MONDO ECONOMICO 116
ECONOMIA DELLA FELICITÀ
ECONOMIA, MENTE, CERVELLO
Daniel Kahneman
Serie diretta da Riccardo Viale
ECONOMIA DELLA FELICITÀ Prefazione di Riccardo Viale
La serie "Economia, Mente, Cervello", nata da una collaborazione del Sole 24 Ore con Sigma-Tau Research, intende raccogliere tutti quei contributi che stanno cambiando, attraverso la ricerca neurocognitiva, i fondamenti stessi della scienza economica. Economia sperimentale, economia comportamentale, economia cognitiva e neuroeconomia sono le nuove discipline di cui la presente collana pubblicherà alcune brevi introduzioni che analizzeranno importanti aspetti della vita economica.
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Riccardo Viale è professore ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali presso l'Università di Milano-Bicocca. È Editor in Chief della rivista Mind & Society (Springer-Verlag). La sua attività scientifica nell'area dell'economia cognitiva si concentra sul ragionamento probabilistico, la conoscenza tacita e la razionalità. Tra le sue pubblicazioni: Modelling the Mind (con K.A. Mohyeldin Said, W.H. Newton-Smith, K.V. Wilkes, Clarendon Press, 1990); Economics, Bounded Rationality and the Cognitive Revolution (con H.A. Simon, M. Egidi, R. Marris, Elgar, 1992); Cognitive Economics, (Lascomes Series, 1, 1997); Biological and Cultura] Bases of Human Inference (con D. Andler e L. Hirschfeld, Erlbaum, 2006); Cognition, Economy, and Society (Physica-Verlag, 2008). Per Il Sole 24 Ore ha pubblicato Le nuove economie (2005).
Sommario ISBN 10 88-8363-8484
ISBN13 978-88-8363-848-0 1994 Mohr Siebeck GmbH & Co. KG Titolo originale: New Challenges to the Rationality Assumption © 1974 American Association for the Advancement of Science Titolo originale: Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases 1981 American Association for the Advancement of Science Titolo originale: The Framing of Decisions and the Psychology of Choice
© 2003 American Economic Association Titolo originale: A Psychological Perspective on Economics 2004 American Economic Association Titolo originale: Toward National Well-Being Accounts 2003 American Psychological Association Titolo originale: Experiences of Collaborative Research by Daniel Kahneman All rights reserved.
2007 II Sole 24 Ore S.p.A. Sede legale - Direzione: via Monte Rosa, 91 - 20149 Milano Redazione: via Patecchio, 2 - 20141 Milano Servizio Clienti: tel. 3022.5680 (prefisso 02 oppure 06); fax 3022.5400 (prefisso 02 oppure 06); e-mail:
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Traduzione di Francesca Guaraldo Realizzazione editoriale: EdiText, servizi redazionali per l'editoria - Torino
Si ringrazia Laura Guardi della Fondazione Rosselli per la collaborazione al lavoro redazionale Prima edizione: ottobre 2007 Prima ristampa: giugno 2008 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana 108, Milano 20122. e-mail
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VII Prefazione di Riccardo Viale 1 1. Nuove sfide al principio di razionalità 1 Introduzione 4 Molteplici nozioni di utilità 7 Alcune caratteristiche dell'utilità decisionale 12 L'utilità prevista: sappiamo che cosa ci piacerà in futuro? 16 L'utilità momentanea e quella retrospettiva: 23
sappiamo che cosa ci è piaciuto in passato? Sintesi conclusiva
31 2. Il giudizio in condizioni d'incertezza: euristiche e bias 32 Rappresentatività 43 Disponibilità 47 Aggiustamento e ancoraggio 53 Discussione finale 56 Sintesi conclusiva 59 3. Il framing delle decisioni e la psicologia delle scelte 62 La valutazione delle prospettive 66 Il framing degli atti 68 Il framing delle contingenze 73 Il framing dei risultati 78 Sintesi conclusiva 85 4. Una prospettiva psicologica dell'economia 86 L'egoismo 87 La razionalità
89
93
Immutabilità dei gusti e portatori d'utilità La distanza si ridurrà ulteriormente?
Prefazione
99 5. Verso una contabilità nazionale del benessere 100 102 103 107 109
Scoperte plausibili e sconcertanti della ricerca sul benessere Aggregazione soggettiva e oggettiva e altri potenziali bias Metodo del campionamento dell'esperienza e metodo della ricostruzione giornaliera Contabilità nazionali del benessere basate sul tempo Conclusioni
115 6. Esperienze di ricerca in collaborazione 115 120 124 129 132 135
La collaborazione con Amos Tversky L'articolo di Science del 1974 e il dibattito sulla razionalità La "prospect theory" Effetto framing e contabilità mentale L'economia comportamentale Collaborazioni avversarie
L'Editore ringrazia il Professor Daniel Kahneman per aver gentilmente acconsentito alla pubblicazione dei saggi contenuti nel presente libro.
Quando nel 2002, ventiquattro anni dopo Herbert Simon, viene assegnato il premio Nobel per l'Economia a Daniel Kahneman (insieme a Vernon Smith), per molti di noi che, da varie angolazioni, lavoravano al superamento delle angustie concettuali ed empiriche dell'economia neoclassica, sembrò l'inizio di una svolta storica. Molto più che l'eguale riconoscimento conferito a Simon, nelle cui motivazioni reali non era estraneo il suo importante contributo all'econometria - durante la sua collaborazione a Chicago nella Commissione Cowles, con, tra gli altri, Arrow, Klein, Debreu, Modigliani, Stigler e Friedman -, il Nobel allo psicologo Kahneman non poteva avere ambiguità. Era il riconoscimento della crisi definitiva del paradigma neoclassico e della necessità di rifondare, su basi psicologiche, gli assunti fondamentali della teoria economica. La stessa giustificazione del premio da parte del Comitato del Nobel - «per avere integrato nella scienza dell'economia scoperte della ricerca psicologica» - sembrava confermare questa fiducia. Del resto, l'insoddisfazione verso le spiegazioni e previsioni economiche è diventata sempre più palese in questi anni da parte non solo degli studiosi più aperti e meno conformisti, ma anche degli operatori e dei giornali economici. Il successo della rubrica "Anomalies" di Richard Thaler, pubblicata dal 1987 sul Journal of Economic Perspectives, dove vengono puntualmente raccontate storie di falsificazioni della teoria del consumatore e vengono fornite le spiegazioni psicologiche relative, ne è un esempio.
VIII Economia della felicità
La realtà però non è così idilliaca come sembrerebbe da queste osservazioni. In questi anni i rapporti fra economia e psicologia sono senz'altro cresciuti. Sono sempre più gli economisti che concedono come rilevante il tentativo di rafforzare le caratteristiche realistiche dei fondamenti economici. Ciò che rimane però immutato è la metodologia analitica dell'economia, basata sui classici assiomi dell'agente economico. Gli economisti meno scolastici sono consapevoli dell'uso strumentale di una teoria che si è dimostrata e continua a dimostrarsi empiricamente falsa, oltre che scarsamente verosimile. Essa presenta, però, un vantaggio rispetto a nuovi e vecchi concorrenti: la sua semplicità. Questa è una caratteristica pragmatica molto importante nella scienza. La possibilità di manipolare uno strumento concettuale compatto con una buona dose di astrazione formale è un requisito irrinunciabile per molti scienziati. Per esempio, il prevalere della teoria copernicana su quella tolemaica, modello complesso composto da molti epicicli e deferenti, fu anche dovuto alla sua semplicità. La ricerca nel campo dell'economia comportamentale e cognitiva ha il pregio di dare fondamenta realistiche alla teoria dell'agente economico, al prezzo però di aumentare il numero di parametri da calcolare. Ne conseguono modelli più complessi che si discostano troppo dall'originaria famiglia di assunti e che quindi sono mal digeriti dagli economisti. Resta però il quesito che dovrebbe essere prioritario per qualsiasi scienziato dell'uomo o della natura: la mia teoria ha sostegno empirico o è sistematicamente falsificata? A questo quesito il contributo di Kahneman e del collega di una vita Amos Tversky (morto qualche anno prima dell'assegnazione del Nobel a Kahneman), come mostrano i saggi contenuti in questo libro, ha dimostrato che la risposta è la falsificazione empirica dei principali assunti della teoria della razionalità economica. La critica di Kahneman alla teoria della razionalità neoclassica non si ferma all'analisi delle incoerenze logiche delle preferenze umane rispetto agli assiomi della razionalità, sulla falsariga delle scoperte di Allais e Ellsberg. Il criterio di valutazione della razionalità non può essere solo logico, ma anche sostanziale. Cioè ci si deve chiedere se le credenze
Prefazione IX
divergano in modo consistente dalle evidenze a disposizione o se le decisioni favoriscano o meno gli interessi di chi le prende. Seguendo l'impostazione di Amartya Sen, per Kahneman un'analisi razionale deve esigere relazioni convincenti fra le scelte delle persone e le conseguenze edoniche (nei termini di felicità, piacere, benessere ecc.) delle loro decisioni. Un criterio sostanziale della razionalità richiede di valutare gli esiti reali come si verificano, non soltanto come sono stati immaginati al momento della decisione. Da questo punto di vista ciò che deve essere analizzato dallo studioso della razionalità è l'accuratezza della previsione dei gusti futuri e della valutazione delle esperienze passate da parte dell'agente. In altre parole, potrebbe essere che ciò che si desidera oggi non piacerà domani, cioè che le preferenze di oggi non corrispondano alle conseguenze edoniche di domani. Per esempio, oggi qualcuno può volere comprare una casa attraverso il pagamento di un oneroso mutuo, mentre successivamente può nascere in lui un'insoddisfazione crescente per il peso finanziario della rata mensile da pagare. La crisi di molte famiglie per l'indebitamento in una delle molte tipologie di credito al consumo segue in genere questo modello di irrazionalità sostanziale. Per fare buone previsioni sugli effetti edonici delle proprie scelte, ci si basa solitamente sul ricordo degli effetti di azioni simili, successe nel passato. Spesso, però, ci possono essere divergenze fra i ricordi di un'esperienza edonica e la reale esperienza passata. Il ricordo di un episodio passato può non venire recuperato correttamente, ma in modo distorto, fornendo, in tal modo, un'informazione falsa a chi deve decidere. Queste considerazioni sostanziali portano Kahneman a scomporre il concetto di utilità. Oltre alla tradizionale utilità decisionale, che è il peso assegnato a un risultato nella decisione, egli sviluppa anche il concetto di utilità sperimentata (introdotto già alla fine del Settecento da Jeremy Bentham), che corrisponde alla misura dell'esperienza edonica prodotta dall'esito della decisione. Secondo Kahneman, per rinnovare gli assiomi della teoria economica si deve partire proprio dall'analisi empirica e dalla spiegazione teorica delle differenze fra utilità decisionale e utilità sperimentata.
X Economia della felicità
Tre sono le principali considerazioni critiche, confermate dagli esperimenti di questi anni. La prima è uno slittamento semantico del concetto di utilità. Essa non è attribuibile agli stati di ricchezza (possedere o no qualcosa), ma alla variazione di questi stati rispetto a un punto di riferimento, sotto forma di guadagni e perdite (acquisire o perdere qualcosa). Sono gli eventi connessi ai cambiamenti e alle differenze nel proprio stato di ricchezza, rispetto a un punto di riferimento, che vengono rappresentati dal soggetto come utilità e sulla cui base egli tende a scegliere. Per esempio, l'utilità non è tanto rappresentata dallo stato del possesso di un automobile, ma dal cambiamento di questo stato, come il ricevere in regalo una seconda automobile o il non averla più perché ci è stata rubata. La seconda è che, siccome le perdite appaiono più rilevanti dei guadagni, si produce un cambio di pendenza nella funzione di valore (come si può osservare nella Figura 1.1 di p. 8) rispetto a quello previsto dalla teoria dell'utilità classica. Nelle persone vi è un'avversione alle perdite che si manifesta in molte situazioni. A livello sperimentale, nella riluttanza, in una scommessa, ad accettare il rischio di perdere 20 dollari a meno che non ci sia la possibilità di vincerne almeno 40. Nei mercati azionari e immobiliari, quando a seguito della perdita di valore dei beni aumenta la vischiosità e si ha ristagno decisionale, causato dall'avversione a vendere a prezzi più bassi rispetto a quelli presenti prima. I due precedenti assunti sono, tra l'altro, in grado di spiegare un'importante anomalia della teoria economica, l'effetto dotazione, scoperto da Richard Thaler: l'individuo fa molta più fatica a cedere un bene che ad acquisirlo. In genere la valutazione del valore monetario di un oggetto è doppio in chi lo possiede già rispetto a chi deve ancora acquisirlo: nel famoso e molte volte ripetuto esperimento della tazza di caffè, condotto da Kahneman e colleghi nel 1990, i possessori della tazza valutavano il suo prezzo 7,12 dollari, mentre la valutazione di chi non ne era ancora in possesso si fermava a 3,50. Questi fenomeni sono alla base della teoria del prospetto, che descrive il comportamento di scelta in condizioni di rischio e che è l'alternativa, oggigiorno più temibile, alla teoria
Prefazione XI
dell'utilità classica. Secondo questa teoria, elaborata da Kahneman e Tversky nel 1975, gli agenti tendono ad avere una maggiore propensione al rischio in condizione di perdita (a causa della suddetta avversione) rispetto a quella di guadagno. Non si sopporta di perdere, quindi si è pronti a investire somme crescenti per recuperare lo status quo ante, anche se è molto grande il rischio di insuccesso. Ciò spiega tanti comportamenti di escalation irrazionale fino alla bancarotta, nel gioco d'azzardo, come negli investimenti finanziari e industriali o nelle scelte di politica internazionale (come è stato fatto per spiegare alcuni casi di escalation militare come le guerre degli Stati Uniti in Corea o in Vietnam). La terza considerazione è un attacco a un principio fondamentale della razionalità, quello dell'invarianza. Secondo questo assunto la decisione razionale è influenzata solo dal contenuto del problema e non dal modo di presentarlo. Esistono, invece, vari casi, posti in evidenza da Kahneman e Tversky, in cui la cornice o "frame" di formulazione del problema decisionale, a parità di contenuto informativo, cambia radicalmente la risposta. Nella politica fiscale, per esempio, si è constatato che a seconda della descrizione o definizione data alle tasse vi è un atteggiamento favorevole o contrario ad accettarle. Secondo l'effetto framing i medesimi risultati oggettivi possono essere giudicati perdite o guadagni in rapporto al contesto di riferimento. Come vedremo nel volume, vari altri sono i temi e le proposte di cui Kahneman è stato autore. Da ultimo il suo interesse si è rivolto alla componente affettiva del giudizio e della decisione e allo sviluppo di nuovi modelli e metodologie per l'individuazione delle funzioni di benessere collettivo. Il presente volume ha l'obiettivo di far capire le coordinate di un lavoro empirico e teorico la cui corposità e complessità può essere colta solo scorrendo il curriculum vitae di Kahneman (http://weblamp-dev.princeton.edu/chw/about/DKKahnemanCVAug2006.pdf). In tal modo si avrà la percezione dell'importanza di un contributo teorico ed empirico che sta trasformando alle radici la scienza economica.
Riccardo Viale
1. Nuove sfide al principio di razionalità'
Introduzione L'assunto che gli agenti siano razionali è il cardine di buona parte degli approcci teorici formulati nel campo delle scienze sociali. Il suo ruolo centrale è particolarmente evidente nell'ambito dell'analisi economica, dove questo postulato è la base di sostegno dell'importante corollario secondo il quale nessuna opportunità significativa potrà restare inutilizzata. Nella sfera della politica sociale, all'assioma della razionalità fa appello chi sostiene che non sia necessario proteggere le persone dalle conseguenze delle proprie scelte. Ecco perché è molto interessante esaminare lo statuto scientifico di 1 Testo pubblicato in traduzione italiana per gentile concessione della Mohr Siebeck GmbH & Co. KG (© 1994). Titolo originale: "New Challenges to the Rationality Assumption", pubblicato nel Journal of Institutional and Theoretical Economics, 150 (1994), 1, pp. 18-36. Paper presentato nel giugno 1993 all'H° International Seminar on the New Institutional Economics tenuto a Wallerfangen/Saar, Germania, e nell'ottobre successivo, a Torino, alla Conferenza lEA (International Economic Association) sul tema "Rationality and Economics". Una versione diversa venne letta nel giugno dello stesso anno al Political and Economic Analysis Workshop organizzato in onore di P. Zusman a Rehovot, Israele. La ricerca che ha prodotto questa pubblicazione è stata sostenuta da contributi della Sloan Foundation, della McArthur Foundation e della National Science Foundation. Sono molto riconoscente ad Amos Tversky per le innumerevoli discussioni avute con lui nel corso degli anni sull'argomento della razionalità e per i suoi illuminanti commenti sulle bozze di questo saggio. Ciò non autorizza a presumere, tuttavia, che egli concordi con tutto ciò che qui io sostengo. Alan Schwartz mi ha fornito una preziosa assistenza editoriale.
2 Premessa
questo principio. Il presente saggio propone una definizione di razionalità più ampia, tale da prendere in considerazione i risultati effettivi delle decisioni, presentando prove che mettono in discussione l'assunto della razionalità da nuove angolazioni. Nelle discussioni non tecniche, i criteri di impiego dei termini "razionale" o "irrazionale" sono di natura sostanziale: ci si domanda se le credenze (beliefs) divergano in modo consistente dalle evidenze a disposizione e se le decisioni favoriscano o meno gli interessi di chi le prende. Al contrario, le discussioni tecniche sulla razionalità tendono ad adottare un'impostazione logica, per la quale convinzioni e preferenze individuali vengono considerate razionali allorché rispondono a un corpo di regole formali, quali la complementarità delle probabilità, il principio della cosa sicura o l'indipendenza delle alternative non pertinenti. Nello spirito di laissez-faire permeante la moderna teoria economica e decisionale, il contenuto delle credenze e delle preferenze non è un criterio di razionalità, perché ciò che conta è puramente la coerenza interna (Sen, 1993). La metodologia del dibattito rispecchia questa preoccupazione per la coerenza: nei classici paradossi di Allais ed Ellsberg, per esempio, due preferenze intuitivamente convincenti si dimostrano congiuntamente incompatibili con gli assiomi della teoria dell'utilità attesa, benché ciascuna di esse, presa singolarmente, sia ineccepibile. L'irrazionalità delle preferenze viene diagnosticata senza dover osservare nulla che non sia una preferenza. Alcuni autori hanno espresso insoddisfazione nei confronti di questo focus esclusivo sulla coerenza come criterio di razionalità. Per esempio, Sen (1990, p. 210) ha scritto: «Sembrerebbe che la razionalità richieda qualcosa di più della semplice coerenza delle scelte su sottoinsiemi diversi. Deve, quanto meno, esigere relazioni convincenti tra finalità e obiettivi consapevolmente prefissati dal soggetto e scelte effettuate. Il problema non viene risolto né superato attraverso l'espediente terminologico di descrivere la rappresentazione fondamentale delle scelte come "utilità" della persona, perché ciò non fornisce una prova indipendente di quello che il soggetto intende fare o cerca di ottenere». In questo saggio mi pongo l'obiettivo
Nuove sfide al principio di razionalità 3
di scoprire se esista una relazione cogente tra le scelte delle persone e le conseguenze edoniche delle loro decisioni. Malgrado qualche tentativo estemporaneo di ampliare l'orizzonte del dibattito sulla razionalità nell'ambito della teoria delle decisioni, da svariati decenni la discussione ruota attorno ai modelli di preferenza individuati da Allais ed Ellsberg. Molti pensano che la soluzione di questi paradossi consentirebbe di continuare a condurre l'analisi economica presupponendo tranquillamente che gli agenti siano razionali. La focalizzazione sui paradossi ha indirettamente rafforzato il dogma della razionalità: se l'accusa più pesante contro la razionalità dell'uomo si riduce a queste sottili incoerenze, in fondo non c'è molto di cui preoccuparsi. Per giunta, le preferenze descritte da Allais ed Ellsberg non appaiono sciocche né irragionevoli, e inducono tanto i profani quanto numerosi studiosi a ritenerle difendibili (Slovic e Tversky, 1974). In realtà, lo status normativo alquanto ambiguo dei modelli di Allais ed Ellsberg ha favorito molti tentativi di riportare le preferenze osservate nell'ambito della razionalità adottando una definizione meno stringente di scelta razionale (Tversky e Kahneman, 1986). Sfide più recenti all'assioma della razionalità non si prestano a simili tentativi di riconciliazione. Numerosi esperimenti mettono in luce l'esistenza di convinzioni e preferenze che contravvengono a un requisito fondamentale volta a volta chiamato estensionalità (Arrow, 1982), consequenzialismo (Hammond, 1985) o invarianza (Tversky e Kahneman, 1986). Il medesimo problema di scelta può suscitare preferenze diverse, in seguito a piccole variazioni introdotte nella formulazione delle opzioni (Tversky e Kahneman, 1986) o nella procedura impiegata per avviare le scelte (Tversky, Slovic e Kahneman, 1990). La metodologia principale adottata in questa ricerca contempla anch'essa la documentazione di coppie di preferenze, ciascuna di per sé accettabile, che congiuntamente violano un assioma d'invarianza. Simili incoerenze sono più difficili da razionalizzare rispetto ai paradossi classici, perché riguardo alla razionalità delle scelte l'invarianza è un principio più rigoroso della cancellazione o dell'indipendenza (Tversky e Kahneman, 1986). Alcuni esempi tratti da questa ricerca verranno presentati più avanti.
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Questo studio si pone l'obiettivo di integrare l'analisi logica delle preferenze mediante l'introduzione di criteri sostanziali di razionalità. A differenza dell'analisi logica, un criterio sostanziale si colloca all'esterno del sistema delle preferenze e richiede di valutare in qualche modo gli esiti reali così come si verificano, non soltanto come sono stati immaginati al momento della decisione. La domanda sostanziale su cui ci concentriamo in questo contesto è se le scelte siano tali da massimizzare l'utilità (attesa) delle loro conseguenze, così come queste ultime saranno concretamente sperimentate. Per quanto riguarda la capacità delle persone di massimizzare la qualità sperimentata dei propri risultati, gli elementi critici emergenti sono l'accuratezza della previsione dei propri gusti futuri e della valutazione delle esperienze passate. Le carenze palesate nella capacità di prevedere le future esperienze e di apprendere da quelle passate emergono come nuove sfide al principio di razionalità. Come provocazione, i difetti osservati possono diventare un argomento a sostegno della tesi che caldeggia interventi di natura "paternalistica", sembrando plausibile che lo Stato possa avere una conoscenza dei futuri gusti individuali più approfondita di quella corrente delle persone stesse. Queste elaborazioni si basano su un'analisi del concetto di utilità che verrà introdotta nel prossimo paragrafo.
Molteplici nozioni di utilità Il termine "utilità" può essere riferito sia all'esperienza edonica dei risultati, sia alla preferenza o desiderio per un certo esito o sviluppo. Nell'uso di Jeremy Bentham, l'utilità di un oggetto venne definita in termini sostanzialmente edonici, attraverso il piacere da esso prodotto, mentre altri hanno interpretato l'utilità come "desiderabilità" (Fisher, 1918). Com'è ovvio, le due definizioni tendono a coincidere se si presume che, in linea generale, desideriamo ciò che poi ci procurerà piacere, assunto questo comunemente accettato nelle discussioni riguardanti l'utilità. L'analisi economica è orientata più ai desideri e alle preferenze che alle esperienze edoniche, e
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il significato attuale dell'utilità negli studi economici e decisionali si configura come una versione pragmatica della desiderabilità: l'utilità è un concetto teorico complesso costruito sulla base delle scelte osservate. Questa definizione è stata totalmente depurata di qualsiasi associazione con la psicologia edonistica e da ogni riferimento a stati soggettivi. L'analisi che stiamo conducendo si apre con due osservazioni. La prima è che le critiche metodologiche contro una nozione edonica dell'utilità sono un residuo di un passato dominato da un approccio comportamentistico alla filosofia della scienza. Al giorno d'oggi gli stati soggettivi sono un legittimo argomento di studio ed esperienze edoniche come piacere, dolore, soddisfazione o disagio sono considerate suscettibili di utili forme di misurazione. La seconda osservazione è che adottare come regola generale che alla gente piacerà domani ciò che desidera oggi può risultare azzardato. Quella tra preferenze e conseguenze edoniche è una relazione che non va data per scontata, essendo preferibile sottoporla comunque a indagine. Queste considerazioni ci portano a tracciare un'esplicita distinzione tra due nozioni di utilità. L'utilità sperimentata di un risultato è la misura dell'esperienza edonica dell'esito prodotto. Questo fu il concetto adottato, con qualche imbarazzo, da Bentham: nella prima nota a piè di pagina del suo libro, infatti, si scusava per l'uso obbligato del termine "utilità", a suo dire inadeguato a esprimere piacere e dolore, non essendo riuscito a trovare alternative migliori. L'utilità decisionale di un risultato, come nell'uso moderno, è il peso a esso assegnato in una decisione. La distinzione tra utilità sperimentata e utilità decisionale apre nuove strade allo studio della razionalità. Per valutare la razionalità di una decisione, possiamo ora puntare a sviluppare, oltre a quello sintattico della coerenza, un criterio sostanziale/edonico: la decisione presa è tale da massimizzare l'attesa dell'utilità sperimentata? Naturalmente non si tratta di un criterio esauriente, e la sua adozione non implica alcuna adesione a una filosofia di tipo edonistico. Come Sen ha più volte posto in rilievo (per esempio, Sen, 1987), la massimizzazione dell'utilità (sperimentata) non sempre corrisponde a
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"ciò che si cerca di ottenere". È un dato di fatto, tuttavia, che almeno qualche volta ci sforziamo di massimizzare il piacere e minimizzare il dolore, ma può essere istruttivo dubitare del postulato che svolgiamo quest'opera di ottimizzazione in maniera impeccabile. Errori nell'attribuzione di utilità decisionale ai risultati attesi possono nascere da previsioni inaccurate della futura esperienza edonica. Ecco perché uno dei requisiti di un processo decisionale razionale è la capacità di prevedere correttamente i gusti futuri (March, 1978). Kahneman e Snell (1990) definirono l'utilità prevista di un risultato come la convinzione del soggetto relativa all'utilità sperimentata dell'esito in un momento futuro. Da ciò derivano due ordini di domande empiriche: 1) Quanto ne sappiamo dei nostri gusti futuri? Può essere che un osservatore oggettivo (o un governo) sia in grado di formulare previsioni più accurate di quelle che ognuno di noi farebbe per proprio conto? 2) Quando prendiamo decisioni, teniamo dovuto conto dell'incertezza dei nostri gusti futuri? Le utilità decisionali si formano, come dovrebbero, sulla base di convinzioni ragionate sull'utilità sperimentata? Altri problemi sono creati dalle possibili divergenze tra i ricordi e l'effettiva esperienza edonica. Le conseguenze delle decisioni normalmente coprono un certo lasso di tempo e le valutazioni globali dei risultati sono necessariamente retrospettive e, quindi, soggette a errori. Alcuni esempi di divaricazioni tra utilità retrospettiva e utilità momentanea verranno presentati più avanti. È evidente che riprendendo in esame la nozione di utilità di Bentham si aprono vaste aree di indagine teorica ed empirica. I prossimi paragrafi riassumono i punti salienti di ciò che si è appreso nelle prime esplorazioni di questi territori: volta a volta si discuterà di utilità decisionale, di utilità prevista e delle relazioni tra utilità momentanea e utilità retrospettiva. Il paragrafo finale passa in rassegna le possibili implicazioni delle scoperte sul dibattito intorno alla razionalità.
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Alcune caratteristiche dell'utilità decisionale Da lungo tempo l'utilità decisionale è stata oggetto di studio, e su di essa si sa molto. La discussione seguente prende in esame, una alla volta, tre conclusioni della ricerca di particolare rilevanza per il problema della razionalità, così come esso viene a delinearsi in questo saggio.
1) Portatori di utilità. I principali portatori di utilità decisionale sono eventi, non stati; in particolare, l'utilità viene attribuita in funzione di perdite o guadagni rispetto a un punto di riferimento spesso coincidente con lo status quo (Kahneman e Tversky, 1979). 2) Avversione per le perdite. Le perdite appaiono più consistenti dei corrispondenti guadagni (Kahneman e Tversky, 1979; Tversky e Kahneman, 1991).
3) Effetto di contestualizzazione o di inquadramento (framing effect). I medesimi risultati oggettivi possono essere giudicati perdite o guadagni a seconda del contesto o del profilo dello stato di riferimento (Tversky e Kahneman, 1986). Una vecchia osservazione che illustra il primo e il terzo dei punti indicati fu battezzata "effetto isolamento" (Tversky e Kahneman, 1986).
Problema 1. Immaginate di avere in tasca 300 dollari in più rispetto a oggi. Dovete scegliere tra:
• una vincita certa di 100 dollari; • 50% di probabilità di vincere 200 dollari e 50% di probabilità di non vincere nulla. Problema 2. Immaginate di avere in tasca 500 dollari in più rispetto a oggi. Dovete scegliere tra:
• una perdita certa di 100 dollari; • 50% di probabilità di non perdere nulla e 50% di probabilità di perdere 200 dollari.
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8 Economia della felicità.
Non è difficile rendersi conto che i due problemi, in termini patrimoniali, sono numericamente equivalenti: entrambi offrono una scelta tra uno stato certo in cui gli averi aumentano di 400 dollari e una lotteria che offre uguali probabilità di aumentarli di 300 o di 500 dollari. Chi valutasse d'impulso le opzioni in questi termini dovrebbe scegliere la stessa nei due problemi, mentre le preferenze osservate favoriscono la cosa certa nel Problema 1 e la lotteria nel Problema 2. Poiché l'equivalenza dei due problemi diventa evidente una volta fatta notare, la differenza tra le risposte che essi suscitano va attribuita all'effetto framing: una caratteristica della formulazione del problema priva di conseguenze reali influenza fortemente la distribuzione delle preferenze. Ancora più importante in questo contesto è notare che l'esperimento dimostra come si tenda ad attribuire le utilità ai risultati valutati in termini di guadagni e perdite, contraddicendo la tesi classica secondo la quale i portatori di utilità sarebbero gli stati di ricchezza. La Figura 1.1 mostra l'avversione alle perdite in un diagramma di una funzione del valore: la curva è più ripida nel
quadrante delle perdite che in quello dei guadagni. In numerosi esperimenti comprendenti opzioni sia rischiose sia non rischiose si è stimato che il valore del rapporto delle pendenze nei due quadranti, detto coefficiente di avversione alle perdite, si collochi intorno a 2:1 (Tversky e Kahneman, 1991, 1992). La Figura 1.2 (da Kahneman, Knetsch e Thaler, 1991) mostra il ruolo del punto di riferimento nella valutazione di una transazione. La scelta raffigurata è tra uno stato (punto A) con più quantità del bene Y e un altro stato (punto D) con più quantità del bene X. Le ipotesi riguardanti i portatori di utilità e gli effetti framing presumono che la preferenza tra A e D possa differire a seconda del punto di riferimento di partenza, contro quanto sostenuto da gran parte della teoria economica. Immaginate di dover scegliere tra A e D a partire dalla situazione C: in questo caso, si tratta di una scelta comunque positiva tra due guadagni, del bene X o del bene Y. Se, invece, il punto di riferimento è A, le due opzioni assumono un volto assai diverso: una possibilità è quella di conservare lo status quo rimanendo in A, mentre l'alternativa è accettare un
Figura 1.2. Punti di riferimento multipli per la scelta tra A e D
Figura 1.1. Una tipica funzione del valore
A
Valore
A' •
Perdite
Guadagni
D'
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compromesso che implica l'abbinamento di una perdita di bene Y con un guadagno di bene X. La distanza C-A viene valutata come guadagno nel primo caso (da C), ma come perdita nel secondo (da A). Per via dell'avversione alle perdite, è lecito attendersi che l'impatto della differenza C-A risulti maggiore nel secondo caso. Pertanto, prevediamo che si formi una differenza sistematica tra le preferenze nei due contesti: se i più restano indifferenti tra A e D partendo da C, dovrebbero nettamente preferire A rispetto a D partendo da A (Tversky e Kahneman, 1991). Questo risultato atteso, noto come effetto dotazione (Thaler, 1980), è stato confermato in svariati test di laboratorio. In un esperimento condotto da Kahneman, Knetsch e Thaler (1990), a un primo gruppo di soggetti fu offerto di scegliere tra ricevere una tazza da caffè decorata (venduta nella libreria della locale università a circa 6 dollari) e una certa somma di denaro; essi dovettero rispondere a una serie di domande volte a determinare la cifra che avrebbe reso loro indifferenti le due opzioni. Ad altri soggetti fu prima consegnata la tazza, e poi vennero sottoposti a un analogo interrogatorio per determinare la somma di denaro per la quale avrebbero accettato di cedere l'oggetto posseduto. I partecipanti non avevano alcun incentivo strategico a nascondere i loro veri valori. Una caratteristica cruciale dello studio è che i soggetti del primo gruppo, che in partenza non avevano nulla e dovevano scegliere, e quelli del secondo, già proprietari di una tazza, si trovavano di fronte a opzioni oggettivamente identiche: tutti quanti avrebbero potuto lasciare la situazione sperimentale con una nuova tazza in mano oppure con più soldi in tasca. Ma anche a questo caso è applicabile l'analisi della Figura 1.2. Se la tazza è il bene Y, la distanza C-A (cioè la differenza tra averla e non averla) viene considerata un guadagno dai soggetti del primo gruppo e una perdita da quelli del secondo, che già possiedono il bene. Come previsto, il valore monetario medio della tazza risultò molto più elevato per coloro che già la possedevano (7,12 dollari in un esperimento) che non per gli altri (3,50 dollari). Una differenza significativa (anche se un po' inferiore) tra i due gruppi è stata osservata in una replica del medesimo
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esperimento condotta da Franciosi, Kujal, Mischelitsch e Smith (1993). Implicazioni dell'effetto dotazione per svariati aspetti delle teorie economiche e giuridiche sono state discusse a fondo in altri studi (Ellickson, 1989; Hovenkamp, 1991; Hardie, Johnson e Fader, 1993; Kahneman, Knetsch e Thaler, 1991). Per la nostra ricerca, l'effetto è importante perché una sua conseguenza è che le utilità decisionali possono essere assai poco lungimiranti. I soggetti sottoposti all'esperimento della tazza da caffè presero una decisione che avrebbe prodotto conseguenze abbastanza prolungate nel tempo: una tazza da caffè è un oggetto che può essere utilizzato tutti i giorni, magari per anni e anni. Gli stati a lungo termine tra i quali i soggetti dovevano scegliere - "possedere questa tazza" o "non possedere questa tazza" - erano gli stessi per tutti. L'ampia differenza riscontrata tra i due gruppi indica che questi stati permanenti non erano considerati il parametro cruciale della valutazione. I veri portatori di utilità erano invece le transazioni che differenziavano i due contesti sperimentali: "ricevere una tazza" o "cedere la propria tazza". In questo esperimento e, forse, anche in molte altre situazioni, chi prende decisioni riguardanti uno stato a lungo termine sembra utilizzare come proxy 2 la propria valutazione della transizione a quello stato. I risultati dell'esperimento della tazza mettono in discussione il principio di razionalità da due angolazioni sovrapposte. La nozione logica di razionalità viene violata dall'incoerenza delle preferenze osservate per differenti profili della scelta fra tazza e denaro, e una condizione sostanziale di razionalità viene infranta se si considera l'effetto dotazione come una costosa manifestazione di estrema miopia. Un agente che di routine utilizza emozioni transitorie come proxy per l'utilità di stati a lungo termine difficilmente riuscirà a ottenere buoni risultati.
