Norberto Bobbio
Teoria generale del diritto
In copertina: ALBRECHT DORER, Die Gerechtigkeit, Boymans.
Disegno a penna...
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Norberto Bobbio
Teoria generale del diritto
In copertina: ALBRECHT DORER, Die Gerechtigkeit, Boymans.
Disegno a penna, Rotterdam, Museo
G. Giappichelli Editore - Torino
1 © Copyright 1993 - G . G I A P P I C H E L L I E D I T O R E - T O R I N O VIA P O 21 - T E L . : (Oli) 812.76.23 • FAX: 81.25.100
I S B N 88-348-3071-7
Composizione: Compograf - Torino Stampa: M.S./Litografia s.r.i. - Torino
NESSUNA PARTE DI QUESTO VOLUME PUÒ ESSERE RIPRODOTTA IN QUALSIASI FORMA A STAMPA, FOTOCOPIA, MICROFILM O ALTRI SISTEMI, SENZA IL PERMESSO SCRITTO DELL'EDITORE.
INDICE pag. Prefazione
VII
PARTE P R I M A TEORIA DELLA NORMA
GIURIDICA
CAPITOLO I
I L DIRITTO COME REGOLA D I CONDOTTA 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Un mondo di norme Varietà e molteplicità delle norme I l diritto è istituzione? I l pluralismo giuridico Osservazioni critiche I l diritto è rapporto intersoggettivo? Esame di una teoria Osservazioni critiche
3 5 7 9 12 15 18 20
CAPITOLO I I
GIUSTIZIA, VALIDITÀ ED EFFICACIA 9. Tre criteri di valutazione 10.1 tre criteri sono indipendenti 11. Possibili confusioni dei tre criteri 12. I l diritto naturale • 13, I l positivismo giuridico 14. I l realismo giuridico
23 26 28 32 35 38
294
Indice
Indice
295
pag.
pag. CAPITOLO I I I
CAPITOLO V
L E PROPOSIZIONI PRESCRITTIVE
L E PRESCRIZIONI GIURIDICHE
15. Un punto di vista formale 16. La norma come proposizione 17. Forme e funzioni 18. Le tre funzioni 19. Caratteri delle proposizioni prescrittive 20. Si possono ridurre le proposizioni prescrittive a proposizioni descrittive? 21. Si possono ridurre le proposizioni prescrittive a proposizioni espressive? 22. Imperativi autonomi ed eteronomi 23. Imperativi categorici e imperativi ipotetici 24. Comandi e consigli 25.1 consigli nel diritto 26. Comandi e istanze
45 48 50 52 55 57 61 63 66 69 73 75
CAPITOLO I V
79 82 85 87 91 96 99 103 106 110
115 117 121 123 126 128 131 134 138 140
CAPITOLO V I
CLASSIFICAZIONE DELLE NORME GIURIDICHE 47. Norme generali e singolari 48. Generalità e astrattezza 49. Norme affermative e negative 50. Norme categoriche e ipotetiche
L E PRESCRIZIONI E I L DIRITTO
27. I l problema della imperatività del diritto 28. Imperativi positivi e negativi 29. Comandi e imperativi impersonali 30. I l diritto come norma tecnica 31.1 destinatari della norma giuridica 32. Imperativi e permessi 33. Rapporto tra imperativi e permessi 34. Imperativi e regole finali 35. Imperativi e giudizi ipotetici 36. Imperativi e giudizi di valore
37. Alla ricerca di un criterio 38. Di alcuni criteri 39. Un nuovo criterio: la risposta alla violazione 40. La sanzione morale 41. La sanzione sociale 42. La sanzione giuridica 43. L'adesione spontanea 44. Norme senza sanzione 45. Ordinamenti senza sanzione 46. Le norme a catena e i l processo all'infinito
145 147 151 153
PARTE S E C O N D A TEORIA DELL'ORDINAMENTO
GIURIDICO
CAPITOLO I DALLA NORMA GIURIDICA ALL'ORDINAMENTO GIURIDICO
1. Novità del problema dell'ordinamento 2. Ordinamento giuridico e definizioni del diritto
159 162
296
Indice
Indice
pag.
pag. 3. La nostra definizione del diritto 4. Pluralità di norme 5.1 problemi dell'ordinamento giuridico
166 169 172
CAPITOLO I I
LUNITÀ DELLORDINAMENTO GIURIDICO 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.
Fonti riconosciute e fonti delegate Tipi di fonti e formazione storica dell'ordinamento Le fonti del diritto Costruzione a gradi dell'ordinamento L i m i t i materiali e limiti formali La norma fondamentale Diritto e forza
182
GLI ORDINAMENTI GIURIDICI
186
IN RAPPORTO TRA LORO
189 195
201 204 209 213 217 222 228 232
LA COMPLETEZZA
21. I l problema delle lacune 22. I l dogma della completezza
CAPITOLO V
179
CAPITOLO I V
DELLORDINAMENTO
243 247 251 257 260 262 265 270
176
LA COERENZA DELLORDINAMENTO GIURIDICO L'ordinamento giuridico come sistema Tre significati di sistema Le antinomie Vari tipi di antinomie. Criteri per la soluzione delle antinomie Insufficienza dei criteri Conflitto dei criteri I l dovere della coerenza
23. La critica della completezza 24. Lo spazio giuridico vuoto 25. La norma generale esclusiva 26. Le lacune ideologiche 27. Vari tipi d i lacune 28. Eterointegrazione e autointegrazione 29. L'analogia 3 0 . 1 principi generali del diritto
173
CAPITOLO I I I
13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20.
297
GIURIDICO 237 241
31. 32. 33. 34. 35. 36.
La pluralità degli ordinamenti Vari tipi di rapporti tra ordinamenti Stato e ordinamenti minori Rapporti temporali Rapporti spaziali Rapporti materiali
275 278 282 285 289 291
PREFAZIONE
Accogliendo la recente richiesta di alcuni colleghi ed esaudendo un antico desiderio dell'editore Giappichelli, ho consentito a ripubblicare in forma di libro in un solo volume e con un unico titolo, Teoria generale del diritto, i due corsi. Teoria della norma giuridica e Teoria dell'ordinamento giuridico, che ho svolti, come professore di filosofia del diritto all'Università di Torino, negli anni accademici 1957-58 e 1959-60, successivamente adottati in varie università e continuamente ristampati senza variazioni. Alcuni anni or sono avevo già accolto la proposta di pubblicare i due corsi in un solo volume rivoltami dal prof. Eduardo Rozo Aciifìa dell'Universidad Extemado de Colombia (Bogotà), che a mia insaputa li aveva tradotti per i suoi studenti. Di questa traduzione sono uscite, col titolo Teorìa general del derecho, due edizioni, la prima presso la casa editrice Temis di Bogotà nel 1987, la seconda presso la casa editrice Debate di Madrid nel 1991.
j
I due corsi rappresentano alla loro volta l'approfondimento e l'ampliamento di un corso svolto nell'anno accademico 1954-55, pubblicato anch 'esso dall'editore Giappichelli col titolo Teoria dell'ordinamento giuridico, e costituiscono la sintesi e, in un certo senso, la conclusione del periodo di studi da me dedicato prevalentemente alla teoria del diritto, durante una ventina d'anni che vanno dal primo dopoguerra, in cui compii il mio tirocinio commentando alcuni fra i più noti trattati di teoria generale del diritto e prendendo baldanzosamente le difese di Kelsen contro alcuni suoi critici, sino, su per giù, al famigerato '68, quando i predicatori dell'immaginazione al potere rifiutavano sdegnosamente la nuda ragione senza potere, ed io mi avviai, sempre più assiduamente, a studi di filosofia politica e passai nel 1972 alla nuova facoltà di scienze politiche per insegnarvi filosofia polìtica sino all'andata a riposo
vili
Prefazione
. nel 1979. Alla teoria generale del diritto rivolsi ancora sporadicamente alcuni studi, tra i quali ricordo particolarmente quelli riguardanti la funzione promozionale del diritto, raccolti nel volume, Dalla struttura alla funzione (1977). Sono anche gli anni in cui in Italia, dove era già ampiamente nota, soprattutto attraverso gli studi di Renato Treves, la teoria pura del diritto di Kelsen acquista una posizione preminente negli studi di teoria del diritto, principalmente attraverso le due traduzioni contemporanee (1952) della Teoria generale del diritto e dello Stato, che contiene la summa, non più superata, del pensiero giuridico e politico di Kelsen, a cura di Sergio Cotta, e della prima edizione di La dottrina pura del diritto, a cura di Renato Traves. Ma negli stessi anni la teoria generale del diritto aveva fatto la sua apparizione anche in Italia attraverso due trattati, rispettivamente di un giurista, Francesco Camelutti (1946). e di un filosofo del diritto, Alessandro Levi (1952). Il decennio successivo è stato nella storia della teoria generale del diritto un periodo particolarmente felice: nel 1958 esce Law and Justice di Alf Ross, tradotto in italiano da Giacomo Gavazzi per Einaudi nel 1965; nel 1960 appare la nuova edizione della dottrina pura del diritto, che è rispetto alla prima un'opera nuova, anche per la mole di molto cresciuta, tradotta sempre per Einaudi, nel 1966 da Mario Losano; nel 1961 Herbert Hart pubblica la sua opera principale. The Concept of Law, tradotta, ancora presso Einaudi, da Mario A. Cattaneo nel 1965. Avevano fatto la loro apparizione in quegli anni anche i primi studi di logica deontica, che allora non si chiamava ancora così. Ne diedi uno dei primi rendiconti in Italia in un articolo del 1954, in cui esamino alcune opere di pionieri in questa materia, apparse quasi contemporaneamente, l'una indipendentemente dall'altra. Il primo ad avviarsi verso questi studi fu, dopo un soggiorno di studi a Gòttingen, Amedeo G. Conte, il cui Saggio sulla completezza degli ordinamenti giuridici, è del 1962. Tra i giuristi e i filosofi del diritto Kelsen era in quegli anni di casa. Ne feci uno dei miei autori e, nel campo della teoria del diritto, l'autore princeps. Che i due corsi siano d'ispirazione kelseniana, non ho fatto mai mistero, e appare evidente a qualsiasi lettore un po' informato sullo stato della disciplina: kelseniana è, tanto per cominciare, la distinzione fra teoria della norma (singola) e teoria dell'ordinamento (insieme strutturato di norme), anche se la tesi
Prefazione
IX
centrale e imificante di entrambi i corsi, secondo cui la definizione del diritto, tema centrale della teoria generale del diritto, non viene cercata, come avveniva tradizionalmente, nei caratteri distintivi della norma, ma in quelli dell'ordinamento, risente piuttosto della dottrina italiana dell'istituzione, che gode tuttora di una rinnovata fortuna. Al buon intenditore non ho bisogno di aggiungere che la tesi, da me sostenuta, secondo cui ciò che contraddistingue il diritto è non il carattere della norma ma quello dell'ordinamento, era già chiara nella distinzione kelseniana tra sistema statico proprio della morale e sistema dinamico proprio del diritto, e sarà poi al centro della teoria di Hart. secondo cui ciò che contraddistingue il diritto è la struttura degli ordinamenti giuridici di tutti i tempi e i luoghi, che sono composti di norme primarie e secondarie, ovvero di norme di primo e di secondo grado, tra cui fondamentali quelle sulla produzione giuridica. Per illustrare il contesto entro cui i due corsi furono elaborati, e mostrarne non solo le ragioni ma anche i limiti, di cui sono perfettamente consapevole, accenno ancora a due vicende culturali di quegli anni di cui si trovano in essi tracce ben visibili, sia per quello che riguarda l'orientamento generale, sia rispetto al metodo. Mi riferisco prima di tutto al vivacissimo dibattito prò e contro il positivismo giurìdico cui allora partecipai attivamente, dedicandovi tra l'altro im corso successivo, apparso sempre presso Giappichelli (nel 1961 e ristampato nel 1975), a cura dell'allora studente Nello Morra, ora alto magistrato. I temi propri del positivismo giuridico sono continuamente presenti nelle mie lezioni, tanto che l'etichetta, sotto la quale io stesso ho posto la concezione del diritto in essi rappresentata, è quella del positivismo, se pure teoricamente non rigido né ideologicamente connotato, che ho chiamato "critico". Quanto al metodo, vi si risentono l'appassionamento di allora per l'analisi linguistica e l'interesse, che non mi ha mai abbandonato, per le "questioni di parole". Basta dare un'occhiata all'indice della prima parte, specie al cap. Ili, per accorgersi dello spazio che vi occupano. Ne risulta una tendenza costante a rifuggire dalle tesi estremizzanti, che esibiscono originalità a buon mercato, e da quelle riduzionistiche che omettono di guardare la questione da tutti i lati. Vorrei infine che non si dimenticasse che queste pagine sono nate da lezioni rivolte a studenti universitari del primo o del secondo
X
Prefazione
anno, da una forma di discorso che richiede un'esposizione semplice e chiara ma che talora non riesce a sottrarsi alle insidie della semplificazione; e soprattutto che da allora sono passati più di trent'anni, e anche la teoria del diritto ha fatto la sua strada - una strada che si allontana sempre più dal positivismo di stretta osservanza -, e quello che allora sembrava nuovo ora appare vecchio. Vecchio e nuovo si succedono. Ma il vecchio non è mai definitivamente vecchio, il nuovo non è mai definitivamente nuovo. Nella mia lunga vita ho tratto continuamente conferma della verità dell'oraziano: "Multa renascentur ..."con quel che segue.
PARTE PRIMA
NORBERTO BOBBIO
TEORIA Agosto, 1993
D E L L A NORMA GIURIDICA
CAPITOLO I IL DIRITTO C O M E REGOLA DI CONDOTTA
SOMMARIO: 1. Un mondo di norme. - 2. Varietà e molteplicità delle norme. 3. Il diritto è istituzione? - 4. Il pluralismo giuridico. - 5. Osservazioni critiche. - 6. Il diritto è rappoito intersoggettivo? - 7. Esame di una teoria. - 8. Osservazioni critiche.
L
U N MONDO DI NORME
I l punto di vista accolto in questo corso per lo studio del diritto è i l punto di vista nonnativo. Con ciò intendo che i l miglior modo per avvicinarsi all'esperienza giuridica e coglierne i tratti caratteristici è di considerare il diritto come un insieme di norme, o regole di condotta. Partiamo dunque da un'affermazione generale di questo genere: l'esperienza giuridica è un'esperienza normativa. La nostra vita si svolge in un mondo di norme. Crediamo di esser liberi, ma in realtà siamo avvolti i n una fittissima rete di regole di condotta, che dalla nascita sino alla morte dirigono i n questa o quella direzione le nostre azioni. La maggior parte di queste regole sono diventate ormai tanto consuete che non ci accorgiamo più della loro presenza. Ma se osserviamo un po' dall'esterno lo sviluppo della vita di un uomo attraverso l'attività educatrice compiuta su di lui dai suoi genitori, dai suoi maestri e via discorrendo, ci rendiamo conto che egli si sviluppa sotto la guida di regole di condotta. Per quel che riguarda l'assoggettamento a sempre nuove regole, è stato detto giustamente che la vita in-
4
Teorìa della norma giuridica
tera, e non solo l'adolescenza, è un continuo processo educativo. Possiamo paragonare i l nostro procedere nella vita al cammino di un pedone i n una grande città: qua la direzione è proibita, là la direzione è obbligatoria; e anche là dove è libera, la parte della strada su cui egli deve tenersi è in genere rigorosamente segnata. Tutta la nostra vita è cosparsa di cartelli indicatori, dei quali gli uni comandano di tenere un certo contegno, altri proibiscono di tenere un altro contegno. Molti di questi cartelli indicatori sono costituiti dalle regole del diritto. Possiamo dire sin d'ora, se pure i n termini ancora generici, che i l diritto costituisce una parte notevole, e forse anche la parte più vistosa, della nostra esperienza normativa. E perciò uno dei primi risultati dello studio del diritto è di renderci consapevoli dell'importanza del "normativo" nella nostra esistenza individuale e sociale. Se ci stacchiamo per un momento dall'uomo singolo e consideriamo la società, anzi le società, degli uomini, se cessiamo dal riferirci alla vita dell'individuo e contempliamo quella vita complessa, tumultuosa e mai spenta delle società umane, che è la Storia, i l fenomeno della normatività ci appare i n modo non meno impressionante ed è ancor più meritevole della nostra r i flessione. La Storia p u ò essere immaginata come un'immensa fiumana arginata: gli argini sono le regole di condotta, religiose, morali, giuridiche, sociali, che hanno contenuto la corrente delle passioni, degli interessi, degli istinti, entro certi limiti, e che hanno permesso i l formarsi di quelle società stabili, con le loro istituzioni e coi loro ordinamenti, che chiamiamo "civiltà". Vi è indubbiamente un punto di vista normativo nello studio e nella comprensione della storia umana: è il punto di vista, secondo i l quale le civiltà sono caratterizzate dagli ordinamenti di regole entro cui le azioni degli uomini che vi hanno partecipato sono contenute. La storia si raffigura allora come un complesso di ordinamenti normativi che si succedono, si sovrappongono, si contrappongono, si integrano. Studiare una civiltà dal punto di vista normativo significa, in fin dei conti, domandarsi quali azioni fossero, i n quella determinata società, proibite, quali comandate, quali permesse; significa, i n altre parole, scoprire la direzione o le direzioni fondamentali verso le quali era avviata la vita di ciascun individuo. Domande di questo genere: «presso quel determinato popolo erano permessi i sacrifici umani o erano proibiti?
Diritto come regola di condotta
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era proibita o permessa la poligamia, la proprietà dei beni i m -
mobili, la schiavitù? com'erano regolati i rapporti di famiglia, che cosa era permesso al padre di comandare ai figli e che cosa era proibito? com'era regolato l'esercizio del potere, quali erano i doveri e i diritti dei sudditi nei confronti del capo, e quali i doveri e i diritti del capo nei confronti dei sudditi?», son tutte domande che presuppongono la consapevolezza della funzione che ha i l sistema normativo di caratterizzare una data società; e non possono avere una risposta se non attraverso lo studio delle regole di condotta che hanno dato una certa impronta alla vita di quegli uomini, distinguendola dalla vita di altri uomini viventi i n altra società inserita i n altro sistema normativo.
2. VARIETÀ E MOLTEPLICITÀ D E L L E NORME
Non appena abbiamo cominciato a volger lo sguardo al mondo del normativo, una delle ragioni di maggior sorpresa è che questo mondo è enormemente vario e molteplice. Le norme giuridiche, alle quali dedicheremo i n modo particolare la nostra attenzione, non sono che una parte dell'esperienza normativa. Oltre le norme giuridiche, vi sono precetti religiosi, regole morali, regole sociali, regole del costume, regole di quella etica minore che è l'etichetta, regole della buona educazione e così via. Oltre le norme sociali, che regolano la vita dell'individuo in quanto coesiste con altri individui, vi sono norme che regolano i rapporti dell'uomo con la divinità oppure dell'uomo con se stesso. Ogni individuo appartiene a diversi gruppi sociali: la chiesa, lo stato, la famiglia, le associazioni che hanno fini economici o culturali o politici o semplicemente ricreativi: ognuna di queste associazioni si costituisce e si sviluppa attraverso un insieme ordinato di regole di condotta. Ogni individuo inoltre, al di fuori della società di cui è parte, formula per la condotta della propria vita programmi individuali di azione: anche questi programmi sono insieme di regole. Ogni gruppo umano, ogni individuo singolo, i n quanto si pone dei fini da raggiungere, pone pure i mezzi più adeguati, o quelli che ritiene più adeguati, per raggiungere quei fini. I l rapporto mezzo-fine dà generalmente origi-
6
7
Teorìa della norma giurìdica
Dirìtto come regola di condotta
ne a regole di condotta del tipo: «Se vuoi ottenere lo scopo A, devi compiere l'azione B». Sono regole della condotta tanto i dieci, comandamenti quanto le prescrizioni del medico, tanto gli articoli di una costituzione quanto le regole degli scacchi o del bridge, tanto le norme di diritto internazionale che stabiliscono come debbono comportarsi gli stati nei loro rapporti reciproci quanto il regolamento di un condominio, tanto le cosiddette norme sociali quanto le regole della grammatica, della sintassi di una lingua, tanto le norme religiose per ben condurci i n questa vita, quanto le regole della circolazione stradale per muoverci nel traffico senza incidenti. Tutte queste regole sono diversissime per i fini a cui tendono, per i l contenuto, per i l tipo di obbligazione a cui danno luogo, per l'ambito della loro validità, per i soggetti a cui si rivolgono. Ma tutte hanno in comune un elemento caratteristico che consiste, come vedremo meglio i n seguito, nell'essere proposizioni aventi i l fine di influenzare i l comportamento degli individui e dei gnappi, di dirigere l'azione degli individui e dei gruppi verso certi obbiettivi piuttosto che verso altri. Il numero delle regole che noi quotidianamente incontriamo sulla nostra strada di esseri agenti verso fini, è incalcolabile, cioè è tale che i l numerarle è fatica vana come quella di numerare i granelli di sabbia i n una spiaggia, lliler di ogni nostra azione, anche modesta, è contrassegnato da un numero tale di proposizioni normative che è difficilmente immaginabile da chi agisca senza darsi troppo pensiero delle condizioni in cui agisce. Per fare un esempio, tratto dalla vita di tutti i giorni, cerchiamo di renderci conto del numero delle regole giuridiche (e m i riferisco solo alle regole giuridiche per non estendere troppo la ricerca) entro le quali si deve aprire la strada i l semplice atto di spedire una lettera. L'acquisto del francobollo è un negozio giuridico, i n particolare un contratto di compra-vendita, regolato minutamente dal nostro codice civile, dal quale derivano obblighi e quindi l i miti ben precisi alla condotta (l'acquirente, ad esempio, è tenuto a offrire i l giusto prezzo e il venditore a dare una merce non avariata). Quale francobollo debbo applicare sulla lettera? I l tipo di francobollo da applicare è prescritto da un'altrettanto minuziosa regolamentazione delle tariffe postali: e dipende non solo dal t i po di missiva, ma dal suo formato, dal suo peso, dalle maggiori o minori garanzie che io voglio avere per i l suo arrivo a destina-
zione. Come devo attaccare il francobollo? Posso attaccarlo come e dove voglio? Nel nostro ordinamento, non ci sono limiti a quest'azione (e quindi è un'azione permessa, o per lo meno assoggettata non ad un comando ma ad un consiglio); ma non si p u ò escludere che domani anch'essa diventi regolata giuridicamente, con la conseguenza che l'agire contro la regola porterebbe a conseguenze spiacevoli, come quella del mancato recapito oppure d'una multa. Dal momento i n cui io ho applicato il giusto francobollo, sorge un nuovo rapporto nientemeno che tra me e la pubblica amministrazione, e da questo rapporto nascono obblighi, non stiamo a dire se perfetti o imperfetti, i n quali casi perfetti e i n quali no, affinché la lettera giunga a destinazione. I l tragitto della lettera dal momento i n cui parte al momento i n cui arriva è fonte di innumerevoli obblighi da parte di tutti coloro che a questo tragitto sono interessati: impiegati postali, ferrovieri addetti al servizio postale, postini, eccetera. Infine, come se non bastasse, scrivere una lettera impegna anche la costituzione. E infatti che cosa significa l'art. 15 i l quale dice: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili»; se non che nell'atto di spedire una lettera sorge i n me un diritto pubblico soggettivo a che questa lettera, ad esempio, non sia aperta dagli uffici della polizia? e pertanto una l i m i tazione obbligatoria nell'azione degli organi dello stato?
3 . I L DIRITTO È ISTITUZIONE?
Per quanto possa sembrare da quel che si è detto sin qui che l'elemento caratteristico dell'esperienza giuridica sia i l fenomeno della normazione, e che pertanto sia legittimo i l punto di vista normativo, da cui abbiamo preso le mosse, non possiamo passar sotto silenzio che vi sono teorie diverse da quella normativa, che considerano elementi caratteristici dell'esperienza giuridica fatti diversi dalle regole di condotta. Vi sono, secondo me, almeno due teorie diverse da quella normativa: la teoria del diritto come istituzione e la teoria del diritto come rapporto. Prima di procedere oltre dobbiamo esaminarle entrambe, allo scopo di giudicare della loro maggiore o minore validità.
8
Teoria della norma giuridica
La teoria del diritto come istituzione è stata elaborata, almeno in Italia (tralascio di occuparmi di quello che si considera di solito i l precedente francese, cioè della dottrina dell'Hauriou), da Santi Romano in un libro molto importante: L'ordinamento giuridico ( I ediz. 1917, I I ediz. riveduta e annotata 1945). I l bersaglio polemico del Romano è per l'appunto la teoria normativa del diritto. Sin dalle prime pagine egli lamenta la insufficienza e l'erroneità della teoria normativa quale viene accolta dalla maggior parte dei giuristi; e contrappone alla concezione del diritto come norma, la concezione del diritto come istituzione. Che cosa egli intenda per istituzione si ricava dal par. 10 che riporto nei suoi tratti salienti. Il concetto del diritto deve contenere i seguenti elementi essenziali: a) anzitutto deve ricondursi al concetto di società. Ciò i n due sensi reciproci che si completano a vicenda: quel che non esce dalla sfera puramente individuale, quel che non supera la vita del singolo come tale non è diritto (ubi ius ibi societas) e inoltre non c'è società nel senso vero della parola senza che i n essa si manifesti i l fenomeno giuridico (ubi societas ibi ius) ... b) i l concetto del diritto deve, in secondo luogo, contenere l'idea dell'ordine sociale: i l che serve per escludere ogni elemento che sia da ricondursi al puro arbitrio o alla forza materiale, cioè non ordinata ... Ogni manifestazione sociale, per il solo fatto che è sociale, è ordinata almeno nei riguardi dei consoci ... c) l'ordine sociale che è posto dal diritto non è quello che è dato dalla esistenza, comunque originata, di norme che disciplinano i rapporti sociali: esso non esclude tali norme, anzi se ne serve e le comprende nella sua orbita, ma, nel medesimo tempo, le avanza e le supera. I l che, vuol dire che, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge, e che esso costituisce come unità, come ente per se stante.
Diritto come regota di condotta
9
il diritto tende, e l'orgariizzazione come mezzo per realizzare l'ordine. Si p u ò dire, i n sintesi, che per il Romano si ha diritto quando vi è un'organizzazione di una società ordinata, oppure, con altre analoghe espressioni, una società ordinata attraverso un'organizzazione o un ordine sociale organizzato. Questa società ordinata e organizzata è ciò che i l Romano chiama istituzione. Dei tre elementi costitutivi i l più importante, quello decisivo, è certamente i l terzo, l'organizzazione: i primi due sono necessari ma non sufficienti. Solo il terzo è la ragion sufficiente del diritto, è la ragione per cui i l diritto è quello che è, e senza la quale non sarebbe quello che è. Ciò significa che i l diritto nasce nel momento i n cui un gruppo sociale passa da una fase inorganica ad una fase organica, dalla fase di gruppo inorganico o inorganizzato alla fase di gruppo organizzato. Per esempio, la classe sociale e certamente una forma di gruppo umano, ma non avendo una propria organizzazione non esprime un proprio diritto, non è un'istituzione. Un'associazione a delinquere, invece, in quanto si esprime i n un'organizzazione e crea un suo proprio diritto (il diritto della società a delinquere), è un'istituzione. I l fenomeno del passaggio dalla fase inorganica alla fase organica si chiama anche istituzionalizzazione. Si dice che un gruppo sociale si istituzionalizza quando crea la propria organizzazione, e attraverso l'organizzazione diventa, secondo i l Romano, un ordinamento giuridico. Con ciò, peraltro, si rivela un'incongruenza, se pur marginale, nella dottrina del Romano: se è vero che l'organizzazione è l'elemento costitutivo primario della società giuridica, e se è pur vero che vi sono società non organizzate, si p u ò accettare la massima ubi ius ibi societas, ma non si p u ò accettare la massima inversa, pure accolta da Romano, ubi societas ibi ius. In altre parole: si p u ò ben ammettere che i l diritto presupponga la società, ovvero sia i l prodotto della vita sociale; ma non si p u ò ammettere che ogni società sia giuridica.
4. I L PLURALISMO GIURIDICO
Da questo passo si vede che per i l Romano gli elementi costitutivi del concetto del diritto sono tre: la società come base di fatto su cui i l diritto viene ad esistenza, l'ordine come fine a cui
Bisogna riconoscere alla teoria dell'istituzione il merito di aver allargato gli orizzonti dell'esperienza giuridica oltre i confini del-
10
Teorìa della norma giurìdica
lo stato. Facendo del diritto un fenomeno sociale e considerando come criterio fondamentale per distinguere una società giuridica da una società non giuridica i l fenomeno dell'organizzazione, la teoria dell'istituzione ha spezzato i l cerchio chiuso della teoria statualistica del diritto, che considera diritto soltanto i l diritto statuale, e identifica l'ambito del diritto con l'ambito dello stato. Per quanto possa apparire un po' scandaloso al giurista che, limitando le proprie osservazioni e i l proprio studio all'ordinamento giuridico statuale, è indotto a ritenere che non vi sia altro diritto che quello dello stato, per la teoria dell'istituzione anche un'associazione a delinquere, in quanto sia organizzata al fine di stabilire l'ordine tra i suoi aderenti, è un ordinamento giuridico. E del resto, non sono esistiti storicamente stati che possono essere paragonati, per la violenza e la frode con cui si sono condotti verso i loro cittadini e quelli degli altri stati, ad associazioni a delinquere? Non chiamava Sant'Agostino gli stati magna latrocinia? Ed erano forse per questo meno stati, cioè meno ordinamenti giuridici, di quegli stati che per avventura si fossero condotti secondo giustizia? La teoria statualistica del diritto è i l prodotto storico della formazione dei grandi stati moderni, sorti sulla dissoluzione della società medioevale. La società medioevale era una società pluralistica, cioè formata da più ordinamenti giuridici, opponentisi o integrantisi: vi erano ordinamenti giuridici universali al di sopra di quelli che oggi sono gli stati nazionali, come la Chiesa e l'Impero; e vi erano ordinamenti particolari al di sotto della società nazionale, come i feudi, le corporazioni, e i comuni. Anche la famiglia, considerata nella tradizione del pensiero cristiano come una societas naturalis, era un ordinamento a se stante. Lo stato moderno si è formato attraverso l'eliminazione o l'assorbimento degli ordinamenti giuridici superiori e inferiori alla società nazionale, attraverso un processo che si potrebbe chiamare di monopolizzazione della produzione giuridica. Se per potere intendiamo la capacità che hanno certi gruppi sociali di emanare norme di condotta valide per la totalità dei membri di quella comunità, e di farle rispettare ricorrendo anche alla forza (il cosiddetto potere coattivo), la formazione dello stato moderno va di pari passo con la formazione di un potere coattivo sempre più accentrato, e pertanto con la graduale soppressione dei centri di potere infe-
Dirìtto come regola di condotta
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riori e superiori allo stato, i l che ha avuto come conseguenza l'eliminazione di ogni centro di produzione giuridica che non fosse quello dello stato medesimo. Se oggi vi è ancora una tendenza a identificare i l diritto col diritto statuale, essa è la conseguenza storica del processo di accentramento del potere normativo e coattivo che ha caratterizzato i l sorgere dello stato nazionale moderno. La massima consapevolezza teorica di questo processo è la f i losofia del diritto di Hegel, nella quale lo stato è considerato come i l Dio terreno, ovvero come i l soggetto ultimo della storia, che non riconosce né al di sotto di sé né al di sopra di sé alcun altro soggetto, e al quale gli individui e i gruppi debbono incondizionata obbedienza. La dottrina dell'istituzione rappresenta una reazione allo stat a l i s m o . Essa è una delle tante vie attraverso cui i teorici del diritto e della politica hanno cercato di resistere all'invadenza dello stato. Essa nasce, ora dalla rivalutazione delle teorie giuridiche della tradizione cristiana come in Georges Renard (si veda la Théorie de l'institution, 1930), ora dalla suggestione delle correnti socialiste libertarie (Proudhon), o anarchiche, o sindacaliste come i n Georges Gurvitch (si veda L'idée du droit social, 1932, e la Dichiarazione dei diritti sociali, trad. it., ediz. di Comunità, 1949). Diventa teoria del diritto, i n Francia, con Maurice Hauriou, in Italia con Santi Romano. È stata accolta e universalizzata, i n Italia, da Guido Passò, i l quale, considerando istituzione anche i l rapporto giuridico tra due persone, fa dell'istituzione la categoria primaria dell'esperienza giuridica (si veda la Storia come esperienza giuridica, 1953). Ha trovato feconda applicazione nello studio di ordinamenti particolari o di concrete situazioni, da parte di un filosofo del diritto come i l Cesarini-Sforza, i l quale studia il diritto dei privati, cioè la sfera della cosiddetta "autonomia privata" come un ordinamento giuridico distinto dall'ordinamento statuale (// diritto dei privati, in "Riv. it. se. giur.", 1929, pp. 43125); da parte di storici del diritto come i l Grosso, che si vale del concetto di istituzione e della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici per una più adeguata comprensione del diritto romano (si vedano i Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, Giappichelli, 1948, p. 3 ss.); e, più recentemente, da parte di un civilista, Salvatore Romano, i l quale, riprendendo lo studio del Cesarini-Sforza, riesamina tutto il problema del diritto pri-
Teorìa della norma giurìdica
Dirìtto come regola di condotta
vato alla luce della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici {Ordinamenti giurìdici privati, in "Riv. trim. dir. pubb.", 1955, pp. 249-331). Un'applicazione al caso specifico del rapporto tra ordinamento cavalleresco e ordinamento statuale è stata fatta con incomparabile acume da Piero Calamandrei (si veda i l saggio Regole cavalleresche e processo del 1929, i n Studi sul processo civile. I l i , pp. 155-170).
largo. Ma non vi è una definizione vera e una falsa, ma soltanto, se mai, una definizione più opportuna e una meno opportuna. Posta i n questi termini la questione, se dovessi esprimere i l mio parere, direi che m i sembra più opportuna la definizione larga, cioè quella proposta dagli istituzionalisti, perché, limitando i l significato della parola "diritto" alle norme di condotta emanate dal potere statale, si va contro l'uso linguistico generale che chiama diritto anche i l diritto internazionale e quello della chiesa, e si p u ò ingenerare qualche confusione. Per quel che riguarda i l valore scientifico della teoria dell'istituzione, se cioè la considerazione del diritto come istituzione valga a sostituire la teoria normativa nella comprensione e spiegazione del fenomeno giuridico, propongo le due seguenti osservazioni critiche:
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5. OSSERVAZIONI CRITICHE
Ogni teoria p u ò essere considerata dal punto di vista del suo significato ideologico e dal punto di vista del suo valore scientifico. Come ideologia una teoria tende ad affermare certi valori ideali e a promuovere certe azioni. Come dottrina scientifica, i l suo scopo non è altro che quello di comprendere una certa realtà e di dame una spiegazione. Qui non discutiamo la teoria dell'istituzione come ideologia, e quindi non ci proponiamo di giudicare se sia bene o male, utile o nocivo, opportuno o non opportuno, affermare che lo stato non è i l solo centro produttore di norme giuridiche, e quali siano le conseguenze pratiche di questa affermazione. La teoria dell'istituzione viene da noi presa i n esame come teoria scientifica, cioè come teoria la quale si propone di offrire mezzi di comprensione del fenomeno giuridico diversi e migliori di quelli offerti dalla teoria normativa. Diciamo soltanto, rispetto all'allargamento degli orizzonti del giurista al d i là dei confini dello stato, che i l problema, sul quale si insiste nella polemica tra pluralisti e monisti, se diritto sia solo quello prodotto dallo stato o anche quello prodotto da gruppi sociali diversi dallo stato, è principalmente una questione di parole. Le definizioni di termini scientifici sono convenzionali (i logici parlano di definizioni stipulative), i l che significa che della parola "diritto" nessuno ha il monopolio, e p u ò essere usata i n senso piìi largo e più stretto a seconda della opportunità di cui l'unico giudice è Io scienziato stesso. Chi afferma che è diritto soltanto i l diritto statuale adopera la parola "diritto" i n senso stretto. Chi ritiene, seguendo gli istituzionalisti, che sia diritto anche quello di un'associazione a delinquere, adopera i l termine "diritto" i n senso più
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a) Anzitutto la teoria dell'istituzione, credendo di combattere la teoria normativa demolendo la teoria statualistica del diritto, si pone un falso bersaglio. La teoria normativa non coincide affatto in litica di principio con la teoria statualistica, anche se, in linea di fatto, molti giuristi statualisti siano normativisti, e viceversa, molti normativisti siano statualisti. La teoria normativa si limita ad affermare che i l fenomeno originario dell'esperienza giuridica è la regola di condotta, mentre la teoria statualistica, oltre ad affermare che i l diritto è un insieme di regole, afferma che queste regole hanno particolari caratteristiche (per esempio: di essere coattive), e, come tali, si distinguono da ogni altro tipo di regola di condotta. La teoria statualistica è una teoria normativa ristretta. E pertanto non vi è nessuna ragione di considerare la teoria normativa di per se stessa meno larga della teoria istituzionale. Non vi è insomma nessuna ragione che induca a escludere che anche la teoria normativa possa essere compatibile con il pluralismo giuridico, dal momento che non c'è nessun motivo di restringere la parola "norma", così come è usata dalla teoria normativa, alle sole norme dello stato. b) I l Romano ha scritto che «prima di essere norma» i l diritto «è organizzazione». Ora, questa affermazione è contestabile. Che significa organizzazione? Significa distribuzione di compiti i n modo che ciascun membro del gruppo concorra, secondo le prò-
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Teorìa della nonna giurìdica
prie capacità e competenze, al raggiungimento del fine comune, ma questa distribuzione di compiti non p u ò essere compiuta se non mediante regole di condotta. E allora non è vero che l'organizzazione venga prima delle norme, ma è vero l'opposto che le norme vengono prima dell'organizzazione. Una società organizzata, una istituzione, è costituita da un gruppo di individui, i quali disciplinano le loro rispettive attività allo scopo di perseguire uno scopo comune, cioè uno scopo che non potrebbe essere raggiunto dai singoli individui, singolarmente considerati. L'istituzione nasce là dove nasce e prende forma una certa disciplina delle condotte individuali, disciplina destinata a condurle a un fine comune. Ma una disciplina è i l prodotto di una regolamentazione, cioè, di un complesso di regole di condotta. I n particolare, perché si possa svolgere quel processo di istituzionalizzazione che trasforma un gruppo inorganico in un gruppo organizzato, cioè in un ordinamento giuridico, occorrono tre condizioni: 1) che siano fissati i fini a cui l'istituzione dovrà tendere; 2) che siano stabiliti i "mezzi", o per lo meno i mezzi principali, che si ritengono idonei a raggiungere quei fini; 3) che siano attribuite le funzioni specifiche dei singoli componenti del gruppo affinché ciascuno collabori, attraverso i mezzi previsti, al raggiungimento del fine. Ora, è chiaro che sia la determinazione dei fini, sia la determinazione dei mezzi e delle funzioni, non può avvenire se non attraverso regole, siano esse scritte o non scritte, proclamate solennemente in uno statuto (o costituzione) o approvate tacitamente dai membri del gruppo. I l che vai quanto dire che processo di istituzionalizzazione e produzione di regole di condotta non possono andare disgiunti e che quindi là dove c'imbattiamo i n un gruppo organizzato, là siamo sicuri di trovare un complesso d i regole di condotta che a quell'organizzazione hanno dato vita, o, in altre parole, che, se istituzione equivale a ordinamento giuridico, ordinamento giuridico equivale a complesso di norme. Ma allora la teoria dell'istituzione non esclude, bensì include, la teoria normativa del diritto, la quale non esce dalla polemica vinta, ma, se mai, rafforzata. Ne traiamo conferma da un saggio di M.S. Giannini, Sulla pluralità degli ordinamenti giuridici (1950), il quale, ribadendo l'equivalenza delle due espressioni "gruppo organizzato" e "ordina-
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mento giuridico", ha cura di distinguere i l fenomeno della normazione (cioè della produzione delle norme) da quello della organizzazione. Egli osserva che vi p u ò essere normazione senza organizzazione: ad esempio, la classe sociale, pur non essendo un gruppo organizzato, produce regole di condotta (norme sociali) per i suoi componenti; ma non vi può essere organizzazione senza normazione. I n altre parole, se è vero che una produzione di norme quali che siano non basta a creare un'istituzione, è altrettanto vero che un'istituzione non p u ò essere creata senza una produzione di regole. E dunque la produzione di regole è pur sempre i l fenomeno originario, anche se non esclusivo, per la costituzione di un'istituzione. Quanto abbiamo detto sin qui per difendere la teoria normativa, significa forse che vogliamo respingere totalmente la teoria dell'istituzione? Certamente, no. Secondo noi, la teoria dell'istituzione ha avuto i l grande merito, pur prescindendo dal suo significato ideologico, che non intendiamo discutere, di mettere i n rilievo i l fatto che si p u ò parlare di diritto soltanto dove vi sia un complesso d i norme formanti un ordinamento, e che pertanto i l diritto non è norma, ma insieme coordinato di norme, in definitiva che una norma giuridica non si trova mai sola, ma è legata ad altre norme con le quali forma un sistema normativo. Grazie anche alla teoria dell'istituzione, la teoria generale del diritto si è venuta sempre più evolvendo da teoria delle norme giuridiche a teoria dell'ordinamento giuridico, e i problemi che si son venuti affacciando ai teorici del diritto sono sempre più i problemi connessi alla formazione, alla coordinazione, all'integrazione di un sistema normativo.
6. I L DIRITTO È RAPPORTO INTERSOGGETTIVO?
Che l'elemento caratteristico dell'esperienza giuridica sia i l rapporto intersoggettivo è, al contrario della teoria istituzionale, dottrina vecchissima e periodicamente ricorrente. A ben guardare, essa nasce dalla stessa idea fondamentale, da cui è nata la teoria dell'istituzione, cioè dall'idea che il diritto sia un fenomeno sociale, abbia la sua origine nella società. È da notare che la teoria 3. - N . BOBBIO: Teorìa generale del diritto
Teoria della norma giuridica
Diritto come regola di condotta
della istituzione è sorta criticando non soltanto la teoria normativa, come abbiamo mostrato sin qui, ma anche la teoria del rapporto intersoggettivo. Secondo i fautori dell'istituzione (soprattutto francesi), un puro e semplice rapporto tra due soggetti non può costituire diritto; perché sorga il diritto, è necessario che questo rapporto sia inserito i n una serie più vasta e complessa di rapporti costituenti, appunto, l'istituzione. Due persone isolate che si incontrano solo per stabilire tra loro la regolamentazione di certi loro interessi, non costituiscono ancora diritto; i l diritto nascerà soltanto quando questa regolamentazione diventerà i n un certo modo stabile, e darà origine a una organizzazione permanente dell'attività dei due individui. Gli istituzionalisti i n genere rifiutano la dottrina del rapporto, perché ritengono sia ispirata da una concezione individualistica del diritto, da quella concezione prevalente nel giusnaturalismo dei secoli X V I I e X V I I I , secondo cui i l diritto è i l prodotto della volontà dei singoli individui, considerati, ciascuno, come una monade separata dalle altre monadi, e che, infatti, aveva innalzato a suprema categoria giuridica l'accordo di due o più volontà individuali, cioè i l contratto, tanto da far sorgere la società per eccellenza, ovvero lo stato, mediante quell'accordo delle volontà dei singoli individui, che si chiamò contratto sociale. Al contrario, la dottrina dell'istituzione si ispira alle correnti sociologiche più moderne, che hanno tacciato di utopismo e di razionalismo astratto l'individualismo giusnaturalistico, e affermano la realtà del gruppo sociale come realtà distinta da quella dei singoli individui che la compongono. Quindi partendo da questo presupposto considerano i l diritto come un prodotto non dell'individuo o degli individui, ma della società nel suo complesso.
pone alla ricerca degli elementi costitutivi del concetto del diritto. Ed ecco com'egli descrive i l primo di questi requisiti: «Il concetto del diritto, i n quanto esso si riferisce ad un'obbligazione corrispondente riguarda in primo luogo soltanto la relazione esterna, e precisamente pratica, di una persona verso un'altra, i n quanto le loro azioni possono (immediatamente o mediatamente) avere, come fatti, influenza le une sulle altre» {op. cit., p. 406). Quanto al secondo requisito, Kant afferma che questo rapporto tra due soggetti, per essere un rapporto giuridico, deve essere un rapporto tra due arbitrii, e non tra l'arbitrio dell'uno e i l semplice desiderio dell'altro. Ciò che preme soprattutto al Kant, ponendo i l diritto come rapporto tra due soggetti, è i l respingere la tesi che i l diritto possa consistere anche in un rapporto tra un soggetto e una cosa. Per Kant vi sono quattro tipi possibili di rapporto di un soggetto con altri soggetti: 1) i l rapporto di un soggetto che ha diritti e doveri con un soggetto che ha solo diritti e non doveri (Dio); 2) i l rapporto di un soggetto che ha diritti e doveri con un soggetto che ha solo doveri e non diritti (lo schiavo); 3) i l rapporto d'un soggetto che ha diritti e doveri con un soggetto che non ha né diritti né doveri (l'animale, le cose inanimate); 4) i l rapporto di un soggetto che ha diritti e doveri con un soggetto che ha diritti e doveri (l'uomo). Di questi quattro rapporti solo l'ultimo è un rapporto giuridico. Una seconda riprova ci è data dalla dottrina del più noto e autorevole rappresentante della corrente neo-kantiana nella f i losofia del diritto contemporanea in Italia, Giorgio Del Vecchio. Per i l Del Vecchio lo stesso principio etico si p u ò tradurre i n un doppio ordine di valutazioni: 1) in rapporto allo stesso soggetto che compie l'azione (il quale p u ò scegliere l'azione doverosa e respingere quella proibita); 2) i n rapporto ai soggetti ai quali si dirige l'azione (i quali possono scegliere tra i l lasciarmi compiere l'azione e l'impedirmelo). I l primo ordine di valutazioni costituisce la valutazione morale; i l secondo, la valutazione giuridica. Di qui derivano la soggettività dell'azione morale e l'intersoggettività dell'azione giuridica, l'unilateralità della norma morale e la bilateralità della norma giuridica; deriva, in conclusione, la definizione del diritto come coordinamento obbiettivo dell'operare, i l che implica la visione del diritto (a differenza della morale) come un insieme di rapporti tra soggetti, di cui se uno
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A riprova dell'affermazione degli istituzionalisti, secondo cui la teoria del rapporto affonda le sue radici nell'astratto i n dividualismo degli illuministi, si p u ò ricordare che uno dei rappresentanti più illustri e più conseguenti dell'illuminismo giuridico, Emanuele Kant, espone nella sua Dottrina del diritto (1797) una chiara teoria del diritto come rapporto giuridico. Kant, dopo aver dato la sua celebre definizione di diritto come «l'insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l'arbitrio dell'uno p u ò accordarsi coll'arbitrio d'un altro secondo una legge universale della l i bertà» {Metafisica dei costumi, trad. it., ed. Utet, 1956, p. 407) si
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Teorìa della norma giurìdica
Dirìtto come regola di condotta
ha i l potere di compiere una certa azione, l'altro ha i l dovere di non impedirla.
relazione con un ideale di vita, al quale i l soggetto aspiri ad approssimarsi, o, più particolarmente, in rapporto con la divinità, che si crede scrutare e giudicare ogni moto dell'anima; bensì, e soltanto, in rapporto con gli altri soggetti, cioè coi loro comportamenti, positivi o negativi, complementari al comportamento del soggetto di cui si tratta, i n quanto essi abbiano o i l diritto di pretendere da lui quel determinato comportamento, o, invece, un dovere complementare ad un suo diritto, quanto meno l'obbligo di astenersi dall'impedire quel comportamento» (p. 27). Nonostante i l proposito più volte dichiarato di costruire una teoria generale del diritto sul concetto di rapporto giuridico, ritengo che i l Levi non sia rimasto sempre fedele al suo assunto. Per attuare i l proprio proposito, i l Levi avrebbe dovuto risolvere i problemi fondamentali della teoria generale del diritto ricorrendo al concetto di rapporto giuridico. Ma questo non sempre è avvenuto. Ci mette sin dall'inizio i n sospetto i l fatto che i l Levi consideri la norma come la fonte ideale del rapporto, e affemii che non vi p u ò essere diritto all'infuori del riconoscimento apprestato dal diritto oggettivo. Ma, allora, non è vero che la giuridicità di un rapporto sia intrinseca al rapporto, perché essa nasce, invece, dal fatto che questo rapporto è regolato da una norma giuridica; e di conseguenza per rispondere alla domanda: «che cosa è il diritto», egli si riferisce, come qualsiasi seguace della teoria normativa, alla regola che definisce i l rapporto e non al rapporto regolato. Questo sospetto si aggrava quando, dovendo indicare le note costitutive del rappoito giuridico (cioè non già di un qualsiasi rapporto intersoggettivo, ma di un rapporto intersoggettivo specifico), egli dice che esse sono la tutela, la sanzione, la pretesa e la. prestazione (p. 30): ma queste note non sono caratteristiche del rapporto intersoggettivo di per sé considerato (un rapporto di amicizia, ad esempio, è intersoggettivo, senza peraltro che quelle note caratteristiche vi si manifestino), bensì sono desunte dal fatto che quel rapporto è regolato da una norma che prevede una sanzione i n caso di rottura del rapporto medesimo, insomma dal fatto che è regolato da una norma giuridica. Ci si domanda, allora, a questo punto, se ciò che costituisce i l rapporto come rapporto giuridico non sia per avventura la norma che lo regola, e, in questo caso, la teoria del rapporto giuridico non f i nisca per sfociare, anch'essa, come la teoria dell'istituzione, nel-
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7. E S A M E DI UNA TEORIA
La pili recente teoria del diritto come rapporto giuridico è quella esposta nella Teorìa generale del diritto di Alessandro Levi (Padova, Cedam, I I ediz. 1953). Si p u ò dire che i l Levi abbia fatto del concetto di rapporto giuridico i l pilastro su cui ha eretto la sua costruzione. Sin dall'inizio parla del rapporto giuridico come del concetto «sul quale si fonda la costmzione sistematica, o scientifica, di ogni ordinamento giuridico» (p. 23). I l rapporto giuridico vi è più volte definito come i l concetto fondamentale dell'ordinamento giuridico: «Questo concetto di rapporto giuridico ... non i l concetto di dovere, né quello di diritto soggettivo, e nemmeno quello di norma, ... è i l concetto fondamentale, centrale dell'ordinamento giuridico» (p. 26). La centralità di questo concetto si rivela altresì nel fatto che i l Levi lo eleva a concetto filosofico, quasi fosse una specie di categoria fondamentale e originaria per la comprensione del diritto. Parla del concetto di rapporto giuridico come di quello i n cui si concreta r«universale giuridico», ovvero «il momento giuridico dello spirito umano» (p. 27). Più precisamente: «Non è un concetto meramente empirico o tecnico, che rappresenti una sintesi approssimativa di dati induttivamente assunti dalla realtà considerata a parte obiecti, bensì costituisce, nella sua più concreta essenza, i l limite logico di ogni altro concetto tecnico» (p. 29). Per "rapporto giuridico" i l Levi intende, nel senso tradizionale della parola, un rapporto intersoggettivo, o meglio i l rapporto tra due soggetti di cui uno è t i tolare di un obbligo, l'altro di un diritto. La funzione categoriale dell'intersoggettività è data dal fatto che di essa si serve i l filosofo del diritto per distinguere i l diritto dalla morale (che è soggettiva) e dall'economia (che mette in relazione l'uomo con le cose). Così i l Levi si esprime, «[la valutazione giuridica] non valuta l'atto i n relazione con le cose sulle quali si esercita, o, per dire più propriamente, i n rapporto ai beni, materiali od immateriali, coi quali i l soggetto tende ad appagare i suoi bisogni; e neppure i n
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la teoria normativa. È quel che vedremo meglio nel paragrafo seguente.
portano l'uno verso l'altro. I l che si esprime anche i n questa guisa: ciò che caratterizza i l rapporto giuridico non è i l contenuto, ma la forma. E ciò significa: non si p u ò determinare se un rapporto sia giuridico i n base agli interessi che vengono i n giuoco; si p u ò determinare solo i n base al fatto se sia regolato o no da una norma giuridica. I l problema della caratterizzazione del diritto non lo si incontra sino a che si resta sul piano del rapporto; lo si incontra solo sul piano delle norme che regolano i l rapporto. I n altre parole: posto un rapporto di interdipendenza tra rapporto giuridico e norma giuridica, noi non diremo che una norma è giuridica perché regola un rapporto giuridico, bensì che un rapporto è giuridico perché è regolato da una norma giuridica. Non esiste i n natura, o meglio nella vicenda delle relazioni umane, un rapporto che sia di per sé stesso, cioè ratione materiae, giuridico: ci sono rapporti economici, sociali, morali, culturali, religiosi, vi sono rapporti di amicizia, d'indifferenza, di inimicizia, vi sono rapporti di coordinazione, di subordinazione, di integrazione. Ma nessuno di questi rapporti è naturaliter giuridico. Rapporto giuridico è quello che, qualunque sia i l suo contenuto, è preso i n considerazione da una norma giuridica, è sussunto i n un ordinamento giuridico, è qualificato da una o più norme appartenenti ad un ordinamento giuridico. Vedremo meglio in seguito quali conseguenze abbia per un'azione umana l'essere qualificata da una norma giuridica. Qui basti l'aver messo i n evidenza che è la norma che qualificando i l rapporto lo trasforma i n un rapporto giuridico, e non viceversa. Di conseguenza, se è vero che nessun rapporto è naturaliter giuridico, è altrettanto vero che qualsiasi rapporto tra uomini p u ò diventare giuridico solo che venga regolato da una norma appartenente a un sistema giuridico. Si dice dai giuristi che un rapporto, sino a che non è preso i n considerazione dal diritto, è un rapporto di fatto. L'assunzione da parte dell'ordinamento giuridico - assunzione che avviene attribuendo a uno dei due soggetti un obbligo e all'altro un dovere trasforma i l rapporto di fatto in un rapporto giuridico. I l rapporto tra un venditore e un compratore è un rapporto economico. Ciò che lo fa diventare giuridico è i l fatto che l'ordinamento giuridico attribuisce ai due soggetti del rapporto diritti e doveri. I l rapporto di fedeltà tra coniugi è prima di tutto un rapporto di carattere etico; diventa giuridico quando l'ordinamento trasforma
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8. OSSERVAZIONI CRITICHE
La ragione principale per cui riteniamo che i l considerare i l diritto come rapporto intersoggettivo non elimini la considerazione normativa, si p u ò formulare in questo modo. Un rapporto giuridico, si è visto, è un rapporto tra due soggetti, di cui uno, i l soggetto attivo, è titolare di un diritto, l'altro, i l soggetto passivo, è titolare di un dovere e obbligo. I l rapporto giuridico è, i n altre parole, un rapporto diritto-dovere. Ora che significa avere un diritto? Significa, come vedremo meglio i n seguito, avere i l potere di compiere una certa azione. Ma donde deriva questo potere? Non p u ò derivare che da una regola, la quale nel momento stesso i n cui attribuisce a me questo potere, attribuisce ad un altro, a tutti gli altri, i l dovere di non impedire la mia azione. E che significa avere un dovere? Significa essere obbligati a comportarci in un certo modo, sia che questa condotta consista i n un fare sia che consista i n un non-fare. Ma donde deriva quest'obbligo? Non p u ò derivare che da una regola, la quale domanda o proibisce. I n sostanza, i l diritto non è che i l riflesso soggettivo di una norma autorizzativa; i l dovere non è che il riflesso soggettivo di una norma imperativa (positiva o negativa). I l rapporto giuridico, i n quanto rapporto diritto-dovere, rinvia sempre a due regole di condotta, delle quali la prima attribuisce un potere, l'altra attribuisce un dovere. Che poi, di fatto, di queste due norme basti di regola che ne venga enunciata una sola, dal momento che l'attribuire un diritto ad un soggetto implica pur sempre l'attribuzione di un dovere ad altri soggetti, e viceversa, non cambia nulla alla questione sostanziale, che cioè diritto e dovere sono le figure soggettive i n cui si rispecchia la presenza di una regola, e pertanto i l rapporto giuridico è quel rapporto che si distingue da ogni altro tipo di rapporto per essere un rapporto regolato da una norma giuridica. Il rapporto giuridico è caratterizzato non dalla materia di ciò che è oggetto del rapporto, ma dal modo con cui i soggetti si com-
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questo rapporto morale i n un rapporto generatore di diritti e di obblighi giuridicamente rilevanti. La conclusione che vogliamo trarre da queste considerazioni è che come la teoria dell'istituzione non esclude ma include la teoria normativa, così la teoria del rapporto non esclude ma include la teoria normativa. I l che vai quanto dire che la teoria normativa rimane valida nonostante la teoria dell'istituzione e del rapporto, - anzi essa è i l presupposto per la validità di entrambe. Si p u ò aggiungere ancora questa considerazione: le tre teorie non si escludono a vicenda, e quindi è sterile ogni battaglia dottrinale per far trionfare l'una o l'altra. Direi piuttosto che queste tre teorie si integrano utilmente l'una con l'altra. Esse mettono i n evidenza, ciascuna, un aspetto della multiforme esperienza giuridica: la teoria del rapporto l'aspetto deìVintersoggettività, quella dell'istituzione l'aspetto dell'organizzazione sociale, quella normativa l'aspetto della regolarità. I n effetti, l'esperienza giuridica ci mette innanzi un mondo di rapporti tra soggetti umani organizzati stabilmente in società mediante l'uso di regole di condotta. Resta che dei tre aspetti complementari quello fondamentale è pur sempre l'aspetto normativo. L'intersoggettività e l'organizzazione sono condizioni necessarie per la formazione di un ordine giuridico; l'aspetto normativo è la condizione necessaria e sufficiente.
CAPITOLO I I GIUSTIZIA, VALIDITÀ E D
EFFICACIA
SOMMARIO: 9. Tre criteri di valutazione. - 10.1 tre criteri sono indipendenti. - i l . Possibili confusioni dei tre criteri. - 12. Il diritto naturale, - 13. Il positivismo giuridico, - 14. Il realismo giuridico.
9. T R E CRITERI DI VALUTAZIONE
Lo studio delle regole di condotta, in particolare delle regole giuridiche, presenta molti problemi interessanti, che sono all'ordine del giorno non solo della teoria generale del diritto (soprattutto dopo i l Kelsen), ma anche della logica e della filosofia contemporanea. Questo corso è dedicato ad affrontare alcuni di questi problemi. II primo punto che, a mio giudizio, bisogna aver ben chiaro i n mente se si vuol stabilire su solide fondamenta una teoria della norma giuridica, è che ogni norma giuridica p u ò essere sottoposta a tre distinte valutazioni, e che queste valutazioni sono indipendenti l'una dall'altra. Di fronte a una qualsiasi norma giuridica, noi possiamo infatti porci un triplice ordine di problemi: 1) se essa sia giusta o ingiusta; 2) se essa sia valida o invalida; 3) se essa sia efficace o inefficace. Si tratta dei tre distinti problemi della giustizia, della validità e dell'efficacia di una norma giuridica. Il problema della giustizia è i l problema della corrispondenza o meno della norma ai valori ultimi o finali che ispirano un determinato ordinamento giuridico. Non tocchiamo ora i l problema se esista un ideale di bene comune identico per tutti i tempi
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Teoria della norma giuridica
Giustizia, validità ed efficacia
e per tutti i luoghi. A noi basta qui constatare che ogni ordinamento giuridico persegue certi fini, e convenire sul fatto che questi fini rappresentano i valori alla cui attuazione i l legislatore, più o meno consapevolmente, più o meno adeguatamente, dirige la propria opera. Nel caso che si ritenga vi siano valori supremi, oggettivamente evidenti, i l domandarsi se una norma sia giusta o ingiusta significa domandare se essa sia atta o non ad attuare quei valori. Ma anche nel caso di chi non crede in valori assoluti, i l problema della giustizia o meno di una norma ha un senso; equivale a domandarsi se quella norma sia atta o meno a realizzare i valori storici, che ispirano quel concreto e storicamente determinato ordinamento giuridico. I l problema se una norma sia o non sia giusta è un aspetto del contrasto tra mondo ideale e mondo reale, tra ciò che deve essere e ciò che è: norma giusta è quello che deve essere; norma ingiusta è quello che non dovrebbe essere. I l porsi i l problema della giustizia o meno di una norma equivale a porsi i l problema della corrispondenza tra ciò che è reale e ciò che è ideale. Perciò i l problema della giustizia si chiama di solito i l problema deonlologico del diritto.
2) accertare se non sia stata abrogata, giacché una norma p u ò essere stata valida, nel senso che fu emanata da un potere a ciò autorizzato, ma non è detto che lo sia ancora, i l che accade quando un'altra norma successiva nel tempo l'abbia espressamente abrogata o abbia regolato la stessa materia; 3) accertare se non sia incompatibile con altre norme del sistema (ciò che si dice anche abrogazione implicita), i n particolare con una norma gerarchicamente superiore (una legge costituzionale è superiore a una legge ordinaria i n una costituzione rigida) o con una norma successiva, dal momento che vige i n ogni ordinamento giuridico il principio che due norme incompatibili non possono essere entrambe valide (così come i n un sistema scientifico due proposizioni contraddittorie non possono essere entrambe vere). I l problema della validità giuridica presuppone che si sia risposto alla domanda: che cosa s'intende per diritto? Si tratta, volendo adottare una terminologia familiare tra i filosofi del diritto, del problema ontologico del diritto.
Il problema della validità è i l problema dell'esistenza della regola i n quanto tale, indipendentemente dal giudizio di valore se essa sia giusta o no. Mentre i l problema della giustizia viene risolto con un giudizio di valore, i l problema della validità viene r i solto con un giudizio di fatto. Si tratta, cioè, di constatare se una regola giuridica esista o meno, o meglio se quella tal regola così e così determinata sia una regola giuridica. Validità giuridica di una norma equivale ad esistenza di quella norma i n quanto regola giuridica. Mentre per giudicare della giustizia di una norma bisogna commisurarla ad un valore ideale, per giudicare della sua validità bisogna compiere ricerche di tipo empirico-razionale, quelle ricerche che si compiono quando si tratta di stabilire l'entità e la portata di un evento. I n particolare, per decidere se una norma sia valida (cioè esista come regola giuridica appartenente ad un determinato sistema), bisogna di solito compiere tre operazioni: 1) accertare se l'autorità che l'ha emanata aveva il potere legittimo di emanare norme giuridiche, cioè norme vincolanti i n quel determinato ordinamento giuridico (questa ricerca conduce inevitabilmente a risalire alla norma fondamentale, che è i l fondamento di validità di tutte le norme di un determinato sistema);
I l problema dell'efficacia dì una norma è i l problema se quella norma sia o no seguita dalle persone a cui è diretta (i cosiddetti destinatari della norma giuridica) e, nel caso in cui sia violata, sia fatta valere con mezzi coercitivi dall'autorità che l'ha posta. Che una norma esista in quanto norma giuridica, non implica che essa sia anche costantemente seguita. Non è nostro compito ora indagare quali possano essere le ragioni per cui una norma sia più o meno seguita. Ci limitiamo a constatare che vi sono norme che vengono seguite universalmente in modo spontaneo (e sono le più efficaci), altre che vengono seguite nella generalità dei casi solo in quanto sono provviste di coazione, altre ancora che non sono seguite nonostante la coazione, e altre ancora che vengono violate senza che neppure venga posta in atto la coazione (e sono le più inefficaci). La ricerca per accertare l'efficacia o l'inefficacia di una norma è una ricerca storico-sociologica, che si rivolge allo studio del comportamento dei membri di un determinato gruppo sociale, e che si differenzia sia dalla ricerca più tipicamente filosofica intomo alla giustizia, sia da quella più tipicamente giuridica intomo alla validità. Anche qui, per usare la terminologia dotta, se pure i n senso diverso dal consueto, si p u ò dire che il problema dell'efficacia delle regole giuridiche è i l problema fenomenologico del diritto.
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Teorìa della norma giurìdica
10. I TRE CRITERI SONO INDIPENDENTI
Questi tre criteri di valutazione di una norma danno origine a tre ordini distinti di problemi, e sono indipendenti l'uno dall'altro, nel senso che la giustizia non dipende né dalla validità n é dall'efficacia, l'efficacia non dipende né dalla giustizia né dalla validità. Per mostrare questi vari rapporti di indipendenza, formuliamo le seguenti sei proposizioni: 1. una norma può essere giusta senza essere valida. Per fare un esempio classico, i teorici del diritto naturale formulavano nei loro trattati un sistema di norme ricavate da principi giuridici universali. Chi formulava queste norme, le considerava giuste, perché le riteneva corrispondenti a principi universali di giustizia. Ma queste norme, sino a che erano soltanto scritte i n un trattato di diritto naturale, non erano valide. Diventavano valide solo nella misura i n cui esse venivano accolte i n un sistema di diritto positivo. Il diritto naturale pretende di essere il diritto giusto per eccellenza; ma solo per il fatto di essere giusto non è anche valido; 2. ima norma può essere valida senza essere giusta. Qui non occorre andare tanto lontano a cercare esempi. Nessun ordinamento giuridico è perfetto: tra l'ideale di giustizia e la realtà del diritto vi è sempre uno scarto, più o meno grande a seconda dei regimi. Certamente i l diritto, che in tutti i regimi di un certo periodo storico e in alcuni regimi d'oggi che consideriamo civilmente arretrati, ammetteva la schiavitù, non era giusto, ma non per questo era meno valido. Non è molti anni che ebbero vigore leggi razziali che nessuna persona ragionevole è disposta a considerare giuste: eppure erano valide. Un socialista difficilmente riconoscerà come giusto un ordinamento che riconosce e protegge la proprietà individuale; così come un reazionario riconoscerà difficilmente come giusta una norma che consideri lecito lo sciopero. Eppure, né i l socialista né i l reazionario avranno dei dubbi sul fatto che, in un ordinamento positivo come quello italiano, tanto le norme che regolano la proprietà individuale quanto quelle che riconoscono i l diritto di sciopero siano valide;
Giustizia, validità ed efficacia
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3. una norma può essere valida senza essere efficace. I l caso più clamoroso è pur sempre quello delle leggi sulla proibizione delle bevande alcooliche negli Stati Uniti d'America, che ebbero vigore nel ventennio tra le due guerre. È stato detto che i l consumo delle bevande alcooliche durante i l regime proibizionistico non era inferiore al consumo del periodo immediatamente successivo, quando la proibizione fu soppressa. Certamente si trattava di leggi "valide", nel senso che erano state emanate dagli organi competenti a emanare norme giuridiche, ma non erano efficaci. Senza andar troppo lontano, molti articoli della nostra costituzione non sono sinora stati applicati. Che significa la tanto spesso deplorata disapplicazione della costituzione? Significa che ci troviamo di fronte a norme giuridiche che, pur essendo valide, cioè esistenti i n quanto norme, non sono efficaci; 4. una norma può essere efficace senza essere valida. Vi sono molte norme sociali che vengono seguite spontaneamente o per 10 meno abitualmente, cioè sono efficaci, come, ad esempio, i n una certa cerchia di persone le regole della buona educazione. Queste regole, per i l solo fatto di essere seguite, non diventano per ciò stesso regole appartenenti ad un sistema giuridico, cioè non acquistano validità giuridica. Si potrebbe obiettare che i l diritto consuetudinario costituisce un cospicuo esempio di norme che acquistano validità giuridica, cioè vengono a far parte di un sistema normativo, solo attraverso la loro efficacia. E che altro è l'uso costante, regolare, generale, uniforme che si richiede ad una consuetudine perché diventi giuridica se non ciò che abbiamo chiamato "efficacia"? Ma a questa obiezione si p u ò rispondere che nessuna consuetudine diventa giuridica solo attraverso l'uso, perché ciò che la fa diventare giuridica, ciò che la inserisce i n un sistema, è i l fatto che essa sia accolta e riconosciuta dagli organi competenti, i n quel sistema, a produrre norme giuridiche, come 11 legislatore o i l giudice. Sino a che è soltanto efficace, una norma consuetudinaria non diventa norma giuridica. Diventa giuridica quando gli organi del potere le hanno attribuito validità. I l che conferma che l'efficacia non si trasforma direttamente i n validità, e pertanto una norma p u ò continuare ad essere efficace senza per questo diventare giuridica;
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Giustizia, validità ed efficacia
5. una norma può essere giusta senza essere efficace. Abbiamo visto che una norma p u ò essere giusta senza essere valida. Non dobbiamo esitare ad aggiungere che p u ò essere giusta senza essere efficace. Quando la sapienza popolare dice che "non ve giustizia i n questo mondo", si riferisce al fatto che molti sono coloro che esaltano la giustizia a parole, pochi sono quelli che la mettono i n atto. I n genere una norma per essere efficace deve essere anche valida. Se è vero che molte norme di giustizia non sono valide, a maggior ragione non sono neppure efficaci;
giuridici col loro insieme di regole e di istituzioni e di organi sono i l più adeguato strumento di attuazione. Nasce di qua la filosofia del diritto i n quanto teoria della giustizia. I l problema della validità costituisce i l nucleo di quelle ricerche che sono volte a determinare in che cosa consiste i l diritto come regola obbligatoria e coattiva, quali sono i caratteri peculiari di un ordinamento giuridico distinto da altri ordinamenti normativi (come quello morale), e pertanto non i fini che debbono essere realizzati, ma i mezzi escogitati per attuare quei fini, o i l diritto come strumento di attuazione della giustizia. Di qui nasce la filosofia del diritto come teoria generale del diritto. I l problema dell'efficacia ci porta sul terreno della applicazione delle norme giuridiche, che è i l terreno dei comportamenti effettivi degli uomini viventi i n società, dei loro interessi contrastanti, delle azioni e reazioni di fronte alla autorità, e dà luogo alle ricerche intomo alla vita del diritto, nel suo sorgere, nel suo svolgersi, nel suo modificarsi, r i cerche che di solito sono connesse a indagini di carattere storico e sociologico. Ne nasce quell'aspetto della filosofia del diritto che confluisce nella sociologia giuridica.
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6. una norma può essere efficace senza essere giusta. I l fatto che una norma sia universalmente seguita non è prova della sua giustizia, così come, del resto, i l fatto che non sia seguita affatto non può considerarsi prova della sua ingiustizia. La derivazione della giustizia dall'efficacia potrebbe paragonarsi ad uno degli argomenti che veniva di solito discusso tra i glusnaturalisti, all'argomento cosiddetto del consensus humani generis, o più semplicemente, del consensus omnium. Si domandavano i glusnaturalisti: è da considerarsi massima di diritto naturale quella che sia accolta da tutti i popoli (alcuni dicevano "da tutti i popoli civili")? La risposta dei glusnaturalisti più intransigenti era per lo più negativa. E a ragione: i l fatto che la schiavitù, ad esempio, fosse praticata da tutti i popoli civili in un certo periodo storico, non trasformava la schiavitù i n un'istituzione conforme a giustizia. La giustizia è indipendente dalla validità, ma è anche indipendente dall'efficacia.
11. POSSIBILI CONFUSIONI DEI TRE CRITERI
Ciascuno dei tre criteri sin qui esaminati delimita un campo ben determinato di ricerche per i l filosofo del diritto. Si p u ò persino sostenere che i tre problemi fondamentali, di cui si occupa tradizionalmente e si è occupata la filosofia del diritto, coincidono con le tre qualificazioni normative della giustizia, della validità e dell'efficacia. I l problema della giustizia dà luogo a tutte quelle ricerche che mirano a enucleare i valori supremi a cui i l diritto tende, i n altre parole i fini sociali di cui gli ordinamenti
Questa tripartizione di problemi è oggi generalmente riconosciuta dai filosofi del diritto, e del resto corrisponde in parte alla distinzione dei tre compiti della filosofia del diritto (compito deontologico, ontologico e fenomenologico) che ha avuto corso sin dall'inizio del secolo nella filosofia del diritto italiano, per opera principalmente di Giorgio Del Vecchio. Per dare una prova del consenso generale su questa concezione tripartita dell'esperienza giuridica, cito qui la testimonianza di tre teorici del diritto contemporaneo, appartenenti a tre diversi paesi e a tre diverse tradizioni culturali. Eduardo Garcia Maynez, professore all'università del Messico, seguace del filosofo spagnolo Ortega y Gasset e del suo "prospettivismo", in un saggio La definición del Derecho. Ensajo de Perspeclivismo jurìdico (Mexico, 1948), dice che per "diritto" s'intendono generalmente tre cose: il diritto formalmente valido, i l diritto intrinsecamente valido, i l diritto positivo o efficace. Con la prima espressione intende quelle regole di condotta che «l'autorità politica considera come vincolanti in un determinato territorio e i n una determinata epoca»; con la seconda, intende indicare i l diritto giusto, cioè le regolamentazioni dei rapporti di coesistenza tra gli uomini che più corrispondono all'ideale di
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giustizia; con la terza, indica quelle regole di condotta che «determinano effettivamente la vita di una società i n un determinato momento storico». Non dobbiamo far molta fatica per riconoscere i n questi tre modi d'intendere i l diritto la distinzione tra validità, giustizia ed efficacia. Come seconda testimonianza citiamo Julius Stone, professore all'università di Sidney (Australia), allievo del più autorevole filosofo del diritto contemporaneo americano, Roscoe Pound. Lo Stone nella sua opera più impegnativa The Province and Function of Law as Logic, Justice and Social Control (Sidney, 1946) ritiene che lo studio del diritto, per essere completo, risulti di queste tre parti: 1) giurisprudenza analitica, che è quella che noi chiameremmo teoria generale del diritto, ovvero lo studio del diritto dal punto di vista formale; 2) giurisprudenza critica o etica, che comprende lo studio dei vari ideali di giustizia, e pertanto del diritto ideale nei suoi rapporti col diritto reale, e coincide con quella parte della filosofia del diritto che noi chiamiamo teoria della giustizia; 3) giurisprudenza sociologica, che studia, secondo l'espressione cara al Pound, non già i l diritto nei libri {law in hooks) ma i l diritto i n azione {law in action), e corrisponde alla sociologia giuridica i n quanto studio del diritto vivente nella società. La terza testimonianza la ricaviamo da Alfred von Verdross, professore all'università di Vienna, che è orientato verso i l giusnaturalismo. I n un articolo intitolato Zur Klàrung des Rechtshegriffes {Per il chiarimento del concetto di diritto) del 1950, dopo aver accuratamente distinto i l problema della giustizia da quello della validità, precisa che vi sono tre modi diversi per considerare i l diritto, secondo che lo si guardi nel suo valore ideale (che è la giustizia), nel suo valore formale (che è la validità), nella sua pratica attuazione (che è l'efficacia), e così si esprime: «Il sociologo p u ò coi suoi mezzi comprendere solo l'efficacia del diritto, i l teorico del diritto solo la forma del diritto e la connessione intrinseca delle norme positive, mentre i l filosofo morale (il teorico del diritto naturale) si interessa soltanto della giustizia etica delle norme giuridiche e della loro obbligatorietà interiore» (pp. 98-99).
cui elementi costitutivi sono ideali di giustizia da realizzare, istituzioni normative per realizzarli, azioni e reazioni degli uomini di fronte a quegli ideali e a queste istituzioni. I tre problemi sono tre diversi aspetti di un solo problema centrale, che è i l problema della migliore organizzazione della vita degli uomini associati. Se abbiamo insistito sulla distinzione e indipendenza delle tre valutazioni, è perché riteniamo dannosa la loro confusione, e soprattutto riteniamo di non poter accettare altre teorie che questa distinzione non compiono così nettamente, e tendono, al contrario, a ridurre or l'uno or l'altro dei tre aspetti agli altri due, facendo opera, come ora si suol dire, con brutto neologismo del linguaggio filosofico, di "riduzionismo". Credo che si possano distinguere tre teorie riduzionistiche, alla critica delle quali dedico gli ultimi tre paragrafi di questo capitolo. Vi è una teoria che riduce la validità a giustizia, affermando che una norma è valida solo se è giusta; i n altre parole fa dipendere la validità dalla giustizia. L'esempio storico più illustre di questa riduzione è la dottrina del diritto naturale. Un'altra teoria riduce la giustizia a validità, i n quanto afferma che una norma è giusta per i l solo fatto che è valida, cioè fa dipendere la giustizia dalla validità. L'esempio storico di questa teoria è dato dalla concezione del diritto che si contrappone a quella giusnaturalistica, ed è la concezione positivistica (nel senso più stretto e angusto della parola). Vi è infine una teoria che riduce la validità ad efficacia, in quanto tende ad affermare che i l diritto reale non è quello che si trova per così dire enunciato i n una costituzione, o i n un codice, o in un corpo di leggi, ma è quello che gli uomini effettivamente applicano nei loro rapporti quotidiani: questa teoria fa dipendere in ultima analisi la validità dall'efficacia. L'esempio storico più radicale è dato dalle correnti cosiddette realistiche della giurisprudenza americana, e dalle loro anticipazioni nel continente. Noi riteniamo che tutte e tre queste concezioni siano viziate dall'errore di "riduzionismo", che porta alla eliminazione o per lo meno all'offuscamento di uno dei tre elementi costitutivi dell'esperienza giuridica, e pertanto la mutilano. La prima e la terza non riescono a vedere l'importanza del problema della validità; la seconda ritiene di potersi sbarazzare del problema della giustizia. Le esaminiamo qui di seguito singolarmente.
