo latino e uno dei più alti geni artistici esistiti, nacque nel Mantovano, ad Andes, piccolo centro convenzionalmente identificato con l'odierna Pietole, il 15 ottobre del 70 a. C. Figlio di proprietari terrieri d'una certa agiatezza (nonostante la tradizione leggendaria, fiorita attorno alla sua figura, lo voglia di umili origini), Virgilio ebbe un'ottima educazione in scuole eccellenti; dapprima a Cremona poi a Milano e finalmente a Roma, dove si recò tra i quindici e i venti anni per ascoltare le lezioni di retorica del celebre maestro Epidio, frequentate dai giovani della migliore aristocrazia romana, tra i quali il giovanissimo e precocissimo Ottaviano, futuro imperatore Augusto nonché futuro protettore del poeta, di lui alquanto più anziano. Virgilio· :;e.guì insomma il corso di studi proprio ai giovani avviati alla vita pubblica, alle carriere politica e amministrativa, anche se ben presto, inK~rno ai venti anni se non prima, la vocazione poetica lo distolse dai tribunali e dagli uffici militari e civili. La poesia del Virgilio esordiente si maturò nell'ambiente di cultura ellenistica (anche se di spiriti ben latini) dei cosiddetti poetae novi; quei «poeti nuovi», il cui maggiore esponente era un altro padano come Virgilio, il veronçse Catullo, che si proponeva di rinnovare la poesia romana importando metri, generi, soggetti e erudizione mitologica dalla grecità alessandrina. Nella« Appendice virgiliana », raccolta di poesie e poemetti attribuiti a Virgilio e dati come precedenti alle tre opere virgiliane ben note, Bucoliche} Georgiche} Eneide, tra molti componimenti spuri e di epoca più tarda di quella di Virgilio figurano però testi probabilmente
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Virgilio, le sue opere, il suo tempo
autentici. Soprattutto alcuni epigrammi, di salace spirito catulliano eppure temperati dalla dolcezza che sarà ripica del Virgilio maggiore, sono quasi certamente i primi frutti dell'arte del poeta mantovano. Arte che attinge una prima, vera maturità con .te Bucoliche, composte tra il 41 e il 39 a. C.; dieci poemetti ispirati alla vita pastorale (anche qui secondo un modello alessandrino: Teocrito) i quali dettero al giovane vasta fama e l'appoggio incondizionato dei grandi del tempo. Le Bucoliche riflettono una concezione del mondo ispirata all'epicureismo, dottrina filosofica che Virgilio aveva studiato a Napoli con Sirone e Filodemo, avendo a compagni uomini quali Orazio, Tucca, Quintilio Varo, e alla quale probabilmente lo aveva spinto la lettura del grande poema di Lucrezio De rerum natura. Le Bucoliche rispecchiano inoltre una particolare, dolorosa condizione dell'animo di Virgilio, colpito nei beni, nella famiglia e nell'affetto per il paese natale dalla confisca, avvenuta in conseguenza delle guerre civili, delle sue terre di Andes, tolte a lui, come ad altri proprietari di municipi italici sospetti di simpatie verso la causa repubblicana di Bruto, per essere distribuite ai veterani di Antonio e Ottaviano. Le Bucoliche, squisita e originale opera di poesia, assicurarono a Virgilio la protezione di Mecenate e poi di Ottaviano. Virgilio, che si era trasferito definitivamente a Napoli dove aveva comprato la villetta del suo antico maestro Sirone, cominciò ad essere considerato dal potere politico, cioè da Ottaviano, come il possibile futuro poeta «ufficiale». E Virgilio lo divenne veramente con la composizione delle Georgiche, poema in quattro canti (dedicati rispettivamente alla coltivazione dei campi, a quella degli alberi, alla pastorizia e all'allevamento delle api) scritto tra il 37 e il 30 a. C. per rispondere a un preciso disegno di Ottaviano. Il quale, dopo gli sconvolgimenti delle guerre civili (terminate con la sua vittoria ad Azio su Antonio e Cleopatra, nel 31 a. C.), voleva pacificare gli animi e insieme risollevare le sorti dell'economia agricola italiana. E il canto appassionato di Virgilio, la sua adesione alla natura e al lavoro dei contadini espressa in forme raffinatissime, fu il contributo più alto della letteratura dell'epoca a quegli scopi politici. Con le Georgiche Virgilio assurse al ruolo di principale portavoce poetico dell'impero. Seguendo le direttive di Ottaviano Augusto, il quale gli aveva chiesto un poema che glorificasse Roma, la nuova potenza imperiale, la propria stirpe Giulia e la sua stessa persona, il poeta concepl e
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scrisse l'Eneide, che aveva compiuto (ma non revisionato e limato, tanto da !asciarne qualche verso a metà) nel 19 a. C., quando la morte lo colse a Brindisi, il 21 settembre, al ritorno di un viaggio in Grecia dove si era recato a visitare i luoghi da lui cantati. L'Eneide è un poema in dodici canti, i primi sei dedicati al viaggio di Enea da Troia al Lazio e alle sue molte avventure, sul modello dell'Odissea, e gli ultimi sei, sul modello dell'Iliade, dedicati allé battaglie sostenute dall'eroe in suolo latino prima di fissarvi stabile dimora. Le ragioni politiche del poema, l'esaltazione della romanità, dei destini dell'impero e della casa imperiale, sono continuamente presenti per tutto l'arco della narrazione ma non la appesantiscono. Soprattutto perché la politica augustea di riappacificazione generale nell'esaltazione non solo di Roma ma dell'Italia tutta, corrispondeva profondamente allo spirito del poeta, cantore sl di guerre ma nella prospettiva di una lunga pace e di una futura nuova età dell'oro. E la guerra vista da Virgilio è orrenda, guardata con lo spavento di chi la odia e si risolve ad occuparsene solo perché spera che Augusto abbia ristabilito la pace per sempre. Cosl n· poeta insinua nei fierissimi schemi omerici di battaglia un tenero patetismo, un senso struggente della morte, inutile e cieca anche se necessaria, foriera d'avvenire ai « nipoti ». Poema italico nel senso più profondo e più vero, di un'Italia tutta riassunta in un antico Lazio che è vivo ancor oggi, regione di tufi, di macchie, di neri boschi di lecci, di contadini rudi ma anticamente civili, l'Eneide è dominata dal grande, fisso occhio di Virgilio, il quale tutto osserva, su tutto indugia- immagini del passato, del presente, dell'avvenire- e tutto riconduce a una matrice naturale atavica, a tutto preesistente. La forma virgiliana presuppone l'inforn1e, la vita della natura minerale e vegetale a livello precosciente, e trascina con sé l'informe, ricordo di uno stato idillico anteriore alla storia, ombra protettrice. Cosl, ad esempio, l'illustrazione storico-mitico-geografica che nel canto ottavo Evandro fa dei colli sui quali un giorno sorgerà Roma, pur ricalcando i luoghi comuni della mitologia dell'età dell'oro commuove profondamente proprio perché sottintende una siffatta concezione della natura, che non è tanto del pensiero filosofico e cosmologico di Virgilio quanto del suo sentimento poetico. Un se~timento poetico, come è stato detto molte volte, pre-romantico, « padano » più che mediterraneo.
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Virgilio, le sue opere, il suo tempo
Nella cornice del Lazio si stagliano i più intensi eroi del poema, eccezion fatta per Didone: Enea anzitutto, il suo rivale Turno, Camilla, Eurialo e Niso, Evandro, Fallante e tanti altri minori, personaggi umani e personaggi divini come Giuturna. Ed Enea è portavoce dei sentimenti pacifici di Virgilio," è l'uomo che da succube del destino ne diviene, stoicamente, cosciente esecutore, che tutto affronta, anche la deprecata guerra (alla quale vanamente s'oppone), anche il tradimento di Didone, cioè dell'amore, per condurre a termine un compito che gli viene imposto e che non può non accettare. Tutto ciò non senza esitazioni, debolezze, pentimenti profondamente umani; che ne riscattano la figura da ogni retorica eroica facendola moderna, ancora oggi vera e vivissima. c. v.
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CANTO PRIMO
« Ti prego, ospite, raccontaci dall'inizio le insidie dei Greci. le sventure dei tuoi e il tuo lungo viaggio..
:»
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 1835, ricavate dai codici della Biblioteca Vaticana, Roma.
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CANTO PRIMO Lasciata la Sicilia, ove si era trattenuto con i suoi, ospite del troiano Aceste, Enea si rimette in viaggio verso le coste tirreniche con venti navi. Giunone, implacabile nemica della gente troiana, ancora una volta cerca di ostacolare il viaggio. All'uopo si rivolge ad Eolo, re dei venti, e promettendogli in moglie la bellissima ninfa Deiopea, lo persuade a scatenare un terribile fortunale nel tratto di mare ove si trova la piccola flotta degli esuli. Le navi sono sballottate, disalberate e private dei remi e rimangono in balia delle onde. La tempesta è placata da Nettuno, che rimprovera i venti di averla suscitata a sua insaputa. Enea con sole sette navi riesce a prender terra sulla costa libica, rincuora i compagni rimastigli, e procura loro del cibo, abbattendo sette cervi in un bosco vicino. Nel frattempo Venere, madre di Enea, si duole con Giove dell'ostilità di Giunone e lo prega di salvaguardare il figlio considerando l'alta missione che i fati gli hanno assegnato come capostipite dell'impero di Roma. Giove la rassicura ed invia Mercurio a Cartagine da Didone, regina della città, per predisporla ad accogliere benevolmente i naufraghi. Venere, allora, nei panni di una giovane cacciatrice, appare al figlio, che, con il fido Acate, si era recato a perlustrare i luoghi vicini alla spiaggia, e da lui interrogata gli rivela il nome della terra africana ove si trova ed in breve gli narra la triste storia della regina Didone, signora di quei luoghi. Avvolge poi il figlio e l'amico in una densa nube che permetterà loro di giungere a Cartagine non visti. La città appena costruita suscita l'ammirazione dei due eroi che, penetrati in un tempio, sono commossi nello scorgervi raffigurate, tra le altre, le gesta della guerra troiana. Appaiono poi, quasi contemporaneamente, Didone ed i compagni delle altre navi che Enea credeva morti o dispersi. La regina, richiestane da Enea, accorda ai troiani ospitalità e li invita a banchetto nel suo palazzo. Venere, che continua a vegliare sul figlio, fa in modo che Julo, figlio di Enea, incaricato di portar doni a Didone, venga sostituito da Cupido con il compito di suscitare nel cuore della vedova regina un'improvvisa fiamma d'amore.
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Canto primo
Cupido compie la missione. Il canto si chiude con l'invito di Didone ad Enea di raccontare l'epilogo della guerra di Troia e le vièende del lungo esilio.
Proemio (vv. 1-17) Servio e Donato, primi commentatori dell'Eneide, avevano premesso al poema, ritenendoli autentici, quattro versi di carattere autobiografico che qui di seguito trascriviamo nella traduzione di Annibal Caro: Quell'io che già tra selve e tra pastori di Titiro sonai l'umil sampogna e che, de' boschi uscendo, a mano, a mano fei pingui e colti i campi,' e pieni i voti d'ogn'ingordo colono, opra che forse agli agricoli è grata. Tali versi con tutta probabilità Virgilio aveva dettato per presentare la propria opera all'imperatore Augusto o a qualche importante e caro amico, essendogli .assai gradito di ricordarsi agli altri come autore delle Bucoliche e delle Georgiche; lavori di altra ispirazione e di altro impegno, ma non meno cari all'autore che in quelli aveva profuso la squisitezza del suo animò melanconico e contemplativo. Vario e Tucca, amici di Virgilio e curatori della prima edizione del poema, li trascurarono, forse perché come l'Iliade e l'Odissea, anche l'Eneide iniziasse direttamente e classicamente con la dichiarazione dell'argomento cantato e con l'invocazione alla musa della poesia.
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CANTO PRIMO La collera di Giunone (17-43) - Eolo e la tempesta (44-147) L'aiuto di Nettuno (148-187) - Le spiagge di Libia: l'approdo (188-262)- Giove e Venere (263-297) -La predizione della grandezza di Roma (298-3.56)- L'incontro tra Venere ed Enea (3.57-483) - Cartagine (484-.574) - L'incontro con Didone (.57.5-887).
CANTO le armi,
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canto l'uomo che primo da Troia venne in Italia, profugo per volere del Fato sui lidi di Lavinio. A lungo travagliato e per terra e per mare dalla potenza divina a causa dell'ira tenace della crudele Giunone, molto soffri anche in guerra: finché fondò una città e stabili nel Lazio i Penati di Troia, origine gloriosa della razza latina e albana, e delle mura della superba Roma. Musa, ricordami tu le ragioni di tanto I. Canto le armi: le imprese di guerra. 4· sui lidi di Lavinio: Enea, fuggendo da Troia, dovrà per volere del destino vagare sette anni per i mari del Mediterraneo, prima di sbarcare sulle spiagge del Lazio. Lavinio da Lavinia, figlia del re Latino, sposa in seconde nozze di Enea, è la città fondata dall'eroe dopo
aver ucciso Turno in duello 5· dalla potenza divina: prima si era parlato di fato ora di potenza divina. Il fatto è che Virgilio. vuoi su· bito dare al suo eroe quella caratteristica che lo renderà tanto diverso dai personaggi omerici e cioè ch'egli, contrc. la sua indole e la sua natura, sarà costretto ad affrontare le prove più diverse e con-
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trastanti per condurre a termine la più alta impresa che mai sia stata affidata ad un uomo: quella di fondare un impero che nel mondo non avrà eguali. Nemmeno Giunone, che è dea, riuscirà ad opporsi a tale disegno perché il fato è forza tremenda che tutto piega alla sua volontà e che perciò si può interpretare come la forza della storia e l'ordine dell'universo. 8. i Penati di Troia: Penati erano gli dèi tutelari della famiglia e della patria. Enea aveva portato con sé quelli di Troia. 10. e albana... Roma: la razza latina nacque dalla fusione dei Troiani con gli indigeni del Lazio. La razza albana prende il nome da Alba, città fondata da Ascanio, che per più di tre secoli dominerà incontrastata sul Lazio finch~ _!~.om2!g, figlio di Rea Silvia, all>ana, fonderà la superba Roma, futura dominatrice del mondo. n. Musa ... : è Calliope, musa della poesia epica, che qui Virgilio invoca, com'è d'obbligo, perché lo ispiri e lo assista nella sua lunga fatica poetica.
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Canto primo
r 2. doloroso penare: le ragioni dell'implacabile ira di Giunone saranno ricordate al verso 34 e seguenti. 13. la regina del cielo: Giunone come sposa di Giove era la prima tra le dee. Qui il poeta si chiede, quasi stupito, come la regina del cielo possa aver infìeri to in modo tanto crudele su un uomo, « insignem pietate », tanto pio come era stato e come sarà Enea. La pietas per i romani si manifestava con la sottomissione volontaria e completa al volere degli dèi, con il culto della patria e con la generosità verso i parenti: dunque non si spiega la crudeltà di Giunone.
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COLLERA DI GIUNONE
(17-43). - Giunone, nemica irriducibile del popolo Traiano, studia il modo di danneggiare la flotta di Enea che veleggia dalla Sicilia verso l'I talia. 17. Tiri: da Tiro, antichissima città della Fenicia e celebre mercato orientale per l'esporta2ione della porpora. 19. Cartagine: la fiera nemica della Roma futura viene qui presentata ln tutta la sua potema ed il suo fulgore come il preannunzio della terribile minaccia che costituirà per la forza romana nelle tre guerre puniche. Si spiega dunque il perché i Romani, quando la ebbero vinta e distrutta, ne fecero arare le rovine a significare che nessuno avrebbe potuto ricostruirla. 2r. Samo: isola del Mar Ionio, in cui era fama che Giunone fosse nata e dove
doloroso penare: ricordami l'offesa e il rancore per cui la regina del cielo costrinse un uomo famoso per la propria pietà a soffrire cosf, ad affrontare tali fatiche. Di tanta ira son capaci i Celesti?
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La collera di Giunone
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Vi fu un'antica città, abitata dai Tiri, che fronteggiava l'Italia e le foci del Tevere da lontano: Cartagine, ricchissima di mezzi e terribile in armi. Si dice che Giunone la preferisse a ogni terra, persino alla stessa Samo, e vi tenesse le armi e il carro. Già da allora la Dea si adoperava con ogni sforzo a ottenerle, se mai lo consentano i Fati, l'impero del mondo. Ma aveva saputo che dal sangue troiano sarebbe nata una stirpe destinata ad abbattere le rocche di Cartagine; che un popolo dal vasto dominio e forte in guerra sarebbe venuto a distruggere la Libia: tale sorte filavano le Parche. Temendo l'avvenire e memore della guerra che aveva combattuto un tempo sotto Troia per i suoi cari Argivi, Giunone conservava ancora vive nell'anima altre cause di rabbia e di fiero dolore: le restano confitti nel profondo del cuore il giudizio di Paride,
era venerata in modo particolare in un grande tempio. 22. vi tenesse le armi e il carro: in segno di predilezione per il popolo cartaginese che aveva per lei uno speciale culto. 29. le Parche: erano tre, Cloto, Lachesi ed Atropo. La prima filava il filo dell'esistenza umana, la seconda Io avvolgeva, la terza lo troncava secondo la volontà dei fati. 32. Argivi: erano propria-
mente gli abitanti di Argo, città del Peloponneso. In senso lato Omero intende tutti i Greci, anche chiamati Achei da Acheo, re di Ftia. 35· il giudizio di Paride: Paride, secondo figlio di Priamo e di Ecuba, fu chiamato ad assegnare il pomo d'oro alla più bella tra le tre dee: Giunone, Venere e Minerva. Paride lo assegnò a Venere che in segno di riconoscenza gli promise la più bella donna del mondo:
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l'onta della bellezza disprezzata, il rancore per la razza troiana, gli onori ai quali è assurto Ganimede. Infiammata da tanti oltraggi, la Dea teneva lontani dal Lazio, sballottati sulle onde, i Troiani scampati ai Greci ed al feroce Achille: ed essi erravano sospinti dal destino per ogni mare da molti e molti anni. Tanto era arduo, terribile, fondare la gente romana!
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Appena perduta di vista la terra di Sicilia i· Teucri spiegavano lieti le vde verso il largo fendendo coi rostri di bronzo le spume salate. Giunone, che sempre nel petto ha incisa l'eterna ferita, vedendoli disse tra sé: «Dovrò dunque desistere dalla mia impresa e darmi per vinta, senza riuscire a distogliere il re dei Teucri dall'Italia? Me lo vietano i Fati! Eppure Minerva ha potuto incendiare la flotta dei Greci e sommergerli in mare per punire le colpe dd solo Aiace d'Oileo! Lei stessa scagliò dalle nubi il rapido fuoco di Giove, disperse ~e navi e sconvolse i flutti coi venti, travolse in un turbine Aiace che vomitava fiamme dal petto fulminato, lo infilzò in uno scoglio; ed io, che incedo solenne a capo di tutti gli Dei, sorella e moglie di Giove, io muovo da tanti anni guerra a un popolo solo e non riesco a domarlo. Ma chi d'ora in avanti onorerà piu la gloria di Giunone, e imporrà sacrifici ai suoi altari? » La Dea, volgendo tra sé tali pensieri nd cuore
Elena. Di qui il rapimento di Elena da parte di Paride e la conseguente guerra di Troia; di qui l'implacabile odio di Giunone. 38. Ganimede: figlio di Troe, re di Troia, che per la sua bellezza fu rapito da un'aquila inviata da Giove e trasportato in cielo perché
servisse come coppiere ai banchetti degli dèi. 43· fondare la gente romana!: l'autore non può trattenere questa esclamazione di giusto orgoglio nella constatazione dei tremendi ostacoli che i progeni tori della sua gente avevano dovuto superare per fondare Roma
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e iniziare cosl il lungo cammino di conquista e di gloria. EOLO E LA TEMPESTA (44147). -La dea decide di far
visita ad Eolo, re dei venti, e per mezzo suo scatena una spaventosa tempesta che, in breve tempo, provoca il naufragio di una nave, ne fa arenare tre, ne fa schiantare altre tre contro gli scogli e disperde le rimanenti. 44· la terra di Sicilia: precisamente Drèpanum (Trapani) ove era morto ed era stato sepolto Anclllse, padre di Enea. 46. rostri di bronzo: erano degli speroni che armavano la prua delle navi antiche e che servivano a perforare le imbarcazioni nemiche durante l'arrembaggio. 50. il re dei Teucri: Enea. I Troiani erano anche chiamati Teucri da Teucro, re di Creta, che aveva dato in sposa la figlia a Dardano, primo re di Troia. 53· Aiace d'Oileo: eroe gteco che s'invaghl di Cassandra, figlia di Priamo, ed osò abusare di lei nel tempio di Minerva. La dea, offesa ed oltraggiata, lo fulminò durante il ritorno in patria e disperse le sue navi in una furiosa tempesta. 54· rapido fuoco di Giove: il fulmine. 6o. un popolo solo: i Troiani. 61. Ma chi ... : l'amarezza della dea non è giustificata. Ella sa che lottare contro il fato è inutile; malgrado ciò prevalgono in lei l'orgoglio e lo spirito mai domo della vendetta.
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64. isola Eolia: una delle isole Eolie dove gli an tichi ritenevano avessero sede ed origine i venti. 66. Eolo: mitico dio dei venti, personificato dai suoi dodici figli, sei femmine e sei maschi. 67-70. La descrizione che Virgilio fa dei venti, ribelli e violenti, governati con fermezza da Eolo è fra le più poetiche del libro. 86. Ilio e i vinti Penati: i troiani saranno sempre per Giunone i nemici a fatica vinti, che ora invece i fati vogliono vinci tori in altra terra ed in altre grandissime imprese. 90. Deiopea: Giunone non dimentica che tra i suoi attributi ci sono quelli principali di « pronuba » e di « Lucina » cioè della divinità che presiede ai matrimoni ed alle nascite. Offrendo la sua più bella ninfa in sposa, mostra quanto le stia a cuore ottenere il favore di Eolo, ma nello stesso tempo preserva e difende i suoi attributi di dea moralizzatrice e severa. IOJ. Euro, Noto, Africo: Euro è il vento d'oriente; Noto del sud; Africo di sudovest.
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infiammato di collera, giunse all'isola Eolia patria dei nembi, terra piena di venti furiosi. Qui il re Eolo controlla in un'immensa caverna le sonore tempeste e i venti ribelli che tiene prigionieri, carichi di catene. Fremono urlando di rabbia intorno ai chiavistelli con un alto muggito che scuote la montagna; Eolo, in mano lo scettro, seduto in vetta a una rupe ne mitiga la rabbia e ne modera gli animi. Se non facesse cosi i rapidi venti trascinerebbero via perdutamente nell'aria i mari, le terre e il cielo profondo. Temendo un tale pericolo, il Padre onnipotente li chiuse in nere caverne, imponendovi sopra devate montagne, e dette loro un re che, secondo i suoi ordini, sapesse volta a volta trattenerli o sbrigliarli, con legge sicura. Giunone gli si rivolse con voce supplichevole: « Eolo (poiché a te il Padre degli Dei e re degli uomini ha dato il potere sui venti, con cui calmare i flutti o alzarli sino alle stelle), una razza che odio naviga nel Tirreno per portare in Italia Ilio e i vinti Penati: scatena la potenza dei venti, affonda le navi, o disperdi i Troiani, seminali per il mare. Ho quattordici Ninfe dal corpo bellissimo, ti destinerò Deiopea, la piu bella di tutte, la farò tua con nodo indissolubile e voglio che in compenso d'un tale servigio trascorra con te tutti i suoi anni e ti faccia padre di splendidi figli ». Eolo rispose: «A te, regina, spetta decidere quello che vuoi, a me spetta eseguire i tuoi ordini. A te devo il mio regno, comunque esso sia, il mio scettro e il favore di Giove: è merito tuo se siedo ai banchetti celesti, se sono il padrone dei [venti »Allora Eolo col piede della lancia percosse il cavo fianco del monte, e i venti in schiera serrata come un esercito irruppero attraverso la porta per scatenarsi in un turbine su tutta la terra. Euro, Noto ed Africo fecondo di tempeste piombarono insieme sul mare sconvolgendolo a fondo
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e rotolando enormi ondate contro le spiagge. Gridano di terrore gli uomini, le sartie stridono. Nubi improvvise nascondono il cielo e la luce agli occhi dei Troiani: si stende nera una notte sul mare. La volta celeste tuona, l'aria balena di fulmini frequenti e tutto, nell'acqua e nel cielo, minaccia ai marinai una morte imminente. Enea si sente agghiacciare le membra di paura, gemendo leva le mani verso le stelle e dice: « O mille volte beato chi ebbe la fortuna di morire davanti agli occhi di suo padre sotto le mura di Troia! O Tidide, il pio forte dei Greci, avessi potuto spirare sotto i tuoi colpi nei campi d'Ilio, dove, ucciso dal figlio di Teti, il forte Ettore giace, dove giace l'immenso Sarpedonte ed il fiume Simoenta travolge tanti scudi, tanti elmi, tante salme d'eroi! » Ed ecco che una raffica stridente d'Aquilone colpisce la sua vela e solleva le onde sino al cielo. Si spezzano i remi, la prua gira e la nave presenta il fianco ai cavalloni; una montagna d'acqua sopravviene impetuosa. I marinai son sospesi in cima ai flutti, altri vedono tra le onde impazzite la terra del fondo; la tempesta sconvolge persino la sabbia. Tre navi portate da Noto si schiantano contro gli scogli che gli !tali chiamano Are (scogli sperduti nell'acqua, dal dorso immenso che sfiora la superficie del mare); Euro ne spinge altre tre contro banchi di sabbia, e le circonda di un monte di sterile arena. Un'onda enorme colpisce dall'alto sulla poppa, davanti agli occhi di Enea, la nave che portava i Lici e il fido Oronte; il timoniere è strappato dal suo posto e gettato in mare a capofitto; un gorgo fa roteare la nave per tre volte finché un rapido vortice la ingoia nel profondo. Pochi naufraghi nuotano sull'immensa distesa sparsi qua e là, fra le tavole galleggianti, i relitti dei tesori di Troia, le armi dei guerrieri. E già la tempesta vinceva il solido scafo di Ilioneo, insieme a quelli del forte Acate, di Abante, del vecchio Alete: tutti imbarcano l'acqua nemica dal fasciame sconnesso e non tengono piu.
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106. sartie: le corde con cui manovrare le vele. 116. O Tidide: Diomede, figio di Tideo, dopo Achille il più forte dei Greci, duellò con Enea sotto le mura di Troia. II nostro eroe fu salvato da morte soltanto dall'intervento della madre Venere. 118. dal figlio di Teti: Achille. 120. Sarpedonte: re della Licia, alleato di Troia, fu ucciso in duello da Patroclo. - Simoenta: uno dei due fiumi che attraversano la regione circostante Troia; l'altro era lo Scamandro. 122. Aquilone o Borea: è il vento del nord. I 3 r. Are: sono scogli insidiosi, chiamati di Egimuro, al largo di Cartagine. Come si vede la tempesta ha completamente cambiato la rotta delle navi, spin- gendole verso sud. 137. i Lici ed il fido Oronte: come abbiamo visto sopra, i Lici erano stati alleati dei Troiani ed ora ne dividono la sorte. Oronte ne era il capo, amico fedele di Enea. 141. ~ un verso giustamente famoso, divenuto proverbiale: « apparent rari nantes in gurgite vasto». 145-146. Ilioneo, Acate, Abante, Alete: sono i comandanti di altrettante navi, che ritroveremo in seguito.
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L'AIUTO DI NETTUN0(148· 187). - Nettuno, sorgendo dalle profondità del mare, è sorpreso ed adirato per la tempesta a sua insaputa scatenata, rimbrotta aspramente i venti, ricacciandoli nella loro caverna, e riconduce la calma. 148. Nettuno: Virgilio segue qui la tecnica di Omero che ad ogni intervento di una divinità, faceva seguire un altro di altra divinità, quasi a voler sottolineare la stretta indipendenza tra uomini e dèi. Da notare che Nettuno nell'Eneide non è nemico dei Troiani, come lo era nell'Iliade. 151. Assai ne fu turbato: Nettuno è « graviter commotus » cioè meravigliato e nello stesso tempo risentito contro chi ha osato sostituirsi a lui nel governo del mare. Tale turbamento contrasta singolarmente e poeticamente con il « placidum caput », cioè con la calma serena e direi olimpica della sua apparizione al di sopra delle onde agitate e violente. 156. Euro e Zefiro: ne nomina due per indicare tutti quelli che Eolo aveva scatenato. 158. Titani: secondo altra leggenda i venti erano figli dell'Aurora e di Astreo, uno dei Titani che avevano osato dar la scalata all'Olimpo per spodestare Giove ed erano stati da lui vinti e imprigionati nelle viscere della terra, che di tanto in tanto scuotevano nel tentativo di liberarsi. 158-162. Sembra la ramanzina di un padre burbero a dei figli discoli.
L'aiuto di Nettuno
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Intanto Nettuno s'accorse dall'alto muggito del mare che era stata sfrenata una tempesta tremenda, l'acqua sconvolta sino al suo fondo sabbioso. Assai ne fu turbato: sollevò il capo placido a fiore delle onde, guardando tutto intorno, e vide la flotta di Enea dispersa per l'oceano, i Teucri sopraffatti dai flutti e dall'ira dd cido. Comprese immediatamente l'inganno di Giunone e chiamati a sé i venti Euro e Zefiro, disse: '~.'Tanta baldanza vi viene dalla stirpe ribelle dei Titani, dai quali discendete? Già, o venti, osate sconvolgere cielo e terra, sollevare ondate cos{ grandi contro la mia volontà? Io vi farò ... ! Ma è meglio calmare i flutti agitati: vi punirò un'altra volta, in modo ben diverso. Fuggite in fretta, correte a dire al vostro re che il dominio del mare e il tridente terribile sono toccati in sorte a me e non a lui. Eolo governa i sassi immensi dove sono le vostre case, o Euro! Si agiti come vuole nd suo palazzo e regni nel carcere dei venti! » Non aveva nemmeno finito di parlare che già aveva placato i flutti agitati e disperso le nubi, riconducendo il sole. Tritone e Cimòtoe unendo i loro sforzi liberano le navi in secca sugli scogli: Nettuno stesso le alza col suo tridente, aprendo loro una via d'uscita tra le sabbie e calmando il mare, quindi sfiora con le ruote leggere dd suo coa:hio le onde. Come spesso succede
164. il tridente terribile: è l'arma e il simbolo di Nettuno, con il quale placa o sconvolge il mare a piacimento. 165. in sorte: i tre figli di Saturno si erano divisi l'universo in modo che a Giove toccò il cielo, a Nettuno il mare e a Plutone l'inferno.
172. Tritone e Cimòtoe: sono due aiutanti di Nettuno; il primo ne preannunziava l'arrivo soffiando in una grossa conchiglia; la seconda è una delle cinquanta Nereidi, divinità marine che aiutavano i marinai nel pericolo. La più famosa· di loro fu Tetide, madre di Achille.
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Canto primo
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qùando in mezzo a una folla s'è accesa la rivolta e l'ignobile plebe infuria, sassi volano e tizzoni, il furore arma tutte le mani, ma ecco i rivoltosi vedono un personaggio illustre per i suoi meriti e per la sua pietà e ammutoliscono, tendono l'orecchio; quegli frena con le parole gli animi, intenerisce i cuori: cos( il fragore del mare cessò quando Nettuno volto lo sguardo alle acque, sotto il cielo sereno volava sul rapido carro lanciando i cavalli sbrigliati.
Le spiagge di Libia: l'approdo
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Gli Eneadi stanchi si sforzano di raggiungere i lidi piu vicini e si volgono alle spiagge di Libia. Un'insenatura profonda s'apre davanti a un'isola che coi suoi fianchi la chiude come un porto: ogni onda d'alto mare si frange contro l'isola e rotta in circoli è respinta indietro. A destra e a manca scoscendono dirupi e due scogli si levano minacciosi alle stelle: sotto le loro vette per largo spazio le onde giacciono ~ilenziose. In alto sovrasta un sipario di alberi stormenti, bosco nerissimo d'ombre: a pié dell'opposta parete sotto rocce sospese si spalanca una grotta in cui sgorga una fonte d'acqua dolce, vi sono sedili di pietra viva, dimora delle ninfe. Qui le navi stan ferme senza bisogno d'ormeggio, senz'ancora che le leghi col morso del dente adunco. Enea vi approda con sole sette navi superstiti 177. Come spesso: «Co-
mincia qui la prima delle comparazioni che s'incontrano nel poema, suggerita probabilmente a Virgilio dalla realtà di avvenimenti consimili a quello che forma oggetto della comparazione medesima. Eran da poco cessate le lotte civili, durante le quali esempi di cittadini
insigni che imponessero, anche solo temporaneamente, la calma alla folla tumultuante, il rispetto verso se medesimi, non dovevano essere mancati. Al dio del mare vien contrapposto, non certo per irriverenza, un uomo autorevole, agli elementi sconvolti e agitantisi, la moltitudine irritata a segno
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da venire a vie di fatto. Del resto per tornare sulla opportunità del primo termine di confronto, il cittadino che ha dato prova di grande amore verso la patria e che può vantare meriti personali, non è indegno d'una tal quale reverenza che suo! essere attribuita agli dèi. Abbiamo dunque ~pecificamen te esaltata qui la "pietas in patriam", dopo quella generica attribuita all'eroe del poema, che si manifesta verso i parenti, la patria e gli dèi » (Masera). LE SPIAGGE DI LIBIA: L'APPRODO (188-262). - Con
le sette navi rimastegli, Enea riesce a toccar terra in una piccola e tranquilla baia sulle coste della Libia. Subito l'eroe, mentre gli equipaggi provvedono ad accendere i fuochi ed a preparare il cibo, parte in esplorazione, uccide sette cervi e li porta ai compagni affinché se ne cibino. Poi cerca di confortarli e di • rianimarli. 190. Un'insenatura profonda ... : la descrizione del-
la baia tranquilla, dopo tanto furore di venti e di flutti, sa di maniera e ci richiama subito quella america del porto di Forcine nel XIII dell'Odissea Ma mentre quella aveva una sua precisa ragion d'essere perché ·era la manifestazione dello stata d'animo di Ulisse, che toccava dopo un esilio ventennale la terra natia, qui invece è puro sfoggio di in· venzione poetica, tanto eh· risulta poi inutile identificar· la, come qualcuno ha tentato, con un preciso punto geografico.
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205. e i Troiani ... : non par vero ai superstiti di calcare ancora la terra, una terra « sognata » quando di· speravano ormai di aver sal· va la vita. Vien loro naturale di stendersi sulla tepida rena per riposare e per sentirsi a poco a poco rivi-
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vere. 208. Subito Acate ... : Acate, saggio amico e consigliere di Enea, il fido per eccellema, come lo chiamerà più tardi Virgilio, si dà subito da fare per ritemprare le forze degli scampati, accendendo un fuoco e incitando a sbarcare le provviste al fine di preparare un pasto caldo e ristoratore. Cade qui a proposito una fine osserva2ione del Saint-Beuve: « Si è rilevata la differenza di tono che c'è tra i particolari descrittivi di Virgilio e gli analoghi particolari che si leggono in Omero, non proprio sulla selce da cui si fa sprigionare il fuoco (Omero non ne ha parlato), ma sui preparativi abituali dei pasti, di cui egli mai si dimentica. In effetti non si può dire che Omero descriva queste circostanze della vita quotidiana; egli le racconta e non cerca affatto né di nobilitarle, né di adornarle, né di abbellii-le con l'espressione. In Omero, insomma, si tratta di un particolare naturale o inevitabile della vita, ch'egli ripete nei suoi versi ogni qualvolta lo incontra per istrada, è un'abitudine; in Virgilio è già yna curiosità. Il peeta di corte di Augusto non può fare a meno, quando si trova di fronte a queste umili circostanze reali, di ricordarsi del contrasto che
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e i Troiani, sbarcati fuori di sé dalla gioia di toccar terra, si accampano sulla spiaggia sognata e allungano a terra le membra stillanti di salsedine. Subito Acate sprigiona dalla selce la fiamma e dà fuoco alle foglie, ammucchiandovi intorno legna ben secca. I Troiani, stanchi di tante avventure, traggono dalle stive, col frumento avariato, le mole, preparandosi ad asciugare al fuoco le biade recuperate dal mare e a macinarle. Intanto Enea s'inerpica su una rupe ed osserva l'orizzonte marino per gran tratto, se mai riesca a vedere Anteo sbattuto dal vento e le frigie biremi, Capi o le in~egne di Calco sulle alte poppe. Nessuna nave è in vista, ma lungo il lido egli scorge tre cervi erranti: interi branchi vengono appresso ed una lunga schiera pascola per le valli. L'eroe si ferma e, preso l'arco e le rapide frecce che il fido Acate portava, abbatte i tre capi-branco dalle teste arroganti, adorne di corna ramose; indi scompiglia gli altri seguendoli tra i boschi frondosi con i dardi, né interrompe la caccia prima d'aver disteso al suolo sette enormi corpi, in numero eguale a quello delle navi. Tornato al porto divide la preda tra i compagni. Distribuiti i vini - di cui l'ospite Aceste aveva caricato molte anfore sul lido di Trinacria, regalo ai Troiani partentine consola in tal modo i cuori addolorati: «O amici (siamo avvezzi da tempo alle sventure),
c'è tra gli usi del suo tempo e quelli del suo soggetto; e quando fa accendere il fuoco dal fido scudiero di Enea, egli adorna, abbellisce, rende poetica questa semplice operazione, ben sapendo che per Mecenate e per il lettore delicato essa sarà motivo di sorriso ». 214. Intanto Enea ... : benché forse più provato degli altri, l'eroe sente la responsabilità del capo e subito si preoccupa della sorte delle
altre navi. 216-217. Anteo, Capi e Caìco: tre tra i più importanti comandanti delle navi disperse. 223. dalle teste arroganti: « capita alta ferentes » sono i capi branco. 233. O amici ... : è un'operazione piccioletta che ci richiama quella dantesca di Ulisse nel canto XXVI dell'Inferno. Anche qui la sofferenza e i disagi sono necessari per acquistar « virtu-
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o voi che avete sofferto malanni ben piu gravi: un Dio metterà fine anche a questi! Con me vedeste da vicino il furore di Scilla, gli scogli risonanti nel profondo, vedeste le rupi dei Ciclopi. Coraggio, allontanate ogni triste paura: un giorno ci sarà gradito rievocare, forse, questi travagli. Traverso tante vicende, traverso tanti pericoli andiamo verso il Lazio, dove i Fati ci additano sedi tranquille e dove, per volere dei Fati risorgeranno alfine i dominii di Troia. Tenete duro e serbatevi ad eventi migliori! » Cosi parlava Enea. In mezzo agli affannosi pensieri simula in volto la speranza, nel cuore soffocando il dolore profondo. I suoi compagni si iufaticano intorno alla preda ed al cibo. Spellano gli animali mettendo a nudo le carni, alcuni le tagliano a pezzi e ancora palpitanti le infilzano negli spiedi, altri accendono il fuoco e pongono sul lido le caldaie di bronzo. Poi si rimettono in forze col cibo, stesi sull'erba si saziano di grassa carne e di vino vecchio. Spenta la fame e tolte le mense, parlano a lungo dei compagni perduti: incerti tra speranza e timore si chiedono ~e ritenerli vivi o morti, liiunti all'ultimo di tutti i mali, sordi a ogni loro richiamo. Il pio Enea piu degli altri piange in cuor suo la sorte del fiero Oronte, quella di Lico e Amico, e il forte Gia e il forte Cloanto.
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de fermissima nel proprio gra.ude destino. 236. Scilla: bellissima ninfa, innamorata di Glauco e trasformata dalla rivale Circe in un mostro con sei teste di cane, che insidiava i naviganti che entravano nello stretto di Messina e li divorava. 238. Ciclopi: giganti, figli di Urano e della Terra. Erano monocoli ed abitavano presso l'Etna. Famoso tra essi Polifemo, protagonista di uno degli episodi più drammatici dell'Odissea. 246. In mezzo ... : Enea è scosso e provato dalla prova recente: non conosce la sorte di dodici navi di compagni, non sa quale terra lo ospiti: trema pensando al domani ma si fa forza e soprattutto conforta i sopravvissuti, aprendo loro il cuore alla speranza. 253. le caldaie di bronzo: il poeta attribuisce ai Tro-
iani usi romani nel far cuocere la carne, mentre invece tutti i popoli antichi mangiavano le carni degli animali soltanto arrostite. 259. ultimo di tutti i mali: la morte paganamente in-
tesa.
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I lamenti cessavano quando Giove, guardando giù dall'alto del cielo il mare su cui volano le vele, i lidi, le basse terre, i popoli sparsi,
de e conoscenza »; per vincere la sorte avversa e conseguire il premio che i fati riserbano agli eletti. Non si
può essere progenitori della stirpe romana· senza dimostrare prima animo tempra· to a tutte le sventure e fe-
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GIOVE E VENERE (263-
297). - Intanto nell'alto dei cieli Venere, piangendo, si presenta a Giove e con lui si lamenta della nuova sventura che ha colpii<> il figlio e gli domanda se mai utJ gwrno potrà raggiungere l'Italia. Giove consola la figlia, la rassicura sulla sorte dei Troiani e predice in breve quello che. avverrà di Enea e dei suoi discendenti
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266. fissò gli occhi alla Libia: bella questa contempla-
zione di Giove, « aethere summo » dal suo altissimo trono celeste, che scorre con lo sguardo assorto il regno dei mortali. 268. «O tu ... »: la perorazione di Venere in favore del figlio è appassionata, ma anche abile e dialetticamente sottile. Accenna appena in primo luogo a Giunone ed al suo tenace rancore, ed insiste sulla promessa che il padre degli dèi le ha fatto di permettere ad Enea lo sbarco in Italia e la fondazione di un regno da cui discenderà la potenza di Roma. Perché dunque il figlio prediletto deve ancora affrontare tante prove?
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272. si chiude l'universo:
pare che nessuna terra li voglia ospitare. 282. fatiche: nel senso di travagli, traversie, dolori. 283. Antenore: di nobile famiglia troiana, parente di Priamo, accolse nella propria dimora Menelao ed Ulisse, quando vennero ambasciatori a Troia per trattare della restituzione di Elena. Fu sempre fautore della pace con i Greci, ma non venne ascoltato per cui, si dice, che favorl il rapimento del Palladio da parte di Ulisse e persuase i Greci ad introdurre il fatale cavallo entro le mura. Dopo la distruzione di Troia fuggl con alcune navi ed un gruppo di esuli navigò lungo le coste dell~ Dalmazia (Illiria) e dopo una lunga marcia nel paese dei Liburni, tra Dalmazia ed Istria, arrivò alle sorgenti del Timavo, erompenti da nove bocche del sottosuolo carsico, e si spinse sino al
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fissò gli occhi alla Libia. E Venere tristissima, soffusa di lagrime le pupille lucenti, gli disse: « O tu che reggi con eterno dominio le vicende divine ed umane, e atterrisci col fulmine i tuoi sudditi, dimmi che cosa han fatto contro di te il mio Enea ed i Teucri, pei quali dopo tante sciagure si chiude l'universo a causa dell'Italia? Certo, tu m'hai promesso che un giorno, dopo molto volgere d'anni, di qui, dal rinnovato sangue di Teucro avranno origine i potenti Romani, padroni assoluti di tutte le terre e dd mare; che cosa t'ha fatto cambiare parere? Ed io che mi consolavo della caduta di Troia e della sua rovina pensando allieto avvenire! Ma ora un'eguale sfortuna perseguita quei valorosi, spinti da tante disgrazie. Altissimo re, quale termine porrai alle loro fatiche? Antenore, scampato agli Achei, poté pure entrare nel golfo illirico, spingersi senza pericolo in territorio liburnico sin oltre le sorgenti del Timavo che simile a un mare impetuoso erompe dalla montagna per nove bocche, con alto frastuono, e inonda i campi di un'acqua risonante. Qui Antenore ha fondato Padova e stabilito una colonia troiana, dando il suo nome al popolo: qui ha appeso le armi d'Ilio, qui riposa tranquillo in una placida pace. Ma noi, che siamo tuo sangue, noi, ai quali prometti la reggia del cielo, perdute le navi (o sventura!) siamo lasciati a noi stessi e tenuti lontani dalle spiagge d'Italia per l'ira di una Dea. Questo sarebbe il premio della nostra pietà, il nostro nuovo regno? »
luogo ove oggi sorge Padova, da lui fondata, secondo la leggenda. 290. dando il suo nome al popolo: quello di Veneti,
che pare derivato da Eneti, popolo dell'Asia Minore che si unl ad Antenore nella fuga da Troia. 292. Ma noi, che siamo tuo sangue: la dea si associa
al figlio Enea ed ai Troiani
tutti di cui ha sposato la causa e la cui attuale sorte la riempie di mestizia c di sdegno appena contenuto. 296. l'ira di uw Dea: Virgilio dice « unius », quasi che Venere temesse di pronunciare il nome di Giunone. Ma l'accenno, anche se rapido, è incisivo e violento. 297. pietà; devozione verso gli dèi.
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Canto primo
La predizione della grandezza di Roma
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Il padre eli tutti, col riso con cui rasserena il cido e le tempeste, sfiorò d'un lieve bacio le labbra della figlia c le disse: « Non avere paura o Citerea, immutato è il destino dei tuoi. Tu vedrai la città e le mura promesse eli Lavinio, alzerai il magnanimo Enea sino alle stelle dd cido: non ho cambiato parere. L'eroe (te lo dirò, poiché sei preoccupata, svelandoti i segreti dd lontano futuro) combatterà in Italia una gran guerra, domando popoli fieri, darà alla sua gente leggi e salde mura, finché la terza estate l'avrà visto regnare sul Lazio, finché tre freddi inverni saranno trascorsi dal giorno della vittoria sui Rutuli. Ma Ascanio, che adesso si chiama anche Julo (era Ilo finché il trono d'Ilio durava), compirà nd volgere dei mesi trenta anni eli regno, trasferirà da Lavinio la capitale a Albalonga che fortificherà con potenti muraglie. Là per trecento anni governeranno gli Ettoridi fin quando la regale sacerdotessa Rea Silvia per opera eli Marte partorirà due gemelli. Allora Romolo, lieto eli cingersi i fianchi eli una pelle eli lupa (sua nutrice), riunendo la propria gente alzerà le mura sacre a Marte; chiamerà gli abitanti Romani, dal suo nome. Al loro dominio non pongo né limiti eli spazio né di tempo: ho promesso un impero infinito. LA PREDIZIONE DELLA GRANDEZZA DI RoMA (298-
3.56). - Enea prima o poi sbarcherà sulle spiagge del Lazio e vi fonderà Lavinio. Dopo di lui regnerà Ascanio, che costruirà Alba Longa. Qui si succederanno per tre secoli i suoi discendenti finché Romolo fonderà Roma. Da Romolo si giungerà ad Augusto, fondatore del grande impero che riunirà tutte le genti. Dopo la predizione,
Giov~ invia Mercurio a Cartagine per predisporre l'animo di Didone a ben accogliere i naufraghi. 301. Citerea: Citera (oggi Cerigo) era un'isola a sud del Peloponneso, nelle cui acque era nata Venere. 303. Lavinio: città che Enea fonderà nel Lazio e che cosl chiamerà in onore di Lavinia, sua seconda moglie.
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304. sino alle stelle del cielo: secondo la leggenda, Enea morl in guerra C!JI1ttQ. gli Etruschi e fu considerato dai Latini come un dio e adorato con il nome di Giove Indiget~ ·· 3II. vittoria sui Rutuli: sono qui enumerate in pochi versi le vicende belliche che saranno oggetto di canto degli ultimi sei libri del poema. Di tutti i popoli latini che Enea dovrà affrontare sono qui citati soltanto i Rutuli il cui re Dauno, con il figlio Turno, sarà il più fiero nemico dell'eroe. 312. As.canio: finché Troia esistette era stato chiamato Ilo, poi Julo, ora Ascanio. Da lui discenderà la gens I ulia, cui appartennero Cesare ·ed Augusto. 317. Là per trecento anni: il numero era sacro per i popoli antichi come lo fu per i cristiani. Enea regnerà tre anni, Ascanio trenta ed i suoi successori trecento. 3xli. Rea Silvia: chiamata da Virgilio Ilia, dunque di stirpe troiana, figlia di re Numitore, re di Alba. Ella era sacerdotessa di Vesta. 320. di cingersi i fianchi: secondo la leggenda Romolo, dopo la morte della lupa che gli era stata nutrice, ne vesti la pelle per gratitudine e ricordo perenne. 323. dal suo nome: Virgilio, come già Livio, fa discendere il nome di Roma dal fondatore. Invece forse è il contrario: ruma nell'antichissima lingua latina significava « fiume »; Roma « Città sul fiume » e Romolo « fanciullo del fiume ». 32,. un impero infinito: « imperium sine fine » non è un'affermazione retorica,
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ma la constatazione storica e la coscienza profonda della missione che Roma dovrà assolvere tra le genti non soltanto come « caput mundi », cioè faro di civiltà e magistero del diritto umano, ma come città cui il destino ha veramente riserbato nel corso dei secoli una funzione primaria come sede di un primo impero universale e poi di· un secondo con il Papato; In questo senso l'impero di Roma è stato e sarà veramente senza fine. 329. vestiti di toga: non solo coperti di ferro come guerrieri, ma togati, cioè uomini di stato, pensatori e legislatori, artefici veramente di civiltà. 331. casata d'Assaraco: i Romani discendenti dai Troiani, di cui fu re Assaraco. 331-332. Micene... Ftia... Argo: Micene, patria di Agamennone, Ftia di Achille, Argo di Diomede. Accenna alla conquista della Grecia da parte di Roma nel n secolo d. C., quasi a vendicare, dopo tanti secoli, la caduta e la distruzione di Troia. 333· Giulio Cesare: è Ottaviano, pronipote di Cesare che, alla morte dello zio, assassinato alle Idi di Marzo del 44 a. C., assunse il nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Più tardi gli fu riconosciuto pubblicamente il nome di Augusto, cioè sacro e sublime, con il quale passò poi alla storia come primo imperatore dei Romani. 335· la fama sino alle stelle: l'impero di Augusto abbraccerà quasi tutte le terre allora conosciute, circondate come si credeva dal grande fiume Oceano e la sua gloria
E la stessa crudde Giunone, che adesso
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sconvolge mare, terre e ciclo, muterà d'avviso in meglio e con me favorirà i Romani vestiti di toga, dominatori dd mondo. Un'epoca verrà, col volgere degli anni, in cui la casata d'Assaraco asservirà Micene e Ftia, dominerà vittoriosa su Argo. Da grande stirpe troiana nascerà Giulio Cesare (da Julo viene il suo nome) che spingerà i confmi dell'impero all'Oceano, la fama sino alle stelle. Un giorno tu, serena, riceverai in Olimpo il grande eroe, glorioso delle spoglie d'Oriente; anch'egli sarà Dio, venerato dagli uomini. Allora, cessate le guerre, il secolo feroce .mite diventerà; Vesta, la Fede canuta, Quirino e il fratello Remo d~ranno pacifiche leggi; le porte della Guerra saranno chiuse col ferro e con stretti legami; là dentro l'empio Furore seduto su un mucchio d'armi, le mani dietro la schiena legate con ceppi di bronzo, fremerà d'ira impotente digrignando terribile la bocca sanguinosa ». Disse e dall'alto del cielo mandò il figlio di Maia perché aprisse ai Troiani l'ospitalità della terra e delle mura recenti di Cartagine (a volte Didon.e, ignara dei Fati, non dovesse scacciarli! ).
farà sl ch'egli, dopo le splendide vittorie ottenute in Siria ed in Asia Minore nel 30 a. C., ancor vivo, sarà venerato in appositi templi come un dio. 340. mite diventerà: è la pace augustea; infatti dopo tanti secoli « le porte della guerra » del tempio di Giano si chiuderanno con « stretti legami » quasi a significare l'età d'oro della civiltà, raggiunta e mantenuta. 343· l'empio Furore: è il simbolo della discordia e della barbarie che impedisce agli uomini di stabilire leggi giuste ed osservate da tutti.
347. il figlio di M aia: Mercurio, messaggero di Giove ed in genere di tutti gli dèi. 350. ignara dei Fati: Didone avrebbe potuto mostrarsi ostile nei confronti degli stranieri, non conoscendo il volere del destino. C'è però contraddizione nei termini, perché Didone inconsapevolmente cercherà .di trattenere Enea presso di sé dopo essersene innamorata; prima non era, e con lei il suo popolo, certamente favorevole a concedere se non una brevissima ospitalità, timorosa che i nuovi arrivati insidiassero la sua nuova pa· tria.
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Canto primo
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Mercurio, volando per l'aria sulle rapide ali, arriva in un .momento alle spiagge di Libia. Subito esegue gli ordini, e per sua volontà i Fenici depongono ogni umore malvagio; Didone piu di ogni altro assume sentimenti pacifici e benevoli per gli esuli troiani.
L'incontro tra Venere ed Enea
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Intanto Enea, che aveva trascorso l'intera notte meditando il da farsi, appena nata la luce decise di esplorare quei luoghi ignoti, cercando su quali coste il vento l'abbia costretto a approdare, se vi abitino uomini oppure solo fiere (poiché le vede incolte), e riferire ai compagni. Nasconde la sua flotta in un'insenatura boscosa, sotto una rupe concava, in modo che gli alberi le proiettino intorno un'ombra densissima; poi s'inoltra nei campi in compagnia di Acate brandendo due giavellotti dalla punta di ferro. In mezzo a un bosco gli venne incontro Citerea in veste di fanciulla, armata come una vergine di Sparta, somigliante alla tracia Arpàlice quando stanca i cavalli superando alla corsa )'alato Euro. Teneva, come usano i cacciatori, attaccato alle spalle un arco maneggevole, sciolti al vento i capelli e nude le ginocchia, i lembi della veste legati con un nodo. « Giovani - disse per prima - avete forse visto passare di qui qualcuna delle mie sorelle, armata di faretra, vestita di una pelle macchiettata di lince, e inseguire gridando la fuga di un cinghiale dalla bocca schiumosa? » Ed il figlio: « Non ho né visto né sentito le tue sorelle, o vergine. Che nome devo darti? n tuo volto non è mortale, la tua voce ha un suono piu che umano. Creatura divina, sei DiJna o una Ninfa? Assistici, chiunque tu sia, ed allevia il nostro affanno doloroso; spiegaci finalmente in quale punto del mondo siamo stati gettati, sotto che ciclo: erriamo sbattuti qua e là dal vento e dagli immensi flutti,
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L'INCONTRO TllA VENERE ED ENEA (357-483). - Dopo
un sonno agitato, all'alba Enea e il fido Acate partono per una nuova esplortl%ione. In un bosco incontrano, sotto le sembianze di una vergine cacciatrice, V enere eh:! li informa di Didone e del suo popolo e delle vicende che hanno spinto in questa te"a la regina dei Tiri. Enea na"a a sua volta le proprie tristi vicende e ne è dalla madre consolato. Liz dea poi scompare q1sì com'era apparsa, ma prima avvolge il figlio in una nube, perché possa, non visto, entrare in Cartagine. 369-370. una vergine di Sparta: la madre appare al figlio nelle vesti di cacciatrice, simile ad una fanciulla spartana, cioè allenata virilmente a portare le armi e ad affrontare i pericoli della caccia. - Arpalice: figlio del re tracio Arpalico, famoso per l'abilità nella caccia ed in genere negli esercizi bellici. 372. l'alato Euro: vento dell'aurora che spira da oriente. 378. faretra: astuccio che conteneva le frecce. 38r. Ed il figlio: l'incontro tra madre e figlio, le loro parole, la descrizione fresca e vivace della dea ci richiamano alla mente l'episodio dell'Odissea del canto VI che ha per protagonisti Ulisse e Nausicaa. Omero, per la verità, era riuscito a ·dare naturalezza e veridicità al racconto, mentre qui Virgilio è alquanto più forzato, anche se letterariamente più squisito e raffinato. 384. Creatura divina: Enea intuisce che la vergine
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Canto primo
cacciatrice che gli è apparsa d'improvviso ha in sé qualcosa di soprannaturale e che si trova innanzi ad una dea. Di qui il suo confidarsi spontaneo e la richiesta di aiuto con la promessa di sacrifici futuri su altari divini. 393· Non mi considero ... : Venere continua nella finzione perché non ritiene ancora giunto il momento di farsi riconoscere. 395· alte uose purpuree: alti calzari di cuoio usati dai cacciatori per difendersi dai rovi e dagli spini e per poter camminare con sicurezza in luoghi accidentati. 396. Agenore: Agenore, figlio di Belo e padre di Fenice, che dette il suo nome al popolo che governò, fu avo di Didone e di Pigmalione, fondatore di Didone e di Tiro, città dalla quale erano fuggiti i costruttori di
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Cartagine. 397· Libi, indomabili in
guerra: accenna a tutti quei popoli, come i Numidi, i Getuli ed altri che abitavano la fascia costiera mediterranea che va dall'attuale Marocco all'Egitto. 399· Lunga a na"are ... : il sintetico «per sommi capi», racconto delle avventure di Didone, ha in sé tutti glielementi di certo romanzo avventuroso moderno ed anche il pathos tragico ed insieme elegiaco di un dramma scespiriano. I personaggi, Sicheo il buono e l'amato, Pigmalione l'avaro assetato d'oro e di potere, Didone l'amante addolorata ma forte e decisa, sono sbozzati con pochi tratti efficaci; non mancano anche i congiurati, odiatori dei tiranni ed amanti della libertà.
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senza sapere nulla del luogo e dei suoi abitanti. Te ne saremo grati, e un giorno per mano nostra cadranno molte vittime davanti ai tuoi altari! » « Non mi considero degna di tali onori - rispose Venere. - Noi fanciulle di Tiro usiamo portare la faretra e calzare alte uose purpuree. Questo è un regno fenicio, una città di Agenore sorta in terra dci Libi razza indomabile in guerra. Ne è regina Didone, partita un giorno da Tiro fuggendo suo fre.tello. Lunga a narrare è l'ingiuria da lei patita, lunghe le sue peripezie; te le racconterò per sommi capi. Sicheo il piu ricco di terra di tutti i Fenici, era suo sposo amatissimo. Regnava su Sidone il fratello di lei Pigmalione, malvagio piu di chiunque. Ci fu una lite tra i due. L'atroce tiranno, accecato dalla brama dell'oro, sorprese Sicheo e lo trafisse. davanti agli altari senza curarsi del grande amore di sua sorella. Per molto tempo celò il delitto ingannando con vane speranze l'amante addolorata. Ma in sogno la misera vide l'immagine del marito insepolto: levando l il viso pallidissimo le mostrò gli empi altari e il petto squarciato dal ferro, le rivelò il segreto delitto familiare. Poi la persuase a fuggire, a lasciare la patria; per facilitarle il viaggio le indicò antichi tesori nascosti sottoterra, una ricchezza ignorata d'oro e d'argento: Didone, scossa da tali notizie, si preparò alla fuga, scegliendo compagni fidati tra quelli che temevano o odiavano il tiranno. I congiurati assalirono navi già pronte a salpare caricandole d'oro: i bene dell'avaro tiranno sono rapiti per mare, ed una donna è a capo dell'impresa. Poi giunsero nei luoghi dove adesso vedrai innalzarsi le mura gigantesche e la rocca della nuova Cartagine. Comprarono tanta -terra quanto una pelle di toro
427. una pelle di toro: Si narrava che Didone, sbarcata in Africa, dopo l'avventurosa fuga, chiedesse a Jar-
ba, re dei Getuli, di venderle un tratto di territorio per potervi fondare una città. J arba le concesse in modo
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potesse circondarne. Per questo la città ha pure il nome di Birsa. Ma ditemi, voi chi siete? Da che paese venite? Dove pensate di andare? » Con un profondo sospiro Enea rispose: «O Dea, se risalissi all'origine delle nostre disgrazie e tu volessi ascoltare la storia dei nostri travagli, prima di aver finito si chiuderebbe il cielo ed Espero porrebbe fine alla luce del giorno. Una tempesta ci ha spinto alle spiagge di Libia dopo un lungo errare per mari diversi, partiti dall'antica Troia (se mai il nome di Troia venne alle vostre orecchie). Io sono il pio Enea famoso sino alle stelle, porto con me sulla flotta i Lari scampati al nemico. Cerco l'Italia, culla della mia stirpe discesa da Giove. Seguendo la sorte m'imbarcai su mar frigio con venti navi: Venere m'insegnava il cammino. Me ne restano sette soltanto, sconquassate dal vento e dalle onde, e ignoto a tutti, mendico, cacciato dall'Europa e dall'Asia percorro i deserti di Libia ». Venere non sopportò di vederlo piu oltre lamentarsi e cosi lo interruppe, nel mezzo del suo dolore: « Chiunque tu sia, non ti credo odioso ai Celesti, dato che sei venuto alla città dei Tiri. Continua il tuo cammino e recati al palazzo della regina. Predico - se i genitori non m'hanno insegnato per nulla l'arte degli indovini - che i tuoi compagni son salvi e la flotta è al sicuro, spinta in luogo tranquillo dal mutare dei venti. Guarda la schiera festosa offensivo tanto terreno quanto potesse essere recinto da una pelle di toro. Ma Didone, scaltra ed avveduta, fece tagliare in sottilissime strisce una grande pelle, le legò insieme ed ottenne una lunga corda con la quale misurò un terreno abbastanza vasto per potervi costruire una città fortezza. · 429. Birsa: vocabolo di origine greca che significa pelle di bue.
431. O Dea... : alla finzione di Venere, Enea oppone la sua sicurezza di trovarsi innanzi ad una divinità sotto false spoglie. 435· ed Espero ... : non basterebbe l'intera giornata. Espero è la stella più brillante che appare sul far della sera. 439· lo sono il pio Enea:
dice il Saint-Beuve a questo proposito: «Egli si copre innanzi tutto della sua pietà e dei suoi dèi come di un ti-
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tolo all'ospitalità, alla benevolenza degli uomini; e s'egli parla cosl apertamente della sua fama, come del resto fanno tutti gli eroi antichi (si veda Ulisse nel IX dell'Odissea), non si tratta di orgoglio, ma di tristezza: egli infatti non è conosciuto al mondo che per le disgrazie della sua patria e delle proprie disavventure. Il carattere religioso e sottomesso di Enea, che non fa un passo senza i Destini e gli oracoli, senza le debite cerimonie, si dichiara qui nelle sue parole con unzione e anche con comprensione. Per rendergli piena giustizia, immaginiamoci un perfetto eroe cristiano del Medioevo». 441. i Lari: dèi domestici
della casa, cioè le anime degli illustri antenati che proteggevano i membri della famiglia. Erano generalmente rappresentati con figure di un cane, perché appunto dovevano proteggere la casa. 442· discesa da Giove: E-
nea discende per li rami da Dardano, che fu figlio di Giove ed Elettra. 443· su mar frigio: il mare antistante l'Asia Minore ed in particolare la Troade. 446. mendico: costretto a mendicare ospitalità. 450. men ti credo odioso ai celesti: infatti se gli dèi
ed in particolare Giove, fos· sero' stati avversi non l'avrebbero fatto approdare nelle vicinanze di una città ospitale ma su rive veramente deserte. 455· l'arte degli indovini:
cioè quella, fra le altre, di interpretare il volo dei dodici cigni che si vedono volare in cielo.
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Canto primo
468-47r. Disse ... nell'incedere: dopo aver rassicurato e rincuorato il figlio, Vene-
re, cosi com'era improvvisamente apparsa, scompare, ma qualche attimo prima rivela la sua vera identità non tanto dallo splendore del collo e dai capelli odorosi d'ambrosia, quanto dal regale incedere: « et vera incessu pa-
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tuit dea». 477· d'aria opaca: di una fitta nebbia. Lo stesso espe-
diente aveva usato Minerva per celare Ulisse agli occhi dei Feaci, mentre si recava alla reggia di Alcinoo (Odiscea, canto V~I). 480. Pafo: nell'isola di Cipro, ove sorgeva uno splendido tempio a lei dedicato, per cui spesso viene chiamata Ciprigna.
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CARTAGINE (484-574). -
Alta su un colle, appare agli occhi di Enea ed Acate la nuova città, i cui cittadini appaiono intenti a completarne la struttura. L'eroe li invidia, perché essi, profughi come lui, hanno ormai una patria ed una casa. Entra in città ed ammira subito il maestoso tempio, eretto in onore di Giunone, nel cui interno, sulle pareti, sono raffigurati in grandi dipinti le scene salienti della guerra di Troia. 488. il lastrico delle vie:
le vie lastricate di pietre. 489. I Tiri ... : bellissima la descrizione della gente tiria che con fervore intende a costruire la nuova città con una distribuzione del lavoro calcolata, per cui nulla è lascito al caso, ma tutto obbedisce, diremo noi moderni,
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di quei dodici cigni, che l'aquila di Giove calando dall'alto dd cielo aveva disperso per l'aria: ora si vedono, in fila lunga, o scegliere il luogo dove posarsi o scrutare il luogo già scdto. Come quei cigni scherzano battendo le ali gioiosamente e volano in circolo, cantando, cosi le tue navi e i compagni o sono già fermi in porto o vi entrano a vele spiegate. Va' dunque avanti [tranquillo, dirigi pure i tuoi passi dove la strada ti porta! » Disse, e volgendosi indietro rivelò lo splendore del [collo, i suoi capelli odorosi d'ambrosia spirarono un profumo divino, la veste le discese fluente sino ai piedi: si rivelò vera Dea nell'incedere. Enea riconobbe la madre vedendola andar via e le disse: « Crudele anche tu, perché inganni continuamente il figlio con mentite semhianze? Perché non posso stringerti la mano, sentirti parlare, risponderti a viso aperto? » Cosi dicendo si mosse verso le mura lontane. Venere cinse i viandanti d'aria opaca, li avvolse d'un fitto velo di nebbia perché nessuno potesse vederli o toccarli o fermarli o chiedere le ragioni del loro arrivo. Quindi la Dea volò sino a Pafo, rivide lieta quel luogo diletto dove sorge in suo onore un gran tempio, e dove cento altari profumati di fresche ghirlande bruciano incenso.
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Enea ed Acate intanto aflrettavano il passo lungo il sentiero. E già erano in cima a un colle sovrastante Cartagine, dirimpetto alla rocca che sorg~ un po' piu in basso. Enea ammira i palazzi (un tempo capanne), le porte, il lastrico delle vie. I Tiri pieni d'ardore lavorano con gran chiasso:
ad un piano regolatore. Infatti ci sono le opere pubbliche e quelle private, le militari e le civili, quelle commerciali e le altre destptate al culto. Il paragone
che segue dell'alveare, riportato per intero dalle Georgiche (canto IV), in cùi ogni ape svolge un preciso e determinato compito, è assai calzante ed immediato.
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alcuni elevano mura, costruiscono la rocca e rotolano macigni con le mani, altri scelgono il luogo dove alzare la propria casa e intorno vi disegnano un solco, altri eleggono i giudici, le cariche pubbliche e il sacro senato; alcuni scavano un porto, altri in profondità gettano le fondamenta d'un teatro o ricavano da blocchi di pietra colonne smisurate, altissimi ornamenti della futura scena. Cosi turbinano le api al principio d'estate per la campagna fiorita, sotto il sole, in un fitto ronzio, quando portano all'aria le nuove covate o condensano il liquido miele o riempiono le celle dei favi di nettare dolce o accolgono il bottino recato da altre operaie, o quando - serrate le file scacciano dagli alveari la razza inetta dei fuchi: ferve il lavoro, fragrante il miele profuma di timo. «O fortunati coloro le cui mura già sorgono! » esclama Enea, guardando i tetti della città. Mirabilmente nascosto dalla nebbia, s'avanza in mezzo alla folla e nessuno riesce a vederlo. Al centro della città sorgeva un bosco sacro ricchissimo d'ombra: qui un tempo i Fenici, sbattuti sulla costa dalle onde e dal turbine, avevano trovato sottoterra il segnale predetto da Giunone, il teschio d'un focoso tavallo (certo augurio che il nuovo popolo un giorno sarebbe forte in guerra e prospero per secoli). Didone vi aveva eretto un gran tempio a· Giunone ricco di molti tesori e della presenza divina: aveva soglie di bronzo e stipiti di bronzo, grandi porte di bronzo giravano sui cardini. Enea vide una cosa che per la prima volta calmò le sue paure, lo indusse all'ottimismo, lo convinse a sperare. Mentre esamina il tempio. minutamente, aspettando che arrivi la regina, ammira la fortuna della città e considera come ferva il lavoro, ecco che lo colpisce una serie di affreschi raffiguranti la guerra di Troia, già famosa in tutto il mondo: vede gli Atridi, Priamo e Achille nemico agli uni e all'altro.
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490. la rocca: era la prima costruzione alla quale si doveva pensare per la sicurezza della futura città e per l'immediata sua difesa da eventuali attacchi nemici. 493· un solco: cioè il tracciato lungo il quale dovevano sorgere le mura perimemetrali. 494· sacro recinto: sacro perché rappresentava la sacralità dello stato ed era depositario delle leggi. 496. teatro: non bisogna stupire se tra le prime costruzioni ci sia anche il teatro, che nell'antichità era una delle manifestazioni collettive più celebrate e più significative per quanto riguardava il costume e la civiltà di un popolo. 498. futura scena: la scena era fissa e rappresentava generalmente una piazza sulla quale si affacciavano edifici pubblici o privati. 503. nettare: è l'elemento principale succhiato dalle api per la produzione del miele. 505. i' fuchi: i maschi inoperosi e famelici. 506. timo: pianta silvestre profumata e ricercata per condire certe vivande. 507. {) fortunati ... : vien naturale ad Enea l'esclamazione che non è dettata da invidia, ma da un'accorata constatazione del proprio stato e di quello dei suoi compagni, ben lontani ancora dal fondare la loro futw;a città nella nuova patria latina. . i17. forte in guerra e prospero: infatti sulle monete cartaginesi era raffigurato un cavallo.
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Canto primo
535· le lagrime: « sunt laAllora si fermò piangendo e disse: «O Acate, aimae rerum et mentem esiste sulla terra un luogo che non sia colmo mortalia tangunt » è un esadella nostra disgrazia? Ecco Priamo! Anche qui metro famoso con il quale Virgilio, da gran poeta qual si loda il merito, ci sono lagrime per le sventure, è, esprime in modo tacitia535 le lagrime che intridono tutte le cose del mondo, no lo stato d'animo del proe i travagli degli uomini toccano i cuori. Deponi tagonista, che ondeggia tra ogni residuo timore: siamo famosi, e questo la tristezza delle cose passarà la nostra salvezza ». Cosi dicendo riempiva sate e la speranza in quelle presenti e venture. l'anima di vuote immagini, il volto rigato di pianto. 539· vuote immagini: le 540 Vedeva ·da una parte i Greci sotto Troia scene pittoriche che rapprefuggire incalzati dai giovani Troiani, sentavano una tragica storia dall'altra vedeva i Frigi inseguiti da Achille un tempo ed ora soltanto ricordata nei suoi personaggi montato sul cocchio, con l'elmo crestato. principali e nelle sue scene Piu in là riconosceva piangendo le tende culminanti. bianche come la neve di Reso, e Diomede 545· Reso: Reso, re della 545 Tracia, venuto in soccorso tutto pieno di sangue che, avendole assalite di Troia, ebbe nottetempo a tradimento nel primo sonno, portava gli ardenti l'accampamento devastato da cavalli al suo accampamento prima ancora che avessero Ulisse e Diomede. gustato l'erba di Troia, bevuto l'acqua del Xanto. 547. gli ardenti cavalli: gli oracoli avevano garantito 550 Da un'altra parte Troilo, misero giovinetto che Troia non sarebbe stata di forze troppo ineguali, venuto a battaglia presa se i magnifici cavalli di con Achille, perdute le armi, era portato Reso avessero bevuto l'acdai suoi cavalli in fuga e pendeva dal vuoto qua dello Scamandro (qui chiamato Xanto) o pascolato carro, supino, tenendo ancora in mano le redini; l'erba delle sue sponde. Per 555 la testa e i capelli che strisciavano in terra, questo erano stati rapiti dai la ]ancia capovolta che rigava la polvere. due grandi eroi greci nella Intanto le donne troiane con le chiome disciolte spedizione notturna. 550. TrrJ,ilo: il più giovine si recavano al tempio della nemica Pallade dei figli di Priamo che ebbe e tristi, supplichevoli, percuotendosi il petto l'ardire di affrontare Achille con le mani, le offrivano un manto prezioso: in singolar tenzone, rimanen- 560 la Dea volgeva la testa, gli occhi chinati a terra. do ucciso. 550. un manto prezioso: Achille dopo avere trascinato tre· volte era usanza antica cercar di Ettore attorno alle mura di Troia, ne vendeva placare l'ira divina offrendo a peso d'oro il povero corpo esanime. Enea alla divinità offesa un ricco dono, in questo caso un pe- 565 quando vide le spoglie dell'amico, il suo carro, plo di prezioso tessuto. il suo cadavere e Priamo che tendeva le mani 561. la Dea... : un chiaro inermi, emise un gemito dal profondo del petto. segno di rifiuto sdegnoso. Poi riconobbe se stesso nel pieno della zuffa 570. Memnone: secondo con i principi achei, e le schiere orientali, Esiodo era figlio di Titone e dell'Aurora. Prese parte alla guerra troiana e cadde morte "la madre e le sue la- statua che lo raffigura, dia sotto la spada di Achille. grime si mutano in rugiada. un suono dolcissimo all'apPiange ogni giorno la sua La leggenda narra che la parire dell'alba.
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Canto primo 570
le armi dd nero Memnone. Pentesilea furiosa guidava le sue Amazzoni dagli scudi lunari: la vergine guerriera - una cintura d'oro sotto il seno scoperto - ardeva nella mischia ed osava combattere coi guerrieri piu prodi.
L'incontro con Didone 575
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Mentre il dardanio Enea osserva queste scene mirabili e stupisce, assorto in contemplazione, la regina Didone, splendida di bellezza, avanza verso il tempio tra una schiera di giovani. Come Diana guida le danze sulle rive ddl'Eurota o sui gioghi dd Cinto e mille Oreadi le si addensano intorno seguendola (la Dea avanza, la faretra sull'omero, piu alta di tutte le altre Ninfe, e Latona ne gode nel segreto dd cuore): cosi Didone, lieta, camminava tra i suoi, sollecita dei lavori e dd regno che sorge. Poi prese posto su un trono proprio in mezzo al santuario, davanti alla cella della Dea, circondata dal suo corpo di guardia. La regina sedeva in giudizio, rendeva giustizia e assegnava equamente i lavori da compiersi, quando Enea d'improvviso vide giungere in me?.zo a una gran folla Anteo, Sergesto; il forte Ooanto ed altri Troiani che la nera tempesta aveva disperso pel mare e aveva gettato lontano, su spiagge diverse. Stupirono ad un tempo lui e Acate, perplessi tra la gioia e il timore: bruciano dalla voglia di stringere loro le mani, ma il non sapere come andranno le cose li turba. Stanno quieti, avvolti dalla nube, a aspettare che sorte toccherà ai loro compagni, a sentire in qual lido abbian lasciato la flotta, perché siano venuti - uomini scelti da tutte le navi - a implorare pietà, .570. Pentesilea: figlia di Marte e regina del popolo guerriero femminile · delle Amazzoni. Anch'ella fu uc· eisa da Achille.
L'INCONTRO
CON
DIDONE
Mentre Enea contempla ammirato e commosso gli affreschi, ecco entrare nel tempio Didone con (57.5-887). -
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il suo seguito. Assisa sul trono, la regina si appresta alle udienze, quando con grande clamore di popolo viene condotto al suo cospetto un gruppetto di Troiani, che Enea riconosce tra quelli ch'egli credeva morti durante la tempesta. Parla di loro il più saggio, Ilionèo, che chiede ospitali/~. Didone lo rassicura sulla sorte loro. In quell'istante, dissoltaSi la nube che lo teneva celato, Enea appare a tutti, splendido di forza e di bellezza. Saluta i compagni disperu, e si rivolge alla regina con parole di ringraziamento. Ella invita tutti a palazzo ad uno splendido convito. Enea vi partecipa con i suoi e con il figlioletto Ascanio, al quale Venere sostituisce il dio dell'amore, Cupido, che accende il cuore di Didone di una irresistibile passione per l'eroe troiano. Dopo la rituale libagione, Didone invita Enea a narrare la sua storia dalla caduta di Troia all'approdo sulle coste libiche .580. Eurota: fiume che bagna Sparta, città nella quale Diana era particolarmente onorata. - Cinto: monte dell'isola di Delo, aJle pendici del quale era nata la dea. - Oreadi: ninfe mon· tane che seguivano Diana durante la caccia. .583. Latona ne gode: come tutte le madri, Latona contempla compiaciuta la sua fiera e bellissima figlia. 592-593. Anteo ... Sergesto, Cloanto: alcuni fidi e valorosi compagni che credeva dispersi nella tempesta.
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Canto primo
604. tra i gridi della folla:
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gridi non certamente benevoli, perché la sventura e le traversie avevano reso i Cartaginesi diffidenti ed ostili verso gente sconosciuta. 6o6. Ilioneo: è il più di- 610 plomatico, colui che tra gli esuli possiede il dono della parola fluente e suasiva. . 609. superbe... miseri... : nota l'efficace contrapposizione dei due aggettivi. I Cartaginesi hanno ripreso or- 61S mai forza e fiducia in se stessi, i Troiani invece sono ancora prostrati dalle recenti disavventure e dubbiosi del loro futuro. 618. Esperia: i Greci chia- 620 mavano cosi l'Italia perché posta ad occidente (Espero). 620. Enotri: popolo che abitava la parte sud occidentale della nostra penisola. 62S 623. Orione: la costellazione di Orione portava le tempeste autunnali. 629. Un barbaro costume: Ilioneo è abilissimo con queste parole nell'appel- 630 larsi alla coscienza civile dei Cartaginesi, oltreché alla loro pietà di uomini devoti alla divinità. 633. il bene ed il male: è la legge della nemesi sto- 63S rica oppure del contrappasso, per la quale in vita e soprattutto in morte si è puniti o premiati a seconda delle azioni nei confronti dei propri simili. 640 638. non abbiamo paura di nulla: da queste parole arguiamo come Enea sia veramente il capo della sua gente; non tanto·. temuto, quanto amato e rispettato per le doti dell'animo e della 64S mente.
dirigendosi al tempio tra i gridi della folla. Quando furono entrati ed ebbero il permesso di parlare a Didone, Ilioneo, il più autorevole, cominciò a dire con calma: « O regina, cui Giove ha concesso fondare una nuova città e reggere superbe popolazioni, noi miseri Teucri, sbattuti dai venti per ogni mare, veniamo a supplicarti: vieta che si dia fuoco alle navi, risparmia un popolo pio, esamina il nostro caso con attenzione e pietà. Noi non siamo venuti a devastare con le armi i Penati dei Libi, né a rapirvi la roba, fuggendo poi in mare come pirati: non siamo cosJ crudeli, né tanta protervia si addice a un popolo vinto. Si stende sulle acque una terra che i Greci chiamano potente nelle armi, dal suolo fertilissimo; [Esperia, un tempo la abitarono gli Enotri, e si dice che i loro discendenti l'abbian chiamata Italia dal nome di un loro re. Era la nostra meta ... Quando a un tratto Orione impetuoso, sorgendo dai flutti, ci cacciò su bassifondi nascosti e scatenando i venti ci disperse lontano, vinti dal mare, per onde e scogli inaccessibili: siamo approdati in pochi alla vostra riviera. Ma che gente è la tua? Che barbaro costume ci impedisce di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia? Perché farci guerra? Se avete in poco conto il genere umano e le armi degli uomini, temete almeno gli Dei che ricordano e giudicano il bene e il male. Enea, l'uomo piu giusto, pietoso, prode di tutti i mortali, è il nostro re. Se i Fati ancora lo serbano in vita, se respira, se ancora non riposa tra le ombre crudeli della morte, non abbiamo paura di nulla; né dovrai certo pentirti d'aver gareggiato con lui in cortesia. Vi sono città ed armi troiane anche al paese dei Siculi, dove regna l'illustre Aceste di sangue dardanio. Lasciaci trarre a riva la flotta sconquassata dai venti aggiustarla con travi tagliate dalle selve, fabbricarci dei remi; per poi salpare lieti verso l'Italia e il Lazio, se ci sarà concesso - trovati il re e i compagni - di andare verso l'Italia. Se non c'è piu salvezza, se il mare della Libia
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t'ha inghiottito o pio Enea, ottimo padre dei Teucri, se è perito anche Julo nostra futura speranza, andremo almeno in Sicilia, alle sedi ospitali da dove siamo partiti, rivedremo il re Aceste! » Cosf diceva Ilioneo e tutti i Troiani mormorando approvavano ... Allora Didone, abbassati gli occhi a terra, rispose: « Non abbiate paura, bandite gli affanni dal cuore. La dura necessità, i rischi che corre lo Stato troppo recente e ancora poco solido, m'obbligano a usare tali cautele, difendendo i confini dovunque c<m corpi di guardia. Chi non conosce la degli Eneadi, Troia, il valore, gli eroi, [stirpe l'incendio che pose fine a cosi grande guerra? Non sono duri gli animi dei Tiri, il Sole aggioga i suoi cavalli abbastanza vicino alla mia città da infondere il calore della pietà nei cuori dei miei sudditi e in me. Vi lascerò partire sicuri, vi aiuterò con ogni mezzo, tanto che vogliate cercare la grande Esperia e le terre sacre a Saturno, quanto vogliate dirigervi ai lidi d'Erice, dal re Aceste. Se poi volete fermarvi nd mio regno, sappiate che questa nuova città è vostra: tirate a secco le navi, non farò nessuna differenza tra Punici e Troiani. Volesse il cielo che Enea fosse qui, trascinato dal medesimo vento! Comunque manderò persone fidate a frugare le coste, e ordinerò di esplorare tutta quanta la Libia, per vedere se fosse riuscito a prendere terra e magari stia errando per qualche bosco o città ». Rassicurati, il pio Enea e il forte Acate da tempo bruciavano dal desiderio di squarciare la nube. E Acate disse a Enea: «O figlio di Venere, che cosa pensi di fare? Tutto va bene, lo vedi: la flotta e i compagni son stati ritrovati. Manca soltanto Oronte, che abbiamo visto noi stessi sommerso dalle onde feroci: tutto il resto risponde fedelmente ai detti di tua madre ». Aveva appena parlato quando la fitta nebbia che li chiudeva si sciolse d'improvviso e disparve nell'aria libera. Enea splendette nella chiara
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661. il Sole agj,ioga... : ritenevano gli antichi che le popolazioni nordiche fossero barbare e feroci perché poco illuminate e riscaldate dal Sole, datore di vita e alimentatore dei più nobili
sentimenti.
666-667. le terre sacre a Saturno: sono quelle del Lazio, ove Saturno si rifugiò, quando venne cacciato dal figlio Giove. 668. Erice: mitico re della Sicilia, ucciso da Ercole. 670. è vostra: l'ospitalità accordata da Didone ai naufraghi è pronta e generosa e ci fa conoscere subito l'animo squisito della regina. 672. fosse qui: il nome dell'eroe, cosl come le vicende della lunga guerra troiana, dovevano essere note a tutti i popoli del Mediterraneo. Non ci stupisce perciò l'augurio spontaneo di Didone di aver presto ospite Enea, personaggio illustre e figlio di una dea. 679- di squarciare la nube: che presto la nube che li celava a tu t ti si dissolvesse. Ma ciò doveva avvenire per intervento di Venere. 68.5. risponde fedelmente: l'aver constatato la verità di quanto era · stato loro predetto, toglie ogni dubbio che ancora potesse rimanere sulla vera identità della bella fanciulla cacciatrice.
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Canto primo
690. la stessa Venere: come una madre amorosa, la dea wole che il figliolo appaia ai Cartaginesi ed alla loro regina nel pieno fulgore della bellezza e della prestanza e renda con il magico intervento più appariscente e la sua splendida figura. 695. marmo pario: estratto dalle .cave dell'isola di Paro, famoso per il suo nitore. La similitudine è breve, ma molto appropriata. 698. Ecco il troiano Enea: l'apparizione dell'eroe è alquanto melodtammatica; il suo discorso invece, a parte l'esordio, si riattacca con abilità a quello di Ilioneo, continuandolo con ben altro impeto di sentimento, con tutto il prestigio che gli viene dall'essere un eroe famoso e con l'aureola di un uomo sventurato e perseguitato. La conclusione non è gratuitamente laudatotia o cortigianesca, ma dettata dall'ammirazione spontanea sia della bellezza sia soprattutto della squisitezza d'animo eli Didone. 725. Simoenta: altro fiume che scorreva presso Troia; il primo, già citato, era lo Scamandro. 725. Teucro: filio di Telamone, re di Salamina, fu cacciato dal padte al ritorno da Troia, perché non aveva riportato le ossa del fratello Aiace. Si rifugiò allora presso Belo, padte di Didone, e ne ebbe aiuti per conquistare Cipro, ove fondò un regno. 73'?· ~elasgi: !n luogo di Achex; 1 pelasg~. erano gli antichissimi abitatori della
Grecia.
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luce simile a un Dio, bellissimo di viso e di corporatura; poiché la stessa Venere col suo soffio divino aveva dato al figlio una chioma stupenda e la purpurea luce di giovinezza ed occhi soavemente brillanti. Cosf l'artista aggiunge splendore al chiaro avorio, cosf l'oro abbellisce l'argento o il marmo pario. Allora parla a Didone davanti alla folla stupita dalla sua apparizione inaspettata, e dice: « Ecco il troiano Enea che cercate, scampato alle onde della Libia. O regina, che sola hai avuto pietà dei travagli indicibili di Troia, e che ci accogli da amici in casa tua scampati dai Greci, esausti da tante fatiche di terra e. di mare, bisognosi di tutto: non siamo in grado di renderti ringraziamenti degni, né noi né quanto resta ddla gente troiana sparsa un poco dovunque, per tutto il vasto mondo. Ti ricompenseranno gli Dei, se un qualche Nume ha riguardo dei buoni, se esiste la giustizia e la coscienza del bene. Che secolo felice ti produsse? Che nobili genitori ti fecero, o gentile? Finché i fiumi correranno al mare, finché le ombre percorreranno i fianchi delle montagne, finché il cielo nutrirà le vive stelle: in me, dovunque il destino mi chiami dureranno il tuo nome, la tua grazia e i tuoi meriti! ,. Ciò detto tese la destra a Ilioneo, la sinistra a Seresto e man mano salutò tutti gli altri, il valoroso Gia ed il forte Cloanto. La sidonia Didone stupf prima a vederlo poi a sentirlo narrare le sue sventure, e disse: « Figlio di Dea, quale sorte ti perseguita in mezzo a cosi grandi pericoli? Quale forza ti spinge a spiagge barbare? Tu sei quell'Enea che Venere generò ad Anchise presso l'onda del frigio Simoenta? Ricordo che Teucro, il fratello di Ajace, venne un giorno a Sidone, scacciato dalla patria, cercando un nuovo regno con l'aiuto di Belo mio padre, il quale allora saccheggiava la ricca Cipro e ne era signore. Da quel giorno so tutto della rovina di Troia, di te e dei re pelasgi.
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Benché ostile ai Troiani, Teucro assai li lodava e si diceva nato dalla stirpe dei Teucri. Venite dunque, o giovani, entrate a casa mia. Un'identica sorte volle che anch'io, sbattuta in mezzo a molti travagli, giungessi finalmente a questa cara terra. Non ignoro il dolore, per questo ho imparato a aiutare chi soffre ,., Cosi dicendo guida Enea al palazzo reale e ordina sacrifici nei templi dei Celesti. Poi manda ai Troiani rimasti sulle navi venti tori, con cento maiali setolosi e cento agnelli grassi e cento pecore, doni destinati a far festa quel giorno ... Intanto la splendida reggia viene addobbata all'in[terno con lusso davvero regale. Il banchetto è allestito in una sala centrale: si stendono tappeti intessuti con arte di magnifica porpora, si pone sulle tavole vasellame d'argento di gran peso, che reca- cesellate nell'orole grandi imprese dei padri, lunghissima serie d'eventi condotta per tanti e tanti eroi dall'origine prima di quell'antica stirpe. Poiché l'amore paterno lo travagliava, Enea manda Acate alle navi a recare notizie ad Ascanio e condurlo con sé alla città: ogni preoccupazione del tenero padre è per lui. Poi ordina che si portino alla regina doni scampati alla rovina di Troia: un mantello pesante di ricami e d'oro, un velo orlato di gialle foglie d'acanto, belle cose che Elena aveva preso con sé fuggendo da Micene per raggiungere Pergamo e l'amore proibito, regali meravigliosi di sua madre. Comanda inoltre le si rechino lo scettro di Ilione, figlia maggiore di Priamo, la sua collana di perle e una corona doppia d'oro e pietre preziose. Acate eseguendo gli ordini s'affretta verso le navi. Ma Venere in cuor suo medita nuove arti e macchina che Cupido, mutato aspetto, vada a Cartagine al posto del dolce Ascanio e infiammi (recando i doni" di Enea) la regina d'amore
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732. nato: il nome stesso lo indicava discendente di qualche grande personaggio troiano. 734· un'identica sorte: fa simpatia di Didone è nata spontaneamente perché anch'ella ed il suo popolo, fuggendo da Tiro, avevano dovuto affrontare e vincere le dure peregrinazioni ed i pericoli dell'esilio prima di giungere in Licia e trovarvi la pace e la sicurezza. 737· a aiutare chi soffre: è una di quelle affermazioni che ci invitano a pensare ed a concludere che l'etica virgiliana non era più quella pagana, ma anticipava il messaggio cristiano. 747· porpora: era un liquido color rosso vivo che si estraeva da certe conchiglie marine e veniva impiegato per tingere le stoffe. 760. acanto: pianta, la cui foglia fu usata come elemento decorativo negli abiti femminili e soprattutto nei capitelli deli'arte classica. 762. Pergamo: Elena fuggi da Sparta (e non da Micene) per raggiungere Pergamo ed ivi sposare Paride, ciò che non poteva fare essendo già sposa di Menelao (amore proibito). 763. Comanda inoltre... : tutti questi doni preziosi Enea li trae dal tesoro di Priamo, che era riuscito a salvare durante la fuga. 769. Cupido: figlio di Venere, raffigurato come un putto roseo e malizioso che, armato di arco e frecce, saetta i cuori degli uomini e degli dèi.
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Canto primo
772-804. Il fatto che Venere, come spiegherà meglio in seguito, non si fidi di Giunone, è accettabile: fra donne, perché di donne si tratta e non di dee, che inseguono opposte mète la diffidenza è d'obbligo. Questo spiega come ella invii il figlio Cupido in una delle sue solite missioni quantunque l'intervento del piccolo dio dell'amore appaia in definitiva superfluo. Infatti per una natura solitaria ed appassionata come quella di Didone, l'arrivo di Enea, la sua prestanza, l'aureola di sventura e di dolore dalla quale è coronato avrebbero egualmente acceso la fantasia ed il cuore della vedova regina. Ma non dimentichiamo che in un poema, come l'Eneide, la mitologia doveva trovar posto d'autorità ed ogni occasione era buona per farvela entrare, come avviene qui, abbastan- · za felicemente. 773· l'ambigua casa: Venere non ha fiducia nella casata di Didone, a causa del delitto di Pigmalione, e nella lealtà dei Cartaginesi, ma teme in modo particolare l'odio di Giunone é le sue subdole arti. 79r. mia maggiore ... : è naturale che Venere parli come una nonna preoccupata dell'avvenire del nipote, ma è strano per noi che siamo abituati ad immaginare la dea come eternamente giovane e fanciulla. 796. Ida: monte al centro di Creta, ove era nato Giove. 804. velenoso: la passione che sconvolge e turba come un veleno. Su. maggiorana: erba aromatica che cresceva in gran copia_ a Cipro.
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furioso, sino in fondo alle ossa; poiché teme l'ambigua casa, la falsità dei Tiri, la crudeltà di Giunone, e non riesce a dormire con quel pensiero la notte. Cosi dice ad Amore: «Figlio, che sei la mia forza e il mio solo potere, che non temi le folgori del Padre onnipotente, io vengo supplichevole a chiedere il tuo aiuto. Enea, tuo fratello, è sbattuto dal mare su tutte le spiagge per l'odio di Giunone: lo sai bene, sovente ne hai sofferto con me. In quel momento lo accolse la fenicia Didone e lo trattiene con molti complimenti: ma temo l'ospitalità di Giunone, che certo non starà inoperosa in un'ora cosi grave e difficile. Allora penso di prendere la regina al mio laccio e infiammarla d'amore, perché non diventi nemica dei Troiani per colpa di qualche altro Celeste, e sia presa d'affetto per Enea come me. Ascolta come potrai assolvere il tuo incarico. Per invito del padre, Ascanio, mia maggiore cara preoccupazione, sta per andare in città portando i doni scampati alle fiamme ed al mare: io lo addormenterò, poi lo nasconderò nel sonno in un luogo sacro, sui monti di Citera o sull'Ida, sicché non possa in alcun modo scoprire le mie trame o nuocere ai miei disegni·. Per una sola notte ne imiterai con arte l'aspetto; sei fanciullo, potrai con facilità assumere quei noti lineamenti: cos{ quando Didone, felice, ti accoglierà nel suo grembo tra i fumi del vino e del pranzo regale, quando ti abbraccerà riempiendoti di baci, le soffierai nel cuore un fuoco velenoso ». Amore obbedisce subito alle parole materne e, deposte le ali, si diverte ad incedere con l'andatura di Julo. Venere intanto diffonde per le membra di Ascanio un placido sopore e, tenendolo caldo nel suo grembo, lo porta negli alti boschi dell'Ida, dove la profumata maggiorana lo accoglie, proteggendone i sogni coi suoi fiori odorosi e la sua dolce ombra. E già Cupido, secondo il desiderio di Venere,
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s'incamminava lieto sotto la guida di Acate portando gli splendidi doni alla regina dei Tiri. Quando arrivò a palazzo, Didone s'era già assisa al centro del convito, su di un letto dorato dai superbi tappeti, e già Enea coi Troiani prendevano posto su coltri di porpora. I servi danno l'acqua alle mani, porgendo tovaglioli finissimi, e tolgono dai cesti il pane. Nell'interno lavorano cinquanta ancelle, cui spetta preparare con ordine la lunga serie dei cibi e onorare i Penati bruciando le primizie. Altre cento fanciulle e cento valletti di pari età assicurano il servizio alle mense, portando i cibi in tavola, disponendo le coppe e versando da bere. I Tiri erano accorsi numerosi al banchetto e, giacendo su invito di Didone nei letti ricamati, ammiravano i regali di Enea il mantello ed il velo orlato di acanto; e ammiravano Julo, le sue finte parole, lo sguardo ardente di Amore. Piu di tutti lo ammira Didone, destinata a prossima rovina, e non riesce a saziarsene, e s'infiamma guardando il falso Julo, commossa dal fanciullo e dai doni. Cupido, appesosi al collo di Enea e soddisfatto con il suo abbraccio l'amore dell'uomo che fingeva fosse suo padre, si volse alla regina: Didone gli si attacca con gli occhi e col cuore, e lo prende sulle ginocchia, ignara di riscaldare in grembo un cosi grande Nume. Compiendo la volontà di Venere, Cupido comincia a poço a poco a cancellarle dal cuore l'immagine di Sicheo ed a riempirle l'anima da tanto tempo inerte e deserta d'amore con una nuova fiamma. Appena finito il banchetto, i valletti levarono i cibi dalle mense e vi posero grandi vasi colmi di vino sino all'orlo. Il palazzo rimbomba di gioioso strepito e i convitati fan risuonare le voci per le stanze spaziose; lampade accese pendono dai soffitti dorati, le fiamme delle torce vincono la notte. Allora la regina chiede la coppa d'oro
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816-828. La descrizione del banchetto ci vuoi dare la misura della regalità sontuosa con la quale Didone onora i suoi ospiti. Tutto è raffinato e solenne. Il colpo d'occhio è veramente stupendo: nel vasto salone; illuminato a giorno da decine di fiaccole ed ornato di arazzi, di fiori e di piante, sono disposti i letti, generalmente a tre posti, perché. era uso nell'antichità pranzare sdraiati. Accanto alle mense, ricoperte di bianche tovaglie, stanno più di cento giovani e fanciulle pronti a servire le vivande ed a versare nelle coppe i vini prelibati. I pavimenti di marmo e i soffitti ricoperti d'oro mandano mille fantastici riflessi. Si aggiunga la folla dei convitati, adorni di abiti raffinati e di gioielli sfavillanti e si avrà un quadro fiabesco. 8zo.l'acqua alle mani: era primo atto rituale del convito antico lavarsi le mani con acqua lustrale. 835. destinata a prossima rovina: cosl vogliono i Fati:
che l'amcré per Enea sia
per lei causa di terribile
morte.• 844. Cupido comincia: l'opera del figlio di Venere è sottile e ben condotta: prima fa sl che il ricordo del marito morto venga a poco a poco dimenticato, poi nell'anima «deserta d'amore» fa sorgere il gran fuoco.
855. Allora la regina... : il
brindisi di Didone con la coppa avita acquista una maggiore solennità ed è come il suggello alla magnifica ospitalità offerta ad Enea ed ai suoi.
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Canto primo
862. Bacco creatore di gtota: veniva anche chiamato Lieo che dall'etimo gre-
co significa « colui che libera dagli affanni ». 868. Bizia: uno dei maggiorenti tra i Cartaginesi. 870. Jopa: il cantore di corte che si riconosce ap· punto per i lunghi capelli. 871. Atlante: figlio di Giapeto e Climene, si ribellò a Giove e venne condannato a reggere le colonne su cui, secondo la leggenda, passavano i mari e le terre. Era tenuto in considerazione dai sapienti. 875. ladi: nome di sette sorelle, figlie di Atlante ed Etra, che piansero in modo tanto compassionevole un fratello morto, da suscitare la pietà degli dèi che le trasformarono in una costellazione; piovose perché al loro sorgere cominciava in Grecia la stagione delle piagge. - Arturo: cosl fu chiamato Eretteo, dopo la sua trasformazione in stella del firmamento, cioè guidatore del carro.
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879. L'infelice Didone:
il poeta anticipa con l'aggettivo la triste sorte che attende la regina, sempre più presa d'amore per l'eroe troiano. 882. figlio dell'Aurora: il già citato Memnone (vedi v. '70).
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e di gemme in cui Belo ed i suoi discendenti hanno sempre bevuto, e la riempie di vino; si fa dovunque silenzio: «Giove- dice Didone - tu che proteggi gli ospiti, consenti che questo giorno sia lieto per i Tiri e per gli esuli troiani, che i nostri discendenti ne serbino memoria. Ci assistano Bacco creatore di gioia e la buona Giunone. E voi Cartaginesi con animo lieto celebrate il convito! » Cosi dicendo versa qualche goccia di vino in onore di Giove sulla mensa, poi sfiora il vino con le labbra e porge la coppa a Bizia incoraggiandolo a bere: Bizia wota a gran sorsi la tazza spumante, che poi passa di mano in mano a tutti. Jopa dai lunghi capelli, allievo del grande Adante, suona la cetra dorata. Canta la luna errante e le fatiche del sole, l'origine delle bestie e del genere umano, l'origine dei fulmini e della pioggia: canta le Iadi piovose, Arturo e le due Orse; perché i soli invernali si affrettino tanto a tuffarsi nell'Oceano, perché le notti estive tanto tardino. I Tiri applaudono, seguiti dai Troiani. L'infelice Didone trascorreva la notte parlando con Enea, bevendo l'amoroso veleno. Lo interrogava su Priamo e su Ettore, sulle armi del figlio dell'Aurora, sugli agili cavalli di Diomede, sulla forza d'Achille. « Ti prego, ospite - dice: - raccontaci dall'inizio le insidie dei Greci, le sventure dei tuoi e il tuo lungo viaggio, è già la settima estate che il destino ti spinge per ogni terra e mare ».
Troia, 17 giugno 1873- Il tesoro di Priamo Le fondamenta di Troia giacciono su un pianoro che si eleva circa ventiquattro metri sulla campagna circostante, e a nord presenta un orlo assai scosceso. Il suo angolo nord-occidentale è costituito da una collina di altri otto metri più alta, larga duecentoquindici metri e lunga trecento, che per il suo aspetto imponente e le sue ottime fortificazioni naturali appare particolarmente adatta come acropoli della città.
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Canto primo
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Ho tratto alla luce, a una profondità di otto o nove metri, la cinta muraria della città di Troia, che parte dalle Porte Scee, e scavando presso questa muraglia, immediatamente accanto al Palazzo di Priamo, ho urtato contro un grosso oggetto di rame, di forma assai singolare, che attrasse tanto più la mia attenzione in quanto credetti di scorgere dentro ad esso dell'oro. Sopra l'oggetto di rame si trovava uno strato di ceneri rosse e macerie calcinate, duro come la pietra, dello spessore di un metro e mezzo, sul quale gravava la muraglia della fortezza, alta sei metri, formata di grosse pietre e fango secco, e costruita probabilmente nei primi tempi dopo la distruzione di Troia. Per primo estrassi dalle macerie un grande scudo di rame, simile a un piatto di portata ovale, al cui centro si trova una borchia circondata da una scanalatura. Questo scudo è lungo circa mezzo metro, è completamente liscio e bordato da un orlo alto quattro centimetri. La borchia (omphalos) è alta sei centimetri e ha un diametro di circa undici centimetri. Il secondo oggetto da me estratto era un bacile di rame con due manici orizzontali. Il terzo una piastra di rame, dello spessore di un centimetro, larga sedici centimetri e lunga quarantaquattro; ad un'estremità presenta due ruote :fisse con asse. La piastra è fortemen~e incurvata in due punti: tuttavia io credo che queste curvature siano dovute al calore del fuoco, cui l'oggetto fu esposto durante l'incendio. Su di essa è saldato un vaso d'argento alto dodici centimetri e largo altrettanto, ma penso che anche questo sia avvenuto solo per caso durante l'incendio. Il quarto oggetto estratto era un vaso di rame. Segui una coppa rotonda di oro purissimo, che misurava quindici centimetri di altezza e quattordici di diametro, e raggiungeva il peso di quattrocentotré grammi, con una decorazione a zig-zag, iniziata e non compiuta, al collo; un calice anch'esso di oro puro, alto nove centimetri e del peso di duecentoventisei grammi, e un altro calice d'oro, a forma di nave, con due grossi manici, alto nove centimetri, largo e lungo diciotto centimetri e del peso esatto di seicento grammi. Presenta ai lati due imboccature, una di sette centimetri e una di tre: probabilmente chi offriva il calice ricolmo beveva prima dall'imboccatura piccola, per lasciare l'ospite, in segno di onore, bere all'imboccatura maggiore. Questo grande calice d'oro è fuso, mentre i manici, non massicci, sono applicati e saldati. Invece il calice d'oro più semplice, e la coppa d'oro, sono sbalzati a martello. Trovai inoltre sei oggetti di argento purissimo, pure sbalzato col martello, in forma di grandi lame, con un'estremità arrotondata e l'altra tagliata in forma di mezzaluna. Con tutta probabilità si tratta dei « talenti » omerici, che potevano essere solo di piccole dimensioni, poiché per esempio Achille, come primo premio nella lotta, offre un'ancella, come secondo un cavallo, come terzo un bacile e come quarto due talenti di oro. Inoltre trovai tre grandi vasi d'argento ... Parte sopra e parte accanto agli oggetti d'oro e d'argento, trovai tredici lance di bronzo. Alla loro estremità inferiore è praticato un foro, in cui per la maggior parte dei casi è ancora infilato il chiodo, o bullone, con cui la punta della lancia era fissata nell'asta di legno. Le lance troiane erano quindi del tu~to diverse da quelle greche e romane, poiché in queste l'asta veniva infilata nella lancia, in quelle la lancia nell'asta ... Poiché io trovai
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Oggetti rinvenuti a Troia: I, 2, 3: diademi in oro; 4, 5, 6: orecchini d'oro; 7: vaso d'argento con coperchio; 8: tazza in oro e argento; 9: boccetta d'oro; IO: tazza in oro; II: vaso d'argento (molto danneggiato dal fuoco); 12: tazza d'argento; 13: coppa d'oro con due anse; I4: chiave di rame della cassa !ignea contenente il tesoro; 15: pezzi d'argento puro; I6: ornamenti d'oro; I7: collana formata di vari piccoli oggetti d'oro appartenenti al tesoro di Priamo.
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Canto primo
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tutti questi oggetti insieme, l'uno accanto all'altro o l'uno dentro l'altro sì da formare un mucchio rettangolare, presso il muro di cinta, penso che con tutta probabilità si trovavano in una grande casa di legno, come secondo l'Iliade ne esistevano nel palazzo di Priamo. E questo mi sembra tanto più certo in quanto, proprio accanto agli oggetti, rinvenni una chiave di rame lunga dieci centimetri, il cui ingegno; lungo e largo cinque centimetri, presenta una straordinaria somiglianza con la grande chiave di cassa delle banche. Cosa assai singolare, questa chiave doveva avere un anello di legno, come dimostra l'estremità del fusto, che è interrotta ad angolo retto, come nelle lame dei pugnali. Probabilmente qualche membro della famiglia di Priamo accumulò in gran fretta il tesoro nella cassa, e lo portò via senza aver tempo di togliere la chiave dalla serratura; ma sulle mura fu raggiunto dalla mano del nemico o dal fuoco e dovette abbandonare la cassa, che fu subito coperta per un metro e mezzo dalla cenere rossiccia e dalle pietre del palazzo reale che sorgeva n accanto. Forse appartenevano all'infelice che tentò invano di salvare il tesoro, gli oggetti rinvenuti alcuni giorni prima in una stanza del palazzo reale, immediatamente accanto al luogo di ritrovamento del tesoro, ossia un elmo e un vaso d'argento, in cui era infilato un elegante calice di electron (ambra). L'elmo era a pezzi, ma può essere forse rimesso insieme, poiché ne abbiamo ritrovato tutti i frammenti. Le due parti superiori (il phalos) sono intatte. Che il tesoro sia stato raccolto frettolosamente, con ansia tremante, in un terribile pericolo di vita, ci dimostra fra l'altro anche il contenuto del vaso d'argento più grande, nel cui fondo ho trovato due splendidi diademi d'oro, una fascia frontale e quattro mirabili pendagli da orecchini d'oro, di alto pregio artistico. Sopra vi erano Cinquantasei orecchini a cerchietto, pure d'oro, di forme assai eleganti, e ottomilasettecentocinquanta piccoli anelli d'oro, prismi e dadi traforati, bottoni d'oro, ecc., che evidentemente appartenevano ad altri gioielli. Seguirono poi sei bracciali d'oro, e sopra tutto questo, due piccoli calici d'oro. Trovai anche nello stesso vaso due blocchetti d'oro, entrambi lunghi cinque centimetri, di cui ognuno presentava ventun fori. Colui che tentò di salvare il tesoro ebbe fortunatamente l'accortezza di mettere ritto nella cassa il grande vaso d'argento pieno dei gioielli che abbiamo descritto, in modo che neppure una perla ne è sfuggita e tutto è rimasto intatto. (da HEINRICH SCHLIEMANN, Autobiografia di un· archeologo alla ricerca del mondo omerico, Schwarz Editore, Milano).
Commento critico Ciò che subito colpisce sin dai primi versi del poema è il chiaro e costante rife-' rimento agli schemi poetici di Omero. Abbandonata la dolce contemplazione e le fervide opere dei boschi e dei campi, che aveva ispirato l'atmosfera e la poesia delle Bucoliche e delle Georgiche, Virgilio, apprestandosi a cantare le gesta del suo eroe, non può a meno di ritornare al grande maestro dell'epica antica. È un atto di umiltà
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Canto primo
e di meditato omaggio. Tuttavia se la via esteriore prescelta è quella più cauta e più saggia, l'animo dei personaggi che via via si presentano sulla scena e partecipano all'azione è nuovo, come nuova è la finalità ultima dell'intero poema, enunciata solennemente sin dal proemio. Infatti Enea non assomiglia minimamente né ad Ulisse né ad Achille, né in genere agli eroi che Omero ci ha descritti e fatti conoscere. La « pietas » fa di lui più che un vero guerriero un sacerdote, che combatte e prega per portare a termine la più alta missione che i Fati abbiano assegnato ad un uomo: quella di fondare una stirpe che darà vita .all'impero di Roma cui si inchineranno tutte le genti della terra. Il dichiarato fine encomiastico dell'opera, anche se spesso è elemento fastidioso di scoperta retorica, come nel colloquio fra Giove e Venere, non incide del tutto negativ.tmente, per la sincerità degli accenti e per la fede profonda che Virgilio manifesta nella missione di Roma « caput mundi ». Il secondo elemento che caratterizza la novità dei contenuti sta nel modo con cui vengono presentati e fatti agire gli Dei. Essi hanno perso il decoro e la maestà che solennizzavano i loro interventi nei poemi omerici. Qui appaiono talmente umanizzati, cioè in preda agli stati d'animo più comuni tra i mortali, da perdere qualsiasi attributo del trascendente. Si veda l'odio cieco ed insensato di Giunone nei confronti dei Troiani, le sue smanie di vendetta e di morte, la sua vana lotta contro i Fati. Forse Virgilio, come tanti altri romani attenti a cogliere le note più profonde dell'evoluzione dei tempi, avvertiva l'anacronismo della religione pagana, incapace di soddisfare le nuove e più profonde esigenze della coscienza e dello spirito. Ma la grande e vera novità che caratterizza il primo canto, e poi l'intero poema, sta nella capacità dell'autore di addentrarsi nella psicologia dei personaggi, nel cogliere gli stati d'animo dal lirico al drammatico, dall'amoroso al tragico; nel dipingere in vasti affreschi i quadri possenti della natura, che a tali stati d'animo fanno da grandioso sfondo. Si veda a questo proposito la descrizione della tempesta, della cala tranquilla che accoglie i naufraghi, dell'apparizione della madre Venere nel bosco frondoso, della pace che Nettuno riporta sul mare. E ci si soffermi soprattutto sull'incontro tra Enea e Didone e sul susseguirsi incalzante ed in crescendo dei sentimenti che commuovono e turbano l'animo dell'infelice regina, preludio alla sconvolgente passione ed alla tragedia. Ci sono a volte qua e là nella narrazione dei momenti di stanchezza e di scarsa vena poetica, ma in genere, considerato che l'avvio di una cosi possente opera dovette essere travagliato e faticosissimo, si può senz'altro ritenere questo primo canto in gran parte felice e altamente positivo soprattutto per la sapienza costruttiva che dal tono tragico ed apocalittico della tempesta trascorre ad un'atmosfera pensosa e di pace per concludersi nella gioia del convito e nel dolce canto di Iopa.
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Canto primo
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Galleria di ritratti Enea. Riportiamo una felice rappresentazione dei caratteri salienti della figura di Enea, dovuta alla penna di Concetto Marchesi: «Enea, "Romanae stirpis origo ", è l'antenato del popolo a cui era destinate l'impero del mondo. Questo era già nel poema di Ennio, il quale faceva Romolo figlio della figlia di Enea, nipote immediato di Enea, mentre Virgilio deve frapporre la serie dei Re Albani stabiliti dagli annalisti. Quello che mancava nel poema di Ennio era la profetica vita di Roma alla cui nascita cospira tutto il mondo mediterraneo, di quella Roma fatale inesistente nella storia ed esistente già nei travagli e nelle vicende di tante moltitudini di uomini. «Enea era già nell'Iliade. Nato sul monte Ida dagli amori del re pastore Anchise con Afrodite, è discendente di Assaraco, parente del ramo cadetto di Priamo che, geloso di lui, non ha giusta considerazione dei suoi meriti e cerca di screditarlo presso il popolo che lo ama e lo onora al pari di un dio. Combatte contro i Greci a capo di milizie dardanie. Nei cimenti di guerra non manca di audacia né teme di affrontare i più formidabili eroi: e la divinità interviene sempre a proteggerlo. Una volta combatte con Diomede, e la madre, Venere, lo trae a salvamento avvolgendolo nel suo peplo lucente: un'altra volta lo protegge da Diomede, Apollo, che poi lo spinse ad affrontare Achille. Bravamente combatte Enea contro l'invincibile eroe difeso dai numi davanti alla cui asta una volta egli si salvò a stento fuggendo dall'Ida; e morirebbe ora senza l'aiuto di Poseidone, il quale sa che la stirpe di Dardano, cara a Giove, non può perire e che la forza di Enea e dei suoi discendenti regnerà sui Troiani: e diffusa una nube davanti agli occhi del Pelide, si porta via in salvo il figlio di Anchise e lo ammonisce a non più cimentarsi con Achille: "Quando egli sarà morto, allora tu affronta pure audacemente i più valorosi campioni, perché nessun altro degli Achei può essere padrone delle tue spoglie". Nell'Iliade, dunque, Enea è già un predestinato, favorito dagli dèi. Nell'Eneide - dove ha pure un'intimità di vita ignota agli eroi omerici - egli è l'eroe stordito in continuo potere della divinità. Essa lo fa partire, lo fa fermare: lo nasconde, lo svela: lo salva dalle armi dei nemici, lo getta tra le braccia di una regina innamorata: lo spinge nel regno dei morti, lo fa sospirare e combattere senza che lui voglia, sempre. Il lettore dell'Eneide non sa che cosa farebbe Enea se gli Dei non avessero cura o necessità di lui. Niente farebbe, perché egli ha bisogno dei numi p~ agire: agli è un "pius ": sacerdote in abito di guerriero. Gli manca la volontà perché gli manca l'empietà. « Nessun eroe conobbe in una notte sola tanta angoscia e tanto stordimento di umano dolore, e nessun poeta pose mai una sua creatura in mezzo a tanta verità di sventura. Quando Troia pare inabissarsi tutta nelle fiamme e nel sangue, egli deve pensare alla casa patema e ai Penati Troiani: allorché è una salvezza morire, egli deve salvarsi; mentre gli altri eroi non hanno che urli di strage e rantoli di morte, egli deve ancora avere delle lacrime; e deve portare sulle spalle il padre Anchise,
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Canto primo
che regge i Penati della patria, e condurre per mano il piccolo figlio e trarsi dietro la moglie Creusa, e aver paura, lui che ha le mani grondanti di sangue nemico, per quel vecchio, per quel bambino, per quella sposa. Le sue armi brillano nella nette, mentre romba l'incendio e infuria la strage; ma il suo cuore deve trepidare di pietà, in mezzo alla sterminata ferocia degli uomini e all'implacato odio dei numi. «Ha visto i grandi numi del cielo imperversare su quel lembo della sua terra: Nettuno che svelle con l'enorme tridente la città da lui cinta di mura, Giunone che chiama inferocita i Greci alla strage, Pallade che fa vibrare i baleni micidiali della sua temibile Gorgone. E ha visto nell'incubo di quella notte il volto di Elena argiva; tacita ed immota, nel tempio di Vesta, lei, la femmina adultera; ed ha sentito le parole di Venere, la madre sua che gli parlava amorevole con la bocca rosata: un colore di rosee labbra divine egli ha perfino dovuto vedere a mezzo a tutto quel rosso di sangue e di fuoco. E non impazzisce l'eroe tra cosi fantastiche mostruosità. Egli è travolto dall'immanità del suo destino; ha perduto in quella notte la sua vita individuale, è divenuto uno strumento del Fato, ed è curvo sotto quel peso. Ha momenti di furore, ma è più grande e continuo il suo timore: il timore di chi subisce la ferrea necessità di conservarsi per gli altri». (dalla Letteratura Latina, Casa Editrice Principato).
Giunone. Era già stata a suo tempo mortalmente ostile ai Troiani a causa del giudizio di Paride a favore di Venere nella nota gara di bellezza. Il suo odio si trasferisce ora e si concentra sugli Eneadi e sul loro capo, figlio della dea rivale. In lei Virgilio ha personificato la causa e la fonte di tutti gli ostacoli, naturali e psicologici, che si opporranno di volta in volta al volere del Fato. La dea in tal modo assume nello sviluppo dell'azione un'importanza determinante: le sue gelosie, i suoi stratagemmi, la sua implacabile avversione nei confronti dell'eroe e il non confessarsi mai vinta daranno l'avvio alla maggior parte degli avvenimenti. Forse nell'amarezza ch'ella prova dopo il fallimento di ogni macchinazione, ·sta la sua vera originalità di personaggio, che, tuttavia, più che divino, ci appare troppo umano per assurgere ad una vera dignità artistica. Il lottare poi inutilmente contro la volontà dei Fati non le conferisce infine alcun rilievo di grandiosità; anzi la sminuisce ai nostri occhi, per il suo vano astio ed il suo inconcludente corruccio.
Venere. Come Giunone è attenta a non perdere occasione per creare guai ai Troiani e ad Enea in particolare, cosi Venere è altrettanto vigilante a parare i colpi inferti dalla rivale ed a proteggere in ogni modo il figlio adorato. Per ottenere ciò, ella non si serve tanto della sua inarrivabile bellezza, quanto di tutta l'astuzia e di tutte le sottigliezze di cui può essere capace una donna ed in
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Canto primo
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particolare una madre. Si veda il suo comportamento diverso ma egualmente abile e scaltrissimo nd colloquio con Giove e in quello con Giunone. Si noti poi la sua trasformazione, quando mutatasi in fanciulla cacciatrice, viene in aiuto di Enea per indirizzarlo e consigliarlo: preoccupazione, trepidazione, amore traspaiono dalle sue parole. La sua umanità, in questo caso, non toglie nulla alla sua maestà e dignità di dea; anzi ne accresce la bellezza interiore e ne completa la personalità che in Omero era stata spesso del tutto esterioJ;"izzata.
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Canto primo
Raffronti di traduzione Haec ubi dieta, cavum conversa cuspide montem impulit in latus: ac venti velut agmine facto, quae data porta, ruunt et terras turbine perf/ant. Incubuere mari totumque a sedibus imis una Eurusque Notusque ruunt creberque procellis Africus et vastos volvunt ad litora {luctus: insequitur clamorque virum stridorque rudentum. Eripiunt subito nubes caelumque diemque T eucrorum ex oculis: ponto nox incubat atra. Intonuere poli et crebris micat ignibus aether praesentemque viris intentant omnia mortem. (vv. 81-91) Cosi dicendo, al cavernoso monte con lo scettro d'un urto il fianco aperse, onde repente a stuolo i vènti usciro. Avean già co' lor turbini ripieni di polve e di tumulto i colli e i campi; quando quasi in un gruppo ed Euro e Noto s'avventaron nel mare, e fin da l'imo lo turbar si, che ne f~r valli e monti: monti, ch'al ciel quasi di neve aspersi, sorti l'un dopo l'altro, a mille a mille volgendo, se ne gian caduchi e mobili con suono e con ruina i liti a frangere. Il grido, lo stridore, il cigolare de' legni, de le sarte e de le genti, i nugoli che 'l cielo e 'l di velavano, la buia notte, ond'era il mar coverto, i tuoni, i lampi spaventosi e spessi, tutto ciò che s'udla, ciò che vedevasi rappresentava orror, perigli e morte. Traduzione di Annibal Caro
Cosi rispose e capovolta l'asta colpl nel fianco il cavernoso monte; i venti, per lo sbocco disserrato, si avventarono in groppo impetuoso e turbinando corsero la terra. E rapidi piombarono sul mare, e il Noto e il procelloso Africo e l'Euro lo sconvolsero fin dal più profondo, lo cacciarono ai lidi in onde immani. Urlo d'uomini, stridere di gòmene lacerò l'aria; un improvviso nembo tolse agli occhi dei Teucri il cielo e il giorno ed un notturno orror gravò sul mare. Tutto il cielo tuonò, l'aria si accese di baleni incalzanti, e tutto intorno era minaccia d'imminente morte. Traduzione di Guido Vitali
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CANTO SECONDO
L'episodio di Laocoonte.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 1835, ricavate dai codici della Biblioteca Vaticana, Roma.
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CANTO SECONDO Mentre scende la notte, nel profondo silenzio degli astant~, Enea inizia il racconto della distruzione di Troia,-benché egli soffra terribilmente nel rievocare il sanguinoso dramma della sua città e del suo popolo. Su suggerimento di Minerva, i Greci, stanchi e logorati dalla lunga guerra, decidono di ricorrere all'inganno per prendere la città, che vittoriosamente aveva respinto i loro decennali assalti. Costruiscono perciò un colossale cavallo di legno, nell'interno del quale nascondono un gruppo di guerrieri; poi fingono di partire lasciandolo sulla spiaggia come un voto agli dèi. Si nascondono dopo qualche ora di navigazione dietro l'isola di Tenedo ed attendono il momento propizio per ritornare. I Troiani, accortisi della partenza dei nemici, escono esultanti dalle porte è circond~no stupefatti il gran cavallo. I più saggi fra loro fiutano un inganno e consigliano di distruggerlo; anzi, uno di essi, Laocoonte, scaglia la lancia contro il simulacro che rimbomba. Intanto sopraggiungono dei pastori che trascinano in catene un greco prigionkro, Sinone, che gli Achei avevano abbandonato ad arte perché traesse maggiormente in inganno i Troiani. Costui, portato innanzi al re Priamo, confessa d'essere fuggito dai suoi compagni che volevano immolarlo per rendere propizio il viaggio di ritorno in patria. Viene creduto, liberato ed interrogato sul mistero del cavallo. Sinone abilmente risponde dicendo che i Greci l'avevano costruito in riparazione del sacrilegio compiuto rubando il Palladio, e di averlo fatto in misura gigantesca perché non potesse essere portato nella città, che avrebbe reso inespugnabile. Si verifica poi un fatto prodigioso, voluto da Minerva, nemica dei Troiani, che sembra confermare le parole di Sinone. Mentre Laocoonte sta sacrificando sulla riva del mare un toro per ringraziare Nettuno della partenza dei Greci, due spaventosi serpenti emergono dalle acque e avviluppano nelle loro spire i due figli e Laocoonte stesso, ch'era accorso in loro difesa. Fatto questo, i mostri strisciano sin nel tempio di Minerva e si raggomitolano ai piedi del simulacro della dea.
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Canto secondo
Ogni dubbio è fugato: i Troiani decidono d'introdurre il cavallo nella città e di porlo sulla rocca. Invano Cassandra, figlia di Priamo e sacerdotessa dotata di poteri divinatori, predice la rovina della città; il cavallo viene introdotto attraverso le mura sbrecciate. Nella notte le navi greche ritornano a riva e Giunone, ad un segnale, apre il ventre del cavallo da cui escono i guerrieri, che aprono le porte di Troia ai compagni sbarcati. Ad Enea dormiente appare l'ombra sanguinosa di Ettore che lo scongiura di fuggire, portando con sé i Penati. L'eroe si arma e si getta nella mischia, raccogliendo altri guerrieri troiani che intendono morire combattendo. Nel. tentativo di liberare Cassandra, quasi tutti cadono ed Enea rimasto con soli due compagni corre verso la reggia in tempo per assistere alla selvaggia uccisione di Priamo da parte di Pirro, figlio di Achille. Va poi in cerca· della sua famiglia, protetto dalla madre Venere che lo trattiene dall'uccidere Elena, causa di tutti i mali. Giunge alla casa patema e solo un prodigio divino, voluto da Giove, lo persuade e con lui il padre Anchise, a lasciare la città in fiamme. Con il padre sulle spalle, seguito dalla moglie Creusa e dal figlio Ascanio corre per vie traverse, ma quando giunge al tempio di Cerere, s'accorge di aver perduto la moglie. Disperato vorrebbe tornare a cercarla, ma ecco apparirgli l'ombra di Creusa che l'esorta a fuggire, perch'ella è stata uccisa dai Greci. In questo modo il volere di Giove ha predisposto che l'eroe, giungendo nel Lazio, possa sposare Lavinia, figlia del re Latino.
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CANTO SECONDO Il cavallo di legno (1-74)- Sinone (75-249)- Laocoonte (2.5o-29o)Il cavallo nella città (291-.576)- La morte di Priamo (.577-8.5.5)"- La fuga (8.56-974).
n cavallo di legno
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1S
TACQUERO tutti: gli occhi intenti al viso di Enea pendevano dalle sue labbra. Dal suo posto d'onore,. bene in vista, l'eroe cominciò in questi termini: Regina, tu mi chiedi di rinnovare un dolore inesprimibile; mi ordini di dire come i Greci abbian distrutto Troia, le sue ricchezze, il suo regna degno di pianto, e narrarti tutte le cose tristi che ho visto coi miei occhi ed alle quali tanto ho preso parte! Chi potrebbe trattenersi dalle lagrime a un tale racconto, fosse pure soldato dd duro Ulisse o Mirmidone o Dolope? E già l'umida notte precipita dal cido, le stelle, tramontando, ci persuadono al sonno_ Ma se proprio desideri conoscere le nostre disgrazie ed ascoltare brevemente l'estrema sciagura di Troia, quantunque il mio animo inorridisca al ricordo e rilutti di fronte a cos{ grave dolore, parlerò. h CAVALLO DI LEGNO(I-74) -Nel profondo silenzio degli
astanti, Enea inizia a raccontare. Stanchi della lunga e
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sanguinosa guerra, i Greci, ispirati da Minerva, decidono di rico"ere all'inganno per far cadere Troia. Costruiscono un gigantesco cavallo di legno, lo riempiono d'armati e fingono di notte di partire. All'alba i Troiani escono festanti dalle mura e si chiedono il perché della partenza dei nemici ma soprattutto la spiegazione del simulacro. I più saggi diffidano e vi fiutano l'inganno. un·o di loro, Laocoonte, giunge a scagliare la lancia contro il ventre del cavallo.
x. Tacquero tutti: è il tacitiano « conticuere omnes ~. il silenzio che nella grande sala del convito si fa dopo le conversazioni e i canti, e che precede il breve e concitato poemetto tragico della caduta di Troia, quasi fosse l'ideale continua2i.one e chiusa dell'Iliade omerica. .5· Regina: è un altro degli esametri famosi che diverranno proverbiali: « infandum, regina, iubes renovare dolorem ~. 12. Mirmidone o Dolope: sono tribù bellicose, guidate in guerra da Achille e dal figlio Pirro.
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Canto secondo
21. prostrati... respinti: incapaci di vincere sul campo di battaglia ricorrono, ispirati da Minerva, all'inganno. 35· Micene: capitale del regno di Agamennone, sta qui per indicare tutta la Grecia. 45· Timete: figlio di Laomedonte ed uno dei più importanti cittadini di Troia. L'odio di Timete verso Priamo era di antica data, da quando l'oracolo aveva predetto che un fanciullo nato in un giorno prefissato sarebbe stato la rovina della città. Nacquero in quel giorno Paride e Manippo, figli di Priamo e di Timete. Il re allora fece uccidere Manippo. Ora per desiderio di vendetta e perché spinto dai Fati, Timete è il primo a proporre di introdurre il cavallo dentro la cerchia delle mura. 49· Capi: uno dei compagni di Enea, già ricordato. 55· Laocoonte: figlio di Antenore e sacerdote di Apollo. L'apparizione di questo personaggio è improvvisa e drammatica: il suo irrompere sulla scena, le sue concitate parole, la sua ironia che giunge al sarcasmo fanno sl ch'egli s'imponga immediatamente alla folla e si riveli come protagonista di uno degli episodi più fa· mosi e più tragici del poema, che commuoverà l'animo e la fantasia di artisti e scrittori. 59· Non conoscete Ulisse?: è il proverbiale « Sic notus Ulies? » L'eroe itacense è per antonomasia il maestro sommo di tutti i più sottili inganni.
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I capi greci, prostrati dalla guerra e respinti dai Fati dopo tanti e tanti anni, con l'aiuto di Pallade fabbricano un cavallo simile a una montagna, ne connettono i fianchi di tavole d'abete, fingendo che sia un voto (cosi si dice in giro) per un felice ritorno. Di nascosto, nd fianco oscuro del cavallo fanno entrare sceltissimi guerrieri, tratti a sorte, riempiendo di una squadra in armi la profonda cavità del suo ventre. Proprio di fronte a Troia sorge Tenedo, un'isola molto nota, ricchissima finché il regno di Priamo fu saldo, adesso semplice approdo malsicuro: i Greci sbarcano là, cdandosi nd lido deserto. Noi pensammo che fossero andati via salpando verso Micene col favore del vento. E subito tutta la Troade esce dal lungo luttcl Spalanchiamo le porte: come ci piace andare liberi ovunque e vedere gli accampamenti dorici, la pianura deserta, la spiaggia abbandonata! «C'erano i Dolopi qui, il terribile Achille si accampava laggiu, qui tiravano a secco le navi, e là di solito venivano a combattere »: Alcuni stupefatti osservano il fatale regalo della vergine Minerva ed ammirano la mole dd cavallo; Timete per primo ci esorta a condurlo entro le mura e a porlo sull'alto della rocca, sia per tradirei, sia perché le sorti di Troia volevano cosf. Invece Capi ed altri con piu accorto giudizio chiedono che quel dono insidioso dei Greci sia gettato nel mare od arso, e che i suoi fianchi siano squarciati e il suo ventre sondato in profondità. La folla si divide tra i due opposti pareri. Allora, accompagnato da gran gente, furioso, Laocoonte discende dall'alto della rocca e grida da lontano: «Miseri cittadini, quale follia è la vostra? Credete che i nemici sian partiti davvero e che i doni dei Greci non celino un inganno? Non conoscete Ulisse? O gli Achivi si celano in questo cavo legno, o la macchina è fatta per spiare oltre i muri
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e le difese fin dentro le nostre case e piombare dall'alto sulla città, o c'è sotto qualche,altra diavoleria: diffidate del cavallo, o Troiani, sia quel che sia! Temo i Greci, anche se portano doni ». Cosi detto scagliò con molta forza la grande lancia nel ventre ricurvo del cavallo di legno. L'asta s'infisse oscillando, le vuote cavità del fianco percosso mandarono un gemito rimbombando. Ah, se i Fati non fossero stati contrari e le nostre menti accecate Laocoonte ci avrebbe convinto a distruggere il covo dei Greci; e tu ora, Troia, saresti ancora in piedi, e tu, rocca di Priamo, ti leveresti in alto!
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Ma ecco dei pastori troiani trascinare davanti al re, fra le urla, un giovane sconosciuto dalle mani legate dietro la schiena: s'era consegnato da solo ai pastori per dare l'ultimo tocco all'inganno e aprire Troia agli Achei, risoluto nell'animo a condurre a buon fine le sue frodi o soccombere a una morte sicura. La gioventu troiana accorre da ogni parte verso di lui, gli fa ressa intorno per vederlo, fa a gara ad insultarlo. Ora ascolta le insidie degli Argivi ed impara a conoscerli tutti dal crimine di uno solo ... Quando inerme, impaurito, si fermò tra di noi guardando le schiere frigie, disse: « Ormai quale terra, quali mari potranno accogliermi? Che cosa può fare un infelice che non ha posto al mondo dove Stare tra i Greci, e il cui sangue gli ostili Troiani ora reclamano per vendetta? ». Quel pianto frenò la nostra rabbia, ci calmò. Lo esortiamo a raccontarci chi sia, da che sangue discenda, per qual motivo stia U: ci dica perché e come dovremmo fidarci di un Greco prigioniero. Finalmente, deposto ogni timore, disse: «O re, confesserò la verità, qualsiasi cosa accada: anzitutto sono di stirpe argolica,
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65. sia quel che sia: avvenga che può, anche l'ira di qualche dio. 65. Temo ... : altro detto famosissimo che è passato, attraverso i secoli, nell'uso comune del linguaggio di cultura: « timeo Danaos et dona ferentes! ». La sua logica è ineccepibile: niente che venga dai Greci può essere accolto senza un legittimo dubbio. 70. Ah, se i Fati ... : è la constatazione della ferrea legge della storia, governata dai Fati. Solo il dolore dell'esule e la sua nostalgica commozione possono giustificarla. SINONE ( 75-249) - Mentre si discute, giunge un gruppo di pastori che trascinano un greco prigioniero: Sinone. Inte"ogato da Priamo, inventa una splendida e abile storia che convince e impietosisce i Troiani, che lo liberano e gli domandano quale sia la finalità della costruzione del cavallo. Sinone, aggiungendo menzogna a menzogna, spiega che il cavallo rappresenta il voto riparatore della profanazione del tempio di Minerva con il furto del Palladio. Le proporzioni gigantesche avrebbero dovuto impedirne il trasporto nell'interno della città, perché il sacro simulacro l'avrebbe resa inespugnabile.
87. dal crimine di uno solo: veramente Sinone, che s'è prestato volontariamente a recitare una cosl difficile parte, con il rischio di una morte atroce, è degno di grande ammirazione: il suo è un eroismo calcolato. xoo. argolica: per greca
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in genere: l'Argolide era una parte del Peloponneso. I02. un imbroglione e un bugiardo: si dovrebbe dire che la lingua batte dove il dente duole. L'arte principale dei mentitori è quella appunto di preoccuparsi di non essere creduti tali. Soltanto l'ingenuità dei Troiani, o meglio la volontà dei Fati, può permettere che il racconto di Sinone produca gli effetti desiderati. I04. Palamede: figlio di Nauplio, re dell'Eubea. Fu colui che guidò l'ambasceria per costringere Ulisse a partecipare alla spedizione contro Troia. Infatti dimostrò che la pazzia dell'eroe era finta e Ulisse fu costretto a partire. Ma I'Itacense non dimenticò l'affronto e riuscl a far accusare Palamede di tradimento e a farlo uccidere. 106. con una causa truccata: Ulisse aveva nascosto nella tenda di Palamede una falsa lettera di Priamo e molte monete d'oro. 126. Calcante: figlio di Testore, fatnoso indovino che accompagnò i Greci a Troia e predisse che la guerra sarebbe durata dieci anni. ~ uno dei personaggi delJ:Iliade. I 3 I. gli Atridi: Agamennone e Menelao, figli di
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I36. i Danai: i Greci cosi chiamati da Danao, antichissimo re dell'Argolide. 140. Austro: detto anche Noto, vento del sud appor140 tatore di tempeste. I44. Euripilo: indovino della Tessaglia.
non lo nego; la sorte maligna ha fatto di me un infelice, ma mai un imbroglione e un bugiardo. Forse t'è giunta alle orecchie notizia del nome gloriso di Palamede, il Belide, che i Greci mandarono a morte innocente, accusandolo a torto di tradimento con una causa truccata, perché era contro la guerra; ora, morto, lo piangono. Il mio povero padre mi mandò a questa guerra dai primi anni, compagno di Palamede che m'era anche legato per sangue. Finché egli mantenne rango reale e importanza nelle riunioni dei re, io pure ebbi una fama, io pure fui onorato. Ma quando Palamede per l'invidia di Ulisse (dico cose ben note) abbandonò morendo le regioni dell'aria, mi ritirai in disparte, afBitto, in solitudine ed in lutto, indignato tra me per la sventura dell'amico innocente. Pazzo che fui, non seppi tacere! Promisi che avrei fatto vendetta se mi si presentasse l'occasione, tornato vittorioso alla patria Argo: suscitai odii terribili con tali parole. Questa fu l'origine dei miei guai: Ulisse cominciò da allora a spaventarmi con sempre nuove calunnie, a diffondere voci ambigue tra la gente, a cercare di nuocermi, conscio della sua colpa. Né si dié pace finché, con l'aiuto di Calcante ... Ma perché ricordare vanamente quei casi dolorosi? Perché indugiare se avete in odio tutti i Greci e vi basta sapere che sono Greco? Presto, mandatemi al supplizio: è quel che wole Ulisse, è quello che gli Atridi sarebbero disposti a pagare a gran prezzo! » Bruciamo dalla voglia d'interrogarlo e sapere le cause della sua fuga, ignari della perfidia e dell'astuzia dei Greci. Tremando egli continua, quel cuore falso, e ci dice: « I Danai tante volte desiderarono andarsene, abbandonare Troia e fuggire via, stanchi di questa guerra eterna. Oh, l'avessero fatto! Spesso l'aspra tempesta chiuse loro le strade del mare e Austro terribile li costrinse a fermarsi. Già sorgeva il cavallo fatto di travi d'acero; allora piu che mai
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i nembi risuonavano per tutto il vasto cielo. Inquieti mandiamo Euripilo a interrogare l'oracolo di Apollo, ed egli ne torna con questo triste responso: - Placaste i venti col sangue d'una vergine uccisa quando la prima volta veniste alle spiagge di Troia, o Danai: ora dovete implorare un ritorno felice con altro sangue, sacrificare un'anima d'Argo! -.Tutti stupirono quando la voce giunse alle orecchie del popolo, un gelido tremore corse per tutte le ossa: chi mai dovrà morire, chi sarà mai la vittima reclamata da Apollo? A questo punto Ulisse trascina fra la gente che urlava sbigottita l'indovino Calcante: gli chiede spiegazioni sul volere dei Numi. E molti mi avvertivano della frode crudele di quell'ingannatore, prevedendo in silenzio l'avven'ire. Calcante tace per dieci giorni chiuso in sé, rifiutando di nominare alcuno, di mandare qualcuno a morire. Alla fine, quasi per forza, spinto dalle grida di Ulisse, parla come d'accordo, mi destina all'altare del sacrificio. Tutti assentirono, lieti permisero che ciò che ognuno temeva per sé ricadesse su un altro. E già si avvicinava l'infausto giorno, già per me si preparavano il sacrificio, le bende da mettere intorno alle tempie, il frumento salato: mi strappai alla morte, lo confesso, spezzai le corde e nella notte mi nascosi tra l'erba e il fango d'uno stagno, finché non facessero vela, pregando che partissero. Non spero piu oramai di rivedere la patria né i cari figli né il padre tanto desiderato: gli Atridi forse vorranno fare su loro vendetta della mia fuga, espiando con quel sangue la colpa di non avermi ucciso. Perciò ti prego, o re, per i Celesti e gli Dei che sanno la verità, per la fede, se c'è ancora un po' di fede tra i mortali, pietà di tante mie miserie, pietà del mio cuore che soffre senza nessuna colpa •· Gli doniamo la vita, commossi da tante lagrime, lo compatiamo molto. Lo stesso Priamo comanda che gli sian tolti i legami e le manette, e gli dice
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146. d'una vergine uccisa: la flotta greca, riunita in Aulide, non riusciva a far vela verso Troia a causa dei venti avversi, susciti da Diana, di cui Agamennone aveva ucciso una cerva sacra. Calcante profetò che per placare la dea occorreva sacrificare la figlia di Agamennone, Ifigenia, e cosi fu deciso. Ma Diana ebbe pietà della fanciulla, la sostitul con una cerva e la fece sua sacerdotessa, trasportandola in Tauride, l'attuale Crimea. 164. Tutti assentirono: annotazione psicologica molto acuta: l'incubo che gravava sulla vita di ognuno è disciolto e tutti sono ben lieti, senza chiedersi il perché e il come, che la vittima sia stata designata. :E. proprio il caso di dire: mors tua, vita mea! x68. le bende... : le vittice erano preparate al sacrificio fasciando loro le tempie con sacre bende e spargendo sul loro capo farina abbrustolita e sale. I75· Gli Atridi: i figli di Atreo, Menelao e Agamennone, per vendicarsi uccideranno forse i miei figli e mio padre. Questa supposizione, conoscendo l'animo vendicativo dei due re, è psicologicamente di grande effetto ed anticipa la pietosa implorazione di aver salva la vita. 178. che sanno la verità: è il colmo dell'ironia raggiunto dall'abile discorso di Simone. Implora i Greci di aver salva la vita in nome degli dèi che conoscono la verità! Come ognun ben vede la simulazione si serve senza esitare di giuramenti sacri pur di ottenere l'effetto desiderato.
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191. Chiamo testimoniare... : la terza paxte dell'abi-
lissimo discorso di Sinone è ovvia: egli mente in modo spudorato, ma lo fa perché ormai è certo di aver sorpreso la buona fede dei Troiani, di averli in pugno e di poter disporre della loro credulità a piacimento. Perciò spreca i giuramenti, dal tono patetico trascorre all'enfatico e all'oratorio senza mai tuttavia allontanaxsi dal lucido filo del racconto. Anche la menzogna ha una sua precisa dialettica. 202. tua santa parola!: in cambio della propria vita, egli salverà la città dall'inganno. 206. il Palladio fatale: s'è già accennato all'impresa di Ulisse e di Diomede (Titide ), che osarono rapire il simulacro di Minerva, garanzia unica divina della indistruttibilità di Troia. 212. Tritonia: cosl chiamata dal luogo di nascita. 220. Pergamo: cittadella di Troia.
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221. se non si torna ad Argo: Calcante era anche
presso i Troiani conosciuto come celepre indovino. Perché non credere al racconto di Sinone che riferisce il consiglio di Calcante per sfuggire all'ira di Minerva? In questo modo poi è pienamente giustificata l'improvvisa partenza dei Greci per portare in patria il Palladio e placare l'ira della dea ed insieme la costruzione del gigantesco cavallo.
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amichevolmente: «Chiunque tu sia dimentica i Greci, considerati dei nostri. Ma dimmi la verità: perché quest'immenso cavallo? Chi ne è l'inventore? A che serve? È un'offerta ai Numi o un ordigno di (guerra?» Sinone, esperto d'inganni e di trapp<>le greche, levò verso le stelle le mani liberate dalle manette e disse: « Chiamo a testimoniare voi, fuochi eterni, la vostra divinità inviolabile, e voi altari e voi spade da cui fuggii, e voi bende divine che quand'ero una vittima ho portato: m'è lecito spezzare il giuramento che mi consacra ai Greci, m'è lecito odiare i Greci e rivelare tutto quel che nascondono; non c'è piu alcuna legge che possa trattenermi. O Troia, tu mantieni le tue promesse, ed io ti salverò (dirò la verità, rendendoti in cambio della vita un immenso servigio): rimani dunque fedele alla tua santa parola! Le speranze dei Greci per la guerra intrapresa si basarono sempre sull'aiuto di Pallade. Ma un giorno l'empio Tidide e Ulisse inventore d'in[ganni volendo strappare dal tempio il Palladio fatale, uccise le sentinelle della rocca, rapirono la sacra statua e osarono toccare con le mani insanguinate le bende virginee di Minerva: da allora tali speranze decrebbero, svanirono, le forze s'indebolirono, la mente della Dea divenne ostile, avversa. La Tritonia Minerva lo fece loro capire con prodigi evid~nti. Appena la statua fu posta in mezzo all'accampamento nei suoi occhi sbarrati arsero fiamme d'ira, un sudore salato corse per le sue membra; per tre volte la Dea (miracolo incredibile) balzò da terra impugnando lo scudo e l'asta oscillante. Calcante subito annunzia che bisogna fuggire per il mare, che Pergamo non potrà mai cadere sotto le !ance argoliche se non si torna ad Argo a chiedere gli auspici, portandovi il Palladio e poi riconducendolo sulle curve carene. Ora, benché ritornino col favore del vento
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alla patria Micene, cercano nuove armi, Dei propizi e ben presto, rinavigato il mare, giungeranno improvvisi: cosi Calcante interpreta i presagi. Calcante ancora li ha convinti a lasciar qui il cavallo al posto dd Palladio per riparare l'offesa alla Dea ed espiare il triste sacrilegio; e ha ordinato di farlo cosi grande, cosi ben contesto di travi - una mole che si alzi sino al cielo - perché non possa passare attraverso le porte, perché i Troiani non riescano a introdurlo in città a proteggere il popolo col santo, antico culto. Ché se le vostre mani violano il dono sacro di Minerva (gli Dei ritorcano su Calcante, prima, questo presagio!) una disgrazia estrema ne verrebbe all'impero di Priamo ed ai Troiani; invece se riuscirete a spingere il cavallo sino in cima alla rocca, sarete vittoriosi, porterete la guerra fin sotto le mura di Pelope: ecco quale destino attende i nostri nipoti ». Grazie all'arte insidiosa dello spergiuro Sinone la storia fu creduta: e coloro che Achille e il Tidide e dieci anni e migliaia di navi non riuscirono a vincere, li vinsero la frode e le lagrime finte d'un Greco ingannatore.
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Allora un altro evento molto più spaventoso sopraggiunse improvviso a turbarci: infelici! Eletto sacerdote di Nettuno, Laocoonte sacrificava ai piedi dell'altare solenne del Dio un enorme toro. Ed ecco (inorridisco nel dirlo) due serpenti, venendo da Tenedo per l'alta acqua tranquilla, si levano sull'oceano con spire immense e s'avviano insieme verso la spiaggia: i loro petti svettano tra i flutti, le sanguigne creste sorpassano J'onde, il resto del loro corpo 243. le mura di Pelope: di Argo e di Micene, costruite dal re Pdope, che
dette poi il nome alla regione del Peloponneso. 244. i nostri nipoti: dal-
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l'aggettivo possessivo si arguisce che Sinone si considera ormai troiano. LAOCOONTE (250-290) - l..e parole di Sinone vengono rese più credibili e quasi confermate da un prodigio divino. Infatti mentre Laocoonte sacrifica sulla spiaggia un toro a Nettuno per ringraziar/o della partenza dei Greci, arrivano dal mare due serpenti, che prima avvolgono nelle loro mortali spire i figlioletti del sacerdote, poi soffocano lo stesso Laocoonte che s'era precipitato ad aiutarli. I due serpenti, '10i, si rifugiano nel tempio di Minerva ai piedi del simulacro della dea. Ormai i Troiani sono persuasi: il cavallo sarà con tutti gli onori portato nell'interno della città ed issato sulla rocca. 250. molto più spaventoso: grave era stata l'impressione destata dal racconto di Sinone, ma determinante sarà l'orrenda fine di Laocoonte e dei suoi figli che riempirà di sacro terrore l'animo degli astanti e porterà alla decisione di introdurre il cavallo nella città. Nessun dubbio quindi che, colpendolo, la volontà degli dèi si era manifestata con chiarezza crudele e violenta. 254. Ed ecco ... : la rappresentazione dei due serpenti che avanzano svettando con i petti sul mare e levando le loro spire imniense, quasi preambolo della tragedia imminente, con le code che frustano il mare, è maravigliosamente poetica per la concitazione incalzante dell'azione. Qui per vero si ha la dimostrazione di come la
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fantasia accenda il verso di moti, colori e suoni. 275. Laocoonte si sforza: nei musei vaticani un autore ignoto, ma certamente grande, ha fermato nel marmo questa celeberrima scena. 282. rifugiandosi ... : quest'ultima parte dell'episodio pecca d'incongruenza e forse fu aggiunta da Virgilio posteriormente. Intanto il Palladio non esisteva più perché trafugato; poi, che i serpenti compiano il lungo tragitto dalla spiaggia alla Rocca non aggiunge alcunché a quello che già sappiamo. IL CAVALLO NELLA CITTÀ
(291-576)- Si apre una breccia nelle mura, affinché l'enorme macchina possa entrare. Inutilmente Cassandra cerca di dissuadere i suoi concittadini, predicendo l'imminente caduta della città. Scende la notte e Sinone, ricevuto il segno dalle navi che ritornano alla spiaggia, fa uscire dal cavallo i guerrieri che vi si erano celati. Costoro, uccise le sentinelle, aprono le porte ai compagni sbarcati. Incominciano gli incendi e la strage. Ad Enea dormiente appare l'ombra di Ettore che lo avvisa del pericolo e lo scongiura a fuggire da Troia con i Penati. L'eroe si sveglia, balza dal letto, prende le armi e si lancia nella mischia, raccogliendo i TrrJiani dispersi. Distrugge un gruppo di guerrieri greci ed ordina ai compagni di indossarne le armi per poter avere il compito facilitato. All'improvviso scorgono Cassandra trascinata a viva forza fuori del tempio di Minerva. Si slanciano per liberar/a, ma scambiati dai Tro-
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sfiora la superficie dell'acqua: enormi groppe che s'attorcono in cerchi sul mare c-he, frustato dalle code, spumeggia fragoroso. E approdarono a riva: gli occhi ardenti iniettati di sangue e di fuoco, lambivano con le vibranti lingue le bocche sibilanti. Fuggiamo qua e là, pallidi a tale vista. Senza esitare, i serpenti puntano su Laocoonte. E anzitutto, avvinghiati con molte spire viscide i suoi due figli piccoli, ne straziano le membra a morsi. Poi si gettano su Laocoonte che armato correva in loro aiuto stringendolo coi corpi enormi: già due volte in un nodo squamoso gli han circondato vita e collo: le due teste stan alte sul suo capo. Sparse le sacre bende di bava e di veleno Laocoonte si sforza di sciogliere quei nodi con le mani ed intanto leva sino alle stelle grida orrende, muggiti simili a quelli d'un toro che riesca a fuggire dall'altare, scuotendo via dal capo la scure che l'ha solo ferito. Infine i due serpenti se ne vanno strisciando sino ai templi piu alti, raggiungono la rocca della crudele Minerva, rifugiandosi ai piedi della Dea sotto il cerchio del suo concavo scudo. Nuovo terrore s'insinua nelle anime tremanti di tutti noi: molti dicono che meritatamente Laocoonte ha pagato il suo grave delitto, egli che con la lancia colpi la statua di que.cia scagliandole nel dorso la punta scellerata. Gridano tutti che occorre trascinare il cavallo a Troia, supplicando la santità di Minerva ...
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Apriamo una breccia nella cinta di mura che attornia la città. Ognuno dà una mano a sottoporre ruote scorrevoli al cavallo, a legare al suo collo lunghe funi. La macchina fatale ha già passato le mura, piena d'armi,
iani, che difendono la rocca, per Greci, vengono tutti uccisi, tranne Enea e due com-
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pagni. L'eroe allora si dirige verso la reggia per portare aiuto a Priamo.
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mentre intorno fanciulle non sposate e fanciulli cantano gli inni, felici di toccare per gioco le funi con le mani. La macchina s'avanza, scivola minacciosa in mezzo alla città. O patria, casa di Dei, e voi mura dardanie che tanta guerra ha reso famose: quattro volte si fermò al limitare della porta e altrettante le armi nel suo ventre tuonarono sinistre! Noi non pensiamo a nulla e andiamo avanti, ciechi nella nostra follia, finché non sistemiamo il mostro maledetto dentro la santa rocca. Anche Cassandra allora apri la bocca - mai creduta dai Troiani, per volere d'Apollo e ci predisse il fatale imminente destino. Quel giorno per noi doveva essere l'ultimo: ma (infelici!) adorniamo di fronde festive i templi degli Dei per tutta la città. Intanto il cielo gira su se stesso, la notte erompe dall'oceano, avvolgendo di fitta tenebra terra e cielo e inganni dei Mirmidoni: in ogni casa i Troiani esultanti si sono taciuti, un duro sonno avvince i loro corpi. E già l'armata greca avanzava da Tenedo nell'amico silenzio della tacita luna in ordine perfetto, avviandosi ai lidi ben noti, e già la nave ammiraglia levava la fiamma d'un segnale luminoso: Sinone, protetto dagli ostili disegni degli Dei, furtivamente allora libera i Greci chiusi nel ventre del cavallo, aprendo gli sportelli di pino. Spalancata la macchina fa uscire all'aperto i guerrieri: si calano con una fune, lieti di abbandonare quella stiva, Tessandro e Stenelo, il feroce Ulisse ed Acamante, Toante e Neottolemo Pelide, Macaone il grande e Menelao, ed infine Epeo &tesso artefice dell'inganno. Invadono la città seppellita nel sonno e nel vino: massacrano i guardiani, spalancano le porte e fanno entrare come d'accordo i compagni, riunendosi con essi. Era l'ora in cui giunge agli stanchi mortali il primo sonno e serpeggia gradito nei loro corpi
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296. mentre intoriUJ fanciulle ... : il contrasto tra la
lieta e festante turba di fanciulle e di fanciulli che a gara cantano e la cupa enorme macchina da guerra, piena di armati e minacciosa nel lento incedere, è singolare e dimostra quanto Virgilio sia fine psicologo ed artista nell'audace accostamento. 304. ciechi nella nostra follia: meglio in sintesi non
si potrebbe dire circa l'atteggiamento di tutto il popolo troiano. 306. maledetto... santa:
nota il marcato valore antitetico fra i due aggettivi, anche nella loro risonanza verbale. 307. Cassandra: la più gentile e bella delle figlie di Priamo. Apollo, da lei respinto, le concesse il dono della profezia, ma contemporaneamente la condannò a non essere creduta e ascoltata. Fu trascinata schiava in Micene da Agamennone. 315. Mirmidoni: sta per Greci. 317. un duro sonno: dopo tante emozioni, fatiche e festeggiamenti tutti dormono profondamente. 319. della
tacita luna:
Troia fu presa, si dice, durante un plenilunio. 328. Tessandro: eroe sconosciuto. Stenelo, figlio di Capaneo. Acamante e Toante: anche questi sconosciuti. Neottolemo Pelide. Pirro, figlio di Achille. Macaone, figlia di Esculapio. Epeo, valente guerriero e costruttore abilissimo, con l'aiuto di Minerva, del cavallo.
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341. i fori delle briglie:
Achille, dopo aver ucciso Ettore, il più valido difensore di Troia, lo legò per i piedi al suo cocchio di guerra e lo trascinò intorno alle mura della città, affinché i difensori vedessero quale triste fine aveva fatto il loro campione.
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345· vestito dell'armi di Pelide: ricorda l'episodio dell'Iliade in cui Achille,
che si era ritirato dalla lotta per un dissidio con Agamennone, impresta le sue armi al carissimo amico Patroclo. In singolar tenzone Patroclo viene ucciso da Ettore, che lo spoglia delle preziose armi, le indossa e aprendosi un varco tra i nemici riesce ad incendiare molte delle loro navi, tirate a secco sulla spiaggia. 348. grommosi: cosparsi di sangue raggrumato. 361. le mie vane domande: nel sogno Enea crede
che Ettore viva ancora e in questa verità gli rivolge domande oziose ed inutili. Ma le parole dell'eroe lo riporteranno immediatamente alla dura realtà della tragedia, che si è già iniziata. 364. Pergamo: la rocca sorgeva sulla parte più alta della città, dominandola.
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371. dopo tanti viaggi... : è
la predizione della lunga odissea di Enea per i mari del Mediterraneo, la cui navigazione durerà per i primi sei canti del poema. 372. le sacre bende: il simulacro di Vesta con il capo adorno delle sacre bende, il fuoco che doveva ardere perennemente e che in Roma sarà tenuto acceso da speciali sacerdotesse chiamate Vestali.
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per dono degli Dei: ed ecco, in questo sonno mi sembrò comparisse davanti un tristissimo Ettore, pieni gli occhi di gran pianto, insozzato di sanguinosa polvere, i fori delle briglie nei piedi tumefatti; come quando, una volta, fu trascinato in furia dalla biga d'Achille. Ahi, com'era ridotto! Com'era diverso dall'Ettore che tornò vittorioso di Patroclo, vestito dell'armi del Pelide, dopo avere scagliato le fiaccole troiane contro le navi greche! Aveva incolta la barba, i capelli grommosi di sangue e per il corpo le infinite ferite riportate morendo sotto le mura patrie. Allora mi sembrò di piangere, parlando a quell'ombra per primo con mestissima voce: «O luce della Troade, suprema speranza dei Teucri, perché tanto hai tardato? Da quali regioni sei venuto, Ettore troppo atteso? Cosi ti rivediamo, stanchi, dopo infiniti travagli dei Troiani e d'Ilio, dopo tanti lutti amari dei tuoi? Che cosa ha sfigurato il tuo volto sereno? Perché queste ferite? » Nulla rispose: senza degnare d'attenzione le mie vane domande. Ma traendo dal petto un profondo sospiro mi disse: « Fuggi, fuggi o figlio di una Dea, salvati dalle fiamme! Il nemico è padrone delle mura e già Pergamo precipita dalla sua altezza. Abbiamo fatto anche troppo per la patria e per Priamo: se Troia avesse potuto difendersi con mani mortali sarebbe bastata la mia. Ilio ti affida i suoi sacri Penati: prendili, che accompagnino la tua sorte futura, cerca per loro le mura che erigerai superbe dopo tanti viaggi faticosi sul mare! » E colle proprie mani mi porse le sacre bende, il fuoco eterno, l'effigie della potente Vesta. Intanto la città è dovunque sconvolta dalla tragedia e benché la casa di mio padre sorga in luogo appartato e protetto dagli alberi pure il chiasso e le grida diventano sempre piu chiari e s'avvicina lo strepitò delle armi. Mi riscuoto dal sonno e salgo in cima al tetto,
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le orecchie tese. Come quando infuria la fiamma tra le biade sul soffio dei venti, o un vorticoso torrente gonfio d'acqua montana allaga i campi, abbatte i coltivati, distruggendo il lavoro dall'aratro, e trascina a precipizio alberi, rami rotti, covoni, sassi; ignaro il pastore trasalisce a sentire dall'alto di una rupe quel terribile rombo. Tutto allora compresi: l'inganno di Sinone e le insidie dei Greci. E già il grande palazzo di Deifobo crolla vinto dal fuoco, gil brucia la vicinissima casa di Ucalegonte; la vampa dell'incendio fa risplendere il mare sigeo per largo tratto. Si levano grandi urla e un clangore di trombe. Fuori di me mi armo, senza sapere dove correre cosi armato: ma il mio cuore è smanioso di riunire una schiera di amici per combattere salendo verso la rocca. Mi trascinano l'ira e il furore, e ricordo che è bello morire in guerra. In qud momento arriva Panto, gran sacerdote dd santuario di Apollo, sfuggito ai dardi greci. Porta con le sue mani i sacri arredi, i vinti Numi e il suo nipotino; corre fuori di sé a casa mia. « Dov'è il piu grave pericolo gli chiedo- o figlio d'Otris? La rocca è ancora no[stra? » Mi risponde, gemendo: «È venuto l'estremo giorno, l'ora fatale di Troia, inevitabile. Fummo! Noi Teucri fummo, Pergamo fu, la grande gloria troiana fu!. .. Ora piu nulla: Giove crudde ha dato tutto ad Argo. I Greci dominano sulla città incendiata; il superbo cavallo alto in mezzo alle mura vomita gente armata; vittorioso Sinone semina fuoco e insulti. Altri sono alle porte a migliaia e migliaia, quanti mai non ne vennero dalla grande Micene. Altri ancora sorvegliano in armi le strettoie dei vicoli: una siepe di ferro dalle punte lucenti sorge ovunque, mortale. Resistono appena le sentinelle alle porte, combattendo alla cieca ». Spinto da tali parole e dal volere dei Numi mi getto tra le fiamme e l'armi ove mi chiamano
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389. Deifobo: uno dei figli di Priamo che, morto Paride, sposò Elena. Fu ucciso e crudelmente mutilato da Menelao. 391. Ucalegonte: uno degli anziani di Troia che componevano il senato della città. 407. Noi Teucri fummo: nel verso virgiliano la vicina distruzione di Troia risuona in tutta la sua solenne tragicità: « fuimus Troes, fuit Ilium et ingens gloria Teucrorum ». 409. ha dato tutto ad Argo: ha concesso ai Greci tutte le fortune e la vittoria finale. C'è una grande amarezza nelle parole di Enea nel constatare come anche il padre degli dèi sia stato crudelmente avverso alla sua patria e l'abbia condannata alla distruzione. 412. fuoco ed insulti: la metamorfosi di Sinone che da umile e timoroso si trasforma nel nemico baldanzoso che non solo distrugge ed uccide, ma soprattutto insulta coloro che gli hanno concesso la vita, gli hanno creduto ed hanno avuto la dabbenaggine di considerarlo uno di loro, ci illumina sulle mostruose capacità dell'animo umano e ci rende scettici verso il nostro prossimo. Sinone impartisce anche a noi una dura lezione di cinismo. 413. migliaia e migliaia: è un'esagerazione dovuta alla lontananza dei terribili ricordi che rivivono nella memoria di Enea e ingigantiscono le loro proporzioni. 418. alla cieca: perché nel buio della notte, rotto dagli incendi, distinguono con fatica gli amici dai nemici.
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421. Erinni: altrimenti chiamate Furie, erano tre, Aletto, Tisifone e Megera ed avevano il compito di perseguitare i colpevoli e di eseguire le sentenze delle divinità infernali. Qui sono le personificazioru della rabbia omicida di Enea. 422. Rifeo: era stimato l'uomo più onesto e giusto di Troia, tanto che Dante lo considerò beato in Paradiso (canto XX). 423. Epito: personaggio sconosciuto, cosi come gli altri nominati Dimante e l pani. 425. Corebo: figlio di Migdone, re della Frigia, era venuto in aiuto di Troia perché innamorato di Cassandra, alla quale tuttavia, come tutti gli altri, non aveva creduto quando vaticinava la caduta della città. 439· C'è una sola: ecco un altro detto divenuto nel tempo proverbiale: «una salus victis nullam sperare salutem ». 448. cava: l'aggettivo rende bene l'impressione che l'oscurità offra quasi dei ripari nei quali rifugiarsi per non essere scoperti. 461. Androgeo: uno dei tanti personaggi poco ~oti. 462. ignaro ... : abbiamo già accennato a quale dovesse essere nella notte l'orrenda confusione che regnava nella città. Nelle sue strette strade fiumane di guerrieri, coperti d'armi e di sangue, intenti a predare, altri ancora impegnati a forzare le porte dei palazzi difesi disperatamente da pochi coraggiosi, e su tutto il gemito dei morenti e le urla dei vincitori. ~ naturale, dunque, L'errore di Andro-
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la triste Erinni, il fremere della lotta e il clamore che sale fino alle stelle. Si unisce a noi Rifeo col fortissimo Epito, che riconosco al chiaro di luna; quindi ingrossano la pattuglia Dimante, lpani e il giovane figlio di Migdone, Corebo. Costui era giunto a Troia proprio da pochi giorni; innamorato pazzo di Cassandra, voleva portare aiuto al futuro suocero ed ai Troiani: infelice, se avesse dato ascolto ai presagi dell'ispirata fidanzata! ... Quando li vidi uniti e decisi a combattere dissi ]oro: « O guerrieri inutilmente eroici, se davvero volete seguire un uomo pronto a tutto, considerate la situazione: è tragica. Tutti gli Dei sui quali si fondava l'impero frigio ci hanno lasciato, abbandonando i templi e gli altari; ora voi accorrete in aiuto di una città incendiata. Su, moriamo, scagliamoci nel pieno della mischia! C'è una sola salvezza pei vinti, non sperare in alcuna salvezza ». Cosf aumentai la rabbia di quei cuori roventi. Come lupi rapaci che una tremenda fame ha spinto fuori alla cieca nella nebbia (e nel covo li aspettano i lupicini abbandonati, secche le fauci), ce ne andiamo attraverso le frecce, attraverso i nemici verso morte sicui-a passando proprio in mezzo alla città. La notte oscura ci circonda con la cava sua ombra. Chi potrebbe narrare con parole la strage di quella notte; e le morti? Chi potrebbe trovare tutte le lagrime, quante ne accorrerebbero ai nostri dolori? La città antica che aveva regnato per tanti anni rovina; qua e là giacciono senza vita corpi infiniti, lungo le strade, nelle case, sulla soglia dei templi. Ma non sono soltanto i Troiani a pagare col sangue le loro colpe; talvolta ancl:te nel cuore dei vinti torna il coraggio, e i Greci vittoriosi cadono. Ovunque il lutto più atroce, dovunque terrore innumerevoli spettacoli di morte. Si presenta per primo Androgeo, accompagnato da molti Greci; ignaro ci prende per amici
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e parla cordialmente: «Presto, presto o guerrieri! Perché indugiate tanto? Gli altri mettono a sacco Troia incendiata e voi solo adesso venite dalle navi superbe? ,., Subito (la risposta datagli non bastò a rassicurarlo) comprese d'essere capitato fra i nemici. Atterrito tacque e cerco di ritrarre i passi. Come chi, camminando in campagna, inaspettatamente mette il piede su un serpe nascosto tra gli spini e fugge in fretta, tremando, dalla bestia schifosa che si driZ?..a infuriata gonfiando il collo azzurro: cosi Androgeo scappava spaventato. Corriamo all'assalto accerchiando con una siepe d'armi i Greci, svantaggiati dal terrore e dal fatto di non conoscere il luogo. Li abbattiamo qua e là: la fortuna è propizia a questa prima impresa. Allora Corebo, che il successo ha esaltato e incoraggiato, dice: «Compagni, la sorte ci si dimostra amica e ci addita la strada della salvezza: seguiamola! Cambiamo scudi, adottiamo insegne argive. Inganno o valore? Che importa, contro il nemico tutto è buono! Loro stessi ci daranno le armi». Subito mette l'elmo chiomato di Andtogeo, ne imbraccia il bello scudo e s'appende una spada greca al fianco. Lo stesso fanno Rifeo e Dimante; poi tutti gli altri giovani· s'armano lietamente delle spoglie nemiche. Andiamo avanti, confusi coi Greci, senza un Dio che ci assista. Attacchiamo, combattiamo piu volte entro la notte buia, spediamo molti Danai all'Orco. Altri fuggono verso le navi e corrono alla spiaggia sicura, altri, in preda a un terrore vergognoso, s'arrampicano di nuovo sul cavallo immenso e si nascondono nel fondo del suo ventre. Ma se gli Dei sono avversi ogni speranza è vana. Vediamo in quel momento la vergine Cassandra, figlia di Priamo, tratta a forza via dal tempio di Minerva, le chiome sciolte, gli occhi fiammanti levati invano al cielo: gli occhi poiché le mani tenere erano strette da ceppi. L'infuriato Corebo non sopPQrta quella vista e, deciso a morire, si scaglia tra i nemici. Noi tutti
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geo che scambia Enea ed i suoi per amici e li invita ad affrettarsi per partecipare al bottino. 469. come chi ... : lo stesso paragone Io ritroviamo nell'Iliade di Omero (canto III, v. 33 sgg.): «Come quando uno, visto un serpente, si ritrae fuggendo tra le gole di una montagna e il tremore gli ha invaso le membra e mentre si ritira indietro, il pallore gli copre le guance, cosl rientrò nlla turba dei valorosi Troiani, temendo, il figlio di Atreo, Alessandro simile ad un dio ». Tuttavia ci pare che qui la similitudine sia più elegante e più fervida di commozione. 483. Inganno o valore?: parrebbe che in una situazione simile ogni questione di lealtà e di coscienza sia superflua. Ma Virgilio. non vuoi perdere occasione alcuna per mettere a raffronto la fide s troiana con la calliditas greca, cioè il contegno cavalleresco dei Troiani, come popolo e.come individui, e l'astuzia dei nemici, forse più induriti e spietati sia in pace sia in guerra. 484. tutto è buono!: vale per tutti l'inganno del cavallo. Pare che i Troiani .abbiano imparato la lezione, ma è troppo tardi ormai! 490. senza un Dio ... : non solo senza la protezione di alcun Dio, ma in contrapposizione al favore degli Dei nei confronti dei Greci. Il concetto verrà ribadito con maggior forza nel verso 497. 493· all'Orco: all'Inferno. Orco era il dio della morte. 493· Altri fuggono ... : la paura dei Greci e la loro affannosa ricerca della salvez-
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za ci paiono esagerati. Forse il dolore fa che Enea travisi senza volerlo il ricordo di quelle tristissime ore.
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Aiace d'Oileo. 513. ed entrambi gli Atridi: Agamennone e Menelao. 515. Euro: vento di Le-
vante che veniva generalmente rappresentato come un giovane dio sorridente su una biga tirata da cavalli orientali. 517. Nereo: dio marino cui Virgilio pone in mano, come a Nettuno, un tridente. 526. Peneleo: guerriero non noto, da non oonfondersi con l'omonimo re dei Beoti, che era caduto sotto i colpi di Euripilo. 531. la benda sacra: l'infula che cingeva il capo di Panto e costituiva il distintivo della sua dignità sacerdotale.
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questo polemicamente Enea tiene ad affermare per confutare qualche voce che l'aveva accusato di non essersi battuto, ma soltanto pensato di mettersi in salvo con i suoi. 537· lfito, Pelia: troiani non noti. 538. Pelia lento: Pelia si moveva con difficoltà a causa di una ferita non grave causatagli da un colpo di lancia o di spada da parte di Ulisse. 540. un gran chiasso: in tutta la città c'erano clamore ed urli e rumori d'ogni genere, ma presso la reggia lo strepito vinceva ogni altro a causa, appunto, della battaglia risolutiva che stava svolgendosi.
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lo seguiamo in falange serrata, fitta d'armi. E qui siamo sommersi dalle frecce che i nostri ci scagliano addosso dall'alto del tempio ingannati dalle armi e dai cimieri argivi: ne deriva una strage orribile. Poi i Greci, commossi e addolorati di vedersi sfuggire Cassandra, si raccolgono da ogni parte e ci assalgono; c'è il terribile Ajace, l'esercito dei Dolopi ed entrambi gli Atridi. Cosi scoppia talvolta l'uragano ed i venti contrari si fronteggiano e cozzano tra loro, Zefiro, Noto ed Euro lieto dei bei cavalli orientali: le selve stridono e lo schiumoso Nereo col suo tridente s'accanisce a sconvolgere i mari sino al fondo. Perfino quelli che prima costringemmo a fuggire coi nostri inganni attraverso la tenebra della notte nerissima e cacciammo per tutta la città riappaiono: riconoscono insegne mentite e false armi e notano l'accento straniero della nostra pronuncia. Presto siamo schiacciati dal numero; C'.orebo è il primo a cadere per mano di Peneleo sull'altare di Minerva guerriera; poi cade Rifeo, di gran lunga il piu giusto fra i Teucri (gli Dei pensavano altrimenti, forse). Muoiono !pani e Dimante, trafitti dagli stessi Troiani, e cadevi anche tu Panto: né la tua fede, la tua pietà, la benda sacra ad Apollo t'hanno protetto. Ceneri iliache, fuoco distruggitore dei miei, testimoniate che nel tramonto di Troia non ho evitato i pericoli, non ho evitato le frecce e sarei morto qui, se il destino l'avesse voluto, sotto la furia dei Greci, con pieno merito! Ci stacchiamo di là, Ifìto, Pelia ed io: il primo appesantito dall'età, Pella lento per un colpo partito dalla mano d'Ulisse. Il gran chiasso ci chiama alle case di Priamo. Vi infuria una guerra spietata, come se nell'intera Troia non si lottasse, non morisse nessuno nel resto della 'città. Che battaglia tremenda! I Greci impetuosamente si scagliano sul palazzo e assediano la porta forman~o la testuggine coi loro scudi. Scale sono appoggiate ai muri
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e i guerrieri, davanti alla porta, ostinati salgono e salgono, alti gli scudi nella sinistra a riparo dai dardi, la destra che già afferra il cornicione. I Dardani, di sopra, fanno a pezzi il tetto, demoliscono le torri (si preparano, vedendo la rovina imminente, a difendersi con ogni arma, alle soglie della morte) e trascinano, per farle cadere sui nemici, le travi dorate, gloria dei padri; altri le spade in pugno, presidiano le porte da basso, in fitta schiera. L'idea di portare aiuto alle case del re, incoraggiare i guerrieri e confortare i vinti ci infiamma. C'era una porta segreta con un andito che univa i varii edifici della reggia: di lf la sventurata Andromaca era solita spesso pass~re sola, quando il regno era ancora in piedi, per andare dai suoceri e portare Astianatte al nonno. Salgo di là sino in cima al terrazzo piu alto, presidiato dai Teucri che scagliavano inutili proiettili. Qui sorgeva una torre a piombo, altissima, donde si poteva vedere tutta Troia, le navi ed il campo dei Greci: infuriando a gran colpi di spada sui suoi punti meno saldi, le nude travi di connessura, la svelliamo dalle alte fondamenta e spingendo riusciamo a farla cadere. La torre d'improvviso precipita, rovinando con enorme fragore sulle schiere dei Danai. Ma ne arrivano sempre dei nuovi, e l'uragano di sassi e di proiettili d'ogni sorta non cessa ...
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Proprio davanti al vestibolo, sulla soglia, trionfa Piero lucente d'armi di bronzo scintillante. Cosf torna alla luce, pasciutosi d'erbe velenose, il colubro che le brume invernali costrinsero a nascondersi in una tiepida tana sottoterra: splendente di gioventù, tutto nuovo, perduta la vecchia pelle, contorce il dorso viscido, alto nel sole, il petto eretto, dardeggiando la lingua triforcuta. Insieme a Piero assaltano
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561. la sventurata Andromaca: moglie di Ettore e madre di Astianatte. LA MORTE DI PRIAMO (577-
855) - Per un passaggio segreto, Enea entra nella reggia assediata e ne fa crollare l'alta torre sui nemici. Ma i Greci, guidati da Pi"o, riescono a sfondare le porte ed irrompono nell'interno. Polite, giovane figlio di Priamo, viene ucciso da Pirro sotto gli occhi dei genitori. Priamo, dopa, aver maledetto il crudele eroe, gli scaglia contro un dardo, ma viene anch'egli ucciso presso l'altare. Enea ha assistito impotente alla tragica morte del suo re. Ora si ricorda del padre e della moglie e del figlio e corre a salvar/i da una morte simile. Mentre si dirige verso le proprie case, scorge Elena, nascosta nel tempio di V esta. Vorrebbe, nel furore della vendetta, ucciderla ma è trattenuto dall'insano proposito dalla madre V enere, che attribuisce alla volontà dei Fati la distruzione di Troia, non alle subdole arti di Elena Protetto dalla madre raggiunge le case e vi trova il padre Anchise, che non vuol saperne di lasciare la patria. Ma un prodigio celeste dissuade il vecchio eroe dalla sua decisione. 578. Pi"o: figlio di Achille e di Deidamia. Fu condotto a Troia da Ulisse perché l'oracolo aveva predetto che soltanto la presenza di lui avrebbe permesso la presa della città. j;; famoso come guerriero spietato e crudele: infatti scannò Priamo e precipitò dalle mura il piccolo Astianatte.
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586. Perifante: è gigantesco, ma non è noto. 590. bipenne: scure da combattimento, a due tagli. 595· l'intimità di Priamo: le camere da letto. 6o2. imprimendovi baci: baciavano le cose care e familiari, che erano state testimoni della loro felicità e che avrebbero presto dovuto lasciare per seguire i vincitori in catene. 605. ariete: macchina da guerra, costituita da una enorme testa di montone di ferro fuso, fissata in cima ad una grossa trave. Secondo Plinio, l'inventore ne era stato Epeo, lo stesso che aveva costruito il cavallo. 6x6. Ecuba insieme alle sue cento nuore: è la regina, moglie di Priamo, che tentò di difendere le sue cinquanta figlie e le sue cinquanta nuore. 619. Quelle cinquanta alcove: erano le camere dei cinquanta figli di Priamo e delle loro spose. 6zo. oro barbarico: oro tolto ai popoli vinti da Troia. 621. i greci son dovunque: dovunque il pala2zo non sia già in preda alle fiamme, ci sono i Greci che lo occupano. 62 3· Vorresti ... : la fine del vecchio re pare l'epilogo, pieno di angoscia e di accoramento di una tragedia greca. Rivestire le armi da tanti anni smesse sembra grottesco, ma non lo è proprio per la maestosa solennità che la morte vicina e certa conferisce al personaggio ed alla scena che seguirà.
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Upalazzo l'immenso Perifante, il violento Automedonte auriga dei cavalli d'Achille, tutti i giovani sciri, e scagliano sul tetto torce accese. Tra i primi infuria Pirro. Afferrata una bipenne, sfascia i duri stipiti e strappa dai cardini la porta rivestita di bronzo: ha spezzato una trave, sfondato il forte legno, praticato una breccia immens3. Ecco, già appaiono l'interno della casa, i lunghi corridoi, l'intimità di Priamo ~ degli antichi re: si vedono gli armati a guardia dell'ingresso. Il pwzo è sconvolto dai pianti e da un tumulto disperato, e le stanze piu segrete risuonano di gemiti femminili: un clamore che sa1e sino alle stelle d'oro. Le madri spaventate corrono fuori di sé per tutta la grande casa e abbracciano gli stipiti, imprimendovi baci. Pirro attacca con furia degna dd padre Achille. Sbarre e guardie non riescono a opporglisi: la porta tentenna ai colpi frequenti dell'ariete, i battenti precipitano, divelti dai cardini. Gli Argivi si fanno strada di forza, irrompono all'interno violentando l'entrata e trucidando i primi difensori, riempiono la casa di soldati. Un fiume spumeggiante che ha rotto argini e dighe col suo gorgo furioso, e allaga i seminati e trascina sull'onda altissima gli armenti con tutte le loro stalle, è meno spaventoso, meno terribile. lo stesso ho visto Pirro ebbro della gioia d'uccidere, ho visto sulla soglia i due fratelli Atridi, ho visto Ecuba insieme alle sue cento nuore e, tra gli altari, Priamo insozzare di sangue il fuoco consacrato da lui medesimo. Quelle cinquanta alcove, promessa di tanti nipoti, le porte superbe d'oro barbarico e di trofei crollarono: i Greci son dovunque, il fuoco occupa i luoghi liberi di nemici. Vorresti forse sapere quale sia stata la sorte di Priamo? Quando vede la sua città ormai presa cadere, quando vede le porte del palazzo divelte ed il nemico irrompere nell'interno della sua casa, il vecchio veste le spalle tremanti
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per l'età con le armi da troppo tempo deposte; cinge un'inutile spada per morire tra i Greci. Al centro del palazzo, in cortile, all'aperto sotto il cielo, sorgeva un grande altare e accanto un antichissimo alloro che dava ombra ai Penati. Qui sedevano in gruppo attorno all'altare, abbracciando le immagini divine, la regina Ecuba con le figlie: sembravano colombe fuggite a precipizio dalla nera tempesta. Ed Ecuba, visto Priamo vestito di quelle armi adatte a un giovane, disse: « Infelice marito, quale follia ti ha indotto ad impugnare spada e lancia? Dove corri? Questa tragica ora non ha bisogno d'armi come le tue, del braccio d'un vecchio. Ettore stesso (se il mio Ettore fosse vivo e presente) nulla potrebbe. Vieni, allora, l'ombra di questo altare proteggerà te e tutti, o tutti moriremo! ,.. Cosi dicendo trasse a sé Priamo e gli fece posto presso l'altare. In quel momento Polite, uno dei loro figli, sfuggito alla strage di Pirro corre attraverso i dardi, attraverso i nemici, ferito, per i lunghi portici e gli atrii vuoti. Ardendo d'ira, Pirto lo insegue per colpirlo e quasi lo raggiUnge, lo incalza colla lancia. Infine, propri~ davanti agli occhi dei genitori, Polite stramazzò in un lago di sangue, esalando l'estremo respiro. Priamo, benché fosse già setto l'ala della morte, non seppe frenare l'emozione e la collera: «O tu- esclama....,... che hai osato un simile delitto! Se in cielo ancora esistono la pietà e la giustizia, gli Dei ti puniscano per avermi costretto a vedere la morte di mio figlio: tremendo, sacrilego spettacolo per gli occhi d'un padre. Achille, quell'Achille dal quale a torto ti dici nato, non fu crudele come te verso Priamo; ma rispettò i diritti di chi prega, mi rese il cadavere di Ettore perché fosse sepolto, rimandandomi a Troia». Cosi dicendo il vecchio lanciò un giavellotto senza forza, che il bronzo dello scudo di Pirro rintuzzò con un suono rauco. L'inutile asta
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630. Al centro del palazzo... : è propriamente l'atrio della casa romana che aveva un'apertura sul tetto per la luce e rassomigliava perciò ad un cortile sul quale si affacciavano, protette da un peristilio, le camere da Ietto e di soggiorno. Qui era il focolare: infatti il nome di atrio deriva da ater, nero, cioè dal nero del fumo sulle pareti; qui si ricevevano i forestieri e gli ospiti. L' apertura del tetto era chiamata impluvium, alla quale corrispondeva una vasca detta compluvium, in cui si raccoglieva l'acqua piovana. Spesso in questo cortile era piantato un alloro, pianta sacra ai domestici lari. 635.Sembravano colombe: dice assai a proposito il Bignone: «II paragone con le colombe è particolarmente felice, non solo per essere le colombe timide, come timide sono .le donne, ma anche per quella evocazione pittoresca, che esso suggerisce, quasi di aleggianti bianchi pepli femminili nella rapidità ddla corsa». 647. Polite: ricordato nd II canto dell'Iliade g1me campione di corsa vdoce. 655. sotto l'ala della morte: bella ed efficace immagine. Priamo sa che ormai la morte s'avvicina, ma più che la paura parlano in lui il dolore e lo sdegno. 665. mi rese il cadavere di Ettore: accenna all'episodio narrato da Omero nd canto XXIV dell'Iliade in cui Achille, commosso dalle parole dd vecchio re, restituisce la salina di Ettore.
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670. umbone: cosl i romani chiamavano la parte cen- 670 trale o rialzata dello scudo, che in Grecia era denominata onfalo. 671. Allora va': le parole di scherno di Pirro rilevano appieno l'animo rozzo e 67S l'inumana crudeltà di questo degenere figlio del più grande e del più cavalleresco tra gli eroi greci. 678. Tale la fine di Priamo: nelle tragedie greche il 680 coro commentava le scene salienti dell'azione dei personaggi. Qui Virgilio pare introdurre questa innovazione nel racconto che interrompe per poter considerare la grandezza e la tragici tà 68S dell'accaduto. A che serve il potere degli uomini nei confronti del Fato? Ecco che cosa rimane della più bella e ricca città dell'Asia, ed ecco il suo re, un tempo te- 690 muto dominatore di tanti popoli, ridotto ad un informe e sanguinante viluppo senza vita e senza nome! « Iacet ingens litore truncus - evolsumque umeris caput et sine nomine corpus». 69S 684. un corpo senza nome: Virgilio accoglie qui la versione che vuole Priamo trascinato dal suo palazzo sulla spiaggia e qui decapitato alla presenza di tutti i 700 re greci. 687. coetaneo di Anchise: spontaneo è per Enea, di fronte all'orrenda scena, correre con il pensiero al padre ed alla famiglia che a- 70S vrebbero potuto fare la stessa fine, ed immediatamente lascia ogni altro disegno per adoprarsi soltanto per la loro salvezza. 702. Erinni: come abbiamo già detto, sono le deità 710 infernali della vendetta.
pendette dall'umbone appena scalfito. E Pirro: «Allora va' tu stesso da mio padre a protestare. Ricordati di parlargli di me, dei miei misfatti, di Pirro degenere: e ora muori! » Lo trascinò all'altare che tremava, malfermo sul viscido sangue del figlio, con la sinistra lo prese per i lunghi capelli e sguainata la spada lucente gliela immerse nel fianco, sino all'elsa. Tale la fine di Priamo. Il Fato portò via di mala morte- mentre vedeva Troia in fiamme, Pergamo una rovina - l'uomo un tempo superbo dominatore di tanti popoli e tanti paesi dell'Asia. Un tronco immenso che giace ora sul lido deserto della patria, una testa canuta spiccata da quel tronco: un corpo senza nome. Qui per la prima volta fui preso da un terrore folle, che mi agghiacciò. Quando vidi quel vecchio, coetaneo di Anchise, esalare la vita sotto il ferro crudele, mi venne in mente il volto di mio padre: e poi Creusa sola, la casa forse distrutta e la sorte del piccolo Julo. Mi volgo indietro a guardare quanti ancora mi seguano. Nessuno. Tutti m'hanno abbandonato, stanchi di combattere: chi s'è lanciato nel vuoto con un salto terribile, chi è arso tra le fiamme. Ero rimasto solo ormai; ma sulla soglia del tempio di Vesta, appiattata in 'silenzio in quel luogo segreto, vedo Elena, la figlia di Tindaro: la luce dei roghi rischiarava i miei passi, dovunque io guardassi. Paurosa dei Troiani che la odiano per la caduta di Pergamo, temendo la vendetta dei Greci e la collera dello sposo tradito, Erinni di Troia e insieme della sua patria, Elena s'era nascosta, non vista, sull'altare. Un fuoco m'avvampò nell'anima. La collera mi spinse a vendicare la patria che va in rovina con la morte di quella scellerata. «Costei- pensai- si salverà, ritornerà regina e rivedrà in trionfo Sparta e la patria Micene! Vedrà marito, casa, padri e figli, signora di una turba di schiave e di schiavi troiani. E Priamo sarà morto
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di spada, Ilio bruciata, il lido Jardanio si sarà tante volte coperto di sangue! No, non sarà cosi. Benché non ci sia onore nel punire una donna, benché vittorie simili non portino la gloria, molti mi loderanno per avere distrutto un tale mostro: almeno avrò saziato l'anima col fuoco della vendetta ed avrò accontentato le ceneri dei miei ». Cosi dicevo, Stravolto dall'ira, quand'ecco la santa mia madre, splendida come non l'avevo mai vista, presentarsi ai miei occhi, fulgente nella notte di una luce purissima. Si rivelò vera Dea, grande come la vedono di solito solo i Celesti; mi trattenne, afferrandomi, e con la bocca rosata mi disse: «Che dolore eccita la tua collera indomita? Perché t'infurii, e non hai cura né di me né dei tuoi? Corri prima a vedere il padre Anchise stanco per la vecchiaia, Creusa tua moglie e il piccolo Ascanio, se sono ancora vivi! Intorno a loro s'aggirano tutte le truppe Greche; senza la mia protezione le fiamme li avrebbero già raggiunti e la spada nemica li avrebbe già trafitti. Non fu l'odioso volto della Spartana, né Paride maledetto a distruggere la potenza troiana, gettandola giu dal culmine della sua altezza, ma fu l'ostilità degli Dei. Si, degli Dei. Tu guarda (sgombrerò quelle nubi che t'offuscano i poveri occhi d'uomo e che intorno s'addensano, umidicce: non temere i consigli di tua madre e obbedisci ai suoi ordini) qui, dove vedi macerie di case e sassi sconvolti, dove vedi fluttuare una nube di polvere e fumo, Poseidone col suo tridente rimuove i muri e le fondamenta, distrugge la città completamente. Qui la feroce Giunone ha occupato per prima le porte Scee e furiosa, armata di tutto punto chiama l'esercito amico dalle navi... Piu in là (guarda indietro) Minerva, splendente in un nembo di luce terribile ed armata con l'Egida medusea, s'è innalzata in cima alla rocca. Lo stesso Giove incoraggia i Greci, e li asseconda, spingendo gli Dei contro le armi troiane.
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717. un tale mostro: la definizione non è forte se si pensa a tu t ti i guai di cui la bella moglie di Menelao fu causa volontaria ed involontaria. 719. avrò accontentato: era credenza diffusa e comune che le ombre dei morti godessero nell'aldilà di essere vendicate con la morte di coloro ·che erano stati causa dei mali sofferti. 721. come non l'avevo mai vista: quando apparivano in terra, gli dèi in genere erano soliti assumere sembianze umane. Non aveva derogato da tale consuetudine Venere quando era apparsa ad Enea nella foresta libica nei panni di una vergine cacciatrice. Ora, forse, per l'urgenza della situazione ed anche per impedire che il figlio si macchi di un orrendo misfatto che lo porrebbe sullo stesso piano di inutile ferocia di Pirro, appare in tutto il suo splendore. 727. e non hai cura: Venere con pochi affettuosi rimbrotti richiama il figlio ai suoi principali doveri in un'ora tragica come quella. Perché lasciarsi tr.ascinare dalla sete di vendetta, dall'odio e dal furore contro i Greci ed Elena stessa, se sono gli Dei i principali artefici della caduta di Troia? Meglio, con mente fredda e lucida, salvare il salvabile, pensare a se stesso e ai suoi e fuggire dalla città. 737· Si, degli Dei: ecco perché l'Eneide è poema sacro e religioso, in quanto tutto pervaso dalla volontà dei Fati che guidano gli eventi umani e la loro storia. 750. Egida medusea: era uno scudo infrangibile, or-
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nato della testa di Medusa, una delle Gorgoni, uccisa da Perseo con l'aiuto di Minerva. 757· In un lampo: la breve sequenza degli dèi scatenati contro i Troiani è uno squarcio di vera poesia per il fulgore delle immagini e per la terribile evidenza della loro partecipazione alle passioni degli uomini. 763. un orno: una qualità di frassino. 788. soffiò su di me ... : Giove, irritato per le nozze di Anchise con Venc:re, aveva scagliato un fulmine su di lui, !asciandolo invalido. 794· Egli rifiuta di muoversi: l'atteggiamento diAnchise è più che comprensibile. Distrutta la patria, vecchio, inabile, che poteva desiderare se non la morte e con essa la fine di tutte le sofferenze? 795· volendo morire: Enea non riesce a capire ed a giustificare il rifiuto del padre che nell'esilio vede soprattutto la possibilità di morire senza sepoltura, e perciò di non aver pace per cento anni nell'aldilà. D'altra parte, dopo le parole della madre, che l'hanno condotto alla realtà della situazione, egli non ha alcuna intenzione di tornare nella mischia e trovare una sicura ed inutile morte. Per questo nel suo appello ad Anchise cerca di persuaderlo alla fuga, ma le parole che gli escono di bocca sono enfatiche ed a volte retoriche e non rispecchiano il suo vero stato d'animo. Ci vorrà il prodigio celeste per risolvere l'inaesciosa situazione.
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Figlio, prendi la fuga, desisti dai tuoi sforzi! Ti sarò sempre accanto, ti condurrò senza rischio alla casa patema ~. Cosf detto, scomparve tra le ombre fittissime della notte. In un lampo m'appaiono le figure terribili degli Dei nemici di Troia ... Oh, allora tutta Troia mi sembrò sprofondare tra le fiamme e crollare! Come quando sui monti i contadini a gara si sforzano d'abbattere un orno antico infierendo sul suo tronco con molte scuri: l'immensa chioma tremolante minaccia di cadere ed oscilla ai colpi, finché vinto dalle ferite l'albero a poco a poco· geme per l'ultima volta e strappato dal suo pendio rovina. Discendo per le strade sconvolte e con l'aiuto celeste riesco a passare tra il fuoco e tra i nemici; le frecce mi rispettano, le fiamme si ritirano. Ma q11ando giungo alla soglia dell'antica dimora familiare, mio padre, che volevo portare per primo in salvo sui monti, rifiuta di vivere ancora dopo la fine di Troia e soffrire l'esilio. «Voi- mi dice- che avete il sangue giovane e sano, voi che siete nel pieno delle forze, fuggite ... Se gli abitanti del cielo avessero voluto prolungarmi la vita, avrebbero salvato la patria. Mi è bastato aver visto una volta la mia città distrutta, la rovina, le stragi. Lasciate che il mio corpo qui riposi, cosf: salutatelo e andate! Troverò presto morte per mano del nemico, che avrà pietà di me e vorrà le mie spoglie. Rinunziare al sepolcro non m'è difficile. Andate! Da troppi anni prolungo quest'inutile vita, inabile, inviso ai Celesti: da quando Giove padre dei Numi e re degli uomini soffiò su me il suo fulmine e mi toccò col fuoco». Cosf diceva, ben fermo nel suo triste proposito. Invano ci sciogliamo in lacrime, io, Creusa, Ascanio, tutta la casa, perché Anchise desista da questa volontà di distruggersi (sé ed ogni cosa), aggravando la sorte che ci minaccia. Egli rifiuta di muoversi. Allora un'altra volta mi preparo a gettarmi nella mischia, volendo
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morire. Che cos'altro mi restava da fare? Che sorte mi si offriva? «Padre, speravi davvero che io potessi fuggire senza di te? Parole cos1 tremende uscirono dalla tua bocca? Se i Numi vogliono che non resti piu nulla d'una città cosi grande, se proprio l'han deciso, e se tu desideri che tutti moriamo, insieme a te, la porta della morte è spalancata: già sta per venire Pirro coperto del sangue di Priamo, Pirro che uccide il figlio davanti al padre e il padre davanti al sacro altare. O madre venerata, per questo mi hai salvato attraverso le frecce, attraverso le fiamme? Perché veda il nemico entrarmi in casa, Ascanio, mio padre (e Creusa accanto) morti l'uno nel sangue dell'altro? Armi, o guerrieri, portatemi delle armi! Questo è l'ultimo giorno per i vinti, e ci chiama. Ritorniamo tra i Greci, )asciatemi combattere di nuovo! Moriremo tutti, dal primo all'ultimo, ma non invendicati ». Allora mi copro nuovamente di ferro, adatto al braccio lo scudo ed esco dal palazzo. Ma proprio sulla porta mia moglie mi si getta ai piedi, e me li abbraccia tendendomi Julo: «Se corri a morire porta con te anche noi, ovunque: se invece per tua esperienza riponi ancora fiducia nelle armi che hai preso, anzitutto difendi questa casa. A chi lasci il piccolo Julo, tuo padre e me, che pure una volta chiamavi la tua cara consorte? » Creusa riempiva la casa di gemiti. Quand'ecco nascere all'improvviso un prodigio incredibile. Mentre piangendo baciamo e accarezziamo Julo, una lingua leggera di fuoco parve accendersi in cima alla sua testa: una fiamma impalpabile e innocua, che lambiva i morbidi capelli del bimbo e gli guizzava tutt'intorno alle tempie. Atterriti, tremanti di paura, scuotiamo quei capelli infuocati, cercando di spegnere la fiamma sacra con l'acqua. Ma Anchise sollevò gli occhi alle stelle, con gioia, e tese al cielo le mani dicendo: « Giove, tu che puoi tutto, se accetti di !asciarti commuovere dalle preghiere umane,
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817. mia moglie mi si getta... : commenta bene il Morpurgo: «Ecco un altro patetico atto della sintetica tragedia. Osserva come ogni personaggio ha un suo vivo carattere, una sua distinta passione, una sua anima dolorante. Intorno a questo piccolo gruppo famigliare è tutto un mondo· che crolla nelle tenebre fonde della notte. Ma una luce splenderà or ora sul capo del giovinetto fatale; che tace ed alza gli occhi in viso al padre, alla madre, al nonno, pallido superstite di altri tempi e di altre sciagure ». 8.25. Creusa: la moglie di Enea è una creatura semplice e dolce, che vede nel marito e nel figlio le cteature cui ha dedicato la vita, e che scomparirà, rassegnata, dalla scena quando Giove lo decreterà, perché il fato possa compiersi. 8.26. un prodigio incredibile: il prodigio era per i romani un fenomeno straordinario percepibile con la vista, in contrapposizione all'omen, percepibile con l'udito. Di prodigi son piene le storie antiche e molti Virgilio doveva conoscerne. Forse questo episodio del fuoco che circonda il capo del giovinetto Iulo discende dalle storie di Tito Livio (I, 39), che narrano di un eguale fenomeno accaduto al re Servio Tullio, quando era ancora bambino. In seguito a tale prodigio Servio Tullio, figlio di una schiava, venne adottato da Tarquinio Prisco come successore al trono.
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840. conferma: secondo la dottrina divinatoria, i presagi per essere validi dovevano essere confermati da un secondo prodigio. 846. Ida: catena di monti a sud di Troia da non confondersi con l'omonima cima dell'isola di Creta.
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8.U· Più non rifiuto ... : dopo il prodigio cosi eloquente
anche il vecchio e timorato Anchise è persuaso. Ogni ostacolo è rimosso e la fuga può iniziare. LA FUGA (856-974).- Enea, preso sulle spalle il padre che ha con sé i Penati, con il figlioletto Ascanio per mano, seguito dalla fida moglie Creusa, s'allontana dalla città in fiamme. Nella fuga perde la moglie, torna a cercarla ma non la trova. Ella gli appare come una diafana ombra, lo esorta a non più cercarla e a fuggire per poter guidare i superstiti troiani in Italia, dove troverà un'altra moglie di sangue reale. Giove così ha disposto, sacrificando Creusa alla buona riuscita del vicggio. Enea, affranto e desolato, alla testa della misera turba degli scampati, si avvia verso le catene dell'Ida.
865. Cerere: dea delle messi, sorella di Giove. L'albero a lei sacro era il cipresso, che ricordava il dolore provato per il rapimento della figlia Proserpina da parte di Plutone.
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872. sen:r;a essermi lavato:
gli usi rituali volevano che ci si avvicinasse alle cose sacre con mani purificate in acqua lustrale.
getta uno sguardo su noi! Solo questo ti chiedo. E se la nostra pietà lo merita, dà un segno, padre santo, e conferma questo lieto presagio! • Aveva appena parlato che subito da sinistra rullò il tuono e una stella caduta dal firmamento corse attraverso la notte tracciando una scia luminosa. La vediamo sfiorare il tetto di casa nostra scintillando e nascondersi - come per indicare la strada - nelle selve dell'Ida: il suo percorso rimane illuminato a lungo e tutt'intorno si diffonde un vapore penetrante di zolfo. Vinto da questo miracolo mio padre si leva e .parla ai Celesti, adorando la sacra stella. « Non più, non piu indugi - ci dice: - vi seguirò, dovunque mi portiate. Dei patrii, salvate la mia gente, salvate mio nipote! Riconosco l'augurio che mi fate e comprendo che ancora proteggete Troia. Piu non rifiuto di accompagnarti, o figlio! »
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Già si sente man mano piu netto il crepitio dd fuoco che brucia per tutte le mura: le fiamme s'avvicinano. «Caro padre, su, adattati sulle mie spalle già pronte a sorreggerti: il peso non mi imbarazzerà. Dove andremo il pericolo sarà comune e comune sarà la salvezza. Julo che è piccolo mi accompagni, Creusa mi venga dietro da lontano. Voi, servi, state a sentire: appena fuori città c'è un colle con un vecchio santuario di Cerere, abbandonato, gli s'innalza vicino un antico cipresso, venerato per anni, sacro ai nostri antenati: riuniamoci tutti li andandovi ognuno per una strada diversa. Tu, padre, prendi in mano i sacri arredi e i Penati della pai:ria: sarebbe un sacrilegio se io li toccassi - cosi lordo di strage, uscito appena dalla battaglia - senza essermi lavato in una viva corrente .. • Ciò detto, disteso sulle spalle un mantello e una fulva pelliccia di leone, mi chino a ricevere il peso del padre. Alla mia destra
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s'attacca con la manina il piccolo Julo, seguendo coi suoi piccoli passi quello lungo del babbo. Dietro viene mia moglie. Prendiamo per le strade piu buie, ed io che prima non temevo né i dardi scagliatimi da ogni parte né i battaglioni Greci, ora tremo per ogni venticello, per ogni suono, attonito e ansioso per mio figlio e mio padre. M'appressavo alle porte e già mi sembrava d'aver superato tutti i rischi della via quando un fitto rumore di passi all'improvviso (mi parve) s'avvicinò; e mio padre guardando nell'ombra disse: «Fuggi, o figlio, sono qui! Vedo gli scudi fiammanti e le armi che scintillano». Allora non so che divinità nemica mi sconvolse la mente confusa. Di gran corsa vado per vie traverse, appartate, lasciando tutte le strade piu note. E qui, me infelice, il destino mi porta via la moglie! Forse Creusa ha sbagliato cammino, oppure stanca s'è fermata a sedere? Lo ignoro; ma da allora non l'ho vista mai piu. Non mi girai a guardare se si fosse perduta né pensai mai a lei prima d'essere giunto alla collina di Cerere, al vecchio santuario. Qui", riunitisi tutti, una sola mancò desolando i compagni, il figlio ed il marito. Chi, degli Dei e degli uomini, non accusai, demente di dolore? Che cosa mi sembrò d'aver visto nella città distrutta che superasse questa perdita? Affido Ascanio, il padre Anchise e i Penati di Troia ai miei compagni, che conduco a nascondersi in una valle profonda. Poi ritorno in città. cinto delle splendenti armi. Sono deciso a ricominciare daccapo, a traversare Troia quant'è larga ed" espormi di nuovo al pericolo. Rieccòmi alle mura e alla porta deserta ed oscura di dove ero uscito: cammino sui miei passi, a ritroso nell'ombra, osservando attentamente i luoghi già percorsi. Dovunque mi si riempie l'anima d'orrore: lo stesso silenzio -l'assenza di segni di vita- mi sgomenta. Alla fine arrivo a casa mia, a volte, per un caso, Creusa vi fosse tornata. V'erano entrati i Greci
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88o. ed io che prima... : profonda considerazione psicologica. Poco prima s'era coperto di sangue uccidendo nemici e scagliandosi nelle mischie più fitte senza badare ai mille pericoli mortali: ora che ha con sé il padre, il figlio e la moglie trema di timore ad ogni stormir di foglia. 896. non l'ho vista mai più: egli non sa che cosl Giove ha voluto. Ci accora e ci rattrista la scomparsa discreta e silenziosa della dolce Creusa, sacrificata dagli dèi perché il destino del marito potesse avverarsi. 899. collina di Cerere: era il punto convenuto dove dovevano trovarsi i superstiti per proseguire insieme la fuga. .9'02. demente di dolore?: tutto l'episodio della sparizione di Creusa è molto confuso ed ambiguo. Non si capisce come Enea non si sia curato nella corsa per sfuggire all'ipotetico pericolo dei Greci, denunciato da Anchise, anche della moglie Creusa ed abbia badato unicamente a porre in salvamento il figlioletto ed il padre. La scomparsa di Creusa è inspiegabile e misteriosa ed appare evidente l'impaccio del poeta nel dover togliere dalla scena un personaggio ormai ingombrante e superfluo al successivo fluire dell'azione. Per questo le invettive di Enea contro gli uomini e gli dèi sono alquanto sforzate e poco ci persuadono. 916. l'assenza rj,i segni di vita: questo silenzio e questa mancanza di presenza umana ci sgomenta dopo i clamori della lotta nella reggia
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di Priamo. Si sente che la città lentamente muore perché ogni resistenza è cessata ed i Greci riposano sugli allori e sul bottino conquistati. S'avverte soltanto di lontano il crepitio delle fiamme che continuano a divampare. 924. Fenice: è il precetto-
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re di Achille.
949· Tevere lidio: cosl chiamato perché scorreva attraverso il paese governato dagli Etruschi, che si credeva fossero giunti in Italia dalla Lidia (Asia Minore). 952. una moglie: Lavinia, figlia di re Latino. 957· Cibele: madre di Giove.
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occupando l'intero palazzo. Ormai il fuoco divoratore è spinto dal vento sino al tetto, le fiamme balzano altissime, divampano nel cielo. Procedendo rivedo le case e la rocca di Priamo. Proprio qui, sotto i portici solitari del tempio di Giunone, Fenice e il crudele Ulisse - delegati a tal compito - montavano la guardia al bottino. I tesori di Troia, rapinati dalle case incendiate di tutta la città, formano un mucchio altissimo: mense sacre agli Dei, coppe d'oro massiccio e vestiario predato. Tutto all'intorno, in lunga fila, stanno fanciulli e donne spaventate ... Osai perfino gettare delle grida nell'omb1a, riempiendone le vie: afllitto, ripetendo invano il nome di Creusa, la chiamai ancora e ancora. E mentre la cercavo e m'aggiravo furioso senza fine per tutte le case della città, m'appari la sua immagine infelice - l'immenso suo fantasma - piu alta e maestosa di come non l'avessi mai vista. Ne sbigottii: i capelli mi si drizzarono in testa, la voce mi mori in gola. « Perché ti lasci andare ciecamente al dolore, caro marito?- mi disse Creusa calmando un poco i miei affanni. - Ciò che accade l''ha deciso la ferma volontà dei Celesti; il destino e il re dell'altissimo Olimpo non vogliono che tu porti Creusa con te. Dovrai affrontare un lunghissimo esilio, dovrai solcare largo spazio di mare, e infine arriverai al paese d'Esperia dove il Tevere lidio tranquillamente scorre con un lene sussurro tra i campi fecondi degli uomini. E là t'aspettano le ricchezze del regno d'Italia e una moglie di sangue reale: non piangere per la tua cara Creusa. lo non vedrò le case superbe dei Mirmidoni o dei Dolopi né andrò a servire in Grecia, io che discendo da Dardano e sono nuora di Venere; la gran madre divina Cibele mi trattiene nei suoi luoghi, in eterno. E dunque ormai addio, ricordati di me nell'amore di Julo ». Mi lasciò in pianto mentre volevo ancora parlarle,
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spari nell'aria ~ttile. Tre volte cercai invano d'abbracciarla e tre volte l'immagine mi sfuggi, simile ai venti leggeri, simile al sogno alato. Soltanto allora, finita la notte, rividi i compagni. Con molta meraviglia trovo che s'è riunita gente nuova, in gran numero, uomini, donne, giovani, una misera turba decisa ad affrontare l'esilio. Son venuti da ogni parte, con pochi mezzi e molto coraggio, pronti a seguirmi ovunque voglia condurli, oltremare. E già nasceva Lucifero sugli alti gioghi dell'Ida, portando il giorno. I Greci tenevano tutte le porte ben custodite: non c'era speranza di riscossa. Perciò, costretto a cedere, presi mio padre in spalla e mi diressi ai monti. 961. tre volte: ricorda l'episodio di Ulisse che nell'Averno tenta di abbracciare per tre volte l'ombra 'della madre (Odissea, canto Xl).
963. simile al sogno alato: tanto l'apparizione quanto la scomparsa di Creusa sono in carattere con la dolcezza del suo animo e delle sue pa-
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role, cioè simili ad un sogno melanconico d'amore che è troppo presto troncato dal Fato, ma che. non lascia un grande vuoto ed un'incolmabile tristezza, perché porta in sé, quasi connaturate, la rassegnazione e l'accettazione. Giustamente Virgilio paragona Creusa ad un vento lieve che sfiora ed accarezza: ad un sogno che passa per perdersi nell'azzurro lunare della notte tragica. Ormai è l'alba ed i Fati si sono compiuti. Troia è distrutta, Creusa è morta: Enea può ora incominciare il nuovo cammino che lo porterà verso l'Italia, guardando al sorgere di Lucifero e traendone un auspicio di speranza. 970. Lucifero: la stella di Venere, annunciatrice del mattino.
Commento critico ~ giusto dire che la grande poesia dell'Eneide stia soprattutto nel dolore, diremmo leopardianamente in quel dolore storico attraverso il quale si maturano gli uomini e gli eventi. Il canto secondo è, sotto questo aspetto, uno dei più alti, se non proprio il più alto, dell'intero poema. La poesia che tutto lo pervade, nasce dal dramma, potente e mai risolto, dell'ineguale e tragico combattimento tra l'ineluctabile fatum; i fata deum, e l'inutile dibattersi degli uomini per sfuggire alla forza che li sovrasta. Perciò sarebbe vano cercare nel canto l'elemento epico, che fa unicamente da sfondo, mentre quello che muove uomini e cose è un groviglio di sentimenti contrastanti che investono sin nel profondo la concezione ultima della vita e della morte. Il tempo che racchiude la vasta serie di affreschi attraverso i quali si dipana l'azione è brevissimo: va da alba ad alba. La prima è placida, serena, esultante. Dopo dieci anni di guerra sanguinosa è subentrato un grande silenzio attonito: l'intero popolo Troiano dalle mura della città contesa non crede ai propri occhi. La spiaggia, ove fino a poche ore prim!l bivaccavano gli eserciti greci, è deserta; il mare anch'esso deserto fino all'orizzonte. Par quasi un miracolo divino: solo e cupo, troneggiante nel mezzo della vasta arena sabbiosa, sta come una minaccia subdola ed
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Canto secondo
oscura il gran cavallo di legno. Ma i Troiani, presi da un'indicibile euforia, da una felicità sconosciuta perché insperata, non vi badano troppo e s'abbandonano, come è troppo giusto e troppo umano, ad una gioia sfrenata. Chi può rimproverarli? Non aveva proprio puntato su questa reazione psicologica quel maestro di trame e di astuzie ch'era Ulisse? Cosicché a poco o nulla giovano l'avvertimento di Laocoonte ed il monito di Cassandra: prevalgono le arti mirabili di Sinone, grandissimo attore e degna creatura di Ulisse, che di lui si serve per rendere più patetica e credibile l'incredibile finzione. Ma più che Simone ed Ulisse sono gli Dei, sono i Fati a sorprendere la buona fede dei Troiani, a giocare con la loro ingenuità, a farsi beffe della improvvisa felicità per preparare la distruzione e la rovina della città e la morte della maggior parte di loro. In tal modo i fatti naturali si mescolano con i soprannaturali e nulla vale opporvisi. Il giorno trascorre rapido tra danze e banchetti e già inèombe la notte, l'ultima per Troia. D'improvviso nel silenzio maestoso del plenilunio il primo urlo disumano, la prima lingua di fuoco che sinistramente s'innalza; poi in un crescendo pauroso s'accendono altri incendi, mentre le grida crescono e il cozzo delle armi si fa più violento e rabbioso. La tragedia s'incentra nel palazzo reale e culmina con la morte di Polite e di Priamo per mano di Pirro. Su questo scenario di tragedia e di-morte, tra le fiamme ed il fumo degli incendi, nelle mischie atroci all'ultimo sangue, si staglia netta, quasi in un dispera\o tentativo di impedire il compimento del destino di Troia, la figura di Enea. A ben vedere, però, non è tanto l'Enea guerriero che si propone a noi con il suo valore e con il suo desiderio di morire con la patria amata e difesa fino all'ultimo, quanto la sua trasformazione da eroe in sacerdote o meglio in colui che è destinato a salvarsi ed a salvare i suoi ed i Penati di Troia. Infatti sia Ettore in sogno, sia il segno luminoso sul capo dt Ascanio, daranno ad Enea la consapevolezza della propria grande responsabilità e della superba missione cui i Fati lo chiamano. Si spiega allora il suo stato d'animo di trepidazione durante tutta la fuga, la rassegnata malinconia di Creusa che accetta il proprio sacrificio per la buona riuscita della fuga stessa, il sl di Anchise a seguire il figlio fuori della città in fiamme. Per questo l'eroe che s'allontana furtivo dalle rovine fumanti della propria patria con il padre sulle spalle ed il figlioletto per mano, non è un vinto, ma il vincitore morale di una battaglia, che si tramuterà in una lunga serie di lotte e di disavventure, ma che lo vedrà alfine trionfante fondatore di una novella stirpe di dominatori. Sorge la seconda alba e il mondo è cambiato cosl come è cambiata la sua storia. Troia cessa di esistere, ma l'astro di Venere che scintilla in cielo preannuncia il nuovo corso degli eventi: è nata Roma dal dolore, dal sacrificio e dalla tragedia. Era un prezzo terribile, ma bisognava pagarlo. « T antae molis erat Romanam condere gentem ».
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Galleria dei ritratti Laocoonte. « Et, si fata deum, si mens non laeva fuisset, l impulerat ferro Argolicas foedare latebras, l Troiaque nunc staret, Priamique arx alta màneres ». Ah, se i Fati non fossero stati l contrari e le nostre menti accecate, Laocoonte l ci avrebbe convinto a distruggere il covo dei Greci; l e tu ora, Troia, saresti ancora in piedi, l e tu, rocca di Priamo, ti leveresti in alto! ». L'accorato rimpianto di Enea dà lustro e risalto alla figura di Laocoonte, che Virgilio ci presenta in due tempi, egualmente anche sé diversamente, carichi di pathos e di tragedia. Questo sconosciuto sacerdote di Apollo, eletto a sorte sacerdoti! di Nettuno, appare sulla scena ed immediatamente la occupa tutta e vi grandeggia, simile ad uno dei personaggi di Eschilo o di Sofocle. Quando tutti sono più o meno disposti a considerare il cavallo come un simulacro od una offerta votiva, egli per primo, con l'irruenza ed il coraggio che soltanto l'intuizione e la diffidenza verso i Greci, - « Timeo Danaos et dona ferentes » - gli infondono, si adopera per persuadere i concittadini a non cadere nel tranello e a distruggere il cavallo. Ma Sinone, i Fati e gli Dei sono avversi e più forti di lui: la su~ ribellione è l'ultima voce, con quella di Cassandra, della saggezza; è l'ultima possibilità di salvare Troia. Egli rimane inascoltato e cade vittima della vendetta celeste che è atroce e mostruosa perché travolge con la sua vita quella dei suoi figli. Non per nulla l'orrenda morte di Laocoonte ha ispirato i tre scultori Agesandro, Polidoro e Atenodoro, che ci hanno lasciato il più famoso gruppo marmoreo dell'antichità.
Cassandra. «Cassandra, che illocrese Aiace strappa all'altare di Atena mentre sta aggrappata al simulacro divino, aveva costituito nell'arte una delle figure centrali dell'eccidio di Troia. In Virgilio noi la vediamo apparire, non casualmente e per via di episodio, ma per necessità inerente all'intima concezione delle cose, in mezzo alla mischia di cui il centro è Corebo; ed Enea la ricontempla, pallida meteora, con gli ochi pieni di pianto. Qui sgorga veramente dal fondo l'onda della poesia virgiliana. Cassandra è fuggevole apparizione, ma ha tanta vita interiore che domina tutta la catastrofe. Dopo di lei sarà la volta del padre a rendere plasticamente tutta intera la tragedia troiana. Cassandra è fatta di fragilità. Non parla. Che cosa avrebbe potuto dire ella, che la tragedia aveva preveduto e svelato, non creduta, ai suoi concittadini, gli autori della propria sventura? Tutta la terribilità e la profondità della sua figura sta nel silenzio e nell'atteggiamento: l'uno e l'altro di una eloquenza che fa impallidire. Il dolore, in Cassandra, è muto: non un accento, non un singhiozzo. Offesa dagli uomini, e dai Troiani non meno che dai nemici, sopraffatta da tale empietà che neppure dei luoghi sacri ha rispetto, è tutta spasimo, e pur soffusa di sovrumana dolcezza, triste fino
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Canto secondo
alla morte: non leva, tende, dice il poeta, le ardenti pupille al cielo, « indarno »; le pupille, riprende il poeta, ché le tenere palme erano strette in ceppi. Materialmente ella vive tutta nella delicatezza di quelle palme, e nel contrasto della violenza che ad esse fan le catene; spiritualmente, in quegli occhi che son protesi a supplicare; e nello slancio del tendens, nel fiammante ardore delle pupille, nelle palme profanate dai ceppi emerge tutta la persona, attraverso quello che della persona· è più espressivo: viso e mani si confondono insieme, se non in una medesima tensione, in un solo sforzo e sentire. Cosl l'implorazione è di un'anima eroica, e la forma corporea acquista le proporzioni infinite dell'anima. In questa musicale figura di donna è idealizzato il tormento di un popolo. Nel vago, nell'etereo dell'affascinante immagine, noi sentiamo un alito nuovo, sconosciuto finora alla poesia antica ». (G. FuNAIOLI, Studi sulla letteratura antica, Zanichelli).
Sinone. Quando nella fertilissima immaginazione di Ulisse balenò la geniale invenzione del cavallo di legno, per certo l'eroe dapprima si compiacque della trovata che soltanto una mente scaltra ed acuta come la sua avrebbe potuto concepire; poi ad un'attenta analisi dell'applicazione pratica del piano s'arrestò titubante ed indeciso di fronte alla necessità di trovare l'uomo adatto a recitare la parte più importante dell'intera impresa. Costui avrebbe dovuto essere un attore eccellente, dotato di un coraggio che rasentava l'incoscienza; possedere una perfetta padronanza di nervi, avere capacità dialettiche sottili e suasive ed una fantasia creativa che gli permettesse di far fronte a situazioni imprevedibili; ed infine poter disporre a suo piacimento di una personalità duttile e cedevole, tale da potersi calare alla perfezione nel personaggio inventato e rivestirne i panni in modo naturale e vero. Ma come trovare un uomo simile, tra migliaia di rozzi e feroci guerrieri che dieci anni di fatiche e di pericoli avevano indurito e disumanato? E poi, si noti bene, a costui non soltanto era affidato il successo del diabolico piano, ma anche la vita del fior fiore dei guerrieri che volontariamente si erano dichiarati disposti a nascondersi nel capace ventre del cavallo, primo fra tutti lo stesso Ulisse. Ed ecco allora la più bella e più complessa creazione psicologica di Virgilio: Sinone. Inutile domandarsi donde venga e chi sia: egli è il personaggio chiave di un episodio risolutivo e fondamentale, lo strumento decisivo che il Fato adopera per determinare la caduta e la distruzione di Troia. Capolavoro psicologico, dunque, che Virgilio sviluppa analiticamente sino a rendere Sinone il solo e vero protagonista della più abile e della più tragica mistificazione di tutti i tempi; ma anche, attraverso le sue parole, a rivelare ai suoi lettori quanto profondamente egli conoscesse l'animo umano nella grandezza e nella nequizia, nella credulità e nell'inganno, nella saggezza e nella ingenuità, nella ferocia e nella magnanimità.
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Canto secondo
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Creusa. I giudizi critici nei confronti di Creusa sono assai discordi. C'è chi sostiene che Virgilio non sia stato felice nell'inserirla nell'azione per poi di colpo cancellarla in modo spiccio e sommario come si elimina un personaggio ingombrante e non più utile al gran disegno del poema. Il farla poi apparire al marito come una visione pallida e sfumata e metterle sulla bocca parole di rassegnazione e di mestizia come di chi si senta vittima predestinata di una volontà superiore e l'accetta, paga d'essere stata moglie di un grande eroe e madre del futuro re di Alba Longa, non giustifica e corregge l'impressione negativa del lettore verso l'impietosa e frettolosa penna del poeta. Altri, invece, vedono in lei una figura artisticamente perfetta, finemente cesellata dal poeta, tanto da apparirçi come un'anticipazione cristiana di donna angelicata. La bontà, l'accettazione cosciente della sua sorte tragica, la serenità dolci~>sima che manifestano le parole rivolte ad Enea, fanno di lei una martire, cioè la testimone di un vastissimo disegno misterioso, voluto dal cielo, ch'ella accetta senza recriminazioni e senza inutili ribellioni. Questo spiega perché Virgilio abbia espresso il meglio di sé nel tratteggiarla, perché doveva trarre su toni grigi, indecisi e sfumati, una figura femminile dalla nuovissima concezione psicologica. Noi propendiamo per questa seconda tesi, anche se la sentiamo un po' forzata là dove si parla di anticipazioni stilnovistiche e di creature angelicate.
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Canto secondo
Raffronti di traduzione Conticuere omnes intentique ora tenebant. I nde toro pater Aeneas sic orsus ab alto: Infandum, regina, iubes renovare dolorem, Troianas ut opes et lamentabile regnum eruerint Danai, quaeque ipse miserrima vidi et quorum pars magna fui. Quis talia fando Myrmidonum Dolopumve aut duri miles Ulixi temperet a lacrimis? Et iam nox umida coelo praecipitat suadentque cadentia sidera somnos. Sed si tantus amor casus cognoscere nostros et breviter Troiae supremum audire laborem, quamquam animus meminisse horret luctuque incipiam. [refugit, (vv. 1-13)
Tutti tacquero allora, attenti e fissi, muto tenendo nell'attesa il labbro. Indi cosl, dall'alto seggio, Enea a dire incominciò: Tu vuoi, regina, che un dolore indicibile rinnovi in questa notte placida narrando come il troiano sventurato regno, e d'Ilio il fiore, i Greci abbian distrutto; e quelle infelicissime vicende ch'io stesso vidi, e di che fui gran parte. Chi, questo raccontando, sia soldato del duro Ulisse, o Dolopo, o Mirmidone s'asterrebbe dal pianto? E già dal cielo scende l'umida notte e, declinando, al dolce sonno invitano le stelle. Ma se tanta, o regina, è in te la brama d'udir le nostre pene, e quella ancora che fu di Troia l'ultima sciagura, benché l'animo ancora a tal ricordo inorridisca, ed al pensier rifugga di tanto lutto, io pur dirò. Trad. di Adriano Bacchielli
Vertitur interea caelum et ruit Oceano nox involvens umbra magna terramque polumque Myrmidonumque dolos; fusi per moenia Teucri conticuere; sopor fessos complectitur artus. Et iam Argiva pbalanx instructis navibus ibat a Tenedo tacitae per amica silentia lunae litora nota petens, /lammas cum regia puppis extulerat fatisque deum defensus iniquis inclusos utero Danaos et pinea furtim laxat claustra Sinon. (vv. 250-259). Volgeasi intanto la celeste volta e balzò dall'Oceano la noue a involgere d i tenebra profonda la terra, il ciel, l'agguato degli Achei. Noi tornammo alle case, e fu silenzio per tutto, e il sonno ci allacciò le membra. E da Tènedo già l'armata Achèa si avanzava con prore allineate verso il lido ben noto, entro gli amici silenzi della taciturna luna, e la nave ammiraglia alzò una fiamma, e col favore degl'iniqui fati Sinon furtivo aprl la !ignea chiostra agli Achèi che nell'alvo erano chiusi. Trad. di Guido Vitali Scende da l'Oceàn la notte intanto, e col suo fosco velo involve e cuopre la terra, e 'l cielo e de' Pelasgi insieme l'ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi a i !or riposi addormentati e queti giacean seeuramente; e già da Tènedo a l'usata riviera in ordinanza vèr noi se ne venla l'argiva armata, col favor de la notte occulta e cheta; quando da la sua poppa il regio legno ne diè cenno col foco. Allor Sinone, che per nostra ruina era da noi e dal fato maligno a ciò serbato, accostassi al cavallo, e 'l chiuso ventre chetamente gli aperse; e fuor ne trasse l'occulto agguato. Trad. di Annibal Caro
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CANTO TERZO
Enea fugge da Troia.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 1835, ricavate dai codici della Biblioteca Vaticana, Roma.
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CANTO TERZO Raggiunta la foresta della catena dell'Ida e sfuggiti alla caccia dei Greci, i superstiti trascorrono l'inverno costruendo una flotta di venti navi. Con la venuta della primavera fanno vela per la Tracia, terra tra la Macedonia ed il Mar Nero. Qui Enea vorrebbe fondare una nuova città, ma lo dissuade uno dei tanti prodigi che guidano l'eroe sulla strada tracciatagli dal destino. Infatti mentre prepara un sacrificio propiziatorio, strappa alcuni rami da un mirto, e vede uscire dai tronconi del sangue e sente una voce. Nel mirto è stato trasformato Polidoro, figlio di Priamo che era stato inviato in Tracia presso il re Polimnestore con molte ricchezze, pe~ sottrarlo alla guerra. Per impadronirsi del tesoro, Polimnestore aveva ucciso il giovinetto. Polidoro 'esorta Enea a fuggire da quella terra inospitale e lo supplica di dargli onorata sepoltura. L'eroe esaudisce la preghiera del congiunto e fa vela per Delo, ove viene accolto dal re Anio, amico di suo padre. Poi interroga il famoso oracolo di Apollo, che gli consiglia di far vela per la terra che fu l'antica madre. Egli crede che essa sia l'isola di Creta, da cui era venuto Teucro, e vi si dirige. Una grande tempesta lo costringe ad approdare alle isole Strofadi. Qui mentre i fuggiaschi si accingono a sacrificare buoi e pecore a Giove e a cibarsi, vengono assaliti dalle Arpie, dalle quali sono costretti a difendersi con le armi. Una delle Arpie, Celeno, predice che essi giungeranno in Italia, ma dovranno prima patire la fame tanto da essere spinti a mangiare le mense. Riprendono la navigazione e attraverso il mar Ionio giungono al promontorio di Anzio presso un famoso tempio di Apollo. Qui indicono giochi, fanno sacrifici e trascorrono l'inverno. Ripartiti, approdano nell'Epiro, a Butroto, dove regna Eleno, figlio di Priamo, che ha fatto sua sposa l'infelice Andromaca. L'incontro tra la moglie di Ettore ed Enea è affettuoso e commovente. Gli esuli vengono ospitati nella città che ricorda nella disposizione delle costruzioni e delle vie, l'antica Troia. Prima di congedarsi da Eleno, Enea, che lo sa grande indovino, lo consulta intorno al suo avvenire. Eleno conferma ch'egli dovrà fondare un grande regno e lo istruisce sul viaggio da compiere per giungere alla terra promessa. Costeggerà la
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Canto
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Magna Grecia senza sbarcare, eviterà Scilla e Cariddi e raggiunto il mar Tirreno si fermerà ad Averno per interrogare la Sibilla. Quando troverà, alla foce di un grande fiume, un elce ed una scrofa con trenta figli, n dovrà fondare la città. Congedatosi da Eleno con scambio di doni e di promesse, Enea riprende il mare e dopo poco vede nell'aurora apparire l'Italia. Tutti gridano il loro entusiasmo. Costeggiata la Calabria approaano in Sicilia ai piedi dell'Etna. Qui incontrano Achemenide, un compagno di Ulisse dimenticato -5ull'isola. Egli racconta l'episodio di Polifemo e li invita a fuggire prendendolo con sé. Infatti ecco apparire il mostro che viene a lavarsi l'orrenda ferita. Hanno il tempo necessario per allontanarsi dalla riva e per sfuggire l'attacco di Polifemo e degli altri Ciclopi. Costeggiate le coste della Sicilia meridionale pervengono a Drepano, dove d padre di Anchise muore. Salpano, per continuare il viaggio quando la nota tempesta li getta sulla costa della Libia. Qui ha termine il lungo racconto di Enea a Didone ed ai Cartaginesi.
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Giulio Romano e Raffaello, Stanze Vaticane. ENEA, ANCHISE e JULO « Caro Padre, su, adattati sulle mie spalle già pronte a sorreggerti: il peso non mi imbarazzerà... »
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TERSICORE, musa della danza, mentre suona l'arpa L'etimologia della parola greca Musa è incerta, pare che significhi « donna del monte », forse perché le Muse erano venerate sul monte Pieria in Tracia. In origine esisteva una sola Musa, in seguito nove: Clio, Euterpe, Talìa, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania e Calliope. Erato è ritenuta Musa della poesia, specialmente di quella erotica; Euterpe era la Musa del flauto e dei cori tragici; Calliope della poesia specialmente epica, della filosofia e della retorica; Clio della storiografia (gr. kléos: fama); Melpomene del canto (gr. melpéin: cantare); Polimnia della lira (propriamente significa «dai molti inni ») ; Tersicore della danza (propriamente « allegrezza della danza »); Talìa era la Musa della commedia; Urania della astronomia (gr. ouranòs: cielo). Raffigurazioni di Muse sono molto frequenti, e ciò dimostra come grandemente erano onorate nell'antichità l'arte e la scienza.
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CANTO TERZO Verso il remoto esilio (I-I7)- Polidoro (I8-83)- Delo (84-148) Creta (149-238)- La tempesta e le Arpie (239-334)- Azio (335-362) - Incontro con Adromaca ed Elena (363-620)- L'Italia (621-694)Achemenide e i Ciclòpi (695-827)- La morte di Anchise (828-876).
Verso il remoto esllio
DOPO
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lO
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che piacque ai Celesti distruggere immeritamente l'impero dell'Asia e la gente di Priamo, dopo che cadde Ilio la superba, e il terreno fumò tutto coperto delle arse rovine di Troia, spinti da auguri divini decidiamo di andare in cerca di terre deserte e di un remoto esilio; sotto l'antica Antandro, proprio ai piedi dell'Ida, costruiamo una flotta, raduniamo i compagni senza sapere dove ci porteranno i Fati, dove potremo fermarci. Incominciava appena la primavera quando mio padre Anchise ordinò di spiegare le vele al destino. Piangendo abbandono le spiagge, i porti della patria, i campi dove una volta sorgeva Troia. Corro per l'alto mare, esule, con i compagni, il figlio, i grandi Dei e le immagini dei piccoli Penati.
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VERSO IL REMOTO ESILIO
(I-I?).- Rip(Jratisi nella cit-
tà di Antandro, ai piedi del monte Ida, Enea e i compagni superstiti costruiscono una flotta di venti navi e con il sopraggiungere della primavera prendono il mare. I. immeritatamente: benché l'eroe sia pio, non sa rassegnarsi alla distruzione della sua patria ed ha qui un accenno polemico contro il volere degli dèi. 7. in cerca .. : bellissimo esametro che val la pena di riportare: « diversa exsilia et desertas quaerere terras ». 8. Antandro: piccola città portuale a sud di Troia. IO. dove: veramente Creusa aveva indicato con somma precisione la nuova terra. Ciò dipende dal fatto che Virgilio aveva redatto due stesure dell'opera, una cronachistica, l'altra narrativa e che in quest'ultima la disposizione dei canti era stata variata. Evidentemente questo terzo canto era stato composto prima del secondo.
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Canto terz.o
Polidoro 20 POLIDORO (x8-8J). -_Giungono dopo breve in Tracia e decidono di erigere una nuova città che si chiamerà Eneade. Mentre Enea sta preparando un sacrificio propiziatorio, gocce di sangue e una voce lamentosa escono da alcuni rami di mirto da lui spezzati per ornare l'altare. S l'ombra di Polidoro, il minore dei figli di Priamo che mandato presso Polinestore, re di Tracia, era stato da lui barbaramente ucciso per impadronirsi delle molte ricchezze che il giovinetto partava con sé. Ora, trasformato in arbusto, prega Enea di dargli onorata sepoltura e lo consiglia ad abbandonare quella terra maledetta. 20. Licurgo: era figlio di Driante, re di Tracia. Perseguitò le sacerdotesse di Dioniso ed il dio allora lo punl accecandolo. 25. Eneade: l'odierna Eno alle foci del fiume Maritza. 43· Ninfe agresti: le Driadi. Enea pensa di aver offeso qualche divinità. 44· campi getici: i Geti erano popoli bellicosi che abitavano a nord dd Danubio. 46. mentre assalgo: l'eroe vuoi rendersi conto dd miracolo e per la terza volta cerca di strappare un arbu-
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non concorda con Omero che aveva fatto morire Polidoro per mano di Achille
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C'è in distanza un paese di grandi pianure sacro a Marte, abitato dai Traci, dominato un tempo dal feroce Licurgo. Quel paese finché la Fortuna fu amica era legato a Troia da antica ospitalità e da sacra alleanza. Qui dunque vado a sbarcare; sul lido ricurvo spinto da avverso destino edifico le prime mura d'una città che chiamo Eneade, dal mio nome. Offrivo 1m sacrificio agli Dei protettori dell'opera intrapresa ed a mia madre, Venere, immolando uno splendido toro al re dei Celesti sull'alto lido. C'era per caso, li vicino, un monticello coperto in cima di cornioli e di una macchia fitta di piantine di mirto. Mi avvicinai ad esso pensando di strapparne qualcuna dalla terra e coprire gli altari coi loro rami frondosi: ma mi colpi un tremendo miracolo, incredibile a dirsi. Appena sradico dal suolo la prima pianta ne goccia un sangue nero che macchia le zolle. Un freddo orrore mi scuote le mem[bra, per la paura il mio sangue si rapprende, gelato. E mi accanisco di nuovo a svellere un altro flessibile stelo, cercando le cause nascoste di quell'orribile sangue; e di nuovo le gocce colano e colano nere dalla rotta corteccia. Pensando a tante cose supplicavo le Ninfe agresti e il padre Marte, protettore dei campi getici, perché il prodigio non fosse infausto, non fosse annunzio di sventure. Ma mentre assalgo un terzo virgulto, con sforzo maggiore, e lotto in ginocchio contro la sabbia tenace, odo dal monticello un gemito lagrimoso, una voce che dice: «Perché mi strazi, Enea? Pietà di chi è sepolto; non macchiarti le mani pietose. Non sono straniero, ma Troiano, e il sangue che vedi colare non esce da legno. Ah! fuggi questa terra crudele, quest'avido lido! Io sono Polidoro: una ferrea messe di dardi qui m'ha trafitto e è cresciuta con tenaci radici e sottili palloni ». Preso da un dubbio pauroso stupii, mi si rizzarono
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Canto terzo
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in testa tutti i capelli, mi si strozzò la voce. Il povero Priamo, un tempo, non sperando ormai piu nella vittoria troiana e vedendo le mura assediate dai Greci, aveva mandato suo figlio Polidoro con molta quantità di danaro al re di Tracia, perché fosse flllevato in pace. Appena la potenza dei Teucri fu schiantata, appena la Fortuna li abbandonò, costui si schierò con le armi vittorioSe, seguendo la parte di Agamennone: disprezzò ogni giustizia, uccise Polidoro, s'impadron{ dell'oro con la forza. A che cosa non spingi i cuori umani febbre dell'oro, maledetta! Appena mi riebbi dallo spavento narrai quel prodigio divino a mio padre, anzitutto, e agli altri capitani chiedendone il parere. La volontà di tutti fu che si andasse via da quella terra infame e spergiura, si dessero le vele al vento. Allora facciamo il funerale a Polidoro. Eleviamo un grande monte di terra per tomba: tristi altari adorni di nero cipresso e di scuri drappeggi sorgono per i Mani, ed intorno agli altari stanno le donne d'Ilio con le chiome disciolte, come si usa. Versiamo tazze spumanti di latte e coppe di sangue, chiudiamo l'anima nel sepolcro, per l'ultima volta a gran voce le diamo l'addio supremo.