2 Variabile utilizzata per misurare fenomeni a essa correlati e non facili da quantificare direttamente. (N.d.T.)
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L'utilità prevista: sappiamo che cosa ci piacerà in futuro? Sebbene la costanza dei gusti di base sia argomento assai controverso nelle elaborazioni teoriche, la seguente affermazione dovrebbe essere universalmente accettata: l'esperienza edonica associata a un particolare stimolo o a un certo atto di consumo può cambiare anche di molto con il passar del tempo e al mutare delle circostanze. Alcune variazioni cicliche dell'utilità sperimentata sono regolari e prevedibili senza particolari difficoltà: mangiare un medesimo alimento può suscitare piacere in uno stato di fame e disgusto in uno di sazietà. All'estremo opposto, modifiche radicali delle circostanze producono adattamenti e variazioni dell'utilità sperimentata che contraddicono le aspettative comuni. Un ben noto studio psicologico ha dimostrato che la maggior parte dei paraplegici si adatta alla propria condizione molto meglio delle aspettative generali, e che i vincitori di lotterie sono quasi sempre meno felici, nel lungo periodo, di quanto farebbe supporre il fascino esercitato su tutti da questi concorsi (Brickman, Coates e Janoff-Bulman, 1978). Molte decisioni, in maniera esplicita o implicita, comportano previsioni di futuro consumo o futura utilità (March, 1978). Non è il caso di acquistare un'enciclopedia se poi non la si userà, il sovrapprezzo pagato per una casa con vista può essere stato gettato al vento se quella caratteristica, dopo un po', non produrrà più piacere, e una cura medica che aumenta le probabilità di sopravvivenza forse dovrebbe essere rifiutata da un paziente che magari troverà insopportabile tirare avanti senza le corde vocali. Con quanta precisione siamo capaci di predire la nostra utilità futura? Le risposte a questa domanda sono per lo più indirette. Così, è indicativo che alcuni importanti risultati delle ricerche edoniche siano generalmente considerati non intuitivi (Kahneman e Snell, 1990). Tra le sorprese c'è da annoverare il singolare aumento del gradimento in seguito a semplice esposizione a stimoli inizialmente neutri e alcuni effetti di dissonanza sui gusti. Uno studio sulle idee della gente riguardo ai possibili modi per indurre un bambino a gradire
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o meno un cibo ha messo in luce un'analoga carenza di senso comune sulla dinamica dei gusti. L'incoerenza dinamica può essere un'altra delle manifestazioni di una previsione edonica non accurata. Per esempio, Christensen-Szalansky (1984) documentò numerosi casi in cui donne in travaglio ribaltavano la loro preferenza, espressa da lungo tempo, per partorire senza anestesia. Le inversioni potrebbero essere dovute a un'impropria attualizzazione del dolore nelle preferenze iniziali, ma potrebbero anche riflettere un errore nella previsione di partenza dell'intensità delle doglie. In uno studio sull'effetto dotazione, Loewenstein e Adler (1993) ottennero un risultato assai interessante. Dopo aver mostrato ad alcuni dei soggetti sottoposti all'esperimento una tazza intarsiata con un motivo ornamentale, domandarono ad alcuni di loro di «immaginare che vi abbiamo consegnato una tazza esattamente uguale a quella che state vedendo, e che vi diamo l'opportunità di tenervela oppure di venderla in cambio di una certa somma di denaro». Queste persone compilarono poi una scheda per indicare le loro preferenze per una specifica forchetta di prezzi di vendita, secondo la procedura indicata da Kahneman, Knetsch e Thaler (1990), e la cifra media pronosticata risultò pari a 3,73 dollari. Poi, a tutti i soggetti fu realmente consegnata una tazza e un'altra scheda, che offriva la possibilità di cedere l'oggetto per una somma in contanti. Il prezzo di vendita medio indicato dai soggetti che soltanto pochi minuti prima avevano formulato la precedente previsione risultò di 4,89 dollari, significativamente più elevato del valore da essi stessi indicato e di poco inferiore al prezzo di vendita fissato da soggetti che non avevano fatto alcuna previsione preventiva (5,62 dollari). I protagonisti di questo esperimento, pertanto, si mostrarono incapaci di immaginare che il possesso reale della tazza avrebbe generato una certa riluttanza alla sua cessione. Simonson (1990) documentò un risultato che illustra un errore di predizione edonica o, forse, addirittura la diretta incapacità di formulare un pronostico di questa natura. Egli offrì ai suoi studenti l'opportunità di scegliere al principio di una lezione tra una serie di spuntini alternativi, per ricevere il prodotto prescelto al termine della lezione. In una prima
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condizione sperimentale, i soggetti fecero una scelta alla settimana per tre settimane successive; in un'altra condizione sperimentale, altri soggetti fecero le loro scelte per tutt'e tre le settimane al momento della prima lezione. Le scelte fatte dai due gruppi risultarono sorprendentemente divergenti: i soggetti che ebbero la possibilità di scegliere i loro spuntini in tre momenti distinti tendevano ogni volta a preferire il medesimo prodotto, o comunque snack molto simili tra di loro; quelli che dovettero scegliere anticipatamente per tutt'e tre le settimane, invece, optarono tendenzialmente per prodotti differenti per le diverse occasioni. È ragionevole considerare erronee queste scelte orientate alla varietà: è chiaro che quegli studenti non riuscirono a rendersi conto che le loro preferenze del momento sarebbero riemerse dopo un intervallo di una settimana. Un'ulteriore ricerca chiarì la natura dell'errore: le scelte fatte in anticipo risultarono meno variate allorché si chiese ai soggetti di prevedere, prima di decidere, quali sarebbero state le loro reali preferenze nelle successive occasioni di verifica. Questa scoperta indica che in realtà i soggetti sarebbero stati capaci di prevedere con precisione le proprie future preferenze ma, in mancanza di istruzioni specifiche, non si erano preoccupati di formulare una previsione dei loro gusti futuri prima di prendere una decisione su un futuro consumo. Kahneman e Snell (1992) presentarono uno studio pilota sulla precisione della predizione edonica. I due ricercatori presero in esame le previsioni di futuro gradimento per un alimento o un pezzo musicale, in condizioni che rendevano probabile un cambiamento di atteggiamento. In un primo esperimento, i soggetti consumarono una porzione del loro gelato preferito ascoltando contemporaneamente un certo brano musicale, alla medesima ora per otto giorni consecutivi in identiche condizioni fisiche. Immediatamente dopo ciascun episodio di consumo, dovevano valutare il loro livello di gradimento del gelato e della musica. Al termine della prima sessione, formularono la previsione dei punteggi che essi stessi avrebbero assegnato il giorno seguente e al termine dell'esperimento. Questo esperimento intendeva verificare la precisione delle predizioni edoniche in condizioni relativamente
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favorevoli. Il nostro ragionamento fu che i soggetti sottoposti all'esperimento, essendo studenti, non soltanto erano grandi esperti di consumo di gelato e di ascolto di brani musicali, ma di entrambi questi prodotti avevano avuto anche esperienze reiterate e, quindi, era lecito aspettarsi che sapessero prevedere l'effetto sui loro gusti delle frequenti ripetizioni proposte. Altri esperimenti della stessa serie utilizzarono uno stimolo meno familiare e meno diffuso nell'ambiente studentesco, cioè lo yogurt naturale magro. La precisione delle loro previsioni edoniche, però, fu generalmente piuttosto scarsa. Il confronto tra la media delle previsioni e la media dei punteggi reali portò alla luce alcuni errori commessi da quasi tutti nella previsione di semplici tendenze delle risposte edoniche. Per esempio, la maggior parte degli studenti, dopo aver assaggiato un cucchiaio di yogurt naturale, pronosticò che il giorno dopo avrebbe assegnato il medesimo punteggio al consumo di un intero vasetto da 200 grammi; invece, nella realtà, quella della porzione più abbondante risultò un'esperienza di gran lunga più sgradevole. La maggior parte dei soggetti, inoltre, non riuscì a prevedere il netto miglioramento della propria disposizione verso lo yogurt che si verificò (per i più) con l'ulteriore esposizione all'alimento. Si direbbe che esista una teoria non scientifica dei cambiamenti edonici, di scarsa precisione, accettata dalla maggior parte dei nostri soggetti. Un'altra analisi riguardò le differenze individuali nelle predizioni e nei cambiamenti edonici reali. In entrambe le misure si riscontrò un'elevata variabilità, ma la correlazione tra di esse risultò costantemente prossima a zero. I dati non fornirono alcun indizio che gli individui fossero capaci di prevedere con più precisione l'evoluzione dei loro gusti rispetto ai cambiamenti edonici di un estraneo scelto a caso. I risultati di questo studio consentono di trarre due conclusioni: primo, molte volte mostriamo scarsa capacità di prevedere l'evoluzione della nostra risposta edonica a stimoli esterni (Kahneman e Snell, 1992; Loewenstein e Adler, 1993); secondo, anche in situazioni che consentirebbero di formulare previsioni edoniche precise, tendiamo a prendere decisioni sui nostri futuri consumi senza attribuire il giusto peso
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all'eventualità che i nostri gusti in futuro possano cambiare (Simonson, 1990). Se confermate da ulteriori ricerche, queste ipotesi sulla precisione dell'utilità prevista e sull'impatto di quella decisionale porrebbero una seria e concreta sfida all'assunto della razionalità. Le peculiarità dell'utilità prevista generano conseguenze anche in altri campi. Considerate, per esempio, il problema del consenso informato per un'operazione chirurgica destinata a cambiare la vita del paziente in misura significativa. La classica procedura per il consenso pone l'accento sul dovere di informare in modo oggettivo il paziente sugli effetti dell'intervento chirurgico, ma un consenso veramente informato si può formare soltanto se i pazienti riescono a farsi una ragionevole idea dell'evoluzione attesa a lungo termine delle proprie risposte edoniche e se assegnano un peso adeguato a queste aspettative nel momento in cui prendono la decisione. Una questione più controversa si pone se ammettiamo che talvolta un estraneo possa prevedere l'utilità futura di qualcuno molto meglio dell'interessato stesso. Una conoscenza superiore giustifica il diritto, o persino il dovere, di compiere un intervento di tipo paternalistico? Ai marinai di Ulisse sembra giusto legare il loro comandante all'albero maestro della nave, convinti come sono che egli s'illuda sulla sua capacità di resistere al fatale richiamo delle sirene.
L'utilità momentanea e quella retrospettiva: sappiamo che cosa ci è piaciuto in passato? Non c'è dubbio che le valutazioni retrospettive dell'utilità sperimentata in episodi del passato rappresentino la fonte più importante delle previsioni relative alla qualità edonica di futuri sviluppi. Le esperienze di vita lasciano le loro tracce in un ricco deposito di ricordi valutativi, cui si attinge, in apparenza automaticamente, ogni qualvolta alla mente viene proposto un oggetto o un'esperienza degni di nota (Zajonc, 1980). Il sistema dei ricordi affettivi e valutativi può rimanere indipendente dalla capacità di richiamare alla mente gli eventi alla radice di un atteggiamento o disposizione. Per esempio,
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capita sovente di provare simpatia o avversione per una certa persona senza sapere perché. I ricordi valutativi sono estremamente importanti perché racchiudono le conoscenze accumulate dall'individuo riguardanti stimoli che vale la pena di accogliere e altri da cui è bene tenersi lontani. In effetti, la sola forma di utilità che forse la gente potrebbe imparare a massimizzare è l'utilità attesa dei ricordi futuri: ciascuno di noi, in tutta la vita, si abitua a fare affidamento su ricordi di avvenimenti passati per guidare le scelte tra possibili esiti futuri. Come vedremo, però, a volte i ricordi valutativi, anche quelli a prima vista più affidabili, a volte risultano ingannevoli. Benché valutazioni retrospettive e ricordi affettivi definiscano ciò che si è imparato dal passato, essi non sono l'unico criterio di utilità sperimentata. La qualità edonica o affettiva è un attributo di ciascun singolo istante di esperienza; segno e intensità dell'esperienza possono variare ampiamente persino nel corso di un episodio di breve durata, come bere un bicchiere di vino. Per valutare in retrospettiva un episodio di una certa durata occorre necessariamente effettuare due operazioni: riportare alla mente le esperienze momentanee che hanno formato l'episodio e combinare queste percezioni e sensazioni istantanee per esprimere una valutazione globale. Dato che entrambe queste operazioni sono soggette a errori, le valutazioni retrospettive vanno trattate con più cautela di quella normalmente dedicata alle descrizioni introspettive di esperienze correnti. Le conseguenze di una memoria difettosa sono spesso dolorosamente evidenti: coloro che si prendono cura di un genitore anziano hanno occasione di notare con una certa frequenza l'accettazione con normale rispetto delle sue risposte immediate alla situazione corrente anche quando contraddicono gran parte delle valutazioni retrospettive. Le difficoltà che sorgono nel sintetizzare un episodio attraverso una valutazione globale sono più sottili, ma non meno rilevanti. Su come integrare correttamente le utilità di un flusso continuo di esperienze in una valutazione globale esistono molte procedure profondamente intuitive. Di notevole attrattiva gode il principio di integrazione temporale: l'utilità di un episodio protratto nel tempo è l'integrale del valore edonico
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istantaneo per la durata dell'evento. L'integrazione temporale è giustificata dal presupposto che gli stati d'animo susseguenti nel tempo vadano trattati in modo uguale, una tesi così attraente da essere diventata la base di un'argomentazione generalmente adottata in favore dell'utilitarismo (Parfit, 1984). Ancora più affascinante dell'integrazione temporale è il principio di monotonicità temporale. Immaginate due episodi preceduti e seguiti da uno stato continuo di neutralità edonica e ipotizzate che il secondo si formi aggiungendo al primo un inatteso periodo di dolore (o piacere), prima del ripristino dello stato di neutralità edonica. Il principio di monotonicità afferma che la qualità edonica del periodo addizionale determina la qualità globale (migliore o peggiore) dell'episodio più lungo rispetto a quello più corto. In altre parole, aggiungere dolore alla fine di un episodio può peggiorarlo; aggiungere piacere può migliorarlo.3 Numerosi studi più recenti indicano che le valutazioni retrospettive non obbediscono né al principio d'integrazione temporale né a quello di monotonicità temporale. Le ricerche fin qui condotte hanno preso in esame episodi brevi e uniformi, sia in termini di contenuto sia di segno dell'esperienza edonica, o completamente non negativa o completamente non positiva. In molti esperimenti è stata adottata l'esposizione controllata a stimoli atti a indurre intense sensazioni (film di contenuto piacevole o spiacevole; forti rumori sgradevoli; dolorose immersioni delle mani in acqua gelida). I soggetti degli esperimenti utilizzavano un "misuratore di affetto" 4 per fornire una registrazione continua delle loro risposte edoniche istantanee durante lo sviluppo di alcuni di questi episodi. In
3 Il principio di monotonicità non si applica se l'aggiunta di dolore o piacere all'episodio altera gli strascichi edonici dell'episodio, come il sollievo, la gioia assaporata o le sensazioni associate con la successiva rievocazione. Più in generale, l'analisi dell'utilità sperimentata diventa difficilmente applicabile quando il "consumo" di ricordi (cioè l'inclinazione a richiamare ricordi per ricavarne reminiscenze piacevoli o altre sensazioni) gioca un ruolo importante (Elster e Loewenstein, 1992). 4 Il termine "affetto" viene qui e in seguito utilizzato per indicare, come avviene in campo psicologico e psicoanalitico, qualsiasi condizione affettiva, piacevole o spiacevole che sia. (N.d.T.)
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seguito essi fornirono anche valutazioni globali retrospettive del "disagio complessivo" o del "piacere complessivo" degli episodi e, in alcuni casi, ne scelsero uno che sarebbero stati disposti a replicare. In uno studio non sperimentale (Redelmeier e Kahneman, 1996), alcuni pazienti sottoposti a colonscopia per ragioni diagnostiche fornirono ogni 60 secondi resoconti del disagio provato e poi anche valutazioni complessive e misure di preferenza per l'intero evento. I risultati di questi studi confermano due generalizzazioni empiriche. La prima è nota come regola del picco e della fine: le valutazioni globali possono essere previste con elevata precisione mediante una combinazione ponderata dell'affetto più intenso registrato nel corso dell'intero episodio e della sensazione sopravvenuta nelle fasi conclusive dell'evento. Anche in questo caso, come nel contesto dell'utilità decisionale, la valutazione di specifici momenti sembra essere impiegata come proxy per giudicare un periodo temporale più esteso. La seconda è detta indifferenza o insensibilità alla durata: la valutazione retrospettiva del dolore (o del piacere) complessivo o totale non è indipendentemente influenzata dalla durata dell'episodio. Nello studio sulla colonscopia, per esempio, la durata del procedimento variava da 4 a 69 minuti per un campione di 101 pazienti. Sorprendentemente, variazioni così ampie non ebbero effetti sensibili sulle valutazioni retrospettive: i punteggi assegnati sia dai pazienti sia dai medici che li assistevano furono sostanzialmente determinati dall'intensità di apice del dolore e dal livello di disagio registrato nei minuti conclusivi dell'analisi diagnostica. Naturalmente, questo effetto non compare sempre: la gente è capace di valutare la durata di certi episodi con buona precisione, dando a questo attributo il giusto peso, se la sua attenzione viene esplicitamente richiamata su di esso (Varey e Kahneman, 1992). In generale, tuttavia, nella rappresentazione cognitiva degli eventi, picchi e fasi conclusive emozionali pesano più della durata. La Figura 1.3 è tratta da uno studio che prese in esame alcune violazioni alla legge di monotonicità temporale in una scelta tra episodi spiacevoli (Kahneman et al., 1993). Alcuni volontari retribuiti si aspettavano di doversi sottoporre a tre esperienze di moderato dolore fisico nel corso di una sessione
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Figura 1.3. Media delle misure di disagio istantaneo nella "prova lunga" 14
-
12-
Nessun miglioramento (11 soggetti) Miglioramento (21 soggetti)
po, 10t 8 rn
g
642
0
60
30
90
Secondi
Andamento per 11 soggetti che indicarono una diminuzione del disagio scarsa o nulla al variare della temperatura (linea sottile) e per 21 soggetti che avvertirono una certa diminuzione del disagio (linea spessa).
sperimentale, mentre, in realtà, ne vennero effettuate soltanto due. Nella "prova breve", il soggetto doveva tenere immersa una mano in acqua a 14° per 60 secondi, asciugandola immediatamente dopo con un asciugamano. Nella "prova lunga", il soggetto teneva immersa l'altra mano per un tempo totale di 90 secondi: per i primi 60 secondi la temperatura dell'acqua era mantenuta a 14°, esattamente come nella prova breve; nei 30 secondi addizionali, invece, essa veniva gradualmente aumentata a 15°, un livello ancora sgradevole ma anche percepito, dalla maggior parte dei partecipanti, come un chiaro miglioramento rispetto alla situazione di partenza. L'ordine delle due prove fu variato da un soggetto all'altro. Pochi minuti dopo la conclusione della seconda prova, ai partecipanti venne rammentato che avrebbero dovuto affrontare una terza prova, e fu loro domandato quale delle due esperienze appena vissute avrebbero scelto di replicare.
Le curve della Figura 1.3 riportano i tassi di disagio istantaneo medio nella prova lunga, presi separatamente per due gruppi di soggetti che produssero modelli di risposta differenziati: coloro che, in maggioranza, indicarono una diminuzione del disagio in seguito all'aumento della temperatura dell'acqua e coloro che, in minoranza, non avvertirono cambiamenti sensibili. Le scelte della prova da replicare risultarono nettamente differenti nei due gruppi: nel primo, 17 su 21 preferirono ripetere la prova lunga, violando il principio di monotonicità temporale; nel secondo, soltanto 5 su 11 espressero quella preferenza. I risultati di entrambi i gruppi soddisfano la regola del picco e della fine e confermano l'indifferenza alla durata. Per la minoranza che non avvertì alcuna diminuzione del disagio, il picco e la fine delle percezioni risultarono al medesimo livello (come mostra la figura), e restarono uguali nella prova breve e in quella lunga. Secondo la regola del picco e della fine, questi soggetti avrebbero dovuto assegnare alle due prove la medesima valutazione, una previsione confermata dalla ripartizione delle preferenze effettive prossima al 50%. Nel caso del gruppo più ampio dei soggetti che segnalarono una diminuzione del disagio nella fase conclusiva della prova lunga, secondo la regola del picco e della fine questa prova avrebbe dovuto suscitare meno avversione di quella corta, e anche questo pronostico fu confermato dai dati delle scelte effettive. Complessivamente, circa due terzi dei soggetti in questa situazione contravvengono al principio di dominanza, un risultato molto netto confermato da numerosi esperimenti condotti su ampi campioni in una rosa di condizioni leggermente differenziate. Ulteriori analisi hanno chiarito il meccanismo responsabile di queste violazioni della monotonicità temporale: la maggior parte dei soggetti si convinse, erroneamente, che la temperatura più bassa cui erano stati esposti non fosse stata la stessa nelle due prove, in quanto il ricordo del momento peggiore della prova lunga era stato attenuato dal miglioramento sopravvenuto nella fase finale. Le prove raccolte da noi suggeriscono che gli episodi vengono giudicati più attraverso alcune "istantanee" che con una rappresentazione continua simile a un filmato (Fredrickson e Kahneman, 1993). Le istantanee
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sono, in realtà, montaggi che possono miscelare impressioni tratte da varie sezioni dell'esperienza. L'esperienza nella sua globalità viene valutata in base alla media ponderata dell'utilità di questi momenti di sintesi. Altri esperimenti hanno dimostrato che soggetti cui viene fornita soltanto una descrizione verbale delle prove generalmente scelgono quella breve, in accordo con il principio di monotonicità temporale. La loro preferenza per la prova breve non viene intaccata neanche se li si informa che il loro ricordo della prova lunga sarà più gradevole. Questa osservazione dimostra che i partecipanti all'esperimento originario non applicarono deliberatamente il criterio di scegliere l'esperienza che avrebbe lasciato loro il ricordo più gradevole. Tuttavia, i soggetti realmente sottoposti alle due prove sono riluttanti ad abbandonare la loro preferenza per la prova lunga anche quando, a posteriori, viene loro dettagliatamente spiegata la natura dell'esperimento: evidentemente, l'abitudine consolidata di affidarsi alle proprie valutazioni dei ricordi personali come guida alle scelte non è facilmente superabile. Gli studi descritti in questo paragrafo hanno documentato un coerente modello di violazioni a un principio normativo logicamente stringente. L'assioma di monotonicità temporale è un principio sostanziale di razionalità, una variante della formulazione della dominanza secondo la quale "più è meglio". Le violazioni di questo principio sono state ricondotte ai processi cognitivi di base che producono rappresentazioni e valutazioni di episodi. I requisiti di una razionalità sostanziale sono apparentemente incompatibili con la psicologia della memoria e delle scelte. I risultati dello studio dell'acqua fredda portano alla ribalta un dilemma etico ampiamente discusso da Schelling (1984). La nostra storia personale nel corso del tempo può essere descritta come una sequela di distinte personalità che possono esprimere preferenze incompatibili e prendere decisioni che influenzano la formazione delle personalità successive. Nell'esperimento dell'acqua fredda, per esempio, il soggetto che effettua la prova e registra le sensazioni istantanee e lo stesso soggetto che ricorda e formula i giudizi retrospettivi sembrano pervenire a valutazioni contraddittorie. A quale
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di queste personalità va attribuito il diritto di determinare gli esiti o gli sviluppi che saranno effettivamente sperimentati in futuro? Il principio di monotonicità temporale assegna la priorità al soggetto che sta sperimentando le sensazioni, ma nella vita normale è quello che le ricorda ad assumere il fondamentale ruolo di tracciare le linee guida per le azioni future. Esiste una qualche giustificazione etica per favorire una di queste valutazioni rispetto all'altra? La domanda ha immediate conseguenze per l'applicazione delle regole del consenso informato nell'esercizio della professione medica. Immaginate un intervento medico doloroso che duri un certo numero di minuti e si concluda di colpo nel momento di apice del dolore. Come abbiamo visto, probabilmente il medico potrebbe garantire che il paziente conservi un ricordo più favorevole dell'operazione prolungando artificialmente l'intervento con un periodo di dolore meno intenso, inutile dal punto di vista sanitario. È ovvio che probabilmente il paziente respingerebbe l'offerta del medico di assicurargli un ricordo migliore al prezzo di una maggiore quantità totale di dolore. Il medico dovrebbe comunque procedere in quella direzione, per conto della futura personalità del paziente, quella legata ai ricordi? Questo dilemma è l'emblema di un'intera categoria di problemi, che definiamo "paternalistici", destinati a emergere in molte discussioni politiche, se alle considerazioni di utilità sperimentata verrà assegnato il peso che esse meritano in quel dibattito.
Sintesi conclusiva La classica teoria delle scelte fissa una serie di condizioni di razionalità che sono forse necessarie ma difficilmente sufficienti: esse, infatti, consentono di definire come razionali molte scelte palesemente sciocche. In questo saggio sostengo che è sempre utile e qualche volta possibile integrare l'analisi logica delle decisioni con alcuni criteri sostanziali. L'analisi sostanziale fornisce una definizione più rigorosa della razionalità, escludendo alcune preferenze che supererebbero una verifica di coerenza. Il cardine di un'analisi sostanziale è un
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accertamento indipendente riguardo alla qualità dei risultati della decisione. Il confine tra l'analisi logica e quella sostanziale è spesso incerto. Per esempio, la legge della dominanza secondo la quale "più è meglio" è un criterio sostanziale che ha tutta la forza di un principio logico. A un giudizio sostanziale, inoltre, ci si richiama implicitamente negli studi sperimentali sull'invarianza, nei quali i decisori esprimono preferenze contraddittorie in problemi di scelta che sono definiti come "uguali", "dimensionalmente equivalenti" o "non differenti per qualunque conseguenza". Nell'esperimento delle tazze da caffè, per esempio, sembra irragionevole che chi già le possiede e chi può scegliere di averle fissino prezzi molto divergenti per il medesimo oggetto, dato che il consumo a lunga scadenza che ne ricaveranno è presumibilmente uguale e che le considerazioni di lungo periodo dovrebbero avere più peso dell'affetto transitorio associato alla cessione di un bene. In questa argomentazione è implicito l'impiego di un criterio di utilità sperimentata nel tempo. Le ricerche descritte nei paragrafi precedenti valutavano esplicitamente le decisioni adottando un criterio di utilità sperimentata. Per misurare questa variabile soggettiva, sono state impiegate varie proxy. Per esempio, scelte fatte in prossimità del momento del consumo sono state il criterio utilizzato per valutare impegni presi in precedenza (Simonson, 1990). In altri studi, l'adeguatezza delle valutazioni retrospettive e delle decisioni che esse sostengono venne accertata applicando regole normative (per esempio la monotonicità temporale) a registrazioni in tempo reale di esperienze edoniche. Negli studi sulle scelte, la corrispondenza tra utilità sperimentata e utilità decisionale viene sovente data per scontata. Contro questo assunto ottimistico, in questo saggio sono stati identificati due ostacoli alla massimizzazione dell'utilità sperimentata. In primo luogo, risultati preliminari di alcune ricerche indicano che alle persone manca la capacità di prevedere i possibili cambiamenti dei propri gusti. Le prove a sostegno di questa conclusione sono ancora incomplete, ma il suo significato è chiaro: è difficile definire come razionali agenti che tendono a commettere grossi errori quando devono
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prevedere che cosa desidereranno o gradiranno in capo a una settimana. Un altro ostacolo alla massimizzazione è la tendenza a utilizzare l'affetto associato a un particolare momento come proxy per l'utilità di sviluppi perduranti nel tempo. Questa peculiarità nel trattamento cognitivo del tempo spiega l'importanza che associamo alle emozioni delle transazioni, e può diventare responsabile di altre forme di miopia nel processo decisionale. L'impiego di istanti come proxy spinge a trascurare la durata nella valutazione di episodi del passato, un effetto confermato in vari studi. Questi risultati illustrano una particolare forma di distorsione nella memoria valutativa, ma ce ne possono essere anche altre. Lo studio delle distorsioni sistematiche (bias) della memoria è importante, in quanto la valutazione del passato determina ciò che da esso si impara: se si commettono errori nell'interpretazione delle lezioni tratte dall'esperienza diventerà difficile evitare di compiere scelte difettose per il futuro. È chiaro, allora, che diventa essenziale studiare empiricamente le regole che governano l'utilità sperimentata. Per esempio, i ricercatori possono affrontare il problema di come massimizzare l'utilità sperimentata quando esiste un qualche vincolo di budget. Scitovsky propose un'acuta analisi di questo problema nel suo L'economia senza gioia (1976), in cui sostenne che la massimizzazione del piacere è un'impresa difficile, realizzata con più successo in certe culture che in altre. Il processo di adattamento edonico svolgeva un ruolo centrale nella sua trattazione del "benessere", in cui sosteneva che è privo di senso investire risorse in oggetti che perdono rapidamente la loro capacità di fornire piacere. Le spese devono essere dirette verso beni e attività in grado di offrire piacere ricorrente se opportunamente distribuiti nel tempo. Alla luce di questa affermazione, può essere più saggio spendere per fiori, feste e vacanze che per migliorare la propria dotazione di beni durevoli. Sui temi sollevati da Scitovsky è sia possibile sia necessario condurre sistematiche ricerche empiriche. Una conoscenza più approfondita delle dinamiche della risposta edonica è necessaria anche per valutare le conseguenze di certe istituzioni sul benessere individuale. Per esempio, lo sviluppo del percorso retributivo di una normale carriera
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accademica sembra concepito per una meccanica del piacere che risponda bene a incrementi graduali e tratti qualsiasi perdita come fortemente sgradita (Frank, 1992; Loewenstein e Sicherman, 1991; Kahneman e Varey, 1991). Un'altra istituzione che sembra produrre conseguenze in miglioramento con il passar del tempo è il sistema penale: il benessere dei detenuti tende a migliorare nel corso della pena, man mano che aumenta la loro anzianità carceraria e si perfeziona la capacità di sopravvivenza nell'ambiente. Questo meccanismo è sicuramente umano, ma forse poco efficiente in termini di deterrenza individuale. Immaginate, a puro fine di provocazione, che i detenuti applichino la regola del picco e della fine quando valutano in retrospettiva la loro esperienza carceraria. Se così fosse, il loro giudizio complessivo si farebbe via via meno sfavorevole con l'aumentare del tempo passato in carcere, e si formerebbe una correlazione negativa tra la lunghezza della pena e il suo effetto deterrente per le recidive, un risultato sicuramente non desiderabile dal punto di vista sociale. Dovremmo allora pensare di infliggere pene più brevi, ma in condizioni di disagio crescente? Come mostra questo esempio ipotetico, quando si comincia a sviscerare il problema dell'utilità sperimentata si può approdare a conclusioni alquanto sorprendenti. Applicato all'utilità sperimentata, il criterio edonico risulta appropriato per certe decisioni, ma non è né universale né esaustivo: non si può escludere che persone razionali coltivino obiettivi diversi dalla massimizzazione del piacere. Come ha sottolineato Sen, la razionalità delle decisioni può essere valutata meglio alla luce di «ciò che la persona vuole fare o cerca di ottenere». Almeno in linea di principio, una valutazione sostanziale delle decisioni individuali può essere estesa ad altri obiettivi pratici, come il miglioramento delle capacità personali o il conseguimento di una buona reputazione. Come mostra l'esempio dell'utilità sperimentata, l'esame di ogni criterio proposto per valutare il processo decisionale deve comprendere tre elementi: 1) un'analisi normativa; 2) lo sviluppo di strumenti di misurazione per la valutazione dei risultati;
Nuove sfide al principio di razionalità 27
3) l'analisi dei modi nei quali le decisioni di solito risultano fallimentari, secondo il criterio in esame. L'utilità sperimentata è un ovvio oggetto di un piano di analisi come questo, ma è bene che non resti l'unico. Dal punto di vista dello psicologo, il concetto di razionalità normalmente richiamato nel dibattito economico è per certi aspetti sorprendentemente permissivo e per certi altri straordinariamente rigoroso. Per esempio, la razionalità economica non esclude una disposizione di estrema avversione al rischio in azzardi di modesta portata o l'inclinazione a utilizzare sconti iperbolici per orizzonti temporali ridotti, benché entrambi questi atteggiamenti producano pressoché necessariamente risultati aggregati inferiori. D'altro canto, si assume spesso che razionalità sia sinonimo di perfetta intelligenza. Così, chi si accinge a esaminare criticamente l'assunto della razionalità deve andare all'attacco dei seguenti ben muniti fortini: • •
• •
una definizione di razionalità che in alcuni punti importanti sembra troppo permissiva; un'inclinazione dei teorici delle scelte a rendere la teoria ancora più permissiva, quanto è necessario per comprendervi apparenti violazioni dei suoi requisiti; una posizione metodologica che tratta la razionalità come un'ipotesi confermata, rendendo difficile confutarla; un'apparente netta disposizione a presumere che un comportamento che non si sia dimostrato irrazionale sia per questo molto intelligente.