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S'intende che questa distinzione d i problemi non deve essere concepita come una separazione i n compartimenti stagni. Chi vuol comprendere l'esperienza giuridica nei suoi vari aspetti, dovrà tener conto che essa è quella parte dell'esperienza umana i
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12. I L DIRITTO NATURALE
Non è nostro compito illustrare un problema così ricco e complesso com'è quello del diritto naturale. Qui la corrente del diritto naturale viene i n discussione solo per il fatto che vi è una tendenza generale nei suoi teorici a ridurre la validità a giustizia. Si potrebbe definire la corrente del diritto naturale quella corrente di pensiero giuridico, secondo la quale una legge per essere legge deve essere conforme a giustizia. Una legge non conforme a giustizia non est lex sed corruptìo legis. Una formulazione recente ed esemplare di questa dottrina si p u ò leggere nel passo seguente di Gustav Radbruch: «Quando una legge nega coscientemente la volontà di giustizia, per esempio concede arbitrariamente o rifiuta i diritti dell'uomo, manca ad essa la validità ... anche i giuristi devono trovare i l coraggio di rifiutarle i l carattere giuridico»; e altrove: «Vi possono essere leggi con tal misura d'ingiustizia e di dannosità sociale che bisogna rifiutar loro i l carattere giuridico ... poiché vi sono principi giuridici fondamentali che sono più forti che ogni normazione giuridica tanto che una legge che ad essi contraddice, è priva di validità»; e ancora; «Dove la giustizia non è neppure perseguita, dove l'eguaglianza, che costituisce il nucleo della giustizia, viene coscientemente negata dalle norme del diritto positivo, la legge non soltanto è diritto i n giusto, ma manca pure in generale di giuridicità» (Rechtsphilosophie, IV ediz., 1950, pp. 336-353). A questa impostazione del problema dei rapporti tra giustizia e diritto noi rispondiamo: che i l diritto corrisponda a giustizia è un'esigenza, o se vogliamo un ideale da attuare che nessuno p u ò disconoscere, ma non è una realtà di fatto. Ora, quando noi ci poniamo il problema che cosa sia diritto i n una data situazione storica, ci domandiamo che cosa è di fatto i l diritto, non ciò che i l diritto vorrebbe o dovrebbe essere. Ma se ci domandiamo che cosa è di fatto i l diritto, non possiamo fare a meno di rispondere che nella realtà vale come diritto anche i l diritto ingiusto, e che non vi è nessun ordinamento che sia perfettamente giusto. A una sola condizione potremmo accettare di riconoscere come diritto unicamente quello che è giusto: alla condizione che la giustizia fosse una verità evidente o per lo meno dimostrabile co-
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me una verità matematica, e pertanto nessun uomo potesse avere dei dubbi su ciò che è giusto o ingiusto. E questa i n realtà è stata sempre la pretesa del giusnaturalismo nelle sue varie fasi storiche. Con un'altra definizione, si potrebbe dire che la teoria del diritto naturale è quella che ritiene di poter stabilire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto in modo universalmente valido. Ma questa pretesa è fondata? A giudicare dai dissensi tra i vari seguaci del diritto naturale su ciò che ha da essere considerato giusto o ingiusto, a giudicare dal fatto che ciò che era naturale per gli uni non era naturale per gli altri, si dovrebbe rispondere di no. Per Kant (e i n genere per tutti i glusnaturalisti moderni) era naturale la libertà; ma per Aristotele era naturale la schiavitù. Per Locke era naturale la proprietà individuale, ma per tutti gli utopisti socialisti, da Campanella a Winstanley, a Morelly, l'istituto più conforme alla natura dell'uomo era la comunione dei beni. Questa varietà di giudizi tra gli stessi glusnaturalisti dipendeva da due ragioni fondamentali: 1) i l termine "natura" è un termine generico che acquista diversi significati a seconda del modo con cui viene usato. Già Rousseau aveva detto: «Ce n'est point sans surprise et sans scandale qu'on remarque le peu d'accord qui règne sur cette importante matière entre les divers auteurs qui en ont traile. Farmi les plus graves écrivains, à peine en trouve-t-on deux qui soient du m é m e avis sur ce point» {Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité, pref.); 2) anche se i l significato del termine fosse univoco, e tutti coloro che vi si appellano fossero d'accordo nel ritenere che alcune tendenze sono naturali e altre no, dalla constatazione che una tendenza è naturale non si p u ò dedurre se quella tendenza sia buona o cattiva, giacché non si p u ò dedurre un giudizio di valore da un giudizio di fatto. Hobbes e Mandeville erano d'accordo nel ritenere che tendenza naturale dell'uomo fosse l'istinto utilitario: ma per Hobbes questo istinto conduceva alla distruzione della società e bisognava comprimerlo, per Mandeville (il celebre autore della Favola delle Api) era vantaggioso, e bisognava concedergli libero sfogo. Ma, allora, se l'osservazione della natura non offre un sufficiente appoggio per determinare ciò che è giusto e ciò che è ingiusto i n modo universalmente riconoscibile, la riduzione della validità a giustizia non p u ò portare che ad una sola e grave conseguenza: alla distruzione di uno dei valori fondamentali su cui si
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appoggia i l diritto positivo (intendi i l diritto valido), il valore della certezza. Infatti, se la distinzione tra i l giusto e l'ingiusto non è universale, bisogna porsi il problema: a chi spetta stabilire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto? Le risposte possibili sono due: a) spetta a colui o a coloro che detengono i l potere; ma questa r i sposta è aberrante, perché i n questo caso si conserva, è vero, la certezza del diritto, ma si converte la dottrina che risolve la validità i n giustizia nella dottrina perfettamente opposta, cioè i n quella che risolve la giustizia i n validità, dal momento che si viene a riconoscere che è giusto ciò che è comandato; b) spetta a tutti i cittadini; i n questo caso, posto che i criteri di giustizia sono diversi e irreducibili, al cittadino che disubbidisce alla legge perché la ritiene ingiusta, ed essendo ingiusta è invalida, i reggitori non avrebbero nulla da obiettare, e la sicurezza del viver civile nell'ambito delle leggi andrebbe completamente distrutta. Del resto, che nella stessa dottrina del diritto naturale, la riduzione della validità a giustizia sia più affermata che applicata m i pare si possa dimostrare con due argomenti tratti dalla stessa dottrina giusnaturalistica: a) è dottrina costante dei glusnaturalisti che gli uomini prima di entrare nello stato civile (retto dal diritto positivo) fossero vissuti nello stato di natura, la cui caratteristica fondamentale è di essere uno stato i n cui non vigono altre leggi che quelle naturali. Ebbene, è pur dottrina concorde che lo stato di natura è impossibile e che da esso bisogna uscire (per Locke e Hobbes si tratta di un calcolo utilitario, per Kant di un dovere morale) per fondare Io stato. I l che si deve interpretare nel senso che i l diritto naturale non adempie alla funzione del diritto positivo, onde, se chiamiamo "diritto" i l diritto positivo, non possiamo considerare "diritto" alla stessa stregua i l diritto naturale. Kant, perfettamente consapevole di questa distinzione, chiamò i l diritto naturale "provvisorio" per distinguerlo dal diritto positivo che chiamò "perentorio", e fece così intendere che solo i l diritto positivo era diritto nel senso pregnante della parola; b) è dottrina comune dei glusnaturalisti che il diritto positivo non conforme al diritto naturale sia da considerarsi ingiusto, ma ciò nonostante si debba ubbidirlo (è la cosiddetta teoria dell'obbedienza). Ma che significa propriamente "ubbidire"? Significa accettare una certa norma di condotta come vincolante, cioè come esistente i n un dato ordinamento giuridico, e quindi valida. E che
cosa è la validità per una norma se non la pretesa, magari garantita dalla coazione, di essere ubbidita anche da coloro che recalcitrano perché la considerano, secondo un loro personale criterio di valutazione, ingiusta? Orbene, l'affermare che una norma deve essere ubbidita anche se ingiusta, è un modo per giungere, se pure indirettamente, alla stessa conclusione da cui siamo partiti, cioè che giustizia di una norma e validità di una norma sono due cose diverse; è insomma un giro più lungo per arrivare a riconoscere che una norma p u ò essere valida (cioè deve essere ubbidita) anche se è ingiusta, e che pertanto giustizia e validità non coincidono.
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13. I L POSITIVISMO GIURIDICO
La teoria opposta a quella giusnaturalistica è la dottrina che riduce la giustizia a validità. Mentre per un giusnaturalista classico ha, ma sarebbe meglio dire, dovrebbe avere, valore di comando solo ciò che è giusto, per la dottrina opposta è giusto solo ciò che è comandato e per il fatto di essere comandato. Per un giusnaturalista, una norma non è valida se non è giusta; per la teoria opposta una norma è giusta solo i n quanto è valida. Per gli uni la giustizia è i l crisma della validità, per gli altri la validità è il crisma della giustizia. Chiamiamo questa dottrina del positivismo giuridico, anche se dobbiamo convenire che la maggior parte di coloro che sono in filosofia positivisti e i n diritto teorici e studiosi del diritto positivo (il termine "positivismo" si riferisce tanto agli uni quanto agli altri), non abbiano mai affermato una tesi così estrema. Tra i filosofi positivisti del diritto, prendiamo, ad esempio, i l Levi già considerato: egli anche se, come positivista, è relativista, e non riconosce valori assoluti di giustizia, pure riconosce che bisogna distinguere ciò che vale come diritto dagli ideali sociali che spingono continuamente a modificare i l diritto costituito, e che pertanto i l diritto p u ò essere valido, senza essere giusto. Tra i giuristi, prendiamo, ad esempio, i l Kelsen: quando i l Kelsen sostiene che ciò che costituisce i l diritto come diritto è la validità, egli non vuol affatto affermare, insieme, che i l diritto valido sia anche giusto, anche se poi gli ideali di giustizia.
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per lui, siano soggettivi e irrazionali; i l problema della giustizia, per lui, è un problema etico ed è distinto dal problema giuridico della validità. Se vogliamo trovare una teoria completa e conseguente del positivismo giuridico, dobbiamo risalire alla dottrina politica di Tommaso Hobbes, la cui caratteristica fondamentale m i pare davvero essere i l rovesciamento radicale del giusnaturalismo classico. Secondo Hobbes, effettivamente non esiste altro criterio del giusto e dell'ingiusto all'infuori della legge positiva, vale a dire all'infuori del comando del sovrano. Per Hobbes è proprio vero che è giusto ciò che è comandato, per i l solo fatto che è comandato; è ingiusto ciò che è proibito, per il solo fatto che è proibito. Come arriva Hobbes a questa conclusione così radicale? Hobbes è un consequenziario, e come per tutti i consequenziari, anche per Hobbes, quel che conta è che la conclusione sia tratta rigorosamente dalle premesse. Nello stato di natura, siccome ciascuno si abbandona ai propri istinti, e non essendovi leggi che assegnino a ciascuno i l suo, ognuno ha diritto su tutte le cose {ius in omnia), nasce la guerra di tutti contro tutti. Lo stato d i natura è quello stato di cui l'unica cosa che si p u ò dire è che è intollerabile e bisogna uscirne. E infatti la prima legge della ragione per Hobbes è quella che prescrive di cercare la pace {pax est quaerenda). Per uscire dallo stato di natura i n modo stabile e definitivo, gli uomini si accordano tra loro per rinunciare reciprocamente ai diritti che avevano i n natura per trasmetterli ad un sovrano {pactum subiectionis). Ora il diritto fondamentale che gli uomini hanno nello stato di natura è di decidere, ciascuno secondo i propri desideri e interessi, ciò che è giusto e ingiusto, tanto è vero che sino a che rimane lo stato di natura non esiste nessun criterio per distinguere i l giusto e l'ingiusto, tranne l'arbitrio e i l potere del singolo. Nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile, gli individui trasmettendo tutti i loro diritti naturali al sovrano, gli trasmettono pure i l diritto di decidere ciò che è giusto o ingiusto; e pertanto, dal momento in cui lo stato civile è costituito, non vi è altro criterio del giusto e dell'ingiusto che la volontà del sovrano. Questa dottrina hobbesiana è legata alla concezione della mera convenzionalità dei valori morali e quindi anche della giustizia, secondo cui non esiste un giusto per natura, ma soltanto un giusto per convenzione (e anche per questo aspetto la dottrina hob-
besiana è l'antitesi della dottrina giusnaturalistica). Nello stato di natura non esiste i l giusto e l'ingiusto perché non esistono convenzioni valide. Nello stato civile il giusto e l'ingiusto riposano sul comune accordo degli individui di attribuire al sovrano i l potere di decidere ciò che è giusto e ingiusto. Per Hobbes, dunque, la validità di una norma giuridica e la giustizia di essa non si distinguono, perché la giustizia e l'ingiustizia nascono insieme col diritto positivo, cioè insieme con la validità. Sino a che si rimane nello stato di natura non c'è diritto valido ma non c'è neppure giustizia; quando sorge lo stato nasce la giustizia ma nasce ad un tempo col diritto positivo, sì che dove non c'è diritto non c'è neppure giustizia e dove c'è giustizia significa che c'è un sistema costituito di diritto positivo. La dottrina di Hobbes ha un significato ideologico ben preciso, che qui non è i l caso di discutere: essa è la giustificazione teorica piti conseguente del potere assoluto. A noi basta mettere in evidenza qual conseguenza saremmo costretti a trarre i n ordine al problema che ora ci interessa, se accettassimo i l punto di vista hobbesiamo. La conseguenza è la riduzione della giustizia alla forza. Se non esiste altro criterio del giusto e dell'ingiusto che i l comando del sovrano, bisogna rassegnarsi ad accettare come giusto ciò che piace al più forte, dal momento che i l sovrano, se non è detto che sia i l più giusto tra gli uomini, certamente è il più forte (ed è e rimane sovrano non già sino a che è giusto, ma sino a che continua ad essere i l più forte). La distinzione tra validità e giustizia serve appunto a distinguere la giustizia dalla forza. Dove questa distinzione crolla, e la giustizia è risolta nella validità, anche la distinzione tra giustizia e forza non è più possibile. Siamo così ricondotti alla celebre dottrina sofistica, sostenuta da Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone, e confutata da Socrate. Trasimaco, insofferente della discussione sulla giustizia che Socrate va svolgendo coi suoi amici, interviene come un animale selvaggio - scrive Platone - che voglia sbranare i presenti, e, dopo aver detto che son tutte frottole quelle che andava dicendo Socrate, enuncia la sua definizione con queste celebri parole: «E stammi allora a sentire. Io sostengo che la giustizia non è altro che l'utile del più forte» {Repubblica, 338 e ) . E qualcosa di simile aveva detto un altro sofista Callide che, i n un altro dialogo platonico (il Gorgia), esplode con questa condanna dei deboli ed esal-
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tazione dei forti: «Ma la natura stessa a mio avviso dimostra essere giusto che i l più forte stia al di sopra del più debole e i l più capace del meno capace. Tale criterio del giusto appare anche negli altri animali, tale fra stato e stato e tra gente e gente, cioè che il più forte domini i l più debole ed abbia maggiori vantaggi» (Gorgia, 483 d.). La dottrina che la giustizia sia la volontà del più forte è stata confutata tante volte nel corso del pensiero occidentale. Ma forse le pagine più efficaci sono quelle che scrisse Rousseau all'inizio del Conlratto sociale in un capitolo, intitolato appunto Du droit du plus fori, di cui riporto alcune delle frasi più incisive: «La forza è una potenza fisica: non vedo qual moralità possa derivarne. Cedere alla forza è un atto di necessità, non di volontà: tutt'al più è un atto di prudenza. I n che senso potrebb'essere un dovere? ... Ammesso che sia la forza a creare i l diritto, l'effetto cambia con la causa: ogni forza che supera la prima ha diritto di succederle. Ammesso che si possa disubbidire impunemente lo si p u ò fare legittimamente, e poiché il più forte ha sempre ragione, non si tratta che di fare i n modo d'essere i più forti ... Se bisogna ubbidire per forza non occorre ubbidire per dovere, e se non si è più costretti ad obbedire, non si è più obbligati».
vismo in senso stretto che ha una concezione formale del diritto. I n antitesi al primo, queste correnti possono dirsi realistiche, i n antitesi al secondo, comenutistiche, nel senso che non guardano al diritto quale deve essere, ma al diritto quale effettivamente è, e neppure guardano al diritto come complesso di norme valide, ma alle norme quali sono effettivamente applicate i n una determinata società. Dal loro punto di vista peccano di astrazione tanto i glusnaturalisti quanto i positivisti, i primi perché scambiano il diritto reale con le aspirazioni alla giustizia, i secondi perché lo scambiano con le regole imposte e formalmente valide, che spesso sono pure forme vuote di contenuto. I positivisti vedrebbero solo i l contrasto esistente tra diritto valido e diritto giusto. I seguaci di queste correnti vedono anche un contrasto tra i l diritto imposto e quello effettivamente applicato, e considerano solo quest'ultimo i l diritto nella sua concretezza, unico possibile oggetto di ricerca da parte del giurista che non voglia baloccarsi con vuoti fantasmi.
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14. I L REALISMO GIURIDICO
Nel corso della storia del pensiero giuridico, nell'ultimo secolo, a diverse riprese, ci sono stati teorici del diritto che hanno cercato di cogliere i l momento costitutivo dell'esperienza giuridica non tanto negli ideali di giustizia a cui gli uomini s'ispirano o dicono d'ispirarsi, non tanto negli ordinamenti giuridici "costitutivi, quanto nella realtà sociale, dove i l diritto si forma e si trasforma, nelle azioni degli uomini che fanno e disfanno col loro comportamento le regole di condotta che l i governano. Seguendo la terminologia adottata, possiamo dire che questi movimenti, tra i var i aspetti con cui si presenta i l fenomeno giuridico, hanno messo l'accento sull'efficacia anziché sulla giustizia o sulla validità. Essi combattono una battaglia su due fronti: contro il giusnaturalismo che avrebbe una concezione ideale del diritto e contro i l positi-
Credo si possano individuare nell'ultimo secolo almeno tre momenti i n cui un siffatto modo di concepire i l diritto è emerso ed emergendo ha contribuito ad allargare l'orizzonte della scienza giuridica. Il primo momento è rappresentato dalla Scuola storica del diritto, del grande giurista tedesco Federico Carlo von Savigny, e del suo seguace Federico Puchta, fiorita all'epoca della Restaurazione. Questa scuola rappresenta, nel campo del diritto, i l mutato clima di pensiero derivato dal diffondersi del romanticismo: essa è l'espressione più genuina del romanticismo giuridico. Come i l romanticismo in generale combatte l'astratto razionalismo dell'illuminismo settecentesco (o per lo meno le sue degenerazioni), così la scuola storica del diritto combatte quel modo razionalistico e astratto di concepire i l diritto che è i l giusnaturalismo, secondo cui vi è un diritto universalmente valido deducibile con la ragione da una sempre eguale natura umana. Per la scuola storica, i l diritto non si deduce da principi razionali, ma è un fenomeno storico e sociale che nasce spontaneamente dal popolo: i l fondamento del diritto è, per dirla con un'espressione diventata famosa, non la natura universale, ma lo spirito del popolo (Volksgeist), donde la conseguenza che vi son tanti diritti diversi quanti sono i diversi popoli con le loro diverse caratteristi-
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che e nelle loro diverse fasi di sviluppo. I l mutamento di prospettiva nello studio del diritto si manifesta soprattutto nella considerazione del dirìtto consuetudinarìo come fonte primaria del diritto, proprio perché i l diritto consuetudinario sorge immediatamente dalla società ed è l'espressione genuina del sentimento giuridico popolare di contro al diritto imposto dalla volontà del gruppo dominante (la legge) e al diritto elaborato dai tecnici del diritto (il cosiddetto diritto scientifico). Possiamo vedere i n questa rivalutazione della consuetudine come fonte del diritto un aspetto di quella considerazione sociale del diritto che si contrappone tanto al giusnaturalismo astratto quanto al rigido positivismo statualistico predominante in genere tra i giuristi. I l secondo momento della reazione antigiusnaturalistica e antiformalistica è rappresentato da un vasto e vario movimento storico, che si è affacciato nell'Europa continentale alla fine del secolo scorso e possiamo chiamare concezione sociologica del dirìtto. Sorge per effetto dello sfasamento che si era venuto creando tra la legge scritta nei codici (il diritto valido) e la realtà sociale in seguito alla rivoluzione industriale (il diritto efficace). L'effetto più rilevante di questa nuova concezione si rivela nel richiamo più insistente rivolto non tanto al diritto consuetudinario, quanto al diritto giudiziario, cioè al diritto elaborato dai giudici i n quell'opera di continuo adattamento della legge ai bisogni concreti emergenti dalla società, che avrebbe dovuto costituire, secondo i seguaci di questo indirizzo, i l rimedio più efficace per accogliere le istanze del diritto che si elabora spontaneamente nel vario intrecciarsi dei rapporti sociali e nel vario cozzare degli interessi contrapposti. Non possiamo qui seguire le molteplici manifestazioni di questo indirizzo. Ci limitiamo a ricordare i l movimento del dirìtto libero, sorto soprattutto i n Germania, per opera del Kantorowicz che scrisse un pamphlet i n difesa della libera creazione normativa da parte del giudice {La lotta per la scienza del dirìtto, pubblicato nel 1906 con lo pseudonimo di Gnaeus Flavius). Si possono annoverare tra le opere più notevoli di questo movimento i quattro volumi di Francesco Gény, Science et téchnique en droit prive positif (1914-1924), i n cui si contrappone la tecnica del diritto, intesa all'opera secondaria e subordinata d i adattare le regole giuridiche ai bisogni pratici della legislazione, alla scienza giuridica, a cui spetta di trovare, tenendo conto dei
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dati storici, ideali, razionali e reali, le regole giuridiche nuove; l'opera di Eugenio Ehrlich sulla logica dei giuristi {Die jurìstische Logik del 1925), che è una delle più documentate e intransigenti polemiche contro i l positivismo statualistico in nome della libera ricerca del diritto da parte del giudice e del giurista, i quali debbono cercare le soluzioni delle controversie non tanto affidandosi al dogma della volontà statuale passivamente accettato, quanto immergendosi nello studio del diritto vivente che la società in continuo movimento continuamente produce. La polemica contro i l rigido statualismo, accompagnandosi con la polemica contro una giurisprudenza prevalentemente concettuale, la cosiddetta giurisprudenza dei concetti {Begriffsjurìsprudenz), ha suscitato per reazione una giurisprudenza realistica, i l cui compito dovrebbe essere di giudicare in base alla valutazione degli interessi contrastanti, chiamata, dal suo principale assertore Filippo Heck, giurisprudenza degli interessi. Possiamo considerare come terzo momento della rivolta antiformalistica, ed è i l momento in cui la rivolta è più violenta e radicale, la concezione realistica del diritto che ha avuto fortuna in questi ultimi decenni negli Stati Uniti d'America. Non bisogna dimenticare che i paesi anglosassoni sono naturalmente più inclini a teorie sociologiche del diritto per i l posto che ha nei loro sistemi normativi, che non conoscono le grandi codificazioni, i l diritto consuetudinario (la common law). I l padre spirituale delle moderne correnti realistiche è un grande giurista, che fu per lunghi anni giudice alla Corte Suprema, Oliver Wendell Holmes (1841-1935), i l quale fu i l primo, nell'esercizio appunto delle sue funzioni di giudice, a sconfessare il tradizionalismo giuridico dèlie corti, e a introdurre un'interpretazione evolutiva del diritto, più sensibile ai mutamenti della coscienza sociale. Inoltre, la giurisprudenza sociologica ha avuto i n America i l suo teorico nel più autorevole filosofo del diritto americano di quest'ultimo cinquantennio, Roscoe Pound, i l quale, i n una lunga serie d i scritti che hanno avuto grande risonanza tra i giuristi americani, si è fatto difensore della figura del giurista sociologo, intendendo con questa espressione i l giurista che tiene conto, nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto, dei fatti sociali dai quali i l diritto deriva e che deve regolare. La scuola realistica, peraltro, che ha avuto i l più radicale assertore in Jerome Frank, va ben oltre
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ai principi che si possono ricavare da Holmes e da Pound. La tesi fondamentale da essa sostenuta è che non esiste un diritto obbiettivo, cioè obbiettivamente desumibile da dati certi, siano essi forniti dalla consuetudine, dalla legge, o dai precedenti giudiziar i : i l diritto è continua creazione del giudice, i l diritto è opera esclusivamente del giudice nell'atto in cui decide una controversia. Cade in questo modo i l principio tradizionale della certezza del diritto: e infatti, quale p u ò essere la possibilità di prevedere le conseguenze di un comportamento - i n ciò consiste la certezza - , se i l diritto è una continua nuova creazione del giudice? Per il Frank, infatti, la certezza, uno dei pilastri degli ordinamenti giuridici continentali, è un mito, che deriva da una specie di acquiescenza infantile di fronte al principio di autorità (questa tesi è stata sostenuta i n un libro del '30, Law and Modem Mind): un mito da abbattere per elevare sulle sue rovine i l diritto come continua e imprevedibile creazione. A parte l'estremismo inaccettabile del realismo americano, grande è stato i l merito delle correnti sociologiche nel campo del diritto, perché hanno impedito la cristallizzazione della scienza giuridica i n una dogmatica senza slancio innovatore. Altro però è i l discorso, che qui c'interessa, sui rapporti tra validità ed efficacia. Si p u ò dire che, attraverso l'accentuazione del momento attivo, evolutivo, sociale del diritto, venga a scomparire la differenza tra validità ed efficacia nel senso che i l solo diritto valido sia quello efficace, cioè quello effettivamente seguito ed applicato? Non lo credo. Per circoscrivere e precisare la discussione, teniamo conto del fatto che la critica delle correnti sociologiche si è risolta di solito in una revisione delle fonti del diritto, vale a dire i n una critica del monopolio della legge, e nella rivalutazione di due altre fonti diverse dalla legge, il diritto consuetudinario e il diritto giudiziario (il giudice legislatore). Osserva quindi come si presenti i l rapporto tra validità ed efficacia in queste due fonti:
requisiti essenziali della consuetudine stessa. Ma quell'affermazione non è del tutto esatta: se è giusto dire che nel diritto consuetudinario la validità è sempre accompagnata dalla efficacia, non è altrettanto giusta la proposizione inversa che l'efficacia sia sempre accompagnata dalla validità. Dire che una consuetudine diventa valida a causa della sua efficacia equivarrebbe a sostenere che un comportamento diventi giuridico per il solo fatto di essere costantemente ripetuto. È noto, invece, che non basta i l fatto che un comportamento sia effettivamente seguito dal gruppo sociale a farlo diventare una consuetudine giuridica. Che cosa occorre d'altro? Occorre appunto quel che si dice "validità", cioè che quel comportamento costante, che costituisce i l contenuto della consuetudine, riceva una forma giuridica, ovvero venga accolto i n un determinato sistema giuridico, come comportamento obbligatorio, cioè come comportamento la cui violazione implica una sanzione. Questa forma giuridica viene attribuita al diritto consuetudinario o dalla legge, i n quanto vi si richiami, o dal giudice i n quanto egli tragga la materia della sua decisione da una consuetudine, o dalla concorde volontà delle parti. I giuristi dicono che per la formazione di una consuetudine giuridica occorre, oltre alla ripetizione, anche i l requisito interno o psicologico della opinio iuris. Ma perché si formi l'opinio iuris, cioè la convinzione che quel comportamento e obbligatorio, occorre che quel comportamento sia qualificato come obbligatorio da qualche norma valida del sistema, cioè, i n ultima analisi, occorre che la norma che lo regola non sia solo efficace ma sia anche, i n quel sistema, valida.
a) Per quanto riguarda i l diritto consuetudinario è stato detto che esso è // diritto in cui validità ed efficacia coincidono, nel senso che mentre si p u ò immaginare una legge che sia valida ma non efficace, non si p u ò immaginare una consuetudine che sia valida senza essere efficace, perché, mancando l'efficacia, verrebbe meno quella ripetizione unifoime costante e generale, che è uno dei
b) Per quel che riguarda i l nuovo e maggiore rilievo dato dalle scuole sociologiche alla figura del giudice creatore del diritto, qui nasce soltanto i l problema se si possa considerare propriamente diritto quel diritto vivente, o in fonnazione, quel diritto che nasce spontaneamente dalla società, a cui i teorici della corrente sociologica del diritto si appellano. Ci soccorre a questo proposito la distinzione tra fonti di cognizione e fonti di qualificazione del diritto. I l diritto vivente è puramente e semplicemente un fatto o una serie di fatti da cui i l giudice trae la conoscenza delle aspirazioni giuridiche che si vengono formando nella società. Ma perché queste aspirazioni diventino regole giuridiche, occoiTe che i l
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giudice le accolga, e attribuisca loro l'autorità normativa che inerisce alla sua funzione di organo capace di produrre norme giuridiche. I l diritto vivente non è ancora diritto, cioè norma o complesso di norme di quel sistema, sino a che è soltanto efficace. Lo diviene nel momento in cui i l giudice, i n quanto sia riconosciuto come creatore di diritto, gli attribuisce anche la validità. I n realtà, si p u ò parlare di un giudice creatore di diritto, proprio i n quanto le regole che egli scopre nella realtà sociale non sono ancora regole giuridiche, e non lo sono sino a che egli non le riconosce e non attribuisce ad esse forza coattiva. Anche le famose opinioni espresse dal giudice Holmes, nella sua attività di giudice, per quanto fossero tratte dall'osservazione della realtà sociale, e fossero più sensibili al cosiddetto diritto i n formazione che le sentenze dei suoi colleghi, non sono diventate diritto positivo degli Stati Uniti, sino a che egli ebbe a sostenerle essendo i n .minoranza, poiché i n quel sistema era diritto valido soltanto quello riconosciuto dalla maggioranza della Corte. Se i l diritto vivente p u ò essere considerato come fonte di cognizione giuridica, solo i l giudice (e a maggior ragione i l legislatore) p u ò essere considerato come fonte di qualificazione.
CAPITOLO I I I L E PROPOSIZIONI
PRESCRITTIVE
SOMMARIO: 15. Un punto di vista formale. - 16. La norma come proposizione. - 17. Forme e funzioni. - 18. Le tre funzioni. - 19. Caratteri delle proposizioni prescrittive. - 20. Si possono ridurre le proposizioni prescrittive a proposizioni descrittive? - 21. Si possono ridurre le proposizioni prescrittive a proposizioni espressive? - 22. Imperativi autonomi ed eteronomi. - 23. Imperativi categorici e imperativi ipotetici. - 24. Comandi e consigli. - 25. I consigli nel diritto. - 26. Comandi e istanze.
15. U N PUNTO DI VISTA FORMALE
Il punto di vista da cui ci proponiamo di studiare la norma giuridica in questo corso p u ò dirsi formale. È formale nel senso che considereremo la norma giuridica indipendentemente dal suo contenuto, ovvero nella sua struttura. Ogni norma, come del resto ogni proposizione, presenta problemi strutturali che vengono posti e risolti senza riguardo al fatto che essa abbia questo o quel contenuto. Come ogni altra proposizione, anche la norma ha una sua struttura logico-linguistica, che p u ò essere riempita dei più diversi contenuti. Così come la struttura del giudizio "S è P" vale tanto per la proposizione: "Socrate è mortale", quanto per la proposizione: "La balena è un mammifero", così la struttura della norma: "Se è A, deve essere B" vale tanto per la prescrizione: "Se hai calpestato l'aiuola, dovrai pagare la multa", quanto per la prescrizione: «Se hai ucciso con premeditazione, dovrai subire la pena dell'ergastolo». Ciò che faremo oggetto di studio nel seguito del corso sarà la norma giuridica nella sua struttura logico-lin-
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Teoria della norma giuridica
Proposizioni prescrittive
guistica. Di fronte al complesso delle norme giuridiche, i l nostro problema sarà quello di domandarci qual tipo di proposizioni esse siano, se siano proposizioni prescrittive e di qual tipo, quali classi di proposizioni prescrittive esse comprendano, e così via. Si capisce che lo studio formale delle norme giuridiche che qui s'intraprende, non esclude affatto altri modi di considerare i l diritto. Se io m i propongo di conoscere non già quale sia la struttura delle norme giuridiche, ma quale sia l'opportunità o la convenienza o la giustizia delle norme giuridiche che compongono un determinato sistema, oppure quale sia l'efficacia sociale che certe norme esercitano i n un determinato ambiente storico, l'oggetto della mia ricerca non sarà più la forma o struttura, ovvero, per usare una metafora, l'involucro, i l recipiente, ma i l contenuto, ciò che i l recipiente contiene, cioè i comportamenti regolati. La norma: «È proibito calpestare le aiuole» è, dal punto di vista formale, un imperativo negativo, e non differisce dalla norma: «È proibito uccidere». Ma se io voglio sapere quali siano i motivi per cui questa norma è stata emanata, se questi motivi siano da accettarsi, se essa sia effettivamente seguita o non sia continuamente violata, ecc., dovrò fare delle ricerche in un campo completamente diverso da quello che diventerebbe mio oggetto di studio se volessi pormi analoghe domande intomo al divieto di uccidere.
le è giusto ciò che è conforme alla legge, e i n quanto tale respinge ogni criterio di giustizia che stia al di sopra delle leggi positive e i n base al quale le stesse leggi positive possano essere valutate. Questa dottrina p u ò dirsi formale nel senso che fa consistere la giustizia nella legge per i l solo fatto che è legge, cioè che è comando posto dal potere sovrano, e quindi prescinde, per darne un giudizio di valore, dal suo contenuto. Un secondo tipo di formalismo è quello che si potrebbe chiamare più propriamente formalismo giuridico, e comprende quella dottrina secondo cui la caratteristica del diritto non è già quella di prescrivere ciò che ciascuno deve fare, ma semplicemente i l modo con cui ciascuno deve agire se vuol raggiungere i propri scopi, e pertanto appartiene al compito del diritto non già stabilire i l contenuto del rapporto intersoggettivo ma la forma che esso deve assumere per avere certe conseguenze. Questo tipo di formalismo risale alla vecchia definizione kantiana del diritto, secondo cui una delle caratteristiche del rapporto giuridico è che i n esso non viene i n considerazione la materia dell'arbitrio, cioè lo scopo che uno si propone coll'oggetto che egli vuole, ma soltanto la forma, i n quanto i due arbitrii sono considerati come assolutamente liberi; ed è stata ripresa dalle correnti neokantiane. Infine, vi è un terzo tipo di formalismo, che si potrebbe chiamare formalismo scientifico perché ha riguardo non già al modo di definire la giustizia (formalismo etico), né al modo di definire i l diritto (formalismo giuridico), ma al modo di concepire la scienza giuridica e i l lavoro del giurista, al quale viene attribuito i l compito di costruire i l sistema dei concetti giuridici quali si ricavano dalle leggi positive, che è compito puramente dichiarativo o ricognitivo e non creativo, e di ricavare deduttivamente dal sistema così costmito la soluzione di tutti i possibili casi controversi.
Avvertendo sin dal principio che i l punto di vista formale non è un modo esclusivo di considerare la norma giuridica, voglio evitare che si scambi lo studio formale della norma giuridica con uno dei tanti formalismi che hanno acquistato diritto di cittadinanza nel campo del sapere giuridico, e contro i quali si è accesa i n modo particolarmente vivo la polemica proprio i n questi ult i m i anni. Per "formalismo giuridico" s'intende una considerazione esclusiva del diritto come forma. Per quanto la polemica antiformalistica non sempre distingua un tipo di formalismo dall'altro, e ne nasca di solito una gran confusione, io credo che sotto il nome generico di "formalismo giuridico" oggi s'intendano almeno tre teorie diverse, che hanno diverse mire e che richiedono, posto che le si voglia combattere, argomenti diversi. Un primo tipo di formalismo nel diritto è quello che si potrebbe chiamare formalismo etico, vale a dire quella dottrina secondo la qua-
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È inutile dire che i tre tipi di formalismo non sono da confondersi perché hanno riguardo a problemi diversi. I l primo risponde alla domanda: «Che cosa è la giustizia?»; i l secondo: «Che cosa è il diritto?»; il terzo: «Come deve comportarsi la scienza giuridica?». Un autore p u ò essere formalista nel primo senso e non nel secondo e nel terzo, e via dicendo. E così la polemica antiformalistica rivolta, poniamo, al formalismo giuridico, non vale per il formalismo etico e per i l formalismo scientifico. Purtroppo, la maggior parte degli autori non fanno alcuna distinzio4. - N . BOBBIO: Teorìa generale del dirìtto
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ne, e spesso, sotto i l nome generico di "rivolta contro i l formalismo" si mettono cose diverse. A noi qui basta aver messo i n evidenza che i l punto di vista formale, da cui abbiamo preso le mosse, non ha niente a che vedere con nessuno dei tre formalismi, perché non pretende di essere una teoria esclusiva né della giustizia, né del diritto, né della scienza giuridica, ma è puramente e semplicemente un modo per studiare il fenomeno giuridico nella sua complessità, un modo che non solo non esclude gli altri, ma li esige perché si possa ottenere una conoscenza integrale della esperienza giuridica.
16. L A NORMA COME PROPOSIZIONE
Dal punto di vista formale, che qui abbiamo prescelto, una norma è una proposizione. Un codice, una costituzione sono un insieme d i proposizioni. Si tratta di sapere quale sia lo status delle proposizioni che compongono un codice, una costituzione. La tesi qui sostenuta è che le norme giuridiche rieritrino nella categoria generale delle proposizioni prescrittive. Onde la nostra ricerca si sviluppa attraverso quattro fasi: 1) studio delle proposizioni prescrittive e loro distinzione dagli altri tipi d i proposizione; 2) esame e critica delle principali teorie sostenute sulla struttura formale della norma giuridica; 3) studio degli elementi specifici della norma giuridica come prescrizione; 4) classificazione delle prescrizioni giuridiche. Per "proposizione" intendiamo un insieme di parole aventi un significato nel loro complesso. La forma più comune di una proposizione è ciò che nella logica classica si chiama giudizio, che è una proposizione composta di un soggetto e di un predicato, uniti da una copula (S è P). Ma non ogni proposizione è un giudizio. Per esempio: "Guarda!" "Quanti anni hai?" sono proposizioni, ma non giudizi. Così pure, bisogna distinguere una proposizione dal suo enunciato. Per "enunciato" intendo la forma grammaticale e linguistica con cui un determinato significato è espresso, per cui la stessa proposizione p u ò avere enunciati diversi, e lo stesso enunciato p u ò esprimere proposizioni diverse. Una stessa proposizione p u ò essere espressa con enunciati diversi quando muta la
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forma grammaticale. Ad esempio: "Mario ama Maria" e "Maria è amata da Mario", ove il significato è identico e ciò che muta è soltanto l'espressione; oppure nel passaggio dello stesso significato da un'espressione di una lingua all'equivalente espressione di un'altra lingua. Per esempio: "Piove"; " I l pleut"; "It is raining"; "Es regnet" sono enunciati diversi della stessa proposizione. All'inverso, con lo stesso enunciato si possono esprimere, i n mutati contesti e i n mutate circostanze, proposizioni diverse. Ad esempio, quando io dico, rivolto ad un amico, col quale sto facendo una passeggiata: "Vorrei bere una limonata", intendo esprimere un mio desiderio e tutt'al più dare al mio amico un'informazione su un mio stato d'animo; se rivolgo le stesse parole ad una persona che sta dietro i l banco di un bar, non intendo esprimere un desiderio né dargli un'informazione ma imporgli una determinata condotta. (Mentre, nel primo uso dell'espressione, è prevedibile, da parte dell'amico, la risposta: "Anch'io"; la stessa risposta da parte del secondo interlocutore sarebbe poco meno che un'offesa). Quando definisco una proposizione come un insieme di parole aventi un significato nel loro complesso, intendo escludere dall'uso del termine "proposizione" insiemi di parole senza significato. Un insieme di parole p u ò non aver significato nel suo complesso, pur avendo un significato le parole che lo compongono, come, ad esempio: "Cesare è un numero primo"; " I l triangolo è democratico". Oppure p u ò non avere un significato nel suo complesso, perché le stesse parole che lo compongono non hanno, singolarmente prese, un significato, come ad esempio: "Pape Satan, pape Satan aleppe". Un insieme di parole senza significato non è da confondere con una proposizione falsa. Una proposizione falsa è pur sempre una proposizione, perché ha un significato. Per esempio: "Cesare morì le idi di aprile"; " I l triangolo ha quattro lati". Essa è falsa perché, sottoposta al criterio di verità che abbiamo assunto per giudicarla, si dimostra che essa non ha i requisiti richiesti perché possa dirsi vera. Se è una proposizione sintetica, i l criterio con cui la si giudica è la maggiore o m i nore corrispondenza ai fatti; se è una proposizione analitica il criterio è la coerenza o validità formale. Comunque, perché una proposizione possa essere verificata o falsificata occorre che essa abbia un significato.
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Proposizioni prescrittive
Quando diciamo che una norma giuridica è una proposizione, vogliamo dire che essa è un insieme di parole aventi un significato. I n base a quel che abbiamo detto sopra, la stessa proposizione normativa p u ò essere formulata con enunciati diversi. Ciò che interessa al giurista, quando interpreta una legge, è i l suo significato. Come una proposizione i n genere p u ò avere u n significato, ma essere falsa, così una proposizione normativa p u ò avere un significato ed essere - non diciamo falsa - ma, per le ragioni che vedremo in seguito, invalida o ingiusta. Anche per le proposizioni normative i l criterio di significanza, per cui si distinguono proposizioni vere c proprie da insiemi di parole senza significato, si distingue dal criterio di verità o validità, per cui si distinguono proposizioni vere e valide da proposizioni false o invalide.
fine che colui che pronuncia la proposizione si propone di raggiungere. E che i due criteri siano diversi si p u ò mostrare col fatto che la stessa funzione p u ò essere espressa con forme diverse, e, inversamente, con la stessa forma grammaticale si possono esprimere funzioni diverse. Tra tutti i tipi di proposizioni a noi interessano i n modo particolare i cotnandi, ovvero quelle proposizioni la cui funzione è, come vedremo meglio in seguito, di influire sul comportamento altrui per modificarlo, e che ora chiamiamo ancora i n forma generica "comandi" anche se i n seguito sarà necessario introdurre ulteriori distinzioni. Ebbene, un comando, ovvero una proposizione che si distingue per una particolare funzione, p u ò essere espressa a seconda delle circostanze e dei contesti i n tutte le forme grammaticali sopra menzionate. Certamente la forma più comune è quella imperativa: "Studia" (non è detto del resto che la forma imperativa corrisponda sempre al modo verbale imperativo; vi sono altre forme grammaticali imperative come quella costituita dall'ausiliario "dovere": "Devi studiare"). Ma un comando viene talora espresso in forma dichiarativa, come accade per lo più negli articoli di legge, i quali, pur avendo una indubbia funzione imperativa, sono quasi sempre espressi con proposizioni dichiarative. Quando l'art. 566 ce. dice: «Al padre e alla madre succedono i figli legittimi i n parti eguali», l'intenzione di chi ha pronunciato questa formula non è stata già quella d i dare un'informazione, bensì di imporre una serie di comportamenti: si tratta manifestamente di una proposizione dichiarativa con funzione di comando. Così quando un padre rivolgendosi al figlio gli dice con uria minacciosa: «Non ti pare che questo compito sia pieno di errcri?», la proposizione è formalmente interrogativa, ma la funzione che i l pronunciante le attribuisce è di indurre i l destinatario a correggere i l compito, e quindi, in ultima analisi, nonostante la forma interrogativa, la proposizione è un comando, se pur espresso come un'interrogazione. Molte delle "interrogazioni" che si fanno, secondo una procedura stabilita, i n Parlamento, sono proposizioni o serie di proposizioni, i l cui scopo principale non è tanto quello di ricevere delle informazioni (l'intenogante di solito sa in precedenza che cosa i l governo r i sponderà o non risponderà), quanto quello di indurre i l governo a modificare i l proprio comportamento: anche qui, dietro la for-
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17. F O R M E E FUNZIONI
Vi sono vari tipi di proposizioni. Si possono distinguere i vari tipi di proposizioni in base a due criteri: la forma grammaticale e la funzione^. I n base alla forma grammaticale le proposizioni si distinguono principalmente i n dichiarative, imerrogative, imperative ed esclamative. Rispetto alla funzione si distinguono i n asserzioni, domande, comandi, esclamazioni. Esempi: "Piove" (proposizione formalmente dichiarativa e con funzione di asserzione); "Piove?" (proposizione formalmente interrogativa e con funzione di domanda); "Prendi l'ombrello" (proposizione formalmente imperativa e con funzione di comando); "Come sei bagnato!" (proposizione formalmente esclamativa con funzione di esclamazione). Spesso - come risulta dagli esempi fatti - forma grammaticale e funzione si corrispondono secondo l'ordine su esposto: un comando viene abitualmente espresso i n forma i m perativa. Ma i due criteri si distinguono perché i l primo ha r i guardo al modo con cui la proposizione è espressa, i l secondo al
' Per questo e il successivo paragrafo, abbiamo seguito, tra i vari trattati di logica, in modo particolare quello di J . M . COPI, Introduction to Logic ( 1 9 5 3 ) .
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ma interrogativa, appare la funzione i n largo senso precettiva. Infine, passando davanti al cancello d'una villa leggo un cartello con su scritto: "Attenti al cane!". È un'esclamazione? Se la proposizione avesse la funzione esclamativa, vorrebbe dire che i proprietari della villa hanno voluto con quella frase esprimere pubblicamente i l loro stato d'animo sulla terribilità del loro cane. Ma non è così: leggendo quel cartello, io capisco che devo girare al largo. Ma ciò significa che quella frase nella sua apparenza d i esclamazione ha la funzione di comando, o per lo meno di raccomandazione, cioè non esprime sentimenti, ma tende a influire sul comportamento altrui. C'è un segnale stradale che tutti conoscono, che è composto da una specie di punto esclamativo: esso, inutile dirlo, non è l'espressione di uno stato d'animo, ma un invito alla prudenza. Così come la stessa funzione p u ò essere espressa con forme grammaticali diverse, così la stessa forma grammaticale p u ò esprimere diverse funzioni. I n un trattato di geografia m i p u ò accadere di leggere la seguente frase: "L'Italia si riparte i n regioni, Provincie e comuni". Niun dubbio che questa proposizione dichiarativa è, rispetto alla funzione, un'asserzione, ovvero una proposizione i l cui scopo è di impartire una informazione. Nella Costituzione della repubblica italiana leggo all'art. 114: «La Repubblica si riparte i n regioni, provincie e comuni». La proposizione è, rispetto alla forma grammaticale, identica a quella che ho letta nel trattato di geografìa. Ma i l significato è pure lo stesso? I l costituente non si è proposto affatto, dettando quell'articolo, di dare ai cittadini italiani una notizia geografica, ma di stabilire una direttiva per i l legislatore: quella frase, insomma, non è un'asserzione, ma una norma.
18. L E TRE FUNZIONI
Ritengo che si possano distinguere tre funzioni fondamentali del linguaggio: la funzione descrittiva, quella espressiva e quella prescrittiva. Queste tre funzioni danno origine a tre tipi di linguaggi ben differenziati (anche se non si trovino mai nella realtà allo stato puro), i l linguaggio scientifico, i l linguaggio poetico, i l
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linguaggio normativo. A noi interessa i n modo particolare la funzione prescrittiva: un insieme di leggi e d i regolamenti, u n codice, una costituzione, costituiscono esempi tra i più interessanti di linguaggio normativo, così come un trattato d i fisica o di biologia costituiscono esempi caratteristici di linguaggio scientifico, e un poema o un canzoniere costituiscono esempi rappresentativi d i linguaggio poetico. Gli esempi hanno reso già evidente la distinzione. Senza la pretesa di dare definizioni r i gorose ed esaurienti, ci basti qui dire che la funzione descrittiva, propria del linguaggio scientifico, consiste nel dare informazioni, nel comunicare ad altri certe notizie, nella trasmissione del sapere, insomma nel far conoscere; la funzione espressiva, propria del linguaggio poetico, consiste nel rendere evidenti certi sentimenti e nel tentare di evocarli i n altri, i n modo da far partecipare altri ad una certa situazione sentimentale; la funzione prescrittiva, propria del linguaggio normativo, consiste nel dare comandi, consigli, raccomandazioni, avvertimenti, sì da influire sul comportamento altrui e modificarlo, e insomma nel far fare. Per quanto sia difficile trovare questi tipi di linguaggio allo stato puro, tuttavia si deve ammettere che i l linguaggio scientifico tende a spogliarsi di ogni funzione prescrittiva ed espressiva, onde nasce l'ideale dello scienziato che, per dirla con Spinoza, non piange e non ride, ed è indifferente alle conseguenze pratiche che possono derivare dalle proprie scoperte; che una poesia è tanto più genuina poesia quanto più si libera dalla funzione informativa (per aver dati su Zacinto leggerò un trattato di geografia e non i l sonetto del Foscolo) e da quella prescrittiva (una poesia che si proponga di promuovere un'azione è una poesia didascalica o oratoria, e, secondo i canoni ben not i dell'estetica dell'intuizione-espressione, non-poesia); e che un corpo di leggi tende a eliminare tutto ciò che non è precetto, e pertanto la caratteristica di un moderno codice i n confronto alle leggi di civiltà meno progredite sta proprio nell'eliminazione di tutti gli elementi descrittivi ed evocativi che spesso sono stati mescolati con quelli prescrittivi. Vi sono, peraltro, tipi d i d i scorso la cui caratteristica è proprio quella di combinare due o più tipi di linguaggi: un discorso celebrativo, una commemorazione, è una combinazione di proposizioni descrittive ed espres-
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sive (si tratta di dar notizie sulla vita del commemorato e insieme di suscitare certi sentimenti di ammirazione per le opere compiute, indignazione per i torti sofferti, dolore per la morte precoce, ecc.); una predica è una combinazione di proposizioni espressive e prescrittive (si tratta di suscitare certi sentimenti pietà per i defunti, compassione per gli afflitti, ecc. - e d i persuadere a compiere certe opere); un'arringa è quasi sempre una combinazione di informazioni (per esempio, la figura morale e intellettuale dell'imputato), d i evocazioni d i sentimenti (la cosiddetta "mozione degli affetti"), e di prescrizioni (la richiesta di assoluzione). Che una prescrizione si trovi accompagnata da proposizioni d'altro tipo, non è difficile spiegare. Perché l'altro a cui rivolgiamo la prescrizione si risolva ad agire, non sempre è sufficiente che ascolti la pronuncia del comando puro e semplice: è necessario talora che conosca certi fatti e desideri certe conseguenze. Affinché venga a conoscenza di quei fatti che lo inducano ad agire, occorre dargli delle informazioni; affinché desideri certe conseguenze, bisogna suscitare in lui un certo stato d'animo; affinché venga a conoscenza di certi fatti e desideri certe conseguenze, è necessario informarlo e suscitare i n l u i un determinato stato d'animo. Così quando dico: "Prendi l'ombrello", e aggiungo: "Piove", unisco la prescrizione all'informazione. Se dico, invece: "Dà l'elemosina a quel poveretto", e aggiungo: "Com'è triste la miseria!", unisco la prescrizione all'evocazione di un sentimento. Dicendo, infine: "Mangia quel che hai nel piatto", e aggiungo: "È latte", e poi, come se non bastasse: "Se sapessi com'è buono!", unisco la prescrizione all'informazione e all'evocazione di uno stato d'animo favorevole al compimento dell'azione. Anche i l legislatore p u ò ricorrere a discorsi descrittivi ed evocativi per rafforzare i suoi precetti: p u ò essere molto utile per far eseguire una legge, dare le più ampie informazioni sui vantaggi che se ne possono trarre, oppure suscitare con appassionate invocazioni, per esempio, all'amor di patria, stati d'animo favorevoli all'obbedienza. I l linguaggio prescrittivo è quello che ha maggiori pretese perché tende a modificare i l comportamento altrui: nulla di strano che si valga per esercitare la propria funzione anche degli altri due.
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19. CARATTERI D E L L E PROPOSIZIONI PRESCRITTIVE
Uno dei problemi sui quali sono maggiormente impegnati i logici contemporanei è la distinzione tra proposizioni descrittive e prescrittive. È un argomento sul quale sono stati scritti i n questi anni centinaia di libri e di articoli. L'opera che ha avuto più successo i n questo campo, e che è generalmente al centro delle discussioni, è quella di R.M. Hare, The Language of Morals (Oxford, At the Clarendon Press, 1952), alla quale rimando una volta per sempre. I n Italia la prima trattazione sull'argomento è quella di U. Scarpelli, // problema della definizione e il concetto di diritto (Milano, Nuvoletti, 1955), i l cui primo capitolo è dedicato al tema Linguaggio prescrittivo e linguaggio descrittivo. Si possono riassumere i caratteri differenziali delle proposizioni prescrittive e descrittive in tre punti: a) rispetto alla funzione; b) rispetto al comportamento del destinatario; c) rispetto al criterio di valutazione. Per quel che riguarda la funzione, abbiamo già detto l'essenziale. Con la descrizione miriamo a informare altrui; con la prescrizione a modificarne i l comportamento. Non è detto che anche una informazione non influisca sul comportamento altrui. Quando in una città straniera chiedo l'indicazione di una via, la risposta m i induce ad andare i n un senso piuttosto che i n un altro. Ma l'influenza della informazione sul mio comportamento è indiretta, mentre l'influenza della prescrizione è diretta. Affinché la informazione: "Via Roma è la quarta a destra" abbia un'influenza sul mio comportamento deve inserirsi i n un contesto più ampio, di cui faccia parte la prescrizione: "Devo andare i n via Roma". Ogni modificazione volontaria del comportamento presuppone i l momento prescrittivo. Quanto al destinatario, è stato appunto lo Hare a mettere i n r i lievo che di fronte a una proposizione descrittiva si p u ò parlare dell'assenso del destinatario quando questi crede che la proposizione sia vera. I n una proposizione prescrittiva, invece, l'assenso del destinatario è manifestato dal fatto che la eseguisce. I n altre parole, si p u ò dire che la prova dell'accettazione di una informazione è la credenza (un comportamento mentale), la prova dell'accettazione di una prescrizione è l'esecuzione (un comportamento
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pratico, per quanto la distinzione tra comportamento mentale e pratico sia molto dubbia e qui si faccia solo per una prima approssimazione). Dice lo Hare: «Possiamo caratterizzare provvisoriamente la differenza tra asserzioni e comandi dicendo che mentre l'assentire sinceramente alle prime implica credere i n qualche cosa, l'assentire sinceramente ai secondi implica fare qualche cosa» {op. cit., p. 20). I l carattere distintivo che pare decisivo è quello rispetto al criterio di valutazione. Delle proposizioni descrittive si p u ò dire che sono vere o false; delle prescrittive non si p u ò dire. Le proposizioni prescrittive non sono né vere né false nel senso che non sono sottoponibili alla valutazione del vero e del falso. Ha senso domandarsi se l'asserzione "Ulan Bator è la capitale della Mongolia" sia vera o falsa; non ha senso domandarsi se i l precetto: "Sì prega di pulirsi le scarpe prima di entrare" sia vero o falso. Verità e falsità non sono predicabili delle proposizioni prescrittive, bensì soltanto delle descrittive. I criteri di valutazione i n base ai quali accettiamo o respingiamo una prescrizione sono altri. A proposito delle norme giuridiche abbiamo parlato della valutazione secondo la giustizia e l'ingiustizia (e secondo la validità e l'invalidità). Allora diremo che mentre non ha senso il domandarsi se u n precetto sia vero o falso, ha senso domandarsi se sia giusto o ingiusto (opportuno o inopportuno, conveniente o sconveniente) o valido o invalido. La differenza tra i predicati riferibili alle proposizioni descrittive e quelli riferibili alle prescrittive deriva dalla differenza dei criteri i n base ai quali valutiamo le une e le altre per dare ad esse i l nostro assenso. I l criterio con cui valutiamo le prime per accettarle o respingerle è la corrispondenza ai fatti (criterio di verificazione empirica) o ai postulati autoevidenti (criterio di verificazione razionale), a seconda si tratti di proposizioni sintetiche o analitiche. Diciamo empiricamente vere le proposizioni i l cui significato è verificato i n via empirica, e razionalmente vere quelle che sono verificate i n via razionale. I l criterio con cui valutiamo le seconde per accettarle o respingerle è la corrispondenza ai valori ultimi (criterio di giustificazione materiale) o la derivazione dalle fonti primarie di produzione normativa (criterio di giustificazione formale). Diciamo giuste (o convenienti) le prime, valide le seconde. Si osservi che per entrambi i tipi di pro-
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posizioni valgono due criteri, uno che diremo materiale, l'altro formale; ma non si corrispondono tra loro. Se mai, una corrispondenza si p u ò vedere tra i l secondo criterio di verificazione (una proposizione è vera i n quanto è dedotta da proposizioni primitive poste come vere) e i l primo criterio di giustificazione (una norma è giusta i n quanto è dedotta da una norma superiore posta come giusta). I l primo criterio di verificazione delle proposizioni descrittive non trova corrispondenza nella valutazione delle prescrizioni (si potrebbe trovare una corrispondenza nel criterio, precedentemente illustrato, dell'efficacia, ma è un criterio per l'accettazione o la ripulsa delle norme tutt'altro che decisivo). I l secondo criterio di giustificazione non trova corrispondenza nella valutazione delle proposizioni descrittive (si dovrebbe farlo corrispondere a quello che si chiama la valutazione secondo i l principio d'autorità, ma è valutazione tanto accolta nel mondo del normativo quanto screditata nel dominio del descrittivo). I n ultima analisi, la differenza tra la verificazione delle proposizioni descrittive e la giustificazione delle proposizioni prescrittive sta nella maggior oggettività della prima rispetto alla seconda, dal momento che la prima ha come ultimo punto di riferimento ciò che è osservabile e appartiene al dominio della percezione, la seconda trova il suo ultimo punto di riferimento i n ciò che è desiderato, appetito, oggetto di tendenza o inclinazione, e appartiene al dominio dell'emozione o del sentimento. Si dice, per marcare questa differenza, che la verità di una proposizione scientifica p u ò essere dimostrata, mentre della giustizia di una norma si p u ò soltanto cercare di persuadere altrui (donde la differenza, che si sta facendo strada ai giorni nostri, tra logica o teoria della dimostrazione e retorica o teoria della persuasione).
20. S I POSSONO RIDURRE L E PROPOSIZIONI PRESCRITTIVE A PROPOSIZIONI DESCRITTIVE?
Noi riteniamo che la differenza tra i due tipi di proposizioni, esaminate nel paragrafo precedente, sia irriducibile. Si tratta di due tipi di proposizioni che hanno uno status diverso. Ma non vo-
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gliamo passar sotto silenzio i l più serio tentativo che sinora sia stato fatto di riduzione ^. La tesi riduzionistica è formulata nel seguente modo: una prescrizione, per esempio, "Fai X " p u ò essere sempre ridotta ad una proposizione alternativa di questo tipo "O fai X, o t i accade Y", i n cui Y indica una conseguenza spiacevole. La proposizione alternativa, si sostiene, non è più una prescrizione, ma una descrizione; è una proposizione che descrive quello che succederà, tanto è vero che di essa si p u ò dire se è vera o falsa, vera se Y si verifica, falsa se Y non si verifica. È chiaro che questa riduzione riposa sul presupposto che il comandare implichi sempre la minaccia di una sanzione, in altre parole che la forza del comando, ciò che fa del comando un insieme di parole significanti la cui funzione è di modificare i l comportamento altrui, stia nelle conseguenze spiacevoli che dall'inesecuzione i l destinatario deve aspettarsi. Se io dico allo studente del primo banco "Chiuda la porta", questa mia proposizione è un comando solo se lo studente è convinto che, non eseguendolo, io lo possa rimproverare o peggio danneggiare con un cattivo voto di condotta. Se lo studente fosse invece convinto che non eseguendo i l comando, non succederebbe proprio nulla, quelle tre parole da me pronunciate, pur essendo espresse nella forma imperativa, non sarebbero che un flatus vocis, oppure una mera espressione di un mio stato d'animo. Non c'è dubbio che la tesi è suggestiva; ciononostante non credo di poterla accettare, prevalentemente per tre considerazioni: 1. che ogni comando sia caratterizzato dalla sanzione è una affermazione difficilmente confermabile coi fatti; potrà forse essere vero per i comandi giuridici (come vedremo i n seguito), ma non si riesce a vedere come possa essere sostenuto per ogni forma di comando. Lo Hare, che non accetta la tesi della riduzione, per dare un esempio di comando senza conseguenze, propone i l seguente: "Dì a tuo padre che ho telefonato". Certamente si trat-
^ Si veda A. VISALBERGHI, Esperìenza e valutazione, Torino, 1958, soprattutto il capitolo secondo La logica degli imperativi e delle nonne, pp. il-bl, nel quale si riprende e sviluppa la tesi di H . G . BONHERT, The Semiotic Status of Command, in "Philosophy of Science", XII, 1945, pp. 302-315.
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ta di una prescrizione, perché con quella frase i l pronunciante m i ra a far fare qualcosa ad un'altra persona. Ma se questa persona non eseguisce, che cosa succede? Proviamo a mettere quella proposizione i n forma alternativa e ci accorgiamo che ci viene a mancare la seconda parte: «O dici a tuo padre che ho telefonato, oppure ...». Oppure che cosa? Più i n generale sembra che dietro alle tesi della riduzione ci sia la convinzione che l'unica ragione per cui si eseguisce un comando è i l timore della sanzione, e pertanto la funzione del comandare venga espletata soltanto attraverso la minaccia. Ma si tratta manifestamente di una falsa generalizzazione. Non voglio impegnarmi qui nella discussione se vi siano imperativi incodizionati o categorici, cioè imperativi che vengono eseguiti solo perché sono imperativi, anche se sulla esistenza di imperativi siffatti Kant fondi l'autonomia della legge morale, la quale si distingue da tutte le altre leggi per il fatto di essere ubbidita per se stessa (il dovere per il dovere) e non per i vantaggi o svantaggi che se ne possono trarre (il dovere per uno scopo esterno). Ma prescindendo totalmente dalla teoria kantiana della morale, e accontentandoci di osservazioni nel campo dell'esperienza comune, osserviamo che vi sono comandi i quali vengono eseguiti unicamente per i l prestigio, l'ascendente o l'autorità delle persone che comandano, e quindi attraverso un atteggiamento che non è di timore, ma di stima o di rispetto dell'autorità (è i l caso i n cui il comando del capo viene ubbidito non perché egli sia i n grado di infliggere una pena, ma perché è i l capo). I n tutti questi casi non vi è alternativa, e pertanto la riduzione della proposizione prescrittiva i n proposizione alternativa è impossibile. 2. Comunque, questo primo argomento non è decisivo. Possiamo anche ammettere che vi sia un vero e proprio comando (e non soltanto una proposizione che ha la forma grammaticale del comando senza averne la funzione) soltanto là dove la mancata esecuzione comporta delle conseguenze spiacevoli, e che pertanto si possa ammettere che sempre una prescrizione possa risolversi i n un'alternativa. Ma si è i n tal modo dato una risposta soddisfacente al problema di risolvere la prescrizione i n una descrizione? Non credo. La seconda parte dell'alternativa «... o succede Y» non si riferisce ad un fatto qualsiasi, ma ad un fatto spiacevole per i l destinatario del comando. Ora "spiacevole" è un ter-
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mine non descrittivo ma di valore, cioè è un termine che indica non già una qualità obbiettiva, osservabile, del fatto, ma l'atteggiamento che viene assunto di fronte a quel fatto che è i n questo caso un atteggiamento di condanna o di rifiuto, cioè è un termine che ha un significato non descrittivo e non risolubile i n termini descrittivi, ma ha i n ultima analisi, come ogni termine di valore, un significato prescrittivo. Quando, infatti, io giudico che una certa cosa è spiacevole non dico nulla sulle qualità della cosa; dico semplicemente che quella cosa è da evitarsi, cioè formulo un invito o una raccomandazione a evitarla, in altre parole m i ro a influenzare i l comportamento altrui i n un certo senso. Ma allora se la seconda parte della alternativa è costituita da un termine di valore, la funzione prescrittiva cacciata dalla porta rientra dalla finestra, nel senso che lo stimolo a modificare i l comportamento non sarà più dato dal comando per se stesso considerato, ma dal giudizio di valore dato sulla conseguenza che ne deriverebbe in caso di violazione, e pertanto la funzione prescrittiva è solo mascherata ma non eliminata, rinviata dal comando alla conseguenza del comando ma non soppressa. Immaginiamo che la seconda parte dell'alternativa contenga un termine non di valore ma descrittivo, ad esempio: «O tu chiudi la porta, o pioverà» (supponendo che i l fatto che piova o non piova sia indifferente all'interlocutore), e già risulta chiaro che questa proposizione non p u ò essere considerata come la risoluzione i n termini alternativi di un comando. E non p u ò essere considerata come la risoluzione di un comando proprio perché manca nella seconda parte un giudizio di valore che svolga quella funzione prescrittiva che è propria del comando. 3. Vi è infine un terzo argomento che m i pare decisivo. La conseguenza che viene attribuita alla inesecuzione di un comando non è un effetto naturalisticamente inteso dell'azione contraria alla legge, ma è una conseguenza che viene attribuita a questa azione dalla stessa persona che ha posto i l comando. Come vedremo meglio i n seguito, qui, seguendo la terminologia usata dal Kelsen, diciamo che la conseguenza non è con l'illecito i n rapporto di causalità, ma in rapporto d'imputazione. L'imperativo: "Chiudi la porta" non si riduce all'alternativa: "O chiudi la porta o t i viene i l raffreddore", ma a quest'altra alternativa: "O chiudi
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la porta, o sarai punito". Qra che cosa importa questo tipo di conseguenza? Importa che nel caso di violazione intervenga un nuovo comando e correlativamente un nuovo obbligo, vale a dire i l comando a chi deve eseguire la punizione e l'obbligo di colui che riceve questo comando di eseguirlo. Non importa che la persona che dovrà eseguire la punizione sia la stessa di quella che ha posto i l comando. Ciò che importa notare è che la conseguenza della trasgressione mette in moto un altro imperativo; dal che segue che l'imperativo escluso dalla prima parte dell'alternativa si r i trova, se pure i n modo implicito, nella seconda. Un comando come: "Non devi rubare" si risolve nell'alternativo: "O tu non rubi o il giudice dovrà punirti". Queste considerazioni ci invitano a concludere che la tentata risoluzione di un comando i n proposizione descrittiva attraverso l'espediente dell'alternativa è una soluzione apparente. L'alternativa non è di per se stessa la forma di una proposizione descrittiva: è una forma i n cui si p u ò esprimere tanto una proposizione descrittiva quanto una prescrittiva secondo che la si riempia con termini descrittivi o con termini di valore (che hanno funzione prescrittiva) o con altre prescrizioni.
2 1 . S I POSSONO RIDURRE L E PROPOSIZIONI PRESCRITTIVE A PROPOSIZIONI ESPRESSIVE?
Diverso tentativo di riduzione delle proposizioni prescrittive, diverso ma, a nostro avviso, anch'esso non convincente, è quello che consiste nell'affermare che le proposizioni prescrittive non sono che una formulazione di proposizioni espressive. Questa tesi viene formulata i n questo modo: i l dire "Tu devi fare X" oppure "Fai X" equivale a dire: "Io desidero (o io vorrei, io voglio, ecc.) che tu faccia X". I l comando sarebbe riducibile i n ultima analisi all'espressione di uno stato d'animo e consisterebbe nella comunicazione di uno stato d'animo ad altri. Anche questa riduzione non ci pare convincente e per mostrare la nostra perplessità adduciamo, anche qui, tre argomenti:
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1. non ce dubbio che io posso formulare un comando nella forma di un'espressione di desiderio o di volontà. Quando dico, ad esempio, a mio figlio: "Desidero (o voglio) che tu faccia il compito", la mia intenzione non è di suscitare in lui egual desiderio, ma di fargli fare quella certa azione. Ma, come abbiamo detto più volte, ciò che permette di distinguere tipi diversi di proposizioni non è la forma in cui sono espresse ma la loro funzionalità. Ora, rispetto alla funzionalità, rimane pur sempre insuperabile la differenza tra i l far partecipare altri ad uno stato d'animo e il far compiere una certa azione. Si p u ò dire tutt'al più che l'evocazione di uno stato d'animo è preparatoria al compimento di un'azione, o, più in generale, alla modificazione di un comportamento. Ma non diversamente è preparatoria all'azione, come abbiamo già visto, un'informazione sulle circostanze e sulle conseguenze dell'azione che si vuol che sia compiuta.
sia un comando non è la trasmissione di certe valutazioni, e quindi di certi sentimenti che di quelle valutazioni sono l'origine, ma che sia eseguita, quali che siano le valutazioni che determinano la esecuzione. P u ò darsi benissimo che due cittadini eseguiscano la medesima legge per ragioni diverse. È chiaro i n questo caso che la legge ha esercitato la sua funzione di prescrizione senza aver esplicato anche la funzione di proposizione espressiva.
2. Una seconda considerazione, e più decisiva, è la seguente: un comando è tale i n funzione del risultato che esso consegue, indipendentemente dal sentimento che evoca nella persona del destinatario. Non è affatto indispensabile che i l destinatario eseguisca il comando dopo aver partecipato allo stato d'animo di chi lo ha enunciato. Un comando resta tale anche se i l destinatario lo eseguisce con uno stato d'animo diverso da quello di colui che comanda. Lo stato d'animo del padre che comanda al figlio di studiare è determinato dal valore che egli attribuisce allo studio per la formazione della di lui cultura o per i l raggiungimento di un utile titolo di studio. I l figlio che eseguisce p u ò invece essere determinato al compimento del comando unicamente dalla soggezione nei confronti dell'autorità patema o dal timore di un castigo. I n questo caso i l comando esplica la sua funzione indipendentemente dalla partecipazione del soggetto attivo e del soggetto passivo all'eguale valutazione. Ciò si vede abitualmente nel mondo del diritto, dove i l rapporto tra i l legislatore e i cittadini non è necessariamente di partecipazione ad un'eguale valutazione dell'opportunità o della giustizia della legge: i l legislatore, ponendo una legge, p u ò avere una valutazione diversa da quella con cui i l cittadino ubbidisce alla legge. Ma la legge è tale per il fatto che adempie alla propria funzione di esercitare un'influenza sul comportamento dei cittadini. Ciò che importa alla legge perché
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3. Si p u ò infine aggiungere la considerazione che una legge dura nel tempo e, come dicono i giuristi, nel corso della sua esistenza si stacca dalla volontà del legislatore, e continua ad aver la sua funzione di comando indipendentemente dalle valutazioni che l'hanno fatta sorgere. Le valutazioni che l'hanno fatta sorgere possono anche essere venute meno; nondimeno la legge continua ad essere una legge e a determinare il comportamento dei cittadini. I n questo caso sarebbe assai difficile dire quale sia la valutazione che la legge esprime. Non ne esprime chiaramente nessuna. Eppure, sino a che è ubbidita, è un comando.
22. IMPERATIVI AUTONOMI ED ETERONOMI
Con le considerazioni precedenti abbiamo cercato di mostrare la specificità della categoria delle proposizioni prescrittive i n confronto delle altre due categorie delle proposizioni descrittive ed espressive. Ora dobbiamo cercare di precisame meglio i l carattere distinguendo i n esse tipi diversi di prescrizioni. La categoria delle prescrizioni è vastissima: comprende tanto le norme morali come le regole della grammatica, tanto le norme giuridiche come le prescrizioni di un medico. Qui illustriamo tre criteri fondamentali di distinzione: 1) rispetto al rapporto tra soggetto attivo e passivo della prescrizione (par. 22); 2) rispetto alla forma (par. 23); 3) rispetto alla forza obbligante (pam 24 e 25). Non escludiamo però che ve ne siano altri. Ci interessano questi tre criteri di distinzione perché hanno particolare rilievo nello studio delle norme giuridiche. Rispetto al rapporto tra soggetto attivo e passivo, si distinguono gli imperativi autonomi da quelli eteronomi. Si dicono au-
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tonomi quegli imperativi in cui colui che pone la norma e colui che la eseguisce sono la stessa persona. Si dicono eteronomi quelli i n cui colui che pone la norma e colui che la eseguisce sono due persone diverse. Questa distinzione è storicamente importante p e r c h é è stata i n t r o d o t t a da Kant (nella Fondazione della Metafisica dei costumi) per caratterizzare gli imperativi morali rispetto a tutti gli altri imperativi. Per Kant gli imperativi morali, e solo gli imperativi morali, sono autonomi. Sono autonomi perché la morale consiste in quei comandi che l'uomo i n quanto essere razionale dà a se stesso, e non riceve da nessun'altra autorità che non sia la propria ragione. Quando l'uomo invece d i ubbidire alla legislazione della ragione, ubbidisce agli istinti, alle passioni, agli interessi, segue imperativi che lo sviano dal perfezionamento di se stesso: i l suo comportamento consiste i n questi casi i n una adesione a principi che stanno al di fuori di lui, e i n quanto tale non è più un comportamento morale. Con le parole stesse di Kant: «L'autonomia della volontà è la qualità che ha la volontà di essere legge a se stessa»; e i n antitesi: «Quando la volontà cerca la legge che deve determinarla altrove che nell'attitudine delle sue massime di istituire una propria legislazione universale, quando, per conseguenza, oltreppassando se stessa, essa cerca questa legge nella qualità di qualcuno dei suoi oggetti, ne risulta sempre un'eteronomia. La volontà non d à allora a se stessa la legge; è l'oggetto invece che gliela dà, grazie ai suoi rapporti con essa» ^. La distinzione tra imperativi autonomi ed eteronomi ha i m portanza per lo studio del diritto, perché ha costituito uno dei tanti criteri con cui si è voluto distinguere la morale dal diritto. Seguendo Kant, si è detto che la morale si risolve sempre i n i m perativi autonomi e i l diritto i n imperativi eteronomi, dal momento che i l legislatore morale è intemo e i l legislatore giuridico è estemo. I n altre parole, questa distinzione vorrebbe suggerire che quando ci comportiamo moralmente, non ubbidiamo ad altri che a noi stessi, quando invece agiamo giuridicamente ubbidiamo a leggi che ci sono imposte da altri.
Le due citazioni sono tratte dalla trad. it. della Fondazione della Metafisica dei costumi, ed. Paravia, p. 104.
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Noi qui non discutiamo la distinzione. Ci limitiamo a sollevare qualche dubbio che essa possa essere utilizzata per distinguere la morale dal diritto, o, comunque, per identificare i l diritto con le norme eteronome. Se noi prescindiamo dal modo con cui Kant ha impostato il problema della moralità, dobbiamo convenire che vi sono sistemi morali fondati sulla eteronomia. Una morale religiosa, ad esempio, che fonda i precetti morali sulla volontà di un essere supremo, è una morale eteronoma, senza per questo confondersi con un sistema giuridico. I dieci comandamenti e le prescrizioni che da quelli si possono derivare fondano un sistema morale eteronomo, ma non pongono i n essere, di per se stessi, un ordinamento giuridico. E così, se consideriamo un sistema morale opposto a quello fondato sulla volontà divina, per esempio un sistema morale ispirato ad una filosofia positivistica, per cui la morale è i l complesso delle norme sociali che sono scaturite dai rapporti di convivenza tra gli uomini nel corso della loro storia, e formano quel che si dice l'ethos di un popolo, anche i n questo caso ci troviamo di fronte ad una morale eteronoma, che non per questo si risolve immediatamente i n un sistema giuridico. D'altra parte, non è detto che imperativi autonomi non si possano ritrovare anche nel campo del diritto: né i l diritto solo per questo viene a confondersi con la morale. I l concetto di autonomia viene utilizzato, nel senso proprio di norme o complesso di norme i n cui legislatore ed esecutore si identificano, tanto nel diritto privato quanto nel diritto pubblico. Nel diritto privato si parla di sfera della autonomia privata per indicare quella regolamentazione di comportamenti che i cittadini danno a se stessi, indipendentemente dal pubblico potere. Noi possiamo intendere un contratto come una norma autonoma, nel senso che è una regola di condotta che deriva dalla stessa volontà delle persone che ad essa si sottopongono. I n un contratto coloro che pongono la regola e coloro che la debbono eseguire sono le medesime persone. Lo stesso si p u ò dire di un trattato intemazionale, che dà origine a regole di comportamento che valgono soltanto per gli stati che hanno partecipato alla stipulazione del trattato. Nel campo del diritto pubblico, l'ideale a cui lo stato modemo tende è lo stato democratico. E che altro è lo stato democratico se non lo stato fondato sul principio dell'autonomia, cioè sul principio che le leggi, che devono essere eseguite dai cittadini, debbono essere fat-
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te dagli stessi cittadini? I l teorico dello stato modemo democratico, i l Rousseau, definisce assai chiaramente i l principio ispiratore della democrazia in termini di autonomia, quando dice (con una formula che ispirò lo stesso Kant): «La libertà consiste nell'obbedienza alla legge che ciascuno si è prescritta» (Contratto sociale, cap. V i l i ) . Oggi noi possiamo leggere i n uno dei trattati più diffusi di teoria dello stato, quello del Kelsen, la distinzione tra due tipi di regimi contrapposti, quello democratico e quello autocratico, fondata sulla distinzione tra autonomia, che è la caratteristica del regime democratico, ed eteronomia, quale caratteristica del regime aristocratico. S'intende che uno stato con una legislazione perfettamente autonoma è un ideale-limite, realizzabile solo là dove alla democrazia indiretta, quale è praticata negli stati moderni, si sostituisse la democrazia diretta, ovvero la democrazia senza rappresentanza (che, del resto, era l'ideale d i Rousseau). Ciò non toglie che abbia senso parlare di autonomia anche con riguardo alle norme giuridiche e che pertanto la distinzione tra norme autonome e norme eteronome, prescindendo dalla particolare accezione accolta da Kant, non possa essere utilizzata per distinguere la morale dal diritto.
un certo fine, e quindi viene compiuta condizionatamente al raggiungimento del fine. È un imperativo ipotetico i l seguente: «Se vuoi guarire dal raffreddore, devi prendere l'aspirina». Gli imperativi categorici sarebbero propri, secondo Kant, della legislazione morale, e si possono pertanto chiamare norme etiche. Quanto agli imperativi ipotetici, si distinguono, alla loro volta, secondo Kant, i n due sottospecie, secondo che i l fine a cui la norma si r i ferisce sia, come dice Kant, un fine possibile o un fine reale, cioè secondo che i l fine sia tale che gli uomini possono perseguirlo e possono non perseguirlo, oppure sia tale che gli uomini non possono non perseguirlo. Esempio del primo fine è quello delle regole che Kant chiama di abilità, come ad esempio: «Se vuoi i m parare i l latino, devi fare esercizi di traduzione dall'italiano in latino»; esempio del secondo fine è quello delle regole che Kant chiama di prudenza, come ad esempio: «Se vuoi essere felice, devi dominare le passioni». Questo secondo fine si distingue dal primo, perché, almeno secondo Kant, la felicità è un fine i l cui raggiungimento non è lasciato alla libera scelta dell'individuo, come quello di imparare il latino, ma è un fine intrinseco alla stessa natura dell'uomo. A rigore, un imperativo di questo genere, pur essendo condizionato (cioè condizionato al raggiungimento del fine) non si esprime con una proposizione ipotetica. La sua formula corretta è: "Poiché devi Y, devi X". Secondo la terminologia di Kant, che possiamo adottare, gli imperativi condizionati del primo tipo sono norme tecniche, quelli del secondo tipo sono norme prammatiche. Concludendo, per Kant si possono distinguere i n base alla forma tre tipi di norme: le norme etiche, la cui formula è: "Devi X"; le norme tecniche, la cui formula è: "Se vuoi Y, devi X"; le norme prammatiche, la cui formula è: "Poiché devi Y, devi anche X".