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Appena il mare sembra rassicurante, appena si calmano i venti lasciando le onde tranquille e mormorando un mite Austro ci chiama al largo, i compagni tirano in acqua le navi riempiendo il lido. Usciamo dal porto, città e terre s'allontanano. C'è in mezzo al mare un paese santo, gradito su tutti all'Egeo Nettuno e alla madre delle Nereidi, un'isola che un tempo errava intorno alle spiagge ed ai lidi, finché il pio Nume che porta l'arco la radicò tra Giaro e l'alta Micono, volle che fosse immobile, non piu in balia del vento, e fosse venerata. Arrivo qui: quest'isola tranquilla ci riceve stanchi in porto sicuro. Usciti dalle navi
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70. febbre dell'oro: è il detto proverbiale « quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames! ». 79· i Mani: sono le anime dei trapassati che vengono divinizzate, divenendo spiriti benefici. 8z. coppe di sangue: delle vittime immolate, in questo caso di pecore nere secondo il rito. DELo (84-148). - Lasciata la Tracia, gli esuli giungono all'isola di Delo, sacra ad Apollo, ove sono fraternamente accolti dal re Anio, amico di Anchise. Enea interroga il celebre oracolo del dio, sulla futura sorte del suo popolo e ne ha come risposta di cercare «l'antica madre». Anchise crede che terra ·accennata sia l'isola di Creta, dalla q_f!ale si voleva fosse giunto T eucro, fondatore della stirpe troiana.
90. Egeo Nettuno: il diodel mare aveva sede in questo mare, secondo la leggenda. - Madre delle Nereidi: Dòride, moglie del dio marino Nereo e madre delle ninfe marine, dette Nereidi. - un'isola: si narrava che l'isola di Delo, una delle Cicladi, fosse un'isola galleggiante, creata da Nettuno perché Latona, perseguitata da Giunone, vi potesse partorire Apollo e Diana. Apollo, riconoscente, la radicò tra le isole di Giaro e Micono. 94· e fosse venerata: sorgeva infatti il più bel tempio dell'antichità dedicato ai ge-
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Canto terzo
IOJ. O Timbreo: da Timbra, luogo della Troade dove il dio era venerato. I05.la nuova Pergamo: la cittadella della nuova città da fondare. 112. il tripode: sedile aureo a tre piedi, su cui i sacerdoti d'Apollo davano gli oracoli. II7. l'antica madre: l'Italia, donde era venuto Dardano capostipite dei Troiani. I27. sacra di Giove: perché vi era nato. 128. primissima culla: Anchise faceva risalire a Creta l'origine della gente Troiana perché dall'isola era parti to, come dirà subito dopo, Teucro, la cui figlia aveva sposato Dardano, per andare a fondare in Asia Minore il regno di Troia.
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IJO. cento grandi città:
Creta è forse l'isola più famosa nell'antichità sia per le innumerevoli leggende che ispirò, sia perché sede di fiorenti città tra le quali Cidonia, Drepano, Cnosso, Mileto e Festo.
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IJ6. Madre divina del Cibelo: Cibele, la grande ma-
dre degli dèi che abitava sul monte Cibelo, nella Frigia. Fu madre di Saturno, che mangiava tutti i figli maschi perché l'oracolo aveva predetto che uno di loro l'avrebbe spodestato. Giove fu allevato di nascosto in una grotta del monte Ida, allattato dalla capra Amaltea. Per coprire i vagiti del bimbo, i Coribanti, sacerdoti di Cibele, percotevano i loro grandi piatti di bronzo. I 38. di celebrare in silenzio: il culto della dea Ci-
bele aveva il suo rituale misterioso che solo gli iniziati conoscevano.
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onoriamo la sacra città di Apollo. Anio, re di quel popolo e insieme sacerdote di Febo, ci viene incontro, cinto di sacro alloro e di bende, e riconosce Anchise, suo vecchio amico: da ospiti gli stringiamo la mano e entriamo in casa sua. Adoriamo il santuario del Dio, edificato con pietra antica: «O Timbreo, dacci una casa nostra; siamo stanchi! Deh, dacci delle mura: una stirpe e una città che duri! Salva la nuova Pergamo, reliquia troiana scampata all'ira dei Greci e del crudele Achille. Chi dobbiamo seguire? Do\'e dobbiamo andare a cercare una patria? Padre, dacci un augurio, discendi nell'anima nostra» Ed ecco: tutto sembrò tremare, le porte, l'alloro del Dio; il monte sembrò muoversi, scuotersi tutto, il tripode ~uggire nel tempio spalancato. Chinati a baciare la terra sentiamo una voce che dice: «Forti Troiani, la terra da cui traete origine, prima culla dei padri, vi vedrà ritornare nel suo seno materno, reduci. Su, cercate l'antica madre! Dove la casata di Enea, i figli dei suoi figli e i piu tardi nipoti, domineranno uno spazio immenso di terra e di mare » Cosi disse Febo; e una grande allegrezza se ne levò, con molto tumulto, tutti chiedono quali siano le mura promesse, dove Febo chiami noialtri erranti e ci ordini di tornare. Allora mio padre volgendo nell'anima le memorie degli eroi d'una volta: «Ascoltate, compagni dice- vi dirò dove s'appunta la vostra speranza. In mezzo al mare c'è Creta, l'isola sacra di Giove, dove sorge il monte Ida: la primissima culla della nostra nazione. Ci vive molta gente: cento grandi città, fertilissimi regni. Di li, se bene ricordo ciò che spesso ho sentito, l'antico padre Teucro mosse verso le coste della Troade, scegliendole come propria dimora. Ilio e le rocche di Pergamo non erano sorte ancora; i Teucd risiedevano nelle piu basse vallate. Da Creta venne la Madre divina del Cibele, i bronzi dei Coribanti e il bosco sacro dell'Ida, da Creta l'abitudine di celebrare in silenzio
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i sacri misteri, da Creta i leoni aggiogati che trascinano il carro della grande regina. Avanti allora, seguiamo gli ordini degli Dei, muoviamo dove ci guidano! Pacifichiamo i venti, andiamo ai regni di Cnosso. Non sono molto lontani: col favore di Giove la Botta approderà alla costa di Creta nell'alba dd terzo giorno ». Ciò detto immolò sugli altari le vittime di rito: un toro a Nettuno, un toro a Apollo, una pecora nera alla Tempesta e una bianca ai venti favorevoli.
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Si diffonde la voce che il re Idomeneo scacciato dal regno paterno si sia ritirato dall'isola, che le spiagge di Creta sian deserte, che le case sian vuote di nemici e le loro città abbandonate. Lasciamo il porto di Ortigia e volando sul mare passiamo rasente a Nasso, dai gioghi montani sonanti di grida in onore di Bacco, alla verde Donusa, a Olearo ed a Paro bianca come la neve, alle Cicladi sparse per l'acqua, agli stretti agitati fra terre frequenti. S'innalza a gara nell'aria il canto dei marinai: «Voghiamo verso Creta e verso i nostri antenati! » Un vento nato da poppa seconda la nostra corsa, finché giungiamo alle spiagge antiche dei Cureti. In fretta subito qui costruisco le mura della città sognata, la chiamo Pergamea e esorto la mia gente, lieta di questo nome, ad amare i suoi nuovi focolari, ad alzare intorno alle nuove case una cinta murata. E già tutte le navi erano a secco sul lido, la gioventU s'occupava di matrimoni e dei nuovi campi da coltivare, io davo leggi e assegnavo le case ad ognuno: quando ad un tratto dall'aria corrotta piombò su di noi, sui nostri corpi, sugli alberi 1 39· i leoni aggiogati: Cibele era rappresentata su un carro trascinato da due leoni. 143. Cnosso: capitale dell'isola.
148-149· nera... bianca: agli dèi infernali si sacri· ficava un animale con vello scuro, agli altri con vello candido.
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CRETA (149-238). - Si fa vela verso Creta. Dopo una rapida e felice navigazione, i Troiani sbarcano sull'isola e incominciano i lavori per fondare una città che prenderà il nome di Pergamea. Ma di lì a breve scoppia una terribile pestilenza Anchise consiglia di tornare a Delo per interrogare nuovamente l'oracolo, ma ad Enea in sogno appaiono i Penati che gli svelano l'enigma. L'antica madre non è Creta, ma l'Italia donde venne Dardano, il vero progenitore dei Troiani. Anche Anchise è persuaso e così abbandonano Creta. 149. Idomeneo: figlio di Deucalione e nipote del grande Minosse. Partecipò alla guerra troiana e durante il ritorno, sorpreso dalla tempesta, promise agli dèi, se si fosse salvato, di sacrificare la prima persona che avesse incontrato sbarcando a Creta. Il primo ad andargli incontro fu il figlio ch'egli uccise, suscitando lo sdegno del popolo che lo scacciò. Si rifugiò nell'Italia meridionale, vi fondò la città di Salento e dette vita ad un regno fiorente. 153. Ortigia: denominazione antica di Delo. 154. Nassa: una delle Cidadi, ove era vivo il culto di Bacco. 156. Don usa... Olearo . . Paro: altre Cicladi. Paro è detta bianca come la neve per le sue notissime cave di marmo pregiato. 162. Cureti: sacerdoti antichi, i primi a coltivare la terra. 164. Pergamea: dal nome della rocca di Troia, Pergamo.
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Canto terzo
174. Gli uomini...: sin dai 175 tempi più antichi pestilenze d'ogni genere avevano colpito periodicamente i popoli mediterranei. Non essendo ancora sviluppata la medicina tanto da poter prevenire o curare le varie epidemie, 180 era costtume fuggire dai luoghi infetti, tutto abbandonando: · case, averi e campi. Generalmente le pestilenze venivano attribuite alla collera di qualche dio nemico 185 oppure all'influsso maligno di qualche stella; in questo caso, di Sirio, la più lucente delle stelle fisse, che brillava in luglio in concomitanza con le settimane più cal- 190 de dell'anno quando la temperatura diveniva torrida e la siccità inaridiva i fiumi e bruciava i raccolti. 17/i. Sirio: nome del cane che àccompagnava il cacciatore Orione nelle sue spe- 195 dizioni. Un giorno insegul le Pleiadi, figlie di Atlante, che Giove per salvare converti in Stelle. Quando Orione fu ucciso dal morso di uno scorpione, mandato da Dia- 200 na, e fu trasformato in una costellazione, il fedele Sirio segul la sorte del padrone. Gli antichi temevano molto gli influssi della stella Sirio ed offrivano sacrifici per al205 lontanarne i malefizi. 207. loro capo: un mitico re ltalo, venuto dall'Arcadia. 208. Iasio: figlio di Corito, re di Etruria. Fu ucciso dal fratello Dardano in una 210 disputa per la successione al trono. 212. Còrito antica: la capitale aveva preso il nome dal re. Oggi Cortona.
· e sui seminati una peste trenlenda, distruggitrice, una stagione di morte. Gli uomini abbandonavano la dolce vita oppure trascinav: lno i corpi infermi; Sirio ardeva gli steril[ campi; l'erba inaridiva; le messi malate n•: ~avano il cibo. Il padre Anchise ci esorta a f ltdare di nuovo da Febo al santuario di Ortigia, a pas:, U'e il mare coi remi per implorare grazia, per chie ilere che termine ponga alle nostre fatiche, dO\ i: ordini di cercare rimedio ai nostri mali, di vol,~ere il cammino. Era notte, sulla terra le c :•se animate dormivano: ed ecco che le sacre immagini degli Dei e i Penati di Frigia che avevo portato con me da Troia, in mezzo agli incend. della città, m'apparvero davanti agli occhi, mentre io giacevo nel sonno, chiaramente visibili al lume della luna che nel suo pieno fulgore filtra,:·a dalla finestra. Allora còn queste parole leni 1ono il mio affanno: «Quello che ti direbbe Apollo se ti recassi a Ortigia, te lo dice ora, spo ittaneamente, mandandoti noialtri. Noi, eh i: abbiamo seguito te e le tue armi quando fu rO\ :inata Troia, che sotto la tua guida, sulla 1totta, percorso abbiamo il gonfio mare, levt iremo alle stelle i tuoi futuri nipoti, daremo lm impero alla loro città. Tu erigerai ddle mura immense per uomini immensi: ma non devi interromquesta lunga fatica della tua fuga da Troia. [pere Devi ancora partire: Apollo r 1on t'ha suggerito queste rive, non t'ha ordinato di stare in quest'isola. Ascolta. C'è un paese che i Greci chiamano Esperia, una terra antica, potente nelle armi e feconda; gli eroi Enotri la abitarono; adesso si dice che i loro discendenti l'abbiam .chiamata Italia dal nome del loro capo. Questa è la nostra patria, di q iii è venuto il padre Iasio e Dardano, fonte di tutt:l la nostra stirpe. Alzati e riferisci queste parole ~~incere al vecchio padre: che cerchi Ii: terre dell'Ausonia e Còrito antica, patria di Da\dano. Giove ti proibisce di stare nei campi. di Creta». Attonito per la visione e f.'~r le voci divine
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(poiché non era un sogno quello, ma m'era parso di vedermi davanti vivi e presenti i volti e le chiome velate degli Dei: un sudore gelato mi scorreva per tutta la persona) m'alzo dal letto e tendo verso il cielo le mani giunte, invocando i Numi, versando sull'altare purissimo vino. Compiuta la libagione, informo felice di quanto è accaduto il padre Anchise, gli spiego per ordine ogni cosa. Ed egli riconobbe la nostra doppia origine e i due diversi antenati, Dardano e Teucro, e ammise d'esser caduto in errore. Poi ricordò: «O figlio, che i destini di Troia travagliano tanto, la sola Cassandra mi prediceva simili avvenimenti. Ora rammento, spesso diceva che un gran destino sarebbe toccato alla .mia stirpe, e spesso nominava l'Esperia ed i regni d'Italia. Ma chi avrebbe pensato che i Teucri sarebbero andati alle spiagge d'Esperia? E aHora chi avrebbe creduto a Cassandra? Seguiamo i consigli d'Apollo, cerchiamo migliore fortuna!,. Dice cosi: gridando d'entusiasmo obbediscono tutti alle sue parole. Abbandoniamo anche Creta !asciandovi pochi compagni, spieghiamo le vele e sulle navi incavate corriamo per l'ampio mare.
La tempesta e le Arpie
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non era un sogno: infatti Enea Ji rende conto che non c'è stato sonno né d'veglio: è dunque una delle tante apparizioni che nei momenti cruciali del racconto chiarificano il futuro e danno all'eroe nuovo incentivo per proseguire « la lunga fatica • della fuga da Troia. La novità di questo intervento sta nel fatto che non è Venere e non sono le ombre dei trapassati a parlare, ma addirittura tutti i Penati di Frigia, i cui simulacri erano stati salvati dalle fiamme. ~ perciò un coro di voci amiche che lo conforta e lo illumina sul significato delle misteriose parole « l'antica madre ,., che Anchise aveva erroneamente identificata con Creta. 221. libagione: o libazione era unà cerimonia religiosa di ringraziamento in cui si versava vino o latte o altro liquore dopo averlo assaggiato, e precedeva quasi sempre il vero e proprio sacrificio. 215.
LA TEMPESTA E LE ARPIE
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Il mare era profondo, un'infinita distesa senza nessuna terra, soltanto cielo e mare, quando sopra il mio capo si formò un nembo azzurro, un nembo che oscurò il mare, scatenò tempesta, inverno e notte. All'improvviso i venti sconvolgono l'oceano, immensi cavalloni si levano, siamo dispersi, sbattuti dal gorgo qua e là. I nembi coprirono il giorno, un'umida notte ci tolse la vista del cielo; migliaia di fulmini squarciarono le nubi. Vaghiamo fuori rotta per onde ignote, scurissime. Lo stesso Palinuro grida di non distinguere il giorno dalla notte e di non ricordare la strada fra le onde.
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na una furiosa tempesta che li costringe ad approdare alle isole Strofadi. Mentre Enea e i compagni si apprestano a celebrare un sacrificio a Giove, appaiono le mostruose Arpie che insozzano e distruggono le mense. Essi sono costretti a .difendersi con le armi ed allora Celeno, una dei mostri, fa loro una triste profezia: raggiungeranno l'Italia ma prima soffriranno sventure d'ogni genere e patiranno la fame, tanto da essere costretti a divorare le mense.
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256. e un fumo ... : dunque paiono essere abitate. 260. isole Strofadi: oggi Strivali. Sono due isolette citate in una leggenda. Si raccontava che Giove, volendo punire Fineo, re della Traeia, per i suoi misfatti, avesse inviato le Arpie a tormentarlo. Tuttavia Giasone, capo degli Argonanti, trovò ospitalità presso di lui e per sdebitarsi incaricò Calai e Leto, figli di Borea, di cacciare gli uccellacci. Questi relegarono i mostri nelle due isole, poscia, per ordine di Giove, tornarono indietro. Quest'ultimo verso in greco suona « strephomai », onde il nome di Strofadi. 262. Arpie: creature mostruose con corpo di uccello, testa umana, lunghi capelli e grandi ali. Spandevano un odore nauseabondo, rubando le vivande dalle mense e insozzando ciò che toccavano. Le più note sono: Aello, Occipite, Celeno e Podargo. Dante le colloca in Inferno nel girone dei suicidi e dice di loro: « Quivi le brutte Arpie lor nido fanno - che cacciar dalle Strofade i troiani - con triste annun2io di futuro danno - Ali hanno late e colli e visi umani - pié con artigli e pennuto il gran ventre - fanno lamenti in su li alberi strani ». Come si vede la poesia ispira la poesia. 266. Stige: uno dei :fiumi infernali.
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Cosi erriamo sul mare tre giorni, alla ventura, senza vedere una stella la notte. Il quarto giorno finalmente ci parve di scorgere una terra levarsi alta sul mare, e scopriamo dei monti in lontananza e un fumo che si torce nell'aria. Calate in fretta le vele ci buttiamo sui remi; i marinai a tutta forza fendono l'acqua azzurra. Ad accoglierci, salvi dal mare, sono i lidi delle isole Strofadi: cosf chiamate con nome greco. Sorgono in mezzo al grande Jonio, vi abitano la feroce Celeno e le altre Arpie, da quando dovettero lasciare la casa di Fineo, per paura, e le antiche loro mense. Non c'è mostro piu brutto di loro, nessun flagello divino piu crudele di loro usd mai dallo Stige. Sono uccelli col viso di fanciulla, dal ventre scaricano in continuazione luridissime feci, hanno mani uncinate, faccia pallida sempre per la fame ... Appena entrati nel porto, ecco, vediamo qua e là nei campi begli armenti di bovi e un gregge di capre disperso nell'erba alta, senza nessun guardiano. Corriamo loro addosso col ferro, ed invochiamo gli Dei e lo stesso Giove, offrendo una parte di preda ai Celesti; imbandiamo le mense sul lido ricurvo e allegri banchettiamo con quella splendida carne. Ma all'improvviso calando con volo orrendo dai monti arrivano le Arpie, scuotono in aria le ali con enorme fracasso, portano via le vivande, insozzano ogni cosa col loro immondo contatto; poi fuggono, resta nell'aria la loro voce selvaggia in mezzo a nuvole grevi di odore nauseabondo. Per la seconda volta prepariamo le mense e riaccendiamo il fuoco sugli altari, scegliendo una gola profonda sotto una concava rupe, chiusa tutto all'intorno dagli alberi piu ombrosi; e una seconda volta, da un'altra parte del cielo e da chissà mai quali nascondigli, la turba schiamazzante, volando sulla preda, la strazia con gli unghioni, la infetta con la lurida bocca. Allora grido ai compagni di prendere le armi per ingaggiare battaglia con quella razza feroce.
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Cosi fanno e nascondono nell'erba alta le spade e gli scudi. Ed appena le Arpie, piombando giu fragorose dal cielo, fecero rimbombare tutto il lido ricurvo, il trombettiere Miseno, che stava di vedetta in un posto elevato, diede uno squillo di tromba. I compagni le assalgono e impegnano uno strano combattimento: terire col ferro affilato quei brutti uccelli di mare. Ma le impenetrabili piume, le schiene invulnerabili respingono ogni offesa: salve le Arpie s'involano verso il cielo, lasciando la preda cincischiata e coprendo ogni cosa di ripugnanti escrementi. Solo Celeno, fermandosi su un'altissima rupe, funesta profetessa, ci gridò: «Discendenti dell'eroe Laomedonte, vi preparate forse - dopo averci ammazZa.to tanti bovi e giovenchi a dichiararci guerra? E volete scacciare dal patrio regno le Arpie che nulla v'han fatto di male? Imprimetevi in cuore quanto vi dico: io la maggiore di tutte le Furie, vi rivelo ciò che l'Onnipotente predisse ad Apollo, ed Apollo predisse a me. Andate pure in Italia, in favore di vento ci arriverete, potrete attingere il porto; ma non cingerete di mura la città che vi è stata pro[messa prima che una feroce fame - giusto castigo per averci aggredito- non v'abbia costretto a rodere coi denti perfino le mense ». Poi levandosi a volo si rifugiò nel bosco. Ci si agghiacciò a tutti il sangue per lo sgomento: perdemmo ogni coraggio, e nessuno ormai piu vuole far guerra alle Arpie, ma anzi le invochiamo con molti voti e preghiere, siano divinità o solo uccelli schifosi, impetriamo pace da loro. Il padre Anchise supplica dal lido a mani giunte i grandi Numi, tra i riti sacrificati: « O Dei rendete vane tali minacce, allontanate tanta sciagura e benigni salvate un popolo pio! » Quindi comanda di sciogliere la gomena dal lido e mollare le sartie. Noto, il vento del sud, tende le vele; si corre sulle onde spumeggianti dove il pilota e la brezza dirigono la rotta.
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294. per ingaggiare battaglia: siamo in piena atmo-
sfera di realtà fantastica che si muta a poco a poco in incubo. Enea crede di avere a che fare con dei mostri, ma di carne ed ossa e, dopo il primo assalto, da avveduto condottiero prende tutte le misure per ingaggiare una vera e propria battaglia. C'è persino il trombettiere in vedetta per preannunziare con gli squilli di tromba convenuti il ritorno del nemico. ,\1a a nulla valgono gli scu· di e le spade affilate: gli ucccllacci immondi sono invulnerabili ed i colpi vanno a vuoto lasciando attoniti i guerrieri. 297. Miseno: figlio di Eolo, dio dei venti. 308. Laomcdonte: padre di Priamo e figlio di Ilo. Per edificare le mura di Troia chiese aiuto a Nettuno e ad Apollo, promettendo un lauto compenso. Ma non mantenne la parola data cosicché Apollo scatem) una pestilenza in tutto il pàese mentre Nettuno inviò un mostro marino che tcrrorizz:tva gli abitanti. P.:r placar~ le ire delle due divinità, Laomedontc sacrificò la figlia Esione, esponendola al mostro. Ma Ercole, sopraggiunto, uccise il mostro, salvò la fanciulla con la promessa di avere due cavalli velocissimi. Anche questa volta Laomedonte non tenne fede alla promessa e fu ucciso da Ercole, che a capo della ~·ittà pose il tiglio del re, Priamo. 313. Furie: Furie ed Arpie a volte si identificano, recitando lo stesso ruolo. 320. le mense: erano focacce rotonde che servivano da piatti e sull.: quali si ponevano i cibi.
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Azr.o (335-362). - Imbarcatisi, giungono ad .Azio, presso il tempio di Apollo. Qui si accampano, offrono sacrifici e celebrano solenni giochi. Enea offre al dio il suo scudo.
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338. Ulisse: causa del male maggiore di Troia. 339· Leucate: oggi capo Datato, sull'estremo sud dell'isola di Leucade, oggi San- 345 ta Maura. 348. .Azio: lo scopo di questi giochi improvvisi non è altro che un tributo di Virgilio id Augusto. Infatti per celebrare la vittoria ottenuta su Antonio proprio 350 nel mare di Azio (31 a. C.) l'imperatore aveva istituito dei giochi quadriennali. Qui Enea celebra per la prima volta tali gare in ricordo del quarto anniversario della ca- 355 duta di Troia. 351. essere potuti fuggire... : come schiavi di guer-
ENEA CONSACRA QUESTE ARMI DEI GRECI VINCITORI.
ra.
. 355· Abante: antico re di Argo, il cui scudo era
passato in eredità ad un nipote, ucciso e · depredato sotto le mura di Troia da Enea. 362. Butroto: oggi Butrinto in Epiro.
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Poi ordino di lasciare il porto e sedere sui banchi. Battono a gara i compagni il mare fendendo le onde. Presto persi di vista gli aerei castelli feaci e, rasentando le spiagge d'Epiro, entriamo in un porto caonio, per salire all'alta città di Butroto.
Incontro con Andromaca ed Elena
INCONTRO CON ANDROMA· CA ED ELENA (363-620). -
Lasciato Azio, giungono a Butroto nell'Epiro dove vengono accolti da Eleno, figlio di Priamo, re del paese. E/eno ha sposato la vedova del fratello Ettore, Andromaca, dalla quale gli esuli sono ricevuti con gioia e commozione e con la quale Enea si
Ecco che in mezzo al mare appare Zacinto boscosa, Dulichio, Same e Nerito dalle rocce scoscese. Fuggimo gli scogli d'ltaca, reame di Laerte, maledicendo la terra materna del feroce Ulisse. Ben· presto appaiono le cime nuvolose di Leucate ed il tempio di Apollo temuto dai marinai. Stanchi ci si dirige a quella meta, approdiamo a quella cittadina, dove gettiamo l'ancora dalle prue, allineando le poppe sulla spiaggia. Poiché si arrivò a terra finalmente, che quasi piu non lo speravamo, in onore di Giove ci si purifica, ardendo incenso sugli altari e celebrando con giochi alla maniera troiana le rive d'Azio. Nudi ed unti tutti d'olio i compagni gareggiano come s'usava in patria, felici d'esser scampati a tante città argoliche, d'esser potuti fuggire in mezzo a tanti nemici. Intanto il sole percorre il grande cerchio dell'anno e l'inverno ghiacciato sconvolge le onde coi soffi di Tramontana. lo attacco alla porta del tempio lo scudo di concavo bronzo portato dal grande Abante e vi appongo una dedica che ricordi il mio dono:
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Qui ci giunge alle orecchie una notizia incredibile: Eléno, figlio di Priamo, regna su città greche, impadronitosi insieme dello scettro di Pirro e della sua donna. Cosi Andromaca è ritornata ancora una volta a un uomo della sua stessa patria. Mi pietrificò lo stupore, arsi dal desidero di parlare all'eroe e di sapere da lui cosi grandi vicende. Mi allontano dal porto lasciando la flotta e la spiaggia. Proprio allora, per caso,
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Andromaca libava solennemente ad Ettore, al suo ricordo, e gli offriva tristi doni davanti alla città, in un bosco sacro, vicino all'acqua d'un finto Simoenta. Ella invocava i Mani sul tumulo vuoto che aveva fOnsacrato al marito, verde di zolle erbose, con accanto due altari fonti di eterne lagrime. Fuori di sé mi vide arrivare, vestito di note armi troiane; ed allora, atterrita da un simile miracolo, s'irrigidi, il calore svani dalle sue ossa; svenne e soltanto dopo molto tempo mi disse: «Sei vero, proprio vero? Ed è proprio il tuo volto qudlo che vedo, o figlio di Dea? Sei proprio vivo? E se sei solo un'ombra, dimmi, Ettore dov'è? » Singhiozzò disperate., gridando. Le rispondo a stento poche frasi, con voce che la pena mi ~trozza in gola: «Vivo una vita infelice tra le maggiori sventure. Non dubitare, Andromaca, qud che vedi è reale. Ahi, ma che sorte è la tua vedova di un marito cosi illustre? Od è vero che ti sarebbe toccata una piu degna fortuna? Andromaca di Etto;;e, sei sempre la donna di Pirro? » Abbassò gli occhi e parlò con voce sommessa: «O fdice, lei sola pit:i di tutte le altre, Polissena, la vergine liglia di Priamo, immolata presso a una tomba nemica sotto le mura di Troia! Felice lei che sola Mn fu tirata a sorte fra i vincitori, schia~·a, e non ebbe a calcare il letto d'un padrone! Dopo l'incendio di Pergamo io, trasportata per mari lontani, ho partorito in schiaviru, ho sopportato la sdegnosa superbia di Pirro, figlio di Achille. Pirro, volendo sposare la l!lcedemone Ermione, nipote di Leda, diede me schiava al suo schiavo Eléno. Ma. Creste infiammato d'amore per la perduta Ermione e spinto dalle Furie, lo colse di sorpresa agli altari paterni e lo scannò. Alla morte di Pirro Eléno ebbe in sorte una parte del regno: egli chiamò caonii questi campi e Caonia la regione, dal nome di Caone troiano, e costru{ sui colli un'altra Pergamo, un'altra rocca d'Ilio. Ma dimmi, quali destini e venti
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trattiene a lungo, ricordando il tempo passato, anche se triste e luttuoso Prima di ripartire, su richiesta di Enea, Eleno, che è grande indovino, con grande ricchezza di particolari predice ad Enea ciò che lo attende e gli dà consigli sull'itinerario e sul modo di comportar:i soprattutto con la Sibilla di Cuma e sul tempo in cui dovrà fondare la nuova città. Congedatosi da Eleno, Enea riprende il mare. 375· finto Simoenta: di un fiumicello ch'ella immaginava essere il Simoenta. I Mani: le anime divinizzate degli antenati. 396. Polissena: figlia di Priam.o, innamorò di sé Achille che la chiese in isposa. Mentre si celebravano le nozze, Paride con una freccia uccise l'eroe greco. Dopo la caduta di Troia, Pirro immolò Polissena sulla tomba del padre. 401. ho partorito: ebbe
un figlio chiamato Molosso. 404. la lacedemone Ermione: figlia di Menelao, re di Sparta, e di Elena,
figlia a sua volta di Leda, amata da Giove. 405. Oreste: figlio di Agamennone. 408. Alla morte ... : l'intri-
cato racconto, fitto di nomi, finisce con il riuscire stucchevole ed appesantisce l'azione rivelando il solito tributo d'obbligo che il poeta deve fare più che alla storia, alla mitologia con tutte le sue macchinose strutture. 4II. Caone: fratello di Eleno.
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418. lo %io Ettore: Ettore era fratello di Creusa, moglie di Enea. 427. Scamandro: i due fiumicelli che corrono vici· no alla nuova città sono battezzati col nome dei due fiumi troiani, quasi a far più viva l'illusione della rinascita di una novella Troia. 428. porte Scee: le porte occidentali di Troia presso le quali si erano svolti nel· l'Iliade tanti avvenimenti importanti. 439· tripodi: vedi verso u2. - Claro: città dell'Asia Minore, sede di un cebre oracolo del dio Apollo. 451. scioglie ... : le bende nel momento del vaticinio si toglievano. 452. lui stesso: è un rigido cerimoniale che vedremo puntualmente rispettato in tutte le situazioni simili. Infatti colui cui era stato dato dagli dèi il dono della profezia, diveniva per tutta la vita un sacerdote, legato a dcterminati riti ed a sacrifici obbligatori. Solo cosi il dio accoglieva le preghiere e dava i responsi per bocca del suo fedele. Cosi avviene per Elèno, che sacrifica due buoi, pronuncia la preghiera rituale, s'avvicina al simulacro del dio ed alfine ne dà l'oracolo richiesto.
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guidarono il tuo viaggio? Qual Dio ti spinse ignaro a questi nostri lidi? Che fa il piccolo Ascanio? Vive, respira? Quando nacque già Troia ... E si duole talvolta della madre perduta? Il padre Enea e lo zio Ettore lo incoraggiano nell'antico valore e nei sensi virili?» Piangeva forte dicendo cosi, e mandava invano gemiti lunghi, quando l'eroe Eléno, figlio di Priamo, con molti compagni avanza dalle mura e ci riconosce: lieto ci conduce in città versando molte lagrime tra una parola e l'altra. Vado avanti e rivedo una piccola Troia, un piccolo Pergamo che copia quello grande, un fiumicello asciutto battezzato Scamandro, e abbraccio il limitare di nuove porte Scee. Insieme a me i Troiani tutti quanti fruiscono dell'ospitalità della città alleata. Il re li riceveva sotto spaziosi portici: nel mezzo del cortile, davanti a cibi fumanti in piatti d'oro, libavano con in mano le tazze. Passa un giorno ed un ·altro, l'aria chiama le vele e la tela si gonfia del vento che la colma; mi rivolgo al profeta Eléno con queste parole: «O Troiano, divino interprete, ispirato dal volere di Febo, che comprendi gli augurii dei tripodi e dei lauri di Claro, che sai leggere nelle stelle, conosci il canto degli uccelli e i presagi dettati dal loro volo veloce, ti prego, parla (poiché favorevoli oracoli m'han detto tutto il cammino, e i Numi m'han considi andare in Italia cercando terre remote; [gliato solo l'arpia Celeno mi gridò un indicibile prodigio, rabbie funeste ed una oscena fame): quali pericoli devo evitare per primi e in che modo potrò superare tanti travagli?» Allora Eléno dopo avere anzitutto immolato dei buoi, secondo il costume, implora il favore celeste e scioglie le sacre bende dal suo capo: lui stesso mi conduce per mano alle tue soglie, o Febo; eccitato e tremante per la tua grande potenza. Poi il sacerdote canta dalla bocca profetica: « O figlio di una Dea (certamente tu corri
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per l'alto mare sotto magnifici presagi: cosi il re degli Dei regola i Fati, e svolge le vicende, per ordine) ti spiegherò poche cose tra molte, perché sicuro percorra i mari stranieri approdando alla fine in un porto d'Ausonia: le Parche mi proibiscono di saperne di piu e la Saturnia Giunone mi vieta di parlarne. Anzitutto l'Italia, che tu credi vicina e di cui ignaro ti accingi a toccare i prossimi porti, è separata da te da una strada lunghissima, difficile e pericolosa, da molte terre. Il tuo remo dovrà prima stancarsi nel mare di Trinacria, le navi tue correranno sulla distesa del mare dell'Ausonia, vedranno i laghi dell'Inferno e l'isola di Circe prima che sia possibile fondare una città su una terra sicura. Il segno sarà questo, tienilo bene a mente: quando tu preoccupato per le molte fatiche in riva a un fiume remoto scoprirai sotto un elce una candida 5crofa stanca del parto, distesa per tc:rra vicino all'acqua, enorme, con ben trenta candidi porcellini intorno alle mammelle. allora avrai trovato il luogo della città, e H sarà il riposo sicuro dei tuoi travagli. Non devi spaventarti di Celeno, del triste augurio delle mense: i Fati troveranno il modo di salvarti, Febo ti aiuterà. Tu fuggi queste terre, questa spiaggia vicina della costa italiana che il nostro mare bagna: tutte le sue città sono abitate da Greci. Vi hanno elevato mura i Locresi di Nàrice, Idomeneo di Lieto con le sue truppe ha occupato i campi salentini e Filottete, re di Melibea, ha cinto d'un muro la sua piccola Petelia. Quando al termine del tuo viaggio la flotta sarà arrivata oltre i mari e infine si fermerà, tu innalzerai altari sul lido, renderai grazie 460. Ausonia: altro nome dell'Italia, datole da Ausonio, figlio di Ulisse e di Calipso, che venne a stal:>ilirsi in Italia.
462. la Saturnia Giunone: la dea vieta ad Eleno
di parlare cartaginese.
dell'avventura
467. Trinacria: la Sicilia.
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469. Inferno: per Averno, presso Cuma ove si credeva ci fosse l'ingresso dell'oltretomba. 470. Circe: la maga, figlia di Sele, protagonista nel X dell'Odissea di un famoso episodio. Abitava sul promontorio del Circeo. 474· fiume remoto: il Tevere. - elce: specie di quercia selvatica. 483. Tu fuggi queste terre ... : le vicine coste della
Magna Grecia, abitate da popolazioni nemiche. 486. i Locresi di Nàrice:
i Locresi avevano partecipato alla guerra di Troia condotti da Aiace d'Oileo. Al ritorno, lasciata la loro patria Nàrice, sbarcarono in Calabria e fondarono la città di Locri. 487. Idomeneo: vedi verso 149· 488. Filottete: compagno e scudiero di Ercole, che prima di morire gli consegnò le frecce tinte nel sangue dell'Idra, facendosi promettere che le avrebbe nascoste e non ne avrebbe rivelato il luogo. Iniziata la guerra di Troia, l'oracolo vaticinò la presa della città soltanto se fossero rinvenute le frecce di Ercole. Filottete si lasciò persuadere a prenderle dal nascondiglio e a portarle a Troia. Ma nell'isola di Lemno, mentre sostava, fu morso da un serpente ed abbandonato dai suoi per il fetore insopportabile della ferita. Qui rimase dieci anni a pagare il fio della mancata promessa ad Ercole, poi venne portato a Troia, guarl per merito del medico Macaone ed uccise Paride con una delle famose frecce. Di ritorno a Troia sbarcò in Cala-
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Canto tmo
bria e fondò Petelia, oggi Strongoli. 495· manto purpureo: era uso dei sacerdoti romani coprirsi il capo di veli purpurei, mentre sacrificavano. Qui Virgilio vuoi fame risalire la tradizione ad Enea. 501. Peloro: lo stretto di
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Messina. 512. Scilla: Scilla, bellissima ninfa, innamorata di Glauco, si rivolse alla maga Circe per averne un filtro propiziatorio. Circe che amava anche lei il giovane, le preparò un liquido magico che versò in una fontana nelle acque della quale fece immergere la ninfa, che di colpo si cambiò in un mostro con sei teste di cane che latravano di continuo. Scilla, disperata, si gettò in mare e si nascose in una grotta, usc~done soltanto per assalire e divorare i naviganti. ,513. Cariddi: donna violenta e ladra che sottrasse ad Ercole i buoi di Ercole. Fu mutata da Giove in un mostro che abitava le profondità marine di fronte a
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Scilla. 524. il capo di Pachino: oggi capo Passero, estrema punta sud-orientale della Sicilia. 527. del guaito dei cani azzurri: bella immagine poetica. Le onde che si frangono· sugli scogli, paiono mute di cani che si avventino sulla pr.eda. 533· adora innanzitutto. .. : è Giunone la grande nemica che occorre placare a tutti i costi perché l'impresa vada a buon fine.
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agli Dei, scioglierai il tuo voto solenne: ma. non dimenticare di coprirti i capelli e il capo d'un manto purpureo, perché qualche volto nemico non venga tra i fuochi a turbare i presagi. I tuoi compagni osservino sempre questo costume nei riti religiosi, osservalo tu stesso e, piu tardi, i nipoti. Ma quando il vento t'avrà avvicinato alla costa della Sicilia, e la porta dello stretto Pdoro s'aprirà innanzi a te, tu tieniti a sinistra e gira intorno all'isola, fuggi la terra e il mare di destra. Un tempo, dicono, quello stretto non c'era, i due paesi erano uno, senza l'interruzione causata da una forza immensa e da un'enorme rovina (cosi il tempo può mutare le cose); il mare penetrò violentemente in terra, separò con le onde i campi dell'Esperia da quelli siciliani, e scorre ribollendo come un fiume impetuoso tra le città e i coltivi divisi da due spiagge. Scilla sta sulla destra; l'implacata Cariddi sulla sinistra: tre volte dal suo profondo baratro inghiotte i vasti flutti nell'abisso, e di nuovo in alternanza li leva verso il cielo e percuote con le onde le stelle. Invece Scilla, nascosta in una cieca caverna, sporge la testa e trascina le navi conti'o gli scogli. La parte superiore del suo corpo ha un aspetto umano, fino all'inguine è una bella fanciulla dal petto sodo; il resto è un gran mostro marino con code di delfino e un ventre di lupo. ~ molto meglio per te costeggiare pian piano il capo di Pachino e fare un giro lungo piuttosto che vedere anche una sola volta l'informe Scilla sotto la sua vasta caverna e le rocce che suonano del guaito dei cani azzurri. E adesso ascolta. Se Eléno vede lontano, se è vero che è profeta, se Apollo mi riempie l'anima di verità io ti prescriverò, o figlio di una Dea, soltanto questo, solo una cosa per tutte e la ripeterò sempre e sempre, ammonendoti: adora innanzitutto la potente Giunone, grande Dea, volentieri
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innalza voti a Giunone, vincendola con doni e suppliche; cosi arriverai vittorioso, lasciata la Trinacria, ai confini d'Italia. Quandò, giunto colà, sarai approdato a Cuma, ai laghi sacri, all'Averno risonante di boschi e di vento che scorre tra quei boschi, vedrai la Sibilla, invasata, che ai piedi d'una rupe predice i Fati e affida nomi e cifre alle foglie. Tutte le profezie scritte sopra le foglie la vergine le mette in ordine e le lascia chiuse nella caverna. Restano ferme, H, in bell'ordine. Ma quando un debole vento s'infiltra dalla porta spalancata, o il battente medesimo nell'aprirsi produce un po' di corrente, quelle tenere foglie si scompigliano, volano nell'aria ricadendo di qua e di là. La Sibilla non si cura di prenderle mentre lievi svolazzano per tutta la caverna, non le rimette a posto come prima, per ordine: chi è venuto a sentire il suo destino va via senza risposta, ed odia e maledice la sede della Sibilla cumana. Non temere di perdere un po' di tempo a Cuma, anche se i tuoi compagni protestano, e c'è fretta di partire, di spingere le vele in alto mare, e i venti son favorevoli: corri dalla Sibilla, supplicala di dirti l'avvenire. E non scriva parole sulle foglie, ma ti parli lei stessa con lt sua stessa voce. Vedrai: ti spiegherà i popoli d'Italia e le guerre a venire e in che modo tu possa evitare gli ostacoli o superarli. Ma tu devi pregarla, farle onore: ti darà un viaggio felice. Queste sono le cose che alla mia voce è permesso riferirti. Ora va', porta con le tue gesta la grande Troia in alto, levala sino al cido ». Dopo avermi parlato cosi con voce amica, Eléno fa portare regali alle mie navi, oro ed avorio; ammucchia nelle mie stive argento in gran copia, !ebeti di Dodona e mi dà una lorica intrecciata di tre catene d'oro ed un elmo bellissimo con un pennacchio ondeggiante, armi di Neottolemo. Anche mio padre riceve
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.538. Cuma: fu la prima colonia greca in Italia, fondata dai Calcidesi d'Eubea nell'viii secolo a. C. Fiorente centro di commerci e to famoso, dominava tutto il territorio della Campania. Respinse gli attacchi degli Etruschi, ma dovette sottomettersi prima ai SanQiti, poi a Roma. .54 I. Sibilla: figlia di Glauco, che aveva avuto da Apollo il dono della profezia e risiedeva nei dintorni di Cuma. Sibilla in genere era il nome che i Greci davano a certe donne che possedevano la capacità di profetare quando erano invasate dal Nume. Oltre alla Cumana, le più celebri furono la Marpesiana che viveva sul fianco del monte Ida, in Asia Minore; e la Sibilla d'Eritrea, chiamata Erofile. 573· lebeti di Dodona: grandi vasi di bronzo, che era in uso appendere alle querce circostanti il tempio di Giove in Dodona nell'Epiro. Percotendoli, dal suono ch'essi emettevano, i !acerdoti traevano i vaticint. 574· lorica: corazza. 576. Neottolemo: un $0· prannome di Pirro che significa «nuova guerra».
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,58r. Anchise intanto ... : è la prima volta che il padre si sostituisce al figlio nel dare ordini e nel predisporre la partenza della spedizione. Prima s'era accontentato di consigliare. Forse è lo spirare del vento favorevole che gli fa prendere l'iniziativa. ,586. per due volte ... : Anchise è chiamato da Elèno « con molto ossequio » prediletto dagli dèi, non soltanto perché marito di Venere, ma anche perché era sopravvissuto tanto alla rovina di Troia ad opera di Ercole quanto a quella recente per mano dei Greci. .590. è ancora molto lontano: Elèno in sintesi riferisce ad Anchise il vaticinio. Dà la certezza di giungere in Italia, ma lo preavverte del molto tempo che ancora avanza e che i fuggitivi dovranno affrontare tra mille difficoltà. Poi quasi a volerlo consolare, gli tesse l'elogio del figlio amoroso. In queste ultime parole c'è forse celato l'annunzio della morte vicina; come se dicesse: « Goditi, finché lo puoi, la compagnia e l'amore di Enea, perché fra poco dovrai abbandonarlo ». 596.mantello frigio: mantello di lana, ricamato d'oro. .599· Moglie di Ettore:
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quantunque ella sia moglie di Elèno, il suo cuore e il 610 suo pensiero, sono legati indissolubilmente alla memoria del grande eroe. 60,5. è compiuta: Eleno e Andromaca, dopo tante vicissitudini, otmai hanno con- 615 quistato nuovamente la pace e la serenità. 6xo. Xanto: altro nome dello Scamandro.
doni particolari. Eléno in piu vi aggiunge dei cavalli, procura piloti che conoscano l'Adriatico bene, completa gli equipaggi, rifornisce di armi i miei buoni compagni. Anchise intanto ordinava di allestire la flotta e preparare le vele, per non perdere il vento favorevole. A lui l'interprete di Febo si rivolge con molto ossequio: «O Anchise, degno della superba Venere, protetto dagli Dei, per due volte strappato alla rovina di Troia: l'Ausonia è là, di fronte, raggiungila con le vele. Eppure è necessario che la oltrepassi, vagando sul mare: quel cantuccio d'Italia che vi spetta, come ha promesso Apollo, è ancora molto lontano. Tu naviga, felice dell'amor di tuo figlio! Naviga! Ma perché m'attardo a chiacchierare mentre i venti si levano propizi? Navigate! » Allora Andromaca, triste per quell'estremo addio, porta al piccolo Ascanio i suoi doni, vestiti ricamati con fili d'oro, e un mantello frigio: « Prendi questi regali, o fanciullo, in ricordo delle mie mani, in memoria dell'amore di Andromaca moglie d'Ettore. Prendi gli ultimi doni dei tuoi o tn che tanto assomigli al mio Astianatte, che sembri davvero il suo ritratto! Aveva il tuo stesso viso, gli stessi occhi e le mani; aveva la stessa età; se vivesse sarebbe come te, adolescente». Io partendo dicevo a loro tra le lagrime: «Vivete felici, o voi la cui sorte è compiuta: mentre noi da un pericolo siamo chiamati a un altro. Avete alfine la pace, non dovete solcare nessuna distesa marina, non dovete cercare i campi dell'Ausonia che si allontanano sempre! Avete un nuovo Xanto ed una nuova Troia eretta da voi stessi, mi auguro con auspici migliori e meno esposta alle armi dei Greci. Se entrerò mai nel Tevere, nei campi ch'esso bagna, e vedrò la città promessa alla mia gente, faremo si che l'una e l'altra Troia, l'italica e l'epirota, congiunte da tanto tempo per sangue, discendenti da Dardano entrambe, passate entrambe attraverso le stesse vicende,
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siano una sola Troia nel piu profondo del cuore: spetta ai nostri nipoti mantenere l'impegno».
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Avanziamo sul mare fin presso ai monti Cerauni da dove la via per l'Italia attraverso le onde è piu breve. Intanto il sole tramonta e le montagne si fanno azzurre d'ombra. Dopo aver tirato a sorte chi dovesse restare di guardia accanto ai remi ci sdraiamo vicino all'acqua, in grembo alla terra desiderata, e qui e là stesi sul lido asciutto ristoriamo le forze; il sonno cola nei nostri corpi stanchi. La Notte condotta dalle Ore non era ancora giunta a metà del suo corso, quando svelto il nocchiero Palinuro si leva dal giaciglio ed interroga tutti i venti, ascoltando i rumori dell'aria; guarda tutte le stelle che corrono nel cielo silenzioso, Arturo, le Iadi piovose, le due Orse ed Orione dall'armatura d'oro. Quando vede che tutto è calmo nel cielo sereno dà un chiaro segnale dalla poppa: leviamo presto l'accampamento e ci mettiamo in viaggio spiegando le vele. Già rosseggiava l'Aurora ponendo in fuga le stelle quando laggiu vediamo delle oscure colline e bassa bassa a fior d'acqua l'Italia. Acate per primo urla a gran voce: «L'Italia!»; «L'Italia' ì> gridano in segno di saluto i compagni festanti. [lieti Allora il padre Anchise incornò di fiori una gran coppa piena di vino puro e invocò gli Dei stando diritto sul castello di poppa: « Dei potenti sul mare, la terra e le tempeste, dateci un viaggio facile in favore di vento e spirate propizi! » La brezza cresce, un porto già vicino s'allarga e il tempio di Minerva appare su un'altura. I naviganti girano le prore verso il lido e ammainano le vele. Il porto si curva in arco contro il mare d'oriente, due promontori schiumano sotto l'urto delle onde e il porto vi sta nascosto; gli scogli come torri proiettano due braccia che sembrano muraglie;
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L'ITALIA (621-694). - All'alba, dopo una notte di navigazione, vedono apparire di lontano le coste italiane. «Italia, Italia» è il grido unanime ed esultante di tutti. Costeggiata la Calabria, giungono, sfuggendo a Scilla e Cariddi, in vista dell'Etna, la terra dei Ciclòpi. 621. monti Cerauni: catena di monti che terminavano in un promontorio che chiudeva la baia di Valona. 623. Intanto: «sol ruit intera et montes umbrantur opaci ». Virgilio si sofferma di tanto in tanto, nel corso della narrazione, a contemplare la bellezza del creato ed a rendercela con brevi pennellate sapientissime, che ci ricordano il grande poeta georgico e bucolico. 634. Arturo ecc.: vedi canto I, verso 875. 642. Acate: il ben noto amico di Enea. 643. l'Italia, l'Italia: l'apparizione della mèta tanto agognata è preparata da Virgilio sapientemente, come un accorto regista che vuoi trarre dalla scena il massimo effetto. Dopo una notte trascorsa in un sonno inquieto e breve, al segno di Palinuro tutti si imbarcano, silenziosi e veloci, guardando le grandi costellazioni che brillano nell'azzurro cupo. Si naviga con tutte le vele al vento per alcune ore. Poi all'improvviso quando l'Aurora incomincia a tingere di porpora l'oriente, ecco nereggiate da !ungi la costa italica ed ecco prorompere da mille petti il fatidico annunzio di « Italia, Italia ». 650. un porto: è il porto di Venere presso Otranto; oggi si chiama Badisco.
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659. un primo augurio: gli antichi tenevano in gran conto quando sbarcavano l'a· spetto delle cose che vede· vano e ne traevano buoni o cattivi auspici. In questo ca· so vedere cavalli bianchi significava un felice presagio per quanto riguardava il colore: i cavalli potevano significare guerra vicina seguita poi da opere di pace. 676. Taranto: fu colonia di Sparta e si diceva che fosse stata fondata da Taras, figlio di Ercole. 677. il tempio di Lacinia: il promontorio· di Lacinia, ora capo delle Colonne, ove sorgeva un tempio dedicato a Giunone. 678. Caulone e Squillace: Caulone, l'attuale Castro Vetere. - Squillace: si chiamava e si chiama il grande golfo, molto temuto dai marinai per le forti correnti che lo agitano. 68o. Etna: a chi proviene dallo Ionio l'Etna appare di lontano come se sorgesse dal
il tempio è lassu in alto, ben lontano dal mare. Ed ecco un primo augurio: in mezzo all'erba d'un 660
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mare. ACHEMENIDE E r CrcLÒPI (695-827).- Dopo una notte di spaventose eruzioni del vulcano, al mattino vedono apparire un uomo macilento: è Achemenide, un compagno che Ulisse ha abbandonato durante la precipitosa fuga per sfuggire le ire di Polifemo. I Troiani lo accolgono sulle loro navi ed hanno appena il tempo di imbarcarsi e di sfuggire alle ire del Ciclòpe che li ha sentiti e li insegue con gli altri suoi fratelli.
696. ai lidi dei Ciclopi: tra Catania e Acireale.
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vidi quattro cavalli bianchi come la neve [prato intenti a pascolare. Allora il padre Anchise disse: «O terra ospitale, tu ci porti la guerra: è per la guerra che s'armano i cavalli. Sebbene talvolta si lasciano aggiogare ai carri e sopportino il freno; speriamo nella pace! » Preghiamo allora la santa divinità di Minerva dalle armi risonanti, che per prima ci accolse trionfanti; coprendo il capo con un velo frigio stiamo davanti al fuoco degli altari e, secondo il consiglio che Eléno ci aveva dato - il piu importante - , facciamo sacrifici rituali a Giunone Saturnia, protettrice di Argo. Compiuto il rito in ordine, subito, senza indugiare si manovran le antenne delle vele e lasciamo qucti campi pericolosi, sede di tanti Greci. Scorgiamo Taranto porto d'Ercole, se è vera fama, dall'altra parte si leva il tempio di Lacinia, le rocche di Caulone e Squillace che rompe le navi. Di lontano vediamo alzarsi dall'acqua la siciliana Etna, sentiamo in lontananza il gemito immenso del mare che percuote gli scogli e si rompe sui lidi, i bassifondi s'agitano, la sabbia è sconvolta dal fiotto della marea. «Eccola la famosa Cariddi- disse Anchise: - Eléno prediceva queste orribili rocce. · Fuggiamo via, compagni; curvatevi insieme sui remi ». Gli ordini sono eseguiti: Palinuro per primo volse verso sinistra la prora cigolante, tutti andammo a sinistra a forza ·di remi e con le vele al vento. Gonfiandosi i cavalloni ci alzarono sino al cielo, poi l'onda risucchiata ci calò nell'abisso, sino ai profondi Mani. Pèr tre volte gli scogli mandarono un grido, vedemmo per tre volte la spuma bagnare le stelle.
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Vento e sole calarono; stanchi, senza conoscere
il cammino, approdiamo ai lidi dei Ciclopi.
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Il porto, non turbato dal vento, è vasto e tranquillo, ma H vicino l'Etna tuona con spaventose rovine; a volte erutta sino al cido una nube nera, spire di fumo e di cenere ardente, leva globi di fiamme a lambire le stelle; a volte scaglia macigni, strappando via di slancio le viscere dd monte, travolgendo nell'aria con un gemito rocce liquefatte, bollendo nel fondo del suo cuore. Si dice che la montagna schiacci il corpo di Encelado mezzo bruciato dal fulmine, che opprimendo quel corpo il pesantissimo Etna spiri dai rotti crateri fiamme e ardenti lapilli: si dice che tutte le volte che Encelado, stanco di quel peso, si muove, cambia fianco, si gira, con un rombo si- scuota l'intera Sicilia ed il cielo si copra di nerissimo fumo. Durante tutta -la notte, coperti dalle selve sopportiamo gli orrendi fenomeni, senza vedere la causa di quel frastuono. Infatti non brillavano i fuochi delle stelle, il firmamento era scuro e il cielo una nuvola sola, la notte piu profonda teneva nascosta la luna in un foltissimo nembo. Il giorno dopo al primo spuntare di Lucifero, quando l'Aurora aveva appena rimosso dal cielo l'umida ombra, a un tratto veruìe fuori dal bosco una figura incredibile, smunta dalla magre?..za e vestita di stracci: è un uomo sconosciuto· che tende supplichevole le mani verso il lido. Ci volgiamo a guardarlo. Lo nasconde un'estrema sporcizia ed una barba lunghissima, ha i vestiti a brandelli tenuti assieme con delle spine, ma è certamente greco, uno di quei soldati che un tempo mossero guerra alle mura di Troia. L'uomo appena s'accorse da lunge che eravamo vestiti alla moda dardania e con armi troiane esitò un poco, atterrito, e si fermò: poi subito corse precipitoso verso la spiaggia e piangeva e supplicava: « O J:roiani, vi prego per le stelle, per i Numi, per questa luce che si respira nel cielo, portatemi via in qualunque paese: mi basterà. Lo so, sono un Greco, ho seguito la flotta, lo confesso, ho portato la guerra
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7o6. Encelado: uno dei giganti ribelli a Giove che lo fulminò e lo seppelll sotto l'Etna. 719. Lucifero: la stella apportatrice di luce. 722. una figura incredibile: nell'aggettivo sta la sor-
presa e Io stupore da cui sono colti i Troiani all'apparizione di questa stranissima figura. Come pensare che in un luogo simile, scosso di continuo da boati tremendi e da terremoti profondi, tra un cadere di lapilli e di cenere, sotto un cielo che era una nuvola sola, tra boschi fitti ed inospitali, potesse vivere un essere umano? Si potrebbe pensare a mostri, a fiere, ad animali di qualunque specie, non ad un uomo. Ecco perché tutti Io guardano increduli. 725. Lo nasconde: la descri2ione del nuovo venuto è accurata e nello stesso tempo incisiva. Magrezza spaventosa, sporcizia, barba lunghissima, stracci per abiti, tenuti assieme da spini: la classica figura del naufrago o dello sbandato. 732. si fermò: è una reazione istintiva ed incontrollata. L'uomo non si è ancora scrollato di dosso il ricordo funesto di dieci anni di guerra sotto le mura di Troia. Poi vince in lui giustamente la necessità di non lasciarsi sfuggire questa che potrebbe essere l'unica sua occasione di salvezza, anche a costo di affidarsi a dei nemici.
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746. Lo stesso padre Anchise: tocca al vecchio re
tendere la mano al supplicante e confortarlo per primo. Egli ha capito subito la disperazione del greco e nelle sue parole ha colto I'accento della sincerità e dell'umiltà. Per questo si affretta a rassicurarlo, commosso dalla preghiera e certo dalla verità dei suoi accenti. 748. misero Ulisse: infelice perché, come Enea, sarà costretto ad andare ramingo per tutti i mari prima di ritornare in patria. 749· Achemenide: il personaggio e l'episodio sono invenzione di Virgilio, perché tra i compagni noti di lllisse nessuno corrisponde a tal nome. 753· antro del Ciclope: si accenna al famoso episodio narrato da Omero nel canto IX deli'Odissea e che ha come protagonista Polifemo. I Ciclopi erano figli di Urano e della Terra e venivano raffigurati come pastori giganteschi con un solo occhio in mezzo alla fronte. Secondo la leggenda essi lavoravano anche nelle fucine di Vulcano e fabbricavano i fulmini di Giove. 755· di marcia: di marciume. ns. scudo argivo: era rotondo e copriva quasi tutto il corpo.
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ai Penati di Troia. Questo per voi è un delitto che non si può tollerare? Gettatemi a pezzi nelle onde, allora, affogatemi in mare. Se devo proprio morire voglio almeno morire per mano di esseri umani! » Gettandosi per terra s'aggrappò ai nostri ginocchi. Noi lo esortiamo a dire chi sia, da quale sangue sia nato, da quale sorte sia stato perseguitato. Lo stesso padre Anchise gli dà pronto la mano in pegno di fiducia. Allora, rassicurato, dice: « Son nato ad Itaca, compagno del misero Ulisse, il mio nome è Achemenide, sono partito per Troia fuggendo la povertà di mio padre Adamasto (volesse il cielo che fossi rimasto povero in patria!). I miei smemorati compagni, fuggendo in tutta fretta dalle soglie crudeli dell'antro del Ciclope, m'hanno lasciato qui. La grotta del Ciclope è tutta piena di marcia, di carni insanguinate, e dentro è oscura, enorme. Lui è cosi alto che tocca le stelle sublimi (o Celesti, liberate la terra da un simile flagello!), nessuno può vederlo, nessuno può parlargli. Si ciba delle viscere e del sangue dei miseri che riesce a acchiappare. L'ho veduto io stesso sdraiato in mezzo all'antro prendere con una mano enorme due dei nostri e sfracellarne i corpi contro la dura roccia, far ruscellare il sangue per tutto il pavimento; l'ho veduto io stesso masticare quei corpi gocciolanti di sangue; le membra ancora tiepide palpitavano sotto i suoi denti spietati. Ma la pagò: che Ulisse non poté sopportare un simile delitto e non dimenticò, nel pericolo estremo, la sua sottile astuzia. Poiché quando il Ciclope fu pieno di cibo e di vino non riusd a tener dritta la testa, si sdraiò gigantesco nell'antro, vomitando nel sonno sangue, brani di carne e vino sanguinoso: allora, pregati gli Dei e tratte a sorte le parti, lo circondammo, bucammo con un palo appuntito il solitario occhio che gli stava nascosto sotto la fronte torva, come uno scudo argivo o come il disco del sole: cosi vendicammo finalmente, contenti, le Ombre dei compagni.
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Ma fuggite, o infelici, fuggite e tagliate la fune che vi lega alla spiagg~a ... Almeno cento altri orribili Ciclopi abitano su questi curvi lidi, qua e là, ed errano per gli alti monti, tutti grandissimi, spaventosi e feroci, eguali a Polifemo che chiude nella caverna le pecore e le munge. Già da tre mesi io vivo stentatamente nei boschi, tra nascondigli deserti e covili di fiere, e da una rupe vedo in lontananza i Ciclopi enormi, tremo al suono dei loro passi pesanti e della loro voce. I rami delle piante mi danno un povero cibo, bacche e dure corniole, mi nutro di radici. In guardia sempre, spiando dappertutto, ho veduto subito questa flotta avvicinarsi al lido. A lei mi sono affidato ciecamente: mi basta sfuggire ai nefandi Ciclopi. Toglietemi pure la vita con qualunque supplizio». Aveva appena parlato che sulla cima d'un monte vediamo Polifemo muoversi tra le pecore con tutta la mole del corpo, avviandosi alla spiaggia. Gli manca la vista, è un mostro deforme, smisurato; avanza tenendo in mano il tronco d'un pino, che serve a dar fermezza ai suoi passi, gli stanno intorno le pecore, unico suo piacere, unico suo conforto ... Giunto al mare, toccato che ebbe i flutti profondi, lavò il sangue che usciva dall'occhio vuoto, gemendo e digrignando i denti. Cammina in mezzo al mare e l'acqua non gli bagna nemmeno i fianchi altissimi. Noi ci affrettiamo a fuggire trepidando di là non senza aver raccolto meritamente il Greco, tagliamo zitti zitti la fune, ci chiniamo sui remi e fendiamo il mare vogando a tutta forza. Polifemo senti e alla cieca arrancò verso il rumore. Ma quando capi che non poteva afferrarci o inseguirei attraverso lo Jonio, levò un immenso grido. Ne tremarono il mare e le onde, la terra d'Italia ne fu atterrita, l'Etna muggf dal fondo delle sue curve caverne. Allora la razza dei Ciclopi, chiamata fuori dai boschi e dei monti, si precipita al porto e riempie la spiaggia. Vediamo allineati
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787. e le munge: è l'unico tocco di umar.ità questo del mungere le pecore mansuete in un mostro tutta ferocia e violenza bestiale. La rievocazione da parte di Achemenide di quello che si era svolto nell'antro di Polifemo è soltanto una pallida sintesi del lungo racconto di Omero, ma servirà a Virgilio per far lo ent rare in scena al momento opportuno con novità ed originalità di rappresentazione. 788. da tre mesi: diremmo noi da appena tre mesi Achemenide vive in solitudine e già è ridotto ad una larva d'uomo. Il perché lo si spiega benissimo con l'angoscia continua che ha tormentato lo sventurato costringendolo a rintanarsi in nascondigli sempre nuovi, a cibarsi di radici e di bacche con il timore continuo d'es~ sere visto e scoperto da uno degli orrendi mostri, catturato e divorato come era accaduto a tanti suoi compagni, di cui egli ha conservato un atroce ricordo. 8q. un immenso grido: il commento a questo grido disumano che è di rabbia, di furore; di disperazione e di impotenza insieme, è molto difficile. Non si tratta di un artificio retorico da parte di Virgilio e basterebbe per accertarcene leggere gli esametri seguenti « clamorem immensum tollit, qua pontus et omnes - contremuere undae, penitusque exterrita tellus - I taliae curvisque immugiit Aetna cavernis ». 822. Vediamo atlineatt: splendida rappresentazione di un realismo schietto, avvivata dal paragone che tutta la illumina.
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(828-876). - Il vento spinge le navi troiane verso sud. Oltrepassata l'isola di Ortigia e costeggiando le coste della Trinacria, giungono finalmente a Drepano. Qui muore il vecchio Anchise, provato da tante emozioni e da tante fatiche. Abbandonata Drepano, la tempesta suscitata da Giunone ed Eolo li costringe a prendere terra in Libia. Cosi ha termine il lungo racconto di Enea a Didone ed ai convitati.
834. Borea: vento settentrionale, altrimenti detto Aquilone. 835. Pantagia: torrente presso Lentini, oggi chiamato Porcari. 836-837. golfo di Megara: di Augusta. - T apso: la penisola di Bagnoli. 841. Plemirio: punta del Gigante. 842. Ortigia: isoletta unita con un ponte a Siracusa. 843. Alfeo: narra la leggenda che il cacciatore Alfeo s'innamorò della ninfa Aretusa che per sfuggirgli invocò Diana, che la mutò in una fonte mentre trasformava il cacciatore in un fiumicello. Ma l'amore di Alfeo fu tanto vero e tenace che per raggiungere l'amata, attraversò il mare senza mescolare le sue acque con quelle salate e giunse nell'isola Ortigia, dove si unl alla fonte Aretusa. 849. Eloro: oggi Atellaro che sbocca presso Pachino. 851. Camarina: oggi Torre Camarina. La leggenda vuole che l'oracolo avesse proibito di prosciugare la palude che circondava la città e che emanava miasmi pesti-
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sul lido quei fratelli etnei, che inutilmente ci guardano con occhio minaccioso, le teste alte che toccano il cielo, riunione orrenda: sembrano aeree quercie o cipressi, dai frutti in forma di coni, dritti sull'alta cima, bosco sacro a Diana.
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Una tremenda paura ci spinse a slegare precipitosamente le sartie, per fuggire dovunque sia, spiegando le vele ai venti propizi. Ma il vaticinio di Eléno ci ordina di evitare la rotta tra Scilla e Cariddi, troppo vicina alla morte; decidiamo di correre indietro, verso l'est. Ecco che arriva Borea dallo stretto Peloro. Siamo salvi! Voliamo oltre il fiume Pantagia che si scava una foce nella roccia, oltre il golfo di Megara, oltre Tapso. Ci indicava quei luoghi, per dove era passato in senso inverso, Achemenide compagno di sventura dell'infelice Ulisse. Distesa innanzi al golfo di Sicilia, di fronte al Plemirio battuto dal mare, giace un'isola chiamata dagli antichi Ortigia. Si racconta che Alfeo, fiume dell'Elide, si sia aperto una strada segreta, sotto le onde, fin là; adesso scorre insieme a te, Aretusa, si confonde nel mare per la tua stessa foce. Secondo gli ordini avuti veneriamo le grandi Divinità del luogo; oltrepassando quindi i campi resi fertili dalle alluvioni del fiume Eloro, rasentiamo gli alti balzi e le rocce sporgenti di Pachino. Da lontano ci appare Camarina, che i Fati vollero non mutasse, e le campagne geloe con la grandissima Gela, cosi detta dal nome del fiume che la bagna. Ci mostra in lontananza le sue mura possenti l'ardua, eccelsa Agrigento un tempo produttrice di generosi cavalli.
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8,6. generosi cavalli: famosi nell'antichità per la loro velocità e resistenza.
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Sull'ala dei venti propizi ti lascio, o Selinunte piena di palme, e sfioro i banchi pericolosi, irti di scogli nascosti, del capo Lilibeo. Alla fine mi accolgono il porto e la triste spiaggia di Trapani: dopo aver superato tante fatiche, tante burrasche del mare, ahimè perdo mio padre, unico conforto d'ogni sventura, d'ogni preoccupazione. Qui tu mi abbandoni stanco, ottimo padre, ahimè strappato invano a tanti ed estremi pericoli! E l'indovino Eléno, che pure mi avverti di molte cose tremende, non mi aveva predetto questo lutto; nemmeno la crudele Celeno me lo aveva annunziato! Fu l'ultima mia prova, la meta delle lunghe strade percorse. Un Dio in· seguito mi spinse fino alle vostre rive. Tra l'attenzione di tutti il padre Enea cosi narrava i suoi viaggi, ripercorrendo i destini fissati dagli Dei. Poi finalmente tacque, pose fine al suo dire, stanco si riposò.
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s,7. Selinunte: oggi famosa, come Agrigento, per le grandiose rovine di templi ed edifici d'origine greca. s,9. capo Lilibeo: ove oggi sorge Marsala. 870. Fu l'ultima mia prova: la narrazione dell'odissea di Enea si conclude con un'alta e breve nota tragica, la perdita del padre è per ora l'ultimo tributo di dolore che l'eroe deve pagare ai Fati.
Commento critico Posto tra il secondo ed il quarto, che sono canti di felice ispirazione e di sublimi altezze poetiche, il terzo si rivela subito al nostro giudizio come un momento travagliato e non sempre compiuto di tessitura narrativa. Gli manca innanzitutto la compattezza e l'unità stilistiche: è discontinuo, disper· sivo, qua e là monotono e troppo erudito. Infatti anche un profano avvertirebbe la necessità di una revisione accurata da parte dell'autore per sfrondare, equilibrare, limare e correggere le cont~addizioni e le oscurità non solo sul piano metrico, ma anche sul quello logico e discorsivo. D'altra parte sappiamo che Virgilio non aveva mai considerato finito il suo poema, tanto ch'era giunto al punto di pregare gli amici di distruggerlo dopo la sua morte, e che, infine, il progettato viaggio in Grecia aveva forse per mèta la pressante necessità di vedere i luoghi dove si erano svolte le peregrinazioni di Enea per eliminare le incongruenze e mettere a fuoco le oscurità e le incertezze del racconto. Non stupisee, perciò, che la maggior parte dei commentatori ponga questo terzo canto tra i meno riusciti artisticamente. Pur condividendo parte delle critiche, noi non ci sentiamo di condannarlo, perché gli elementi positivi prevalgono sugli altri. Uno dei più evidenti scaturisce proprio dal paragone che si suoi fare tra le avven· ture di Ulisse e le peregrinazioni di Enea, con l'immancabile conclusione della superiorità di Omero e del suo eroe. A nostro avviso il paragone non solo non può, m::Ì
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Canto terzo
non deve essere posto per le differentissime personalità dei due eroi, per la loro provenienza ed in modo particolare per la finalità che inseguono e per ciò che rappresentano nel mondo della fantasia poetica greca e latina. Ulisse è un re che ritorna in patria vincitore, che anela a ritrovare la sposa, il figlio, il padre e tutte le cose care per forza abbandonate; che gode ed anzi ricerca l'avventura e segue « virtude e conoscenza»; che ama, soffre, combatte, ed accetta con virile baldanza la parte che il destino gli ha assegnato. Enea esce da una disfatta, non ha più patria e la rimpiange di continuo amaramente; è incerto sul futuro e sulla missione che lo attendono; cerca ed interroga oracoli e ne riceve risposte non del tutto chiare, anche se concordi; è un uomo rassegnato, che soltanto a tratti, regalmente, affronta la sorte avversa, avvertendone la grandiosità e presentendone gli sviluppi fatali. Il primo ha una vita interiore più semplice ed essenziale; il secondo è un dolorante viluppo di complicazioni psicologiche e vive prevalentemente in continuo contrasto morale e sentimentale. Per queste ragioni l'odissea di Enea è, più che geografica, spirituale, e si svolge tutta in un'atmosfera di suggestioni melanconiche e di trepidanti attese. E poi non bisogna dimenticare che almeno quattro squarci poetici avvivano il racconto e confermano la fama di Virgilio come scrittore che sa cogliere le piu recondite sfumature dell'umanità dolente e sventurata attraverso le figure di Andromaca e di Achemenide, e come interprete del meraviglioso e del soprannaturale negli episodi di Polidoro e delle Arpie.
Galleria di ritratti
Polidoro. L'episodio di Polidoro è da annoverarsi tra quelli ispirati da uno degli elementi dell'epoca classica: il meraviglioso. Tale elemento tende a suscitare nell'animo del lettore il senso dell'orrore, della suggestione e della commozione. Non si può dire che Virgilio sia in questo caso riuscito perfettamente nell'intento per il sovrabbondare della preoccupazione stilistica e letteraria su quella puramente creativa e fantastica. Infatti si sconfina nella fiaba che interessa e suscita curiosità per l'inusitato ed il nuovo, ma non commuove. Per rendersi persuasi di questa conclusione basterebbe paragonare Polidoro con Pier della Vigna. Il personaggio dantesco che discende per li rami da quello virgiliano, ha ben altra consistenza artistica ed umana e suscita in noi pietà e piena partecipazione al suo dolore ed alla sua tragedia. Contribuisce a questa carenza di immediatezza la famosa, ma fredda impreca7ione contro la « sacra auri fames », che ci appare dettata da una moralità avulsa dal vero dramma del principe troiano.
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Canto terzo
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Le Arpie. Un eguale discorso si potrebbe fare per quanto riguarda le Arpie. La loro apparizione e il loro aspetto sconcio ed orrido, suscitano immediatamente ribrezzo ed orrore. Le bestiacce immonde paiono uscite dalla più repellente delle realtà umane o meglio da un incubo senza fine ed agiscono sul lettore in modo immediato e sconvolgente. Quando invece Celeno si scaglia contro Enea ed i suoi con sinistre profezie di sventure, l'atmosfera del meraviglioso che Virgilio aveva saputo creare con tanta arte e suggestione, si dissolve di colpo per lasciar posto al fiabesco, dove tutto è gratuito e dove le stonature quasi non s'avvertono perché lo scopo è quello di suscitare l'interesse e la meraviglia del lettore, non la sua commozione o la sua partecipa'lione sentimentale e fantastica.
Andromaca. È una delle tante e divei;Se figure femminili che ingentiliscono il poema e gli dànno, in definitiva, quella profonda sostanza umana che lo caratterizza e lo differenzia da tutti gli altri. Forse l'Andromaca virgiliana è figura più elabcrata e complessa di quella america. È rimasta la trepida ed accorata creatura che abbiamo conosciuto alle porte Scee, ma in più ha la terribile esperienza del suo dolore di madre e di sposa. Astianatte ed Ettore continuano a vivere nel suo ricordo: benché sia andata sposa per altre due volte, il suo cuore palpita unicamente per coloro che ha amato e che per lei sono divenuti ora il motivo stesso dell'esistenza. La sua femminilità e la sua dolcezza si nutrono di continuo di questo ritorno al passato: la tragedia trasforma il suo amaro e la sua tristezza nella pacata accettazione del volere del fato e nella volontaria accettazione della sofferenza. Ecco perché quando incontra Enea ed Ascanio esce dalla sua assorta contemplazione interiore per rivivere ancora una volta gli eventi che furono: perché nel primo ella rivede Ettore e nel secondo l'adorato figlioletto.
Achemenide. Achemenide è un ideale raccordo tra l'epopea america e quella virgiliana, un tributo spontaneo di continuità artistica tra Odissea ed Eneide. Questo greco sconosciuto ed umile è stato anch'egli abbandonato su una spiaggia, ma non come Sinone volutamente; ha partecipato all'epica lotta del suo re contro Polifemo ed ha visto allontanarsi i compagni in fuga da qualche anfratto dove si era nascosto per sfuggire alla furia dei Ciclòpi. Impaurito e solo ha disperato della vita. È bello che Enea e i Troiani, dopo la tremenda lezione del cavallo di Troia, accolgano il nemico sulle loro navi, gli restituiscano la vita e lo considerino uno dei loro, cioè un infelice, accomunato dalla sventura alla sorte che li attende.
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Canto terz.o
Raffronti di traduzione At subitae horri/ico lapsu de montibus adsunt Harpyae et magnis quatiunt clangoribus alas, diripiuntque dapes contactuque omnia foedant immundo; tum vox taetrum dira inter odorem. Rursum in secessu longo sub rupe cavata (arbori bus clausam circum atque horrentibus umbris) instruimus mensas arisque reponimus ignem; rursum ex diverso coeli caecisque latebris turba sonans praedam pedibus circumvolat uncis, polluit o,.e dapes. (vv. 225-234)
Quand'ecco che da' monti in un momento con dire voci e spaventoso rombo ne si fan sopra le bramose Arple; e con gli urti e con l'ali e con gli ugnoni, col tetro, osceno, abbominevol puzzo ne sgominir le mense, ne rapiro, ne infettAr tutti i cibi e i lochi e noi. Era presso un ridotto, ove alta e cava rupe d'arbori chiusa e d'ombre intorno facea capace ed opportuno ostello. lvi ne riducemmo, e ne le mense riposti i cibi e ne gli altari i fochi, a convivar tornammo; ed ecco un'altra volta d'un'altra parte, per occulte e non previste vie ne si scoverse l'orribil torma; e con gli adunchi artigli, co' fieri denti e con le bocche impure ghermtr la preda, e ne lasciAr di novo vote le mense e scompigliate e sozze. Traduzione di Annibal Caro
E già dal lido tutti alle mense eran disposti e al cibo, quando improvviso e spaventoso rombo dai monti udimmo, ed apparir le Arple l'ali scotendo con sinistro volo. Piombarono sul lido ed imbrattarono tutto col tocco lercio osceno e sozzo: aspra tra il puzzo orrendo era lor voce. E come poi fuggirono fra i monti, in parte più riposta, sotto il ciglio d'un'incavata rupe e chiusi intorno dagli alberi e dall'ombre, ancor ponemmo gli altari, il fuoco e il cibo; e ancora, orrendo, da nuova plaga e ignoti covi, ratto, calò dall'alto il fragoroso stormo, che desco e cibo tutto con la lercia bocca insozzò, e con gli adunchi piedi. r,.aduzione di Adriano Bacchielli Ma, calate terribili dai monti, ci furon sopra rapide le Arple squassando l'ali con schiamazzo immenso, e· predarono i cibi, ed ogni cosa lordarono col fetido contagio; orribile fra il puzzo era il lor grido. E ancora alzammo in più remota parte nel cavo d'una rupe i nostri deschi e accendemmo su l'are i sacri fuochi; ed ancora lo stormo schiamazzante da opposto lato e da non visti covi sopravolò con artigliate zampe tutt'intorno la preda e con le bocche insozzò le vivande. T,.aduzione di Guido Vitali
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CANTO QUARTO
Suicidio di Didone.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 18 35, ricavate dai codici della Biblioteca V aticana, Roma.
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CANTO QUARTO La lunga narrazione di Enea ha maggiormente rafforzato l'amore che Cupido aveva acceso nel cuore della Regina. Dopo una notte insonne, Didone, dibattuta da opposti sentimenti, la fedeltà al marito Sicheo e la nuova divorante passione per l'eroe troiano, chiede consiglio alla sorella Artna. Questa l'esorta a cedere alla passione, considerando anche che i Cartaginesi e Troiani potranno fondersi in un unico popolo e dar vita ad un regno potente. Giunone finge di accettare lo stato di fatto e propone a Venere di favorire le nozze tra Didone ed Enea, pensando in tal modo di procrastinare l'arrivo dei Troiani in Italia. Venere accetta, sicura che la volontà dei Fati comunque si imporrà. L'indomani, infatti, durante una partita di caccia un violento temporale farà rifugiare i due amanti in una grotta, nella quale avverrà il loro matrimonio. La Fama, deità mostruosa che gode nel diffondere il male, divulga in tutta la regione la notizia delle nozze della regina. Iarba, re dei Mauritani, pretendente respinto a suo tempo da Didone, se ne duole e chiede vendetta al padre Giove Ammone. Il padre degli dèi, ricordando la promessa fatta a Venere, manda il messaggero Mercurio in terra per imporre ad Enea di lasciare Cartagine e far vela per l'Italia. Enea rimane sconvolto dall'ordine divino, ma dà disposizione ai luogotenenti di allestire la flotta e di prepararsi alla partenza. Didone ne è subito informata dai suoi ed affronta in un colloquio tempestoso l'eroe troiano che si trincera dietro l'ordine di Giove, anche se in cuor suo soffre profondamente per la disperazione della regina. Ancora una volta Didone, che non vuole rassegnarsi, si rivolge alla sorella Anna, che prega Enea di ritardare la partenza per far meno penoso il distacco e permettere a Didone di abituarsi all'idea della separazione definitiva. Ma l'eroe rifiuta fermamente il compromesso. Didone, ormai fatta certa della decisione dell'amato, ordina di prepararle un rogo per sacrificare agli Inferi e per
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Canto quarto
bruciare i doni ricevuti dai troiani. Il sacrificio avviene secondo il rito e Didone, straziata da sentimenti opposti, decide alla fine di togliersi la vita. Mercurio appare intanto in sogno ad Enea e lo invita a levare subito le ancore per evitare le rappresaglie dei Cartaginesi. Alla vista delle navi che si allontanano dalla rada, Didone scaglia la sua ultima maledizione e si trafigge con una spada. La sorella Anna ne raccoglie l'ultimo respiro dopoché Giunone, impietosita, ha inviato Iride a reciderle il capello sacro a Dite, che pone fine alla vita mortale della regina.
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CANTO QUARTO La passione di Didone (x-n6)- Giunone e Venere (n7·159)- La caccia e le nozze (x6o-2o9) - Lo sdegno del re Jarba (210-262) La decisione di Giove (263-348) - Il colloquio con Didone (349540)- La morte di Didone (541-856).
La passione di Didone
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INTANTO la regina, già da tempo. piagata da profonda passione, nutre nelle sue vene la ferita e si strugge di una fiamma segreta. Le ritorna alla mente lo splendido valore dell'eroe e la sublime gloria della sua stirpe; porta confitti in cuore le sue parole e il suo volto, e non trova riposo, quel fuoco non le dà pace. Il giorno seguente l'Aurora illuminava la terra con la luce del sole, e aveva cacciato dal cielo già tutta l'umida ombra, quando Didone fuori di sé si rivolge alla fedele sorella: « Anna, sorella mia, che sogni mi spaventano e mi tengono in ansia! Non ho mai visto un uomo come l'ospite nostro! Cosi nobile d'aspetto, d'animo valoroso e forte nelle armi! Credo proprio (ed è vero! ) che sia di stirpe divina, poiché la viltà rivela le anime degeneri. Ahi, da quale destino è stato travagliato, come ieri diceva! Che guerre ha sostenuto!
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LA PASSIONE DI DIDONE
(x-n6). - Il lungo racconto delle sventure alimenta nel cuore della regina l'amore per Enea. Ella trascorre una notte insonne ed il mattino dopo non può a meno di confidare alla sorella Anna le sue pene ed il suo tormento. Anna la esorta a cedere alla passione, perché in tal modo avrà a fianco sul trono un eroe illustre ed un valido guerriero. Didone allora sacrifica agli dèi, consultando gli aruspìci. Poi, trascurando i suoi doveri di regina, trascorre tutto il suo tempo con Enea. 3· nutre nelle sue vene:
quasi volesse approfondire la ferita d'amore e rcnderla insanabile. 4· segreta: non ancor nota ad alcuno. L'aggettivo anticipa la necessità che poi Didone sente di confidare ad una persona amica, •in questo caso la sorella Anna, la sua pena ed il suo struggimento. 8. quel fuoco non le dà pace: non le permette né
sonno né abbandono, ma la travaglia e la tormenta.
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Canto quarto
25. avrei... cedere a quest'unica colpa: il condizionale wole esprimere non tanto la volontà di resistere all'amore per Enea, quanto il presentimento di dovergli cedere fatalmente. 28. delitto fraterno: abbiamo già accennato all'uccisione di Sicheo da parte del fratello di Didone, Pigmalione. 32. conosco ... : « agnosco veteris vestigia flammae » ecco un altro detto memorabile, splendidamente reso da Dante nell'incontro con Beatrice nel Paradiso terrestre (Purg., XXX, v. 48) e qui accettato dal traduttore. 36. sacro Pudore: quasi un giuramento che l'aveva lej!Ata fin qui a Sicheo e che le aveva permesso di conservarsi fedde al suo ricordo. 40. scoppiò in pianto: il pianto, dimostra, al contrario delle parole, forse troppo solenni, che l'animo di Didone vacilla e che il nuovo struggente amore sta per prendere il sopravvento. 43.le gioie di Venere: del matrimonio. 48. ]arba: re dei Getuli aveva ceduto una parte del suo territorio a Didone ed era uno dei pretendenti alla sua mano, ma le profferte erano state respinte. 52. i popoli di Getulia: i Getuli abitavano a sud di Cartagine. 53· i Numidi senza freno: popolo che abitava ad ovest di Cartagine e la cui caratteristica era quella di cavalcare senza morso né redini. 54· l'inospite Sirte: regione che si stendeva intorno ai due grandi golfi della costa africana e che era abita-
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Se non avessi deciso irrevocabilmente' di non voler mai piu sposarmi con nessuno dopo che il primo amore se l'è preso la morte e mi ha lasciata cosi, delusa, piena d'odio per le faci nuziali ed il talamo, avrei forse potuto cedere a quest'unica colpa. Anna, te lo confesso, dopo la morte del povero mio marito Sicheo, dopo il delitto fraterno che ha macchiato di sangue la casa familiare, questi è il solo che m'abbia colpito i sensi, il solo che m'abbia folgorato l'anima, cosi da farla vacillare: conosco i segni dell'antica fiamma! Ma la terra profonda s'apra sotto i miei piedi o il Padre onnipotente mi fulmini nell'ombra, tra le pallide Ombre dell'Inferno e la notte, prima che io possa offenderti, sacro Pudore, e violare le tue leggi. Colui che per primo mi uni al suo destino d'uomo s'è preso tutto il mio amore, ora lo tenga per sé, lo serbi nel sepolcro». Scoppiò in pianto e le lagrime le corsero giu per il petto. Anna risponde: «Sorella piu cara della luce, trascorrerai la giovinezza sempre sola e dolente senza la dolcezza dei figli né le gioie di Venere? Credi che questo importi alla cenere e all'Ombra di chi è morto e sepolto? Stammi a sentire. Capisco che non t'abbia piegato il cuore doloroso nessun pretendente di Libia e neppure di i'iro; capisco che tu abbia spregiato }arba e i re di questo paese africano ricco di tanti trionfi; ma perché vuoi respingere anche un amore vero? Non ti ricordi in che terra ti trovi, in mezzo a che genti? Di qua ti circondano i popoli di Getulia, razza imbattibile in guerra, i Numidi senza freno e l'inospite Sirte; di là una regione deserta, arsa di sete, e i Barcei che dilagano in furia. E cosa devo dire delle prossime guerre con Tiro e delle minacce di nostro fratello? Credo davvero che le lunghe navi di Troia siano corse fin qui sotto i soffi del vento
ta da tribù barbare ed inospitali. 55· i Barcei: abitanti di
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Barca nella Cirenaica, predatori e razzia tori. 56. prossime gue"e: guer-
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con gli auspici divini e il favor di Giunone. Che gran città vedrai sorgere, o sorella, che regni da un tale matrimonio! Con le armi dei Teucri a fianco, in quante imprese si leverà la gloria dei Punici! Tu implora la grazia degli Dei, questo soltanto, e una volta compiuti i riti abbi cura dell'ospite, trova pretesti perché si trattenga a lungo, finché sul mare infuria l'inverno e il piovoso Orione, finché le navi son guaste e intrattabile il cielo ». Con queste parole le accese l'anima d'amore bruciante, diede speranza al cuore dubbioso e vinse il pudore. Subito vanno ai templi e chiedono la grazia davanti a tutti gli altari; immolano, come è d'uso, pecore scdte a Cerere legislatrice, a Febo, al padre Lieo e soprattutto a Giunone, patrona dei nodi coniugali. La bdla Didone versa lei stessa la tazza, tenendola con la destra, tra le corna lunate di una bianca giovenca; e davanti alle immagini di~ea_/passi solenni cammina verso gli altari coperti di offerte. Comincia la sua giornata con sacrifici e preghiere e, in cerca d'un buon augurio, chinandosi sul fianco squarciato delle bestie ne consulta le viscere palpitanti, profetiche. O menti ignare dei vati! A che servono preci e templi a 11Jt'raònna in delirio? La fiamma le divora le tenere midolla e sotto il petto vive una muta ferita. L'infelice Didone arde ed erra furiosa per tutta la città, come una cerva incauta che - dopo averla inseguita con le frecce - un pastore tra le sdve di Creta di lontano ha ferito con un'acuta saetta, lasciando senza saperlo confitto nd suo fianco il ferro alato: lei corre in fuga, affannata, per le foreste e le balze dittèe, recando infitta nel fianco la canna mortale. Ora conduce con sé Enea in mezzo alle mura facendogli ammirare le ricchezze sidonie e la città già pronta: ora comincia a parlare re possibili con Pigmalione che si era visto sottrarre il tesoro di Sicheo. 70. diede speranza ... vinse it pudore: il discorso di
Anna è pratico e semplice, del tutto impostato sui vantaggi che il matrimonio della sorella può apportare. Le sue parole non trovano alcun
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contrasto: direi che Didone è già persuasa dell'ineluttabilità del proprio sentimento e della propria sorte. 73· Cerere legislatice, ecc.: Didone e Anna fanno sacrifici a Cerere perché aveva dato ai popoli le leggi del vivere civile e della famiglia; a Febo Apollo come dio del Sole e della vita; a Lieo Bacco perché dio del vino che libera dai cattivi pensieri e clona la letizia, infine a Giunone che presiede alle nozze (pronuba). 82. ne consulta le viscere: è l'« extispicium » romano che Virgilio qui attribuisce anacronisticamente all'uso fenicio e che consisteva nel trarre auspici dalle viscere delle vittime immolate, soprattutto dal loro fegato, ritenuto sede e centro della vita animale. 83. O menti, ignare dei voti!: ignare perché non conoscono la passione della regina e perché i loro auspici non possono mutare il corso fatale degli eventi. Forse da questa esclamazione si può desumere che Virgilio non teneva in grande considerazione gli indovini, specie nelle questioni di cuore. cuore. 94· dittèe: del monte Diete nell'isola di Creta. Nota che il poeta non si lascia sfuggire occasione alcuna per esprimere in splendide e calzanti similitudini lo stato d'animo dei personaggi. 96. sidonie: portate da Siclone. 97· la città già pronta: Enea ha detto nel suo lungo racconto ch'egli è destinato a fondare una grande città: eccola, dunque, davanti ai suoi occhi pronta ad ospitar-
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lo con il suo popolo, pronta a divenire sede di un potente regno. 98. le manca la voce: il discorso di Didone è frammentario e pieno di sospensioni: la passione che non vuole appieno rivelare e la mancanza di coraggio nell'offrire all'eroe tutto quanto gli mostra ne sono le cause. n6. palchi che toccano il cielo: una delle tante fasti-
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e le manca la voce, si ferma a mezzo il discorso. Caduto il giorno chiede sempre lo stesso banchetto, follemente domanda sempre di udire lo stesso racconto, e pende sempre dalle labbra di lui. Poi quando si son separati e persino la luna s'oscura, attenua il suo lume, e le stelle tramontano ed invitano al sonno, nelle sue vuote stanze si strugge, sola, e si getta sul giaciglio che Enea occupava durante la cena e ha lasciato: è lontana da lui, eppure negli occhi ne ha sempre l'immagine, la voce di lui lontano ha sempre nelle orecchie. Ed a volte, incantata dalla sua somiglianza col padre, tiene in grembo Ascanio e cerca di illudere l'indicibile amore. Nella città le torri incominciate rimangono a mezzo, la gioventU non si esercita piu nelle armi, non manda avanti la costruzione dd porto e delle difese di guerra: ed interrotte rimangono le opere, gran muri minacciosi, palchi che toccano il cielo.
diose iperboli.
Giunone e Venere
GIUNONE E VENERE ( II7·
159). - Giunone, non po-
tendo opporsi all'amore della regina sua protetta, chiede a Venere di favorire il matrimonio tra i due. In tal modo spera tfi procrastinare l'arrivo di Enea in I talia e la fondazione di quella città che sarà la nemica e la rovina di Cartagine. Venere accetta, ben sapendo che la volontà dei Fati non può essere né fermata né vinta. 123.
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due Numi potenti:
Veneree Cupido che con la frode hanno ingannato una povera mortale indifesa. 125. mie mura: nota dal possessivo come Giunone sia orgogliosa dell'attuale potenza e come il suo sogno sia di far Cartagine una delle città più potenti del mondo. I3I. Regniamo: tu come madre di Enea ed io come protettrice di Didone.
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Quando la vide in preda a una passione tale che non poteva frenarla nemmeno il timore di scandali, Giunone Saturnia, cara moglie di Giove, aggredi Venere in questo modo: «Tu e tuo figlio davvero avete avuto una bella vittoria e gloriosi trofei! È proprio un bel vanto per voi che una povera donna sia vinta dall'inganno di due Numi potenti. Certo, capisco bene che tu avevi paura delle mie mura e tenevi in sospetto le case dell'alta Cartagine. Ma dimmi, quali saranno i termini ed il fine della nostra contesa? Concludiamo piuttosto una pace durevole con un bd matrimonio. Tu hai tutto ciò che hai voluto: Didone brucia d'amore fino in fondo alle ossa. Regniamo allora in comune sopra uno stesso popolo; Didone serva e s'inchini ad un marito frigio e ti consegni in dote il popolo di Tiro ». Venere le rispose (poiché aveva capito quale fosse lo scopo di Giunone, sottrarre all'Italia l'impero per donarlo alla Libia):
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« Chi sarà cosi folle da rifiutare un accordo e preferire di scendere in guerra con te, posto che ciò che chiedi possa avere fortuna? Ma sono incerta dei Fati, non sono sicura che Giove consenta che Tiri e Troiani abbiano una sola città, approvi che i due popoli stringano patti tra loro e si mescolino. Tu sei sua moglie, a te sola è lecito tentarne l'animo con preghiere. Va' avanti, ti seguirò». Allora Giunone regina: « Sarà affar mio - disse. - Ascolta, ti spiegherò in breve come si possa fare quel che ci preme. Enea con l'infelice Didone si prepara a andare a caccia nei boschi, domani, non appena il sole si alzerà rivelando il mondo coi raggi. Io, mentre i battitori s'affanneranno a distendere reti sui passi montani, rovescerò dall'alto un nembo nero di grandine, rintronerò il cielo di tuoni. Si sperderanno i compagni coperti di opaca tenebra: Didone e il capo troiano troveranno riparo nella stessa caverna. Sarò presente, se tu sei d'accordo, unirò Didone a lui con un nodo stabile, la farò sua. E ci sarà Imeneo ». Venere annui senza opporsi e rise alla bella trovata.
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Intanto l'Aurora sorgendo abbandonava il mare. Una gioventu scelta, nato il sole, s'affretta fuori città, hanno reti a grandi maglie, lacci e larghi giavellotti; i cavalieri massili galoppano tra le mute dei cani di fine odorato. I capi punici attendono la regina che indugia nella sua stanza da letto: un cavallo fregiato d'oro e di porpora aspetta mordendo il freno schiu[mante. Ma ecco che infine arriva, in mezzo a un folto corteo, coperta da una clamide dall'orlo ricamato; ha una faretra d'oro, ed una rete d'oro sui capelli, una fibbia d'oro alla veste di porpora. Al tempo stesso avanzano i Frigi. e Julo, felice; bellissimo su tutti Enea s'offre di scorta
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158. Imeneo: o Imene era figlio di Apollo e di una Musa e presiedeva agli sponsali come dio tutelare del sacro nodo nuziale. 1 59· rise alla bella trovata: la sottile schermaglia tra le due dee si conclude nel sorriso di Venere, certa, perché cosi volevano i Fati, che le prossime nozze del figlio sarebbero durate pochissimo perché altre nozze durature e prestabilite attendevano l'eroe in Italia, quelle con Lavinia.
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( 16o-209 ). - Il giorno suc-
cessivo, durante una caccia alla quale partecipano Cartaginesi e Troiani in gran numero e nella quale SI distingue soprattutto Julo, un improvviso temporale si abbatte violento sui cacciatori. Ciascuno cerca un riparo per sfuggire alla furia degli elementi. Enea e Didone lo trovano in una grotta e qui tra il bagliore dei lampi, lo scroscio dei tuoni e il grido delle ninfe, avvengono le noue. 16,3. i cavalieri massili: erano i cavalieri numidi, forse al servizio di Didone. 169. clamide: specie di corto mantello che si indossava sopra la veste vera e propria. 172. ]ulo, felice: come può esserlo un adolescente che sta per partecipare ad uno degli svaghi più praticati nell'antichità.
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175. Simile ad Apollo: si credeva che Apollo d'inverno abitasse nella Licia, lungo le sponde del fiume Xanto (da non confondersi con l'omonimo fiume di Troia) e ritornasse alla natia Delo all'inizio della primavera. In quest'occasione convenivano nell'isola rappresentanze di tutti i popoli per onorare il dio con feste e cori. 178. Diopi: abitanti della Doride, nella Grecia centrale, alle falde del monte Parnaso. - I dipinti Agatirsi: popolo che abitava la Scizia, regione lungo la riva sinistra del Danubio e che era uso tatuarsi. 179. Cinto: monte dell'isola di Delo. 180. flessibile fionaa: di alloro, pianta a lui sacra.
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192. spera... imbelle armento: Julo disdegna la fa-
cile preda (imbelle significa che non combatte) e cerca un animale feroce o pericoloso con il quale potersi misurare per dimostrare il proprio coraggio e la propria abilità nel maneggiare le armi da caccia. 198. nipote di Venere:
Julo.
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204. ulularono le Ninfe:
i tuoni, i lampi, lo scroscio della pioggia e l'ululato delle Ninfe sono un ben triste coro nuziale, quasi cupo presagio della tragedia imminente.
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Lo SDEGNO DEL RE }ARBA (21o-z6z). - La Fama, mostro che gode nel diffondere il male, sparge per tutta la regione la notizia delle nozze dei due.amanti. Ne viene a conoscenza ]arba, re dei Getuli, che, essendo figlio di Giove, si rivolge al padre
alla bianca Didone e unisce le due schiere. Simile a Apollo, quando lascia la Licia invernale ed il fluente Xanto, torna a vedere Delo materna e dirige i cori; misti intorno agli altari fremono i Driopi, i Cretesi, i dipinti Agatirsi; lui va per i gioghi del Cinto e raccoglie i capelli fluenti adornandoli di flessibile fronda e incoronandoli d'oro; i dardi gli suonano in spalla .. Non meno pronto e animoso veniva Enea, tanta bellezza gli splendeva sul nobilissimo volto. Quando si giunse ai monti e ai covi inaccessibili, ecco le capre selvagge saltando giu dalle rocce attraversare di corsa le alture; laggiu i cervi corrono per la campagna alzando nubi di polvere, in schiere compatte, in fretta lasciano la montagna. Ed il fanciullo Ascanio in mezzo alle valli galoppa furiosamente col cuore pieno di gioia oltrepassando in corsa gli animali sbrancati, spera con tutta l'anima che tra l'imbelle armento gli si pari davanti uno schiumante cinghiale o che un fulvo leone discenda giu dai monti. Intanto con un gran murmure il cielo comincia a [turbarsi, e arriva subito un nembo di pioggia mista a grandine: spaventati i Fenici, i giovani troiani e il dardanio nipote di Venere qua e là si disperdono in cerca d'asilo per i campi; impetuosi torrenti precipitano dai monti. Didone e Enea riparano in una stessa grotta. Per prima la Terra e Giunone pronuba danno il segnale: rifulsero lampi nell'aria a festeggiare l'unione, e sulle cime dei monti ulularono le Ninfe. Fu quello il primo giorno di morte, la causa prima di tanti mali; Didone non pensa alle chiacchiere, non pensa al suo decoro e non teme lo scandalo, ormai non coltiva piu un amore segreto, lo chiama matrimonio, vela cosi la sua colpa.
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Subito corre per tutte le città della Libia
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la rapida Fama, il malanno piu veloce che esista. Vive di mobilità, acquista forze andando; piccolissima prima, timorosa, ben presto si leva alta nell'aria, tocca terra coi piedi e col capo le nuvole. Si dice che la madre Terra abbia partorito questa sua ultima figlia, sorella di Encelado e Ceo, per rabbia contro gli Dei. È un mostro orribile, immenso, rapido d'ali e di piedi, col corpo coperto di penne; sotto ogni penna c'è un [occhio che vigila, una lingua, una bocca sonora e un orecchio rizzato. La notte vola a metà tra cielo e terra, stridendo nell'ombra, non chiude gli occhi nel dolce sonno; il giorno sta di vedetta sul culmine dei tetti o in cima alle alte torri, spaventa le grandi città, nunzia del vero e del falso. La Fama gongolando riempiva la gente di chiacchiere dicendo il vero e il falso: raccontava che Enea nato di sangue troiano era venuto a Cartagine, che la bella Didone s'era degnata di unirsi con lui, e che passavano l'inverno nei piaceri l'uno attaccato all'altra, immemori dei loro regni, presi da turpe passione. La terribile Dea diffonde simili storie qua e là per le bocche degli uomini. Poi subito volge la sua corsa al re Jarba, infiammandone l'anima e aizzandone l'ira. Costui, figlio di Ammone e di una Ninfa rapita ai Garamanti, aveva alzato a Giove nell'ampio suo regno cento immensi templi e su cento altari aveva consacrato un fuoco perenne, onore eterno per gli Dei: il suolo sempre madido del sangue delle vittime, le soglie erano sempre adorne di corone fiorite d'ogni specie. Fuori di sé ed acceso dall'amara notizia si dice che levasse molte preghiere a Giove, supplice, a mani giunte, davanti agli altari, in mezzo alle venerate immagini dei Numi. « O Giove onnipotente a cui il popolo mauro dopo aver banchettato sui letti ricamati liba vino prezioso, vedi che cosa accade? E non intervieni? O forse, padre, abbiamo paura invano di te quando scagli i fulmini? Sono ciechi i fuochi che tra le nubi atterriscono gli animi,
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chiedendo di ottenere pronta vendetta per l'oltraggio sublto. · 211. La rapida Fama: era la figlia minore della Terra che qui gongola perché può, come è sua natura, spargere notizie che suscitino allarme e generino discordia. 236. Ammone: divinità africana che si può identificare con Giove. 237. Garamanti: popolo che abitava la regione del Fezzan; qui vale per abitanti della Libia in generale. 247. il popolo mauro: abitante la Mauritania, l'attuale Marocco. 248. letti ricamati: sui triclini coperti di stoffe preziose e ricamate. 249. vino prezioso: vino invecchiato e puro. 251. invano: temiamo la tua potenza inutilmente in quanto non ha senso e non esiste. Lo sdegno di Jarba è giustificato anche se il suo ragionamento è elementare.
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258. quella specie di Paride: come Paride aveva rapito a Menelao Elena, cosl Enea sottrae a J arba Didone, che, a ragione, il re considerava sua, speranzoso di vinceme in futuro il rifiuto delle sue profferte di matrimonio. 259.da mezzi uomini: l'ira fa sl che J arba si abbandoni ad insulti gratuiti. -la mitra meonia: era un berretto curvo che in Frigia era comunemente portato dagli uomini. Meonia era la Lidia, regione dell'Asia occidentale. 261. Ah ... : è un modo abbastanza singolare di invocare l'aiuto del Padre Giove, ma Virgilio vuole sottolineare il carattere violento e rozzo di Jarba.
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DECISIONE DI GIOVE
(263-348). - Giove, udita 270 l'invocazione del figlio, ordina a Mercurio di volare a Cartagine e di ricordare ad Enea la missione assegnatagli dai Fati. Il messaggero degli dèi obbedisce, trova E- 21S nea che sovrintende ai lavori della città e senza in· dugio lo richiama ai suoi doveri. L'eroe china il capo innanzi all'indiscutibile ordine divino, ma dentro di sé agghiaccia, pensando al distac- 280 co da Didone. Poi subito riunisce i capi troiani e dà ordine di approntare segretamente la flotta. Nel frattempo studierà il modo migliore per comunicare alla regina lt! 285 vicina irrevocabile partenza. 266. fama: nella passione gli amanti hanno dimenticato la loro reputazione. :1.72. due volte: la prima quando lo sottrasse al furore di Diomede, la seconda all'ira di Achille.
non sono che vacui rombi? Una donna che, profuga nel nostro territorio, fondò una cittaduzza comperando il terreno, cui demmo un'arida spiaggia da colonizzare e i diritti sul luogo, ha respinto le nozze con noi accogliendo Enea come suo solo signore! E adesso quella specie di Paride, accompagnato da mezzi uomini, la mitra meonia legata al mento, la chioma profumata, gode la sua conquista. Ah, che davvero offriamo ai tuoi templi dei doni inutili e alimentiamo un'inutile gloria! »
Mentre diceva cosi, tenendo posata la mano sull'altare, l'udi l'Onnipotente e volse gli occhi alle mura regali e agli amanti dimentichi di ogni fama migliore. Disse allora a Mercurio: «Va', figlio, corri, chiama i venti, sollevati a volo e parla al capo troiano, che perde tempo a Cartagine e non pensa alle terre che il Fato gli ha destinato, recagli tu per l'aria il Inio alto comando. Non ce lo promise cosi la bellissima madre, non lo scampò per questo due volte alle armi dei Greci: ma perché regga l'Italia gravida di imperi e fremente di guerra, perché perpetui la razza di Teucro dal nobile sangue, perché detti leggi al mondo. Se non lo accende l'onore di cose tanto grandi, se non vuoi faticare né gli interessa la gloria, perché proprio lui, suo padre, vu~l defraudare Ascanio delle rocche romane? Cosa crede di fare? Che cosa spera indugiando tra gente nemica 5enza pensare al futuro, alla grande progenie che un giorno avrà in Italia, ai campi di Lavinio? Navighi, questo è il mio ordine: siine tu messaggero,., Disse. E Mercurio subito si prepara a obbedire al gran cenno del padre; prima s'allaccia ai piedi i calzari d'oro, alati, che lo portano in alto volando sopra i mari e sopra le terra, rapido come il vento. Poi piglia la verga con cui evoca
278. vuol defraudare Ascanio: se a lui non interessano la gloria e la fortuna che l'attendono, pensi alme-
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no al figlio ed al suo futuro. 282. Lavinio: per Lazio. 286. calzari d'oro, alati: detti anche alari.
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le pallide Ombre dall'Orco, altre ne manda giu al Tar[taro, dà e leva il sonno, suggella gli occhi che morte ha serMunito della verga scaccia i venti, traversa [rato. le nubi burrascose. E già volando vede la vetta e i fianchi ripidi del duro Atlante, che regge il cielo con la testa; Atlante dal capo pieno di pini, cinto sempre di nuvole nere, battuto da vento e da pioggia; una distesa di neve gli copre le spalle, i fiumi precipitano dal mento del gran vecchio, l'ispida barba è ghiacciata. Qui si fermò dapprima il Cillenio, librandosi -ad ali aperte; quindi ~i lasciò andare di peso velocissimo verso le onde, come un uccello che vola basso, radendo il mare intorno agli scogli pescosi ed intorno alle spiagge. Cosi fendeva l'aria tra mare e cielo Mercurio cillenio, lasciando Atlante, suo nonno materno, volando verso la costa sabbiosa dell'arida Libia. Appena atterrò vicino ad antiche capanne vide Enea intento a dirigere la fondazione di torri e la costruzione di case; aveva una spada stellata di fulvo diaspro, un mantello corto di porpora tiria gli splendeva giu dalle spalle, opera delle mani della ricca Didone che aveva trapunta il tessuto di fili d'oro sottili. Subito lo investi: « ~ cosi adesso tu lavori alle fondamenta dell'alta Cartagine, _schiavo di tua moglie, fai bella la città e ti dimentichi del tuo destino e del regno! Lo stesso re degli Dei, che con la sua volontà ruota il cielo e la terra, mi comanda di darti per l'aria veloce questi ordini: cosa progetti? Con quali speranze perdi il tuo tempo nella terra di Libia? Se non ti sprona la gloria delle grandi promesse, se non vuoi affrontare fatiche per la tua fama, pensa ad Ascanio che cresce, alle speranze di Julo, al quale è dovuto il regno d'Italia e la terra di Roma ». Mercurio a metà del discorso si tolse dal cospetto dei mortali, svanendo lontano dagli occhi nell'aria sottile. Enea fuori di sé ammutoli a quella vista, gli si drizzarono in testa per l'orrore i capelli,
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288. la verga: è il caduceo, verga aurea con due serpenti attorcigliati, che Mercurio aveva ricevuto in dono da Apollo in cambio di una meravigliosa cetra. 289. le pallide ombre... : fra gli altri compiti Mercurio aveva quello di richiamare a piacimento le anime dei trapassati, cosl come guidarle agli Inferi. 294. Aliante: _catena di monti dell'Africa settentrionale. Il Titano viene qui raffigurato da Virgilio in modo fantasioso come una gigantesca montagna dalle fattezze umane. 299. Cillenio: Mercurio era nato sul monte Cillene in Arcadia, figlio di Giove e di Mais. 305. suo nonno materno: Maia, madre di Mercurio, era figlia di Atlante. . 309· una spada stellata: costellata o meglio tempestata di pietre dure di color · giallo (fulvo diaspro). 310. porpora tiria: di color rosso vivo secondo l'uso dei fenici. Il fatto che Enea vestisse abiti di foggia diversa da quello tradizionale troiano ci dice come egli avesse abbandonato l'idea di partire per l'Italia e vagheggiasse il proposito di regnare con Didone su Cartagine. 328-330. Enea... gola: è il solito modo, già usato da Virgilio nei canti precedenti di descrivere lo stato d'animo dei mortali all'apparizione e alle parole di un dio.
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334· innamorata, furiosa:
i due aggettivi sono concatenati nella conseguenza logica del sentimento: Didone proprio perché ardentemente innamorata diverrà furibonda all'annunzio della partenza dell'amato e non vorrà sentire ragioni
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340. Mnèsteo, Sergesto e Seresto: tre fra i capi delle
schiere troiane. 348. lieti: perché ambiscono ad una nuova patria.
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(349-540). - Intanto Didone s'è accorta dei preparativi ed intuisce la verità. Cerca e trova l'amato e lo asiale con parole di sdegno e di minaccia. Trascorre poi alle preghiere accorate ed ai supplichevoli lamenti. Enea risponde in tono dimesso ed impacciato, cercando di trincerarsi dietro l'ordine divino e ricordando l'alta missione cui è destinato. Ma la regina non si dà per vinta e replica in modo aspro e violentissimo, insultando/o ed irridendolo. Poi lo minaccia ancora di perseguitar/o dagli Inferi come Ombra senza pace. I n fine si ritira nelle sue stanze, esausta. Enea, turbato, sollecita i preparativi della partenza. Ora allo sdegno e all'ira nel cuore di Didone è subentrato il dolore. Chiama la sorella Anna e la prega di supplicare Enea di tardare la partenza perch'ella si rassegni col tempo all'abbandono. Ma la missione non ottiene successo perché un Nume chiude gli orecchi di Enea, impedendogli di udire. 351. persino di quello che pareva più sicuro: « omnia tuta timens » dice Virgilio
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gli si fermò la voce in gola. Smania di correre via, abbandonando le terre che pure gli sembrano dolci, percosso dall'alto monito e dal comando divino. Ma come farà? Con quali parole adesso oserà rivolgersi alla regina innamorata, furiosa? Da dove incomincerà il suo discorso? Volge rapidissimamente il pensiero qua e là, ideando diverse soluzioni, pesandole una per una. Infine, benché sia sempre in dubbio crede di aver trovato il partito migliore. Chiama Mnèsteo, Sergesto ed il forte Seresto; armino zitti zitti la flotta e sulla riva riuniscano i compagni, preparino ogni cosa senza lasciar capire quale sia la ragione di tanta novità; intanto lui, poiché Didone non sa nulla e crede che un amore cosf grande non possa spezzarsi, cercherà il modo e l'occasione piu adatta per parlade. Tutti obbediscono lieti ed eseguono gli ordini.
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Ma la regina (chi può ingannare chi ama?) presend tutto e s'accorse per prima di ciò che accadeva: timorosa com'era di tutto, persino di quello che piu pareva sicuro. L'empia Fama in persona disse che si allestiva la flotta per la partenza. Folle d'amore, l'anima smarrita, dà in ismanie, erra per la città fuori di sé, baccante eccitata come una Menade quando infuria la festa, quando al grido di Bacco la stimolano le orge che vengono soltanto ogni tre anni, quando
che dimostra qui la sua profonda conoscenza della psiche umana. Infatti, malgrado le nozze, la regina ha il presentimento che la felicità raggiunta sia troppo bella e troppo facile per essere vera. 352. empia: perché nulla rispetta dei sentimenti umani, intesa com'è a cercare soltanto il male.
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356. Menadi: sono donne, chiamate anche Tiadi o Baccanti, che accorrono in furia quando sul monte Citerone, presso Tebe, sentono risuonare il grido di « Io Bacche » che preannunzia le orge notturne con le quali si cdebravano ogni tre anni speciali feste in onore del dio Bacco.
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il Citerone a notte la chiama con molto clamore. Infine parla ad Enea per prima, cosi: « Perfido, e tu speravi persino di nascondere tanto male e partire dalla mia terra in silenzio? Non ti trattiene il nostro amore, la mano che un giorno ti fu concessa, Didone che sta per morire di morte crudele? E invece tu sotto le stelle invernali prepari la flotta e ti affretti a solcare l'alto mare, tra venti terribili, o malvagio. E perché? Se corressi non verso terre straniere, verso paesi Che ignori, ma fosse ancora in piedi l'antica Troia, andresti a Troia con la flotta per l'ondoso mare? Dimmi, ci andresti? Fuggendo da me? Per questo mio [pianto e per la tua mano, per gli Imenei incominciati e per la nostra unione, se ho meritato di te in qualche modo, se cara ti fu qualcosa di me, abbi pietà della casa Che crolla, lo vedi, e abbandona questo pensiero, ti prego, se si può ancora pregarti. Le genti di Libia mi odiano a causa di te, i tiranni numidi mi odiano a causa di te, persino i Tiri mi odiano a causa di te; a causa di te il pudore è morto, è morta la fama per la quale soltanto arrivavo alle stelle. A chi moribonda mi lasci? O Enea, ospite! Ospite! Soltanto questo nome posso dare a colui che un tempo chiamavo marito. Ma allora? Forse attendo il fratello Pigmalione che bruci le mie mura, o il re ]arba che mi porti in Getulia schiava? Oh, se prima della tua fuga avessi avuto almeno un figlio da te, un picColo Enea che per le sale giocasse e ti ricordasse all'aspetto! Oh, che allora non mi parrebbe del tutto d'essere abbandonata e d'essere stata ingannata!~ Diceva cosi. Ma lui per gli ammonimenti di Giove teneva immobili gli occhi e con sforzo premeva dentro al cuore l'affanno. Alla fine risponde con poche frasi: « Regina non sarò io a negare 365. morire di morte crudele: è forse un grido in-
consapevole dettato n per n
dal dolore cieco, ma è anche l'affacciarsi di un pensiero che prenderà a poco a poco
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consistenza e si radicherà nella mente di Didone sino a divenire il motivo dominante della sua ultima e tragica decisione. 368. se corressi: intendi: tu parti in pieno inverno, affrontando un mare procelloso, in cerca di una terra sconosciuta; cosa che certo non faresti anche se Troia esistesse ancora e tu dovessi raggiungerla. 376. casa che crolla: con la partenza di Enea il regno appena costituito e la sua casata crolleranno perché ella non potrà sopravvivere all'onta. 379· i
tiranni numidi:
Jarba in particolare come
abbiamo visto poc'anzi. 380. perfino i Tiri: con la sua condotta e la sua decisione di sposare Enea Didone ha suscitato, se non l'odio, almeno la silenziosa disapprovazione e lo scontento del suo popolo. 381. la fama: la regina era famosa, non soltanto per la fuga avventurosa e per il coraggio dimostrato nel guidare le sue genti, ma anche per la fedeltà indiscussa alla memoria del marito Sicheo. 387. Getulia: sta per Libia. 388. Oh, se prima ... : è
commovente e finissima quest'ultima accorata visione di un piccolo Enea, rimasto a consolare l'addolorata Didone e a darle un nuovo valido motivo di vita! Il discorso che era cominciato con una fiera invettiva si chiude con una nota smorzata e patetica. 394· teneva immobili gli occhi: l'atteggiamento di Enea è di chi è in t;:ceda a
sentimenti con t;~listanti e non
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sa che rispondere: da un lato sente pietà, amore e rimorso nei confronti di Didone, dall'altro l'ordine categorico di Giove lo obbliga a }asciarla. 400-402. Io non sperai ... sposarti: infatti anche se i due erano considerati come sposi, le nozze, secondo il rito, non erano ancora avvenute né Enea aveva fatto formale promessa a Didone in questo senso. C'è in _queste parole molta voluta durezza, proprio perchè Virgilio wole che il lettore capisca come Enea abbia potuto per un istante dimenticare il suo pesante dovere, non mai rinnegarlo e rinunciarvi. 408. Apollo grineo: da Grinio nell'Asia Minore dove il dio era particolarmente venerato. 422. fatali: designati dal fato. 429. infuocare: tormentare. 430. io non vado ... : la conclusione di Enea è frutto dell'arida logica dei fatti: come posso io ribellarmi al volere di Giove e dei Fati? Dall'altra parte Didone non può accettare la decisione, ella che soprattutto obbedisce alla passione. Di qui la sua violenta reazione.
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che hai tanti meriti quanti puoi contarne a parole, e non mi scorderò di te finché lo spirito reggerà queste membra, finché mi ricorderò di me stesso. Ma ascolta. Io non sperai di nasconderti questa fuga, credilo pure, e del resto mai ti tenni discorsi di nozze o pensai di sposarti. Se i Fati permettessero che conducessi la vita come vorrei, secondo i veri miei desideri, sarei rimasto a Troia vicino alle dolci reliquie dei miei, gli alti tetti di Priamo starebbero an[cora in piedi e con le mie mani avrei costruito ai vinti una rinata Pergamo. Ma adesso Apollo grineo mi comanda di andare in Italia: in Italia mi ordinano di andare gli oracoli di Licia. Questo è il mio amore, questa la mia patria. Se tu che sei fenicia ami tanto le rocche di Cartagine, questa tua bella cittA della Libia, perché impedisci che i Teucri abbiano alfine riposo nella terra d'Italia? ~ lecito anche a noi cercare lidi stranieri. Tutte le volte che la notte circonda le terre di umide ombre, tutte le volte che sorgono gli astri infuocati, in sogno l'ombra dd padre Anchise, turbata, mi rimprovera e mi spaventa, con lui mi rimprovera Ascanio, povero bimbo, dd torto che faccio al suo futuro, poiché lo defraudo del regno d'Esperià e dei campi [fatali. E proprio adesso Mercurio, messaggero dei Numi, mandato da Giove (lo giuro per le nostre due vite) m'ha portato per l'aria rapida questo comando: - Naviga! - . Ho visto io stesso il Dio in una luce [chiarissima entrare per le mura e con queste mie orecchie ne ho sentito la voce: -Naviga! -.Dunque cessa di infuocare me e te con questi lamenti, io non vado in Italia di mia volontà~Mentre diceva cosf lei lo fissava bieca già da un poco, volgendo gli occhi qua e là, misurandolo tutto con taciti sguardi; alfine furente cos{ prorompe: «Tua madre non fu una Dea, la tua [stirpe
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non viene da Dardano, o perfido, ma il Caucaso sel[viaggio aspro di rupi ti fece, Ircane tigri allattarono te da bambino. Ah, perché m'illudo, che cosa mi aspetto piu di questo? Lui forse s'è commosso al mio pianto? Non ha battuto ciglio: non ha emesso un sospiro: non ha avuto pietà dell'amante! Che cosa immaginare di peggio? Ormai nemmeno la grande Giunone e il padre Saturnio guardano con giustizia a quanto avviene. Non c'è piu alcuna buonafede, in nessun posto. Lo presi morto di fame, gettato sul lido dalla tempesta, lo misi a parte del regno, pazza! Strappai la sua :flotta dispersa all'estrema rovina insieme ai suoi compagni. Ah, che furia m'avvampa! Proprio adesso l'augure Apollo e gli oracoli lici gli portano per l'aria questi ordini tremendi! Certo è stato mandato da Giove in persona il fulmineo messaggero dei Numi! Oh, davvero gli Dei non hanno da occuparsi d'altro, se un tale pensiero turba la loro quiete! Ma non voglio ribattere le tue parole, non voglio neppure trattenerti. Parti, va via col vento in Italia, cerca il tuo regno attraverso le onde. lo spero soltanto, se i pietosi Celesti hanno qualche potere, che me ne pagherai il fio tra gli scogli, chiamando spesso a nome Didone. Didone! Ma io lontana ti perseguiterò con i fuochi infernali: e quando la fredda morte spoglierà delle membra l'anima, in ogni luogo dove tu andrai ci sarò, pallido spettro, fantasma venuto a turbarti. Sconterai la tua pena, empio, ed io lo saprò: questa bella notizia mi giungerà tra le Ombre »Cosi dicendo tronca a mezzo il discorso, affranta fugge la luce del giorno, scappa via e si leva dagli occhi d'Enea, !asciandolo dubitante, pauroso, desideroso di dirle molte cose. Le ancelle accorrono e la portano al suo marmoreo talamo svenuta, le membra rigide, la posano sulle coltri. Ma sebbene desideri alleviarle il dolore e consolarla, calmandone con parole l'affanno, benché sia intenerito dall'amore, dolente il pio Enea obbedisce all'ordine divino
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436. Ircane tigri: l'lrcania è una regione dd Caucaso. 438-441. Lui... peggio?: l'atteggiamento di Enea è stato di colui che non vuoi farsi prendere dalla commozione e dalla pietà; volutamente duro e conciso per trarsi fuori il più presto possibile da una situazione penosa e da un colloquio senza uscite: 465. tra le Ombre: a proposito della replica di Didone dice il Fiore: « Didone ha condannato Enea e con lui ha condannato gli dèi, il destino, il mondo, tutto il sistema di violenza che grava sui buoni, sui generosi ineluttabilmente, che li mena a perdizione. Con lo sguardo muto ha misurato l'abisso che separa chi ha dato tutto, anche gli ideali, da chi si è degnato di accettare; chi non brama che di dare, di votarsi ancora, di sacrificarsi, da chi rifiuta di prendere; chi dall'offerta esce privo di tutto, da chi salva se stesso; chi ormai è una miserabile, una reietta della vita, da chi trionfa, chi sente già in sé il gdo della morte, da chi si slancia di nuovo, con più vigore, nella vita. Didone, volendo coprir d'infamia il suo amato, trascorre ad accusare gli dèi, perciò, avendo da accusare gli dèi, non è dinanzi al. tribunale di essi, dèi colpevoli, che chiama Enea e lo condanna, ma dinanzi a quello della coscienza del mondo, col grido che ancor oggi ci fa dolorosi e pensosi delle sorti umane ». 475· il pio Enea obbedisce: è in questo verbo tutto il dramma interiore dell'eroe
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e non per nulla Virgilio ritorna all'aggettivo pio. Molti critici hanno voluto vedere nell'atteggiamento di Enea durante il colloquio inettitudine e freddezza; in una pa- 480 rola una carenza fondamentale e gravissima di sensibilità e di umanità. Non è vero. Ch'egli abbia ceduto alla passione di Didone questo è chiaro; ma chi dopo anni di peregrinazioni e di dolori non avrebbe ceduto al ri- 485 chiamo del sentimento e della bellezza? Enea è un semidio, ma è anche e soprattutto un uomo che continua a soffrire, ed a combattere per realizzarè il destino che è stato segnato per sé e per la 490 sua gente. 480. fuggire: più che una partl·nza, quella dei troiani è ven·mente una fuga. 484. farro: varietà di fru- 495 mento. 499· nulla intentata: prima della decisione estrema vuole tentare l'ultima via: quella della preghiera. Finora ha minacciato, trasporta- 500 ta dall'ira e dallo sdegno; adosso depone ogni residuo di fierezza e di dignità e supplica. Calzante dunque, ancora una volta, sotto il profilo psicologico, l'inciso virgiliano: « Amore, spietato 50S amore, a che cosa non spingi il cuore dei mortali! » 502. incoronano allegri le poppe: era costume marinaro ornare, all'approdo e alla partenza, le poppe con coro- 510 ne di fronde. 511. Aulide: porto della Beozia, ove si era concentrata la flotta dei re greci per la spedizione troiana. 514. dispersi le ceneri: di- 515 sperdere le ceneri di un mor-
e ritorna alla flotta. I Troiani s'affannano a trarre le navi in mare dall'alto lido. Nuotano le chiglie spalmate di pece, gli uomini dalle foreste portano rami fronzuti e quercie non lavorate, han fretta di fuggire ... Sciamano precipitandosi da tutta la città, come le nere formiche quando saccheggiano, memori dell'inverno, un gran [mucchio di farro e lo mettono in serbo nelle loro dispense: la bruna schiera cammina per i campi e convoglia la preda.attraverso !'erba per un sentiero piccino, parte a forza di spalle portano i chicchi piu grossi, parte dirigon la marcia, tengono a posto la fila, riprendono chi indugia, e tutta la strada è in fermento. Con che cuore o Didone guardavi tutto questo, che gemiti mandavi vedendo dalla rocca fremere tutto il lido in lungo e in largo e il mare intero riecheggiare di rumore e di grida! Amore, spietato amore, a che cosa non spingi i cuori dei mortali? Ecco Didone costretta ancora alle lagrime, ancora a cercar di piegare Enea con le preghiere piu vili e a sottomettere, chiedendo pietà, la fierezza alla passione; prima di darsi la morte non vuole lasciare nulla intentato. «Anna non vedi come s'affrettano sul lido, venuti da ogni parte; la vela chiama già i venti, i naviganti incoronano allegri le poppe. Se ho potuto vedere avverarsi tanto dolore, o sorella, potrò sopportarlo di certo. Pure, Anna esaudisci la tua infelice Didone in una sola grazia: poiché quell'infame onorava solo te e confessava a te anche i segreti piu arcani, e tu sola sapevi le vie piu adatte e i momenti migliori per chiedergli qualcosa. Va' dunque tu da lui, sordla, e supplice parla a quel nemico superbo. Digli che io non giurai in Aulide coi Greci di distruggere la razza Troiana, né mandai la flotta contro Pergamo, dirgli che non turbai o dispersi le ceneri e l'Ombra di suo padre. Perché non vuole ascoltarmi? Dove corre? Conceda almeno quest'ultimo dono alla misera amante:
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aspetti per fuggire un momento migliore e venti favorevoli. Non chiedo neanche piu l'antica unione tradita) né che rinunci al bel Lazio ed al futuro regno; chiedo soltanto del tempo, dd vano tempo, una tregua finché il fur01~e si calmi e la Fortuna m'insegni a sopportare il dolore. Quest'ultima grazia domando (abbi pietà ddla povera tua sorella!), poi parta: se mai me la concede gliela restituirò a usura con la mia morte». Cosi parlava: tali lamenti porta e riporta l'infelice sorella. Ma Enea non si commuove per nessun pianto né ascolta con pazienza nessuna voce: si oppongono i Fati e un Dio gli chiude le orec[chie. Come talvolta i venti alpini di qua e di là soffiando a gara cercano di scalzare da terra una solida quercia dal fusto annoso: stridono le alte fronde coprendo il terreno di foglie a ogni scossa dd tronco: ma l'albero è abbarbicato al suo macigno e di quanto s'innalza con la cima nell'aria celeste, di tanto s'affonda con le radici sino al Tartaro; cosi l'eroe e percosso di qua e di là da voci incessanti e nel gran petto contiene il tremendo dolore, al quale non può dar retta, la mente rimane immobile, le lagrime scorrono invano.
La morte di Didone Allora l'infelice Didone, atterrita dal suo destino, chiama la morte; le dà fastidio la vista del cielo convesso. S'infiammò di piu nella sua decisione di abbandonare la luce
to era per gli antichi il più grave degli insulti. 521. vano tempo: quantunque già ella stessa riconosca che il protrarre la partenza sia un espediente inutile, tuttavià pur di avere ancora l'amato vicino per qualche tempo le insegnerà,
almeno crede, ad abituarsi all'idea del distacco. 522. Fortuna: qui 8ta per destino, cieco dispensatore di mali e di beni. 527. infelice sorella: anche Anna è infelice non soltanto perché partecipa come sorella al dolore di Di-
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done, ma anche perché fu proprio lei a consigliarla a cedere all'amore per Enea. 53o-537. Come ... Tartaro:
la simili tudine si trova già in Omero e nelle Georgiche (II, 291-292) e bene esprime l'inflessibile decisione dell'eroe pur combattuto com'è dall'angoscia e dall'amore. LA MORTE DI DIDONE (541856). - Capisce allora l'infelice che la sua illusione d'amore è caduta e che non le rimane altro che la morte. Confermano l'ineluttabile fine sinistri presagi durante delle offerte votive. Nascondendo il suo proposito, prega la sorella Anna di farle apprestare una grande pira nell'atrio del puiauo che le servirà per esercitare alcune arti di magia. Nulla sospettando, la sorella la obbedisce. Con l'aiuto di una maga, Didone compie il rito magico. Scende la notte, e mentre Didone è torturata da mille contrastanti pensieri, ad Enea che riposa tranquillo appare Mercurio che gli impone di partire all'istante. Enea obbedisce: sveglia i compagni, salpa le ancore e s'allontana nella notte da Cartagine. Didone scorge la flotta troiana in navigazione e scaglia contro Enea ed i suoi una terribile maledizione: che i discendenti del suo popolo e quelli del popolo troiano siano per sempre nemici irriducibili. Poi salita sulla pira, si trafigge con la spada avuta in dono dall'amato. Accorrono Anna e le ancelle ed un urlo s'innalza dal palazzo e si propaga nella città. L'agonia si protrae, onde Giunone, impietosita, manda Iride a re
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cidere dal capo della regina il capello sacro a Dite. Subito dopo la wenturata Didone muore. 545· l'acqua lustrate:
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qua pronta per essere usata nel sacrificio.
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548. cambiarsi in... sangue: era un chiaro segno
della sventura imminente. 550. sacello: tempietto votivo senza tetto. 552. candida lana: bende votive di lana. · 557· il gufo: ancor oggi il verso del gufo, simile ad un lamento, è ritenuto da molti indizio di malaugurio. 566. i Tiri: cerca invano nell'incubo notturno il suo popolo, che l'ha abbandonata dopo ch'ella si era data ad uno straniero. 567. Penteo: re di Tebe, aveva voluto vietare il culto di Bacco e fu ucciso ·dalla madre e dalle sorelle, invasate di sacro furore dal dio. - Eumenidi: Erinni o Furie sono le dee della vendetta che fecero sl che Penteo vedesse doppie tutte le cose. 569. Oreste: uccise la madre Clitennestra che per conservarsi l'amore di Egisto, aveva assassinato il maritoAgamennone, tornato da Troia. Nella trilogia di Eschilo, I'Orestiade, il matricida s'era rifugiato per sfuggire alle Furie nel tempio di Apollo, dal quale non· poté uscire appunto per l'opposizione dei mostri che aveva-. no occupato la porta. 582. remoto paese degli Etiopi: gli antichi credevano
che l'Oceano fosse un fiume immenso che circondava le terre conosciute e chiamavano Etiopia in genue non ~oltanto gli attuali Sudan cd
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quando vide (orribile a dirsi) l'acqua lustrale intorbidarsi mentre poneva le offerte sugli altari fumanti d'incenso e i vini versati cambiarsi in osceno, terribile sangue. Non disse nulla a nessuno, nemmeno alla sorella. Nel palazzo reale c'era un sacello di marmo dedicato all'antico marito, che lei venerava di culto particolare, cinto di candida lana e di fronde festose: di là le parve venissel'o parole e le parve sentire la voce del marito che la chiamava mentre la nera notte occupava tutte le terre; e le parve di sentire lagnarsi dai comignoli, spesso, il gufo solitario col suo lugubre canto, filando lunghissime note di pianto; ed inoltre con monito terribile la spaventarono molti presagi di sacri indovini. Lo stesso Enea popolava le sue notti di orrori comparendo feroce nei sogni di lei, folle di disperata passione; e sempre le pare d'esser lasciata sola, le pare sempre di correre per una lunga lunga strada, senza nessuno, cercando invano i Tiri per una contrada deserta. Cosf Penteo impazzito vede la turba delle Eumenidi e il sole gli sembra doppio, doppia gli sembra Tebe; cosi sul palcoscenico s'agita Oreste, figlio di Agamennone, quando fugge la madre armata di fiaccole e neri serpenti, e le Ve.ndicatrici siedono minacciose sulle soglia del tempio. Vinta dal dolore, invasa dalla Furie, sicura di morire, esamina tra sé il modo e il tempo di porre in atto la sua decisione; rivolta alla triste sorella nasconde però con l'aspetto il suo proposito, e quasi sembrerebbe brillare d'una nuova speranza. «Ho trovato, sorella, rallegrati con me - le dice - la vera strada per riavere il mio amore o per dimenticarlo. Al limite dell'Oceano, verso il tramonto del sole, c'è il remoto paese degli Etiopi, dove il grandissimo Atlante ruota con le sue spalle
Abissinia, ma in genere l'Africa settentrionale.
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l'asse del cielo fitto di stelle rilucenti: m'han detto che di là è venuta una strega di stirpe massila, custode del tempio delle Esperidi, che dava il pasto al drago e sorvegliava i rami dell'albero saao spargendo liquido miele e papavero. Si vanta di liberare i cuori con i suoi incanti come vuole, versando in altri cuori gli affanni, di fermar l'acqua nei fiumi, di volgere indietro le stelle, di evocare i fantasmi notturni. Vedrai muggire la terra sotto i tuoi piedi, scendere gli orni dai monti! Te lo giuro, sorella cara, su tutti gli Dei e su te, sul tuò dolce capo, che controvoglia mi dedico alle arti magiche. Però segretamente, ti prego, innalza un rogo, che si levi nell'aria sopra un terrazzo interno: e su vi getterai le armi di Enea, che l'empio ha abbandonato appese al talamo, con tutte le sue reliquie, e il letto d'amore che mi ha perduta. Cosi va fatto: la maga vuole che si distrugga ogni ricordo di lui ,., Ciò detto tace, le gote invase di pallore. Ma Anna non può credere che la sorella con tali nuove magie nasconda un pensiero di morte, non riesce a concepire una tale follia, non teme avvenga di peggio che in morte di Sicheo. Cosi eseguisce gli ordini ... Appena sul terrazzo interno fu alzata nell'aria la gran catasta di pini e di tronchi di leccio la regina la cinge di serti e l'incorona di fronde funerarie; pensando alla tragedia a venire vi pone sopra la spada di lui con tutti i suoi ricordi, e in cima il suo ritratto. Sorgono intorno gli altari. La maga coi capelli sciolti chiama a gran v~ tre volte i nomi di cento Dei, l'Erebo, il Caos, la trigemina Ecate, la vergine Diana dai tre volti diversi. Mesce dell'acqua che simuli il fante d'Averno, fa cercare erbe giovani mietute· con una falce di bronzo sotto la luna, gonfie di nero veleno; si procura l'ippomane strappato dalla fronte d'un puledro, sottratto all'avida cavalla. La stessa Didone sparge il farro con mani pie: e vicino agli altari, con la veste succinta
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586. di stirpe massila: africana in genere. - Esperidi: figlie di Atlante e di Esperide i cui nomi erano Egle, Aretusa e lpertusa. Abitavano in uno splendido giardino nel quale era l'albero dai pomi d'oro custodito dal drago Ladone. I pomi furono colti da Ercole in una delle sue dodici fa-
tiche. 593· orni: frassini. 612. fronde funerarie: di cipresso. 614. il suo ritratto: sin dall'antichità era essenziale nei riti magici bruciare tu tto ciò che apparteneva alla persona che si voleva dimenticare e se possibile una piccola effige in cera che lo raffigurava. 616. cento: per un numero grandissimo di divinità. 617. Erebo: il dio delle tenebre. - Caos: genitore dell'Erebo e della Notte. Ecate: Diana venerata in tre modi diversi e perciò chiamata Trivia: come Luna in cielo, Diana in terra e Proserpina nell'aldilà. 619. Averno: Jago vicino a Cuma, che si credeva essere l'ingresso dell'oltretomba. 622. ippomane: escrescenza carnosa sulla fronte dei puledri appena nati, alla quale si attribuivano poteri magici. Occorreva strapparla subito, prima che la madre, l'avida cavalla, la mangiasse. 624. farro: qualità di grano che si spargeva misto a
sale.
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626. e un piede scalzo: ci sfugge il significato simbolico e rituale del piede scalzo. 631-639. Era... mali: famosa è questa descrizione della notte che molti vorrebbero ispirata a poeti greci come Alcmane e Saffo, altri ad Apollonio ed Orazio. Per noi è semplicemente uno degli squarci poetici tipicamente virgiliani, di quel Virgilio che, non dimentichiamob, è autore delle Georgiche e delle Bucoliche. 645. s'a"ovella: il verbo ben esprime il lavorio frenetico della mente, l'angoscia del cuore, l'irrequietezza spasmodica dello spirito di Didone, incapace di prender sonno ed ora preoccupata anche dell'immediato futuro. 648. dei Numidi: dal re dei Numidi, Jarba. 656. Laomedonte: re di Troia e padre di Priamo.
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Infine prega il Nume, se mai ve n'è uno, che ha cura degli amanti non corrisposti, perché faccia vendetta, perché sia memore, giusto, pietoso. Era notte: gli stanc;hi corpi prendevano sonno tranquillamente per tutta la terra, riposavano le selve e i mari selvaggi; era l'ora in cui tacciono i campi, le stelle han percorso metà del loro cammino; e tutti gli animali e i colorati uccelli, quanti vivon nell'acqua limpida e nelle campagne spinose di sterpi, coricati nel sonno sotto la notte silente lenivano gli affanni ed i cuori obl.iosi di tutti i loro mali. Ma la Fenicia non dorme, addolorata, mai si rilassa nel sonno o riceve negli occhi e nel cuore la dolce quiete notturna: il suo affanno cresce e imperversa di nuovo, risorgendo l'amore, e oscilla indecisa tra grandi vampe di rabbia. Cosi sempre di piu s'arrovella, dicendo tra sé: « E adesso che cosa farò? Dovrò tentare coi vecchi pretendenti? Espormi alle loro beffe? Supplice c;hiederò le nozze dei Numidi che tante volte ho sdegnato? Oppure seguirò la flotta dei Troiani, starò ai loro comandi? Ho fatto proprio bene ad aiutarli, un tempo, e loro me ne serbano molta riconoscenza! Ma se anche volessi partire con loro, chi mai vorrà accogliermi, odiosa, sulle navi superbe? Ahimé, sciagurata, ancora non conosci gli inganni e gli spergiuri della stirpe di Laomedonte? E poi: me ne andrei sola coi naviganti gioiosi o mi porterei dietro tutte le schiere dei Tiri, che ho appena strappato alla città di Sidone, spingendoli ancora sul mare, spiegando le vele nel vento Ah, muori come ti meriti, tronca il dolore col ferro! Sorella mia, sorella vinta dalle mie lagrime sei stata proprio tu la prima, involontaria causa dei tanti mali che mi pesano addosso: tu m'hai fatto impazzire, m'hai consegnata al nemico. Perché non ho vissuto feroce come una bestia selvaggia, in solitudine, senza amore né colpa,
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senza soffrire cosi? Perché non ho mantenuto la fede un tempo promessa all'Ombra di Sicheo? » Questi gravi lamenti le uscivano dal petto. Enea stava sull'alta poppa, deciso a salpare, preparata ogni cosa secondo l'uso: dormiva. E nel sonno gli apparve l'immagine del Dio che tornava, di nuovo gli parve che cosi lo ammonisse (simile in tutto a Mercurio, alla voce al colorito, ai capelli biondi, alla bellezza giovanile del corpo): «O figlio di una Dea, in queste circostanze puoi abbandonarti al sonno? Pazzo, non vedi quali pericoli ti circondino, non senti come gli zdiri ti spirino propizi? Lei trama in cuore inganni e un atroce delitto; deeisa a morire, ondeggia tra varie esplosioni di collera. Fuggi di qui a precipizio finché hai il potere di farlo! Presto vedrai la marina sconvolta dalle navi e lucente di fiaccole, presto vedrai la spiaggia balenare di fiamme, se_ la prossima Aurora ti sorprenderà qui, fermo su queste terre. Su, rompi gli indugi. La donna è mobile e varia sempre ». Ciò detto sparf confuso nella notte. Subito Enea atterrito da quell'Ombra veloce strappa il corpo dal sonno sollecitando i compagni: « Svegliatevi presto, guerrieri, prendete posto ai remi, sciogliete in un lampo le vele! Di nuovo mi è stato man[dato dall'alto cielo un Dio, ci incita a accelerare la fuga ed a tagliare le funi ritorte. O santo fra tutti gli Dei, noi ti seguiamo, chiunque tu sia e obbediamo in festa al tuo nuovo comando. Assistici benigno e aiutaci, rendici amiche nel cielo profondo le stelle! ». Sguainò la spada fulminea ed impugnando il ferro tagliò deciso le funi. Un medesimo ardore prese tutti i Troiani, afferrarono i remi e via, lasciarono il lido; il mare sotto le navi fugge, a forza di remi sconvolgono l'acqua spumosa, fendono l'onda azzurra. E già la prima Aurora spargeva nuova luce sulla terra, lasciando il letto color del croco dell'antico Titone. Appena la regina vide da un'alta torre biancheggiare la luce
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672. dormiva: il sonno di Enea contrasta singolarmente con la veglia tormentata di Didone. Forse riesce difficile capire l'« animo dell'eroe » che, umanamente, dovrebbe essere agitato da sentimenti contrastanti e dal pensiero dell'amata regina che sta per abbandonare, e che invece dorme profondamente, non diciamo il sonno del giusto, ma almeno di colui che ritiene l'episodio di Didone del tutto superato e già appartenente al passato. 673. del Dio: Mercurio. 679-689. dice bene il Fiore: « Ad ogni modo, per vincere costui, per spingerlo, sotto l'incubo del terrore, a partire agendo come un automa, senza darsi un momento di riflessione, non occorreva meno di un nuovo intervento dei voleri supremi, di questo affollarsi di tante cose, confusamente, sulle labbra del dio, cosl confusamente che non sa se presentargli Didone più scellerata o infelice, ed esagera e deforma tutto, e la delicata e tenera passionali tà della regina richiama alle labbra di lui un volgare cinismo misogino. Cosl Enea nel suo umano terrore, nella furia di strapparsi dal sonno, nonché pensare all'amata, nonché esitare, non ha modo nemmeno di capire esattamente chi sia colui che è venuto, ma incalzato incalza i COIJlpagni...; per un nuovo inganno del cielo si ritrova nella sua vibrante passionalità di patriota, di esule, di obbediente». 706. color del croco: croco è lo zafferano; qui sta per color dell'oro o meglio
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aureo letto. Aurora era moglie di Titone. 713-719. Dice il Raniolo a proposito di questi versi: « Tutta la logica del libro IV e l'intima poesia dell'eroina escludono assolutamente dall'animo di Didone la possibilità di una vendetta, sia pure giustificata. E se nell'impeto del dolore, la passione trascina la donna a propositi e immagini di sangue, più tardi nella solennità della morte imminente, ella scopre l'intimo dell'anima sua, perché scaccia ogni pensiero di vendetta come cosa vile, anzi amaramente gode di morire invendicata: moriemur inultae; sed mo. l rzamur. ». 726. i patrii Penati: e che perciò dovrebbe essere quel pio Enea tanto celebrato! Il sarcasmo della sventurata regina è più che giustificato: ella sta vivendo il momento supremo della sua delusione che tosto si muterà in tragedia. 728-731. Sarebbe ... figlio: sono parole di una ferocia disumana, che ci dànno la misura esatta dell'ira, del furore, della disperuione della protagonista. 739· Ecate: l'immagine di Diana, era posta nei trivi della strada e veniva invocata con lunghe grida. 742. Elissa: o Elisa era l'altro nome di Didone. 746-753. Quasi tutte le maledizioni di Didone si avvereranno: infatti Enea dovrà lottare a lungo e con sorte incerta con i Rutuli, si separerà dal figlio e morirà tre anni dopo la vittoria finale, annegando nelle acque del Numico.
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e allontanarsi la flotta a vele spiegate, e il lido deserto e il porto vuoto senza piu marinai, si percosse il bel petto con le mani, furente, tre volte, quattro, si strappò i biondi capelli: «O Giove - disse - Enea se ne andrà, uno straniero si sarà preso gioco impunemente di me e del mio regno? Nessuno impugnerà le armi per inseguirlo da tutta la città, nessuno farà uscire le navi dagli arsenali? Andate, miei fedeli, correte, portate veloci le fiamme, munitevi di frecce, fate forza sui remi~ Ma cosa dico, dove sono? Quale pazzia ti sconvolge la mente o infelice Didone? Soltanto adesso ti offendono i mali che hai commesso? Sarebbe stato assai meglio che ti fossi sentita offesa cosi nell'ora in cui gli affidavi lo scettro. Eccola la lealtà di uno che dicono rechi con sé i patrii Penati, di uno che avrebbe portato sulle spalle, pietoso, il padre vinto dagli anni! Sarebbe stato meglio se lo avessi ammazzato e fatto a pezzi, gettando' quei pezzi nel mare; meglio sarebbe stato gli avessi ucciso i compagni, gli avessi fatto mangiare il corpo di suo figlio. Dura la lotta, d'esito incerto? Tanto meglio: che cosa potevo temere dovendo morire? Avrei dato fuoco all'accampamento, avrei riempito di fiamme le navi, ucciso padre, figlio, tutta la stirpe, e su quei morti io stessa sarei caduta morta! O sole, tu che illumini coi raggi le opere tutte del mondo, e tu Giunone che conosci e sei complice di questi duri affanni, e tu Ecate chiamata con lunghe grida, a notte, nei trivi cittadini, e voi vendicatrici Furie, e voi Dei protettori della morente Elissa, ascoltate e esaudite le mie preghiere, volgendo sui Teucri la vostra potenza. Se è scritto nel destino che quell'infame tocchi terra ed approdi in porto, se Giove vuole cosi se la sua sorte è questa: oh, almeno sia incalzato in guerra dalle armi di gente valorosa e, in bando dal paese, strappato all'abbraccio di Julo, implori aiuto e veda la morte indegna dei suoi, e, dopo aver firmato un trattato di pace
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iniquo, non goda il regno né la desiderata luce, ma muoia, in età ancora giovane e rimanga insepolto su un'arida sabbia! Questo prego, quest'ultima voce esalo col sangue. E infine voi, miei Tiri, perseguitate la stirpe di lui, tutta la sua discendenza futura con odio inestinguibile: offrite questo dono alla mia povera cenere. Nessun amore ci sia mai tra i nostri due popoli, nessun patto. Ah, sorga, sorga dalle mie ossa un vendicatore, chiunque egli sia, e perseguiti i coloni troiani col ferro e col fuoco, adesso, in avvenire, sempre finché ci siano forze! Io maledico, e prego che i lidi siano nemici ai lidi, i Butti ai Butti, le armi alle armi: combattano loro e i loro nipoti ». Cosi disse, pensando a tante cose, cercando come morire al piu presto. E si rivolse a Barce nutrice di Sicheo (poiché la propria nutrice era rimasta, ormai nera cenere, laggiu a Sidone): «Ti prego, cara nutrice, corri da Anna, che venga la mia dolce sorella, e dille che in gran fretta si lavi con acqua di fiume e porti con sé le vittime pel sacrificio, le offerte stabilite. Tu stessa cingi le tempie di benda votiva. Voglio sacrificare a Giove Stigio, come è d'uso, porre fine a tutti i miei dolori ardendo insieme al rogo il ritratto di Enea». Barce accelerò il passo con affanno senile. Allora Didone, tremante, esasperata per il suo scellerato disegno, volgendo attorno gli occhi iniettati di sangue, le gote sparse di livide macchie e pallida della prossima morte, irrompe nelle stanze interne della casa e sale furibonda l'alto rogo, sguaina la spada dardania, regalo non chiesto per simile scopo. Dopo aver guardato le vesti lasciate da Enea e il noto letto, dopo aver indugiato un poco in lagrime e pensieri, si gettò su quel letto lunga distesa e disse poche, estreme, parole: « O reliquie, che foste cosi dolci finché lo permettevano i Fati e un Dio: ora accogliete quest'anima, scioglietemi da tutti i miei tormenti.
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754· Questo prego: in questa preghiera, consacrata dal sangue, Virgilio ha ancora una volta ripresa e confermata l'ineluttabilità della nemesi storica, che gli antichi temevano c subivano come la personificazione della giustizia distributiva, inesorabile nel castigare e puntuale nel premiare le azioni compiute nel male e nel bene. Qui la vita è sentita come una legge universale più che di onore, di coscienza etica. 755· perseguitate: è la predizione delle tre guerre puniche che sconvolsero il Mediterraneo e minacciarono Roma in modo gravissimo. 76o. un vendicatore: vien subito fatto di pensare ad Annibale, il più fiero ed indomabile nemico della gente romana. 775· Giove Stigio: Plutone re degli Inferi. n6. porre fine a tutti i miei dolori: Barce intende che la regina voglia bruciare l'effigie di Enea, mentre invece la frase esprime la ferma decisione di uccidersi. 785. la spada dardania: che Enea le aveva donato in cambio dei ricchi regali ricevuti. 791. un Dio: Giove.
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794· un'immagine grande: le parole non esprimono presunzione, ma soltanto la profonda coscienza di essere stata una regina, e come tale di aver compiuto gesta memorabili che rimarranno nel tempo. 797- giuste pene: cioè sottraendo al fratello Pigmalione il tesoro per impadronirsi del quale egli aveva ucciso Sicheo. 803. funesti presagi: Scrive il Copelli: «Insomma, mentre egli, lieto, veleggia verso il suo glorioso destino, deve vedere dal mare le fiamme, che lei ha acceso, per le quali essa fa l'olocausto di sé a scontare il suo peccato, e le quali saranno per lui sinistro augurio per la sua vita. Conclusione naturale di lunghe alternative di odii e di amori, di preghiere e di imprecazioni, di tenerezze umili e ~i ire selvagge, di speranze Imploranti e di disperazioni altere. L'avrebbe pregato ancora, se fosse stato presente, si sarebbe illusa ancora la disperata amante, attac: cando al filo della speranza la sua esistenza: or che è
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nella morte consolata solo da una superstite speranza e dal voto supremo: che l'iniquo sia punito ». 820. questo disperato esser sola: è il momento più alto della tragedia di questa fedelissima sorella che non ha fatto altro durante la sua vita che assistere Didone e farne la causa stessa e la ragione del suo esistere. Ora, di fronte al suo cadavere sanguinante, sente di colpo un vuoto smisurato aprirsi dentro e fuori di sé: ecco
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Vissi, ho compiuto il cammino concessomi dalla Fortuna, e adesso un'immagine grande di me se ne andrà sotto[terra. Fondai, una grande città, vidi sorgerne alte le mura, vendicai mio marito, inflissi al fratello nemico giuste pene: felice, ahi, troppo felice se solo non fossero mai arrivate ai nostri lidi sabbiosi navi dardanie! ». Disse e premé la bocca sul letto. «Moriamo senza vendetta - riprese. - Ma moriamo. Cosf, anche cosf giova scendere alle Ombre. Il crudele Troiano vedrà dall'alto mare il fuoco e trarrà funesti presagi dalla mia morte». Tra queste parole le ancelle la vedono abbandonarsi sul ferro e vedon la lama spumante di sangue, vedono sporche di sangue le mani. Un grido si leva per tutta la reggia, la fama s'avventa infuria per la città, le case fremono d'urla, di lamenti e di gemiti di donne, l'aria suona di grandi pianti, come se Cartagine o Tiro invase dai nemici crollassero, e rabbiose le fiamme s'attorcessero tra le case ed i templi. La sorella sentf la notizia e atterrita con una corsa affannosa, graffiandosi la facci~ con le unghie, picchiandosi i pugni contro il petto, attraversa la folla chiamando la morente per nome: «Sorella, per questo mi volevi? Che inganno doloroso! Per questo volevi il rogo, i fuochi e gli altari? Che cosa dovrò pianger di piu: la tua morte o questo disperato esser sola nella morte? Sorella, perché non m'hai .voluta tua compagna morendo? M'avessi tu chiamata ad una stessa morte: un eguale dolore ed una stessa ora ci avrebbe colte entrambe. Ed io con queste mani eressi il rogo, invocai gli Dei patrii, per essere da te lontana nell'ora della morte! Sorella, hai ucciso te e me e il popolo e i padri sidoni e tutta la tua città! Ma adesso !asciatemi lavare la ferita, !asciatemi raccogliere èon le labbra l'estremo suo alito, se ancora le aleggia intorno un soffio di vita! ». Precipitosa era salita sugli alti gradini del rogo e abbracciata la sorella morente
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Ja stringeva gemendo al seno e con la veste tentava di asciugare il nero sangue. Didone mentre cerca di alzare gli occhi che non riuscivano a stare aperti sviene; la ferita profonda nel petto stride. Tre volte riusd a levarsi sul gomito, tre volte ricadde sul letto: nell'alto cielo cercò con gli occhi erranti la luce, vedendola gemette. Allora Giunone, pietosa del suo lungo dolore e della straziante agonia, mandò giu dall'Olimpo Iride, che liberasse l'anima che lottava invano per svincolarsi dai legami del corpo. Poiché lei non moriva di giusta morte, decisa dal Fato, ma anzitempo, in un accesso d'ira, Proserpina non le aveva strappato ancora di testa il biondo fatale capello e non aveva ancora consacrato il suo capo all'Inferno e allo Stige. La rugiadosa Iride con le sue penne di croco brillanti contro sole di mille varii colori volò attraverso il cielo e si fermò su di lei. « Questo capello - disse - porto e consacro a Dite per ordine divino, e ti sciolgo da queste tue membra ».Con la destra strappò il capello: insieme si spense il calore nel corpo, la vita svanf nel vento. pesarle addosso la solitudine più che il dolore, ecco l'in-
vocazione « ad una stessa morte », che avrebbe dovu-
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to accomunarle, come le aveva accomunate in vita. 839. nell'alto cielo cercò ... : ricorda i versi dei Sepolcri foscoliani: «Perché gli occhi dell'uom cercan morendo l il sole, e tutti l'ultimo sospiro l mandano i petti alla fuggente luce ». 841. Allora Giunone: la dea sente pietà per la sventurata, anche perché un po' di colpa ricade su lei per il forzato matrimonio pattuito con Venere, e ne abbrevia l'agonia, mandando Iride, sua messaggera. 847. Proserpina: gli antichi credevano che la vita finisse quando Proserpina strappava un capello dal capo del predestinato. 849. Stige: fiume infernale. 850. croco: (vedi nota v. 706. 856. vento: in greco « anemos » significa vento o soffio di vento. Per Virgilio, dopo la morte, l'anima individuale tornava e si dissolveva nell'anima universale, fonte di ogni forma di vita.
Commento critico Mai, in alcuna età letteraria, ci fu poeta capace, non diciamo di superare, ma soltanto di eguagliare Virgilio nel concepire e nel realizzare una figura di donna che possa essere paragonata a Didone. A lei è dedicato l'intero canto; ella sola domina incontrastata la scena, personaggio unico ed inimitabile, nato soprattutto dal cuore del poeta. Forse si dirà che la sua vicenda di donna trova un riscontro in figure che popolano le letterature di quasi tutti i paesi ed è perciò un dato comune della concezione tragica dell'amore. Infatti i momenti di sviluppo del sentimento appaiono ben confermati e chiari nella loro logica elementare: l'insorgere violento e tumultuoso del sentimento, il dono completo e senza riserve di sé, l'abbandono, la disperazione, il suicidio.
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Canto quarto
Ma per Didone questi momenti finali della tragedia assumono un diverso e piì1 sconvolgente significato, perché continuano e si ricollegano alla sua vicenda di vita precedente. Ella non sa che cosa sia la felicità d'amore. Fin dalla più tenera età, vissuta tra intrighi e congiure di palazzo, ha imparato a giudicare uomini e cose con distacco e diffidenza. Il padre le è. morto troppo presto; il fratello ha assassinato il marito Sicheo, l'unico che l'aveva amata e le aveva donato pochi giorni di serenità e di pace. Costretta a fuggire, ad andare raminga per il Mediterraneo, alla guida della ~ua gente profuga ed infelice, s'era battuta con orgoglio e con caparbia per ridare a se stessa e agli altri una speranza ed una patria. C'era riuscita, e la sua regalità stava appunto in questa sua splendida impresa, degna di un condottiero antico o di un eroe. A questo punto ecco apparire sulla sua strada un personaggio, simile a lei, cioè bello di famn e di sventura; vedovo come lei, senza patria, perseguitato eppure non domo. Quale più felice caso? Non era forse una fortunata coincidenza, voluta dal fato per finalmente concederle quella parte di felicità cui ogni creatura, dopo tanti mali e tante sventure, ha legittimamente diritto? Dopo anni di tensioni, di doveri scrupolosamente assolti, di responsabilità coraggiosamente assunte e portate a termine, Didone sente anche il privilegio di poter finalmente abbandonarsi ad un suo sogno d'amore. Gli ultimi scrupoli sono cancellati dalle parole della sorella Anna. Non valgono a fermarla e a dissuaderla i chiari presagi di lutto che emergono dalla situazione stessa, il tormento interiore che la travaglia sin da principio, le ansie ed i timori che la turbano di continuo. « Omnia vincit Amor! » Le nozze, durante lo scatenarsi di un furioso temporale, sono il naturale coronamento della passione che le ha sconvolto i sensi e l'anima. Di qui il dramma che precipita rapidamente verso la conclusione. In un alternarsi continuo di illusioni e delusioni, di tormento e di estasi, di invettive e di preghiere, di orgogliose impennate e di umiliazioni volute, si giunge all'epilogo: vince ancora l'amore che vede come unica soluzione la morte. Il rogo che brucia e purifica le sue spoglie mortali, distrugge insieme le vesti e la spada dell'amato. La fine è degna di lei, splendida donna e superba regina che non può sopravvivere all'ingiuria sofferta dopo il dono di tutta se stessa. La sua ardente figura di personaggio tragico, insuperato ed insuperabile, offusca e sminuisce quella di Enea. Se però guardiamo un po' più addentro alla complessità della creazione virgiliana, ci accorgeremo subito che la grandezza tragica di Didone dipende in gran parte dall'atteggiamento di Enea, dal suo freddo ed incerto comportamento, dal suo sacro egoismo d'uomo, dalla sua arida austerità di eroe-sacerdote destinato a ben altre imprese che non sian d'amore. Virgilio ha ricercato ad arte, non solo per la logica che regge l'intero poema, un voluto contrasto di toni e di stati d'animo, per far sl che la figura di Didone campeggiasse in tutta la sua grandiosa tragicità per l'intero arco dell'episodio. Per questo ha costretto il suo eroe alla meschinità ed alla grettezza d'animo e di cuore; per questo gli ha posto sulle labbra frasi scipite, volgari e persino oltraggiose. Didone, cosl, ci appare la vittima più illustre non tanto di Enea, quanto di quella legge iniqua ed inesorabile che vuole i maggiori e più solenni eventi umani, nati dalle lagrime e dal sangue degli innocenti.
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Canto quarto
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Galleria di ritratti Anna. Anna è personaggio che vive nella luce ~ella sorella verso la quale ha devozione ed affetto senza limiti. Ella, al contrario di Didone, che è sempre stata nelle vicissitudini della sua breve esistenza una magnifica protagonista, non pare avere grandi aspirazioni e forte personalità. Sa tuttavia di essere insostituibile consigliera nelle decisioni più importanti e confidente preziosa alla quale tutto si dice e si chiede. Per questo rappresenta la donna di buon senso che, anche se ha dato alla sorella il consiglio di cedere alla passione, lo ha fatto a ragion veduta, perché inutile le pareva resistere ad un sentimento travolgente e nuovo. Il suo dolore di sorella è vero e profondo: con Didone muore infatti la ragione stessa della sua esistenza.
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Raffronti di traduzione « Dulces exuviae, dum fata deusque sinebat, accipite banc animam meque bis exsolvite curis. Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi, et nunc magna mei sub terras ibit imago. Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi, ulta virum, poenas inimico a /ratre recepi, felix, beu nimium felix, si litora tantum numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae ». Dixit et os impressa toro: « Moriemur inultae, sed moriamt4r » ait: « sic, sic iuvat ire sub umbras. Hauriat bune oculis ignem crudelis ab altiJ Dardanus, et secum nostrae ferat omina mortis ». Dixerat, atque illam media inter talia /erro conlapsam aspiciunt comites, ensemque cruore conlapsam adspiciunt comites, ensemque cruore spumantem sparsasque manus. (v. 651- v. 665)
«Spoglie, mentre il ciel piacque, amate e care a voi rend'io quest'anima dolente. Voi l'accogliete e voi di questa angoscia mi liberate. Ecco io son giunta al fine · de la mia vita, e di mia sorte il corso ho già compiuto. Or la mia grande imago n'andrà sotterra: e qui di me che lascio? Fondata ho pur questa mia nobil terra: viste ho pur le mie mura: ho vendicato il mio consorte; ho castigato il fiero mio nimico fratello. Ah che felice, felice assai morrei, se a questa spiaggia giunte non fosser mai vele troiane! » E qui su 'l letto abbandonassi, e 'l volto vi tenne impresso; indi soggiunse: « Adunque morrò senza vendetta? Eh che si muoia comunque sia. Cosl mi giova girne tra l'ombre inferne: e poich'il crudo, mentre meco era, il mio foco non vide, veggalo di lontano; e 'l tristo augurio de la mia morte almen seco ne porte ». Avea ciò detto, quando le ministre la vider sopra al ferro il petto infissa, col ferro e con le man di siUlgue intrise spumante e caldo. Traduzione di Annibal Caro Vesti, a me care fin che il Fato e i Numi vollero, voi quest'anima accogliete
e scioglietemi voi dal mio dolore! Ecco ho vissuto. f: ormai compiuto il corso che le sorti mi avevano concesso; e grande or l'ombra mia scende sotterra. Edificai una città superba, vidi mie mura, feci le vendette dc;! inio consorte, il frate! suo nemico punii; felice, ahimè, troppo felice se non mai le dardaniche carene fossero giunte fino a questi lidi! ,. Poi la bocca premé sull'origliere e gridò:· « Moriremo in'vendicata, ma moriamo. COsi, cosl com'è dolce scendere all'ombre. II Dàrdano crudele vegga dal mare queste fiamme, e seco abbia l'augurio della nostra morte ». Parlava· ancora; ed ecco, le sue donne la videro sul ferro abbandonarsi; schiumante era la spada, eran le mani sparse di sangue. Traduzione di Guido Vitali O dolci spoglie, dolci firiché il destino lo concesse e un dio, accogliete quest'anima e, dolente, da· tanta peiia àlfin mi liberate! La mia vita ho vissuto, e il corso tutto che la sorte mi diede ho già percorso: ora sotterra andrà l'anima mia! Una eccelsa città ho pur fondato; ho visto alfine le superbe mura; ho vendicato mio marito, ostile mio fratello ha pagato a me il suo fio. Oh troppo, ahimè, troppo morrei felice solo se mai quelle straniere navi, mai questa terra avessero raggiunto! » Disse e, premendo sopra il letto il volto: «Morirò invendicata, eppur, ch'io muoia! Cosl, cosl mi piace andar fra l'ombre! Veda dall'alto il Teucro coi suoi occhi questo mio fuoco, e a lui, empio e crudele, tal presagio di morte seco porti! ,. Aveva detto; e già le sue fantesche tra questo dir la vedono reclina sulla spada, e la spada insanguinata, e le mani di sangue tutte intrise Traduzione di Adriano Baccbielli
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CANTO QUINTO
Venere ottiene da Nettuno che si plachi la tempesta, e spirino buoni venti per le navi di Enea.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 18 35, ricavate dai codici della Biblioteca V a· ticana, Roma.
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CANTO QUINTO Dal mare aperto Enea vede sulla riva che s'allontana un gran fuoco ed è colto da tristi presentimenti. Per evitare un fortunale che lo minaccia, la piccola flotta troiana, su consiglio di Palinuro, fa vela verso la Sicilia ed è accolta con grandi feste, nel porto di Segesta, dal re Aceste. Nell'anniversario della morte del padre Anchise, Enea bandisce, come d'uso, i giochi funebri. Mentre l'eroe compie le rituali libagioni presso la tomba del padre, compare un serpente che si avvolge per sette volte intorno al tumulo, mostrando di accettare le offerte; poi sparisce. Nel mattino del nono giorno incominciano le gare di fronte ad una gran folla convenuta da tutte le terre vicine. Apre i giochi la regata, disputata da quattro navi e vinta da Cloanto. Si continua con una corsa di velocità, vinta da Eurialo con l'aiuto dell'inseparabile compagno Niso. Viene poi il pugilato che vede di fronte Darete ed Entello con la vittoria di quest'ultimo. Segue la gara con l'arco nella quale primeggia il re Aceste. Infine ha luogo il famoso ludus troiano e cioè un carosello a cavallo molto complicato, eseguito da Ascanio con tre squadre di giovanetti, ciascuna composta di dodici elementi. Mentre si svolgono i giochi, Giunone, che non perde occasione per cercare di danneggiare i Troiani, invia tra le donne troiane Iride con il compito di incitarle a distruggere le navi ed a fermarsi in Sicilia. Iride assume le sembianze di Beroe ed arringa le compagne a trovar pace, dopo tanto peregrinare, presso l'amico Aceste, costringendo mariti, fratelli e figli a fermarsi, distruggendo la flotta. In breve tempo le navi sono in fiamme. Enea, sopraggiunto con i compagni, com· batte l'incendio, aiutato anche da un provvidenziale temporale. Purtroppo quattro navi sono ormai distrutte. Enea è scoraggiato e non sa ·che fare. Allora il vecchio e saggio Naute lo consiglia a partire egualmente, lasciando in Sicilia i vecchi, le doline ed i bambini in una città da costruire, che prenderà il nome del re amico, Aceste.
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Canto quinto
Nella notte appare ad Enea in sogno il padre Anchise, che lo esorta ad accettare il consiglio di Naute. Prima però dovrà cercare la Sibilla Cumana e scendere, per mezzo suo, nell'Averno .per incontrarsi con lui e conoscere il destino che l'attende. Egli obbedisce: fonda la città, erige un tempio in onore della madre Venere e poi salpa con le quindici navi rimaste. Venere intercede presso Nettuno perché renda felice la navigazione del figlio. Il dio risponde affermativamente, ma esige che almeno un troiano si sacrifichi, come vittima. Il prescelto è Palinuro che, per opera del dio Sonno, s'addormenta e precipita con il timone in mare. Enea in persona dovrà d'ora in poi pilotare la nave verso la mèta.
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CANTO QUINTO II ritorno in Sicilia (1-45) - Riti in onore di Anchise (46-123) - I giuochi funebri: la regata (124-313)- La corsa a piedi (314-384)L'incontro di pugilato (385-508) - Il tiro a segno con l'arco (509575)- La parata dei giovani cavalieri (576-633)- L'incendio delle navi (634-739) - Il consiglio di Naute e l'apparizione di Anchise (740-805)- La partenza (8o6-881)- La morte di Palinuro (882-919).
Il ritorno in Sicilia
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Enea con la flotta era già in mare aperto e fendeva sicuro i flutti anneriti dal vento e vedeV-a, volgendosi, impicciolire le mura illuminate dal rogo dell'infelice Didone. Non sanno la causa di tanto fuoco, ma quanto possa una donna furente e l'amore tradito i Troiani lo sanno e un augurio triste ne portano in [cuore. Il mare era profondo, una distesa infinita senza piu terra in vista, soltanto mare e cielo, quando sul loro capo si formò un nembo azzurro, un nembo che oscurò il mare, scatenò tempesta, inverno e notte. Palinuro, il nocchiero, grida dall'alta poppa: «Perché tante nubi nel cielo? padre Nettuno, cosa ci prepari?». Comanda di serrare in parte le vele e far forza sui remi bordeggiando nel vento, e grida ad Enea: « O magnanimo Enea con questo tempo non spero
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RITORNO IN SICILIA (1-45). - Già lontano dallr> costa, Enea vede, guardando Cartagine, alzarsi un alto fuoco ed è colto da un triste presagio. Subito dopo per sfuggore ad una tempesta che sta avvicinandosi, su consiglio di Palinuro, ordina di dirigersi verso la Sicilia. La flotta ripara nel porto di Segesta e viene accolta con gioia dal re troiano Aceste. 3. anneriti: incupiti dal . vento del Nord. 8. un augurio triste: un presentimento della tragedia avvenuta. 16. serrare in parte: di ammainare le vele più grandi per offrire meno presa al vento. 17. bordeggiando: navigare contro vento, ora volgendo un bordo della nave, ora l'altro, in modo da riceverlo in obliquo.
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21. nerissimo ovest: il vento di occidente si sostituisce a quello del nord e porta con sé nubi nere gravide di tempesta.
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28. spiagge fraterne d'E-
le coste occidentali della Sicilia, sulle quali svetta il monte Erice, famoso pugilatore, figlio di Bute e di Venere e perciò fratellastro di Enea. rice:
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31. Nessuna terra sarebbe più cara: Enea aveva
già fatto scalo in queste ter- 30 re, era stato ospitato fraternamente dal troiano Aceste e aveva perduto il padre Anchise. 33· Aceste: re di Segesta, figlio di Egesta, fanciulla troiana inviata dal padre in ' lS Sicilia perché non fosse divorata da un mostro marino, inviato da Nettuno per punire Laomedonte. Giunta nell'isola, ella aveva sposato il dio fluviale Criniso. 44.coi semplici doni: qua- 40 le differenza fra il banchetto splendido che Didone aveva offerto ai Troiani e questo che Aceste, « irsuto della pelle di un orso » fa apprestare per gli amici che 4S tornano! Là si trattava di un vero e proprio ricevimento regale, qui di una frater·· na accoglienza. lùn IN ONORE DI ANcmSE
(46-123). - Il giorno dopo, nell'anniversario della morte del padre, Enea bandisce i giochi funebri. Mentre si compie il rito propiziatorio e si fanno le offerte di cibo, un serpente esce dal tumulo, vi si avvolge sette volte intorno, assaggia le offerte e scompare. L'eroe è sconcertato e non sa interpretare
di arrivare in Italia nemmeno se si rendesse garante lo stesso Giove. I venti sono cambiati, fremono e soffiano dal nerissimo ovest, il cielo è diventato una nuvola sola. Non possiamo resistere né con le vele né ai remi. Poiché la Fortuna ci vince, cediamo, andiamo dove ci chiama, mutiamo la rotta. Se la memoria non m'inganna, se vedo giusto guardando le stelle, non-sono lontane le fide spiagge fraterne d'Erice, i porti siciliani ». Allora il pio Enea: «Vedo bene che i venti ci comandano di fare cosi, e che invano ti opponi. Cambia rotta. Nessuna terra sarebbe piu cara, non potrei sceglieme alcuna piu adatta alle stanche mie [navi, della terra che alberga il dardanide Aceste, che custodisce nel grembo la salma del padre Anchise ». Volgono al porto le prore; le vele si gonfiano di venti favorevoli, la flotta taglia il gorgo rapida, finché lieta tocca la nota riva. Da un'alta vetta montana Aceste osservò l'arrivo delle navi amiche ed accorse cosi com'era, in tenuta di caccia, armato di dardi, irsuto della pelle di un'orsa della Libia. Nato da donna troiana e dal fiume Criniso Aceste, non immemore dei comuni antenati, fa festa agli amici tornati: coi semplici doni della campagna li accoglie e ne ristora le forze.
Riti in onore di Anchise Già luminosa l'alba del giorno seguente aveva fugato le stelle, quando Enea radunò dalla spiaggia i compagni e salito su un monte di terra disse: «O grandi Dardanidi, stirpe di sangue celeste,
il/atto. Si procede poi al vero e proprio sacrificio. 48. un monte di terra:
una collinetta o meglio un rialzo del terreno.
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49· stirpe di sangue celeste: Dardano, come si è già detto, era figlio di Giove ed
Elettra. Di conseguenza i Troiani diS<.endono da una stirpe divina.
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è già passato un anno, nel giro dei dodici mesi, da quando affidammo alla terra le ceneri e l'ossa dd mio padre divino, consacrandogli altari. Ed è, credo, già qui il giorno che terrò per onorato -sempre e sempre per amaro, poiché cosi voleste, o Dei. Anche in esilio nelle getule Sirti, o trattenuto dal mare argolico, o prigioniero nella città di Micene celebrerei questo giorno con voti rituali e feste solenni, coprendo gli altari di doni. Ma le ceneri e l'ossa del padre son qui, vicine a noi - non senza il volere dei Numi poiché spinti dal vento toccammo porti amici. Su, celebriamo lieti tutti i funebri onori, invochiamo i venti propizi: che il padre mi conceda di rinnovargli tali cerimonie ogni anno, fondata la mia città, nei templi a lui dedicati. Aceste di stirpe troiana vi offre c;lue buoi per ogni singola nave: fatene parte ai Penati, sia quelli della patria sia quelli che l'ospite Aceste tiene per sacri e onora con banchetti e preghiere. Quando la nona Aurora avrà portato ai mortali il giorno celeste e avrà illuminato la terra coi suoi radianti strali, bandirò giochi funebri. Per prima indirò una regata di navi veloci; poi si presentino tutti, chi è agile nella corsa a piedi, chi presume d'esser bravo a scagliare il giavellotto e la rapida freccia, chi ha tanto coraggio di battersi coi cesti: ci saranno premi per tutti. Ma adesso silenzio, cingete di rami le tempie!» Ciò detto vela i capelli col mirto materno, lo stesso fa Elimo, lo stesso il vecchio Aceste ed il fanciullo Ascanio, seguiti da tutti gli altri. Enea va verso la tomba in mezzo a una gran folla, qui versa per terra, libando secondo il rito, due tazze di vino, due di latte e due di sangue sacro 50. è già passato un an· no: qualche critico ha fatto rilevare l'inesattezza di questa affermazione. Infatti nel canto precedente Virgilio aveva più volte, per inciso, detto che Enea era arrivato
no e ne era ripartito qualche in Libia all'inizio dell'invermese appresso. Il Sabbadini dice bene quando dimostra che il canto V, nella prima stesura, venne scritto prima del III. In tal modo i riti
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funebri per la morte di Anchise sarebbero stati celebrati subito dopo la morte del vecchio eroe e il secondo sbarco di Enea a Drepano non sarebbe avvenuto. 54· onorato ... amaro: giorno funesto, ma per questo da ricordare con riti e manifestazioni. 56. getule Sirti: i due golfi sirtici le cui sponde erano abitate dai Getuli, tribù della gente numida. 57· argolico: che bagna il Peloponneso.- Micene: una delle città capitali del regno di Agamennone; l'altra era Argo. 68. fatene parte ai Penati: era uso sacrale· che ai banchetti funebri partecipassero i simulacri dei Penati, quali componenti principali della famiglia, della gens e dello Stato. 71. quando la nona Au· rora: presso i Romani i riti funebri duravano nove giorni. AI termine avveniva il grande banchetto e si celebravano i giochi in onore del defunto. 78. cesti: fasciatura di cuoio (a mo' di guantone) guarnita di borchie di ferro o di piombo che usavano i pugili nelle gare. 79· adesso silenzio!: è l'invito sacerdotale « ore favete omnes » prima dell'inizio solenne del rito cui si partecipava con le tempie ornate di mirto (qui materno per Enea perché pianta sacra a Venere). 81. Elimo: forse un siciliano, amico di Aceste, lo stesso che sarà nominato al verso 327 come uno dei partecipanti alle corse a piedi. 85. due ... : due, come il sette e il nove, era un nu-
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mero rituale. Vino, latte o gettando fiori di porpora, e prega cosi: sangue sono i simboli della vita terrena. « Di nuovo salve o padre santo e voi ceneri invano 87·88. ceneri... Ombra ... scampate alla guerra e voi Ombra ed anima paterne! anima: sono le tre compoNon mi è stato permesso di cercare con te nenti dell'uomo: le ceneri 90 i confini d'Italia, i suoi campi fatali che rimarranno alla terra; l'Ombra che scenderà agli ed il Tevere ausonio, comunque esso scorra». Inferi e l'anima che salirà Aveva appena parlato, quando un grosso serpente e si dissolv.:rà nell'etere. strisciò da sotto alla tomba, abbracciò calmo il tumulo 91. ausonio: l'Ausonia dopo essersi attorto sette volte, posò era uno dei nomi dell'Italia. 95 sugli altari la schiena chiazzata di blu, 94· sette volte: come absquamosa d'oro lucente: sembrava l'arcobaleno biamo già notato, nei riti antichi i numeri hanno un siche contro sole rallegra le nubi di mille colori. gnificato sacro. Qui, forse, il Enea stupi a qudla vista: con lunghi contorcimenti sette sta ad indicare gli anil serpente strisciò tra tazze e lucenti bicchieri, ni di vicissitudini trascorsi assaggiò qualcosa e di nuovo, senza far male, da Enea dopo la fuga da 100 Troia. lasciò gli altari, si ritirò sotto la tomba. 104. il Genio del luogo: Enea con passione ancora maggiore continua quelli che i -greci chiamavale feste iniziate in onore di Anchise, no demoni, i romani appelincerto se qud prodigio fosse il Genio del luogo larono genii. Erano gli dèi della generazione: ogni uo- IOS o fosse al servizio del padre: sacrifica mo ed ogni luogo ne avedue pecore, due porci e altrettanti giovenchi vano uno proprio. Nelle ardal dorso nero, versando il vino dalle tazze ti figurative il genio del per invocare l'anima del grande Anchise e i Mani luogo era rappresentato in forma di serpente; quello riemersi dall'Acheronte. Tutti i compagni, umano come un giovane o ognuno per qud che può, offrono lieti i doni IlO un fanciullo alato. riempiendone gli altari e mattano i giovenchi, 107. dal dorso nero: nei altri mettono in fila le pentole o stesi sull'erba sacrifici funebri le vittime dovevano essere nere. Quelfan fuoco sotto gli spiedi rosolando le viscere. lo che sta celebrando Enea Il giorno atteso giunse, i cavalli di Fetonte a Roma veniva chiamato IIS portarono la nona Aurora nel cielo sereno; suovetaurilia da sus (maiadappertutto veniva gente, chiamata dal nome le), ovis (pecora), taurus (toro). e dalla fama di Aceste: riempivano il lido 108. i Mani: spiriti benetutti allegri per vedere gli Eneadi e per gareggiare. fici che assistono dopo morti Dapprima si mettono in mostra i doni in mezzo al circo, gli uomini. - Acheronte: 120 tripodi sacri, verdi corone e palme, premio uno dei fiumi infernali. ai vincitori, poi armi, vesti ornate di porpora, III. mattano: immolano. II4. i cavalli di Fetonte: Fetonte figlio di Apollo e sordinatamente nel cielo e Fetonte, le Eliadi, lo piandi Chimene, contrariamenminacciando la vita dell'Unisero tanto che gli dèi impiete al consenso del padre, verso. Giove, per evitare tositi le trasformarono in volle guidare il carro del un'immane sciagura, colpl pioppi. Sole, ma i cavalli gli presecon una folgore Fetonte, che 120. tripodi sacri: sedili ro la mano, galoppando dicadde nel Po. Le sorelle di a tre piedi.
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~"'-s·p1agg1a· partenza LA GARA DELLE NAVI
La nave Chimera era guidata da Gia; la Scilla era guidata da Cloanto; la Pristi da Menneo e la Centauro da Serszesto.
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COMBATTIMENTO DI GALLI, mosaico pompeiano. Museo Nazionale, Napoli
Mosaico (gr. museìon, lat. opus musivum, significa semplicemente «lavoro che si compie sotto la protezione delle Muse ». Lo stesso dicasi di « museo » e « musica »). Il mosaico è un genere di arte che deriva dall'Oriente, ma che già era noto ai Greci e più tardi ai Romani, prima che Alessandro Magno iniziasse le sue conquiste in Oriente. Il mosaico consiste di figurazioni sul pavimento, poi anche su pareti, ed è composto di pietruzze fluviali (non usate per mosaici preziosi), di dadi di marmo 5 x 5 mm o di vetro, variamente colorati. In mosaici di maggior pregio si usavano persino pietre semipreziose. Spesso si ricavavano figure mirabili per finezza di fattura.
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Canto quinto talenti d'oro e d'argento; dall'alta tribuna una squillante tromba canta l'inizio dei giochi.
I giuochi funebri: la regata 12S
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Quattro navi scelte da tutta la flotta cominciano la prima gara coi remi pesanti. Mnèsteo guida con rabbiose vogate la rapida Pristi -da lui avrà origine un giorno la gente dei Memmi - ; Gia l'enorme Chimera, grande come una città, spinta da ben tre file di giovani dardanii, spinosa di tre ordini di lunghissimi remi; Sergesto, da cui discende la casata dei Sergi, avanza sulla grossa Centauro; sulla cerula Scilla Ooanto, tuo primo antenato o Ouento romano! C'è lontano nel mare uno scoglio proprio di fronte allo schiumoso lido, che a volte se i venti invernali nascondono le stelle è battuto e sommerso dai cavalloni gonfi; ma col tempo tranquillo affiora in silenzio sull'immota distesa marina ed è come un'isola fitta di smerghi amanti del sole. Qui il padre Enea pianta una verde meta, segnale ai naviganti, un leccio frondoso intorno al quale virare a metà della corsa per poi tornare indietro. Sorteggiano le corsie. Scintillano da lontano in piedi sulla poppa i capitani ornati di porpora e d'oro, e i giovani rematori incoronati di pioppo luccicano coi toraci e le spalle unte d'olio. 122. talenti: monete comuni a molti popoli dell'antichità. Variavano però di peso e di valore ed erano la massima delle unità monetarie.
l GIOCHI FUNEBRI: LA RE· GATA (124-313). - Nel nono giorno s'iniziano i giochi, con una gara navale. Quattro navi vi partecipano: la Pistri, la Chimera, la Cen-
tauro e la Scilla. La regata consiste nel raggiungere uno scoglio, fissato come mèta, nel girarvi attorno e nel tornare al punto di partenza. Dapprima è in testa la Chimera, poi, approfittando di un errore del timoniere di questa, passa a condurre la Scilla. La Centauro in una incauta manovra s'incaglia; la Pistri approfitta degli errori altrui e giunge a mi-
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nacciare sul traguardo la stessa Scilla, che vince tra il plauso dei presenti. Tutti i partecipanti ricevono ricchi doni. 124. Quattro nalli: sono la « Pristi » guidata da Mnèsteo, capostipite della gens Memmia; la «Chimera» guidata da Gia, capostipite della gens Gegania; la « Centauro » guidata da Sergesto da cui discenderà la gens Sergi a; la « Scilla » pilotata da Cloanto, da cui discenderà la gens Cluenta. Le navi portano sulla prua scolpiti i mostri da eui traggono il nome: la « Pristi », un mostro marino in forma di pesce; la « Chimera », un mostro dalla testa di leone, corpo di capra e coda di drago; la « Centauro », una creatura per meà cavallo e per metà uomo; la «Scilla», il mostro latrante con sei teste di cane. 130. spinosa: i tre ordini di remi pronti a tuffarsi in mare, parevano tanti lunghi spini che spuntavano dalla carena. 134. uno scoglio: forse l'isolotto detto degli Asinelli, vicino a Trapani. 139. smerghi: uccelli marini. 140. mèta: il segno, visibile da lontano, intorno al quale le navi dovevano virare per iniziare il percorso di ritorno. 146. incoronati di pioppo: il pioppo era pianta sacra ad Ercole, atleta per eccellenza e protettore degli atleti. 147. unte d'olio: l'olio scioglieva i muscoli e li rendeva caldi ed elastici dopo il massaggio.
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150. estuanti: preziosismo per ribollenti, trepidanti. 152. le grida marinare: è il « clamor nauticus », cioè
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il grido cadenzato che scandisce il ritmo della vogata, perché sia simultanea ed uniforme. 155. rostri a tre punte:
speroni di bronzo di cui erano munite le navi antiche e che servivano non soltanto per fendere meglio le onde, ma anche per perforare le navi nemiche. Erano tanto indispensabili e caratteristici che venivano staccati dalle navi vinte per ornare le colonne commemorative delle vittorie navali (colonne rostrate). 156-160. II paragone tra la veloce partenza delle navi e quella delle bighe non pare molto calzante ed appropriato. 157. rimesse: sono i cancelli che costringevano i concorrenti ad allinearsi e che si aprivano contemporaneamente al via.
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160. sbattendo ... le briglie sciolte: percotendo con le
briglie allentate la groppa dei cavalli. 162. tifosi entusiasti: «viri faventes » li chiama il poeta ed il neologismo dei nostri tempi rende con molta efficacia il parteggiare degli spettatori per l'uno o per l'altro equipaggio.
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164. ne rimandano l'eco:
sembra di assistere ad una manifestazione sportiva moderna. 185. doppiata la mèta: è termine marinaresco per superata, aggirata l'isoletta ch'era stata scelta per la virata. 186-195. La regata, che è invenzione tutta virgiliana,
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Sono seduti ai banchi, le braccia tese sui remi, attenti aspettano il via, mentre l'ansia affannosa e l'avidità di lodi svuota i cuori estuanti. La sonante tromba squillò. Via! Tutti scattarono, le grida marinare salirono alle stelle, la corrente spumeggiò sotto i colpi scanditi. Tracciarono solchi paralleli e il mare s'apri sconvolto dai remi e dai rostri a tre punte. Non filano tanto vdoci nella corsa delle bighe i cocchi schizzando fuori dalle rimesse per prendere pista, non si· curvano cosi a frustare i cavalli durante la gara i fantini sbattendo frenetici le briglie sciolte. Il bo5co risuona "dell'applauso del pubblico e dei gridi frementi dei tifosi entusiasti, le voci si ripercuotono acute sulla spiaggia, i colli seduti in cerchio ne rimandano l'eco. Tra l'urlo della folla è primo davanti a tutti Gia; subito dietro gli viene Cloanto che ha remi migliori ma nave piu lenta. Seguono Pristi e C..entauro, a una certa distanza: tentano di sopravvanzarsi l'un l'altra, e un po' ci riesce la Pristi, un po' la grossa Centauro, un po' solcano i flutti perfettamente appaiate. Tendono già alla meta, s'avvicinano allo scoglio, quando Gia fino a qui sempre primo e vittorioso sgrida a gran voce il suo timoniere Menete: «Perché ti spingi tanto a destra? Tieniti in qua; accosta tutto a riva e i remi di sinistra sfiorino pure lo scoglio; al largo ci passino gli altri! » Ma Menete temendo l'insidia dei sassi sott'acqua tiene la prora diritta verso l'alto mare. «Dove diavolo vai? Tieniti sullo scoglio! » strilla di nuovo Gia, e girandosi vede Cloanto incalzarlo da presso e raggiungerlo. Cloanto passa all'interno, tra la nave di Gia e gli scogli sonanti, finché d'improvviso S'l;lpeta il primo, balzando in testa, e doppiata la meta spazia in acque sicure. Bruciando di folle dolore
non solo è descritta con incalzanti ed avvincenti sequenze, ma è avvivata da
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questo incidente che ne aumenta l'interesse. Il lettore partecipa alle vicende come
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sino in fondo alle ossa, il giovane Gia singhiozza di rabbia; senza vergogna di sé e senza curarsi del rischio cui pone gli amici precipita il tardo Menete giu dalla poppa, nel mare, corre egli stesso al timone ed esorta i compagni a remare piu in fretta, volgendo la barra alla riva. Già vecchio, Menete ci mise un po' a riaggallare dal [fondo, e dopo una breve nuotata sali sullo scoglio con le vesti grondanti e sedette all'asciutto. Risero i Teucri vedendolo piombare nel mare, risero nel vederlo nuotare penosamente, ridono nel vederlo sputare l'acqua salata. Adesso Sergesto e Mnèsteo sperano tutti e due di superare Gia che si trova in difficoltà. Sergesto balza avanti e s'avvicina allo scoglio ma s'avvantaggia solo di mezza lunghezza: tenace lo incalza la Pristi. Percorrendo su e giu la corsia della ·nave, tra i vogatori, Mnèsteo li esorta: «Forza coi remi, camerati di Ettore, che scelsi a compagni nell'ultima ora di Troia; dove sono la forza e il coraggio che avete mostrato sulle onde di Malea, nelle getuliche Sirti e nel mar Jonio? lo, Mnèsteo, non ambisco al primo premio, non m'aspetto di vincere, sebbene... Ma vincano quelli, o Nettuno, ai quali tu l'hai promesso: m'importa soltanto di non essere l'ultimo. Forza compagni, sta a voi risparmiarci una tale vergogna! » E loro ce la mettono tutta: la poppa di bronzo trema ai colpi potenti, il mare scivola sotto, un ansito sempre piu rapido scuote le membra e le gole ormai secche, il sudore scorre a torrenti. Gliela fecero per puro caso. Poiché mentr~ Sergesto spinge irruente la prora verso gli scogli per una virata strettissima, e voga troppo rischiosamente, va a dare in una secca. I remi battendo sulle rocce acute si schiantarono, la prora rimase sospesa sull'acqua. I vogatori balzarono in piedi di scatto attoniti, gridando forte, e misero mano ai pali ferrati e alle antenne per disincagliarsi, ripescando nel gorgo i remi frantumati.
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il pubblico sulla riva: capisce la folle ira di Gia che si vede superato dalla spericolata manovra di Cloanto e .ride quando vede il prudente e vecchio Menete precipitato dalla poppa, avanzare faticosamente e raggiungere con stanche bracciate l'isolotto e issarvici a fatica, vomitando acqua salata. Tutto è vivo anche nei particolari. 192. la barra: il timone. 193· riaggallare: tornare a galla. Era stato precipitato dall'alta poppa della «Chimera» e sia per l'altezza sia per la sorpresa era calato a fondo come un sasso. 205.
camerati di Ettore:
voi che avete combattuto valorosamente agli ordini del grande eroe e che per questo scelsi lasciando Troia. 208. Malea: promontorio del Peloponneso, le cui acque erano assai pericolose a causa di forti correnti. getuliche Sirti: le coste della Libia sulle quali erano stati sbattuti dalla tempesta. 209. nel mar ]onio: quando furono costretti ad approdare alle isole Strofadi. 2II. sebbene ... : una speranza in cuore di vittoria Mnesteo ce l'ha, come tutti coloro che partecipano ad una gara, e la lascia intendere con abile prudenza. 219. per puro caso: da poeta e da filosofo, Virgilio sa che le vicende umane sono spesso governate dal caso e che occorre per riuscire una buona dose di fortuna. 227. pali ferrati ... antenne: ogni nave antica aveva
una dotazione di lunghe pertiche sia per saggiare i fondali sia per disincagliarsi dalle secche, frequentissime, lungo le coste.
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232-237. Dice il Vitali: « Come sempre, Virgilio in
questa similitudine della colomba lavora con finissima cura il passo con ricchezza di particolari che, opportuni per la rappresentazione della cosa o del fatto in se stesso considerato, non tutti sono strettamente corrispondenti alla cosa o al fatto con cui la composizione è stabilita. Qui il confronto è posto, in sostanza, tra il volo della colomba, volo dolce, quasi molle scivolamento nell'aria tranquilla e la fuga agevole e rapida della ''Pristi" incalzante la "Chimera" ». 247. tutti parteggiano per l'inseguitore: ben colta e
sottolineata la psicologia della folla, disposta a schierarsi subito per colui che audacemente ha osato e che ora, per un complesso fortunato di circostanze, insidia il primo posto a chi lo ha mantenuto sin da principio.
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254. la grazia dagli Dei:
Mnèsteo aveva rivolto ai compagni un'orazione piccioletta per spronarli al successo; Cloanto invece si rivolge agli dèi del mare ed ha partita vinta. La tesi virgiliana dell'intervento divino, in tutte le vicende umane, è qui ribadita. 26r. Nereidi: divinità del mare, la più celebre delle quali fu Tetide, madre di Achille. - Porco: figlio della Terra e del Mare, fratello di Nereo. 262. Panopea: una delle Nereidi. - Portunno: dio romano che proteggeva i porti. È chiaro l'anacronismo della citazione perché i troiani non avevano alcun dio di questo nome.
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Mnèsteo intanto, felice, fatto ancora piu ardito dal successo, guadagna il largo a forza di remi, col favore del vento, e corre in mare aperto. Come, improvvisamente spaurita, una colomba dalla buca profonda scavata nel sasso dove ha il nido e i pulcini si getta per i campi a volo, e prima starnazza con grande fragore uscendo dal chiuso, dopo scorrendo nell'aria tranquilla scivola limpidamente senza un battito d'ali: cos{ Mnèsteo fugge per l'ultimo tratto di mare, e lo slancio fa correre la nave velocissima. Anzitutto si lascia dietro Sergesto che lotta tra lo scoglio e le secche, chiamando aiuto invano, sforzandosi invano di correre coi remi spezzati. Poi raggiunge la grande Chimera di Gia che, priva di timoniere, cede, si lascia passare. Rimane, già sotto all'arrivo, soltanto Ooanto; Mnèsteo wole agguantarlo, lo incalza con tutte le forze. Si leva un clamore grandissimo, tutti parteggiano per l'inseguitore e gli gridano: «Forza! Dai! ». Ne ri[suona l'aria. Gli inseguiti s'infuriano per paura di perdere, vorrebbero morire piuttosto che rinunciare al trionfo; agli altri dà ali il successo e tutto sembra possibile. Sarebbero forse arrivati alla pari se Ooanto stendendo le mani verso l'oceano non avesse impetrato la grazia dagli Dei: « O creature divine che 'avete il dominio del mare, vi immolerò volentieri un bianchissimo toro davanti all'altare, sul lido, lo giuro, e getterò le viscere nel flutto salato libandovi vini preziosi». Parlò e dalle profondità marine l'udi l'intero coro delle Nereidi con quello di Porco, e Panopea, la vergine; e lo stesso Portunno lo spinse con la mano grande. La nave piu veloce del vento e d'una rapida freccia filò a terra, si fermò dentro il porto profondo. Allora il figlio di Anchise, chiamati tutti a sé secondo l'usanza, per tramite della gran voce d'un araldo proclama Ooanto vincitore e gli vela le tempie d'alloro sempreverde
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dichiarando che spettano tre giovenchi a ogni nave, un talento d'argento e del vino purissimo. In piu aggiunge premi speciali per i capitani: al vincitore una clamide bordata di porpora a doppia striscia, bella per un ricamo d'oro che aveva per soggetto il regale fanciullo Ganimede, affannato e veloce, mentre di corsa insegue col giavellotto i cervi veloci sull'Ida frondoso, e dall'Ida, precipite viene a artigliarlo e a rapirlo nell'alto del cielo l'aquila, alata ministra di Giove: i vecchi custodi tendono invano le mani disperate alle stelle, s'accanisce nell'aria il latrato dei cani. Al secondo dà in dono una lorica intrecciata di catenelle d'oro a tre fili, sottili, magnifico ornamento e difesa in battaglia: armatura che dopo un vittorioso duello aveva tolto egli stesso all'immenso Demòleo sotto l'alta rocca di Troia, vicino al veloce Simoenta. Era taD.to pesante che appena riuscivano a portarla sulle spalle due servi, Sàgari e Fègeo; e pensare che un tempo con quell'armaDemòleo inseguiva di corsa i Troiani dispersi! [tura Il terzo premio è un paio di lebeti di bronzo e due coppe d'argento lavorate a rilievo. Già se ne andavano tutti, superbi dei doni, cinte le tempie di bende purpuree, quando Sergesto, sfuggito con molta fatica al terribile scoglio, dopo aver perso tutta una fila di remi riportava la nave ferita e senza onore. Come un serpente sorpreso in mezzo alla strada, travolto dalla ruota di bronzo d'un carro o lasciato per morto dalla violenta sassata d'uno che passa, invano vuole fuggire, con una parte del corpo s'avvolge ampiamente, feroce e ardente negli occhi, il capo sibilante ben alto, ma l'altra parte sfracellata dal colpo lo attarda, lo costringe a allentare le spire, cos{ coi remi schiantati lenta avanzava la nave: ma alza le vele ed entra in porto ad ali spiegate. Dà a Sergesto i giovenchi il figlio d'Anchise1 contento perché è stata salvata la nave e son salvi i compagni; e gli dà anche Fòloe, una schiava Cretese
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271. talento {vedi nota v. 122). 273. clamide: mantcllo di foggia greca. 276. Ganimede: figlio di Troe, re di Troia. Fu mandato dal padre in Libia, pereh{ offrisse un sacrificio a Giove. Tantalo, re di quella regione, lo costrinse a rimanere con l'incarico di coppiere alle sue mense. Nacque cosi la leggenda del ratto del giovinetto. Infatti si narrò che Giove, invaghitosi di lui, lo fece rapire da un'aquila e lo designò coppiere degli dèi. Nello zodiaco forma la costellazione dell'Acquario. 283. lorica: corazza. 287. Demoleo: non c'è nell'Iliade un eroe greco di tal nome. :È ricordato invece un Demoleonte, ucciso da Achille {XX). 289. Simoenta: con 1o Scamandro uno dei due fiumi, spesso ricordati, che scorrevano nelle vicinanze di Troia. 293. !ebeti: grossi vasi per l'acqua. 296. bende purpuree: servivano a fermare le corone ed il loro colore ·significava gioia e vittoria. 300-308. La similitudine, come d'altra parte tutte indistintamente quelle che abbiamo trovato e troveremo, è splendida nella sua vivezza e nella sua analitica evidenza. Dobbiamo tuttavia osservare come non si attagli perfettamente al ritorno della nave di Sergesto, mutilata dei remi e malconcia nella carena.
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LA CORSA A PIEDI (314384). - Vi partecipano sette atleti: Pànope, Etimo, Sàlio, Patrono, Dioro, Niso ed Eurialo. Al segnale di partenza Niso sopravvanza gli avversari, seguito da Salio. Però Niso cade e trascina con sé l'inseguitore volutamente perché così facendo, permette al suo grande amico Eurialo di vincere. C'è una piccola contestazione da parte di Salio, ma Enea placa gli animi, offrendo anche ai vinti dei ricchi premi. 321. Eurialo ... Niso: sono due giovani troiani, amici fraterni che saranno i protagonisti dell'episodio indimenticabile narrato nel IX. 325. acarnese: originario dell'Acarnania, regione dell'Epiro. 326. Arcadia: regione centrale del Peloponneso, la cui principale città era Tegea. 332. Cnosso: antichissima e gloriosa città, capitale del regno di Creta, ove si fabbricavano giavellotti di gran pregio. 333· una bipenne: scure a due tagli. 336. falere: borchie metalliche, di bronzo e d'argento che ornavano i finimenti della fronte e del petto dei cavalli. 337· un turcasso delle Amazzoni: una faretra, piena
di frecce tracie, simile a quelle che portavano le Amazzoni, famose donne guerriere che abitavano nelle regioni del Caucaso. 340. argolico: elmo di foggia greca che, a differenza degli altri, aveva una visiera che proteggeva il volto dai colpi degli avversari. 349· ci fosse più pista:
intendi: se ci fosse stata una pista più larga forse l'avreb-
brava in tutti i lavori, con due figli lattanti. Finita questa gara il pio Enea s'incammina
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verso un'erbosa pianura che i boschi cingevano da ogni parte con colli ondulati, una. specie di circo in mezzo alla valle. Qui giunto l'eroe con molte migliaia di spettatori si siede su una tribuna ed invita chi ha voglia di correre. Da ogni parte s'adunano Troiani e Siciliani, Eurialo e Niso per primi ... Eurialo splendente di bellezza e di verde giovenru, Niso amico fedde d'Eurialo; dopo di loro veniva il regio Diore della nobile stirpe di Priamo, e con lui Salio e Patrone, l'uno acarnese, l'altro di stirpe d'Arcadia e di famiglia tegea; poi Elimo e Panope, giovani siciliani, uomini avvezzi alle sdve. compagni del vecchio Aceste, ed altri ancora che oscura la fama nasconde. In mezzo a loro Enea parlò: « State a sentire lietamente, nessuno se ne andrà via di qui senza regali. Darò due giavellotti di Cnosso di ferro lucido a tutti e una bipenne argentata. Ma i primi tre vinceranno anche altri premi e incoroneranno le tempie di scintillante olivo. Il primo avrà un cavallo ornato di falere; il secondo un turcasso delle Amazzoni, pieno di Tracie saette, avvolto da una fascia tutta d'oro con una splendida fibbia gemmata; il terzo andrà contento di quest'elmo argolico». Subito prendono posto e, dato il segnale, scattano veloci dal punto di partenza come un rapido nembo, gli occhi fissi alla meta. Niso è subito in testa e saetta di molto davanti a tutti, piu veloce dei venti e delle ali del fulmine; lo segue a distanza Salio; un poco piu in là viene Eurialo ... Elimo segue Eurialo; a ridosso ecco che vola Diore e lo tallona alle spalle, ci fosse piu pista Elimo sarebbe avanti d'un nulla o non lo sarebbe. Già arrivavano stanchi sul rettifilo d'arrivo
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quasi sotto il traguardo, quando il povero Niso sdrucciolò sul bagnato, poiché per caso il sangue delle vittime uccise aveva intriso la terra e l'erba verde. Il giovane, che già per vittorioso era applaudito, non riusd a mantenersi diritto ma cadde a faccia in avanti nel sangue sacro e nel fango. Cadendo pensò soltanto al suo amico Eurialo e alzandosi sul viscidume si oppose a Salio, lo fece ruzzolare sull'arena spessa. Cosi Eurialo saetta e vince con l'aiuto di Niso, ottenendo un applauso fragoroso, fremente. Lo segue Etimo, Diore conquista il terzo posto. Allora Salio fa risuonare di grida l'anfiteatro; rivolto agli anziani reclama l'onore toltogli con l'inganno. La simpatia generale va ad Eurialo che piange troppo bene: il valore in un bel corpo è piu gradito. E ci si mette anche Diore, che è per Eurialo e strilla a gran voce: non avrebbe alcun premio, con Salio vincitore. Allora interviene Enea: « I premi son vostri, ragazzi, nessuno wol cambiare l'ordine d'arrivo; ma voglio consolare un amico innocente ». Cosi detto dà a Salio la pelle d'un leone di Getulia, dal vello spesso e dall'unghie dorate. E Niso allora: « Se tali premi concedi ai vinti, se hai tanta pietà di chi è caduto, a me che darai? Avrei pure awto la prima corona senza la stessa sfortuna che è toccata a Salio! » Cosi dicendo mostrava il volto e le membra bruttamente infangate. L'ottimo padre sorrise e comandò che gli si portasse uno scudo, opera di Didimaone, strappato dai Greci al tempio di Nettuno, e gliene fece un bel dono.
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Terminate le corse e la distribuzione dei premi: « Ora chi se ne sente la forza e il coraggio be superato o almeno sarebbe giunto alla pari. 361. saetta: passa accanto
ai dut: r.1d1~ti come una saetta. 367. il valore in un bel
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corpo ... : ancora un'annotazione psicologica di estrema finezza. Noi ammiriamo l'atleta vincitore, chiunque egli sia, ma se è giovane, virtuoso, simpatico e soprattutto se « piange troppo bene » allora siamo portati a parteggiare per lui con tutto il nostro fervore, conquistati da queste sue doti naturali. Cosi è per Eurialo: inutilmente Salio reclama giustizia dagli anziani che formano la giuria perché le simpatie della folla sono tutte per il vincitore. Enea, con la sua saggezza, appianerà la controversia, concedendo a Salio un bellissimo premio supplementare. 369. anche Diore: il terzo arrivato difende Eurialo, non tanto perché gli sia amico, quanto perché se la giuria riconoscesse fondate le proteste di Salio, egli verrebbe retrocesso e perderebbe il premio. 375· Getulia: regione dell'Africa mediterranea. 383. Didimaone: artefice a noi sconosciuto. L'INCONTRO
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(385-508. -Alla gara si presenta il solo Darete che nessuno osa affrontare e che chiede ad Enea, in mancanza di avversari, di avere il premio stabilito. Sollecitato dal re Aceste, si fa allora innanzi un vecchio atleta, Entello, che accetta di combattere, anche se l'età e le condizioni fisiche lo vorrebbero soccombente. La lotta è violentissima: prima pare avere la meglio Darete; poi Entello, dopo una caduta, si scatena ed Enea è costretto ad interrompere il combattimento per timore
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che Darete sia massacrato. Entello gioisce, uccide con un pugno il toro vinto e dichiara di non voler più combattere in futuro. 387. cesti: una rozza anticipazione dei nostri guantoni. Il cesto era costituito da molte strisce di cuoio che si avvolgevano intorno al braccio ed alla mano; molte volte le strisce erano costellate di borchie di metallo per rendere il colpo più pericoloso e pesante. 391. Darete: l'apparizione sulla scena dei giochi di questo aùeta è ad arte plateale e barocca. Enea non ha ancor finito di parlare ch'egli balza in mezzo all'arena, possente e minaccioso, sicuro di sé e già certo della vittoria, sempreché ci sia un avversario disposto ad affrontarlo. Le sue imprese passate sono note a tutti: ha vinto Paride, ch'era un buon aùeta, ma soprattutto ha ucciso in un incontro drammatico il gigantesco Bute, che discendeva dal mitico re Amico, anche lui famoso pugilatore. Giovinezza, forza, esperienza sono tutte dalla sua parte: chi oserà affrontarlo? 396. Bebrici: popolo che abitava la Bebrizia, regione dell'Asia Minore sul Mar Nero. 400 .. avventando ... : l'uso non è mutato: anche oggi prima di un incontro i pugili saltellano avventando pugni a destra e a manca contro l'ombra, come si dice in linguaggio tecnico. 406. O nato di dea ... : anche: le parole, come· l'atteggiamento, esprimono sicurezza e tracotanza. 410. Entello: avevamo no-
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venga a porsi in guardia coi cesti sul pugno». Cosi dice Enea e mette in palio due doni, al vincitore un torello adorno di bende dorate, al perdente una spada e un magnifico elmo. Subito viene avanti Darete ostentando gran forza, altissimo se ne leva un murmure di meraviglia; fu lui il solo che osasse lottare con Paride, fu lui che presso al sepolcro di Ettore vinse Bute dal corpo immane che si vantava disceso dalla stirpe dei Bebrici di re Amico, fu lui che sulla fulva arena lo stese moribondo. Cosi Darete, pronto alla lotta, alza il capo e mostra le spalle larghe e schermisce con l'ombra avventando gran destri e sinistri nell'aria. Né trova avversari, nessuno fra tanti osa affrontarlo" infilando le mani nei cesti. Perciò certo che tutti lasciassero a lui la vittoria allegro stette davanti ad Enea e senza indugiare con la sinistra afferrò per le corna il torello e disse: «O nato di Dea, se nessuno osa battersi, è inutile perdere tempo e fermarci a aspettare. Lasciami prendere il premio ». E tutti i Troiani dicevano di si: gli si desse il toro promesso. Allora Aceste con gravi parole rimprovera Entello che gli sedeva vicino sull'erba verde del prato: « O Entello, invano una volta fortissimo tra gli eroi, senza nessuna lotta lascerai portar via dei doni cosi belli, indifferente? Dov'è quell'Erice che invano chiamavi tuo maestro? Dov'è la fama sparsa per tutta la Sicilia? Dove sono i trofei che ornano la tua casa?»
tato nella nota riguardante Darete come Virgilio avesse a bella posta calcato la mano, dipingendoci il troiano come atleta troppo sicuro e superbo. L'antagonista deve perciò essere esattamente il contrario: maturo d'anni, saggio, umile, cosciente delle proprie forze e proprio per questo cauto; non vile però da evitare la lotta non tan to per il premio, ma soltanto
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per orgoglio e per desiderio di gloria. Il poeta pare dall'episodio trarre un profondo insegnamento sia per i giovani sia per gli anziani per quanto riguarda gli esercizi sportivi e la loro etica fondamentale. 415. Erice: figlio di Venere e di Bute, antico re di una parte della Sicilia e famoso pugile. Fu ucciso in singolar tenzone da Ercole.
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E lui: «Certo non è la paura a privarmi di desiderio di gloria e d'amor della lode; ma l'età tarda mi fa gelido e debole il sangue, raffredda le forze nd corpo. Se avessi la giovenru d'una volta, la gioventu di cui si vanta il troppo fiducioso Darete, già sarei nell'arena, senza pensare a premi: non m'importa dei premi». Cosi detto gettò in mezzo al campo due cesti d'incredibile peso, quelli con cui l'aspro Erice soleva ferrare le mani quando faceva a pugni. Ne stupirono tutti tanto eran rigidi e duri: sette strisce di cuoio grosse e pesanti di piombo e di ferro intrecciato. Per primo se ne meraviglia lo stesso Darete e rifiuta simili armi di lotta; il magnanimo Enea soppesandoli in mano ne ammira la grandezza. E il vecchio adeta allora: «Che avrebbe detto Darete, o Enea, se avesse visto i cesti d'Ercole stesso e la lotta fatale su questo lido? Una volta le armi che tieni in mano, ancora nere di sangue, Erice le portava, tuo parente, e con esse affrontò il grande Alcide. Con quelle solevo io medesimo battermi quando un sangue migliore mi dava forza, quando l'invidiosa vecchiaia ané:ora non m'aveva imbiancato le tempie. Ma se il troiano Darete ricusa queste armi, ed il pio Enea approva e il padre Aceste è d'accordo, combattiamo alla pari. Non temere, ti faccio grazia dei cesti d'Erice, e tu rinunzia ai tuoi ». Cosi detto si tolse il mantdlo di dosso e rivdò le membra grandi, le grandi spalle, e grande si piantò nd mezzo dell'arena. Allora il figlio d'Anchise fece portare due paia di cesti d'egual peso, ne armò le loro mani. Si mettono subito in guardia, le braccia levate, e saltellano intrepidi sulle punte dei piedi. Tengono indietro le teste per sottrarle ai colpi, fintano e schivano, menano pugni d'assaggio. Darete è giovane ed ha un miglior gioco di gambe, l'altro è piu grosso e piu grande, ma le ginocchia- gli tre[mano, gli manca il fiato, l'affanno gli fa palpitare le membra.
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418-425. Osserva il Raniolo: « Entello spiritualmente è quello di prima, ma teme che la vigoria di un tempo non l'assista più. Egli dunque non ha osato accettar la sfida per pudore e per rispetto alla sua vecchiezza, che non vuoi macchiare all'ultimo, con l'onta della sconfitta». 428. ne stupirono tutti: nessuno aveva mai visto dei cesti cosl pesanti e tanto minacciosi. Lo stesso Darete, pensando di poter ricevere dei colpi dai pugni di Entello, fasciati di simili arnesi, si ritrae dalla lotta e passa cosl dalla tracotanza alla paura. 438. tuo parente: Erice ed Enea sono figli di Venere. 439· Alcide: primo nome di Ercole dal greco alkè forza. 440. un sangue migliore: più ardente e perciò più vigoroso. 441. invidiosa: della giovinezza. 448.grandi... grandi... grande: l'aggettivo ripetuto ed insistito ci presenta Entello in una possanza fisica, che nulla ha da invidiare a quella di Darete. Rimane soltanto la differenza dell'età. 452-455. I due atleti si affrontano come in un combattimento dei nostri giorni. Il rituale non è mutato con il passare dei secoli: gli avversari si studiano, saltellando sulle punte dei piedi e saggiano con finte e schivate la guardia reciproca per trovarvi il punto debole. Non è vero, dunque, che gli Inglesi siano gli inventori in senso assoluto del pugilato.
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462. sventole: il neologismo in questo caso è effi. cacissimo e rende alla perfezione la violenza di questi particolari colpi, che in linguaggio tecnico sono chiamati ganci. 468. senza successo: l'esperienza ha insegnato ad Entello a schivare i colpi con un semplice movimento del busto. 473· Erimanto ... Ida: Erimanto è un monte dell'Arcadia. Ida è il monte più volte ricordato che sorgeva alle spalle di Troia.
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476. con sentimenti opposti: i primi esultando per la
prodezza del loro campione, i secondi temendo e rattristandosi per il colpo andato a vuoto.
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478. Ma la grave caduta:
anche qui Virgilio dimostra una profonda conoscenza del• l'umana psiche. La caduta, invece di scoraggiare Entello, gli moltiplica le forze e gli attizza dentro una rabbia fredda e determinata. Il grande atleta è ora scatenato e soltanto la saggezza di Enea salverà Darete da una durissima punizione, che sarebbe stata ed è una giusta punizione della vanagloria del troiano.
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be: «suonato» in gergo pugilistico.
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Invano si scambiano colpi, ne suonano invano i toraci robusti, i pugni fischiando ruotano a vuoto nell'aria intorno alle tempie e le mascelle crepitano sotto terribili sventole. Il piu pesante Entello sta immobile, in tensione, tutto attento, schivando i colpi col minimo sforzo. Darete come chi attacca con macchine d'assedio una città od un castello montano, con molta malizia cerca una via per colpirlo, e lo assale qui e là con ogni sorta di finte, ma sempre senza successo. Entello alzò la destra: Darete capi che razza di colpo piombasse e lo schivò con un salto: Entello colpi solo l'aria e pesante com'era cadde a terra di schianto con tutta la mole del corpo, come cade talvolta sull'Erimanto o sull'Ida un pino sradicato e corroso di dentro. Balzano in piedi i Troiani e la gioventu siciliana con sentimenti opposti; un grido sale al cielo, Aceste accorre per primo e aiuta l'amico a rialzarsi. Ma la grave caduta non lo spaventa né attarda, l'eroe torna alla lotta piu impetuoso e accanito, e schiumando di rabbia - poiché la vergogna e la coscienza del proprio valore gli accende le forze ardente rincorre per la pianura Darete raddoppiando sinistri e destri. Senza respiro: come i nembi tempestano i tetti delle case con molta grandine, cosi l'atleta colpisce Darete con entrambe le mani e lo sbatte qua e là. Allora il padre Enea non volle che lo scontro continuasse furioso e che Entello superbo incrudelisse: interruppe la lotta, salvò Darete consolandolo con belle parole: «Infelice, sei pazzo? Non vedi che le forze sono cambiate e che i Numi ti sono avversi? Cedi al destino! ». Cosi pose fine al massacro. I compagni se lo trascinarono via malfermo sulle gambe, per portarlo alle navi, e ciondolava la testa, mentre sputava sangue con denti insanguinati. Poi ritirano il premio, la spada e l'elmo magnifico, lasciando il toro ad Entello. Il vincitore trionfa, felice della bestia. «O figlio di Dea - dice forte - e voi Troiani, guarfdate
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Canto quinto
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quali fossero un tempo da giovane le mie forze e da che morte avete liberato Darete •· Cosi detto si pose davanti al torello ed alzò la destra armata del cesto e la vibrò tra le corna violentemente, infranse l'osso e schiacciò il cervello: la bestia cadde a terra tremando, morta sul colpo. E disse: «In cambio della vita di Darete io ti dedico, o Erice, quest'anima migliore, e qui vittorioso depongo i cesti e l'arte •·
Il tiro a segno con l'arco StO
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Subito dopo Enea invita chi vuoi gareggiare con 111- freccia veloce e mette premi in palio; con mano poderosa drizza un albero tolto alla rapida nave di Seresto ed in cima vi lega con uno spago una colomba a bersaglio. Accorrono gli arcieri: in un elmo di bronzo si gettano le sorti. Chi tirerà per primo? Esce tra grandi applausi il nome di lppoconte figlio d'Irtaco, secondo è quello di Mnèsteo, già lieto del suo premio nella gara navale, incoronato di splendido olivo. Ed è terzo Eurizione, fratello di quel famoso Pandaro che un giorno, dovendo turbare la tregua per impulso divino, fu il primo a scagliare un dardo contro gli Achei. Rimane per ultimo in fondo all'elmo di bronzo il nome di Aceste, che ancora osava affrontare una fatica da giovani. Con mani poderose incurvano gli archi; ognuno nel suo sforzo è solo, dalla faretra ognuno sceglie un dardo. Per prima flagella 509. qui vittorioso: rapida, bella, incalzante è la chiusa della gara che fra tu t te è quella che il poeta ha condotto con arte più sicura e fervida. La caduta di Entello, la rabbiosa reazione, la tempesta di colpi che s'abbatte su Darete, l'intervento di Enea, il gran pu-
gno che abbatte il torello sacrificato ad Erice, maestro di Entello, le ultime parole del pugile son poste in un susseguirsi di sequenze magistrali che avvincono ed appassionano lo spettatore. L'ultima vittoria, forse la più significativa, che precede l'abbandono definitivo
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dell'arte acquista cosl un significato umano che commuove profondamente. IL TIRO A SEGNO CON L'ARCO (509-575). - Una bianca
colomba, legata in cima ad un'antenna, costituisce il bersaglio per i quattro (Jrcieri in gara: Ippocoonte, Mnèsteo, Eurizione ed Aceste. Vince Eurizione, prima che Aceste possa gareggiare. Allora il te sc(Jg/ia la sua saetta verso il cielo: questa s'infiamma e scompare in una scia di fuoco. Enea interpreta tl prodigio come un buon augurio .? premia Aceste. 513. nave di Sergesto: la « Centauro » che s'era inca-
gliata sugli scogli ed era stata ricondotta malconcia nel porto. 516. le sorti: i nomi degli arcieri, scritti da un coccio, che partecipavano alla gara e che dovevano essere sorteggiati. 517. Ippoconte: fratello di Niso, che abbiamo già conosciuto nella gara della corsa. 518. Mnèsteo: comandante della « Pristi » giuntq secondo nella regata. 521. Eurizione: fratello di quel Pandaro, ch'era stato il migliore arciere troiano. Infatti durante la guerra, Greci e Troiani s'erano accordati, per evitare ulteri.:ue spargimento di sangue, di l'isolvere la contesa con un duello tra Menelao e Paride. Ma Minerva spinse Pandaro a ferire con un colpo magistrale Menelao, in modo che la guerra riprese. Pandare venne poi ucciso da Diomede.
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530. nervo stridente: è la corda dell'arco, ottenuta in· trecciando nervi di bue o striscioline di cuoio oppure crini di cavalli. Fortemente tesa dall'arciere, quando, liberata la freccia, tornava nella posizione di partenza, vibrava a lungo mandando uno stridente ronzio. 533· starnazzò: batté le ali spaventata senza potersi allontanare dal palo cui era legata. 542. del morto fratello:
dell'infaticabile Pandaro, affinché lo assistesse. 545· la colpì ... : par di vedere, tanto è nitida la de· scrizione, la bianca colomba sullo sfondo nero delle nubi, prima innalzarsi libera e plaudente, poi abbattersi fulminata dalla saetta mortale di Eurizione. 551. col suono dell'arco:
la corda dell'arco vibrava più intensamente quanto più veniva tesa dalla forza dell'arciere.
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552. Un grande prodigio:
i critici sono discordi nell'interpretazione del significato della freccia ardente. (}li uni vogliono vedervi la predizione della prima guerra punica che si svolse appunto in Sicilia e fu sanguinosa; gli altri, con a capo il Pascoli, il preannnucio della sorte luminosa di Enea e di Ascanio, sitnile a quella di Cesare e di Augusto. Infatti durante i ludi che Ottaviano fece celebrare in onore di Venere, per sette sere consecutive apparve in cielo una stella cometa, che tutti ritennero l'anima di Cesare, assunta in cielo. 565. anche contro la sorte: anche quando non c'era
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l'aria nel cielo, scoccata dal nervo stridente, la saetta del giovane lppoconte e colpisce quasi nel segno, si ficca nel tronco. Vibrò il palo e la colomba tremante starnazzò intorno allo spago mentre dovunque scoppiavano ap[plausi. Il valoroso Mnèsteo si preparò, l'arco teso, e sperava di vincere: prese la mira con intenta attenzione. Ma non seppe colpire la colomba, ruppe soltanto lo spago che la legava per una zampa, cosi l'uccello volò via nell'aria tra le nuvole nere. Rapido allora, già pronto con l'arco e la freccia, Eurizione invocò l'Ombra del morto fratello e, attentamente mirando alla colomba già lieta nel libero cielo, che sembrava applaudire con un palpito d'ali la libertà, la colpi sotto una nuvola nera. Esanime cadde lasciando la vita tra gli altissimi astri, precipitò portando la freccia piantata nel petto. Restava il solo Aceste senza speranza di premio; ma il vecchio egualmente vibrò la freccia nell'aria mostrando col suono dell'arco la sua abilità. Un grande prodigio, d'augurio per il futuro, si rivelò all'improvviso: lo confermarono i fatti e i terrifici vati ne dissero tardi presagi. La freccia s'accese volando tra liquide nubi, arse e tracciò una scia di fiamma, si consumò e spari tra i volubili venti. Cosi le stelle cadenti spesso si staccano dal cielo e trascinano correndo nel cielo una chioma lucente. Siciliani e Troiani ne restarono attoniti e pregarono i Numi: il grandissimo Enea non rifiutò l'augurio, abbracciò Aceste, lieto del colpo, colmandolo di doni e gli disse: « O padre, prendi, poiché il grande re dell'Olimpo ti vuole vincitore anche contro la sorte. Ricevi questo dono che fu del padre Anchise, una coppa istoriata di fregi, che una volta
più bersaglio tu hai dimostrato ancora, malgrado l'età,
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di essere il più valente, o meglio, il prediletto degli dèi.
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il tracio Cisseo aveva dato in regalo ad Anchise, uno stupendo regalo in pegno del suo affetto ». Ciò detto gli cinge le tempie di alloro sempre verde, dichiara il vecchio Aceste vincitore su tutti. Né il buon Eurizione gli invidia tale onore benché lui solo avesse abbattuto l'uccello. Un altro premio va a chi ha spezzato Io spago, l'ultimo a chi ha piantato nel palo la freccia.
La parata dei giovani cavalieri
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Ma il padre Enea, mentre ancora non era finita la [gara chiama a sé Epitide, balio e amico del piccolo Julo, e gli parla all'orecchio: «Su, corri da Ascanio, digli che se ha già pronta la schiera puerile e in ordine i cavalli, conduca le squadre in onore del nonno: e venga fuori armato». Poi comanda che il popolo che aveva invaso il circo lasci libero il campo. Avanzano i fanciulli splendendo tutti insieme allo sguardo dei padri sui frenati cavalli, e freme nel guardarli mentre vanno la gioventu troiana e siciliana. Tutti hanno i capelli cinti da una corona, portano due giavellotti dalla punta di ferro e, alcuni, lucenti turcassi: una catena flessibile d'oro intrecciata discende dal collo sui petti. Tre squadre di cavalieri vengono al trotto, e davanti a tutti caracollano tre piccoli capi: ognuno di loro è seguito da dodici fanciulli. La prima lieta schiera la guida il piccolo Priamo (tuo chiaro figlio, o Polite, che ripete il nome del nonno e che avrà una stirpe in Italia) montato su un cavallo di Tracia, balzano d'un piede e stellato di bianco. Secondo è Ati, da cui discende la gente latina degli Azi, fanciullo carissimo al giovane Julo. Ultimo è Julo, il piu bello di tutti, e cavalca un de[striero sidonio, pegno d'affetto della bella Didone. 568. Cisseo: padre di Ecuba, che fu moglie di Priamo e ultima regina di Troia.
LA PARATA DEI GIOVANI CAVALIERI (576-633). - A
chiusura delle gare ecco il
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carosello dei cavalieri, chiamato anche ludo troiano. Divisi in tre schiere, i giovinetti compiono eleganti e precise evoluzioni; poi fingono una battaglia. Gli spettatori si compiacciono per la perizia dei cavalieri ed applaudono. 577· Epitide: Perifante, figlio di Epito, maestro d'armi e pedagogo di Julo. 579· la schiera puerile: la schiera a cavallo dei giovinetti che stanno per dar luogo a quello che si chiamava « ludus troianus », una specie di carosello in cui i cavalieri dovevano dar prova del loro perfetto addestramento nelle evoluzioni combinate, nel maneggio delle armi e nei vari esercizi individuali e collettivi. 584. splendendo: agli occhi dei genitori i figli appaiono nello splendore della giovinezza e della bellezza virile e guerriera. 589. turcassi: astucci per contenere le frecce. 592. caracollano: volteggiano saltellando a destra e a sinistra. 594· il piccolo Priamo: figlio di Polite che era stato ucciso da Pirro sotto gli occhi del padre Priamo. 597. balzano: si dice di cavallo che ha una macchia bianca sopra lo zoccolo. Stella/o di bianco: macchiato sulla fronte a mo' di stella. 599· degli Azi: fondatori ed abitanti di Ariccia. Dagli Azi discendeva la madre dell'imperatore Augusto. 6or. sidonio: originario di Sidone in Siria.
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Canto quinto
6o 5. dei padri: dei padri presenti, ma anche di tutti gli eroi caduti in difesa di Troia. 6r7. il Labirinto: propriamente è una costruzione con ambienti e corridoi cosi intricati da non poter trovare la via d'uscita. Quello cretese, in vicinanza di Cnosso, costruito da Dedalo per ordine del re Minosse, era tra i più famosi. 6r8. diverticoli: corridoi e vie laterali che confondevano il malcapitato che cercava l'uscita. 623. Scarpanto: isoletta a sud ovest di Rodi. 626. Prischi Latini: i Latini dei suoi tempi. l-INCENDIO
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(634-739). - Mentre si svolgono le gare, le donne troiane se ne stanno in disparte, sulla riva del mare, e Giunone, che di continuo inventa guai per Enea, manda la sua messaggero Iride che assunte le sembianze di una di essa, Beroe, invita le compagne ad incendiare le navi, in modo da interrompere il viaggio e stabilirsi in Sicilia tra gente amica. In breve dalle navi si levano alte fiamme. Ascanio ed Enea con gli altri guerrieri corrono per spegnere l'incendio: Enea prega Giove di aiutarlo ed il dio scatena un violento temporale che estingue le fiamme. Quattro navi però sono perdute.
637. Saturnia: figlia di Saturno. 638. Iride: figlia di Taumante e dell'oceanina Elettra, personificazione dell'arcobaleno, messaggera degli dèi ed in particolare di Giove e di Giunone.
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Tutti gli altri montano cavalli d'Aceste ... I Dardanidi accolgono con un applauso i fanciulli vedendoli timidi, e nel guardarli gioiscono riconoscendo in loro i lineamenti dei padri. Avevano fatto al trotto il giro della pista felici di esibirsi cosi davanti ai parenti quando Epitide con un grido e uno schiocco di frusta diede il segnale. Corsero in file parallele e subito si divisero a gruppi di tre, poi via, tornarono indietro a puntarsi per gioco le armi. È un carosello di scontri, di finte ritirate, di giri e di rigiri, di fughe e scaramucce, di difficili passi intrecciati: e un poco s'affrontano coi dardi, un poco fatta la pace marciano assieme. Si dice che un tempo nella nobile Creta il Labirinto tra oscure pareti chiudesse un cammino tortuoso e intricato con mille diverticoli sf che fosse impossibile andare dritti alla meta; con eguali volute i figli dei Troiani intrecciano i passi, tessono per gioco fughe e battaglie come delfini che scherzano per la distesa marina fendendo le acque di Scarpanto o di Libia. Ascanio, mentre cingeva di mura Alba Longa, rinnovò questo tipo di corsa e di gara e lo insegnò ai Prischi Latini nell'identico modo in cui lui giovinetto l'aveva praticato insieme ai giovani Teucri: gli Albani a loro volta lo insegnarono ai propri ragazzi: la grande Roma l'ebbe da loro e mantenne la tradizione; sicché ancora oggi quel gioco è detto Troia e la schiera dei fanciulli a cavallo è detta la schiera troiana. Fu questa l'ultima gara in onore di Anchise.
L'incendio delle navi
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Qui per la prima volta la Fortuna mutò, volle essere infedele. Mentre con tanti giochi rendono solennemente gli onori estremi alla tomba, Giunone Saturnia manda dal cielo alla flotta troiana la messaggera Iride, spirandole venti propizi:
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poiché non ha ancora sfogato l'antico dolore ha in mente pensieri di vendetta. Scendendo per l'arco dai mille colori la vergine corre; nota il raduno grandioso e scrutando le spiagge vede il porto deserto, la flotta abbandonata. In una spiaggia wota, lontane, solitarie, le Troiane piangevano la memoria d'Anchise e piangendo guardavano il mare profondo. Ed erano tutte d'accordo nel lamentare che a loro già stanche ancora toccasse percorrere tanto mare, vedere tanti lidi stranieri. Oh, non ne potevano piu! Domandano una città, una sede fissa, e subito. Pensando di nuocere Iride si insinuò tra di loro, ma senza la veste e il volto di Dea; assunse l'aspetto di Beroe, vecchia moglie di Doriclo nativo di Tmaro, un tempo famosa per stirpe, per nome, per figli, e cosi s'aggirò in mezzo alle madri dardanidi. « O misere - disse - che mano d'Acheo non travolse a morte durante la guerra, sotto le mura della patria! O gente infelice cui la Fortuna riserva l'estrema rovina! Volge la settima estalte dalla caduta di Troia, e ancora corriamo per tante terre, per lidi, per inospiti sassi, sotto stelle avverse, mentre per il mare sconfinato sbattute dall'onda inseguiamo l'Italia che sempre ci
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Questa è la terra fraterna d'Erice, qui c'è l'ospite Aceste. Chi ci proibisce di alzare le mura di una città? O patria, o Penati strappati invano al nemico, mai piu ci saranno mura col nome di Troia? Non vedremo mai piu i fiumi Ettorei, lo Xanto e il Simoenta? Orsu, bruciate con me le navi maledette! Ho veduto nel sonno la profetessa Cassandra che mi porgeva le fiaccole accese e diceva: - Cercate Troia qui, la vostra casa è qui! ~ tempo d'agire, non c'è da indugiare davanti a miracoli simili! Ecco quattro altari fumanti dedicati a Nettuno: il Dio ci dà fuoco e coraggio!» Cosi dicendo afferra per prima un tizzone e levando la destra lo scuote con forza e lo scaglia.
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639. dolore: per rancore. 641. per l'arco: dell'arco-
baleno. 644. lontane, solitarie:
contrasta singolarmente con l'atmosfera di festa e dr serenità che accompagna i giochi e che riunisce intorno all'anfiteatro la folla festante dei troiani e dei siciliani, questo gruppo di donne che piangono non tanto il padre Anchise, quanto la loro sorte di madri e di spose, senza casa, senza patria e con la prospettiva di dover ancora affrontare il « mare profondo •, cioè l'ignoto che le attende e le spaurisce. 653. Beroe: probabilmente questa vecchia troiana è personaggio inventato dal poeta, cosi come lo è il marito Doriclo, nativo di Tmaro, in Epiro. 66o. volge la settima estate (vedi nota v. 50). 664. che sempre ci sfugge: l'immagine è bella ed
assai calzante. Per un motivo o per l'altro pare che la terra promessa sfugga di continuo all'approdo delle navi troiane. 665. terra fraterna: Erice, come abbiamo già detto, era fratellastro di Enea, essendo nato da Venere. 669. Non vedremo mai più: intendi: non potremo
più battezzare due fiumi nostri con i nomi di quelli che scorrevano presso Troia? 672. Cassandra (vedi nota v. 307 del canto II).
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Canto q:sinto
68x. Pirgo: altro personaggio inventato da Virgilio. 682-689. Il fatto che Pirgo si sia accorti che una dea abbia assunto le sembiame di Beroe fa sl che l'incitamento a bruciare le navi divenga senz'altro un ordine divino e debba essere eseguito. 682-693. Drammatico è il conflitto interiore che ciascuna donna sente in sé tra l'« amore doloroso » per la solida terra siciliana, cioè per la realtà di oggi che non appaga del tutto, ma è pur sempre la fine di dolori e traversie settennali, e i « favolosi regni » che le attendono in Italia, ma che esigono un tributo ulteriore di sofferenze e di morte. 700. Eumelo: ennesimo personaggio sconosciuto. 710. il vostro Ascanio: non a caso il giovinetto giunge e parla per primo alle donne, perch'egli rappresenta appunto la speranza di quei favolosi regni, promessi dal fato, regni ch'egli avrebbe dovuto governare come capostipite. 711. l'elmo: il gesto che accompagna le parole tende a far ricoqoscere in lui il . figlio di Enea, in quanto l'elmo gli copriva il capo e parte del volto e lo rendeva difficilmente riconoscibile. 717. sbolle" dai loro cuori: cosl com'era sorta improvvisa e quasi sema ragione, perché suscitata ad arte da. Giunone, l'ira abbandona il cuore delle donne e la realtà le fa coscienti della loro vergognosa azione. 720. le stoppa: filaccia di lino o di canapa impregnata di pece con la quale si chiudevano le fessure tra le va-
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Le donne guardavano attonite. Ed una di loro, la piu vecchia, Pirgo, regale nutrice di tanti figli di Priamo, disse: «Ma questa non è Beroe, questa non è troiana, non è la moglie di Doriclo; riconoscete i segni della celeste maestà, guardate che occhi ardenti, che spirito, che volto, e il suono della voce, l'incedere divino! Del resto ho lasciato da poco Beroe, era triste perché ammalata, perché lei sola doveva astenersi dalla festa e dal rendere a Anchise gli onori dovuti ». Titubanti le madri dapprima gettarono torvi sguardi alle navi, incerte tra un doloroso amore per la solida terra su cui poggiano i piedi e i favolosi regni a cui le chiama il Fato; quando la Dea si levò ad ali spiegate nel cielo tracciando sotto le nubi la scia d'un arcobaleno. Stupite dal miracolo e spinte dal furore allora corrono al fuoco gridando, ed alcune spogliati gli altari gettano rami e tizzoni: il fuoco infuria sui banchi, sui remi e le poppe dipinte. Eumelo arriva di corsa alla tomba d' Anchise per portare alla gente che guarda tranquilla le gare notizia delle navi in fiamme: e tutti voltandosi vedono cupe faville laggiu vorticare tra il fumo. Ascanio, che lieto guidava il carosello, per primo corre in furia a cavallo all'accampamento sconvolto, né gli affannati maestri riescono a trattenerlo. « Che cos'è questa strana follia? Cosa fate? dice. - Non state bruciando gli accampamenti nemici, le navi degli Achei, ma le vostre speranze . Ecco qui il vostro Ascanio! ». E gettò ai loro piedi, vuoto, l'elmo con cui guidava la finta battaglia. Anche Enea corre, con lui la schiera dei Teucri. Ma quelle si disperdono per spiagge e per selve, impau[rite s'appiattano nelle caverne piu profonde, si pentono e vergognano di quello che hanno fatto, sentono troppo pesante persino la luce, e l'ira di Giunone sbolle dai loro cuori. Ma non per questo s'attenua la fiamma e la forza dell'incendio; ché sotto la quercia bagnata s'accende la stoppa ed esala un sudicio fumo
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Canto quinto
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e lento il fuoco consuma gli scafi; è la rovina per tutte le navi, né l'acqua versata a torrenti né gli sforzi dei Teucri riescono a fermarla. Allora il pio Enea si strappò le vesti di dosso e alzando le palme chiese aiuto agli Dei: «O Giove onnipotente, se tu ancora non odi i tutti i Troiani sino all'estremo, se guardi alle umane fatiche con l'antica pietà, fa che la flotta scampi al fuoco, salva le poche nostre sostanze, padre; oppure con un fulmine rovinoso dammi la morte, se me lo merito, annientami con la tua destra!». Aveva appena parlato qu~ndo una nera tempesta spargendo gran pioggia inffiriò, campi e montagne tremarono al rombo del [tuono: un torbido acquazzone rovinò a torrenti dal cielo carico di nerissirni nembi; e gli scafi si riempiono, il legno mezzo bruciato s'inumidisce d'acqua. l'intero incendio si spegne e tutte le navi, tranne quattro soltanto, si salvano dal fuoco.