Contrariamente a molti recenti tentativi di ammorbidire la definizione di scelta razionale, in questo saggio ho sostenuto che essa deve essere resa più restrittiva con l'aggiunta alla classica logica della coerenza di considerazioni di natura sostanziale. Ci sono chiare prove che mantenere convinzioni e preferenze coerenti è un compito troppo impegnativo per menti limitate (Simon, 1955; Tversky e Kahneman, 1986), e ancora più difficile può risultare massimizzare l'utilità sperimentata di un flusso di futuri risultati. Forse è giunto il momento di
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smettere di domandarci se la gente sia o meno razionale (una domanda comunque troppo generica), per consentire alla ricerca di concentrare l'attenzione su argomenti più specifici e promettenti. In quali condizioni il principio di razionalità può ancora svolgere il ruolo di utile approssimazione? Nei casi in cui non risulta applicabile, quali sono i principali errori che impediscono alla gente di massimizzare i propri risultati?
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Nuove sfide al principio di razionalità 29
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2. Il giudizio in condizioni d'incertezza:
euristiche e biasl
Molte decisioni vengono prese sulla base di convinzioni riguardanti la probabilità di eventi incerti, come il risultato di un'elezione, la colpevolezza di un imputato o la futura quotazione di una moneta. Il più delle volte, queste congetture sono espresse con frasi come: «Penso che...», «Ci sono buone possibilità che...», «È improbabile che...» e via dicendo, e qualche volta assumono persino forma numerica, con l'enunciazione di quote o probabilità soggettive. Come nascono, queste credenze? Come facciamo a valutare la probabilità che si verifichi un evento incerto o a stimare il valore di una grandezza dai contorni indefiniti? Questo articolo spiega che facciamo ricorso a un limitato numero di principi euristici che ci consentono di ridurre il complesso compito di stimare probabilità e pronosticare valori a più semplici operazioni di giudizio. In generale, queste euristiche ci sono di grande aiuto, ma qualche volta ci inducono a commettere errori gravi e sistematici. I Saggio scritto in collaborazione con Amos Tversky. Titolo originale: "Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases", pubblicato su Science, New Series, 185 (1974), 4157, pp. 1124-1131. Testo pubblicato in traduzione italiana per concessione della American Association for the Advancement of Science (C) 1974). L'AAAS non è responsabile della traduzione italiana, pertanto, in caso di dubbio, prega di fare riferimento alla versione originale in inglese. Questa ricerca è stata finanziata dall'Advanced Research Projects Agency del Department of Defense sotto il controllo dell'Office of Naval Research con il contratto N00014-73-C-0438 stipulato con l'Oregon Research Institute di Eugene (Oregon). Ulteriore sostegno a questa ricerca è stato fornito dalla Research and Development Authority della Hebrew University di Gerusalemme, Israele.
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La stima soggettiva di probabilità assomiglia alla valutazione soggettiva di grandezze fisiche, per esempio distanze o dimensioni. Tutti questi giudizi si basano su dati di limitata validità, elaborati secondo regole euristiche. Per esempio, la distanza apparente di un oggetto viene determinata in parte dalla nitidezza della sua visione: più lo si vede chiaro e netto, più sembra vicino. Questa regola ha una certa validità, perché in qualunque scenario gli oggetti più distanti vengono visti con minore definizione di quelli più vicini. Eppure, applicando questo criterio, ci può capitare di introdurre nelle nostre stime errori sistematici: in particolare, tenderemo a sovrastimare le distanze in condizioni di scarsa visibilità, perché in quella circostanza i contorni degli oggetti sono più confusi e, al contrario, a sottostimarle quando la visibilità è buona, perché gli oggetti appariranno, alla vista, ben definiti. Pertanto, fare affidamento sulla nitidezza come indice di distanza porta a commettere distorsioni sistematiche di giudizio comuni e diffuse. Bias del tutto analoghi sono individuabili anche nel giudizio intuitivo di probabilità. In questo articolo descriviamo tre euristiche adottate per stimare probabilità e predire valori, elenchiamo i bias che possono provocare e discutiamo le implicazioni teoriche e pratiche di queste osservazioni.
Il giudizio M condizioni d'incertezza: euristiche e bias 33
Come esempio di giudizio formulato in base alla rappresentatività, immaginate che qualcuno vi consegni la seguente descrizione di un individuo: «Steve è una persona molto timida e riservata. È sempre pronto a dare una mano, ma non ama stare in mezzo alla gente e mostra scarso interesse per i problemi pratici. È buono e preciso, ha bisogno che sia sempre tutto chiaro e in ordine e ha una vera passione per i dettagli». Se vi danno una lista di possibili professioni (per esempio agricoltore, venditore, pilota di aerei, bibliotecario o medico), come fate ad assegnare a ognuna di esse la probabilità che sia quella di Steve? Con quali criteri le mettete in fila, dalla più probabile alla meno probabile? Nell'euristica della rappresentatività, la probabilità che Steve sia un bibliotecario viene determinata in base a quanto egli è rappresentativo dello stereotipo del bibliotecario, cioè a quanto assomiglia al tipico esemplare della classe. In realtà, studi condotti su problemi simili a questo hanno mostrato che la gente classifica le professioni per probabilità e per somiglianza esattamente nello stesso modo (Kahneman e Tversky, 1973). Con questo approccio si commettono gravi errori, perché la somiglianza, o rappresentatività, non è influenzata da molti dei fattori che dovrebbero condizionare i giudizi di probabilità.
Insensibilità alla probabilità a priori degli esiti
Rappresentatività Molte delle domande probabilistiche che ci poniamo appartengono a una delle seguenti famiglie: qual è la probabilità che l'oggetto A appartenga alla classe B? Qual è la probabilità che l'evento A prenda origine dal processo B? Qual è la probabilità che il processo B produca l'evento A? Per rispondere a queste domande, il più delle volte ci affidiamo all'euristica della rappresentatività, con la quale stimiamo le probabilità in base a quanto A è rappresentativo di B, cioè, in altre parole, dal grado di rassomiglianza di A con B. Per esempio, quando A è fortemente rappresentativo di B, la probabilità che A derivi da B viene giudicata alta; se A, invece, non somiglia a B, allora la probabilità che A sia originato da B viene stimata bassa.
Uno dei fattori che non hanno alcun effetto sulla rappresentatività ma dovrebbero essere obbligatoriamente considerati in stime probabilistiche è la probabilità a priori, o frequenza di base, degli esiti. Nel caso di Steve, per esempio, il fatto che nella popolazione gli agricoltori sono molto più numerosi dei bibliotecari non può essere ignorato da una stima ragionevole della probabilità che egli sia un bibliotecario piuttosto che un agricoltore. Le considerazioni sulla probabilità a priori, tuttavia, non influiscono sulla somiglianza di Steve con gli stereotipi del bibliotecario e dell'agricoltore. Se valutiamo la probabilità attraverso la rappresentatività, quindi, trascureremo le frequenze di base. Questa ipotesi è stata verificata in un esperimento in cui le probabilità a priori erano state deliberatamente manipolate (Kahneman e Tversky, 1973). Ai
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partecipanti furono mostrati brevi profili delle personalità di una folta schiera di persone che, si disse, erano state scelte a caso da un gruppo di 100 professionisti, ingegneri e avvocati. A ciascuno dei soggetti intervistati venne chiesto di indicare, per ogni descrizione, la probabilità che essa si riferisse a un ingegnere piuttosto che a un avvocato. In una condizione sperimentale, ai partecipanti fu detto che il gruppo era composto da 70 ingegneri e 30 avvocati, in un'altra, invece, da 30 ingegneri e 70 avvocati. La probabilità che una qualsivoglia descrizione si riferisca a un ingegnere anziché a un avvocato dovrebbe essere più alta nella prima condizione, essendoci una maggioranza di ingegneri, che nella seconda, dove ci sono più avvocati. Più precisamente, si può dimostrare, applicando la legge di Bayes, che il rapporto di queste probabilità dovrebbe essere (0,7/0,3) 2 , cioè 5,44 per ciascun profilo. Violando significativamente la legge di Bayes, i due gruppi di partecipanti espressero giudizi di probabilità sostanzialmente uguali nelle due diverse condizioni sperimentali. In apparenza, i soggetti valutarono la probabilità che una certa descrizione si riferisse a un ingegnere o a un avvocato in base al suo grado di rappresentatività dei due stereotipi, senza badare alle probabilità a priori delle due classi. Gli intervistati usarono correttamente il dato delle frequenze di base soltanto quando non ricevettero altre informazioni. In assenza di descrizioni, infatti, valutarono la probabilità che uno sconosciuto fosse un ingegnere rispettivamente 0,7 e 0,3 nei due casi. Ma le probabilità a priori venivano immediatamente ignorate non appena i partecipanti disponevano di una qualsiasi descrizione, anche totalmente neutra, cioè priva di indicazioni utili in un senso o nell'altro. Le risposte date al seguente profilo illustrano questo fenomeno: Dick ha trent'anni, è sposato e senza figli. È una persona in gamba con molta voglia di fare, ed è prevedibile che nel suo campo avrà molto successo. È apprezzato e stimato dai colleghi. La descrizione venne appositamente studiata per non trasmettere nessuna indicazione utile a orientare le risposte verso una delle due professioni. La probabilità che Dick sia
Il giudizio in condizioni d'incertezza: euristiche e bias 35
un ingegnere, quindi, dovrebbe essere pari alla quota di ingegneri presenti nel gruppo in esame, esattamente come succede quando non viene fornito alcun indizio. I soggetti, invece, assegnarono a questa eventualità una probabilità del 50%, indipendentemente dal fatto che la percentuale di ingegneri dichiarata nel gruppo di provenienza fosse del 70 o del 30%. Evidentemente, la gente tratta in modo diverso la mancanza di indizi e l'inutilità dei dati disponibili: nel primo caso le probabilità a priori vengono utilizzate correttamente, nel secondo sono ignorate (Kahneman e Tversky, 1973). Insensibilità alle dimensioni del campione Per valutare la probabilità di ottenere un certo risultato in un campione estratto da una determinata popolazione, di solito applichiamo l'euristica della rappresentatività. Ciò equivale a dire che stimiamo la probabilità di una qualità statistica del campione - per esempio che l'altezza media di un campione casuale di 10 uomini sia 1 metro e 80 centimetri - dalla somiglianza di questo dato con il corrispondente parametro della popolazione (in questo caso, con l'altezza media della popolazione maschile adulta), che non dipende dalle dimensioni del campione prescelto. Se le probabilità vengono determinate in base alla rappresentatività, quindi, la probabilità stimata di un dato statistico del campione dovrà risultare sostanzialmente indipendente dalle dimensioni del campione stesso. E, in effetti, quando i partecipanti a un esperimento valutarono le distribuzioni dell'altezza media per campioni di varie dimensioni espressero stime identiche per tutti i campioni esaminati. Per esempio, alla probabilità di registrare un'altezza media superiore a 1 metro e 80 centimetri attribuirono lo stesso valore per campioni di 1000, 100 e 10 uomini (Kahneman e Tversky, 1972). I soggetti, inoltre, non riconobbero il ruolo delle dimensioni del campione neanche quando esso venne posto in evidenza nella formulazione della domanda. Considerate il seguente problema: Una città è servita da due ospedali. Nel più grande ogni giorno nascono, in media, 45 bambini, mentre nel più piccolo ne
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vengono al mondo, in media, soltanto 15. Come sapete, circa il 50% di tutti i nuovi nati sono maschi, ma la percentuale precisa varia da giorno a giorno, e può essere più alta o più bassa. Per un periodo di un anno i due ospedali hanno conteggiato i giorni in cui più del 60% dei bambini nati erano maschi. Secondo voi, in quale dei due ospedali è stato registrato un numero più alto di questi giorni? - L'ospedale più grande (21) - L'ospedale più piccolo (21) - Circa lo stesso (ossia entro il 5% di scarto) (53). Tra parentesi è indicato il numero di studenti universitari che diedero la relativa risposta. I dati sono chiari: la maggior parte degli intervistati giudicò uguale la probabilità di registrare più del 60% di nascite maschili nell'ospedale grande e in quello piccolo, presumibilmente perché gli eventi sono descritti dalla medesima statistica e, quindi, sono ugualmente rappresentativi della popolazione generale. Secondo la teoria del campionamento, invece, è corretto aspettarsi che il numero di giorni in cui oltre il 60% dei bambini nati sono maschi sia molto maggiore nell'ospedale piccolo che in quello grande, perché in un campione più ampio sono meno probabili forti scostamenti dal 50%. Evidentemente questo fondamentale principio statistico non fa parte del repertorio di intuizioni della gente comune. Una simile insensibilità alle dimensioni del campione è stata rilevata in giudizi di probabilità a posteriori, quando si deve stimare la probabilità che un campione sia stato estratto da una certa popolazione piuttosto che da un'altra. Considerate l'esempio seguente: Immaginate un'urna piena di palline, 2/3 di un colore e 1/3 di un altro. Una persona ha estratto dall'urna 5 palline, 4 rosse e 1 bianca. Un'altra ne ha estratte 20, 12 rosse e 8 bianche. Quale delle due dovrebbe sentirsi più certa che l'urna contenga 2/3 di palline rosse e 1/3 di bianche e non viceversa? Qual è la probabilità che ognuna di esse dovrebbe assegnare alla prima eventualità? In questo problema, le corrette probabilità a posteriori sono 8 a 1 per il primo campione e 16 a 1 per il secondo, nell'ipotesi
Il giudizio in condizioni d'incertezza: euristiche e bias 37
che le probabilità a priori siano uguali. Ciò nonostante, i più credono che il primo campione offra una conferma molto più salda all'ipotesi che nell'urna siano predominanti le palline rosse, dato che la loro quota è maggiore nella prima che nella seconda estrazione. Anche in questo caso, i giudizi intuitivi sono guidati dalle quote dei campioni e restano sostanzialmente insensibili alle loro dimensioni che, invece, svolgono un ruolo cruciale nella determinazione delle probabilità a posteriori (Kahneman e Tversky, 1972). Oltre a ciò, le stime intuitive delle probabilità a posteriori sono molto più contenute (meno estreme) dei valori corretti. La sottostima dell'impatto dei dati è stata ripetutamente osservata in problemi di questo genere (Edwards, 1968; Slovic e Lichtenstein, 1971). Questa inclinazione alla moderazione è stata definita "conservatorismo". Errate concezioni della casualità Ci aspettiamo che una sequenza di eventi generata da un processo casuale riproduca le caratteristiche essenziali del processo anche quando la serie è breve. Nel caso del lancio di una moneta, per esempio, la gente pensa che la sequenza (T = testa, C = croce) T-C-T-C-C-T sia più probabile di quella T-T-TC-C-C, che non sembra casuale, e anche di quella T-T-T-T-C-T che non esprime l'equità della moneta (Kahneman e Tversky, 1972). Pertanto, ci aspettiamo che le caratteristiche essenziali del processo saranno rappresentate non soltanto globalmente nell'intera sequenza, ma anche localmente in ciascuna delle sue parti. In intervalli ristretti, però, una sequenza rappresentativa risulterebbe sistematicamente non conforme alle attese di casualità, perché contiene troppe alternanze e troppo poche ripetizioni. Un'altra conseguenza della credenza nella rappresentatività locale è la ben nota "fallacia del giocatore". Dopo aver osservato alla roulette una lunga sequenza di rossi, per esempio, la maggior parte dei giocatori crede, erroneamente, che "debba" uscire il nero, presumibilmente perché la sua estrazione produrrebbe una sequenza più rappresentativa della casualità rispetto a quella di un altro rosso. La casualità viene comunemente vista come un processo ad
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autoregolazione in cui uno scostamento in una direzione indurrebbe una correzione in senso opposto, al fine di ristabilire l'equilibrio. In realtà, nello sviluppo di un processo casuale, gli scostamenti non vengono "corretti", ma soltanto diluiti. Errate concezioni della casualità non fanno presa soltanto su menti inesperte o ingenue. Uno studio sulle intuizioni statistiche di esperti ricercatori in campo psicologico (Tversky e Kahneman, 1971) ha messo a nudo una radicata credenza in quella che potremmo chiamare "legge dei piccoli numeri", per la quale anche piccoli campioni sarebbero significativamente rappresentativi della popolazione di provenienza. Le risposte di questi ricercatori riflettevano l'aspettativa che la validità di un'ipotesi riguardante una popolazione sarebbe stata rappresentata da un risultato statisticamente significativo su un qualsiasi campione, indipendentemente - o quasi - dalle sue dimensioni. In conseguenza di questa convinzione, quei ricercatori riposero troppa fiducia in risultati ottenuti su campioni ristretti e sovrastimarono clamorosamente la loro riproducibilità. Nella gestione pratica di una ricerca, un simile abbaglio porta a scegliere campioni di ampiezza inadeguata e sopravvalutare la significatività delle scoperte.
Insensibilità alla prevedibilità Qualche volta siamo chiamati a fare previsioni numeriche, come il valore futuro di un titolo azionario, la domanda di un bene di consumo o il risultato di una partita di calcio. Per esempio, immaginate che a una persona venga fornita la descrizione di un'impresa e le venga chiesto di prevederne il futuro andamento economico. Se l'impresa è descritta in termini molto positivi, sarà naturale pronosticare profitti molto elevati, come più rappresentativi di quella descrizione; se l'impresa è descritta come mediocre, la più rappresentativa sembrerà una performance soltanto mediocre. Il livello di favore o sfavore espresso dalla descrizione non viene influenzato né dall'affidabilità della descrizione stessa né dalla misura in cui essa consente previsioni accurate. Se, quindi, formuliamo le nostre predizioni lasciandoci condizionare soltanto dall'orientamento della descrizione, esse risulteranno
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insensibili all'affidabilità dei dati utilizzati e all'accuratezza attesa della predizione stessa. Questa forma di giudizio contravviene ai principi della statistica per i quali l'estremizzazione e l'escursione delle previsioni sono determinate da considerazioni di prevedibilità. Quando la prevedibilità è nulla, bisognerebbe fare la medesima previsione per tutti i casi in esame. Per esempio, se le descrizioni delle imprese non forniscono alcun dato relativo ai profitti, sarebbe corretto prevedere lo stesso valore (per esempio il profitto medio) per tutte le aziende. Naturalmente, se la prevedibilità è perfetta i valori previsti combaceranno con i valori reali e lo scarto delle previsioni risulterà uguale a quello dei risultati effettivi. In generale, più cresce la prevedibilità, più si amplia il campo dei valori previsti. Numerosi studi sulla predizione numerica hanno mostrato che le previsioni intuitive violano questo principio e che la gente tiene in ben poco conto le considerazioni di prevedibilità (Kahneman e Tversky, 1973). In uno di questi studi, ai partecipanti all'esperimento vennero presentate descrizioni scritte della performance di vari insegnanti tirocinanti durante una certa lezione di praticantato. Ad alcuni di loro venne chiesto di valutare la qualità delle lezioni descritte assegnando a ciascuna di esse un punteggio espresso in percentili relativi alla specifica popolazione; ad altri fu chiesto, invece, di prevedere, ugualmente in termini di percentili, la posizione relativa di ciascun praticante a distanza di 5 anni da quella lezione. I giudizi dati nelle due condizioni furono identici, ovvero la previsione di un parametro lontano nel tempo (il successo di un insegnante dopo 5 anni) risultò uguale alla valutazione delle informazioni sulle quali era basata la previsione stessa (la qualità della lezione di praticantato). Senza dubbio, gli studenti che fecero queste previsioni erano consci della difficoltà di pronosticare la futura capacità d'insegnamento sulla base di una sola lezione di prova tenuta 5 anni prima (limitata prevedibilità dell'evento); ciò nonostante, estremizzazione ed escursione delle loro previsioni rimasero uguali a quelle delle loro valutazioni dei dati disponibili.
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Illusione di validità Come abbiamo visto, spesso la gente fa previsioni scegliendo il risultato (per esempio, un'occupazione) più rappresentativo dell'input ricevuto (per esempio, la descrizione di una persona). La fiducia comunemente riposta nella previsione dipende in primo luogo dal grado di rappresentatività (cioè dalla qualità della corrispondenza tra l'esito prescelto e l'input) mentre poco peso viene dato ai fattori che limitano l'accuratezza previsionale. Perciò pronostichiamo con sicurezza che una certa persona è un bibliotecario se il suo profilo personale corrisponde allo stereotipo del bibliotecario, anche quando le informazioni ricevute sono scarse, inaffidabili o superate. Questa infondata fiducia generata da una buona corrispondenza tra l'esito previsto e i dati disponibili può essere definita "illusione di validità". Questo effetto non svanisce nemmeno quando chi giudica è conscio dei fattori che limitano l'accuratezza delle sue previsioni. Gli psicologi che effettuano interviste di selezione del personale spesso ripongono molta fiducia nelle loro previsioni, pur sapendo bene, dalla vasta letteratura disponibile sull'argomento, quanto ingannevole possa essere questa forma di indagine. Il persistente ricorso alle interviste cliniche di selezione, malgrado le reiterate dimostrazioni della loro inadeguatezza, attesta ampiamente la forza di questa illusione. Grande fiducia nelle proprie previsioni basate su certi input si sviluppa soprattutto quando i dati a disposizione sembrano molto coerenti: per esempio, il voto di maturità di uno studente del primo anno di liceo che ha tutti voti medi è considerato più facilmente prevedibile di quello di un altro studente con qualche voto alto e qualche voto basso. Il problema è che combinazioni molto coerenti si osservano con la massima frequenza quando le variabili di input sono fortemente ridondanti o correlate e, quindi, la nostra tendenza ci porta ad avere più fiducia in previsioni basate su dati ripetitivi. Ma un principio elementare della statistica delle correlazioni ci dice che, date certe variabili di input di certificata validità, una previsione basata su un determinato numero di questi input può raggiungere un grado di certezza più elevato se i dati sono indipendenti tra di loro che non quando sono ridondanti o
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correlati. La ridondanza tra le informazioni di partenza, dunque, fa crescere la fiducia ma fa calare l'accuratezza: così, molte volte ci fidiamo ciecamente o quasi di previsioni che, con molta probabilità, non centreranno il bersaglio (Kahneman e Tversky, 1973).
Errate concezioni della regressione Immaginate che un numeroso gruppo di ragazzi sia stato sottoposto a due versioni equivalenti di un test attitudinale. Se si scelgono dieci ragazzi tra quelli che hanno ottenuto i migliori risultati in una delle due prove e li si esamina con l'altra versione, capita spesso di rimanere delusi dalla loro performance. Al contrario, se i dieci ragazzi vengono scelti tra i peggiori di una delle prove, ci sono buone probabilità di scoprire che, in media, si comporteranno un po' meglio nell'altra. Più in generale, consideriamo due variabili, x e y, che presentino la medesima distribuzione. Se si scelgono membri della popolazione il cui punteggio x medio si scosta dalla media di x di k unità, normalmente la media dei loro punteggi y si scosterà dalla media di y di un valore inferiore a k unità. Queste osservazioni esemplificano un fenomeno generale noto come "regressione verso la media", documentato per la prima volta da Galton oltre un secolo fa. Nel corso della nostra vita, incontriamo molti esempi di regressione verso la media: ogni volta che, per esempio, confrontiamo la statura di padri e figli, l'intelligenza di mogli e mariti o la performance di uno studente in una serie di esami successivi. Nonostante la sua costante presenza, su questo fenomeno non sviluppiamo intuizioni corrette: primo, non ci aspettiamo di incontrarlo in molti contesti in cui è sicuramente destinato a verificarsi; secondo, quando ne riconosciamo la presenza, spesso ci inventiamo strane spiegazioni per giustificarlo (Kahneman e Tversky, 1973). La nostra opinione è che il fenomeno della regressione resta sfuggente perché è incompatibile con la credenza diffusa che l'esito previsto debba essere estremamente rappresentativo dell'input e, quindi, che il valore della variabile in uscita debba essere altrettanto polarizzato quanto quello della variabile in ingresso.
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L'incapacità di riconoscere l'importanza della regressione può avere gravi conseguenze, come dimostra il caso seguente (Kahneman e Tversky, 1973). In una discussione tra istruttori di un corso di addestramento al volo, alcuni dei più esperti del gruppo fecero notare che quando lodavano un allievo per un atterraggio eccezionalmente morbido quasi sempre quello successivo era meno preciso, mentre quando criticavano aspramente un atterraggio troppo brusco di solito notavano un miglioramento nella prova seguente. Quegli istruttori ne dedussero che lodare danneggia l'apprendimento e punire vi giova, al contrario di quanto affermano principi psicologici largamente accettati. La loro illazione, però, era ingiustificata, a causa della presenza della regressione verso la media. Come in altri casi di prove ripetute, a un miglioramento segue spesso una performance scadente e un peggioramento è più comunemente seguito da un'eccellente prestazione, anche quando l'istruttore non reagisce in alcun modo al comportamento dell'apprendista nel primo tentativo. Avendo lodato gli allievi dopo ogni atterraggio preciso e biasimato dopo ogni atterraggio brusco, gli istruttori giunsero alla conclusione, errata e potenzialmente pericolosa, che le punizioni fossero più efficaci dei premi. Succede, così, che non comprendendo l'effetto della regressione siamo indotti a sopravvalutare l'efficacia delle punizioni e sottovalutare quella dei premi. Come nel caso dell'addestramento, anche nelle interazioni sociali la prassi è quella di premiare le buone prestazioni e punire quelle cattive; per il solo effetto della regressione, quindi, è più probabile che il comportamento migliori dopo una punizione e peggiori dopo un premio. Ne consegue che la condizione umana ci condanna, per puro caso, a essere quasi sempre premiati per aver punito il prossimo e puniti per averlo premiato. In generale, non ci rendiamo conto della natura accidentale di questa contraddizione e, in effetti, il ruolo sfuggente della regressione come diretta responsabile delle conseguenze apparenti di premi e punizioni non sembra essere stato colto nemmeno dagli esperti del settore.
Disponibilità Ci sono situazioni in cui valutiamo la frequenza di una classe o la probabilità di un evento in base alla facilità di richiamo alla mente di casi in cui essi si manifestano o si verificano. Per esempio, possiamo stimare il rischio di attacco cardiaco cui è esposta la fascia di popolazione di mezza età basandoci sui dati di incidenza della malattia nella cerchia dei nostri conoscenti. In modo analogo, è possibile valutare le probabilità di fallimento di una impresa commerciale immaginando le varie difficoltà che l'organizzazione in esame potrebbe incontrare. Questa euristica del giudizio è detta "disponibilità". La disponibilità è un'utile indicazione per stimare frequenze o probabilità, perché è normale che gli esempi tratti da classi di grandi dimensioni vengano ricordati più facilmente e rapidamente di quelli di classi meno frequenti. La disponibilità, però, è influenzata anche da altri fattori, oltre che dalla frequenza e dalla probabilità. Fidandoci della disponibilità, quindi, possiamo incorrere in bias prevedibili, come quelli descritti qui di seguito. Bias dovuti alla recuperabilità di esempi Quando l'ampiezza delle classi viene giudicata dalla disponibilità di loro esempi, una classe i cui esempi sono facilmente ritrovabili sembrerà più numerosa di un'altra della stessa frequenza ma con esempi meno recuperabili. In un elementare esperimento allestito per dimostrare questo effetto, a gruppi di partecipanti venne letta una lista di noti personaggi di entrambi i sessi e poi fu chiesto di giudicare se l'elenco contenesse più nomi di uomini che di donne. Ogni gruppo ascoltò elenchi diversi: in alcuni di essi gli uomini erano relativamente più celebri delle donne e in altre erano le donne a essere mediamente più note. In ognuna delle liste, i partecipanti stimarono, sbagliando, che la classe (sesso) contenente i personaggi più famosi fosse anche quella presente con più membri (Tversky e Kahneman, 1973). Oltre alla familiarità, esistono ulteriori fattori, come la salienza, o rilievo, che condizionano la recuperabilità di esempi.
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Per esempio, l'impatto della visione reale di una casa in fiamme sulla probabilità soggettiva assegnata a questi sinistri è probabilmente superiore a quello causato dalla lettura su un quotidiano locale della notizia di un incendio. In più, è presumibile che gli eventi recenti siano relativamente più disponibili di quelli più remoti: capita a tutti di notare come la nostra probabilità soggettiva riguardante gli incidenti automobilistici subisce un temporaneo rialzo quando vediamo un'auto ribaltata a lato della strada.
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relativamente più numerose di quelle concrete. Questo bias sistematico è stato osservato in uno studio di Galbraith e Underwood (1973), che mostrò come la frequenza stimata delle parole astratte fosse molto più alta di quella delle parole concrete, benché quella oggettiva delle due classi sia equivalente. In quell'occasione si giudicò, inoltre, che le parole astratte comparissero in una varietà di contesti molto più differenziata di quelle concrete.
Bias di immaginabilità Distorsioni dovute all'efficacia della modalità di ricerca Supponiamo di campionare a caso una parola (di tre o più lettere) da un testo scritto in inglese. È più probabile che la parola cominci con r o che la r sia la sua terza lettera? In genere, affrontiamo questo problema cercando di ricordare parole che cominciano con r (per esempio, "road") e parole che hanno una r in terza posizione (per esempio, "car"), valutandone la frequenza relativa in base alla facilità con cui riusciamo a richiamare alla mente parole delle due categorie. Dato che è molto più facile cercare parole a partire dall'iniziale che non dalla terza lettera, i più giungono alla conclusione che le parole che cominciano con una certa consonante siano più numerose di quelle in cui la stessa consonante compare in terza posizione. E lo fanno anche nel caso di consonanti, come r o k che in inglese sono più frequenti in terza posizione che in prima (Tversky e Kahneman, 1973). Compiti diversi sollecitano differenti modalità di ricerca. Per esempio, immaginate che vi venga chiesto di stimare con quale frequenza parole astratte (pensiero, amore) e parole concrete (porta, acqua) compaiono in un testo scritto. Un modo naturale di rispondere a questa domanda è quello di mettersi a immaginare contesti in cui la parola possa comparire, e le situazioni o gli scenari in cui è menzionato un concetto astratto (come "amore" in storie sentimentali) sembrano più facili da definire di quelli in cui viene impiegata una parola concreta (come "porta"). Se la frequenza delle parole viene giudicata dalla disponibilità di contesti in cui esse possono comparire, quindi, si stimerà che le parole astratte siano
Talvolta ci capita di dover valutare la frequenza di una classe di cui non abbiamo esempi in memoria, ma che possiamo immaginare seguendo una certa regola. In queste situazioni, siamo soliti generare una serie di esempi e valutare la frequenza o la probabilità della classe in base alla facilità con cui riusciamo a crearli. Ma la facilità di costruzione degli esempi non sempre riflette la loro effettiva frequenza e, quindi, questa forma di valutazione è soggetta a bias sistematici, come mostra il seguente esempio. Immaginate che un gruppo di 10 persone debba formare comitati di k membri, con k compreso tra 2 e 8. Quanti diversi comitati di k membri si possono creare? La risposta esatta a questo problema è data dal coefficiente binomiale 10 ) che raggiunge un massimo di 252 per k = 5. Chiaramente, il numero di comitati di k membri è uguale al numero di comitati di (10 - k) membri, dato che ogni comitato di k membri definisce un unico comitato di (10 - k) non-membri. Una maniera di rispondere a questa domanda senza addentrarsi in calcoli complessi è quella di costruire mentalmente comitati di k membri e poi valutarne il numero dalla facilità con cui vengono in mente. I comitati composti da pochi membri, per esempio 2, sono più disponibili di quelli con molti membri, per esempio 8. Lo schema più ovvio per costruire questi comitati è quello di scomporre il gruppo in insiemi disgiunti, e ci si rende subito conto che, mentre è semplice costruire 5 comitati disgiunti composti da 2 membri, non è possibile generarne neppure un paio se i membri sono 8. Di
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conseguenza, se la frequenza viene stimata dall'immaginabilità o dalla disponibilità per la costruzione, i comitati con pochi membri sembreranno più numerosi di quelli con molti membri, in disaccordo con la funzione corretta, che è a forma di campana. E, in effetti, quando si chiese a soggetti inesperti di valutare il numero di distinti comitati di varie dimensioni, le loro stime corrisposero a una funzione monotona discendente della dimensione del comitato (Tversky e Kahneman, 1973). Per esempio, la stima mediana del numero di comitati di 2 membri fu 70, mentre per comitati di 8 membri fu 20 (la risposta giusta è 45 in entrambi i casi). L'immaginabilità svolge un ruolo importante nella valutazione di probabilità riguardanti eventi della vita reale. Per esempio, il rischio di una spedizione in regioni inesplorate può essere stimato immaginando circostanze accidentali che il gruppo non è preparato ad affrontare. Se a molte di queste difficoltà viene dato eccessivo rilievo, l'impresa potrà apparire esageratamente pericolosa, anche se la facilità con cui è possibile immaginare potenziali disastri non corrisponde alla loro effettiva probabilità di verificarsi. Al contrario, i rischi di un'iniziativa potrebbero essere gravemente sottovalutati se alcuni dei potenziali pericoli sono difficili da immaginare o, semplicemente, non vengono in mente.