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2 3 . IMPERATIVI CATEGORICI E IMPERATIVI IPOTETICI
Un'altra distinzione che risale a Kant, e che è stata utilizzata anch'essa, come vedremo i n seguito, per la distinzione tra morale e diritto, è quella tra imperativi categorici e imperativi ipotetici. Questa distinzione riposa sulla forma con cui i l comando è espresso, cioè se esso sia espresso con giudizio categorico o con un giudizio ipotetico. Imperativi categorici sono quelli che prescrivono un'azione buona i n se stessa, cioè un'azione buona in senso assoluto, che deve essere compiuta senza condizioni, ovvero con nessun altro fine che i l compimento dell'azione i n quanto azione doverosa. È un imperativo categorico i l seguente: "Non devi mentire". I m perativi ipotetici sono quelli che prescrivono un'azione buona per raggiungere un fine, cioè un'azione che non è buona i n senso assoluto, ma è buona soltanto se si vuole, o se si deve, raggiungere
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Mentre per quel che riguarda la distinzione tra norme autonome ed eteronome ci si domanda se sia di qualche utilità ai f i ni della miglior comprensione della normatività giuridica, qui, per quel che riguarda la distinzione tra imperativi categorici e imperativi ipotetici, i l problema che si pone è se sia fondata, cioè se gli imperativi ipotetici, in particolare le norme tecniche, possano dirsi veri e propri imperativi. Di ciò si dubita. Si è notato che le norme tecniche derivano, molto spesso, da una proposizione descrittiva i n cui il rapporto tra una causa ed un effetto è stato con-
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vertito in un rapporto di mezzo o fine, i n cui alla causa viene assegnato i l valore di mezzo e all'effetto i l valore di fine. La norma tecnica: "Se vuoi far bollire l'acqua, devi scaldarla a 100 gradi", in cui i l bollimento è i l fine e i l riscaldamento è i l mezzo, deriva dalla proposizione descrittiva: "L'acqua bolle a 100 gradi", dove i l calore di 100 gradi è la causa e i l bollimento è l'effetto. L'imperativo ipotetico ricordato prima: "Se vuoi guarire dal raffreddore, prendi l'aspirina" deriva dalla proposizione descrittiva: "L'aspirina fa guarire i l raffreddore". Ora, se l'imperativo ha la funzione di produrre nella persona a cui è rivolto un obbligo di comportarsi i n un determinato modo, non si vede quale obbligo derivi da un imperativo ipotetico di quella specie: e infatti la scelta del fine è libera (e quindi non è obbligatoria), e una volta scelto i l f i ne, i l comportamento che ne deriva non sembra possa dirsi obbligatorio perché è necessario nel senso di una necessità naturale, e non giuridica né morale. Se io voglio far bollire l'acqua, i l riscaldarla a 100 gradi non è la conseguenza d i una norma ma d i una legge naturale, la quale non m i obbliga ma m i costringe a comportarmi in quel modo. Effettivamente, se tutti gli imperativi ipotetici fossero norme tecniche del tipo sinora descritto, è molto discutibile che si possano considerare degli imperativi, dal momento che i l comportamento che essi contemplano, quando viene compiuto, non viene compiuto i n forza di un comando ma in forza di una necessità naturale. Ma non tutti gli imperativi ipotetici possono ricondursi al tipo delle norme tecniche sinora descritto. Vi sono, come vedremo, imperativi ipotetici nel diritto: anzi, secondo alcuni, tutti gli imperativi giuridici sono ipotetici. La norma che stabilisce, ad esempio, che la donazione deve essere fatta per atto pubblico, p u ò essere formulata i n forma ipotetica in questo modo: "Se vuoi fare una donazione, devi compiere un atto pubblico". La caratteristica di un imperativo ipotetico di questo tipo è che la conseguenza o i l fine non è l'effetto di una causa i n senso naturalistico, ma è una conseguenza che viene imputata ad un'azione, considerata come mezzo, dall'ordinamento giuridico, cioè da una norma. Qui i l rapporto mezzo-fine non è la conversione in forma di regola di u n rapporto tra causa ed effetto, ma di un rapporto tra un fatto qualificato dall'ordinamento come condizione e un altro fatto che lo stesso ordinamento qualifica come conseguen-
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za. Ne viene che i n questo caso, una volta scelto i l fine, che è l i bero - secondo l'esempio, donare alcunché ad un altro - l'azione che compio per raggiungere i l fine - secondo l'esempio, porre i n essere un atto pubblico - non è l'adeguazione ad una legge naturale, ma ad una regola di condotta, cioè ad una vera e propria prescrizione, e si p u ò parlare propriamente d i azione obbligatoria. Così, mentre si p u ò dubitare che molti cosiddetti imperativi ipotetici siano veri e propri imperativi, non si p u ò escludere che vi siano prescrizioni che assumono la forma di imperativi ipotetici, vale a dire di imperativi che non impongono un'azione come buona i n se stessa, ma attribuendo a una certa azione una certa conseguenza (favorevole o sfavorevole), inducono a compiere quell'azione non per se stessa ma perché essa diventa mezzo per raggiungere un fine (quando la conseguenza attribuita è favorevole) o per evitare di raggiungerlo (quando la conseguenza attribuita è sfavorevole).
24. COMANDI E CONSIGLI
L'ultimo criterio di distinzione che qui consideriamo nell'ambito delle proposizioni descrittive è quello che riguarda la forza vincolante. Finora abbiamo parlato di imperativi (o comandi). Ma gli imperativi (o comandi) sono quelle prescrizioni che hanno maggior forza vincolante. Questa maggior forza vincolante si esprime dicendo che il comportamento previsto dall'imperativo è obbligatorio, o, i n altre parole, che l'imperativo genera un obbligo nella persona a cui viene rivolto. Imperativo e obbligo sono due termini correlativi: dove c'è l'uno c'è l'altro. Si p u ò esprimere l'imperativo i n termini di obbligatorietà dell'azione-oggetto, così come si p u ò esprimere l'obbligatorietà in termini del comando-soggetto. Ma non tutte le prescrizioni, o per meglio dire, non tutte le proposizioni con cui cerchiamo di determinare i l comportamento altrui, danno luogo ad obblighi. Vi sono modi più blandi o meno vincolanti di influire sul comportamento altrui. Qui ne esaminiamo due tipi che hanno particolare rilievo nel mondo del diritto: i consigli e le istanze. Per quanto nelle odierne teorie generali del diritto il problema
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della distinzione tra comandi e consigli sia passato di solito sotto silenzio (se ne trova però un cenno nella Jurìstische Grundlehre di F. Somlo, p. 179 e ss.), la disputa è antica: i teologi conoscono la differenza tra i consigli evangelici, che sono quelle massime di Cristo il cui contenuto non è obbligatorio, ma è puramente e semplicemente raccomandato quale mezzo per i l raggiungimento di una più alta perfezione spirituale, e i precetti o comandamenti, i l cui contenuto, invece, è obbligatorio. Sulla scorta di questa distinzione non ce antico trattatista del diritto naturale che non abbia toccato la questione e non abbia discusso la validità e i criteri della distinzione: i n una lunghissima nota al Grozio, che aveva ammesso la distinzione, i l traduttore e commentatore, Jean Barbeyrac, sostiene che la distinzione non è sostenibile e quindi non si p u ò parlare di consigli morali, perché là dove si trovano quelle massime che si dicono consigli come, ad esempio, la massima di non rimaritarsi o di restar celibi, questa o indica un'azione indifferente (e allora non è né comando né consiglio) oppure indica un'azione obbligatoria i n certe circostanze e per certe persone (e allora è un comando). Inoltre, i l Barbeyrac sostiene che la distinzione è dannosa perché p u ò sviare gli uomini dalla virtù (Si veda De iure belli ac pacis. trad. Barbeyrac, I , 2, 9, n. 19). Si osservi che anche la distinzione tra comandi e consigli p u ò servire a distinguere i l diritto dalla morale così come sono servite le distinzioni tra norme autonome ed eteronome, e tra norme categoriche ed ipotetiche. Si dovrebbe dire allora che solo i l diritto obbliga; la morale si limita a consigliare, a dare raccomandazioni che lasciano l'individuo libero (cioè egli solo responsabile) d i seguirle o non seguirle. Certamente, l'autore al quale, forse, meglio di ogni altro si p u ò attribuire una distinzione d i questo genere, Tommaso Hobbes, nel suo Leviatano dedica u n intero capitolo (il venticinquesimo) ai consigli e alle loro distinzioni dai comandi (nella ediz. it. del Laterza, voi. I , pp. 202-209). Gli argomenti che Hobbes adduce per distinguere i l comando dal consiglio sono sostanzialmente cinque: 1) rispetto al soggetto attivo: colui che comanda è provvisto di u n ' a u t o r i t à che gli d à i l diritto di comandare; colui che consiglia non p u ò pretendere i l dirìtto (noi diremmo più esattamente i l potere) d i farlo; 2) rispetto al contenuto: i comandi si impongono per la
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volontà che l i emette (cioè derivano la loro forza vincolante dal fatto che sono l'espressione di una volontà superiore); i consigli riescono a determinare l'azione altrui i n ragione del loro contenuto (cioè secondo la loro maggiore o minore ragionevolezza); i l che vai quanto dire che i l comando è caratterizzato dal principio stai prò ratione voluntas, e i l consiglio dal principio opposto (i comandi, i n quanto si affidano al prestigio di una volontà superiore, si possono rivolgere a chiunque, i consigli solo alle persone ragionevoli); 3) rispetto alla persona del destinatario: nel comando i l destinatario è obbligato a seguirlo, nel consiglio non è obbligato, cioè è libero di seguirlo o non seguirlo; i n altre parole si dice che i l comportamento previsto dal comando è obbligatorio, quello previsto dal consiglio è facoltativo; 4) rispetto al fine: i l comando viene dato nell'interesse di chi comanda; i l consiglio vien dato nell'interesse di chi consiglia; 5) rispetto alle conseguenze: se dall'esecuzione di un comando deriva un male, la responsabilità è di colui che comanda, se lo stesso male deriva dall'aver eseguito un consiglio, la responsabilità non è del consigliere, ma solo del consigliato; questa distinzione fa da contrappeso, per così dire, alla precedente, perché se è vero che colui che comanda fa, attraverso i l comando, i l proprio interesse, ne discende che non p u ò scaricare sull'altro la responsabilità della propria rovina, mentre da una certa gratuità che è propria del consiglio deriva pure la impossibilità da parte del consigliato d i addossare la responsabilità del proprio insuccesso al consigliere. Non riteniamo che tutti questi caratteri differenziali, elencati da Hobbes, siano rilevanti. I n particolare non crediamo che sia rilevante i l primo riguardante i l soggetto attivo: nel campo del diritto, ad esempio, anche per dare consigli (il cosiddetto "potere consultivo") bisogna avere l'autorità (cioè i l diritto, o meglio il potere) di farlo; si tratta di due autorità di diverso tipo, e magari d i diverso peso, ma non si p u ò escludere che anche del potere di consigliare debba essere investita una particolare autorità. Anche i l quarto argomento, quello relativo al fine, non m i sembra accettabile: se è vero che i l consiglio viene dato nell'interesse del consigliato, non è detto che i l comando venga i m partito solo per l'interesse di chi comanda. Sarebbe davvero ingenuo credere che le leggi vengano emanate solo nell'interesse
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pubblico, ma sarebbe troppo malizioso credere che vengano emanate solo per l'interesse d i chi detiene i l sommo potere. Migliori sono gli altri tre argomenti: guardando al contenuto, è u n fatto che una legge viene obbedita spesso solo perché è una legge, indipendentemente da ogni considerazione del suo contenuto (anzi, con la convinzione che comandi cose irragionevoli), mentre nell'eseguire un consiglio, dal momento che l'esecuzione è libera, conta non tanto l'autorità del consigliere (nel caso del consigliere, del resto, più che di autorità si parla d i "autorevolezza"), quanto l'esser convinto che ciò che è stato consigliato è ragionevole, cioè è conforme agli scopi che ci proponiamo di raggiungere. Quanto al comportamento della persona del destinatario, qui interviene la differenza indubbiamente più importante e che basterebbe da sola a distinguere i l comando dal consiglio (per quanto non sia sufficiente a distinguere i l consiglio anche dalla istanza): mentre sono obbligato a seguire un comando, ho facoltà di seguire o non seguire un consiglio. I l che significa che, nel caso che io non esegua i l comando, colui che ha posto il comando non si disinteressa delle conseguenze che ne derivano; nel caso che io non segua un consiglio, i l consigliere si d i sinteressa delle conseguenze ("se non vuoi fare quello che t i d i co io, tanto peggio per te": chi parla in questo modo non è una persona investita del potere di comandare, ma un consigliere). Infine, p u ò essere accolto, se pure con qualche cautela, anche i l quinto argomento, rispetto alle conseguenze: è vero che i l comando pretende di più dall'individuo a cui si rivolge, ma lo compensa esimendolo dalla responsabilità dell'atto compiuto (esiste i n ogni ordinamento giuridico un articolo come i l 51 del nostro codice penale che esclude la punibilità di una azione compiuta nell'adempimento del proprio dovere o per ordine di un'autorità superiore), mentre nessuno potrebbe sottrarsi alle conseguenze della propria azione adducendo come pretesto di aver seguito un consiglio. Nessuna autorità che impone ordini e quindi comportamenti obbligatori potrebbe dire quello che d i solito premette un consigliere a chi si rivolge a l u i per aver lumi: «Questo è i l mio avviso, ma non m i assumo nessuna responsabilità per quello che potrà succederti».
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25. I CONSIGLI N E L DIRITTO
Per quanto la teoria del diritto non si sia dedicata molto al problema della distinzione tra comandi e consigli, pure la distinzione ha importanza notevole i n ogni ordinamento giuridico. Non tutte le prescrizioni i n cui c'imbattiamo quando studiamo un ordinamento giuridico nel suo complesso sono dei comandi. Basti pensare che in ogni ordinamento giuridico accanto agli organi deliberanti vi sono gli organi consullivi i quali appunto hanno i l compito non già di impartire ordini ma di dare consigli. Di essi si dice che «non esercitano funzioni di volontà, ma soltanto di apprezzamento tecnico: essi sono posti accanto agli organi attivi per illuminarli coi loro pareri e coi loro consigli» (Zanobini). Basti pensare, ancora, che nella teoria degli atti giuridici si distinguono gli atti di volontà dagli atti di rappresentazione e di sentimento, e che mentre un ordine è classificato tra gli atti di volontà, un consiglio o un parere è classificato tra gli atti di rappresentazione, perché esso non è una dichiarazione di volontà ma «il suo scopo è sempre e soltanto quello di consigliare: è la legge che poi impone di provvedere non diversamente dal modo consigliato» (Romano). Ora, quello che caratterizza gli atti degli organi consultivi o pareri, i n confronto dei comandi o degli ordini, è proprio quel che abbiamo illustrato nel paragrafo precedente, vale a dire i l fatto che essi hanno, sì, la funzione di guidare o dirigere i l comportamento altrui, ma la loro guida non è così efficace come quella dei comandi, e questa minor efficacia si rivela i n ciò che la persona o le persone a cui sono rivolti non sono obbligate a seguirli, ciò che nel linguaggio giuridico si esprime dicendo che i pareri non sono vincolanti (quando si dice che un parere è obbligatorio, non si vuol dire che si sia obbligati a seguirlo, ma che si è obbligati a richiederlo, liberi poi di seguirlo o no). Non è detto che tutti gli atti che nel diritto si dicono "pareri" siano consigli nel senso da noi illustrato: si chiamano pareri anche quelle relazioni su determinati provvedimenti da prendere, i l cui scopo non è minimamente di guidare i l comportamento altrui, ma solo di illuminare chi dovrà prendere una deliberazione, cioè, come si dice di solito, di fornire gli elementi di conoscenza sufficienti perché colui che deve deliberare deliberi a ragion veduta. I n questo
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caso i l parere non ha funzione direttiva ma soltanto informativa. Svolge quella funzione di preparare la via al comando, di cui abbiamo parlato nel paragrafo 18. Posto che i l consiglio è una prescrizione che ha minor forza vincolante del comando, ne viene che gli organi consultivi sono organi che i n un ordinamento giuridico sono titolari di un'autorità minore o secondaria rispetto agli organi con funzione imperativa. Storicamente è dato osservare che un certo organo si sviluppa e acquista maggior peso in un ordinamento trasformandosi da un organo consultivo in organo legislativo (le leggi sono la forma più perfetta dei comandi dello Stato), com'è accaduto ai parlamenti che nel regime di monarchia assoluta avevano funzioni meramente consultive, e sono diventati nel regime di monarchia costituzionale organi che partecipano alla funzione legislativa. Inversamente, un organo decade e viene considerato esautorato, quando, perduta la funzione imperativa, conserva solo più quella consultiva, come è accaduto alla seconda Camera del parlamento francese (l'antico Senato) che, secondo la costituzione del 1946, ha funzioni meramente consultive (e si chiama infatti non più Senato, ma Consiglio della Repubblica). Che la funzione consultiva sia i l carattere di organi che hanno minor prestigio rispetto a quelli con funzione imperativa, è chiaramente mostrato da ciò che avviene nell'ordinamento intemazionale, dove gli organismi intemazionali non hanno nei confronti degli stati (che conservano la loro sovranità) i l potere di determinarli obbligatoriamente, cioè di impartire loro comandi, ma semplicemente quello di indirizzare loro delle raccomandazioni. Ciò che nella terminologia del diritto intemazionale è la raccomandazione, è nella terminologia giuridica tradizionale e nel linguaggio comune i l consiglio, vale a dire una proposizione la cui forza di influire sul comportamento altmi non raggiunge l'efficacia massima che è quella della obbligatorietà. Dal consiglio e dalla raccomandazione che appartengono alla stessa species si distingue l'esortazione. È curioso che Hobbes, dopo aver indicato i caratteri del consiglio nel modo che abbiamo esposto, passa a parlare dell'esortazione, e la definisce come un consiglio distorto, per i l fatto che è espressa nell'interesse dell'esortante (mentre i l consiglio è rivolto all'interesse del consigliato) ed è rivolta a una folla passiva (mentre i l consiglio pre-
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suppone che la persona del consigliato sia un individuo che ragiona). Hobbes è padronissimo di chiamare "esortazione" i l cattivo consiglio, i l consiglio quando è dato, com'egli anche dice, da consiglieri corrotti, ma noi non crediamo che questa sia una conveniente definizione. Ciò che si chiama di solito "esortazione" non si distingue dal consiglio in base ad un giudizio di valore: forse che l'esortazione del padre al figlio perché studi è un consiglio sviato dalla sua funzione principale? I l criterio di distinzione è, a mio avviso, un altro: nel consiglio si tende a modificare i l comportamento altmi esponendo dei fatti o delle ragioni (si potrebbe dire che i l consiglio è una combinazione di elementi prescrittivi e descrittivi), mentre con l'esortazione si tende a conseguire lo stesso effetto suscitando dei sentimenti (si potrebbe dire che l'esortazione è una combinazione di elementi prescrittivi ed emotivi). Con parole del linguaggio comune, si p u ò dire che i l consiglio parla all'intelletto, donde la compassata e rigida freddezza del consigliere (raffigurato i n un saggio), l'esortazione parla al cuore, donde i l calore del tribuno, del retore, della persona affezionata, ecc. (Il medico consiglia i l bambino a prendere una certa medicina, la mamma lo esorta a farlo). Al contrario dei consigli, le esortazioni non sembra abbiano rilievo diretto i n un ordinamento giuridico.
2 6 . COMANDI E ISTANZE
Vi è un altro tipo di proposizioni che pur rientrando nella categoria delle prescrizioni si distinguono dai comandi propriamente detti per una minor forza vincolante. Sono le cosiddette istanze, ovvero quelle proposizioni con le quali noi miriamo a far fare all'altro qualcosa i n nostro favore pur senza vincolarlo. Alla specie delle istanze appartengono le preghiere, le suppliche, le invocazioni, le implorazioni, le domande (nel senso tecnico amministrativo della parola, per esempio, la domanda per ottenere il passaporto). Se noi volessimo fissare la differenza tra comandi e consigli da un lato, e tra comandi e istanze dall'altro, non usando altro che la forma grammaticale abituale e più corretta con la quale i tre tipi di prescrizione si esprimono, potremmo dire così:
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il comando si esprime con un voglio da parte del soggetto attivo e con un devi riferito al soggetto passivo; i l consiglio astrae dal "voglio" e riferito al soggetto passivo si esprime con un dovresti; la istanza astrae dal "devi" e si esprime da parte del soggetto attivo con un vorrei. Da questa formulazione già appare la differenza sostanziale dell'istanza rispetto al comando e al consiglio. Rispetto al comando la differenza fondamentale è, come nel caso del consiglio, la mancanza di un obbligo nella persona a cui l'istanza è rivolta. Rispetto al consiglio, la differenza fondamentale sta nel fatto che il consiglio è dato nell'interesse della persona a cui si dà i l consiglio, la istanza, invece, è espressa nell'interesse della persona che fa la richiesta. Nel comando l'interesse p u ò essere tanto di colui che comanda, quanto di colui che è comandato, quanto, contemporaneamente, di entrambi. Nel consiglio l'interesse è sempre del soggetto passivo; nell'istanza sempre del soggetto attivo. Se t i dico: "Ti consiglio di non fumare", è segno che m i preme la tua salute; se t i dico "ti prego di non fumare", è segno che m i preme la mia. Là dove si legge: "È vietato fumare" (e si tratta non più di un consiglio né di un'istanza, ma di un comando), è difficile dire quale sia l'interesse prevalente: molto probabilmente l'interesse del padrone del locale si combina con quello degli spettatori.
Un'ultima osservazione. Come abbiamo distinto i consigli dalle esortazioni i n base alla differenza tra appello a dati di fatto, ragionamenti, informazioni e appello a sentimenti, così anche nella specie delle istanze si possono distinguere quelle che si ispirano a un modulo di tipo informativo e quelle che si ispirano a un modulo di tipo emotivo: queste ultime sono le invocazioni o suppliche. La differenza tra una domanda per ottenere un permesso di caccia e una domanda di grazia sta nei diversi argomenti che vengono usati, e che sono là chiarimenti di situazioni di fatto, qua argomenti di tipo retorico-persuasivo. La prima è un composto prescrittivo-descrittivo, la seconda un composto prescrittivo-emotivo.
Un ordinamento giuridico, così come conosce accanto ai comandi i consigli, così conosce pure molte specie di istanze. Si tratta di atti coi quali si provoca, o meglio si cerca di provocare, una deliberazione i n nostro favore: si possono distinguere le domande, le richieste, le petizioni, le istanze propriamente dette, le suppliche e altre ancora. Mentre i l potere di dar consigli è generalmente attribuito a organi pubblici, i l potere di muovere istanze (il potere di petizione) è generalmente attribuito ai privati. E si capisce: i l consiglio ha la funzione di dare un contenuto alla deliberazione, l'istanza ha soltanto quella di provocarla. Se si i n tende i l comando come istituente un rapporto tra un potere e un dovere (un diritto e un obbligo), nel consiglio quello che vien meno è soprattutto i l dovere, nell'istanza quel che vien meno è soprattutto i l potere. Nel consiglio ciò che colpisce, rispetto al comando, è la mancanza dell'obbligo di seguirlo; nell'istanza ciò che colpisce sempre rispetto al comando è la mancanza del diritto di ottenere ciò che si chiede.
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CAPITOLO I V L E PRESCRIZIONI
E I L DIRITTO
SOMMARIO: 2 7 . Il problema della imperatività del diritto. - 28. Imperativi positivi e negativi. - 2 9 . Comandi e imperativi impersonali. - 3 0 . Il diritto come norma tecnica. - 3 1 . 1 destinatari della norma giuridica. 3 2 . Imperativi e permessi. - 3 3 . Rapporto tra imperativi e permessi. 34. Imperativi e regole finali. - 3 5 . Imperativi e giudizi ipotetici. - 3 6 . Imperativi e giudizi di valore.
27. I L PROBLEMA DELLA IMPERATIVITÀ DEL DIRITTO
Che le proposizioni di cui si compone un ordinamento giuridico appartengano alla sfera del linguaggio prescrittivo è vecchia dottrina, nota sotto i l nome di teoria della imperatività del diritto, o delle norme giuridiche come comandi (o imperativi). Citiamo anche noi i due passi di scuola: quello di Cicerone che dice «legem esse aeternum quiddam, quod universum mundum regeret, imperandi prohibendique sapientia ... aut cogentis aut vetantis ... ad iubendum et ad deterrendum idonea» (De leg., I I c. par. 8); e quella di Modestino che dice «legis virtus haec est imperare, velare, permittere, punire" (D.l. 7 de legibus 1,3). Si p u ò aggiungere che è anche la dottrina più comune tra i giuristi, quella che costituisce ancor oggi, nonostante le critiche a cui è stata fatta segno, la "communis opinio". Accanto alla teoria imperativistica, secondo la quale tutte le norme giuridiche sono imperativi, onde la imperatività viene elevata a carattere costitutivo del diritto, sono state sostenute dottrine miste, secondo le quali solo una parte delle proposizioni che compongono un ordinamento giuridico 5. - N . BOBBIO: Teorìa generale del dirìtto
Teorìa della norma giurìdica
Prescrizioni e dirìtto
sono imperative, e dottrine negative, secondo le quali le proposizioni componenti un ordinamento giuridico non sono imperative. Esamineremo in questo capitolo queste diverse teorie e le loro diverse formulazioni, e dall'esame crìtico cercheremo di trarre le nostre conclusioni. La formulazione classica della dottrina imperativistica esclusiva, a cui tutti i sostenitori successivi si riallacciano, è quella che si trova formulata nell'opera del giurista tedesco Augusto Thon, Nonna giurìdica e diritto soggettivo (1878)', una delle tre grandi opere di teoria generale del diritto che, nel decennio tra i l 1870 e 1880, hanno posto le basi di gran parte delle dottrine sostenute e delle discussioni sollevate tra i giuristi continentali intorno ai concetti fondamentali della scienza giuridica. Le altre due sono: Lo scopo nel diritto di R. von Jhering (1877), e Le nonne e la loro violazione di K. Binding (i primi due volumi sono rispettivamente del 1872 e del 1877). Sin dalle prime righe del libro, il Thon espone chiaramente il suo pensiero con queste parole: «Per mezzo del diritto l'ordinamento giuridico ... tende a dare a coloro che sono soggetti alle sue statuizioni un impulso verso un determinato contegno, consista poi tale contegno i n un'azione oppure i n un'omissione. Tale impulso viene esercitato per mezzo di precetti di contenuto ora positivo ora negativo» (p. 12). Le parole che abbiamo sottolineate possono essere considerate come una illustrazione della definizione, più volte data, delle proposizioni prescrittive come proposizioni aventi per iscopo la modificazione del comportamento altrui. La formulazione sintetica della dottrina si legge un poco più oltre, i n queste parole, spesso citate: «L'intero diritto di una società non è altro che un complesso d'imperativi, i quali sono l'uno all'altro così strettamente inanellati che la disobbedienza agli uni costituisce sovente il presupposto di ciò che da altri è comandato» (p. 16). È da mettere i n rilievo che, per quanto la teoria imperativistica del diritto vada d i pari passo (nella maggior parte dei seguaci) con quella statualistica, secondo cui le sole norme giuridiche sono quelle emanate dallo stato, e con quella coattivistica, secondo cui caratteristica delle norme giuridiche
è la coercibilità o la coazione, e, anzi, la crisi della prima sia stata una manifestazione della crisi della seconda e della terza (dovuta all'emergere e all'imporsi della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici), tuttavia i l Thon non è statualista né coazionista. Da un lato, egli riconosce che vi possono essere ordinamenti giuridici diversi da quello statuale; dall'altro è fiero avversario di coloro, come ad esempio, i l Jhering, che considerano la coazione come un elemento indispensabile per distinguere la norma giuridica da quella non giuridica. La teoria imperativistica nasce nell'odierna teoria generale del diritto pura da compromissioni con quelle altre teorie, come la teoria statualistica e la coattivistica, che saranno poi una delle ragioni della sua decadenza. Per dare un'idea della fortuna della teoria imperativistica anche i n Italia, m i limito a citare un giurista e un filosofo del diritto, che per la loro riconosciuta autorità possono essere considerati come una valida espressione della diffiisione della dottrina. Francesco Camelutti nella sua Teorìa generale del dirìtto ( I I ediz., Roma, 1946) scrive: «Con la formula della imperatività si vuol denotare che i l comando è l'elemento indefettibile dell'ordinamento giuridico o, i n altre parole, // prodotto semplice o prìmo del dirìtto; già fu detto che se l'ordinamento fosse un organismo, i l comando ne rappresenterebbe la cellula» (pp. 67-68). Quanto alla definizione di "comando" i l Camelutti appartiene alla schiera di coloro che vedono un rapporto d'interdipendenza tra comando e sanzione (vedi la teoria esposta nel paragrafo 20). Per lui i l comando è «la minaccia di una sanzione a chi tenga un determinato contegno» (p. 35). Nelle Lezioni di filosofia del dirìtto di Giorgio Del Vecchio (IX ediz., Roma, 1953) leggiamo: «Importantissimo ed essenziale carattere della norma giuridica è l'imperatività. Non possiamo concepire una norma che non abbia carattere imperativo, sia pure sotto condizioni determinate. I l comando (positivo o negativo) è un elemento integrante del concetto del diritto, perché questo ... pone sempre di fronte due soggetti, attribuendo all'uno una facoltà o pretensione, ed imponendo all'altro un dovere, un'obbligazioìie coiTispondente. Imporre un dovere significa appunto imperare» (p. 230). In base a questa definizione l'autore esclude dalla sfera del diritto sia le "affermazioni o osservazioni di fatto", ciò che noi abbiamo chiamato proposizioni descrittive, sia le forme attenuate di imposizione, come i consigli e le esortazioni.
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' Citato dalla traduzione italiana, a cura di A. Levi, II ediz., Padova, Cedam, 1951.
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Può essere interessante osservare che dei tre abituali requisiti della norma giuridica, l'imperatività, la statualità e la coattività, mentre i l Thon, come abbiamo visto, accoglie soltanto i l primo, il Del Vecchio accoglie, insieme col primo, anche i l secondo, ma non il terzo, e il Camelutti li accoglie tutti e tre. Per il Del Vecchio la norma giuridica, oltre al carattere dell'imperatività deve avere anche quello della statualità. Pur avendo un punto di partenza comune, le tre teorie si differenziano lungo i l cammino: i l che per noi è ancora una prova della complessità dei problemi e della pluralità dei punti di vista, e insieme un invito a una certa cautela critica d i fronte ad ogni teoria.
28. IMPERATIVI POSITIVI E NEGATIVI
Gli imperativi si distinguono, come vedremo meglio nell'ultimo capitolo, i n imperativi positivi e negativi, ovvero i n comandi di fare e comandi di non fare (questi ultimi si chiamano abitualmente "divieti"). Un esempio dei primi: «L'usufmttuario deve restituire le cose che formano oggetto del suo diritto, al termine dell'usufmtto ...» (art. 1001 c e ) ; un esempio dei secondi: «Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri» (art. 833 c e ) . Pur partendo dalla tesi che le norme giuridiche sono degli i m perativi, la prima domanda che i teorici del diritto si sono posti è la seguente: i l diritto si compone di imperativi di entrambe le specie? La domanda, a dire i l vero, ci pare un po' gratuita, perché basterebbero i due esempi citati sopra per rispondere che i n un ordinamento giuridico si trovano tanto imperativi positivi quanto negativi. Eppure vi è stato chi non solo si è posto la domanda, ma ha risposto sostenendo che la caratteristica del diritto, in confronto alla morale, è di essere costituito soltanto di i m perativi negativi. S'intende che la domanda acquistava senso per il fatto di essere posta non già riguardo a questa o a quella norma giuridica particolare, ma al diritto nel suo complesso, cioè si trattava di una domanda di questo tipo: «Esiste un criterio generale per distinguere le norme giuridiche da quelle morali?». Abbiamo già visto alcuni di questi criteri e ne incontreremo altri.
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Si p u ò dire che non vi sia stato criterio di classificazione delle norme che non sia stato utilizzato per cercar di risolvere i l maggior rompicapo della filosofia del diritto, ovvero per la distinzione del diritto dalla morale. Uno di questi criteri è appunto quello che permette di distinguere gli imperativi i n comandi e divieti. Alcuni glusnaturalisti, e citiamo particolarmente Christianus Thomasius - al quale per lunga consuetudine si è voluto far risalire nientemeno che l'origine della filosofia del diritto modema hanno affermato, appunto, che la distinzione fondamentale tra diritto e morale sta in ciò: che la morale comanda e il diritto proibisce, e pertanto la caratteristica del diritto è, sì, di essere costituito da imperativi, ma soltanto da imperativi negativi. Per i l Thomasius i l principio regolativo della morale {dLeWhonestuni) era: "Quod vis ut alii sibi faciant, tute tibi facies"; del decorum (che era l'aspetto sociale della morale): "Quod vis ut alii faciant, tu ipsis facies"; del diritto, invece: "Quod tibi non vis fieri, alteri ne faceris". Per i l Thomasius ciò voleva dire che i l diritto era r i spetto alla morale meno impegnativo, perché, mentre la morale ci obbliga a far qualcosa per gli altri, onde la massima "Ama i l prossimo tuo come te stesso", i l diritto ci obbliga, semplicemente, ad astenerci dal far il male, onde la massima: "Neminem laedere". I l Thomasius diceva anche, per segnare questa differenza tra la doverosità positiva della morale e quella negativa del diritto, che le regole del diritto impediscono i l male maggiore (cioè la guerra) e promuovono i l bene minore (la pace estema), mentre quelle dell'onesto impediscono i l male minore, perché la loro trasgressione non reca danno se non a chi le trasgredisce, ma promuove il bene maggiore, perché rendono l'uomo quanto più è possibile saggio. I n breve, si p u ò dire che da questa dottrina si sarebbe dovuto trarre la conclusione che la moralità consiste nel precetto di fare i l bene, e i l diritto in quello di astenersi dal fare il male. Questa distinzione del Thomasius è inaccettabile. Precetti positivi e negativi si mescolano nella morale e nel diritto. E del resto, Thomasius fu criticato, proprio per questa sua distinzione, dal Leibniz, i l quale rilevò che non si poteva, se non a costo di sminuirne i l valore, ridurre i l diritto a doverosità negativa: anzi, egli diceva, il non far male agli altri per il solo timore di riceverne male non è opera di giustizia, ma solo di pmdenza. A soste-
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gno della sua tesi Leibniz adduceva sostanzialmente due argomenti: 1) i reggitori di uno stato sono detti giusti non già quando si limitano a non fare il male ai loro cittadini, ma quando s'industriano a far loro del bene (il Leibniz aveva una concezione non negativa ma positiva della funzione dello Stato); 2) nessuno di noi è soddisfatto quando gli altri non gli arrecano danno, ma pretende, nel caso di bisogno, di essere aiutato, e quando si lamenta di essere abbandonato nella sua miseria, si lamenta con giustizia, onde la giustizia risulta essere, per i l Leibniz, più che i l semplice non fare i l male, i l fare in modo che gli altri non possano lamentarsi di noi quando noi, i n un caso analogo, ci lamenteremmo degli altri. A riprova di questa sua concezione, i l Leibniz relegava la massima negativa del "neminem laedere" al primo stadio dei rapporti sociali, che egli chiamava ius propiietatis, ed era quello stadio in cui i l dovere che compete a ciascuno dei consociati è quello negativo di non invadere la proprietà altrui, e attribuiva allo stadio superiore, che egli chiamava del ius societatis, la massima positiva del suum cuique tribuere. Se si vuol capire la dottrina del Thomasius, bisogna ricondursi alla teoria giusnaturalistica del passaggio dallo stato di natura allo stato civile. Lo stato di natura era quello stato i n cui gli uomini vivevano i n una libertà sfrenata. Per uscire dallo stato di natura ed entrare i n quello civile, gli uomini dovevano imporre delle restrizioni alla loro primitiva libertà. Queste limitazioni consistevano originariamente di comandi negativi, di cui i l primo e fondamentale era quello di non ingerirsi nella sfera di libertà altrui. Concependo i l sorgere dello stato civile come una limitazione reciproca di libertà, i l diritto veniva naturalmente configurato come un insieme di obblighi negativi. I l punto debole di questa dottrina è che la funzione del diritto non è soltanto quella di rendere possibile la coesistenza delle libertà esteme (e a ciò basterebbero, invero, degli obblighi negativi), ma anche quella di rendere possibile la reciproca cooperazione tra gli uomini insieme conviventi: e per l'attuazione di questa seconda funzione occorrono anche obblighi positivi. Si p u ò dire, i n conclusione, che la teoria del diritto come insieme di divieti nasceva da una concezione troppo ristretta della funzione del diritto e dello stato.
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29. COMANDI E IMPERATIVI IMPERSONALI
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Sempre nell'ambito della teoria imperativistica del diritto, vi è stato chi, pur ammettendo che si possa parlare di imperativi giuridici, ha escluso che le norme giuridiche, per i l solo fatto di essere imperativi, siano anche comandi. Sinora la teoria imperativistica del diritto e l'affermazione che le norme giuridiche sono comandi hanno proceduto di pari passo: anzi sinora è stato considerato il proprium della teoria imperativistica la tesi che le norme giuridiche sono comandi. La dottrina che esaminiamo i n questo paragrafo, invece, introduce una nuova distinzione tra comandi e imperativi giuridici, per cui le norme giuridiche apparterrebbero alla seconda categoria e non alla prima. Questa tesi è stata sostenuta dal giurista svedese Karl Olivecrona i n un libro del 1939 Law as Fact, e ripetuta, con una variazione a scopo di precisazione, i n un saggio successivo, ripubblicato recentemente i n italiano nell'annata 1954 della rivista "Jus" (pp. 451-468). L'Olivecrona parte da una definizione ristretta di "comando", affermando che «un comando presuppone una persona che comanda e un'altra a cui i l comando è indirizzato» (p. 35). Ora nella legge, secondo lui, manca la persona di colui che comanda (tanto che, volendola trovare a tutti i costi, i giuristi hanno personificato lo stato). Si osservi come viene emanata una legge i n uno stato costituzionale: prima una commissione elabora un progetto, poi i l ministro la sottopone al parlamento, infine i l parlamento a semplice maggioranza l'approva. Quale tra tutte queste persone si p u ò dire che abbia espresso un comando? La teoria dell'Olivecrona si propone come una teoria realistica del diritto, cioè come una teoria che mira a sgombrare i l terreno da tutte le tradizionali finzioni che hanno impedito di considerare i fenomeni giuridici nella loro effettualità: e una di queste finzioni sarebbe l'identificazione della legge col comando, che ha dato luogo alla teoria imperativistica del diritto. Esposta la parte critica, i l nostro autore, nella parte costmttiva, afferma che «anche se non sono comandi reali, le norme giuridiche ... sono date nella forma imperativa», i l che significa per lui che non sono date nella forma descrittiva. Ma ciò non significa ancora una volta ricadere nelle braccia della teoria imperati-
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vistica? Risponde di no, sostenendo che vi sono proposizioni i m perative che non sono da confondersi con i comandi. Quali sono? Tenendo ferma la definizione di comando come imperativo che implica una relazione personale, gli imperativi che non sono da confondersi coi comandi son quelli che "funzionano indipendentemente da una persona che comandi" (m. 43). Chiama questi i m perativi indipendenti, e a questa categoria assegna le norme giuridiche (e, per fare un altro esempio, i dieci comandamenti). Inoltre, gli imperativi indipendenti si distinguono dai comandi per altre due ragioni: perché non si rivolgono ad una persona determinata in quanto non dicono: "Tu devi far questo"; ma "Questa azione deve essere compiuta"; e perché sono riducibili i n forma di asserzione, come quando una norma sul tipo "Non si deve rubare" viene espressa nella forma equivalente: "È un fatto che non si deve rubare", oppure: " I l nostro (o vostro) dovere è di non rubare". Riprendendo alcuni anni dopo lo stesso pensiero, l'Olivecrona, nel secondo saggio citato, insiste sulla differenza tra comandi e proposizioni imperative, considerando i comandi come una specie particolare di imperativi, e come quella specie i n cui non si possono far rientrare le norme giuridiche, le quali, ancora una volta, sono caratterizzate rispetto ai comandi veri e propri, soprattutto dalla mancanza di un soggetto attivo determinato, e vengono chiamate, con nome più appropriato, non più imperativi i n dipendenti, ma imperativi impersonali. Riproduco qui la frase decisiva: «Da un lato è assodato che la legge ha carattere imperativo; e dall'altro, che non contiene comandi i n senso proprio. Per conseguenza, la legge appartiene alla categoria che qui definimmo come imperativo impersonale» (p. 460).
giuridiche come imperativi astratti (cioè regolanti un'azione tipo) dagli imperativi concreti. La novità della dottrina dell'Olivecrona sta nel fatto che, pur non avendo abbandonato la via formale, ha cercato la caratterizzazione delle norme giuridiche non più nel soggetto passivo né nell'azione-oggetto, ma nel soggetto attivo. Riteniamo che anche la teoria dell'Olivecrona, come ogni precedente tentativo di trovare la nota caratteristica delle norme giuridiche i n un elemento formale, sia destinato all'insuccesso. E ciò per due ragioni: 1) l'ordinamento giuridico è un insieme complesso di regole e come tale è composto di regole di diverso tipo: ogni teoria riduzionistica, che ritiene di poter identificare la norma giuridica i n un solo tipo di imperativi, è unilaterale ed è destinata ad impoverire arbitrariamente la ricchezza dell'esperienza giuridica; 2) quand'anche si sia riusciti a fissare un tipo di i m perativo che, se non esclusivo, almeno si possa considerare prevalente nel diritto, è ben difficile che questo tipo di imperativo non si ritrovi in altre sfere normative diverse da quella giuridica. Penso che entrambi questi argomenti si possano applicare alla dottrina degli imperativi impersonali: per un verso, pare molto difficile dimostrare che tutti gli imperativi giuridici siano impersonali, e basterebbe citare la sentenza d i un pretore (che è certamente un imperativo giuridico pur essendo riferibile ad una persona determinata) o l'ordinanza di un prefetto, se proprio non si vuol ricorrere al caso limite di un ordine imposto da un re assoluto o da un despota; per l'altro verso, pure ammesso che tutti gli imperativi giuridici siano impersonali, non si p u ò escludere che imperativi impersonali vi siano i n altri sistemi normativi, e basterebbe ricordare i dieci comandamenti, citati dallo stesso Olivecrona, e le cosiddette norme sociali i n cui l'impersonalità è ancor più evidente che nelle leggi emanate da un parlamento.
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La teoria dell'Qlivecrona è uno dei tanti tentativi che sono stati fatti, i n sede di teoria generale del diritto, di trovare la nota caratteristica della norma giuridica rispetto ad altri tipi d i norme prescindendo da considerazioni di fine o di contenuto, ovvero i n un elemento formale. Le dottrine più comuni sono state quelle che per trovare questa nota caratteristica i n un elemento formale si sono fondate, ora sulla pluralità dei destinatari della norma, distinguendo le norme giuridiche come imperativi generali (cioè rivolti ad una generalità di persone) dagli imperativi individuali, ora sulla tipicità dell'azione comandata, distinguendo le norme
30. I L DIRITTO COME NORMA TECNICA
Possiamo ancora considerare come un altro esempio di teoria imperativistica esclusiva, pur sotto i l segno di una particolare accezione di "imperativi", la dottrina di Adolfo Ravà, secondo il quale i l diritto è, sì, un insieme di imperativi, ma di imperativi d i
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quella specie che con Kant (v. par. 23) si possono chiamare "norme tecniche". I l Ravà ha sostenuto questa tesi, molto nota nella scienza giuridica italiana, i n un libretto del 1911, intitolato appunto // diritto come norma tecnica, poi ripubblicato nel volume Diritto e stato nella morale idealistica (Padova, Cedam, 1950). Prendendo lo spunto dalla distinzione kantiana tra imperativi categorici e imperativi ipotetici, il Ravà sostiene che le norme giuridiche appartengono ai secondi e non ai primi, i n altre parole che lo schema della norma giuridica non è del tipo: "Devi X", ma del tipo: "Se vuoi Y, devi X". Gli argomenti addotti dal Ravà per sostenere la sua tesi sono principalmente tre: 1) le norme giuridiche attribuiscono non solo obblighi ma anche diritti soggettivi: ora, sia che s'intenda per "diritto soggettivo" una facoltà d i fare o non fare giuridicamente protetta, sia che s'intenda una pretesa ad ottenere l'adempimento di un obbligo altrui, la figura del diritto soggettivo è incompatibile con una norma etica; infatti la norma etica, che impone categoricamente un'azione come buona i n se stessa, stabilisce solo obblighi (non importa se positivi o negativi) ma non facoltà («un lecito morale - dice i l Ravà - è altrettanto assurdo quanto sarebbe assurdo un lecito logico», p. 26); e i n secondo luogo là dove io sono determinato ad agire solo dalla pretesa altrui, vuol dire che l'azione obbligatoria non è buona i n se stessa e non è quindi stata posta da una norma categorica («se veramente la norma giuridica ordinasse delle azioni come buone in se stesse - così si esprime i l Ravà a questo proposito - come sarebbe ammissibile che poi lasciasse ad un'altra persona di decidere se esse siano obbligatorie o no?», p. 27); 2) i l diritto è coercibile: ora, una condotta che è lecito imporre con la forza, non può essere buona in se stessa, perché là dove un comando è accompagnato da una sanzione io posso sempre scegliere di disobbedire al comando e di assoggettarmi alla pena, come se la norma fosse così formulata: "Se non vuoi essere punito, devi compiere l'azione prescritta"; mentre là dove l'azione è buona i n se stessa, una scelta di quel genere è impossibile («Se la norma giuridica - così si legge nel libro del Ravà - ordina i n certi casi l'uso della forza, ciò non p u ò essere che mezzo ad un fine; cioè rientra nel concetto dell'utilità e non della morale, della tecnica e non dell'etica», p. 29); 3) in ogni ordinamento giuridico vi sono molte norme, come quelle che stabiliscono dei termini, le quali ordi-
nano manifestamente mezzi per raggiungere un fine, e non già azioni buone i n se stesse, e proprio per questo loro carattere tecnico costituiscono quell'aspetto dell'elaborazione di un ordinamento che si chiama i l tecnicismo giuridico. «Il carattere strumentale dei termini è così evidente, che solo un'osservazione molto superficiale p u ò aver permesso che sfuggisse» (p. 31). Da questi argomenti i l Ravà trae la conclusione che le norme giuridiche non impongono azioni buone i n se stesse e perciò categoriche, ma azioni che sono buone per raggiungere certi fini, e quindi ipotetiche. Qual'è i l fine a cui le norme giuridiche tendono? Si p u ò rispondere in linea generale che questo fine è la cotiservazione della società, onde la seguente definizione: «Il diritto è l'insieme di quelle norme le quali prescrivono la condotta che è necessario sia tenuta dai componenti la società acciocché la società stessa possa esistere» (p. 36). Posto questo fine ogni norma giuridica p u ò essere risolta nella seguente formula di imperativo ipotetico: «Se vuoi vivere i n società, devi comportarti i n quel modo che è condizione del vivere sociale». Credo che per rendere plausibile la dottrina del Ravà occoira distinguere i due diversi piani su cui essa si pone: 1) i l piano dell'ordinamento giuridico nel suo complesso, i n quanto distinto da un ordinamento di norme morali; 2) i l piano delle singole norme componenti un ordinamento giuridico. Per quanto riguarda i l primo piano, la dottrina del Ravà significa che l'ordinamento giuridico nel suo complesso è uno strumento per raggiungere un certo scopo (la pace sociale). Questo modo di considerare i l diritto è simile a quello prospettato dal Kelsen là dove egli definisce i l diritto come una tecnica dell'organizzazione sociale. Se i l diritto nel suo complesso è una tecnica, si p u ò ben dire che le norme che lo compongono sono norme tecniche, cioè norme che stabiliscono azioni non buone i n se stesse, ma buone per raggiungere quel certo fine a cui tutto i l diritto è indirizzato. Qui però è lecita un'obiezione: se i l diritto nel suo complesso è un ordinamento normativo tecnico, non si distingue più i n alcun modo da ordinamenti normativi come quelli del gioco e delle regole sociali. Per tutti questi ordinamenti si p u ò dire, come per l'ordinamento giuridico, che sono ordinamenti normativi strumentali. Resta a vedere se non si possa introdurre un'ulteriore specificazione, tenendo presente la distinzione, fatta da
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Kant, tra regole strumentali di un fine reale (o norme prammatiche) e regole strumentali di un fine possibile (o norme tecniche i n senso stretto) (vedi par. 23). Sembra allora che si possa dire che i l fine del diritto, messo a raffronto col fine del regolamento di un gioco, è un fine reale, cioè è un fine a cui io non posso sottrarmi e la cui attuazione non è libera ma obbligatoria: onde r i sulterebbe che l'ordinamento giuridico nel suo complesso non è composto da norme tecniche in senso stretto ma piuttosto di norme prammatiche. I l che importerebbe la modificazione della formula proposta dal Ravà, la quale non sarebbe più: «Se vuoi vivere i n società, devi comportarti i n quel modo che le norme giuridiche prescrivono», ma, secondo la formula delle norme prammatiche da noi proposta: «Poiché devi vivere i n società, devi comportarti i n quel modo che le norme giuridiche prescrivono». Quanto al secondo piano, quello delle norme giuridiche singolarmente prese, i l sostenere che esse sono norme tecniche significa un'altra cosa. Non significa più che esse mirano al raggiungimento di un certo fine (la pace sociale), ma che esse lasciano aperta un'alternativa o tra il seguire il precetto e il non raggiungere Io scopo a cui quel particolare precetto è rivolto, e che p u ò essere il fare un affare, il contrarre matrimonio, il trasmettere i propri beni ad altri, e così via, oppure tra i l seguire i l precetto e l'andare incontro ad uno scopo che non si voleva raggiungere, come, ad esempio, una riparazione, un risarcimento di danni, una multa, una pena detentiva. I n altre parole, quando ci si riferisce alle norme singole, i l dire che esse sono tecniche, cioè strumentali, non significa altro che questo: ogni norma giuridica è caratterizzata dal fatto che alla sua trasgressione segue una conseguenza spiacevole, ciò che si dice comunemente sanzione. Qui teoria del diritto come norma tecnica e teoria della sanzione come carattere costitutivo del diritto si vengono a congiungere. Abbiamo già visto che una norma sanzionata p u ò essere risolta nella proposizione alternativa: "O fai X, o t i succederà Y"; ma una proposizione alternativa è sempre riducibile a una proposizione ipotetica negando la prima parte dell'alternativa: "Se non fai X, ti succederà Y". I l che comporta che una norma sanzionata è sempre riducibile ad una norma tecnica, i n cui l'azione prevista come mezzo è quella regolata dalla norma primaria, l'azione posta come fine è quella regolata dalla norma secondaria.
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Si deve aggiungere che vi sono due formulazioni tipiche delle norme giuridiche come norme tecniche secondo i due diversi modi tipici con cui i l legislatore i n ogni ordinamento fa operare la sanzione. Se noi definiamo la sanzione come una conseguenza spiacevole imputata dal legislatore a colui che trasgredisce le norme primarie, lo scopo di attribuire una conseguenza spiacevole al trasgressore p u ò essere raggiunto i n due modi: 1) facendo i n modo che violando la norma non si raggiunga il fine che ci si proponeva; 2) facendo i n modo che violando la norma si raggiunga un fine opposto a quello che ci si proponeva. Esempi del primo modo sono le norme più propriamente dette tecniche, cioè quelle che stabiliscono le modalità per i l compimento di un atto giuridicamente valido (come gran parte delle norme sui contratti e sui testamenti): i n tutti questi casi se non seguo le modalità prescritte, non raggiungo lo scopo d i compiere un atto giuridicamente valido, e la sanzione consiste proprio i n questo venir meno dello scopo. Esempi del secondo modo sono le norme la cui trasgressione implica l'attribuzione di una pena al trasgressore: in questo caso la trasgressione (per esempio, la commissione d i un reato, come i l furto) mi porta al raggiungimento di una meta diversa da quella che m i ero proposta (invece di un grosso lucro, la reclusione). I n entrambi i casi il destinatario della norma è posto di fronte ad un'alternativa. Nel primo caso: "O fai X, o non otterrai Y", dove Y è i l fine desiderato; nel secondo caso: "O fai X, o otterrai Y"; dove Y è i l fine non desiderato. I n quanto riducibili a proposizioni alternative, entrambi i tipi di norme sono riducibili a proposizioni ipotetiche con queste due diverse formulazioni: "Se non fai X, non otterrai Y" e "Se non fai X, otterrai Y". Queste proposizioni ipotetiche sono riducibili alla loro volta a norme tecniche, la cui formulazione è, per il primo tipo: "Se vuoi Y, devi X", per i l secondo modo: "Se non vuoi Y, devi X".
3 1 . 1 DESTINATARI DELLA NORMA GIURIDICA
Partendo dalla teoria imperativistica del diritto, abbiamo visto che nell'ambito dei fautori della teoria esclusiva, secondo cui tutte le norme giuridiche sono imperativi, si sono venute proponen-
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do delle distinzioni o specificazioni con le quali si è cercato di i n dividuare, nel genus degli imperativi, alcuni tipi specifici di i m perativi che sono stati considerati più idonei a caratterizzare la forma particolare degli imperativi giuridici. Questa specificazione è stata cercata ora nella distinzione tra imperativi positivi e negativi, ora i n quella tra imperativi personali e impersonali, ora in quella tra imperativi categorici e ipotetici, con riferimento ora al diverso tipo d'azione regolata (nel primo caso azione positiva o negativa, nel terzo caso azione incondizionata o condizionata), ora al soggetto attivo (nel secondo caso). Ci rimane da dir qualche parola sulla controversia, nata in seno alla teoria imperativistica, relativa al soggetto passivo, che poi è la nota controversia sui destinatari della norma giuridica. Se la norma giuridica è un imperativo e per "imperativo" s'intende una proposizione la cui funzione è di determinare i l comportamento altrui, non c'è dubbio che la norma giuridica è rivolta a qualcuno. Ma a chi? Si p u ò trarre dalla indicazione dei destinatari un elemento determinante della norma giuridica? La disputa sui destinatari è vecchia, ed anche un po' logora, tra i giuristi: chi volesse avere un'idea delle principali teorie sostenute quando questa disputa era viva, si legga i l libro d i G. Battaglini, Le norme del diritto penale e i loro destinatari (Roma, 1910). Per quanto oggi la discussione sui destinatari sia alquanto esaurita, non m i sentirei di spingermi sino alla soluzione negativa del Romano^, secondo cui l'ordinamento giuridico non ha destinatari, e pertanto l'annoso problema dei destinatari è rimasto insoluto, per i l semplice fatto che non esiste: l'equivoco, secondo i l Romano, consiste nell'aver raffigurato come destinatari coloro per cui la legge produce, direttamente o indirettamente, delle conseguenze, mentre, perché una legge produca effetti giuridici per certe persone, non è affatto necessario che si rivolga a costoro. Ma a qualcuno la legge deve pur rivolgersi per essere una norma, un imperativo, cioè una proposizione i l cui effetto è di modificare i l comportamento altrui. Come si potrebbe immaginare una norma senza soggetto passivo, se di norma si p u ò parlare solo quando ci si riferisca ad una proposizione rivolta a determinare
Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, Giuffrè, 1947, p. 137 e ss.
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il comportamento altrui? I l problema non è se la norma giuridica abbia dei destinatari, ma quali essi siano. Il problema dei destinatari, non dico che nacque, ma certo diventò acuto quando un giurista dell'autorità d i Jhering, in polemica con quello che aveva affermato pochi anni innanzi i l Binding, sostenne che i destinatari della norma giuridica non sono i cittadini ma gli organi giudiziari incaricati di esercitare il potere coattivo. Lo Jhering partiva da una rigida dottrina statualistica e coazionistica del diritto, i n base alla quale definiva i l diritto come «il complesso delle norme coattive valevoli in uno stato» ^. Di qua discendeva che le norme giuridiche propriamente dette, cioè quelle che costituiscono un ordinamento normativo fondato sulla coazione, erano quelle dirette agli organi giudiziari, e in genere a tutti gli organi dello stato, incaricati di mettere in atto quella forza, la cui attuazione è l'unico elemento distintivo di un ordinamento giuridico da un ordinamento non giuridico. Ciò che contraddistingueva, secondo Jhering, una norma giuridica non era la sua efficacia estema da parte del popolo, ma la sua efficacia intema da parte dello Stato; tutte le proposizioni normative emesse dallo Stato ma non rafforzate dalla sanzione non erano, per lo Jhering, norme giuridiche. E dunque ciò che faceva diventare giuridica una proposizione normativa era il fatto che i giudici avessero i l potere e i l dovere di farla rispettare. Gli esempi di norme che possono servir meglio a chiarire la tesi di Jhering sono quelli ricavabili dalla legislazione penale: una legge penale, come ad esempio l'art. 575 c.p.: «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno», è manifestamente rivolta non ai cittadini ma ai giudici, tanto che dal Binding i n poi si suol dire che l'atto illecito non è l'atto contrario alla legge penale ma anzi è quello che ne realizza la fattispecie prevista. L'art. 575 citato istituisce non già un obbligo di non uccidere, ma puramente e semplicemente un obbligo di punire, e tale obbligo ovviamente è rivolto non ai cittadini ma ai giudici. La tesi di Jhering è stata sostenuta periodicamente soprattutto
^ Der Zweck im Recht, dalla II ediz. del 1884,1 voi., p. 320. L a teoria dei destinatari si trova alle pp. 336 e ss. Di quest'opera esiste anche una traduzione italiana: Lo scopo del diritto, a cura di M. LOSANO, Torino, Einaudi, 1972.
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dagli autori che accentuano l'elemento della coazione come elemento costitutivo del diritto. Ci basti qui ricordare i l più autorevole dei teorici del diritto contemporanei, i l Kelsen, i l quale, affrontando i l problema della distinzione tra la norma primaria r i volta ai sudditi, come ad esempio: "Non si deve rubare", e la norma secondaria, rivolta agli organi dello stato, come ad esempio: "Chi ruba, dovrà essere punito con la reclusione", sostiene che la norma primaria, cioè quella istituente un ordinamento come ordinamento giuridico, è la norma che abitualmente si dice secondaria, e si esprime così: «La norma che determina la condotta che evita la coazione (condotta che l'ordinamento giuridico ha come scopo) ha il significato di norma giuridica soltanto quando si presuppone che con essa si debba esprimere, in forma abbreviata per comodità di esposizione, ciò che solo la proposizione giuridica enuncia in modo corretto e completo e cioè che alla condizione della condotta contraria debba seguire un atto coattivo come conseguenza. Questa è la norma giuridica nella sua forma primaria. La norma che ordina il comportamento che evita la sanzione p u ò valere quindi soltanto come norma giuridica secondaria»*. Recentemente l'Allorio ha ribadito energicamente, almeno per quel che riguarda l'ordinamento statuale (ma l'Allorio non ritiene che l'ordinamento statuale sia l'unico possibile ordinamento giuridico) i l concetto che i destinatari siano soltanto gli organi dello Stato, anzi fa di questo carattere i l criterio distintivo degli ordinamenti paritari dagli ordinamenti autoritari, scrivendo "di poter ravvisare (nell'ordinamento statuale) l'esistenza di una definita caratterizzazione ... del contenuto di tutte le norme giuridiche, nel senso che, entro l'ambito di tale ordinamento, non trovi cittadinanza alcuna nonna, che non sia diretta a organi dello Stato". A chi gli oppone che le norme sono due, quella che i m pone ai sudditi un certo comportamento e quella che impone agli organi dello stato di intervenire nel caso che quel comportamento non sia tenuto, risponde che sarebbe pur sempre da spiegare "come mai i l dovere del privato non possa esistere da solo" ^.
L'ultima frase di Allorio esprime i l nucleo di verità della teoria che, nell'ordinamento giuridico considerato come ordinamento coattivo, considera come norme giuridiche soltanto quelle rivolte agli organi incaricati di mettere i n atto i l potere coattivo. Questo nucleo di verità si p u ò riassumere i n questo modo: posto l'ordinamento giuridico come ordinamento coattivo, esso p u ò consistere esclusivamente di norme rivolte agli organi dello stato; in altre parole si p u ò benissimo immaginare un ordinamento giuridico i n cui non vi siano altre norme che quelle di solito chiamate secondarie. I l che significa che le norme rivolte ai sudditi, ovvero le norme primarie, non sono necessarie. D'altra parte, un ordinamento costituito di sole norme primarie non potrebbe essere considerato un ordinamento giuridico, se per ordinamento giuridico s'intende un ordinamento ad efficacia rafforzata attraverso la sanzione che implica la messa i n atto di norme rivolte ai giudici. Che i n queste affermazioni vi sia un nucleo di verità non significa che la tesi dello Jhering sia accettabile senza riserve. Ritengo che alla dottrina degli organi statali come unici destinatari si possano muovere alcune obiezioni: 1) è possibile un ordinamento giuridico composto d i norme rivolte solo agli organi giudiziari; ma di fatto anche gli ordinamenti giuridici statuali comprendono norme rivolte sia ai giudici sia ai cittadini; se lasciamo da parte per un momento le leggi penali (che, come dice la parola stessa, sono leggi che comminano delle pene) e gettiamo uno sguardo sugli articoli del codice civile, non dobbiamo far molta fatica ad imbatterci i n norme rivolte ai cittadini, cioè i n norme primarie che stabiliscono non un tipo di sanzione ma un tipo di comportamento, la cui violazione implica (ma non necessariamente) una sanzione; 2) i l dire che queste norme esistono, sì, ma non sono norme giuridiche significa sostenere che la giuridicità di una norma dipende dal fatto che i l comportamento contrario a quello previsto implica delle conseguenze attribuite dalla norma secondaria, mentre noi riteniamo che la giuridicità di una norma singola (come vedremo meglio anche nel capitolo seguente) s'identifichi con la sua validità, cioè dipenda esclusivamente dal fatto di appartenere ad un sistema giuridico, i l che i m porta semplicemente che essa sia stata posta i n essere da chi, nel sistema, aveva i l potere di produrre norme giuridiche, e non c'è
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Teorìa pura del dirìtto, trad. it., Torino, Einaudi, p. 46. ' E . ALLORIO, La pluralità degli ordinamenti giuridici e l'accertamento giudiziale, in "Riv. dir. civ.", I, 1955, p, 279.
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Teorìa della nonna giurìdica
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dubbio che le norme primarie possono godere, allo stesso modo delle norme secondarie, di questa caratteristica; 3) le norme secondarie non sono norme ultime, perché sono spesso seguite da norme che chiameremo terziarie, cioè da norme che attribuiscono una sanzione alla trasgressione della norma secondaria; se si rispondesse che i n questo caso la norma giuridica è quella terziaria e non già quella secondaria (in funzione di primaria), si r i schierebbe d i dover risalire sempre più indietro e si finirebbe per essere costretti a sostenere che l'unica norma giuridica del sistema è la norma fondamentale; tanto vale, dunque, cominciare a riconoscere come giuridiche le prime norme i n cui c'imbattiamo, e che sono le norme primarie; se infatti noi sosteniamo che le norme primarie non sono giuridiche perché si limitano a fissare i l presupposto per l'entrata in vigore d i un'altra norma, è probabile che saremmo costretti a non fermarci alle norme secondarie, e a concludere che l'unica norma giuridica è la norma fondamentale perché la sua trasgressione non rinvia a nessun'altra norma del sistema; 4) se è vero che un ordinamento giuridico è un ordinamento normativo a efficacia rafforzata (come vedremo nel capitolo seguente), ciò non esclude che esso conti anche sull'efficacia semplice, vale a dire sull'adesione alle norme rivolte ai cittadini, e che pertanto quelle norme che per essere rivolte ai cittadini sono dette primarie abbiano la loro ragion d'essere nel sistema, e di fatto ogni sistema giuridico, anche se non le pone esplicitamente (come in un codice penale), le presuppone, e conta sulla loro efficacia.
Osserviamo anzitutto che, come c'è stato chi di fronte alla distinzione tra imperativi positivi e negativi, ha creduto di poter affermare che le norme giuridiche sono tutte imperativi negativi, così, di fronte a questa nuova capitale distinzione tra norme i m perative e norme permissive, c'è stato chi ha sostenuto che l'assenza del diritto è il permettere e non già i l comandare, e che i n questa proprietà va ricercata la differenza tra il diritto e la morale. Si tratta della nota tesi del Fichte, i l quale, nel suo trattato di diritto naturale di ispirazione kantiana [Lineamenti di diritto naturale, 1796), ha posto la differenza tra diritto e morale i n questi termini: la legge morale comanda categoricamente quello che si deve fare, la legge giuridica permette quello che si p u ò fare: da un lato, la legge morale non si limita a permettere che si compia ciò che essa vuole, ma lo impone; dall'altro, la legge giuridica non ordina mai che si eserciti un diritto. Questa tesi del Fichte p u ò essere considerata come una teoria esclusiva in senso opposto alla teoria esclusiva imperativistica: mentre questa afferma che tutte le norme giuridiche sono imperativi, quella afferma che nessuna norma giuridica è un imperativo. È una specie d i esasperazione della teoria mista che pone accanto alle norme imperative anche quelle permissive, e, come tutte le teorie estreme, non è sostenibile. Basti osservare che l'attribuzione d i u n diritto (soggettivo) e l'imposizione di un dovere sono momenti correlativi dello stesso processo: una norma che impone un dovere a una persona attribuisce nello stesso tempo ad altra persona il diritto d i esigerne il compimento, così come una norma che attribuisce un diritto impone nello stesso tempo ad altri i l dovere di rispettarne i l libero esercizio o di permetterne l'esecuzione. I n altre parole, diritto e dovere sono le due facce del rapporto giuridico, delle quali l'una non p u ò essere senza l'altra. Dire che i l diritto permette e non comanda vuol dire osservare i l fenomeno giuridico da un solo punto di vista, e non accorgersi quindi che i l diritto permette solo in quanto nello stesso tempo anche comanda.
32. IMPERATIVI E PERMESSI
Sin qui abbiamo esaminato le teorie esclusive. Teorie miste sono quelle che ammettono che in ogni ordinamento giuridico vi siano degli imperativi, ma negano che tutte le proposizioni componenti un sistema giuridico siano imperativi o riducibili a i m perativi. La più vecchia delle teorie miste è quella che considera accanto alle norme imperative le cosiddette nonne pennissive, ovvero accanto alle norme che impongono doveri, le norme che attribuiscono facoltà (o permessi).
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Prescindendo dalla teoria permissiva esclusiva, riteniamo che anche la teoria permissiva parziale, cioè quella che critica la teoria dell'imperatività appoggiandosi sulla presenza delle norme permissive (e qui intendiamo per "norme permissive " i n senso stretto quelle che attribuiscono facoltà, cioè determinano delle sfere di liceità accanto alle sfere del comandato e del proibito).
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non colga nel segno. Non abbiamo nulla da obiettare sul fatto che i n ogni ordinamento vi sono norme permissive accanto a quelle imperative. Basta aprire un codice per accorgersene: «Divenuta eseguibile la sentenza che dichiara la morte presunta, i l coniuge può contrarre nuovo matrimonio» (art. 65 c e ) ; «Sipuò eleggere domicilio speciale per determinati atti o affari» (art. 47 c e ) . La domanda che ci poniamo è un'altra: la presenza di norme permissive p u ò essere considerata un argomento contro l'imperatività del diritto? I l problema si sposta dalla mera constatazione dell'esistenza d i norme permissive alla loro funzione. Ora la funzione delle norme permissive è quella di far venir meno un imperativo in determinate circostanze o con riferimento a determinate persone, e pertanto le norme permissive presuppongono le norme imperative. Se non si partisse dal presupposto della imperatività non vi sarebbe bisogno, i n determinate circostanze e riguardo a determinate persone, di far venir meno l'imperativo, cioè di permettere. Là dove non si presuppone un sistema normativo imperativo, le azioni pemiesse sono quelle che non richiedono nessuna norma per essere riconosciute, dal momento che vale i l postulato che "tutto ciò che non è proibito o comandato è permesso". Dove intervengono norme permissive è segno che esiste un sistema normativo imperativo che patisce i n determinati casi eccezioni e che pertanto il postulato da cui si parte è l'opposto al precedente, ovvero: "Tutto è proibito o comandato tranne quello che è (espressamente) permesso". Se noi ci riferiamo agli esempi citati sopra, ci è facile constatare che la norma permissiva dell'art. 65 ha ragion d'essere i n quanto la regola normativa presupposta è i l divieto di contrarre un secondo matrimonio sino a che uno dei coniugi è vivo; così la norma permissiva dell'art. 47 presuppone i l divieto generale d i avere più domicilii.
possono riottenere il cognome che avevano anteriormente» (D.L.L. 19 ottobre 1944, art. 2). Un esempio d i norma permissiva derogante: «Non p u ò contrarre matrimonio la donna se non dopo trecento giorni, ecc. (questa è la parte imperativa della norma). // divieto cessa dal giorno i n cui la donna ha partorito» (questa è la parte permissiva che deroga i l divieto i n una determinata circostanza) (art. 89 c e ) . I n secondo luogo le norme permissive possono essere distinte, come le imperative, in positive e negative: le prime son quelle che permettono di fare, le seconde quelle che permettono d i non fare. Come vedremo meglio nell'ultimo capitolo, dedicato appunto alla classificazione delle norme, le norme permissive positive sono quelle che negano un imperativo negativo (o divieto), le norme permissive negative sono quelle che negano un imperativo positivo (o comando). Le azioni previste dalle prime si chiamano più strettamente permesse, le azioni previste dalle seconde si chiamano più propriamente facoltative: che la caccia i n una certa zona sia permessa significa che non è proibita; che una materia del curriculum degli studi sia facoltativa significa che non è obbligatoria. Esempio di norma permissiva positiva: «Se il marito ha trasferito i l suo domicilio all'estero, la moglie p u ò stabilire nel territorio dello Stato i l proprio domicilio» (art. 45 c e ) : questa norma attribuisce un permesso di fare come esclusione di un obbligo di non fare. Esempio di norme permissive negative: «Salvo quanto è disposto per l'ipoteca legale, il marito non è tenuto a dare cauzione per la dote che riceve, se non vi è stato obbligato nell'atto di costituzione dotale» (art. 186 c e ) : questa norma attribuisce un permesso dì non fare come esclusione di un obbligo di fare.
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Volendo ora introdurre qualche ulteriore distinzione, facciamo ancora due osservazioni. Anzitutto, si possono distinguere le norme permissive in base al fatto che facciano venir meno un imperativo precedente nel tempo, e in questo caso funzionano da norme abroganti, oppure un imperativo contemporaneo, e i n questo caso funzionano generalmente da norme deroganti. Un esempio di norma permissiva abrogante: «Le persone alle quali è stato i m posto o che hanno ottenuto il cambiamento del proprio cognome, i n base agli articoH 2, 3 e 4 della legge 13 luglio 1939, n. 1055,
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3 3 . RAPPORTO TRA IMPERATIVI E PERMESSI
Abbiamo visto, nel paragrafo precedente, che le norme permissive sono necessarie là dove viene presupposto un sistema di imperativi a cui viene apportata, i n determinate circostanze o per determinate persone, un'abrogazione o una deroga. Ora aggiungiamo che là dove non è presupposto u n sistema di imperativi, la situazione del permesso risulta dalla mancanza di norme; nel sen-
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SO che è permesso o lecito tutto ciò che non è né proibito n é comandato. Imperativi e permessi stanno tra loro i n rapporto di negazione reciproca: le norme imperative limitano la situazione originaria di liceità di fatto o naturale; le norme permissive limitano alla loro volta le situazioni d'obbligatorietà prodotte da norme imperative positive o negative. Si p u ò descrivere l'evoluzione storica di un sistema normativo i n questo modo. Partiamo dall'ipotesi (ipotesi, s'intende, del tutto astratta) d i una condizione umana in cui non vi sia ancora un sistema normativo. Questa situazione p u ò esser definita con la formula: tutto è lecito; e rappresentata simbolicamente così:
Questa ipotesi è quella dello stato totalitario, ovvero di quello stato i n cui ogni atto del cittadino è regolato da norme imperative. L'ipotesi dello stato totalitario è diametralmente opposta a quella dello stato di natura: l'una rappresenta l'ideale dello stato compiutamente realizzato, che ha soppresso ogni libertà naturale; l'altra rappresenta l'ipotesi dell'anarchia, cioè della totale assenza dello stato. È inutile ripetere che la realtà storica non conosce situazioni corrispondenti né all'una né all'altra ipotesi. Come non è possibile uno stato che sia tanto onnipotente e invadente da regolare ogni comportamento dei cittadini, così non è possibile una condizione umana i n cui non vi sia un nucleo di norme imperative che delimitino le sfere di libertà di ciascuno. La realtà storica conosce soltanto situazioni i n cui la sfera del lecito convive con quella dell'obbligatorio; e, se mai, le diverse situazioni si differenziano secondo la diversa estensione delle due sfere. Noi chiamiamo stato liberale quello in cui è lasciata la massima estensione alla sfera della liceità i n confronto a quella dell'imperatività, e stato non-liberale quello i n cui la sfera dell'imperatività si estende a scapito di quella della liceità.
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1.
sfera del lecito
Questa ipotesi è quella dello stato di natura nel significato hobbesiano, ovvero di uno stato in cui non esistono leggi civili, e quindi non esistono doveri, ma solo diritti, e ogni individuo ha per suo conto un diritto su ogni cosa (ius in omnia). I l passaggio dallo stato di natura allo stato civile avviene attraverso la limitazione della primitiva sfera di liceità naturale (caratterizzata dalla mancanza di norme imperative), e questa limitazione è l'effetto della creazione da parte del sommo potere di norme imperative prima negative e poi positive (secondo la progressione esaminata nel par. 27). La situazione che si viene a creare p u ò essere raffigurata simbolicamente così: 2.
sfera del proibito
sfera del lecito
sfera del comandato
Immaginando che la sfera del proibito e del comandato si estenda a scapito della sfera del lecito, possiamo fare l'ipotesi (anche questa del tutto astratta) di una situazione i n cui la sfera del lecito venga completamente a scomparire, e si dia luogo a quella situazione limite in cui ogni comportamento sia o proibito o comandato e nessuno sia lecito, e che p u ò essere raffigurata i n questo modo: 3.
tutto è obbligatorio
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Siamo partiti dall'ipotesi dello stato di natura e siamo arrivati attraverso successive limitazioni operate da norme imperative all'ipotesi opposta dello stato totalitario. Ma poiché i n sede di ipotesi astratta la scelta del punto di partenza è indifferente, possiamo raffigurarci i l cammino inverso. Possiamo così considerare come ipotesi iniziale quella di una società i n cui tutto sia imperativamente regolato: 4.
tutto è obbligatorio
Con l'introduzione successiva di nonne permissive che abrogano e derogano alle norme imperative si viene a formare una sfera di liceità compresa tra gli obblighi positivi e gli obblighi negativi sì da dar origine alla seguente figura: 5.
sfera del proibito
sfera del lecito
sfera del comandato
Questa figura differisce dalla 2) per i l fatto che là la sfera del lecito è rappresentata dal lecito naturale, cioè da ciò che è lecit^^^^j^jg»..^
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per mancanza di norme, qua, invece, la sfera del lecito è i l risultato di una limitazione degli imperativi introdotta da norme permissive. Le due situazioni diverse, rappresentate dalle due figure 2) e 5), possono essere formulate in questo modo, la prima: Tutto è permesso tranne ciò che è vietato (o comandato); la seconda: Tutto è vietato (o comandato) tranne ciò che è permesso. Teniamo presenti queste due formule: esse sono state assunte a designare due tipi di stato, entrambi corrispondenti a situazioni storiche e quindi lontani dai due estremi dell'anarchia e dello stato totalitario. La prima formula designa lo stato liberale, ovvero quello stato che parte dal presupposto della libertà naturale ("Tutto è permesso"), ma ammette che la libertà naturale possa essere l i mitata attraverso norme imperative più o meno ampie a seconda delle circostanze ("tranne quello che è proibito"). La seconda formula designa lo stato socialista, ovvero quello stato che parte dal presupposto della non-libertà dell'individuo, i n quanto l'individuo è parte di un tutto (la società) che lo trascende ("Tutto è vietato"), salvo a introdurre caso per caso mediante norme permissive sfere particolari e ben delimitate di liceità ("tranne quello che è permesso")^. Consideriamo, ad esempio, l'istituto della proprietà: i n uno stato liberale la proprietà individuale viene considerata come un diritto naturale, cioè come un diritto preesistente alla formazione dello stato, e il compito dello stato è di delimitarne l'estensione attraverso una regolamentazione imperativa; in uno stato socialista, invece, la proprietà individuale è in partenza vietata salvo ad essere riconosciuta i n determinati casi attraverso norme permissive. I l Sombart, a cui risale questa caratterizzazione dello stato liberale e dello stato socialista, concludeva che nel primo la sfera del permesso prevale su quella dell'obbligatorio, nel secondo, viceversa, la sfera dell'obbligatorio prevale su quella del permesso.
mula, in cui i l presupposto è la libertà naturale, e situazioni corrispondenti alla seconda formula, i n cui i l presupposto è la mancanza di libertà, e che, tutt'al più, si possono distinguere stati i n cui prevalgono le prime e altri i n cui prevalgono le seconde. Questa differenza di situazioni corrisponde grosso modo alla tradizionale distinzione tra la sfera del diritto privato e quella del diritto pubblico. Quando noi leggiamo il codice civile, lo leggiamo avendo i n mente i l presupposto che tutto quello che non è i n esso prescritto è permesso; quando leggiamo i l testo di una costituzione, lo leggiamo con in mente quest'altro presupposto, che tutto quello che non è in essa espressamente autorizzato, è proibito. Diremo, in altre parole, che nella sfera della regolamentazione dell'autonomia privata vale i l postulato che tutto è permesso tranne quello che è vietato, mentre nella sfera della regolamentazione degli organi pubblici vale i l postulato opposto che tutto è vietato tranne quello che è espressamente permesso. La distinzione non ha valore puramente teorico: in caso di lacuna, se un sistema di imperativi si regge sul primo postulato, ne deriva che i l comportamento non previsto deve considerarsi permesso, se si regge sul secondo, i l comportamento non previsto deve considerarsi proibito.
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Come ogni riduzione a formula semplice di una situazione complessa, anche questa duplice caratterizzazione è da accettare con molta cautela. Forse saremmo più vicini alla realtà, se dicessimo che i n ogni stato vi sono situazioni corrispondenti alla prima for-
* L a distinzione tra stato liberale e stato socialista in base alle due formule su indicate è stata fatta da W. SOMBART, / / socialismo tedesco, Firenze, Vallecchi, 1941, p. 8 3 e ss.
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34. IMPERATIVI E R E G O L E FINALI
Tra le teorie miste è da ricordare, per completezza, quella sostenuta dal Brunetti, anche se egli non collochi la sua dottrina tra le dottrine miste, ma la chiami una teoria integrale della norma giuridica. I l Brunetti, dopo aver criticato la teoria negativa (che vedremo nel prossimo paragrafo), critica anche la tesi secondo cui tutte le norme di un sistema giuridico siano degli imperativi. Solo che egli non segue la via delle altre dottrine miste, cioè la via di considerare, accanto alle norme imperative, le norme permissive. La via che egli segue è quella di considerare come non imperative un tipo di norme giuridiche ch'egli chiama regole finali ''.
' Si veda l'opera, Norme e regole fmali nel dirìtto, Torino, Utet, 1913. utile anche per l'esposizione e critica delle principali dottrine sulla norma giuridica.
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Per "regole finali" il Brunetti intende la stessa cosa che gli i m perativi ipotetici o norme tecniche di Kant, vale a dire quelle regole che, com'egli dichiara, non esprimono una necessità assoluta, ma soltanto finale o teleologica, o, con le solite parole, non impongono un'azione come buona i n se stessa, ma come buona per raggiungere un certo fine: "Se vuoi arrivar presto, devi camminare velocemente". Ma è forse questa teoria una ripetizione di quella del Ravà, di cui abbiamo parlato al paragrafo 29? Lo stesso Brunetti chiarisce la differenza: la teoria del Ravà ha di mira la definizione del diritto nel suo complesso; la sua teoria delle regole finali ha lo scopo di caratterizzare certe norme giuridiche i n confronto di certe altre. Ciò che aggiunge i l Brunetti alla definizione tradizionale delle norme tecniche è questo: le ìiorme tecniche (o regole finali) non sono degli imperativi. Pertanto, se i n u n ordinamento giuridico è dato imbattersi i n regole finali, ciò deve condurci ad affermare che non tutte le regole che compongono un ordinamento sono imperativi.
gani giudiziari. Ma da questo dovere dello stato nascono due regole finali, l'una rivolta al debitore: "Se non vuoi che lo stato intervenga ecc., devi eseguire la prestazione", l'altra al creditore: "Se vuoi che lo stato intervenga ecc., devi promuovere l'istanza". Riteniamo che anche la teoria del Brunetti non riesca a scalfire la dottrina dell'imperatività del diritto. Abbiamo già esposto, del resto, al paragrafo 23 le ragioni per cui pensiamo che le norme tecniche, che si trovano in un ordinamento giuridico, siano veri e propri imperativi. La questione, così come la prospetta i l Brunetti, è meramente una questione di parole: se noi prendiamo i l termine "imperativo" come sinonimo di "comando", e intendiamo per "comandi" soltanto gli "imperativi categorici", le regole finali, che non sono nulla di diverso dagli imperativi ipotetici, non possono dirsi né imperativi né comandi. Ma se noi accogliamo un'accezione più larga di imperativo e ne facciamo un sinonimo di proposizione prescrittiva (come senza dubbio la intendeva i l Thon), e intendiamo per "proposizione prescrittiva", come abbiamo fatto sin qua, una proposizione la cui funzione sia quella di dirigere l'azione altrui, non c'è dubbio che le regole finali possono essere chiamate imperativi, perché, se pur subordinatamente alla scelta del fine, dirigono l'azione nell'esecuzione dei mezzi.