Il consiglio di Naute e l'apparizione di Anchise 740
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Ma il padre Enea commosso da quella sciagura volgeva opposti pensieri: se dovesse restare nei campi siciliani, dimentico del suo destino, o partire deciso per le coste d'Italia. Allora il vecchio Naute, su tutti esperto nell'arte profetica di Minerva, illustre di molta sapienza (la Dea gli dettava i voleri dell'ira divina e ciò che richiedesse la successione dei Fati), consola Enea con buone parole e gli dice: «O figlio di Dea, seguiamo dovunque la Fortuna., qualsiasi cosa accada bisogna sopportarla. Pensa al dardanio Aceste di stirpe divina, prendilo a tuo consigliere ed associalo a te; poiché hai perduto le navi affidagli chi è di troppo, chi è stanco delle tue gesta e della grande impresa; rie parti della carena della
nave. Ti5. chiese aiuto· agli Dei: quando nulla possono fare
gli uomini, soltanto l'invoca· zione agli dèi è utile e giova: questo sa il pio eroe ed a Giove perciò si rivolge,
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com'era avvenuto in passato e come avverrà in seguito nei momenti di estremo pericolo. IL CONSIGLIO DI NAUTE E L'APPARIZIONE DI ANCHISE
(740-805). -Enea è dubbioso se continuare il viaggio. Allora il vecchio Naute lo esorta a consigliarsi con Aceste ed a lasciare in Sicilia i vecchi, le donne ed i bambini. Durante la notte appare in sogno ad Enea l'ombra del padre che approva il consiglio di Naute e lo invita a continuare la navigazione verso l'Italia. Prima però dovrà scendere agli Inferi per incontrarsi con lui. 741. volgeva opposti pensieri: è. il dubbio che spesso coglie Enea, che, anche se figlio di una dea, vive le ansie ed ha la debolezza dell'uomo comune. Forse anch'egli è stanco di lottare e gli pesa la responsabilità terribile di dover condurre ciò che rimane del suo popolo verso la nuova patria. 744· Naute: uno dei capi troiani. A lui, prediletto di Minerva, fu reso da Diomede il Palladio. Da allora in poi il prezioso simulacro della dea fu sempre custodito dai discendenti di Naute. Infatti a Roma la famiglia Nautia aveva in custodia il Palladio. 747· e ciò ... : e quale fosse la volontà del destino. 749· Fortuna: come abbiamo già detto, gli antichi avevano raffigurato la Fortuna come una dea capricciosa, cieca, con le ali ai piedi, di cui uno poggia su una ruota, che rotola senza sosta e senza mèta.
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Canto quinto
757· affranti: incapaci cioè di lottare più a lungo perché stanchi e privi di forze. Costoro, per la spedizione che sta per affrontare le ultime e più dure difficoltà, costituirebbero un inutile impaccio ed un motivo in più di preoccupazione. La proposta di Naute è crudele, ma necessaria e tende a rianimare Enea e a infondergli novella fiducia. Tuttavia l'eroe pare più che mai indeciso sul da farsi. 771. un popolo duro: abituato a guerreggiare ed a lavorare, che difficilmente si sottometterà senza prima combattere sino allo stremo. 773· case infernali di Dite: il regno di Dite o Plutone il cui accesso era costituito dal lago di Averno. 775· Tartaro: era la parte più profonda dell'Inferno pagano, ove erano puniti gli empi. 776. Campi Elisi: cosi si chiamavano i luoghi ove soggiornava,no i giusti, i virtuosi, i poeti ed i filosofi. Ll era eterna primavera, il sole splendeva perenne, i campi erano fioriti e un fiumicello, il Lete, scorreva placido. Chi beveva le sue acque dimenticava tutti i mali. 778. la casta Sibilla: la vergine sacerdotessa di Apollo (vedi nota v. 541 canto III). 778-779. Allora... tocca: accenna alla discesa di Enea agli Inferi, al loro incontro e alla rivelazione del destino grande che attende i loro discendenti, che saranno descritti sul finire del canto VI. 781. l'Oriente: intendi: il carro del sole guidato da
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scegli i vecchi, le- madri che non sopportano il mare, gli invalidi, quelli che hanno paura, permetti che qui affranti costruiscano mura: lascia che chiamino Acesta la loro città». Acceso dalle parole del vecchio amico, Enea ne è rianimato, e insieme piu preoccupato che mai. E già la notte nera saliva sul cocchio nell'aria, quando gli apparve l'ombra del padre Anchise, scesa dal cielo all'improvviso, che gli disse cosi: « O figlio, un tempo a me caro piu della stessa vita, quando ero in vita, o figlio cosi duramente provato dai destini di Troia, io vengo qui da te per comando di Giove, che ha salvato le navi dal fuoco e che finalmente dal cielo s'è impietosito di te. Segui i buoni consigli che ti dà il vecchio Naute, porta in Italia giovani scelti, fortissimi cuori, nel Lazio dovrai debellare un popolo duro, gente allevata nelle fatiche. Ed andrai prima, o figlio, alle case infernali di Dite, per il profondo Averno dovrai cercare di me. Ignoro l'ombra triste del Tartaro: dimoro nei Campi Elisi, coi giusti. E ti condurrà li, dopo aver sparso il sangue di molte pecore nere, la casta Sibilla. Allora tutto saprai della tua stirpe e della città che ti tocca. Ma adesso addio, l'umida notte ha già corso metà del suo itinerario celeste, e l'Oriente mi spinge via veloce coi suoi ansanti cavalli». Disse e fuggi leggero come un fumo nell'aria. «Dove vai, dove ti precipiti, o padre? dice Enea. -Da chi fuggi? Chi ti strappa al mio ab[braccio? » Assorto ancora nel sogno risuscita la fiamma dalla cenere e supplice venera i misteri della canuta Vesta ed i Lari di Pergamo e versa il pio farro e brucia l'incenso.
Apollo. I morti apparivano ai vivi soltanto nelle ore notturne. 786. la fiamma: che si teneva accesa innanzi agli altari dei Penati.
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788. Vesta: era la dea del focolare e degli affetti familiari. Era rappresentata canuta, cioè bianca di capelli perché simboleggiava la saggezza.
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Subito chiama i compagni, per primo il re Aceste, rivela loro il comando di Giove e i consigli dd carissimo padre, ed ascolta il loro pensiero: Aceste acconsente, la città si farà. Vi iscrivono d'autorità le madri, vi lasciano chi vuole, chi non ha desiderio di gloria. Si rifanno i pezzi bruciati delle navi, si riparano i remi e gli attrezzi: son pochi i naviganti, ma splendono di bellico valore. Intanto Enea con l'aratro disegna le mura c tira a sorte i quartieri: li chiama col nome di Ilio e fa rivivere Troia. Aceste gode del regno ed indice comizi, ai padri riuniti dà leggi. Poi si consacra un tempio a Venere I dalia in cima all'Erice, vicino alle stelle, e tm bosco con un sacerdote alla tomba d' Anchise.
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Tutti hanno già banchettato per nove giorni e onorato gli altari: placidi venti fanno del mare una tavola, l'Austro propizio soffia forte ed invita a salpare. Un grande pianto scoppia sulla spiaggia lunata; indugiano una notte e un giorno, non sanno staccarsi, le madri stesse e coloro ai quali un tempo era parso aspro l'aspetto, intollerabile il nome del mare, vogliono anch'essi partire, soffrire i disagi del viaggio. Il buon Enea li consola con parole amichevoli e li raccomanda alle cure di Aceste. Ordina quindi d'immolare un'agnella alle Tempeste e tre vitelli ad Erice, e di salpare !~ancora. Col capo ornato di tenere foglie d'olivo ritto in cima alla prua, con in mano una coppa, 789. fa"o: grano impastato con sale. 797. son pochi ma... : esigui di numero, « sed bello vivida virtus »: l'esametro virgiliano è giustamente proverbiale, stando lapidariamente ad indicare una leg-
ge storica universale: sono sempre pochi gli eletti e i predestinati alle grandi imprese. 799· con l'aratro: il primo atto del rituale antico era quello di tracciare con un solco il perimetro della
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nuova città. Cosl sarà anche di Roma da parte di Romolo. 8oo. col nome di Ilio: non accettando in tal modo il suggerimento di Naute di chiamarla Aceste. 801. gode del regno: il buon Aceste è soddisfatto per i nuovi sudditi e per la nuova città che arricchisce il suo regno. 802. dà leggi: si può intendere che Aceste fa conoscere ai nuovi cittadini le leggi che regolano la convivenza del suo stato, oppure dà loro potestà di fare proprie leggi. 803. Venere /dalia·: dal monte Idalio nell'isola di Creta. Di un tempio eretto a Venere rimangono ancor ora vestigia bellissime sul monte Erice. LA PARTENZA (806-881). Aceste accetta di ospitare le donne, i vecchi ed i bambini. Si dà mano a costruire una piccola città ed un tempio dedicato a Venere. Poi le sedici navi superstiti salpano verso l'Italia. Intanto Venere si rivolge a Nettuno e lo prega di far sì che la navigazione si svolga senza intoppi. Nettuno la rassicura e con il cocchio spiana il mare davanti alle prue dei legni troiani, che procedono sicuri verso la mèta. 8o6. per nove giorni: si celebra un altro novendiale per celebrare degnamente la fondazione della nuova città e del tempio. 8o8. Austro: detto anche Noto, vento del Sud, in questo caso favorevole alla flotta troiana che doveva veleggiare appunto verso nordest.
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820. le viscere e il vino purissimo: è la libagione di prammatica prima di ini-
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ziare la navigazione. 823. preoccupata: Venere è giustamente preoccupata per quanto era successo dopo la prima partenza dalla Sicilia. Infatti allora, all'insaputa di Nettuno, Giunone, con l'aiuto di Eolo, aveva scatenato una terribile tempesta che aveva costretto- Enea ad approdare in Libia. Ora non vorrebbe che il fatto si ripetesse, conoscendo « la terribile ira » della madre degli dèi: per questo si rivolge a Nettuno.
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830. la città dei Frigi:
Troia. La Frigia era una regione dell'Asia Minore, che comprendeva la Troade. 833. e lei sola ... : a questo punto non si capisce infatti perché Giunone continui con ogni mezzo ad infuriare sui superstiti Troiani, pur sapendo che Giove e i Fati li hanno designati ad essere i fondatori di un grande impero. Forse la spiegazione è nell'irriducibile odio che l'acceca e la spinge a compiere ilzioni insensate e disumane. 835. poco fa: per: parecchi mesi fa. 837. soffi d'Eolo
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canto l, v. 99 e sgg.). 843. laurentino: che solca la regione abitata dai Laurenti. 844. Parche: le Parche tessevano il destino degli uomini. (Vedi canto l, nota v 29).
846. Citerea (vedi nota vv. 369-370, canto 1). 847. dove sei nata: se-
condo il mito Venere era nata dalla spuma del mare presso l'isola di Cipro. 850. Quando Achilie... :
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getta nei flutti salati le viscere e il vino purissimo. Li spinge un vento propizio sorgendo da dietro alla [poppa; ed a gara i compagni solcano il mare coi tfimi. Ma Venere preoccupata si rivolge a Nettuno con questi lamenti: « La terribile ira di Giunone, il suo odio che non si sazia mai ora mi spingono a te: né il tempo né la pietà la calmano o raddolciscono, rimane immobile, sempre, contro i destini e contro il volere di Giove. Non le basta di aver cancellato furiosa la città dei Frigi, e di avere travolto le reliquie di Troia per ogni tormento: ma ne insegue persino le ossa e la cenere, e lei sola conosce le cause di tanto furore. Tu stesso mi sei testimone di quale tempesta poco fa scatenasse nel mare della Libia; ha sconvolto le onde sino al cielo, fidando nei soffi d'Eolo, invano; ha sfidato il tuo regno! Ed ecco che ha perfino aizzato le madri, malvagiamente ha bruciato le navi e perduto la flotta, ha costretto i Troiani a lasciare i compagni in Sicilia. Ora ti prego che i rimanenti dian vela tranquillamente per l'onda, e arrivino sicuri allaurentino Tevere; se è vero che chiedo cose da tanto tempo promesse dalle Parche »Allora il Saturnia domatore del mare le disse: «O Citerea, è giusto che ti fidi del regno dove sei nata. E un poco me lo merito, poiché ho difeso Enea frenando il furore del mare. L'ho difeso anche in terra: chiedilo al Simoenta ed allo Xanto. Quando Achille inseguiva le schiere troiane affannjlte, spingendole verso le mura, migliaia mandandone a morte, e i fiumi gemevano pieni di corpi, e lo Xanto non riusciva a trovare una via per giungere al mare, allora salvai Enea, che inferiore di forze s'era scontrato col grande Pelide, lo nascosi in una nuvola. E si che mi premeva distruggere
Achille, dopo la morte di Patroclo, riprende le armi per vendicare la morte dell'ami-
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co. I fatti, cui qui si accenna, sono narrati nell'Iliade (canto XX e XXI).
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le mura di Troia spergiura, le mura da me costruite. Ora non ho cambiato idea, stai pure tranquilla. Andrà sicuro ai porti d'Averno, come vuoi tu. Ne piangerai uno solo scomparso nell'acqua, un solo capo fra tanti pagherà per tutti». Dopo aver rallegrato con queste parole la Dea il padre Nettuno impone ai cavalli un giogo dorato e freni spumeggianti, poi scioglie le briglie. Vola leggero col cocchio ceruleo sul piano del mare; le onde si livellano, sotto il carro tonante il gonfio mare si placa, dal cielo fuggono i nembi. Lo accompagna una corte svariata, immani cetacei, il vecchio coro di Glauco e Palemone d'Ino, i veloci Tritoni con tutto il gregge di Forco: a sinistra c'è Teti, Melite e la vergine Panopea, Nise, Spio, Cimodoce e Talla. Una timida gioia si fa strada nel cuore sempre ansioso del padre_ Enea: comanda che gli alberi siano drizzati, presto, che le braccia alle vele si tendano. Manovrano insieme le scotte, da sinistra a destra e da destra a sinistra, volgendo le vele, e la flotta nel vento va avanti da sé. Primo davanti a tutti Palinuro guidava la densa schiera, gli altri seguivano la rotta.
La morte di Palinuro L'umida notte aveva già corso metà del suo itinerario celeste, ed i naviganti distesi sotto i remi, sopra le dure panch~, 858. Troia spergiura: accenna all'episodio di Laomedonte che costrul le mura di Troia con l'aiuto di Apollo e di Nettuno, ai quali aveva promesso una mercede, poi non corrisposta. Di qui l'aggettivo spergiura, perché Laomedonte non aveva mantenuto i patti. 86o. ai porti d'Averno: a Cuma presso la quale si stendeva il lago di Averno.
862. un solo capo: Palinuro, vittima designata, morirà per assicurare ai compagni una navigazione sicura. Crudeli ci appaiono· qui ed altrove gli dèi che esigono sempre dagli uomini un prezzo altissimo per concedere i loro favori. Questo fa parte tuttavia della morale pagana e della religione politeista. 870. Glauco ... Palemone:
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Glauco, pescatore, constatato che un pesce mezzo morto riprendeva vita se gettato su una certa erba, mangiò questa stessa erba e divenne immortale. Ebbe il dono della profezia. - Palemone: Ino fu moglie di Atamante e da lui generò due figli Learco e Melicerte. Ataman: te reso zoppo da Giunone perché la moglie aveva allattato Dioniso, figlio di Giove e di Semele, uccise il figlio Learco. Ino, atterrita, per scampare alle furie del marito si gettò in mare con l'altro figlio Melicerte. Nettuno, impietosito, li mutò in divinità marine, la •prima con il nome di Leucotra, il secondo con quello di Palemone. 871. Tritoni: figli di Nettuno ed Anfitriti, erano metà uomini e metà pesci. Il gregge di Porco: padre delle Gorgoni e delle Graie mostri marini. ' 872. Teti: ninfa marina, madre di Achille. 872-873. Melite, Panopea, ecc.: sono tutte Nereidi (vedi nota v. 26r ). La rappresentazione di Nettuno che s'invola sul mare col suo corteggio ha qualcosa di convenzionale e di retori1..-o. 876. le braccia alle vele: bracciare le vele significa tenderle, assicurandole alle scotte, cioè alle funi che le manovrano e le tendono.
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MORTE
DI
PALINURO
(882-919). - Scende la notte
e a Palinuro, nocchiero della nave ammiraglia, si presenta il dio Sonno che lo invita a riposarsi, dato che il vento è favorevole ed il mare placido. Palinuro tenta di resi-
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Canto quinto
stere, ma il Sonno lo assale e lo fa precipitare in mare con il timone. Enea sentendo la nave sbandare, accorre, ma nulla può e deve accontentarsi di sostituirsi al povero nocchiero scomparso.
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88,5. quiete: la quiete del
sonno. 886. Sonno: figlio dell'Erebo e della Notte. Aveva come suo ministro Morfeo ed era considerato dagli antichi fratello gemello della Morte. 888. incolpevole: sono gli innocenti che a volte pagano il più alto tributo alla volontà degli dèi. 890. Forbante: già citato da Omero nel XIV dell' Iliade come figlio di Priamo e uomo ricchissimo e caro a Mercurio. 901. Lete: chi beveva od era toccato dalle acque del fiume d'Inferno, dimenticava il passato. 902. Stige: altro fiume d'Inferno le cui acque avevano poteri magici. 903. rilutta: che tenta con tutte le forze, invano, di non cedere al veneficio. 907. inutile: perché tutti i compagni dormivano.
911. scogli delle Sirene:
già descritti nel IX dell'Odissea, erano abitati. da due sorelle, che col loro canto malioso attiravano i naviganti e facevano infrangere le loro navi sulle secche. Ecco perché sono bianchi di ossa umane. 919. nudo: senza poter avere gli onori funebri ed
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già rilassavano i corpi nella placida quiete: quando il leggero Sonno sceso dagli astri altissimi disperse l'ombra e mosse l'aria nera, cercando te Palinuro incolpevole, portandoti sogni ben tristi. Il Dio sedé sulla poppa, somigliava nd volto a Forbante, ti disse: « Palinuro di Iaso, se la flotta nel vento va avanti da sé e spirano lievi le brezze, è l'ora del sonno. China la testa, ruba gli occhi stanchi al lavoro. Prenderò un poco il tuo posto; io veglierò per te». E a lui levando appena gli occhi stanchi parlò Palinuro: «Mi chiedi di non badare al volto dd placido mare, e ai flutti tranquilli? Mi chiedi di confidargli Enea? Il cido sereno e l'infido vento troppe volte m'hanno tradito ». Restava fermo al timone, attento al percorso degli astri, ma il Dio sulle tempie gli scuote un ramo bagnato nel [Lete, carico dd sonno potente dello Stige: a lui che invano rilutta chiude gli occhi smarriti. Appena il sonno improvviso gli sciolse le membra gli fu sop.ra e lo buttò a capofitto nel mare con un pezzo divdto di murata e il timone e un grido inutile d'aiuto ai compagni; quindi volando leggero se ne tornò nell'aria. Ma la flotta procede egualmente: un cammino tran[quillo per l'acqua alta; sicura, guidata da Nettuno. E già s'accostava agli scogli delle Sirene, ardui tanto una volta, bianchi di tante ossa: già suonavano rauchi al frequente rumore del mare in lontananza, quando Enea scopri che la nave errava alla deriva e aveva perduto il pilota. Allora egli stesso diresse lo scafo nell'onda notturna, mentre, commosso dal caso, molto gridava nel pianto: «O troppo fiducioso nel mare e nd cielo sereno, giacerai, Palinuro, in sabbia ignota, nudo».
una tomba. In questo caso, secondo gli antichi, l'anima
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doveva errare per cento anni senza pace.
Canto quinto
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Commento critico L'arte sapiente di Virgilio nel dosare gli elementi della narrazione e nell'alternare i toni descrittivi e il pathos dei vari episodi, risalta appeno in questo libro che è senz'altro il più sereno e disteso di questa prima parte del poema. Il racconto si apre con le fiamme minacciose del rogo di Didone che appaiono ai Troiani in fuga e si chiude con la melanconica morte di Palinuro, cioè con la tragedia di due innocenti, quasi il poeta volesse sottolineare ancora una volta la necessità del dolore come elemento primo ed indispensabile della vita umana. Tutto il resto è paesaggio in piena luce, quel paesaggio marino, montano o silvestre mediante il quale Virgilio riesce a comunicarci l'animo suo più sensibile e a darci la poesia più sentita e più alta. Questa sosta di serenità, di gioia e di pace, era necessaria dopo le drammatiche ed incalzanti vicende vissute da Enea in Cartagine: è una parentesi bucolica e georgica insieme che soltanto il tentato incendio delle navi da parte delle donne troiane riesce per un istante ad offuscare, quasi fosse un brusco richiamo alla realtà della situazione e nello stesso tempo un pungolo a proseguire il viaggio e ad ottemperare alla volontà dei Fati. Ma tanto l'incendio quanto la morte di Palinuro sono vicende minori: in confronto del grande affresco che occupa la maggior parte del canto e che è dato dai ludi funebri in onore di Anchise. Anche a proposito dei ludi, il discorso ci riporta, come altre volte, al grande modello di poemi omerici: là dove nel canto XXIII dell'Iliade il cieco aedo aveva descritto i giochi in onore del morto Patroclo. Non è che il paragone sia d'obbligo, ma è ovvio che Virgilio si sentisse stimolato dal suo inimitabile predecessore, se non a far meglio, almeno ad appellarsi a tutta la sua finissima abilità di creatore per far cosa egregia e diversa e per venire incontro nel contempo alla passione Iudica dei Romani antichi e del suo tempo, che avevano punteggiato il calendario annuale di certami d'ogni specie. Alla resa dei conti si deve riconoscere ch'egli riusd pienamente nell'intento perché la descrizione delle varie gare e il carosello finale sono quanto di più perfetto, coloristicamente e per perfezione formale, sia uscito dalla sua penna. Né bisogna dimenticare le figure degli atleti, non tratteggiate superficialmente, ma ciascuna con una sua caratteristica ben chiara che la definisce e la distingue dalle altre sia per il rilievo psicologico sia ·per quello fisico esteriore. Vale per tutti lo studio attento dedicato ai due pugili, Darete ed Entello, che ci dà la misura esatta di quanto abbiamo affermato. Per un certo aspetto il quinto canto si può paragonare, nell'economia generale dell'opera, al terzo: sono momenti di transizione e di attesa dove vien meno la tensione drammatica ed avventurosa a tutto vantaggio però di una più serena ed umana contemplazione delle vicende di Enea e dei suoi.
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Canto quinto
Galleria di ritratti Palinuro. Palinuro, come Creusa, è una delle vittime innocenti di quella misteriosa volontà del destino che nessuna mente umana può penetrare e spiegare. La sua morte, ingiusta e violenta, non s'ammanta di toni cupi, non cerca la tragedia, ma rimane in un'atmosfera elegiaca, quasi che Virgilio volesse, ancora una volta, confermare che nelle vicende umane tutto può essere amore, ma altrettanto tutto deve essere dolore. Questa nota di sofferenza, questa coscienza del dolore come ultima e suprema verità dell'esistenza, noi la troveremo nel canto sesto quando Palinuro racconterà con poche scarne parole la sua fine per mano di altri uomini ed implorerà, come già fece Polidoro, una degna sepoltura. La nostra simpatia va spontaneamente a questo umile gregario che per mari perigliosi e tempestosi aveva guidato la nave ammiraglia con perizia e con saggezza e che Enea stimava ed amava per la sua dedizione e la sua fedeltà. La sua fine, dovuta all'inganno e alla cieca decisione del Fato, ci offende e ci commuove.
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Canto quinto
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Raffronti di traduzione T alia dieta dabat, clavumque adfixus et baerens, nusquam amittebat oculosque sub astra tenebat. Ecce deus ramum Lethaeo rore madentem vique soporatum Stygia super utraque quassat tempora, cunctantique natantia lumina solvit. Vix primos inopina quies laxaverat artus, et superincumbens cum puppis parte revulsa cumque gubernaclo liquidas proiecit in undas praecipitem ac socios nequiquam saepe vocantem; ipse volans tenuis se sustulit ales ad auras. (vv. 852-861)
E ciò dicendo avea le man ferme al timon, gli occhi a le stelle. Il sonno allora di Letèo liquore e di stigio veleno un ramo asperso sovra gli scosse, e l'una tempia e l'altra gli spruzzò sl, che gli occhi ancor ribelli gli strinse, gli scavò, gli chiuse alfine. A pena avean le prime gocce infusa la !or virtù, che il buon nocchier disteso ne giacque; e 'l dio col suo mentito corpo sopra gli si recò, pinse e sconfisse un ghèron de la poppa, e lui con esso e col temon precipitò nel mare. Né gli valse a gridar, cadendo, aita, ché l 'un qual pesce, e l'altro qual augello questi ne l'onda, e quel ne l'aura sparve. Traduzione di Annibal Caro Ed il timone stretto teneva, gli occhi al cielo intenti. Allora il Nume un ramoscello trasse dall'onda del Letè rorido, e quello, di stigio influsso soporoso e molle, sulle tempie gli scosse. Allora al sonno gli occhi natanti il dubitoso sciolse. E appena quel sopor le stanche membra inopinato invase, su di lui il Nume si gettò, e lui precipite, col timone divelto dalla poppa, nella liquida stesa insiem sommerse; che invano, e a lungo, i suoi compagni invoca, mentre fra i venti in vol si leva il dio. Traduzione di Adriano Bacchielli
«Nate dea, vosque haec "inquit" cognoscite, [Teucri, et mihi quae fuerint iuvenali in corpore vires et qua servetis revocatum a morte Dareta ». Dixit, et adversi contra stetit ora iuvenci qui donum astabat pugnae, durosque reducta libravit dextra media inter cornua caestus arduus, el!ractoque inlisit in ossa cerebro: sternitur exanimisque tremens procumbit humi [bos. Ille super talis effundit pectore voces: « Hanc tibi, Eriyx, meliorem animam pro morte [Daretis persolvo; hic vietar caestus artemque repono ». (vv. 474-484)
«Figlio della Dea, disse, e voi pure, Dàrdani, [sappiate qual forza io m'ebbi in membra giovanili e da qual morte si salvò Darète! » E saldo si piantò davanti al toro ch'era ancor là, premio alla sua tenzone; tutto si aderse, alzò la destra indietro, librò tra le due corna il duro cesto, colpi, sfracellò l'ossa e le mascelle. Crollò il toro, piegò, s'abbatté morto; e quello ancor gridò dal pieno petto: « Erice, non la morte di Darete t'offro, ma questa vittima migliore; qui vincitore lascio i cesti e l'arte ». Traduzione di Guido Vitali
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CANTO SESTO
La Sibilla Cumana.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 1835, ricavate dai codici della Biblioteca Vaticana, Roma.
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CANTO SESTO Finalmente la flotta troiana approda a Cuma. Mentre i compagni pongono un accampamento di fortuna, Enea si avvia verso una piccola altura dove sorge il tempio di Apollo, costruito da Dedalo, fuggiasco da Creta. Mentre ammira le porte scolpite dallo stesso Dedalo, ecco apparire la Sibilla che gli comanda di compiere il sacrificio di rito e poi di entrare nel tempio, costituito da un antro profondo. Enea obbedisce e supplica Apollo di aiutarlo a compiere l'ultima parte del viaggio e di renderlo dotto per bocca della sacerdotessa del suo destino futuro. La Sibilla dà il responso richiesto: presto con i compagni rimastigli egli approderà nel Lazio e dovrà guerreggiare a lungo a causa di una donna, che diverrà sua moglie. Le sorti volgeranno a suo favore per l'aiuto di una città greca. Enea prega allora la Sibilla di permettergli di scendere agli Inferi per incontrare il padre. La sacerdotessa acconsente ma avvisa l'eroe che facile sarà discendere nell'Averno, difficilissimo tornarne, se non propiziera tale impresa con l'offerta a Proserpina di un ramoscello d'oro, raccolto nel bosco sacro. LO esorta, quindi, prima di iniziare la discesa, a dare sepoltura ad un suo compagno morto nel frattempo. Enea, seguito dal fido Acate, si affretta verso il campo per eseguire i voleri della Sibilla. Sul lido trova il corpo esamine di Miseno, suo trombettiere, che ·aveva osato sfidare il dio Tritone e ne aveva ricevuto la morte. Mentre si preparano i funerali, egli s'addentra nel bosco, seguendo il volo di due candide colombe, e trova presso l'ingresso dell'Averno un ramoscello d'oro che coglie e consegna alla Sibilla. Ritorna poi alla spiaggia per assistere al rogo di Miseno, le cui ceneri vengono poste in un'urna di bronzo, che si colloca in un sepolcro eretto su un piccolo promontorio, denominato ancor oggi di Miseno. Durante la notte si compiono i sacrifici alle deità infernali: all'alba mentre cupi boati scuotono la terra, la Sibilla ed Enea, con la spada sguainata, scendono nel profondo dell'antro. Nel vestibolo dell'Averno trovano riuniti le rappresentazioni orribili dei mali che afHiggono l'umanità. Giunti al fiume Acheronte, il vecchio Caronte li traghetta su una barca al di là della corrente, respingendo con energia la folla di anime di coloro che in terra non hanno avuto sepoltura. Tra costoro si fa innanzi Palinuro che narra ad Enea la sua triste avventura. Caduto in mare, si salvò a nuoto, ma non appena toccò terra fu assalito e barbaramente ucciso da genti crudeli. Egli supplica Enea di condurlo con sé al di là del fiume. Interviene la Sibilla che predice la prossima sepoltura del corpo di Pali-
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nuro da parte degli stessi uccisori, che anzi daranno il nome suo al luogo ove era stato trucidato. Lasciato lo sventurato nocchiero e traghettato il fiume, vedono Cerbero, che latra con rabbia. La Sibilla dà in pasto al mostro una focaccia con erbe soporifere, il che permette di passare oltre ed entrare nell'Antinferno. Li accolgono i vagiti dei bambini colpiti da morte immatura. Più oltre sono i condannati a morte sotto falsa accusa ed i suicidi. Minosse è il loro giudice. Tra le ombre dei suicidi Enea riconosce quella di Didone, le si avvicina e piangendo cerca di giustificare la sua precipitosa partenza da Cartagine, ma la regina non gli risponde e s'allontana sdegnosa per unirsi all'anima del marito Sicheo. Nell'ultima parte dell'Antinferno, l'eroe incontra le anime dei guerrieri illustri che caddero in battaglia. I Troiani gli si fanno incontro, mentre i Greci, riconosciutolo dalle armi splendenti, fuggono atterriti. Tra gli altri Enea riconosce, terribilmente mutilato, Deifobo, marito di Elena dopo la morte di Paride, che, sollecitato, racconta la sua orribile fine per mano di Menelao e per il tradimento di Elena. Proseguendo nel loro cammino, la Sibilla ed Enea arrivano al Tartaro, enorme castello difeso da un triplice ordine di mura e circondato dal fiume Flegetonte. Su una delle porte sta Tisifone che frusta i dannati e li precipita nel Tartaro a secondo della pena che a ciascuno di loro ha assegnato Radamante, re dell'Inferno. Passano poi davanti alla reggia di Plutone, alle porte della quale Enea appende il ramoscello d'oro, quale offerta votiva a Proserpina. Pervengono infine nel terzo regno dell'Oltretomba, ai campi Elisi, ove sono posti i beati. In una specie di paradiso terrestre si aggirano le anime di tutti i grandi spiriti dall'antichità: poeti, filosofi, musici, eroi, sacerdoti, legislatori e benefattori. Su indicazione di Museo, il mitico cantore, egli può scoprire il padre Anchise. L'incontro è commovente: per tre volte, invano, Enea tenta di abbracciare i1 genitore e per tre volte le braccia tornano vuote al petto. Scorgendo poi una folla di spiriti in un bosco, cinto da un fiume, ne chiede al padre. Anchise dice che sono anime in procinto di reincarnarsi cioè in attesa di unirsi alla materia per incominciare a vivere. Tuttavia l'anima, dentro il corpo, perde le proprie caratteristiche celesti e si contamina di tutti i vizi terreni: ecco perché dopo la morte del corpo deve purifìcarsi o nel vento o nel fuoco o nell'acqua. Ritornata pura e bevuta l'acqua del Lete che dà l'oblio, ritorna a reincarnarsi. Anchise mostra poi al figlio i suoi discendenti: da Silvio, fondatore di Albalonga, a Romolo, fondatore di Roma sino a Cesare Augusto imperatore. Predice infine le sanguinose guerre che tra poco dovrà affrontare nel Lazio e lo incita a sopportare dolori e sacrifici per la grandezza appunto della progenie che da lui discenderà. Lasciato il padre, Enea, guidato sempre dalla Sibilla, ritorna sulla spiaggia ove erano accampati i compagni, ai quali ordina di imbarcarsi. La piccola flotta alza le vele e tosto giunge a Gaeta.
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lo introduce nell'interno dell'edificio.
A Cuma (1-49) - L'antro della Sibilla e il vaticinio (5o-122) - La richiesta del viaggio agli Inferi (123-198)- Miseno (199-299)- La discesa agli Inferi (300-337)- II vestibolo (338-371)- L'AcheronteCaronte- Palinuro (372-519) - Cerbero e l'Antinferno- Minosse ( 520-561) - Didone (562-591) - Il campo degli eroi. Deifobo (592-677) - Il Tartaro (678-782) - I Campi Elisi e il fiume Lete (783-827) - L'incontro con Anchise (828-908) - I grandi eroi romani (909-1091).
r. piangendo: ancora una volta l'eroe è colpito negli affetti e il suo pianto amaro è la manifestazione contemporaneamente della sottimissione e dell'impotenza umana di fronte al volere dei Fati. 3· euboiche: Cuma era stata fondata da coloni greci, provenienti dalla città di Calcide, nell'isola di Eubea. 4· Girano verso il mare: approndando in terra sconosciuta, era precauzione elementare disporre le navi in modo da poter rapidamente imbarcarsi e fuggire in caso di pericolo. 7· balza ardente: a bordo delle navi sono rimasti gli uomini validi e soprattutto i giovani, vogliosi e smaniosi di azione. 9· i semi della fiamma: «semina flammae » è un'immagine che Virgilio trae da Omero per poeticamente rappresentare le scintille che si sprigionano dalle selci sfregate tra l01 o o percosse da un ferro. r r. le sorgenti trovate: prima preoccupazione di chi sbarca è di trovare acqua potabile.
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Cosr dice piangendo; 5
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e a tutte vele approda finalmente alle spiagge euboiche di Cuma. Girano verso il mare le prore, le poppe ricurve coprono tutto il lido: con dente tenace l'ancora tiene ferme le navi. Un gruppo di giovani balza ardente sul lido d'Esperia: alcuni accendono il fuoco, percuotendo le selci, sprigionando i semi della fiamma nascosti nelle vene del sasso; altri percorrono le selve, folti asili di fiere, e segnalano le sorgenti trovate. A CuMA (1-49). - Gzuntz a Cuma, mentre gli equipaggi sbarcano, Enea si avvia subito verso il tempio di Apollo, costruito a suo tempo da Dedalo. Sulle porte
del tempio sono istoriate quattro scene riguardanti il Minotauro ed il labirinto di Creta. Sopraggiunge poi la Sibilla che lo esorta a compiere un sacrificio al Dio e
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12. rocca: qui sta per altura. I templi infatti venivano costruiti su dei rilievi del terreno in modo che fossero visibili da lontano.
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14. tremenda Sibilla: tre-
menda perché ispirava a chi le era innanzi un sacro terrore per essere sacerdotessa di Apollo e portavoce quindi degli oracoli del Dio. 17. Trivia: quasi sempre un bosco, dedicato a Diana, circondava i templi di Apollo. Qui la dea è chiamata Trivia perché proteggeva i viatori e il suo simulacro eta posto agli incroci di tre strade. Trivia anche perché veniva venerata in tre personificazioni diverse: Luna in cielo, Diana in terra e Proserpina o Ecate nell'Oltretomba. - tetti d'oro: del tempio. 18. Dedalo: famoso artista ateniese. Fu grandissimo architetto, scultore e meccanico ed a lui si debbono molti strumenti. A Creta il re Minasse lo incaricò di costruire molti edifici, tra i quali il Labirinto nel quale fu rinchiuso con il figlio Icaro. Ma Dedalo non si scoraggiò e costrul per sé e per il figlio due ali di cera, con le quali s'involò. Icaro, non seguendo i consigli del padre, volò verso il Sole, ma le ali si liquefecero ed egli precipitò in mare. Secondo una tradizione, venne a Cuma e vi l'ostrul il tempio di Apollo. 2o-21. verso le gelide Orse: verso il nord. - insolito cammino: perché nessun uo-
mo prima era riuscito a volare. 22. calcidica (vedi nota
v. 3).
25. Androgeo: figlio di
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Ma il pio Enea s'incammina verso la rocca, dove l'alta statua d'Apollo domina, verso l'antro immenso e i recessi della tremenda Sibilla alla quale il profetico Nume ispira la mente con la sua volontà, svelandole il futuro. Già s'avvicina al bosco di Trivia e ai tetti d'oro. Dedalo, dice la fama, fuggendo dai regni Minoici, audacemente affidatosi al cielo su penne veloci, volò verso le gelide Orse per un insolito cammino e leggero alfine si fermò sulla rocca calcidica. Appena reso alla terra ti consacrò, o Apollo, i remi delle ali e un grande tempio ti eresse. Sulle sue porte c'è effigiata nell'oro la morte di Androgeo; ci sono gli Ateniesi obbligati ogni anno a pagare un pietoso tributo: sette giovani tirati a sorte. Di contro si leva alta dal mare la terra di Cnosso: si vede l'amore bestiale del toro, Pasifae sottoposta a quel toro in un simulacro di vacca, e il Minotauro, razza mista e biforme, frutto di un empio accoppiamento; e c'è l'inestricabile Labirinto che Dedalo, pietoso dell'amore d'Arianna, dipanò guidando con un filo i passi di Teseo.
Minosse, re di Creta, fu un grande atleta, tanto da riportare, ad Atene, la vittoria in tutte le gare celebrate per le feste Panatenee. Ma in seguito all'assassinio di Androgeno da parte di Egeo, re di Atene, Minosse con una poderosa flotta sbarcò e prese la città, imponendole durissime condizioni di pace tra le quali la più spaventosa era quella di mandare a Creta ogni anno sette fanciulle e sette giovani che dovevano essere dati in pasto al Minotauro, mostruoso essere mezzo uomo e mezzo toro, rinchiuso nel Labirinto. 27. sette giovani: Virgilio dimezza il numero delle vit-
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time da offrire al Minotauro. 29. Cnosso: sta per Creta di cui Cnosso era la capitale. 30. Pasifae: figlia di Apollo e della Ninfa Perseide e moglie di Minosse. Venere per vendicarsi di Apollo che aveva scoperto i suoi amori con Marte, le ispirò un'insana passione per un toro. Dall'empia unione nacque appunto il Minotauro. 32. biforme: metà umana e metà bestiale. 35· Teseo: dopo Ercole il più celebre degli eroi antichi. Figlio di Egeo, re di Atene e di Etra, portò a termine imprese leggendarie tra le quali quella di uccidere il Minotauro. In questa avven-
Lago d'Averno ( Avernus Lacus)
Fantasmi ( malattie,vecchiaia, paura fame discordia ecc. ·l
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ostri (Centauri, Scille, Briareo ,Chimera ecc. )
LA SIBILLA CUMANA (da Cuma, oltre il golfo di Napoli), consulta il libro oracolare (Michelangelo, volta della Cappella Sistina, Vaticano) La Sibilla, cioè la profetessa, interpellata, dava responsi misteriosi incomprensibili che si prestavano a molteplici interpretazioni; da ciò l'aggettivo sibillino.
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Icaro, avresti anche tu gran parte in quest'immenso lavoro se il dolore l'avesse consentito. Dedalo aveva tentato due volte di scolpire nell'oro la morte del figlio; due volte le mani gli cad[dero. Enea avrebbe guardato a lungo ogni cosa con molta attenzione se Acate, andato avanti, non fosse tornato insieme a Deifobe di Glauco, sacerdotessa di Febo e di Diana. Deifobe gli dice: «Enea, non è il momento di perdere il tuo tempo; immola subito subito sette giovenchi scelti da un gregge non domato, e sette belle pecore di due anni, secondo l'uso!». Cosf parla (e i guerrieri non tardano ad eseguire l'ordine) poi la sacerdotessa chiama i Teucri nel tempio.
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L'enorme fianco della rupe euboica è tagliato in un antro profondo a cui portano cento larghe vie, cento porte donde erompono cento sacre voci, i responsi della Sibilla. Giunti sulla soglia, la vergine disse: ,(È tempo di chiedere notizie sul tuo destino: ecco il Dio, ecco il Dio! >> E subito mentre parlava davanti alla magica porta si mutò in volto, cambiò colore; le chiome scomposte, il petto anelante, il cuore gonfio di rabbia. Sembra piu grande, non ha voce umana, poiché è ispirata dal Dio che sempre piu s'avvicina. (( Tardi a offrire i tuoi voti e le tue preci, troiano Enea? -grida a alta voce.- Tardi? Le grandi porte della casa che il Dio rintrona s'apriranno soltanto dopo! ». Un brivido corse per le ossa dure dei Troiani ed Enea dal profondo del cuore tura fu aiutato da Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, che, invaghitosi di lui, lo fornì, su consiglio di Dedalo, di un gomitolo il cui filo fissato all'entrata del Labirinto e dipanato, permise all'eroe,
dopo aver ucciso il mostro, di ritrovare l'uscita. 39· gli c(lddero: il dolore del padre è tanto forte ch'egli non riesce a fissare nell'oro la scena della caduta del figlio.
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42. Deifobe: è la Sibilla di Cuma. · 46. non domato: non ancora sottoposto al giogo.
L- ANTRO DELLA SmiLLA ED IL
VATICINIO
(50-122).
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Nell'interno del tempio si apre un grande antro nel quale sfociano numerose bocche. La Sibilla, già trasfigurata dal dio che la pervade, invita Enea a dire i suoi voti. L'eroe invoca l'aiuto di Apollo perché, dopo tante sventure e tante peregrinazioni, possa alfine al più presto giungere alla terra promessa dai Fati. Promette di erigergli per ringraziamento un superbo tempio, ove saranno custoditi i responsi sibillini. La Sibilla, ora in preda al furore divinatorio, dà la risposta divina. Gli predice ch'egli dovrà ancora affrontare una lunga e sanguinosa guerra contro un novello Achille, guerra causata da una donna contesa. I n fine lo profetizza vincitore con l'aiuto di una città greca. 5r. cento ... : iperbole per moltissime. Erano piCcoli crepacci nella roccia dai quali usciva ingrandita la voce della Sibilla vaticinante. 55. ecco il Dio: la Sibilla sente scendere in sé il Dio il cui spirito pwfetico fa sì ch'ella si 3 presa dal sacro delirio che precede il responso. 64. soltanto dopo: cioè soltanto dopo che Enea avrà offerto preghiere e fatto voti. 65. ossa dure: i Troiani in tanti anni di traversie sono abituati a tutto e difficilmente si lasciano impaurire; eppure qui sentono un brivido di sgomento.
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69. che dirigesti i dardi: Apollo guidò la saetta mortale che, scoccata da Paride, colpl Achille. 72. Massili: per Numidi; qui in genere per le popolazioni che abitavano l'Africa mediterranea. 73. Sirti: le regioni poste lungo i grandi golfi delle Sirti nell'Africa settentrionale. 75· sfuggente: che pareva di continuo sfuggire alla nostra ricerca. 85-86. giorni festivi: sono i ludi apollinarii, istituiti in Roma per onorare Apollo sotto il consolato di Appio Claudio e Fulvio Placco nel 540 ab urbe condita e rinnovati da Augusto. Si celebravano il 5 luglio di ogni anno nel Circo Massimo. 89. libri sibillini: pare fossero acquistati da Tarquino Prisco o da Tarquinia il Superbo e conservati nel tempio di Giove Capitolino. Augusto li riordinò e li fece custodire da degli uomini scelti cioè da sacerdoti appositi. Contenevano una serie lunghissima di vatidni e si consultavano pubblicamente in occasione di gravi decisioni. 9!. alle foglie: era uso che la Sibilla scrivesse i responsi del Dio su delle foglie che poi affidava al vento, cosicché difficile era ricostrurne la successione ed il senso. 97· baccante: le baccanti erano donne che celebravano i misteri di Bacco. Si abb::mdonavano nell'ebbrezza clt>l vino a danze sfrenate e selvagge.
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levò questa preghiera: «Apollo, tu che sempre hai avuto pietà dei travagli di Troia, che dirigesti i dardi e le mani di Paride contro il corpo di Achille, che mi sei stato guida per tanti mari che bagnano terre immense, tra genti come i Massili cacciati in luoghi fuori del mondo, per campi come quelli posti lungo le Sirti: ora che finalmente abbiamo toccato le spiagge della sfuggente Italia, fa che la mala sorte di Troia non ci segua piu oltre! Ormai è giusto che anche voi tutti, Dei e Dee, ai quali Troia e la gloria troiana spiacquero, risparmiate la mia povera gente. Tu, santa profetessa presaga del futuro (io non ti chiedo un regno ·Che il destino non m'abbia già concesso), assicurami che i Teucri e i loro erranti Lari e le travagliate Divinità di Troia troveranno una sede nel Lazio. Leverò allora a Febo e a Trivia una tempio tutto marmo e istituirò dei giorni festivi dedicati al gran nome di Apollo. E anche tu, sacra vergine, nel nostro impero avrai un santuario, dove serberò i tuoi oracoli - i libri sibillini; i destini segreti che avrai dato al mio popolo - e dove offìceranno uomini scelti. Solo, non affidare alle foglie le sacre profezie; potrebbero volarsene via alla rinfusa, trastullo dei rapidi venti. Ti prego, vergine santa, parla tu, di persona». Ribelle all'ossessione del Dio la profetcssa mostruosamente infuria nella caverna, simile a una baccante, e tenta di scacciare dal petto con ogni sforzo l'immenso Febo: ma sempre piu il Dio le tormenta la bocca rabbiosa domandone il cuore selvaggio, e le imprime la propria volontà. E già le cento grandi porte della caverna si sono spalancate spontaneamente, portando nell'aria i vaticinii della sacerdotessa: «O tu, che finalmente hai superato i grandi pericoli del mare (ma la terra ti serba pericoli piu gravi): i Teucri arriveranno nel regno di Lavinio, bandisci dal tuo petto questa preoccupazione,
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ma vorranno non esserci mai arrivati. Vedo guerre, orribili guerre, e il Tevere schiumoso di sangue. Avrai Io Xanto e il Simoenta, avrai dei nuovi accampamenti dorici; ed è già nato a difesa del Lazio un altro Achille, figlio anch'egli di una Dea. Giunone si unirà ai nemici dei Teucri, sempre. Quante città e popoli d'Italia andrai a supplicare umile nel bisogno! Una moglie straniera sarà ancora la causa di tanto danno, ancora nozze straniere ... Tu non cedere ai mali, affrontali con piu audacia di quanto la tua sorte non Io permetta. La via della salvezza - lo credi? - sarà una città greca
lia e perciò, come Achille, di stirpe divina. I I 5. quante città: allude ai viaggi di Enea presso Evandro e presso le città etrusche per ottenere alleanze ed aiuti. 117. una moglie straniera: Lavinia, promessa sposa di Turno, sarà causa del lungo conffi tto. 122. una città greca: Pallanteo, capitale del regno di Evandro, che proveniva dal Peloponneso e precisamente dall'Arcadia. >>.
La richiesta del viaggio agli Inferi
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La Sibilla cumana predice cosf dal fondo del santuario tremendi responsi ambigui, e mugghia nell'antro mascherando con oscure parole la verità: cosi Apollo scuote i freni alla donna infuriata e le ficca gli sproni nell'affannoso petto, la stimola e sconvolge. Quando cessò quel furore e la bocca rabbiosa finalmente ebb~ pace, Enea le disse: «Vergine, non c'è nessuna fatica che mi giunga inattesa o che mi sembri nuova; ho previsto già prima tutto, ho già soppesato tutto nella mia anima. Ti chiedo solo una cosa: poiché si dice che qui sia la porta del re dell'Inferno e l'oscura palude dove sbocca il gorgo dell'Acheronte, ro6. perzcoll ptù gra~·t: IL guerre che dovrà affrontare contro i popoli latini. 107. regno di Lavinio: Lazio in generale. Lavinia sarà la sposa di Enea che fonderà una città cui darà il nome di Lavinio. 109. mai arrivati: per le terribile fatiche belliche che dovranno affrontare e per il sangue che dovranno versare.
11 r. avrai lo Xanto e il Simoenta: cioè dovrai combattere come sotto le mura di Troia lungo i fi _•.ni del Lazio, novelli Xanto e Simoenta, e nuovi accampamenti, simili a quelli dei Greci, assedieranno i tuoi insediamenti. 119. un altro Achille: Turno, re dei Rutuli, indomito e valoroso avversario dei Troiani, figlio della ninfa Veni-
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LA RICHIESTA DEL VIAGGIO AGLI INFERI ( 123-198). -
Enea chiede allora di poter discendere agli I n/eri per rivedere l'ombra del padre. La Sibitla acconsente al viaggio: prima però dovrà trovare un ramoscello d'oro nascosto. Prima di iniziare il viaggio dovrà affrontare un altro dolore perché gli morirà un compagno, cui dovrà dare onorata sepoltura. 124. ambigui: perché potevano essere interpretati in diverso modo ed anche perché suonavano oscuri ad Enea. 127. ficca gli sproni: immagine non felice anche se efficace. 133. ho già soppesato: Enea ha già udito parecchie volte profetare in modo più o meno chiaro il futuro che l'attende: ha preparato dunque l'animo a sopportare qualunque fatica e qualunque dolore per essere degno di quanto i Fati hanno prestabilito per lui e per la sua gente. 135. re dell'Inferno: Dite o Plutone. 136. palude: il lago d'Averno che si credeva forma-
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to dalle acque di Acheronte, uno dei fiumi infernali. 146. il comando preciso (vedi nota v. 778-779 del canto V). IJO. Beate: Proserpina, moglie di Plutone e regina dell'Inferno. IJI. Orfeo: figlio di Apollo e di Clio ebbe dal padre il dono di una cetra dalla quale traeva un suono cosi melodioso da ammansire gli animali e da muovere i sassi. Amò Euridice che mori per il morso di un serpente. Allora egli si recò nell'oltretomb!l e col suono della sua cetra ammansi Cerbero ed ottenne da Plutone e Proserpina di riportare in vita la sposa adorata, a patto però che non si volgesse indietro per assicurarsi che lo seguisse. Ma Orfeo non resistette alla tentazione ed anche al timore di un inganno da parte degli dèi infernali, si volse e perse per sempre Euridice. I53· Polluce: fratello di Castore; il primo, figlio di Leda e Giove era immortale; il secondo, figlio di Leda e Tindaro era mortale. Per l'affetto che li univa ottennero di rimanere sempre insieme trascorrendo un giorno in Inferno, un giorno in Cielo. 156. Teseo: si recò in Inferno con il re dei Latini, Piritoo, per cercare di rapire Proserpina. I57· Ercole: tra le sue memorande imprese c'è quella di aver tratto per qualche tempo fuori dall'Inferno Cerbero. - Anch'io: figlio di Venere, perciò di stirpe di-
concedimi di andare da mio padre e vedere
il suo volto sereno. Insegnami tu la strada, 140
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aprimi tu le sacre porte. Lo presi in spalla (su queste spalle!) attraverso le fiamme, attraverso una nube di frecce, lo salvai tra i nemici. Egli benché fosse invalido, seguendo il mio viaggio, sopportò insieme a me le lunghe traversate del mare e le minacce del cielo e delle onde, oltre le proprie forze e la propria vecchiaia. E fu lui stesso a darmi il comando preciso di venire da te, di arrivare umilmente alla tua soglia. Ti prego, vergine sacra: pietà e del figlio e del padre; tu che puoi tutto, tu che Ecate non per nulla prepose ai boschi d'Averno! È pur vero che Orfeo poté evocare l'Ombra di Euridice, aiutandosi con le corde sonore della sua cetra; è vero che Polluce poté riscattare il fratello dalla morte, morendo a turno, e tante volte fa e rifà questa via. E perché ricordare l'impresa di Teseo e quella d'Ercole? Anch'io discendo dal sommo Giove». Pregava cosi stendendo le mani sull'altare; e la sacerdotessa disse: «Sangue divino, Troiano figlio d'Anchise, è facile calare all'Averno: la porta dell'oscura dimora di Dite è sempre aperta, il giorno e la notte. Ma tornare sui propri passi, salire all'aria che si respira in terra, è faticoso e difficile. Pochi han potuto farlo: figli di Dei, diletti e favoriti da Giove, o animosi, elevati da un ardente valore sino all'altissimo cielo. Lo spazio di qui a Dite è occupato da dense foreste, che Cocito circonda di neri meandri. Se davvero desideri con tanta forza passare due volte le paludi dello Stige, vedere
vina, perché non potrei compiere anch'io l'impresa che riuscl ad altri? r62. sempre aperta: Dante dirà nel canto V dell'Inferno: «Non t'inganni l'ampiezza dell'entrare ». r64. è faticoso e difficile:
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«hoc opus, hic labor »: l'espressione è divenuta proverbiale. r69. Cocito: une dei quat· tro fiumi infernali; gli altri sono il già menzionato Acheronte, lo Stige e il Flegetonte.
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due volte il nero Tartaro, se davvero hai il coraggio di tentare un'impresa pazzesca, ascolta quello che prima dovrai fare. Sopra un albero ombroso, opaco, pieno di foglie, c'è un ramo tutto d'oro (d'oro le foglie, d'oro il flessibile gambo) consacrato a Giunone infernale: lo copre e lo nasconde il bosco, un'alta ombra lo chiude in una valle oscura. Non si può penetrare nei segreti del suolo prima d'aver strappato dall'albero quel ramo dalle chiome dorate. L'ha deciso la bella Proserpina, che vuole le si porti in regalo il ramo: chi lo strappa ne vede spuntare un altro eguale, mettere fronde di un eguale metallo. Cerca in alto con gli occhi, e quando riesci a trovarlo strappalo con le mani secondo il rito. Il ramo seguirà la tua mano con facilità se i destini ti chiamano; altrimenti non riuscirai a vincerlo neanche col duro ferro. Ma ascolta ancora: un tuo amico giace morto sul lido (e tu lo ignori!) portando sfortuna a tutta la flotta col suo cadavere, mentre interroghi l'oracolo, poni domande e indugi ddvanti alla mia soglia. C..onduci prima quel morto alla sua estrema dimora, componilo nel sepolcro. Immola pecore nere come tua prima offerta espiatoria. Cosi finalmente vedrai i boschi dello Stige, i regni che non hanno strade per gli uomini vivi».
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Enea col volto triste, gli ocçhi chinati a terra, s'incammina, lasciando la caverna, e rivolge tra sé quei vaticinii oscuri, quegli eventi misteriosi. Con lui il fido Acate muove i passi di conserva, preoccupato da eguali pensieri. Discorrevano nell'andare di molti problemi, domandandosi di che compagno morto e di che sepoltura parlasse la Sibilla. Ma ecco che, arrivati all'accampamento, vedono sul lido asciutto, morto indegnamente, Miseno; Miseno figlio d'Eolo, il piu bravo di tutti a chiamare i guerrieri con la tromba, a infiammare
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172. Tartaro: la parte più profonda dell'Inferno. 177. Giunone infernale:
Proserpina, che come Gjunone in cielo è regina, cosi essa lo è in Inferno. 190. un tuo amico: Miseno. 19r. portando sfortuna: i
morti insepolti contaminavano i luC!ghi ove erano e le cose che venivano con loro a contatto. MisENo (199-299). - Turbato per questa ultima predizione, l'eroe ritorna verso le navi e sulla spiaggia trova il cadavere di Miseno, annegato dopo essere scivolato in mare da uno scoglio ove si esercitava a suonare la tromba. Dà ordine di preparare il rogo e nel frattempo si addentra in un bosco vicino per cercare il ramoscello d'oro che trova dopo non molto. Intanto i Troiani, finiti i preparativi, bruciano il corpo dello sventurato Miseno su un'alta pira. Poi raccolgono le ceneri in un'urna e le chiudono in un sepolcro. 199. col volto triste: sia per il viaggio imminente nell'Oltretomba sia per l'annunzio della morte di un fido compagno.
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il violento M arte:
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cioè ad incitare con la tromba i guerrieri al combattimento2r9. la cava conchiglia:
nell'antichità gli strumenti a fiato o erano fatti con il legno oppure erano costituiti da grosse conchiglie o ancora da corni vuoti di animali. 220. un Tritone: i Tritoni erano dei mostri marini metà uomini e metà pesci. 2JO- rovinano: abbattono. 246. uccelli materni: sacri a Venere.
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col suono il violento Marte. Era stato compagno del grande Ettore, insieme· ad Ettore affrontava le battaglie, famoso per la tromba e la lancia. Dopo che il vittorioso Achille aveva spogliato Ettore della vita, il fortissimo eroe Miseno si era unito al dardanide Enea, seguendo cosf destini e forze non inferiori. Un poco prima, mentre faceva risuonare con la cava conchiglia i mari, provocando follemente gli Dei a gara, un Tritone invidioso- se è vero quel che si dice - l'aveva travolto di sorpresa in mezzo agli scogli fra le onde spumeggianti_ Intorno al suo cadavere si lamentano tutti con molte grida: su tutti il valoroso Enea. E piangendo s'affrettano ad eseguirè gli ordini della Sibilla - senza nessun indugio- e gareggiano nell'alzare con tronchi l'altare funerario, levandolo sino al cielo. Vanno in un bosco antico, profondo covo di fiere, e gli abeti rovinano, risuona il leccio percosso dalle scuri, risuonano i frassini, la quercia facilmente fendibile è spaccata coi cunei, rotolano giu dai monti i grandissimi orni. Enea lavora con gli altri, piu degli altri, ed esorta i compagni, munito come loro di scure. Intanto col cuore afflitto guarda l'immensa selva pensando al ramo d'oro nascosto chissà dove, e prega: «Oh, se quel ramo a un tratto mi si mostrasse dal suo albero, in mezzo a questo bosco troppo grande_ Quello che ha detto di te la profetessa, o Miseno, purtroppo era la verità». Aveva appena parlato quando ecco, per caso, due colombe volando dal cielo vennero proprio sotto gli occhi di Enea e andarono a posarsi sull'erba verde del suolo. Il grandissimo eroe riconobbe gli uccelli materni e lieto pregò: « Oh, siatemi guide sul sentiero segreto, e volando nell'aria dirigete i miei passi attraverso le selve fin dove il ricco ramo fa ombra al fertile suolo! E tu, madre divina, assistimi, ti prego, in questo momento difficile! » Ciò detto si fermò a guardare gli uccelli,
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dove accennassero a andare, se gli dessero un segno. Le colombe beccarono qui e là, allontanandosi con piccoli voli solo di quel tanto che permettesse a Enea di seguirle con gli occhi. Poi giunte quasi alla gola del puzzolente Averno si levano a volo veloci e scivolando per l'aria limpida vanno a posarsi nel luogo desiderato, sull'albero di dove scintilla luminoso in mezzo ai verdi rami il chiarore dell'oro. Come il vischio, cresciuto da una pianta non sua, durante il freddo invernale verdeggia di fresca e nuova fronda nei boschi deserti e incorona i tronchi rotondi coi frutti colore del croco; cos{ sul leccio scuro splendeva l'oro fronzuto, cosi la lamina fine squillava nel vento leggero. Enea subito afferra il ramo, avidamente vince la sua durezza, lo porta alla Sibilla. Intanto sulla spiaggia i Troiani piangevano l'eroe Miseno e rendevano all'insensibile salma gli estremi onori. Alzavano un altissimo rogo di rami resinosi di pino e tronchi di quercia, ricoprendone i fianchi di nere fronde: davanti vi piantano cipressi funerari, vi gettano sopra per ornamento le armi scintillanti. Alcuni preparano l'acqua calda e fanno bollire sul fuoco i vasi di bronzo, lavano il corpo freddo e lo ungono di balsami, tra funebri lamenti; coricano sul rogo le membra tanto piante e vi gettano sopra vesti di porpora, gli abiti che soleva indossare. Ed altri si avvicinano al gran feretro (triste compito) con le fiaccole in mano, la faccia voltata, secondo l'uso ancestrale: gli danno fuoco. Bruciano le offerte, l'incenso ammuc[chiato, le carni delle vittime, l'olio sparso a gran tazze. Cadute tutte le ceneri e spentasi la fiamma, lavavano nel vino l'ossa, la brace calda e assetata: in un'urna di bronzo Corineo chiuse i poveri resti. Lo stesso Corineo girò attorno ai compagni per tre volte, tenendo un vaso d'acqua lustrale, spruzzandoli di rugiada leggera con un ramo di pacifico olivo:
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257. puzzolente: donde emanavano esalazioni pestilenziali. 262. pianta non sua: il vischio è una pianta parassita che alligna mescolando le proprie radici a quelle di altre piante. 265. croco: è lo zafferano le cui bacche sono di un colore giallo pallido. 267. squillava: le fo:;lic: del ramoscello d'oro, simili a lamine, davano nel vento un suono armonioso simile ad un crepitio. Virgilio dice infatti « crepitabat ». 268. avidamente: con impazienza, voglioso di impossessarsene subito. 276. le armi scintillanti: era uso bruciare con la salma anche le armi cd i vestiti del guerriero caduto. 284. la· faccia voltata: come se l'atto fosse fatto per forza ed in segno di pietà per non vedere l'alta fiamma che avrebbe incenerito l'amico ed il compagno d'arme. 289. Corineo: probabilmente fratello o congiunto di Miseno. Infatti ai parenti più stretti era riservato il compito di raccogliere le ceneri del morto, di riporle nell'urna e di pronunciare l'orazione funebre. 292. spruzzandoli: l'aspersione faceva parte del rito funebre e della purificazione.
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296. con le sue armi: pcc'anzi s'era detto che tali armi erano state gettate nel rogo. t!: un'incongruema, dovuta al fatto che Virgilio non poté rivedere il poema.
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cosi li purificò e disse l'estremo saluto. Il pio Enea elevò al guerriero un immenso sepolcro, con le sue armi, il suo remo e la tromba, sotto un aereo monte che dal nome del morto ora si chiama Miseno, e che si chiamerà eternamente Miseno, nei secoli dei secoli.
DISCESA AGLI INFERI
Terminate le esequie, Enea si avvia verso l'antro d'ingresso agli Inferi e con la Sibilla ilnmola quattro giovenche ad Beate, una pecora nera alla Notte ed una vacca a Proserpina; poi, mentre la terra trema e cani invisibili ululano, snudata la spada entra nel vestibolo. (300-337). -
301-306. La descrizione dell'ingresso nel regno degli Inferi è concisa e potente. Il buio dei boschi, il nero del lago, la scura bocca della caverna, il silenzio che vi regna per l'assenza di animali e di uccelli contribuiscono non solo a dare un senso di mistero, ma ispirano terrore. 3n. Beate ... : (vedi nota V.
I7 e V. 150). 316. Eumenidi: chiamate
anche Erinni o Furie. Erano tre: Aletto, Tisifone e Megera. - Gea: personificazione della Terra e madre di tutti gli esseri. 317. una vacca sterile:
perché Proserpina era sterile. 319. re dello Stige: Plutone. I sacrifici al dio delle tenebre dovevano essere fatti di notte e tutte le vittime erano di manto o vello nero. 324. la Dea: Proserpina che viene a schiudere la porta infernale, avendo evidentemente gradito il sacrificio propiziatoria. 325. Procul, o procul t:ste,
profani... totoque absisli&e luco: è il rituale invito ad
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Fatto questo, Enea esegue gli ordini della Sibilta. C'era un'enorme caverna dalla vasta apertura tagliata nella roccia, difesa da un lago nero e dal buio dei boschi. Nessun uccello poteva volarvi impunemente al di sopra, per gli aliti che salivano al cielo convesso, sprigionandosi dalla sua scura bocca. Qui la sacerdotessa fa condurre anzitutto quattro giovani tori dal dorso 'nero; versa sul loro capo del vino, taglia un ciuffo di peli tra le coma e li getta sui fuochi sacri, prima offerta, chiamando a gran voce Ecate potente nel cielo e nell'Erebo. Alcuni guerrieri affondano i coltelli nelle gole dei tori e raccolgono il sangue tiepido nelle tazze. Lo stesso Enea ferisce con la sua spada un'agnella dal vello nero, immolandola alla Notte, che è madre delle Eumenidi, e a Gea sua grande sorella, ed una vacca sterile a te, Proserpina. Poi, di notte, leva altari al re dello Stige e pone sul fuoco interi quarti di carne, versando olio sulle viscere ardenti. Ed ecco, al chiarore dell'alba e al sorgere del sole, la terra mugghiò sotto i piedi, le cime dei boschi cominciarono a muoversi e cani parvero urlare traverso l'ombra, man mano che si avvicinava la Dea. «Profani, via di qui! - grida la profetessa. - Andate via dal bosco! E tu, Enea, sguainando l'acuta spada, avviati sulla strada dell'Ade:
allontanarsi per coloro che non sono direttamente interessati al grande evento che sta per compiersi; in questo
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caso tutti i Troiani, Enea escluso. 327. l'acuta rpada:
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domanderà a che serva la
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adesso è necessario aver coraggio, un cuore risoluto! ». C'.iò detto furiosa si slanciò nell'aperta caverna, ed egli la raggiunse, segui con passi fermi i passi della sua guida. Dei che avete l'impero sulle anime, Ombre silenziose, Caos e Flegetonte, luoghi che vi estendete muti in un'immensa notte: mi sia lecito dire quel che ho udito, svelare col vostro consenso le cose sepolte nella terra profonda e nell'oscurità!
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Andavano senza luce nella notte solitaria, attraverso la tenebra, attraverso le case vuote, i regni deserti di Dite: come fosse un viaggio per boschi con una luna incerta che filtri appena i suoi raggi avari tra il fogliame, quando Giove ha sommerso il cielo d'ombra opaca e la notte ha privato di colore le cose. Nel vestibolo, proprio all'entrata dell'Orco, hanno i loro giacigli il Lutto ed i Rimorsi vendicatori, e vi abitano le pallide Malattie, la Vecchiaia tristissima, la Paura e la Fame cattiva consigliera, la turpe Povertà - fantasmi tremendi a vedersi - , la Morte e la Sofferenza, i Piaceri colpevoli ed il Sonno, fratello della morte. Di fronte c'è la Guerra assassina, con le stanze di ferro delle terribili Furie, e la folle Discordia cinta di bende cruente la chioma viperina. In mezzo un olmo immenso, ombroso, stende i rami e le braccia annose: dicono che questa sia la casa dove stanno di solito i vani Sogni, appesi sotto ciascuna foglia. Ma ancora tanti mostri d'apparenza selvaggia bivaccano sulle porte: i Centauri e le Scille biformi, Briareo spada contro le potenze infernali o le anime. Ebbene forse perché l'arma bagnata nel sangue delle vittime te-
neva lontani gli spiriti maligni o forse per mostrare che l'eroe è un uomo vivo. 333· Caos: lo spazio in-
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commensurabile che era per gli antichi il principio delle cose e che generò l'Erebo e la Notte. · IL VESTiBOLO (338-371).-
Nel vestibolo appaiono all'eroe i mali che tormentano l'umanità e una serie di spaventosi mostri, dalle Chimere alle Arpie, dai Centauri alle Gorgoni. 338. Andavano... : al primo entrare nell'oltretomba oltre ad un' l!lta soli tu dine, oltre la tenebra, par quasi di sentire il vuoto ed il deserto spiri tu ale nei quali si è d'improvviso precipitati per cui l'angoscia, prima latente, ora si fa pesante e quasi insopportabile. 345· Orco: cosl i Romani chiamavano l'Inferno. 345-355· Il vasto vestibolo, nel quale la Sibilla e Enea sono entrati, è popolato di fantasmi orribili: qui sono riunite tutte le cause dal malvivere, fisico, morale e spirituale. E una rapida rassegna che culmina con la personificazione della guerra, delle Furie, racchiuse in gabbie di ferro, e della Discordia che emerge su tutte, fasciata com'è di bende insanguinate e con capelli agitantisi in forma di serpenti velenosi. 358. i vani Sogni: anche i sogni che si rinnovellano, come le foglie sotto le quali si celano, non sono veritieri. « Somnia vana», dice Virgilio e anch'essi sono non ultima causa dei mali umani. 361. Centauri: popolo favoloso della Tracia, formato di mostri per metà comini e metà cavalli. - Scille: mostri dal corpo di pesce e dal
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viso di donna. - Briareo: figlio di Gea e di Urano, gigante con cento braccia e cinquanta teste. 362. Chimera: figlia di Tifone e di Echidna, mostro a forma di leone nella parte anteriore e di drago nella posteriore. Fu uccisa da Bellorofonte. 363. l'Idra di Lerna: anche questo mostro dalla forma di serpente marino con sette teste era figlio di Tifone e di Echidna. 364. Gorgoni: erano tre: Medusa, Steno e Euriale ed avevano la forma di orribili mostri alati. II loro sguardo impietrava. - Arpie: (vedi nota v. 262, canto III). Gerione: mitico re dell'isola Eritea nell'Oceano che secondo la leggenda aveva tre corpi congiunti. Fu ucciso da Ercole. 366. sguainò: per vero era entrato nel vestibolo già con la spada sguainata.
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pre guidato dalla Sibilla, Enea giunge al fiume di fango Acheronte, che sfocia nel Cocito. Da questo si origina la palude Stigia. Qui appare Caronte, il nocchiero infernale che imbarca le ombre dei morti per traghettarle nell'Inferno. Solo gli insepolti non possono venire accolti e debbono attendere cento anni. Tra questi è Palinuro che s'avvicina all'eroe, gli racconta la sua triste fine e lo prega di condurlo con sé o di dargli sepoltura. La Sibilla interviene dicendo ch'egli deve attendere ancora sulla riva, ma che presto sarà sepolto e potrà cosl traghettare il fiume.
immane, dalle cento braccia, Chimera armata di fuoco, l'Idra di Lema che stride orribilmente, le Gorgoni, le Arpie e Gerione, fantasma di tre corpi. Qui Enea, trepido d'improvvisa paura, sguainò la spada presentandone l'acuta punta ai mostri che avanzavano: e se non l'avesse frenato la sua compagna, conscia che quelle vite leggere volano senza corpo e sono mera apparenza, si sarebbe slanciato a percuotere invano con la spada le Ombre.
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Di Ià parte la strada che conduce alle onde del Tartareo Acheronte. Il suo gorgo è un'immensa voragine, che bolle fangosa e si riversa nel Cocito. Custode di questi fiumi è Caronte, spaventoso nocchiero dall'orrenda sporcizia: bianco foltissimo pelo gli pende incolto dal mento, gli occhi pieni di fiamme stan fissi; stralunati, ha un sudicio mantello legato sulle spalle. Spinge lui stesso la barca con un palo, e governa le vele, traghettando i morti sul bruno scafo: vecchio ma Dio, di fiera e vegeta vecchiezza. Tutta una folla immensa correva verso le rive: uomini e donne, corpi di magnanimi eroi usciti di vita, fanciulli e vergini fanciulle, giovani posti sui roghi davanti ai genitori; come le foglie, che cadono a milioni nei boschi staccate dal primo gelo d'autunno, o come gli uccelli che si ammucchiano a schiere fittissime sulla spiaggia
373· Acheronte: (vedi nota v. 169). 377· bianco: vien naturale ricordare i versi di Dante: « Ed ecco verso noi venir per nave l un vecchi<> bianco per antico pelo l gri· dando "guai a voi, anime prave", l non isperate mai veder lo cielo. Il' vegno per menarvi all'altra riva l nelle
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tenebre eterne, in caldo e in gelo». 378. stralunati: come di chi è pazzo ed iroso e deve susci t are il terrore tra le anime. 383-391. La folla di anime che corre quasi sospinta contro sua voglia da una forza soprannaturale ·;erso la riva per essere imbarcata è im-
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venendo dall'alto mare, quando la fredda stagione li spinge oltre l'oceano in paesi assolati. Pregavano di passare per primi quell'acqua, le mani tese nel desiderio della riva di fronte. Ma il triste nocchiero ne sceglie solo qualcuno e scaccia gli altri via dalla sponda sabbiosa. Enea, stupito e commosso da un tale tumulto, disse «Vergine, che wol dire questo affollarsi al fiume? Che vogliono le anime? E per quale motivo alcune sono costrette a abbandonare la riva mentre le altre coi remi solcano l'onda livida?» La vecchia sacerdotessa gli rispose con poche parole: «Figlio d'Anchise,· sicura prole divina, tu vedi gli stagni profondi di Cocito e la Stigia palude, invocata nei grandi giuramenti degli Dei che .non possono offendeme la potenza giurando il falso. La folla cacciata via dal fiume sono i morti insepolti, quelli che l'onda porta invece sono sepolti: il nocchiero è Caronte. Non si può attraversare le rive fosche e le roche correnti prima che l'ossa riposino nella tomba. Chi non è seppellito erra per cento anni intorno a questi lidi; poi finalmente è accolto nella barca e rivede gli stagni desiderati ». Enea si fermò attonito, pensando a molte cose, commiserando il destino triste di quelle anime. E vede mesti, privi di onore sepolcrale Leucaspi e Oronte, capo della flotta di Licia, che mentre navigavano da Troia sui ventosi mari furono entrambi travolti nelle onde dalla bufera, insieme ai compagni e alle navi. Ed ecco farsi avanti Palinuro, il nocchiero, il quale poco prima, nel viaggio dall'Africa, osservando le stelle era caduto in mare giu dalla poppa. Appena Enea ne riconobbe, a fatica, attraverso la fitta oscurità, il mesto volto, gli disse: « Palinuro, qual Dio ti ha rapito e sommerso nell'acqua profonda? Parla! Apollo, che mai ci è sembrato bugiardo, m'ha ingannato soltanto nel tuo caso, poiché pressionante nella sua eterogeneità, ma soprattutto nel
suo silenzio. Non grida, non lamenti, non imprecazioni e
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bestemmie: solo un tendere le mani supplici verso il nocchiero che le fissa con i suoi occhi di fiamma e ne indica qualcuna qua e là. Qui non si può dire che Virgilio si ispiri ad Omero, la cui descrizione della moltitudine delle anime era stata del tutto diversa. Dante invece si ispira al Mantovano sia nel taglio della scena sia nel paragone delle foglie e degli uccelli. Dice infatti: «Come d'autunno si levan le foglie l l'una appresso dell'altra, infin che il ramo l rende alla terra tutte le sue spoglie, l similmente il mal seme d'Adamo l gittansi da quel lido ad una una l per cenni come augei per suo richiamo». 394· triste; per tristo, malvagio. 400. livida: tutto è nel luogo più che scuro ver:tmente livido, cioè in un indefinibile colore fra il grigio ed il bluastro. 404. invocata: quando si giurava sulla palude Stigia gli Dei stessi si astenevano da ogni falsità, sapendo quali terribili conseguenze avrebbe dovuto sopportare il colpevole. 409-410. roche correnti: le acque fangose correndo hanno un sordo mormorio in carattere con l'atmosfera del luogo. 413. desiderati: è la stessa giustizia divina che spinge queste anime a veder definita per l'eternità o la loro condanna o la pace dei Campi Elisi. 417. Leucaspi e Oronte; il primo è ignoto, il secondo è citato nel canto I, versi 137 e sgg.
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430. ti saresti salvato: in massima parte del poema· si accenna a questa profezia; anzi quanto sta dicendo Enea è in palese contrasto con le parole di Apollo e Venere (canto V, nota v. 862). 439· sul mare tempestoso: invece nel canto V, descrivendo la caduta di Palinuro, Virgilio aveva parlato di « placido mare e di flutti tranquilli » (dal verso 897). 439-440. paura... ma per la tua nave: commovente è l'attaccamento di Palinuro ad Enea e grande il senso della responsabilità e del dovere che egli aveva sempre sentito nei confronti del difficile incarico di timoniere. 446-451. Splendida nella sua drammaticità, intensa è la breve e~senziale descrizione di Palinuro che scorge finalmente l'Italia e che nel momento in cui ne tocca la sponde con le mani protese, viene barbaramente ucciso. 457· Velia: o Elea, colonia focese, sede della scuola filosofica eleatica e patria di Parmenide e Zenone. Oggi si chiama Castellamare della Brucca ed è situata tra Pesto e Policastro nel Cilento. 461. dammi la mano: accorata e spontanea è la preghiera di Palinuro e pressante la sua richiesta. « Io ti sono stato fedele nocchiero ed ho dato la vita per te. Ora tu che godi i favori celesti e ti appresti ad attraversare il fiume, portami con te ed evitami la lunga attesa secolare ». Ma Palinuro non si rende conto che la sua richiesta contrasta con la legge infernale. Ci penserà la Sibilla a confortarlo con l'annunzio che presto gli verranno tributate solenni onoran-
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aveva detto che tu ti. saresti salvato dal mare ed arrivato ai confini d'Ausonia. Ha mantenuto cosi la sua promessa?». Allora Palinuro rispose: «L'oracolo di Apollo non ti ingannò, né un Dio mi sommerse nel mare, duce figlio di Anchise. Si ruppe per caso il timone a una scossa violenta: io, che gli stavo attaccato come fanno i piloti e dirigevo la nave, cadendo me lo tirai dietro. Credimi, te lo giuro sul mare tempestoso, io non ebbi paura per me ma per la tua nave, che priva di timone e di pilota avrebbe potuto cedere ad onde cosi grandi. Un violento Noto mi trascinò nel mare per tre notti di tempesta, su immense distese d'acqua; nasceva appena il quarto giorno quando, alzandomi in cima a un'onda lunga, vidi l'Italia. A poco a poco nuotavo verso terra, ed ero già al sicuro se una gente crudele non mi avesse assalito con le armi, accogliendomi - ignara - come una preda, mentre cercavo, impac[ciato dalla veste bagnata, di afferrarmi agli spigoli taglienti di una rupe con le mani protese. Ora mi tiene l'onda e i venti mi travolgono suJia spiaggia. Perciò ti prego per la cara luce del cielo, per l'aria, per le speranze di Julo che cresce, per tuo padre, strappami a questi mali, o invitto! Gettami sopra della terra- Io puoi toccando i porti di Velia. O se c'è il modo, se la tua divina madre ce ne mostra qualcuno (con l'aiuto celeste, io credo, ti prepari a traversare i fiumi e la palude Stigia), dammi la mano, e portami attraverso queste onde, che almeno nella morte io riposi tranquillo! » Ma la sacerdotessa gli disse: «O Palinuro, da dove ti viene quest'empio desiderio? Tu vuoi attraversare insepolto le acque dello Stige ed il fiume severo delle Eumenidi? Vuoi andare senza ordini alla riva proibita?
ze funebri e che il suo nome rimarrà in eterno tra gli uomini. -
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466. il fiume severo: è Cocito, a presidio del quale stanno le Furie.
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Non sperare che i Fati si muovano a pietà, per quanto tu li preghi! Ma ascolta attentamente le mie parole, ti siano conforto nella disgrazia. I popoli vicini al tuo nudo cadavere - turbati da prodigi celesti che avverranno nelle loro città, dovunque - placheranno le tue ossa, elevando una tomba e portandovi vittime sacre: il luogo si chiamerà in eterno Palinuro! ». L'annunzio allontanò per un poco il dolore e gli affanni dal cuore rattristato di Palinuro: è lieto di dare il nome a una terra. Procedendo nel loro viaggio, arrivano al fiume. Quando il nocchiero, da oltre l'onda Stigia, li vede muovere attraverso il bosco silenzioso volgendo il piede alla riva, li assale per primo a parole, gridando: «Chiunque tu sia che t'avvicini armato al nostro fiume, fermati dove sei e di là dimmi perché vieni. Qui è il luogo delle Ombre, del sonno, della notte che addormenta. Non si può trasportare dei corpi viventi sulla carena Stigia. Né devo rallegrarmi d'aver accolto sul fiume Ercole, e Piritoo e Teseo, benché fossero di forza invitta e figli di Numi. Di sua mano il primo incatenò il guardiano del Tartaro, lo portò via tremante· dal trono di Plutone; e gli altri due cercarono di rapire Proserpina dalla stanza nuziale». La profetessa anfrisia rispose brevemente: «Non abbiamo intenzioni cattive, stai tranquillo, queste armi non portano guerra: lo smisurato portinaio, latrando in eterno dal fondo del suo antro, continui a atterrire le ombre senza sangue; la casta Proserpina continui a custodire in pace la casa di suo zio. Costui è il troiano Enea, famoso per le armi e la pietà, che scende da suo padre tra le ombre piu profonde dell'Erebo. Se non ti commuove l'esempio di una tale pietà, almeno riconosci questo ramo!» e mostrò il ramo che teneva nascosto sotto la veste. Il cuore di Caronte, gonfio d'ira, si mise in pace: egli non disse piu nulla. Contemplando il dono venerabile
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468. Non sperare: abbiamo già visto come le leggi dei Fati fossero inesorabili e che nessuno, uomo o dio, poteva opporvisi o contrastarle in vita e in morte. 472. turbati da prodigi celesti: in Velia e nelle città
vicine era scoppiata una pestilenza. Gli oracoli interrogati avevano risposto che sarebbe cessata solo se il corpo di Palinuro avesse avuto onori e sacrifici e degna sepoltura. 478. dare il nome: la vanità di Palinuro è soddisfatta, il suo dolore placato. Infatti ancor oggi promontorio e villaggio si chiamano con il nome del nocchiero. 484. armato: dunquevivo. 488. Né devo rallegrarmi:
infatti Caronte per punizione fu tenuto incatenato per un anno da Plutone. 489-490. Ercole, Teseo: (vedi note e 157). 495· anfrisia: di Infatti il dio aveva
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Apollo. pascolato per qualche tempo le greggi del re Admeto lungo il fiume Anfriso in Tassaglia. 498. portinaio: Cerbero. 501. suo zio: Plutone era marito e zio di Proserpina, in quanto il primo era fratello e la seconda figlia di Giove. 505. pietà: che è osservanza dei propri doveri ed accettazione dei voleri divini. 506. questo ramo: il ramoscello d'oro che era il segno manifesto del favore degli dèi infernali. 508. egli non disse più nulla: Dante dirà con effica-
cia maggiore: « Quinci fur quete le lanose gote l al nocchier della livida palude l che 'ntorno agli occhi avea di fiamme rote ».
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5II. da tanto tempo: cioè da quando glielo avevano mostrato Ercole e poi Teseo. 515. mal contesto: sconnesso o male intrecciato e perciò pieno di fessure. 519. Glauche: di un colore azzurro-verdognolo.
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- MINoSSE (520-561). - Ca-
ronte, dopo aver visto il ramoscello d'Of'o, acconsente a trasportare Enea e la Sibilla sull'altra sponda. Subito trovano Cerbero, cane con tre teste, che cerca di impedir loro il passaggio: la Sibil!a lo placa con una focaccia contenente un sonnifero. Pervengono così nell'Antinferno, custodito da Minosse, o~·e sono i neonati, i condannati ingiustamente ed i suicidi. 520. smisurato: una delle tante iperboli. Certo anche il buio contribuisce a rendere agli occhi della fan tasia più orrende e più grandi le apparizioni. Pensate a questo mostro con tre teste, con il suo latrato assordante e con i peli del collo simili a serpenti e converrete con Virgilio sull'« ingens » usato in questo caso. 524. affatturata: artatamente manipolata. 531. una seconda volta: per tornare indietro. 532. S'udirono subito: la Sibilla ed Enea sono entrati nell'Antinferno ove sono le anime dei neonati, dei condannati ingiustamente e dei' suicidi. 536. sommersi"in una morte immatura: « funere mersit acerbo », è il famoso emistichio che esprime la pietà per questi piccoli esseri morti prima di conoscere la vita e col quale Giosuè C'.ar-
dd fatale virgulto, che non aveva visto da tanto tempo, il nocchiero volse la poppa bruna, s'avvicinò alla riva. Poi allontanò le anime sedute sui lunghi banchi, sgombrando la corsia per far salire il grande Enea. Cigolò sotto il peso lo scafo mal contesto, imbarcando per le tante fessure l'acqua della palude. Finalmente depose Enea e la profetessa incolumi al di là dd fiume, sulla riva densa di fango informe e di glauche erbe acquatiche.
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Lo smisurato Cerbero rintrona questi luoghi col suo ringhio che esce da tre bocche, sdraiato quant'è lungo in un antro. E la sacerdotessa vedendo i suoi tre colli farsi irti di serpenti gli getta una focaccia affatturata di miele ed erbe soporifere. Spalancando le gole il cane l'afferra con fame rabbiosa e subito, sdraiato a terr,a, allunga nd sonno la groppa mostruosa, riempiendo tutta la tana. Addormentato il guardiano, superano l'entrata allontanandosi in fretta da quell'acqua fangosa che non si può attraversare una seconda volta. S'udirono subito voci e un immenso vagito; poiché proprio sul limite dell'Ade stanno le anime piangenti dei bambini che un giorno fatale portò via prima ancora che cominciassero a vivere, rapiti al seno materno per essere sommersi in una morte immatura. Accanto a loro ci sono i condannati a morte sotto falsa accusa. Queste dimore infernali non sono state assegnate senza giudizio e giudice: Minasse inquisitore
Ju~.:ci intitolò l'altrettanto famoso sonetto in morte del figlioletto Dante. 540. Minasse inquisitore: è il famoso re di Creta, figlio di Giove e di Europa che il mito vuole, con il fratello Radamante, giudice infernale in premio del suo profondo senso della giusti-
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zia. Più che figura infernale egli è rappresentato da Virgilio come un solenne e togato giudice romano nell'e. sercizio delle sue alte e burocratiche funzioni. Ben più pittoresca ed infernale la descrizione dantesca: « Stavvi Minòs orribilmente e ringhia; i esamina le colpe in
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scuote l'urna dei fati, convoca l'assemblea dei morti silenziosi, li interroga, ne apprende i delitti e la vita. Poi vengono, tristi, coloro di null'altro colpevoli che d'essersi data la morte di propria mano, d'avere gettata l'anima per odio della luce. Oh, adesso come vorrebbero patire la miseria e le piu dure fatiche nell'alta aria celeste! Ma il destino s'oppone, li incatena la triste palude d'acqua sporca e li serra lo Stige coi suoi nove meandri. Poco piu in là si vede, estesa in lungo e in largo, la pianura che chiamano i Campi del Pianto. Qui segreti sentieri nascondono coloro che un amore crudele consumò, ed una selva di mirti li protegge: nemmeno nella morte trovano requie al dolore. Enea vi scopre Fedra, Procre, ·la triste'Erifile che mostra le ferite infl.ittele dal figlio, ed Evadne e Pasifae; ad esse s'accompagnano Laodamia e Ceneo, divenuta di donna uomo (ma adesso è donna, cambiata dalla morte nella sua antica forma).
Didone La fenicia Didone con la ferita ancor fresca s'aggirava nel bosco. Quando l'eroe troiano le fu vicino, e la vide, e la riconobbe, oscura sull'entrata, / giudica e manda secondo ch'avvinghia». .546.
come
verrebbero:
tutti i morti pagani rimpiangono «la luce» e «l'alta aria celeste»; in modo particolare la rimpiangono i suicidi che, volontariamente, per il « taedium vitae »,hanno troncato il loro soggiorno in terra. In questo modo il poeta, per contrapposizione, esalta la vita ritenendola degna di essere interamente goduta e vissuta. .5,50. nove meandri: vedi la cartina illustrativa dell'Oltretomba.
5.52. Campi del Pianto:
cosi chiamati perché vi stanno piangenti gli amanti infelici. .5.5.5· mirti: il mirto era la pianta sacra alla dea dell'amore, Venere. .5,56. requie al dolore: anzi, dopo morte, il loro dolore aumenta perché senza speranza. .5,56. Fedra: figlia di Pasifae e di Minosse, sposò Teseo ma s'innamorò poi del figliastro lppolito. Non corrisposta, si uccise. .5.57· Procre: sposa di Cefalo, re della Focide. Gelosa
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del marito, lo segui nascostamente durante una caccia e fu da lui uccisa involontariamente. - Erifile: moglie di Anfiarao, rivelò per avere in dono una preziosa collana dove si nascondeva il marito, che non voleva partecipare alla guerra contro Tebe. Caduto Anfiarao sotto le mura della città, il figlio Alcmeone per vendicarne la morte uccise la madre Erifile. .5,58. Evadne: moglie di Capaneo, che non seppe darsi pace per la morte del marito e si gettò sul rogo di lui. - Pasifae: (vedi nota v. 3,5). .5.59· Laodamia: moglie di Protesilao, caduto sotto le mura di Troia, ottenne dagli dèi di rivedere il marito per qualche ora, ma non seppe più distaccarsene e si dette la morte per seguirlo. - Ceneo: per volere di Nettuno fu mutata in maschio. Cadde combattendo contro i Centauri e dopo morte ritornò ad essere donna. Non si capisce perché sia qui tra le eroine dell'amore. DmoNE (,562-.591). - Tra i suicidi per amore Enea scorge l'ombra di Didone e le rivolge parole di pentimento e giustificazione per il proprio abbandono. Ma l'infelice regina non risponde e s'allontana sdegnosa. ,562. ancor fresca: ancora aperta, quasi a significare la continuità tragica del suo errore amoroso. .563. s'aggirava: il verbo esprime molto bene l'inquietudine interiore non ancora placata dal tempo . .564-.56.5. oscura nell'ombra: ombra incerta fra le
ombre alterne del bosco.
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568. con dolce amore: le parole di Enea sono qui finalmente dettate dal cuore. Nell'ultimo colloquio con l'infelice regina l'eroe aveva ispirato il suo dire alla necessità di obbedire all'imperioso ordine di Giove e dei Fati, facendo tacere il sentimento e la pietà; ora invece può manifestare liberamente il suo trasporto d'amore ed insieme il rimorso di essere stato la causa involontaria di tanta tragedia. 579· l'ultima volta: ad uomo vivo è consentito una sola volta di accedere agli Inferi. · 585. senza commuoversi: ed è giusto che sia così, cioè che Didone non si commuova né giustifichi la fuga dell'amante. Il paragone con l'aspra selce e il marmo del monte Marpeso di Paro è appropriato perché esprime l'atteggiamento statuario di Didone, la sua freddezza, il suo sdegno, il suo impietrire insensibile alle parole appassionate di Enea. 588. Sicheo: quel Sicheo che l'aveva tanto amata e ai quale ella si era mantenuta per anni fedele. In questo amore sicuro ella si rifugia, unico conforto in questo règno di disperazione. 591. dolente delta sua sorte: interpreterei: dolente per la sorte di Didone e soprattutto dolente per la propria sorte che lo ha costretto a sopportare così grande dolore ed essendo causa di' un dolore eguale. C'è in queste parole un'anticipazione di carità cristiana, determinata dal bisogno di pace, di perdono che l'animo e la natura del poeta particolarmente sentivano come legge di convivenza umana.
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nell'ombra, come· chi vede o crede di vedere un'esilissima falce di luna all'inizio del mese sorgere tra le nubi, si sciolse in pianto e le disse con dolce amore: «Infelice Didone, dunque era vera la voce che eri morta, che avevi obbedito al tuo estremo destino col ferro. Ahimè, io sono stato la causa della tua morte? Lo giuro per le stelle e i Celesti, per quel che c'è di piu sacro sotto la terra profonda, ho lasciato il tuo lido, regina, mio malgrado. Mi spinsero a fuggire gli ordini degli Dei, che m'obbligano adesso a andare attraverso le ombre per un cammino spinoso e un'altissima notte; non avrei mai creduto di darti un tale dolore partendo da Cartagine. Fermati, non sottrarti alla mia vista! Chi fuggi? Questa è l'ultima volta, per volere del Fato, che io posso parlarti ». Cos{ Enea cercava di calmare quell'anima ardente di furioso dolore, dagli sguardi torvi, e volgerla al pianto. Ma Didone, girando la testa, teneva gli occhi fissi sul suolo, senza commuoversi in volto per quel discorso, piu che fosse un'aspra selce o una rupe di Marpesso. Infine scappò via, si rifugiò sdegnata nel bosco ombroso, dove il primo marito Sicheo condivide i suoi affanni e ricambia il suo amore. Ma Enea la segu{ in lagrime per lungo tratto, mentre s'allontanava, pietoso, dolente della sua sorte.
I campi degli eroi. Deifobo Poi continuò il viaggio che gli era stato consentito. Arrivavano già ai campi piu remoti, appartati, ove vivono gli uomini illustri in guerra;
IL CAMPO DEGLI EROI DEIFOBO (592-677). - Prose-
guendo il cammino giungono tra gli eroi guerrieri, molti dei quali T roiani si affollano attorno ad Enea, mentre quelli Greci si allontanano turbati. Tra coloro che si
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rivolgono a lui, c'è Deifobo, figlio di Priamo e marito di Elena, che narra la sua terribile morte e lo strazio cui fu sottoposto da Menelao e da Ulisse. La Sibilla però pone fine al colloquio che si protrae troppo a lungo.
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e qui gli vennero incontro Tideo, Partenopeo famoso nelle armi, n fantasma di Adrasto pallido e i Troiani caduti in battaglia e molto pianti in terra. Ne vide una lunga fila: Glauco, Medonte, Tersnoco, i tre figli d'Antenore, Ideo che ancora reggeva il suo cocchio e le armi, e Polibete sacro a Cerere. Gemette nel vederli. Frementi le anime s'accalcano intorno a lui, a sinistra e a destra. Non contente di vederlo una volta, indugiano e s'accostano per sapere n motivo per cui era venuto. Ma i capi greci e le schiere di Agamennone, quando scorsero l'eroe vivo e le armi splendenti attraverso la notte, tremarono di paura: alcuni fuggirono come un tempo allorché trovarono scampo sulle navi, altri emisero una debole voce, ma n grido incominciato si spense nelle bocche invano spalancate. E vede anche Deifobo, figlio di Priamo, straziato nel corpo, mutilato crudelmente nel viso, con le mani tagliate, le orecchie strappate, il naso reciso da una turpe ferita. Lo riconosce a stento, poiché tremando cela coi moncherini le atroci cicatrici. Gli dice: « Valoroso Deifobo, nato dal grande sangue di Teucro, chi ti inflisse. pene cosi crudeli? Chi poté osare tanto contro di te? Mi dissero che nell'ultima notte di Troia eri caduto su un mucchio di confusi cadaveri, stremato dalla gran st,rage di Greci. Allora ti elevai una tomba vuota sul lido del capo Reteo, poi tre volte ho invocato a gran voce i tuoi Mani. Quel luogo è segnato dal nome e dalle armi di Deifobo. Amico, non potei rivederti, . né seppellirti partendo in terra natia! » Il figlio di Priamo risponde: «Non hai dimenticato nulla, amico, hai assolto ogni dovere funebre verso Deifobo e verso l'Ombra del suo cadavere. 595· Tideo ... Partenopeo ... Adrasto: sono tre dei più famosi guerrieri che combatterono nella guerra di T e-
be parteggiando per Polinice contro Eteocle. Una leggenda vuole che Adrasto, vedendo la grande strage che
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si svolse sotto le mura della città, divenisse pallido per l'orrore e tale rimanesse anche oltre la morte. 598. pianti: per compianti. 599· Glauco, Medonte, Tersiloco: i tre figli d'Antenore: dopo i Tebani ecco la schiera dei caduti Troiani ricordati da Omero nel XVII dell'Iliade. I tre figli di Antenore sono Polibo, Agenore e Acamante. 6oo. Ideo: araldo e cocchiere del re Priamo. 6ox. Polibete: sacerdote della dea Cerere. 6o6. le schiere di Agamennone: era stato riconosciuto come il capo della spedizione contro Troia e come comandante degli eserciti. 609. come un tempo: parecchie volte sotto l'infuriare degli attacchi di Ettore e di Enea, i Greci avevano dovuto ripiegare, fuggendo, sino alle loro navi, alcune delle quali, anzi, vennero incendiate dai Troiani. 6n. una debole voce: doveva essere un g;ido alto di terrore ed è invece una parvenza di accento che subito si spegne, a ricordare ch'essi sono ombre vane e non conservano del corpo e della vita se non un labile attributo. 613. Deifobo: figlio di Priamo, grande guerriero troiano, terzo marito di Elena. 620. Teucro: figlio di Scamandro e della ninfa Idea, primo re di Troia. 625. capo Reteo: a nord est di Troia Enea aveva elevato, in mancanza del cadavere del cognato, un cenotafio, cioè una tomba vuota. 626. tre volte: secondo Ii costume rituale con il nome del defunto si invocavano le anime dei trapassati (Mani).
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637, tra ingannevoli gioie:
banchettando tra canti e danze di gioia per celebrare la fine della guerra decennale. 639. venne ... : fu trascinato non solo nell'interno della città ma nella. stessa rocca (Pergamo) che costituiva l'ultimo baluardo della difesa. 641. l'orgia: il convito notturno era finito in un'orgia sfrenata.
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646. dulcis et alta quies placidaque simillima morti:
splendido esametro che rende bene la spossatezza e il sonno che sprofondano Deifobo in una quiete, che è purtroppo il preludio della sua orrenda morte. 647· eccellente: dt"tto con ironia amara, ma senza odio, conoscendo di che stoffa era fatta Elena. 654. Ulisse: là dove si ordisce un inganno, puntualmente si trova presente il re di Itaca! 656. scelleratezze: Deifobo ce le risparmia, ma noi possiamo immaginarle rileggendo la descrizione delle mutilazioni subite dall'eroe, all'inizio dell'episodio. 669. mura di Dite: la reggia di Plutone. 670. Eliso: che è la mèta del viaggio.
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Il mio destino e le colpe di Elena di Sparta m'han gettato in un mare di dolori, m'han dato queste ferite in ricordo. Tu lo sai bene come passammo l'ultima notte di Troia tra ingannevoli gioie: è duro rammentarlo ma nect:ssario. Quando il cavallo fatale venne d'un balzo sull'alta Pergamo, pesante, col ventre pieno d'a:.1Ilati, Elena fece finta di guidare un coro, celebrando l'orgia, seguita dalle Troiane: ma, levando una fiaccola in mezzo al coro, mandava segnali ai Greci, chiamandoli dall'alto della rocca. Io mi sdraiai sul letto vinto dalle emozioni ed oppresso dal sonno, e mi assali una quiete dolce e profonda, simile a una placida morte. Quell'eccellente moglie mi porta via di casa tutte le armi e leva la spada di sotto al mio capo; poi chiama il primo ma[rito Menelao e spalanca le porte, consegnandogli in dono la mia testa, sperando di ingraziarselo e cancellare cosi l'antico tradimento. In breve: irrompono tutti e due nella stanza in compagnia di Ulisse, maestro di delitti. O Dei, se è giusto ch'io chieda vendetta, ricambiate queste scelleratezze ai Greci, colpo per colpo! Ma tu, Enea, raccontami come sei giunto qui da vivo. Forse vieni per ordine divino o spinto dal lungo errare sul mare? Quale disgrazia ancora ti sconvolge tanto da farti scendere al fosco paese, alle case dolenti, prive di luce? » Mentre parlavano l'Aurora dalla quadriga rosata aveva già corso metà del suo itinerario celeste. E avrebbero forse perduto cosi l'intero tempo accordato al viaggio se la sacra Sibilla non avesse ammonito il suo compagno, dicendo: «Enea, già cade la notte, e noi passiamo le ore a piangere. Eccoci al punto dove la via si biforca: a destra c'è la strada che porta alle mura di Dite e che dobbiamo seguire per andare all'Eliso; a sinistra c'è il luogo dove sono puniti i malvagi, la strada che porta all'empio Tartaro». Le rispose Deifobo: «Grande sacerdotessa,
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Canto sesto
non t'arrabbiare, andrò via, tornerò ad ingrossare 675
il numero delle Ombre, sparirò nelle tenebre. E tu, Enea, nostra gloria, va! Verso migliori destini». Altro non disse e tornò indietro nella notte.
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Enea si volta e vede all'improvviso, a sm1stra, sotto una roccia, un'immensa città, circondata da tre cerchi di mura; un fiume vorticoso, il Flegetonte, la cinge con le sue acque di fuoco che trascinano massi risonanti. Di fronte c'è una porta grandissima, e colonne d'acciaio che nessun uomo e nemmeno gli stessi Dei potrebbero spezzare. E c'è una torre altissima, di ferro, su cui siede Tisifone, la veste insanguinata, custode sempre insonne dell'atrio, giorno e notte. Si sentono venire di là pianti, crudeli colpi di frusta, stridore di ferro e di catene trascinate. Atterrito da quel frastuono Enea si fermò ad ascoltare: «Sacra vergine, parla: che sorta di delitti sono puniti laggiu? Che pene opprimono i miseri peccatori? Che pianto si leva?». La profetessa gli rispose: «Famoso duce dei Teucri, agli uomini senza colpe è proibito battere a quella porta scellerata; ma Ecate m'insegnò le pene divine e mi condusse dovunque quando mi mise a capo dei boschi dell'Averno. Radamanto di Cnosso presiede a questi regni terribili: e castiga, confessa, costringe chi da vivo ha peccato a espiare i delitti che tanti son riusciti a tenere nascosti sino alla tarda morte, lieti del vano inganno. Tisifone vendicatrice, munita di una frusta 676. nostra gloria: Enea ha certamente reso edotto Deifobo delle sue vicende e dell'alta missione che i Fati gli hanno assegnato: ecco le ragioni dell'appellativo di « decus », cioè di gloria della stirpe troiana.
IL TARTARO (678·782). Arrivano poco dopo ai piedi di un muraglione che cinge per tre volte Ult castello e lungo il quale scorre il Fleget<Jnte. Custode ne Ì! Rada· manto, assistito dalla furia Tisifone. Siamo nel Tartaro
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ove sono puniti i Giganti, i Titani ed i Lapiti. Sulla porl!t della re.ggia di Dite, Enea, su invito della Sibilla, affigge il ramoscello d'oro.
68o-682. Sono da segnalare i due esametri per la loro armonia onomatopeica: « quae rapidus flammis ambit torrentibus amnis - Tartareus Phlegethon, torquetque sonantia saxa ». 683. d'acciaio: l'acciaio non era ovviamente conosciuto dagli antichi. Virgilio parla di « adamante » cioè di qualcosa di duro e di incorruttibile che il commentatore ha reso con acciaio. 686. Tisifone: una delle tre Furie, il cui nome letteralmente significa « colei che punisce i delitti». Aveva forme umane con occhi di fuoco, ali di pipistrello ed era anguigrinita. 695. è proibito: ai giusti e pii vivi, come Enea, è lecito visitare l'Antinferno ove restano gli infelici, e i Campi Elisi con i beati, ma non il Tartaro ove sono puniti duramente i colpevoli. 696. Beate: la già ricordata Proserpina, prima di affidare alla Sibilla la custodia delle porte di Averno, le aveva fatto visitare l'intero oltretomba. 699. Radamante: figlio di Giove e di Europa e fratello di Minosse. Giove lo scelse per il suo alto e severo scn~o della giustizia, come giudice delle anime. 703. vnnn inganno: incisiva legge morale che Virgilio condeP.~a in poche parole. Inutile cerc-are di nascondere i propri peccati e goderne: verranno fata.lmente al pettine di Radamante.
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707. le crudeli sorelle: Aletto e Megera, la prima simbolo dell'invidia e dell'odio, la seconda della violenza e della frode. 712. l'Idra: non è qudla di Lerna che abbiamo già incontrato nel vestibolo (vedi v. 363); questo è un mostro diverso con cinquanta teste. 715. due volte più profondo: la descrizione è fantastica e di conseguenza immaginarie le proporzioni delle cose e la topografia infernale. 718. i Titani: cosi vennero chiamati i figli di Urano e Gea che simboleggiavano le forze scatenate della natura. Avevano statura gigantesca; qualcuno era dotato di cento braccia (Centimani), altri avevano un solo occhio in fronte (Ciclopi). Si ribellarono a Giove e assalirono l'Olimpo ma furono respinti dai fulmini e confinati nelle viscere della terra. Sono i padri dei Giganti. 719. Oto e Efialte: sono due giganti, detti anche Alòidi, perché figli di Aloo. Tentarono anch'essi la scalata all'Olimpo, sovrapponendo monte a monte, ma furono uccisi dalle saette di Apollo. . 721. Salmoneo: figlio di Eolo e fratello di Sisifo. Nel regno di Elide, su cui governava, costrul un ponte metallico sul quale guidava un carro a galoppo per imitare il rombo del tuono, perché voleva rivaleggiare con Giove, che, indignato, lo fulminò. 735· Tizio: gigante figlio di Giove e della Terra. Si fece beffe ed insultò Latona, i cui figli, Diana ed Apollo, lo uccisero a colpi di freccia. La leggenda vuole
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sferza quei peccatori e li insulta, agitando con la sinistra torvi serpenti: poi chiama le crudeli sorelle. Allora finalmente le porte maledette si aprono, stridendo sui cardini con suono orrendo. Riesci a vedere che sconvolgente figura siede nell'atrio? Chi custodisce le porte? È Tisifone. E dentro, ancora piu feroce, c'è l'Idra spaventosa, enorme, con cinquanta bocche spalancate. Poi si apre a precipizio il Tartaro e s'inabissa sotto le ombre, due volte piu profondo del cielo che a perdita d'occhi s'alza sino all'Olimpo. RotolafiO laggiu, piombativi dal fulmine, i Titani, la prole antica della Terra. Vi ho visto Oto e Efialte dai corpi immani, che vollero distruggere il cielo, cacciare Giove dall'alto regno. Vi ho visto punito Salmoneo, che imitava le folgori di Giove, il tuono dell'Olimpo. Trascinato da quattro cavalli, scuotendo una face, andava trionfante tra i popoli greci e nella sua città posta al centro dell'Elide, reclamando per sé gli onori divini: cercava follemente di imitare, col rombo del suo carro di bronzo e col galoppo serrato dei cavalli dall'unghia di corno, le tempeste e il fulmine che non si può imitare. Ma Giove onnipotente, irato, di tra le nuvole nere gli scagliò un vero fulmine (ben diverso dai tizzi dalla fiamma fumosa che Salmoneo agitava) e lo tuffò a capofitto in un immenso turbine. E c'è Tizio, nato anche lui dalla Terra madre di tutto, il cui corpo è lungo nove jugeri. Un enorme avvoltoio gli scava dentro il fianco col becco adunco, rodendogli il fegato immortale, le viscere dolenti: s'annida nel suo petto e non dà tregua alle fibre che rinascono sempre. Sopra i Lapiti, Issione e Piritoo, è sospeso
ch'egli fosse inchiodato nel profondo Tartaro e che due avvoltoi per l'eternità si pa· scessero del suo fegato, continuamente rinascente.
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741. Lapiti: popolo della Tessaglia formato da uomini giganteschi. Issione ed il figlio Piritoo governarono i Lapiti, ma l'uno per aver
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un masso nero che sembra stia 1f 1f per cadere. Splendono i piedi d'oro di letti sontuosi, son preparati banchetti con lusso regale: vicino al peccatore è sdraiata una Furia, la maggiore di tutte, non gli lascia toccare con le mani le mense, e si leva tenendo una fiaccola in pugno, grida con voce di tuono. Qui stanno coloro che odiarono in vita i fratelli, o picchiarono i loro padri, o ordirono frodi ai loro clienti, o stettero a covare da soli le ricchezze riunite (sono i piu) senza dividerle coi propri parenti; ci sono gli uccisi per adulterio, e coloro che presero parte a guerre sacrileghe, o tradirono la fede giurata ai padroni: rinchiusi qui scontano la pena. Non cercar di sapere quale sia questa pena, quale sorte o delitto abbia sommerso là quegli uomini. C'è chi rotola sassi enormi, o è appeso, legato, ai raggi d'una ruota. L'infelice Teseo sta seduto e in eterno starà seduto; Flegias grida a tutta voce attraverso le ombre: «Il mio esempio vi insegni ad essere giusti; a non disprezzare gli Dei!». C'è chi vendette la patria per denaro e le impose un tiranno dispotico; chi fece e disfece leggi per denaro; c'è chi incestuoso violò la figlia, consumò nozze illecite: tutti pensarono e compirono qualcosa di tremendo. Se avessi cento lingue, cento bocche, una voce di ferro non potrei parlarti di tutti i delitti e passare in rassegna tutte le varie pene». Ciò detto la vecchia sacerdotessa di Febo soggiunse: «Ma via, riprendi il cammino, compi il dovere intrapreso. Affrettiamoci, vedo di fronte a noi le mura uscite dalle officine attentato all'onore di Giunone, l'altro per aver cercato di rapire Proserpina, furono scaraventati nell'Inferno. 745· una Furia: Tisifone, di cui si è parla to poc' anzi.
Altri commentatori la identificavano invece con Celeno, una delle Arpie, il cui compito era quello di impedire di avvicinarsi alle mense imbandite. 751. clienti: frodare il
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proprio cliente, cioè colui che si affidava interamente sia per quanto riguardavi la vita pubblica sia per quelta p'rivata, era per il diritto romano uno dei crimini maggiori, contemplato da una delle leggi delle XII Tavole. 752. da soli: sono gli avari. 760. rotola sassi enormi: è Sisifo, ucciso da Teseo per i suoi misfatti di grassatore e condannato a spingere verso la cima di un monte un sasso che rotolava a valle dall'altro versante. 761. ai raggi di una ruota: è Issione, di cui abbiamo detto nella nota al verso 741. 762. in eterno: per il tentato ratto di Proserpina, già ricordato. 762: Flegias: figlio di Marte e di Crisa, fu re della Beozia. Per vendicarsi di Apollo che aveva sedotto la figlia Coronide, incendiò il tempio del dio in Delfo, ma fu ucciso dallo stesso e precipitato nel Tartaro. 765-773. Ci sono senz'altro in questi versi delle chiare allusioni alla vita romana dei tempi di Virgilio. Dice bene il Funaioli: «Il Tartaro è il riflesso della vita mondana nella sua depravazione civile, religiosa, sociale e politica con speciale riferimento a ciò che costituisce il cardine della nostra esistenza: la famiglia, la patria, il soprannaturale, e con gli echi, dappertutto risonanti, della storia romana e del turbinio della rivoluzione da cui Roma è appena uscita». 777· le mura: della città di Plutone, costruite nelle sotterranee officine di Vulcano dai Ciclopi.
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782. spruzzatosi: è la rituale purificazione prima del rito e dello scioglimento di un voto fatto.
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bandonato il Tartaro, giungono alfine ai Campi Elisi, luminosi e sereni, ove sono le ombre dei pii e dei giusti. Nelle grandi e verdeggianti pianure, nei boschi, s'aggirano profeti, eroi, sacerdoti, artisti e benefattori che s'intrattengono in conversari, in preghiere, in giochi ed in canti. Il capo di costoro, Museo, mostra la via per trovare Anchise. 788. un sole: diverso da quello che illumina la terra. È insomma un mondo a sé stante, dovuto alla fantasia del poeta; un paradiso pagano già immaginato da Omero e da Platone ai quali il Nostro attinge e si ispira, e nel quale i beati continuano le loro predilette attività terrene senza naturalmente sentire più il dolore, la passione e la fatica che li travagliarono da vivi. 79I. Orfeo: (vedi nota
I Campi Elisi e il fiume Lete
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794· plettro: il piccolo pettine d'avorio con il quale si toccano e si fanno vibrare le corde. 795· Ilo ... : è qui enumerata la stirpe dei re Troiani. Da Giove ed Elettra nacque Dardano che sposò una figlia di Teucro, da Dardano Erittonio, da Erittonio Troo, da Troo Ilo e Assaraco, da Ilo Priamo, da Assaraco Anchise. 799· vuote apparenze: per-
dei Ciclopi e la porta dove dobbiamo lasciare il ramoscello d'oro per la grande Proserpina ». Avanzarono insieme nel buio delle vie avvicinandosi in fretta alla porta. Il pio Enea raggiunse l'entrata e, spruzzatosi d'acqua allora attinta, affisse il ramo sulla soglia.
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Fatto questo, adempiuto il voto alla Dea, giunsero ai luoghi felici, al verde ameno dei boschi fortunati, al soggiorno dei beati. Qui un'aria piu libera avvolge i campi di luce purpurea, ci sono stelle e un sole. Qualcuno dei beati si esercita sull'erba in gare sportive o lotta sulla fulva arena; qualcun altro canta dei versi o danza in coro. Il tracio Orfeo con una lunga veste fa risuonare le sette corde della sua cetra, toccandole con le dita o con un plettro d'avorio. Riposano qui in eterno Ilo, Assaraco e Dardano fondatore di Troia, eroi magnanimi, nati in un'età migliore, antica stirpe di Teucro, razza meravigliosa. Enea ammira le armi e i carri dei guerrieri: vuote apparenu. Le !ance stanno piantate in terra ed i cavalli sciolti pascorano per il prato. Ora che sono morti hanno lo stesso amore per i carri e le armi, e la stessa passione d'allevare i cavalli che ebbero da vivi. Poi ne vede molti altri a destra e a sinistra: banchettano sull'erba cantando in coro un inno di gioia, in mezzo a un bosco profumato d'alloro per dove scorre il fiume Po, ricco d'acque, e sale verso la terra. Qui dimorano gli eroi che furono feriti combattendo per la patria, i sacerdoti casti, i poeti che scrissero versi degni di Apollo, gli inventori delle arti
ché non servono più al loro vero scopo, o anche perché irreali. 8o7-8o8. sale verso la terra: Virgilio fa derivare il Po
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dai Campi Elisi seguendo una diffusa leggenda sul mitico fiume Eridano. Su. arti ... : come le arti e le scienze applicate.
Canto sesto
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adatte a ingentilire la vita, e coloro che bene meritarono la memoria dei posteri: le tempie incoronate da una benda di neve. La Sibilla parlò a quelle Ombre, che intorno la si accalcavano, e chiese a Museo che vedeva torreggiare sugli altri piu alto e piu autorevole: « Anime care e tu, grande poeta, diteci, dov'è Anchise? Per lui siamo venuti qui, abbiamo attraversato i grandi fiumi dell'Erebo ». E l'eroe le rispose: «Nessuno di noi ha un posto fisso; stiamo nei boschi ombrosi, sul bordo dei fiumi e nei prati freschi di ruscelli. Ma se cercate Anchise, superate quel colle laggiu, vi guiderò su una facile via». Li precedette mostrando dall'alto i campi lucenti; ed essi subito scesero la china della collina.
L'incontro con Anchise
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Frattanto Anchise guardava con dolce attenzione le anime racchiuse nel fondo di una valle erbosa: destinate a venire alla luce sulla terra. Cosi passava in rassegna i suoi futuri nipoti, le loro sorti fatali, i costumi e le imprese. Appena vide Enea che gli veniva incontro attraverso il bel prato gli tese le mani piangendo di gioia: « Finalmente sei giunto, la tua pietà - che tanto ho aspettato - ha potuto vincere le durezze del cammino? Ti vedo, sento la nota voce, posso parlarti, figlio! Speravo di vederti e calcolavo il tempo: né la trepida attesa m'ha ingannato. Attraverso quali terre, attraverso quanti mari portato, da quanti pericoli 813. che bene meritarono: i benefattori. 814. benda di neve: simile a quella con la quale si cingevano i sacerdoti. Questa distinzione esteriore li rende degni di venerazione. 8r6. Museo: discepolo di Orfeo, di cui alcuni lo vo-
gliono addirittura figlio. Fu, secondo la tradizione, inventore della poesia religiosa; qui lo si fa torreggiare sugli altri per fama ed autorità. L-INCONTRO CON ANCHISE
(828-908). - Anchise scorge da lunge il figlio e gli tende
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le braccia, ma l'abbraccio di Enea è vano. Poco lontano lungo le sponde del fiume Lete, l'eroe scorge una folla di anime in attesa. Ne domanda al padre che spiega come quelle anime aspettino di rivivere, tornando sulla terra. Poiché il concetto non è chiaro, si dilunga ad enunciare ed approfondire la teoria dell'anima universale. Poi conduce la Sibilla ed Enea su una collinetta e incomincia la rassegna dei grandi romani futuri, in cui le ombre si reincarneranno. 830. destinate a venire alla luce: dice a questo proposito il Vitali: «Finzione, questa, ardita ed insieme poeticamente genialissima, in quanto, pur ispirandosi alla dottrina pitagorica e platonica delle successive perenni reincarnazioni delle anime umane, immagina che tutte le anime dei Romani futuri siano già ora nel momento in cui Enea visita l'Elisio, qui radunate nell'attesa della loro nuova vita, a cui molte giungeranno tanti secoli dopo; non solo, ma anche abbiamo già, da sl lontano tempo, il nome e la funzione che sarà loro assegnata in tale !or nuova vita». 832. fatali: che il Fato aveva destinato loro. 835-836. alacris palmas utrasque tetendit; effusaeque genis lacrimae et vox excidit ore: «Venisti tan· dem ..... » Virgilio ha reso con bella ed incalzante evi· denza lo stato d'animo del vecchio padre Anchise che sa del viaggio del figlio e finalmente lo vede e gli può parlare dopo una lunga trepida attesa.
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Canto sesto
844. ho temuto i pericoli: discreto e velato accenno alla sconvolgente passione di Didone che tra le tante traversie affrontate e superate dall'eroe, era stata di certo la prova più dolorosa e difficile. 8,5o-8,52. Dirà Dante (Purg. II, 8,1) in un incontro simile a questo: « Oh ombre vane fuor che nell'aspetto! l Tre volte dietro a lei le mani avvinsi l e tante mi tornai con esse al petto». 8,54. Lete: fiume il cui nome secondo l'etimo greco significa « dimenticanza ». Le anime, destinate a reincarnarsi, ne bevevano le acque per dimenticare la vita precedentemente vissuta. 857. le api: il paragone rientra nella consuetudine e nella sensibilità del Virgilio georgico e bucolico, ma è allfhe suggerito dalla tradizione che vedeva nelle api la simbologia delle anime pronte a reincarnarsi. 866. desiderfJ mostrarti: lo scopo principale del viaggio di Enea agli Inferi è proprio quello di sapere quale magnifica e nobile discendenza egli avrà e quali grandi gesta saranno compiute dai suoi discendenti. 869-873. ~ un concetto filosofico che suona alquanto stonato in bocca ad un pagano, che nella vita terrena e nelle dolcezze ma teri ali vedeva il termine di ogni desiderio. Ma Virgilio dà al protagonista del suo poema una spiritualità nuova, che anticipa in qualche modo il pessimismo cristiano e spiega come i tempi in cui fu scritta l'opera fossero maturi per l'avvento del Messia. 875-908. È la celebre teo-
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sbattuto, o figlio, ti accolgo! E quanto ho temuto i pericoli del regno della Libia! » E l'eroe: «La tua Ombra dolente, tante volte veduta in sogno, mi spinse a venire quaggiu: le mie navi son ferme sul Tirreno. Deh, lasciami prendere la tua mano! Non sottratti al mio abbraccio!» Cosi dicendo bagnava le gote di pianto. Tre volte cercò di gettargli le braccia al collo, tre volte l'Ombra, invano abbracciata, gli sfuggi dalle mani simile ai venti leggeri o ad un alato sogno. Nella valle appartata Enea vede una selva solitaria, fruscianti virgulti e il fiume Lete che bagna quel paese di pace. Intorno ad esso si aggiravano popoli e genti innumerevoli: cosi nell'estate serena le api si posano sui fiori colorati e sui candidi gigli e tutta la pianura risuona del loro ronzio. Enea stupisce alla vista improvvisa e ne chiede il significato, che fiume sia quello laggiu, chi siano le anime che affollano le rive. E Anchise: « Coloro cui tocca incarnarsi una seconda volta, bevono al Lete un'acqua che fa dimenticare gli affanni, un lungo oblio. Ma è tanto che desidero mostrarti, una per una, le anime che un giorno saranno j miei discendenti; cosi sempre di piu potrai rallegrarti d'aver raggiunto l'Italia ». « Padre, dobbiamo credere che ci siano delle anime che fuggono di qui per salire nell'aria terrestre e ritornare di nuovo nei pesanti corpi? Che desiderio insensato di vita possono avere, infelici?» Allora Anchise gli spiega ogni cosa, per ordine. «Dapprima uno spirito vivifica dall'interno cielo, terra, le liquide distese marine,
ria della metempsicosi secondo la dottrina di Pitagora. L'universo trae la vita da un solo Spirito che, mescolandosi in vari modi con la materia, dà origine a tutti gli esseri viventi. Ma lo Spirito, nel contatto continuo e permanente con la materia, finisce con il contaminarsi e
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deve di conseguenza purificarsi nell'Oltretomba, dopo la morte del corpo. Condotta a termine dopo mille anni tale purificazione, che avviene per mezzo del fuoco, dell'acqua e dell'aria, le anime sono chiamate a bere l'acqua del Letc per dimenticare del tutto il passa to.
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il sole Titanio, il globo lucente della luna:
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una men\e diffusa per le membra del mondo ne muove l'intera mole, si mescola con la sua massa. Nascono da esso le razze degli uomini e degli animali, le vite dei volatili, i mostri che il mare produce sotto la sua superficie lucente come il marmo. In tali semi di vita c'è un'energia di fuoco, una celeste origine: ma i corpi, questi pesi nocivi li rendono lenti, le membra mortali e gli organi terreni li ottundono. Perciò sono soggetti al timore e al desiderio, al dolore e alla gioia; rinchiusi nel buio carcere del corpo non riescono a vedere il cielo. Neanche quando nel giorno supremo la vita le ha lasciate quelle povere anime riescono a liberarsi da tutti i mali e da tutte le brutture del corpo: tanto i peccati han messo radici profonde. Cosi sono soggette a pene e riscattano le colpe an.tiche. Alcune sospese per aria sono investite dai soffi del vento; altre lavano in fondo a un'acqua impetuosa, o bruciano nel fuoco, la colpa che le infettò. Ognuno soffre il destino che gli compete. Dopo siamo mandati in Eliso, ma rimaniamo in pochi nei vasti campi ridenti, finché un lungo scorrer di giorni, compiuto il giro del [tempo, abbia tolto ogni macchia e abbia lasciato puro lo spirito celeste, la scintilla del soffio primitivo. Quelle anime che vedi, invece, dopo mille anni d'attesa, un Dio le chiama al Lete in schiera immensa, perché bevano oblio e dim~:ntiche del passato rivedano il cielo convesso, le punga il desiderio di tornare nei corpi ».
I grandi eroi romani 910
Ciò detto Anchise condusse il figlio ~ la Sibilla in mezzo alla folla rumorosa delle anime, Soltanto allora tornate allo stato primitivo sono pronte e desiderose di incarnarsi cd incominciare una nuova vita.
·877. il sole Titanio: lperione, uno dei Titani, antica personificazione del Sole. 878-879. La mente è lo
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spirito, la mole la materia. 889. a vedere il cielo: cioè ad obbedire agli impulsi spirituali che li libererebbero dalle colpe e dai peccati. 898. Ognuno soffre: è la legge del contrappasso che assegna una pena simile o contraria al peccato prevalente, presumibilmente nell'Antinferno o nel Tartaro. 905. un Dio: probabilmente Mercurio. 908. il desiderio di tornare nei corpi: questa nuova vita sarà vissuta in modo diverso dalla precedente; tuttavia il male ed il peccato torneranno a macchiare l'anima che dovrà purgare dopo la morte le sue colpe e cosi di seguito per l'eternità.
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GRANDI
EROI
ROMANI
(909-1091). - Si comincia con i Re Albani tra i quali sono Silvio, Proca, Capi, Numitore, Silvio Enea e Romolo. Subito dopo Anchise indica Cesare Augusto, il più grande e glorioso di tutti. Si passa poi ai sette Re di Roma, a Giulio Cesare, a Pompeo, a Mummio, a Paolo Emilio, ai Gracchi, agli Scipiani, ai Fabii. Si termina con Marcello, nipote di Claudio Marcello, vincitore dei Galli e designato successore di Augusto che morì in giovane età. Dopo la rassegna Anchise predice al figlio ciò che lo attende nel Lazio e si congeda. La Sibilla ed Enea escono per una porta eburnea dal regno degli Inferi. Lasciata la Sibilla, Ene.s ritorna rapidamente presso i suoi, salpa le ancore e giunge a Gaeta. 910. rumorosa: nell'Antinferno le anime 'lon par-
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Canto sesto
lavano quasi: ora a mano a mano ci si avvicina al momento della reincarnazione, la folla degli spiriti diviene rumorosa come se già fosse iniziata la novella vita. 915. l'Italia: cioè la discendenza dalla stirpe troiana mescolatasi a quella latina. 916. il nostro nome: forse la gens Iulia, cosl denominata da Iulo Ascanio. 918. asta senza ferro: era un alto riconoscimento di valore individuale. Infatti coloro che si distinguevano su tutti in battaglia riceve· vano un'asta priva della pun ta di ferro, quasi a significare ch'essi non avevano più nemici, avendoli uccisi o messi in fuga tutti. Questo primo valoroso è Silvio, figlio di Enea e di Lavinia.
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923. allevato nei boschi:
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cioè nelle « silvae » dal 1..! quali veniva il suo nome. 924. la stirpe ... : c'è con· traddizione tra quanto qui si afferma e quanto si era detto nei canti I e V a proposito di Ascanio, primo re di Alba Longa. Forse Virgilio accetta la leggenda di un conflitto sorto tra Silvio e Ascanio, con la vittoria del primo.
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guadagnando un'altura da cui veder passare tutti in fila, uno a uno, e distinguerne il volto. « Via, ti racconterò la gloria futura della stirpe di Dardano, ti mostrerò i nipoti che ci darà l'Italia: grandi anime fatali destinate a portare un giorno il nostro nome. Quel giovane lontano (lo vedi?), che s'appoggia a un'asta senza ferro, è Silvio, nome albano, il tuo ultimo figlio. La sorte gli ha assegnato i luoghi piu vicini alla luce, verrà per primo al mondo, di sangue italico e troiano. Nascerà da te vecchio e da tua moglie Lavinia, sarà allevato nei boschi, re e padre di re, la stirpe da lui sorta dominerà Alba Longa. L'anima piu vicina a lui è Proca, gloria del popolo troiano; e poi ci sono Capi, Numitore, Enea Silvio che avrà il tuo stesso nome, illustre per pietà e per valore quando potrà regnare su Alba. Guarda che giovani, guarda come appaiono forti! Guarda le loro tempie come sono ombreggiate dalla corona civica! Ti fonderanno sui monti la città di Fidene, Nomento e Gabi, le rocche Collatine, Pomezia e la fortezza d'lnuo, le grandi Boia e Cora: oggi luoghi deserti, ma un giorno avranno un nome. Fa compagnia al suo avo Romolo, figlio dì Marte, che nascerà da una madre tenera del sangue d'Assaraco Vedi come due creste gli oscillano sull'elmo, come lo stesso Padre lo consacra divino? Sarà lui a fondare quella Roma famosa
925-927. Proca... Capi ... Numitore ... Enea Silvio: re
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Albani non elencati in ordine cronologico. L'ultimo giungerà tardi al regno, perché aveva dovuto combattere contro un usurpatore.
attribuita a coloro che si distinguevano in grandi ope· re di pace e soprattutto ai fondatori di colonie. 932-933. Fidene: tra Veio e Roma. - Nomento: l'odierna Mentana. - Gabi: presso Palestrina. - Collatine: Collazia sull'Aniene.- Pomezia: l'odierna Suessa. - Inuo: fortezza dei Rutuli, sacra al dio lnuo, che corrispondeva al dio Pan. - Boia: città dequi Equi, presso Preneste.
929. Guarda che giovani:
secondo Livio questa è l'esatta successione dei re Albani: Ascanio, Silvio, Enea Silvio, Latino Silvio, Alba, Ati, Capeto, Tiberino, Agrippa, Romolo, Silvio, Proca, Numitore e Amulio. 93!. corona civica: era
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- Cora: l'odierna Cori pres· so Velletri. 836. al suo avo: Numitore. 937· da una madre: Rea Silvia, costretta dallo zio Amulio a farsi vestale perché da lei non nascessero rivendicatori del regno, ebbe da Marte due gemelli, Romolo e Remo. (Vedi nota canto I, v. 318). 938. due creste: cosl ve·
nivano rappresentati Marte e suo figlio Romolo, poi ono-
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che estenderà il suo impero sopra tutta la terra, che innalzerà la sua anima grande sino all'Olimpo, circondando di mura ben sette colli. Madre fortunata d'eroi! Cosi la Berecinzia Cibele, incoronata di torri, trasportata sul suo carro, attraversa le città della Frigia, lieta della sua prole divina, felice di abbracciare i suoi cento nipoti, tutti Celesti, tutti abitanti nelle alte regioni dell'aria. « Ora guarda laggiu, osserva i tuoi Romani. I tuoi Romani! C'è Cesare e tutta la progenie di Julo, che un giorno uscirà sotto la volta del cielo. Questo è l'uomo promessoti sempre, da tanto tempo: Cesare AugÙsto divino. Egli riporterà ancora una volta nel Lazio l'età dell'oro, pei campi dove un tempo regnava Saturno; estenderà il suo dominio sopra i Garamanti e gli Indi, dovunque ci sia una terra, fuori delle costellazioni, fuori di tutte le strade dell'anno e del sole, dove Atlante che porta il cielo fa roteare sulla sua spalla la volta ornata di stelle lucenti. Già sin d'ora, in attesa del suo arrivo, la terra meotica e i regni del Caspio tremano per i responsi degli Dei, e si turbano le trepide foci del Nilo dai sette rami. Nemmeno Ercole ha percorso tanto spazio di terra, sebbene trafiggesse la cerva dai piedi di bronzo e rendesse sicuri i boschi d'Erimanto e atterrisse con l'arco Lerna; nemmeno Bacco che vittorioso guida rato sugli altari con il nome di Quirino. 943· Madre ... : «felix prole virum ». Dall'immagine discende con spontaneità il paragone con la dea Cibele, onorata in modo particolare a Berecinto, città della Frigia, che veniva rappresentata su un cocchio trascinato da leoni, con il capo cinto da una corona turrita perché presiedeva alla fondazione delle nuove città, lieta di essere circondata dai suoi
innumeri discendenti di stirpe divina. 953· da tanto tempo: s'intende dai fati. Infatti Virgilio ne ha già parlato a lungo nel canto I, vv. 333-339. 956. Saturno: cacciato dal figlio Giove, Saturno si rifugiò in Italia, dove insegnò agli abitanti l'agricoltura. Durante il suo regno ìa pace e la serenità dominarono sovrane e quell'età fu chiamata dell'oro. Sarà compito di Augusto rinnovarla.
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957· Garamanti e Indi: i primi furono gli abitatori della regione del Fezzan, ma qui indicano in genere tutti i popoli dell'Africa Settentrionale; gli Indi, abitanti dell'India, non furono sottomessi a Roma. ma mandavano all'imperatore tributi ed ambasciatori. 959· fuori ... : l'Impero di Augusto si estenderà su tutte le terre abitate fin là dove non c'è più tempo né spazio. 960. Atlante: uno dei giganti figli di Giove che si ribellò al padre e da questi venne condannato a sostenere il mondo sulle spalle. Secondo la leggenda, fu un grande astronomo ed insegnò agli uomini le leggi del cielo. Per questo venne divinizzato. Atlante aveva dato il nome alla catena delle montagne della Mauritania, al di là delle quali nessuno si era mai spinto. 963. meotica: la terra meo. tica era quella che si stendeva intorno all'odierno mare d'Azof ed era abitata dagli Sci ti. 964. Nilo: si accenna alla conquista da parte di Ottaviano, dopo la battaglia di Azio, dell'intero Egitto. 965. Nemmeno Ercole ... : si enumerano tre delle I 2 fatoiche di Ercole: la cattura della cerva dai piedi di bronzo sacra a Diana nei boschi di Cerina: l'uccisione del cinghiale di Erimanto che devastava l'Arcadia; l'uccisione dell'Idra di Lerna, mostro dalle sette teste, di cni una immortale. 969. Bacco: la leggenda vuole che Bacco sia stato allevato sul monte Nisa, in India, e che su un carro ti-
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rato da tigri percorse quell'immenso paese, assoggettandolo e diffondendovi la cultura della vite. 972. E tu esiti ancora: dopo quanto ti ho mostrato e detto, tu esiteresti .ancora a dar prova di speranza e di coraggio nel procedere alla conquista del Lazio? La risposta è implicita. Fin qui il discorso illustrativo di Anchise, che a noi pare un po' troppo roboante e sonoro e qua e là più che poetico, retorico. 974· quell'alto eroe: è Numa Pompilio, re sacerdote che introdusse e ordinò il culto religioso in Roma (sacri arredi). Era nativo di un piccolo borgo, Curi, nella Sabina e regnò pacificamente (incoronato di olivo). 980. Tullo: Tullo Ostilio fu invece re guerriero che chiamò i cittadini alle armi e li guidò a vittorie sui popoli vicini ed in particolare alla distruzione di Alba Longa. 983. Anco Marzio: il quarto re di Roma sarà ambizioso e desideroso di accattivarsi, a differenza di Tullio, i favori popolari. 986. i re Tarquini: Tarquinia Prisco e Lucio Tarquinia il Superbo che con la loro tirannide e con le loro prepotenze spinsero Lucio Giunio Bruto ad insorgere e ad instaurare la repubblica, simboleggiata dai fasci littori, che furono strappati dalle mani regali per essere riconsegnati ai rappresf'ntanti eletti dal popolo, i consoli. 989. le scuri crudeli: i fasci erano fatti con verghe di olmo legate insieme, dentro cui era piantata una scure
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il carro con le redini intrecciate di pampini, calando con le sue tigri dall'alta vetta di Nisa. E tu esiti ancora a accrescere di tanto la nostra forza, temi di fermarti in Italia? «Chi è quell'alto eroe incoronato di olivo che porta gli arredi sacri? Riconosco i capelli e la barba canuta del re che consoliderà la Roma primitiva con le sue leggi, arrivato dalla piccola Curi e da una povera terra sino al potere supremo. Gli succederà Tullo, che interromperà gli ozi della patria e richiamerà alle armi i cittadini rilassati e le schiere disavvezze ai trionfi. Poi viene Anco Marzio ambizioso, che sembra godere già da adesso, sin troppo, del favore popolare. Ma vuoi vedere i re Tarquini e l'anima superba di Bruto vendicatore, i fasci riconquistati? Egli sarà il primo a avere l'autorità di console, le scuri crudeli, e punirà di propria mano i figli (che tramavano guerra per riportare al trono i Tarquini) in difesa della libertà bella: infelice, comunque i posteri debbano giudicare quest'atto! Vincerà l'amor patrio e la brama di gloria. « Guarda lontano i Deci, i Drusi, Torquato dalla tremenda scure, Camillo che riporta
di ferro e rappresentavano il supremo potere politico e l'inesorabilità delle leggi. 990. i figli: i figli di Bruto parteciparono alla congiura per riportare sul trono i Tarquini e furono condannati a morte dal padre stesso. 992. infelice: Bruto con questo atto di suprema giustizia volle passare ai posteri come esempio di dedizione assoluta alla legge, ma ad un prezzo troppo alto per lui padre. 995· i Deci, i Drusi, Torquato: tre furono i Deci, padre, figlio e nipote che
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caddero in epoche diverse per la grandezza di Roma. I Drusi furono un'altra delle grandi famiglie romane che offrirono i loro uomini migliori alla patria : il più famoso fu Livio Salinatore che sconfisse Asdrubale nella battaglia del Metauro (207 a. C.); Tito Manlio Torquato, console nel 340 a. C. fece mettere a ,morte un suo figliolo che aveva combattuto il nemico contrariamente agli ordini. 996. Camillo: Marco Furio Camillo, dittatore nel 390 a. C., riconquistò le in-
Canto sesto le insegne già predate dai Galli vittoriosi! E quelle anime che vedi splendere in armi eguali - ora, e finché la notte le opprimerà, concordi 1000 quando avranno toccato la luce della vita che grande guerra, quanti massacri e quante lotte desteranno tra loro! Il suocero scendendo dai baluardi alpini e dalla rocca di Monaco, il genero appoggiato dalle forze d'Oriente. 1005 O figli, non indurite l'animo in simile guerre, non volgete le armi al cuore della patria: e tu per primo, tu che discendi dall'Olimpo, tu sangue mio, perdona, getta le armi di mano!... « Ma ecco chi spingerà vittorioso il suo carro 1010 all'alto Campidoglio, dopo aver debellato Corinto, glorioso per i Greci uccisi. Quell'altro abbatterà Argo, l'Agamennonia Micene e lo stesso Perseo Eacide, disceso dal poderoso Achille, vendicando gli avi 1015 di Troia e i profanati santuari di Minerva. Chi potrebbe tacere di te, grande Catone, o di te, Cosso? Chi potrebbe dimenticare la gran razza dei Gracchi, o i due Scipioni, fulmini di guerra, flagello della Libia, o Fabrizio 1020 parsimonioso, o Serrano che semina il suo campo? Troppo a lungo ho parlato, ma non posso tacere la vostra gloria, o Fabi! Sei proprio tu quel Massimo segne che i Galli avevano strappato ai Romani nella battaglia presso il fiume Allia. 998. quelle anime: di Cesare e di Pompeo che nell'Eliso sono cosi eguali e concordi, appena si reincarneranno scateneranno tra loro un'aspra guerra civile. 1002. Il suocero: Cesare era suocero di Pompeo, avendogli dato in isposa la figlia Giulia. Cesare, di ritorno dalle Gallie e passando per Milano muoverà contro il genero che aveva raccolto un esercito in Oriente. 1007.
discendi dall'Olim-
po: Anchise non solo accomuna tutti nel suo amore di padre, ma si rivolge in particolare a Cesare vincitore, ritenendolo il maggiore responsabile delle guerre fratricide, mentre proprio da lui, lontano discendente suo e quindi Venere (Olimpo), ci si doveva attendere: maggiore saggezza e generosità. 1009. ecco chi: il console Lucio Mummio che assediò e distrusse nel 146 a.C. Corinto, riducendo la Grecia a provincia romana. Per questa impresa ebbe decretato il trionfo in Campidoglio. 1012. Quell'altro: il con-
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sole Lucio Emilio Paolo debellò a Pidna nel 168 a. C. Perseo, re della Macedonia che si vantava di discendere da Achille (Eacridi da Eacro, avo di Achille). In tal modo idealmente vendicò la distruzione di Troia ed il furto del Palladio dal tempio di Minerva ad opera di Ulisse e Diomede. 1016.
grande Catone: Ca-
tone il Censore, noto per la vita austera e sostenitore accanito della completa distruzione di Cartagine. 1017 . .Cosso: Aulo Cornelio Cosso nel 428 a. C. sconfisse ed uccise Tolumnio, re dei Veienti. 1018.
Gracchi... Scipioni:
oltre ai due famosi tribuni della plebe, Tiberio e Caio, appartennero a questa nobile famiglia Tito Sempronio, vincitore dei Celtiberi, e Tiberio Sempronio, console durante la 2" guerra punica. - Scipioni: Scipione maggiore, vincitore di Annibale a Zama, e Scipione Minore, il distruttore di Cartagine. 1019. Fabrizio: il console Fabrizio che non si lasciò allettare e corrompere dai doni di Pirro. 1020. Serrano: Caio Attilio Regolo, detto Serrano perché durante la prima guerra punica ebbe la notizia della sua elezione a console mentre seminava (in latino seminare è « serere » ). 1022. Fabi: nobilissima famiglia romana, trecento membri della quale furono uccisi in un agguato dai Veienti. Rimase vivo a Roma un solo membro di essa, giovanissimo, dal quale in seguito discese Quinto Fabio Massimo, dittatore che sal-
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Canto sesto
vò Roma dagli eserciti di Annibale con una tattica temporeggiatrice. Fu chiamato infatti cunctator, il temporeggiatore. 1024-1033· In questi famosissimi versi Virgilio sintetizza ed indica in modo stupendo quale dovrà essere attraverso i secoli la missione di Roma. Non quella di eccellere nelle arti, nelle scienze e nelle lettere, primato d'altra parte difficilissimo a raggiungersi per l'indiscussa superiorità dei Greci, ma « regere imperio populos », di governare i popoli con leggi altamente civili; « pacisque imponere morem », di far sl che tutti vivano in pace, nella pace romana s'intende; « parcere subiectis et debellare superbos », di essere generoso con coloro che riconoscono la superiorità di Roma, ma nl contrario spietati contro coloro che la ostacolano e la insidiano. Su questi versi è fondato il valore ddl'Eneide come poema nazionale cioè come opera che saldanJo le antichissime età con la presente riconosce da Enea ad Augusto una continuità ideale di intenti, di opere, di leggi e di imprese. Soltanto in questo modo l'impero di Roma ha un suo significato universale ed eterno, proprio perché voluto dai Fati ed attuato insieme dai voleri celesti e da quelli umani. 1036. Marcello: Marco Claudio Marcello vinse durante la seconda guerra punica, a Casteggio, i Galli Insubri, uccidendone il re Virodomaro. Conquistò più tardi Siracusa e morl in com-
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che, temporeggiando, da solo ha salvato lo Stato? Altri (io non ne dubito) sapranno meglio plasmare statue di bronzo che paiano respirare, o scolpire immagini viventi nel marmo, sapranno difendere con oratoria piu acuta le cause legali, sapranno tracciare i moti del cielo col compasso e predire il sorgere degli astri: ma tu, Rontano, ricorda di governare i popoli con ferme leggi (queste saranno le tue arti), imporre la tua pace al mondo, perdonare agli sconfitti, ai deboli e domare i superbi! » Cosi parlava Anchise; e ancora aggiunge, ai due che stupiti ascoltavano: «Guarda, come s'avanza Marcello, come spicca per le spoglie preziose e vittorioso eccelle su tutti gli altri eroi. Difenderà lo Stato nel piu serio pericolo, grande sul suo cavallo sterminerà i nemici Cartaginesi e i Galli ribdli, appenderà tre volte le prede di guerra nel tempio di Quirino». E allora Enea che vedeva andare insieme a Marcello un giovine bellissimo, dalle armi splendenti, ma scuro in volto, con gli occhi bassi, privi di gioia: «Padre, che è quel giovane che accompagna l'eroe? Forse suo figlio, forse qualcuno dei suoi nipoti? Che murmure di meraviglia lo circonda! E che aspetto maestoso lo distingue! Ma una notte scurissima circonda la sua testa con un'ombra luttuosa». Il padre Anchise, gli occhi pieni di pianto, disse: « Non domandarmi di questo futuro immenso lutto. Il Fato lo mostrerà appena al mondo e vorrà
battimento nei pressi di Venosa. 1041. Quirino: Romolo divinizzato. 1043. un giovane: M. Claudio Marcello, figlio di Ottavia, sorella di Augusto, era stato adottato dall'imperatore come suo successore. Morl improvvisamente a 23 anni, si dice di veleno. 1049.
come un'ombra lut-
quasi presagio di morte immatura.
tuosa:
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1051-1072. Le parole di Anchise sulla morte di Mar-. celio e sul lutto immenso del popolo romano si configurano come quelle di un abile facitore di panegirici e 1 ivelano una smaccata ed inaccettabile adulazione nei confronti di Augt•sto. Anche Virgilio, dunque, paga qui il suo tributo di poeta cortigiano, facendo tacere una volta tanto i candidi strumenti della sua ispirazione
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che non viva piu oltre. Dei, la stirpe romana vi sembrerebbe forse troppo grande e potente se un simile miracolo dovesse durare a lungo. Quanti pianti dal Campo Marzio si leveranno alla città di Marte! E quali funerali vedrai, o padre Tevere, scorrendo davanti al nuovo sepolcro! Nessun altro figlio di gente troiana farà sperare tanto gli avi latini; e la terra di Romolo mai piu potrà un giorno vantarsi altrettanto. O pietà, fede antica, invincibile mano di combattente! Nessuno avrebbe potuto impunemente affrontarlo in armi, sia che andasse contro il nemico a piedi, sia che desse di sprone a un focoso cavallo. Ohimè, fanciullo degno di pietà, se potrai forzare in qualche modo il destino crudele, sarai un degno Marcello! Spargete a piene mani gigli candidi, datemi fiori purpurei, che io possa gettarli ai suoi piedi ed almeno con questi doni colmare l'anima del mio nipote, rendendogli un inutile omaggio ». Cosi errano qua e là per tutta la regione nei vasti campi ariosi, osservando ogni cosa. Anchise, condotto il figlio dovunque e accesagli l'anima della sua gloria futura, gli rivela le guerre che dovrà sostenere e lo informa dei popoli che lo attendono in armi, della città murata di Laurento e del re Latino: poi gli spiega in che modo sfuggire o superare i travagli. Due sono le porte del Sonno: si dice che l'una sia di como (ed escono da essa facilmente quei sogni che si dimostrano veri), l'altra è fatta d'avorio, splendida, ma di qui i Mani spediscono in terra soltanto sogni falsi. Anchise accompagna il figlio insieme alla Sibilla e li lascia andar via dalla porta d'avorio. Enea corre alle navi e rivede i compagni. Costeggiando la riva vanno in favore di vento al porto di Gaeta, dove gettano l'ancora dalle prue, allineando le poppe sulla spiaggia.
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poetica e soffiando invece a pieni polmoni nelle trombe trionfalistiche dell'epica encomiastica. 1057. quali funerali: i funerali di Marcello nel Campo Marzio furono di una solennità mai vista. Vi partecipò una folla immensa e lo stesso imperatore lesse l'elogio funebre. 1069. manibus date lilia plenis: splendido emistichio ripreso anche da Dante nell~ Divina Commedia (Purg., xxx, v. 21). 1072. inutile: perché non potrà impedire che il Fato a suo tempo si compia. 1079. Laurento e il re Latino: Laurento era la capitale del regno di Latino. 1081. Due sono le porte: Virgilio si serve di un espediente per far uscire Enea da una porta diversa da quella per cui era entrato, espediente di eu i si era servito anche Omero nell'Odissea (canto XX). Cosi l'eroe esce dalla porta eburnea, quella dei sogni falsi, forse a significare che tutto quanto aveva visto finora non era altro che una visione, oppure che non essendo un'ombra verace ma un uomo vivo poteva soltanto uscire attraverso quc~lla porta.
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Canto sesto
Commento critico La critica di questi ultimi decenni ha ridimensionato la grandezza e l'importanza del canto VI, un tempo indicato come uno dei migliori di questa prima parte del poema e paragonato addirittura al II e al IV. Infatti una vera grandezza poetica non è mai raggiunta, a parte qualche felice episodio, ma troppo breve, per poter giustificare un giudizio positivo. Importante invece è per il fine encomiastico che Virgilio si era prefisso, quello cioè dell'esaltazione delle origini di Roma e dell'impero di Augusto. L'ispirazione è ancora offerta da Omero con la discesa di Ulisse agli Inferi nell'XI dell'Odissea. Ma nettamente diversi sono lo spirito e le finalità della catabasi dei due eroi. Basterebbe la disquisizione sulla palingenesi delle anime a rendercene avvertiti e a ricondurci all'affiato religioso che pervade tutto il canto .: condiziona l'atteggiamento ed i discorsi di Enea e di coloro ch'egli incontra sia nell'Inferno sia nei Campi Elisi. Tuttavia il succedersi dei luoghi e delle figure è mecc\lnico e freddo: finisce per essere un'arida elencazione che sta tra l'accademico ed il mitologico e che di tanto in tanto si avviva quando il poeta abbandona il descrittivo e lascia parlare i sentimenti umani. Ciò avviene negli incontri con Palinuro, con Deifobo e con Didone. Cosicché quando si giunge al rit~ovamento con il padre Anchise, tranne la curiosità suscitata dall'oltretomba, ben poco rimane di veramente valido. Anche la lunga rassegna dei grandi personaggi romani non è molto riuscita e rischia a volte di divenire noiosa: la ravviva e la esalta la sentita e commossa celebrazione delle imprese e l'esaltazione di quella « virtus romana» che, a ragione, il poeta considerava la vera forza e l'unica spiegazione della superiorità della sua gente su tutte le altre. I tre esametri che iniziano con « Tu regere imperio populos ... » sono tra i più ispirati e perfetti dell'intera opera. Anche a questo proposito, però, ci turba e ci disturba l'intento encomiastico che, se in altri canti era appena accennato, qui si fa scoperto ed a volte smaccato. Si veda l'episodio dedicato a Marcello, artisticamente apprezzabile, ma introdotto soltanto su pressante sollecitazione degli amici dell'imperatore e, pare, pagato con oro sonante. . Il sesto canto deve anche essere let~o e ricordato con molta attenzione, perché da esso prese le mosse l'ispirazione dantesca per la Divina Commedia. Non per nulla il poeta fiorentino elesse Virgilio suo « maestro ed autore », aggiungendo che da lui aveva tratto « lo bello stile » che gli aveva fatto onore. L'opera dantesca ha tutt'altra portata e ben maggiori implicazioni, ma le sue radici sono in questa avventura extraterrena di Enea, non tanto per gli elementi esteriori e puramente topografici, quanto per lo spirito religioso e per la sofferta esperienza del protagonista, atteggiamenti interiori che Dante stesso avrà e manifesterà sia nella prima sia nella seconda cantica.
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Galleria di ritratti
Anchise. La figura di Anchise, cosl come s'è venuta delineando in questi sei libri, non è sicuramente quella di un personaggio sentito e ricreato dal poeta in termini artistici accettabili. Le sue apparizioni sporadiche, e spesso poco felici, sono dei puri e semplici riempitivi o dei pretesti che danno lo spunto ad episodi o a fatti dei quali non è mai l'autore e il protagonista. Gli manca completamente una personalità decisa e chiara, o meglio quella maestosa solennità regale che un tempo aveva fatto di lui un degno rivale di Priamo e l'uomo prescelto da Venere per le nozze terrene. Troppi sono i suoi difetti senili: è ostinato quando non vuoi sapeme di abbandonare Troia in fiamme; è inutilmente verboso, dà una interpretazione errata sul significato dell'« antica madre ,. e non appare quella fonte di saggezza che crede di essere. Anche qui nel sesto canto Virgilio si serve di lui per il lungo discorso della presentazione degli eroi di Roma senza concedergli nessuno di quegli attributi psicologici ed artistici che avrebbero potuto meglio definirne poeticamente l'importanza ed il rilievo.
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Canto sesto
Raffronti di traduzione In/elix Dido, verus mihi nuntius ergo venerai exstinctam fe"oque extrema secutam? Funeris heu tibi causa fui? Per sidera iuro, per superos et si qua !ides tellure sub ima est: invitus, regina, tuo de litore cessi. Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras, per loca senta situ cogunt noctemque profundam, imperiis egere suis; nec credere quivi bune tantum tibi me discessu /erre dolorem. Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro. Quem fugis? Extremum fato quod lP. adloquor (vv. 456-466) [hoc est. Dunque, Dido infelice, e' fu pur vera quell'empia che di te nowlla udii, che col ferro finisti i giorni tuoi? Ah ch'io cagion ne fui! ma per le stelle, per gli supemi dèi, per quanta fede ha qua giù, se pur v'ha, donna, ti giuro che mal mio grado dal tuo lito sciolsi. Fato, fato celeste, imperio espresso fu del gran Giove, e quella stessa forza, che da l'eterea luce a questi orrori de la profonda notte or mi conduce, che da te mi divelse; e mai creduto ciò di me non avrei, che 'l partir mio cagion ti fosse ond 'a morir ne gissi. Ma ferma il passo, e le mie luci appaga de la tua vista. Ah, perché fuggi? E cui? Quest'è l'ultima volta, ohimè che 'l fato mi dà ch'io ti favelli, e teco io sia. Traduzione di Annibal Caro Or dunque vero, infelice Didone, era l'annunzio che t'eri uccisa, che col ferro avevi affrettato la fine! Ed io fui dunque, ahimè, la causa della tua sciagura? Per gli astri, per gli Dei, per quanto è sacro nei regni inferni, io qui ti giuro, Elissa, che per forza partii dalla tua terra. Il voler degli Dei, che per quest'ombra, per questi luoghi squallidi ed orrendi
e per la notte fonda or mi sospinge, mi mosse col suo comandamento; né credere potei che t'avrei dato cosi grande dolor col mio partire. Fèrmati! Non sottratti agli occhi miei! Chi fuggi? Sono le parole estreme che per voler dei fati io ti rivolgo. Traduzione di Guido Vitali Excudent alii spirantia mollius aera credo equidem - vivos ducent de marmore vultus · orabunt causar melius, caelique mt>atus ' describent radio et surgentia sidera dicent: tu regere imperio populos, Romane, memento hae tibi erunt artes - pacisque imponere morem, parcere subiectis et debellare superhos. (vv. 847-853) Abbinsi gli altri de l'altre arti il vanto: avvivino i colori e i bronzi e i marmi; muovano con la lingu.t i tribunali; mostrin con l'astrolabio e col quadrante meglio del ciel le stelle e i moti loro: che ciò meglio sapran forse di voi; ma voi, Romani miei, reggete il mondo con l'imperio e con l'armi, e l'arti vostre sien l'esser giusti in pace, invitti in guerra; perdonare a' soggetti, accor gli umlli, debellare i superbi. Traduzione di Annibal Caro Foggino gli altri gli animati bronzi con arte più sublime; vivi i volti ritraggano nel marmo; più di noi a perorare valgano le liti; dell'universo traccino le vie e il sorgere degli astri in ciel predicano: tu con la forza reggi il mondo, o Roma! Queste saran tue arti: assolvi i vinti, doma i superbi, ed alla pace imponi norma di legge eterna! Traduzione di Adriano Bacchielli
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CANTO SETTIMO
Lavinia. e Latino sacrificano agli dei.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 18 35, ricavate dai codici della Biblioteca V aticana. Roma.
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CANTO SETIIMO Enea nel Lazio I Troiani, sepolta la fedele nutrice di Enea sul lido ove poi sorgerà una città che dal suo nome si chiamerà Gaeta, salpano di notte al lume della luna, rasentano costeggiando la terra di Circe e col favore di Nettuno, che continuando la protezione promessa a Venere solleva un vento favorevole, si sottraggono alle false lusinghe della maga. Alle prime luci del giorno il vento cade ed Enea, che guardando verso terra aveva scorto folti boschi ed un grande fiume che li attraversava e si gettava nel mare, ordina alle navi di raggiungeme la foce e approdare. Tirate in secco le navi, i Troiani spinti dalla fame preparano le mense, e tanto grande è l'appetito che divorano anche i piatti. In realtà erano le focacce di farro sulle quali avevano posato, in mancanza di mense, le vivande; ma Julo, scherzando, lo fa notare e dice: « Ahimé, noi mangiamo anche le mense», ed Enea ricorda coslla profezia di Celeno, e comprende d'essere finalmente arrivato nella terra promessagli dal destino. Annunciata la lieta notizia ai Troiani, il figlio di Venere indice una solenne libagione a Giove e invoca pregando il padre Anchise; e Giove manifesta il proprio favore tuonando tre volte a ciel sereno. Il giorno dopo, esplorato il paese, manda ambasciatori ac;l offrire pace e doni al re Latino, il quale li accoglie con parole di benevola simpatia e promette loro, come è nel costume dei Latini, la più cordiale ospitalità. Il vecchio re, ricordando poi che i vaticini gli hanno preannunciato per la figlia Lavinia uno sposo straniero, manifesta il desiderio d'incontrarsi con Enea, ospite atteso, nella sua reggia. E congeda l'ambasceria troiana con ricchi doni. Ma Giunone, sempre ferocemente ostile ai Troiani, chiama dall'inferno Aletto, la furia della discordia, e le ordina di suscitare tra Latini e Troiani tutti i motivi atti a promuovere la guerra per ostacolare le nozze tra Enea e Lavinia. Aletto obbedisce e si reca dapprima presso la regina Amata e le insinua furtivamente nel seno uno dei suoi serpenti, il cui veleno a poco a poco, dall'inquietudine che la spinge a dolersi con Latino della sua risoluzione di dare Lavinia in sposa a Enea, la trasforma in una
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Canto settimo
donna furente che va per la città urlando, eccita le donne laziali e, seguita da esse, fugge con Lavinia nei boschi ove, come fosse una baccante ebbra, dà inizio ad uno sfrenato baccanale e consacra la figlia a Bacco. Dopo Amata la furia Aletto investe Turno, il giovane e prode re di Ardea, il quale chiama alle armi i Rutuli e vuole la guerra, ma non ancora soddisfatta, continua la sua azione provocatoria aizzando i cani di Julo, recatosi a cacciare nei boschi, a scoprire le orme di un cervo caro a Silvia, figlia di Tirro, custode degli armenti del re Latino e fattore dei suoi poderi. Julo, vedendo il bellissimo animale, lo colpisce con un dardo. Il cervo ritorna nella sua stalla ferito: Silvia piange disperata, i contadini accorrono armati di forche e di pali aguzzi; in difesa di Julo accorrono alcuni giovani Troiani, e fra le due schiere si accende una zuffa che si conclude con la morte di due Latini. Ora, ancor più di prima, tutti vogliono la guerra, e Latino, incapace d'impedirla, lascia ad altri il governo del suo regno e si ritira nella reggia. Già vigeva nel Lazio l'abitudine di aprire, dichiarata la guerra, le porte del tempio di Giano, ma Latino si rifiutò in quella circostanza di aprirle; Giunone allora, discesa dal cielo, le aprì. Dichiarata la guerra, tutta l'Ausonia è in fiamme; tutti si addestrano all'uso delle armi; tutti ripuliscono e temprano· armi ed armature. Tutte le città del Lazio si trasformano in officine; l'amore dei campi si è tramutato in amore della guerra. L'esercito è pronto a combattere e sfila in parata con i suoi capi, dei quali il primo è Mesenzio, bestemmiatore dei Numi, con suo figlio Lauso; seguono Aventino, figlio di Ercole e Rea Silvia, Catillo e Cora calati dalle mure di Tivoli, Céculo fondatore di Preneste, Messapo domatore di cavalli e prole di Nettuno, Clauso seguito da una folta schiera di Sabini, Aléso con i contadini massici e campani, Ufente con i montanari dell'Aniene, Umbrone con i Marsi, Vlrbio figlio d'Ippolito, Turno, magnifica figura di armato, e Camilla, la vergine guerriera che alla corsa supera i venti, con i suoi cavalieri Volsci.
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CANTO SETIIMO Da Gaeta alle Foci del Tevere (1-44) - Il re Latino e Lavinia (45129) -La profezia di Celeno si avvera (130-I74) - L'ambasciata al re Latino (175-331)- Giunone, Aletto e la regina Amata (332-462)Aletto e Turno (463-538)- Aletto, il cervo di Silvia e i primi morti (539-612)- Giunone apre le porte del tempio di Giano (6r3-741)La rassegna dei combattenti (742-938).
Da Gaeta alle foci del Tevere
E ANCHE tu Caieta, nutrice di Enea, s
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morendo hai dato fama eterna ai nostri lidi: ancora oggi onoriamo la tua tomba, e il tuo nome (se questa è gloria) consacra quel paese d'Italia dove riposano in pace le tue povere ossa. Celebrate le esequie secondo il rito e elevato il tumulo, il pio Enea, vedendo il mare tranquillo, lascia il porto e naviga a vele spiegate. Spira una brezza leggera nella notte e la lùna illumina serena il viaggio, il mare splende sotto la tremula luce. Le navi passano accanto alla terra di Circe, dove la ricca figlia DA GAETA ALI.E FOCI DEL
TEVERE (r-44).- Sepolta Caieta, la fedele nntrice di Enea, la flotta troiana salpa di notte al chiaro di luna, costeggia l'isola di Circe, do-
ve i naviganti odono canti dolcissimi e urla bestiali, e col favore di Nettuno, che fa spirare un vento favorevole, giunge all'altezza di un grande fiume. 1l 'lento cessa
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d'incanto ed Enea ordina ai suoi di raggiungere la riva con i remi e di sbarcare. Il grande fiume, lo sapremo più tardi, è il Tevere. r. E anche tu Caieta, ecc.: Caieta, la fedele nutrice di Enea, per non staccarsi dal suo pupillo, aveva rifiutato di rimanere in Sicilia; e in quei giorni era morta ed era stata sepolta sulla spiaggia del golfo in cui i Troiani erano approdati. Dalla presenza del suo sepolcro quel luogo fu chiamato Caieta (e Gaeta fu detta poi l'odierna città che vi sorse), come da Palinuro e da Miseno presero il nome i promontori dove essi furono sepolti. II. serena: il cielo è sereno e la luna splende luminosa di tutta la sua luce bianca, che traduce bene il « candida » del testo latino. 12. tremula: non è «tremuta » la luce della luna, ma quella che riflette la superficie del mare, increspata leggermente dalla « brezza leggera» (v. Io). 13. Circe: celebre maga della mitologia antica, figlia del Sole e della ninfa Persa. Abitava un'isola (l'isola Gea, lungo la costa del Lazio,
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Canto settimo
presso il monte poi chiamato dal suo nome Circello), cui approdò anche Ulisse, il quale unico, fra i suoi compagni tramutati in animali, seppe vincerne le lusinghe. 14-15. canto assiduo... inaccessibili: Circe col suo canto perenne (assiduo) invita i naviganti a penetrare nelle selve dell'isola e nella sua superba dimora. « Inaccessibili », perché nessuno dovrebbe entrarvi, per il pericolo che si corre d'essere mutati in animali. Circe appare come simbolo della sensualità, che avvilisce e degrada a bruti gli stolti, e dalla quale rimangono illesi soltanto coloro che, come Ulisse, possiedono la saggezza. - e, a notte, ecc.: soprattutto di notte col canto, il rumore del telaio ~ con i fuochi, che servono di guida, la maga attira nel suo .palazzo gli uomini che, incauti, si lasciano vincere dalla . curiosità di conoscerne l'origine. La «spola» è lo stlllplento che serve a far paljSare il filo nell'ordito. 18-24. i gridi dei leoni, ecc.: secondo Omero (tutte queste notizie sono tratte dal canto X dell'Odissea) Circe con filtri malefici e sortilegi trasformava gli uomini in porci; secondo Virgilio con erbe magiche li mutava invece in leoni, lupi, orsi e cinghiali. 25. pii: è l'aggettivo che ritorna frequente accanto al nome di Enea; qui è usato anche per i suoi compagni, i quali stanno compiendo, come lui, la volontà del Fato; e ne dànno una prova eloquente anche ora, rim:inciando alle lusinghe della maga Circe.
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del Sole fa risuonare d'un canto assiduo i boschi inaccessibili e, a notte, nella sua grande casa si fa luce bruciando il cedro profumato e tesse fini tele con la spola sonora. Di là s'odono i gemiti e i gridi dei leoni che scuotono le catene, ruggendo nella notte; si sentono infuriare nelle stalle i cinghiali di lunghe setole e gli orsi, si sentono ululare enormi lupi; tutti uomini che Circe,· Dea crudele, con erbe magiche ha trasformato, dando loro l'aspetto di bestie feroci. Temendo che i pii Troiani toccassero quella terra e entrassero in porto a esporsi agli incanti di Circe, Nettuno riempi le vele di venti favorevoli, li fece fuggire veloci e li trasse oltre i flutti che ribollivano intorno alla costa rocciosa. Già il mare rosseggiava per i raggi del sole e su in cielo l'Aurora aranciata fulgeva sulla sua rosea biga, quando caddero i venti d'improvviso: ogni brezza cessò, i remi lottavano con l'acqua immobile come una distesa di marmo. Allora Enea vede dal mare un bosco immenso; attraverso quel bosco con piacevole corso il Tevere si getta nell'acqua salata tra vortici veloci e banchi di biondissima arena. E tutto intorno e al di sopra ~
27. Nettuno: il dio, che nella spartizione dell'universo con i ·fratelli Giove e Plutone, ebbe in sorte l'impero del mare, si era impegnato con Venere (c. V, 846--862) di assecondare il viaggio di Enea, ed ora mantiene la promessa. 33· ogni brezza cessò: i Troiani sono arrivati in vista della terra ad essi assegnata dal Fato, e Nettuno fa cessare la brezza che fino allora aveva sospinto le navi. 37· il TeJJere: il Tevere
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assume qui un significato simbolico: contemporaneamente esso è mèta del viaggio di Enea e simbolo dell'impero che dalle sue rive reggerà il mondo. 38-39. banchi di biondissima arena: per la bionda arena sospesa in grande quantità nelle sue acque. ~ il « Bavus Tiberis », il biondo Tevere, cosl chiamato dai poeti fin dall'antichità per il suo colore costantemente giallastro. - al di sopra: in alto, nell'aria, nel cielo.
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d'ogni specie, abitanti delle rive e del letto del fiume, addolcivano l'aria col canto e volavano nel bosco. L'eroe comanda di mutare la rotta e di volgere a terra le prore: lieto avanza con la flotta nel fiume ombreggiato di piante.
Il re Latino e Lavinia 4S
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Ora, Erato, dirò quali re, quale stato di cose ci fosse nel Lazio antico, quando quest'armata straniera spinse le proprie navi alle coste d'AuSonia; ricorderò le cause della prima battaglia. Dea, tu ispira il poeta! Narrerò guerre orribili, parlerò delle schiere e dei re che la collera spinse alla strage, ai lutti, dell'esercito etrusco e di tutta l'Esperia raccolta in armi. Assistimi, o divina, mi nasce una serie di eventi ben piu grande, m'accingo a un. compito superbo! · Già vecchio, il re Latino governava tranquillo città e fertili campi IL RE LATINO E LAVINIA
(4,·129). - Con l'a"ivo di Enea nella te"a sospirata ha inizio la seconda parte del poema, e Virgilio invoca Erato, la musa della poesia amorosa, perché lo ispiri: egli canterà gli avvenimenti di una gue"a il cui motivo più appariscente è una rivalità d'amore. La te"a in cui i Troiani sono approdati è il Lazio, e suo re è Latino, padre di un'unica figlia, Lavinia. Molti principi italici hanno chiesto in sposa la bella figlia del re, ma la madre, ·Amata, ha preferito il figlio del re dei Rutuli e di sua sorella V enilia: il giovane e forte Turno. Di parere diverso è però Latino, che da vari prodigi e da Fauno, nume tutelare dei boschi e padre suo, aveva appreso che lo sposo di Lavinia do-
vrà essere un personaggio straniero, la cui discendenza dominerà il mondo.
4,. Erato: delle nove sorelle, figlie di Mnemosine e di Giove, che sovrintendono a tutto ciò che rende bella e piacevole la vita, Erato è la musa della poesia lirica, specialmente amorosa. Può sembrare strano che Virgilio all'inizio della seconda parte del suo poema interamente dedicato alla guerra, almeno come argomento fondamentale, invochi la musa della poesia amorosa; ma il motivo della contesa fra gli ltalici guidati da Turno e i Troiani comandati da Enea è l'amore di Turno per la bella Lavinia, che il re Latino, suo padre, ha invece _promesso in sposa ad Enea. Perciò Virgilio prima
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d'iniziare il canto ne invoca l'ispirazione. 47. armata straniera: flotta troiana. 48. Ausonia: i Greci chiamarono « Ausones » gli Aurunci, popolazione che, appartenente al gruppo osco, abitava tra i Liri e il Volturno; e più tardi, dopo che nel secolo IV a. C. i Romani vinsero gli Aurunci, designarono con questo nome gli abitanti dell'Italia centrale, cosi che fu allora denominata «Ausonia» la parte dell'Italia indipendente dalla influenza greca. Più tardi il vocabolo assunse un valore dotto e poetico e fu usato per designare tutta l'Italia. ,3.,4. mi nasce... più grande: intendi: dal proposito di cantare la guerra fra Turno ed Enea mi si offre (nasce) una serie di argomenti e di eventi ben più grande di quella finora affrontata cantando le peregrinazioni dei Troiani. ,6. Già vecchio, il re Latino, ecc.: Latino, re eponi· mo (che dà il nome) del Lazio, secondo il mito era figlio della ninfa Marica e dt Fauno, il quale a sua volta era figlio di Pico, nato da Saturno. È interessante l'attinenza con l'agricoltura di tutti e tre gli ascendenti di Latino: Saturno, che si rappresentava con l'aspetto di un vegliardo dalla lunga barba bianca e con in mano un falcetto: il suo nome deriverebbe da "sata", che sono i campi seminati; Pico da "picus", cioè il picchio, che distrugge gli insetti nocivi alle piante; Fauno da "faveo" (favorisco), e quindi propizio all'agricoltura e protettore delle greggi, don-
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Canto settimo
de il suo soprannome di « Luperco », perché da esse teneva lontani i lupi. Marica, la madre di Latino, era una ninfa italica, cui presso M.inturno era consacra.o un bosco, vicino al quale era la palude Marica, in cui il Liri versava le sue acque. 64. casata: stirpe, famiglia. 6?. Turno: re dei Rutuli, fi~lio di Dauno e della ninfa Venilia, sorella di Amata. La capitale del suo regno era Ardea, città a sud di Laurento. La sua figura domina negli ultimi sei libri del poema per qualità spiecarissime: la forza fisica, il coraggio, l'arroganza, la volontà indomabile, che si esprimono con l'impeto di un furore bestiale, quasi mai illuminato dall'ideale. 1!: uno dei personaggi più importanti e meglio delineati dall'intero poema virgiliano. 69. la moglie del re: Amata, moglie di Latino.
in una lunga pace. Sappiamo che era figlio 60
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73· un alloro splendido:
era usanza romana coltivare nella casa, presso l'« impluvium », una pianta d'alto fusto che aveva anche il compito di ombreggiare l'altare degli dèi Penati; così Virgilio immagina che altrettanto sia stato fatto nella reggia di Latino, ove la pianta è uno splendido alloro, che ha dato il nome di « Laurento » alla città. Ma non solo per l'impluvio; anche per tutta la reggia Virgilio ha avuto presente la pianta classica della casa romana del suo tempo. 77· votato: dedicato. 78-82. Un fitto stuolo ... frondoso: è il primo dei pro-
digi che preannunciano a Latino l'arrivo nel Lazio di
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di Fauno e di una Ninfa di Laurento, Marica; Fauno era figlio di Pico e Pico di Saturno, antico capostipite di quel sangue regale. Per volere dei Numi Latino non ebbe maschi: il solo che gli era nato mori ancora bambino. Unica erede del vasto reame e della casata era una figlia femmina, ragazza già matura per l'uomo, già in età di prendere marito. . La chiedevano in molti, dal Lazio e dall' Ausoma; tra gli altri Turno, il piu bello di tutti, potente e di gran stirpe, che la moglie del re desiderava moltissimo avere come genero: ma gli Dei vi s'oppongono con molti prodigi. In mezzo al palazzo reale, in un cortile interno, c'era un alloro splendido dal fogliame santo custodito con sacro terrore per molti anni: si dice che lo stesso padre Latino, trovatolo mentre gettava le prime fondamenta, lo avesse votato ad Apollo, chiamando Laurentini i coloni dal nome di quell'albero. Un fitto stuolo di api volando per l'aria limpida con molto ronzio si posarono in cima all'alloro e intrecciando mutuamente le zampe pendettero in sciame istantaneo e compatto da un ramo frondoso. Allora un indovino predisse: «Un eroe straniero verrà con un esercito da quella stessa parte da dove vengono le api: regnerà sulla rocca». Poi, mentr~ la vergine Lavinia, accanto al padre accendeva l'altare con fiaccole pure,
un principe straniero: un denso sciame di api, ronzando, si posa sulla cima dell'alloro, e le bestiole intrecciando le zampe le une con le altre (mutuamente) pendono a grappolo" (sciame) da un ramo frondoso. L'apparizione improvvisa di uno sciame d'api era per i Romani un presagio per lo più funesto. Nota la precisione e la chiarezza delle immagini di questa rapida ed
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esemplare rappresentazione. 84-85. verrà ... sulla rocca:
verrà dal mare, donde sono venute le api, e come le api si stabilirà a Laurento con la sua gente un duce (eroe) straniero. La « rocca », costruita sulla parte più elevata della città, come sua ultima e massima difesa, ne rappresentava la forza e la stessa esistenza. 87. accendeva... fiaccole pure: intendi: accendeva il
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parve che il fuoco attaccasse i suoi lunghi capelli, che tutto il suo abbigliamento bruciasse con una fiamma crepitante, che ardessero le chiome regali e la corona gemmata; infine sembrò che fosse avvolta, tra il fumo, in una luce rossastra e seminasse fuoco per tutta la casa. Dicevano che questo miracolo annunziasse cose stupende e terribili: infatti promettevano a Lavinia destini grandi e una grande fama, ma a costo di una guerra triste per il suo popolo. Allarmato da questi prodigi il re Latino si reca all'oracolo di Fauno, profetico suo padre, e consulta i boschi sotto l'alta rupe Albunea, da dove tra gli alberi scaturisce con rumore una grande sorgente sacra, famosa, dall'acqua opalina e dal puzzo di zoHo. Qui chiedono responsi, nel dubbio, tutti i popoli italici, tutta l'Enotria. Il sacerdote vi porta offerte e nella notte silenziosa si sdraia a terra sulle pelli delle pecore uccise: poi raggiunto dal sonno vede molti fantasmi volteggiare in mirabili forme ed ascolta varie voci, intrattiene colloquio con gli Dei e dal profondo Averno evoca l'Acheronte. Qui dunque il padre Latino, cercando una risposta ai suoi problemi, sacrifica secondo il rito cento pecore di due anni e, distese le pelli vellose sulla terra, vi si corica sopra. Ed ecco all'improvviso ,erompere una voce
fuoco sull'altare con le pure fiaccole. «Pure,., perché impiegate per accendere il fuoco del sacrificio. 88-93. parve che il fuoco ... tutta la casa: intendi: sembrò che il fuoco incendiasse i suoi capelli e con fiamma crepitante bruciassero le sue vesti e le sue chiome e la corona splendida di gemme, e che cosi avvolta di fiamme incendiasse tutta la casa. Questo secondo prodigio
si collega col primo, come sua logica conseguenza: le api predicono l'arrivo dal mare degli stranieri; le fiamme indicano la guerra che ne nascerà e che si propagherà per tutta la regione. 94· miracolo: fatto prodigioso. 96. destini grandi ... fama: con i « grandi destini » e con la « grande fama » si allude alla storia romana; Lavinia doveva porre con Enea
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le fondamenta della potenza e della fama di Roma. 99· all'oracolo di Fauno: Fauno, padre di Latino, fu venerato dopo la morte come dio vaticinatore, con il nome di Fatuo. 101. Albunea: la rupe Albunea è una località presso Tivoli, densa di selve e con una sorgente (forse una cascata) di acqua solforosa che si getta nell'Aniene. Si credeva che la selva fosse abitata dalla ninfa Albula, diventata poi famosa col nome di sibilla Tiburtina, e che Fauno desse quivi i suoi responsi. IO,·III. Enotria: anche questo è un nome dato dai Greci all'Italia meridionale, in particolare alla Lucania e alla Calabria (l'antico Brutium), dopo che Enotro, figlio di Licaone, re di Arcadia, passò in Italia e ne occupò le coste meridionali. Ma con il nome di Enotria fu chiamata talvolta tutta la penisola. - Il sacerdote ... varie voci: è il modo di consultazione degli dèi detto «per incubationem »: il sacerdote uccideva le pecore portate come vittime (vi porta offerte), le scuoiava, distendeva le pelli sulla terra, vi si sdraiava e si addormentava. Nel sonno riceveva i responsi divini sotto forma di sogni. - intrattiene colloquio ... l'Acheronte: intendi: conversa con gli dèi del cielo e con quelli del regno degli inferi (Averno). « Acheronte ,. è uno dei fiumi dell'Averno, e il suo nome suona "fiume del dclore", ma qui sta per gli dèi che abitano nel mondo sotterraneo.
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II7-124. O figlio, non volere, ecc.: il responso di Fauno è chiaro: Lavinia non deve essere sposa di un laziale (latino), come vorrebbe la regina Amata; il genero sarà uno straniero la cui discendenza darà gloria eterna al nostro nome e dominio sul mondo intero. 126. la Fama: malefica divinità allegorica, che gli antichi rappresentavano con le sembianze di un orrendo mostro alato. Secondo il mito era figlia della Terra e sorella dei giganti Encefalo e Ceo, e si dilettava di diffondere il male. Virgilio ne fa una lunga descrizione nel c. IV, 21o-225 ddf'Eneide.
LA PROFEZIA DI CELENO
dal profondo del bosco: cO figlio, non volere uno sposo latino per Lavinia, non dare fiducia alcuna al talamo giA preparato, verrà 120
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La profezia di Celeno si avvera 130
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(13o-174). -Appena sbarcati e tirate le navi in secco, i Troiani spinti dalla fame si siedono sull'erba lungo la riva del fiume e si ristorano, ma essendo il cibo insufficiente a soddisfare il loro appetito sono costretti a mangiare anche le focacce di farro che erano servite come piatti. ]ulo, scherzando, lo fa notare, e cosl si avvera la profezia di Celeno: « a"iverete in Italia, ma non cingerete di mura la città che vi è stata promessa, prima che una feroce fame non v'abbia costretto a rodere coi denti perfino le mense >>. Tutti esultano ed Enea ringrazia gli dèi indicendo in loro onore una libagione. Giove manifesta allora il suo favore tuonando tre volte a cielo sereno. AVVERA
130. si distendono: si sdraiano comodamente. Il testo latino ha « corpora deponunt », cioè, posano i corpi.
un genero straniero che porterà alle stelle con la sua discendenza il nostro nome: i nipoti da lui sorti vedranno il mondo sottomesso ai loro piedi, i paesi tutti che il Sole guarda nella sua eterna corsa dall'uno all'altro Oceano». Latino non tenne per sé la profezia e i consigli avuti nella notte silenziosa; la Fama volando dappertutto li aveva già portati per le città d'Italia quando i Teucri ancorarono la flotta lungo la riva erbosa del bel fiume.
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Enea, i capi supremi e Julo si distendono sotto i raini d'un albero altissimo: preparano i cibi, mettendo sull'erba larghe focacce di farro come fossero tavole (consigliati da Giove), e riempiono di frutta i deschi cereali. Allora, consumati quei poveri cibi, la fame li spinse a addentare le sottili focacce spezzandone l'orlo. «Ahimè - fece Julo, scherzando- noi mangiamo anche le nostre mense». Quelle poche parole inattese portarono la fine del lungo errare: il padre le raccolse dalla bocca di Julo e le meditò a lungo stupito dell'oracolo che si era avverato.
IJI-134·Preparano i cibi... cereali: intendi: secondo l'ispirazione che essi ebbero da Giove, in mancanza di tavole, posarono sull'erba focacce di farro e su di esse i cibi. Questo particolare non è soltanto la preparazione dell'avveramento di una profezia, ma anche un graziosissimo quadro campestre, che richiama cerimonie antiche, come l'offerta di primizie ai Penati, che si costu-
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mava portare sopra focacce di farro insieme con cacio e uova. 138. le nostre mense: le focacce or ora nominate. 140. del lungo errare: del lungo viaggio per raggiungere dalla Troade la terra promessa dai Fati. 142. dell'oracolo: della profezia. Le parole di Julo, che per lui avevano il significato e il tono di un'osservazione scherzosa, hanno inve-
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Poi disse: «Salve o terra assegnata dai Fati, e salve voi, fedeli Penati di Troia; questo è il paese promesso, questa la nostra patria. Ricordo ciò che disse il padre Anchise: -Quando, o figlio, spinto a lidi sconosciuti, esaurito ogni cibo, la fame ti indurrà a divorare anche le mense, allora finalmente potrai sperare d'aver concluso le tue fatiche e trovato la nuova patria: potrai erigere con le tue mani le prime case e difenderle intorno con un bastione! Ed eccola quella fame, una prova suprema che porrà fine alle nostre sventure ... Coraggio dunque, e lieti col primo raggio del sole andremo a vedere che luoghi siano questi, che uomini vi vivano e dove siano le loro città: dal porto muoveremo in parecchie direzioni. Spargete coppe in onore di Giove e invocate pregando il padre Anchise, ponete il vino sulle mense». Poi corona le tempie con un ramo frondoso e invoca il Genio del luogo e la Terra- la prima degli Dei-, le Ninfe, i fiumi ancora ignoti, la Notte e le sue stelle che già vanno sorgendo, prega il Giove dell'Ida, la madre frigia Cibele, i suoi due genitori, in Olimpo e nell'Erebo. ce attirato l'attenzione di Enea, poiché hanno rievol.'ato nella sua mente una profezia che, avveratasi, metteva fine alle fatiche sue e dei suoi compagni. 143· Salve, o terra, ecc.: Enea rivolge il suo primo saluto alla terra che d'ora in . poi sarà la sua patria, poi ai Penati di Troia, che l'avevano accompagnato nel lungo e faticoso viaggio, e che ora, con la loro protezione, avrebbero fatto piovere i doni della buona fortuna anche sulla nuova patria. 146. il padre Anchise ecc.: veramente, nel poema, la profezia che gli Eneadi, arri-
vati nella terra promessa, avrebbero per fame divorate anche le mense, è dell'arpia Celeno (III, 307-320). L'accenno ad Anchise è forse uno dei difetti che il poeta, morto prima di dare al· suo lavoro l'ultima mano, non ha potuto correggere; ma è anche probabile che Virgilio, quando scriveva questi versi, pensasse che Anchise stesso gli avesse rivelato la profezia di Celeno in una delle sue apparizioni, dimenticando tuttavia di indicarne i particolari. 152. con un bastione: erigendo intorno ad esse un'opera di difesa. 153. quella farne: Paver
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essi mangiato le mense, cioè le focacce di farro. - Suprema: decisiva, che non ammette dubbi. 158-159. Spargete coppe ecc.: si facciano libagioni, si beva in onore di Giove. 160. ponete il vino sulle mense: preparate nuovo vino per festeggiare l'evento. r61-r66. corona le tempie ecc.: la libagione esige d'essere fatta con il capo incoronato di fronde. - il Genio del luogo: lo spirito protettore del luogo. -la Terra: figlia del Caos e divinità primigenia corrisponde alla greca Gea, ed era considerata la madre di tutti gli esseri viventi, anche degli dèi. - le Ninfe: sono divinità minori: personificazioni delle forze vive della natura. - i fiumi ancora ignoti: i fiumi che scorrevano nella nuova terra ed ancora sconosciuti ad Enea. Nel vasto mondo dei miti gli antichi avevano compreso anche i fiumi, come divinità dimoranti in essi; e li credevano figli dell'Oceano, dal quale ritenevano che tutti avessero origine. - la Notte: figlia del Caos, come la Terra, era anch'essa una divinità primigenia. - Giove dell'Ida: Giove era dai Romani identificato con il greco Zeus, e quindi creduto, come Zeus, allevato in una grotta del monte Ida. Qui però Giove è invocato secondo le prerogative del dio latino, cioè come personificazione della luce e dei fenomeni del cielo, e quindi come forza naturale della vegetazione e della pratica dell'agricoltura. - Cibele: divinità della Frigia, considerata moglie di
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Crono e gran madre degli dèi, ma anche degli uomini e degli animali, che nutre, assiste e guarisce dalle malattie, come principio di vita. - i suoi due genitori: la madre di Enea, Venere, nell'Olimpo; il padre, Anchise, che Enea aveva trovato nei campi Elisi (Erebo), quando discese nel mondo sotterraneo dei morti (c. VI). Nota come Enea invochi prima le divinità del luogo, in cui è approdato: il genio tutelare, la Terra, le Ninfe, i fiumi; poi gli dèi del cielo, la notte e le stelle, gli dèi patrii: Giove e Cibele, ed infine quelli domestici: Venere e Anchise. 167-168. Il padre onnipotente: Giove. - dal cielo sereno: il tuono a ciel sereno era considerato indice di buon augurio. 173. rinnovano il banchetto: riprendono a sedersi non già ponendo sulla terra focacce di farro, che del resto i Troiani affamati avevano già mangiate, ma tazze e crateri pieni di vino per la libagione. Anche il rinnovo del banchetto è preso dal poeta dall'uso romano delle « secundae mensae ». L'AMBASCIATA AL RE LATINO (175-331). - Il giorno
dopo i Tmiani esplorano il paese e vengono a sapere che il fiume è il Tevere e che in quella terra abitano i forti Latini. Allora Enea manda al re, che è Latino, una folta ambasceria con rami d'olivo e ricchi doni; ed ordina che intanto l'accampamento sia fortificato con un solido muro e un fossato.
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Il padre onnipotente tuonò tre volte dal cielo sereno e, scuotendola di propria mano, mostrò una nube lucente d'oro e raggi di luce. Subito si diffonde per le schiere troiane la voce che era giunto finalmente il gran giorno di fondare le mura promesse. Gioiosi per l'augurio rinnovano il banchetto, versando il vino sino all'orlo delle coppe capaci.
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Il giorno dopo quando il sole già illuminava con la prima sua luce la terra, per vie diverse esplorano la città, il paese e le spiagge: apprendono che lo stagno U vicino è prodotto dal Numico, che il fiume è il Tevere, che i forti Latini sono i padroni della regione. Allora il figlio di Anchise comanda che cento ambasciatori, scelti da tutti i ranghi dell'esercito, vadano incoronati d'olivo sino alla capitale latina e portino doni al re, chiedendogli pace. Costoro partono subito a passo veloce. Enea
(;Ji ambasciatorz, grunti a
Laurento, la città capitale dei Latini, sono introdotti nella reggia e ricevuti dal re con parole cortesi e benevole. Risponde il capo dell'ambasceria, Ilioneo, dicendo che i Trozani sono sbarcati nel Lazio non a caso, ma per volere del Fato, il quale ha destinato quella terra come nuova patria dei Penati di Troia. Essi perciò portano pace e chiedono pace e ospitalità. Ed offre al re i ricchi doni di Enea. Latino risponde che il loro arrivo gli è stato preannunciato dai vaticini, i quali gli hanno anche predetto per Lavinia uno sposo straniero. Perciò egli accogli!·rà linea come ospite atteso nella sua
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reggia. E congeda gli awba· sciatori con ricchi doni. 179. Numìco: Numico è lo stagno e Numico è anche il fiumicello che versa in esso le sue acque dandogli origine. Secondo la leggenda, ricordata da Tito Livio, Enea sarebbe scomparso nelle sue acque. Il Numico, che per alcuni non esiste più, per altri si identificherebbe con il Rio Torto di Pratica o nel Canale dello Stagno, emissario del lago di Ostia, scorreva parallelo al Tevere. 181. cento: il solito numero· iperbolico in luogo di molti, numerosi. 183. incoronati d'olivo: per indicare che l'ambasceria aveva intenzioni pacifiche.
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traccia il contorno dei muri con un piccolo fosso, spiana l'area ed eleva le prime costruzioni sul lido, circondandole con \m muro merlato e un terrapieno, all'uso di un campo militare. Percorso tutto il cammino gli ambasciatori vedono già le torri e i palazzi altissimi dei Latini e s'avvicinano in fretta alle mura. Davanti alla città fanciulli e giovani nel primo fiore s'esercitano a cavallo e in una nube di polvere guidano i carri, o tendono i duri archi o scagliano a mano gli elastici giavellotti: sfidandosi nella corsa e nel lancio. Un messaggero a cavallo va avanti a riferire al vecchio re dell'arrivo di uomini grandi vestiti secondo una moda ignota. Egli comanda siano convocati a palazzo e siede in mezzo alla reggia, sul trono dei suoi avi. Era un palazzo augusto, alto su cento colonne, enorme, posto in cima alla città: fu tempio del laurentino Pico, degno di sacro terrore per i suoi boschi e il culto pietoso degli antenati. Qui era di buon augurio per i sovrani ricevere lo scettro e levare in alto i fasci; in questo tempio era la loro curia e la sala dei sacri banchetti: ucciso l'ariete i padri sedevano qui a mensa, in lunghissime file, uno vicino all'altro. Nel vestibolo, in ordine, c'erano i simulacri di vecchio cedro degli avi: Italo e il padre Sabino coltivatore di viti, che ha sotto i piedi la falce 186. traccia... un piccolo fosso : trai::ci a un piccolo fos-
so, come segno sul quale dovevasi costruire la fortificazione intorno all'accampamento, che il poeta per analogia con quella delle città chiama muri. Non è una precauzione eccessiva: il padre Anchise gli aveva pur predetto che, arrivato nel Lazio, avrebbe dovuto sostenere una fiera lotta contro gente bellicosa (VI, 10761078). 188-189. con un muro ... un terrapieno: con una pa-
lizzata e un terrapieno, secondo l'uso dei campi militari romani. 193. fanciulli e giovani, ecc.: già al primo incontro Virgilio fissa il carattere
guerriero del popolo latino: i giovani di Laurento si esercitano in gare sportive e nell'uso delle armi; cosi faceva anche la gioventù romana nel campo marzio. 199· di uomini grandi, ecc.: intendi: uno dei giova-
ni cavalieri si stacca dal gruppo e corre a riferire al vecchio re l'arrivo di gente
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straniera: uomuu, gli dice, di aspetto austero e gagliardo (grandi) che indossano vesti ignote. Con due tocchi efficacissimi ( « ingentes ignota in veste... viros » grandi uomini in veste sconosciuta) il poeta ha ottenuto che il giovinetto ad un tempo comunicasse al re l'importante notizia ed esprimesse il suo stupore. 202. Era un palazzo augusto, ecc.: Latino riceve l'am-
basceria troiana nella reggia: ampia e sontuosa costruzione edificata nella parte più alta della citttà. Essa era stata la dimora del nonno di Latino, Pico, ed era considerata sacra e quindi circondata da una selva. Accanto ad essa Latino aveva fatto costruire una sua dimora (v. 76) e la stessa città ch'egli chiamò Laurento. La casa di Pico servi poi come tempio e curia. Quivi infatti i re venivano insigniti dei loro attributi regali (scettri e fasci); quivi il re accoglieva gli ambasciatori stranieri e radunava il senato. Virgilio, che ha di mira l'esaltazione di Roma, « attribuisce ai Latini antichi usi e istituzioni dei suoi tempi; in tal modo questi acquistano l'aureola augusta della più remota antichità » (G. Notte). 212-216.
di vecchio cedro:
di vecchio legno di cedro. Anticamente i simulacri si scolpivano nel legno. - degli avi: sono gli dèi eponimi della gente italica; e il poeta li ricorda ad uno ad uno nei versi successivi. - I talo e Sabino: rispettivamente dell'Enotria, detta poi dal suo nome Italia, e dei Sabini, creatori ambedue di ci-
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viltà nella propria terra con l'introduzione dell'agricoltura. - il vecchio Saturno: divinità solare, personificata in un re che in tempi antichissimi avrebbe fatto felici i po. poli del Lazio; e il suo go. verno fu dalla tradizione chiamato «età dell'oro». Presiedeva alla giustizia, ai giorni, alle stagioni, all'anno, alle intemperie, alle sementi, all'agricoltura, e in suo onore si celebravano nelle calende di gennaio i famosi Satumalia. Si rappresentava con l'aspetto di un vegliardo dalla lunga barba bianca e con in mano un falcetto. - Giano bifronte: divinità prettamente italica ravvisabile nella rappresentazione più antica delle due facce, una con la barba e una senza. Si diceva che avesse regnato nel Lazio con Satumo e si favoleggiava che dal suo connubio con la ninfa Camesena avesse avuto origine la stirpe italica (v. «Alle fonti del Oitumno » di G. Carducci). 217-220. Pendevano dai sacri, ecc.: dopo il ricordo dei re creatori di civiltà, ecco ora quello dei trofei di guerra conquistati difendendo la libertà della patria: carri da guerra, tanto leggeri da poter essere appesi alle pareti, scuri, cimieri... e rostri, cioè speroni di cui erano munite le navi da guerra per affondare quelle avver· sarie. 221-226. Pico: la prima statua è di Pico, figlio di Saturno e nonno di Latino. ~ rappresentato seduto, in veste succinta, cioè con il corto mantello di porpora (o bianco listato di porpora) detto « trabea », proprio dei
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ricurva, il vecchio Saturno e Giano bifronte ed altri re antichissimi, che eran stati feriti ndla notte dei tempi, lottando per la patria. Pendevano dai sacri battenti molte armi, carri presi ai nemici, curve scuri, cimieri, gran chiavistelli di porte di fortezze espugnate, e giavellotti, scudi, rostri strappati alle navi. Seduta c'era la statua di Pico, col lituo di Quirino, vestito con un mantello corto, lo scudo nella sinistra: Pico, il domatore di cavalli, che Circe sua amante appassionata toccò con l'aurea verga e avvdenò trasformandolo in uccdlo dalle ali cosparse di colori. In questo tempio divino, seduto sul seggio paterno, Latino fece entrare i Troiani e per primo disse in tono benevolo: «Parlate pure o Dardanidi poiché noi conosciamo tutto di voi: la città e la stirpe; voi siete gente famosa dovunque navighiate-. Che cosa volete? Quale ragione ha spinto le vostre navi per tanta acqua cerulea fino al lido d'Ausonia? Sia stato un errore di rotta o una tempesta (quali soffrono i naviganti in alto mare) a costringervi a entrare od fiume e a fermarvi od porto, non sdegnate la nostra ospitale accoglienza e sappiate che i Latini,
re, degli àuguri, poi dei consoli e dei cavalieri; ed ha nella mano sinistra lo scudo, che si credeva caduto dal cielo, e nella destra un bastone ricurvo, senza nodi, usato dagli auguri per trarre gli auspicii. Di esso si servi anche Romolo (Quirino), quando trasse gli auspici per l'edificazione di Roma. La maga Circe trasformò Pico nell'uccello omonimo, il picchio, perché a lei aveva preferito come sposa Canente, la figlia di Giano (v. Ovidio, Met., XIV, 394 sgg. e 441 e sgg.). 229-249. Dardanidi - poiché noi, ecc.: i Troiani, det-
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ti anche Dardanidi, da Dardano, capostipite della casa regnante su Troia e primo fondatore di quella città, sono giunti in un luogo, il Lazio, dove la loro triste storia più recente è nota, ma dove è nota anche quella più antica e gloriosa. Ed ecco allora il discorso di Latino, che è espressione del suo carattere aperto, benevolo e sicuro delle proprie azioni, con il quale il vecchio e saggio re riconosce il valore e i meriti, la civiltà e il decoro del popolo che l'ambasceria rappresenta.- nel fiume: nel Tevere. - i Latini, prole Saturnia ecc.: i Latini, discen-
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prole Saturnia, son giusti non perché cosi vuole la legge, ma di propria natura e per l'usanza di quell'antico Dio. E in verità ricordo -la fama cogli anni s'è piuttosto oscuratache i vecchi aurunci dicevano come Dardano, nato in questi campi, fosse andato poi nella Frigia, alle città dell'Ida e a Samo nella Tracia (quella adesso chiamata Samotracia). Partito da qui, dalla tirrena Corito, ora l'accoglie in ttono l'aurea reggia del cido stellato, è uno dei Celesti che i nostri altari onorano ». Gli rispose Ilioneo: «O re, figlio famoso di Fauno, non fu una nera tempesta ad obbligarci, sbattuti dalle onde, a approdare alle vostre contrade, né ci trasse fuori rotta la poca conoscenza dei lidi o una stella: veniamo a questa città di proposito, volontariamente, cacciati dai regni maggiori che il sole mai abbia guar[dato sorgendo dalla cima dell'Olimpo. Discendiamo da Giove, siamo fieri, noi Troiani, d'avere Giove per antenato; il nostro sovrano, Enea di gran stirpe divina, ci ha mandato a te. Quale immensa bufera partita da Micene si sia rovesciata pei campi dell'Ida, spinti da quali destini i due continenti d'Asia e d'Europa cozzassero, l'hanno saputo tutti, anche i remoti abitanti denti da Satumo, il dio della giustizia, sotto il cui governo era fiorita «l'età dell'oro », sono giusti non per imposizione della legge, ma per natura e per l'esempio a loro dato dal dio che ha dato origine alla loro stirpe. Dardano, nato in questi campi ecc.: secondo Omero da Dardano, figlio di Zeus e della ninfa Elettra, nacque Erittonio, padre di Troo; da Troo nacquero Ilo e Assaraco; da Ilo discese Laomedonte e da questo Priamo; da Assaraco discese Capi, pa-
dre di Anchise e nonno di Enea. Invece secondo la tradizione seguita da Virgilio, Dardano, oriundo di Còrito (l'odierna Cortona) e quindi mitico eroe italico, si trasferl dall'Etruria nell'isola di Samotracia e di qui nella Frigia, dove sarebbe divenuto genero di Teucro. Virgilio, cioè, vuoi dimostrare che i Troiani sono stranieri quanto basta per soddisfare l'esigenza del responso, ma che in realtà essi ritornano in Italia a buon diritto, perché loro patria d'origine.
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250. Ilioneo: il capo degli ambasciatori, che altra volta con abile parola aveva perorato la causa dei Troiani presso la regina Didone (1, 6o7-65o), risponde ora a Latino altrettanto abilmente e chiede ospitalità per il popolo troiano, che sfuggito alla distruzione di Troia, è arrivato nel Lazio non a caso, ma per volere deigli dèi. 256. cacciati dai regni, ecc.: banditi dal regno più grande di quanti ne sono esistiti e ne esistono sulla terra. 257-258. Discendiamo da Giove, ecc.: perché il capostipite dei Troiani è Dardano, figlio di Giove. 259-260. Enea di gran stirpe divina: perché figlio di Venere, una delle maggiori divinità dell'Olimpo. 261-263. Quale immensa bufera, ecc.: in questi tre versi il poeta ha condensato le spaventose vicende della guerra (immensa bufera) che, partita dalla Grecia, si era abbattuta nella pianura della Troade dominata dal monte Ida. « Micene », la città di Agamennone nell'Argolide, rappresenta qui tutta la Grecia. Nota l'efficacia dell'iperbole che rappresenta la guerra tra Greci e Troiani come il cozzo formidabile tra i due continenti d'Europa e d'Asia. 264-267. l'hanno saputo tutti, ecc.: intendi: tutti hanno avuto notizia di questa grande guerra, anche gli abitanti delle regioni più lontane da noi: cosl quelli delle terre vicine all'Oceano che gira a cerchio, come quelli che vivono nella zona bruciata dal sole equatoriale. Gli antichi credevano che l'Oceano fosse un im-
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menso fiume che corresse intorno alla terra e che da esso traessero origine tutte le acque. 269. gli dèi patrii: i Penati, cui gli antichi attribuivano, come a quelli della famiglia, una larga influenza di custodia, di protezione e di prosperità dello Stato. 274-290. Giuro per i destini d'Enea, ecc.: l'abilissimo Ilioneo pensando che Latino gli possa chiedere perché i Troiani sono sbarcati in Italia e proprio nel Lazio, mentre avrebbero potuto dirigersi verso altre terre, giura sulla verità dei Fati, che guidano Enea, e sulla realtà del suo valore, sperimentato in pace e in guerra, che molti popoli li hanno invitati a prendere dimora nella loro terra, ma che essi hanno obbedito alla volontà degli dèi. - Di qui Dardano, ecc.: v. nota ai versi 243 sgg. Ilioneo tiprende il discorso di Latino, ma con altro intendimento: egli afferma decisamente che la venuta dei Troiani in Italia è un ritorno. Dardano, di origine italica, trasmigrò in Oriente ed ora nelle vesti di Enea, suo discendente, ritorna sospinto da Apollo con i suoi oracoli, e gli manda i doni ospitali. - Numìco; v. verso 179 e la nota. - la sacra tiara: il berretto frigio (specie di turbante con la punta diritta) faceva parte, insieme con Io scettro e il manto, delle insegne regie; gli altri Troiani portavano la mitra, anche berretto frigio, ma con la punta ripiegata. 293-299. Non lo commuove, ecc.: Latino non si commuove alla vista dei doni,
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di terre fuori del mondo, divise dall'Oceano che torna su se stesso, o di regioni bruciate dall'implacabile sole in zona equatoriale. Scampati a quella tempesta, sbattuti per tanti mari, chiediamo una piccola sede per gli Dei patrii, un lido ospitale, acqua e aria libere per tutti. Saremo degni del vostro regno, e la vostra fama non ne scapiterà, non ci vedrete ingrati né dovrete pentirvi d'aver accolto i Troiani. Giuro per i destini d'Enea, per la sua destra potente - che qualcuno ha sperimentato in pace, qualcuno in guerra e in armi - , molti popoli, molte genti vollero unirei a loro: non disprezzarci se veniamo a te supplici, con bende di pace! Ci ha spinto a cercare le vostre terre il volere degli Dei. Di qui Dardano ebbe origine, qui ci chiama Apollo e con ordini imperiosi ci spinge al Tevere etrusco e alle sacre acque del fonte Numico. Enea ti regala qualche piccolo pegno della potenza d'un tempo, resti da lui salvati all'incendio di Troia. Con questa coppa d'oro libava il padre Anchise presso gli altari; questa era l'acconciatura di Priamo quando dava secondo l'uso leggi ai popoli adunati: lo scettro, la sacra tiara e le vesti, tessute dalle donne iliache »... A tali parole d'Ilioneo il re Latino rivolge gli occhi al suolo pensando, il volto fisso e intento. Non lo commuove la porpora ricamata né lo scettro di Priamo, ma pensa al matrimonio della figlia e rimugina il presagio di Fauno: ecco il genero giunto da una terra straniera, predestinato dai Fati a regnare con lui, ecco il futuro autore di una stirpe famosa per il valore, forte da conquistare il mondo! Poi disse, lieto: «Gli Dei favoriscano i nostri
ma ricorda il presagio di Fauno, suo padre. Egli oltre che essere re è anche padre, e ad un tempo pensa sia alIa gloria fu tura del suo popolo, sia alla felicità della figlia.
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300. i nostrt progetti e i loro augurii: i nostri progetti di fare dei Latini e dei Troiani un popolo solo e i vaticini degli dèi, che coincidono con quanto noi ci proponiamo di fare.
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progetti e i loro augurii. Troiano, ti sarà dato quel che desideri, io non respingo i tuoi doni. Finché sarà re Latino non vi verrà mai meno la ricchezza dei campi o l'opulenza di Troia. Ma se davvero Enea vuol essere nostro amico, se aspira ad essere ospite nostro, caro alleato, non abbia paura a venir di persona, poiché lo attendo da amico: stimerò quasi fatta l'alleanza se avrò toccato la sua mano. Ora voi riportategli subito i miei mandati. Ho una figlia alla quale gli oracoli del tempio paterno e molti prodigi celesti non consentono s'unisca in matrimonio a un uomo di nostra gente: predicono che un genero venuto da terre straniere toccherà in sorte al Lazio, un genero che porterà il nostro nome alle stelle con -la sua discendenza. Credo e spero che Enea sia il genero chiamato dai Fati, se la mia mente è presaga del vero». Quindi il padre Latino sceglie alcuni cavalli (ne teneva trecento in grandi stalle, splendidi) e subito comanda che quei corsieri, adorni di porpora e gualdrappe ricamate, sian dati ad ogni ambasciatore. Collane d'oro pendono sui petti dei cavalli; mordono un freno d'oro. In omaggio a Enea assente affida ai Teucri un cocchio con due trottatori di origine celeste dalle nari infuocate, della razza di quelli che l'ingegnosa Circe creò sottoponendo ai cavalli del Sole una giumenta montana. Alti sui loro cavalli ritornano gli Eneadi portando le proposte e i doni di Latino.
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3II. gli oracoli del tempio, ecc.: i presagi di Fauno, suo padre, interrogato da Latino nei boschi presso Tivoli, dov'era la rupe Albunea e dove egli dava i suoi responsi (vv. 98-103). 329. ai cavalli del Sole: Etone e Piroo. GIUNONE, ALETTO E I.A
REGINA AMATA (332-462). -
Giunone, Aletto c la regina Amata
Mentre l'ambasceria troiana ritorna al campo con i doni del re Latino, Giunone scorge Enea e i suoi compagni già arrivati sulle coste del Lazio,- e adirata per il fallimento dei suoi piani, chiama la furia Aletto e le ordina di creare motivi di discordia tra Latini e Troiani, allo scopo di impedire le nozze di Enea con Lavinia. Aletto obbedisce e col morso di uno dei suoi serpenti accende d'ira la regina dei Latini, già turbata dall'arrivo dei Troiani. Amata dapprima si duole con Latino della promessa fatta agli ambasciatori troiani e difende la causa di Turno, ma quando l'azione del veleno si fa più profonda, dà in smanie, corre per la città urlando come una baccante ebbra, nasconde la figlia nei boschi e la consacra a Bacco, indi con le donne latine, come lei invasate, si dà ad uno sfrenato baccanale.
Intanto la feroce moglie di Giove tornava da Argo Inachia, portata per aria dal suo carro:
333· Argo Inachia: Argo, città dell'Argolide, detta
302. quel che desideri: l'ospitalità nel Lazio e l'alleanza con i Latini. 304. di Troia: della città che voi fonderete come una
nuova Troia ricca e potente. 309. toccato la sua mano: la stretta di mano fatta con la destra era impegno di solenne fedeltà.
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Inachia perché fondata da Inaco, padre di Io che, trasformata in giovenca, fu data in custodia ad Argo, il pastore dai cento occhi. La città era carissima a Giunone, perché vi era particolarmente onorata (I, 30).
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334-338. guardando giù dal cielo, ecc.: volando sul suo carro Giunone, arrivata sulla verticale di capo Pas- · sero (Pachino), nella Sicilia meridionale, vede Enea che, sbarcato alla foce del Tevere, è tranquillamente intento a costruire nuove abitazioni per sé e i suoi compagni. La dea, costretta a costatare il fallimento della sua opera, s'arresta addolorata e furente, e senza esitare riprende la lotta. Cosl la simmetria tra le due parti del poema è rispettata. All'inizio dei primi sei canti Giunone, quando vede i Troiani navigare tranquillamente verso l'Italia, ricorre a ~lo, il quale libera i venti, sconvolge il mare e getta i naviganti sulla costa africana di Cartagine; ora all'inizio della seconda parte ricorre alla furia Aletto, che sconvolge gli animi dei popoli latini e provoca la guerra. 339· Fati dei Frigi: destino dei Troiani. La Troade era parte della Frigia. I Fati dei Troiani contrastavano fortemente con quelli dei Greci e dei Cartaginesi; lo dimostrarono le guerre di Roma sostenute poi con gli uni e con gli altri vittoriosamente. 340. nei campi sigeit ecc.: nota con quanto realismo questi interrogativi retorici esprimano l'ira di Giunone, che non è riuscita a distruggere i Troiani, né con la guerra combattuta nella campagna troiana (fra la collina, su cui era costruita la città, e il promontorio Sigeo ad ovest di essa), né circondando di Greci la cit-
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guardando giu dal cielo scorse, sin dal lontano Pachino, Enea contento e la flotta troiana. Li vide che innalzavano le case, abbandonate le navi, già sicuri del luogo; si fermò colta da acre dolore. Poi scuotendo la testa disse: «Oh, stirpe odiosa e Fati dei Frigi avversi ai miei Fati! Morirono forse nei campi sigei? Furono preda dei Greci? O arsero nel rogo di Troia? Niente affatto: riuscirono a salvarsi dai nemici e dal fuoco! Forse la mia potenza è alfine stanca o sazia, e ho placato il mio odio? Ah no, che ho osato, accanita, perseguitare· i profughi scacciati dalla patria per tutto il mare ondoso, sprecando contro i Teucri le forze dell'acqua e del cielo. A che mi son servite le Sirti, Scilla e Cariddi? Eccoli già nel Tevere tanto desiderato, al sicuro dal mare e da me. Poté Marte distruggere la razza gigante dei Lapiti; lo stesso padre celeste ha concesso al furore di Diana l'antica Calidone (e che mali cosi gravi commisero Lapiti e Calidone?).
tà (Enea e i suoi compagni sono riusciti a trovare una via di salvezza passando tra le schiere nemiche), né con l'incendio di Troia, cosl imponente che illuminava il tratto di mare, in cui era ancorata la flotta greca. 347. sprecando contro i Teucri ecc.: allude alle tempeste scatenate da Eolo, quando Enea, dopo essere stato ospite in Sicilia del re troiano Aceste, fece rotta con le sue venti navi verso l'Italia. 348. Sirti, Scilla e Cariddi?: le Sirti sono ampie insenature sulla costa libica; Scilla e Cariddi si trovano sullo stretto di Messina. Sono luoghi pericolosi alla navigazione; le Sirti per i bassifondi sabbiosi, Scilla e Cariddi per le correnti marine
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Scilla e Cariddi furono evitate dai Troiani per consiglio di Eleno (III, .512-.528). 3.5o-3.54. Poté Marte distruggere, ecc.: Giunone ha bisogno di esasperare la propria ira prima di decidere come aggredire e colpire a morte i Troiani; e pone a fronte dei suoi insuccessi le intraprese favorevoli di altri dèi: di Marte che si vendicò di non essere stato invitato alle nozze di Piritoo suscitando una lotta mortale tra i Lapiti e i Centauri, loro invitati; di Diana, che avendo Eneo al termine del raccolto sacrificato a tutti i numi tranne che a lei, inviò un terribile cinghiale a devastare la campagna intorno alla città di Calidòne. La fiera fu poi uccisa da Meleagro.
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lo, la gran moglie di Giove, che non ho trascurato null-' e ho provato di tutto per nuocere, sono vinta, infelice, da Enea! Ah, se la mia potenza non è abbastanza grande, chiederò aiuto a chiunque; se non ne otterrò dai Celesti solleverò l'Acheronte. So bene che non potrò tenere Enea lontano dai regni latini e che i Fati gli hanno assegnato in [moglie Lavinia: ma potrò ritardare le cose e sterminare i popoli di Troia e di Laureoto. S'alleino a questo prezzo il suocero e il genero: o yergine, avrai una dote di sangue troiano e rutulo, Bellona sarà la tua pronuba! Ecuba non sarà sola ad aver partorito una fiaccola accesa, Enea sarà per Venere come Paride, torcia funesta su Pergamo che risorge di nuovo ». La Dea verso la terra s'avviò, spaventosa; chiamò dalla notte infernale, dimora delle terribili Furie, la luttuosa Aletto che ama le guerre tristi, l'ira, le insidie, le offese. Persino il padre Plutone odia quel mostro, la odiano le sorelle infernali: tanto è d'aspetto mutevole, tanto è tremenda in volto, irta di cento &erpenti. Giunone l'aizzò dicendole: «O vergine 359· solleverò l'Acheronte: le forze dell'Averno; chiamerà infatti in suo aiuto Aletto, la maggiore delle Furie infernali. 362-369. ma potrò ritardare, ecc.: Giunone sa di non potersi opporre alla volontà dei Fati, ma sa anche di paterne ritardare la realizzazione. E nel frattempo la feroce regina degli dèi, sospinta da un furore isterico cosi violento da perdere ogni controllo di se stessa, si propone di distruggere Troiani e Latini in una guerra cruenta. Questo sarà il suggello del patto d'alleanza tra Latino ed Enea (suocero e genero); questa strage di Rutuli e di Troiani sarà la dote di
Lavinia, e Bellona, la dea della guerra, sarà protettrice e assistente alle nozze, invece di Giunone cui sarebbe spettato tale compito (Giunone pronuba); ed Enea non sarà meno funesto di Paride alla città (la nuova Pergamo) ch'egli sta costruendo. Simile alla causa che distrusse Troia sarà quindi la causa che distruggerà la nuova Pergamo, come simili sono i loro indizi: Ecuba, regina di Troia, prima di mettere al mondo Paride, aveva sognato di partorire una fiaccola, e gli indovini predissero che quella fiaccola avrebbe incendiato la città. Infatti Paride rapi Elenà e fu causa della guerra e del-
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l'incendio di Troia. Allo stesso modo anche il figlio di Venere, Enea, nuovo Paride, sposando Lavinia porterà la rovina alla nuova Troia (Pergamo) sorta nel Lazio. Nota come Giunone paragoni volutamente Venere ad una mortale ed Enea a Paride: è un particolare che aggiunge evidenza al carattere acerbo e puntiglioso di Giunone. 372. Furie: le Furie, nome latino delle greche Erioni,. sono le divinità infernali della maledizione e della vendetta. Erano tre: Aletto, Tesifone, Megera, e si rappresentavano anguicrinite, con occhi truci, agitanti con le mani faci e serpenti. Dante ne ravvivò con vigore michelangiolesco la rappresentazione, ponendole, custodi terribili, a guardia della inferiJale « Città di Dite». 376. irta di cento serpenti: Dante dice che le furie « serpentelli e ceraste avean per crine, - onde le fiere tempie erano avvinte ... » (Inf., c. X, vv. 41-42). Il « cento » ha valore di « molti». 377-388. O vergine figlia della Notte, ecc.: le parole che Giunone rivolge ad Aletto non hanno il tono supplichevole della preghiera rivolta a Eolo, ma della persuasione e dell'incitamento all'odio, alla violenza, al male. Ma Eolo, che ha il compito di regolare i venti, non è malvagio, e accondiscende alla richiesta supplichevole di Giunone perché aveva motivi di riconoscenza verso la dea (I, 82-93); Aletto è di natura malvagia e ad ottenere la sua collaborazio-
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ne è sufficiente l'incitamento, il comando. - Scuoti il cuore fecondo di mali: fai uscire da te tutti i mali che porti in grembo. Ma si potrebbe anche intendere, come pare abbia inteso il traduttore in contrasto con i più: agita il cuore degli uomini che può essere fecondo, come di beni, cosi anche di mali. 389. di veleni Gorgonei: dei veleni delle serpi orribili che, con aspetto terrificante, formano la chioma delle Furie. Anche le Gorgoni, le tre figlie di Porco e di Ceto o Cheto, mostri alati orribili, dallo sguardo che impietriva, avevano serpenti per capelli, donde l'aggettivo « gorgonei » usato per indicare i serpenti delle Furie. 394· dall'ansia femminile e dal dolore: Amata, non vittima ancora delle arti malefiche di Aletto, è soltanto turbata dalla preoccupazione normale di una madre per la figlia che si sposa; la Furia si accinge senza indugio a trasformare questo sentimento naturale e legittimo in una ribellione furiosa, quasi selvaggia. 40o-407. diveTtta il laccio d'oro, ecc.: la serpe, dopo aver strisciato, quasi inavvertita, sul corpo, prende forma di collana d'oro e poi di nastro che avvolge i capelli; cosi inizia la sua opera malefica toccandole il collo e la testa, che sono le parti più sensibili. Ma Aletto, pur immettendo in Amata un'agitazione insolita, non le turba ancora il cuore; e la regina parla al marito con dolcezza, piangendo come una comune madre che non
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figlia della Notte, aiutami in quest'impresa affinché non s'abbassi la mia fama e il mio onore; fa si che gli Eneadi non riescano a raggirare Latino con queste nozze e a occupare l'Italia. Tu puoi far armare e combattere i fratelli piu concordi, spargere l'odio nelle famiglie, portare nelle case i flagelli e le funebri torce: hai mille modi, mille arti di far danno. Scuoti il cuore fecondo di mali, rompi la pace raggiunta, semina cause di guerra: la giovenru voglia a un tratto le armi e le chieda e le imbracci! • Subito Aletto, infetta di veleni Gorgonei, s'avvia verso Laurento, al gran palazzo del re, entrando nella stanza silenziosa di Amata la regina che, irata per l'arrivo dei Teucri e le mancate nozze di Turno, era sconvolta dall'ansia femminile e dal dolore. La Dea si tolse dai capelli glauchi un solo serpente, lo infisse profondamente nel petto di Amata, perché infuriata dal mostro sconvolga tutta la reggia. Strisciando tra le vesti e la carne, il serpente si muove senza mordere, eccita l'infelice col fiato viperino: diventa il laccio d'oro che le circonda il collo, la benda che le cinge i capelli, e lubrico vaga per tutte le membra. Il primo contagio si propaga col liquido veleno, agita i sensi ed infuoca le ossa ma non ancora il cuore. La regina parlava con una triste dolcezza, come fanno le madri, piangendo per la figlia e le nozze troiane: « È proprio vero che woi sposare la nostra Lavinia a esuli dardanidi, padre? Non hai pietà della figlia e di te, di una madre che al primo vento propizio quel perfido predone lascerà sola, fuggendo pel mare, portandosi via la fanciulla? Non fece forse cosi Paride, il frigio pastore, quando andò a Sparta e rapi Elena figlia di Leda
approva le nozze Jella figlia. 411-412. quel perfido predone, ecc.: Amata immagina che Enea sia un avven-
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turiero, il quale, sposata Lavinia, al primo vento favorevole, riprenda il mare, portando via la figlia e lasciando lei, madre, sola nel pianto.
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~;onducendola a Troia? Che ne è della tua parola, dell'amore pei tuoi, della promessa fatta tante volte al parente Turno? Se cerchiamo un genero straniero, se sei davvero fermo in quest'idea e ti assillano gli ordini di tuo padre Fauno, ebbene ogni terra libera, indipendente dal nostro regno è straniera: io credo che gli Dei questo mtendano. E poi, se risaliamo alle origini, Turno è straniero, i suoi avi sono Inaco e Acrisia e la sua patria è il cuore della greca Micene ». Dopo avere tentato con queste parole Latino, poiché non riesce a commuoverlo (e intanto il veleno del serpente infernale è entrato profondamente nelle sue viscere e tutta la percorre), la donna, scossa da immani visioni, folle d'ira e dolore, infuria per la città. Cosi rotea una trottola sotto i colpi di frusta dei fanciulli che giocano facendola girare intorno a un vasto cortile; spinta dai colpi la trottola avanza descrivendo cerchi, la schiera dei bimbi la guarda stupita senza sapere perché quel legno si muova cosi rapidamente su se stesso, e raddoppia le frustate, raddoppia il movimento. Veloce come un ruotare di trottola Amata si muove in mezzo alla città e attraverso la gente. Peggio: fingendo d'essere invasata da Bacco corre nei boschi e nasconde la figlia sui monti frondosi per strappare ai Troiani la sposa e tardare le nozze. E al grido di «Bacco, evoè! » urla che solo Bacco è degno della vergine, la quale ha consacrato
41.5-424. Che ne è della tua parola, ecc.: Latino aveva promesso Lavinia in isposa a Turno, figlio di Venilia, sorella di Amata, e del re dei Rutuli; ed Amata caldeggiava il matrimonio del.io~ .figlia con il nipote, 11nche perché lo considerava vantaggioso alla famiglia e ai Latini tutti. E contro l'oracolo di Fauno, che aveva costretto Latino a venir meno
alla promessa, essa afferma con una distinzione sottile, dettatale ovviamente dall'amore materno, che anche Turno è straniero, perché discendente da Danae, che, figlia di Acrisio, quarto re di Argo, era fuggita in Italia e aveva sposato Pilunno, fondatore di Ardea e trisavolo di Turno; senza contare poi che Turno è straniero anche perché re di
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una terra che non appartiene a Latino. Perciò il re dei Rutuli può essere considerato giustamente il principe straniero voluto dal Destino. 42,. tentato: cercato di
convmcere. 428. e tutta la perco"e: la tenace opposizione di Latino determina in Amata, tutta dominata ora dal veleno della serpe di Aletto, una reazione furibonda, e la regina dei Latini, folle d'ira e di dolore, corre per la città urlando come una baccante ebbra. 43D-439· Così rotea una trottola, ecc.: mentre Amata corre e ricorre forsennata per la città, il poeta per at· tutire l'impressione tragica creata dal rapido evolversi della situazione, interrompe il racconto e paragona i movimenti della donna al muoversi della trottola nel gioco innocente di una schiera di bimbi. C'è chi ha creduto di giudicare inadatto l'accostamento di questa nitida, gentile e colorita similitudine alla torbida e greve tragicità dei movimenti di Amata, ma il senso della misura, proprio dell'arte classica, si giova spesso di questi mezzi anche per rendere meno impressionante la lettura. 440. invasata da Bacco:
ispirata da Bacco. 441. nasconde la figlia: per impedire o ritardare, in attesa di eventi nuovi e favorevoli, le nozze di Lavinia con Enea. 444· è degno della vergi· ne: finge di consacrare La· vinia a Bacco per rendere inutile la promessa di Latino ad Enea con sottile astuzia femminile.
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445· tirsi: bastoni, adorni di edera e di pampini, agitati dalle Baccanti. 446-451. Ne vola la notizia: si diffonde rapidamente la notizia della consacrazione di Lavinia a Bacco, e tutte le madri latine della città, sospinte da furore bacchico, abbandonano le proprie case e corrono anch'esse nd bosco (a cercare luoghi insoliti e strani), seminude e con i capelli sciolti, gridando, vestite di pelli e portando bastoni ornati di pampini. 452-455. Amata, furibonda, ecc.: la scena di Amata, che si agita e grida con gli occhi iniettati di sangue in mezzo alle altre donne ugualmente invasate da bacchico furore, è impressionante; e par di vederla questa madre infelice, che ha perduto ogni senso della sua dignità di donna e di regina. -solleva tra di loro, ecc.: nell'esaltazione prima aveva finto di consacrare la figlia a Bacco, ora finge di cdebrare le nozze della figlia con Turno, e solleva in alto tra le donne un ramo ardente di pino, che illumina la via al corteo nuziale, che, cantando l'imeneo, cioè l'inno di nozze, conduce la sposa alla casa dello sposo. 458. diritti materni: il diritto della madre di decidere insieme con il padre il destino delle figlie. 459· sciogliete le bende dal capo, ecc.: per celebrare i riti sacri a Bacco le donne, cioè le Baccanti, scioglievano i capelli, togliendo le bende che comudemente li tenevano raccolti.
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a Bacco la sua chioma ed ha impugnato i tirsi. Ne vola la notizia; egual furore conduce tutte le madri infiammate dalle Furie a cercare luoghi insoliti e strani. Abbandonate le case corrono seminude nel vento, coi capelli sciolti. Molte riempiono l'aria di tremule voci e vestite di pelli portano tirsi di pampini. Amata, furibonda, solleva tra di loro un ramo acceso di pino e canta le nozze della figlia e di Turno, girando attorno gli occhi iniettati di sangue. Poi grida ferocemente: « Ohè,- madri Latine, ascòltatemi tutte dovunque siate, se avete un po' di benevolenza per l'infelice Amata, se i diritti materni vi stanno a cuore: sciogliete le bende dal capo, celebrate le orge di Bacco insieme a me!,. Cosi, con lo sprone di Bacco, Aletto domina e spinge la regina tra i boschi, deserti covi di fiere.
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Quando le parve di avere abbastanza ecCitato quei primi ardori, sconvolto il piano di Latino e la sua casa, la triste Dea s'alza di là a volo sulle ali nere: va alla città di Rutuli fondata - si dice - da Danae di Acrisio, sbattuta dal vento su quella spiaggia. La città era chiamata Ardea (il nome famoso lo conserva tuttora,
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538). - Soddisfatta della sua opera con Amata, Aletto si reca ad Ardea e, assunte le sembianze di Càlibe, vecchia sacerdotessa di Giunone, appare in sogno a Turno e lo eccita a muovere guerra ad Enea. Turno si prende beffe della vecchia e le risponde ch'egli sa bene come prendersi cura dei propri fatti e che lei si occupi invece della custodia dei templi e delle statue degli dèi, Alet-
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to a questa risposta s'infuria, riprende il suo vero aspetto e colpisce il principe rutulo con i suoi serpenti. Turno d'un tratto si sveglia terrorizzato e, tutto pervaso dalla scellerata follia della guerra, chiede le armi, « cerca armi nel letto e per tutta la casa». 465. la triste Dea: Aletto. 467. da Danae di Acrisia: v. la nota ai versi 415-424.
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ma non piu la potenza). Qui, nell'alta sua reggia, Turno godeva già di un riposo profondo entro la notte buia. Aletto si trasforma in una vecchia: si fa una fronte solcata dalle rughe, racchiude la chioma diventata candida in una benda e vi intreccia un rametto d'olivo. Ora è la vecchia sacerdotessa dd tempio di Giunone, Calibe, e in questa nota forma appare agli occhi del giovane addormentato e gli dice: « Turno, sopporterai che tanta fatica sia vana e il regno a te dovuto vada ai coloni troiani? Il re Latino ti nega la sposa e la dote che hai già pagato col sangue, e cerca un erede straniero. Adesso corri, eroe deriso, a esporti al rischio; va, stermina le schiere dei Tirreni, proteggi colla pace i Latini! Questo, mentre dormivi nella placida notte, mi ha ordinato di dirti apertamente Giunone, l'onnipotente. Su, ordina lieto che i giovani si armino e che escano dalle porte a battaglia, distruggi i capi troiani, che stan fermi sul chiaro fiwne, e le navi dipinte! Te l'ordina il grande potere dei Numi. Lo stesso re Latino dovrà provare Turno in guerra se non ti darà la figlia, sciogliendo la sua promessa». Il giovane, beffando la sacerdotessa, risponde: «L'annunzio che una Botta s'è spinta nelle acque dd [Tevere non mi è sfuggito, come tu credi. Non inventare paure, la regale Giunone si ricorda 470. ma non più la poten-
za: Ardea, al tempo di Vir-
gilio, dopo essere stata depredata dai Sanniti durante le guerre civili tra Mario e Silla, era veramente decaduta. Ora dell'antica città rimangono la rocca, vari ruderi e i loculi sepolcrali dei Rutuli. 476. Ora ~ la vecchia, ecc.: Aletto prende ora le sembianze di Càlibe, la vecchia sacerdotessa dd tem. pio di Giunone, e come Cà-
libe si avvolge con bende le bianche chiome e v'intreccia l'olivo. 479· Turno, sopporterai, ecc.: il tono delle parole di Aletto, nelle vesti di Càlibe, è diretto a sollecitare opportunamente l'amor proprio di Turno, facendo leva sul suo orgoglio. Turno perciò appare sulla scena del poema virgiliano con la sua caratteristica principale, l'orgoglio, che gli aveva dato la gloria, conquistata col san-
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gue in guerre vittoriose combattute contro gli Etruschi, e la possibilità di aspirare alla mano di Lavinia e alla sua dote: il regno di Latino. 483. Adesso co"i, eroe deciso, ecc.: fin qui Aletto ha sollecitato l'amor proprio di Turno; ora gli propone i mezzi per soddisfarlo: ricorrere alle armi, distruggere i Troiani. E giustifica il suo invito con l'autorità di Giunone, di cui la Furia si dichiara ambasciatrice. 491. Te l'ordina, ecc.: Aletto incalza sempre più, e le sue parole, che poco fa avevano il significato di una proposta o tutt'al più di un invito, ora assumono apertamente il tono di un comando, e di un comando dei
Numi. 495· L'annunzio che una flotta, ecc.: per indurre Turno all'azione, la falsa Cìtlibe aveva presentato l'approdo di Enea e dei Troiani nella terra dd Lazio come un pericolo grave, cui era necessario porre rimedio senza tergiversare; Turno, invece, che dichiara subito di essere già informato della presenza dei Troiani nel Lazio, esprime fiducia e serenità. Giunone non permetterebbe mai che le paure della falsa sacerdotessa si avverino. Egli ha fiducia nella propria forza, nell'aiuto di Giunone e nella lealtà di Latino. Turno, fin dal suo primo manifestarsi, si presenta veramente un personaggio completo e coerente: orgoglioso, fiero e sprezzante del pericolo, ma anche fiducioso della protezione degli dèi e della lealtà degli uomini.
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Canto settimo
506. Aletto arde di rabbia, ecc.: le parole di Tur-
no, un po' scherzose e un po' ironiche, riempiono di sdegno Aletto, e la terribile divinità infernale, riprendendo il suo spaventoso aspetto, assale il giovane re dei Rutuli con tutta la sua potenza malefica: « con tante serpi sibila • la Furia che Turno rimane attonito e tremante e, mentre vorrebbe ancora parlare, non sa più pronunciare una parola. 513. Guardala questa vecchia, ecc.: ora è Aletto che,
nell'atto di svelare personalità terribile, sarcasmo e rinfaccia no le sue ingiurie le sue stesse parole.
di me ...
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la sua usa il a Turusando
514-.516. che la vecchiaia ... con false paure: che (è com-
plemento oggetto) la vecchiaia, inadatta a scorgere ciò che esiste di vero tra le guerre dei re, inganna con paure che non esistono; cioè, la vecchiaia, per la incapacità dei vecchi di vedere ciò che esiste di vero nelle guerre dei re, ha ingannato la falsa sacerdotessa, inducendola a prevedere eventi paurosi, che non possono mai accadere. Ovviamente sono affermazioni ironiche.
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518. una fiaccola accesa:
le Furie lanciavano tizzoni ardenti come segno di strage e di morte. « Porto la guerra e la morte • la Furia aveva detto nel verso precedente. 519. fiamme di fumida lu-
ce: con questa fiamma fu-
mida Aletto ha oscurato a Turno la mente, privandolo della facoltà di vedere le cose nella loro effettiva realtà, e quindi anche di ragionare; e gli ha infuso nel cuo-
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Ma tu, madre, sei vecchia, e la vecchiaia inerte e inadatta a vedere la verità ti angustia .con inutili affanni; tra le guerre dei re ti inganna, o profetessa, con false paure. Occupati di far la guardia ai templi e alle statue divine: la guerra e la pace le amministrino gli uomini .ai quali soltanto è affidato un simile compito! » Aletto arde di rabbia a queste parole scherzose. n giovane viene assalito da un tremore improvviso, ,gli si sbarrano gli occhi: con tante serpi sibila l'Erinni, con cosi tragico aspetto gli si rivela. Poi roteando gli occhi di fiamma lo fece tacere, mentre tentava di dire qualche cosa, e drizzò due serpi dei suoi capelli, fece schioccare la sferza e con bocca rabbiosa disse: «Guardala questa vecchia inerte, che la vecchiaia inadatta a vedere la verità inganna, tra le guerre dei re, con false paure. Guardami, io vengo dalla dimora delle sorelle tremende, porto la guerra e la morte!» E scagliò contro il giovane una fiaccola accesa infiggendogli in petto fiamme di fumida luce. Un immenso terrore gli ruppe il sonno, un sudore sgorgato da tutto il corpo gli bagna le membra. Fuori di sé chiede armi, cerca armi nel letto e per tutta la casa; la scellerata follia della guerra, l'amore per le armi e la rabbia lo fanno infuriare: come quando una fiamma crepitante, di verghe, ha riscaldato i fianchi d'una caldaia bollente, il liquido per il calore saltella, fuma, gorgoglia, si solleva schiumando in altq, oltre i bordi, li supera, un denso vapore vola in aria. Comanda ai giovani migliori
re sdegno ed ira senza limiti. 52o-530. Un immenso terrore, ecc.: Turno, dominato
ormai dalla furia Aletto, comincia a manifestare lo sconvolgimento operato in lui dalla divinità infernale. Il giovane re si sveglia terrorizzato dalla visione avuta nel sonno e, con l'agitazio-
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ne che gli ha coperto di sudore tutto il corpo, cerca le armi nel letto e in tutta la casa, dominato da un folle desiderio di guerra. La similitudine che segue, indica con luminosa evidenza la rapida successione dei momenti che, dallo stordimento iniziale, portano l'eroe ad una furia sconcertante.
Canto settimo
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- poiché la pace è violata - di andare al re Latino; ordina che si prepaHno le armi, si difenda l'Italia, si scacci il nemico dai suoi confini: si vanta di bastare da solo contro Teucri e Latini. Quindi prega gli Dei e li supplica. I Rutuli si esortano alla guerra a gara: c'è chi è sensibile alla sua giovanile bellezza, chi alla gloria dei suoi avi, o al suo braccio già illustre di tante vittorie.