Correlazione illusoria Chapman e Chapman (1967, 1969) hanno descritto un'interessante distorsione nella stima della frequenza con cui due eventi si verificano congiuntamente. Nel loro esperimento, fornirono a soggetti inesperti informazioni concernenti una serie di ipotetici pazienti psichiatrici, comprendenti i dati della loro analisi clinica più una figura umana disegnata dal malato. In seguito, i partecipanti dovettero stimare la frequenza con cui ogni diagnosi (come, per esempio, paranoia o diffidenza) si accompagnava a varie caratteristiche del disegno (come occhi particolari). I partecipanti sopravvalutarono nettamente la frequenza dell'accadimento congiunto di associati istintivi, come quella tra diffidenza e un certo tipo di sguardo, un effetto definito "correlazione illusoria". Giudicando erroneamente
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i dati presentati, quei soggetti inesperti "riscoprirono" molte delle comuni credenze, diffuse ma prive di fondamento, che circondano l'interpretazione del test della figura umana. L'effetto della correlazione illusoria si rivelò estremamente resistente a dati contraddittori, tanto da persistere anche quando la correlazione tra sintomo e diagnosi, in realtà, era negativa e impedì loro di identificare correlazioni effettivamente presenti. L'effetto della correlazione illusoria è facilmente spiegabile con la disponibilità. Per giudicare la frequenza con cui due eventi si verificano congiuntamente ("co-occorrenza"), possiamo basarci sulla forza del legame di associazione esistente tra di essi: quando l'associazione è forte, è probabile giungere alla conclusione che gli eventi siano stati spesso abbinati e di qui a giudicare che il più delle volte si verifichino insieme il passo è breve. Secondo questa visione, la correlazione illusoria tra diffidenza e un particolare disegno degli occhi, per esempio, è imputabile al fatto che quel disturbo della personalità viene associato più facilmente con gli occhi che con qualsiasi altra parte del corpo. Una lunga esperienza ci ha insegnato che, in generale, gli esempi di classi ampie vengono in mente più facilmente e prontamente di quelli di classi meno frequenti, che i fatti probabili sono più facili da immaginare che quelli improbabili, e che le connessioni associative tra eventi si rafforzano quando questi si verificano spesso congiuntamente. Il risultato è che l'uomo dispone di una procedura (l'euristica della disponibilità) per stimare l'ampiezza di una classe, la probabilità di un evento o la frequenza delle co-occorrenze a partire dalla facilità con cui possono essere effettuate le relative operazioni mentali di recupero, costruzione o associazione. Tuttavia, come hanno dimostrato i precedenti esempi, questo utile procedimento di stima può sfociare in errori sistematici.
Aggiustamento e ancoraggio In molte situazioni, le stime vengono concepite partendo da un valore iniziale che viene poi corretto per esprimere il risultato finale. Il valore iniziale, o punto di partenza, può essere
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suggerito dalla formulazione del problema, oppure coincidere con il risultato di un primo calcolo sommario. Comunque sia, le correzioni risultano quasi sempre insufficienti (Slovic e Lichtenstein, 1971), il che significa che punti di partenza differenti producono stime divergenti, ciascuna orientata verso il suo valore iniziale. Questo fenomeno noi lo chiamiamo "ancoraggio".
Aggiustamento insufficiente In un esperimento effettuato per dimostrare l'effetto di ancoraggio, ai partecipanti venne chiesto di stimare una serie di grandezze, espresse in forma percentuale (per esempio, la percentuale di stati africani nelle Nazioni Unite). Per ciascuna quantità, venne fissato un numero casuale, ottenuto facendo girare una "ruota della fortuna", in presenza dei soggetti che erano sottoposti al test. A costoro si disse di indicare, prima di tutto, se il numero uscito era superiore o inferiore al valore della grandezza in esame, e poi di stimare quest'ultimo aumentando o diminuendo il numero dato. Ai vari gruppi vennero dati valori di partenza 'differenti per ciascuna quantità da stimare e, come si scoprì, questi numeri arbitrari ebbero una marcata influenza sulle stime prodotte. Per esempio, due gruppi che ricevettero come punti di partenza, rispettivamente, 10 e 45, espressero stime mediane della percentuale di stati africani nelle Nazioni Unite pari a 25 e 65. L'assegnazione di premi per l'accuratezza delle risposte non portò ad alcuna riduzione dell'effetto di ancoraggio. L'ancoraggio si verifica non soltanto quando il punto di partenza viene imposto, ma anche quando è il soggetto stesso a basare le proprie stime sul risultato di un calcolo incompleto. Uno studio sulla stima numerica intuitiva illustra questo effetto. Due gruppi di studenti liceali dovettero esprimere, entro 5 secondi, la loro stima del risultato di un'espressione numerica scritta su una lavagna. Al primo gruppo fu proposto il seguente prodotto: 8x 7x6x5x4x3x2x1
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e al secondo gruppo il seguente: lx 2x3x4x5x6x7x8 Per rispondere rapidamente a problemi come questi, normalmente facciamo un paio di operazioni e poi stimiamo il prodotto totale per estrapolazione o aggiustamento. Poiché tipicamente le correzioni sono insufficienti, questa maniera di procedere dovrebbe portare a sottovalutare il risultato. Inoltre, poiché il risultato delle prime moltiplicazioni (effettuate di norma da sinistra a destra) è più alto nella sequenza discendente che in quella ascendente, c'è da aspettarsi che il prodotto della prima espressione venga giudicato più elevato di quello della seconda. Entrambe le ipotesi trovarono conferma: per la sequenza ascendente la stima mediana fu 512, mentre per quella discendente fu 2250. La risposta esatta è 40.320.
Bias nella valutazione di eventi congiuntivi e disgiuntivi In uno studio di Bar-Hillel (1973) si diede ai partecipanti la possibilità di scommettere su un evento su due. Furono impiegati tre tipi di eventi: eventi semplici, come l'estrazione di una pallina rossa da un sacchetto contenente il 50% di palline rosse e il 50% di palline bianche; eventi congiuntivi, come l'estrazione di una pallina rossa per sette volte consecutive da un sacchetto contenente il 90% di palline rosse e il 10% di palline bianche, con reintroduzione nel sacchetto della pallina estratta; ed eventi disgiuntivi, come l'estrazione di una pallina rossa almeno una volta su sette tentativi da un sacchetto contenente il 10% di palline rosse e il 90% di palline bianche, sempre con reintroduzione della pallina estratta. In questo problema, una netta maggioranza di soggetti preferì scommettere sull'evento congiuntivo (che ha una probabilità del 48%) piuttosto che su quello semplice (che ha una probabilità del 50%). Ma i partecipanti mostrarono anche di preferire la scommessa sull'evento semplice anziché su quello disgiuntivo, che ha una probabilità di accadimento del 52%. Pertanto, la maggior parte dei soggetti scelsero di scommettere, in
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entrambi i casi, sull'evento meno probabile. Questo modello di scelta esemplifica un principio generale più volte confermato: studi sulla scelta in giochi d'azzardo e in giudizi di probabilità indicano che tendiamo a sovrastimare la probabilità degli eventi congiuntivi (Cohen, Chesnick e Haran, 1972) e a sottostimare quella degli eventi disgiuntivi. Questi errori sistematici sono facilmente spiegabili come effetti dell'ancoraggio: la probabilità calcolata per l'evento elementare (successo in ciascun singolo stadio dell'estrazione) fornisce un naturale punto di partenza per la stima delle probabilità sia degli eventi congiuntivi sia di quelli disgiuntivi; poiché, come abbiamo detto, l'aggiustamento dal punto di partenza è quasi sempre insufficiente, le stime finali restano in entrambi i casi troppo prossime alle probabilità degli eventi elementari. Notate che la probabilità complessiva di un evento congiuntivo è inferiore a quella di ciascuno degli eventi elementari, mentre l'opposto vale per gli eventi disgiuntivi. Come conseguenza dell'ancoraggio, quindi, la probabilità complessiva verrà sovrastimata nei problemi congiuntivi e sottostimata in quelli disgiuntivi. Gli errori sistematici nella valutazione di eventi composti assumono particolare rilievo nel contesto della pianificazione. L'eventualità di riuscire a completare con successo un'iniziativa, come lo sviluppo di un nuovo prodotto, ha tipicamente carattere congiuntivo: affinché l'iniziativa abbia successo, devono verificarsi tutti gli eventi di una serie. E anche quando la probabilità di ciascuno di essi è elevata, la probabilità di successo complessiva può essere piuttosto bassa se il numero di eventi coinvolti è elevato. La generale tendenza a sovrastimare la probabilità di eventi congiuntivi porta a un ingiustificato ottimismo quando si valuta la probabilità che un piano abbia successo o che un progetto venga completato nei tempi previsti. Viceversa, le strutture disgiuntive si incontrano tipicamente quando si devono valutare rischi. Un sistema complesso, come un reattore nucleare o il corpo umano, funziona male se si guasta uno qualunque dei suoi componenti essenziali. Anche quando la probabilità di guasto di ciascuno di essi è bassa, la probabilità complessiva di un malfunzionamento può essere elevata se è coinvolto un gran numero
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di parti. A causa dell'ancoraggio, quindi, tendiamo a sottostimare le probabilità di guasto o malfunzionamento di sistemi complessi. Così, a volte, la direzione del bias da ancoraggio può essere arguita dalla struttura dell'evento: quella a catena, tipica delle congiunzioni, produce sopravvalutazioni, quella a imbuto propria delle disgiunzioni porta a sottovalutazioni.
Ancoraggio nella stima di distribuzioni di probabilità soggettive Nell'analisi delle decisioni, molte volte agli esperti viene richiesto di esprimere il loro parere su una certa grandezza, come il valore della media Dow Jones in un certo giorno, sotto forma di distribuzione di probabilità. Di solito, la distribuzione viene costruita chiedendo alla persona di scegliere valori della grandezza corrispondenti a determinati percentili della sua distribuzione di probabilità soggettiva. Per esempio, all'esperto si può chiedere di scegliere un numero, X90, tale che la probabilità soggettiva che il numero prescelto sia maggiore del valore della media Dow Jones ammonti al 90%. Il che equivale a dire che dovrebbe scegliere il valore X 90 che lo renderebbe disponibile ad accettare una scommessa 9 a 1 che la media Dow Jones non supererà quella soglia. Unendo una serie di giudizi come questo, corrispondenti a vari percentili, è possibile costruire una distribuzione di probabilità soggettiva relativa al valore della media Dow Jones. Raccogliendo distribuzioni di probabilità soggettiva di molte svariate grandezze è possibile verificare se l'esperto è "tarato" correttamente. In una serie di problemi, un esperto è tarato correttamente (o esternamente) se esattamente l'n% dei valori effettivi delle grandezze stimate cadono al di sotto dei valori da lui dichiarati di Xn . Per esempio, i valori reali devono risultare inferiori a X01 e superiori a X99 per 1'1% delle quantità. Pertanto, i valori effettivamente rilevati devono cadere nell'intervallo di confidenza compreso tra X 01 e X99 nel 98% dei problemi proposti. Molti ricercatori (Alpert e Raiffa, manoscritto inedito; Winkler, 1967; von Holstein, 1971) hanno costruito distribuzioni di probabilità per molte grandezze a partire dai dati
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ottenuti da un gran numero di esperti. Le distribuzioni raccolte indicano la presenza di notevoli e sistematici scostamenti da una corretta taratura: nella maggior parte dei casi esaminati, infatti, i valori reali delle quantità stimate sono o inferiori a X01 o superiori a X99 in circa il 30% dei problemi. Ciò significa che i soggetti fissano intervalli di confidenza troppo ristretti che riflettono più certezza di quanta sia giustificata dalla loro conoscenza delle grandezze stimate. Questo errore viene commesso da tutti, esperti e inesperti, e non viene eliminato neanche introducendo appropriate regole di valutazione che forniscano incentivi per una taratura esterna. L'effetto è attribuibile, almeno in parte, all'ancoraggio. Per scegliere l'X90 relativo alla media Dow Jones, per esempio, è naturale partire dalla propria migliore stima del Dow Jones, e poi correggere verso l'alto il valore immaginato. Se questo aggiustamento - come quasi tutti gli altri - è insufficiente, X90 non risulterà adeguatamente estremizzato. Un effetto ancoraggio di analoga portata si verificherà nella scelta di X10 che, presumibilmente, verrà ottenuto aggiustando verso il basso la propria migliore stima della grandezza. Ecco perché l'intervallo di confidenza compreso tra X 10 e X90 risulterà esageratamente limitato, e la distribuzione stimata di probabilità troppo ristretta. A sostegno di questa interpretazione si può dimostrare che le probabilità soggettive cambiano sistematicamente se si adotta una procedura che non assume come ancoraggio la migliore stima di chi deve esprimerle. Le distribuzioni di probabilità soggettiva per una data grandezza (la media Dow Jones) possono essere ottenute seguendo due diversi procedimenti: primo, si può chiedere al soggetto di scegliere valori del Dow Jones corrispondenti a determinati percentili della sua distribuzione di probabilità e, secondo, gli si può chiedere di stimare la probabilità che il valore vero del Dow Jones risulti superiore a certi valori indicati. Le due procedure sono formalmente equivalenti e, quindi, dovrebbero produrre identiche distribuzioni. Esse, però, favoriscono l'adozione di differenti modalità di aggiustamento a partire da ancoraggi diversi. Nella prima procedura il punto di partenza naturale è la propria migliore stima della grandezza; nella seconda, invece, l'ancoraggio può diventare il valore
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indicato nella domanda o, in alternativa, una quotazione alla pari, ovvero una probabilità al 50-50, che nelle stime di probabilità è sempre un punto di partenza naturale. In entrambi i casi, la seconda procedura è soggetta a produrre valutazioni meno estremizzate della prima. Per confrontare i due procedimenti, a un primo gruppo di persone fu presentata una serie di 24 grandezze (come la distanza aerea da Nuova Delhi a Pechino) chiedendo di valutare rXio o L'X90 di ogni problema. A un secondo gruppo di partecipanti venne fornito il giudizio mediano espresso dal primo gruppo riguardo alle 24 grandezze. A questi ultimi venne chiesto di stimare le probabilità, in quote, che ciascuno dei valori ricevuti fosse superiore al valore vero della relativa grandezza. In assenza di qualunque bias, il secondo gruppo avrebbe dovuto confermare le quote specificate dal primo gruppo, ovvero 9:1. Se, invece, la funzione di ancoraggio fosse stata assunta dalla quota alla pari o dal valore dichiarato, allora le quote del secondo gruppo avrebbero dovuto essere meno estreme, cioè più prossime a 1:1. E, in effetti, le quote mediane stabilite da questo gruppo, relativamente a tutti i problemi proposti, furono di 3:1. Allorché i giudizi dei due gruppi vennero sottoposti a verifica di taratura esterna, si trovò che i soggetti del primo gruppo erano stati troppo estremisti, in accordo con i risultati di studi precedenti: gli eventi che secondo loro avevano il 10% di probabilità di accadimento in realtà si verificarono nel 24% dei casi. I soggetti del secondo gruppo, invece, risultarono troppo conservativi: eventi cui avevano assegnato una probabilità media del 34% si verificarono, in realtà, nel 26% dei casi. Questi risultati mostrano come il livello di taratura dipenda dalla procedura utilizzata per ottenere le risposte.
Discussione finale In questo capitolo ci siamo occupati dei sistematici errori cognitivi commessi da chi si affida alle euristiche del giudizio. Questi bias non sono attribuibili a effetti motivazionali, quali il "wishful thinking", né a distorsioni del giudizio favorite da compensi o sanzioni. In realtà, molti dei gravi errori di
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giudizio descritti in precedenza si sono verificati nonostante che i soggetti sottoposti agli esperimenti fossero stati sollecitati a essere accurati e venissero premiati quando rispondevano correttamente (Kahneman e Tversky, 1972; Tversky e Kahneman, 1973). Ad affidarsi alle euristiche e a cadere in questo genere di errori non sono soltanto gli inesperti: lo fanno anche ricercatori qualificati, quando si lasciano guidare dall'intuizione. Per esempio, la tendenza a pronosticare il risultato che meglio corrisponde ai dati disponibili, assegnando insufficiente peso alla probabilità a priori, è stata osservata anche nei giudizi intuitivi di persone che avevano studiato a lungo le leggi della statistica (Tversky e Kahneman, 1971; Kahneman e Tversky, 1973). Benché coloro che conoscono le leggi della statistica riescano a evitare almeno gli errori elementari, come la fallacia del giocatore, in problemi più complessi e meno trasparenti i loro giudizi intuitivi sono soggetti ad analoghe false credenze. Non è sorprendente che alcune euristiche di provata utilità, come quelle della rappresentatività e della disponibilità, vengano ancora praticate, malgrado portino saltuariamente a previsioni o stime errate. Ciò che, piuttosto, dovrebbe sorprendere, è l'incapacità della gente di intuire dalle esperienze quotidiane principi statistici di importanza così fondamentale quanto la regressione verso la media o l'effetto dell'ampiezza del campione sulla variabilità di campionamento. Benché tutti incontriamo, nel normale corso della vita, numerosi esempi da cui queste leggi potrebbero essere dedotte, soltanto pochi riescono a scoprirle da soli. I principi statistici non vengono appresi dall'esperienza quotidiana perché i casi in cui si manifestano non sono appropriatamente codificati. Per esempio, non scopriamo che in un testo scritto la differenza della lunghezza media delle parole è più ampia tra righe che tra pagine successive semplicemente perché non prestiamo attenzione a quelle medie. Così, non giungiamo a riconoscere la relazione esistente tra ampiezza del campione e variabilità di campionamento, malgrado l'abbondanza di dati che potrebbero insegnarcela. La mancanza di un codice appropriato spiega anche come mai pochi riescono a individuare gli errori sistematici che inquinano i propri giudizi di probabilità. Ci sarebbe una via per
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capire se i nostri giudizi sono ben calibrati: basterebbe tenere il conto della percentuale di eventi che effettivamente si verificano tra quelli cui assegniamo la medesima probabilità di accadimento. Il problema è che non è naturale raggruppare eventi in funzione della loro probabilità stimata e, senza questa suddivisione, risulta impossibile scoprire, tanto per dire, che soltanto il 50% delle predizioni cui si era assegnata una probabilità del 90% o più si sono poi effettivamente avverate. L'analisi empirica degli errori cognitivi ha implicazioni per il ruolo teorico e pratico delle probabilità stimate. La moderna teoria delle decisioni (Savage, 1954; De Finetti, 1968) considera la probabilità soggettiva come l'opinione quantificata di una persona idealizzata. Più precisamente, la probabilità soggettiva di un dato evento è definita dall'insieme di scommesse riguardanti l'evento che questa persona è disposta ad accettare. Da ciò si può desumere una misura internamente conforme, o coerente, della probabilità soggettiva dell'individuo se le sue scelte tra le scommesse soddisfano certi principi, cioè gli assiomi della teoria. La probabilità così derivata è soggettiva nel senso che persone diverse possono esprimere probabilità differenti per il medesimo evento. Il contributo più importante di questo approccio è che offre una rigorosa interpretazione soggettiva della probabilità applicabile a singoli eventi e inserita in una teoria generale della decisione razionale. Forse si potrebbe osservare che, mentre a volte le probabilità soggettive possono essere dedotte da preferenze espresse tra scommesse, esse normalmente non si formano per questa via. Chi scommette sulla squadra A anziché su quella B lo fa perché è convinto che la prima abbia più probabilità di vincere: non ricava questa convinzione dalle sue preferenze riguardanti le scommesse. Pertanto, in realtà sono le probabilità soggettive a determinare le preferenze tra le scommesse e non viceversa, come afferma la teoria assiomatica della decisione razionale (Savage, 1954). La natura intrinsecamente soggettiva del concetto di probabilità ha indotto molti studiosi a convincersi che la coerenza, o congruenza interna, sia l'unico criterio di valutazione delle probabilità stimate. Dal punto di vista della teoria formale della probabilità soggettiva, quindi, qualsiasi insieme
Il giudizio in condizioni d'incertezza: euristiche e bias 57
56 Economia della felicità
di giudizi di probabilità internamente coerenti è valido come ogni altro. Questo criterio non è del tutto soddisfacente, in quanto un insieme di probabilità soggettive internamente coerente potrebbe essere incompatibile con altre convinzioni di quella persona. Prendiamo, per esempio, il caso di un giocatore d'azzardo le cui probabilità soggettive relative a tutti i possibili risultati del lancio di una moneta siano determinate dalla fallacia del giocatore, vale a dire che la sua stima della probabilità che esca "croce" in un certo lancio salga con il numero di uscite consecutive di "testa" nei lanci precedenti. I giudizi di quel giocatore possono essere internamente coerenti e, quindi, considerati accettabili come probabilità soggettive secondo il criterio della teoria formale. Ma le probabilità espresse sono incompatibili con la convinzione comune che una moneta non ha memoria ed è, quindi, incapace di generare dipendenze sequenziali. Il fatto è che per considerare adeguate, o razionali, le probabilità stimate la coerenza interna non basta: i giudizi devono essere compatibili anche con l'intera rete di convinzioni e credenze dell'individuo. Sfortunatamente non esiste una semplice procedura formale per accertare la compatibilità di un insieme di giudizi di probabilità con il sistema totale di credenze di chi li ha espressi. Coloro che giudicano con razionalità, tuttavia, si sforzeranno comunque di realizzare questo genere di compatibilità, anche se è più agevole assicurare e accertare la semplice congruenza interna. In particolare, essi cercheranno di rendere compatibili i giudizi di probabilità con la personale conoscenza dell'argomento in questione, con i principi della probabilità e con le loro stesse euristiche e distorsioni di giudizio.
Sintesi conclusiva In questo articolo abbiamo descritto tre euristiche impiegate per esprimere giudizi in condizioni d'incertezza: 1) la rappresentatività, normalmente adottata quando il compito richiesto è quello di giudicare la probabilità che un oggetto o un evento A appartenga alla classe o processo B;
2) la disponibilità di esempi o scenari, spesso utilizzata quando occorre valutare la frequenza di una classe o la verosimiglianza di un certo sviluppo; 3) l'aggiustamento da un ancoraggio, cui si fa comunemente ricorso nelle predizioni numeriche quando è disponibile un valore di riferimento. Queste euristiche offrono molti vantaggi e sono spesso efficaci, ma portano a errori sistematici e prevedibili. Una maggiore conoscenza di queste euristiche e dei bias che provocano può migliorare la qualità di giudizi e decisioni in situazioni incerte.
Bibliografia M. Alpert e H. Raiffa (manoscritto inedito). M. Bar-Hillel (1973), in Organ. Behav. Hum. Performance, 9, 396. L.J. Chapman e J.P. Chapman (1967), in Abnorm. Psychol., 73, 193. — (1969), in Abnorm. Psychol., 74, 271. J. Cohen, E.I. Chesnik e D. Haran (1972), in Br. J. Psychol., 63, 41. B. De Finetti (1968), in D.E. Sills (a cura di), International Encyclopedia of the Social Sciences, Macmillan, New York, vol. 12, pp. 496-504. W. Edwards (1968), in B. Kleinmuntz (a cura di), Representation of Human Judgment, Wiley, New York, pp. 17-52. R.C. Galbraith e B.J. Underwood (1973), in Mem. Cognition, 1, 56. D. Kahneman e A. Tversky (1972), in Cognitive Psychol., 3, 430. — (1973), in Psychol. Review, 80, 237. L.J. Savage (1954), The Foundation of Statistics, Wiley, New York. P. Slovic e S. Lichtenstein (1971), in Organ. Behav. Hum. Performance, 6, 649. A. Tversky e D. Kahneman (1971), in Psychol. Bull., 76, 105. — (1973), in Cognitive Psychol., 5, 207. C.A.S. von Holstein (1971), in Acta Psychol., 35, 478. R.L. Winkler (1967), in J Am. Stat. Assoc., 62, 776.
3. Il
framing delle decisioni
e la psicologia delle scelte'
Le spiegazioni e le previsioni delle scelte operate dalle persone, sia nella vita quotidiana sia nelle scienze sociali, si basano sovente sull'assunto che il comportamento umano sia guidato dalla razionalità. Sulla definizione di razionalità si è molto discusso, ma su almeno un punto più o meno tutti concordano: una scelta è detta razionale quando soddisfa certi elementari requisiti di coerenza e congruenza. In questo articolo descriviamo alcuni problemi decisionali in cui tali requisiti vengono sistematicamente violati e dimostriamo che queste trasgressioni sono spiegate dai principi psicologici che governano la percezione dei casi e la valutazione delle opzioni a disposizione. Un problema decisionale è definito dagli atti o opzioni tra i quali occorre scegliere, dai possibili esiti, risultati o conseguenze di questi atti e dalle contingenze (contingencies) o probabilità condizionate che correlano i risultati agli atti. Impieghiamo l'espressione "quadro della decisione" (decision frame) per designare la concezione del decisore di atti, risultati e contingenze associati a una particolare scelta. Il frame
i Saggio scritto in collaborazione con Amos Tversky. Titolo originale: "The Framing of Decisions and the Psychology of Choice", pubblicato su Science, New Series, 211 (1981), 4481, pp. 453-458. Testo pubblicato in traduzione italiana per concessione della American Association for the Advancement of Science (O 1981). L'AAAS non è responsabile della traduzione italiana, pertanto, in caso di dubbio, prega di fare riferimento alla versione originale in inglese. La ricerca è stata resa possibile dal finanziamento alla Stanford University da parte dell'Office of Naval Research (contratto n. N00014 -79 C-0077).
60 Economia della felicità
adottato è determinato in parte dalla formulazione del problema e in parte dai principi, dalle consuetudini e dalle caratteristiche personali del decisore. Spesso è possibile strutturare un problema decisionale in forme diverse. Questi frame alternativi di un problema decisionale sono paragonabili alle prospettive diverse di una scena visiva. Affinché la percezione dell'altezza relativa di due montagne vicine, per esempio, possa essere considerata veritiera, occorre che non venga rovesciata quando cambia il punto di osservazione. Analogamente, perché una scelta sia razionale, la preferenza tra le possibili opzioni non deve mutare in seguito a variazioni di inquadramento (framing) o contesto. Poiché, però, né la percezione né il processo decisionale dell'uomo sono esenti da imperfezioni, molte volte succede che cambiamenti di prospettiva ribaltino le dimensioni relative apparenti di oggetti e la desiderabilità relativa di opzioni alternative. Noi abbiamo ottenuto sistematiche inversioni di preferenza cambiando il framing di opzioni, contingenze o risultati. Questi effetti sono stati osservati in un'ampia gamma di problemi e nelle scelte di diversi gruppi di intervistati. In questo saggio, presentiamo alcuni esempi selezionati di inversioni di preferenza, utilizzando dati ottenuti con studenti della Stanford University e della University of British Columbia che hanno risposto a sintetici questionari durante le normali lezioni in classe. Per ciascun problema, vengono indicati con la lettera N il 'numero totale di intervistati e tra parentesi la percentuale di coloro che hanno scelto ciascuna opzione. L'effetto di variazioni di framing è illustrato nei Problemi 1 e 2. 152) Immaginate che il vostro paese si stia preparando ad affrontare una rara epidemia asiatica che, secondo le previsioni, provocherà la morte di 600 persone. Per contrastare la malattia sono stati proposti due piani d'intervento alternativi. Assumete che le affidabili stime scientifiche degli effetti dei due piani siano le seguenti: Problema 1
(N =
• se viene adottato il piano A, saranno salvate 200 persone (72%); • se viene adottato il piano B, c'è 1 probabilità su 3 che si salvino 600 persone e 2 probabilità su 3 che non si salvi nessuno (28%).
Il framing delle decisioni e la psicologia delle scelte 61
Quale dei due piani appoggereste? In questo problema prevale di gran lunga la scelta avversa al rischio: la prospettiva certa di salvare 200 vite umane risulta più attraente di quella rischiosa di identico valore atteso, cioè quella che offre 1 probabilità su 3 di salvarne 600. A un secondo gruppo di intervistati venne assegnato il medesimo problema, modificando, però, la presentazione degli effetti dei piani alternativi nel modo seguente: Problema 2 (N = 155)
• se viene adottato il piano C, moriranno 400 persone (22%); • se viene adottato il piano D, c'è 1 probabilità su 3 che non muoia nessuno e 2 probabilità su 3 che muoiano 600 persone (78%). Quale dei due piani appoggereste? In questo caso, la scelta di maggioranza cade sull'opzione rischiosa: la morte certa di 400 persone è considerata meno accettabile rispetto ad avere 2 probabilità su 3 che ne muoiano 600.
Le preferenze espresse nei Problemi 1 e 2 sono un chiaro esempio di un modello piuttosto diffuso: le scelte che comportano guadagni tendono a favorire l'esclusione del rischio, mentre quelle che comportano perdite si orientano più spesso verso l'assunzione del rischio. Tuttavia, è facile rendersi conto che i due problemi sono, a tutti gli effetti, assolutamente identici: la sola differenza tra di essi è che i risultati sono presentati nel Problema 1 in termini di vite salvate e nel Problema 2 in termini di vite perdute. Questo cambiamento di prospettiva è accompagnato da un netto spostamento dell'atteggiamento verso il rischio, dall'avversione all'assunzione. Inversioni simili le abbiamo osservate in numerosi gruppi di intervistati di varia composizione, compresi insegnanti universitari e medici. L'incoerenza delle risposte ai Problemi 1 e 2 deriva dalla combinazione dell'effetto framing con gli atteggiamenti o disposizioni contraddittori verso rischi che comportino guadagni o perdite. Passiamo, dunque, ad analizzare più a fondo queste differenti inclinazioni.
62 Economia della felicità
La valutazione delle prospettive La principale teoria della presa di decisione in condizioni di rischio fa riferimento al modello dell'utilità attesa. Questo modello si basa su una serie di assiomi, per esempio la transitività delle preferenze, che forniscono criteri di razionalità delle scelte. Le scelte che si conformano a quegli assiomi possono essere descritte in termini di utilità dei vari esiti possibili per chi le ha fatte. L'utilità di una prospettiva rischiosa è uguale all'utilità attesa dei suoi esiti, ottenuta ponderando l'utilità di ciascuno degli esiti possibili con la sua probabilità di realizzarsi. Quando deve operare una scelta, il decisore razionale preferirà la prospettiva in grado di offrire l'utilità attesa più elevata (Von Neumann e Morgelastern, 1947; Savage, 1954; Raiffa, 1968; Fishburn, 1970). Come vedremo più avanti, i più esibiscono modelli di preferenza che appaiono incompatibili con la teoria dell'utilità attesa. In altra sede (Kahneman e Tversky, 1979) abbiamo proposto un modello descrittivo, chiamato prospect theory (teoria del prospetto) che corregge la teoria dell'utilità attesa per tener conto di queste osservazioni. Nel processo di scelta, distinguiamo due fasi: una fase iniziale in cui viene inquadrato il problema, delineando azioni, esiti e contingenze, e una fase successiva di valutazione.' Per semplicità, limiteremo l'applicazione formale della teoria a scelte che comportino probabilità numeriche e risultati quantitativi, come denaro, tempo o numero di vite umane. Considerate una prospettiva che produca l'esito x con probabilità p, l'esito y con probabilità q e lo status quo con probabilità 1 - p - q. Secondo la prospect theory, ci sono valori v(.) associati agli esiti e pesi decisionali Ir(.) associati alle probabilità, per cui il valore complessivo della prospettiva risulta uguale a Tr(p)v(x) + Tr(q)v(y). Qualora tutti gli esiti si 2 La fase di framing comprende svariate operazioni di elaborazione effettuate allo scopo di semplificare le prospettive: per esempio, l'associazione di eventi o esiti o lo scarto di elementi trascurabili. Si veda Kahneman e Tversky, 1979.