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Le regole finali non sono da confondersi con gli imperativi, secondo il Brunetti, perché non limitano la mia libertà di agire, dal momento che io sono libero di scegliere i l fine che esse m i propongono. Esse stabiliscono un dovere, che, per distinguerlo dal dovere che risulta dagli imperativi propriamente detti, si p u ò chiamare dovere libero. La differenza tra comandi e regole finali si rivelerebbe, secondo i l Brunetti, soprattutto nei confronti della loro rispettiva esecuzione: di fronte ad un comando essere l i beri significa avere la possibilità di violarlo; di fronte a una regola finale, essere liberi significa possibilità di non fare ciò che essa prescrive senza violarla. Prendiamo un esempio tipico di regola finale: quella che prescrive le modalità del testamento olografo. Per i l Brunetti, questa regola non è un comando, sia perché non m'impone di fare i l testamento olografo, ma m i lascia perfettamente libero di farlo o non farlo, sia perché non eseguendola (cioè non facendo i l testamento olografo) non la violo, quindi non compio un atto illecito. Il Brunetti applica questa sua dottrina della regola finale alla spiegazione del rapporto obbligatorio: al diritto del creditore non corrisponderebbe, come sostiene la dottrina tradizionale, i l dovere del debitore, ma i l dovere dello stato di soddisfare l'interesse del creditore. Questo dovere dello stato deriva da un imperativo vero e proprio rivolto agli or-
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Del resto gli argomenti addotti dal Brunetti per distinguere le regole finali dagli imperativi non sono molto convincenti. Egli parla di dovere libero contrapposto a dovere necessario. Ora, l'espressione "dovere libero" è una contradictio in adiecto: i n realtà ciò che è libero, nelle regole finali, è i l fine, ma i l fine, appunto perché libero, non è doveroso; ciò che è doveroso è i l mezzo, ma appunto per i l fatto di essere doveroso, una volta scelto i l fine, non è più libero. Quanto alla caratteristica relativa all'esecuzione, ciò che il Brunetti dice circa le regole finali deriva da una confusione tra la norma che prescrive i mezzi, che è prescrittiva, e la norma che riguarda i l fine, che o non esiste o è permissiva: se io non faccio testamento, certamente non violo la norma che stabilisce le modalità per fare testamento, non già perché questa norma non sia imperativa, ma perché il mio comportamento cade al di fuori dei comportamenti regolati da essa, i n altre parole perché la norma che viene in questione riguardo alla mia decisione di fare testamento non è la norma imperativa che ne prescrive le
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modalità, ma quella permissiva che ammette anche la liceità di non fare testamento. Una volta presa la decisione di fare testamento, io non sono più affatto libero di non fare ciò che la regola finale prescrive: o, se si vuole, sono libero, ma ciò facendo violo la norma, non diversamente da quel che accade per ogni altra norma che i l Brunetti chiamerebbe imperativa.
conseguenza che si poteva parlare di "comando" rispetto agli i m perativi morali, perché, essendo autonomi, non c'è una volontà diretta ad una volontà altrui, ma una sola volontà divisa o due diverse direzioni della stessa volontà, ma non se ne poteva parlare rispetto alle norme giuridiche che, essendo eteronome (lo stato comanda e i sudditi obbediscono), hanno bisogno d i una garanzia che la volontà dei sudditi si adegui a quella dello stato, garanzia che i l comando in quanto tale (cioè nella definizione r i stretta del Kelsen) non p u ò dare, e p u ò esser raggiunta soltanto attraverso la sanzione. Una volta posta la sanzione, ciò che vuole lo stato non è più quel determinato comportamento dei sudditi, ma un determinato comportamento dei propri organi incaricati di esercitare la coazione, onde i l comportamento dei sudditi non è più, in quanto lecito, i l contenuto della volontà statale, ma bensì, i n quanto illecito, la condizione dell'attività sanzionatoria dello stato. La critica alla teoria imperativistica, da un lato, intesa come teoria che vedeva nelle leggi un comando diretto ai sudditi, e l'interdipendenza stabilita tra i l concetto di diritto e quello di sanzione (è norma giuridica solo quella sanzionata), conducevano i l Kelsen ad attribuire alla norma giuridica i l carattere non più del comando ma del giudizio ipotetico, rivolto a stabilire un nesso tra una condizione (l'illecito) e una conseguenza (la sanzione), nella formula seguente: "Se è A, deve essere B" (dove A rappresenta l'illecito e B la sanzione). Tra l'altro questa riduzione della norma giuridica serviva al Kelsen per risolvere la tradizionale questione della differenza tra diritto e morale: le norme morali, quelle sì, sono comandi; le norme giuridiche, invece, sono giudizi. L'autonomia del diritto di fronte alla legge morale veniva assicurata, così si esprimeva, «facendo in modo che la norma giuridica, contrariamente alla dottrina tradizionale, venga intesa non come i m perativo al pari della norma morale, ma bensì come giudizio ipotetico che esprime i l rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza condizionata»'.
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35. IMPERATIVI E GIUDIZI IPOTETICI
Ed ora veniamo alle teorie negative, cioè alle teorie che negano che le norme giuridiche siano degli imperativi. La prima e più radicale formulazione delle teorie negative risale allo Zitelmann, i l quale volle rispondere con la sua critica agli entusiasmi imperativistici del Thon. Secondo questo autore, ogni proposizione giuridica si p u ò risolvere nella foiTnula "Se tu devi". Ora, egli dice, una proposizione di questo genere ha i l carattere di un'asserzione, cioè è un giudizio, in particolare un giudizio ipotetico, ovvero è "una asserzione sopra un rapporto già esistente". E un giudizio, secondo i dettami della logica classica, non è un comando. La tesi della norma giuridica come giudizio ipotetico è stata accolta, se pur con diversi argomenti, dal Kelsen ed ora la dottrina antimperativistica si identifica di solito con la dottrina kelseniana. Contro l'imperativismo il Kelsen svolse alcuni argomenti critici, che ad alcuni parvero decisivi, sin dalla sua prima opera importante, gli Hauptpmbleme der Staatsrechtslehre (1911) (v. I I ediz., 1923, p. 189 e ss.). I l suo punto di partenza era una definizione piuttosto ristretta di "comando" (ancora una volta si osservi quanta importanza abbiano i n queste dispute le definizioni iniziali, e quindi per quanta parte queste questioni siano questioni di parole): egli intendeva per "comando" l'espressione immediata di una volontà rivolta alla modificazione di una volontà altrui, e sin qui non diceva nulla di particolarmente diverso da quello che ripetutamente si è detto i n questo corso sulle proposizioni prescrittive; ma poi aggiungeva - e con ciò introduceva una l i m i tazione - che era nella natura dei comandi di non contenere nessuna garanzia che il comportamento altrui fosse effettivamente modificato. Da questa definizione restrittiva di comando traeva la
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Peraltro, che le norme giuridiche siano giudizi ipotetici, e come tali distinti dalle norme morali, non vuol dire, per i l Kelsen,
Teorìa pura del diritto, trad. it., Torino, Einaudi, 1952, p. 40.
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che siano asserzioni o proposizioni descrittive. Kelsen distingue le norme giuridiche dalle leggi morali, ma le distingue altresì dalle leggi scientifiche (le leggi di cui parlano i fisici, i chimici, i biologi, ecc.). Anche quest'ultime si possono risolvere i n giudizi ipotetici che stabiliscono un rapporto costante tra una condizione (la causa) e una conseguenza (l'effetto), ma la copula che unisce le due parti del giudizio è costituita dal verbo essere, mentre la copula i n una norma è i l verbo dovere. La legge scientifica dice: "Se è A, è anche B"; la legge giuridica: "Se è A, deve essere B". Mentre il nesso che unisce A a B in una legge scientifica è un nesso di causalità, nel senso che A è la causa di B, e B è l'effetto di A, i l nesso che unisce A e B in una legge giuridica è un nesso, come i l Kelsen lo chiama, di imputazione, nel senso che la conseguenza B non è l'effetto della condizione A, ma è imputata ad A da un fatto umano, più precisamente da una norma. Con le parole stesse del Kelsen: «La connessione tra causa ed effetto è indipendente dall'atto di un essere umano o superumano. Invece la connessione tra un illecito e la sanzione giuridica è stabilita da un atto, o da atti umani, da un atto che produce diritto, cioè da un atto i l significato del quale è una norma»
imputazione reintroduce la differenza tra i l descrittivo e i l prescrittivo che la polemica contro l'imperativismo ha fatto credere a molti che dal Kelsen fosse stata abbandonata. Si p u ò dire infatti che la distinzione dei due rapporti sta nel fatto che i l primo non è volontario, non dipende da un'autorità che l'abbia posto, i l secondo è volontario, dipende da un'autorità che lo pone; e ancora che i l primo rinvia ad una determinazione necessaria, i l secondo ad una statuizione volontaria, e quindi ad una prescrizione. I n questo modo risulta che la differenza tra la norma giuridica e la legge naturale è una differenza essenziale, nel senso che l'una e l'altra appartengono a due ordini diversi (l'ordine dei rapporti causali e l'ordine dei rapporti imputati), mentre la differenza tra la norma giuridica e la norma morale è una pura differenza di grado nell'ambito dello stesso ordine normativo, nel senso che la legge morale è una prescrizione a efficacia immediata, la legge giuridica è una prescrizione a efficacia mediata, cioè è una prescrizione la cui efficacia dipende non già dalla norma che prescrive un comportamento, ma dalla norma che prescrive la conseguenza sfavorevole (la sanzione) di un comportamento considerato come illecito. Se il proprium della norma giuridica è, come abbiamo detto sinora, di appartenere alla categoria delle proposizioni prescrittive, la teoria del Kelsen, per cui la norma giuridica si risolve i n un giudizio ipotetico, non è una teoria contraria alla tesi della norma giuridica come prescrizione, perché i l giudizio i n cui si esprime la norma è pur sempre un giudizio ipotetico prescrittivo e non descrittivo, cioè un giudizio che nella sua seconda parte contiene una prescrizione ("... deve essere B"). Insomma, la teoria antimperativistica del Kelsen non p u ò essere considerata una teoria negativa nel senso che, negando alle norme giuridiche la qualifica di prescrizioni, ne faccia delle asserzioni, ma solo nel limitato senso, e per la tesi sostenuta sin qui irrilevante, che ne fa delle prescrizioni diverse da quelle morali, ma pur sempre, ciò che ai fini della nostra ricerca più importa, delle prescrizioni. Del resto, lo stesso Kelsen sembra che nelle opere successive abbia attenuato i l suo antimperativismo, là dove scrive: «Il legislatore usa frequentemente i l futuro, affermando che un ladro sarà punito i n questa o quella maniera. Egli presuppone allora che i l problema relativo a chi sia i l ladro sia già stato risolto altrove, nella stessa legge o i n qualche altra. La fra-
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Non stiamo a sottolineare l'importanza della distinzione tra rapporto di causalità e rapporto di imputazione per la comprensione della differenza tra l'ordine fisico e l'ordine normativo. L'importanza si rivela soprattutto là dove acquistiamo coscienza degli errori nascenti dalla confusione dei due ordini, che il Kelsen attribuisce alla mentalità primitiva. È proprio di una concezione primitiva, prescientifica, del mondo, confondere l'ordine fisico con l'ordine normativo, e considerare, pertanto, un fenomeno non già come l'effetto di un altro fenomeno, ma come una sanzione imputata ad un agente da una norma (emanazione di una volontà superiore), confusione che porta a domandarsi di fronte a un fenomeno naturale non già: "Quale ne è la causa", ma: "Di chi è i l merito o di chi è la colpa?" (secondo che i l fenomeno sia valutato come utile o svantaggioso). Quello che a noi preme di sottolineare è che questa differenza tra rapporto causale e rapporto d i
' Dal saggio Causalità ed imputazione, pubblicato in app. alla Teorìa pura del dirìtto, cit., p. 181.
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Teorìa della norma giuridica
Prescrizioni e diritto
se "sarà punito" non implica la predizione d i un evento ftituro il legislatore non è un profeta - , ma un imperativo o un comando, prendendo tali termini i n senso figurato. Ciò che intende l'autorità che crea la norma è che la sanzione deve essere eseguita contro i l ladro, quando si verifichino le condizioni per la sanzione». E poco più oltre volendo distinguere le norme giuridiche dalle proposizioni della scienza giuridica, chiama quest'ultime proposizioni descrittive e precisa che «le norme giuridiche emanate dalle autorità che producono i l diritto sonoprecettive»^°. Ed è appunto quello che da noi volevasi dimostrare.
mento della configurazione imperativistica del diritto che è insito nella prospettiva delle norme giuridiche come giudizi di valore giuridico e dell'ordinamento giuridico come un insieme di giudizi di valore giuridico» Qui non ci occupiamo della questione, discussa recentemente, se per indicare la norma giuridica la scelta dell'espressione "giudizio di valore", che nel linguaggio filosofico ha un significato abbastanza uniforme e diverso da quello che le attribuiscono i giuristi su menzionati, sia opportuna o non sia tale da ingenerare qualche confusione. Qui ci limitiamo a domandarci se quella definizione implichi una negazione del significato prescrittivo delle norme giuridiche, se cioè, veramente, si possa considerare la teoria delle norme come giudizi di valore una dottrina risolutiva nei confronti della dottrina imperativistica, intesa nel suo senso più ampio (e cioè come teoria che considera le norme giuridiche non come comandi i n senso stretto, ma come proposizioni appartenenti al linguaggio prescrittivo distinte da quello descrittivo). Quando gli autori su ricordati dicono che la norma è una valutazione di certi fatti, intendono dire che la norma giuridica qualifica certi fatti come giuridici, cioè collega a certi fatti certe conseguenze, che si chiamano conseguenze giuridiche. Ma quali sono queste conseguenze giuridiche distinte, ad esempio, dalle conseguenze naturali? La più importante e più frequente di queste conseguenze giuridiche è i l sorgere di un'obbligazione o nella persona dei consociati se si tratta di una norma primaria o nella persona dei giudici se si tratta di una norma secondaria. I n altre parole, quando si dice che un fatto è valutato da una norma non si dice nulla di diverso di questo: quel fatto è la condizione per il sorgere di un'obbligazione. Ma l'obbligazione rinvia ad una prescrizione. Perciò, dire che certi fatti hanno certe conseguenze giuridiche significa r i conoscere che certi comportamenti piuttosto di altri sono obbligatori in quanto sono prescritti, che, ad esempio, certi comportamenti che senza la norma sarebbero leciti sono invece proibiti, o certi altri comportamenti che senza quella norma sarebbero proibiti diventano leciti; vuol dire, insomma, riferirsi ad una modifi-
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3 6 . IMPERATIVI E GIUDIZI DI VALORE
Una diversa formulazione della teoria antimperativistica è quella che definisce le norme giuridiche non come giudizi ipotetici, ma come giudizi di valore, o giudizi di valutazione, o, più brevemente, valutazioni. È una dottrina che ha avuto e ha tuttora seguito soprattutto tra i giuristi i t a l i a n i " . I l Perassi, ad esempio, parla della norma giuridica come di "canoni che valutano u n contegno dell'individuo nella vita di società"'^; i l Giuliano definisce le norme giuridiche come «giudizi di valore, giudizi sul comportamento (e sulla condotta) di determinati consociati d i fronte al (o i n dipendenza dal) verificarsi di determinate situazioni, d i determinati eventi, più genericamente di determinati fatti» Nel Giuliano la definizione della norma giuridica come giudizio di valore ha una netta funzione polemica contro l'imperativismo. Egli parla esplicitamente del «profondo e intimo supera-
Teoria generale del dirìtto e dello stato, trad. it., Milano, Comunità, 1952, p. 45. " Per un esame esauriente di questa dottrina rinvio allo studio recente di E . D I R O B I L A N T , Ossenazioni sulla concezione della norma giurìdica come giudizio di valore, in "Riv. trim. dir. e proc. civ.". X I , 1957, pp. 1377-1443. '2
T.
PERASSI,
Introduzione alle scienze giuridiche, Padova, Cedam, 1953,
M.
GIULIANO, /
p. 31. '3
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diritti e gli obblighi degli stati, l , Padova, Cedam, 1956, p. 8.
M. p. 222.
GIULIANO,
La comunità
intemazionale e il diritto, Padova, Cedam, 1950
Teorìa della norma giurìdica
Prescrìzioni e dirìtto
cazione di comportamenti, a quella modificazione di comportamenti che è lo scopo a cui tende una qualsiasi prescrizione. Non si vede, infatti, come una norma potrebbe attribuire certe conseguenze, se non fosse, nel caso i n cui queste conseguenze siano obblighi, una prescrizione che tende a influire sul comportamento altrui. I l compito di una norma non è quello di descrivere le conseguenze che derivano da certi fatti, ma di metterle i n atto. Del resto, i l significato prescrittivo della norma giuridica risulta, a ben guardare, dallo stesso testo del Perassi dove si legge: «Le valutazioni del diritto sono rivolte, in definitiva, a conformare i l contegno dei singoli verso gli altri a certe esigenze dell'equilibrio sociale» I l che sta a dimostrare che la funzione prescrittiva della norma, comunque compressa, finisce per emergere, e che in definitiva la considerazione della norma come un giudizio di valutazione rappresenta un cambiamento di nome a cui non conisponde un cambiamento di significato. A riprova d i ciò, si veda la conclusione a cui giunge l'ultimo autore che accoglie la definizione di norma come giudizio di valore, l'Allorio, i l quale ritiene che questa definizione non sia «incompatibile con la concezione che si usa chiamare imperativa del diritto». Egli, tra l'altro scrive: «Dalla stessa definizione della norma giuridica come valutazione o giudizio discende come un diverso modo di esprimere, senza inconvenienti di sorta per la ricerca del giurista, la stessa realtà, l'idea della norma come precetto, che reclama osservanza» Che la teoria della norma come giudizio di valore non abbia spostato il peso della definizione tradizionale della norma come imperativo, e, dopo un lungo giro, sia ritornata al punto di partenza dell'imperativismo, sembra ormai un'opinione corrente. Da ultimo ci è stato dato di leggere: «Non vi è antitesi fra l'aspetto imperativistico e quello valutativo del diritto. Direi anzi che i l secondo aspetto non rappresenta che uno svolgimento logico del primo» La conclusione, che possiamo trarre dall'esame d i questa teo-
ria della norma come giudizio di valore, vale per tutte le dottrine che si sono proposte di negare i n tutto o i n parte l'imperativismo. Ciò non significa che l'antico imperativismo abbia resistito incolume alla prova. L'antico imperativismo partiva da una nozione troppo ristretta della norma giuridica come comando, ovvero come imposizione del sovrano (è la concezione della norma come comando che da Hobbes arriva sino a Austin, e domina gran parte del positivismo giuridico statualistico del secolo scorso). Una concezione così ristretta non poteva sopravvivere agli attacchi che provenivano dallo studio di esperienze giuridiche diverse da quella statuale e da una più spregiudicata osservazione delle fonti del diritto diverse dalla legge. L'ordinamento intemazionale, con la sua produzione normativa caratterizzata i n gran parte dalla consuetudine, non si pi'estava a essere definito come un complesso di comandi, dal momento che i l termine "comando" viene adoperato per indicare la norma o l'ordine imposto da una persona dotata di autorità, e nel diritto intemazionale non vi sono persone né supremazie personificate. Così pure, i l vasto dominio dell'autonomia privata, dominata dall'attività negoziale, o, con un'espressione più larga, del cosiddetto "diritto dei privati", ha rivelato e continua a rivelare un diritto che sorge, sì, tra persone, magari anche ben definite (come per esempio i n un contratto), tra le quali però corre un rapporto non di subordinazione (tra i l superiore e l'inferiore), ma di coordinazione (tra eguali), e pertanto, anche qui, la regola che delimita i reciproci comportamenti non si p u ò chiamare, se non con una inutile forzatura, "comando", o anche "imperativo".
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'5 Introduzione, cit., p. 43. " La pluralità degli ordinamenti giurìdici, cit., p. 255. " L . FERRI,
Norma e negozio nel quadro dell'autonomia privata, in "Riv. trim.
dir. e proc. civ.", XII, 1958, p. 44.
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La reazione contro l'imperativismo, sino a che per "imperativismo" si intese la teoria della norma giuridica come comando, fondata (anche se non era sempre esplicitamente riconosciuto) sull'identificazione del diritto con i l diritto statale, fu una giusta reazione. La reazione oltrepassò la misura, però, quando per combattere la nozione ristretta di comando o di imperativo, finì per credere o per lasciar credere che le norme giuridiche, nonché i comandi, non fossero neppure imperativi nel senso più largo del termine, né prescrizioni, ma fossero giudizi o valutazioni appartenenti ad un linguaggio diverso da quello a cui appartengono i comandi, al linguaggio della scienza e non a quello normativo. Mostrando, come abbiamo cercato di fare sin qui, che le teorie
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Teoria della norma giuridica
miste e le teorie negative, pur criticando l'identificazione della norma giuridica col comando, non hanno mai superato lo scoglio dell'appartenenza del linguaggio di un sistema giuridico al linguaggio prescrittivo, abbiamo cercato di attenuare i l contrasto tra imperativisti e non imperativisti, facendo vedere più ciò che l i accomuna (anche se non ne sono consapevoli), vale a dire l'appartenenza delle norme giuridiche, siano esse veri e propri comandi o imperativi impersonali o imperativi ipotetici o norme tecniche e via dicendo, alla categoria delle proposizioni prescrittive, che non ciò che l i divide, e cioè la preminenza data a questa o quella forma d i prescrizione, i l che aveva fatto credere che i "comandi" del legislatore statale fossero essenzialmente diversi dalle "prescrizioni" di una consuetudine o dalle "norme" contrattuali, mentre sono species di uno stesso genus. I n altre parole, la disputa tra imperativisti e non-imperativisti si è presentata come una disputa relativa al genus, mentre è stata i n realtà - questa è la nostra conclusione - una disputa rispetto alle species, vale a dire rispetto ai vari tipi di proposizioni prescrittive che possono comporre un sistema normativo, e non ha intaccato la comunanza del genere, a cui tutti i diversi tipi d i nome appartengono, e che è i l genere delle proposizioni prescrittive distinte da quelle descrittive.
CAPITOLO V
LE PRESCRIZIONI GIURIDICHE
Alla ricerca di un criterio. - 38. Di alcuni criteri. - 3 9 . Un nuovo criterio: la risposta alla violazione. - 40. La sanzione morale. - 41 La sanzione sociale. - 4 2 . L a sanzione giuridica. - 4 3 . L'adesione spontanea. - 4 4 . Norme senza sanzione. - 45. Ordinamenti senza sanzione 46. Le norme a catena e il processo all'infinito. SOMMARIO: 37.
37. ALLA RICERCA DI UN CRITERIO
Che le norme giuridiche appartengano, i n quanto proposizioni, al linguaggio prescrittivo, p u ò dar luogo a interessanti considerazioni sulla loro natura, sulla loro logica, sulla loro funzione. Non risolve i l problema, su cui si sono a lungo interrogati f i losofi del diritto e giuristi, intomo alla differenza delle norme giuridiche da i l t r i tipi d i norme. È i l problema che ci poniamo i n questo capitolo. La tesi da cui muoviamo è che i l problema della distinzione tra norme giuridiche ed altri tipi di norme, i l problema, com'è stato chiamato, dei "caratteri differenziali" della norma giuridica - spesso deriso e respinto ma continuamente emergente non si risolve restando nei l i m i t i d i una trattazione puramente formale delle proposizioni normative. P e r c h é si potesse risolvere bisognerebbe che le prescrizioni giuridiche avessero, i n quanto prescrizioni, un carattere che le distinguesse da altri t i pi di prescrizioni, in altre parole, che le proposizioni normative appartenenti al diritto fossero differenti da altre proposizioni
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Prescrìzioni
Teoria della norma giuridica
normative a causa d i un carattere inerente alla loro natura d i prescrizioni. Tentativi di soluzione puramente formale del carattere distintivo del diritto sono quelli, già esaminati e da noi ritenuti inaccettabili, rivolti a cogliere, ad esempio, l'elemento caratteristico delle norme giuridiche nel fatto che esse sono costituite da imperativi negativi (mentre la morale sarebbe costituita da imperativi positivi), oppure nel fatto che sono costituite da norme tecniche (mentre la morale sarebbe costituita da norme etiche), oppure, ancora, nel fatto che sono costituite da norme eteronome, da imperativi impersonali, e via dicendo (mentre la morale è costituita da norme autonome, da comandi personali, ecc.), insomma tutte quelle dottrine che cercano una risposta alla domanda: "Che cosa è i l diritto?" nella forma dell'imperativo giuridico, come se l'elemento differenziale delle norme giuridiche consistesse nell'essere formalmente diverse dalle altre norme. Anche la formula più accolta della norma giuridica: "Se è A, deve essere B", p u ò applicarsi a molti altri tipi di norme. Apro una grammatica latina e leggo: «Se nella reggente c'è u n tempo principale, nella dipendente si deve usare i l presente congiuntivo, ecc.». Si tratta d i una regola la cui formula è: "Se è A, deve essere B". A ben guardare ciò che caratterizza la norma giuridica, secondo i l Kelsen, è che A rappresenta l'illecito e B la sanzione, i l che è una interpretazione della formula nascente non dal puro e semplice rapporto formale indicato dalla formula, ma dalle cose a cui i simboli vengono riferiti. I l mondo giuridico ci è apparso sinora molto più articolato e complesso d i quel che appaia dai vari tentativi di riduzione a questa o quella formula; e d'altra parte i l mondo del normativo è così esteso, come abbiamo visto sin dalle prime pagine, che non c'è tipo d i prescrizione rilevabile i n un ordinamento normativo giuridico che non si ritrovi i n qualche altro sistema normativo. Riteniamo pertanto che il tentativo di dare una risposta al problema della definizione del diritto definendo una specie di prescrizione sia veramente u n tentativo destinato all'insuccesso.
giurìdiche
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38. D I ALCUNI CRITERI
Abbandonato i l criterio puramente formale, si apre al nostro sguardo l'enorme distesa dei tentativi di definire i l diritto r i correndo ad altri criteri. I l campo è tanto vasto che c'è da smarrirsi: si tratta, com'è facile comprendere, di una parte considerevole della storia della filosofia del diritto e della teoria generale del diritto, impegnata i n una definizione del diritto attraverso la definizione della norma giuridica. Non abbiamo la pretesa di percorrere tutto questo spazio, ma soltanto di avviarci alla soluzione che noi riteniamo più soddisfacente, raggruppando intomo ad alcuni criteri fondamentali, al di fuori d i quello formale, u n certo numero d i teorie tipiche. 1. I l criterio più seguito è sempre stato quello di cercare di i n dividuare i l carattere della norma giuridica attraverso il suo contenuto. Appartengono a questa categoria tutte le teorie affermanti che caratteristica della norma giuridica è d i regolare sempre un rapporto intersoggettivo, cioè u n rapporto non tra una persona e una cosa, n é tra una persona e se stessa, ma tra una persona e un'altra persona. Questa teoria si esprime anche attribuendo alla norma giuridica i l carattere (ecco uno dei più not i "caratteri differenziali" della norma giuridica) della bilateralità, a differenza della norma morale che sarebbe unilaterale. I l carattere della bilateralità consisterebbe i n ciò: che la norma giuridica istituisce nello stesso tempo un diritto i n un soggetto e un dovere i n un altro soggetto; e i l rapporto intersoggettivo costituente i l contenuto tipico della norma giuridica consisterebbe appunto nel rapporto d i interdipendenza d i u n diritto e d i u n dovere. Questa dottrina nasce da una constatazione di cui non si p u ò disconoscere i l fondamento empirico: vale a dire che i l diritto è un regolamento delle azioni sociali degli uomini, o delle azioni dell'uomo vivente i n società con i suoi simili. Questo spiega la sua grande fortuna. Le si p u ò muovere l'obiezione che un tale criterio serve magari a distinguere i l diritto dalla morale, ma non serve egualmente bene a distinguere i l diritto dalle cosiddette norme sociali, le quali mirano, come quelle giuridiche, a regolare i
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Teoria della norma giuridica
rapporti sociali degli individui e quindi hanno anch'esse per contenuto delle relazioni intersoggettive. 2. Da questa critica, che rivela un'insufficienza nel criterio del contenuto, nasce l'esigenza d i un nuovo criterio, quello del fine. I n base a questo nuovo criterio si risponde che i l diritto regola, sì, come le norme sociali, rapporti intersoggettivi, ma non rapporti intersoggettivi generici. I rapporti intersoggettivi regolati dal diritto sono rapporti specifici, e la loro specificità è data dal fine che l'ordinamento normativo giuridico si propone nei confronti di ogni altro ordinamento normativo vigente i n quella data società. E questo fine è la conservazione della società. Non tutte le azioni sociali sono egualmente necessarie, qualcuno ha detto essenziali, per la conservazione della società. Essenziale è l'azione di restituire il debito e di risarcire il danno causato da colpa, non essenziale è i l salutarsi per la strada o i l non tagliare i l pesce col coltello. I n ogni società si vengono distinguendo, nel complesso delle regole di condotta, quelle senza le quali la società non potrebbe sussistere e quelle che possono modificarsi o sparire senza che quella particolare struttura sociale venga meno. Le regole a cui si attribuisce la qualifica di giuridiche sono le prime. Anche questa teoria non è esente da una obiezione piuttosto grave. Le regole considerate essenziali i n una società possono essere diverse dalle regole considerate essenziali i n un'altra società. Ciò che è norma sociale in una società p u ò diventare norma giuridica in un'altra o viceversa. Questo criterio, insomma, ci serve per dire che se una certa norma i n una determinata società è giuridica, è segno che è considerata come essenziale alla conservazione della società. Ma non serve allo scopo a cui dovrebbe servire una definizione della norma giuridica, cioè a riconoscere una norma come giuridica in mezzo ad altre norme. Perché servisse a questo scopo bisognerebbe che noi fossimo riusciti, attraverso una fenomenologia storica del diritto, a fissare i n modo univoco i caratteri che fanno di una norma una regola essenziale alla conservazione della società. Ma questa ricerca non p u ò avere successo a causa, appunto, della varietà storica delle società giuridiche. 3. Dall'insufficienza del criterio del fine siamo spinti quasi fatalmente al criterio del soggetto che pone la norma. I l criterio del
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fine è insufficiente perché il giudizio su che cosa serva al fine (cioè la conservazione della società) varia da tempo a tempo, da luogo a luogo. Chi decide, i n ogni società, che cosa serve e che cosa non serve? Si risponde: colui o coloro che detengono il potere sovrano. È essenziale alla conservazione della società ciò che d i volta in volta i l potere sovrano decide che sia essenziale. E perciò, ecco la conclusione di questa nuova teoria, norma giuridica è quella che, indipendentemente dalla forma che assume, dal contenuto che ha, dal fine che si propone, è posta dal potere sovrano, cioè da quel potere che in una data società non è inferiore a nessun altro potere, ma è in grado di dominare tutti gli altri. Una norma è sempre un'espressione d i potere. I n ogni società v i sono poteri inferiori e poteri superiori. Risalendo dal potere inferiore al potere superiore, si arriverà pur sempre ad un potere che non ha al di sopra di sé alcun altro potere: questo è i l potere sovrano nella sua definizione tradizionale di summa potestas superiorem non recognoscens. Ebbene, nonne giuridiche sono quelle poste e i m poste da chi detiene i l potere sovrano, qualunque cosa esse ordinino, dal momento che solo colui che detiene i l potere è i n grado di decidere che cosa sia essenziale, e di rendere effettive le sue decisioni. Questa risposta, chiaramente, è quella che ci proviene dal piìi schietto positivismo giuridico, secondo i l quale non già i l sovrano pone i n essere le norme essenziali alla conservazione della società, ma diventano essenziali le norme poste dal sovrano, per i l solo fatto che son fatte valere anche ricorrendo alla forza. 4. La cnidezza della teoria positivistica del diritto rinvia al suo opposto, cioè alla teoria giusnaturalistica nell'accezione più ampia del termine, cioè a tutte quelle dottrine che cercano l'essenza del diritto nei valori (o ideali) a cui i l legislatore si ispira. Sta bene che diritto positivo sia quello posto e imposto dal sovrano (intendendosi per sovrano la persona o il gruppo d i persone che detengono i l potere di far rispettare anche con la forza le regole di condotta che emanano). Ma bisognerà pur distinguere le decisioni a seconda degli ideali a cui si ispirano, e allora saranno giuridiche non tutte le regole ma soltanto quelle che si ispirano a certi valori. I n genere si d à al supremo valore a cui i l diritto si ispira i l nome di giustizia. Donde segue che, perché una regola sia
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Teorìa della norma giurìdica
giuridica, occorre che sia anche giusta, cioè che tenda alla realizzazione di certi valori piuttosto che di altri. Il vizio della dottrina giusnaturalistica è che su ciò che si debba intendere per "giustizia" i pareri sono molto discordi. Per "giustizia" s'intende i n genere "eguaglianza". Diremo allora che norme giuridiche sono quelle che rendono possibile lo stabilirsi di rapporti di eguaglianza tra i consociati? Ma "eguaglianza" non è un termine un po' vago? Eguaglianza rispetto a che cosa? Nella storia del pensiero giuridico si conoscono almeno quattro risposte a quest'ultima domanda: eguaglianza secondo i l merito, secondo i l bisogno, secondo i l lavoro, secondo i l rango. Quale di questi criteri è quello giusto, cioè quello che permette di dire se una norma è giuridica a chi sostenga che una norma, per essere giuridica, deve essere anche giusta?
Prescrìzioni
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norme sociali, e d'altra parte, quando vengono caratterizzate badando esclusivamente a distinguerle dalle norme sociali, vengono messe i n un gruppo comune con le norme morali. A conferma di ciò si veda i l primo criterio: ammettiamo che la conformità esteriore della norma sia carattere distintivo della norma giuridica r i spetto alla morale. Ma non è carattere comune alle norme giuridiche e a quelle sociali? Si veda poi i l secondo criterio: ammettiamo che i l sentimento di un'obbligatorietà incondizionata (ciò che i giuristi chiamano, con riferimento alla consuetudine, opinio iuris ac necessitatis) serva a caratterizzare le norme giuridiche i n confronto di quelle sociali. Ma non è questo un carattere comune alle norme giuridiche e a quelle morali?
39. U N NUOVO CRITERIO: LA RISPOSTA ALLA VIOLAZIONE
5. Un quinto gruppo di teorie è quello caratterizzato dal fatto di ricercare la natura specifica della norma giuridica nel modo con cui viene accolta dal destinatario, o, i n altri termini, nella natura della obbligazione. Si distinguono qui, tradizionalmente, due soluzioni: la prima (che chiameremo kantiana perché Kant l'ha espressa con maggior chiarezza), secondo cui norma giuridica è quella che viene ubbidita per i vantaggi che se ne possono trarre, e come tale si accontenta di una mera adesione esteriore (cioè di un'azione conforme al dovere), mentre la norma morale deve essere ubbidita per se stessa, e come tale richiede un'obbedienza interiore, che non p u ò essere costretta (cioè un'azione per il dovere); la seconda (di cui si trova una recente formulazione nella teoria generale del diritto di Haesaert), secondo cui si p u ò dire di trovarsi di fronte ad una norma giuridica soltanto quando colui a cui essa si rivolge è convinto della sua obbligatorietà, e agisce come i n istato di necessità, mentre norme non giuridiche, come quelle sociali, sono caratterizzate da un minor senso di dipendenza del soggetto passivo di fronte ad esse, da un obbligo non incondizionato, ma condizionato alla libera scelta del fine. A questi due criteri si p u ò muovere l'obiezione più volte r i petuta che le norme giuridiche, a causa della loro posizione i n termedia tra le norme morali e le norme sociali, ogni qualvolta vengono caratterizzate badando esclusivamente a distinguerle dalle norme morali, vengono messe i n un gruppo comune con le
Con l'enumerazione del paragrafo precedente non crediamo di avere indicato tutti i criteri adottati per contrassegnare le norme giuridiche. Ne abbiamo indicati alcuni, solo per dare un'idea della complessità del problema e della varietà delle opinioni. Quel che vogliamo qui far presente è: 1) i criteri suddetti non sono esclusivi, ma piuttosto integrativi l'uno dell'altro, e pertanto ogni disputa sulla superiorità dell'uno o dell'altro è sterile; 2) trattandosi di dare una definizione di norma giuridica, e non già di scoprire l'essenza del diritto, ognuno dei criteri non deve essere valutato come vero o come falso, ma come più opportuno e meno opportuno, a seconda del contesto di problemi in cui ci si trova a dare quella definizione, e delle finalità che con quella definizione ci si propone. Riteniamo peraltro che meriti di essere illustrato con particolare attenzione un altro criterio, d i cui i giuristi tradizionalmente si servono, e senza la comprensione del quale i l nostro giro d'orizzonte sarebbe incompleto. Si tratta del criterio che si riferisce al momento della risposta alla violazione e che pertanto fa capo alla nozione di sanzione. Una norma prescrive ciò che deve essere. Ma a ciò che deve essere non è detto che corrisponda ciò che è. Se l'azione reale non corrisponde all'azione prescritta, si dice che la norma è stata vio-
Teoria delta norma giuridica
Prescrizioni giuridiche
lata. È nella natura di ogni prescrizione, i n quanto esprime non ciò che è ma ciò che deve essere, di essere violata. Alla violazione si d à i l nome di illecito. L'illecito consiste i n un'azione quando la norma è un imperativo negativo, i n una omissione quando la norma è un imperativo positivo. Nel primo caso, si dice che la norma non è stata osservata, nel secondo che non è stata eseguita. Per quanto i termini di "osservanza" e di "esecuzione" di una norma vengano usati promiscuamente per indicare i l comportamento conforme alla norma, ciò che si osserva è un divieto, ciò che si eseguisce è un comando, onde due modi diversi di violazione, Yinosservanza rispetto a un imperativo negativo, Yinesecuzione rispetto a un imperativo positivo. Si dice che la possibilità della trasgressione distingue una norma da una legge scientifica. Con altre parole, si esprime lo stesso concetto dicendo che la legge scientifica non sopporta eccezioni. Tanto la norma quanto la legge scientifica stabiliscono un rapporto tra una condizione e una conseguenza. Se la conseguenza nel secondo caso non si verifica, la legge scientifica cessa dall'esser vera. Se invece non si verifica nel primo caso, la norma continua ad esser valida. Una legge scientifica non osservata non è più una legge scientifica; una norma inefficace continua ad essere una norma valida del sistema. Questa differenza ci mette innanzi agli occhi un criterio di distinzione tra sistema scientifico e sistema normativo, che ha attinenza con la materia di questo paragrafo. I n un sistema scientifico, nel caso che i fatti smentiscano una legge, ci si orienta verso la modificazione della legge; i n un sistema normativo, nel caso che l'azione che doveva avvenire non avvenga, ci si orienta piuttosto a modificare l'azione e a salvare la norma. Nel primo caso, i l contrasto viene sanato agendo sulla legge e quindi sul sistema; nel secondo caso, agendo sull'azione non conforme, e quindi cercando di fare in modo che l'azione non sia avvenuta o, per lo meno, di neutralizzare le sue conseguenze. L'azione che viene compiuta sulla condotta non conforme per nullificarla o per lo meno per eliminarne le conseguenze dannose è appunto ciò che dicesi sanzione. La sanzione p u ò essere definita, da questo punto di vista, come l'espediente con cui si cerca, i n un sistema normativo, di salvaguardare la legge dall'erosione delle azioni contrarie; è quindi una conseguenza del fatto che i n un sistema normativo, a differenza di quel che accade
in un sistema scientifico, i principi dominano i fatti anziché i fatti i principi. Questa differenza, del resto, ci riconduce a quel che abbiamo avuto occasione di dire altre volte, e cioè che sistema scientifico e sistema normativo si differenziano per i l diverso criterio, in base al quale si stabilisce l'appartenenza delle proposizioni al sistema, valendo nel primo caso i l criterio della verificazione empirica, nel secondo i l principio d'autorità. Possiamo più brevemente definire la sanzione come la risposta alla violazione. Ogni sistema normativo conosce e la possibilità della violazione e un complesso di espedienti per far fronte a questa eventualità. Possiamo dire che ogni sistema normativo implica l'espediente della sanzione. Ma tutte le sanzioni sono eguali? Può avere qualche interesse studiare le risposte alle violazioni che i diversi sistemi normativi pongono i n essere. Può darsi che questo esame ci offra un ulteriore criterio di distinzione tra la norma giuridica e altri tipi di norme. Violazione della norma e sanzione come risposta alla violazione sono implicati i n ogni sistema normativo. Si tratta di vedere se vi siano diversi tipi di risposta e se questi diversi tipi di risposta ci permettano una soddisfacente classificazione dei diversi ordinamenti normativi.
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4 0 . LA SANZIONE MORALE
La sanzione presuppone la violazione della norma. Entra i n gioco solo quando si sia verificata una violazione. Possiamo partire dall'ipotesi di un ordinamento normativo che non sia mai violato, e di conseguenza non abbia bisogno di ricorrere alla sanzione. Si tratta di un'ipotesi astratta; perché un ordinamento normativo non venga mai violato occorrono due condizioni, o che le norme siano perfettamente adeguate alle inclinazioni dei destinatari, o che i destinatari siano perfettamente aderenti alle prescrizioni. Vi sono due tipi estremi di società che potrebbero realizzare le due condizioni: una società di esseri perfettamente razionali, cioè una società un po' migliore di quella reale, e una società di esseri perfettamente automatizzati senza iniziativa e senza libertà, cioè una società un po' peggiore di quella reale. Nelle società storiche le norme non sono mai così razionali da essere
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ubbidite da tutti per i l loro valore intrinseco, né gli uomini sono mai così automi da ubbidire alle norme per una sorta di rassegnata passività. Ogni sistema normativo in una società reale incontra resistenza e reazioni. Ma non tutti rispondono alla violazione nello stesso modo. Vediamo come si possano distinguere i vari tipi di norme i n base al diverso modo con cui vengono sanzionate. Vi è un modo di definire le norme morali che si riferisce appunto alla sanzione. Si dice che sono morali quelle norrne la cui sanzione è puramente interiore. Per "sanzione" s'intende pur sempre una conseguenza spiacevole della violazione, i l cui scopo è quello di prevenire la violazione o, nel caso che la violazione si sia verificata, di eliminarne le conseguenze nocive. L'unica conseguenza spiacevole della violazione di una norma morale sarebbe il senso di colpa, uno stato di disagio, di turbamento, talora di angoscia, che dicesi nel linguaggio dell'etica "rimorso" o "pentimento". Poiché ogni norma i n quanto prevede una sanzione p u ò essere formulata con un giudizio ipotetico: "Se non vuoi Y, devi X", la norma morale "Non mentire" p u ò essere formulata i n questo modo: "Se non vuoi trovarti i n quella situazione di turbamento che si chiama "rimorso", e che deriva dal sentirsi i n contraddizione con se stessi, non mentire". I n questo modo anche i l legislatore morale fa appello, per ottenere l'obbedienza, ad uno stato che i l destinatario desidera per quanto gli è possibile evitare. Si dice che la norma morale obbliga i n coscienza: uno dei significati di questa espressione si chiarisce tenendo presente il tipo di sanzione puramente interiore che accompagna la norma morale. Che la norma morale obblighi i n coscienza p u ò significare, infatti, tra l'altro, che io ne rispondo soltanto di fronte a me stesso: nel senso che se la trasgredisco, non c'è nessun altro all'infuori della mia coscienza i n grado di punirmi. Si dice che dell'esecuzione della norma morale io sono responsabile soltanto di fronte a me stesso. Qualora ne rispondessi anche di fronte agli altri, interverrebbe un nuovo elemento, ovvero i l rapporto con altri, i l rapporto cosiddetto esterno, intersoggettivo, bilaterale che m i fa entrare i n una sfera normativa sociale o giuridica. Sino a che ne rispondo soltanto di fronte a me stesso, la risposta alla eventuale violazione dipende soltanto da me. D'altronde, se io adempissi al mio dovere solo per timore degli altri, o per far piacere agli altri, o per
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evitare che gli altri m i puniscano, la mia azione non sarebbe piti d i per ciò stesso un'azione morale. Noi comunemente chiamiamo "morale" quell'azione che viene compiuta per nessun'altra ragione che per la soddisfazione intima che ci procura l'adesione ad essa o la ripugnanza all'insoddisfazione pure intima che ci procurerebbe la sua trasgressione. Se non accettiamo di parlare di soddisfazioni e di insoddisfazioni intime, ci sfugge qualsiasi elemento per contraddistinguere le norme morali, e qualsiasi criterio per distinguere le norme morali dalle altre. Ha senso parlare di un mondo morale di un individuo solo i n quanto attribuiamo a quell'individuo una serie di azioni che egli compie per evitare di trovarsi, non compiendole, i n dissidio con se stesso. Se noi ritenessimo che l'uomo agisce solo per timore della pena altrui, avremmo con ciò stesso tolto ogni possibilità di distinguere la normatività morale da quella giuridica, o, per dirla con parole kantiane, la moralità dalla legalità. Siamo padronissimi di negare questa differenza: ma appunto, possiamo farlo solo a patto di negare l'esistenza di una sanzione interiore. Donde si vede che tipo di norma e tipo di sanzione sono strettamente connessi. I l difetto della sanzione interiore è di essere scarsamente efficace. I l fine della sanzione è l'efficacia della norma, o, i n altre parole, la sanzione è un espediente per ottenere che le norme siano meno violate o le conseguenze della violazione siano meno gravi. La sanzione interiore è certamente un mezzo inadeguato. Di fatto essa agisce, cioè mostra la sua funzionalità, soltanto i n un numero limitato di individui, quelli capaci di provare soddisfazioni e insoddisfazioni intime. Ma sono proprio questi gli individui che di solito rispettano le norme morali. I n un individuo che non abbia alcuna inclinazione al rispetto delle norme morali, la sanzione interiore non produce alcun effetto. Per sentirsi i n istato d i colpa in caso di violazione di una norma, bisogna essere dotati di sensibilità morale, precisamente di quella sensibilità che è il miglior terreno su cui si sviluppa l'inclinazione a rispettare le leggi morali. La sanzione interiore è ritenuta socialmente così poco efficace che le norme morali vengono di solito rafforzate con sanzioni di ordine religioso, che sono sanzioni esteme e non più inteme. Non c'è nessun legislatore che per ottenere il rispetto delle norme che emana si affidi esclusivamente all'operatività della sanzione interiore. t
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4 1 . LA SANZIONE SOCIALE
Così come abbiamo chiamato sanzione intema quella che noi infliggiamo a noi stessi, si p u ò chiamare estema quella che ci proviene dagli altri, o singolarmente presi o i n quanto gmppo sociale. Quando la violazione di una norma suscita una risposta da parte degli altri coi quali conviviamo, la norma è esternamente sanzionata. La sanzione esterna è caratteristica delle norme sociali, cioè di tutte quelle norme del costume, del galateo, in genere della vita associata, che sono rivolte al fine d i rendere più agevole o meno difficile la convivenza. Queste norme nascono, i n genere, i n forma di consuetudini, da un gmppo sociale, ed è lo stesso gmppo sociale che risponde alla violazione di esse con diversi comportamenti che ne costituiscono le sanzioni. Questi comportamenti sanzionatori sono di diverso grado di gravità: si comincia dalla pura e semplice riprovazione, e si va sino alla messa al bando del gmppo, che p u ò consistere i n una qualche forma di isolamento nell'interesse stesso del gmppo oppure i n una vera e propria espulsione. La forma più grave di sanzione sociale è il linciaggio, che è una tipica sanzione di gmppo, espressione di quella forma primitiva, spontanea e irriflessa di gmppo sociale che è la folla. Non vi è nessun dubbio che sanzioni d i questo genere siano efficaci. Gran parte della compattezza di un gmppo sociale è dovuto all'uniformità di comportamenti, provocata dalla presenza di norme a sanzione estema, cioè di norme la cui esecuzione è garantita dalle diverse risposte, più o meno energiche, che il gmppo sociale d à in caso di violazione. Si dice che la reazione del gmppo alla violazione delle norme che ne garantiscono la compattezza è uno dei più efficaci mezzi di controllo sociale. La presenza degli altri con i loro gusti, con le loro opinioni, con le loro abitudini è, nella vita di ciascuno di noi, pesante, talora oppressiva. Vi sono molti comportamenti che noi non assumiamo soltanto per timore del giudizio che gli altri si faranno di noi, e delle conseguenze che questo giudizio potrà avere sul nostro avvenire. Dovendo vivere i n mezzo agli altri, è naturale che teniamo conto della reazione che suscita negli altri ogni nostro comportamento. Questa presenza degli altri è tanto più intensa quanto
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p^ù i l gmppo è omogeneo, scarsamente articolato, chiuso ed esfclusivo. I n gmppi di questo genere la sanzione sociale è tanto efflcace da produrre una situazione di vero e proprio conformismo, ovvero di adesione generalizzata, uniforme e statica, da cui nasce il fenomeno della cristallizzazione sociale caratteristico delle società primitive. Via via che il gmppo perde d i omogeneità, si articola i n sottogmppi, si apre ad un ricambio continuo di membri di altri gmppi, ed è costretto a coesistere con altri gmppi (non è più esclusivo), le sanzioni sociali perdono d'efficacia, anche se non vengono mai del tutto meno. Non esiste gmppo senza un minimo di conformismo. Il vizio delle sanzioni sociali non è comunque la mancanza d i efficacia, ma la mancanza di proporzione tra violazione e risposta. Essendo la risposta affidata al gmppo impersonalmente o ad alcuni membri del gmppo non personalmente definiti, essa non è guidata da regole precise. Anzitutto, è più facile sfuggire ad essa che non ad una sanzione regolata, e affidata ad apparati stabili del gmppo. Comportamenti di ipocrisia sono funzionalmente r i volti a sfuggire a sanzioni sociali; sono i l naturale prodotto dell'esteriorità e della inorganicità di tali sanzioni. I n questo caso le sanzioni sociali peccano per difetto. I n secondo luogo, proprio a causa dell'immediatezza e dell'inorganicità della reazione, la r i sposta non è sempre eguale per gli stessi tipi d i violazione, ma è dipendente dagli umori del gmppo che sono variabili: alla stessa azione i l gmppo p u ò reagire diversamente per circostanze che non hanno niente a che vedere con la gravità sociale dell'azione. Infine, la risposta p u ò essere sproporzionata alla gravità della violazione: affidata com'è alla reazione immediata e non diretta, essa p u ò esprimere sentimenti che un comportamento controllato e riflesso sarebbe i n grado di reprimere. Un esempio tipico d i questa sproporzione è i l linciaggio. Concludendo, si p u ò dire che i vizi della sanzione sociale sono rappresentati àaWincertezza del suo esito, dall'incostanza della sua applicazione e dalla mancanza di misura nel rapporto tra violazione e risposta. Questi inconvenienti dipendono dal fatto che questo tipo di sanzione non è istituzionalizzato, cioè non è regolato da norme fisse, precise, la cui esecuzione sia affidata stabilmente ad alcuni membri del gmppo a ciò espressamente designati. Si p u ò dire così: la sanzione sociale è una risposta alla violazione di regole ema-
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nate dal gruppo; ma essa stessa, i n quanto risposta, non è a sua volta regolata. È caratteristica quindi di gruppi inorganici, cioè che mancano di organizzazione, cioè di quei gruppi che, secondo la definizione data al paragrafo 5, non sono ancora istituzioni. Perché si possa parlare di istituzione, non basta che vi siano regole di condotta che dirigono la condotta dei consociati: è necessaria un'organizzazione, fondata su regole, del gruppo stesso attraverso la determinazione dei fini, dei mezzi e degli organi del gruppo. Fa parte generalmente dell'organizzazione del gruppo la produzione di regole secondarie per l'osservanza e l'esecuzione delle regole primarie, cioè l'istituzionalizzazione delle sanzioni. Si dice che un gruppo si organizza quando passa dalla fase della sanzione incontrollata a quella della sanzione controllata. E di solito si chiama gruppo giuridico, ordinamento giuridico, con una parola pregnante "istituzione", un gruppo a sanzione istituzionalizzata.
4 2 . LA SANZIONE GIURIDICA
Allo scopo di evitare gli inconvenienti della sanzione interna, cioè la scarsa efficacia, e quelli della sanzione estema non istituzionalizzata, soprattutto la mancanza di proporzione tra violazione e riposta, il gmppo sociale istituzionalizza la sanzione, cioè, oltre a regolare i comportamenti dei consociati, regola anche la reazione ai comportamenti contrari. Questa sanzione si distingue da quella morale per essere estema, cioè per essere una risposta di gmppo, e da quella sociale per essere istituzionalizzata, cioè per essere regolata in genere con le stesse forme e attraverso le stesse fonti di produzione delle regole primarie. Essa ci offre un criterio per distinguere le norme che abitualmente si chiamano giuridiche dalle norme morali e insieme dalle norme sociali. Si tratta delle norme, la cui violazione ha per conseguenza una risposta estema e istituzionalizzata. Come volevasi dimostrare, i l tipo di sanzione serve a introdurre una nuova distinzione tra i vari t i pi di norme, ed è una distinzione che discrimina un tipo di norme tanto nei confronti delle norme morali quanto delle norme sociali. La presenza di una sanzione esterna e istituzionalizzata è
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una delle caratteristiche di quei gmppi che costituiscono, secondo un'accezione che va diventando sempre più comune, gli ordinamenti giuridici. Possiamo dunque considerare questo tipo di sanzione come un nuovo criterio per contrassegnare le norme giuridiche. Diremo allora i n base a questo criterio "norme giuridiche" quelle la cui esecuzione è garantita da una sanzione estema e istituzionalizzata. Non pretendiamo di elevare questo criterio a criterio esclusivo. Ci limitiamo a dire che esso serve a circoscrivere una sfera di norme che di solito vengono chiamate giuridiche forse meglio di ogni altro criterio. La prima grande manifestazione di ciò che si chiama abitualmente "diritto intemazionale" è i l cosiddetto diritto di guerra, cioè quell'insieme di regole, accettate dagli stati come regole obbligatorie, che disciplinano la guerra come sanzione, cioè come risposta alle violazioni delle norme regolanti i rapporti tra gli stati. Sino a che la guerra è incontrollata si p u ò dire che gli stati vivono tra loro i n uno stato di natura; lo stato di comunità giuridica intemazionale comincia quando la guerra diventa un'istituzione disciplinata da regole. Ciò che ci fa parlare di istituzione giuridica a proposito delle associazioni a delinquere è la precisione con cui vengono stabilite le pene per i trasgressori, e l'impegno applicato per farle eseguire. Sino a che la sanzione è affidata al caso, all'arbitrio di questo o quel membro del gmppo, ed è quindi imprevedibile nella sua applicazione e nella sua misura, il gmppo non è, anche nella accezione più ampia di istituzione, un gmppo giuridicamente organizzato, e tale quindi che possano dirsi giuridiche le regole che Io disciplinano. Noi tendiamo a far coincidere la giuridicità con l'organizzazione e l'organizzazione con l'istituzionalizzazione della sanzione. Per questo riteniamo di poter dire che la sanzione estema e istituzionalizzata è un carattere distintivo delle norme giuridiche. Non c'è dubbio che i l principale effetto della istituzionalizzazione della sanzione è la maggior efficacia delle norme relative. Quando si parla di sanzione istituzionalizzata s'intendono queste tre cose, anche se non sempre si trovino insieme contemporaneamente: 1 ) per ogni violazione di una regola primaria, viene stabilito quale sia la sanzione relativa; 2 ) viene stabilita, se pure entro certi termini, la misura della sanzione; 3 ) vengono stabilite le persone incaricate di ottenerne l'esecuzione. Come si vede, si tratta di limitazioni che tendono a disciplinare il fenomeno della san-
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zione spontanea e immediata di gruppo. Con la prima limitazione si assicura la certezza della risposta, con la seconda la proporzionalità, con la terza la imparzialità. Tutte e tre le limitazioni, insieme, hanno lo scopo comune d i aumentare l'efficacia delle regole istituzionali e, i n definitiva, dell'istituzione nel suo complesso. Attenendoci a questi criteri, potremo dire che carattere delle norme giuridiche è di essere norme, i n confronto di quelle morali e sociali, a efficacia rafforzata. Tanto è vero che le norme giuridiche per eccellenza sono considerate quelle statuali, che si distinguono da tutte le altre norme regolanti la nostra vita perché hanno i l massimo d'efficacia. S'intende che anche nella sfera del normativo a efficacia rafforzata vi sono vari stadi, e vi sarà sempre quella zona di confine o di passaggio in cui ogni criterio, e pertanto anche questo, sembra inadeguato: la realtà è sempre più ricca di ogni schema, e sia ben chiaro, ancora una volta, che qui si propongono schemi di classificazione e non definizioni di essenze pure. I n particolare nell'ambito dello schema qui illustrato, si p u ò introdurre una distinzione almeno tra due stadi diversi di efficacia rafforzata, a seconda che l'organo incaricato di eseguire la sanzione sia la persona stessa dell'offeso o sia una persona diversa. Se noi chiamiamo tutela i l complicato processo della sanzione organizzata, possiamo distinguere un processo di autotutela, che ha luogo quando i l titolare del diritto di esercitare la sanzione è lo stesso titolare del diritto violato, e un processo di eterotutela, che ha luogo quando i due titolari sono persone diverse. I l processo di autotutela assicura di meno l'eguaglianza proporzionale tra violazione e risposta, e viene pertanto sostituito negli ordinamenti più evoluti dal processo di eterotutela. I l riconoscimento della vendetta privata come sanzione i n certi ordinamenti primitivi d à luogo ad un istituto di autotutela; via via che si rafforza i l potere centrale i n un ordinamento, la funzione della tutela delle norme giuridiche è sempre più sottratto ai singoli e sempre più devoluta a organi diversi dalle parti i n conflitto: i l sistema dell'eterotutela sostituisce a poco a poco quello dell'autotutela. Solo i l sistema dell'eterotutela garantisce, oltre la maggiore efficacia, anche una maggiore proporzione tra i l torto e la riparazione, e quindi soddisfa meglio alcune esigenze fondamentali di ogni vivere sociale, tra cui c'è certamente l'ordine, al mantenimento del quale basta
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la garanzia che le norme poste siano fatte valere, ma c'è anche e soprattutto l'eguaglianza di trattamento, la quale è meglio assicurata quando la sanzione è attribuita ad un organo super partes.
43. L'ADESIONE SPONTANEA
Naturalmente, l'idea sostenuta qui che sia utile per delimitare l'ambito della nozione di diritto i l tener conto del tipo di risposta che i diversi ordinamenti danno alla violazione delle regole di condotta, non p u ò essere accettata da tutti coloro che negano alla sanzione i l carettere di elemento costitutivo della nozione del diritto, e considerano, anzi, la sanzione come un elemento secondario. Sul problema della sanzione sono stati versati i classici fiumi d'inchiostro: si potrebbe quasi distinguere i filosofi del diritto del passato e del presente i n due grosse schiere, di cui l'una è quella dei "sanzionisti" e l'altra quella dei "non-sanzionisti". Non c'è problema, forse, della filosofia del diritto che abbia dato esca a maggiori e più accanite discussioni e sia stato oggetto di maggiori indagini e riflessioni. Qui ci limitiamo a esporre i principali argomenti che vengono sostenuti dai non-sanzionisti, e a mostrare i n qual modo, secondo noi, tali argomenti possano essere superati. Il primo argomento è quello della adesione spontanea. La sanzione, si dice, non è elemento costitutivo del diritto, perché un ordinamento giuridico conta prima di tutto sull'adesione spontanea alle sue regole, cioè sull'obbedienza data non per i l timore delle conseguenze spiacevoli di un'eventuale violazione, ma per consenso, o convinzione, o mera abitudine, comunque per motivi che non presuppongono la possibile messa i n moto del meccanismo della sanzione. Guai, si osserva, se un ordinamento giuridico non potesse contare in qualche modo sul consenso dei suoi membri. Come potrebbe essere efficace se l'efficacia dovesse essere ottenuta soltanto con la forza? Simile tesi si appoggia sulla constatazione che nella stragrande maggioranza dei casi l'azione dei consociati è conforme alle regole di condotta stabilite dall'ordinamento giuridico, e che i casi di violazione sono non la regola ma l'eccezione.
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Questo prìmo argomento non è molto solido. Nessuno disconosce i l fatto dell'adesione spontanea, ma questo fatto non esclude l'altro fatto che vi sono, storicamente, ordinamenti ai quali l'adesione spontanea non appare garanzia sufficiente, e pertanto predispongono con altre regole i mezzi per correggere l'eventuale mancanza di adesione spontanea. Si p u ò dire che i n questi ordinamenti certamente l'adesione spontanea è necessaria, ma non è anche sufficiente. I l problema di fondo è se, venuta meno l'adesione spontanea, la regola rimanga violata, o se vi sia una r i sposta alla violazione, e con quali mezzi essa sia regolata. I n altre parole, i l problema non è già se la sanzione occorra sempre, ma se occorra nei casi in cui deve occorrere, cioè nei casi d i violazione. Già, un ordinamento normativo in cui non ci fosse mai bisogno di ricorrere alla sanzione e fosse sempre seguito spontaneamente, sarebbe talmente diverso dagli ordinamenti storici che usiamo chiamare giuridici che nessuno oserebbe vedervi realizzata l'idea del diritto: segno evidente che l'adesione spontanea accompagna i l formarsi e i l perdurare di un ordinamento giuridico, ma non lo caratterizza. Giustamente i l Kelsen osserva: «Se l'ordinamento sociale non dovesse più avere nel futuro i l carattere di ordinamento coercitivo, se la società dovesse esistere senza "diritto", allora la differenza fra questa società del futuro e quella presente sarebbe incommensurabilmente più grande della differenza fra gli Stati Uniti e l'antica Babilonia, o fra la Svizzera e la tribù degli Ashanti»'. Concludendo, chi sostiene essere la sanzione organizzata carattere distintivo degli ordinamenti giuridici non nega l'efficacia delle regole di questo ordinamento attraverso la semplice adesione spontanea; afferma che l'ordinamento conta in ultima istanza sull'efficacia ottenuta attraverso l'apparato della sanzione.
st'argomento lo troverebbero esposto con la massima chiarezza i n una pagina del Croce, i l quale, proprio a proposito della coazione come elemento costitutivo del diritto, dice: «Nessun'azione p u ò essere mai costretta; ogni azione è libera, perché lo Spirito è libertà: potrà, i n un determinato caso, non ritrovarsi l'azione che si era immaginata, ma un'azione costretta è cosa che non s'intende, perché i due termini sono repugnanti» ^. Ammettiamo pure, osserva Croce, che l'inosservanza sia seguita dalla pena: ma anche la pena trova sempre di fronte a sé la libertà dell'individuo: «Per evitare la pena o i l rinnovarsi della pena questi potrà, liberamente, osservare la legge; ma ciò non toglie che potrà anche l i beramente ribellarlesi». Che anche l'obbedienza ottenuta con una minaccia di sanzione sia i n definitiva fondata sul consenso, si p u ò sostenere, p u r c h é ci si ponga da un punto di vista tanto alto (è quel che si chiama di solito i l punto di vista "speculativo") da non riuscire più a vedere le differenze di grado, che del resto sono le sole differenze che i n questa sede c'interessano. Ammettiamo che il consenso e la forza non si possano distinguere con un taglio netto, e che un m i nimo di consenso sia sempre necessario, anche là dove sembra che l'azione sia massimamente costretta. La distinzione empirica tra adesione libera e adesione forzata rimane. L'adesione forzata richiede un apparato di organi e di funzioni che si sovrappone a un certo sistema normativo, e lo completa. Questo apparato ha un certo scopo, che è quello di rafforzare l'efficacia delle norme, e produce un certo effetto, che è quello di ottenere l'obbedienza anche là dove i l consociato recalcitra. Orbene è la presenza di questo apparato che contraddistingue un ordinamento da un altro, qualunque siano le conseguenze che questo apparato ha sul modo con cui si manifesta l'obbedienza. Se l'adesione data per consenso e quella data per forza possono sembrare indistinguibili da chi guarda i l problema preoccupato della libertà dello Spirito, appaiono distinte e abbastanza chiaramente distinte a chi si propone lo scopo di studiare i mezzi con cui i l consenso viene ottenuto e trame elementi indicativi per caratterizzare diversi t i pi di ordinamenti normativi.
I sostenitori dell'adesione spontanea potrebbero replicare con l'argomento "filosofico", secondo cui l'uomo, essendo per sua natura libero, non p u ò essere costretto, e pertanto anche l'obbedienza ottenuta attraverso la sanzione è pur sempre un'obbedienza libera, fondata sul consenso, e come tale indistinguibile da quella cosiddetta spontanea. Coloro che volessero valersi di que-
' Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. 19.
^ Filosofia della pratica. III ediz., p. 310.
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44. NORME SENZA SANZIONE
L'argomento più comune e anche più facile contro la teoria che vede nella sanzione uno degli elementi costitutivi d i un ordinamento giuridico è quello che si fonda sulla presenza, i n ogni ordinamento giuridico, di norme non garantite da sanzione. Non c'è dubbio che vi siano in ogni ordinamento giuridico norme di cui nessuno saprebbe indicare qual sia la conseguenza spiacevole imputata i n caso di violazione. Non vi è giurista i l quale non ne possa citare un certo numero, tanto nel diritto privato, quanto, e soprattutto, nel diritto pubblico. Nel campo del diritto privato si prenda, ad esempio, una norma come l'art. 315 c e : «Il figlio, di qualunque età sia, deve onorare e rispettare i genitori». Nel diritto pubblico, gli esempi sono più numerosi, tanto che i n un testo costituzionale, per lo meno nella parte che riguarda l'organizzazione dei poteri dello stato, prevalgono le norme non sanzionabili su quelle sanzionabili. L'Allorio ha citato, in una discussione sulla sanzione che vedremo più tardi, l'art. 154 del vecchio c.p.p., che sembra fatto apposta per portar acqua al mulino dei negatori della sanzione: «I magistrati, i cancellieri, gli ufficiali giudiziari, gli ufficiali ed agenti di polizia sono obbligati ad osservare le norme stabilite i n questo codice anche quando Yinosservanza non importi nullità od altra sanzione particolare-». I n questo articolo il legislatore stesso muove dal presupposto che vi possano essere norme non sanzionate; i n altre parole, la presenza di norme non sanzionate non è soltanto un fatto rilevato dalla dottrina ma un'ipotesi accolta dallo stesso legislatore, un'ipotesi a cui lo stesso legislatore annette certe conseguenze (o meglio la mancanza di certe conseguenze). La presenza di norme non sanzionate in un ordinamento giuridico è un fatto incontestabile. La soluzione a questa difficoltà da parte di chi considera la sanzione come elemento costitutivo del diritto non è certo quella di negare i l fatto. I l fatto è quello che è. Si tratta, se mai, di vedere come questo fatto possa essere accolto e giustificato i n una teoria del diritto come complesso di regole a sanzione organizzata. Una via di uscita sarebbe quella di negare alle norme non sanzionate i l carattere di norme giuridiche. Ma è una soluzione radicale non necessaria. La difficoltà p u ò
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essere risolta i n altro modo, cioè osservando che quando si parla di una sanzione organizzata come elemento costitutivo del diritto ci si riferisce non alle norme singole ma all'ordinamento normativo preso nel suo complesso, ragion per cui i l dire che la sanzione organizzata contraddistingue l'ordinamento giuridico da ogni altro tipo di ordinamento, non implica che tutte le norme di quel sistema siano sanzionate, ma soltanto che lo siano la maggior parte. Quando io m i pongo d i fronte ad una norma singola e m i domando se sia o no una norma giuridica, i l criterio della giuridicità non è certamente la sanzione, ma l'appartenenza al sistema, ovvero la validità, nel senso già chiarito di riferibilità di quella norma ad una delle fonti di produzione normativa riconosciute come legittime. La sanzione ha riguardo non alla validità ma all'efficacia, e abbiamo già visto che una norma singola p u ò essere valida senza essere efficace (v. pp. 36 e ss. e 41). Si capisce che i l legislatore tende a produrre norme, oltre che valide, efficaci: ma si p u ò osservare che là dove ci si imbatte i n norme non provviste di sanzione, ci si trova generalmente di fronte a questi due casi tipici: 1) o si tratta di norme per la cui efficacia si fa assegnamento, data la loro riconosciuta opportunità o corrispondenza alla coscienza popolare o, i n una parola pregnante, data la loro giustizia, sull'adesione spontanea, onde la sanzione viene ritenuta inutile; 2) oppure si tratta di norme poste da autorità tanto alte nella gerarchia delle norme da rendere impossibile o per lo meno scarsamente efficiente l'applicazione di una sanzione. I n entrambi i casi la mancanza di sanzione non dipende da un difetto del sistema nel suo complesso, ma da circostanze particolari delle singole norme, circostanze che rendono, i n quel determinato caso, e solo i n quello, o inutile o impossibile l'applicazione di una sanzione, senza che peraltro venga intaccato i l principio che ispira la messa in moto del meccanismo della sanzione, cioè i l principio dell'efficacia rafforzata, i l quale vale quando questa efficacia rafforzata è possibile, e quando, essendo possibile, è anche necessaria o per lo meno particolarmente utile. Questo secondo caso, cioè delle norme superiori nella gerarchia normativa, come sono le norme costituzionali, merita una particolare considerazione perché è un po' i l cavallo di battaglia dei non-sanzionisti, per i quali sembra strano, per non dire assurdo, che manchino di sanzione proprio le norme più importanti
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del sistema. I n realtà, a noi questa mancanza di sanzione ai vertici del sistema non pare assurda, ma anzi del tutto naturale. L'applicazione della sanzione presuppone un apparto coercitivo, e l'apparato coercitivo presuppone i l potere, cioè presuppone uno scarto di forza imperativa, o se si vuole di autorità, tra colui che pone la norma e colui che deve ubbidirla. È pertanto del tutto naturale che via via che, passando dalle norme inferiori a quelle superiori ci si avvicina alle fonti del potere, e quindi diminuisce lo scarto di autorità tra chi pone la norma e chi deve eseguirla, l'apparato coercitivo perda vigore ed efficienza, sino a che, arrivando alle fonti del potere medesimo, cioè al potere supremo (com'è quello che si dice "costituente"), una forza coercitiva non è addirittura più possibile per la contraddizione che non lo consente, cioè perché se questa forza vi fosse, quel potere non sarebbe più supremo. I l problema del rapporto tra diritto e forza è molto complesso, e non è ora il momento di approfondirlo. Qui ci basti dire che nel passare dalle norme inferiori di un ordinamento a quelle superiori, noi passiamo dalla fase i n cui la forza è rivolta ad applicare i l diritto a quella in cui serve a produrlo, e pertanto passiamo dal concetto di forza come sanzione di un diritto già stabilito (cioè mezzo per rendere i l diritto efficace) al concetto di forza come produzione di un diritto che deve valere i n avvenire. I n questo passaggio dai piani più bassi ai piani più alti di un ordinamento avviene a poco a poco un'inversione dei rapporti tra diritto e forza, senza che sia dato precisare i n qual punto questa inversione avvenga: nei piani più bassi la forza è al servizio del diritto; nei piani più alti // diritto è al servizio della forza. Con altra espressione potremmo dire che, guardando un ordinamento giuridico dal basso i n alto (ed è questo i l punto di vista più schiettamente giuridico, cioè proprio del giurista), noi vediamo un potere coercitivo inteso a far sì che un insieme di regole venga ubbidito; guardandolo dall'alto i n basso (ed è questo i l punto di vista più propriamente politico), noi vediamo un insieme di regole destinate a far sì che un potere possa esercitarsi. Se le cose stanno in questo modo, i l fatto che le norme superiori non siano sanzionate è naturale anche per un'altra ragione ancora più decisiva, non più per una ragione di fatto (l'impossibilità di costringere con la forza chi detiene la fonte stessa della
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forza), ma per una ragione di diritto: quando coloro che agiscono agli apici del potere agiscono i n modo non conforme ad una norma del sistema, questo loro comportamento non è la violazione di una norma precedente, ma la produzione di una norma nuova, cioè una modificazione del sistema, e pertanto cade come i m proponibile il problema della sanzione, la quale presuppone un i l lecito. Non è detto insomma che un comportamento difforme sia sempre un illecito: p u ò essere la posizione di una nuova liceità, nel qual caso la sanzione è giuridicamente impossibile. Facciamo un esempio estremo: l'art. 139 della nostra costituzione, com'è noto, segna un limite normativo allo stesso potere costituente stabilendo che «la forma repubblicana non p u ò essere oggetto di revisione costituzionale». Che cosa avverrebbe se un'assemblea costituente violasse questo articolo? Avverrebbe puramente e semplicemente l'instaurazione di una nuova costituzione. Quel che si è detto sin qui sulle norme superiori dell'ordinamento non deve far credere che i l diritto pubblico i n genere sia un diritto non sanzionato. Anzi, si deve dire che, se una tendenza si è rivelata nella evoluzione del diritto pubblico europeo, è stata quella verso una sempre minore differenziazione tra diritto privato e diritto pubblico relativamente al problema della sanzione. Lo "stato di diritto" è avanzato e continua ad avanzare nella m i sura i n cui si sostituiscono ai poteri arbitrari quelli giuridicamente controllati, agli organi irresponsabili gli organi giuridicamente responsabili, infine nella misura i n cui l'ordinamento giuridico organizza la risposta alle violazioni che provengono non solo dai privati cittadini, ma anche dai pubblici funzionari. Si potrebbe segnare una delle tante differenze tra stato d i polizia e stato di diritto mettendo i n rilievo l'estendersi del meccanismo della sanzione dalla base, sempre più su, ai vertici. I l che è ancora una conferma dell'importanza della sanzione ai fini di stabilire i caratteri differenziali dell'ordinamento giuridico; l'evoluzione dell'ordinamento giuridico si esprime non già nel restringersi ma nell'allargarsi dell'apparato sanzionatorio. Noi siamo inclini a considerare un ordinamento tanto più "giuridico" (lo stato di diritto è uno stato i n cui i l controllo giuridico si è andato allargando e quindi è più "giuridico" di uno stato di polizia) quanto più la tecnica della sanzione si è andata perfezionando.
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45. ORDINAMENTI SENZA SANZIONE
Vi è però un'obiezione più grave. Noi sin qui ci siamo difesi di fronte all'obiezione fondata sulla constatazione di norme senza sanzione i n un ordinamento giuridico. E ci siamo difesi, si badi, sostenendo che quel che conta ai fini della teoria della sanzione non è già che tutte le singole norme appartenenti a un sistema siano sanzionate, ma che lo siano la maggior parte, o, i n altre parole, che l'ordinamento ricorra alla tecnica della sanzione istituzionalizzata, anche se poi questa tecnica in alcuni casi venga meno. Abbiamo risposto, insomma, trascorrendo dalla norma singola all'ordinamento come insieme di norme. Ma a questa risposta i non-sanzionisti rincalzano affermando che vi sono interi ordinamenti, che pur si sogliono chiamare giuridici, ai quali fa completamente difetto l'istituzionalizzazione della sanzione. Di fronte a questa obiezione, la risposta data nel paragrafo precedente non serve più. L'esempio caratteristico che si suol fare di ordinamento giuridico senza sanzione istituzionalizzata è l'ordinamento internazionale. Se l'ordinamento internazionale, si dice, è un ordinamento giuridico, come si p u ò ancora parlare di diritto e sanzione come due termini indissolubili? I n genere, questa obiezione è una delle conseguenze della teoria istituzionale del dirìtto, e della riconosciuta pluralità degli ordinamenti giuridici. Si ammette che la correlazione tra diritto e sanzione potesse essere accolta sino a che non si riconosceva altro ordinamento giuridico che quello statuale. Allargata, attraverso la teoria dell'istituzione, la nozione di ordinamento giuridico, si sarebbero infilati nella rete tanti altri ordinamenti i n cui questa correlazione tra diritto e sanzione non appare più, o per lo meno non appare più con la stessa evidenza con cui appariva quando unico ordinamento giuridico era considerato quello statuale. Non riteniamo che anche questa obiezione sia insuperabile. Certamente la caratteristica qui illustrata della sanzione organizzata ha una funzione limitativa: serve a circoscrivere nella categoria delle istituzioni o degli ordinamenti normativi quelli a cui si ritiene sia più appropriato riservare i l nome di "giuridici"; ed evita pertanto l'identificazione, da cui non si vede quali vantaggi si potrebbero trarre ai fini di una miglior comprensione del feno-
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meno giuridico, di sistema normativo i n genere e sistema giuridico. Ma va aggiunto che questa delimitazione non è tale da r i durre, ancora una volta, l'ordinamento giuridico al solo ordinamento statuale. Nella definizione di ordinamenti a efficacia rafforzata mediante l'organizzazione della sanzione rientrano perfettamente istituzioni come quelle della mafia, delle società segrete, della cavalleria col suo codice cavalleresco che è essenzialmente un insieme di regole di procedura, e in genere tutte le associazioni le quali si organizzano sulla base del potere di espulsione (e di altre sanzioni minori) nei confronti dei soci trasgressori. Per quel che riguarda l'ordinamento intemazionale vi sarebbe, come nel caso delle norme non sanzionate, la scappatoia di non considerarlo un ordinamento giuridico. Ci troviamo d i fronte a una questione di parole, e quindi a una questione di mera opportunità. Sta di fatto però che l'espressione "diritto intemazionale" è entrata nell'uso, ed è quindi consigliabile servirsi di un'accezione del termine "diritto" tanto ampia da includervi anche l'ordinamento internazionale. Ma è proprio vero che i l carattere della sanzione organizzata, una volta accolto, finirebbe per escludere dalle cose connotate dal termine "diritto" l'ordinamento internazionale? Senza addentrarci nella questione della giuridicità del diritto internazionale, ci sia concesso qui di ripetere quel che abbiamo già avuto occasione di dire, e cioè che i l diritto intemazionale è nato ad un tempo con la regolamentazione della guerra, e cioè con la consapevolezza, da parte dei membri della comunità statale, della natura sanzionatoria della guerra, e di conseguenza della necessità di segname i limiti con regole concordemente accettate, ossia è nato insieme con l'istituzionalizzazione della guerra in quanto sanzione. Del resto, che i l diritto internazionale abbia anch'esso le sue sanzioni e preveda i l modo e la misura del loro esercizio è tesi accettata anche da alcuni internazionalisti. La violazione di una norma intemazionale da parte di uno stato costituisce un illecito. Forse che nell'ordinamento intemazionale un illecito non importa alcuna conseguenza? Che cosa sono la rappresaglia e, nei casi estremi, la guerra se non un risposta alla violazione, cioè quella risposta alla violazione che è possibile e legittima in quella particolare società che è la società degli stati? Ora, rispetto a questa risposta alla violazione non vi sono che due
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Teoria della norma giuridica
possibilità: o la risposta è libera o è a sua volta regolata e controllata da altre norme appartenenti al sistema. La prima possibilità è quella che si attua nell'ipotetico stato di natura; la seconda c quella che trova applicazione nella comunità intemazionale attraverso la regolamentazione del diritto d i rappresaglia e di guerra. Quindi anche l'ordinamento intemazionale è un ordinamento giuridico nel preciso senso i n cui si parla di ordinamento giuridico come ordinamento a sanzione regolata. Se una differenza esiste tra ordinamento internazionale e altri ordinamenti, come ad esempio l'ordinamento statuale, essa non risiede nella mancanza di una sanzione regolata, ma se mai soltanto nel modo con cui è regolata. Ma si tratta allora di differenza non principale ma secondaria. Per cogliere questa differenza rispetto al modo di esercizio della sanzione, dobbiamo riprendere la distinzione, fatta al paragrafo 42, tra autotutela ed eterotutela, cioè tra la sanzione attuata dalla stessa persona dell'offeso e sanzione attuata da persona diversa, super partes. Se noi consideriamo, ad esempio, la rappresaglia come l'esercizio di una sanzione, non c'è dubbio che si tratta di r i sposta alla violazione data dallo stesso stato che ha subito le conseguenze di un atto illecito di un altro stato, cioè di un atto di autotutela. Possiamo quindi dire i n generale che tutto l'ordinamento internazionale, a differenza di quello statuale, è fondato sul principio dell'autotutela, e che pertanto ciò che differenzia l'ordinamento internazionale da quello statuale non è la mancanza o presenza di sanzioni organizzate, ma l'organizzazione della sanzione attraverso l'autotutela o attraverso l'eterotutela. Che poi l'istituto dell'autotutela sia manifestazione di una società meno organizzata di quella in cui vige i l principio dell'eterotutela, i m porta una differenza non di sostanza ma di grado tra l'ordinamento intemazionale e quello statuale, differenza, del resto, che nessuno ha mai negato.