Aletto, il cervo di Silvia e i primi morti 540
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Mentre Turno riempie i Rutuli di coraggio Aletto si affretta a volo dai Troiani e, pensando come nuocere, piomba su Julo che va a caccia. La vergine del Cocito fa nascere nei cani un'improvvisa rabbia, colpisce i loro nasi col selvatico odore ben noto, e li mette sulle tracce d'un cervo. (Ahimè questa caccia di Julo fu la prima causa di tanti affanni, ed eccitò alla guerra gli animi contadini). C'era uno splendido cervo dalle corna magnifiche, che era stato allevato - preso ancora lattante dai figli di Tirro, pastore dei greggi di Latino e fattore d'un grande podere reale. La figlia di Tirro, Silvia, l'aveva avvezzato a obbedire ai comandi, e l'ornava con cura ed amore, cingendogli le corna di fresche corone, pettinandogli il pelo, lavandolo in acqua pura. Docile alle carezze, abituato al cibo del padrone, quel cervo errava nelle selve e poi di nuovo, anche se a notte tarda, tornava da solo a casa. Rabbiose, le cagne di Julo lo spaventarono mentre vagava chissà dove, 534· contro T eucri e Latini: contro i Troiani e contro i Latini, se il vecchio re dovesse aver rotto realmente il patto d'alleanza con Turno. ALETTO, IL CERVO DI SILVIA E I PRIMI MORTI (539-
Dopo aver spinto Amata ad agitare le donne di Laurento e Turno a cercar armi per tutta la casa, ad Aletto non rimane che far scoccar la scintilla atta ad accendere la guerra. E si reca perciò nelle vicinanze del campo troiano, dove fu-
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lo sta cacciando, e aizzando i suoi cani fa si che il giovane figlio di Enea ferisca un cerbiatto caro a Silvia, la figlia di Tirro, custode degli armenti del re. L'animale ferito si rifugia nella sua stalla gemendo, Silvia si dispera e alle sue grida accorrono i contadini armati di randelli. I giovani troiani acco"ono in difesa di Julo e tra le due schiere s'ingaggia una lotta furibonda, in cui cadono le prime vittime della guerra. 540. Aletto si affretta, ecc.: Aletto, continuando la sua opera provocatrice, si sposta in fretta a volo nel campo troiano. 542. La vergine del Cocito: Aletto, dea infernale. Cocito è, come lo Stige, un fiume del mondo sotterraneo dei morti. 544· col selvatico odore, ecc.: fa sentire ai cani l'odore selvatico del cervo, che essi ben conoscevano perché già abituati a questo genere di caccia. 546. fu la prima causa, ecc.: la causa vera e profonda è la rivalità fra Turno ed Enea per Lavinia, sfruttato contro i Troiani dall'ira pertinace di Giunone, ma la cagsa immediata, cioè la scintilla che ha acceso le ostilità, è la caccia del cervo. Nota come Virgilio, poeta delle Bucoliche e delle Georgiche, abbia voluto porre all'inizio di una guerra crudele il pianto di una fanciulla e i lamenti di un cervo ferito: un episodio commovente e umano. 548. uno splendido cervo, ecc.: il cervo caro a Silvia, figlia di Tirro, capo dei pastori di Latino.
2.5 2
Canto settimo
561. si lasciava andare, ecc.: si lasciava trasportare dalla corrente del fiume. 565. un Dio diresse la sua mano: una forza divina indeterminata, ma si sottintende facilmente la furia Aletto, che aveva sollecitato Julo alla caccia, oppure la stessa Giunone. ,.68. nell'usata dimora: nella sua stalla abituale. 571-572. battendosi le braccia coi pugni: modo primitivo per esprimere un grande dolore e urgente bisogno di aiuto. 575· appuntito sul fuoco: appuntito e un po' bruciato dal fuoco per aumentarne la durezza. 580. ansando fieramente: nota il progressivo addensarsi della schiera di questi pastori, che lo sdegno e l'ira tramutano rapidamente in fieri combattenti. 581. La dea crudele, ecc.: Aletto segue attenta gli eventi, che si susseguono rapidamente dopo il ferimento del cervo, e vedendo che tutto accade secondo i suoi progetti, dà ai pastori il segnale d'impugnare le armi. « Il segnale dei pastori » è il suono del corno, ma qui l'allarme è dato dalla Furia, che nello stesso tempo con il suo accento infernale produce orrore ed ira furibonda. 585-586. il lago di Trivia: il lago di Nemi, presso Ariccia, sulle cui rive era un tempio sacro a Diana, detta anche Trivia, perché la sua immagine si collocava nei trivii o crocicchi. 587-588. il fiume Nera: affluente del Tevere. Le sue acque, che sono sulfuree, hanno un colore biancastro. - le fonti del V elino: le
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o si lasciava andare sul filo della corrente o cexcava frescura sulla riva del fiume. Lo stesso Ascanio, sperando di guadagnarsi lode con un bel colpo, scoccò una freccia dal curvo arco di como: un Dio diresse la sua mano, e la freccia scagliata con un forte ronzio trapassò il ventre e i fianchi della bestia. Ferito il cervo si rifugiò nell'usata dimora; entrò gemendo in .stalla, dove, perdendo sangue, simile a uno che supplichi, riempiva tutta la casa di strida. Silvia per prima, battendosi le braccia coi pugni, chiama aiuto, fa accorrere i contadini. C..ostoro all'improvviso arrivano (c'è Aletto, fiera peste, nascosta nella .tacita selva), muniti chi di un palo appuntito sul fuoco chi di una mazza nodosa: la collera li ha spinti a trasformare in arma qualsiasi cosa. Tirro, sorpreso dalle ~da mentre spaccava una quercia in quattro parti coi cunei, riunisce la sua schiera ed impugna una scure, ansando fieramente. La Dea crudele che spia quantQ accade ed attende il momento di nuocere, vola in cima alla stalla ed intona il segnale dei pastori. Rimbomba dal como ricurvo il suono infernale: ne trema il bosco intero profondamente, il lago di Trivia ne riceve l'eco da !ungi, l'ascoltano il fiume Nera chiaro d'acqua sulfurea e le fonti del Velino: tremando le madri si stringono ai figli. Allora i contadini, prese le armi, indomiti accorrono a quel suono da ogni parte, veloci, e si riuniscono dove la terribile tromba ha intonato il segnale; in aiuto di Ascanio la giovent6 troiana esce dall'accampamento. Schierati a battaglia gli uomini, si combatte non piU con dure mazze o pali aguzzati dal fuoco ma con armi a due tagli. Per lungo spazio si rizza una messe funerea di spade impugnate, i bronzi colpiti dal sole brillano e lanciano lampi contro le nubi. Cosi l'onda comincia dapprima
sorgenti del Velino, affluente della Nera. 596. con armi a due tagli:
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con spade a due tagli. 599-602. Così l'onda comincia, ecc.: le schiere de-
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a biancheggiare al soffio del vento, poi poco a poco il mare si gonfia e spinge sempre piu in alto i marosi, finché dal fondo si leva sino a toccare il cielo. · Allora il giovane AJmone, il maggiore dei figli di Tirro, all'avanguardia è abbattuto da tm dardo sibilante: la freccia s'infigge nella gola, e soffoca nel sangue l'umida voce e il respiro. Cadono intorno a lui molti guerrieri, tra i quali, colpito mentre cercava invano di metter pace, il vecchio Galeso, l'uomo piu saggio e piu ricco di tutta Italia: padrone di cinque greggi di pecore, di cinque armenti di bovi e di moltissima terra, quanta potevano ararne i suoi cento aratri.
Giunone apre le porte del tempio di Giano
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Mentre nei campi si lotta con pari fortuna, la Dea, trionfante della compiuta promessa, dato inizio col sangue alla guerra, avviatala coi morti, abbandona velocemente l'Esperia e volando diritta per gli spazi del cielo si presenta a Giunone con aria vittoriosa e, superba, le dice: «Ecco, già la discordia ha preparato ai tuoi fini una guerra funesta: di' ai Troiani e ai Latini che stringano patti e diventino Amici, adesso che ho macchiato i Teucri di sangue ausonio! E se tu sei d'accordo farò ben altro: con voci maligne spingerò alla guerra i paesi vicini; infiammerò le anime d'amore per la folle guerra, che vengano in aiuto d'ogni parte; nei campi seminerò le armi». E Giun_one risponde: gli opposti contendenti s'infittiscono e diventano sempre più aggressive, allo stesso modo del mare che, mosso dal vento, dapprima s'increspa, poi si gonfia e spinge in alto le onde. 603. Almone: figlio primogenito di Tirro, giovane ardente, ma senza colpa, è la prima vittima di questa
guerra insensata, come è vittima (v. 6o9) il vecchio Galeso, l'uomo giusto che cercava di pacificare i contendenti. GIUNONE APRE LE PORTE DEL TEMPIO DI GIANO (613-
Aletto riferisce a Giunone i risultati della SUtl opera, e la regina degli dèi
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per non irritare Giove la rimanda nel regno degli inferi. Intanto i contadini ritornano in città con i feriti e le spoglie dei morti; e, accompagnati da Turno e dalle donne eccitate da Amata, si recano dal re a chiedere la guerra contro i Troiani. Ma il re rifiuta. Il vecchio Latino, incapace di frenare l'ira del popolo, si chiude nella reggia e lascia ad altri il governo del regno. Già allora vigeva nel Lazio l'uso di aprire le porte del tempio di Giano quando l'esercito usciva dalla città per iniziare una campagna di guerra, e il popolo chiede al re di aprirle; ma il re rifiuta. Cosi Giunone discende dal cielo ed apre lei stessa « i pigri battenti di ferro» del tempio di Giano. 614. la Dea, trionfante, ecc.: a questo punto, visto che la guerra arde furibonda ed ha già fatto anche le prime vittime, Aletto abbandona l'Italia (Esperia) e si presenta tutta sodisfatta a Giunone e le riferisce i risultati della sua opera. 620. ai tuoi fini: secondo lo scopo che tu vuoi raggiungere. 621. di' ai Troiani e ai Latini, ecc.: sono parole di un'ironia feroce, perché è veramente impossibile, ora che la guerra è accesa ed è stato versato il primo sangue, che Troiani e Latini stringano un patto di amicizia e di alleanza. E la furia, superba della sua opera, si dichiara pronta ad estendere il conflitto. 632. Un bel matrimonio, ecc.: anche Giunone, non meno di Aletto, usa l'ironia
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Canto settimo
«C'è abbastanza terrore e inganno: i motivi e il disprezzo; ed è soprat- 630 della guerra ci sono, si combatte di già tutto felice di poter schernia corpo a corpo, le armi che il caso diede per prime re, nel figlio Enea, la sua rison già sporche di sangue. Un bel matrimonio festegvale Venere, cui Paride aveva assegnato il pomo della il re Latino e il nobile figlio di Venere! [giano Discordia. Ma tu ritirati. li padre re dell'Olimpo non vuole 641. la valle dell'Amsanche tu liberamente vaghi per l'aria celeste. to: valle dell'Irpinia, tra la 635 Campania e l'Apulia, in cui Se ci sarà bisogno interverrò io stessa». esiste anche oggi il lago An· Aletto allora stende le ali sibilanti sante. In questa valle esiste· di serpenti e s'avvia al Cocito, lasciando va un tempo una grande spel'alto cielo. Nel cuore d'Italia giace, tra i monti, lonca dalla quale uscivano esalazioni sulfuree, che la fa- 640 un luogo famosissimo, noto in molte regioni, cevano ritenere una delle enla valle dell'Amsanto; una foresta scura trate dell'Averno. Infatti gli di foglie dense circonda il posto da ogni parte, antichi credevano che le esain mezzo scorre un torrente rumoroso, e rimbomba lazioni mefitiche, soprattutto sulfuree, uscissero dall'In· di vortici roteanti e sassi. Qui si spalanca ferno. 645 una spelonca orribile, porta che mena a Dite, 648. rasserenando il cielo e un'immensa voragine che apre fauci pestifere la te"a: liberando il cielo e sull'Acheronte. Qui si nascose l'Erinni la terra dalla sua nefasta pre· senza. odiosa, rasserenando il cielo e la terra. 649. dà l'ultimo tocco alla Jn tanto Giunone dà l'ultimo tocco alla guerra. guc~ra: Giunone completa 650 La massa dei pastori corre dai campi in città l'opera di Aletto, affinché la portando i morti, Almone e lo sfigurato Galeso; guerra divampi furibonda. 652. scongiurano Latino: invocano gli Dei, scongiurano Latino. perché dichiari la guerra ad Fra le accuse di strage e d'incendio ecco Turno Enea e vendichi la morte di che raddoppia il terrore: gridando che i Troiani Almone e Galeso. eran chiamati al trono, che la razza di Frigia 653-657. Ecco Turno ... dal 655 palazzo reale: Turno, il mag· stava per mescolarsi alla razza latina, giore interessato, non poteva che lui, Turno, era espulso dal palazzo reale. mancare in quest'opera di Allora tutti coloro le cui madri, ispirate incitamento alla guerra contro Enea e i suoi Troiani, i da Bacco, corrono e infuriano per le impervie foreste quali sono ormai avviati, egli 660 (poiché l'autorità di Amata era grande), grida, a fondersi in un sol si nuniscono e gridano .che vogliono la guerra. popolo con i Latini, mentre Tutti chiedono guerra, contro la volontà è venuta meno la promessa del suo matrimonio con Lae i responsi divini. Circondano la reggia vinia (lui, Turno, era espuldel re Latino a gara. Egli resiste come so dal palazzo reale). un'immobile roccia nel mare al sopraggiungere 658-673. Allora tutti co- 665 loro, ecc.: allora tutti i giovani, le cui madri, guidate non cede alla marea popola- trasto con i voleri del Fato, dall'autorità di Amata, cor- re; egli è come uno scoglio cosl prova disgusto a porsi rono infuriate nelle foreste che resiste immobile alle apertamente contro il popochiedono la guerra contro i onde infuriate del mare in lo; e per non venir meno ai Troiani, violando i vaticini tempesta. Ma il vecchio re, suoi principi di uomo e di ben noti a tutti. Ma Latino come non vuole agire in con- re, cede il potere ad altri.
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di una grande tempesta; molte onde rumoreggiano invano intorno a lei, mugghiano scogli e sassi spiu:neggianti, si schiacciano contro il suo fianco le alghe, ma la roccia sta ferma nella sua mole. Infine, poiché non era possibile vincere il folle disegno e i fatti seguivano il cenno della crudele Giunone, il padre dopo avere molto invocato i Numi e l'aria vuota, che attestino la sua impotenza: «Ahidisse - il destino ci vince e la tempesta ~niè ci travolge! Voi stessi pagherete col sangue il sacrilegio, o miseri: ·e a te, Turno, verrà un ben triste supplizio, implorerai gli Dei troppo tardi! Per me non importa, mi attende la quiete della morte e son vicino al porto: voi mi private solo d'una morte felice ». Si chiuse nella reggia e rinunziò al potere. Nel Lazio vigeva un uso che sempre ebbero sacro le città albane e che Roma, miracolo del mondo rispetta ancora adesso quando dichiara una guerra, sia che lanci l'esercito contro i Geti o gli lrcani o gli Arabi, sia che s'appresti a marciare sull'India, a invadere il paese dell'Aurora o a richiedere ai Parti 1e insegne che un tempo ci strapparono. D tempio di Giano ha due porte (che chiamano le porte della guerra) consacrate al feroce Marte dalla paura e dalla religione: cento stanghe di bronzo ed imposte di ferro eterne le rinforzano, Giano le custodisce senza mai allontanarsi dalle loro soglie. Appena il senato ha deciso la guerra 673-68o. Ahimé - disse il destino, ecc.: il re Latino, pur travolto dagli avvenimenti, sente il dovere di avvertire i sudditi che essi, ostacolando l'avverarsi degli oracoli, compiono un'azione sacrilega, che pagheranno col sangue; e dire a Turno ch'egli si sta preparando una fine infelice, poiché invano tenterà di allontanare da sé la morte alzando al cielo
preghiere oramai inutili. 682. Nel Lazio vigeva un uso, ecc.: allude al costume di aprire, in occasione di una guerra, le porte del tempio di Giano. Sennonché tale uso, secondo la tradizione, sarebbe stato introdotto da Numa Pompilio, ma Virgilio per dare lustro alla storia di Roma lo fa risalire ai tempi mitici dei primi popoli che abitarono il Lazio.
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683. le città albane, ecc.: Virgilio indica cosl genericamente le città del Lazio alludendo ad Alba Longa, città che la tradizione diceva fondata da Ascanio, figlio di Enea, e che prima di Roma fu capitale della lega latina. Alba Longa fu distrutta da Tullio Ostilio, ma il suo nome rimane ai colli sui quali essa sorgeva: i colli Albani. 68,5-688. sia che lanci l'esercito, ecc.: allude a guerre combattute da Augusto dal 27 al 20 a. C. ed ai popoli allora sottomessi all'impero di Roma: i Geti che abitavano lungo il Danubio, gli Ircani, presso il Mar Caspio, gli Arabi nel Medio Oriente, i Parti, dai quali ottenne la restituzione delle insegne catturate alle legioni di Crasso nel .53 a. C. - il paese dell'Aurora: l'Oriente in genere. 689.694. Il tempio di Giano, ecc.: Giano, dio nazionale degli I talici, era considerato il dio delle origini e, per antitesi, anche della fine. Cosl fu concepito bifronte, con due facce opposte tra loro, e chiamato a presiedere a tutte le azioni e a tutti i fenomeni nel loro duplice aspetto: dell'inizio e della fine. Perciò presiedeva al mattino e alla sera, all'inizio e alla fine dell'anno, all'entrare e all'uscire: e si riteneva che uscisse da Roma con gli eserciti e li accompagnasse. Le due porte del suo tempio, consacrate a Marte per venerazione e per paura del feroce dio della guerra, rimanevano quindi aperte per tutta la durata ddle operazioni militari. 69.5. Appena il senato, ecc.: era il senato che deci-
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Canto settimo
deva la guerra; il console, che aveva il governo, ne eseguiva l'ordine. Egli con la toga ornata di porpora, indossata secondo l'uso degli abitanti della città laziale dei Gabii, cioè coprendosi con un lembo il capo e avvolgendo l'altro intorno ai fianchi, spalancava le due porte del tempio di Giano e proclamava la guerra. 702. Si chiedeva a Latino, ecc.: Latino, come re di Laurento, avrebbe dovuto dichiarare da guerra ai Troiani e spalancare le porte del tempio di Giano. Glielo chiedeva tutto il popolo, ma egli si rifiutò di compiere un atto contrario ai Fati ed ai principi della sua coscienza. E a Latino si sostitul allora la stessa Giunone, scardinandone i battenti. 710. L'Ausonia prima tranquilla, ecc.: la gioventù itaIica (Ausonia), passata dalle opere di pace a quelle di guerra, è tutta impegnata nel preparare armi e nell'addestrarsi a maneggiarle. 716. cote: pietra dura che serve ad affilare le lame d'acciaio. 720. Tivoli, la potente Atina, ecc.: le cinque città che fabbricano armi sono: Tivoli, suii'Aniene; Atina, città del Volsci nel Lazio orientale; Crustumerio, ora Monterotondo, città sabina sulla via Salaria; Ardea, la capitale del regno di Turno; Antenne, città latina a nord di Roma, presso la confluenza dell'Aniene col Tevere. 722-723. intessono i graticci, ecc.: non tutti gli scudi erano di ferro o di legno; ne costruivano anche di vi'llini opportunamente intrec-
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il console in persona, ornato della trabea di Quirino e vestito con una toga cinta alla moda gabina, spalanca le porte stridenti e proclama la guerra: lo segue la giovenru, risuonano le trombe di bronzo in un rauco consenso. Si chiedeva a Latino che dichiarasse guerra. agli esuli troiani con tale rito e aprisse quelle funeste porte. Ma il padre non volle toccarle, evitò l'incarico odioso e si chiuse nell'ombra del suo palazzo. Giunone discesa dal cielo spinse lei stessa le porte: smuovendone i cardini ruppe i pigri battenti di ferro della guerra. L'Ausonia prima tranquilla e in pace adesso brucia; alcuni si preparano a combattere a piedi, altri superbamente infuriano a cavallo tra nuvole di polvere: tutti cercano armi. Puliscono col grasso gli scudi scintillanti e i giavellotti lucidi, affilano le scuri sulla cote: contenti di portare le insegne e di ascoltare il suono della tromba marziale. Cinque grandi città si attrezzano, con forni e incudini, per fabbricare nuove armi: la splendida Tivoli, la· potente Atina, Crustumerio, Ardea e la turrita Antenne. Foggiano cavi elmi a difesa del capo, e intessono i graticci di salice degli scudi di cuoio: col martello formano le corazze di bronzo o levigati schinieri di flessibile argento. In questo amore per la guerra è finita la passione del vomere e della falce, l'amore per l'aratro: rifondono nelle fornaci le spade dei loro padri. E I~ tromba già squilla, di bocca in bocca passano le parole d'ordine. C'è chi afferra precipitoso l'elmo cercandolo per la casa, c'è chi aggioga i frementi
dati come graticci e ricoperti di cuoio. 725-728. In questo amore ... dei loro padri: intendi: tutti presi dall'ardore della guerra perdono ogni interesse per l'agricoltura e trasfor-
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mano in armi, rifondendoli, gli attrezzi che anche i lorù padri (le spade dei loro padri) avevano usato nei campi. Non si direbbe che sono passati dalle attività di pace a quelle di guerra.
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+++++Limiti del Territorio degli Alleati Latini. -----Itinerario di Enea dal Tevere a Pallantèum,ad Agylla(Etruria), a Pyrgi e di nuovo al Tevere.
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LA CASA DEI VETTII A POMPEI La casa romana - domus - originariamente era tutta raccolta attorno ad un vano principale - atrium - con l'impluvium al centro, in cui si abitava e dormiva. Nell'atrio vi era il Larario, una cappelletta, che racchiudeva il Lare familiare cioè la divinità che ... ~. vegliava sulle fortune della casa insieme ai Penati. Nel n secolo a. C. si amplia la dòmus aggiungendovi il peristylium (colonnato) che è la zona con cortile e giardino. In esso si spostano le stanze da letto disposte attorno al porticato che aveva la zona centrale aperta per dare aria e luce alle stanze, dato che la casa romana non aveva finestre che davano sulla strada. Il corridoio tra l'atrium ed il peristylium, detto tablinum ospitava le maschere di cera degli antenati (Penati) .
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1. Porticus (portico). 2. Tabernae (botteghe). 3. Atrium {atrio). 4. Cubicula (camere da letto nella domus originaria - successivamente sono nel peristilio). 5. Tablinum (tablino).
6. Peristylium (peristilio). 7. Cavedium (cortile, giardino). Impluvium (vasca di raccolta dell'acqua piovana). Triclinium (sala da pranzo). *** Colonnato che sorregge il portico.
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cavalli e si arma di scudo, di lorica intrecciata a fili d'oro e si cinge al fianco la spada fedele. O Dee del canto, apritemi l'Elicona, e cantate quali re siano stati eccitati alla guerra, quali schiere seguendoli siano scese in battaglia, di quali eroi sia fiorita l'alma terra d'Italia, da quali armi sia stata bruciata. Voi, divine creature potete ricordare e potete raccontare: a me giunge appena un soffio di fama, il pallido ricordo di quelle gesta antiche.
La rassegna dei combattenti
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Entrò per primo in guerra il tirreno Mesenzio, bestemmiatore dei Numi, con una schiera armata. Accanto a lui c'è il figlio Lauso, il piu bello di tutti dopo il gran Turno: Lauso domatore di cavalli e uccisore di fiere, a capo di mille uomini che lo hanno seguito (invano!) dalla città di Cere, ben degno d'obbedire a un comando migliore di quello di suo padre, anzi d'avere un padre migliore di Mesenzio, esecrato tiranno. Mostra quindi pei prati il carro, decorato di palma, ed i cavalli vittoriosi Aventino, bel figlio dello splendido Ercole, di cui porta sullo scudo l'insegna: cento serpenti e l'Idra circondata di serpi. Lo mise alla luce con parto segreto, in un bosco del colle 734-741. O Dee del canto, ecc.: nei poemi epici classici le rassegne del combattenti sono quasi sempre precedute dall'invocazione alle Muse; cosl ancheOmero alla fine del libro secondo dell'Iliade, prima della rassegna delle navi. L'enumerazione dei combattenti richiede precisione, cui sovviene particolarmente la memoria; e quindi le Muse che, figlie di Mnemosine, dea della memoria, tutto ricordano, possono essere di grande aiu-
to al poeta che si accinge a descrivere una rassegna di armati avvenuta in tempi tanto lontani. L\ RASSEGNA DEI _COM· BATTENTI (742-938). - Dichiarata la guerra dalla stessa Giunone con l'apertura delle porte del tempio di Giano, tutti i popoli abbandonano il lavoro dei campi e si affrettano a preparare le armi, che poi si addestrano ad usare. Il poeta passa quindi in rassegna i capi con i
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loro armati, iniziando da Mesenzio, ospite, con il figlio Lauso, di Turno dopo essere stato cacciato da Cere per la sua crudeltà. Seguono Aventino, figlio di Ercole, e Catillo e Cora con i soldati di Tivoli; poi Messapo, figlio di Nettuno, seguito da una folta schiera di Fescennini e Falisci; e Clauso con i Sabini e Aleso con soldati delle terre campane; ed Ebalo, figlio di Telone, ed ancora Ufente con gli Equi, e Umbrone con genti della Marsica, e Vibio figlio della ninfa Aricia. Ed infine ecco Turno con gli armati del Lazio e la vergine Camilla con uno stuolo di Volsci.
742. Mesenzio: il primo a entrare in guerra a fianco dei Latini contro i Troiani è Mesenzio, re o lucumone della etrusca Cere, oggi Cervèteri, il quale, cacciato in bando dalla sua città perché empio e crudele, si era rifugiato con il figlio Lauso presso i Rutuli. Della crudeltà di Mesenzio, e della sua fuga, accenna Virgilio nel canto VIII, 561-575. 752. Aventino: prestante e valoroso figlio di Ercole e Rea, era nato sul monte Aventino. In ricordo del padre portava sullo scudo, come insegna, l'idra, ferocissimo mostr0 che Ercole aveva ucciso staccandole le tre teste. La venuta di Ercole nel Lazio, dopo l'uccisione di Gerione, feroce mostro che in Spagna pasceva di carne umana i suoi armenti, è narrata nel c. VIII, 21o-32I. 756. con parto segreto: nato di nascosto, perché fi. glio di Rea Silvia, sacerdotessa. Questa leggenda ha
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qui l'unico suo accenno, ed è quindi probabile che sia invenzione di Virgilio, che l'avrebbe ricavata dalla più nota leggenda di Rea Silvia, madre di Romolo e Remo, cui il poeta dell'Eneide dà invece il nome di Ilia, in analogia con Troia. Oppure Virgilio avrebbe seguito Ennio, il quale avrebbe fatto di Ilia, sacerdotessa troiana, amata da Marte, la madre di Romolo e Remo, e di Rea Silvia, anche sacerdotessa, la madre di Aventino. 76o-761. e lavò nel fiume tirreno: ed Ercole lavò nel Tevere gli splendidi buoi che egli aveva preso a Gerione ed aveva poi condotto con sé passando attraverso la Gallia e l'Italia per far ritorno a Tirinto. 763. terribili stocchi: lo stocco è un'arma bianca a sezione triangolare più corta della spada. 764. spiedo sabellico: asta di metallo a punta conica. 769. erculeo mantello: mantello di Ercole: era la pelle invulnerabile del leone di Nemea (Argolide settentrionale). Ercole non potendo colpirlo in altro modo, lo soffocò con le mani (è la prima delle sue dodici fatiche), poi gli tolse la pelle, e di questa si fece un mantello, mentre con la testa si costrul un elmo. 770-778. Catillo e l'aspro Cora, ecc.: fratelli di Tiburto, fondatore di Tivoli, e nipoti del re di Argo, Anfiarao, il celebre indovino che prese parte alla guerra dei «Sette contro Tebe »e mori inghiottito con carro e cavalli da una voragine apertasi sul suo cammino men-
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che chiamano Aventino, la sacerdotessa Rea, donna mortale, unitasi al Dio quando il Tirinzio, ucciso Gerione, arrivò vittorioso nei campi di Laurento e lavò nel fiume tirreno le giovenche d'Iberia. I suoi compagni vanno in guerra con giavellotti e terribili stacchi, combattono con la spada tornita e lo spiedo sabellico. Aventino entra a piedi nell'alta casa del re in aspetto che fa paura, avvolto nella pelle grandissima d'un leone, tutta irta di spaventosi peli; le fauci bianche di denti gli servono da elmo e l'erculeo mantello gli copre le spalle. Seguono due gemelli, Catillo e l'aspro Cora, di stirpe Argiva, calati dalle mura di Tivoli: città che prende il nome dal loro fratello Tiburto. Camminano all'avanguardia tra una siepe di !ance; sembrano due Centauri, generati dalla Nube, quando scendono dall'alta cima dei monti, lasciando con rapida corsa l'Omole e l'Otri nevoso: la sterminata foresta. fa strada alloro passaggio con un immenso fruscio di ramoscelli ·stroncati. C'è anche il fondatore della città di Preneste Ceculo, re che sempre si è creduto nascesse da Vulcano, tra i greggi, e fosse stato trovato nel fuoco. Lo circonda e accompagna un esercito di contadini: uomini che vivono nell'alta Preneste, nei campi di Giunone gabina; lungo il gelido Aniene, sulle montagne degli Emici
tre fuggi va dopo la sconfi tta. Catillo e Cora guidavano le schiere del fratello Tiburto. - i due Centauri: i Centauri erano mostri favolosi, mezzo uomini e mezzo cavalli, nati da Issione e da Nefele, che vuoi dire Nube. - l'Omole e l'Otri: monti della Tessaglia, sui quali abitavano i Centauri. 779-784. C'è anche il fondatore, ecc.: Ceculo. Catone nel suo libro « Le Origini » racconta che Ceculo fu dalla
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madre esposto nel tempio di Giove presso l'ara (nel fuoco, cioè presso il focolare), e, quivi trovato, fu creduto figlio di Vulcano. Cresciuto fra pastori, divenne loro capo o re, e fondò Preneste, l'odierna Palestrina. Giunone gabina: Giunone venerata a Gabio con un culto particolare. Gabio o Gabii era un villaggio tra Roma e Preneste. 785. Aniene: l'odierno Teverone, affluente del Tevere,
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bagnate dai ruscelli; e quelli che tu nutrici, fertile Anagni, e tu, padre Amaseno! Non tutti hanno armature sonanti, scudi e cocchi; anzi i piu scagliano ghiande di livido piombo o portano in manc due giavellotti, proteggono il capo con fulvi berretti di pelle di lupo, hanno il piede sinistro scalzo e il destro coperto di cuoio non conciato. Messapo, domatore di cavalli, gran prole Nettunia, che nessuno può abbattere col ferro o col fuoco, riprende la spada e chiama alle armi popoli in pace da tanto, disavvezzi alla guerra: le schiere Fescennine, gli Equi falisci, quelli che abitano le rupi del Soratte, i campi di Flavinia ed il lago Cimino con il monte e i boschi di Capena. Marciano in file eguali e ordinate, cantando la gloria del loro re; come a volte nel cielo limpido i candidi cigni tornando dalla pastura intonano attraverso i lunghi colli canti melodiosi e ne suona il fiume e la palude asiatica, di lontano ... Nessuno potrebbe credere che gente armata di bronzo componga un esercito cosf numeroso, ma penserebbe a un'aerea nube di uccelli stridenti venuta dall'alto mare a abbattersi sulla costa. Ecco Clauso, disceso d'antico sangue sabino, che guida una fitta armata e vale lui da solo un'armata (da Clauso s'è diffusa nel Lazio la gente eJa tribU dei Claudi, quando Roma che separa la Sabinia dal Lazio. - Ernici: monti abitati dagli Ernici, che avevano il loro capoluogo in Anagni. 786-787. nutrici: nutri, alimenti (da un arcaico "nutricare"). - Amaseno: personificazione del fiumicello che, attraversato il territorio dei Volsci, sbocca in mare presso Terracina. 788. armature sonanti: armature di metallo, scudi e carri da guerra. ~ una moltitudine di pastori e contadini armati ed equipaggiati
in modo quanto mai rudimentale. 793· Messapo: personaggio, probabilmente, d'invenzione virgiliana, è considerato figlio di Nettuno e guerriero cosi valoroso da meritare il titolo classico di « domatore di cavalli ». 797-8oo. le schiere Fescennine: della città etrusca di Fescennio, Carnosa per i canti licenziosi e salaci (fescennini) improvvisati nelle cerimonie nuziali. - gli Equi falisci: gli abitanti di Falerio, altra città etrusca, forse co-
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lonia degli Equi o mista di Equi, presso il monte Soratte (S. Oreste), a nord di Roma. - i campi di Flavinia: anche città etrusca, scomparsa. - il lago Cimino con il monte: il lago Cimino (oggi lago di Vico) e il monte omonimo a nord-ovest del Soratte, nella bassa Etruria, a occidente del corso inferiore del Tevere. - Capena: l'odierna Civitella, ai piedi del Soratte. 8or. cantando la gloria, ecc.: nota la scena vivace e pittoresca offerta da questa baldanzosa gioventù che marcia ordinata (in file eguali) dietro il suo re, cantandone le gloriose imprese; e osserva come il poeta abbia ingentilito il quadro con la similitudine dei cigni che talvolta riempiono l'aria del loro canto, quando la .sera ritornano dalla pastura alle rive del Caistro, là dove il fiume, prima di entrare nel mare vicino ad Efeso, forma una palude (la palude asiaw~a). Con questa particolare presentazione, che contrasta visibilmente con quella dei contadini di Ceculo, sembra che il poeta abbia voluto assegnare alle schiere di Messapo un maggior progresso civile, la qual cosa sarebbe stata confermata dalle scoperte archeologiche di Palerio e Capena. 8xo. Clauso: il capostipite della « gens Claudia», che guida un esercito numeroso e forte di Sabini. Egli da solo valeva, però, tutti i suoi messi insieme. 813-814. quando Roma fu data, ecc.: quando, dopo il ratto delle sabine, Romani e Sabini si pacificarono e formarono un unico popolo.
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8r4-831. Lo segue la truppa di Amiterno, ecc.: gli armati che seguono Oauso sono numerosissimi, cosl che « la terra trema sotto il rombo dei loro passi». Sono i Sabini di Amiterno, non lontana dall'odierna Aquila; di Cure, che avrebbe dato i natali a Numa Pompilio, il secondo re di Roma; di Ereto, l'odierna Monterotondo; di Matusca, forse l'attuale Monteleone Sabina; di Nomento, la nostra Mentana, a sud-est di Ereto, vicino alle sorgenti dell'Allia; gli abitanti dei « campi rosulani », nella campagna di Rieti, ad occidente del Terminillo, detta appunto « ager Rosolanus »; di Tetrica, del monte Severo, di Casperia, di Foruli e lungo il corso del fiume Imelia, immissario del fiume Velino; ed infine i Sabini delle terre bagnate dal Farfa (Fabari), piccolo affiuente del Tevere; e quelli di Norcia, città dell'Umbria orientale, alle sorgenti del Nera, che il poeta dice fredda per la sua altitudine; ed ancora di Orte, tuttora fiorente alla confluenza del Nera con il Tevere, e della campagna lungo il corso dell' Allia, piccolo affluente del Tevere, nome «infausto» perché ricorda la sconfitta che i Romani subirono dai Galli di Brenno. - Sono tanti: come le onde, ecc.: il poeta paragona il numero degli armati, che si radunano contro i Troiani, alle onde che nel golfo di Libia sconvolgono il mare nella stagione invernale, e alle spighe che d'estate maturano al sole nei campi della Lidia. Orione è una costellazione foriera di mal tempo e l'Er-
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fu data in parte ai Sabini). Lo segue la truppa di Amiterno, gli antichi cittadini di Cure, i soldati di Ereto e quelli di Matusca ricca di olivi, gli uomini di Nomento, coloro che abitano nei campi rosulani, vicino al Velino, coloro che vivono tra le ardue rupi di Tetrica, n monte Severo, Casperia e Foruli e n corso dell'lmella; ed infine lo seguono quelli che bevono le acque del Tevere e del Fabari, le squadre della fredda Norcia, d'Orte, del popolo latino, del paese bagnato dall'Allia infausto. Sono tanti: come le onde agitate del golfo di Libia, quando Orione tramonta feroce nel mare invernale, o quante sono le spighe che maturano al sole d'estate nei campi dell'Ermo o nella pianura biondeggiante di Licia. Risuonano gli scudi, la terra trema sotto il rombo dei loro passi. Poi viene l'Agamennonio Aleso, fiero nemico del popolo troiano; aggioga al carro i cavalli e guida molti popoli alla guerra per Turno; quelli che col bidente rompono i campi màssici produttori di vino, quelli che i padri aurunci mandarono a combattere dalle loro sassose montagne, quelli che vengono da Teano, da Cale, dai guadi del Volturno, i violenti Saticuli e la banda degli Osci. Han corti giavellotti che tengono legati con un laccio di cuoio, piccoli scudi di cuoio appesi al braccio sinistro, affrontano il corpo a corpo con una spada ricurva. Il mio canto non sarà senza parole per te, Ebalo: tutti ti dicono figliolo della Ninfa
mo è un fiume che scorre nella Lidia, regione dell'Asia Minore. 832. Aleso: auriga di Agamennone, Aleso dopo la guerra di Troia si era rifugiato in Italia. Qui guida i contadini della campagna dominata dal monte Massico, celebre per i suoi vini, e gli Aurunci scesi dalla montagna e quelli venuti, con gli
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Osci, da al tre terre della Campania (da Teano, da Cale, dalle terre bagnate dal Volturno, da quelle del Sannio, da Caserta). 845. Ebalo: figlio diTelone, re di Capri, e di una ninfa del Sebèto (corso d'acqua non lontano da Napoli), non contento del dominio paterno era venuto in Italia e aveva sottomesso al suo domi-
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Sebetide e di Telone, quando già vecchio regnava con i suoi Teleboi sull'isola di Capri. Ebalo, non contento dei domnii paterni, era passato in Italia e aveva conquistato un vasto territorio: il popolo dei Sarrasti, la pianura irrigata dal Sarno, Rufa, Batulo, i campi di Celenne, le alte mura di Abella ricca di mele. Gente che lancia giavellotti di tipo teutone, ha in testa elmi di scorza di sughero; ha scudi di bronzo lucente, spade lucenti di bronzo. La sontuosa Nersa ti manda in guerra, o Ufente, glorioso per fama e gesta vittoriose, al comando degli Equi, un popolo selvaggio avvezzo a cacciare sempre nei boschi, abitante terre dure. Lavorano i campi armati e gli piace raccogliere prede fresche e vivere di rapina. Dalla nazione marruvia viene un sacerdote mandato da re Archippo. ~ il fortissimo Umbrone dall'elmo ornato di foglie di fertile olivo; medico e mago che sa addormentare col canto e le carezze i serpenti, le vipere soffianti veleno, e sa placarli, curarne i morsi con arte. (Ma, infelice, non seppe curare la ferita che una lancia troiana poi gli inferse, e non valsero al suo male le nenie sacre, addormentatrici, né le erbe raccolte sui monti della Marsica! E te piansero, o Umbrone, la foresta di Angizia, il Fucino dall'acqua vitrea e i limpidi laghi) ... Va alla guerra anche Virbio, splendido figlio di lp[polito, famoso e bello, venuto dalla materna Ariccia, cresciuto nell'umido bosco sacro di Egeria, dove sorge l'altare ricco della clemente Diana. Dicono che lppolito, morto per l'inganno della matrigna, dopo aver espiato col sangue la vendetta patema travolto dai cavalli imbizzarriti, tornasse a vedere le stelle altissime e l'aria del cielo, risuscitato dai filtri del medico Peone e dalla pietà di Diana. Ma il Padre Onnipotente, sdegnato che un mortale risorgesse dall'ombra infernale alla luce della vita, tuffò con una saetta nell'onda
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nio il vasto territorio bagnato dal fiume Sarno (donde Sarrasti il nome dato agli abitanti), comprendente le località di Rufa, Batulo, Celeone, Abella. 854. di tipo teutone: galliche e germaniche. 856. Ufente: comanda gli Equi di Nersa, città sconosciuta, ma che doveva essere tra la Sabina e l'Abruzzo, a nord-ovest del lago Fùcino. 862. Dalla nazione marruvia, ecc.: la « gens marruvia » abitava nella Marsica, presso il lago Fùcino, e le sue schiere, mandate a combattere i Troiani da Archippo, sono guidate da Umbrone, medico, mago, incantatore di serpenti; tuttavia le sue arti non riuscirono ad evitargli la morte. 872. Angizia: maga (la tradizione la diceva sorella di Medea), che presso il lago Fùcino aveva un bosco a sé dedicato e che avrebbe insegnato ai Marsi l'arte di incantare i serpenti. 874-892. Virbio: secondo la leggenda italica era figlio di lppolito e della ninfa Arieia: di lppolito, che ucciso, secondo il mito greco, in seguito alla falsa accusa della matrigna Fedra, sarebbe stato risuscitato, con farmaci prodigiosi del medico Peone, da Diana, la quale gli avrebbe mutato il nome in quello di Virbio (bis vir uomo due volte). A lppolitoVirbio, trasportato poi in Italia e nascosto nel bosco della ninfa Egeria, Diana avrebbe dato in moglie la ninfa Arida, dalla quale avrebbe avuto un figlio, ch'egli chiamò con il suo stesso nome: Virbio.- Peone: era il medico degli dèi.
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893-899. Per questo i cavalli, ecc.: in memoria della morte di Ippolito, caro a Diana per i suoi retti ed ottimi costumi, i cavalli erano tenuti lontani dal tempio e dal bosco consacrato alla dea. Infatti erano stati i cavalli del suo cocchio, imbizzarriti alla vista di un mostro uscito dal mare per opera di Nettuno, a causarne la morte. Ma nonostante il ricordo del tragico evento, il figlio Virbio ama i ca· valli « e corre con essi sulla distesa dei campi e va in guerra sul cocchio». Hai qui l'immagine viva della vita che continua con rinnovato vigore anche dopo le sciagure che travagliano l'uomo e sembrano capaci di arrestare in lui ogni volontà di progredire. 900. Turno: Turno è tra i primi della rassegna, ma il poeta non ne ha seguito l'ordine. Pet destare interesse nel lettore egli ricorda i capi più importanti alla fine. 90!. più alto di tutti di una testa: nei poemi classici i personaggi principali giganteggiano anche nella persona. Perciò Turno, che nel poema virgiliano è una delle figure più salienti, sovrasta sugli altri << di una test a >>. 903. una Chimera: mostro con il petto e la testa di leone, il vente di capra e la coda di drago. Mito tellurico, di facile trasparenza a significare il vulcano, che ha il fuoco sulla vetta, arido terreno sulla << schiena >> e verde vegetazione sulle falde, rispecchia il carattere focoso e mdomito di Turno, ed egli la porta come insegna sull'elmo.
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ddlo Stige Peone, figlio di Febo, reo di avere inventato un'arte cosi grande. Allora Trivia nascose Ippolito in un luogo segreto, lo cdò in fondo al bosco sacro alla Ninfa Egeria, perché ignoto passase la vita nelle sdve d'Italia, e gli cambiò il nome in quello di Virbio. Per questo i cavalli dai piedi di como sono tenuti lontani dal santuario e dai boschi consacrati a Diana (proprio i cavalli un tempo spaventati dai mostri marini travolsero sul lido il giovane Ippolito col suo carro!). Ma il figlio li adopera i cavalli ardenti, e corre con essi sulla distesa dei campi e va in guerra sul cocchio. Ed ecco TUfno che avanza tra i primi, magnifica figura in armi, piu alto di tutti di una testa. Il suo elmo, chiomato di tre pennacchi, inalbera una Chimera dall'alito infuocato di vampe dell'Etna: mostro che freme e s'infiamma tremendo quanto piu incrudelisce nd sangue la battaglia. Il suo scudo è fregiato d'un soggetto famoso: un'Io già giovenca, già coperta di pelo, con corna già cresciute, tutte d'oro, con Argo che l'ha in custodia e suo padre Inaco che versa da un'urna cesellata l'acqua dd suo fiume. Seguono Turno un nembo di fanti e gente armata di scudo, che s'addensano per la pianura: Argivi, manipoli aurunci, Rutuli, antichi Sicani, schiere sacrane e Labicani dagli scudi dipinti. Ci sono quelli che arano le tue vallate, o Tevere, e le tue sacre rive, o Numko, e col vomere
907. un'Io già giovenca, ecc.: Io, figlia di Inaco, fu da Giunone, gelosa che fosse stata amata da Giove, trasformata in giovenca e data in custodia ad Argo, il pastore dai cento occhi. Turno ne ha collocato sullo scudo l'immagine per testimoniare la sua discendenza da Danae, figlia di Acrisio, re di Micene, e di Argo, pronipote di Inaco. V. nota 4I5-·P4· 912. Argivi: guerrieri di
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Ardea, fondata da Danae, originaria di Argo (v. nota precedente). Manipoli aurunci, Rutuli, Sicani, schiere sacrane (quelli di Ardea, cosi detti perché praticavano il culto di Cibele: "sacra Cybelae") e i Labicani, del territorio tuscolano, presso l'odierna Frascati, sono tutti popoli del Lazio che seguono Turno. 916. Numìco: oggi Rio Torto.
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solcano i colli rutuli ed il monte Circeo: campi protetti da Giove Anxur e da Feronia lieta dei verdi boschi; pianure dove giace la nera palude di Satura, e il gelido Ufente si scava una strada per valli profonde e si getta nel mare. Dopo costoro viene la vergine volsca, Camilla, alla testa di un gruppo di cavalieri e fanti risplendenti di bronzo. ~ una fanciulla guerriera, ha mani di donna ma non avvezze alla rocca, al cucito o al ricamo; è dura nelle battaglie, tanto veloce da vincere i venti nella corsa. Potrebbe volare sfiorando le messi non falciate senza piegare neppure una tenera spiga, potrebbe correre in mare sospesa sull'onda rigonfia senza bagnarsi le piante dei rapidi piedi. Tutta la gioventu, uscita dalle case e accorsa dai campi, insieme a una folla di madri la ammira da lontano mentre cammina, e guarda stupita il regale mantello che le copre di porpora le morbide spalle, la fibbia che le annoda la chioma. la grazia con cui porta una ·faretra licia . e un mirto pastorale armato d'una punta. 918. Giove Anxur: Giove protettore di Anxur, oggi Terracina. - Feronia: antica divinità italica, cara a Giunone e venerata particolarmente nei dintorni di Terracina. Vincenzo Monti si è servito del suo nome per il titolo di un suo poemetto: «La Feroniade ». 920. Satura: probabilmente una località delle Paludi Pontine, ora prosciugate. Ufente: fiume freddo, che attraversa il territorio delle Paludi Pontine. 922. Camilla: figlia di Metabo, re dei Volsci, e di Casmilla, è una creazione geniale di Virgilio. La rassegna degli armati italici, cominciata con un guerriero
empio c feroce, Mesenzi< si chiude con una gentile e graziosa figura femminile, Camilla, famosa eroina del Lazio, cui si ispirarono l'Ariosto e il T asso nel delineare le loro eroiche fanciulle, donne e guerriere: Bradamante e Clorinda. 924-93r. È una fanciulla guerriera, ecc.: Camilla, dopo che suo padre fu espulso dalla sua città, Priverno (l'odierna Priperno), per la sua tirannide, crebbe errando con il suo genitore per monti e selve, addestrandosi fin da giovinetta nella corsa e nell'uso delle armi. Ne racconta la romanzesca storia, per bocca di Diana, lo stes· so Virgilio nel canto XI,
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vv. 663-734. - Potrebbe volare: la giovane Camilla è cosl veloce nella corsa, e quindi cosl leggera, che potrebbe correre su di un campo di grano senza piegare una sola spiga, e sulla superficie ondosa del mare senza bagnarsi i piedi. Sono imma·· gini irreali, ma proprio uscendo dalla realtà esse rappresentano assai bene l'idea della grazia, della leggerezza e dell'agilità della eccezionale fanciulla. 934· la ammira... mentre cammina: ammira il suo procedere semplice e pur fiero, graziosamente maestoso e pur sprizzante energia e volontà. 93.5-938. il regale mantello, ecc.: « il mantello regale »... , « la libia che le annoda la chioma», la «faretra licia » (i Lici erano arcieri famosi), il « mirto pastorale », munito di una punta di ferro, usato dai pastori per difesa, sono i segni della complessa personalità di Camilla: figlia di re, indossa il mantello tinto di porpora (Virgilio ha presenti le vesti purpuree dei principi, dei senatori e dei generali romani); gentile fanciulla, tiene i capelli uni ti da una fibbia d'oro; guerriera, indossa la faretra e, condottiera di pastori armati, porta la loro caratteristica arma di difesa: una verga di legno di mirto cuspidata di ferro. Cosl Camilla, splendida immagine di donna, chiude con un segno patetico di gentilezza e di fierezza la ti ne la movimentata, varia e feroce rl!s· segna delle schiere combat tenti.
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Commento critico Il racconto di ciò che Enea «a causa dell'ira tenace della crudele Giu.none, molto soffri anche in guerra», inizia con il canto VII, il quale ne costituisc~ in un certo senso la prefazione suddivisa in tre momenti principali: l'approdo dei Troiani alla foce del Tevere e l'ospitale accoglienza di Latino, re del Lazio; l'intervento di Giunone a contrastare l'avverarsi del Fato che vuole i Troiani fondatori nel Lazio di una nuova storia; l'unione dei popoli del Lazio, e delle vicine città italiche, sollecitati da Giunone a cacciare o a distruggere le schiere troiane e la rassegna delle loro forze. In un certo senso il canto VII rappresenta il punto di saldatura tra la prima parte del poema, in cui è narrata la distruzione di Troia, la fuga di Enea dalla città incendiata e il suo lungo e travagliato peregrinare per terra e per mare con i suoi concittadini superstiti alla ricerca di una nuova patria, e la parte seconda, in cui i Fati di Enea trovano perfetto riscontro con gli oracoli latini annunzianti il suo arrivo nella terra promessa e l'inizio di un'età nuova per le genti italiche. Quante volte il nome d'Italia era stato pronunciato e fatto balenare ai profughi troiani, non come miraggio evanescente, ma come promessa di una volontà del Fato superiore a quella degli stessi dèi! Ebbene, in questo canto la promessa è mantenuta: la nuova patria è raggiunta, e Virgilio, veramente, qui « ci appare come l'ultimo dei poeti romani e il primo degli italiani » (A. Bruers). L'inizio del canto è ricco di toni bucolici, di serena contemplazione della natura: dalla notte illuminata dalla luna alla descrizione dell'estuario del fiume ancora sconosciuto; dalla contemplazione gioiosa delle rive ricche di sole e di verde alla letizia del giovanissimo Julo che, cacciando a briglia sciolta le fiere, partecipa egli pure della soddisfazione del suo popolo, contento d'aver terminato le tribolazioni e raggiunto un paese cosl ridente. Ma l'Italia, che il poeta mantovano poteva vedere già unificata anche con l'estensione della cittadinanza romana dalle Alpi alla Sicilia e dal Varo all'Istria, in questo canto è rappresentata nelle sue condizioni primitive, quando le genti che la abitavano erano divise e spesso anche in lotta tra loro. Erano tuttavia forze vigorose e primigenie che avevano solo bisogno di leggi, di ordine, di disciplina, di una coscienza religiosa dell'unità e della libertà della patria, che il Fato rappresenta al di sopra delle rivalità umane e degli stessi dèi. La visione virgiliana di Enea che, strumento del Fato, viene in Italia a gettare le prime basi della costruzione che avrà più tardi il nome di Roma, è stata cosl espressa dal Carducci: « Niun epico e forse nessuno storico fu più archeologo di Virgilio: nella poesia di lui risorgono sui monti, sui colli, dai fiumi gli antichi dèi della patria; risorgono su le ruine delle città disparite i popoli spenti a cantare le origini divine e gl'istituti civili e i culti dei padri e la forza delle armi: Arcadi, Etruschi, Latini, Sabelli, si mescolano sul luogo più glorioso del mondo, sui colli e nei campi ove crebbe Roma ». La virtù italica, rappresentata da Latino e da Enea, che da eroe troiano si manifesta eroe italico, trionfa e dà i suoi frutti anche nell'età primiera; le lotte tra i popoli italici e i Troiani, che si annunciano già in questo canto, non sono conseguenza di una difesa legittima, ma dell'influsso malefico della furia Aletto, strumento di interessi personali e di cieche
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Canto settimo
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passioni. Perciò Virgilio pone i contendenti sullo stesso piano, e con eguale simpatia esalta l'incontro di Latino con gli ambasciatori di Enea, e rappresenta la rassegna degli armati italici, ch'egli descrive con le particolarità caratteristiche di ogni gruppo: di armi, di vesti, di usi e spesso anche di bellissime leggende e di culti tradizionali, nei quali è posta in evidenza la religiosità, cui nel quadro fa da chiaroscuro l'empietà del tiranno Mesenzio. Dalla lettura del canto si ha l'impressione che l'Italia con le sue genti, ricca di fermenti e feconda di frutti, sia stata pronta fin dalle età più lontane a raggiungere un giorno l'unità e la grandezza.
Galleria di ritratti Latino. La figura del vecchio re, cosi come ci è presentata in questo e nei canti seguenti, non è particolarmente riuscita. Egli ci appare come un Enea invecchiato, cioè privo di quegli imprevedibili slanci o mutamenti di umore che ci rivelano un tumulto interiore ed una successione di stati d'animo, i quali s'accompagnino ai fatti e li rispecchino nel loro divenire. Latino recita una parte, non la vive: è saggio, è religioso, è ligio, troppo ligio alla volontà degli dèi. La sua perfezione umana che dà nell'astratto, perché moralmente ineccepibile, lo porta ad essere più spettatore che attore del dramma che si svolge sotto i suoi occhi e che coinvolge la sua famiglia ed il suo popolo. Egli pare di continuo fare appello alla ragione, quando intorno a lui ardono le passioni ed esplodono gli istinti: perciò ci appare anacronistico ed avulso dagli avvenimenti.
Amata. «Un'altra donna, nell'Eneide, si perde e si uccide. ~ la regina Amata, sposa del re Latino e madre di Lavinia. Anche la sua disgrazia è dovuta ad un intervento soprannaturale. Quando, infatti, Enea, seguendo le indicazioni degli oracoli, sta per avere come promessa sposa Lavinia, Giunone pensa di spingere contro di lui la regina, in modo da rendere inutile la benevolenza del re Latino; all'ignara donna essa manda una furia infernale, Aletto, che orribilmente ne domina il corpo e l'anima. E quest'anima all'improvviso fiammeggia; nella distruzione una idea sola rimane ferma: che Lavinia non sposi Enea e mantenga la fede già data a Turno! Per quest'idea, e per i contrasti che incontra, la regina eccita tutte le donne della città; ad esse comunica la sua frenesia; ispira attorno a sé il desiderio della guerra e della resistenza; vede poi con spavento sopraggiungere l'ultima rovina, quando le armi di Enea sono trionfanti, e la città stessa sta per essere presa. In una scenJ concitata, presente Lavinia, la regina supplica Turno a non tornare nella mischia, essa è certa ormai che ogni speranza di vittoria è perduta; quando anche Turno si è allontanato per il suo destino, fin la parvenza "dell'idea unica" scompare, e nella reggia, fra i
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clamori del nemico vittorioso, la donna infuriata è già dinanzi alla morte. Pur questa fìgura di invasata, che potrebbe essere tale anche fuori da ogni spiegazione soprannaturale, serve, con la forza del contrasto, a rendere più evidente la bellezza morale di altre donne del poema, bellezza che è fatta di armonia, di costanza e di fede ». (da Virgilio di G. Fanciulli-Agnelli).
Lavinia. «La donna che rappresenta una causa di guerra, ed è predestinata dai fati ad essere la sposa di Enea, viene fugacemente disegnata, e appena la vediamo apparire nel poema. Lavinia non ha nessuna somiglianza con Elena, la fatale eroina del ciclo omerico. Essa fa vivere il tipo semplice ed austero della vergine romana; è, pur in questi brevi segni, un ritratto ideale. Nulla sappiamo di lei; la vediamo una volta sola, mentre la vicenda sta per conchiudersi, e sua madre Amata supplica Turno a non andare alla morte; ella è presente per caso al colloquio; piange ed arrossisc.:. non dice una parola; soltanto per quel rossore e per quel pianto immaginiamo eh<.! essa ami Turno: il segreto del giglio non è svelato». (da Virgilio di G. Fanciulli-Agnelli}.
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Canto settimo
Raffronti di traduzione 1tt s.teva e speculis tempus dea nacta noC< ndi ar,/ua t..cta pctit stabuli et de culmin,· Jlllllii!O ,,,·torale c.mit signum cornuque r.-cun·o Tartar.·am inlt·ndit vocem, qua protilllt.< o111n<' contrcntuit nf!mus et silvae insunucre prPlll'idde; audit <'l TriL'iae /on11,e lacus, audit amnis mlpur.·a Nar ulbus aqua /ontesquc \'clini. ''t trepidae •11atrcs pressere ad pl!ctora ll.t!os. (vv. 511·518)
L'infernal dea, ch'a la veletta stava di tutto che segula, veduto il tempo accomodato al suo pensier malvagio, tosto nel maggior colmo se ne salse de la capanna, e con un como a bocca sonò de l'armi il pastorale accento. La spaventosa voce che n'uscio d.tl Tartaro spiccc~si. E pria le selve n~ tremar tutte; indi di mano in mano di Ncmo udilla e di Diana il lago, udilla
La fiera dea, da le vedette il tempo al nuocer còlto, in vetta a le capanne balzata, dal comignolo più alto squilla il segnale pastoral, nel curvo corno sforzando la tartarea voce; onde tosto tremò quant'era il bosco e le valli echeggi
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CANTO OTTAVO
Enea incontra la bianca scrofa.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 1835, ricavate dai codici della Biblioteca Vaticana, Roma.
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CANTO OTTAVO Enea ed Evandro Il Lazio è tutto in armi, e Turno dà il segnale di guerra dalla rocca di Laurento. Da tutte le parti accorrono armati, e si manda anche un'ambasciata a chiedere aiuti a Diomede in Puglia. Enea si appresta a sostenere l'urto, ma si sente solo e non ~a a chi ricorrere per avere conforto e aiuto in una situazione tanto difficile. Lo conforta il dio Tiberino, che di notte gli appare in sogno e lo esorta a risalire il fiume fino ali<~ città di Evandro costantemente in guerra con i Latini; colà avrebbe trovato sicura alleanza. E a conferma della validità del suo consiglio, gli preannuncia che il mattino, svegliandosi, avrebbe visto la scrofa con trenta porcellini predettagli da Eleno; e lo esorta a farne sacrificio a Giunone. Enea, svegliatosi, vede la scrofa con i suoi piccoli e la sacrifica a Giunone; poi con due navi risale il fiume, e il giorno dopo giunge in vista della città di Evandro: un insieme di poche e misere capanne: la futura Roma. In un bosco non lontano dalla città, Evandro ed i suoi stanno celebrando l'anniversario dell'istituzione dell'« Ara maxima »in onore di Ercole, e l'apparizione sul fiume delle due navi di Enea porta un certo scompiglio. Fallante, il giovane figlio di Evandro, afferra l'asta e, impavido, si spinge fino alla riva del fiume incontro agli stranieri. Ma i Troiani non sono nemici; essi, afferma Enea rispondendo alle domande del giovane Fallante e tendendo un ramoscello d'olivo, cercano Evandro per offrirgli e domandargli alleam::t. Invitato a sbarcare, Enea si presenta con i suoi compagni a Evandro, e il vecchio re riconosce in lui i tratti del padre Anchise, conosciuto e ammirato quando, giovane, si recò con Priamo a visitare l'Arcadia. I Troiani sono quindi invitati a partecipare ai solenni riti in onore di Ercole; e finito il banchetto, Evandro racconta diffusamente l'origine di quel culto: l'uccisione per opera di Ercole del mostruoso e sanguinario ladrone Caco, mezzo uomo e mezza fiera, che infestava il Lazio spargendo crudelmente rovina e morte. Al tramonto si rinnova il banchetto, e i dodici Salii cantano le lodi e le imprese di Ercole. Terminata la cerimonia, Evandro conduce Enea nella sua dimora, dove aveva
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riposato Ercole; e durante il tragitto nomina e illustra i luoghi che si presentano alla loro vista, cui Roma, dice Virgilio, avrebbe un giorno dato fama imperitura. Venere intanto, impensierita della guerra che minaccia l'incolumità di suo figlio, prega Vtilcano, suo marito, di fabbricare per Enea armi nuove. E Vulcano, accolta di buon grado la preghiera della moglie, si reca nell'isola, dove nella sua officina tre Ciclopi lavorano instancabilmente per lui; e ordina ad essi di dedicarsi subito alla costruzione delle armi destinate all'eroe troiano. Il mattino del giorno successivo Evandro ed Enea si rivedono; e alla presenza di Pallante e di Acate, comandante di una delle navi di Enea e suo fido amico, suggellano la loro alleanza. Ma Evandro, poiché sa di poter dare ad Enea un aiuto molto modesto (duecento cavalieri al comando del figlio Pallante, il quale ne aggiungerà dei suoi altri duecento), gli consiglia di recarsi a Cere, la città etrusca che, cacciato Mesenzio, è decisa a muover guerra a Turno, che lo ha ospitato. Per iniziare le operazioni belliche l'esercito etrusco attende, già in armi, soltanto l'arrivo del comandante, che gli oracoli vogliono straniero. Mentre Enea medita pensoso il consiglio di Evandro, il cielo sereno si accende per tre volte tra un frastuono di trombe e di armi. È un segno di Venere al figlio, il quale accetta il consiglio di Evandro e, rimandata al campo troiano, presso Ascanio, una parte dei suoi, si accomiata dal vecchio re e parte con i rimanenti e con Pallante, seguito dai suoi quattrocento cavalieri, alla volta di Cere. Quando è prossimo alla città, essendo imminente la notte, mentre i suoi si riposano in un bosco sacro a Silvano, egli si apparta in una valletta solitaria presso il gelido fiume di Cere. Nel frattempo Venere era discesa tra le nuvole recando le armi stupende, e appena vide il figlio appartato nella valletta solitaria, gli si mostrò e gli consegnò l'opera perfetta di Vulcano. Egli, lieto dei doni, ammira uno dopo l'alt1··J i singoli pezzi: l'elmo, la spada, la corazza, le gambiere, l'asta, ma soprattutto lo scudo, sul quale sono effigiati gli episodi principali della storia di Roma: le tappe più importanti e gloriose dell'eccezionale cammino compiuto nella storia dalla città eterna, dalle origini alla battaglia d'Azio, che segna il trionfo definitivo di Augusto e d: Roma sull'Oriente.
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CANTO OTI'AVO Il Lazio in armi e l'ambasceria a Diomede (1-22) - Enea sogna il dio Tiberina e poi sacrifica la bianca scrofa (23-95) - Enea risale il Tevere e incontra Fallante e Evandro (97-209)- Il mito di Ercole e Caco (210-327) - L'inno a Ercole (328-356) - Evandro parla a Enea dell'1111tichissimo Lazio e gli mostra i luoghi sui quali sarebbe sorta Roma (357-430) - Venere e Vulcano e la fucina dei Ciclopi (431-529)- Evandro dà a Enea consigli e aiuti (53o-6o8)- Partenza di Enea con Fallante e pianto di Evandro (609-682) - Enea nel paese degli Etruschi riceve le armi fabbricate da Vulcano (683-729) - Lo scudo di Enea istoriato con episodi della storia di Roma (730850).
Il Lazio in armi e l'ambasceria a Diomede
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APPENA Turno ebbe alzato bandiera di battaglia sulla rocca murata di Laurento, tra rauche fanfare, spronando i focosi cavalli e brandendo in aria le armi, s'accesero subito gli animi. Tutto il Lazio correva alla guerra nd fremito d'una feroce gioventu. Sono i primi a raccogliere ovunque aiuti, spopolando i campi di contadini, tre capitani: Messapo, Ufente e il sacrilego bestemmiatore Mesenzio. IL LAZIO IN ARMI E L'AMBASCERIA A DIOMEDE (I-22).
- L'insegna di guerra issata sulla rocca di Laurento e il suono cupo dei corni annunziano l'imminente inizio
delle ostilità. I n tutto il Lazio fervono i preparativi, i giovani e gli uomini validi abbandonano i campi e si armano. V enulo è inviato come ambasciatore a Diomede
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per invitarlo a partecipare come alleato nella lotta contro i Troiani. x. Appena Turno ecc.: quando il re Latino, per non porsi in contrasto con gli oracoli, abbandona il potere regale e si chiude nella sua casa, Turno, re dei Rutuli, favorito dalla regina Amata, che lo vuole sposo della figlia Lavinia, audacemente lo sostituisce, innalza sulla rocca di Laurento il segnale di guerra contro il rivale Enea e fa suonare le trombe. Con evidente anacronismo Virgilio attribuisce agli antichi Latini l'usanza di Roma, che in caso di guerra chiamava alle armi i fanti inalberando il vessillo rosso, i cavalieri quello celeste. 9-xo. Messapo, Ufente ... Mesenzio: sono capitani già incontrati nella rassegna che chiude il canto precedente: Messapo, useito dalla fantasia del poeta e detto figlio di Nettuno, capo degli Equi Falisci; Ufente, condottiero deli Equicoli, cacciatori e bellicosi abitanti dei monti tra la Sabina e l'Abruzzo; Mezenzio, già re di Agilla (Cere), espulso per la sua empia crudeltà, ora ospite di Turno.
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20. poiché forse più chiari, ecc.: nota la sottile insinuazione che fa intravedere a Diomede il pericolo che la possibile vittoria di Enea sui Latini e i loro alleati minaccerà anche lui; ed inoltre la finzione che Latino sia d'accordo con Turno, affinché appaia che tutti i popoli del Lazio vogliono opporsi allo straniero e difendere la propria libertà.
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ENEA SOGNA IL DIO TIBERINO E POI SACRIFICA LA BIANCA SCROFA (23-95). -
Enea, cui i preparativi di guerra dei popoli italici non sono sfuggiti, è profondamente turbato. Scesa la notte, benché abbia l'animo travagliato, riesce, per la stanchezza, ad addormentarsi ugualmente ed in sogno g.fi appare, levandosi dal letto del fiume, il dio Tiberina, che lo incoraggia e gli suggerisce di recarsi a Pallanteo e di chiedere aiuto ad Evandro, re di quella città e nemico dt;i Latini. E a conferma delle sue parole aggiunge che, svegliandosi, troverà accovacciata sotto un elce una scrofa con trenta porcellini; e lo invita a sacrificar/i a Giunone per vincerne l'ira. All'alba Enea si desta e prepara le navi; quand'ecco scorge steso sul lido una scrofa bianca con trenta porcellini; e la sacrifica col suo gregge di cuccioli alla grande Giunone. 23. Enea lo viene a sapere, ecc.: Enea, cui non sfuggono i febbrili preparativi di guerra dei Latini, è molto turbato; e dalla preoccupazione per l'incertezza che gli proviene dal trovarsi in una terra straniera senza
Si spedisce anche, in fretta, Venulo ambasctatore alla città del grande Diomede, per cercare soccorsi. Gli dirà come i Teucri si insedino nel Lazio e come Enea, giunto li con la flotta, voglia imporre all'Italia i suoi vinti Penati vantandosi chiamato dal Fato come re: gli dirà come molte genti all'eroe dardanio s'uniscano, come il suo nome si sparga largamente per il Lazio. Ed infine gli chiederà consiglio: poiché forse piu chiari a Diomede che a Turno o al re Latino saranno i veri scopi di Enea, le sue speranze di vincere, se la fortuna lo assiste.
Enea sogna il dio Tiberino e poi sacrifica la bianca scrofa
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Tutto quello che accade Enea lo viene a sapere subito e se ne preoccupa, il cuore travolto da tempestosi pensieri, ora a questo ora a quello volgendo l'animo mosso da mille inquietudini: cosi uno specchio tremulo d'acqua in un vaso di bronzo colpito da un raggio di sole o dall'immagine della radiosa luna riflette un bagliore che vola lontano e macchia di pallida luce il soffitto. Era notte, per tutta la terra un sonno profondo annientava ogni specie di cose animate, e gli uccelli e i quadrupedi, quando Enea padre, turbato dalla triste idea della guerra, si lasciò andare
amici e senza una chiara conoscenza del valore degli avversari, passa rapidamente, con un crescendo progressivo, ad una inquietudine angosciosa, che il paragone successivo commenta dando allo stato d'animo del condottiero troiano un senso di profonda intensità e un tono di pacata malinconia. 31-36. Era notte, per tutta la terra, ecc.: la descrizione della notte è sempre resa da Virgilio con toni smorzati ed umana sensibilità, special-
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mente quando egli vuole insinuare nel lettore un senso di intimità leggermente malinconica; ma qui essa deve servire anche ad altri scopi: sottolineare, mediante il contrasto del sonno ristoratore che la notte concede a tutti gli esseri vi ve nti, l'agitazione di Enea e l'insonnia che lo travaglia ed inoltre creare l'atmosfera di mistero necessaria a preparare l' apparizione nel sogno del dio Tiberina. - del cielo... gelido: « cielo lontano e gelido » è
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sulla riva del fiume, sotto la volta del cielo lontano e gelido, alfine dando riposo alle membra. Ed ecco gli sembrò che Tiberino stesso, Dio del luogo, levasse dalla chiara corrente la testa, tra le fronde di pioppo, e gli parlasse consolatore e pietoso, in figura d'un vecchio dal capo coronato di canna ombrosa, cinto di un leggero mantello azzurro, trasparente: «O nato da stirpe divina, che Troia salvasti portandola qui, serbando in eterno il nome di Pergamo, lungamente eri atteso dal suolo di Laurento e dai campi latini. Non devi aver paura, la tua patria è qui, i tuoi Penati qui staranno sicuri. Non devi temere minacce di guerra. svanita è l'ira dei Celesti... E perché tu non creda che il sonno t'inganni con visioni menzognere ne avrai conferma, troverai distesa a terra sotto le quercie della riva, stanca del parto, una candida scrofa con trenta candidi porcellini a succhiarne le mammelle. Proprio in quel luogo un giorno fabbricherai una città e il tuo penare avrà tregua: finché dopo trent'anni Ascanio se ne andrà per fondare Alba Longa immilgÌnc syttlsltamentc poetica. Il gelo non è nell'aria (qui « cielo » è tutta la volta del cielo), ché se l'aria fosse stata fredda Enea non avrebbe potuto dormire all'aperto, ma è nel cuore del condottiero troiano. - alfine dando riposo alle membra: il testo latino dice: « seramque dedi t per membra quietem », cioè: e tardi, cioè a fatica, riuscl ad ottenere (dedit) che il sonno (quietem) invadesse le sue membra (per membra). Enea, dunque, anche dopo essersi lasciato cadere oppresso e stanco sulla riva del fiume, continuò a medita re fino a tarda ora sulla situazione e sul modo di uscir vi. 39· tra le fronde di pioppo: i pioppi crescono più facilmente lungo le rive dei fiu-
mi c ,ono pL"rciò il naturale ornamento del dio Tiberina. 41. di canna ombrosa: anche i canneti crescono, come i pioppi, dove la terra è umida. 42. di un leggero mantello azzurro: come personificazione di un fiume. il dio Tiberina indossa un leggero mantello del colore dell'acqua. 43-48. che Troia s,dvasti, ecc.: che portando con te i Penati, salvati dall'incendio della città, hai salvati> Troia, poiché il suo nome sarà così conservato in eterno. Il testo latino ha << revehis >>, che significa « riporti >>; e l'espressione allude, infatti, al mito di Dardano (I I I, 203 sgg.), che emigrato dall'Italia, ora vi ritornerebbe nella
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persona di Enea, il quale, con i Troiani da lui portati in Italia, fonderà una nuova Pergamo che rinnoverà in eterno quella distrutta dai Greci. - lungamente eri atteso: allude all'oracolo di Fauno (VII, 83 sgg.). - la tua patria è qui, ecc.: qui nel Lazio avrai una sede stabile e sicura (patria e Penati hanno questo significato). Le parole del dio Tiberina sono la conferma dell'accoglimento della sua preghiera ad Apollo: « dacci una casa nostra; siamo stanchi! » (III, 103 sgg.). 49-58. svanita è l'ira dei Celesti... : non è vero che l'ira e lo sdegno di tutti i celesti contro i Troiani siano S\'amtl; Giunone persiste nell'odio e nella crudele decisione di distruggerli. Ma il dio Tiberina vuole infondere coraggio nel cuore di Enea. E perché tu non creda, ecc.: e a conferma del suo incoraggiamento il dio Tiberina ripete, quasi con le stesse parole, la profezia di Eleno (III, 472-479), il quale gli aveva detto: «quando finalmente stanco, ti apparirà sulle rive di un fiume, sotto un elce, una scrofa bianca con trenta candidi porcellini, fèrmati e stabilisci in quel luogo la tua sede». Ed Enea avrebbe poi fondato veramente Lavinio in quel luogo, la scrofa avrebbe sii.. boleggiato Alba Longa fondata da Ascanio e i trenta porcellini i trenta anni durante i quali Ascanio regnò su Lavinio prima di fondare Alba Longa, oppure le trenta città latine federate sotto l'egemonia di Alba. - Ascanio: figlio di Enea e di Creusa; secondo altri figlio di
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Enea e di Lavinia. Nel primo caso Ascanio e Julo sarebbero la stessa persona. ~ siçuro: ti predlco avvenimenti sicuri, certi. 6o-63. hanno posto... una stirpe di Arcadi: stirpe, soggetto, è un nome collettivo e il predicato verbale può essere quindi plurale, specialmente quando è seguito, come in questo caso, da un complemento di specificazione plurale. - stirpe di Arcadi, che han Patlante, ecc.: Fallante, figlio di Licaone, re degli Arcadi, fu nonno di Evandro, il quale, secondo una tradizione, condusse una colonia di Greci dall'Arcadia in Italia, e su un monte presso la riva del Tevere costrul una città, che chiamò Pallanteo dal nome del suo avo. Secondo Tito Livio il monte fu poi chiamato Palatino, appunto da Pallanteo. Evandro fu venerato dai Romani come nume indigete e sull'Aventino ebbe anche un altare. Pubblico culto ebbe anche sua madre, Carmenta, che l'aveva seguito in Italia; e in suo onore fu anche chiamata Carmentale una porta che sorgeva ai piedi del Campidoglio. 67. controcorrente: a ritroso della corrente del fiume, cioè dalla foce a Pallanteo, circa 50 chilometri. 68-71. appena tramontate, ecc.: l'espressione allude all'alba, quando con l'apparire della prima luce le stelle cominciano a scomparire. prega Giunone, ecc.: il dio Tiberino ripete il suggerimento di Eléno, che elimina dall'animo di Enea ogni perplessità ulteriore. Cosl Enea, trovata la scrofa, la consacra e la immola a Giunone. I
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dal grande nome. È sicuro. Ma adesso sta' attento, ti dirò in breve in che modo sarai vittorioso. Su queste spiagge hanno posto la loro sede una stirpe di Arcadi, che han Fallante per capostipite e Evandro per condottiero: la loro città è costruita sui colli e dal nome dell'avo si chiama Pallanteo. Poiché sono sempre in guerra con la gente latina devi farteli amici, stringere patti con loro. lo stesso ti guiderò lungo le rive del fiume, ti aiuterò ad avanzare coi remi controcorrente. Al2ati, figlio di Dea, e appena tramontate le prime stelle, supplice, secondo il rito, prega Giunone, allontanandone coi voti le minacce. Dopo, quando avrai vinto, mi renderai onore: perché sono il Tevere azzurro, fiume gratissimo al cielo che tu vedi lambire le sponde con ampia distesa d'acqua, tagliando le ricche campagne lavorate. Qui è la mia reggia, il mio capo nasce da alte città ». Il Dio scomparve, tuffandosi nella corrente e calando a fondo; notte e sonno abbandonarono Enea che si alzò e, volto ai pallidi raggi del sole nascente, secondo il rito attinse nel cavo dellè mani acqua di fiume, pregando: «O Ninfe di Laurento da cui le sorgenti zampillano, e tu padre
sacrifici dovuti a Tiberino, quale Dio protettore delluo: go, li farà dopo la vi t toria. 72. Tevere azzurro: l'aggettivo azzurro è attribuibile ad ogni corso d'acqua; quindi anche al Tevere, che tuttavia usualmente è detto biondo (flavus). 75· Qui è la mia reggia, ecc.: gli antichi credevano che le divinità fluviali abitassero presso la foce. - il mio capo: è la sorgente, che comprende .evidentemente anche il corso superiore del fiume, e « le alte città » sono quindi le città etrusche, generalmente costruite sulle alture. :78. volto ai pallidi, ecc.:
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secondo una consuetudine antica, comune a quasi tutte le religioni, le preghiere e i sacrifici si facevano rivolti ad oriente. Durante il Medio Evo venivano costruite con l'abside rivolta ad oriente anche le chie;e cristiane, affinché i fedeli potessero pregare e cantare con la faccia rivolta ad oriente (cfr. G. Carducci, La Chiesa di Polenta, vv. 33-36). 79-88. attinse nel cavo delle mani, ecc.: gli antichi prima di pregare si lavavano le mani con l'acqua, special.nente di mattina, perché credevano che il sonno rendesse impuri. - O Ninfe ... e tu padre Tevere, ecc.: Enea,
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Tevere con la tua santa corrente, accogliete Enea, finalmente salvatdo dai pericoli. Fiume bellissimo che ti commuovi per me, dovunque tu sia nato, dovunque il tuo sereno flusso prorompa, sempre t'onorerò di doni, fiume lunato sovrano dei mari d'Esperia. Ma assistimi, confermami nella tua volontà». Dopo questa preghiera sceglieva dalla flotta due biremi gemelle, fornendole di remi, ed armava i compagni. Quand'ecco un improvviso miracolo: tma scrofa bianca attraverso la selva stesa sul lido verde con trenta bianchi porcelli. Enea la sacrificò alla grande Giunone spingendola all'altare col suo gregge di cuccioli.
Enea risale il Tevere e incontra Pallante e Evandro
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Per quanto lunga è la notte il Tevere attenuò la corrente impetuosa, rifl.uendo con tacito gorgo e spianando l'acqua come un placido stagno o una palude tranquilla, facile da navigare. Perciò il viaggio è veloce, gioiosa la cadenza dei remi. Gli scafi impeciati scivolano sopra le acque: l'onda se ne stupisce, trasecola il bosco rassicurato dal dio Tiberino, si considera abitante del Lazio e q!Jindi rivolge alle divinità del luogo, soprattutto a quelle che sovrintendono alle acque, necessarie alla fecondità della terra, questa preghiera fervida e solenne. 95· la sacrificò alla grande Giunone: Enea sacrifica anche alla dea che gli è nemica, seguendo il consiglio di Eléno e del dio Tiberino. Il pio Enea non si ribella mai alla divinità, neppure se gli è ostile, perché il volere divino, direbbe Dante, è « in tutto dall'accorger nostro scisso », cioè esorbita dai
limiti entro i quali si muovono il pensiero e il giudizio umani. ENEA RISALE IL TEVERE E 'INCONTRA FALLANTE ED EVANDRO (97-209). - Il dio
Tiberina in segno di benevolenza verso l'eroe troiano, attenua la corrente del fiume; Enea s'imbarca e risale la corrente, mentre le acque e le piante sulle rive stupiscono allo spettacolo insolito delle armi che risplendono e delle navi che vogano sul fiume. Finalmente i Troiani giungono in vista di Pallanteo: una rocca e poche
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povere case sopra un colle non lontano dalla riva del fiume. A quella volta dirigono le navi, del cui arrivo Evandro e i suoi Arcadi, che in un bosco vicino stanno celebrando l'annuale sacrificio a Ercole, si accorgono e sbigottiscono, temendo di essere assaliti da nemici. Ma Pallante, il figlio del re, per nulla sgomento, va incontro ai forestieri e chiede il motivo della loro venuta. Enea, tenendo in mano un ramoscello d'olivo, espone le sue intenzioni. I Troiani,. invitati a sbarcare, vengono condotti al cospetto del re, che li accoglie con benevolenza, specialmente Enea, in cui riconosce il figlio di Anchise, ch'egli da giovane aveva conosciuto e ammirato in Arcadia. E invita Enea e i suoi compagni a prendere parte al banchetto. 97-100. Per quanto lunga, ecc.: intendi: per tutta la durata della· notte le acque del Tevere attenuarono la loro corrente abitualmente impetuosa, cosl da dare l'impressione che rifluissero lentamente alla sorgente o che fossero le acque placide di una palude tranquilla. 101-105. Perciò il viaggio, ecc.: l'acqua del fiume e gli alberi cresciuti sulle sue rive, che si stupiscono ammirati al passaggio delle due navi, avvenimento mai verificatosi in precedenza, costituiscono una scena d'incanto ed una delle immagini poetiche più belle create dalla fantasia di Virgilio: tutto è detto con semplicità naturale, come se acqua e piante fossero creature umane, perché tutta la scepa si anima
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alla vista del lampeggiare delle armi e dell'avanzare sulle acque, quasi nuotando, delle carene dipinte delle due navi. xo8. attraversando ... verdi foreste: immagine stupenda, descritta con la semplicità ingenua di un fanciullo, questo particolare freschissimo delle navi che attraversano le sei ve riflesse nitidamente dalla superficie tranquilla delle acque. E l'immagine delle due navi che sembrano avanzare, non sulle acque di un fiume, ma attraverso una fitta boscaglia, sembra creata dal poeta anche per preparare l'apparizione quasi inaspettata della città di Pallanteo.
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109-IIJ. Il sole infuocato, ecc.: è mezzogiorno quando
Enea e i suoi compagni vedono la città costruita da Evandro sul punto più alto del monte Palatino: la rocca, le mura e poche misere case sparse qua e là; una povera città «che - aggiunge Virgilio - la potenza romana oggi ha elevato al cielo ». Virgilio « ha saputo fondere - annota E. V. Marmotale - nella sua grande anima presente e passato in un unico- sentimento espresso in contenuta e profonda poesia». L'accostamento della grandezza di Roma alla pochezza del regno di Evandro è una costatazione serena, senza vanto. All'ideale georgico, presente nell'Eneide, non contrasta la fierezza per la potenza e la grandezza di Roma; i due sentimenti, pur contrapposti, non si elidono, ma si uniscono fondendosi nella lirica contemplazione del poeta. II5. per caso: il «per ca-
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non avvezzo a vedere risplendere gli scudi dei guerrieri e le navi dipinte vogare sul fiume. Faticano sul remo il giorno e la notte solcando le lunghe anse seminascosti dagli alberi, attraversando sull'acqua placida verdi foreste. Il sole infuocato aveva percorso metà dd suo itinerario celeste quando lontane vedono mura, e una rocca, e rari tetti di case che la potenza romana oggi ha elevato al cido, allora povere cose, povero regno di Evandro: là volgono le prore e s'avvicinano in fretta. Il re arcade, per caso, quel giorno onorava solennemente, in un bosco di fronte alla città, il grande Ercole, figlio di Anfitrione, e gli Dei. Pochissimi compagni, l'unico figlio Fallante, la gioventu migliore e il piccolo senato insieme a lui gettavano incenso sul fuoco, mentre tiepido sangue fumava davanti agli altari. Appena videro le navi grandi venire per l'ombra fitta dd bosco, e quella gente straniera che senza parlare faceva forza sui remi, sbigottirono, colti alla sprovvista, balzarono disordinatamente in piedi, abbandonando le mense. Ma il coraggioso Fallante proibisce d'interrompere il rito, afferra un giavellotto e si fa incontro di corsa a chi arriva, gridando
so» qui vale evidentemente solo per Enea, non nei riguardi di Evandro, il re arcade. 117. Ercole, figlio di Anfitrione: la leggenda lo dice
figlio di Giove e di Alcmena, moglie di Anfitrione. - e gli dèi: il sacrificio era fatto in onore di Ercole, ma durante il rito erano onorati anche gli altri dèi. u8-u9. Pallante: l'unico figlio di Evandro ha lo stesso nome dell'avo paterno. il piccolo senato: Virgilio insiste sul « povero » e sul « piccolo » quando accenna alle cose e alla gente di Evan-
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dro. L'immagine di questo popolo contadino, bene ordinato, che si contenta di poco e compie i rituali sacrifici agli dèi, semplice e buono, ma pronto a difendere la propria libertà e le proprie cose contro i prepotenti nemici che lo circondano, è una delle creazioni più simpatiche del poeta mantovano. 127-132. Ma il coraggioso P altante, ecc.: alla vista del-
le navi e pegli armati che le occupano, Evandro e coloro che partecipano l'OD lui 11! rito sono atterriti e interrompono la cerimonia, per-
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dalla ripida alzaia: «Giovani, cosa cercate per luoghi a voi ignoti? Dove andate? Chi siete? Da che paese venite? Portate pace o guerra? » Allora il padre Enea leva dall'alta poppa un ramoscello d'olivo pacifico, e risponde: «Siamo Troiani: se ci vedi armati è perché i Latini hanno accolto noi profughi con guerra ingiu~ta. Cerchiamo il re Evandro. Ditegli che sono arrivati scelti duci dei Dardani a chiedere alleanza». Meravigliato da un nome cosf famoso, Fallante disse: «Chiunque tu sia, sbarca e parla a mio padre entrando a casa nostra da ospite gradito». Gli strinse forte la mano ponendosi al suo fianco e avanzarono insieme nel bosco, lontano dal fiume, finché arrivarono al re. « O tu, il migliore dei Greci disse Enea: - che la Fortuna ha voluto pregassi con l'offerta di rami di pace ornati di bende! Non ho avuto paura di presentarmi a te che sei Arcade, Greco e parente dei due Atridi: perché la mia coscienza e gli oracoli santi degli Dei, gli antenati comuni, la tua fama che spazia per il mondo a te m'hanno attirato, per volere dei Fati, volentieri. Ricorda: Dardano capostipite della gente troiana nacque da Elettra figlia di Atlante (lo dicono i Greci) e andò fra i Teucri: Atlante grandissimo che sostil"ne ché credono che quegli armati siano Latini, con i quali sono in continua guerra, e che la loro apparizione improvvisa li abbia colti disarmati e impreparati a difendersi. Solo Pallante rimane tranquillo; e dopo avere invitato tutti a riprendere il loro posto alle mense (dopo il sacrificio si sedevano a mensa e si cibavano delle carni delle vittime sacrificate agli dèi), affronta, arma to di un giavellotto, gli stranieri. L'atto di Pallante delinea già il suo carattere: rapido nel decidere, chiaro, ma senza arroganza, nelle pa-
role che rivolge agli stranieri, egli si sostituisce senza iattanza al vecchio padre nell'autorità e nell'ardimento, simpatico e bello nel suo gesto. Virgilio innalza sempre il tono della sua poesia quando rappresenta eroi giovinetti. 133-138. il padre Enea:
« padre » è titolo che Virgilio dà spesso, in segno di rispetto e di onore, agli dèi, ai re, agli eroi. - leva dall'alta poppa, ecc.: Enea ha intuito dalle richieste di Pallante che prima di ogni al tra cosa il giovane vuoi sapere se egli viene per offrire pace o por-
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tare guerra e, prima ancora di rassicurarlo con le parole, gli mostra (leva) un ramoscello d'olivo, simbolo di pace, poi parla. E la sua risposta è brevissima: con «siamo Troiani » soddisfa le domande «chi siete? » e «da che paese venite»; con «cerchiamo il re Evandro » risponde alla richiesta « dove andate? »; quindi conferma le loro intenzioni padfichr.. 144-152. O tu, il migliore dei Greci, ecc.: Enea non
poteva dimenticare, come Troiano e principe dei Dardani, che i Greci avevano distrutto Troia; perciò il suo saluto a Evandro, greco, non poteva consistere se non in un complimento generico: « sei il migliore dei Greci, ed io sono felice d'essere stato indirizzato a te dalla fortuna con un ramo d'olivo, segno di pacifica preghiera ». Poi espone i motivi che lo hanno indotto a presentarsi, egli stesso, a Evandro, greco e parente degli Atridi (Agamennone e Menelao), e a non servirsi di ambasciatori, dicendo d'aver la coscienza d'essergli un degno alleato, e soprattutto d'essere stato mosso dagli oracoli degli dèi e dalla fiducia nella loro comune origine, nonché dalla fama della sua nobiltà d'animo, nota in tutto il mondo. 153-170. Dardano capostipite, ecc.: Enea e Evandro
appartengono a popoli diversi (Enea è troiano, Evandro è greco), ma in fondo la loro stirpe trae origine dalla stessa fonte: Atlante, che sostiene sulle spalle la volta celeste, aveva generato Elettra e Maia che, amate da Giove, dettero alla luce ri-
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spettivamente Dardano, progenitore dei Troiani, Mercurio, progenitore della stirpe di Evandro. Inoltre Enea ed Evandro hanno ora un nemico comune, i Rutuli ( « gente di Dauno », padre di Turno), i quali, se vincitori, li cacceranno dall'Italia e domineranno su tutta l'Esperia. 171-x88. la faccia e gli occhi, ecc.: che i vecchi osservino con attenzione minuta una persona ad essi presentata, è un fatto naturale; ma qui l'osservazione di Evandro è ancor più intensa e minuta, perché egli ha scoperto di avere davanti a sé una persona che gli risolleva nella memoria ricordi lieti della sua giovinezza. E ascoltando la voce e fissando il volto di Enea, egli ricorda la voce e il volto di Anchise, incontrato nella sua prima gioventù, quando accompagnò Friamo recatosi a visitare la sorella Erione, moglie di Telamone, re di Salamina, e con Friamo si spinse poi fino al regno degli Arcadi e gli fece ricchi doni, che tuttora conserva, donati al figlio Fallante. - alle mura di Feneo: Evandro accolse Anchise, come suo ospite, a Feneo, città dell'Arcadia, ricordata anche da Omero (Il., Il, 6o5). L'accenno a questa città ddl'Arcadia è stato suggerito a Virgilio probabilmente per spiegare la contemporanea esistenza delle due leggende che dicono l'una essere Dardano oriundo dall'Italia, l'altra dall'Arcadia. Ed infatti Dionigi d'Alicarnasso (1, 34) afferma che agli abitanti di Feneo erano mescolati anche Troiani; donde la storia dd viaggio
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con le spalle la sfera del cielo era dunque suo nonno. Vostro padre è Mercurio, che la candida Maia partod sulla gelida vetta del monte Cillene: ma Maia,.se la tradizione è degna di fede, è figlia anch'essa di Atlante portatore di stelle. Cosf le nostre due stirpi vengono da un unico sangue. Sicuro di questo non ho mandato ambasciatori né ho fatto sondaggi diplomatici, ho esposto me e la mia vita, son giunto supplice alla tua soglia. La stessa gente di Dauno che perseguita te perseguita noi Troiani: se riusciranno a scacciarci niente impedirà loro di soggiogare l'Italia e dominare i mari che la bagnano tutta. Sii mio alleato: abbiamo petti forti alla guerra, coraggio e una giovenru provata in grandi imprese». Cosi Enea. Mentre parlava Evandro la faccia e gli occhi gli osservava e tutta la persona, finché disse, conciso: «Come ti riconosco, con che piacere t'accolgo, fortissimo fra i Teucri! Come mi tornano a mente la voce e il volto di Anchise! Mi ricordo di quando Friamo, coi capi troiani, recandosi a Salamina per visitare il regno della sorella Esione si spinse sino al paese gelato d'Arcadia. La prima gioventu mi fioriva le guance e ammiravo, stupito, i capi teucri e il figlio di Laomedonte, Friamo: ma il piu alto e il piu bello di tutti mi parve Anchise. Ardevo dal giovanile desiderio di parlargli e di stringergli la mano. Lo avvicinai emozionato e lo condussi alle mura di Feneo. Egli partendo mi donò una stupenda faretra, frecce licie, un mantello trapunto tutto d'oro e due freni pure d'oro che adesso possiede il mio Fallante. Dammi la mano, dunque. Già fatta è l'alleanza che mi chiedi, e domani non appena la luce
di Friamo e di Anchise e della loro permanenza in Arcadia, con tutte le incongruenze che ne derivano. 189-197· Dammi la mano ... Già fatta, ecc.: con una stretta di mano si concluse
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l'alleanza chiesta da Enea. Ma il testo latino suggerisce anche questa interpretazione: «la destm che voi mi chiedete fu da me congiunta in un patto d'amicizia e di ospitalità già con Anchise,
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tornerà sulla terra vi lascerò andare contenti del mio modesto aiuto. Ma intanto celebrate gioiosamente con noi questa santissima festa che ricorre soltanto una volta ogni anno e che sarebbe sacrilego interrompere: poiché siete venuti da amici, dovete adattarvi alla povera tavola dei vostri alleati». Subito comandò che si imbandissero le mense di nuovo, con nuove vivande e i bicchieri che erano stati appena prima portati via, ed egli stesso fa sedere i guerrieri sull'erba dando a Enea il posto d'onore, un sedile di legno coperto della pelle d'un villoso leone. Allora a gara scelti giovani e il sacerdote custode dell'altare portano le interiora arrostite dei tori, riempiendo di pane i canestri, versando il vino nei bicchieri. Enea e i suoi Troiani mangiano volentieri il lombo d'un gran bove e i visceri arrostiti.
Il mito di Ercole e Caco 210
Spenta la fame, cessata ogni voglia di cibo
il re Evandro disse: «Non fu superstizione
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vana e irriconoscente verso gli Dei piu antichi l'aver alzato quest'ara al grandissimo Ercole istituendo una festa e un solenne banchetto: se onoriamo ogni anno l'eroe figlio di Alcmena è meritatamente: Ercole ci ha salvato
al tempo della mia giovinezza ». E a conferma del patto invita Enea e i suoi compagni a celebrare con lui e i suoi Arcadi il rito in onore di Ercole. - dei vostri alleati: di noi che siamo già vostri alleati. Nota come Evandro accenni solo ora esplicitamente all'alleanza con Enea; anche questo particolare è un delica to accorgimento del vecchio re,
che manifesta davvero con il suo modo d'agire i tratti nobili e fini del sentimento virgiliano. 204. Allora a gara scelti giovani, ecc.: scelti giovani, non servi; ai banchetti in onore di Ercole non potevano partecipare né i servi, né i liberti, né le donne. IL
MITO
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E
CAco (210-327). - Quando
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il banchetto è finito Evandro racconta ad Enea l'origine di quella festa in onore di Ercole. In una spelonca del monte Aventino abitava Caco, figlio di Vulcano, un mostruoso /adrone che terrorizzava la regione. Un giorno passò per quei luoghi Ercole, che veniva dalla Spagna con la mandria tolta a Gerione; e Caco gli rubò quattro tori e quattro vacche trascinando gli animali nella sua caverna tirando/i per la coda. Sul punto di partire Ercole s'accorse del furto dal muggito delle bestie rinchiuse nell'antro e corse a riprendersele, ma l'entrata della caverna era chiusa con un masso enorme che non riuscì a smuovere. Perciò Ercole svelse il cocuzzolo del colle e, penetrato nell'antro, strozzò il mostro enorme. Da allora si celebra, come ringraziamento, un sacrificio in suo onore; e in omaggio a lui fu costruita anche l'Ara Massima. 2II-2I7. Non fu superstizione, ecc.: Evandro per spiegare ad Enea la ragione di quel rito sacrificale, racconta la leggenda latina di Caco, ucciso da Ercole. « Superstizione » è timore vano e insensato che introduce un culto ad eroi stranieri e allontana dalla religione, che invece consiste nel rendere i dovuti onori agli dèi patrii. Ma il rito sacrificale che Evandro ha istituito in onore di Ercole, è un atto di gratitudine dovuto all'eroe per il reale beneficio da lui arrecato agli abitanti del luogo, e non ha fatto ignorare le antiche divinità venerate dai padri.
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218-232. Prima di tutto guarda, ecc.: Evandro, pri-
ma di raccontare l'episodio, invita Enea ad osservare il luogo in cui Caco aveva la sua dimora, dove sono ancora visibili i segni della lotta furibonda tra Ercole e il mostro. Caco, figlio di Vulcano, era un gigante mostruoso che spirava fuoco (e~ pressione ipostatica di Vulcano), uccideva, rapinava, spargeva ovunque terrore e aveva la sua dimora in una profonda caverna dell'Aventino, nella quale non entravano mai i raggi del sole. 233. Alcide: appellativo greco di Ercole, da un «Alceo » suo avo. 234. Gerione: essere favoloso, e mitico re degli Iberi, che aveva tre corpi uniti alla cintola. Ercole, per ordine di Euristeo, lo affrontò e lo uccise, compiendo così la decima delle dodici fatiche, e s'impadroni dei suoi bellissimi buoi, che il mostro crudele nutriva di carne umana. Df.nte, con efficace libertà di poeta, lo trasformò in custode di Malebolge, come « sozza immagine di frode».
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244. tirandoli per la coda:
un simile accorgimento aveva usato anche Mercurio, quando rubò i buoi ad Apollo. 257. clava nodosa: era la sua arma preferita.
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2 58. si slancia d i furia, ecc.: si diresse correndo ver-
so la sommità dell'alta collina (il monte Aventino), dove Caco aveva il suo antro profondo. La china di un monte è « precipite >>, sia che la si consideri in salita, sia in discesa.
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da un crudele pericolo. Ospite, giudica tu. Prima di tutto guarda quella roccia sospesa quasi su radi e oscillanti macigni: che gran caverna s'è aperta nel fianco del monte, che frana precipitando ha desolato la valle! Vedi, qui nella roccia profonda c'era la tana inaccessibile ai raggi del sole di Caco, uomo a metà, a metà bestia: Caco dal volto feroce e dall'atroce cuore. Il suolo tiepido sempre di strage recente, le porte superbe da cui pendevano affissi pallidi teschi che la putrefazione aveva scarnito e sbiancato. Il fortissimo mostro era un gigante, era figlio di Vulcano e sputava il suo fuoco dalla bocca. Eravamo impotenti contro di lui. Ma il tempo portò finalmente l'aiuto dell'arrivo di un Dio. Alcide, supremo vendicatore, fiero d'aver ucciso Gerione dal triplice corpo predandone gli armenti, venne da queste parti col suo ricco bottino di tori meravigliosi, un gregge che occupava tutto il fiume e la valle. Subito Caco pensò di rubarne qualcuno (sembrava che le Furie lo avessero convinto a non lasciar intentato alcun inganno o delitto) e portò via dagli stazzi quattro fortissimi tori con altrettante giovenche di strepitosa bellezza; perché non rimanessero tracce riconoscibili li menò alla caverna tirandoli per la coda in modo che le impronte fossero all'incontrario, li chiuse bene nell'antro scavato nel sasso. Nessun segno cosi svelava il nascondiglio a chi cercasse. Intanto Ercole fece uscire gli armenti ben pasciuti dai chiusi, preparandosi alla partenza. I tori nell'avviarsi muggirono chiamandosi l'un l'altro lungamente, riempiendo di voci simili a lamenti e di un vasto clamore i boschi che abbandonavano e le echeggianti colline. Una delle giovenche in risposta mugghiò dall'antro profondo annullando l'inganno di Caco. Una rabbia dolorosa s'accese nel cuore d'Alcide; dà mano alle armi e alla clava nodosa e si slancia di furia per la precipite china.
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Fu quella la prima volta che i nostri videro Caco sconvolto dalla paura e con gli occhi smarriti: ma subit<_> fugge piu veloce del vento nella caverna, il terrore gli mette ai piedi le ali. E ci arriva e si chiude e precipita giu, spezzate le catene, un grandissimo masso sospeso sull'entrata per arte di Vulcano: dietro quella difesa anelando si barrica. Ma ecco che arriva furente Ercole, gira qua e là gli occhi cercando il modo di entrare, digrignando i denti. Bollente di rabbia, tre volte fa il giro del monte Aventino, guardando dappertutto, tre volte prova invano a spostare il masso, tre volte stanco si siede nella valle. In cima alla caverna s'ergeva a picco, altissima a vedersi, una rupe acuta e solitaria adatta solo ai nidi degli uccelli da preda. Ercole s'accorse che pendeva inclinata a sinistra, sul fiume: s'arrampicò sin là e forzandola a destra la scrollò, la divelse dalla montagna cui sembrava abbarbicata e giu la precipitò. Tutto il cielo profondo ne rintronò, le rive sussultarono e il fiume impaurito si spinse controcorrente, a ritroso. Cosf la spelonca, grande reggia di Caco, fu aperta, l'ombrosa caverna venne tutta alla luce: _fu come se la terra squarciata da un terremoto schiudesse le sedi infernali rivelando i pallidi regni odiosi ai Celesti e mostrando nel baratro immane le Ombre spaventate dal bagliore del giorno. Caco grida di rabbia e di paura, cosf all'improvviso colto dalla luce inattesa, 259. i nostri: i sudditi eli Evandro; perciò « i miei sudditi». Evidentemente Evandro non aveva assistito alla scena. 260. sconvolto dalla paura: prima nessuno aveva po-
tuto impaurire Caco. 266. anelando: respirando affannosamente per la corsa e la paura.
270-272. fa il giro del monte Aventino, ecc.: la
caverna di Caco è scavata profondamente nella roccia e si presenta imprendibile Perciò Ercole si aggira intorno per scoprirne l'entrata, e scopertola, prova inva· no a spostare il masso che la chiude. 274. una rupe acutu e soli-
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taria: il cocuzzolo dd!'Aven-
tino, sotto il quale si estendeva la cavità della caverna di Caco. 28o-282. Tutto il cielo profondo, ecc.: tutto l'im-
menso (profondo) cielo rimbombò, le rive del Tevere sussultarono e le acque del fiume impaurito rifluirono verso la sorgente. L'effetto della caduta dell'immensa roccia è reso mirabilmente. Il fiume, che il poeta immagina come un essere vivo e sensibile, si ritrae impaurito all'udire il tonfo prodotto dal masso enorme, e l'iperbole rende con efficacia il formidabile evento. Ma Virgilio forse immagina che il masso sia caduto nel fiume, e in tal caso le acque si ritirarono veramente verso la sorgente, mutando per un certo tratto di tempo il loro corso naturale. 284. l'ombrosa caverna:
la tenebrosa cavità. 285-288. fu come se la terra, ecc.: questo parago-
ne, che Virgilio costruì avendo presente un passo analogo dell'Iliade (XX, 75 sgg., trad. Monti), è evidentemente fantastico, perché la scena non è mai avvenuta, né avverrà. Tuttavia le immagini, così semplici e chiare, hanno un aspetto mirabile di verità. Sono i miracoli della fantasia ( « i pallidi regni odiosi ai Celesti » e « le Ombre » dei morti « spaventate dal bagliore del giorno »). 290. all'improviso colto, ecc.: Caco non immaginava
che Ercole potesse svellere la cima del monte e raggiungerlo per quella via nella sua ben protetta caverna.
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297. sputa una notte fumida, ecc.: Caco, per sottrarsi alla vista di Ercole ed evitare d'essere colpito dai proiettili d'ogni specie che l'avversario gli scaglia addosso, vomita dalla bocca fuoco e fumo denso e nero, e riempie coslla tana di fuoco e di tenebre (notte fumida di tenebra e di vampe). 300-30r. là dove il fumo, ecc.: Ercole, sfidando l'oscurità e le fiamme, salta giù nell'antro e, per individuare nel buio la posizione in cui si trova Caco, osserva dove il fumo si muove più denso, perché più vicino alla bocca del mostro, da cui
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esce. 302-303. in una stretta te"ibile: il leone di Nemea e il gigante Anteo erano stati vinti e uccisi da Ercole allo stesso modo. Secondo Ovidio (Fasti, l, .57.5), Properzio (IV, 9, 1.5) e Livio (1, 7) Ercole avrebbe ucciso Caco a colpi di clava. E neppure Dante accettò la versione virgiliana: « onde cessar le sue opere bieche sotto la mazza d'Ercule, che forse - gliene dié cento, e non sentl le diece » (Inf.,
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sgg.). 309. per i piedi: come si
fa con le carogne; e Caco è punito delle sue feroci crudeltà anche con questo atto di disprezzo, secondo la regola del taglione. 310. gli occhi terribili: gli occhi del mostro, rimasti aperti, conservano l'espressione minacciosa e crudele di quando erano vivi. 31.5-318. ne fu iniziatore Potizio, ecc.: il culto di Ercole fu affidato, con mansioni diverse, a due vecchi: a Potizio, con l'incarico di sa-
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preso in trappola nella sua tana; ed Alcide lo tempesta con quello che trova, saette, tronchi d'albero, massi. Senza piu via di scampo Caco ricorre al fuoco che. gli riempie la bocca, si cela in una nuvola di spesso fumo nero, riempie di un'ombrosa caligine la tana, sputa una notte fumida di tenebra e di vampe, si sottrae alla vista. Ma l'infuriato Alcide non si contenne e d'un salto a precipizio piombò attraverso le fiamme fin là dove il fumo ondeggiava piu denso e la nebbia piu fitta. Qui, nella notte, afferrandolo lo serra in una stretta terribile, mentre vomita inutili fiamme, e lo soffoca e lo stritola: gli occhi gli schizzano dall'orbita, il sangue va via dalla gola. Cosf Caco muore. Subito dopo, schiantate le porte ed aperta la nera caverna, le giovenche rubate escono al libero cielo; l'informe cadavere è tirato fuori per i piedi e nessuno si sazia di guardare gli occhi terribili, il volto, il petto villoso del mostro, "Qomo a metà a metà bestia, e le mandibole in cui si sono spente le fiamme. Da allora è stata celebrata la festa; e da allora lietamente abbiamo osservato la ricorrenza; ne fu iniziatore Potizio, e la casa Pinaria fu custode del ·culto di Ercole. Istituf nel bosco sacro quest'ara che abbiamo chiamato massima e sarà sempre chiamata Ara Massima. Perciò, giovani, a gloria di cosi grandi imprese incoronate il capo di fronde e alzate i bicchieri, invocate il gran Dio, versate lieti il vino! » Aveva appena parlato che il pioppo dalle foglie
cerdote, a Pinario, con il ruolo di custode dell'ara. Questa dignità passò, dopo la loro morte, alle loro famiglie.- Ara Massima: quest'ara, che Evandro mostra ad Enea, esisteva ancora al tempo di Virgilio. Fu distrutta poi dall'incendio di Nerone. 322-32.5. Aveva appena
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parlato, ecc.: l'invito a liba' re in onore di Ercole è accolto senza indugio e dai sudditi di Evandro e dai Troiani. Dopo il patto d'alleanza Ercole è diventato dio comune ai due popoli. il pioppo dalle foglie, ecc.: il rito della libagione esigeva che si adornassero il capo con ramoscelli di piop-
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di due colori velava le chiome di tutti con l'ombra grata ad Ercole, e pendeva intrecciato dalle teste di tutti. La coppa sacra alzata nella mano protesa libavano tutti sulle mense, pregando Alcide e gli altri Dei.
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Declinando il- cielo Espero s'avvicinò, e i sacerdoti vennero (li precedeva Potizio) cinti di pelli secondo il costume, recando fiaccole. Rinnovarono il banchetto e portarono i doni graditi della mensa, coprendo gli altari di piatti. Poi i Sali si disposero intorno alle are accese per cantare, le tempie coronate di pioppo, di qua il coro dei giovani di là quello dei vecchi, e celebrano col canto le lodi e i fatti d'Ercole: come strozzò, stringendoli in mano, due serpenti (primi mostri mandati da Giunone), poi come rase al suolo le due città famose in guerra, Troia ed F.calia, come sostenne mille dure fatiche sotto Euristeo per volere divino. «O tu invitto, che abbatti di tua mano i centauri Ileo e Folo figli della nube, che uccidi il mostro di Creta e l'immane leone
po, l'albero sacro ad Ercole, le cui foglie sono di due colori: verdi sulla faccia superiore, biancastre su quella inferiore. L'INNO A ERCOLE (328356). - Sul far della sera dànno inizio alle seconde mense. Poi intorno all'altare, sul quale è acceso il fuoco sacro, si dispongono i Salii, i quali, divisi in due gruppi, cantano le gloriose imprese di Ercole e danzano, incoronati di rami di pioppo. 328. Declinando il cielo,
ecc.: quando il cielo si piegò in basso verso l'orizzonte,
si fece avanti la stella Venere (Espero), cioè la sera. Virgilio ovviamente segue l'antica credenza, secondo la quale il cielo gira con le stesse fissate in esso. Cosl la stella Vénere, che varia la sua posizione nel cielo di sei mesi in sei mesi, quando appare ad occidente subito dopo il tramonto del sole, gli antichi la chiamarono Espero; mentre nel tempo in cui appare ad oriente prima dell'alba, la chiamarono Lucifero, cioè la stella del
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mattino che annuncia la luce. 330. cinti di pelli: nel culto di Ercole i sacerdoti, nell'esercizio delle loro funzioni, portavano, nudi, soltanto una striscia di pelle ai fianchi. 335-341. di qua il coro, ecc.: i Salii, sacerdoti istituiti da Numa Pompilio in onore di Marte, sono qui dal poeta introdotti anacronisticamente a rendere onore a Ercole. Anche .qui, come a Roma, essi si dividono in due schiere: da un lato la schiera dei giovani, dali' altro quella dei vecchi, e gli uni e gli altri « celebrano col canto le lodi e i fatti (le imprese) d'Ercole»: dalla sua prima impresa, quando bambino di otto mesi strozzò i due serpenti mandati da Giunone perché lo soffocassero, alla distruzione di Troia, da lui compiuta per vendicarsi di Laomedonte, che gli aveva rifiutato la mercede pattuita per avergli liberano la figlia Esione dal mostro marino, e per analogo motivo, a quella di Ecàlia, città dell'Eubea nel territorio di Eretria, ed infine alle più famose dodici fatiche impostegli da Euristeo, re di Tirinto e Micene, quando l'oracolo gli impose di porsi al suo servizio. 342-352. O tu invitto, ecc.: a questo punto la celebrazione delle « lodi » e dei « fatti » di Ercole cessa di essere racconto e introduce direttamente l'inno, nel quale i Salii ricordano l'uccisione, di sua mano, dei due centauri Ileo e Folo, figli di Nefele (Nube) e di Issione, durante la lotta accesasi alle nozze di Piri too,
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re dei Lapiti, con lppodamia, avendo il centauro Euritione fatto oltraggio alla sposa (i Centauri erano mostri metà uomini e metà cavalli); e la cattura del mostro di Creta (allude al toro che vomitava fuoco, mandato da Nettuno in Creta a devastarne il territorio per vendicarsi del re Minosse); e l'uccisione del leone Nemeo, invulnerabile e quindi strozzato con le sue mani; e la cattura di Cerbero, guardiano dell'Erebo, ch'egli incatenò e portò ad Euristeo e poi ricondusse nel regno dei morti. Nulla riuscl a spaventare Ercole. Non Tifeo, il gigante dalle cento teste vomitanti fuoco; non l'idra di Lerna, il mostro dalle molte teste tutte rinascenti se non venivano schiacciate contemporaneamente (Ercole l'uccise stritolando le teste con un sol colpo di clava). Ercole, trasportato da Giove sull'Olimpo, divenne immortale e visse da allora, sempre giovane, dio fra gli dèi celesti. EVANDRO PARLA A ENEA DELL'ANTICHISSIMO LAZIO E GLI MOSTRA I LUOGHI SUI QUALI SAREBBE SORTA RoMA (357-430). - Compiuto il rito in onore di Ercole, il vecchio re Evandro, avendo da un lato Enea dall'altro Pallante, ritorna in città. E mentre procedono lentamente il re parla all'ospite delle Ninfe e dei Fauni che, insieme con gli uomini primitivi, che si nutrivano solo dz caccia, vivevano in quei luoghi. A questi più antichi primi abitanti seguì il regno di Saturno che insegnò a quelle genti rozze il vivere
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sotto la rupe nemea. O tu di cui le paludi dello Stige tremarono, tremò il custode dell'Orco dirteso nell'antro cruento, sull'ossa semirose. Nessuno ti fece paura, nemmeno l'enorme Tifeo che brandiva le armi contro di te, nemmeno l'Idra di Lerna con le sue molte teste. Salve o figlio di Giove assurto agli onori divini, scendi a noi e alla tua festa con piede propizio ». Celebrano coi canti le grandi imprese d'Ercole e sopra rutte ricordano la caverna di Caco e il mostro che sputava fuoco. Risuona allo strepito gioioso l'intero bosco ed echeggiano i colli.
Evandro parla a Enea dell'antichissimo Lazio e gli mostra i luoghi sui quali sarebbe sorta Roma
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Terminati gli uffici divini se ne ritornano tutti in città. Il vecchio Evandro procedeva affiancato dal figlio Fallante e da Enea e camminando alleviava il lungo cammino con vari racconti. Enea si stupisce della bellezza dei luoghi e gira intorno i mobili occhi informandosi di ogni singola cosa, ascoltando le antiche
civile secondo giustizia e la coltivazione della terra. Fu quella l'età dell'oro. Poi vennero gli Ausoni e i Sicani e lo stesso Evandro, spinto dal Fato e dalle predizioni delta madre Carmen/a. Proseguendo il vecchio re mostra a Enea l'Ara Massimu, la porta Carmentale, l'Asilo, il Lupercc1le, l' Argileto, la rupe Tarpea, il CampidoJl,lio. Giungono così alla povera casa di Evandro, sul f>t~lati no, che aveva ospite/lo Ercole; e prega Enea di accettare anch'egli la Jllti ospitalità. Il principe lroiano si riposa su un giaciJ.!/w di fo-
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glie coperte da una pelle d'orso. 358. in città: Pallanteo, la capitale del piccolo regno di Evandro, sul Palatino. Il rito religioso s'era svolto nella pianura sottostante, che fu poi il « Foro boario ». 361. Enea si stupisce, ecc.: con l'ammirazione dei luoghi, sui quali un giorno lontano sorgerà Roma, e sui quali domineranno i discendenti di Enea, ha inizio uno dei momenti più significativi del canto, il quale sarà poi continuato dalla descrizione delle figurazioni dello scudo
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memorie, le gesta degli uomini d'un tempo. E allora Evandro, fondatore della rocca romana: «Fauni e indigene Ninfe abitarono primi questi boschi, e una razza d'uomini nati dai tronchi durissimi delle querce, che non avevano né costume civile né aru, e non sapevano mettere i bovi all'aratro, conservare i raccolti, ma vivevano solo di caccia e di frutti selvatici. Poi arrivò Saturno fuggendo dall'Olimpo e dalle armi di Giove, esule fuori del regno che gli era stato strappato. Saturno radunò quell'indocile razza dispersa per gli alti monti e dette loro leggi, volle che la rt!gionc fosse chiamata Lazio (dato che lui latitante era stato al sicuro nascosto in quelle terre). Sotto quel re trascorsero i secoli che chiamiamo l'età dell'oro, l'età della placida pace e del tranquillo governo: finché a poco a poco non peggiorarono i tempi c non venne l'età del furor della guerra e dell'amor del possesso. Allora torme di Ausoni e genti sicanc calarono a varie riprese e la terra Saturnia sp~sso mutò di nome; allora ci furono i re e l'aspro Tibris dal grande corpo dal quale noi ltali di Enea. Nel canto VI, presso le rive del Lete, erano sfilate davanti ad Enea le ombre di coloro che, discesi dai Troiani, dovevano essere un giorno i più importanti crea tori della grandezza di Roma; ora sono presentati all'ammirazione dell'eroe troiano i luoghi nei quali quei personaggi avrebbero svolto la loro opera politica e civile; e nel fatto misterioso, che induce Enea, inconsapevole, a fermarsi ad osservare quei luoghi, sui quali domineranno i suoi discendenti, ed a provarne diletto, si sente la commozione del poeta che, testimone di quella grandezza, vede per
Enea nel Palatino il centro spirituale di Roma e dell'impero, e in Evanc.Jro il « fonclatore della rocca romana». 366-393. Fauni e indigene Ninfe, ecc.: Virgilio pensa
che i primi abitatori elci Lazio siano stati uomini originari del luogo e, rievocandone la storia per bocca di Evandro, accenna ai Fauni e alle Ninfe, primi abitatori dei boschi; alle primitive popolazioni selvagge che, prive ancora di ogni costume civile, vivevano solo di caccia; al regno di Saturno, che dette a quegli t;omini le prime leggi e fece fiorire l'età dell'oro; agli Ausoni ed ai
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Sicani, che calarono a più riprese nelle terre già governate da Saturno ed infine allo stesso Evandro venuto nel Lazio spinto dal Fato e dai responsi della madre Carmenta. - fuggendo dall'Olimpo: per gli antichissimi abitanti del Lazio, Saturno era il dio della seminagione e quindi protettore dell'agricoltura, ma più tardi, identificato con Crono, padre di Giove, si favoleggiò che, spodestato da Giove, si fosse rifugiato nel Lazio portandovi la civiltà e il benessere, ordinando la vita degli uomini con buone leggi e insegnando ad essi la coltivazione della terra. fosse chiamata Lazio: sulla etimologia della parola gli antichi si sbizzarrirono molto. Virgilio la fa derivare da «!ateo» (nascondo), e Lazio significherebbe quindi il luogo dove si rifugiò Saturno quando fu cacciato da Giove. Probabilmente deriva dal greco « platys », che significa luogo pianeggiante e ampio, ed era dato alla campagna romana in contrapposizione con le vicine regioni montuose. - Ausoni e genti sicane: gli Ausoni abitarono l'Italia centrale, i Sicani sarebbero venuti dalla Spagna e, dopo aver abitato per qualche tempo il Lazio, si sarebbero trasferiti in Sicilia, dove presero il nome definitivo di Siculi. - mutò nome: a seconda degli abitanti o dei dominatori. aspro Tibris: il Tevere dapprima si chiamava Albula, ma quando la regione divenne dominio del tiranno Tibris, cambiò il nome in quello di Tevere.
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394-398. l'ara e la porta, ecc.: sono l'ara e la porta ai piedi del Campidoglio, chiamate l'una e l'altra Carmentale in onore di Carmenta, madre di Evandro, la quale, dotata di virtù profetiche, indusse il figlio ad emigrare dall'Arcadia in Italia, dove nel Lazio fondò la citt~ di Palla~!'o e _POse l~ bw della stona gloriosa de1 discendenti di Enea. La porta, dopo che da essa uscirono i trecento Fabii che morirono in combattimento contro i Veienti, fu chiamata « Scelerata ». Evidentemente in questi versi Virgilio interviene a spiegare ai lettori ciò che Evandro mostrò a Enea; e quel« Romani » non è quindi un anacronismo. 399-400. la gran selva, ecc.: allude al luogo, identificato successivamente in un recinto murato sul Campidoglio, dove Romolo, per favorire l'aumento della popolazione a Roma, permise che si rifugiassero gli abitanti dei luoghi vicini. 401-402. del Lupercale, ecc.: è la grotta alle falde del Palatino, dove, secondo la tradizione, la lupa avrebbe nutrito Romolo e Remo. Ed era chiamata Lupercale da Fauno Luperco, antichissima divinità italica identificata con il dio Pan (detto Liceo dal monte dell'Arcadia, dove sarebbe nato), protettore delle greggi e dei pastori dai lupi. In suo onore si celebravano in febbraio le feste dette Lupercalia, la cui istituzione ~i faceva risalire a Evandro e, secondo un'altra tradizione, a Romolo. 403-404. Argileto: località tra il Circo Massimo e l'A-
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chiamammo poi Tevere il fiume che perse l'antico nome d'Albula. La Fortuna onnipotente, il destino cui non si può resistere mi fermarono qui bandito dalla patria e spinto agli estremi confini del mare, qui mi condussero i tremendi comandi della Ninfa Carmenta, mia madre, e di Apollo». Camminando mostrò a mano a mano l'ara e la porta che ancora oggi i Romani chiamano Carmentale, antichissimo onore alla Ninfa Carmenta, fatidica indovina che prima vaticinò il nobile Pallanteo e gli Eneadi futuri. Gli additò da una parte la gran selva in cui Romolo ha accolto poi i fuggiaschi, e sotto uha rupe gelida e ventosa l'oscura grotta del Lupercale detta cosi all'uso arcadico di Pane Liceo. E gli indicò anche il bosco del sacro Argileto narrandogli la morte del suo ospite Argo. Di là li guidò alla rupe Tarpea e al Campidoglio adesso tutto d'oro, allora intricato forteto. Ma già fino da allora la santità orrenda del luogo atterriva quei semplici campagnoli, tremanti di sacro terrore al vedere la selva e la rupe. «Un Dio ignoto- disse il re Evandro- abita questo [bosco,
ventino, dove, secondo la leggenda, un certo Argo, ospite di Evandro, fu ucciso dal popolo per il sospetto che volesse spodestare il re; il quale però, in ossequio ai doveri dell'ospitalità, volle che gli fosse eretto nello stesso luogo un sepolcro. Ma probabilmente « Argileto » è nome attribuito al luogo per la qualità del terreno, che è molto argilloso. 405-406. Di là li guidò, ecc.: il poeta vuoi dire che Evandro indicò ad Enea il colle, che poi i Romani chiamarono Rupe Tarpea, dal nome della figlia di Spurio Tarpeio, ed infine Campidoglio. Secondo una delle tante versioni della leggen-
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da, Tarpea, al tempo della guerra contro i Sabini guidati da Tito Tazio, avrebbe consegnato la rocca, di cui il padre comandava il presidio, ai nemici; e per punizione fu poi precipitata dalla rupe e uccisa. I Romani con questo supplizio punirono da allora in poi i traditori della patria. - adesso tutto d'oro: nota l'orgogliosa osservazione del cittadino romano che pone a confronto lo splend.:>re del Campidoglio del suo tempo con la selvaggia primitività di quello antico (intricato forteto, cioè luogo occupato da boscaglia bassa e molto intricata). 410-411. Un Dio ignoto ...
L'IMPERATORE AUGUSTO, qui raffigurato comè sommo sacerdote che presenta alle patrie divinità i sacrifici del popolo, volle che il suo amico Virgilio scrivesse l'Eneide per offrire alle nuove generazioni romane l'esempio delle virtù degli avi. Era suo scopo restaurare le « antiche virtù romane » e dette per primo l'esempio conducendo vita austera. Lo storico Svetonio racconta che « dormiva in un letto semplice e basso ~ vestiva vesti comuni». Fu Augusto che alla morte di Virgilio proibì si bruciasse l'Eneide, contro la volontà dell'Autore, che ritenendola incompleta voleva si desse alle fiamme.
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LO SCUDO DI ENEA
1. La lupa che allatta Romolo e Remo.
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Il ratto delle Sabinc. Il supplizio di Mczio Fufczio. Porsenna: Orazio Coclite e Clelia. L'assalto dei Galli al Campidoglio.
6. Processione di Sacerdoti: Salii, Luperci, Flàmini. 7. Il Tartaro: Catilina · L'Elisio: Catone. 8. Il mare rigonfio con delfini. 9. La battaglia di Azio e la fuga di Cleopatra. 10. Il trionfo di Augusto.
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questo colle di tufo dalla cima selvosa: a noi Arcadi è parso d'aver veduto Giove in persona, nell'atto di scuotere l'egida che ottenebra il cielo e di adun~e le nuvole. E guarda laggiu quei due castelli in rovina, reliquie e monumenti degli antichi abitanti: furono costruiti da Saturno e dal padre Giano, l'uno è il Gianicolo l'altro si chiama Saturnia». Cosf·parlando tra loro s'avvicinavano all'umile tetto dd povero Evandro, e vedevano armenti sparsi nel Foro Romano e nelle ricche Carine. Come furono giunti: «Ercole vittorioso disse Evandro -·varcò questa soglia, fu accolto da questa piccola reggia. Ed ora anche tu, ospite, abbi a tua volta il coraggio di disprezzare le ricchezze, rendendoti degno di tanto Nume, accostati benevolo alla mia povera vita! » Fece entrare Enea grande nella piccola casa e lo mise a giacere su uno strato di foglie coperte della pelle di un'arsa della Libia.
cima selvosa: Virgilio ignorav.a il nome del Campidoglio al tempo di Evandro, e quindi, introducendo direttamente il discorso del vecchio re, fa sl che questi lo indichi in modo generico con espressioni come «bosco», « colle di tufo dalla cima selvosa »; e l'indefinito ·che ne deriva aggiunge ansiosa incertezza all'atmosfera di terrore sacro, di cui il poeta vuoi circondare il colle, sul quale Evandro ricorda che ai suoi Arcadi è parso di vedere Giove in persona in atto di scuotere l'egida che provoca le tempeste. L'egida era lo scudo di Giove, costruito con la pelle della capra Amaltea, che lo aveva allattato sul monte Ida. 415-4I8. E guarda laggiù,
ecc.: dall'alto del colle Palatino, Evandro mostra ad Enea gli avanzi di due castelli (meglio due rocche o città; i castelli sono del Me· dio Evo): uno della città di Saturno sul Campidoglio, l'altro della città di Giano, al di là del Tevere sul Gianicolo. Forse sono ruderi immaginari, ma opportuni a giustificare la tradizione dei regni, nel Lazio, di Saturno e di Giano. 421. Foro Romano ... ricche Carine: il Foro Romano,
che al tempo del poeta era il centro ufficiale e politico di Roma, ricco di templi e di edifici sontuosi, anticamente era una valle paludosa fra il Palatino, il Viminale, il Quirinale e il Campidoglio, in cui pascolavano gli
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armenti; e cosl anche il terreno fra il tempio di Tellure e il luogo dove poi sorse la « domus aurea » di Nerone, alle pendici dell'Esquilino, in cui Virgilio poteva ammirare le case che formavano il quartiere più elegante di Roma. Quelle case erano dette « Carine » per la forma del tetto simile a quella delle carene delle navi, oppure, secondo altri, per la forma concava del terreno sul quale erano costruite; ed erano abitate dalle famiglie più ricche di Roma, donde l'aggettivo «ricche» che le distingue. 422-430. Ercole vittorioso, ecc.: Evandro ricorda ad
Enea che la soglia della sua capanna (piccola reggia) è stata varcata anche da Ercole vittorioso, e lo invita ad accettare anche lui, che non è né grande, né vittorioso come Ercole, la sua ospitalità. In tal modo egli dimostrerà di saper disprezzare le ricchezze e riconoscere e stimare la virrù, che non ha bisogno di ambienti lussuosi, e si renderà degno del grande Nume. Agli antichi commentatori è sembrato di vedere nelle parole di Evandro una punta di sottile ironia, ma il vecchio re ha inteso dire piuttosto che se « gli dèi, a differenza degli uomini, sanno riconoscere e stimare la virtù, anche se essa si nasconde in ambienti poveri e rozzi» (Marmorale), Enea, accettando l'ospitalità offertagli da Evandro nella sua povera casa, dimostrerà di saper superare la propria natura umana e di sapersi elevare all'altezza degli dèi.
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Venere e Vulcano e la fucina dei Ciclopi
VENERE E VuLCANo E LA FUCINA DEI CICLOPI (431-
529 ). - V enere è molto pre-
occupata della piega che stanno prendendo gli avvenimenti, e timorosa per l'incolumità del figlio; durante la notte, mentre riposa accanto al marito Vulcano, lo prega di preparare per Enea un'armatura nuova. Il dio accoglie benevolmente la preghiera della moglie, e alzatosi di buon'ora si reca nella sua officina, dove trova i Ciclopi che già lavorano assidui. Ad essi egli ordina di sospendere ogni altro lavoro e di iniziare subito la costruzione dell'armatura per l'eroe troiano. 431. Scende la notte, ecc.: gli antichi immaginavano la terra di giorno tutta illuminata dal sole, di notte tutta avvolta dalle tenebre; e Virgilio immagina che il fenomeno sia prodotto da un enorme uccello che stende le sue ali, come un'immensa coltre buia, su tutto il globo. 432-436. Ma: qui non è congiunzione avversativa, ma coordinativa di trapasso, come « at » latino. - V enere madre: durante la notte Venere, preoccupata nel suo affetto materno della piega che ormai prendono gli avvenimenti, decide di porre il figlio in condizioni di difendersi nella guerra che lo minaccia, e prega il marito Vulcano di fabbricargli armi nuove, quali egli solo sa foggiare. - un amore divino: il suo amore di dea. Solo l'amore poteva indurre Venere a una richiesta cosi scabrosa, giacché si trattava
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Scende la notte, con ali fosche abbraccia la terra. Ma Venere madre, non senza ragione atterrita dalle minacce dei Laurentini e turbata dal loro pericoloso tumulto, parla a Vulcano nel letto coniugale tutto d'oro, spirando con dolorose parole un amore divino: _ « Finché gli argolici re mettevano a ferro e a fuoco città e rocca di Troia, destinate a cadere, non domandai aiuto per quegli infelici, non volli che tu invano ti affaticassi, non chiesi alla tua arte maestra delle armi perfette, benché fossi molto obbligata ai figli di Priamo e spesso dovessi piangere il duro travaglio di Enea. Ora per ordine di Giove s'è fermato in terra dei Rutuli: santo Nume, ed io vengo a te, come una madre supplice, per le armi del mio povero figlio. Un tempo poterono pure piegarti con le lagrime la figlia di Nereo e la moglie di Titone! Guarda che popoli uniti e che città murate affilano le spade contro me e contro i miei! » Ciò detto con le braccia bianche come la neve lo stringe, gli si stringe morbida e tanto a lungo Io accarezza (poiché lo sente incerto e pensieroso) da accenderlo. Una rapida fiamma Io prese tutto, il ben noto calore gli percorse le membra, gli guizzò nelle ossa languide di desiderio:
di chiedere al marito l'aiuto per un figlio che non gli apparteneva. 439-440. per quegli infelici: i Troiani stavano a cuore a Venere, ma sapeva che l'infelice Troia era destinata a cadere, e Vulcano si sarebbe affaticato inutilmente. 444· per ordine di Giove: l'espressione significa « per volere del Destino immutabile », del quale Giove è annunziatore ed esecutore. 448. la figlia di Nereo: allude a Teti che chiese a Vulcano le armi per il figlio
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Achille. - la moglie di Titane: l'Aurora, che ottenne da Vulcano le armi per il figlio Mémnone, re degli Etiopi, accorso in aiuto dei Troiani. L'episodio è narrato nel poema epico, ora perduto, Aetbiopis di Aretino di Mileto, diretta continuazione dell'Iliade. 450. contro me: non già perché Venere si senta minacciata dalle armi, ma perché nella sua qualità di madre essa soffre per il figlio, cui si sente unita comt: a formare una persona sola
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come una striscia di fuoco scoppiata da un tuono im[provviso lingueggia tra le nuvole scintillando di luce. Se ne accorse la Dea conscia d'essere bella, e vinto dall'amore eterno Vulcano le disse: «Perché la prendi cosi alla lontana? Dov'è la tua fiducia? Se tu me lo avessi chiesto avrei potuto armare i Troiani anche allora, sotto le mura di Troia: poiché né Giove né i Fati proibivano che la città resistesse ancora dieci anni, che Priamo sopravvivesse per altri dieci anni. Adesso se prepari guerra, se è questo che vuoi non supplicare piu: ti prometto il massimo impegno nella mia arte, quello che si può fare di meglio col ferro e col liquido dettro, la forza dd fuoco e dei [mantici ». Spasimando di voglia si abbandonò all'amplesso e in braccio alla bianca consorte lasciò che un placido [sonno gli serpeggiasse lieve per tutte le membra. Ma dopo il primo sonno, trascorsa la metà appena della notte: nell'ora in cui la vedova costretta da un duro destino a guadagnarsi la vita con lavori da poco, la filatura e il ricamo, ridesta dalla cenere il fuoco, aggiungendo la notte al quotidiano lavoro, ed impegna le ancelle a una lunga fatica al lume delle lampade per conservare casto il letto coniugale e riuscire a allevare i figli ancora piccoli: a quell'ora Vulcano padrone del fuoco si sveglia, saltando giu dai soffici materassi per correre ai suoi lavori di fabbro. C'è un'isola sul fianco della Sicilia, vicino a Lipari, nelle Eolie, che è sede di Vulcano e si chiama Vulcano. È un'isola coronata di rupi alte e fumanti ed è scavata sotto da profonde caverne simili a quelle dell'Etna: bruciate dalle fucine dei Ciclopi, assordate dai rimbombanti colpi L'immagine esprime anche qui la profonda e delicata sensibilità di Virgilio che in
tal caso è rivolta al valore infinito ch'egli attribuisce alla maternità.
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460. vinto dall'amore eterno: conquistato dall'amore
che vince sempre. 463-466. avrei potuto armare, ecc.: Vulcano ha com-
preso che Venere va cercando motivi per giustificare la sua richiesta e le dice allora che, se glielo avesse chiesto, gli sarebbe stato lecito di armare i Troiani anche quando difendevano la loro città e, poiché il Destino non aveva precisato né il giorno, né l'ora in cui Troia avrebbe dovuto cadere, Priamo e Troia avrebbero potuto resistere ancora per dieci anni. 470. liquido elettro: col limpido, terso elettro. « Elettro » è una lega di metalli nobili, specialmente oro (tre parti) e argento (una parte), usata dagli antichi; « liquido » non è esornativo, ma caratteristica particolare del metallo. 478-479. aggiungendo ... lavoro: aggiungendo al lavoro
giornaliero parte della notte. 483. a quell'ora: intendi: in quella stessa ora, nello stesso tempo in cui si leva la vedova, cioè subito dopo il primo sonno ... 490-491. bruciate dalle fucine dei Ciclopi: affocate, ar-
se od anche corrose dalle fucine dei Ciclopi. Secondo Omero, i Ciclopi erano un popolo di pastori giganti, rozzi e forti, con un solo occhio in fronte; secondo un'altra versione non erano un popolo, ma tre soltanto: Bronte, Sterope e Piracmone, che al servizio di Vulcano fabbricavano i fulmini a Giove. Per Virgilio sono più di tre.
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493· le masse di metallo dei Càlibi: le masse del ferro che doveva essere domato dai martelli dei Ciclopi. I Càlibi erano un popolo dell'Asia Minore, sulla costa del Mar Nero, che lavoravano il ferro (il loro nome deriva da « chalybes », che significa acciaio) e « metallo dei Càlibi » significa semplicemente « ferro ». 496-497. Sterope e Bronte e Piracmone: sono i tre Ciclopi di Vulcano: Sterope, lampo; Bronte, tuono; Piracmone, fuoco e incudine, quindi incudine infuocata. I loro nomi indicano perciò le attribuzioni proprie a cia~cuno di essi. Piracmone, che era costantemente vicino al fuoco, veniva rappresentato nudo. ,:soo-,:so4. Congiunto avevano, ecc.: in questi versi il poeta prima enumera gli elementi che compongono il fulmine, cioè ogni fulmine è formato da tre raggi di pioggia, tre di grandine, tre di fuoco, tre di vento; poi passa a descrivere la parte del fulmine ancora in lavorazione: i lampi terrificanti (terrificanti bagliori), il pauroso rimbombo del tuono (gran fragore, spavento), l'ira di Giove con le fiamme che ad essa tengon dietro. Nell'insieme il poeta ci dà qui una plastica rappresentazione dei fenomeni naturali che precedono e seguono il fulmine: la pioggia, la grandine, il vento, il lampo la folgore, il tuono, tutti attributi della potenza di Giove. 505-516. Altri attendevano, ecc.: in altra parte dell'officina altri Ciclopi erano intenti alla preparazione del carro di Marte ed altri anco-
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dei magli sulle incudini che echeggiano lontano. mentre stridon le masse di metallo dei Càlibi e il fuoco nelle fornaci anela. Scese qui dall'alto cielo Vulcano. Nella grande caverna i Ciclopi: Sterope e Bronte e Piracmone, nudo le membra immani, lavoravano il ferro. Le loro mani forgiavano un fulmine, levigato già in parte, uno di quelli che Giove in quantità scaglia da tutto il cielo sulla terra. Congiunto avevano tre raggi di pioggia, tre di grandine, tre di splendente fuoco e tre di vento alato: vi aggiungevano adesso terrificanti bagliori, gran fragore, spavento, l'ira con le sue fiamme. Altri attendevano al carro di Marte e alle ruote veloci con le quali il Dio scuote gli uomini e le città, altri ancora adornavano con squame di serpenti e oro l'egida orrenda, arma dell'infuriata Pallade, col suo groppo di serpi, e la Gorgone stessa che straluna gli sguardi, da sopra il collo troncato, sul petto della Dea. « Lasciate tutto - disse Vulcano - sospendete il lavoro iniziato, o Ciclopi dell'Etna, e statemi a sentire: bisogna fabbricare le armi a un valoroso, e ci vuoi tutta la vostra forza e le mani veloci e il magistero dell'arte. Su, via, fate in fretta! » Non disse altro e bastò. I Ciclopi si misero all'opera, dividendosi equamente il lavoro. L'oro e il bronzo ruscellano a fiotti, il micidiale
ra·affaccendati intorno all'egida della crucciata Pallade. Pallade o Minerva, oltre che dea della sapienza e dei lavori donneschi, era anche dea della guerra. L'egida, che propriamente è lo scudo di Giove, qui è la corazza d'oro di Pallade, che la dea porta sul petto con nel centro raffigurato il capo della Gorgone, che invece di capelli aveva serpenti e due occhi stralunati, essendole stata tagliata la testa. Ricorda che la corazza si chiama egida se difende il petto di un nume,
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lorlca se protegge il petto di un uomo. - Ciclopi dell'Etna: ora sono nell'officina di Vulcano, ma provengono dall'Etna. - bisogna fabbricare, ecc.: nota come Vulcano con poche parole ordini ai Ciclopi la costruzione delle armi di Enea, e continuando con lo stesso tono di comando spieghi rapidamente che nel costruirle devono impiegare forza, agilità delle mani e ogni astuzia dell'arte: sono armi che servono ad un uomo forte e valoroso.
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acctato si fa liquido nella vasta fornace. Foggiano un immenso scudo, che basti da solo a respingere tutti i dardi dei Latini, saldano sette piastre circolari d'acciaio. Alcuni soffiano aria dai mantici ventosi, altri temprano in acqua gelida il bronzo stridente. La caverna risuona di colpi, sulle incudini martellate. I Ciclopi alzano simultaneamente le braccia con gran forza, le calano in cadenza e con tenaci tenaglie rivoltano il massello.
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Mentre il padre Vulcano nelle Eolie s'affretta all'opera, la luce e canti mattutini di uccelli sotto il tetto risvegliano il re Evandro e lo spingono a uscire dalla sua povera casa. Il vecchio s'alza indossando la tunica e allacciando alle piante dei piedi i sandali etruschi; poi si lega alle spalle ed al fianco una spada portata da Tegea, gettando sulla schiena una pelle macchiata di pantera. Due cani da guardia lo precedono dall'alta soglia e seguono i passi del padrone. L'eroe si recava alle stanze appartate dell'ospite Enea ripensando ai discorsi tenuti e all'aiuto promesso. 52 3. saldano sette piastre, ecc.: intendi: costruiscono sette piastre circolari di grandezza diversa e poi le saldano una sull'altra cosl da formare sette giri in set· te piani, in cui la piastra inferiore è sempre più ampia della sovrastante. 524-529. Alcuni soffiano, ecc. : il sibilo del vento dei grandi mantici, il bronzo che sfrigola a contatto dell'acqua, i rintocchi del metallo battuto sulle incudini sono rumori che formano tutti insieme nella fucina dei Ciclopi una sinfonia grandiosa.
EVANDRO DÀ A ENEA CON-
SIGLI E AIUTI (530-608). -
Evandro ed Enea, ambedue molto mattinieri, s'incontrano per riprendere il colloquio del giorno precedente. E il vecchio re fa presente al suo ospite ch'egli è ben lieto di accettare l'alleanza, ma che il suo aiuto è molto modesto. E gli consiglia perciò di allearsi con gli Etruschi, i quali attendono un condottiero straniero per far guerra a Turno che ha ospitato Mesenzio, il tiranno da essi scacciato per la sua crudeltà. Evandro, come suo alleato,
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gli darà il figlio Fallante e una schiera di Arcadi. Mentre Enea medita con Acate la proposta di Evandro, appare improvviso nel cielo sereno un lampo e si ode lo squillo di una tromba e un fragore di armi. Tutti sono stupiti e turbati, ma Enea li rassicura: è un segno di Venere, che ha promesso aiuto al figlio. 530. nelle Eolie: l'isola di Vulcano fa parte delle Eolie. 531-533. la luce e canti mattutini, ecc.: Virgilio riprende qui l'immagine di Evandro, re campagnolo e povero, ch'egli ha tracciato mirabilmente e con simpatia particolare fin dall'inizio. Cosl dalla scena fervida di lavoro che si svolge nell'officina rumorosa e affumicata dei Ciclopi il poeta passa volentieri alla pace serena del paesaggio bucolico. 535· sandali etruschi: erano formati di una suola di legno o di cuoio, cui erano attaccati dei legacci, che, avvolti graziosamente al col· lo del piede, li assicuravano al piede stesso. 536-537. poi si lega alle spalle, ecc.: Evandro non cinge la spada ai fianchi, ma la sospende ad una correggia che dalla spalla destra scende al fianco sinistro. Era la vecchia spada ch'egli si era portato da Tegea, città dell'Arcadia. 538-539. Due cani da guardia, ecc.: è un altro particolare che completa il quadro commovente della regalità patriarcale di Evandro, pastore, contadino e re di contadini e di pastori. È la grande anima di Virgilio che sente pulsare la vi t a
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della grande Roma del suo tempo nella semplicità campestre e nella saggezza di un piccolo popolo.
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548-549. vivendo il quale dirò, ecc.: morto Ettore, Enea è diventato il capo ri-
conosciuto dei Troiani superstiti; perciò ad Enea sono legate le sorti future di Troia. « Vivendo il quale » traduce bene il « quo sospite » del testo latino, che E. V. Marmorale giudica essere una delle espressioni più felici di Virgilio. 550. per aiutarli... forze modeste: Evandro ha saputo dei preparativi di guerra dei Latini e degli altri popoli del Lazio; conosce le proprie forze, e anche se unite a quelle dei Troiani le giudica troppo modeste · per una guerra di proporzioni così vaste. 552. il fiume etrusco: il Tevere, detto etrusco non solo perché nasce e scorre nell'Etruria, ma anche perché il territorio della sponda destra, di fronte a Pallanteo, era tutto abitato da Etruschi. 55 3. e intorno alle nostre mura, ecc.: l'espressione non
vuoi dire che Pallanteo fosse assediata, ma che le terre abitate dai Rutuli e dai Latini erano così vicine che dalle mura di Pallanteo si poteva sentire il rumore delle loro armi. 554-557· Ma mi preparo a darti, ecc.: allude alla guer-
ra, cui gli Etruschi si preparano, contro i Latini e i Rutuli, mettendo insieme in un luogo non lontano dal Lazio un grosso esercito (ricche armate), con il contributo di soldati inviati da ognuna delle dodici città
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Non meno mattiniero Enea già veniva da lui accompagnato da Acate. Fallante era insieme ad EvanIncontratisi, dopo una stretta di mano [dro. siedono in un cortile interno e alfine parlano liberamente. Evandro dice per primo: «Grande condottiero dei Teucri, vivendo il quale dirò sempre vive le sorti ed il regno di Troia, per aiutarti in guerra abbiamo forze modeste rispetto alla tua fama: da una parte ci chiude il fiume etrusco, dall'altra i Rutuli ci premono e intorno alle nostre mura risuonano le armi. Ma mi preparo a darti per alleati grandi popoli, ricche armate d'un gran regno, salvezza che un caso inopinato ci presenta: tu qui arrivi certamente col favore dei Fati. Non lontano, fondata sopra un antico sasso, c'è la città di Cere, dove un tempo arrivò dalla Lidia una gente famosa in guerra e occupò le colline d'Etruria. Fiori per molti anni, finché con feroce dominio e con armi spietate non la tiranneggiò Mesenzio. Perché ricordare le stragi inenarrabili, gli efferati delitti del tiranno? Egual sorte riservino gli Dei a lui e alla sua stirpe! Pensa, arrivava a legare i vivi coi cadaveri, le mani sulle mani,
della confederazione (l'Etruria si divideva in dodici lucumonie - specie di cittàstato - riunite in un'unica confederazione); e attribuisce la fortunata coincidenza alla volontà dei Fati. Poco dopo (v. 588), infatti, ricorderà che un aruspice aveva ammonito gli Etruschi di scegliersi per questa guerra un capo straniero. 558-578. Non lontano, fondata, ecc.: dopo l'accenno
alla guerra che gli Etruschi stanno preparando, il vecchio re indica il luogo in cui i soldati sono radunati e ne spiega il motivo, dicendo che nella vicina città di Cere gli
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abitanti hanno cacciato il tiranno Mesenzio (VII, 742 sgg.), il quale si è rifugiato presso Turno; ed essi ora vogliono punire il re dei Rutuli muovendogli guerra. - la città di Cere: ora Cervèteri, trovasi ad una trentina di chilometri a nordovest della città di Evandro, e come tutte le città etrusche è costruita sulla sommità di un colle, in forma di fortezza circondata da mura ciclopiche. Anticamente si credeva che gli Etruschi fossero venuti in Italia dalla Lidia, regione dell'Asia Minore. - i vivi coi cadaveri, ecc.: di tutti i delitti di
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le bocche sulle bocche (orribile tormento! ), e lentamente uccideva quelle misere vittime in un abbraccio schifoso di marciume e putredine. Ma un giorno i cittadini si rivoltano, armati assediano l'atroce tiranno e la sua casa, uccidono i suoi seguaci, danno fuoco alla reggia. Mesenzio sfuggi alla strage per rifugiarsi in terra rutula, dove è difeso dal suo ospite Turno. Perciò l'Etruria tutta s'è sollevata con giusto furore, è scesa in guerra, vuole il re scellerato per mandarlo al supplizio. Enea, ti farò capo di queste molte migliaia di guerrieri! Le navi adunate su tutto il litorale fremono, vorrebbero salpare inalberando insegne di battaglia; ma un vecchio aruspice le ferma vaticinando: - O scelta gioventu di Meonia, fiore di antichi eroi, che un dolore giustissimo spinge contro il nemico e t:he Mesenzio infiàmma di sacrosanta rabbia, a nessun uomo d'Italia è concesso raccogliere sotto di sé tanta gente: scegliete un capo straniero! - . Allora l'esercito [etrusco si fermò in questi campi, temendo il volere divino. Lo stesso Tarconte ha mandato ambasciatori da me con la corona regale e lo scettro, mi affida le insegne del cçmando e vorrebbe che andassi al suo campo assumendo il potere supremo. Ma la vecchiaia gelida e tarda, i troppi anni e le forze inadatte ormai a grandi imprese mi rendono incapace. Manderei il mio Fallante se non fosse italiano a metà, di madre sabella. Tu, che hai la stirpe e l'età voluta dai Fati, tu, chiamato dai Numi, fatti avanti, fortissimo condottiero dei Teucri e delle schiere italiche! Parò venire con te il mio Fallante, mia sola Mesenzio, Evandro ne racconta uno solo, ma di una ferocia incredibile. L'atroce tormento era in uso presso i pirati etruschi (lo si legge nell'« Hortensius », fr. 95 M., di Cicerone), e Virgilio,
che certamente aveva letto l'efferata notizia, l'attribui a Mesenzio. 578-6oo. Enea, ti farò capo, ecc.: Evandro non ha alcun potere di nominare Enea comandante dell'eser·
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cito etrusco, ma il vecchio e saggio re vuol dire che, in seguito a quello che gli rivelerà subito dopo, egli sarà il capo degli Etruschi decisi a vendicarsi delle efferatezze del loro re Mesenzio e di Turno che lo protegge. - Le navi adunate, ecc.: Cere non è lontana dal mare, e gli Etruschi si propongono di raggiungere Ardea, la capitale dei Rutuli, per mare. Nota come l'impazienza degli uomini sia attribuita alle navi; ma gli uomini sono già sulle navi e uomini e navi costituiscono nell'immagine del poeta una cosa sola. ma un vecchio aruspice, ecc.: un vecchio indovino riesce però a trattenere gli Etruschi impazienti di vendetta. Prima d'iniziare un'impresa qualsiasi gli antichi ricorrevano agli aruspici che, esaminando le viscere degli animali sacrificati oppure osservando il volo degli uccelli, predicevano il futuro; e l'aruspice, cui gli Etruschi, prima di salpare, erano ricorsi, aveva dichiarato giustissima la guerra che volevano intraprendere, ma aveva anche detto che, per avere la certezza della vittoria, il comandante dell'esercito doveva essere uno straniero. con la corona regale e lo scettro, ecc.: corona e scettro sono le insegne del supremo comando dell'esercito in guerra, non del potere politico su tutta l'Etruria. se non fosse italiano a metà: Pallante è di sangue misto, essendo nato da una sabina (sabella). 601-602. il mio Pallante, mia sola, ecc.: nota con quanta efficacia Virgilio esprima l'affetto del vecchio
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re per il suo giovane figlio. 603-605. s'abitui a sopportare, ecc.: Evandro ha molta fiducia in Enea, e gli affida, come ad un padre e ad un maestro, il suo unico figlio. La stima e la simpatia che il vecchio re ha dimostrato verso l'eroe troiano fin dal loro primo incontro, sono andate crescendo sempre più, ed ora egli sigilla il patto d'alleanza ponendo tra sé ed Enea, come pegno d'amicizia, il proprio figlio. 6o7-6o8. Pallante ne darà, ecc.: Evandro e per l'età e per l'affetto aveva già associato Pallante nelle responsabilità del piccolo regno; e gli aveva anche concesso di possedere un piccolo esercito. Ora, con velata compiacenza lo comunica indirettamente ad Enea. PARTENZA DI ENEA CON P AtLANTE E PIANTO DI EVANDRO (6o9-68z). - Compiuti i
sacrifici rituali, Enea si appresta a partire. Sceglie i compagni che lo seguiranno in Etruria e rimanda al campo gli altri. La notizia della guerra si diffonde nella piccola città arcade; le madri piangono e pregano; Evandro, salutato Enea, abbraccia il figlio, oppresso da un triste presagio; e per l'angoscia sviene. I servi lo portano in casa. Le schiere degli armati partono, e il più bello è il giovinetto Pallante. 61o-6u. preoccupati da molti, ecc.: le proposte di Evandro, fatte con tanta espansione, commuovono e nello stesso tempo preoccupano Enea e l'indivisibile amico Acate: li commuove
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consolazione, mia sola speranza, che sotto di te s'abitui a sopportare la milizia e le gravi fatiche di Marte, s'abitui a vedere il tuo esempio e le tue gesta e ti ammiri sin dai primi suoi anni. Io gli darò duecento Arcadi scelti, a cavallo, fiore di giovenru, Pallante ne darà a te altrettanti come suo proprio contributo ».
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C..osf Evandro parlò, Enea e il fido Acate tenevano lo sguardo a terra, preoccupati da molti gravi pensieri e non dicevano nulla. Ma Venere diede un segno nel cielo senza nubi. Un improvviso lampo con fragore di tuono venne dal cielo, subito sembrò che tutto crollasse e che uno squillo di tromba etrusca muggisse nell'aria. Guardano in alto, ed ancora risuona l'immenso fragore: una nuvola d'armi balena nel cielo sereno, rintronano cozzando. Stupirono tutti, ma Enea riconobbe l'augurio della madre divina.
la dimostrazione d'amicizia e di ~tima superiore alla stessa loro attesa; li rende pensosi il significato dell'oracolo che impone agli Etruschi un duce straniero e forse li preoccupa la responsabilità del giovane Pallante, affidato dal padre con tanta fiducia all'eroe troiano. 612-619. Ma Venere diede un segno, ecc.: a togliere Enea ed Acate dai loro pensieri interviene Venere con un lampo fragoroso a cielo sereno, simbolo di assenso divino. All'improvviso sembrò che tutto crollasse, e si udl nell'aria un suono di tromba etrusca, segno evidente che Enea doveva recarsi per volere degli dèi nell'accampamento etrusco. « Molti gravi pensieri » traducono l'espressione del testo la-
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tino « multa dura » (molte dolorose cose), assai semplice, ma densa di significato, poiché con la sua imprecisione crea un'atmosfera d'infinito stupore, che nessuna sfumatura indicante preoccupazione può rendere. 617-629. una nuvola d'armi balena: dopo il lampo, il tuono e il suono della tromba, e<:co nel cielo sereno una nube che fa da sfondo ad un cumulo d'armi scintillanti e rumorose. L'apparire di armi nel cielo è un prodigio dei più comuni per gli antichi, ma qui l'immagine virgiliana ha qualche cosa di vago, di irreale che dà all'insieme della rappresentazione il senso di qualche cosa d'infinito e d'ineluttabile; perciò Enea, mentre gli · altri rimangono stupiti,
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E ric;ordando disse: «Non domandare, no non domandare che eventi annunzi questo prodigio: sono chiamato dal Cielo. La Dea mia madre predisse che in caso di guerra mi avrebbe dato un simile segno e che mi avrebbe portato in aiuto le armi di Vulcano, per l'aria ... Ahimé, quante stragi sovrastano i miseri Laurentini! Come ne pagherai il fio, Turno! Quanti elmi e scudi e forti c;orpi di eroi travolgerai, padre Tevere! Chiedano pure guerra rompendo gli accordi!» Ciò detto si levò dall'alto seggio e prima attizzò il fuoco agli altari d'Ercole, poi lietamente s'accostò ai Lari onorati il giorno prima e ai Penati picc:oli; insieme a lui Evandro e la giovenru troiana immolarono pecore scelte sec:ondo il rito. Poi di là s'incammina alle navi e ritrova i compagru. Tra loro sceglie i piu valorosi che lo seguano in gue...-ra; gli altri li porta l'acqua in favor di corrente e scendono senza fatica lungo il fiume, che arrivino ad Ascanio portando notizie di suo padre e degli avvenimenti. Gli Arcadi danno ai Troiani che vanno in terra d'Etruria dei cavalli: ne portano uno sceltissimo ad Enea, c:operto interamente della fulva pelliccia splendente d'un leone, cogli artigli dorati. Subito per la picc:ola città corre la voce che i cavalieri partono in fretta per le mura del re tirreno. Le madri raddoppiano le preghiere sgomente, la paura aumenta col pericolo e Io spettro di Marte sembra loro piu grande. riconosce in quel segno le promesse della madre Venere. Di queste promesse parlerà tra poco Enea. Chiedano ... gli accordi: intendi: impareranno cosi a provocare a tutti i costi la guerra, rompendo i patti giurati. Ma l'esclamazione non è ironica; è piuttosto l'espressione di uno sdegno soddisfatto; e non è neppure rivolta a Latino, ma a Turno, cui deve essere attri-
buita la colpa se l'alleanza stretta fra Latino ed Enea è stata infranta. Nel complesso sono quindi parole che concordano con quelle sarcastiche di Aletto a Giunone (VII, 619 sgg.) c con quelle desolate del re Latino rivolte al popolo insorto per far la guerra ad Enea (VII, 673 sgg.). 632. onorati il giorno prima: il giorno prima, Enea, appena entrato, aveva com-
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piuto il suo dovere di ospite con un sacrificio in onore dei Lari ed anche dei Penati, che Virgilio dice piccoli, perché piccola è la casa ospitale e povero il padrone Evandro. 636-640. Tra loro sceglie, ecc:: confortato dalla certezza che gli ultimi eventi divini e umani gli hanno infuso nell'animo, Enea vede ora con chiarezza quello che deve fare, e rapidamente lo attua: sceglie coloro che lo dovranno accompagnare nel viaggio in Etruria e manda gli altri con le due navi al campo costruito alla foce del Tevere, con l'incarico di raccontare le cose fatte e di comunicare le sue istruzioni. 645-649. Subito per la piccola città, ecc.: la notizia della partenza per la città etrusca di Enea e di Pallante con quattrocento cavalieri, si propaga rapidamente nella piccola città. Nota come intorno ad Evandro tutto sia modesto, povero, piccolo: ora la città, prima il senato, la casa, gli stessi Penati. - Le madri raddoppiano le preghiere, ecc.: le madri pregano sempre per i loro figliuoli, ma ora che essi partono, e i pericoli aumentano e più grandi ancora sembrano a loro quelli della guerra, raddoppiano le preghiere. « Il particolare presentato parcamente - annota E. V. Marmorale - ha nell'insieme un impressionante significato corale ». lo spettro di M arte, ecc.: intendi: alla fantasia delle madri, eccitata dalla paura, l'immagine della guerra (lo spettro di Marte) appariva più grande, cioè alle madri
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sembrava di vedere i loro figli già combattere.
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654. sotto le mura di Preneste: all'assedio di Prene-
ste (ora Palestrina). 6;;6-657. diedi fuoco ... di scudi: l'uso romano di bru-
ciare in onore di Vulcano gli scudi tolti ai nemici ebbe iniao con Tarquinio Prisco; Virgilio invece lo attribuisce anche al tempo di Evandro. 658-66 3. il re Erulo : gli antichi commentatori non dicono nulla di que~to re, e si pen~a quindi che il nome sia invenzione di Virgilio. La figura di questo re appare una reincarnazione di Gerione, ucciso da Brcole, con la differenza che invece di tre corpi aveva tre anime, quindi tre vite; ed Evandro, perché morisse, dovette ucciderlo tre volte. - La madre Feronia: divinità e ninfa italica del Lazio nuovo (la parte della Campania aggregata al Lazio). - queste mie mani: già nel verso 656 il vecchio re aveva indicato espressamente le sue mani un tempo vigorose, ora tremanti; ed ora ripete il gesto che potrebbe sembrare un atto ingenuo di superbia, ed è invece la commovente costatazione di una realtà. 665-667. e mai Mesenzio, ecc.: sono versi, questi, d'in-
terpretazione incerta. Tutti i commentatori antichi e moderni interpretano il passo dicendo che Evandro senti le efferate prodezze di Mesenzio come un insulto alla sua persona e al suo regno; e con tale interpretazione onorano indubbiamente l'alto senso morale del vecchio re. Ma qualche critico più recente ha osservato che l' attribuire ad Evandro la vo-
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Allora il padre Evandro stringendo la mano del figlio che se ne va, lo serra piangendo contro il petto senza saziarsi di lagrime e gli dice: « Se Giove mi restituisse gli anni trascorsi, mi facesse qual'ero quando sotto le mura di Preneste la prima .schiera nemica abbattei e vittorioso diedi fuoco in onore degli Dei a grandi mucchi di scudi! Allora spedii con le mie mani all'Inferno il re Erulo a cui (orrendo a dirsi) la madre Feronia aveva dato nel nascere tre anime: bisognava assalirlo con tre armi, tre volte stenderlo nella morte. Ed allora tre volte gli strapparono l'anima queste mie mani, tre volte lo spogliai delle armi. Se fossi quello d'allora, figlio mio, in nessun modo mi staccherei dall'abbraccio tuo dolce, e mai Mesenzio, insultandomi, avrebbe causato con le armi tante morti crudeli, vedovando la patria di tanti cittadini! Ma voi, Celesti, e tu Giove, massimo re degli Dei, abbiate pietà, vi prego, di questo arcade re, accogliete i voti d'un padre. Se il vostro volere e i Fati mi conservano incolume Fallante, se vivo per rivederlo e riunirmi con lui, vi chiedo ancora vita e accetto qualunque travaglio. Ma se tu Fortuna minacci qualche sciagura indicibile, mi sia accordato subito, oh subito, di spezzare questa vita crudele: subito, finché incerta è la speranza, incerti i timori, finché io ti tengo abbracciato, caro figlio, mia sola
lontà di intromettersi negli affari interni di un altro stato, sembra alquanto impropria e arbitraria, mentre giudicano che sia più consono al personaggio e all'insieme dei fatti l'interpretare il passo dicendo che Mesenzio, rifugiatosi presso Turno, con il quale Evandro era costantemente in guerra, abbia assalito più volte con scorrerie il Pallanteo uccidendo molti cittadini. 676. subito, finché incerta,
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ecc.: intendi: se gli ùèi han-
no deciso che mio figlio non ritorni, vorrei che questa mia vita finisse in questo momento, quando il mio cuore oscilla ancora tra la speranza e il timore. Non saprei sopportare una notizia funesta. « Il discorso di Evandro è di un'accorata, infinita bellezza, e una delle cose più alte della poesia di tutti i tempi. Il sentimento del poeta vi si adagia e si esprime con assoluta perfezione
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tarda consolazione; che una notizia funesta non mi ferisca le orecchie!». Nel supremo distacco il padre Evandro diceva queste parole dolenti: i servi lo riportarono nella sua casa, svenuto.
Enea nel paese degli Etruschi riceve le armi fabbricate da Vulcano Intanto i cavalieri erano usciti già dagli aperti battenti della rocca, trottando 685
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per i campi: tra i primi c'era Enea con Acate e gli altri capi troiani, nel mezzo della schiera cavalcava Pallante e spiccava su tutti, lontano, per la clamide e le armi dipinte: come quando Lucifero, prediletto da Venere fra tutti i fuochi degli astri, stillante dell'onda dell'Oceano ha levato la sacra fronte nel cielo dissolvendo le tenebre. Sulle mura le madri stanno in ansia, paurose, e seguono con gli occhi la nuvola di polvere, le squadre splendenti di bronzo. Gli armati prendon la via piu breve, attraverso la mac[chia: s'alza un grido e serrate le schiere, in cadenza, gli zoccoli rimbombano sul suolo polveroso. Presso il gelido fiume di Cere c'è un gran bosco sacro per tradizione in tutta la contrada: da ogni parte lo chiudono i colli e neri abeti di tono e con temperanza di rattenuta commozione e di virilità. Anche Il dove il poeta è inferiore a se stesso (ed è inferiore a se stesso per colpa del canone indiscusso della poetica del tempo, l'imitazione, che imponeva il ricordo di metodi e situazioni americhe), il suo sentimento non tace, e se il ricordo dell'uccisione di Erolo è abbastanza fuori posto per la nostra sensibilità, esso giova tuttavia a presentarci Evandro animato virilmente, anche nell'estrema
vecchiezza, di un sen~o profondo di dignità che si rivela nelle parole usate verso il nemico Mesenzio » (E. V. Marmorale). ENEA NEL PAESE DEGLI ETRUSCHI RICEVE LE ARMI DA VULCANO FABBRICATE
(683-729). - Enea e i suoi,
arrivati in Etruria nelle vicinanze di Cere, scorgono dalla cima di un colle le tende dell'esercito etrusco, e vi si accostano. Fermatisi per riposare, Enea si apparta in una valletta, ed ecco che gli
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si presenta la madre Venere, la quale depone al piede di una quercia la divina armatura, perfetta opera dell'arte di Vulcano e, abbracciandolo, lo incoraggia ad assalire in battaglia senza esitare « i Laurentini superbi e il bellicoso Turno». 687-694. cavalcava Pallante, ecc.: il poeta pone in risalto la figura di Fallante collocandola nel posto d'onore riservato ai più forti guerrieri (nel mezzo della schiera), ove si distingueva anche per la clamide (veste propria dei cavalieri) e per le armi dipinte, com'era costume degli Arcadi. E per rendere più fulgente di bellezza l'immagine dell'eroe giovinetto, Virgilio, che fin dal suo primo apparire sulla scena del poema, ha dimostrato per lui una particolare predilezione, gli dedica una similitudine che, pur derivata da Omero, egli ha trasformato in un'immagine più intima e liricamente aderente alla sua figura, cosi che fu preferita dal Foscolo quando nell'ode «All'amica risanata » ebbe bisogno di esprimersi con la stessa im· magine: «Qual dagli antri marini - l'astro più caro a Venere - co' rugiadosi crini - fra le fuggenti tenebre appare, e il suo viaggio orna col lume dell'eterno raggio» (x-6).- Lucifero: è il pianeta Venere, chiamato Lucifero nei sei mesi in cui avanti l'alba appare ad oriente, Espero negli altri sei mesi in cui dopo il tramonto è visibile ad occidente. 697. il gelido fiume eli Cere: il nome è taciuto, ma pare che si tratti del Mi-
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nio, oggi Mignone, che sarà nominato nel canto X, v. 233· 701. Pelasgi: popolo antichissimo, che dall'Oriente si sarebbe diffuso, secondo Omero, in Tessaglia, secondo autori posteriori in tutta la Grecia e secondo altri anche in Italia. Ora si pensa che i Pelasgi abitassero l'intera Europa prima dell'arrivo degli indoeuropei. 704. Silvano: dio delle selve, dei boschi, delle campagne e in seguito, quando fu confuso con Fauno, anche del bestiame. 70::;. T arconte e i suoi Tirreni: a Tarconte, re degli Etruschi (Tirreni), è attribuita la fondazione di Tarquinia e di altre città, e quindi anche di Cere, più anticamente chiamata Agilla. 711. discese tra le nuvole: non sono nubi, ma l'aureola di sottile e impalpabile nebbia rilucente, in cui gli antichi immaginavano che apparisse la divinità. 717. i Laurentini superbi: i Latini che si erano ribellati al proprio re, pur di muovere guerra ad Enea e ai suoi Troiani. 724. la spada fatale: la spada, che è causa di morte. In latino « fatum », il fato, ha spesso lo stesso significato di « letum », la morte. 728. i lisci schinieri, ecc.: specie di gambali destinati a coprire la parte anteriore della gamba, dal ginocchio al piede, ed et·ano di metallo prezioso; qui d'oro e di elettro, che è una lega di tre parti d'oro e una d'argento.
Lo SCUDO DI ENEA CON EFFIGIATA LA STORIA DI RoMA (73o-8::;o). - L'artefi-
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lo cilcondano. Si dice che gli antichi Pdasgi, i quali occuparono un tempo per primi le terre latine, avessero consacrato con una festa annuale quella foresta a S~ano, Dio del bestiame e dei campi. Non lontano da li Tarconte e i suoi Tirreni si accampavano in forte posizione: dal colle si poteva vedere l'insieme dell'esercito che si attendava in un vasto settore di campagna. Il padre Enea e la sua scelta giovenru si dirigono nd bosco per riposarsi e far riposare i cavalli. Intanto Venere, splendida, discese tra le nuvole recando le armi stupende: appena vide il figlio nella vallata solitaria presso il gelido fiume gli si mostrò e gli disse: « O figlio, eccoti i doni promessi, perfetta opera dell'arte di Vulcano, non esitare piu a assalire in battaglia i Laurentini superbi e il bellicoso Turno! » Quindi la Dea abbracciato il figlio depose le armi raggianti contro il piede d'una quercia vicina. Enea, lieto dei doni e dell'onore grande, non può saziame lo sguardo e gira gli occhi qua e là ammirando ogni singolo pezzo: volta e rivolta tra le mani il grande dmo dalla criniera terribile ·che sembra sprizzare fiamme, la spada fatale e la corazza rigida di bronzo, balenante di splendori rossicci, come quando una nube s'infiamma ai raggi del sole e risplende lontano; accarezza i lisci schinieri d'oro e dettro forgiato, la lancia e lo scudo istoriato di scene inenarrabili.
Lo scudo di Enea istoriato con episodi della storia di Roma no
Vulcano, non ignaro dei vaticini e conscio
ce divino ha scolpito con arte insuperabi!e sullo scudo di Enea i fatti più salienti della storia di Roma: la lupa che allatta Romolo e Remo; il ratto delle Sabine; il supplizio di Mezio Fu/ezio; l'assedio di Porsenna con gli
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episodi eroici di Orazio Coclite e di Clelia; i Galli che assaltano il Campidoglio; le danze dei Salii e la processione dei Luperci e dei Flamini; Catilina fJel T artaro e Catone nei Campi Elisi. Queste figurazioni sono disposte
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dell'avvenire, vi aveva rappresentato la storia d'Italia e i trionfi di Roma, con tutte le guerre in ordine di tempo, con tutte le stirpi future a partire da Ascanio. Vi aveva effigiato la lupa fresca di parto distesa per terra nel verdè antro di Marte. Intorno alle mammelle i due getnelli giocano, succhiando i suoi capezzoli come fosse una madre, senza nessun timore; la lupa volgendo la testa lecca ora l'uno ora l'altro e liscia con la lingua i loro corpi nudi. Un po' piu in là c'era Roma e le Sabine rapite nel Circo, contro il diritto civile, mentre assistevano ai giandi giochi. Nasceva da questo ratto una guerra tra i Romulidi e il vecchio Tazio e gli austeri Sabini. Dopt>, sospe$8la guerra, davanti all'ara di Giove stavano armati i due re tenendo in mano le tazze, sacrificata una scrofa si univano in alleanza. Ed ecco le veloci quadrighe che hanno squartato Mezio Fufezio, tirandola in direzioni opposte (fossi rimasto fedele, Albano, alla tua parola!):
in sette riquadri in una zona circolare limitata dall'orlo dello scudo. La parte centrale, rilevata, è occupata dalla scena della battaglia di Azio e da quella del trionfo di Ottaviano. Enea, benché non comprenda il significato di quelle figurazioni, ammira l'opera meravigliosa e indossa orgoglioso le armi, dono di sua madre V enere. 731. vi aveva rappresentato, ecc.: per comprendere la descrizione delle figurazioni scolpite da Vulcano, è necessario immaginare uno scudo di forma circolare, formato di una fascia esterna, che corre intorno ad una zona più rilevata centrale. Sulla fascia circolare esterna sono scolpiti: la lupa che allatta Romolo e Remo, il ratto
delle Sabine, il supplizio di Mezio Fufezio, l'assedio di Porsenna e gli eroici episodi di Orazio Coclite e di Clelia, i Galli che assaltano il Campidoglio, le danze dei Salii e la proce~sione dei Luperci e dei Flamini, Catilina punito nel Tartaro e Catone onorato nei Campi Elisi; sulla zona centrale, in rialzo sul resto, sono raffigurati in tre scompartimenti: la battaglia d'Azio in quello centrale, il N ilo che riceve la fuggiasca Cleopatra in quello di sinistra, il trionfo di Augusto in quello di destra. Gli episodi della fascia esterna, che riflettono la storia di Roma dopo Ascanio, completano la rassegna del canto VI. L'unica figurazione comune alla rassegna e allo scudo è quella di Augusto,
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collocata nei tre settori della zona centrale rilevata. Nell'ideare la collocazione delle sculture, Virgilio ha tenuto presente la descrizione omerica dello scudo d'Achille (Il., XVIII, 482 sgg.) e quella dello scudo di Ercole (vv. I3o-331) attribuita ad Esiodo; ma qui, come in altri passi comuni ad altri poemi, specialmente omerici, Virgilio ha animato la sua descrizione ponendo in essa il senso profondissimo ch'egli aveva della grandezza di Roma e della sua missione storica nel mondo, ed ha cosl creato una nobile ed altissima poesia, mentre le descrizioni di Omero e di Esiodo « sono puramente ornamentali. Varia quindi il tono, che in poesia è tutto » (Marmorale). 736. nel verde antro di Marte: il Lupercale, in cui la lupa, secondo la tradizione, avrebbe allattato i gemelli Romolo e Remo (v. 40o-401). 741. Roma e le Sabine, ecc.: il secondo bassorilievo rappresenta ìl ratto delle Sabine, la guerra contro Tito Tazio e infine la pace. Il ratto famoso avvenne contro ogni diritto, ma la guerra che ne segul si concluse con la fusione dei due popoli. 749· Mezio Fu/ezio: la terza scena è il supplizio di Mezio Fufezio (o Metto Fuffezio), capo degli Albani, il quale durante il regno di Tullo Ostilio, venuto in aiuta dei Romani nella guerra contro Fiden~, passò ai nemici, ma poi catturato, fu fatto squartare. 750. fossi rimasto fedele, ecc.: sono parole del poeta che, impressionato dalla pe-
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na orrenda, si rivolge direttamente al traditore sottolineando la gravità della sua colpa ed attenuando cosi l'atrocità del supplizio. 752-759. più in là Porsenna, ecc.: segue il quarto episodio di storia romana: Porsenna, re di Chiusi, muove guerra ai Romani per rimettere sul trono Tarquinio il Superbo, ma la città si difende valorosamente, e sullo scudo sono effigiati i famosi eroismi di Orazio Coclite e di Clelia. - Eneadi: i Romani, discendenti di Enea. - Coclite: Orazio Coclite. L'episodio è noto: gli Etruschi, occupato il Gianicolo, stavano per irrompere nella città attraverso il ponte Sublicio, ed egli li seppe da solo tenere a bada, dando ai Romani il tempo di tagliare il ponte alle sue spalle. Precipitato con il ponte nel fiume, si salvò raggiungendo a nuoto l'altra riva. - Clelia: l'eroica giovinetta che, data in ostaggio agli Etruschi, riuscl a fuggire con !e sue compagne e, attraversato a nuoto il Tevere, raggiunse Roma. I Romani, fedeli ai patti, la rimandarono a Porsenna, ma il re etrusco volle premiare il coraggio della fanciulla con la libertà. Si presume, però, che gli episodi di Orazio Coclite, di Clelia e quello di Muzio Scevola, non ricordato sullo scudo di Enea, siano stati creati dalla" fantasia del popolo, per attenuare le conseguenze della guerra contro gli Etruschi, che fu probabilmente sfortunata. 759-772. Manlio, custode della rocca T arpea: il quinto episodio è dedicato a Tito
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e Tullo faceva disperdere per la selva le membra di quello spergiuro, fra sterpi arrossati di sangue. Ancora piu in là Porsenna ordinava di accogliere l'espulso Tarqulnio, stringendo d'assedio la città: gli Eneadi combattevano per la propria libertà. E avresti potuto vedere quel re in atto di sdegno e di minaccia perché Coclite osava distruggere il ponte e Qelia, &peDate le catene, passava il fiume a nuoto. In cima allo scudo Manlio, custode della rocca Tarpea, presidiava la parte piu alta del Campidoglio, stando davanti al tempio: la nuova reggia era ancora coperta da un tetto di stoppie come al tempo di Romolo. E qui un'oca d'argento volando per i portici dorati gridava che i Galli erano già alle porte. I Galli s'avvicinavano per una rupe a picco coperta di cespugli e stavano per occupare già la rocca, difesi dal buio, dalla fortuna di un'oscurissima notte: capelli e vesti d'oro, tuniche a liste splendenti, bianchi colli cerchiati di dorate collane;
Manlio, che salvò il Campidoglio (rocca Tarpea) dai Galli, che ne avevano tentata la scalata, e fu poi chiamato Capitolino. - davanti al tempio: davanti al tempio di Giove Capitolino, costruito sulla più alta delle due cime del Campidoglio. la nuova reggia: sul Campidoglio Romolo aveva costruito la sua reggia, molto venerata dai Romani: una capanna di paglia ricoperta di canne, che dovevano essere sostituite man mano che marcivano. Perciò « nuova » deve intendersi «con il tetto rinnovato da poco tempo ». - E qui un'oca d'argento, ecc.: nel quinto episodio era effigiata anche un'oca con le ali aperte, che Vulcano aveva fatto d'oro (lo scudo ere tutto d'oro e d'argento) in atto di svolazzare per i portici. Con questo partico-
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lare Vulcano aveva voluto ricordare il contributo decisivo dato dalle oche alla difesa del Campidoglio, perché furono proprio. le oche di Giunone che, schiamazzando (le oche quando schiamazzano aprono le ali e corrono come volessero volare), svegliarono Manlio, il quale poté dare l'allarme e respingere i Galli. In memoria del fatto i Romani posero sul Campidoglio un'oca d'argento. - alle porte: quasi sulla rocca, come dirà subito dopo. - capelli e vesti d'oro ... splendenti: Virgilio ha fatto cesellare da Vulcano in oro la chioma dei Galli, ai quali attribuisce i capelli biondi dei Germani; e d'oro anche le tuniche (vesti), che s'intravedevano sotto i mantelli, mentre questi (tuniche) sono a righe di porpora. - bianchi colli... collane: i Galli so-
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ndle mani d'ognuno due giavellotti alpini sprizzano lampi, scudi lunghi proteggono i corpi. Piu in là Vulcano aveva scolpito le danze dei Sali, i nudi Luperci, i pennacchi di lana, gli scudi caduti dal cido; le caste matrone guidavano per la città su cocchi di gala le immagini divine. E c'era il Tartaro triste, la reggia profonda di Dite, i supplizi e le pene, e tu Catilina sospeso a un minaccioso sasso, atterrito dalle Furie; a parte c'erano i giusti ai quali Catone dà leggi. In mezzo allo scudo, nel centro di tutte queste visioni, lungamente si distendeva l'immagine tutta d'oro levano portare collane intorno al collo, che Virgilio dice "bianco"; ed infatti anche Tito Livio pone in . evidenza l.1 bianchezza della carnagione dei Galli (1. XXXVII, 21, 9). - giavellotti alpini: aste pesanti usate dalle popolazioni alpine; e i Galli abitavano anche le Alpi. scudi lunghi: gli scudi dei Galli erano rettangolari e lunghi quanto 1.! persona, ma stretti. 773-776. le danze dei Salii, ecc.: nel sesto riquadro interamente riservato alla religione, erano effigiati i Salii, sacerdoti di Marte, la cui istituzione si faceva risalire a Numa Pompilio, e i Luperci, sacerdoti di Fauno Luperco, ai quali era affidata la celebrazione dei « Lupercalia ». Durante questa festa, che si celebrava il J 5 febbraio, i sacerdoti Luperci, sacrificati dei capri a Fauno, correvano per la città nudi con una pelle ai fianchi e, con strisce ricavate dalle pelli dei capri immolati, percuotevano la gente, specialmente le donne, che si offrivano ai loro colpi credendo
che essi favorissero la maternità. - i pennacchi di lana: nello stesso riquadro erano effigiati anche i flamini di Giove, Marte e Quirino, i quali portavano berretti conici guarniti di un fiocco di lana. - gli scudi caduti dal cielo: insieme con i collegi sacerdotali era effigiata nello stesso riquadro anche la leggenda della caduta dal cielo, al tempo di Numa Pompilio, dello scudo di Marte, alla cui conservazione, secondo gli oracoli, era legata la futura grandezza di Roma. Il re, perché non fosse rubato, ne fece allora costruire altri undici uguali e isti tul il sacerdozio dei Salii, cui li diede in custodia in un santuario del Palatino. I Salii li portavano nel mese di marzo in processione per la città cantando e danzando. - le caste matrone, ecc.: nel riquadro dedicato alla religione erano visibili anche le matrone che, su cocchi lussuosi, portavano per la città gli arredi sacri e le immagini degli dèi. 777-780. E c'era il Tartaro, ecc.: il Tartaro è di. solito il luogo del regno sot-
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terraneo in cui sono puniti i malvagi; ed ecco allora in questo settimo riquadro effigiato Catilina sotto un enorme masso, con l'incubo di vederselo cadere addosso, e tormentato per di più dal terrore delle Furie che lo perseguitano come matricida. Catilina è scelto a simbolo degli scellerati, perché osò prendere le armi contro la patria per distruggerla. Naturalmente Virgilio vede Catilina con l'occhio di Cicerone, ma la sua figura di scellerato e di ribelle patricida è stata dalla critica più recente ridimensionata in quella di vittima sfortunata, sotto alcuni aspetti, della politica dominante. - ai quali Catone, ecc.: evidentementemente qui è Catone Minore, detto l'Uticense, ricordato dalla storia per la sua i ntegrità morale, l'amor di patria, l'ossequio alle leggi e il rispetto delle virtù ci vili. Per amore della libertà, che vedeva calpestata da Cesare dittatore, si uccise; e Dante fece di lui il custode del Purgatorio. 781-797· In mezzo allo scudo, ecc.: di qui ha inizio la descrizione delle figurazioni della parte centrale dello scudo, tutte dedicate all'esaltazione di Augusto. La prima è la battaglia d'Azio, combattuta nel 3 r a. C. tra la flotta di Ottaviano e quella di Antonio e Cleopatra. La descrizione è "molto bella, e Torquato Tasso, traducendola liberamente dal testo latino, la finse scolpita sulle porte del palazzo d'Armida (Ger. Lib., XVI, 4-71 ). -l'immagine tutta d'oro, ecc.: tutto lo spazio del quadretto è occupato dal ma-
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re cesellato in oro, ma con le onde argentee sulla cresta, per indicare i flutti che si elevano spumosi sulla superficie agitata (tesa). - l'intero mare di Leucade: il promontorio di Leucade, all'estremità sud-ovest dell'isola omonima (oggi S. Maura), è abbastanza lontano dal luogo della battaglia, che fu combattuta presso Azio, all'imboccatura dell'attuale golfo di Arta; ma il poeta ricostruisce la scena con la .fantasia. - Di qua Cesare Augusto, ecc.: intendi: nel quadretto della battaglia d'Azio, da una parte (di qua) è effigiata la flotta di Augusto, dall'altra. parte (laggiù ecco) quella di Antonio; e sulla poppa di una nave della flotta di Augusto appare in piedi lo stesso Cesare Augusto (il titolo di Augusto gli fu, però, decretato quattro anni dopo, nel 27 a. C.); su di un'altra nave (di là), ma potrebbe essere anche in un'altra parte della stessa nave del principe, è visibile Agrippa, il comandante della flotta. Cesare Augusto, sul cui viso (tempie) sprizza vigore giovanile (fiamme di gloria) e sul capo brilla la stella del padre (allude alla cometa che, apparsa a settentrione durante i funerali di Giulio Cesare, fu creduta la sua anima assunta in cielo dagli dèi), ha intorno a sé il senato, il popolo, gli dèi della patria, che rappresen-' tana l'autentico stato romano. E l'immagine spiegherebbe l'apprensione, che dovette provare Virgilio di fronte alla minaccia rappresentata, nell'imminenza della battaglia, da Antonio, alleato di Cleopatra, e dall'Oriente
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del gonfio mare: la tesa superficie cerulea spumeggiava di candidi flutti e tutto all'intorno delfini d'argento lucente saltavano sopra le acque. Ecco due flotte di bronzo, la battaglia di Azio: si vedeva l'intero mare di Leucade fervere sotto l'impeto delle navi che volavano alla zuffa e il flutto splendere d'oro. Di qua Cesare Augusto, in piedi sull'alta poppa coi senatori, i Penati e i grandi Dei protettori, incita gli italiani: le tempie fortunate sprizzano fiamme di gloria, sopra il suo capo brilla la stella familiare. Di là Agrippa, la testa eretta, su cui splende la corona rostrata, insegna di valore, conduce la sua armata col favore dei venti e degli Dei. Laggiu ecco Antonio, coi barbari del suo esercito, armati ed armi d'ogni sorta: tornato vincitore dal Mar Rosso e dai popoli dell'Aurora conduce con sé l'Egitto, le forze
Mediterraneo, contro Roma e contro la civiltà latina. la corona rostrata: Marco Vipsanio Agrippa meritò la corona rostrata, di cui nessuno prima di lui fu onorato, vincendo nel 36 a. C. Sesto Pompeo, figlio di Pompeo il Grande, nelle acque della Sicilia. - Laggiù Antonio, ecc.: « laggiù » corrisponde al « di qua » del verso 789 le due flotte sono infatti rappresentate già schierate l'una contro l'altra. Perciò intendi: dall'altra parte della scena è Antonio con i suoi soldati stranieri (« barbaro » è appellativo che Greci e Romani davano ai popoli che parlavano una lingua diversa, cioè né greca, né latina. Antonio non ha sulle navi solda ti deli'esercito regolare romano, ma ausiliari e mercenari di provenienze diverse. È la prima cosa che Virgilio pone in evidenza per dimostrare che non si
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tratta di una guerra civile, ma di un conflitto contro stranieri che minacciano la libertà di Roma al comando di Antonio, unico romano fra loro. Ed infatti i soldati di Antonio sono variamente armati, secondo i paesi di provenienza, dai quali egli era ritornato vincitore: dalle terre bagnate dal Mar Rosso, dai paesi orientali (dell'Aurora, ave aveva vinto gli Armeni e i Parti), dalla Battriana (provincia settentrionale dell'antico impero persiano ai confini dell'India); ed aveva con sé anche i soldati d'Egitto insieme con Cleopatra, loro regina. I Romani erano contrari che le donne accompagnassero gli uomini alla guerra, e Virgilio qui non riprova tanto il matrimonio di Antonio con Cleopatra, quanto (e lo mette in risalto con disprezzo) ch'egli le abbia consentito di seguirlo in guerra.
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d'Oriente, la BattrMma lontanissima, estrema, e lo segue (che infamia!) la consorte egiziana. Tutte le forze cozzano insieme, il mare spumeggia sconvolto da tanti remi e dai rostri a tre punte. Prendono il largo: diresti che le Cicladi navighino per il mare divelte dal fondo, o che alte montagne corrano contro montagne, tanto enorme è la massa delle poppe turrite da dove i guerrieri s'affrontano. A mano si getta la stoppa accesa, coi dardi volanti il ferro, il mare rosseggia di una strage mai vista. In mezzo alla lotta Oeopatra aizza le schiere col sistro e non vede i due serpi che già le sono alle spalle. Mostruosi Dei d'ogni sorta e il cane Anubi che latra combattono contro Minerva, Venere, Poseidone; Marte, scolpito nel ferro, infuria in piena battaglia insieme alle tristi Furie scese a volo dal cielo; ed accorre felice la Discordia, col manto stracciato, Bellona brandisce la frusta insanguinata. Apollo d'Azio infine tendeva l'arco dall'alto: per timore di lui l'Egitto, gli Indiani, tutti i Sabei e gli Arabi si davano alla fuga. 805·808. Prendono il largo, ecc.: dai luoghi rispetti· vamente occupati vicino alla costa, le due flotte si avviano verso il mare aperto per lo scontro; e Virgilio, per rendere l'immagine delle due flotte, le cui grosse navi si muovono le une contro le altre, le paragona ad un gruppo di isole che, strappate dal fondo del mare, si mettano a navigare; oppure ad alte montagne che corrano a cozzare contro altre montagne. Il poeta ricorre, per il paragone, alle Cicladi (isole del mare Egeo cosi chiamate perché formano quasi un cerchio intorno a Delo) soltanto perché si credeva che una volta fossero state mobili; e alle montagne, per dare l'immagine della mole grandiosa delle navi turrite.
809·810. la stoppa accesa: sono proiettili di stoppa che, impregnati di materia infiammabile ed accesi, venivano scagliati sulle navi avversarie per incendiarle. Il particolare è storico, ché in realtà furono moltissime le navi di Antonio in tal modo incendiate. - coi dardi volanti il ferro: si getta il ferro coi dardi volanti, cioè si scagliano armi da lancio dalla punta di ferro. 8u-812. In mezzo alla lotta Cleopatra, ecc.: Cleopatra in mezzo alle sue navi in· coraggia i suoi combattenti scuotendo il ~,istro. Il sistro, strumento proprio del culto di lside, era composto di alcune laminette di bronzo che, agitate, producevano un suono acuto, squillante. Co· si Virgilio ironizza sulla pre-
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sunzione di Cleopatra di rappresentare lside o di voler essere, essa stessa come Isi· de, una dea, ed anche sulla sostituzione delle trombe di guerra con il sistro che lside usava, secondo il mito, per regolare, muovendolo con la mano destra, l'aumento e la diminuzione delle acque del Nilo. - i due serpi: Vulcano ha raffigurato alle spalle della regina due serpi, come presagio della sua prossima fine. Cleopatra infatti, dopo la battaglia, si uccise facendosi mordere da un aspide. 813·821. Mostruosi dèi, ecc.: Vulcano accanto alla lotta tra gli uomini ha raffigurato anche quella tra gli dèi: le immagini mostruose delle divinità egiziane, come il cane Anubi, mostro con il corpo umano e la testa canina, contro gli dèi dell'Olimpo romano: Minerva, Venere, Poseidone e Marte che, come dio della guerra, è scolpito nel ferro. Ed ancora le Furie e la Discordia, immaginata dal poeta con la veste stracciata, e Bellona armata, lei che è proprio la dea della guerra, di una sferza insanguinata. - Apollo d'Azio: nell'elenco degli dèi romani Virgilio non poteva non ricordare Apollo e non attribuirgli una parte principale, se Ottaviano dopo la battaglia d' Azi;:> fece costruire su quel promontorio un tempio votivo in suo onore. - Sabei ... Arabi: la presenza dei Sabei, popolazione araba famosa per le sue ricchezze, è storicamente accertata. Per gli Arabi forse Virgilio allude a Maleo, re dell'Arabia, che secondo Plutarco (Ant., 6r ), era fra gli ausiliari di Antonio.
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822-829. Si vedeva la stessa regina, ecc.: in un'altra scena accanto alla precedente la regina Cleopatra appare nel momento in cui si prepara a fuggire, cioè quando invoca l'aiuto dei venti (anche i venti sono dèi), spiega le vele e ne allenta le corde perché il vento possa meglio gonfiarle. E Vulcano ha dato al suo volto il pallore della morte, mentre è portata dalla nave fra le stragi dei suoi soldati dal vento che spira dalla penisola Salentina, favorevole per coloro che devono raggiungere l'Egitto. - Davanti a lei, ecc.: nella stessa scena è effigiato davanti alla regina anche il fiume Nilo, affiitto della sorte infausta toccata alla sua regina; ed è raffigurato nell'atto di aprire le pieghe della veste per accogliervi e proteggervi Cleopatra e Antonio. 83o-83r. E Cesare, portato, ecc.: ritornato a Roma Ottaviano, secondo quanto scrive Svetonio, celebrò uno dopo l'altro tre trionfi: per aver vinto in Dalmazia, ad Azio e ad Alessandria. Trionfò d'Azio, non diAntonio; il trionfo sui propri concittadini non era lecito. 835. i cori di matrone, ecc.: nelle grandi solennità le matrone si recavano nei templi a celebrarvi sacrifici e a ringraziare gli dèi. In queste giornate eccezionali i sacrifici erano compiuti su are provvisorie esterne ai templi, appunto per potervi sacrificare contemporaneamente molte vittime (le vittime coprivano la terra). 838. del tempio di Apollo raggiante: è il tempio di Apollo Palatino, edifkato nel
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Si vedeva la stessa regina chiamare i venti in aiuto e spiegare le vele allentando le scotte. Vulcano l'aveva effigiata in mezzo alle stragi, pallida per la sua prossima morte, portata del vento di Puglia. Davanti a lei c'era il Nilo dal gran corpo: piangendo di dolore si apriva tutta la veste e chiamava i vinti nel rifugio dei suoi gorghi segreti, perché gli approdino salvi entro il ceruleo seno. E Cesare, portato con triplice trionfo nelle mura di Roma, con voto imperituro consacrava trecento maestosi santuari ai Numi dell'Italia, per tutta la città. Fremevano le strade di gioia, applausi, feste, i cori di matrone riempivano i santuari, davanti agli altari le vittime coprivano la terra. Lo stesso Augusto, sedendo sulla candida soglia del tempio di Apollo raggiante, prende in consegna i [doni dei popoli vinti e li appende alle porte superbe. I vinti s'avanzavano in lunga fila, diversi per lingua, diversi per armi e costumi. Vulcano vi aveva effigiato la razza dei nomadi, gli Afri seminudi, i Lelegi, i Cari, i Geloni armati di frecce, l'Eufrate dalle onde già pacifiche, i piu lontani degli uomini, i M6rini, e il Reno bicorne,
28 a. C., ed è abbagliante di candore (raggiante) perché costruito da poco. Ottaviano aveva scelto come protettore Apollo, e Virgilio lo presenta in atto di sedere sulla soglia del suo tempio e di prendere in consegna i doni dei popoli vinti. 840. I vinti s'avanzavano, ecc.: sono i rappresentanti di tutti i popoli vinti che portano a Ottaviano l'oro coronario, cioè l'oro che veniva offerto per le corone auree o trionfali. In questa occasione (29 a. C.) Ottaviano rinunciò all'oro che gli avrebbero dovuto offrire le colonie e i municipi d'Italia.
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842-8-1-6. la razza dei nomadi, ecc.: « la razza dei nomadi » sono i Numidi, popolo dell'Africa settentrionale; «gli Afri seminudi » forse gli Egiziani (il testo latino ha « discinctos » - che non portano cintura, cosa che per i Romani era segno di effeminatezza); « Lelegi », popolo antico di razza pelasgica, di cui rimaneva qualche traccia in T essaglia e in Asia Minore; «i Cari», abitanti della Caria, regione dell'Asia Minore, la cui città principale era Alicarnasso; « i Geloni », popolo della Scizia; « l'Eufrate », cioè il popolo che abitava lungo il
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corso dell'Eufrate, e aìlude i Daghi indomati, l'Arasse che non tollera ponti: ai Parti, che dopo av•·.r reEstatico Enea ammira le visioni istoriate stituito ad Ottaviano le insullo scudo divino, regalo di sua madre: segne tolte a Crasso, si erano riconosciuti in pace con non ne conosce il senso ma esulta delle immagini i Romani; « i Morini », ahi, sso prendendo in spalla gloria e Fati dei nipoti. tanti delle coste della Gallia Belgica, nella regione che oggi corrisponde alle Fiandre, 849. esulta delle immagie il poeta li definisce « i diverso è invece E. V. Mar· più lontani degli uomini, ni: non certo per la bellez- morale, il quale, pur conperché occupavano l'estremi- za delle figurazioni scolpite, sentendo che si nota in tutto tà più settentrionale della ma perché rappresentavano il verso un «senso un po' Gallia »; « il Reno bicorne » gesta gloriose e trionfi, ed mistico e nello stesso tem(anche qui il nome del fiume Enea ne trae un buon au- po prezioso e indefinito ... di in luogo di quello del popo- spicio per le prove difficili sapore callimacheo e in gelo) è il fiume che divideva i che l'attendono. nere della poesia alessandriGalli dai Germani, ed è 850. prendendo in spalla, na», aggiunge che appunto detto bicorne perché nell'ul- ecc.: caricandosi sulle spalle per questo il verso si trova timo tratto si divideva in i destini gloriosi dei nipoti. al suo posto, « giacché VirIl testo latino è « attollens due rami: il Reno e il Waal; gilio nell'immagine poetica «i Daghi », popolo scitico umero », che significa « soltenta appunto di fondere che abitava le coste sud- levando per caricarsene sulorientali del Mar Caspio e l'omero »; infatti lo scudo storia e leggenda con un proconfinava con i Parti; «l'A- imbracciato doveva poggia- cedimento sconosciuto alla poesia classica greca e a rasse » (fiume vorticoso del- re naturalmente sull'omero. l'Armenia, sul quale i ponti L'immagine di Enea che si quella tradizionale latina, anche se noi non possiamo non resistevano a lungo a carica sull'omero con lo scucausa delle sue piene), il do la gloria e i Fati di Roma esimerci dal vedere nell'imcui nome, come precedente- fu giudicata dagli antichi magine di Enea che si carimente l'Eufrate e il Reno, inutile e sconveniente con- ca della gloria dei suoi disostituisce quello del popo- clusione della suggestiva e scendenti effigiati sullo sculo che abitava la regione da grandiosa evocazione che do una punta di concettol'ha preceduta. Di parere sità e di barocchismo». esso attraversata.
Commento critico Il canto VIII, animato da prodigiosi eventi e da un senso vivo della religione, venato di malinconia e dominato dalla visione di un grande avvenire, seppur ancora incerto e misterioso, è, scrisse il Pascoli, «il poema di Roma; di Roma che nel pensiero di Virgilio è l'ultima a nascere delle città italiche e ancor non nata affanna di sé e fa correre in armi tutta l'Italia •· Il canto VII segna la fine del lungo peregrinare per mari sconosciuti di Enea ~ il suo arrivo nella terra promessagli dal Fato, ma è anche il canto del ritorno della nemica Giunone a impedire l'avverarsi del destino, scatenando i popoli latini contro l'eroe troiano. Se però esso si chiude con il fragore delle armi e con la minaccia che i Troiani siano distrutti o ricacciati nel mare, il canto che lo segue, l'ottavo, è il canto della speranza: Enea vi trova amici e alleati e soprattutto l'avverarsi delle profezie
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che l'avevano sorretto durante il lungo viaggio. Perciò, se tutto il Lazio risuona intorno a lui e ai suoi compagni del fragore sinistro delle armi, il conforto e i consigli del dio Tiberino, l'avverarsi del vaticinio di Eléno e l'accoglienza amichevole di Evandro fanno rinascere nell'animo suo la fiducia di essere giunto veramente nella nuova patria destinatagli dal Fato. Ma il punto centrale del canto è Evandro, il vecchio e saggio re di Pallanteo, che riconosce in Enea il figlio di Anchise, ch'egli aveva ammirato in Arcadia, quando era giovanetto; che promette all'eroe troiano alleanza ed aiuti e lo invita nella sua modestissima casa; che consiglia, guida e incoraggia con affetto paterno l'ospite alleato nella difficile prova che dovrà affrontare. Tutto è suggestivo nella descrizione dell'incontro tra il figlio di Anchise e il vecchio re arcade; ma ancor più suggestiva è forse la visione dei luoghi, ove un giorno sarebbe sorta Roma: luoghi semplici e selvaggi, ma animati già dallo spirito divino che farà di Roma, insieme con la virtù degli uomini, la splendida città dal poeta ammirata e amata. Ma questo bellissimo canto, tutto pieno del mistero di Roma, ha spunti di alta poesia anche in altri motivi appartenenti alla profonda spiritualità di Virgilio poeta e uomo: l'amore per la natura schietta e austera, per ciò che è semplice, limpido e sincero, cosl da vedere la virtù nella povertà e fare di Evandro, re e padre, il personaggio spiritualmente e moralmente più elevato dell'intero poema; come re, quando, raggiunta la reggia, invita Enea ad entrare dicendogli: «Ercole vittorioso ... varcò questa soglia, fu accolto da questa piccola reggia. Ed ora anche tu, ospite, abbi a tua volta il coraggio di disprezzare le ricchezze, rendendoti degno di tanto Nume; accostati benevolo alla mia povera vita! »; come padre, quando accomiatandosi dall'unico figlio, che parte per la guerra, con parole toccanti, cade svenuto quasi fosse presago della sventura. L'ideale di un vivere semplice e virilmente probo collima quindi perfettamente, nel pensiero e nella realtà del re Evandro e del poeta, con il compimento dei doveri verso la patria e la società. La raffigurazione della grandezza· di Roma e delle sue glorie, che culminano con il trionfo di Ottaviano, che ha dato al mondo il bene della pace, concorda con la severa e serena povertà di Evandro. Lo spirito .stesso con il quale Virgilio anima prima i luoghi che Evandro indica ad Enea, mentre camminano insieme verso la città di Pallanteo, e subito dopo le figurazioni della storia di Roma scolpite da Vulcano sullo scudo del figlio di Venere non è orgoglio, m.t senso morale, ché « alla coscienza del poeta, prima ancora che alla fantasia, sono presenti in unità di rapporti e di valutazione l'umiltà dei poveri princìpi e la responsabilità della grandezza imperiale» (L. Bianchi e P. Nediani). Insomma, l'insistenza con la quale Virgilio ha posto in risalto in questo ottavo canto, la semplicità agreste dei luoghi e la saggia e serena povertà degli Arcadi e soprattutto del loro re, che li abitavano, luoghi in cui era poi sorta ed aveva sviluppato la sua storia Roma dominatrice del mondo, fa pensare che il poeta georgico e mite, pur celebrando la grandezza e la bellezza della sua città, sogni il ritorno alla semplicità dei costumi antichi e a quella moralità che era anche nel programma e nei propositi innovatori e restauratori di Ottaviano Augusto.
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Galleria di ritratti Evandro. Un'altra figura di un vecchio re, ma questa volta pienamente riuscita. A differenza di Anchise e del Nestore omerico, Evandro non parla inutilmente, non ritorna al passato ed alla giovinezza per proporsi come esempio di eroismo e di virtù, non assume atteggiamenti gladiatori, e non sollecita omaggi alla propria saggezza. È personaggio profondamente umano, re provato da tanti dolori familiari e da tante sventure, che vive tutto nell'amore del giovane figlio Fallante. Quando questi parte con Enea per la guerra contro Turno e Mesenzio, il suo cuore è scosso da una specie di presentimento. Ecco allora la commossa e sentita invocazione agli dèi nella quale la trepidazione e la speranza dettano le parole della preghiera e sono l'unico conforto al dolore del padre che vede allontanarsi, e per sempre, l'unico conforto della sua vita travagliata.
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Raffronti di traduzione Thybris ea {luvium, quam longa est, nocte [tumentem leniit, et tacita re{luens ita substitit unda, milis ut in morem stagni placidaeque paludi.r sterneret aequor aquis, remo ut luctamen abesset. Ergo iter inceptum celerant. Rumore secundo labitur uncta vadis abies: mirantur et undae, miratur nemus insuetum fulge11tia longe scuta virum {luvio pictasque innare carinas. Olli remigio noctemque diemque /atigant et longos superant {lexus variisque tegunwr arboribus viridisque secant placido aequore si/vas. (vv. 86-96)
Il Tebro quella notte, quanto fu lunga, di turbato e gonfio ch'egli era, si rendé tranquillo queto si, che senza rumoree quasi in dietro tornando, come stagno o rome piana palude, adeguò l'onde e tolse a' remi ogni contesa. Accelerando adunque il cammin preso, i ben unti e spalmati lor legni se ne vanno incontro al fiume, com'a seconda; si che l'onde stesse stavan meravigliose e i boschi intorno non soliti a veder l'armi e gli scudi, e i c:hpinti navili, che da lunge facean novella e peregrina mostra. Se ne van giorno e notte remigando di tutta forza, e i seni e le rivolte varcan di mano in mano, or a l'aperto, or tra le macchie occulte, e via volando segan l'onde e le selve. Traduzione di Annibal Cara
Il Tevere abboni, per quanto è lunga quella notte, la sua gonfia corrente e sl la rese tacita che, a modo di cheto stagno e placida palude, piana si stende e senza intoppo al rt"mo. Dunque l'impresa via con rumor lieto ·tengono; scorre lo spalmato abete; e ammirar l'onde, ammira al foresta sorpresa !ungi lampeggiar gli scudi e nuotando venir le pinte prore. Qui sudano al remeggio e notte e giorno e seguono le lunghe curve; sotto agli alberi scompaiono, solcando per il placido pian le verdi selve. Traduzione di Giuseppe Albini Il Tevere per tutta quella notte abbonacciò la tumida corrente e a ritroso flui con tacite acque, cosi che al pari di tranquillo stagno e di queta palude adeguò l'onde pe~ non opporre alcun contrasto ai remi. Intrapresero quelli il !or viaggio solleciti, con cantici festosi; correan su l'acque gli spalmati abeti; l'onde stuplan, stuplan sorpresi i boschi dell'armi che splendevano lontano e del passar delle dipinte navi. Quelli si a11aticarono sui remi la notte e il giorno; risallan le lunghe curve, celati dalle piante ombrose, fendendo con la prua le verdi selve riflesse nelle lisce acque del fiume. Traduzione di Guido Vitali
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CANTO NONO
Turno attacca le navi troiane che si trasformano in ninfe.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 1835, ricavate dai codici della Biblioteca V aticana, Roma.
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CANTO NONO L'assalto al campo troiano Mentre Turno se ne sta tranquillo nel bosco sacro dell'avo Pilumno, Giunone manda Iride, la messaggera degli dèi, a scuoterlo dal suo torpore e ad eccitarlo ad assalire i Troiani. II momento è senz'altro favorevole; Enea si è allontanato dal campo in cerca di aiuti e i Troiani sono privi di guida e di protezione. Turno acconsente e, rivolta una preghiera agli dèi, parte all'assalto dell'accampamento troiano. I Rutuli, guidati da Turno e da Messapo, sono ormai in vista delle difese avversarie, ma i Troiani, benché le sentinelle abbiano dato l'allarme, si attengono ai consigli di Enea e si preparano a respingere l'assalto nemico protetti dai solidi ripari. Turno, che precede l'esercito con altri venti cavalieri scelti, lancia per primo un giavellotto in segno di sfida. I Troiani però non si muovono; e il re dei Rutuli, infuriato e rabbioso come un lupo affamato tenta allora di penetrare nel campo a viva forza. II tentativo non riesce, e Turno inferocito si dirige con i suoi verso il fiume ad incendiare le navi, che Cibele però sottrae alla distruzione trasformandole in Ninfe. II prodigio spaventa i Rutuli, ed anche il Tevere, che ritrae impaurito le sue acque. Ma Turno, interpretando il prodigio a suo favore, acquista baldanza e infonde coraggio ai suoi dicendo che Giove, trasformando le navi in Ninfe, ha privato i Troiani anche dell'unica via che essi avevano per sfuggire alla distruzione. « Noi siamo padroni del territorio - egli dice, - e le loro difese non saranno sufficienti a proteggerli contro il nostro assalto, che sarà irresistibile anche senza frode». L'assalto sarà sferrato il giorno dopo, e frattanto i Troiani nell'accampamento e i Rutuli nella campagna intorno dispongono le sentinelle. Ad una porta del campo troiano sono di guardia due amici, Eurialo e Niso. Quest'ultimo, quando nell'accampamento sono spenti tutti i fuochi e regna un silenzio profondo, rivela all'amico il proposito di raggiungere Enea nella città di Pallanteo per avvertirlo del pericolo che sovrasta i Troiani; Eurialo rimarrà nel campo a sostegno della vecchia madre e a dare all'amico onorata sepoltura, se egli dovesse soccombere. Ma Eurialo non accetta la proposta; egli vuole accompagnare Niso nell'impresa, e i due giovani, ottenuta l'approvazione di Ascanio e dei capi, partono. Attraversando il campo nemico fanno strage di soldati e di capi immersi in un sonno profondo anche per l'abbondante vino bevuto; poi all'avvicinarsi dell'alba si allontanano. Durante il cammino i due amici s'imbattono in un drappello di trecento cavalieri latini guidati da Volcente; l'oscurità li protegge, ma il luccichio prodotto dai raggi della luna sull'elmo che Eurialo aveva preso a Messapo, uccidendolo, e con giovanile e sconsiderata vanità aveva voluto indossare, insospettisce Volcente, il quale si ferma e dà« il chi va là». I due giovani fuggono e riescono a raggiungere un bosco vicino; senonché Eurialo, impedito dai rami degli alberi e
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dal pesante bottino fatto nel campo dei Rutuli, è raggiunto dai cavalieri nemici. Niso, quando s'accorge di non essere seguito dal compagno, ritorna sui suoi passi e, scorto l'amico circondato e sul punto di essere sopraffatto, scaglia, senz'essere visto, un dardo e colpisce a morte uno dei cavalieri. Mentre i nemici cercano di scoprire l'autore del colpo, un altro dardo scagliato da Niso uccide un secondo cavaliere. Allora Volcente, incapace di vendicare i due caduti colpendo l'autore della loro uccisione, si avventa con la spada sguainata su Eurialo. A tal vista Niso esce dal nascondiglio gridando: « lo! Sono io il colpevole! Volgete quelle armi contro di me: l'inganno è stato mio». Ma la spada di Volcente trafigge ugualmente il petto di Eurialo, e il giovanetto cade a terra morente. Niso allora si scaglia tra i nemici con la spada sguainata, cerca solo Volcente e l'uccide, ma colpito anch'egli dai soldati cade crivellato di ferite sul corpo esamine dell'amico. I cavalieri latini trasportano il corpo di Volcente nell'accampamento di Turno, destando in tutti un'impressione profonda. All'alba Turno fa preparare l'esercito e muove all'attacco del campo troiano. Per incutere paura ai Troiani, i Rutuli staccano dal busto le teste di Eurialo e Niso e le espongono alla loro vista sulla punta di due lance. La notizia giunge ar.che alle orecchie della vecchia madre di Eurialo; l'infelice corre urlando alle mura e, alla vista dell'orrendo spettacolo, grida il suo disperato dolore e si profonde in amari lamenti. I Troiani, addolorati e commossi, la riportano a braccia nella sua tenda. Intanto i nemici avanzano compatti verso le mura e tentano di scalarle, ma i Troiani si difendono valorosamente. Dall'una e dall'altra parte gli episodi di valore si susseguono numerosi: gli uni tentano di avvicinarsi alle difese formando una testuggine con gli scudi, gli altri le difendono rotolando su di essa pesanti massi. Il più aggressivo però è Turno, che lancia una grande fiaccola contro un'alta torre, la quale investita dal fuoco rovina con grande fragore travolgendo con sé i difensori. Fra i Troiani combatte anche Ascanio, rivolgendo l'arco, usato fino allora soltanto per la cacccia, contro Numano, cognato di Turno, che scherniva i Troiani, perché non osavano uscire dall'accampamento a combattere in campo aperto. Il colpo preciso di Ascanio, che abbatte Numano, empie d'entusiasmo i Troiani, ma preoccupa Apollo, il quale scende sulla terra e, assunte le sembianze del vecchio Bute, aio di Ascanio, esorta il giovinetto a ritirarsi dalla battaglia. All'esortazione di. Apollo si aggiunge anche quella dei capi troiani. Mentre la lotta continua feroce, due fratelli troiani, Pandaro e Bizia, di statura gigantesca, aprono la porta affidata alla loro custodia e sfidano i nemici ad entrare nell'accampamento. I Rutuli tentano di irrompervi, ma i due giganti fanno di essi una strage orrenda. Allora Turno, avvisato da un messo, accorre davanti alla porta, uccide alcuni Troiani e con una lancia lo stesso Bizia. Pandaro a tal vista chiude la porta, lasciando però fuori delle mura alcuni Troiani e chiudendo nel campo con alcuni Rutuli lo stesso Turno. Pandaro, adirato per la morte del fratello, lo affronta e gli scaglia contro la sua terribile asta, ma Giunone ne devia il colpo, e Turno avanza con la spada sguainata e spacca in due la testa dell'avversario. Il re dei Rutuli continua a far strage, finché i Troiani rincuorati lo circondano e lo costringono ad uscire dal campo gettandosi nel fiume.
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CANTO NONO Iride, mandata da Giunone, convince Turno ad assalire il campo troiano (x-86)- Turno tenta d'incendiare le navi, che invece si mutano in Ninfe (87-154) - Turno interpreta a suo favore il prodigio (155-199)- Veglia d'armi ed Eurialo e Niso (200-546)- I Rutuli, piangendo, portano al campo il corpo di Volcente - Il pianto della madre di Eurialo (547-608)- L'assalto al campo troiano (609-717)Prodezza di Ascanio (718-803) - La porta aperta: Pandaro e Bizia (804-863) - Turno nell'accampamento troiano (864-926) - Mnèstco e Seresto: la ritirata di Turno (927-976).
Iride, mandata da Giunone, convince Turno ad assalire il campo troiano Mentre Enea si trovava nella lontana Etruria, la Saturnia Giunone spedf dal cielo Iride al coraggioso Turno, che stava riposando nel bosco dedicato al suo avo Pilunno in una valle sacra. La 6glia di Taumante con la bocca rosata gli parlò: « Turno, quello che desideri tanto e nessun Dio oserebbe IRIDE, MANDATA DA GIUNONE, CONVINCE TURNO AD ASSALIRE IL CAMPO TROIANO ( 1-86). - Giunone manda
Iride, messaggera degli dèi, a ridestare in Turno, che se ne sta neghittoso nel bosco sacro all'avo Pilumno, lo spirito guerriero e ad esortarlo
ad assalire il campo troiano. Il momento è propizio. Enea è partito in cerca di aiuti e i Troiani sono privi di guida e di protezione. Turno riconosce la dea e, pieno di ardore, ne segue i consigli. Le sentinelle troiane, avvistate le schiere dei Rutuli che, gui-
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date da Turno e da Messapo, marciano verso il campo, dànno l'allarme; e i Troiani, obbedienti alle disposizioni impartite da Enea, si preparano a respingere gli assalitori dalle mura del campo. Turno assale il campo e tenta di penetrarvi a viva forza, ma i suoi sforzi riescono vani Allora si dirige ver~ so le navi per incendiarle_
x. Mentre Enea, ecc.: il primo verso, richiamandosi all'argomento principale del canto VIII, ha lo scopo ài collegare questo canto a quello precedente. 2. Iride: secondo Esiodo era figlia di Taumante e di Elettra, e come personificazione dell'atcobaleno, era considerata la messaggera degli dei, specialmente di Giunone e di Giove, nei loro rapporti con gli uomini. Si rappresentava con le ali dorate e con le spalle <-Operte da un manto leggero, splendente di mille colori. 4· Pilunno: v. nota ai versi 415-424 del canto VII. Pilunno sarebbe stata un'antica divinità campestre italica, protettrice dell'agricoltura (Pilunno da « pilo », il pestello per tritare il grano).
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8-9. il giorno ... spontaneamente: l'occasione ti offre spontaneamente quello che non avresti mai potuto ottenere dagli stessi dèi. Nota il « volge » che unito a giorno ( « il giorno che volge ») dà all'espressione il significato di un particolare incitamento a Turno, perché il re dei Rutuli approfitti della circostanza allora favorevole, ma che poteva presto non esserlo più. n. del palatino Evandro: Evandro è qui detto « palatino », non perché ha fondato la città di Pallanteo, ma perché abita sul colle che poi sarà chiamato Palatino. L'espressione è quindi anacronistica. - E non basta: Iride con questa espressione vuoi richiamare l'attenzione di Turno sull'importanza di non perdere l'occasione favorevole delle circostanze, cui accenna nei versi successivi: se da un lato la lunghezza del viaggio intrapreso da Enea esclude ch'egli possa ritornare immediatamente al campo, dall'altro un· ritardo eccessivo dell'attacco potrebbe consentire l'arrivo ai Troiani di rinforzi considerevoli. I2. Corito: l'odierna Cortona portava anticamente il nome del suo fondatore, Corito, padre di Dardano, ed era una delle dodici città della confederazione etrusca. Ma qui « Corito » significa, evidentemente, tutta l'Etruria. I 3. un esercito lidi o: un esercito etrusco. Gli Etruschi, secondo un'antica tradizione seguita anche da Erodoto, sarebbero venuti in Italia dalla Lidia, regione dell'Asia Minore.
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prometterti, ecco, il giorno che volge te lo porta spontaneamente. Enea, abbandonato il campo, i compagni e la flotta, s'è diretto alla reggia del palatino Evandro. E non basta, è arrivato sino alla lontanissima Corito dove arma un esercito lidio, riunendo contadini e pastori. Che aspetti? ~ giunto il momento di aggiogare i cavalli al tuo carro da guerra. Rompi ogni indugio, conquista l'accampamento in di[sordine! » Ciò detto, ad ali aperte s'alzò veloce nel cielo :tracciando col suo volo un arco sterminato sotto le nuvole. Il giovane la riconobbe e levando ambe le mani alle stelle segui la sua rapida scia con queste parole: «O Iride, ornamento del cielo, chi ti fece calare dalle nuvole in terra sin qui da me? Di dove viene quest'improvviso chiarore? Vedo il cielo aprirsi in mezzo e le stelle vagare nel firmamento. Obbedisco a presagi cosi grandi: chiunque tu sia, Dio che mi chiami all'armi». Camminò sino al fiume ed attinta acqua limpida a fiore dell'onda, rivolgendo molte preghiere ai Numi colmò il cielo di voti. E già tutto l'esercito marciava in campo aperto,
r8. un arco sterminato: l'arco rappresenta idealmente l'arcobaleno. 19-20. levando ambe le mani, ecc.: le braccia allargate e tese verso l'alto erano l'atteggiamento tipico che assumeva chi pregava gli dèi del cielo. . 21. ornamento del cielo: allude all'arcobaleno. 24-25. Vedo il cielo, ecc.: gli antichi credevano che durante il giorno si stendesse tra il cielo e la terra un grande velario, che impediva di vedere le stelle; e Turno crede che Iride scendendo dal cielo abbia squarciato questo velo ed egli abbia potuto vedere le stelle. Cosi il re dei Rutuli e per la disce-
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sa di Iride in terra e per l'improvviso chiarore (fatti ambedue straordinari, che gli antichi consideravano fra i più grandi prodigi celesti), dà credito alle parole della messaggera divina e si appresta ad assalire il campo troiano. 27-29. Camminò sino ol fiume, ecc.: Turno si appresta a pregare e, secondo il rito, attinge prima l'acqua con le mani per purificarsi. Non sembra però che il re dei Rutuli abbia dovuto recarsi dal bosco, ove riposava, alla lontana riva del Tevere, ma che il poeta immagini che nel bosco stesso scorresse un ruscello. - a fiore dell'onda: dalla superfi-
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tremendo di cavalli, splendente di gioielli e fregi d'oro e vesti ricamate. Messapo comanda l'avanguardia, mentre i figli di Tirro sono alla retroguardia; Turno, capo supremo, si tiene al centro del grosso, imbracciando le armi, ed è piu alto di tutti di tutta una testa. Cosi scorre il Gange profondo, silenzioso nei placidi sette rami, cosi scorre il Nilo dal fertile corso quando abbandona i campi e rifluisce nel suo letto. I Troiani vedono all'improvviso addensarsi una nuvola di polvere nera e levarsi le tenebre. Dà l'allarme per primo Cafco, da una torre che domina la pianura: «Cittadini, cos'è quella nebbia nerissima che si torce laggiu? Armatevi, tenete i giavellotti pronti, salite sulle mura, il nemico è già qui: all'armi, all'armi! ». Urlando i Troiani rientrano da tutte le porte e a1follano le mura. Come aveva disposto Enea alla sua partenza, pregandoli - da esperto
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ti), i quali prima scendono turbinosi dai monti e si fanno poi tranquilli nel letto comune; e al Nilo che prima inonda i campi, ai quali dona il suo fertile limo, poi si ritira nell'alveo per scorrere tranquillo fino al mare. Qualche critico ha giudicato questa similitudine poco chiara e di gusto discutibile, mentre sembra che essa ponga ottimamente in evidenza l'esercito di Turno, che prima tumultuante, ora marcia ordinato verso il campo troiano. 40. I Troiani vedono, ecc.: sono le vedette che scrutano l'orizzonte da punti elevati dell'accampamento. 43· Caìco: è uno dei capi troiani, ora addetto al servizio di guardia. Virgilio ha già fatto menzione di lui come capitano di una nave
(1, 217). cie dell'acqua, cioè Turno attinge acqua pura, limpida, non torbida. - colmò il cielo di voti: la bella iperbole dà qui l'immagine di un Turno che, pur mosso da un certo interesse personale, dimostra di possedere un sentimento religioso notevole. Non sempre, infatti, questo re guerriero è rispettoso e timorato degli dèi. 31. E già: l'avverbio indica la rapidità del passaggio dalla preghiera agli dèi alla pratica esecuzione dei suggerimenti di Irid~. Turno non ha quasi ancora finito di pregare, che raccoglie l'esercito, dà le disposizioni dell'attacco e ordina di marciare contro l'accampamento troiano. 33· i figli di Tirro: i figli del custode degli armenti di Latino. Apparteneva ad essi, ed era particolarmente
caro a Silvia, loro sorella, il cervo ferito da Ascanio (VII, 548 sgg.). 35· si tiene al centro del grosso: il comandante è al centro della colonna per meglio dominare la massa dei gregari. Il centro delle truppe in marcia è anche il posto d'onore, ed Enea ha voluto che lo occupasse Fallante, il figlio di Evandro, quando da Pallanteo partirono alla volta di Cere (VIII, 685 sgg.). 36-40. Così scorre il Gange, ecc.: con questa similitudine il poeta paragona l'esercito di Turno, che al suo richiamo si è raccolto dalle varie località del Lazio, ov'era sparso e tumultuante, ed ora marcia ordinato ed in silenzio, ai grandi fiumi; ed accenna al Gange che è formato da molti fiumi (sette ha valore di mol-
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44· Cittadini: il poeta che aveva chiamato « urbs », città, il campo, ora chiama cit-· tadini i Troiani che lo occupano. 45-46. Armatevi... all'armi!: il ritmo serrato di queste espressioni e il richiamo finale concitato rendono felicemente lo sgomento suscitato nell'animo di Calco dall'apparizione inaspettata ed improvvisa dei nemici. Il passo fu imitato dal Tasso (Ger. Lib., III, 9-w), in modo alquanto prolisso e retorico. Più efficace è l'asindeto breve, incalzante di Virgilio. 48-56. rientrano da tutte le porte: molti Troiani erano usciti dal campo, senza tuttavia allontanarsi troppo, ed ora rapidamente vi rientrano, obbedienti agli ordini impartiti da Enea prima della sua partenza. Guai se
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i Troiani avessero accettato la battaglia in campo aperto durante l'assenza del capo! Non è dunque per paura o per viltà che i T roiani si limitano a difendersi dietro le difese del loro accampamento. 57-60. Turno, correndo avanti, ecc.: Turno, che fino allora aveva cavalcato al centro della colonna, giunto in vista dell'accampamento troiano è impaziente di azzuffarsi col nemico e, quasi che l'esercito marciasse troppo lentamente, esce dalle file e con venti cavalieri scelti avanza veloce e compare all'improvviso davanti alle difese dell'accampamento troiano. 6r. su un cavallo di Traeia, ecc.: al tempo di Virgilio i cavalli della Tracia erano assai famosi per bellezza e velocità, e il poeta si cdmpiace di immaginare che tale fosse anche quello di Turno, benché non si possa credere che in quei tempi antichissimi fossero importati nel Lazio cavalli da un paese cosi lontano. pomellato di bianco: di mantello grigio con macchie tondeggianti chiare. 64-66. brandendo in aria, ecc.: con il lancio del giavellotto Turno apre le ostilità, come farà in tt:mpi posteriori il capo dei Fcciali (pater patratus), che aveva il compito di dichiarare la guerra per ordine del senato lanciando una freccia sul territorio nemico. Il collegio dei Feciali, composto di venti membri, aveva il compito, come depositario del diritto internazionale, di valutare la gravità di un'offesa, di determinarne la riparazione,
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capitano - di stare in difesa, nel caso d'un conflitto, protetti dalle mura e dai fossi, senza azzardarsi a scendere in campo aperto, a file spiegate. E si vergognano, vorrebbero attaccare, ma sbarrano le porte secondo gli ordini e attendono dalle concave torri l'avanzata nemica. Turno, correndo avanti, aveva sorpassato il grosso che avanzava piu lento. All'improvviso eccolo comparire davanti all'accampamento insieme a venti scelti cavalieri: è montato su un cavallo di Tracia pomellato di bianco, in testa ha un elmo d'oro dalla rossa criniera. «Giovani, chi sarà il primo ad assaltare il nemico con me? Ecco ... » grida, e brandendo in aria il giavellotto lo scaglia contro il cielo: segnale di battaglia. Poi superbo si lancia in mezzo alla pianura. I compagni lo acclamano, seguendolo con urla terribili: stupiti della viltà dei Teucri che non scendono in campo aperto, che evitano di affrontarli - le armi alla mano, da uomini - ma si tengono chiusi tra i bastioni. Infuriato Turno a cavallo esplora le-mura, dappertutto, e cerca se vi sia qualche accesso nei luoghi piu sguerniti e deserti. Sembra un lupo che insidi un pieno ovile, ed urli tutto intorno al recinto, battuto dalla pioggia e dal vento. Gli agnelli belano, riparati sotto le loro madri: è mezzanotte, e il lupo infuria contro la preda che non riesce a raggiungere, straziato da una fame troppo a lungo repressa e dalla gola invano assetata di sangue.
di giudicare se la guerra era giusta, d'intimarla, di stabilire la pace e d i consacrare i trattati con cerimonie religiose. 68-72. stupiti della viltà dei Teucri: lo stupore di Turno e dei Rutuli è indirettamente un riconoscimento del valore dei Troiani, poiché nella meraviglia del nemico è implicito il riconoscimento dell'eroica resisten-
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za, di cui è giunta la fama anche nel Lazio, opposta da quei guerrieri, ora rinchiusi entro le difese del campo, per lunghi dieci anni agli assai ti del!'esercito greco. 78-8r. Sembra un lupo, ecc.: il paragone fra Turno che a cavallo esplora agitato le difese del campo troiano per scoprire qualche accesso, e il lupo che affamato, percosso dalla pioggia e dal
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Cosi Turno, alla vista del campo e delle mura, brucia tutto di rabbia; fino in fondo alle ossa lo divora la smania di cercare un passaggio o di scoprire un mezzo per stanare dal vallo i Troiani e sospingerli nell'aperta pianura.
Tumo tenta d'incendiare le navi, ma esse si mutano in ninfe
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Finalmente ha trovato! Lungo un lato del campo si celava la flotta, circondata da un argine e dall'acqua del fiume: corre li, chiede fuoco ai compagni che applaudono e ardendo d'ira impugna un ramo acceso. Allora tutta la giovenru vola a cercare fiaccole fumose, stimolata dall'esempio di Turno. Saccheggiano i focolari: le nere torce levano sino al cielo una nube di pece e il fuoco sprizza turbini di faville. Muse, che Dio salvò dalle fiamme i Troiani? Chi allontanò l'enorme incendio dalle navi? Ditelo. Il fatto è antico ma ha una fama perenne. All'epoca in cui Enea allestiva la flotta sull'Ida, preparandosi ad affrontare l'oceano, vento, s'aggira intorno al· l'ovile, in cui sente i belati degli agnelli, che se ne stan· no sicuri accanto alle loro madri, protetti da un recin· to invalicabile dal loro feroce nemico, è per se stesso un quadretto di suggestiva po· tenza. La similitudine è sta· ta desunta da Omero (Il., XI, 548 sgg. e Od., VI, 130 sgg.), ma Virgilio l'ha arricchita di immagini stupende. 83. brucia: nota l'efficacia di questo verbo. Nella fantasia del poeta la rabbia di Turno non è più un concetto astratto, ma è diventata un fuoco che brucia e sprigiona bagliori.
TURNO TENTA D'INCENDIARE LE NAVI, MA ESSF. SI MUTANO IN NINFE (87-1.54). -
Turno tenta d'incendiare le navi, ma esse sono miracolosamente salvate. Ed ecco come. Quando Enea stava costruendo la flotta ai piedi del monte Ida, Cibele pregò Giove che le navi costruite con il legname del bosco a lei sacro, potessero solcare incolumi il mare. Giove non poté concedere tanto privilegio, ma promise che giunte alla méta le avrebbe trasformate in ninfe. Così quando Turno sta per appiccare il fuoco alla flotta di Enea, Cibete appare nel cielo, rassi-
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cura i Troiani e ordina alle navi di sprofondarsi nel mare. Esse poi ritornano alt.. superficie tramutate in ninfe. 87-95. Lungo un lato, ecc.: la flotta dei Troiani, tirata in secco, era da un lato protetta dalle fortificazioni dell'accampamento, dall'altro dalle acque del fiume. Perciò è un po' difficile immaginare come Turno e i suoi soldati abbiano potuto incendiare le navi. Ma non è lecito pretendere la precisione dai poeti; essi procedono sempre per immagini e le loro opere son creazioni delIa fantasia, non della logica. 96-98. Muse, che Dio salvò, ecc.: il poeta si accinge a narrare la prodigiosa trasformazione delle navi in ninfe marine, e chiede assistenza e ispirazione alle Muse. L'avvenimento è molto importante, tutto pieno di circostanze interessanti, e Virgilio vuoi dar vigore al suo estro poetico e infondere nell'animo del lettore un senso di religioso stupore. Cosl. fece anche Omero prima di narrare l'incendio appiccato dai Troiani ad una nave greca (Il., XVI, rr2 sgg.). - che Dio salvò, ecc.: qual Dio, cioè quale fu il Dio che, ecc. - il fatto ... fama perenne: anche se la lontananza del tempo può far suscitare in qualcuno il dubbio sulla realtà del fatto, rimane tuttavia luminosamente provata la sua fama dalla credenza di tante generazioni. 100. sull'Ida: sul monte Ida, o meglio alle falde del monte Ida nella Frigia, poco lontano da Troia. Il mon-
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te Ida era famoso per le selve che davano ottimo legname per la costruzione delle navi. 101- Berecinxia: Cibele, la gran madre degli dèi, e quindi anche di Giove- Era detta Berecinzia dal monte Berecinto, una cima dell'Ida, dove era particolarmente venerata. 102-104. Figlio, re del/'0limpo, ecc.: con queste parole Cibele forse vuoi alludere agli aiuti ripetutamente prodigati al figlio, prima sottraendolo alla ferocia di Cronos, che divorava tutti i suoi figli, poi aiutandolo nella lotta contro i Titani e i Giganti. 108. Fui lieta, ecc.: sebbene si trattasse di un bosco ad essa molto caro, Io diede volentieri ad Enea: segno quindi di particolare predilezione per l'eroe troiano. 109-110. gli alberi necessari alla flotta: gli alberi necessari alla costruzione della flotta. 117-129. cosa vttoi dal destino, ecc.: la domanda esprime, anche nel tono, meraviglia e insieme dispiacere: meraviglia, perché Cibele, sapendo che gli dèi non possono mutare il destino, non doveva chiedere una cosa impossibile; dispiacere, perché non può appagare il desiderio della madre. - chiglie: navi; ma «chiglia» propriamente è la struttura principale Iongitudinale dello scafo della nave, su cui si impiantano le ordinate. - mortali... immortali: da questa vigorosa antitesi appare evidente l'assurdità della richiesta materna: navi costruite da braccia di uo-
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si dice che la stessa Berecinzia, la Madre dei Celesti, parlasse a Giove: «Figlio, re dell'Olimpo, concedi a tua madre il favore che ti chiede. Per anni ho avuto una: foresta di pini, molto cara, un bosco sacro proprio in cima alla montagna; e li in mio onore ardevano fuochi sacrificali, all'ombra delle nere abetine e degli aceri. Fui lieta di donare al giovane dardanio gli alberi necessari alla flotta; ma adesso mi opprime un'ansietà terribile. Ti prego, dissolvi i miei timori, ascolta i desideri di tua madre: vorrei che queste navi, forti dd privilegio d'essere nate in cima al mio monte, non fossero mai vinte durante i loro viaggi dal mare né dal vento». Il figlio che fa roteare le stdle dd mondo rispose: «Madre, cosa vuoi dal destino, cosa chiedi per queste navi? Forse che chiglie fatte da mani umane, mortali, diventino immortali? Che Enea vada sicuro in mezzo a ignoti pericoli? A nessun Dio è concesso tanto potere. Ma quando saranno giunte incolumi alla meta, ai porti ·dell'Ausonia, libererò dal peso della morte le navi che saranno scampate alle onde, portando in terra Iaurentina il grande re dardanio: ordinerò che siano divinità dd mare immenso, come Doto e Galatea, Nereidi che solcano col petto l'oceano spumeggiante». Ciò detto, confermò la promessa giurando per i fiumi infernali di suo fratello Stigio, per le rive infuocate,
mm1 (mortali) non possono avere prerogative divine. le navi che saranno, ecc.: non tutte le venti navi costruite da Enea toccarono i porti d'Italia. L'espressione allude perciò alle navi che sarebbero state distrutte durante il viaggio: quella di Oronte sommersa dalla tempesta (l, 135), e le quattro incendiate in Sicilia dalle donne troiane (V, 739). -
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Doto e Galatea: ambedue figlie del dio marino Néreo, e quindi ninfe del mare. 131. fratello Stigio: Plutone che, dopo la cacciata di Saturno, ebbe in sorte il regno infernale, mentre a Giove toccò il cielo e a Nettuno il mare. Il giuramento fatto sulle nere onde dello Stige era sacro per gli dèi, e non potevano violarlo senza incorrere in gravi conseguenze.
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I luoghi della futura Roma
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INTERNO della casa sita in Pompei, Reg. VII, Ins. Il, Via Nona n. 35 Nell'epoca imperiale la domus, sotto la spinta del maggiore benessere, si abbellisce e l'atrium diventa il luogo in cui si trascorrono le giornate e si ricevono gli ospiti. Sul davanti della domus si costruisce un portico sotto il quale si aprivano le tabernae (botteghe). Sotto la spinta delle necessità dovute alla popolazione aumentata e agli immigrati dalle province, nasce il tipo di casa per più famiglie - insula -, con appartamenti a pianta uguale, sovrapposti.
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per la nera voragine dove scorre la pece: al cenno del suo capo tremò l'intero Olimpo. Ed il giorno promesso era giunto, compiuto il tempo stabilito dalle Parche: l'attacco di Turno spinse la Madre a allontanare il fuoco dai sacri scafi. Una luce straordinaria apparve, splendendo agli occhi di tutti, un nembo enorme fu [visto attraversare il cielo dall'oriente, seguito dai coribanti dell'Ida. Una voce terribile calando giu per l'aria riempie di terrore gli eserciti troiano e rutulo. « Troiani, è inutile difendere le navi con le armi, Turno potrà incendiare l'acqua prima dei sacri miei alberi. E voi, navi, andatevene libere, siate Ninfe del mare; la Madre lo comanda!» Ed ecco che le navi, strappati ognuna i propri ormeggi dalla riva e tuffandosi a picco col rostro innanzi, a modo di delfini discendono nelle profondità dei gorghi. Oh, l'incredibile miracolo: riaggallano di nuovo subito, tanti dolci volti di vergini quante erano le prore di bronzo lungo il lido, nuotando per il mare!