Il framing delle decisioni e la psicologia delle scelte 63
trovassero dal medesimo lato del punto zero, si dovrebbe applicare un'equazione leggermente diversa.3 Nella prospect theory, gli esiti sono espressi come scostamenti positivi o negativi (guadagni o perdite) rispetto a un punto di riferimento neutro, cui viene assegnato valore zero. Benché i valori soggettivi differiscano da una persona all'altra e a seconda dell'attributo considerato, noi sostenemmo che la funzione del valore, in via generale, abbia una forma a S, concava al di sopra del punto di riferimento e convessa al di sotto, come mostra la Figura 1.1 (p. 8). Ciò significa che, per esempio, la differenza nel valore soggettivo tra guadagni di 10 e 20 dollari è superiore a quella tra 110 e 120 dollari, e la stessa relazione vale per equivalenti perdite. Un'altra proprietà della funzione del valore è che la risposta alle perdite è più intensa di quella ai guadagni: il dispiacere causato da una perdita di una certa somma di denaro è, in generale, superiore al piacere legato alla vincita di una somma equivalente, come indica la riluttanza abbastanza generalizzata ad accettare scommesse eque sul lancio di una moneta. Svariati studi su decisione (Kahneman e Tversky, 1979; Fishburn e Kochenberger, 1979; Laughhunn, Payne e Crum, 1980; Payne, Laughhunn e Crum, 1981; Eraker e Sox, 1981) 4 e giudizio (Galanter e Pliner, 1974; Moskowitz et al., 1974) hanno confermato queste proprietà della funzione del valore.5 3 Se p+q=lex>y>0 oppure x < y < O, l'equazione precedente viene sostituita da v(y) + 'r (p) [v (x) - v(y)], in modo che i pesi decisionali non vengano applicati a esiti certi. 4 Nell'ultimo studio svariate centinaia di pazienti clinici fecero scelte ipotetiche fra terapie farmacologiche per gravi emicranie, ipertensioni e dolori al petto. Per la maggior parte, si mostrarono avversi al rischio quando gli esiti erano descritti come positivi (per esempio, riduzione del dolore o aumento dell'aspettativa di vita) e inclini a rischiare nel caso opposto (aumento del dolore o riduzione dell'aspettativa di vita). Nessuna differenza significativa venne rilevata tra pazienti che avevano effettivamente patito i disturbi descritti e pazienti che non ne erano mai stati colpiti. L'estensione della funzione del valore proposta a opzioni con più attributi, con o senza rischio, merita un'analisi approfondita. In particolare, le curve d'indifferenza tra dimensioni di perdita possono essere concave verso l'alto, anche quando le funzioni del valore per le perdite separate sono entrambe convesse, a causa di una pronunciata sottoadditività tra le dimensioni.
64 Economia della felicità
Il secondo importante scostamento della prospect theory da quella dell'utilità attesa riguarda il trattamento delle probabilità. Nella teoria dell'utilità attesa, l'utilità di un esito incerto viene ponderata con la sua probabilità, mentre nella teoria del prospetto il valore di un esito incerto viene moltiplicato per un peso decisionale Tr(p), che è una funzione monotonica di p ma non è una probabilità. La funzione di ponderazione 1r ha le seguenti proprietà: •
•
gli eventi impossibili vengono esclusi, per cui 7r(0) = O, e la scala è normalizzata, per cui ir(1) = 1, ma la funzione ha un andamento irregolare nell'intorno delle estremità; per basse probabilità rr(p) > p, ma 1r(p) + 7r(1 - p) 5_ 1 e, quindi, le basse probabilità sono sopravvalutate, mentre quelle moderate ed elevate sono sottovalutate, e questo secondo effetto è più pronunciato del primo; Tr(pq)/ Tr(p) < (pgr)/ ir(pr) per tutti i p, q e r compresi tra O e 1.
Il framing delle decisioni e la psicologia delle scelte 65
Figura 3.1 Un'ipotetica funzione di ponderazione
e
o•
:ro
0,5 -
2 o
Il
o
o Questo significa che per qualunque rapporto fisso di probabilità q, il rapporto dei pesi decisionali è più prossimo all'unità quando le probabilità sono basse che quando sono alte: per esempio, Tr (0,1)hr (0,2) > 'n(0,4)/ Tr (0,8). Un'ipotetica funzione di ponderazione che soddisfa queste proprietà è mostrata nella Figura 3.1. Le principali proprietà qualitative dei pesi decisionali possono essere applicate anche quando le probabilità degli esiti vengono stimate soggettivamente anziché fornite in modo esplicito. In situazioni di questo genere, però, i pesi decisionali possono essere influenzati anche da altre caratteristiche dell'evento in esame, come la sua ambiguità o indeterminatezza (Ellsberg, 1961; Fellner, 1965). La prospect theory, così come i diagrammi mostrati nelle Figure 1.1 e 3.1, deve essere considerata come una descrizione approssimata, incompleta e semplificata della valutazione di prospettive rischiose. Benché le proprietà di v e Tr si richiamino a un modello di scelta piuttosto diffuso, non possono essere considerate di valore universale: le preferenze di alcuni individui non sono ben descritte da una funzione del valore a forma di S e da un coerente insieme di pesi decisionali. La
0,5
1
Probabilità enunciata: p
misurazione contemporanea di valori e pesi decisionali comporta serie difficoltà sia sperimentali sia statistiche.6 Se ir e v fossero completamente lineari, l'ordine di preferenza tra le opzioni sarebbe indipendente dalla formulazione e dal contesto di azioni, risultati o contingenze. A causa delle caratteristiche di non linearità di ,Tr e v, però, differenti inquadramenti del problema possono portare a scelte diverse. I tre paragrafi seguenti descrivono esempi di inversioni di preferenze provocati da variazioni del framing di azioni, contingenze e risultati. 6 La costruzione della funzione di v e Tr attraverso confronti di coppie richiede un gran numero di osservazioni. A questo scopo, sarebbe più conveniente seguire la procedura di valorizzare le lotterie, che, però, è soggetta a un grave bias di ancoraggio: la classificazione delle lotterie in base al loro equivalente in moneta diverge sistematicamente dall'ordine di preferenza osservato nei confronti diretti (Lichtenstein e Slovic, 1971).
66 Economia della felicità
Il framing degli atti
Problema 3 (N = 150) Immaginate di dover scegliere tra la seguente coppia di decisioni alternative. Prima esaminate entrambe le decisioni e poi indicate la vostra opzione preferita.
Prima decisione. Scegliete tra: A) una vincita certa di 240 dollari (84%); B) 25% di probabilità di vincere 1000 dollari e 75% di probabilità di non vincere nulla (16%).
Seconda decisione. Scegliete tra: C) una perdita certa di 750 dollari (13%); D) 75% di probabilità di perdere 1000 dollari e 25% di probabilità di non perdere nulla (87%).
Nella prima decisione la scelta maggioritaria è quella contraria al rischio: una prospettiva certa viene preferita a una rischiosa di valore atteso circa uguale (soltanto leggermente superiore). Al contrario, nella seconda decisione la scelta maggioritaria è quella che accetta il rischio: in questo caso, una prospettiva rischiosa viene preferita a una priva di rischio di pari valore atteso. Questo modello di avversione al rischio in scelte che comportano guadagni e di accettazione del rischio in scelte che comportano perdite è riconducibile alle proprietà di v e in Dato che la funzione del valore è a forma di S, il valore associato a un guadagno di 240 dollari è superiore al 25% del valore associato a un guadagno di 1000 dollari, e il valore (negativo) associato a una perdita di 750 dollari è inferiore al 75% del valore associato a una perdita di 1000 dollari. Pertanto la forma della funzione del valore contribuisce all'avversione al rischio nella prima decisione e all'assunzione del rischio nella seconda. In più, la sottovalutazione delle probabilità moderate e alte contribuisce ad aumentare l'attrattiva relativa del guadagno certo nella prima decisione e l'avversione relativa suscitata dalla perdita certa nella seconda. La medesima analisi si applica ai Problemi 1 e 2.
Il framing delle decisioni e la psicologia delle scelte 67
Poiché le due decisioni furono richieste in contemporanea, gli intervistati dovevano, in effetti, scegliere una prospettiva da quattro coppie diverse: A e C, B e C, A e D e B e D. Quella che raccolse più consensi (A e D) fu prescelta dal 73% dei partecipanti, mentre quella meno gradita (B e C) ottenne la preferenza soltanto del 3% degli intervistati. Eppure, la combinazione B e C è indiscutibilmente superiore a quella A e D, come è facilmente verificabile nel Problema 4. Problema 4 (N = 86) Scegliete tra: A e D) 25% di probabilità di vincere 240 dollari e 75% di probabilità di perderne 760 (0%). B e C) 25% di probabilità di vincere 250 dollari e 75% di probabilità di perderne 750 (100%).
Quando le prospettive vennero combinate, mettendo in evidenza la dominanza della seconda opzione, tutti gli intervistati scelsero l'opzione superiore. Quindi, era stata la particolare strutturazione del Problema 3, presentato come coppie di scelte separate, a provocare la prevalenza di preferenze per l'opzione inferiore. Sembrerebbe che gli intervistati abbiano mancato di prendere in considerazione la possibilità che la congiunzione di due scelte apparentemente ragionevoli potesse produrre un risultato indifendibile. Le violazioni del principio di dominanza osservate nel Problema 3 non scompaiono in presenza di incentivi monetari. Un altro gruppo di intervistati rispose a una versione modificata del Problema 3, con reali possibilità di guadagno, ma produsse anch'esso un modello di scelte del tutto simile? Anche altri A un terzo gruppo di intervistati (N = 126) fu presentata una versione modificata del Problema 3, nella quale gli esiti erano stati ridotti di un fattore 50. I partecipanti vennero informati che le lotterie si sarebbero realmente svolte con il lancio di una coppia di monete e che un soggetto su dieci sarebbe stato scelto a caso per partecipare a quelle prescelte. Per assicurare un ritorno economico favorevole per l'intera serie, venne aggiunta una terza decisione che produceva esiti soltanto positivi. La possibilità di ricevere un premio non modificò il modello delle preferenze osservate nel problema ipotetico: il 67%
68 Economia della felicità
autori hanno riferito che violazioni dei principi della scelta razionale, in origine osservate in esperimenti ipotetici, non venivano eliminate dalla prospettiva di ottenere guadagni reali (Lichtenstein e Slovic, 1973; Grether e Plott, 1979; Lieblich e Lieblich, 1969; Grether, 1979). Abbiamo l'impressione che nel mondo reale molte decisioni congiunte vengano inquadrate separatamente e che l'ordine di preferenza spesso verrebbe invertito se, al contrario, fossero combinate. Nel Problema 3, gli intervistati omisero di combinare le opzioni, benché l'integrazione fosse relativamente semplice e, per giunta, sollecitata dalle istruzioni. 8 Può darsi che la complessità dei problemi pratici generati dalle decisioni congiunte, come la necessità di selezionare il portafoglio, impedisca ai più di integrare le opzioni senza ricorrere all'ausilio di strumenti di calcolo, anche quando sarebbero inclini a farlo.
Il framing delle contingenze La seguente terna di problemi illustra gli effetti del framing delle contingenze. Ognuno dei tre casi fu proposto a un differente gruppo di intervistati, dicendo a ciascun gruppo che un partecipante su dieci, scelto a caso, avrebbe avuto la possibilità di vincere denaro reale. La casualità fu realizzata estraendo, in presenza degli intervistati, una pallina da un sacchetto contenente una nota percentuale di palline del colore vincente, e i vincitori vennero immediatamente premiati. Problema 5 (N = 77) Quale delle seguenti opzioni preferite? A) Una vincita certa di 30 dollari (78%); B) 80% di probabilità di vincere 45 dollari (22%).
degli intervistati scelse la prospettiva A e 1'86% quella D. La combinazione dominata A e D venne scelta dal 60% degli intervistati, e soltanto il 6% preferì quella dominante B e C. 8 Altri esperimenti che dimostrano la riluttanza a integrare opzioni congiunte sono stati descritti da altri autori: si vedano Slovic e Lichtenstein, 1968; Payne e Braunstein, 1971.
Il framing delle decisioni e la psicologia delle scelte 69
Problema 6 (N = 85) Considerate la seguente lotteria a due fasi. Nella prima fase, avete il 75% di probabilità di terminare il gioco senza vincere nulla e il 25% di probabilità di essere ammessi alla seconda fase. Se raggiungete la seconda fase potete scegliere tra: C) Una vincita certa di 30 dollari (74%); D) 80% di probabilità di vincere 45 dollari (26%). La scelta va fatta prima dell'inizio del gioco, ovvero prima di conoscere l'esito della prima fase. Indicate l'opzione preferita. Problema 7 (N = 81) Quale delle seguenti opzioni preferite? E) 25% di probabilità di vincere 30 dollari (42%). F) 20% di probabilità di vincere 45 dollari (58%).
Esaminiamo la struttura di questi problemi. Primo, notate che i Problemi 6 e 7 sono identici in termini di probabilità degli esiti, in quanto la prospettiva C offre il 25% di probabilità di vincere 30 dollari e quella D una probabilità del 20% (25% x 80%) di vincerne 45. Coerenza, quindi, esige che nei Problemi 6 e 7 venga fatta la medesima scelta. Secondo, il Problema 6 differisce dal Problema 5 soltanto per l'introduzione di una fase preliminare: se viene raggiunta la seconda fase della lotteria, il Problema 6 si riduce a quello 5; se il gioco si conclude alla prima fase, la decisione non influenza l'esito. Pertanto, non sembrano esserci ragioni per fare scelte diverse nei Problemi 5 e 6. Secondo questa analisi logica, il Problema 6 è equivalente da un lato al Problema 7 e dall'altro al Problema 5. I partecipanti, però, risposero in maniera simile ai Problemi 5 e 6, ma diversamente a quello 7. Questo modello di risposte evidenzia due fenomeni di scelta: l'effetto certezza e quello pseudocertezza. La divergenza tra i risultati del Problema 5 e del Problema 7 è un esempio di un fenomeno scoperto da Allais (Allais, 1953; McCrimmon e Larsson, 1979), che noi abbiamo definito "effetto certezza": una riduzione di un fattore costante della probabilità di un esito ha un impatto maggiore se l'esito in questione era inizialmente certo e non solamente probabile.
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La prospect theory attribuisce questo effetto alle proprietà di Tr. È facile verificare, applicando l'equazione della nostra teoria ai Problemi 5 e 7, che le persone per le quali il rapporto di valore v(30)/v (45) si colloca tra i rapporti di ponderazione Tr(0,20)/ir(0,25) e Tr(0,80)hr(1,00) preferiranno A a B ed F a E, al contrario di quanto prevede la teoria dell'utilità attesa. La prospect theory non pronostica che l'inversione delle preferenze nei Problemi 5 e 7 debba verificarsi sempre, per tutti gli intervistati: richiede soltanto che chi non ha preferenze tra A e B preferisca F a E. Nel caso di dati di gruppo, la teoria prevede tra i due problemi uno spostamento di preferenze nella direzione effettivamente osservata. La prima fase del Problema 6 produce lo stesso risultato (nessun guadagno) per entrambi gli atti. Ipotizziamo, quindi, che le persone applichino alle opzioni una valutazione condizionale, come se la seconda fase fosse stata raggiunta. Con questo inquadramento, naturalmente, il Problema 6 si riduce a quello 5. Più in generale, riteniamo che un problema decisionale venga valutato in modo condizionale quando, primo, esiste uno stato in cui ogni atto produce il medesimo esito, come l'esclusione dalla seconda fase della lotteria nel Problema 6 e, secondo, le probabilità enunciate per gli altri esiti sono condizionate dal non verificarsi di quello stato. La sorprendente divergenza tra le risposte date ai Problemi 6 e 7, assolutamente identici come esiti e probabilità, può essere spiegata con l'effetto pseudocertezza. La prospettiva di vincere 30 dollari è relativamente più attraente nel Problema 6 che in quello 7, quasi il primo offrisse il vantaggio della certezza. Ma la sensazione di certezza associata all'opzione C è illusoria, in quanto la vincita è in realtà condizionata al raggiungimento della seconda fase della lotteria.9 9 A un altro gruppo di intervistati (N = 205) vennero presentati tutti e tre i problemi, in un ordine diverso e senza possibilità di guadagnare denaro reale. La distribuzione di frequenza congiunta delle scelte nei Problemi 5, 6 e 7 risultò la seguente: ACE, 22; ACF, 65; ADE, 4; ADF, 20; BCE, 7; BCF, 18; BDE, 17; BDF, 52. Questi dati, tratti dal medesimo esperimento, confermano l'analisi della valutazione condizionale proposta nel testo. Oltre il 75% degli intervistati fecero scelte compatibili (AC o BD) nei Problemi 5 e 6 e meno della
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Abbiamo osservato l'effetto certezza in numerosi problemi di varia natura con esiti molto differenziati (da viaggi di piacere a perdite di vite umane). In campo negativo, la certezza accresce il senso di avversione prodotto da perdite certe rispetto ad altre solamente probabili. In un problema riguardante la lotta contro un'epidemia, per esempio, la maggioranza degli intervistati giudicò una perdita certa di 75 vite umane meno accettabile di una probabilità dell'80% di perderne 100, ma preferì il 10% di probabilità di perderne 75 piuttosto che l'8% di perderne 100, al contrario di quanto previsto dalla teoria dell'utilità attesa. Anche l'effetto pseudocertezza abbiamo avuto occasione di osservarlo in numerosi studi nei quali i problemi decisionali erano presentati in modo da favorire l'applicazione di valutazioni condizionali. La pseudocertezza può essere indotta sia da una formulazione sequenziale, come nel Problema 6, sia dall'introduzione di contingenze causali. In un'altra versione del problema dell'epidemia, per esempio, agli intervistati fu detto che il rischio per le vite umane esisteva soltanto nell'eventualità (10% di probabilità) che la malattia fosse trasmessa da un virus particolare. Furono descritti, poi, due piani di intervento alternativi che avrebbero prodotto rispettivamente la perdita sicura di 75 vite umane o 1'80% di probabilità di perderne 100 se della diffusione della malattia fosse stato responsabile il virus critico, e nessuna perdita se il virus coinvolto fosse stato diverso (90% di probabilità). Di fatto, agli intervistati veniva chiesto di scegliere tra il 10% di probabilità di perdere 75 vite umane e 1'8% di perderne 100, ma le loro preferenze restarono identiche a quelle espresse quando dovevano scegliere tra una perdita certa di 75 vite e 1'80% di probabilità di perderne 100. Evidentemente, venne adottato un framing condizionale, dal quale fu eliminata la contingenza del virus non critico, dando origine a un effetto pseudocertezza. L'effetto certezza porta alla luce atteggiamenti verso il rischio incompatibili con gli assiomi della scelta razionale, mentre l'effetto pseudocertezza metà le fece nei Problemi 6 e 7 (CE o DF) o 5 e 7 (AE o BF). In questi problemi, l'esclusione dei premi fece calare l'avversione al rischio, ma non alterò sostanzialmente gli effetti certezza e pseudocertezza.
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viola il requisito più fondamentale dell'indipendenza delle preferenze dalla descrizione del problema. Molte decisioni importanti riguardano azioni volte a ridurre o eliminare la probabilità di un evento pericoloso o dannoso, a un qualche costo. La forma di 'rr nel campo delle basse probabilità fa supporre che a un'azione protettiva che riduca la probabilità di subire un danno, diciamo, dall'i% a zero verrà attribuito valore maggiore che a un'azione alternativa in grado di ridurla dal 2 all'1%. E, difatti, i più giudicano che l'assicurazione probabilistica, che riduce alla metà la probabilità di danno, valga meno della metà del prezzo della normale assicurazione che elimina del tutto il rischio (Kahneman e Tversky, 1979). Molte volte è possibile inquadrare un'azione protettiva in forma sia condizionale sia non condizionale. Per esempio, una polizza di assicurazione che copre gli incendi ma non le inondazioni può essere valutata sia come una protezione completa contro lo specifico rischio d'incendio, sia come una riduzione della probabilità complessiva di danno alla proprietà. L'analisi precedente ha indicato che l'assicurazione appare più attraente se viene presentata come eliminazione del rischio piuttosto che come sua riduzione. P. Slovic, B. Fischhoff e S. Lichtenstein, in uno studio non pubblicato, trovarono che un ipotetico vaccino capace di ridurre la probabilità di contrarre una malattia dal 20 al 10% risulta meno attraente se descritto come efficace in metà dei casi anziché come completamente efficace contro uno su due dei ceppi virali (esclusivi ed equiprobabili) che producono identici sintomi. In accordo con la nostra analisi di pseudocertezza, gli intervistati diedero più valore alla protezione totale contro uno specifico virus che a quella probabilistica contro la malattia. La discussione precedente ha messo in risalto il netto divario tra le risposte comunemente date alla riduzione e all'eliminazione del rischio. Dato che nessuna forma di azione protettiva può coprire tutti i rischi per il benessere delle persone, l'assicurazione contro le malattie non può che essere probabilistica: riduce ma non elimina il rischio. La natura probabilistica delle assicurazioni viene comunemente mascherata attraverso formulazioni che ne mettono in rilievo le
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caratteristiche di protezione totale contro specifici danni, ma la sensazione di sicurezza fornita da simili espedienti è un'illusione del framing condizionale. Si direbbe che le assicurazioni vengano acquistate non soltanto contro i rischi, ma anche come protezione contro le preoccupazioni, e queste possono essere manipolate attraverso la definizione dei risultati e il framing delle contingenze. Non è semplice stabilire se la gente dia troppo valore all'eliminazione del rischio o troppo poco alla sua riduzione, ma gli atteggiamenti contrastanti verso le due forme di azioni protettive sono difficilmente giustificabili su base normativa.m
Il framing dei risultati I risultati, o esiti, delle decisioni vengono percepiti, normalmente, come positivi o negativi in relazione a un riferimento giudicato neutro. Ecco perché un medesimo risultato può essere valutato come un guadagno oppure una perdita al variare del punto di riferimento. Dato che, in generale, la funzione del valore è concava nel quadrante dei guadagni e convessa in quello delle perdite ed è, inoltre, più ripida per le perdite che per i guadagni, ogni spostamento del riferimento può modificare la differenza di valore esistente tra vari esiti e, quindi, provocare un'inversione dell'ordine di preferenza tra le opzioni (Fishburn e Kochenberger, 1979; Laughhunn, Payne e Crum, 1980; Payne, Laughhunn e Crum, 1981; Eraker e Sox, 1981). I Problemi 1 e 2 sono stati un esempio di questo ribaltamento, indotto da uno spostamento del riferimento che ha trasformato i guadagni in perdite. Facciamo un altro esempio. Immaginate che una persona abbia passato il pomeriggio alle corse dei cavalli, perdendo fino a quel momento 140 dollari. Ora, sta pensando se sia il caso di tentare il colpo grosso scommettendo 10 dollari su un cavallo dato 15:1. Questa decisione può essere inquadrata in due modi diversi, corrispondenti a due punti di riferimento 10 Per un'ulteriore discussione sulla razionalità nelle azioni protettive si veda Kunreuther, 1978.
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naturali. Se a riferimento viene preso lo status quo, gli esiti della scommessa vengono formulati come un guadagno di 140 dollari e una perdita di 10. D'altra parte, può essere ancora più naturale pensare che la situazione corrente corrisponda a una perdita di 140 dollari (per la giornata passata alle corse) e, coerentemente, guardare all'ultima scommessa come occasione per tornare al punto di riferimento o, mal che vada, aumentare le perdite portandole a 150 dollari. Secondo la prospect theory, questo secondo frame genera un atteggiamento di maggiore propensione al rischio rispetto al primo. Ne deriva che chi non corregge il proprio punto di riferimento quando perde dovrebbe essere incline a lanciarsi in scommesse che normalmente giudicherebbe inaccettabili, analisi questa confermata dall'osservazione che le scommesse sui cavalli meno favoriti raggiungono l'apice nell'ultima corsa della giornata (McGlothlin, 1956). Essendo la funzione del valore più ripida nel quadrante delle perdite che in quello dei guadagni, una certa differenza tra opzioni sembrerà maggiore se espressa come svantaggio di una delle opzioni anziché come vantaggio dell'altra. Un interessante esempio di questo effetto in un contesto non rischioso è stato descritto da Thaler (1980). Quando si stava discutendo la proposta di trasferire sui consumatori alcuni dei costi associati alla gestione degli acquisti effettuati con carte di credito, i rappresentanti del settore finanziario chiesero che la differenza di prezzo venisse presentata come sconto per acquisti in contanti anziché come sovrapprezzo per quelli con carta di credito. Le due "etichette" inducono ad adottare due differenti punti di riferimento, designando implicitamente come normale riferimento il più alto o il più basso dei due prezzi. Dal momento che le perdite appaiono più ingenti degli equivalenti guadagni, i consumatori sono meno disposti ad accettare un sovrapprezzo che a rinunciare a uno sconto. Un effetto simile è stato osservato in studi sperimentali sulle assicurazioni: la quota di intervistati che preferiva una perdita certa a un'altra più consistente ma soltanto probabile salì nettamente quando il primo esito venne definito premio di assicurazione (Fischhoff, Slovic e Lichtenstein, 1980; Hershey e Schoemaker, 1980).
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Questi esempi mettono in luce la labilità degli esiti di riferimento così come il loro ruolo nel processo decisionale. Nei casi finora discussi, il punto di riferimento neutro veniva identificato attraverso l'espressione degli esiti, etichettati in un modo o nell'altro. Nella vita quotidiana, i fattori che determinano l'esito di riferimento sono svariati: di solito prendiamo a riferimento uno stato al quale ci siamo adattati; alcune volte è fissato da regole e attese sociali e corrisponde a un certo livello di aspirazioni più o meno realistiche. Fin qui ci siamo occupati di esiti elementari, come guadagni e perdite in un singolo attributo. In molti casi, però, una certa azione dà luogo a un risultato composito, che combina una serie di cambiamenti in un singolo attributo, come una sequenza di guadagni e perdite monetarie, o una rosa di cambiamenti congiunti in vari attributi. Per descrivere l'inquadramento, l'espressione e la valutazione di esiti compositi, impieghiamo la nozione di contabilità psicologica, definita come la cornice dei risultati che specifica: primo, l'insieme degli esiti elementari valutati congiuntamente e il tipo di combinazione cui danno luogo e, secondo, un esito di riferimento considerato neutro o normale. Nella contabilità costruita per l'acquisto di un'auto, per esempio, il costo d'acquisto non viene trattato come una perdita, né la vettura è vista come un regalo. Piuttosto, la transazione nella sua globalità viene valutata positiva, negativa o neutra, in funzione di fattori quali le prestazioni dell'auto e il prezzo sul mercato di modelli comparabili. Una trattazione strettamente correlata è stata fornita da Thaler (1980). La nostra tesi è che la gente valuta le iniziative in termini di contabilità minima, che comprende soltanto le dirette conseguenze dell'atto. La contabilità minima associata alla decisione di accettare una scommessa, per esempio, comprende il denaro vinto o perso in quella scommessa ed esclude altre considerazioni finanziarie o il risultato di scommesse precedenti. I più tendono ad adottare contabilità minime perché questa forma di inquadramento dei problemi presenta tre vantaggi: 1) semplifica la valutazione e riduce lo sforzo cognitivo;
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2) riflette un concetto intuitivo, quello che le conseguenze dovrebbero essere legate alle azioni da un rapporto di causa ed effetto; 3) combacia con le proprietà dell'esperienza edonica, più sensibile ai cambiamenti, desiderabili o indesiderabili che siano, che agli stati stazionari. Ci sono situazioni, però, in cui le conseguenze di un atto influiscono sul saldo di una contabilità allestita in precedenza per un'azione correlata. In questi casi, la decisione in questione può essere valutata in termini di contabilità più estesa, come nel caso dello scommettitore che inserisce l'ultima corsa nel contesto delle perdite subite in precedenza. Più in generale, emerge un effetto "costi pregressi" quando una decisione viene ascritta a una contabilità il cui saldo corrente è negativo. A causa della non linearità del processo di valutazione, la contabilità minima e quella più estesa portano frequentemente a scelte diverse. I Problemi 8 e 9 mostrano un'altra famiglia di situazioni in cui una contabilità in essere influenza una decisione.
Problema 8 (N = 183) Immaginate di aver deciso di andare ad assistere a una rappresentazione teatrale il cui biglietto d'ingresso costa 10 dollari. Entrando nel teatro vi accorgete di aver smarrito una banconota da 10 dollari. Siete ancora disposti a spendere 10 dollari per acquistare il biglietto? • Sì (88%) • No (12%). Problema 9 (N = 200) Immaginate di aver deciso di andare ad assistere a una rappresentazione teatrale e di aver acquistato il biglietto d'ingresso, che costa 10 dollari. Entrando nel teatro vi accorgete di aver smarrito il biglietto. Il posto non è numerato e il biglietto non può essere recuperato. Siete disposti a spendere 10 dollari per acquistarne un altro? • Sì (46%) • No (54%).
La vistosa differenza registrata tra le risposte ai Problemi 8 e 9 è un effetto della contabilità psicologica. Riteniamo che nel
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Problema 9 l'acquisto di un secondo biglietto sia entrato nella contabilità istituita per l'acquisto di quello originale, portando la spesa richiesta per assistere alla rappresentazione, in termini contabili, a 20 dollari, un costo che molti dei nostri intervistati giudicò eccessivo. Nel Problema 8, invece, la perdita della banconota da 10 dollari non è specificamente legata all'acquisto del biglietto e, quindi, il suo effetto sulla decisione resta modesto. Il seguente problema, basato su esempi descritti da Savage e Thaler, mostra nuovamente ciò che può succedere quando un'opzione viene inserita in contabilità differenti. A due gruppi di soggetti furono presentate due versioni del problema seguente. A un gruppo (N = 93) furono forniti i valori che compaiono tra parentesi tonde e all'altro (N = 88) quelli tra parentesi quadre. Problema 10 Immaginate di dover acquistare una giacca che costa (125 dollari) [15 dollari] e una calcolatrice che costa (15 dollari) [125 dollari]. Il venditore della calcolatrice vi informa che il prodotto che intendete acquistare è in offerta a (10 dollari) [120 dollari] in un altro negozio della stessa catena, raggiungibile in auto in circa 20 minuti. Andreste fino all'altro negozio?
Le risposte alle due versioni del Problema 10 risultarono nettamente divergenti: il 68% degli intervistati si dichiararono pronti a compiere il tragitto supplementare per risparmiare 5 dollari quando il prezzo della calcolatrice era 15 dollari, mentre solamente il 29% erano disposti a farlo quando era 125 dollari. Evidentemente, gli intervistati non strutturarono il Problema 10 nell'ambito di una contabilità globale (acquisto di una calcolatrice e una giacca), che comportava un vantaggio di 5 dollari al costo di un certo incomodo, ma in termini di contabilità minima, comprendente l'acquisto della calcolatrice ma non della giacca. Per via della pendenza della funzione del valore, uno sconto di 5 dollari ha un impatto maggiore quando il prezzo della calcolatrice è basso. Un'osservazione strettamente correlata è stata riferita da Pratt, Wise e Zeckhauser (1979). I tre ricercatori trovarono
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che la variabilità dei prezzi di vendita di un dato prodotto nei diversi negozi è all'incirca proporzionale al suo prezzo medio. Lo stesso modello è stato osservato per beni acquistati frequentemente e raramente. Complessivamente, a un rapporto di 2:1 nel prezzo medio di due prodotti ne corrisponde uno di 1,86:1 nella deviazione standard dei rispettivi prezzi di listino. Se lo sforzo esercitato dai consumatori per risparmiare ogni dollaro sui loro acquisti, per esempio facendo una telefonata, fosse indipendente dal prezzo del bene, la dispersione dei prezzi di listino dovrebbe essere più o meno la stessa per tutti i prodotti. Invece, i dati di Pratt et al. confermano l'ipotesi che i consumatori raramente si impegnano di più per risparmiare 15 dollari su un acquisto del valore di 150 dollari che per risparmiarne 5 su 50. Molti lettori ammetteranno di aver provato l'effetto di temporanea svalutazione del denaro che spinge a spendere di più e riduce l'importanza dei piccoli sconti nel contesto di una spesa di valore consistente, come l'acquisto di una casa o di un'automobile. Questa paradossale variabilità del valore del denaro è incompatibile con l'analisi classica del comportamento dei consumatori.