46. L E NORME A CATENA E IL PROCESSO ALL'INFINITO
Esaminiamo una quarta obiezione: è l'obiezione che si dice del processo all'infinito e che si trova formulata, per esempio, nel
Prescrizioni giuridiche
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Thon con queste parole: «Qualsiasi attribuzione di diritti, perfino quella che è fornita della più energica coazione ad una pena e ad un risarcimento pel caso della sua violazione, riposa, i n fondo, soltanto sopra un complesso d'imperativi, dei quali i l successivo ha sempre per condizione la disubbidienza del precedente, ma l'ultimo, quando sia trasgredito, rimane in ogni caso privo di conseguenze. L'intero sistema giuridico consta, pertanto, d i norme. Qra se si vuole far poco conto della norma come tale, e sia: ma, allora, all'intero diritto si attribuirà scarso valore. Poiché è impossibile che una norma di per sé impotente acquisti energia solo per ciò che nel caso della sua trasgressione ad essa si connetta un'altra norma potente»^. Questa obiezione si trova ripetuta successivamente innumerevoli volte. Formuliamola nel modo più sintetico con parole nostre: se è vero che una norma è giuridica solo se è sanzionata, anche la norma che stabilisce la sanzione sarà giuridica solo se sarà sanzionata, e, così di seguito, la norma che sanziona la prima norma sanzionatoria per essere giuridica dovrà rinviare a sua volta a una nuova norma sanzionatoria. Si arriverà per forza ad un punto in cui vi sarà una norma sanzionatoria che non sarà a sua volta sanzionata. Possiamo con altre parole esprimere lo stesso concetto in questo modo: la norma primaria presuppone la norma secondaria; ma questa norma secondaria è a sua volta norma primaria rispetto alla propria norma sanzionatoria che è secondaria rispetto a questa e terziaria r i spetto alla prima; ma anche la norma terziaria presuppone una norma ulteriore, ecc. ecc. Si arriverà ad un punto in cui una norma è soltanto secondaria e non anche primaria, cioè ad un punto i n cui, dal momento che non si p u ò procedere all'infinito, vi sarà una norma che non ha oltre a sé una sanzione che la garantisca, e rimane quindi, nel sistema, come norma non sanzionata. Questa obiezione tende a dimostrare che, per quanto i l sistema della sanzione organizzata si estenda, non p u ò essere comprensivo di tutte le norme, e quindi la mancanza d i sanzione non è soltanto la risultante di una constatazione di fatto, ma anche di una ragione implicita nello stesso sistema. Questa obiezione, per quanto suggestiva, non porta argomenti
Nonna giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 15.
Teoria della norma giuridica
Prescrizioni giuridiche
nuovi i n favore della tesi dei non-sanzionisti. Si p u ò infatti r i spondere a questa obiezione ricorrendo ai contro-argomenti esposti nel paragrafo 43. Da un lato, infatti, essa ci dice che i n ogni ordinamento, per quanto si ammetta l'organizzazione della sanzione, anche nella forma più ampia, vi saranno sempre norme che non sono sanzionate. Ma qui possiamo rispondere con quanto abbiamo detto nel paragrafo 44, che la presenza di norme singole non sanzionate non importa rifiuto della tesi sanzionista, la quale si fonda sulla presenza del meccanismo della sanzione nell'ordinamento preso nel suo complesso. Dall'altro, essa ci fa presente che le norme non sanzionate emergono via via che si procede dalle norme inferiori alle norme superiori. Ma anche a questo argomento abbiamo già risposto nello stesso paragrafo mettendo innanzi i l fatto che se la sanzione implica la presenza di un apparato coercitivo, la presenza dell'apparato coercitivo implica i n ultima istanza la presenza di un potere di coazione che non p u ò essere a sua volta costretto, e che pertanto la esistenza di norme non sanzionate al vertice del sistema è l'effetto dell'inversione del rapporto forza-diritto che si verifica nel passaggio delle norme inferiori alle norme superiori.
sibile (e infatti vale pur sempre la domanda: "Quis custodiet custodes?"), ma è anche impossibile di fatto, perché significherebbe che quell'ordinamento è fondato soltanto sulla forza. Il problema dei rapporti fra forza e consenso è altrettanto complesso di quello dei rapporti tra forza e diritto, a cui abbiamo già accennato. E non è i l caso di farne un'analisi minuta. Ci limitiamo a dir questo: forza e consenso sono i due fondamenti del potere. Possiamo benissimo fare l'ipotesi di un potere fondato soltanto sulla forza e di un potere fondato solo sul consenso. Effettivamente, i glusnaturalisti quando elaboravano la teoria contrattualistica dello stato immaginavano uno stato fondato esclusivamente sul libero accordo dei consociati, e lo contrapponevano agli stati dispotici in cui si assumeva che i l diritto fosse l'espressione della volontà del più forte. Basterà leggere le prime pagine del Contratto sociale di Rousseau per convincersi della persistenza di questa contrapposizione. Ma se noi prescindiamo da questa contrapposizione puramente teorica, e guardiamo spregiudicatamente la realtà storica, ci rendiamo conto che forza e consenso si mescolano, e che non vi è Stato tanto dispotico che non faccia assegnamento anche sul consenso (per lo meno degli accoliti del despota sulla fedeltà dei quali i l despota deve poter contare), n é Stato tanto fondato sul contratto da non aver bisogno della forza per mantenere a freno i dissidenti. Gli stati storici si distinguono tra loro per la maggiore o minor misura di forza e di consenso. Quando si è parlato, come si è fatto sin qui, dell'apparato della coazione per rendere efficace un ordinamento normativo, si ha sempre avuto l'occhio agli stati storici, nei quali è pur sempre presente, accanto alla forza, un minimo di consenso. Orbene, la presenza di norme superiori non sanzionate non fa che rispecchiare questa situazione storica: le norme non sanzionate rappresentano quel minimo di consenso senza i l quale nessun stato potrebbe sopravvivere.
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Tutt'al più si p u ò ancora obiettare se non vi sia una contraddizione nel ritenere, da un lato, che la sanzione sia elemento costitutivo del diritto, e, dall'altro, che manchino di sanzione proprio le norme superiori dell'ordinamento, quelle che dovrebbero garantire l'efficacia di tutto i l sistema. Se l'obiezione, che stiamo esaminando i n questo paragrafo, presenta un qualche interesse rispetto alle precedenti, è appunto nell'indicarci più chiaramente questa contraddizione. Riteniamo che si possa risolvere questa contraddizione rifacendoci a quanto è stato detto soprattutto al paragrafo 43. Per quanto un ordinamento tenda a rafforzare l'efficacia delle proprie norme organizzando la coazione, non è escluso che esso faccia assegnamento anche sull'adesione spontanea. Qui aggiungiamo che l'efficacia diretta, cioè quella che deriva dall'adesione spontanea, non soltanto non è esclusa, ma è d i fatto indispensabile. Le norme, la cui applicazione è certamente affidata all'adesione spontanea, sono appunto le norme superiori del sistema. Qra un sistema in cui tutte le norme superiori dovessero essere garantite dalla sanzione è non solo giuridicamente impos-
7. - N . BOBBIO: Teorìa generale del diritto
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CAPITOLO V I
CLASSIFICAZIONE D E L L E NORME
GIURIDICHE
SOMMARIO: 47. Noinie generali e singolari. - 48. Generalità e astrattezza. 49. Norme affermative e negative. - 50. Norme categoriche e ipotetiche.
47. NORME GENERALI E SINGOLARI
Sono possibili molte distinzioni tra le norme giuridiche. Tutti i trattati di filosofia del diritto e di teoria generale del diritto ne esaminano un certo numero. Qui però cominciamo a fare una prima distinzione tra gli stessi criteri di distinzione. Vi sono distinzioni che hanno riguardo al contenuto delle norme: per esempio, quella tra nonne sostanziali e norme processuali, o quelle tra norme di comportamento e norme di organizzazione. Altre distinzioni riguardano il modo con cui le norme sono poste, come quella tra norme consuetudinarie e norme legislative. Altre ancora i destinatari, come quella tra norme primarie e norme secondarie. Altre si riferiscono alla natura e struttura della società regolata, come, ad esempio, la distinzione tra norme di diritto statuale, canonico, internazionale, familiare, ecc. Tutte queste distinzioni non c'interessano in questa sede. Del resto, vengono di solito esaminate, di volta i n volta, nei testi delle singole discipline giuridiche, i n occasione della trattazione dei singoli problemi che vi sono implicati. I n questa sede, che è quella di una teoria generale del diritto, c'interessa, e quindi ci preme, esaminare un solo criterio, quello formale. Chiamo criterio formale, per distinguerlo dai vari criteri materiali, quello che ha
Teorìa della norma giurìdica
Classificazione delle norme giuridiche
riguardo esclusivamente alla struttura logica della proposizione prescrittiva. Per sviluppare questo discorso ci serviremo di alcune distinzioni fondamentali e tradizionali, riferite alle proposizioni descrittive, e le estenderemo alle proposizioni normative. Una distinzione elementare che si trova i n tutti i trattati di logica è quella tra proposizioni universali e proposizioni singolari. Si dicono universali quelle proposizioni i n cui i l soggetto rappresenta una classe composta di più membri, come ad esempio: "Gli uomini sono mortali"; singolari, quelle i n cui i l soggetto rappresenta un singolo individuo, come ad esempio: "Socrate è mortale". Questa distinzione ha particolare rilievo nella classificazione delle norme giuridiche. Possiamo dire, i n generale, che una prima grande classificazione delle norme giuridiche - una classificazione, ripeto, puramente formale - , è quella tra norme universali e norme singolari. Per essere utile, questa prima distinzione ha peraltro bisogno di venire ulteriormente specificata. Riferita alle norme giuridiche, essa ha i n realtà una duplice applicazione, sulla quale dobbiamo brevemente soffermarci. Ogni proposizione prescrittiva, e quindi anche le norme giuridiche, è formata di due elementi costitutivi e quindi immancabili: i l soggetto, a cui la norma si rivolge, ovvero il destinatario, e l'oggetto della prescrizione, ovvero l'azione prescritta. Anche nella più semplice delle prescrizioni, come, ad esempio: "Alzati", si distinguono un destinatario-soggetto e un'azione-oggetto. Non si p u ò pensare ad una prescrizione che non si rivolga a qualcuno e che non regoli un certo comportamento. Se noi consideriamo una qualsiasi norma giuridica, possiamo constatare la presenza di questi due elementi: anzi, diremo che i l primo passo per interpretare una norma giuridica sarà quello di rendersi conto a chi si rivolge e quale comportamento stabilisce. Orbene tanto i l destinatario-soggetto quanto l'azione-oggetto possono presentarsi, in una norma giuridica, in forma universale e i n forma singolare. I n altre parole, tanto i l destinatario quanto l'oggetto possono figurare i n una proposizione con soggetto universale e con soggetto singolare. I n questo modo si ottengono non due ma quattro tipi di proposizioni giuridiche, ovvero prescrizioni con destinatario universale, prescrizioni con destinatario singolare, prescrizioni con azione universale, prescrizioni con azione singolare.
Esempio delle prime: «Il mandatario è tenuto a eseguire i l mandato con la diligenza del buon padre di famiglia» (art. 1 7 1 0 c e ) . Esempio delle seconde: la sentenza del tribunale, con la quale, i n base all'art. 155 c e , viene ordinato al coniuge, di cui è stata pronunciata la separazione, di tenere presso di sé i figli e di provvedere al loro mantenimento, educazione e istruzione. Esempio delle terze: «Il marito ha i l dovere di proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione delle sue sostanze» (art. 145 c e ) . Esempio delle quarte: in base all'art. 2 1 0 e p . e i l giudice istruttore ordina, su istanza di una parte, all'altra parte di esibire i n giudizio un documento di cui ritenga necessaria l'acquisizione al processo. La differenza tra i l primo esempio e i l secondo sta i n ciò: i l mandatario, a cui la norma del Codice Civile si rivolge, non è una persona determinata, un individuo concreto, ma una classe di persone, e pertanto la norma si rivolge contemporaneamente a tutti coloro che rientrano in quella classe; i l destinatario, a cui si rivolge i l giudice di tribunale per ordinargli di tenere presso di sé i figli, è un individuo concreto, un singolo, e la norma relativa si rivolge ad esso solo e a nessun altro. Quanto alla differenza tra i l terzo e i l quarto esempio, si p u ò dir questo: l'azione prevista e regolata dall'art. 145 c e è un'azione-tipo, che non si esaurisce nell'esecuzione, una tantum, ma si ripete nel tempo e vale per tutti quei comportamenti che possono essere fatti rientrare nell'azione-tipo; l'azione, prevista dall'art. 2 1 0 ep.e, è un'azione singola, ovvero l'esibizione d i quel particolare documento, e, una volta compiuta, la norma ha perduto la sua efficacia.
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4 8 . GENERALITÀ E ASTRATTEZZA
Con questa ulteriore specificazione la distinzione tra norme universali e norme singolari c'introduce nella vecchia dottrina, che si ritrova in tutti i manuali, intorno alla generalità e astrattezza delle norme giuridiche e ci aiuta a vedere i limiti e i difetti della dottrina. Infatti la dottrina della generalità e astrattezza delle norme giuridiche è, da un lato, imprecisa, perché non chiari-
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Teorìa della nonna giurìdica
sce d i solito se i due termini "generale" e "astratto" siano usati come sinonimi ("le norme giuridiche sono generali o astratte"), oppure come aventi due significati differenti ("le norme giuridiche sono generali e astratte"). D'altro lato è insufficiente o addirittura fuorviante, perché mettendo i n evidenza i requisiti della generalità e dell'astrattezza lascia credere che non vi siano norme giuridiche individuali e concrete. La classificazione, fatta nel paragrafo precedente, ci permette una distinzione più precisa e più completa delle norme giuridiche. Invece di usare promiscuamente i termini di "generale" e "astratto", riteniamo opportuno chiamare "generali" le norme che sono universali rispetto al destinatario, e "astratte" quelle che sono universali rispetto all'azione. Così consigliamo di parlare d i norme generali quando ci troviamo d i fronte a norme che si r i volgono a una classe d i persone; e d i norme astratte quando ci troviamo di fronte a norme che regolano un'azione-tipo (o una classe d i azioni). Alle norme generali si contrappongono quelle che hanno per destinatario un individuo singolo, e suggeriamo d i chiamare norme individuali; alle norme astratte si contrappongono quelle che regolano un'azione singola, e suggeriamo di chiamare norme concrete. A rigore i l termine "norma concreta" non è molto appropriato, dal momento che la parola "norma" fa pensare ad una regolamentazione continuata di una azione, ed è quindi più adatto per designare le sole norme astratte. Le norme concrete si potrebbero chiamare più appropriatamente ordini. Abbiamo visto precedentemente la ripugnanza d i taluni a considerare comandi le norme giuridiche per il fatto che il termine "comando" sembra riferirsi soltanto a prescrizioni con destinatari ben determinati: da ciò si potrebbe trarre ispirazione a chiamare comandi le norme individuali. I n tal modo si potrebbe proporre una classificazione fondata sulle due seguenti dicotomie: norme generali e comandi, norme astratte e ordini. Non vogliamo peraltro attribuire troppa importanza alle questioni di denominazione. La questione più importante a questo proposito è che questa quadripartizione ci aiuta a uscir fuori dalla dottrina tradizionale secondo cui caratteri delle norme giuridiche sarebbero la generalità e l'astrattezza. Se noi osserviamo realisticamente un ordinamento giuridico, non possiamo fare a meno d i notare che esso contiene, accanto a norme generali e
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astratte, comandi e ordini. Con ciò non si vuol dire che le prescrizioni di un ordinamento giuridico siano di eguale importanza. Una classificazione non è una graduatoria. Si vuol soltanto precisare, per correggere una dottrina corrente (oggi ormai i n declino), che accanto a prescrizioni generali e astratte, se ne trovarlo di individuali e concrete, e pertanto non si p u ò fare assurgere i requisiti della generalità e dell'astrattezza, o entrambi insieme, a requisiti essenziali della norma giuridica. Noi riteniamo che la considerazione della generalità e astrattezza come requisiti essenziali della norma giuridica abbia un'origine ideologica e non logica, e cioè riteniamo che dietro a questa teoria ci sia u n giudizio di valore di questo tipo: "È bene (è desiderabile) che le norme giuridiche siano generali ed astratte". I n altre parole, noi pensiamo che generalità e astrattezza siano requisiti non già della norma giuridica quale è, ma quale dovrebbe essere per corrispondere all'ideale d i giustizia, per cui tutti gli uomini sono eguali, tutte le azioni sono certe; cioè siano requisiti non tanto della norma giuridica (cioè della norma valida i n un certo sistema), ma della norma giusta. In particolare, quali sono i valori a cui s'ispira la teoria della generalità e astrattezza? Rispetto ad una prescrizione individuale, una prescrizione generale si ritiene valga meglio a realizzare uno dei fini fondamentali a cui ogni ordinamento giuridico dovrebbe tendere: i l fine àeWeguaglianza. Non è detto che ogni norma individuale costituisca un privilegio. Ma è certo che i privilegi vengono stabiliti attraverso norme individuali. La principale garanzia della massima che si vorrebbe stesse a fondamento dei nostri ordinamenti giuridici: «La legge è eguale per tutti», è indubbiamente la generalità delle norme, cioè i l fatto che le norme si r i volgano non a questo o a quel cittadino, ma alla totalità dei cittadini oppure a un tipo astratto di operatore nella vita sociale. Quanto alla prescrizione astiatta, essa viene considerata come sola capace di attuare un altro fine a cui tende ogni ordinamento civile: i l fine della certezza. Per "certezza" s'intende la determinazione, una volta per sempre, degli effetti che l'ordinamento giuridico attribuisce ad un dato comportamento, i n modo che i l cittadino sia in grado di sapere i n anticipo le conseguenze delle proprie azioni. Ora, questa esigenza viene al massimo soddisfatta quando i l legislatore non abbandona la regolamentazione dei
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Teorìa della norma giurìdica
comportamenti al giudizio caso per caso del giudice, ma stabilisce con una norma la regolamentazione di un'azione tipo, i n modo che v i rientrino tutte le azioni concrete incluse i n quel tipo. Così come la generalità della norma è garanzia di eguaglianza, l'astrattezza è garanzia d i certezza. Se si riflette su quanto abbia ispirato l'odierna concezione dello stato d i diritto l'ideologia dell'eguaglianza di fronte alla legge e della certezza, non sarà più difficile rendersi conto dello strettissimo nesso intercorrente tra teoria e ideologia, e comprendere quindi i l valore ideologico della teoria della generalità e astrattezza, la quale tende non già a descrivere l'ordinamento giuridico reale, ma a prescrivere regole per attuare l'ottimo ordinamento giuridico, che sarebbe quello in cui tutte le norme fossero insieme generali e astratte. Che u n ordinamento tutto composto d i norme generali e astratte sia un ideale, m i pare possa essere confermato dal fatto che un siffatto ordinamento difficilmente potrebbe sussistere. Se noi ammettiamo, come abbiamo ammesso sin qui, che, posto u n sistema di norme, si debba prevedere la loro violazione, dobbiamo pure ammettere accanto alle norme generali ed astratte, norme individuali e concrete, non foss'altro per render possibile l'applicazione, i n determinate circostanze, delle norme generali ed astratte. Non c'è dubbio, ad esempio, che la sentenza con la quale i l giudice condanna un singolo individuo ad un determinato comportamento (per es. al risarcimento di danni) sia una norma, insieme, individuale e concreta. Nella realtà, combinandosi i quattro requisiti della generalità, dell'astrattezza, dell'individualità e della concretezza, le norme giuridiche possono essere di quattro tipi: norme generali e astratte (di questo tipo sono la maggior parte delle leggi, ad esempio, le leggi penali); norme generali e concrete (una legge che dichiari la mobilitazione generale si rivolge a una classe d i cittadini e nello stesso tempo prescrive un'azione singola che, una volta compiuta, esaurisce l'efficacia della norma); norme individuali e astratte (una legge che attribuisce ad una determinata persona un ufficio, per esempio quello di giudice della Corte costituzionale, si rivolge ad un solo individuo e gli prescrive non un'azione singola, ma tutte quelle che sono inerenti all'esercizio della carica); norme individuali e concrete (l'esempio più caratteristico è fornito dalle sentenze del giudice).
Classificazione delle norme giurìdiche
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49. NORME AFFERMATIVE E NEGATIVE
Un'altra distinzione tradizionale della logica classica, che p u ò essere applicata alle proposizioni prescrittive, è quella tra proposizion i affermative e negative. Partendo da una quEilsiasi proposizione se ne ottengono altre con il vario uso del segno nott. Sinora noi abbiamo parlato di proposizioni affermative. Se ora partiamo dalla proposizione affermativa universale ("Tutti gli uomini sono mortali"), otteniamo altre due proposizioni secondo che neghiamo universalmente ("Tutti gli uomini non sono mortali", o "Nessun uomo è mortale") oppure ci limitiamo a negare l'universalità ("Non tutti gli uomini sono mortali", ovvero "Alcuni uomini non sono mortali"). Se infine combiniamo le negazioni, cioè neghiamo insieme universalmente e neghiamo l'universalità, otteniamo una quarta proposizione ("Non tutti gli uomini non sono mortali" ovvero "Alcuni uomini sono mortali") Per indicare queste quattro proposizioni con termini facili da ricordare, usiamo i termini latini: omnis, nullus, non omnis, nonnullus. Quanto ai rapporti che intercorrono tra le quattro proposizioni, ci limitiamo a dire che la seconda (nullus) è la contraria della prima (omnis); la terza (non omnis) è la contraddittoria della prima; la quarta (nonnullus) è la contraddittoria della seconda. In altre parole: ogni proposizione ha la sua contraria (che è una opposizione più debole) e la sua contraddittoria (che è un'opposizione più forte). Designando con X la prima, con X non la seconda, con non X la terza, e con non X non la quarta, i rapporti reciproci tra le quattro proposizioni si ricavano dalla seguente figura: contrari
non X non
subcontrari
non X
' Per questo paragrafo mi valgo soprattutto del saggio di R. BIANCHE, Opposition et négation, in "Revue philosophique", 1955, pp. 187-217.
Teoria della norma giuridica
Classifìcazione delle nonne giuridiche
Due proposizioni si dicono contrarie quando non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false; si dicono contraddittorie quando non possono essere entrambe vere n é entrambe false; si dicono subcontrarie quando possono essere entrambe vere, ma non possono essere entrambe false; infine si dicono subalterne quando dalla verità della prima si p u ò dedurre la verità della seconda, ma dalla verità della seconda non si p u ò dedurre la verità della prima (e, viceversa, dalla verità della prima non si p u ò dedurre la verità della seconda, ma dalla falsità della seconda si p u ò dedurre la falsità della prima). Tra due contrari si dice che vi è rapporto di incompatibilità; tra due contraddittori, di alternativa; tra due subcontrari, di disgiunzione; tra i l subaltemante e i l subalternato, di implicazione. Per applicare quanto è stato detto alle proposizioni prescrittive, partiamo da una prescrizione affermativa universale ("Tutti devono fare X"). Col diverso uso del segno non otteniamo altri tre tipi di prescrizioni: la seconda, negando universalmente, col che abbiamo una prescrizione del tipo: "Nessuno deve fare X"; la terza negando l'universalità, col che otteniamo una prescrizione del tipo: "Non tutti devono fare X"; la quarta usando entrambe le negazioni, onde otteniamo: "Non tutti devono non fare X". I l secondo tipo di prescrizione non è manifestamente altro che la prescrizione negativa, o, come l'abbiamo altrimenti chiamato, l'imperativo negativo, cioè i l divieto. La terza proposizione è quella che, i n quanto esenta alcuni dal dover fare, permette a questi di non fare, e corrisponde perciò a quella norma che abbiamo chiamato (v. p. 153) permissiva negativa. La quarta, infine, è quella che, i n quanto esenta alcuni dal dovere di non fare, permette loro di fare, ed è quella che abbiamo chiamato permissiva positiva. Simboleggiando la prima proposizione con O (obbligatorio), le altre tre possono essere simboleggiate nell'ordine i n questo modo: O non (leggi: obbligatorio non fare, ovvero divieto); non O (leggi: non obbligatorio fare, cioè permesso negativo); non O non (leggi: non obbligatorio non fare, cioè permesso positivo).
vo); poi non P (leggi: non permesso di fare, ovvero divieto); infine non P non (leggi: non permesso di non fare, ovvero obbligo). Tra obbligo e permesso la differenza è di due negazioni; onde la tavola dell'equivalenza è la seguente: O = non P non (leggi: si deve fare equivale a non si p u ò non fare); O non = non P (leggi: si deve non fare equivale a non si p u ò fare); non O = P non (leggi; non è obbligatorio fare equivale a è permesso di non fare); non O non = P (leggi: non è obbligatorio non fare equivale a è permesso fare).
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S'intende che invece di partire dalla prescrizione affermativa, possiamo partire da qualsiasi altra proposizione, e col vario uso della negazione ottenere le altre tre. Proviamo a partire dalla norma permissiva positiva che simboleggiamo con P: otteniamo prima P non (leggi: permesso di non fare, ovvero permesso negati-
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Quanto ai rapporti che intercorrono tra questi quattro tipi di norme, essi corrispondono ai rapporti illustrati nel quadrato sopra riportato. A ulteriore chiarimento riproduciamo qui i l quadrato coi simboli delle proposizioni prescrittive: contrari
non 0 non
subcontrari
non 0
Da questo quadrato risulta che le prescrittive affermative e quelle negative, cioè i comandi e i divieti, sono contrari; le permissive affermative e quelle negative sono subcontrari; comandi e permessi negativi, divieti e permessi positivi sono tra loro contraddittori (come è stato illustrato nel par. 32)^.
5 0 . NORME CATEGORICHE E IPOTETICHE
Occorre fare menzione di una terza distinzione puramente formale, cioè fondata esclusivamente sulla forma del discorso: la d i ^ Riprenderemo questo argomento quando tratteremo delle antinomie nell'ordinamento giuridico.
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Teoria della nonna giuridica
Classificazione delle nonne giuridiche
stinzione tra norme categoriche e norme ipotetiche. Di questa distinzione abbiamo avuto occasione di occuparci i n precedenza (pam 23 e 30), e quindi ne trattiamo qui molto brevemente. Essa è esemplata sulla tradizionale distinzione dei giudizi i n apodittici ("Socrate è mortale") e ipotetici ("Se Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale"). "Norma categorica" è quella che stabilisce che una certa azione deve essere compiuta; "norma ipotetica" è quella che stabilisce che una certa azione deve essere compiuta se si verifica una certa condizione. A rigore, tutte le norme rafforzate da sanzioni possono essere formulate con proposizioni ipotetiche nel senso che si p u ò considerare l'accoglimento o i l rifiuto delle conseguenze imputate dalla norma sanzionatoria come una condizione per l'attuazione dell'obbligo imposto dalla norma primaria, secondo la formula: "Se non vuoi sottostare alla pena Y, devi compiere l'azione X". Siccome peraltro non è escluso che vi siano norme non sanzionate, bisogna ammettere l'esistenza di norme giuridiche categoriche, cioè di norme formulabili in forma apodittica, senza condizioni. È chiaro che le norme giuridiche a cui fa riferimento l'art. 154 c.p.p., già citato, secondo cui alcuni funzionari sono obbligati ad osservare le norme del codice anche quando l'inosservanza non importi alcuna sanzione, siano norme categoriche, cioè norme la cui obbedienza non è sottoposta ad alcuna condizione, per lo meno con riferimento al soggetto a cui essa è rivolta.
Annotiamo, ancora, a mo' di conclusione, per sgombrare il terreno da un possibile equivoco, che qui si è parlato di norme come proposizioni ipotetiche nel senso i n cui questa qualifica serve a distinguerle dalle norme categoriche. Non si è parlato, invece, di un altro senso i n cui spesso si parla delle norme giuridiche come di proposizioni ipotetiche, cioè nel senso di proposizioni prescrittive che stabiliscano un obbligo condizionato al verificarsi o al non verificarsi di un dato evento, secondo la formula: "Se è Y, deve essere X". Esempio: «Se la dote consiste i n beni di cui la moglie ha conservato la proprietà, i l marito o i suoi eredi sono tenuti a restituirla senza dilazione, sciolto che sia i l matrimonio» (art. 193 c e ) . Quando i giuristi parlano delle norme giuridiche come norme ipotetiche ne parlano soprattutto i n questo secondo senso. Se, i n questa accezione, si vuole introdurre una distinzione, non si tratterà più della distinzione tra norme categoriche e norme tecniche, ma piuttosto della distinzione tra obblighi semplici e obblighi condizionati.
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Quanto alle norme giuridiche ipotetiche, abbiamo già visto che esse possono essere di due tipi secondo che la sanzione consista nel non raggiungimento del fine desiderato oppure nel raggiungimento di un fine diverso da quello desiderato. Le norme del primo tipo, la cui formulazione è: "Se vuoi Y, devi X", si possono chiamare norme strumentali, per il fatto che l'azione da esse prescritta è assunta come un mezzo per raggiungere uno scopo. Le norme del secondo tipo, la cui formulazione è: "Se non vuoi Y, devi X", si possono chiamare norme finali, perché prescrivono azioni che hanno valore di fine. Se ora combiniamo questa distinzione tra norme stmmentali e finali con quella esaminata nel paragrafo precedente, tra norme affermative e positive, otteniamo quattro tipi di norme ipotetiche: 1) "Se vuoi Y, devi X"; 2) "Se vuoi Y, non devi X"; 3) "Se non vuoi Y, devi X"; 4) "Se non vuoi Y, non devi X".
PARTE SECONDA
TEORIA DELL'ORDINAMENTO
GIURIDICO
CAPITOLO I
DALLA NORMA GIURIDICA ALL'ORDINAMENTO GIURIDICO
Novità del problema dell'ordinamento. - 2. Ordinamento giuridico e definizioni del diritto. - 3. La nostra definizione del diritto. - 4. Pluralità di norme. - 5. I problemi dell'ordinamento giuridico. SOMMARIO: I .
1. NOVITÀ DEL PROBLEMA DELL'ORDINAMENTO
Questo corso si ricollega direttamente a quello precedente, intitolato Teoria della norma giuridica, e ne costituisce la continuazione. L'uno e l'altro insieme formano una completa Teoria del dirìtto, sotto l'aspetto principalmente formale. Nel primo, corso abbiamo studiato la norma giuridica, isolatamente considerata; i n questo nuovo corso studieremo quell'insieme o complesso o sistema di norme che costituisce un ordinamento giuridico. L'esigenza della nuova ricerca nasce dal fatto che nella realtà le norme giuridiche non esistono mai da sole, ma sempre i n un contesto di norme, che hanno particolari rapporti tra loro (e questi rapporti saranno i n gran parte l'oggetto della nostra trattazione). Questo contesto di norme si suole chiamare "ordinamento". E sarà bene osservare sin dal principio che la parola "diritto", tra i suoi molti significati, ha anche quello di "ordinamento giuridico", per esempio, nelle espressioni "diritto romano", "diritto italiano", "diritto canonico", ecc. Per quanto la constatazione che le regole giuridiche costituiscono sempre una totalità sia ovvia, e la parola "diritto" venga
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usata indifferentemente tanto per indicare la singola n ó r m a giuridica quanto un determinato complesso di norme giuridiche, pure lo studio approfondito dell'ordinamento giuridico è relativamente recente, assai più recente d i quello, del resto ben più antico, delle singole norme. Mentre esistono molti studi particolari sulla natura della norma giuridica, non esiste, sino ad oggi, se non andiamo errati, neppure una trattazione completa e organica sopra tutti i problemi che l'esistenza d i un ordinamento giuridico solleva. I n altri termini si p u ò dire che i problemi generali del diritto sono stati tradizionalmente studiati dal punto di vista della norma giuridica, considerata come un tutto a se stante, piuttosto che da quello della norma giuridica considerata come la parte di un tutto più vasto che la comprende. Nel dir questo vogliamo anche richiamar l'attenzione sulla difficoltà della sistemazione di una materia che non ha dietro di sé una sicura tradizione, e quindi sul carattere sperimentale di questo corso. Una rapida scorsa alla storia del pensiero giuridico negli u l t i m i secoli ci d à una conferma di quello che abbiamo sinora affermato: dal famoso trattato De legibus ac Deo legislatore d i Francesco Suarez (1612) ai trattati più recenti del Thon e del Binding, di cui abbiamo parlato nel corso precedente, risulta chiaro sin dai titoli che l'oggetto principale della trattazione, i l vero e proprio elemento primo della realtà giuridica, è la norma di per se stessa considerata. Con questo non si vuol dire che mancasse i n quelle opere la trattazione d i alcuni problemi caratteristici d i una teoria dell'ordinamento giuridico: ma questi problemi erano frammisti agli altri, e non erano stati considerati come meritevoli di una trattazione separata e particolare. Ripetiamo, la norma giuridica era l'unica prospettiva attraverso la quale i l diritto veniva studiato: l'ordinamento giuridico era tutt'al più un insieme di tante norme, ma non un oggetto autonomo di studio, coi suoi problemi particolari e diversi. Per esprimerci con una metafora si era considerato l'albero, ma non la foresta. Credo che i primi a richiamar l'attenzione sulla realtà dell'ordinamento giuridico siano stati i teorici dell'istituzione, di cui abbiamo parlato nel corso precedente. Non a caso i l libro, meritatamente famoso, di Santi Romano è intitolato L'ordinamento
\ norma giuridica all'ordinamento giurìdico
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giuridico (1917). Ciò che noi abbiamo rimproverato alla teoria dell'istituzione è di essersi presentata i n polemica contro la teoria normativa, cioè come teoria destinata a soppiantare la teoria precedente, mentre, secondo quel che abbiamo già osservato, essa ne è l'integrazione e quindi la continuazione. Riteniamo opportuno riprodurre qui le parole con cui abbiamo concluso nel corso precedente l'esame della teoria dell'istituzione: «Secondo noi, la teoria dell'istituzione ha avuto i l grande merito ... di mettere i n rilievo i l fatto che si p u ò parlare di diritto soltanto dove vi sia un complesso di norme formanti un ordinamento, e che pertanto i l diritto non è norma, ma insieme coordinato di norme, i n definitiva che una norma giuridica non si trova mai sola, ma è legata ad altre norme con le quali forma un sistema normativo». L'isolamento dei problemi dell'ordinamento giuridico da quelli della norma giuridica, e la trattazione autonoma dei primi come una parte di una teoria generale del diritto, è stata opera soprattutto di Hans Kelsen. Tra i meriti del Kelsen, per i quali è giusto sia considerato come uno dei più autorevoli giuristi contemporanei, vi è certamente anche quello di aver avuto piena consapevolezza dell'importanza dei problemi connessi all'esistenza dell'ordinamento giuridico, e di avervi dedicato particolare attenzione. Si prenda l'opera sua più completa e conclusiva, la Teoria generale del diritto e dello stato (trad. it., ediz. di Comunità, Milano, 1952), e si vedrà che la trattazione della teoria del diritto (qui prescindiamo dalla teoria dello stato) è divisa i n due parti, chiamate rispettivamente Nomostatica e Nomodinamica: la prima considera i problemi relativi alla norma giuridica, la seconda quelli relativi all'ordinamento giuridico. Ritengo che l'espressione "nomodinamica" non sia molto felice; ma, lasciando da parte la questione di parole, ciò che importa è che per la prima volta, forse, nel sistema del Kelsen la teoria dell'ordinamento giuridico costituisce una delle due parti di una completa teoria del diritto. Non ho bisogno di aggiungere che i l mio corso si riallaccia direttamente all'opera del Kelsen, di cui costituisce ora un commento ora uno sviluppo.
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Dalla norma giuridica all'ordinamento giuridico
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\ 2. ORDINAMENTO GIURIDICO E DEFINIZIONI DEL DIRITTO
Abbiamo detto che la teoria dell'ordinamento giuridico costituisce una integrazione della teoria della norma giuridica. Qui dobbiamo subito precisare che a questa integrazione siamo stati condotti necessariamente dai risultati cui siamo giunti nella r i cerca di una definizione del diritto, compiuta nel corso precedente. Per riassumere brevemente quei risultati, diciamo che non ci è stato possibile dare una definizione del diritto ponendoci dal punto di vista della norma giuridica, considerata isolatamente; ma abbiamo dovuto allargare i l nostro orizzonte alla considerazione del modo con cui una determinata norma è resa efficace da una complessa organizzazione che determina la natura e l'entità delle sanzioni, le persone che devono esercitarle, e la loro esecuzione. Questa complessa organizzazione è i l prodotto di un ordinamento giuridico. Ciò significa allora che una soddisfacente definizione del diritto è possibile solo se ci si pone dal punto di vista dell'ordinamento giuridico. Ripensiamo per un momento ai vari tentativi che sono stati fatti per definire i l diritto attraverso questo o quell'elemento della norma giuridica. Tutti questi tentativi hanno dato luogo a serie difficoltà. I criteri che sono stati di volta i n volta adottati per trovare una definizione del diritto prendendo come base la norma giuridica, o sono stati tali che da essi non si è potuto trarre alcun elemento caratteristico di codesta norma rispetto ad altre categorie di norme, come le norme morali o sociali, e quindi conducevano i n un vicolo cieco, oppure rimandavano a quel fenomeno più complesso dell'organizzazione di un sistema di regole di condotta, i n cui consiste appunto l'ordinamento giuridico, e quindi conducevano, sì, i n una strada aperta, ma era la strada che aveva per sbocco i l riconoscimento della rilevanza dell'ordinamento per la comprensione del fenomeno giuridico. Nell'insieme dei tentativi compiuti per caratterizzare i l diritto attraverso qualche elemento della norma giuridica, consideriamo soprattutto quattro criteri: 1) criterio formale; 2) criterio materiale; 3) criterio del soggetto che pone la norma; 4) criterio del soggetto cui la norma è destinata.
1. Per criterio formale intendiamo quel criterio per cui si r i tiene di poter definire ciò che è diritto attraverso qualche elemento strutturale delle norme che si sogliono chiamare giuridiche. Abbiamo visto che, riguardo alla struttura, le norme possono distinguersi in: a) positive o negative; b) categoriche o ipotetiche; c) generali (astratte) o individuali (concrete). Ebbene, la prima e la terza distinzione non offrono alcun elemento caratterizzante i l diritto perché i n qualunque sistema giuridico troviamo tanto norme positive che negative, tanto norme generali (astratte) che individuali (concrete). Quanto alla seconda distinzione, concediamo pure che in un sistema normativo vi siano soltanto norme ipotetiche, le quali possono assumere queste due forme: a) se vuoi A, devi B, secondo la teoria della norma tecnica (Ravà), o delle regole finali (Brunetti); b) se è A, deve essere B, dove, secondo alcuni, A è i l fatto giuridico e B la conseguenza giuridica (teoria del diritto come valutazione o giudizio di qualificazione), e secondo altri A è l'illecito e B la sanzione (teoria della norma come giudizio ipotetico del Kelsen). I n nessuna di queste due formulazioni, la norma giuridica assume una forma caratterizzante: la prima formulazione è propria di qualsiasi norma tecnica ("se vuoi comprare i francobolli, devi andare dal tabaccaio"); la seconda formulazione è caratteristica di qualsiasi norma condizionata ("se piove, devi prendere l'ombrello"). 2. Per criterio materiale intendiamo quel criterio che si vorrebbe trarre dal contenuto delle norme giuridiche, cioè dalle azioni regolate. Questo criterio è manifestamente inconcludente. Oggetto d i regolamentazione da parte delle norme giuridiche sono tutte le azioni possibili dell'uomo: e intendiamo per "azioni possibili" quelle che non sono né necessarie né impossibili. Va da sé che una norma la quale comandasse un'azione necessaria o proibisse un'azione impossibile sarebbe inutile; d'altra parte una
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norma che proibisse un'azione necessaria o comandasse un'azione impossibile sarebbe ineseguibile. Ma una volta escluse le azioni necessarie, cioè quelle azioni che l'uomo compie per necessità naturale, e quindi indipendentemente dalla sua volontà, e le azioni impossibili, cioè quelle azioni che l'uomo non è i n grado di compiere, nonostante ogni sforzo della sua volontà, i l campo delle azioni possibili è vastissimo, ed è comune alle regole giuridiche come a tutte le altre regole di condotta. Sono stati fatti, è vero, tentativi d i separare nel vasto campo delle azioni possibili un campo di azioni riservate al diritto. I due principali tentativi si r i chiamano ora all'una ora all'altra di queste due distinzioni:
Dalla norma giurìdica all'ordinamento giurìdico
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a) azioni inteme e azioni esterne; b) azioni soggettive e azioni intersoggettive. A parte i l fatto che la categoria delle azioni esteme e quella delle azioni intersoggettive sono estremamente generiche, è abbastanza chiaro che entrambe le distinzioni possono servire per distinguere i l diritto dalla morale, ma non anche dalle regole del costume che si riferiscono sempre ad azioni esteme e spesso ad azioni intersoggettive. 3. Parlando del criterio del soggetto che pone la norma intendiamo riferirci alla teoria che considera giuridiche quelle norme che sono poste dal potere sovrano, dove s'intende per "potere sovrano" i l potere al di sopra del quale non esiste, i n quel determinato gmppo sociale, alcun potere superiore, e che, come tale, detiene i l monopolio della forza. Di fronte a questa teoria non possiamo più dire, come per le due precedenti, che è inconcludente. Che i l diritto sia quell'insieme di regole che son fatte valere anche con la forza, sia cioè un ordinamento normativo a efficacia rafforzata, è la conclusione cui abbiamo creduto di poter giungere nel corso precedente. Qra colui che è i n grado di esercitare la forza per rendere efficaci le norme è per l'appunto i l potere sovrano che detiene i l monopolio dell'esercizio della forza. Dunque teoria del diritto come regola coattiva e teoria del diritto come emanazione del potere sovrano convergono. Ciò che questa teoria della sovranità ci invita ad osservare è piuttosto che, una volta arrivati a definire i l diritto attraverso i l potere sovrano, si è già fatto i l salto dalla norma singola all'ordì-
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namento nel suo complesso. Con l'espressione molto generica "potere sovrano" ci si riferisce a quell'insieme di organi attraverso i quali un ordinamento normativo viene posto, conservato, fatto applicare. E quali siano questi organi è lo stesso ordinamento a stabilirlo. Se è vero che ciò che è un ordinamento giuridico viene definito attraverso la sovranità, è anche vero che ciò che è sovranità i n una determinata società viene definito attraverso l'ordinamento giuridico. Potere sovrano e ordinamento giuridico sono due concetti che si riferiscono l'uno all'altro. E pertanto, quando i l diritto viene definito attraverso i l concetto di sovranità, ciò che viene i n primo piano non è la norma singola ma l'ordinamento; i l dire che norma giuridica è quella emanata dal potere sovrano, equivale a dire che norma giuridica è quella che fa parte di un determinato ordinamento. La sovranità caratterizza non una norma, ma un ordinamento. 4. I l criterio del soggetto a cui la norma è destinata p u ò presentare due varianti, secondo che si consideri come destinatario il suddito o i l giudice (si veda, nel corso precedente, i l par. 30 / destinatari della norma giuridica). Vediamole separatamente. L'affermazione pura e semplice che la norma giuridica è quella diretta ai sudditi è inconcludente per la sua genericità. Di solito viene specificata con la determinazione dell'atteggiamento con i l quale i sudditi la ricevono: e si dice che giuridica è quella norma che viene seguita con la convinzione o credenza della sua obbligatorietà (opinio iuris ac necessitatis), come già si è accennato nel corso precedente. Questa opinio iuris ac necessitatis è un ente piuttosto misterioso. Che cosa significa? L'unico modo per darle un significato è questo: seguire una norma con la convinzione della sua obbligatorietà vuol dire seguirla con la convinzione che se la si violasse, si andrebbe incontro all'intervento del potere giudiziario e molto probabilmente all'applicazione di una sanzione. I l sentimento dell'obbligatorietà è i n ultima istanza i l sentimento che quella norma singola fa parte di un organismo più complesso e dall'appartenenza a questo organismo trae i l suo carattere specifico. Anche i n questo caso, dunque, la nozione cui si ricorre per definire la giuridicità di una norma, trova la sua naturale spiegazione quando si cerchi di vedere attraverso la norma l'ordinamento che la comprende.
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Teorìa dell'ordinamento giurìdico
Dalla norma giurìdica all'ordinamento giuridico
La seconda variante del criterio del destinatario è quella per cui le norme giuridiche sono norme rivolte al giudice. È chiaro che una definizione di questo genere significa qualche cosa solo se si definisce la nozione di giudice. Chi è i l giudice? Che cosa s'intende per giudice? Ma una definizione di giudice non si p u ò dare se non allargando lo sguardo a tutto l'ordinamento. Si dirà che i l giudice è colui cui una norma dell'ordinamento attribuisce il potere e i l dovere d i stabilire chi ha ragione e chi ha torto e di rendere i n tal modo possibile l'esecuzione d i una sanzione. Ma così, ancora una volta, siamo rinviati dalla norma singola al sistema normativo. E ci accorgiamo, ancora una volta, che non appena cerchiamo di render concludente una definizione del diritto riferita alla norma siamo costretti a lasciare la norma e ad abbracciare l'ordinamento.
Per maggiore chiarezza possiamo anche esprimerci i n questo modo: ciò che noi chiamiamo di solito diritto è un carattere di certi ordinamenti normativi più che di certe norme. Se accettiamo questa tesi, i l problema della definizione del diritto diventa u n problema di definizione di un ordinamento normativo e di conseguente distinzione fra questo tipo di ordinamento normativo e un altro, non già un problema di definizione di un tipo d i norme. I n questo caso, per definire la norma giuridica basterà dire che norma giuridica è quella che appartiene a un ordinamento giuridico, rinviando manifestamente i l problema d i determinare che cosa significa "giuridico" dalla norma all'ordinamento. Con questo rinvio si dimostra che la difficoltà di trovare una risposta alla domanda: "Che cosa s'intende per norma giuridica?", si r i solve spostando i l piano della ricerca, cioè ponendo una nuova domanda: "Che cosa si intende per ordinamento giuridico?". Se, come sembra, solo a questa seconda domanda si riesce a dare una risposta sensata, ciò vuol dire che i l problema della definizione del diritto trova la sua sede appropriata nella teoria dell'ordinamento e non nella teoria della norma. I l che è un argomento a favore dell'importanza, sin dall'inizio annunziata, della teoria dell'ordinamento, cui questo nuovo corso si riferisce. Solo i n una teoria dell'ordinamento - questo è i l punto cui ci premeva arrivare - i l fenomeno giuridico trova la sua adeguata spiegazione.
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3, LA NOSTRA DEFINIZIONE DEL DIRITTO
Ed ora ritorniamo alla definizione di diritto cui siamo giunti nel corso precedente. Là abbiamo determinato la norma giuridica attraverso la sanzione, e la sanzione giuridica attraverso i caratteri deìVesteriorità e dell'istituzionalizzazione, onde la definizione di norma giuridica come quella norma «la cui esecuzione è garantita da una sanzione esterna e istituzionalizzata». Questa definizione è una conferma di quanto abbiamo sottolineato nei primi due paragrafi, cioè della necessità, i n cui si trova il teorico generale del diritto, a un certo punto della ricerca, di lasciare la norma singola per l'ordinamento. Se sanzione giuridica è solo quella istituzionalizzata, è segno che, affinché ci sia diritto, occone che ci sia, grande o piccola, un'organizzazione, cioè un completo sistema normativo. Definire i l diritto attraverso la nozione d i sanzione organizzata significa cercare i l carattere disfintivo del diritto non i n un elemento della norma ma in un complesso organico di norme. I n altri termini si potrebbe dire che la ricerca da noi compiuta nella Teoria della norma giuridica è una riprova del cammino obbligato che il teorico generale del diritto compie dalla parte al tutto, cioè del fatto che, pur partendo dalla norma, si arriva, se si vuole intendere i l fenomeno del diritto, all'ordinamento.
Già nel corso precedente ci siamo trovati di fronte al fenomeno di norme senza sanzione. Partendo dalla considerazione della norma giuridica avremmo dovuto rispondere che, se la sanzione è carattere essenziale delle norme giuridiche, norme senza sanzione non sono norme giuridiche. Abbiamo creduto, invece, di dover rispondere che «quando si parla di una sanzione organizzata come elemento costitutivo del diritto ci si riferisce non alle norme singole ma all'ordinametito normativo preso nel suo complesso, ragion per cui i l dire che la sanzione organizzata contraddistingue l'ordinamento giuridico da ogni altro tipo di ordinamento, non implica che tutte le norme di quel sistema siano sanzionate, ma soltanto che lo siano la maggior parte» (p. 135). Questa nostra risposta mostra i n concreto che un problema mal risolubile sul piano della singola norma trova una più soddisfacente soluzione sul piano dell'ordinamento.
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Lo S t e s s o si dica del problema dell'efficacia. Se noi consideriamo l'efficacia come un carattere delle norme giuridiche, ci troviamo a un certo punto di fronte alla necessità di negare i l carattere di norma giuridica a norme che appartengono al sistema normativo dato (in quanto sono state legittimamente prodotte) e quindi sono valide, ma non sono efficaci perché non sono mai state applicate (com'è i l caso di molte norme della nostra costituzione). La difficoltà viene risolta, anche i n questo caso, spostando la visuale dalla singola norma all'ordinamento considerato nel suo complesso, ed affermando che l'efficacia è un carattere costitutivo del diritto, solo se con l'espressione "diritto" intendiamo riferirci non alla singola norma ma all'ordinamento. II problema della validità e dell'efficacia che d à luogo a difficoltà i n sormontabili sino a che si considera una norma del sistema (la quale p u ò essere valida senza essere efficace), si appiana se ci r i feriamo all'ordinamento giuridico, nel quale l'efficacia è i l fondamento stesso della validità. Un altro problema che sul piano della norma giuridica ha dato luogo a infinite e sterili controversie è quello del diritto consuetudinario. Com'è noto, i l principale problema di una teoria della consuetudine è di determinare i n che cosa una norma consuetudinaria giuridica si distingua da una norma consuetudinaria non giuridica, i n altre parole attraverso quale processo una semplice norma del costume diventi una norma giuridica. Questo problema è insolubile forse perché è mal posto. Se è vero, come abbiamo cercato di mostrare sin qua, che ciò che noi d i solito chiamiamo diritto è un fenomeno molto complesso che ha come punto di riferimento un intero sistema normativo, è vano cercare l'elemento distintivo di una consuetudine giuridica rispetto alla regola del costume nella singola norma consuetudinaria. Si dovrà rispondere piuttosto che una norma consuetudinaria diventa giuridica quando viene a far parte di un ordinamento giuridico. Ma i n questo modo il problema non è più quello tradizionale della teoria della consuetudine: «Qual'è i l carattere distintivo d i una norma giuridica consuetudinaria rispetto a una regola del costume?»; ma quest'altro: «Quali sono i procedimenti attraverso i quali una norma consuetudinaria viene a far parte di un ordinamento giuridico?». Concludendo, questa posizione preminente che qui vien da-
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ta all'ordinamento giuridico conduce ad un rovesciamento d i prospettiva nella trattazione di alcuni problemi della teoria generale del diritto. Questo rovesciamento si p u ò esprimere sinteticamente così: mentre per la teoria tradizionale un ordinamento giuridico si compone d i norme giuridiche, per la nuova prospettiva norme giuridiche sono quelle che vengono a far parte di un ordinamento giuridico. I n altri termini: non v i sono ordinamenti giuridici perché esistono norme giuridiche distinte da norme non giuridiche; ma esistono norme giuridiche perché esistono ordinamenti giuridici distinti da ordinamenti non giuridici. I l termine "diritto", nella più comune accezione di d i ritto oggettivo, indica un tipo di sistema normativo, non un t i po di norma.
4. PLURALITÀ DI NORME
Chiarito che l'espressione "diritto" si riferisce ad un dato tipo di ordinamento, ci tocca ora approfondire i l concetto di ordinamento. Tanto per cominciare partiamo da una definizione molto generale di ordinamento, che andremo via via specificando: l'ordinamento giuridico (come ogni altro sistema normativo) è un insieme di norme. Questa definizione generale di ordinamento presuppone una sola condizione: che alla costituzione di un ordinamento concorrano più norme (almeno due), e che non esista ordinamento composto da una norma sola. Possiamo immaginare un ordinamento composto da una norma sola? Penso che l'esistenza di un tale ordinamento debba essere esclusa. Siccome una regola della condotta p u ò riferirsi a tutte le azioni possibili dell'uomo, e la regolamentazione consiste nel qualificare un'azione con una delle tre modalità normative (o deontiche) dell'obbligatorio, del proibito e del permesso, per concepire un ordinamento composto da una norma sola, bisognerebbe immaginare una norma che si riferisse a tutte le azioni possibili e le qualificasse con una sola modalità. Poste queste condizioni, non vi sono che tre possibilità di concepire un ordinamento composto da una norma sola:
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1. Ttitto è permesso: ma una norma di questo genere è la negazione di un qualsiasi ordinamento giuridico, o, se si vuole, la definizione dello stato di natura che è la negazione d i ogni ordinamento civile; 2. Tutto è proibito: una norma di questo genere renderebbe i m possibile qualsiasi vita sociale umana, la quale comincia dal momento i n cui l'uomo, oltre alle azioni necessarie, è i n grado e in condizione di compiere alcune tra le azioni possibili; una norma siffatta, equiparando le azioni possibili a quelle impossibili, non lascerebbe sussistere che le azioni necessarie, cioè le azioni meramente naturali; 3. Tutto è comandato: anche una norma siffatta rende impossibile la vita sociale, perché le azioni possibili sono i n conflitto tra loro, e comandare due azioni i n conflitto vuol dire rendere o l'una o l'altra o tutte e due ineseguibili. Mentre è inconcepibile un ordinamento che regoli tutte le azioni possibili con una sola modalità normativa, o, con altre parole, abbracci tutte le azioni possibili con un unico giudizio di qualificazione, è concepibile un ordinamento che comandi (o vieti) una sola azione. Si tratta di un ordinamento molto semplice che considera come condizione di appartenenza a quel determinato gruppo o associazione l'adempimento di un solo obbligo (per esempio, un club di nudisti, oppure una associazione di beoni che stabilisse come unico obbligo quello di bere soltanto vino, e così via). Ma un ordinamento siffatto si p u ò considerare come un ordinamento composto di una norma sola? Direi di no. Vedremo più i n nanzi che ogni norma particolare che regola (comandandola o proibendola) un'azione implica una norma generale esclusiva, cioè una norma che sottrae a quella particolare regolamentazione tutte le altre azioni possibili. La norma che prescrive di bere soltanto vino implica la norma che permette di fare qualsiasi altra cosa diversa dal bere vino. Volendo dire la stessa cosa con una formula, potremo dire: "x è obbligatorio", implica "non x è permesso". Ma così si vede che le norme i n realtà sono due, quella particolare e quella generale esclusiva, anche se quella espressamente formulata è una sola. I n questo senso si p u ò dire che anche l'ordinamento più semplice, quello che consiste i n una sola prescrizione di un'azione particolare, è composto almeno di due
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norme. Sarà bene aggiungere poi che un ordinamento giuridico non è mai un ordinamento così semplice. Per concepire un ordinamento giuridico ridotto ad una sola norma particolare, bisognerebbe elevare a norma particolare i l comando: neminem laedere. Penso che soltanto i l comando di non recar danno ad altri potrebbe essere concepito come quello cui possa essere ridotto un ordinamento giuridico con una sola norma particolare. Ma, anche così semplificato, un ordinamento giuridico comprende non una, ma due norme: quella che prescrive di non recar danno agli altri, e quella che autorizza a compiere tutto ciò che non reca danno ad altri. Sin qui, parlando delle norme che compongono un ordinamento, ci siamo riferiti a nonne di condotta. I n ogni ordinamento, accanto alle norme di condotta, vi è u n altro tipo di norme, che si sogliono chiamare norme di struttura o di competenza. Sono quelle norme le quali non prescrivono la condotta che si deve tenere o non tenere, ma prescrivono le condizioni e i procedimenti attraverso i quali vengono emanate norme di condotta valide. Una norma che prescrive di tenere la destra è una norma di condotta; una norma la quale stabilisce che due persone sono autorizzate a regolare i propri interessi in un certo ambito mediante norme vincolanti e coattive, è una norma di stiiittura, i n quanto non determina una condotta, ma fissa le condizioni e i procedimenti per produrre valide norme di condotta. Abbiamo visto sinora che non è concepibile un ordinamento composto di una sola norma di condotta. Ci domandiamo: è concepibile un ordinamento composto di una sola norma di struttura? Un ordinamento di questo tipo è concepibile. Generalmente si considera tale l'ordinamento di una monarchia assoluta, i n cui sembra si possa risolvere ogni norma nella seguente: "È obbligatorio tutto ciò che il sovrano comanda". Peraltro, che un tale ordinamento abbia una sola norma di struttura, non implica che abbia anche una sola norma di condotta. Le norme di condotta sono tante quanti sono, i n un momento dato, i comandi del sovrano. I l fatto di avere quella sola norma di struttura ha per conseguenza l'estrema variabilità delle norme di condotta nel tempo, non già l'esclusione della loro pluralità in un determinato tempo.
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5. I PROBLEMI DELL'ORDINAMENTO GIURIDICO
Se un ordinamento giuridico è composto di più norme, da ciò viene che i principah problemi connessi con l'esistenza di un ordinamento sono i problemi che nascono dalle relazioni delle diverse norme tra loro. I n primo luogo si tratta d i sapere se queste norme costituiscono un'unità, e i n che modo la costituiscono. I l problema fondamentale che deve essere discusso a questo proposito è quello della gerarchia delle norme. Alla teoria dell'unità dell'ordinamento giuridico è dedicato i l secondo capitolo. I n secondo luogo si tratta di sapere se l'ordinamento giuridico costituisca, oltre un'unità, anche un sistema. I l problema fondamentale che viene i n discussione a questo proposito è quello delle antinomie giuridiche. Alla teoria del sistema giuridico sarà dedicato i l terzo capitolo. Ogni ordinamento giuridico, unitario e tendenzialmente (se non effettivamente) sistematico, pretende anche di essere cotnpleto. I l problema fondamentale che qui è i n discussione, è quello delle cosiddette lacune del diritto. Alla teoria della completezza dell'ordinamento giuridico sarà dedicato i l quarto capitolo. Infine, non esiste tra gli uomini un solo ordinamento, ma ne esistono molti e di diverso tipo. Hanno rapporti tra loro i vari ordinamenti e di qual genere sono questi rapporti? Il problema fondamentale che qui dovrà essere esaminato è quello del rinvio da u n ordinamento all'altro. Alla teoria dei rapporti tra ordinamenti sarà dedicato i l quinto ed ultimo capitolo. Non pretendiamo di esaurire i n questo modo tutti i problemi che nascono dalla considerazione dell'ordinamento giuridico. Crediamo però che questi siano i problemi principali, la trattazione dei quali possa permettere di tracciare le linee generali di una teoria dell'ordinamento giuridico, destinata a continuare e a integrare, come abbiamo detto subito all'inizio di questo primo capitolo, la teoria della norma giuridica.
CAPITOLO I I
L'UNITÀ D E L L ' O R D I N A M E N T O G I U R I D I C O
S O M M A R I O : 6. Fonti riconosciute e fonti delegate. - 7. Tipi di fonti e formazione storica dell'ordinamento. - 8. Le fonti del diritto. - 9. Costruzione a gradi dell'ordinamento. - 10. Limiti materiali e limiti formali. - l i . L a norma fondamentale. - 12. Diritto e forza.
6. FONTI RICONOSCIUTE E FONTI DELEGATE
L'ipotesi di un ordinamento a una o due norme, fatta nel capitolo precedente, è puramente accademica. Nella realtà gli ordinamenti sono composti di una miriade di norme, che, come le stelle i n cielo, nessuno è mai riuscito a contare. Quante sono le norme che compongono l'ordinamento giuridico italiano? Nessuno lo sa. I giuristi si lamentano che sono troppe; ma intanto se ne creano sempre delle nuove, e non si p u ò fare a meno di crearle per soddisfare tutti i bisogni della sempre più varia e intricata vita sociale. La difficoltà di rintracciare tutte le norme costituenti un ordinamento dipende dal fatto che generalmente queste norme non derivano da una fonte sola. Possiamo distinguere gli ordinamenti giuridici i n semplici e complessi, secondoché le norme che li compongono siano derivate da una fonte sola o da più fonti. Gli ordinamenti giuridici che costituiscono la nostra esperienza di storici e di giuristi, sono complessi. L'immagine di un ordinamento composto da due soli personaggi, i l legislatore, che pone le norme, e i sudditi che le ricevono, è puramente scolastica. I l legisla-
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tore è un personaggio immaginario, che nasconde una realtà più complicata. Anche un ordinamento ristretto, poco istituzionalizzato, comprendente un gruppo sociale di pochi membri, come la famiglia, è generalmente un ordinamento complesso: non sempre l'unica fonte delle regole di condotta degli appartenenti al gruppo è l'autorità patema; talora i l padre accoglie regole già formulate dagli antenati, dalla tradizione familiare, oppure per rinvio ad altri gmppi familiari; talora delega una parte (maggiore o m i nore secondo le varie civiltà) del potere normativo alla moglie, o al figlio maggiore. Neppure i n una concezione teologica dell'universo, le leggi che regolano i l cosmo sono derivate tutte da Dio, cioè sono leggi divine; i n alcuni casi Dio ha delegato gli uomini a produrre leggi per regolare la loro condotta, o attraverso i l dettame della ragione (diritto naturale) o attraverso la volontà dei superiori (diritto positivo). La complessità di un ordinamento giuridico deriva dal fatto che i l fabbisogno di regole d i condotta i n una qualsiasi società è tanto grande che non vi è nessun potere (o organo) i n grado di soddisfai^vi da solo. Per venir incontro a questa esigenza, il potere supremo ricorre di solito a due espedienti: 1. la recezione di norme già esistenti, prodotte da ordinamenti diversi e precedenti; 2. la delegazione del potere di produrre norme giuridiche a poteri o organi inferiori. Per queste ragioni, in ogni ordinamento, accanto alla fonte diretta abbiamo fonti indirette, che si possono distinguere i n queste due classi: fonti riconosciute e fonti delegate. La complessità d i un ordinamento giuridico deriva dunque dalla molteplicità delle fonti da cui affluiscono regole di condotta, i n ultima analisi dal fatto che queste regole sono di diversa provenienza, e giungono ad esistenza (cioè acquistano validità) partendo dai punti più lontani. Tipico esempio di recezione, e quindi di fonte riconosciuta, è la consuetudine negli ordinamenti statuali moderni, ove fonte diretta e superiore è la legge. Quando i l legislatore rinvia espressamente alla consuetudine i n una particolare situazione oppure rinvia, espressamente o tacitamente, alla consuetudine nelle mate-
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rie non regolate dalla legge (è i l caso della cosiddetta consuetudo praeter legem), esso accoglie norme già esistenti, e arricchisce l'ordinamento giuridico i n blocco di un insieme, che p u ò essere anche copioso, di norme prodotte i n altri ordinamenti, e magari i n tempi precedenti alla stessa costituzione dell'ordinamento statuale. Naturalmente si p u ò anche concepire i l richiamo alla consuetudine come una autorizzazione ai cittadini a produrre norme giuridiche attraverso i l loro comportamento uniforme, cioè considerare anche la consuetudine tra le fonti delegate, attribuendo agli utenti la qualifica di organi statali autorizzati a produrre norme giuridiche col loro comportamento uniforme. Ma è una costmzione, questa, per quanto ingegnosa, artificiosa, che non tiene conto di una differenza: nella recezione l'ordinamento giuridico accoglie un prodotto già fatto; nella delegazione, lo fa fare, ordinando una produzione futura. La consuetudine assomiglia di più ad un prodotto naturale, mentre i l regolamento, i l decreto amministrativo, la sentenza del magistrato assomigliano di più a un prodotto artificiale. Si parla di potere regolamentare, di potere negoziale per indicare i l potere normativo attribuito agli organi esecutivi o ai privati. Sembrerebbe, invece, inappropriato parlare di un potere di produrre norme consuetudinarie, perché, tra l'altro, non si saprebbe neppure a chi precisamente attribuirlo. Tipico esempio di fonte delegata è i l regolamento rispetto alla legge. I regolamenti sono, come le leggi, norme generali ed astratte; ma, a differenza delle leggi, la loro produzione è affidata di solito al potere esecutivo per delega del potere legislativo, e una delle loro funzioni è quella di integrare leggi troppo generiche, che contengono solo direttive di massima e non potrebbero essere applicate senza essere ulteriormente specificate. È impossibile che il potere legislativo emani tutte le norme necessarie a regolare la vita sociale: allora si limita a emanare norme generiche, che contengono solo direttive, e affida agli organi esecutivi, che sono molto più numerosi, l'incarico di renderle eseguibili. Lo stesso rapporto esiste tra norme costituzionali e leggi ordinarie, le quali possono essere talora considerate come i regolamenti esecutivi delle direttive di massima contenute nella costituzione. Via via che si sale nella gerarchia delle fonti, le norme diventano sempre meno numerose e più generiche; scendendo, invece, le norme diventano sempre più numerose e più specifiche. 8. - N . BOBBIO: Teoria generale del diritto
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Altra fonte copiosissima di norme i n un ordinamento giuridico è i l potere attribuito ai privati di regolare mediante atti volontari i propri interessi: si tratta del cosiddetto potere negoziale. L'appartenenza di questa fonte alla classe delle fonti riconosciute o a quella delle fonti delegate è meno netta. Se si mette l'accento sull'autonomia privata, intesa come capacità dei privati di dar norme a se stessi i n una certa sfera di interessi, e si considerano i privati come costituenti un ordinamento giuridico minore assorbito dall'ordinamento statuale, questa vasta fonte di norme giuridiche viene concepita piuttosto come produttrice indipendente d i regole di condotta, che vengono recepite dallo stato. Se invece si mette l'accento sul potere negoziale come potere delegato dallo stato ai privati per regolare i propri interessi i n un campo estraneo all'interesse pubblico, la stessa fonte appare come una fonte delegata. Si tratta i n altre parole di decidere se l'autonomia privata debba essere considerata come un residuo di un potere normativo naturale o privato, antecedente allo stato, oppure come un prodotto del potere originario dello stato.
1. Ogni ordinamento non nasce i n un deserto; fuor di metafora, la società civile su cui si viene formando un ordinamento giuridico, com'è, ad esempio, quello dello Stato, non è una società naturale, priva affatto di leggi, ma una società i n cui vigono norme di vario genere, morali, sociali, religiose, costumanze, consuetudini, regole convenzionali, e via discorrendo. I l nuovo ordinamento che sorge non elimina mai completamente le stratificazioni normative che l'hanno preceduto: parte di quelle regole vengono a far parte, attraverso una recezione espressa o tacita, del nuovo ordinamento, i l quale, i n questo modo, sorge limitato dagli ordinamenti precedenti. Quando parliamo di potere originario, intendiamo originario giuridicamente, non storicamente. Possiamo parlare i n questo caso di un limite estemo del potere sovrano;
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7. TIPI DI FONTI E FORMAZIONE STORICA DELL'ORDINAMENTO
Quest'ultima questione ci mostra che i l problema della distinzione tra fonti riconosciute e fonti delegate è un problema la cui soluzione dipende anche dalla concezione generale che si assume riguardo alla formazione e alla struttura di un ordinamento giuridico. In ogni ordinamento i l punto di riferimento ultimo di tutte le norme è i l potere originario, cioè i l potere al di là del quale non esiste altro potere su cui si possa fondare l'ordinamento giuridico. Questo punto di riferimento è necessario, oltretutto, come vedremo tra poco, per dare unità all'ordinamento. Chiamiamo questo potere originario la fonte delle fonti. Se tutte le norme scaturissero direttamente dal potere originario, ci troveremmo di fronte ad un ordinamento semplice. Nella realtà non è così. La complessità dell'ordinamento, cioè il fatto che i n un ordinamento reale le norme affluiscono attraverso diversi canali, dipende storicamente da due ragioni fondamentali:
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2. il potere originario, una volta costituito, crea esso stesso, per soddisfare al bisogno di una normazione sempre aggiornata, nuove centrali di produzione giuridica, attribuendo a organi esecutivi il potere di emanare norme integratrici subordinate a quelle legislative (i regolamenti), a enti autonomi territoriali i l potere di emanare norme adatte ai bisogni locali (il potere normativo delle regioni, delle province, dei comuni), a cittadini privati i l potere di regolare i propri affari attraverso negozi giuridici (il potere negoziale). La moltiplicazione delle fonti non deriva qui, come nei casi considerati sub 1, da una limitazione proveniente dall'esterno, cioè dallo scontro con una realtà normativa precostituita, con cui anche i l potere sovrano deve fare i conti, ma da una autolimitazione del potere sovrano, i l quale sottrae a se stesso una parte del potere normativo per attribuirlo ad altri organi o enti, da sé i n qualche modo dipendenti. Si p u ò parlare in questo caso di limite intemo del potere normativo originario. È interessante osservare come questo duplice processo di formazione di un ordinamento, attraverso l'assorbimento di un diritto preesistente e la creazione di un diritto nuovo, e la conseguente problematica della limitazione esterna e della limitazione interna del potere originario, sia rispecchiata fedelmente nelle due principali concezioni con cui i glusnaturalisti spiegavano il passaggio dallo stato di natura allo stato civile. I l richiamo
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che spesso compio alle teorie giusnaturalistiche è dovuto al fatto che le considero come modelli razionali, utili alla formulazione di teorie semplici sui problemi più generali del diritto e dello Stato. Secondo i l pensiero giusnaturalistico, i l potere civile originario si forma sorgendo da un precedente stato di natura attraverso i l procedimento caratteristico del contratto sociale. Ma vi sono due modi di concepire questo contratto sociale. Con una prima ipotesi, che potremmo dire hobbesiana, coloro che stipulano il contratto rinunziano completamente a tutti i diritti dello stato di natura e i l potere civile nasce senza limiti: ogni futura limitazione sarà un'auto-limitazione. Con una seconda ipotesi, che possiamo chiamare lockiana, i l potere civile viene fondato allo scopo di assicurare meglio i l godimento dei diritti naturali (quali la vita, la proprietà, la libertà), e quindi nasce originariamente l i mitato da un diritto preesistente. Nella prima ipotesi i l diritto naturale scompare completamente nel dar vita al diritto positivo; nella seconda il diritto positivo non è altro che uno strumento per la completa attuazione del preesistente diritto naturale. Ancora: nella prima teoria la sovranità civile nasce assoluta, cioè senza l i m i t i . I giuristi positivisti che accettano questa ipotesi saranno costretti a parlare di autolimitazione dello stato per dare una spiegazione del fatto che anche i n un ordinamento accentrato, e proclamantesi originario, come lo Stato moderno, esistono poteri normativi decentrati o supplementari, o zone di libertà a cui si arresta i l potere normativo dello stato. Nella seconda teoria, invece, la sovranità nasce già limitata, perché il diritto naturale originario non viene completamente soppiantato dal nuovo diritto positivo, ma conserva i n parte la sua efficacia nell'interno stesso dell'ordinamento positivo, come diritto recepito.
rivante dalla presenza di fonti riconosciute e di fonti delegate, abbiamo accolto e riunito i n una teoria unitaria dell'ordinamento giuridico sia l'ipotesi dei limiti esterni, sia quella dei limiti interni. Esemplificando, l'accoglimento di una normazione consuetudinaria coiTisponde all'ipotesi di un ordinamento che nasce limitato, l'attribuzione di un potere regolamentare corrisponde all'ipotesi di un ordinamento che si autolimita. Quanto al potere negoziale esso p u ò essere spiegato con tutte e due le ipotesi, ora come una specie di diritto dello stato di natura (la identificazione tra diritto naturale e diritto dei privati si trova, ad esempio, i n Kant) che lo stato riconosce, ora come una delegazione dello stato ai cittadini.
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I n queste due ipotesi si vedono abbastanza chiaramente raffigurati e razionalizzati i due processi di formazione di un ordinamento giuridico e la struttura complessa che ne deriva. Da un lato, l'ordinamento positivo viene concepito come facente tabula rasa di ogni diritto preesistente, raffigurato qui da quel diritto che vige nello stato di natura; dall'altro, viene concepito come emergente da uno stato giuridico più antico che continua a sussistere. Nel primo caso ogni limite del potere sovrano è autolimitazione; nel secondo esistono hmiti originari ed esterni. Quando noi abbiamo parlato di una complessità dell'ordinamento giuridico, de-
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8. L E FONTI DEL DIRITTO
Abbiamo distinto nei due paragrafi precedenti fonti originarie e fonti derivate; abbiamo poi suddistinto le fonti derivate in fonti riconosciute e fonti delegate; abbiamo anche parlato di una fonte delle fonti. Ma non abbiamo ancora detto che cosa s'intende per "fonte". Possiamo qui accettarne una definizione divenuta comune: "fonti del diritto" sono quei fatti e quegli atti da cui l'ordinamento giuridico fa dipendere la produzione di norme giuridiche. La conoscenza di un ordinamento giuridico (e anche di un particolare settore di questo ordinamento) comincia sempre dalla enumerazione delle sue fonti. Non a caso l'art. 1 delle nostre Disposiziori generali è l'elenco delle fonti dell'ordinamento giuridico italiano vigente. Ciò che ci interessa notare i n una teoria generale dell'ordinamento giuridico, non è tanto quante e quali siano le fonti del diritto d i un ordinamento giuridico moderno, quanto i l fatto che, nel momento stesso i n cui si riconosce che esistono atti o fatti da cui si fa dipendere la produzione di norme giuridiche (per l'appunto le fonti del diritto), si riconosce pure che l'ordinamento giuridico, oltre a regolare i l comportamento delle persone, regola atiche il modo con cui si devono produrre le regole. Si suol dire che l'ordinamento giuridico regola la propria produzione normativa. Abbiamo già visto che vi sono norme di comportamento accanto a norme di stiTittura. Queste nonne di strut-
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tura possono anche essere considerate come norme per la produzione giuridica: cioè norme che regolano i procedimenti d i regolamentazione giuridica. Esse non regolano un comportamento, ma regolano i l modo di regolare un comportamento; o, più esattamente, i l comportamento che esse regolano è quello di produrre regole. Consideriamo un ordinamento elementare come quello familiare. Se lo concepiamo come un ordinamento semplice, cioè come u n ordinamento i n cui non esiste che una fonte di produzione normativa, non esisterà che una regola sulla produzione giuridica, la quale p u ò essere formulata i n questo modo: «Il padre ha l'autorità di regolare la vita della famiglia». Ma ammettiamo che il padre rinunci a regolare direttamente un settore della vita familiare, quello della vita scolastica dei figli, e affidi alla madre i l potere di regolarlo. Avremo, i n questo ordinamento, una seconda norma sulla produzione giuridica, che potrà essere così formulata: «La madre ha l'autorità, attribuitale dal padre, di regolare la vita scolastica dei figli». Come si vede, questa norma non dice nulla sul modo con cui i figli debbono esercitare i loro doveri scolastici, dice semplicemente a chi spetta stabilire questi doveri, cioè pone i n essere una fonte d i diritto. Prendiamo ora un ordinamento statuale modemo. I n ogni grado normativo noi troviamo norme di condotta e norme di stmttura, cioè norme rivolte direttamente a regolare la condotta delle persone, e norme rivolte a regolare la produzione di altre norme. Cominciamo dalla costituzione: i n una costituzione, come quella italiana, vi sono norme che attribuiscono direttamente diritti e doveri ai cittadini, come quelle che riguardano i diritti d i libertà; ma v i sono altre norme che regolano la procedura che i l parlamento deve seguire per esercitare i l potere legislativo, e quindi non stabiliscono nulla nei confronti delle persone, limitandosi a stabilire i l modo con cui altre norme rivolte a persone potranno essere emanate. Quanto alle leggi ordinarie, anch'esse non sono rivolte tutte direttamente ai cittadini; molte di esse, come le leggi penali e gran parte delle leggi di procedura, hanno lo scopo di impartire ai giudici istmzioni sul modo con cui essi debbono emanare quelle norme individuali e concrete che sono le sentenze; ovvero non sono norme di condotta, ma norme per la produzione di altre norme.
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Ci basti aver richiamato l'attenzione su questa categoria di norme per la produzione di altre norme: è la presenza e frequenza d i queste norme che costituisce la complessità dell'ordinamento giuridico; e solo lo studio dell'ordinamento giuridico ci fa intendere la natura e l'importanza di queste norme. Dal punto di vista formale, la teoria della norma giuridica si era fermata alla considerazione delle norme come imperativi, intendendo per imperativo il comando di fare o di non fare. Se noi prendiamo i n considerazione anche le norme per la produzione di altre nomie, dobbiamo porre accanto agli imperativi, intesi come comandi di fare o di non fare, e che potremo chiamare imperativi di prima istanza, degli imperativi di seconda istanza, intesi come comandi di comandare, ecc. Solo la considerazione dell'ordinamento nel suo complesso ci permette di cogliere la presenza di queste norme di seconda istanza. La classificazione di questo tipo d i norme è molto più complessa che quella delle norme di prima istanza, per le quali avevamo parlato della tripartizione classica i n norme imperative, proibitive e permissive. Se ne possono distinguere nove specie: 1. norme che comandano di comandare (per esempio: art. 34, 2° comma, Cost., ove i l costituente comanda al legislatore ordinario di emanare leggi che rendano obbligatoria l'istmzione); 2. norme che proibiscono di comandare (art. 27, 4° comma, Cost., ove si proibisce al legislatore d i istituire la pena di morte); 3. norme che permettono di comandare (in tutti i casi i n cui i l costituente ritiene di non dovere intervenire a dettar norme su certe materie, si p u ò dire che esso permette al legislatore di comandare. Per esempio, l'art. 32, 2° comma, Cost., permette al legislatore ordinario di stabilire norme riguardanti i l trattamento sanitario); 4. norme che comandano di proibire (art. 18, 2° comma, Cost.: il costituente impone al legislatore ordinario di emanare norme proibitive delle associazioni segrete); 5. norme che proibiscono di proibire (art. 22 Cost.: «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome»); 6. norme che permettono di proibire (a proposito dell'art. 40 Cost. che sancisce la libertà di sciopero, si p u ò osservare che né
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in esso né altrove si parla di libertà di serrata; questa lacuna si potrebbe interpretare come se i l costituente avesse inteso di lasciare al legislatore ordinario la facoltà di proibirla); 7. norme che comandano di permettere (questo caso coincide col quinto); 8. norme che proibiscono di permettere (questo caso coincide col quarto); 9. norme che permettono di permettere (siccome i l permesso è la negazione di un divieto, questo è i l caso di una legge costituzionale che deroghi al divieto di una legge costituzionale precedente).