Turno interpreta a suo favore il prodigio 133. al cenno del suo capo, ecc.: l'immagine è presa da Omero (Il., I, 528), ed esprime la potenza e la maestà del re degli dèi. 134-143- Ed il giorno promesso, ecc.: il giorno stabilito da Giove per la trasformazione delle navi in ninfe marine. Le « Parche », in numero di tre, regolavano il destino dell'uomo rappresentato da uno stame, che Cloto filava, Lachesi ne determinava la lunghezza, Atropo tagliava. - la Madre: Cibele;
allude alla preghiera rivolta a Giove. - Una luce straordinaria, ecc.: apparve una luce insolita, una nube (nembo) enorme che attraversò il cielo da oriente ad occidente, in cui il poeta immagina che fossero racchiusi la dea e il suo seguito formato dai suoi sacerdoti, i Coribanti, che suonavano rumorosamente timpani, cembali e flauti: tutti segni della potenza divina, che si rivela nella sua maestosa e affascinante bellezza. E questi fe-
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nomeni soprannaturali, come voce che scende terribile dal cielo, riempie di terrore Rutuli e Troiani. 144. è inutile difendere le navi, ecc.: Cibele assicura i Troiani che non è necessario difendere le navi dall'attacco di Turno, e conferma la sua affermazione con una di quelle espressioni iperboliche (Turno potrà incendiare l'acqua prima, ecc.), che comunemente ~i usano per stabilire l'assoluta impossibilità di un fatto. 146. andatevene libere: sciol te dalle funi che le tenevano legate alla riva. 150. col rostro innanzi: con le prue innanzi. Il mstra era uno sperone di ferro, a forma di becco di uccello, fissato sulla prora delle navi da guerra per colpire le navi nemiche. 152. riaggallano: tornano a galla, riemergono. Con fine senso dell'arte Virgilio fa compiere alle navi la mirabile trasformazione in fondo al mare e lascia accortamente alla fantasia del lettore il compito di pensare ai particolari dell'eccezionale e strana metamorfosi. TURNO INTERPRETA A SUO FAVORE IL PRODIGIO (155-
199). - I Rutuli sono pieni di paura per il prodigio, e perfino il Tevere ritrae impaurito le sue onde. Ma Turno pensa che il prodigio danneggi i Troiani, i quali perduta la flotta non avranno scampo neppure attraverso il mare. Rincuora perciò i suoi e li eccita a combattere. I Troiani non sapranno resistere alloro attacco, che non sarà sferrato con la frode, come fecero un tempo i Greci
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sotto le mura di Troia. Calata la sera, ambedue i contendenti dispongono le sentinelle e, ristorati i corpi, si accingono a riposare.
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155-1.56. persino Messapo, ecc.: nota il rilievo con il quale il poeta sottolinea lo sbigottimento di Messapo (v. 32) provocato in lui dai cavalli del suo cocchio, che si erano impennati. E neppure il dio Tiberino sa rimanere indifferente al prodigio inaspettato. 1.59. Ma il temerario Turno, ecc.: solo Turno non si scompone; e il suo coraggio risalta più che mai anche in questa circostanza, in cui il prodigioso evento ha terrorizzato non solo gli uomini, ma gli stessi elementi de Ila natura. 161-162. la solita risorsa della fuga: l'allusione è crudelmente offensiva ed ingiusta: i Troiani sono stati vinti con l'inganno, non con il valore. Essi hanno difeso la propria città eroicamente e l'hanno abbandonata soltanto perché distrutta dalle fiamme. 166-170. non temo i fatali responsi, ecc.: intendi: se i Troiani (Frigi) dicono che gli oracoli hanno predetto il loro arrivo in Italia, e se ne vantano, ciò non mi spaventa: ormai sono arrivati e basta. Ma avranno da fare i conti con noi. Perciò Turno pensa che i Fati abbiano costituito per i Troiani una pretesa illusoria, e tutto il favore che finora li ha accompagnati sia consistito nella protezione e nell'aiuto di Venere. Comunque, giunti in Italia, il volere del destino è soddisfatto e Venere ha
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I Rutuli tremarono sbigottiti, persino Messapo quasi travolto dai cavalli impennatisi per lo spavento: e il Tevere con un rauco muggito si fermò, ritraendo il suo corso dal mare. Ma il temerario Turno non si smarri: incoraggia e rimprovera i suoi: «Questi prodigi sono contro i Troiani, ai quali Giove ha tolto la solita risorsa della fuga. Non abbiamo bisogno di fuoco né di frecce: chiusa la via del mare per loro non c'è scampo. Perchè la terra è nostra ben saldamente - tante migliaia di Italiani sono in armi! - e non temo i fatali responsi dei Numi, anche se i Frigi se ne vantano: ai Fati ed a V enere è stato già concesso sin troppo dal momento che i Teucri hanno toccato i campi della fertile Ausonia. Ho il mio destino anch'io: distruggere in battaglia la gente scellerata che m'ha rapito la sposa! Un simile dolore non colpisce soltanto gli Atridi, né la sola Micene è autorizzata a vendicarsi al suono delle armi ... - Ma basta che siano periti una volta! ... - Dovrebbe esser bastato il vecchio peccato per convincerli a odiare per sempre
fatto più di quanto le era concesso. Turno, quando è preso dall'entusiasmo o dall'ira, dimentica perfino il rispetto dovuto alla divinità. 170-182. Ho il mio destino anch'io, ecc.: anche Turno ha il suo destino: quello di sterminare con le armi « la gente scellerata » che gli ha «rapito la sposa»; e fonda la sua fiducia evidentemente nella consapevolezza del suo valore, negli ammonimenti di Aletto e nelle più recenti assicurazioni di Iride. - Un simile dolore, ecc.: allude al rapimento di Elena, moglie di Menelao, re di Argo, compiuto dal troiano Paride, e alla decisione di Agamennone, re di Micene e fratello di Menelao (Atridi, perché
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figli di Atreo) di riprendere Elena e di vendicare l'offesa con la guerra. Micene, città del Peloponneso, qui sta per tutta la Grecia. - Ma basta che siano, ecc.: Turno immagina che l'obiezione gli possa essere fatta da un interlocutore, ed egli tosto risponde che avrebbe dovuto bastare il rapimento di Elena, pagato caro con la distru· zione della loro città, a convincere i Troiani che non dovevano ora ripetere lo stesso errore privandolo di Lavinia, la sua promessa sposa. Cioè, in sostanza, Turno vuoi dire che i Troiani avendo com· messo una nuova colpa dovranno subire una nuova· espiazione, ed egli condurrà contro di loro una guerra
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di qud poco di muro che ci separa, fragile difesa contro la morte! Ma non han visto le mura di Troia, costruite da Nettuno in persona, inabissarsi in fiamme? Su, gente scelta, chi di voi viene con me a distruggere il vallo, all'assalto dd campo spaventato? Non ho bisogp.o delle armi di Vulcano o di mille navi contro i Troiani: abbiano pure tutti gli Etruschi dalla loro. E non temano che a notte, uccise le sentinelle sulla rocca, i Latini portino via il Palladio codardamente: no, noi non ci chiuderemo nd ventre d'un cavallo, ma siamo ben decisi a dar fuoco alle mura di giorno, apertamente. Farò in modo che i Teucri si rendano conto di non aver da fare coi giovani pelasgi: gente che il solo Ettore bastò a tener lontana dieci anni. E ora, o guerrieri, poiché è trascorsa la parte migliore del giorno usate il tempo che avanza a ristorare le forze, lieti dei primi successi, ed abbiate fiducia: presto ci sarà dato attaccare battaglia».
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dere l'aiuto degli Etruschi, Turno l'aveva saputo da Iride (v. u sgg.). - E non temano, ecc.: allude qui, sempre con accentuata ironia, all'impresa di Ulisse e Diomede che rapirono la statua di Pallade (il Palladio) custodita sulla rocca di Troia e che, conservata lassù, avrebbe impedito la caduta della città; e allude anche al famoso cavallo di Troia, con il quale i più famosi guerrieri greci furono introdotti nella città per appiccarvi il fuoco ed aprire le porte ai compagni. - Farò in modo che i Teucri, ecc.: continua il soliloquio di Turno, presuntuoso e ironico al punto da considerare se stesso superiore a tutti i guerrieri greci. I Pelasgi, secondo Omero, si sarebbero diffusi in Tessaglia; secondo altri autori posteriori su tutta la Grecia; qui comprende tutti i Greci. VEGLIA D'ARMI ED EuRIA-
LO E NISO (200-546). - I
implacabile, fino alla distruzione totale di questi scellerati. - costruite da Nettuno, ecc.: secondo la "leggenda Laomedonte aveva costruito le mura di Troia con l'aiuto di Nettuno; e ciononostante furono insufficienti a difendere la città dagli assalti dei Greci. Tanto meno, quindi, potevano resistere agli attacchi di Turno le difese frettolosamente costruite intor- · no all'accampamento troiano. Ma tutto il passo con i suoi accenni storici e le sue considerazioni che Turno, in forma dialogica, fa a se stesso nel mezzo della battaglia, in attesa di un nuovo assai-
to, sembra che non corrisponda al carattere del personaggio, tutto fuoco e azione, pur senza aggiungere che l'inutile soliloquio nuoce alla scioltezza della narrazione. r84-199· Non ho bisogno, ecc. : allude alle armi di Achille costruite da Vulcano (Il., XVII, 478 sgg.), ma questa ironica fanfaronata contro il più forte di tutti gli eroi creati dalla fantasia dei poeti e contro l'esercito greco, cui si riferiscono le « mille navi >>, si ritorce contro lo stesso Turno, coprendolo di ridicolo. - abbiano pure tutti gli Etruschi: che Enea si fosse recato a chie-
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Troiani vigilano attelltamente sulle mura del campo; e di guardia ad una porta sono Eurialo e Niso, legati fra loro da fraternfl amicizia. Niso, più avanti con gli anni dell'amico, comunica a Eurialo l'intenzione di uscire dal campo per far conoscere a Enea la situazione pericolosa in cui si trovano i T roiani. Eurialo rimarrà nell'accampamento a sostegno della vecchia madre e per dare onorata sepoltura all'amico, se il caso vorrà ch'egli soccomba. Ma Eurialo afferma con insistenza di voler essergli compagno; e, fattoli sostituire nella guardia da altri, va con Niso a proporre
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il loro intento ai capi. Asca- 200 Si incarica Messapo di presidiare le porte nio e i capi, raccolti a condell'accampamento troiano con posti di guardia, siglio per deliberare sul modi circondare le mura coi fuochi dei bivacchi. do di condurre la difesa del Quattordici capi rutuli dovranno sorvegliare campo e di comunicare con Enea, accolgono commossi la le mosse del nemico: ai suoi ordini ognuno proposta dei due giovani; il ha cento giovani, fieri dei loro rossi pennacchi, saggio Alete esalta il loro 20S lucenti d'oro.. Vanno in su e in giu, vigilando, coraggio e Ascanio fa ai due giovani molte promesse, ansi danno il cambio o stesi nell'erba s'abbandonano che di aver cura della madre al vino alzando al cielo il fondo dei boccali di Eurialo, nel caso ch'egli di bronzo. Fuochi brillano da ogni parte; la guardia non tornasse. I due amici, passa la notte insonne giocando ... protetti dalle tenebre della 210 notte, escono e, passando atD'in cima alle mura i Troiani s'accorgono traverso il campo dei Rutuli, di quanto avviene ed occupano in armi i bastioni; approfittano del loro sonno trepidi di paura rafforzano le porte, pesante per far strage di nemuniscono di ponti i baluardi avanzati, mici. Eurialo s'adorna anche delle loro spoglie. I due gio- 21S ammucchiano i proiettili. Dirigono i lavori vani, mentre proseguono il Mnèsteo e il forte Seresto: che il padre Enea panendo cammino, incontrano trecennominò responsabili di un'eventuale difesa. to cavalieri latini e tentano lo scampo con la fuga; ma La truppa, dividendo il pericolo, vigila mentre Niso riesce ad inollungo le mura, ognuno al posto avuto in sorte. trarsi in un bosco e far perPresidiava una porta Niso, il forte guerriero dere le sue tracce, Eurialo, 220 figlio d'Irtaco, maestro nel lancio del giavellotto carico di spoglie nemiche, è raggiunto. Niso ritorna sui e delle rapide frecce, mandato con Enea suoi passi e scorge Eurialo e per la solerzia con la quale 200. Messapo: v. VII, 793· che sta per essere sopraffatadempiono le mansioni lo214. muniscono di ponto. Che cosa farà per salvati ... avanzati: per mezzo di ro affidate. re l'amico? Invocata la luna, 220. Niso: a questo punlancia un giavellotto, che ponti prefabbricati uniscono ai bastioni, costituenti la dito ha inizio uno degli episocolpisce a morte Sulmone, di più gentili e delicati di poi un altro che raggiunge fesa principale dd campo, le tutto il poema: testimonianT ago. Volcente, non poten- opere di difesa avanzate (bado vendicare gli uccisi sul- luardi): specie di torri de- za purissima della umana sensibilità di Virgilio. La l'autore della strage, si sca- vate oltre i bastioni a difebaldanza eroica dei due gioglia su Eurialo con la spada sa soprattutto delle porte. Attraverso i ponti gli assevani, la nobiltà dei loro sensguainata. A quella vista Ni· diati accedevano alle torri timenti e della loro iniziatiso esce dal nascondiglio gri· dando di essere il solo col- e potevano ritirarsi sui ba- va, l'amicizia condotta fino stioni nel caso che la torre al sacrificio supremo fanno pevole, ma la spada di Vol- venisse incendiata o abbatdi questo episodio l'esaltacente ha ormai squarciato il tuta dal nemico. zione più sublime dd valopetto del giovane amico. Nire sfortunato, cui attinsero il 215. ammucchiano i proso infuriato si slancia allora iettili: portano sulle torri poeta latino Stazio (Tebaide, su Volcente e l'uccide; poi ogni specie di proiettili da X) per ideare la scena comcrivellato di ferite si lascia lanciare contro i nemici. movente dei due giovani acadere esamine sul corpo mici Opleo e Dimante, i 216. Mnèsteo... Seresto: dell'inseparabile Eurialo. Il sono due troiani ricordati anpoeti italiani Ariosto (Orl. poeta, commosso, predice ai che in altri punti dd poema Fur., XVIII) e Tasso (Ger. Lib., XII), il primo per l'edue giovani gloria immortale. per la loro fedeltà ad Enea
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da sua madre Ida, ninfa cacciatrice. Con lui c'era Eurialo, il piu bello di tutti gli Eneadi il piu ragazzo di quanti portarono armi troiane, dal volto appena fiorito d'una peluria leggera. E tutti i due s'amavano d'un identico affetto, stavano sempre insieme, correvano insieme a battaglia: anche allora montavano di guardia alla stessa porta. Dice Niso: «I Celesti forse infondono all'anima dell'uomo quest'ardore che sento, Eurialo, o forse per ognuno diventa Dio la propria violenta passione? Da tanto il cuore mi sospinge a combattere o a fare qualche cosa di grande, non vuole accontentarsi della placida quiete. Guarda i Rutuli, come sono sicuri di sé e della situazione. Pochi fuochi risplendono, i soldati riposano in preda al sonno e al vino, c'è un gran silenzio intorno. Senti allora che idea s'è levata improvvisa nella mia mente. Tutti, i capi come il popolo, vorrebbero che Enea venisse richiamato, che un messaggero vada a dirgli quanto accade. Se mi daranno quello che .chiederò per te (a me basta la gloria dell'impresa) andrò io: laggiu, sotto quel poggio, mi sembra di riuscire a trovare una strada che conduca alla rocca e ai muri pallantei ». Eurialo, pensoso, posseduto da immenso desiderio di gloria, stupi; all'ardente amico risponde: «Forse, Niso, non vuoi che ti accompagni in questa splendida azione? Credi che io ti lasci andare solo incontro a un pericolo estremo? pisodio di Cloridano e Medoro, il secondo per quello di Argante e Clorinda. Niso, figlio di Irtaco e di Ida, una ninfa cacciatrice, era con Enea, mandatovi dalla madre, fin dagli anni primi dell'assedio di Troia. 224. Eurialo: il più bello di tutti i compagni di Enea ed anche il più giovane. 230-247. I Celesti forse, ecc.: Niso domanda ad Eu-
rialo: l'ardore ch'io sento me lo ispirano gli dèi, oppure per ognuno diventa un dio la sua irrefrenabile passione? Cioè il giovane troiano si sente trascinato da una forza irrefrenabile e si chiede se essa sia un'ispirazione divina, oppure un'intima suggestione del suo spirito. Niso è dunque tutto pervaso da un soffio potente di idealità; e questo suo ine-
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stinguibile ardore gli fa parer bello il rischio e, se occorre, anche il sacrificio; egli ha meditato a lungo e già maturato il disegno che lo condurrà alla morte e all'immortalità. - Guarda i Rutuli, ecc.: i Rutuli, fiduciosi della propria superiorità e sprezzanti del nemico hanno rallentato la vigilanza e spento quasi tutti i fuochi. - i capi come il popolo, ecc. : i due vocaboli non richiamano istituzioni romane dei tempi di Virgilio, ma indicano semplicemente l'insieme dei Troiani, anziani e giovani combattenti. - che chiederò per te: Niso chiederà una ricompensa per quanto farà, ma vorrà che essa sia data a Eurialo; egli si accontenterà della gloria. Quale compenso intenda chiedere non dice, né dirà in seguito, poiché sarà prevenuto dalle promesse di Ascanio. - ai muri pallantei: alla città di Evandro, Pallanteo, dove sapeva che Enea si era reca to. 248-259. Eul'ialo ... stupì: è naturale che Eurialo, cosi· giovane e inesperto della vita, siasi meravigliato e stupito del progetto di Niso. Ma è solo impressione momentanea. Tosto, l'ammirazione per la coraggiosa decisione dell'amico, il desiderio di imitarlo e la preoccupazione di non !asciarlo che affronti il rischio da solo, fanno si che Eurialo dallo stupore passi rapidamente alla decisione di accompagnarlo nell'impresa. Anch'egli vuoi essere, come l'amico, un eroe! ... - Credi che io ti lasci, ecc.: Eurialo sente per l'amico cosi grande tenerezza che, se lo lasciasse partire solo, gli sembrerebbe di get-
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tarlo egli stesso in braccio al pericolo.- Mio padre Ofelte, ecc.: Eurialo teme che Niso non abbia fiducia nel suo coraggio, e per questo motivo rifiuti di averlo con sé nell'impresa. Perciò egli accenna all'educazione « non ... da vile » impartitagli dal padre negli anni della guerra in difesa di Troia. - e non ho ... mai... con te: l'espressione è poco chiara, ma Eurialo intende., dire che non ha mai compiuto azioni tali da meritare la disistima di Niso, seguendo il magnanimo Enea. Sono parole che hanno il senso di un legittimo orgoglio per aver egli saputo corrispondere pienamente al riconoscimento del suo c:oraggio da parte di Enea quando lo scelse per andare incontro ai gravi pericoli del lungo viaggio e del trasferimento ih una nuova terra. 260-274.Non temevo quello, ecc.: nota l'amorevole insistenza, rinforzata dal successivo giuramento, con la quale Niso vuoi togliere dall'animo dell'amico ogni sospetto. C'è nelle sue parole la serena compostezza delle anime grandi, dei veri eroi. L'unica sua gioia sarà quella di ritornare salvo a rivedere l'amico. - vorrei che tu sopravvivessi: nota l'uso del condizionale: Niso non ha ancora la certezza di convincere l'amico a rimanere. Quando egli sarà certo che gli sopravviverà, andrà più tranquillo incontro al pericolo. - sottratto alla mischia o riscattato: Niso conferma cosi indirettamente la sua fiducia illimitata nell'affetto dell'amico e nel suo valore. affiderà alla terra il mio corpo: considerando che gli an-
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Mio padre Ofelte, avvezzo alla guerra, non m'ha educato da vile, indurendomi in mezzo ai travagli di Troia, nel terrore dei Greci: e non ho agito mai cosi con te, seguendo il magnanimo Enea e la sua sorte ultima. Ho un cuore che disprezza la vita e crede bene pagare con la vita la gloria che tu cerchi ». E Niso: «Non temevo quello che credi, no, non l'avrei mai potuto; cosi il gran Giove, o chi dei Celesti rivolge un occhio favorevole ai miei progetti possa riportarmi in trionfo, e salvo, a te! Ma se il caso (come succede spesso, lo sai, in simili imprese) o un Dio mi trascinassero alla rovina, vorrei che tu sopravvivessi: la tua tenera età è piu degna di vivere. Avrò cosi qualcuno che affiderà alla terra il mio corpo, una volta sottratto alla mischia o riscattato: o almeno - se il Fato non vorrà qualcuno che onori d'un sepolcro e di offerte funebri l'ombra assente. Non voglio essere causa di dolore a tua madre, la sola che abbia osato seguirti, abbandonando il regno del grande Aceste ». «Che pretesti da nulla! - Eurialo gli rispose. - Ho deciso: impossibile farmi cambiar parere. Affrettiamoci! ». Subito sveglia le sentinelle,
tichi credevano che l'anima del defunto non poteva trovare riposo nell'oltre tomba per cent'anni, se le sue spoglie mortali non venivano composte nellii quiete del sepolcro, la considerazione di Niso, già così naturale e umana, assume un valore ed un significato molto più profondi. - o almeno... qualcuno, ecc.: e se la sepoltura non sarà possibile, ci sia qualcuno che si prenda cura di rendere onore alle mie ossa lontane con un cenotafio. Gli antichi, quando non potevano ricuperare il corpo del defunto, innalzavano in suo onore un cenotafio, al quale portavano egualmente
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le offerte votive. - causa di dolore a tua madre: quanta delicatezza in questo commovente accenno, che assume quasi la mesta funzione di preludio alla sciagura che colpirà la sventurata madre! L'anima virgiliana è cosl ricca di umanità e spazia in un mondo cosl vasto che, accanto agli eroi, che combattono, sa collocare anche un'umile madre. 277. Affrettiamoci: Eurialo non avrebbe potuto confutare gli argomenti di Niso, realistici e seri; né avrebbe durato a lungo senza tradire la commozione suscitatagli nel cuore dalle parole che gli hanno ricordato la madre. E-
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che danno loro il cambio. Lasciato il posto di guardia Eurialo e Niso vanno a cercare il re Ascanio. Tutti gli altri viventi per tutta la terra scioglievano nel sonno gli affanni e i cuori obliosi delle fatiçhe: i primi capi dei Teucri e i giovani piu scelti tenevano consiglio di guerra, discutendo il da farsi e chi mandare a Enea con le notizie. Appoggiati alle loro lunghe aste, imbracciando lo scudo, se ne stavano al centro del campo. Eurialo e Niso domandano impazienti d'essere ammessi subito, per cosa che davvero vale l'interruzione. Ascanio li riceve per il primo e comanda a Niso di parlare. Il figlio d'Irtaco dice: « O compagni d'Enea, ascoltate benevoli, e anche se siamo giovani non sottovalutate quello che proponiamo. Tutti i Rutuli tacciono, in preda al sonno e al vino; noi abbiamo scoperto un luogo adatto all'insidia, al bivio che mena alla porta piu prossima al mare. I fuochi sono spenti, un fumo nero sale alle stelle: se voi lnsciate che si approfitti dell'occasione e si vada alla città pallantea in cerca del grande Enea, ben presto ci vedrete tornare col bottino, compiuta grande strage. Non sbaglieremo strada; andando sempre a caccia abbiamo visto in fondo a una valle boscosa le prime case, l'inizio della città di Evandro, ed abbiamo esplorato tutto il corso del fiume». Allora Alete, vecchio e saggio: « Dei della patria, la cui maestà protegge sempre Troia: davvero non volete distruggerci del tutto, se ci date giovani di coraggio simile, cuori tanto risoluti! ». Cosi parlando li abbracciava entrambi stringendo loro le mani, rigando il volto di lagrime. E poi: «Che degna ricompensa potremo mai offrirvi per queste gesta? Il dono piu bello ve lo daranno gli Dei e le vostre doti; ra meglio quindi troncare la discussione e porre l'amico di fronte ad una decisione definitiva. 279. il re Ascanio: Asca-
nio sostituiva in quel momento il padre lontano; questo è il motivo che giustifica il «re». 280. Tutti gli altri viven-
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ti, ecc.: nota il senso di serenità e di abbandono, sottolineato anche dalla lentezza ritmica dei versi, di questa descrizione della notte; e nota anche il contrasto che la calma della notte, riposo e ristoro a tutti i viventi, forma con la scena dei capi troiani, i quali, nell'accampamento assediato dal nemico, ignari del sonno, sono preoccupati di trovare il modo di resistere all'assalto imminente. 289. vale l'interruzione: l'interruzione del consiglio sarebbe stata compensata largamente dall'importanza della loro proposta. 290. per il primo: Ascanio, che sostituisce il padre ed è quindi capo del consiglio, ha il diritto di essere il primo a rivolgere la parola ai due amici. 295. adatto all'insidia: qui però, più che di insidia, &i tratta di una sortita clandestina. 300-301. ben presto ci vedrete, ecc.: sono parole che aggiungono alla proposta una assoluta sicurezza di riuscire nel proprio intento e di ritornare nell'accampamento con Enea e i suoi compagni. 306. Alete: vecchio compagno di Enea, già ricordato anche nel canto I, v. 146. 308. non volete distruggerci del tutto, ecc.: il pensiero va completato: anche se avete permesso la distruzione della nostra città, se ci concedete di avere ancora giovani cosl. coraggiosi, non mi sembra che vogliate ecc. 3 14. le vostre doti: la vostra coscienza. La soddisfazione morale di aver compiuto un'azione buona, soprattutto il proprio dovere, è
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la ricompensa più bella e più ambita per chi sente la grandezza e il fascino dei valori ideali della vita.
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315-317. il pio Enea, ecc.:
il vecchio Alete intende dire che Enea, riconoscente (pio), li ricompenserà, ma che più a lungo potrà tener conto dei loro meriti il giovane Ascanio, che ha davanti a sé ancora tutta una vita. 318-324. io, che spero salvezza, ecc.: Ascanio, chiamato in causa da Alete, esprime anzitutto la sua inquietudine per l'assenza del padre, il quale era l'unico, per lui, che potesse assicurare la salvezza dei Troiani dall'imminente attacco nemico; poi assicura i due giovani della sua gratitudine, confermando le promesse di Alete e promettendo altri ricchi premi; e giura sui Penati, protettori della famiglia e della patria, che è una più grande famiglia, e sul Lare (anima, spirito) di Assaraco, già re di Troia c nonno di Anchise (perciò fondatore della linea collaterale della casa regnante troiana), ch'egli pone nelle loro mani tutte le sue speranze, perché legat-e al ritorno di suo padre. - della canuta Vesta: Vesta, come simbolo del focolare domestico, rappresenta la continuità della stirpe ed aveva il suo culto accanto ai Penati e ai Lari. Il giuramento di Ascanio su queste divinità è quindi in relazione al ritorno di Enea. 32 6. Arisba: città della Troade che sarebbe stata conquistata in guerra da Enea prima della guerra troiana, ma poi accolta come alleata e amica, se durante la guerra di Troia Omero la dcorda tra i difensori della città assediata dai Greci.
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il pio Enea farà il resto insieme a Julo, che è giovinetto e mai potrà dimenticare tanti meriti». «Anzi - dice subito Ascanio, - io, che spero salvezza soltanto dal ritorno di mio padre, vi giuro, o Niso, sui Penati e sul Lare d' Assaraco e sui santi segreti della canuta Vesta: tutte le mie fortune, tutte le mie speranze sono affidate a voi! Chiamate il grande Enea, e riportatelo qui; se ritorna fra noi nulla potrà piu nuocerei. lo vi darò due tazze d'argento, cesellate, che mio padre ebbe in premio alla presa di Arisba, due tripodi, due grossi talenti d'oro, un antico cratere, regalo della sidonia Didone. Se poi, vittorioso, potrò conquistare l'Italia e il suo scettro e assegnare il bottino ... Hai visto su che cavallo andava Turno, di quale armatura dorata si veste? Quel cavallo, lo scudo e il cimiero di porpora non li sorteggerò, Niso, sono già tuoi sin da adesso. Ed inoltre mio padre ti darà dodici donne scelte, dal corpo meraviglioso, dodici prigionieri con tutte le loro armi, l'intera proprietà terriera personale del re Latino. E tu, Eurialo, stupendo giovinetto, piu vecchio di me solo di pochi anni: con tutto il cuore t'abbraccio e ti prescelgo mio compagno, in eterno, in ogni mia fortuna. Non cercherò nessuna gloria, nessuna impresa senza di te, sia in pace che in guerra: avrò fiducia sempre nel tuo consiglio e nel tuo braccio». Eurialo allora gli risponde:
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intendi: grosse somme di danaro. La diversità di peso dei talenti presso i diversi popoli antichi non consente la conoscenza del loro valore. 328. sidonia Didone: «sidonia » perché proveniente dalla Fenicia, di cui Sidone era la città principale. In realtà Didone era però fuggita da Tiro. 1"0:
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333· non li sorteggerò: il bottino di guerra era assegnato ai combattenti per sorteggio. Prima della divisione della preda il capitano aveva però il diritto di scegliere per sé e per i combattenti migliori qualche oggetto particolare. 337. l'intera proprietà, ecc. : oggi si direbbe: i beni
della corona.
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«Non sarò mai diverso da come oggi mi vedi, pronto a tutto: purché la fortuna benevola non diventi contraria. Ma piu di qualsiasi dono ti domando una cosa: con me c'è la mia mamma della vecchia famiglia di Priamo. Infelice: né la terra di Dardano né la città di Aceste riuscirono a impedirle di partire con me! Ora la lascio all'oscuro del rischio che affronto, qualimque .esso sia, senza nemmeno un saluto - ne chiamo a testimoni la tua mano e la notte perché non potrei sopportare le lagrime di mia madre. Ti prego tanto, consolala, conforta il suo abbandono! Lascia che io sappia che tu t'occuperai di lei, andrò piu audacemente incontro ai pericoli!» Commossi i Dardanidi scoppiarono in lagrime: piu degli altri il bel Julo. L'amore paterno gli stringe il cuore di pena... « Eurialo - dice - cre[dimi, tutto sarà ben degno delle tue grandi imprese. Tua madre sarà la mia, le mancherà solo il nome di Creusa: non è certo un merito da poco 346. Non sarò mai diverso, ecc.: queste prime parole del discorso di Eurialo, che sono una lode rivolta a se stesso, sono poco felici sulla sua bocca. 349-359· ti domando una cosa: con me, ecc.: questa preghiera di Eurialo « è uno dei passi- annota G. B. Malesani - più commoventi e altamente poetici di tutta l'Eneide, pur tanto ricca di sentimento. L'accento accorato alla madre, che rende al giovane la voce tremante e gli mette sul ciglio una lagrima furtiva, è un tocco di profonda umanità. È l'eterno contrasto tra il sentimento' e il dovere, fra il cuore e la ragione, che rende più nobile il sacrificio e si placa con la divina luce dell'ideale. Storia di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Chi non ricorda, o
non ha sentito parlare di tanti adolescenti, che durante la Grande Guerra, attratti dal fascino del dovere e della gloria, abbandonavano di notte, con il cuore angosciato, la casa paterna e poi dal campo di battaglia scrivevano ai genitori lettere traboccanti di ten~rezza? ». - della vecchia famiglia di Priamo: è un accenno alla nobiltà della madre, fatto di sfuggita, per giustificare con un motivo di più la sua raccomandazione; ma non ne dice il nome, perché quella madre, vissuta nell'ombra e dedita unicamente al suo giovane figlio, appartiene soltanto a lui. - la terra di Dardano ... città di Aceste: né la santa memoria della patria (la terra di Dardano), né gli agi di Egesta (città della Sicilia, fondata dal troiano
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Aceste, che accolse Enea e fece i funerali ad Anchise) riusciranno a staccare questa madre dal figlio: tanto grande era l'amore materno di questa donna. - ne chiamo a testimoni, ecc.: il giovane Eurialo prova rimorso di partire per una impresa rischiosa senza salutare la madre, ma teme di non poter sopportare le sue lagrime. E si appella alla notte, cui sta per affidarsi, e alla .sacra destra del principe, perché attestino che nessun altro motivo lo spinge a partire senza commiato. Il suo appello alIa notte può anche significare che la sua ardimentosa impresa potrà essere avvolta nell'oscurità, ma non potrà mai essere avvolta nel dubbio la sua tenerezza filiale. - Lascia che io sappia, ecc. : la certezza di aver lasciato alla madre un altro figlio lo spingerà ad andare incontro ai pericoli con maggiore audacia: questo sarà il pensiero che Io accompagnerà nel suo cammino verso la morte. 361-362. L'amore paterno, ecc.: Ascanio si commuove ... ; egli ha compreso che l'amore filiale di Eurialo si fonda anche sull'amore sviscerato della madre per lui, e ciò gli fa pensare a suo padre non meno tenero e affettuoso, e questo pensiero « gli stringe il cuore di pena ... ». 364-366. le mancherà ... di Creusa: intendi: sarà considerata da me come madre mia, ed avrò per lei tutto l'amore che avevo per mia madre Creusa. La moglie di Enea, madre di Ascanio, era scomparsa misteriosamente nella notte della fuga di Enea e dei suoi da Troia in-
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cendiata. - non è certo un merito, ecc.: a colei che ha generato un tale figlio non spetta una piccola riconoscenza, qualunque sia l'esito del tuo viaggio. 367-369. Lo giuro sul mio capo, ecc.: Enea era solito giurare sul capo del figlio, la persona a lui più cara; Ascanio giura invece sulla sua vita, perché Enea, la persona che gli è più cara, non è presente. 371-375. dalla spalla una spada, ecc.: anticamente il guerriero non cingeva la spada al fianco, ma l'appendeva ad una tracolla che scendeva dalla spalla destra al fianco sinistro. - Licaone di Cnosso: personaggio mitico che appare soltanto qui. Virgilio lo considera un eccellente artefice di Cnosso, città dell'isola di Creta, ove si costruivano armi molto pregiate. 380-381. ma il vento li disperderà, ecc.: è un'osservazione soggettiva, del poeta, che anticipa i fatti, senza togliere nulla al fascino del racconto. Anzi, poiché essa è nata dalla profonda sensibilità del poeta, commosso dal contrasto ch'egli vede già delinearsi tra le aspirazioni ideali e la fragilità della natura umana, aggiunge alla narrazione un'ansiosa incertezza, che suscita maggiore interesse nell'animo del lettore. 385-389. Vedono corpi sparsi nell'erba, ecc.: tutto è disordine nel campo nemico; e i soldati, avvinazzati, dormono profondamente. L'occasione propizia invita i due giovani a far strage degli avversari. 396. Ram ne te: è nome che appare qui soltanto, suggeri-
averti dato alla luce, comunque vada il tuo viaggio. Lo giuro sul mio capo, come soleva fare
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prima mio padre: darò a tua madre ed ai tuoi quel che darei a te se torni sano e salvo». Disse cos{, piangendo, e intanto si sfilava dalla spalla una spada dorata che Licaone di Cnosso aveva forgiato con arte meravigliosa, munendo la lama scorrevole d'una guaina 4;avorio. Mnèsteo regala a Niso la pelle d'un velloso'leone: il fido Alete scambia l'elmo con lui. Essi s'avviano, armati: tutti i migliori, giovani e vecchi, li accompagnano alle mura con molti auguri. Julo, che ha cuore e cervello da uomo prima di averne l'età, detta loro messaggi per il padre: ma il vento li disperderà tutti, li affiderà alla corsa delle nuvole in cielo. Usciti dalla porta scavalcano il fossato, e nella notte buia s'avviano verso il campo nemico, dove morranno, ma dopo immensa strage di Latini e di Rutuli. Vedono corpi sparsi nell'erba, qua e là, in preda al sonno e al vino: sul lido vedono i carri staccati, col timone in alto e, tra le briglie e le ruote, vino, armi, soldati addormentati. Il figlio d'lrtaco disse: « Eurialo, ora bisogna aver coraggio, uccidere; la situazione lo chiede. Non abbiamo altra via. Tu sta in guardia e controlla di lontano, se mai non arrivi qualcuno a prenderei alle spalle; io farò strage qui, ti sgombrerò il cammino». Mormora appena e subito silenzioso attacca con la spada il superbo Ramnete che russava a piena gola steso su un mucchio di tappeti: re importante e profeta favorito di Turno, la sua scienza augurale non fu capace a salvarlo. Accanto a lui giacevano, sdraiati alla rinfusa fra le armi, tre servi di Remo: Niso u,ccide
to al poeta quasi certamente da quello di una delle più antiche tribù di Roma. Virgilio si diverte a fare di questo personaggio un re indovino e a beffeggiarlo subito dopo
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di non aver saputo prevedere la sciagura che gli sarebbe capitata addosso. 401. Remo: guerriero nominato qui soltanto, ma il poeta gli attribuisce una cer-
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costoro, poi sorprende lo scudiero di Remo, poi l'auriga allungato proprio sotto i cavalli (sporgeva solo il collo, che taglia con la spada): infine mozza la testa al loro stesso padrone e ne abbandona il tronco palpitante nel sangue; i giacigli e la terra s'intiepidiscono, molli di sangue nero. Niso uccide ancora Lamo e Lamiro e Serrano che qudla notte aveva giocato per molto tempo e ora giaceva - splendido di giovenru e bellezza - vinto dal troppo vino; felice lui, se avesse continuato a giocare per tutta quanta la notte, sino alla luce dell'alba! Cosi un leone digiuno, terrore dell'ovile, (una fame rabbiosa lo sospinge) divora e sbrana il gregge timido, muto per la paura, e rugge orrendamente, la bocca insanguinata. Nemmeno Eurialo fa minore strage, infuria acceso d'ira e s'avventa su molta gente affatto sconosciuta; ma abbatte anche Fado ed Erbèso e Abari che dormivano ignari di tutto, e Reto che era sveglio e vedeva. tutto invece. Impaurito Reto s'era nascosto dietro un grande cratere: stava alzandosi quando, venutogli vicino, Eurialo gli affondò la spada sino all'elsa nel petto, ritraendola poi umida di morte. Cosf Reto esalò un'anima fatta rossa dal sangue e dal vino. Eurialo continuava furtivamente a uccidere: ed arrivava già agli uomini di Messapo, dove vedeva spegnersi l'ultimo fuoco e i cavalli, legati, brucare l'erba. Quand'ecco Niso (scorto l'amico accanirsi troppo nella strage) sussurra: «Andiamo via, la luce ta importanza, se combatte sul cocchio ed è accompagnato, oltre che dall'auriga, anche dallo scudiero. 406. palpitante nel sangue: la scena della strage è tutta un susseguirsi di particolari raccapriccianti, ma a questo punto raggiunge anche il culmine dell'orrore. 408-409. di sangue nero:
il sangue coagulandosi si oscura. - Lamo e Lamiro e Serrano: son0 altri nomi di Rutuli uccisi, tutti personaggi sconosciuti. Probabilmente sono nomi d'invenzione virgiliana. 4I2-413. felice lui, se avesse, ecc.: se avesse protratto il gioco per tutta la notte si sarebbe salvato dalla mor-
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te e forse avrebbe anche impedito la strage. L'Ariosto ha imitato questo particolare nell'episodio di Ooridano e Medoro, ma dandogli un tono ironico, mentre quello di Virgilio sembra esprimere un senso di commiserazione per la giovane età e la bellezza della vittima. 414·417. Così un leone, ecc : la similitudine non è originale (trae origine da Omero, Il., X, 485 sgg. e XII, 299 sgg.), ma dà un'immagine adeguata al furore sanguinario del giovane guerriero. Inoltre essa interrompe la descrizione della strage, che rischia di diventare eccessivamente orrenda o di ingenerare monotonia. 418-43I. Nemmeno Eurialo, ecc.: Eurialo trasgredisce la consegna di fare la guardia all'amico, e spinto dal desiderio di non essere da meno di Niso, mena la spada con egual furore. Tra le sue vittime il poeta ricorda particolarmente Reto, che, sveglio, aveva visto tutto, e impaurito, per sfuggire alla morte, s'era nascosto dietro un grande cratere. È un atteggiamento puerile ed anche un po' comico, ma pensando al troppo vino da lui bevuto, anche naturale: sono sempre strane e imprevedibili, come quelle dei bambini, le azioni degli ubriachi. - un'anima fatta rossa: gli antichi credevano che lo spirito vitale avesse sede nel sangue; perciò il poeta immagina che l'anima di Reto esca con il sangue e con il vino, assumendone anche il colore. 433-434· la luce nemica s'avvicina: i due amici finora avevano agito protetti dal-
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l'oscurità della notte; ora spunta l'alba (lo indicano anche i cavalli che brucano l'erba, e la luce li può tradire. 437· crateri: grandi vasi a bocca molto larga, da cui i Greci e i Romani, nei banchetti e nelle comuni libagioni, attingevano il vino mescolato con l'acqua. 438. falere: decorazioni militari consistenti in piastre di metallo cesellato, o borchie, che i soldati romani portavano sul petto. 440-443. Cèdico... Remulo: nomi ed episodio sono creazioni virgiliane. Presso gli antichi il vincolo di ospitalità poteva essere stretto anche a distanza. La vicenda della cintura qui non risponde ad esigenze artistiche, ma all'influenza dell'epica greca, e manca perciò di ogni interesse, anche per il tono piuttosto scialbo dell'esposizione. 451. per i campi: nella pianura. La situazione presentata da questi versi non è molto chiara, poiché la presenza sui campi di Laurento del « grosso » dell'esercito di Turno contrasta con il verso 30, in cui il poeta afferma che il re dei Rutuli s'era avviato contro i Troiani «con tutto l'esercito». Per dare alla narrazione un senso logico occorre quindi supporre che Turno, sollecitato da Iride, sia partito da Laurento in tutta fretta con una parte dell'esercito e che il grosso di esso sia rimasto nella campagna intorno alla città latina a completare la sua preparazione, con l'ordine di avvertire il re guerriero, quando fosse pronto a raggiungerlo. Ora i capi di queste truppe
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nemica s'avvicina. Ci siamo vendicati abbastanza, la strada attraverso i nemici è già aperta!». Abbandonano molte armature fatte di grosso argento e crateri e stupendi tappeti. Eurialo prende le splendide falere di Ramnete ed il suo cinturone ornato di borchie d'oro. Un tempo il ricco Cèdico mandò quella cintura a Remulo di Tivoli, stringendo con il bel dono un legame ospitale, malgrado la lontananza. Remulo morendo la dette al nipote; in battaglia la conquistarono i Rutuli, ucciso chi la portava: ora è di Eurialo che invano la adatta alle forti spalle. Il giovane s'infila anche il comodo elmo di Messapo, guarnito di bei pennacchi: e i due escono via dal campo verso luoghi sicuri. Alcuni cavalieri spediti in avanguardia dalla città latina, mentre il grosso attendeva schierato per i campi, venivano a portare un messaggio al re Turno: eran trecento giovani, tutti armati di scudo, guidati da Volcente. S'avvicinavano al campo, erano sotto le mura, e vedono da lontano i due prendere in fretta un sentiero a sinistra: l'elmo tradf l'incauto Eurialo nell'ombra pallida della notte splendendo a un raggio di luna. Quel brilHo fu notato. Volcente d'in mezzo ai suoi grida forte: «Alto là! Dove andate? Perché siete in marcia a quest'ora? Chi siete?». Nessuna risposta: i due corrono in fretta verso il bosco, sperando nel buio. I cavalieri si gettano qua e là verso i noti sentieri bloccandone ogni sbocco con sentinelle armate. Era un bosco foltissimo, per tutta la sua larghezza
mandano innanzi la cavalle- quasi costantemente i termiria per portare a Turno la ni della organizzazione milinotizia da lui attesa. Delle tare di Roma anche per posupposizioni fatte per spiega- polazioni, come qui, primire il passo, questa è la più tive. Sono arbitri concessi soltanto all'arte, anche se irprobabile. razionali. 452. eran trecento giova456. l'elmo tradì l'incanni: il numero corris~onde a quello dei cavalieri assegnati to: è l'elmo di Messapo che generalmente alla legione ro- luccica ai raggi della luna e mana; ed è interessante os- rivela la presenza dei due servare che Virgilio adoperi · guerrieri troiani.
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orrido di cespugli e di lecci d'inchiostro, gremito da ogni parte di fittissimi rovi. Solo pochi sentieri s'aprivano nella macchia. L'ombra densa dei rami e il carico dd bottino impacciavano Eurialo, la paura lo inganna; perde la strada. Intanto Niso se ne va via senza pensare a nulla. Ed era già sfuggito ai nemici lasciando quei luoghi; detti in seguito dal nome di Alba albani (allora il re Latino vi aveva dei profondi pascoli), quando attonito si ferma, rivolgendosi a cercare l'assente amico. « Eurialo infdice dove mai t'ho lasciato? Dove ti cercherò?». Percorrendo di nuovo i sentieri intricati di qud ·bosco ingannevole subito segue a ritroso le tracce dei suoi passi ed erra tra i cespugli silenziosi. Poi sente i cavalli, il rumore, i richiami che lanciano gli inseguitori. Dopo non molto gli perviene un clamore di grida e vede Eurialo, tradito dal luogo e dalla notte, sgomento dal tumulto improvviso, serrato in mezzo ad una squadra nemica e portato via nonostante i suoi sforzi. Che fare? Con quali armi osare liberarlo? Forse è meglio gettarsi nd fitto dei nemici cercando in fretta una morte gloriosa in battaglia? Rapido, tratto indietro il braccio e palleggiato il giavellotto, guardando l'alta Luna la prega: 466. lecci d'inchiostro: di neri lecci. Il leccio, che è una specie di quercia caratteristica della regione mediterranea, ha la corteccia e le foglie di colore scuro. 470. la paura lo inganna: la paura di cadere nelle mani del nemico lo inganna sulla via da prendere per sfuggire alla cattura; cioè gli fa sbagliare strada. 474· dal nome di Alba albani: Virgilio parla spesso di circostanze posteriori ai fatti del poema, note ai suoi concittadini, per meglio identifi-
care una località, ma questi luoghi « detti in seguito ... albani», dal nome di Alba Longa, hanno dato molto da fare a certi commentatori, che si erano illusi di poter individuare la posizione, facendo anche dei calcoli di distanza e di tempo. Ma non si deve pretendere da lui, poeta, la precisione ri· chiesta alla scienza e ad essa riservata. La poesia è creazione fantastica, e non ha quindi, per la sua stessa natura, alcun bisogno di sottostare alle leggi della scienza.
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481. ed erra tra i cespugli silenziosi: quale contrasto tra il silenzio della natura e il tumulto angoscioso che strazia il cuore di Niso! 484-485. tradito dal luogo e dalla notte: il luogo, cioè la selva, ha danneggiato (tradito) Eurialo con l'intrico delle sue piante; la notte con l'oscurità. Il quadro dell'inseguimento dei due guerrieri troiani e della cattura di Eurialo, è ritratto con vivacità di particolari e vivezza di movimenti. Gli intrichi del luogo sconosciuto e l'oscurità della notte, che fanno perdere a Eurialo l'orientamento, il muoversi rapido dei cavalieri nemici per i noti sentieri del bosco e la posta che essi fanno ad ogni sbocco per impedire la fuga, sono pennellate di grande effetto. 488-490. Che fare? Con quali... liberarlo?: i due interrogativi dipingono efficacemente l'incertezza angosciosa di Niso. Egli sente che non può non agire; ma che cosa può fare? Con che cosa? un errore può precipitare la situazione drammatica dell'amico nella più tragica delle conclusioni. Forse è meglio, ecc : nella mente di Niso comincia a insinuarsi il pensiero che Eurialo non possa più sottrarsi alla morte; ed è quindi risoluto a non sopravvivergli. Ma la sua morte al fianco dell'amico deve essere bella e gloriosa, come bella e gloriosa è stata la vita vissuta insieme. 491. palleggiato: fatto oscillare. 492. Luna: oppure Diana (l'Artemide o Cinzia dei Greci), figlia di Giove e di
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Latona. Dea della luce, dei boschi e della caccia, era con Apollo protettrice di Roma. 496. Irtaco: il padre di Niso voleva che il figlio diventasse un buon cacciatore, e a tale scopo faceva sacrifici a Diana, dea della caccia. 497-499· se ne portai molte volte, ecc : era consuetudine degli antichi di ricordare alla divinità, cui si chiedeva aiuto, i doni a lei generosamente dati, e di lusingarla con la promessa di offerte ancor più generose. 11 che diventa naturale quando si pensi che gli antichi concepivano gli dèi dotati degli stessi sentimenti e dei medesimi bisogni dell'uomo. 500. che scompigli il ne· mico: la preghiera di Niso alla Luna, perché essa guidi a buon segno i suoi colpi e, scompigliato il nemico, egli possa liberare dalle sue mani l'amico, è veramente commovente, considerando anche l'assurdità del suo proposito suggeritogli esclusivamente dal sentimento. 502. sferza le ombre dellt1 notte: l'immagine del giavellotto, che colpisce come una frusta l'aria scura della notte e produce così un lungo sibilo, è felicissima. 509. I Latini son lì, tremanti: i cavalieri non hanno ancora superato lo stupore e lo sbigottimento provocato dal primo colpo, di cui non sono riusciti a scoprire la provenienza, allorquando un· secondo giavellotto colpisce un altro cavaliere e lo uccide. 514-515. Tu, intanto, mi pagherai, ecc.: le parole di Volcente sottintendono «dal momento che per ora non posso scoprire il colpevole,
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« O Dea, sii favorevole alla mia impresa, tu che sei lo splendore del firmamento e proteggi, silenziosa figlia di Latona, le selve. Se lrtaco ti portò delle offerte, pregando per me, se ne portai molte volte io stesso - prede delle mie cacce - appendendole in cima alla facciata del tempio o alla volta: deh, lascia che scompigli il nemico, dirigimi quest'arma!» Con tutta la forza del corpo avventa il giavellotto: l'asta volando sferza le ombre della notte e penetra nel corpo di Sulmone, si spezza trafiggendogli il cuore con una scheggia di legno. Il guerriero già freddo rotola a terra, sprizzando caldo sangue dal petto, con un rantolo lungo. Smarriti si guardano attorno. Fìero del suo successo Niso libra un secondo giavellotto all'altezza dell'orecchio. I Latini son li, tremanti: l'asta sibilando attraversa le tempie di Tago, tiepida resta infissa nel cervello trafitto. Il feroce Volcente s'adira ma non riesce a vedere l'autore del colpo ed a capire con chi prendersela. «Tu, intanto, mi pagherai col sangue caldo la morte dei miei compagni!» dice lanciandosi su Eurialo, la spada sguainata. Allora Niso, atterrito, fuori di sé, non può nascondersi piu a lungo nell'ombra e sopportare tanto dolore. Grida: «lo! Sono io il colpevole!
pagherai tu, ecc. ». L'espressione « pagherai col sangue caldo » è rude, ma esprime con efficacia l'ira e il dolore di Volcente; e il suò sfogo, benché ingiusto (Eurialo è innocente), non è una stonatura, specialmente se si pensa che sono sentimenti di uomini primitivi. 517-518. Allora NiJo, atterrito, ecc.: Niso, che aveva iniziato l'impresa con coraggio esemplare e pochi istanti prima non aveva avuto paura di tanti nemici, ora trema di fronte al pericolo mortale che sovrasta l'amico,
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e non riuscendo a dominare l'angoscia, esce dal nascondiglio e affronta il nemico a viso aperto, dimostrando un alto senso dell'amicizia ed un cuore nobilissimo. 519-523. Io! Sono io il colpevole!: la ripetizione concitata del pronome « io » ritrae con vivezza drammatica lo sbigottimento di Niso, che vuole salvare il compagno attirando su di sé l'a ttenzione e la vendetta del nemico, « Io sono, - egli grida, - il vero colpevole; Eurialo ha soltanto la colpa di
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è stato mio. Costui non ha colpa di nulla,
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ne chiamo a testimoni il cielo e le stelle che sanno: ha solo amato troppo il suo amico infelice!)) Tardi. La nuda spada violenta ha già squarciato le costole e trafitto quel petto bianco, puerile. Eurialo è travolto dalla morte, va il sangue giu per le belle membra e il collo senza forza ricade sulle spalle: come un fiore purpureo reciso dall'aratro morendo illanguidisce, come abbassano il capo i papaveri, stanchi sul loro stelo, quando la pioggia li colpisce. Ma Niso si precipita tra i nemici, di tutti vuole solo Volcente, cerca solo Volcente. Intorno a lui i guerrieri premono, da ogni parre lo stringono, fittissimi. Egli insiste, ruotando la spada come un fulmine, finché l'immerge in gola all'urlante Volcente: cosi morendo ruba l'anima al suo nemico. Poi trafitto si getta sul corpo dell'amico esanime e qui infine trova eterno riposo nella placida morte. Tutti e due fortunati! Se valgono i miei versi, se hanno qualche potere, nessun giorno che scorra lungo il fiume del tempo mai vi cancellerà dalla memoria, finché l'alta stirpe di Enea abiterà sul solido sasso del Campidoglio e il Padre della patria, impererà sul mondo. aver voluto, per troppo amore, accompagnarmi nella rischiosa impresa>>. 528-531. come un fiore purpureo, ecc.: Virgilio non racconta la morte di Eurialo ricorrendo alle consuete espressioni macabre, ma con immagini di dolcissima poesia. Il giovane che aveva con baldanza ostinata seguito l'amico e aveva manifestato per la madre una tenerezza infinita, cade trafitto senza un lamento, in silenzio, « come un fiore purpureo reciso dall'aratro ... >>. Benché anche lo spunto di questa similitu-
dine sia stato tratto da Omero (Il., VIII, 419) e da Catullo (XI, 22-24), Virgilio ha saputo dare alle immagini un colorito ed una melodia inconfondibili. 533· vuole solo Volcente ... Volcente: Niso, morto l'amico, non vede se non il suo uccisore e non sente se non l'irrefrent~bile imperativo della vendetta. La ripetizione rende con effìcacill lo stato d'animo dell'eroe. 534-540. Intorno a lui i guerrieri, ecc.: i guerrieri cercano di tenere Niso lontano da Volcente, non di uc·
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ciderlo. - come un fulmine: ruota la spada e colpisce con la rapidità del fulmine. urlante: Volcente gridava minaccioso o forse di paura. - così morendo, ecc.: intendi: Niso, mentre egli stesso sta per morire, prima di essere ucciso vendica l'amico uccidendo Volcente (ruba l'anima al suo nemico). Poi trafitto, ecc.: con senso squisito dell'arte il poeta, per fissare l'attenzione del lettore su Niso e Volcente, i due protagonisti del dramma, ha lasciato nell'ombra, accennandone appena di scorcio, la lotta furibonda del giovane guerriero troiano con i soldati nemici; poi chiude la scena con la rappresentazione rapida del trapasso calmo e sereno di chi muore con la coscienza resa tranquilla del dovere compiuto. 541-546. Tutti e due fortunati, ecc.: conclusa la narrazione del commovente episodio, il poeta afferma che i due eroici amici vivranno nella memoria dei secoli futuri, finché durerà la stirpe di Enea, e il senato di Roma (Padre della patria) « impererà sul mondo». La profezia virgiliana varcò in vero i limiti stessi segnati dal poeta, perché il sacrificio dei due amici è sempre vivo in chi ama la poesia, onora le virtù e apprezza l'amicizia. - l'alta stirpe di Enea: è il popolo romano, non la casa Giulia, come spiegano alcuni commentatori. Infatti il Campidoglio era simbolo della potenza di Roma, non della famiglia di Augusto. Padre della patria: il senato romano, che rappresentava tutto il popolo ed era il
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depositario della sua grandezza e della sua maestà.
I Rutuli, piangendo, portano al campo
il corpo di Volcente - Il pianto della madre di Eurialo
I RUTULI, PIANGENDO, PORTANO AL CAMPO IL CORPO DI VoLCENTE- IL PIANTo DELLA MADRE DI EURIALO (547· 6oS). - I cavalieri latini trasportano, piangendo, all'accampamento di Turno la salma di Volcente e scoprono con orrore la strage compiuta da Eurialo e Niso. I Rutuli, mesti e sbigottiti, procedono al riconoscimento dei cadaveri. T urna all'alba prepara l'esercito e muove all'assalto del campo troiano, e per incutere maggior paura ai nemici espone alla vista dei Troiani, infisse su lance, le teste di Eurialo e Niso. Ma i Troiani resistono coraggiosamente. Quando la madre di Eurialo viene a conoscenza della sciagura del figlio, accorri! sulle mura e sfoga con urla e lagrime la sua disperazione. I Troiani si commuovono, e ]ulo e Ilioneo allontanano amorevolmente la disgraziata madre. 547· catturata: raccolta. Sono le armi e gli oggetti di cui Eurialo si era impadronito attraversando il campo nemico; ed inoltre le vesti e le armi degli uccisi. 551-552. e Serrano e Numa: la « e » ha valore di «inoltre», oppure di «fra questi ». Serrano è ricordato al verso 409; Numa invece non è stato nominato a suci tempo fra gli uccisi, e si tratta· quindi, forse, di una svista. 556. riprese con fatica: infatti la cattura e l'uccisione dei due giovani troiani era costata la morte di Volcente e di due cavalieri.
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I Rutuli vittoriosi, catturata la preda e il bottino, portavano il corpo di Volcente verso il campo, piangendo. Li trovavano lutto non minore, scoperti Ramnete morto e uccisi in una sola strage tanti capi, e Serrano e Numa. Una gran folla correva verso i morti e i guerrieri feriti, verso il luogo ancor fresco di calda strage e i rivoli spumeggianti di sangue. Riconoscono l'elmo lucente di Messapo, le spoglie e le falere riprese con fatica. E già la prima Aurora, lasciando il letto d'oro di Titone, spargeva di nuova luce la terra: il sole già brillava, le cose illuminate dal giorno risplendevano quando Turno, coperto d'armi, chiama alle armi i suoi uomini e esorta l'esercito a battaglia. Tutti i capi lo imitano eccitando il coraggio dei propri sottoposti con parole e con grida. Per di piu (miserabile spettacolo!) configgono su due lance le teste di Eurialo e Niso seguendole con immenso clamore ... I forti Eneadi si schierano sulla parte sinistra delle mura (la destra è protetta dal fiume) a difesa del fosso: stanno tristi sugli alti torrioni, addolorati nel vedere le teste dei due eroi, purtroppo ben conosciute, infilate sulle picche e goccianti di nerissimo sangue. La Fama alata intanto volando per il campo
55S. Titone: secondo il mito era il marito di Aurora. 56o-561. coperto d'armi, chiama alle armi, ecc.: dove è Turno sono sempre armi e armati; e l'irrequieto eroe è proteso costantemente verso il combattimento e ad infondere negli altri il suo stesso ardore. 565-566. configgono su due lance, ecc.: questa crudeltà, che a noi appare indubbiamente uno sfogo bestiale e inutile di ferocia, era
praticato anticamente per incutere spavento nel nemico. Del resto anche i Romani, dopo la battaglia del Metauro, gettarono per lo stesso fine nell'accampamento di Annibale la testa di suo fratello Asdrubale. 567. I forti Eneadi, ecc.: con « forti » il poeta allude al valore dimostrato dai Troiani in tante circostanze, ma soprattutto alla forza d'animo con la quale occupano le difese dell'accampamento,
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spaventato correva, messaggera di morte, finché giunse alle orecchie della madre di Eurialo. Di colpo ogni calore le abbandonò le ossa, la spola le cadde di mano, i fili s'aggrovigliarono. L'infelice si slancia, strappandosi i capelli con urla femminili, finché arriva di corsa follemente alle mura e agli avamposti, senza curarsi dei soldati, dei dardi e del pericolo. Di qui riempie il cielo di lamenti. « Cosi, Eurialo, ti rivedo? Tu che eri il ristoro tardivo dei miei anni di vecchiaia hai potuto }asciarmi sola, o crudele? La tua povera mamma non è riuscita a darti l'ultimo addio, quando sei partito a affrontare il tremendo pericolo? Ahimé, il tuo corpo giace in una terra ignota, preda offerta agli uccelli ed ai cani latini; non ho pontto, come spetta a una madre, seguire le tue esequie, richiuderti gli occhi, lavare il sangue delle ferite, coprendoti colla veste che, giorno e notte, assiduamente lavoravo per te consolando cosi i miei affanni di vecchia. Dove and.tò? Su che terra giace adesso il tuo corpo, nonostante la vista orrenda, cui sono costretti. 574· spaventato: sgomento, angosciato. 575-577· giunse alle orecchie, ecc.: Virgilio non si sofferma a raccontare come la notizia della morte del figlio sia giunta alla madre sventurata, ma con pochissimi e semplici tocchi ne rappresenta gli effetti: la povera donna diventa improvvisamente di gelo, le cade di mano la spola con la quale sta tessendo una veste per il figlio e i fiE s'aggrovigliano. Nella madre di Eurialo il poeta ha certamente inteso raffigurare il tipo ideale della madre romana, che è poi « la vera madre di tutti i tempi e di tutti i luoghi: dedita interamente agli af-
fetti domestici, umile, riservata, casalinga, laboriosa, simbolo purissimo di abnegazione e di sacrificio» (G. B. Malesani). 578-581. L'infelice si slancia, ecc.: alla ripercussiom: fisica prodotta dal grande dolore morale sull'organismo di quella madre sventurata (ogni calore le abbandonò le ossa), subentra un'agitazione disperata: si strappa i capelli ed urla. Così le donne antiche davano sfogo al proprio dolore; e così si trasforma anche la madre di Eurialo, prima tanto discreta e guardinga, ed ora incurante del pericolo dei dardi e perfino degli uomini, fra i quali era costume che le donne non comparissero. 582-603. Così, Eurialo, ti
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rivedo? Tu che, ecc.: così ridotto, Eurialo, ti debbo rivedere? La domanda, accorata e piena di tristezza, è espressa in tono di amorevole rimprovero, come, del resto, anche le espressioni successive: il rimprovero di averla lasciata sola, mentre avrebbe dovuto e~sere il sostegno della sua vecchiaia, e quello di essere partito senza darle l'ultimo saluto. ~ terribile la soli t udine di una vecchia madre che, insieme con l'affetto dei figli, ha bisogno di tante cose; è triste l'impressione che il suo dolore trarrebbe conforto dal pensiero di aver potuto abbracciare il figlio prima della sua partenza, perché l'angosciata madre nella sua semplicità non comprende che la mancanza del figlio è stata suggerita, non da trascuratezza, ma da un sentimento di pietà profonda. - Ahimè, H tuo corpo, ecc.: una madre non può non gridare il proprio dolore pensando che le è negato perfino il conforto di tributare al figlio l'onore del sepolcro; che il corpo del figlio giace inanime e insepolto in balia delle fiere e degli uccelli rapaci; che a lei madre, che gli aveva dato la vita, è stato negato il diritto di chiudergli gli occhi e di lavargli le ferite. Sono sentimenti profondamente veri, perché profondamente umani, che soltanto la grande sensibilità di un poeta, come Virgilio, poteva esprimere.- Dove andrò? ecc.: dove potrò andare per trovarti? Questa domanda e l'incalzare di quelle successive rendono con efficacia lo strazio della madre ormai delusa di poter rendere
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al figlio gli onori funebri, e il lamento della sventurata si tramuta ora in una tragica insistente invocazione di morte. Ed anche questa disperata conclusione, che sovverte i valori umani, rientra nell'ordine della realtà. Vi sono momenti in cui il dolore fa venir meno anche la ragione; la vita, che pur è il bene più grande, è considerata un peso insopportabile e la morte è invocata come una liberazione. - o Rutuli: soltanto i nemici, che le avevano ucciso e orrendamente mutilato il figlio, potevano esaudire le sue invocazioni; e soltanto uccidendo anche lei potevano meritare il suo perdono. gran Padre dei Numi, ecc.: se non possono o non vogliono darle la morte i nemici, gliela dia Giove, il più potente degli dèi; egli con il suo fulmine, strumento di giustizia, può compiere anche un atto di pietà. 607. Ilioneo, Ideo e Attore: Ilioneo, uno degli anziani troiani, che ebbe più volte incarichi di fiducia da parte di Enea; Ideo e Attore, due Troiani non altrimenti conosciuti. 6o8. la prendono in braccio: l'espressione lascia intendere che l'infelice madre era svenuta. L'ASSALTO AL CAMPO TRQIANO (6o9-717). -Dato il se-
gnale dell'attacco, gli ftalici formano una testuggine e assalgono il campo troiano cercando di penetrarvi. I difensori li respingono coraggiosamente. Vicino ad una porta del campo troiano si eleva un'alta torre che gli it alici vogliono abbattere, ma
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le tue membra straziate? Solo questo di te mi rendi, figlio mio? Questo ho seguito in terra e in mare? Trafiggetemi se avete un po' di pietà, o Rutuli, lanciate su me tutte le frecce, spegnetemi per prima! Oppure tu, gran Padre dei Numi, compatiscimi, sprofonda col tuo fulmine la mia testa odiosa nel Tartaro: altrimenti come posso troncare questa vita crudele? ,. Colpiti da tante lagrime si commuovono tutti, un gemito li percorre: la loro forza langue mentre la lotta è imminente. Su consiglio di Julo· che piangeva e del forte Ilioneo, Ideo e Attore la prendono in braccio, la riportano a casa.
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Di lontano la tromba sonora di bronzo squillò terribilmente. Le risponde un altissimo clamore che rimbomba per tutto il cielo. I Volsci formata una testuggine s'avvicinano, uniti, pronti a colmare le fosse e a distruggere il muro. Alcuni cercano un varco, vorrebbero scalare la muraglia in quei punti dove lo schieramento e piu rado e traspare meno fitta la siepe dei difensori. I Teucri scagliano loro contro ogni sorta di dardi, respingendoli a colpi di picca: sono avvezzi, dopo tanta durissima
non vi riescono. Turno allora lancia contro di essa una fiaccola; la torre prende fuoco e crolla travolgendo i difensori, che muoiono tutti. 6I0-613. un altissimo clamore, ecc.: i soldati accolgono il segnale dell'attacco con un grido di gioia, dimostrando l'entusiasmo e la sicurezza con cui essi affrontano la battaglia contro i Troiani. - I Volsci formata una testuggine, ecc.: «Voi-
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sci » qui sta per tutto l'esercito italico. La « testuggine » era una formazione che i soldati assumevano avanzando all'attacco delle difese nemiche; cioè, essi si tenevano strettamente uniti gli uni agli altri e si proteggevano con gli scudi sollevati sopra il capo dai proiettili che il nemico lanciava dall'alto delle fortificazioni. 618-6I9. a colpi di picc4: la picca (lunga asta con la punta di ferro) fu un'arma
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guerra, a difender mura. Gettano giu anche sassi di peso mortale, cercando di sfondare il riparo degli assalitori: ma è facile resistere a ogni colpo protetti da una testuggine ben serrata. Però alla fine non reggono. Sulla schiera che avanza i Teucri fan rotolare un masso enorme, atterrando per largo tratto i Rutuli, fracassando gli scudi. E i coraggiosi Rutuli non provano piu a rifar la testuggine avanzando alla cieca, ma cercano di respingere dalle mura i Troiani avventando proiettili... Piu in là Mesenzio, orribile a vedersi, agitaya un ramo acceso di pino e scagliava tizzoni fumanti. Messapo domatore di cavalli, disceso da Nettuno, distrugge il vallo e chiede che gli portino scale. Calliope, ti prego di ispirare il mio canto: dimmi le stragi fatte dalla spada di Turno, i guerrieri che ognuno ha sprofondato all'Orco; aiutami a spiegare il quadro della guerra (voi, Muse, ricordate e potete raccontare). Su un lato della cinta, in posizione strategica, si levava una torre di legno, sterminata, a vari piani, che gli !tali cercavano di espugnare in ogni modo e abbattere, e i Teucri difendevano precipitando sassi e lanciando una nuvola di dardi attraverso le sue feritoie. Turno gettò per primo sulla torre una fiaccola appiccandovi fuoco da una parte: attizzato dal vento il fuoco avvolse le tavole, attaccandosi alle porte e erodendole. Nell'interno, impauriti s'agitano e invano cercano di sfuggire il pericolo. S'ammucchiano gli uni sugli altri, ritirandosi indietro nella zona libera dall'incendio: la torre per il peso precipita di colpo, tutto il cielo rimbomba per l'immenso fragore. Piombano a terra malvivi, seguiti dall'immensa rovina della torre, trafitti dalle loro stesse armi e dai tronconi delle travi. A fatica in uso dal 1200 al 16oo sia alla fanteria, sia alla cavalleria; qui i Troiani si difendono con lunghe pertiche appuntite e indurite al fuoco.
621-631. il riparo degli assalitori: è la testuggine del v. 612. La descrizione della battaglia si sviluppa nei particolari: sono i difen~ori che
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rovesciano sugli I talici ogni sorta di proiettili e di grossi macigni ; gli assalitori che tentano di superare la resistenza dei Troiani e, respinti, colpiscono gli avversari con frecce (avventando proiettili ... ); Mesenzio, l'empio re cacciato da Cere e ospite di Turno (VIII, 558-.575 ), che s'aggira scagliando rami di pino ardenti; Messapo, che tenta di abbattere la palizzata. 63.5. Calliope: la Musa dell'epica. Il poeta, prima di procedere al racconto dei momenti più impressionanti e cruciali della battaglia, invoca Calliope, la musa dalla bella voce, seguendo l'uso dei poeti epici che invocano la divinità prima d'iniziare il racconto di fatti particolarmente importanti. 640. in posizione strategica: cosl si spiega l'accanimento degli Italici che tentano di espugnare o distruggere la « torre di legno », dei Troiani che vogliono difenderla. 646. Turno gettò per primo, ecc.: quindi dopo di lui altri gettarono sulla torre torce infuocate. 6.5r. S'ammucchiano gli uni, ecc.: si raccolgono tutti nel luogo della torre ancora non investito dal fuoco. Il particolare è naturalissimo; i combattenti sfuggono ad un pericolo, ma ne creano uno ancor più grave. 6.55-6.57. Piombano a terra malvivi, ecc.: intendi: i Troiani cadono semivivi a terra, perché sopra di essi si abbatte la pesante torre, e le loro armi e le schegge dei tavolati andati in pezzi si conficcano nelle loro carni.
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66o. Meonia: cosi era chiamata la Lidia anticamente; in seguito il nome « Meonia » rimase soltanto ad una parte della regione. 662. sebbene non ne avesse diritto: secondo la legge romana, cui il poeta sembra alludere, gli schiavi (ed Elenore era figlio di una schiava) erano esclusi dal servizio militare. 663-672. Armato alla leggera, ecc.: armato soltanto di spada e di uno scudo senza alcun fregio. I guerrieri antichi avevano l'abitudine di fregiare lo scudo con figurazioni che ricordassero i loro combattimenti più gloriosi. - appena si vede isolato, ecc.: la torre era stata costruita all'esterno della palizzata che circondava e difendeva l'accampamento troiano; perciò i soldati, che la occupavano, precipitarono con essa tra le schiere latine, e il giovane guerriero, rimasto illeso, non si arrende al nemico, ma si difende coraggiosamente, risoluto piuttosto di morire. Nota come anche questi personaggi secondari, creati dalla fantasia del poeta, abbiano tutti una fisionomia ben definita ed una particolare nota umana. Il coraggio di questo giovane infelice, solo nella vita, per la sua nascita infelice, e solo anche ora di fronte alla morte, è esaltato dal poeta latino con la similirudine che segue; quadretto di sapore ·omerico, ma ravvivato da pennellate di originalissima sensibilità virgiliana. 675. in cima: alle difese dell'accampamento, o alle mura, come sono qui chiamate. 676. e afferrare le mani,
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si salvano soltanto il giovinetto Elenore e Lico. Il primo, nato dall'amore illegittimo di una schiava Licimnia col re della Meonia, era stato mandato alla guerra di Troia dalla madre, sebbene non ne avesse diritto. Armato alla leggera di sola spada e scudo anonimo, senza insegne (non avendo compiuto ancora nulla di grande), egli appena si vede isolato nel mezzo delle schiere latine, si scaglia tra i nemici risoluto a morire volgendosi ove piu s'addensano le armi: cosi una belva, al centro d'una fitta corona di cacciatori, infuria contro. i dardi, gettandosi da sé incontro alla morte, sapendo di morire, e con un balzo piomba sugli spiedi protesi. Ma Lico, di gran lunga migliore nella corsa, fuggendo tra i nemici e le armi raggiunge le mura. Con un salto cerca di appendersi in cima e afferrare le mani dei compagni. Inseguendolo egualmente veloce, con l_a lancia levata, Turno grida superbo: « Pazzo, speravi forse di sfuggirmi? ». E lo acchiappa mentre penzola ancora dall'appiglio, e lo strappa con gran parte del muro: come l'aquila, che porta i fulmini di Giove, volando verso il cielo solleva con gli artigli
ecc. : che ansiosa speranza in questo gesto, sia da parte di chi offre salvezza, sia di chi l'attende; e quanta delusione subito dopo! 68o. lo strappa con gran parte, ecc.: l'espressione mette in evidenza l'azione violenta di Turno, e la&cia intravedere lo sforw disperato, ma inutile di Lico per tenersi attaccato alla palizzata. · 681-686. come l'aquila, che porta, ecc.: secondo la mitologia, l'aquila era al servizio di Giove e se ne stava presso il suo trono, sempre pronta a portargli i fulmini; il lupo era invece
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sacro a Marte. Avverti che il poeta per le immagini delle due similitudini ha scelto nella prima una lepre e un cigno, nella seconda un agnellino: tutti animali timidi e inoffensivi, la cui sorte muove a maggiore compassione. Anche in questo caso i commentatori ricordano analoghe similitudini di Omero, « ma - osserva il Malesani - quale ricchezza di sentimenti e quanta verità in quei lunghi, ripetuti belati, che sembrano un continuo pianto versato dalla pecora su Ila sciagura che ha colpito la sua povera creatura! ».
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una lepre od un cigno dal candido corpo; come il lupo di Marte rapisce dall'ovile un agnellino, invano chiamato dai belati ddla madre. Dovunque si leva un grido: i Rutuli assaltano i fossati riempiendoli di terra e scagliano sulle mura delle fiaccole ardenti. Ilioneo con un sasso, enorme frammento di montagna, massacra Lucezio che vol~a incendiare una porta: Ugeri dal suo canto abbatte Emazione, Asfia Corineo, l'uno col giavellotto, l'altro con una freccia che sorprende, improvvisa, da lontano; poi Cèneo uccide Ortigio; Turno Cèneo ed lti e Oonio e Diosippo e Promolo e Saglili con Ida che difendeva le alte torri. Ma Capi vendica la loro morte abbattendo Priverno. Costui era stato sfiorato prima dal giavellotto vdoce di Temilla; gettato folletnente via lo scudo Priverno aveva messo la mano sulla ferita, e allora l'alata freccia di Capi arrivò sibilando, inchiodò quella mano al suo fianco sinistro, genetrando e rompendo gli organi del respiro con ferita mortale. Sulle mura era ritto il figlio di Arcente, bellissimo d'aspetto, stupendamente armato, con una sopravveste ricamata e splendente ddla porpora bruna di Spagna: il padre Arcente lo aveva mandato a Enea, doP.O averlo allevato nd bosco di Cibele, lungo il fiume Simeto, dove sorge l'altare benigno di Palico. Deposto il giavellotto Mesenzio, roteando intorno al capo una fionda per tre volte, lasciò partire il colpo stridente e col piombo disciolto dalla velocità gli fracassò la fronte gettandolo per terra, in uno spazio immenso. 689. Ilioneo con un sasso, ecc.: questo combattente e gli altri numerosi nominati nei versi successivi sono tutti nomi oscuri, forse creazioni della fantasia del poeta. Ma la lunga serie di questi per-
sonaggi minori offre al lettore una immagine concreta della grandiosità della battaglia e della strage. 703-705. inchiodò quella mano, ecc.: nota la strana e pietosa circostanza occorsa
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a Priverno, il quale getta via lo scudo per posare la mano sulla ferita fattagli dal giavellotto di Temilla e se la vede disgraziatamente inchiodata al fianco sinistro da una freccia scagliatagli da Capi. 706. Arcente: un siciliano che aveva mandato il figlio al seguito di Enea, quando l'eroe troiano parti dalla città di Aceste. 708-709. con una sopravveste, ecc.: con la sopravveste, o clamide, ricamata, che si distingueva splendidamente per il colore rosso scuro, assomigliante a quello della ruggine o della porpora di Spagna. II poeta insiste con attenzione particolare sulla bellezza e sulla eleganza di questo giovane siciliano, come se volesse porlo in evidenza al fine di destare maggiore pietà per la sua prossima atroce fine. 71o-712. dopo averlo allevato, ecc.: Arcente aveva fatto crescere ed educare il figlio nel bosco sacro alla dea Cibele, presso le rive del fiume Simeto, che sbocca nel mare non lontano da Catania, e presso l'altare del dio Palico. In origine i « Palici » erano due, figli di Giove e della ninfa Talia o, secondo altri, Etna, e non si sa quale tradizione Virgilio abbia seguito per ricordarne uno solo. I Palici erano dèi sotterranei (demoni ctonici) che, venerati a Palice presso l'Etna, esigevano in origine sacrifici umani; più tardi però si accontentarono di riti meno crudeli. 715. piombo disciolto: gli antichi credevano che il piombo con l'attrito dell'aria si riscaldasse a tal punto
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Ja sciogliersi. Ma qui la locuzione può essere considerata una esagerazione poetica per dare risalto alla forza eccezionale di Mesenzio. 717. in uno spazio immenso: intendi: il caduto occupò col suo corpo disteso a terra un grande spazio; cioè l'espressione vuoi significare che il figlio di Arcente era Ji statura gigantesca. PRODEZZA
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( 7 18-8o3 ). - Durante l'assalto degli I talici, il forte Numana, che aveva sposato una sorella di Turno, rinfaccia ai T roiani di starsene chiusi paurosamente nelle fortificazioni del campo e Ji condurre una vita effeminata, mentre gli ftalici conducono una vita di faticoso lavoro nei campi e nell'esercizio delle armi. Ascanio non sopporta le offese arroganti di Numana e con una freccia lo abbatte al suolo con le tempie squarciate. Apollo, assiso sopra una nube, ammira il valore di Ascanio, e sceso sulla terra con le sembianze del vecchio Bute, aio di Ascanio, esorta il giovinetto ad esser pago della vittoria ottenuta ed a ritirarsi dalla battaglia. Nell'allontanarsi il dio svela la sua presenza e i capi inducono Ascanio ad abbandonare il combattimento. 7 I 8. si dice: il poeta non si assume la responsabilità della notizia, ma per dare maggiore solennità al racconto e sottolineare il peso morale che il successo ebbe sui Troiani, preferisce attribuirla alla tradizione. 719. ]ula lanciò, ecc.: il giovane figlio di Enea, che
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Fu per la prima volta allora che - si dice Julo lanciò una rapida freccia in battaglia (lui solito ad atterrire le fuggitive fiere nelle selve!), colpendo di sua mano il potente Numano, detto Remulo, da poco tempo sposo della sorella minore dc;l gran Turno. Numano marciava all'avanguardia, borioso per la recente parentela col re, e vomitava ingiurie: « Non avete vergogna di essere assediati per la seconda volta, o Frigi già due volte vinti, opponendo un muro alla morte? Eçco quelli che chiedono per sé le nostre donne, a forza! Quale Dio, che pazzia vi ha condotto in Italia?
aveva circa quindici anni e finora si era esercitato a tirar d'arco soltanto cacciando animali selvaggi, ora per la prima volta si cimenta in un'azione di guerra. 724. della sorella minore del gran Turno: il poeta non dice il nome di quella sorella minore; l'al tra so re Ila di Turno era Giuturna, ninfa latina, cui nel Laz1o erano consacrati ruscelli e fonti. 726-732. Non avete vergogna, ecc.: questo discorso di Numana, pur essendo in vari punti bellissimo per alcuni particolari felicemente indovinati, è stato variamente giudicato dalla critica. Anzitutto per la sua lunghezza, che appare eccessiva nel contesto della descrizione di una lotta accanita; poi anche perché, in un poema destinato ad esaltare le glorie nazionali di Roma; Virgilio non avrebbe dovuto introdurre, sia pure per bocca di un nemico, le critiche e i pregiudizi ostentati volentieri dai Romani contemporanei del poeta contro l'Oriente da
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cui erano venuti i fondatori della stirpe romana. Sennonché questa versione non coincideva con il pensiero di Virgilio, il quale riteneva che il popolo troiano, pur vincitore, fu poi rapidamente assorbito dai vinti fino a perdere il suo nome e la sua stessa fisionomia, così che furono i popoli italici, rudi e bellicosi, che, conservando intatti i propri caratteri originari, trasmisero alla stirpe romana le proprie impronte. - per la seconda volta: allude all'assedio dei Greci. -già due volte ~inti: una volta da Ercole (VIII, 336 sgg.), la seconda dai Greci.- opponendo un muro alla morte: tentando di evitare la vostra distruzione (morte) con la sola difesa di un muro, rifiutandovi di affrontare l'avversario in campo aperto. Ecco quelli ... le nostre donne: l'espressione è generica, ma allude a Enea, cui Latino aveva promesso in isposa la figlia Lavinia, già fidanzata a Turno. - Quale dio,
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Qui non ci sono Atridi, né il parolaio Ulisse: ma una razza indurita dall'origine. Noi portiamo al fiume i bimbi appena nati, temprandoli 735
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col gelo e l'acqua; cresciuti, ma ancora piccoli, vanno a caccia scorrendo i boschi; i loro giochi sono domare i cavalli selvaggi, scagliare le frecce con l'arco. La nostra gioventu è abituata al poco e resistente al lavoro; o rompe col bidente le zolle o rovescia in guerra le città. Consumiamo nelle armi tutta la vita, col fondo dell'asta pungoliamo il dorso dei giovenchi: la tarda vecchiaia non ci priva di forza e di coraggio, copriamo con l'elmo i capelli bianchi, sempre ci piace vivere di rapina e raccogliere prede. Ma invece voi preferite una veste dipinta di croco e di porpora lucida, vi piacciono gli ozi, vi piacciono le danze, le tuniche con le maniche, le mitre col soggolo. O donnette di Frigia (poiché non siete uomini): andate per i gioghi del Dindimo, ove il flauto a due canne risuona con dolce melodia! Vi chiamano lo zufolo Berecinzio ed il timpano della madre dell'Ida: lasciate le armi agli uomini veri, rinunciate alla guerra! » Ascanio non tollerò le bravate e le ingiurie di Numano: incoccata una freccia veloce che pazzia, ecc.: Numana sembra avere un pensiero di commiserazione per i Troia· ni, i quali, se sono venuti in Italia senza prevedere i pericoli ai quali sarebbero andati incontro, sono, egli dice, o dei pazzi o sono vittime della vendetta di un dio. - Atridi... Ulisse: nella foga del discorso Numana getta il discredito, ingiustamente, su Agamennone e Menelao (Atridi) e su Ulisse. 732-74.5. Noi portiamo al fiume, ecc.: alla fiacchezza, di cui accusa i Troiani, Numana contrappone l'energia del popolo italico, presso il
quale i bimbi ancor teneri vengono tuffati nelle acque gelide dei fiumi, quasi come iniziazione alla vita, che nella sua realtà è dura, perché intessuta di stenti e di pericoli. Cosl le loro occupazioni dalla nascita alla vecchiaia sono un esercizio costante di forza e di coraggio: i giochi dei fanciulli sono la caccia nei boschi, domare i cavalli, scagliare le frecce con l'arco; le occupazioni degli uomini maturi, lavorare i campi ed esercitarsi nell'uso delle armi, e quelle dei vecchi caceiare la selvaggina nei boschi e predare i po-
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poli vicini, che in quell'età era ammesso dal comune diritto. lnvero, in questo discorso non è Numana che parla, ma Virgilio che traccia un quadro splendido dei costumi e del carattere dell'antica stirp~ italica, valorosa e semplice, sobria e laboriosa, contadina e guerriera. Cosl il poeta mantovano dimentica che le parole sono pronunciate da Numana, la cui figura è grottesca; e manifesta tutto il suo entusiasmo per la serena e vigorosa semplicità della vita agreste delle antiche popolazioni italiche in contrasto con il lusso e i costumi corrotti della società romana del suo tempo. 74.5-7.54· Ma invece voi preferite, ecc.: il « croco » è una tinta giallo-zafferano, la « porpora lucida » è il rosso-porpora comune: l'uno e l'altro colori vistosi e delicati adatti alle donne, non all'uomo. - le tuniche con le maniche: le tuniche con le maniche lunghe erano indizio di mollezza. - le mitre col soggolo: la mitra era una specie di cuflia o berretto frigio, trattenuta sul capo da due nastri annodati sotto il mento. Tale acconciatura era stata introdotta a Roma ai tempi di Virgilio, e ai Romani che generalmente andavano a capo scoperto, dovette sembrare ridicola e segno di mollezza. - O donnette di Frigia, ecc.: Numana conclude l'apostrofe ai Troiani con l'insulto che più offende un guerriero, ché li invita a deporre le armi ed a recarsi sul monde Dindimo (monte della Frigia sacro a Cibele, per cui la dea era detta anche Dindimene)
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a danzare come le donnicciole in onore della dea al suono del doppio flauto (detto bere.::inzio perché usato nel villaggio frigio di Berecinto, ove la dea aveva un culto particolare). . 758. poi, stese le due braccia, ecc.: il particolare è colto con un senso preciso della realtà. 760. Io stesso: nota la posizione enfatica di questo pronome collocato alla fine del verso (nel testo latino è all'inizio), come per dire che questi doni personali non escludono quelli che saranno aggiunti da Enea al suo ritorno. 763. dalla fronte doratti: allude al costume di indorare le corna delle vittime. 764. che cozzi, ecc.: sono indicazioni che dimostrano la robustezza e l'aggressività degli animali. 765-766. e tuonò... serena: il tuono a sinistra e a cielo sereno era considerato di buon augurio. 770-772. Beffaci ancora, ecc.: nonostante il tono sarcastico e amaro, sono parole semplici e fiere, degne di un autentico eroe. - due volte vinti: come aveva detto Numano (726-728). 775· seduto su una nuvola: l'atteggiamento di un dio, che seduto sopra una nube assiste dal cielo allo svolgersi dei fatti umani, è frequente nei poemi epici dell'antichità classica; e Apollo, che aveva sempre avuto a cuore gli eventi dei Troiani e un giorno sarà il nume tutelare della gente Giulia, non poteva rimanere indifferente alla prima prova di valore del figlio di Enea. 780. figlio di dèi .. padre
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sul nervo equino, stette di fronte all'avversario, poi, stese le due braccia in senso opposto, fermo supplicò Giove pregandolo con questo voto: «Giove Onnipotente, assisti la mia impresa. lo stesso porterò nel tuo tempio doni solenni, porrò davanti all'altare un candido giovenco dalla fronte dorata, alto come sua madre, che cozzi già col corno e sollevi la polvere con gli zoccoli! ». Il Padre l'udf e tuonò a sinistra da una zona del cielo tutta serena. Insieme fischiò l'arco fatale. La freccia vola via stridendo orrendamente e penetra nella testa di Numana, piantandosi attraverso le cave tempie. «Beffaci ancora, continua ad insultare il valore! I Troiani due volte vinti danno questa risposta ai Rutuli ». Ascanio non aggiunge altro. I Teucri lo applaudono con calore, fremendo di gioia, incoraggiati da quel gesto superbo. In cielo, seduto su una nuvola, Apollo dai lunghi capelli guardava dall'alto l'esercito italico e il campo. Alla vis~a di Julo vittorioso: « Sia gloria - esclama - al tuo valore nascente! Ecco la strada che ti leverà agli astri, figlio di Dei, futuro padre di Dei! È fatale e giusto che le guerre a venire abbian termine sotto la stirpe d' Assaraco: Troia è davvero piccola per te». Scende dal cielo fendendo l'aria e muove verso Ascanio. Il suo volto s'è trasformato in quello
di dèi: Anchise, nonno d'Ascanio, discendeva da Dardano, figlio di Giove e di Elettra; Enea, padre di Ascanio, era figlio di Anchise e di Venere; da- Ascanio discenderanno il divo Giulio Cesare e il divo Augusto. Il poeta non si lascia sfuggire l'occasione di esaltare la famiglia di Augusto, ma quanta misura e quanta dignità sono nella lode! 780-783. È fatale e giusto, ecc.: intendi: il fato vuole, e lo vuole anche la giusti-
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zia, che i discendenti di Assaraco (la casa Giulia) diano al mondo la pace; perciò Troia è veramente troppo piccola per contenere la tua gloria; cioè, tu sei destinato, e con te i tuoi discendenti, ad un impero che si estenderà ben oltre i confini di una piccola città. Virgilio si serve qui delle parole che Filippo II, re di Macedonia, rivolse al figlio Alessandro: « O figlio, cerca ti un regno che sia pari a te, perché la Macedonia non può
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del vecchio Bute: un tempo scudiero d'Anchise e [guardia fedele della sua porta, da Enea poi dato a Ascanio come custode e amico. Il Dio avanzava, simile punto per p1mto al vecchio, nella voce, nelle armi dal suono tremendo, nei bianchi capelli, nel colore; finché giunto all'ardente Julo gli dice: «O figlio d'Enea, ti basti avere ucciso impunemente col tuo dardo Numano: il grande Febo ti dona questa prima gloriosa vittoria, senza invidia per un colpo che eguaglia i suoi. Ma adesso basta, o fanciullo, abbandona la lotta ! ». Nel bel mezzo del discorso Apollo lasciò l'aspetto umano, svaru lontano dagli occhi nell'aria leggera. I Teucri riconobbero il Dio e le frecce sacre, sentirono la faretra suonare nella corsa. Grazie alle sue parole e alla sua volontà trattengono Ascanio avido di combattere e tornano di nuovo in battaglia esponendo di nuovo le loro vite all'aperto pericolo.
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Un grido corre per tutte le torri, lungo le mura; tendono i duri archi, scagliano i giavellotti
contenerti >>. Così la prima azione di guerra di ] ulo è idealmente congiunta alla fine di tutte le guerre e alla pace universale proclamata da Augusto dopo la battaglia d'Azio. 78 5. vecchio Bute: certamente non è il Bute incontrato nel c. V, v. 395, e forse neppure quello nominato al verso 85r del canto XI, ma un fedele scudiero e poi custode della casa di Enea, cui ora l'eroe troiano ha assegnato il compito d'istitutore del figlio. 791-792. impunemente .....
Numano: Apollo nelle sembianze del vecchio Bute elogia l'azione di Julo: Numano era un avversario tra i più valorosi; ma lo avverte anche del grande pericolo corso: se tu non l'avessi ucciso ti avrebbe fatto pagar caro il tuo ardire. 793· senza invidia: secondo gli antichi le divinità avevano, seppur in misura minore, le virtù e i difetti degli uomini; perciò gli dèi erano gelosi delle loro prerogative, e si vendicavano degli uomini che ardivano gareggiare con essi.
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795· o fanciullo, abbandona la lotta!: la parola « fanciullo », che precede l'ordine di non partecipare oltre alla guerra, ha un valore e un significato particolari. Al fanciullo, creatura fragile e candida, devono essere risparmiati gli orrori della guerra. 798. I Teucri riconobbero il Dio: sul punto di partire, gli dèi, che per qualche motivo si erano presentati agli uomini nascosti sotto altre forme, nell'andarsene si facevano in qualche modo riconoscere, affinché il loro intervento avesse maggiore efficacia. Qui Apollo si fece riconoscere partendo in fretta, cosi che i dardi della sua faretra fecero rumore. LA PORTA APERTA: PANDAROE BrzrA (804-863).- Due
giovani troiani di statura gigantesca e di straordinario valore, Pandaro e Bizia, aprono la porta affidata alla loro custodia e sfidano i nemici ad entrare nell'accampamento. I Rutuli cercano di entrare, ma sono uccisi. Turno ne è informato e vi accorre immediatamente, abbatte Bizia e fa strage di nemici. Pandaro, visto cadere il fratello e scompigliati i Troiani, chiude la porta, ma non s'avvede che Turno è rimasto dentro il campo. I T roiani, riconosciuto il principe dei Rutuli, si dànno alla fuga. Solo Pandaro osa affrontarlo, e gli vibra un colpo di lancia terribile, che però Giunone prontamente devia. Turno allora, col favore della dea, gli si avventa contro e lo uccide. 804. Un grido corre, ecc.: l'azione vittoriosa di Asca-
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nio e il riconoscimento di Apollo dànno nuovo vigore e speranza ai Troiani, i quali s'incoraggiano l'un l'altro a combattere con raddoppiato ardore.
col propulsore. Il suolo è cosparso di dardi, gli scudi e i cavi elmi rimbombano sotto i colpi: s'impegna un'aspra battaglia. Cosi la pioggia che viene 810
8o8-813. Così la pioggia, ecc.: l'intensificato lancio di giavellotti e di altri proiettili è paragonato alla piog-
gia che flagella la terra dall'ottobre al dicembre. I Capretti sono due stelle della co~ellazione dell'Auriga, che sorgono all'inizio di ottobre e tramontano in dicembre, e poiché questo periodo di tempo corrisponde alla stagione delle piogge, gli antichi dicevano che i Capretti portano piogge e tempeste. 814. ideo: abitatore del monte Ida. 819. da sfidare il nemico, ecc.: è una sfida che suona ironia, ma è anche estrema-
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mente pericolosa; ai due giganti sembra viltà difendersi dalle mura, ma il loro gesto è un rischio temerario. 823-826. sembrano querce, ecc.: il paragone è una
simpatica reminiscenza del paesaggio padano, tanto caro a Virgilio, che lo ebbe familiare negli anni giovanili; e ricorda inoltre quello di Omero (Il., XII, 127 sgg.), ove anche due giganteschi eroi greci, Polipete e Leonteo, che difendono anch'essi una porta del loro accampamento, sono paragonati a querce dalle alte chiome, poste però non lungo le rive di un fiume, ma sui monti. 832. in tutti ; cuori monta l'ira, ecc.: l'espressione si
riferisce ad ambedue gli avversari: ai Troiani, in cui il successo iniziale raddoppia il coraggio e l'ardore; agli
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dall'ovest, sotto le stelle umide dei Capretti, sferza la terra; cosi le nuvole precipitano molta grandine in mare, quando Giove, furioso, fa roteare sul vento una tempesta d'acqua stracciando per tutto il cielo i nuvoloni gonfi. Pandaro e Bizia - figli di Alcanore ideo allevati nel bosco di Giove dalla NWa }era, uomini grandi come abeti dei monti della patria - spalancano la porta che per ordine dei capi difendevanq. Sono tanto sicuri di sé da sfidare il nemico ad entrare nelle mura. Si tengono a destra e a sinistra dei due battenti, grandi come torri, coperti di ferro, in un barbaglio di lucenti pennacchi: sembrano querce gemelle che s'innalzino aeree al bordo d'un limpido fiume, sulle rive del Po o accanto all'Adige allegro, e levino sino al cielo le cime mai potate, ampiamente ondeggianti. Vedendo aperta la porta i Rutuli si precipitano; ma subito Quercente, Aquicolo dalle armi belle, il focoso Tmaro ed il marziale Emone dovettero fuggire sbaragliati, con tutte le loro truppe, o lasciare sulla soglia la vita. Allora in tutti i cuori monta l'ira, i Troiani si raccolgono in gruppo davanti a quella porta ed osano attaccare, tentando una sortita. Vien riferito a Turno - mentre infuria, spargendo terrore, in altra parte - che il nemico era sorto a grande strage e aveva spalancato le porte. Egli interrompe l'azione e acceso di grande ira si precipita verso la porta custodita
Italici, nei quali la vergogna della sconfitta ha fatto nascere un desiderio ardente di vendetta. 836. era sorto: si era sollevato, destato, come nel verso carducciano dell'ode « Piemonte »: " E il popolo
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de' morti - surse cantando a chiedere la guerra». 838. acceso di grande ira:
l'orgogliosa e temeraria iniziativa di Pandaro e Bizia, che in fondo era una provocazione ed una sfida rivolta agli Italici, irrita Turno.
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dai superbi fratelli. E abbatte col giavellotto per primo Antifate (primo ad affrontarlo) figlio bastardo di Sarpedonte e d'una donna tebana. Il~P.avellotto italico vola per l'aria leggera, entrando nell'esofago si pianta nd profondo del torace; lo squarcio della nera ferita sprizza un fiotto spumoso e il ferro si riscalda nd polmone trafitto. Poi Turno abbatte Merope ed Erimanto, Afidno, Bizia dagli occhi ardenti, dal cuore coraggioso. Non lo uccise con l'asta (non sarebbe mai morto con un'arma normale) ma con una falarica vdoce come un fulmine che lo colpi fischiando: i due strati compa;:ti di cuoio dello scudo e la fida lorica a doppia maglia d'oro non ressero la percossa. La mole gigantesca di Bizia piomba al suolo esanime: la terra ne geme, l'immenso scudo rintrona. Cosi a volte sull'euboica riviera di Baia precipita una diga formata di cemento e di massi, e cadendo trascina una rovina immensa finché sprofonda in mare levando in aria altissimi spruzzi e la sabbia nera del fondale: a quel rombo tremano Procida e Ischia sovrapposta da Giove al gigante Tifeo.
Turno nell'accampamento troiano Allora il Dio della guerra cresce coraggio e forza 842. Sarpedonte: figlio di Giove e di Laodamia, re della Licia e alleato dei Troiani, fu ucciso da Patroclo sotto le mura di Troia. donna tebana: donna nata a Tebe, che non è la città, più famosa, della Beozia, ma una città della Misia, regione dell'Asia Minore confinante con la Troade. 8.51. ma con una falarica, ecc.: la robustezza di Bizia non poteva essere fiaccata da un dardo comune; e Turno lo colpisce con una lancia
grossa come una falarica. La falarica era un grosso giavellotto pesante e potente che, rivestito di materia incendiaria, veniva scagliato con la catapulta. Ma Turno è tanto robusto che la scaglia con la mano. 8.57-863. Cosi a volte, ecc.: l'atterramento del gigante Bizia è un fatto eccezionale, e il poeta lo illustra con una similitudine tolta dalla viva realtà, come ama fare sempre in circostanze analoghe. C'.osl paragona la caduta del
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corpo gigantesco di Bizia a quella degli enormi massi che il poeta stesso ha certamente visto fatti precipitare in mare a Baia, per costruire e il molo del porto Giulio e le piattaforme sulle quali i Romani amavano far sorgere le loro ville. Baia era un rinomato porto di mare, in un'insenatura della spiaggia di Cuma; e per le sue rinomate sorgenti di acqua calda era anche un'ottima stazione termale. Perciò era luogo di villeggiatura preferito dai Romani, i quali vi costruirono numerose ville, come quelle di Pompeo, di Crasso, di Cicerone, di C. Mario e più tardi di quelle imperiali. - euboica riviera: la spiaggia di Cuma, così chiamata perché la città fu fondata da coloni greci provenienti da Calcide, città dell'isola Eubea. - Procidtl e Ischia: il poeta con il paragone allude al mito di Tifeo, il gigante che tentò di detronizzare Giove e fu da Giove fulminato e sepolto nel paese degli Arimi, che Virgilio erroneamente identificò nell'isola d'Ischia, ove il monte Epomeo era un vulcano fortemente attivo; e Tifeo rappresenterebbe quindi la terribile forza del fuoco che, pur sepolto sotterra, riesce ugualmente a prorompere. TURNO NELL'ACCAMPAMENTO TROIANO (864-926). - [
Troiani fuggono e Turno continua la strage. Se l'eroe rutulo avesse aperto la porta ai suoi compagni, invece di rincorrere gli avversari cd uccider/i, quello sarebbe stato l'ultimo giorno per i Troiani, dei quali nessuno gli oppone rcJistenza.
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866. Fuga ... Timore: sono personificazioni, che anche Omero immagina figli di Ares (Marte) e suoi compagni nella mischia (Il., IV, 440 ). Il Timore è detto nero, perché priva la mente della serenità ed è causa di errori e di morte. 875. Pazzo: che non s'accorse, ecc.: « è una di quelle esclamazioni soggettive che attestano la squisita sensibilità di Virgilio. Le figure, create dalla sua fantasia, non sono mere finzioni poetiche, ma personaggi ricchi di umana realtà, che gli strappano dall'animo parole di lode e di biasimo» (G. B. Malesani). 876. insieme ai fuggiaschi: erano i combattenti troiani che combattevano all'esterno della porta e che, accortisi che Pandaro la chiudeva, si precipitarono a cercare salvezza nell'interno del campo. 877. come un'enorme tigre, ecc.: la similitudine non corrisponde alla realtà. Il poeta, per dare risalto al valore di Turno, annulla la capacità di difesa dei Troiani, i quali invece, pur sorpresi e conturbati dalla presenza del re dei Rutuli, sannoi riprendersi e lottare con crescente energia, primo fra tutti Pandaro che, infuriato, vuoi vendicare la morte del fratello. 88o. color del sangue: « tocco indovinato di colore », annota il Malesani intuendo con spiccato senso dell'arte il valore dell'espressione, « che anticipa abilmente la visione dell'imminente strage». 885-888. reggia dotale di
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ai Latini, incitandoli acutamente, insinuando fra i Troiani la Fuga ed il nero Timore. I Rutuli arrivano qui da ogni parte, eccitati dal Nume bellicoso, per combattere. Pandaro come vede il fratello cadere morto, la sorte avversa e la situazione difficile per i Troiani, gira con molta forza la porta sui suoi cardini spingendola con le spalle; lascia parecchi dei suoi tagliati fuori del vallo nella terribile mischia, mentre ne salva molti mettendoli al sicuro. Pazzo: che non s'accorse del re rutulo, entrato d'impeto insieme ai fuggiaschi! Cosi lo chiuse nel campo come un'enorme tigre fra le pecore vili. Appena dentro, un lampo gli balenò dagli occhi, le sue armi tuonarono orrendamente. In testa gli tentenna un pennacchio color del sangue, lampi sprizzano dallo scudo: gli Eneadi spaventati riconoscono subito quel volto odioso e quel corpo immane. Allora Pandaro gigantesco si lancia contro di lui, infuriato per il fratello morto, gridandogli: « Non sei nella reggia dotale di Amata e nemmeno tra le sicure mura d'Ardea: tu vedi il campo nemico da dove non uscirai vivo!». Ridendo tranquillamente Turno rispose: «Se hai coraggio vieni avanti per primo; racconterai a Priamo che qui c'è un nuovo Achille».
Amata, ecc.: Amata, moglie del re Latino e sorella di Venilia, madre di Turno, aveva promesso in isposa al nipote la figlia Lavinia, con l'intento che alla morte del marito il regno di Laurento passasse al re dei Rutuli; perciò la « reggia » di Laurento poteva in realtà essere considerata la dote di Lavinia. Ma questa allusione, come anche quella successiva di Ardea, la capitale del regno dei Rutuli e residenza di Turno, sono insinuazioni offensive e ironiche, come se l'uccisore di Bizia non fosse
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penetrato di proposito nell'accampamento troiano. 889-890. Se hai coraggio vieni, ecc.: Turno risponde a Pandaro e lo sfida seccamente a combattere, non a chiacchierare; indi, sicuro di poterlo vincere, gli preannuncia ironicamente la morte, seppure con l'accenno eufemistico a Priamo, cui Pandaro porterà la notizia che fra i Teucri esiste un nuovo Achille, non meno valoroso e forte dell'Achille che sotto le mura di Troia gli aveva ucciso il figlio E ttore.
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Pandaro con tutta la forza lancia un'asta nodosa, non scortecciata: il ferro va a vuoto, deviato dalla Saturnia Giunone, si pianta nella porta. « Ma non eviterai questa spada - gli grida Turno- che la mia mano brandisce con una forza cui non potrai sfuggire! ». Levando in alto la spada avventa un colpo tremendo: la lama spacca la fronte fendendo in due la testa sino alle guance imberbi. La terra romba, percossa dal peso enorme: Pandaro allunga nella morte le armi insanguinate e il corpo esanime; il capo diviso in due parti eguali gli pende di qua e di là, sull'una e l'altra spalla. Sconvolti dalla paura i Teucri si disperdono. Se Turno avesse pensato a rompere i battenti e far entrare i compagni, quel giorno era l'ultimo della guerra e di tutta la stirpe troiana; ma l'ira ed una cieca sete di sangue fanno sf che corra infuriato contro i nemici ... Prima uccide Faleri e Gige al quale taglia il garretto; tolte le lance ai morti le scaglia nella schiena dei fuggiaschi. Giunone gli dà coraggio e forza. Manda a far compagnia ai primi morti Ali e Fegeo, al quale rompe lo scudo, poi uccide Alcandro, Noemone, Pritano, Alio, che ignari della sua presenza stavano sulle mura a combattere. Incontro gli va Linceo, chiamando in aiuto i compagni; addossato al bastione sulla destra Turno vibra la spada e d'un colpo gli spicca il capo con l'elmo gettandolo lontano. E' uccide ancora Amico, terrore delle belve, il piu bravo di tutti nell'ungere di sua mano le frecce di veleno; Clizio figlio di Eolo; Creteo caro alle Muse, loro seguace, sempre amante della cetra, dei canti, dell'accordo tra versi e suono, che sempre celebrava i cavalli, le cruente battaglie, le armi degli eroi. 891-893. un'asta nodosa, ecc.: l'asta scagliata da Pandaro, cosl rozza e selvaggia, è in carattere con il gigante nato e cresciuto nei boschi del monte Ida. Di solito
l'asta veniva invece passata sulla fiamma e quindi pulita e levigata. - deviato dalla Saturnia Giunone, ecc.: l'atto di Giunone, che devia l'asta e salva Turno da sicura
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morte, assomiglia a quello di Pallade (Il., XX, 438 sgg.), che devia l'asta scagliata con forza dal troiano Ettore contro Achille. 898. alle guance imberbi: Pandaro, come il fratello Bizia, è ancora adolescente, nonostante la statura gigantesca; perciò la sua fine è ancor più impressionante e dolorosa. La morte di Pandaro, cui segue la macabra descrizione dei terribili effetti prodotti dalla spada di Turno, giustifica la scena dei Troiani impauriti e fuggenti, che il poeta si accinge a descri· vere. 904. a.rompere: abbattere, non apru:e. Turno non era il tipo che perde tempo a far le cose, come gli uomini comuni; egli non avrebbe aperto la porta maneggiando chiavistelli, ma l'avrebbe abbattuta. 907. ma l'ira ed una, ecc.: l'ira e la violenza, che l'accompagna, ottenebrano la mente e impediscono di fare la scelta migliore. Cosl Turno, accecato dal furore e dalla sete di sangue nemico, non seppe approfittare dello scompiglio dei Troiani prodotto dalla morte di Pandaro, aprire la porta, far entrare gli ltalici, occupare il campo troiano e por fine alla guerra. 911. Giunone gli dà coraggio, ecc.: la presenza della dea Giunone, se attenua da un lato la gloria di Turno, giustifica lo sgomento dei T roiani, tra i quali il feroce re dei Rutuli compie una strage orrenda, che il poeta descrive elencando una monotona serie di personaggi oscuri.
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~NÈSTEO E SERESTO. LA RITIRATA DI TURN0(927-976).
Mnèstco e Scresto: la ritirata di Turno
- Mnèsteo e Seresto rimpro verano aspramente i Troiani che fuggono dinanzi a Turno e li incitano alla resistenza. Così Turno, costretto a 930 difendersi da tutto l'esercito troiano, si ritira. ,a poco . ,, -poco, non senza però continuare la strage. Gicwe man· da Iride ad ammonire f'li nacciosamente . Gùme-ne '" · desistere dal proteggere· l'e935 roe rutulo, e la regin.1 Jegli dèi non osa più snii>, che introduce nel racconto i due capi troiani, nominati da Enea, prima di partire, « responsabili di un'eventuale difesa del campo» (216-217). 931-938. Dove pensate mai, ecc.: sono interrogativi che esprimono, nello stesso tempo, meraviglia e sdegno, come per dire che essi erano lontani dal pensare che i Troiani potessero giungere a tal punto di viltà e di stoltezza.- Un solo uomo, ecc.: motivo della meraviglia e dello sdegno è il fatto assurdo che i Troiani fuggano senza sapere dove (l'unica loro difesa è il campo), e che un uomo solo, chiuso entro bastioni nemici, possa compiere tanta strage impunemente. In tal modo essi dimostrano di avere dimenticato ogni dovere verso la patria, gli dèi e lo stesso Enea.
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Finalmente i due capi troiani, Mnèsteo e il fiero Scresto, avvertiti della strage dei loro accorrono: e vedono i compagni dispersi .e il nemico nel campo. Allora Mnèsteo grida: « Dove pensate mai di fuggire? Che mura oltre a queste potranno difendervi? Un solo uomo mortale,. cittadini, per di piu circondato dai vostri bastioni, avrà menato tanta strage nel nostro campo impunemente? Avrà spedito all'Orco tanti giovani scelti? Vili, non avete vergogna e pietà della patria infelice, dei vecchi Dei e del grande Enea? •• Accesi da tali parole i Troiani si fermano e fanno fronte in schiera complltta, rassicurati. A poco a poco Turno si ritira, avviandosi verso il fiume e la parte del campo circondata dall'acqua: visto ciò i Troiani lo incalzano con piu ardore levJndo delle grida terribili e serrando le file. Come quando una banda di cacciatori incalza con le aste un leone tremendo, e quello fiero, spaventato, con occhi feroci rincula, poiché gli proibiscono di voltare la schiena il coraggio e la rabbia, né pur volendolo può farsi strada tra le armi
940. in schiera compatta: i Troiani, fuggendo, si erano sparpagliati e dispersi; ora, rincuorati dalle parole dei due capi, ricompongono le file in ordine di battaglia. 942. verso il fiume e la parte, ecc.: << l'accampamento - spiega il Sabbadini - era sulla riva sinistra del Tevere, in prossimità del mare; la destra di esso guarda il Tevere, la sinistra la pianura latina. Per orientarsi sulla sua posizione, si supponga di esserci dentro e guardare verso il mare; la destra e la sinistra di chi guarda sono
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la destra e la sinistra dell'accampamento, il quale perciò si apre sul mare ». Turno, quindi, si ritira a destra, verso la riva del Tevere. 947-952. e quello fiero, spaventato: e il leone fiero, intuito il pericolo ... Perciò il leone non si ritira per paura, che sarebbe cosa assurda in lui, ma indietreggia guardando con occhi feroci i cacciatori. Così anche Turno, il quale di fronte al numero grande degli avversari non si lascia trasportare dal· l'istinto, che lo inciterebbe a lanciarsi contro gli inse-
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e gli uomini; cosi Turno esitando indietreggia lentamente e ribolle d'ira. Ancora due volte si lancia tra i nemici, spingendoli in fuga disordinata; ma subito muovono contro di lui da tutto l'accampamento, in tanti. Ed egli è solo, privo anche dell'aiuto di Giunone. Poiché Giove aveva spedito dal cielo a sua sorella la messaggera aerea, Iride, con un ordine irrevocabile: Turno deve lasciare subito le mura dei Troiani. E il giovane non riesce a resistere oltre, né con lo scudo né con la spada: talmente è sommerso dai dardi scagliati da ogni parte. L'elmo intorno alle tempie risuona d'un continuo tintinnio, l'armatura di spesso bronzo si rompe sotto i sassi, il cimiero sull'elmo non c'è piu e lo scudo non basta ai colpi: i Troiani ed il fulmineo Mnèsteo in persona raddoppiano le puntate di lancia. Senza respiro. Per tutto il suo corpo ruscella il sudore in un nero rigagnolo, un anelito affannoso gli scuote le membra stanche. Allora armato cosi com'è si getta con un salto a capofitto nel fiume: il Tevere lo accoglie con la sua bionda corrente, librato sull'acqua calma, lavato dalla strage lo rende lieto ai compagni.
guitori, ma si nura dimostrando orgoglio e prudenza. 957· a sua sorella: Giunone è figlia, come Giove, di Cronos (il latino Saturno).
970 ruscella: cola, scende abbondante come fosse un ruscello. 971-972. in un nero rigagnolo: il sudore misto di
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sangue e di polvere è nero come la pece. - un anelito affannoso: un respiro frequente, faticoso. Nota come i segni della stanchezza siano colti con un senso preciso della realtà. 975-976. librato sull'acqua calma, ecc.: l'immagine del
Tevere, che accoglie Turno nelle sue acque e, sospeso (librato) sulla sua corrente, lo deterge dal sangue e lo consegna lieto ai suoi compagni, in contrasto evidente con il suo favorevole comportamento verso Enea raccontato nel canto precedente (vv. 43 sgg.), è, si chiede Guido Vitali, il risultato di una dimenticanza del poeta, od è una cosa voluta, « quasi a significare che il fiume è sensibile al mirabile eroismo del giovane che ha combattuto per la sua terra? ... Ma forse, - continua il Vitali, - qui la persona divina del fiume non è in gioco; forse quell'accoglienza benigna delle acque è soltanto la rappresentazione materiale del sollievo provato da Turno nel trovarsi in esse, della felicità con cui egli si muove, pur essendo ancora nell' armatura, della sicurezza con cui per esse egli si dirige verso i suoi, salvo, vittorioso, lieto, dopo si mirabile prova di valore».
Commento critico Con il canto IX inizia la narrazione dei fatti di guerra, l'ultima e più drammatica fase del poema virgiliano. Essa occupa gli ultimi quattro libri e, ispirandosi per molti versi all'Iliade, contiene più frequenti reminiscenze omeriche di pensiero e di forma. Il motivo dominante, la guerra, ha ristretto molto l'elemento avventuroso
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e georgico, presente in modo notevole nei canti precedenti, e abbondano invece gli episodi di cui il valore e la forza sono gli elementi indispensabili. Tuttavia questa nuova fisionomia non compromette l'unità organica del poema; i fatti narrati !n questi ultimi canti sono la conseguenza logica del racconto precedente, il quale senza di essi non avrebbe senso. La lontananza dal campo troiano di Enea, consigliato dal dio Tiberino di recarsi nella città di Pallanteo, ove il re Evandro a sua volta gli consiglia di recarsi a chi~· dere l'alleanza e l'aiuto degli Etruschi, determina l'attacco di Turno all'accampamento troiano, che costituisce l'argomento del canto IX. Enea e i Troiani non s'aspettavano di essere assaliti cosl presto, cioè nel giorno successivo a quello della partenza di Enea, e speravano di poter accrescere le loro file, molto meno folte di quelle degli Italici, con l'arrivo degli alleati. Ma Giunone non aveva perduto tempo a mandare Iride, la sua messaggera, a scuotere Turno dal suo torpore; e Turno, cui Iride aveva detto che Enea «è arrivato sino alla lontanissima Corito, dove arma un esercito !idio» (11-13), se poteva trascurare l'alleanza del solo Evandro, di cui conosceva le forze esigue, non rimase indifferente a quella degli Etruschi. E il giorno dopo attacca il campo troiano. Gli episodi di coraggio e di valore in questo primo contatto fra assedianti e assediati sono numerosi da ambedue le parti; ma il canto non è tutto rercorso dal contrasto delle armi e dagli orrori della guerra. Si leggono spesso qua e là tratti profondamente umani, e non di rado anche certe scene terrificanti sono illuminate e ingentilite da un'immagine o dall'intervento diretto del poeta con un pensiero o un'osservazione dettatigli dal suo grande cuore. Ma al canto dà un'impronta di alta poesia soprattutto l'episodio di Eurialo e Niso, che ne occupa la parte centrale e costituisce, sullo sfondo di un nobilissimo amor di patria, l'esaltazione più eloquente dell'amicizia perfetta e sincera, del senso del dovere e dell'abnegazione fino al sacrificio. Comunemente si dice che Virgilio ha scritto l'episodio traendone lo spunto da quello omerico di Diomedee Ulisse (Il., X), usciti ad esplorare il campo nemico per scoprire i piani di Ettore e degli altri capi troiani; ma benché i due racconti si assomiglino in molti particolari, molto diversa è la loro ispirazione; cioè mentre il racconto di Omero non va oltre i confini di una narrazione tranquilla e oggettiva, quale intensa passione e quanta delicatezza di sentimenti nell'episodio virgiliano! Nel racconto di Virgilio il lettore incontra una successione di scene drammatiche, che suscitano in lui profonda commozione, e che egli ammira paventando e soffrendo con il poeta: sono i pericoli, a cui i due giovani amici vanno incontro, è l'esito sfortunato della loro impresa, è l'orrendo spettacolo offerto dai Rutuli davanti alle mura del campo troiano, sono le grida disperate della madre di Eurialo alla notizia della morte del figlio. Ma nel canto non mancano neppure i motivi georgici diretti soprattutto all'esaltazione della campagna «che ha dato alla patria- scrive il Malesani - i cittadini più valorosi, fucina di eroismo e riserva inesauribile di sane energie. Nessun poeta afferma sempre il Malesani - ha saputo fare un quadro così vivo e palpitante di quella che fu la vita dura e operosa delle antiche popolazioni italiche, le quali, da
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un principio tanto umile, giunsero con la loro indomita virtù a sottomettere il mondo». Interessanti sono anche i motivi fantastici e soprannaturali che s'inseriscono e si confondono con i fatti degli uomini, come Giunone che si serve di Iride per incitare Turno ad assalire il campo troiano, e salva poi il suo protetto, deviando l'asta micidiale di Pandaro; la dea Cibele che ottiene da Giove di tramutare in Ninfe marine le navi di Enea, minacciate di essere distrutte dal fuoco; Apollo che si commuove, quando dall'alto del cielo vede Ascanio abbattere Numano, ma poi teme per la sua immunità e, assunte le sembianze del suo precettore, lo sconsiglia a starsene lontano dalla lotta. Il canto è quindi complesso; e quantunque non tutte le sue parti siano egualmen~ vive e vitali, appare come uno dei più belli e più suggestivi dell'intero poema per la presenza in esso di una varietà di motivi interessanti: dai bellicosi agli umani, dai fantastici agli storici, dai soprannaturali ai realistici, tutti fusi in una perfetta armonia.
Galleria di ritratti Eurialo e Niso. L'episodio centrale e più significativo del libro, è quello notissimo di Niso ed Eurialo. Esso s'inserisce tra le due giornate di combattimento, con facile naturalezza. Ha il colore dell'ora, ed è tutto caldo, pieno, vivo, senza intoppi e ristagni. L'idea dell'impresa sorge nella mente di Niso, prima incerta, poi netta e decisa. Davanti al silenzio e all'ombra, ormai quasi generale, del campo nemico, egli vaga colla fantasia nel campo delle possibilità, e mentre i capi, i vecchi, discutono, egli, il giovane, che forse non sa ancora tutta la tristezza e le delusioni della guerra, sente di poter fare qualche cosa di grande. Le varie possibilità si concentrano in una sola, quella di attraversare la linea degli assedianti, e portare ad Enea la notizia dell'improvviso attacco di Turno. Non c'è nella sua decisione nulla d'incomposto, di temerario. Si direbbe che le sue parole sono pronunciate a bassa voce, guardando il campo nemico, e sono ancora poco più che una meditazione solitaria. Egli pensa che quell'ardore possa venirgli dagli dèi, tanto è ormai grande e forte, e gli fa vedere il suo sogno come prossimo e facile a realizzarsi, ma dubita anche che gli uomini possan prendere per ispirazione divina, i loro desideri e le loro passioni: « sono, Eurialo, gli dèi che dànno questo ardore alle menti, o diventa a ciascuno un dio la sua infausta passione? ». Il suo primo disegno è di uscir solo dalla città. Non vuoi coin;olgc:re nel rischio il fanciullo che gli è caro. Egli è ancora troppo giovane, per mettere la sua vita alla ventura, deve restare, perché ci sia qualcuno che si ricordi di Niso, se la sorte
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dovesse èssergli avversa, deve restare perché ha una madre. Ed Eurialo risponde caparbio ed inconsciamente crudele, come lo sono talvolta i fanciulli, ch'egli vuol essergli compagno nell'impresa. I due caratteri sono già perfettamente delineati. Eurialo ha già preso il sopravvento sulla malferma saggezza di Niso. Nessuna ambigua sfumatura sentimentale. Niso è giovane, e la sua prudenza, i suoi timori non possono resistere all'ardore ch'egli ha destato nell'animo del fanciullo, e che, ora, riprende più forte anche lui. Quando son giunti davanti ai capi, che appoggiati alle loro aste, discutono sul da farsi, Niso non ha più incertellze. La via che poco tempo prima credeva soltanto possibile, ora l'ha vista, e lo scopo non è più soltanto di raggiungere Enea, ma di attraversare il campo nemico, uccidendo e spogliando: «presto ci vedrete qui tornare, carichi di spoglie, compiuta una grande strage». La città di Evandro gli sembra ormai vicina, a portata di mano, e l'arrivarci facile, come una battuta di caccia. La scena che segue, pur corrispondendo necessariamente a un rallentamento dell'azione, è viva e mossa. La commozione del vecchio Alete, la promessa di Ascanio, l'ombra della madre di Eurialo, che gli compare dinanzi nel momento del distacco, lo commuove, lo fa piangere, fa piangere con lui Julo e i capi troiani: «io ora la lascio, ignara di questo pericolo, qualunque esso sia, e senza darle il mio saluto. Mi sia testimonio la notte e la tua destra, che io non potrei sopportare le sue lagrime. Ma tu consola, ti prego, l'infelice, e soccorrila nel suo abbandono. Lascia che io porti di te questa speranza: andrò con più ardore incontro alla mia sorte! Piansero, a quelle parole, i Dardanidi, e più di tutti Julo, percosso nell'animo dal caro ricordo del padre » - questi vari momenti della scena, sono tutti di una sobria e contenuta drammaticità. Le stesse parole, con cui Ascanio promette a Niso il fiore del bottino, non hanno nulla di convenzionale. C'è nel suo discorso come una lieve ebrezza di fanciullo, che gli fa ormai considerare come cose sue le armi e il cavallo di Turno, persino i campi di re Latino. Egli ha bisogno del padre, e, se Enea ritorna, ogni tristezza scomparirà: «ogni mia fortuna e speranza io ripongo in voi: richiamatemi il padre, fate ch'io possa rivederlo: lui ritornato, niente sarà più triste per me ». Eurialo poi, che prima ci era apparso come un fanciullo caparbio, e che rivedremo, fuori delle mura, inebriato della facilità della strage e dalla sua stessa temerità, qui si trasforma, e riscatta col suo tremore di figlio i suoi stessi difetti. Virgilio ha voluto ch'egli non fosse soltanto il bel giovanetto tradito dalla facile vittoria, e stroncato dalla morte come un fiore purpureo, ma avesse, almeno per un momento, la chim:a coscienza morale del valore del suo gesto. Eurialo doveva esser degno di morire per Roma, e che il poeta intonasse anche per lui il canto della gloria. Ma questo senso di commozione, che è ad un tempo presentimento di sventura, non è che un'ombra passeggera. Il poeta non nasconde il destino dei giovani, e c'è in uno dei suoi versi un'inaspettata e illogica spezzatura, per cui sembra che il poeta veda queste creature della sua fantasia come creature reali, e s'avvicini loro nel momento in cui stanno per uscire dal campo, ed abbia, egli che sa, gli occhi tristi e velati dal pianto: « Usciti, superano il fosso, e vanno nell'ombra della notte
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verso il campo nemico per portar, tuttavia, essi a molti la morte». Ma essi non sanno, e vanno verso il loro destino. La pagina in cui Virgilio descrive la strage compiuta da Niso ed Eurialo nel campo nemico, è una delle più belle pagine di guerra, varia, mossa, con un giuoco di ombre, di luci stanche, di colori smorzati, con una sapienza prospettica nell'alternarsi delle immagini, ora sfumate e appena abbozzate, ora concrete, corpulente, potenti, che fa pensare a un quadro rembrandtiano. Virgilio è riuscito a darci, con rapidi tocchi, in tutta le scena, il senso del silenzio, dell'incubo del silenzio; gersino la convenzionale similitudine omerica del leone affamato, è più breve, più raccolta, anch'essa, in certo modo, silenziosa. Ed è vaga sensazione dell'avvicinarsi dell'alba, espressa pittoricamente, con quella sobrietà di mezzi, che sembra, in Virgilio, spiritualizzare la realtà naturale, la causa dell'improvviso pentimento di Niso: «e già si volgeva ai compagni di Messapo; vedeva colà venir meno le ultime fiamme di un fuoco, e i cavalli legati in bell'ordine che brucavano l'erba: e disse rapido Niso sentiva infatti che troppo si lasciavan (rascinare dalla gioia della strage: - Fermiamoci, ché s'avvicina ormai la luce nemica». Ma lo scalpitare eguale e serrato dello squadrone di Volcente - «Frattanto cavalieri, mandati innanzi dalla città latina, mentre l'esercito attendeva schierato sui campi, andavano a portare a Turno la risposta del re, trecento, tutti armati di scudo, al comando di Volcente » - rompe definitivamente il silenzio. L'elmo di Messapo tradisce Eurialo. Niso riesce a fuggire, ma Eurialo, il fanciullo, si turba ed è preso. Il dramma volge rapidamente alla catastrofe. Niso tenta di salvare l'amico, ma il suo intervento non fa che peggiorare la situazione e Volcente decide di vendicare su Eurialo la morte dei due compagni: «ma allora, folle di terrore, Niso gettò un grido, né poté più a lungo nascondersi nelle tenebre, e sopportare cosi grande dolore. Son io, son io che ho colpito, volgete su di me le vostre armi, o Rutuli! Mia è tutta la colpa, costui nulla osò, e nulla poteva osare; chiamo in testimonio questo cielo e le conscie stelle; egli è colpevole solo di aver troppo amato il suo infelice amico. Cosi diceva; ma la spada non si fermò e trapassò nel suo impeto le coste, rompendo al giovanetto il candido petto. Eurialo morente cade riverso, scorre il sangue per le belle membra, e il capo ripiega senza vita sull'omero: come quando un fiore purpureo, tagliato dall'aratro, languisce moribondo, o i papaveri, gravati dalla pioggia, piegano talvolta sullo stanco stelo la testa. Ma Niso si getta in mezzo ai nemici, e, fra tutti, non mira che al solo Volcente, non guarda che a lui. Lo stringono in cerchio i compagni, e•d'ogni parte il ricacciano. Egli non ristà e continua a roteare fulmineo la spada, finché l'immerse nella bocca urlante del Rutulo, e gli strappò, già moribondo, l'anima. Allora, tutto trafitto, si gettò sull'esanime amico, e vi trovò finalmente nella placida morte il riposo ». Versi mirabili per movimento e passione. Eurialo non è qui che un bel giovanetto dai tratti delicati e femminei, che pur straziato dalla ferita, si ricompone nella morte, che lo fa, nel viso, malinconicamente bello. Ma la sua delicata figura di fanciullo non è nel quadro che un momento. Quella che predomina è la generosa ed eroica passione di Niso, passione di amico, di compagno, di guerriero... Il prota-
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gonista dell'episodio è Niso, è lui che prende l'iniziativa dell'impresa, che ha la coscienza dei rischi, che cerca di salvare il suo giovane amico, e si sacrifica per esso. Abbiamo visto che anche Eurialo ha avuto, almeno momentaneamente, una chiara idea del valore morale del suo gesto, ma la sua morte desta più pietà che ammirazione, e resta come in secondo piano. Cosi l'episodio ha conservato sino alla fine una linea di robustezza e di austerità, un temperamento perfetto tra gli elementi epici e quelli sentimentali. Né Niso né Eurialo sono senza colpa, per quel che riguarda il tragico epilogo del loro tentativo, e a voler seguire un criterio di rigida etica militare, si potrebbe dire che Niso, sacrificandosi per Eurialo, invece di condurre a termine la missione assuntasi, vien meno al suo dovere di soldato. Ma Niso non s'è neppur posto il problema, tanto è preso dal desiderio di salvare il suo· giovane amico, dal senso della responsabilità, ch'egli ha verso di lui, dal dolore per la sua morte, e Virgilio non ha osato condannare. Fortunati ambo! Non era l'etica di Bruto e di Torquato, ma un'umana etica di poeta, che sentiva di dover obbedire oltre che alle leggi della iustitia, a quelle della caritas. (da Studi Virgiliani, Loffredo, di Francesco Arnaldi).
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Raffronti di traduzione Fortunllti tlmbo! si quid mell carminll possunt, nullll dies umqullm memori vos eximet /levo, dum domus Aenelle Ctlpitoli immobile Sll'JCum llCcolet imperiumque Pllter Romllnos hllbebit. (vv. 446-449) Non hic Atridlle nec /llndi /ictor Ulixes: durum Il stirpe genus nlltos tld (luminll primum deferimus stlevoque gelu duramus et undis; venlltu invigilllnt pueri silvllSque /lltigllnt, (lectere ludus equos et spiculll tendere cornu. At pllliens operum parvoque tldsueta iuventus aut rllStris terram domat llut qUiltit oppidll bello. Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum terga /lltigamus hastll, nec tarda senectus debilitllt viris animi mutlltque vigorem. (vv. 602-611) Fortunati ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai né per tempo sarà che 'l valor vostro glorioso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà del Campidoglio l'immobil sasso, finché impero e lingua avti l'invitta e fortunata Roma. Oti pensaste di trovar qui? quei profumati Atridi, o 'l ben parlante Ulisse? In una gente avete dato che da stirpe è dura. I nostri figli non son nati a pena, che si tuffan ne' fiumi. A l'onde, al gelo noi gl'induriamo e gl'incallimo in prima; posei a per le montagne e per le sei ve fanciulli se ne van la notte e 'l giorno. Il loro studio è la caccia, e 'l !or diletto è 'l cavalcare, e 'l trar di fromba e d'arco. La gioventù ne le fatiche avvezza e contenta del poco, o col bidente doma la terra, o con l'aratro i buoi, o col ferro i nemici. Il ferro sempre avemo per le mani. Una sol'asta ne fa picca e pungetto. A noi vecchiezza non toglie ardire, e de le forze ancora non ci fa, come voi, debili e scemi. Per canute che sian le nostre teste, veston celate. Traduzione di Annibal Caro
Felici entrambi! se il mio canto vale, nessun tempo farà da le memorie voi tramontar, fin che d'Enea la stirpe terrà del Campidoglio il sasso immoto e il romano padre avrà l'impero. Quale Iddio, qual follia spinse in Italia voi? qui non son gli Atridi e non Ulisse maestro a dire. Fin dal ceppo forti noi già portiamo i nostri figli a' fiumi; al gelo e a l'onde li tempriam: fanciulli vegliano in caccia e battono le selve domar cavalli e scoccar dardi è gioco Paziente de l'opra e al poco avvezza, la gioventù rompe co' rastri il suolo, crolla con l'armi le città. Tra 'l ferro si consuma ogni età: l'asta rovescia è pungolo a le terga de' giovenchi. Né la tarda vecchiezza indebolisce i vigorosi spiriti o li muta: l'elmo calchiam su la canizie, ... Trlllluzione di Giuseppe Albini Fortunati ambedue! Se alcun valore hanno i miei carmi, nessun giorno mai vi sottrarrà dei tempi alla memoria, fin che tengan gli Eneadi la salda rupe del Campidoglio e fin che il padre della patria romana abbia l'impero.
Qual follia, qual Nume qui vi sospinse? Qui non son ali Arridi e non Ulisse fabbro di parole! Progenie dura fin dalla radiCP., portiamo i figli, nati appena, ai fiumi e gl'induriamo al gelo aspro dell'onde; fanciulli, in caccia battono le selve e il !or giuoco è flettere cavalli e tendere dall'arco le saette. Giovini, pazienti alla fatica e contenti di poco, o con rastrelli domano il suolo o scrollan mura in guerra. Tutta nell'armi esercitiam la vita; noi stimoliamo il tergo dei giovenchi con la lancia riversa, e non i tardi anni allievoliscono le forze o ci tolgono l'animo e il vigore; su le canizie noi calchiamo l'elmo. Trlllluzione di Guido Vitali
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CANTO DECIMO
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La pagina 47 del Codice Vaticano 3225.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 18 35, ricavate dai codici della Biblioteca V aticana, Roma.
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CANTO DECIMO
La battaglia sulla costa del Lazio Mentre Italici e Troiani, il giorno successivo alla notte in cui Eurialo e Niso sono stati uccisi, combattono furiosamente, Giove riunisce a concilio gli dèi e li invita :a desistere dall'incitare i due avversari alla guerra. In realtà il suo rimprovero è diretto a Giunone; e Venere lo sottolinea apertamente accusandola delle azioni ostili ai Troiani da lei provocate fin dalla loro partenza dalla Troade, e soprattutto dall'assalto di Turno al campo troiano da lei scatenato mentre Enea è lontano. Giunone e Venere si rimbeccano a vicenda, sforzandosi di indurre Giove a seguire le loro rispettive idee, ma il re degli dèi chiude la disputa affermando ch'egli non parteggerà né per gli uni, né per gli altri, e lascerà che i fati si compiano secondo il loro corso naturale. Mentre gli dèi sono riuniti a consiglio e gli Italici assediano il campo troiano, Enea si mette in mare con le schiere alleate, di cui poi il poeta fa la rassegna. Durante la navigazione l'eroe troiano scorge intorno alla sua nave un coro di ninfe danzanti: sono le sue navi, trasformate da Cibele in ninfe per salvarle dall'incendio. Una di esse, Cimodocèa, gli racconta i particolari dell'evento prodigioso, poi gli dà preziosi ragguagli dei piani di Turno e del campo assediato, e lo incita ad affrettare il viaggio, spingendo essa stessa la nave. In vista del campo troiano, Enea ordina ai suoi di prepararsi a combattere e dà le disposizioni per lo sbarco. I Troiani dell'accampamento scorgono il suo arrivo e levano grida di gioia. Turno si stupisce, ma quando scorge la Botta con Enea tutto scintillante nelle nuove armi, incoraggia ed incita i suoi soldati ad impedire lo sbarco dei nemici. Ma Enea riesce a precederlo, e a Turno non rimane che assalire gli avversari già sbarcati. Si accende cosl una battaglia furibonda. Enea fa grande strage di Italici; ed anche Pallante compie azioni di grande valore, ma il giovane figlio di Evandro cade ben presto per mano di Turno, accorso a ristabilire le sorti della lotta. Alla notizia della morte di Pallante Enea piomba addolorato e furente sul suo uccisore per vendicarne la morte, ma Giunone
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Canto decimo
ottiene da Giove che la morte di Turno, se proprio non può essere evitata, sia almeno ritardata. E scesa sulla terra foggia un'immagine. di Enea, che attira subito l'attenzione di Turno. Il fantasma entra in una nave, il principe rutulo l'insegue, Giunone ne taglia « la gomena, stacca lo scafo dalla riva » e lo trascina « via nel riflusso del mare ». Scomparso Turno, sottentra nel vivo della battaglia Mesenzio, che resiste all'assalto nemico e fa grande strage intorno a sé di avversari. Enea lo vede e, furioso della morte di Fallante, lo affronta e lo ferisce ad una coscia. Lauso, figlio di Mesenzio, accorre in difesa del padre e nel duello con Enea, che non avrebbe voluto combattere con lui e l'aveva perciò invitato ad allontanarsi, cade in un lago di sangue. Mesenzio, mentre in un luogo discosto si cura la ferita, apprende la morte del figlio: glielo portano morto i suoi compagni adagiato sopra uno scudo. A questa vista è assalito da un'angoscia profonda e da fieri rimorsi. Non gl'importa più di morire e, benché ferito, si leva, ordina che gli portino il cavallo e va ad affrontare Enea deciso di vendicare la morte del figlio o di morire. L'eroe troiano con un colpo di lancia· gli fa stramazzare il cavallo e Mesenzio, a terra, ferito e con una spalla slogata, non combatte più; chiede al suo avversario solo di morire e di essere sepolto accanto al figlio.
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CANTO DECIMO Giove invita gli dèi alla concordia: il concilio degli dèi (1-1.54) Il nuovo assalto al campo troiano (r.5,5-186) - Enea ritorna con gli alleati- Il coro delle ninfe (187-324)- Lo sbarco e la battaglia sulla spiaggia (325-4.53) - Eroismo di Fallante e sua morte (4.54-641) Enea vuoi vendicare Fallante, ma Giunone salva Turno (642-8.5,5) - Mesenzio assale i Troiani ed è ferito da Enea (8,56-982) - Morte di Lauso e di Mesenzio (983-1128}.
Giove invita gli dèi alla concordia: il concilio degli dèi
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spalancano ìntanto le porte della reggia in cima all'Olimpo onnipotente: il Padre dei Numi e re degli uomini convoca l'assemblea nel suo stellato soggiorno, da dove contempla dall'alto tutta la terra, il campo dei Dardanidi e i popoli latini. Gli Dei prendono posto
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CONCILIO
DEGLI
DÈI
(1-154). - Sull'Olimpo Gio-
ve chiama a concilio gli dèi e, rammaricandosi della guerra che è stata scatenata fra ftalici e Troiani, li rimprovera d'essersi nuovamente mischiati nelle faccende umane, e li invita a desistere. V eml il tempo in cui po-
tranno ancora entrare in lizza fra loro, e sarà quando Roma dovrà difendersi da Cartagine. Venere risponde dolendosi che, nonostante la ripetuta assicurazione del destino che attende i Troiani in I t alia, essi siano ora in pericolo d'essere distrutti, e prega Giove che sia salvo al-
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meno Ascanio; Giunone accusa invece l Troiani di aver essi portata la guerra e la distruzione nel pacifico Lazio e afferma che i Latini hanno tutto il diritto di difendere la loro terra dall'invasore. Giove chiude la disputa ordinando agli dèi di lasciar libero il corso del destino, senza aiuti né per Turno, né per Enea. 1. Si spalancano, ecc.: probabilmente il poeta intende che la convocazione degli dèi sull'Olimpo avvenga contemporaneamente allo svolgersi dei fatti narrati nel canto nono; lo confermerebbe l'avverbio « intanto » del verso successivo, il quale non indicherebbe quindi semplice transizione dal canto precedente. 5· nel suo stellato soggiorno: nella sede celeste, posta fra le stelle. Si ricordi che, detronizzato Cronos (il Saturno latino), i suoi figli si divisero il mondo: a Giove toccò in sorte il regno del cielo, a Nettuno quello del mare e a Plutone quello del mondo sotterraneo; e gli dèi si divisero anch'essi in celesti, del mare, delle tenebre.
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8. aperta a levante e ponente: la sala aveva due entrate: una ad oriente, l'altra ad occidente. :t interessante la parodia che dd concilio degli dèi fa il Tassoni nella Secchia rapita (Il, 28-43). xo-n. perché siete tornati, ecc.: allude alla decisione presa dagli dèi durante la guerra troiana: di non partecipare né per l'una, né per l'altra parte avversaria, e di lasciare che si attui quanto è stabilito dal Fato. 13. io l'avevo proibito: di questa decisione non esiste traccia nei canti precedenti, anzi Giove stesso aveva detto a Venere che « Enea combatterà in Italia una grande guerra, domando popoli fieri... ,. (1, 307 e sgg.). Il Sabbadini è del parere che Virgilio abbia scritto l'episodio del concilio degli dèi indipendentemente dal resto del canto e che la morte gli abbia impedito di inserirlo con esattezza nel poema. 14-1.5. gli uni o gli altri, ecc.: il rimprovero di Giove è volutamente generico; in realtà soltanto Giunone si era data da fare per ottenere che i Latini muovessero guerra ad Enea, e Venere era invece intervenuta a favore del figlio. 16-21. Verrà il momento, ecc.: allude alle guerre puniche, nelle quali sarà consentito agli dèi d'intervenire, perché volute dal Fato; specialmente ·la seconda, in cui Roma fu veramente in pericolo. - trovata una via fra le Alpi: nella seconda guerra punica Annibale entrò in Italia valicando le Alpi. - rapinare e distruggere: dalla seconda guerra punica derivarono all'Italia ro-
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nell'ampia sala aperta a levante e a ponente, e Giove dice: « Grandi abitanti del cielo, perché siete tornati su quanto s'era deciso e vi movete guerra da nemici? L'Italia non avrebbe dowto combattere coi Teucri, io l'avevo proibito; perché vi siete opposti al mio divieto? Quale timore ba indotto gli uni o gli altri a prendere le armi e attaccare battaglia? Verrà il momento in cui sarà giusto combattere (non affrettatelo!): quando la feroce Cartagine trovata una via fra le Alpi un giomo porterà terribile rovina ai sette colli di Roma: allora voi potrete gareggiare nell'odio, rapinare e distruggere. Ma ora non insistete, state in pace e tranquilli, con un patto concorde •· A queste poche parole rispose l'aurea Venere con un lungo discorso ... « O Padre, eterno signore degli uomini e degli Dei (unica forza ormai che si possa implorare)! Tu vedi come i Rutuli ci insultino e come Tumo avanzi nella mischia superbo sui suoi cavalli, e s'avventi all'assalto gonfio d'orgoglio poiché la guerra gli è favorevole? te difese non riescono piu a proteggere i Teucri: si lotta tra le porte, sugli spalti medesimi delle mura, e i fossati traboccano di sangue. Enea non sa nulla, è lontano. E tu vuoi che i Troiani siano sempre assediati? Ecco un altro nemico, ecco un secondo esercito minacciare le mura
vine e stragi immense; nella sola battaglia di Canne perirono ottantamila Romani. 23. aurea: epiteto che i Greci davano alla loro Afrodite; e potrebbe significare « bellissima ». 2,5-26. unica forza... implorare!: l'ostilità di Giunone e la collaborazione che la regina dell'Olimpo trova facilmente in altri dèi, cosi da porre i Troiani in una situazione precaria, sconforta e opprime Venere, che si sen· te circondata da nemici o da indifferenti. Soltanto Giove,
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cui il Fato è sacro, e il Fato è favorevole ai Troiani, può aiutarla. 31. tra le porte, sugli spalti, ecc.: allude agli asalti dei Latini, descritti nel canto precedente; in particolare a Turno penetrato nel campo troiano e alle stragi compiute (IX, Sn sgg.). 33-37· Ene11 non sa nulla, è lontano, ecc.: allude tol viaggio di Enea per avere alleanze e aiuti. - Troiani ... assediati?: Venere si lamenta con Giove che i Troiani, già assediati dai Greci per
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di Troia che rinasce; ecco ancora il Tidide muovere contro di loro dall'etolica Arpi. È già deciso, credo, che io sia ferita ancora, che tua figlia sia esposta alle armi d'un mortale. Se i Troiani son giunti contro la tua volontà e senza il tuo consenso in Italia, che paghino le loro colpe, privali del tuo aiuto! Se invece sono arrivati seguendo i resposi dei Mani e degli Dei del cielo, perché adesso qualcuno ha potuto cambiare ciò che avevi disposto, creando nuovi destini? Perché ricordare le navi incendiate sulla spiaggia di Erice? Il contegno del re delle tempeste, i venti furiosi scatenati da Eolia? Le missioni della veloce Iride? Ora muove persino l'Inferno (che restava tranquillo) contro di noi; Aletto scatenata all'improvviso tra gli uomini, infuria nelle città d'Italia. Non mi preoccupo dell'impero: ho sperato cose grandi finché la Fortuna sembrava favorirci; ma vinca chi vuoi! Se in tutto il mondo non c'è nessuna terra che la tua dura consorte voglia concedere ai Teucri, Padre, te ne scongiuro per le rovine fumanti dieci anni, siano ancora assediati nella nuova Troia (l'accampamento alle foci del Tevere era, per i fuggiaschi troiani, la loro nuova patria) da un altro esercito. quello degli ltalici. - ecco ancora il Tidide, ecc.: allude all'ambasceria inviata a Diomede (VIII, rr e sgg.), figlio di Tideo (Tidide). E per dare maggior peso alle sue parole, afferma ch'egli è già in marcia con un esercito per unirsi ai Latini. - Arpi: una delle città fondate in Italia da Diomede, e sua residenza. Diomede, non solo non ha accolto l'invito, ma ha consigliato i Latini a non fare la guerra e a venire a patti con i T roiani. 38. che io sia ferita, ecc.:
con ironia ed amarezza la dea ricorda d'essere stata già ferita da Diomede durante la guerra troiana, quando essa scese in campo per salvare Enea (Il., V, 330 e sgg.), e non vorrebbe che Diomede la ferisse una seconda volta. 4o-52. Se i Troiani son giunti, ecc.: il discorso di Venere si fa ora serrato; e la bella figlia di Giove con un dilemma preciso e stringente mette il padre alle strette. Se i Troiani, ella dice, sono giunti in Italia contro la tua volontà, « paghino le loro colpe, privali del tuo aiuto! »; se invece essi vi sono arrivati, perché confortati e guidati da responsi divini, e quindi con il tuo consenso, non è giu-
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sto che vi sia chi voglia cambiare ciò che tu hai disposto, mutando il corso del destino. E ricorda a questo punto tutti gli ostacoli creati da Giunone per impedire ad Enea lo sbarco alle foci del Tevere: l'incendio delle navi provocato da Iride ed Erice, in Sicilia, incitando le donne troiane (V, 699), la tempesta suscitata da Eolo, re dei venti (1, 99 e sgg.), che scaraventò i Troiani sulle coste dell'Africa, l'assalto di Turno al campo troiano provocato anche da Iride (IX, 2 e sgg.), e la ribellione ai voleri del Fato dei popoli latini, di Amata e di Turno prodotta da Aletto, furia infernale. 53-54· Non mi preoccupo dell'impero: allude al dominio del mondo promesso da Giove ai discendenti di Enea (1, 300 e sgg.). Naturalmente non è vero che non si preoccupi; la dichiarazione è un'astuzia oratoria per provocare Giove a confermare al consiglio dei Numi il destino di Roma, dei cui decreti egli è l'annunciatore e l'esecutore. 55-56. ma vinca chi vuoi: Venere non dice il nome di chi Giove, secondo lei, vuole che abbia la vittoria nell'aspra contesa; ma Hinsinuazione è diretta contro Giunone, che è nominata esplicitamente nel verso successivo: «la tua dura consorte». 58-59. per le rovine fumanti, ecc.: ma l'incendio di Troia era estinto da tempo; perciò l'immagine vuoi significare che, nonostante il tempo trascorso, il ricordo della distruzione di Troia è ancora vivo e bruciante.
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59-67. lasciami ritirare Ascanio, ecc. : continua la provocazione di Venere per scuotere Giove dalla sua incertezza, almeno come volontà di attuare i decreti del Fato. Perciò non è vero che la dea, cosl amorosa verso il figlio, sia ora indifferente alla sorte di Enea e si preoccupi soltanto della salvezza di Ascanio. Venere astutamente ricorda in tal modo a Giove l'ordine solenne dato ad Enea per mezzo di Mercurio, perché si preoccupasse di adempiere la volontà dei Fati e non defraudasse « Ascanio delle rocche romane » (IV, 267 e sgg.). -Amatunta, Citera, Pafo con l'Ida: sono quattro luoghi, in cui VCOI!_ere era particolarmente onorata: Amatunta, Pafo e Idalio (Ida), tre città dell'isola di Cipro, ed inoltre Citera (oggi Cerigo), un'isola a sud del Peloponneso, dove la dea sarebbe nata dalla schiuma del mare. 67-68. E tu comanda che Cartagine, ecc.: e tu comanda che Giunone abbia la soddisfazione di vedere i Cartaginesi (Tiri) opprimere duramente l'Italia, poiché senza i Troiani essi non incontreranno alcun ostacolo da parte dei popoli italici (dall'Ausonia). Venere, cioè, intende dire quello che accadrebbe se Enea non fosse sbarcato alla foce del Tevere o se Turno e gli I talici riuscissero a distruggere o a cacciare dal Lazio i profughi troiani. Tuttavia anche queste tragiche previsioni sono finzioni oratorie. Nulla di tutto ciò potrà accadere, perché prima o poi il destino avrà il suo compimento,
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della distrutta Troia,lasciami ritirare Ascanio sano e salvo da questa guerra, lascia che mio nipote viva! Enea sia pure sbattuto per mari sconosciuti e segua la strada datagli dal destino, qualunque essa sia; ma lasciami proteggere Ascanio, sottraendolo alla morte in battaglia! Ho Amatunta, Citera, l'alta Pafo con l'Ida: passi qui la sua vita senza gloria, deposte le armi. E tu comanda che Cartagine opprima l'Italia col suo duro potere: dall'Ausonia cosi non vi saranno ostacoli al paese dei Tiri. Che è servito ai Troiani scampare al flagello della guerra, fuggire attraverso le fiamme dei Greci e superare tanti pericoli sul mare e sulla terra immensa, alla ricerca del Lazio e di una nuova Pergamo? Sarebbe stato meglio rimanere sui campi dove un tempo fu Troia, sulle ultime ceneri della patria! Ti prego, Padre, restituisci a quei miseri Xanto e Simoenta, concedi ai Teucri di rivivere per la seconda volta le sventure di Troia! » Allora la regale Giunone, incollerita: «Perché mi obblighi a rompere un profondo silenzio ed a rendere pubblico il mio dolore segreto?
anche contro la volontà di Giunone e degli altri dèi. Venere perciò vuoi ottenere che l'opposizione di Giunone non ritardi la realizzazione del fato, e che siano evitati ad Enea travagli inutili. 7o-8o. Che è servito ai Troiani, ecc.: il discorso di Venere si conclude drasticamente: ogni altra condizione sarebbe stata preferibile a quella in cui sono stati posti i profughi troiani sbarcando in Italia dopo un viaggio pericoloso e inutile; perciò se Giove impedisce ad essi di fondare una nuova patria nel Lazio, conceda per Io meno che possano ritornare
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nella loro vecchia terra: sarà sempre meglio per essi sostenere un nuovo assedio e perire colà, che soffrire tanti pericoli in una terra straniera. - Xanto e Simoenta: fiumi famosi della Troade, ripetutamente nominati da Omere come testimoni di eventi importanti della guerra di Troia, ma· qui ricordati CO· me simboli della patria. Sr. regale: per Giunone l'attributo più comune è la maestà regale, per Venere la bellezza. 83. il mio dolore segreto: i motivi che hanno dato origine alla sua avversione a Venere e al suo astio contro
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Quale uomo, quale Dio ha costretto il tuo Enea a scatenare la-guerra lanciandosi contro Latino? È arrivato in Italia per volere dei Fati, sospinto dai furori di Cassandra, e sia pure: ma sono stata io a fargli abbandonare l'accampamento per darsi follemente in balia dd mare e del vento, affidando a un ragazzo la responsabilità della guerra e le mura da difendere? Forse sono stata io a mandarlo a agitare gli Etruschi e altre genti tranquille? Quale Dio, quale mia prepotenza l'ha spinto nel pericolo? Che cosa c'entra in questo Giunone, ed anche Iride? È proprio un'ingiustizia vedere gli l talici circondare di fiamme la nuova Troia e Turno stare tranquillamente nella sua patria terra: Turno che ha il Dio Pilunno per avo e la Dea Venilia per madre! Ed è giustizia che i Dardanidi facciano prepotenza ai Latini con nere torce, opprimano col loro giogo campi stranieri, saccheggiandoli? È giusto imporsi a un suoce[ro,
i Troiani sono: il giudizio di Paride, e quindi l'onta subita con il dispre7.ZO della sua bellezza; gli onori ai quali è stato elevato Ganimede, figlio di Troo, re di Troia, il quale fu rapito da Giove per mezzo di un'aquila e assunto in cielo quale coppiere degli dèi, in luogo di Ebe, figlia dello stesso Giove e di Giunone (I, 34-38; V, 276-280). 84-85. Enea a scatenare la gue"a, ecc.: Giunone sa benissimo che Enea non è colpevole della guerra che si combatte nel Lazio. L'eroe troiano aveva offerto e ottenuto la pace dal re La~no. Ma questi antichi dèi sono come gli uomini di tutti i tempi, i quali non si preoccupano della verità e della giustizia, ma troppo spesso
dànno ai fatti la versione che più fa comodo ai propri interessi. 86-87. per volere dei Fati... Cassandra, ecc.: Venere aveva giustificato la presenza di Enea in Italia ricordando « i responsi dei Mani e degli dèi del cielo»; Giunone, in tono ironico, attribuisce quei responsi alle furie di una donna isterica, Cassandra, cui nessuno aveva mai creduto. Della profezia di Cassandra aveva fatto cenno Anchise al figlio (III, 226 sgg.), dopo che Enea gli aveva raccontato il sogno nel quale i Penati gli avevano consigliato di levare le ancore dall'isola di Creta, dov'era approdato, e di raggiungere una terra antica chiamata Italia (III, 191 sgg.).
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88-96. ma sono stata io, ecc.: Giunone respinge anche la responsabilità, di cui Venere l'aveva accusata, delle difficili condizioni dei Troiani assediati nel loro campo; e ne attribuisce la colpa ad Enea, che si è allontanato per incitare alla guerra, lei afferma, gli Etruschi ed altre genti tranquille (Evandro). Ma noi sappiamo che Enea si è allontanato dal campo, perché spinto dal pericolo che i Troiani correvano a causa dello stato di guerra suscitato contro di essi da Giunone; e sappiamo anche che il capo troiano non è partito col proposito d'incitare alla guerra gli Etruschi. Questi erano già sul piede di guerra. - Che cosa c'entra, ecc.: nessuno, dice Giunone, ha spinto Enea nel pericolo; né io, né Iride siamo intervenute in questa faccenda. 96-100. E proprio un'ingiustizia, ecc.: è proprio una cosa indegna, deplorevole, chiede Giunone in tono ironico, parodiando le parole di Venere, circondare di fiamme il campo fortificato degli invasori (la nuova Troia), e consentire a Turno di difendersi per rimanere tranquillo nella terra, che è la sua patria? -Turno che ha il dio Pilunno, ecc.: Turno 'che discende dal dio Pilunno, suo trisavolo, ed ha per madre la ninfa Veniliai" (VII, 415 e sgg.; IX, 4). 102. con nere torce: espressione poetica per dire « con la guerra ». Potrebbe alludere all'uccisione del cervo di Silvia, ma è, comunque, un'altra falsa accusa, con la quale Giunone mira a nascondere la propria colpevolezza.
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104. strappare al grembo materno, ecc.: strappare alla madre le spose promesse. Allude a Lavinia da Amata promessa sposa a Turno e da Latino a Enea. Giunone attribuisce però tutta la colpa ad Enea. 105-106. implorar la pace, ecc.: allude all'ambasceria di pace inviata da Enea al re Latino, ma Giunone vuoi far credere che gli ambasciatori di Enea si sono recati a Laurento a provocare la guerra. 106-109. Tu bai potuto, ecc.: con lo stesso procedimento usato nel discorso eli Venere, il poeta a questo punto fa passare Giunone dalla difesa all'attacco diretto della rivale. - salvare il tuo Enea, ecc.: veramente non Venere salvò Enea dal pericolo delle armi di Achille, ma Nettuno (Poseidone), come racconta Omero nell'Iliade, XX, 318 e sgg.; Venere ha salvato il figlio ferito da Diomecle circondandolo con le braccia e avvolgendolo nel suo mantello (Il., V, 314 e sgg.). - trasformare le navi, ecc.: non Venere, ma Cibele aveva ottenuto da Giove la trasformazione delle navi in ninfe marine; Giunone lo sa, ma ora le torna utile attribuire il fatto a Venere. no. io commetto ... ai Rutuli?: nota l'« io » in posizione eminente all'inizio del verso, in contrapposizione al «tu» del verso 106: sem-· bra che la superba e litigiosa regina degli dèi pronunci queste parole con il dito teso verso la rivale! n 1. Enea non sa nulla, ecc.: ripete con ironia le parole di Venere e le commenta con disprezzo. È una con-
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strappare al grembo materno spose già fidanzate, implorare la pace con un ramo d'olivo e riempire le navi d'armati? Tu hai potuto, o Venere, salvare il tuo Enea dalle mani dei Greci, sostituendolo con un'ombra di nebbia, tu puoi trasformare le navi in altrettante Ninfe: io commetto un delitto prestando aiuto ai Rutuli? - Enea non sa nulla, è lontano - . Che se ne stia lon[tano! Tu hai Pafo, il monte Ida, la splendida Citera: non provocare una terra bellicosa e dei cuori coraggiosi! Sono io che cerco di annientare i relitti troiani: o la colpa è di chi espose gli infelici Dardanidi alla furia dei Greci? Quale motivo fece correre alle armi l'Europa e l'Asia? Che ratto fece si che i due popoli rompessero la pace? L'adultero troiano espugnò forse Sparta sotto la mia tutela? Io gli ho dato le armi, o mi sono servita della cieca libidine per favorire la guerra? Allora avresti dovuto temere per i tuoi:
suetudine del duello oratorio. II2-II4. Tu hai Pafo, ecc.: intendi: se tu hai detto che ti basta sottrarre Ascanio ai pericoli della guerra e custodirlo in uno dei luoghi a te cari, non dovresti provocare con il tuo Enea un popolo bellicoso e coraggioso com'è il popolo italico. Allude alle nuove armi che Venere fece costruire per il figlio da Vulcano, ma la dea si preoccupò della difesa di Enea quando la guerra era già in atto. 114-124. Sono io che cerco, ecc.: Giunone respinge anche l'accusa di aver provocato la rovina dei Troiani e attribuisce la colpa a Venere, che protesse Paride, rapitore di Elena. Questo fu il motivo che infuriò i Greci
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e radunò in armi sotto le mura di Troia tutti i popoli d'Europa e d'Asia, afferma la regina degli dèi con evidente ed astuta esagerazione retorica. - L'adultero troiano, ecc.: Paride sedusse e portò via da Sparta (espugnò ... Sparta) Elena con la mia protezione? - I o gli ho dato le armi, ecc.: ho dato io forse a Paride le frecce d'amore (armi), che prolungarono la sua passione per Elena e gli impedirono di restituirla al marito? O mi sono io preoccupata di alimentare la sua passione (libidine) per provocare la guerra? - Allora avresti dovuto, ecc.: Venere avrebbe dovuto evitare il male all'inizio, non attendere di correre ai ripari quando la situazione è grave e non può essere
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adesso per ingiusti lamenti è troppo tardi! » A queste parole di Giunone i Celesti mormorarono tutti con pareri discordi, come le prime brezze chiuse nelle foreste fremono con un sordo sussurro, annunziando ai naviganti i venti che stanno per arrivare. Il Padre onnipotente, sommo sovrano del mondo, si dispone a parlare: e subito ammutolisce l'alta reggia celeste, ammutolisce la terra scossa sin nel profondo, ammutolisce il cielo, cadono i venti, il mare spiana l'acqua tranquilla. « Ascoltate, stampatevi le mie parole nel cuore. Poiché sembra impossibile un patto d'alleanza fra ltalici e Troiani, e la vostra discordia non ha fine, ho deciso che io non interverrò: qualunque fortuna o qualunque speranza i due popoli nutrano. Non m'importa se il campo è stretto d'assedio perché il Fato è propizio ai Rutuli, o per un funesto errore dei Troiani e per oracoli avversi. E se il destino cambia non ne libererò i Rutuli. Ad ognuno porteranno fatica e fortuna soltanto le proprie imprese. Giove è un re eguale per tutti. Il Fato trovetà la propria via! ». Sand la promessa giurmdo per i fiumi infernali di suo fratello Stigio, per le rive infuocate, per la nera voragine dove scorre la pece: al cenno del suo capo tremò l'intero Olimpo. Poi Giove si levò dal suo trono ·dorato circondato da tutti gli abitanti del cielo che in segno d'onore lo scortano alla soglia. mutata. - per i tuoi: per i Troiani in generale ed Enea e la sua famiglia in particolare. La chiusa del discorso è potente: chi è causa del suo male - sembra che dica l'orgogliosa Giunone - pianga se stesso! « L'orazione della diva iraconda - commenta l'Arcangeli- è un bell'esempio di confutazione. Si noti come ripiglia quasi parola per parola il discorso di Ve-
nere, e come ne ritorce gli argomenti contro di lei». 127-130. come le prime brezze, ecc.: con la consueta
sensibilità, che vivifica la natura, il poeta paragona il mormorio dei celesti, che esprimono pareri discordi sui discorsi delle due dee, facendo prevedere una discussione molto accesa, al sordo sussurro delle selve, foriero dei venti che scatenano poi
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la tempesta. Nota la bella immagine del vento che, prima di avventarsi sul mare, rimane chiuso nelle foreste e freme producendo, appunto, un « sordo rumore ». I36-147· Poiché sembra imposszbile, ecc.: Giove ma-
nifesta agli dèi, che commentano con pareri contrastanti i discorsi delle due dee, la volontà di essere neutrale fra Troiani e Italici. Deciderà il Fato. - qualunque fortuna, ecc.: qualunque sia la sorte o la speranza di ciascuno dei due popoli. - Non m'importa, ecc: intendi: non m'interessa se l'attuale assedio del campo troiano avvenga per volontà del Fato avverso ai Troiani e favorevole ai Rutuli, o sia conseguenza di errori compiuti dai Troiani nell'interpretare le profezie e i responsi degli oracoli, come disse Giunone nel suo discorso (86-87); né esento i Rutuli dalla necessità di sottostare al loro destino, sia esso buono o cattivo. Ognuno costruirà per suo conto la propria fortuna. - Il Fato troverà, ecc. : il Fato imboccherà la via giusta, cioè ognuno percorrerà la via prescelta dal proprio destino, che non sbaglia mai. 148. giurando per i fiumi infernali: è la formula più solenne e impegnativa che gli dèi possano pronunciare. 149. fratello Stigio: Plutone, re del mondo sotterraneo, qui indicato con l'aggettivo ricavato da uno dei fiumi infernali, cioè dallo Stige ribollente di pece. Gli altri fiumi sono: l'Acheronte, il Cocito, il Flegetonte. 151. al cenno del suo capo, ecc.: Giove con il cenno
del capo dichiara irrevocabile il suo giuramento.
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Il nuovo assalto al campo troiano
NUOVO ASSALTO AL CAMPO TROIANO (155-18,5). -
Il poeta riprende qui il racconto, interrotto alla fine del canto precedente, con i Rutuli che rinnovano l'assalto al campo troiano e i T eucri che resistono valorosamente. Tra i difensori spicca, a capo scoperto, splendido nella sua freschezza giovanile, Ascanio. 1,58. senza speranza di fuggire: senza speranza di salvezza, neppure con la fuga, perché mancano le navi trasformate in ninfe marine. Turno è stato scacciato dall'interno del campo, ma l'assedio è continuato più intenso e più crudele. 1.59. Resistono inutilmente: i Troiani hanno perduto la speranza di respingere l'assalto nemico, anche per il fallimento del tentativo di Eurialo e Niso. 16o-16x. rada corona di combattenti: a causa delle gravi perdite subite in morti e in feriti. 161-170. Timete ... Asio... , ecc.: il poeta in questi versi accenna ad alcuni Troiani che combattono in prima fila sulle torri e sulle mura; dei quali alcuni non sono altrimenti noti, altri, come i due Assaraci, sono conosciuti come amici di Enea, mentre i due fratelli di Sarpedonte, re della Licia ucciso da Patroclo, sono ricordati come validi alleati dei Troiani. 171. Ma ecco il fanciullo fulo, ecc.: Ascanio è in mezzo ai soldati nel centro della lotta; ma non combatte. Glielo ha proibito Apollo (IX, 794-79.5). Nota il contrasto fra la guerra atroce,
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Intanto i Rutuli premono contro tutte le porte, massacrano guerrieri, circondano le mura di fiamme. L'esercito degli Eneadi è tenuto stretto d'assedio serlza speranza di fuggire. Resistono inutilmente sulle alte torri. Invano hanno cinto le mura di uha rada corona di combattenti: Timete figlio d'Icetaone, Asio figlio d'lmbraso, i due Assaraci, il vecchio Timbri e Castore sono là in prima fila; accanto combattono Claro e Témone, fratelli di Sarpedonte, venuti dalla montuosa Licia. Acmone di Lirneso, non inferiore al padre Clizio o al fratello Mnèsteo, porta con gran fatica un immenso macigno, anzi un pezzo di monte. A gara scagliano sassi o giavellotti o saette col fuoco sulla punta, ed incoccano frecce. Ma ecco il fanciullo Julo, per cui si preoccupa a giusta ragione Venere; il dolce capo scoperto, brilla come una gemma incastrata nell'oro giallo, vezzo del collo o della testa, o come avorio intarsiato con arte nel legno di bosso o nel terebinto d'ùrico: sul suo collo candido come il latte ricadono i capelli tenuti a posto da un cerchio di flessibile oro. E anche tu, Ismaro, nobile figlio di gente meonia - al tuo paese gli uomini lavorano i grassi campi irrigati dall'acqua aurifera del Pattòlo sei stato veduto da questi eroi valorosi distribuire ferite con frecce avvelenate.
che si combatte intorno a lui, e la sua figura, che spicca splendida nel tumulto, come una gemma, dice il poeta, in un medaglione d'oro o il fregio d'avorio in una placca di legno nero. -legno di bosso: il bosso è una pianta sempreverde, usata per siepi, e il suo legno, durissimo, si lavora al tornio per
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ricavare oggetti vari. - terebinto d'Orico: legno nero e lucido, di cui la qualità migliore veniva da Orico, città dell'Epiro. 179. Ismaro: è il comandante dei Lidi, nativo della Meonia, ricca di biade e attraversata dal fiume Pattòlo, che trasportava con la sabbia pagliuzze d'oro.
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E c'era Mnèsteo, che il vanto d'aver cacciato Turno dalle mura solleva sino alle stelle, e Capi da cui deriva il nome d'una città campana.
Enea ritoma con gli alleati Il coro delle ninfe
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Mentre Troiani e Rutuli combattevanò un'aspra battaglia, Enea nella notte solcava l'onde del mare. Infatti, lasciato Evandro e arrivato nel campo degli Etru~i, ne aveva avvicinato il re dicendogli il suo nome, la sua stirpe e il perché del suo arrivo, spiegandogli quali siano le forze proprie e quelle che aiutano Mesenzio, e l'audacia di Turno, ricordandogli la caducità delle cose mortali. Tarconte accoglie subito le preghiere di Enea, conclude un'alleanza con lui, pone ai suoi ordini le proprie forze. Allora la gente lidia, affidata ad un capo straniero secondo il volere dei Numi, sciolta dal Fato, sale sulla flotta. La nave di Enea si tiene in testa: porta come polena due leoni di Frigia sopra ai quali s'innalza la montagna dell'Ida carissima agli esuli troiani. Qui è seduto il grande Enea pesando tra sé tutti i pericoli 184. Mnèsteo: aveva spronato i Troiani, e partecipato egli stesso, a cacciare Turno dal campo (IX, 927 sgg.). r85. Capi: il mitico fondatore di Capua, già nominato più volte (I, 217; II, 49; IX, 697). ENEA RITORNA CON GLI ALLEATI- lL CORO DELLE NINFE
(187-324). - Mentre intorno
al campo troiano si combatte, Enea sta per raggiungere i suoi con una nuova flotta e gli alleati. Era partito a notte fatta dall'Etruria con trenta navi, provenienti da varie città della costa, cariche di guerrieri etruschi; e il poeta
ne nomina sette, comandate da Massico con i gue"ieri di Chiusi, da Abante con gli armati di Populonia, Asila con i Pisani, Astir con quelli di Cere, Cupavone coi Liguri, Ocno con i Mantovani ed Auleste anche con Mantovani. I n alto mare Enea incontra le Ninfe, che erano state le sue navi, ed una di esse, Cimodocéa, gli dà notizie della loro trasformazione e dei pericoli che corrono gli assediati nel campo troiano. Lo invita quindi ad affrettarsi, ed ella stessa imprime alla nave una velocità maggiore. Anche le altre navi seguono più rapide.
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I88. nella notte: è la notte successiva a quella in cui Venere consegnò ad Enea le armi fabbricate da Vulcano. I94-I9.'1"· la caducità delle cose mortali: l'espressione è piuttosto generica, e si presta a varie interpretazioni. Enea può aver ammonito il re di Cere, Tarconte, che un giorno anche gli Etruschi potevano aver bisogno dell'aiuto altrui, oppure, con precisione maggiore, che Turno, se vincitore, poteva tentare di riporre Mesenzio sul trono di Cere o, peggio, di assoggettare al suo dominio l'intera Etruria, ma forse più semplicemente che Mesenzio, rifugiatosi ad Ardea presso Turno con notevoli forze armate, dopo aver aiutato Turno a vincere i Troiani, avrebbe mosso guerra agli Etruschi cori l'aiuto del suo protettore. 198. la gente lidia: anticamente si credeva che gli Etruschi fossero venuti in Italia dall'Asia Minore (Lidia). I99· sciolta dal Fato: liberata dall'inazione, cui era costretta dal Fato, il quale esigeva che il comandante dell'esercito fosse uno straniero. 2oi-203. porta come palena, ecc.: sulla prora, come ornamento ed emblema, la nave di Enea ha dipinti due leoni, animali sacri a Cibele, e aggiogati al suo carro, ed una immagine del monte Ida, il monte che domina Troia. 204-205. pesando tra sé, ecc.: meditando sui possibili eventi della guerra e sulle difficoltà da superare. L'eroe
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Canto decimo
pensa alla lotta grave e pericolosa, a cui va incontro. 205-208.
Pallante seduto,
ecc.: è un quadro dal tocco delicato e profondo, di cui Virgilio è maestro. Accanto ad Enea siede Pallante devoto all'eroe e curioso di sapere; vuoi avere notizie delle st~e che servono a regolare la navigazione, e, giovane ardente, coraggioso e aperto, desidera conoscere dalla viva voce di Enea, di cui in breve tempo ha compreso il valore, i pericoli da lui superati per terra e per mare, le traversie sofferte, le famose imprese fauste o infelici. 209-212. Muse
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divine, ecc.:
come prima della rassegna delle forze italiche radunatesi a Laurento per muovere guerra ai Troiani, cosi ora, prima della rassegna della flotta che sta per salpare dalle coste dell'Etruria per recarsi nel Lazio a combattere contro Turno e i suoi alleati, il poeta chiede alle Muse d'ispirare il suo canto. Massico ... Abante... Asi/a... , ecc.: sono co213-216.
mandanti di navi, i cui nomi sono tratti dalla geografia. Nessuno di questi personaggi è altrimenti noto, e ad eccezione di Aulente non compariranno più nel poema. sulla bronzea Tigri: la nave di Massico si chiama Tigri ed ha per emblema una tigre di bronzo. - Chiusi ... Losa: Chiusi conserva tuttora lo stesso nome; Lasa sorgeva presso il monte Argentario, non lontana dall'odierna Orbetello. 217-222.
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il torvo Abante:
il truce Abante. Il Sabbadini annota che « non si comprende il perché di questo
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della guerra. Fallante seduto alla sua sinistra gli chiede tante cose: notizie delle stelle che mostrano loro il cammino entro l'opaca notte, notizie dei suoi travagli per terra e per mare. Muse divine, apritemi l'Elicona, ispirate il mio canto: narratemi che esercito venga dietro ad Enea dalle spiagge della Tuscia, viaggiando per il mare spumoso su navi bene armate. Solca per primo i flutti Massico, sulla bronzea Tigri; ne seguono gli ordini un migliaio di giovani che han lasciato le mura di Chiusi e la città di Cosa, armati di frecce leggere e d'arco mortale. Procede di conserva il torvo Abante: i suoi uomini splendono d'armi belle, la sua nave d'un aureo simulacro d'Apollo. Populonia, sua patria, gli ha dato seicento soldati agguerriti, trecento li ha aggiunti l'isola d'Elba, ricca di inesauribili miniere di metallo. Terzo è Asfla, famoso profeta degli uomini e degli Dei, interprete dei presagi nascosti nelle fibre animali, nelle costellazioni celesti, nel linguaggio degli uccelli, nei fuochi profetici del fulmine. Lo seguono mille guerrieri in file serrate, spinose
attributo »; invece il poeta, quasi certamente, l'ha usato per dare vita e varietà ali' elenco di questi personaggi noioso, ma voluto dalla tradizione epica. Questo Abante non deve essere confuso con l'Abante troiano del canto I, verso 145. - Populonia: città dell'Etruria che sorgeva non lungi dalla attuale Piombino. - miniere di metallo: anche oggi l'isola d'Elba, non lcntana dalle coste toscane di fronte all'antica Populonia, continua a fornire abbondante minerale di ferro. 222-229.
Terzo è Asi/a,
ecc.: un Asila è nominato anche al verso 692 del canto IX, ma quello è italico;
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questo Asila dovrebbe essere un altro, e quindi etrusco: famoso indovino che conosceva la volontà degli dèi e la comunicava agli uomini. Gli Etruschi erano maestri di divinazione, e sapevano trarre auspici dalle viscere di animali sacrificati, dall'osservazione delle stelle, dal canto degli uccelli, dal fragore dei tuoni e dal lampeggiare dei fuhnini. - ùt file serrate: che combattono a file serrate, in fitta schiera. Il testo latino ha « densos acie ». spinose di /ance: irte di lance. « Spinose » ti dà l'immagine di una formazione compatta di soldati, le cui lance sono come le spine di una pianta o di un istrice. - da
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di Iance: posti ai suoi ordini da Pisa, città etrusca ma di origine aHea. Poi viene il bellissimo Asture, fiero del suo cavallo e delle armi variopinte. Trecento Io accompagnano (d'accordo nel seguirlo); gli abitatori di Cere, dei campi solcati dal Mignone, di Pirgi, di Gravisca malsana. Non tacerò di te, forte capo dei Liguri, Cupavone seguito da pochi, dall'elmo adorno di piume di cigno, ricordo di tuo pa~re Cigno, che mise penne per colpa dell'amore. Si dice infatti che Cigno, in lutto per la morte dell'amato Fetonte, mentre tra i pioppi, all'ombra delle piangenti sorelle, cantava consolando con la musica il triste amore, diventasse sempre piu vecchio e bianco, si coprisse di penne morbide e abbandonasse la terra per salire, cantando sempre, sino alle stelle. Suo figlio a capo d'una schiera di coetanei, spinge coi remi l'enorme Centauro: il gigante, effigiato nella palena si leva alto sull'acqua e minaccia le onde con un macigno mostruoso: la nave solca il mare profondo con la lunga carena. Segue Ocno che guida dalle rive paterne un esercito. Ocno figlio del fiume etrusco e di Manto indovina. Ocno che ti fondò, Pisa, ecc : è la Pisa attuale, fiume che nasce ad ovest di fondata dai Greci della cit- · Tarquinia e si getta nel matà omonima dell'Elide, sul re presso Bagni S. Agostino; fiume Alfeo (di origine el- Pirgo, sulla costa tirrenica fea). dell'attuale S. Marinella, non 229-233. il bellissimo A- lungi da Cerveteri, l'antica sture, ecc.: guerriero etrusco Cere; Gravisca, città costieignoto, orgoglioso del caval- ra della Maremma toscana, lo e delle armi. Il testo la- non identificata. Forse era tino ha «equo fidens », che infestata dalla malaria é significa « sicuro del suo ca- quindi malsana, donde il vallo», nel senso che il ca- nome « Gravisca », che sivallo gli era molto obbedien· gnificherebbe «aria pesante, malsana». te. - d'accordo nel seguir/o: animati dal suo stesso ardo235-249. Cupavone, ecc.: re, dalla sua stessa volontà. re dei Liguri, ricordato dal - Cere... Mignone... Pirgi... poeta soprattutto come figlio Gravisca: Cere, la città che di Cigno o Cicno, il grande aveva scacciato Mesen2io e amico di Fetonte, di cui, in cui si erano radunate le quando precipitò dal carro truppe etrusche; Mignone, del sole, pianse la morte tan-
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to, che fu trasformato in un candido uccello, il cigno, dal canto melodioso. Perciò Virgilio fa portare scl cimiero al figlio di lui, Cupavone, le penne del cigno come insegna, e ricorda che fu l'amore la causa della sua curiosa trasformazione. - tra i pioppi, ecc.: secondo la leggenda Fetonte, figlio di" Elios e di Climene, ottenne dal padre il permesso di guidare il carro di giorno, ma per la sua inesperienza i focosi cavalli gli presero la mano e il cocchio, uscendo dalla strada, si alzò e bruciò il cielo lasciando come segno la Via Lattea, poi si abbassò e inaridl i fiumi. Giove impedl una catastrofe maggiore fulminandolo; e il giovane Fetonte precipitò nel Po, sulle cui sponde crebbero, trasformate in pioppi, le piangenti Eliadi, sue sorelle. - Suo figlio, ecc.: il figlio di Cupavone spinse con i remi la grande nave, il cui emblema è un centauro, che si erge sul mare in atto di precipitare nell'acqua un grosso macigno. 250.262. Segue Ocno che guida, ecc.: Ocno è figlio del Tevere (fiume etrusco) e di Manto, mitica profetessa italica (da non confondere con Manto, anche profetessa, figlia di Tiresia); ma il poeta non dice il paese di cui Ocno è re. Evidentemente è una terra etrusca, se egli è partito « dalle rive paterne ». Ocno... Mantova: secondo un'altra tradizione, che fonde i due miti e fu accolta da Virgilio, la figlia di Tiresia sarebbe venuta in Italia e dal dio Tiberino avrebbe avuto un figlio, Ocno; questi, là dove il Mincio s'impaluda,
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avrebbe fondato lui la città ch'egli chiamò Mantova dal nome della madre. - città dai molti antenati, ecc.: il poeta, che si considera mantovano (è nato a Pietole Virgilio, a tre chilometri da Mantova), esce in questa apostrofe affettuosa, attribuendo alla sua città una storia gloriosa (dai molti antenati) ed un certo predominio su altre popolazioni ad essa confederate. Cioè le stirpi, che sarebbero state tre, potevano essere: gli Etruschi, la principale, i Celti, che vivevano numerosi nell'Italia settentrionale, e forse gli Umbri, prima che discendessero nel centro della penisola. Ognuna di queste tre stirpi era distribuita in quattro città, cosl che tutte insieme formavano una confederazione di dodici città, alla quale sovrastava Mantova. - contro Mesenzio, ecc.: la notizia delle efferatezze di Mesenzio è giunta anche a Mantova ed ha mosso contro di lui cinquecento guerrieri. - sembra guidarli... il Mincio, ecc.: Mincio è la nave che trasporta i guerrieri mantovani, cosl chiamata perché sulla prora ha per emblema il fiume dal quale sono partiti, raffigurato con la testa coronata di canne. Il Mincio è l'emissario del Garda (Benaco), e forma i laghi di Mantova. 263-269. Auleste: Auleste, fratello di Ocno e fondatore di Perugia, procede lentamente con la sua nave, che ha per insegna un Tritone. I Tritoni erano semidei marini, metà uomini e metà pesci, con capelli verdognoli e corpo squamoso;· formavano il corteo di Nettuno. 272. con le prore di bron-
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Mantova, e che ti diede il nome di sua madre. Mantova è una città dai molti antenati, non tutti della medesima gente: in essa ci sono tre stirpi, ognuna divisa in quattro popoli; e tante tribu son dominate da quella che trae le sue forze dal sangue etrusco. Di là muovono contro Mesenzio cinquecento guerrieri: sembra guidarli attraverso la liquida pianura del mare il Mincio, figlio del Benaco, scolpito sulla prua della nave col capo coronato di glauche canne. Avanza quindi pesantemente Auleste: la sua nave percuote con cento remi le onde spumeggianti. La polena è un Tritone enorme che atterrisce con la buccina l'acqua .celeste in cui è immerso sino alla vita: ha busto e capo irsuto d'uomo, ventre e coda di pesce, l'onda schiumosa mormora sotto il suo corpo parte umano e parte bestiale. Erano questi i principi valorosi che andavano in aiuto di Troia, montati su trenta navi, solcando i campi del mare con le prore di bronzo. La luce era scomparsa dal cielo, la divina luna toccava già col suo carro notturno il punto piu alto del suo percorso: Enea (cui le preoccupazioni non davano riposo) seduto regge il timone di persona e governa con le vele la nave. Ed ecco che a metà del viaggio gli viene incontro un coro di Ninfe: erano le sue navi, le sue compagne, alle quali la divina Cibele aveva comandato di assumere il potere marino e trasformarsi in Dee del mare: nuotando tutte insieme solcavano i flutti, tante quante erano state le prore
zo: sono i rostri, di cui le
navi sono armate. 274. col suo carro: gli antichi immaginavano che anche la luna percorresse il cielo sopra un cocchio, come il sole. 279. un coro di Ninfe:
una schiera di Ninfe: sono le Ninfe marine, in cui Cibele, per salvarle dal fuoco, ha tramutato le navi con le
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quali Enea era venuto da Troia. Suggestivo questo quadro dell'incontro di uno stuolo di Ninfe immortali con le navi di Enea che filano silenziose, cariche di armati, sulla vastità del mare, verso grandiosi destini! 285. lungo il lido: lungo la riva, alla foce del Tevere, dove Enea aveva costruito l'accampamento.
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di bronzo lungo il lido. Riconosciuto il re di lontano, lo attorniano. Cimodocea di tutte la piu eloquente, segue la nave, con la destra si afferra alla poppa emergendo col dorso, nuotando con la sinistra sotto le tacite onde; quindi dice ad Enea ignaro del prodigio: «Enea, stirpe divina, vegli? Veglia ed allenta le scotte delle vele. Noi siamo la tua flotta, un tempo pini sacri della vetta dell'Ida ora Ninfe del mare. Poiché il perfido Rutulo ci assaltava col ferro e col fuoco, rompemmo controvoglia gli ormeggi cercandoti per tutta la distesa del mare. La Madre degli Dei ebbe pietà di noi, ci trasformò, accordandoci d'essere Dee e di vivere sempre sotto le onde. Ma il giovinetto Ascanio è assediato tra mura e fossati, tra i dardi e i Latini terribili nelle armi. Di già i cavalieri Arcadi e i forti Etruschi mandati in avanscoperta han preso le posizioni assegnate; Turno ha deliberato di isolarli mediante torme di cavalieri in modo che non possano congiungersi col campo. Alzati dunque e, al sorgere dell'Aurora, sii il primo a chiamare alle armi i compagni: ed imbraccia lo scudo invincibile dai bordi dorati che ti ha fatto Vulcano domatore del fuoco. Credi alle mie parole, la luce di domani vedrà montagne enormi di cadaveri rutuli! ». Allontanandosi spinse la poppa alta sul mare con la destra, abilmente. La nave fuggi per le onde piu rapida d'un giavellotto e d'una freccia leggera come l'aria. Anche le altre s'affrettano a loro volta. II figlio d'Anchise sbalordito non sa che cosa pensare: ma l'auspicio comunque gli dà coraggio. Allora volto al cielo convesso prega con poche parole: «O Madre degli Dei, santa regina dell'Ida, che hai carissimi Dindimo
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rina e notturna! Qual momento solenne! Enea rappresenta veramente Cesare, che era "pontifex maximus" ». 293. pini sacri della vetta dell'Ida: c. IX, 104 sgg. 296-297. cercandoti... mare: le Ninfe, già navi di E-
nea, hanno rotto malvolentieri i vincoli che le legavano ai Troiani, dei quali erano state fedeli custodi per lunghi sette anni, salvandoli spesso dalle ire del mare; ma non sono interrotti i vincoli d'affetto, se le Ninfe cercano Enea per avvertirlo del pericolo che incombe sul campo troiano e soprattutto sul figlio Julo. 302-306. Di già i cavalieri, ecc. : i cavalieri arcadi, in-
viati da Evandro, e quelli etruschi si erano diretti verso il campo troiano per via di terra, ed avevano già raggiunto le posizioni assegnate da Enea. Però Turno, informato del loro arrivo, ha deciso di impedire con la sua cavalleria che essi raggiungano il campo. 314. abilmente: conosceva bene come spingere una nave, sia come ninfa marina, sia perché era stata nave. 317-319. Il figlio d'Anchise, ecc.: Enea, non sapendo
la causa della velocità insolita della sua e delle altre navi, si stupisce, ma considera la cosa come un presagio favorevole. Così spiega anche Servio, antico commentatore del IV secolo d. C. al cielo convesso: alla volta celeste. 320. O madre degli dèi:
291. Enea, stirpe divina, vegli? Veglia, ecc.: sono le
parole rituali che le Vestali pronunciavano quando, nei
giorni stabiliti dal rito, si recavano dal re dei sacrifizi; eilPascoli commenta: «Quale poesia in questa scena ma-
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Cibele, venerata di culto particolare sul monte Ida. 321-323. Dindimo: un monte della Frigia caro a Cibele per il culto che la
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Canto decimo
dea vi godeva. - le città turrite: Cibele era considerata fondatrice di città e protettrice di esse; ed era perciò rappresentata con una corona turrita sul capo. - i leoni: la dea Cibele era raffigurata spesso su un carro tirato da due leoni mansueti.
e le città turrite e i leoni aggiogati al tuo cocchio, ti supplico, sii mia guida in battaglia, fa che l'augurio si compia, favorisci i Troiani ».
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Lo SBARCO E LA BATTAGLIA SULLA SPIAGGIA (32,5-453). Enea innalza una preghiera a Cibele, e poiché la flotta è già vicina alla foce del T evere, impartisce gli ordini per lo sbarco e la battaglia che tosto ne seguirà. Da lontano gli assediati vedono lo scudo di Enea risplendere al sole e innalzano un urlo di gioia. Lo vedono anche i Rutuli, i quali per un attimo rimangono sgomenti. Ma Turno li incoraggia a combattere e conduce le sue schiere verso il mare. Tuttavia Enea riesce a sbarcare tutti i suoi gettando passerelle dalle navi alla costa; T arconte, invece, il capo etrusco, fa arenare le navi sul lido, e la manovra riesce, meno che per la sua, che s'incaglia e si sfascia. Allora Turno lancia i suoi guerrieri contro quelli di Enea, e si accende una battaglia furibonda. Molti sono i caduti dall'una e dall'altra parte; e il poeta paragona la cruenta lotta allo scontro impetuoso dt venti contrari. 330-331. solleva ... lo scudo fiammeggiante: con lo scudo che brilla al sole nascente Enea segnala ai suoi il suo arrivo e li incoraggia. 334-337· come sotto le nere nuvole, ecc.: il poeta paragona le grida di gioia dei Troiani alle grida delle gru
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Intanto il giorno tornava impetuoso ndl'aria fugando con la sua luce la notte: Enea dà ordine anzitutto ai compagni di obbedire ai segnali, di prepararsi, anima e corpo, alla battaglia. E già è arrivato in vista dei Troiani e dd campo, dritto sull'alta poppa solleva con la sinistra lo scudo fiammeggiante. Dalle mura i Dardanidi levano un grido di gioia sino al cielo, la nuova speranza è un fuoco acceso nei loro cuori, e scagliano con forza rinnovata i loro dardi: come sotto le nere nuvole uno stormo di gru dello Strimone leva grida d'allarme e attraversa chiassosamente l'aria fuggendo lieto i venti. Ma il re rutulo e i capi ausoni non comprendono cosa accada, finché non vedono le navi dirette verso il lido e il mare intero correre con la flotta. Fiammeggia il pennacchio sul capo di Enea, splende di luce la criniera, lo scudo d'oro manda bagliori vastissimi: cosi nella notte serena rosseggiano sinistre a volte le comete color dd sangue, o Sirio ardente che si leva recando ai mortali la sete e le malattie, e rattrista col fuoco
che ritornano al loro paese prediletto, lo Strimone (fiume della Tracia), quando fuggono la tempesta annunciata vicina dal soffiare del Noto (scirocco). 34o-341. il mare intero ... flotta: efficacissima immagine del mare, che coperto di navi, sembra riversarsi con la flotta sulla terra. Contemporaneamente l'immagine fornisce l'idea del grande numero di navi e della rapidità con la quale navi e uomini eseguono l'operazione
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di sbarco, cosl che ai Rutuli sembra che il mare si precipiti con le navi contro di loro. 344-348. rosseggiano sinistre, ecc.: gli antichi, e i superstiziosi ancora oggi, credevano che le comete, quando appaiono nel cielo rosseggianti, preannunziassero guerre, pestilenze od altre sciagure. - o Sirio ardente, ecc.: Sirio, una stella della costellazione del Cane, che sorge in luglio in coincidenza con il periodo più caldo
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suo lugubre tutto l'orizzonte del cielo. Il coraggioso Turno non dispera però d'occupare la spiaggia per primo e allontanare dalla terra il nemico che sta per sbarcare. Anima i suoi soldati e li rimprovera: «~giunto quello che avete tanto desiderato e chiesto nelle vostre preghiere; è giunto il giorno d'uccidere. L'esito della guerra sta nelle vostre mani. Ognuno adesso pensi alla moglie e alla casa: ognuno rinnovi le gesta gloriose dei padri. Su, corriamo subito al mare, mentre sono appena approdati tutti storditi, e il suolo vacilla ai loro passi maHermi. La Fortuna aiuta gli audaci! »... Intanto pensa tra sé chi portare all'attacco, chi lasciare all'assedio. Enea sbarca le truppe gettando passerelle dalle alte poppe. Molti vedendo che il riflusso è debole si azzardano a saltar sulla sabbia: altri toccano terra calandosi lungo i remi. T arconte osserva il lido e notato un approdo tranquillo dove l'acqua non ribolle ed il flutto non gorgoglia frangendosi, ma si allunga con onde che non trovano ostacoli, lisce, serene, subito la prua vi punta e prega i compagni: «Avanti giovani scelti, forza, curvatevi sui remi! Fate volare le navi, fendete questo suolo nemico con i rostri, aratelo con la chiglia, si spezzi pure la nave dopo toccata terra! » l vogatori si gettano tutti insieme sui remi, e spingono le navi dai grandi baffi di schiuma sulla spiaggia latina, finché i rostri s'affondano nel suolo asciutto e le chiglie si fermano senza danno. Tutte tranne la tua, o T arconte! Arenatasi in una secca scogliosa nascosta, vi rimane in bilico, sospesa, e oscilla a lungo in preda dell'estate, sembra che apporti l'arsura, le febbri e le altre malattie che infieriscono in questa stagione. 349-361. Il coraggioso Turno, ecc.: Turno non si scoraggia. Impavido e tenace, parla tranquillo e impartisce
con accortezza e con prudenza le disposizioni tattiche, anima e rimprovera i soldati. - E giunto quello, ecc.: allude agli inviti, più volte rivolti ai Troiani, di uscire dal campo fortificato e combattere in campo aperto. -·
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Ognuno adesso pensi, ecc. : è il motivo più frequente nelle esortazioni al combattimento presso tutti i popoli e in tutti i tempi: i Troiani sono invasori e costituiscono un pericolo per la famiglia e la casa, che sono !e cose più vicine al cuore dei combattenti. t quindi necessario liberare la patria dalla loro presenza. - La Fortuna, ecc.: la frase è diventata proverbiale. 364. riflusso: il movimento dell'acqua prodotto sulla spiaggia più o meno forte a seconda dell'altezza delle onde del mare. 368-370. dove l'acqua non ribolle, ecc.: dove non vi sono scogli. Quando sotto il pelo dell'acqua non vi sono scogli, le onde non formano dei piccoli vortici, ma proseguono lisce. 373·375· fendete questo suolo, ecc.: Tarconte incita i rematori a spingere le navi il più velocemente possibile; non importa se esse andranno a solcare (fendere) il suolo, cioè ad arenarsi ~ulli do, purché si sbarchi in fretta. 377· dai grandi baffi di schiuma: i vogatori spingono le navi cosi velocemente che sollevano la schiuma del mare. 38o-386. Tutte tranne la tua, o T arconte!, ecc.: lanave di Tarconte, correndo veloce verso la riva, incappa in un sottofondo scoglioso e si arena rimanendo in bilico in preda alle onde finché si sfascia e riversa i guerrieri nell'acqua. E il poeta, che ha presente la scelta accurata dell'approdo fatta da Tarconte, forse un po' eccessiva per la circostanza che esigeva
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rapidità e un po' di rischio, esce in questa vivace apostrofe, a cui non manca neppure una punta d'ironia. « Ma osserva com'è mossa, drammatica e veramente "visibile" questa scena dell'approdo. j;: notevole come Virgilio, poeta, per cosl dire, terrestre, abbia profondo e vivace l'intuito della vita sul mare, e di cose marinare si dimostri descrittore sempre accurato ed efficace» (Morpurgo). 390. sugli squadroni agresti: l'espressione ha senso dispregiativo: su quest'accozzaglia di contadini armati. « Squadroni » traduce bene il termine militare latino « turmas » (parola di origine ignota, forse parente di « turba »), che significa anche una « moltitudine qualsiasi». 391-392. abbattendo i Latini, ecc.: prostrando moralmente i Latini con l'uccisione di Terone, loro capo. Terone, guerriero latino, appare qui soltanto. 395-398. Lica, tratto vivo, ecc.: Lica era venuto al mondo mediante una operazione chirurgica (il taglio cesareo che, evidentemente, era noto anche anticamente, almeno fin dai tempi di Virgilio), e perciò sacro a Febo, che tra le molte sue attribuzioni aveva anche quella di essere dio della medicina. indenne: che cosa gli giovò, sembra dire il poeta con «indenne», d'essere uscito da bambino incolume dai ferri del èhirurgo, se ora, uomo adulto, è costretto a morire in guerra? 402. le armi di Ercole: la clava, di cui Ercole era sempre armato.
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alle onde finché va in frantwni gettando i guerrieri nell'acqua. E ne escono a fatica impediti dai pezzi dei remi, dalle panche fiottanti e dal riflusso che li trascina indietro. Turno non perde tempo; ma furioso conduce l'esercito contro i Teucri e lo schiera sul lido. Le trombe squillano. Enea è piombato per primo sugli squadroni agresti (presagio di vittoria!), abbattendo i Latini con la morte del grande Terone, il quale aveva osato assalirlo. Lo trafigge nel fianco con la spada, attraverso la lorica di bronzo e la veste dorata. Quindi ferisce Lica, tratto vivo dal corpo di sua madre già morta con un taglio cesareo, e consacrato a Febo appena uscito, indenne, da tale operazione. Subito dopo abbatte con un colpo mortale il forte Cisseo e il gigantesco Gia, che falciavano file intere con la clava: ed a nulla servirono a loro difesa le armi di Ercole e le mani gagliarde e l'essere figli di Melampo, compagno di Alcide finché questi visse in terra compiendo le sue dodici imprese. Ma ecco Faro, che lancia inutili minacce: vibrando un giavellotto Enea glielo ficca nella bocca che grida. E tu pure, o Gidone,
404. Melampo: è un personaggio che appare qui soltanto, ma doveva essere un valoroso, se i figli si vantano d'essere nati da lui. Gli illustri natali, osserva melanconicamente il poeta, non valsero a salvarli dalle 2r- · mi mortali di Enea. - compagno di Alcide, eçc.: compagno di Ercole (Alcide da Alceo, suo avo) nelle dodici famose fatiche impostegli da Euristeo, re di Tirinto e Micene; ma è una notizia soltanto virgiliana. 406-453. Ma ecco Faro, ecc.: continua ancora per molti versi la descrizione
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della cruenta battaglia fra ltalici da una parte, Troiani ed Etruschi dall'altra; e nella lotta al di sopra di tutti si distingue per valore Enea, che fa strage di nemici. Nel ricordare gli uccisi il poeta cerca di superare la monotonia, che deriva dalla lunga elencazione dei nomi, con accenni particolari, quasi sempre creati dalla sua fantasia, come la morte di Faro, ucciso da un giavellotto, che Enea gli ficca in bocca mentre « lancia inutili minacce »; e di due dei sette fratelli figli di Porco, che hanno avuto l'ardire di sbarrare
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mentre segui infelice il nuovo amore - Clizio dalle guance imbiondite dalla prima peluria saresti morto, ucciso dalla lancia di Enea, libero finalmente dalla tua eterna passione per i ragazzi: se il gruppo dei sette fratelli figli di Porco non fosse sceso a sbarrargli la strada. I sette fratelli scagliano sette dardi che vanno a vuoto: parte rimbalzano sull'elmo e sullo scudo, parte deviati da Venere lo sfiorano soltanto. Allora Enea si volge al fido Acate: «Dammi dei giavellotti, quelli che rimasero infitti nel corpo dei Greci sulle pianure di Troia: non ne voglio lanciare nessuno invano!». Prende un grande giavellotto e tira: l'arma vola e trapassa gli strati di bronzo dello scudo di Meone rompendogli la corazza ed il petto. Corre in suo aiuto Alcanore e sostiene il fratello che cade. Un'altra lancia di Enea gli passa il braccio ed umida di sangue continua la sua corsa: la destra moribonda guizza, attaccata al braccio soltanto per i tendini. Allora Numitore, estratto il giavellotto dal corpo di Meone, assale Enea: non riesce neanche a colpirlo, sfiora la coscia del grande Acate. Fidando nel suo corpo giovane arriva Clauso di Curi e ferisce Driope da lontano, conficcandogli in gola la rigida lancia, togliendogli in un colpo la voce e insieme l'anima: il ferito cadendo batte in terra la fronte e sputa dalla bocca un densissimo sangue. Uccide poi con varie morti tre Traci, nati della stirpe di Borea su nell'estremo Nord, e tre figli di Ida, venuti dall'Ismara. Accorrono Aleso e le sue truppe aurunche; avanza Messapo, il figlio di Nettuno dai cavalli superbi. Cercano di respingersi a vicenda, sia gli uni che gli altri: si combatte sulla porta d'Italia. Come venti contrari di pari forza lottano nell'ampio cielo, senza darsi per vinti e senza che si diano per vinti le nuvole ed il mare (sicché la lotta è incerta per lungo tempo e tutti gli elementi accaniti
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la strada all'eroe troiano. quelli che rimasero infitti, ecc.: evidentemente Enea
non chiede i giavellotti che « rimasero infitti nel corpo dei Greci», ma simili a quelli. - Clauso di Curi: uno degli alleati di Turno, ricordato nella rassegna del canto VII, 810. - della stirpe di Borea: del popolo che abita il nord (Borea è vento del nord) della Grecia, perciò della Tracia. - Ismaro: monte della Tracia, donde venivano i tre figli di Ida. -Aleso: capo degli Aurunci, popolo del Lazio (VII, 832). - Messapo: VII, 793· -si combatte sulla porta d'I· talia, ecc.: l'immagine vuoi
significare che la battaglia è stata impegnata sulla riva del mare, che è la porta dalla quale i Troiani tentano di entrare in Italia. E il poeta paragona la lotta fra Troiani, che vogliono entrare, e gli Italici, che glielo impediscono, ai venti che s'azzuffano tra loro in una tempesta con esiti uguali. La similitudine è stata imitata dal Tasso (Ger. Lib., IX, 52).
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Canto decimo
EROISMO DI PALLANTE E SUA MORTE (454~41). - I
cavalieri arcadi, costretti a scendere da cavallo a causa del te"eno sparso di grossi sassi e di arbusti e quindi a combattere, a piedi, sono messi in fuga dai Latini e, non avvezzi a quel tipo di lotta, stanno per sbandarsi. Ma Pallante, accortosi in tempo, li rincuora ricordando a loro il valore dei padri e li incita a combattere gettandosi per primo contro gli I talici comandati dal giovane Lauso. I cavalieri arcadi, accesi dall'esempio del giovane condottiero, ritornano animosi in battaglia, ma Giove non vuole che Pallante e Lauso si azzuffino tra loro. Frattanto Turno, avvertito dalla sorella Giuturna della strage che Pallante compie tra le schiere dei Latini, acco"e e, pronunciate parole di barbara ferocia contro Evandro e gli Arcadi, che avevano prestato aiuto ai Troiani, si fa largo davanti a tutti. Pallante si meraviglia, poi lo affronta con coraggw, pronuncia nobili parole, invoca l'aiuto di Ercole e scaglia l'asta. Ma l'asta ferisce Turno appena di striscio, e questi allora avventa la propria asta e trafigge il giovane avversario. Pronunciate sul cadavere parole d'inaudita ferocia con la parvenza di essere clemente, toglie al caduto il balteo e consegna agli Arcadi il corpo del loro giovane principe. 456-478. Pallante vedendo, ecc.: Pallante in un'altra parte della battaglia, vedendo che i suoi Arcadi, costretti dal terreno a combattere a piedi, fuggono inseguiti dai Rutuli, li rimpro-
s'azuffano): cos.f l'esercito troiano affronta corpo a corpo l'esercito latino: guerriero con guerriero, un piede opposto all'altro.
Eroismo di Pallante e sua morte 4SS
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Intanto da un'altra parte dove il suolo era sparso dappertutto di sassi rotolati dall'acqua e di arbusti strappati dalle rive, Pallante vedendo che i suoi Arcadi - costretti dal terreno a lasciare i cavalli e non abituati a combattere a piedi - volgono le spalle inseguiti dai Rutuli, usa l'unico mezzo che gli resta, eccitando il valore dei suoi con amare parole e con preghiere: «Amici, dove fuggite? Per voi, per le vostre gloriose imprese, per il nome del vostro capo Evandro e per le guerre vinte sotto di lui, per me, per questa mia speranza che ora sottentra, emula, alla gloria p~terna, abbiate vergogna di affidarvi alle gambe! Bisogna farsi strada a suon di spada. U, dove incalza fittissimo il nemico, vi chiama la nobile patria, e chiama me, Pallante, vostro capo. Non siamo attaccati da un Dio: è mortale il nemico che ci serra da presso. Abbiamo vita e forza come loro! Coraggio, la distesa del mare ormai ci chiude, immensa, con un insuperabile ostacolo. La terra per fuggire ci manca. Ci butteremo in acqua, o troveremo rifugio nel campo?,._ E si getta in mezzo ai nemici Lo affronta per primo, sospinto da un destino maligno, Lago: Pallante lo colpisce con l'asta, mentre è occupato a svellare un gran sasso da terra,
vera e li rianima. Sono semplici le parole del giovane figlio di Evandro, ma convincenti. Il ricordo delle imprese precedenti felicemente compiute, l'accenno al buon nome di Evandro e alla fiducia che essi hanno riposto in lui sono sufficienti
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a che essi si vergognino di fuggire e ritornino ad affrontare animosi il nemico. Alle parole il giovane eroe fa seguire l'esempio, e si scaglia contro gli avversari. 479-500. Lo affronta ... Lago, ecc.: in questi versi sono descritte le prodezze di
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stirpe di Reto re dei Marruvi (VII, 862), rifugiatosi presso Dauno, padre di Turno, per sfuggire all'ira del padre quando fu scoperta la sua tresca con la matrigna; e di Laride e di Timbro, figli gemelli di Dauco (personaggio sconosciuto), cosl simili tra loro che neppure i genitori li sapevano distinguere, ma che rese diversi, dice il poeta, la spada di Fallante. Il tono scherzoso e i particolari macabri del racconto sono imposti al poeta, anche qui, dall'esigenza di evitare la monotonia. Essi contrastano, ma non sminuiscono la delicata ed umanissima sensibilità di Virgilio.
trafiggendolo al centro della spina dorsale, fra le costole; quindi ritira la lancia che aderisce alle ossa. Isbone allora spera di sorprenderlo. Invano: poiché Fallante - mentre Isbone gli correva addosso, itato, reso incauto dalla morte crudele dell'amicolo colpisce per primo piantandogli la spada nei polmoni gonfiati dalla collera. Poi assale Stenio, e Anchemolo (della stirpe antichissima di Reto) che s'era macchiato d'incesto con la matrigna. E voi pure cadeste sui rutuli campi, Laride e Timbro, figli gemelli di Dauco, eguali tanto da essere difficili a distinguere! La vostra somiglianza era fonte di errori deliziosi pei vostri genitori: Fallante purtroppo vi fece diversi, poiché la spada di Evandro tagliò la testa a Timbro, il braccio destro a Laride. Quel braccio cadde; le dita ancora semivive si muovono annaspando sull'elsa della spada. Tutti gli Arcadi corrono contro il nemico, pieni di dolore e vergogna per quanto Fallante ha loro detto e entusiasti di quanto egli stesso va compiendo. Difatti trafigge anche Reteo che fugge con la biga: mancando per un soffio Ilo. Fallante aveva scagliato da lontano la forte lancia contro Ilo; ma Reteo, che fuggiva spaventato da Teutra e dal fratello Tire, si mette in mezzo, riceve il colpo e precipitando mezzo morto dal cocchio percuote coi calcagni la dura terra rutula. E tu Fallante, godi vedendo il valore dei tuoi scatenarsi, valanga compatta, sul nemico: come d'estate, quando il vento è favorevole, un pastore dà fuoco a vari punti d'un bosco e le fiamme, appiccate qua e là, si ricongiungono e infuriano nei campi in un unico incendio. Ma ecco il forte Aleso marciare contro gli Arcadi, coperto dallo scudo, uccidere Ladone e Fereto e Demodoco.
ne coglie l'usanza dei contadini, o come dice il poeta, dei pastori di bruciare le stoppie (o i pascoli) per migliorare il terreno e purificarlo dagli insetti nocivi. Virgilio ne tratta l'argomento nelle Georgiche, l. l, 8493· Tuttavia non si comprende come le stoppie possano diventare un bosco e che sia attribuita ad un pastore un'operazione che è propria dei contadini.
Fallante, come l'uccisione di Lago, un latino sconosciuto; quella di Isbone, un altro ignoto, che sperava di sor-
to al verso 442 contro Enea ed i suoi, ritorna qui valoroso combattente contro gli Arcadi. I tre guerrieri che
prendere svelleva della sua nio e di
Fallante mentre l'asta dal corpo vittima; e di SteAnchemolo, della
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504. Difatti trafigge, ecc.:
continua il racconto delle imprese di Fallante, che uccide Reteo con la lancia che aveva scagliato contro Ilo. Reteo infatti, mentre fuggiva incalzato dai fratelli arcadi Teutra e Tire, era venuto a trovarsi sulla traiettoria della lancia di Fallante. 513-517. come d'estate, quando, ecc.: la similitudi-
517-535. ecco il forte Aleso, ecc.: Aleso, già nomina-
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Canto decimo
uccide e i due che ferisce sono ignoti. - Presago del futuro, ecc.: il padre di Aleso, che era indovino, aveva previsto la morte del figlio e, per impedire che morisse, lo aveva nascosto in un bosco. Ma quando egli morl, le Parche, esecutrici dd destino, lo presero e lo mandarono alla guerra perché il Fato si compisse.
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536-552. Ma Lauso, ecc.:
Lauso, giovane figlio di Mesenzio, non vuole che i suoi, di fronte alle prodezze di Fallante, si sconfortino ed abbiano l'impressione che la guerra volga al peggio per gli Italici; perciò anch'egli si lancia nella mischia e uccide parecchi nemici. Abante: un capo etrusco alleato di Enea, già ricordato al v. 217.- molti Teucri, sfuggiti, ecc.: sono i Troiani, superstiti della guerra di Troia; Enea li aveva condotti con sé nel suo viaggio presso Evandro e gli Etruschi. Tutti gli altri Troiani erano chiusi nel campo. -
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La lotta è incerta, ecc.: i
due eserciti avversari hanno forza e valore eguali. Da una parte è Fallante, dall'altra è Lauso; e i due giovani stanno per scontrarsi. Ma Giove non lo permette; la Fortuna assegna la morte ai due giovani più tardi, e per mano di un nemico più forte: a Fallante per mano di Turno, a Lauso di Enea. 553.ladivina sorella: Giuturna, ninfa e sorella di Turno.
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555· in mezzo alla mischia: tra le schiere dei
combattenti. 558-559. Ah, vorrei che fosse qui, ecc.: Turno vor-
rebbe che alla tragedia di
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troncare a Strimonio con la spada lucente la destra protesa per colpirlo alla gola, e ferire nel volto con un sasso Toante fracassandogli l'osso della fronte e il cervello. Presago del futuro il padre di Afeso lo aveva nascosto nel fitto di una selva: quando il vecchio ebbe chiuso nella morte le ciglia canute, le Parche gli misero le mani addosso consacrandolo alla lancia di Evandro. Fallante lo assale dopo questa preghiera: «Padre Tevere accorda alla mia lancia fortuna ed una facile via attraverso il torace del duro Aleso: io ne appenderò le spoglie a una tua quercia sacra!». Tiberino lo udf: mentre Aleso protegge col ·suo scudo Imaone espone il petto inerme al giavellotto arcadico. Ma Lauso, parte importante di questa guerra, non • che le truppe latine vengano spaventate [lascia dalla morte d'un uomo cosi grande. Dapprima uccide Abante che aveva osato ostacolarlo, poi abbatte parecchi Arcadi, molti Etruschi, molti Teucri, sfuggiti alle mani dei Greci. La lotta è incerta: le schiere si fronteggiano, eguali di forza e tutte e due animate da eroici capitani. Le flle son tanto fitte (poiché gli ultimi serran sotto) da rendere impossibile il muovere le lance e le mani. Di qua preme e incalza Fallante, di là combatte Lauso: sono entrambi bellissimi e di età quasi eguale, entrambi destinati a non tornare in patria. Ma il re del grande Olimpo non permise che i due venissero a battaglia tra loro: la Fortuna li destina ben presto a maggiori nemici. Intanto la divina sorella avvisa Turno perché sostituisca Lauso; egli col carro passa in mezzo alla mischia. Come vede i compagni dice: «È tempo per voi di cessare la lotta: vado da solo contro Piùlante, che a me solo è dovuto. Ah, vorrei_ che fosse qui suo padre in persona a vederci! ». E subito i compagni arretrano lasciandogli spazio quanto ne vuole.
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Dopo la ritirata dei Rutuli, Pallante stupito da tali ordini arroganti, contempla con meraviglia Turno. Percorre quel gran corpo con uno sguordo feroce, senza paura, e ricambia le sue parole. «O re, cessa di minacciarmi. Avrò lode - gli grìda - o per le ricche spoglie che riuscirò a levarti o per la morte gloriosa. Mio padre affronterà di buon animo entrambe le due sorti ». Ed avanza in mezzo alla pianura. Freddo il sangue s'arresta nel cuore dei guerrieri d'Arcadia. Turno balza giu dalla biga, pronto a combattere a piedi: simile ad un selvaggio leone che, veduto da un alto osservatorio laggiu nei campi un toro prepararsi a combattere, si precipita ardente. Pallante, appena crede che il nemico sia a tiro di lancia, lo attacca per primo sperando che la Fortuna aiuti l'audacia di chi osa affrontare con forze diseguali il duello, e volto al cielo dice: «Per l'ospitalità e la mensa paterna che un tempo ti hanno accolto, forte Alcide, ti prego, assisti la mia impresa terribile. Costui moribondo mi veda strappargli di dosso le armi insanguinate, i suoi occhi con l'ultima luce scorgano me vittorioso! ». Il grand'Ercole
Pallante,· ch'egli va cercando e vuole uccidere, fosse presente anche Evandro, il padre. Egli godrebbe nel vedere il vecchio re di Pallanteo, in stato di guerra continuo con i Rutuli ed ora anche alleato di Enea, piangere davanti al figlio morto. Il giovane e fortissimo principe di Ardea è un guerriero valoroso, ma feroce, e contrasta nettamente con Enea. Le sue parole sono un atto gratuito di crudeltà, possibile soltanto in un cuore ancora selvaggio. 565-569. O re, cessa di minacciarmi! ... : molto diver-
se sono le parole di Fallante, sublime per semplicità, per calma e coraggio. Egli sa di avere davanti a sé un avversario fortissimo, ma per questo non trema, e accetta il confronto qualunque possa essere l'esi to. Se vincerà, avrà la gloria d'aver vinto un grande eroe; se sarà vinto, egli farà una morte gloriosa; e suo padre Evandro sarà felice dell'una e saprà sopportare il dolore che gli recherà l'altra sorte. Parole nobilissime e dignitose, pronunciate da un giovanissimo, la cui fermezza virile ed elevatezza morale risaltano an-
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cor più al contatto della incivile tracotanza del suo avversario. 570. Freddo il sangui!, ecc.: si gela il sangue nel cuòre, cioè gli Arcadi, che per l'impari lotta presentiscono la tragedia, rimangono muti e inorriditi in un'attesa trepidante. 571. giù dalla biga: dal carro che usavano i grandi guerrieri. La biga era invece un cocchio a due ruote tirato da due cavalli. 573· da un alto osservatorio: da un'altura. 574· un toro prepararsi, ecc.: un toro che si prepara a combattere contro il rivale che ha visto da lontano. 580. Per l'ospitalità, ecc.: Pallante riconosce la difficoltà quasi disperata dell'impresa alla quale si accinge, e prima di scagliare l'asta, rivolge questa preghiera ad Ercole (detto Alcide da Alceo, suo nonno) che era stato ospite di Evandro dopo l'uccisione di Caco. L'ero~:: quando mori fu assunto da Giove in cielo, e la città di Pallanteo, grata ch'egli avesse liberato il Lazio dalla cru· dele e funesta presenza di Caco, gli dedicò un'ara e una festa particolare annuale (VIII, 313 sgg.). 583-585. moribondo mi veda, ecc.: sembra che Fallante in queste parole esprima non solo il desiderio di colpire a morte Turno, ma che provi anche un certo giovanile compiacimento nel pensare di poter vedere tra poco il suo nemico morire con davanti l'immagine del suo uccisore vittorioso, benché in realtà egli stesso non creda a questa sua illusione.
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Canto decimo
586-588. reprime un profondo sospiro, ecc.: Ercole, udita la preghiera, prova dolore di non poter salvare Pallante. Contro il destino egli non può andare. 589-593. C'è un giorno stabilito, ecc.: Giove, padre di Ercole, comprende il dolore del figlio, e lo conforta ricardandogli che i mortali hanno una vita breve, e il giorno della loro morte è segnato irrevocabilmente dal destino. Soltanto le opere della virtù (valore) hanno il potere di perpetuare il ricordo (la fama) dell'uomo oltre la morte. « Bellissima questa pietà e questo pianto di Ercole, impotente a salvare il figlio dell'antico ospite- commenta il Raniolo -; ma più bella e veramente solenne la parlata di Giove, che è uno dei passi più memorabili dell'Eneide, per quel tragico senso di caducità di ogni cosa terrena ». 5~3-595· Caddero tanti figli, ecc.: sono Achille, figlio di Teti; Ascalafo, figlio di Marte; Cicno, figlio di Poseidone, o Nettuno, ucciso da Achille e dal padre mutato in cigno; lo stesso figlio di Giove, Sarpedonte re dei Lici, alleato dei Troiani e ucciso da Patroclo. 596-598. Il suo destino, ecc.: anche per Turno è giunto il giorno fatale della morte. La sapienza di Giove dà in questi versi un'immagine sconfortante della vita umana, cosl breve e precaria, ma esprime anche un valido conforto per chi nella vita sa operare il bene. È un passo nel quale la grande anima di Virgilio si esprime bensl umanizzando la divinità e concedendo al Fa-
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udita la preghiera del giovane, reprime un profondo sospiro nel profondo del cuore e versa vane lagrime. Giove, suo padre, parla al figlio con parole affettuose: «C'è un giorno stabilito per tutti i mortali: per tutti il tempo della vita è breve e irrevocabile. C..ompito del valore è estendere la fama di chi bene ha operato oltre la morte. Caddero tanti figli di Dei sotto le alte muraglie di Pergamo! E tra gli altri mio figlio Sarpedonte. Il suo destino chiama a morire anche Turno, è arrivato anche lui al traguardo degli anni concessigli ». E distoglie gli occhi dai campi rutuli. Fallante avventa l'asta con moltissima forza e cava dalla guaina la spada lucente. Il ferro vola e colpisce l'attacco degli spallacci di bronzo, perforando il bordo dello scudo, ferendo appena di striscio il gran corpo di Turno. Allora Turno, a lungo palleggiata la lancia di quercia dall'acuta punta d'acciaio, avventa a Fallante un gran colpo, e gli dice: «Ora guarda se la mia lama è piu penetrante! •· La punta attraversa vibrando il centro dello scudo malgrado i tanti strati di ferro, i tanti strati di bronzo, i molti strati di cuoio duro, e fora la corazza e il gran petto. Fallante invano strappa il ferro intiepidito dalla ferita: sangue e anima fuggono insieme per la medesima via.
to una potenza illimitata, ma affermando anche con risolutezza il valore morale dello spirito. 6or. Il ferro vola: l'asta è di quercia, ma la sua punta è di ferro. 6o6-6o7. Ora guarda se, t>CC.: sono parole odiose anche queste, osserva qualche commentatore, ma fanno parte del repertoro consacrato dalla tradizione omerica. Del resto anche il contrastante comportamento dei due campioni è un espediente poeti-
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to molto efficace a tener desta l'attenzione del lettore. 6o9-61o. i tanti strati ... i molti strati: la triplice ripetizione rende bene la forza penetrante dell'asta, che attraversa lo scudo nonostante la sua robustezza e giunge poi a segno superando anche l'ostacolo della corazza. 6n-613. Pallante invano :.trappa, ecc.: non pronuncia una sola parola il giovane ferito, ma compie un gesto di ribellione, che rivela forza d'animo; ma l'atto non vale
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Cade sulla ferita; le armi risuonano sul suo corpa; morendo morde la terra nemica con la bocca insanguinata. Alto sopra di lui Turno: «O Arcadi - disse - riportate ad Evandro le mie parole: gli mando Fallante morto, come si meritava. Gli accordo tutti gli onori funebri e la consolazione di seppellire il figlio L'aver ospitato Enea gli costerà molto caro». Poi calpestò il cadavere con il piede sinistro strappandogli dal fianco una cintura d'oro pesante, lavorata da Clono figlio d'Eurite, il quale vi aveva cesellato il delitto delle Danaidi, i cinquanta giovani uccisi e i letti macchiati di sangue nella notte di nozze. Turno adesso trionfa, lieto della sua spoglia. O mente umana, ignara del futuro destino, che non sai conservare una giusta misura se il successo ti esalta. Verrà il tempo in cui Turno desidererà ricomprare a gran prezzo la vita di Fallante, e odierà questa spoglia e questo giorno! Intanto i compagni piangendo recuperano il cadavere e lo portano via disteso sul suo scudo. E tu ritornerai a tuo padre, Fallante, recandogli infinito dolore e gloria immensa. Questa prima giornata
a tenerlo in vita, anzi ne affretta la morte. Il testo latino, tradotto nell'ordine dell'esametro, dice: << egli strappa tepido e invano dalla ferita il dardo » . 614. Cade sulla ferita: cade bocconi. L'asta l'aveva colpito al petto. 6x6. Alto sopra di lui: ritto, in piedi sopra di lui. 617-621. O Arcadi, disse, riportate, ecc.: sotto le specie della generosità sono parole di una crudeltà inaudita. Evandro ha voluto stringere alleanza con Enea, cd io gli restituisco il figlio co-
me egli merita di riaverlo, cioè morto. 622. Poi calpestò, ecc.: per orgoglioso disprezzo e segno di vittoria, secondo l'uso dei tempi. 623-627. una cintura d'oro, ecc.: presso gli antichi era costume che il guerriero vincitore spogliasse il vinto delle armi e di quanto d'interessante questi aveva. Turno sottrae a Pallante, come segno di trionfo, il balteo d'o· ro (una specie di bandoliera, che dalla spalla destra scendeva al fianco sinistro e alla quale si appendeva la spa-
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da), sul quale era istoriato il nefando delitto delle Danaidi, le cinquanta figlie di Danao che, la prima notte di matrimonio, ad eccezione di lpermestra, uccisero i loro mariti per istigazione del loro stesso padre. E questo perché un oracolo aveva predetto a Danao che un nipote gli avrebbe tolto il regno e la vita. Il « cinquanta » del testo, che contrasta con il mito (i mariti uccisi furono 49 ), non c'è nel testo latino. Il mito delle Danaidi fu oggetto di una delle più antiche tragedie di Eschilo. 629-634. O mente umana, ecc.: il poeta di fronte all'efferatezza di Turno non rimane indifferente, ed esce in questa esclamazione che, partendo da una accorta e realistica visione della realtà, cioè che l'uomo per ignoranza non sa molto spesso dare una giusta misura alle proprie azioni, passa poi a costatare che Turno si comporta con Fallante con arrogante crudeltà perché non conosce che presto avrebbe pagato la sua vittoria con la vita. Così il poeta anticipa il suo racconto del canto XII, II?O-n8o, quando scriverà che Turno molto pagherebbe per ridar vita a Pallante ed ha perciò in odio il balteo che gli aveva preso e il giorno in cui l'aveva ucciso. 637-641. E tu ritornerai, ecc.: il commovente episodio della morte di Pallante si conclude con il saluto del poeta, interprete dei sentimenti degli Arcadi che portano le spoglie mortali del figlio al padre, recandogli « dolore e gloria immensa »: semplice e mirabile espres-
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sione che,· insieme con la gloria del sacrificio compiuto per l'affermazione di un ideale, racchiude in sé la pena immensa, a cui è costretto il cuore di un padre. Anche qui siamo di fronte ad uno dei momenti più felici della nobile e sublime poesia di Virgilio, che sa intuire e rappresentare mirabilmente e con semplicità il complesso dei sentimenti che ·si destano contemporaneamente nel cuore dei genitori di tutti i tempi, che hanno perduto i figli sul campo di battaglia. ENEA VUOL VENDICARE FALLANTE, MA GIUNONE SALVA
TURNo(642-855).- L'annuncio della morte di Pallante rende furioso e spietato Enea. Egli ha un solo fine: cercare Turno e vendicare su di lui il giovane amico ucciso. Nel suo cammino fa strage di quanti gli attraversano la via e li destina al rogo di Pallante; così non ha pietà di Mago, che per aver salva la t'ita gli offre un grosso riscatto, e non rispetta neppure la dignità sacerdotale di Emonide, che ha il capo adorno di sacra benda. Mentre Enea infuria, Giove fa notare a Giunone in tono di scherno che i Troiani sanno vincere anche senza l'aiuto di V enere, ma l'orgogliosa dea contrariamente al suo solito non si adira; e chiede invece che sia ritardata la morte di Turno, se proprio non si può evitarla. GiotJe acconsente e Giunone scende allora sulla terra, costruisce con nebbia e vento un'immagine di Enea. Turno la vede e l'insegue; il fantasma fugge tra le schiere dei combattenti,
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di battaglia è anche l'ultima della tua breve vita; ma lasci mucchi enormi di cadaveri rutuli!
Enea vuoi vendicare Fallante, ·ma Giunone salva Turno
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Enea viene informato subito del disastro, e non da voci incerte ma da un suo messaggero: apprende che i Troiani sono a poca distanza dalla morte, che è tempo di aiutare le truppe travolte. Con la spada miete tutti i nemici piu vicini e si apre di forza un passaggio attraverso l'esercito, cercando solo Turno. Fallante, Evandro, le mense che per prime nel Lazio lo accolsero, la stretta ddle mani congiunte, tutto è lf, nei suoi occhi. Allora prende vivi quattro giovani nati a Sulmona e altrettanti allevati nei' canipi bagnati dall'Ufente per immolarli ai Mani, vittime espiatorie, bagnando col loro sangue le fiamme del rogo.
fugge verso il mare ed entra in una nave. Vi sale anche il Rutulo, il fantasma scompare nell'aria e Giunone taglia gli ormeggi. Così mentre il vero Enea infuria e cerca Turno, questi va per l'ampia distesa del mare verso il lido di Ardea, crucciato e disperato. 644-645. a poca distanza dalla morte: sono sul punto di essere sopraffatti. Anche questa notizia gli è portata dal messaggero. 646-651. Con la spada, ecc.: Enea, conosciutala tragica fine di Fallante, non ha che un solo pensiero: cercare Turno e vendicare la morte del giovane amico. Attraversa cosl le schiere dei combattenti aprendosi spietatamente la via con la spada. L'eroe troiano ha davanti
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agli occhi soltanto l'immagine del giovane ucciso e quella del vecchio re suo padre: l'uno e l'altro a lui cari per l'accoglienza fattagli, benché forestiero, e l'ospitalità affettuosa offertagli insieme con un'amicizia calda e sincera. 651-655. Allora prende vivi, ecc.: secondo l'uso inumano di quei tempi primitivi, Enea trascina via vivi otto giovani per sacrificarli sul rogo di Fallante, come offerta espiatoria e vendicatrice ai suoi Mani, cioè alla sua anima sventurata e irritata. Anche Achille immolò sul rogo di Fatroclo dodici giovani troiani. Sulmona non è l'omonima patria di Ovidio Nasone, ma una città dei Volsci scomparsa. Ufente è invece un fiumicello del Lazio.
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Poi scaglia contro Mago la lancia micidiale. Quello, astuto, si china e l'asta lo trasvola vibrando: abbracciate le ginocchia di Enea Mago gli dice, supplice: « Per i Mani paterni, per la speranza di Julo che cresce, ti prego salva l'anima mia per mio figlio e mio padre. Ho un'alta casa, talenti d'argento cesellato nascosti nel profondo della terra, montagne d'oro coniato e in verghe. La vittoria troiana non sarà la mia sola morre a determinarla!~ Ed Enea gli risponde: «Serba per i tuoi figli il molto argento e l'oro di cui parli. Per primo Turno ha abolito tutti i risatti di guerra uccidendo Fallante. Questo pensano i Mani del padre Anchise, questo pensa Julo ~. Ciò detto con la sinistra afferra l'elmo, piega la testa che ancora prega e immerge la spada sino all'elsa. Non lontano era Emonide, sacerdote di Febo e di Trivia, con l'infula sacra intorno alle tempie, con una veste splendida ed armi scintillanti. Enea l'assalta, l'insegue per la pianura, ed alto sul caduto l'uccide, coprendolo con l'ombra immensa della morte: Seresto porta via le belle armi del vinto per farne un trofeo a te, re Marte. Intanto Ceculo, della stirpe di Vulcano, ed Umbrone che viene dai monti marsicani riordinano le file disperse. Ma Enea infuria. D'un colpo di spada ha troncato la sinistra di Anxur gettandogli per terra lo scudo (e sf che quello aveva osato affrontarlo con parole superbe, credendo che ]a forza seguisse alle parole; e forse sino al cielo levava il suo coraggio, e s'era ripromesso una vecchiaia canuta e molti anni da vivere). Si fece allora incontro al furibondo Enea
656. Mago: guerriero ru-
tulo ignoto. 659-665. Per i Mani paterni, ecc.: una preghiera rivoltagli in nome del padre
.Anchise e dell'avvenire (spe-
ranza) del figlio Ascanio, in un altro momento avrebbe commosso Enea, ma ora l'eroe troiano ha il cuore stretto dal dolore e non conosce pietà. - La vittoria
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troiana, ecc.: la tua vittoria non dipende dalla mia morte soltanto. 667-669. Per primo Turno ha abolito, ecc.: Turno, uccidendo Pallante, ha abolito egli per primo questo genere di riscatti. Con il petto chiuso ad ogni sentimento di pietà, Enea è anche beffardo. 673-674. Emonide: un latino, sacerdote di Apollo (Febo) e di Diana (Trivia), di cui si fa cenno qui soltanto. - infula: è la benda sacerdotale, che copriva il capo e pendeva dalle tempie. 676-670. alto sul caduto l'uccide, ecc.: quando Emonide sdrucciola e cade, Enea gli è sopra e l'uccide. Seresto porta via, ecc.: Seresto, amico di Enea. Ma tutti i critici sono concordi nell'affermare che Seresto non poteva raccogliere e portar via « le belle armi del vinto per farne un trofeo a Marte ~. perché era nell'accampamento (IX, 216). La dimenticanza non sarebbe sfuggita a Virgilio se avesse potuto dare al poema l'ultima mano. Tuttavia ciò non toglie nulla alla grandezza della poesia. 68o-681. Ceculo ... Umbrone: Ceculo, fondatore di Preneste (Palestrina) e creduto figlio di Vulcano (VII, 68o); Umbrone, capo dei Marsi (VII, 862-873), sono nominati ambedue nella rassegna degli armati latini. 684. Anxur: guerriero rutulo ignoto. Per lungo tratto ancora (fino al verso 769) il poeta si dilunga a raccontare il furibondo avanzare di Enea nelle file avversarie, sempre alla ricerca di Turno. 686-687. che la forza, ecc.:
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Canto decimo
che le parole aggiungessero vigore alla forza. Il Vitali spiega: « Che la forza stesse nelle parole». 691. Tarquito: personag· gio d'invenzione virgiliana. 693. Driope: ninfa men· zionata qui soltanto.
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699·703. Adesso giaci qui, ecc.: l'atteggiamento feroce
di Enea, che neppure ascolta l'implorazione di Tarquito e lo uccide, facendo seguire alla violenza parole atroci, non è se non la conseguenza dell'animo sconvolto. Perciò tanta ferocia non contrasta con il carattere che il personaggio ha nel poema; anzi è giustificata dai suoi sentimenti di amicizia e di gratitudine profondamente feriti da Turno, il quale avrebbe potuto astenersi dall'uccidere un giovane principe e accontentarsi del riscatto, che in quel tempo era d'uso chiedere per i figli di re. 704. Anteo e Luca: guerrieri rutuli sconosciuti. 705. N uma: un guerriero rutulo, omonimo di quello ucciso da Niso e da Eurialo attraversando il campo nemico {IX, 552). 706. Camerte; figlio di Volcente, il comandante dei cavalieri che uccise Eurialo e fu ucciso da Niso {IX,453; 512 sgg.; 536-537). 708. della muta Amicla:
Amida era una città della Campania, posta fra Gaeta e Terracina, ed era una colonia fondata dai Greci di Amide in Laconia. Con l'aggettivo « muta », Virgilio attribuisce a questa città quanto si narrava di Amide della Laconia, dove avendo gli abitanti diffuso più volte la no-
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Tarquito, tutto fiero delle sue armi lucenti: era figlio di Fauno abitante dei boschi e della Ninfa Driope. Con un colpo di lancia Enea gli· inchioda lo scudo pesante alla corazza; poi mentre lui lo supplica invano e si prepara a dire chissà che cosa, d'un fendente gli getta a terra il capo. Infine rotolando col piede il tronco ancora caldo parla ferocemente: «.Adesso giaci qui, o tremendo! Tua madre non ti seppellirà, non metterà il tuo corpo nella tomba degli avi; sarai cibo agli uccelli rapaci, sarai sommerso nel mare, in preda alle onde, ed i pesci affamati leccheranno il tuo sangue! » E insegue subito Anteo e Luca, combattenti dell'avanguardia di Turno, e il forte Numa e il biondo Camerte, figlio del grande Volcente, il piu ricco proprietario terriero di tutta l'Ausonia, re della muta Amicla. Alta la spada, rossa e tiepida di sangue, Enea sparge il terrore scorrendo vittorioso per tutta la pianura: simile a Briareo, gigante dalle cento braccia e dalle cinquanta bocche piene di fuoco, quando brandiva contro le folgori di Giove cinquanta SC\idi sonori ed altrettante spade. Eccolo ancora correre contro i cavalli aggiogati al cocchio di Ninfeo; ma le bestie, vedendolo avanzare a gran passi fremendo orribilmente, si spaventano, volgono le spalle per fuggire,
tizia, risultata poi falsa, dell'arrivo di nemici, fu proibito per legge, con pene gravissime, di parlare di invasioni. Ma quando i nemici giunsero davvero, nessuno parlò e la città fu distrutta. Naturalmente si tratta di una storiella di tipo fiabesco. 708. Alta la spada: con
la spada sempre pronta a colpire. 711-714. simile a Briareo, ecc.: gigante con cinquanta
teste e cento braccia; parte-
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cipò con gli altri giganti alla scalata dell'Olimpo. I cinquanta scudi, uno per ogni braccio sinistro {con le destre brandiva altrettante spade), battendo gli uni contro gli altri, producevano un grande fragore. 716. Ninfeo: guerriero rutulo ricordato solo qui. 718. volgono le spalle: i
cavalli impauriti invertono la corsa. L'immagine è presa dall'uomo, che per invertire l'ordine di marcia volta le spalle.
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e correndo in disordine buttano giu Ninfea e trascinano il cocchio vuoto sino alla spiaggia. Intanto su un carro tirato da due cavalli bianchi si lanciano nella mischia Lucago e suo fratello Ligeri; l'ultimo guida con le briglie i cavalli, Lucago rotea fiero la spada sguainata. Enea non tollerò che i due si scatenassero con tanto impeto: corre contro di loro e appare ai loro occhi, grande, con la lancia puntata. E Ligeri: «Non vedi i cayalli di Diomede né il carro di Achille e i campi della Frigia: ora, su questa terra, tu troverai la fine della guerra e la fine della tua vita! ». Grida cosi Ligeri, pazzo; ma per tutta risposta invece di parole l'eroe troiano avventa l'asta contro il nemico. Mentre ~ucago, curvo sulle redini, aizza con la spada i cavalli e col piede sinistro avanti si dispone a combattere, l'asta sfiora l'orlo inferiore dello scudo lucente e affonda dentro l'inguine, sulla sinistra. Lucago sbalzato giu dal carro rotola moribondo al suolo ed il pio Enea gli parla con parole amare: « Lucago, no non sono stati i cavalli recalcitranti a tradire il tuo cocchio o a travolgerlo, adombrati da qualche spauracchio dd nemico: sei caduto da solo, abbandonando il giogo». L'infelice fratello scivolando dal carro gli tendeva le mani disarmate: «Per te, per i tuoi genitori che ti fecero grande, risparmia la mia vita, eroe troiano! Pietà di chi ti prega! ». Enea risponde: «Non cosi parlavi prima. Muori, e non abbandonare tuo fratello». Trafigge con la spada il torace dov'è nascosta l'anima. Il condottiero troiano faceva per la campagna strage immensa, infuriando come un'acqua impetuosa
719. buttano giù: dal cocchio, cioè dal carro da guerra. 722-723. Lùcago ... Lìgeri: due italici, il primo combattente, l'altro auriga. Ll-
geri è stato nominato già nel canto IX, 691. 728-731. Non vedi i cavalli, ecc.: questi non sono né i cavalli di Diomede, né
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quelli di Achille, e non siamo neppure nella campagna della Troade (della Frigia). Cioè Llgeri schernisce Enea, che nella guerra di Troia si era salvato con l'aiuto di Venere dall'attacco di Diomede (Il., 311 e sgg.), con l'aiuto di Nettuno dall'attacco di Achille (Il., XX, 290). In altri termini Llgeri intende dire a Enea: qui non siamo a Troia, e quindi non potrai avere la protezione, né di Venere, che ti sottrasse a Diomede, né di Nettuno che ti salvò dalle armi di Achille. Perciò ora vedrai la fine della guerra e della tua vita. 737-740. l'asta sfiora l'orlo, ecc.: Enea non risponde alle vane parole di Llgeri, ma scaglia l'asta e colpisce all'inguine suo fratello Lùcago, il quale precipita dal carro moribondo. - il pio Enea: «pio» è aggettivo fisso di Enea anche quando non è pio, come Achille è sempre « pié veloce » anche quando non corre. 741-745. Lùcago, no non sono, ecc.: Enea, alludendo a Ninfeo (716 sgg.), caduto dal carro per colpa dei cavalli spaventati, ora è lui che motteggia Lùcago, dicendo che non può dar colpa ai suoi cavalli d'essere caduto dal carro, p.erché impauriti dal nemico; sei caduto da solo abbandonando il carro, dice Enea. 747-749· Per te, per i tuoi genitori, ecc.: Llgeri, sceso dal carro dopo la fine ingloriosa del fratello, non insulta più Enea; lo prega di risparmiargli la vita. 751. non abbandonare tuo fratello: non abbandonare proprio ora tuo fratello, che ti è stato sempre buon com-
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pagno. Nota il tono sarcastico di queste parole, rese più pungenti e crudeli dalla presenza del fratello morto, ma soprattutto dal motivo che Enea lo uccide perché continui ad essere compagno del fratello.