Sintesi conclusiva In questo saggio abbiamo presentato una serie di esperimenti nei quali modifiche apparentemente prive di conseguenze reali nella formulazione di problemi di scelta hanno provocato significativi spostamenti di preferenze. Le incoerenze riscontrate sono state ascritte a due classi di fattori: cambiamenti del framing di atti, contingenze e risultati e caratteristiche di non linearità di valori e pesi decisionali. Gli effetti evidenziati sono consistenti e sistematici, ancorché assolutamente non universali. Compaiono sia quando gli esiti coinvolgono la perdita di vite umane, sia quando le scelte sono monetarie; non riguardano soltanto questioni ipotetiche e non scompaiono in presenza di incentivi in denaro. In precedenza, abbiamo detto che la dipendenza delle preferenze dal framing del problema è paragonabile a quella, nella percezione, dell'apparenza visiva dalla prospettiva. Se, attraversando una catena di monti,
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vi accorgete che l'altezza relativa apparente delle cime cambia al variare del vostro punto di osservazione, ne concludete che alcune delle vostre impressioni devono essere sbagliate, anche se non avete accesso alla risposta giusta. In modo analogo, può capitare di scoprire che l'attrattiva relativa di opzioni alternative cambia quando il medesimo problema decisionale viene strutturato in forme differenti. Una simile scoperta, di norma, spingerà il decisore a riconsiderare le sue preferenze originarie, anche quando non esiste un modo semplice per risolvere l'incoerenza. La suscettibilità agli effetti di prospettiva è particolarmente preoccupante nell'ambito del processo decisionale a causa della mancanza di standard oggettivi, come l'altezza reale delle montagne. La metafora del cambiamento di prospettiva è applicabile anche ad altri fenomeni di scelta, oltre agli effetti framing di cui ci siamo occupati in questa sede (Fischhoff, Slovic e Lichtenstein, 1980). In questi termini è naturale porre, per esempio, il problema dell'autocontrollo: la vicenda di Ulisse che chiede di essere legato all'albero maestro della nave prevedendo di non poter resistere al richiamo del canto delle sirene viene utilizzato spesso come caso esemplare. In questo esempio di impegno preso in anticipo, un'azione intrapresa nel presente rende inoperante una prevista preferenza futura. Una caratteristica insolita del problema del conflitto intertemporale è che l'agente che "vede" un problema da una particolare prospettiva temporale sa anche che le prospettive future gli offriranno visioni diverse. Nella maggior parte degli altri casi, normalmente i decisori non sono consci dei potenziali effetti di cambiamenti del framing decisionale sulle loro preferenze. La metafora della prospettiva mette in luce i seguenti aspetti della psicologia della scelta. Coloro che affrontano un problema decisionale e hanno una chiara preferenza (Slovic e Tversky, 1974): 1) possono avere una preferenza diversa con un altro framing del medesimo problema; 2) normalmente non sanno che esistono inquadramenti alternativi né conoscono i loro potenziali effetti sull'attrattiva relativa delle opzioni;
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3) vorrebbero che le loro preferenze fossero indipendenti dal frame; 4) quando individuano incoerenze, spesso non sanno come risolverle. In alcuni casi (come nei Problemi 3 e 4 e forse anche in quelli 8 e 9), non appena i frame in competizione vengono posti a confronto diventa evidente quale di essi consenta la scelta migliore, ma in altri casi (Problemi 1 e 2, 6 e 7) non risulta ovvio quali siano le preferenze da abbandonare. Queste osservazioni non implicano che le inversioni di preferenza, come altri errori di scelta o di giudizio (Tversky e Kahneman, 1974; Slovic, Fischhoff e Lichtenstein, 1977; Nisbett e Ross, 1980; Einhorn e Hogarth, 1981), abbiano necessariamente natura irrazionale. Al pari di altre limitazioni della mente, esaminate da Simon (1956) sotto l'etichetta di "razionalità limitata", qualche volta la pratica di agire in base all'inquadramento più prontamente disponibile può essere giustificata dallo sforzo mentale richiesto per esplorare alternative ed evitare potenziali incoerenze. Tuttavia riteniamo che i dettagli del fenomeno descritto in questo articolo siano spiegati meglio dalla prospect theory e da un'analisi del framing piuttosto che facendo ricorso alla nozione di "costo del pensiero". In questo lavoro ci siamo occupati soprattutto del lato descrittivo della questione, esaminando come vengono effettivamente prese le decisioni, ma la psicologia della scelta è applicabile anche al suo aspetto normativo, quello che studia come le decisioni dovrebbero essere prese. Per evitare il difficile problema di giustificare i valori, la moderna teoria della scelta razionale ha adottato, come unico criterio di razionalità, la coerenza di specifiche preferenze. Questo approccio impone al decisore di risolvere le incoerenze, ma non offre alcuna indicazione su come farlo. Si presuppone implicitamente che al decisore basti rispondere con cura alla domanda: «Che cosa voglio davvero?» per garantirsi, alla fine, la coerenza delle sue preferenze. Ma la sensibilità delle preferenze a variazioni di framing solleva seri dubbi sulla praticabilità e l'adeguatezza del criterio di coerenza.
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Quella della coerenza è soltanto una delle facce della nozione comune di comportamento razionale. Come ha sottolineato March (1978), la comune concezione di razionalità richiede anche che le preferenze o utilità di particolari esiti siano predittive delle esperienze di soddisfazione o dispiacere che produrrebbero qualora effettivamente si verificassero. Pertanto, una persona può essere giudicata irrazionale sia perché le sue preferenze sono contraddittorie, sia perché i suoi desideri e avversioni non corrispondono a ciò che poi gli potrà procurare piacere o dispiacere. Il criterio di razionalità predittivo può essere applicato per eliminare preferenze incoerenti e migliorare la qualità delle decisioni. Un orientamento predittivo spinge il decisore a concentrarsi sulle sue esperienze future, domandandosi: «Come mi sentirò, poi?» anziché: «Che cosa voglio, adesso?». La prima domanda può fornire indicazioni più utili per prendere difficili decisioni, a patto che la risposta sia meditata con attenzione. In particolare, considerazioni riguardanti i propri sentimenti futuri possono essere utilmente applicate per scegliere la cornice decisionale che più corrisponde all'esperienza edonica dei risultati. Nell'analisi normativa sorgono altre complicazioni, perché a volte il framing di un'azione incide sull'esperienza reale delle sue conseguenze. Per esempio, formulare i risultati in termini di ricchezza o benessere complessivi anziché di specifici guadagni e perdite può attenuare la risposta emozionale a una perdita occasionale. Analogamente, l'esperienza di un peggioramento può variare a seconda che il cambiamento venga inquadrato come una perdita secca oppure come un costo sostenuto per ottenere certi vantaggi. Il framing di atti e risultati può anche riflettere l'accettazione o il rigetto della responsabilità per certe conseguenze, e la sua deliberata manipolazione viene ampiamente utilizzata come strumento di autocontrollo (Strotz, 1955; Ainslie, 1975; Elster, 1979; Thaler e Shifrin, 1981). Quando influenza l'esperienza delle conseguenze, l'adozione di un frame decisionale diventa un atto di rilevanza etica.
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4. Una prospettiva psicologica dell'economia)
Venni a conoscenza per la prima volta degli assunti psicologici dell'economia leggendo un articolo che Bruno Frey pubblicò sull'argomento nei primi anni Settanta. Proprio all'inizio del saggio, l'autore affermava che l'agente della teoria economica è razionale ed egoista, e che i suoi gusti tendono a non cambiare mai. Di fronte a tali asserzioni rimasi esterrefatto: come psicologo, non c'era nulla di ciò che stavo leggendo con cui potessi concordare. La distanza fra i principi delle nostre due discipline sembrava davvero incolmabile. Negli oltre trent'anni ormai trascorsi da quell'epoca, questa frattura si è almeno in parte ridotta? Una rapida scorsa ad alcuni manuali di introduzione all'economia mi convince che, se mai ci sono stati, i cambiamenti non sono ancora filtrati sino a quel livello: quei medesimi assunti rivestono tuttora il ruolo di cardini dell'analisi economica, quantunque si vada affermando un approccio comportamentale all'economia che non li considera più dogmi inconfutabili. In questo saggio presento e discuto, per ciascuno dei tre postulati indicati, gli sviluppi emersi da entrambi i versanti dello spartiacque disciplinare.
1 Testo pubblicato in traduzione italiana per gentile concessione della American Economie Association (C, 2003). Titolo originale: "A Psychological Perspective on Economics", pubblicato su The American Economie Review (Proceedings), 93 (2003), 2, pp. 162-168.
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L'egoismo Questo è l'assunto in cui sono stati realizzati i più evidenti progressi, grazie a sviluppi interamente avvenuti dal lato dell'economia, dove grande impatto ha avuto l'invenzione del "gioco dell'ultimatum" (Werner Guth et al., 1982). Esperimenti condotti in paesi a basso reddito da ricercatori con il portafoglio ben munito hanno definitivamente confermato che un buon numero di persone sono pronte a rinunciare a un bel gruzzoletto, in cambio soltanto della possibilità di impedire che una somma ancor più grande venga assegnata a uno sconosciuto che li ha trattati in modo meschino (Cameron, 1999). Altri dati provano che certe offerte, probabilmente respinte se provenienti da un altro essere umano, vengono accettate quando sono generate da un computer. Studi di brain imaging (mappe cerebrali) di persone impegnate in giochi di fiducia e reciprocità hanno cominciato a fare la loro comparsa (McCabe et al., 2001), confermando la valenza di queste attività ludiche come situazione sociale, in cui il comportamento è determinato in larga misura da motivazioni diverse dal profitto. Una notevole mole di dati, ricavati dallo studio di giochi tra due persone e da esperimenti riguardanti beni pubblici, indicano che la maggior parte della gente, almeno nella cultura occidentale, si arma in partenza di fiducia e benevolenza e contraccambia i comportamenti altrui, buoni o cattivi che siano. Questa propensione alla reciprocità è stata oggetto di studi sia teorici sia empirici (Fehr e Gachter, 2000). Molti si mostrano pronti persino a punire comportamenti riprovevoli di un estraneo nei confronti di un altro estraneo, anche a costo di qualche svantaggio personale. Un'importante scoperta teorica rivela che la presenza di un numero sufficiente di persone con moventi di questo genere spinge anche chi non li ha ad assumere atteggiamenti collaborativi (Fehr et al., 2002). Gli studi sperimentali e teorici condotti da alcuni economisti sul tema dell'egoismo hanno sicuramente contribuito al progresso generale delle scienze sociali, ma hanno avviato anche uno sviluppo significativo per l'economia che va oltre il modello degli agenti economici cui Sen (1977) affibbiò la celebre definizione di "sciocchi razionali". Alcuni degli agenti dei
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modelli di Fehr sono "opportunisti con astuzia" (Williamson, 1985), ma la loro condotta è fortemente vincolata, costretti come sono a interagire con persone che desiderano essere trattate correttamente e sono pronte a darsi da fare per ottenerlo.
La razionalità Nessuno ha mai creduto seriamente che tutti gli esseri umani abbiano sempre credenze razionali e prendano invariabilmente decisioni razionali. Il principio di razionalità viene generalmente inteso come un'approssimazione, fondata sulla convinzione (o speranza) che gli scostamenti dalla razionalità si facciano rari quando la posta è alta o tendano a scomparire del tutto sotto i colpi della disciplina di mercato. Questa tesi non è condivisa da tutti: alcuni economisti contestano sia l'idea che sia lecito trascurare piccole deviazioni dalla razionalità (per esempio, Akerlof e Yellen, 1985), sia l'ipotesi che l'arbitraggio abbia il potere di bandire l'irrazionalità dal mercato (Shleifer, 2000). La loro posizione, se accettata, fa crescere l'importanza del comportamento non razionale nell'analisi economica. In economia, il parametro classico della razionalità era - e resta - la massimizzazione dell'utilità soggettiva attesa, un concetto che combina le preferenze di von Neumann-Morgenstern con una struttura bayesiana delle credenze. A questa definizione di razionalità sono state portate serie sfide. Sia Allais (1953) sia Ellsberg (1961) individuarono preferenze che violano la teoria dell'utilità attesa pur presentando notevole attrattiva normativa. Molto è stato scritto nel tentativo di costruire una teoria della scelta razionale capace di giustificare i modelli di preferenza messi in luce da Allais ed Ellsberg. Simon (1955) introdusse le nozioni di razionalità di livello soddisfacente e di razionalità limitata, interpretabili come un tentativo di definire uno standard normativo realistico per un organismo dotato di una mente limitata. A metà degli anni Ottanta, Amos Tversky e io portammo un attacco diretto allo stesso principio di razionalità sulla base di esperimenti nei quali le preferenze venivano influenzate
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in modo prevedibile dalla maniera di formulare i problemi di scelta (framing) o dalla procedura utilizzata per suscitarle (Tversky e Kahneman, 1986). Noi sostenemmo che la sensibilità delle persone agli effetti framing contraddice un principio fondamentale di invarianza, detto anche estensionalità (Arrow, 1982) e consequenzialismo (Hammond, 1989). A differenza dei paradossi della teoria dell'utilità attesa, le violazioni dell'invarianza non possono essere difese come normative. Oltretutto, queste trasgressioni non restano confinate all'ambiente di laboratorio: un ovvio esempio di framing è l'impatto della definizione o descrizione assegnata a tasse e imposte (McCaffery, 1994); un altro è la forza delle opzioni di default. Madrian e Shea (2001) riferirono che negli Stati Uniti il tasso di adesione a certi piani pensione sfiora il 100% quando l'iscrizione è automatica, ma quando non lo è, cioè se per iscriversi bisogna fare qualcosa, allora non più della metà degli occupati aderisce entro il primo anno di lavoro. Il costo dell'impegno richiesto non sembra sufficiente a spiegare un comportamento così passivo. I vari interrogativi sorti intorno all'assunto della razionalità sembrano aver giustificato e incoraggiato lo sviluppo di teorie economiche che descrivono scostamenti dalla razionalità economica in specifici contesti. Eccone alcuni esempi, scelti tra i molti possibili: 1) un mercato azionario in cui tutti gli operatori credono di essere superiori alla media (Odean, 1998); 2) un mercato azionario in cui gli operatori sono poco lungimiranti e avversi alle perdite (Benartzi e Thaler, 1995); 3) un mercato in cui gli operatori saltano troppo rapidamente alle conclusioni (Rabin, 2003); 4) modelli in cui lo sconto è quasi iperbolico (Laibson, 1997); 5) modelli in cui l'autocontrollo è un problema riconosciuto (Thaler e Shefrin, 1981). Il modello di razionalità, tuttavia, continua a fornire il quadro di riferimento anche per queste teorie, per le quali gli agenti sono «del tutto razionali, eccetto che per...» alcuni particolari scostamenti che spiegano una famiglia di anomalie.
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Immutabilità dei gusti e portatori d'utilità Gli economisti sono senz'altro avvezzi alla vista delle mappe d'indifferenza, ma per chi ha la formazione dello psicologo questi diagrammi sono frequenti fonti di perplessità. Impiegai molto tempo a capire che la rappresentazione mi appariva incomprensibile perché continuavo a cercare nella mappa l'indicazione della posizione corrente della persona. Come ho poi realizzato, questa segnalazione è assente semplicemente perché viene ritenuta un parametro non pertinente o irrilevante: si postula, al contrario, che le preferenze per gli stati finali di dotazione non dipendano dalle variazioni della dotazione corrente. Questa tesi, chiamata da Tversky e Kahneman (1991) indipendenza dal riferimento, spiegherebbe l'immutabilità dei gusti, che è l'argomento che qui intendo trattare. Come mostrerò più avanti, l'indipendenza dal riferimento può essere considerata anche come un'altra faccia della razionalità. L'assunto di indipendenza dal riferimento (ovvero, come equivale a dire, l'idea che i portatori di utilità siano gli stati finali di dotazione) ha fatto da lungo tempo comparsa nell'analisi teorica della presa di decisione in condizioni rischiose. La moderna teoria delle decisioni trae origine dal famoso saggio di San Pietroburgo in cui Bernoulli (1738) formulò la prima versione della teoria dell'utilità attesa. Il decisore di Bernoulli valuta gli esiti finanziari come stati di ricchezza e classifica le opzioni in base all'utilità attesa di tali stati. Il modello comporta il presupposto che i gusti restino fissi, dato che l'utilità degli stati di ricchezza non dipende dalla dotazione corrente. Questo principio si è conservato in tutte le versioni seguenti della teoria dell'utilità attesa. Un importante articolo di Rabin (2000; si veda anche Rabin e Thaler, 2001) mostrò che la disposizione verso la ricchezza non può spiegare i livelli di avversione al rischio osservati quando la posta in gioco è bassa. Rabin sviluppò un metodo che consente inferenze del tipo seguente (Rabin e Thaler, 2001, p. 222): «Supponiamo, per esempio, di sapere che una persona contraria a rischiare rifiuta una scommessa che offre una probabilità al 50-50 di perdere 100 dollari o vincerne 105 per ogni livello patrimoniale inferiore a (diciamo) 350.000
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dollari, ma di non avere alcuna informazione sulla sua funzione di utilità per patrimoni superiori a 350.000 dollari, salvo che non è convessa. Allora sappiamo che partendo da un livello patrimoniale di 340.000 dollari quella persona rifiuterà una scommessa che offre una probabilità al 50-50 di perdere 4000 dollari o vincerne 635.670». I più bocceranno la scommessa di basso valore mentre troveranno assurdo rifiutare quella di alto valore. Queste preferenze non sono spiegabili semplicemente con gli atteggiamenti verso la ricchezza. Se la formulazione di Bernoulli, come modello descrittivo, è così chiaramente scorretta, come mai si è conservata così a lungo? Una risposta potrebbe essere che assegnare l'utilità agli stati di ricchezza risponde a un criterio di razionalità. Il seguente esperimento immaginario chiarisce questo punto. Due persone ricevono dall'agente finanziario il resoconto mensile dei loro investimenti: • •
ad A viene detto che il suo patrimonio è passato da 4 a 3 milioni; a B viene detto che il suo patrimonio è passato da 1 a 1,1 milioni.
Quale dei due ha più ragioni di essere soddisfatto della propria situazione finanziaria? Chi è il più felice, in questo momento? Secondo l'analisi di Bernoulli, soltanto la prima è una domanda pertinente, e contano esclusivamente le conseguenze a lungo termine. Il quadro patrimoniale risponde a uno standard di completa ragionevolezza, ma una teoria della scelta che trascuri completamente le emozioni a breve termine associate alle perdite e ai guadagni non può che risultare irrealistica. La prospect theory, o teoria del prospetto, (Kahneman e Tversky, 1979) venne proposta come modello descrittivo delle scelte rischiose nel quale i portatori d'utilità non sono gli stati di ricchezza, bensì i guadagni e le perdite rispetto a un punto di riferimento neutro. 2 Le predizioni più specifiche della 2 I modelli di formazione delle abitudini incorporano idee simili, in una forma che forse molti economisti trovano più congeniale.
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teoria discendono da una proprietà delle preferenze chiamata avversione alle perdite: la risposta alle perdite è regolarmente molto più intensa di quella agli equivalenti guadagni, con una netta variazione di pendenza nella funzione del valore in corrispondenza del punto di riferimento. A differenza del razionale agente di Bernoulli, il decisore avverso alle perdite respingerà sempre una scommessa che offra il 50% di probabilità di perdere 100 dollari o vincerne 105. Le stime del coefficiente di avversione alle perdite (cioè del rapporto tra le pendenze della curva in campo positivo e negativo) si collocano in grande maggioranza nell'intorno del valore 2 (Tversky e Kahneman, 1992). Fu Thaler (1980) il primo a estendere la nozione di avversione alle perdite alle scelte prive di rischio, impiegandola per fornire una spiegazione dell'effetto dotazione, il ben documentato divario tra quanto si è disposti a pagare e quanto ad accettare per acquisire o cedere il medesimo bene. Altre implicazioni vennero prese in esame da Kahneman et al. (1991) e da Tversky e Kahneman (1991), oltre che da numerose altre fonti citate da Kahneman e Tversky (2000). Dipendenza dal riferimento e avversione alle perdite sono entrambe responsabili della netta distinzione che i più mantengono fra costi di opportunità e perdite. Oltre a molti altri fattori, anche una relativa sottovalutazione dei costi di opportunità spiega, per esempio, il comportamento dei tassisti di New York, che interrompono il servizio in anticipo nei giorni di pioggia, cioè proprio quando le loro opportunità raggiungono il vertice, avendo già realizzato in tempi più brevi il loro obiettivo di incasso quotidiano (Camerer et al., 1997). L'avversione alle perdite contribuisce alla viscosità dei mercati, perché gli agenti ostili alle perdite sono assai meno inclini agli scambi di coloro che tengono conto soprattutto degli stati finali. In esperimenti in cui ad alcuni partecipanti scelti a caso fu consegnato un bene di consumo liberamente commerciabile, il volume degli scambi risultò circa la metà di quello previsto dalla teoria economica classica (Kahneman et al., 1990). L'effetto andava realmente attribuito alla riluttanza a privarsi di un bene di consumo, visto che nelle medesime condizioni lo scambio di banconote di vario taglio rispettò quasi perfettamente le previsioni
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dell'analisi classica. L'avversione alle perdite non si manifesta in tutti gli scambi: per esempio, in generale scambiamo senza troppi problemi un biglietto da 5 dollari con 5 biglietti da 1 dollaro ed è poco probabile che dalla contrarietà a privarsi di beni sia colto il negoziante che cede un paio di scarpe per una certa somma di denaro (Tversky e Kahneman, 1991). Ma il crollo delle vendite che si verifica nei mercati immobiliari quando i prezzi calano è un chiaro esempio dell'indisponibilità ad accettare perdite rispetto a un preesistente prezzo di riferimento (Genesove e Mayer, 2001). Le condizioni di confine dell'avversione alle perdite sono ancora da definire con precisione (Bateman et al., 1997). La viscosità dei mercati è favorita anche dai principi di correttezza che impongono un certo riguardo per l'avversione alle perdite. Per esempio, ridurre lo stipendio a un lavoratore è considerato un atto scorretto anche quando il dipendente in questione potrebbe essere facilmente sostituito da un altro meno pagato. In generale, imporre perdite al prossimo viene considerato scorretto in circostanze in cui si riterrebbe, invece, del tutto accettabile non condividere guadagni (Kahneman et al., 1986). L'asimmetria tra perdite e guadagni certi è riconosciuta in molti aspetti della legislazione (Cohen e Knetsch, 1992). Il processo di adattamento e il conseguente spostamento del punto di riferimento che separa perdite e guadagni sono stati qui interpretati come una comune forma di cambiamento dei gusti. La capacità di un decisore di anticipare queste evoluzioni è un elemento di razionalità essenziale ma spesso trascurato (March, 1978). Passando in rassegna la letteratura esistente sull'argomento, Loewenstein e Schkade (1999) giunsero alla conclusione che si tende a sottostimare la misura dell'adattamento edonico a nuovi stati. Le previsioni edoniche e affettive sono soggette a un considerevole bias della durata (Gilbert et al., 1998): i ricercatori universitari, per esempio, sopravvalutano enormemente gli effetti della decisione del loro ingresso in ruolo sulla loro felicità dopo un anno (Gilbert e Wilson, 2000). Errori nelle previsioni edoniche sono comuni persino a breve termine: in una ricerca descritta da Kahneman e Snell (1992), i soggetti mostrarono scarsa capacità di
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prevedere l'evoluzione del loro gradimento per un brano musicale o una porzione del gelato preferito in una sequenza di otto atti quotidiani di consumo; Loewenstein e Adler (1995) riferirono che i partecipanti a un altro esperimento avevano sottostimato il prezzo che avrebbero chiesto per privarsi di un oggetto, quando la domanda era stata loro posta prima di aver preso effettivo possesso del bene. La dimostrazione dell'esistenza di gravi carenze nella capacità di prevedere i gusti sembra porre una sfida significativa a molte applicazioni del modello dell'agente razionale. In particolare, è difficile conciliare questi dati sperimentali con le perfette previsioni edoniche date per certe da teorie per le quali la razionalità delle scelte non può che diventare un'abitudine consolidata (Becker e Murphy, 1988). Forse più di ogni altro, il modello che ipotizza l'abitudine alla razionalità mette in evidenza l'ampia distanza tuttora esistente tra i criteri di ragionevolezza applicati in economia e in psicologia alla visione della motivazione umana. Un importante progresso degli ultimi anni è stato l'aumentata disponibilità degli economisti a prendere in considerazione dati soggettivi. Le numerose applicazioni di misure di felicità nelle ricerche economiche elencate da Frey e Stutzer (2002) comprendevano i loro stessi studi sugli effetti delle istituzioni democratiche, oltre a quelli di altri autori, come le ricerche sulle conseguenze dell'inflazione e della disoccupazione (Alesina et al., 2001). L'interesse per l'utilità sperimentata dei risultati (Kahneman et al., 1997) è un naturale effetto collaterale della volontà di prendere in considerazione agenti non del tutto razionali. Se questi non necessariamente massimizzano la qualità dei loro risultati, la scelta non è più l'unica misura pertinente di utilità. Questa idea, se accettata, potrebbe avere implicazioni in molti campi dell'analisi economica.
La distanza si ridurrà ulteriormente? Negli ultimi venticinque anni, i rapporti tra economia e psicologia si sono parecchio sviluppati. La chiesa dell'economia ha ammesso nelle sue fila e persino premiato alcuni studiosi
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che in passato sarebbero stati bollati come eretici e l'analisi economica oggi viene condotta quasi sempre sulla base di principi più plausibili dal punto di vista psicologico di quanto avvenisse in passato. La metodologia analitica dell'economia, tuttavia, resta immutata e rappresenterà inevitabilmente un ostacolo a un ulteriore avvicinamento delle due discipline. Che gli psicologi li giudichino o meno strampalati e semplicistici, i classici assiomi dell'agente economico si trovano nella teoria economica per una semplice ragione: rendono l'analisi più facilmente eseguibile. Il vincolo della praticabilità può essere sciolto con l'adozione di modelli un po' più complessi, ma il numero di parametri supplementari non può crescere a dismisura. Ne consegue che i modelli dell'economia comportamentale non possono discostarsi troppo dall'originaria famiglia di assunti; un'altra conseguenza è che le innovazioni teoriche introdotte dall'economia comportamentale sono spesso destinate a risultare non cumulative: quando si sviluppa un nuovo modello al fine di dar conto di un'anomalia della teoria di base, i parametri che erano stati modificati nei modelli precedenti vanno molte volte riportati ai valori originari. In conclusione, ora sembra chiaro che la distanza tra le visioni proprie delle due discipline si sia costantemente ridotta, ma non si intravede ancora la possibilità immediata che economia e psicologia giungano a condividere una comune teoria del comportamento umano.
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5. Verso una contabilità nazionale del benessere'
Tradizionalmente, gli economisti hanno omesso di misurare direttamente il benessere per ragioni sostanzialmente metodologiche: la natura privata dell'esperienza e la scarsa fiducia nell'affidabilità dei confronti tra persone diverse. Così, in generale, come proxy di opportunità e benessere si preferisce ricorrere al reddito. Ma se è vero che gli esseri umani non sono completamente razionali, le loro scelte non saranno necessariamente tali da massimizzare l'utilità sperimentata, e aumentare le loro opportunità non li farà necessariamente stare meglio (Kahneman, 1994; Sunstein e Thaler, 2004). Misurare direttamente l'utilità sperimentata, quindi, diventa particolarmente importante in un contesto di razionalità limitata. Occorre tener conto, inoltre, che i progressi compiuti nel campo della psicologia e della neuroscienza sembrano aprire la possibilità di misurare con una certa precisione l'utilità sperimentata (Kahneman et al., 1999). Solide correlazioni, Saggio scritto in collaborazione con Alan B. Krueger (Woodrow Wilson School of Public and International Affairs, Princeton University, Princeton, New Jersey), David Schkade (Rady School of Management, University of California, San Diego, La Jolla, California), Norbert Schwarz (Institute for Social Research, University of Michigan, Ann Arbor, Michigan) e Arthur Stone (Department of Psychiatry and Behavioral Science, School of Medicine, Stony Brook University, Stony Brook, New York). Testo pubblicato in traduzione italiana per gentile concessione della American Economic Association (O 2004). Titolo originale: "Toward National Well-Being Accounts", pubblicato su The American Economie Revien, (Proceedings), 94 (2004), 2, pp. 429-434.
100 Economia della felicità
regolarmente rilevabili in ampi campioni di popolazione, sono state osservate tra misure soggettive di esperienze e specifiche misure di funzionalità cerebrale e stati di salute. In parte grazie a queste scoperte, negli ultimi anni si sono moltiplicate le ricerche economiche che si sono valse di indicatori soggettivi di felicità e soddisfazione esistenziale (per una rassegna di questi studi, si veda Frey e Stutzer, 2002). Nella maggior parte degli studi sul benessere i ricercatori pongono domande dirette ai soggetti in esame, interrogandoli sulla loro felicità complessiva e la soddisfazione per la qualità della loro vita (life satisfaction). Quello che noi proponiamo è un approccio diverso, incentrato sul bilancio del tempo e su valutazioni affettive delle esperienze.
Scoperte plausibili e sconcertanti della ricerca sul benessere Numerosi studi hanno stabilito che la life satisfaction è correlata soltanto debolmente con il reddito e la religiosità, ma del tutto svincolata dal livello di istruzione o dal clima. Il Minnesota, tanto per dire, viene classificato tra gli stati americani dove c'è maggiore felicità.' La funzione che lega soddisfazione ed età è a forma di U: la felicità dichiarata cresce con l'età da 45 a 70 anni, se la salute tiene. La soddisfazione per la propria vita è bassa tra i disoccupati ed è influenzata dai punti di snodo della vita, come matrimonio, divorzio e lutti. Coloro che si definiscono felici o soddisfatti della propria salute sono anche, il più delle volte, estroversi, socievoli e ottimisti. Questi soggetti mostrano un caratteristico modello di attività elettrocorticale, più intensa nella corteccia prefrontale sinistra che in quella destra (Davidson, 2003; Urry et al., 2004). Dispongono, inoltre, di una risposta più efficace al vaccino antinfluenzale e guariscono più rapidamente da ferite adeguatamente curate (Kiecolt-Glaser et al., 2002; Cohen et al., 2003). 2 Il Minnesota, posto nella regione centro-settentrionale degli Stati Uniti, è noto per il suo clima particolarmente sfavorevole, con estati calde e inverni molto rigidi. (N.d.T.)
Verso una contabilità nazionale del benessere 101
L'elenco dei risultati plausibili è lungo, ma le ricerche che hanno adottato le classiche misurazioni di benessere ne hanno prodotti anche due abbastanza sconcertanti (Inglehart e Rabier, 1986): primo, l'effetto stranamente modesto sul benessere di circostanze e condizioni anche importanti (come reddito, stato civile e così via); secondo, le differenze sorprendentemente ampie riscontrate nel livello di life satisfaction in differenti paesi. La scoperta più interessante nella letteratura del benessere è la tendenza della gente ad adattarsi alle circostanze, anche quando sono estreme. Brickman et al. (1978) hanno riferito che, dopo un periodo di adattamento, i vincitori di lotterie non sono molto più felici di un gruppo di controllo, e i paraplegici non molto più infelici. Dati forniti dal German SocioEconomie Panel indicano che gli effetti di matrimonio e vedovanza sulla life satisfaction svaniscono quasi del tutto entro tre anni dall'evento (Lucas et al., 2003). Easterlin (1995) ha trovato che in Giappone la felicità dichiarata non è cresciuta, in media, tra il 1958 e il 1987, benché nello stesso periodo il reddito medio sia quintuplicato. Le prove della capacità di adattamento sono ben documentate, ma si prestano a varie interpretazioni. Brickman e Campbell (1971) proposero un modello che chiamarono "hedonic treadmill" (tapis roulant edonico): ci adattiamo a situazioni inizialmente gradevoli o sgradevoli così come a un bagno in acqua calda. In sostanza, il piacere o il dolore suscitato da una nuova situazione cala gradualmente d'intensità ed è infine sostituito da una sensazione neutra. Kahneman et al. (1999) hanno osservato che il fenomeno del ritorno verso la media (mean reversion) è compatibile anche con un "aspiration treadmill" (tapis roulant delle aspirazioni): piacere o dolore possono persistere, ma la valutazione delle esperienze fa riferimento alle aspettative, e alla lunga queste vengono riposizionate. Sulla base di questa ipotesi, i resoconti globali del benessere soggettivo tendono a esagerare il livello di adattamento edonico reale. L'ambiguità si può risolvere soltanto misurando la qualità edonica dell'esperienza separatamente dalle aspettative.
102 Economia della felicità
La seconda scoperta inattesa, ma più volte confermata, riguarda le ampie differenze registrate nella soddisfazione per la qualità della vita tra paesi apparentemente simili. Per esempio, in un'indagine di Eurobarometer il 64% dei danesi si dichiarano «molto soddisfatti» della loro vita, contro soltanto il 16% dei francesi, un divario più che doppio rispetto a quello misurato tra occupati e disoccupati in entrambi i paesi. Nell'ambito dei 63 paesi presi in considerazione dalla World Values Survey, la deviazione standard delle medie dei paesi relative alla soddisfazione complessiva è 1,12, un valore superiore alla metà della deviazione standard media individuale all'interno degli stessi paesi (2,21). Queste differenze sembrano troppo ampie e suscitano altri dubbi sulla validità dei resoconti globali del benessere soggettivo, probabilmente influenzati da differenze culturali nelle regole che guidano la descrizione dei propri stati d'animo (Inkeles, 1993; Diener, 2000; Diener e Suh, 2000).