9. COSTRUZIONE A GRADI DELL'ORDINAMENTO
La complessità dell'ordinamento, su cui abbiamo sin qui r i chiamato l'attenzione, non esclude la sua unità. Non potremmo parlare di ordinamento giuridico, se non lo considerassimo qualcosa di unitario. Che sia unitario un ordinamento semplice, cioè un ordinamento i n cui tutte le norme scaturiscono da una fonte sola, è facilmente comprensibile. Che sia unitario un ordinamento complesso, deve essere spiegato. Accogliamo qui la teoria della costruzione a gradi dell'ordinamento giuridico, elaborata dal Kelsen. Questa teoria serve a dare una spiegazione dell'unità di un ordinamento giuridico complesso. I l nocciolo di questa teoria è che le norme di un ordinamento non stanno tutte sullo stesso piano. Vi sono norme superiori, e norme inferiori. Le norme inferiori derivano dalle superiori. Risalendo dalle norme inferior i via via a quelle che si trovano più i n alto si arriva da ultimo a una norma suprema, che non dipende da nessun'altra norma superiore, e su cui riposa l'unità dell'ordinamento. Questa norma suprema è la norma fondamentale. Ogni ordinamento ha una norma fondamentale. È questa norma fondamentale che dà unità a tutte le altre norme; cioè fa delle norme sparse e di varia provenienza un insieme unitario, che si p u ò chiamare a giusto titolo "ordinamento". La norma fondamentale è i l termine unificatore delle norme che compongono un ordinamento giuridico. Senza una norma fondamentale le norme, di cui abbiamo parlato sino-
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ra, costituirebbero un coacervo, non un ordinamento. I n altre parole, per quanto numerose siano le fonti del diritto i n un ordinamento complesso, questo ordinamento costituisce un'unità per il fatto che direttamente o indirettamente, con giri più o meno tortuosi, tutte le fonti del diritto possono essere fatte risalire ad un'unica norma. A causa della presenza di un ordinamento giuridico di norme superiori e inferiori, esso ha una struttura gerarchica. Le norme di un ordinamento sono disposte i n ordine gerarchico. La rilevanza di quest'ordine gerarchico emergerà nel capitolo seguente, quando parleremo delle antinomie e del modo di risolverle. Qui ci limitiamo a constatarlo e a illustrarlo. Consideriamo un qualsiasi atto col quale Tizio eseguisce l'obbligo contratto con Caio, e chiamiamolo atto esecutivo. Questo atto esecutivo è l'adempimento di una regola di condotta derivata dal contratto. A sua volta i l contratto è stato compiuto i n adempimento alle norme legislative che disciplinano i contratti. Quanto poi alle norme legislative esse sono state emanate seguendo le regole stabilite dalle leggi costituzionali per la emanazione delle leggi. Fermiamoci qui. L'atto esecutivo, da cui abbiamo preso le mosse, è collegato, se pur mediatamente, alle norme costituzionali che sono produttive, se pur a diversi livelli, delle norme inferiori. Questo atto esecutivo appartiene a un sistema normativo dato in quanto, di norma in norma, esso p u ò essere fatto risalire alle norme costituzionali. I l caporale riceve ordini dal sergente, i l sergente dal tenente, i l tenente dal capitano sino al generale e più sù ancora: l'unità del comando i n un esercito dipende dal fatto che l'ordine del caporale p u ò essere fatto risalire attraverso più gradi a quello del generale. L'esercito è un esempio di struttura gerarchica. Abbiamo chiamato l'atto di Tizio che eseguisce un contratto atto esecutivo, così come abbiamo chiamato le norme costituzionali produttive delle norme inferiori. Se osserviamo meglio la struttura gerarchica dell'ordinamento, ci accorgiamo che i termini d i esecuzione e di produzione sono relativi. Possiamo dire che come Tizio eseguisce i l contratto, così Tizio e Caio, stipulando i l contratto, hanno eseguito le norme sui contratti, e gli organi legislativi, emanando le leggi sui contratti, hanno eseguito la costituzione. D'altra parte, se è vero che le norme costituzionali producono le leggi ordinarie, è altrettanto vero che le leggi ordinarie
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producono le norme sui contratti, e coloro che stipulano un contratto producono l'atto esecutivo di Tizio. I n una struttura gerarchica, come quella dell'ordinamento giuridico, i termini di "esecuzione" e d i "produzione" sono relativi, perché la stessa norma p u ò essere considerata, nello stesso tempo, esecutiva e produttiva, esecutiva rispetto alla norma superiore, produttiva rispetto alla norma inferiore. Le leggi ordinarie eseguiscono la costituzione e producono i regolamenti. I regolamenti eseguiscono le leggi ordinarie e producono i comportamenti ad essi conformi. Tutte le fasi di un ordinamento sono insieme esecutive e produttive, ad eccezione di quella al grado più alto e di quella al grado più basso. I l grado più basso è costituito dagli atti esecutivi: questi atti sono soltanto esecutivi e non produttivi. I l grado più alto è costituito dalla norma fondamentale (su cui ritorneremo nel paragrafo seguente): questa è soltanto produttiva e non esecutiva. Di solito si rappresenta la struttura gerarchica di un ordinamento con la figura della piramide, onde si parla anche di costruzione a piramide dell'ordinamento giuridico. I n questa piramide i l vertice è occupato dalla norma fondamentale; la base è costituita dagli atti esecutivi. Se guardiamo dall'alto i n basso la piramide, vediamo una serie di processi di produzione giuridica; se la guardiamo dal basso i n alto, vediamo, al contrario, una serie di processi di esecuzione giuridica. Nei gradi intermedi, vi è insieme produzione ed esecuzione; nei gradi estremi o solo produzione (norma fondamentale), o solo esecuzione (atti esecutivi). Questo duplice processo ascendente e discendente p u ò essere chiarito anche con due altre nozioni caratteristiche del linguaggio giuridico: potere e dovere. Mentre la produzione giuridica è l'espressione di u n potere (originario o derivato), l'esecuzione rivela l'adempimento di un dovere. Una norma che attribuisce a una persona o organo i l potere di emanare norme giuridiche attribuisce nello stesso tempo ad altre persone i l dovere di ubbidire. Potere e dovere sono due concetti correlativi: uno non p u ò stare senza l'altro. Si chiama potere, i n una delle sue più importanti accezioni, la capacità che l'ordinamento giuridico attribuisce a questa o a quella persona di porre i n essere obblighi nei confronti d i altre persone; si chiama obbligo l'atteggiamento cui è tenuto colui che è soggetto al potere. Non c'è obbligo i n un soggetto senza che vi sia un potere i n un altro soggetto. Talora vi p u ò essere un
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potere senza un obbligo corrispondente: si tratta del caso i n cui al potere non corrisponde un obbligo ma una soggezione (i cosiddetti diritti potestativi); ma è questione discussa, su cui qui sorvoliamo. Comunque, potere e obbligo sono i due termini correlativi del rapporto giuridico, i l quale si p u ò definire come i l rapporto tra i l potere di un soggetto e i l dovere dell'altro soggetto. (Per indicare i l correlativo dell'obbligo, preferiamo la parola "potere" alla parola, più comunemente usata, "diritto", perché quest'ultima parola, nel senso di diritto soggettivo, ha molti significati diversi ed è una delle maggiori fonti di confusione nelle controversie tra teorici del diritto. "Diritto" significa anche "facoltà", "permesso", "lecito", nel senso, illustrato nel corso precedente, di comportamento opposto all'obbligo: i l permesso come negazione dell'obbligo. Quando invece si usa "diritto" per "potere", diritto non è negazione del dovere, ma i l termine correlativo di dovere i n un rapporto intersoggettivo). Quanto alla piramide che raffigura l'ordinamento giuridico, dal momento che potere e obbligo sono due termini correlativi, se la consideriamo dall'alto i n basso, vediamo una serie d i poteri successivi: i l potere costituzionale, i l potere legislativo ordinario, i l potere regolamentare, i l potere giurisdizionale, i l potere negoziale, e così via; se la consideriamo dal basso i n alto, vediamo una serie di obblighi che si susseguono l'un l'altro: l'obbligo del soggetto di eseguire la sentenza di un magistrato; l'obbligo del magistrato di attenersi alle leggi ordinarie; l'obbligo del legislatore di non violare la costituzione. Un'ultima osservazione sulla struttura gerarchica dell'ordinamento. Per quanto tutti gli ordinamenti abbiano la forma della piramide, non tutte le piramidi hanno lo stesso numero di piani. Vi sono ordinamenti i n cui non esiste differenza tra leggi costituzionali e leggi ordinarie: sono quegli ordinamenti i n cui i l potere legislativo p u ò emanare con la stessa procedura leggi ordinarie e leggi costituzionali, e di conseguenza non esiste un obbligo del legislatore ordinario di eseguire le prescrizioni contenute nelle leggi costituzionali. Si p u ò immaginare un ordinamento i n cui sia abolito anche i l piano delle leggi ordinarie: sarebbe un ordinamento i n cui la costituzione attribuisse direttamente agli organi giudiziari i l potere di emanare le norme giuridiche necessarie caso per caso. I n un sistema giuridico ispirato ad un'ideologia collettivistica, ove fosse abolita ogni forma di prò-
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prietà privata, sarebbe eliminato i l piano normativo costituito dal potere negoziale. Ma non esistono solo esempi di ordinamenti con un numero di piani normativi, minore del normale. Non è difficile addurre un esempio di ordinamenti con un piano di più: sono gli stati federali, i n cui oltre al potere legislativo dello stato federale, vi è anche un potere legislativo, ad esso subordinato, degli stati membri.
mente emanata: una norma inferiore che ecceda i limiti material i , cioè regoli una materia diversa da quelle assegnatele o i n maniera diversa da quella prescrittale, oppure ecceda i limiti formali, cioè non segua la procedura stabilita, è passibile di essere dichiarata illegittima e di essere espulsa dal sistema. Nel passaggio dalla norma costituzionale a quella ordinaria sono frequenti ed evidenti sia i limiti materiali sia quelli formali. Quando la legge costituzionale attribuisce ai cittadini, poniamo, il diritto alla libertà religiosa, limita i l contenuto normativo del legislatore ordinario, cioè gli proibisce di emanare norme che abbiano per contenuto la restrizione o la soppressione della libertà religiosa. I limiti di contenuto possono poi essere positivi o negativi, secondoché la costituzione imponga al legislatore ordinario di emanare norme i n una determinata materia (comando di comandare), oppure gli proibisca di emanare norme i n una determinata materia (proibizione di comandare, o comando d i permettere). Quando una costituzione stabilisce che lo stato deve provvedere all'istruzione sino a una certa età, attribuisce al legislatore ordinario un limite positivo; quando, invece, attribuisce certi diritti di libertà, stabilisce un limite negativo, cioè proibisce di emanare leggi che riducano o eliminino quella sfera di libertà. Quanto ai limiti formali, essi sono costituiti da tutte quelle norme della costituzione che stabiliscono le procedure mediante le quali gli organi costituzionali devono svolgere la loro attività. Mentre i l i m i t i formali generalmente non mancano mai, possono mancare nei rapporti tra costituzione e legge ordinaria i limiti materiali: ciò si verifica i n quegli ordinamenti i n cui non esiste una differenza di grado tra leggi costituzionali e leggi ordinarie (le cosiddette costituzioni flessibili). I n questi ordinamenti i l legislatore ordinario p u ò legiferare i n qualsiasi materia e i n qualsiasi direzione: i n una costituzione tipicamente flessibile come quella inglese, c'è i l detto che i l parlamento p u ò fare ogni cosa tranne trasformare l'uomo i n donna (che, come azione impossibile, è di per se stessa esclusa dalla sfera delle azioni regolabili).
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10. LIMITI MATERIALI E LIMITI FORMALI
Quando un organo superiore attribuisce a un organo inferiore un potere normativo, non gli attribuisce un potere illimitato. Nell'attribuire questo potere, stabilisce anche i limiti entro i quali p u ò essere esercitato. Come l'esercizio del potere negoziale o quello del potere giurisdizionale sono limitati dal potere legislativo, così l'esercizio del potere legislativo è limitato dal potere costituzionale. Via via che si procede dall'alto al basso della piramide, i l potere normativo è sempre più circoscritto. Si pensi alla quantità di potere attribuita alla fonte negoziale i n confronto con quella attribuita alla fonte legislativa. I limiti con cui i l potere superiore restringe e regola i l potere inferiore sono di due tipi differenti: a) relativi al contenuto; b) relativi alla forma. Per questo si parla di limiti materiali e di limiti formali. I l primo tipo di l i m i t i riguarda i l contenuto della norma che l'inferiore è autorizzato a emanare; i l secondo tipo riguarda la forma, cioè il modo o la procedura con cui la norma dell'inferiore deve essere emanata. Se ci mettiamo dal punto di vista dell'inferiore, osserviamo che questi riceve un potere che viene limitato, o rispetto a ciò che p u ò comandare o proibire, o rispetto al come p u ò comandare o proibire. I due limiti possono essere imposti tutti e due contemporaneamente; ma i n alcuni casi ci p u ò essere l'uno senza l'altro. La rilevazione di questi limiti è importante, perché essi circoscrivono l'ambito i n cui la norma inferiore è legittima-
Se ora osserviamo i l passaggio dalla legge ordinaria alla decisione giudiziaria, intesa come regola del caso concreto, troviamo, nella maggior parte delle legislazioni, entrambi i limiti. Le leggi relative al diritto sostanziale, possono essere considerate, sotto un certo angolo visuale (in quanto cioè vengano comprese co-
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me regole rivolte ai giudici anziché ai cittadini), come limiti di contenuto al potere normativo del giudice: i n altre parole, la presenza delle leggi di diritto sostanziale fa sì che i l giudice, decidendo una controversia, debba cercare e trovare la soluzione i n ciò che le leggi ordinarie stabiliscono. Quando si dice che i l giudice deve applicare la legge, si dice i n altre parole che l'attività del giudice è limitata dalla legge, nel senso che i l contenuto della sentenza deve corrispondere al contenuto di una legge: se questa corrispondenza non ha luogo, la sentenza del giudice p u ò essere dichiarata invalida, alla stessa stregua di una legge ordinaria non conforme alla costituzione. Le leggi relative alla procedura costituiscono, invece, i limiti formali dell'attività del giudice: ciò vuol dire che i l giudice è autorizzato a emanare norme giuridiche nel caso concreto, ma deve emanarle secondo un rito i n gran parte prestabilito dalla legge. I n genere i vincoli del giudice rispetto alla legge sono maggiori di quelli che sussistono per i l legislatore ordinario rispetto alla costituzione. Mentre nel passaggio dalla costituzione alla legge ordinaria, abbiamo visto che si p u ò verificare i l caso di mancanza di limiti materiali, nel passaggio dalla legge ordinaria alla decisione del giudice, questa mancanza è difficile che si verifichi i n realtà: dovremmo fare l'ipotesi d i un ordinamento i n cui la costituzione stabilisse che i n ogni caso i l giudice dovrebbe giudicare secondo equità. Si chiamano "giudizi di equità" quelli i n cui i l giudice è autorizzato a risolvere una controversia senza far ricorso ad una norma di legge prestabilita. I l giudizio di equità p u ò essere definito come l'autorizzazione al giudice a produrre diritto al di fuori di ogni limite materiale i m posto dalle norme superiori. Nei nostri ordinamenti questo tipo di autorizzazione è molto raro. Negli ordinamenti i n cui i l potere creativo del giudice è maggiore, i l giudizio di equità è pur sempre eccezionale: se i limiti materiali al potere normativo del giudice non derivano dalla legge scritta, derivano da altre fonti superiori, come possono essere la consuetudine oppure i l precedente giudiziario.
piuttosto che la materia su cui debba esplicarsi. Si p u ò formulare i l principio generale secondo cui, rispetto all'autonomia privata, al legislatore ordinario non interessano tanto le materie su cui possa esercitarsi quanto le forme mediante cui debba esplicarsi. Ciò ha fatto dire, i n sede di teoria generale, con un'estrapolazione illecita, che al diritto non interessa tanto ciò che gli uomini fanno, ma i n che modo lo fanno; oppure che i l diritto non prescrive ciò che gli uomini debbono fare, ma i l modo, cioè la forma, dell'azione; insomma che i l diritto è una regola formale della condotta umana. Una tesi di questo genere ha un'apparenza di verità, solo se riferita al rapporto tra legge e autonomia privata. Ma anche i n questa sede ristretta è tutt'altro che fondata. Si pensi, ad esempio, al potere attribuito al privato di disporre dei propri beni mediante testamento. Non c'è dubbio che la legge, proprio per un atteggiamento di rispetto della volontà individuale, prescrive, anche minutamente, le formalità con cui un testamento deve essere redatto affinché possa essere considerato valido. Ma si p u ò dire che la legge rinunci completamente a impartire regole relative al contenuto? Là dove la legislazione stabilisce quali sono le quote del patrimonio, d i cui i l testatore non p u ò disporre (la cosiddetta "legittima"), ecco che ci troviamo di fronte a limiti non più soltanto formali, ma di contenuto, cioè a limiti che restringono i l potere del testatore non solo rispetto al come, ma anche al che cosa.
Nel passaggio dalla legge ordinaria al negozio giuridico, cioè alla sfera dell'autonomia privata, prevalgono di solito i limiti formali su quelli materiali. Le norme relative ai contratti sono generalmente regole destinate a fissare i l modo con cui i l potere negoziale deve esplicarsi, per produrre conseguenze giuridiche.
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11. L A NORMA FONDAMENTALE
Nel paragrafo 4, procedendo dalle norme inferiori alle norme superiori, ci siamo fermati alle norme costituzionali. Forse che le norme costituzionali sono le norme ultime, oltre le quali non si può andare? D'altra parte, qua e là ci è accaduto di parlare di una norma fondamentale di ogni ordinamento giuridico. Forse che le norme costituzionali sono la norma fondamentale? Per chiudere i l sistema dobbiamo ancora fare un passo oltre le norme costituzionali. Partiamo dalla considerazione più volte fatta che ogni norma presuppone un potere normativo: norma significa imposizione di obblighi (imperativo, comando, prescri-
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zione, ecc.); dove c'è obbligo, abbiamo visto, c'è potere. Dunque se ci sono norme costituzionali, ci deve essere i l potere normativo da cui esse sono derivate: questo potere è i l potere costituente. I l potere costituente è i l potere ultimo, o, se vogliamo, supremo, originario, i n un ordinamento giuridico. Ma, se abbiamo visto che una norma giuridica presuppone un potere giuridico, abbiamo anche visto che ogni potere normativo presuppone a sua volta una norma che lo autorizzi a produrre norme giuridiche. Dato il potere costituente come potere ultimo, dobbiamo presupporre dunque una norma la quale attribuisca al potere costituente la facoltà di produrre norme giuridiche: questa tiorma è la norma fondamentale. La norma fondamentale, mentre, per un verso, attribuisce agli organi costituzionali i l potere di emanare norme valide, impone a tutti coloro cui le norme costituzionali si rivolgono il dovere di ubbidirle. È una norma insieme attributiva e imperativa, secondo che la consideriamo dal punto di vista del potere cui d à origine o dell'obbligo che ne scaturisce. P u ò essere formulata i n questo modo: «Il potere costituente è autorizzato ad emanare norme obbligatorie per tutta la collettività», oppure: «La collettività è obbligata a ubbidire alle norme emanate dal potere costituente».
giuridico solo se consideriamo anche esso come il prodotto di una norma giuridica. La norma giuridica che produce i l potere costituente è la norma fondamentale. Che questa norma non sia espressa, non significa che essa non esista: ad essa ci riferiamo come a fondamento sottinteso di legittimità di tutto i l sistema. Quando noi ci appelliamo alla nostra costituzione, per richiederne l'applicazione, ci siamo mai domandati che cosa significa, giuridicamente, questo nostro appello? Significa che consideriamo legittima la costituzione perché è stata legittimamente posta. Se poi ci domandiamo che cosa significa che sia stata legittimamente posta, o risaliamo al decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944, che attribuiva ad una futura Assemblea costituente i l compito di deliberare la nuova costituzione dello stato, oppure - accettando la tesi della rottura tra vecchio e nuovo ordinamento - non possiamo far altro che presupporre una norma che impone d i ubbidire a ciò che i l potere costituente ha stabilito: e questa è la norma fondamentale, che, pur non espressa, è i l presupposto della nostra ubbidienza alle leggi che dalla costituzione derivano, e alla costituzione stessa.
Si badi bene: la norma fondamentale non è espressa. Ma noi la presupponiamo per fondare i l sistema normativo. Per fondare un sistema normativo occorre una norma ultima oltre la quale sarebbe inutile andare. Tutte le polemiche sulla norma fondamentale dipendono dal non avere inteso la sua funzione. Posto un ordinamento di norme di diversa provenienza, l'unità dell'ordinamento postula che le norme che lo compongono siano ridotte ad unità. Questa reductio ad unum non p u ò essere compiuta se i n cima al sistema non si pone una norma unica, da cui tutte le altre direttamente o indirettamente derivino. Questa norma unica non p u ò essere che quella che impone di ubbidire al potere originario da cui viene la costituzione, da cui vengono le leggi ordinarie, da cui vengono i regolamenti, da cui vengono le decisioni giudiziarie ecc. Se non postulassimo una norma fondamentale, non troveremmo l'ubi consistam del sistema. E questa norma ultima non p u ò essere che quella da cui deriva i l potere primo. Avendo definito ogni potere giuridico come prodotto di una norma giuridica, possiamo considerare i l potere costituente come potere
Possiamo cercare di spiegare la necessità di postulare la norma fondamentale anche per altra via. Abbiamo parlato sinora di ordinamento come insieme di norme. Come facciamo a stabilire se una norma appartiene ad un ordinamento? L'appartenenza di una norma ad un ordinamento è ciò che si chiama validità. Abbiamo visto nel corso precedente quali sono le condizioni per cui si possa dire che una norma è valida. Queste condizioni servono a provare appunto che una determinata norma appartiene ad un ordinamento. Una norma esiste come norma giuridica, o è giuridicamente valida, i n quanto appartiene ad un ordinamento giuridico. I l sapere se una norma giuridica sia valida o no non è questione oziosa. Che una norma giuridica sia valida, significa che è obbligatorio conformarvisi. E che sia obbligatorio conformarvisi significa generalmente che se non ci conformiamo, il giudice sarà a sua volta obbligato a intervenire attribuendo questa o quella sanzione. Se è vero che i cittadini molto spesso agiscono senza preoccuparsi delle conseguenze giuridiche delle loro azioni, e quindi senza domandarsi se ciò che essi fanno sia o no conforme ad una norma valida, i l giudice applica solo le norme che sono o ritiene valide. I l giudizio sulla validità di una norma
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è decisivo, se non sempre per la condotta del cittadino, sempre per la condotta del giudice. Ma come fa i l cittadino o i l giudice a distinguere una norma valida da una non valida, i n altre parole una norma appartenente al sistema da una norma che non vi appartiene? Abbiamo detto nel corso precedente che la prima condizione perché una norma sia considerata valida è che sia stata emanata da un'autorità che aveva legittimamente i l potere di emanare norme giuridiche. Ma qual'è l'autorità che ha questo potere legittimo? Quella a cui questo potere è stato attribuito da una norma superiore, anch'essa legittima. E questa norma superiore da dove deriva? Ancora una volta, di grado i n grado giungiamo al potere supremo, la cui legittimità è data da una norma al di là della quale non esiste altra norma, ed è dunque la norma fondamentale. Così possiamo rispondere come si possa stabilire l'appartenenza d i una norma ad un ordinamento: si stabilisce risalendo di grado i n grado, di potere i n potere, sino alla norma fondamentale. E poiché appartenenza all'ordinamento significa validità, possiamo concludere che una norma è valida quando possa essere ricondotta, non importa se attraverso uno o più gradi, alla norma fondamentale. Allora diremo che la norma fondamentale è il criterio supremo che p e i T n e t t e di stabilire l'appartenenza di una norma ad un ordinamento, i n altre parole, è il fondamento di validità di tutte le norme del sistema. Non solo dunque l'esigenza dell'unità dell'ordinamento, ma anche la esigenza di fondare la validità dell'ordinamento ci inducono a postulare la norma fondamentale, la quale è insieme i l fondamento di validità e il principio unificatore delle norme di un ordinamento. E poiché un ordinamento presuppone che esista un criterio per stabilire l'appartenenza delle parti al tutto, e un principio che le unifichi, ordinamento non vi p u ò essere senza norma fondamentale. Una coerente teoria dell'ordinamento giuridico e la teoria della norma fondamentale sono indissociabili.
quelle proposizioni primitive da cui si deducono le altre, ma alla loro volta non sono deducibili. I postulati sono posti o per convenzione o per una pretesa loro evidenza. Lo stesso si p u ò dire della norma fondamentale: essa è una convenzione o se si vuole una proposizione evidente che viene posta al vertice del sistema perché ad essa si possano ricondurre tutte le altre norme. Alla domanda "su che cosa essa si fondi", si deve rispondere che essa non ha alcun fondamento, perché, se avesse un fondamento, non sarebbe più la norma fondamentale, ma vi sarebbe un'altra norma superiore da cui essa dipende. Rimarrebbe comunque sempre aperto i l problema del fondamento di questa nuova norma: e questo problema non potrebbe essere risolto che risalendo ancora ad altra norma oppure accettando la nuova norma come postulato. Ogni sistema ha un inizio. I l domandarsi che cosa ci sia prima di questo inizio, è un problema mal posto. L'unica risposta che si p u ò dare a chi voglia sapere quale sia i l fondamento del fondamento è che per saperlo bisogna uscire dal sistema. Così, per quel che riguarda i l fondamento della norma fondamentale, si p u ò dire che, se esso è un problema, non è più un problema giuridico, è un problema la cui soluzione va cercata al di fuori del sistema giuridico, cioè di quel sistema per fondare i l quale viene postulata la norma fondamentale.
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A questo punto qualcuno p u ò domandare: «E la norma fondamentale su che cosa si fonda?» Gran parte dell'ostilità all'ammissione della norma fondamentale deriva dall'obiezione che viene formulata con questa domanda. Abbiamo detto più volte che la norma fondamentale è un presupposto dell'ordinamento: essa adempie i n un sistema normativo alla stessa funzione cui sono destinati i postulati in un sistema scientifico. I postulati sono
Col problema del fondamento della norma fondamentale usciamo dalla teoria del diritto positivo, cui ci siamo sinora attenuti, ed entriamo nella secolare discussione intomo al fondamento o meglio alla giustificazione i n senso assoluto del potere. Possiamo concepire le tradizionali teorie sul fondamento del potere come tentativi di rispondere alla domanda: «Qual'è i l fondamento della norma fondamentale di un ordinamento giuridico positivo?». Tali risposte possono essere date i n quanto si trascenda l'ordinamento giuridico positivo e si prenda i n considerazione un ordinamento più vasto, per esempio l'ordinamento cosmico, o generalmente umano, di cui l'ordinamento giuridico sia considerato una parte, i n altre parole si compia l'operazione di inserire un dato sistema, nel nostro caso i l sistema giuridico, i n un sistema più vasto. Presentiamo qui, a guisa di illustrazione di quel che stiamo dicendo, alcune famose risposte date al problema del fondamento ultimo del potere, tenendo presente che ognuna di queste risposte p u ò essere concepita come la formulazione di una norma su-
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periore alla norma fondamentale, cui noi ci siamo arrestati, come la scoperta di un potere superiore al potere costituente, cioè di un potere che è la vera fonte ultima di ogni potere.
siddetto contratto sociale, cioè i n un accordo originario tra coloro che si riuniscono i n società oppure tra i membri di una società e coloro a cui viene affidato i l potere. Secondo questa dottrina, i l potere costituito trae la sua legittimità non già dal fatto di derivare da Dio o dalla natura, ma dalla volontà concorde di coloro che gli danno vita. Qui la volontà collettiva ha la stessa funzione di Dio nelle dottrine teologiche e della ragione nelle dottrine giusnaturalistiche: i n altre parole ha la funzione di rappresentare un grado ulteriore oltre la norma fondamentale di un ordinamento giuridico positivo, quel grado supremo che permetta di dare una risposta alla domanda intorno al fondamento del fondamento. Ma anche questa risposta, nonostante le apparenze, non è più realistica delle precedenti. E sposta i l problema, come le precedenti, dalla esistenza dell'ordinamento giuridico alla sua giustificazione.
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a) Ogni potere viene da Dio (omnis potestas nisi a Deo). Questa dottrina integra la norma fondamentale di un ordinamento giuridico, affermando che il dovere di ubbidire al potere costituente deriva dal fatto che questo potere (come ogni potere sovrano) deriva da Dio, cioè è stato autorizzato da Dio a emanare norme giuridiche valide. I l che significa che nella piramide dell'ordinamento bisogna aggiungere un grado superiore a quello rappresentato dal potere normativo degli organi costituzional i , e questo grado superiore è i l potere normativo divino. I l legislatore ordinario è delegato dal legislatore costituente; i l legislatore costituente è delegato da Dio. La norma fondamentale i n questo caso è quella che fa di Dio l'autorità capace di emanare norme obbligatorie per tutti gli uomini, e nello stesso tempo comanda a tutti gli uomini di ubbidire ai comandi di Dio. b) Il dovere d'ubbidire al potere costituito deriva dalla legge naturale. Per legge naturale s'intende una legge che non è stata posta da un'autorità storica, ma è rivelata all'uomo attraverso la ragione. La definizione più frequente del diritto naturale è dictamen rectae rationis. Per dare una giustificazione del diritto positivo, le teorie giusnaturalistiche scoprono un altro diritto, superiore al diritto positivo, che deriva non dalla volontà di questo o quell'uomo, ma dalla ragione stessa che è comune a tutti gli uomini. Alcune correnti giusnaturalistiche sostengono che uno dei precetti fondamentali della ragione, e quindi della legge naturale, è che bisogna ubbidire ai governanti (è la cosiddetta teoria dell'obbedienza). Per chi sostiene una teoria siffatta, la norma fondamentale d i un ordinamento positivo è fondata su una legge naturale che comanda di ubbidire alla ragione, la quale a sua volta comanda di ubbidire ai governanti. c) I l dovere di ubbidire al potere costituito deriva da una convenzione originaria, da cui il potere trae la propria giustificazione. Lungo tutto il corso del pensiero politico dall'antichità sino all'età modema, i l fondamento del potere è stato spesso trovato nel co-
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12. DIRITTO E FORZA
Oltre all'obiezione sul fondamento della norma fondamentale, la teoria della norma fondamentale è oggetto di un'altra critica molto frequente, che non riguarda più il fatto che una norma fondamentale vi sia, ma i l suo contenuto. La nonna fondamentale così come l'abbiamo qui presupposta stabilisce che bisogna ubbidire al potere originario (che è lo stesso potere costituente). Ma che cosa è i l potere originario? È l'insieme delle forze politiche che i n un determinato momento storico hanno preso i l sopravvento e hanno instaurato un nuovo ordinamento giuridico. Si obbietta allora che far dipendere tutto i l sistema normativo dal potere originario, significa ridurre il diritto alla forza. Sui rapporti tra diritto e forza ci siamo brevemente intrattenuti anche nel corso precedente. Qui cerchiamo di sviluppare quei concetti i n relazione alla presente discussione. I n primo luogo non bisogna confondere il potere con la forza (in particolare con la forza fisica). Parlando di potere originario, parliamo delle forze politiche che hanno instaurato un determinato ordinamento giuridico. Che questa instaurazione sia avvenuta mediante l'esercizio della forza fisica, non è affatto implicito nel concetto di potere. Si p u ò benissimo immaginare un potere che r i -
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posi esclusivamente sul consenso. Come abbiamo osservato nel corso precedente, qualsiasi potere originario riposa un po' sulla forza e un po' sul consenso. Quando la norma fondamentale dice che si deve ubbidire al potere originario, non deve affatto essere interpretata nel senso che si debba sottostare alla violenza, ma nel senso che si deve sottostare a coloro che hanno i l potere coercitivo. Ma questo potere coercitivo p u ò benissimo essere posseduto per consenso generale. I detentori del potere sono coloro che hanno la forza necessaria per far rispettare le norme che essi emanano. I n questo senso la forza è uno strumento necessario del potere. Non è detto che ne sia anche i l fondamento. La forza è necessaria per esercitare i l potere; non è necessaria per giustificarlo. Dicendo che i l diritto è fondato i n ultima analisi sul potere e intendendo per potere i l potere coercitivo, cioè i l potere d i far r i spettare, anche ricorrendo alla forza, le norme emanate, non diciamo nulla di diverso di quello che abbiamo ripetutamente affermato relativamente al diritto come insieme d i regole a efficacia rafforzata. Se i l diritto è un insieme di regole a efficacia rafforzata, ciò significa che un ordinamento giuridico è impensabile senza l'esercizio della forza, cioè senza un potere. Porre come fondamento ultimo di un ordine giuridico positivo il potere non vuol dire ridurre i l diritto alla forza, ma semplicemente riconoscere che la forza è necessaria per la realizzazione del diritto. I l che non è altro che ribadire il concetto del diritto come ordinamento a efficacia rafforzata. Se la forza è necessaria alla realizzazione del diritto, allora esiste un ordinamento giuridico (cioè che corrisponde alla definizione che abbiamo dato di diritto) solo se e sino a che è fatto valere con la forza: i n altre parole, un ordinamento giuridico esiste sino a che è efficace. Ciò implica ancora una differenza tra la considerazione della norma singola e quella dell'ordinamento nel suo complesso. Una norma singola, come abbiamo chiarito nel corso precedente (par. 10), p u ò essere valida senza essere efficace. Un ordinamento giuridico, preso nel suo complesso, è valido solo se è efficace. La norma fondamentale che ingiunge d i obbedire ai detentori del potere originario, è quella che legittima il potere originario a esercitare la forza: e i n questo senso, poiché l'esercizio della foi^za per far rispettare le norme è una caratteri-
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Stica dell'ordinamento giuridico, la norma fondamentale, così concepita, sta davvero a fondamento dell'ordinamento giuridico. Coloro che temono che con la norma fondamentale, come è stata qui concepita, si compia la riduzione del diritto alla forza, si preoccupano non tanto del diritto, quanto della giustizia. Ma questa preoccupazione è fuori luogo. La definizione del diritto, quale abbiamo qui accolta, non coincide con quella della giustizia. La norma fondamentale sta a fondamento del diritto quale esso è (il diritto positivo), non del diritto quale dovrebbe essere (il diritto giusto). Essa autorizza coloro che detengono il potere a esercitare la forza, ma non dice che l'uso della forza sia, per i l solo fatto di essere stato voluto dal potere originario, giusto. Essa dà una legittimazione giuridica non morale del potere. Il diritto qual è, è espressione dei più forti, non dei più giusti. Tanto meglio poi se i più forti sono anche i più giusti. Vi è un altro modo di intendere i rapporti tra diritto e forza, che è stato difeso recentemente dal Ross, ma fa capo soprattutto al Kelsen. Per dirla i n breve, noi sin qui abbiamo sostenuto che la forza è strumento per la realizzazione del diritto (inteso, i n senso ampio, come ordinamento giuridico). La teoria, enunciata dal Kelsen, e difesa dal Ross, sostiene invece che la forza è l'oggetto della regolamentazione giuridica, nel senso che per diritto si deve intendere non già un complesso di norme fatte valere con la forza, ma un complesso di norme che regolano l'esercizio della forza i n una determinata società. Quando i l Kelsen dice che i l diritto è un ordinamento coercitivo, vuole intendere che è composto di norme che regolano la coazione, e i n quanto tali stabiliscono i l modo con cui si debbano applicare certe sanzioni. Testualmente: «Una regola è una regola giuridica non perché la sua efficacia è assicurata da un'altra regola che dispone una sanzione; una regola è una regola giuridica perché dispone una sanzione. I l problema della coercizione non è i l problema di assicurare l'efficacia delle regole, ma il problema del contenuto delle regole» K Altrettanto esplicitamente il Ross: «Dobbiamo insistere sul fatto che la relazione tra le norme giuridiche e la forza consiste in ciò che esse riguardano l'applicazione della forza, e non già che
' Teorìa generale del dirìtto e dello stato, ediz. ital., Milano, 1952, pp. 28-29.
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sono protette per mezzo della forza» ^. E ancora: «Un sistema giuridico nazionale è un insieme di norme che riguardano l'esercizio della forza fisica»^. M i par chiaro che questo modo d'intendere i l diritto, che sposta la forza da strumento a oggetto della regolamentazione giuridica, è strettamente connesso con una teoria che conosciamo già dal corso precedente (cfr. par. 30), con la teoria che considera come norme giuridiche soltanto le norme secondarie, ovvero le norme che hanno per destinatari gli organi giudiziari. Non a caso i l Kelsen ha condotto alle estreme conseguenze la tesi che norme giuridiche sono soltanto quelle secondarie tanto da chiamarle "primarie". Le norme secondarie infatti possono essere definite come quelle norme che regolano il modo e la misura con cui debbono applicarsi le sanzioni, e poiché la sanzione è, i n ultima istanza, un atto di forza, esse, regolando l'applicazione delle sanzioni, regolano i n realtà l'esercizio della forza. Se ciò è vero, e lo conferma nel Kelsen sia la presenza della definizione del diritto come regola della forza, sia la identificazione delle norme giuridiche con le norme secondarie, la confutazione di questo modo di intendere i rapporti tra diritto e forza p u ò essere fatta con gli stessi argomenti con cui abbiamo cercato di confutare la considerazione delle norme secondarie come uniche norme giuridiche, i n quelle pagine del corso precedente a cui rinviamo. Qui, i n sede di teoria dell'ordinamento giuridico, possiamo aggiungere ancora un'osservazione. La definizione del diritto come insieme di regole per l'esercizio della forza, è una definizione del diritto che noi possiamo classificare tra le definizioni rispetto al contenuto. Ma è una definizione estremamente limitativa. Se noi consideriamo le norme singole d i un ordinamento, questa limitatezza della definizione salta subito agli occhi: noi chiamiamo norme giuridiche anche quelle che stabiliscono i n qual modo è obbligatorio o proibito o lecito ai cittadini comportarsi. Come abbiamo più volte detto, la giuridicità di una norma si determina non attraverso i l suo contenuto (e neppure attraverso la forma o
2 A. Ross, On Law and Justice, London, 1958, p. 53. ' Op. cit., p. 52.
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il fine e così via), ma semplicemente attraverso la sua appartenenza all'ordinamento, appartenenza che a sua volta si determina risalendo da norma inferiore a norma superiore sino alla norma fondamentale. Se noi consideriamo l'ordinamento giuridico nel suo complesso, è certamente lecito dire che un ordinamento diventa giuridico quando si vengono formando regole per l'uso della forza (si passa dalla fase dell'uso indiscriminato a quella dell'uso limitato e controllato della forza); ma non è altrettanto lecito dire che i n conseguenza di ciò un ordinamento giuridico è un insieme di regole per l'esercizio della forza. Le regole per l'esercizio della forza sono i n un ordinamento giuridico quella parte di regole che servono a organizzare la sanzione, e quindi a rendere più efficaci le norme di condotta e l'ordinamento stesso nella sua totalità. Lo scopo di un qualsiasi legislatore non è di organizzare la forza, ma di organizzare la società mediante la forza. La definizione del Kelsen e del Ross appare limitativa anche rispetto all'ordinamento giuridico preso nel suo complesso, perché scambia la parte col tutto, lo strumento col fine.
CAPITOLO I I I
LA COERENZA DELL'ORDINAMENTO
GIURIDICO
13. L'ordinamento giuridico come sistema. - 14. Tre significati di sistema. - 15. Le antinomie. - 16. Vari tipi di antinomie. - 17. Criteri per la soluzione delle antinomie. - 18. Insufficienza dei criteri. - 19. Conflitto dei criteri. - 20. Il dovere della coerenza. SOMMARIO:
13. L'ORDINAMENTO GIURIDICO COME SISTEMA
Nel capitolo precedente abbiamo parlato dell'unità dell'ordinamento giuridico, e abbiamo mostrato che di unità si p u ò parlare i n quanto si presupponga alla base dell'ordinamento una norma fondamentale alla quale si possano far risalire, direttamente o indirettamente, tutte le norme dell'ordinamento. L'ulteriore problema che ci si presenta è se un ordinamento giuridico, oltre che un'unità, costituisca anche un sistema, in breve, se sia un'unità sistematica. Intendiamo per "sistema" una totalità ordinata, cioè un insieme di enti, tra i quali esiste un certo ordine. Perché si possa parlare di un ordine, bisogna che gli enti costitutivi non siano soltanto in rapporto col tutto, ma siano anche i n rapporto di compatibilità tra di loro. Orbene, quando ci chiediamo se un ordinamento giuridico costituisca un sistema, ci chiediamo se le norme che lo compongono siano i n rapporto di compatibilità tra loro, e a quali condizioni sia possibile questo rapporto. Il problema del sistema giuridico è stato sinora scarsamente studiato. Giuristi e filosofi del diritto parlano i n genere del diritto come di un sistema; ma in che cosa consista questo sistema non
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Coerenza dell'ordinamento giuridico
è molto chiaro. Possiamo anche qui cominciare dall'analisi del concetto di sistema fatta dal Kelsen. Egli distingue tra gli ordinamenti normativi due tipi di sistemi, l'uno che chiama statico, l'altro dinamico. Sistema statico è quello i n cui le norme sono collegate le une alle altre come le proposizioni i n un sistema deduttivo, cioè per il fatto che si deducono le une dalle altre partendo da una o piìi norme originarie di carattere generale, che hanno la stessa funzione dei postulati o assiomi i n un sistema scientifico. Facciamo un esempio: Hobbes pone a fondamento della sua teoria del diritto e dello stato la massima "Pax est quaerenda", e con ciò vuol intendere che i l postulato etico fondamentale dell'uomo è che bisogna evitare la guerra e cercare la pace; da questa regola fondamentale deduce o pretende di dedurre tutte le principali regole della condotta umana, che chiama leggi naturali. È chiaro allora che tutte queste leggi formano un sistema i n quanto sono dedotte dalla prima. Una simile costruzione sistematica di un complesso di norme è ciò che Kelsen chiama "sistema statico". Si p u ò dire, con altre parole, che i n un sistema di questo genere le norme sono collegate tra di loro rispetto al loro contenuto. Sistema dinamico, invece, è quello i n cui le norme che lo compongono derivano le une dalle altre attraverso successive delegazioni d i potere, cioè non attraverso i l loro contenuto, ma attraverso l'autorità che le ha poste: un'autorità inferiore deriva da un'autorità superiore, sino a che si arriva all'autorità suprema che non ha alcuna altra autorità al di sopra di sé. Si p u ò dire, i n altre parole, che i l collegamento tra le varie norme è, i n questo t i po di ordinamento normativo, non materiale, ma formale. Un esempio di sistema dinamico sarebbe quello che ponesse al vertice dell'ordinamento la massima: "Bisogna ubbidire alla volontà di Dio": i n questo caso l'appartenenza di altre norme al sistema non sarebbe determinata dal loro contenuto, cioè dal fatto che stabiliscono una certa condotta piuttosto che un'altra, ma dal fatto che attraverso i l passaggio da un'autorità all'altra possano essere ricondotte all'autorità divina.
biamo aperte due strade, o quella di giustificarlo deducendolo da un comando di portata più generale oppure attribuendolo ad un'autorità indiscutibile. Per esempio, un padre ordina al figlio di fare i l compito, e i l figlio domanda perché. Se i l padre risponde: "Perché devi imparare", la giustificazione tende alla costruzione d i un sistema statico; se risponde: "Perché devi ubbidire a tuo padre", la giustificazione tende alla costruzione di un sistema dinamico. Poniamo che i l figlio, non soddisfatto, chieda un'ulteriore giustificazione. Nel primo caso chiederà: "Perché devo i m parare?". La costruzione del sistema statico porterà ad una r i sposta di questo genere: "Perché devi essere promosso". Nel secondo caso chiederà: "Perché devo ubbidire a mio padre?". La costruzione del sistema dinamico porterà ad una risposta di questo genere: "Perché tuo padre è stato autorizzato a comandare dalla legge dello stato". Si osservino, nell'esempio, i due diversi tipi di collegamento per passare da una norma all'altra: nel primo caso, attraverso i l contenuto della prescrizione; nel secondo caso, attraverso l'autorità che l'ha posta.
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La distinzione tra i due tipi di collegamento tra norme, quello materiale e quello formale, è constatabile nell'esperienza di tutti i giorni, quando, trovandoci a dovere giustificare un comando (e la giustificazione viene fatta inserendolo i n un sistema), ab-
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Fatta questa distinzione, il Kelsen sostiene che gli ordinamenti giuridici sono sistemi del secondo tipo, sono cioè sistemi dinamici. Sistemi statici sarebbero invece gli ordinamenti morali. Appare qui un altro criterio per la distinzione tra diritto e morale. L'ordinamento giuridico è un ordinamento i n cui l'appartenenza delle norme è giudicata i n base ad un criterio meramente formale, cioè indipendentemente dal contenuto; l'ordinamento morale è quello i n cui i l criterio di appartenenza delle norme al sistema è fondato su ciò che le norme prescrivono (non già sull'autorità da cui derivano). Ma se è così, sembra difficile parlare dell'ordinamento giuridico appropriatamente come di un sistema, cioè chiamare "sistema" l'ordinamento di tipo dinamico con quella stessa appropriatezza con cui si parla i n generale di sistema come totalità ordinata, e i n particolare di sistema statico. Quale ordine vi p u ò essere tra le norme di un ordinamento giuridico, se il criterio di appartenenza è puramente formale, cioè riguarda non la condotta che esse regolano ma unicamente i l modo con cui sono state poste? L'autorità delegata p u ò emanare qualsiasi norma? E se p u ò emanare qualsiasi norma, p u ò emanare anche una norma contraria a quella emanata da un'altra autorità delegata? Ma possiamo ancora parlare di sistema, di ordine, di tota-
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Coerenza dell'ordinamento giuridico
lità ordinata i n un complesso di norme i n cui due norme contraddittorie fossero entrambe legittime? I n un ordinamento giuridico complesso, come quello che abbiamo continuamente sottocchio, caratterizzato dalla pluralità delle fonti, non sembra dubbio che vi possano essere norme prodotte da una fonte i n contrasto con norme prodotte da un'altra fonte. Ora, stando alla definizione di sistema dinamico come quel sistema i n cui i l criterio d'appartenenza delle norme è puramente formale, si deve concludere che i n un sistema dinamico due norme i n contrasto sono perfettamente legittime. E infatti, per giudicare del contrasto di due norme bisogna esaminare i l loro contenuto; non basta r i ferirsi alla autorità che le ha emanate. Ma un ordinamento che ammetta nel suo seno enti i n contrasto tra loro si p u ò ancora chiamare "sistema"? Come si vede, che un ordinamento giuridico costituisca un sistema, soprattutto se si parte dall'identificazione dell'ordinamento giuridico col sistema dinamico, è tutt'altro che ovvio. O per lo meno, occorre precisare, se si vuol continuare a parlare di sistema normativo i n relazione al diritto, i n qual senso, a quali condizioni ed entro quali limiti se ne possa parlare.
diritto, se non collegando le sue affermazioni, i n guisa da ridurle ad un tutto a r m o n i c o » ' . I l Perassi nella sua Introduzione alle scienze giurìdiche: «Le norme, che entrano a costituire un ordinamento, non stanno isolate, ma diventano parte di un sistema, i n quanto certi principi agiscono come collegamenti, da cui le norme sono tenute insieme i n modo da costituire un blocco sistematico»^. Se passiamo dalle dichiarazioni programmatiche all'esercizio dell'attività del giurista, ci troviamo di fronte ad un'altra prova della tendenza costante della giurisprudenza a considerare i l diritto come sistema: la comune considerazione, tra le varie forme dell'interpretazione, della cosiddetta interpretazione sistematica. Si chiama "interpretazione sistematica" quella forma di interpretazione che trae i suoi argomenti dal presupposto che le norme di un ordinamento, o, più esattamente, di una parte dell'ordinamento (come il diritto privato, il diritto penale) costituiscano una totalità ordinata (anche se poi si lasci un po' nel vago che cosa si debba intendere con questa espressione), e pertanto sia lecito chiarire una norma oscura o addirittura integrare una norma deficiente ricorrendo al cosiddetto "spirito del sistema", anche andando contro a ciò che risulterebbe da una interpretazione meramente letterale. Anche qui per prendere un esempio a caso, r i cordiamo che l'art. 265 ce. riconosce solo la violenza e non l'errore tra i vizi del riconoscimento del figlio naturale. Un interprete, che ha ritenuto di dover accogliere tra i vizi del riconoscimento del figlio naturale anche l'errore, contro la lettera della legge, ha dovuto fare appello alla cosiddetta volontà oggettiva della legge, cioè a «quel comando che, per essere fondato sulla logica dell'intero sistema, p u ò dirsi realmente vincolante per l'interprete» ^. Che l'ordinamento giuridico, o almeno una parte di esso, costituisca un sistema, è dunque un abituale presupposto dell'attività interpretativa, uno dei ferri del mestiere, diremo così, del giurista.
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14. T R E SIGNIFICATI DI SISTEMA
Nel linguaggio giuridico corrente l'uso del termine "sistema" per indicare l'ordinamento giuridico è comune. Noi stessi nei capitoli precedenti abbiamo talvolta usato l'espressione "sistema normativo" anziché quella più frequente "ordinamento giuridico". Ma quale sia esattamente il significato della parola "sistema", riferita all'ordinamento giuridico, non viene d i solito chiarito. Consideriamo, a caso, due tra gli autori italiani più noti, Giorgio Del Vecchio e Tommaso Perassi. Leggiamo nel saggio di Del Vecchio, Sulla statualità del diritto, questo brano: «Le singole proposizioni giuridiche, pur potendo considerarsi anche per se stesse, nella loro astrattezza, tendono naturalmente a costituirsi i n sistema. La necessità della coerenza logica porta ad avvicinare quelle tra esse che siano compatibili o rispettivamente complementar i , e ad eliminare le contraddittorie od incompatibili. La volontà, che è una vivente logica, non p u ò svolgersi, anche nel campo del
' Il saggio, che è del 1928, si trova ora in Studi sul diritto, 1958, voi. I, pp. 8 9 - 1 1 5 . I l brano citato è a p. 9 7 . 2 T . PERASSI,
Introduzione alle scienze giuridiche,
1953,
p.
32.
L'errore nell'accertamento della filiazione naturale, in "Riv. trim. dir. e proc. civ.", VI ( 1 9 5 2 ) . p. 2 4 . ' F . SALVI,
Teorìa dell'ordinamento giurìdico
Coerenza dell'ordinamento giurìdico
Ma che vi sia un sistema normativo non vuol ancora dire che si sappia esattamente qual tipo di sistema esso sia. I l termine "sistema" è uno di quei termini a molti significati, che ciascuno usa secondo le proprie convenienze. Nell'uso storico della filosofia del diritto e della giurisprudenza m i pare che emergano tre significati diversi di sistema. Un primo significato è quello più vicino al significato di "sistema" nell'espressione "sistema deduttivo", o, più esattamente, è stato ricalcato su questo. I n tale accezione si dice che un dato ordinamento è un sistema i n quanto tutte le norme giuridiche di quell'ordinamento siano derivabili da alcuni principi generali (altrimenti detti "principi generali del diritto"), considerati alla stessa stregua dei postulati di un sistema scientifico. Questa accezione molto impegnativa, come ognun p u ò vedere, del termine sistema è stata riferita storicamente soltanto all'ordinamento del diritto naturale. È stata una delle più costanti pretese dei glusnaturalisti moderni, appartenenti alla scuola razionalistica, quella di costruire i l diritto naturale come un sistema deduttivo. E poiché l'esempio classico del sistema deduttivo era la geometria d i Euclide, la pretesa dei glusnaturalisti si risolveva nel tentativo (davvero disperato) di elaborare un sistema giuridico geometrico more demonstratum. Citiamo un passo molto significativo di Leibniz: «Da qualsiasi definizione si possono trarre conseguenze sicure, impiegando le incontestabili regole della logica. Questo è precisamente quanto si fa costruendo le scienze necessarie e dimostrative, che non dipendono dai fatti, ma unicamente dalla ragione, quali la logica, la metafisica, l'aritmetica, la geometria, la scienza del movimento, nonché la scienza del diritto, le quali non sono punto fondate sull'esperienza e sui fatti, ma servono piuttosto a rendere ragione dei fatti e a regolarli i n anticipo: ciò che varrebbe, per i l diritto, quand'anche non esistesse al mondo neppure una legge» E altrove: «La teoria del diritto è del numero d i quelle che non dipendono da esperimenti, ma da definizioni; non da ciò che mostrano i sensi, ma da ciò che dimostra la ragione»^.
Un secondo significato di sistema, che non ha niente a che vedere con quello illustrato, lo troviamo nella scienza del diritto moderna, che nasce, almeno sul continente, dalla pandettistica tedesca, e risale sino a Savigny il quale è l'autore, non a caso, del celebre Sistema del diritto romano attuale. È assai frequente tra i giuristi l'opinione che la scienza giuridica moderna sia nata nel passaggio dalla giurisprudenza esegetica alla giurisprudenza sistematica, o, i n altre parole, che la giurisprudenza si sia elevata al rango di scienza diventando "sistematica". Sembra quasi si voglia dire che la giurisprudenza, sino a che non giunga al sistema, non meriti i l nome d i scienza, ma sia soltanto arte ermeneutica, tecnica, commento a testi legislativi. Molti trattati di giuristi sono intitolati Sistema, evidentemente per indicare che ivi è svolta una trattazione scientifica. Che cosa significa i n questa accezione "sistema"? I giuristi non intendono certo dire che la giurisprudenza sistematica consista nella deduzione di tutto i l diritto da alcuni principi generali, come voleva Leibniz. Qui i l termine "sistema" è usato, al contrario, per indicare un ordinamento della materia, compiuto con procedimento induttivo, cioè partendo dal contenuto delle singole norme allo scopo di costruire concetti sempre più generali, e classificazioni o partizioni dell'intera materia: la conseguenza di queste operazioni sarà l'ordinamento del materiale giuridico, allo stesso modo che le laboriose classificazioni dello zoologo danno un ordinamento al regno animale. Nella espressione "giurisprudenza sistematica" si usa la parola "sistema" non nel senso delle scienze deduttive, ma i n quello delle scienze empiriche o naturali, cioè come ordinamento dal basso, nello stesso modo con cui si parla di una zoologia sistematica. I l procedimento tipico di questa forma di sistema non è la deduzione, ma la classificazione. I l suo scopo non è già quello d i sviluppare analiticamente, mediante regole prestabilite, alcuni postulati iniziali, ma di riunire i dati forniti dall'esperienza i n base alle somiglianze per formare concetti sempre più generali sino a giungere a quei concetti generalissimi che permettano di unificare tutto i l materiale dato. Ci rendiamo perfettamente conto del significato di sistema come ordinamento dal basso, proprio della giurisprudenza sistematica, se teniamo presente che una delle maggiori conquiste vantate da questa giurisprudenza è stata la teoria del negozio giuridico. I l concetto di negozio giu-
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'' Riflessioni sulla nozione comune di giustizia, in Scrìtti politici e di diritto naturale. Utet, Torino, 1951, p. 219. 5 Elementi di dirìtto naturale, cit., p. 87.
9. - N . BOBBIO: Teoria generale del dirillo
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ridico è manifestamente i l risultato di uno sforzo costruttivo e sistematico nel senso del sistema empirico che ordina generalizzando e classificando. Esso è venuto fuori dalla riunione di fenomeni vari e magari apparentemente lontani, ma che pure avevano i n comune la caratteristica di essere manifestazioni di volontà aventi conseguenze giuridiche. Il concetto più generale elaborato dalla giurisprudenza sistematica è molto probabilmente quello di rapporto giuridico: è un concetto che permette la riduzione di tutti i fenomeni giuridici ad uno schema unico, e favorisce quindi la costruzione di un sistema nel senso di sistema empirico o induttivo. I l concetto di rapporto giuridico è i l concetto sistematico per eccellenza della scienza giuridica moderna. Ma è chiaro che la sua funzione non è quella di avviare un processo di deduzione, ma d i permettere un migliore ordinamento della materia. Il terzo significato di sistema giuridico è indubbiamente i l più interessante, ed è quello su cui ci soffermiamo i n questo capitolo: si dice che un ordinamento giuridico costituisce un sistema perché non possono coesistere i n esso tìoi^ne incompatibili. Qui "sistema" equivale a validità del principio che esclude la incompatibilità delle norme. Se i n un ordinamento vengono ad esistere norme incompatibili, una delle due o tutte e due debbono essere eliminate. Se questo è vero, vuol dire che le norme d i un ordinamento hanno un certo rapporto tra loro, e questo rapporto è i l rapporto di compatibilità. Si badi però che i l dire che le norme debbono essere compatibili non vuol dire che si implichino l u n a con l'altra, cioè che costituiscano un sistema deduttivo perfetto. I n questo terzo senso di sistema, i l sistema giuridico non è un sistema deduttivo, come nel primo senso: è un sistema i n un senso meno pregnante, se si vuole, in un senso negativo, cioè di un ordine che esclude l'incompatibilità delle sue singole parti. Due proposizioni come: "La lavagna è nera" e " I l caffé è amaro" sono compatibili, ma non si implicano l'una con l'altra. Pertanto è inesatto parlare, come pur si fa frequentemente, di coerenza dell'ordinamento giuridico nel suo complesso: si p u ò parlare di esigenza di coerenza solo tra le singole parti di esso. I n un sistema deduttivo, se compare una contraddizione, crolla tutto il sistema. I n un sistema giuridico, l'ammissione del principio che esclude la incompatibilità ha per conseguenza, in caso di incompatibilità di
due norme, la caduta non già di tutto i l sistema, ma soltanto di una delle due norme o al massimo di tutte e due. Peraltro, se, confrontato con un sistema deduttivo, i l sistema giuridico è qualcosa di meno, confrontato col sistema dinamico, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, è qualcosa di più: infatti, se si ammette i l principio di compatibilità, per considerare l'appartenenza di una norma al sistema, non basterà più mostrarne la derivazione da una delle fonti autorizzate, ma sarà necessario anche mostrare che essa non è incompatibile con altre norme. I n questo senso, non tutte le norme prodotte dalle fonti autorizzate sarebbero norme valide, ma soltanto quelle che fossero compatibili con le altre. Si tratta di vedere peraltro se questo principio che esclude la incompatibilità esista e quale sia la sua funzione.
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15. L E ANTINOMIE
La situazione di norme tra loro incompatibili è una tradizionale difficoltà cui si sono trovati innanzi i giuristi di tutti i tempi, e ha avuto una propria denominazione caratteristica: antinomia. La tesi che l'ordinamento giuridico costituisca un sistema nel terzo senso illustrato si p u ò esprimere anche dicendo che il diritto non tollera antinomie. Nella nostra tradizione romanistica il problema delle antinomie fu già posto con la massima chiarezza nelle due celebri costituzioni di Giustiniano, con cui si apre i l Digesto: qui Giustiniano afferma imperiosamente che nel Digesto non vi sono norme incompatibili e usa la parola "antinomia". «Nulla itaque i n omnibus praedicti codicis membris antinomia (sic enim a vetustate Gracco vocabulo noncupatur) aliquid sibi vindicet lucum, sed sit una concordia, una consequentia, adversario nemine constituto» {Deo auctore, o De conceptione digestorum). Analogamente: «Contrarium autem aliquid in hoc codice positum nullum sibi locum vindicabit nec invenitur, si quis subtili animo diversitatis rationes excutiet» {Tanta, o De confìrmatione digestorum). Che nel diritto romano, considerato per lunghi secoli i l diritto per eccellenza, non vi fossero antinomie fu canone costante per gli interpreti, per lo meno sino a che i l diritto ro-
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mano fu diritto vigente. Uno degli scopi dell'interpretazione giuridica era anche quello d i eliminare le antinomie, se mai qualcuna fosse apparsa, ricorrendo ai più diversi mezzi ermeneutici. I n questa opera di risoluzione delle antinomie furono elaborate alcune regole tecniche che vedremo i n seguito. Ma prima ci tocca rispondere alla domanda: quando due norme si dicono incompatibili? I n che cosa consiste un'antinomia giuridica? Per chiarire questo punto ci richiamiamo a quanto abbiamo detto nel corso precedente sui rapporti intercorrenti tra le quattro figure di qualificazione normativa, i l comandato, il proibito, i l permesso positivo e i l permesso negativo. Riportiamo per comodità i l quadrato, illustrativo di questi rapporti, già rappresentato a p. 153 della Parte Prima: Teoria della norma giuridica:
Sono rapporti di incompatibilità i primi tre; sono rapporti di compatibilità gli ultimi tre. Infatti:
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1. O e O non sono due contrari, e due contrari possono, sì, essere entrambi falsi (F), ma non possono essere entrambi veri (V): 0
0 non
V
F
F
VoF
2. O e non O sono due contraddittori, e due contraddittori non possono essere n é entrambi veri né entrambi falsi: 0
non 0
V
F
F
V
contrari
3. O non e non O non sono pure due contraddittori, e vale per essi la regola precedente: non 0 non
subcontrari
non 0
Questo quadrato rappresenta sei rapporti, vale a dire:
0 non
non O non
V
F
F
V
1. O - O non: rapporto tra obbligatorio e proibito; 2. O - non O: rapporto tra obbligatorio e permesso negativo; 3. O non - non O non: rapporto tra divieto e permesso positivo; 4. O - non O non: rapporto tra obbligatorio e permesso positivo; 5. O non - non O: rapporto tra proibito e permesso negativo; 6. non O non - non O: rapporto tra permesso positivo e permesso negativo. Se noi definiamo incompatibili due proposizioni (nel nostro caso due norme) che non possono essere entrambe vere, dei sei rapporti indicati tre sono di incompatibilità e tre di compatibilità.
A. O Q. mn O non sono due subalterni, tra cui esiste un rapporto d'implicazione, nel senso che dalla verità del primo (o subalternante) si deduce la verità del secondo e non viceversa, e dalla falsità del secondo (o subaltemato) si deduce la falsità del primo e non viceversa. (Se un'azione è obbligatoria è necessariamente anche permessa, mentre non è detto che un'azione permessa sia anche obbligatoria). Graficamente, distinguendo il rapporto che va da O a non O non (o rapporto di superimplicazione) da quello che va da non O non a O (o rapporto di subimplicazione):
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Teoria dell'ordinamento giurìdico
o
non O non
non O non
0
V
V
V
VoF
F
Fo V
F
F
5. O non e non O sono anch'essi subalterni, e valgono le considerazioni del numero precedente. 6. non O non e non O sono subcontrari e vale per essi la regola che possono essere entrambi veri, ma non possono essere entrambi falsi: non 0 non
non O
F
V
V
VoF
Se si osservano attentamente le rappresentazioni grafiche, risulta che nei primi tre casi non si ha mai la situazione i n cui si trovino a fianco a fianco due V (il che significa che i n nessuno dei primi tre casi le due proposizioni possono essere entrambe vere); al contrario, negli ultimi tre casi si possono trovare l'uno a fianco dell'altro i due V (il che significa che i n tutti e tre questi casi le due proposizioni possono essere entrambe vere). Ripetiamo dunque che se definiamo norme incompatibili quelle che non possono essere entrambe vere, rapporti di incompatibilità normativa si verificano i n questi tre casi: 1. tra una norma che comanda di fare alcunché e una norma che proibisce d i farlo (contrarietà); 2. tra una norma che comanda di fare e una che permette d i non fare (contraddittorietà); 3. tra una norma che proibisce di fare e una che permette di fare (contraddittorietà).
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Primo caso: l'art. 27 Cost. nel quale si legge: «La responsabilità penale è personale» è i n contrasto con l'art. 57, 2° comma, c.p. i l quale attribuisce al direttore del giornale una responsabilità per i reati commessi col mezzo della stampa dai suoi collaboratori, se si interpreta questo articolo come configurante una responsabilità oggettiva (ma si p u ò interpretare anche in altri modi che fanno venir meno l'antinomia). Si tratta di due articoli rivolti agli organi giudiziari, dai quali i l primo p u ò essere formulato i n questo modo: «I giudici non devono condannare chi non sia personalmente responsabile»; i l secondo nel modo opposto: «I giudici devono condannare qualcuno (nel caso specifico i l direttore del giornale), anche se non è personalmente responsabile». Poiché una norma obbliga e l'altra proibisce lo stesso comportamento, si tratta di due norme incompatibili per contrarietà. Secondo caso: l'art. 18 T.U. delle Leggi sulla Pubblica Sicurezza dice: «I promotori di una riunione i n luogo pubblico o aperto al pubblico devono dame avviso, almeno tre giomi prima, al questore»; l'art. 17, 2° comma, Cost. dice: «Per le riunioni, anche i n luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso». Qui i l contrasto è chiaro: l'art. 18 T.U. obbliga a fare quello che l'art. 17 Cost. permette di non fare. Si tratta di due norme incompatibili perché sono contraddittorie. Terzo caso: l'art. 502 c.p. considera lo sciopero come un reato; l'art. 40 Cost. dice che «Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano». Ciò che la prima norma proibisce, la seconda norma considera lecito, cioè permette di fare (se pur entro certi limiti). Anche queste due norme sono incompatibili per contraddittorietà.
16. VARI TIPI DI ANTINOMIE
Illustriamo questi tre casi con tre esempi^:
* Traggo questi esempi e altri spunti in questo capitolo dal libro di G . Delle antinomie, Torino, 1959.
GAVAZZI,
Abbiamo definito l'antinomia come quella situazione in cui vengono poste i n essere due norme, delle quali l'una obbliga e l'altra proibisce, o l'una obbliga e l'altra permette, o l'una proibisce e l'altra permette, lo stesso comportamento. Ma la definizione non
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è completa. Perché si possa dare antinomia occorrono due condizioni, che, per quanto ovvie, debbono pur essere rese esplicite: 1. le due norme debbono appartenere allo stesso ordinamento. I l problema di un'antinomia tra due norme appartenenti a diversi ordinamenti nasce quando questi ordinamenti non sono indipendenti tra loro, ma sono tra loro i n un qualche rapporto che p u ò essere di coordinazione o di subordinazione. Vedremo meglio la natura di questo problema nell'ultimo capitolo dedicato appunto ai rapporti tra ordinamenti. Qui basti accennare alla tradizionale discussione intorno alla compatibilità delle norme di u n ordinamento positivo con quelle del diritto naturale. Un vero e proprio problema di antinomie tra diritto positivo e diritto naturale (cioè tra due ordinamenti diversi) sussiste, nella misura i n cui si consideri i l diritto positivo come ordinamento subordinato al diritto naturale: i n questo caso l'interprete sarà tenuto a eliminare non soltanto le antinomie all'interno dell'ordinamento positivo, ma anche quelle sussistenti tra ordinamento positivo e ordinamento naturale. Noi abbiamo parlato sinora dell'ordinamento giuridico come sistema. Ma nulla esclude che i l sistema risulti dal collegamento di più ordinamenti in un ordinamento più generale. Lo stesso passaggio da norma inferiore a norma superiore, che abbiamo constatato all'interno di un singolo ordinamento, p u ò avvenire da ordinamento inferiore a ordinamento superiore sino a un ordinamento supremo che tutti l i abbracci (al diritto naturale è stata attribuita di solito la funzione di questo coordinamento universale di tutto i l diritto); 2. le due norme debbono avere lo stesso ambito di validità. Si distinguono quattro ambiti di validità di una norma: temporale, spaziale, personale, materiale. Non costituiscono antinomia due norme che non coincidano rispetto alla: a) validità temporale: "È vietato fumare dalle cinque alle sette" non è incompatibile con: "È permesso fumare dalle sette alle nove"; b) validità spaziale: "È vietato fumare nella sala cinematografica" non è incompatibile con "È permesso fumare nella sala d'aspetto";
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c) validità personale: "È vietato fumare ai minori di 18 anni" non è incompatibile con "È permesso fumare agli adulti"; d) validità materiale: "È vietato fumare sigari" non è incompatibile con "È permesso fumare sigarette". Dopo queste precisazioni possiamo ridefinire l'antinomia giuridica come quella situazione che si verifica tra due norme incompatibili, appartenenti allo stesso ordinamento e aventi lo stesso ambito di validità. Le antinomie, così definite, possono essere alla loro volta distinte i n tre tipi diversi, a seconda della maggiore o minore estensione del contrasto tra le due norme. 1. Se due norme incompatibili hanno eguale ambito di validità, l'antinomia si p u ò chiamare, seguendo la terminologia del Ross che ha richiamato l'attenzione su questa distinzione^, totale-totale: i n nessun caso una delle due norme p u ò essere applicata senza venire i n conflitto con l'altra. Esempio: "È vietato fumare agli adulti, dalle cinque alle sette, nella sala cinematografica" e "È permesso fumare agli adulti, dalle cinque alle sette, nella sala cinematografica". Tra gli esempi fatti precedentemente è un caso di antinomia totale-totale i l contrasto tra la proibizione dello sciopero e i l permesso dello sciopero. 2. Se due norme incompatibili hanno ambito di validità in parte eguale e in parte diverso, l'antinomia sussiste solo per quella parte che esse hanno i n comune, e si p u ò chiamare parziale-parziale: ognuna delle norme ha un campo di applicazione che è i n conflitto con l'altra, e un campo di applicazione i n cui il conflitto non esiste. Esempio: "È vietato fumare agli adulti, dalle cinque alle sette, nella sala cinematografica, la pipa e i l sigaro" e "È permesso fumare agli adulti dalle cinque alle sette, nella sala cinematografica, il sigaro e le sigarette". 3. Se di due norme incompatibili, una ha un ambito di validità eguale a quello dell'altra, ma più ristretto, o, i n altre parole, i l suo ambito di validità è i n parte eguale ma anche i n parte diverso r i -
' Ross, op. cit., pp. 128-129.
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spetto a quello dell'altra, l'antinomia è totale da parte della prima norma rispetto alla seconda, e solo parziale da parte della seconda rispetto alla prima, e si p u ò chiamare totale-parziale. La prima norma non p u ò essere i n alcun caso applicata senza entrare i n conflitto con la seconda; la seconda ha una sfera di applicazione i n cui non entra in conflitto con la prima. Esempio: "È vietato fumare agli adulti, dalle cinque alle sette, nella sala cinematografica" e "È permesso fumare agli adulti, dalle cinque alle sette, nella sala cinematografica, soltanto sigarette". Accanto al significato qui illustrato di antinomia come situazione prodotta dall'incontro di due norme incompatibili, si parla, nel linguaggio giuridico, d i antinomie con riferimento anche ad altre situazioni. Ci limitiamo qui ad elencare altri significati di antinomia, facendo presente però che i l problema classico delle antinomie giuridiche è quello illustrato sin qui. Tanto per distinguerle le chiameremo antinomie improprie^. Si parla di antinomia nel diritto con riferimento al fatto che un ordinamento giuridico p u ò essere ispirato a valori contrapposti (a opposte ideologie): si considerano, ad esempio, i l valore della libertà e quello della sicurezza come valori antinomici, nel senso che la garanzia della libertà va di solito a danno della sicurezza, e la garanzia della sicurezza tende a restringere la libertà; di conseguenza, un ordinamento che si ispiri a entrambi i valori, si dice che riposa sopra principi antinomici. I n questo caso si p u ò parlare di antinomie di principio. Le antinomie di principio non sono antinomie giuridiche propriamente dette; ma possono dar luogo a norme incompatibili. È lecito supporre che una fonte di norme incompatibili possa essere i l fatto che l'ordinamento sia minato da antinomie di principio. Un'altra accezione di antinomia è la cosiddetta antinomia di valutazione, che si verifica nel caso i n cui una norma punisca un delitto minore con una pena pivi grave di quella inflitta ad un delitto maggiore. È chiaro che i n questo caso non esiste un'antinomia i n senso proprio, perché le due norme, quella che punisce i l delitto più grave con pena minore e quella che punisce i l delitto meno grave con pena maggiore, sono perfetta-
* Traggo questo elenco dall'ampia trattazione di K. das jurìstische Denken, 1956, p. 158 ss.
ENGISCH,
Einfilhmng in
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mente compatibili. Non di antinomia si deve parlare i n questo caso, ma di ingiustizia. Ciò che antinomia e ingiustizia hanno i n comune è che entrambe danno luogo ad una situazione che richiede una correzione: ma la ragione per cui si corregge l'antinomia è diversa da quella per cui si corregge l'ingiustizia. L'antinomia produce incertezza; l'ingiustizia produce diseguaglianza, e quindi la correzione ubbidisce nei due casi a due diversi valori, là al valore dell'ordine, qua a quello della eguaglianza. Una terza accezione di antinomia si riferisce alle cosiddette antinomie teleologiche, che hanno luogo quando esiste un contrasto tra la norma che prescrive i l mezzo per raggiungere i l fine e quella che prescrive i l fine, di guisa che se io applico la norma che prevede il mezzo non sono in grado di raggiungere i l fine, e viceversa. Qui i l contrasto nasce i l più delle volte dalla insufficienza del mezzo: ma allora si tratta, più che di antinomia, di lacuna (e delle lacune parleremo ampiamente nel capitolo quarto).
17. CRITERI PER LA SOLUZIONE DELLE ANTINOMIE
Data la tendenza d i ogni ordinamento giuridico a costituirsi i n sistema, la presenza di antinomie in senso proprio è un difetto che l'interprete tende ad eliminare. Poiché "antinomia" significa incontro di due proposizioni incompatibili, che non possono essere entrambe vere e, con riferimento ad un sistema normativo, incontro di due norme che non possono essere entrambe applicate, la eliminazione dell'inconveniente non potrà consistere che nella eliminazione di una delle due norme (in caso di norme contrarie, anche nella eliminazione di tutte e due). Ma quale delle due norme deve essere eliminata? Qui sta i l problema più grave delle antinomie. Ciò che abbiamo detto nel par. 3 riguardava le regole per stabilire quando ci si trovi di fronte ad un'antinomia. Ma altro è scoprire l'antinomia; altro è risolverla. Le regole considerate sinora ci servono per sapere che due norme sono incompatibili, ma non ci dicono nulla su quale delle due debba essere conservata e quale eliminata. Occorre passare dalla determinazione delle antinomie alla soluzione delle antinomie. Nel corso della sua secolare opera di interpretazione delle leg-
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gì, la giurisprudenza ha elaborato alcune regole per la soluzione delle antinomie, che sono comunemente accettate. Peraltro, bisogna aggiungere subito che queste regole non servono a risolvere tutti i casi possibili di antinomia. Di qua deriva la necessità di introdurre una nuova distinzione nell'ambito stesso delle antinomie proprie, cioè la distinzione tra le antinomie solubili e le antinomie insolubili. Le ragioni per cui non tutte le antinomie sono solubili sono due:
lere la norma precedente, la legge successiva sarebbe un atto inutile e senza scopo. Nel nostro ordinamento positivo i l principio della lex posterior è chiaramente enunciato dall'art. 15 delle Disposizioni preliminari, i n cui, tra le cause di abrogazione, si enumera anche quella derivata dalla emanazione di una legge incompatibile con una legge precedente. Testualmente: «Le leggi non sono abrogate che ... per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti». I l criterio gerarchico, detto anche della lex superior, è quello i n base al quale di due norme incompatibili prevale quella gerarchicamente superiore: lex superior derogai inferiori. Non abbiamo difficoltà a comprendere la ragione di questo criterio dopoché abbiamo visto, nel capitolo precedente, che le norme di un ordinamento sono poste su piani differenti, sono cioè disposte i n ordine gerarchico. Una delle conseguenze della gerarchia normativa è appunto questa: le norme superiori possono abrogare le inferiori; le norme inferiori non possono abrogare le superiori. La inferiorità di una norma rispetto ad un'altra consiste nella minor forza del suo potere normativo; questa minor forza si manifesta per l'appunto nell'incapacità di stabilire una regolamentazione che sia i n contrasto con la regolamentazione di una norma gerarchicamente superiore. Nel nostro ordinamento il principio della gerarchia tra norme è espresso i n varie forme. La superiorità delle norme costituzionali su quelle ordinarie è sancita dall'art. 134 Cost.; quella delle leggi ordinarie sui regolamenti, dall'art. 4 Disp. prel. («I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi»); quella delle leggi ordinarie sulle sentenze del giudice, dall'art. 360 c.p.c, che stabilisce i motivi d'impugnazione di una sentenza, tra cui la "violazione o falsa applicazione di norme di diritto"; infine la superiorità delle leggi ordinarie sugli atti dell'autonomia privata, dall'art. 1343 c e , che considera come causa illecita di un contratto i l fatto che sia contrario "a norme imperative".
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1. vi sono casi d i antinomie a cui non si p u ò applicare nessuna delle regole escogitate per la soluzione delle antinomie; 2. vi sono casi i n cui si possono applicare contemporaneamente due o più regole i n conflitto tra loro. Chiamiamo le antinomie solubili apparenti; quelle insolubili, reali. Diremo dunque che le antinomie reali sono quelle i n cui l'interprete è abbandonato a se stesso o per la mancanza di un criterio o per conflitto tra i criteri dati: ad esse dedicheremo i due paragrafi seguenti. Le regole fondamentali per la soluzione delle antinomie sono tre: a) i l criterio cronologico; b) i l criterio gerarchico; c) i l criterio della specialità. Il criterio cronologico, detto anche della lex posterior, è quello i n base al quale di due norme incompatibili prevale quella successiva: lex posterior derogai priori. Questo criterio non ha bisogno di particolare commento. È regola generale nel diritto che la volontà successiva abroghi la precedente, che di due atti di volontà della stessa persona, quello valido sia l'ultimo nel tempo. Si immagini la legge come espressione della volontà del legislatore. Non si avrà difficoltà a rendersi ragione della regola. La regola contraria ostacolerebbe il progresso giuridico, l'adattamento graduale del diritto alle esigenze sociali. Pensiamo, per assurdo, alle conseguenze che deriverebbero dalla regola che prescrivesse d i attenersi alla norma precedente. Inoltre si presume che i l legislatore non voglia far cosa inutile e senza scopo: se dovesse preva-
Un problema più complesso sorge per i rapporti tra legge e consuetudine. Nel nostro ordinamento la consuetudine è una fonte gerarchicamente inferiore alla legge. Nell'art. I Disp. prel., la consuetudine occupa nell'enumerazione delle fonti il terzo posto (viene cioè dopo le leggi e i regolamenti). Dall'art. 8 risulta che gli usi «nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti ... hanno effi-
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cacia solo i n quanto sono da essi richiamati». Dal fatto che la consuetudine sia gerarchicamente inferiore alla legge, deriva che tra due norme incompatibili, di cui una è consuetudinaria, prevale quella legislativa. Con espressione più corrente si dice che la consuetudine vale secundum e praeter legem; ma non vale cantra legem. I n altre parole, negli ordinamenti in cui la consuetudine è inferiore alla legge, non vale la consuetudine abrogativa; la legge non p u ò essere abrogata da una consuetudine contraria. Ma questo principio non vale i n tutti gli ordinamenti. Vi sono ordinamenti, più primitivi, meno accentrati, i n cui legge e consuetudine sono fonti a pari grado. I n caso di conflitto tra legge e consuetudine che cosa accade? Evidentemente non si p u ò applicare i l criterio gerarchico. Si applicherà allora i l criterio cronologico, con la conseguenza che la legge successiva abroga la consuetudine precedente e viceversa. Un ordinamento i n cui la consuetudine ha maggior forza che negli ordinamenti statuali moderni è, ad esempio, i l diritto canonico. I l can. 27 presenta tre casi: 1) una consuetudine contraria al diritto divino e naturale: non prevale; 2) una consuetudine contraria al diritto umano ecclesiastico: prevale, a condizione che sia rationabilis e abbia avuto una durata di quarant'anni; 3) una consuetudine contraria ad una legge umana ecclesiastica che escluda la validità di qualsiasi futura consuetudine: prevale, a condizione che abbia avuto una durata di almeno cento anni o sia immemorabile. Come si vede, nel diritto canonico, la consuetudine abrogativa, pur entro certi limiti, è ammessa. Come dicevamo, i l caso del rapporto tra legge e consuetudine è più complesso perché non p u ò ricevere una risposta generale: alcuni ordinamenti considerano la consuetudine inferiore alla legge, e allora i n caso di antinomia si applica i l criterio della lex superior; altri ordinamenti considerano legge e consuetudine sullo stesso piano, e allora bisogna applicare altri criteri. I n generale, la prevalenza della legge è i l frutto della formazione dello stato modemo con potere fortemente accentrato. Nell'antico diritto romano, nel diritto inglese, nella società medioevale, la consuetudine era fonte primaria, superiore alla stessa legge: la legge contraria alla consuetudine veniva ammessa mediante una applicazione del terzo criterio, i n quanto veniva considerata come lex specialis. I l terzo criterio, detto appunto della lex specialis, è quello i n base a cui di due norme incompatibili, una generale e una speciale
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(o eccezionale), prevale la seconda: lex specialis derogai generali. Anche qui la ragione del criterio non è oscura: legge speciale è quella che deroga ad una legge più generale, ovvero che sottrae ad una norma una parte della sua materia per sottoporla ad una regolamentazione diversa (contraria o contraddittoria). I l passaggio da una regola più estesa (che abbraccia un certo genus) ad una regola derogatoria meno estesa (che abbraccia una species del genus) corrisponde ad una fondamentale esigenza di giustizia, intesa come egual trattamento delle persone che appartengono alla stessa categoria. I l passaggio dalla regola generale a quella speciale corrisponde ad un naturale processo di differenziazione delle categorie, e ad una graduale scoperta, da parte del legislatore, di questa differenziazione. Avvenuta o scoperta la differenziazione, i l persistere nella regola generale importerebbe i l trattamento eguale di persone che appartengono a categorie diverse, e quindi un'ingiustizia. I n questo processo di graduale specializzazione, operato attraverso le leggi speciali, si attua una delle regole fondamentali della giustizia, quella del suum cuique tribuere. Si capisce dunque perché la legge speciale debba prevalere su quella generale: essa rappresenta un momento ineliminabile dello sviluppo di un ordinamento. Bloccare la legge speciale dinanzi a quella generale vorrebbe dire arrestare questo sviluppo. Nel nostro diritto, questo criterio di specialità si trova, ad esempio, enunciato nell'art. 15 c.p.: «Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito». La situazione antinomica, creata dal rapporto tra una legge generale e una legge speciale, è quella che corrisponde al tipo di antinomia totale-parziale. Ciò significa che quando si applica i l criterio della lex specialis non avviene la eliminazione totale di una delle due norme incompatibili, bensì soltanto di quella parte della legge generale che è incompatibile con quella speciale. Per effetto della legge speciale la legge generale cade parzialmente. Quando si applica i l criterio cronologico o quello gerarchico, si ha generalmente l'eliminazione totale di una delle due norme. A differenza poi dal rapporto cronologico e da quello gerarchico che non suscitano necessariamente situazioni antinomiche, i l rapporto di specialità è necessariamente antinomico. I l che significa
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che i due primi criteri si applicano, quando sorge un'antinomia; il terzo si applica perché viene ad esistenza un'antinomia.