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755-756. il fanciullo ]ulo:
«fanciullo» è epiteto fisso di Ascanio (Julo). 757· escono dalle mura, ecc.: la presenza di Enea au-
torizza i Troiani assediati di uscire finalmente dal campo. Il capo troiano alla sua partenza aveva disposto di non « scendere in campo aperto», ma di difendersi «protetti dalle mura e dai fossi ». Ora però si combatte all'esterno del campo e possono quindi partecipare anch'essi alla battaglia. 759-762. Sorella: Giunone, moglie di Giove, era figlia, come Giove, di Saturno e di Rea. Per gli antichi era la divinità femminile del Cielo, come Giove era la maschile. - è proprio vero che Venere, ecc.: Giove, alludendo al discorso pronunciato nel concilio degli dèi da Giunone (82-124), e dicendo con ironia che il successo troiano è veramente frutto dell'intervento di Venere, vuoi significare che i Troiani combattono e vincono realmente per merito del proprio valore, non perché aiutati da Venere, come essa aveva affermato. 763-772. Magnifico marito, ecc.: Giunone non ri-
batte l'ironia di Giove con l'ironia, ma risponde con umiltà, rassegnata all'inazione imposta dal marito a tutti gli dèi. - Se tu mi amassi, ecc.: questo lamentarsi di non essere amata è un'astu-
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o come un nero turbine. Finalmente il fanciullo Julo e gli altri guerrieri inutilmente assediati, escono dalle mura e abbauidonano il campo. Intanto Giove dice a Giunone: «Sorella, amatissima sposa, è proprio vero che Venere - come appunto pensavi - aiuta le forze troiane. Guarda i loro guerrieri come son poco forti, vedi che animi fiacchi, disavvezzi al pericolo! » E Giunone, umilmente: «Magnifico marito, perché ti burli di me già afflitta e timorosa delle tue tristi parole? Se tu mi amassi quanto mi amavi un tempo e quanto dovresti, certamente non mi rifiutet-esti, Onnipotente, il permesso di portare via Turno dalla mischia, serbandolo sano e salvo a suo padre Dauno. Ma muoia, e paghi ai Teucri le sue colpe col sangue generoso! Eppure egli è di stirpe divina, un discendente di Pilunno, ed è pio, poiché spesso ha colmato con generosità i tuoi templi di doni». Il re del celeste Olimpo le risponde conciso: «Se mi chiedi soltanto di tardare la morte immediata di un giovane destinato a morire, se chiedi il mio permesso a questo patto, porta pure via Turno, rubalo all'imminente Fato.
zia tutta femminile per commuovere il cuore del marito in preparazione di quello che poi gli chiederà. - quanto dovresti: come ad una moglie. - Onnipotente: non è un vocativo gettato n a caso, e neppure è un'adulazione qualunque: Giunone vuoi dire chiaramente a suo marito ch'egli può fare ogni cosà, purché le conceda quanto sta per chiedergli. - a suo padre Da uno: secondo la leggenda Turno era figlio di Dauno, a sua volta figlio di Licaone, re della Daucia, l'odierna Puglia, e della ninfa Venilia. - Ma muoia, e paghi, ecc.: con rassegnazione la regina degli dèi, che co-
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nosce il Fato e le sue leggi, accetta la realtà della prossima morte di Turno. Ma il tono della sua rassegnazione è di dolore e insieme di speranza di ottenere almeno una dilazione. E pone in evidenza, per giustificare la sua richiesta, la generosità di Turno, che muore per difendere la patria contro gli invasori Troiani e colma di doni i templi degli dèi. - Pilunno: trisavolo di Turno e antica divinità italica, mitico re dei Rutuli e fondatore di Ardea, la capitale.
ns. rubalo all'imminente Fato: sottrailo con la fuga,
e cosl allontanalo dalla morte imminente.
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lo posso accontentarti solo sin qui. Se invece sotto le tue preghiere si nasconde un favore ben piu alto e tu pensi che tutta la guerra possa mutare o turbarsi nutri speranze vane». E Giunone piangendo: «Che cosa mai sarebbe se mi dessi col cuore quello che ti è difficile concedere a parole, e fosse assicurata la vita a Turno? Invece- se io conosco il verogli toccherà una morte crudele: ed è innocente! Speriamo ch'io sia zimbello di false paure o che tu cambi idea, hai il potere di farlo! » Cosi dicendo, subito cala dall'alto cielo avvolta in una nuvola, spingendo una tempesta davanti a sé nell'aria, e si dirige verso ]'esercito troiano e il campo laurentino. Allora la Dea riveste delle armi Dardanie (miracolo a vedersi!) un'ombra senza forza, sottile, fatta di nebbia in figura di Enea: riproduce lo scudo, la cresta che ondeggia sul suo divino capo: le dà parole wote, voce senza respiro: imita il portamento ed il pas5o di Enea. Cosi si dice vadano svolazzando i fantasmi, consunti dalla morte; cosi i sogni mudono i sensi addormentati. E l'ombra imbaldanzisce allegra nelle prime file, provoca Turno coi suoi dardi e lo aizza con la voce. Il guerriero avanza contro l'ombra e da lontano avventa la lancia sibilante: l'ombra volge le spalle e fugge. Immaginando che fosse Enea a fuggire Turno ne insuperbi e concepi nell'anima una vana speranza. «Dove fuggi? Rinunzi alle nozze pattuite, Enea? Ti darò io la terra che cercavi! • Lo insegue, mulinando la spada sguainata 780. un favore ben più alto: una concessione maggiore, cioè di salvare Turno. 783-786. Che cosa mai sarebbe, ecc.: che male sarebbe se quello che ti pesa di concedere con la parola, tu lo concedessi di fatto, sen-
za dirlo espressamente; e la vita a Turno fosse assicurata! 788. zimbello di false paure: un .oggetto ridicolo di false paure. 789. hai il potere di farlo: Giunone mira ad ottenere
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che Giove protragga la morte di Turno a tempo indeterminato. Nel frattempo Enea potrebbe morire, la guerra finire in modo diverso e Turno continuare a vivere. 791 . avvolta in una nuvola: gli dèi scendono dal cielo sulla terra sempre in una nube. 793· il campo laurentino: il campo dei Latini. 794· armi Dardanie: armi troiane. « Dardanie » è aggettivo di Dardano, il primo fondatore di Troia e della casa regnante sulla città. 795· un'ombra senza forza: un'ombra senza 'sostanza o, come dice Dante, « un'ombra vana fuor che nell'aspetto» (Purg., II, 79). 798-799. divino: perché Enea è figlia di Venere. - le dà parole vuote: le fa pronunciare parole inconsistenti, perché di un fantasma. voce senza respiro: perché non prodotta dall'aria (respiro), che fa vibrare le corde vocali. Con un fantasma simile Apollo inganna Diomede (Il., V, 449-450). 8oo-8o2. Così si dice vadano, ecc.: allude alla superstizione che le anime dei morti vaghino, specialmente · nel buio della notte, e ai sogni che talvolta illudono i nostri sensi, cosi da trasformare le immagini in sensazioni che sembrano vere. 8o8-8o9. ne insuperbì, ecc.: Turno pensa che la falsa immagine sia veramente Enea e spera di essere giunto al momento propizio di abbatterlo, ora che lo vede fuggire. 8zo-8n. Rinunzi alle nozze, ecc.: rinunci al matrimonio con Lavinia, pattuito con il re Latino? E con di-
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sprezzo ironico aggiunge che ora gliela darà lui la terra che va cercando, ma per esservi sepolto. 814. di cui trionfa: che insegue come un vincitore; ma è un'ombra! 816-817. con le scale calate, ecc.: scale e ponte potrebbero essere una cosa sola, poiché queste passerelle usate per lo sbarco erano fornite di sbarre trasversali, cosi da sembrare scale. Questi particolari dànno alla scena un senso realistico, che, sullo sfondo magico del racconto, la rende particolarmente suggestiva. 818. il re Osinio: potrebbe essere un principe di Chiusi, venuto alla guerra come capo di Etruschi, ma di lui non abbiamo altre notizie. Nella rassegna delle navi è nominato, come capo dei Chiusini, Massico (213 e sgg.). 819. tremante: che fingeva paura perché Turno lo inseguisse più facilmente. 824. sul riflusso del mare: sul mare agitato. 828. ma volando nell'aria: il fantasma sparisce nell'aria e si confonde con le nubi. 831. senza gratitudine, ecc.: senza dimostrarsi grato, non sapendo che tutto era accaduto per salvargli la vita. 833-8.5.5. O Giove onnipotente, ecc. : Turno ha capito d'essere stato ingannato, e ne attribuisce la colpa a Giove, accusando il re degli dèi d'averlo voluto umiliare. Perciò è lontano dal pensare a Giunone e al suo desiderio di salvarlo dalla morte, che il destino segnava imminente. Ma l'eroe italico non si cruccia tanto di essere stato
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che nel sole scintilla: non vede che il nemico di cui trionfa è un'ombra portata via dal vento. Per caso, li vicino, legata allo sperone d'una rupe scoscesa, con le scale calate ed il ponte abbassato, c'era una nave etrusca: quella su cui il re Osinio era giunto da Chiusi. Il fantasma tremante d'Enea fuggitivo corre dentro la nave a nascondersi: Turno lo incalza da vicino ed oltrepassa H ponte. Tocca appena la tolda che subito Giunone rompe la gomena, stacca lo scafo dalla riva trascinandolo via sul riflusso del mare. Sul campo il vero Enea continua a cercare Turno invano e uccide molti guerrieri che lo affrontano. Sulla nave il fantasma non tenta piu di nascondersi ma volando nell'aria si fonde con le nuvole, mentre un turbine porta Turno per l'ampio oceano. Il giovane si guarda intorno senza capire, senza gratitudine per la propria salvezza; leva le mani giunte e la voce alle stelle: « O Giove onnipotente, mi hai ritenuto degno di tanta vergogna, hai voluto punirmi cosi? Dove vado? Da dove son partito? Che fuga è mai questa? Vedrò di nuovo l'accampamento, le mura di Laurento? Cosa succederà
lo zimbello di un Nume, e quindi giudicato cosl dappoco da meritare d'essere beffato, quanto si vergogna d'aver abbandonato, egli l'eroe senza paura, il campo di battaglia, dove si difende anche con la vita la libertà della patria. Turbato da questi pensieri e dall'incertezza della conclusione di questa inspiegabile avventura, si preoccupa dei suoi uomini, che l'hanno seguito fiduciosi ed egli ha invece abbandonato. E gli sembra di vederli in pericolo, scompigliati e in fuga, o morenti sul campo di battaglia, mentre egli è lontano e salvo. Cosi il ri-
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morso e la vergogna lo assalgono, e vuoi morire sbattuto dai venti contro uno scoglio o contro una rupe, dove egli possa sparire ignorato da tutti, e nessuno venga a conoscenza della sua fuga. Il Vitali commenta questo passo concludendo che Turno è qui « pienamente coerente con se stesso, col Turno di tutte le situazioni precedenti, col Turno di tutte le successive; l'eroe puro pieno di senso d'onore, amante della sua terra, animosissimo, fortissimo; è il capo pienamente consapevole della propria responsabilità e del proprio dovere
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degli uomini che m'hanno seguito, fiduciosi in me e nelle mie armi? Li ho abbandonati tutti (onore!) ad una morte indicibile, e adesso li vedo in fuga, ascolto il gemito degli uccisi! Che fare? Quale terra è abbastanza profonda da inghiottirmi? Voi, venti, abbiate pietà di me: vi prego con tutta l'anima, sbattetemi contro le rupi, contro uno scoglio, contro dei bassifondi, dove non possano seguirmi né i Rutuli né la fama della mia fuga!». Il suo cuore è indeciso se debba, pazzo per tanta vergogna, affondarsi nel petto attraverso le costole la spada o gettarsi nel mare e tornare nuotando fra le armi dei Teucri. Tentò una cosa e l'altra, piu volte, ma Giunone che aveva pietà di lui lo frenò, lo trattenne. La nave fila solcando l'alto mare in favore di corrente e in favore di marea, finché Turno giunge salvo all'antica città del padre Dauno.
Mesenzio assale i Troiani ed è ferito da Enea
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Per ordine di Giove intanto Mesenzio entra fiero in battaglia ed assalta i Troiani trionfanti. Le schiere dei Tirreni vedendolo si scatenano, armate di tutto il loro odio, contro lui solo e lo assalgono con una pioggia di dardi. Come uno scoglio, proteso nell'immenso mare contro la furia del vento e l'itnpeto dei flutti, immobile sostiene tutta la forza dell'acqua la collera del cielo e le minacce dell'onda, cosi, Mesenzio, impassibile, abbatte al suolo Ebro figlio di Dolicàone, e Làtago e il fuggente Palmo. Colpisce Làtago - che lo affronta - nel volto
verso i suoi uomini. Egli è ben degno antagonista di Enea, è il ben degno rappresentante di quegli Italici, di cui il poema di Virgilio vuole essere esaltazione e glorificazione ». - fra le armi dei Teucri: nd campo di batta-
glia contro le schiere dei Troiani (Teucri). - all'antica città, ecc.: ad Ardea, la capitale dei Rutuli, di cui Dauno, il padre di Turno, è re. MESENZIO ASSALE I TaoED È FERITO DA ENEA
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(856-982).- Scomparso Turno, il poeta fa entrare in scena Mesenzio. Gli Etruschi gli sono tutti addosso, ma egli resiste impavido come uno scoglio alle onde infuriate del mare, ed è rabbioso come un cinghiale preso nella rete, o come un leone affamato in cerca di preda. Molte sono le sue vittime, ed Enea quando lo vede di lontano infierire contro i suoi gli si scaglia contro. Mesenzio lancia per primo un dardo, che non va a segno, ma colpisce Antore, un compagno di Ercole fermatosi in Italia presso Evandro. Allora Enea scaglia un'asta, che colpisce lo scudo del tiranno, lo trapassa e va a ferirlo nella coscia.
856. Per ordine di Giove, ecc.: Giove trasgredisce l'ordine ch'egli stesso aveva dato agli dèi, e invita Mesenzio a combattere contro i Troiani (135-I47). Ma forse egli vuoi cogliere questo momento particolarmente favorevole ai Troiani per liberare la terra dall'empio spregiatore degli dèi. 859. si scatenano: gli E-· truschi odiano Mesenzio; perciò quando lo vedono si avventano contro di lui. Il testo latino per mettere in evidenza l'odio degli Etruschi ripete «contro lui solo » in posizione particolare, sia alla fine dd verso, sia alla fine del verso successivo. 86x-867. Come uno scoglio, ecc.: Mesenzio resiste all'assalto, impavido come uno scoglio all'impeto delle onde infuriate del mare, e abbatte chiunque lo affronti. I nomi delle vittime, siano Etruschi o Troiani, appaiono soltanto in questo passo.
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869. tagliandoli: avendo· gli tagliati. 870. Lauso: figlio di Me· senzio. 873. Mimante: personag· gio inventato da Virgilio e fatto nascere, come figlio di Amico e di Teano, nella stes· sa notte in cui Ecuba dette alla luce Paride. 876. incinta di una fiaccola: Ecuba, moglie di Priamo, sognò di generare una fiaccola, che avrebbe incendiato Troia. Invece nacque Paride, il quale però fu davvero la fiaccola che incendiò Troia e la distrusse. 877. Paride morto, riposa, ecc.: Paride che, aiutato da Apollo, aveva ucciso Achille, fu ttcciso da Neottolemo, figlio della sua vittima, e sepolto a Troia prima che fosse incendiata. Mimante, ucciso da Mesenzio, è sepolto invece nd Lazio. 88x. dall'alto Monviso: il Monviso (m. 3841), da cui nasce il Po, .appartiene alle Alpi Cozie. 884. della palude di Laurento: anche nd canto XII, 926, il poeta accenna ad una « grande palude » nella campagna di Laurento. 892-893. E lui fa fronte a tutti, ecc.: sempre energica e grandiosa la figura di Mesenzio! In questo suo atteggiamento di guerriero impavido e forte il personaggio fa quasi dimenticare la sua empietà, come l'ha dimenticata il poeta con le due similitudini ainpie, solenni, che pongono in evidenza il suo coraggio di lottatore solitario contro la furia di una folla di avversari che sfogano il loro odio solo da lon-. tano. - scuote a te"a, ecc.:
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con un sasso, frammento enorme di montagna, lascia Pa1mo incapace di fare un passo tagliandogli i tendini dd ginocchio. Rega1a le armi a Lauso, perché le indossi e metta sul suo dmo il cimiero del morto. Poi uccide il frigio Evante, uccide Mimante, coetaneo e compagno di Paride, _generato ad Amico da Teano, la notte medesima in cui Ecuba, figlia del re cisseo, incinta di una fiaccola partorf Paride. Ora Paride morto riposa nella città paterna, la terra di Laurento copre Minante, ignoto. Come un cinghia1e preso nelle reti da caccia (sia che sia stato braccato da1 morso dei cani giu dali' alto Monviso coperto di pini dove rimase a1 sicuro per anni; sia che sia stato allevato tra i girinchi e le sdve di canne della pa1ude vicino a Laurento) s'arresta e grugnisce tremendo e irrigidisce le setole, e nessuno ha il coraggio di andargli vicino ma i cacciatori lo incalzano da lontano con frecce e grjda, senza pericolo: cosi nessuno, di quanti odiàno a giusta ragione Mesenzio, trova il coraggio di corrergli addosso con la spada impugnata; lo provocano da lontano coi dardi e un vasto clamore. E lui fa fronte a tutti, senza paura, e digrigna i denti e scuote a terra le !ance dallo scudo. Acrone, un Etrusco d'origine greca, era venuto in guerra dall'antica regione di Corito, lasciando il matrimonio in sospeso per la fretta di prendere le armi; Mesenzio lo viçle da lontano scompigliare il nemico, splendido ndla veste di porpora cucitagli dalla promessa sposa, con in testa un pennacchio rosso. Come un leone digiuno che percorra,~
le frecce e le !ance che, scagliate dai molti nemici, gli si erano impiantate nello scudo. 894. Acrone: non nominato altrove, il poeta Io dice Etrusco di origine greca, forse perché la tradizione diceva che Corito era stata conquistata dai Greci Pelasgi.
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896. Corito: una delle dodici città etrusche confederate, oggi Cortona. 901. digiuno: affamato. Nota come Virgilio usi paragoni diversi a seconda dell'atteggiamento di Mesenzio. Prima lo vede simile ad uno scoglio investito dalle onde
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spinto dalla gran fame, le profonde foreste covili delle fiere, avvistando una capra fuggitiva od un cervo dalle corna ramose spalanca la bocca godendo di una feroce allegria, drizza la giubba e si curva per attaccarsi alle viscere della preda abbattuta, sporcandosi di sangue le ingorde mascelle: ... oosf Mesenzio si slancia furioso tra i folti nemici. Il povero Arcone stramazza e morendo percuote coi calcagni la nera terra c insanguina l'asta spezzatasi nel suo corpo. Mesenzio uccide anche Orode che fuggiva. Gli parve indecoroso trafiggerlo con un colpo alle spalle, scagliandogli la lancia, ed allora lo affronta corpo a corpo e lo vince non per inganno o sorpresa ma per la forza delle anni. Poi appoggiandosi all'asta c calcando il tallone sul nemico abbattuto: «O miei guerrieri- grida: ecco giacere l'alto Orode, non meschiao personaggio di questa guerra!,._ I compagni applau[dono, intonano con lui un canto di vittoria. E Orode, moribondo: «Vincitore, chiunque tu sia, non a lungo né senza vendetta godrai d'avermi vinto. Un'identica sorte è pronta anche per te; riposerai ben presto su questo stesso campo ,., Con un rabbioso sorriso Mesenzio gli risponde: «Ora muori! Di me si occuperà il Padre eterno, re degli uomini,._ Trasse la lancia dal suo corpo. Una quiete pesante, un ferreo sonno premono le palpebre di Orode, i suoi occhi si chiudono nella notte infinita. Cedico uccide Alcàtoo e Sacratore Idaspe, infuriate del mare, per indicare la sua intrepidezza; poi ad un cinghiale, che, pur ca- . duto nella rete, tien lontani da sé i cacciatori mostrando i suoi aguzzi denti, immagine della rabbia che sprizza dagli occhi di Mesenzio; ed ora al leone, simbolo della sua fierezza. 903. covili delle fiere: ap-
posizione di « foreste ,._ 911. la nera terra: l'attributo è soltanto descrittivo. 919-920. ecco giacere l'alto Orode, ecc.: le parole di Mesenzio hanno significato ironico, poiché l'aggettivo « alto,., che significa valoroso, e l'espressione «non meschino personaggio ,. alludono al tentativo fatto da Oro-
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de di sottrarsi alla morte con la fuga. Aveva scorto la misera fine di Arconte (Acrone) e voleva evitare che a lui accadesse altrettanto. 922-926. Vincitore, chiunque tu sia, ecc.: Orode non conosce Mesenzio, ma poiché gli antichi credevano che i moribondi acquistassero la facoltà di conoscere il futuro, gli predice una fine prossima. Cosl Patroclo predisse la morte di Ettore (Il., XVI, 852-854),ed Ettore ad AchilIe (Il., XXII, 358-360), cosl. Polinestore nell'Ecuba di Euripide. 926. Con un rabbioso sorriso: per rabbia e in segno di disprezzo per la profezia funesta. Ma la rabbia dimostra che le parole di Orode non l'hanno lasciato indifferente. 927-928. Ora muori! Di me, ecc.: in forte antitesi con « ora muori » Mesenzio dice all'avversario morente: «Sarà anche come tu dici, ma io non credo e non me ne importa». Cioè, egli vuoi far capire che la morte non fa paura e che non si cura delle profezie dei moribondi. Tuttavia nelle sue parole è implicito un certo rispetto degli dèi, il quale non è proprio di Mesenzio, spregiatore della divinità, ma è dovuto all'imitazione da Omero. 929. Una quiete pesante, ecc.: tolta la lancia, il sangue esce abbondante dalla ferita, e Orode muore. Gli antichi credevano che la vita fosse nel sangue, e quindi che dalla ferita col sangue uscisse anche l'anima e SQpravvenisse la morte, la qual cosa è vera solo fino ad un certo punto. 932. Cedico uccide, ecc.: fino al verso 941, è una sue-
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cessione di uccisioni di Rutuli e di Troiani, che dà l'immagine di una mischia furibonda e confusa. 943-945· I vincitori e i vinti, ecc.: da una parte e dall'altra si combatte con eguale valore e con risultati eguali. Il concetto è reso vivo ed efficace anche da « uccidevano... cadevano », che fanno chiasmo con «vincitori... vinti». 946-948. i Celesti deplorano, ecc.: gli dèi, che conoscono il destino, deplorano la strage che le due parti compiono con inutile accanimento; il Fato ha già deciso quale debba essere l'esito della guerra. 948-950. Venere sta a guardare, ecc.: Venere guarda con ansia i Troiani, Giunone i Latini, ma per divieto di Giove non possono intervenire. Tisifone invece, una delle Furie, libera da ogni impedimento compie la sua opera maledetta. 951. Impetuoso: accecato dall'ira, che è il significato di « turbidus » del testo latino.- avanza nella pianura: si dirige verso il luogo in cui combatte Enea. 952-958. Come è grande Orione, ecc.: con questa nuova similitudine Virgilio completa il ritratto di Mesenzio, dipingendone la figura fisica, che sugli altri combattenti grandeggia così da s_embrare il gigante Orione. Figlio di Nettuno, fu ucciso da Diana, che, egli cacciatore, volle emulare, e dagli dèi trasformato nella costellazione del suo nome. 964-968. Mi assista la mia matro, ecc.: i guerrieri antichi, prima dello scontro, invocavano l'aiuto di una qivi-
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Rapone uccide Partenio e il fortissimo Orse, Messapo uccide Clonio, rovesciato per terra da una brutta caduta del cavallo adombratosi, e uccide illicaonio Erichète che andava a piedi. A piedi avanza anche Agide licio, ma lo uccide Valero, erede dell'antico valore. Salio uccide Tronio; Nealce - bravo nel lancio del giavellotto e dalla rapida freccia che colpisce lontano - uccide Salio a sua volta. Già il terribile Marte distribuiva lutti eguali tra i due eserciti: i vincitori ·e i vinti parimenti uccidevano, parimenti cadevano, né gli uni né gli altri pensavano a fuggire. Nella casa di Giove i Celesti deplorano l'inutile ira delle due armate e i tanti dolori dei mortali. Venere sta a guardare da una parte, dall'altra la Saturnia Giunone. La pallida Tisifone infuria tra gli eserciti. Impetuoso Mesenzio avanza nella pianura scrollando l'asta enorme. Come è grande Orione quando s'apre una via per l'immensa distesa del mare, camminando sul fondo ed emergendo con tutte le spalle dall'acqua, o quando scende dai monti portando come clava un orno antico, i piedi che percuotono il suolo, la testa tra le nuvole; cosi si muove Mesenzio con le sue grandi armi. Enea si prepara a affrontarlo, avendolo individuato in mezzo ai combattenti. A pié fermo Mesenzio aspetta senza paura il nobile nemico; si erge nella sua mole, misurando con gli occhi una distanza buona per un colpo di lancia. «Mi assista la mia mano, unico Dio in cui credo, e questo giavellotto che scaglio sul nemico. Prometto un solo voto: erigerò un trofeo superbo con le armi tolte a questo predone,
nità, alla quale promettevano le spoglie del nemico. Mesenzio, spregiatore dei Numi, invoca la sua mano destra, che non fallisce mai il colpo, e il giavellotto, che non sbaglia mai il bersaglio.
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Le armi di Enea le destina al figlio Lauso, il quale sarà cosl il più bel trofeo vivente. In tal modo Mesenzio coinvolge nella sua empietà anl.'ne il figlio, la persona che gli è più cara. Il trofeo vi-
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vestendone il mio Lauso! ». Disse e lanciò lontano la sibilante asta che schizzò via dallo scudo vulcanio trafiggendo fra .il fianco ed il ventre Antore, un compagno d'Ercole che partito da Argo s'era unito ad Evandro, fermandosi in Italia. L'infelice è abbattuto da un colpo destinato a un altro: guarda il cido e morendo ricorda la dolce Argo. Il pio Enea scaglia a sua volta l'asta: minacciosa attraversa lo scudo rotondo forando tre strati di bronzo, uno strato di tela, tre strati di cuoio, e infiggendosi in fondo all'inguine ma senza gran forza. Come un lampo Enea, lieto al vedere il sangue dell'Etrusco, sguaina la spada c impetuoso incalza il nemico malfer[mo.
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A quella scena Lauso gemette profondamente per amore del padre, rigando il volto di lagrime. Ed io non tacerò la tua crudele morte,· vente delle armi di Enea è destinato ad essere la vittima di Enea; cosl le parole di Mesenzio, involontariamente ambigue, sembrano presagire la morte di Lauso: punizione immensa di una brutale e sconsiderata irrisione. 969-97.5. che schizzò via, ecc.: l'asta colpisce Io scudo obliquamente e balza via di scatto, andando a colpire Antore, con disappunto di Mesenzio, che si lusingava di ferire Enea. Antore, già compagno d'Ercole, era venuto da Argo in Italia e si era fermato a Pallanteo presso Evandro. Ma nel cuore aveva sempre la dolce patria, se le rivolge prima di morire l'ultimo pensiero.
976. Il pio Enea: anche qui il « pio » è epiteto fisso, esornativo. La « pietas », specialmente qui, proprio non c'entra. 980. ma senza gran forza: l'asta, oltrepassando Io scudo settemplice (tre strati di bronzo, tre di cuoio ed uno di tela), aveva perduto la forza e non è riuscita a passare oltre l'inguine. MoRTE DI LAuso E DI MESENZIO (983-1128). - Enea,
ferito Mesenzio all'inguine, estrae ed alza la spada per colpirlo a morte, quando Lauso gli si para innanzi improvviso e riceve sullo scudo il colpo destinato al padre. I compagni di Lauso
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applaudiscono e s'avventano sul Troiano, che è costretto a difendersi. Anche il figlio di Mesenzio insuperbisce, ma per poco; Enea lo abbatte con un fendente in un lago di sangue, contro voglia. L'aveva. infatti invitato ud allontanarsi. L'eroe troiano alla vista del giovane ucciso si commuove; gli solleva il capo, gli deterge dal viso il sangue che lo deturpa, rende omaggio al suo valore. Intanto i compagni portano al padre, che si era appartato in riva al Tevere per medicarsi la ferita, sopra uno scudo la salma del figlio. Mesenzio a tal vista leva alti e disperati lamenti e, benché ferito, sale a cavallo deciso o di morire o di vendicare la morte del figlio. Così chiama a gran voce Enea e i due guerrieri si scontrano. Ma il Troiano ba la meglio, ché al primo colpo fa stramazzare a te"a il cavallo dell'avversario Mesenzio non combatte più. Lauso è morto e vuol morire anche lui. Chiede ad Enea soltanto d'essere sepolto accanto al figlio; e tranquillo riceve nella gola la spada di Enea. 983. Lauso gemette: Lauso, il giovanissimo figlio di Mesenzio, alla vista del padre ferito, accorre profondamente turbato. « Mesenzio, oggetto dell'odio tenace di tutti, è pur sempre un padre amato dal figlio » (Bruscaglioni). 98,-988. Ed io non tacerò, ecc.: il poeta si commuove anche per questa creatura della sua fantasia, che cerca a prezzo della vita di salvare il padre, come si è commosso per altri giovani morti anzi tempo, Eurialo, Niso e
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Pallante. Anche Lauso è giovane, e non ha colpa dell'empietà del padre. - se la posterità, ecc.: con la speranza che il tempo, anche più lontano, non tolga credito e valore a questi atti eroici. 989-994. Inabile a combattere, ecc.: mentre Mesenzio, ferito e incapace di combattere, cerca di togliere l'asta che, rimasta conficcata nello scudo, gl'impedisce di muoversi a suo agio, Enea alza la spada per ucciderlo, ma Lauso si fa audacemente sotto con lo scudo e riesce ad evitare che il colpo cada sul padre. 994·1005. I compagni lo seguono, ecc.: i compagni di Lauso, incoraggiati dall'azione felice del loro capo, lo assa:ondano (lo seguono) con grida di approvazione e scagliando un nugolo di dardi contro Enea. Cosl Mesenzio può ritirarsi dal campo di battaglia e curarsi la ferita. Enea si difende dai dardi coprendosi con lo scudo, come il contadino che, sorpreso dalla grandine, si rifugia in, un luogo sicuro, aspettando che ritorni il sole. La similitudine è ripresa da Omero (Il., XII, 188 sgg.), ma Virgilio, come osserva il Morpurgo, si emancipa dal modello omerico e trova le note schiette della poesia più veramente sua. IOII·IOI4T'accieca la pietà filiale, ecc.: Enea rimprovera a Lauso il suo ardire · quasi con la preoccupazione di un padre. L'eroe troiano non vorrebbe colpire quel giovinetto cosi nobile e coraggioso. Lauso forse gli rammentava Julo, ma è anche effetto del suo carattere buono, misericordioso, molto di-
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le tue azioni stupende (se la posterità remota darà fede a cosi grandi gesta), né te, giovane degno di memoria e compianto! Inabile a combattere, impedito dal colpo, Mesenzio si ritirava cercando di strapparsi il giavellotto nemico dallo scudo. Di slancio Lauso entrò nella zuffa, e mentre Enea minaccioso alzava la spada per ferire Mesenzio la trattenne. I compagni lo seguono gridando in modo che Mesenzio protetto dallo scudo di Lauso si ritiri dal campo di battaglia; lanciano molti dardi, tenendo Enea lontano coi frequenti proiettili. L'eroe s'infuria, coperto dallo scudo. Cosi, quando a volte le nuvole si disciolgono in grandine, contadini e aratori fuggono via dai campi e il viandante ripara in rifugi sicuri, sulle rive d'un fiume o in una cavità scavata nella roccia, finché piove: aspettando il ritorno dd sole per riprendere subito la fatica dd giorno. Sommerso da ogni parte dalla pioggia di frecce Enea sostiene l'impeto di quella furia e aspetta che passi, mentre sgrida Lauso, minaccia Lauso: « Dove corri a· morire, dove t'avventi, incauto, osando cose troppo grandi per le tue forze? T'accieca la pietà filiale! ». Follemente Lauso wole combattere. E già un'ira terribile in6amma l'eroe troiano, e già le Parche tessono l'ultimo filo di Lauso. Enea spinge la spada contro il petto del giovane, immergendola tutta. La punta attraversò lo scudo leggero, difesa troppo debole per un tale nemico,
verso da quello feroce di Turno. - Follemente, ecc.: ma Lauso è inebriato dal precedente successo e non ascolta il benevolo consiglio di Enea. Il senso della misura non si accorda con l'inesperienza dei giovani. Cosi, invece di accontentarsi d'aver salvato la vita al padre
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e di preoccuparsi solamente di proteggere la sua ritirata, accarezza sogni di gloria e vuole il duello con Enea, come se fosse impazzito, ed irrita chi lo vorrebbe salvo. Il Troiano perde la pazienza, e alle Parche non resta più lana da filare la vita del giovane Lauso.
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e il sangue ruscellò sulla veste, trapunta
dalla madre con teneri fili d'oro. La vita, 1020
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abbandonato il corpo, se ne andò via per l'aria in tristezza e rimpianto, fino alle Ombre infernali. Ma quando il figlio d'Anchise vide il suo volto mo[rente, quei tratti che diventavano sempre piu lividi e pallidi, ne ebbe profonda pietà: tese la mano a Lauso gemendo, con tutto l'affetto del suo cuore di padre. « Mio pietoso ragazzo, che cosa potrà darti il pio Enea che sia degno della tua nobiltà e che compensi un poco tanto valore inutile? Tieni pure le armi che hai amato: ti rendo alle Ombre dei tuoi e agli onori del rogo, se può farti piacere. Infelice ragazzo, tu cadi sotto il braccio del grande Enea: che questo consoli la tua morte!». Poi richiama i compagni di Lauso, spaventati ed esitanti, e leva da terra il suo cadavere tergendolo dal sangue che insozzava i capelli pettinati all'etrusca. Intanto presso l'acqua del Tevere Mesenzio lavava la ferita, riposando appoggiato a un albero. Dai rami pende l'elmo di bronzo e le armi pesanti sono sparse tra l'erba. Lo circondano scelti guerrieri: sofferente, anelante, ha la testa appoggiata sul petto sparso della gran barba: chiede sempre notizie I018-IOI9. ruscellò: uscl come un ruscello. - trapunta dalla madre, ecc.: particolare commovente, che attenua la scena raccapricciante dell'uccisione del generoso e pur incauto giovane. 102 x. in tristezza e rimpianto: perché l'anima abbandona un corpo giovane, bello e forte. - Ombre infernali: i Mani, le ombre dei morti. 1022. il figlio d'Anchise: Enea. 1024. ne ebbe profonda pietà: è la commozione del padre: Enea pensò ad Asca-
nio, al quale poteva toccare la stessa fine. 1026. pietoso: che desta pietà, come il testo latino « miserande ». 1029-1036. Tieni pure le armi, ecc.: nulla può concedere ora l'eroe troiano al giovane Lauso che sia degno del suo nobile animo. Ma gli concede il massimo onore che possa essere concesso ad un guerriero: gli lascia le armi, come riconoscimento del suo valore; le armi ch'egli ha amato e delle quali era orgoglioso; e gli concede anche la sepoltura, indispensabile
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alla quiete dell'anima. - tu cadi ... del grande Enea: qualche commentatore ha giudicato questa espressione una vanteria inopportuna, mentre è solo un tentativo di consolazione, in armonia con l'intero episodio. Lauso non conosceva Enea, ma doveva averne sentito parlare, e il sapere d'essere stato vinto da un grande guerriero, poteva essere per lui meno duro, come ai nostri giorni ad un atleta pesa meno la sconfitta subita ad opera di un grande campione. - leva da te"a, ecc.: Enea non si accontenta di non infierire sul giovinetto morto, ma gli si accosta, gli solleva il capo insanguinato e gli terge dal sangue i capelli. Qui egli non è soltanto il « pio » ossequiente alla volontà degli dèi, ma un uomo che ha un cuore sensibile a ciò che è bello e buono nella vita. Altre volte Enea ha risposto a chi gli chiedeva di vivere dandogli la morte e, contro ogni sentimento di pietà umana, ha abbandonato alle fiere il corpo dei suoi nemici uccisi. Qui invece i sentimenti umani superano la fierezza del guerriero, e « si afferma l'altissimo valore soggettivo dell'epica virgiliana: il gran cuore di Virgilio parla, e adombra di soave commozione tutta la scena, una delle cose più belle del poema. In Omero non si ritrova episodio che assomigli a questo » (Annaratone). 1042. anelante: respirando a stento. 1043. sparso della gran barba: con la gran barba che si allungava sul petto e lo copriva.
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1045. ordini preoccupati: Mesenzio è preoccupato del figlio che sa nel mezzo della battaglia, forse alle prese con Enea, e manda messaggeri a chiamarlo ed a portargli i suoi consigli e i suoi ordini, quando i consigli sono insufficienti. 1047. cadavere grande: imitazione omerica. 1050-1053- Si sporca con manate, ecc.: lo sporcarsi con polvere i capelli era segno di disperazione nei poemi epici. - tende le mani al cielo: atteggiamento usuale anche oggi in molte religioni, di chi prega. Ma Mesenzio non soleva pregare; perciò o il vecchio re si rivolgeva al figlio morto o, come pensa Servio, si tratta di una imprecazione che in bocca ad un empio non stonerebbe. 1053·1066. O mio figlio, ecc.: il pianto di Mesenzio sulle spoglie mortali del fi. glio è uno dei tratti più belli del poema virgiliano. Qui l'empio, il brutale ritorna ad essere uomo per quell'unico sentimento che era rimasto integro e naturale in lui, per quell'unico dolore ch'egli poteva sentire: la morte del figlio. Soltanto per questo dolore, conseguenza dell'amore ch'egli aveva per Lauso, Mesenzio si pente dei suoi misfatti e confessa le sue colpe orrende, causa della sua cacciata da Cere e della stessa morte del figlio. Il dolore ha aperto un varco. nel suo cuore di pietra; del suo carattere sono rimasti solo la fierezza, il coraggio e il bisogno della vendetta. tanta gioia di vivere, ecc.: il primo pensiero che lo tormenta è d'essere stato la causa della morte del figlio, poiché ~e Lauso non avesse
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di Lauso e manda spesso messaggeri a chiamarlo ed.a recargli gli ordini preoccupati del padre. Ma piangendo i compagni riportavano Lauso disteso sullo scudo, cadavere grande ucciso da un gran colpo. La mente di Mesenzio, presaga di sventura, comprese subito tutto solo a udire quel pianto lontano. Si sporca con manate di polvere i capelli canuti, tende le mani al cielo e si getta sul corpo esanime. « O mio figlio, tanta gioia di vivere m'ha preso da !asciarti esporre in vece mia ai colpi del nemico? Io, tuo padre, son salvo per queste tue ferite, vivo per la tua morte? Ahi: solamente adesso conosco la sventura, son ferito in profondo! O mio figlio, fui io a macchiare il tuo nome coi miei delitti, io ad essere scacciato per odio dal reame paterno! Avrei dovuto pagare quanto ho fatto alla patria, e scontare il rancore dei miei. Avessi dato io stesso quest'anima colpevole a mille morti! E invece io sono vivo ancora, non abbandono ancora la luce amara e gli uomini. Ma li lascerò presto». Cosi dicendo s'alza sul fianco offeso e, lento per la grave ferita ma non domo, comanda gli si porti il cavallo,
fermato la spada di Enea egli sarebbe stato bensl ucciso, ma il figlio non si sarebbe necessariamente incontrato con l'eroe troiano. Cosl Lauso è morto per lui, ed egli è salvo a prezzo della vita del figlio. - son ferito in profondo.', ecc.: la morte del figlio è una ferita ben più profonda di quella prodottagli da Enea. - a macchiare il tuo nome, ecc.: i delitti del padre hanno pesato anche sul figlio, che fu esiliato e privato dello scettro. - a mille morti: non il figlio, ma lui, Mesenzio, avrebbe dovuto scontare i suoi delitti; e non con una, ma con mille
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morti. ~ una ipotesi di quello che sarebbe dovuto accadere; cioè se egli non fosse stato un tiranno crudele sarebbe rimasto a Cere con gli Etruschi ed ora con Enea; e suo figlio non avrebbe corso alcun pericolo. - li lascerò presto: lascerò presto gli uomini, perché presto morirò, Mesenzio è quindi deciso di affrontare ancora Enea e trovare la morte combattendo. Ogni parola, ogni atto di Mesenzio è mirabile per verità e grandezza d'animo. 1067. lento: benché vada adagio. 1068. ma non domo: ma sempre fiero.
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suo orgoglio e conforto, in groppa al quale sempre tornava vittorioso da tutte le battaglie. Rivolge la parola al cavallo che piange: « Abbiamo vissuto a lungo, se c'è qualcosa che duri a lungo per i mortali. O tu oggi, vittorioso, riporterai le spoglie insanguinate e la testa di Enea, vendicando insieme a me il dolore della morte di Lauso, o - se non ho la forza di vincere - morrai insieme a me. Non credo che tu, mio fiero Rebo, potrai mai sopportare un padrone troiano e gli ordini d'un altro! » Si adattò al modo solito in groppa al suo cavallo e si riempi le mani di aguzzi giavellotti, l'elmo di bronzo lucido in testa, per cimiero una criniera equina. Cosi, impetuosamente, si slancia tra i nemici: gli ribollono in cuore con un'immensa vergogna, dolore, ira e passione accesa dalle Furie e valore cosciente. Chiamò tre volte Enea a gran voce. L'eroe lo riconosce subito e lieto prega: « Il Padre dei Numi e l'alto Apollo concedano che tu voglia combattere!» ... E avanza con la lancia puntata. E Mesenzio: «Perché vuoi spaventarmi, o crudele, dopo avermi strappato il figlio? Era questo il solo modo di uccidermi. Io non temo la morte, non rispetto gli Dei. Piu non parlare: vengo per morire, ma prima ti porto questi doni>>. Avventò sul nemico un giavellotto e un altro
107r. che piange: il cavallo è afflitto per le disgrazie del padrone, e piange. Anche in Omero i cavalli piangono; sono quelli di Achille. Virgilio nelle Georgiche (1. III, 102) dice che il buon cavallo nella guerra e nelle gare prova dolore se vinto, gioia· se vincitore. 1072-1079· Abbiamo vissuto a lungo, ecc.: Mesenzio parla al cavallo tra il rassegnato e l'eroico; e nelle sue parole si scorge il Mesenzio
nuovo, ma anche tutto no che del vecchio non contrasta con il nuovo. Padrone e cavallo, che furono sempre una cosa sola nelle vittorie, sono ancora uniti nella ven· detta, e lo saranno anche nella morte. Rebo, nome del cavallo che vuoi dire << dorso curvo, insellato », non può vivere agli ordini di uno straniero. ro8r. e si riempì le mani. ecc.: si è voluto osservare che Mesenzio non può es-
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sersi munito di molti giavellotti, senza rischio d'impedire nella lotta i propri movimenti, ma nella poesia ha valore l'immagine, non la logica. E qui l'immagine vuole indicare l'ansia che ha spinto Mesenzio ad armarsi, seppur in modo irrazionale, per vendicare la morte del figlio. 1085-1086. dolore, ira, passione, ecc.: ha il cuore agitato da furore misto di dolore, d'ira, di volontà disperata di vendetta (passione), insieme con la coscienza del suo valore e quindi con la speranza di vincere. ro88-1090. Il Padre dei Numi ... combattere: Giove e Apollo vogliono concederti che tu finalmente ti decida a combattere. Sono parole ironiche e offensive. Ironiche perché Enea sa che Mesenzio non crede negli dèi; offensive perché nel precedente scontro Mesenzio non si è ritirato dalla lotta per sfuggire ad Enea. Perciò queste parole sono poco felici sulla bocca di Enea, anche perché il capo troiano non ha motivi di odio contro Mesenzio, al quale invece aveva ucciso il figlio. 1091-1095· Perché vuoi spaventarmi, ecc.: Enea, clopo avergli ucciso il figlio non può più spaventarlo. Solo l'uccisione del figlio poteva provocare la sua morte. Ora Mesenzio non teme più la morte, come non teme gli dèi; la morte sarà per lui una liberazione. Ribadisce il suo disprezzo verso gli dèi, « ma in questa bestemmia osserva Guido Vitali - si sente piuttosto una replica alle parole di Enea; agli dèi di Enea egli impreca, agli
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dèi che lo hanno assistito nell'uccisione del figlio». 1097. correndo intorno a Enea: non si dimentichi che Mesenzio è a cavallo, Enea a piedi, il quale non cambia posto, ma gixa su se stesso, man niano che l'avversaxio gli gira intorno per coglierlo allo scoperto. uoo. immobile: perché, pur girando su se stesso, allo scopo di tenere lo scudo sempre rivolto al nemico, non si muove dal posto. II02-IIOJ. irto della foresta di dardi: con attaccati i numerosi giavellotti scagliati da Mesenzio. IIOJ-II07. Infine Enea, stanco, ecc.: Enea ad un certo punto stanco dell'indugio (perder tempo) di svellere dallo scudo i dardi che vi si conficcavano e di dover combattere a piedi contro un nemico a cavallo, sceglie il momento adatto e colpisce il cavallo di Mesenzio in fronte con la lancia. no8-nn. Il cavallo s'impenna, ecc.: il cavallo per il dolore si leva dritto sulle gambe posteriori, scalda con quelle anteriori, e alla fine cade di fianco insieme con Mesenzio, che rimane sotto con una gamba incapace di muoversi. L'uccisione del cavallo potrebbe sembrare un atto sleale, ma Enea, levando di mezzo il cavallo, dà ai due contendenti condizioni di lotta eguali. IIIJ-III4. Ora dov'è quel feroce, ecc.: la consueta amara ironia del vincitore verso il vinto, ma in questa circostanza poco opportuna dalla bocca di Enea. III.5. guardando il cielo, ecc.: guardando nel vuoto, come chi dopo uno sveni-
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e un altro ancora e un quarto, correndo intorno a [Enea: ma lo scudo dorato li arresta. Per tre volte girando sulla sinistra cavalcò intorno all'alto, immobile nemico, lanciando giavellotti: per tre volte l'eroe troiano gira intorno il suo scudo di bronzo, irto della foresta di dardi. Infine Enea, stanco di perder tempo, di strappare le lance dallo scudo e trovarsi in posizione avversa, studia a lungo la mossa ed ecco, scelto il punto, scatta e infila la lancia proprio in mezzo alle tempie del cavallo da guerra. Il cavallo s'impenna, scalda in aria e ricade, slogandosi la spalla, sopra al suo cavaliere disarcionato. Il peso impedisce al caduto di muoversi. Troiani e Latini riempiono il cielo di clamore. Enea vola su lui sguainando la spada e grida: «Ora dov'é quel feroce Mesenzio, quel suo animo atroce?» E l'Etrusco, guardando il cielo lontanissimo, ripresi appena i sensi: «O mio nemico amaro, mi rimproveri invano, invano mi minacci. ~ giusto che tu mi uccida. Non sono "venuto qui sperando di salvarmi, né il mio Lauso scambiò la sua con la mia vita. Ma ti chiedo una cosa, se un vinto può pregare e ha diritto al perdono: concedi che il mio corpo sia coperto di terra. So come mi circondi l'odio atroce dei miei: proteggimi da quell'ira, te ne supplico, e lascia che accompagni mio figlio in una stessa tomba! » Dice cosi e tranquillo, sapendo di morire,
mento è ancora stordito. xu6-II2.5. O mio nemico amaro, ecc.: queste ultime parole di Mesenzio sono piem: di sublime, eroica, dolente umanità. All'ironia di Enea risponde che i suoi rim· proveri, le sue minacce sono inutili; la mia morte non consente i tuoi insulti. Mesenzio non è ritornato sul campo di battaglia con la speranza, se vinto, di aver ri-
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sparmiata la vita, né suo figlio Lauso, morendo, ha stretto con Enea il patto che risparmiasse suo padre (scambiò la sua con la mia vita). Una sola cosa egli desidera e gli chiede: d'essere sepolto insieme con il figlio. Vuole evitare che gli Etruschi, per l'odio che li ha spinti contro di lui, privino il suo corpo della sepoltura. L'amore paterno fa si che
Canto decimo
riceve nella gola la spada e rende l'anima in un fiume di sangue che bagna l'armatura. Mesenzio, non credente negli dèi e nell'immortalità dell'anima, abbia pensieri e affet··
ti che vanno oltre la morte. Creazione originalissima questa di Mesenzio, che amore e
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dolore trasfigurano; «in quest'animo indomabile i patimenti destano i rimorsi e fanno scaturire da questo rozzo cuore, come una sorgente dalla rupe, un puro filone di superba malinconia » (Constans).
Commento critico Nel decimo canto la guerra domina sempre più la scena. Il canto però non è tutto fragore di armi e orrendo di stragi, anche se il poeta, indulgendo alle regole che allora dominavano la poesia epica, abbia voluto dilungarsi in descrizioni di feroci e cruente battaglie. Si incontrano infatti anche motivi di interesse diverso, come il concilio degli dèi presieduto da Giove e dominato dal contrasto oratorio tra Venere e Giunone, la rassegna delle navi etntsche, l'incontro di Enea con le ninfe in cui erano trasformate le sue vecchie navi. Ma soprattutto differiscono alle descrizioni belliche, benché vi appartengano come episodi, le morti di Fallante, di Lauso e di Mesenzio, che raggiungono vette di altissima poesia, quale soltanto l'anima grande e profondamente sensibile di Virgilio poteva creare. Perciò l'ispirazione è variamente presente nelle parti che compongono il canto; e forse per questo il Marchesi l'ha giudicato «disordinato e mal collegato con gli altri». E non mancano neppure i difetti. Il concil,io degli dèi, che apre il canto, appare freddo, insincero; più una esercitazione letteraria imposta dalla tradizione omerica, che una personale figurazione di un consesso divino chiamato a giudicare gli eventi umani e a deciderne il corso. Nessuna maestà divina emana infatti da questi celesti, i quali manifestano più i difetti che le virtù dell'uomo. I discorsi di Venere e di Giunone, che costituiscono la parte preponderante dell'episodio, sono documenti di arte oratoria ben congegnati e composti, ma non sono espressioni di una qualsiasi interiorità morale: Venere mira a cattivarsi l'animo di Giove con accenti talvolta accorati, altra volta ironici, come un avvocato esperto ed eloquente, ma vuoto di sentimento; Giunone vuoi raggiungere lo stesso scopo travisando i fatti e nascondendo il suo odio mortale contro i Troiani, con la spigliatezza del più consumato impostore; ma sono ragionamenti superficiali, perché nati dall'astuzia, non dal profondo di una convinzione. Altrettanta superficialità si riscontra nella rassegna delle navi, che, imitata da quella omerica del secondo libro dell'Iliade, è una semplice elencazione di nomi con qualche accenno a motivi geografici, ma soprattutto rimane un fatto completamente isolato, poiché i capitani etruschi, che vi sono nominati, non appaiono più nelle pagine successive del poema. E la stessa cosa si può dire dell'episodio delle ninfe che Enea incontra mentre naviga
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Canto decimo
con la flotta etrusca verso il Lazio, in cui, come osserva giustamente il Sivieri, « il meraviglioso non manca, ma resta solo in superficie». I punti salienti e veramente belli del canto rimangono quindi gli episodi della morte di Fallante, di Lauso e di Mesenzio, che ci fanno ricordare il poeta che piange Marcello nel canto sesto e descrive nel canto nono il pianto della madre di Eurialo. Sono momenti diversi, ma tutti legati tra loro da due grandi sentimenti: la pietà del poeta per i giovani che muoiono anzi tempo e l'umanità profonda che lo spinge a rappresentare il sacrificio dei genitori, privati dei figli ancor giovani, come l'atrocità più grande e più ingiusta. Perciò il sentimento paterno è presente nel canto con espressioni altissime di poesia. La preoccupazione di Enea per Ascanio, che di riflesso si traduce in manifesta pietà per Fallante e per Lauso, è molto commovente, ma il padre nel quale il poeta esalta il suo sentimento paterno con accenti sublimi di poesia, è Mesenzio. Questo violento spregiatore degli dèi e feroce oppressore degli uomini, di fronte alla morte del figlio maledice il suo passato, si pente del male compiuto, si accusa colpevole della sua fine immatura e sale a cavallo per vendicarlo o per morire. Questa figura umana, redenta dall'amore e dal dolore, è rappresentata da Virgilio con tratti potenti e con ricchezza di notazioni, cosl che sembra di essere davanti a uno dei più vigorosi personaggi danteschi.
Galleria di ritratti
Pallante. Il Pascoli, nell'Inno a Roma, riconosce nel figlio di Evandro il primo eroe italico e dice: « Chi per te primo, immensamente amata, cercò la morte? Fu nella penor.nbra dei tempi, grande, lungo il Tebro, un pianto. L'erOe Fallante era caduto. Offerse l'àlbatro il bianco de' suoi fiori, il rosso delle sue bacche e le immortali fronde. Gli fu tessuto il letto di quei rami de' tre colori, e furono compagni mille al fanciullo nel ritorno a casa ». Tra i tanti giovinetti che cadono in battaglia perché i Fati possano compiersi, Fallante è quello che su tutti s'impone alla nostra attenzione e suscita il nostro cordoglio. A differenza di Eurialo e Niso che cadono in un'impresa di guerra e sono accomunati nella stessa morte che esalta la loro amicizia, a differenza di Lattso che soccombe nel magnifico tentativo di portare aiuto al padre ferito, egli ha ben altra statura morale e spirituale e ben altro comportamento. Benché giovinetto, sa che la responsabilità datagli dal padre comporta dei doveri precisi ai quali non intende
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sottrarsi: è comandante della cavalleria del corpo di spedizione che viene in soccorso ai Troiani assediati, ha l'autorità necessaria per farsi obbedire; è esperto nel maneggio delle armi ma è anche saggio ed attento. Egli è un principe alleato e come tale si comporta. Soltanto quando si trova a tu per tu con Turno ha un attimo di smarrimento: poi si riprende ed affronta l'impari combattimento senza tremare, e muore. Non per nulla Enea nell'elogio funebre dice fra i singhiozzi: «Che gran sostegno perdete, Ausonia, Julo! ». Triste è vedere stroncata la giovinezza dalla furia bellica; ma la tristezza è temperata dalla bellezza e dalla dignità di una morte cosciente, di una vita donata ad una grande causa, dettata dal destino.
Mezenzio e Lauso. Un eroe di stampo più moderno e di originalità più vicina ai nostri tempi non si trova in alcun poema dell'antichità classica. Virgilio, concependone e scolpendone la personalità con potenza di tratti singolare, ha confutato una volta per sempre quei critici che lo vogliono soprattutto poeta dei chiaroscuri e cantore assorto e melanconico della pietà umana di fronte alla sventura ed alla morte. Con Mezenzio Omero è superato, e Dante e Michelangelo sono maestosamente preannunziati. Infatti questo guerriero etrusco dalla figura statuaria e gigantesca, dalla forza immane, cacciato dai suoi stessi compatrioti per la spietata crudeltà, uomo che non teme né i propri simili né gli Dei che anzi li disprezza e li irride; bestemmiatore, cinico ed empio, acquista d'improvviso, per amore del figlio Lauso, una dimensione umana, nuova e patetica. Il dolore, intenso e profondo, ch'egli prova innanzi al corpo esanime del giovinetto, è come un fuoco purificatore che cancella e deterge in lui l'orribile passato. Ed allora parla, agisce e muore come un uomo nuovo, che, riconoscendo le proprie colpe, faccia ammenda con la propria vita e riscatti d'un tratto la coscienza e l'anima. Cosicché in ultimo non notiamo più la sua possanza e la sua ferocia; non ricordiamo più lo scoglio torreggiante, o il cinghiale o il leone, cui era stato paragonato in battaglia, ma il padre che, pacificato con se stesso e con gli altri, chiede umilmente ad Enea di essere sepolto con il figlio. Questa volta la morte di un giovinetto eroe, inserendosi nella sorte di un grande personaggio, ha determinato una splendida catarsi morale e spirituale ed ha aggiunto poesia a poesia.
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Raffronti di traduzione Agnovit longe gemitum praesaga mali menr: canitiem multo deformai pulvere et ambas ad c11elum tendit palmas et corpore inhaeret. «Tantane me tenuit vivendi, nate, voluptas, ut pro me hostili paterer succedere dextrae quem genui? tuane haec genitor per vulnera [servor, morte tua vivenr? beu, nunc misero mihi demum exitium infelix, nunc alte volnus adactum! Idem ergo, nate, tuum maculavi crimine nomen, pulsus ob invidiam rolio sceptrirque paternis. Debueram patriae poenas odiisque meorum: omnis per mortis animam sontem ipse dedissem! nunc vivo neque adhuç bomines lucemque Sed linquam ». [relinquo. (vv. 843-8.56) Udl Mesenzio il pianto, e di lontano (come del mal sovente è l'uom presago) morto il figlio conobbe. Onde di polve sparso il canuto crine, ambe le mani al ciel alzando, al suo corpo accostassi: « Ah mio figlio '"• dicendo, « ah come tanto fui di vivere ingordo, che soffrissi te, di me nato, andar per me di morte a sl gran rischio, a tal nemica destra succedendo in mia vece? adunque io salvo son per le tue ferite? adunque io vivo per la tua morte? O miserabil vita, o sconsolato esiglio! or questo è 'l colpo ch'al cor m'è giunto. Ed io, mio figlio, io sono ch'ho macchiato il tuo nome, ch'ho sommerso la tua fortuna e 'l mio stato felice co' demeriti miei. Dal mio furore son dal seggio deposto. Io son che debbo ogni grave supplizio ed ogni morte a la mia patria, 81 grand'odio dei miei. E pur son vivo, e gli uomini non fuggo? e non fuggo la luce? Ah fuggirolla per una volta». Traduzione di Annibal Caro
Ben riconobbe i gemiti da !unge il cuor presago di sventura: ei tutta sparge di polve sua canizie, e leva alto le palme, e su lui s'abbandona. « O figlio, e tanto amor posi a la vita che offrir solfersi a la nemica destra l'unigenito mio per me? Son vivo ancora io dunque, perché tu sei morto? Or sl, misero me, duro m'è il fato, or sl m'è scesa la ferita addentro! O figlio, e son pur io che il DOlile tuo macchiai di colpa, e venni in ira e privo del soglio e de lo scettro avito. Pena a la patria ed al popolo che m'odia io doveva: oh l'avessi a !or pagata per qual sia morte questa vita rea! Pur vivo, e ancora gli uomini e la luce non lascio. Ma li lascierò ». Traduzione di Giuseppe Albini Presago di sventura, in cuor da lungi riconobbe quei gemiti. Cosparse la canizie di polvere, protese le palme al cielo, si gettò sul figlio. « Sl grande in me del vivere la brama fu dunque, figlio mio, ch'io sopportai che per me si afferisse a colpi ostili chi di me nacque? Io, genitore tuo, son fatto salvo dalla tua ferita? Vivo per la tua morte? Or sl mi coglie vera sventura; or, misero, mi strazia ben profonda ferita. Ed io pur sono che il tuo nome insozzai roi miei delitti, figlio. Che fui cacciato, a tutti inviso, dal trono avito e dall'avito scettro. Alla mia patria ed al furor dei miei ben dovevo una pena; oh avessi dato per ogni morte la mia vita infame! Or invece son vivo e non ancora ho abbandonato gli uomini e la luce.
Li lascerò ... Traduzione di Guido Vitali
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CANTO UNDICESIMO
Battaglia.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 18 35, ricavate dai codici della Biblioteca V aticana, Roma.
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CANTO UNDICESIMO Il mattino dopo la furibonda battaglia combattuta sulla costa, Enea al primo chiarore dell'alba innalza un trofeo con le armi di Mesenzio e lo dedica a Marte, poi ordina di seppellire i morti e rincuora i soldati a prepararsi per l'assalto di Laurento. Rivolge quindi parole commosse di rimpianto a Fallante e dispone che la salma sia pt>rtata al padre Evandro. Le spoglie del giovinetto sono adagiate su un feretro costruito con rami di quercia e seguite da mille cavalieri. Intanto giungono da Laurento ambasciatori latini a chiedere una tregua d'armi per seppellire i morti. Enea accoglie l'ambasceria con animo sereno e dice di essere pronto a concedere non solo la tregua per i morti, ma anche la pace per i vivi, perché egli non ha motivi di odio contro i Latini, ma soltanto contro Turno, che si oppone al volere del Fato. Drance, il più vecchio degli ambasciatori, risponde che sono molti i Latini contrari alla politica di Turno e quindi alla guerra. Indi stabiliscono una tregua di dodici giorni. Il corteo funebre è nel frattempo giunto a Pallanteo, e incontro alle spoglie mortali del giovinetto è andato con Evandro tutto il popolo della città. Il vecchio re alla vista della bara grida tutto il suo dolore, lamentando che la sorte lo abbia lasciato sopravvivere alla moglie, di cui ora invidia la morte, che le ha risparmiato tanto dolore. Ormai la sua vita è inutile e vive solo in attesa di poter recare al figlio nell'Ade la notizia della morte di Turno. A Laurento sono tutti costernati per la sconfitta e sconfortati per la risposta di Diomede, il quale si è rifiutato dì cor::cedere gli aiuti richiesti ed ha invece consigliato la pace. Questo è quanto dice Venulo, il capo degli ambasciatori, all'assemblea convocata dal re Latino, il quale propone di seguire il consiglio di Diomede e di concedere ad Enea la terra perché i Troiani possano costruirsi la città, oppure di fornirgli le navi perché possa condurre il suo popolo in altre terre. Drance approva la proposta di Latino, ma Turno interviene furibondo dicendo che la situazione dei Latini non è cosl precaria, come può sembrare, e che se Diomede non invia aiuti, sono giunti altri alleati, tra i quali Camilla con i suoi valorosi cavalieri. Egli, per parte sua, è anche pronto a misurarsi da solo con Enea. Mentre a Laurento discutono, Enea avanza con l'esercito contro la città latina.
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Canto undicesimo
Un grande turbamento invade tutti, e Turno corre a organizzare la difesa. Tutti si armano, Latino si ritira turbato, la regina Amata e le donne di Laurcnto offrono doni a Minerva. Alle porte della città Turno i.J?.contra Camilla, e insieme concordano il piano di difesa: la vergine guerriera affronterà la cavalleria nemica; Turno, poiché alcune spie l'hanno informato che il vero attacco verrà dai monti, sorprenderà il nemico fra i boschi. Diana scorgendo dal cielo il pericolo che corre la sua protetta, chiama Opi, le racconta la storia di Camilla e le ingiunge di scendere nel Lazio e di uccidere colui che l'avrà uccisa. Intanto le due cavallerie si scontrano, Camilla compie sublimi atti di valore, ma la battaglia ha vicende alterne, finché gli Etruschi sono costretti alla ritirata. Giove allora interviene ed esorta Tarconte, cui Enea aveva affidato il comando della cavalleria, a rianimare i suoi. Le schiere etrusche, infiammate dalle parole e più ancora dall'esempio di Tarconte, riprendono l'assalto con grande vigore e Arunte, un soldato etrusco, insegue Camilla cercando il momento propizio per colpirla. La fanciulla è intenta a dare la caccia al troiano Cloreo, bramosa di impadronirsi delle sue splendide e ricche armi, e non bada a se stessa. Arunte &caglia l'asta e l'uccide. Opi attende nascosta l'uccisore di Camilla, e quando passa lo colpisce a morte. Morta Camilla i Volsci fuggono, i Rutuli si ritirano incalzati dai cavalieri etruschi, e sotto le mura e alle porte della città si accende una lotta violentissima. Vi partecipano anche le donne italiche lanciando sassi e dardi dall'alto delle mura. Turno, informato della situazione, lascia i boschi e corre verso la città proprio mentre Enea con l'esercito supera i monti e si dirige verso Laurento. La notte è vicina e i due eserciti si accampano uno di fronte all'altro, rimandando all'indomani lo scontro.
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CANTO UNDICESIMO Le esequie di Fallante (1-120)- La tregua (121-I69)- Il pianto di Evandro (17o-227) - Le esequie dei caduti (228-279) - Gran consiglio a Laurento (280-554) - Enea muove l'assalto a Laurento (555Le prodezze di Camilla (737-893)- Tarconte, Arunte e la morte di Camilla (8941030)- La vendetta di Diana (I03I-I068)- I Latini in fuga (xo69II25). 659)- Diana racconta la storia di Camilla (660-736)-
Le esequie di Pallante L'AURORA sorgendo
s
abbandonava il mare: nel primo mattino il vittorioso Enea scioglieva i suoi voti agli Dei, benché fosse impaziente di seppellire i compagni caduti e turbato da tanta strage. Pianta su un monticello di terra una gran quercia spoglia di rami e la riveste con le armi scintillanti di Mesenzio: trofeo LE ESEQUIE DI FALLANTE
(x-uo).- Con le armi di Me-
senzio Enea innalza un trofeo in onore di Marte ed incita i suoi a prepararsi per l'assalto alla città di Laurento. Ma intanto si debbono seppellire i morti e si deve riportare ad Evandro il corpo di Pallante, che giace nella tenda vegliato dal vecchio
Acete. Enea pronuncia commosse parole di rimpianto per il giovane caduto, la cui morte è una perdita grave per tutti: per Evandro, per Enea, per Julo, per l'Italia_ Quindi si forma il corteo funebre: mille cavalieri seguono il feretro costruito con rami di quercia e ricoperto di vesti preziose. Ci sono an-
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che Acete, il cavallo Eto e i prigionieri destinati al rogo. Chiudono il corteo i T eucri, gli Etruschi e gli Arcadi con le armi rivolte a terra. Prima che la salma lasci il campo di battaglia, Enea dà a Pallante l'ultimo addio. 1. L'aurora sorgendo, ecc: l'aurora annuncia l'inizio del nuovo giorno: l'ottavo dopo lo sbarco dei T roiani alle foci del Tevere. Il giorno prima si era combattuto fino a sera e il canto decimo era terminato con la morte di Mesenzio. L'aurora è raffigurata come una dea che sorge dall'oceano precedendo il sole, e segna col suo chiarore l'inizio del giorno. 4· scioglieva i voti, ecc.: la promessa fatta agli dèi nel caso di vittoria. 7· una gran quercia, ecc.: il trofeo era la consacrazione delle armi del vinto ad una divinità o alle divinità in genere; e consisteva in un albero (presso i Romani era di solito una quercia), sui rami del quale, opportunamente tagliati, si appendevano le spoglie del vinto. Enea vi appende le armi di Mesenzio da lui ucciso il giorno prima (X, xo87 sgg.).
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Canto undicesimo
9· grande dio della guerra: Matte. 17. L'impresa più ardua, ecc.: lo sforzo più difficile è compiuto: cioè l'uccisione di Mesenzio, uno dei più valorosi e temibili avversari. 18. non abbiate paura, ecc.: dopo la morte di Mesenzio sarà tutto più facile. 20. primizie del trionfo: i primi frutti della guerra che per noi sarà certamente vittoriosa. Le primizie, cioè i frutti primaverili, venivano offerti agli dèi; ed Enea offre a Marte le prime spoglie della guerra. 21. dalle mie mani: per opera mia. Enea sembra che voglia dire: ecco che cosa rimane di un nemico terribile come Mesenzio. Sono parole superbe, ma rientrano nel discorso d'incitamento a proseguire con fiducia e con ardore la guerra. 23. Preparatevi... con tut·· t a l'anima: preparatevi a combattere col massimo ardore; oppure, come sembra interpretato meglio il testo latino, preparatevi alla guerra anche spiritualmente. 24-26. a volte la paura, ecc. : qualora (a volte) la paura vi sorprenda e vi ostacoli nel compimentO del vostro dovere. 27. si levino al vento, ecc.: allude all'usanza dei Romani, che conficcavano al suolo le aste con le bandiere, quando l'esercito si ac.. campava, e le toglievano quando partiva. 29. affidiamo alla terra: seppelliamo. 30. unico onore che esista, ecc.: la sepoltura è il solo onore che possono godere i morti che giaciono lungo le rive dell'Acheronte,
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elevato in tuo onore, grande Dio della guerra. E vi adatta il cimiero macchiato di sangue, le !ance spezzate dell'eroe, la corazza ammaccata e bucata in dodici punti; appende a sinistra lo scudo di bronzo, lega al tronco la spada dall'elsa d'avorio. Poi rivolto ai compagni (lo attorniava da presso il gruppo dei capitani), comincia tra gli applausi: «L'impresa piu ardua è compiuta, o guerrieri; non abbiate paura di quanto ancora resta da affrontare. Guardate: queste sono le spoglie -primizie del trionfo- d'un re superbo. Ecco com'è stato ridotto Mesenzio dalle mie mani! Adesso attaccheremo Laurento e il re Latino. Preparatevi alle armi con tutta l'anima, aprite il cuore alla speranza della vittoria: a volte la paura, cogliendovi di sorpresa, non abbia a ostacolarvi, quando gli Dei consentiranno che si levino al vento le insegne, che si spieghi l'esercito, condotto fuor dell'accampamento! Intanto affidiamo alla terra i corpi dei compagni, unico onore che esista sotto il profondo Acheronte. Andate!- disse.- Onorate con l'estremo compenso quei nobili cuori che ci hanno conquistato a prezzo del loro sangue una patria! Per primo sia rimandato alla triste terra d'Evandro Fallante, giovane valoroso, rapito da un giorno di lutto per essere sommerso in una morte immatura». Parla cosi, tra le lagrime, e torna nella tenda
cioè nel regno dell'oltretomba, dove non si può godere nessun altro onore terreno. Infatti, secondo le credenze degli antichi, le anime insepolte non potevano trovare pace nell'altra vita. 31. l'estremo compenso: la sepoltura, gli ultimi onori. 33· una patria: il Lazio, l'Italia promessa dal Fato e a lungo cercata dopo la distruzione di Troia. 34· alla triste terra, ecc. :
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non la terra è triste, ma Evandro, il vecchio padre, e tutti gli abitanti di Pallanteo, cosl affezionati al loro giovane principe, Fallante, morto per mano di Turno (X, 604 sgg.). 35-36. rapito da un giorno, ecc.: è il giorno tenebroso della morte, cioè il giorno che ha privato Fallante della luce e I 'ha sprofondato nelle tenebre del mondo sotterraneo.
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dove l'esanime corpo di Fallante, disteso su un letto, era vegliato dal vecchio Acete: un tempo scudiero del parrasio Evandro, poi da Evandro affiancato a suo figlio, come maestro e amico, purtroppo con auspici non altrettanto lieti. Intorno la servitu, molta gente di Troia e donne, i capelli sciolti secondo l'uso funebre. Appena Enea compare sull'alta soglia, levano un immenso lamento sino al cielo, picchiandosi il petto: la tenda reale risuona di tristi pianti. Lo stesso Enea, veduti la testa reclinata, il volto esangue, niveo di Fallante e la piaga aperta nel suo petto tenero dalla lancia ausonia, dice piangendo: «Mio pietoso ragazzo, la Fortuna invidiosa, proprio quando era già sul punto di sorridermi, ha voluto strapparti dal mio fianco e impedirti di vedere il mio regno e tornar vittorioso alla casa paterna! Non era la tua morte che avevo promesso al padre Evandro quando, nel partire, tra abbracci e consigli sul modo di affrontare un impero potente, mi avvertiva che il nemico era forte e che avrei combattuto contro una gente dura. E forse ancora adesso, illuso da vana speranza, egli inalza preghiere colmando gli altari di doni;
40. parrasio Evandro: Evandro era nato a Farrasia, città dell'Arcadia. 42. purtroppo con auspici, ecc.: assegnato come compagno a Fallante, ma con auspici non altrettanto fortunati, poiché Acete, che era stato per Evandro un compagno fortunato, fu per Fallante, morto al primo serio scontro, un compagno sfortunato. 43. I n torno: intorno alla bara. 44· i capelli sciolti: le donne avevano i capelli sciolti, secondo il costume greco e romano di sciogliere e strap-
pare i capelli in segno di lutto. 46-47. picchiandosi il petto: allude specialmente alle donne. 49· il volto esangue, ecc.: il volto esangue, cioè pallido, per la morte, e niveo, cioè candido, per la giovanile età. 50-5 r. lancia ausonia: lancia italica, cioè di Turno, principe dei Rutuli. « Ausonia >> è uno dei nomi più o meno fortunati dati alla nostra penisola. I Greci chiamarono Ausones gli Aurunci, ma il nome passò poi a designare gli abitanti dell'I-
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talia centrale, infine la parte dell'Italia indipendente dall'influenza greca. Quando tutta l'Italia fu riunita sotto il dominio di Roma, « Ausonia » fu usato ad indicare tutta la penisola, ma nella lingua poetica e dotta. 51. pietoso: degno di pietà, di compassione. 52-55. la Fortuna invidiosa, ecc.: la Fortuna ti tolse a me proprio mentre era sul punto di portarmi, sorridendo, la vittoria e ti ha quindi impedito di vedere il mio regno e di ritornare a casa vittorioso. La «Fortuna>>, divinità latina, presiedeva a tutti i casi della vita, distribuendo a suo capriccio i beni e i mali. 56. Non era la tua morte, ecc.: Enea è preso dal rimorso di non essersi curato abbastanza di Fallante, che il padre gli aveva affidato. 58-6o. sul modo di affrontare, ecc.: quando insieme con i consigli datimi sul modo di comportarmi, mentre mi avviavo alla conquista di un grande impero, mi avvertiva che gli I t alici erano forti e che avrei dovuto combattere contro una stirpe tenace e resistente (dura) alle fatiche della guerra. I cri tici osservano che nel libro ottavo non risulta che Enea abbia fatto promesse ad Evandro; ma si può pensare che il Troiano un'assicurazione l'abbia data al vecchio re, che vedeva partire il figlio per la guerra. 61-62. E forse ancora adesso, ecc.: Enea pensa che Evandro, ignaro della morte del figlio, e quindi illuso da una speranza che non è più possibile, faccia an-
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cora voti e offerte agli dèi per la sua salvezza. 64-65. che non deve più nulla, ecc.: l'espressione è un po' ambigua, ma dopo l'immagine del vecchio re che, ancora ignaro della sua più grande sventura, è tenacemente attaccato all'unica speranza che ancora la vita gli potrebbe concedere, si può intendere che Pallante non ha più bisogno, secondo il concetto pagano, dell'aiuto degli dèi; cioè, in altre parole, che i voti e le offerte di Evandro sono ormai inutili. 67. che ti avevo promesso?: sembrerebbe veramente che Enea, nell'ultimo colloquio con Evandro, avesse preso questo impegno. 68-69. non è morto fuggendo, ecc.: non è stato ferito a morte mentre fuggiva; né tu, Evandro, sei costretto, peggio ancora!, ad augurare la morte a tuo figlio perché con la fuga si è salvata la vita. Cioè Evandro avrà il conforto di sapere che suo figlio è morto eroicamente, e non avrà il dolore di essere costretto a desiderargli la morte, come avrebbe fatto, se egli fosse fuggito davanti al nemico. 71. che gran sostegno, ecc.: « Enea pensa al proprio figlio, anch'esso giovanissimo, che avrebbe potuto avere in Pallante un amico, un compagno, quasi un fratello. Il pensiero dell'amore paterno di Evandro risveglia in Enea il proprio affetto di padre, esposto agli stessi pericoli di una morte immatura dei figlioli» (Garavani).
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mentre noi tristi, con pompa inutile, accompagniamo un corpo senza vita, che non deve piu nulla a alcuno dei Celesti. Infelice, vedrai tuo figlio ucciso! Questo era il trionfale ritorno che sognavo, che ti avevo promesso? Ma almeno, Evandro, tuo figlio non è morto fuggendo di vergognose ferite; né (peggio ancora!) è salvo per viltà, da dovergli augurare la morte. Ahimè: che gran sostegno perdete, Ausonia, Julo! » Detto cosi, tra i singhiozzi, comanda che quel po[vero corpo sia sollevato, e manda mille uomini scdti fra tutto l'esercito a seguire le esequie come scorta d'onore ed a prendere parte al lutto di suo padre: doveroso conforto anche se scarso a petto d'un simil dolore. Vdocemente intessono un graticcio che faccia da feretro, con verghe di clastico corbezzolo e rametti di quercia, e ombreggiano quel letto funebre con un vdo di fronde. Vi depongono, ben alto sopra un fitto giaciglio d'erba, il giovane simile ad una viola o a un languido giacinto che, reciso dal pollice d'una vergine, ancora serbi la sua bdlezza e il suo splendore; eppure la forte madre terra non lo alimenta piu. Allora Enea portò due vesti ricamate
76-77. doveroso conforto, ecc.: piccolo conforto per un dolore cosl grande, ma dovuto. So-82. ombreggiano, ecc. : coprono il graticcio, costruito con ramoscelli di corbezzolo e di quercia, con fogliame per rendere il feretro opaco; e sopra le foglie perché il feretro sia anche soffice, stendono un alto strato di erba. 83-86. simile ad una viola, ecc.: nota la delicatezza della similitudine. Il cadavere di Pallante, che serba intatta la freschezza giovanile, è paragonato ad una vio-
la o ad un giacinto, che, pur recisi e destinati a morire per mancanza di alimento, conservano ancora il loro splendore e la loro primitiva bellezza. n interessante osservare come il poeta abbia scelto per la sua similitudine due fiori delicati e malinconici: la viola dal gambo tenero e debole, il giacinto che si piega languidamente sullo stelo; e come a coglierli abbia preferito la mano gentile di una fanciulla, che dà all'immagine una delicatezza ed una sensibilità particolari.
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di porpora e d'oro che un giorno la sidonia Didone aveva fatto per lui con le sue mani, lieta fatica, trapuntandone la trama con un filo d'oro sottile. Mesto ne infilava una al giovane per supremo ornamento e con l'altra copriva la chioma destinata alle fiamme. Poi sceglie gran parte della preda fatta nella battaglia di Laurento, ordinando che accompagni la salma in lunga teoria, coi cavalli e le armi conquistati al nemico. Aveva fatto legare dietro la schiena le mani dei prigionieri, votati alle Ombre infernali, destinati a spruzzare di sangue le fiamme del rogo: e vuole che i capitani portino alti trofei, dei tronchi rivestiti con le armi avversarie e i nomi dei vinti nemici affissi sulla scorza. Condotto per una mano viene il misero Acete, consumato dagli anni, che si strazia coi pugni il petto, con le unghie la faccia e poi si lascia cadere a terra di schianto. E vengono i cocchi, macchiati di sangue rutulo. Dietro cammina lagrimando Etone, il cavallo da guerra dell'eroe morto: senza bardatura, le guance bagnate di grosse gocce. Alcuni soldati portano la sua lancia e il suo elmo (il vincitore Turno ha le altre armi). Quindi in mesta schiera avanzano i Troiani e gli Etruschi e gli Arcadi, con le lance dalla punta rivolta a terra in segno di lutto. E tutto il lungo corteo s'era già allontanato quando Enea s'arrestò e con un gemito fece:
88. sidonia Didone: la principessa fenicia, fondatrice di Cartagine, era esule da Tiro, ma Tiro era colonia di Sidone, città principale della Fenicia. Nei canti I, IV e VI dell'Eneide il poeta parla diffusamente di Didone e dei ricchi doni da lei fatti ad Enea. 90. trapuntandone, ecc.: ricamando il tessuto (la trama) con filo d'oro sottile. Didone, fenicia, era maestra
nel ricamare e tingere tessuti. 93· destinata alle fiamme: destinata al rogo. Gli copre la chioma, come si soleva fare a Roma con i morti. 97-roo. Aveva fatto legare, ecc.: la barbara usanza di sacrificare sul rogo alcuni prigionieri per rendere propizie le divinità infernali, che si credeva placate soltanto col sangue, esisteva an-
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che presso i Greci, e Omero nell'Iliade la ricorda, ad esempio, nella descrizione dei funerali di Patroclo. IOI-I02. portino trofei: sono tronchi d'albero adorni con le armi tolte ai nemici, e con le targhe recanti i nomi dei nemici vinti ed uccisi da Fallante. 104. il misero Alete: lo scudiero di Evandro, poi dato da Evandro come maestro e amico al figlio. ro8-no. Etone, il cavallo, ecc.: segue il feretro di Fallante anche il suo cavallo piangente e, in segno di lut'Kl, senza la ricca bardatura. L'eccezionale sensibilità di Etone Virgilio la imita da Omero, che attribuisce ai cavalli dei suoi principali guerrieri sensibilità e intelligenza umane. Ma questa attribuzione si è conservata fino a tempi molto vicini a noi; la troviamo infatti nei nostri poemi cavallereschi, specialmente neil'Orlando Furioso dell'Ariosto, ed anche nella Gerusalemme Liberata del Tasso. grosse gocce: grosse lagrime. Prescindendo dalle lagrime, lo squallore con il quale Etone segue il feretro è immagine poeticamente felicissima. I II- II 2. il vincitore T urno, ecc.: il vincitore aveva il diritto di spogliare il vinto delle sue armi, ed anche Turno se ne avvalse. II 3. gli Arcadi: i cavalieri che Fallante aveva condotto con sé alla guerra come alleato di Enea. Evandro, padre di ~allant~, era venuto in Italia dali Arcadia, regione della Grecia (VIII, 6o-62). u6. quando Enea s'arre-
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stò: anche Enea, dunque, aveva accompagnato il feretro per un certo tratto. II7-119. Il tremendo destino, ecc.: nota con quanta angoscia Enea, dando l'estremo saluto a Pallante, accetti la realtà della guerra e si accinga, ciononostante, a continuarla e a vedere altri morti e altri pianti. E nota come in questo saluto sia anche presente « il malinconico senso, tante volte rilevato nel poema, della vanità della vita umana, coi suoi mille travagli, destinata a terminare nel nulla. Ancora un passo e si giungerà alla spiritualità cristiana che disprezza la terra nella speranza del cielo» (Morpurgo). 120. Poi ... tornò all'accampamento. Scrive il Valgimigli: « :E. stato notato giustamente come Virgilio eviti un secondo incontro di Enea con Evandro dopo la morte di Pallante. Ma più è notabile come alle parole di Enea sopra il cadavere di Pallante, rispondano e corrispondano le parole sul cadavere di Pallante dette da Evandro. Si era accusato Enea di aver fatto ad Evandro vane promesse (~6-57) e di aver condotto Pallante alla morte (66-67); ed Evandro lo scagiona e giustifica: di Pallante furono le vane promesse (185-186), e amorte non lo trasse Enea ma l'ebbrezza delle prime esperienze di guerra e delle prime vittoria (188-r9z); e ripete e conferma l'ospitalità e l'alleanza (202-203). Il colloquio c'è, per il tramite di Pallante morto; ed è invenzione di bellissima poesia».
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« Il tremendo destino della guerra ci chiama via di qui, a nuove lagrime. Per sempre ti saluto, magnanimo Pallante, ti dico addio per sempre! » Poi si volse alle mura, tornò all'accampamento.
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Dalla città latina erano già arrivati gli ambasciatori, cinti di pacifico olivo, a chiedere una tregua: rendesse i loro morti sparsi qua e là, falciati dal ferro per i campi, concedesse che fossero sepolti nella terra (poiché non c'era ragione di fare guerra ai vinti, ai morti, alla gente priva del bene della luce), perdonasse a coloro che un tempo aveva chiamato suoi alleati e suoceri. Il generoso Enea riceve benevolmente chi implora una grazia tanto giusta e risponde: «O Latini, che sorte
LA TREGU\ (r21·169). -
Quando Enea, dopo aver accompagnato per alcun tratto il corteo funebre di Pallante, ritorna al campo, s'incontra con gli ambasciatori Latini venuti a chiedergli una tregua per seppellire i morti. Il condottiero troiano accoglie la richiesta e rivolge agli ambasciatori parole cortesi e serene, aggiungendo poi che egli sarebbe pronto a concedere anche la pace, perché non ha rancore verso i Latini, ma solo contro Turno che vuole opporsi alla volontà del Foto. Per gli ambasciatori Latini, che restano stupiti e silen1.iosi, risponde il vecchio Drance, il quale si dichiara pronto a interporre buoni uffici per la pace, rivelando anche che molti a Laurento sono contrari alla guerra. La tregua
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viene accordata per dodici giorni. 122. gli ambasciatori: mandati dal re Latino per la tregua. 128·129. perdonasse a coloro, ecc.: si allude alla risposta che Latino aveva affidato all'ambasceria inviata da Enea a chiedere pace e ospitalità (VII, 269-278), cioè ch'egli accoglieva l'eroe troiano come amico, ospite, alleato e gli offriva anche di essere, secondo la volontà del Fato, sposo di sua figlia Lavinia. Ma le offerte di Latino erano state rese inutili da Giunone che aveva provocato la guerra. L'espressione quindi non è né chiara, né esatta. 131-145. O Latini, che sorte indegna, ecc.: Enea condanna la guerra che i popoli del Lazio hanno mosso con-
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ROMA IMPERIALE l. Tempio di Veneree Roma. 2. Tempio di Giove. 3. Arco di Costantino. 4. Colosseo: capace di 50.000 persone.
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Tempio di Claudio. Acquedotto di Nerone. Palazzo di Settimio Severo. Circo Massimo: capace di 260.000 pers.
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indegna vi ha coinvolto in una guerra simile, vi ha spinto a rifuggire dalla nostra amicizia? Volete pace pei morti, per coloro che il pugno di Marte ha ucciso? Avrei voluto darla anche ai vivi. Io non sarei venuto se i Fati non m'avessero fissato una dimora qui: io non muovo guerra al vostro popolo. Il re ha rotto l'alleanza preferendo affidarsi alle armi di Turno. Sarebbe stato meglio che Turno si fosse esposto alla morte: se proprio voleva finire la guerra e scacciare i Troiani, sarebbe stato piu giusto che mi avesse affrontato. Sopravviverebbe colui al quale un Dio o il suo braccio avesse concesso la vita. Andate, adesso, e accendete il rogo ai poveri morti •· I Latini rimasero attoniti, smarriti, guardandosi tra loro in perplesso silenzio. Finché il piu anziano, Drance, avverso sempre a Turno di sentimenti e parole, a sua volta risponde: « Eroe troiano, grande di fama, ancor piu grande nelle armi, con quali lodi potrò levarti al cielo? Ammirerò di piu la tua giustizia o il genio e il valor militare? Riporteremo grati alla nostra città le tue parole e, se la Fortuna ci assiste, ti faremo alleato del re Latino: Turno si cerchi altre amicizie! Anzi, saremo lieti di innalzare la cinta tro i Troiani, ma con umana comprensione afferma anche che essi stessi sono stati coinvolti nella guerra da una « sorte indegna ». ·- Avrei voluto, ecc.: Enea avrebbe voluto dare la pace ai vivi prima ~i darla ai morti; cioè: vuoi d1re che egli non voleva la guerra, ma la pace, perché è venuto nel Lazio per volere del Fato, non per fare la guerra al popolo Latino. - Il re ha rotto l'alleanza, ecc.: Enea non sa che Latino si è sdegnosamente rifiutato di aprire le porte del tempio di Giano, cioè di dichiarargli guerra,
e che si è ritirato dagli affari dello stato; né sa nulla dell'azione svolta da Giunone per mezzo della furia Aletto. Perciò egli pensa che sia stato Latino a dichiarargli la guerra, dimenticando le promesse fatte agli ambasciatori: l'ospitalità, l'alleanza, l'unione del suo popolo con quello troiano. Sarebbe stato meglio, ecc.: invece di scatenare la guerra fra i due popoli sarebbe stato più giusto che Turno, essendo egli solo l'offeso (si crede defraudato della sposa e del regno), avesse accettato di combattere da solo con
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Enea. Sarebbe sopravvissuto chi dei due avesse avuto da un dio il dono della vita o fosse stato più valoroso. L'uso del condizionale sot· tintende il dubbio che Enea creda poco al coraggio di Turno, da quando il principe dei Rutuli si è sottratto al combattimento. Egli non sa che la fuga del suo avversario era stata opera di Giunone. 147. i~ perplesso silenzio: gli ambasciatori non sanno che cosa rispondere; e s'interrogano a vicenda con gli occhi per concordare il loro comportamento. Enea ha condannato la guerra, ha dichiarato da propria amicizia verso 1l popolo latino, ha rimproverato acerbamente Latino e Turno, ha concesso la sepoltura dei caduti, ma alla loro specifica richiesta di una tregua non ha risposto, né in modo affermativo, né negativo. Devono ritirarsi in silenzio e riferire ai loro capi, oppure rispondere alle parole amichevoli di Enea? 148·149· Drance, avverso, ecc.: risponde Drance, forse come il più anziano e forse come capo dell'ambasceria. Egli è avversario di Turno sia nel modo di sentire, sia di pensare, e Io manifesta apertamente (avverso... di ~entimenti e parole). 1.50-1.59· Eroe troiano, ecc.: La risposta di Drance, fatta di lodi, di ringraziamenti e di promesse di collaborazione ad Enea, cui si aggiunge anche un accenno a Turno apertamente ostile, che svela i suoi sentimenti personali, contrasta con i doveri di un ambasciatore, specialmente in tempo di
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guerra. Seltanto le parole pronunciate da Enea possono, in parte, giustificarlo. 160-161. e tutti ad una voce, ecc.: tutti gli ambasciatori, ma si può intendere, insieme con loro, anche i Troiani presenti. « Facevano sentire », perché mentre Drance parlava, gli altri assentivano, compiacendosi delle parole amichevoli. 162-163. una tregua di dodici giorni: la tregua a noi può sembrare un po' lunga, ma in quei tempi le cerimonie funebri erano più complicate e lunghe di quelle odierne. D'altronde il taglio degli alberi per l' allestimento dei roghi comportava l'impiego di un certo tempo.
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(qo-227).- Frattanto a Pallanteo, dopo la notizia della vittoria, si è sparsa anche quella della morte di Pallante e dell'arrivo in città del corteo funebre. Tutta la popolazione accorre con fiaccole ad incontrare la salma dell'infelice principe, ed Evandro, in pTeda allo strazio, quando la bara giunge alla porta della città, si abbandona sul cadavere del figlio, lo abbraccia e, oppresso dall'angoscia, lo tiene stretto a lungo, poi fra le lagrime pronuncia parole commoventi. 170-173· E già la Fama, ecc.: la notizia della morte di Fallante giunge a Evandro poche ore dopo un'altra notizia: quella dei primi scontri vittoriosi del giovane principe arcade, avvenuti il giorno prima. 175· fiaccole funerarie, ecc.: il costume di accompagnare i morti al sepolcro con torce accese, che si è
fatale delle mura, portando sulle spalle le pietre ddla nuova Troia». Aveva parlato e tutti ad una voce facevano sentire un mormorio d'assenso. Conclusero una tregua di dodici giorni e durante quel periodo di pace i Troiani e i Latini girarono assieme per le selve e sui monti, senza darsi fastidio. Risuona il frassino ai colpi della bipenne: abbattono i pini levati alle stelle: non finiscono mai di spaccare coi cunei le quercie e i cedri odorosi, di trasportare gli orni sui carri cigolanti.
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E già la Fama volando a Evandro, messaggera di tanto lutto, colma la reggia e la città di dolore: (la Fama, che solo poco prima gridava in tutto il Lazio Pallante vittorioso!). Accorrono alle porte gli Arcadi, brandendo fiaccole funerarie secondo un uso antico: la via risplende tutta di una fila di fiamme, lunga striscia di luce nella campagna infinita. Avanza la turba dei Frigi: le due meste colonne si congiungono, in lagrime. Le donne le vedono entrare fra le case e riempiono di gemiti la città. Nessuna forza riesce a trattenere Evandro che corre in mezzo al gruppo. Appena deposto il feretro
conservato, pur in modo diverso, fino ai nostri giorni, è antichissimo, forse per l'uso di seppellire i morti di notte, al fine di evitare il contagio. q6- r Bo. la via risplende tutta, ecc.: nella notte risplendono le fiaccole, e le due colonne, quella che viene dal campo e accompagna il feretro, e quella che giunge dalla città, si congiungono anche nel pianto. E I'Arnaldi osserva che nella commovente descrizione del fu-
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nerale « gli elementi se ntimentali, deliberatamente esclusi dalla pagina della morte, riprendono il sovravvento. Ma è evidente in questa distinzione una gradazione sapiente, che fa di Fallante un fanciullo stroncato dalla guerra, come Eurialo, e in parte anche Lauso, ma anche il simbolo della giovinezza italica, caduta per la gloria di Roma ». - dei Frigi: dei Troiani. Troia era città della Frigia (Asia Minore). r82. al gruppo: alla folla.
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si getta su Pallante e lo abbraccia, piangendo e gemendo: finché il dolore lo lascia parlare a malapena. «Non era questo, Pallante, che avevi promesso a tuo padre! Non era la prudenza, questa, con cui dicevi di arrischiarti in battaglia, sotto i colpi di Marte! Certo non ignoravo il fascino del primo onore militare e quanto sembri dolce la gloria conquistata nel primo combattimento. O sfortunate prove del valore nascente di un giovane: o crudele saggio della vicina guerra: voti, preghiere non intesi da alcwio dei Celesti! E tu, sposa santissima, felice nella tua morte, felice di non essere stata serbata a tanta pena! Io invece ho vissuto troppo, per rimanere solo, superstite a mio figlio. Oh, se seguendo le armi dei Teneri fossi stato trafitto io dai Rutuli! Sarei spirato io: con questa pompa avrebbero portato a casa me invece di Pallante. No, non incolpo voi, o Troiani, né il patto che abbiamo suggellato stringendoci la mano: il destino ha voluto che fosse cosi triste la mia vecchiaia! E se è vero che a Pallante toccava una morte immatura, ah, meglio, molto meglio che sia caduto guidando i Troiani nel Lazio, dopo avere abbattuto migliaia di Volsci! Fallante, io non potrei onorarti di esequie migliori di quelle che t'han fatto il pio Enea, i grandi Frigi, i principi e l'esercito etrusco. Ora levano •in alto i gloriosi trofei dei vinti, di coloro che la tua forte destra ha mietuto. E tu stesso, o Turno, non saresti r84-18.5. finché il dolore. ecc.: finché il dolore, che
prima gli impediva di pronunciare una sola parola, gli permise, a malapena, di parlare. r8.5-227. Non era questo, Paltante, ecc.: il vecchio re,
dopo aver dato sfogo al suo dolore di padre, rimproverando il figlio di non aver mantenuto la promessa di
essere prudente, e lamentandosi di dovergli sopravvivere contro ogni legge naturale, riprende padronanza di sé e con la fierezza di un re guerriero non incolpa i Troiani della morte di Pallante (Enea invece aveva accusato se stesso), ma afferma che se era destino che al figlio toccasse una morte immatura, è meglio che ciò sia avvenuto
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per affermare la causa giusta dei Troiani. Il giovane ha compiuto il suo dovere di soldato, è morto da alleato valoroso, ed Enea e i Troiani gli hanno perciò tributato onori che i suoi non potranno essere maggiori. E aggiunge che Turno non l'avrebbe vinto se fosse stato più avanti con gli anni e quindi in possesso della forza che soltanto l'età può dade. Con questi sentimenti Evandro chiude il suo discorso e prega i Troiani di dire al loro capo che egli continuerà a vivere soltanto per poter recare al figlio la notizia che Enea ha vendicato la sua morte. Gli antichi infatti credevano che le anime dei morti provassero conforto dal sapere di essere state vendicate, la qual cosa dimostra quale enorme progresso morale e civile abbia determinato nella storia dell'umanità il Cristianesimo con il principio del perdono. - di arrischiarti... di Marte: di esporti ai duri pericoli della guerra. - il fascino ... militare: il fascino della glo-
ria delle prime vittorie. Fallante aveva allora combattuto per la prima volta, come dirà subito dopo, con « sfortunate prove del valore nascente ». - o crudele saggio, ecc.: esperienza crudele. Ad Evandro sembra più crudele la morte del figlio in una guerra vicina, senza che ali sia stato dato un aiuto, che forse gli avrebbe evitato la morte. - migliaia di Volsci: accenna ai Volsci, perché essi erano gli alleati di Turno più bellicosi! ma ~~eh~, perché furono 1 nem1c1 p1u tenaci di Roma, e il loro ricordo poteva aumentare l'in-
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teresse dei lettori romani. un tronco d'albero, ecc.: insieme con i trofei dei vinti si vedrebbe anche quello delle tue armi. Cioè se mio figlio, dice Evandro, fosse stato pari a te nell'età e quindi nella forza fisica, non mancherebbe neppure il trofeo delle tue armi, per il quale sarebbe occorso un tronco d'albero enorme. Naturale e legittimo orgoglio paterno.
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che un tronco d'albero enorme, vestito delle tue armi, se mio figlio t'avesse eguagliato in età, nella forza matura che soltanto l'età può dare. Ma perché trattengo qui i Troiani, lontano dalle armi? Andate e dite a Enea: - Se io, dopo la morte di Fallante, prolungo q-.Jesta vita odiosa è a causa del tuo braccio che, lo sai bene, mi deve la morte di Turno, per Fallante e per me. Soltanto questo, Enea, manca alla tua fortuna e alla tua gloria. Chiedo questa gioia non certo per la mia poca vita, che non esige nulla: la chiedo per portarla a mio figlio, laggiu, tra le Ombre profonde-!»
(228-279). - Alle prime luci
del giorno dopo, Enea e il buon T arconte erigono ciascuno una pira per i loro morti ed eseguono il rito funebre secondo il costume portato dall'Asia (anche gli Etruschi provengono dall'Asia Minore). I Latini invece bruciano sul rogo i caduti più umili e sconosciuti; gli altri o sono sepolti sul posto o spediti ai loro paesi. I roghi ardono per due giorni; nel terzo giorno raccolgono le ceneri e le seppelliscono. I n Laurento domina la confusione e il pianto. Le madri, le nuore, le sorelle dei caduti si dolgono che Turno abbia voluto curare i suoi interessi con le armi e il sangue altrui e che avrebbe avuto il dovere di combattere da solo se voleva sposare Lavinia e soddisfare le sue ambizioni politiche. E Drance, nemico di Turno, invelenisce le querele assicurando che la guerra può terminare, perché Enea è disposto a concluderla combattendo da solo con Turno. 228. Intanto l'Aurora, ecc.: questo verso assomiglia molto al primo verso del
Le esequie dei caduti
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Intanto l'Aurora aveva recato la luce divina ai m()rtali infelici, riconducendo fatiche e doveri: il pio Enea e il gran Tarconte avevano innalzato già i roghi sulla spiaggia ricurva. Vi adagiarono su i loro morti, ognuno secondo il rito dei padri: acceso il fuoco nero l'alto cielo s'oscura di fumo. Per tre volte i guerrieri sfilarono attorno ai roghi in fiamme vestiti di armature lucenti: per tre volte girarono a cavallo intorno al triste fuoco della morte lanciando lunghe grida di pianto.
canto, soprattutto per il suo tono di esordio, che però qui è soltanto ripresa del racconto interrotto al verso r69. 229-230. fatiche e doveri: sono i lavori da compiere, ma anche gli affanni, cioè la coscienza preoccupata di non venir meno alle proprie responsabilità. - Enea... Tarconte: sono nominati i comandanti dei due eserciti, rispettivamente Troiano ed Etrusco. Tarconte nella prossima battaglia sarà il comandante della cavalleria.
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232-233. ognuno secondo, ecc.: Enea secondo l'uso dei Troiani, Tarconte secondo l'uso degli Etruschi. Però anche gli Etruschi, provenienti dalla Lidia, regione dell'Asia Minore, hanno conservato il costume di cremare i cadaveri. 2 33-2 34· acceso il fuoco ... di fumo: nota l'efficacia di questo particolare, che fa partecipare la natura al rito desolante della cremazione. 234-238. Per tre volte ... di pianto: questa cerimonia del-
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E la terra e le armi sono sparse di lagrime. Va al cielo l'urlo degli uomini, lo squillo delle trombe. C'è chi getta alle fiamme le spoglie conquistate ai vinti Latini, elmi, spade intarsiate, freni, ruote veloci; e c'è chi offre al rogo gli scudi dei caduti, le armi sfortunate. Immolano là intorno molti buoi alla Dea Morte, e sgozzano maiali setolosi e animali predati per i campi. Poi da tutta la spiaggia contemplano i compagni che bruciano e sorvegliano le cataste semiarse; né possono staccarsene finché l'umida notte non ha fatto ruotare il cielo seminato di stelle luccicanti. In altro luogo, intanto, gli infelici Latini hanno alzato egualmente innumerevoli roghi; seppelliscono molti caduti sottoterra e alcuni ne recuperano, portandoli nei campi vicini o rimandandoli in città. Tutti gli altri - confuso mucchio di strage infinita - li cremano senza neanche contarli, senza nessun onore: e le vaste campagne risplendono dovunque di fiittissimi fuochi. L'Aurora del terzo giorno aveva scacciato dal cielo la gelida ombra quando le fiamme si spensero: piangendo rastrellavano dai roghi la cenere alta e le ossa disperse per poi ricoprirle d'un tiepido strato di terra. Ma il maggiore clamore doloroso, i maggiori pianti e grida di lutto, s'accendono in città la triplice sfilata in segno di onore intorno al rogo in fiamme era detta « decursio funebris », e le lunghe grida lamentose di pianto erano chiamate « comploratio ». Prima sfilano per tre volte i fanti, poi i cavalieri. Nota come anche presso gli antichi il numero tre avesse un significato rituale sacro_ 241-244. C'è chi getta alle fiamme, ecc.: credevano gli antichi che i morti si compiacessero di avere con sé sul rogo, o nella tomba, gli og-
getti avuti cari nella vita, e, se caduti in battaglia, le proprie armi e le armi dei nemici. 245-247. Immolano là intorno, ecc.: sacrificano agli dèi infernali (alla dea Morte) buoi, maiali, e altri animali rapiti nel saccheggio dei campi. 249-251. né possono staccarsene, ecc.: e non hanno la forza di allontanarsi da quei luoghi prima che la notte non sia completamente calata. Con « ruotare il cielo »
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si allude all'apparente rivoluzione della sfera celeste, che gli antichi· molto semplicisticamente credevano che girasse con le stelle infisse nella volta. Qui però è una immagine poetica per indicare il mutare dell'aspetto del cielo dal giorno alla notte. 255-256. alcuni ne recuperano, ecc.: alcuni caduti non li hanno cremati, ed ora li raccolgono e li trasportano nei loro t erri tori originali o nella città di Laurento, perché siano sepolti dai loro concittadini. 2 56-260. Tutti gli altri, ecc.: le spoglie mortali dei caduti ignoti ed umili sono bruciate insieme senza onori; cioè, mentre i guerrieri più noti e quelli comunque riconosciuti sono cremati con gli onori consueti o trasportati alle loro case perché siano sepolti dai loro concittadini, tutti gli altri, come accade anche oggi nei casi di grande mortalità, sono cremati senza cerimonia alcuna. Non è quindi mancanza di pietà, ma una necessità imposta dalle circostanze; e il particolare mette perciò in evidenza la gravità della sconfitta subita dai Latini, ma anche il valore con il quale hanno combattuto. 260-264. L'Aurora del terzo giorno, ecc.: all'alba del terzo giorno, quando la luce già cominciava a cacciare le tenebre della notte, i Latini piangenti seppellirono la molta cenere e le ossa dei morti cremati sotto uno strato di terra ancora tepida per il calore dei roghi. 266-267. in città nelle case, ecc.: nelle case della città del ricco re Latino.
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269. dolci sorelle: nel testo latino si legge « cara sororum pectora maerentum », che significa « cuori affettuosi di sorelle afflitte ». Il traduttore ha quindi riunito nell'epiteto «dolci» l'affetto e il dolore che sono espressioni di cuori buoni e gentili, ponendo cosi in evidenza maggiore la sensibilità dell'animo virgiliano. 27o-273. contro le nozze di Turno, ecc.: le nozze con Lavinia, che Turno vorrebbe celebrare e che sono la causa della guerra, contro la quale tutti imprecano. - che lui, lui soltanto, ecc.: e chiedono che lui solo, con le sole sue armi, decida la guerra, dal momento che, sposando Lavinia, egli mira alla corona regia di Laurento e al dominio di tutto il Lazio. Enea aveva espresso lo stesso concetto agli ambasciatori latini. 276-279. Per contro, molte voci, ecc.: non tutti sono contro Turno; molti altri lo difendono. Sono la regina Amata, che aveva favorito il suo fidanzamento con Lavinia e si era già mostrata contraria ad Enea, ma sono soprattutto coloro che ammirano le sue imprese vittoriose ed ora lo considerano il campione nazionale della lesistenza dei popoli italici contro i Troiani invasori, e contro i loro alleati Etruschi, tutti considerati stranieri. GRAN CONSIGLIO A LAURENTO (280-,4). - Gli am-
basciatori inviati al re Diomede ritornano scoraggiati. Essi riferiscono che il gagliardo eroe greco rifiuta di allearsi con i Latini e li consiglia a cercare aiuti altrove o a fare la pace con Enea. Il
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nelle case del ricco Latino. Dove madri, nuore infelici, figli che han perso i genitori, dolci sorelle in lagrime imprecano contro la guerra e contro le nozze di Turno; e chiedono che lui, lui soltanto, decida la contesa con spada e lancia, dal momento che reclama per sé il dominio d'Italia e gli onori sovrani. Drance rabbiosamente aggrava tali accuse dichiarando che Enea vuole soltanto Turno, chiama soltanto Turno alla lotta. Per contro, molte voci si levano a favore di Turno: lo proteggono il nome della regina Amata e la fama dei molti meritati trofei.
Gran consiglio a Laurento 280
In mezzo a tanto tumulto d'emozioni ecco giungere per di piu, scoraggiati, gli ambasciatori spediti alla città del grande Diomede. La risposta che portano è negativa: nulla s'era ottenuto malgrado i sacrifici e la fatica; a nulla
re Latino turbato raduna il consiglio dei maggiorenti del suo stato e degli alleati. V enulo, invitato a parlare, riferisce che Diomede non vuole più aver guerra con i Troiani. La guerra di Troia, tJittoriosa, ha portato sventura a tutti i guerrieri greci. Né vuole incontrarsi con Enea, di cui conosce il valore; e li consiglia di far pace e alleanza con lui. Latino allora propone l'invio ad Enea di una ambasceria con doni e la proposta di pace e di alleanza, offrendo a suo piacere un piccolo territorio del Lazio o la costruzione di una flotta per trasferirsi in altre terre. Drance approva le proposte del re dando al suo discorso un'intonazione ostile a Turno; e consiglia Latino di aggiungere ai doni anche l'offerta della mano della fi-
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glia Lavina. O Turno rinuncia a Lavinia, o scende in campo lui so!? contro Enea. Turno risponde alle insinuazioni di Drance affermando che una sconfitta non è sufficiente per dover disperare della vittoria. Se manca l'aiuto di Diomede, non mancano altri forti alleati. Quindi finché c'è una speranza di vittoria si deve combattere. Che se poi Enea riconosce lui solo come nemico e il bene dello stato lo esige, egli è pronto a combattere da solo con lui 280-287. In mezzo a tanto tumulto, ecc.: ai contrasti tra avversari e fautori di Turno, tra contrari e favorevoli alla guerra, si aggiungono le notizie degli ambasciatori inviati a chiedere l'aiuto di Diomede (VIII, I I e
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eran serviti i doni e l'oro e le preghiere; i Latini dovevano cercare aiuti altrove o domandare pace al principe troiano. Lo stesso re Latino si sente venir meno per l'immenso dolore. L'ira divina e le tombe recenti che ha davanti agli occhi gli dimostrano che Enea è mosso dal Fato, condotto dal volere manifesto dei Numi, Allora fa bandire una grande assemblea, ed ordina che i principi e i patrizi latini si riuniscano a palazzo. Vennero tutti, affrettandosi per le strade gremite verso la reggia. Latino, perché piu vecchio d'et~ e perché re, siede al centro, triste in volto; ed ingiunge ai messaggeri tornati dalla città etolica di parlare, esponendo con ordine le risposte avute da Diomede. Si fa silenzio, allora, e Venulo obbedisce, cominciando cosi: « Cittadini, vedemmo Diomede e il campo argivo: dopo tanto cammino, dopo tanti incidenti superati, riuscimmo a stringere la mano che abbatté la grande Ilio. Vittorioso, Diomede ha costruito Argiripa, nei campi del Gargàno jàpige: una città che ha chiamato col nome della stirpe paterna. Fummo introdotti e, avuta licenza di parlare, prima gli offrimmo i doni, poi gli dicemmo il nostro nome e la nostra patria, gli spiegammo chi fosse a dichiararci guerra e per quale ragione venivano ad Argiripa, Dopo averci ascoltato ci rispose, tranquillo: - O fortunate genti del regno di Saturno, antichi Ausoni, quale destino sconvolge sgg.). La risposta è negativa e lo sconforto dei Latini aumenta. 289-292. L'ira divina e le tombe, ecc.: anche Latino è sconfortato; e gli insuccessi e l'ingente numero di morti in guerra Io convincono sempre più che Enea è venuto nel Lazio per volere del Fato e degli dèi. E convoca il consiglio dei maggiorenti la-
tini e dei popoli alleati. 302. il campo argivo: la sede degli Argivi, cioè la città di Argìripa, detta «campo » perché fortificata come un accampamento militare. «Argivo», perché Diomede, già signore degli Etoli, era poi diventato signore di Argo. 304-305. la mano che abbatté, ecc.: Diomede nella
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guerra di Troia ebbe un ruolo molto importante, non però cosi decisivo come vorrebbe questa frase. 306-308. ha costruito Argìripa, ecc.: Diomede ha costruito Arglripa, ora Arpi, alle falde del Gargano, nella Puglia, che nella parte meridionale era detta anche Tapigia, ora Terra d'Otranto. - col nome della stirpe paterna: Arglripa deriva da Argo, la patria di Diomede (stirpe paterna). Inizialmente il nome greco della città, ora piccolo borgo nei pressi di Foggia, era « Argos hippion » (fertile di cavalli), donde Arglripa. 312. per quale ragione, ecc.: quale motivo ci avesse spinti a recarci ad Arglripa. «Venissero» in luogo di « fossimo venuti » è una svista del traduttore. 314. del regno di Saturno: il saluto con il quale Diomede accoglie gli ambasciatori latini allude al mito secondo il quale Saturno, detronizzato dal figlio Giove, si rifugiò nel Lazio e vi fece rifiorire l'agricoltura e la pastori~ia, vi introdusse sagge legg1 e costumi semplici e morigerati creando una civiltà prospera e felice, che i posteri chiamarono «età dell'oro». Ecco perché Diomede chiama fortunate le genti del Lazio (v. nota VII, 212-216). 315. antichi Ausoni: il nome apparteneva un tempo ad un piccolo popolo dell'Italia centrale; poi i Greci lo usarono per indicare le regioni d'Italia indipendenti, con le quali essi avevano rapporti commerciali. In tempi più recenti il nome fu usato dai poeti per indicare tutta la penisola.
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316. guerra incerta: guerra senza un chiaro motivo e di esito dubbio. 317-323. Chiunque di noi violò, ecc.: non allude alle fatiche della guerra, né alle vittime sepolte nelle acque del Simoenta, piccolo fiume presso Troia, ma alle peripezie attraversate e alle sventure subite da tutti coloro che hanno offeso, oltraggiato la terra d'Ilio, cioè Troia, e alla fine della guerra sono ritornati nella propria patria. Essi hanno sofferto tali tormenti da suscitare pietà anche in Priamo, che della distruzione di Troia soffrl, come re, le conseguenze più gravi e dolorose. 323-325. la stella maledetta, ecc.: gli antichi ritenevano che le tempeste fossero prodotte dall'influsso degli astri. Perciò all'influsso di una stella Diomede attribuisce qui la tempesta che si è scatenata presso il capo Caferèo. La stella, a cui sarebbe ricorsa Minerva per punire Aiace d'Oileo d'aver osato profanare il suo tempio, traendone a viva forza Cassandra, che vi si era rifugiata. - gli scogli euboici: gli scogli dell'Eubea, alla quale appartiene anche il vendicatore capo Caferèo. Quivi furono distrutte molte navi dei Greci che ritornavano in patria. 326-327. l'Atride Menelao arrivò, ecc.: Menelao, ritornando in patria, andò errando fino all'isola di Faro in Egitto, e Proteo, dio e indovino, gli predisse i suoi guai futuri. 328. Ulisre vide, ecc.: l'episodio dell'incontro di Ulisse con il ciclope Polifemo, che si condude con l'acceca-
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la vostra pace e vi spinge ad una guerra incerta? Chiunque di noi violò col ferro i campi iliaci (e non parlo dei mali sofferti combattendo sotto le alte muraglie, degli eroi che il famoso Simoenta travolge!) ha scontato i peccati con orrendi supplizi per tutta la terra: miserabile schiera, da muovere a pietà Priamo stesso! Lo sanno la stella maledetta di Minerva, gli scogli euboici e il Cafareo vendicatore. Dopo la conquista, sbattuti su lontanissime coste, l'Atride Menelao arrivò navigando alle colonne di Proteo, ed a sua volta Ulisse vide i Ciclopi dell'Etna. Inutile parlare del regno di Neottolemo, dei Penati distrutti di Idomeneo, dei Locri costretti a stibilirsi sulla costa di Libia. Lo stesso re di Micene, capo dei grandi Achei, mori sulla soglia di casa per mano dell'infame
mento dell'unico occhio di cui i Ciclopi sono forniti, è raccontato nel libro IX deli'Odissea. 329. del regno di Neottolemo: o Pirro, figlio di Achille, che ritornato a Ftia, sua patria, sposò Ermione, fi. glia di Menelao e di Elena, ma poi fu ucciso a Delfo, per istigazione di Oreste, il quale volle vendicarsi perché gli aveva tolto Ermione, di cui era innamorato. Neottolemo era coraggioso, ma anche crudele: uccise di sua mano Priamo e scagliò dalle mura Astianatte, figlio di Ettore. 330-331. dei Penati ... Idomeneo: allude ad uno dei molti episodi raccontati nei poemi del ritorno, i « Nostoi », andati perduti e noti a noi attraverso la tradizione. Di Idomeneo si racconta che ritornando dalla guerra di Troia nel suo regno, a Creta, fu sorpreso in mare da una tempesta, e per
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uscirne vivo promise a Poseidone di sacrificargli, se avesse avuto salva la vita, la prima cosa che incontrasse toccando terra. Per primo incontrò suo figlio, e, per non venir meno alla promessa, lo sacrificò; ma gli dèi fecero scoppiare per punizione una gran pestilenza, e Idomeneo fu costretto a fuggire per non essere ucciso dalla popolazione insorta. Cosl egli perdette la casa e la famiglia, cioè i Penati. - dei Locri costretti, ecc.: dei Locresi costretti...; re dei Locresi era Aiace d'Oileo, empio e bestemmiatore. Questi ritornando dalla guerra di Troia, durante una tempesta morl, e i Locresi si dispersero in vari paesi, fondando colonie in vari luoghi, specialmente sulle coste della Libia e dell'Italia. 332-335. LfJ stesso re di Micene, ecc.: lo stesso Agamennone, re di Micene e ca-
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consorte: a tradimento un adultero vinse il distruttore dell'Asia. In quanto a me, i Celesti non vollero che tornassi agli altari paterni, rivedessi mia moglie, tanto desiderata ed amata, e la bella Calidone. Anche adesso sono perseguitato da tremendi prodigi: i perduti compagni sono volati in cielo, vagano lungo i fiumi trasformati in uccelli (doloroso supplizio!) e riempiono gli scogli di voci lagrimose. Ah, purtroppo dovevo aspettarmi sciagure del genere da quando follemente colpii con la spada un Celeste, violai d'una ferita la mano destra di Venere! Vi prego, non spingetemi a simili battaglie. Dopo la fine di Pergamo non ho motivi di guerra coi Teucri, né memoria né gioia delle antiche sventure. Quei regali che m'avete portato dateli a Enea piuttosto. Ci affrontammo con armi terribili e venimmo a corpo a corpo. Come s'erge alto sullo scudo- credete a chi ne ha fatto la prova: -con che impeto avventa la sua lancia! Se la terra dell'Ida avesse generato altri due eroi cosf, i Troiani sarebbero po supremo dei Greci nella guerra di Troia, appena ritornato in patria fu ucciso dalla moglie Clitennestra e dal suo amante e complice Egisto. L'uccisione fu poi vendicata dal figlio Oreste. a tradimento, ecc.: l'espressione pone in rilievo il fatto assurdo che una donna scellerata e un imbelle seduttore abbiano potuto troncare la vita di un uomo che sopravvisse fra gli innumerevoli pericoli di dieci anni di guerra. Un po' audace è la frase che indica il vincitore di Troia come il distruttore: dell'Asia. 336-338. agli altari paterni, ecc.: i Celesti non vollero ch'io ritornassi nella mia città, Calidòne, e nella mia
casa, al cult,l degli Jèi familiari: Lari e Penati. Diomede, al ritorno da Troia, trovò la moglie passata ad altre nozze; cosi emigrò in Italia. Nota il tono di amarezza che accompagna la rievocazione di queste tristi vicende familiari: la perdi t a della casa e degli affetti che solo nella famiglia si possono avere e manifestare. 340-343. i perduti compagni, ecc.: allude ai suoi compagni che, per aver oltraggiato Venere, furono trasformati in uccelli, che sugli scogli emettono voci lagrimose. Ma forse sono sensazioni della sua mente sconvolta da tanti ricordi. 345-346. follemente colpiti... V enere: allude al fatto
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raccontato nel libro V dell'Iliade, quando Diomede si azzuffò con Enea, e Venere, visto il figlio in pericolo, accorse in suo aiuto, ma rimase ferita alla mano destra. Madre e figlio furono poi salvati da Apollo. 347· Vi prego, non spingetemi, ecc.: Diomede, accettando l'alleanza dei Latini, teme che si ripeta quanto gli è accaduto sotto le mura di Troia, cioè di ferire Venere o un altro dio e di incorrere in altri guai. 348. la fine di Pergamo: la fine di Troia. Pergamo era la rocca della città. 349-350. né memoria né gioia, ecc.: Diomede vuoi dimenticare il passato, tanto le cose tristi quanto quelle liete. 352-354. Come s'erge alto, ecc.: come egli si sollevi alto sopra lo scudo, cioè non si ripari timidamente dietro lo scudo per evitare i colpi dell'avversario, ma si sollevi allo scoperto per vibrare meglio i suoi colpi. Veramente nel duello con Diomede (Il., V) Enea non fu il combattente coraggioso e terribile che Virgilio qui rappresenta, se Venere fu costretta a correre in suo aiuto e Apollo dovette poi salvare, a stento, e l'una e l'altro. Ma Virgilio non poteva comportarsi in modo diverso con il suo eroe. 355-358. Se la terra dell'Ida, ecc.: se Troia, oltre Enea, avesse prodotto altri due eroi di eguale forza e valore, sarebbero venuti i Troiani a depredare e a distruggere le nostre città, e la Grecia (Ellade) avrebbe avuto un destino completamente diverso.
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Enea: il poeta immagina che la « vittoria dei Greci » fosse un essere vivo, che voleva avanzare, e che Ettore ed Enea gli abbiano per dieci anni contrastato il passo. li testo latino dice « rettulit vestigia », cioè ricalcò i suoi passi, che nel linguaggio militare nostro si direbbe « segnò il passo » senza avan-
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zare. 363. in pietà: come sentimento religioso. 37o-371. un vario sussurro: un mormorio causato da motivi diversi, e quindi anche di diverso significato, perché alcuni erano favorevoli alla pace propasta da Diomede, altri alla continuazione della guerra. - Ausoni: Italici. 373· il gorgo: la corrente che, ostacolata dai massi, forma un gorgo, cioè un vortice d'acqua. 376-377. dopo aver pregato i Numi: dopo aver invocato dagli dèi d'essere ispirato a dire cose giuste e utili. 379· in un altro momento·: prima che scoppiasse la guerra. Latino ora si pente di non aver convocato l'assemblea prima che iniziassero le ostilità, e di essersi invece ritirato nella reggia, lasciando ad altri il potere, quando gli parve impossibile di opporsi ai desideri bellicosi del suo popolo. 382-384~ inopportuna: sconveniente e illogica, perché originata da motivi ingiusti. - contro una stirpe divina: contro Enea, figlio di Venere. - contro eroi invincibili: non nel senso che non possono essere vinti, e meno ancora che non furono mai vinti; infatti Enea e i
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giunti sino alle nostre città, ed oggi l'Ellade sarebbe tutta in pianto, capovolto il destino! Trascorremmo dieci anni sotto le mura di Troia sol perché la vittoria dei Greci fu tenuta per tanto tempo a bada da Ettore e da Enea. Tutti e due grandi d'animo e di forza, ma Enea superiore in pietà. Stringete la sua mano in pegno d'alleanza, se ancora v'è possibile: evitate che le armi si scontrino con le armi! Cosi disse Diomede. Ottimo re, hai sentito in una sola volta la sua risposta, e insieme il suo parere schietto su questa dura guerra ,._ Venulo terminò. E subito per le bocche turbate degli Ausoni corse un fremito, un vario sussurro: come quando nel letto d'un torrente rapido, se dei massi ne ostacolano il corso, il gorgo restringendosi leva un alto scrosciare e le due rive fremono al gorgoglio delle onde. Poi, calmatisi gli animi e taciute le voci, il re dall'alto trono cominciò a dire, dopo avef pregato i Numi: «Davvero avrei voluto, o Latini, decidere della grave questione in un altro momento: sarebbe stato meglio. E invece ci riuniamo adesso che il nemico è alle mura. La nostra, cittadini, è una guerra inopportuna, contro una stirpe divina e contro eroi invincibili, che non si stancano mai, che non sanno posare la spada neanche vinti. Se avete mai sperato nelle armi degli Etoli, ora non piu. Ciascuno speri solo in se stesso: con quanto fondamento lo sapete. Vedete
Troiani erano approdati nel sconfitta, non chi ha perduto Lazio perché avevano subito una battaglia o anche la la distruzione della loro pa- guerra. tria, che è la più grave delle 385-389. Se avete mai spesconfitte. Ma si deve inten- rato, ecc.: intendi: la fiducia che avete riposto nelle forze dere, come spiegano le frasi successive, nel senso che es- militari associate degli Etoli (Diomede era appunto orisi non si lasciano abbattere dalle sconfitte, e continuano ginario dell'Etolia, regione a combattere anche se vinti. storica della Grecia centraIl vero vinto è colui che le, a nord del golfo di Patrasso), ora non potete più non ha fiducia nelle proprie forze e accetta rassegna to la . averla. Perciò non rimane se
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coi vostri occhi, toccate con le mani il disastro in cui giace schiantata la nostra potenza. Non accuso nessuno: il valore fu il massimo possibile; si lottò con tutte le forze del regno. Perciò, vi prego, udite con attenzione quanto adesso vi esporrò: forse è l'idea migliore. Ho un'antica campagna vicino al fiume Tevere che si allunga a occidente 6n oltre i confini sicani; la coltivano i Rutuli e gli Aurunci, che rompono le dure colline col vomere e riservano al pascolo le loro parti piu aspre. Tutta questa regione, con la cresta montana rivestita di pini, voglio darla ai Troiani; stabiliamo con loro giusti patti e chiamiamoli nd regno, da alleati. Se proprio tanto lo vogliono, restino, devino mura. Se vogliono invece raggiungere altre genti e paesi e andarsene dal Lazio, fabbricheremo venti navi di quercia nostrana, e magari di piu se possono equipaggiarle: c'è tutto il materiale che si vuole sul lido. Dicano loro il numero e il tipo delle navi: e noi daremo il bronzo, le braccia, gli arsenali. Inoltre avrei pensato che cento ambasciatori, scdti tra le famiglie latine piu cospicue, vadano a riferire a Enea le mie proposte e a discutere i patti, tenendo in mano rami di pacifico olivo, portando in dono talenti d'oro e d'avorio, e la sedia curule e il mantello trabeato che sono non che ognuno riponga ogni speranza in se stesso; ma quale fondamento possa avere questa speranza voi lo avete costatato dalle condizioni disastrose in cui sono ridotte le nostre forze. In altre parole Latino invita i presenti a giudicare la situazione dalla realtà che essi stessi hanno toccato con mano: i non combattenti vedendo Laurento assediata, i combattenti dalla triste esperienza fatta direttamente sui campi di battaglia.
390. Non accuso nessuno: non vi sono colpevoli; ognuno ha fatto il proprio dovere. 394-417. Ho un'antica campagna, ecc.: la prima proposta del re Latino è di fare la pace con Enea, cedergli una striscia di territorio, che da molto tempo è suo possedimento personale, e concludere un patto d'alleanza. Quivi il popolo troiano può costruire la sua città ed essere nel regno di Latino un buon alleato. -Se
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vogliono invece, ecc.: la seconda proposta, subordinata al rifiuto della prima, prevede che i Troiani preferiscano andarsene dal Lazio e «raggiungere altre genti e paesi». In tal caso il r• Latino propone di aiutarli ad allestire una flotta di venti e più navi, fornendo il materiale occorrente, « le braccia, gli arsenali ». - I noitre avrei pensato, ecc.: la terza proposta consiste nell'invio ai Troiani di una commissione di cento ambasciatori scelti « tra le famiglie latine più cospicue », con il compito di riferire le proposte del re, di portare a loro ricchi doni e di offrire pace e alleanza. - talenti d'oro e d'avorio: grandi quantità d'oro e d'avorio. Il talento, che più anticamente era una misura di capacità usata dai Greci, assai varia secondo i tempi, più tardi passò ad indicare particolarmente una moneta d'oro o d'argento di peso e di valore diverso secondo i. tempi e i luoghi. Il talento più comune potrebbe corrispondere a circa trecentomila lire italiane attuali. L'avorio doveva essere allora molto raro nel Lazio, che non aveva traffici con le terre lontane dell'Asia e dell'Africa. - La sedia curule e il mantello, ecc.: con questi doni Virgilio attribuisce ui tempi antichi le costumanze romane del suo tempo. Il senato romano usava, infatti, inviare ai sovrani e ai popoli con i quali voleva stringere alleanza, la sedia curule e la trabea, come insegne della sacra potestà dello stato romano. La « trabea » era un vestito proprio
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dei re e degli àuguri, di colore rosso e listato di porpora. 418-424. Drance, ostile, ecc.: al re Latino risponde per primo Drance, il medesimo personaggio che aveva guidato l'ambasceria inviata ad Enea per ottenere la tregua ed aveva manifestato opinioni compromettenti in favore della pace con i Troiani. Invidioso della gloria di Turno, era particolarmente ostile al principe rutulo; ben fornito di ricchezze ed eloquente, era invece poco valoroso in guerra; ma giudicato buon consigliere nelle assemblee, sapeva essere astuto negli intrighi politici. - ma oscuro... del padre: «oscuro» non nel senso di non nobile, ma di sconosciuto, incerto. Virgilio, cioè, vuoi dire che Drance era nato da un'unione illegittima ed era dubbio chi fosse il padre. 429. ma temono di dirlo: hanno paura di Turno. II testo latino ha « dicere mus· sant », lo mormorano solo a bassa voce, per paura. 430-437. Dia libertà di parola, ecc.: ci lasci parlare liberamente, senza arroganti minacce, Turno, il quale con la sua pessima direzione (Turno è il capo politico l' militare degli ltalici contro i Troiani) e il suo malaugurato comportamento (cattivi costumi), sia verso i suoi connazionali, sia verso i Troiani, è responsabile di tanti lutti c si è poi dato alla fuga. Drance presenta astutamente la sconfitta degli Italicicome conseguenza dell'incapacità di Turno a dirigere le operazioni di guerra, e il disimpegno eroico
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le insegne dd potere... Ma spetta a voi decidere per il bene di tutti, riparare al disastro » Si leva allora Drance, ostile sempre a Turno, trafitto dagli stimoli amari dell'invidia per la gloria di Turno. (Era un uomo ricchissimo e pieno d'doquenza ma vigliacco in battaglia; consigliere stimato nelle assemblee e violento demagogo; di sangue molto antico per parte della madre ma oscuro per parte del padre). Drance si leva e aggrava l'impopolarità di Turno. «Ottimo re, la tua proposta è chiara a chiunque e non ha bisogno dd mio appoggio: tutti sanno benissimo che cosa debba farsi per il bene dd popolo, ma temono di dirlo. Dia libertà di parola, freni la sua arroganza colui che con auspici pessimi e i suoi cattivi costumi (parlerò francamente, benché mi minacci di morte) ha piombato nel lutto tutta la tua città e ha causato la strage del fior fiore dei capi, mentre assaltava il campo troisno - confidando ndla fuga - e atterriva bravando, col fracasso delle sue armi, il cielo. O il migliore dei re, aggiungi ancora un dono, uno soltanto a quelli che vorresti mandare in gran copia ai Troiani, e non ti spaventare di nessuna minaccia: concedi tua figlia a un genero valoroso, a nozze degne, fa' che la pace sia stretta con un eterno nodo. E se davvero abbiamo tanta paura di Turno supplichiamo lui stesso, imploriamo la grazia proprio a lui: ceda, renda alla patria ed al re i loro sacri diritti. O Turno, perché esponi· continuamente al rischio i cittadini: tu
del campione rutulo dal campo troiano, dove era penetrato solo ed aveva fatto strage di nemici (IX, 941 e sgg.), come una vile fuga. 442. a un genero, ecc.: propone che il re invii ad Enea, con i doni anche l'offerta della mano della figlia Lavinia; ma le parole di Drance insinuano anche che
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Turno non sia né un valoroso, né un degno sposo. 446-447. renda alla patria, ecc.: restituisca a Latino e alla patria i loro diritti di maritare Lavinia secondo gli interessi dello stato. Cioè Drance, insistendo nell'accusare Turno come unico colpevole della disgraziata guerra con i Troiani, propone ai
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che solo sei la causa e il principio di tante sventure per il Lazio? Non c'è alcuna salvezza nella guerra: noi tutti ti chiediamo la pace e insieme l'inviolabile, solo pegno di pace. lo per primo, che credi tuo nemico (ed ammetto d'esserlo per davvero), ecco, vengo a implorarti: abbi pietà dei tuoi, deponi la superbia, e vattene alla fine, sei stato già battuto. Siamo sconfitti, abbiamo visto già troppe morti, troppi campi distrutti. Se ti preme la gloria, se hai tanta forza in petto, se tanto ti sta a cuore una reggia per dote: allora osa affrontare i colpi del nemico, con fiducia. Ma guarda: noi anime da nulla, turba insepolta e indegna di pianto, ci faremo ammazzare perché Turno sposi la figlia d'un re! Se hai del coraggio, se conservi una briciola del valore dei padri, o Turno, guarda in faccia colui che ti sfida! »... A simili parole la violenza di Turno esplode. Dà in un grido e lascia che dal fondo del suo cuore prorompano queste frasi indignate: « Drance, chiacchieri sempre con splendida abbondanza proprio quando la guerra richiederebbe fatti: sei sempre il primo a arrivare a tutte le assemblee. presenti che, non avendo essi il coraggio di imporre al principe rutulo la rinunzia di Lavinia, come sarebbe giusto e possibile se non avessero paura di lui, lo preghino almeno che prenda egli stesso l'iniziativa di rinunciare, per la pace e il bene di tutti, a quelli che egli considera suoi diritti. 450-451. Non c'è ... nella guerra: dalla continuazione della guerra non si può trarre più alcuna speranza. 452. e insieme l'inviolabile, ecc.: e insieme con la pace noi ti chiediamo quello che della pace è il pegno più sicuro, inviolabile: le nozze di Lavinia con Enea.
456. e vattene alla fine: il discorso di Drance, pur indirizzato costantemente a dimostrare che Turno è l'unico colpevole dei mali che hanno colpito il popolo latino, è variatissimo nei toni e nelle stesse espressioni: dalla supplica all'insinuazione maligna, dall'insulto alla pietà per i caduti, dalla preghiera all'invito sdegnoso di deporre il suo orgoglio: dichiararsi vinto e rinunciare alla lotta. - sei stato già battuto: Io invita ad allontanarsi (vattene) perché ormai vinto; ma «battuto» probabilmente non significa vinto in battaglia, oppure respinto da Lavinia o da Latino, ma
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superato da circostanze più forti della volontà umana. 458-461. Se ti preme la gloria, ecc.: è un'altra offesa, forse la più grave, poiché Drance insinua che Turno abbia chiesto la mano di Lavinia non per amore, ma per ambizione politica, poiché sposando la figlia unica di un re può sperare di essere un giorno il suo successore. Turno avrebbe quindi scatenato la guerra, non per difendere la patria dagli invasori troiani, ma per salvare i suoi interessi personali; e a lui tocca allora opporre il suo petto ad Enea, suo avversario. 461-466. Ma guarda: noi anime, ecc.: Drance conclude il suo discorso con un'ironia amarissima, che giunge fino al sarcasmo quando invita Turno ad avere anche lui il coraggio di guardare in faccia Enea che lo sfida a battaglia, invece di volgergli le spalle, come hanno avuto il coraggio di affrontarlo essi che sono un vile volgo destinato a morire senza sepoltura e senza pianto, non per la patria, ma perché egli possa sposare la figlia di un re. 467-469. A simili parole, ecc.: le offese e l'ironia di Drance hanno irritato Turno, e il principe dei Rutuli, acceso d'ira, prorompe in una risposta violenta. 470-472. Drance, chiacchieri, ecc.: Turno deve rispondere alle proposte del re -Latino e alle insinuazioni e alle offese di Drance. Risponde prima a Drance, ritorcendo con le prime parole su di lui l'accusa di viltà, ch'egli gli aveva lanciato ingiustamente. Tu, Drance, gli dice,
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sei sempre ricco di parole, quando la guerra richiederebbe fatti; e arrivi sempre il primo al consiglio degli anziani, ma non altrettanto sul campo di battaglia. 473· la curia: la sede, in cui si riuniva l'assemblea degli anziani. A Roma era l'edificio delle riunioni senatoriali, come Palazzo Madama, già palazzo dei Medici, è oggi la sede del Senato italiano. 474-477· che ti volan di bocca, ecc.: nota la bella immagine dei discorsi che, come vivaci uccelli, escono a volo dalla bocca di Drance, quando l'oratore sa di essere al sicuro dai pericoli della guerra. 479-481. che il tuo braccio, ecc.: all'ironia di Drance, Turno risponde con l'ironia, poiché l'avversario, che non aveva partecipato alla guerra, certamente non aveva elevato mucchi di morti troiani, né innalzano ad ogni passo nei campi splendidi trofei. 481-484. Tu puoi bene, ecc.: tu hai la possibilità di dar prova del tuo valore senza andare molto lontano: il nemico (( è intorno alle mura ». Il sal'casmo assume un'evidenza anche maggiore ricordando il verso 42 I : «pieno d'eloquenza, ma ·vigliacco in battaglia ». 485-487. Su, corriamogli addosso! ecc.: l'invito ad assalire il nemico rimane ina- · scoltato, e si conferma perciò che il coraggio di Drance è nella sua lingua piena di vento (ventosa), cioè di parole vane, e nei suoi piedi fuggiaschi. L'immagine dei « piedi fuggitivi » è cosi viva, che la frase ·sembra pro-
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Ma a che serve riempire la curia dei discorsi clle ti volan di bocca poderosi, finché sei al sicuro, finché l'argine delle mura tien lontano il nemico e il sangue non inonda i fossati? Su, tuona d'doquenza, a tuo modo; accusami di paura, o Drance, dal momento che il tuo braccio ha elevato tali mucchi di morti troiani, e che dovunque hai decorato i prati di splendidi trofei! Tu puoi bene provare di cosa sia capace un ardente valore; né occorre in verità camminare lontano per trovare il nemico, che è li intorno alle mura. Su, corriamogli addosso! Ti ritiri? E perché? Il tuo coraggio è tutto nella lingua ventosa, nei piedi fuggitivi? ... Io battuto? E chi mai, svergognato, potrà a buon diritto dirmi battuto, se considera il Tevere traboccante di sangue troiano, la dinastia di Evandro distrutta con suo figlio, i cavalieri arcadi spogliati delle armi? Non mi conobbero vinto Bizia e l'immenso Pandaro e i mille che in un giorno, vittorioso, serrato tra le mura nemiche, sprofondai giu nd Tartaro. -Non c'è alcuna salvezza nella guerra-. Va a dirlo
nunciata mentre l'oratore fissa lo sguardo e tende l'indice verso le gambe di Drance. 488-492. Io battuto? E chi mai, ecc : nota l'impeto con il quale Turno difende il suo onore di combattente. Insieme con la forza d'animo si sente nelle sue parole un dolore acuto per l'offesa ingiustamente ricevuta. Egli risponde al « sei stato battuto» del verso 456. - La dinastia ... distrutta: allude all'uccisione di Pallante unico figlio di Evandro. - i cavalieri arcadi, ecc.: sono i molti cavalieri arcadi uccisi e spogliati delle armi da Turno; ma si potrebbe anche intendere che, ucciso Pallante,
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« gli Arcadi, privi del loro comandante, sono rimasti di· sarmati; impotenti di combattere» (Garavani). 493· Bizia... Pandaro: sono i due fratelli troiani giganti, che aprirono una porta del campo, sfidando gli ltalici ad entrare, e furono poi uccisi da Turno {IX, 814 sgg.). 494-495· e i mille... nel Tartaro: allude ai molti Troiani uccisi (sprofondai nel Tartaro) il giorno in cui entrò nell'accampamento nemico e vi rimase chiuso (IX, 864 sgg.). 496-500. Non c'è ... nella guerra: è un'affermazione di
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al capo dei Troiani, demente, e a casa tua! E continua a diffondere dappertutto il terrore, a esaltare la forza di una gente sconfitta due volte, a denigrare le armi di Latino! Ora persino i principi mirmidoni hanno orrore delle armi dei Frigi, anche Diomede e il tessalo Achille; e il fiume Aufido fugge, arretra di fronte alle onde adriatiche. Fingi d'aver paura davanti alla mia collera? Impostore, lo fai per inasprire le accuse col timore. Mai, mai (smettila di tremare) perderai questa vile anima per il mio braccio: resti pure con te, abiti nel tuo petto! Ma ora, padre Latino, ritorniamo alle gravi proposte che hai avanzato. Se non speri piu nulla dalle armi nostre, se siamo cosi abbandonati e per una sola sconfitta rovinati del tutto, senza possibilità che la Fortuna ritorni ad esserci amica, allora chiediamo pace, tendiamo le mani impotenti. Eppure, oh, se vi fosse un poco dell'usato valore! Felicissimo e nobile su tutti, in mezzo alla disgrazia, stimo colui che prima di vedere una tale rovina cadde morto, una volta per sempre mordendo la polvere.
Drance (450-451 ), che Turno ora contesta, accusando l'avversario di essere un vile denigratore dei Latini, che oggi, con un neologismo molto efficace, si direbbe disfattista, perché mira, anche senza averne coscienza, alla disfatta della propria patria. sconfitta due volte: da Ercole e dai Greci (IX, 726727). 501-504. Ora
persino i principi, ecc.: Turno, sempre polemiw, dice che, a sentire Drance, si dovrebbe credere che siano presi da paura dei Troiani tutti gli eroi greci che li hanno vinti: gli eredi di Achille (prin-
cipi mirmidoni ). Diomede e lo stesso Achille di Larissa (città principale della Tessaglia), e che l'Ofanto (Aufi do), fiume della Puglia, pres.. so Arpi (la città di Diomede), indietreggi di fronte alle acque del mare Adriatico. L'immagine del fiume Ofanto che si ritira per paura del mare, sarebbe la raffigurazione di Diomede che non avrebbe, secondo Drance, accolto l'invito dell'alleanza per paura dei Troiani. Assurda perciò la paura di Diomede e degli altri eroi greci, come è assurda la paura delle acque deii'Ofanto di entrare nel mare Adriatico.
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504-509. Fingi d'aver paura, ecc.: intendi: Drance, finge d'aver paura delle violenze di Turno per avvalorare l'accusa che l'eroe mtulo miri ad intimidire i Latini con minacce per imporre ad essi la sua volontà. Turno perciò lo invita a smetterla con lo spavento. Egli non si sporcherà mai le mani del sangue di un miserabile come Drance. La sua anima resti pure nel suo petto; l'una e l'altro sono degni, per viltà, di starsene insieme. - padre: Turno si rivolge a Latino con questo appellativo, perché si considera sempre il promesso sposo di Lavinia. 511-539· Se non speri più nulla, ecc.: qui ha inizio la parte non polemica, ma costruttiva del discorso di Turno, il quale afferma subito che se il re Latino è convinto che la situazione sia veramente disperata, non rimane altra soluzione che quella di chiedere la pace. Ma questa repentina accettazione della pace è soltanto un artificio retorico. Turno subito dopo afferma ch'egli stima soltanto chi ad una simile rovina preferisce la morte, e giustifica l'affermazione dicendo che anche una sola speranza nelle proprie forze e in quelle degli alleati è sufficiente a rinfrancare gli animi. La fortuna è mutevole e spesso risolleva chi aveva deluso. Perché lasciarsi abbattere ancora prima che le trombe diano il segnale della battaglia? Se Diomede non ha accettato di essere alleato, essi hanno altri gloriosi condottieri italiCi, che combattono al loro fianco, come Messapo e To-
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lunnio. E c'è anche Camilla con i suoi famosi cavalieri Volsci e la sua fanteria. 540-554. Se poi, infine, i Troiani, ecc.: Turno affronta ora il fatto, che più direttamente lo riguarda, sollevato con particolare insistenza da Drance nel suo discorso e precedentemente accennato da Enea nelle parole rivolte all'ambasceria latina; e dice che se poi i Troiani vogliono che egli solo scenda sul campo di battaglia e i capi italici anche lo vogliono, perché lo considerano l'unico ostacolo al bene comune, egli non rifiuta di battersi con Enea. Ha consacrato la sua vita ai capi italici e al re Latino e, sebbene il duello con il principe troiano sia stato proposto da Drance, non a lui spetta scendere in campo, ma a Turno soltanto, sia che i Numi vogliano la sua morte, sia che gli concedano la vittoria. Le parole di Turno sono coraggiose e giuste. Egli ha coscienza del suo dovere di capo e della responsabilità che l'amor di patria gli impone; e, nonostante l'interesse personale, che costituiva uno dei motivi della sua azione, ci appare come il primo eroico difensore dell'indipendenza d'Italia. È notevole che nel suo discorso non accenni né a Lavinia, né alle sue nozze, alle quali sa che Latino è contrario. Soltanto Io chiama padre (509). ENEA MUOVE L"ASSALTO A LAURENTO (555-659).- Men-
tre, dopo il discorso di Turno, si accende la discussione, un messaggero annuncia che i Troiani avanzano per assaltare la città. Latino scio-
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Se invece abbiamo ancora risorse, giovinezza ancora intatta, aiuti dalle città e dai popoli d'Italia; se i Troiani han pagato la gloria d'aver vinto col sangue (contano pure loro i cadaveri a mucchi: la tempesta ha infuriato per tutti, imparzialmente), perché arrenderci al primo rovescio, senza onore? Perché ci coglie un tremito di paura ancor prima che squillino le trombe? I giorni, l'alterna vicenda del mutevole tempo spesso volsero in meglio molte cose: tornando di volta in volta diversa la Fortuna ha dduso molti per poi di nuovo risollevarli in alto. Non avremo l'aiuto di Diomede e di Arg{ripa, ma abbiamo quello dei capi mandati da tanti popoli come Messapo e il fausto Tolunnio: molta gloria verrà presto agli eroi dd Lazio e delle campagne di Laurento. E c'è anche Camilla della gente famosa dei Volsci, coi suoi cavalieri e la sua fanteria rilucente di bronzo. Se poi, infine, i Troiani vogliono in campo me solamente, e voi pure lo volete, se tanto son d'ostacolo al bene comune: la Vittoria non fugge le mie mani, non è cosi nemica da farmi rifiutare qualsivoglia pericolo per il premio che spero! Andrò incontro ad Enea audacemente, fosse prestante come Achille, e portasse armi uguali, forgiate da Vulcano. Ho consacrato la vita a voi e al re Latino, io, Turno, non secondo per valore a nessuno degli eroi d'una volta. - Enea sfida me solo? lo prego che mi sfidi! Non voglio che sia Drance a morire al mio posto, se ndla loro ira questo vorranno i Numi, o a vincere superbo, se il valore e la gloria cosi decideranno».
Enea muove l'assalto a Laurento glie il consiglio, i vecchi, che speravano la pace, sono sconvolti, i giovani corrono impazienti alle armi, Turno, 'o-
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me comandante supremo, dopo aver rivolto alcune parole sarcastiche a coloro che discutono, mentre i nemici as-
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Discordi tra di loro, turbati, discutevano la situazione incerta: intanto Enea levava il campo conducendo l'esercito a combattere. Ed ecco diffondersi con chiasso nella reggia, riempiendo di terrore la città, la notizia che i Troiani e l'esercito etrusco si distendono per tutta la campagna, calando giu dal Tevere in ordine di battaglia. Subito tutti gli animi ne furono sconvolti e il popolo agitato, la collera spronata con violenza. In gran furia ogni braccio vuole armi: fremendo chiedono armi i giovani, ma i vecchi piangono mormorando. Dappertutto si leva un discorde clamore: come quando talora stormi d'uccelli calano sopra un bosco profondo, o schiamazzano i cigni sul fiume peScoso di Padusa e ne echeggiano le paludi. « Suvvia - dice Turno, cogliendo l'occasione - riunite l'assemblea, cittadini, e lodate la pace standovene a sedere: gli altri assaltano il regno con le armi! ». Si alzò subito, senza altro dire, e corse via dal palazzo. «Tu, Vòluso, comanda che i manipoli volsci saltano la città, abbandona l'aula e dà rapidi ordini agli altri condottieri per la difesa e l'arresto dell'esercito di Enea. Il re si ritira nelle sue stanze; la regina Amata e la figlia Lavinia si recano con le matrone di Laurento a pregare nel tempio di Pallade. Turno s'incontra sulle porte con Camilla, alla quale affida il comando della cavalleria, mentre egli si reca sui monti a cogliere il nemico in un'imboscata. 555-556. discutevano la situazione, ecc.: l'assemblea era indecisa sulla decisione da prendere, e i partigiani della pace e i fautori della guerra discutevano animatamente tra loro. 556-557. levava il campo,
ecc.: di qui fino al verso 618 la narrazione può essere considerata come un intermezzo fra l'assemblea dei maggiorenti e la nuova azione bellica che ha per protagonista Camilla, l'eroina dell'Eneide. 560. si distendono: il verbo fornisce l'immagine di un esercito che avanza manovrando; e in tal caso per cingere d'assedio la città di Lau· rento, oppure per assumere uno schieramento idoneo ad affrontare il nemico in campo aperto. 561. calando giù dal Tevere: avanzando dal Tevere. Il testo latino è « a flumine descendere », ma « descendo », che indica veramente l'atto del discendere da un luogo più elevato ad un luogo più basso, si usa anche
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per esprimere l'azione dell'avanzare, dell'avvicinarsi. .56.5-.566. fremendo chiedono armi, ecc.: mentre i giovani sono impazienti di combattere, gli anziani sono rattristati; essi speravano la pace ed ora, considerando la gravità della si tu azione militare, temono che le condizioni si aggravino con la disfatta totale. .570. sul fiume ... di Padusa: è l'attuale Po di Primaro, un tempo ricco di pesce. .571-.574· Suvvia, dice Turno, ecc.: sono parole che, pronunciate alla notizia dell'avvicinarsi alla città dell'esercito troiano e rivolte all'assemblea da Turno, hanno tutte le caratteristiche di essere parte integrante del suo discorso: «Ecco, cittadini, giunto proprio il momento idoneo per radunare l'assemblea e discutere la pace! ». L'ironia è più che evidente; il momento adatto a parlare di pace non è certo quello in cui il nemico si prepara ad assai tare la città. 576-582. Tu, Vòluso, ecc.: Turno, come comandante su-· premo, impartisce gli ordini ai comandanti: a Vòluso (il nome è etrusco), comandante dei Volsci, affida anche le modeste schiere dei suoi Rutuli; a Messapo (VII, 79~), a Cora e a suo fratello Catillo (VII, 770) ordina di spiegare la cavalleria nella vasta pianura; e a questi comandanti assegna anche la difesa delle mura di Laurento con una parte dell' esercito, che non è cavalleria, inadatta all'azione difensiva; il resto delle schiere formerà una colonna mobile che, al comando diretto di Turno, svolgerà un'azione offensiva
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secondo gli ordini che egli poi impartirà. 588. spontaneamente: di sua iniziativa. Però aveva accolto amichevolmente l'ambasceria, e aveva invitato Enea a recarsi di persona nella sua reggia (VII, 305
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e sgg.).
590-591. La buccina ... dell'attacco: la tromba dà il segnale della battaglia sanguinosa. « Buccina » era uno strumento a fiato, simile al corno da caccia, in uso presso l'esercito romano. 6o2. Vergine Tritonia: è uno dei nomi attribuiti a Pallade, dal nome del fiume Tritone della Beozia o di quello omonimo della Tessaglia, oppure dal lago Tritone della Cirenaica, presso uno dei quali si asseriva che la dea fosse nata. 6o3. del predone frigio: di Enea, che da Troia e quindi dalla Frigia, regione dell'Asia Minore, cui appartiene anche la Troade, è venuto in Italia ad impadronirsi con la forza delle terre dei Latini. Così l'aveva chiamato anche Mesenzio (X, 967) e la regina Amata (VII, 4n). 6o6-6o7. spinoso ... di bronzo: la corazza con le sue piastre di bronzo dava l'impressione di essere irta di spine. 612-618. come quando un un cavallo, ecc. : la bella similitudine non è originale; Virgilio l'ha tradotta da Omero quasi alla lettera.
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e conduci in battaglia anche i [Rutuli. Tu Messapo, e tu Cora, insieme a tuo fratello, spiegate i cavalieri per la vasta caopagna. Parte del nostro esercito difenderà le porte della città, occupando le torri; tutti gli altri mi seguiranno in armi dove lo ordinerò». Dall'intera città ci si affretta alle mura. Anche il padre Latino abbandona il consiglio e le deliberazioni lasciate a mezzo: triste per quanto avviene aggiorna la riunione, incolpandosi di non aver voluto accogliere nel regno Enea, spontaneamente, facendolo suo genero. C'è chi scava trincee davanti alle porte o trascina sassi e travi. La buccina rauca suona il segnale cruento dell'attacco. Ed allora persino i fanciulli e le donne presidiano le mura: il pericolo estremo chiama tutti alle armi. Intanto la regina, sul carro, sale al tempio di Pallade, alla rocca, scortata da un ·corteo di matrone, portando offerte: accanto a lei - gli occhi pudicamente abbassati - è Lavinia, la fanciulla che è causa di tanta sventura. Le donne entrano e spargono il fumo dell'incenso nel tempio; dalla soglia elevano preghiere tristi: «O Dea della guerra, potente nelle armi, o Vergine Tritonia, infrangi di tua mano la lancia del predone frigio, stendilo al suolo quant'è lungo ed abbattilo sotto le alte porte». Turno, furioso, s'arma in fretta per la guerra. Vestito della corazza luccicante, spinoso tutto di squame di bronzo, ha già i polpacci stretti negli schinieri d'oro, la spada cinta al fianco, ma la testa ancor nuda. Scendeva dalla rocca di corsa, tutto lucido d'oro giallo, e esultava di gioia e di speranza pensando alla battaglia: come quando un cavallo, spezzati i lacci, fugge libero finalmente dalla stalla e slanciandosi per l'aperta campagna galoppa verso i pascoli e i branchi di giumente, o si getta nel fiume in cui da tempo è solito tuffarsi e baldanzoso
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nitrisce, eretto il capo superbo, la criniera che gli scherza sul collo, gli ondeggia per le spalle. Di corsa gli va incontro la vergine Camilla seguita dai suoi Volsci: l'eroina discende d'arcione proprio innanzi alle porte, e imitandola i suoi soldati balzano a terra da cavallo. « O Turno - dice - se il forte ha fiducia in se stesso a buon diritto, oserò, te lo prometto, assaltare da sola gli Eneadi e i cavalieri etruschi. Lascia a me ed ai miei l'onore dell'attacco; tu difendi la rocca, fermati sotto le mura». Turno a queste parole, fissi gli occhi alla vergine terribile, risponde: «Vergine, gloria d'Italia, come potrò ringraziarti, e come ricambiarti? Ma poiché il tuo coraggio è superiore a tutto ti prego di dividere l'onere dell'impresa con me. Stando alle voci, ma anche alle notizie dei nostri esploratori, Enea ha mandato avanti i reparti leggeri della cavalleria a battere la campagna; mentre lui, attraverso le ardue solitudini del monte, scavalcando cime e vallate, punta dritto sulla città. Gli tenderò un agguato sul sentiero tortuoso che attraversa la selva, chiudendone i due sbocchi coi miei soldati. Tu affronta in campo aperto la cavalleria etrusca. Saranno con te il feroce Messapo, gli squadroni latini e quelli di Tiburto: assumine il comando! » Cosi disse e, esortati egualmente Messapo e i capitani alleati, si avvia contro il nemico. S'apre tra le montagne una valle sinuosa, 619. la vergine Camilla: Camilla, principessa dei Volsci e alleata di Turno (VII, 922). 623-627. O Turno, dice, se il /urte, ecc.: « se l'uomo forte ha giustamente fiducia in se stesso, ho il coraggio e m'impegno di andare sola contro il nemico. Lascia a me e ai miei cavalieri l'onore di affrontare i primi pericoli ». Sono parole coraggiose, degne di una donna abituata alla lotta e al ri-
schio. Esse pos~onu sembrare presuntuose, ma non lo sono; esse esprimono una fiducia che nasce da sicurezza di sé, che possiede soltanto chi ha sperimentato più volte la sua capacità c il suo valore. 629. terribile: traduce l'aggettivo << horrcnda » latino, che non ha significato cattivo. ma << indica solo l'aspetto marziale della fanciulla, che ispira rispetto e terrore» (G. Garavani).
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63r-633. Ma poiché il tuo coraggio, ecc.: poiché il tuo coraggio è superiore ad ogni rischio, ti prego di dividere con me i pericoli della battaglia. Cioè Turno vuoi dire che il valore di Camilla è tanto grande, che nessun ringraziamento può ricompensarlo. Perciò l'unica ricompensa degna dell'eroina è la sua partecipazione alla lotta per dividere con Turno .i rischi e la gloria. 637-638. le ardue solitudini del monte, ecc.: il Vitali afferma che << il luogo si può facilmente identificare con le alture dette oggi di « Malpasso » o << Castel Decima », per cui passa la strada che dalla Via Ostiense, a circa nove chilometri da Roma, conduce a Castel Porziano. Nella zona piana verso il mare, tra Castel Porziano e il Tevere, avvenne la battaglia equestre; mentre in quella collinosa e boscosa di Castel Decima si sarebbero dovute scontrare le forze di Enea e quelle di Turno; scontro che poi non avvenne, essendo Turno accorso, morta CamiUa, a difesa di Laurento ». Ma è una supposizione, poiché non è possibile trovare lungo la costa tirrena del Lazio un terreno eguale o almeno simile a quello descritto da Virgilio. Perciò è probabile che anche la descrizione di questi luoghi sia invenzione del poeta. 643. Messapo: v. VII, 793 e qui 578. 644. Tiburto: fratello di Cara e di Catillo, fondatore di Tivoli, a cui avrebbe dato il nome (VII, no). 647-659. S'apre tra le montagne, ecc.: il poeta descri-
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ve in questi versi il luogo scelto da Turno per l'imboscata: una conca tortuosa, piena di curve e di angoli nascosti, molto idonei agli agguati. Dominata da ogni parte da monti selvosi, nei quali è facile nascondersi, vi si accede attraverso due passaggi molto insidiosi: dall'uno per mezzo di un sentiero appena tracciato, dall'altro per una gola strettissima. In alto, sulla vetta di una montagna, si distende un'ampia radura nascosta dalle piante e quindi sconosciuta, utile sia per muovere all'assalto, sia per difendersi. In quella radura giunge Turno e vi nasconde i suoi soldati.
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DIANA RACCONTA LA STORIA DI CAMILLA (660-736).-
Diana intanto scorgendo dal cielo il pericolo che corre la sua protetta, Camilla, chiama Opi, una delle sue Ninfe, e dolendori con lei della morte immediata della fanciulla, le racconta la sua storia. Suo padre Metabo, cacciato per la sua prepotenza da Priverno, dove era re, fuggì con la bambina in braccio inseguito dai Volsci e minacciato di morte. Mentre cercava scampo con la fuga, superò il fiume Amaseno gonfio d'acqua scagliando la bimba sull'altra riva chiusa in una corteccia di sughero e legata alla lancia, dopo averla consacrata a Diana. Poi egli passò il fiume a nuoto. Sempre perseguitato e nascosto nei boschi, Metabo allevò la figlia come un maschio, abituandola a sopportare ogni disagio, a cavalcare, a cacciare con l'arco e con altre armi le fiere. &fiutò sempre ogni propo-
piena d'anfratti, molto adatta ad un agguato o a un'imboscata, chiusa d'ambo i lati da un cupo sipario di foreste: per andarvi c'è solo un angusto sentiero che striscia attraverso strettissime gole dall'accesso insidioso. Domina questa valle, in vetta alla montagna, una pianura nascosta: rifugio sicuro sia per chi voglia muovere all'assalto in qualsiasi direzione, sia invece per chi debba resistere, là in cima, ad un attacco, rotolando macigni. Passando per cammini ben noti Tumò giunge a appiattarsi tra i boschi, in quella pianura.
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Nelle case dell'aria frattanto Diana chiamava la rapida Opi, una delle fanciulle divine che la seguono, e con accento triste le diceva: «Camilla, armata inutilmente di frecce come noi, va a una guerra crudde, corre incontro alla morte. ~ la mia prediletta da tanto tempo, non certo per simpatia improvvisa. Metabo, cacciato dal regno per la sua prepotenza, quando parti da Priverno, antica città, fuggendo tra i pericoli della guerra condusse con sé in esilio la bimba che, correggendo appena il nome della madre Casmilla, chiamò Camilla. Tenendola stretta al petto valicava le lunghe giogaie boscose dei monti premuto da ogni parte dai giavdlotti volsci,
sta di nozze e rimase fedele a Diana, che la ebbe cara. Ma ora il su~ destino è segnato, e la de,; non può impedirlo. Ma può vendicarne la morte; e affida questo ufficio a Opi; lei avvolgerà il suo corpo e le armi in una candida nube e li porterà al sepolcro nella sua patria. 66r. Opi: una delle ninfe che formano il corteggio della dea.
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667. Metabo: il padre di Camilla (VII, 924-931). Era stato costretto a fuggire dalla città, di cui era re, per l'odio suscitato dalla sua tirannia (prepotenza). 668. Priverno: città Jel territorio dei Volsci, oggi Piperno, paesotto in provincia di Roma, nel quale esistono ancora numerosi resti della sua antichissima storia. 674-676. premuto da ogni parte, ecc.: da persecutore
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inseguito dovunque dalle squadre volanti del nemico. Ed ecco tagliare la sua fuga l'Amaseno spumoso, gonfio da traboccare, tanta pioggia le nuvole avevano versato. Metabo vorrebbe tuffarsi, ma il caro peso lo frena; teme per la neonata. Mentre pensa al da farsi gli viene all'improvviso un'idea, appena in tempo. Aveva nella mano gagliarda una lunghissima asta che usava in guerra, un vero palo, tutto nocchieruto, di quercia indurita sul fuoco. Avviluppa la figlia nella scorza d'un sughero sdvaggio e la sospende a metà della lancia che brandisce nell'aria gridando alle stelle: - O Vergine Latonia, santa abitatrice delle sdve, consacro al tuo servizio mia figlia. Guarda. Questo è il suo primo contatto con le armi: supplicandoti fugge il nemico per l'aria. O Dea, te ne scongiuro, accogli come tua la mia bimba, che affido al vento incerto! - . Disse, e tratto indietro il braccio avventò il giavellotto. Ruggono le onde, vola sull'impetuoso fiume l'infelice Camilla col sibilo dell'asta. E Metabo incalzato ormai da vicino si tuffa nd gorgo, finché arrivato in salvo strappa via da un cespuglio la lancia con la bimba sana e salva per grazia di Trivia. Da quel giorno mai nessuna città accolse piu Metabo nelle sue mura (e mai lui si sarebbe arreso, d'altra parte, tanto era fiero e indomito): visse la vita dei pastori sui nionti solitari. Tra i cespugli e le macchie intricate nutriva la fanciulla di latte ferino, spremendole il fuggitivo Metabo è diventato un perseguitato. 677-678. l'Amaseno spumoso: la fuga di Metabo è ostacolata dal fiume Amaseno , piccolo corso d'acqua presso Piperno, il quale però per la molta pioggia era in piena fino quasi a traboccare. 679-68o_ tuffarsi: passare sull'altra riva a nuoto, ma
teme per la bambina (la neonata), che porta in braccio (il caro peso). 684. nocchieruto: pieno di nodi e quindi robusto. 686-693. sospende a metà della lancia, ecc.: la lega, avvolta nella corteccia di sughero selvatico, al centro della lancia, in modo che fosse equilibrata e facile ad essere lanciata; e tenendola
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sollevata, pronto a scagliarla oltre il fiume, consacra, con il volto rivol to al cielo (alle stelle), la bambina a Diana e rivolge alla dea una preghiera perché la protegga. - Questo è ... con le armi: legata all'asta, la bimba tocca le armi per la prima volta: pregandoti di concederle il tuo aiuto, fugge il nemico, che ci insegue, attraverso l'aria, cioè scaall'asta. - che affido ... incerall'asta. - che affido .. incerto: che affido all'aria incerta e rischiosa. 695-696. Ruggono le onde, ecc.: sotto, il fiume gonfio d'acqua impetuosa rumoreggia; sopra, nell'aria, l'asta corre così veloce che emette un sibilo. Sono sensazioni di Metabo, che segue con l'animo teso l'asta che vola con la bimba oltre il fiume. - l'infelice Camilla: sventurata, perché espo· sta, così piccola, ad un gravissimo pericolo. 697. incalzato ormai da vicino: mentre i suoi nemici gli sono ormai alle calcagna. 700. Trivia: Diana, chiamata così perché era venerata nei crocicchi, o trivi, delle strade, ma anche perché aveva tre forme con personalità e nomi diversi: Luna in cielo, Diana in terra, Ecate nell'inferno. Diana, divinità italica, era identificata con la greca Artemide. 705. le macchie: le boscaglie. 706-707. di latte ferino: di latte d'un animale selvaggio. Subito dopo chiarisce che si trattava di una cavalla selvaggia. Il particolare vuoi porre in evidenza che la fanciulla crebbe fra gli stenti e in un ambiente selvatico, dove era selvatico perfi-
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no il suo primo alimento, il latte, che non era di una madre amorosa e tenera, ma di un animale non domo. E dò per giustificare il carattere impavido e virile di Camilla. 709-711. le mise subito ... le frecce: Metabo aveva consacrato la figlioletta a Diana, la dea cacciatrice; perciò l'addestra fin da bambina all'uso delle armi proprie della caccia. 713. che le copre la schiena: la pelle di tigre non le pendeva, come avrebbe fatto la tunica, sino ai piedi, ma era molto corta; cosl le permetteva di camminare e di correre liberamente. 715. giavellotti puerili: giavellotti piccoli, adatti alla sua età. 717. la gru strimonia: la gru che vive lungo le rive del fiume Strimone, nella Tracia, allora particolarmente popolato di questi volatili. Ma qui l'aggettivo è fuori luogo; Camilla cacciava in Italia, dove le gru strimonie non avevano l'abitudine di trasmigrare. - il bianco cigno: i cigni non dovevano essere frequenti nel Lazio neppure iri quei tempi antichissimi. Questo ritratto giovanile di Camilla è stato ampiamente imitato dal Tasso nel tratteggiare .il personaggio di Clorinda (Ger. Lib., canto II, 39 sgg.), ma è servito anche ad altri poeti per le loro donne guerriere, come all'Ariosto per Bradamante e so· prattutto per Marfisa. 718-72 I. Nelle città tirrene, ecc.: nelle città etrusche, dove Metabo si era alla fine rifugiato con la figlia. Quivi molte madri avrebbero ambito Camilla come nuora,
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sulle labbra le poppe d'una cavalla selvaggia. Appena stette ritta sulle tenere piante dei piedi, barcollando, le mise subito in mano un giavellotto aguzzo e le appese alla spalla l'arco e le frecce. Invece dd fermaglio dorato per i capd]i, invece della tunica porta una pelle di tigre che le copre la schiena. Sin da allora scagliava con la piccola mano giavellotti puerili, roteava la flessibile correggia della fionda attorno alle tempie abbattendo la gru strimonia e il bianco cigno. Nelle città tirrene invano molte madri la vollero per nuora: fdice di serbarsi al culto di Diana, osserva intemerata l'amore delle armi e della castità. Ah, non fosse mai stata attratta a quest'impresa e mossa a provocare i Troiani: sarebbe la piu cara di tutte le mie amiche, ora e sempre! Ma via, poiché è sospinta da un avverso destino, scendi dal cido. o Ninfa, arriva sino al Lazio dove sta cominciando la battaglia fatale. Prendi le armi e cava dal turcasso una freccia vendicatrice: chiunque- nato a Troia o in Italia offenderà quel sacro corpo d'una ferita, dovrà pagame il fio col suo sangue. Piu tardi avvolgerò il cadavere e le armi (che non voglio
per la sua semplicità e il suo spirito guerresco, molto apprezzati dagli Etruschi. Ma Camilla (non si dimentichi che è Diana che racconta) ha voluto serbarsi pura per il suo amore inestinguibile delle armi e per la sua con· sacrazione al culto di Diana, che esige la verginità. 722-724. Ah, non fosse mai, ecc. : quanta apprensione e quanto dolore in queste parole della dea per la sua impotenza di evitare la morte alla sua protetta! 726. O Ninfa: Diana non potendo opporsi al destino, dà alla ninfa Opi l'incarico
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di vendicare la morte di Camilla. 729. nato a Troia o in Italia: Troiano o lta!ic:J. Ma gli ltalici, nemici di Enea non potevano uccidere Camilla. Forse intende gli Arcadi o gli Etruschi, che militavano a fianco dei Troiani. 730. quel sacro corpo: il corpo di Camilla, « sacro ,. perché consacrato a Diana. 732-733. che non voglio, ecc.: era costume che il vincitore si impadronisse delle armi del vinto, ma Diana vuole che Camilla non sia toccata, benché morta, neppure nelle armi.
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siano preda d'alcuno) in una concava nube, li porterò al sepolcro, li renderò alla patria •· Disse, e la Ninfa volò per l'aria leggera dd cido fra uno strepito d'armi, avvolta in un turbine buio.
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Intanto l'armata troiana si avvicinava alle mura, coi comandanti etruschi e la cavalleria divisa in squadroni eguali. Per tutta la pianura fremono scalpitanti i cavalli e rduttano caracollando al morso, volteggiano qua e là in un fragor di zoccoli. La campagna all'intorno è spaventosamente fitta di lance, i prati scintillano di armi levate alte nel sole. Sul fronte contrario si presentano in campo Mes~apo coi vdoci Latini, i due fratelli Cora e Catillo e l'ala guidata da Camilla. Si fa piu fitto il rombo dei cavalli e degli uomini che arrivano puntando le·lance ed agitando i giavellotti, col braccio destro tratto già indietro. Giunti a un tiro di lancia gli eserciti si fermano: erompono ad un tratto in un urlo, spronando i cavalli furenti: scagliano da ogni parte un nugolo di dardi fitti come la neve: il cido si copre d'ombra. I primi ad affrontarsi LE PRODEZZE DI CAMILLA
La cavalleria etrusca, rinforzata da Arcadi e da Troiani, e comandata da Tarconte, avanza verso le mura di Laurento e si scontra con quella latina. I Latini sono ricacciati sotto le mura, ma poi riprendono coraggio e mettono in fuga gli avversari... La battaglia si svolge violenta con esito alterno; tutta lo pianura è uno scalpitare di cavalli e un ondeggiare di lance. In mezzo alla mischia infuria Camilla, circondata dal gruppo delle sue compagne munite di arco e di frecce; e molti ne (737-893). -
abbatte ora scagliando dardi ora manovrando la bipenne. Tra questi l'etrusco Ornito, e un ligure figlio di Auno: il primo, un cacciatore vestito di strane pelli, al quale Camilla rinfaccia il suo atteggiamento selvaggio e la boriosa vanagloria etrusca; il secondo, sventando l'astuzia, alla quale era ricorso per sfuggire alla bellicosa fanciulla.
74o-741. reluttano caracol· lando, ecc.: trotterellando si ribellano al morso, cioè alle redini tenute ferme dai cavalieri.
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744- levate alte nel sole: i cavalieri sollevano in alto le !ance per l'assalto, e le !ance, riflettendo i raggi del sole, mandano bagliori. 746-747. Messapo: condottiero etrusco, alleato di Turno, già più volte ricordato (643). - Cora e Catillo: v. 578 e VII, 770 e sgg. e nota. - l'ala guidata da Camilla: i cavalieri comandati da Camilla. Il poeta usa anche per l'esercito la terminologia romana; infatti la cavalleria romana si divideva in « aie » e queste in « torme ». L'ala aveva la forza di trecento cavalieri, la torma di trenta. Un'ala quindi era composta di dieci torme. Ora il termine « ala » è rimasto ad indicare i lati destro e sinistro dello schieramento. 750. col braccio... indietro: col braccio destro pronto a vibrare il colpo. 753·755· scagliano da ogni parte, ecc.: dall'uno e dall'altro schieramento, non però dai cavalieri lanciati all'assai to con le la nce in resta, ma da arcieri a cavallo schierati in seconda fila. Questo lancio di frecce potrebbe essere paragonato, per il fine a cui tende. ai tiri di appoggio e d'interdizione, in collaborazione con le truppe mosse all'attacco, dell'artiglieria moderna. Il paragone fra i dardi, che velocissimi portano morte, e i fiocchi di neve che cadono placidi e innocui, sembra inadatto, poiché i due elementi concordano soltanto nella caduta dal cielo in grande quantità. Ma Virgilio, annota acutamente il Garavini, « ha un'anima sensibile e tenera. a cui anche le scene di morte
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suggeriscono immagini dolci e serene». 756. Ti"eno ... Aconteo: il primo, evidentemente, etrusco, il secondo latino; ma ambedue del tutto sconosciuti. 75 8. i petti... si sfracellano: prima dei petti si sfracellano le teste; perciò l'immagine indica genericamente che i cavalli, urtandosi fra loro, si sfracellano. 76r. da una macchina: da una macchina da guerra, come la catapulta o la balista. - e esala per aria, ecc.: e muore, disperdendo nell'aria l'ultimo respiro. L'immagine è retorica e poco efficace. 762-763. gettando sulle spalle gli scudi: nella fuga gli scudi non servono più a difendere il petto, mentre possono difendere il dorso dalle frecce. 764-774. con Asila in testa: con Asila davanti a tutti. Asila è un comandante etrusco, già ricordato nel canto X, 222 e sgg. Nota come, nonostante il continuo accenno a particolari, la descrizione non perda mai di vista l'ampiezza della battaglia, specialmente nella rappresentazione dei movimenti alterni delle cariche e delle fughe, che suggerisce al poeta la similitudine del flusso e riflusso del mare sulla spiaggia. Questa capacità di descrivere la battaglia nel suo aspetto generale, cogliendo i movimenti delle masse combattenti e i momenti felici o disgraziati delle parti in lotta, distingue nettamente Virgilio da Omero che fraziona sempre ogni battaglia in combattimenti individuali. 778-784. al terzo assalto, ecc.: al terzo assalto i due
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sono Tirreno e il forte Aconteo, con la lancia in resta. Nd terribile scontro le armi risuonano, i petti dei cavalli s'urtano e si sfracdlano. Sbalzato dalla sdla, Aconteo va a cadere lontano, come un fulmine o un macigno scagliato da una macchina, e esala per aria la sua vita. Sc;onvolte le ordinanze, i Latini, gettando sulle spalle gli scudi, fuggono a briglia sciolta verso le mura; inéalzano i Teucri, con Aslla in testa. Ma vicino alle porte i Latini levano un grido di guerra e voltano i cavalli: tocca agli altri fuggire ritirandosi jn fretta, Cosi il mare che avanza con B.usso alterno: irrompe spumoso verso terra lanciando i cavalloni al di là degli scogli o lambendo la sabbia con un orlo di schiuma lunghissimo e sottile, e poi fugge all'indietro, rapido, nd risucchio dei sassi rotolati dalla corrente, e lascia rifluendo la spiaggia. Per due volte gli Etruschi ricacciano i Rutuli sin quasi alle mura, per due volte, respinti, fuggono proteggendo le spalle con gli scudi. Finalmente, arrivati al terzo assalto, tutte le file dei due eserciti si impegnano, si mescolano, si confondono: ogni uomo sceglie il proprio avversario. Allora si che ferve la battaglia, feroce; allora si che si alzano le grida dei morenti, ed i corpi, le armi, i cavalli feriti (macabro carosello della morte!) sprofondano in un lago di sangue. Orsiloco venuto alle prese con Remolo, pauroso di affrontarlo, lanciò il giavellotto contro il cavallo nemico, piantandogli ndl'orecchio tutto il ferro. S'impenna furioso per il colpo insopportabile, scalda in aria ergendo il petto;
eserciti si azzuffano in una mischia feroce. Il numero dei caduti è grande; e morti e feriti sguazzano in un lago di sangue. 785-800. Orsiloco venuto alle prese, ecc.: seguono alcuni episodi: Orsiloco, troiano, si scontra con Remolo,
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latino, e per paura gli uccide barbaramente il cavallo: atto volgare e ingeneroso, anche se imposto dalla difesa. Nel Medio Evo era considerato addirittura disonorante, come afferma l' Ariosto: « era perpetuo fallo - e biasmo eterno a chi fe-
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ed il suo cavaliere sbalzato dall'arcione rotola nella polvere. Catillo abbatte Iolla e il coraggioso Erminio: uomo violento, forte, la bionda chioma al vento, il petto nudo, a sprezzo dei dardi benché il grande torace sia un bersaglio eccellente. E la lancia vibrata da Catillo gli trema fra le spalle, Io piega in uno spasimo di dolore. Nerissimo cola il sangue: i guerrieri seminano la morte a suon di spada e cercano la bella morte, la gloria di cadere in battaglia. In mezzo alla strage trionfa .Camilla con un fianco scoperto per combattere meglio, come le Amazzoni, cinta della faretra. Scaglia un mucchio di veloci giavellotti, poi ruota con mano sicura una salda bipenne: le suona in spalla l'arco dorato di Diana. Anche quando è costretta a battere in ritirata si volge indietro e scocca molte rapide frecce. L'attorniano le amiche piu care: la fanciulla Larina, Tuiia e Tarpeia che vibra la scure di bronzo, tutte giovani italiche che la divina Camilla ha scelto di persona come guardie d'onore ed ancelle fedeli tanto in pace che in guerra: cosi le Amazzoni tracie passano di galoppo sul Termodonte ghiacciato combattendo con le armi dipinte, o con selvaggio clamore si stringono intorno a lppolita o intorno a Pentesilea che ritorna ria il cavallo» (Orl. Fur., XXVIII); Catillo, fratello di Cora (VII, 770 e sgg.), uccide Iolla ed Erminio, il temerario che combatte senza elmo e a torso nudo. La strage è grande e i guerrieri dell'una e dell'altra parte combattono impavidi, incuranti dei pericoli. Cosi con rapidi tocchi Virgilio descrive l'accanimento con il quale tutti i combattenti cercano la vittoria. 8o3. come le Amazzoni: giustamente il poeta paragona Camilla, che combatte
eroicamente con un fianco scoperto, alle Amazzoni che si recidevano la mammella destra per maneggiare più agevolmente l'arco. Le Amazzoni furono un popolo favoloso di donne guerriere, originarie della Tracia, ma aventi sede e regno nella Cappadocia (Asia Minore orientale), lungo le rive del fiume Termodonte. La mitologia ricorda molte imprese di queste intrepide donne guidate dalle regine lppolita e Pentesilea, figlie di Marte.
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8o3-8o6. Scaglia un mucchio, ecc.: anche Camilla, come le Amazzoni, per usare meglio l'arco ha un lato del petto scoperto; ma si serve anche di altre armi: di giavellotti, della bipenne (specie di scure a doppio taglio). A tracolla ha la faretra (astuccio di cuoio, in cui riponeva le frecce), e in spalla l'arco dorato, che il poeta dice di Diana, perché arma preferita dalla dea cacciatrice. 8xo-8x9. Larina, Tutta e Tarpeia, ecc: sono le compagne di Camilla, sue valenti aiutanti in pace e in guerra: Laria, da « Lases >>, nome di un dio etrusco, dal quale derivò il latino « Lares »,le divinità domestiche; Tulla, nome latino, che appartenne al re Tullo Ostilio e alla famiglia dei Tuili; Tarpeia, nome di origine etrusca dato anche alla rupe capitolina, dopo che Tarpeia, la figlia di Spurio Tarpeio, consegnò la rocca al re sabino Tito Tazio (VIII, 405406). Non risulta però che presso qualche popolo italico le donne potessero prendere parte alla guerra, e si può escludere in modo assoluto che tale costume sia esistito nella storia di Roma. così le Amazzoni tracie, ecc. : questo paragone delle compagne di Camilla alle Am,tzzoni, ricco di reminiscenze erudite, appesantisce il racconto senza portargli giovamento. - Ippolita: figlia di Marte e regina delle Amazzoni, osò affrontare Ercole, che la uccise. Secondo un'altra leggenda sarebbe stata vinta da Teseo e fatta sua sposa. - Pentesilea: altra regina delle Amazzoni
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anch'essa figlia di Marte. Secondo la leggenda, avrebbe partecipato alla guerra di Troia come alleata dei Troiani e sarebbe stata uccisa da Achille. - gli scudi lunati: piccoli scudi a forma di mezza luna, adoperati per riparare la parte scoperta del petto. 820-834. O vergine terribile, ecc.: sono qui narrate le gesta di Camilla: l'uccisione di Ennèo, trafitto con l'asta; di Liri, caduto da cavallo; di Pàgaso accorso in aiuto del compagno; ed ancora di altri guerrieri, d'invenzione del poeta, tutti di lancia, ché la vergine Camilla « quante aste scaglia ... tanti eroi frigi cadono ». 835-850. Avanza il cacciatore, ecc.: Ornito, cacciatore etrusco di statura gigantesca, stranamente vestito e armato, quando incontra Camilla fugge sul suo velocissimo cavallo pugliese, la fanciulla lo insegue e l'uccide, commentando la sua morte con parole che rivelano nella giovane guerriera un'acre ostilità contro gli Etruschi. per mano d'una donna: nota il sarcasmo della frase, che attribuisce a Ornito e agli Etruschi in genere probabili giudizi oltraggiosi sulle donne combattenti, e soprattutto vuoi colpire l'altezzosità di quel popolo che, più civile degli altri, li disprezzava. sei caduto... Camilla: sono parole orgogliose, e sulla bocca di una donna, che ha superato in valore un uomo, l'orgoglio può essere anche legittimo; ma qui l'orgoglio diventa sarcasmo, poiché non vanto, ma disonore è per Ornito l'essere caduto per mano di Camilla, che
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vittoriosa, marziale sul suo cocchio, e salutano levando in trionfo gli scudi lunati. O vergine terribile, chi hai ucciso per primo con l'asta, chi per ultimo? Quanti guerrieri hai steso a terra moribondi? Il primo ad affrontarla è Ennèo, figlio di Clizio, al quale pianta in petto la lunga asta d'abete. Egli cade, torcendosi sulla ferita, e vomita fiumi di sangue e morde la terra insanguinata. Camilla uccide ancora Liri e Pàgaso: il primo, caduto da cavallo, mentre sta per riprendere le redini; il secondo mentre corre in aiuto di Liri e gli tende la destra disarmata. Muoiono tutti e due insieme. E abbatte Amastro lppotade, ed avventa da lontano la lancia su Tèreo, Demofoonte, Cromi e Arpàlico: quante aste scaglia la vergine tanti eroi frigi cadono. Avanza il cacciatore Ùrnito, su un cavallo pugliese, stranamente armato: sulle larghe spalle porta il gran cuoio d'un toro selvaggio, in capo ha un elmo fatto con una testa di lupo dai denti bianchi, in mano uno spiedo di quelli che usano i contadini. L'uomo enorme, piu alto di tutti d'un buon palmo, s'aggira tra i soldati. Ma Camilla lo insegue e lo acciuffa e lo uccide (senza diffi.coltà, dopo aver messo in fuga i suoi uomini) e dice crudelmente: «O Tirreno, credevi d'andare a caccia di fiere per i boschi? ~ arrivato il momento in cui le tue bravate dovevano finire per mano d'una donna. Pure riporterai ai Mani dei tuoi padri una gloria non lieve: sei caduto trafitto dall'asta di Camilla! » E uccide Orsiloco e Bute, due dei piu forti eroi teucri. Colpisce Bute alle spalle, infilandogli la punta tra corazza ed elmo, dove il collo
nonostante la sua fama è pur sempre una donna. 85r-862. E uccide Orsiloco, ecc.: il poeta accenna in questi versi ad altre vittime dell'infuriata Camilla: uccide Bute, infilandogli la spa-
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da nella nuca tra la corazza e l'elmo, senza ch'egli se ne accorga; uccide Orsiloco fingendo di fuggire, e cogliendolo poi improvvisamente alle spalle con un rapido giro di fianco.
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biancheggia, indifeso dallo scudo che pende giu dal braccio sinistro: inganna invece Orsiloco fingendo di scappare, lasciandosi inseguire in un gran giro e poi d'improvviso, tagliato il cerchio, sorprendendo l'incauto inseguitore. Levata sulla sella mena colpi di scure spaccando le armi e le ossa di Orsiloco. Il nemico, ormai battuto, invano la prega di !asciargli la vita: dal suo cranio sprizza caldo il cervello. Camilla s'imbatté nel figliolo di Auno, un bellicoso, astuto ligure, abitatore dell'Appennino, splendido ciurmadore finché il Fato lo permise. Il guerriero, atterrito dalla sua apparizione, si fermò: accorgendosi di non poter sfuggire a Camilla che già gli eia sopra ricorse all'inganno e le disse con astuzia sottile: «Bella forza, o regina, affidarti a un cavallo migliore assai del mio! Rinuncia a un'eventuale fuga e vieni avanti ad armi pari, a1frontami a corpo a corpo e a piedi. Vedrai ben presto il frutto della tua vanagloria! » Infiammata e bollente d'acutissima rabbia Camilla dà il cavallo a una compagna e affronta arditamente il ligure ad armi pari, in mano la spada nuda, al braccio lo scudo senza insegne. Ma il giovane, pensando d'essersela scampata con l'inganno, girato il cavallo gli pianta gli speroni nei fianchi e fugge a briglia sciolta, « Sciocco Ligure, gonfio di inutile superbia, non riuscirai davvero a sfuggirmi con le arti care alla gente tua: la frode non potrà salvarti e ricondurti al truffaldino Auno! » Cosi dicendo Camilla supera come un fulmine - tanto è veloce - il cavallo, lo afferra per il morso e vendica l'offesa col sangue del nemico, agevolmente come uno sparviero, uccello augurale, raggiunge a volo una colomba 863-89~. Camilla s'imbatté, ecc.: è un altro episodio della battaglia che, nelle schiere latine, ha per protagonista Camilla: l'uccisione
del ligure figlio di Auno. La scena è comica e tragica nello stesso tempo. Il ligure, scaltro imbroglione (i Liguri, che ai giorni nostri sono giu·
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dica ti scaltri negli affari, avevano allora la fama di essere « splendidi ciurmadori »), per sfuggire a Camilla ricorre ad una astuzia: invita la giovane guerriera a combattere a piedi. Camilla accetta, scende da cavallo, e il ligure fugge a briglia sciolta. Camilla, irritata per l'inganno, d'un balzo lo insegue velocissima, lo raggiunge, af. ferra il cavallo del ligure per le redini e «vendica l'offesa col sangue del nemico». -- abitatore dell'Appennino: gli antichi Liguri abitavano la costa tirrenica da Luni, presso Marina di Carrara, fino a Marsigli:t, i due versan· ti delle Alpi Marittime e Cozie e un vasto tratto della pianura padana dell'attuale Piemonte. Lo conferma la toponomastica viva tuttora. Galli ed Etruschi li respinsero poi a poco a poco entro un territorio non molto più vasto di quello dell'at· tuale Liguria. - Rinuncia a un'eventuale fuga: questa è la traduzione letterale del te· sto latino (dimitte fugam = rinuncia a fuggire), ma sembra strano che il ligure possa supporre così di Camilla, se egli stesso desidera sfuggirla. Perciò l'interpretazione più attendibile della frase sembra essere: lascia la tua corsa, cioè fermati; la qual cosa si accorda anche con il senso delle altre parole che il ligure rivolge alla guerriera fanciulla. - Sciocco Ligure: sciocco, perché il Ligure non aveva tenuto conto dell'agilità di Camilla, veloce nella corsa pii1 di un cavallo. - uccello augurale: perché dal volo dello sparviero, come di altri rapaci, gli àuguri prevedevano il futu-
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ro. - e tu vedi le piume: la scena drammatica della fine del « figliolo di Auno, un bellicoso, astuto ligure», termina con un altro dramma, che si è svolto nel cielo; ed è un dramma ancor più tragico, perché della povera colomba non rimangono che poche piume e qualche goccia di sangue « che cadono dal cielo ».
librata tra le nubi e l'afferra e la strazia con gli artigli: e tu vedi le piume strappate e le gocce di sangue che cadono dal cielo.
Tarconte, Arunte e la morte di Camilla
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TARCONTE, ARUNTE E LA MORTE DI CAMILLA (8941030). - Giove, che osserva l'andamento della battaglia e vede gli Etruschi in difficoltà, spinge Tarconte, al quale Enea aveva affidato il comando della cavalleria, a rianimare i suoi. Egli, rimproverato gli Etruschi per la loro viltà, si scaglia nel folto della lotta dando esempio di valore, assale Venuto, lo trae giù da cavallo e lo trascina via con sé nella pianura. Spronate dall'esempio del loro comandante, le schiere etrusche riprendono l'assalto con grande vigore. Allora l'etrusco Arunte si mette a spiare le mosse di Camilla, allo scopo di cogliere il momento favorevole per colpirla. L'eroica fanciulla sta inseguendo Cloreo, attratta dalla bellezza delle sue armi frigie e delle sue vesti, per impadronirsene e farsi bella della preda: una vanità femminile improvvisa che assale proprio Camilla, nonostante abbia fin da bambina ignorato ogni ornamento femminile. Arunte vede il momento favorevole, rivolge una preghiera ad Apollo e, mentre la fanciulla è tutta intenta alle splendide armi di Cioreo e non si accorge di nul-
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Il Padre dei Celesti e degli uomini siede sull'altissimo Olimpo e non è indifferente a tanta strage. Spinge nella tremenda mischia l'etrusco Tarconte, eccitandone l'ira. T arconte si scatena ·a cavallo, nel sangue, fra le truppe che cedono; le incita, le incoraggia chiamando ognuno per nome, riconduce in battaglia i fuggiaschi. «O Tirreni, sempre pigri e insensibili all'onta, quale immenso terrore vi attanaglia? Una donna vi sgomina, mettendo in fuga i vostri battaglioni! La spada che ci appendiamo al fianco, la lancia che stringiamo nel pugno a cosa servono? Non siete cosi pigri nell'amore, nel dolce corpo a corpo notturno; né quando il curvo flauto intona le danze di Bacco. Aspettare le vivande e le coppe d'una mensa sontuosa, ecco il vostro piacere, la vostra vocazione:
la, scaglia l'asta e le trapassa il petto. Arunte, lieto e insieme spaventato, fugge. Camilla tenta invano di strappare l'asta dal petto, e morente prega Acca, una delle sue compagne, di esortare Turno a prendere il suo posto nella battaglia, poi allo stremo ormai delle forze, cade dalla sella e muore. 897. Tarconte: capo delle forze etrusche, ha ceduto la direzione della guerra ad Enea, secondo il suggerimento degli aruspici, e comanda la cavalleria. 900. chiamando ognuno per nome: i poeti usano spesso questa formula, quando i soldati cedono di fron-
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te al nemico e il comandante li incita a resistere solleticando il loro amor proprio chiamandoli per nome; ma l'espressione, ovviamente, è irreale: un comandante non può conoscere il nome eli tutti i suoi soldati. Ciò tuttavia non sminuisce il valore poetico dell'immagine e la sua efficacia nell'economia del racconto. 90r. Tirreni: Etruschi. 907. il curvo flauto: simile un po' al nostro sassofono, era usato nelle cerimonie sacre, quindi anche in quelle di Bacco, che si trasformavano più delle altre in divertimenti sfrenati. 910-912. ecco il vostro piacere, ecc.: questa è la t·o-
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finché propizio l'augure indica il sacrificio e la vittima grassa vi chiami in fondo ai boschi!» Quindi spinge il cavallo tra i nemici, deciso a affrontare la morte. Si slancia contro Venulo furibondo, lo strappa dall'arcione e stringendolo a sé lo porta via di gran corsa. Un grido scoppia da tutti i petti e arriva sino al cielo, i soldati latini guardano esterrefatti T arconte, che attraversa di volo la pianura trascinando il guerriero tutto armato. Con polso robusto spezza il ferro della lancia nemica e serrandolo in mano a guisa di pugnale fn1ga negli interstizi della corazza di Venulo cercando di ferirlo mortalmente. La vittima resiste con gran forza, tiene il ferro lontano piu che può dalla gola. Come un'aquila fulva volando in cielo stringe negli artigli un serpente che snoda le sue spire sinuose e si difende alzando il capo, ergendo le squame, sibilando (ma ogni sforzo fallisce, poiché il rapace strazia col becco adunco il rettile che si dimena invano e intanto batte l'aria con le ali maestose): cosi Tarconte porta trionfante la preda rapita dalle file dei Tiburtini. Tutti i Meonidi allora sull'esempio del re si lanciano all'assalto. Arunte, già promesso alla morte, brandendo un giavellotto gira astutamente intorno aJl'ingenua Camilla senza farsi vedere, ed aspetta il momento favorevole a un colpo di sorpresa. Dovunque la furiosa fanciulla si scaglia, silenzioso ed attento la segue Arunte, calpestando le sue orme. Se esce da un vittorioso scontro sa che a voi piace, per la quale vi sentite attratti: attendere che l'augure annunci il rito sacro nei boschi. Allude all'aruspice che esaminava le viscere degli animali sacrificati e, secondo che i segni erano favorevoli
o no, consentiva o proibiva la festa consistente in canti e danze_ 9I3-936- Quindi spinge il cavallo, ecc.: T arconte, rimproverato ed esortato i suoi soldati, dà l'esempio e si spinge con impeto nel folto
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dei nemici. Segue l'episodio di Venulo, il capo dell'amhasceria a Diomede, che Tarconte afferra e porta via di gran corsa in sella con sé e infine uccide. L'azione di Tarconte è dal poeta paragonata a quella di un'aquila che, catturato come preda un serpente, se lo porta via in aria. Il serpente fa ogni sforzo per liberarsi dagli artigli del rapace, ma l'aquila col becco adunco lo strazia. Cosl anche Tarconte porta via trionfante la sua preda dalle schiere dei Tiburtini. Venulo è infatti di Tivoli e appartiene alle schiere di C:itillo. - i Meonidi: sono gli Etruschi, che Erodoto dice originari della Lidia, detta anche Meonia, ma che secondo la critica più moderna sarebbero stati un popolo formatosi dalla fusione di un primitivo nucleo etnico italico con successivi apporti culturali diversi, tra cui avrebbero predominato quello greco e quello orientale. 937-948. Arunte, già promesso alla morte, ecc.: è un guerriero etrusco dei cavalieri di Tarconte, destinato a uccidere Camilla, ma anche ad essere ucciso, perché Diana per mezzo di Opi, sua ninfa, vuoi vendicare su di lui la morte della sua protetta. Egli segue astutamente la giovane guerriera ( « ingenua », perché attirata dalle splendide vesti di Cloreo, non si accorge dell'insidia mortale), e spia l'occasione favorevole per colpirla. calpestando le sue orme: bella immagine che rende con efficacia l'idea di chi insegue una persona senza perderla di vista per un solo istante. Più semplice è il te-
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sto latino, ma altrettanto efficace: « tacitus vestigia lustrat » - senza far rumore (senza farsi scorgere) ne spia le orme. - senz'arrendersi: senza venir meno al suo proposito. 949-965. Accadde che Cioreo, ecc: il troiano Cloreo,
sacerdote di Cibele, con le sue splendide vesti e le sue armi d'oro scintillanti attira l'attenzione di Camilla, e la fanciulla, pur cresciuta nei boschi tra gli stenti e sempre vestita di una semplice pelle di tigre, è assalita da un'improvvisa vanità femminile: impadronirsi della ricca preda. - sacro al monte Cibele: consacrato al culto di Cibele (qui il nome del monte della Frigia, sacro a Cibele, sostituisce quello della dea) e quindi suo sacerdote, quando era in patria. Cibele aveva un culto particolare nell'Asia Minore, presso il monte Dindimo e il villaggio Berecinto. - armi frigie: armi troiane. - color ruggine: la porpora di questo colore è la più cara. - barbarici si:hinieri: sono gambali detti stranieri (barbarici), perché ignoti ai Romani, che portavano le gambe nude. Virgilio dip~ge a colori sgargianti il ritratto di questo pseudo guerriero, pomposamente vestito e tutto luccicante d'oro, come se andasse, non alla guerra, ma ad una festa mondana. 966. Bruciava di femminile voglia: le belle vesti, gli
ornamenti preziosi e le armi scintillanti d'oro hanno destato in Camilla, che non aveva mai pensato alle frivolezze, un'improvvisa vanità femminile. 970-985. Apollo, protetto-
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e s'allontana, il giovane furtivamente volta le briglie e le va dietro: le gira sempre intorno, cercando sempre il modo d'avvicinarla, cauto, senz'arrendersi, e scuote l'infallibile lancia. Accadde che Cloreo, sacro al monte Cibelo e un tempo suo sacerdote, brillasse di lontano di splendide armi frigie, spronando un cavallo schiumoso, ricoperto d'una pelle guarnita di squame di bronzo in forma di piume con belle fibbie d'oro. Lucente di porpora spagnola, color ruggine, Cloreo vibrava frecce gortinie con un arco di Licia, tutto d'oro; aveva un elmo d'oro, e un nodo d'oro fulvo gli chiudeva la clamide di lino giallo, frusciante di pieghe sulla ·tunica ricamata e sugli alti barbarici schinieri. La fanciulla va in caccia ciecamente del fulgido sacerdote, lo insegue attraverso la folla dei combattenti, vuole lui solo in mezzo a tanti; o per portame le armi in offerta agli Dei o forse per ornarsi di tanto oro. Bruciava di femminile voglia per quella bella preda e non pensava ad altro, incauta. Ed ecco, Arunte cogliendo l'occasione avventa a tradimento l'asta e 'invoca i Celesti: « Apollo, protettore del santo Soratte; grande Dio che onoriamo piu di chiunque: tu cui sale la vampa del rogo di pini sul quale noi montiamo adorandoti, certi della tua ccmpassione, calcando i nostri passi attraverso k fiamme sull'alta brace: Padre onnipotente, fa che l'arma mia cancelli
re, ecc.: Apollo, protettore del tempio di monte Soratte (ora San Oreste), poco lontano a nord di Roma, presso la riva destra del Tevere. Gli Etruschi vi adoravano il dio Sorano, che più tardi fu identificato con Apollo; e i sacerdoti addetti al suo culto, fra i quali era anche Arunte, nel giorno della sua
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festa camminavano a piedi nudi su carboni accesi. Varrone dice che si ungevano i piedi con una sostanza speciale, che li difendeva dal fuoco. Questa stranezza ha attirato l'attenzione di scienziati, i quali, fatto l'esperimento, preparato con molta cura, conclusero che non è possibile camminare sul fuo-
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quest'obbrobrio! Non chiedo le spoglie né il trofeo della vergine uccisa né alcuna preda: altre saranno le gesta che mi daranno gloria! Mi basta ritornare in patria senza lodi, purché questo flagello muoia per la mia mano». Febo l'udf e permise che una parte del voto andasse a compimento, ma l'altra la disperse, la scompigliò nd cido: acconsenti a che Arume uccidesse Camilla di sorpresa, proibi che la sua patria illustre lo vedesse tornare. Quest'ultima preghiera la rubarono i venti. Il giavellotto di Arunte ronzò attraverso l'aria: i Volsci trepidarono e rivolsero gli occhi alla regina. Lei non s'accorse di nulla, né dell'aria percossa né dd fischio dell'asta che scendeva dall'alto, finché velocissima s'jnfisse sotto il seno scoperto e penetrando profondamente bevve quel sangue verginale. Accorrono tremando le compagne e sorreggono la loro signora che cade. Esterrefatto per la gioia e il terrore Arunte fugge via e non osa affidarsi di nuovo alla sua lancia affrontando Camilla. Come un lupo che - ucciso un pastore od un grosso giovenco- ben sapendo d'averla fatta grossa scappa alla disperata prima che i giavellotti lo inseguano, smarrito, senza riposo, in cerca d'un rifugio sui monti, e nasconde la coda tra le gambe e s'interna nei boschi: cosi Arunte si sottrasse sconvolto agli occhi dei nemici confondendosi in mezzo agli armati, felice d'essersi posto in salvo. Camilla muore: tenta di strapparsi dal petto la lancia, ma la punta di ferro è piantata profondamente in mezzo alle costole. Esangue vacilla, i suoi occhi si spengono nel gelo della morte, il suo volto rosato impallidisce. Spirando si rivolge ad Acca, la piu cara delle compagne, la sola confidente di tutti i segreti, e le dice in un sussurro: «O Acca, sorella mia, non posso ... piu ... Mi finisce l'aspra ferita ... Tutto, intorno, affonda nelle tenebre... Corri da Turno, portagli quest'ultimo messaggio:
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co senza danno. - quest'obbrobrio: l'onta di essere vinti da una donna. - il trofeo: v. la nota al verso 8. - questo flagello: Camilla, che mena strage tra le file dei Troiani e degli Etruschi. 99o-994. Lei non s'accorse di nulla: tanto era attratta ·dal desiderio d'impossessarsi delle armi e delle vesti di Ooreo, che non si accorse né di Arunte e del giavellotto da lui scagliato, né udì il rumore prodotto dal proiettile nell'aria. Cosl l'asta a~ivò inaspettata e velocissima a trafiggerle il petto scoperto. 996-1007. Esterrefatto per la gioia, ecc.: la gioia d'aver ucciso Camilla e il senso di colpa d'aver compiuto l'azione con l'inganno, ma anche il terrore che la giovane guerriera sia ferita leggermente e possa ritornare alla riscossa, lo turbano profondamente; e non si sente più in grado di usare le sue armi. Con questa tempesta nel cuore comincia per il guerriero etrusco la vendetta di Diana. Arunte, sconvolto e impaurito, si sottrae alla vista dei presenti e fugge, mescolandosi tra la folla dei guerrieri, come un lupo, che dopo aver ucciso un pastore o un grosso giovenco, si rifugia sui monti e si nasconde nei boschi. 1016-1020. non posso ... più ... , ecc.: sono gli ultimi istanti di vita di Camilla, mortalmente ferita; e la morente, mentre le cose intorno le si oscurano, incarica la fedele Acca di portare a Turno il suo ultimo messaggio: che salvi la città dall'assedio dei Troiani, prendendo il suo posto nella battaglia.
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Canto undicesimo
1026. la sua vita sdegnosa: anche dopo la morte Ca-
milla conserva Io spirito aggressivo, proprio del suo carattere virile; ma il termine <( indignata » del testo latino, tradotto con «sdegnosa », potrebbe anche significare sdegno « per dover abbandonare cosl presto la vita, o di essere stata uccisa di sorpresa da una persona a lei inferiore. In ogni modo, nei poemi pagani, con questo atteggiamento le anime abbandonano la vita» (G. Garavani). LA
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La vendetta di Diana
DIANA
(IOJ1-I068).- Morta Camil-
la, Opi si accinge a portare a compimento l'ordine di Diana. Si nasconde dietro un sepolcro e spia il passaggio di Arunte. Quando la Ninfa vede passare lieto e superbo l'uccisore di Camilla, lo ferma e con parole acerbe gli annuncia che Diana vuole la sua morte; e teso l'arco con tutta la sua forza, lascia partire la freccia e lo trafigge. I compagni di Arunte lo abbandonano rantolante nella polvere, senza curarsi di lui; Opi ritorna all'Olimpo.
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1034-I040. tra il grido e l'ardore, ecc.: fra le grida dei
giovani guerrieri, che combattevano furiosamente.
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1038-1040. E a nulla t'ha servito, ecc.: non ti ha gio-
vato per evitare la morte, né l'essere consacrata a Diana e onoraria andando a caccia nelle selve, né il portare le frecce che, come Diana, noi ninfe seguaci della dea portiamo nelle nostre faretre. 1042-1044. non vuole ... invendicata: non vuole che tu
sia morta col disonore di essere vendicata; cosi la
n;'!l
venga a sostituirmi, allontani i Troiani dalla città in pericolo ... E adesso addio». Ciò detto abbandonò le redini, scivolò dalla sella, si accasciò sul terreno, diventò poco a poco sempre piu fredda. Infine reclina il collo languido e la testa già invasa dalla morte, lasciando cadere al suolo le armi. Con un acuto gemito la sua vita sdegnosa cala giu tra le Ombre. Allora un immenso clamore va sino alle stelle dorate: abbattuta Camilla la lotta si fa terribile, l'esercito troiano, i capitani etruschi e i cavalieri arcadi si lanciano all'assalto.
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Adempiendo l'incarico avuto da Diana Opi sedeva in vedetta in cima a una montagna assistendo impassibile alla battaglia. Appena vide Camilla falciata dalla morte, tra il grido e l'ardore dei giovani guerrieri, pianse e disse profondamente commossa: <(Ahi, vergine, tu paghi davvero amaramente la guerra che hai portato ai Troiani! Ed a nulla t'ha servito onorare Diana, andando a caccia solitaria nei boschi, a nulla t'ha servito portare le nostre frecce! Ma nell'ora suprema della morte, la Dea tua regina non vuole !asciarti senza gloria: la tua fme sarà lodata tra le genti, non subirai l'affronto d'essere invendicata. Chiunque t'ha ferito ne sconterà la pena, meriterà la morte ». Ai piedi della montagna s'ergeva il gran sepolcro di Dercenno, un antico re di Laurento; l'alto monticello di terra era tutto coperto dell'ombra dei lecci. La bellissima Dea si posò con un balzo
tua fine sarà gloriosa fra tutte le genti. 1045-I046. Chiunque t'ha ferito, ecc.: allude all'ordine
impartitole da Diana (729731).
1047. Dercenno: personaggio sconosciuto. Il nome sembra etrusco, ma il sepolcro è vicino alla città di Laurento, presso la quale si sta svolgendo la battaglia.
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proprio in cima al sepolcro, cercando Arunte. Appena lo vide, tutto gonfio di vanità e di gioia: «Dove fuggi? -gli disse. - E perché? Vieni qui, vieni a morire qui, a ricevere il premio dell'uccisa Camilla. Persino tu sei degno d'essere fulminato dai dardi di Diana?» La trace tolse una freccia dal turcasso dorato, rabbiosa tese l'arco in una curva tale che le punte s'unirono, le mani orizzontali tra loro, la sinistra che toccava la freccia, la destra con la corda all'altezza del seno. Arunte all'improvviso udf stridere il dardo, fischiare l'aria e insieme senti il ferro piantarglisi nel petto. I suoi compagni, senza curarsi di lui, ne abbandonano il corpo ancora rantolante nella polvere anonima di quel campo straniero. Opi ritorna a volo nello stellato Olimpo.
I Latini in fuga 1051-1052. Appena lo vide ... di gioia: insuperbito e tutto lieto per aver ucciso Camilla. Ma questo atteggiamento di Arunte contrasta con quello dei versi 996999 e versi 1005·1007, e ancor più con la similitudine del lupo (999-1005). Sono contraddizioni che il poeta avrebbe certamente eliminato, come dicemmo anche altrove per motivi analoghi, se la morte non gli avesse impedito di dare al poema l'ultima mano. 1054-1056. a ricevere~. di Diana: a ricevere una degna ricompensa per aver ucciso Camilla. « Premio » ha quindi un evidente significato satirico: tuttavia il testo latino « digna Camillae premia», in cui « Camillae » può essere anche dativo, consente un'altra interpretazione: vie-
ni a ricevere la degna ricompensa per Camilla, cioè la morte che deve ricompensare Camilla della sua immatura fine. E la sintassi latina la consiglierebbe. Persino tu, che sei un vile (anche Arunte nel verso 979 afferma di non aspettarsi gloria dall'uccisione di Camilla), perché hai ucciso una donna, avrai l'alto onore d'essere ucciso con le frecce divine di Diana? Tuttavia con la spiegazione seconda, che appare più logica, tutto il passo dovrebbe essere inteso cosi: « vieni a farti uccidere; la tua sorte deve essere una ricompensa per Camilla; altrimenti credi che avresti l'onore di essere ucciso dalle armi di Diana? ». 1057. La trace: Opi, originaria della Tracia, come le Amazzoni. La Tracia è anche
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paese di abili arcrer1. - turcasso: faretra, cioè custodia per le frecce. 1058-1064. rabbiosa tese l'arco, ecc.: ostile, come ministra di morte. La tensione della corda fino a far toccare le due estremità dell'arco è irrazionale e difficile ad essere ottenuta senza spezzare l'arco stesso. Tuttavia l'arco è teso da una divinità, ed inoltre l'immagine ha lo scopo di indicare che h Ninfa ha voluto dare alla freccia la massima velocità per ottenere un effetto sicuro. 1065-1068. I suoi compagni, ecc.: questo abbandono di Arunte ancora rantolante, nella polvere, come cosa vile, e in terra straniera, è veramente triste e desolante. La vendetta della dea giunge fino alla crudeltà, come è altrettanto crudele il celebre e maestoso risalire di Opi, ministra di Diana, al celebre Olimpo.
l LATINI IN FUGA (1069II25). - I cavalieri italici, Volsci, Latini e Rutuli, spaventati dalla morte di Camilla, fuggono verso le mura della città di Laurento. I Troiani li inseguono. I difensori delle mura, per impedire che i nemici entrino in città, chiudono le porte, lasciando che i loro connazionali esclusi siano trucidati o vadano a cozzare contro i loro compagni o contro le porte. La situazione è drammatica; anche le donne impugnano le armi e partecipano alla difesa della città. 'furno, avvertito da Acca che Camilla è stata uccisa e che la cavalleria è in fuga, inseguita dai nemici, così che Laurento corre il pericolo di
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cadere neile loro mani, lascia gli agguati sui monti e discende al piano verso la città. Poco dopo Enea supera anch'egli il valico indifeso e scende nella pianura. I due eserciti st schierano uno di fronte all'altro, ma sopraggiunge la notte e il combattimento è rimandato al giorno successivo.
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1071. fugge il violento Atina: è un ignoto, che Virgi-
lio pone sulla scena senza motivo. Forse è un errore di trascrizione, oppure una delle tante incongruenze che la morte i.mpedl al poeta di correggere. 1076. gli archi lenti, ecc.:
con gli archi non più tesi per scagliare fracce, ma appoggiati sulle spalle. Latini e Rutuli e Volsci hanno una sola preoccupazione: di fuggire il più velocemente possibile; i Troiani di inseguirli.
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1078-1079· Sale verso le mura, ecc ... : la cavalleria che
fugge e quella che insegue sollevano un polverone che forma quasi come una nebbia nella campagna intorno alle mura di Laurento.
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IOSI-1099· Gli inseguitori, ecc.: i Troiani piombano
sui Latini quando questi stanno entrando in Laurento a cercarvi uno scampo; e quivi, dentro la città e sotto le mura, s'ingaggia una lotta furibonda. I difensori, per impedire che i Troiani irrompano in forze in Laurento, chiudono le porte, e per i Latini esclusi si crea una situazione pietosa, dal poeta drammaticamente descritta. Molti, sospinti dalla folla dei compagni sopraggiunti velocissimi, precipitano nel fossato, altri vanno a cozzare, fatti ciechi dalla disperazio-
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Perduta la capitana la truppa di Camilla fugge per prima; fuggono i Rutuli, sconvolti; fugge il violento Atina. Cercano scampo i capi dispersi ed i manipoli abbandonati a se stessi, in fuga precipitosa cavalcano verso le mura. Nessuno riesce a fermare i Troiani che incalzano seminando la morte, o a resistere ai dardi: fuggono, gli archi lenti gettati sulle spalle; gli zoccoli rimbombano sul suolo polveroso. Sale verso le r.1ura una polvere torbida, una nera caligine; lassu le donne levano un grido sino al cielo percuotendosi il petto. Gli inseguitori piombano sui primi che di corsa sono entrati attraverso le porte spalancate. Le schiere si confondono: chi già si riteneva in salvo cade ucciso sulla soglia o persino entro le mura patrie, tra le case. Si chiudono in gran fretta le porte, sbarrando ogni accesso agli stessi compagni che supplicano invano: nasce una strage pietosa tra chi difende le porte e chi vorrebbe entrare. Molti restano fuori, tra il pianto dei genitori che dall'alto li guardano, e son precipitati nel fossato dall'impeto della folla che incalza o, disperati, ciechi, cozzano a briglia sciolta contro i duri battenti delle porte. Le donne in questa lotta estrema imitano Camilla, infiammate da vero amor patrio, lanciando con furia febbrile armi fatte di tronchi di dura quercia, pali induriti sul fuoco, in mancanza di ferro; vorrebbero esser le prime a morir per la patria. Le notizie tremende portategli da Acca
ne, contro i duri battenti delle porte, altri ancora sono trucidati dai Troiani. Anche le donne difendono la città lanciando dalle mura sui nemici proiettili d'ogni specie, pronte anch'esse a morire per la libertà della patria. Le schiere si confondono: sulle porte fuggenti e inseguitori si confondono, e di
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questi alcuni entrano anche in città. - e so n precipitati: soggetto è « molti ». - della folla: dei fuggenti e degli inseguitori. noo. Acca: compagna di Camilla, che assiste la giovane guerriera morente e compie l'incarico, da lei affidatole, di avvertire Turno (IOI.5I020).
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riempiono di dolore Turno, fermo in agguato tra le selve: distrutte le truppe dei Volsci, morta Camilla, i nemici che incalzano, minacciosi, e. col favore di Marte son padroni del campo, il terrore che arriva già sin nella città. Furioso (cosi vuole la potenza tremenda di Giove) egli abbandona il monte che occupava, lascia le ardue foreste. Ed era appena uscito di vista ed arrivato nella pianura, quando il padre Enea marciando tra le balze indifese valica il monte, esce dall'ombrosa foresta. Cos{ corrono entrambi con tutti i loro eserciti verso le mura, rapidi, e. distano tra loro solo di pochi passi. Contemporaneamente Enea vide la piana che fumava di polvere e le truppe di Turno; ed a sua volta Turno riconobbe il terribile Enea nelle sue armi luminose, e senti il passo dell'esercito che marciava veloce e il soffio dei cavalli. E avrebbero attaccato battaglia U per lf, tentando la fortuna delle armi, se il roseo Apollo non avesse tuffato nel mare di Spagna i cavalli già stanchi, riportando la notte col cadere del giorno. Allora pongono il campo davanti alla città, tutto intorno alle mura. IIOI-II02. fermo in agguato tra le selve: secondo il piano tattico da lui stesso preparato, Turno aveva raggiunto la valle descritta nei versi 647-6 57 e vi aveva nascosto in agguato i suoi soldati. 1105. il terrore ... nella città: il panico, che si era dif-
fuso ·nell'esercito dopo la morte di Camilla, si è propagato anche in Laurento, e tutti temono la minaccia nemica. no6-no7. così vuo!e ... di Giove: cosl Giove si vale del suo potere di esecutGre del destino, che fa tremare di paura (potenza tremen-
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da): del destino che vuole Enea vincitore di Turno. nxo. le balze indi/ese: sono le posizioni che Turno aveva. occupato per tendere un agguato ad Enea, ed aveva poi abbandonato quando Acca gli portò il messaggio di Camilla. IIIJ. verso le mura: ambedue gli eserciti, troiano e latino, percorrono la stessa via diretti verso la città di Laurento. III8·III9. e sentì il passo, ecc.: sono particolari che, nonostante siano, almeno in parte, impossibili (la cavalleria era sotto le mura di Laurento ), servono ad indicare la vicinanza dei due eserciti. II2I·II25. se il roseo Apollo, ecc.: se il sole non più infocato, ma pallido, come quando è prossimo al tramonto, non avesse tuffato nel mare i suoi cavalli stanchi. Allude al mito di Apollo, identificato col sole, che il dio - dice il mito - trasporta nel cielo sopra un carro infuocato tirato da cavalli ardenti, i quali alla sera scendono nell'oceano a rinfrescarsi e a trascorrere la notte riposando. Cosi l'azione del canto inizia con l'alba e termina col tramonto. La battaglia decisiva è rinviata al giorno seguente; i due eserciti riposano, ma Turno non ha pace.
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Commento critico Il canto XI si muove e si sviluppa tutto nell'atmosfera della battaglia combattuta sulla costa il giorno dello sbarco, cosl sanguinosa che Enea, benché vittorioso, ha l'animo turbato dalle stragi imposte dalla vittoria. Le componenti principali del canto sono tre grandi scene che si sviluppano una dopo l'altra in una trama vivace, solida ed avvincente: la tregua e i riti funebri all'indomani della grande battaglia; il consiglio dei maggiorenti convocato da Latino; la vita, l'epopea e la morte di Camilla. La prima, prevalentemente elegiaca e drammatica, è come una sosta dopo la lotta, in cui Troiani e Latini meditano sulle funeste conseguenze della guerra e procedono alla sepoltura dei propri caduti. Sono pagine ricche di umanità, che raggiungono la commozione più intensa nel saluto funebre dì Enea a Pallante, nell'incontro del vecchio re Evandro col figlio morto e nella corale partecipazione del popolo arcade, che va incontro all'eroico suo principe (
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presentata nella rassegna del canto VII, il poeta dopo averne raccontata la vita per bocca di Diana, sua protettrice, con le più belle pagine del poema, pone l'eroina italica al centro dei fatti che si svolgono fin sotto le mura di Laurento, e ne descrive le imprese e infine la morte. La figura di Camilla, fresca e nuova invenzione virgiliana, è una creatura viva, ricca di toni umani e virili, che vanno dal suo eccezionale eroismo. alla sua ingenua femminilità di fanciulla. Così nel canto XI, come nelle due prime parti si susseguono logicamente le esequie dei caduti, le notizie di Diomede e le successive vicende burrascose del consiglio dei capi, così in questa ultima scena si svolgono con eguale armonica successione il vasto racconto della vita di Camilla, lo scontro furibondo delle due cavallerie, e con stupenda e vasta efficacia rappresentativa, dopo la morte della giovane guerriera, lo scompiglio dei Volsci, la rotta disordinata dei Latini e dei Rutuli, la difesa della città, l'irrompere di Turno, avvertito da Acca della morte di Camilla e della fuga disordinata dei cavalieri, l'arrivo di Enea, i due eserciti giunti ad un passo tra loro, l'urto atteso e differito, per il sopraggiungere della notte. Cosl il canto si chiude con i due capi, Turno ed Enea, di fronte l'uno all'altro, con « l'angosciosa sensazione di un destino solenne ancora per poco sospeso ».
Galleria di ritratti Diornede. L'apparizione di Diomede nel poema virgiliano è breve, indiretta e fugace. Ma qmle differenza con l'eroe omerico! Nelle sagge parole con le quali giustifica il suo rifiuto di unirsi alle forze dei Latini si stenta a riconoscere l'autore di tante imprese audaci e memorande, di tanti duelli feroci e vittoriosi che avevano fatto di lui uno dei maggiori personaggi dell'Iliade. La perdita del regno con la splendida capitale Calidone, la sposa passata ad altre nozze, i compagni caduti, trasformati in uccelli marini che con il loro gridio continuo, lo riempiono di rimorsi e gli impediscono la pace e la serenità, hanno piegato il carattere animoso e la folle audacia che l'avevano contraddistinto. Ora egli capisce come terribile sia la vendetta di quegli dèi che aveva sfidato e combattuto e come i sacrilegi commessi debbano per nemesi storica essere scontati quotidianamente nel dolore. Non è un eroe vinto o fiaccato come molti vogliono, ma un uomo che le vicende della vita hanno mutato e che la sofferenza ha plasmato inte. riormente. Lo prova l'esaltazione di Enea, non tanto visto come forte guerriero ma come « superiore in pietà ». La catarsi di Diomede e quella di Mesenzio sono due esempi che il poeta propone alla nostra meditazione sul modo con cui la sventura e la morte agiscano sull'animo umano.
Drance. Il ritratto che Virgilio ci dà di Drance in sei esametri è l'ennesima prova della felicità psicologica con la quale un personaggio viene inserito nell'azione con una sua precisa personalità ed un suo altrettanto preciso carattere. Drance, invidioso della
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Canto undicesimo
gloria di Turno,« era un uomo ricchissimo e pieno d'eloquenza, ma vigliacco in battaglia; consigliere stimato nelle assemblee e violento demagogo; di sangue molto antico per parte della madre ma oscuro per parte di padre». ~ tutto detto: le sue parole ed il suo comportamento saranno conseguenti. Ma notate l'equilibrio perfetto dei tratti psicologici: la ricchezza lo rende invidioso di quello che non può avere, cioè la gloria; questo perché è un vigliacco che non affronta mai a viso aperto l'avversario. Lo fa soltanto quando crede di essere in condizioni di superiorità; tuttavia la sua abile eloquenza, .che incanta gli stolti, non riesce a scalfire la grandezza morale di Turno. ~ dunque un demagogo. Ci sorprendiamo, a questo punto, nel constatare la modernità della figura di Drance che assomiglia stranamente a quella di tanti uomini politici dei tempi nostri.
Camilla. Nel libro VII, durante la rassegna dei guerrieri e dei popoli italici, Virgilio s'era indugiato alquanto nel presentarci questa vergine guerriera, in cui gli ornamenti esteriori, squisitamente delicati e muliebri, prendevano maggior risalto perché ricoprivano una fanciulla dall'animo fiero e temprato, pronto alle più sanguinose imprese. Ritorna in scena in questo canto per concludere la sua vicenda con una delle morti più impensate e romanzesche cui ci sia dato di assistere, ma in perfetta coerenza con il suo ruolo di donna guerriera. Infatti mentre mena gran strage tra i nemici, ella nota le splendide armi e le bellissime vesti di Cloreo e subito se ne invaghisce e n per n decide di impadronirsene ad ogni costo. Questo repentino sfizio, tipico della psicologia femminile, le costerà caro, perché permetterà al perfido Arunte di colpirla a morte. A questo punto ella ritorna la guerriera di sempre che si preoccupa, con le ultime parole che pronuncia, delle sorti della battaglia e muore da eroina. « Con un acuto gemito la sua vita sdegnosa cala giù tra le Ombre ». In quello « sdegnosa» sta la grandezza d'animo di questa giovinetta, che il padre aveva educato al culto di Diana, ma che non aveva saputo resistere al fascino fatale di una bella veste ricamata.
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Canto undicesimo
Raffronti di traduzione Postquam omnis longe comitum praecesserat ordo, substitit Aeneas gemituque haec addidit alto: « Nos alias bine ad lacrimas eadem horrida belli fata vocant: salve aeternum mihi, maxime Palla, aeternumque vale». (vv. 94-98) Est curvo an/ractu valles, accommoda fraudi armorumque dolis, quam densis /rondibus atrum urget utrimque latus, tenuis quo semita ducit angustaeque /erunt /auces aditusque maligni. Hanc super in speculis summoque in vertice urget utrimque latus, tenuis quo semita ducit planities ignota iacet tutique receptus, [montis seu dextra laevaque velis occurrere pugnae sive instare iugis et grandia volvere saxa. Huc iuvenis nota /ertur regione viarum arripuitque locum et silvis insedit iniquis. (vv. 522-531)
Or poi ch'oltrepassata con quest'ordi.ne fu la pompa tutta, Enea fermassi, e verso il morto amico ad alta voce sospirando disse: « Noi quinci, ad altre lagrime chiamati dal medesimo fato, altre battaglie imprenderemo. E tu, magno Pallante vattene in pace, e con eterna gloria ' godi eterno riposo ». ~
tra due branche del monte una vallea, che d'ambi i lati ba folte selve, o luoghi occulti e chiusi a l'insidie de l'armi accomodati. Ha ne l'imo una sèmita per mezzo angusta, malagevole e scontorta; che d'ogn'intorno è da le ripe offesa. In cima, in su l'uscita, è tra le selve ascosa una pianura, con ridotti acconci a ritirarsi, ed opportuni a spingersi o dal destro o dal sinistro lato, che si riscontri, o che s'aspetti nemica gente, o pur che di gran sassi si tempesti di sopra. A questo loco, di cui ben era pratico, in agguato Turno si pose, e i suoi nemici attese. Traduzione di Annibal Caro
Poi che tutta era mossa lontanandu la compagnia seguace, Enea ristette e con profondo gemito soggiunse: « Di qui ad altre lagrime noi chiama lo stesso orrido fato de la guerra: per sempre ti saluto, o gran Pallante; e addio per sempre! ... Tortuosa è una valle, agi 'inganni atta de l'armi, cui i due lati suoi serrano pruni di densa frasca, ed un sentier vi mena vi danno brevi aperte adito scarso. ' Sopra questa, in vedetta a sommo il monte, giace un ignoto pian, fido ridotto, se a destra o a manca ami affrontar nemico o tener l'altro e rotolar macigni. Là si dirige per le note vie il giovine e veloce il luogo prese posando ne la selva insidiosa. Traduzione di Giuseppe Albini Come fu tutto quel corteo seguace molto innanzi avanzato, Enea ristette ed aggiunse con gemiti profondi: « Al campo, ad altre lagrime, or ci chiama lo stesso fato dell'orrenda guerra; grande Pallante, addio! per sempre addio! I vi è una curva e tortuosa valle atta in guerra ad agguati insidiosi; d'ambo i lati la serrano. le falde dei monti, fitte di boscaglie oscure· vi corre un malagevole sentiero ' e conducono in essa anguste gole e diflicili varchi. In cima al monte uno spiazzo la domina, nascosto e sicuro ricetto: o che si voglia avventarsi da destra o da sinistra contro il nemico, o là fermarsi in alto a rotolare giù grandi macigni. Là si diresse il giovane, pas~ando per sentieri a lui noti; occupò il luogo e si appiattò nel bosco insidioso ». Traduzione di Guido Vitali
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CANTO DODICESIMO
Inizio del combattimento fra Enea e Turno.
Le illustrazioni sono tratte da incisioni del 1835, ricavate dai codici della Biblioteca Vaticana, Roma.
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CANTO DODICESIMO Di fronte alle gravi perdite subite Turno dichiara a Latino d'essere disposto a risolvere la guerra con un duello. Il vecchio re, paterno e prudente, cerca invano di convincerlo ad accontentarsi del suo regno e a rinunciare a Lavinia, che per volere del destino deve sposare uno straniero. Ma Turno ha fiducia nel proprio valore, e dalla sua decisione non riesce a distarglielo neppure Amata; e vane sono anche le lagrime e il rossore di Lavinia, che assiste al colloquio. Mandato un araldo a sfidare Enea a duello, Turno si fa condurre i cavalli, indossa le armi, si cinge la spada, bran· disce l'asta e, sprizzante fuoco nel vispe negli occhi, la scuote e le chiede di uccidere, con il suo aiuto, Enea. Anche Enea si prepara alla tenzone e veste le armi -fabbricate da Vulcano. Nel frattempo si prepara il recinto dove si svolgerà il duello, e nel mezzo si erige un altare coperto di zolle erbose, sul quale i sacerdoti portano acqua lustrale e fuoco. Intorno al reCinto si dispongono i soldati dell'uno e dell'altro esercito, desiderosi di assistere alla prova. Sulle mura e sui tetti della città si affollano i vecchi, le donne e i bambini. Anche Giunone assiste ai preparativi della prova dall'alto del colle Albano, ma per impedire il duello. E a tale scopo, per salvare Turno da morte sicura, incita la ninfa Giuturna a turbare la tregua, provocando una rissa. Intanto entra in campo Latino, poi giunge Turno e infine anche Enea accompagnato da Ascanio. Enea giura che, se sarà vinto, Julo si ritirerà a Pallanteo, presso Evandro; se vincerà, non vorrà essere re, ma Troiani e Italici vivranno in pace con diritti eguali. Latino approva il giuramento, e il sangue delle vittime lo consacra. Ma Giuturna, prese le sembianze di Camerte, valoroso guerriero latino, s'aggira fra i soldati italici sollecitandoli a riprendere la lotta. E ad avvalorare le sue parole appare in cielo un prodigio, che l'augure Tolunnio spiega essere favorevole ai Rutuli: un'aquila, che sarebbe Enea, ha ghermito un cigno, che sarebbe Turno; ma gli altri cigni dello stormo le piombano addosso e la costringono a lasciare la preda e a fuggire. Tolunnio lancia poi un'asta e dà inizio alle ostilità. La mischia si fa sempre più violenta, l'ara è travolta, Latino fugge verso la reggia, ed Enea corre fra i combattenti disarmato e li esorta a rispettare i patti; ma una freccia misteriosa lo ferisce ad un ginocchio ed è costretto a lasciare il campo. Turno approfitta dell'assenza di Enea e fa strage di Troiani. Il medico Japige cerca invano di curare la ferita di Enea; la freccia non vuole staccarsi dalla gamba dell'eroe. Interviene allora Venere, che prepara una medicina, mescolando il miracoloso dittamo con acqua di fiume, ambrosia ed erbe medicinali; il vecchio Japige, che ignora l'intervento della dea, bagna con quell'acqua la ferita, la freccia esce e la piaga di colpo guarisce. L'eroe troiano si riarma e, lanciatosi nella
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Canto dodicesimo
mischia, cerca Turno, solo Turno. Ma Giutuma, ansiosa per la sorte del fratello, getta dal suo carro l'auriga Metisco, ne prende le sembianze e il posto, e guidando essa il carro, riesce ad evitare l'incontro con Enea, che sfiorato da un dardo di Messapo, abbandona la ricerca di Turno e si getta furioso nella lotta. La battaglia diventa sempre più ardente e sanguinosa da ambedue le parti, allorché Enea, ispirato dalla madre, decide di risolvere la situazione assalendo Laurento. I cittadini, chiusi dentro la città, sono discordi e atterriti. La regina Amata, credendo Turno morto, disperata e colpevole, s'impicca; Lavinia si dispera; Latino si strappa le vesti. Quando Turno, che si trova con la sorella ai margini del campo, sente il rumore della città, e Saces, che arriva in quel momento, lo informa di ciò che accade, salta giù dal carro, abbandona la sorella e corre fra i combattenti gridando di sospendere la lotta, perché lui solo combatterà. Enea, udite le parole di Turno, ne gioisce. Tutti si ritirano e depongono le armi. I due rivali sono l'uno di fronte all'altro, si scagliano le aste, indi, come due tori infuriati della Sila, con rapida corsa vengono al corpo a corpo. Turno assesta un gran fendente sull'elmo di Enea, ma la spada che non era la sua, ma quella di Metisco, si spezza e, rimasto disarmato, si dà alla fuga, inseguito da Enea, la cui asta però si conficca tra le radici di un olivo sacro a Fauno, dio favorevole a Turno; e il Troiano non riesce a svellerla. Della circostanza ne approfitta Giuturna, che porta al fratello la sua spada; ma a sua volta Venere, indignata, consegna l'asta al figlio. Cosl i due rivali sono nuovamente di fronte: Turno con la spada, Enea con la spada e l'asta. A questo punto Giunone, che da una nuvola ha assistito al duello, si avvicina a Giove, e le dice che ogni u1teriore opposizione al Fato sarebbe inutile: «Oggi è il giorno fatale». Cosl il re e la regina dell'Olimpo concludono insieme questo patto: Enea vincerà e i due popoli si fonderanno in un popolo solo, ma i Latini conserveranno la lingua e i costumi delle loro antiche genti. Dalla fusione tra.rrà origine la stirpe dei Romani, e il nome di Troia sarà ricordato soltanto dalla storia. Concluso il patto, Giove manda sulla terra una Furia che, trasformatasi in gufo, uccello di malaugurio, svolazza intorno all'eroe rutulo, il quale presagisce cosl la sua prossima fine. Anche Giuturna comprende il significato del malaugurato uccello, e disperata si getta piangendo nella profondità del suo fiume, maledicendo il ctestino che l'ha voluta immortale e non le permette di morire insieme col fratello. Il combattimento fra i due rivali riprende. Enea minaccia Turno a gran voce; Turno, rassegnato, risponde che non lui lo vincerà, ma gli dèi avversi e il destino; e tenta di colpire Enea con un grosso macigno. Ma gli mancano le forze, e il Troiano ne approfitta scagliandogli contro l'asta, che lanciata con tutta la forza gli trapassa lo scudo, gli fora la corazza e gli si conficca in una coscia. Turno, costretto a piegare a terra il ginocchio, implora da Enea di non infierire sull'infelice suo padre e di restituire ai suoi il suo corpo vivo o morto, come vorrà. Lo riconosce vincitore, signore d'Italia e di Lavinia, e lo scongiura di non andar oltre con la vendetta. Enea è molto vicino a commuoversi, ma vede sulle spalle di Turno il balteo di Fallante. Il ricordo del giovinetto morto lo accende di sdegno, e nel nome di lui gli vibra il colpo mortale. «Il corpo di Turno si distende nel freddo della morte»; la sua anima vola gemendo verso il regno dei morti.
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CANTO DODICESIMO Turno si dichiara pronto al duello con Enea (1-104) - Turno ed EI?ea prima del ?uello (105~146)- Il campo del duello (147-172)Gmturna, sollecitata da Gmnone, soccorre Turno (173-205) - Si giurano i ~atti (206-277) - Giutuma turba l'accordo (278-343) Enea è fe~lto (344-411) - Turno fa strage di nemici (412-482) Ene31 guarito da Venere (483-553)- Enea ritorna sul campo di battagh~ (~54-585) - 9iuturna si fa auriga di Turno (586-627) - Le strag~ di Enea e d1 Turno (628-693) - Venere ispira ad Enea di ass~hre ~urento (69_4-740) - ~mata si uccide (741-767) - Turno dec1de d1 affrontare d suo destmo (768-866) - I due campioni di fronte (867-984) - Il patto tra Giove e Giunone (985-1047) - Il duello finale e la morte di Turno (1o48-n8o).
Turno si dichiara pronto al duello con Enea
TURNO
capi che i Latini prostrati dalla guerra erano giunti all'estremo. Lo guardavano fisso, gli chiedevano conto delle vecchie promesse: TURNO SI DICHIARA PRON· TO AL DUELLO CON ENEA (1-
104). - Di fronte alle immense perdite e al malumore dei suoi soldati, Turno dichiara di essere pronto al duello con Enea. Il re Latino tenta invano di dissuaderlo, esortandolo ad accontentarsi del suo regno e alla rinuncia di Lavinia, che i Fati vogliono
sposa di uno straniero; ma Turno risponde che anche la sua spada sa dare la morte, e che comunque egli non vuole essere un vile. Vane sono anche le preghiere di Amata e le lagrime di Lavinia; T urno ordina al suo araldo di portare la sfid,l ad Enea e di fissare il duello per l'indomani.