Aggregazione soggettiva e oggettiva e altri potenziali bias Edgeworth (1881) immaginò un "edonimetro", un apparecchio in grado di registrare in modo continuo l'utilità individuale (nel senso adottato da Jeremy Bentham, come sensazioni positive o negative del momento), definendo la felicità attraverso l'integrale dell'utilità misurata nel tempo. Kahneman et al. (1997) hanno fornito un'analisi formale delle condizioni in cui i giudizi globali dell'utilità totale di risultati protratti nel tempo soddisfano l'integrazione temporale. Quel saggio passava in rassegna, inoltre, le ricerche sperimentali che hanno messo in evidenza violazioni sistematiche della logica dell'integrazione temporale da parte di valutazioni globali retrospettive relative alle esperienze personali. In particolare, i giudizi soggettivi globali di episodi tendono, in generale, a sopravvalutare esperienze estreme o recenti e attribuiscono peso scarso o nullo alla durata dell'esperienza. Sembrerebbe, dunque, che siamo incapaci di esprimere una valutazione accurata e imparziale di esperienze prolungate nel tempo.
Verso una contabilità nazionale del benessere 103
I questionari utilizzati per raccogliere dati su soddisfazione e felicità chiedono ai soggetti di esprimere proprio il genere di valutazione globale che nei test psicologici di laboratorio risulta inquinata da distorsioni ed errori. In questi test, si è trovato, attraverso variazioni nella modalità sperimentale dell'indagine, che le valutazioni raccolte sono condizionate da molti fattori non pertinenti. Perciò, i risultati delle indagini sulla soddisfazione esistenziale sono influenzati da manipolazioni dello stato d'animo corrente e del contesto del momento, comprese altre domande precedentemente poste dal questionario che possono far crescere temporaneamente il peso di specifici lati della vita (Schwarz e Strack, 1999). Sulla soddisfazione per la vita e per alcuni suoi aspetti (per esempio, il reddito o il lavoro) pesano anche il confronto con gli altri e la natura e qualità di esperienze passate (Clark, 2003). Una medesima esperienza di piacere o dispiacere può essere descritta in modo diverso a seconda dello standard con cui viene confrontata e del contesto in cui è inserita. Riassumendo, le valutazioni globali soggettive della qualità esistenziale soltanto raramente forniscono una rappresentazione accurata del concetto di utilità proposto da Edgeworth. Le ragioni di queste divergenze sono due: primo, in queste valutazioni non viene assegnato peso adeguato alla durata delle esperienze e, secondo, le valutazioni globali sono indebitamente influenzate dal contesto più immediato e da inappropriati standard di confronto. Per neutralizzare l'effetto di questi bias dobbiamo disporre di misure che offrano le seguenti caratteristiche: (a) devono corrispondere il più direttamente possibile alle reali esperienze edoniche ed emozionali; (b) devono attribuire peso appropriato alla durata di varie porzioni di vita (come lavoro, divertimenti ecc.); (c) devono essere influenzati soltanto in misura minima da contesto e pietre di paragone.
Metodo del campionamento dell'esperienza e metodo della ricostruzione giornaliera Con il metodo del campionamento dell'esperienza (Experience Sampling Method - Esm) si raccolgono dati sulle espe-
Verso una contabilità nazionale del benessere 105
104 Economia della felicità
rienze individuali in tempo reale e nell'ambiente naturale dei soggetti (Csikszentmihalyi, 1990; Stone e Shiffman, 1994). Obiettivo dell'Esm è superare i problemi posti dai questionari sulla soddisfazione globale, in particolare quelli dovuti a imprecisioni della memoria e indifferenza alla durata. Nel filone di Edgeworth, questo metodo è diventato lo standard di riferimento per le misurazioni del benessere. Esso viene applicato fornendo ai soggetti selezionati un diario elettronico (per esempio, un palmare appositamente programmato) che emette un certo numero di segnali sonori distribuiti casualmente nell'arco della giornata e chiede di descrivere ciò che si stava facendo appena prima di aver ricevuto l'avviso. Il diario elettronico chiede ai partecipanti di indicare anche l'intensità di vari stati d'animo (per esempio, felice, frustrato/seccato ecc.). I dati così raccolti possono essere trasformati in medie in modo da generare un valore numerico che rifletta la reale esperienza della giornata. L'ESM sembra rispondere adeguatamente al principale requisito di una misura di benessere che sia espressione dell'integrazione di esperienze immediate, ma non appare un metodo facilmente applicabile per la contabilità del benessere nazionale (National Well-Being Account - NWBA) perché: (a) è complicato da applicare in caso di campioni molto ampi; (b) il tasso di non risposta è spesso troppo elevato per alcune attività; (c) soltanto raramente vengono campionate attività insolite. Fortunatamente, si possono raccogliere dati simili a quelli ottenibili con l'ESM anche impiegando metodi più pratici. Un'alternativa sviluppata da noi è il metodo della ricostruzione giornaliera (Daily Reconstruction Method - DRM). Con il nostro metodo, chiediamo ai soggetti campionati di compilare un diario degli eventi del giorno precedente, descrivendo ogni episodio vissuto con le seguenti indicazioni: • • • •
quando è iniziato e quando si è concluso; che cosa stavano facendo; dov'erano; con chi si trovavano.
Per accertare il loro stato d'animo durante ogni episodio rispetto a certe dimensioni affettive, si chiede ai soggetti di compilare una serie di tabelle (Tabella 5.1, una per ciascun episodio). Notate che in questa tabella il punto di ancoraggio delle risposte è il "per nulla", un naturale livello zero che, con ogni probabilità, ha un significato comune e costante per tutti i partecipanti. Il DRM, quindi, chiede di stilare un resoconto retrospettivo su stati emotivi, ma attraverso una procedura appositamente studiata con l'obiettivo di ricavarne ricordi accurati, guidando gli interrogati nel processo di richiamo alla memoria di specifici episodi. Il metodo sembra funzionare, avendo esattamente replicato un complesso modello di oscillazioni diurne di stanchezza e di affetti positivi e negativi ottenuto in precedenza in uno studio ESM (si veda Kahneman et al., 2003). I dati raccolti con l'ESM o il DRM possono essere utilizzati per descrivere l'esperienza affettiva media percepita dai soggetti nel corso di particolari situazioni (quando usiamo il termine
Tabella 5.1 La tabella compilata per ciascun episodio dai soggetti intervista-
ti con il DRM Come vi siete sentiti durante questo episodio? Assegnare a ogni stato d'animo uno dei punteggi della scala fornita. Il punteggio O significa che la relativa sensazione non è stata provata per nulla, mentre il punteggio 6 indica che essa è stata una componente molto importante dell'esperienza. Cerchiare il numero tra O e 6 che meglio descrive il vostro stato d'animo durante l'episodio.
Per nulla
Moltissimo
Felice
0
1
2
3
4
5
6
Frustrato/seccato
0
1
2
3
4
5
6
Depresso/triste
0
1
2
3
4
5
6
Infastidito/intimorito
0
1
2
3
4
5
6
Affettuoso/cordiale
0
1
2
3
4
5
6
Irritato/contrariato
0
1
2
3
4
5
6
Preoccupato/ansioso
0
1
2
3
4
5
6
Divertito
0
1
2
3
4
5
6
Stanco
0
1
2
3
4
5
6
106 Economia della felicità
Verso una contabilità nazionale del benessere 107
"situazione" ci riferiamo alle caratteristiche di un episodio: quando, che cosa, dove e con chi). La Tabella 5.2 riporta i punteggi dell'affetto medio per attività selezionate. L'affetto netto è definito come la media dei punteggi degli aggettivi positivi meno la media di quelli negativi espressi dalle persone impegnate in ciascuna attività. Quando un episodio coinvolge più di una attività viene inserito più volte in tabella, per cui le ore totali di una giornata possono essere anche più di 24; per la costruzione della NWBA, sarebbe desiderabile o spartire le attività multiple che si sovrappongono nello stesso episodio o restringere l'attenzione all'attività centrale. Il campione Tabella 5.2 Affetto netto medio per attività Attività Relazioni intime Socializzazione dopo il lavoro Cena Rilassamento
0/,, del campione 11 49 65 77
Tempo speso (ore)
Affetto netto
0,21 1,15 0,78
4,74 4,12
2,16 0,52 0,22
3,96
Pregare
57 16 23
0,45
3,91 3,91 3,82 3,76
Socializzazione durante il lavoro
41
1,12
3,75
Guardare la televisione Telefonare da casa Fare un sonnellino
75 43
2,18 0,93 0,89 1,14 0,41
3,62 3,49 3,27
Pranzo Esercizio fisico
Cucinare Fare le compere Computer a casa Lavori domestici Badare ai figli Spostamento dal lavoro a casa Lavoro Spostamento da casa al lavoro
43 62 30 23 49 36 62 100 61
0,46 1,11 1,09 0,62 6,88 0,43
3,24 3,21 3,14 2,96 2,95 2,78 2,65 2,03
Nota: L'affetto medio è la media dei punteggi di tre aggettivi positivi (divertito, affettuoso, felice) meno la media di cinque negativi (frustrato, depresso, irritato, infastidito, criticato). Tutti gli aggettivi sono riferiti a una scala tra O e 6, corrispondenti rispettivamente a "per nulla" e "moltissimo". La colonna "Tempo speso" non è condizionata dall'impegno profuso nell'attività. ll campione è composto da 909 lavoratrici del Texas.
è composto da 909 lavoratrici del Texas e i dati ricavati sono descritti più in dettaglio in Kahneman et al. (2003). Notate che i trasferimenti verso da e per la sede di lavoro e il lavoro stesso ottengono punteggi piuttosto bassi, mentre le attività del tempo libero sono in testa alla classifica, come prevedibile. Sembra essere possibile raccogliere dati dello stesso tipo anche con strumenti semplificati. In un lavoro che stiamo portando avanti in questo momento, abbiamo provato a porre domande sulle sensazioni associate a particolari eventi, come l'ultimo spostamento da casa al luogo di lavoro. Lo chiamiamo metodo di richiamo dell'evento (Event Recali Method - ERM), e con questa procedura abbiamo raccolto dati riguardanti altre 504 texane: per la maggior parte delle attività, l'ERM e il DRM hanno fatto registrare minime differenze. L'ERM offre il notevole vantaggio di essere più facilmente gestibile in un sondaggio telefonico. Da notare, tuttavia, che la selezione dei partecipanti alle attività e la durata del loro impegno è diversa tra ERM e DRM, e queste differenze potrebbero incidere sui risultati qualora preferenze eterogenee portassero ad allocazioni del tempo molto divergenti tra le persone interrogate. È interessante notare che una ricerca su pazienti in dialisi e relativo gruppo di controllo condotto con l'ESM (Riis et al., 2003) e un altro studio su insegnanti in scuole modello e scadenti condotto con il DRM (Kahneman et al., 2003) hanno entrambi individuato segnali di adattamento, portando sostegno alla teoria dell'hedonic treadmill.
Contabilità nazionali del benessere basate sul tempo Torniamo, ora, alla tesi di Bentham e Edgeworth secondo la quale l'utilità è l'integrale nel tempo del flusso di piaceri e dolori associati con gli eventi. Se ipotizziamo che l'utilità sia determinabile in tempi discreti, invece dell'integrale possiamo utilizzare una formula semplificata. In questo caso, l'utilità individuale in tempi discreti può essere indicata come
108 Economia della felicità
Verso una contabilità nazionale del benessere 109
dove hii è il tempo durante il quale la persona i è impegnata nella situazione j (per esempio, lavare i piatti con il coniuge) e 'Li./ è l'esperienza affettiva netta durante la situazione j. Una misura del benessere nazionale (Well-Being = WB) è, dunque:
hi"
WB =
(1)
N
dove N è la dimensione della popolazione. Notate che la (1) può essere scritta come _i
Hfzi + i
N dove H3 è la media di hii tra la popolazione e új è l'affetto netto medio sperimentato durante la situazione j. Dai dati raccolti da noi, il tempo speso su un'attività è virtualmente non correlato con l'affetto netto tra la popolazione (r = 0,01), per cui l'NwBA può essere misurato con la formula: WB' = 1/3 i-ii (2)
dell'utilità di un'esperienza. Oltre a questi ostacoli concettuali, ci sono anche svariati problemi pratici: occorre identificare le situazioni importanti agli effetti del benessere (cioè quello che deve essere inserito in j); bisogna misurare l'allocazione del tempo; devono essere raccolti dati sull'affetto netto per un campione rappresentativo in varie situazioni; e devono essere specificati gli aggettivi che vanno a definire l'affetto. La questione, quindi, non è tanto se la (1) fornisca o meno una misura perfetta del benessere, quanto se essa aggiunge informazioni utili alle classiche domande globali con le quali solitamente viene misurato il benessere. A nostro parere, gli assunti concettuali sottostanti a (1) sono difendibili, benché senza dubbio non possano soddisfare proprio tutti. Gli psicologi si sentono più a loro agio degli economisti quando devono confrontare indicatori di stato d'animo o utilità tra persone diverse. Il fatto che il grado di soddisfazione dichiarata si correli con misure fisiologiche e stati di salute e che esista un certo legame anche tra circostanze oggettive e punteggi affettivi suggerisce che qualche segnale di comparabilità interpersonale dell'affetto esiste davvero. 4 Oltre a questo, in Kahneman et al. (2003) troviamo che gli affetti positivi e negativi sono fortemente correlati tra situazioni (meno tra individui), indicando che l'affetto netto offre un'accurata caratterizzazione delle situazioni.
Questa equazione ha il vantaggio che l'impiego del tempo e l'affetto possono essere oggetto di indagini separate.3 Per calcolare l'equazione (1), l'affetto netto e l'impiego del tempo possono essere raccolti con il DRM. Per la (2), t, può essere ricavato con l'ERM (o il DRM), e 113 da un'indagine separata, come, per gli Stati Uniti, la nuova American Time Use Survey pubblicata mensilmente dal Bureau of Labor Statistics. Naturalmente, questa formulazione implica una serie di presupposti: che le esperienze affettive siano comparabili tra le persone; che l'affetto netto fornisca una misura chiave dell'utilità; che l'utilità sia discreta nel tempo; e che una semplice misura di affetto netto sia una valida rappresentazione
Poiché obiettivo degli interventi pubblici non può essere soltanto quello di massimizzare il PIL misurato, una migliore misura del benessere può certamente migliorare il livello di informazione della politica. In questo articolo proponiamo di misurare il benessere nazionale ponderando il tempo allocato a varie attività con le esperienze soggettive a esse associate.
3 Questa idea non ci è nuova. Greg Dow e F. Thomas Juster (1985) utilizzaro-
4 Un'indicazione, forse banale ma rassicurante, della comparabilità interper-
no questo schema per analizzare dati sull'impiego del tempo combinati con quello che noi chiamiamo "soddisfazione specifica di dominio" per 13 attività usando l'aggettivo "piacevole".
sonale l'abbiamo ottenuta impiegando il nostro approccio DRM, quando abbiamo trovato che coloro che dichiaravano di dormire di meno segnalavano più frequentemente delle altre di sentirsi stanche per tutta la giornata.
Conclusioni
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I maggiori vantaggi di un approccio "dal basso" come il nostro, rispetto alle misurazioni di soddisfazione esistenziale "dall'alto", sono: primo, esso evita alcuni dei bias (per esempio, l'indifferenza alla durata) tipici delle valutazioni globali retrospettive; secondo, si collega all'allocazione del tempo, che può essere misurata. Tanto per cominciare, se il tempo non è distribuito in maniera ottimale, le contabilità del benessere possono già fornire alla società un punto di riferimento particolarmente utile. L'NWBA può essere impiegato come compendio del benessere affettivo medio di una popolazione. Tre delle sue potenziali applicazioni sono le seguenti: 1) si possono seguire le variazioni nel tempo del benessere di un paese, e la crescita può essere scomposta in una componente dovuta a cambiamenti nell'allocazione del tempo da parte della popolazione, un'altra componente legata a variazioni delle esperienze affettive nei confronti di una data varietà di situazioni e il restante; 2) per sottopopolazioni (per esempio, ricchi e poveri) differenze di benessere riscontrate in un certo momento possono essere attribuite a differenze nel tempo allocato tra le situazioni, a differenze nell'affetto ricavato da una data serie di situazioni e il restante; 3) con le stesse modalità è possibile scomporre e confrontare anche differenze di benessere tra paesi diversi. Oltre a ciò, le misure di benessere basate sul tempo possono essere poste in relazione anche con stati personali, come salute o attività cerebrale. La contabilità del benessere può anche aiutare a comprendere la relazione tra esperienze soggettive e stato di salute. A causa dell'adattamento e del fatto che le caratteristiche immutabili di ogni essere umano (come i fattori genetici) determinano gran parte della varianza misurata nella soddisfazione dichiarata, sarebbe logico domandarsi se un indice NWBA non particolarmente sensibile a cambiamenti di politiche o di standard di vita sia davvero interessante. A questa obiezione si può dare più d'una risposta: primo, è vero che le
Verso una contabilità nazionale del benessere 111
circostanze determinano soltanto piccole variazioni tra soggetto e soggetto nella soddisfazione esistenziale dichiarata, ma ciò che importa è, piuttosto, capire come le circostanze si leghino al livello medio di benessere; secondo, l'allocazione del tempo cambia nel tempo, e può essere influenzata dalla politica (per esempio, con leggi sugli straordinari), sicché sarebbe utile verificare come questi cambiamenti si inseriscono nel quadro del benessere; terzo, il PIL ogni anno cresce soltanto di pochi punti percentuali, per cui è normale che la misura del benessere materiale cambi in modo scarsamente percettibile da un anno all'altro e, comunque, per poter osservare questi piccoli cambiamenti annui occorrerebbe avvalersi di un campione molto ampio.
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6. Esperienze di ricerca in collaborazione'
La collaborazione con Amos Tversky Era la primavera del 1969, e io stavo tenendo alla Hebrew University di Gerusalemme un seminario di specializzazione sulle applicazioni della psicologia ai problemi del mondo reale. Senza sapere che sarebbe stata una mossa che mi avrebbe cambiato la vita, chiesi al mio più giovane collega Amos Tversky di parlare ai miei studenti di ciò che stava accadendo nel suo campo di studio, quello dei processi di giudizio e decisione. Amos ci descrisse il lavoro del suo vecchio maestro, Ward Edwards, nel cui laboratorio veniva adottato un particolare paradigma di ricerca. A un gruppo di partecipanti all'esperimento i ricercatori mostravano due sacchetti pieni di gettoni del poker, informandoli che differivano nella composizione del contenuto (per esempio, che uno conteneva 70 gettoni rossi e 30 bianchi e l'altro 70 bianchi e 30 rossi). Poi sceglievano a caso uno dei sacchetti e chiedevano ai partecipanti di estrarre un gettone alla volta e, dopo ogni estrazione, di indicare la probabilità che il sacchetto prescelto fosse quello con i Testo pubblicato in traduzione italiana per concessione della American Psychological Association (O 2003). L'APA non è responsabile della traduzione italiana. Ogni citazione ufficiale di questo articolo dovrà riportare il titolo e i dettagli della pubblicazione originale in inglese: "Experiences of Collaborative Research", American Psychologist, 58 (2003), pp. 723-730. Questo articolo è un estratto di una nota autobiografica più dettagliata pubblicata in T. Fràngsmyr (a cura di), Les Prix Nobel 2002, Almquist & Wiksell International, Stockholm 2003.
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predominanza di gettoni rossi. Dai risultati del suo esercizio, Edwards aveva tratto la conclusione che le persone, in generale, sono bayesiani conservatori: quasi sempre correggono il proprio intervallo di confidenza nella direzione giusta, ma raramente lo fanno a sufficienza. Intorno al discorso di Amos fiorì una vivace discussione. L'opinione di Edwards non sembrava corrispondere a quanto possiamo osservare tutti i giorni guardandoci intorno, e cioè che la gente, nella maggioranza dei casi, tende a saltare subito alle conclusioni. Sembrava, inoltre, improbabile che i risultati ottenuti con un procedimento di campionamento sequenziale potessero essere estesi alla situazione, presumibilmente più comune, in cui i dati, o gli indizi, vengono forniti tutti in una volta. Infine, la definizione "bayesiano conservatore" sottintendeva la presenza di un processo che prima coglie la risposta esatta e poi la inquina con una distorsione, configurando un meccanismo psicologico poco plausibile. Soltanto di recente sono venuto a sapere da un amico, che proprio quel giorno lo incontrò, che Amos gli riferì la discussione appena avuta con me e la mia classe, confessandogli che le nostre obiezioni avevano seriamente scosso la sua fede nell'approccio neobayesiano. Amos e io decidemmo di pranzare insieme per discutere le nostre opinioni sulla maniera con cui le probabilità vengono "realmente" giudicate. Durante il pranzo, ci confessammo reciprocamente i ricorrenti errori di giudizio commessi da entrambi in quel campo e decidemmo di impegnarci a studiare le intuizioni statistiche di esperti della materia. Passai l'estate del 1969 facendo ricerca presso l'Applied Psychological Research Unit di Cambridge, Inghilterra. Amos fece tappa da me per alcuni giorni nel suo viaggio di ritorno verso gli Stati Uniti. Avevo preparato un questionario su alcune idee riguardanti la variabilità di campionamento e il potere statistico, in gran parte basato sulle mie esperienze personali di erronea pianificazione di ricerche e scarsa riproducibilità di risultati. Il mio questionario era composto da una serie di problemi, ognuno dei quali concepito in modo da risultare indipendente, così da avere senso anche separatamente dagli altri, come suggeriva la mia ambizione, coltivata da lungo tempo, di praticare una "psicologia con domande singole", e
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quella mi pareva una buona occasione per metterla alla prova. Amos se ne andò, sottopose il mio questionario ai partecipanti a un meeting della Mathematical Psychology Association e poche settimane dopo ci incontrammo a Gerusalemme per analizzare i risultati e scrivere un saggio sull'argomento. Fu un'esperienza magica. Avevo già lavorato in stretta collaborazione con altri personaggi, ma questa volta fu differente. Amos veniva descritto da molti conoscenti come la persona più intelligente mai incontrata, ed era anche divertente, con la sua inesauribile riserva di battute adatte a ogni sfumatura di qualsiasi situazione. In sua presenza, diventavo spiritoso anch'io, e così potevamo passare ore e ore di intenso lavoro in continua allegria. Il saggio che scrivemmo in quell'occasione fu deliberatamente ironico, giacché descrivemmo quella che definimmo la prevalente fede nella "legge dei piccoli numeri", secondo la quale la legge dei grandi numeri viene applicata anche a piccoli numeri. Quantunque non abbiamo mai più scritto un altro articolo con un tono altrettanto umoristico, il nostro sodalizio professionale ha continuato a offrirci opportunità di divertimento, tanto da poter dire di aver condiviso con Amos oltre la metà delle risate della mia vita. E non ci limitavamo a divertirci. Non ci misi molto a scoprire che Amos riusciva a trovare subito un rimedio per tutte le mie difficoltà di scrittura. Con lui, i passi avanti erano assicurati. Magari erano lenti, ma ogni successiva bozza prodotta rappresentava sempre un miglioramento su quella precedente, un risultato che da solo non ero mai in grado di garantire. Il lavoro di Amos era sempre improntato alla fiducia e a un'incisiva eleganza, e per me era fonte di gioia trovare quelle doti associate anche alle mie idee. Mentre stavamo scrivendo il nostro primo saggio, ero conscio di quanto migliore fosse del pezzo più incerto che avrei scritto da solo. Non so che cosa esattamente Amos trovasse di piacevole nella nostra collaborazione - non eravamo abituati a scambiarci complimenti - ma era chiaro che anche lui si sentiva a suo agio. Eravamo una squadra, e mantenemmo quello spirito per ben più di un decennio. Il premio Nobel mi fu assegnato per il lavoro che effettuammo durante quel periodo di intensa collaborazione.
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Fin dai primi tempi del nostro sodalizio, stabilimmo un ritmo di lavoro che avremmo poi mantenuto in tutti gli anni passati insieme. Amos era una persona serale, mentre io ero mattutino. Ciò rese naturale incontrarci a pranzo e restare insieme tutto il pomeriggio, lasciando ancora a disposizione di entrambi altro tempo per lavorare separatamente. Ogni giorno passavamo ore e ore semplicemente a discutere. Quasi tutto il lavoro dei nostri progetti congiunti lo facemmo faccia a faccia, stando fisicamente insieme, comprese le stesure delle bozze dei questionari e dei saggi, evitando ogni forma di suddivisione dei compiti. Seguivamo un principio inderogabile: ogni punto di disaccordo andava discusso finché non veniva risolto con mutua soddisfazione, con soltanto due eccezioni: se una voce dovesse o meno essere compresa nei riferimenti (ad Amos era lasciata la decisione finale) e chi dovesse risolvere i problemi grammaticali (qui ero io ad avere voce in capitolo). Fin dall'inizio lasciammo da parte la questione di chi fosse l'autore principale, quello il cui nome compare per primo nelle pubblicazioni. Per il primo saggio, decidemmo lanciando una moneta e, da quel momento in poi, alternammo la posizione dei nostri nomi fino agli anni Ottanta, quando la struttura della nostra collaborazione infine cambiò. Una conseguenza di questo stile di lavoro fu che tutte le nostre idee erano proprietà di entrambi. Le nostre iterazioni erano talmente frequenti e così intense che non aveva senso fare distinzioni tra le discussioni che avevano innescato un'idea, l'atto che l'aveva espressa e la sua successiva elaborazione. Credo che a molti studiosi sia capitato di accorgersi di aver espresso (talvolta persino pubblicato) un'idea molto tempo prima di averne davvero colta l'importanza. Ci vuole tempo per apprezzare e sviluppare una nuova concezione. Alcune delle gioie più profonde della nostra collaborazione - e probabilmente anche gran parte dei suoi successi - derivarono dalla nostra capacità di elaborare le reciproche idee nascenti: se io esprimevo un'idea appena abbozzata, sapevo che Amos era pronto a capirla, forse più chiaramente di me stesso, e che, se valeva qualcosa, se ne sarebbe subito accorto. Come quasi tutti, mi capita di essere restio a esporre ad altri
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congetture allo stato embrionale, volendo prima assicurarmi che non siano sciocche. Negli anni della nostra collaborazione, questa cautela fu lasciata completaniente cadere, e la fiducia reciproca e la completa assenza di ogni atteggiamento difensivo sviluppate tra di noi furono ancora più straordinarie in quanto entrambi - Amos persino più di me - eravamo considerati critici molto severi. La nostra magia funzionava soltanto quando eravamo noi due da soli: imparammo ben presto che qualunque collaborazione con una terza parte andava evitata, perché in un gruppo a tre tendevamo a entrare in competizione. Amos e io condividemmo il prodigio di possedere una gallina dalle uova d'oro: una mente congiunta migliore delle nostre due prese separatamente. I dati statistici confermano che il nostro lavoro congiunto fu superiore, o almeno più influente, di quello fatto singolarmente (Laibson e Zeckhauser, 1998). Durante i nostri anni più fecondi (1971-1981), Amos e io pubblicammo otto articoli su riviste specializzate, cinque dei quali alla fine del 2002 erano già stati citati oltre mille volte. Dei lavori separati, che ammontano in totale a oltre 200, soltanto la teoria della similarità di Amos (Tversky, 1977) e il mio libro sull'attenzione (Kahneman, 1973) hanno superato quella soglia. Lo stile particolare del nostro lavoro in collaborazione fu riconosciuto per la prima volta da un recensore del nostro primo saggio teorico (sulla rappresentatività), che lo fece respingere dalla Psychological Review. L'eminente psicologo che scrisse quella recensione - il suo anonimato venne tradito anni dopo - asseriva di conoscere bene i filoni del lavoro separato che Amos e io avevamo condotto fino ad allora, e di giudicarli entrambi degni di stima. Aggiungeva, però, l'insolita osservazione che insieme sembravamo far emergere il peggio di ognuno di noi e che certamente avremmo fatto meglio a non collaborare. Le sue maggiori perplessità riguardavano la metodologia che avevamo adottato per raccogliere dati, quella di porre un gran numero di domande singole. Si sbagliava anche su quello.
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L'articolo di "Science" del 1974 e il dibattito sulla razionalità Dal 1971 al 1972, un anno che fu di gran lunga il più produttivo della mia vita, Amos e io ci trovavamo all'Oregon Research Institute (ORO, dove facemmo una considerevole mole di ricerche e molto scrivemmo sull'euristica della disponibilità, sulla psicologia della predizione e sui fenomeni dell'ancoraggio e dell'eccesso di fiducia, indubbiamente meritando con il nostro attivismo la nomea di "duo dinamico" che i colleghi ci attribuirono. Lavorando di sera e pure di notte, mi dedicai anche a riscrivere completamente il mio libro Psicologia dell'attenzione (Kahneman, 1973), che fu consegnato all'editore quell'anno e che resta il mio contributo più significativo alla scienza della psicologia. All'ORI venni in contatto per la prima volta con una stimolante comunità di ricercatori che Amos aveva già incontrato fin da quando frequentava come studente l'University of Michigan: Paul Slovic, Sarah Lichtenstein e Robyn Dawes. Molto appresi anche dal lavoro di Lewis Goldberg sul giudizio clinico e attuariale e dalle idee di Paul Hoffman sul modello paramorfico. L'ORI era uno dei principali centri di ricerca sul giudizio ed ebbi così occasione di incontrare parecchie delle figure più significative in quel campo quando vennero a visitarlo, tra cui Ken Hammond. Qualche tempo dopo il nostro ritorno da Eugene a Gerusalemme, Amos e io decidemmo di fare il punto su ciò che avevamo appreso riguardo a tre euristiche del giudizio (rappresentatività, disponibilità e ancoraggio) e a una decina di bias a esse associati. Passammo, così, un piacevolissimo anno in cui non facemmo quasi altro che lavorare alla stesura di un solo articolo. Rispettando la nostra abitudine di incontrarci nel pomeriggio, consideravamo molto produttiva una giornata di lavoro in cui avevamo aggiunto al saggio una o due frasi. Sviluppare il processo ci piaceva, e ciò ci donava un'inesauribile pazienza. Scrivevamo come se la scelta precisa di ogni singola parola fosse una questione di cruciale importanza. Pubblicammo l'articolo (Tversky e Kahneman, 1974) su Science, perché pensammo che la prevalenza di bias sistema-
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tici nelle valutazioni e predizioni intuitive potesse interessare anche a studiosi estranei alla cerchia degli psicologi. L'articolo di Science fu accolto come una rarità: un saggio empirico di psicologia che (certi) filosofi e (alcuni) economisti potevano prendere sul serio (cosa che in effetti fecero). Che cosa, in particolare, sollevò l'interessamento dei lettori, inducendoli a esaminarlo con attenzione? Io attribuisco quell'insolito livello di considerazione non soltanto al messaggio che intendevamo trasmettere, ma almeno altrettanto al mezzo con cui lo avevamo espresso. Amos e io avevamo continuato a praticare la psicologia delle domande singole, e l'articolo pubblicato da Science - come altri che scrivemmo in seguito - ne comprendeva alcune citate alla lettera nel testo. Esse, credo, riuscirono a coinvolgere personalmente i lettori, convincendoli che la nostra trattazione riguardava non semplicemente il comportamento di individui ingenui e inesperti, ma un problema assai più interessante: la possibilità che a cadere vittime di intuizioni fallaci fossero anche persone intelligenti, sofisticate e ricettive come loro. Comunque sia, l'articolo diventò in breve un riferimento standard di attacco al modello dell'agente razionale e stimolò la comparsa di un'ampia letteratura nel campo della scienza, filosofia e psicologia cognitive. Un risultato che francamente non ci aspettavamo. Soltanto recentemente mi sono reso conto di quanto siamo stati fortunati a non aver deliberatamente mirato all'ampio target che ci capitò di coinvolgere. Se avessimo inteso l'articolo come un attacco al modello razionale, lo avremmo scritto in forma diversa, e la sfida sarebbe risultata meno efficace. Un saggio sulla razionalità avrebbe richiesto di definirne il concetto, esaminare le condizioni di contorno per la comparsa dei bias e discutere molti altri argomenti su cui non avevamo nulla di interessante da dire. Il risultato sarebbe stato meno incisivo, meno provocatorio e, in ultima analisi, meno difendibile. Così com'era, invece, offriva un resoconto dello stato di avanzamento delle nostre ricerche sul giudizio in condizioni d'incertezza, con numerose prove convincenti. Tutte le deduzioni sulla razionalità umana vennero tratte dai lettori stessi. E spesso le conclusioni dei lettori risultarono troppo radicali, soprattutto perché i quantificatori esistenziali, cioè
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le indicazioni sull'incidenza dei fenomeni, come spesso succede, nel corso della trasmissione delle informazioni erano scomparsi. Mentre avevamo dimostrato che (alcuni, non tutti) i giudizi su eventi incerti sono mediati dalle euristiche che (qualche volta, non sempre) producono bias prevedibili, noi venivamo molte volte letti, sia da amici sia da critici, come se avessimo affermato che la gente non è in grado di ragionare correttamente. La nostra pretesa visione negativa della mente umana fu presa di mira da non pochi studiosi (tra gli altri, Cohen, 1981; Gigerenzer, 1991, 1996; Lopes, 1991). Il fatto che l'uomo avesse posato il piede sulla luna venne usato più di una volta come argomentazione contro la nostra posizione. Dato che la nostra trattazione era stata erroneamente interpretata come onnicomprensiva, i nostri silenzi diventarono significativi: per esempio, il fatto che non avessimo mai parlato del ruolo dei fattori sociali nel giudizio venne preso per un'indicazione che li ritenessimo ininfluenti. In realtà, non pensa- vamo nulla di simile: era semplicemente che sui fattori sociali non avevamo nulla da dire. Oggi ho l'impressione che qualsiasi lavoro di un certo peso prima o poi possa essere frainteso se attira l'attenzione per un tempo sufficientemente lungo da consentirgli di essere letto in un contesto significativamente diverso da quello originario. Particolarmente soggette a incomprensioni sono le omissioni. Alla luce di argomentazioni sollevate più tardi sull'intensità delle illusioni cognitive, per esempio, oggi può sembrare singolare che la ricerca originaria non abbia discusso casi in cui l'intuizione è accurata o in cui le distorsioni dell'intuizione sono sostituite da un ragionamento corretto. La seguente è una possibile risposta a questa obiezione. Gli autori della "legge dei piccoli numeri" non hanno avvertito alcuna necessità di prendere in esame un ragionamento statisticamente corretto, essendo convinti, oltretutto, che inserire domande semplici nel loro schema sarebbe risultato offensivo per i partecipanti e noioso per i lettori. Più in generale, i primi studi sulle euristiche e i bias hanno mostrato poco interesse per le condizioni nelle quali il ragionamento intuitivo viene prevenuto o cancellato: il ragionamento controllato che porta a rispondere correttamente è stato considerato come il caso di default
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non richiedente spiegazione (corsivo aggiunto) (Kahneman e Frederick, 2002, p. 50). Un altro esempio è dato dal ruolo dell'affetto nelle distorsioni sistematiche. In Kahneman (2003, p. 710), faccio riferimento alla formulazione di euristica dell'affetto di Paul Slovic (Slovic, Finucane, Peters e MacGregor, 2002) come «probabilmente il più importante sviluppo nello studio dell'euristica del giudizio degli ultimi decenni». Dopo aver scritto questa frase, incominciai a pormi l'ovvia domanda: come mai Tversky e io abbiamo completamente trascurato il ruolo dell'affetto nel giudizio intuitivo? Con mia grande sorpresa, la risposta fu la stessa: quando avviammo il nostro lavoro, l'interpretazione di default dei bias di giudizio era che essi erano motivati, o comunque guidati, dalle emozioni, e una delle caratteristiche innovative del nostro lavoro era proprio che noi prendevamo in esame bias né motivati, né di origine emozionale! Nel nuovo contesto che Tversky e io contribuimmo a creare, né l'ubiquità del ragionamento corretto né quella dei bias affettivi vengono più date per scontate. Mancare di menzionare questi effetti, dunque, ha oggi un significato diverso da quello che aveva quando scrivemmo il nostro articolo. I lettori di oggi sono destinati a fraintendere il nostro intento originario perché il contesto del dibattito è mutato, e gli inevitabili errori di interpretazione del nostro lavoro sono dovuti, almeno in parte, all'influenza da esso esercitata. Mi chiedo quante volte accada. Le difficoltà di comunicazione si manifestarono anche su un altro versante. Amos e io, com'era naturale, avevamo sempre ben presente quali fossero le nostre opinioni sulla qualità generale del modo di ragionare della gente, e presupponevamo senza porci troppi problemi che ciò che intendevamo dire fosse chiaro e trasparente (Keysar e Barr, 2002). Dal nostro punto di vista, quindi, coloro che interpretavano erroneamente le nostre passate omissioni come un attacco alla mente umana sembravano volontariamente distorcere il significato del nostro lavoro. E, da parte nostra, non era pura paranoia: in fondo, è naturale che quegli studiosi che investono tempo e fatica nel legittimo esercizio della critica ben raramente siano
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portati a scegliere l'interpretazione più favorevole dei lavori con cui dissentono. Ma le critiche che a noi apparivano disoneste spesso erano rivolte a un'interpretazione diffusa anche tra lettori amici del nostro lavoro, benché non corrispondesse a quella intesa da noi. Dall'esperienza della controversia sulla qualità della mente umana ho tratto svariate lezioni. La prima è che, almeno nel campo delle scienze sociali, ogni articolo più vecchio di dieci anni dovrebbe sempre essere accompagnato da una breve descrizione del contesto di opinioni in cui fu scritto. La seconda è che gli studiosi che intendono impegnarsi in un esercizio di natura eminentemente critica dovrebbero essere spinti a discutere i problemi con il bersaglio prescelto, magari davanti a un buon bicchiere di vino, prima di lanciarsi a formulare giudizi sarcastici. La terza lezione è l'opportunità di creare una procedura più formale per regolare le controversie, argomento su cui tornerò più avanti.