Quid faciendum? Esiste un quarto criterio che permetta di r i solvere le antinomie di questo tipo? Qui per "esiste" intendiamo un criterio "valido", cioè un criterio che sia riconosciuto vincolante dall'interprete o per la sua ragionevolezza o per il lungo incontrastato uso. Dobbiamo rispondere di no. L'unico criterio, di cui si trova cenno i n vecchi trattatisti (ma non m i è più stato dato di trovarlo menzionato nei trattati moderni, e comunque occorrerebbe cercare una conferma i n una paziente analisi delle decisioni dei magistrati), è quello che veniva tratto dalla forma della norma. Secondo la forma le norme possono essere, come abbiamo più volte visto, imperative^, proibitive, permissive. I l crite-
rio è certamente applicabile, perché è chiaro che due norme incompatibili sono diverse quanto alla forma: se una è imperativa l'altra è o proibitiva o permissiva e così via. Non è detto però che sia giusto, e che sia costantemente seguito dai giuristi. I l criterio rispetto alla forma consisterebbe nello stabilire una graduatoria di prevalenza tra le tre forme della norma giuridica, per esempio, i n questo modo: se di due norme incompatibili una è imperativa o proibitiva e l'altra è permissiva, prevale la permissiva. Questo criterio sembra ragionevole, e conispondente a uno dei canoni interpretativi più costantemente seguiti dai giuristi, quello di dar prevalenza, in caso di ambiguità o incertezza nell'interpretazione di un testo, all'interpretazione favorabilis su quella odiosa. In linea generale, se si intende per lex favorabilis quella che concede una qualche libertà (o facoltà, o diritto soggettivo), e per lex odiosa quella che impone un obbligo (seguito da sanzione), non c'è dubbio che una lex permissiva è favorabilis, e una lex imperativa è odiosa. I l canone, peraltro, è assai meno evidente d i quel che possa sembrare dalle cose dette, per la semplice ragione che la norma giuridica è bilaterale, cioè nello stesso tempo attribuisce un diritto ad una persona e impone un obbligo (positivo o negativo) ad un'altra persona; donde risulta che l'interpretazione i n favore di un soggetto è nello stesso tempo odiosa per i l soggetto in rapporto giuridico col primo, e viceversa. I n altre parole, si capisce che se io interpreto una norma nella maniera più favorevole per il debitore, facendo prevalere, i n caso di ambiguità o di conflitto, l'interpretazione che gli riconosce un certo diritto piuttosto che quella che gli imporrebbe un certo obbligo, questa mia interpretazione è odiosa nei confronti del creditore. Di qua deriva l'ambiguità del canone denunciato. I l problema reale, cui si trova dinnanzi l'interprete, non è quello di far prevalere la norma permissiva sull'imperativa o viceversa, bensì quello di quale dei due soggetti del rapporto giuridico sia più giusto proteggere, cioè quale dei due interessi in conflitto sia giusto far prevalere: ma i n questa decisione la differenza formale tra le norme non gli porge i l minimo aiuto.
' Qui intendo "imperativo" in senso stretto, con esclusivo riferimento agli imperativi positivi.
Nel conflitto tra due norme incompatibili, vi è, rispetto alla forma delle norme, un altro caso: quello in cui una delle due norme sia imperativa e l'altra proibitiva. Qui una soluzione potrebbe essere desunta dalla considerazione che, mentre nel primo caso,
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1 8 . INSUFFICIENZA DEI CRITERI
Il criterio cronologico serve quando due norme incompatibili sono successive; il criterio gerarchico serve quando due norme i n compatibili sono a diverso livello; il criterio di specialità serve nello scontro di una norma generale con una norma speciale. Ma vi p u ò essere i l caso i n cui si verifica un'antinomia tra due norme: 1) contemporanee; 2) sullo stesso livello; 3) entrambe generali. Si capisce che i n questo caso i tre criteri non soccorrono più. E i l caso è meno infrequente di quanto si possa immaginare. Corrisponde alla situazione di due norme generali incompatibili, che sì trovino nello stesso codice. Se i n un codice vi sono antinomie del tipo totale-totale e parziale-parziale (con esclusione del tipo totale-parziale che cade sotto i l criterio della specialità), queste antinomie non sono risolubili con nessuno dei tre criteri: non col cronologico, perché le norme di un codice sono emanate nello stesso tempo; non col gerarchico, perché sono tutte quante leggi ordinarie; non col criterio della specialità, perché questo risolve solo i l caso di antinomia totale-parziale.
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già illustrato, si tratta di un conflitto tra due norme contraddittorie, rispetto alle quali tertium non datar (o si applica l u n a o si applica l'altra), in questo secondo caso si tratta di un conflitto tra due norme contrarie, le quali si escludono, sì, a vicenda, ma non escludono una terza soluzione, nel senso, già illustrato, secondo cui due proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false. Nel conflitto tra obbligo positivo e obbligo negativo, i l tertium è i l permesso. Si p u ò allora ritenere abbastanza fondata la regola che, nel caso di due norme contrarie, cioè tra una norma che obbliga di fare alcunché e una norma che proibisce di fare la stessa cosa, queste due norme si elidano a vicenda e pertanto i l comportamento, anziché essere o comandato o proibito, si ritenga permesso o lecito. Dobbiamo però riconoscere che queste regole desunte dalla forma della norma non hanno il carattere vincolante di quelle desunte dai tre criteri esaminati nel paragrafo precedente. Ciò significa, i n altre parole, che nel caso di un conflitto i n cui non si possa applicare nessuno dei tre criteri, la soluzione del conflitto è affidata alla libertà dell'interprete: potremmo quasi parlare di un vero e proprio potere discrezionale dell'interprete, al quale è rimesso di risolvere i l conflitto secondo opportunità, valendosi di tutte le tecniche ermeneutiche che sono adoperate per lunga e consolidata tradizione dai giuristi, e non limitandosi ad applicare una regola sola. Diciamo dunque più i n generale che, nel caso di conflitto tra due norme, per il quale non valga né il criterio cronologico n é quello gerarchico né quello della specialità, l'interprete, sia esso i l giudice o i l giurista, ha dinnanzi a sé tre possibilità:
pretazione è compiuta dal giudice, questi i n generale (negli ordinamenti statuali moderni) ha i l potere di non applicare la norma che ritiene incompatibile nel caso concreto, ma non già di espellerla dal sistema (cioè di abrogarla), tanto è vero che i l giudice successivo, dovendo giudicare lo stesso caso, potrebbe dare al conflitto di norme opposta soluzione, e applicare proprio quella norma che il giudice precedente aveva eliminato. Non è molto facile trovare esempi di interpretazione abrogante. Nel nostro Codice civile, un esempio di norme che sono state considerate manifestamente i n contrasto tra di loro è quello dell'art. 1813 e dell'art. 1822. L'art. 1813 definisce i l mutuo come un contratto reale: «Il mutuo è i l contratto col quale una parte corisegna all'altra una determinata quantità di denaro, ecc.»; l'art. 1822 disciplina la promessa d i mutuo: «Chi ha promesso di dare a mutuo p u ò r i fiutare l'adempimento della sua obbligazione, ecc.». Ma che cosa significa l'ammissione del valore vincolante della promessa di mutuo se non l'ammissione, con altro nome, del mutuo come contratto consensuale? I l mutuo, dunque, è un contratto reale, come dice chiaramente i l primo articolo, oppure un contrato consensuale, come lascia intendere, anche senza dirlo esplicitamente, i l secondo articolo? L'interprete che rispondesse affermativamente alla seconda domanda, finirebbe per considerare inesistente la prima norma, cioè opererebbe un'abrogazione interpretativa.
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1. eliminarne una; 2. eliminarle tutte e due; 3. conservarle tutte e due. Nel primo caso l'operazione compiuta dal giudice o dal giurista si chiama interpretazione abrogante. Ma si tratta, a dire il vero, d i abrogazione i n senso improprio, perché, se l'interpretazione è compiuta dal giurista, questi non ha potere normativo e quindi non ha neppure potere abrogativo (il giurista suggerisce soluzioni ai giudici ed eventualmente anche al legislatore); se l'inter-
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I l secondo caso - eliminazione di entrambe le norme i n conflitto - p u ò verificarsi, come abbiamo visto, soltanto nel caso che l'opposizione tra le due norme sia non di contraddittorietà ma di contrarietà. Si potrebbe vederne un esempio, anche se un po' forzato, nel dubbio cui p u ò dar luogo l'interpretazione dell'art. 602 c e , rispettivamente alla collocazione della data nel testamento olografo prima o dopo la firma. Dal primo comma «il testamento olografo deve essere scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore», si potrebbe ricavare che la data deve essere apposta prima della firma. Dal secondo comma, invece, «la sottoscrizione deve essere posta alla fine delle disposizioni», si potrebbe trarre l'illazione che la data, non essendo una disposizione, deve essere apposta dopo la sottoscrizione. Nel dubbio tra l'obbligo e i l divieto di porre la data prima della sottoscrizione, l'interprete potrebbe essere indotto a considerare escludentisi a vicenda le due norme contrarie, e a considerare che sia lecito ap-
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porre la data tanto prima quanto dopo la firma. Anche i n questo caso si p u ò parlare di interpretazione abrogante, se pure, come nel caso precedente, i n modo improprio. Ma, a differenza del caso d i due disposizioni dontraddittorie, di cui una elimina l'altra e una delle due non p u ò non rimanere, qui, trattandosi di due disposizioni contrarie, si eliminano a vicenda, e non ne rimane nessuna delle due. Si tratta, come ognuno p u ò vedere, di una doppia abrogazione, mentre nel primo caso si ha una abrogazione semplice. La terza soluzione - conservare entrambe le norme incompatibili - è forse quella cui l'interprete ricorre più frequentemente. Ma com'è possibile conservare due norme incompatibili, se per definizione due norme incompatibili non possono coesistere? È possibile ad una condizione: dimostrare che non sono incompatibili, che la incompatibilità è puramente apparente, che la presunta incompatibilità deriva da una interpretazione o unilaterale o incompleta o errata di una delle due norme o di tutte e due. Ciò cui tende l'interprete di solito non è già la eliminazione delle norme incompatibili, ma piuttosto la eliminazione della incompatibilità. Talvolta, per ottenere lo scopo, introduce qualche lieve o parziale modificazione nel testo; e i n questo caso si ha quella forma d'interpretazione che si chiama correttiva. I n generale, l'interpretazione correttiva è quella forma d'interpretazione che pretende di conciliare due norme apparentemente incompatibili per conservarle entrambe nel sistema, cioè per evitare l'estremo rimedio della abrogazione. S'intende che nella misura i n cui la correzione introdotta modifica i l testo originale della norma, anche l'interpretazione correttiva è abrogante, se pur limitatamente alla parte della norma corretta. Più che contrapporre l'interpretazione correttiva a quella abrogante, si dovrebbe considerare la prima come una forma attenuata della seconda, nel senso che, mentre l'interpretazione abrogante ha per effetto l'eliminazione totale di una norma (o addirittura di due norme), l'interpretazione correttiva ha per effetto l'eliminazione puramente parziale di una norma (o di tutte e due). Per fare un esempio di questa forma d'interpretazione, ci riferiamo al caso, già illustrato, di antinomia tra l'art. 57 c.p. sulla responsabilità (oggettiva) del direttore del giornale e l'art. 27 Cost. che esclude ogni forma di responsabilità che non sia personale. Vi sono almeno due interpretazioni dell'art.
57 che eliminano l'antinomia, I ) i l direttori del giornale è obbligato a impedire i reati dei suoi collaboratori (in base all'art. 40, 2° comma, c.p., secondo cui "non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo"); se si presume quest'obbligo, la sua condanna non dipende dalla circostanza oggettiva della sua funzione di direttore, ma dall'inadempimento di un obbligo, e quindi dalla valutazione di una responsabilità soggettiva; 2) i l direttore del giornale è obbligato a vigilare sull'attività dei suoi collaboratori, cioè i n ultima istanza a controllare tutti gli articoli che appaiono sul giornale da l u i diretto; presumendo quest'obbligo, la condanna p u ò essere giustificata attraverso i l riconoscimento di una culpa in vigilando, cioè, ancora una volta, di una responsabilità soggettiva. Ma è chiaro che tutte e due queste interpretazioni sono possibili solo se si introduce una leggera modificazione nel testo dell'art. 57 c.p., i l quale dice che i l direttore risponde "per ciò solo" del reato commesso. È chiaro che per ciò solo significa "per i l solo fatto di essere direttore del giornale", e quindi indipendentemente da ogni colpa. Bisogna dunque eliminare l'inciso per ciò solo se si vuol rendere questo articolo compatibile con la precisa disposizione della Costituzione. La conciliazione avviene attraverso una correzione.
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Abbiamo detto che questa terza via è la più seguita dagli interpreti. I l giurista e i l giudice tendono, per quanto è possibile, alla conservazione delle norme date. È certamente una regola tradizionale dell'interpretazione giuridica che i l sistema deve essere mantenuto col minor scompiglio, o, i n altre parole, che l'esigenza del sistema non deve andare a scapito del principio d'autorità, secondo cui le norme vengono ad esistenza per il solo fatto di essere state poste. Ne adduciamo un esempio eloquente. I l Messineo ha chiamato l'art. 2937, 1° comma, ce. un rompicapo che «mette a dura prova le meningi dell'interprete» Questo articolo dice che non p u ò rinunziare alla prescrizione chi non p u ò disporre validamente del diritto. Ma di quale diritto si parla? La prescrizione estintiva cui si riferisce questo articolo fa venir meno un dovere, non fa sorgere un diritto. I l Messineo mostra che que-
F . M E S S I N E O , Variazioni sul concetto di "rinunzia alla prescrizione", in "Riv. trim. dir. e proc. civ.", X I (1957), p. 505 ss.
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Sto articolo deriva dal 2108 ce. 1865, i n cui, non essendo distinta la disciplina della prescrizione estintiva da quella della prescrizione acquisitiva (usucapione), i l caso della rinunzia al diritto si riferiva non già alla prima, ma alla seconda; e relativamente a questa seconda era perfettamente appropriato parlare di diritto di cui si possa disporre. Eppure, nonostante la dimostrata erroneità della dizione, i l nostro autore ritiene che compito dell'interprete sia di dare ad essa, comunque, un senso, e pertanto osserva che si potrebbe intendere la parola "diritto" nel contesto del 2937 come "diritto alla liberazione dall'obbligazione". E fa a questo proposito una dichiarazione, di estremo interesse per i l valore paradigmatico che essa assume nei confronti dell'atteggiamento di rispetto dell'interprete verso i l legislatore: «È stretto dovere dell'interprete, prima di giungere all'interpretazione abrogante (per la quale, i n un primo momento verrebbe fatto di r i solversi), tentare ogni via, perché la norma giuridica abbia un senso. Vi è un diritto all'esistenza, che non p u ò essere negato senz'altro alla norma, dacché essa è venuta alla luce»
19. CONFLITTO DEI CRITERI
Avevamo detto, all'inizio del par. 5, che vi sono antinomie insolubili accanto ad antinomie solubili, e che le ragioni per cui vi sono antinomie insolubili sono due: o l'inapplicabilità dei criteri, oppure l'applicabilità di due o più criteri i n conflitto tra loro. Alla prima ragione abbiamo dedicato i l paragrafo precedente; alla seconda, dedichiamo i l presente. Abbiamo visto che i criteri tradizionalmente accettati per la soluzione delle antinomie sono tre: i l cronologico, i l gerarchico, e i l criterio di specialità. Ora p u ò accadere che due norme i n compatibili siano tra loro i n un rapporto cui si possano applicare contemporaneamente, non uno solo, ma due o tre criteri. Per fare l'esempio più facile, una norma costituzionale e una norma ordinaria sono emanate di solito i n tempi diversi: tra queste due
" Op. cit.. p. 516.
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norme esiste contemporaneamente una differenza gerarchica e una cronologica. Se poi, come spesso accade, la norma costituzionale è generale, e quella ordinaria è speciale, i criteri applicabili sono addirittura tre. Questa situazione complessa non suscita particolare difficoltà, quando le due norme sono disposte i n modo che, qualunque sia i l criterio che si voglia applicare, la soluzione non muta: per esempio, se di due norme incompatibili, una è superiore e susseguente e l'altra inferiore e antecedente, tanto i l criterio gerarchico quanto quello cronologico danno i l medesimo risultato di far prevalere la prima. Lo stesso accade se la norma susseguente è speciale rispetto alla precedente: essa prevale sia i n base al criterio di specialità sia i n base al criterio cronologico. I due criteri si sommano: e poiché basterebbe uno solo a dar la prevalenza a una delle due norme, si dice che la norma prevalente prevale a fortiori. Ma la situazione non è sempre così liscia. Poniamo i l caso i n cui due norme si trovino i n rapporto tale che siano applicabili due criteri, ma che l'applicazione di un criterio dia una soluzione opposta all'applicazione dell'altro criterio. È chiaro che i n questo caso non si possono applicare contemporaneamente i due criteri. Bisogna applicarne uno a preferenza dell'altro. Quale? Ecco i l problema. Per fare anche qui l'esempio più facile, basta pensare al caso di una incompatibilità tra norma costituzionale precedente e norma ordinaria successiva. È un caso i n cui sono applicabili due criteri, quello gerarchico e quello cronologico: ma se si applica i l primo, si dà la prevalenza alla prima norma; se si applica i l secondo, si d à la prevalenza alla seconda. Non si possono applicare contemporaneamente i due criteri: i due criteri sono incompatibili. Qui abbiamo un'incompatibilità di secondo grado: non si tratta più dell'incompatibilità, di cui abbiamo discorso sinora, tra norme; ma dell'incompatibilità tra i criteri validi per la soluzione dell'incompatibilità tra le norme. Accanto al conflitto delle norme, che d à luogo al problema delle antinomie, c'è i l conflitto dei criteri per la soluzione delle antinomie, che dà luogo ad un'antinomia di secondo grado. Queste antinomie di secondo grado sono solubili? La risposta affermativa dipende dal fatto se vi siano regole tradizionalmente ammesse per la soluzione del conflitto dei criteri, così come vi sono regole ammesse per la soluzione del conflitto tra norme. Si tratta, in altre parole, di sapere se esiste un crite-
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rio stabilito per la soluzione dei conflitti tra criteri, e quale esso sia. Non possiamo dare una risposta generale; dobbiamo esaminare, ad uno ad uno, i casi di conflitto tra criteri. Essendo tre i criteri (A, B, C), i conflitti tra criteri possono essere tre: A con B, B con C, A con C: 1. Conflitto tra il criterio gerarchico e quello cronologico: questo conflitto ha luogo quando una norma anteriore-superiore è antinomica rispetto ad una norma posteriore-inferiore. I I conflitto consiste nel fatto che, se si applica i l criterio gerarchico prevale la prima; se si applica i l criterio cronologico, prevale la seconda. Il problema è: quale dei due criteri ha la prevalenza sull'altro? Qui la risposta non è dubbia. I l criterio gerarchico prevale su quello cronologico. I l che ha per effetto di far eliminare la norma inferiore, ancorché successiva. I n altre parole si p u ò dire che i l principio lex posterior derogai priori non vale quando la lex posterior è gerarchicamente inferiore alla lex prior. Questa soluzione è abbastanza ovvia: se i l criterio cronologico dovesse prevalere su quello gerarchico, lo stesso principio dell'ordine gerarchico delle norme sarebbe reso vano, perché la norma superiore perderebbe il potere, che le è proprio, di non essere abrogata dalle norme inferiori. I l criterio cronologico vale come criterio di scelta tra due norme poste sullo stesso piano. Quando due norme sono poste su due piani diversi, i l criterio naturale di scelta è quello che nasce dalla stessa differenza di piani. 2. Conflitto tra il criterio di specialità e quello cronologico: questo conflitto ha luogo quando una norma anteriore-speciale è incompatibile con una norma posteriore-generale. Si ha conflitto, perché applicando i l criterio di specialità si dà la prevalenza alla prima norma; applicando i l criterio cronologico, si dà la prevalenza alla seconda. Anche qui è stata tramandata una regola generale, che suona così: Lex posterior generalis non derogai priori speciali. I n base a questa regola, i l conflitto tra criterio di specialità e criterio cronologico deve essere risolto i n favore del primo: la legge generale successiva non toglie di mezzo la legge speciale precedente. I l che porta ad un'ulteriore eccezione al principio lex posterior derogai priori: questo principio vien meno, non solo quando la lex posterior è inferior, ma anche quando è generalis (e
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la lex prior è specialis). Questa regola peraltro deve essere presa con una certa cautela, e ha un valore meno perentorio della regola precedente. Si direbbe che la lex specialis sia meno forte della lex superior; e che quindi la sua vittoria sulla lex posterior sia più contrastata. Per fare affermazioni più precise i n questo campo, bisognerebbe disporre di un'ampia casistica. 3. Conflitto tra il criterio gerarchico e quello di specialità. Nei due casi precedenti abbiamo visto il conflitto di questi due criteri rispettivamente col criterio cronologico; e abbiamo constatato che entrambi i criteri sono più forti di quello cronologico. I l caso più interessante di conflitto è ora quello che si verifica quando vengono a contrasto non più uno dei due criteri forti col criterio debole (quello cronologico), ma i due criteri forti tra loro. È il caso di una norma superiore-generale incompatibile con una norma inferiore-speciale. Se si applica i l criterio gerarchico, prevale la prima; se si applica i l criterio d i specialità, prevale la seconda. Quale dei due criteri si deve applicare? Una risposta sicura è impossibile. Non esiste una regola generale consolidata. La soluzione dipenderà anche i n questo caso, come nel caso della mancanza dei criteri, dall'interprete, i l quale applicherà or l'uno or l'altro criterio secondo le circostanze. La gravità del conflitto deriva dal fatto che sono i n gioco due valori fondamentali di ogni ordinamento giuridico, quello del rispetto dell'ordine, che esige i l rispetto della gerarchia e quindi del criterio della superiorità, e quello della giustizia, che richiede l'adattamento graduale del diritto ai bisogni sociali, e quindi i l rispetto del criterio della specialità. Teoricamente, dovrebbe prevalere il criterio gerarchico: se si ammettesse i l principio che una legge ordinaria speciale possa derogare ai principi costituzionali, che sono norme generalissime, i principi fondamentali di un ordinamento giuridico sarebbero destinati ad essere rapidamente svuotati di ogni contenuto. Ma i n pratica l'esigenza di adattare i principi generali di una costituzione alle sempre nuove situazioni porta spesso a far trionfare la legge speciale, ancorché ordinaria, su quella costituzionale, come quando la nostra Corte Costituzionale ha deciso che l'art. 3, 3° comma, della Legge 22 dicembre 1956, relativa all'istituzione del Ministero delle Partecipazioni statali, che imponeva alle aziende a prevalente partecipazione statale di cessare di far parte delle or-
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ganizzazioni sindacali degli altri datori di lavoro, non era incompatibile con l'art. 39 Cost., che afferma per chiunque la libertà sindacale (e quindi la libertà di partecipare all'associazione sindacale di proprio gradimento). I n questo caso i l contrasto era chiaramente tra una legge superiore generale e una legge inferiore speciale; ma con l'esclusione della incostituzionalità, pronunciata dalla Corte, è stata data la prevalenza alla seconda, non alla prima.
1. quello delle norme a diverso livello, cioè disposte gerarchicamente. I n questo caso, generalmente, la regola della coerenza esiste i n entrambe le forme: a) la persona o l'organo autorizzato a emanare norme inferiori è tenuto a emanare norme che non siano i n contrasto con norme superiori (si pensi all'obbligo di chi ha un potere regolamentare o un potere negoziale d i esplicare questo potere nei limiti stabiliti dalle norme superiori); b) i l giudice, qualora si trovi di fronte ad un conflitto tra una norma superiore e una norma inferiore è tenuto ad applicare la norma superiore;
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20. I L DOVERE DELLA COERENZA
2. i l caso delle norme a pari livello, successive nel tempo. I n questo caso non esiste alcun dovere di coerenza da parte del legislatore, mentre esiste, da parte del giudice, i l dovere di risolvere l'antinomia, eliminando la norma anteriore e applicando quella successiva. Esiste dunque la regola della coerenza, nella seconda forma, cioè rivolta ai giudici, ma non nella prima (rivolta al legislatore): a) i l legislatore ordinario è perfettamente libero di emanare successivamente norme i n contrasto tra loro: ciò è previsto, ad esempio, dell'art. 15 Disp. prel., già ricordato, nel quale si ammette l'abrogazione implicita, cioè si ammette la legittimità di una legge posteriore i n contrasto con una anteriore; b) ma quando i l contrasto si sia verificato, i l giudice è tenuto a eliminarlo, applicando, delle due norme, quella posteriore. Si p u ò dire anche così: i l legislatore è perfettamente libero di contraddirsi, ma la coerenza è salva ugualmente, perché delle due norme i n contrasto una cade, e l'altra soltanto resta valida;
Tutto i l discorso fatto i n questo capitolo presuppone che l'incompatibilità tra due norme sia un male da eliminare, e quindi presuppone una regola della coerenza, che potrebbe essere formulata così: «In un ordinamento giuridico non debbono esserci antinomie». Ma questa regola è a sua volta una regola giuridica? Il dovere di eliminare le antinomie è un dovere giuridico? Si p u ò dire che una regola siffatta appartenga all'ordinamento giuridico, anche se inespressa? Vi sono argomenti sufficienti per ritenere che i n ogni ordinamento sia implicito i l divieto delle antinomie, e che spetti all'interprete soltanto di renderlo esplicito? M i pongo da ultimo questa domanda, perché si presume di solito che i l divieto delle antinomie sia una regola del sistema; ma non se ne approfondisce la natura né la portata né l'efficacia. Una regola che riguarda le norme di un ordinamento giuridico - com'è i l divieto di antinomie - non p u ò essere rivolta che a coloro che hanno a che fare con la produzione e l'applicazione delle norme, i n particolare al legislatore che è i l produttore per eccellenza e al giudice che è l'applicatore per eccellenza. Rivolto ai produttori di norme, i l divieto suona così: «Non dovete creare norme che siano incompatibili con altre norme del sistema». Rivolto agli applicatori, i l divieto assume quest'altra forma: «Se v'imbattete i n antinomie, dovete eliminarle». Si tratta ora di vedere se e in quali situazioni esistano l'una o l'altra di queste due norme, o tutte e due. Facciamo tre casi: I
3. i l caso delle norme a pari livello, contemporanee (per esempio, l'emanazione di un codice, o di un testo unico, o di una legge che regola un'intera materia). Anche qui non c'è nessun obbligo giuridicamente qualificato, da parte del legislatore, di non contraddirsi, nel senso che una legge, che contenga disposizioni contraddittorie, è pur sempre una legge valida, e sono valide, pure, entrambe le disposizioni contraddittorie. Possiamo parlare, tutt'al più, nei confronti del legislatore, di un dovere morale di non contraddirsi, in considerazione del fatto che una legge contraddittoria rende più difficile i l giudizio del giudice. Quanto al giudice, che si trovi di fronte ad un'antinomia tra norme, ponia-
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mo, di un codice, egli pure non ha alcun dovere giuridicamente qualificato di eliminare l'antinomia. Semplicemente, dal momento che due norme antinomiche non possono essere entrambe applicate allo stesso caso, egli si troverà nella necessità di applicarne una e disapplicarne l'altra. Ma si tratta d i una necessità di fatto, non di un obbligo (o di una necessità morale), tanto è vero che le due norme antinomiche continuano a sussistere nell'ordinamento entrambe, fianco a fianco, e lo stesso giudice i n un caso successivo o un altro giudice nello stesso caso (per esempio un giudice di seconda istanza) possono applicare, delle due norme antinomiche, quella precedentemente disapplicata e viceversa.
la giustizia (che corrisponde al valore dell'eguaglianza). Là dove esistono due norme antinomiche, entrambe valide, e quindi entrambe applicabili, l'ordinamento giuridico non riesce a garantire né la certezza, intesa come possibilità, da parte del cittadino, di prevedere con esattezza le conseguenze giuridiche della propria condotta, né la giustizia, intesa come egual trattamento delle persone che si trovano ad appartenere alla stessa categoria. C'è un episodio dei Promessi Sposi, che illustra molto bene le ragioni morali per cui è bene che nel diritto non vi siano antinomie. È l'episodio dell'omicidio compiuto da Fra Cristoforo (alias Lodovico). La rissa, seguita da un duplice omicidio, era nata perché «tutt'e due (Lodovico e i l suo avversario) camminavan rasente i l muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava i l diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non distaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L'altro pretendeva, all'opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d'andar nel mezzo; e ciò in forza d i un'altra consuetudine. Perocché, i n questo, come accade i n molti altri affari, erano i n vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; i l che dava opportunità di fare una guena, ogni volta che una testa dura s'abbattesse i n un'altra della stessa tempra»'^.
Riassumendo, nei tre casi riportati il problema di una presunta regola della coerenza si risolve i n tre modi diversi. Nel primo caso la regola della coerenza vale in entrambe le forme; nel secondo, vale soltanto nella seconda forma; nel terzo, non vale né nella prima, né nella seconda fonna, cioè non esiste alcuna regola della coerenza. Da questa impostazione possiamo trarre luce per illuminare un problema controverso: se la compatibilità sia una condizione necessaria della validità di una norma giuridica, come abbiamo detto nel corso precedente. Qui, a ragion veduta, dobbiamo rispondere negativamente, per lo meno con riguardo al terzo caso, cioè al caso di norme a pari livello e contemporanee, nel quale, come abbiamo visto, non esiste alcuna regola d i coerenza. Due norme incompatibili, a pari livello e contemporanee, sono entrambe valide. Non possono essere, contemporaneamente, entrambe efficaci, nel senso che l'applicazione dell'una al caso concreto esclude l'applicazione dell'altra; ma sono entrambe valide, nel senso che, nonostante il loro conflitto, continuano ad esistere entrambe nel sistema, e non esiste rimedio per la loro eliminazione (oltre, s'intende, l'abrogazione legislativa). Là dove la coerenza non è condizione di validità, è però pur sempre condizione per la giustizia dell'ordinamento. È evidente che là dove due norme contraddittorie sono entrambe valide, e p u ò essere indifferentemente applicata or l'una or l'altra, secondo il libero giudizio di coloro che sono chiamate ad applicarle, vengono violate due esigenze fondamentali, cui si ispirano o tendono ad ispirarsi gli ordinamenti giuridici: l'esigenza della certezza (che corrisponde al valore della pace o dell'ordine), e quella dei-
/ promessi sposi, cap. I V , Einaudi, p. 5 8 . L'episodio è citato da C E . Consuetudini, usi, pratiche, regole del costume, 1 9 5 8 , p. 3 6 8 .
BALOSSINI,
CAPITOLO I V
LA COMPLETEZZA DELLORDINAMENTO GIURIDICO
Il problema delle lacune. - 2 2 . Il dogma della completezza. - 2 3 . La critica della completezza. - 24. Lo spazio giuridico vuoto. 25. L a norma generale esclusiva. - 26. Le lacune ideologiche. - 27. Vari tipi di lacune. - 28. Eterointegrazione e autointegrazione. - 29. L'analogia. - 30. I principi generali del diritto. SOMMARIO: 21.
2 L I I PROBLEMA DELLE LACUNE
Abbiamo esaminato nei due capitoli precedenti due caratteristiche dell'ordinamento giuridico: l'unità e la coerenza. Ci r i mane da considerare una terza caratteristica, che gli viene comunemente attribuita: la completezza. Per "completezza" s'intende la proprietà per cui un ordinamento giuiidico ha una norma per regolare qualsiasi caso. Poiché la mancanza di una norma si chiama di solito "lacuna" (in uno dei sensi del termine "lacuna"), "completezza" significa "mancanza di lacune". I n altre parole, un ordinamento è completo quando i l giudice p u ò trovare in esso una norma per regolare qualsiasi caso gli si presenti, o, meglio, non c'è caso che non possa essere regolato con una norma tratta dal sistema. Volendo dare una definizione più tecnica di completezza, possiamo dire che un ordinamento è completo quando non si verifica mai i l caso che ad esso non possano dimostrarsi appartenenti né una certa norma né la norma contraddittoria. Volendo specificare, l'incompletezza consiste nel fatto che i l si-
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Completezza dell'ordinamento giuridico
Stema non comprende né la norma che proibisce un certo comportamento né la norma che lo permette. Infatti, se si p u ò dimostrare che né i l divieto né i l permesso d i un certo comportamento sono ricavabili dal sistema, così com e posto, bisogna dire che il sistema è incompleto, che l'ordinamento giuridico ha una lacuna. Da questa definizione tecnica di completezza, si capisce meglio quale sia i l nesso tra i l problema della completezza e quello della coerenza, esaminato nel capitolo precedente. Possiamo infatti definire la coerenza come quella proprietà per cui non si d à mai i l caso che si possa dimostrare l'appartenenza al sistema e d i una certa norma e della norma contraddittoria. Come abbiamo visto, ci troviamo di fronte ad un'antinomia, quando ci rendiamo conto che al sistema appartengono contemporaneamente tanto la norma che proibisce un certo comportamento quanto quella che lo permette. Dunque i l nesso tra coerenza e completezza sta i n ciò: la coerenza significa esclusione di ogni situazione i n cui appartengano al sistema entrambe le norme che si contraddicono; la completezza significa esclusione di ogni situazione in cui non appartengano al sistema nessuna delle due norme che si contraddicono. Diremo "incoerente" un sistema in cui esistono tanto la norma che vieta un certo comportamento quanto quella che lo permette; "incompleto", un sistema i n cui non esistono né la norma che vieta un certo comportamento né quella che lo permette.
di mezzo le contraddizioni; l'unità positiva col riempire le lacune» '. I l Camelutti, nella sua Teoria generale del diritto, tratta congiuntamente i due problemi, e parla di incompiutezza per esuberanza nel caso delle antinomie, e di incompiutezza per deficienza nel caso delle lacune, onde i due rimedi opposti della purgazione del sistema per eliriiinare le norme esuberanti, ovvero le antinomie, e della integrazione per eliminare la deficienza di norme, ovvero le lacune^. I l Camelutti vede bene che i l caso d i antinomia è quello in cui ci sono più norme di quelle che dovrebbero esserci, i l caso che noi abbiamo espresso con le due congiunzioni e ... e, onde i l compito dell'interprete è di sopprimere quello che vi è di troppo; i l caso di lacuna, invece, è quello i n cui ci sono meno norme di quelle che dovrebbero esserci, ciò che noi abbiamo espresso con le due congiunzioni né... né, onde i l compito dell'interprete è, all'opposto, di aggiungere quel che manca. Come, rispetto al carattere della coerenza, i l problema del teorico generale del diritto è se e i n qual misura un ordinamento giuridico sia coerente, così, rispetto al carattere della completezza, il nostro problema è se e i n quale misura un ordinamento giuridico sia completo. Per quel che riguarda la coerenza, la nostra r i sposta era stata che la coerenza era un'esigenza, ma non una necessità, nel senso che la totale esclusione delle antinomie non è una condizione necessaria per l'esistenza di un ordinamento giuridico: un ordinamento giuridico p u ò tollerare norme incompatibili nel suo seno senza venir meno. Di fronte al problema della completezza, se noi consideriamo un certo tipo di ordinamento giuridico, come i l nostro, caratterizzato dal principio che i l giudice deve giudicare ogni caso mediante una norma appartenente al sistema, la completezza è qualcosa più che un'esigenza, è una necessità, cioè è una condizione necessaria per i l buon funzionamento del sistema. La norma che stabilisce il dovere del giudice di giudicare ogni caso i n base ad una norma appartenente al sistema non potrebbe essere eseguita se i l sistema non fosse presupposto come completo, cioè come avente una regola per ogni
Il nesso tra i due problemi è stato per lo più trascurato. Ma non mancano nella migliore letteratura giuridica cenni alla necessità di una loro trattazione comune. Per esempio, nel Sistema del Savigny si legge questo passo, che a me pare molto significativo: «... i l complesso delle fonti del diritto ... forma un tutto, che è destinato alla soluzione di tutte le questioni, che si presentano nel campo del diritto. Per rispondere a tale scopo, esso deve presentare questi due caratteri: unità e completezza ... I l procedimento ordinario consiste nel trarre dall'insieme delle fonti un sistetna di diritto ... Manca l'unità, e allora si tratta di rimuovere una contraddizione; manca la completezza, e allora si tratta di colmare una lacuna. I n realtà però queste due cose possono ridursi ad un unico concetto fondamentale. Infatti quello che noi cerchiamo di stabilire, è sempre l'unità: l'unità negativa col toglier
' F.C. 267. ^ F.
SAVIGNY,
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Sistema del diritto romano attuale, trad. it., voi. I, par. 42, p.
CARNELUTTI,
Teorìa generale del diritto, II ediz., 1946, p. 76.
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Completezza dell'ordinamento giurìdico
caso. E quindi la completezza è una condizione senza la quale i l sistema nel suo complesso non potrebbe svolgere la propria funzione. I l capostipite degli ordinamenti fondati, com'è stato detto, sul dogma della completezza, è i l cod. civ. francese, i l cui art. 4 dice: «Il giudice che ricuserà di giudicare, sotto pretesto del silenzio, dell'oscurità, od insufficienza della legge, potrà essere processato come colpevole di denegata giustizia». Nel nostro diritto, questo principio era stabilito dall'art. 113 c.p.c, i l quale dice: «Nel pronunciare sulla causa i l giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca i l potere di decidere secondo equità». In conclusione, la completezza è una condizione necessaria per quegli ordinamenti i n cui valgono queste due regole: 1) i l giudice è tenuto a giudicare tutte le controversie che si presentano al suo esame; 2) è tenuto a giudicarle i n base ad una norma appartenente al sistema. Si capisce che se una delle due regole vien meno, la completezza cessa di essere considerata come un requisito dell'ordinamento. Possiamo immaginare due tipi di ordinamenti incompleti, secondo che manchi la prima o la seconda delle due regole. I n un ordinamento i n cui mancasse la prima regola, i l giudice non sarebbe tenuto a giudicare tutte le controversie che gli fossero presentate: potrebbe puramente e semplicemente respingere il caso come giuridicamente irrilevante, con un giudizio di non Uquet (non è chiaro). Per alcuni, l'ordinamento intemazionale è un ordinamento di questo tipo: i l giudice internazionale avrebbe la facoltà in alcuni casi di non dar torto né ragione a nessuno dei contendenti, e questo giudizio sarebbe diverso (ma è discutibile che lo sia) dal giudizio del giudice che darebbe torto all'uno e ragione all'altro o viceversa. I n un ordinamento i n cui mancasse la seconda regola, i l giudice sarebbe, sì, tenuto a giudicare ogni caso, ma non sarebbe tenuto a giudicarlo i n base ad una norma del sistema. È i l caso dell'ordinamento che autorizza i l giudice a giudicare, i n mancanza di una disposizione di legge o dalla legge r i cavabile, secondo equità. Si possono considerare ordinamenti di questo tipo l'ordinamento inglese e, se pure i n misura ridotta, quello svizzero che autorizza i l giudice a risolvere la controversia, in mancanza di una legge o di una consuetudine, come se egli stesso fosse legislatore. Si capisce che i n un ordinamento dove i l
giudice sia autorizzato a giudicare secondo equità, non ha nessuna importanza che l'ordinamento sia preventivamente completo, perché è i n ogni momento completabile.
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22. I L DOGMA DELLA COMPLETEZZA
Il dogma della completezza, cioè i l principio che l'ordinamento giuridico sia completo per fornire i n ogni caso al giudice una soluzione senza ricorrere all'equità, è stato dominante, ed è i n parte tuttora, nella teoria giuridica continentale, di origine romanistica. Da alcuni è considerato come uno degli aspetti salienti del positivismo giuridico. Risalendo indietro nel tempo, questo dogma della completezza nasce probabilmente nella tradizione romanistica medioevale, quando i l diritto romano viene a poco a poco considerato come il diritto per eccellenza, una volta per sempre e una volta per tutte enunciato nel Corpus iuris, al quale non c'è nulla da aggiungere e dal quale non c'è nulla da togliere, perché esso contiene le regole con le quali i l buon interprete è in grado di risolvere tutti i problemi giuridici che si sono presentati e si presenteranno. La completa e sottile tecnica ermeneutica che si sviluppa tra i giuristi commentatori del diritto romano e poi tra i trattatisti, è specialmente una tecnica per l'illustrazione e lo sviluppo intemo del diritto romano, sul presupposto che esso costituisca un sistema potenzialmente completo, una specie di miniera inesauribile della sapienza giuridica, che l'interprete deve limitarsi a scavare per trovarvi la vena nascosta. Se ci fosse concesso riassumere con una frase i l carattere della giurispmdenza sviluppatasi sotto l'impero e all'ombra del diritto romano, diremmo che essa ha sviluppato il metodo deìì'extensio a scapito di quello dell'equità, ispirandosi al principio di autorità piuttosto che a quello della natura delle cose. Nei tempi moderni i l dogma della completezza è diventato parte integrante della concezione statualistica del diritto, cioè di quella concezione che fa della produzione giuridica un monopolio* dello stato. Via via che lo stato moderno cresceva i n potenza, andavano esauiendosi tutte le fonti del diritto che non fossero la leg-
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ge, ovvero i l comando del sovrano. L'onnipotenza dello stato si riversò sul diritto di origine statuale, e non fu riconosciuto altro diritto che quello che era emanazione diretta o indiretta del sovrano. Onnipotente come lo stato di cui era l'emanazione, i l diritto statuale doveva regolare ogni possibile caso: se avesse avuto lacune, che cosa avrebbe dovuto fare i l giudice se non ricorrere a fonti giuridiche extrastatuali, come la consuetudine, la natura delle cose, l'equità? Ammettere che l'ordinamento giuridico statuale non era completo, voleva dire introdurre un diritto concorrente, rompere i l monopolio della produzione giuridica statuale. Ed è per questo che l'affermazione del dogma della completezza va di pari passo con la monopolizzazione del diritto da parte dello stato. Per mantenere i l proprio monopolio, i l diritto dello stato deve servire ad ogni uso. Un'espressione macroscopica di questa volontà di completezza sono state le grandi codificazioni; ed è, si badi, proprio nell'interno di una d i queste grandi codificazioni che è stato pronunciato i l verdetto che i l giudice deve giudicare restando sempre dentro i l sistema già dato. I l miraggio della codificazione è la completezza: una regola per ogni caso. I l codice è per i l giudice un prontuario che gli deve servire infallibilmente e da cui non p u ò scostarsi.
gesi e codificazione sono fenomeni strettamente connessi, e mal separabili l'uno dall'altro. Quando, come vedremo nel paragrafo successivo, cominciò la reazione al feticismo legislativo, e, ad un tempo, al dogma della completezza, uno dei maggiori rappresentanti di questa reazione, il giurista tedesco Eugen Ehrlich, i n un libro dedicato allo studio e alla critica della mentalità del giurista tradizionale. La logica dei giuristi (Die jurìstische Logik, Tiibingen, 1925), affermò che i l ragionamento del giurista tradizionale, ancorato al dogma della completezza, era fondato su questi tre presupposti: 1) la proposizione maggiore di ogni ragionamento giuridico deve essere una norma giuridica; 2) questa norma deve essere sempre una legge dello stato; 3) tutte queste norme debbono formare nel loro complesso un'unità. Lo Ehrlich, colpendo la mentalità tradizionale del giurista, voleva colpire quell'atteggiamento di conformismo statualistico, che aveva appunto generato e radicato nella giurisprudenza i l dogma della completezza.
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Ad ogni grande codificazione (da quella francese del 1804 a quella germanica del 1900) si è sviluppata tra i giuristi e i giudici la tendenza ad attenersi scrupolosamente ai codici, quell'atteggiamento che è stato chiamato con riferimento ai giuristi francesi nei confronti dei codici napoleonici, ma si potrebbe estendere a ogni nazione con diritto codificato, feticismo della legge. I n Francia la scuola giuridica, che si è venuta imponendo dopo la codificazione, viene di solito designata col nome di scuola dell'esegesi, e la si contrappone alla scuola scientifica, che è venuta di poi. I l carattere peculiare della scuola dell'esegesi è l'ammirazione incondizionata per l'opera compiuta dal legislatore attraverso la codificazione, una fiducia cieca nella sufficienza delle leggi, i n definitiva la credenza che i l codice, una volta emanato, basti completamente a se stesso, non abbia lacune, i n una parola i l dogma della completezza giuridica. Una scuola dell'esegesi è esistita non solo i n Francia, ma anche i n Italia, i n Germania. Ed esiste tuttora, anche se, come vedremo, i l problema delle lacune sia stato ormai impostato criticamente. Starei per dire che scuola dell'ese-
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23. LA CRITICA DELLA COMPLETEZZA
I l libro dello Ehrlich, citato, è una delle espressioni più significative di quella rivolta contro i l monopolio statualistico del diritto, che si sviluppò, quasi contemporaneamente, in Francia e in Germania alla fine del secolo scorso, e che, pur chiamata con diversi nomi, è nota soprattutto col nome di scuola del diritto libero. I l prircipale bersaglio di questa tendenza è i l dogma della completezza dell'ordinamento giuridico. Se si vuol colpire i l feticismo legislativo dei giuristi, bisogna scardinare prima di tutto la credenza che i l diritto statuale sia completo. La battaglia della scuola del diritto libero contro le varie scuole dell'esegesi è una battaglia per le lacune. I commentatori del diritto costituito ritenevano che i l diritto non avesse lacune, e che compito dell'interprete fosse unicamente quello di rendere esplicito quello che era già implicito nella mente del legislatore? Ebbene i sostenitori della nuova scuola affermano che i l diritto costituito è pieno d i lacune, e per riempirle bisogna affidarsi principalmente al potere creativo del giudice, cioè di colui che c chiamato a risolvere gli
Teoria dell'ordinamento giuridico
Completezza dell'ordinamento giuridico
infiniti casi che i rapporti sociali generano, al d i là e al di fuori di ogni regola precostituita. Le ragioni per cui, alla fine del secolo scorso, sorge e si sviluppa rapidamente questo movimento contro Io statualismo giuridico e il dogma della completezza, sono varie. Ma ritengo che le principali siano queste due. Anzitutto, via via che la codificazione i n vecchiava (e ciò vale soprattutto per la Francia), se ne scoprivano le insufficienze. Ciò che i n un primo tempo è oggetto di ammirazione incondizionata, diventa a poco a poco oggetto di analisi critica, sempre più esigente, e la fiducia nell'onniscienza del legislatore diminuisce o vien meno. Nella storia del diritto i n Italia, basterà confrontare l'atteggiamento della generazione più vicina ai primi codici, quella tra il 1870 e il 1890, e l'atteggiamento della generazione successiva. Si è parlato spesso di passaggio da una giurisprudenza esegetica ad una giurisprudenza scientifica per indicare, tra l'altro, lo sviluppo di una libera critica nei confronti dei codici, che ne ha preparato la riforma. E anche oggi, chi confronti l'atteggiamento del giurista attuale con quello dei primi anni dopo l'emanazione dei nuovi codici non tarderà a rilevare una maggiore spregiudicatezza e un ossequio meno passivo. I n secondo luogo, accanto al processo naturale d'invecchiamento di un codice, bisogna considerare che nella seconda m e t à del secolo scorso avvenne, per opera della cosiddetta rivoluzione industriale, una profonda e rapida trasformazione della società, che fece apparire le prime codificazioni - rispecchianti una società ancora principalmente agricola e scarsamente industrializzata - come anacronistiche, e quindi insufficienti e inadeguate, e ne accelerò i l processo naturale d'invecchiamento. Basti pensare che ancora nel codice civile del 1865, che derivava da quello francese, tutti i problemi del lavoro, a cui è stato poi dedicato un intero libro, erano riassunti i n un articolo. Parlare di completezza di un diritto, i l quale ignorava i l sorgere della grande industria e tutti i problemi dell'organizzazione del lavoro, ivi connessi, voleva dire chiudere gli occhi di fronte alla realtà per amore di una formula, lasciarsi cullare nell'inerzia mentale e nel pregiudizio.
dero luogo, ebbero una caratteristica comune: la polemica contro lo stato, e la scoperta della società al di sotto dello stato. Tanto il marxismo che la sociologia positivistica - per limitarci alle due maggiori correnti di filosofia sociale - furono animate da una critica contro i l monismo statualistico, che aveva avuto la sua espressione più intransigente nella filosofia hegeliana, ma aveva propaggini molto più antiche. Lo stato si ergeva sulla società, e tendeva ad assorbirla; ma la lotta delle classi, da un lato, che tendeva a rompere continuamente i limiti dell'ordine statuale, e la formazione spontanea (comunque non provocata o imposta dallo stato) di sempre nuovi raggruppamenti sociali, come i sindacati, i partiti, e di sempre nuovi rapporti tra gli uomini, derivati dalle trasformazioni economiche, mettevano i n evidenza una vita sottostante o contrastante allo stato, che né i l sociologo, n é i l giurista potevano ignorare. La sociologia, questa nuova scienza, che fu i l prodotto più tipico dello spirito scientifico ottocentesco, nel momento i n cui prese consapevolezza delle correnti sotterranee che animano la vita sociale, contribuì alla distruzione del m i to dello stato. Abbiamo visto che uno degli elementi di questo m i to dello stato era i l dogma della completezza. Si capisce come la sociologia abbia potuto fornire armi critiche ai giuristi nuovi contro le varie forme di giurisprudenza sempre fedele al dogma della statualità e della completezza del diritto. I n fin dei conti, la coscienza che si andava formando dello sfasamento tra diritto costituito e realtà sociale, era aiutata dalla scoperta dell'importanza della società nei confronti dello stato, e trovava nella sociologia un punto d'appoggio per contrastare la pretesa dello statualismo giuridico.
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Aggiungiamo che questo sempre più rapido e macroscopico sfasamento tra diritto costituito e realtà sociale fu accompagnato dal particolare sviluppo della filosofia sociale e delle scienze sociali nel secolo scorso, le quali, pur nelle diverse correnti, cui die-
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Nell'ambito più vasto della sociologia, si formò una corrente di sociologia giuridica, di cui lo Ehrlich, già ricordato, è uno dei rappresentanti più autorevoli: il programma della sociologia giuridica fu all'inizio principalmente quello di mostrare che i l diritto è un fenomeno sociale, e che pertanto la pretesa dei giuristi ortodossi di fare del diritto un prodotto dello stato era infondata, e conduceva a varie assurdità, come quella di credere alla completezza del diritto codificato. I rapporti tra scuola del diritto libero e sociologia giuridica sono molto stretti: sono due facce della stessa medaglia. Se i l diritto era un fenomeno sociale, un prodotto della società (nelle sue molteplici forme) e non soltanto dello sta-
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to, i l giudice e i l giurista dallo studio della società, della dinamica dei rapporti tra le diverse forze sociali, e degli interessi che queste rappresentano, dovevano ricavare le regole giuridiche adeguate ai nuovi bisogni, e non dalle prescrizioni morte e cristallizzate dei codici. I l diritto libero, i n altre parole, traeva le conseguenze non solo dalla lezione dei fatti (cioè dalla constatazione dell'inadeguatezza del diritto statuale di fronte allo sviluppo della società), ma anche dalla nuova consapevolezza, che lo sviluppo delle scienze sociali andava diffondendo, dell'importanza delle forze sociali latenti nell'interno della struttura, solo apparentemente granitica, dello stato: e lezione dei fatti e maturità scientifica si aiutavano a vicenda nel combattere i l monopolio giuridico dello stato, e, con questo, i l dogma della completezza. La letteratura critica dello statualismo giuridico è immensa. Qui ci limitiamo a ricordare l'opera di Francois Gény, Méthode d'interprétation et sources du droit positif, 1899, che contrapponeva alla pedissequa esegesi dei testi legislativi la libre recherche scientifiche, attraverso la quale i l giurista avrebbe dovuto ricavare la regola giuridica direttamente dal diritto vivente nei rapporti sociali. «Il diritto è cosa troppo complessa e mobile - scriveva lo Gény - perché un individuo o un'assemblea, ancorché investiti di autorità sovrana, possano pretendere di fissarne d'un sol colpo i precetti i n modo da soddisfare a tutte le esigenze della vita giuridica» ^. I n quello stesso tempo gli studi di Edouard Lambert sul diritto consuetudinario e sul diritto giudiziario servivano a r i chiamare l'attenzione su un diritto non d'origine legislativa. Libri, come quello di Jean Cruet, La vie du droit et l'impuissance des lois (1914), ove si proponeva i l metodo di una legislazione sperimentale, che avrebbe dovuto adeguarsi ai bisogni sociali, tenendo i l massimo conto della consuetudine e della giurisprudenza, o come quello di Gaston Morin, La révolte des faits contre la hi (1920), ove si metteva a nudo i l contrasto tra la società economica e lo stato, sono esempi eloquenti del movimento antidogmatico che si veniva sviluppando nella giurisprudenza francese. In Germania il segnale della battaglia contro il tradizionalismo
' F . GÉNY,
II, p. 324.
Méthode d'interprétation
et sources du droit positif, II ediz.,
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giuridico i n nome della sociologia giuridica e della libera ricerca del diritto fu dato da Hermann Kantorowicz, che nel 1906 pubblicò un pamphlet, dal titolo La lotta per la scienza del diritto {Der Kampf um die Rechtswissenschaft), con lo pseudonimo di Gnaeus Flavius, i n cui indicava nel diritto libero, ricavato direttamente dalla vita sociale, indipendentemente dalle fonti giuridiche di derivazione statuale, i l nuovo diritto naturale, che aveva dell'antico diritto naturale la stessa funzione, quella di rappresentare un ordine normativo non d'origine statuale, anche se non ne aveva più la natura, dal momento che i l diritto libero era anch'esso un diritto positivo, e, come tale, efficace. Solo i l diritto libero era i n grado di riempire le lacune della legislazione. Cadeva, come inutile e pericolosa remora all'adeguamento del diritto alle esigenze sociali, i l dogma della completezza. Al suo posto subentrava la convinzione che i l diritto legislativo fosse lacunoso, e che le lacune potessero essere colmate non mediante lo stesso diritto stabilito, ma soltanto attraverso i l ritrovamento e la formulazione del diritto libero.
24. Lo SPAZIO GIURIDICO VUOTO
La corrente del libero diritto, della libera ricerca del diritto, ebbe tra i giuristi molti avversari: più avversari che amici. I l positivismo giuridico di stretta osservanza, legato alla concezione statualistica del diritto, non si lasciò sgominare. I l diritto libero rappresentava agli occhi dei giuristi tradizionalisti una nuova incarnazione del diritto naturale, che, dalla scuola storica i n poi, si riteneva debellato e quindi sepolto per sempre. Ammettere la l i bera ricerca del diritto (libera nel senso di non legata al diritto statuale), concedere cittadinanza al diritto libero (cioè a un diritto creato di volta i n volta dal giudice) voleva dire rompere l'argine del principio di legalità, che era stato posto a difesa dell'individuo, aprire le porte all'arbitrio, al caos, all'anarchia. La completezza non era un mito, ma un'esigenza di giustizia; non era una inutile funzione, ma un'utile difesa di uno dei valori supremi, cui deve servire l'ordine giuridico, la certezza. Dietro la battaglia dei metodi c'era, come sempre, una battaglia ideologica. I l
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Completezza dell'ordinamento giuridico
compito dei giuristi era quello di difendere la giustizia legale oppure di favorire la giustizia sostanziale? I difensori della legalità rimasero fedeli al dogma della completezza. Ma per rimanervi dovettero trovare nuovi argomenti. Dopo l'attacco del diritto libero, non bastava più ripetere ingenuamente la vecchia fiducia nella saggezza del legislatore. La fiducia era scossa. Bisognava dimostrare criticamente che la completezza, lungi dall'essere una comoda finzione, o peggio un'ingenua credenza, era un carattere costitutivo di ogni ordinamento giuridico, e che se c'era una teoria erronea da confutare, questa era non già la teoria della completezza ma quella che sosteneva l'esistenza di lacune. I giuristi tradizionalisti, insomma, passarono al contrattacco. L'effetto di questo contrattacco fu che i l problema della completezza passò da una fase dogmatica a una fase critica. Il primo argomento avanzato dai positivisti di stretta osservanza fu quello che chiameremo, per brevità, dello spazio giuridico vuoto. Fu enunciato e difeso da uno dei più accaniti difensori del positivismo giuridico contro ogni rinascita giusnaturalistica, Karl Bergbohm, nel libro Jurisprudenz und Rechtsphilosophie del 1892. I n Italia è stato accettato da Santi Romano nel saggio Osservazioni sulla completezza dell'ordinamento statale (1925). I l ragionamento del Bergbohm è i n sintesi i l seguente: ogni norma giuridica rappresenta una limitazione alla libera attività umana; al di fuori della sfera regolata dal diritto l'uomo è libero di fare quello che vuole. L'ambito di attività di u n uomo p u ò dunque considerarsi diviso, dal punto di vista del diritto, i n due compartimenti: quello i n cui è vincolato da norme giuridiche e che potremo chiamare lo spazio giuridico pieno, e quello i n cui è l i bero, che potremo chiamare lo spazio giuridico vuoto. O c'è i l vincolo giuridico o c'è l'assoluta libertà. Tertium non datur. La sfera di libertà p u ò diminuire o aumentare, secondo che aumentino o diminuiscano le norme giuridiche; ma non si p u ò dare i l caso che un nostro atto sia nello stesso tempo libero e vincolato. Trasportiamo questa alternativa sul piano del problema delle lacune: un caso o è regolato dal diritto e allora è un caso giuridico o giuridicamente rilevante, o non è regolato dal diritto e allora appartiene a quella sfeia di libera esplicazione dell'attività umana, che è la sfera del giuridicamente irrilevante. Per le lacune del diritto non c'è spazio alcuno. Com'è assurdo pensare ad
un caso che non sia giuridico e pur tuttavia sia regolato, così non è possibile ammettere un caso che sia giuridico e che ciò nonostante non sia regolato: cioè non è possibile ammettere una lacuna del diritto. Sin dove i l diritto giunge con le sue norme, non vi sono lacune; dove non giunge, c'è lo spazio giuridico vuoto, e quindi non la lacuna del diritto, ma l'attività indifferente al diritto. Uno spazio intermedio tra quello giuridicamente pieno e quello giuridicamente vuoto, ove si possano collocare le lacune, non esiste. O v i è l'ordinamento giuridico, e allora non p u ò parlarsi di lacuna; o c'è la cosiddetta lacuna, e allora non c'è più l'ordinamento giuridico, e la lacuna non è più tale, perché non rappresenta una deficienza dell'ordinamento, ma un suo limite naturale. Ciò che sta al di là dei l i m i t i delle regole d i un ordinamento non è una lacuna dell'ordinamento, ma qualcosa di diverso dall'ordinamento, così come la riva di un fiume non è la mancanza del fiume, ma semplicemente la separazione tra ciò che è fiume e ciò che non è fiume.
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Il punto debole di questa teoria è che si fonda sopra un concetto monito discutibile come quello di spazio giuridico vuoto, p di sfera del giuridicamente irrilevante. Esiste lo spazio giuridico \aioto?.iSembra che l'affermazione dello spazio giuridico \aioto nasca dalla falsa identificazione del giuridico con l'obbligatgriq. Ma CIÒ che non è obbligatorio, e quindi rappreseata l a sfera del pec-: messo o del lecito, deve considerarsi giuridicamente irrilevante o indifferente? QuFsta l'errore. Abbiamo spesso parlato delle tre modalità normative del comandato, del proibito e del permesso. Per sostenere la tesi dello spazio giuridico vuoto bisogna escludere i l permesso dalle modalità giuridiche: ciò che è permesso coinciderebbe con ciò che è giuridicamente indifferente. Tutt'al più bisognerebbe distinguere due sfere del permesso o della l i bertà, una giuridicamente rilevante e l'altra giuridicamente i r r i levante. Ma è possibile questa distinzione? Esiste una sfera della libertà giuridica accanto ad una sfera della libertà giuridicamente irrilevante? Il primo dubbio che una libertà giuridicamente irrilevante non esista nasce dal fatto che i l Romano per definire questa libertà e per distinguerla dalla libertà giuridica (considerata come sfera del lecito), la chiami la sfera di ciò che non è né lecito n é illecito. Ora, siccome lecito e illecito sono due termini contraddittori, non pos-
Teorìa dell'ordinamento giurìdico
Completetza dell'ordinamento giurìdico
sono escludersi a vicenda, perché, se non possono essere entrambi veri, non possono neppure essere entrambi falsi. E quindi non p u ò esistere una situazione che non sia nello stesso tempo né lecita né illecita. I n realtà la libertà non giuridica dovrebbe essere meglio definita come "libertà non protetta". Che cosa significa questa espressione? Ha senso parlare di una libertà non protetta accanto alla libertà protetta? Vediamo un po'. Per "libertà protetta" s'intende quella libertà che viene garantita (per mezzo della coercizione giuridica) contro eventuali impedimenti da parte di terzi (o dello stato stesso). Si tratta cioè di quella libertà che viene riconosciuta nel momento stesso i n cui viene imposto ai terzi l'obbligo giuridico (cioè rinforzato dalla sanzione, i n caso d'inadempienza) di non impedirne l'esercizio. Si badi bene che la sfera del permesso (in una persona) è sempre collegata con una sfera dell'obbligatorio (in un'altra persona o in tutte le altre persone): ciò vuol dire che la sfera del permesso giuridico p u ò sempre essere considerata dal punto di vista dell'obbligo (cioè dell'obbligo altrui di non impedire l'esercizio dell'azione lecita); e che i l diritto non permette mai senza, nello stesso tempo, comandare o proibire. Ebbene, se per libertà protetta si intende la libertà garantita contro l'altrui impedimento, per libertà non protetta (ciò che, ripetiamo, dovrebbe costituire la sfera del giuridicamente irrilevante, e dello spazio giuridico vuoto) dovrebbe intendersi una l i bertà non garantita contro l'altrui impedimento. Ciò vorrebbe dire che l'uso della forza da parte di un terzo per impedire l'esercizio di quella libertà sarebbe lecito. Brevemente: libertà non protetta significa liceità dell'uso della forza privata. Ma se è così, nei nostri ordinamenti statuali moderni, caratterizzati dalla monopolizzazione della forza da parte dello stato, e dal conseguente divieto dell'uso privato della forza, la situazione ipotizzata come situazione di libertà non protetta non è possibile.
no dei casi i n cui l'intervento della forza privata è lecita. Confesso che anche in questo caso m i riesce difficile parlare di una sfera del giuridicamente irrilevante. Che i n qualche caso la forza privata sia lecita, significa che i n questo caso la libertà dell'uno non è protetta, ma è protetta la forza dell'altro, e che pertanto i l rapporto diritto-dovere è invertito, nel senso che al dovere del terzo di rispettare la libertà altmi succede i l diritto di violarla, e al diritto dell'altro di esercitare la propria libertà succede i l dovere di accettare l'impedimento dell'altro. I l fatto che la libertà non sia protetta non fa diventare questa situazione giuridicamente irrilevante, perché, nel momento stesso i n cui la libertà di agire dell'uno non è protetta, è protetta la libertà dell'altro di esercitare la forza, e i n quanto protetta è essa giuridicamente rilevante invece dell'altra. Non viene meno la rilevanza giuridica: semplicemente cambia i l rapporto tra i l diritto e i l dovere.
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Si capisce che allo stato, che attribuisce una libertà, non interessa che cosa io scelgo, ma che io possa scegliere. Ciò che esso protegge non è la mia scelta, ma i l diritto di scegliere. Si potrebbe obiettare che l'ordinamento statuale modemo non p u ò essere preso come modello di ogni possibile ordinamento giuridico, e che vi sono ordinamenti giuridici i n cui la monopolizzazione della forza non è completa, e quindi in questi ordinamenti vi so-
2 5 . L A NORMA GENERALE ESCLUSIVA
Se non esiste uno spazio giuridico vuoto, vuol dire che esiste solo lo spazio giuridico pieno. Proprio da questa constatazione ha preso le mosse la seconda teoria che nella reazione alla scuola del diritto libero, ha cercato d'impostare criticamente i l problema della completezza. Sinteticamente, la prima teoria, quella che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente, ha sostenuto che non ci sono lacune, perché dove manca l'ordinamento giuridico, manca lo stesso diritto, e quindi si deve parlare più propriamente di limiti dell'ordinamento giuridico piuttosto che di lacune. La seconda teoria, invece, sostiene che non vi sono lacune per la ragione inversa, cioè per i l fatto che i l diritto non manca mai. Questa seconda teoria è stata primamente sostenuta dal giurista tedesco Ernst Zitelmann nel saggio intitolato Le lacune nel diritto (Lucken im Recht, 1903), e, con qualche variante, i n Italia da Donato Donati nell'importante libro // problema delle lacune dell'ordinamento giuridico, 1910. Il ragionamento seguito da questi autori si p u ò riassumere così: una norma che regola un comportamento non solo limita la regolamentazione e quindi le conseguenze giuridiche che da que-
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S t a regolamentazione discendono a quel comportamento, ma nello stesso tempo esclude da quella regolamentazione tutti gli altri comportamenti. Una norma che proibisce di fumare, esclude la proibizione, ovvero permette, tutti gli altri comportamenti che non rientrano nel fumare. Tutti i comportamenti non compresi nella norma particolare sono regolati da una norma generale esclusiva, cioè dalla regola che esclude (per questo è esclusiva) tutti i comportamenti (per questo è generale) che non rientrano in quello previsto dalla norma particolare. Si potrebbe dire anche, con un altro giro di frase, che le norme non nascono mai sole ma a coppie: ogni norma particolare, che potremmo chiamare inclusiva, è accompagnata, come se fosse la propria ombra, dalla nonna generale esclusiva. Secondo questa teoria non avviene mai che vi sia, al di là delle norme particolari, uno spazio giuridico vuoto, ma avviene bensì che al di là di quelle norme vi sia tutta una sfera di azioni regolate dalle norme generali esclusive. Mentre per la teoria precedente l'attività umana è divisa i n due campi, uno regolato da norme e l'altro non regolato, per questa seconda teoria tutta l'attività umana è regolata da norme giuridiche, perché quella che non cade sotto le norme particolari, cade sotto quelle generali esclusive.
«Dato i l complesso delle disposizioni, le quali, prevedendo determinati casi, stabiliscono per essi l'esistenza di date obbligazioni, dal complesso delle disposizioni stesse deriva ad un tempo una serie di norme particolari inclusive e una norma generale esclusiva: una serie di norme particolari dirette a stabilire per i casi da esse particolarmente considerati date limitazioni, e una norma generale diretta ad escludere qualunque limitazione per tutti gli altri casi, non particolarmente considerati. I n forza di questa norma ogni possibile caso viene a trovare nell'ordinamento giuridico i l suo regolamento. Dato un caso determinato, o esiste nella legislazione una disposizione che particolarmente lo riguarda, e da questa deriverà pel caso stesso una norma particolare; oppure non esiste, e allora cadrà sotto la norma generale accennata» 5. L'esempio fatto dal Donati è i l seguente: i n uno stato monarchico manca una disposizione che regoli la successione al trono nel caso d'estinzione della famiglia reale. Si domanda: a chi spetta la Corona nel caso i n cui si verifichi la circostanza dell'estinzione? Parrebbe di trovarsi di fronte ad un tipico caso di lacuna. Il Donati sostiene, invece, i n base alla teoria della norma generale esclusiva, che anche i n questo caso esiste una soluzione giuridica. E invero: poiché i l caso non trova nell'ordinamento nessuna norma particolare che lo riguardi, verrà a cadere sotto la norma generale esclusiva, la quale appunto stabilisce, per i casi i n essa compresi, l'esclusione di qualsiasi limitazione. Quindi la questione proposta: a chi spetta la Corona? avrà la seguente soluzione - e sarà l'unica possibile soluzione giuridica - : la Corona non spetta a nessuno, vale a dire: lo Stato e i sudditi sono liberi da qualsiasi limitazione, la quale sia relativa all'esistenza di un re, e quindi avranno diritto di respingere la pretesa d i chiunque volesse farsi riconoscere come re. Che poi questa soluzione sia politicamente insoddisfacente non vuol dire affatto che essa non sia una soluzione giuridica. Si potrà lamentare che uno stato i n cui manchi tale legge sia male costituito; ma non si potrà dire che i l suo ordinamento sia incompiuto o lacunoso.
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Per maggior chiarezza citiamo le parole stesse dei due autori che hanno formulato la teoria. Dice lo Zitelmann: «Alla base di ogni norma particolare, che sanziona un'azione con una pena o con l'obbligo al risarcimento dei danni, o attribuendo qualsiasi altra conseguenza giuridica, sta sempre come sottintesa ed inespressa una norma fondamentale generale e negativa, secondo cui, prescindendo da questi particolari casi, tutte le altre azioni rimangono esenti da pena o da risarcimento: ogni norma positiva, con cui venga attribuita una pena od un risarcimento, è i n questo senso un'eccezione di quella norma fondamentale generale e negativa. Donde segue: nel caso che manchi una tale positiva eccezione non vi è lacuna, perché i l giudice p u ò sempre, applicando quella norma generale e negativa, riconoscere che l'effetto giuridico i n questione non è intervenuto, o che non è sorto il diritto alla pena o l'obbligo al risarcimento»'*. Dice i l Donati:
Anche questa teoria della norma generale esclusiva ha i l suo
5 D. E . ZITELMANN,
Lucken ini Recht, Leipzig,
1903,
p.
17.
1910,
pp.
DONATI, / / 36-37.
problema delle lacune dell'ordinamento giurìdico,
Milano,
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punto debole. Quello che dice, lo dice bene, e con apparenza di grande rigore, ma non dice tutto. Ciò che non dice è che i n un ordinamento giuridico di solito non esiste soltanto un insieme di norme particolari inclusive e una norma generale esclusiva che le accompagna, ma anche un terzo tipo di norma, che è inclusiva come la prima e generale come la seconda, e possiamo chiamare norma generale inclusiva. Chiamiamo "norma generale inclusiva" una norma come quella espressa nel nostro ordinamento nell'art. 12 Disp. prel., secondo cui i n caso di lacuna i l giudice deve r i correre alle norme che regolano casi simili o materie analoghe. Mentre norma generale esclusiva è quella norma che regola tutti i casi non compresi nella norma particolare, ma l i regola in modo opposto; la caratteristica della norma generale inclusiva è di regolare i casi non compresi nella norma particolare, ma simili a questi, in modo identico. Di fronte ad una lacuna, se applichiamo la norma generale esclusiva, i l caso non regolato sarà risolto i n modo opposto a quello regolato; se applichiamo la norma generale inclusiva, i l caso non regolato sarà risolto i n modo identico a quello regolato. Come si vede, le conseguenze dell'applicazione dell'una o dell'altra norma generale sono ben diverse, anzi sono opposte. E l'applicazione dell'una o dell'altra norma dipende dal risultato dell'indagine sul fatto se i l caso non regolato sia o no simile a quello regolato. Ma l'ordinamento, i n genere, non ci dice nulla sulle condizioni i n base alle quali due casi possano essere considerati simili. La decisione sulla somiglianza dei casi spetta all'interprete. E quindi spetta all'interprete la decisione se i n caso di lacuna egli debba applicare la norma generale esclusiva, e quindi escludere il caso non previsto dalla disciplina del caso previsto, oppure applicare la norma generale inclusiva, e quindi includere i l caso non previsto nella disciplina del caso previsto. Nel primo caso si dice che adopera ì'argumentum a contrario, nel secondo, ì'argumentum a simili.
considerazione del caso non regolato come simile a quello regolato, e la conseguente applicazione della norma generale inclusiva. Ma proprio i l fatto che i l caso non regolato offra materia per due soluzioni opposte rende i l problema delle lacune meno semplice, meno piano e ovvio di quel che era apparso dalla teoria, sin troppo lineare, della norma generale esclusiva. Se esistono due soluzioni entrambe possibili, e la decisione tra le due soluzioni spetta all'interprete, una lacuna esiste e consiste proprio nel fatto che l'ordinamento ha lasciato indeciso quale delle due soluzioni sia quella voluta. Se vi fosse, i n caso di comportamento non regolato, una sola soluzione, quella della norma generale esclusiva, come avviene, ad esempio, di solito, nel diritto penale dove l'estensione analogica non è ammessa, potremmo anche dire che non esistono lacune: tutti i comportamenti che non sono espressamente proibiti dalle leggi penali, sono leciti. Ma poiché le soluzioni, i n caso di comportamento non regolato, sono di solito due, la lacuna consiste proprio nella mancanza di una regola che permetta d i accogliere una soluzione piuttosto che l'altra.
Ma se di fronte ad un caso non regolato, si p u ò applicare tanto la norma generale esclusiva quanto quella generale inclusiva, bisogna precisare la formula, secondo cui esiste sempre, i n ogni caso, una soluzione giuridica, i n quest'altra: nel caso d i lacuna, di soluzioni giuridiche ne esistono almeno due: 1) la considerazione del caso non regolato come diverso da quello regolato, e la conseguente applicazione della norma generale esclusiva; 2) la
In questo modo, non solo ci pare impossibile escludere le lacune, i n contrasto con la teoria della norma generale esclusiva, ma si è venuto precisando i l concetto stesso di lacuna: la lacuna si verifica non già per la mancanza di una norma espressa per la regolamentazione di un determinato caso; ma per la mancanza di un criterio per la scelta di quale delle due regole generali, quella esclusiva e quella inclusiva, debba essere applicata. I n un certo senso andiamo al di là della teoria della norma generale esclusiva, perché ammettiamo che nel caso del comportamento espressamente non regolato non solo vi sia sempre una soluzione giuridica, ma anzi ve ne siano due. I n un altro senso, però, smentiamo la teoria, i n quanto, proprio perché le soluzioni giuridiche possibili sono due, e manca un criterio per applicare al caso concreto l'una piuttosto che l'altra, ritroviamo qui la lacuna che la teoria aveva creduto di poter eliminare: la lacuna non rispetto al caso singolo, ma rispetto al criterio i n base al quale i l caso debba essere risolto. Facciamo un esempio. Nell'art. 265 ce. solo la violenza è considerata come causa d'impugnazione del riconoscimento del f i glio naturale. L'articolo non regola i l caso dell'errore. Si tratta di lacuna? Se noi non avessimo da applicare che la norma generale
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esclusiva potremmo rispondere tranquillamente di no. La norma generale esclusiva implica che ciò che non è compreso nella norma particolare (in questo caso l'errore) deve avere una disciplina opposta a quella del caso previsto: quindi, se la violenza, che è prevista, è causa d'impugnazione, l'errore, che non è previsto, non è causa d'impugnazione. Ma i l guaio è che l'interprete deve tener conto anche della norma generale inclusiva, secondo cui i n caso di comportamento non regolato questo deve essere regolato allo stesso modo del caso simile. I l caso dell'errore è simile a quello della violenza? Se l'interprete d à a questa domanda una risposta affermativa, è chiaro che la soluzione è opposta a quella precedente: l'errore è, allo stesso modo della violenza, causa d'impugnazione. Come si vede, la difficoltà, su cui di solito non ci si sofferma, è che di fronte al caso non regolato, non è che ci sia i n sufficienza di soluzioni giuridiche possibili; ce n'è, anzi, esuberanza. E la difficoltà d'interpretazione, in cui consiste i l problema delle lacune, è che l'ordinamento non offre alcun mezzo giuridico per eliminare questa esuberanza, cioè per decidere i n base al sistema i n favore di una soluzione piuttosto che di un'altra. Se ora ci riferiamo alla definizione tecnica di lacuna, data nel primo paragrafo di questo capitolo, quando abbiamo detto che lacuna significa che i l sistema i n certi casi non offre la possibilità di risolvere un dato caso né i n un certo modo n é nel modo opposto, da quel che abbiamo detto circa la teoria della norma generale esclusiva, dobbiamo concludere che un ordinamento giuridico, nonostante la norma generale esclusiva, può essere incompleto. E p u ò essere incompleto perché tra la itorma particolare inclusiva e quella generale esclusiva s'interpone di solito la norma generale inclusiva, la quale stabilisce una zona intermedia tra il regolato e i l non regolato, che l'ordinamento giuridico tende, i n forma quasi sempre indeterminata e indeterminabile, a occupare. Ma questa occupazione eventuale e possibile resta, di solito, nell'ambito del sistema, indecisa. Se, in caso di comportamento non regolato, non avessimo altra norma da applicare che quella generale esclusiva, la soluzione sarebbe ovvia. Ma ora noi sappiamo che in molti casi possiamo applicare tanto la norma che vuole i comportamenti diversi regolati in modo opposto a quello regolato, quanto la norma che vuole i comportamenti simili regolati in modo identico a quello regolato. E non siamo i n grado
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di decidere, mediante regole del sistema, se il caso sia simile o diverso. E allora la soluzione non è più ovvia. I l fatto che la soluzione non sia più ovvia, cioè che non si possa ricavare dal sistema né un soluzione n é la soluzione opposta rivela che l'ordinamento è alla fin fine incompleto.