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1·4· Turno capì che i Latini, ecc.: il giorno prima la cavalleria italica, dopo la morte di Camilla, si era scompigliata e ritirata in fuga nella città di Laurento. Turno aveva abbandonato le posizioni che aveva occupato per tendere un'insidia ad Enea in marcia verso la città latina, e i due eserciti alla fine erano venuti a trovarsi vicinissimi l'uno all'altro nella campagna prossima a Laurento, ma il sopraggiungere della notte aveva impedito Io scontro. Perciò il poeta in questi versi presuppone che Turno durante la notte siasi recato alla reggia ad esporre al re Latino le sue preoccupazioni e i suoi progetti sull'andamento delle operazioni belliche: in primo luogo lo scoraggiamento dei soldati e la sua decisione di affidare l'esito della guerra al suo duello con Enea. - Lo guardavano fisso: con quello sguardo i soldati invitavano Turno ad aver pietà dei loro mali, a mantenere la promessa di combattere da solo e forse vi aggiungevano anche una tacita accusa di viltà. « In ciò - annota il Pascoli, - è il r'ragico della sua vita: pa-
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rere spesso tutto il contrario di quello che è: parere quasi vile, essere forte. senza però scampare, né còn questo essere né con quel parere, alla morte acerba ». 5-13. s'infiammò di sdegno, ecc.: le difficoltà e la diffidenza lo rinfrancano, gli dànno nuovo vigore: Turno, consapevole delle sue responsabilità e fiero del suo valore, reagisce al venir meno della stima e della fiducia antiche con il proposito rabbioso di far ricordare ai suoi con i fatti, ch'egli non ha paura né di battaglie, né di duelli. - Come nelle pianure, ecc.: la similitudine, imitazione da Omero, ma diversa di spirito per l'originalità dell'ispirazione poetica tutta virgiliana, mette bene in luce lo stato d'animo di Turno e il suo carattere. L'eroe è fiero e di sentimenti nobili, ma anche facile alle decisioni precipitose, irrazionali, alle reazioni violente, impulsive, per la sua grande sensibilità alle condizioni del momento. Sono un esempio l'abbandono imprudente dell'agguato appena seppe della morte di Camilla e la promessa fatta in consiglio di scendere in campo da solo contro Enea, in risposta all'invito provocatorio di Drance. Ora che la situazione si è fatta difficile e pericolosa, egli appare bensl ancor più impavido e fiero fra lo sgO·· mento generale, ma lo cruc- · eia di essere chiamato in causa come colpevole delle sciagure toccate al popolo, di vedere fissi su di sé gli sguardi di tutti, di sentirsi ferito nel suo orgoglio di capo e di combattente. 15-25. Turno non esita
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l'implacabile eroe allora s'infiammò di sdegno e di baldanza. Come nelle pianure africane un leone, gravemente ferito al petto dalle !ance dei cacciatori, muove all'attacco, vibrando con terribile gioia i muscoli chiomati dd collo, spezza impavido il dardo assassino che gli ha trafitto il corpo e freme con la bocca sanguinante: cosi la violenza di Turno avvampa furiosa. Allora si rivolge con impeto a Latino: «Turno non esita piu: non c'è nessun motivo perché i vili Troiani rinneghino le loro promesse o si rifiutino di mantenere i patti. Sono pronto a combattere. Prepara i sacrifici, o padre, e stabilisci le regole del duello. O io con questo braccio spedirò giu nel Tartaro qud disertore asiatico (i Latini staranno tranquillamente a sedere, guardando lo spettacolo) vendicando da solo l'oltraggio comune; o Enea sarà padrone dei vinti e avrà Lavinia per sposa ». Gli risponde pacatamente Latino: « Giovane coraggioso, quanto piu ti dimostri ferocemente eroico, tanto piu trovo giusto
più, ecc.: il discorso di Turno è breve, spezzato, risoluto. ~ l'eroe che, ferito nel suo orgoglio, si solleva al di sopra della stessa realtà, pronto al sacrificio, pur di piegarla al suo volere. - le loro promesse: non promessa e neppure proposta, ma semplicemente rimprovero era il contenuto delle parole rivolte da Enea agli amba~ciatori latini (Xl, 141-143). Fu Drance che nel consiglio le interpretò come una sfida (Xl, 466). - Prepara i sacrifici: gli antichi non concludevano nessun patto senza farlo precedere da sacrifici. -·quel disertore asiatico: Enea, cosi designato con disprezzo e ingiustamente, perché fuggl dall'Asia. - i Latini... a sedere: è detto con
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sarcasmo, per punzecchiare i Latini poco entusiasti o addirittura contrari alla guerra. Con eguale sarcasmo Turno· ha sferzato i Latini, quando, riuniti in assemblea, vengono presi da costernazione all'annuncio dell'appressarsi dei Troiani alle mura della città (XI, 571-574). - l'oltraggio comune: l'invasione e la pretesa di Enea di occupare, pur come ospite pacifico, una parte del territorio laziale, offendevano non Turno soltanto, ma tutti i Latini. - pacatamente: il vecchio re conserva il suo naturale contegno tranquillo, che è quello del saggio. 26-29. Giovane coraggioso, ecc.: dignitoso e amorevole, il vecchio re Latino parla al giovane Turno con
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che io sia circospetto e prudente, e che vagli tutto con attenzione. Hai il regno di tuo padre Dauno e molte città conquistate in battaglia; e per di piu Latino è ricco e ti vuol bene. Ci son tante ragazze da marito nei campi di Laurento e nel Lazio, e tutte di gran razza. Permetti che ti dica cose non certo facili a dirsi, superando le reticenze, e accogli bene le mie parole. Non era destinato che sposassi mia figlia ad alcuno dei vecchi pretendenti: cosi presagivano tutti, e Dei ed uomini. Vinto dall'affetto per te, dal sangue affine e dai pianti noiosi di mia moglie, ruppi gli impegni presi, tolsi la sposa al genero fatale ed impugnai empie armi. Tu vedi che guerre e che sciagure mi opprimano da allora, Turno, quante fatiche tu soffra per il primo. Due volte vinti in campo, a stento difendiamo le speranze d'Italia chiusi nella città; le correnti del Tevere ancora sono calde del nostro sangue e immense le campagne biancheg[giano d'ossa. Perché, perché ho mutato parere? Quale triste follia m'ha sconvolto la mente? Se sono pronto a accoglierli da alleati, una volta morto Turno, perché non far la pace adesso con Turno sano e salvo? Cosa diranno mai i consanguinei Rutuli e tutta l'Italia se avrò fatto ammazzare (il Fato mi smentisca) chi voleva mia figlia per moglie e me per suocero? la voce della ragione e con l'affetto di un padre. Gli riconosce il valore, non la prudenza, l'agire impetuoso, non la calma che proviene dalla ponderazione. 29-30. padre Dauno: secondo la leggenda Acrisia, re d'Argo, avendogli l'oracolo predetto che dalla figlia Danae sarebbe nato un nipote che l'avrebbe ucciso, rinchiuse la figlia in una torre. Ma Danae, benché cosl
rinchiusa, ebbe egualmente un figlio, Perseo, e proprio da Giove trasformatosi in pioggia d'oro. Il padre allora la fece gettare in mare chiusa con il figlio in una cassa, che approdò in Puglia. Quivi Danae sposò Pilunno, da cui ebbe Dauno, e col marito fondò Ardea. Da Dauno e dalla ninfa Venilia, sorella di Amata, sarebbe nato Turno. 34-36. Permetti che ti di-
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ca, ecc.: Latino sta affrontando l'argomento più scottante, quello di Lavinia, e ne previene il suo interlocutore. 37-38. del vecchi pretendenti: sono i pretendenti anteriori ad Enea, ed erano molti: «La chiedevano in molti, dal Lazio e dall'Ausonia »(VII, 67).- cosl presagivano: allude ai prodigi ed ai responsi che preannunciavano Lavinia sposa di uno straniero (VII, 72 e sgg.). 40. dal sangue affine: Amata era sorella di Venilia, madre di Turno. 41-42. al genero fatale: al genero voluto dal Fato, cioè Enea. - empie armi: empie, perché la guerra è stata combattuta per un motivo contrario alla volontà degli dèi. Questo giudizio è naturalmente di Latino, non di Turno, il quale era di opinione ben diversa. 46. le speranze d'Italia: tutte le speranze degli I talici sono riposte nella resistenza di Laurento all'assalto dell'esercito guidato da Enea. 49· Perché, perché ... parere?: Latino riconosce la sua condotta contradditoria, e se ne pente; si pente di aver accolto amichevolmente gli ambasciatori di Enea e poi di non aver impedito la guerra. Latino è buono, ma anche debole; l'incertezza e l'esitazione sono i principali difetti del suo carattere. 51-56. Se sono pronto, ecc.: il discorso di Latino, finora prudente e spesso, per non offendere e irritare il nipote, fatto di giri di parole, diventa più esplicito. Se, dice il vecchio re, sono disposto ad accogliere i Troiani come alleati con Turno mor-
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to, a maggior ragione devo poterli accogliere con Turno vivo. Perciò conviene fare la pace, poiché, continuando la guerra, Turno può anche morire e i Rutuli e tutta l'Italia avrebbero allora tutto il diritto di rimproverarmi d'aver lasciato ammazzare chi voleva essere marito di mia figlia e mio genero. Naturalmente il pensiero all'Italia, inesistente all'epoca dei fatti, è di Virgilio. 59· Ardea: la capitale dei Rutuli, cosl chiamata, secondo la leggenda, dall'uccello che presiedette con i suoi auguri alla sua fondazione. II discorso di Latino è costruito con straordinaria abilità secondo la logica del suo carattere, cioè di chi ha coscienza del suo dovere e della sua responsabilità, ma che nello stesso tempo è anche incapace di decidere con fermezza e di superare le difficoltà che si frappongono alla realizzazione dei suoi onesti principi. In tal modo egli, con benevolenza paterna, cerca di convincere Turno che al rischio della guerra, enormemente aumentato dalla gravità della situazione, è preferibile la pace; che non è suo capriccio la decisione che Lavinia sposi uno straniero, ma volontà del Fato, e quindi che tutti i mali sono nati dall'averla trasgredita; che infine, se è destino che i Troiani siano accolti nel Lazio, è meglio' che ciò avvenga pacificamente con vantaggio di tutti, e specialmente di Turno, il quale è più di tutti esposto ai pericoli della guerra. Ma l'assennato ragionamento di un vecchio non è in grado di mutare le decisioni di un
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Considera le varie fortune della guerra, abbi un po' di pietà per quel povero vecchio di tuo padre, laggiu, nella lontana Ardea! » La violenza di Turno non è per nulla scossa da tali detti: il cuore dell'eroe s'inasprisce piu si vuole placarlo. Appena ebbe licenza di parlare proruppe: «Non preoccuparti, o padre, non curarti di me: !asciami conquistare la gloria con la vita. Padre, semino anch'io dardi col braccio e roteo una spada mortale; ed anche i miei fendenti fanno scorrere sangue. La Dea che l'ha messo al mondo non sarà certo là a coprirne la fuga con una nube (inganno da donna!) proteggendo con il figlio se stessa». Ma la regina piangeva, spaventata dal nuovo scontro, e pronta a morire cercava di trattenere l'ardente genero. «Turno, ti prego per le mie lagrime, per l'onore di Amata, se ti sta a cuore, (o tu sola nostra speranza, conforto della vecchiaia,
giovane che sia, come Turno, altero, ambizioso, valoroso e innamorato. 6o. La violenza: il fiero proposito. 63-70. Non preoccuparti, ecc.: con la sua consueta schiettezza Turno respinge le preoccupazioni di Latino e si esprime come se il vecchio re non avesse parlato di circostanze e di fatti dei quali non si può ign~rare la gravità e l'importanza. In lui prevale il senso dell'onore; e l'onore lo si difende anche a costo della vita. Inoltre Turno ha coscienza della sua forza e del suo valore, e non si sente per nulla inferiore ad Enea, il quale non può aver sempre al suo fianco la madre che lo protegga coprendogli la fuga avvolto in una nube. Con amaro e dispettoso sarcasmo Turno allude all'episodio di Enea che, ferito da Diome-
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de, fu salvato da Venere, che lo avvolse nel suo mantello; ma Diomede ferl anche la dea, e in aiuto sia della madre, sia del figlio accorse allora Apollo, il quale li sottrasse alla furia del guerriero greco avvolti in una nube. Perciò Turno fonde insieme i due momenti dell'episodio. Enea era stato sottratto un'altra volta ai colpi di Achille da Poseidone, che lo nascose in una nube (Il., V,3I4, e xx,3I8). 73-82. Turno, ti prego, ecc.: Amata, prima di manifestare lo scopo che si propone di raggiungere, elenca tutto ciò che può toccare il cuore di Turno: il dolore che le può recare, il rispetto (onore) che essa merita (e con intonazione affettuosa pone il suo nome al posto del pronome), la grande importanza che lei attribuisce a Turno, come unica speran-
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tu unico sostegno della gloria e del regno latino, tu sul quale s'appoggia la casa vacillante!), desisti dall'attaccar battaglia coi Troiani. Qualsiasi sorte ti colpirà me pure colpirà, Turno: ed io lascerò quest'odiosa vita insieme a te. Non voglio esser schiava di Enea e vederlo mio genero ». Le guance ardenti rigate di lagrime, Lavinia accolse la parole della madre arrossendo d'una. subita vampa che le coperse il volto e il collo di scarlatto. Come risplende il pallido avorio d'India, tinto di porpora sanguigna da un artigiano, o come i bianchi gigli, misti alle rose, si caricano di riflessi vermigli, cosi arrossiva il volto chiaro della fanciulla. La passione sconvolge Turno: guarda la vergine fissamente e desidera combattere per lei. «Ti prego - dice a Amata - non congedarmi, mentre muovo a una dura lotta, con lagrime e un augurio cosi infausto: d'altronde non sarà certo Turno che potrà ritardare il proprio destino. O Idmone, va' a portare al tiranno trÒiano, da parte mia, un messaggio che non gli piacerà: domani quando l'Aurora rosseggerà nel cielo
za di tutti, ora e nella vecchiaia. -desisti dall'attaccar, ecc.: Amata evita di nominare Enea, quasi che l'accenno diretto all'eroe avversario potesse urtare la fierezza di Turno e irrigidirlo nella sua decisione, e si esprime come se per il principe rutulo il pericolo venisse da tutti i Troiani. - me pure colpirà, ecc.: comincia da queste parole il processo che conduce la narrazione del poema alla sua conclusione tragica. Amata qui esprime per prima il presentimento della sua fine, e dà inizio a « qu.-.ll'aleggiare del senso della morte, che domina in tutto il canto e che
ai colori epici dà un cosi intenso tono tragico, che ne è come il motivo fondamentale e ne forma l'attrattiva maggiore, tutto pervadendolo di una ricchissima vena di commovente poesia. Tra poco questo senso aleggerà intorno alla giovinezza generosa di Turno, dominando e schiacciando la sua eroica ribellione» (A. Copelli). 83-86. Lavinia accolse le parole, ecc.: è l'unico punto, in cui il poeta solleva il velo che nasconde l'anima di questa fanciulla italica, più volte ricordata per accenni. Ma è sufficiente, scrivono L. Bianchi e P. Nediani, « a mostrarcela virgina-
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mente sensibile è affezionata, tra la madre ardente e lo sposo da questa riserbatole. Non è personaggio potente e invadente come Didone, che finisce con l'occupare tutta la scena; ma pur trattata dal poeta con delicato riserbo e lasciata volutamente in penombra nella sua parte, diremmo, di strumento del Fato (ché il poema ha per ideale centro Roma co' suoi destini, non l'amore di una fanciulla contesa), è però donna viva e vera. Nulla dice dei suoi intimi sentimenti; ma non parlano quelle lagrime e quel rossore? Turno guarda e comprende, e più s'infiamma ». 93-104. Ti prego... non congedarmi, ecc.: le lagrime di Amata commuovono Turno, e la preghiera, che essa gli ha rivolto, di non combattere, è da lui interpretata come presagio infausto, cioè come presentimento di un esito infelice. - d'altronde non sarà certo, ecc.: ch'io possa continuare a vivere o vada incontro alla morte, non è in mio potere; la vita e la morte sono nelle mani del destino. - Idmone: scudiero e araldo di Turno. - al tiranno troiano: Enea. L'espressione è sprezzante. - l'Aurora rosseggerà: alle prime luci del nuovo giorno. Gli antichi pagani configurarono come divinità tutte le cose e tutti gli aspetti della natura; quindi anche l'Aurora, che immaginarono sorella di Elio (sole) e di Selene (luna), e rappresentavano con dita rosee e con mantello d'oro. L'Aurora sorgeva, come il Sole, dall'oceano, annuncia· trice del giorno, sopra un
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cocchio tirato da destrieri bianchi e rossicci, Lampo .e Faetonte (splendore e scintillio). Discorso breve questo di Turno, e molto appropriato al suo carattere ed alla circostanza. « Il dolore e l'esitazione delle due donne, annota il Copelli, richiedevano appunto questa sicurezza, questa quasi ostentazione di sicurezza che, almeno nella espressione, pare naturale». TuRNo
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DEL DUELLO (105-146). -
Turno, inviato l'araldo a portare la sfida ad Enea, si prepara al duello. Si fa condurre i cavalli, e gode quando vede davanti a sé i suoi cavalli frementi ed i"equieti per l'impazienza di sfrenarsi alla corsa; indossa le armi, dono di Vulcano a suo padre, e le prova: all'asta poderosa chiede che sia docile ai suoi voleri, e la scuote spirando ardore e desiderio di abbattere l'odiato nemico. Anche Enea si prepara alla tenzone, non meno terribile nelle armi materne, ma più calmo e sereno, seppur felice che la guerra si concluda con il duello. E invia a Latino dei guerrieri con l'accettazione della sfida. 198. Orizia: moglie del vento Borea, che vive nella Trada, la terra dove crescevano cavalli veloci. Borea, vento di settentrione che faceva tremare la terra e sconvolgeva il mare, aveva rapito Orizia sulle rive dell'Ilisso e l'aveva fatta sua sposa. Non si conoscono però quali rapporti siano intercorsi fra Orizia e Pilunno, trisavolo di Turno.
correndo sul suo cocchio dalle ruote purpuree, non guidi i suoi Troiani contro i Rutuli. Le armi dei Troiani e dei Rutuli riposino: porremo fine noi due alla guerra, col sangue nostro solo; la mano di Lavinia sarà la posta in gioco».
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Ciò detto, ritornato rapidamente a casa, chiede i cavalli e gode nel vedersi dinanzi ngli occhi, tutti un fremito, quei nobili corsieri che la regina Orizia diede in dono a Pilunno per fargli onore e volle che fossero piu candidi della neve, piu rapidi nella corsa del vento. Gli aurighi li circondano premurosi e accarezzano i loro petti sonori battendoli con le mani a conca, pettinando sui colli le criniere. Turno adatta alle spalle la lorica incrostata d'oro e bianco oricalco, e si cinge la spada facile a sguainarsi che lo stesso Vulcano domatore del fuoco aveva fabbricato al padre Dauno e immerso rovente nello Stige per renderla infrangibile; ed imbraccia lo scudo e mette l'elmo adorno di cimieri vermigli. Poi afferra con forza la grande lancia, preda strappata a Attore aurunco, che stava ritta contro un'immensa colonna nel centro del palazzo,
n2-II3. i loro petti sonori, ecc.: il cavallo generoso ama « la man sonora che percuote il collo» (Geor., III, 186, trad. Albini). con le mani a conca: con le mani piegate a guisa di conchiglia. n6. lo stesso Vulcano, ecc.: anche Turno aveva, dunque, una spada fabbricata da Vulcano, ma con questa spada egli non combat-
terà. n8. immerso ... nello Stige: il dio l'aveva temprata nelle acque dello Stige, fiume infernale, e l'aveva resa
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infrangibile. Virgilio si è lasciato trasportare dalla fantasia di poeta e ha fatto scendere nel mondo dei morti un dio del cielo, meravigliando i critici, che nella poesia vanno a ricercare la logica. 122. Attore aurunca: un capi degli Aurunci, che Turno vinse in qualche guerra. Gli Aurunci erano un popolo italico, forse in parte sottomesso al regno dei Rutuli, se essi appaiono al seguito di Turno (VII, 913). 123. un'immensa colonna: forse un arnese intorno al
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e la scuote, fremendo, e grida: « Asta, che mai fosti sorda aJ mio appello, adesso è giunta l'ora! Ti portò Attore il grande, ora ti porta Turno. Concedimi di abbattere il corpo del nemico, di strappare e spezzare con forte braccio le armi che vestono quel frigio effeminato, e infine sporcare nella polvere quei capelli arricciati col ferro rovente e bagnati di mirra! » È infuriato e sconvolto: scintille ardenti sprizzano dal suo viso ed un fuoco brilla in fondo ai suoi occhi vivi e fieri. Cosi un toro che si accinge a combattere mugghia tremendamente e prova la furia delle corna lottando contro un albero, si scatena !l colpire il vento e sparge in aria la sabbia con gli zoccoli, preludio alla battaglia. Frattanto Enea, non meno terribile, vestito delle armi materne, si prepara a combattere eccitandosi d'ira, felice che la guerra si concluda in un patto. Poi consola i compagni e il dolore di Julo ricordando il volere e i disegni del Fato onnipotente; e invia dei guerrieri a portare a Latino una ferma risposta insieme a tutti i termini dell'accordo.
Il campo del duello quale si appoggiavano le armi degli ospiti e quelle che il padrone di casa teneva a portata di mano. Le altre armi erano custodite in appositi forzieri, detti « armaria », da cui è derivato il nostro armadio, non più destinato a contenere armi, ma indumenti cd altri oggetti pacifici. 129. quel frigio effeminato: Enea, cosl indicato con disprezzo da Turno. Però al tempo di Virgilio i Frigi e gli Orientali in genere avevano fama di essere realmente effeminati.
13o-I3I. sporcare nella polvere, ecc.: l'asta, l'arma più micidiale ed espressiva della forza del combattente, infiamma Turno, e il suo odio contro Enea è qui più feroce che mai. Perciò è sinp;olare questo monologo di Turno all'asta. Il principe rutulo ha bisogno di rinnovare la sua fiducia dopo le accuse dei Latini, le esortazioni del re, il pian to e le preghiere di Amata, lo sguardo lagrimoso e il rossore di Lavinia; e la cerca non in se stesso, dove si è creato un vuoto ormai incolmabi-
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le, ma nei suoi cavalli, nelle armi e in particolare nell'asta, l'arma sua prediletta. 135-136. e prova... delle corna: l'espressione pittoresca e fantasiosa pone in evidenza la furia del toro, il quale pare che concentri la sua ira nelle corna, sua unica, ma terribile arma. 137-138. si scatena a colpire, ecc.: la furia del toro ~ cosl grande, che l'animale dà l'impressione di colpire nell'aria un nemico reale. L'immagine fa pensare, come conseguenza, al verso dantesco: « Sl che parea che l'aer ne temesse» (lnf., I, 48). - sparge in aria la sabbia, ecc.: il toro, ma anche la sua femmina, batte in terra raspando uno dei piedi anteriori, sollevando terra e polvere, prima di avventarsi nella lotta. 139-146. Frattanto Enea, ecc.: quanto più contenuto è il contegno di Enea! Anche l'eroe troiano, alla vigilia del duello, prova le armi, però non per trarre da esse fiducia e sicurezza. Egli trae forza e coraggio dall'età e dalle sue esperienze dolorose, ed anche dalla fede nei prodigi e nei responsi divini che l'hanno confortato nel lungo viaggio e, non meno, al suo arrivo alle foci del Tevere. Intorno ad Enea ~i respira un'altra aria, proprio per virtù sua, poiché egli trasmette !a sua serenità ai compagni e a Julo, trasfondendo in es'li la sua fiducia nel « volere e nei disegni del Fato». IL
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(147-172). - Quando l'aurora comincia ad illuminare con la prima luce il nuovo
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giorno, si fanno i preparativi del duello: si misura e si recinge il campo, nel mezzo del recinto si erige l'altare, e i sacerdoti, incoronati di verbena e vestiti di candidi lini, portano il fuoco e l'acqua lustrate. Attorno al recinto si schierano i due eserciti, italico e troiano, lucenti nelle armi di bronzo, e nell'attesa piantano a terra le aste e abbassano gli scudi. Dall'alto delle mura, delle torri e dei tetti delle case, vecchi, donne e bambini guardano ansiosi e trepidanti. 147-I.5I. Appena nato, il giorno, ecc.: avverti la grandiosità di questo ampio quadro naturale illuminato dai primi raggi del sole nascente. Al duello che doveva segnare l'inizio di un nuovo corso della storia, la fortuna di Roma, non potevano mancare i raggi del sole illuminanti « la cima delle alte montagne ~. e la visione grandiosa dei cavalli che sorgono « dal mare profondo, sbuffando chiarore dalle froge levate in alto ~. 1.51-1.54· Misurando il campo, ecc.: guerrieri rutuli e troiani delimitano con uno steccato il campo, e lo sgombrano da ogni ostacolo. alzavano altari: prima del duello era rituale il sacrificio agli dèi venerati dai popoli dei due contendenti, i quali dovevano essere garanti del giuramento di attenersi rigidamente ai patti. 1.5.5-172. Altri cinti del lungo grembiule, ecc.: sono i sacerdoti che, ministri del sacrificio, avevano il compito di apprestare il vino, l' acqua, il fuoco e di sacrificare
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Appena nato, il giorno seguente spargeva di luce la cima delle alte montagne: era l'ora che i rosei cavalli del sole cominciano a sorgere dal mare profondo, sbuffando chiarore dalle froge levate in alto. Misurando il campo per la sfida sotto le grandi mura della città, i guerrieri rutuli e teucri alzavano altari fatti di zolle erbose e fuochi sacri per i comuni Dei. Altri cinti del lungo grembiule orlato di porpora e incoronati di steli di verbena portavano acqua di fonte e fuoco. La truppa ausonia avanza; armate di giavellotto le squadre si rovesciano dalle porte affollate. Dall'altra parte accorrono gli eserciti troiano ed etrusco con armi varie: coperti di ferro come dovessero muovere a battaglia, chiamati dal terribile Marte. In mezzo alle migliaia di guerrieri si aggirano i capi adorni d'oro e di porpora: Mnèsteo discendente d'Assaraco, il forte Asila e il figlio di Nettuno, Messapo domatore di cavalli. Dato il segnale, ognuno si ritirò al suo posto piantando in terra l'asta e posando lo scudo. Bramosa di vedere il duello una folla di plebe disarmata, vecchi invalidi e donne riempie le torri e i tetti delle case, e s'addensa fitta sul limitare delle altissime porte.
Giuturna, sollecitata da Giunone, soccorre Turno le vittime. Essi indossavano un grembiule, che discendeva fino ai piedi ed era attraversato obliquamente da una striscia di porpora, ed avevano il capo cinto da un ramoscello di verbena. Intorno al campo si dispongono i soldati dei due eserciti con i loro capi, dei quali il poeta nomina il troiano Mnesteo (V, 126), Asila, condottiero etrusco (X, 222), Messapo, etrusco, ma alleato di Turno (VII, 793). Sul-
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le mura e sui tetti delle case si dispone la folla inerme dei vecchi, delle donne e dei bambini. GIUTURNA, SOLLECITATA DA GIUNONE, SOCCORRE TuRNO (173-20.5). Giunone
non sa darsi pace; dall'alto del monte Albano osserva i preparativi del duello e, sospinta dall'odio contro i Troiani e dal desiderio di salvare Turno, medita di turbare i patti e impedire lo
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Giunone intanto osservava il campo, i due schiera[menti laurentino e troiano e la città latina sporgendosi d'in cima alle alture che adesso si chiamano monti Albani: ma allora non avevano nome né onore di riti festivi né alcuna gloria. La Dea disse a Giuturna, la sorella di Turno, Divinità preposta agli stagni ed ai fiumi echeggianti (fu il re celeste, Giove, a darle quest'incarico sacro, per la verginità toltale un giorno): 41 O Ninfa, onore delle acque, carissima al mio cuore; tu sai come tra quante donne latine ascesero alletto senza memoria del magnanimo Giove, io ami solo te, e come volentieri t'abbia concesso un angolo dell'Olimpo. O Giuturna, sappi la tua sventura, non accusarne me. Finché la Fortuna permise - consenzienti le Parche - che gli eventi volgessero a favore del Lazio, protessi Turno e le mura a te care: ora vedo che il giovane combatte con Fati non eguali, che la forza nemica e il giorno delle Parche oramai s'avvicinano. No, non posso guardare con questi occhi un tal patto e un tal duello! Se osi accorrere in aiuto di tuo fratello, affrettati: è necessario. Forse
scontro. Chiama a sé Giuturna, sorella di Turno e ninfa delle fonti e dei fiunti, un tempo amata da Giove, che le concesse l'immortalità, e le annuncia che non può più far nulla in favore del fratello, cui già sovrasta la morte. La ninfa piange, e Giunone le insinua che essa può ancora tener lontana dal fratello la Parca, purché riesca a turbare l'accordo e a provocare un nuovo motivo di lotta. 173-177. Giunone intanto, ecc.: riappare sulla scena Giunone che, dalla cima di
uno dei monti Albani (a sud-est di Roma, allora senza nome e gloria), osserva tra dispettosa e disperata i preparativi del duello, e medita implacata con il cuore in tumulto, di eludere ancora una volta il destino che vuole la morte di Turno e la vittoria dei Troiani. 178-182. a Giuturna, la sorella, ecc.: Giuturna (in latino « Juturna » e anticamente « Diuturna ») era una ninfa delle fonti e dei fiumi. Amata da Giove, ebbe dal re dei Celesti il dono dell'immortalità. Una sorgente le era sacra presso il
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fiume Numico, e un'altra nel Foro Romano, ai piedi del Palatino, che il D'Annunzio descrive nel terzo libro delle Laudi, e dove la leggenda dice che i Dioscuri abbeverarono i loro cavalli, quando portarono ai Romani la notizia della vittoria riportata contro i Latini al lago Regillo (406 a. C.). 184. senza memoria: perché Giove dimenticava spesso le donne amate. Con queste insinuazioni Giunone mira ad acquistarsi la simpatia di Giuturna e quindi a convincerla più facilmente a contrastare il proposito di Giove, il quale vuole che il Fato si compia. 187-188. sappi la tua sventura, ecc.: della triste sorte che t'aspetta, cioè di perdere il fratello, non darmi colpa di non averti avvertita. 192-193. con Fati non eguali, ecc.: perché il Fato di Turno è la sua morte, quello di Enea è la vittoria. - la forza nemica, ecc.: una potenza ostile, che guida le forze troiane, e il giorno stabilito, in cui Atropo, la parca inflessibile che tronca lo stame della vita, sono ormai vicini a Turno. 194-195. No, non posso guardare, ecc.: perché il patto e il duello, di cui Giunone conosce -l'esito, annullano totalmente il suo piano, che mira ad impedire l'insediamento dei Troiani nel Lazio e l'avvio allll futura grandezza di Roma. I97· ne verrà agli infelici, ecc.: è ammirevole questa speranza tenace anche di fronte all'ineluttabilità del destino! La passione giunge spesso anche all'assurdo. Avverti come il discorso della
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dea sia concitato, fatto di frasi brevi, separate tra loro, ma abilmente impostate. 204-205. Così l'esorta, ecc.: le parole di Giunone, benché pronunciate con forza e senza incertezze, lasciano capire che il suggerimento della dea è un tentativo estremo di salvare una situazione disperata; e Giuturna rimane perciò incerta e sconvolta. La ninfa tenta però egualmente di seguire i suggerimenti di Giunone, sia per amore del fratello, sia perché la dea si è assunta lei la responsabilità ( « ti autorizzo a tutto»). SI GIURANO I PATTI (206-
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rativi, inizia la cerimonia del giuramento. Entra per primo su una quadriga Latino, splendente e regale, accompagnato da Turno; poi giunge anche Enea, che indossa le armi divine ed è accompagnato da Julo. Un sacerdote spinge presso l'altare un porcello setoloso ed una pecora intonsa, indi Enea, brandendo alt,z la spada, giura che, se sarà soccombente, i vinti si ritireranno nellq città di Evandro e ]ulo abbandonerà la regione pacificamente, né in seguito gli F..neadi porteranno guerra ai regni del Lazio; se vincerà, gli ftalici non saranno assoggettati ai Troiani, ma i due popoli si uniranno con alleanza eterna e leggi eguali sotto il re Latino, che avrà tutto il potere, civile e militare. Latino conferma il patto; e il sangue delle vittime, che sono subito immolate sull'altare, sigilla il reciproco giuramento.
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ne verrà agli infdici un vantaggio». Giutuma ruppe subito in lagrime e percosse il bel petto con la mano, tre volte, quattro. « Non è davvero il momento di piangere - disse Giunone; figlia di Sstumo. - Fs' in fretta, e se ne trovi il modo strappa Turno alla morte: rompi i patti, chiamando gli eserciti alla guerra. lo ti autorizzo a tutto ». Cosi l'esorta e la lascia smarrita, dubitante e sconvolta nell'anima da una grave ferita.
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Ed ecco i re. Latino, possente di statura, avanza su una biga, le sue tempie splendenti son cinte da una corona con dodici raggi d'oro che simboleggia il sole, suo antenato. Turno va su una biga bianca, brandendo nelle mani due giavellotti dal largo ferro. Dall'altra parte avanza Enea, capostipite della stirpe romana, sfolgorante per l'armi celesti e per lo scudo stellato; lo accompagna fuor dell'accampamento Julo, seconda speranza della superba Roma. Un sacerdote vestito d'un manto immacolato, candidissimo, porta un setoloso porcello,
206. Ed ecco i re: sono Latino, Enea e Turno. Anticamente l'appellativo « re», che designa il capo dello stato, era attribuito anche ai principi, specialmente in poesia. - possente di statura: i poeti classici raffigurano i re dell'età eroica sempre con una statura maestosa e possente. 209-214. che simboleggia il sole, ecc.: Latino era figlio di Circe, cui era padre il Sole. Il nonno di Latino era quindi il Sole; e i dodici raggi della corona rappresentavano i dodici segni dello zodiaco. Nel canto VII, 58-59, Virgilio dice che Latino « era figlio di Fauno e di una ninfa di Laurento,
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Marica »; ma non vi è contraddizione: Marica era identificata con Circe. Comunque sia, già il più antico critico di Virgilio, Servio, notò che il nostro poeta trae spesso partito, con grande libertà, dalla varietà delle tradizioni. 216-223. Un sacerdote vestito, ecc.: Virgilio riproduce scrupolosamente anche qui il cerimoniale dei riti sacrificali romani: il sacerdote indossa una veste candida, senza ornamenti di porpora e porta un porcellino, che per consuetudine è la vittima richiesta nei sacrifici per trattati d'alleanza, e una pecora intonsa di età inferiore a due anni. I re compiono l'atto augurale volgen-
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una pecora intonsa nata nell'anno prima, e spinge le due bestie alle are fiammeggianti. Rivolti gli occhi al sole nascente i re cospargono il capo delle vittime di frumento salato e, marchiando col ferro le loro tempie, spruzzano con le tazze gli altari. Impugnata la spada il pio Enea cosi supplica: «Sii testimone, o sole, e tu, terra, che invoco e per la quale tanti travagli ho sopportato, e tu, o Onnipotente, e tu Saturnia (Dea, te ne prego, sii piu mite verso di me!), e tu, glorioso Marte, Padre che imprimi a tutte le guerra la tua volontà; sistemi testimoni voi, fontane, che invoco, e voi fiumi, e voi quante Divinità abitate nel cielo altissimo e in fondo all'oceano ceruleo: se vincerà l'ausonio Turno, siamo d'accordo che i vinti si ritirino nella città di Evandro e Julo vada via dalla regione; mai in seguito gli Eneadi dovranno ribellarsi in alcuna maniera, o portare la guerra a questi regni. Se, invece, la Vittoria sarà mia (come credo; ed i Numi confermino con il loro volere la mia speranza!) allora non chiederò che gli !tali obbediscano ai Teucri, non pretenderò il regno: i due popoli, invitti entrambi, si uniranno con alleanza eterna e leggi eguali. Sarò io a stabilire i culti e gli Dei dello Stato; mio suocero Latino terrà il potere supremo civile e militare. I Teucri eleveranno nel cielo le mie mura; darà I..avinia il nome alla nuova città». Cosi per primo Enea. Gli succede Latino, guardando il cielo e tendendo la destra verso le stelle: « lo giuro per gli stessi Numi, Enea, per la terra, per il mare e le stelle, per i figli divini dosi verso oriente, e cospargono farina abbrustolita mista con sale sul capo delle vittime, di cui poi segnano col ferro le tempie e infine dalle tazze spruzzano vino sugli altari. 224-248. Sii testimone, o
sole, ecc.: Enea pronuncia il giuramento per primo; un giuramento preciso e solenne, nel quale non si avverte né ostilità, né alcuna avidità. Invoca come testimoni del suo giuramento il sole, che tutto illumina e scruta, e la
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terra, soprattutto il Lazio che il Fato gli ha destinat~ e per la quale ha sopportato e sta sopportando fatiche e pericoli; e infine gli dèi: Giove, l'onnipotente, Giunone, perché gli sia meno ostile, Marte, il dio che governa le battaglie, e tutte le divinità minori della terra, del cielo e del mare. A tutti egli giura di mantenere i patti: se vincerà Turno, Julo lascerà il Lazio e i Troiani si ritireranno nel piccolo regno di Evandro e non faranno più guerra agli ltalici; se vincerà Enea, gli Italici non saranno assoggettati ai Troiani, ma i due popoli si uniranno « con alleanza eterna e leggi uguali »; egli avrà il potere religioso e Latino quello politico e militare, i Troiani costruiranno una città che sarà chiamata Lavinia. Nota come Enea, se sconfitto, accenni soltanto a Julo. Il duello era, come noi diciamo, all'ultimo sangue, e ad Enea morto, rimaneva a suecedergli il figlio. Inoltre osserva il principio di eguaglianza che accomuna nel patto vincitori e vinti; e questa è certamente la concezione politica di Virgilio, che ~ell'unità dell'impero romano vedeva fondersi tutti i popoli in perfetta eguaglianza e libertà, come condizione fondamentale per legare insieme, concordi e pacifici, popoli diversi e discordi. 251-272. Io giuro per gli stessi Numi, ecc.: con la stessa formula, che è quella ufficiale del giuramento in uso presso i Romani, pronuncia il suo giuramento per gli Italici, e quindi per Turno, il re Latino. Alle divini-
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tà il vecchio re aggiunge Giano, uno degli dèi della più antica religione, precedente alla fondazione di Roma; e aggiunge anche gli dèi infernali e la sacra dimora (il santuario) di Dite, re del mondo sotterraneo. - Tocco le are: nelle religioni politeistiche il carattere sacro, e quindi l'inviolabilità, erano conferiti al giuramento dagli dèi garanti e toccando l'ara sulla quale venivano sacrificate le vittime. - lì vero quanto è vero, ecc.: il giuramento di Latino, dettato da comprensione e sincerità, benché di tono cosl solenne che sconfina spesso nell'ampolloso, non differisce da quello di Enea, del quale accetta nella sostanza e nello spirito il contenuto, pur senza ripeterne i particolari. Gli nuoce l'immagine finale dello scettro, che è una imitazione fredda e retorica di quello di Achille (Il., V, JII e sgg.). 275-277.
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fiamma, ecc.: le vittime dovevano essere sgozzate sul fuoco, perché il sangue cadesse sulla fiamma, e le viscere, poste sugli altari in piatti ricolmi, dovevano essere ancora palpitanti per poterne trarre gli auspici.
Giuturna turba l'accordo
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DO (278-343). - Giurati i
patti e terminato il rito sacrificate, Turno scende in campo. Il giovane principe, abitualmente fiero e sprizzante energia, appare pallido, chino e senza baldanza; e i Rutuli, che già stimavano il duello impari, rimangono profondamente impressionati. Tra le loro file comincia a serpeggiare un mormorio di ansioso timore, e di
di l.atona, per Giano bifronte, per la forza delle Divinità infernali e il santuario dell'inflessibile Dite: mi ascolti il sommo Padre che sancisce col fulmine i patti! Tocco le are, invoco a testimoni questi fuochi, che stanno in mezzo a noi, e i Celesti: nessun giorno potrà indurre gli !tali a rompere questa pace, comunque vada; nessuna forza potrà distoglierne me consenziente, nemmenO' se sarà tanto grande da sprofondare in mare la terra, sommergendola nel diluvio, e dissolvere il cielo giu nel Tartaro! È ·vero quanto è vero che questo scettro - (infatti nella destra portava uno scettro) - mai piu produrrà dei virgulti fruscianti di fogliame e di leggere ombre: da quando, in fondo a un bosco, reciso dal pedale d'un tronco, fu staccato dalla sua pianta madre, e il ferro lo spogliò di rami e foglie. Un tempo era un albero; adesso la mano d'un artefice l'ha avvolto nel lucido bronzo perché i padri latini lo stringano nel pugno ». Con tali parole concludevano l'accordo al cospetto dei capi. Quindi, secondo il rito, sgozzano sulla fiamma le bestie consacrate, strappan loro le viscere ancora palpitanti e riempiono gli altari di vassoi ricolmi.
Ma ai Rutuli la lotta sembra troppo ineguale da tempo, e i loro cuori sono in preda a diversi sentimenti; il timore aumenta quando meglio vedono da vicino che le forze sono impari.
questo stato d'animo approfitta Giuturna, la quale prende le sembianze di Camerte, valoroso guerriero, e si aggira qua e là rimproverando/i di lasciare che Turno si esponga al pericolo, mentre essi se ne stanno ·tranquilli, pur essendo pari di numero e di valore al nemico. Il rimprovero di Giuturna rag-
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giunge il suo effetto: tutti ardono dal desiderio di riprendere la lotta; ma più ancora delle parole di Giuturna li convince un prodigio, che l'àugure Tolunnio interpreta favorevolmente. 278-28r. troppo ineguale:
forse perché Turno è più giovane, o per una evidente
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Contribuisce a atterrirli l'atteggiamento di Turno che avanza silenzioso e venera l'altare inchinandosi muto, supplichevole, gli occhi a terra; e li commuovono le guance cosf floride di giovenru ma sparse di livido pallore. Appena la sorella Giuturna s'accorse che il mormorio cresceva e gli instabili cuori della folla volgevano a favore di Turno, con un balzo si lancia tra le file assumendo l'aspetto e l'andatura di Camerte, famoso per antenati, illustre per il valore paterno e lui stesso fortissimo guerriero. Tra le file si lancia e, ben sapendo quello che fa, vi semina molte chiacchere: « O Rutuli - dice in fretta - ver[gogna: mandare allo sbaraglio la vita di uno solo in cambio di voi tutti che siete cosi forti! Non siamo forse alla pari per numero e potenza con i nostri nemici? Eccoli tutti: i Teucri, gli Arcadi e poi gli Etruschi, l'esercito fatale, ostile a Turno. E, forse, avremmo un avversario maggiore prestanza fisica di Enea, oppure per un naturale presentimento suggerito dalle circostanze dei giorni precedenti. 282-286. Contribuisce ad atterrirli, ecc.: i Rutuli e gli altri I talici sono impressionati anche dal comportamento insolito di Turno. Quel suo avanzare modesto, quel suo pallore in volto e la timidezza dei suoi atti commuovono tutti i presenti. Questo insolito ed improvviso atteggiamento di Turno è veramente un'incongruenza del poeta, come sostengolio alcuni critici? Non sembra, anche se il lettore non è stato preparato, neppure da un sem.plice accenno. Virgilio ha intuito che le cerimonie solenni, preparatorie del duello, hanno influito profondamente sul-
l'animo del giovane Turno, prode e baldanzoso, ma anche eccitabile e istintivo. Inoltre le parole di Latino, il pianto di Amata, l'ostilità diffusa tra i maggiorenti latini, la sfiducia nel suo valore che aveva sentito nelle parole di molti, hanno creato in lui un'insicurezza, che la sera prima aveva cercato invano di eliminare ammirando le sue armi gloriose. E in questo suo atteggiamento, che il momento spiega e giustifica, l'altezzoso, lo sprezzante, il rozzo Turno ci appare più umano, più vero, e ci ispira un sentimento di pietà e di simpatia, come se fosse vittima di una ingiustizia. 288-295. e gli instabili cuori, ecc.: l'atteggiamento i.nsolito di Turno impressiona i soldati, e tra le file dei
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Rutuli prima, tra quelle dei Latini subito dopo si elevano voci di compassione e di timore. Questo mutamento della folla è avvertito da Giuturna, che assunto l'aspetto di Camerte, re di Amiele, città leggendaria della Campania, vi si immischia e ne accende maggiormente gli animi. Virgilio, quando scriveva questi versi, specialmente l'espressione « instabili cuori della folla », aveva davanti agli occhi la prova con la quale le plebi romane cambiavano idee, simpatie, amori, e con quanta facilità si lasciavano piegare a compiere le volontà e gli interessi dei capipartito. 295-309. O Rutuli... vergogna: Giuturna, nelle vesti di Camerte, si rivolge ai soldati, che attendono di assistere al duello, con poche idee, ma appropriate ed espresse con frasi brevi, _incisive: un elogio ed un rimprovero - voi che siete cosl forti e di numero non inferiore a quello dei nemici, non vi vergognate di esporre uno solo al pericolo? -; una ironica allusione, che è una beffa audacissima, agli oracoli che avevano ordinato agli Etruschi (l'esercito fatale) di attendere un capo straniero per punire Turno d'aver accolto e protetto Mesenzio; una diretta sollecitazione dell'amor proprio Turno sarà glorioso ed onorato come un dio, noi che ce ne stiamo inerti 'saremo schiavi. - È un discorso completamente diverso, ~ quindi opposto, a quello dt Drance, poiché mentre que: sti diceva ingiusto che tanti combattenti dovessero esporsi al pericolo per uno solo,
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Giuturna dice ingiusto che uno solo si sacrifichi per tutti.
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3II-316. gli stessi Laurentini, ecc.: sono quelli che più
di tutti bramavano la pace; e il poeta con « gli stessi » pone in evidenza l'efficacia delle parole del falso Camerte. - coloro che speravano, ecc.: chi prima sperava che il conflitto si risolvesse bene, nello stesso interesse dello stato, senza la guerra.
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320-343. ecco l'aquila fulva di Giove, ecc.: il fatto prodigioso è dagli I talici in-
terpretato propizio e salutato con grida di gioia. Ne dà conferma l'àugure Tolunnio, che interviene con enfasi e sicurezza, dicendo che l'aquila era Enea che tentava di rapire Turno, e lo stormo di uccelli acquatici i soldati italici che lo hanno liberato. - stretti in una nuvola: strettisi insieme per l'assalto, formando, cosl compatti, come una nube.
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a testa solamente se combattessimo uno sf e l'altro no. Davvero Turno diventerà per la sua gloria uno dei Celesti, agli altari dei quali si consacra, e sarà sempre vivo nella memoria di tutti! Ma noi, persa la patria, saremo costretti a obbedire a un padrone superbo. Tutta colpa dell'inerzia che qui ci vincola, a sedere! ». L'anima dei guerrieri s'accende sempre piu a simili parole, e un mormorio serpeggia per le file. Gli stessi Laurentini e Latini van mutando parere: coloro che speravano la fine della guerra come unica salvezza dello Stato, ora vogliono le armi ed invocano la rottura dei patti, compiangendo la sorte infelice di Turno. Giuturna fa di meglio. Manda dall'alto cielo un segno prodigioso, che turbò ed ingannò gli animi degli ltalici piu di tutto. Difatti ecco l'aquila fulva di Giove poderosa volare nel cielo rosso del primo sole, inseguendo uno stormo d'uccelli acquatici che urlava frenetico di paura, c, abbassandosi sino a sfiorar l'acqua, cogliere rapacemente un cigno stupendo, all'improvviso, con gli artigli uncinati. Gli Italici osservavano con attenzione. Tutti gli uccelli con fragore invertono il loro volo (cosa stupenda! ), oscurano il cielo con le penne e stretti in una nuvola inseguono il nemico per aria, finché l'aquila, vinta dalla violenza avversaria e dal peso stesso, s'arrende e molla dagli artigli la preda giu nel fiume, poi sale altissima a nascondersi nel folto delle nubi. I Rutuli salutarono l'auspicio con un grido, impugnando le armi; e l'augure Tolunnio: « Ecco, ecco - dice - quello che tante volte ho nei miei voti. Accetto e riconosco gli Dei. [chiesto Sguainate le spade e seguite il mio esempio, miseri, che un crudele straniero terrorizza come deboli uccelli, devastando le vostre spiagge con la violenza! Lo vedrete fuggire e far vela lontano, verso il mare profondo. Su, serrate le file, difendete il re vostro! »
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Enea è ferito 34S
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Avanzando di corsa lanciò un giavellotto contro il nemico: l'asta di corniolo, stridendo fende diritta l'aria. Contemporaneamente scoppia un clamore immenso: poiché la folla è in sub[buglio ed i cuori in tumulto. Dirimpetto a Tolunnio c'erano nove fratelli bellissimi, generati all'arcade Gilippo dalla fedele moglie di sangue etrusco: l'asta volando colse in pieno uno di questi, giovane che spiccava fra tutti per la sua leggiadria e le armi lucenti, gli trafisse il costato nel punto in cui la cinta ben tessuta s'affibbia sul ventre, e lo distese morto sopra la fulva arena. I suoi fratelli, giovani coraggiosi, sconvolti da quel lutto, impugnano chi spada, chi giavellotto, e irrompono urlando nella mischia, alla cieca. Li affrontano i Laurentini. Dilagano compatti Teucri, Etruschi e gli Arcadi dalle armi dipinte. Desiderio comune è definire la questione con le armi. Abbattono gli altari - una tempesta torbida di proiettili ingombra tutto il cielo e ricade in una pioggia di ferro-; portano via le tazze e i fuochi. Il re Latino fugge recando seco le statue degli Dei offesi dalla rottura dell'accordo. E c'è chi prepara il carro da guerra o salta sul cavallo o sguaina la spada. Ansioso d'infrangere il patto Messapo sprona il ca[vallo e va addosso ad Auleste, un principe etrusco che portava le insegne di re: indietreggiando ENEA È FERITO {344-4II ). - T olunnio alle parole fa seguire i fatti, e scaglia un giavellotto contro il nemico, uccidendo un giovane arcade. La reazione è violenta, e la mischia divampa generale. L'altare è travolto, i sacerdoti se ne vanno, Latino fugge nella reggia portando con sé le statue degli dèi.
Enea corre a testa nuda nel folto della battaglia, e tenta invano, alzando le braccia, di calmare gli animi. Mentre chiama tutti a migliori consigli e grida che egli solo deve combattere con Turno, una freccia, lanciata non si sa da chi, lo ferisce ad una gamba.
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344· lanciò un giavellotto: Tolunnio alle parole fa seguire i fatti e lancia egli stesso un giavellotto, che colpisce un Arcade, uno dei nove fratelli di Gilippo che, venuto con Evandro dall'Arcadia, aveva sposato un& donna etrusca. L'atto di Tolunnio è come il segnale della battaglia, e chi lo ha dato non è un soldato qualsiasi, ma un sacerdote investito eli una autorità particolare. 361. dalle armi dipinte: forse gli scudi, dipinti con immagini di divinità. 363-366. Abbattono gli altari, ecc.: specialmente Latini e Rutuli, che più di tutti si preoccupano di cancellare la testimonianza più compromettente. Senza gli altari essi possono dimostrare d'essere insorti non infrangendo i patti, cosa sacrilega da cui aborriscono, ma dopo il prodigio dell'aquila e l'interpretazione augurale diTolunnio che, seguita dal suo esempio, li ha convinti a considerare i patti come nulli. Anche i sacerdoti portano via le cose sacre {« le tazze e i fuochi»), mentre il cielo è ingombro da una torbila tempesta di dardi, che poi cadono sulla terra come pioggja 'di ferro. 366-369. Il re Latino, ecc.: Latino, inorridito dalla sacrilega rottura dei patti, sottrae ad un oltraggio peggiore le statue degli dèi portate per il giuramento, e fugge. Non sa fare altro; non certo d'imporsi alla folla, di cui anche in questa cidcostanza accetta supinamente l'imposizione. 371. Auleste: uno degli Etruschi alleati di Enea.
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378. Prendi questo: prendi questo colpo. La frase elittica esclamativa è presa dal circo e adattata alla circostanza. Gli spettatori, quando un gladiatore cadeva ferito, esclamavano « habet », l'ha avuta!, sottintesa la ferita. 379· Ecco la miglior vittima, ecc.: la vittima più accetta agli dèi di quelle offerte da Latino. L'espressione è molto forte, superba e quasi sarcastica; e poteva pronunciarla un empio, o un incosciente, oppure chi avesse sicura coscienza che i patti giurati fossero vani. Non certo a caso, dopo la violazione dei patti, Virgilio fa cadere la prima vittima sulle are che erano servite al giuramento. 380. spogliano le membra: spogliano il caduto Auleste delle armi, secondo il diritto comune di quei tempi. 381-383. Corineo... Ebuso: il primo Troiano, il secondo Latino. Il tizzone tolto dall'altare indica l'empietà di questa lotta; perciò essa trascende in zuffa, in cui i combattenti sembrano travolti da cieco furore. 384-385. La barba d'Ebuso, ecc.: la barba che brucia e il puzzo che sparge intorno sono una nota comica che attenua l'impressione disgustosa di questi atti crudeli e feroci. 389-391. Podalirio ... Also: guerriero troiano il primo, rutulo il secondo. - in mano: con in mano. 392. l'altro: Also. 397-398. Intanto a testa nuda, ecc.: Enea non può e non wole venir meno al
il disgraziato Auleste stramazza e si rovescia 375
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con la testa e le spalle su un'ara che sorgeva dietro di lui. Impetuoso Messapo corre addosso al caduto e, levandosi sul cavallo, con l'asta enorme lo colpisce mentre invano cercava d'impietosirlo e pregava. «Prendi questo- gli grida. - Ecco la miglior vittima offerta ai grandi Dei! » Accorrono gli Italici e spogliano le membra tiepide. Corineo afferra dall'altare un tizzone rovente e con quello percuote nel volto l'accorrente Èbuso che già stava per ferirlo. La barba d'Èbuso s'incendiò con una gran vampata e un fumo puzzolente; e Corineo l'insegue, afferra per la chioma lo sbigottito avversario, lo inchioda sul terreno premendogli un ginocchio addosso e gli trafigge il fianco con la spada. Podalirio. vedendo correre in prima fila tra le frecce il pastore Also, l'incalza, in mano la spada sguainata: d'un rovescio di scure l'altro gli spacca la fronte sino al mento, bagnando le sue armi di sangue. Una quiete pesante ed un sonno di ferro gravano sulle palpebre stanche di Podalirio, i suoi occhi si chiudono nella notte infinita. I n tanto a testa nuda il pio Enea tendeva le mani disarmate gridando ai suoi: «Ma dove correte? Che cos'è questa discordia improvvisa? Reprimete il furore; il patto è già concluso, le condizioni firmate! Tocca soltanto a me combattere: lasciate fare a me e allontanate ogni paura. Io farò valere i patti con la mia mano! Turno ormai m'è destinato solennemente! ». Ed ecco, proprio in mezzo al discorso,
patto giurato, e con l'elmo in mano e la spada nel fodero, senza altre armi, s'inoltra tra i combattenti con l'intento di frenare la loro furia pazza. In mezzo a quella zuffa furibonda, disarmato e incurante di sé, solo preoccupato di far rispettare i
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patti religiosamente consacrati, merita veramente l'appellativo di pio. 404-405. Turno ormai, ecc.: in virtù dei patti, Turno deve combattere con me; a voi non è più lecito impugnare le armi. Ma l'espressione potrebbe anche
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una stridula freccia si piantò nella gamba dell'eroe: non si sa da chi scagliata, o spinta da quel turbine. È incerto chi abbia dato ai Rutuli tanta gloria, se un caso o un Dio: poiché nessuno mai ha osato vantarsi d'aver ferito Enea, la fama della grande impresa è rimasta oscura.
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Appena vide Enea uscire dalle file e i comandanti sconvolti, Turno pronto s'accende d'improvvisa speranza: chiede le armi e i cavalli, con un salto è sul carro, superbamente fiero, e maneggia le redini. Volando qua e là uccide molti forti guerrieri e· ne ferisce molti altri, atterrando col suo cocchio le squadre, scagliando sui fuggiaschi le aste strappate ai morti. Come quando, vicino alla diaccia corrente dell'Ebro, il sanguinoso Marte batte lo scudo con l'asta, scatenato, ed incita i furiosi cavalli alla battaglia (i corridori volano nell'aperta pianura dinanzi ai Noti e a Zefiro, l'estrema Tracia piange per quei colpi di zoccoli, e intorno al Dio si muove la sua scorta che ha i volti della nera Paura, dell'Ira e dell'Insidia): significare: Turno ormai è mia preda. 406-41 I. una stridula freccia, ecc.: la provenienza della freccia è ignota; nessuno riesce a sapere chi ha ferito Enea, perché nessuna forza umana poteva colpire l'eroe troiano, consacrato ormai al duello, che doveva coronare le sue fatiche e dare inizio alla creazione del destino fatale di Roma. Anche la città eterna un giorno avrà i suoi nemici, ma nessuno, nemme· no Annibale, oserà assalirla. Solo i barbari avranno l'ardire di colpirla: i Galli e
molti secoli dopo altre orde selvagge, che però varcheranno le sue mura non senza trepidazione, anche se poi devasteranno le sue case e i suoi templi. Così in questi versi appare dominante una forza occulta, cattiva; e il breve episodio è tutto pervaso dal mistero e da un'onda suggestiva di poesia. TURNO FA STRAGE DI NE-
MICI (412-482). - Enea, fe-
rito ad un ginocchio, si allontana dal campo della lotta sostenuto dai suoi, e Turno, animato da nuova spe-
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ranza, si getta nella battaglia can il consueto impeto, e mena strage di nemici. 412-416. Turno pronto ... le redini: Turno, appena vede Enea allontanarsi dal campo ferito, mosse dalla speranza di sopraffare, durante la sua assenza, le forze troiane e quindi di evitare il duello, sale sul carro, afferra le redini ed entra veloce nel turbine della battaglia. Di solito il carro, dal quale il guerriero combatteva, era guidato da un auriga; ma Turno ha fretta e, sicuro di sé, parte guidando egli stesso i cavalli. Particolare, questo, molto eloquente per la caratterizzazione di questo giovane impulsivo. 42o-427. vicino alla ... dell'Ebro: nelle campagne attraversate dall'Ebro, oggi Maritza, fiume principale della Tracia, regione assai bellicosa, consacrata a Marte e detta perciò anche Marzia. - sanguinoso: perché, come dio della guerra, insaziabile di stragi. - batte lo scudo con l'asta: per atterrire i nemici e per incitare i soldati alla lotta. - ai N oti e a Zefiro: più rapidi dei venti Noti e di Zefiro. I Noti sono venti di mezzogiorno; Zefiro di ponente. - l'estrema Tracia: tutta la Tracia, fino ai suoi estremi confini. - la sua scorta... Insidia: Paura, Ira, Insidia sono personificazioni dei terrori delIa guerra, che formano la scorta di Marte. « Nota in questa similitudine un certo che di mosso e di concitato, un rapido accenno a particolari tutti essenziali ed espressivi, una varietà di suono che ha toni smorzati
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e quasi cupi, per quel certo che di misterioso che porta seco il corteggio di Marte » (A. Copelli). 428-431. così Turno impetuoso, ecc. : il particolare è di un verismo crudo, quasi selvaggio, ma come preludio dell'ultima strage dd campione italico è anche di una grandezza epica. Questi alti e bassi dello stato d'animo di Turno fatti di eccitazione e di depressione, non sono determinati da viltà, ma da inquietudine. Egli non ha davanti a sé una visione di certezza, ma l'ombra di un funesto presagio, che ora si addensa, ed egli rimane nei suoi atti come paralizzato, ora si dilegua e l'eroe si esalta con tutta la potenza del suo istinto impulsivo. Completamente diverso l'atteggiamento di Enea, perché diverse sono la sua coscienza e la sua maturità spirituale, diversa è anche la sua missione e diversi sono gli elementi che la accompagnano. 432-460. Ha dato già alla morte, ecc.: segue un elenco di vittime dell'azione violenta di Turno, i cui nomi sono per lo più invenzione di Virgilio. Fanno eccezione il Troiano Eumede, figlio di quel Dolone, che ebbe il coraggio di andare ad esplorare di notte il campo greco, chiedendo in compenso i cavalli di Achille, ma sorpreso da Ulisse e da Diomede, usciti per penetrare in Troia e rapire il Palladio, fu da essi ucciso (Il., X), donde l'osservazione ironica del poeta: « da allora non può, ecc. » (v. 451-452). - eccola quella Esperia, ecc.: intenzionalmente il poeta fa usare a
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cosi Turno impetuoso sferza in mezzo alla mischia i cavalli fumanti di sudore, schiacciando crudelmente i cadaveri; lo zoccolo veloce sparge spruzzi sanguigni, pestando sangue e arena. Ha dato già alla 01orte Stènelo, Tàmiro, Folo, i primi due attaccandoli corpo a corpo ed il terzo da lontano. Egualmente da lontano massacra i due Imbràsidi, Glauco e Lade, che il loro babbo aveva allevato in Licia e armato d'armi eguali per combattere a piedi o correre a cavallo. Da un'altra parte s'avventa nella battaglia Eumede valorosissimo figlio dell'antico Dolone. Ha il nome di suo nonno ma il coraggio e la forza di suo padre che, un giorno, offrendosi di andare esploratore al campo dei Danai osò chiedere in ricompensa il cocchio del Pelide: ben altra ricompensa gli inflisse, per tanto ardimento il figlio di Tideo! E Dolone da allora non può aspirare piu ai cavalli di Achille. Appena Turno vide Eumede in campo aperto, lo fed da lontano con un lancio lunghissimo di giavellotto: poi, arrestati i cavalli, salta sull'avversario semivivo e premendogli un piede sopra il collo gli strappa dalle mani la spada scintillante e gliela infila in fondo alla gola. « O Troiano - gli grida - eccoli i campi, eccola quella Esperia che hai voluto aggredire! Misurala col tuo corpo! Chiunque ha osato assaltarmi ha avuto questa bella ricompensa. Cosi fondano le città ». Lanciando giavellotti aggiunse al morto Eumede altre vittime: Asbite, Clòreo, Darete, Sibari, Tersiloco e Timete caduto giu dal collo del cavallo imbizzarrito.
Turno questo nome, perché gli orientali cosl chiamavano l'Italia, paese per loro occidentale. - Misura/a col tuo corpo: l'ironia di questa frase è veramente feroce se si pensa che in quei tempi antichi ai coloni che andavano a stabilirsi in nuove terre, si usava misurare e assegna-
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re ad ognuno di essi un certo tratto di terra, che diventava sua proprietà personale. - Così fondano le città: è una frecciata rivolta ad Enea. Quando si costruivano città, in quei tempi lontani usavano sotterrare vittime umane vive. Ma tutto il discorso, rivolto ad un
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Come al soffio rabbioso dd tracio Borea, quando rimbomba dal profondo Egeo spingendo i flutti verso terra, le nuvole fuggono per il cielo sotto i colpi dd vento: cos{ le file cedono sotto i colpi di Turno, dovunque egli si apra una strada, e i reparti arretrano e si sbandano. L'impeto lo trascina, l'aria che sferza il cocchio gli solleva le piume vibranti in cima all'elmo. Fegeo non sopportò il suo ardore orgoglioso: si gettò incontro al carro e. frenò con la destra le bocche schiumose dei due cavalli in corsa. Ma mentre è appeso al giogo e trascinato via, offre il fianco scoperto: la larga lancia di Turno lo raggiunge e gli strappa la lorica a due maglie ferendolo di striscio. Rivolto al suo nemico Fegeo oppone lo scudo ai suoi colpi e, benché sempre appeso ai cavalli, riesce a cavar la spada per difendersi: ma ecco che l'asse della ruota girando rapidissimo lo travolge e lo stende giu in terra, a precipizio. Turno si sporge e taglia con un fendente il collo indifeso tra l'elmo e la coraZ2'a, e lascia il tronco nell'arena.
Enea guarito da Venere
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Mentre vittorioso Turno semina morti per tutta la pianura, Mnèsteo e il fedele Acate accompagnati da Ascanio, portano al campo Enea ferito, insanguinato, costretto ad appoggiarsi, vinto morente, è ingeneroso; Turno è spesso anche crudele. 461-466. Come al soffio, ecc.: questa similitudine del vento Borea, che spinge i flutti del mare verso terra e costringe le nubi a fuggire per il cielo, raffigura bene Turno che, portato velocissimo dai cavalli sul campo di battaglia, dovunque egli passa, le file dei nemici arretrano e si sbandano. 467-471. L'impeto lo trascina, ecc. : questa immagine
di Turno, impetuoso, irresistibile, con le piume del cimiero al vento, è veramente colta con l'intuizione precisa del personaggio giovane, sicuro, spavaldo e provocante. Ed ecco allora la reazione di Fegeo, che gli si getta contro e tenta di frenare la corsa dei cavalli. 472-482. mentre è appeso al giogo, ccc.: il tentativo di Fegeo non riesce, i cavalli continuano la corsa ed egli, « appeso al giogo e trascinato via ,., non può proteggersi
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con lo scudo. Turno perciò ne approfitta e lo colpisce con l'asta. L'episodio, pur in una forma rapida ed essenziale, è rappresentato con una precisione mirabile di particolari in tutti i suoi vari momenti: nel tempo in cui è trascinato pendente alle briglie; quando è colpito leggermente al fianco, non protetto dallo scudo, dall'asta che apre e fora la corazza; quando poi Fegeo tenta di difendersi, ma non resiste allo sforzo ed è travolto e trascinato via dal carro; e infine nella impressionante misera fine. ENEA È GUARITO DA VENE-
(483-553 ). - Ritiratosi nella tenda, Enea tenta invano di strappare il fe"o dal ginocchio, e inutili sono anche i tentativi del medico ]àpige. L'eroe troiano, che sente avvicinarsi sempre più il fragore della battaglia, è furibondo e chiede che lo curino nel modo più spiccio, tagliando a fondo la carne fin dove è nascosto il ferro, ma a questo punto interviene Venere. La dea di nascosto mescola nell'acqua di una conca, che era nella tenda, il dittamo e vi aggiunge ambrosia e panacea. ]àpige, che ignora l'intervento della dea, bagna con quell'acqua la ferita, e il ferro esce spontaneamente, il sangue ristagna e la ferita guarisce. Il medico grida che la guarigione è opera di un dio, ed Enea, indossate le armi e rivolte al figlio nobili parole, ritorna sul campo di battaglia RE
483-487. Mentre Turno ... lancia: mentre Turno continua la strage, i due più cari
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amici di Enea sorreggono il un passo sf e uno no, alla sua lunga lancia. ferito, che insieme con AscaFuribondo l'eroe si sforza di strappare nio ritorna al campo per esla freccia, la cui asta s'è spezzata, e domanda sere curato. che lo curino al modo piu spiccio: che gli taglino 494-501. Apollo: l'epiteto 490 più comune di questo dio con la spada la carne bene a fondo, sin dove era « luminoso », dato che è nascosta la punta della freccia, e si sbrighino Apollo si identificava con il a rimandarlo in guerra. Gli stava accanto Jàpige sole che fuga le tenebre, ma figlio d'Iaso, che Apollo amò cosi caramente i suoi attributi principali erano quelli di profeta, di mu- 495 una volta, da offrirg]i le sue arti, i suoi doni: sico, di arciere, di medico. quello del vaticinio o quello della cetra A queste arti egli si era offer_ o quello delle frecce. Ma Jàpige, volendo to di educare Jàpige, che gli era caro; e Japige per amore prolungare la vita del padre agonizzante, del padre, che aveva bisogno prefed imparare In virtu delle erbe di essere curato, scelse la soo e la pratica medica, esercitando un'arte medicina. - arte oscura, senoscura, senza gloria. Fremendo amaramente za gloria: a Roma l'arte medica era esercitata quasi eEnea stava appoggiato alla grande asta, in piedi, sclusivamente da stranieri, indifferente alle lagrime e al dolore di Julo da liberti e perfino da schiavi. e dei molti guerrieri che gli venivano intorno. 503. indifferente alle lasos Il vecchio Jàpige, in veste succinta e attorta ai fianchi grime: tutto il quadro, che come usano i medici, si affatica con mani al centro ha Enea, cui il medico presta le sue cure, e inesperte e con le erbe salutari di Febo, tomo all'eroe Julo, che pianma inutilmente. Invano scuote la freccia e afferra ge per le ferite e le sofferencon tenaglie tenaci il ferro. La Fortuna ze del padre, e gli amici e i non gli insegna la strada, e il suo maestro Apollo guerrieri, che attendono an- SIO siosi l'uscita della freccia non lo aiuta per nulla: e intanto per i campi dalla ferita, è un bozzetto nasempre piu si diffonde l'orrore e la sciagura turale, familiare, commovens'avvicina. Già vedono il cielo annuvolarsi te. Solo Enea si toglie dalla commozione di tutti; egli sta di polvere: ed avanzano i cavalieri, uno scroscio ritto, in piedi, appoggiato SIS di frecce si rovescia entro l'accampamento. alla lancia, e dimostra una Sale fino alle stelle il triste grido dei giovani fermezza morale e fisica ecche combattono e cadono sotto i colpi di Marte. cezionale. È un particolare che aumenta la grandezza del Venere allora, scossa dall'immeritato dolore personaggio. di suo figlio, da madre amorosa raccoglie 509-510. La Fortuna non sull'Ida cretese del dittamo, un'erba dalle foglie gli insegna, ecc.: il tentativo szo del medico Japige di estrarre il ferro dello strale dalla cavalleria s'avvicina, il cielo pericolo della sconfitta induferita non è fortunato. s'oscura di polvere, le frecce cono Venere ad intervenire. 520-526. sull'Ida cretese: cominciano a cadere entro 512-517. la sciagura s'avvicina: s'avvicina sempre il campo e si odono le grida sul monte Ida dell'isola di più il pericolo di una scon- dei giovani combattenti che Creta, che non deve essere fitta dell'esercito troiano, e cadono nella mischia feroce confuso con il monte omonicon la sconfitta il rovescia- ( « sotto i colpi di Marte »). mo dell'Asia Minore. - dittamo: il dittamo è una pianmento della situazione, già 518-519. Venere allora, cosl favorevole. Infatti la ecc.: il dolore del figlio e il ta erbacea della famiglia del-
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rigogliose, chiomata di fiori porporini, che i capri selvaggi conoscono bene e corrono a cercare quando le frecc<: volanti trafiggono loro la schiena. Tutta avvolta e celata in una nuvola nera, Venere porta il dittamo nella tenda di Enea, di nascosto lo mescola con l'acqua di fiume che riempiva una conca lucente, ed aggiunge a quella medicina ambrosia salutare e panacea odorosa. Senza sapeme nulla, il vecchio Jàpige bagna con quell'acqua la piaga, e di colpo scompare ogni dolore e il sangue si coagula in fondo alla ferita. Seguendo senza sforzo la mano la freccia cade e Enea riacquista nuove forze, è sano come prima. « Presto, portate le armi all'eroe, senza indugio! -grida Jàpige, e accende per primo i cuori di tutti contro il nemico. - Simili miracoli non nascono dalle risorse umane né dall'arte maestra: o Enea, non è davvero la mia mano a salvarti, ma uno dei Celesti maggiori che ti manda a ben maggiori imprese!» Bramoso di combattere Enea cinge alle gambe gli schinieri dorati e palleggia la lancia. Adattato lo scudo al braccio e la corazza alla schiena, fulgente tutto d'armi egli stringe Ascanio e attraverso l'elmo lo bacia a fior di labbra. « Figlio mio - dice - impara cosa sia la fatica e il valore da me la fortuna dagli altri. Ora, in guerra, if mio braccio ti difenderà, ti schiuderà le porte dell'avvenire. Ma tu le rutacee, diffusa in Italia nei luoghi incolti delle regioni submontane, soprattutto settentrionali. Contiene un olio essenziale usato un tempo in farmacia. Nell'isola di Creta vegeta però un altro dittamo, suffrutice della famiglia delle Labiate, le cui foglie sono usate come condimento e in liquoreria. Di questa pianta, che prese il nome dal monte Diete, nel massiccio del monte Ida, do-
ve un tempo forse cresceva in abbondanza, Aristotele afferma che nell'isola di Creta le capre selvagge, quando erano ferite, andavano a cercarla istintivamente; e Cicerone nel De natura deorum (XI, .50) scrive che le frecce si staccavano spontaneamente dal corpo di quelle capre, quando esse avevano mangiato di quel dittamo. 529. ambrosia: era il cibo degli dèi, cui essi dovevano
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l'immortalità. - panacea: t"rba che risana da tutti i maIi, come dice l'etimologia del nome, composto di due parole greche: « pan » = tutto, « akeomai » - sanare. .53.5-537· le armi dell'eroe, ecc.: Japige, che s'accorge
subito della guarigione, stupito, esce in questa entusiastica esclamazione, che rianima e infonde speranza e coraggio ai Troiani. .54r. che ti manda ... imprese: intendi: non io ti ho guarito, ma questo miracolo è opera di una divinità, che con il suo influsso ti ha reso capace di più gloriose imprese. 546. a fior di labbra: perché impedito dall'elmo, che Enea aveva già indossato per l'impazienza di correre sul campo di battaglia. .547-.548. Figlio mio... impara, ecc.: Enea distingue
qui il merito, che è conseguimento di un bene superando con animo forte le difficoltà (la fatica e il valore), dalla fortuna, che dà il bene senza averne il merito; e la distinzione è fatta con tanta chiarezza di idee, che sorprende in un pagano. Solo un'anima grande come quella di Virgilio poteva concepire questa grande verità morale. .549-.5.53· Ora, in guerra, il mio braccio, ecc.: a difende-
re Ascanio e a preparargli l'avvenire ora pensa il padre; ma quando sarà maturo dovrà ricordarsi dei grandi eseguirne l'esempio. È « naturalissimo - scrivono L. Bianchi e P. Nediani - che Enea, nel risentirsi forte, abbia questo impeto affettuoso per il figlio ». Le prime parole sono dell'Aiace di
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Sofocle (5JO sgg.): «da me il valore, da altri la fortuna, e potrai essere un valente » (e il povero Aiace aveva più ragione di dir cosi che Enea; ma son parole tanto belle, e cosi consone al fondo malinconico del carattere di Enea e del suo poeta!); le ultime ricordano quelle che abbiamo udito da Andromaca (III, 418-419). Anche il Tasso: «Viva, e sol d'onestade a me somigli: !l'esempio di fortuna altronde pigli » ( Ger. XII, 27). Ettore era fratello di Creusa e quindi zio di Ascanio. Nota come il breve e sobrio discorso di Enea al figlio si sviluppi prima con una esortazione ed un precetto nobilissimo, poi con una promessa che, dopo gli eventi più vicini, mira a rassicurare il giovinetto che ha ancora l'animo turbato, ed infine l'invito, che è quasi una preghiera, a compiere, quando sarà grande, sempre il bene, seguendo l'esempio del padre e dello zio Ettore. ENEA RITORNA SUL CAMPO DI BATTAGLIA (554-585). -
Enea, guarito miracolosamente, esce dalla tenda e, seguito dai suoi, si lancia nella mischia. Il suo avanzare è simile ad una tempesta. T urna, gli ftalici e la stessa Giuturna, quando lo vedono arrivare, tremano di paura. L'esercito troiano, guidato dal suo capo, avanza travolgendo il nemico e compiendo immensa strage; ma Enea non si degna di uccidere, né i fuggiaschi, né coloro che osano affrontarlo. Egli cerca Turno, solo Turno. Vuoi essere generoso e fedele ai patti.
ricordatene quando sarai grande, arrivato in età piu matura: l'esempio di tuo padre e di Ettore, tuo zio, ti spronino a far bene! »
Enea ritorna sul campo di battaglia
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Cosi detto, maestoso si portò fuori del campo agitando col braccio l'immensa lancia: insieme in fitta. schiera corrono Anteo, Mnèsteo e poi tutto l'esercito, lasciando vuoto l'accampamento. La terra trema al battito di tanti piedi; vela la pianura una nube fittissima di polvere. Dall'opposta collina Turno vide arrivare gli assalitori; li videro gli Ausoni e una paura gelida corse a tutti nel profondo delle ossa. Giuturna send il rombo prima degli altri Latini e subito lo riconobbe e fugg{ via tremando. Enea vola e trascina nell'aperta pianura la polverosa schiera. Come wi nembo, scoppiata una tempesta, corre dal mare verso terra (ahi, come si disperano i contadini che sanno che quell'oscuro nembo distruggerà ogni cosa per largo spazio, sarà la rovina degli alberi e delle messi!) e i venti lo precedono e riempiono la costa di fragore: cosi il condottiero reteo guida l'esercito contro il nemico, a file serrate e raggruppate in cunei compatti.
555· agitando ... l'immensa lancia: Enea: risanato dalla madre Venere, possiede ora un vigore particolare. L'ambrosia continua a produrre il suo effetto miracoloso. 563. Giuturna: Giunone l'aveva mandata a turbare i patti, ed essa aveva assunto le sembianze di Camerte; ora vigila sull'incolumità del fratello, e presto apparirà nelle vesti di Metisco, il suo auriga. 568-571. ahi, come si disperano, ecc.: Virgilio non
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racconta i fatti alla guisa di Omero, che li domina senza commuoversi; egli con la sua sensibili rà partecipa agli eventi, che narra, esprimendo liricamente il suo pensiero e i moti del suo cuore. Questa è forse; la caratteristica più rilevante della sua poesia, sempre cosl delicatamente vicina alle gioie e ai travagli dell'uomo. 572-573. il condottiero reteo: Enea. « Reteo » era un promontorio della Troade. « L'epiteto con quella desi-
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Timbreo uccide di spada il gigantesco Osiri, Mnèsteo Arcezio, Acate Epulone, Giante Ufente: cade morto lo stesso Tolunnio, l'augure che aveva vibrato per primo l'asta contro i Troiani. Il clamore va al cielo, i Rutuli sbaragliati a loro volta mostrano nella fuga le schiene polverose. Il pio Enea non si degna di uccidere i fuggiaschi e nemmeno coloro che osano affrontarlo, né insegue chi gli avventa la lancia: girando dappertutto nella polvere densa cerca soltanto Turno, sfida Turno soltanto.
Giuturna si fa auriga di Turno
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Paurosa per il fratello, la violenta Giuturna fa cadere l'auriga Metisco giu dal cocchio, attraverso le briglie, e lo lascia lontano: balza al suo posto e regge con le mani le redini assumendo l'aspetto di Metisco, imitandolo fedelmente nel corpo, nelle armi, nella voce. Come una rondinella quando vola attraverso gli spaziosi cortili e gli atrii del palazzo gnazione di luogo lontano, coperto di sepolcri, non è ozioso ed unico» (Pascoli). 575-578. Timbreo uccide, ecc.: nel primo scontro i caduti sono tutti Latini, e tra questi anche il sacerdote Tolunnio, che aveva scagliato l'asta, infranto i patti e dato inizio alla ripresa della guerra. Accennando all'asta vibrata contro i Troiani Virgilio vede la morte d~ll'au gure come una punizione del suo atto sacrilcgo. 581. Il pio Enea, ecc.: Enea ha trascinato i suoi al combattimento, ma non vi partecipa. Egli vuoi rispettare il patto, anche se il patto è stato infranto dagli avversari.
585. cerca soltanto Turno, ecc.: efficacissima ripetizione che fa ricordare, e in un certo senso riprende, quella del canto XI, vv. 275-276. GIUTURNA SI FA AURIGA
TuRNO (586-627). - Giuturna, che aveva tremato all'apparizione sul campo di battaglia di Enea, era subito accorsa in aiuto del fratello, aveva rovesciato dal carro l'auriga Metisco e, assunte le sue sembianze, afferrato le redini e ~idato lei stessa i cavalli. Ora la sua preoccupazione è quella di tenere il fratello sempre lontano da Enea; e trascorre rapida e mobilissima per la campagna portando Turno a combatte-
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re là dove il Troiano non lo può raggiungere, benché questi lo chiami ad alta voce e lo insegua nei suoi giri tortuosi. Messapo tenta di colpire Enea con un'asta ferrata, ma l'eroe troiano si china e l'asta gli porta via soltanto il cimiero. Enea si sdegna, e chiamato il grande Giove a testimone dei patti infranti, entra nella lotta e mena strage di Latini. 587. l'auriga Metisco: Virgilio, fa reggere a Turno le redini, quando il giovane eroe ruttdo, visto Enea allontanarsi ferito, riprende le armi e sale con un salto sul carro; e non appare che l'auriga lo abbia successivamente sostituito nella guida del carro. 587-588. fa cadere ... attraverso le briglie: la frase ~ poco chiara. Il testo latino è: « media inter !ora ... excutit », che il Sabbadini traduce « lo sbalzò giù mentre badava a guidare il cocchio », il Giorni « lo gettò giù mentre aveva le redini avvoiu: intorno al corpo», l'Albini <·. urta tra le briglie », il Vitali « lo rovesciò tra le redini ». Sembra che il testo intenda che l'auriga fu sbalzato a terra mentre guidava il cocchio tenendo con una mano una delle redini, con l'altra mano l'altra; perciò fu fatto cadere fra l'una e l'altra briglia. 592-603. Come una rondinella, ecc.: questa simili tudine della rondine, per sé bellissima, forse non rende il correre affannato di Giuturna, tutta preoccupata di portare il fratello lontano da Enea. La sollecitudine ansio-
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sa di Giutuma è ben diverd'un gran signore ed ora sfreccia alata, instancabile, sa da quella naturale e tran595 sotto le volte profonde, ora frulla sonora quilla della rondine. Tuttatra i vuoti portici o intorno ai brevi specchi d'acqua via la similitudine, che si applica al fatto, che vuoi ildei !aghetti, cercando minuzzoli di cibo luminare, soltanto nelle realda portare al suo nido chiaccherino: cosi tà esteriori, è mirabile per la Giuturna lancia i cavalli tra i nemici e in un volo finezza dei toni, la precisiodel cocchio rapido corre dovunque, mostrando ne e la delicatezza dei parti- 600 in trionfo il fratello ora qui ora là, colari, ed è interamente virgiliana. Tu la vedi la piccola ma svaria lontanissima, per luoghi deserti, bestiola volare saettante atnon volendo che Turno si batta con Enea. traverso gli spaziosi cortili e Da parte sua l'eroe troiano insegue il cocchio gli atri di una villa signorile, compiendo avvolgimenti non meno tortuosi, sfrecciare tra i vuoti portici, 605 cercando Turno ovunque, chiamandolo a gran voce nell'ombra delle loro volte profonde, o nei giardini soattraverso le schiere disperse. Quante volte pra i piccoli specchi d'acqua avvista il suo nemico e cerca di raggiungere dei !aghetti, raccogliendo indi corsa il galoppo degli alati cavalli, stancabile il minuto cibo per altrettante Giuturna indietreggia, fuggendo. i suoi pigolanti rondinotti; e 610 nell'armonia dei versi ti semChe fare? Invano s'agira in preda all'incertezza, bra di sentire il fruscio delle spinto da sentimenti opposti. sue ali e il suo festoso cinMa il veloce guettio. - sotto le volte proMessapo che portava nella mano sinistra fonde: la sensazione della profondità è data dall'ombra 615 due flessibili aste dalla punta di ferro, che contrasta con la luminopalleggiandone una l'avventò su di lui sità esterna. - mostrando in con un colpo preciso. Enea si fermò, trionfo, ecc.: mostra or qui or là il fratello baldanzoso si raccolse nelle armi, piegando il ginocchio: (in trionfo) e poi fugge. tuttavia la veloce asta gli buttò giu svaria lontanissima: appare il cimiero, strappandogli dalla testa il pennacchio. in luoghi diversi, lontani tra 620 Allora s{ che s'infuria; provocato dal colpo loro e lontanissimi da Enea. 6o9-6ro. di corsa il galopinsidioso, accorgendosi che i cavalli ed il cocchio po, ecc.: Enea è a piedi e fuggivano lontano, chiamati a testimoni tenta di raggiungere, correnil gran Giove e gli altari dell'accordo spezzato do, Turno. Ma poiché non è pensabile che sperasse di su- 625 si lancia finalmente nella mischia. Tremendo, perare nella corsa i cavalli col favore di Marte, senza guardare in faccia si può spiegare che Enea cer~ piu nessuno, fa strage e sfrena la sua collera. casse d'indovinare il percorso del carro per sbarrargli il punta, alla quale è attaccato spettare i patti, chiama a tepasso. Cosl si spiegherebbe il cimiero, ossia l'ornamento stimonio Giove, che la violal'« indietreggia » di Giu- posto in cima all'elmo. zione è stata voluta e comturna. 621-625. Allora sì che s'in- piuta dai suoi nemici, e si 6r8. si raccolse nelle arfuria: l'insidia di Messapo, lancia furente nella mischia. mi: si rannicchiò dietro Io dopo la ferita infertagli da 626-627. senza guardare ... scudo, piegandosi sul ginoc- mano ignota, rallenta ogni nessuno: fa strage e sfrena c-hio. freno al furore di Enea; e la sua collera colpendo in62o. il cimiero: la parte l'eroe troiano, che non ha distintamente chiunque insuperiore dell'elmo, cioè la più lo scrupolo di dover ri- contra sul su:> cammino.
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Le stragi di Enea e di Turno
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Quale Dio mi darà aiuto nel descrivere col canto tanti orrori, tante morti diverse e la fine dei capi che in tutta la pianura ora Turno ora Enea incalzano? Ti piacque tanto, o Giove, che popoli destinati a riunirsi in una pace perenne venissero a tal guerra? Enea colpisce nel fianco il rutulo Sucrone e se ne sbriga subito (questo primo duello valse a rimettere ip ordine le file dei Troiani che irrompevano in corsa) squarciandogli il costato, siepe del petto, dove la morte è piu sicura. Turno, attaccando a piedi, ferisce con la lunga asta Amico, caduto da cavallo, ed uccide col pugnale il fratello Diore: ne sospende al carro le due teste tagliate, gocciolanti di sangue. Enea massacra in uno scontro solo Talone, Tànai e il forte Cetégo: uccide ancora il malinconico Onfte, figlio di Peridfa, e di Echione. Ma Turno abbatte due fratelli LE STRAGI DI ENEA E DI
(628-693). - Enea non va più alla ricerca di Turno; adirato dall'insidioso tentativo di Messapo, ora fa strage indiscriminata di nemici, e tra i due grandi campioni si accende come una tragica gara a chi ne uccide di più. Le loro armi micidiali non falliscono mai la loro orrenda azione di morte; e il poeta narra con un senso di ammirazione e insieme di stupore scene crudeli e casi pietosi, e alla fine si commuove e rivolge ai caduti, come a vittime innocenti, un accorato saluto.
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628. Qual dio mi darà aiuto, ecc.: potrà sembrare strano che il poeta invochi con tanta solennità un dio per cantare un episodio di vio-
lenza e di morte. Ma l'episodio ha per protagonisti due campioni eccezionali: Enea e Turno; il primo scelto dal Fato a gettare le basi di una nuova e mirabile storia, la storia di Roma; il secondo rappresentante delle virtù del popolo italico, che di quella mirabile storia sarà il vero grande creatore e attore. Del resto Virgilio si sentiva anche in dovere di seguire la tradizione omerica, che abbonda di invocazioni alle divinità, anche in momenti per nulla solenni. 632. popoli destinati a riunirsi: gli ltalici e i Troiani. Il poeta, umanissimo e a. mante della pace, che vedeva tante genti diverse, persino le più ribelli, riunite nel no· me di Roma in un popolo solo, non poteva pensare, senza
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meravigliarsi e soffrirne, che allora Italici e Troiani si combattessero con tanto accanimento. Di qui la do-manda piena di rammarico e di stupore rivolta a Giove, re degli dèi e degli uomini. 633. in una pace perenne: Virgilio era veramente convinto che la pace, proclamata da Ottaviano dopo la sconfitta di Antonio, e dopo la fine delle guerre civili e il nuovo assetto dato all'impero, fosse definitiva e infrangibile. Tanto consenzienti a quell'ordine gli sembravano tutti i popoli. 634-693. Enea colpisce, ecc.: segue il racconto della battaglia, che infuria accanita, specialmente per opera di Enea e di Turno, i quali, in un certo senso, vanno a gara di chi più ne uccide. Nessuno, di quanti essi incontrano, sfugge alle loro armi. E il poeta, ammirato e stupito, narra scene crudeli, come quella di Turno che uccide Amico e Diore (640641), probabilmente figli di Priamo, ne taglia le teste e le sospende al carro gocciolanti di sangue; e scene pietose come quella di un'altra vittima di Turno: il giovane Menete (648), «un arcade nemico della guerra», pescatore nelle acque della palude di Lerna e contento della sua povertà, che divideva in una misera casa con suo padre contadino; e di un latino, Murrano (665), che vantava antenati gloriosi, il quale, atterrato da Enea con un macigno enorme, è travoi to dalle ruote del carro e calpestato dagli zoccoli « dei cavalli dimentichi del padrone »; cioè dai cavalli, che alle carezze del padrone ave-
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vano nitrito e alla cui mano avevano obbedito docili e ~nerosi, ma che nel turbine della battaglia non hanno saputo ascoltare più la sua voce, e hanno fatto sttazio del suo corpo. - palude di Lerna: secondo il mito, nella palude di Lema, città delI'Argolide, Ercole uccise l'i· dra, mostro con nove teste.
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- Cadi, tu che l'eset"cito, ecc.: nota come il poeta, do-
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po aver ricordato nomi e
nomi di caduti, ora si rivol-
ga, per tutti, direttamente ad uno di essi, Eolo (679),
troiano di Lirneso ai piedi del monte Ida, con parole accorate di umana commiserazione. Virgilio non riesce a raccontare impassibile i particolari di tante stragi.
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venuti dalla Licia e dai campi d'Apollo, e il giovane Menete, un al'Cade nemico ddla guerra (ma invano!) che un tempo esercitava la pesca lungo le acque ddla palude di Lerna; poveruomo contento di una misera casa, di suo padre che arava terre prese in affitto, lontano dalla gloria dei palazzi dei ricchi. Come fuochi appiccati in due punti diversi d'un bosco, tra cespugli crepitanti d'alloro, o come fiumi che calino a valle spumeggiando dalle alte montagne con immenso frastuono e corrano per la pianura travolgendo ogni cosa lungo il loro passaggio: cosi, vdocemente, Turno e Enea si prècipitano attraverso la mischia. Ora l'ira ribolle nel profondo dei petti, gli indomabili cuori avvampano ed ognuno con tutte le sue forze corre a ferire. Enea roteando un enorme macigno stende al suolo Murrano che vantava antenati gloriosi e una ru.za discesa da tutti i re latini: le ruote lo travolgono sotto il giogo, lo zoccolo violento dei cavalli dimentichi dd padrone· lo calpesta con ritmo velocissimo. Turno affronta Ilio, irrompente in un fremito d'ira, gli scaglia nelle tempie splendenti un giavellotto che fora l'elmo d'oro piantandosi nel cervello. La gagliardia di Crèteo, il piu forte dei Greci, non riesce a salvarlo dalla spada di Tumo: né i suoi Numi proteggono Cupanco contro Enea che gli spezza lo scudo e gli trafigge il petto. I campi laurentini hanno visto morire e coprire gran spazio di terra con la schiena immensa anche il grande Eolo. Cadi, tu che l'esercito greco e Achille, rovina dd reame di Priamo, non riuscirono a abbattere! Avevi qui la meta suprema: tu padrone un tempo d'una casa fastosa sulle falde dell'Ida, d'una casa magnifica a Lirneso, ed oggi d'un sepolcro sul suolo di Laurento. Gli interi schieramenti dei due eserciti impegnano combattimento: tutti i Latini con tutti i Dardanidi, Mnèsteo,
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il feroce Seresto, Messapo domatore di cavalli, il violento Asfla, le falangi etrusche e gli squadroni arcadi dd re Evandro. Ogni guerriero lotta con il maggiore impegno, e la mischia è tremenda, senza tregua o respiro.
Venere ispira ad Enea di assalire Laurento 69S
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La bellissima madre ispirò allora a Enea il pensiero di correre alle mura, assalendo d'un tratto la città, e turbare i Latini con l'attacco improvviso. Cosi mentre, cercando con gli occhi sempre Turno, guarda di qua e di là, vede Laurento salva tra tanta guerra, in pace. Lo eccita la visione d'una battaglia molto piu importante: a gran voce chiama i capi, Sergesto, Mnèsteo, il forte Seresto e sale su un'altura verso la quale corrono t6tti i Troiani uniti senza deporre le armi né lo scudo. Dall'alt~ dell'altura Enea dice: « Obbeditemi in fretta: Giove sta dalla nostra. Nessuno vada lento all'azione perché questa è improvvisa. Oggi distruggerò Laurento, la causa della guerra, e i regni di Latino- salvo che non s'arrendano, dichiarandosi vinti ed accettando il giogo e livellerò al suolo i fumanti comignoli. Dovrei forse aspettare finché Turno si degni combattere con me, e poi, vinto, magari ci attacchi un'altra volta? O cittadini, qui è il nodo della guerra! Su, portate le fiaccole, VENERE ISPIRA ENEA AD ASSALIRE LAURENTO (694·
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pegnati in una lotta senza tregua e respiro, e la strage continua. Venere, impietosita di tante morti, suggerisce allora tacitamente al figlio di assalire Laurento. Enea chiama a consiglio i capi, impartisce gli ordini e tutti si precipitano compatti contro la città. D'un tratto si vedono scale drizzarsi lungo le mu-
ra, brillare fuochi e combattere davanti alle porte. Lo stesso Enea davanti a tutti chiama Latino e gli grida di essere costretto a riprendere le armi dal contegno degli I talici, che per ben due volte hanno infranto i patti. I cittadini, sorpresi e smarriti dall'assalto inaspettato, sono discordi se aprire le porte e chiedere la pace, oppure impugnare le armi e difendere la città. La stessa confusione
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e lo stesso tumulto avvengono in un alveare, quando il contadino lo riempie di fumo per procedere senza danni alla smelatura. 694-699. ispirò allora Enea, ecc.: Enea concepisce naturalmente l'idea di assalire Laurento. Del resto Turno gliel'aveva già attribuita, quando impartl le disposizioni difensive alle sue truppe. Virgilio, invece, dice che l'idea gli è stata suggerita dalla madre, seguendo l'uso comune negli antichi di far intervenire la divinità anche nelle stesse deliberazioni umane. Qui però l'intervento di Venere può avere un significato più profondo: ora che gli eventi sono prossimi all'epilogo, Venere non abbandona neppure un istante il figlio e lo sorregge anche col pensiero. 707-710. questa ~ improvoisti: !"azione è inaspettata. 2 necessario agire con rapidità e decisione per impedire che Turno prepari la difesa. Neppure i Troiani conoscevano, dunque, il progetto di Enea. - Oggi distruggerò Laurento, ecc.: lo sdegno per la violazione dei · patti e del giuramento, e la incapacità di Latino di imporre il mantenimento della parola data, spingono Enea alle azioni estreme. Solo la resa può salvare la città. Enea non parla più di fusione dei due popoli. Il nuovo tradimento dei Latini Io ha esasperato, ed egli ora è soltanto il guerriero risoluto che non accetta soluzioni diverse da quelle dettate da una vittoria totale. 712-716. Dovrei forse aspettare, ecc.: Enea si sente
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offeso anche perché Turno è sfuggito al duello ed ha di nuovo assalito i Troiani. Fgli non vuole essere più ingannato. - il rispetto dei patti: i due trattati: quello d'amicizia, che prometteva anche Lavinia, e l'altro del duello. L'uno e l'altro sono stati violati contro la volontà di Latino, ma Enea fa colpa al re di non essersi imposto, e alla città di essersi ribellata a Latino e di aver imposto la guerra. 717./ormano un cuneo: si stringono tutti insieme. «Cuneo » era detto lo schieramento in colonna, strutturato in forma di triangolo, col vertice rivolto verso il nemico. 722-727. Lo stesso Enea, ecc.: l'atto di tendere la mano verso le mura di Laurento si può intendere e come incitamento ai soldati, ai quali il comandante indica la mèta da raggiungere, e come sfida e giustificazione dell'assalto. L'atto è infatti accompagnato dall'accusa e dalla dichiarazione ch'egli assale la città perché costretto dal contegno degli Italici, che avevano attaccato i Troiani due volte: quando iniziarono le ostilità per istigazione di Aletto, nonostante l'scordo stipulato con Latino, e la seconda volta quando li assalirono per opera di Giugurta e di Tolunnio, benché per bocca di Latino avessero giurato il patto che la guerra si sarebbe conclusa con il duello tra Enea e Turno. 73o-731. e trascinano lo stesso re, ecc.: sono i cittadini di Laurento fautori della pace, i quali vogliono che il re rinnovi il trattato d'amicizia con i Troiani. Essi
il rispetto dei patti chiedetdo col fuoco! »
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Allora a gara tutti formano un cuneo e corrono in falange serrata alle mura. D'un tratto ecco drizzarsi scale, ecco brillare il fuoco. Gli uni assaltan le porte e trucidano i primi difensori, gli altri lanciano una gragnuola di dardi che oscura il cido. Lo stesso Enea in prima fila tende la mano destra verso le mura e accusa a gran voce Latino, chiamando a testimoni gli Dei che egli è forzato a riprendere le armi dal contegno degli Itali, per due volte nemici ormai, avendo infranto anche un secondo accordo. Tra i cittadini impauriti nasce una confusione atroce: alcuni vogliono aprire la città spalancando le porte ai Troiani, e trascinano lo stesso re sulle mura; altri portano armi correndo alla difesa. Cosi quando un pastore, scoperto un alveare dentro le cavità d'una roccia porosa, lo riempie di amato fumo, e gli animaletti nel profondo dd sasso s'aggirano smarriti per i 'loro castdli di cera, eccitandosi all'ira con rorizu sonori: un nero puzzo s'attorce fra le celle, l'interno della roccia sordamente risuona d'un mormorio ed il fumo sale ndl'aria leggera.
pensano che se Latino, vecchio e debole, aveva ceduto a coloro che hanno voluto la guerra, ora che il pericolo è evidente e sovrasta gravissimo, deve accogliere a maggior ragione la proposta di coloro che vogliono la pace e l'alleanza con i Troiani. Ma il vecchio re non è più nulla; gli eyenti avanzano governati da una volontà inafferrabile. 734·73.5· di amaro fumo: di fumo acre, irrespirabile. Il pastore immette il fumo nell'alveare per far uscire le api e impadronirsi senza danno del miele. 736. s'aggirano smarriti, ecc.: vanno errando trepi-
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danti da una all'altra delle celle dell'alveare {i loro castelli di cera). L'immagine presenta le api nell'alveare come in una fortezza. 737· eccitandosi all'ira, ecc.: si sente qui il poeta delle Georgiche. Il ronzio è veramente prodotto dalle api operaie che hanno il compito di difendere l'alveare. 738. nero puzzo: nota l'audace riferimento all'olfatto (puzzo) del colore {nero), che è proprio della vista {ipallage). Anche il Carducci nel sonetto Il bove: «Il divino del pian silenzio ver-
de». 739-740. l'interno della roccia, ecc.: nell'alveare (le
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Ma ecco un'altra disgrazia cogliere gli avviliti Latini' commovendo l'intera città di grave lutto. Quando Amata, la regina, vede dalla sua casa il nemico arrivare, le mura scavalcate, i fuochi che volavano verso i tetti, e s'accorge che da nessuna parte corrono a fronteggiarlo i battaglioni rutuli e i reparti di Turno, s'immagina che il giovane sia caduto in battaglia. L'infelice, turbata dal dolore improvviso incolpa sè soltanto d'essere la cagione d'ogni male: impazzita, urlando nel suo dolore maledizioni, si strappa api avevano costruito il loro nido in una cavità della roccia) il ronzio sonoro è diventato un rumore sordo; le api a poco a poco muoiono, e intanto il fumo si dilegua nell'aria. La bellezza della si militudine non è solo nella descrizione particolareggiata e realistica di un alveare che, molestato, si difende, ma soprattutto nella rappresentazione delle api che, atterrite dall'inatteso assalto, si affrettano a difendere, benché invano, la loto casa e il frutto del loro lavoro. AMATA SI UCCIDE (741767). - Il racconto volge di
qui rapidamente alla conclusione; il Fato comincia ad avere il sopravvento sulla volontà degli uomini e degli stessi dèi. Amata, la prima e maggiore responsabile della guerra, scompare, espiando con una morte infamante la sua avversione empia e cieca contro Enea condotto nel Lazio da un destino incontrovertibile. L'orgogliosa regina, non appena il pericolo investe e minaccia la città ed
essa s'accorge che i reparti di Turno non arrivano a fronteggiarlo, pensando che il suo prediletto sia morto in battaglia, si uccide. La "{Orte della regina, come se fosse un ammonimento od un presagio, riempie di sgomento il cuore di tutti e smorza l'ardore combattivo anche nei più audaci. Lavinia piange, Latino si strappa le vesti e si cosparge la testa di cenere. 746-749. e s'accorge ... in battaglia: e s'accorge che i battaglioni rutuli e i reparti di Turno non accorrono da nessuna parte ad affrontare il nemico, pensa che il giovane principe (Turno) sia caduto in battaglia. Nessuno infatti era accorso a difendere Laurento, sia per la sorpresa, sia perché Turno era in balia della sorella e gli altri capi si erano adagiati nella certezza che la città non sarebbe stata assalita. Amata, perciò, si dispera. La sua fiducia era riposta soprattutto nei Rutuli e in Turno, che sapeva veramente impegnati
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in questa guerra, mentre molti Latini l'avevano intrapresa di malavoglia; e la loro assenza le fa perdere ogni speranza. 749-7.51. L'infelice, turbata, ecc. : Amata ha il rimorso di aver contribuito a scatenare la guerra e di aver creato la gravissima situazione, .in cui la città è venuta a trovarsi, ma il poeta, che si commuove sempre di fronte al dolore, esce in queste espressioni pietose, di cui « infelice » indica veramente la condizione di chi ha il proprio destino fatalmente avverso, e desta quindi compassione. - incolpa sé, ecc.: Amata, orgogliosa e forte, IYOn rinuncia, dunque, alla vita per la paura di cadere nelle mani del nemico, ma perché si sente responsabile delle sciagure capitate alla sua patria e allo stesso Turno. 751-7.55· impazzita, urlando, ecc.: Amata, come impazzita, maledice Enea, i Troiani, e se stessa che, se avesse consentito alle nozze di Lavinia con Enea, avrebbe salvato la città e Turno; maledice il destino che ha fatto crollare l'edifiCio curato con tanta attenzione e tante speranze per l'avvenire suo, di Lavinia e del nipote; e affranta dal rimorso e dal dolore si uccide. Ma il poeta non racconta esplicitamente come l.\ morte avvenne; l'impiccagione è solo magnificamente e poeticamente sottintesa: <<decisa a morire con le sue stesse mani ~trappa le purpuree vesti e annoda ad un'alta trave la corda di una morte infame». Infame perché tale era ritenuta dai Romani, che agli impiccati negavano la sepol-
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tura; e ai loro Mani rendevano gli onori funebri rappresentandoli con statuette sospese. Virgilio aveva già presentato Amata impulsiva quando, invasa, per opera di Aletto, di cieco odio contro Enea, fece insorgere le donne di Laurento; ora ne conferma il carattere, e fa che con la stessa precipitazione si uccida, attuando bensl il proposito già manifestato a Turno, ma ancor prima che si avverino le condizioni. Amata era, dopo Turno, l'unico ostacolo c}le si opponeva al destino di Enea, e parrebbe che Virgilio le abbia perciò riservato questa morte orrenda, che rattrista il cuore, anche se il poeta, con arte mirabile, ne abbia evitato l'accenno esplicito. 756-760. le donne latine, ecc.: la disperazione delle
donne e di Lavinia, che riempie di pianto tutte le case, conferma la popolarità e la simp11ti;1 che Amata godeva a Laurento. Ma interessa e commuove soprattutto il pianto di Lavinia, anche se appena accennato, perché appare più sincero e contribuisce a lumeggiare il carattere di questo personaggio importantissimo ai fini dell'azione, ma lasciato dal poeta sempre nell'ombra. 762-767. Latino, annientato, ecc.: la· duplice sciagura
che colpisce contemporaneamente Latino, cioè la morte della moglie e il crollo del regno, lo istupidisce; e il povero vecchio, che ha in più la coscienza di essere stato causa, con la sua debolezza, di tutte le sciagure, s'aggira qua e là per la reggia e per la città senza lamenti e senza· pianto, con le vesti lacere e i
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le vesti di porpora con mano decisa a farla finita e intreccia da una trave il nodo che le dia una morte infamante. Udita la sciagura, le donne latine jmpazzano. Lavinia per prima si scompiglia i fiorenti capelli e si strazia le guance di rosa: tutte le altre la seguono e le case risuonano di pianto per largo spazio. Triste la notizia si sparge per tutta la città. Gli animi si scoraggiano. Latino, annientato dalla sorte di Amata e dalla fine del regno, vagola inebetito, con la veste stracciata, il bianco capo sporco di polvere, incolpandosi di non aver voluto accogliere in città Enea, spontaneamente, facendolo suo genero.
Turno decide di affrontare ll suo destino capelli bian~hi imbrattati di polvere, tra lo scompiglio dei cittadini, come emblema del dolore di tutti. TURNO DECIDE DI AFFRONTARE IL SUO DESTINO (768-
866). - Giuturna per evitare che il fratello incontri Enea, lo trattiene all'estremità della pianura di Laurento, dove egli insegue qualche sbandato. Ma un sentimento nuovo d'insoddisfazione s'insinua a poco a poco nell'animo di Turno. La .corsa del cavallo non lo soddisfa più e la strage dei nemici che prima lo eccitava,. ora gli ripugna. Intanto gli giungono dalla città grida confuse e paurose, che lo impressionano profondamente, e si ferma ad ascoltare terrori:r.:r.ato. Giuturna tenta d'interessar/o alla lotta lontano dalla città, ma l'eroe rutulo, che le dice d'averla riconosciuta e d'aver com-
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preso il suo inganno, la prega di /asciarlo andare al suo destino; egli non può permettere che le case di Laurento siano messe a ferro e a fuoco, e non vuole essere un vile. Morire non è sventura; sventura è scendere agli inferi colpevole di viltà e indegno degl.i avi. Ed ecco che viene a cadergli ai piedi ferito Saces, il quale lo invoca con accenti disperati di accorrere in aiuto di Laurento. Tutti i migliori sono caduti, il re vacilla, la regina si è uccisa, i cittadini invocano lui come unica loro salve:r.:r.a. Turno, a queste parole, bal:r.a dal carro, saluta la sorella, e s'avvia di corsa verso la città; e quando è presso le mura grida ai Rutuli e ai Troiani di deporre le armi: egli solo. combatterà. Tutti desistono dalla lotta e fanno spa:r.io al giovane eroe rutulo.
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Intanto, combattendo all'altra estremità della pianura, Turno insegue pochi dispersi, ormai stanco e deluso sempre piu del galoppo dei suoi cavalli. Il vento gli portò queste grida confuse, di terrore ignoto; un suono e un murmure tristissimo percossero le sue orecchie attente dalla città in subbuglio. « Ahimé, perché le mura son turbate da un lutto cosi grande? Perché dalla città lontana sale un tale rumore? » Cosi disse e tirando le briglie si fermò fuori di sé. Giuturna, che guidava i cavalli e il carro con l'aspetto dell'auriga Metisco, lo interruppe: « O Turno, inseguiamo i Troiani da questa parte, dove la vittoria ci ha aperto già una sttada; ci sono tanti altri per difendere la città. Enea assalta gli Italici e combatte; noi con mano crudele uccidiamo i Troiani. Uscirai dalla lotta non inferiore a lui per numero di vittime e per gloria». Ma Turno le rispose: «Sorella, da tempo so chi sei, io t'ho riconosciuta da quando astutamente hai turbato l'accordo e sei entrata in guerra;· ora nascondi invano d'essere Dea. Ma chi volle che tu scendessi dall'Olimpo e affrontassi tante fatiche? Forse per vedere la morte violenta del tuo povero fratello? Che farò? Quale scampo mi dà la Fortuna? Ho veduto io stesso, coi miei occhi, Murrano - che m'era caro piu di tutti - invocarmi a alta voce e cadere grande cadavere vinto da una grande ferita. ' E l'infelice Ufente è morto per non assistere al nostro disonore: i Teucri s'impadronirono 768-771. Intanto, combat-
771-776. queste p,rida co'l-
tendo, ecc.: mentre Enea assale Laurento e nella città accadono fatti nuovi ed importanti, Turno è trattenuto all'estremità della pianura, dove l'eroe rutulo può inseguire qualche sbandato ed evitare, secondo il piano delIa sorella Giuturna, il duello con Enea. M:1 Turno non è soddisfatto.
/use, ecc.: all'insoddisfazio-
ne che occupa l'animo di Turno, si aggiungono le grida confuse ch'egli ode venire dalla città, e nasce in lui il dubbio angoscioso che stia accadendo qualche cosa di grave e di sinistro. 777. tirando le briglie: le briglie sono nelle mani di Giuturna, che aveva sosti-
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tuito l'auriga Metisco e ne aveva assunto le sembianze, ma Turno se ne appropria e ferma i cavalli. 78o-786. O Turno, inseguiamo, ecc.: Giutuma in-
tuisce le intenzioni dd fra-. tello e lo previene, solleticando il suo amor proprio e il suo desiderio di gloria. 788-793. io t'ho conosciuta, ecc.: Turno, dunque, ave-
va riconosciuto la sorella fin da quando essa discese dal cido e si nascose sotto le sembianze di Carmete prima e di Metisco poi. Ma non la rimprovera; piuttosto le riconosce d'essersi prodigata per la sua salvezza. Le dice soltanto ch'egli aveva accettato quasi passivamente il suo aiuto e il modo che essa gli offriva di combattere lontano da Enea, poiché sperava che gli facilitasse la vittoria, ma che ora comprende che l'intervento della sorella, prima per sottrarlo al duello, poi per impedirgli d'incontrarsi con Enea sul campo di battaglia, è il segno che per lui ogni speranza di salvezza e di vittoria è perduta.- Che farò?: Turno vuoi dire che ormai tutto è deciso dal destino e non gli rimane che la morte. 794-800. Quale ... la Fortuna?: la domanda è angoscio-
sa, ma senz'ombra di viltà. La coscienza del destino inesorabile, che lo sovrasta, lo spinge a pronunciare parole quasi disperate, ma lontane da ogni debolezza. Egli affronta la sua sorte con energia, deciso di andare fino in fondo con il consueto coraggio. - Ho veduto io stesso, ecc.: ricorda qui, per giustificare la sua decisione, due suoi cari amici morti sul
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campo di battaglia in difesa della patria per non assistere al disonore dei superstiti, e si rammarica di non aver accettato il duello con Enea, il quale avrebbe risparmiato la loro vita e quella di tanti altri. 802-803. senza saper... di Drance?: Drance aveva accusato Turno di viltà e lo aveva invitato a misurarsi con Enea (Xl, 447-466), e le sue parole avevano ferito profondamente l'orgoglio del principe rutulo, il quale da allora ha sempre mirato a cacciare in gola dell'invidioso e troppo loquace Drance le sue ingiuste accuse, specialmente quella della fuga (Xl, 436). 805-809. Morire è una sventura, ecc.: le parole, che Turno rivolge a Giuturna prima di allontanarsi, terminano con questi versi di eroica bellezza: l'eroe non pensa più alla vittoria, e poiché deve morire, vuoi morire con onore. Non con il favore dei celesti, che ha perduto, ma con quello degli dèi inferi, ai quali chiede di essergli, morendo, benigni. « Le anime dei trapassati (i Mani) nella credenza degli antichi erano reputate divinità» (Sabbadini), e a Turno, cui le divinità celesti, giunto il momento del destino, non possono più dare aiuto, non rimane che questa straziante e disperata invocazione ai Mani. 8x3-8I4. La salvezza ... sei tu: la città rovina e Saces, ferito a morte, porta a Turno la drammatica notizia. Ormai la tragedia si sviluppa con un crescendo impressionante: Turno ha coscienza del suo fatale destino, ed ora un combattente, moren-
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del suo corpo e dell'armi. Dovrò forse permettere che le case sian messe a ferro e a fuoco (è l'unica sciagura che ci manca) senza saper ribattere col mio braccio le accuse di Drance? Fuggirò? Questa terra vedrà Turno volger le spalle? Morire è una sventura davvero cosi grande? Sistemi favorevoli voi, Mani, dal momento che i Celesti mi sono contrari! Scenderò a voi: anima pura, monda di questa colpa, mai vile, mai indegno dei miei grandi antenati ». Aveva appena parlato ed ecco Saces, che vola attraverso i nemici su un cavallo schiumante, ferito da una freccia nemica al volto, e chiama Turno per nome: «O Turno, la salvezza suprema sei tu: abbi pietà dei tuoi! Enea minaccia -fulminando con le armi- di abbattere le rocche italiche e far strage: le fiaccole già volano verso le case. I Latini guardano solo te. Lo stesso re non sa chi chiamare suo genero, quali patti accettare. Per di piu la regina, tua .fedelissima, è morta di sua mano, fuggendo
do, lo invoca disperatamente di accorrere, come unica salvezza, in aiuto di Laurento, che sta crollando sotto i colpi del nemico. La scena è veramente tragica. Saces non appare nominato altrove. 815. fulminando: nota I'efficacia di questo verbo, il quale ti dà insieme l'idea della rapidità, della distruzione e della morte. - di abbattere le rocche, ecc.: non solo Laurento, dunque, ma tutte le città italiche: è il disperato che vede la realtà ingigantita dalla fantasia eccitata dal suo stato d'animo. 816-8 I 7. le fiaccole già volano, ecc.: sono le torce lanciate sulle torri di legno, costruite lungo le mura, e forse anche sulle case, per incendiarle. - I Latini guardano solo te: non c'è che lui,
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Turno, che possa salvare Laurento; e forse l'espressione sottintende il duello, come unico mezzo, ormai, per salvare i Latini e la loro città dalla rovina. 8x8-819. Lo stesso re, ecc.: è un altro tocco che il poeta aggiunge al ritratto di questo re pusillanime e incerto. 820-821. è morta di sua mano, ecc.: Saces, che non sapeva nulla del colloquio fra Amata e Turno (XII, 79· 82), accenna alla morte della regina per aggiungere una prova concreta al quadro della situazione da lui tracciato, ma a Turno, che conosceva il proposito della regina, la notizia suona come invito ad affrontare anch'egli la sua sorte, quasi come se gli dicesse: Amata, benché donna, ha saputo essere fe-
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atterrita la luce. Da soli, sulle porte, Messapo e il fiero Atina sostengono l'attacco. Intorno a loro :;tanno da ogni parte i nemici a falangi serrate: una messe di ferro si drizza, spinosa di spade impugnate, mentre tu volgi il carro per un campo deserto». Turno stupf, sconvolto dalla confusa immagine di tanti avvènimenti, assorto in una buia, tacita riflessione. Gli ribollono in cuore con un'immensa vergogna, dolore, ira, passione accesa dalle Furie e valore cosciente. Appena quel buio scomparve e la luce tornò nella sua mente, volse le pupille infiammate verso le mura e torvo guardò dall'alto del carro alla grande città. Ecco che un denso vortice, saliti i varii piani d'una torre, sbandiera lunghe lingue di fiamma nel cielo, impadronendosi di quella costruzione che Turno stesso aveva innalzato con travi compatte, corredato di ruote e poi munito di altissimi ponti. « Ormai, ormai i Fati prevalgono, sorella, cessa di ostacolarmi, andiamo dove un Dio e la dura Fortuna chiamano - disse. - ~ scritto ch'io affronti Enea, sta scritto ch'io debba sopportare quanto c'è di crudele nella morte. Sorella, dele alla sua parola; ora tocca a te fare altrettanto. 826. mentre tu ... deserto: mentre tu t'aggiri col carro in una prateria deserta. Saces, che aveva iniziato rivolgendo a Turno un'appassionata invocazione, finisce con un amaro sarcasmo, che suona rimprovero e accusa di viltà. 827-831. Turno stupì, sconvolto, ecc.: nella mente di Turno sì agitano, come paurosi fantasmi, avvenimenti, rimproveri, preghiere in una confusione che lo atterrisce e ottenebra la sua coscienza. ' Ma è un istante. Egli reagisce subito; il suo
forte animo si desta. e in lui ritorna luminosa la consapevolezza di se stesso, del suo dovere e del suo valore. - dolore, ira: dolore per la morte della regina, ira per le conseguenze che questa morte può ora provocare. passione accesa dalle Furie: l'amore fremente di gelosia, perché sentiva che, scomparsa Amata, avrebbe decisamente perduto Lavinia. valore cosciente: il sentirsi inutilmente valoroso, perché creduto vile e perché il suo valore è ormai inutile. 832-835. A p pena quel buio, ecc.: in questi versi la figura dell'eroe ritorna vi-
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va e vigorosa; Turno ritorna ad essere se stesso, e per la riacquistata consapevolezza del suo valore, si muove con solennità scultorea. Di questo passo dell'Eneide si ricordò il poeta D'Annunzio in Forse che sì forse che no, quando annunciando il volo del su.:> eroe, Giulio Cambiaso, scrisse: « Sembrava che per lui su la rupe di Ardea vigesse la "conscia virtus" di Turno. Non andava alla morte, ma all'impresa mortale munitissimo ». 835-836. Ecco che un denso vortice, ecc.: ecco che un vortice di fiamme, sviluppandosi da un piano all'altro di una torre, sale serpeggiando verso il ciclo, tutta avvolgendola. ~ una di quelle torri mobili a diversi piani, che anticamente si costruivano fuori delle mura vicino alle porte, per meglio difenderle, ed erano unite alle mura per mezzo di ponti. Ma questa non era una torre qualunque; era opera di Turno, ed egli la considerava come testimonianza concreta della sua forza dedicata alla difesa della città. La sua distruzione diventa quindi simbolo della rovina della sua opera e del crollo di ogni speranza. Amata è morta, i suoi più forti guerrieri sono morti, intorno a lui la rovina si estende sempre più. 841-847. Ormai, ormai i Fati, ecc.: c'è in questo addio alla sorella un dolore rassegnato alla volontà di un potere, contro il quale non può far nulla neppure lei, che è dea; ma c'è anche la forza della sua volontà: quella di non venir meno, neppure di fronte alla mor-
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te, al suo onore, e di poter, combattendo contro Enea, dare libero sfogo alla sua ira contro se stesso, la sua debolezza, i suoi nemici e l'incomprensione dei suoi, ma forse più ancora contro il suo ingiusto destino. ~ forse, questo, il momento epico più drammatico di Turno, che nasce contemporaneamente dalla sua angoscia e dalla sua generosità. Il temperamento passionale ed eccitabile ha spinto Amata al suicidio; il temperamento esuberante, ineguale, ma virile, conduce Turno all'eroica risoluzione di riscattare la parte migliore di se stesso: il suo onore di soldato. E al poeta nulla è sfuggito di questo tremendo dramma umano. 850-851. lasciando la sorella rattristata: la sorella non ha più nulla da dirgli e da opporgli; e Turno, consapevole e pur fidente in sé, va incontro al suo destino. 85r-86o. Come u11 masso precipita, ecc.: la similitudine è omerica, ma se nel poeta greco è più sobria ed efficace, in Virgilio è più pittorica e circostanziata. Fu imitata poi dal Tasso (Ger .. XVIII, 82) e dal Manzoni nell'inno sacrr> « Il Natale ''• ed utile sarebbe che l'alunno ponesse a confronto queste similitudini con quella virgiliana e vedere come ogni poeta, pur usufruendo dello stesso spunto, abbia saputo esprimere situazioni diverse e ottenere varietà e originalità. 863. Comu1zque vada: Turno ha presente la sorte che lo sovrasta, e l'accenno, che non è senza motivo, è artisticamente molto efficace.
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non mi vedrai piu a lungo disonorato: lascia, te ne prego, ch'io prima sfoghi questo furore!» Spiccò rapido un salto giu dal carro nei campi e si precipitò attraverso i nemici, attraverso le lance, lasciando la sorella rattristata ed aprendosi con corsa vdoce un varco tra le schiere. Come un masso precipita dalla cima d'un monte - strappato via dal vento, o smosso dalla pioggia furibonda o staccato dagli anni e dall'età - e rotola sfrenato, violento, rimbalzando al suolo, trascinando con sé foreste, armenti, uomini: cosi Turno passando tra le file sconvolte corre verso le mura della città, dove -la terra è intrisa di sangue, dove l'aria ronza fitta di dardi. Fa segni con le mani e comincia a gran voce: «O Rutuli, fermatevi: fermatevi, Latini, e posate le armi! Comunque vada è meglio, è piu giusto ch'io solo sconti il patto per voi e decida col ferro la nostra contesa! » Tutti si allontanarono e gli fecero spazio.
I due campioni di fronte 864. sconti ;t patto per voi: è più giusto ch'io solo paghi la violazione del patto.
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(867-984).-Quando Enea sente la voce di Turno e la ma decisione, lascia le mura e avanza gioio.1o nel rumore delle sue armi. Tutti depongono le armi e attendono ansiosi di assistere al duello dei due campioni. Lo stesso re Latino si meraviglia che due eroi, di terre così lontane tra loro, si scontrino e decidano la guerra in duello. Prima Turno ed Enea si scagliano dardi, poi impugnano le spade e « si scambiano fendenti fitti, colpo su colpo: tutti e due valorosi e insieme fortunati ». Giove
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pone sopra i due piatti della bilancia le sorti dei guerrieri, e l'ago è in equilibrio Turno scatta e cala un gran fendente sull'elmo del Troiano, ma l'elmo resiste e la spada si spezza. Il Rutulo, mentre saliva a precipizio sul cocchio per correre in battaglia, nella fttria aveva dimenticato la spada paterna costruita da Vulcano ed aveva afferrato quella di Metisco, il suo àuriga. Turno, inerme, fugge velocissimo 'nseguito da Enea, e chiede disperatamente una spada ai suoi, ma nessuno osa avvicinarsi. Anche Enea è senza asta e tenta invano di svellerla d{1lle radici di un olivastro, nelle quali si è impigliata. L'olivastro è sacro a
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Ma il padre Enea, sentito appena il nome di Turno, abbandona le mura, abbandona le torri altissime, interrompe ogni impresa, si libera d'ogni ostacolo e esulta di feroce allegria nel rumore terribile delle sue armi: grande come l'alto monte Athos o l'Erice o lo stesso padre Appennino quando freme tutto di lecci stormenti e si leva felice con la cima nevosa verso l'aria. E già tutti, i Troiani e i Rutuli e gli Italici, rivolgevano gli occhi ai due avversari. Chi presidiava la cima delle mura, chi invece batteva con l'ariete la base delle mura, si fermano e depongono le armi dalle spalle: lo stesso re Latino ammira stupefatto che giganteschi eroi, generati in opposte parti dell'universo, si scontrino e decidano in duello la guerra. Appena il campo è libero Enea e Turno, lanciate le aste da lontano, con una rapida corsa vengono al corpo a corpo, urtando i loro scudi di bronzo risonante. La terra emette un gemito. Si scambiano fendenti fitti, colpo su colpo: tutti e due valorosi e insieme fortunati. Come nell'ampia Sila o sull'alto Taburno s'affrontano due tori e in piena corsa cozzano Fauno, dio favorevole a Turno; e Fauno rende vani i tentativi di Enea. Intanto Giuturna porta la spada al fratello, e V enere si sente allora autorizzata a far sì che il figlio riesca a ricuperare l'asta. Così i due avversari sono di nuovo uno di fronte all'altro per la prova estrema.
867. il padre Enea: è stato osservato da molti, e giustamente, che in nessun'altra occasione l'appellativo << padre » è stato usato con maggior pienezza di significato che in questa circostanza, nella quale Enea si accinge ad una prova, dalla quale
dipendono le sorti future dell'Italia e del mondo. 868. abbandona... abbandona ... : la ripetizione non è inutile; essa qui serve a porre in evidenza la spontaneità, l'ardore, l'immediatezza con cui Enea abbandona il campo e affronta il quello, ultimo ostacolo al compimento dei suoi destini. 872. Athos o l'Erice: sono due monti: uno, l'Athos, della penisola Calcidica, oggi chiamato anche Montesanto per i numerosi conventi di monaci che vi si trovano; l'altro, l'Erice, della Sicilia, sulla costa occidentale, oggi monte San Giuliano. Suo
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eponimo è Erice, fratello di Enea, perché figlio di Venere e di Bute, un pugilatore di grande forza, vinto tuttavia e ucciso da Ercole. Sul monte del suo nome aveva costruito una città, ch'egli chiamò con lo stesso nome. 873. padre Appe11nino: l'appellativo è usato per indicare la divinità del monte. A Giove Appennino era dedicato un tempio al passo di Scheggia. 878. ariete: antica macchina d'assedio usata per sfondare le mura o le porte; in questo caso dai Troiani che assediavano la città. 88o-883. lo stesso re Latino, ecc.: il re Latino, che pur aveva pronunciato la formula del patto, si stupisce, ecc. « Ma qui, - osserva il Copelli, - è il poeta che presta a Latino i propri sentimenti, o meglio quelli dei posteri di tutti i tempi, stupiti di vedere come fossero occulte le vie del destino e grande il suo potere ». Era, cioè, cosa meravigliosa e inspiegabile che due eroi e due popoli diversi dovessero incontrarsi e versare abbondantemente il proprio sangue per far germogliare dalla lotta il popolo che ha fuso in sé tutti i popoli italici, al punto da non saperli distinguere, ed ha saputo unire concordi nel nome di Roma Europa ed Asia prima ostili. 887. La terra emette un gemito: iperbole, o nella mente del poeta la terra partecipa veramente all'urto sanguinoso dei suoi due eroici figli? 890. Sila... Taburno: nel descrivere questo duello decisivo Virgilio può essersi ricordato della battaglia dei
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tori che è in una grande pagina del libro III, vv. 216221, delle sue Georgiche. Anche per questo la similitudine è una delle più vive e precise del poeta. La rispondenza fra il duello dei due eroi e la lotta dei due tori è perfetta in ogni particolare. Enea e Turno hanno attorno in trepida attesa le schiere di coloro che obbediranno al vincitore; i due tori gli armenti, per il dominio dei quali essi cozzano. E ambedue le lotte sono violente, atroci, cieche; non gare di abilità, ma di forza e di fortuna. La Sila è un vasto altopiano montuoso della Calabria fra i mari Ionio e Tirreno; il Taburno è una catena di monti tra la Campania e il Sannio che, dal lato meridionale, forma le Forche Caudine.
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902-905. Giove innalza, ecc.: Giove ha il compito di
tutelare il regolare compimento del destino; questo è ora il motivo del suo intervento. L'immagine della bilancia, su cui sono pesate le sorti degli uomini, è antichissima. La curiosità umana è sempre stata assillata dal desiderio di conoscere il perché di certe morti immature e misteriose; e lo confermano gli esempi che si leggono nell'Iliade ed anche nella Bibbia. 906. di farlo senza danno:
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feroci, combattendo (i mandriani impauriti si sono ritirati, la mandria intera è ferma per il terrore, muta, e le giovenche mormorano dubbiose su chi debba regnare nella selva per essere la guida di tutti gli armenti): i tori si feriscono, si scambiano cornate terribili, bagnando di molto sangue il collo e le spalle; la sdva rimbomba di muggiti. Cosi il troiano Enea e l'eroe Daunia cozzano con gli scudi, un enorme fragore riempie il cido. Giove innalza i due piatti della bilancia (l'ago è in equilibrio) e vi pone le sorti dei guerrieri, per vedere chi il Fato condannerà dei due, verso dove la morte declina col suo peso. Turno scatta, pensando di farlo senza danno, si drizza piu che può, leva in alto la spada e cala un gran fendente: i Troiani e gli ansiosi Latini gridano, attenti. Ma la perfida lama va in mille pezzi e lascia l'ardente Turno inerme nel pieno del suo assalto, lo costringe a fuggire. Scappò via piu vdoce dell'Euro appena vide nd pugno disarmato un'dsa sconosciuta. Si dice che mentre saliva a precipizio sul cocchio per correre in battaglia, dimenticando la spada paterna, nella furia, s'impadronisse di quella dell'auriga Metisco. Ed essa gli bastò a lungo finché i Teucri si sbandavano in fuga; ma affrontando le armi divine di Vulcano la lama mortale si spezzò per il colpo <:ome fragile ghiaccio: ed ecco i suoi frammenti splendere nella fulva arena. All'impazzata Turno fugge per tutta la pianura, girando ciecamente ora qui ora là: da una parte infatti lo circonda una densa corona
Turno aveva fiducia nella sua spada, costruita un gior-· spada è perfida perché è no da Vulcano per il padre mancata alla fiducia che Tur· Dauno e temprata nelle ac- no aveva riposto in essa. que dello Stige ( 115-119), e 912. Euro: vento dell'ausi gettò quindi nella lotta rora, che spira dall'oriente. con fiducia e con l'impeto 913. un'elsa sconosciuta: del suo temperamento ge- l'elsa di una spada non sua. neroso. _ 917. dell'auriga Metisco: 909. la perfida lama: la v. 587 e sgg.
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920. la lama mortale: la lama costruita dall'uomo (mortale) non poteva contendere con le armi di Enea costruite da un dio. 922-924. All' impazzata Turno fugge, ecc.: l'evento
inaspettato della spada, che si è spezzata « come fragile
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di Troiani, dall'altra c'è la grande palude, dalla terza le mura, altissime. Sebbene talvolta le ginocchia gli vacillino, a causa della ferita che ostacola la sua corsa, egualmente Enea l'insegue e incalza con ardore, toccando quasi quasi col piede il piede del fuggiasco. Cosi un cane da caccia che s'imbatta in un cervo la cui corsa è bloccata da un fiume o dalle penne rosse (spauracchi posti dai cacciatori) incalza latrando l'animale: spaventato dall'alta ripa o da quelle penne il cervo corre avanti e indietro, dappertutto cercando una via di scampo, ma il cane vivacemente gli sta addosso, già già sta per prenderlo e, certo di azzannarlo, dà a vuoto un gran colpo di denti, mordendo solo l'aria. Allora si che tutti gridano: la palude e le rive fanno eco, il cielo ne rintrona. Turno fuggendo chiama per nome tutti i Rutuli, li rimprovera, chiede la sua spada. Ma Enea a sua volta minaccia di morte e di rovina chiunque oserà accorrere, spaventa i trepidanti Latini promettendo che avrebbe raso al suolo la città: anche ferito continua l'inseguimento. Fan cinque giri di corsa, poi ne fanno altri cinque in senso contrario, per tutta la pianura: i due eroi non gareggiano per gioco o per un premio, ma la posta è la vita ed il sangue di Turno. Cresceva proprio là un oleastro di foglia ghiaccio», ha disarmato Turno, e il giovane eroe fuori di sé fugge qua e là senza mèta, solo per sfuggire ad un combattimento impari. 926. la grande palude: nel canto X, verso 884, il poeta accenna ad una « palude vicina a Laurento ». Perciò Turno, impedito a trovare scampo da tutte le parti, per evitare d'incontrarsi, disarmato, con Enea, è costretto a giri viziosi.
929-930. a causa della ferita: sembrerebbe che Enea risentisse le conseguenze della ferita; ma poiché sarebbe assurdo pensare che la guarigione miracolosa fosse incompleta, e Virgilio stesso ha rappresentato Enea che, risanato dalla madre, si slancia alla ricerca di Turno « con una rapida corsa » (885), si deve concludere che l'incongruenza è una distrazione del poeta.
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934-935· dalle penne rosse: allude allo spauracchio, consistente in una corda guarnita di piume scarlatte, che i cacciatori tendevano in luoghi appositi per obbligare i cervi a prendere la via delle reti. 940-941. certo di azzannarlo, ecc.: sicuro di afferrarlo con i denti, chiude la bocca inutilmente. La similitudine è di Omero, ma alla rappresentazione oggettiva, quasi sempre esterna del poeta greco, Virgilio ha aggiunto la vita: l'ansia del cane che insegue il cervo, e, quando crede di averlo raggiunto, la sua delusione. 944-945· Turno fuggendo, ecc.: è un'altra pennellata che si aggiunge al ritratto di Turno, il quale, nel suo isolamento, pone ancor più in evidenza la sua fierezza e la sua risolutezza, raggiungendo cosl l'apice dell'eroismo. « Se la sorte è disgraziata,- commenta il Copelli, - Io compensa il poeta con una esaltazione appassionata e ammirata ». 945-949· Ma Enea a sua volta, ecc.: si è obiettato che Enea non doveva inseguire Turno, il quale, spezzata la spada, era disarmato; ma l'obie2ione è errata per più motivi: quell'età antichissima non conosceva le leggi della cavalleria; inoltre Enea aveva validissimi motivi per non interrompere il duello sancito da un giuramento e ritualmente consacrato, ed infine le azioni di questi eroi obbediscono ad una necessità estrinseca, il Fato, e sono circondate dal senso del mistero. 954· oleastro: olivo selvatico.
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955· Fauno: divinità latina, il cui nome significa « il favorevole », « il buono ». Era padre del re Latino (VII, 58-59 e 99-1oo). 955-956. venerato dai marinai: le offerte a Fauno erano fatte dai marinai non come dio del mare, ma come re divinizzato di Laurento. 961. il campo ai combattenti: il campo sul quale Enea e Turno (i combattenti) dovevano incontrarsi in duello. 961-963. Qui era andata, ecc.: Enea aveva lanciato l'asta contro Turno senza colpirlo, e l'arma, scagliata con forza, era andata a conficcarsi saldamente nel ceppo dell'olivo selvatico. 965. e inseguire con l'asta, ecc.: Enea, meno veloce di Turno, forse perché più vecchio, non riesce a raggiungere l'avversario e vorrebbe riprendersi l'asta conficcata nel ceppo dell'olivo selvatico e scagliargliela contro di lontano. 966-967. folle di te"ore: Turno, inerme, si sentiva come un vinto e vedeva con terrore la sua fine imminente, insieme con il crollo di tutti i suoi sogni. 967-971. O Fauno, te ne supplico, ecc.: invoca insieme Fauno, cui l'albero è sacro, e la Terra come madre di tutti i viventi e quindi anche dell'albero. - mentre gli Eneadi, ecc.: i Troiani (Eneadi), tagliando l'olivo selvatico, avevano invece profanato e Fauno e la Terra. 973· elastica: tenace. Il testo latino è « lenta », che significa appunto tenace, resistente. 976. la dea Daunia: Giuturna, perché . figlia come
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amara, sacro a Fauno, un tempo venerato dai marinai che solevano, scampati dalle onde, appendere ai suoi rami doni al Dio di Laurento ed attaccarvi vesti votive. Ma i Troiani senza far differenza con le altre piante, avevano sradicato qud tronco sacro per liberare il campo ai combattenti. Qui era andata a finire l'asta d'Enea, lo slancio l'aveva portata a piantarsi con forza nella radice flessibile. Il Troiano si piegò per .strappare con le mani qudl'arma e inseguire con l'asta.colui che non riusciva a raggiungere in corsa. Allora Turno, folle di terrore, pregò: «O Fauno, te ne supplico, abbi pietà di me: e tu ottima Terra, trattieni qud ferro, se è vero che ho sempre rispettato il vostro culto, mentre gli Eneadi l'han profanato in guerra! ». Non fu inutile l'invocazione al Dio. Infatti Enea sforzandosi a lungo ed indugiando sulla radice elastica non riusd in alcun modo ad aprire la morsa dd legno. Mentre invano s'accaniva, tenace, replicando gli sforzi, la Dea Daunia mutatasi per la seconda volta nell'auriga Metisco, corre e rende la spada al fratello. Indignata che tanto sia permesso all'audace Ninfa, Venere si avvicina e svelle il giavellotto dalla profonda radice. I due si rialzano, armati e rinfrancati nel cuore: il primo lieto ddla sua spada, l'altro fiero della sua lancia e violento. S'afirontano a pié fermo, sbuffando ndla lotta affannosa.
Il patto tra Giove e Giunone Turno di Dauno. Mirabile sorella, assiste non vista il fratello, pur sapendo che ogni suo aiuto sarà inutile. Essa obbedisce all'impulso del cuore: del suo povero cuore, che palpita in egual misura di amore e di dolore. 979· all'audace Ninfa: Giuturna (v. nota a 178-182).
981. si rialzano: riprendono animo, coraggio.
IL PATTO TRA GIOVE E GIUNONE (985-1047). - Giove si lamenta con Giunone che Enea, destinato a salire un giorno al cielo, sia stato ferito e che Turno, il cui Fato gli è contrario, abbia
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Intanto il re dell'Olimpo onnipotente parla a Giunone che assisa su una nuvola fulva osservava il duello: « Cosa succederà, o moglie? Come andrà a finire? Tu sai e lo ammetti che Enea è destinato al cielo, dove sarà un Dio indigete, innalzato alle stelle dai Fati. Che prepari?
darà. Giunone, appaf!.ala, se ne t•a co11tenta. 986-987. Giunone... il . duello: strano atteggiamento questo di Giunone, che àssisa sopra una nube gelida guarda il <;luello, sola e lontana dal campo. Se non fosse stato il pio Virgilio a scrivere questi versi si potrebbe pensare ad un'intenzione sarcastica. Ma l'ironia, forse involontaria, nasce ugualmente dalla posizione della dea, più buffa che solenne. 989-990. Enea ... dio indigete: Enea, dopo la morte, sarà una divinità tutelare, paesana, italica. Giove aveva promesso l'immortalità di Enea a Venere (I, 303-304). Dèi indigeti erano presso i Romani gli dèi locali, primith., mentre dèi novensili erano quelli stranieri importati. Enea venne quindi con-
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siderato indigete, quasi come patrio, ed ebbe culto come divinità tutelare del Lazio a Lavinio, e sul suo tempio si leggeva questa iscrizione: «Tempio del dio padre Indigete che regge il corso del fiume Numico ». 991. Che. prepari?: che cosa vai ancora macchinando? 992. ostinata: ostinata, perché persiste a proteggere Turno senza speranza. C'è anche una leggera nota di sarcasmo in questa domanda. 992-997. Forse è giusto che, ecc.: Giove accusa la moglie della ferita di Enea, di aver ridato a Turno la spada, che il destino gli aveva sottratto, e di avergli tidestato vigore, mentre era già vinto. Giuturna era stata una esecutrice materiale, almeno inizialmente, della volontà di Giunone. 998-1004. non voglio che il dolore, ecc.: questa espressione affettuosa, e quella successiva, che finisce addirittura con una galanteria, sono un po' strane sulla bocca di Giove; e potrebbero avere anche un significato ambiguo. Ma ai rimproveri iniziali, anche se blandi, era necessaria una gentilezza prima di passare al tono categorico della conclusione, che non consente obiezioni. - il giorno fatale: il giorno stabilito dal Fato. - far male ai Teucri, ecc.: allude ai tentativi fatti da Giunone per impedire che i Troiani raggiungessero l'Italia, e do· po che sbarcarono nel Lazio, la guerra suscitata contro di essi. - rovinare una famiglia: allude alla morte di Amata. - unire alle nozze la morte: perché le nozze di Enea con Lavinia sono pre-
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cedute, per colpa di Giunone, dalla morte di Amata e di tanti guerrieri. 1005·1029. Giunone allora, ecc. : questo atteggiamento di Giunone, superba e puntigliosa, può sembrare eccezionale e strano. La dea, infatti, non si sarebbe arresa (lo dichiara lei stessa subito dopo con estrema chiarezza), se non si fosse intromesso il Fato, a cui neppure Giove può impedire che si compia. La sua accondiscendenza ha uno scopo ben preciso: concedere qualche cosa (in realtà concede ciò che era ormai inevitabile) per ottenere la realizzazione di un suo grande progetto, che le consentirà di uscire dalla contesa con tutto il suo onore. Perciò lascerà che Turno segua il suo ineluttabile destino, e in compenso chiede che la vittoria di Enea non significhi sottomissione degli Italici, popolo a lei caro, alla supremazia straniera; la qual cosa «non è stabilita da alcuna legge del Fato ». - cose .giuste... ingiuste: che cose giuste siano trattate ingiustamente. II testo latino è « digna indigna ». - a scontri sfavorevoli: ad accumulare una sconfitta dopo l'altra. - ma senza lanciare frecce, ecc.: intendi: senza pericolo per Enea. Giuturna, come dea, se avesse usato l'arco e le frecce, avrebbe certamente difeso il fratello con la morte di Enea; e lo dice per dimostrare, in risposta al rimprovero dei versi 992995, che non fu Giuturna a ferire Enea al ginocchio. per la fonte dello Stige: è il giuramento più solenne degli dèi. Lo Stige è il maggiore dei quattro fiumi del-
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piu in là!». Giunone allora gli risponde, con volto sottomesso: «Gran Giove, conosco il tuo volere; per questo ho abbandonato, malvolentieri, Turno e la terra. Oh, se no! Certo non mi vedresti in cielo a sopportare cose giuste ed ingiuste: ma starei, tutta cinta di fuoco, accanto ai Rutuli, e spingerei i Troiani a scontri sfavorevoli. Lo confesso, fui io a persuadere Giuturna a correre in aiuto del povero fratello, volli che osasse tutto per salvargli la vita, ma senza lanciare frecce, senza tendere l'arco. Lo giuro per la fonte dello Stige, implacabile: unico giuramento valido per i Celesti. E adesso mi ritiro, abbandono sdegnata la lotta. Ma ti chiedo, per la maestà dei tuoi e per il Lazio, ciò che non è stabilito da aleuna legge del Fato. Quando· ratificheranno la pace con felici nozze (e sia pure!), quando si metteranno d'accordo sul trattato, disponi che i Latini non cambino l'antica denominazione, che non siano Troiani neanche di nome, che non mutino lingua né moda. Ci sia il Lazio coi re albani nei secoli dei secoli, ci sia la stirpe romana, potente per il valore italico: Troia è caduta, lascia che cada anche il suo nome ».
l'inferno; e lo circonda tutto. - per la maestà dei tuoi: per l'onore dei re Latini discendenti da Saturno, padre di Giove. - né moda: allude alla toga, che era abito nazionale indossato solo in pubblico e all'estero, quando il cittadino romano aveva da compiere una missione ufficiale. - coi re albani: tali re sarebbero stati dodici, e avrebbero regnato per circa trecento anni: da Ascanio fino a Cluilio o Clelio, cioè fino a quando, dopo la vittoria dei tre fratelli Grazi, Romani, su i tre fratelli Curiazi, Albani, il re romano
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Tullo Ostilio distrusse Alba Longa e i due popoli si fusero insieme. - per il valore italico: la stirpe romana sia potente per virtù italica. È il concetto fondamentale che anima il poema virgiliano. Troia è caduta ... il suo nome: alcuni hanno creduto di scorgere in questo verso la mira di Virgilio di distogliere i Romani dall'idea di trasportare in Oriente la capitale; idea balenata a Cesare, poi ad Antonio ed infine anche ad Augusto. Ma sembra più consono all'idea dominante nell'Eneide il ritenere che il poeta, per mezzo di
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Sorridendo l'autore degli uoiDlD.i e delle cose disse: « Sei la sorella di Giove, sei la figlia di Saturno, davvero! Lo vedo dalla forza del furore che in petto ti bolle. Ma va bene, calma quest'ira inutile: ti accordo ciò che vuoi, m'arrendo volentieri. Gli Ausoni serberanno il modo di parlare e i costumi dei padri, il nome rimarrà quello che è: i Troiani si uniranno con loro solo nel corpo. Io in persona darò loro col culto i riti sacrificali e farò che siano tutti Latini con un'unica lingua. Vedrai nascere un popolo che grazie al sangue ausonio crescerà, salirà al di sopra degli uomini, al di sopra dei Numi per religiosità. E nessun'altra gente ti sarà tanto devota ». Giunone acconsenti felice. Finalmente non è piu ostile a Enea: e se ne va dal cielo, abbando~ la nuvola.
Il duello finale e la morte di Tumo Giunone, voglia esaltare la stirpe italica, che avrebbe costruito la propria storia gloriosa per virtù, non ereditata dai Troiani, ma insita nella sua natura. L'oracolo si doveva considerare adempiuto con la vittoria di Enea; gli eventi successivi alla fusione dei due popoli spettavano alla gente italica. A questa idea Virgilio pensa costantemente; ed infatti egli attribuisce ai Troiani costumi romani anche quando essi sono appena sbarcati sulle coste del Lazio. Il verso quindi non è stato scritto soltanto per soddisfare l'amor proprio di Giunone. IOJ2-I045· Sei la sorella di Giove, ecc.: anche Giunone, fiera delle sue idee e cosl orgogliosa che disconosce le sue colpe, ha tutti i
caratteri della regalità, ed è quindi degna figlia di Saturno e sorella di Giove. Con questo riconoscimento Giove asseconda la vanità di Giunone e introduce la sua risposta contenente l'accettazione di tutte le sue richieste: gli I talici conserveranno la lingua, il nome e i loro usi tradizionali; i Troiani si fonderanno con gli Italici e, come popolo, scompariranno. Perciò l'unione dei due popoli sarà soltanto fisica; l'elemento morale sarà, anche dopo la fusione, soltanto italico. Ed in più, Giove, che si è riservato il compito di stabilire quali dovranno essere le cerimonie, i riti, i sacrifici, concederà a Giunone una preminenza nel culto. Difatti a Roma Giunone faceva parte con Giove e
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Minerva della triade capitolina, aveva molti templi e godeva di un culto speciale. IL DUELLO FINALE E LA MORTE DI TURNO ( 10481180) - Pacificata Giunone,
Giove aecide di incutere spavento nell'animo di Turno e di allontanare Giuturna dal fratello. A tal fine ricorre ad una delle due furie che sono ai lati del suo trono e le ordina di scendere sulla terra con l'incarico di allontanare Giuturna. Essa scende, assume le forme di un gufo e comincia a svolazzare, sibilando, davanti al volto di Turno, il quale alla vista del funesto augurio si smarrisce. Giuturna comprende e abbandona il campo. Enea baldanzoso, con l'animo ancora esacerbato dalla rottura dei patti, provoca Turno con parole di scherno e l'eroe italico risponde che non lui teme, ma la palese ostilità dei Numi. E sollevato un enorme masso lo scaglia contro il Troiano, ma non raggiunge il segno. L'insuccesso smarrisce il giovane e coraggioso Rutulo ed Enea ne approfitta; mentre l'avversario indugia, ché non sa come fuggire o come affrontare il nemico, Enea scaglia a tutta forza l'asta e lo colpisce ad una coscia profondamente. Turno cade, piegando il ginocchio a terra, e rivolge ad Enea una umile e calda preghiera. L'eroe troiano si commuove ed è sul punto di concedergli la vita, quando vede sulla spalla del vinto il balteo di Pallante. A quella vista il ricordo del giovane amico ucciso lo riempie di dolore e di sdegno, e con l'animo sconvolto « pianta
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furibondo la spada nel petto avverso».
1048. Il Padre: Giove. ad altro: ad un altro disegno. 1049. ad allontanare Giuturna: con l'allontanamento di Giuturna Giove toglie l'ultimo impedimento al regolare corso del destino. In prossimità della conclusione si sviluppa intorno all'eroe italico un crescendo sempre più intenso e tragico di particolari, che preludono alla tragedia finale e aumentano sempre più nel poeta e nel lettore un senso di profonda pietà per la giovane e generosa vittima del destino. 1050. Esistono due mostri, ecc.: secondo la tradizione le Furie sono tre: Aletto, Tisifone, Megera e abitavano nell'inferno. Anche Virgilio segue altrove questa tradizione (VI, 704; VII, 372); qui inveee pone nell'inferno solo Megera (la Tartarea Megera), e colloca le altre due ai lati del trono di Giove, pronte a servirlo. 1054. ali grandi ... vento: grandi ali che, muovendosi, producono vento. 1061. per monito e presagio: per minaccia (monito), allo scopo di allontanare Giuturna e impedirle di prestare ancora aiuto al fratello; per funesto augurio (presagio), allo scopo di dare alla Ninfa la certezza della imminente fine del fratello. 1065. Parto... Cidone: i
Parti e i Cretesi (Cidone fu antichissima e celebre città di Creta), erano agili cavalieri e valenti arcieri. I Parti, con una tecnica speciale, lanciavano frecce anche fuggendo.
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Il Padre pensa ad altro allora; si prepara a allontanare Giutuma dal fianco del fratello. Esistono due mostri, chiamati con il nome di Furie, generati dalla Notte profonda in uno stesso parto con la Tartarea Megera, cinti come Megera di serpenti e forniti di ali grandi, robuste, che producono vento. Son sempre pronte a apparire accanto al trono di Giove per seminare il terrore fra gli uomini infelici quando il re degli Dei manda l'orrenda morte, le malattie o sgomenta le città che lo meritano con la guerra. L'Eterno spedf una di costoro giu dal cielo, veloce, con l'ordine di correre da Giutuma per monito e presagio. La Furia discende sulla terra in un rapido turbine. Come una freccia scoccata attraverso la nebbia da un Parto - che l'ha intinta in un fiero veleno come una freccia scoccata da un Parto o da un Cidone, mortale, immedicabile, fischia invisibile e solca l'ombra: cosi la figlia della Notte di corsa si scagliò sulla terra. Viste le armate iliaca e rutula, in un lampo la Furia si costrinse nella forma del piccolo uccello che talvolta a tarda ora, di notte, posato sui sepolcri o sui tetti deserti canta lugubremente attraverso le tenebre. In tale aspetto il mostro svolazza sibilando davanti al volto di Turno piu e piu volte, e gli sferza con le ali lo scudo. Che sconosciuto torpore gli fiacca allora le membra!! capelli si drizzano, la voce gli smuore in gola. Appena riconosciute di lontano le ali e il sibilo della Furia, l'infelice Giuturna si strappa i capelli sciolti; per pietà del fratello
ro68-1070. iliaca e rutula: troiana e italica. - si costrinse nella forma, ecc.: si trasformò in un gufo, o forse in una civetta, che la fantasia popolare considera funesta più del gufo. 1075. gli sferza... lo scudo: gli sbatte le ali sullo scudo.
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1076. Che sconosciuto torpore, ecc.: il grande e fortissimo eroe, che non ha tremato mai davanti alle armi, trema ora per la superstizione creata intorno alla innocente bestiola. Virgili~ha saputo cogliere anche questo aspetto dell'animo umano che, intrepido di fronte
Canto dodicesimo con le unghie si strazia la faccia, con i pugni il seno e grida: «Cosa potrà fare per te
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adesso tua sorella, o Turno? Che speranza mi rimane? In che modo riuscirei a allungarti la vita: o forse a oppormi a un miracolo simile? Abbandono la lotta, ormai. Non atterrite me che vi temo, o uccelli infausti: riconosco i vostri colpi d'ala, queste grida che annunziano la morte, e non m'ingannano gli ordini prepotenti del magnanimo Giove. Sarebbe questo il dono per la verginità che m'ha tolto? Perché m'ha concesso di vivere in eterno? Perché io non posso morire? Come sarebbe dolce mettere fine a tanti dolori e accompagnare il mio infelice fratello attraverso le tenebre. Sono immortale! Mai avrò nulla di bello e caro senza te. C'è una terra profonda abbastanza da aprirsi ed inghiottirmi (me, una Dea!) giu nel covo dei Mani?». Tra le lagrime si tirò fin sul capo il suo mantello azzurro, scomparve con un salto nella cupa corrente. Enea avanza, vibrando l'enorme lancia simile a un albero, e con animo feroce grida: «O Turno, perché indugi e ti attardi? Non si tratta di correre ormai, ma di combattere corpo a corpo, con armi brutali. Assumi pure tutte le forme che vuoi, raduna tutto il coraggio e le astuzie che puoi: spera magari di alzarti con le ali sino alle stelle, o chiuderti al sicuro nella terra profonda ... ». alla realtà, si disanima da· vanti al mistero. 1082-1099. Cosa potrà fare per te, ecc.: sono le ulti-
me parole disperate di Giuturna, desolata di non poter prestare aiuto al fratello, cui sovrasta la morte; è una con· fessione sconsolata di una sorella che vede il proprio fratello solo, in balia di un potere più forte di lui e se stessa impotente a soccor· rerlo. Di qui la ribellione a
Giove, amaramente sarcastica, e l'odio contro la propria immortalità, che non le consente di seguire il fratello nel regno delle tenebre. oppormi a un miracolo simile?: allude al gufo che
svolazza davanti a Turno e gli percuote con le ali lo scudo: fatto eccezionale, inusitato (miracolo), che Giuturna interpreta come presagio di morte. - e accompagnare, ecc.: Giugurta, invece di es-
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Sf!re immortale, preferirebbe accompagnare il fratello negli inferi, cioè partecipare della stessa sua sorte per essergli vicina, « espressione, annota il Copelli, - di un intenso e generoso amore fraterno, specialmente chi pensa come triste e desolato fosse nelle credenze antiche il mondo delle tenebre ». Mai avrò nulla di bello, ecc.:
il lamento di Giuturna si chiude con questi accenti accorati, che vibrano di amore tenerissimo e disperato per il fratello. Nulla lei avrà che le sorrida, perduto il fratello! E vorrebbe che ci fosse una terra anche per lei, dea, tanto profonda da seppellirla nel regno dei morti (Mani). Davvero Virgilio ha saputo dare all'amore fraterno accenti di una tenerezza e di una generosità incommensurabile, e alla morte di Turno un'atmosfera degna del suo valore. 1100.
mantello azzurro:
Giuturna è ninfa delle acque, ed ha quindi il mantello dello stesso colore. 1103.
con animo feroce:
con atteggiamento ci oso.
minac·
II04· Non si tratta di correre: accenna sarcasticamen-
te all'allontanamento di Turno sul carro guidato da Giuturna. IIo6-IIII.
Assumi pure,
trasfòrmati pure in tutte le forme che ritieni più idonee, cioè usa pure tutte le astuzie che vuoi. ma non mi sfuggirai, dice Enea a Turno, del quale non conosce, né l'innocenza dei fatti più recenti, né il dramma che lo tormenta. L'eroe troiano è sempre dominato dall'ira conseguente alla rottuecc.:
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ra dei patti e ai vari inseguimenti ai quali l'aveva costretto Giuturna; perciò le sue parole sono piene di rimproveri e di sarcasmo. Ma questo atteggiamento di Enea, dopo l'apparizione del malaugurato uccello, .stride nel contesto della narrazione, e Virgilio ha perciò opportunamente fatto troncare il discorso di Enea dallo stesso Turno, il quale gli dice che non le sue parole Io atterriscono, « ma i Numi e Giove avverso»; e lo definisce crudele. III5·11I7. Dodici uomini, ecc.: questo concetto del decadimento della razza umana e della maggiore prestanza fisica degli uomini del passato, vivo anche oggi, era comune presso gli antichi, i quali attribuivano ai loro antenati corpi giganteschi, forza smisurata ed azioni eccezionali. 1119·1125. Eppure né nel correre, ecc.: Turno, che pur domina in mezzo al campo, mentre Enea appare immobile, quasi assente, forse in attesa di scoprire il momento adatto al colpo decisivo, scagliando la grossa pietra avverte che le sue forze non sono più quelle consuete o per lo meno esse non rispondono più al suo volere come una volta: il macigno non ha percorso l'intera distanza e quindi non è arrivato a colpire il bersaglio. Perciò il giovane rutulo rimane deluso, la sua baldanza si affievolisce, e· nel suo intimo si consolida sempre più la certezza che gli dèi gli sono nemici. 1125-1133· Come in sogno, ecc.: nota la precisione rigorosa, con la quale il
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E Turno, scuotendo il capo: «Non sono le tue parole a atterrirmi, o crudele, ma i Numi e Giove avverso ». Non disse altro. Volgendosi scopre un enorme, antico macigno, che giaceva in mezzo alla pianura, messo H per segnare il confine d'un campo contro eventuali liti. Dodici uomini quali produce oggi la terra lo reggerebbero a stento sulle spalle, ma Turno lo solleva con mano febbrile e a tutta corsa, levandosi piu in alto che può, riesce a scagliarlo contro il nemico. Eppure né nel correre, né nel camminare, né nell'alzare e avventare quell'enorme macigno riconosce se stesso: le ginocchia gli tremano, il sangue è intorpidito per il freddo. La pietra rotolando nel vuoto non supera l'intero spazio né porta a segno il colpo. Come in sogno, di notte, quando una languida quiete ci ha chiuso gli [occhi, ci sembra di volere inutilmente correre, correre a perdifiato, e in mezzo ai nostri sforzi crolliamo giu, impotenti: senza moto la lingua, spento il noto vigore del nostro corpo, privi di parole e di voce. Cosi la Dea terribile rifiuta ogni speranza, ogni successo a Turno dovunque il suo valore tenti una strada. Allora nel fondo del suo petto s'agitano sentimenti contraddittotii. Guarda i Rutuli e la città, la paura lo attarda, trema all'avvicinarsi della morte; e non sa come fuggire o come affrontare il nemico, non vede in nessun luogo il carro e la sorella trasformata in auriga. Enea, mentre egli indugia, agita in aria il lampo
poeta descrive l'incubo di un sogno pauroso, al quale paragona la Furia che volando insistentemente su Turno gli toglie le forze e lo atterrisce. 1135-1136. Guarda i Rutuli, ecc.: Turno è come smarrito: guarda i Rutuli incapaci di prestargli aiuto, e guarda la città, che avrebbe
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dovuto essere un giorno la capitale del suo regno e nella quale c'è Lavinia. t! l'ultimo sguardo al suo mondo, l'ultimo pensiero alle cose e alle persone amate; e nel suo sguardo c'è Io smarrimento, l'amore, il rimpianto di chi paventa prossima la propria fine e non vede alcuna possibilità di scampo.
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della lancia fatale: colto con gli occhi il punto preciso, vibra il colpo da lungi, a tutta forza. Mai stridono cosi i macigni lanciati da macchine d'assedio, mai cosi fragorosa scoppia la folgore. L'asta volando come un turbine porta con sé la morte: sibilando attraversa gli orli della corazza e dello scudo fatto di sette strati di cuoio, si pianta nella coscia. Il grande Turno cade, piega il ginocchio a terra. Balzano in piedi i Rutuli gridando, la montagna tutt'intorno ne echeggia, le profonde foreste ripercuotono il suono per lungo tratto. Turno supplichevole, umile, rivolgendosi a Enea con gli occhi e con le mani in atto di preghiera, gli dice: « Ho meritato la mia sorte e non chiedo perdono: segui pure il tuo destino. Solo, ti prego, se hai pietà di un infelice padre (come Anchise lo fu) sii misericordioso della vecchiaia di Dauno, restituisci ai miei me vivo od il mio corpo privato della vita, come ti piace. Hai vinto, gli Ausoni hanno veduto Turno sconfitto tenderti le mani: già Lav1nia è nta, non andar oltre nella vendetta!». Enea fiero nelle sue armi ristette, pensieroso, guardando l'avversario e trattenendo il colpo. E quasi le preghiere riuscivano a commuoverlo,
II47· gli orli della corazza: la corazza proteggeva, oltre il petto, anche il ventre, e con piastre mobili si allungava fino a coprire buona parte delle cosce. L'asta di Enea trapassò una di queste piastre. IIJD-1152. Balzano in piedi, ecc.: i Rutuli scattano in piedi urlando; e attorno ne rimbombano i monti, e i boschi per lungo tratto si rimandano il grido, come se anche la natura senta il bisogno di partecipare alla commozione degli uomini
per la sorte del grande eroe, che se ne sta a terra piegato con la persona, non con il cuore. II53· umile: da terra, secondo la parola « humus », terra, da cui etimologicamente deriva. 1155-II56. Ho meritato la mia sorte, ecc.: il testo latino è semplicemente « merui », che significa « l'ho meritato », con sottintesa evidentemente « questa sconfitta ». - e non chiedo perdono: e non tento di allontanare con le preghiere ciò
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che ho meritato, cioè di eliminare le conseguenze della sconfitta. - segui pure il tuo destino: valiti del tuo diritto di vincitore. 1159-II6o. della vecchiaia di Dauno: nota l'uso dell'astratto in luogo del concreto, quasi a scindere l'idea particolare dell'età della persona, a cui appartiene. Perciò intendi: se non t'importa che Dauno sia mio padre, ti commuova il fatto ch'egli è vecchio. - restituisci ai miei, ecc.: Turno non chiede la vita; ed infatti subito dopo dice « o il mio corpo privato della vita ». Intende però che possa anche concedergliela, come dono. E dice « ai miei », cioè alla mia famiglia, non alla patria, né al suo popolo. Alla patria e al popolo, come vinto, non appartiene più. t!: la prima amara rinuncia. n61. Hai vinto: la sconfitta ora gliela confessa esplicitamente; ed è la seconda rinuncia, espressa con lealtà e con franchezza, come è dovere di un combattente che ha lottato, bensl con accanimento, ma anche con lealtà. n6z-n6;~. già Lavinia è tua, ecc.: è la terza rinuncia, la più grave. - non andar oltre nella vendetta: Turno non si umilia, se ora chiede ad Enea di non pretendere di più per soddisfare il suo odio. Non ha chiesto la vita per sé, ma per il padre; si dichiara vinto, cosl che sente di essere indegno di appartenere alla sua patria, al suo popolo; ha perduto Lavinia, il bene che lo esaltava e gli faceva vedere bella la vita. Che cosa può desiderare di più?
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II73-118o. infiammato di rabbia, ecc.: Enea, commos~ dalla preghiera di Turno, volge intorno gli occhi, come per cercare un consiglio; e sempre più esitante a compiere l'azione decisiva che il costume guerriero avrebbe voluto, sta per q:dere alla pietà. E forse noi, che abbiamo seguito la vicenda del generoso eroe e trepidato per lui, avremmo accolto volentieri questa soluzione; ma per gli antichi il nemico rimaneva sempre tale, e il perdono era ad essi sconosciuto. Prima dell'insegnamento cristiano il perdono era una concessione eccezionale, che non doveva contrastare in alcun modo con altri sentimenti. Perciò Enea, quando scorge sulla spalla di Turno il cinturone del giovane Pallante ucciso, « ricordo di un dolore terribile », dimentica la pietà e si accende d'ira: di fronte alla morte dell'amico la vendetta diventa un dovere religioso. Ed infatti Virgilio mette sulla bocca di Enea non espressioni di odio, di sdegno o di offesa, ma le parole proprie del rito sacrificale, come se si trattasse di una immolazione. «Pallante ... solo Pallante ti sacrifica », dice Enea piantando la spada nel petto di Turno, e sem-
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già dubitava, quando gli apparve, sulla spalla del vinto, il disgraziato cinturone, fulgente tutto di borchie d'oro, del giovane Pallante, che Turno aveva ucciso con un colpo mortale e di cui indossava come trofeo la spoglia. Vista quella cintura, ricordo d'un dolore terribile, infiammato di rabbia, acceso d'ira: «Tu forse, che hai indossato le spoglie dei miei amici, vorresti uscirmi vivo dalle mani? Pallante disse - solo Pallante ti sacrifica, e vendica la sua fine col sangue tuo scellerato». Pianta furibondo la spada nel petto avverso. Il corpo di Turno si distende nel freddo della morte, la sua vita sdegnosa cala giu tra le Ombre.
bra aggiungere «non io». Di questo concetto pagano, che la critica ha confuso con l'idea della Nemesi, si valse il Carducci nell'ode barbara << Miramar », ove per lui Massimiliano non fu ucciso dagli uomini, ma dal dio Huitzilopotli, il quale ha così vendicato l'antico imperatore Guatimozino, vittima della ferocia bianca. - solo Pallante ti sacrifica: con questa frase Enea non solo pronuncia la formula del rito sacrificale, ma esprime anche il suo dolore e il suo affetto per il giovane figlio di Evandro.- nel petto avverso: nel petto dell'avversario. - la sua vita sdegnosa; è lo stes-
so verso che ha chiuso l'episodio della morte di Camilla (XI, 1026), dove «sdegnosa», secondo Servio, l'antico commentatore latino, indicherebbe che le anime di Camilla e di Turno scendono tra le ombre del mondo sotterraneo, dolenti di aver troppo presto abbandonato la vita. Cosl, con la morte del secondo eroe italico, si chiude la vasta e complessa vicenda del poema virgiliano, dal quale hanno attinto, come ad una fonte viva e perenne, i giovani di venti secoli e di tutte le nazioni civili, per educarsi alle nobili virrù umane e dell'amore dell'arte.
Commento critico Il canto XII, che si sviluppa intorno al motivo del duello fra Turno ed Enea, è forse nella struttura e nello svolgimento dei fatti principali quello che più risente dell'imitazione omerica, come contaminazione dei libri IV e XXII dell'Iliade: del libro IV, l'episodio della rottura del patto, concluso fra Greci e Troiani, che fissava le norme per decidere le sorti della guerra con un duello tra Paride e Menelao; del
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Canto dodicesimo libro XXII, il duello fra Ettore e Achille, al quale segue, scomparso il suo difensore, la caduta di Troia, come nell'Eneide con la morte di Turno finisce la guerra. Sono i primordi della vita e della civiltà, quando la concezione della responsabilità e del merito, dell'autorità e della sudditanza è ancora primitiva, e la sorte di un popolo è legata alla vittoria o alla sconfitta di un eroe. Ma la somiglianza degli episodi è, nei due poemi, puramente formale. Mentre il racconto omerico è obiettivo, compassato, esteriore, quello virgiliano si sviluppa in un'atmosfera ricchissima di umanità, con situazioni psicologiche e sentimentali originalissime, in cui il dolore e la passioneitreano situazioni nuove, anche tragiche. Così Turno, che nei canti precedenti era uomo d'azione irresistibile, impulsivo e irruente, geloso del proprio onore e incapace di ogni compromesso, qui si sente oppresso sempre più dal destino, è turbato ·dal mistero, dalle accuse e dal venir meno della stima e della fiducia dei suoi, accetta tacito la rottura dei patti e non si oppone che la sorella Giuturna gli eviti il duello con Enea. Perciò l'eroe rutulo è qui più uomo vicino a noi, benché il suo orgoglio e la sua generosità rimangano immutati, ed egli, pur conscio di dover soccombere non per mano di un nemico, ma per la volontà di un decret0 divino, vada incontro alla sua sorte con il coraggio consueto. Cosi anche Giuturna, che nel canto è figura umanissima, è, insieme con Turno, altamente poetica. Benché nella struttura del canto essa sia un personaggio di secondo piano, fin dal suo apparire sulla scena assume la fisionomia di sorella affettuosa, fortemente legata al fratello. E il suo costante, eppur disperato, impegno di allontanare Turno dal pericolo mortale delle armi di Enea, è commovente; ma ancor più commuovono le accorate parole, che essa rivolge al fratello, quando, perduta ogni speranza di evitargli la morte, si allontana piangendo, lamentandosi della sua perduta umanità, che le vieta di essergli compagna consolatrice nel regno delle ombre. Nel XII canto il Fato e le divinità dominano con evidenza maggiore. Quella forza occulta ora favorevole, ora cattiva, che ha accompagnato Enea dalla Troade alla guerra contro Turno, ora si manifesta più chiara: gli dèi, concordi, non ostacolano più il Fato, e nessuna forza umana può ormai colpire l'eroe troiano, riserbato al duello che deve coronare le sue fatiche e iniziare la potenza di Roma. Perché, nel significato più vero e più profondo del poema, che si rivela con maggiore evidenza in questo canto, Turno ed Enea non sono soltanto due rivali in amore. Sono questo, ma anche qualche cosa di più: rappresentano le sorti di due popoli, uno spinto dalla coscienza di una fatalità alla conquista di una nuova terra, l'altro spinto dal diritto della difesa ad opporsi all'usurpatore; ed è quindi giusto che qui più che a Troia il Fato sia determinante, e la rivalità per la donna perda l'importanza che ha nell'Iliade. L'azione del poema virgiliano «valica perciò i limiti del particolare e del temporaneo, per estendersi ai destini di due popoli e alla vita e alle sorti eterne di uno di essi. t naturale quindi il placarsi delle ire celesti e l'accordarsi della nemica Giunone nella concezione sublimemente nuova e grandiosa di due genti che fondano insieme le loro sorti e si pacificano, dopo la lotta, verso un'unica mèta grandiosa. Chi non sente la grandezza e la bellezza della poesia, l'ardita novità della concezione in questa ultima parte del poema, in cui, pur attraverso il sangue, il
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divino e l'umano si placano, si accordano, si fondono; chi non vi vede la divina potenza dell'ispirazione e non vi trova grandezza diversa e non minore che in Omero, non è aperto alla poesia, non può gustare questo sublime epilogo del poema umano. Il Pascoli commenta che questo epilogo è « tra l'Italia eroica ma selvaggia, e la civiltà religiosa che si fingeva o credeva straniera, originaria delle grandi città sparite dai miti: tra l'Italia indomita e la sua mondiale dominatrice, Roma, è il duello» (A. Capelli).
Galleria di ritratti Giuturna. Quo vitam dedit aeternam? Cur mortis adempta est condicio? ... Immortalis ego? Aut quicquam mihi dulce meorum te sine, frater, erit? (Perché mi ha concesso di vivere in eterno? Perché io non posso morire? ... Sono immortale! Mai avrò nulla di bello e caro senza te, fratello?) Il disprezzo dell'immortalità, che era ed è per molti l'aspirazione massima di un sogno comune, è il tratto più caratteristico e saliente del dramma di Giuturna: disprezzo che, traducendosi in un momento di altissima ed originale poesia, ci fa capire come la vera e sola immortalità sia quella del dolore. Infatti Giuturna non avrà mai pace ed il dono dell'immortalità concessole da Giove si muterà in una maledizione eterna. Per Turno più che sorella, era stata madre amorosa che, simile a Venere nei confronti di Enea, si era adoprata con tutti gli accorgimenti possibili ad evitargli ogni danno nel vano tentativo di allontanarne il destino di morte. Per questo s!era vestita dei panni di Camerte per persuadere i Latini a non permettere l'ultimo decisivo duello tra i due campioni, ed aveva assunto le sembianze di Metisco nel guidare il cocchio di guerra e nel porger a lui disarmato la spada. Tutto aveva tentato, tutto aveva osato. In ultimo quando riconosce da lontano lo strepito delle ali ed il sibilo della Furia, inviata da Giove, capisce che ormai il destino deve compiersi e dopo un ultimo sfogo disperato scompare nella cupa corrente del Tevere, avvolta nel suo manto azzurro. Con lei se ne va un'altra splendida figura più che di dea, di donna la cui umanità sconvolta e dolente fa da preludio all'ultimo grandioso episodio del duello, con cui si chiude il poema.
Turno. Avevamo aperto questa «Galleria di ritratti» con Enea, la chiudiamo con il suo degno antagonista, Turno. Ed è giusto e logico che sia cosl perché il campione latino si è rivelato nel corso della sanguinosa guerra l'unico vero capo non tanto per la forza ed il valore dimostrati in battaglia, quanto per il senso dell'onore, per
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il consapevole esercizio dell'autorità, per il dovere compiuto fino all'ultimo nei confronti del suo popolo e dei suoi alleati. Cosl lo ha voluto Virgilio per degnamente esaltare quei popoli italici che non furono vinti e piegati dalla forza dei Troiani, ma soprattutto dal volere dei Fati. Ed è proprio questa inoppugnabile volontà del destino che fa di Turno, purissimo e nobile eroe, un pover'uomo, sempre più tremebondo ed incerto sino a costringerlo a presentarsi all'ultimo certame come una vittima predestinata e rassegnata alla morte ineluttabile. In questo lento processo di trasformazione psicologica risalta come sempre l'arte di Virgilio. Tutti gli espedienti e gli accorgimenti mediante i quali si svolge tale processo sono sapientemente dosati e a nulla valgono le febbrili contromisure della sorella Giutuma. Turno, interpretando ciò che gli accade, dalla beffa del simulacro di Enea che l'ha portato lontano dalla battaglia come se la sua fosse stata una fuga, all'apparizione della Furia, sotto l'aspetto di uccello notturno che gli svolazza intorno, sente che ormai a nulla valgono il coraggio, la forza ed il valore e che egli è condannato senza scampo. Ecco perché quando è colpito dall'asta di Enea e cade, le sue parole di preghiera, che a molti critici parvero d'un sol colpo distruggere l'immagine suggestiva dell'eroe indomito e fiero, sono, a nostro avviso, naturali e suonano invece perfettamente coerenti sulla bocca di un campione che non si sente vinto dall'avversario ma soltanto dalle forze divine. «Non sono le tue parole ad atterrirmi, o crudele, ma i Numi e Giove avverso». E poi non è vero che chieda di avere salva la vita, ma soltanto di essere restituito vivo o morto al vecchio padre Dauno. Anzi, diremmo che nelle sue parole è evidente ancora una volta la grande nobiltà d'animo e la misura della coscienza nel non pensare a se stesso, ma ancora una volta ai suoi. « Non andar oltre nella vendetta! » In tal modo proprio nella sconfitta, l'eroe italico assume la sua definitiva grandezza morale e si colloca insieme ad altri pochi, tra i massimi ed indimenticabili personaggi dell'intero poema.
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Raffronti di traduzione Atque ea dum campis victor dat funera Turntts, interea Aenean Mnestheus et fidus Achates Ascaniusque comes castris statuere cruentum alternos longa nitentem cuspide grassus. Saevit et in/racta luctatur harundine telum eripere auxilioque viam, quae proxima, poscit: ense secent lato vulnus teliqu' latebram rescindant penitus seseque in bella remittant. (vv. 383-390)
sovr'un'asta appoggiato, a lento passo verso gli alloggiamenti si ritrasse. I vi contra a lo stra!, contra a se stesso s'inaspra, e frange il tèlo, di sua mano ripesca il ferro e poi che indarno il tenta comanda che la piaga gli s'allarghi con altro ferro e d'ogni intorno s'apra sl che tosto dal corpo gli si svelga, e tosto alla battaglia se ne torni.
Ille humilis supplexque oculo.r dextramque [precantem protendens « Equidem merui nec deprecar» inquit; « utere sorte tua. Miseri te si qua parentis tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis Anchises genitor) Dauni miserere senectae et me, seu corpus spoliatum [,_mine mavis, redde meis. Vicisti et victum iendere palmas Ausonii videre ». (vv. 930-937)
Allor gli occhi e la destra alzando in atto umilmente rimesso, e supplicante: « Io», disse, «ho meritato questa fortuna, e tu segui la tua; ché né vita, né vènia ti domando. Ma se pietà de' padri il cor ti tange (ché ancor tu padre avesti, e padre sei), del mio vecchio parente or ti sovvenga. E se morto mi vuoi, morto ch'io sia rendi il mio corpo a' miei. Tu, vincitore, ed io son vinto. E già gli Ausoni tutti mi ti veggiono a' piè, che supplicando mercè ti chieggo » Traduzione di Annibal Caro
Mentre va Turno seminando morti trionfante cosl, Mnèsteo e il fedele Acate e Ascanio insiem dentro la tenda avean condotto sanguinante Enea, che aiutava l'un piè l'asta lunga. Freme e s'ingegna di strappar la punta del rotto strale e la più pronta chiede via di rimedio: squarcino la piaga, scoprano i ripostigli de la freccia profondamente, e il rendano a la guerra. Quegli la terra supplice, con gli occhi e con la destra ad implorar protesa « L'ho meritato e non mi dolgo, dice: usa la sorte tua. Se alcun pensiero ti può toccar d'un infelice padre, ti prego (anche per te fu tale Anchise ), a la vecchiezza abbi pietà di Dauno, e me rendi o, se vuoi, le morte membra a' miei. Vincesti, e gl'Itali m'han visto vinto tender le palme ». Traduzione di Giuseppe Albini Mentre cosl vincendo e d'ogni parte con tanta strage il campo trascorrendo se ne va Turno, Enea dal fido Acate, da Memmo e dal suo figlio accompagnato (come da la saetta era ferito),
Or, mentre Turno seminava stragi vittorioso, avevano Mnestèo e il figlio Acate in compagnia di Ascanio tratto dal campo il sanguinante Enea, che appoggiava alla lancia i passi alterni. Egli sdegnato si sforzò di trarre fuor dalle carni la saetta infranta e chiese il più sollecito rimedio: tagliassero col ferro la ferita, frugassero entro, ov'era fitto i! dardo, e lo restituissero alla pugna. Quegli, volgendo supplice da terra gli occhi e protesa ad implorar la destra, disse: « L'ho meritato, e non mi dolgo; usa il tuo diritto. Ma, se pure alcuna pietà d'un padre misero ti tocca (anche per te fu tale il padre Anchise), ti prego: abbi pietà del vecchio Dauno «;me rendi, o, se vuoi togliermi il sole, rendi il mio corpo ai miei. Tu mi vincesti, e a te sconfitto tendere le palme mi han veduto gli Ausonii ». Traduzione di Guido Vitali
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Dizionario dei nomi e dei luoghi
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Abante: 1) trolano comandante di una nave della flotta di Enea sfasciata dalla tempesta provocata da Eolo per volontà di Giunone (l, 145); 2) antico re di Argo, di cui Enea uccise sotto le mura di Troia un tardo nipote e si impadronì dello scudo che un tempo era appartenuto al vecchio re. Approdato sul promontorio d'Azio, l'eroe troiano volle appendere alla porta del tempio di Apollo, ch'era Il vicino, quello scudo, con questa dedica: Enea consacra queste armi del Greci vincitori (111, 354-357); 3) uno dei capi dell'esercito etrusco, il quale comandava, alleato di Enea, i guerrieri di Populonia e dell'isola d'Elba (X, 323); fu ucciso da Lauso (X, 544-545). Abari: guerriero rutulo ucciso da Eurialo mentre attraversa Il campo nemico (IX, 422). Acamante: uno dei guerrieri greci che penetrarono In Troia rinchiusi nel ventre del cavallo di legno (Il, 329). Acarnania: antica regione della Grecia tra il mare Ionio, il golfo di Patrasso, I'Epiro, I'Euritania, la Focide e I'Etolia. Occupata da Sparta nel IV secolo a. C., passò poi al Romani, ai Bizantini, ai Turchi. Attualmente con I'Etolia forma un unico nome. Acarnese era Salio che partecipò alla corsa a piedi nei giochi funebri in onore di Anchise (V, 325). Acate: fedele amico e compagno di Enea. Comandava una delle navi sfasciate dalla tempesta scatenata da Eolo per volere di Giunone (1, 145); raggiunta a stento la costa africana sprigiona dalla selce la fiamma e accende il fuoco (1, 208-213); Enea con l'arco e le frecce di Acate abbatte tre cervi (1, 321-323); Acate esplora con Enea l luoghi dove sono approdati (1, 366-367); esorta Enea a squarciare la nube che l'awolge e a mostrarsi a Didone (1, 678-685); è inviato da Enea a recare notizie ad Ascanio, ch'era rimasto alle navi, e a condurlo con sé in città (l, 753-755); per primo grida a gran voce • Italia •. • Italia • (111, 642-644); conduce la Sibilla Cumana ad Enea (VI, 40-43); scopre con Enea il cadavere di Mlseno (VI, 202-208); accompagna Enea al colloquio con Evandro (VIli, 542-543); dà l giavellotti a Enea e poi è ferito da Numitore (X, 424-428 e 438); accompagna Enea ferito nell'accampamento (Xli, 490-493); segue Enea che rientra nella battaglia e uccide Epulone (Xli, 582). Acca: la piil fida delle compagne di Camilla, alla quale la vergine morente affida l'incarico di portare a Turno la notizia della morte e della situazione critica di Laurento (Xl, 1013· 1020, 1100-1102). Acesta: città fondata da Enea sulla costa oc· cidentale della Sicilia tra Calatafimi e Alcamo. Il territorio sul quale la città fu costruita
era dono di Aceste, che poi ne fu il primo re (V, 751-758). Aceste: figlio di Crinìso, dio fluviale, e della troiana Egesta, è il fondatore in Sicilia di Segesta, il cui porto, Drepano, è l 'odierna Trapani. ~ ricordato il vino che Aceste aveva donato al Troianl quando partirono dalla Sicilia, la prima volta, dopo essere stati suoi ospiti (1, 229-231); Enea per consiglio di Palinuro approda a Drepano, il porto della città di Aceste, Segesta (V, 31-34); Aceste partecipa alle onoranze funebri di Anchise (V, 80-82); rimprovera Entello e lo esorta a lottare con Darete (V, 410-417); aiuta Entello a rialzarsi (V, 477); la sorte lo designa per ultimo a partecipare alla gara con l'arco (V, 524-526); rimasto senza bersaglio, scocca egualmente il dardo, che si accende e traccia nel cielo una scia luminosa (V, 549-559); fonda con Enea la città di Acesta e ne è Il primo re (V, 751-758, 790-802); Enea raccomanda alle cure di Aceste i Troiani rimasti In Sicilia nella nuova città di Acesta (V, 815). Acete: scudiero di Evandro e poi di Pallante, quando il giovane parte per la guerra con Enea. Veglia nella tenda Pallante morto (Xl, 39-42); segue il corteo funebre di Pali ante (Xl, 103-106). Achemenlde: un greco di ltaca, figlio di Adamasto e uno dei compagni di Ulisse, anche nell'awentura con Polifemo, ma dimenticato ne li 'antro quando gli altri riuscirono a fuggire. Piil tardi riuscì a mettersi in salvo e visse di stent• e di paura fino all'arrivo dei Troiani. Va incontro magrissimo e lacero ai Troiani sbarcati nell'isola di Sicilia (111, 719745); racconta la sua awentura, prega di essere salvato ed esorta i Troiani a fuggire dall'isola dei Ciclopi (111, 748-798). Acheronte: è uno dei quattro fiumi infernali e Il suo nome suona • ftume del pianto •. Enea invoca l'anima del padre Anchise e i Mani riemersi dall'Acheronte (V, 108-109); le sue acque si riversano nel Cocito (VI, 372-375); sulle sue rive si affollano le anime dei morti che Caronte trasporta al di là neii'Ades (VI, 375-420). Achille: nato a Ftia, in Tessaglia, da Peleo e da Teti, una delle cinquanta Nereidi che componevano il corteo di Nettuno e di Anfitrite, fu Il piil forte e il piil famoso dei -Greci che assediarono Troia. Secondo una leggenda postomerica la madre, dea, sapendo che un giorno il destino l'avrebbe condotto a morire sotto le mura di Troia, lo immerse nello Stige e lo rese invulnerabile. Senonché Teti, nel treplèlante atto materno, lasciò fuori dall'acqua il tallone, che di tutto il corpo rimase l'unica parte vulnerabile. Si racconta anche che la
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Nerelde, per lo stesso fine, lo abbia nascosto vestito da donna tra le figlie del re di Sciro, Nlcomede, ma che Ulisse abbia scoperto il rifugio e svelata la sua identità; ed ancora che la tenera madre, non volendo darsi per vinta, abbia chiesto al Fato di mutare la sorte del figlio, e che il Fato abbia accolto la sua preghiera a condizione che il figlio a una vita breve, ma gloriosa, preferisse una lunga· vita ingloriosa. Achille scelse la prima, e la madre. delusa, dovette lasciare che il figlio partisse con l Greci nella guerra contro Troia, dove fu ucciso da Parlde con una freccia che, guidata da Apollo, lo colpi nel tallone, unico punto vulnerabile del suo corpo. Nel poema virglliano è ricordato come il • feroce Achille • (1, 40-41); come il più forte dei Greci e uccisore di Ettore (1, 116-119); con le sue gesta nei dipinti del tempio di Giunone a Cartagine (1. 530, 542, 552); dal Trolanl che, festanti per la falsa partenza dei Greci, indicano il luogo della sua tenda (Il, 40-41); da Priamo a Pirro, al quale dice ch'egli è molto più crudele del padre (Il, 663-667); da Enea che pregando Apollo ne ricorda la morte (VI, 69-70). Altri accenni: Ili, 107; IX, 891; X, 735; Xl, 503 e 546. Acmone di Llrneso: figlio di Clizlo e fratello dJ Meneste (X, 167). Aconteo: latino che si scontra con l'etrusco Tirreno, l cavalli si sfracellano e Aconteo va a cadere lontano ed esala per aria la sua vita (Xl, 755-761). Acrlslo: re di Argo, padre di Danae e quindi antenato di Turno. la leggenda racconta che Acrlslo, avvertito dall'oracolo che un nipote lo avrebbe ucciso, rinchiuse Danae in una torre. Raggiunta però da Giove sotto forma di pioggia d'oro, ne nacque un figlio, Perseo; Acrisio allora chiuse in una cassa madre e figlio e la gettò In mare. Secondo la versione seguita da Virgilio la cassa portò Indenni madre e figlio sulla costa pugliese, e quivi Danae sposò Pllunno, Il fondatore di Ardea. A Pilunno successe il figlio Dauno, padre di Turno (VII , 422-424). Acrone: un "trusco, d'origine greca, di Corito, l'odierna Cortona (Arezzo), che secondo una tradizione sarebbe stata anticamente dominata dai Greci Pelasgi. Abbracciata la causa del Troianl, parte per la guerra contro i latini Il giorno stesso delle nozze, ed è ucciso da Mesenzio (X, 900-918). Adamasto: v. Achemenlde. Adige: fiume che nasce dai laghi di Resia e si getta nell'Adriatico (IX. 825). Adrasto: re d'Argo, partecipò alla guerra contro Tebe, detta dei Sette (gli altri erano: Tldeo, Partenopeo, Polinice, Capaneo, lppomedonte, Anflarao), e Adrasto fu del sette il solo che sopravvisse; così poi organizzò una seconda guerra contro Tebe, detta degli Epigoni (VI, 596). Afldno: troiano ucciso da Turno (IX, 843). Afri: abitatori dell'Africa, forse gli egiziani, che Virgilio dice appunto seminudi perché usavano vesti mal chiuse (VIli, 849).
Agamennone: figlio di Atreo, re di Micene e fratello di Menelao. Quando Egisto, ucciso lo zio Atreo, s'impossessò di Micene, l due fratelli fuggirono a Sparta presso Tindaro, di cui sposarono poi le figlie: Agamennone Clitennestra, Menelao Elena. Cacciato l'usurpatora, Agamennone divenne re di Micene e Menelao ereditò Il regno di Sparta. Agamennone In breve divenne il più potente principe della Grecia, e quando Paride rapi Elena, egli e Il fratello Menelao incitarono gli altri re greci ad una guerra punitiva contro Troia; e Agamennone ne fu il capo supremo. Caduta Troia e ritornato In patria, fu ucciso da Egisto con la complicità della moglie Clitennestra. la sua fine è raccontata da Diomede (Xl, 332335); un accenno ad Agamennone e a Menelao, come Atrldl, è In: Il, 513 e 616; VIli, 147; IX, 174 e 732. Agatlrsi: popolo della Scizia, l'attuale Valacchia, sul versante meridionale delle Alpi transilvaniche, l cui abitanti usavano tatuarsi e Virgilio dice dipinti (IV, 178). Agenore: figlio di Nettuno e di Libia, fratello di Belo, re del Fenici, padre di Cadmo e di Europa, fondatore di Sidone e forse anche di Tiro, la città dalla quale erano venuti i Cartaginesi guidati da Didone, di cui era quindi avo. Perciò Cartagine è anche detta città di Agenore (1, 396). Agllla: v. Cere. Agrigento: l'antica • Agraga~:> •, città fondata dai Dori di Gela nel 582 a. C. sulla costa meridionale della Sicilia (111, 855). Agrippa: Marco Vlpsanio Agrippa, amico di Ottaviano, di cui sposò in terze nozze la figlia Giulia, suo consigliere e generale. Nel 36 a. C. sconfisse sul mare Sesto Pompeo, nel 31 a. C. ad Azio, vicino alla costa greca, Antonio e Cleopatra. Appare effigiato sullo scudo di Enea come • praetor navalis • con la corona rostrata sul capo (VIli, 793-796). Aiace d'OIIeo: figlio d'Oileo, condottiero dei locresi, agilissimo e particolarmente esperto nel lancio del giavellotto, partecipò alla guerra di Troia e durante Il saccheggio della città incendiata oltraggiò Cassandra, che si era rifugiata nel tempio di Pallade o Minerva. Per questo sacrilegio la dea lo punì facendo naufragare le sue navi, durante il viaggio di ritorno in patria. presso il promontorio Cafareo dell'Isola d'Eubea (1, 51-57 e Xl, 323-325). Alba o Albalonga: città del lazio che la leggenda vuoi fondata da Ascanio o Julo, figlio di Enea. Era detta Albalonga perché costruita sulla dorsale di un colle, nella regione dell'attuale lago Albano. Storicamente, invece, Alba, che sorgeva pressappoco dove ora si trova Albano, era il centro della confederazione latina ancor prima dei fatti che sono argomento del poema vlrglllano. Secondo Virgilio Invece la razza latina e albana avrebbe avuto origine dalla venuta nel lazio del Penati dJ Troia (1, 8-10); e Giove assicura Venere che Ascanio dopo trent'anni di regno trasferirà da Lavlnio la capitale a Albalonga (1, 312-315); Infine si
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Dizionario dei nomi e dei luoghi ricorda che Ascanio, mentre cingeva di mura Albalonga, rinnovò e Insegnò al prischl latini Il tipo di corsa e di gara che egli e i giovani troianl svolsero ai giochi funebri in onore di Anchise (V, 624-632). Albula: nome primitivo del Tevere CVIII, 385-388). Albunea: località boscosa nel pressi di Tivoli, Il cui nome deriva da una sorgente di acqua solforosa e quindi biancastra. lo stesso nome è dato anche alla cascata che le acque della sorgente formano presso Tivoli. Presso la cascata sorgeva l'oracolo di Fauno, dal quale latino aveva appreso che lo sposo desti· nato dal Fato a lavinia doveva essere uno straniero. l'oracolo di Albunea era frequentato da tutti gli ltallci (VII, 98-124). Alcanore: trolano, padre di Bizia e di Pandaro; visse nella Frigia al piedi del monte Ida 815-819). Alcide: nome patronlmico di Ercole, da Alceo, suo nonno paterno. Egli Infatti nacque da Alcmena, moglie di Anfitrione, figlio di Alceo. la leggenda però lo dice figlio di Giove (VIli, 290, 297, 326); Pallante Invoca il suo aiuto prima di scagliare l'asta contro Turno (X. 586-591). Aleso: 1) detto I'Agamennonlo perché auriga di Agamennone, era un fiero nemico del popolo trolano. Venuto In Italia dopo la distruzione di Troia, fondò la città di Falerii, si alleò con Turno e si pose a capo di una folta schiera di guerrieri scelti fra le, popolazioni massiche, aurunche e delle terre attraversate dal Volturno (VII, 832-843; X. 448); 2) rutulo, figlio di un Indovino. Il padre aveva previsto la sua morte In guerra e, per salvarlo, lo aveva nascosto In una selva. Morto il padre egli andò Incontro al suo destino e fu ucciso da Pallante (X, 523-541). Alate: compagno di Enea. la sua nave è sconquassata dalla tempesta (1, 146); udita la proposta di Nlso, ringrazia gli dèl che pongono nel cuore dei giovani tanto nobile ardire (IX, 307-318). Aletto: è una delle tre Furie infernali. Giunone la evoca dall'Averno allo scopo di provocare con la sua azione malefica la guerra contro l Troiani (VII, 370-388); Aletto Infuria Amata awentandole un serpente tolto dalla sua chioma (VII, 394-462); si trasforma in una vecchia ed incita Turno a prendere le armi contro l Trolanl (VII, 463-538); con un'astuzia infernale prepara l'uccisione del cervo di Silvia (VII, 539-612); informa Giunone dell'opera compiuta e la regina degli dèi la rimanda nell'Erebo (VII, 613·648); Venera si lamenta con Giove che Aletto infuril nelle città d'Italia (X, 50-53). Alfeo: fiume che nasce dai monti dell'Arcadia, bagna Ollmpia, la pianura .dell'Elide e si getta nello Ionio, dopo essere sparito lungo il percorso due volte sotto Il suolo. Da queste sue sparlzionl sotterranee è nata la leggenda di Alfeo e della ninfa Aretusa. la quale per sfuggire alle persecuzioni di Alfeo, Innamora-
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to di lei, sarebbe fuggita in Sicilia e nell'isola di Ortlgla, davanti al porto di Siracusa, si sarebbe trasformata in una limpida fonte; ma Alfeo, mutatosi In fiume, si sarebbe immerso nel suolo e, correndo sotto il mare, raggiunta l'isola di Ortigia, avrebbe mescolato le sue acque con quelle della ninfa Aretusa (111, 840-846). Allla: piccolo corso d'acqua vicino a Roma oggi chiamato Fosso della Regina e, nell'ultimo tratto, Fosso Maestro. Nel punto in cui il fiumicello confluisce nel Tevere, il 16 o Il 18 luglio del 390 a. C., l Galli distrussero l'esercito romano. Perciò Il suo nome è infausto: • Allia infausto • (VII. 825). Almone: è Il figlio del pastore delle greggi del re latino, Tirro, la prima vittima della guerra (VII, 603-606). Amaseno: fiume che scende dai monti Ausoni, bagna Priverno, attraversa l'agro Pontino, riceve l'Utente e quindi getta le sue acque nel mare Tirreno nei pressi di Terracina (VII, 787); è il corso d'acqua al di là del quale Metabo lanciò la piccola Camilla legata all'asta (Xl, 676-700). Amata: moglie di latino, madre di lavinia, sorella di Venilla e quindi zia di Turno, progetta di dare la figlia in moglie a Turno (VII, 68-70); IX, 886-887): non approva la decisione di latino di dare lavinia in moglie, secondo Il responso divino, ad uno straniero e quindi ad Enea (VII, 405-424); Istigata da Aletto ricorre ai mezzi più strani per mpedire il matrimonio di lavinia con Enea (VII, 425-462); con la sua autorità Influisce sui giovani, l quali vogliono la guerra contro l Troianl (VII, 658-661); Innalza preghiere agli dèi per scongiurare la caduta di laurento (Xl, 594-604); scongiura Turno di non accettare Il duello con Enea (Xli, 71-82); laurento è assalita da Enea, e la regina, credendo che Turno sia stato ucciso, non sa reggere all'onta della disfatta e si uccide (Xli, 749-761). Amatunta: città dell'isola di Cipro sacra al culto di Venera, come Citera, Pafo e Idalio (X, 65). _ Amazzoni: popolo favoloso di sole donne guerriere, che aveva la sua sede principale lungo le rive del fiume Termodonte in Cappadocia, donde si sarebbe spinto anche nella Scizia. Guerreggiavano a cavallo con lancia. scure ed arco, e si difendevano con piccoli scudi In forma di mezzaluna. Contro di esse combatterono gli eroi più famosi, come Bellerofonte ed Ercole. Quest'ultimo, fatta prigioniera la loro regina lppolita, le prese la cintura che la figlia di Auristeo desiderava, e la dette in sposa a Teseo, che aveva partecipato con lui all'Impresa. Pentesilea, un'altra regina delle Amazzoni, partecipò alla guerra di Troia a fianco del •Trolanl e fu uccisa da Achille (1, 570-574; V, 337..339; Xl, 803). Amlcla: città ftalica. fra Terracina e Gaeta. fondata dai Greci della città omonima, presso Sparta. la greca Amicla era famosa per il silenzio imposto con una legge agli abitanti, l
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quali avevano preso l'abitudine di annunciare con leggerezza inutilmente l'arrivo dei nemici Dori (Spartani). Ma quando giunsero realmente nessuno era preparato a difendere la città che fu occupata facilmente e costretta a subire Il servaggio dello straniero. Virgilio dicendo • muta • la città ltalica, equivoca con quella greca (X, 714). Amico: 1) figlio di Poseidone (il Nettuno del Romani), re del Bebrici e pugile di eccezionale potenza, costringeva a battersi con lui tutti quelli che Incontrava. Fu ucciso con un pugno dal dloscuro Polluce (V, 395-396); 2) guerriero trolano, di cui Enea, dopo la tempesta provocata da Giunone per mezzo di Eolo, piange la sorte Incerta (1, 262); ritrovato, forse è identificabile con Il grande cacciatore, terrore delle belve, ucciso da Turno (IX, 821923); oppure con il fratello di Diore, l'uno e l'altro decapitati da Turno (Xli, 645-649). Amiterno: città dei Sablnl (VII, 815). Ammone: dio dell'antico Egitto, che aveva Il suo culto centrale a Tebe. Greci e Romani lo identificarono con Giove (IV, 236). Amsanto: valle dell'lrpinla (l'odierna regione del lago d'Ansante), In cui si credeva che, nel folto di una foresta scorresse un fiume e si aprisse una voragine comunicante con l'Averno. In questa voragine discese la furia Aletto per ritornare nel regno delle tenebre (VII, 639-648). Anagni: città del Lazio, circondata da fertili terreni. l suoi contadini si armarono e accorsero ad Ingrossare, al comando di Ceculo, l'esercito italico (VII, 786-787). Anchise: figlio di Capi e di Temi, cugino In secondo grado di Prlamo e quindi principe trolano. Padre di Enea, ch'egli ebbe da Venere (1, 721-725), nel poema virglllano è rappresentato molto vecchio (giovane lo rievoca soltanto Evandro, che lo conobbe nel viaggio compiuto In Arcadia con Priamo (VIli, 174187), sia quando Enea, accorso a difendere la città Invasa dal Greci, assiste alla morte di Priamo (Il, 686-690), sia quando Venere esorta Enea ad abbandonare Troia e ad aver cura di lui stanco per la vecchiaia (Il, 727-730), ed ancora quando rifiuta di essere portato in salvo dal figlio (Il, 772-789). Ma poi nel prodigio del fuoco sul capo di Ascanio riconosce la volontà degli dèi (Il, 835-841) ed accetta di partire (Il, 850-856). Enea si carica sulle spalle Il vecchio padre, dice al piccolo Ascanio di accompagnarlo e a Creusa di segulrlo, e tutti insieme abbandonano la città in fiamme (Il, 859-864; 870-890). Come capo morale del profughi trolanl, decide l'abbandono della Troade e la ricerca di una nuova patria (111, 11-17); Interpreta erroneamente l'oracolo di Delo e decide di andare a Creta (111, 125-145); poi comprende il significato delle parole pronunciate dal Penati apparsi in sogno ad Enea e decide di partire per l'Italia (1"11, 221-234); la fiducia che la mèta stabilita dal destino sia l'Italia non gli vien meno neppure dopo la profezia dell'arpia Celano (111, 327-334); con-
fortato dalle parole di Eléno ordina di allestire la flotta, spiegare le vele e riprendere il viaggio verso l'Italia (111, 581-593); giunti in vista dell'Italia Invoca dagli dèl venti propizi (111, 645-650, 661-665, 684-686, 746-747); sbarcano a Trapani e Anchlse muore (111, 860-872). Dopo l'awentura cartaginese Enea, ripreso il viaggio per raggiungere la nuova patria assegnatagli dal Fato, passa da Trapani e fa celebrare fastosi giuochi funebri in onore di Anchlse (V, 46-633); il padre Anchise conforta il figlio a seguire i consigli del vecchio Naute (V, 761-785); nell'Averno rivela ad Enea il futuro di Roma e lo conforta a superare gli ostacoli che ancora dovrà incontrare (VI, 8281080). Anco Marzio: quarto re di Roma, che fondò Ostia e guerreggiò con l Latini, ai quali tolse parecchie città (VI, 980-983). Androgeo: 1) greco ucciso tra le mura di Troia, nella notte dell'Incendio, da Enea e dai suoi compagni che egli aveva preso per amici (Il, 461-478); 2) personaggio mitico, figlio di Minasse e di Pasife: si recò ad Atene, partecipò alle gare di forza e di destrezza e riuscl primo In tutte, destando l'Invidia del re Egeo, che lo fece morire. Minasse allora lo vendicò, mosse guerra agli Ateniesi, li vinse e li condannò al tributo annuale di quattordici giovani, sette maschi e sette femmine, da dare In pasto al Minotauro. La morte di Androgeo è effigiata sulle porte del tempio di Apollo a Cuma (VI, 24-28). Andromaca: sposa di Ettore; la notte dell'Incendio di Troia Enea percorre un andito per il quale Andromaca era solito passare quando portava Astianatte al nonno (Il, 559-564); Enea la incontra a Butroto mentre offre un sacrificio alla memoria di Ettore (111, 371-378): Andromaca gli racconta la sua storia: d'essere stata schiava di Pirro e di essere ora moglie di Eléno, fratello di Ettore (111, 395-419); ad Ascanio, nel quale le sembra di vedere il suo Astlanatte, regala molti doni con parole commoventi (111, 594-603). Angizla: dea dei Marsi, abitanti presso il lago Fucino. Era Invocata come dea della guarigione, conoscitrice delle erbe salutari e della preparazione delle medicine. Conosceva anche l'arte degli Incantesimi, ed era venerata In un bosco sacro sulla riva meridionale del lago Fucino (VII, 872). Anlene: Il Teverone, affluente del Tevere, che divide Il Lazio dalla Sabina (VII, 785). Anlo: re di Delo, sacerdote di Apollo, vecchio amico di Anchise; accoglie festosamente l Trolanl (111, 97-101). Anna: sorella di Didone che, secondo una tradizione, dopo la morte della sorella, per sottrarsi a Jarba, sarebbe fuggita da Cartagine e sarebbe stata accolta benevolmente da Enea nel Lazio. Pill tardi, per gelosia di Lavinia si sarebbe gettata nel fiume Numico. A Roma era considerata dea dell'anno (Anna Pe: renna) e la sua festa si celebrava il 15 marzo con giochi e banchetti. Era confidente di DI-
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Dwonario dei nomi e dei luoghi done, che le confessò Il suo amore per Enea (IV, 13-68); e il suo dolore per essere stata abbandonata dall'eroe troiano (IV, 500-525); Anna tentò di essere, pregata da Didone, la mediatrice tra Enea e la sorella, ma Inutilmente (IV, 526-529); alla notizia del suicidio di Didone, accorre presso il rogo e raccoglie, con l'animo straziato dal dolore, l'ultimo respiro della sorella morente (IV, 808-827). Annibale: generale cartaginese, acerbo nemico del Romani, il cui odio sembrava nato dall'Imprecazione di Didone e particolarmente dalla sua profetlca allusione al • vendicatore • (IV, 750-760); a lui allude Giove nel concilio degli dèl, pur senza pronunclarne il nome (X, 16-21). Anxur: 1) città del Lazio, l'attuale Terracina, sacra al culto di Giove. Turno raccolse i gio· vani della sua campagna e li condusse alla guerra (VII, 918); 2) rutulo ucciso da Enea (X, 689-695). Antandro: città della Troade, sulla riva di una profonda Insenatura del golfo di Adramiti, alle pendlcl meridionali del monte Ida, dove Enea si fermò con l profughi trolani per costruire la flotta con la quale Intraprese il lungo viaggio (111, 8-17). Antenne: città alla confluenza deii'Aniene col Tevere: una delle città nelle quali i Latini, dichiarata la guerra contro l Troianl, prepararono le armi (VII, 721). Antenore: troiano che, a capo di una schiera di profughi, abbandonò Troia e navigando raggiunse l'estremo nord dell'Adriatico (golfo Illirico), sbarcò oltre le foci del Tlmavo e fondò Padova (1, 283-292). Anteo: 1) comandante di una delle tre navi disperse dalla tempesta (1, 216); si riunisce al compagni In Cartagine (1, 592-595); ritorna con Enea sul campo di battaglia dopo che l'eroe trolano è miracolosamente guarito della ferita (Xli, 562); 2) rutulo ucciso da Enea (X, 710). Antlfate: guerriero trolano, figlio di una tebana e di Sarpedonte. Fu ucciso da Turno (IX, 841-843). Antonio: Marco Antonio, che dopo la morte di Cesare, fece parte del secondo triumvirato con Ottaviano e Lepido, ma dopo la vittoria di Fllippi, contro l congiurati, ottenuto l'Oriente, si lasciò Incantare dai vezzi della regina Cleopatra e Iniziò una politica che, avversata da Ottaviano, condusse alla battaglia navale d'Azlo. E: effigiato sullo scudo di Enea (VIli, 796). Antore: compagno di Ercole, Inviato dai cittadini di Argo come ambasciatore a Pallanteo, rimase presso Evandro. Fu ucciso per caso da Mesenzlo, che lo colpl tra il fianco e il ventre con l'asta scagliata contro Enea e schizzata via dallo scudo costruito da Vulcano (X, 974-981). Anubl: dio egizio, figlio di Jside e di Osirlde; proteggeva le tombe e in particolare le mummie, e accompagnava le anime dei morti nell'oltre tomba. Era rappresentato con il cor-
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po di uomo e la testa di sciacallo; perciò l Greci e i Romani lo chiamavano il dio dalla testa di cane; e éosi è rappresentato anche sullo scudo di Enea (VIli, 812). Apollo: figlio di Giove e di Latona, come Diana. Nato a Delo, l'isola che fuggiva per il mare a proteggere la madre del dio dall'ira di Giunone, s'identificava con il sole ed era Quindi il dio della luce nel senso più elevato della parola, come immagine di ciò che è puro, lucente, elevato e sublime. Ed era perciò anche il dio della divinazione, della poesia, condottiero delle Muse e padre di Esculapio, il dio della medicina che guarisce. Era rappresentato sempre giovane, nel fiore di una bellezza stupenda con l'arco d'argento, e gli era sacro il cigno, simbolo del ritorno della primavera dal paesi iperborei, e l'alloro, simbolo della gloria e pianta nella quale gli dèi avevano tramutata Dafne. Come dio della verità, indirizza l Troiani alla giusta mèta: nella culla dei padri (111, 114-119); acquista conoscenza del"futuro da Giove (111, 313-320); e la comunica ai suoi devoti, che accoglie In Delo (IV, 175-181); il suo culto è esteso su tutte le terre bagnate dal Mediterraneo: lo Invocano Didone (IV, 73), Arunte (Xl, 970-981), Latino (Xli, 252-253), Enea, che ne visita l luoghi a Delo (111, 113119), ad Azio (111, 339·341), a Cuma (VI, 12· 16), dove è l'antro della Sibilla, cui Apollo svela il futuro e dove Enea promette di elevare un tempio al dio e di istituire In suo onore giorni festivi (VI, 67-94), e il dio gli promette il suo appoggio e lo incoraggia a superare le difficoltà che dovrà incontrare (VI, 104122). Cosl Apollo, quando Julo è in pericolo, non esita ad intervenire (IX, 774-804): sullo scudo di Enea è raffigurato che saetta le navi di Antonio (VIli, 818); Ottaviano vittorioso erige nel 28 a. C. il tempio di Apollo Palatino (VIli, 826-828). Aquilone: vento di settentrione (1. 122). Arasse: fiume dell'Armenia, le cui acque sono cosl Impetuose che non sopportano ponti. Sullo scudo di Enea rappresenta simbolicamente la sottomissione del paese a Roma. E: l'attuale Araks, che sfocia nel mar Caspio, a sud di Baku, e che segna per l ungo tratto Il confine tra l'Iran e la Russia (VIii, 845). Arcadia: regione montagnosa del Peloponneso centrale, patria d'origine di Patrone (V, 325) e di Evandro (VIli, 60-63). A differenza di tutti gli altri Greci, gli Arcadi avevano tradizioni di simpatia con i Troiani, vantano gli uni e gli altri le proprie origini da due Pleiadi: gli Arcadi da Mala, i Troiani da Elettra, madre di Dardano. Cosl Evandro ricorda con simpatia Anchlse, ch'egli conobbe quando visitò con Prlamo l'Arcadia (VIli, 174-187), e stringe alleanza con Enea contro i Latini, Inviando a combattere a fianco dei Trolani il figlio Pallante e quattrocento cavalieri (VIli, 188-191, 549-556, 600-607; x. 308-310, 460-484, 517-541, 544-545); quando Pallante è ucciso da Turno, lo piangono gli Arcadi, Enea e l Trolani (Xl, 33-36, 51-71, 112·114, 118-119); poi i cavalieri
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arcadi continuano a combattere (Xl, 1030; Xli, 365, 697); incuranti delle minacce di Turno (X, 623-627; Xl, 491-492). Areante: siciliano che aveva mandato ad Enea suo figlio, allevato nel bosco di Cibele, lungo il fiume Simeto. Il figlio fu ucciso da Mesenzio (IX, 707-718). Archlppo: re del Marsi, popolo italico dell'alta valle del Uri e della sponda meridionale e orientale del lago Fucino. Sono detti anche Marrubi, dal nome della loro città capitale, Marruvium. Archlppo, alleatosi con Turno, ha inviato armati al comando di Umbrone, medico, mago, addormentatore di serpenti (VII, 862-867). Ardea: città laziale, a metà strada fra Ostia e Anzio, capitale del piccolo regno dei Rutuli, fondata da una colonia di Greci venuti da Argo con la guida di Danae. Centro Importante fino al primi secoli di Roma, collegato con l'urbe dalla via Ardeatina, decadde In seguito a poco a poco per l'insalubrità dell'aria, e al tempi di Virgilio era ridotto a un piccolo borgo rurale. Più a lungo rimase viva la sua fama per il tempio di Giunone, uno dei più frequentati del Lazio. Oggi dopo l'opera di rlsanamento delle Paludi Pontine e dell'Agro Romano, Ardea è una frazione di oltre duemila abitanti del comune di Pomezia (Roma). Re di Ardea e del piccolo regno dei Rutuli era Dauno, padre di Turno, ma il potere era nelle mani del figlio (IX, 886-889; Xli, 29-30). Are: ampia scogliera che sfiora la superficie del mare davanti a Cartagine, sulla quale si incagliarono tre navi di Enea (1, 130-132). Le tre navi furono poi liberate da Tritone e Ci· motoe (1, 172-173). Aretusa: Ninfa di Diana. Durante una caccia sui monti d'Arcadia Aretusa volle ristorarsi nelle acque di un torrente. Il fiume Alfeo la scoprì e, innamoratosi di lei, tentò di raplrla, ma fu salvata da Diana che le Indicò di fuggire per una via sotterranea. Proseguendo per quella via rispuntò trasformata In fonte nell'isola di Ortlgia, sulla quale fu più tardi costruita Siracusa. Alfeo la segui Inabissandosi nel mar Jonio e, scoperta la via per la quale Aretusa era fuggita, la raggiunse nell'isola di Ortigia. V. Alfeo (111, 840-846). Arglleto: quartiere di Roma antica, tra i colli Capitolino e Palatlno e tra la Suburra e il Foro Romano. Era la sede delle botteghe dei librai e degli artigiani. La provenienza del nome è Incerta: secondo alcuni significherebbe • morte di Argo •. a ricordo di uno straniero di nome Argo ucciso dal popolo per avere congiurato contro Evandro, che lo aveva ospitato; secondo altri Il nome Indicherebbe la natura argillosa del terreno (VIli. 402-403). Arglrlpa: v. Arpl. Argo: 1) città capitale deii'Argolide, nel Peloponneso, fondata da Inaco, re dei Pelasgi, e ritenuta la più antica città della Grecia. Il nome è però usato molto spesso per indicare tutta la Grecia, particolarmente quando si vuoi Intendere la Grecia protetta da Giunone,
che in Argo aveva un tempio famoso (1, 32). Nel poema vlrglliano è ricordata da Giove nel suo colloquio con Venere (1, 330-333); 2) mostro dal cento occhi, il custode di lo, ucciso da Mercurio per volere di Giove. lo, figlia di Inaco e amata da Giove, è stata da Giunone trasformata In giovenca e affidata alla custodia di Argo. Il mito è raffigurato sullo scudo di Turno (VII, 906-910). Arianna: figlia di Minosse e di Pasife. 11 mito di Arianna che, Innamorata di Teseo, lo aiuta a uscire dal Labirinto, dove aveva ucciso Il Mlnotauro, è raffigurato sulla porta del tempio di Apollo In Cuma insieme con altre sculture (VI, 29-35). Arlcla: Ninfa italica, che vive nel bosco consacrato a Diana presso Nemi, ed è sposa di lppolito-Virbio e madre di Virbio, alleato di Turno (VII, 874-891). Arlsba: città della Troade, sulla costa dello stretto dei Dardanelli, poco più a nord di Abido. Enea partecipò alla sua occupazione ed ebbe in premio due tazze d'argento cesellate, che Ascanio promette a Eurialo e a Niso (IX, 326-327). Arpallce: Amazzone tracia, di cui Venere assume le sembianza per presentarsi a Enea gettato da una furibonda tempesta sulle coste dell'Africa, quando l'eroe troiano si spinse con Il fido Acate a perlustrare Il terreno (1, 368-372). Arpl: città fondata da Diomede in Puglia, alle falde del Gargano, a nord di Foggia, lungo l'attuale linea ferroviaria Foggia - San Severo. Virgilio la indica anche col nome di Argyripa. Ouivl Venulo, ambasciatore del Latini, si recò a chiedere a Diomede di allearsi con gli ltalici contro i Troianl (VIli, 11-22; X, 36-37; Xl, 280-287, 297-300, 305-308). Arpie: mostri con volti e colli di donna, corpo di uccello rapace, grandi ali e lunghi artigli. Secondo Esiodo erano figlie di Taumante e di Elettra; secondo un'altra versione di Nettuno e della Terra, e rappresentavano la furia delle procelle. Giove, che volle punire Fineo dei suoi delitti con la fame, incaricò le Arpie di insozzargll le mense; ma quando Fineo accolse gli Argonauti con gentilezza. Giasone lo ricompensò affidando a Calai e a Zeto Il compito di dare ad esse la caccia; e furono così confinate nelle isole del mare Jonio, a sud di Zante, che furono poi chiamate Strofadi. Secondo Virgilio le A~le sono comandate da Celeno (111, 262-264). l Troianl sbattuti e dispersi da una tempesta, approdano alle Strofadl e sono assaliti dalle Arpie (111, 276-283); assaliti una. seconda volta si difendono e le respingono (111, 288-305); solo Celeno, la maggiore delle Arpie, si ferma su un'altissima rupe e predice al Troiani che non riusciranno a costruire le mura della città promessa prima che una feroce fame non Il abbia costretti a rodere col denti perfino le mense (111,306-320). Arturo: costellazione vicina aii'Orsa Maggiore, raffigurante un uomo che con una mano tle-
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Dizionario dei nomi e dei luoghi ne l cani da caccia e con l'altra impugna una clava (111, 634). Arunta: capo etrusco che si è posto in animo di uccidere Camilla con l'insidia; e la segue nelle vicende della battaglia (Xl, 937948); quando la giovane è meno· guardinga perché tutta Intenta a seguire un guerriero. Cloro, bramosa di Impossessarsi delle sue belle armi, Arunte scocca una freccia e la uccide (Xl, 749-994); uccisa Camilla fugge lieto e timoroso ad un tempo (Xl, 996-1007); ma Opi assolve l'incarico affidatole da Diana e l'uccide (Xl, 1031-1041). Ascanio: è chiamato anche Julo. Virgilio segue la tradizione che fa di Ascanio e di Julo un personaggio solo, figlio di Enea e di Creusa, sua prima moglie; ma era ugualmente viva anche la tradizione che diceva Julo figlio di Enea e di Lavlnla, sua seconda moglie. La tradizione seguita da Virgilio giustificava il secondo nome, Julo, come appellativo dell'età Imberbe del personaggio, cui per traslato si adatterebbe Il significato del nome che, secondo Plinio, è lanugine degli alberi in primavera. Lo stesso appellativo, Inoltre, leggermente modificato In • Ilo •, collimava con la radice del nome dell'eroe eponimo della città di Troia • Ilio •; e Il modesto artificio etimologico serviva mirabilmente a dare alla casa Giulia un'origine antichissima. Perciò il poeta tali cose le fa dire da Giove In persona, quando per soddisfare Venera tratteggia a grandi linee le gloriose vicende di Roma, vindice postuma della prepotenza del Greci contro i Trolani (1, 300-346). Nel poema sono Innumerevoli gli accenni al giovane figlio di Enea, ora con Il nome di Ascanio, ora con quello di Julo; ma l piO Interessanti sono: Il prodigio della lingua di fuoco sul capo del fanciullo, che decide il vecchio Anchise ad allontanarsi da Troia In fiamme (Il, 826-849); la partecipazione entusiastica di Ascanio (IV, 189-194); corre per primo al porto, dove le donne hanno dato .fuoco alle navi, e le rimprovera aspramente (V, 704-710); è strumento dell'awerarsl dell'oracolo dell'arpia Celeno, quando l Troianl, sbarcati alle foci del Tevere, per sfamarsl mangiano anche le sottili focacce sulle quali avevano deposto l cibi e Julo dice scherzando: • Ahimè, noi mangiamo anche le nostre mense! • (VII, 135-138); provoca le prime ostilità ferendo mortalmente il cervo di Silvia (VII, 563-567); ascolta con i capi e gli anziani riuniti a consiglio la proposta di Niso e di Eurialo, l'approva e promette ricompense e onori (IX, 290-370); partecipa alla difesa dell'accampamento e per la prima volta uccide un nemico, Il borioso Numano che aveva offeso i Trolanl (IX, 756-775); Apollo ne frena l'entusiasmo (IX, 776-804). Asia: nome usato esclusivamente per indicare la Troade (l, 447; 111, 3; Xl, 335). Aslla: 1) condottiero etrusco, ma anche sacerdote, augure e mago, guida mille guerrieri venuti da Pisa a combattere come alleati dei Trolanl (X, 228-235); combatte con grande va-
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lore in testa ai suoi (Xl, 764-765); 2) Rutulo, uccide Corlneo (IX, 693) e combatte con Memmo (Xli, 696). Asilo: • la gran selva • nella sella del colle Capitolino in cui poi Romolo ha accolto i fuggiaschi (VIli, 398-399). Assar~: figlio di Troe e di Calllroe, fu re dHrola. Fratello di Ganimede e padre di Capi. fu quindi nonno di Anchlse, che di Capi fu figlio; Enea lo Incontra con altri fondatori e re troianl nel Campi Elisi (VI, 795), ed è considerato quale grande antenato della gente trolana (l, 331; VI, 937; IX, 321 e 783). Astianatte: figlio di Ettore e di Andromaca (Il, .563) che, secondo la tradizione, Neottolemo, figlio di Achille, avrebbe precipitato, per consiglio di Ulisse, dalle mura di Troia In fiamme sotto gli occhi della madre; Andromaca lo ricorda vedendo Ascanio (Ili, 599-603). Asture: è ricordato nella rivista dei condottieri etruschi come comandante di trecento guerrieri di Cere, di Plrgl e di Gravisca (X, 235-239). Ati: trolano, capostipite della • gens Attia ., cui appartiene Azla, la madre di Ottaviano; amico di Ascanio, è capo della seconda delle tre schiere di fanciulli a cavallo che partecipano, nell'ambito del giochi funebri in onore di Anchlse, a quello che, tramandato a Roma, si chiamerà Troia e la trolana schiera dei fanciulli a cavallo (V, 598-633). -Atina: città del Volsci, sul monti della Ciociarla nel Lazio meridionale. Qui è ricordata come una delle cinque grandi città che si attrezzano per fabbricare armi (VII, 720). Atlante: uno del Titani, figlio di Giapeto e di Climene. Partecipò con gli altri Tltani alla lotta contro Giove, e questi lo condannò a sorreggere con la testa e con le mani la volta del cielo (1, 881); possedeva Il giardino delle Esperidi, del quale era molto geloso, cosi che negò l'ospitalità a Perseo. Questi allora gli pose Innanzi la testa della Medusa e lo tramutò In pietra, cioè nella catena montuosa dell'Africa settentrionale (IV, 292-298, 305, 583; VI, 960); progenitore degli Arcadi e del Troiani, come padre della Pleiade Maia, madre di Mercurio, da cui trassero origine Evandro e gli Arcadi, e come padre di Elettra, la Pleiade, dalla quale ebbero origine, con Dardano suo figlio, l Trolanl (VIli, 152-160). Ato o Athos: monte della penisola Calcldica orientale. Virgilio alla sua altezza paragona Enea quando • terribile nelle sue armi •. si awla ad affrontare In duello Turno (Xli, 873-881). Atrldl: l due figli di Atreo: Agamennone e Menelao (Il, 513, 616; VIli, 147; IX, 174, 732). Attore: 1) capo degli Auruncl, cui appartiene la grande asta con la quale Turno si appresta ad Incontrare In duello Enea (Xli, 124-126); 21 Trolano, che Insieme con Ideo assiste la madre di Eurialo e la riporta nella sua tenda (IX, 607-609). Aufldo: fiume della Puglia (l'attuale Ofanto), cui Turno, rispondendo a Drance, accenna sa-
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tireggiando il rifiuto di Diomede (Xl, 501-504). Augusto: C. Giulio Cesare Ottaviano Augusto è presentato da Giove a Venere come • Il grande eroe glorioso delle spoglie d'Oriente • (1, 337); da Anchise come colui che • riporterà ancora una volta nel Lazio l'età dell'oro • (VI, 954-956); è raffigurato sullo scudo di Enea, durante la battaglia d'Azio, sulla tolda di una nave (VIli, 7BB-790), e nell'atto di celebrare il triplice trionfo in Roma (VIli, B29-745). Aulesta: capo etrusco di una nave di cento remi, ultima della rassegna della flotta che trasporta nel Lazio l'esercito etrusco con Enea comandante (X, 268-270). Aullda: il porto di Beozia, di fronte all'isola di Eubea, dal quale partl la flotta greca per la guerra di Troia (IV, 511-512). Auno: principe ligure, probabilmente etrusco, alleato di Enea. Il figlio, astuto più che bellicoso, tenta con un inganno di evitare lo scontro ~:on Camilla, ma la vergine guerriera, più veloce del suo cavallo, lo raggiunge e l'uccide (Xl, B63-B93). Aurora: figlia di Tela e d'lperione, sposa prima di Astreo, da cui nacquero i Venti, poi di Tltone, al quale diede i figli Ménnone, Ematio e Fosforo. Era rappresentata bellissima, con il volto coronato di raggi, sopra un carro tratto da nivei cavalli, precedente a quello del sole. E si raffigurava anche come una dea alata che, avvolta in una veste splendida, riversava dal grembo rose sulla terra; oppure, avvolta in un candido velo, nell'atto di aprire tacita, con le rosee dita, il balcone dell'Oriente. Nella storia della pittura italiana è celebre l'Aurora di Guido Reni (111, 640; IV, 9, 160, 700702; V, 71-73; VII, 31-32, 6B7; IX. 55B-559; X, 313; Xl, 1-2, 22B-230, 260; Xli, 99-100). Auruncl: popolo del Lazio meridionale che si schiera contro i Troianl, parte al comando di Aleso (VII, B36), parte agli ordini di Turno (VII, 913). Ausonia: nome usato dai Greci, prima per Indicare popolazioni dell'Italia centrale, poi tutte le popolazioni italiche indipendenti dall'influenza greca; più tardi il nome divenne soltanto di uso letterario o poetico per indicare l'intera penisola (Il l, 211, 469, 609; VII. 3B3; 69). Austro: detto anche Noto: vento del mezzogiorno, procelloso e apportatore di pioggia (V, BOB); sospinse Il naufrago Palinuro sulle coste d'Italia (VI, 442-451 ). Automedonte: devasta con Pirro la reggia di Priamo (Il ,5B7). Avalla: città dell'lrplnia, che sorgeva nel territorio dell'attuale comune omonimo, in provincia di Avellino. Virgilio ne ricorda la notorietà come produttrice di mele e, con Ebalo, alleata di Turno (VII, B52-B53). Aventino: 1) uno dei sette colli di Roma. Caco In questo colle aveva Il suo antro (VIli, 221-224); 2) eroe dell'antichità latina, favoleg-
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giato figlio di Ercole e di Rea, una vestale. Fu alleato di Turno (VII, 751-761). Averno: lago profondo presso Cuma, nella Campania, che, per le sue esalazioni mefitiche era creduto l'entrata dell'oltretomba o del mondo sotterraneo. Perciò Averno è anche l'Inferno dei Gentili; e la parola significa senza uccelli. SI divideva sommariamente In tre parti: I'Antinferno, o regna delle anime insepolte; Tartaro, o regno dei Cattivi; Campi Elisi, o regno dei Buoni (VI, 15B, 10B7). Ed Inoltre: 111, 539; V, 774, B60. Azi: famiglia Romana (gens Attia), di cui è capostipite Ati, l'amico di Ascanio e alla quale appartiene Azia, la madre di Ottaviano (VII, 542). Azlo: promontorio deii'Acarnanla, all'entrata del golfo Ambracico, di fronte all'attuale città di Preveza, nelle cui acque Augusto riportò la famosa vittoria navale su Marco Antonio e Cleopatra il 2 settembre del 31 a. C. Vi sorgeva un tempio di Apollo visitato da Enea (111, 339-340); la battaglia d'Azlo è effigiata sullo scudo di Enea da Vulcano (VIli, 7B5-B2B).