La "prospect theory" Dopo la pubblicazione su Science del nostro articolo sul giudizio (Tversky e Kahneman, 1974), Amos propose di metterci a studiare insieme il processo decisionale. In quel campo lui era già una stella di prima grandezza, mentre io non ne sapevo quasi nulla. Come introduzione al tema, mi consigliò di leggere gli attinenti capitoli del libro Introduzione alla psicologia matematica, del quale era coautore (Coombs, Dawes e Tversky, 1970). Nel testo, venivano discussi la teoria dell'utilità e i paradossi di Allais ed Ellsberg, oltre ad alcuni dei classici esperimenti in cui le figure più prominenti del settore si erano unite in uno sforzo congiunto per misurare la funzione di utilità del denaro attraverso scelte tra semplici lotterie. Dal libro, appresi che il piano era quello di costruire una teoria che spiegasse in qualche modo il paradosso di Allais. Come questione psicologica, non sembrava un compito difficile, perché i celebri problemi di Allais altro non sono, in realtà, che un'elegante dimostrazione della non linearità della risposta soggettiva alla probabilità. La naturale reazione al
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paradosso di Allais da parte di un teorico delle decisioni, sicuramente nel 1975 e probabilmente anche ai nostri giorni, sarebbe quella di mettersi alla ricerca di una nuova famiglia di assiomi dotati di attrattiva normativa ma in grado di giustificare la non linearità. La risposta naturale di uno psicologo, invece, fu di lasciare da parte il problema della razionalità e sviluppare una teoria descrittiva delle preferenze che le persone mostrano realmente di avere, senza domandarsi se dovrebbero averle o no. Il compito che ci assegnammo fu quello di spiegare le preferenze osservate nell'universo singolarmente ristretto in cui la teoria delle scelte è stata tradizionalmente studiata: giochi d'azzardo con premi in denaro contraddistinti da un numero limitato di esiti possibili e da probabilità ben definite. Poiché tentavamo di rispondere a una domanda empirica, avevamo bisogno di raccogliere dati, un problema che Amos e io risolvemmo servendoci di un metodo al contempo efficiente e piacevole: passammo le ore di lavoro congiunto inventando scelte interessanti ed esaminando le nostre stesse preferenze. Quando le nostre scelte collimavano, supponevamo, provvisoriamente, che anche altri le avrebbero fatte, e procedevamo a esaminarne le implicazioni teoriche. Questo insolito sistema di raccolta dati ci consentì di marciare a tamburo battente, tanto da poter costruire e scartare modelli a ritmo vertiginoso. Ricordo distintamente un modello cui assegnammo il numero 37, ma sulla precisione del nostro conteggio non ci potrei giurare. Come era già successo con il nostro lavoro sul giudizio, le idee centrali le intuimmo rapidamente e, come quella volta, spendemmo un'enorme quantità di tempo e di fatica prima di riuscire a pubblicare un saggio che riassumesse quelle intuizioni (Kahneman e Tversky, 1979). La prima di esse emerse grazie alla mia inesperienza. Mentre leggevo il testo di psicologia matematica di Coombs et al. (1970), rimasi sconcertato notando che tutti i problemi di scelta erano descritti in termini di guadagni o perdite (per la verità, quasi sempre di guadagni), mentre le funzioni di utilità che si riteneva dovessero spiegare le scelte erano riportate in ascissa come livelli di ricchezza. Ciò mi parve da un lato innaturale e dall'altro anche
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improbabile da una prospettiva psicologica. Decidemmo immediatamente di adottare come portatori di utilità i cambiamenti e/o le differenze, senza essere neppure sfiorati dal sospetto che una mossa tanto ovvia risultasse veramente fondamentale e potesse aprire la strada a una nuova disciplina, l'economia comportamentale. Harry Markowitz, che vinse il premio Nobel per l'economia nel 1990, aveva proposto fin dal 1952 di adottare le variazioni di ricchezza come portatori di utilità, ma non diede sufficiente seguito alla sua idea che non venne ripresa da nessun altro nel suo campo. Il passaggio da stati di ricchezza a variazioni di ricchezza come portatori di utilità è reso significativo da una proprietà delle preferenze che più tardi avremmo definito avversione alle perdite: la risposta alle perdite è sempre molto più elevata di quella ai corrispondenti guadagni, con un pronunciato cambio di pendenza (flesso) nella funzione del valore in corrispondenza del punto di riferimento. L'avversione alle perdite si manifesta con chiarezza nella stupefacente riluttanza ad accettare il rischio osservata quando si propone a qualcuno di puntare sul lancio di una moneta: i più non accetteranno una scommessa in cui possano perdere 20 dollari se non se ne offrono almeno 40 in caso di vincita. Il concetto di avversione alle perdite è stato, credo, il nostro contributo più utile allo studio del processo decisionale. L'asimmetria tra guadagni e perdite spiega un buon numero di enigmi, compresa la ben nota ed economicamente irrazionale distinzione che si tende a fare fra costi di opportunità e perdite "reali". Questo fenomeno aiuta anche a capire come mai i mercati immobiliari ristagnino a lungo quando i prezzi calano e contribuisce a chiarire il diffusissimo bias che favorisce lo status quo nel processo decisionale. Infine, la considerazione asimmetrica attribuita a guadagni e perdite si estende anche alla sfera delle intuizioni morali, manifestandosi nella marcata divergenza tra le valutazioni etiche di perdite imposte e mancate condivisioni di guadagni. Ma, naturalmente, quando decidemmo per la prima volta di ipotizzare una curva del valore a pendenze differenti, nessuno dei due aveva pensato a queste cose: la nostra congettura serviva semplicemente a spiegare le scelte tra scommesse e lotterie.
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Delle nostre prime intuizioni, un altro filone venne a formarsi quando Amos ebbe l'idea di invertire il segno degli esiti dei problemi che stavamo considerando. Il risultato fu elettrizzante: scoprimmo subito un interessante modello, che chiamammo effetto riflessione: cambiando il segno di tutti i risultati di una coppia di azzardi quasi sempre anche le preferenze si invertivano, passando dall'avversione alla ricerca del rischio o viceversa. Per esempio, ambedue sceglievamo un guadagno certo di 900 dollari piuttosto che una probabilità del 90% di guadagnarne 1000 (o zero), ma preferivamo una lotteria con il 90% di probabilità di perdere 1000 dollari anziché accettare una perdita certa di 900. Non eravamo i primi a notare questo effetto: già Raiffa (1968) e Williams (1966) erano consci della prevalenza dell'accettazione del rischio in campo negativo, ma il nostro fu, sembra, il primo serio tentativo di ricavarne qualcosa di nuovo. Ben presto disponemmo di una bozza di teoria della scelta rischiosa, che chiamammo value theory (teoria del valore) e presentammo a una conferenza nella primavera del 1975. Dopo di che, passammo tre anni a limarla e perfezionarla, finché ci sentimmo pronti a presentare l'articolo per la pubblicazione. In quegli anni, i nostri sforzi furono rivolti in due direzioni: esplorare le implicazioni importanti della nostra formulazione teorica e sviluppare risposte a ogni plausibile obiezione. Per divertimento, ci inventammo un personaggio fantasma, un ambizioso studente specializzando a caccia di punti deboli della nostra teoria, e ci impegnammo a rendere il suo lavoro il più ingrato possibile. L'idea più innovativa della teoria del valore (in seguito ribattezzata prospect theory) ci venne in mente proprio in quel contesto difensivo, e arrivò piuttosto tardi, mentre già stavamo preparando la versione finale del saggio. Eravamo impegnati a risolvere una contraddizione: l'applicazione diretta del nostro modello portava a stabilire che a una prospettiva ($100, 0,01; $100, 0,01) - due probabilità dell'1%, vicendevolmente esclusive, di vincere 100 dollari - venisse dato più valore che a un'altra indicata come ($100, 0,02). Questa predizione è errata, naturalmente, in quanto quasi tutti i decisori tradurranno spontaneamente la prima prospettiva nella seconda, trattandole poi come equivalenti nelle successive
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operazioni di valutazione e scelta. Per eliminare il problema, ipotizzammo che i decisori, prima di valutare le prospettive, compiano un'operazione di revisione che unifica esiti simili sommandone le probabilità. Proseguimmo su quella strada proponendo diverse altre operazioni simili che ci fornirono un'esplicita e psicologicamente plausibile difesa contro una varietà di esempi apparentemente contrari al nocciolo della teoria. Così riuscimmo effettivamente a rendere la vita difficile al nostro pedante specializzando, ma compimmo anche concreti passi avanti, rendendo esplicito che oggetti delle scelte sono rappresentazioni mentali, non stati oggettivi della realtà. Questa tesi rappresentò un vero balzo in avanti nello sviluppo del concetto di framing e, poi, verso la nascita di una critica innovativa del modello degli agenti razionali. Quando ci sentimmo pronti a proporre il saggio per la pubblicazione, per la nostra teoria scegliemmo deliberatamente un nome poco comprensibile: teoria del prospetto. Il nostro ragionamento fu che se mai la teoria avesse acquistato notorietà, un nome un po' strano sarebbe stato vantaggioso. L'articolo (Kahneman e Tversky, 1979) lo facemmo pubblicare su Econometrica, e quella scelta si rivelò azzeccata: se l'identico articolo fosse comparso sulla Psychological Review probabilmente il suo impatto in campo economico sarebbe rimasto limitato. La nostra decisione, comunque, non fu determinata dal desiderio di influenzare l'economia: per noi, Econometrica era soltanto la rivista su cui erano stati pubblicati i migliori articoli sul processo decisionale, e noi aspiravamo a entrare in quella schiera. Per altri versi, l'impatto della prospect theory dipese in modo cruciale, non soltanto dal messaggio in sé, ma anche da come lo avevamo trasmesso. La nostra era una teoria matematica formale e proprio la sua natura formale fu la chiave del credito di cui godette in economia. Tutte le discipline delle scienze sociali, credo, hanno un qualche test rituale di competenza che un lavoro deve superare per essere considerato degno di attenzione. Questi test hanno lo scopo di evitare un sovraccarico di informazioni e rappresentano anche un importante aspetto della vita "tribale" delle discipline, consentendo agli iniziati, in particolare, di ignorare quasi tutto ciò
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che viene fatto da membri di altre tribù senza sentirsi, come studiosi, colpevoli di omissione. Per svolgere con efficienza questa funzione di cernita, i test di competenza si concentrano, di norma, su certi aspetti formali o metodologici, mentre non riguardano quasi per nulla problemi di sostanza. La teoria del prospetto superò questo test in economia, e la sua presa in considerazione diventò parte legittima (benché opzionale) del dibattito scientifico in quella disciplina. È un processo curioso, e anche un po' arbitrario, quello che seleziona alcuni scritti scientifici per destinarli a una fama relativamente duratura, mentre condanna quasi tutto quanto viene pubblicato a un oblio praticamente immediato.
Effetto framing e contabilità mentale Amos e io completammo la prospect theory durante l'anno accademico 1977-1978, che io trascorsi al Center for Advanced Studies for the Social and Behavioral Sciences e Amos alla facoltà di Psicologia della Stanford University. Più o meno nel medesimo periodo, incominciammo a lavorare a un nuovo progetto, che diventò in seguito lo studio dell'effetto framing. Quello fu anche l'anno in cui ebbe inizio la seconda delle amicizie professionali più importanti della mia vita, quella con Richard Thaler. L'effetto framing, o effetto di inquadramento o "incorniciamento", si può dimostrare creando, di un certo problema, due versioni chiaramente equivalenti che, malgrado ciò, determinano scelte prevedibilmente differenti. Un classico esempio di questo fenomeno, sviluppato in tempi ormai lontani, è il problema delle "vite salvate, vite perdute", che chiede di scegliere tra due piani di salute pubblica proposti per fronteggiare un'epidemia che minaccia la vita di 600 persone. In una prima versione, un piano salverà certamente 200 vite umane, mentre l'altro offre una probabilità su tre di salvarne 600 e due su tre di non salvarne nessuna. Messi di fronte a queste alternative, i più preferiscono il piano che salverà certamente la vita a 200 persone. Nella seconda versione, un piano porterà alla morte certa di 400 persone, mentre l'altro
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offre due probabilità su tre che muoiano 600 persone e una probabilità su tre che non muoia nessuno. Con questa formulazione del problema, la maggior parte degli interrogati preferisce tentare la sorte. Se i due problemi vengono proposti in occasioni diverse alle stesse persone, molte di loro danno risposte incompatibili e quando si fa notare l'incoerenza restano sconcertate e, di solito, perdono fiducia in entrambe le risposte date. Amos e io incominciammo a costruire coppie di problemi che suscitavano l'effetto framing mentre stavamo lavorando alla teoria del prospetto. Le utilizzavamo per dimostrare la differente sensibilità ai guadagni e alle perdite (come nell'esempio delle vite umane) e per evidenziare l'inadeguatezza di una formulazione teorica per la quale i soli risultati che contano sono gli stati finali. In quell'articolo, mostrammo anche che un gioco d'azzardo a un solo stadio può essere ristrutturato come azzardo a due stadi in una forma che lascia inalterati sia le probabilità finali sia gli esiti, ma provoca un'inversione delle preferenze. Più tardi, sviluppammo problemi che potevano essere strutturati come scelta singola o come sequenza di due scelte, e dimostrammo che le due formulazioni portavano a esprimere preferenze incoerenti e a favore di opzioni indiscutibilmente inferiori. Le nostre non sono futili dimostrazioni dell'umana stupidità. La facilità con cui è possibile dimostrare l'effetto framing mette in evidenza un limite fondamentale della mente umana. Questo effetto viola uno dei fondamentali requisiti di razionalità, quello da noi chiamato invarianza (Kahneman e Tversky, 1984) e da Arrow (1982) estensionalità. Ci servirono tempi lunghi e numerosi rifacimenti per riuscire a sviluppare una formulazione rigorosa del nostro contributo al dibattito sulla razionalità, che presentammo diversi anni dopo l'uscita del nostro articolo sull'effetto framing (Tversky e Kahneman, 1986). Un'altra novità del nostro primo articolo sugli effetti di inquadramento fu l'inclusione di problemi di scelta non rischiosa tra i nostri esempi di framing. Per fare quella mossa, ci diede una mano un nuovo amico, Richard Thaler, un giovane economista dotato di una mente lucida e irriverente. Mentre
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ancora frequentava il corso di specializzazione postlaurea, aveva già esercitato il suo occhio dissacratore posandolo sulla sua stessa disciplina: aveva raccolto una collezione di coloriti aneddoti che dimostravano palesi carenze di dogmi fondamentali riguardanti il comportamento delle persone accettati, in generale, dalla teoria economica e, in particolare, dai suoi professori di Rochester, un drappello di convinti conservatori. Una delle sue osservazioni chiave fu il cosiddetto effetto dotazione, che Dick illustrò con la storia del proprietario di una bottiglia di vino d'annata, il quale si era rifiutato di venderla per 200 dollari ma non era disposto a spenderne 100 per sostituirla in caso di rottura. Un certo giorno del 1976, nelle mani di Dick capitò la bozza del 1975 della prospect theory e quell'evento diede alla nostra vita una svolta significativa. Dick capì che l'effetto dotazione, un vero enigma nel contesto della teoria economica classica, trova una facile spiegazione in due assunti ricavati dalla nostra teoria. Primo, portatori di utilità non sono stati (possedere o non possedere la bottiglia di vino) bensì cambiamenti (acquisire la bottiglia oppure perderla). E, a causa dell'avversione alle perdite, la cessione è più pesante dell'acquisizione. Quando Dick venne a sapere che Amos e io ci saremmo fermati a Stanford per qualche tempo, fissò un appuntamento con noi al National Bureau of Economic Research, posto sulla medesima collina su cui si trova il Center for Advanced Studies. Ben presto facemmo amicizia e da allora l'influenza reciproca su idee e opinioni è sempre stata notevole. L'effetto dotazione non fu l'unica cosa che imparammo da Dick. Egli aveva anche sviluppato un elenco di fenomeni riconducibili a ciò che oggi chiamiamo contabilità mentale. Questo concetto spiega le violazioni ai criteri di razionalità attribuendole all'incapacità di sviluppare una visione esauriente degli esiti e di trattare il denaro come bene fungibile. Dick ha mostrato che, di solito, inseriamo le nostre decisioni in contabilità separate, cercando poi di mantenerle tutte in attivo. Le sue riflessioni mi stimolarono a inventare un'altra storia, nella quale una persona, recandosi a teatro, si accorge di aver smarrito il biglietto d'ingresso (in una versione) o una somma in denaro equivalente al prezzo del biglietto (in una
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seconda versione). Nel secondo caso gli intervistati rispondono di essere ancora pronti ad acquistare il biglietto, probabilmente perché la perdita viene addebitata al reddito complessivo, mentre nel primo si dichiarano inclini a tornare a casa, presumibilmente non essendo disposti a pagare due volte per assistere allo stesso spettacolo.
L'economia comportamentale Il nostro rapporto con Thaler si rivelò alla lunga più fruttuoso di quanto avessimo potuto immaginare a quel tempo, e giocò un ruolo importante per l'assegnazione del premio Nobel. Il comitato mi encomiò «per aver integrato nella scienza dell'economia scoperte della ricerca psicologica» (Comunicato stampa, 2002). Benché non voglia togliere alcun merito al mio contributo, devo dire che a mio parere l'opera d'integrazione fu svolta, in effetti, soprattutto da Thaler con la cerchia di giovani economisti che rapidamente incominciò a formarsi intorno a lui, inizialmente con Colin Camerer e George Loewenstein, seguiti poi da Matthew Rabin, David Laibson, Terry Odean, Sendhil Mullainathan e Nick Barberis. Amos e io offrimmo non poche delle idee iniziali poi integrate nel pensiero di questi economisti e la prospect theory diede legittimità all'impresa di attingere alla psicologia come fonte di assunti realistici sugli agenti economici, ma il testo fondante dell'economia comportamentale fu il primo articolo in cui Thaler (1980) presentò una serie di storie che mettevano in discussione fondamentali dogmi della teoria dei consumatori. Il rispetto di cui gode oggi l'economia comportamentale nell'ambito dell'economia venne assicurato, credo, da alcune importanti scoperte fatte da Dick nel campo di quella che ora è chiamata finanza comportamentale e dalla sua collana di rubriche "Anomalies", pubblicate dal 1987 al 1990 su tutti i numeri del Journal of Economic Perspectives e poi ancora comparse saltuariamente fino a oggi. Nel 1982, Amos e io stavamo partecipando a un meeting della Cognitive Science Society a Rochester, quando incontrammo, durante una pausa, Eric Wanner, uno psicologo che
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era allora vicepresidente della Sloan Foundation. Eric ci disse di essere interessato a promuovere l'integrazione tra psicologia ed economia, e ci chiese consiglio su come realizzare il suo progetto. Mi ricordo bene la risposta che gli demmo: noi eravamo convinti che su un'iniziativa di quel genere non c'era modo di «spendere molti soldi senza sprecarli», perché l'interesse per il lavoro interdisciplinare non può essere forzato. Oltre a ciò, eravamo convinti che fosse inutile sollecitare gli psicologi a farsi dar retta dagli economisti: molto di più sarebbe servito incoraggiare e incentivare i pochi economisti interessati ad ascoltarli. Sicuramente saltò fuori il nome di Thaler. Poco dopo quella conversazione, Wanner diventò presidente della Russell Sage Foundation, e portò con sé nella nuova posizione il suo progetto di integrazione interdisciplinare. Il primo finanziamento di quel programma fu assegnato per consentire a Dick Thaler di passare un anno accademico (1984-1985) presso il mio istituto, all'Università della British Columbia di Vancouver. Quell'anno fu uno dei migliori della mia carriera. Lavorammo in un trio che comprendeva anche l'economista Jack Knetsch, con cui avevo già cominciato a costruire svariate indagini in campi diversi, tra cui la valutazione dell'ambiente e le opinioni del pubblico riguardanti la correttezza sul mercato. Insieme, ci demmo molto da fare, quell'anno: conducemmo una serie di esperimenti di mercato utilizzando beni reali (gli "studi delle tazze da caffè"), che poi diventarono uno standard in letteratura (Kahneman, Knetsch e Thaler, 1990). Effettuammo anche indagini multiple utilizzando una varietà di storie sperimentali per identificare quali regole di correttezza il pubblico applica a negozianti, padroni di casa e datori di lavoro (Kahneman, Knetsch e Thaler, 1986b). La nostra osservazione più importante fu che in molti contesti la situazione esistente (per esempio, prezzo, affitto o stipendio) definisce una transazione di riferimento che conferisce al soggetto della transazione (consumatore, inquilino o dipendente) una sorta di diritto acquisito, la cui violazione è considerata scorretta e può ingenerare forme di ritorsione. Per esempio, viene considerato scorretto ridurre lo stipendio di un dipendente soltanto perché sarebbe possibile sostituirlo con qualcun
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altro disposto ad accettare un compenso inferiore, mentre si ritiene del tutto accettabile pagare uno stipendio inferiore al sostituto di un dipendente che lascia il lavoro. Inviammo l'articolo alfAmerican Economic Review e restammo di stucco di fronte al risultato: lo accettarono senza chiederci di cambiare nemmeno una virgola. Per nostra fortuna, il redattore aveva affidato la revisione del nostro scritto a due economisti abbastanza aperti verso il nostro approccio. Più tardi venimmo a sapere che uno dei due era George Akerlof, poi entrato nella cerchia dei nostri amici. Tra gli interrogativi che emersero nel corso di questa ricerca, ce ne furono alcuni particolarmente interessanti: la gente sarebbe disposta a rimetterci qualcosa pur di punire un altro agente che, secondo la sua impressione, l'abbia trattata scorrettamente? E sarebbe disposta, in determinate circostanze, a spartire un guadagno inatteso con un estraneo, per amore di correttezza? Decidemmo di indagare su queste idee con esperimenti che coinvolgessero interessi reali. I giochi che inventammo a quello scopo diventarono noti come "gioco dell'ultimatum" e "gioco del dittatore". Ahimè! Mentre stavamo scrivendo il nostro secondo saggio sulla correttezza (Kahneman, Knetsch e Thaler, 1986a) scoprimmo che sul gioco dell'ultimatum eravamo stati battuti sul tempo da Werner Guth e colleghi, che avevano pubblicato esperimenti di uguale struttura alcuni anni prima di noi. Ricordo che quando lo appresi restai alquanto mortificato ma, forse, sarei stato ancora più depresso se avessi saputo quanto importante sarebbe diventato quel gioco più tardi. Fu quello il momento in cui mi avvicinai di più all'economia. Da quel punto in poi, ho incominciato a interessarmi di altri temi di ricerca, restando ad applaudire i successi di Thaler e dell'economia comportamentale dai bordi del campo. E le occasioni per applaudire non sono mancate. Per capire i progressi compiuti, basta ricordare che quando Matthew Rabin entrò nella facoltà di Economia di Berkeley in qualità di giovane professore assistente e decise di immergersi completamente nello studio della psicologia, molti considerarono la sua mossa come una sorta di suicidio professionale. Quindici anni dopo, Rabin ha vinto la prestigiosa Clark Medal
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assegnata al miglior economista al di sotto dei quarant'anni e George Akerlof (2002) ha tenuto una lezione Nobel sul tema della macroeconomia comportamentale. Eric Wanner e la Russell Sage Foundation hanno continuato anno dopo anno a sostenere l'economia comportamentale. Ho contribuito a far nascere l'idea di impiegare parte di quel sostegno per istituire una scuola estiva per studenti specializzandi e giovani professori del campo, e ho aiutato Dick Thaler e Colin Camerer a organizzarne la prima edizione, quella del 1994. Quando, nel 2002, aprì i battenti la quinta scuola estiva, David Laibson, che nel 1994 era stato uno dei partecipanti alla prima edizione, era diventato professore di ruolo a Harvard e uno dei tre organizzatori del corso. Terrance Odean e Sendhil Mullainathan, anch'essi ex studenti dei corsi precedenti, tornarono alla scuola per tenere una lezione in qualità di ricercatori di successo in due delle migliori università del mondo. Fu un'esperienza indimenticabile ascoltare Matthew Rabin esporre una serie di linee guida per sviluppare teorie nel campo dell'economia comportamentale, compreso il consiglio di trattare il modello economico classico come caso particolare di modelli più complessi e generali ancora da costruire. Ne avevamo fatta di strada! Benché l'economia comportamentale abbia fatto progressi più rapidi e si sia guadagnata più stima tra gli economisti di quanto sembrasse possibile 15 anni fa, essa resta pur sempre un approccio minoritario e la sua influenza nella maggior parte dei campi dell'economia è ancora trascurabile. Molti economisti pensano che sia una moda passeggera, e alcuni sperano che la previsione si riveli azzeccata. Può darsi che il futuro dimostrerà che hanno ragione, ma molti giovani e brillanti economisti si stanno giocando la carriera sull'aspettativa che la tendenza di oggi duri ancora per un bel po'. E qualche volta queste aspettative trovano modo di autorealizzarsi.
Collaborazioni avversarie Una delle lezioni apprese nella mia lunga carriera è che le polemiche non sono altro che una perdita di tempo ed energie.
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Sono orgoglioso di poter dire che non c'è un solo brano nella mia bibliografia scritto per attaccare il lavoro altrui, persuaso come sono che il tempo dedicato in qualche occasione per replicare agli attacchi ricevuti l'avrei speso più fruttuosamente in altre attività. Sia come membro della comunità scientifica sia come lettore, sono rimasto sgomentato dalla natura assurdamente competitiva e conflittuale di questi scambi, in cui quasi nessuno ammette mai di avere sbagliato o riconosce di aver imparato qualcosa dalla controparte. Fare scienza con rabbia è un'esperienza umiliante: quando mi sono trovato nella condizione di dover segnare a tutti i costi un punto a mio favore mi sono sempre sentito avvilito dalla perdita della mia obiettività. Alcuni anni fa, decisi di far qualcosa al riguardo. Senza sapere che qualcuno mi aveva preceduto (Latham, Erez e Locke, 1988), incominciai a caldeggiare l'istituzione di una procedura di collaborazione avversaria per sostituire lo schema critica-replica-controreplica seguito oggi dal dibattimento nelle scienze sociali. La collaborazione avversaria comporta uno sforzo di buona fede per sviluppare le discussioni effettuando ricerche congiunte (in alcuni casi, potrà rendersi necessaria la presenza di un arbitro scelto concordemente dalle parti per guidare il progetto e raccogliere i dati). Non essendo verosimile aspettarsi che gli "avversari" raggiungano un completo accordo alla fine dell'esercizio, il più delle volte le collaborazioni avversarie produrranno un'insolita classe di pubblicazioni congiunte, in cui una parte dell'articolo scritto a più mani espone i punti di dissenso tra gli autori. Io ho realizzato tre collaborazioni avversarie, con Tom Gilovich e Victoria Medvec (Gilovich, Medvec e Kahneman, 1998), con Ralph Hertwig (il cui arbitro fu Barbara Mellers; si veda Mellers, Hertwig e Kahneman, 2001) e con un gruppo di economisti sperimentali del Regno Unito (Bateman, Kahneman, Munro, Starmer e Sugden, 2003). Tutt'e tre queste collaborazioni si conclusero con buoni risultati: emersero alcuni fatti nuovi accettati da tutti, si ridusse il dissenso e si sviluppò un buon livello di reciproco rispetto. Un'appendice dell'articolo di Mellers et al. (2001) propose un dettagliato protocollo per condurre una collaborazione avversaria.
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In un altro caso, invece, pur non essendo riuscito a convincere due colleghi dell'opportunità di intraprendere con me una collaborazione avversaria, sviluppammo ugualmente insieme un'altra procedura che si rivelò anch'essa più costruttiva del solito meccanismo basato su replica e controreplica. Essi scrissero un saggio critico su uno dei miei filoni di lavoro ma, anziché fargli seguire il consueto scambio di spiacevoli commenti, decidemmo di scrivere un articolo congiunto, che si apriva con l'elenco degli argomenti su cui concordavamo, seguito da una serie di brevi discussioni sui punti di dissenso (Ariel, Kahneman e Loewenstein, 2000). Il risultato fu molto più fruttuoso di quello ottenibile seguendo lo schema convenzionale. La mia speranza è che queste o altre varianti della collaborazione avversaria diventino con il tempo un modello di comportamento. Non è un sogno: per i redattori delle riviste non sarebbe difficile chiedere a chi critica lavori pubblicati da altri - e ai bersagli di tali critiche - di compiere un atto di buona volontà per analizzare in modo costruttivo le differenze di opinione. Sono convinto che l'istituzione di simili procedure contribuirebbe a creare uno spirito di lavoro più vicino all'ideale di scienza come prodotto sociale collettivo.
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