2 6 . L E LACUNE mEOLOCicHE
Abbiamo cercato di chiarire, nel paragrafo precedente, i n qual senso si possa parlare di lacune nell'ordinamento giuridico, o di incompletezza dell'ordinamento giuridico: non nel senso, ripetiamo, di mancanza di una norma da applicare, ma di mancanza d i criteri validi per decidere quale norma applicare. Ma vi è un altro senso, più ovvio, voglio dire meno controverso, di lacuna, che pur merita una breve illustrazione. Si intende per "lacuna" anche la mancanza non già di una soluzione, qualunque essa sia, ma di una soluzione soddisfacente, o, i n altre parole, non già la mancanza di una norma, ma la mancanza di una norma giusta, cioè di quella norma che si desidererebbe che ci fosse, e invece non c'è. Siccome queste lacune derivano non già dalla considerazione dell'ordinamento giuridico quale esso è, ma dal confronto tra l'ordinamento giuridico qual'è e quale dovrebbe essere, sono state chiamate "ideologiche", per distinguerle da quelle che eventualmente si riscontrassero nell'ordinamento giuridico qual'è, e si possono chiamare "reali". Possiamo anche enunciare la differenza i n questo modo: le lacune ideologiche sono lacune de iure condendo; le lacune reali sono de iure condito. Che vi siano lacune ideologiche i n ogni sistema giuridico è tanto ovvio che non vai neppure la pena di insistervi. Nessun ordinamento giuridico è perfetto: almeno nessun ordinamento giuridico positivo. Solo l'ordinamento giuridico naturale non dovrebbe avere lacune ideologiche: anzi una possibile definizione del diritto naturale potrebbe essere quella che lo definisse come un diritto senza lacune ideologiche, nel senso che esso è ciò che dovrebbe essere. Ma un sistema di diritto naturale nessuno l'ha mai formulato. A noi interessa i l diritto positivo. Ora, rispetto al diritto positivo, se è ovvio che ogni ordinamento ha lacune ideolo-
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giche, è anche altrettanto ovvio che le lacune di cui deve preoccuparsi colui che è chiamato ad applicare il diritto non sono quelle ideologiche ma quelle reali. Quando i giuristi sostengono, secondo noi a torto, che l'ordinamento giuridico è completo, cioè non ha lacune, si riferiscono alle lacune reali non a quelle ideologiche. Chi ha cercato di mettere i n rilievo la differenza tra i due piani del problema delle lacune, quello de iure condito e quello de iure condendo, è stato i l Brunetti i n una serie di saggi, che costituiscono, insieme con le opere del Romano e del Donati, i maggiori contributi della scienza giuridica italiana a questo problema*. I l Brunetti sostiene che, perché si possa parlare di completezza o incompletezza di una qualsiasi cosa bisogna non considerare la cosa i n se stessa ma metterla i n raffronto con qualche altra cosa. I due casi tipici i n cui io posso parlare di completezza o meno sono: 1) quando io confronto una determinata cosa col suo tipo ideale, o con quello che dovrebbe essere: ha senso domandarsi se un dato tavolo è completo o no solo se lo confronto con quello che dovrebbe essere un tavolo perfetto; 2) quando confronto la rappresentazione di una cosa con la cosa rappresentata, per esempio una carta geografica dell'Italia con l'Italia. Qra, rispetto all'ordinamento giuridico, i l Brunetti sostiene che se lo si considera i n se stesso, cioè senza metterlo a raffronto con qualche altra cosa, la domanda se sia completo o no è una domanda senza senso, come se ci si domandasse se l'oro è completo, i l cielo è completo. Perché il problema delle lacune abbia un senso, bisogna o confrontare l'ordinamento giuridico reale con un ordinamento giuridico ideale, secondo i l significato illustrato sub 1, e i n questo caso è lecito parlare di completezza o incompletezza dell'ordinamento giuridico, ma non è i l senso che interessa al giurista (si tratta, infatti, delle lacune ideologiche); oppure consi-
derare l'ordinamento legislativo come rappresentazione della volontà dello stato, secondo i l significato illustrato sub 2, e domandarsi se la legge contenga o no tutto ciò che deve contenere per poter essere considerata la manifestazione tecnicamente perfetta della volontà dello stato; ma i n questo secondo caso i l problema della completezza o incompletezza p u ò essere riferito unicamente all'ordinamento legislativo, come parte dell'ordinamento giuridico, e non all'ordinamento giuridico nella sua totalità. Riferito all'ordinamento giuridico, nella sua totalità, i l problema della completezza, secondo i l Brunetti, non ha senso, perché l'ordinamento giuridico nella sua totalità, di per se stesso considerato, non appartiene alla categoria delle cose di cui si possa predicare la completezza o incompletezza, come non si p u ò predicare l'azzurro al triangolo o all'anima. Riassumendo, secondo i l Brunetti, il problema delle lacune ha tre facce: 1) i l problema se l'ordinamento giuridico, considerato in se stesso, sia completo o incompleto: i l problema, così impostato (ed è l'impostazione più frequente da parte dei giuristi) non ha senso; 2) i l problema se sia completo o incompleto l'ordinamento giuridico così com'è, comparato ad un ordinamento giuridico ideale: questo problema ha senso, ma le lacune che qui vengono i n questione sono le lacune ideologiche che non interessano i giuristi; 3) i l problema se sia completo o incompleto l'ordinamento legislativo, considerato come parte di un tutto, e confrontato col tutto, cioè con l'ordinamento giuridico: questo problema ha senso ed è l'unico caso in cui si possa parlare di lacune nel senso proprio della parola. I n realtà anche questo terzo caso si p u ò far rientrare nella categoria delle lacune ideologiche, cioè nel contrasto tra quello che la legge dice e quello che dovrebbe dire per essere perfettamente adeguata allo spirito dell'intero sistema. Ergo: per il Brunetti, i l problema della completezza è un problema senza senso, o là dove ha senso, le uniche lacune, di cui si possa mostrar l'esistenza, sono lacune ideologiche; ed è un senso, come dicevamo, tanto ovvio che se a ciò si riducesse i l problema, sarebbe a dire i l vero non meritevole di tutti i fiumi d'inchiostro che sono stati su di esso versati.
* G . B R U N E T T I , Sul valore del problema delle lacune, 1913; / / senso del problema delle lacune dell'ordinamento giuridico, 1917; Ancora sul senso del problema delle lacune, 1917; Sulle dottrine che affennano l'esistenza di lacune nell'ordinamento giuridico, 1918; / / dogma della completezza dell'ordinamento giuridico, 1924. Questi saggi si trovano in Scrìtti giurìdici vari, rispettivamente, I, p. 3 4 ss.; I l i , p. 1 ss.; p. 3 0 ss.; p. 5 0 ss.; IV, p. 161 ss.
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27. VÀRI TIPI DI LACUNE
La distinzione che abbiamo sinora illustrato tra lacune reali e lacune ideologiche corrisponde su per giù alla distinzione, spesso ripetuta nei trattati generali, tra lacune proprie e improprie. La lacuna propria è una lacuna del sistema o dentro il sistema; la lacuna impropria deriva dal confronto del sistema reale con un sistema ideale. I n un sistema in cui ogni caso non regolato rientri nella norma generale esclusiva (com'è di solito un codice penale che non ammette estensione analogica) non vi possono essere che lacune improprie: i l caso non regolato non è una lacuna del sistema perché non p u ò che rientrare nella norma generale esclusiva, ma, se mai, è una lacuna rispetto a come i l sistema dovrebbe essere. La lacuna propria si ha soltanto dove accanto alla norma generale esclusiva esiste anche la norma generale inclusiva, e il caso non regolato p u ò esser fatto rientrare tanto nell'una come nell'altra. Ciò che hanno i n comune i due tipi di lacuna è che designano un caso non regolato dalle leggi vigenti i n un dato ordinamento giuridico. Ciò che le distingue è i l modo con cui possono essere eliminate: la lacuna impropria solo attraverso l'emanazione di nuove norme; quella propria, mediante le leggi vigenti. Le lacune improprie non sono completabili che dal legislatore; le lacune proprie sono completabili per opera dell'interprete. Ma quando si dice che un sistema è incompleto, ciò si dice rispetto alle lacune proprie, e non all'improprie. I l problema della completezza dell'ordinamento giuridico è i l problema se vi siano e come siano eliminabili le lacune proprie. Rispetto ai motivi che le hanno provocate, le lacune si distinguono i n soggettive e oggettive. Soggettive sono quelle che dipendono da qualche motivo imputabile al legislatore; oggettive sono quelle che dipendono dallo sviluppo dei rapporti sociali, dalle nuove invenzioni, da tutte quelle cause che provocano un invecchiamento dei testi legislativi, e che quindi sono indipendenti dalla volontà del legislatore. Quelle soggettive, alla loro volta, possono distinguersi i n volontarie e involontarie. Involontarie sono quelle che dipendono da una qualsiasi svista del legislatore, che fa credere regolato un caso che non è, o fa trascurare un caso che magari si ritiene poco frequente, ecc.; volontarie sono quelle che
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lo stesso legislatore lascia d i proposito perché la materia è molto complessa e non p u ò essere regolata con regole troppo minute, ed è meglio affidarla all'interpretazione, caso per caso, del giudice. I n alcune materie i l legislatore impartisce norme molto generali che si possono chiamare direttive. La caratteristica delle direttive è che tracciano solo le linee generali dell'azione da compiere, ma lasciano la determinazione dei particolari a chi le deve eseguire o applicare; per esempio, la direttiva traccia i l fine che si deve raggiungere, ma affida la determinazione dei mezzi atti a perseguire il fine alla libera scelta dell'esecutore. Molte norme costituzionali sono nei confronti del legislatore ordinario che le dovrà applicare pure e semplici direttive: anzi, alcune norme costituzionali di carattere generale non possono essere applicate se non sono integrate. Il legislatore che le ha poste non ignorava che esse erano lacunose; ma la loro funzione era appunto quella di stabilire una direttiva generale che doveva essere integrata o riempita successivamente da organi p i ù adatti a questo scopo. Secondo i l significato illustrato di lacuna, queste lacune volontarie non sono vere e proprie lacune: qui, infatti, l'integrazione del vuoto, appositamente lasciato, è affidato al potere creativo dell'organo inferiore gerarchicamente. La lacuna i n senso proprio si ha quando si presume che l'interprete (in questo caso l'organo inferiore) debba risolvere i l caso in base a una norma data del sistema, e questa norma non c'è o, per essere più esatti, il sistema non offre la dovuta soluzione. Là dove agisce i l potere creativo di colui che deve applicare le norme del sistema, i l sistema è sempre, in senso proprio, completo perché i n ogni circostanza completabile; e pertanto i l problema della completezza o incompletezza non si pone neppure. Altra distinzione è quella tra lacune praeter legem e lacune intra legem. Le prime si hanno quando le regole espresse per essere troppo particolari non comprendono tutti i casi possibili; le seconde hanno luogo, al contrario, quando le norme sono troppo generali, e rivelano, all'interno delle disposizioni date, dei vuoti o dei buchi, che spetterà poi all'interprete colmare. Le lacune volontarie, di cui si è testé discorso, sono di solito intra legem. Nel primo caso l'integrazione consisterà nel formulare nuove regole accanto a quelle espresse; nel secondo caso, le nuove regole dovranno essere formulate dentro le regole espresse.
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2 8 . ETEROINTEGRAZIONE E AUTOINTEGRAZIONE
Abbiamo visto nel par. 2 che i l dogma della completezza è storicamente connesso con la concezione statualistica del diritto. Non bisogna però credere che la completabilità di un ordinamento fosse affidata unicamente alla norma generale esclusiva, cioè alla regola che ogni caso non regolato è regolato dalla norma che lo esclude dalla regolamentazione del caso regolato. Tra i casi i n clusi espressamente e i casi esclusi ce i n ogni ordinamento, come abbiamo già avvertito, una zona incerta di casi non regolati ma potenzialmente attirabili nella sfera d'influenza dei casi espressamente regolati. Ogni ordinamento prevede i mezzi o i r i medi atti a penetrare i n questa zona intermedia, ad estendere la sfera del regolato i n confronto d i quella del non regolato. Abbiamo visto, del resto, nel capitolo secondo, che gli ordinamenti, di cui parliamo, sono ordinamenti complessi, i n cui le norme provengono da fonti diverse, se pur raccolte, attraverso l'ordine gerarchico, i n un'unità. Se un ordinamento giuridico non è, staticamente considerato, completo, se non attraverso la norma generale esclusiva, è però, dinamicamente considerato, completabile. Per completarsi, un ordinamento giuridico p u ò ricorrere a due metodi diversi che possiamo chiamare, seguendo la terminologia d i Camelutti, d i eterointegrazione e d i autointegrazione. I l primo metodo consiste nella integrazione operata attraverso: a) i l ricorso ad ordinamenti diversi; b) i l ricorso a fonti diverse da quella dominante (che è, negli ordinamenti che abbiamo sottocchio, la legge). I l secondo metodo consiste nella integrazione compiuta attraverso l'ordinamento stesso, nell'ambito della stessa fonte dominante, senza far ricorso ad altri ordinamenti, e col minimo r i corso a fonti diverse da quella dominante. I n questo paragrafo esaminiamo rapidamente i l metodo della eterointegrazione nelle sue due forme principali. Il tradizionale metodo di eterointegrazione mediante ricorso ad altri ordinamenti consisteva nell'obbligo, fatto al giudice, di r i correre, i n caso di lacuna del diritto positivo, al diritto naturale. Una delle funzioni costanti del diritto naturale, durante i l predominio delle correnti giusnaturalistiche, fu di colmare le lacune del diritto positivo. I l diritto naturale veniva immaginato come un si-
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Stema giuridico perfetto, sul quale riposava l'ordinamento positivo, per sua natura imperfetto: compito del diritto naturale era di porre rimedio alle imperfezioni inevitabili del diritto positivo. Era dottrina costante del diritto naturale che i l legislatore positivo si ispirasse per l'emanazione delle proprie norme al diritto naturale; ne derivava come logica conseguenza che i n caso di lacuna, i l giudice si rivolgesse alla stessa fonte. Nelle codificazioni moderne l'ultimo residuo di questa dottrina è l'art. 7 del Codice civile austriaco del 1812 nel quale si legge che nei casi dubbi, non r i solubili con norme di diritto positivo, i l giudice deve ricorrere ai principi del diritto naturale (natUrliche Rechtsgrundsàtze). Nell'art. 17 si legge che nel silentium legis, e fino a prova contraria, si ha come sussistente senza limitazioni tutto ciò che è conforme ai diritti naturali innati (angeborerte natUrliche Rechte). Questa dottrina nelle codificazioni più recenti è stata per lo più abbandonata. Nell'art. 3 delle Disp. prel. del ce. del 1865, che derivava direttamente e quasi letteralmente dall'art. 7 del Codice austriaco, poc'anzi citato, alla espressione principi generali del diritto naturale era stata sostituita la espressione più semplice, e forse anche più equivoca, "principi generali del diritto". La maggior parte dei giuristi interpretò questa espressione come se significasse "principi generali del diritto positivo", e con questa interpretazione fu operato i l passaggio dal metodo dell'eterointegrazione a quello della autointegrazione. Ma vi fn chi, come Giorgio Del Vecchio, sostenne i n un saggio molto discusso che, seguendo la tradizione giusnaturalistica da cui i l nostro art. 3 era derivato, si dovesse interpretare l'espressione "principi generali del diritto" come se significasse "principi generali del diritto naturale" ^. Non è escluso che un dato ordinamento ricorra per operare la propria integrazione ad altri ordinamenti positivi. Possiamo distinguere: a) i l rinvio ad ordinamenti precedenti nel tempo, per es. i l ricorso di un ordinamento vigente al diritto romano, che ne è stata la matrice storica: vi fu qualcuno che ritenne d i poter i n terpretare la tanto discussa formula dei "principi generali del diritto" del c e 1865 come se volesse significare "principi generali
G. D E L VECCHIO,
Sui prìncipi generali del diritto
Milano, 1 9 5 8 , I, pp. 2 0 5 - 2 7 1 .
(1920),
in Studi sul diritto,
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del diritto romano"; b) i l rinvio ad ordinamenti vigenti contemporanei, come nel caso i n cui un ordinamento statuale richiami norme di un altro ordinamento statuale o del diritto canonico (ritorneremo più particolarmente su questi problemi nell'ultimo capitolo dedicato al rapporto tra ordinamenti). Per quel che riguarda i l ricorso ad altre fonti diversa da quella dominante, consideriamo i nostri ordinamenti i n cui fonte predominante è la legge. L'eterointegrazione assume tre forme. La prima forma è i l ricorso alla consuetudine considerata come fonte sussidiaria alla legge. Si tratta della cosiddetta consuetudo praeter legem. Si p u ò distinguere un'applicazione ampia e un'applicazione ristretta della consuetudine praeter legem, o, come altrimenti si dice i n modo da indicare esattamente la sua funzione di fonte sussidiaria, integratrice. L'applicazione ampia si ha quando la consuetudine è richiamata da una norma di questo genere: «La consuetudine ha vigore i n tutte le materie non regolate dalla legge». L'applicazione ristretta si ha quando i l richiamo è contenuto i n una norma di queste genere: «La consuetudine ha vigore solo nei casi i n cui è espressamente richiamata dalla legge». L'art. 8 delle nostre Disp. prel. i l quale dice: «Nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo i n quanto sono da essi richiamati», p u ò essere interpretato, nello stesso tempo, come richiamo i n senso ampio e come richiamo i n senso stretto. Il metodo più importante di eterointegrazione, intesa come r i corso ad altra fonte diversa da quella legislativa, è i l ricorso, i n caso di lacuna della legge, al potere creativo del giudice, cioè al cosiddetto diritto giudiziario. Com'è noto, i sistemi giuridici anglosassoni ricorrono a questa forma d'integrazione più ampiamente che i sistemi giuridici continentali ove non si riconosce, per lo meno ufficialmente, i l potere creativo del giudice, salvo i n casi espressamente indicati in cui si attribuisce al giudice d i emettere giudizi di equità. I n seguito alla battaglia scatenata dalla scuola del diritto libero i n favore del diritto giudiziario, i l Codice civile svizzero, enunciava all'art. 1 i l principio che, i n caso di lacuna, sia della legge sia della consuetudine, i l giudice potesse decidere i l caso come se fosse egli stesso legislatore. È stato dimostrato peraltro che il giudice svizzero non ricorre quasi mai all'impiego di così ampio potere, i n ciò mostrando chiaramente l'attaccamento della nostra tradizione giuridica all'autointegrazione.
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o, comunque, la diffidenza verso i l diritto giudiziario considerato come veicolo di incertezza e di disordine. A rigore si p u ò considerare come ricorso ad altra fonte i l r i corso alle opinioni dei giuristi, cui ven-ebbe attribuita, i n particolari circostanze, nel caso di silenzio della legge e della consuetudine, autorità di fonte del diritto. Per designare questa fonte del diritto possiamo adoperare l'espressione del Savigny: diritto scientifico. Nei nostri ordinamenti, come non è riconosciuto diritto di cittadinanza al giudice come fonte normativa, così, e a maggior ragione, non è attribuito diritto di cittadinanza al giurista, il quale esprime opinioni, di cui e i l legislatore e i l giudice possono tener conto, ma non emette mai giudizi vincolanti né per il legislatore né per i l giudice. Per illustrare questa forma di integrazione ci limitiamo a fare l'ipotesi di un ordinamento, il quale contenesse una norma di questo genere: «In caso di lacuna della legge (e della consuetudine), i l giudice dovrà attenersi all'opinione prevalente nella dottrina», oppure, ancor più particolarmente «... alla soluzione adottata da questo o quel giurista». Questa ipotesi, del resto, non è del tutto inventata. Ricordiamo la Legge delle citazioni (426 d.C.) di Teodosio I I e Valentiniano I I I che fissava il valore da attribuirsi i n giudizio agli scritti dei giuristi, e riconosceva in primo luogo piena autorità a tutte le opere di Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino, Gaio.
2 9 . L'ANALOGIA
I l metodo dell'autointegrazione si vale soprattutto di due procedimenti: 1) l'analogia; 2 ) i principi generali del diritto. È i l metodo che c'interessa più da vicino perché è quello particolarmente adottato dal nostro legislatore, i l quale all'art. 12 Disp. prel. ce. ha disposto: «Se una controversia non p u ò essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se i l caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato». Con l'indicazione dei due procedimenti dell'analogia e dei principi generali del diritto, i l legislatore pretende o presume che i n caso di lacuna la regola debba essere trovata nel-
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giurìdico
l'ambito stesso delle leggi vigenti, cioè senza far ricorso ad altri ordinamenti né a fonti diverse dalla legge. S'intende per "analogia" quel procedimento per cui si attribuisce ad un caso non regolato la stessa disciplina di un caso regolato simile. Abbiamo già avuto modo d i incontrare l'analogia quando abbiamo parlato della norma generale inclusiva: l'art. 12 sopracitato p u ò essere considerato la norma genei'ale inclusiva del nostro ordinamento. L'analogia è certamente i l piii tipico e i l più importante dei procedimenti inteipretativi di un determinato sistema normativo: è quel procedimento mediante i l quale si esplica la cosiddetta tendenza d i ogni sistema giuridico ad espandersi oltre i casi espressamente regolati. È stato largamente usato i n tutti i tempi. Ricordiamo i l passo del Digesto: «Non possunt omnes articuli singillatim aut legibus aut senatus consultis comprehendi: sed cum i n aliqua causa sententia eorum manifesta est, is qui jurisdictioni praeest ad similia procedere atque ita ius dicere dcbet» (10 D. c?e leg. 1, 3). Nel diritto inteiTnedio, l'analogia o argumentum a simili era considerato i l procedimento più efficace per compiere la cosiddetta extensio legis. Il ragionamento per analogia è stato studiato dai logici. Se ne ti-ova menzione col nome di paradigma (tradotto poi in latino con exemplum) nell'Organon di Aristotele {Analitici priores, I I , 24). L'esempio addotto da Aristotele è i l seguente: «La guerra dei Focesi contro i Tebani è male; la guerra degli Ateniesi contro i Tebani è simile alla guerra dei Focesi contro i Tebani; la guerra degli Ateniesi contro i Tebani è male». La formula del ragionamento per analogia p u ò essere espressa schematicamente così: M S S
è è è
P simile a M P
Questa formulazione deve essere brevemente commentata. Così come è, si presenta come un sillogismo i n cui la proposizione m i nore esprime un rapporto di somiglianza anziché d i identità (la formula del sillogismo è: M è P; S è M ; S è P). I n realtà essa cela i l vizio detto della qnatentio terminorum, secondo cui i termini sono apparentemente tre, come nel sillogismo, ma in realtà sono quattro. Facciamo un esempio:
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Gli uomini sono mortali; i cavalli sono simili agli uomini, i cavalli sono mortali. La conclusione è lecita solo se i cavalli sono simili agli uomini i n una qualità che sia la ragione sufficiente per cui gli uomini sono mortali. Si dice che la somiglianza non deve essere una somiglianza qualunque, ma una somiglianza rilevante. Poniamo che questa somiglianza rilevante tra uomini e cavalli al fine di dedurre la mortalità dei cavalli sia che entrambi appartengono alla categoria degli esseri viventi. Allora risulta che i termini del ragionamento non sono più tre (uomo, cavallo, mortale), ma quattro (uomo, cavallo, mortale ed essere vivente). Per trarre quella conclusione " i cavalli sono mortali" da tre termini, i l ragionamento dovrebbe essere formulato così: Gli esseri viventi sono mortali; i cavalli sono esseri viventi; i cavalli sono mortali. Qui i termini sono diventati tre; ma, come si vede chiaramente, non si tratta più di un ragionamento per analogia, ma di un comune sillogismo. Lo stesso vale nel ragionamento per analogia usato dai giuristi. Perché si possa trarre la conclusione, cioè l'attribuzione al caso non regolato delle stesse conseguenze giuridiche attribuite al caso regolato simile, occorre che tra i due casi non esista una somiglianza qualunque, ma una somiglianza rilevante, cioè bisogna risalire dai due casi ad una qualità comune ad entrambi, che sia nello stesso tempo la ragion sufficiente per cui al caso regolato sono state attribuite quelle e non altre conseguenze. Una legge di uno stato americano attribuisce una pena detentiva a chi esercita i l commercio di libri osceni. Si tratta di sapere se egual pena possa estendersi, da un lato, ai libri polizieschi, dall'altro a dischi riproducenti canzoni oscene. È probabile che l'interprete accetti la seconda estensione e rifiuti la prima. Nel primo caso, infatti, esiste una ben visibile somiglianza tra libri osceni e libri polizieschi, ma si tratta di somiglianza non rilevante, perché ciò che hanno i n comune, cioè l'essere composti di carta stampata, non è sta-
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ta la ragion sufficiente della pena detentiva stabilita dalla legge agli spacciatori di libri osceni. Nel secondo caso, invece, la somiglianza tra libri osceni e dischi riproducenti canzoni oscene è r i levante (anche se meno visibile), perché tal genere d i dischi ha i n comune coi libri osceni proprio quella qualità che è stata la ragione della proibizione. Per ragion sufficiente di una legge, intendiamo quella che tradizionalmente si chiama la ratio legis. Allora diremo che, affinché i l ragionamento per analogia sia lecito nel diritto, è necessario che i due casi, quello regolato e quello non regolato, abbiano in comune la ratio legis. Del resto è ciò che è stato tramandato con la formula: «Ubi eadem ratio, i b i eadem iuris dispositio». Poniamo che un inteiprete si domandi se i l divieto di patto commissorio (art. 2744 ce.) si estenda alla vendita a scopo d i garanzia. I n quale direzione egli svilupperà la sua i n dagine? Cercherà quale sia stata la ragione per cui i l legislatore ha posto i l divieto previsto dall'art. 2744 ed estenderà o non estenderà i l divieto secondo che ritenga o non ritenga valida la medesima ragione per i l divieto della vendita a scopo di garanzia. Si suole distinguere l'analogia propriamente detta, nota anche col nome d i analogia legis, sia daW'analogia iuris sia dall'interpretazione estensiva. È curioso i l fatto che l'analogia iuris, nonostante l'identità del nome, non ha niente a che vedere con un ragionamento per analogia, mentre l'interpretazione estensiva, nonostante la diversità del nome, è un caso di applicazione del ragionamento per analogia. Per analogia iuris s'intende i l procedimento con cui si ricava una nuova regola per un caso imprevisto non già dalla regola che riguarda un caso singolo, come accade nell'analogia legis, ma da tutto i l sistema o da una parte del sistema: questo procedimento non è nulla di diverso da quello che si impiega nel ricorso ai principi generali del diritto, e ne parleremo nel paragrafo seguente. Quanto all'interpretazione estensiva, è opinione comune, se pure talvolta contestata, che essa sia qualcosa d i diverso dall'analogia propriamente detta. L'importanza giuridica della distinzione sta i n ciò: si ritiene comunemente che là dove l'estensione analogica è vietata, come, ad esempio, secondo l'art. 14 Disp. prel. c e , nelle leggi penali e nelle leggi eccezionali, l'interpretazione estensiva sia lecita. È qui i l caso di osservare, riferendoci a quanto abbiamo detto ripetutamente a proposito delle lacune, che, là dove non è ammessa l'estensione ana-
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logica, funziona immediatamente, i n caso di silentium legis, la norma generale esclusiva. Non c'è una zona intermedia tra i l singolo caso espressamente regolato e i casi non regolati. Ma qual'è la differenza tra analogia propriamente detta e interpretazione estensiva? Sono stati escogitati vari criteri per giustificare la distinzione. Credo che l'unico criterio accettabile sia quello che cerca di cogliere la differenza rispetto ai diversi effetti, rispettivamente, dell'estensione analogica e dell'interpretazione estensiva: l'effetto della prima è la creazione di una nuova norma giuridica; l'effetto della seconda è l'estensione di una norma a casi non previsti da questa. Facciamo due esempi. Si domanda se l'art. 1577 C . C , che riguarda gli obblighi del locatore nei confronti delle riparazioni della cosa locata, possa estendersi agli obblighi della stessa natura del comodataiio: se si risponde affermativamente, si è creata una regola nuova disciplinante i l comodato, che prima non c'era. Si domanda, invece, se l'art. 1754 c e che definisce mediatore «colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare» si estenda anche a colui che «induca alla conclusione dell'affare dopo che le parti abbiano iniziato i contatti da sole o per mezzo di altro mediatore»: se si risponde affermativamente, non si è creata una regola nuova, ma semplicemente si è allargata la portata della regola data. I l primo esempio è di analogia, il secondo d i interpretazione estensiva. Con questa ci si limita alla ridefinizione di un termine, ma la norma applicata è sempre la stessa. Con quella si passa da una norma ad un'altra. Mentre è corretto dire che con l'interpretazione estensiva si è esteso i l concetto di mediatore, non sarebbe altrettanto corretto dire, nel caso dell'art. 1577 c e , che con l'analogia si è esteso i l concetto di locazione. Qui si è aggiunta ad una norma specifica un'altra norma specifica, risalendo ad un genus comune. Là si è aggiunta una nuova species al genus, previsto dalla legge. Schematicamente i due casi possono essere espressi i n questo modo: 1. Analogia: a'(caso regolato)'
. (la ratto comune adj entrambi) . i-x A
a" (caso non regolato) a" è simile ad a' mediante A onde (A) a' e (A) a"
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2. Interpretazione estensiva: Aa' (caso regolato) a" (caso non regolato) a" è simile ad a' onde Aa'a"
30.
I
PRINCIPI GENERALI
D E L DIRITTO
L'altro procedimento di autointegrazione è i l ricorso ai principi generali del diritto, tradizionalmente noti col nome d i analogia iuris. L'espressione "principi generali del diritto" era stata usata dal legislatore del 1865; rtia per gli equivoci cui poteva dar luogo, se cioè si dovesse intendere per "diritto" i l diritto naturale o i l diritto positivo, i l progetto del nuovo codice aveva adottato la formula "principi generali del diritto vigente", che fu cambiata nell'ultima redazione nell'attuale formula: "principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato". Questo cambiamento è illustrato nella Relazione del Ministro con queste parole: «In luogo della formula "principi generali del diritto vigente", che avrebbe potuto apparire troppo limitativa dell'opera dell'interprete, ho ritenuto preferibile l'altra "principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato", nella quale i l termine "ordinamento" risulta comprensivo, nel suo ampio significato, oltre che delle norme e degli istituti, anche dell'orientamento politico-legislativo statuale e della tradizione scientifica nazionale (diritto romano, comune, ecc.). Tale ordinamento, adottato o sancito dallo stato, ossia i l nostro ordinamento, sia privato che pubblico, d a r à all'interprete tutt i gli elementi necessari per la ricerca della norma regolatrice». Abbiamo citato per intero questo passo della Relazione, perché le ultime righe sono un'espressione abbastanza caratteristica del dogma della completezza, e d'altra parte l'accenno alla "tradizione scientifica nazionale" p u ò far pensare ad un'evasione, magari inconsapevole, verso l'eterointegrazione. Che i l ricorso ai principi generali, anche nella nuova formulazione, rappresenti un procedimento di eterointegrazione è stato sostenuto dal maggior studioso italiano del problema dell'interpretazione, i l Betti, con argomenti che peraltro non mi con-
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vincono. I l Betti mette il ricorso ai principi generali del diritto tra i metodi di eterointegrazione accanto ai giudizi di equità, con questo argomento: «L'uno di tali strumenti (di eterointegrazione) è costituito dai principi generali del diritto, se ed i n quanto possa esser loro riconosciuta una forma di espansione, non meramente logica, ma assiologica, tale da andare ben oltre le soluzioni legislative detenninate dalle loro valutazioni e quindi tale da trascendere i l mero diritto positivo»*. Altrove: «Ed è che, siccome le singole norme non rispecchiano se non in parte i principi generali così i principi generali, i n quanto criteri di valutazione immanenti all'ordine giuridico, sono caratterizzati da un'eccedenza di contenuto deontologico (o assiologico che dir si voglia) i n confronto con le singole norme, anche ricostruite nel loro sistema»^. La difficoltà di questa tesi del Betti deriva dal fatto che è sostenuta con due affermazioni contrastanti: da un lato i principi generali del diritto sono considerati immanenti all'ordine giuridico, dall'altro eccedenti. Se fossero davvero "eccedenti", i l r i cortere ad essi anziché integrare i l sistema, finirebbe per metterlo a soqquadro. I principi generali non sono, a mio vedere, che norme fondamentali o generalissime del sistema, le norme più generali. I l nome di principi trae i n inganno, tanto che è vecchia questione tra i giuristi se i principi generali siano norme. Per me non c'è dubbio: i principi generali sono norme come tutte le altre. E questa è anche la tesi sostenuta dallo studioso che si è occupato più ampiamente del problema, i l Crisafulli Per sostenere che i principi generali sono norme gli argomenti sono due, ed entrambi validi: anzitutto se sono norme quelle da cui i principi generali sono estratti, attraverso un procedimento di generalizzazione successiva, non si vede perché non debbano essere norme anch'essi: se astraggo da specie animali ottengo sempre animali, e non fio-
' E . BETTI,
Interpretazione della legge e degli atti giurìdici, Milano, 1 9 4 9 , p. 5 2 .
*Op. cit.. p. 2 1 1 . V. CRISAFULLI,
Per la determinazione del concetto dei prìncipi generali del
diritto, in "Riv. int. fil. dir.", X X I ( 1 9 4 1 ) , pp. 4 1 - 6 4 ; 157-182; 2 3 0 - 2 6 5 . Dello stes-
so autore cfr. anche La costituzione e le sue disposizioni di prìncipio, 1952, soprattutto pp. 3 8 - 4 2 .
Milano,
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r i o stelle. I n secondo luogo, la funzione per cui sono estratti e adoperati è quella stessa che è adempiuta da tutte le norme, cioè è la funzione di regolare un caso. A quale scopo vengono estratti in caso di lacuna? Per regolare un comportamento non regolato, è chiaro: ma allora servono allo stesso scopo cui servono le norme espresse. E perché non dovrebbero essere norme? Ciò su cui non m i sentirei d'andar d'accordo col Crisafulli è sulla tesi, da lui sostenuta, che l'art. 12 si riferisca tanto ai principi generali inespressi quanto a quelli espressi. I l Crisafulli distingue i principi generali i n espressi e inespressi; quelli espressi li distingue a sua volta in espressi già applicati e i n espressi non ancora applicati. Molte norme sia dei codici sia della costituzione sono norme generalissime, e quindi sono veri e propri principi generali espressi: metterei i n questa categoria norme come l'art. 2043 ce. che formula uno dei principi fondamentali su cui si regge la convivenza sociale, espressa dalla nota massima della giustizia: neminem laedere; l'art. 2041 c e relativo all'illecito arricchimento; l'art. 1176 c e relativo all'adempimento delle obbligazioni. Molte norme della costituzione sono principi generali del diritto: ma, a differenza dalle norme del Codice civile, alcune d i esse attendono ancora di essere applicate: sono principi generali espressi non applicati. Accanto ai principi generali espressi vi sono quelli inespressi, cioè quelli che si possono ricavare per astrazione da norme specifiche o per lo meno non molto generali: sono principi, ovvero norme generalissime, che vengono formulate dall'interprete, i l quale cerca di cogliere, comparando norme apparentemente d i verse tra loro, quel che comunemente si chiama lo spirito del sistema. Ci si domanda se i principi generali di cui parla l'art. 12 siano soltanto quelli inespressi o anche quelli espressi: riteniamo che siano soltanto quelli inespressi. L'art. 12 riguarda le lacune e i mezzi per completarle: dove i principi generali sono espressi, dal momento che, come abbiamo detto, essi sono norme come tutte le altre, non si p u ò parlare di lacuna. La prima condizione per cui si possa parlare di lacuna è che i l caso non sia regolato: i l caso non è regolato quando non esiste nessuna norma espressa, n é specifica né generale né gencralissima, che lo riguarda, cioè quando, oltre alla mancanza di una norma specifica che lo riguardi, anche il principio generale, entro cui potrebbe esser fatto rientrare.
non è espresso. Se i l principio generale fosse espresso, non si vede qual differenza vi sarebbe tra il giudicare il caso i n base ad esso o in base ad una norma specifica. È vero che i l nostro legislatore non ha detto «in mancanza di una disposizione espressa», bensì «in mancanza di una precisa disposizione». Ma un principio generale espresso è una disposizione precisa. L'art. 12 autorizza l'interprete a cercare i principi generali inespressi. Per quel che riguarda i principi generali espressi, sarebbe ben curioso che occorresse una norma apposita per autorizzarne l'applicazione.
CAPITOLO V
GLI ORDINAMENTI GIURIDICI IN RAPPORTO TRA LORO
La pluralità degli ordinamenti. - 3 2 . Vari tipi di rapporti tra ordinamenti. - 3 3 . Stato e ordinamenti minori. - 34. Rapporti temporali. - 3 5 . Rapporti spaziali. - 36. Rapporti materiali. SOMMARIO: 3 1 .
3 L LA PLURALITÀ DEGLI ORDINAMENTI
Abbiamo considerato sinora i problemi che nascono all'interno di un ordinamento. Ce ancora un problema da trattare per completare quella teoria dell'ordinamento giuridico che ci eravamo proposti sin dall'inizio: i l problema dei rapporti tra ordinamenti, cioè i problemi, se vogliamo esprimerci con formula corrispondente, che nascono all'esterno di un ordinamento. È un problema sinora poco trattato, dal punto di vista della teoria generale del diritto. Questo capitolo non sarà altro che un abbozzo di una trattazione, che meriterebbe di essere molto più ampia. La prima condizione perché si possa parlare di rapporti tra ordinamenti è che gli ordinamenti giuridici esistenti siano più d'uno, e non vi sia un solo ordinamento giuridico. L'ideale dell'unico ordinamento giuridico, come abbiamo avuto occasione più volte di notare, è stalo persistente nel pensiero giuridico occidentale. I l prestigio del diritto romano, prima, del diritto naturale poi, ha determinato i l sorgere e i l perdurare dell'ideologia di un unico diritto universale, di cui i diritti particolari non erano che delle specificazioni storiche. Più che di indagare i rapporti tra
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ordinamenti diversi, si trattava di mettere i n rilievo i rapporti dei vari diritti particolari con l'unico diritto universale. Uno dei problemi più discussi nell'ambito dell'ideologia universalistica del diritto fu, per l'appunto, i l problema dei rapporti tra diritto positivo e diritto naturale. I processi attraverso cui l'ideologia universalistica del diritto è venuta meno sono principalmente due, e si sono succeduti nel tempo. Se chiamiamo "monismo giuridico" l'idea universalistica, i n base alla quale esiste u n solo ordinamento giuridico universale, e "pluralismo giuridico" l'idea opposta, possiamo dire che i l pluralismo giuridico ha percorso due fasi. La prima fase è stata quella che corrisponde alla nascita e allo sviluppo dello storicismo giuridico, che, soprattutto attraverso la Scuola storica del diritto, afferma la nazionalità dei diritti che emanano direttamente o indirettamente dalla coscienza popolare. All'unico diritto naturale, comune a tutte le genti, si contrappongono così tanti diritti quanti sono i popoli o le nazioni. Del cosiddetto genio delle nazioni, che costituirà uno dei motivi r i correnti delle dottrine nazionali del secolo scorso, è prodotto t i pico anche i l diritto. Questa prima forma di pluralismo ha carattere statualistico. Vi sono, non più uno, ma molti ordinamenti giuridici, perché vi sono molte nazioni, che tendono ad esprimere ciascuna in un ordinamento unitario (l'ordinamento statuale), la loro personalità, o se si vuole, il loro genio giuridico. Questa frantumazione del diritto universale i n tanti diritti particolari, l'uno indipendente dall'altro, viene confermata e teorizzata dalla corrente giuridica, che ha finito per dominare nella seconda metà del secolo scorso, ed è lungi dall'essere caduta anche oggi: parlo del positivismo giuridico, cioè di quella corrente secondo cui non esiste altro diritto che i l diritto positivo, e la caratteristica del diritto positivo è d i essere posto da una volontà sovrana ( i l positivismo giuridico s'identifica con la concezione volontaristica del diritto). Ovunque esiste un potere sovrano esiste un diritto, e ogni potere sovrano essendo per definizione indipendente da ogni altro potere sovrano, ogni diritto costituisce ordinamento a se stante. Ci sono tanti diritti, l'uno diverso dall'altro, quanti sono i poteri sovrani. Che i poteri sovrani siano molti e indipendenti, è u n dato di fatto. Partendo dal dogma volontaristico del diritto, un diritto universale non si p u ò concepire se non ipotizzando un uni-
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co potere sovrano universale: questa ipotesi aveva dato origine all'idea che i l diritto emanasse da una sola volontà sovrana, quella di Dio, e i singoli poteri sovrani storici fossero emanazioni, dirette o indirette, della volontà di Dio. Ma questa idea era stata abbandonata col sorgere del pensiero politico modemo, al quale l'idea universalistica del diritto era riapparsa sotto forma del diritto naturale, i l cui organo creativo non è più la volontà, ma la ragione. Ma, ricondotto i l diritto, come a sua fonte, non alla ragione, ma alla volontà, e venuta meno la concezione teologica dell'universo nella filosofia e nelle scienze modeme, ne era derivato, come conseguenza inevitabile, i l pluralismo giuridico. La seconda fase del pluralismo giuridico è quella che possiamo chiamare istituzionale (per distinguerla dalla prima che possiamo chiamare statuale o nazionale), e su cui abbiamo già richiamato l'attenzione nel corso precedente. Qui "pluralismo" ha un significato più pregnante (tanto che, se si parla di "pluralismo" senza ulteriori specificazioni, ci si riferisce a questa corrente e non alla precedente): significa non soltanto che vi sono molti ordinamenti giuridici (ma tutti dello stesso tipo) in contrapposizione all'unico diritto universale, ma che vi sono ordinamenti giuridici di molti tipi diversi. Lo chiamiamo "istituzionale", perché la sua tesi principale è che ci sia un ordinamento giuridico dovunque vi sia una istituzione, cioè un gmppo sociale organizzato. Le correnti di pensiero che vi hanno dato origine sono quelle stesse correnti sociologiche, antistatualistiche, che abbiamo già viste alla fonte della scuola del libero diritto (nel par. 3 del cap. precedente). Anche la teoria istituzionale è un prodotto della scoperta della società al di sotto dello stato. La conseguenza di questa teoria è un'ulteriore frantumazione dell'idea universalistica del diritto, e, s'intende, un arricchimento del problema, che diventa sempre più complesso e ricco di prospettive, relativo ai rapporti tra ordinamenti. Accettando la teoria pluralistica istituzionale, il problema dei rapporti tra ordinamenti non comprende più soltanto il problema dei rapporti tra ordinamenti statuali, ma anche quello dei rapporti tra ordinamenti statuali e ordinamenti diversi da quelli statuali. Tra gli ordinamenti non statuali, ne distinguiamo quattro tipi: a) ordinamenti al di sopra dello stato, come l'ordinamento in-
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ternazionale, e, secondo alcune dottrine, quello della Chiesa cattolica; b) ordinamenti al di sotto dello stato, come quelli propriamente sociali, che lo stato riconosce, limitandoli o assorbendoli; c) ordinamenti accanto allo stato, come quello della Chiesa cattolica, secondo altre concezioni, o, anche, quello intemazionale secondo la concezione detta "dualistica"; d) ordinamenti contro lo stato, come le associazioni a delinquere, le sette segrete, ecc.
ad un altro, e così via. L'immagine della piramide delle norme p u ò essere completata con l'immagine della piramide degli ordinamenti. Perciò una prima classificazione dei rapporti tra ordinamenti p u ò essere fatta i n base al diverso grado di validità che essi hanno gli uni rispetto agli altri. Distinguiamo così:
Constatata la caduta della concezione universalistica del diritto, non vogliamo con questo dire che l'universalismo giuridico sia morto anche come esigenza morale, o come tendenza pratico-politica. Tutt'altro: l'universalismo come tendenza non è mai morto, e i n questi ultimi anni, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, e la creazione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, è più vivo che mai. L'universalismo giuridico oggi risorge non più come credenza i n un etemo diritto naturale, già dato una volta per sempre, ma come volontà tesa a costituire un unico diritto positivo, che raccolga ad unità tutti i diritti positivi esistenti, e che sia prodotto non della natura, ma della storia, e sia non all'inizio dello sviluppo sociale e storico (come i l diritto naturale e lo stato di natura), ma alla fine. L'idea dell'unico stato mondiale è l'idea-limite dell'universalismo giuridico contemporaneo; è un'unità cercata non contro i l positivismo giuridico, con un r i tomo all'idea di un diritto naturale rivelato alla ragione, ma attraverso lo sviluppo, sino al limite estremo, del positivismo giuridico, cioè alla costituzione di un diritto positivo universale.
Tipici rapporti di coordiimzione sono quelli che hanno luogo tra stati sovrani, e danno origine a quel particolare regime giuridico, che è proprio dei rapporti tra enti che sono sullo stesso piano, i l regime pattizio, cioè quel regime i n cui le regole di coesistenza sono i l prodotto di un'autolimitazione reciproca. Tipici rapporti di subordinaziotie sono invece quelli tra l'ordinamento statuale e gli ordinamenti sociali parziali (associazioni, sindacati, partiti, chiese, ecc.), che hanno propri statuti, la cui validità deriva dal riconoscimento dello stato. Nella concezione curialistica dei rapporti tra stato e chiesa, rapporto di subordinazione è pure quello intercorrente tra l'ordinamento fondato sulla potestas temporalis e quello fondato sulla potestas spiritualis. Vi è una concezione dei rapporti tra ordinamenti statuali e ordinamento della comunità internazionale (il diritto internazionale), detta concezione monistica del diritto internazionale, secondo cui i l rapporto tra dirìtto internazionale e singoli diritti statuali è un rapporto tra superiore e inferiore.
3 2 . VARI TIPI DI RAPPORTI TRA ORDINAMENTI
Come le norme singole di un ordinamento possono essere disposte i n ordine gerarchico, nulla esclude che i vari ordinamenti siano tra loro in rapporto di superiore a inferiore. La piramide che nasce all'interno di un ordinamento p u ò prolungarsi al di fuori dell'ordinamento, se alcuni ordinamenti di un certo tipo sono subordinati ad un ordinamento superiore, e questo, a sua volta.
a) rapporti di coordinazione; b) rapporti di subordinazione (o reciprocamente di supremazia).
Un secondo criterio di classificazione dei rapporti tra ordinamenti è quello che tiene conto della diversa estensione reciproca dei rispettivi ambiti di validità. Qui possiamo avere tre t i pi di rapporti: a) rapporti di esclusione totale; b) rapporti di inclusione totale; c) rapporti di esclusione parziale (o inclusione parziale). Esclusione totale significa che gli ambiti di validità di due ordinamenti sono delimitati i n modo da non sovrapporsi l'uno all'altro i n nessuna delle loro parti. Come tipico esempio p u ò essere
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assunto quello di due ordinamenti statali, i quali si escludono totalmente (salvo qualche eccezione) rispetto alla validità spaziale delle rispettive norme giuridiche: sono raffigurabili come due cerchi che non hanno alcun punto i n comune. Stato e chiesa, invece, si possono concepire come escludentisi a vicenda se si parte dalla teoria degli ordinamenti coordinati: qui però l'esclusione avviene non già rispetto alla validità spaziale (e infatti le norme della chiesa e quelle dello stato sono valide sul medesimo territorio), ma rispetto alla rispettiva validità materiale (la materia regolata da uno dei due ordinamenti è diversa da quella regolata dall'altro). Con riguardo alla diversa validità materiale vengono considerati escludentisi l'ordinamento giuridico e l'ordinamento morale da parte di coloro che sostengono la teoria secondo cui diritto e morale si distinguono per l'oggetto diverso dei rispettivi ordinamenti normativi: i l diritto regola le azioni esteme, la morale le inteme. Inclusiotte totale significa che uno dei due ordinamenti ha un ambito di validità compreso totalmente i n quello dell'altro. Se noi consideriamo, ad esempio, la validità spaziale, l'ordinamento di uno stato-membro è compreso totalmente nell'ordinamento dello stato federale. Considerando, invece, anche la validità materiale, l'ordinamento della chiesa è totalmente incluso nell'ordinamento dello stato i n una concezione di tipo erastiano dei rapporti tra stato e chiesa, cioè i n una concezione in cui non ci sono materie specificamente spirituali riservate alla chiesa, ma la totale giurisdizione, sia in materia spirituale sia i n materia temporale, è riservata allo stato. Vi è una concezione dei rapporti tra diritto e morale che p u ò essere raffigurata come esempio di inclusione totale: è quella concezione, secondo cui l'estensione delle regole giuridiche è più ristretta di quella delle regole morali, e non vi è regola giuridica che non sia anche regola morale. Questa concezione si dice anche teoria del diritto come "minimo etico", per indicare che il diritto nel suo insieme comprende un minimo di regole morali, quel minimo che è necessario alla coesistenza (cioè ad evitare i l male peggiore, che è quello del disordine e della guerra). Esclusione parziale e inclusione parziale significa che due ordinamenti hanno una parte i n comune e una parte no. Questa situazione si verifica quando l'ordinamento statuale assorbe o assimila un ordinamento diverso, come, ad esempio, l'ordinamen-
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to della chiesa, o l'ordinamento di un'associazione particolare, ma non l'assorbe totalmente: una parte dell'ordinamento assorbito resta allora al di fuori dell'ordinamento statuale e continua a regolare i l comportamento dei suoi membri i n una zona che è, nei confronti dello stato, di mera liceità; e nello stesso tempo, lo stato si estende su molte zone del comportamento umano, che sono estranee a quelle cui si rivolge l'ordinamento parziale assorbito. Non importa per caratterizzare questa situazione che sia grande o piccola la sfera comune: quello che importa è che, oltre la sfera comune, i n cui i due ordinamenti sono venuti a coincidere, vi siano due altre sfere, i n cui uno dei due ordinamenti non coincide con l'altro. Nella questione dei rapporti tra diritto e morale, la soluzione che prospetta questi rapporti come rapporti di inclusione parziale ed esclusione parziale è forse la più comune: diritto e morale, secondo questo modo di vedere, i n parte coincidono e i n parte no, i l che significa che vi sono comportamenti obbligatori tanto per l'uno quanto per l'altro, ma in più vi sono comportamenti obbligatori moralmente e leciti giuridicamente, e, inversamente, comportamenti obbligatori giuridicamente e leciti moralmente. Che non si debba mbare, vale tanto i n morale che i n diritto; che si debbano pagare i debiti di gioco, vale solo i n morale; che si debba compiere un atto con certe formalità perché sia valido, vale solo i n diritto. Infine, se consideriamo i possibili rapporti tra ordinamenti da un terzo punto di vista, cioè prendendo le mosse dalla validità che un determinato ordinamento attribuisce alle regole di altri ordinamenti, con cui viene i n contatto, ci troviamo di fronte a tre diverse situazioni, che possiamo formulare schematicamente così: a) indifferenza; b) rifiuto; c) assorbimento. Per situazione àUndifferenza intendiamo quella i n cui un ordinamento considera lecito quello che i n un altro ordinamento è obbligatorio: tipico esempio è, da parte di un ordinamento giuridico, come i l nostro, in cui i debiti di gioco sono obbligazioni naturali, gli obblighi contratti reciprocamente dai giocatori. Per situazione di rifiuto intendiamo quella i n cui un ordinamento con-
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sidera proibito quello che i n u n altro ordinamento è obbligatorio (o, viceversa, obbligatorio quello che altrove è proibito): i l più t i pico esempio è quello dei rapporti tra stato e società a delinquere. Per situazione di assorbimento, infine, intendiamo quella i n cui u n ordinamento considera obbligatorio o proibito quello che i n un altro ordinamento è pure obbligatorio o proibito. Quest'ultima situazione p u ò assumere due forme che chiamiamo rinvio formale e rinvio materiale, e, più semplicemente, rinvio e recezione. Per "rinvio" intendiamo quel procedimento per cui un ordinamento rinuncia a regolare una data materia, e accoglie la regolamentazione stabilita da fonti normative appartenenti ad altri ordinamenti; per "recezione" s'intende quel procedimento per cui un ordinamento incorpora nel proprio sistema la disciplina normativa di una data materia, così come è stata stabilita i n un altro ordinamento.
33. STATO E ORDINAMENTI MINORI
Nella fenomenologia dei rapporti tra ordinamenti, occupano un posto a parte i rapporti tra l'ordinamento statuale e certi ordinamenti minori, la cui vita si svolge all'interno d i quella dello stato e s'intreccia i n vario modo con quella. Qui intendo per "ordinamenti minori" quegli ordinamenti che tengono uniti i loro membri per scopi parziali, e che investono pertanto una parte soltanto della totalità degli interessi delle persone che compongono il gruppo. Si potrebbero chiamare anche "ordinamenti parziali", se non fosse che veramente "totale" non è neppure lo stato, neppure lo stato totalitario. Non sto qui a precisare se questi ordinamenti minori siano anch'essi giuridici o no. Sono considerati giuridici dalla teoria istituzionale, la quale si limita a richiedere come requisito della giuridicità un minimo di organizzazione. La questione se siano o non siano giuridici non ha, nella presente discussione, particolare rilievo. Qui ci preme far notare che l'ordinamento giuridico di uno stato non è un blocco compatto: come il geologo ricerca i vari strati della terra, così i l teorico del diritto farà bene a porsi di fronte ad un ordinamento giuridico nell'atteggiamento dello storico che ne ricerca le varie fasi di forma-
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zione. Quando abbiamo parlato delle fonti, nel secondo capitolo, abbiamo distinto ordinamenti semplici e ordinamenti complessi; e abbiamo più volte ripetuto che gli ordinamenti statuali, coi quali abbiamo a che fare, sono ordinamenti complessi. Possiamo aggiungere ora che non sono semplici anche i n altro senso, cioè nel senso che sono compositi: qui per "compositi" intendiamo che sono stratificati, ovvero sono i l prodotto d i una secolare stratificazione d i ordinamenti diversi, un tempo indipendenti l'uno dall'altro, e poi a poco a poco assorbiti e amalgamati nell'unico ordinamento statuale ora vigente. Uno dei processi con cui è avvenuta questa stratificazione è quel procedimento d i assorbimento di un ordinamento giuridico da parte di un altro che, nel paragrafo precedente, abbiamo chiamato recezione. Nel rapporto tra stato e ordinamenti minori un tipico esempio d i recezione sono quelle parti dell'ordinamento statuale che originariamente erano ordinamenti parziali, sorti i n comunità aventi particolari interessi e scopi, come i l diritto commerciale o i l diritto della navigazione, i quali all'inizio e per lunghi secoli furono i l prodotto dell'attività indipendente dei commercianti e dei naviganti, e poi a poco a poco immessi e integrati nell'unico ordinamento statuale col progressivo estendersi e rafforzarsi del monopolio giuridico dello stato. Si capisce che, là dove è avvenuta la recezione, dell'ordinamento originario non vi è più traccia esterna: solo la ricerca degli strati lo rivela. E questa ricerca non ha un diretto rilievo giuridico; ha un interesse principalmente storico e per la teoria generale del diritto. Ma non sempre avviene la recezione: altre volte i l procedimento col quale l'ordinamento statuale utilizza gli ordinamenti minori è quello del rinvio, cioè è quel procedimento, per cui un ordinamento non si appropria del contenuto delle norme di un altro ordinamento, come avviene nella recezione, ma si limita a riconoscere loro piena validità nel proprio ambito. Per esempio, la vita della famiglia colonica non è regolata da norme materialmente appartenenti all'ordinamento statuale: è regolata da consuetudini, cui l'ordinamento statuale attribuisce validità di norme giuridiche attraverso un rinvio d i carattere generale. Se noi teniamo sempre presente la nostra definizione di ordinamento giuridico come complesso di regole a efficacia rafforzata, nel caso di ordinamenti minori, cui l'ordinamento statuale rinvia,
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potremo dire di trovarci di fronte a regole di condotta formatesi al d i fuori e indipendentemente dall'ordinamento statuale cui lo stato presta la propria protezione. Si veda, ad esempio, i l richiamo che i l nostro legislatore fa i n alcuni casi alle regole della correttezza (art. 1175 ce.) e a quelle della correttezza professionale (art. 2598, 3, c e ) : si tratta di regole dei rapporti sociali, che sono prodotte dalle esigenze della convivenza e della comunicazione in particolari condizioni d i ambiente e d i attività. I l nostro legislatore non dice quali siano queste regole; si limita a riconoscerne l'esistenza e ad accordar loro protezione in determinati casi, come se fossero norme emanate direttamente dai propri organ i dotati di poteri normativi. Uno stato i l quale venga ad incorporare un gruppo etnico con costumi, civiltà, storia, molto diverse da quelle del gruppo etnico dominante, p u ò seguire la via dell'assorbimento e quella della tolleranza: la prima via richiede, di fronte all'ordinamento minore, i l procedimento che abbiamo chiamato del rifiuto, cioè del disconoscimento delle regole proprie del gruppo etnico, e della sostituzione violenta con le norme già i n vigore nell'ordinamento statale; la seconda via potrà essere invece attuata col procedimento del rinvio, cioè con l'attribuire alle norme, probabilmente a un gruppo di norme, formatesi i n tegralmente nell'ordinamento minore, la stessa validità delle norme proprie dell'ordinamento statale, come se quelle fossero identiche a queste. L'atteggiamento più frequente dello stato nei confronti delle regole di ordinamenti minori e parziali è quello della indifferenza. Ciò vuol dire che questi ordinamenti hanno i loro comandi e i loro divieti; ma lo stato non l i riconosce. Questi comandi e questi divieti valgono per le persone che aderiscono a quell'ordinamento, e sono condizione necessaria per la loro partecipazione ad esso; ma lo stato non accorda loro alcuna protezione, con la conseguenza che diventa lecito nell'ordinamento statale ciò che è i l lecito nell'ordinamento non riconosciuto. Tipico esempio di questo atteggiamento è quello che lo stato i n genere assume di fronte ai regolamenti dei giochi e degli sports, e agli obblighi assunti dai giocatori e dagli sportivi tra loro. Per i l gioco e la scommessa i l nostro legislatore ha disposto con l'art. 1933, 1° comma, c e che «non compete azione per il pagamento di un debito d i giuoco o di scommessa, anche se si tratta di giuoco o d i scommessa
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non proibiti». Che non competa azione al vincitore per ottenere il prezzo della vincita vuol dire che i l suo diritto non è protetto; e che i l suo diritto non sia protetto vuol dire che non esiste un obbligo giuridicamente rilevante del perdente. Ciò che è obbligatorio tra giocatori, pagare i debiti di gioco, non è obbligatorio per l'ordinamento statale, cioè è lecito non pagarli. I l debito di giuoco è un caso particolare della più ampia categoria delle cosiddette obbligazioni naturali, cui si riferisce l'art. 2034 c e ; sono obbligazioni per cui il nostro legislatore "non accorda azione", pur escludendo la ripetizione "di quanto è stato spontaneamente prestato". L'art. 2034 c e parla in generale di "doveri morali e sociali" senza ulteriore specificazione. Talora l'atteggiamento dello stato nei confronti degli ordinamenti minori è quello del rifiuto. Caso tipico, nel nostro ordinamento, è quello del duello, i l quale è certamente un comportamento doveroso nell'ordinamento sopravvissuto dei "gentiluomini", regolato da quel particolare codice d i procedura, che è noto col nome d i "Codice cavalleresco". Ciò che è doveroso per colui che si considera partecipe dell'ordinamento dei gentiluomini è proibito nell'ordinamento statuale. I l nostro legislatore considera il duello come un reato sotto il titolo d i "tutela arbitraria delle proprie ragioni" (artt. 394-396 c.p.).
34. RAPPORTI TEMPORALI
I rapporti più importanti, e più meritevoli di studio, sono quelli che intercorrono tra gli ordinamenti statuali, o tra ordinamenti statuali, da un lato, e ordinamenti originari, cui si attribuisce per comune consenso carattere d i ordinamenti giuridici, come sono l'ordinamento intemazionale e l'ordinamento della Chiesa cattolica. Tentiamo una classificazione di questi rapporti prendendo le mosse dai diversi ambiti di validità d i un ordinamento, i n particolare dagli ambiti temporale, spaziale e materiale. Se due ordinamenti si differenziano rispetto a tutti e tre questi ambiti, è probabile che non abbiano tra loro alcuna interferenza: pertanto u n problema dei loro rapporti non viene nemmeno i n questione.
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Quando si dica che si trovano tra loro i n rapporto d i totale esclusione, è detto tutto, e non occorre aggiungere altro. L'esame dei rapporti tra ordinamenti diventa interessante quando hanno tra loro, i n comune, due d i questi ambiti e differiscono per i l terzo. Basta la differenza d i uno dei tre ambiti per escludere la loro identificazione, cioè quel rapporto d i totale sovrapposizione che sarebbe altrettanto poco interessante d i quello della totale esclusione. Ma l'avei-e in comune due ambiti è condizione sufficiente per la nascita d i interferenze reciproche che meritano qualche attenzione.
to illegittimo di un ordinamento giuridico preesistente, attuato dall'interno, e nello stesso tempo la costituzione di un ordinamento giuridico nuovo. La definizione giuridica di rivoluzione ha dato del filo da torcere ai giuristi perché essa presenta due facce: rispetto all'ordinamento precedente è un fatto illegittimo (tanto è vero che se fallisce, coloro che vi si sono immischiati finiscono male, e non si chiama neppur più rivoluzione, ma insurrezione, sommossa, ecc.); rispetto all'ordinamento successivo, che da essa trae origine, è i l fondamento stesso della legittimità di tutto l'ordinamento, cioè è un fatto costitutivo di diritto. La difficoltà è che i n tutte e due le facce essa è un mero fatto, non è di per se stessa un atto giuridico, nel senso cioè di atto qualificato da una norma giuridica. Ha visto bene questa difficoltà i l Carnelutti, che distingue i fatti giuridici i n bilaterali e unilaterali, secondoché abbiano carattere giuridico la situazione iniziale e quella finale, o solo una delle due, e quelli unilaterali, alla loro volta, i n costitutivi (come la consuetudine) ed estintivi (come la desuetudine), e considera la rivoluzione come un duplice fatto unilaterale, insieme estintivo (del vecchio ordinamento) e costitutivo (del nuovo). E come p u ò un mero fatto produrre diritto? Questa domanda non ci spaventa, dal momento che crediamo, e più volte abbiamo ripetuto, che i l diritto nasca dal fatto: i l fondamento di u n ordinamento giuridico, abbiamo detto, è un potere tanto grande da possedere non solo l'autorità d i emanare norme per i membri di un gmppo, ma anche la forza di farle eseguire a coloro che non ne vogliono sapere.
Si possono distinguere tre tipi di rapporti tra ordinamenti, secondo che l'ambito diverso sia quello temporale, o quello spaziale, o quello materiale: 1. due ordinamenti hanno tra loro i n comune l'ambito spaziale e materiale, ma non quello temporale. Si tratta del caso d i due ordinamenti statuali che si succedono nel tempo sullo stesso territorio; 2. due ordinamenti hanno tra loro in comune l'ambito temporale e quello materiale, ma non quello spaziale. Si tratta del rapporto tra due stati contemporanei, che vigono nello stesso tempo e regolano grosso modo le stesse materie, ma su due territori diversi; 3. due ordinamenti hanno tra loro in comune l'ambito temporale e spaziale, ma non quello materiale. Si tratta del rapporto caratteristico tra un ordinamento statuale e l'ordinamento della Chiesa (con particolare riguardo alle chiese cristiane, e massime alla Chiesa cattolica): stato e chiesa estendono la loro giurisdizione sullo stesso territorio e nello stesso tempo, ma le materie regolate dall'uno e dall'altro sono diverse. Cominciamo a prendere i n considerazione i n questo paragrafo i l primo di questi tre rapporti. I n breve, si tratta del rapporto tra ordinamento vecchio e ordinamento nuovo, quale si verifica, ad esempio, i n seguito ad una rivoluzione, che spezza la continuità di u n ordinamento giuridico (dal punto di vista intemo, se non del punto di vista del diritto intemazionale, per cui vale i l principio forma regiminis mutata non mutatur ipsa civitas). Che cosa s'intende giuridicamente per rivoluzione? S'intende l'abbattimen-
Comunque, i tentativi di dare una definizione giuridica del "fatto" rivoluzione sono molti; ma si possono ridurne ad una di queste tre possibilità': a) la rivoluzione è di per se stessa un fatto giuridico, e quindi ha una sua autonomia giuridica. È la teoria del Romano, secondo cui la rivoluzione è un'istituzione i n quanto organizzazione statale i n embrione, cioè è un ordinamento giuridico a se stante.
' Per un esame particolareggiato dei vari problemi connessi alla rivoluzione cfr. M.A. C A T T A N E O , / / concetto di rivoluzione nella scienza del diritto, Milano, 1960.
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diverso tanto dall'ordinamento precedente che si estingue, quanto da quello seguente che ne nascerà; b) la rivoluzione è un fatto giuridicamente qualificato dal punto di vista di un ordinamento diverso da quello statuale. È la tesi del Kelsen, secondo cui la qualificazione giuridica della r i voluzione deve essere ricercata nel diritto intemazionale: la r i voluzione non è altro che uno dei procedimenti previsti, e quindi legittimi (dal punto di vista dell'ordinamento intemazionale), mediante i quali p u ò venir mutato un ordinamento giuridico statuale; c) la rivoluzione è un fatto giuridico dal punto di vista dello stesso diritto interno allo stato. È la teoria, forse più diffusa, secondo cui tra le fonti del diritto, anche se non espressa, deve essere considerata la necessità, e la rivoluzione è una manifestazione specifica della necessità, la quale giustifica ciò che al di fuor i di quel particolare stato di necessità, sarebbe illegittimo.
to, ma i n base alla norma fondamentale del nuovo. I n questo senso abbiamo parlato di recezione, e non puramente e semplicemente di permanenza del vecchio nel nuovo. La recezione è un atto giuridico col quale un ordinamento accoglie e fa sue norme di un altro ordinamento, onde queste norme rimangono materialmente le stesse, ma non sono più le stesse rispetto alla forma. Una interessante tipologia degli atteggiamenti che i l nuovo ordinamento giuridico p u ò assumere di fronte al vecchio si rileva dal D.lgt. del 5 ottobre 1944, n. 249, sull'Assetto della legislazione nei territori liberati, i n cui gli atti o provvedimenti della Repubblica di Salò sono distinti in quattro categorie: a) invalidi (gli att i di governo e i n genere le leggi); b) invalidi ma convalidabili (gli atti amministrativi, elencati nell'art. 2, e le sentenze, di cui all'art. 5, 2° comma); c) validi ma invalidabili (gli atti amministrativi diversi da quelli elencati nell'art. 2, e le sentenze, di cui all'art. 6, 2° comma); d) validi (in genere gli atti di stato civile).
Comunque venga giustificato i l passaggio, è certo che con la rivoluzione si ha un'internazione nella continuità: essa è come uno spartiacque che divide un ordinamento dall'altro. Ma questa divisione è assoluta? L'ordinamento vecchio e quello nuovo stanno tra loro i n rapporto di esclusione reciproca? Ecco i l problema. Ma la risposta non p u ò essere che negativa: la rivoluzione opera un'internazione, ma non una completa soluzione di continuità: c'è i l nuovo e i l vecchio; ma c'è anche il vecchio che si travasa nel nuovo, e i l nuovo che si mescola col vecchio. È un fatto che di solito parte del vecchio ordinamento trapassa nel nuovo, e non vengono modificati talora che alcuni principi fondamentali riguardanti la costituzione dello stato. Come si spiega questo trapasso? La miglior spiegazione è quella che ricorre alla figura, già più volte impiegata, della recezione. Nel nuovo ordinamento ha luogo una vera e propria recezione di buona parte del vecchio: e s'intendono di solito recepite tutte quelle norme che non sono esplicitamente o implicitamente abrogate. Che i l nuovo ordinamento sia costituito in parte dalle norme del vecchio non intacca per nulla il suo carattere di novità: le norme comuni al vecchio e al nuovo ordinamento appartengono solo materialmente al primo, formalmente sono tutte norme del nuovo, nel senso che esse sono valide non già i n base alla nonna fondamentale del vecchio ordinamen-
35. RAPPORTI SPAZIALI
Il caso i n cui p u ò sembrare che lo studio dei rapporti tra ordinamenti non abbia molta materia d'esame è quello del rapporto tra ordinamenti che hanno validità spaziale diversa, qual'è i l caso di due stati le cui norme valgono entro l i m i t i spaziali ( i l cosiddetto territorio) ben definiti. Potrebbe ritenersi che qui si dovesse applicare la figura dell'esclusione reciproca: e i n realtà, gli stati si considerano indipendenti gli uni dagli altri, dotati di un potere originario e autonomo che assicura loro la non ingerenza nel loro riservato dominio da parte degli altri stati. Eppure c'è una serie di casi i n cui anche lo stato ricorre a norme di un altro stato per risolvere talune controversie. Si tratta di quei casi che vengono studiati da una disciplina giuridica specializzata, i l diritto internazionale privato, che fa parte didatticamente del corso di diritto internazionale; ragion per cui qui m i limito a pochi cenni. Il diritto regola generalmente rapporti intersoggettivi con riferimento a cose, beni, servizi che sono attinenti ad un determinato territorio. Tutto va liscio quando i soggetti del rapporto sono cittadini dello stesso stato, e i beni cui si riferiscono appartengono
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Teorìa dell'ordinamento giurìdico
Ordinamenti giurìdici in rapporto tra loro
al territorio di questo stato. Ma se uno dei due soggetti è straniero? Se tutti e due i soggetti appartengono ad uno stato, ma i l bene cui si riferiscono si trova i n altro stato? Bastano queste due domande per farci capire che infiniti sono i casi, massime nel mondo contemporaneo i n cui i rapporti internazionali si vanno intensificando, che possono essere risolti, secondo che si tenga conto della nazionalità dell'uno o dell'altro soggetto, o della nazionalità del bene rispetto a quella dei soggetti, con norme appartenenti a due ordinamenti diversi. Ma poiché ad un caso non p u ò essere applicata che una norma, bisogna scegliere l'una o l'altra. I n alcuni casi viene scelta la norma straniera. I n generale si p u ò dire che i n ogni ordinamento modemo vi sono casi che vengono risolti non già applicando una norma dell'ordinamento, ma una norma dell'ordinamento straniero. I n breve, si verificano, neppur troppo raramente, situazioni particolari, i n cui hanno vigore i n un ordinamento statale norme di un altro ordinamento. Come si vede, questo è un caso, abbastanza chiaro e di enorme interesse pratico, di rinvio da un ordinamento all'altro, più precisamente di rinvio tra due ordinamenti che hanno diverso ambito di validità spaziale.
giusta, ma perché ritiene conveniente che ogni situazione abbia la regola adatta: i n questo caso, "a ciascuno i l suo" significa "a ciascuno la propria regola". Tanto è vero che la legislazione straniera, a cui i l nostro ordinamento rinvia i n quella determinata materia, p u ò cambiare, ma è sempre automaticamente richiamata. Ciò a cui i l nostro ordinamento rinvia non è già i l modo con cui una data materia è regolata, ma la fonte, che la regola.
L'ordinamento italiano fa larga parte all'applicazione di nomie straniere nei casi rientranti nella disciplina del diritto intemazionale privato. Com'è noto, le norme che regolano questi casi fanno parte delle Disp. prel. del ce. (artt. 17-31). Basta dare un'occhiata a queste norme per accorgersi in quante circostanze diverse i l giudice italiano debba applicare la legge straniera. I l problema teorico che queste norme suscitano, e che è stato oggetto di interminabili dispute, è di qual natura sia il rinvio da esse contemplato. Anche per questa discussione rimandiamo al corso di diritto intemazionale. Qui ci limitiamo a considerare le due f i gure di riconoscimento di un diritto estemo, che abbiamo chiamato recezione e rinvio. Non c'è dubbio che le norme di diritto internazionale privato pongono in essere non una recezione, ma un rinvio. Esse, infatti, non intendono far proprio i l contenuto di norme di altri ordinamenti i n determinate circostanze, ma indicano puramente e semplicemente la fonte donde la norma dovrà essere tratta, quale che sia i l suo contenuto. I n altre parole, i l diritto italiano rinvia i n alcune circostanze al diritto straniero, non perché sia obbiettivamente migliore, cioè dia una soluzione più
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3 6 . RAPPORTI MATERIALI
Di diverso genere sono i rapporti tra ordinamento dello stato e ordinamento della Chiesa cattolica, considerato come ordinamento giuridico originario. Le norme dei due ordinamenti hanno, oltre la stessa validità temporale, nel senso che sono contemporaneamente vigenti, anche la stessa validità spaziale, nel senso che sono vigenti sullo stesso territorio. Però non s'identificano e solo raramente si sovrappongono (e quando si sovrappongono nascono i celebri conflitti tra stato e chiesa). Essi si differenziano l'uno dall'altro rispetto all'ambito di validità materiale: ciò i n altre parole vuol dire che l'uno e l'altro si rivolgono alle stesse persone, sullo stesso territorio, nello stesso tempo, ma regolano materie diverse. La linea di divisione tra i due ordinamenti non è un limite spaziale, come quello che divide uno stato da un altro stato, ma un limite ideale, molto più difficilmente determinabile, tra la materia spirituale e la materia temporale. Siccome questo l i mite è più difficilmente determinabile, i casi d'ingerenza di un ordinamento nell'altro, e quindi di conflitto, sono più frequenti che nei rapporti tra due stati e anche di più difficile soluzione. Inoltre, mentre rispetto ai rapporti tra gli stati esiste un ordinamento internazionale, che comprende tutti gli stati, e p u ò dirimeme i conflitti, non esiste un ordinamento superiore che comprenda i n modo stabile gli stati e le chiese, perché si tratta di ordinamenti eterogenei che non possono essere unificati in un ordinamento comune. La storia dei rapporti tra stato e chiesa (dal cristianesimo i n poi) è ricca di conflitti. Ed è troppo nota perché su di essa occorra i n questa sede indugiare. Sono stati nei secoli proposti va-
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Teorìa dell'ordinamento giurìdico
ri tipi di soluzione, che sono stati classificati nei modi più vari. La classificazione più sintetica ci pare la seguente: 1. reductio ad unum. Si distingue secondoché si tratti della r i duzione dello stato alla chiesa (teocrazia) o della chiesa allo stato (cesaro-papismo nell'epoca imperiale, erastianismo negli stati moderni nazionali protestanti); 2. subordinazione. Anche qui bisogna distinguere due teorie o sistemi secondo che si pretenda che lo stato sia subordinato alla chiesa (la teoria, prevalentemente seguita dalla Chiesa cattolica, della potestas indircela o della potestas directiva della chiesa sullo stato), o che la chiesa sia subordinata allo stato (giurisdizionalismo e territorialismo, durante i l periodo delle monarchie assolute); 3. coordinazione. È i l sistema fondato su rapporti concordatari, che presuppongono i l riconoscimento reciproco dei due poteri come "ciascuno, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani" (art. 7 Cost.); 4. separazione. Secondo i l sistema del separatismo, attuato ad esempio negli Stati Uniti d'America, le chiese sono considerate alla stregua di associazioni private, cui lo stato riconosce la libertà di svolgere la loro missione entro i limiti delle leggi. Per l'approfondimento di questo tema rinviamo all'insegnamento del diritto ecclesiastico, come nel par. precedente abbiamo rinviato all'insegnamento del diritto internazionale. Tutti i temi trattati in quest'ultimo capitolo si trovano al limite di varie discipline. La presente trattazione è stata un'indicazione di problemi più che un'analisi compiuta: un'indicazione di problemi, che potranno trovare risposte più adeguate negli altri corsi.
INDICE pag. Prefazione
VII
PARTE PRIMA TEORIA DELLA NORMA
GIURIDICA
CAPITOLO I
I L DIRITTO COME REGOLA D I CONDOTTA 1. Un mondo di norme 2. Varietà e molteplicità delle norme 3. I l diritto è istituzione? 4. I l pluralismo giuridico 5. Osservazioni critiche 6. I l diritto è rapporto intersoggettivo? 7. Esame di una teoria 8. Osservazioni critiche
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CAPITOLO I I
GIUSTIZIA, VALIDITÀ ED EFFICACIA 9. Tre criteri di valutazione 10.1 tre criteri sono indipendenti 11. Possibili confusioni dei tre criteri 12. I l diritto naturale 13. I l positivismo giuridico 14. I l realismo giuridico
23 26 28 32 35 38
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Indice
Indice
pag.
pag. CAPITOLO V
CAPITOLO I I I L E PROPOSIZIONI
L E PRESCRIZIONI GIURIDICHE
PRESCRITTIVE
15. Un punto di vista formale 16. La norma come proposizione 17. Forme e funzioni 18. Le tre funzioni 19. Caratteri delle proposizioni prescrittive 20. Si possono r i d u r r e le proposizioni prescrittive a proposizioni descrittive? 21. Si possono r i d u r r e le proposizioni prescrittive a proposizioni espressive? 22. Imperativi autonomi ed eteronomi 23. Imperativi categorici e imperativi ipotetici 24. Comandi e consigli 25.1 consigli nel diritto 26. Comandi e istanze
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L E PRESCRIZIONI E I L DIRITTO
79 82 85 87 91 96 99 103 106 110
115 117 121 123 12 6 128 131 134 138 140
CAPITOLO V I
CLASSIFICAZIONE DELLE NORME GIURIDICHE 47. Norme generali e singolari 48. Generalità e astrattezza 49. Norme affermative e negative 50. Norme categoriche e ipotetiche
CAPITOLO I V
27. I l problema della imperatività del diritto 28. Imperativi positivi e negativi 29. Comandi e imperativi impersonali 30. I l diritto come norma tecnica 31.1 destinatari della norma giuridica 32. Imperativi e permessi 33. Rapporto tra imperativi e permessi 34. Imperativi e regole finali 35. Imperativi e giudizi ipotetici 36. Imperativi e giudizi di valore
37. Alla ricerca di un criterio 38. Di alcuni criteri 39. Un nuovo criterio: la risposta alla violazione 40. La sanzione morale 41. La sanzione sociale 42. La sanzione giuridica 43. L'adesione spontanea 44. Norme senza sanzione 45. Ordinamenti senza sanzione 46. Le norme a catena e i l processo all'infinito
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PARTE SECONDA TEORIA DELL'ORDINAMENTO
GIURIDICO
CAPITOLO I
DALLA NORMA GIURIDICA ALL'ORDINAMENTO GIURIDICO 1. Novità del problema dell'ordinamento 2. Ordinamento giuridico e definizioni del diritto
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Indice
Indice
pag.
pag. 3. La nostra definizione del diritto 4. Pluralità di norme 5.1 problemi dell'ordinamento giuridico
166 169 172
CAPITOLO I I
LUNITÀ DELL'ORDINAMENTO GIURIDICO 6. Fonti riconosciute e fonti delegate 7. Tipi di fonti e formazione storica dell'ordinamento 8. Le fonti del diritto 9. Costruzione a gradi dell'ordinamento 10. L i m i t i materiali e limiti formali 11. La norma fondamentale 12. Diritto e forza
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CAPITOLO I I I
LA COERENZA DELLORDINAMENTO GIURIDICO 13. L'ordinamento giuridico come sistema 14. Tre significati di sistema 15. Le antinomie 16. Vari tipi di antinomie. 17. Criteri per la soluzione delle antinomie 18. Insufficienza dei criteri 19. Conflitto dei criteri 20. I l dovere della coerenza
201 204 209 213 217 222 228 232
CAPITOLO IV
LA COMPLETEZZA DELL'ORDINAMENTO GIURIDICO 21. I l problema delle lacune 22. I l dogma della completezza
237 241
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23. La critica della completezza 24. Lo spazio giuridico vuoto 25. La norma generale esclusiva 26. Le lacune ideologiche 27. Vari tipi di lacune 28. Eterointegrazione e autointegrazione 29. L'analogia 30.1 principi generali del diritto
243 247 251 257 260 262 265 270
CAPITOLO V
GLI ORDINAMENTI GIURIDICI I N RAPPORTO TRA LORO 31. La pluralità degli ordinamenti 32. Vari tipi di rapporti tra ordinamenti 33. Stato e ordinamenti minori 34. Rapporti temporali 35. Rapporti spaziali 36. Rapporti materiali
275 278 282 285 289 291