Bacco: figlio di Giove e di Sémele. è figura ricca e densa di significato umano e religioso. Per una parte è Il dio della vendemmia, e quindi del vino, della gloria e del benessere fisico; per l'altra Il dio del profondo intimo religioso che si raccoglieva nei suoi • Misteri •. che consistevano in riunioni segrete di Iniziati, nelle quali si trattavano argomenti di cultura spirituale e di vita Interiore secondo principi religiosi dell'oriente indiano, pervenuti In Grecia e poi In Roma dal frequenti contatti con l'Egitto e la Fenicia. Del duplice culto di Bacco. splendidamente maturato nel pensiero ellenico, ebbe origine il teatro greco della • Tragedia • e della • Commedia •. Di Dioniso si narra che, perseguitato da Giunone, sia andato nell'India e quindi in Egitto; e che abbia insegnato agli uomini la coltivazione della vite e Il commercio. Sarebbe sceso anche all'Averno, a liberare la madre Sèmele per accompagnarla egli stesso aii'OIImpo ed avrebbe, In forma di leone, combattuto contro l Giganti. Era raffigurato come un giovane bellissimo, con in mano Il tirso e sul capo una corona d'edera e di pampini, sopra un carro trainato da tigri, pantere e linci, con l'aspetto costantemente lieto di una divina serenità, seguito da un corteo di donne danzanti e di Satirl. Influenze orientali, soprattutto frigie, deteriorarono il suo culto, e le feste divennero chiassose e disordinate. Virgilio ricorda il suo culto a Nasso, quando Enea passa accanto all'isola, dopo aver lasciato Il porto di Ortlgla (111, 154-155); e paragona Didone folle d'amore alla Menade nel colmo della festa che si celebra ogni tre anni in onore del dio sul monte Citerone (IV, 354-359); lo invoca Didone all'inizio del convito, al quale ha invitato i Troiani (1, B6B-B74), e con l'epiteto • Lieo • per ottenere che Enea si trattenga a Cartagl-
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Dizionario dei nomi e dei luoghi ne (IV, 71-75); Il suo culto è oggetto di manifestazioni smodate, come le processioni di Elena, narrate da Deifobo nell'Erebo a Enea (VI, 633-642) e di Amata (VII, 437-462). Baia: stazione termale presso Cuma, famosa per la sontuosità delle sue ville, costruitevi dai ricchi romani specialmente nel primo secolo a. C. Le ville erano di preferenza erette su terreno costruito artificiosamente sul mare, e Virgilio paragona alla caduta dei massi nell'acqua quella del gigante Bizia atterrato da Turno (IX, 856-865). Barce: nutrice di Sicheo che, nonostante l'età avanzata, volle seguire Didone a Cartagine. Didone l'allontana dandole l'incarico di andare a chiamare la sorella Anna (IV, 762-764). Barcei: tribù di nomadi del deserto africano che fanno incursioni frequenti nel territorio di Cartagine. Sono nominati da Anna per indurre Didone a sposare Enea e fare di lui un ottimo difensore della città (IV, 54-55). Battriana: regione dell'Asia (attuale Afghanistan settentrionale) con capitale Bactra (odierna Balkh). Già satrapia persiana, conquistata da Alessandro Magno nel 329 a. C., colonia e regno ellenistico, poi invasa dagli Unni e infine dagli Arabi, che vi introdussero l'islamismo (VIli, 800). Batulo: città campana governata da Ebalo, ma è incerto il luogo dove sorgesse (VII, 850-851). Bebrici: popolo che abitava sulla costa meridionale del Mar Nero, che poi fu chiamata Bitinia. Vi era re Amico, pugilatore di rara potenza (V, 396) (v. Amico, 1). Belide: patronimico da Belo, re d'Egitto, antenato di Palamede (Il, 104). Bellona: divinità romana della guerra. sorella e sposa di Marte. Aveva un tempio in Campo Marzio, dove l Romani ricevevano gli ambasciatori stranieri e i generali reduci da guerre vittoriose. In questo tempio c'era una colonna, presso .la quale i feciali gettavano la lancia in segno di dichiarazione di guerra. Giunone, che vuoi provocare una guerra cruenta tra i Latini e Troiani, la definisce pronuba delle nozze di Lavinia, che saranno funestate dal sangue (VII. 367). ~ effigiata sullo scudo di Enea (VIli, 817). Belo: 1) re di Sidone e padre della regina di Cartagine, Didone (1, 725-726); 2) v. Belide. Benaco: personificazione del lago di Garda, ricordato come padre del fiume Mincio suo emissario (X, 266-267). Berecinto: monte della Frigia sacro a Cibele, detta perciò Berecinzia (VI, 944; IX, 102, 753). Bereclnzla: Cibele, v. Berecinto. Beroe: donna troiana, moglie di Doriclo. un trace nativo di Tmaro che viveva in Troia, • un tempo famosa per stirpe, per nome, per figli •. Iride ne assume l'aspetto per indurre le donne troiane ad Incendiare le navi di Sicilia (V, 651-656); la vecchia Pirgo s'accorge che non è Beroe (V, 681-689). Blrsa: dal greco • byrsa •, che è corruzione
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del fenicio • Bosra •, corrisponde al latino • arx • e al nostro • rocca •. Il greco • byrsa • significa però anche pelle di bue, e da questo suo significato sarebbe nata la leggenda, secondo la quale Didone, sbarcata sulla costa africana, avrebbe chiesto al re del luogo, !arba, tanto terreno quanto ne potesse coprire una pelle di bue. Accolta la sua richiesta, Didone avrebbe ridotto la pelle in strisce sottilissime, con le quali avrebbe delimitato il territorio della nuova città, donde il suo nome di Byrsa o Birsa (l, 427-429). Blzia: 1l cartaginese che partecipa al banchetto offerto da Didone in onore di Enea e dei Troiani, e quando la regina, dopo aver libato a Giove in onore dell'ospite, gli offre la coppa incoraggiandolo a bere, egli la vuota a gran sorsi (1, 875-879); 2) troiano, figlio di Alcanoro e fratello di Pandaro. Di statura gigantesca e forte, cresciuto libero e fiero sulle pendici del monte Ida, apre la porta dell'accampamento, della quale, con il fratello, era custode e difensore, e invita i Rutuli a entrare nel campo. Di essi fa ampia e orrenda strage, ma Turno, accorso a porre rimedio a quanto stava accadendo, lo uccide (IX, 815-864); Turno, nel consiglio convocato da Latino, rispondendo alle accuse e alle offese di Drance, si vanta di averlo ucciso (Xl, 493). Boia: città latina degli Equi, presso Preneste e l'attuale Zagarolo (VI, 934). Bora o Borea: v. Aquilone. Briareo: figlio di Urano e di Gea, è un Gigante dalle cento braccia. Enea lo incontra nel vestibolo dell'oltretomba, proprio all'entrata dell'Orco (VI, 361-362); gli è paragonato Enea che infuria tra i nemici, dopo la morte di Pallante, come avesse cento braccia (X, 715-720). Bronte: uno del Ciclopi che lavorano nell'officina di Vulcano (VIli, 495). ~ figlio di Urano e di Gea, e lo stesso suo nome lo indica come la personificazione del Tuono. Bruto: Lucio Giunio Bruto che, dopo aver sobillato il popolo romano contro la monarchia, cacciò dalla città, in collaborazione con Collatino, Tarquinlo il Superbo, creò la repubblica e ne fu con il collega il primo console. Lo indica ad Enea, il padre Anchise nei Campi Elisi, tra"le anime destinate a ritornare sulla terra (VI, 986-987). Bute: 1) scudiero di Anchise, Enea gli affida la custodia di Ascanio. Apollo prende le sue sembianza quando scende dal cielo ad esortare Ascanio ad essere prudente e a non partecipare alle azioni di guerra (IX, 785-788); è ucciso da Camilla (Xl, 851-855); 2) troiano, un pugile valente che si vantava di discendere da Amico, re dei Berecinti, ma che nei ludi funebri in onore di Anchise, fu vinto da Darete (V, 395-497). Butroto: città della Caonia, neii'Epiro, al confine meridionale dell'Albania (oggi Butrinto), presso il lago di Vivari di fronte a Corfù; vi sbarcarono i Troiani dopo essersi allontanati dalle isole Strofadi abitati dalle Arpie. Notevoli rovine, come l'Acropoli, un teatro, le nuo-
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ve • Porte Scee • (111, 428), un pavimento delle terme, ed alcune statue sono state tratte alla luce da una missione archeologica italiana tra il 1924 e il 1928, le quali hanno rivelato l'esistenza di tre città sovrapposte: una america, l'altra del 111 secolo a. C., la terza dell'età romana. A Butroto Enea incontra Andromaca e Eleno, melanconlcl e già av~tnzati in età, l quali hanno tentato di rlcostrblre In quel luogo la patria perduta, Troia, con l'Illusoria potenza creativa del nomi (111, 360-375 e 605-620). Ceco: figura mostruosa, mezzo uomo e mezzo fiera, della mitologia romana antica, viveva In un antro del colle Aventino e terrorizzava l paesi circostanti con uccisioni e ruberia. Fu ucciso da Ercole, a cui il mostro aveva rubato parte dell'armento, ch'egli aveva tolto a Gerlone, in Spagna, mentre si riposava, ospite di Evandro, nel viaggio di ritorno In patria. l'episodio è raccontato da Evandro ad Enea, recatosi a Pallanteo, proprio il giorno in cui si svolge sull'Ara Massima, appositamente eretta, Il rito annuale di riconoscenza ad Ercole, liberatore del luogo dal mostro che lo desolava (VIli, 114-116; 210-320). Cafareo: promontorio dell'Isola Eubea meridionale, di fronte al quale naufragò la flotta di Aiace d'OIIeo nel viaggio di ritorno dalla guerra di Troia (Xl, 324-325). Caìco: trolano, comandante e timoniere di una delle navi disperse dalla tempesta ~1. 217); dà per primo l'allarme dell'appressarsi di Turno al campo troiano (IX, 43-44). Calata: nutrice di Enea, che, invece di rimanere In Sicilia con le altre donne, volle seguire il suo pupillo Insieme a poche altre; mori e fu sepolta sulla costa del Tirreno, che dal suo nome fu poi chiamata Gaeta (VII, 1-6; VI, 1090) .. Calcante: figlio di Testore e sacerdote, al seguito, quale indovino, dell'esercito greco nella guerra di Troia, è da Sinone ricordato per awalorare le sue false notizie [Il, 126, 155, 219, 227, 238). Cale: città della Campania, l'attuale Calvi, sulle pendlcl del Massico, i cui guerrieri alleati di Turno, sono agli ordini di Aleso [VII, 838). Celibe: vecchia sacerdotessa del tempio di Giunone, di cui Aletto assume le sembianza per compiere la sua opera provocatrice contro i Troiani. Qui è la volta di Turno [VII, 477). Calidona: città deii'Etolia, presso l'attuale Missolungi, che Diana punl mandando, con Il consenso di Giove, un cinghiale a devastarle Il territorio, perché Eneo, suo re, non le aveva offerto l consueti sacrifici [VII, 353); è anche patria di Dlomede, alla quale l Celesti non vollero che, dopo la guerra di Troia, egli ritornasse [Xl, 335-338). Calliope: una delle nove Muse e, in particolare, la Musa della poesia epica [IX. 236). Camerina: città In provincia di Ragusa, sulla costa meridionale della Sicilia. Contro Il
volere dell'oracolo, l cittadini vollero prosciugare la palude che circondava la città; e i nemici, secondo una leggenda, avendo la possibilità di passare su terreno asciutto, la presero e la distrussero [111, 851). Camarta: figlio di Volcente, re di Amicla e Il più ricco proprietario terrlero della penisola, combatte contro l Trolanl, alleato di Turno [X, 711-714); Gluturna prende il suo aspetto e la sua andatura per eccitare l'animo degli ltallcl e, nonostante i patti conclusi e il giura· mente solennemente pronunciato, impedire Il duello tra Enea e Turno [Xli, 287-309). Camilla: personaggio creato da Virgilio e Immaginata figlia di Metabo, re di Priverno, una città del Volsci. Cacciato dal suo regno, Metabo porta con sé la figlia ancora bambina. la salva fuggendo ai suoi Inseguitori, la consacra a Diana e la alleva nei boschi vivendo di caccia e frutta selvatiche. la giovane cresce come una Amazzone, e quando Turno scende In guerra contro Enea, si pone al suo fianco. Ne racconta la storia Diana (Xl, 660734); è presentata per ultima nella rassegna delle genti ltaliche [VII, 922-938); Turno dice nel consiglio convocato da latino che fra gli alleati c'è anche Camilla [Xl, 537-539); Camilla Incontra Turno, che scendP. dalla rocca di laurento, dinanzi alle porte e gli chiede di assegnarle l'attacco alla cavalleria etrusca [Xl, 619-627). Camillo: Marco Furio Camillo, nominato dittatore nel 390 a. C., ritolse al Galli le insegne perdute dai Romani nella battaglia del fiume Allia. Passò alla storia come secondo fondatore di Roma. Anchise lo Indica ad Enea nei Campi Elisi tra le anime destinate a ritornare sulla terra [VI, 996-997). Campi del Pianto: luogo dell'Averno riservato a coloro che morirono travolti da una passione d'amore violenta. Son protetti da una selva di mirti e nemmeno nella morte trovano requie al loro dolore. Enea vi Ìncontra Fedra, Procrl, Erlfile, laodamla, Pasife, Evadne, Ceneo e Infine Didone [VI, 552-563). -campi Elisi: regione dell'Averno riservata al buoni; vi scorre Il lete e le anime sono felici. Anchise, dopo la sciagura delle navi bruciate dalle donne troiane, appare a Enea, lo conforta a raggiungere l'Italia e, prima, a discendere nelle dimore infernali di Dite, fino al Campi Elisi, dove egli dimora [V, 775-776); la Slbilla Indica ad Enea la strad.a-.chl:i devono seguire per andare all'Eliso [VI, 669-670); la Sibilla ed Enea, affisso Il ramoscello d'oro sulla porta della reggia di Proserpina, entrano nel luogo felice che è soggiorno dei beati [VI, 784-1088). Campidoglio: il colle Capitolino, sul quale sorgevano Il tempio di Giove Ottimo Massimo, di Giunone e di Minerva, a cui salivano percorrendo la via dei trionfi i generali vincitori [VI, 1009-1011); Evandro indica ad Enea il colle • allora intrlcato forteto • senza nome, dice Virgilio, ora • tutto d'oro • [VIli, 404-405); è ricordato sullo scudo di Enea (VIli, 760); è da
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Dizionario dei nomi e dei luoghi Virgilio assunto come simbolo di civiltà, e &tferma che il sacrificio di Eurialo e Niso sarà glorificato fino a quando su quel colle abiterà la discendenza di Enea {IX, 542-547). Campo Marzio: nel primi secoli di Roma, una pianura erbosa lungo il Tevere consacrata a Marte, dove la gioventù si addestrava ad esercizi fisici e militari e vi si tenevano l • Comitia centuriata •. Ottaviano Augusto vi fece costruire Il proprio Mausoleo, nel quale fu sepolto per primo Marcello (VI, 1056-1057). Caone: forse figlio di Priamo e fratello di Eleno o semplicemente amico di Eleno, che ha voluto onorare Il fratello, o l'amico, chiaman· do Caonla la terra sulla quale egli regnò do· po la morte di Pirro, figlio di Achille (Ili, 411). Caonia: regione settentrionale deli'Epiro, con capitale ButrotO, che Eleno alla morte di Plrro, di cui era schiavo, ebbe In sorte e chia· mò Caonia (v. Caone) (111, 410). Caos: l'ammassò della materia informe che precedette Il Cosmo, regolato da leggi preci· se (IV, 617; VI, 333). Capena: città dell'Etruria, sulla destra del Tevere, al piedi del Soratte. Fondata dal Vei, è ricordata nelle prime guerre romane in E· trurla. Da essa prese il nome una porta di Roma. Nella guerra contro Enea, la città si è schierata con Messapo dalla parte di Turno (VII, 800). Capi: 1) troiano, compagno di Enea, nocchlero e comandante di una delle tre navi che si sono arenate nelle Sirti (1, 217); egli ed altri si accorgono che il cavallo, dono dei Greci. nasconde un Insidioso Inganno, e chiedono che sia gettato nel mare o incendiato (Il, 49· 52); In guerra uccide Priverno (IX, 698-699); ha fondato la città campana di Capua (X, 186-187); 2) uno dei re di Alba Longa indicati nell'Eliso ad Enea dal padre Anchise (VI, 926). Capretti: costellazione che compare nel cie· lo verso la metà di ottobre e segna l'Inizio delle piogge autunnali (1, 810). Capri: isola del golfo di Napoli, su cui re· gnava Telone, Il cui figlio Ebalo partecipò, alleato di Turno, alla guerra contro i Troiani con guerrieri tratti dalle popolazioni del vasto territorio, ch'egli, non contento dei domini paterni, aveva conquistato nella Campania lVIII, 844·855). Capua: v. Capi, 1. Cari: abitanti della Caria, regione a SudOvest dell'Asia Minore, confinante a Nord con la Lidia, a Est con la Frigia e la Licia, a Ovest col mare Egeo, a Sud col mare • Carpatium •. All'epoca romana dipendeva dalla provincia d'Asia. Vulcano li ha raffigurati con altri popoli sullo scudo di Enea (VIli, 842). Cariddi: mostruosa figlia di Nettuno e della Terra, che avendo rapito a Ercole i buoi di Gerlone, fu punita da Giove col fulmine e, precipitata in mare, trasformata in vortice che, nello stretto di Messina, di fronte a Scilla, travolgeva e inghiottiva tutte le navi che si awiclnavano (111, 513-516; 684-686, 832); con • Scilla biformi • indica, nel vestibolo dell'A-
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verno, ambedue i mostri: Cariddi e Scilla (VI, 361); Giunone, quando vede l Troiani sbarcati alle foci del Tevere, nomina anche Cariddi fra gli strumenti Inutili del suo odio (VII, 348). Carina: Il quartiere più sontuoso di Roma augustea suii'Esquilino (San Pietro in Vincoli) e la valle attigua. Tra gli splendidi edifici si ammirava anche la casa di Pompeo. L'origine del nome è Incerta, ma si presume che derivasse dalla forma dei tetti, simili alla carena di una nave (VIli, 420). Carmanto: divinità italica, amata da Mercurio e madre di Evandro. In Roma le era dedicato un tempio presso la porta Carmentale, dalla quale si accedeva al Campidoglio. Dotata di spirito profetlco, Carmenta predisse per prima la grandezza di Roma (VIli, 392, 395). Caronte: Il nocchlero che, sopra una barca, accompagnava i morti nell'oltretomba, rlcevendone una piccola moneta (VI, 375-382). In realtà non si trattava del danaro necessario per il viaggio, ma la moneta veniva quasi considerata un risarcimento dovuto al morto il cui patrimonio non poteva giuridicamente essere ereditato se il defunto era Immortale. Caronte può trasportare soltanto i morti le cui ossa riposino nella tomba (VI, 406-413); Caronte rifiuta di trasportare Enea su li 'altra riva dell'Acheronte (VI, 480-494); la sacerdotessa Interviene e il cuore di Caronte, gonfio d'Ira, si mette in pace (VI, 496-509). Cartagine: città fondata verso 1'840 a. C. da nobili fenici di Tiro, costretti ad esulare, nel territorio del Numidi sulla costa mediterranea dell'Africa, di fronte alla Sicilia, corrispondente all'odierna Tunisia, e condottivi, secondo la leggenda, da Didone (v. Blrsa). Virgilio, al quale Interessava fondere Insieme le due leggende di Enea e di Didone, allo scopo di far risalire a tempi lontanissimi il motivo della lotta mortale fra Cartagine e Roma, ne fa risalire la fondazione al Xli secolo a. C. (1, 1743); dall'alto di un colle Enea ammira i palazzi, le porte, Il lastrico delle vie di Cartagine e la febbre di costruzione di cui è pervasa la città (l, 485-498); Didone vorrebbe che i Troiani si fermassero nel suo regno (l, 668671); la partenza di Enea da Cartagine e la conseguente morte di Didone sono le cause della Implacabile ostilità di Cartagine a Roma (IV, 750-760; X, 16-21). Casmllla: la madre di Camilla (Xl, 671). Caspio: la terra meotica e l regni del Caspio tramarono fin dalle età più antic~e per la futura potenza di Roma (VI, 962-963). Cassandra: la più bella delle figlie di Priamo, sacerdotessa di Apollo che, innamorato di lei, la dotò di virtù profetiche; ma non avendo mantenuta essa la promessa di sposarlo, Il dio Irato la condannò a non essere ·creduta, come ne rievoca la sua figura il Foscolo alla fine del • Sepolcri • (Il, 307-309); Corebo, suo promesso sposo (Il, 425-430), non sopporta la vista che Cassandra sia tratta dal tempio a forza e vilipesa (Il, 498-504) e si
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scaglia tra l nemici, ma cade alla fine per mano di Pene leo sull'altare di Minerva (Il, 525-526); Iride inganna le donne troiane e le spinge ad incendiare le navi affermando d'aver visto nel sonno Cassandra che le porgeva fiaccole accese mentre diceva che la loro casa è la terra fraterna..d'Erice (V, 671-674). Castore: 1) v. Dioscuri; 2) trolano che difende strenuamente l'accampamento insieme con Timete, Asio, i due Assaraci e il vecchio Timbri (X, 162-164). Catilina: lucio Sergio Catilina che, secondo Sallustio e Cicerone, sarebbe stato il tipo caratteristico dell'avventuriero privo di scrupoli e ambizioso. Per procurarsi ricchezza e potere politico, avrebbe ordito una congiura che fu sventata da Cicerone. Fuggito da Roma, Catilina si ritirò in Etruria, dove Caio Manlio aveva per lui raccolto un piccolo esercito, e là morì Il 62 a. C. combattendo sulla montagna Pistoiese contro Il legato consolare Marco Petreio. Sullo scudo di Enea è effigiato il supplizio inflittogli nel Tartaro (VIli, 777-778). Catlllo: figlio di Anfiarao. fratello gemello di Cora e fratello di Tiburto, fondatore di Tivoli, prese parte con Cora alla guerra contro i Troianl con una schiera di Tiburtini (VII, 770778); a lui, a Cora e a Messapo Turno affida la difesa di laurento (Xl, 578-582 e 642-644); Catillo e Cora, Insieme con Messapo e Camilla, affrontano l cavalieri etruschi e arcadi (Xl, 745-747); abbatte lolla ed Erminio (Xl, 731-732). Catone: 1) Marco Porcio Catone il Censore: comandante militare, uomo politico, oratore, storico e scrittore, egli si servì soltanto della lingua latina, contrariamente a molti autori latini che scrivevano in greco. Contribuì cosl non solo alla creazione della lingua latina, ma fu anche il vero fondatore dello stile prosastico. Come uomo politico fu avversario degli Scipioni che sollecitavano il diffondersi della cultura greca, e il grande avversario di Cartagine, di cui vedeva costantemente il pericolo. Enea lo vede nell'Eliso tra le anime destinate a ritornare nel mondo dei vivi (VI, 1006); 2) Marco Porcia Catone, I'Uticense: pronipote del precedente, repubblicano puro, dopo la battaglia di Tapso si uccise a Utica, sulla costa africana a nord-ovest di Cartagine, quando nel 46 a. C. Giulio Cesare fu creato dittatore a vita e onorato come padre della patria. f: raffigurato sullo scudo di Enea come esempio del buon cittadino (VIli, 779) che dà leggi ai giusti. Caucaso: aspra catena montuosa tra il Mar Nero e il Mar Caspio. Didone afferma che Enea per la sua crudeltà (le ha comunicato che Mercurio, mandato da Giove, gli ha imposto di partire per l'Italia) non è figlio di una dea, ma è nato tra le rupi del Caucaso (IV, 434-436). Caulone: rocca di Caulone è Caulonia, una colonia della Magna Grecia, sulla costa Ionica, che tuttora esiste con lo stesso nome In provincia di Reggio Calabria (111, 678).
Ceculo: re e fondatore di Preneste (oggi Palestrina) che la tradizione diceva figlio di Vulcano, perché esposto dalla madre presso il tempio di Giove, e da fanciulle, che si recavano ad attingere acqua, trovato sul focolare. Conduce contro i Troiani i montanari del monti Prenestini ed Ernici (VII, 779-792); X, 686688). Cedlco: ricco italico ricordato da Virgilio per la bella cintura che Eurialo prese al rutulo Ramnete (IX, 439-443); uccide Alcatoo nella battaglia sulla costa (X, 938). Celenne: città della Campania, i cui guerrieri, comandati da Ebalo, accorrono a combattere contro i Troiani (VII, 852). Celano: regina delle Arpie, che predice ai Trolanl l'arrivo In Italia, ma tormentati da tanta fame che mangeranno anche le mense (Ili, 262 e 306-320). Ceneo: 1) strana figura mitologica; bellissima fanciulla, amata da Nettuno, ottenne dal dio di essere trasformata in uomo, e come tale partecipò alla lotta tra lapiti e Centauri, durante la quale fu uccisa. Con la morte ritornò donna ed Enea la vede nei Campi del Pianto (VI, 559-561 ); 2) Troiano che durante l'assalto dei Rutuli al campo uccide Ortigio, ma a sua volta è ucciso da Turno (IX, 695696). Centauri: esseri mostruosi che. nati da lssione e da Nefele (nuvola), nella· parte superiore del corpo avevano forma umana, nell'inferiore forma equina. la loro origine e il loro significato sono sconosciuti; probabilmente non sono un prodotto della fantasia greca, ma orientale. Enea li incontra nel vestibo!o dell'Ade, che bivaccano sulle porte (VI, 359361); li sente ricordare dai sacerdoti Salii nel canto celebrativo di Ercole, che tra le fatiche impostagli da Euristeo per volere divino ha compiuto anche quella di abbattere i centauri Ileo e Folo (VIli, 341-342). Centauro: nome di due navi: quella del Troiano Sergesto che partecipa alle gare dei ludi funebri in onore di Anchise (V, 132, 168); e quella del ligure Cupavone che fa parte della flotta degli Etruschi alleati dei Troiani (X, 252). Ceo: figlio della Terra e di Titano, fratello della Fama e di Encelado, e padre di latona. Partecipò con l Tltani alla guerra contro Giove, Il quale gli scaraventò addosso un'isola delle Cicladl, la più occidentale, di fronte a Capo Sunio, chiamata poi Ceo; la madre Terra lo vendicò creando la Fama (IV, 215-217). Ceraunl: monti deii'Epiro settentrionale, sulla costa albanese, dalla baia di Valona fino all'attuale confine dell'Albania con la Grecia (Ili, 621). Cerbero: mostro Infernale, la cui forma è quella di un cane con tre teste, posto a custodia dell'entrata dell'Averno. Il mostro vorrebbe impedire l'ingresso ad Enea, ma la Sibilia lo addormenta gettandogli una focaccia appositamente preparata, ed Enea può continuare Il suo viaggio nel mondo dei morti (VI, 520-531); Ercole lo aveva Incatenato e portato
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Dir,ionario dei nomi e dei luoghi a Eurlsteo e quindi rlcondotto nell'Averno (VI, 491-493; VIli, 344-347). Cere: città etrusca, l'attuale Cerveteri, che 1 Greci chiavano Agylla. Ne era re Mesenzio, ma per la sua tirannia fu cacciato e si rifugiò ad Ardea presso Turno. Cere e le altre città etrusche si preparavano a muovere guerra a Turno, ma per consiglio dell'oracolo, l'esercito doveva essere guidato da uno straniero. Accolsero perciò l'alleanza di Enea e combatterono a fianco del Trolanl. Mesenzio, quando fu cacciato da Cere, fu seguito dal figlio Lauso e da mille uomini (VII, 747); Cere, ora Cerveteri, è costruita a circa 30 km. da Roma sopra un'altura In forma di fortezza, circondata da mura ciclopiche (VIli. 557-558 e 697; X, 238). Cerare: una delle grandi divinità latine, la dea delle biade, dell'agricoltura, della civiltà. Immaginata figlia di Saturno e di Rea, benché avesse notevoli somiglianze con il mito greco di Demetra, assunse caratteri larghi e profondi dall'Indole e dalla vita del Lazio. Aveva, con altre divinità, un tempio sull'Aventino che Il popolo romano prediligeva. Venerata anche fii Troia, aveva un tempio sopra un colle appena fuori città (Il, 864-866); è Invocata da Didone e da Anna con un sacrificio di pecore scelte (IV, 71-73). Cesare: nome con Il quale Virgilio Indica Cesare Ottaviano Augusto, figlio di Gaio Ottaviano e di Azia, figlia di Giulia, sorella di Calo Giulio Cesare. Nato a Roma nel 63 a. C., fu dallo zio adottato come figlio (VI, 951 e VIli, 728, con allusione - • la stella familiare • a Caio Giulio Cesare, e VIli, 829, 836). Triumvlro con Antonio e Lepido, dopo la battaglia d'Azio (31 a. C.), nella quale sconfisse Antonio e Cleopatra, rimase l'unico arbitro del vasto impero e accentrò In sé tutti l poteri clvili e religiosi. Il suo governo fu saggio e felici furono le sue spedizioni militari, Intraprese per conservare l'Integrità dei domini di Roma e la pace ch'egli aveva proclamato dopo la vittoria su Antonio. In tal senso è ricordato da Giove nel colloquio con Venere (1, 333-338). Dopo l'assassinio dello zio, divenutone per testamento l'erede, ne assunse anche Il nome e divenne Calo Giulio C.esare Ottaviano. Per decreto del Senato, nel 26 a. C. fu salutato anche Augusto, titolo onorifico che lo designava alla pubblica venerazione. Cesto: una specie di grosso guanto fatto di strlscie di cuoio, in cui erano cuciti pezzi di ferro, per Il pugilato (V, 78). Cetego: guerriero rutulo ucciso da Enea (Xli, 650). Chimera: mostro col petto e la testa di leone, ventre di capra e coda di drago. Vomitava fuoco e fu vinta da Bellerofonte con l'aiuto del cavallo alato Pegaso. Mito tellurico, di facile trasparenza a significare il vulcano con il fuoco sulla vetta, l'arida schiena e le falde verdegglantl di vegetazione. Enea la vede all'Ingresso dell'Averno Insieme con altri mostri (VI, 362-363); la sua figura mostruosa è effi-
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glata sullo scudo di Turno (VII, 902-905), e sulla fiancata della nave di Gia, detta perciò Chimera, che partecipa alla regata del ludi funebri In onore di Anchlse (V, 128-265). Chiusi: città etrusca alleata di Enea (l'odierna Chiusi in provincia di Siena), che agli ordini di Massico ha inviato, insieme con Cosa, un migliaio di armati a combattere contro Turno (X, 220-221). Anche Osinio era di Chiusi (X, 824). Clcladi: arcipelago del mare Egeo (111, 157; VIli, 804-805). Ciclopi: figli di Urano e di Gea, sono personaggi leggendari con un solo occhio rotondo in mezzo alla fronte. Così dice letteralmente anche il nome: occhi tondi. Omero li descrive come giganti antropofagi, che esercitano la pastorizia, ma privi di ogni civiltà, anche elementare. Più tardi furono considerati fabbri di Vulcano, e la loro dimora divenne l'Etna o Vulcano, dove avevano l'officina nella quale costruivano l fulmini a Giove. Enea racconta lo sbarco nell'Isola dei Ciclopi (la Sicilia) e l'Incontro con Achemenide (111, 695-696 e 719745); Achemenide racconta come Ulisse e l suoi compagni, fuggendo In tutta fretta, lo abbiano lasciato in balia dei Ciclopi, del quali egli narra le abitudini orrende, e chiede di esserne liberato (111, 752-798); Enea e i suoi compagni vedono Polifemo e si affrettano a fuggire; poi vedono anche gli altri Ciclopi chiamati fuori dal boschi da Polifemo (111, 800-827); l Ciclopi hanno costruito le mura della reggia di Proserpina (VI, 776-779); Enea rlncuora l compagni ricordando lo sbarco nell'isola dei Ciclopi, dalla quale sono ripartiti incolumi (1, 237-238); paragona le caverne dell'Isola di Vulcano a quelle dell'Etna, bruciate dalle fucine dei Ciclopi fVIII, 487-490). Cigno: padre di Cupavone, il comandante dei Llgurl alleati di Enea e della nave che li trasporta (X, 240-243). Cigno, re dei 'liguri, grande amico di Fetonte, ne pianse tanto la morte che Apollo ne ebbe compassione e lo mutò in cigno (X, 244-250). Cillene: monte dell'Arcadia, sulla cui vetta Maia diede alla luce Mercurio, che perciò è detto anche Cillenio. r: l'attuale monte Killini (VIli, 156-157). Cimino: la regione del monte e del lago Cimino (oggi lago di Vico), in provincia di Viterbo, che allora si era schierata agli ordini di Messapo contro l Trolanl (VII, 799). Cimodoce: Nereide del corteo di Nettuno, che Insieme con le sorelle, Immani cetacei e veloci Trltonl, accompagna e favorisce la navigazione della flottiglia di Enea (V, 873). Clmodocea: una delle ninfe, In cui erano state prodigiosamente tramutate le navi tralane che Turno aveva tentato d'incendiare, e che si era recata con le sue compagne ad Incontrare Enea In viaggio con la flottiglia etrusca da Cere alla foce del Tevere. Cimodocea, • di tutte la più eloquente •, gli rivela l pericoli che corrono i Trolani assediati ed, esor-
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Dizionario dei nomi e dei luoghi
tandolo ad affrontare Il ritorno, spinge con le compagne la nave (X, 292-322). Clmotoe: Nerelde che disincaglia tre navi trolane Immobilizzate nella scogliera (Are) davanti al porto di Cartagine (1, 172-174). Cincinnato: Lucio Quinzio Serrano, detto Cincinnato, cioè • dal capelli ricciuti •. eroe romano del V secolo a. C., rappresentò per il popolo dell'Urbe Il prototipo del romano antico, che ad un tempo era contadino, uomo di stato e soldato. Secondo la nota leggenda, lasciò nel 458 l'aratro per assumere il comando delle legioni e liberare un esercito romano assediato dagli Equi. Anchise lo Indica ad Enea nel Campi Elisi come una delle anime destinate a ritornare sulla terra per una seconda vita (VI, 1020). Cinto: monte dell'isola di Dalo. ove Diana era particolarmente venerata (1, 5801: latona vi diede alla luce Apollo e Diana (IV, 175-181). Cipro: grande Isola del Mediterraneo orientale, sacra al culto di Venera che nelle città di Amatunta, Idalio e Pafo. aveva santuari noti in tutto Il Mediterraneo. Secondo Il mito, Venere sarebbe nata dalla schiuma del mare che circonda l'isola. Didone ricorda Cipro occupata da suo padre Belo (1, 728-729). Circe: figlia del Sole (EIIos) e della ninfa Perse, maga fiera e crudele, incantatrice, secondo Il mito abitava un'isola favolosa, Eèa, che si volle poi ldentlflcarP. con un promontorio del Lazio, che da lei fu poi chiamato Circello (l'odierno Circeo). Questa maga, che mutava in animali immondi gli uomini, quando essi non possedevano la saggezza, può essere considerata il simbolo della degradazione a bruti, alla quale al riducono gli stolti che si lasciano vincere dal piacere del sensi. Elena predice a Enea che le sue navi, prima di giungere a fondare una città su una terra sicura. dovranno vedere tra l'altro anche l'isola di Circe (111, 470): Nettuno salva le navi trolane. che passano accanto all'isola di Circe, gonfiando le vele di venti favorevoli (VII. 12-291: gli ambasciatori, che Enea ha Inviato a latino, ammirano in una sala della reggia, tra le altre cose, la statua di Pico, Il domatore di cavalli, trasformato da Circe In uccello dalle ali cosparse di colori (VII, 223-226): latino invia In omaggio ad Enea due cavalli della razza ottenuta dall'Ingegnosa Circe (VII. 325-329). Circeo: v. Circe. Clsseo (Cisseus): re di Tracla, padre di Ecuba moglie di Prlamo. Ricordato come donatore ad Anchise della coppa preziosa che Enea regala al vecchio Aceste (V, 549-569). Cltera: v. Citerea. Citerea: Venere, dall'isola di Citera (X. 65 e 112), oggi Cerigo o Kythera, C:li fronte al Golfo laconico, che vanta la nascita di Venere, come Cipro, dalla spuma del suo mare (1, 368). Clterone: monte della Beozia, presso Tebe, sul quale ogni tre anni si celebrava una festa notturna In onore di Bacco (IV, 354-359). Claud;': v. Clauso.
Clauso: capo del Sablnl e capostipite della famiglia romana dei Claudl (gens Claudia). Si allea con Turno e al suo comando si pongono i guerrieri di molte località della Sabina (VII. 810-831: x. 439-442). Clelia: figura leggendaria di fanciulla patrizia che, data In ostaggio al re etrusco Porsenna, Insieme con altre compagne, fuggi attraversando a nuoto il Tevere. l cittadini, ligi alla parola data, la restituirono, ma Porsenna le concesse la libertà. la sua figura appare sullo scudo di Enea (VIli, 757-758). Cleopatra: regina d'Egitto, diventata moglie di Antonio, è effigiata sullo scudo di Enea alla battaglia d'Azio (VIli, 810-811). Clltennestra: la moglie di Agamennone che uccise il marito al ritorno da Troia con la complicità di Egisto, e VIrgilio paragona Didone. invasata dalle Furie e vinta dal dolore, sicura di morire, a Oreste, Il figlio di Agamennone, che fugge la madre armata di fiaccole e neri serpenti. Oreste, fattosi adulto, per vendicare Il padre uccide poi la madre, ma viene perseguitato dalle Furie, simbolo del rimorso, dalle quali è liberato da Apollo che lo fa assolvere da un tribunale di Ateniesi presieduto da Minerva. Questo mito destò l'interesse dei grandi tragici greci Eschilo, Sofocle, Euripide: a Roma lo svolse In una tragedia, ora perduta, Pacuvio, Il quale, Imitando le • Eumenidi • di Eschilo, rappresentò Oreste come lo descrive Virgilio nei versi del IV canto dal 569 al 672. Cllzlo: padre di Acmone di llrneso e di Mnesteo, difende con l figli l'accampamento trolano (X, 168). Un altro Clizio, figlio di Eolo o, come altri traducono il latino • Aeoliden •, nativo deii'Eolla, regione costiera della Troade, è stato precedentemente ucciso da Turno (IX, 923). Cloanto: compagno di Enea e comandante di una nave, è stato disperso dalla tempesta e pianto come annegato (1, 260-262): ma è ritrovato a Cartagine (1, 591-595 e 718); con la nave Scilla vince il primo premio nella regata del ludi funebri In onore di Anchise (V, 124282). Cloreo: trolano, già sacerdote di Cibele, Indossa splendide armi frigie, e ricche e vistose vesti; attira cosi l'attenzione di Camilla, che lo Insegue desiderosa di impadronirsene, e non si awede dell'agguato di Arunte (Xl, 949-986); C loreo è poi ucciso da Turno (Xli, 465). Cluente romano: la gena Cluentia, il cui capostipite è Cloanto (V. 133). Coclto: fiume nel quale si versa l'Acheronte (VI, 373-375). Cocllte: figura leggendaria di soldato romano che da solo, quando Porsenna assalì Roma, tenne testa agli Etruschi In capo al ponte Subllcio, dando così tempo al suoi di abbattere il passaggio, per il quale il nemico poteva Invadere la città. La sua figura appare sullo scudo di Enea (VIli, 756). Collantlne (le rocche): Collatia, città latina
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Dizionario dei nomi e dei luoghi tra Roma e Tivoli e tra la via Prenestina e la sinistra deii'Anlene (VI, 933). Cora: città latina a sud di Velletri (VI, 934). Corebo: un Frigio, figlio di Mlgdone. Era giunto a Troia da pochi giorni: innamorato di Cassandra, voleva portare aiuto al futuro suocero e ai Trolanl (VI, 425-430); consiglia di indossare le armi dei greci uccisi per Ingannare il nemico (VI, 479-485): non sopporta la vista di Cassandra condotta In ceppi dai Greci e si scaglia tra l nemici (VI, 502-503): i Greci riconoscono sotto le armi greche l soldati trolani e Corebo cade per primo (VI, 522-525). Corlbantl: sacerdoti di Cibele, i quali celebravano le feste della dea con grandi tumulti e suoni di timballi, agitando scudi e lance ed emettendo, con gesti frenetici, alte grida. Con l loro tumulti avevano impedito che Saturno udisse l vagiti di Giove bambino che la madre aveva nascosto sul monte Ida nell'Isola di Creta (111, 137). Corlneo: compagno di Enea, amico e forse congiunto di Miseno, ne raccoglie In un'urna le ceneri e ne pronunzia l'elogio funebre (VI, ,289-294); VIrgilio lo dice ucciso da Asila (IX, 693), ma poi appare in lotta con un rutulo, Ebuso, ch'egli uccide afferrando dall'altare un tizzone ardente e con quello percuotendolo nel volto (Xli, 386-394). Corinto: Anchise indica il console Lucio Mummia che nel 146 a. C. rase al suolo Corinto, ridusse la Grecia a provincia romana, e per questa vittoria salirà vittorioso al Campidoglio (VI. 1009-1011). Corlto: l'attuale Cortona, in provincia di Arezzo; città etrusca, In cui ebbe i natali Dardana, come rivelarono In sogno ad Enea i Penati (111, 210-213); Latino ricorda agli ambasciatori trolani la tradizione che afferma Dardana nato a Corlto e di qui trasmigrato poi nella Frigia (Vll, 243-244): Corito è la città dell'etrusco Acrone ucciso da Mesenzio (X, 900-902) •. Cosa: città etrusca sulle pendici dell'Argentarlo, tra l'attuale Orbetello e Porto d'Ercole (X, 222). Cosso: Aulo Cornelio Cosso, tribuna militare che nel 428 a. C. uccise in battaglia il re del Velenti Tolunnlo e ne portò a Roma le spoglie. La corazza si ammirava ancora nell'età di Augusto nel tempio di Giove Feretrio. Egli viene Indicato ad Enea da Anchise tra le anime dei Campi Elisi destinate a ritornare sulla terra (VI, 1017). Creta: la più grande delle Isole greche, a sud del mare Egeo, celebre nell'antichità per le sue cento città. VI ebbe, sul monte Ida, i natali Giove e fu la patria di Minasse, !domeneo, Pasife, Arianna ed altri ancora. Anchise crede erroneamente che •l'antica madre. dell'oracolo di Delo sia Creta (111, 125-145, 151, 160); l Penati rivelano in sogno a Enea che Creta non è • l'antica madre • e lo invitano a partire: la terra destinata ai Troiani è l'Italia (111, 201-213): i Trolani si allontanano da Creta (111, 236); è ricordata da Virgilio quando para-
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gona l'Infelice Didone, errante furiosa per tutta la città, ed una cerva ferita nelle selve di Creta (IV, 86-91) e quando racconta che Venere si è recata a raccogliere Il dittamo (Xli, 324-570). Creusa: figlia di Prlamo e di Ecuba, moglie di Enea e madre di Ascanio, scomparsa misteriosamente, mentre segue il marito, durante la fuga notturna da Troia In fiamme. Venere consiglia Enea di abbandonare Troia e salvare il padre Anchlse, la moglie Creusa e il piccolo Ascanio (Il, 729-731): Enea, Creusa e Ascanio scongiurano In lagrime Anchise di desistere dal rifiuto di partire (Il, 791-794): Enea, spinto dal rifiuto del padre, vuoi ritornare a combattere e Creusa cerca di trattanerlo gettandoglisi ai piedi con lulo e riempiendo la casa di gemiti (Il, 818-819 e 826): un prodigio convince Anchise a partire ed Enea si carica sulle spalle il vecchio padre, dice a lulo di accompagnarlo e a Creusa di seguirlo da lontano (Il, 859-864): Enea s'accorge che Creusa non lo segue: forse ha sbagliato strada (Il, 894-896) e ritorna a cercarla in città, e la chiama per nome (Il, 935), allorché gli appare Il suo fantasma che gli rivolge parole di conforto e gli raccomanda Ascanio (Il, 938-960): Ascanio dice a Eurialo che egli si curerà di sua madre: • le mancherà solo il nome di Creusa • (IX, 365-366). Crinlso: fiume sulla costa nord-occidentale della Sicilia, l'attuale fiume Caldo che sfocia nel golfo di Castellammare. Nella sua forma personificata è sposo di una troiana, Egesta, dalla quale ebbe un figlio, Aceste (V, 42-45). Crustumerlo: città latina a nord-est di Roma, sulla riva sinistra del Tevere. t: una delle cinque città che Virgilio indica nel poema come centro di fabbricazione delle armi (VII, 720). Cuma: colonia greca fondata nella Campania, presso il lago di Averno, da Calcidesl dell'isola di Eubea. Presso l'antro, nel quale la Sibilla dava i suoi oracoli, sorgeva un tempio di Apollo, costruito da Dedalo sulla • rocca calcidea •, cioè sull'altura sovrastante euma (VI, 18-24); Enea approda a Cuma per consultare la Sibilla (VI, 2-16). Cupavone: principe ligure, figlio di Cigno, alleato dei Troianl; sulla nave Centauro naviga con i suoi Llguri alla volta del Lazio (X, 240-255). Cupido: bellissimo figlio di Venere e di Marte, armato di arco e di frecce ch'egli scagliava Infallibili contro gli uomini nel quali voleva suscitare la passione amorosa. Per volere della madre prende le semblanze di A· scanio (1, 786-814). Curetl: l primi leggendari abitatori di Creta, identificati da una tradizione con l sacerdoti di Rea, la madre di Giove, ai quali la dea, secondo il mito, avrebbe affidato il compito di Impedire, con il rumore prodotto battendo le !ance sugli scudi, che Crono udisse l pianti del bambino. Quando poi Rea fu Identificata
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con Clbele anche i Curati furono identificati con l Corlbanti (111, 162). Curi: città dei Sablnl, Identificabile con l'attuale località di Arei presso Correse in provincia di Roma, che diede i natali a Numa Pompilio, indicato da Anchise come consolidatore con le sue leggi della Roma primitiva (VI, 974-979); da Curi i Romani avrebbero preso il nome di Ouirites (VII, 815). Daghi: popolo scitico sulle rive del Caspio, dell'attuale Daghestan, raffigurato sullo scudo di Enea come uno del popoli soggetti a Roma (VIli, 845). Danae: figlia di Acrisio, re d'Argo. Un oracolo aveva rivelato ad Acrlslo ch'egli sarebbe perito per mano di un figlio che sarebbe nato da Danae, e il re rinchiuse la figlia in una torre, dove però Giove penetrò come pioggia d'oro e la fanciulla divenne ugualmente madre di Perseo. Acrisio fece allora gettare nel mare madre e figlio chiusi in una botte, che raggiunse l'isola di Sérifo, dove il re Polidette sposò Danae e allevò Perseo. Secondo la versione del mito accolta da Virgilio, Danae sarebbe poi emigrata in Italia con una colonia di cittadini di Argo, e quivl, diventata sposa di Pilunno, avrebbe fondato, con il marito, Ardea LVII, 466-470). Dal loro matrimonio sarebbe nato Dauno, il padre di Turno (VII, 423-424). Danaidi: figlie di Danao, re di Argo. Esse, per Incitamento del padre, che secondo l'oracolo temeva di perdere il trono per opera eli un genero, soppressero i mariti già nella prima notte di matrimonio, e furono, secondo una leggenda posteriore, condannate nell'Erebo ad attingere acqua in vasi senza fondo, ossia ad un lavoro Inutile. Dal delitto si astenne lpermnestra, e il suo sposo Linceo successe poi sul trono a Danao. Il mito delle Danaldi è raffigurato sul balteo di Pallante (X, 629-633). Dardano: figlio di Giove e di Elettra, fratello di laso, era nato a Corito (l'attuale Cortona in provincia di Arezzo) e poi emigrato nella Frigia (111, 208-213; VII, 241-249), dove diventò il capostipite del Troiani e della Dardania gente (VI, 913-916); Enea lo riconobbe nel Campi Elisi (VI, 795). Darète: troiano, pugile, che nel giochi funebri in Anchise è abbattuto da Entello (V, 391483). Dauco: padre dei gemelli laride e Timbro, uccisi da Pallante (X, 498-500). Daci: l ciue famosi romani P. Decio Mure, padre e figlio: il primo, console nel 340 a. C., si Immolò In una battaglia contro l latini; il secondo, console quattro volte negli anni 312, 308, 279 e 295 a. C., si votò a morte nella battaglia del 295 a. C. della terza guerra sannitica (VI, 995). Dedalo: famoso, forse mltlco, Inventore ateniese del secondo millennio a. C., che fuggito dalla sua città natale per aver ucciso suo nipote Taio inventore del tornio, si rifugiò in
Creta, dove costrul Il labirinto del palazzo reale di Cnosso; ma nel quale fu poi imprigionato, per aver egli fornito ad Arianna il filo con Il quale Teseo giunse al Minotauro, lo uccise, e riuscì poi ad uscirne. Prigioniero con lui era anche Il figlio Icaro; ed un giorno Dedalo costruì per sé e per Il figlio le ali, con le quali entrambi riuscirono a fuggire. Icaro però volò troppo in ·alto, e le ali, attaccate con la cera, che al calore del sole si sciolse, gli si staccarono, ed egli precipitò in mare; Dedalo invece discese su un'altura presso Cuma, dove eresse un tempio ad Apollo, e sulle porte scolpl le storie del Minotauro. Eqli modellò anche statue che non avevano più la rigidità di quelle arcaiche; ma quale valore storico abbiano queste notizie non è ancora appurato, né lo sarà mai (VI, 18-39). Delfobe: è la Slbilla di Cuma. Figlia di Glauco ebbe da Apollo Il dono della profezia. Essa viveva presso il tempio del dio che Dedalo aveva costruito sopra un'altura presso Cuma. Perciò è chiamata Sibilla (VI, 14) ed anche Deifobe (VI, 42); Enea si reca ad lnterrogarla consigliato da Eleno (111. 538-566) e dal padre Anchise (V, 776-778). il quale gli rivela anche che lo condurrà nel profondo Averno e quindi nei Campi Elisi, dove dovrà cercare di lui (VI, 772-774); la Sibilla esorta Enea a chiedere ad Apollo notizie sul suo destino (VI, 54-55); gli predice i pericoli e i travagli che lo attendono (VI, 104-122); gli rivela ciò che deve fare per poter scendere nel regno della morte e poi uscirne (VI, 159198); Enea le aveva promesso di dedicarle un santuario, per la custodia dei Libri Sibillini (VI, 87-91) e l'aveva pregata a lungo (VI. 130-157). Delfobo: figlio di Priamo, dopo la morte di Parlde sposò Elena. Il suo palazzo fu incendiato (Il, 389-390) ed egli ucciso e orrendamente mutilato da Menelao e da Ulisse che la moglie, con un tradimento, aveva fatto penetrare nelle sue stanze, come racconta egli stesso ad Enea, che lo incontra nei campi più remoti del regno delle Ombre, ove vivono gli uomini illustri in guerra (VI, 613-656). Delopea: la ninfa che Giunone promette in sposa a Eolo, re dei venti, per indurio a scatenare una tempesta che distrugga le navi troiane (l, 82-93). Dalo: lsoletta delle Cicladi, chiamata anche Ortigia (Isola delle quaglie). Celebre per il tempio di Apollo (si vantava di aver dato i natali ad Apollo e a Diana) ebbe anche notevole importanza storica come sede della confederazione marittima ateniese. Enea vi si recò durante il viaggio a consultare l'oracolo, il quale gli rivelò che i Troiani dovevano ritornare alla • Madre antica • (111, 114-119); ed inoltre l'isola è ricordata in IV, 176. Demòleo: guerriero greco che Enea uccise e spogliò delle armi sotto le mura di Troia. Queste armi Enea dette in premio al secondo arrivato ne!la regata dei giochi funebri in onore di Anchise (V, 183-189).
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Dizionario dei nomi e dei luoghi Dercenno: re di Laurento; sulla cima del suo sepolcro Opi attese il passaggio di Arunte per vendicare con la sua morte quella di Camilla, secondo l'incarico che le aveva affidato Diana (Xl, 1046-1064). Diana: figlia di Giove e di Latona e sorella di Apollo, è la dea della caccia e della sana vita dei boschi. Figura molto complèssa nella mitologia pagana, si fece di lei, come sorella di Apollo, la dea della luna, e come dea della Magia la si volle identificare con Ecate o Artemide, la dea regina del mondo sotterraneo. Era, come Apollo, protettrice e tutelare di Roma; perciò ogni cento anni si celebrava in suo onore sul Palatino la Festa secolare. Ed ecco allora il .suo appellativo di Trivia (VI, 17 e 84); e la trlgemina Ecate, la vergine Diana dai tre volti diversi (IV, 617-618); i boschi sono sacri a Diana e • bosco sacro a Diana • sembrano i Ciclopi allineati sul lido, mentre guardano le navi di Enea allontanarsi nel mare (111, 822-827); si ricorda il castigo che Diana inflisse agli abitanti di Calidone (VII, 352-354) e la risurrezione di lppolito operata con l'intervento del medico Peone (VII, 878-892); Diana si preoccupa del pericolo che corre Camilla, sua prediletta (Xl, 663-665) e racconta la sua storia (Xl, 665-724); addolorata del suo destino ordina a Opi di vendicarla (Xl, 725-734). Dldlmaone: il cesellatore dello scudo che Enea regalò a Niso (V, 381-384). Didone: la leggenda la dice figlia di Belo, re di Tiro nella Fenicia (la Siria attuale), sorella di Pigmalione e sposa di Sicheo, ricco cittadino di Tiro; e racconta che le grandi ricchezze del marito avevano suscitato la bramosia del fratello, il quale per impadronirsene uccise il cognato. L'ombra del defunto rivela a Didone il motivo della sua morte e la consiglia a fuggire con tutte le sue ricchezze, delle quali le rivela il nascondiglio, ignoto a Plgmalione. Didone, che teme di essere uccisa a sua volta dal fratello, segue il consiglio di Sicheo e con uno stuolo di Fenici raggiunge la costa africana del regno di larba, e ottenuta dal re la terra occorrente, fonda Birsa, la rocca di Cartagine (v. Blrsa) (1, 427-429); nella nuova città aveva costruito un grande tempio a Giunone (1, 518-521); Enea la vede che avanza verso il tempio (l, 577-578); lieta tra una schiera di giovani e sollecita dei lavori e del regno che sorge (1, 584-586); Didone dà a llioneo il permesso di parlare (1, 605-607) e accoglie l Troiani cordialmente (1, 653-677); Didone Incontra Enea (1, 696, 719); Venere teme le vendette di Giunone e dà ad Amore il compito di innamorare Didone (l, 792, 811-814); Didone si asside al centro del convito (l, 826-827); Didone sacrifica pecore scelte e una giovenca a Giunone e agli altri dèl (IV, 75-79); arde ed erra furiosa per tutta la città (IV, 87-88); Giunone organizza la caccia per il giorno dopo (IV, 148-149, 155-156, 173-174, 201 e 206); la Fama diffonde la notizia dell'unione di Didone e Enea (IV, 226-
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232); Giove Invia Mercurio a richiamare Enea al dovere di raggiungere la terra che gli ha destinato il Fato (IV, 267-283); Enea con dignità e coraggio spiega a Didone, che aveva già intuito la tristissima notizia, i motivi che lo costringono a partire (IV, 349-476); Didone assiste dalla rocca ai preparativi della partenza e fa gli ultimi tentativi per trattenere Enea (IV, 490-525); Didone chiama la morte (IV, 541-543); organizza il suicidio, invoca su Enea e sui suoi discendenti l'odio inestinguibile di Cartagine, si trafigge con una spada e cade nel rogo che aveva fatto preparare dalla sorella Anna (IV, 573-851); Enea vede dal mare il rogo dell'infelice Didone (V, 1-8); Enea incontra Didone nei Campi del Pianto (VI, 562-591). Dimanta: un Troiano che ha partecipato con Enea all'ultimo tentativo di resistenza contro i Greci nell'Interno della città incendiata (Il, 424), e vi trova la morte (Il, 488 e 529). Dindimo: monte della Frigia, sacro a Cibe!e, la Gran Madre dell'Ida (IX, 751). Diomeda: argivo, figlio di Tideo (donde il nome Tidide) e di Deifile, è uno dei più valorosi guerrieri greci che combatterono contro Troia. Il libro V dell'Iliade è dedicato in particolare alla celebrazione delle sue gesta, raffigurate in parte nel tempio di Giunone a Cartagine (1, 545); come Tidlde è ricordato da Enea, che senza l'intervento di Venera sarebbe stato una delle sue vittime (1, 116-121; X, 734); dopo la caduta di Troia non ritornò in patria (Xl, 335-336); i suoi compagni furono trasformati in uccelli (Xl, 340-343); sbarcato nell'Apulia (le Puglie odierne) costruì Argìripa (Xl, 305306); Venere dice a Giove che Diomede si prepara a muovere con un esercito contro Enea (X, 35-37); a Dfomede, infatti, era stato spedito Venulo con una ambasceria (VIli, 11-13); ma Diomede invece aveva rifiutato di partecipare ad una nuova guerra contro l Troiani (Xl, 347-350) e consiglia l Latini di fare la pace con Enea (Xl, 363-365). Diore: trolano, fratello di Amico e parente di Priamo, partecipa alla corsa a piedi nei ludi funebri organizzati da Enea in onore di Anchise (V, 323-324); dato il via è in quinta posizione dopo Niso, Salio, Eurialo e Elimo (V, 348); conquista il terzo posto dopo Eurialo e Elimo (V, 363); difende la vittoria di Eurialo e nello stesso tempo il suo terzo posto (V, 368-370); muore con Il fratello, vittime ambedue di Turno, che barbaramente li decapita e appende al suo carro le loro teste (Xli, 645649). Dloscuri: sono Castore e Polluce, fratelli gemelli, figli di Leda. Secondo la leggenda Castore sarebbe stato figlio di Tindaro, marito di Leda e re di Sparta; Polluce avrebbe invece avuto per padre Giove. Perciò Castore era mortale, Polluce immortale; e quando Castore morì, Polluce supplicò Giove con tanto ardore che ottenne di potere discendere a giorni alterni nell'Averno a prendere Il posto del fratello, il quale saliva
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aii'Oiimpo, ove occupava Il posto di Polluce (VI, 153-155). Gli antichi onoravano i Dloscuri come soccorritori nei casi di necessità e specialmente come protettori del marinai, ai quali mostravano la rotta con due stelle (Gemini) e a cui rivelavano la loro presenza con fiammelle che si accendevano sulla cima dell'albero maestro (Il così detto fuoco di S. Elmo). Il termine serve tuttora ad Indicare proverblalmente una coppia di amici. Discordia: è una delle figure mostruose che Enea Incontra nel vestibolo dell'Averno (VI, 354). Dite: termine con Il quale si intende sia Plutone, sia Il suo regno e quindi l'Averno In genere (VI, 340, 645); Vulcano modella sullo scudo di Enea la reggia profonda di Dite (VIli, 876). Dodona: città deii'Epiro, nota per i vasi di rame ((ebeti) che, appesi ad una quercia e mossi dal vento, esprimevano con il loro rumore le risposte di Giove, cui :a città era sacra, alle domande del suoi devoti (111, 573). Dolone: trolano, padre del valoroso Eumede ucciso da Turno. Virgilio ricorda che Dolone durante la guerra troiana si offerse di andare ad esplorare il campo dei Greci e chiese come ricompensa l cavalli di Achille, ma Diomede (Il figlio di Tideo) lo scoperse e lo uccise (Xli, 444-452). Dòlopl: popolo della Tessaglia; abitava sulla catena del Pindo e partecipò con Achille e suo figlio Neottolemo alla guerra troiana (Il, 12, 40, 512, 956). Donusa: verde isoletta delle Cicladi, ad oriente di Nassa; l'attuale Denusa (111, 156). Doto: Il nome di una delle Nereldi (IX, 128). Drance: ricco latino, capo della fazione contraria alla politica di Turno e favorevole ad un accordo con Enea. E: inviato come capo di un'ambasceria da Latino ad Enea per ottenere una tregua di dodici giorni, necessaria a seppellire i caduti (Xl, 148-159); al consiglio del capi italici convocato da Latino espone Il suo programma contrarlo a quello di Turno (Xl, 418-466); Turno lo accusa di essere prodigo di parole, ma avaro di fatti, specialmente quando la guerra lo richiederebbe (Xl, 470554). Drance è un incubo per Turno (Xli, 804-809). Driopi: antico popolo del Peloponneso (IV, 178). Drusi: i Drusi sono presentati da Anchlsa ad Enea nei Campi Elisi; e probabilmente Virgilio allude a M. Druso Livio Salinatore che vinse Asdrubale presso il Metauro nel 207, e a M. Livlo Druso tribuna della plebe nel 91 a. C. (VI, 995). Dullchlo: isoletta del Mar Ionio, quasi all'ingresso del golfo di Patrasso (Ili, 336). Ebalo: figlio della ninfa Sebetlde e di Telone che con i suoi Teleboi regnava sull'isola di Capi. Il figlio non contento del dominio paterno era passato in Italia (VII, 844-855). Ebe: personiflcazlone dell'eterna glovlnez-
za e copplera degli dèl. Giunone si lamenta (era figlia sua e di Giove) che l'onore di mescere Il nettare agli dèl sia stato affidato a Ganimede (1. 36-38). Ebro: 1) troiano, figlio di Dolicaone, ucciso da Mesenzlo (X, 871-872); 2) fiume della Traeia, il cui nome è oggi Maritza e segna il confine tra la Grecia e la Turchia (Xli, 426). Ecate: divinità femminile di origine probabilmente asiatica. Il nome è greco e vuoi dire • che opera da lontano •. Nel VI secolo a. C., al tempo dei misteri orfici, divenne una delle principali divinità della Grecia e, identificata con Artemide (Diana nel Lazio), con Demetra (Cerere In Italia) e con Persefone (la Proserpina latina), fu detta anche Trivia: dea della luce (Giunone Luclna) o della luna, dea dei monti e del boschi, Diana, e dea del moncfo sotterraneo, Ecate. Giunone Invoca • la trigemina Ecate •, la vergine Diana dai tre volti diversi, come divinità apportatrice di morte (IV, 616-618, 734-735)~ Enea la invoca come dea potente nel Cielo e nell'Erebo (VI, 311), e dice che ha preposto la Sibilla Cumana ai boschi dell'Averno (VI, 149-150); la Sibilla afferma che Ecate le insegnò le pene divine e le fece conoscere l'Averno (VI, 696-698). Ecolla: città dell'Eubea nel territorio di Eretria, rasa al suolo da Ercole perché il re della città, Eurito, gli aveva promesso in sposa lole, sua figlia, se l'avesse vinto al tiro dell'arco; Ercole vinse, ma Eurlto non mantenne la promessa. La leggenda è ricordata dai sacerdoti che celebrano le lodi di Ercole (VIli, 339). Ecuba: figlia di Clsso e moglie di Priamo; madre di 19 del cento figli di Priamo (i numeri hanno però valore convenzionale, in luogi di molti, numerosi), nella notte dell'Incendio di Troia si rifugia presso l'altare del Penati (Il, 616-617, 633-636) e scongiura Prlamo, che aveva indossato le armi, a desistere dal proposito di combattere e a rifugiarsi sotto la protezione dei Penati (Il, 637-646); Giunone accenna al sogno profetico di Ecuba madre di Parlde (VII, 336-369; X, 881-882). Egerla: ninfa delle fonti, cui era sacro un bosco presso Il lago di Nemi, dove fu allevato Vlrblo, sotto la sorveglianza e la protezione di Diana (VII, 874-899). Egesta: v. Aceste. Egida: lo scudo di Giove costruito con la pelle della capra Amaltea che lo aveva nutrito bambino sul monte· Ida. Il nome deriva dal vocabolo greco • alx-aigòs • che significa capra (VIli, 412). Nell'umbone aveva effigiato la testa della gorgone Medusa, contornata di serpenti. Anche Mlnerva (Atena dei Greci) è raffigurata con l'Egida, che Giove ha prestato alla figlia (Il, 751-752). Egisto: figlio di Tieste e di Pelopia, fu adottato da Atreo, ma avendogli questi Imposto di uccidere Il padre, egli lo uccise e si Impadronì della signoria di Micene. Agamennone, nipote di Atreo ed erede del trono, lo cacciò, ma quando partì per la guerra di Troia
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Dizionario dei nomi e dei luoghi lo richiamò e gli affidò Il governo dello Stato. Egisto durante l'assenza di Agamennone. gli sedusse la moglie e quando ritornò, in accordo con lei, lo uccise. Sette anni dopo fu ucciso a sua volta da Oreste, figlio di Agamennone. Diomede ricorda il tragico fatto senza fare il nome di Egisto (Xl, 332-335]. Egitto: è nominato In luogo degli Egiziani effigiati in fuga sullo scudo di Enea (VIli, 819-820]. Elba: l'isola partecipa alia guerra contro Turno con trecento guerrieri al comando di Abante (X, 223-228]. Elena: figlia di Giove e di leda (moglie di Tlndaro], sposa di Menelao, re di Sp11rta, e sorella del Dioscurl. Mentre il marito era assente, Parlde, figlio di Prlamo, la rapi e la portò a Troia insieme con molti tesori. Questo fatto determinò la guerra di Troia. Alla morte di Paride sposò Detfobo. la notte dell'incendio della città Enea la scorge nel tempio di Vesta Immersa nella preghiera e decide di ucctderla, ma ne è dissuaso da Venere (11, 696-757]; Delfobo invece racconta che nella notte tragica, fingendo di organizzare una festa per celebrare la fine della guerra, mandò segnali ai Greci, gli portò via tutte le armi, chiamò Menelao e gli consegnò in dono la sua testa (VI, 630-661]. Ed Inoltre l, 757763 e VII, 413-415. Elano: figlio di Priamo e di Ecuba, dotato di vlrtll profetiche, fu fatto prlglonero dai Greci nella notte della distruzione di Troia e assegnato a Plrro, figlio di Achille, insieme con Andromaca. Quando Plrro, o Neottolemo, si Innamorò di Ermione, figlia di Menelao e di Elena, e la sposò, Eleno si uni in matrimonio con Andromaca. Morto Plrro, ucciso da Oresta, vendicatosl dell'offesa fattagli col rapimento di Ermione, Eleno gli successe nel regno, ch'egli volle chiamare Caonia, e pose la sua sede a Butroto (111, 398-413]; Elena con· duce in città Enea (111, 421-424] commosso per l'inatteso Incontro; Eleno predice a Enea il suo awenlre e lo colma di consigli e di doni (111, 455-580]. E ancora 111, 831-832. Elenora: figlio di una schiava e del re di Meonla, aveva partecipato alla difesa di Troia ed aveva poi seguito Enea in Italia. Muore combattendo contro l latini sotto le mura del campo troiano (IX, 658-673]. Elettra: figlia di Oceano e di Teti (secondo altri di Atlante] e, amata da Giove, madre di Dardano (Vili, 152-153). l:llde: regione del Peloponneso nord-occidentale, dove nella città di Olimpia era il tempio pill famoso di Giove (VI, 725]. Ellmo: atleta siciliano e compagno di caccia di Aceste, partecipa al riti funebri in onore di Anchise (V, 81]; e alla gara di corsa (V, 347], nella quale giunge secondo (V, 353). riceve In premio un turcasso delle Amazzoni (V, 337-339]. Elisi, Campi: v. Campi Elisi. Eloro: fiume della Sicilia orientale, l'attuale
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Tellaro, a nord del capo Pachino, ora capo Passero (111, 849]. Emilio Paolo: console nel 168 a. C. vinse Perseo a Pidna e Anchlse lo presenta ad Enea come quello che vendicherà • gli avi di Troia e i profanati santuari di Mlnerva • (VI, 10121015]. Emònlde: rutulo, sacerdote di Febo e di Trlvia, indossa sulle vesti sacerdotali armi scintillanti e si pavoneggia. Enea lo assalta, lo uccide e dedica le sue armi a Marte (X, 679-686]. Encelado: gigante, figlio di Titano e di Gea, tentò con l fratelli l'assalto aii'Oiimpo, ma fu da Giove colpito col fulmine e schiacciato sotto l'Etna, donde egli si agita urlando per uscirne fuori, e dà luogo così alle eruzioni del vulcano (111, 705-712]. f: fratello della Fama, che la madre Terra avrebbe dato alla luce per rabbia contro gli dèi (IV, 215-217]. Enea: figlio di Anchise e di Venera, principe dei Dardani che abitavano sul monte Ida, partecipò alla guerra di Troia dopoché Achille ebbe assalito le sue greggi. Secondo una profezia che Omero mette In bocca a Nettuno nel canto XX dell'• !iliade •, Enea sarebbe stato destinato a regnare su Troia. Una tradizione posteriore, accolta da Virgilio, racconta !nvece che Enea, abbandonata Troia in fiamme col vecchio padre Anchise, col figlio Ascanio, i Penati e con altri compagni, si mise in mare con una flotta di venti navi, e dopo lunghe peregrinazlonl, notevoli e awenturose difficoltà, sbarcò nel lazio. Qulvi il re latino lo accolse amichevolmente, promettendogli anche in moglie la figlia lavinia, che Enea sposò dopo aver vinto In un'aspra guerra un principe del luogo, Turno, suo rivale. Enea, fondata Lavinio, alcuni anni dopo, durante una battaglia presso Il fiume Numlco, scoppiato un temporale sparì fra lampi e tuoni e rivelò poi al figlio Ascanio d'essere stato assunto tra gli dòi neii'Oiimpo. Julo, dopo la morte del padre, fondò Alba longa e dalla sua progenie discesero i fondatori di Roma. Il poema virglliano ne è il racconto, e la presenza deli 'Eroe è costante in tutti i momenti della narrazione. Eneade: una città edificata da Enea nella Tracia, subito dopo la partenza dalla Troade (111, 23-25]. Enotria: nome dato dal Greci all'Italia Meridionale, In particolare alla lucania e alia Calabria (l'antico Brutium), dopo che Enotrio, figlio di llcaone, re di Arcadia, passò in Italia e ne occupò le coste meridionali. Il nome fu però usato ad indicare anche tutta la penisola (VII, 105]. Entallo: famoso pugilatore siculo. Durante l ludi funebri in onore di Anchise accetta, benché avanti negli anni, di combattere con Darete (V, 410-425); getta in mezzo al campo l pesanti cesti del suo maestro f:rice, famoso pugilatore (l cesti erano guantoni fatti di strisce di cuoio e di metallo con cui gli antichi pugilatorf si fasciavano le mani] che meravigliano gli astanti e lo stesso Darete, il quale rifiuta tale anesf di lotta (V, 425-432]; Darete
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e Entello combattono senza cesti; la lotta accanita termina con la vittoria di Ente Ilo (V. 452-493). Eolla: regione costiera dell'Asia Minore, fra gli attuali golfi di Adramltl e di Smirne. Eolie: isole a nord delli:t Sicilia, dette anche Lipari. Vi aveva la sede Eolo, dio dei venti (l, 63-68; VIli, 485, 529; X, 49). Eolo: dio dei venti: figlio, secondo Cmero (• Cdlssea •, X), di lppone. Abitava con la moglie e dodici figli nelle Isole Eolie. ~ nominato re dei venti ch'egli tiene rinchiusi in una caverna (1, 66-68); a Giunone, che gli chiede di suscitare una tempflsta, risponde con parole di ossequio (1, 94-98); e scatena i venti percuotendo col piede della lancia la caverna che li rinchiude (1, 99-102); è nominato come vento (soffi d'Eolo) (V, 838). Epeo: l'artefice greco che costruì con l'aiuto di Minerva e su consiglio di Ulisse, il famoso cavallo dell'inganno, con il quale i guerrieri più famosi dei Greci entrarono in Troia e l'incendiarono (Il, 331-332). Eplro: regione della penisola greca, che si affaccia sul Mare Ionio fra Prevesa e Valona e che s'inoltra nell'interno fino ai fiumi Arta e Voiussa. Enea la costeggia e tocca i porti di Azlo e di Butroto (111, 331-362). Epidlte: pedagogo di Ascanio. Enea lo chiama e gli dice di avvertire il figlio che è giunto Il momento di condurre le squadre dei giovani per lo svolgimento dei giochi in onore di Anchlse (V, 576-581). · Epito: compagno di Enea nella notte dell'incendio di Troia (Il, 423). Equi: popolo selvaggio della Sabina (la montuosa Nersa), che al comando di Utente combatte contro Enea (VII, 856-861). Erato: musa della poesia amorosa che Virgilio Invoca prima d'iniziare il canto della lotta tra Enea e Turno, il cui motivo è in apparenza l'amore di Lavinla (VII, 45-55). Ercole: figlio di Giove e di Alcmena, la sposa di Anfitrione, che, re di Micene, viveva esiliato a Tebe per aver commesso un omicidio. Fu l'eroe nazionale greco per eccellenza, come figura rappresentativa della for7.a umana invincibile; e con tale carattere passò anche alla mitologia romana. Giunone, gelosa, lo perseguitò costantemente. Era ancora nella culla, quando gli mandò due serpenti perché lo uccidessero, ed egli li strozzò (VIli, 336-337); al servizio di Eurlsteo compi le dodici famose fatiche, cui accennano i Salii cantandone le lodi al termine del rito annuale celebrato in suo onore dalla città di Pallanteo (VIli, 337-355); Evandro aveva già ricordato che l'eroe uccise Il mostro Gerlone (VIli, 232-234) e aveva già raccontato l'episodio di Caco (VIli, 234-304); cosi è stata decretata in suo onore la festa (VIli, 312-320). E inoltre nel poema virgiliano si ricordano l cesti usati da Ercole per il pugilato (V, 435-436); la sua discesa nell'Averno, ove Incatenò Cerbero, e dopo averlo portato a Eurlsteo, ve lo ricondusse (VI, 157); la cattura della cerva dai piedi di bronzo e l'ucci-
sione dell'Idra di Lerna (VI, 965-969). Neii'CIImpo, dove è stato assunto, intercede, benché Inutilmente, per Pallante (X, 591-595); Virgilio ricorda Aventino, figlio suo e della sacerdotessa Rea (VII, 752-761); e per altri motivi il suo nome è ricordato in VIli, 116, 212, 215, 247, 315, 323, 335, 352, 421 e X, 977. l:rebo: figlio del Caos, passò poi ad indicare l'Averno (IV, 617; VI, 520). Ereto: città dei Sabini, che si schiera a fianco di Turno agli ordini di Clauso. Sorgeva a circa 4 km. a NE di Monte Rotondo, in una località chiamata Grotta Marozza (VII, 815). l:rlce: 1) città della Sicilia occidentale, costruita sulla vetta del monte omonimo, non lontana da Trapani; Enea vi fa erigere un tempio in onore di Veriere ldalla (V, 803-805); le donne troiane sono incitate da Iride, per ordine di Giunone, a incendiare le navi (V, 665-671); e Venere ricorda il fatto a Giove (X, 47); Didone assicura ai Troiani l'ospitalità e la libertà di dirigersi • ai lidi d'Erice • quando vorranno (1, 667-668); Enea è paragonato, esultante di feroce allegria, grande come il monte ~rlce (Xli, 877-878); 2) il fondatore della città che fu chiamata con Il suo nome, ~rice, come Il monte sul quale l'aveva costruita e che oggi si chiama Monte S. Giuliano. ~rice, figlio di Venera, aveva regnato in questa parte della Sicilia prima di Aceste e sfidava al pugilato i suoi ospiti, ma un giorno Ercole lo vinse e lo uccise. ~rice è ricordato da Aceste che esorta Entello ad accettare la sfida del trolano Darete (V, 410-415). Erlfile: moglie di Anflarao, che per la vaghezza di possedere una collana d'oro, svelò a Polinice il nascondiglio del marito, il quale fu costretto a partecipare alla guerra contro Tebe, benché egli sapesse che vi avrebbe perduto la vita. Enea la incontra nei Campi del Pianto (VI, 657). Erlmanto: sistema montuoso del Peloponneso settentrionale. Ercole vi uccise un cinghiale ferocissimo. Virgilio paragona la caduta di Entello a quella di un pino suii'Erimanto (V, 473). Erlnnl: v. Furie. Erminio: etrusco che combatte a torso nudo, senza armatura; è ucciso da Catillo (Xl, 791-795). Ermlone: figlia di Menelao e di Elena, amata da Creste e sua promessa sposa, fu data poi a Pirro. Creste vendica l'affronto e uccide il rivale. Andromaca informa Enea del matrimonio di Ermlone con Plrro (o Neottolemo) e del suo matrimonio con Elena (111, 403-408). Ermo: fiume dell'Asia Minore che sfocia nel golfo di Smirne (VII, 829). l:rnlci: monti del Lazio (VII, 785). l:rulo: re di Prenesta..e figlio di Feronla. Aveva tre anime ed Evandro, che si vanta d'averlo ucciso quand'era giovane, dovette • tre volte stenderlo nella morte • (VIli, 656-662). Eslone: figlia di Laomedonte e sorella di Priamo, era stata da Ercole liberata da sicura morte con l'uccisione del mostro marino, cui
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Dizionario dei nomi e dei luoghi era stata esposta per essere divorata. Ma Laomedonte non mantenne la promessa di dare all'eroe In compenso i cavalli divini, ed Ercole, sdegnato, distrusse la città e portò con sé Esione. Giunto a Salamlna l'eroe dette Eslone In sposa a Telamone, re di Salamina, ove plil tardi Prlamo si recò a farle visita (VIli, 175-178). Esperia: il termine significa terra posta ad occidente ed è il nome usato dai Greci per Indicare l'Italia, posta ad occidente del loro paese (1, 618·622, 664-667; Il, 949-954; 111, 204207, 230-231; IV, 422; VI, 7). . Espèridl: mitlche figlie di Atlante, che abitavano un'Isola agli estremi confini occidentali della terra. Qui possedevano un giardino coi pomi d'oro, guardati da un drago fornito di cento occhi e immune dal sonno. Ercole nella undlceslma fatica uccise il drago e rapl i pomi d'oro (IV, 585·588). l:spero: la stella della sera (VIli, 327). Etiopi: il paese degli Etiopi, secondo gli An· tlchi nel remoto occidente (IV, 582). Etna: vulcano della Sicilia, che i Troiani stupefatti vedono da lontano alzarsi dall'acqua (111, 679-680) e di cui sentono l rumori e vedono le fiamme prodotte dalle eruzioni provocate dal gigante Encelado (v. Encelado), che Giove ha schiacciato sotto il monte (111, 698712); l'Etna è la regione dei Ciclopi (Xl, 328). Etone: nome del cavallo di Pallante, ricordato quando segue il corteo funebre del padrone (Xl, 107-110). l:toll: greci deii'Etolia (regione deii'EIIade, a nord del golfo di Patrasso). venuti in Italia .con Dlomede (Xl, 385-386). Etruria, Etruschi: regione degli Etruschi, che Virgilio dice Immigrati In Italia dalla Lidia e dalla Meonla, regioni dell'Asia Minore. Si estendeva nell'Italia centrale tra il Lazio, il Mar Tirreno e I'Umbria. Gli Etruschi, che Il poeta chiama anche Tirreni, si alleano con Enea per combattere Mesenzio, alleato di Turno (VIli, 575-577; X, 190-205). Ed inoltre all'Etruria e agli Etruschi si allude nei canti IX, 1 e 188; X, 93 e 264; Xli, 365 e 697. Ettore: figlio primogenito di -Priamo e di Ecuba, principale eroe troiano nella guerra di Troia. Enea nel poema virgiliano è il continuatore dell'eroismo di Ettore, che nasce dall'amore della patria, della famiglia e dalla • pletas • verso gli dèl. Cosl Ettore appare in sogno a Enea e gli consegna l'effigie di Vesta e quelle dei Penati di Troia (Il, 338-373); Andromaca a Butroto ricorda Il marito (111, 371378); nell'incontro con Enea Andromaca ha l'Impressione di vedere suo marito e sviene (111, 380-386); nel tempio di Giunone a Cartagine l Troiani vedono negli affreschi raffiguranti la guerra di Troia, rappresentato Achille che trascina Il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia (1, 562-567): il poeta ricorda che Mlseno era trombettiere di Ettore (VI, 211213); Enea esorta Ascanio ad essere virtuoso e valoroso, e gli addita come esempio lo zio Ettore (Xli, 556-559); Inoltre l, 119.
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Eufrate: fiume della Mesopotamia, raffigurato sullo scudo di Enea come simbolo del regno dei Parti (VIli, 843). Eumelo: porta ad Enea la notizia che le donne troiane hanno incendiato le navi (V, 700-703). Eumenldi: v. Furie. Eurlalo: troiano, figlio di Ofelte, uno dei valorosi combattenti nella difesa di Troia. Per parte di madre era imparentato con la famiglia di Prlamo. Eurlalo, che seguì con la madre Enea, partecipa alla corsa a piedi nei ludi funebri organizzati da Enea in onore del padre Anchlse (V, 321·322, 347-348, 358); vince la corsa (V, 361): si stupisce che Niso abbia l'intenzione di compiere un'impresa e non gli abbia proposto di essergli compagno (IX, 224260); Niso si giustifica, ma Eurlalo dichiara di volerlo seguire (IX, 261-278); Eurialo risponde ad Ascanio, che gli ha promesso doni e amicizia, chiedendogli di aver cura di sua madre alla quale non ha voluto comunicare la sua partenza per la rischiosa impresa (IX, 346360); attraversando il campo dei Rutuli fa strage di nemici e s'impadronisce di alcune prede (IX, 419-449); è scorto dai cavalieri di Volcente, ma stenta a fuggire, perché impacciato dalle prede (IX, 470-472); è raggiunto da Volcente e ucciso (IX, 515·517); i Rutuli con· figgono su due lance le teste di Eurialo e Niso e le espong~no davanti alle mura dell'accampamento (IX, .565-567). Euridice: v. Orfeo. Eurlpllo: greco, cui il bugiardo Sinone attribuisce di aver portato al Greci l'oracolo di Apollo, secondo il quale, per avere un felice ritorno In patria, essi dovevano sacrificare un giovane (Il, 144-150). Eurlsteo: re di Micene, fratello maggiore di Ercole, al quale, su istigazione di Giunone, Impone le dodici fatiche (VIli, 339·340). Eurlzione: partecipa alla gara dell'arco nei giochi funebri organizzati da Enea in onore del padre Anchlse (V, 521, 542, 572). Euro: o vento dell'aurora, cosiddetto perché spira dall'Oriente. Sconvolge con Noto e Africo Il mare (1, 103) e spinge tre navi sui ban· chi di sabbia delle Sirti (1, 133-134); è rim· proverato da Nettuno (l, 166-167); è ancora nominato con Zeflro e Noto (Il, 515). Europa: con questo nome Virgilio indica in senso molto vago e indeterminato il continente europeo (1, 446; VII, 263; X, 118), il quale è nominato sempre insieme con l'Asia. Eurota: fiume della Laconia, sulle cui rive è la città di Sparta, e Diana guida le danze (1, 579-580). Evadne: sposa del blasfemo Capaneo, ucciso sulle mura di Tebe dai fulmini di Giove, non volle soprawlvere al marito e si gettò con fierezza nel fuoco del rogo sul quale bruciava la salma del marito. Enea la incontra nei Campi del Pianto (VI, 558). Evandro: figlio di Ermes e. della ninfa Carmenta, venne dall'Arcadia nel Lazio e vi fondò, sul colle Palatino, una città ch'egli chiamò
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Pallanteo, dal suo proavo Pallante o, secondo Dionigi d'Aiicarnasso, un suo nipote. La madre, che aveva il dono della profezia, lo consigliò di venire in Italia, ove portò la civiltà, l'uso della scrittura, la musica e il culto di alcune divinità. Il dio liberino apparendo in sogno ad Enea gli consiglia di chiedere l'alleanza di Evandro (VIli, 60-67]; Evandro riconosce in Enea il figlio di Anchlse, con il quale s't> incontrato ed ha stretto amicizia a Feneo In Arcadia, quando era giovane (VIli, 172196]; spiega ad Enea i motivi della festa e dei sacrifici in onore di Ercole (VIli, 210-317]; invita l presenti a Inceronarsi il capo di fronde e a libare in onore del dio Ercole (VIli, 318-320]; dopo la cerimonia religiosa Evandro conduce Enea nella sua reggia e strada facendo gli parla dei luoghi e del popolo che li ha abitati nel tempi lontani (VIli, 393-417] e lo Invita a riposare nella sua casa (VIli, 418429]; il mattino dopo Evandro e Enea s'incontrano nuovamente e stringono alleanza. Il re arcade dà ad Enea preziosi consigli e gli comunica che con lui partirà il figlio Pallante con quattrocento cavalieri (VIli. 546-607]; Evandro saluta il figlio che parte e sviene (VIli, 649-681]; Evandro va incontro alla salma del figlio morto (Xl, 181-227]. Fabari: torrente del paese dei Sablni, affluente del Tevere. r: l'attuale Farfa (VII, 823). Fabl: della • gens Fabla • nota per l'eccidio di tutti l suoi componenti (trecentosei, tutti i componenti della famiglia abili alle armi); soprawlsse un bimbo, dal quale discese Quinto Fabio Massimo che durante la seconda guerra punlca tenne in scacco Annibale con una tattica particolare, e passò alla storia come Il • Temporeggiatore •. VIene indicato ad Enea da Anchise nei Campi Elisi, fra le anime destinate a ritornare in vita sulla terra (VI, 1021-1023]. Fabrizio: Il console romano che il re Plrro non riuscì a corrompere con ricchi regali e divenne famoso per la sua onestà e per la modestia della sua vita (VI, 1019]. Fama: mostro alato, fornito di occhi, di orecchie e di bocca In ognuna delle sue penne, ed è sempre In volo, giorno e notte. r: una creazione di Gea che ha voluto vendicarsi, con la Fama, di Giove, Il quale aveva punito duramente i suoi figli: l giganti Encelado, Tifeo, Ceo (IV, 210-235; 352-353]. Fame: figura che Enea incontra nel vestibolo dell'entrata nel regno dei morti (VI, 348]. Fauni: divinità dei boschi, di origine incerta. Sarebbero, secondo una versione, figli di Fauno, dio romano della fecondità, e di Fauna. Ma Fauna non serviva ancora ad Indicare il regno animale (VIli, 365]. Fauno: re del Lazio, figlio di Pico e di Circe (da non confondere con il dio Fauno], e padre di Latino, la cui madre è la ninfa Marica (VII, 58-61]. Divinizzato dopo la sua morte, per le sue qualità profetiche, era oggetto di culto particolare nella selva Albunea (VII, 99-
103], e a Laurento, dove l marinai, scampati alla morte, solevano appendere i loro doni ai rami di un olivastro li lui sacro (Xli, 960-964]; Turno lo supplica ad impedire che la lancia di Enea sia divelta dal ceppo dell'olivastro nel quale si era conficcata (Xli, 975-979]. Faaci: aerei castelli feaci: Virgilio identifica l'Isola del Feacl, in cui Ulisse fu accolto naufrago, nell'isola di Corfù, che Enea costeggia e sulle cui alture vede le sue città (111, 360). Febo: v. Apollo_ Fede: divinità romana che personificava la lealtà e la probità e presiedeva ai contratti e alle promesse In genere. Il suo culto sarebbe stato Introdotto da Numa Pompilio. Virgilio la ricorda come dominante la vita romana al tempo di Augusto (1, 339-340). Fadra: figlia di Minosse e di Pasife, sorella di Ariadne e di Deucalione, sposa di Teseo, re d'Atene, e matrigna di lppolito, s'innamorò del figliastro; da lui respinta. l'accusò ingiustamente al padre, il quale invocò contro Il figlio l'aiuto di Nettuno, e il dio del mare, mentre il giovane si recava in esilio, fece sbattere il cocchio sugli scogli e perire miseramente l'innocente (VII, 878-883); Enea vede la crudele matrigna nei Campi del Pianto (VI, 556). Fègeo: trolano, porta con Sàgari la pesante lorica che Enea dona a Mnesteo, secondo arrivato nella regata dei giochi funebri in onore di Anchise (V, 291); frena i cavalli in corsa di Turno, per farlo cadere dal carro, ma è trascinato via e il principe rutulo lo raggiunge con l'asta e l'uccide (Xli, 475-488). Feneo: città natale di Evandro, sulle pendicl occidentali del Cillene (VIli, 184]. Fenicia: regione abitata dal Fenici, comprendente tutta la zona costiera della Siria attuale, dalle foci del Nahr el-Asi al porto di Haifa. Le città principali erano Sidone e Tiro (IV, 635]. Feronia: divinità ltallca, madre di Erulo, cui aveva dato nel nascere tre anime (VIli, 658]; ad Anxur aveva un bosco a lei sacro (VII, 918-919]. Fescennini: abitanti di Fescennium, città sulla destra del Tevere alle falde del monte Cimino, nella regione del lago di Vico (antico Clmlnlo], in provincia di Viterbo (VII, 797]. Gli archeologi Identificarono Fescennium e le altre località nominate nel passo virglliano con le attuali cittadine di Gallese e Corchiano. Fetonte: figlio di Elio (Il Sole] e di Climene, ottenne dal padre di guidare il carro del giorno, ma, inesperto, i cavalli gli presero la mano e, awiclnatosl troppo alla Terra, l'avrebbe bruciata se Giove con un fulmine non l'avesse precipitato neii'Eridano (il Po], sulle cui sponde le sue sorelle piangenti (Eiiadl) furono trasformate In pioppi. Con le Eliadl, la morte di Fetonte è stata pianta anche da Cigno, padre di Cupavone (X, 244-250]. Fidane: città sulla sinistra del Tevere, a nord della confluenza deii'Anlene (VI, 932].
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Dizionario dei nomi e dei luoghi Fllottete: figlio di Peante ed arciere famoso, ereditò. dall'amico Ercole l'arco e le frecce infallibili, perché lntlntl nel sangue dell'Idra di Lerna. In viaggio per Troia fu morso ad un piede da un aspide e la plaga, che si formò, cominciò ad emanare un odore cosl Insopportabile che Agamennone lo costrinse a sbarcilre nell'lsoletta di Lenno, ove visse per parecchi anni solo, con l tormenti del suo piede piagato. l Greci, che non riuscivano a piegare la resistenza del Troiani, seppero un giorno dall'oracolo che la città poteva essere espugnata solo con le frecce d'Ercole, possedute da Filottete. Ullsse e Neottolemo allora si recarono a Lenno e indussero l'ammalato a seguirli a Troia, dove Macaone lo guarl. Filottete con le sue frecce uccise poi Paride. La leggenda costltul l'argomento di tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide; è giunta però fino a noi soltanto quella di Sofocle, Intitolata appunto • Fllottete •. Virgilio lo ricorda come re di Melibea, in Tessaglia (111, 488-490). Flneo: figlio di Agenore e di Cassiopea, re di Salmidesso nella Tracla, per aver accecato i figli della prima moglie fu da Giove punito con Il tormento delle Arpie. Fu poi liberato da Càlal e Zete (111, 262-264). Flamini: da • flare •. soffiare, Il nome significa coloro che accendono, rawlvano Il fuoco per l sacrifici. Erano perciò sacerdoti addetti alla celebrazione di determinati sacrifici e atti di culto, compiuti con rituale identico per tutti gli dèi, almeno per l principali. Flavlnla: città del Lazio, nella zona del Clmino, che si schiera In favore di Turno al comando di Messapo (VII, 799). Flegetonte: il nome suona • ardente •, ed è fiume dell'Averno (VI, 333), che circonda la città di Dite con le sue acque vorticose • di fuoco che trascinano massi risonanti • (VI, 680-682). Flegiaa: figlio di Marte e di Crlse, padre di lssione e di Coronide. Regnò In Orcomeno, nella Beozia, sul Lapltl. Apollo gli oltraggiò la figlia, da cui nacque Esculapio, ed egli, Irato, dette fuoco al tempio di dio in Delfo, onde gli dèl lo condannarono nel Tartaro alla pena d'avere sospeso sul capo un enorme macigno, che sempre minaccia di schiacciarlo (VI, 762765). Folo: centauro dei più celebrati, ospitò Ercole quando questi cacciava Il famoso cinghiale sulle pendlcl deii'Erimanto; durante Il convito scoppiò una rissa tra Ercole e l commensali, che erano Centauri. Ercole ne fece strage, e tra gli uccisi fu anche Folo che aveva tentato di separare l contendenti (VIli, 342). Foloe: schiava cretese che Enea dà a Sergesto per aver salvato, nella regata dei giochi funebri In onore di Anchise, la nave e i compagni {V, 310-313). Forbente: il Sonno, figlio dell'Erebo e della Notte, padre del Sogni, prende le semblanze di Forbante, compagno di Palinuro, per addormentare Il nocchlero e farlo cadere a capofitto nel mare (V, 8116-907).
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Forco: 1) figlio di Nettuno e di Gea, padre delle Gòrgonl, diventò dopo la morte un dio marino al seguito del padre (V. 261 e 871); 2) padre di sette fratelli rutuli, che tentano di sbarrare la strada ad Enea scagliandogli contro sette dardi; ed Enea, rimasto illeso, reagisce e ne uccide due; un terzo è ucciso da Acate {X, 419-444). Forull: città sabina, nel territorio dell'attuale comune di Scoppito (L'Aquila), schierata contro l Trolani agli ordini di Clauso (VII, 821). Frigia: Virgilio usa questo nome, non per in·· dlcare una regione geografica dell'Asia Minore, ma per designare la patria del Troiani (1, 542, ove l trolani sono detti Frigi); la terra che Cibele attraversa lieta della sua prole divina (VI, 945-947); e quando Llgeri dice ad Enea che non combatte ora sulla sua terra, ma in una terra ove troverà la fine della guerra e della sua vita (X, 734-737); e ancora Frigi per Trolani (Xi, 178) e armi frigie per armi trolane. Ftla: città della Tessaglia, patria di Achille; gli archeologi l'avrebbero Identificata con la città di Farsalo. Giove la nomina a Venere per Indicare la grandezza dell'Impero sul quale un giorno dominerà • la casata d'Assaraco • (1, 330-332). Fucino: lago allora grande, sulle cui sponde vivevano i Marsi, schierati contro Enea, e si estendeva il bosco sacro di Angizia (VII, 873). Furie: nome romano delle Erlnnl grecha: • le colleriche •, divinità del mondo sotterraneo, personificazionl della maledizione e della vendetta, soprattutto contro i delitti di sangue. Secondo Esiodo sono figlie di Gea, nate dal sangue di Urano mutilato dal figlio Crono e devono quindi esse stesse la propria origine ad un delitto. Dal quinto secolo in poi le Furie furono identificate in Aletto, Tisifone, Megera e l'arte le rappresentò con visi torvi e capelli fatti di serpl. Le Furie vivono nel vestibolo e quindi nell'entrata dell'Erebo (VI, 354); Giunone adirata che Enea sia sbarcato nel Lazio, chiama Aletto e le ordina di far sl che Enea non sposi Lavinla e l Troianl non si fermino In Italia (VII, 370-388); le Furie sono dette anche Eumenidl (IV, 567) e Vendicatrici (VII, 571); Didone, perduta ogni speranza che Enea rinunci a partire, è Invasa dalle Furie (IV, 573) e le Invoca contro Enea (IV, 736); anche Catilina - effigiato sullo ttcudo di Enea - è atterrito dalle Furie (VIli, 778); e le Furie sono anche effigiate sullo scudo di Enea nel mezzo della battaglia d'Azlo accanto a Marte (VIli, 814-815); una delle Furie, sotto forma di gufo o di civetta, è Inviata da Giove a svolazzare intorno a Turno ed a togliergli ogni forza (Xli, 1059, 1069, 1077-1085). Gabll: città del Lazio, tra Roma e Prenestina. SI alleò a Turno contro i Troianl agli ordini di Cerulo. Giunone vi aveva un tempio con la denominazione di. Giunone Gabina (VII, 784); Gabi sarà una delle città che fonderanno l discendenti di Enea (VI, 933); Il console
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spalancava le porte di Giano indossando la toga • alla moda gabina • (VII, 695-699). Galatea: nome di una Nereide (IX, 129). Galeso: l'uomo più saggio e più ricco, dice Virgilio, di tutta Italia: cade nel tentativo di sedare la rissa provocata da Aletto con l'uccisione del cervo di Silvia (VII, 608-612). Galli: Virgilio ricorda tre momenti della lotta secolare tra Galli e Romani: la loro vittoria nella battaglia di Allia, del 390 a. C., in cui distrussero l'esercito romano (VII, 825); il loro assalto alla rocca capitolina frustrato dalle oche del tempio di Giove (VIli, 762771); e infine la vittoria di Camillo, che al grido • non con l'oro, ma col ferro si riscatta la patria •, li cacciò da Roma (VI, 996-997). Gange: fiume dell'India (IX, 38). Ganimede: bellissimo giovinetto figlio di Troo, re di Troia. Per la sua bellezza Giove lo fece rapire dalla sua aquila e gli affidò il compito di coppiere degli dèi in sostituzione di Ebe. Da allora Giunone, per il torto fatto a sua figlia, cominciò ad odiare l Troiani (1, 3438; V, 176-282). Garamantl: popolo nomade del deserto libico, al confine estremo meridionale del dominio di Roma al tempo di Augusto. l Garamanti sono detti figli di Giove Ammone, che amò la ninfa Garamantide, madre di larba (IV, 236-237; VI, 957). Gea: divinità primigenia, la Terra nel suo nome greco, sposa di Urano, il Cielo. e madre dei giganti Ceo ed Encelado e della Fama (IV, 215-217); Gea è anche sorella della Notte (VI, 314-318). Gelo: città fondata dai Dori e dai Cretesi sulla costa meridionale della Sicilia il 690 a. C. Vi mori e vi fu seoolto Eschilo (111, 853). Geloni: popolo ·barbarico della Scizia raffigurato con altri popoli sullo scudo di Enea (VIli, 842). Gerlone: gigante mostruoso, figlio di Crisaore e di Calliroe, che la leggenda dice che dal ventre In su avessP. tre corpi. Viveva nella penisola iberica e pm;sedeva mandrie di bellissimi buoi, che il mostro nutriva con carne umana. Ercole, per Imposizione di Euristeo, lo uccise e si Impadronì dei suoi buoi. Virgilio ricorda Il mito accennando ad Aventino, figlio di Ercole e della sacerdotessa Rea (VII. '!55761); e al racconto di Evandro, che spiega ad Enea il motivo della festa in onore di Ercole (VIii, 232-236); Enea l'aveva visto all'entrata del regno di Dite (VI, 364). Geti: popolo della Tracia (VII, 685). Getulia: regione del deserto africano abitata da Getuli e Garamanti e confinante col regno di larba (IV, 52); la Getulia è ricordata anche come • getule Sirtl • (V, 56). Gia: trolano, comandante della nave Chimera, è disperso dalla tempesta e Enea, in cuor suo, piange la sua sorte (1, 260-262): ma a Cartagine si riunisce con i suoi compagni (l, 718); partecipa alla regata organizzata in occasione dei giochi funebri in onore di Anchise (V, 166, 181, 183, 187, 199, 243); ritorna con
Enea guarito In battaglia e uccide Utente (Xli, 582: il traduttore ha completato il nome in Gianti). Gianicolo: colle romano sulla riva destra del Tevere che prende il nome da Giano (v. Giano) ed è indicato da Evandro ad Enea (VIli, 417). Giano: divinità prettamente italica; mito solare rawisabile facilmente nella sua raffigurazione più antica delle due facce contrapposte, una con la barba e una senza (più tardi le due facce furono egualmente barbute), le quali indicherebbero l 'alternarsi del giorno e della notte, il corso dell'anno che inizia e finisce, e quindi l'inizio e la fine di tutte le azioni e di tutti fenomeni in questo loro duplice aspetto. Si diceva che avesse regnato nel Lazio con Saturno e fosse fondatore della rocca sul colle di Roma ch'egli aveva scelto come sua sede, e che da lui prese il nome di Gianicolo. Era considerato uno degli antenati di Latino e la sua Immagine era conservata nel vestibolo della reggia di Laurento (VII, 210216); le due porte del suo tempio. dette porte della guerra, erano consacrate a Marte e Giano le custodiva senza mal allontanarsi dalle loro soglie (VII, 689-694). Glaro: isoletta del Mare Egeo (111, 93). Gillppo: arcade, padre di nove tigli, tutti in guerra al fianco dei Troiani; uno dei figli fu ucciso da Tolunnio (Xli, 348-361). Giove: prima divinità dei Romani (identificato con il greco Zeus), dio sommo del cielo e della terra, figlio di Saturno e di Rea. Il culto di Giove, di antica origine italica, personificò dapprima la luce e i fenomeni del cielo, in seguito anche la forza della natura che si manifesta nella vegetazione e nell'agricoltura. Più tardi prese vari altri aspetti ed ebbe in corrispondenza appellativi diversi, come Lucezio (il dio del giorno), Folgorante (il dio del lampo), Pluvio (il dio della pioggia) e tanti altri. Nell'• Eneide • Virgilio lo ricorda re dei Celesti (Il, 28) e, per bocca di Giuturna, propotente (Xli, 1097-1098); dio della grandine e della pioggia (IX, 811-814); a Giove è sacra l'aquila (1, 458; IX, 682). Giove più che causa determinante degli eventi umani, è attento esecutore del Fato, cui egli stesso deve obbedire. Cosl, mentre Incita i Greci a distruggere Troia (Il, 498-409 e 753-754) assicura che ad Enea e al suoi discendenti è riservata una grande missione (1, 300-346); e Impone agli dèi, raduQ._ati a concilio, di lasciare che gli awenimenti si svolgano secondo il volere del Fato (X, 1-148); invia Mercurio ad Enea perché abbandoni Didone e compia la volontà del destino raggiungendo l'italia (IV, 267-283); spegne, accogliendo ia preghiera di Enea, l'incendio appiccato alle navi dalle donne troiane (V, 726-739); lascia a Giunone una certa libertà di salvare Turno (X, 764-975); manda egli stesso Mesenzio ad assalire i Troiani imbaldanziti per l'assenza di Turno (X, 862-864); e quando il Fato non può essere più eluso impone anche a Giuno-
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Dizionario dei nomi e dei luoghi ne di non Intervenire (Xli, 908-911. 1008-1053) e Turno sente che ormai il Nume gli è avverso (Xli, 1118-1119]. Con questo atteggia· mento d'imparzialità e di adesione alla vo· lontà del Fato, Giove è presente nel poema anche In altre innumerevoli circostanze. Giunone: grande divinità romana, immaginata figlia di Saturno e di Rea, è moglie di Giove e regina del Cielo. Quando i Romani vennero a contatto con la civiltà greca, Giunone fu presto Identificata con Era greca, come Giove con Zeus. l'origine del nome non è chiara, ma si presume che derivi da • iuvenis • (giovane, fiorente). le erano sacri l'Intero mese di giugno e le calende di ogni mese, e le erano attribuiti gli appellativi di luclna, come personiflcazione della luce celeste e protettrice delle nascite, di Pronuba, come protettrice della casa, ordinata nell'istitu· zione del matrimonio (IV, 74-75); e di Moneta, come dea del buon consiglio (da • moneo • ammonire); appellativo quest'ultimo che, essendo il tempio di Giunone a Roma vicino alla Zecca, passò a significare • denaro • in tutte le lingue di quei popoli che appresero dai Ro· mani il conio. Nell'• Eneide • è ricordata av· versaria dei Troiani e protettrice dei Cartagi· nesl (1, 20-43); perciò chiede a Eolo di disperdere con i venti la flotta di Enea (1, 63-93]; aveva già collaborato alla distruzione di Troia (Il, 746-749); pensa di trattenere Enea a Cartagine e d'impedirgli in tal modo di ·andare in Italia (IV, 117-158]; per prima, insieme con la Terra, dà il segnale che Didone ed Enea, per ripararsi dalla pioggia, si sono rifugiati in una grotta (IV, 202-203]; quando Enea obbedisce all'ordine di Giove e parte per l'Italia, assiste l'infelice Didone lnviandole lri (IV, 836-850]; ma il suo odio contro i Troiani continua e tenta ancora d'impedire il loro sbarco in Italia, dapprima incitando per mezzo di lri le donne trolane a Incendiare, a Erice, le navi (V, 635-677); poi, quando s'awede che i Troian! sono sbarcati nel lazio, manda Aletto a provocare la guerra dei popoli latini contro Enea (VII, 332-369]; e lei stessa apre le porte del tempio di Giano (VII, 707-709); da questo momento protegge Turno, che costituisce la sua ultima speranza; perciò gli invia lri ad incitarlo ad attaccare i Troiani mentre Enea è assente (IX, 1-16]; lo salva dall'asta di Pandaro deviandola (IX, 892-894); alle accuse di Venere risponde giustificandosi con una versione abilmente alterata del fatti e a sua voi: ta accusando Venere adducendo motivi Inesatti (X, 81-224]; poi ottiene da Giove che la morte di Turno, pur voluta dal Fato, sia pro· crastinata (X, 76+795); quando giunge l'ora voluta dal Fato, ricorre ad un tentativo estremo: dà a Gluturna il compito di tenere Turno lontano da Enea, per impedire che i due eroi combattano tra loro (Xli, 173-203]; ma anche l'Intervento di Giuturna non è sufficiente; Giu· none, che parla con Giove assisa su una nuvola, deve abbandonare la lotta (Xli, 993-1027]; e chiede in compenso che dei Troiani, anche
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se vincitori, nulla rimanga nel lazio (Xli, 1027· 1037); abbandona la nuvola e da quel momen· to diventa la protettrice dei Romani (1. 326329). Inoltre è cenno della regina degli dèi come ostile ai Trolanl In l, 6, 13·16, 32·43, 511-521; 111, 462 e 533·536; VI, 114·115. Inoltre: l, 155, 784, 794; 111, 533-537; IV, 60, 74, 135, 144, 202, 442, 733-738; 227-228. Giuturna: sorella di Turno, ninfa del fiumi, dei laghi e delle fonti (Xli, 179]; nell'• Enei· de • interviene awisando il fratello di correre in aiuto a lauso (X, 559-560); sollecitata da Giunone, tenta di allontanare dal fratello il Fato, che lo vuole ucciso dalle armi di Enea (Xli, 173-203]; assume la sembianza di Camerte ed eccita i Rutuli a rompere il patto che la guerra si dovesse risolvere con il ciuello tra Turno ed Enea (Xli, 287-335); con le sembianza di Metisco, auriga di Turno, conduce il fratello al margini del campo di bat· taglia (Xli, 569-606]; mentre Turno, che sente In laurento un rumore insolito, vorrebbe ritornare nella città, Giuturna insiste per trattenerlo (Xli, 786·792]; porta al fratello la spada (Xli, 984-986); Giunone confessa a Giove che l'intervento di Giuturna è opera sua (Xli, 1020-1025]; Giove allontana Giuturna dal campo (Xli, 1056-1057, 1069); sconfortata, Giuturna piange sul tragico destino del fratello e abbandona il campo di battaglia (Xli, 1086· 1109]. Glauco: 1) divinità marina. Già semplice pescatore, un giorno vide che i pesci da lui tratti sulla riva, al contatto casuale con un'erba della spiaggia, riprendevano vita e vigore. Allora volle gustare di quell'erba e si trovò trasformato in dio marino del corteo di Net· tuno (V, 869-871]; è padre di Deitobe (VI, 42) che non è Deifobe, figlio di Priamo e ucciso da Achille, che Enea incontrò nell'Averno (VI, 613]; 2) Troiano incontrato da Enea nel· l'Averno (VI, 599]. Gorgoni: sono le tre figlie di Forco (Steno, Euriale e Medusa], femmine di aspetto spaventevole, alate, angulcrinite, con lo sguardo che mutava In pietra chi le guardava. la più· terribile, Medusa, fu uccisa da Perseo; Enea le incontra nel vestibolo dell'Averno (lfl, 364). Gracchi: Tiberlo e Caio Gracco, figli di Cornelia e di Tiberio Sempronio Gracco che nel 214 vinse Annibale a Benevento e fu poi ucciso dai Cartaginesi In un agguato. Avver· sari del partito aristocratico, passarono alfa storia come campioni di giustizia sociale e promotori di leggi che miravano ad eliminare l'oppressione della plebe. Enea li incontra nei Campi Elisi (VI, 1018). Gran Madre Idea: figura misteriosa di divinità che Il mito presenta ora con il nome di Rea, la madre degli dèl e degli uomini, ora con quello di Cibele, divinità frigia. Era dai filosofi considerata come il principio della vita. Nell'• Eneide • è variamente nominata Gran Madre, Madre, Clbele, Berecinzia (111, 136; VI, 944-945; IX, 137; X, 287). Gravlsca: città etrusca sul mare, porto di
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x.
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Tarquinia, partecipa alla guerra contro i Latini (X, 239). Guerra: figura mostruosa che Enea vede all'ingresso dell'Averno (VI, 353). ladi: costellazione apportatrice di tempo piovoso (1, 885; 111. 635). lapige: medico troiano, figlio di faso, era cosi caro ad Apollo che il dio gli insegnò l'arte medica. Enea ferito ricorre alle sue cure (Xli, 499-517); con l'aiuto di Venera laplge riesce ad estrarre la freccia dalla ferita ed a guarire prodigiosamente Enea che può così ritornare sul campo di battaglia (Xli, 536-547). larba: figlio di Giove Ammone e della ·ninfa Garamantide (IV, 233-237); aveva chiesto In sposa Didone, ma ne ottenne un rifiuto (IV, 48); Didone, per trattenere Enea, dice che larba potrebbe assalire la città, farla prigioniera e portarla schiava In Getulia UV. 386388). lasio: fratello di Dardano (111, 209). Icaro: v. Dedalo. Ida: 1) monte dell'isola di Creta, dove nacque Giove (111, 127-128); 2) monte della Troade, intimamente legato alla storia di Troia e ripetutamente ricordato nell'• Eneide •. Dalle selve del monte Ida Enea trasse il legname per costruire la sua flotta (1, 806; Il. 847, 972; Ili, 8-13; V, 178, 473; IX, 100-101; X, 298-300; Xl, 355). Ideo: auriga di Prlamo che Enea incontra negli Inferi tra gli uomini Illustri in guerra: Ideo fu il solo che accompagnò il vecchio re nella tenda di Achille (VI, 595). ldomeneo: figlio di Deucalione, nipote di Minosse, principe dei Cretesi, fu uno dei pretendenti di Elena e partecipò alla guerra di Troia. Al termine della guerra, mentre ritornava In patria, fu sorpreso da una tempesta e, per sfuggire al naufragio, promise a Poseidone di sacrificargli, se lo scampasse, ciò che per primo Incontrasse toccando terra. Per primo incontrò suo figlio e mantenne ugualmente la promessa. Gli dèi esterrefatti, lo punirono facendo scoppiare nell'isola una pestilenza; i Cretesi allora insorsero e ldomeneo fu costretto a fuggire; si rifugiò a Colofone, dove morì. Enea sente accennare alla fuga di ldomeneo dall'isola, quando vi sbarcò con l profughi troiani (111, 149-153); e gliene fa cenno anche Eleno (Ili. 487); ed ancora ne fa cenno Dlomede agli ambasciatori latini (Xl, 330). Ifigenia: figlia di Agamennone e di Clitennestra, fu dal padre sacrificata a Diana in Aulide per placare l'ira della dea che impediva alle navi greche, pronte a salpare per Troia, di uscire dal porto. Il suo sacrificio è ricordato da Slnone (Il, 146-148). lflto: trolano. compagno di Enea nella notte dell'Incendio di Troia (Il, 537). llla: è la Rea Silvia della tradizione più comunemente seguita, madre di Romolo e Remo. Qui Virgilio la dice Vestale della stirpe d'Assaraco, e la ricorda come madre di Romolo (VI, 936-937). Nel Canto primo, quando
Giove predice a Venere l'awenire glorioso di Enea e della sua stirpe, è chiamata Rea Silvia (1, 317-319). · Ilio: nome usato spesso per indicare Troia (1, 313); Eleno ha chiamato ilio la nuova città da lui costruita in Grecia, nella terra che da Caon chiamò Caonla (111, 413); Enea, in accordo con Aceste, costruisce in Sicilia una nuova città e ad una parte di essa dà il nome di Ilio (V, 800). lllone: figlia primogenita di Priamo, sposa di Polinestore, re della Tracia. Enea regala a Didone l gioielli di lllone: lo scettro, una collana di perle, la corona doppia d'oro e pietre preziose (1, 763-766). Jlloneo: uno dei compagni di Enea: nella tempesta sollevata da Eolo la nave, ch'egli comanda, Imbarca acqua (1, 144-145); gettato con i compagni sulle coste africane, presenta a Didone sé e l suoi amici (1, 606-607); poco dopo si ritrova con Enea (1, 716-718); guida gli ambasciatori a Latino (VII, 250-290); consiglia, con lulo, Ideo e Attore di prendere In braccio e portare nella tenda la madre di Eurlalo (IX, 607-609); combatte valorosamente e uccide con una grossa pietra Lucezio (IX, 690692). Ilo: figlio di Troo e di Calliroe, nipote di Erittonlo e pronipote di Dardano, fratello di Assaraco e di Ganimede, fondatore di Troia o Ilio, è Incontrato da Enea nei Campi Elisi Insieme con altri principi discendenti da Dardana (VI, 795). lmaone: rutulo che involontariamente è la causa della morte di Aleso, il quale, per proteggere con lo scudo l'amico, scopre se stesso e Pallante lo colpisce con un giavellotto (X, 539-541). lmbraso: padre di Glauco e Lado, detti lmbrasldl, allevati In Licia e armati per combattere a piedi o correre a cavallo, uccisi da Turno (Xli, 440-443). lmella: torrente della Sabina, l'attuale lmelle, affluente di sinistra del Tevere (VII, 821). Imeneo: il significato originario esatto non è chiaro: poteva essere un canto nuziale o le nozze stesse, ed anche il dio delle nozze (Imene, figlio di Venera e di Bacco, che si rappresenta giovane, con In mano una face e indosso un velo, il·flammeo•J (IV, 158 e 373). Inaco: fondatore di Argo e antenato, dice la regina Amata a Latino, di Turno (VII, 422-424); è raffigurato sullo scudo di Turno come padre di lo e come fiume (VII, 907-910). Indi o Indiani: abitanti dell'India. indicati come popolo dell'estremo oriente fino al quale giungeranno i confini dell'impero romano (VI, 956-957; VIli. 819). India: la terra orientale più lontana nota al Romani (VII, 686). lnuo: divinità silvestre affine a Fauno e al greco Pan. Dava il nome ad una località poco a sud della foce del Numico, detta Castrum lnul, sul mar Tirreno (VI, 934). • lo: v. 2), Argo. lopa: poeta cartaginese, allievo del grande
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Dizionario dei nomi e dei luoghi Atlante, canta Il moto degli astri e i miti dell'origine del mondo (1, 880-888). lpanl: trolano, compagno di Enea nella notte tragica dell'incendio di Troia (Il, 425); dopo aver indossato le armi dei Greci per ingannarli, rimane ucciso dal Troianl (Il, 528). lppoconte: troiano che partecipa alla gara di tiro con l'arco nel giochi funebri in onore di Anchlse (V, 517, 531). lppollta: regina delle Amazzoni, vinta da Ercole e da questi data In sposa a Teseo. A lei VIrgilio paragona Camilla (Xl, 817). lppollto: figlio di Teseo e di lppolita, si dedicò alla caccia fin dalla prima adolescenza e ottenne la protezione di Diana. Quando, morta lppolita, il padre sposò in seconde nozze Fedra, la matrigna accusò presso il marito il figliastro, del quale si era Innamorata ed egli l'aveva Invece respinta, di averle mancato di rispetto. Il padre credette e pregò Nettuno di punire Il figlio. Nettuno, mentre lppolito andava in esilio, fece uscire dal mare un mostro che spaventò l cavalli, l quali fecero sbattere Il cocchio sugli scogli e morire miseramente il giovane innocente. Diana, impietosita, pregò allora Esculaplo di rlchiamarlo In vita con la sua arte medica. lppolito risuscitò, ma quando Giove conobbe l'accaduto, fulminò Esculapio, e altrettanto avrebbe fatto con lppolito, se Diana non lo avesse nascosto presso la ninfa Egerla con Il falso nome di Vlrblo. Qui sposò la ninfa Aricia, dalla quale ebbe un figlio che chiamò con lo stesso suo nome, Virbio, il quale si alleò con Turno contro l Troianl (VII. 874-899). lrcanl e lrcanla: popolo e regione che la tradizione presentava selvaggia, Inospitale e abitata da numerosi animali feroci. Si estendeva a sud del Mar Caspio, come l'attuale Iran e parte della Persia antica, quella occupata dal Parti (IV, 436; VII, 685). lrl o lrls o Iride: figlia di Taumanté e dell'oceanlna Elettra, personlficazione dell'arcobaleno, messaggera degli dèi, specialmente di Giove e di Giunone. Giunone la invia presso Didone morente (IV, 836-851); e presso le donne Trolane ad lstigarle, con le sembianza .di Beroe, ad Incendiare le navi (V, 637-699); ed ancora a Turno ad esortarlo ad assalire, durante l'assenza di Enea, l'accampamento trolano (IX, 1-27); l'uno e l'altro Incarico sono ricordati da Venera al congresso degli dèi (X, 49-50); Giunone risponde deformando l'accusa di Venere (X, 95-96); anche Giove si serve di Iride (IX, 957-961). lrtaco: troiano, abile cacciatore, devoto di Diana e padre di lppoconte (V, 517-518) e di Ntso (IX, 221-222, 497-501). lsbone: rutulo ucciso da Pallante (X, 490495). Ischia: Isola di fronte a capo Mlseno. Giove la scaraventò addosso al gigante Tifeo (IX, 864-865). lsrnara: città della Tracta, al piedi del monte lsmaro, sulla costa dell'Egeo, patria di Ida, del quale Enea uccide tre figli (X, 445-447).
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lsmaro: nobile figlio di gente Meonia, quindi trolano (X, 180-184). !salone: re dei Lapiti, abitanti della Tessaglia e padre dei Centauri e di Peritoo. Accolto neii'Oiimpo da Giove, offese Giunone e il re degli dèl lo precipitò nel Tartaro (VI, 741-742). ltsca: Isola dello tonto, la patria di Ulisse e di Achemenlde. Enea la costeggia • maledicendo la terra materna del feroce Ulisse • (111, 337-338). Italia: fino al V secolo a. C. indicava soltanto la Calabria; poi fu variamente usata per designare la penisola o una parte di essa; ma Incerta è l'etimologia del nome. Anche Virgilio usa In vario modo il termine Italia: ora Italia è soltanto il lazio, altra volta è tutta la penisola o la parte al sud dell'Etruria; più frequentemente il poeta si serve dei nomi più antichi diventati d'uso poetico: Esperia, Enotrla, Ausonia (1, 3, 86, 295, 307, 441, 621, 644, 645; 111, 207, 231, 315, 463, 537, 563, 589, 622, 643, 818; IV, 136, 207, 273, 282, 409, 415, 430, 455; V, 19, 90, 743, 770; VI, 75, 915; IX, 391; Xl, 523; Xli, 46,54). ltalo: mitlco re degli Enotrl, che avrebbe dato il nome all'Italia. Gli ambasciatori troian! ne vedono il simulacro nel vestibolo della reggia di latino a Laurento (VII, 212). Lablcanl: abitanti di labico, città dei latini al piedi del monti Albani, cui faceva capo la via lablcana, l'attuale via Casilina. Sono alleati di Turno (VII, 914). Laclnla: nome dato a Giunone per il tempio famoso nel quale era venerata presso Crotone, del quale '!ono ancor oggi visibili le rovine (111, 677). Laocoonte: sacerdote troiano di Apollo, che terita Invano di· dissuadere i Troiani dal trainare In città il cavallo di legno (Il, 54-65); Pallade fa uscire dal mare due enormi serpenti che stritolano e divorano i due figli di Laocoonte, poi lo stesso laocoonte (Il. 250283); l'awenlmento tragico convince i Troiani che il cavallo sia sacro a Mlnerva e che laocoonte abbia pagato il delitto compiuto percuotendogli Il dorso con la lancia per dimostrare ch'era pieno di armati (Il, 284-290). Laodamìa: figlia di Acasto, re di lolco, e sposa di Protesllao, quando seppe che il marito era stato ucciso da Ettore nella guerra di Troia, pregò tanto gli dèi che essi le concessero che il marito risuscitasse per qualche ora. Poi quando Il marito mori definitivamente volle seguirlo nella tomba. Enea la Incontra nel Campi del Pianto (VI. 559). Laomedonta: re di Troia, figlio di Ilo e di Euridice, padre di Priamo e di Estone, non corrispose a Netttuno la mercede pattuita per la costruzione delle mura della città, e Nettuno si vendicò con l'invio di un mostro marino al quale Il re avrebbe dovuto sacrificare la figlia Estone. Ma la ragazza fu salvata dall'Intervento di Ercole, al quale laomedonte aveva promesso In dono l cavalli avuti da Giove. Ma neppure con Ercole mantenne la promessa: e
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. l'eroe gli mosse guerra, lo fece prigioniero, lo uccise, distrusse le mura della città e portò con sé Esione, che poi dette in moglie al suo amico Telamone. Celeno, la regina delle Arpie, apostrofa i Troiani con disprezzo, chiamandoli figli di Laomedonte (111, 307-310); in conseguenza del contegno di. Laomedonte i Troiani passarono alla storia come fedifraghi, e Didone accusa della stessa colpa Enea dicendolo della stirpe di Laomedonte (IV, 650651). Lapltl: popolo leggendario della Tessaglia, che però una versione più recente considera storico e scomparso in età remota. Dai Lapiti avrebbero tratto origine le famiglie nobili della Tessaglia e quindi figuravano In possesso di nobili qualità. Nella mitologia i Lapiti sono noti per la lotta contro i Centauri, avvenuta in occasione delle nozze del lapita Plritoo con lppodamla, poiché durante il banchetto i Centauri, ubriachi, avrebbero tentato di rapire le donne lapite, e i mariti Insorsero e li cacciarono dalla Tessaglia. Ma l Lapitl che, secondo la concezione più antica, erano abitatori delle montagne, come dice lo stesso loro nome, e nella leggenda personificazione della tempesta, più tardi, con il declino del potere aristocratico, furono considerati violenti e sacrileghl: lssione avrebbe osato oltraggiare Giunone, e Piritoo, suo figlio, avrebbe tentato con Teseo di rapire Proserpina nell'Inferno; perciò essi sono condannati nel Tartaro, dove li incontra Enea (VI, 741-742). Lari: divinità latine che presiedevano alla casa, la tutelavano negli affetti domestici, nei ricordi degli antenati, nella pratica delle virtù familiari. Il culto dei Lari si allargava anche oltre le pareti domestiche, come protettori della famiglia più grande: la patria. Venivano raffigurati come giovinetti (V, 786; VIli, 631). Larlna: compagna d'armi di Camilla (Xl, 810). Latini: nome usato per lo più per designare gli abitanti del regno di Latino, ma spesso anche quelli del Lazio e, meno, dell'Italia. Il nome è frequentissimo nel poema, citato in circostanze svariatissime, come nel canto l, 8 per Indicare la terra nella quale il Fato voiiP, che Enea guidasse i Troiani superstiti alla distruzione della loro città e fondarne una nuova; o quando il poeta ricorda che Ascanio ha insegnano al prischi Latini il gioco che ha diretto in Sicilia per le onoranze funebri del nonno Anchlse (V, 624-628); o da Cimodocea, che incita Enea ad accelerare la corsa della nave per correre in aiuto di lula assediato nell'accampamento dai Latini terribili nelle armi (X, 306-308); o da Enea nel rispondere agli ambasciatori Latini recatisi nel campo troiano a chiedere la tregua (Xl. 131, 164); durante gli onori funebri ai caduti (Xl, 242); o la risposta di Diomede agli ambasciatori Latini (Xl, 286, 294); oppure durante il consiglio dei maggiorenti convocati da Latino (Xl, 378); ma anche per indicare la cavalleria degli ltalici (Xl, 746, 762, 765); da Turno che ha la
sensazione della catastrofe Imminente (Xli. 2, 21); e quando Venere ispira ad Enea di attaccare Laurento (Xli, 703, 748); e Saces dice a Turno di correre a salvare la città minacciata (Xli, 823); e quando assistono al duello tra Enea e Turno (Xli, 915); e Giunone, che accetta il destino di Turno e prega Giove di disporre che i Latini non cambino l'antica denominazione (Xli, 1032, 1048). Latino: figlio di Fauno e di Marica, marito di Amata, padre di Lavlnia e re di Laurento, il cui regno era legittima dote della figlia, che molti desideravano in sposa, ma che, secondo l'oracolo, era invece destinata ad uno straniero (VII, 56-126); quando arriva Enea comprende che questo era lo sposo destinato a sua figlia (VII, 291-318); Giunone, che aveva tentato d'impedire che Enea giungesse nel Lazio, Incita Amata a impedire il matrimonio di Enea con Lavinia e Turno a muovere guerra al Troiani fino a distruggerli; e Latino, vecchio e stanco, non sa opporsi a questi disegni ed a mantenere la promessa fatta a Enea, In obbedienza al Fato, e si ritira dal regno (VII, 702-709); Latino riappare sulla scena quando, dopo il fallimento dell'ambasceria a Diomede e la sconfitta subita dagli ltalici dopo lo sbarco di Enea con l'esercito Etrusco, convoca il Consiglio dei Maggiorenti e propone la pace (Xl, 288-300, 375-417) e consiglia personalmente la pace anche a Turno, che invece gli manifesta il desiderio di concludere la guerra combattendo egli solo con Enea (Xli, 25-59); Turno rifiuta ancora le proposte di Latino, e il re accetta di assistere all'incontro giurando i patti in nome degli ltalici (Xli, 249-272); ma l patti sono infranti e Latino si ritira nella reggia (Xli, 371-373); le parole di Enea In procinto di assalire Laurento (Xli, 710-722, 728-733) e il suicidio di Amata (Xli, 755-761 l fanno comprendere a Latino la sua debolezza e il vecchio re si rammarica di non aver accolto Enea, spontaneamente, facendolo suo genero (Xli, 768-774). Latona: figlia del Titano Ceo e di Febe, moglie di Giove prima di Giunone e madre di Apollo e Diana, nati gemelli nell'isola di Delo (1, 583-584). Laurento: la città in cui Latino ha la sua reggia. Il nome deriva da un lauro che Latino consacrò ad Apollo nel cortile della sua reggia (VII, 72-78); Turno alza la bandiera di battaglia sulla rocca di Laurento (VIli~ 1-6); Venere intimorita dalle minacce che vengono da Laurento fa costruire per il figlio le armi da Vulcano (VIli, 431-449); Enea promette di punire i Laurentinl (Vili, 625); Venere consegna al figlio le armi costruite da Vulcano e lo Incita ad assalire In battaglia i Laurentini (VIli, 710-716); Giove promette a Cibele di trasformare in ninfe le navi dopo che Enea sarà sbarcato in terra laurentina (IX, 122-130); dalla città latina partono l cavalieri che, con Volcente, scopriranno Eurialo e Niso (IX, 450459); Turno si lamenta con Giove di averlo portato lontano da Laurento (X, 839-843); nella
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Dizionario dei nomi e dei luoghi terra di laurento è sepolto Mimante, e Mesenzlo è paragonato ad un cinghiale che esce dai canneti della palude di Laurento (X, 884 e 885-890); Enea dà le disposizioni per l'attacco a Laurento [Xl, 22); Turno nel consiglio dei Maggiorenti convocato da Latino, afferma che, anche senza l'aiuto di Diomede, gli eroi del Lazio e delle campagne di Laurento sapranno coprirsi di Qloria [Xl, 533-537); si diffonde nella reggia la notizia che Enea marcia con l'esercito contro Laurento [Xl, 558-566); Latino per convincere Turno a concludere la pace con l Troiani senza il duello con Enea, gli dice che può scegliersl una moglie tra le molte ragazze di Laurento e del Lazio [Xli, 32-33); dopo il giuramento Laurentini e Latini mutano parere e riprendono la lotta [Xli, 311-316 e 364-365); sul suolo di Laurento cade anche Il grande Eolo (Xli, 685-691); Venere induce il figlio ad assalire Laurento, ed Enea che vede la città • salva da tanta guerra • chiama i capi e ordina di correre contro di essa [Xli, 700-721); l'assalto alla città decide Turno ad accettare il duello con Enea [Xli, 849-853). Lauso: figlio di Mesenzio si appresta a combattere accanto al padre contro i Trolanl [VII, 744-750); Turno lo salva da un incontro diretto con Pallante [X, 552-565); Mesenzio regala al figlio le armi di Palmo [X, 876-877); salva il padre dalla spada di Enea [X, 9951000); benché esortato da Enea a non combattere con lui, Lauso l'affronta ed è ucciso [X, 1012-1021); Enea ha pietà del giovinetto morto [X, 1032-1042); Lauso è riportato al padre [X, 1052-1054); le ultime parole del padre per Il figlio Lauso [X, 1122-1131). Lavinla: figlia di Latino e di Amata è il motivo apparente della guerra fra Troiani e Latini [VI, 117-119); la madre vorrebbe che Lavinia sposasse Turno [VII, 408-424); ma il Fato l'ha destinata ad uno straniero [VII, 62-71, 83-124, 311·318); fanciulla riservata e pudica, non appare quasi mal nel poema virgiliano, ma le sue rare apparizioni sono piene di alto significato e di valore poetico. Quando Enea assale Laurento, va con la madre a pregare nel tempio di Minerva [Xl, 594-598); quando Turno comunica la sua decisione di incontrare in duello Enea, arrossisce e piange [Xli, 83-90); alla morte della madre si dispera (Xli, 763765); Anchise predice ad Enea che da lui vecchio e da Lavinia nascerà un figlio, Enea Sii· vlo, Il quale sarà re di Alba Longa [VI, 922924). Lavinio: la città che Enea fondò per onorare Lavinia; città che sorgeva lungo l'attuale via di Decima, nella località detta Pratica di Mare [1, 4, 315; IV, 282; VI, 107; Xli, 248). Lazio: anticamente si estendeva a sud del Tevere fino al golfo di Gaeta e ad oriente non andava oltre le modeste alture deii'Antiappennino ligure. Perciò il suo territorio era generalmente pianeggiante e non è improbabile che tale conformazione del terreno abbia suggerito Il suo nome, il quale significherebbe,
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dall'avverbio latino • late • [largamente, In largo spazio), • terra larga •, pianeggiante. Virgilio lo nomina già nella protasl del poema [1, 8) e ricorda il tentativo di Giunone di impedire che l Troiani vi sbarcassero [1, 39); vi aveva portato le sue leggi S11turno [VI, 954956) e vi avevano abitato Fauni, Ninfe, uomini primitivi che Saturno educò con le leggi ad una vita civile, dando il nome Lazio alla regione [VIli, 365-380); seguirono altri popoli: Ausoni, Slcani, Etruschi, Arcadi, Sablni ed altri ancora [VIli, 383-392). Ed inoltre: l, 310, 644; IV, 519; V, 771; VII, 46; Xl, 173, 450, 536, 726; Xli, 190. Leda: figlia dJ Testio, moglie di Tindaro e madre di Elena, di Clitennestra e dei Dioscuri, di cui uno sarebbe, secondo il mito, figlio di Giove. Ad Elena, in procinto di fuggire con Parlde, regalò un mantello ed un velo preziosi; Enea, che li salvò dalla catastrofe di Troia, li regalò poi a Didone [1, 757-763); Amata la ricorda come madre di Elena [VII, 413-415). Lelegi: popolo dell'Asia Minore raffigurato sullo scudo di Enea [VIli, 842). Lerna: località paludosa deii'Argolide, non lontana da Argo, In cui Ercole uccise l'Idra che divorava l passanti. Enea la vede nel vestibolo dell'Inferno [VI, 363); la ricordano i sacerdoti che cantano le lodi di Ercole [VIli, 349); è la terra d'origine di Menete [Xli, 654659). Late: fiume che scorre nei Campi Elisi; le sue acque fanno dimenticare ai trapassati tutto ciò che riguarda la loro vita terrena e li dispongono al ritorno sulla terra [VI, 863-865, 904-907). Leucapsl: trolano perito nel naufragio, causato dalla tempesta provocata da Eolo. della nave guidata da Oronte, e Incontrato da Enea nell'Averno [VI, 416-420). Leucate: Isola nel mare Ionio, oggi nota col nome di Santa Maura. Dell'isola è notevole il promontorio scoglloso meridionale, oggi detto Capo Doukàton, per le sue bianche scogliere sormontate da un tempio di Apollo. La sua punta è collegata da un ponte con la terraferma; e quivl Ottaviano e Agrippa adunarono la flotta per la battaglia di Azio [111, 339-340). Libia: regione costiera dell'Africa settentrionale, che da Omero a Strabone designava l'Africa dal Nilo alle Colonne d'Ercole e all'epoca romana la parte del continente africano oggi chiamata Tripolltanla [1, 189, 352, 436, 447; IV, 136, 210, 306, 378; VII, 826). Libri Slblllinl: Enea promette alla Sibilla Cumana la raccolta di tutti i suoi oracoli in appositi libri che saranno custoditi con norme particolari giuridico-religiose [VI, 87-91). Licaone: cesellatore di Cnosso, di cui Ascanio possiede una spada dorata, che commosso regala a Eurlalo [IX, 371-374). Llcia: regione dell'Asia Minore, prospiciente il Mar di Levante, fra la Panfilia ad est e la Caria ad ovest. Il poeta paragona Didone che esce dalla reggia per avviarsi con Enea alla
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caccia, ad Apollo quando lascia la llcia Invernale (IV, 175-177); Enea giustifica a Didone la sua partenza dicendo d'essere costretto dagli oracoli di Apollo di llcla (IV, 410): Enea vede nell'Averno Leucaspl e Oronte, capo della flotta picia, periti nella tempesta (VI, 416-420); l guerrieri che seguono Clauso sono tanti come le spighe che maturano nel campi della Llcia (VII, 829-830); in llcla si fabbricavano ottime frecce (VIli, 185). Llco: pianto da Enea come perito nel naufragio (1, 260-262) e da Enea ritrovato nella reggia di Didone (1, 683-685); si salva dalla caduta della torre (IX, 658-660) e fugge (IX. 674-675); raggiunge le mura, ma Turno lo uccide (IX, 679-687). Llcurgo: re degli Eoni, popolo della Tracia, che fu punito da Bacco con la pazzia e con la morte per essersi opposto violentemente all'Introduzione del suo culto (Ili, 20). Llgerl: guerriero ltallco, fratello di Lucago, abbatte il troiano Emazlone (IX, 692-693); nella battaglia· sul litorale, accesasl all'arrivo di Enea con gli aiuti etruschi. llgeri e suo fratello affrontano Enea, ma hanno ambedue la peggio (X, 727-758). Lilibeo: promontorio della Sicilia occidentale, ora detto anche Capo Boeo, presso Marsala (111, 859). Llrneso: città deii'Eolia, patria di Ammone (X, 167) e di Eolo che aveva già combattuto contro i Greci a Troia e n'era uscito salvo, mentre ora è ucciso da Turno (Xli, 683-691). Locresi: scampati al naufragio del Capo Cafareo, ove invece peri il loro capo Aiace, i Locresi di Nàrice, sbarcarono In Calabria, vi fondarono una città e dalla loro patria di provenienza, la Locrlde, la chiamarono Locri (111. 486). Lucifero: nome del pianeta Venera che nella sua rivoluzione intorno al sole, in un periodo dell'anno è visibile ad oriente prima del sorgere del sole (VIli, 688). Lupercele: grotta sulle falde del colle Palatlno, dagli Arcadi di Pallanteo consacrata a Pan Liceo o Fauno, il dio che difende il gregge dal lupi, e dove la leggenda racconta che la lupa allattò Romolo e Remo. A Roma ogni anno il 15 febbraio si celebravano le Lupercalla, feste In onore di Fauno detto appunto Lupercus (VIli, 399-401). Macaone: uno del Greci rinchiusi nel cavallo di legno fatti uscire da Sinone (Il, 327330). Mago: guerriero latino che Implora pietà da Enea, e gli promette un forte riscatto, ma Enea dopo l'uccisione di Pallante non sente pietà (X, 662-678). Malattie: Enea ne Incontra le immagini nel vestibolo dell'Ade (VI, 347). Malea: promontorio all'estremità sud-est del Peloponneso. Conserva tuttora lo stesso nome (V, 208). Manllo: Marco Manllo Capitolino difese nel
390 a. C. Il Campidoglio contro l Galli. t: effigiato sullo scudo di Enea (VIli, 758-771). Manto: profetessa ltalica che sposò Tiherino, re di Alba. Suo figlio Ocno edificò una città che dal nome della madre chiamò Mantova (X, 257-258). Mantova: v. Manto. Forse di origine etrusca, partecipa con gli Etruschi, alleato di Enea, alla guerra contro l Latini (X, 260-264). Marcello: 1) Marco Claudio Marcello, console per cinque volte, nel 222 a. C. sconfisse i Galli lnsubrl a Casteggio, uccidendo lo stesso re barbaro, Vlridomaro. Fu console anche negli anni 214, 210 e 208 a. C.; quando Annibale, dopo la vittoria al Ticino e alla Trebbia (218 a. C.), al lago Trasimeno (217 a. C.) e a Canne (216 a. C.) sembrava che potesse considerarsi padrone d'Italia, Claudio Marcello nel 215 riuscl a tenere In scacco il grande generale cartaginese; nel 214 assediò Siracusa e nel 212 la prese. Lo Indica Anchise ad Enea nei Campi Elisi tra le anime destinate a ritornare sulla terra (VI, 1035-1041); 2) Marco Claudio Marcello, figlio di Ottavla, sorella di Augusto, e di Gaio Claudio Marcello, che, adottato dall'Imperatore, Il quale si apprestava a dichiararlo suo successore, mori nel 23 a. C. a vent'anni lmprowisamente, destando un generale compianto. Si pensò anche ad un awelenamento da parte della terza moglie di Augusto, Livia, che avrebbe In tal modo voluto assicurare la successione, come realmente poi accadde, al proprio figlio di primo letto, Tiberlo. t: Indicato ad Enea da Anchise nel Campi Elisi, tra le anime destinate a reincarnarsl, con parole che hanno destato profonda commozione (VI, 1045-1072). Marlca: ninfa ltalica che aveva un bosco sacro presso Minturno. Secondo Virgilio era sposa di Fauno e madre di Latino (VII, 58-59). Marsi o Marrubi: popolo italico che abitava nell'alta valle del Liri e sulle sponde meridionali e orientali del lago Fucino. Dal nome della città capitale, Marruvium, sono detti anche Marrubl. Sono scesi in guerra contro l Troianl al comando di Umbrone (VII, 869-871). Marta: dio della guerra, identificato con il dio Ares del Greci, figlio di Giove e di Giunone (Zeus e Era). Nel primi secoli di Roma fu venerato come divinità agreste della primavera che ha Il soprawento sull'inverno: più tardi soltanto divenne dio guerriero. Ancora al tempi di Numa Pomplllo, l Salii nel mese di marzo, a lui dedicato, percorrevano la città danzando, cantando i • Carmina saliaria • e agitando l dodici scudi tra i quali era quello caduto dal cielo davanti a Numa che pregava. La Tracla era un paese a lui sacro (111, 18-20); e vicino alla corrente dell'Ebro (oggi Maritza) batte lo scudo con l'asta, scatenato, e incita l furiosi cavalli alla battaglia (Xli, 426-433); ma predilige Roma, la città che trae da lui, padre di Romolo e Remo, le proprie origini (1, 318-323). Marte non figura nell'azione del poema; lo si trova effigiato sullo scudo di Enea nell'atto dJ Incitare i combattenti nella
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Dizionario dei nomi e dei luoghi battaglia d'Azio (VIli, 814-815); il lupo gli è sacro (IX, 685); quando Vulcano scende nell'officina trova che alcuni Ciclopi sono intenti alla costruzione per Marte di un carro da guerra (VIli, 504-505); suscitò la guerra tra Lapltl e Centauri (VII, 350-351). Musica: regione della Campania settentrionale, famosa per l suoi vini. Gli abitanti partecipano alla guerra contro i Troianl guidati da Aleso (VII, 835-836). Massico: Etrusco alleato di Enea. Conduce alla guerra un migliaio di arcieri di Chiusi e di Cosa (X, 219-222). Masslll: popolo della Massilia, nome antico della regione che, nell'attuale Algeria, corrisponde alla Cabilia, confinante con la Tunisia. Nell'• Eneide • il poeta ricorda l cavalieri massill che accompagnano Didone, Enea e gli altri cacciatori (IV, 163-164). Maurl: popolazione della Mauritania, l'attuale Marocco. t; ricordata nella preghiera che larba rivolge a Giove (IV, 247-249). Medonte: trolano, figlio di Antenore e compagno di Ettore; Enea lo incontra nel Campi del Pianto Insieme con l fratelli Glauco e Tersiloco (VI, 598-599). Medusa: la prima e la più terribile delle tre Gorgoni. La sua testa, effigiata sull'egida di Minerva (Il, 751-752), spesso è indicata per antonomasia soltanto come Gorgone (VIli, 506-510); Enea la vede nel vestibolo dell'Averno (VI, 364). Megara: città della Sicilia orientale, che dà il suo nome anche al golfo attraversato da Enea (111, 836-837). Megara: una delle tre Furie. V. Furie. Melampo: compagno di Ercole e padre di Cisseo e Gia che Enea uccide tra l primi che Incontra appena sbarcato sul lido del Lazio con l'esercito etrusco (X, 404-411). Mellbea: città della Tessaglia, non lontana dal Mare Egeo, ai piedi, quasi, del monte Ossa. Filottete, che vi era re, è emigrato in Italia ed ha fondato sulla costa Ionica della Calabria la città di Patella (111, 486-490). Mellte: è una Nerelde del corteo di Nettuno (V, 872). Memmo: il trolano Mnesteo, capostipite della • gens • romana del Memmi; comanda una delle quattro navi, la Plstri, che partecipano ai giochi funebri In onore di Anchise (V, 124-127); giunge secondo e riceve In dono una l
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e 185-186); egli è sempre al fianco di Enea, capo valoroso (Xli, 164-165); accompagna Enea ferito al campo (Xli, 490-492); e quando Enea è miracolosamente guarito ritorna con lui sul campo di battaglia (Xli, 561-563 e 694); è chiamato da Enea con gli altri capi per disporre l'attacco a Laurento (Xli, 706-708). Memmone: figlio dell'Aurora e di Tltone, re d'Etiopia, partecipò alla guerra di Troia come alleato di Priamo e fu ucciso da Achille. L'Aurora ottenne per lui l'immortalità. Enea lo riconosce dalle armi effigiate nel tempio di Giunone a Cartagine (1, 570). Menadl o Baccanti: sacerdotesse di Dioniso che, lnvasate dal nume, si abbandonavano a ogni sorta di danze scomposte, agitando il tirso, e coi capelli scarmlgliati e incoronati di pampini e di edera (IV, 356). Menelao: figlio di Atreo, fratello minore di Agamennone, sposò Elena e dal padre di lei, Tlndaro, ereditò il regno di Sparta. Parlde gli rapl la sposa e con l'aiuto di vari principi greci mosse guerra al Trolanl per rlconquistarla. Penetrò In Troia con altri guerrieri nel cavallo di legno (Il, 331); partecipa alla distruzione della città, uccide Deifobo e ne mutila il cadavere (VI, 647-656); distrutta la città, ritornò In patria con Elena, ma errò otto anni prima di rientrare in Sparta. Menate: 1) trolano, timoniere della Chimera, durante l ludi funebri In onore di Anchise è gettato In mare da Gia, comandante della nave (V, 172-198); 2) Arcade, emigrato a Pallanteo dalla regione paludosa di Lerna, è ucciso da Turno (Xli, 654-659). Meonla: regione della Lldia, il suo nome è spesso usato per Indicare tutta la regione, donde secondo VIrgilio sarebbero venuti gli Etruschi (VIli, 582). Meotlde: • la terra meotica • (VI, 962-963) è una regione che si affaccia sul Mar d'Azov. Mercurio: l'Ermes dei Greci, figlio di Giove e di Mala, è il messaggero degli dèi, araldo dalla parola facile e dio dell'eloquenza, Inventore della lira, donatore del benessere, dio del commercio, dell'astuzia, degli affari. Era rappresentato giovane, snello, con il capo coperto da un cappello alato (pètaso), con ai piedi calzari alati (talarl) e In mano il • caduceo •, che lo indicava messaggero. Nato sul monte Clllene è il progenitore degli Arcadi (VIli, 156-157); è mandato da Giove a Cartagine perché l Troiani vi fossero accolti come ospiti (1, 847-849); e di nuovo per ricordare a Enea che il Fato gli aveva destinato come mèta del suo viagio l'Italia (IV, 266283, 303-306, 325,423). Messapo: figlio di Nettuno, allevatore di cavalli, alleato di Turno, conduce alla guerra contro l Trolani le truppe di Viterbo, del Cimino e del Soratte (VII, 793-809; VIli, 9); organizza l'assedio del campo troiano presidiando le porte e circondando le mura con i fuochi del bivacchi (IX, 201-203); Eurialo attraversa il campo dei Latini e, giunto agli uomini di Messapo, è richiamato da Niso, ma
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s'impossessa dell'elmo del guerriero nemico (IX, 431 e 447-449); è uno dei combattenti più attivi (IX, 633-635); affronta Enea e gli Etruschi appena sbarcati (X, 449-450); infrange il patto giurato e uccide Auleste (Xli, 375-384); combatte nella campagna di Laurento (Xli, 695); sostiene l'assalto dei Troiani sulle porte di Laurento (Xli, 823); quando operano le cavallerie egli guida i cavalieri rutuli (IX, 33-34; Xl, 578-579); inoltre: IX, 157, 431, 643, 645, 746; Xli, 166. Metabo: re di Priverno, cacciato dai suoi sudditi, sfuggì alla cattura e alla morte, portando con sé la figlia Camilla ancora bambina e vivendo nei boschi (Xl, 667·704). Metisco: auriga di Turno è gettato fuori dal carro da Giuturna che prende le sue sembianze e il suo posto (Xli, 592-597). Mesenzio: re etrusco di Cere, crudele e superbo dispregiatore degli dèi (VII, 7424-743); il popolo insorse per i suoi efferati delitti (VIli, 557-572), e Mesenzio, sfuggito alla morte, insieme con il figlio Lauso, si è rifugiato presso Turno, dove si prepara a riconquistare il potere (VIli. 573·574); perciò gli Etruschi hanno preparato un esercito per impadronirsi di lui e manda rio al supplizio (VIli, 575-578) e poiché un vecchio aruspice ha vaticinato che il suo comandante deve essere uno straniero, l'arrivo di Enea ha determinato l'alleanza etrusco-troiana (VIli, 581-599); egli è, dopo Turno, il più valoroso degli awersari di Enea (X, 862-864); scontratosi con Enea rimane ferito ed è salvato da un colpo mortale del Troiano dallo scudo di Lauso (X, 957-1000); si ritira per curare la ferita, ma quando apprende la morte del figlio ritorna a combattere per vendicarlo, ma Enea lo uccide (X, 10451134); Enea consacra le sue armi a M arte (Xl, 6-14). Mezio Fufezio: re di Alba, il quale risolve la guerra con Roma proponendo il famoso duello degli Grazi e dei Curiazi, ma poi istigò l Veienti ad assalire Roma e Tullo Ostilio lo punì del tradimento con un orribile supplizio, che è raffigurato sullo scudo di Enea (VIli, 747-751). Micene: città deii'Argolide, in cui regnavano gli Atridi (1, 330-332, 761; Il, 225, 710; V, 57; VI, 1013). Mignone: torrente che dai monti Sab11tini, a nord del lago di Bracciano, scende nel Tirreno a nord di Civitavecchia (X, 239). Mimante: coetaneo e compagno di Paride, figlio di Amico e di Teano, è ucciso da Mesenzio sul litorale di Laurento (X, 878-884). Mincio: emissario del lago di Garda, che il poeta dice figlio del Benaco (X, 266-267). Minerva: la Pallade Atena dei Greci, con la quale la divinità italica, d'origine etrusca, è stata confusa e identificata dopo le guerre puniche. Dea dell'intelligenza meditata, delle arti (il filare, il tessere, il costruire, la poesia e la stessa guerra). Il mito greco la diceva nata dal cervello di Giove, e la considerava la protettrice di Atene (donde l 'appellativo
Atena), a cui fece dono dell'ulivo. Le erano sacri l'ulivo e la civetta ed era raffigurata con l'egida paterna e armata di lancia. Fu lei a suggerire ai Greci l 'inganno del cavallo di Troia (Il, 20-23 e 43-45); essa infatti proteggeva i Greci (Il, 203-204); anche perché Diomede e Ulisse avevano rapito il Palladio dal tempio di Minerva in Troia (Il, 205-213); Minerva divenne ostile a Troia nonostante le offerte delle donne troiane, come documentano i dipinti del tempio di Giunone in Cartagine (1, 557-561); anch'essa partecipa alla distruzione di Troia (Il, 749-752); il culto di Minerva è diffuso anche in Italia, e in onore della dea i Troiani, toccando il suolo italiano, compiono il primo sacrificio in un tempio che appare sopra un'altura nella terra d'Otranto (111. 650-652 e 666-672). Anche a Laurento Pallade è onorata (Xl. 594-604); pur proteggendo l Greci, la dea non ha tollerato le offese di Aiace d'Oileo: e lo colpì incendiando la flotta, sconvolgendo il mare e colpendolo con un fulmine di Giove (1, 51-57; Xl, 323-325); e per vendicarsi del suo tempio profanato si servirà anche più tardi di L. Emilio Paolo che, vincitore della battaglia di Pidna del 168 a. C., abbatterà Argo, Micene e vendicherà gli avi di Troia (VI, 1012-1015); e il poeta ricorda anche l'armatura foggiata per la dea dai Ciclopi (VIli, 506-510) e la raffigurazione della dea sullo scudo di Enea (VIli, 813). Minosse: re di Creta, che una tradizione mitologica, accolta anche dai Romani, colloca come giudice dei morti per la sua figura di saggio legislatore. Enea lo pone nell'ingresso dell'Averno (VI. 540-543). Minotauro: mostro, mezzo uomo e mezzo toro, che forse è una fantastica contaminazione di un toro, di nome Minosse, originaria· mente venerato come un dio, e di una vacca, chiamata Pasifae. con la mitica (ma probabilmente personaggio realmente esistito) figura di un Minosse legislatore e re di Creta. Sembra infatti che per mediare il passaggio dal culto di un dio taurino a quello di un uomo dio (Creta già nel Il millennio a. C. era in relazione con l'Egitto, ove i Faraoni erano considerati divinità viventi sulla terra). possa essere stata creata la figura mista di toro e uomo. Secondo il mito il mostro era rinchiuso nel Labirinto, e gli Ateniesi, per avere il loro re Egeo ucciso Androgeo, figlio di Minasse, erano costretti al tributo annuale di quattordici giovani, sette maschi e sette femmine, da dargli in pasto. Le storie del Minotauro sono scolpite da Dedalo sulle porte del tempio di Apollo in Cuma )VI, 24-28). Mlrmidone: i Mirmidoni abitavano nella Tessaglia ed erano sudditi di Achille. L'eroe scelse tra loro i suoi soldati per la guerra di Troia (Il, 12, 955; Xl, 501). Miseno: trombettiere di Ettore e poi di Enea: di vedetta con uno squillo di tromba avverte l'arrivo delle Arpie (111, 295-299); arrivato a Cuma, seduto su di uno scoglio, suona la tromba, attira l'attenzione di Tritone, che
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Dizionario dei nomi e dei luoghi ha l'abilità di estrarre suoni dalle conchiglie. Miseno e Tritone gareggiano nel suono e poiché Il Troiano ha la meglio, Tritone risentito lo fa precipitare in mare (VI, 190-241, 270-299). Mnèsteo: v. Seresto e Memmo. Monviso: monte delle Alpi Cozie (X. 887). Mòrini: popolo gallico che abitava nella Francia prospiciente il Passo di Calais. fO effigiato sullo scudo di Enea (VIli, 844). Morte: figlia della Notte e sorella del Sonno, Enea la incontra nel vestibolo dell'Ade (VI, 350). Mummlo: è indicato da Anchise nei Campi Elisi, come uno dei vendicatori di Troia. Egli, console nel 146 a. C., vinse le resistenze ulti· me della Lega Achea e mise a ferro e fuoco Corinto (VI, 1009-1011). Murrano: latino, amico di Turno, muore per mano di Enea invocando l'amico (Xli, 669-675, 800-803). Muse: le nove sorelle compagne di Apollo che vivono, venerate, sull'Elicona e sul Parnaso, e sono protettrici delle arti, dei poeti e degli artisti. Virgilio le invoca: l, 11-16; VII, 734-739; IX, 97, 636-640; X, 215-218. Museo: mitico poeta greco, contemporaneo di Orfeo. Enea lo incontra nei Campi Elisi e la Sibilla gli chiede dove si trova Anchise (VI, 815-819). Matusca: città della Sabina, nel territorio dell'attuale Monteleone Sabino (Rieti). Combatte contro i Troiani al comando di Clauso (VII, 816). Narice: v. Locri. Nasso: isola del Mare Egeo, la maggiore delle Cicladi. Enea la costeggia nel viaggio da Delo a Creta. Era nota come Isola di Bacco per i suoi ottimi vini (111, 153-155). Naute: troiano, consiglia ad Enea, dopo l'incendio delle navi, la fondazione di Acesta (V, 744-758). Nemea: città deii'Argolide a sud di Corinto. l sacerdoti Salii ricordano il leone ucciso da Ercole (VIli, 343-344). Neottolemo: v. Pirro. Nera: fiume, con acque solforose, nasce dai monti Sibillini, bagna Terni e, prima di gettarsi nel Tevere, anche Narni (VII, 577). Nereo e Nereidi: dio marino, figlio di Oceano, sposo di Dòride e padre delle Nereidi, come Teti, Doto, Galatea, Melite, Manopea, Nisea, Talla e Spio (Il, 517-518; V, 261: IX, 129). Nerito: monte roccioso dell'isola di ltaca; lo osserva Enea mentre naviga alla volta di Butroto (Ili, 336). Nersa: cittadina appenninica degli Equi, popolo montanaro e selvaggio abituato a vivere di caccia e di rapina. fO alleata di Turno e i suoi guerrieri sono al comando di Ufente (VII, 856-861). Nettuno: dio del mare, identificato nel greco Poseidone, figlio di Saturno e di Rea. Aiutò Giove e Plutone a detronizzare il padre, ed ottenne in compenso il dominio del mare. Era
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rappresentato accigliato nel volto, con la testa superba, recinta di alghe marine, sopra un cocchio tirato da cavalli verdi e con nella destra il tridente. Accortosi della tempesta suscitata da Eolo, si turba, sgrida i venti e calma le onde del mare (1, 148-1711: solleva col tridente le navi che si erano insabbiate (1, 174-176); Venere si rivolge al dio del mare per ottenere un viaggio tranquillo per Enea e Nettuno accoglie la sua preghiera (V, 823-873); Turno per rincuorare i Rutuli impauriti dai prodigi avvenuti dopo l'incendio delle navi di Enea, ricorda che anche Nettuno aveva costruito le mura di Troia, e che tuttavia esse furono ugualmente distrutte; a maggior ragione sarà distrutto il muro che ora li difende nell'accampamento (IX, 179-182). Nilo: è usato quasi sempre per indicare la regione che esso attraversa o la popolazione che la abita (VI, 964); la sua personificazione è effigiata sullo scudo di Enea (VIIIfi 825-828); o accenna alle sue acque che scorrono silenziose e fertili (IX, 39). Nlsa: città o regione della Tracia o secondo altri dell'India, dove Bacco sarebbe stato allevato dalle Ninfe, nascosto In una caverna. Licurgo, il feroce re degli Edoni nella Tracia, cacciò da Nlsa Ninfe e Bacco. ma fu punito dagli dèi (V. 969-971). Nlsea o Nise: Nereide del corteo di Nettuno (V, 873). Niso: troiano, figlio di lrtaco e amico di Eurialo. Nei giochi funebri In onore di Anchise partecipa alla gara della corsa e non potendo egli, a causa di una caduta, giungere primo, fa In modo che vinca Eurialo (V, 321, 344, 352, 362); mentre Enea è assente e i Rutuli mettono In pericolo il campo, Niso dice ai capi troiani di essere disposto ad attraversare il campo nemico e andare a Pallanteo ad avvertirlo del pericolo. La proposta è accettata ed Eurialo vuole seguirlo, ma l due coraggiosi, quando già sono oltre le linee nemiche sono scorti da un drappello di Cavalieri Latini. Niso riesce a fuggire, Eurialo Invece è raggiunto. Quando s'accorge di non essere seguito dall'amico, ritorna sul suoi passi, ma non riesce che ad uccidere l'uccisore di Eurialo; poi cade egli stesso sopraffatto dai nemici (X, 221-541). Nomento: è l'attuale Mentana. città che Anchise nei Campi Elisi, indicando al figlio le anime destinate a tornare sulla terra a curare la grandezza di Roma, dice che sarà da esse fondata (VI, 933). Norcia: città dell'Appennino umbro-marchigiano che manda i suoi soldati al comando di Clauso a combattere contro i Trolani (VII, 824). Noto: nome di un vento, quello che spira da sud (1, 103, 130; Il, 515). Notte: divinità prlmlgenia, madre delle Eumenidi; Enea le sacrifica un'agnella dal vello nero (VI, 314-316). Numa Pompilio: re di Roma, originario di Curi; è considerato come il fondatore delle istituzioni religiose romane (VI, 974-979), ma non è nominato.
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Numano: detto Remulo, è un rutulo, marito della sorella di Turno. Vanaglorioso, esalta le virtù degli ftalici e denigra i Troiani: lulo non tollera le sue offese e con una freccia lo uc· elda IV, 719-775). Numico: piccolo corso d'acqua, oggi chiamato Rio Torto, entro il quale, secondo la leggenda, sarebbe stato trovato Enea annegato (VII, 179, 282, 916). Numidi: abitanti della Numidia, regione dell'Africa settentrionale corrispondente all'incirca all'attuale Algeria (IV, 53 e VIli, 841, dove sono detti nomadi). Oceano: divinità primigenia, personlficazione del grande fiume che gli antichi credevano che circondasse la terra emersa, favoleggiato come uno dei Titani, figlio di Urano e di Gea, marito di Teti e padre delle Ninfe Oceanine (1, 336, 887). Ocno: figlio del Tevere e di Manto, fondatore della città che dal nome della madre chiamò Mantova, da Virgilio presentata come la capitale di una confederazione di dodici città etrusche, abitate da tre stirpi: Greci, Umbri, Etruschi. A Ocno è attribuita anche la fondazione di Felslna, cioè di Bologna, cui forse spetta la qualifica di capitale della confederazione etrusca che Virgilio attribuisce a Mantova (X, 256-275). Ofelte: v. Eurialo. Olearo: isoletta delle Cicladi (l'attuale And'iparos), a sud-ovest di Paros: Enea la costeggia nel viaggio da Dalo a Creta (111, 156). Omole: la vetta più settentrionale dell'Ossa, gruppo montagnoso della Tessaglia: è l'attuale Omòlion (VII, 776). Opi: ninfa di Diana, alla quale la dea racconta la storia di Camilla e affida l'incarico di vendicare la morte della fanciulla, uccisa da Arunte (Xl, 660-736, 1031-1068). Orco: è una delle indicazioni generiche del regno dei morti (Il, 493: IX, 638). Oreadi: le ninfe dei monti che accompagnano Diana nelle sue cacce (1, 580). Oreste: figlio di Agamennone e di Clitennestra. Nel poema virgiliano si ricorda il suo amore per Ermlone e l'uccisione di Pirro (111, 403-408): la persecuzione delle Furie per aver egli ucciso la madre complice con Egisto della morte del padre (IV, 569-572). Orfeo: mitico poeta trace, figlio di Calliope e di Apollo, marito della ninfa Euridice. Enea lo Incontra nei Campi Elisi dove fa risuonare le sette corde della sua cetra, dono della madre (VI, 791-794): quando aveva chiesto alla Slbilla dJ poter scendere nell'Averno, aveva ricordato che anche Orfeo vi era disceso, ammansendo con la dolcezza del suo canto i mostruosi custodi ed aveva impietosito Proserplna e Plutone che gli concessero di ricondurre su nel mondo Euridice, la sua sposa (VI, 151-153). Soltanto che Orfeo (ma Enea non lo dice) ottenne la concezione eccezionale a patto ch'egli non si volgesse a guardarla prima d'essere uscito dall'Averno: e non
avendo egli saputo resistere al desiderio, fu appena In tempo a salutarla e a darle, in pianto, l'estremo addio. Orione: Gigante, figlio di Nettuno e grande cacciatore, fu ucciso da Diana che egli volle emulare. Gli dèi lo trasformarono nella costellazione che porta il suo nome (1, 623: 111, 635: IV, 67; VII, 826: X, 958). Orizia: figlia di Eretteo, re di Atene, e di Dlogenia: fu rapita dal vento Borea e trasportata In Tracia. Suoi figli furono Calai e Zete. ~ ricordata perché ha regalato a Pilunno alcuni cavalli di razza preglatlssima, di cui la Traeia era famosa (Xlii, 108-110). Orn.lto: Etrusco, cacciatore stranamente armato 'e vestito, è ucciso da Camilla (Xl, 835850).
Orode: troiano ucciso da Mesenzio, al quale predice una prossima fine (X, 918-932). Oronte: troiano comandante della nave sulla quale si erano imbarcati l lici che avevano seguito Enea: la nave è naufragata durante la tempesta suscitata da Eolo (1. 135-138). Orsa e Orse: I'Orsa Maggiore e I'Orsa Minore, ciascuna di sette stelle (1, 885; 111, 635). Orslloco: troiano, uccide il latino Remolo (Xl, 785-791); ma a sua volta è abbattuto da Camilla (Xl, 851-862). Orte: città alleata di Turno agli ordini di Clauso: oggi sulla linea ferroviaria Roma-Firenze, sulla desttra del Tevere a nord di Roma (VII, 824). Ortlgla: 1) antico nome dell'isola di Delo (111, 153, 179, 192): 2) isoletta sulla quale fu costruito il primo nucleo di Siracusa, nota anche per la leggenda o mito di Aretusa e Alfeo (111, 840-846). Oscl: popolo della Campania alleato di Turno al comando di Aleso (VII, 840). Oslnlo: re di Chiusi; i suoi soldati appartengono all'esercito etrusco. Sulla sua nave Giunone con un'astuzia fa salire Turno e lo trasporta al largo verso Ardea (X, 821-824). • Otri: monti della Tessaglia meridionale che si affacciano sull'Eubea (VII, 776). Pachino: è l'estrema punta meridionale della Sicilia orientale, oggi Capo Passero. Enea lo costeggia nel viaggio Intorno alla Sicilia per evitare, secondo il consiglio di Eleno, l pericolf dello stretto di Messina: Scilla e Cariddi (111, 523-526, 949-950). Dall'alto di questo capo Giunone osserva l Troiani sbarcati alle foci del Tevere (VII, 532-535). Padova: v. Antenore. Padusa: un ramo del delta del Po, oggi Po di Primaro. Virgilio dice che Il fiume Padusa è pescoso e i cigni vi schiamazzano (Xl, 567571). Pafo: città dell'isola di Cipro, sacra al culto di Venere. Virgilio ricorda che Venere vi aveva un tempio con cento altari (1, 480-483: 66, 112). Pagaso: etrusco ucciso da Camilla (Xl, 827). Palamede: re dell'Eubea, il quale aveva pubblicamente accusato Ulisse di simulare di
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Dizionario dei nomi e dei luoght essere pazzo per non andare alla guerra di Troia. Ulisse, costretto a partire, non dimenticò l'affronto: sotto le mura di Troia accusò Palamede di essere una spia di Prlamo e lo fece condannare a morte per lapidazione. la storia è riferita da Enea come l'ha narrata il greco Slnone (Il, 103-117). Palamona: divinità marina greca, corrispondente al Portumnus del latini. Era stato uomo col nome di Melicerte. Come dio appartiene alla corte di Nettuno. la leggenda narra che sua madre, lno, regina di Tebe e sposa di Atamante, ammalato di pazzia, un giorno, inseguita dal marito che le voleva uccidere il figlioletto Melicerte, si gettò nel mare col bimbo; e gli dèl inteneriti trasformarono madre e figlio, cui fu dato il nuovo nome di Pa· lemone, in divinità marine (V, 870). Pallco: divinità sicula della regione dell'Etna. Il suo altare è detto benigno perché non gli sacrificavano vittime umane (IX, 713). Palinuro: figlio di laso e pilota della nave di Enea (111, 249-251, 629-639, 687-690; V, 802908, 919); precipitato In mare da un dio nemico sulle coste della lucania, di fronte ad un promontorio chiamato poi con il suo nome. Il mistero della sua morte lo svelerà Palinuro stesso a Enea appena entrato nel regno del morti (VI, 421-451); e chiede a Enea di essere sepolto per trovare riposo oltre la palude Stlgla e di esservi trasportato dallo stesso Enea (VI, 452-462); la Sibilla gli dice che non si possono Infrangere le leggi dell'Averno, e lo conforta dicendogli che il capo, dove è stato ucciso, porterà il suo nome (VI, 463-478). Pallade: v. Mlnerva. Palladlo: simulacro di Pallade· custodito in Troia, che non avrebbe potuto essere presa fin quando il Palladlo fosse rimasto entro le mura della città. Ulisse e Diomede, travestiti da mendicanti, entrarono di notte nel tempio e rapirono il simulacro, che poi trasportarono nel campo greco. Da quel momento la sorte di Troia fu decisa: ne racconta a suo modo la storia il falso Slnone (Il, 203-244; IX, 190). Pallante: 1) antenato di Evandro. In suo onore Evandro chiamò Pallanteo la città da !ui costruita sul colle Palatino e dette il suo nome al flglio (VIli, 60-63); 2) figlio di Evandro e di una donna della Sabina (VIli, 595-596); quando Evandro e gli Arcadi scorgono le due navi di Enea nel Tevere balzano in piedi sbigottiti; Pallante li tranquillizza e va incontro di corsa agli arrivati (VIli, 121-130); saputo che il capo degli arrivati è Enea, lo invita a presentarsi a suo padre come ospite gradito (VIli, 138-140); Evandro offre ad Enea l'aiuto di quattrocento cavalieri comandanti da Pallante (VIli, 595-607); salutato dal padre se ne parte con Enea cavalcando nel mezzo della schiera (VIli, 685-687); sulla nave è seduto accanto ad Enea e gli chiede tante cose (X. 211-212); sbarcato sulla costa laziale esorta i suoi soldati a combattere con valore e lui per primo
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dà l'esempio (X, 460-484, 486, 491, 508, 517); Turno va con arroganza contro Pallante (X, 563), il quale se ne stupisce (X, 467-468); attacca per primo Turno (X, 481-585), avventa l'asta (X, 605), ma ferisce Turno solo leggermente di striscio. Turno a sua volta scaglia l'asta e Pallante è ucciso (X, 617-619). Enea, quando viene informato della morte di Pallante, ne soffre molto (X, 655-657) e pensa che Turno, uccldendolo, abbia abolito tutti l rl· scatti di guerra (X, 673-675). La salma di Pallante è dai suoi compagni recuperata e onorata (X, 641-645); e viene portata a Pallanteo, dopo essere stata salutata e onorata da Enea (Xl, 31-36, 48-119, 170-227); Enea ha pace soltanto quando al figlio di Evandro può consacrare la vita di Turno (Xli, 1174-1183). Pallanteo: la città fondata da Evandro sul colle Palatino, della quale Carinenta predice la futura grandezza (VIli, 393-397); quando la vede Enea è un modesto gruppo di capanne (Vili, 108-112, 644). Ed inoltre: IX, 248, 305. Palmo: troiano ucciso da Mesenzlo, il quale regala le sue armi a lauso (X, 871-878). Pandaro: 1l arciere troiano, responsabile di aver infranto la tregua fra Trolani e Greci, ferendo con una saetta Menelao. Era fratello di Eurlzlone, che segui Enea In Italia (V, 521624); 2) troiano che aprì una porta del campo trolano, di cui era custode con il fratello Bizia. Fu poi ucciso da Turno (IX, 815-903). Panope: siculo, partecipa alla corsa nel giochi funebri in onore di Anchise (V, 327-328). Panopea: Nereide del seguito di Nettuno. Aiuta Cloanto a vincere la regata nei giochi funebri In onore di Anchlse (V, 259-262, 873). Pantagla: fiume della Sicilia orientale, che oggi si chiama Porcari, il quale si getta nel mare presso lentini, oltre il golfo di Megara (111, 835-837). Pento: troiano, figlio di Otreo e sacerdote di Apollo, addetto alla custodia dei templi dell'Acropoli troiana. Enea lo Incontra che corre disperato con i suoi sacri arredi a casa del. figlio di Anchlse (Il, 399-418); muore combattendo contro l Greci nell'eroico tentativo di salvare la città (Il, 530-532). Parche: le tre deità che presiedevano al destino degli uomini dalla nascita alla morte, rappresentato da un filo che Lachesi filava da una conocchia tenuta da Cloto e che Atropo troncava. Ad esse erano quindi affidati l decreti immutabili e lnconoscibili del Fato (1, 29; 111, 461; V, 844; IX, 136; X, 533, 1019). Parlde: figlio di Priamo e di Ecuba; è l'adultero troiano (X, 119), che ha giudicato Venere la più bella delle dee ed ha attirato su di sé e sulla sua città l'odio di Giuoone (1, 3437). Fu anche un ottimo pugilatore (V, 393); uccise Achille (VI, 69-70; coetaneo e compagno di Mimante (X, 879), mori per mano di Filottete, secondo Virgilio di Agamennone (X. 883; Xl, 334-335). Paro: isola dell'Arcipelago delle Clcladl, costeggiata da Enea nel viaggio da Delo a Creta (111,156).
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Partenopeo: figlio di Meleagro e di Atalanta, fu uno dei famosi partecipanti alla • guerra dei Sette contro Tebe •, tutti morti, ad eccezione di Adrasto, sotto le mura di Tebe (VI, 595). Parti: popolo dell'Asia occidentale, di stirpe iranica. Dopo aver fatto parte dell'impero persiano, di quello di Alessandro Magno e infine dei Seleucidi, fondarono essi stessi un vasto dominio indipendente che durò dal 256 a. C. al 226 d. C. sotto la dinastia degli Arsacldi. l Parti sostennero continue lotte con i Romani nella regione dell'Eufrate, anche con notevoli successi: Marco Licinio Crasso nel 53 a. C. fu sconfitto e ucciso e Marco Antonio nel 36 a. C. fu costretto ad una ritirata precipitosa. Ottaviano ottenne la restituzione dei vessilli conquistati e concluse la pace (VII, 688). l Parti erano espertissimi arcieri (Xli, 1072). Paslfe: moglie di Minasse e mitlca madre del Minotauro. Enea la incontra nei Campi del Pianto (VI, 558). V. Minotauro. Patrone: atleta arcade di Tegea, partecipò alla corsa nei giochi funebri in onore di Anchise (V, 325-326). Pelasgi: popolo di incerta origine e di non sicura identificazione, che si sarebbe diffuso, secondo Omero, in Tessaglia e che, secondo altre notizie, agli albori della storia era presente in varie regioni del Mediterranto. Virgilio ricorda la tradizione che i Pelasgi occuparono per primi le terre latine (Xlii, 700-703; Xl, 193-196). Pelia: troiano ferito da Ulisse durante la guerra di Troia; poi seguì Enea (Il, 537). Peloro: promontorio all'estremità nord-orientale della Sicilia, ora" capo Faro, sullo stretto di Messina (111, 500-504, 834). Penati: divinità latine della casa; dapprima presiedevano alla dispensa, poi furono considerato protettori di tutta la casa, sulla quale facevano piovere i doni della buona fortuna. Oltre quelli della casa, i Latini onoravano anche quelli della città e dello Stato, ai quali attribuivano gli stessi poteri benefici. in un certo senso essi rappresentavano la perennità della vita rispettivamente della famiglia, della città e della patria (l, 86; Il, 366-373, 630-632, 870; Ili, 185; IV, 721; V, 667-669; VIli, 15, 631, 789; IX, 320). Penteo: re di Tebe; per l'ostentato disprezzo verso il culto di Bacco, fu lacerato dalla madre furente, dalle sorelle e dalle Baccanti (IV, 567). Pentesilea: regina delle Amazzoni che, accorsa In difesa di Priamo, fu uccisa da Achille. L'episodio è effigiato nel tempio di Giunone a Cartagine (1, 570-574; Xl, 814-819). Pergamea: la città fondata da Enea nella parte occidentale de li 'isola di Creta, sul golfo di La Canea (111, 163-167). Pergamo: nome dell'Acropoli di Troia (111, 134) e dato da Enea alla città costruita a Creta (Pergamea) e da Eleno a quella da lui costruita in Caonia (111, 412-413).
Perlfante: greco, compagno di Pirro (Il, 586). Patella: la città fondata da Filottete, cacciato dalla sua patria (Melibea, nella Tessaglia) dopo il suo ritorno dalla guerra di Troia,· sulla costa calabra, presso l'attuale Strongoli (111. 488-490). Pico: figlio di Saturno e re di Laurento, sposo di Circe, la quale lo trasformò in uccello (VII, 204 e 223-226). Plgmalione: re di Tiro e fratello di Didone, per avidità di danaro ha ucciso Sicheo, il cognato, e avrebbe soppresso anche la sorella se essa non si fosse messa in salvo fuggendo (1, 403-429; IV, 386-388). Pilunno: dio agreste italico, avo di Turno (IX, 4; X, 99, 777-779); Turno aveva cavalli di una razza pregiata dati In dono a Pilunno dalla regina Ori zia (Xli, 106-110). Pinarla: nome di una famiglia di Pallanteo, alla quale fu affidata la custodia del culto di Ercole sull'Ara Massima (VIli, 314-315). Plracmone: uno dei Ciclopi della fucina di Vulcano (VIli, 495). Plrgi: città sulle coste dell'Etruria, le cui rovine si osservano ancora nella località di S. Severa. Si schiera agli ordini di Asture contro Mesenzio (X, 239). Pirgo: regale nutrice di tanti figli di Priamo, si accorge che colei che si dice Beroe e invita le donne troianc a incendiare le navi, è una dea che ha assunto le sembianza della moglie di Dorlclo (V, 680-689). Piritoo: re dei Lapiti, figlio di lssione e di Nefele come i Centauri, sposò lppodamia. Rimasto vedovo avrebbe voluto sposare una dea e a tal fine scese nell'Averno con Teseo per rapirvi Proserpina, ma Plutone, scoperta l'audace impresa, incatenò l'incauto presuntuoso nel Tartaro (VI, 489). Pirro: o Neottolemo, figlio di Achille, dopo la morte del padre, continuò con accanimento la lotta contro Troia. Entrò nella città chiuso nel cavallo di legno (li, 300); mise a ferro e fuoco la reggia (Il, 577-578, 603-622) e uccise il vecchio Priamo (Il, 647-678); ma Anchise dice a Enea che a Pldna (168 a. C.) L. Emilio Paolo vendicherà la morte di questo vecchio (VI, 1012-1015); ritorna In patria con Andromaca e Eleno prigionieri, e sposa Ermione togliendola al fidanzato Creste, il quale irritato lo uccide (Ili, 400-401, 405-408); ne accenna anche Diomede (Xl, 329-331). Pisa: città etrusca, ma di origine altea; i suoi fondatori provenivano infatti dalla greca Pisa, città del Peloponneso poco a nord di Olimpia e del fiume Alfeo. l suoi soldati, comandati da Asila, sono alleati di Enea contro Turno e Mesenzlo (X, 233-235). Plstrl: v. Memmo. Plemlrio: promontorio siciliano che delimita a sud il golfo di Siracusa; è l'attuale capo Murro, la cui estremità è Punta del Gigante (111, 841). Plutone: re dell'Averno e marito di Proserpina. ~ detto anche Giove Stlgio (IV, 770) e Dite (IV, 848; VI, 162, 340, 669).
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Dizionario dei nomi e dei luoghi Po: Il maggiore fiume d'Italia ha le sue sorgenti In un boschetto di lauri nei Campi Elisi (VI, 804-808). Con il Po hanno relazione i miti di Fetonte, di Cicno e delle Eliadi. E inoltre: IX, 824-825. Pollbete: sacerdote di Cerare; Enea lo incontra nei Campi del Pianto (VI, 601). Polldoro: figlio di Prlamo, nell'imminenza della guerra, fu dal padre affidato con molto denaro a Polinestore, re di Tracia, ma questi per avidità lo uccise. Enea ne scopre miracolosamente la tomba e gli presta le onoranze funebri secondo il rito (111, 29-83). Pollfemo: ciclope accecato da Ulisse; ne racconta il fatto Achemenide, che Enea incontra In Sicilia (111, 752-787, 800, 814). Pollssena: figlia di Priamo, che Andromaca dice ad Enea essere stata immolata sotto le mura di Troia presso una tomba nemica (111. 395-397); secondo la leggenda essa avrebbe dovuto essere sposa di Achille, ma Paride uccise l'eroe greco proprio durante la celebrazione delle nozze nel tempio di Apollo, che sorgeva tra il campo greco e Troia. Rapita da Neottolemo, fu da questo immolata sul sepolcro del padre. Pollte: figlio di Prlamo e di Ecuba, è una delle vittime di Pirro durante la distruzione di Troia (Il, 648-656); una delle tre schiere di giovinetti, che svolsero il gioco nei ludi funebri in onore di Anchise, era guidata da Prlamo, figlio di Polite (V, 594-597). Polluce: v. Dioscuri. Pomezia: antichissima città dell'Agro Pontlno, contesa tra Volsci e Romani, poi distrutta nel 495 a. C. Sorgeva nell'attuale località di Cisterna di Latina (VI, 933). Pompeo: Anchise nei Campi Elisi indica ad Enea Pompeo e Cesare, l due grandi generali che dapprima, con Crasso, formarono il primo trlumvlrato (60 a. C.), e Pompeo sposò anche la figlia di Cesare; ma poi divennern nemici e nel 48 a. C. si scontrarono a Farsalo In una grande battaglia che si concluse con la vittoria di Cesare. Pompeo, fuggito in Egitto, fu ucciso appena sbarcato (VI, 998-1004). Populonla: città etrusca, sulla costa tirrena, poco a nord di Piombino; ha mandato i suoi soldati con Abante contro Turno e Mesenzlo (X, 225-226). Porsenna: principe etrusco che, disceso da Chiusi, dopo la cacciata dei Tarquini, pose l'assedio a Roma e la umiliò, imponendo ostaggi, che poi, colpito dall'eroismo dei Romani, restitui. Gli episodi di questa guerra sono effigiati sullo scudo di Enea (VIli, 752758). Portunno: dio italico, protettore dei marinai. Nella regata dei giochi funebri organizzati in onore di Anchise, spinge la nave di Cloanto, Il quale vince (V, 262-263). Potlzlo: fu l'iniziatore del culto di Ercole sull'Ara Massima e capostipite della famiglia romana dei Potizii (VIli, 314, 328).
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Povertà: figura mostruosa che Enea vede nel vestibolo dell'Orco (VI, 349). Preneste: l'attuale Palestrina, fondata da Ceculo; la città si schiera contro l Trolanl (VII, 779-792); Evandro, però, racconta ad Enea di aver vinto Preneste e di aver ucciso il suo re Erulo; perciò Ceculo non sarebbe il fondatore della città (VIli, 651-662). Prlamo: 1l figlio di Laomedonte e re di Troia. Da giovane visitò la sorella Eslone, re-· gina di Salamina, e l'Arcadia (VIli, 178-180), Enea regala a Latino lo scettro, la tiara e le vesti di Priamo (VII, 286-290); la fine di Prlamo ha inizio con il suo incontro con Slnone (Il, 73-77); Priamo ordina che gli Slano tolte le manette e dice a Sinone di considerarsi un Trolano (11,183-186); Il vecchio re, di fronte alla rovina della città, Indossa le armi come se potesse contribuire a difenderla, e scaglia contro Pirro, che, entrato nella reggia, uccide Polite (figlio del re), un giavellotto. e Plrro lnferocito lo uccide (Il, 623-685); le tristi vicende di Priamo sono raffigurate anche nel tempio di. Giunone a Cartagine (1, 530, 533 e 566-567); 2) figlio di Polite e quindi nipote del vecchio Priamo, è tra i giovinetti che seguirono Enea e partecipa con Ascanio al gioco di Troia nel corso del ludi funebri In onore di Anchise (V, 594-597). Priverno: città dei Volsci, di cui era re Mètabo, padre di Camilla (Xl, 667-704). Proca: re di Alba Longa, indicato nei Campi Elisi ad Enea dal padre (VI, 925). Procida: isoletta tra Capo Mlseno e l'isola d'Ischia (IX, 863). Procre: figlia di Eretteo e sorella di Orizia, mori uccisa dal marito Inavvertitamente, mentre lei lo seguiva, di nascosto, durante una caccia. Enea la vede nel Campi del Pianto (VI, 557). Proserplna: regina dell'Averno e moglie di Plutone; le è sacro l'albero dal ramoscello d'oro (VI, 174-189, 260-261, 776-779); ogni uomo ha un capello che la dea strappa al momento della morte (IV, 840-851); Plritoo e Teseo tentarono di rapire la regina dell'Ade (VI, 488494). Proteo: dio marino, dotato di spirito divinatorio; aveva la sua dimora abituale nell'Isola di Pharos, di fronte ad Alessandria d'Egitto ed estendeva il suo dominio sul Mediterraneo orientale. Nella sua sede accolse Menelao di ritorno dalla guerra di Troia (Xl, 325-327). Quirino: divinità ftalica, propriamente sabina, diventata poi per i Romani Marte e quindi confusa con Romolo, divinizzato. Il nome stesso, che suona • vibratore della lancia •. ha un significato guerriero. Virgilio lo considera senz'altro come appellativo di Romolo (1, 341). . Oulrltl: appellativo del popolo romano che si connette con Quirino. Delle varie spiegazioni è la più sicura. Perciò non sembra accettabile la sua derivazione da Cure (VII, 815).
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Radamanto: figlio di Giove, fratello di MInossa e re di Creta, divenuto proverbiale per la sua rettitudine e per le giuste leggi date al suo popolo, dopo la morte fu collocato nell'Ade come giudice delle anime insieme con Mlnosse ed Eaco, ma con l'incarlco·particolare di giudicare l colpevoli dei reati per i quali sono previsti l supplizi del Tartaro (VI, 699703). Ramnete: capo dei Rutuli e Indovino, è ucciso da Nlso (IX, 396-400). Rapone: etrusco fedele a Mesenzlo, uccide l trolani Partenlo e Orse (X, 939-940). Rea: sacerdotessa; ha segretamente amato Ercole e gli dette un figlio: Aventino, alleato dJ Turno (VII, 751-761). Rebo: Il cavallo di Mesenzio ucciso da Enea (X, 1072-1085, 1113-1116). Remulo: dJ Tivoli, amico di Cèdico, dal quale aveva avuto In dono una splendida cintura, che Remulo, morendo, aveva dato al nipote, dal quale era poi passata In possesso di Ramnete (IX, 439-445). Reno: Il fiume Reno, raffigurato bicornuto, a simbolo della Germania, sullo scudo di Enea (VIli, 844). Reso: re della Tracia e alleato di Troia. Fu ucciso da Dlomede e l'episodio è raffigurato nel tempio di Giunone a Cartagine (1, 54454&).
Reteo: rutulo, Inseguito dai troiani Teutra e Tlre, è ucciso da Pallante (X, 512-517). Rateo: promontorio della Troade (VI. 625). Reto: rutulo ucciso da Eurialo (IX, 423-429); forse lo stesso che è detto padre o stirpe vetusta di Anchemolo (X, 495-497). Rlfeo: trolano, che partecipò con Enea al tentativo disperato di respingere i Greci penetrati In Troia (Il, 422. 488, 527). Roma: Giove annuncia a Venere che dai discendenti di Enea un giorno Romolo fonderà una città i cui abitanti si chiameranno Romani (1, 320-323); e al dominio di questa città non sarà posto alcun limite né di spazio, né di tempo (1, 324-325): ancor più esplicito è Anchlse (VI, 936-943); la futura Roma è effigiata con le sue glorie anche sullo scudo di Enea (VIli, 740-849): Evandro indica i luoghi sul quali sorgerà Roma (VIli, 393-420). Romolo: è destinato dal Fato ad essere fondatore di Roma (1, 320-323; VI, 940-943); e sarà figlio di Marte (1, 318-319; VI, 936-937): sullo scudo di Enea sono raffigurati gli eventi della sua vita dalla nascita alla fondazione di Roma e alle guerre combattute nel primi tempi (VIli, 733-743). Rufra: una città di questo nome sembra che sorgesse nel territorio Intorno all'attuale cittadina di Presenzano In provincia di Caserta, fra Teano e Cassino (VII, 851). Rutull: sono gli abitanti del piccolo regno di Dauno, padre di Turno, la cui capitale era Ardea. Il Numlco, piccolo corso d'acqua, divideva" Il territorio dei Rutuli da quello dei Latini. Del Lazio costituivano il gruppo etnico più compatto e più battagliero; facevano raz-
zie nel territori confinanti ed avevano mire espansionistiche, per la qual cosa erano costantemente in guerra con i gruppi etnici della regione, costretti ad essere, come gli Arcadi di Evandro (VIli, 164-167), continuamente sulla difensiva. Perciò, quando Enea sbarca alle foci del Tevere, sono l primi a volerlo ricacciare nel mare; e con l'aiuto degli altri popoli del Lazio, che più per timore che non per convinzione si alleano a questi predonl, assalgono dapprima l'accampamento che l Trolanl si sono costruiti alla foce del Tevere (IX, 31-82, 201-220, 641-977); poi quando Enea sbarca sul litorale con gli alleati Arcadi ed Etruschi, tentano di resplngerli sulle navi. ~ questa la battaglia più grande di tutta la guerra e la sua descrizione occupa tutto Il decimo libro. Il secondo grande scontro awiene nella compagna di Laurento (Xl, 737-1068); la morte di Camilla sconforta l Rutuli e i loro alleati, e cercano scampo con la fuga verso le mura di Laurento (Xl, 1065-1099). Sabel: arabi del paese di Saba. la parte meridionale della penisola arabica, corrispondente all'incirca all'odierno Yemen (VIli, 820). Sablnl: è una delle popolazioni più antiche medloitaliche, legata Intimamente alla storia di Roma. Nell'azione del poema virgillano i Sabini, guidati da Clauso, partecipano alla guerra come alleati di Turno, ma nel nome del loro Capo, che sarebbe il fondatore della • gens Claudia •, traspare già lo stretto rapporto che essi avranno con Roma, documentato nel poema anche dalle raffigurazloni dello scudo di Enea: Il ratto delle Sabine, la successiva guerra e infine la pace con il loro re T. lazio (VII, 810-831; VIli, 740-746). Anche Evandro aveva sposato una sabina, la madre di Pallante (VIli, 595-596). Sabino: antenato di Latino, la cui effigie è nel vestibolo della reggia di.Laurento. Secondo VIrgilio, Sabino era un • coltivatore di viti • e agricoltore (VII, 212-213). Saces: cavaliere rutulo che porta a Turno la notizia della morte di Amata e del pericolo che corre Laurento (Xli, 816-832). Sacranl (schiere sacrane): popolazione del regno di Turno (VII, 913-914). Salamlna: isola del golfo di Atene; vi era re Telamone, marito di Esione, sorella di Priamo. SI ricorda la visita alla sorella del re di Troia (VIli, 175-178). Salii: collegio dei sacerdoti addetti al culto di Marte, che si suddivideva In due parti di dodici persone ciascuna: l Salii del Palatlno e l Salii del Oulrlnale. Essi avevano In custodia l dodici scudi sacri conservati sul Palatlno e celebravano due feste con processioni e canti. VIrgilio chiama con lo stesso nome l sacerdoti che celebrano l riti In onore di Ercole, dando ad essi anche le stesse attribuzioni rituali (VIli, 332-355). Sallo: atleta, originario deii'Acarnanla, regione della Grecia settentrionale, sulla costa del Mar Ionio: partecipa alla gara di corsa nel
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Dizionario dei nomi e dei luoghi giochi funebri In onore di Anchise (V, 325326, 346-347, 359-360, 364-366, 378-379). Salmoneo: figlio di Eolo, capostipite della gente eolica e fratello di Sisifo, diventato re deii'Eollde (o Elide) montò in superbia e volle passare per un dio. SI costruì pertanto un carro, sul quale, co1·rendo di notte sopra un ponte di rame con In mano fiaccole accese, Intendeva Imitare Il rumore del tuono e i lampi del fulmine. Giove, cui la scimmlottatura non piacque, lo scaraventò con un vero fulmine nel Tartaro, dove lo Incontra Enea (VI, 721734). Same: città dell'isola di Cefalonia, che Enea vede navigando nel canale che separa questa Isola da ltaca (111, 336). Samo: Isola delle Sporadl, prossima alla costa dell'Asia Minore, In cui sorgeva un tempio famoso di Giunone (1, 21). Samotracla: Isola del Mare Egeo, di fronte alla foce del fiume Marltza, che nella Tracla segna Il confine fra Grecia e Turchia. VI regnò Dardano, che poi si trasferl nella non lontana Asia Minore, ove costrul Troia (VII, 241246). Sarno: fiume della Campania, che entra nel mare tra Torre Annunziata e Castellammare di Stabia. Le popolazioni della pianura del Sarno si schierano con Ebalo, loro re, contro l Trolanl (VII, 850--851). Sarpedonte: figlio di Giove; re della Llcla, alleato di Troia, fu ucciso da Patroclo. Giove accenna con tristezza alla sua morte (l, 120; X, 601); un suo figlio spurlo, Antifate, segui Enea (IX, 842·843); e l suoi fratelli' Claro e Temone (X, 165). Satlcull: abitanti di Saticula, città della Campania, presso l'attuale Caserta vecchia, partecipano con Aleso alla guerra contro Enea (VII, 839). Satura: regione del regno di Turno, tra Anzio e Terracina, nella cui pianura è una • nera palude •: le paludi pontlne (VII, 919-920). Satumla: cosi fu chiamato il Lazio, secondo la leggenda che favoleggiò Saturno detronizzato da Giove e rifugiatosi nel Lazio, ove fu Il primo re (VIli, 414-416). Saturno: antichissima divinità itallca Identificata poi con Il greco Cronos; ma del mito latino conservò la primitiva natura essenzialmente agreste e solare, personificata In un re che In tempi lontanissimi, cacciato dal figlio, sarebbe approdato In Italia, dove avrebbe con le buone leggi e con Il lavoro, specialmente della terra, fatto felici l popoli del Lazio; e Il suo regno fu chiamato • età dell'oro •. Perciò Saturno presiedeva alla giustizia, al giorni, alle stagioni, all'anno, alle intemperie, alle sementi, all'agricoltura; e in suo onore si celebravano l Saturnall, nelle calende di gennaio (1, 667; VIli, 372-373, 416; Xl, 314). Scamanclro: fiume della Troade che i Trolanl erranti alla ricerca di una nuova patria ricordano con nostalgia. Eleno chiama nella
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sua nuova patria, Butroto nella Caonia, Scamandro un fiumicello asciutto (111, 427). Scee: Scea era chiamata una delle sei porte della città di Troia, quella occidentale; e Eiano, che alla morte di Plrro ebbe in sorte una parte del suo regno e vi costrul una nuova Pergamo, volle chiamare anche le porte della nuova città con i nomi di quelle della Troia distrutta (111, 425-428). Scilla: figlia di Forco, dio marino, cambiata da Circe, in un impeto di gelosia, In mostro marino, terrore dei naviganti, che col suoi latrati stordiva e poi divorava appostata sullo stretto di Messina di fronte a Cariddi: ha Il capo e il petto di donna, Il ventre di lupo, le estremità di pesce (1, 234-235; 111, 512522); Enea vede il mostro nel vestibolo dell'Averno (VI, 361); e Giunone la ricorda come mezzo Inutile per Impedire a Enea lo sbarco In Italia (VII, 348). Sciplonl: sono i due Sclplonl che Anchise Indica a Enèa nel Campi Elisi; P. Cornelio Sclplone l'Africano maggiore, Il vincitore di Annibale a Zama (202 a. C.), e P. Cornello Sclplone Emiliano, l'Africano minore, che distrusse Cartagine (146 a. C.); le loro anime sono destinate a ritornare sulla terra (VI, 10181019). Sebetlde: la Ninfa figlia del torrente Sebato, uno del tanti che sfociano nel golfo di Napoli. Sebetlde sposò Telone e divenne madre di Ebalo (VII, 844-847). Sellnunte: città fondata dal Greci di Megara sulla costa meridionale della Sicilia occidentale, oggi importante zona archeologica del comune di Castelvetrano (111, 857-859). Sarasto: trolano molto vicino a Enea, del quale gode grande fiducia. Enea gli affida di preparare, insieme con Mnesteo e Sergesto, la flotta per partire da Cartagine (IV, 340348); Enea, prima di partire per Pallanteo, gli aveva affidato, insieme con Mnèsteo, la direzione del lavori di fortificazione (IX, 216220); con Mnesteo rinfranca l Trolanl terrlflcati dalla presenza di Turno nell'interno del campo e Il Incita ad affrontarlo (IX, 928-931 ); Enea gli dà le belle armi del vinto Emonlde e lo invita a farne un trofeo In onore di Marta (X, 684-686). E inoltre: Xli, 695. Sargesto: troiano, capostipite della gente Sergia (V, 131), partecipa alla regata nel giochi funebri in onore di Anchlse al comando della nave Centauro (V, 132); sfascia la nave contro gli scogli, ed Enea per consolarlo gli regala del giovenchi e la schiava Fàloe (V, 134-313); travolto dalle onde della tempesta provocata da Eolo, compare Inaspettato ad Enea nel tempio di Giunone a Cartagine, mentre la regina Didone sedeva In giudizio e rendeva giustizia (l, 589-595); Enea uscito dalla nube gli tende la mano (1, 716-717). E Inoltre: V, 513. Savero: monte della Sabina (VII, 820). Slbllla: nome comune a tutte le sacerdotesse di Apollo, che privilegiate del dono della profezia, pronunciano oracoli. Nel poe-
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ma vlrglllano è particolarmente famosa la Slbllla Cumana, chiamata Delfobe, che nel canto sesto guida Enea nella visita del regno del morti. Slcanl: popolazione antichissima del periodo eneolitico scesa nella penisola dal nord, fermatasi per un certo tempo nel Lazio e poi a poco a poco splntasl sino nella Sicilia occidentale, cui avrebbe dato il nome (VII, 913; VIli, 383; Xl, 395). Slcheo: sposo di Didone, ucciso da Plgmallone. Ne racconta Il fatto, da cui poi trasse origine la fondazione di Cartagine, Venere ad Enea, al quale si era presentata con le sembianza di una fanciulla di Tiro che aveva seguito Didone In terra africana {1, 396-430); lo ricorda anche Didone {IV, 550-556, 607, 663664); Cupido In braccio di Didone nelle sembianza di Ascanio, toglie dal cuore della regina a poco a poco il ricordo del marito morto (1, 853-857); Didone lo ricorda ad Anna {IV, 27,28, 37-39); Enea lo incontra nei Campi del Pianto con Didone {IV, 587-589). Slcull: popolazione ltalica che alcuni critici Identificano con l Sicani; secondo altri i Sicani sarebbero giunti nell'isola ancora prima. l Slcull, di origine aria, sarebbero discesi lungo la penisola nel corso del secondo millennio e alla fine, verso il 1000, si sarebbero stanziati nella Sicilia orientale {1, 639; 111, 840; V, 28, 327, 475, 742). Sldone: città fenicia, capitale del regno di Belo, padre di Didone, detta perciò • Sidonia • {1, 719; IV, 654). Attualmente si chiama Saida. città llbanese sulla costa, poco a sud di Beirut. Slgeo: promontorio della Troade presso il quale si era ancorata la flotta che aveva trasportato i Greci a combattere contro Troia {Il, 392). Sila: altipiano boscoso della Calabria (Xli, 896). Silvano: divinità latina, che presiedeva alla fecondità del campi e delle greggi. Per il culto e gli attributi si confondeva con Pani (VIli, 703). Silvia: fanciulla, figlia di Tlrro, Il pastore di Latino, alla quale era caro il cervo che Ascanio colpi con una freccia (VII, 552-555, 571572). Silvio: figlio ultimo di Enea e di Lavinla, fondatore di Alba Longa. r: Indicato da Anchlse ad Enea nel Campi Elisi (VIL 917-924). Slmeto: fiume siciliano che si versa nello Ionio tra Catania e Lentini {IX, 712). Slmoenta: fiume della Troade, ripetutamente rievocato con nostalgia insieme con l'altro fiume, lo Xanto, dal Trolani che vanno alla ricerca con Enea di una nuova patria. Andromaca, nella nuova terra, a Butroto, s'illude di llbare ad Ettore, al suo ricordo, vicino all'acqua d'un finto Slmoenta (111, 371-375). Inoltre: l, 120, 725: V, 289, 670, 849; VI, 111; 79. Slnone: soldato greco che, consegnatosi da solo a pastor trolanl per dare l'ultimo toc-
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co all'Inganno del cavallo di legno architettato dall'astuto Ulisse, seppe con le sue falsità persuadere l Trolani a trasportare quella macchina Insidiosa dentro la città e a preparare a Troia quella rovina e quello scempio, cui non erano stati sufficienti le armi e Il valore dei guerrieri greci {Il, 75-244); Sinone furtivamente apre gli sportelli del cavallomacchina e fa uscire l guerrieri che invadono la città, massacrano l guardiani, spalancano le porte e fanno entrare l'esercito greco (Il, 322-335); Sinone vittorioso semina fuoco e Insulti (Il, 312). Sirene: mostri marini Immaginari con la testa e Il corpo di donne sino ai fianchi, nel rimanente pesci. Col loro canto soave adescavano l marinai, e la nave, abbandonata a se stessa, andava a cozzare e a naufragare sugli scogli; e l marinai diventavano cibo degli ingordi mostri (V, 911-915). Slrlo: stella, la più splendente, della costellazione del Cane, detta apportatrice del caldo torrido o della canicola, comparendo essa nei mesi dell'estate {111, 176-177; X, 351-354). Slrtl: sono le due vaste insenature che forma Il Mediterraneo centrale sulla costa dell'Africa settentrionale e quindi della Libia: la Slrtl Maggiore o golfo di Sidra ad oriente tra Bengasi e Misurata, la Sirti Minore ad occidente fra Tripoli della Libia e Biserta della Tunisia. Il mare In esse è poco profondo ed a tratti quasi affiorano banchi di sabbia. Le navi dJ Enea si sono lnsabbiate nella Slrti Minore (1, 130-134, 172-176; V, 208; VI, 73; VII, 348). Sogni: l vani sogni, cioè le parvenze della realtà, sono presenti nel vestibolo dell'Averno appesi a foglie di un olmo gigantesco. Li vede Enea quando scende nel regno del Morti (VI, 358). Sonno: figlio della Notte e fratello della Morte: durante Il viaggio dalla Sicilia a Cuma, durante la notte il Sonno awolge Palinuro e lo fa precipitare nel mare (V, 882-919); Enea ne vede l'Immagine nel vestibolo dell'Averno (VI, 352). Soratte: monte a nord di Roma: sulla vetta sorgeva .un tempio dJ Apollo (VII, 798; Xl, 970). ..._ Sparta: città greca della Laconia (Peloponneso). In veste di fanciulla e armata come una vergine dJ Sparta si presenta a Enea Venere {1, 368-372): è anche ricordata per l'incontro awenuto In essa tra Parlde ed Elena {Il, 710; VII, 413-415; X, 119-120). Spio: Nerelde del seguito di Nettuno (V, 873). Stenelo: greco che entrò In Troia rinchiuso nel ventre del cavallo di legno {Il, 329). Sterope: ciclope addetto alla fabbricazione del fulmlnt di Giove nella fucina di Vulcano (VIli, 495). Stlge: fiume che scorre nove volte intorno al regno dei Morti (VI, 171, 197, 466, 480); Il giuramento pronunciato In nome dello Stlge determina un Impegno Inderogabile (VI, 402406; Xli, 1024-1025).
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Dizionario dei nomi e dei luoghi Strlrnone: fiume della Macedonia, sfocia nel Mare Egeo ad est della penisola Calcidica (X, 340-343). Strlrnonlo: arcade ucciso da Aleso (X, 526). Strofadl: gruppo di piccole Isole del Mar Ionio, a sud di Zante. Enea vi sbarcò costretto da una tempesta e vi trovò le Arpie (111, 259-264). Sulmona: città del Volsci alleata di Turno; è l'attuale Sermoneta In posizione dominante le Paludi Pontine in provincia di Latina (X, 657-661). Taburno: monte del Sannio, a nord-ovest di Avellino, oggi Monte Vergine (Xli, 896). Talla: Nerelde del seguito di Nettuno (V, 873). Tantalo: re leggendario della Lidia, figlio di Giove e padre di Penelope e di Niobe. Gli dèl lo invitavano spesso ai loro banchetti; ma essendo perciò salito In superbia ed avendo egli sottratto dalla loro tavola l'ambrosia e Il nettare per portarli agli uomini (secondo un'altra tradizione avrebbe preparato In pasto agli dèl il proprio figlio Pelope per provare a qual punto arrivasse la loro chiaroveggenza) essi lo condannarono nell'Averno alla pena terribile della fame e della sete. Virgilio non lo nomina, ma vi allude chiaramente nel versi 743-748 del canto VI. Tapso: città della Sicilia orientale fondata dal Calcidesi, tra Megara e Siracusa (111, 837). Taranto: Enea attraversa il golfo di Taranto nel viaggio da Butroto alla Sicilia (111, 676). Tarconte: vecchio re etrusco dotato di facoltà divinatorie, con Il quale Enea si è alleato contro Turno. Come Indovino sa che la guerra contro Mesenzlo può essere vinta soltanto se a capo dell'esercito è uno straniero e manda ambasciatori ad Evandro a invltarlo ad essere egli Il capo dell'esercito etrusco (VII, 589-592); Tarconte è accampato con l'esercito etrusco nella campagna di Cere, ed Enea ne scorge da un'altura l'accampamento (VIli, 104-107); conclude un'alleanza con Enea (X, 201-203); dà disposizioni al soldati della sua nave per lo sbarco (X, 373-381); ma la nave va a finire In una secca scogliosa e si sfascia (X, 386-392); come capo è accanto ad Enea nelle onoranze funebri ai caduti (Xl, 230-231); nella grande battaglia delle opposte cavallerie, rlncuora l suoi e fa prigioniero Venulo (Xl, 896-934). Tarpea: strapiombo roccioso sul lato occidentale del colle Capitolino (VIli, 404). Tarpeia: una delle giovani italiche che formano la guardia d'onore di Camilla (Xl, 809812). Tarqulnl: le vicende di Tarquinia Il Superbo, ultimo re di Roma, sono preannunciate da Anchlse ad Enea nel Campi Elisi e sono anche effigiate sullo scudo di Enea (VI, 985-994; VIli, 752-754). Tarqulto: guerriero latino figlio di F:<~uno e della ninfa Driope; è ucciso da Enea (X, 696709).
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Tartaro: luogo particolare dell'Erebo, nel quale sono punite le anime del cattivi. E nella Immensa città circondata da tre cerchi di mura, e da un fiume vortlcoso, Il Flegetonte, le cui acque sono di fuoco; vi si entra da una porta grandissima e dal mezzo della città si eleva una torre altissima, sulla quale siede Tlslfone con la veste Insanguinata. Giudice è Radamarito di Cnosso, il quale confessa, castiga e costringe l cattivi all'espiazione del loro delitti (VI, 678-716]; ed Inoltre: V, 775 e IX, 603. Taumante: figlio di Gea e di Ponto, sposò l'oceanlna Elettra e divenne padre di Iride e delle Arpie (IX, 5). Tazlo: Tito Tazlo, re del Sablnl, che In seguito al ratto delle Sablne mosse guerra a Roma e, con Il tradimento di Tarpea, prese Il Campidoglio. Fatta poi la pace, condusse Il suo popolo da Curi a Roma e regnò Insieme con Romolo. Fu ucciso dai laurentlni. E effigiato sullo scudo di Enea (VIli, 740-746). Tegea: città dell'Arcadia; vi sorgeva Il famoso tempio di Atena Alea, nel quale erano conservate molte opere del grande scultore greco Scopas (V, 326). Telebol: abitanti di piccole Isole del mare Ionio tra l'isola di leucade e la costa deiI'Acarnania. Erano dediti alla plrateria e una parte di essi guidati da Telone, si trasferirono nell'Isola di Capri, la occuparono e vi si stabilirono (VII, 844-847). Telone: re del Teleboi di Capri, sposò la ninfa Sebetide e divenne padre di Ebalo (VII, 844-847). Temllla: rutulo, ferl Involontariamente Il commilitone Priverno, che fu poi ucciso dal trolano Capi con una freccia (IX, 699-706). Tempesta: divinità delle tempeste del mare, alla quale Enea sacrifica una pecora nera (111, 147-148; v, 816). Tenedo: lsoletta dell'Egeo, prossima alla costa della Troade; di essa l Greci si sono serviti per nascondere alla vista del Trolanl la flotta in attesa del segnale di Sinone. Da Tenedo arrivano anche i due grossi serpenti che straziano laocoonte e l suoi due figli (Il, 30-35, 254-283, 318-322). Termodonte: fiume del Ponto, alla cui foce era Temiscira, la capitale del favoloso regno delle Amazzoni, che oggi si potrebbe riscontrare nella cittadina di Terme ad oriente di Samsun (Xl, 815). Terone: è Il primo rutulo che Enea abbatte appena sbarcato dalla sua nave con gli alleati Etruschi (X, 398). Terslloco: capo dei Peonl alleati di Troia; è stato ucciso da Achille ed Enea lo Incontra nel Campi del Pianto più remoti (VI, 599). Teseo: eroe greco, figlio di Egeo e di Etra, autore di Innumerevoli e famose Imprese, che costituiscono la parte più cospicua del racconti mltlci della letteratura greca. Nel poema vlrgillano è ricordata l'uccisione, a Creta, del Mlnotauro (VI, 35); la sua discesa all'Inferno per rapire Proserplna (VI, 136, 490); e per
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Dizionario dei nomi e dei luoghi
questa sua Impresa Enea lo vede punito nel Tartaro a starsene eternamente seduto (VI, 761-762). T•lfone: una delle tre Furie: Enea la vede sull'alta torre del Tartaro, dove esegue con esemplare diligenza gli ordini di Radamanto (VI, 685-687, 704·707); Teslfone infuria tra gli eserciti nella grande battaglia sul litorale del Lazio (X, 956). TesS8nclro: greco, era nel ventre del cavallo di Troia (Il, 328). Teti: ninfa figlia di Nereo, moglie di Peleo e madre di Achille; vive alla corte di Nettuno (V, 872); Venere ricorda a Vulcano ch'egli ha accolto la sua preghiera di fabbricare le armi di Achille (VIli, 446-447). Tetrlca: monte della Sabina, non identificabile (VII, 820). Teucrl: sono indicati con questo nome i di· scendenti di Teucro che, figlio di Scamandro e della ninfa Idea, sarebbe stato il primo re della Troade: e da lui i Trolani furono chla· matl anche Teucrl. Quando poi nella Troade giunse Dardano, Teucro lo ospitò, gli diede In sposa la figlia e gli affidò il governo del territorio sul quale poi sorse Troia (111. 127135); Anchise dice a Enea che nei Campi Elisi riposa l'antica stirpe di Teucro, razza meravigliosa (VI, 794-797). Teucro: figlio d iTelamone, re di Salamina, e di Esione, sorella di Priamo; quando ritornò dalla guerra di Troia e al padre disse che Aiace, suo fratellastro, era morto, Telamone s'in· furlò e lo dichiarò colpevole; ed egli dovette fuggire. Dopo aver girovagato a lungo, giunse a Sidone, nella Fenicia, e offrì i suoi servigi al re Belo, il quale gli affidò la conquista di Cipro. Conquistata l'isola ebbe in dono un ter· rltorlo dell'Isola, sul quale fondò una città che, a ricordo della patria lontana, chiamò Salamlna. Lo ricorda Didone nel suo primo incontro, con Enea (1, 725-732). Tevere: il Tevere ha funzioni uoolto importanti nella struttura del poema virgiliano. Il vecchio fiume che durante Il regno di SE!turno si chiamava Albula, mutò poi il suo nome in quello di Tevere, da Tlbris, re del Lazio (VIli, 385·388); personificato nel dio liberino compare In sogno a Enea per dirgli che è giunto alla fine del suo viaggio travagliato (VIli, 3775); ed Enea promette al padre Tevere un culto perenne di riconoscenza (VIli, 81-87); Il fiume facilita la navigazione sulle sue acque alle navi di Enea, che ha accolto il suo consiglio di recarsi a chiedere aiuto a Evandro (VIli, 96-99); le sue acque sono arrossate dal sangue Trolano (Xl, 688-690), e latino (Xli, 45-49); accoglie Turno e lo lava dalla strage compiuta nel campo troiano (IX, 975-977); e lava anche le ferite di Mesenzio (X, 10431045). Lo aveva scorto Enea dal mare attraverso un bosco Immenso (VI, 35-39); il Tevere si fermò con un rauco muggito quando le navi troiane furono miracolosamente trasformate In ninfe marine (IX, 158-159); lo invoca Pallante prima di assalire Aleso (X, 536-539).
Ed inoltre: Il, 950; 111, 613; V, 91 e 1143; VI. 1058; VII, 37 e 179; Xl, 561 e 627. Tiberina: v. Tevere. Tlbrls: re preistorico del Lazio, di natura feroce, che dominò sulla regione dopo l'età dell'oro di Saturno. Dette Il suo nome, che significa • fatale •, al fiume che prima si chiamava Albula (VIli, 385-388). Tlburto: figlio di Anflarao che, venuto in Italia da Argo con l fratelli Catlllo e Cora, ha fondato Tivoli (VII, 770-772). Tideo: padre di Diomede, fu uno del Sette contro Tebe, dove mori. Il mito gli attribuisce una forza smisurata ed un coraggio eccezionale. Enea lo Incontra nei Campi del Pianto più remoti (VI, 595). nmavo: fiume della Venezia Giulia, che si getta nel mare fra Aquileia e Trieste. Presso la sua foce sbarcò Antenore, Il fondatore di Padova (1, 283-288). Tlmbreo: soprannome dato ad Apollo per il tempio costruito In suo onore e Il bosco a lui consacrato In una località presso Trota, detta Timbra (111, 103). Tlmete: Il trolano che per primo esorta l suoi concittadini a condurre Il cavallo entro le mura (Il, 45-47); non dovrebbe però essere il figlio di lcetaone che fu ucciso da Turno (X, 162). nnclaro: re di Sparta, sposo di Leda, la madre di Elena, di Clitennestra e dei Dioscuri, cioè del Tlndaridi (Il, 699). Tiro: città della Fenicia, che sorgeva sulla costa del Libano dove oggi trovasi Sur. Era governata da Pigmalione, fratello di Didone, la quale aveva sposato un ricco della stessa città, Slcheo. Pigmalione bramò impadronirsi delle ricchezze di Sicheo e lo uccise; e Didone allora fuggi con uno stuolo di abitanti della medesima Tiro fin sulle coste dell'attuale Tunisia, ove fondò Cartagine. Venere si presenta a Enea con le sembianza di una fanciulla di Tiro (1, 394-395); l Cartaginesi sono detti anche Tiri (1, 489, 825, 870, 888; IV. 380, 566, 750); Anna ricorda Tiro alla sorella Didone (IV, 47); ed inoltre IV, 805. Tirreni: v. Etruschi, Etruria. Tlrro: latino, padre di Silvia e di Almone, custode degli armenti del re Latino e fattore delle sue terre. Fra l latini fu il primo a prendere le armi contro l Trotani dopo l'uccisione del cervo di Silvia (VII, 550-551, 577-580, 604): l figli di Tlrro comandano la retroguardia dell'esercito di Turno (IX, 34-35). Tltanl: figli di Urano e di Gea, padri dei GIganti, con l quali furono spesso confusi, sono una stirpe mitlca più antica degli dèi dell'O· limpo. Tentarono di cacciare daii'Oiimpo Giove e furono gettati nel Tartaro, dove Enea li può vedere (VI, 718). Tltone: figlio di Laomedonte e fratello di Prlamo. ~ Il vecchio decrepito marito dell'Aurora, la quale, quando si sposò, chiese per lui agli dèl l'Immortalità e l'ottenne, ma dimenticò di chiedere per lui anche la perpetua giovinezza; e quando Aurora lo vide rln-
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Dizionario dei nomi e dei luoghi secchito da sembrare uno sterpo inutile, lo mutò in cicala (VIli, 447; IX, 559). Tivoli: la città costruita da Tiburto; si schie· ra con Turno e manda l suoi guerrieri al co· mando di Catillo e Cora, fratelli di Tiburto (VII, 771). Tizio: gigante superbo e arrogante, figlio di Giove; insidiò latona, che fu soccorsa dai figli Diana e Apollo e dallo stesso Giove. il quale lo precipitò nel Tartaro, dove Enea lo vede con l'enorme corpo disteso mentre il suo fegato, che continuamente rinasce, è di· vorato da un enorme avvoltolo (VI, 735-740). Toante: è uno dei Greci che entrarono in Troia rinchiusi nel cavallo di legno (Il, 330). Un altro dello stesso nome, ma troiano, fu ucciso da Aleso (X, 528·529). Tolumnio: augure rutulo (Xl, 535), non ac· cetta che la guerra si concluda con il duello fra Enea e Turno e crea egli stesso l'Incidente che infrange la tregua (Xli, 335-367). Torquato: Tito Manlio Torquato, console nel 340 a. C., vinse al Vesuvio l latini e ordinò l'uccisione del proprio figlio che aveva disobbedito ad una sua legge di guerra che prevedeva per l trasgressori la pena di morte. Il soprannome Torquato gli fu dato per aver egli ucciso in duello un capo gallo ed essersi Impossessato della collana (torques) ed es· sersene ornato. Ad Enea lo indica Anchise nei Campi Elisi (VI, 995-996). Tracia: gli antichi chiamavano con questo nome una vasta regione dell'Europa orientale, compresa tra la Macedonia, il Danubio, Il Ponto Euslno, la Propontlde e il Mare Traeleo. Venere si presenta a Enea vestita come la tracla amazzone Arpalice (1. 369); quivi Enea fece la prima fermata come fosse la sua mèta, e vi costruì una città che chiamò Eneade (111, 18-25); è una regione dove crescono cavalli di un'ottima razza: su un cavallo di Tracla è montato Il piccolo Priamo, figlio di Polite (V, 594-597); ed anche Turno (IX, 6162); Il quale gode del nobili destrieri discen· denti da quelli che Orizia aveva regalato a Pi· lunno (Xli, 105-110). ~ una regione cara a Marta (Xli, 426-433); ma Enea quando seppe da Polldoro la sua disgraziata avventura, se ne partl da quella terra seguito anche da uno stuolo di Traci, tre dei quali sono uccisi da Clauso nella battaglia sul lido del lazio (X, 445-446). Tritone: divinità latina, figlio di Nettuno e della ninfa Salacla: percorreva il mare su un cocchio tirato da ippocampl (cavalli del mare) e altri mostri marini, suonando una conca marina per tranqulllare, secondo gli ordini di Nettuno, il mare o suscitare la tempesta. Aveva busto e capo lrsuto d'uomo, ventre e coda di pesce (X, 271-275); salvò le navi della flotta di Enea Incagliate nelle scogliere delle Are (1, 132-173); si irrita perché Mlseno fa risuonare l mari con la cava conchiglia, e lo travolge di sorpresa In mezzo agli scogli (VI, 218-223); è anche Il nome della nave di Auleste (X, 268-271).
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Troia: la città di Enea distrutta dai Greci: ne aveva avuto ampie notizie anche Didone da Teucro, fratello di Aiace (1, 725-730); ma della sua distruzione parlano anche i dipinti del tempio di Giunone a Cartagine (1, 527-574) ed Enea ne fa un lungo racconto che occupa tutto il secondo canto del poema. Ma Troia risorgerà (VI, 913-916), e i suoi distruttori quando ritornarono o durante Il viaggio o ritornati In patria furono severamente puniti (Xl, 317-346) e a distanza di secoli saranno puniti anche l loro discendenti (VI, 1009-1015). Si omettono le citazioni innumerevoli di minore Importanza e i passi con Il solo nome. Troilo: figlio di Priamo; negli affreschi del tempio di Giunone a Cartagine è ricordata la sua morte (1, 550-556). Tulla: è una delle amiche più care di Camilla (Xl, 810). Tullo Ostlllo: terzo re di Roma (VI, 980983); sullo scudo di Enea è effigiato Il supplizio ch'egli Inflisse al traditore Mezio Fufezlo (VIli, 747-751). Turno: figlio di Dauno e di Venilia, benché Il padre sia ancora vivo, esercita effettivamente le funzioni di re dei Rutuli. Discende dalla stirpe dei re d'Argo (VII, ~22-424); è il pretendente alla mano di lavinla (VII, 64-70); magnifica figura di guerriero, si prepara a cacciare i Troianl dal lazio (VII, 900-910); alza la bandiera di battaglia sulla rocca di laurento (VIli, 1-6); marcia con l'esercito contro il campo trolano (IX, 31-37); compie atti di grande valore e penetra anche nell'interno del campo (IX, 876-977); nella battaglia sul litorale uccide Pallante (X, 577-622); ma è prede-. stlnato alla sconfitta e alla morte (X, 769-795); e il dramma si conclude nel duello con Enea e, nonostante Il suo valore, nell'approssimarsi del momento fatale, egli è come stordito dal malefizio di una civetta, e muore come se la stessa vita dell'uomo fosse determinata dal destino (Xli, 1118-1186). Ucalegonte: troiano; Enea dal tetto della sua casa vede bruciare accanto al palazzo di Deifobo anche la casa di Ucalegonte (Il, 389391). Ufente: 1) alleato di Turno comanda· gli Equi (VII, 856-861; VIli, 10); fu ucciso da Glante (Xli, 582-583); 2) fiume che nasce nel comune di Sezze, scorre sull'orlo nord-orientale delle Paludi Pontlne e si getta nel Tirreno a nord di Terracina. Enea ha fatto prigionieri quattro guerrieri provenienti dal territorio attraversato da questo fiume e Il ha destinati ad essere immolati al Mani, vittime espiatorie della morte di Pallante (X, 657-662). Ulisse: eroe greco, figlio di laerte e di Antlclea, re d'ltaca e sposo di Penelope, padre di Telemaco e dJ Telegono. Partecipò alla guerra contro Troia con valore e con l'astuzia, ed Enea nel poema lo odia e lo disprezza come arditore d'Inganni (111, 337-338); anche laocoonte aveva Intuito, pensando a Ullsse, l'Inganno del cavallo (Il, 59); Palamede, con-
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Dizionario dei nomi e dei luoghi
tra rio alla guerra di Troia, è sua vittima (Il, 112-114); la notte dell'incendio di Troia. con Menelao e con Elena, Ulisse irrompe nella stanza dove Deifobo riposava (VI, 653-654); e Diomede (Xl, 328). Inoltre: Il, 122; 154, 205, 329, 539; IX, 732. Umbrone: sacerdote guerriero, mandato a combattere, alleato di Turno ed a capo dei Marsi, dal re Archippo. Morì combattendo contro i Troianl (VII, 863-871; X, 687).
Valero: italico, che combatté nelle schiere di Messapo; uccide il licio Agide (X, 943-945). Vecchiaia: fantasma tremendo a vedersi che Enea Incontra nel vestibolo dell'Orco (VI, 348). Velia: nome latino della colonia greca di Elea a nord del capo Palinuro (VI, 457). Velino: fiume della Sabina affluente di sinistra del Nera dopo aver formato la cascata delle Marmore (VII, 587-588); ma Velino è anche il nome di un monte dell'Abruzzo, a sud-ovest del Gran Sasso. Venere: nome latino di Afrodite, figlia di Zeus e di Dione o, secondo altri, nata dalla spuma del mare nell'isola di Cipro. t sposa di Vulcano, madre di Cupido, e secondo la leggenda, delle Grazie e d'Imene. t anche madre di Enea, che la dea protesse dall'odio implacabile di Giunone (Ili, 27; IV, 120-121, 434). Al piedi di Giove intercede per Enea (l, 266297) e i l re degli dèi la rasserena (l, 300345); preoccupata, nel consiglio degli dèi si lamenta ancora col padre (X, 24-80); implora Nettuno a facilitare il viaggio al figlio Enea (833-844) e prega Vulcano di fabbricargli armi nuove e gliele consegna (VIli, 430-449 e 713-718); quando il figlio è sbarcato fortunosamente dopo la tempesta sulla costa africana si preoccupa che non vada Incontro a pericoli e lo assiste sotto le sembianza di una giovane cacciatrice (1, 368-466); lo induce ad abbandonare Troia In fiamme e a preoccuparsi di mettere in salvo il padre Anchlse, il figlio Ascanio e la moglie Creusa (Il, 721-757); lo aiuta a trovare il ramoscello d'oro (VI, 245251 ); lo assiste durante le azioni di guerra (X, 423-424, 524-535, 986-988). Venllla: ninfa, sorella di Amata e madre di Turno (X, 100). Venulo: è Inviato dai Latini a chiedere a Diomede di partecipare alla guerra contro Enea (VIli, 11-12); ritorna senza essere riuscito a convincere l'eroe greco (Xl, 280-287); Latino aduna il consiglio dei maggiorenti italicl e Venulo riferisce la risposta di Diomede (Xl, 301-368); si scontra con Tarconte, il quale
lo strappa dali 'arcione e lo porta via con sé (Xl, 914-934). Vesta: divinità romana, immaginata figlia di Saturno e di Opi, dea del focolare e del fuoco che vi si accende e quindi anche della parsimonia e della prosperità domestica. Nel suo tempio ardeva il fuoco sacro e il suo spegnersi era considerato funesto. Lo nutrivano e sorvegliavano le Vestali, giovani sacerdotesse (l, 340); Ettore consegna in sogno a Enea, insieme con i Penati, il fuoco eterno e l'effigie della potente Vesta perché la porti in salvo (1, 368-371); l'ombra di Anchise appare a Enea e lo incita, per comando di Giove, a portare i suoi compagni In Italia; l'eroe troiano si sveglia e venera, con i Lari e i Penati, anche i misteri della canuta Vesta (V, 786-789); sul Penati e sul Lare d'Assaraco e sui segreti della canuta Vesta giura Ascanio (IX, 320-322). Vlbrlo: v. lppolito. Volcente: rutulo, comandante di uno squadrone di cavalleria e padre di Camerte (X, 712); scorge Eurialo (IX, 450-465) e l'uccide (IX, 513-517); ma Niso a sua volta l'uccide (IX, 533-538). Volsci: popolo italico alleato di Turno; prende parte alla guerra al comando di Camilla e di Voluso (IX, 612-614; Xl, 208, 538, 989, 1102). Volturno: fiume della Campania settentrionale (VIli, 839). Voluso: capo dei Volsci e uno dei luogotenenti di Turno (Xl, 576). Vulcano: 1) figlio di Giove e sposo di Venere, è pregato dalla moglie di forgiare nuove armi per Enea (VIli, 430-469, 482-528); ricorda di aver fabbricato, aiutato dal Ciclopi, le armi di Memnone (1, 570) e la spada di Dauno (Xli, 115-119); 2) Isola delle Eolie nella quale Vulcano, coll'aiuto dei Ciclopi, fabbrica le armi di Enea (VIli, 484-489).
Xanto: fiume della Troade nominato spesso nel poema virgiliano, talvolta anche Insieme con l'altro fiume, Il Slmoenta. Era chiamato anche Scamandro (1, 549; IV, 176; V, 670, 850, 853; VI, 111; X, 78). Zacinto: Isola del mar Ionio, l'attuale Zante. La costeggiò Enea durante il viaggio dalle Strofadi a Butroto (111, 335). Zefiro: nome usato dal linguaggio poetico, per Indicare un vento dolce e leggero che soffia da ponente specialmente in primavera. Ma Nettuno lo rimprovera con Euro per aver scatenato la tempesta senza Il suo permesso (l' 155-168).
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GIUDIZI DELLA CRITICA SULLA TRADUZIONE DI CESARE VIVALDI
CARLO BO:
« ... Con la bella traduzione che dell'Eneide ci ha dato, Cesare Vivaldi è riuscito in un'impresa difficilissima e direi che ha vinto la partita, offrendoci un testo vivo, non ingessato, restituendoci un'opera di poesia che avevamo dimenticato o tradito o frainteso ... Se ci fossero altri Vivaldi, se gli editori avessero la fortuna di trovare altri interpreti, dotati della stessa forza di penetrazione e della stessa umiltà, potremmo cominciare a parlare di una riscoperta del mondo antico. Un giorno si farà la storia di queste traduzioni, che è poi anche una storia delle varie ' fortune ' e delle diverse nostre disponibilità, e allora si vedrà nel senso giusto il lavoro fatto dal Vivaldi, si capirà il suo significato, mettendo in luce quelle che sono state le nostre deficienze, le nostre incapacità ... Benda aveva un metro per giudicare gli scrittori del suo tempo, entrare nelle loro biblioteche e verificare, controllare la presenza dei classici. Lasciamo stare le prove e gli esami, limitiamoci a considerare l'esigenza di cui Benda si preoccupava: era il fondo, la base di ogni costruzione, quello che egli intendeva accertare e bisogna riconoscere che aveva ragione. Vivaldi ha dunque anche questo merito e non dobbiamo dimenticare che il suo discretissimo ammonimento sta a indicare una nuova stagione, delle nuove strade, magari la speranza di saldare una catena che finora ha avuto un carattere
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inibitorio e un peso di riduzione. Accogliamolo nel suo spirito di invito, anche perché la sua traduzione non insegue soltanto il puro lavoro del poeta che fa i propri interessi. Di solito un poeta traduce per completare il suo quadro, indicando affinità, possibilità, un futuro. Vivaldi è stato molto più umile, ha tradotto per servire e qui direi che sta la parte nobile e bella del suo lavoro ... Ci basti per oggi mettere in luce il risultato straordinario, il valore d'indicazione, la forza dell'invito: tre elementi che assicurano alla traduzione dell'Eneide qualcosa di più nella luce che viene da una data o da un gusto e appartiene invece alla perfetta fusione fra disponibilità e capacità. Non capita sempre di assistere a una vittoria difficile, e portata avanti con tanta grazia. » L'Europeo, Milano ETTORE PARATORE: « ... Oggi finalmente possiamo salutare con g1o1a il
primo esempio di una riproposizione dell'Eneide nella nostra lingua con modi foggiati ad hoc per farne cogliere l'intimo ritmo e farne riconoscere l'eterna validità ... Un giorno si potrà definire la versione del Vivaldi come la riproduzione di Virgilio in chiave novecentesca, così come si definisce quella del Caro la riproduzione di Virgilio in chiave manieristica. A ciò non osta neppure il fatto che, a confermare il proposito di costituire soltanto una sorvegliatissima e duttile trascrizione degli essenziali valori del testo, la versione del Vivaldi ora si atteggi in forme di puntuale asciuttezza, che talvolta è addirittura preterizione di particolari, ora si stemperi in forme che suonano più come esegesi che come resa immediata dell'originale. Tale cangianza di metodo è un preciso portato della nostra sensibilità e della nostra
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forma mentis culturale, rifuggenti con orrore da ogni compiacimento di decorativismi barocchi e quindi prediligenti la asciuttezza essenziale del disegno, ma nello stesso tempo portate a soffermarsi con più marcata insistenza sui tratti più tipicamente lirici, atti a creare più stretti legami fra il passato e l'oggi... Il Vivaldi ci ha mostrato come può esser resa, nello stile e nel sentimento, l'Eneide ai nostri giorni, in obbedienza ai più tipici contrassegni della nostra cultura. La sua è veramente la prima versione del poema che possa essere additata come rappresentativa della nostra età; lo conferma in linea generale proprio l'inconfondibile, felicissimo timbro dell'andatura ritmica e stilistica, trascendente la prosa senza mai irrigidirsi nella cadenza fissa di un aulico linguaggio solennemente poetico in senso tradizionale. Credo che in fondo nel suo subcosciente il Vivaldi non potesse e dovesse aspirare se non a questa consacrazione; e ciò è per lui tanto maggior titolo di merito in quanto a tale impresa egli si è dedicato da letterato militante, all'infuori di ogni legame troppo rigido con la cultura specializzata. >> Il Giornale d'Italia, Roma
ENZO V. MARMORALE:
« ... Ecco che, nella ricerca di una sua espressione congéniale, il Vivaldi va a scegliere, per rendere un poema culto come l'Eneide, il metro delle epiche primitive, cioè qualcosa che sta sulla stessa linea del saturnia latino, quando non lo riproduce in pieno: e così, in questa sua nuova veste, il poema virgiliano ha un inatteso sapore di arcaismo e di primitività. Di solito si rivive l'arcaico con la spiritualità già educata al classico; qui invece si rivive il classico col gusto volutamente teso all'arcaico ... E tuttavia, bisogna onestamente riconoscer-
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lo, questa traduzione così condotta crea una sua atmosfera. Dalla fatica del Vivaldi Virgilio è le mille miglia lontano, quasi estraneo al poema; e l'Eneide che ne vien fuori è una strana Eneide, di un primitivismo stordito e quasi stupito, con un curioso sapore di nuovo e di arcaico nel tempo stesso. E, pur così, e forse proprio perché è così, essa si fa preferire a tutte le altre traduzioni ' non autonome ', comprese quelle dell'Albini e del Vivona. Virgilio è, lo ripetiamo, lontanissimo da queste pagine, che ci offrono un poema, certo contro le intenzioni del Vivaldi, che contrasta troppo spesso con lo spirito del Mantovano. E però bisogna confessare che la cosa impressiona favorevolmente, tanto che il lettore finisce col rimpiangere che la dissonanza non sia stata anche maggiore ... » Il Tempo, Roma
TOMMASO FIORE:
« ... Una grande apertura è l'arrivo all'Eneide come ' romanzo '. Traduce un giovane poeta già noto, Cesare Vivaldi. E anche in questo lavoro rimane poeta di oggi, che parla non a scolari viziati dalla scuola ma a uomini, all'Italia d'oggi... 'Così parlando fra loro si avvicinavano all'umile l tetto del povero Evandro, e vedevano armenti l sparsi nel Foro Romano e nelle ricche Carine. l Come furono giunti: - Ercole vittorioso -l disse Evandro - varcò questa soglia, fu accolto l in questa piccola reggia. E ora anche tu, l ospite, abbi a tua volta il coraggio di disprezzare l le ricchezze, rendendoti degno di tanto Nume, l accostati benevolo alla mia povera vita! -l Fece entrare Enea grande nella piccola casa l e lo mise a giacere su uno strato di foglie l coperte della pelle di un'orsa della Libia. l Scende la notte, con ali fosche abbraccia la
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terra ... ' Sono espressioni lucide, ardenti, accese di poesia, talché anche lo schifiltoso Marmorale approva questo modo di tradurre. ' Troppo primitivo ', gli sembra, come sarebbe a dire omerico. Felix culpa ... » La Gazzetta del Mezzogiorno, Bari GIORGIO CAPRONI:
« ... Primo merito di Cesare Vivaldi, autore di quest'ultima versione è quello di aver abolito con la sua bella prova l'equivoco che l'Eneide sia un capolavoro del passato, e quindi per noi una partita chiusa. Egli infatti ha saputo dimostrare come Virgilio sia traducibilissimo in un linguaggio nostro attuale, dandoci così quella che forse rimarrà la più autentica immagine novecentesca e ogni traduzione non può esser altto che un'immagine) del grande poema incompiuto, quale fino ad oggi non era ancor stata scritta. A differenza di tanti specialisti e anche di tanti uomini di lettere più legati a preoccupazioni strettamente filologiche o a seduzioni di gusto che a una vera intelligenza dell'opera, Vivaldi è riuscito a trovare in Virgilio, e a restituirei, un sentimento vivo anche dell'esistenza d'oggi. »
La Nazione, Firenze ATTILIO BERTOLUCCI: « ... ~ da ricordare
l'Eneide che Cesare Vivaldi ha reso in modo che gli eroi non sono più il ' vigore e la dolcezza dei versi ' come ai tempi della lettura simbolista di Paul Valery, ma proprio loro, loro stessi, Enea, Turno, Didone, Camilla, Eurialo e Niso, un po' rustici ma vitali, vivi anzi nella natura laziale che è così poco mutata da allora, sempre incolta e selvaggia eppure dol-
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ce perché presa in quella luce che si ritrova anche in Poussin e in certi campi lunghi pasoliniani sollevantisi dalla cerchia infernale delle borgate all'orizzonte infinito, da Ragazzi di vita a Accattone ... » Il Giorno, Milano
ORESTE DEL BUONO:
« In fatto di letture l'anno per noi è cominciato bene, più che bene, con un incontro straordinario: con Publio Virgilio Marone, con l'Eneide. Un'eccezionale traduzione di Cesare Vivaldi (eccezionale per modernità, coraggio, gusto e forza) rende possibile il recupero romanzesco di un testo soffocato, per i più, dagli anni della scuola sotto la polvere del tedio. Il recupero romanzesco, s'è affermato e si conferma volentieri. Vivaldi, infatti, s'è preoccupato soprattutto di dare espressione, ritmo e peso nella nostra lingua, nell'italiano dei contemporanei, proprio al romanzo di Enea ... Il risultato è il proporsi e l'imporsi di Enea come l'eroe di una leggenda, sì, ma anche come il protagonista di un'avventura umana. Il mito non ci rimette e ci guadagna l'interesse. Il dovere degli dei, d'accordo, la gloriosa missione, d'accordo, le belle gesta, d'accordo, ma sotto tanto fulgore e clangore ecco l'uomo, l'uomo con tutte le sue debolezze umane che certo non ne smentiscono la grandezza, anzi l'esaltano, perché vittoriosa nel contrasto. Per noi la bellezza, la suggestione del personaggio Enea sono proprio qui; nel suo continuo contraddirsi e superarsi, pentirsi e riprendersi, nella sua densa e inconfutabile latinità, anzi l'italianità ... La possibilità di una lettura irriverente di un testo così alto come l'Eneide, d'una familiarità con un personaggio di così grande suggestione come Enea, testimonia la riuscita della traduzione di Vivaldi. Le competi-
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zioni, i giochi che tanto ci annoiavano, quando dovevamo leggerli nella traduzione di Annibal Caro, tornano qui con arguzia e vivacità a interessarci, come resoconti di autentiche gare sportive. E la guerra si presenta, si impone, si denuncia in tutta la sua sciagurata dissennatezza ... » La Settimana Incom, Milano LUIGI BALDACCI:
« ... Il Vivaldi è un poeta moderno che si cimenta con un poeta antico ... Certamente si tratta di uno degli esperimenti più coscienti che siano stati fatti nel proposito di rendere lo spirito di un'opera classica come l'Eneide attraverso una sensibilità di lettura tutta moderna, che non si ponga mete estetizzanti di puro calco o di assoluta resa fonica ma che, nell'opera stessa di traduzione, misuri quanto di vivo e di attuale possa essere offerto al poema virgiliano. Il Vivaldi si è servito di un metro libero di carattere fortemente ritmico, quasi sempre composto di metri tradizionali italiani, che riproduce approssimativamente la lunghezza dell'esametro latino senza peraltro volerlo imitare nella sua struttura. Si tratta indubbiamente di un evento di grande valore culturale, il cui merito è quello di riportare un classico al livello del pubblico d'oggi. » Il Giornale del Mattino, Firenze UMBERTO ALBINI:
« ... I tratti fondamentali della versione di Vivaldi sono due: la semplicità e la carica suggestiva. Vivaldi ha trovato un modulo discorsivo di grande efficacia nella sua lineare chiarezza. La sua Eneide diventa un racconto, che si esegue con ansia e con interesse, di una serie di avventure avvincenti e affascinanti: il romanzo di
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una vita del passato si trasferisce nel presente, attuale, senza forzature, orpellì o arabeschi, con il suo, potenziale di emozioni. Naturalmente un tentativo del genere, comportando una riduzione dell'epica, per così dire, sonora a un'epica antitradizionalista, nell'Italia del Monti e della retorica aulica, può essere guardato con sospetto, con diffidenza. La prima tentazione è di mettersi a controllare quanto lontano, inferiore all'originale sia il Vivaldi: e poi ci si accorge che il suo narrare non è sonnolento ripeterti di memorie ma un affresco vivo, in cui nitidi si stagliano uomini e cose ... Non vogliamo attardarci in una serie di esemplificazioni di iuoghi celebri, resi in modo insospettato, e assai puntuale nella sua indifferenza a modelli ormai canonici: diciamo solo che Vivaldi permette un riaccostamento assai proficuo all'Eneide. Il suo intelligente invito a Virgilio, la parte di guida che il nostro traduttore si è assunto con grande coraggio, trattandosi di un impegno che lo mette a confronto con nomi di primo piano, l'ha portato a termine con sicura autorità. Del che gli siamo gratissimi. »
L'Approdo radiofonico
EMILIO MATTIOLI:
« ... I mezzi di Vivaldi poeta ... offrivano la possibilità di recuperare la concretezza del linguaggio virgiliano offuscata e quasi distrutta nelle traduzioni tradizionali. E a questo propos"ito bisogna veramente insistere sulla validità del rinnovamento compiuto da Vivaldi nell'ambito di questa tradizione, una tradizione plurisecolare che credo annoveri più di cinquanta traduzioni del poema di Virgilio ... Naturalmente in una traduzione come questa che tende alla leggibilità totale e guarda all'opera nella sua in-
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terezza più che ai singoli momenti di essa, non si dovrà cercare la minuziosa trasposizione del filologo, ma l'ariosa interpretazione del poeta. » Il Verri, Milano ENZO GOLINO:
« ... La versione ha precisi obiettivi, felicemente tendenziosi. Vivaldi ha usato il verso libero, formato da due versi tradizionali accoppiati, in modo da ottenere una certa cadenza di tono più alto che non la prosa ... Cancellati i segni dell'inflazione retorica, la nuova scrittura non decade, perciò, nella patina neutra di una sottoscrittura senza vibrazioni, al contrario tende a ristabilire una vera integrazione col lettore d'oggi... » Il Mondo, Roma SANDRA MALOSTI:
« ... Aderente ai valori del testo, pur senza essere pedantemente letterale, la traduzione è di altissimo livello ... Contribuisce alla felice riuscita un'altra qualità tipica della traduzione vivaldiana: una traduzione intensamente visiva a cui l'autore perviene dando 'un'importanza altissima alle immagini, ai concetti, alle figure ' ... Ci sembra sintomatica in questo senso, nella profusione di ori e luci, nell'audacia di talune raffigurazioni, la rappresentazione dello scudo di Enea: un pezzo di bravura, anche del traduttore ... Abbiamo forse indugiato in un'analisi minuta, ma a ciò stimolati dalla tJ.ualità stessa della traduzione vivaidiana: impegnata, viva, penetrante, in cui i pregi superano di gran lunga i difetti (ma esiste la traduzione perfetta?) e che presenta una sua particolare fisionomia. Ci auguriamo che possa diffondersi presto anche nelle scuole questa traduzione, che ha saputo accostarsi al-
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l'arte di Virgilio, essa stessa non di rado opera di poesia. » Atene e Roma, Firenze ENZO SICILIANO:
« ... Cesare Vivaldi ha scelto la strada di raccontare l'Eneide in modi umili, sciogliendone fino al possibile i nodi... La resa di Vivaldi è sempre sulla strada della discrezione, fornendo con il suo italiano un sensibile strumento di lettura ... Eppure, col romanzo si convoglia l'indistruttibile spiritualità del poema, quel soffio di stupefatta bellezza che c'è nel fondersi dei vari elementi: lo spirare dei venti, il mare, Didone, Palinuro, l'apparizione di Anchise nell'Averno, gli indimenticabili paesaggi tirrenici, e tutto ciò torna variamente nella narrazione a darle un miracoloso respiro di vita ... » Avanti!, Roma
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INDICE
p. 5 6 I7
Presentazione di Giuseppe Ungaretti Nota del Tradutore Virgilio, le sue opere, il suo tempo di Cesare Vivaldi
55 58
CANTO PRIMO Riassunto generale Troia, I7 giugno 1873 -Il tesoro di Priamo (lettura) Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
6I 87 89 92
CANTO SECONDO Riassunto generale Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
23 50 53
95 I I9 120 I22
CANTO TERZO Riassunto generale Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
52
CANTO QUARTO Riassunto generale Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
I55 I83 I84 I 85
CANTO QUINTO Riassunto generale Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
125
I49 15 I I
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189 224 225 226
CANTO SESTO Riassunto generale Commento critico Galleria di ritratti Ra1fronti di traduzione
229 264 265 267
CANTO SETTIMO Riassunto generale- Enea nel Lazio Commento critico Galleria di ritratti Ra1fronti di traduzione
271 307 309 310
CANTO OTTAVO Riassunto generale- Enea ed Evandro Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
313 351 3 53 357
CANTO NONO Riassunto generale - L'assalto al campo troiano Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
361 403 404 406
CANTO DECIMO Riassunto generale- La battaglia sulla costa del La-io Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
409 452 453 455
CANTO UNDICESIMO Riassunto generale Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
459 506 508 510
CANTO DODICESIMO Riassunto generale Commento critico Galleria di ritratti Raffronti di traduzione
5II
Dizionario dei nomi e dei luoghi
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Veduta di Troia dalla riva dello Scamandro dopo gli 1871-73 compiuti dal tedesco Heinrich Schliemann. Dopo aver individuato le collùte su cui sorgeva Troia, seguendo alla lettera le descrizioni di Omero, inizia a proprie spese gli scavi
demolendone accuratamente la vetta costttuita da un pianoro lungo 233 metri e largo altrettanto. Solo tra i sette e i dieci m_etri incontrerà gli strati troiani. . (Lettura alla fine del Canto prtmo, cfr. pag. 50).
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